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Title: Margherita Pusterla - Racconto storico
Author: Cantù, Cesare, 1804-1895
Language: Italian
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*** Start of this LibraryBlog Digital Book "Margherita Pusterla - Racconto storico" ***


CESARE CANTÙ

MARGHERITA PUSTERLA

RACCONTO STORICO

Quarantesima Edizione Milanese con incisioni



MILANO

LIBRERIA DI EDUCAZIONE E D'ISTRUZIONE DI PAOLO CARRARA EDITORE.

Proprietà Letteraria.



L'EDITORE AI LETTORI


Nel 1834 l'autore di questo libro trovavasi nelle prigioni di Stato
dell'Austria. Il suo processante, Paride Zajotti, trentino, era letterato,
e però conscio del tormento che maggiore dar si può ad un letterato,
quel di privarlo di ogni mezzo di leggere e di scrivere. Brutalità tanto
peggiore in quanto, al fine dell'inquisizione, si dovette dichiarare che
non reggevano alla prova neppure gli _indizj_ e i _sospetti_, pei quali era
stato sì lungamente carcerato; e in quanto agli altri detenuti non
letterati si permetteva perfino di abbonarsi a gabinetti di lettura.

In quella atroce solitudine, il Cantù trovò modo di farsi
dell'inchiostro col fumo della candela, penna cogli steccadenti; e su carte
straccie, dategli per altri usi, scrisse il presente romanzo. Egli si
ricordava del fatto in di grosso e dei tempi: gli mancavano i nomi proprj e
le date sicure, talchè i personaggi nacquero con nomi suppositizj,
siccome variarono alcune circostanze di fatto allorchè, sprigionato,
potè limare il suo lavoro, e dopo lunga quarantena alla censura di
Vienna, perchè la censura milanese non credette poterlo ammettere, il
diede alla stampa.

Questi fatti non importano al pubblico, eppure sono tutt'altro che
indifferenti per intendere molte parti del lavoro, nel quale l'autore volle
ritrarre, o forse non volendo, ritrasse i proprj patimenti e le proprie
consolazioni sotto figura altrui, mentre Silvio Pellico aveva in persona
dipinto i suoi.

Bensì è noto con quanto favore fu questo romanzo accolto in Italia, e
tradotto in tutte le culte lingue. Ciò non recherebbe meraviglia,
giacchè è fortuna comune a quasi tutti i libri di tal genere. Ben
importa l'accertare che il successo della _Margherita Pusterla_ si sostenne
dopo il primo bollore; e da quarant'anni va ristampandosi continuamente in
edizioni numerose; prova di meriti intrinseci e letterarj e politici e
morali, indipendenti dalla moda e dalla novità.

Testè uno di quei critici, a cui pute ciò che sa di italiano,
lagnavasi che, in tanti romanzi e drammi nostri, non apparisse un tipo di
donna. Al tempo stesso il barone Niccola Taccone Gallucci, lodato autore
del _Saggio d'Estetica_, in un lavoro sull'_Arte cristiana_ asseriva che
«poeti ed interpreti del perfetto pensiero dell'epoca moderna e della
fede viva, profondi scrutatori degli affetti romantici, sono il Manzoni, il
Cantù ed il Grossi.»

E soggiungeva:

«Il Cantù, che insieme al Manzoni e al Grossi formano il triumvirato,
direi quasi, dell'epoca più prospera della moderna poesia italiana, si
fa a sublimare la beltà del patire con la squisita pittura dell'amore,
della sofferenza, della rassegnazione, della morte della sua Margherita
Pusterla. L'affanno dell'affetto terreno negli ultimi istanti della sua
vita è patetico in quelle parole, che suonano angosciose in ogni cuore:
_Morire! morire così giovane.... e morire innocente!_ Ma nello estremo
quadro del dolore terribile e divinamente malinconico, risalta una morale
leggiadria ed una purità di colorito, che seduce nel martirio anche sul
palco.

«La nobile figura di frate Buonvicino, l'immagine più perfetta
dell'ideale ascetico e cavalleresco, che, collocato accanto alla bella
Margherita, guarda il cielo, e mormora quelle sublimi parole: _Lassù,
sono le speranze che non falliscono mai_, manifesta il generoso carattere,
la fede, l'invincibile fiducia, l'ineffabile amore del Cantù, che arriva
fino all'apogeo dell'ideale doloroso e malinconico, allorchè la faccia
di Margherita, fatta più pallida, si volge anch'ella cogli occhi
lagrimosi al cielo, e si fa santa nel Dio, padre degli infelici,
esclamando: _Signore, la volontà vostra e non la mia_.»[1]


Noi dunque facendo questa 42ª edizione, sotto gli occhi dell'autore,
pensiamo ben meritare della moralità e della letteratura diffondendo un
libro che crediamo rinvigorisca il sentimento del nobile e del giusto,
mediante l'amore pei buoni e l'indignazione pei ribaldi.

Milano, maggio 1880.



                --Lettor mio, hai tu spasimato?

                --No.

                --Questo libro non è per te.

                1833.



CAPITOLO PRIMO.

LA PARATA.


Entrando il marzo del 1340, i Gonzaga signori di Mantova avevano aperta una
corte bandita nella loro città, con tavole disposte a chiunque venisse,
con musici, saltambanchi, buffoni, fontane che sprizzavano vino, tutta
insomma la pompa colla quale i tirannelli, surrogatisi ai liberi governi in
Lombardia, procuravano di stordire i generosi, allettare i vani, ed
abbagliare la plebe, sempre ingorda dietro a queste luccicanti apparenze.

Fra i tremila cavalieri concorsi a quella festa con grande sfoggio d'abiti,
colle più belle armadure che uscissero dalle fucine di Milano, con
destrieri ferrati persino d'argento, v'erano comparsi molti Milanesi per
fare la corte al giovinetto Bruzio, figliuolo naturale di Luchino Visconti,
signor di Milano. Sono fra essi ricordati Giacomo Aliprando, Matteo
Visconti fratello di Galeazzo e di Bernabò, che poi divennero principi;
il Possidente di Gallarate, il Grande de' Crivelli, e sovra gli altri
segnalato Franciscolo Pusterla, il più ricco possessore di Lombardia, e
sarebbesi potuto dire il più felice, se la felicità potesse con beni
umani assicurarsi, e se da quella non fosse precipitato al fondo d'ogni
miseria, come il processo del nostro racconto dimostrerà[2].

Questi campioni milanesi avevano riportato il premio della giostra ivi
combattutasi, il quale consisteva in un superbo puledro del valore di 400
zecchini, nero come una pece, colla gualdrappa color di cielo, ricamata ad
argento; in un altro, mezzano di grossezza, baio di colore e balzano di due
piedi: oltre a due abiti, uno di scarlatto, l'altro di sciamito foderato di
vaio. Per farne mostra, erano i vincitori girati trionfalmente per Cremona,
Piacenza e Pavia, donde s'erano vôlti dalla patria, appunto il 20 Marzo
dell'anno predetto. Liete accoglienze ricevevano per tutto, poichè un
istinto dominante e pericoloso dell'uomo fece al valore fortunato tributare
rispetto ed ammirazione in ogni tempo, ma più ancora in quello, tutto di
forza materiale. I signorotti poi vedeano volontieri che il coraggio si
esercitasse in tornei e finte battaglie, come in altre età videro
volontieri sfogato l'umore curioso e contenzioso in fazioni da teatro e in
letterarj garriti. Perciò anche da Milano uscì ad incontrare i prodi
una cavalcata della Corte e de' più nobili, che ricevutili nello
splendido castello di Belgioioso, voltarono con essi alla città.

Entrati con solenne pompa per la via di Sant'Eustorgio, attraversato quel
sobborgo, già cinto di mura e chiamato la Cittadella, vennero alla porta
Ticinese, che si apriva laddove ora è il ponte sul canale _Naviglio_.
Quel canale segna ancora la fossa che, larga quanto è ora la strada,
aveano scavata attorno alla risorgente patria i Milanesi per difendersi dal
Barbarossa: e col cavaticcio avevano formato un terrapieno (_il
Terraggio_), unico riparo ma bastante quando ogni cittadino era
guerriero,--guerriero per la patria e per la libertà. Ma pochi anni
prima di quello di cui scriviamo, Azone Visconti aveva in quel luogo
fabbricato la mura, lunga in giro diecimila braccia, con saracinesche e
ponti levatoj a ciascuna delle undici porte, incoronata di cento torri e di
migliaja di merli.

Passati i cavalieri per l'arco, che tuttavia sussiste a malgrado dei
novatori, costeggiarono le famose colonne di San Lorenzo, logora e
venerabile reliquia romana, e giunsero al crocicchio, detto _Carrobio_
perchè dava luogo ai carri, qualità allora comune a poche vie. Il
vulgo, sospendendo i lavori, traeva a quello spettacolo, invitato dal
festoso sonare dei banditori della città, i quali, tutti in rosso, colle
trombe d'argento, insieme coi sei portieri in corsaletto a quarti di bianco
o scarlatto, e coi mantelli del colore istesso, precedevano la comitiva,
togliendosi in mezzo il banderajo, che portava il gonfalone cogli stemmi
delle varie porte, distribuiti attorno alla vipera nera in campo d'argento.
E--Chi è quella signora tutta a velluto e oro?»--domandava qualche
fanciulletto.

--È (gli rispondevano i genitori) è la signora Isabella del Fiesco,
moglie di quel là, tutto lucente di acciajo, con sul cimiero una biscia
che mangia un figliuolo cattivo. Si chiama il signor Luchino, nostro
padrone. Vedi mo fortuna nostra d'avere un padrone così valoroso e una
sì bella padrona!

--E vedete (soggiungeva un compare maliziosamente pigiando col gomito) che
occhiatine ella si ricambia col bel Galeazzo.

--Eh eh! (replicava un terzo strizzando l'occhio) gli è un pezzo che se
la intendono zia e nipote».

Qui cominciavano a leggere sulla cronaca scandalosa, e contare i torti, con
cui la signora Isabella ricambiava i torti che riceveva dal marito. Luchino
in fatto, senza una vergogna al mondo, veniva dietro circondato dai suoi
figliuoli Forestino, Borsio e il già nominato Bruzio, partoritigli da
diverse madri.

Luchino nasceva dal Magno Matteo, quello che, dopo dell'arcivescovo Ottone
Visconti, col valore e colle brighe aveva ottenuto il dominio di Milano
sotto il titolo di Vicario dell'Impero, poi di capitano e difensore della
libertà. A Matteo era successo nel comando Galeazzo, a questo il figlio
Azone, e morto lui, Luchino era stato, il 17 agosto dell'anno precedente a
questo, assunto signore dal consiglio generale de' Milanesi. Ma perchè
poco bene prometteva la sgovernata gioventù di lui, consumata a correre
avventure fra libertini, gli avevano dato a compagno il fratello Giovanni,
vescovo e signore di Novara.

Mostrerebbe conoscere pur poco il popolo chi si meravigliasse perchè,
sapendolo un tristo arnese, non avessero eletto tutt'altri o nessuno.

Quando Luchino si trovò in potere, parte coll'astuzia, parte colla
prepotenza, eliminò il fratello, che, prete, credenzone e voglioso di
godersi i vantaggi di una lauta fortuna e di una rara avvenenza,
abbandonò ad esso ogni pubblica cura.

Luchino, ricchissimo di quel valore militare che può associarsi con
tutti i vizj e sino colla viltà, austero men di lingua che di fatti,
scarso nel promettere, saldo nel mantenere, spedito nel prendere una
risoluzione e nell'effettuarla, molto paese acquistò, nulla perdette:
non sentì benevolenza per altri che pe' suoi bastardi: non perdonò
mai, mai non si fidò in chi una volta avesse offeso: ma per dissimulare
o l'odio o la vendetta, per seguitare con lunghi giri una preda, per
consumare un'iniquità col più ipocrito aspetto di giustizia, pochi
l'eguagliarono fra i signori di sua casa, che pur sapete se ve ne furono di
tristi.

Di giustizia gli meritò lode l'aver liberato il paese dai ladri, frenato
le prepotenze dei feudatarj, dato eguale ascolto a Guelfi e Ghibellini,
chiamato i nobili al par de' plebei a sopportare le pubbliche gravezze. Ma
in quel che riguardava lui stesso, aveva intitolato giustizia il proprio
interesse. Fu unico in ciò?

Semplice era la sua politica: conservarsi ad ogni costo. Tornava opportuno
il dar favore al commercio, alle arti? lo faceva. Conveniva meglio la
guerra? la rompea, che che lagrime e che che sangue dovesse costare.
Secondo il credea buono, favoriva letterati e poeti, ovvero ergea patiboli,
empiva prigioni. Considerandosi come un custode di belve che lo
sbranerebbero appena cessasse di mazzicarle o di mostrarsi necessario al
loro sostentamento, ai buoni, cioè ai vili, comparire unico autore della
pubblica felicità; coi malvagi, cioè con quelli che osassero guardare
nei fatti suoi, esacerbava per calcolo la naturale e dissimulata fierezza:
spie, giudici comprati, forza armata davano tratto tratto dei buoni esempj:
cioè accusando, incarcerando, ammazzando, insegnavano agli altri a
dimenticare le libertà un tempo godute, a credere unico dovere del capo
il comandare, unico diritto dei sudditi l'obbedire.

Non però sempre violenti erano i mezzi, da Luchino messi in opera, e
sembra che i Milanesi o non avvertissero o trovassero piacevole quell'altro
suo accorgimento di domarli corrompendoli. Al vulgo feste, baccani,
taverne, bordelli; ai nobili giovani, i cui costumi severi e riflessivi gli
avrebbero fatto ombra, offriva alla Corte esempj e comodità di
dissolutezza, affinchè, chiuse le vie alla gloria ed agli onori,
badassero a cogliere il fior della vita fra spassi e gavazze.

Narrano che questa via lo guidasse più presto e meglio alla meta.

Nè la coscienza taceva in lui: ma ne soffocava o illudeva la voce con
pratiche devote: recitava ogni giorno od ascoltava l'uffizio della Madonna;
teneva a tavola spesso i suoi cani, ma altre volte vecchi e pitocchi, ai
quali con fastosa umiltà ministrava egli stesso: mai non mangiò che
cibi quaresimali al sabbato e ne' giorni comandati; tassò le spese dei
funerali, e stabilì gravi pene contro i medici che visitassero tre volte
un malato senza farlo confessare.

Che i sudditi lo amassero glielo ripetevano cagnotti, ambasciatori e poeti:
quanto egli sel credesse potevasi argomentare dal giaco di maglia che mai
non deponeva, dalle raddoppiate guardie, e da due enormi alani, che, come i
soli non capaci di desiderare miglioramento nè libertà purchè
mangiassero, si teneva ai fianchi dovunque andasse.

Pure, al veder le dimostrazioni che gli facevano in quel tragitto per la
città, avreste potuto supporre Luchino un padre del suo popolo. E non
tutte dovevano dirsi adulazioni e vigliaccheria. Nessun governo si dà
che sia tristo affatto, nessuno che non profitti a qualche classe. I
Lombardi erano corsi attraverso un'età d'interne turbolenze, ove la
libertà, acquistata a prezzo di sangue e di sforzi generosi, erasi
andata guastando tra fraterni dissidi, ire di fazioni, soperchierie di
prepotenti: talchè, stanchi d'un assiduo tempestare ove il grosso del
popolo arrischiava tutto senza nulla vantaggiare, vedeano di buon occhio un
governo robusto che poneva un freno a tutti, si avvezzavano a chiamare pace
la comune servitù, come la chiamavano libertà quelli che ne facevano
il fatto loro. Luchino, inoltre conferiva gl'impieghi quasi solo a
nostrali, talchè seimila cittadini vivevano sopra i pubblici stipendj:
nella carestia che allora affliggeva il paese, quarantamila bisognosi erano
mantenuti a spese della città: della città dico, non del principe: ma
il popolo è sempre disposto ad attribuire a questo i beni come i mali
che prova.

Quanto ai nobili, erano impazzati nel tempo che regolavano il pubblico
interesse: ciascuno amò sè più che la patria, più le proprie
soddisfazioni che le comuni libertà, più il comodo che la gloria,
più la vita che la virtù: ora mangiavano del cibo che s'erano
preparato. Alcuni, vedendo di non potere nè sopportar così, nè
volgere in meglio la sorte del loro paese, o viveano ritirati in violenta
pace, od uscivano in esteri paesi: col che più libero lasciavano il
campo all'ambizione di coloro che, non più nella patria, ma alla Corte
cercavano primeggiare, operando non all'utilità di tutti ma di quel solo
da cui ricevevano o speravano lustro e ricompense.

Se non che Luchino, o insospettito o geloso, aveva dato lo sfratto a tutti
coloro che erano stati in auge sotto di Azone, per attorniarsi di nuova
brigata sul far suo, compagni alle sue giovanili dissolutezze, disposti a
fare com'egli voleva e peggio. Nella cavalcata che noi descriviamo, si
potevano discernere i nuovi dagli scaduti al rimanere quelli vicini al
principe, e tal ora accostategli pronunziando qualche parola; allo
sfoggiare in pompa di codardia; allo stringersi fra loro baliosi, e
celiare, e sbizzarrire sui briosi palafreni; mentre gli altri si tenevano
estremi, taciturni e fra loro scambiando qualche parola sommessa e
dispettosa. La plebe naturalmente supponeva senno, valore e prudenza nei
favoriti dal principe, il contrario negli altri: sberretteva i primi,
assomigliava gli ultimi a patarini e scomunicati; e tenuta indietro dal
ceffo arcigno del tedesco Sfolcada Melik, capitano alla guardia del corpo
di Luchino, sbirciando sott'occhio quel muso baffuto, gridava:--Viva il
Visconti, viva il biscione!»

Senza discernere gl'infimi dai sommi, tra la parata galoppava un buffone,
razza di cui ogni Corte era provvista e più lautamente la milanese, che
in simile genia spendeva ogni anno trentamila fiorini[3];--ottimo uso delle
pubbliche entrate. Vi facevano costoro l'uffizio, che altre volte
adempirono i poeti e sempre gli adulatori; lisciar i padroni, far ridere
alle proprie spalle, trattenere con imbecillità corruttrici e velar
l'orrore d'un delitto sotto la vivacità d'un'arguzia. Se non che (tanto
in ogni istituzione vanno misti il male e il bene) in mezzo ai loro lazzi
avventuravano qualche verità, che altrimenti non sarebbe giunta fino
alle orecchie dei gran signori. Grillincervello, come chiamavasi il buffone
di Luchino, copriva la zucca monda con un berretto bianco a cono,
sormontato da un cimiero scarlatto a guisa di una cresta di gallo; con due
brache e un farsettaccio di traliccio larghi e sciamannati, con enormi
bottoni e ciondoli sonori; ed impugnava un bastone, il cui pomo figurava
una testa di pazzo colle orecchie asinine. Messosi per isproni due
ravanelli (fabbrica di Pavia, com'esso diceva), stuzzicava con essi un
orecchiuto destriero di Barlassina (altra sua frase), tutto a fiocchetti e
sonagliuzzi; e colla bocca atteggiata sempre a un riso fra idiota e
maligno, con certi occhi sgranati e guerci, saltabellava di qua, di là,
or dando la caccia ai porcelli e alle galline che liberamente pascolavano
per le vie; ora ficcandosi attraverso ai passi del terzo e del quarto, e
scagliando a questo un motto, a quello una zaffata. Farfogliando al Melik
qualche frase mezzo tedesca, gli tirava i severi mustacchi, e mentre colui,
senza scomporre di sua gravità, gli assestava una sciabolata di piatto,
egli era guizzato un pezzo lontano. A Matteo Salvatico (scrittore
dell'_Opus pandectarum medicinæ_, la più diligente opera intorno alla
virtù delle erbe), il quale, secondo il lusso de' medici, cavalcava con
un vestone di porpora e preziosi anelli e sproni dorati, il buffone,
facendo al suo somarello un cenno ch'io non voglio descrivere,
diceva:--Toccagli il polso»; poi indirizzandosi all'astrologo Andalon
dal Nero, altro mobile indispensabile delle Corti d'allora, il quale
procedeva contegnoso e sopra pensieri, gli batteva in sulla nuca,
dicendo:--Questa non te l'avevano indovinata le stelle».

Lo udiva Luchino, e ne sorrideva, sinchè, passato appena il palazzo che
egli aveva eretto per propria abitazione da privato in faccia a San
Giorgio, ed inoltrandosi fra la turba che, presso alla chiesa di
Sant'Ambrogino in Solariolo, affollavasi al mercato, o come dicevano, alla
_Balla_ degli olj e dei laticinj, cominciò a fissare gli occhi sopra una
signora, che stava sur un terrazzino, sporgente dalla torre in angolo della
via che di là mette a Sant'Alessandro. Questa era Margherita Pusterla,
anch'ella di casa Visconti e cugina del principe, ma troppo da lui
dissomigliante. Erasi fatta ad osservare il corteggio, non per capriccio di
femminile curiosità, ma per cercare fra questo il marito suo Franciscolo
Pusterla, uno, come abbiam detto, dei vincitori della giostra, e che
teneasi in fondo tra gli scontenti. La dama, la quale era tutto il bello
che dev'essere l'eroina d'un racconto, reggeva sulla spalletta del verone
un caro fanciullo di forse cinque anni: e tendendo la destra candida e
morbida come di cera, gli additava lontano un cavaliero superbamente
vestito e montato, alla cui vista il bambino, trasalendo di gioia fra il
seno e le braccia materne, esclamava:--Babbo! babbo!» e con ingenuo
vezzo infantile sporgeva verso quello le braccia. Assorta in quest'episodio
di famiglia che per lei era tutto, la Margherita non poneva mente nè
agli applausi del vulgo, nè alla pompa del corteo, nè agli occhi che
ammiravano la sua bellezza, nè a Luchino, sebbene questi, allorchè fu
sotto al balcone, avesse rallentato il passo, e fatto sbraveggiare e
atteggiar vagamente il superbo stallone bianco che cavalcava, bramoso di
attirarsi uno sguardo della bella.

Ma invano: onde una nube di dispetto gli passò sul volto severo. Se non
che Ramengo da Casale, uno dei cortigiani sempre disposti a piaggiare,
qualunque essa sia, la passione dei potenti, si fece accosto a lui, ed
inchinandolo con adulatoria sommessione, esclamò:--Se vuolsi trovare
qualcosa di grande negli uomini, o qualcosa di bello nelle donne, è
forza ricorrere al nome de' Visconti».

Luchino, non mosso dall'incensata che come uomo avvezzo alle vigliaccherie,
rispose:--Sì: ma a costei pare che puta il nostro cognome: nè voi
altri fra quanti siete sapeste mai farne belli i circoli nostri.

--Vero! (ripigliava Ramengo) Ella è tanto schifa ed orgogliosa quanto
bella ed aggraziata. Ma più la vittoria è difficile, più torna a
onore, e ad un sospiro del principe qual ritrosia durerebbe?»

Guizzò fra loro il buffone, e ghignando beffardamente sul viso
dell'adulatore, poi di Luchino, disse a questo, vagliando la persona in
modo da sonar tutto:--Non dargli ascolto, padrone; leccane i barbigi, che
non la è carne pe' tuoi denti.

--E perchè no, sfacciato?» saltò su mezzo in collera Luchino.

--Perchè no», ripetè il mariuolo, e toccata la cavalcatura, in un
batter d'occhio fu lontano, mentre Luchino, senza curare nè le
piacenterie dei cortigiani, nè i viva del popolo, seguitava innanzi a
rilento, volgendosi tratto tratto verso la signora Pusterla. Essa invece
non distoglieva gli occhi dal marito, il quale procedeva fra un giovine e
un frate, che pedestri uscitigli incontro, l'accompagnavano discorrendo. Il
giovane era tutto fuoco nel gesto, negli sguardi, nel favellare; la faccia
dell'altro, composta a gravità severa e pur dolce, annunziava una lotta
profonda ma calma tra la violenza dei sentimenti e la robustezza della
volontà; e nella fronte facile a corrugarsi, nelle guance scarne e
affossate, nel labbro serrato, portava il marchio onde la sventura impronta
le sue vittime, quasi per dar loro la consolazione di conoscersi a vicenda,
e di allearsi per reggerle incontro.

La rincrescevole attenzione e il frequente rivolgersi del principe non
isfuggirono al Pusterla, il quale, voltosi ai non meno accorti compagni,
domandò loro:--Vedeste?

--Vidi», rispose il frate chinando le ciglia in atto di persona abituata
a gravi pensieri.

--Sfacciato!» saltava con occhi sfavillanti il giovane.--Quest'altra ci
mancava! Ma che non può aspettarsi da un tiranno? Oh perchè non ci ha
a Milano cento persone deliberate al par di me! E voi, oh perchè non vi
risolvete, signor Francesco, di far suonare alto il vostro nome e metter
fine alle servitù della patria ed all'obbrobrio comune?»

Franciscòlo Pusterla col gesto e colla voce imponeva silenzio ad
Alpinòlo (quest'era il nome del garzone), mentre il frate, colla
posatezza abituale alle persone costrette a riflettere, a concentrarsi, a
vivere in sè, diceva:--All'uomo scontento rimane un partito! spiccarsi
dai viziosi, e senza paventare la dimenticanza de' suoi concittadini,
cercare nella dignitosa ilarità de' domestici affetti la pace e la
sicurezza della coscienza e del proprio onore. Così ha saputo fare tuo
suocero Uberto Visconti: così avresti a far tu: e mille segni ti
mostrano che n'è venuta l'ora. Con un tesoro qual è la tua
Margherita, non è angolo del mondo così riposto, non solitudine
così romita, che non ti possa convenire in un paradiso».

La voce del frate erasi animata a questo parlare, come anche il color delle
guancie; egli se n'avvide, chinò il capo e tacque. Ma Franciscòlo,
punto non mostrandosi convinto alle parole dell'amico:--Sì, frà
Buonvicino (diceva); ritirarmi, questo è il sogno delle mie veglie. Ma
poi? cos'è mai un uomo fuor degli affari? Come parrei dirazzato da' miei
padri, sempre attenti alle pubbliche cure! Finchè il signor Azone
governò, sai se continuamente adoperai al bene della mia patria; sai se
fin d'allora ho usato ogni maniera di riguardi dilicati a questo Luchino,
benchè fosse in urto collo zio, nella fiducia che, giungendo alla sua
volta al comando, me ne saprebbe buon grado, mi terrebbe fra' suoi vicini,
e così potrei dirizzarlo al meglio comune. Or vedi frutto! Appena
impugnò quel bastone del comando, che tanto noi oprammo, per affidargli,
non che dimenticare i meriti nostri recenti, fino gli antichi pare ci
ascriva a colpa: e sbalzati noi tutti, si è posto attorno gente nuova e
plebea, assurda consigliera, insana adulatrice, feccia tale, che mille
miglia ne vorrei esser lontano, se non mi trattenesse la speranza di tornar
utile alla famiglia mia, ed ai miei concittadini».

Applaudiva Alpinòlo a quel risentito parlare: ma frà Buonvicino,
avvisando che, sotto al velo dell'utile pubblico, s'ascondevano l'ambizione
e un naturale, che, non sapendo provare godimenti se non nella tempesta,
metteva a pari la calma e la morte, trovava facilmente come ribattere le
apparenti ragioni dell'amico, ma non come destargli una virile vergogna:
onde, qual persona usata a concedere indulgenza alle debolezze degli uomini
per non essere costretto a doverle disprezzare, finiva col seguitarlo
tacendo, finchè si divisero allo sbucare sulla piazza del Duomo.

Se però volete figurarvi al vero gli uomini di quel tempo, vestiti di
ferro e di sfarzosi mantelli, e pellicce, e collane d'oro, e berretti a
piume ondeggianti, e spadoni ai fianchi, ed enormi mazze ferrate agli
arcioni, e sul guanto astori e falchi, non dovete collocar loro d'attorno
queste fabbriche d'oggidì, le vie larghe, allineate, selciate che sasso
non eccede, fiancheggiate da case a tre o quattro solaj, colle finestre
simmetriche, protette da gelosie, con botteghe d'ogni lusso, con tutta
quella bellezza che ha per carattere il gentile, e che rivela tempi quieti,
gente educata a non pensare gran fatto all'avvenire. L'architettura, come
sempre fa, erasi foggiata ai costumi e alle opinioni correnti, tutta
solidità nei palazzi, nel resto appena quel che fosse necessario per
riparare dalle intemperie la plebaglia, perpetuamente condannata a faticare
e patire, giovare ed essere disprezzata. Alte e massiccie torri accanto a
bassi tugurj, pareano simbolo della società, divisa in due condizioni,
una altissima, infima l'altra. Le poche abitazioni che si elevassero sopra
il pian terreno, s'intitolavano _solari_; e da uno appunto di siffatti
aveva ricevuto il nome la chiesa di Sant'Ambrogino in Solariolo, che fu poi
detto _alla Balla_, da un atrio ove, tre volte alla settimana, tenevasi
mercato d'olio, di pollami e latticinj. Colà presso può vedersi
ancora[4] uno di quei torrazzi, che ajutano l'immaginazione a ricostruire
il Milano antico; e da non molto tempo fu diroccato l'altro che faceva
cantonata alla via che volge a Sant'Alessandro. Formava esso parte dello
splendido palazzo dei signori Pusterla, il quale distendeasi fino
all'Olmetto e ai Piatti, in apparenza più di fortezza che di abitazione.
Tutto di pietre tagliate, verso la strada non aveva che due finestre alte,
protette da robuste inginocchiate, siccome chiamavano le ferriate sporgenti
a pancia: grossi anelli impiombati nelle bugne offrivano la comodità di
legarvi i cavalli, per salir sui quali erano disposti lungo i muri ed alla
porta, dei dadi di granito; la porta chiusa con enormi battenti ferrati e
col suo ponte levatojo, aprivasi sotto una torretta quadrata, posta in
fondo alla via mozza, che ancora nominiamo Vicolo Pusterla. Sull'accennato
torrione di angolo sventolava lo stendardo della famiglia, coll'aquila nera
in campo giallo; e dal mezzo ne sportava il verone, sul quale si era
mostrata la signora Margherita. I Pusterla, famiglia delle più nobili e
la più ricca di Milano, avevano nei tumulti antecedenti parteggiato ora
coi Torriani ora coi Visconti: Matteo Magno aveva sposata una figliuola di
Filippo Torriani, dalla quale era nato il Franciscòlo di cui parlammo.

Trascorso quel palazzo, la cavalcata tirò innanzi per la via de'
_Banderaj_, detta poi de' _Pennacchiari_, indi per quella che fu poi
nominata dei _Mercanti d'Oro_ per le botteghe dei tessuti d'oro e seta,
introdotti appunto dominando Luchino[5]. Le vie erano state, fin dal 1272,
solate a mattoni per taglio o acciottolate: poi il signor Azone aveva fatto
scavare cloache per tenerle monde, e ordinato che restassero sgombre da
sozzure e impedimenti: ma altro è ordinare, altro è essere obbedito.
Ove le fitte case lasciassero un poco di largo, il sole versava la limpida
sua luce: ma generalmente basse tettoje ed acuminate, sporgendo in brutta
guisa, se salvavano dalla pioggia il pedone e gl'indifesi balconi,
impedivano però il circolare dell'aria e davano sgradevole vista.

Dalle anguste o distorte vie mal argomentereste la miseria della città;
che quanto anzi fosse ricca e popolosa ce ne dà indizio una statistica
di quei giorni. Contava essa (per dirne alcun che) tredicimila porte con
seimila pozzi, uno più uno meno: quattrocento forni di pane, s'intende
di mescolanza, che pel bianco n'aveva uno solo alla Rosa; mille taverne,
oltre cencinquanta locande: tremila macine da molino, servite da seimila
bestie da soma: a duecentomila salivano gli abitanti, di cui un quinto atti
alle armi, ducento causidici, altrettanti medici, mille notaj, settanta
maestri d'elementi, quindici di grammatica e logica, cinquanta copisti di
libri, i Remondini ed i Bodoni di allora; oltre ottanta fabbri-ferraj e
maniscalchi, quattrocento beccai, trecentottantacinque pescivendoli, trenta
fabbricatori di sonagli, cento d'armadure, e innumerabili lavoratori,
negozianti e ritagliatori di panni e di sete, per cui comodità si
tenevano quattro fiere all'anno e mercati quotidiani.

Non accompagnerò in altre minuzie lo statistico, il quale sa fin dirvi
che si consumavano in città ogni anno cinquantamila carra di legna, il
quadruplo di fieno, seimilacinquecento staja di sale: ogni settimana si
ammazzavano da settanta a ottanta bovi ingrassati; e al tempo delle
ciliegie ne entravano sessanta carra al giorno; che nella sola città si
numeravano seimila novecento quarantotto cani; fra la città e la
campagna cento astori nobili e il doppio falconi, oltre sparvieri senza
numero.

Io che, per prova, non mi fido alle cifre esibite dalle statistiche
odierne, molto meno voglio spacciarvi per di fede queste d'allora:
bastandomi vi diano in di grosso un'idea del quanto allora si vivesse
diverso dal presente.

Ancor più diversi erano gli uomini che popolavano la Lombardia e tutta
Italia. Prima di ogni altra nazione si erano alzati dall'invilimento, cui
gli avevano ridotti le orde settentrionali: il commercio, le navigazioni,
le ricordanze e i resti degli antichi municipj, la necessità della
difesa, le lettere, la religione gli avevano ajutati a costituirsi in
altrettante repubbliche quante erano le città.

La lotta degli imperatori tedeschi non fece che consolidare la civile e la
politica libertà, fra cui si svilupparono le forze tutte del corpo, del
cuore, dell'intelletto. Soldati valorosissimi, i più arditi marinaj, i
più lauti negozianti, essi ridestarono la pittura, l'architettura, la
poesia:--visitate l'Italia, e ad ogni città chiedete quando si cinse di
mura, quando frenò o guidò quei fiumi, quando fabbricò quei porti,
quelle ampie dogane, quei palazzi del Comune, quelle cattedrali, e tutte vi
risponderanno che fu nei tre secoli de' governi popolari, quando
nell'integrità di sue forze, usciva dal feudalismo, e ricuperava il
sentimento della propria esistenza. Prosperità originata dagli sforzi
individuali di persone, che ciascuna credevasi qualche cosa da sè; onde
l'impulso indipendente dei singoli produceva l'avanzamento di tutti. Caduti
quei governi in mano de' tirannelli, ben s'ingegnarono questi di soffocare
quel vivo sentimento dell'individualità, ma il riuscirvi era serbato a
tempi di pacata oppressione, in cui il popolo non fosse più valutato se
non per la quota che contribuisce all'esattore.

Ma per allora, quelle cento repubblichette erano altrettanti centri di
attività, di cognizioni, d'emulazione artistica e mercantile; sicchè,
per tacere l'incontrastata primizia del sapere e dello arti belle, Italia
da sola era più ricca di denaro che tutta la restante Europa: Romeo de'
Pepoli bolognese aveva col commercio acquistata una rendita di cenventimila
fiorini cioè un milione e mezzo di franchi: Mastino della Scala dalle
città sue traeva settecentomila fiorini, quanti appena ne ricavava dalle
sue il più ricco re, quello di Francia; fra i Bardi e i Peruzzi di
Firenze prestarono alla Corona d'Inghilterra sedici milioni e mezzo di
franchi; e sì che allora il denaro era cinque o sei volte più raro
d'adesso.

Dovrò io al lettore italiano domandare perdono se, qui sulle prime, svio
dal soggetto per rammentare con compiacenza gli antichi vanti della patria
nostra? Pur troppo nel seguito del nostro racconto ci accadranno tutt'altro
che piacevoli argomenti di digressione.

I Visconti a Milano, come gli altri signorotti, davano favore al commercio
e all'industria; ma procuravano stornare il popolo dalle armi, conoscendo
quale salvaguardia siano dei diritti in mano del popolo; e Luchino, col
pretesto di alleviarli d'un peso, aveva dispensati i cittadini dalla
milizia; sicchè godevano un riposo da gran tempo ignorato, senza
accorgersi come ne patissero i diritti civili, sino ai quali la
considerazione del popolo di rado s'innalza, o non mai.

Fra la plebe e il principe stavano i nobili, cioè i possessori delle
terre; non genìa baldanzosa e prepotente, come nei paesi ove la
feudalità conservava quell'antico rigoglio, che qui le era stato
fiaccato dalle repubbliche. Anzi i nobili, da una parte facevansi amare
dalla plebe proteggendola, spendendo, sfoggiando: dall'altra non recavano
ombra al principe, perchè non vantavano annosi diritti, nè si
stringevano in robusta federazione, nè andavano cinti di vassalli ligi
ed armati così, da limitare il loro potere.

In tal modo viveano a fronte uno dell'altro il Comune, l'aristocrazia ed il
tiranno, il quale, se era scaltro e di polso, profittando della
superiorità che dona un potere costituito, far poteva liberamente ogni
suo volere. In fatto, nella cavalcata che allora entrava in Milano, la
plebe guardava e applaudiva; i nobili o piaggiavano o temevano; il
principe, dando pane e feste a quella, mutando questi da feudatarj in
cortigiani, facea suo pro dell'una e degli altri.

Da quelle callaje sbucò il corteggio sulla piazza, ove, mezzo secolo
dopo, fu cominciato questo Duomo, e che poco prima Azone avea fatto
sbrattare dalle botteghe e dalle baracche ond'era tutta ingombra. Accanto
al tempio di Santa Maria Maggiore (rifatto ai tempi della Lega Lombarda coi
giojelli offerti dal patriottismo delle brave Milanesi) aveva egli
fabbricato un superbo campanile, su cui campeggiavano le insegne dei
Visconti, del papa, dell'impero, di Milano e di ciascuna delle porte, ma
sì poco solido, che non guari dopo crollò, mentre ancora sussiste
l'altro assai bello, da lui parimenti eretto a canto a San Giovanni delle
Fonti, battistero dei maschi, che ora chiamiamo San Gottardo, come
chiamiamo _delle Ore_ la via che lo rasenta, perchè su quella torre
appunto venne collocato il primo orologio di Milano e il secondo di tutta
Italia.

Dove sorge il palazzo reale, stava allora quello dei dodici Savj della
Provvisione, e avanti ad esso tenevasi mercato di vestiti ogni settimana.
Lo spazio quasi occupato ora dal Duomo denominavasi _Piazza dell'Arrengo_,
perchè vi si radunavano i cittadini finchè si governarono a popolo,
per fare e per udire le arringhe intorno ai pubblici interessi. Colà il
sincero amor patrio de' pochi e l'ambizioso egoismo dei più lottarono
lungamente, agitando tra varie fazioni il paese, finchè, sazj di quel
tempestare, risolsero commettere il supremo comando ai Torriani, indi ai
Visconti. Dei quali primo Ottone arcivescovo fu eletto signore, indi Matteo
Magno, poi il costui figliuolo Galeazzo, da cui nacque l'Azone che più
volte ci occorse di nominare in questa rassegna, che pur troppo sentiamo
quanto a ragione i lettori potranno paragonare al passar delle immagini di
una lanterna magica sulla parete, senza profondità e senza lasciare
traccia.

Esso Azone, inteso a mascherare la servitù, aveva, oltre assai fabbriche
cittadine, abbellito a meraviglia il palazzo, in cui, come in sua reggia,
ora entrava Luchino. Una torre s'innalzava a molti piani, con camere, sale,
corridoj, bagni ed orti: al piede innumerevoli stanze con doppie imposte e
portiere e ori, che era una ricchezza a vedere; in un camerone, chiuso da
una rete di fili di ferro, svolazzavano d'ogni razza uccelli; nè vi
mancava un serraglio di orsi, babbuini, altre fiere, tra cui uno struzzo e
un leone, lusso che parrà stravagante solo a chi non abbia pratica coi
costumi di quel tempo. Ma non conviene tacere le pitture onde ogni cosa era
adornata: un laghetto, in cui quattro leoni versavano acqua continuamente,
e che figurava il porto di Cartagine, colle navi e tutto disposto per la
guerra punica: in fine la chiesa, ricca di arredi pel valore di ventimila
fiorini d'oro e di reliquie miracolose.

Fra questo lusso entrato il corteo principesco, un bellissimo giovane,
d'occhi vivaci, lunga barba e capellatura cascante e anella sovra le
spalle, splendido nel vestire quanto dir si potesse, e con gran piume
ondeggianti tutt'in giro al capo, fu lesto a scavalcare, e dar braccio alla
signora Isabella per ismontare dal palafreno. Era Galeazzo Visconte, il
quale, susurrandole galantemente all'orecchio, l'accompagnò su per lo
scalone con dietro tutta la comitiva.

E giunti alla gran sala, detta della Vanagloria, tanto splendida che altro
non gridano le storie, mentre il buffone faceva inchini ad Ettore, ad
Ercole, ad Azone, agli altri eroi in essa effigiati, la folla raccoglievasi
in crocchi e capannelli per legare quella conversazione piena di parole e
vuota di pensieri e di sentimenti, che formava e forma l'allettamento delle
brigate; chiedevano e davano le notizie del paese, discorrevano della Corte
dei Gonzaga, chi lodandola, chi tassandola: della maestria e de' bei colpi
dei nostri giostratori, ai quali, per quanto avessero fresca la memoria de
la libertà, pure dava superbia un sorriso, un'approvazione del principe.
A lui facevano particolarmente omaggio i messi delle varie Corti de'
tirannelli di Lombardia; e quello di Mantova singolarmente esaltava la
cortesia e la bravura di Bruzio e di Franciscòlo Pusterla.

Il lodare quest'ultimo sarà parso una sinistraggine ai cortigiani
consumati, che sapevano come poco egli andasse a sangue a Luchino; ma qual
dovette essere la loro meraviglia, allorchè, su questo discorso,
Luchino, avviatosi verso il Pusterla, più cortese che con loro non
solesse, gli dirizzò la parola, ripetè le lodi dategli or ora dal
Mantovano, e le molte che già soleva dargli Azone; e insinuatosi col
genere di encomj che più lusinga, quelli che sono riferiti d'altrui
bocca, entrò a ragionare con esso come con persona di cui facesse gran
caso. E poichè n'ebbe con fina arte palpeggiate le passioni, in tono di
confidenza gli soggiunse:--Franciscòlo, l'amicizia che in condizione
privata ci legava, non l'ho dimenticata, siatene certo, nè aspettavo che
l'occasione di farvene chiaro. Ora Mastino Scaligero, vedendo non potermi
sopportare nemico, implora l'amicizia nostra. Una pratica sì delicata
non conoscerei a chi meglio affidarla che a voi, saputo al pari nelle cose
della pace e della guerra, ben voluto da quel potente, e capace di
sostenere il decoro milanese in faccia ai forestieri. Innanzi che il mese
finisca, vorrete dunque recarvi ad esso a Verona con nostre credenziali,
che abbiamo ordinato di spacciarvi».

L'animo del Pusterla, esacerbato contro di Luchino non tanto per la
servitù cui aveva ridotto la patria, quanto per la trascuranza che di
lui mostrava, e per trovarsi ridotto ad una nullità di rappresentanze e
d'azione, che a lui pareva, non che indecorosa, infame, in un baleno si
mutò a questo primo segno di favore, al vedersi oggetto di invidia fra'
cortigiani, cui forse testè era di sprezzo; ebbe dimenticato gli antichi
oltraggi, dimenticato i propositi di solitudine e di ritiro, dimenticato il
geloso sospetto che gli avevano desto i procaci sguardi di Luchino sopra la
moglie sua; nè tampoco gli nacque dubbio che questo incarico fosse
un'astuzia per rimoverlo e disonorarlo; e ringraziò il principe,
accettando con riconoscenza. Tanto accieca l'ambizione!

E più lieto e baldanzoso tornò al suo palazzo, dove gli amici si
erano raccolti per festeggiarlo. Alla Margherita, che gli correva incontro
col figlioletto, appena rese l'abbraccio, ed esclamando,--Buone nuove»,
le raccontò la missione. Se ne congratulavano alcuni; ma
quell'Alpinòlo che conosciamo, scosse il capo, esclamando:--Dalla vipera
può venir altro che veleno?» La Margherita poi impallidì e
mostrando con un gesto eloquentissimo il loro Venturino,

--Oggi appena (diceva al marito) tu ritorni, e già vuoi abbandonarci?
V'è luogo migliore nella propria casa, compagnia più dolce che quella
dei suoi domestici, missione più onorevole che quella di beare chi ci
vuol bene?»

Francesco le stringeva la mano amorevolmente, levavasi in collo il bambino,
e si mostrava intenerito: ma quello spontaneo moto di natura rimaneva ben
tosto compresso dal desiderio di figurare, dall'abito di cercare la
felicità fuori di sè. Anche il frate, allorchè l'amico gliene
portò la notizia nel convento di Brera, con ogni modo si adoprò per
distoglierlo da quell'andata. La cella solinga e meditativa dov'esso
abitava, pareva accordarsi alle ragioni ch'egli addusse onde persuadere
Franciscòlo a togliersi giù dalle pubbliche brighe quando non poteano
essere che scompagnate dal decoro e dal sentimento di un nobile dovere.
Anzi, dopo che frà Buonvicino vide l'amico sordo a tutti gli altri
argomenti, quasi per ricordargli le osservazioni di jeri, e per tentar
quello che a lui pareva il più robusto, gli chiese:--E Margherita?»

Pensò un tratto il Pusterla, poi rialzando il capo come un ostinato che
pur voglia mostrare d'aver ragione, rispose:--La Margherita è un
angelo.»

Il frate lo sentiva, e sentiva in conseguenza quanto disdicesse
l'abbandonarla: pure non osò insistere su quel punto per non mettere a
repentaglio la domestica tranquillità di Franciscòlo.

Ma chi era il frate, e perchè tanta parte prendeva alla sorte di questa
famiglia?



CAPITOLO II.

L'AMORE.


Buonvicino dei Landi, famiglia principalissima di Piacenza, da giovinetto
era stato posto in Bologna agli studj, cui con fervore si dirizzava la
gioventù della risorta Italia, trovando in essi un'altra via per salire
colà, ove dapprima si giungeva solo colle armi e colla prodezza della
persona. Tali studj si riduceano, è vero, a pedantesche regole di
grammatica e di retorica, alla filosofia dei commentatori d'Aristotele, e
alla cognizione delle Decretali; ma l'amor delle belle lettere e la ricerca
dei classici latini ravvivata poteano, qualora trovassero terreno da
ciò, far negli animi germogliare affetti e sensi generosi. Così
accadde di Buonvicino, il quale appunto, su quei primi anni, pascendosi nei
detti e nei fatti gloriosi degli antichi, sollevava l'animo sopra le minute
gare del suo tempo. E sebbene ne traesse idee, lontane affatto dalla nuova
civiltà, di quelle idee che pur troppo nocquero al felice ordinamento
delle repubbliche italiane, però quel nome di patria, perpetuo tema
degli scrittori romani, aveva infervorato la fantasia del garzone, il quale
non ambiva se non di crescere cogli anni, per potere o nelle magistrature
servir il suo paese, o difenderlo in campo.

Infelice! Gli anni vennero, ma con essi la sventura e i desolati
disinganni, che così spesso tormentano le anime generose.

Piacenza sua patria era caduta in podestà di Matteo Visconti, poi di
Galeazzo. Questo qua, meno astuto e più corrotto del padre, credeasi
lecito ogni suo talento nelle città dominate; e per tacere altre
soperchierie onde aggravò la servitù dei Piacentini, tentò
disonorare Bianchina, moglie di Opizino Lando detto Versuzio, fratello del
nostro Buonvicino. Mal per lui: giacchè nella donna trovò virtù,
trovò vendetta nel marito: il quale, fatta un'intelligenza con alcuni
fidati, abolì nella sua città il dominio dei Visconti, e la
consegnò al cardinal Poggetto, legato del papa.

Buonvicino, su quell'età in cui si vagheggiano i sentimenti più che
non si calcolino le circostanze, pieno delle idee del patriottismo antico,
modificato dalle nuove che faceano guardare come straniero l'abitatore
d'ogni altra città, e servitù l'essere signoreggiati dal vicino,
appena ebbe fumo di quella pratica, accorse con buon numero di suoi
condiscepoli, ed arrivò a Piacenza in tempo, come di giovar col valore,
così di mostrare generosità. Perocchè, il giorno che scoppiò la
rivolta, trovavasi in quella città Beatrice moglie del signor Galeazzo,
col figlioletto Azone, alla salvezza del quale unicamente intesa, la madre
lo fece trafugare, rimanendo essa in palazzo per non dar sentore della
fuga, ed affrontando lo sdegno e la brutalità d'un popolo sollevato,
purchè ne andasse salvo il bambino. Come la cosa fu nota a Buonvicino,
rispettando e venerando gli affetti di una madre, non che impedire le fosse
fatta violenza di sorta, egli medesimo la scortò sino ai limiti del
distretto piacentino, quivi consegnandola sicura alle guardie del marito.

Accadea questo fatto nel 1322, e da quell'ora si rimetteva in Piacenza il
governo a popolo, giacchè il dominio papale potevasi riguardare come una
libertà, sì perchè i pontefici, sedendo allora in Avignone, non
esercitavano da così lontano che una autorità di protezione, sì
perchè erano stati fautori del franco stato, se non altro per isvigorire
i Ghibellini, tendenti a scemare le franchigie lombarde a pro dell'Impero.

Negli otto anni successivi, Buonvicino maturò fra le generose cure d'una
libera patria, coll'altezza di sentimenti che ispira il togliersi alla vita
privata per vivere la pubblica, il curare meno le domestiche cose che le
comuni; educazione che tanto contribuì a migliorare l'Italia durante le
sue repubbliche.

Andava in quel mezzo ognora più in basso la fortuna dei Visconti,
guerreggiati da Lodovico il Bavaro imperatore, il quale era sostenuto dai
molti nemici che si erano procacciati, e da Versuzio Lando che non mai
desistette dal combattere contro di essi; tanto che Galeazzo, Luchino,
Giovanni e Azone finirono coll'essere chiusi nelle orribili prigioni di
Monza, dette i Forni, ove stentarono dal 5 luglio del 1327 fino al 25 marzo
del seguente.

Ma quando Galeazzo morì, e con lui cessò il mal animo eccitato nei
popoli e nei principi, piegarono a meglio le cose dei Visconti: Azone,
miglior del padre, gridato signore di Milano il 14 marzo 1330, pensò a
ricuperare le città che aveva perdute, come di fatto riuscì con
Bergamo, Vercelli, Vigevano, Pavia, Cremona, Brescia, Lodi, Crema, Como,
Borgo San Donnino, Treviglio e Pizzighettone. Anche sovra Piacenza fissava
cupidi gli occhi, ma il conseguirla non era così agevole impresa;
poichè, tenendo essa la sua libertà a nome del papa, non avrebbe
potuto il Visconti insidiarla senza venire in rotta con questo. Cominciò
dunque la sorda guerra de' politici tranelli, fece un capo grosso per non
so che violazioni e rappresaglie dei Piacentini contra i sudditi suoi:
minacciò, fu duopo mandare dei messi e degli ostaggi a Milano, fra i
quali Buonvicino. Morto era il fratello Versuzio; morti i più vicini
parenti; morti i più cari amici nelle guerre passate; aveva potuto
vedere come all'atto gli affari riescano diversissimi da ciò che
l'immaginazione figurava; vie più gli si disabbellirono le splendide
fantasie di gioventù allorquando, venuto alla Corte milanese, conobbe
con quanti viluppi e lacciuoli e coperte vie e secondi fini vi si
guidassero i pubblici interessi; scaltrimenti che un'anima schietta neppure
indovina, ma che i prudenti del mondo dicevano e dicono necessarj per
reggere e prosperare gli Stati. Sulle prime egli si indispettì,
s'infuriò anche; ma col lungo vederne, contrasse quella sentita
melanconia che nasce dalla chiara cognizione di un fine, unita
coll'impossibilità di raggiungerlo.

Del resto, in questa sua qualità media fra di ostaggio e di
ambasciatore, ed anche per memoria del segnalato servigio reso alla signora
Beatrice, Buonvicino era stato accolto e trattato con ogni onoranza; e
sì egli, sì i compagni suoi, allogati presso le prime famiglie di
Milano, colla speranza che l'ospitalità legasse le amicizie, e queste
col tempo surrogassero ai rancori municipali quella che chiamavano
universale benevolenza, e volea dire tolleranza del giogo comune.
Buonvicino era stato appoggiato alla famiglia di Uberto Visconti, il quale
abitava tra la via di San Clemente e una fornace di vetri posta in quella
delle Tanaglie, dove poi venne allargata la piazza Fontana, e dove
l'osteria del Biscione rammenta ancora gli antichi possessori.

Uberto Visconti, padre della Margherita da cui s'intitola il nostro
racconto, sebbene, come fratello di Matteo Magno, fosse molto riguardato
nella città, non partecipava però al comando, o che l'integro animo
rifuggisse dal mescolarsi nei sozzi avvolgimenti della politica onde i suoi
tendevano a conservare o crescere la signoria; ovvero che questi ad arte
tenessero lontano un uomo, il quale si poco conoscevasi del mondo, che
avrebbe preteso di gettare la parola di giustizia, fino a traverso ai passi
dell'ambizione. Aggiungi che i Visconti, siccome ghibellini, cioè
fautori dei diritti imperiali, erano sinistramente veduti dai papi, che coi
Guelfi sostenevano i diritti della Chiesa e del popolo; e poichè le
passioni politiche facilmente si avviluppavano cogli affari religiosi,
accadeva non di rado che i Ghibellini professassero errori in fatto di
fede, e i pontefici colpissero di pene spirituali i loro temporali nemici;
e il popolo riguardasse come eretici anche coloro che contrariavano le mire
terrene dei papi.

Quindi non poche anime timorate si faceano coscienza di seguitare la
bandiera del Biscione: ed Uberto non favoriva i parenti suoi che
repugnante, e quel tanto solo che pareva esigere il suo decoro e la fede di
cavaliero. Però in una mischia avvenuta in Milano quando, nel 1302 i
Torriani fecero un estremo sforzo per rientrarvi, Uberto era stato
abbattuto da sella, e lì tra la folla e sotto ai piedi dei cavalli, si
era per alcuni minuti vista la morte ad un pelo. Onde avea promesso alla
Madonna di smettere le armi, impugnate per causa non giusta; ed avea
creduto effetto di quel voto la generosità, colla quale un capo de'
nemici, Guido della Torre, gli aveva dato mano a sorgere, tornar a cavallo
e camparsi, dicendogli:--Non sia mai vero ch'io di cittadini pari tuoi
privi la patria mia, che fortunata se molti ne contasse».

Allora Uberto si tolse dal parteggiare pei Visconti, tanto che questi
disgustati lo confinarono ad Asti, poi richiamato, gli conferirono di
quegli onori che possono contentare l'amor proprio senza crescere
l'ingerenza; come l'andare podestà in questo o quel Comune, accompagnare
a Roma l'imperatore, sostenere ambascerie di complimento.

I Visconti invece vennero in aperta rottura col papa; talmente che il
cardinal legato, spiegato il vessillo delle sante chiavi sopra il solajo
del suo palazzo in Asti, predicò che qualunque uomo o donna lo
seguitasse per distruggere Matteo e i suoi, rimarrebbe assolto (dicono le
rozze cronache) dalla pena d'ogni trascorso; scomunicò il Visconti fino
alla quarta generazione, perchè eretico e reo di venticinque misfatti,
fra i quali d'aver esercitata giurisdizione sui beni e le persone
ecclesiastiche, impedito ai suoi di armarsi per le crociate, repressa la
santa inquisizione, e procurato di campare dal fuoco l'eretica Mainfreda.

Il trovarsi involto in questa scomunica tanto più spiaceva a Uberto
quanto più egli venerava l'autorità papale, e non tralasciò fatica
per calmare gli animi, per riconciliare i Milanesi alla Chiesa: anzi pare
doversi alle sue persuasioni se Matteo si diede a vita devota e a visitare
chiese, finchè in Duomo, convocato il clero ed il popolo, recitò
tutto il _credo_, protestando quella essere la propria sua fede. Il papa
non giudicò sincero quel pentimento e quell'abjura, onde non ritirò
l'anatema; Matteo morì con questo; e Uberto, più non volendo
intendere di pubbliche cure, visse da privato, sebbene splendidamente, ora
in Milano, ora sulle ridenti spiaggie del Lago Maggiore, dove ampj
possedimenti teneva a Invorio inferiore, a Oleggio e altrove nel Vergante,
là sulla sponda occidentale intorno a Lesa. Quivi confortavasi tutto
nelle cure casalinghe, e poichè i suoi tre figli Vittore, Ottorino e
Giovanni, di spiriti guerreschi, poco tempo rimanevano con lui, spendeva
tutta l'attenzione sua a educare l'unica figliuola Margherita, con modi ben
diversi da quelli che sogliono quei molti, cui supremo intento sembra
formar savie fanciulle e donne cattive.

Disingannato del mondo in vecchia età, ben accordavasi con chi nella
fresca se ne trovava disgustato, com'era Buonvicino. Si legò dunque
un'intima amicizia tra il vecchio e questo giovane, il quale, non avendo
più padre, come tale riguardava Uberto, come fratelli i figli di esso, e
come sorella la Margherita. I discorsi dell'uomo pratico anticipavano a
Buonvicino l'esperienza del mondo: sui pochi libri che allora correvano,
egli esercitava gli involontarj riposi: scriveva anche qualche verso, come
rozzamente allora e qui si poteva; per città brillava nelle gualdane e
negli esercizj di corpo: mai non mancava di intervenire, come a scuola di
filosofia sociale, ai pubblici dibattimenti; nelle brigate piaceva
singolarmente per un far gentile, non iscompagnato mai da maschia
franchezza: anche quelli che sedevano al governo lo riverivano, perchè
sapeva accoppiare la soggezione, che la forza e la vittoria pretendono,
colla dignità della sventura non meritata.

Un sì gentile e peregrino cavaliero non vi farà meraviglia se ottenne
ricambio d'amore dalla Margherita. Poteva egli contare i trent'anni, mentre
essa arrivava ai quindici appena, onde le gentilezze che Buonvicino usava
all'ospite sua, nel cuore di lei, mal conscio di sè stesso e inesperto
dell'amore, destavano un senso di pudica compiacenza. Ma questa
inclinazione, come suole, restò gran tempo un segreto per tutti, e sino
pei due amanti. Giammai non le aveva egli detto, _Vi amo_; parola che suol
venire dopo che già l'eloquente linguaggio dell'affetto in cento altri
modi l'espresse. Ella poi nè tampoco sapeva di amarlo, almeno non lo
confessava, anzi nol chiedeva pure a sè stessa. Se non che al comparire
di lui il cuore le batteva forte forte: quand'egli partiva rimanea
sconsolata, come le mancasse alcuna cosa di necessario, di suo; egli non le
aveva indicato che tornerebbe, nè quando, eppure essa lo attendeva: se
tardasse era come sulle spine; al rivederlo provava una compiacenza
interiore, una pienezza di vita, come (almeno pareva a lei), come al veder
suo padre, le sue amiche, un'alba di maggio, una vigna in settembre.
Avrebbe voluto piacergli, parergli bella; parergli buona e brava: quasi
senza avvedersene, allorchè lo aspettava, adornavasi con più attenta
cura: una parola ch'egli le dirigesse sentivasi ravvivare; ambiva ch'egli
voltasse gli occhi sopra di lei, ma non appena la fissasse, ella abbassava
i suoi arrossendo; nel rispondere alle domande, alle cortesie di lui,
balbettava, si confondeva; sbagliava le note quando d'accordo toccavano il
liuto; poi si pentiva, si vergognava, si rimproverava, accusava sè
stessa come di una fanciullaggine; proponevasi di fare altrimenti, e
tornava a far lo stesso. Le ajuole del suo giardino avevano un fiore
preferito, un preferito albero il boschetto: il fiore della margaritina,
ch'_egli_ aveva mostrato prediligere; la pianta sotto cui, un giorno che ne
piangeva la lontananza, _egli_ le era comparso davanti improvviso.

Così, desiderarlo, rivederlo, fantasticare, staccarsene, desiderarlo di
nuovo, formavano la storia della sua vita; vita povera di casi, ricca di
sentimenti, e tutta dominata da quel non so che di misterioso, che tanta
dolcezza sparge e tante pene sul prino amore, che ci fa sudare e
rabbrividire, gemere e cantare, piangere e ridere senza aver di che: temere
e sperare nè sapere qual cosa: cento volte in un giorno chiamarci beati,
e cento crederci le più misere creature;--quel bene, quel male, che non
si conosce al vero se non quando o crebbe fino al colmo della contentezza,
o restò fulminato dalla sventura.

Non così incerti ondeggiavano gli affetti in Buonvicino, il quale,
sebbene fresco ancora di cuore e virtuoso, avea però sperimentato del
mondo la sua parte, ed esaminato abbastanza questa vita, che è una
commedia per chi osserva, una tragedia per chi sente.

Nessuna seduzione più facile di quella che non si teme: nessun tempo in
cui l'anima sia dischiusa tanto all'affetto, come nei travagli. Era il caso
di Buonvicino, sentì d'innamorarsi della Margherita, e non se ne
guardò: conobbe di non essere a lei discaro, e se ne compiacque: lieto
d'aver sì bene collocato il cuor suo, pago di una dolce corrispondenza.
Sovente, dopo le tempeste della pubblica vita, dopo avere, coll'occhio
melanconico e penetrante di chi studiò gli uomini, ed alla prima scorge
ove tendano le loro azioni, visto l'affaccendarsi delle egoistiche
passioni, egli tornava a riconciliarsi coll'umanità nella contemplazione
di un'anima schietta, in cui far il bene era istinto, non calcolo: cercava
tranquillità nel costante sereno che dominava intorno ad essa;
somigliante alla pace che gli angeli diffondono sovra le anime, di cui sono
destinati ad alleggerire i patimenti.

Ma questa placida innocenza di lei lo ratteneva dal palesarle l'affetto
suo, al tempo stesso che glielo rendeva più vivace. Possedere
quell'ingenua fanciulla che, tra le cure dell'ottimo dei padri, veniva
educandosi alla virtù ed al sapere, ben avvisava egli come sarebbe la
felicità de' suoi giorni; ma potrebbe egli render lei altrettanto
fortunata? Pendevano in bilancia i destini della casa e della patria di
lui: poteva succedere che, in libera terra, avesse egli a vivere primo
cittadino, colla potenza di un nome onorato e di un carattere più
onorato ancora, guidando i compatriotti suoi al bene e alla decorosa
quiete. Ma questo avvenire lusinghiero stava all'arbitrio di principi, in
cui raro era il disinteresse. E se gli fossero mancati di parola? se
fossero prevalse le brighe, l'ambizione? Egli poteva trovarsi, non che
ridotto all'oscurità, ma balzato lontano, o precipitato fra quei
pericoli avventurosi, ove, simile a chi naufraga in alto mare, un'anima
leale desidera trovarsi sola, per sentirsi maggiore coraggio di lottare con
fermezza, e minore cordoglio qualora il dovere o la generosità le
impongono di soccombere. In tal caso quand'egli avesse alimentata la
nascente fiamma della Margherita rivelandole la sua, ecco formata un'altra
vittima: ecco procurato a sè il rimorso d'avere turbato in quella
giovane anima la calma, il riso di quella primavera dell'età, che
scorre, ahi troppo veloce e irreparabile! per dar luogo alle cure, alle
faccende, alle amarezze, al disinganno, all'inutile repetìo per tutto il
resto della vita.

Ciò lo indusse a tacere sempre l'amor suo, a dissimularlo almeno nelle
parole, per quanto gliene costasse al cuore. Ma l'amore come si può
nascondere? Contro al proposito, egli si lasciava trascorrere talora a
qualche immeditata parola, ad una delicata prevenzione, ad uno di quei
niente che rivelano alle fanciulle l'uomo, il cui sospiro può
dischiuderne l'innocenza al pieno fiore della vita.

I temuti e previsti rivolgimenti a danno di Piacenza non tardarono. Azone,
per quanto gli facesse gola l'acquisto di quella città, per quanto
credesse una ragione del riaverla l'essere stata altre volte posseduta da
suo padre, non s'arrischiava però di assalirla direttamente per non
venir in guerra col pontefice, sotto la cui protezione erasi que la
riparata Cortesie e promesse largheggiava dunque a Buonvicino: ma intanto
adoperava, come si dice, a trar dalla buca il granchio colla zampa altrui.
Francesco Scotto ambiva di possedere Piacenza, già dominata dalla sua
famiglia, ed opprimendo gli emuli Landesi e cacciandone i Papalini,
assodarvi la sua padronanza. Se l'intese a tal uopo coi Fontana, coi
Fulgosi, con altre famiglie di colà, che occupati i castelli,
proclamarono signore lo Scotto, cassata ogni supremazia papale,
sbandeggiati per sempre e spossessati d'ogni aver loro i fautori dei Landi
e nominatamente Buonvicino.

Si consolava questi nella sciagura tenendo per certo che Azone, secondo
quel che prometteva e mostrava, dovesse prendere le armi contro al nuovo
tiranno e rimetter libera Piacenza al papa ed a' suoi cittadini. Ma Azone
giocava di due mani: sott'acqua aveva egli stesso dato ajuto allo Scotto
nell'impadronirsi della patria non già per amore a questo, ma per
poternelo poi spogliare senza correre in guaj colla Corte pontificia. Di
fatto armò: tutti i fuorusciti presero parte alla spedizione; Buonvicino
fu dei primi e meglio valenti; e col coraggio solito in chi muove a
ricuperare la patria, ebbero presto levata Piacenza allo Scotto. Ma quando
aspettavasi che il Visconti ne gridasse la libertà, egli ordinò che
le due opposte fazioni deponessero le armi; indi, come buon conquisto,
aggiunse Piacenza alle sue possessioni.

Quanto se ne trovassero scornati i Piacentini, e Buonvicino sopra gli
altri, voglio lasciarlo pensare a voi. Quest'ultimo, tenuto povero e
guardato attentamente a Milano, si trovò dunque perduta la patria,
offuscato il lustro della famiglia, falliti i sogni della giovinezza, nè
più rimanergli se non l'eredità, che unica sopravanzava a troppi
signori in Italia, un braccio valoroso. Ma poichè egli non era disposto
a venderlo al migliore offerente, doveva ricoverarsi nella propria
virtù, cercare la compiacenza da cui, anche tra le miserie è
accompagnato e consolato chi soccombe per la causa della giustizia.

Persuaso allora alla condizione sua presente più non convenisse
l'accoppiarsi ad una fanciulla di casa tanto principale, e che, appunto
perchè la conosceva e l'amava, pareagli degna del più sublime stato;
fors'anche per non sembrare disertore de' suoi fratelli di sventura quando
si fosse imparentato alla famiglia del tiranno, cominciò a dilungarsi
dal vedere la Margherita, poi se ne distolse interamente; e chiuso dentro a
sè l'affetto che le portava, giunse a persuadersi d'averla in tutto
cancellata dal suo cuore.

Aveva egli conosciuto alla Corte di Azone il cavaliere Franciscòlo
Pusterla, che, allora in grande stato presso il principe, nè del favore
abusava a danno altrui, nè se ne prevaleva a proprio vantaggio; onesto,
generoso, ricordevole delle virtù italiane, e volonteroso del bene de'
suoi concittadini. Vero è che, per una certa debolezza di naturale che
altri scambia per forza, per una irrequieta smania di fare, di comparire,
di sentire la vita, non si trovava saldo quanto bastasse per resistere al
fascino degli onori od all'autorità del potere; anche quando conosceva
riprovevoli i passi del principe non osava dirlo, tanto meno poi mostrarne
dispetto od opposizione: troppo compiacendosi di poter primeggiare in Corte
e nella città,--senza accorgersi che uno può figurare vie più
coll'apparir meno colà dove la turba si accalca.

Parve a Buonvicino che Franciscòlo dovesse essere il caso per rendere
felice la Margherita. Già le due famiglie erano legate d'amicizia: i
difetti della gioventù colla gioventù se n'andrebbero, e il Pusterla
troverebbe in lei quanto bastasse ad appagarne i sensi, la ragione,
l'immaginazione; la Visconti, collocata in alto luogo e di lei degno,
avrebbe potuto, fortunata in casa, rendersi di fuori modello alle dame
lombarde. Quindi colla dimestichezza onde usava con entrambe le famiglie,
Buonvicino agevolò una parentela, la quale sommamente gradiva ad Uberto
Visconti, lieto di vedere con sì nobile soggetto accasata la diletta sua
figliuola, ed al Pusterla ancor più, sì per trovarsi possessore di
una, che sull'altre otteneva il pregio della bellezza e dei modi colti e
gentili, sì per legarsi in affinità colla casa dominante.

La Margherita, come prima si accorse del raffreddamento di Buonvicino, come
lo vide diradar le occasioni di trovarsi da sè a lei, più sempre
allontanarsi dalle cure che solevano aver comuni, dal toccare di concerto
il liuto, dal leggere insieme la _Divina Commedia_ di Dante e alcuni libri
francesi e provenzali, non occorre ch'io vi dica se ne rimase melanconica.
Esaminava a minuto ogni atto, quasi ogni pensier suo, se mai potesse averlo
in qualche maniera disgustato, e non trovandosi in colpa si accorava,
piangeva. Allora confessava a sè stessa di amarlo; allora chiamava
crudele lui, che più non la ricambiasse di altrettanto affetto.

Poi riflettendo, tacciava sè stessa d'inconsiderata e vana, che si fosse
lusingata d'essergli cara, quantunque egli mai non glielo avesse detto,
quantunque forse mai non vi avesse egli fissato il pensiero. E qui si
ingegnava di convincere sè stessa che quelle cortesie erano forse in lui
naturali, erano forse consuetudini di tutti i cavalieri verso tutte le
giovinette: ma il cuore voleva la sua ragione, e la faceva rincorrere quei
mille ineffabili nulla che sono tutto per gli amanti: le ravvivava tutta la
poesia dei primi turbamenti; tante esaltazioni in fondo al cuore non
rivelate dal viso; tanti timori di non essere compresa, tanta gioja di
esserlo stata; nei quali ricordi, mentre si veniva a convincere d'essere
stata cara a Buonvicino, vie più l'anima sua si avvolgeva tra il
labirinto di quei varj affetti che esacerbano un voto fallito, una speranza
delusa. Talvolta lagnavasi con sè stessa di non avergli abbastanza
mostrato il cuor suo: tal altra condannavasi d'averlo mostrato troppo: indi
ritrovando penoso il passato e il presente, cercava stordirsi, e non vedere
in queste memorie se non tante illusioni, di cui sforzavasi sorridere ella
stessa compassionevolmente. E si vantava libera, guarita, smemorata;
tornava ai libri, al suono, ai passeggi; ma che? quei suoni le recavano a
mente una voce che li soleva accompagnare; in quei libri occorrevano cento
allusioni ai casi suoi passati e presenti, cento cose ch'egli le aveva
spiegato altre volte, e che ora desideravano una spiegazione; come
riuscivano triste, monotone quelle passeggiate ora che più non ve
l'accompagnava la speranza d'incontrare _qualcuno_!

Pure il tempo è gran rimedio anche alle grandi passioni: e la Margherita
si dovette alfin persuadere di essersi veramente illusa quando vide
Buonvicino intramettersi delle sue nozze col Pusterla. Trattandosi di un
amore che non aveva ricevuto fomento sia da lusinghe di lui, sia da fondate
speranze, ella non penò molto per rassegnarsi a deporlo. Del Pusterla
udiva parlare da tutti colle lodi che al merito si profondono più
facilmente quando sia dovizioso: le prodezze da lui compite nell'ultima
spedizione di Piacenza, che ne avevano esaltato il nome per tutta
Lombardia, non sarebbero no bastate a suscitare nella Margherita un nuovo
amore, ma qual è la donna che, all'udire lodato un uomo, non si
compiaccia di poter dire: _È mio_?

Richiesta dunque dal padre se sarebbe contenta di avere a marito il
Pusterla, non negò: poi quando prese a conoscerlo da vicino, trovandolo
ricco delle qualità che meglio stanno in un uomo gentile e in compito
cavaliero, pose in lui ogni ben suo, benedisse il cielo d'averla tanto
fortunata, e dacchè ebbe la persuasione di amarlo, di esserne amata
eternamente, gli promise all'altare il più vivo, il più tenero, il
più immacolato affetto.

Le memorie del tempo non pajono d'accordo che nel lodare la nuova sposa:
essa bella, essa spiritosa, di affabile amorevolezza coi subalterni,
d'inesausta carità coi bisognosi, eguale d'umore conversevole, costante
in quella dolcezza di naturale, che nelle donne equivale a quasi tutte le
altre doti, e che è il più opportuno avviamento ad essere e a rendere
felici gli altri. Difetti ne avrà certo avuti; e chi no? ma gli storici
non ce ne ricordano, forse perchè, così giovane fu così
sfortunata: e l'uomo è tanto proclive a dimenticare i falli di chi
merita la sua compassione, quanto a trovarne in chi gli desta invidia. Per
altre vie però noi sappiamo che le sue pari la tacciavano di voler
parere bella e buona e virtuosa: alcuni, per cui la massima delle virtù
consiste nel non far male, davanle colpa del volersi frammettere nelle
faccende altrui: beneficava, quindi fece degli ingrati, e questi palliarono
l'ingratitudine col menarle dietro la lingua: so di chi la chiamava
bacchettona: so di chi asseriva le opere sue non movessero sempre da buone
e semplici intenzioni: so di molti più che la accusavano di non
conoscere il viver del mondo perchè sostituiva il sentimento e la
schietta sincerità alle compassate cortesie che il mondo insegna e
pretende. In somma, ella aveva quante qualità bastassero per dar presa
alla maldicenza, e per far beato chi la conosceva e l'avvicinava, tanto
più chi la possedeva.

Le strane idee che correvano allora sull'amore maritale, faceano che una
donna potesse, anzi (se bella e di garbo) dovesse avere uno o più
cavalieri, che a lei dedicassero le imprese loro, o davvero in guerra, o da
giuoco ne' tornei. Anche in ciò la Margherita scostavasi dalle
contemporanee, perchè non credeva che della moralità si abbia a far
un affare di moda.

Se il pensiero di Buonvicino mai non le ritornasse alla mente, se non
ricorresse ella mai sulle prime fantasie di sua giovinezza, non ve lo
saprei dire: ben so come un primo amore difficilmente si cancelli o non
mai; so ancora che neppure la più rigida virtù può condannare
un'incolpevole rimembranza.

Ben altrimenti corse la cosa per Buonvicino.

A torto aveva creduto spenta la sua passione: era soltanto sopita; e quando
scorse la sua diletta rendere più l'un dì che l'altro felice il
Pusterla, sentì ravvivarsi la fiamma antica. Per la comune amicizia
frequentando la casa di questo, potè notare sviluppate nella nuova sposa
le qualità, che aveva indovinate in genere nella fanciulla; nella serena
e temperata giocondità che essa preparava al marito, vide maturi i
frutti della apprestatale educazione. I sonni di incolpati gaudj e
tranquilli, che tante volte lo avevano lusingato in quei giorni di floride
immaginazioni, quando gli sorrideva la lusinga che di tanto bene potesse
una volta divenir possessore, ora li scorgeva ridotti a realtà; ma per
vantaggio di un altro. E quest'altro era un amico suo, alla cui contentezza
aveva egli dato opera efficace: un amico che, qualvolta si trovavano
insieme, sfogava con esso la piena di un cuore in giubilo, ragionandogli
della sua fortuna, o coll'ardore di un nuovo sposo dipingendogli le doti,
che, ogni giorno maggiori, veniva scoprendo nella sua Margherita; e lo
benedicea di averlo consigliato a fissare in essa i suoi voti.

Così da una parte alimentata dalla convinzione dei meriti di essa,
dall'altra rinchiusa a più potere sicchè nulla ne trapelasse, la
fiamma sua cresceva più sempre. Ben chiamava egli a soccorso la
ragione:--la ragione! ottimo rimedio contro il passato e l'avvenire; ma
quando il presente incalza, che vale essa mai?

Il Pusterla frattanto, voltosi tutto ad ingrazianirsi la Corte, si era
allentato nell'amore verso la sposa. Dissi male: non avea diminuito
l'amore: ma, un poco alla moderna, vi combinava tutte le piccole ambizioni
sociali: lo soffocava sotto un tumulto di altri pensieri, e per segnalarsi
nelle cariche, nelle armi, nelle pompe, posponeva le dolcezze incomparabili
della vita casalinga. Di gustar questa era egli poco capace, inclinato,
come dissi, a non trovare felicità che nella tempesta del cuore e delle
azioni: difetto che, dopo sbollito il primo amore verso la Margherita, lo
recò persino a cercare altre gioje turbolente in amori contrastati, o
nelle rinnovate vicende di effimere passioni. Eppure, lo ripeto, di nulla
scemava la stima e cordialità sua verso la moglie, fenomeno che mi
arresterei a spiegare se fosse più raro.

Mesi interi egli si teneva lontano dalla città; anche quando vi stava,
occupato tutto alla Corte e nei crocchi brillanti, ben poche ore gli
avanzavano di rimanere a fianco della sposa. Allorchè a questa toccò
il dolore di veder morto il suo dolcissimo padre, il Pusterla viaggiava col
principe fuor di paese, nè accorse a consolarla, pago d'inviarle per
iscritto quelle condoglianze, che sì poco ristorano quando non escono
dal labbro stesso della persona diletta.

Al contrario Buonvicino, in quella sventura si mostrò vero amico alla
Margherita, o fra sè disapprovando la trascuranza in che pareva
lasciarla lo sposo, raddoppiò con essa di affettuose attenzioni, piene
di un nobile e disinteressato sentimento di pietà.

Ma dalla pietà all'amore è pur breve il tragitto! No: nessuna lusinga
può tanto sedurre, quanto la lagrima sull'occhio della bellezza, quanto
il piacere di poterla tergere e consolare. La graziosa e muta riconoscenza
onde Margherita accettava le sue cure, gli abbandoni che sono così
naturali negli istanti del dolore, toccavano vivamente Buonvicino, che
sentivasi beato di aver acquistato i minuti diritti dell'affezione; e la
conformità di sentimenti, di opinioni, di simpatie, i lanci di
magnanimità, di commiserazione, più ribadivano in lei l'amicizia, in
esso la passione. Perocchè vera passione ormai lo legava alla donna, e
più s'infervorò quando la vide madre, madre del più caro bambino,
in cui scorgeva incarnate tutte le contentezze dipintegli in altri giorni
dalla sua fantasia; quando la vide adempiere i nuovi doveri della
maternità con un affetto allegro, coraggioso, scevro di orgoglio e di
ostentazione.

La Margherita, in tutti i modi di esso non ravvisava, non voleva ravvisare
se non una continuazione della bontà con cui già da fanciulla egli la
riguardava; altamente poi sentivasi persuasa della virtù del cavaliero,
nè quindi manteneva il riserbo contegnoso e severo, a cui certamente
sarebbe rifuggita, se punto si fosse accorta ch'egli tendesse a inspirarle
un sentimento, che più non poteva essere se non colpevole. Ma gli occhi
di un amante sono pur facili ad illudersi. Le piccole cortesie, le
delicatezze d'animo gentile, le ingenue confidenze e passionate della
Margherita, parvero lasciar a Buonvicino trapelare nell'avvenire della sua
passione qualche speranze, speranze la cui natura egli stesso ignorava, non
voleva esaminare; o che, se pure le investigava, non gli pareano che
innocenti. Tradire l'amico, contaminare una donna, ch'egli ammirava ancor
più di quel che l'amasse, che anzi amava appunto perchè l'ammirava,
non era pensiero che gli sorgesse tampoco; nulla meglio ambiva che poterle
dire come egli ardesse per lei, narrarle quanto amò, quanto patì;
mostrarle come non l'avesse ingannata allorchè giovinetta gliene faceva
un mistero, facile a penetrarsi, e perchè e con quanti spasimi avesse da
lei divelto il cuor suo, o almeno tentato; il sommo de' suoi desiderii era
poter conoscere ch'essa ne pigliava in grado l'amore, che non le dispiaceva
il sapersi da lui adorata, che era contenta dedicasse a lei le cortesie
cittadine, e le imprese cavalleresche, in cui più sempre egli si sarebbe
segnalato.

Così a lui pareva, e così era fors'anche: sebbene questa sia la
larva, sotto cui comunemente la passione si travisa per iscusare il primo
passo,--quel primo passo, che poi ad un altro e ad un altro ne porta, di un
modo che sembra inevitabile necessità.

Vero è che Buonvicino, nei momenti in cui la ragione prevaleva,
accorgendosi di queste illusioni, aveva sperimentato varie guise per
distogliere l'animo dal riprovevole sentimento. Viaggiò alcun tempo, ma
presto ritornò, persuaso che la lontananza fa come il vento, spegne le
fiammelle, avviva gli incendj. Cercò distrazioni nel mondo, nei
divertimenti; ma come gli parea muta, scolorata ogni allegria, non divisa
con lei! come, al confronto della vanità, dell'egoismo, della sozzura
sociale, più soave e cara gli tornava l'immagine della Margherita!
Pregò anche, ma ella ponevasi inevitabile fra lui e Dio, come la più
bella creatura di questo. Tutto insomma tentò, eccetto quello che pur
sentiva unico rimedio: la fuga assoluta.

Tra la forza dunque dell'amore e la persuasione dell'innocenza di esso,
Buonvicino deliberò scoprirsi alla bella. Ma con parole, ma di presenza,
invano l'avrebbe tentato. Egli, che sempre aveva taciuto con lei
allorquando tale affetto era incolpabile, allorquando presumeva che
verrebbe aggradito, come indursi ad aprirglielo ora, quando aveva ragione
di tremare sul modo onde verrebbe accolto? Ricorse pertanto a quei mezzani
partiti, che sono il ripiego di chi non osa afferrarne uno, e stabilì
rivelarglielo per lettera. La meditò lungo tempo, la scrisse, la
cancellò, tornò a scriverla, a cancellarla ancora: s'accingeva, poi a
mezzo pentito, gettava la cannuccia; ricominciava, ripentivasi; nessuna
frase era abbastanza calzante:--mai verun brano di pergamena non fu
siffattamente tormentato.

Alla fine gli venne compita: e tra che l'amicizia ond'era avvinto alla
famiglia, rimoveva ogni sospetto: tra che il Pusterla, tutto degli affari e
degli spassi, consumava fuori il più della giornata, egli potè senza
timore affidare ad un valletto lo scritto da recare a Margherita.

Ma, dal momento che questo pose il piede fuor della casa, quale tempesta
nel cuore di Buonvicino! quante immagini! quante timori! quante speranze!
Come avrebbe voluto non aver fatto quel passo! come avrebbe voluto averlo
fatto altrimenti! Come ogni parola, ogni frase, ogni concetto della scheda
fatale gli ritornava innanzi quasi un delitto, e col pentimento e
l'emenda!--Pure, chi sa?--sentiva ragionarsi nella mente.--Forse il
valletto se ne dimenticherà; forse non l'avrà trovata in casa; forse,
occupata con altri, e non glielo consegnò. Me lo riporterà questo
viglietto:--voglio lacerarlo, bruciarlo, e.... No, mai più, mai
più.--Fuggirò... andrò lontano lontano, ove più non possa
intendere il nome suo: me la strapperò dal cuore; almeno ne
offuscherò l'immagine con altri amori, con altre cure, con altri stenti,
con altri piaceri... Ma tutto questo perchè?... non è ella meritevole
d'ogni bene? non è la più avvenente, la più nobile, la più
gentile fra le donne?--un angelo? E se io mi sono sollevato fino ad amarla,
non è dritto che io soffra per così degno oggetto? v'è fatica che
compensi un premio qual sarebbe la benevolenza di lei?--E se io
l'ottenessi? se non le fossi discaro? se me lo dicesse?--No, no;
impossibile, impossibile! Sciagurato che fui a tentarla, a turbarne la
pace! Torni, torni il messo.--Potessi richiamarlo! potesse riferirmi che
non gliel'ha consegnato.

Così tempestava l'animo di Buonvicino nel tempo necessario perchè il
valletto giungesse da casa i Visconti, ov'egli dimorava, sino al palazzo
dei Pusterla alla Palla, e ne tornasse. Non v'erano oriuoli che gliene
misurassero i minuti, ma glieli misurava un affannoso battito del cuore,
una violenta successione di idee, che glieli facevano parer eterni.
Passeggiava di su, di giù pel gabinetto, tendeva le orecchie ad ogni
più sottile rumore; quel ritardo non v'era cosa che non gli lasciasse
fantasticare. Ma sporgendo il capo dalla finestra, dischiusa a ricevere un
primo soffio della tepida aria d'aprile, ecco scorge il damigello di
ritorno. Ogni passo di questo su per lo scalone, era una spinta al coltello
che Buonvicino sentivasi fitto nel cuore. Quando lo vide sollevare la
portiera, ed affacciarsi, non gli resse il cuore di guardarlo in viso, non
che d'interrogarlo. Quegli fece un inchino, disse:--Consegnato nelle
proprie mani della dama»; ed uscì.

Questa parola, per naturale, per semplice, per aspettata che gli dovesse
riuscire, lo fe' raggricciare: e abbandonatosi a sedere, una nuova serie di
idee sorse a tormentarlo, l'effetto che lo scritto avrebbe a produrre
sull'animo di Margherita. Perderne la stima sarebbe stato per lui quel che
di peggio gli potesse incontrare. Pure, lusingava sè stesso col
ripetersi che la lettera non era tale da meritargli un così acerbissimo
castigo.--Dunque,--chi sa?--forse l'ha aggradita; forse una risposta
gentile mi prepara; forse la prima volta che la vedrò, mi lascierà
intendere che non le dispiacque.--Oh! sapere che ella mi ama! sentirmelo
dire di sua bocca!--vedermelo anche solo mostrato da que' suoi occhi, che
sanno dire quanto e più che le parole! Questo, questo basterà a
colmare la felicità mia per tutta la vita. Quanta sollecitudine allora
per compiacerla d'ogni suo desiderio! In prodezze d'armi, in cortesie
d'onore; che non farò io per venir più sempre in grado alla donna
mia, per rendermi di lei sempre più degno?--Ma... e se fosse il
contrario? se si adontasse? e mi credesse scellerato?... seduttore?...

Giovani miei coetanei, che venti fiate vi trovaste a passi somiglianti,
eppure senza tante agitazioni; che freddamente meditaste la seduzione, e
celiando ne aspettaste il risultato, voi sorridete al vedere un cavaliero
siffatto, commosso nell'animo da tanta procella, e vi pare di là del
naturale. Ma, giovani coetanei miei, una mano sul cuore: se questo somiglia
al suo, se gli oggetti in cui ne avete collocato i volubili desiderj
somigliavano alla Margherita, allora deridete pure il mio cavaliero.



CAPITOLO III.

LA CONVERSIONE.


Con questo martello passò Buonvicino la giornata: invano procurò
divagarsi in altre cure, in differenti pensieri. La notte non chiedetemi se
velasse le pupille; nè il dì seguente fu più tranquillo, o
l'altro, o l'altro. Aspettava una risposta, e la risposta non sapea venire;
temeva, sperava; e quel rimanere sospeso gli venne alfine così
tormentoso, che, per togliersene fuori, pareagli avrebbe sofferto meno di
mal animo la certezza del peggio. Alcuna volta per uscire dalla
perplessità, proponeva di recarsi a lei; pareva deliberatissimo, indi
mutava pensiero; tornava a risolvere, movevasi, usciva, s'avviava per quel
quartiere, giungeva a quella via mozza,--un'occhiata alla porta, un
sospiro, e passava.

Dopo tanti pentimenti e ripentimenti pure trovò il coraggio di entrare.
Come gli tremavano le ginocchia, come gli bollivano le tempia nel breve
tragitto dalla via all'ingresso! il rimbombare del ponte levatojo sotto i
suoi passi pareagli una voce di sconsiglio, di minaccia; salendo lo
scalone, dovette appigliarsi alla sbarra, perchè gli si annaspavano gli
occhi; vi era entrato sempre con tanto cuore, con sì serena
baldanza!--Ch'io non sia più uomo?» disse fra sè; e col muto
rimprovero rinvigorita la volontà, accostossi all'anticamera, ed ai
famigli chiese della Margherita. A lui non tenevasi mai la porta: onde,
rispostogli che la dama stava nel salotto, mentre un paggio correva ad
annunziarlo, un altro ve lo introduceva.

Era un salotto capace, coll'altissima soffitta di travi maestrevolmente
intagliate e dorate; le pareti coperte di corami a rilievi di colori e oro;
un tappeto orientale era steso sul pavimento; un fino cortinaggio di
damasco cremisino ondeggiava sopra gli usci, e innanzi alle spaziose
finestre, fra' cui telaj arabescati, e i piccoli vetri rotondi penetrava la
luce temperata. Sul vasto focolare lentamente ardeva un ceppo intero,
diffondendo un tepore ancora gradevole in quella prima stagione. Macchinosi
armadj di noce ed eleganti stipi di ebano intarsiato ad avorio, e messi ad
argento e madreperla, erano addossati alle pareti: qui e qua alcuni
tavolini, e qualche gran seggiola a bracciuoli ed orecchioni, somiglianti a
quelli che oggi la comodità o l'imitazione ritorna di moda.

In una di queste sedeva la Margherita, in abito di semplice eleganza; e
poco da lei discosto, muta e indifferente come una decorazione, sovra umile
sgabello lavorava una damigella. Margherita pareva allor allora avesse
deposto sul predellino il tombolo, sul quale coi piombini stava tessendo
trine, occupazione prediletta delle sue pari, ed erasi recato in mano un
libriccino di pergamena, riccamente rilegato, con borchie d'oro, cesellate
finamente.

Senza levar gli occhi da questo,--Benvenuto!» esclamò con accento
melodioso, e con un molle chinar di capo, allorchè il paggio, alzando
l'usciale, ripetè il nome del cavaliero che introduceva. L'agitazione
propria non permise a Buonvicino di notare se nel suono della voce di lei,
qualche tremito annunciasse l'interno commovimento: ma, per legare
discorso,--Qual è, madonna, (le chiese) il libro che ha la fortuna di
occupare la vostra attenzione?»

--È (rispose ella) il dono più caro di che mio padre mi presentasse
quando venni sposa. Caro padre! negli anni di sua senile quiete, occupava
d'ogni dì qualche ora a scriverne una pagina; coll'accuratezza che voi
vedete, miniò egli stesso e indorò queste lettere capitali; sono di
sua mano questi ghirigori del frontispizio: ma il meglio, oh il meglio son
le cose che vi ha vergate, col titolo di _Consigli a mia figlia_. E me lo
consegnò coll'ultimo bacio, allorchè mi congedò dalla sua casa a
questa. Pensate s'io mel tenga prezioso! Anzi, poichè la ventura vi
guidò in buon punto, parrei troppo ardita se, avendo voi ozio, vi
pregassi a farmene un poco di lettura?»

Un desiderio della Margherita era sempre il suo: quanto più questo, che
lo toglieva da una situazione tanto penosa e impacciata? Accostato adunque
uno scannello, tosto si fu seduto poco lontano da lei. Margherita riprese
le sue trine, la damigella continuava a cucire, e Buonvicino, con avido
movimento pigliato il libro, seguitando là appunto ove la dama mostrava
d'averne sospesa la lettura, a voce alta incominciò:

--_Ma sia pure, figliuola mia, che la passione ti tolga di mente quel Dio
che chiamasti testimonio de' giuramenti fatti allo sposo: non badare nulla
agli uomini, i quali, senza udire le discolpe, ti condanneranno
all'inappellabile tribunale dell'opinione: deva pure il tuo consorte
ignorare per sempre i torti tuoi--qual sarai tu con te stessa? Consumato
appena il fallo, addio serenità; cento timori ti assalgono; a cento
menzogne ti trovi costretta; e un passo dato in sinistro a mille altri ti
conduce_. _Tante ore passavi col marito in quella mite gioja senza
ebbrezza, che solo in grembo alla virtù si ritrova; con lui dividendo,
alleggerivi le tribolazioni, retaggio dell'uomo nell'esiglio. Ora egli dee
venirti odioso, egli continuo rimprovero del tuo peccato, egli la cui vista
ti rinfaccia un giuramento, onde libera ti legasti seco, e che poi sleale
hai violato. Se d'altro t'incolpa, se ti bistratta, vorresti giustificarti,
ma la coscienza ti grida che meriti ben di peggio. Se ti accarezza--oh qual
cosa di più straziante che le fidenti carezze d'un oltraggiato? I suoi
affettuosi abbandoni lacerano l'anima tua ben peggio che i corrucci, che
l'oltraggio, anzi, più che un pugnale. La notte, nel letto testimonio di
sereni riposi, quieto, sicuro egli ti dorme a lato:--dorme quieto, sicuro a
lato di colei che l'offese, che lo detesta come ostacolo alle fantastiche
sue felicità. Ma il placido dormire non è più per te; egli è
là per rimproverarti tacendo. Nelle penose ore della lunga veglia,
t'ingegni stornare il pensiero sulle cure della vita, sui passatempi;
cerchi bearlo in quell'oggetto che chiami il tuo bene, e ch'è causa
d'ogni tuo male; ma in ciò pure che dubbj, che delirj! Degli affetti
suoi chi ti assicura? Te n'ha egli neppur dato prove quante il marito?_--Mi
amerà, _tu dici_, perchè l'amo io.--_Oh, non t'amava il tuo sposo? e
lo tradisti. Bene; e se l'amico tuo ti trascuri e ti disprezzi, cosa gli
dirai tu? rimproverarlo d'infedeltà, rinfacciargli i giuramenti? Ma il
bene stesso che gli vuoi non è un'infedeltà, uno spergiuro? Allora
abbandonata da esso, ove ricorrerai? allo sposo ingannato? ai figliuoli
posti in dimenticanza? alla pace domestica demeritata?_

_Tali sono le tue veglie. E quando pure il sonno dà tregua alla fatica
dei pensieri, che sogni! che visioni! Tu ne balzi atterrita, e fissi gli
occhi sullo sposo. Oh! forse, tra il dormire, ti uscì dal labbro una
parola che tradisse il tuo segreto; lo guardi spaventata, egli guarda te
carezzevole, e ti domanda: _Che hai?_--Oh l'animo tuo in quel punto!_

_Ed ecco intorno i pargoletti, cari, vezzosi, dolcissima cura, abbellimento
e delizia della vita. Tu li carezzi, li carezza il padre; li bacia, li
palleggia, ne guida i primi passi: insegna alle labbra infantili a ripetere
il suo nome, il tuo, con essi viene a ricrearsi dalle sollecitudini dei
negozj; all'innocenza loro cerca il balsamo quando il nausearono la
prepotenza, l'orgoglio, la doppiezza degli uomini. E ti dice:_ Diletta mia,
quanto è soave questa età; quanta affezione ci lega al nostro sangue!
_Miserabile! perchè impallidisci?_

_Poi coll'immaginazione egli previene il lampo, quando, gia' vecchio, si
vedrà ringiovanire in quegli esseri amati, e guidato a mano da loro,
ritesserà la tela della vita_: Essi saranno buoni, è vero, diletta
mia? buoni come la loro madre; e consolazione nostra come essa fu sempre la
mia.

_Che? tu chini la fronte? arrossisci? premi al seno il più piccino, non
per impeto d'affetto, ma per celare il turbamento del viso? Suvvia, sta
ferma: che temi? Dio non v'è, o non cura, o perdonerà per un sospiro
che gli darai quando il mondo ti avrà abbandonata. Gli uomini non ne
sanno nulla: nulla mai ne saprà il tuo consorte... Oh ma che importa? Lo
sa la coscienza tua: te lo rinfaccia con voce insistente che non puoi
soffocare, cui non sai rispondere: essa ti mostra davanti una strada di
menzogne e di raggiri, per cui sei costretta a scendere più rapida,
quanto più inoltri nel declivio: vorresti fermarti e non puoi... Guai,
guai se ti porta fin là, dove neppure ti giunga la voce della
coscienza._

_A ciò, figlia mia, a ciò vuol ridarti colui che tenta rapirti
all'amore del tuo sposo.--E costui, ti ama?_

Grosse stille di sudore gocciavano dalla fronte impallidita di Buonvicino
mentre leggeva: il cuore gli si serrava: sentivasi mancare: più e più
fioca gli diveniva la voce; qui alfine del tutto gli mancò. Depose il
libro, o piuttosto se lo lasciò cascare di mano: rimase cogli occhi a
terra confitti, nè per alquanti minuti potò riavere la parola.
Margherita seguitava ad aggruppare i fili, muovere i piombini, trapiantare
gli spilli del suo lavoro, studiando mostrarsi tranquilla: ma chi v'avesse
posto mente, dallo scompiglio dell'opera avrebbe argomentato allo
scompiglio dell'interno. Neppure a Buonvicino poterono rimanere inosservate
alcune lagrime che, per quanto ella si ingegnasse di rattenere, le caddero
dagli occhi sul lavoro.--Qual merito avrebbe la virtù, se le sue
vittorie non costassero nulla?

Dopo un intervallo di silenzio, egli si alzò; e facendosi forza quanto
poteva maggiore per rendere salda la voce,--Margherita (esclamò) questa
lezione non sarà perduta: quanto mi basterà la vita, ve ne avrò
obbligazione».

La dama levò sopra di lui uno sguardo di quell'ineffabile compassione,
che forse prova un angelo quando osserva l'uomo, alla sua tutela commesso,
inciampare nella colpa, da cui prevede che frappoco risorgerà, bello del
pentimento. Poi, non appena Buonvicino fu uscito, non appena intese
l'imposta rabbattersi sull'osservata orma di lui, concesse libero sfogo
all'affanno, sin allora penosamente compresso: si alzò, corse alla culla
ove dormiva il suo Venturino, lo baciò, lo ribaciò, e sulla tenera
faccia del vezzoso infante lasciò sgorgare un torrente di lagrime;
ultimo tributo che pagava alle memorie della gioventù, a quei primi
affetti che aveva lusingati perchè innocenti. Una madre, nei pericoli
del cuore, a qual asilo più sicuro può riparare, che all'innocenza
de' suoi bambini? E il bambino aprì gli occhi, quegli occhi di
fanciullo, in cui il cielo pare riflettersi in tutta la serena limpidezza;
fissò, conobbe la madre, e gettandole al collo le tenere braccia,
esclamò:--Mamma, cara mamma!»

Quella parola come sonava in quel momento preziosa, illibata, santa alla
Margherita! Tutta ne godette la voluttà; in quella trovò di nuovo la
calma, la sorridente tranquillità d'un cuore che, il momento dopo la
procella, esulta d'esserne uscito illeso.

Buonvicino andossene come fuori di sè: non distinse la scala, i servi,
la porta, la via; errò lungo tempo come il caso lo portava, senza
vedere, senza udire. Era, non so se l'abbiamo accennato, il giovedì
santo, giorno di universale compunzione, quando, siccome oggi ancora molti,
così tutti in quel tempo solevano girare alla visita dei sepolcri, in
cui si cela il Sacramento, per commemorazione di quel glorioso, ove stette
riposta la salma dell'Uom Dio, nel dì che fu consumata la rigenerazione
del genere umano. Torme d'uomini, di donne, di fanciulli, poveri, cenciosi
e mezzo ignudi, contadini in zoccoli e giubbone di stamina, cavalieri in
ricco abito dimesso, senza piume, senza le armi, empivano le strade, quali
solitarj, quali a coppia, in fila o a disordinate torme seguitando una
croce, da cui, tolto il divino peso, cascava un sindone a festone. I più
camminavano scalzi, molti non d'altro coperti che d'un sacco; alcuno
ripeteva ad alta voce il rosario, e un disaccordo di voci piagnolose gli
rispondeva: altri intonavano lo _Stabat Mater_ e i salmi del re penitente:
o mormorando in tono compunto il _Miserere_, ad ogni verso si percotevano
le spalle con flagelli di corde aggruppate: alcuno, quasi ciò fosse
poco, ravvolto sino al capo in ruvido traliccio e cosperso di cenere, si
avviava lento con dietro due o tre famigli e confratelli, che tratto tratto
gli scagliavano sul dorso staffilate a tutta forza. Ed ecco comparivano
numerose confraternite di maschi e donne imbacuccati, schiere di frati e di
monache non legate alla clausura: e tutti nude le piante, le mani giunte,
gli occhi a terra, scoronciando, cantando, singhiozzando.

In tal modo passavano da una all'altra delle sette basiliche principali, di
cui le più rimanevano allora fuori del recinto della mura; e giunti in
ciascuna, fra le adorazioni che vi prestavano, e le memorie del maggior
mistero di amore e di espiazione, raddoppiavano le preci, il canto, il
piangere, il gemere, il picchiar dei petti, il flagellarsi.

Da ciascuna parrocchia poi venivano alla visita lunghe processioni; in
tutte era un uomo vestito da Cristo, con un pesante crocione sulla spalla:
e intorno a lui donne che figuravano la Vergine, la Maddalena, santi d'ogni
età, d'ogni nazione, innalzando gemiti di pietà: nel mentre altri,
vestiti alla foggia che i molti pellegrini avevano veduto usarsi in
Palestina, dovevano figurare i Giudei, Pilato, Erode, Longino, il Cireneo;
e ciascuno rappresentava secondo il suo personaggio, e proferiva strane
parole, interrotte dai gridi, dai singhiozzi degli spettatori, da un
frastuono di raganelle e di mazze percosse per le muraglie e contro le
porte, onde i fanciulli in frotta manifestavano l'incomposta loro
devozione.

Un saltambanco cieco, montato sur un tavolotto, con una tal quale flebile e
monotona cantilena ripeteva una composizione, rozza se poteva essere, e che
oggi desterebbe sorriso e disprezzo[6], allora moveva lacrime di devota
compassione. L'intenta plebe si affrettava di gettar un quattrino nel
bossolo del povero cieco: ad alcuni di quei robusti uomini, educati o
cresciuti per la guerra, che non avevano mai compatito ai travagli veri e
presenti dei loro simili, ora udendo rammentare le volontarie pene
dell'Innocente, s'imbambolavano gli occhi: e taluno, battendo la scabra
destra sull'elsa della spada, esclamava:--Oh che non éramo là noi a
liberarlo!»

Frati intanto, o palmieri coperti del sarrocchetto, profittavano di
quell'ardore, di quel commovimento per dipingere gli orrori onde avevano
veduta oppressa la Terrasanta dai Musulmani, e incoravano chi avesse fede a
voler redimerla col ferro, o almeno coll'oro sollevarla.

In mezzo a questo brulichìo di popolo, a questa bizzarra mescolanza di
cose le più serie con burlesche, carattere dei mezzi tempi; fra lo
spettacolo grandioso di una gente intera che si condolea dei patimenti di
tredici secoli fa, come fossero di jeri, passava Buonvicino, ora
lasciandosi dalla calca trasportare, ora fendendola a ritroso, ma
coll'occhio a terra, quasi temesse incontrar un accusatore in ogni volto
che fissasse: assorto ne' suoi pensieri così, che uno, al mirarlo, potea
crederlo più di tutti compreso dalla pietà universale. Era in quella
vece un travaglio fiero, insistente, di fantasie, di sgomenti, che gli si
stringevano attorno come la folla ond'era circondato. Ma dalla folla si
sviluppò alla fine, e cacciossi fuori della città. Il sole piegava al
tramonto; un vento impetuoso, come suole di quella stagione, fischiava tra
i rami delle piante, ove appena cominciava a rifluire il succhio vitale, ed
agitava le erbette rinnovate al raggio del sole, che, dopo il torpore
invernale, le fomentava traverso un aere, la cui limpidezza non era
offuscata ancora dalle crasse esalazioni dei prati marci.

Quivi trovata alfine la solitudine, tanto desiderata agli animi commossi,
abbandonavasi Buonvicino ai suoi sentimenti,--sentimenti opposti di amore,
di dispetto, di gioje, di tribolazioni, di speranze, di ripetio. Sedeva,
girava, meditava: or rivolgeva gli sguardi sopra la città, sulle torri
ove ammutolivano i sacri bronzi; sugli spaldi ove le ronde passeggiando, a
intervalli gridavano e si rispondevano, _Visconti, Sant'Ambrogio_. Questo
grido ritraendolo a pensare ai mali della sua patria, lo svagava un istante
da' suoi proprj:--ma i mali della patria non erano gran parte, anzi la
maggior parte de' suoi? Riandava i tempi della passata libertà,
paragonandoli ai troppo diversi che ora gli pesavano sopra, ed ai peggiori
che vedeva avvicinarsi; ricorreva le balde speranze giovanili, quando si
figurava libero in libera patria, e giovare col braccio e col consiglio i
suoi cittadini, salire ai primi onori, meritar lode e gloria nel
pubblico:--in privato poi... E qui tornava alla Margherita, a lei ancora
fanciulla, ancora un bocciuolo di rosa che da lui aspettava l'alito
vivificatore: un cuore innocente, che ad una sua parola poteva sorgere al
pieno sentimento di una intemerata felicità.--Ah! tutto era disparso;
disparsa la pubblica speranza, disparsa la domestica contentezza.--Ella,
almeno, ella sia felice, e goda anche la porzione di bene che a me fu
negata.--Felice?... bene?... Ed io, sciagurato, io osai d'insidiarne la
purezza? io aspirai a turbare per sempre la tranquillità di lei, d'un
amico?»

Fra questi e somiglianti pensieri, Buonvicino si accostò alla postierla
di Algiso, come chiamavano quel ch'è oggi il ponte di San Marco; ed
entrato, si trovò di fianco alla chiesa degli Umiliati di Brera. Nel
giorno e nell'ora che Buonvicino vi capitò, pochi devoti, quelli solo
cui l'età o le occupazioni impedivano di visitare cogli altri le sette
chiese, traevano qui ad offrire la solinga loro preghiera a Colui, che
tutte e da per tutto le ascolta.

L'ordine degli Umiliati era nato in Milano, circa tre secoli prima, da
alcuni laici congregatisi a far vita devota in case comuni, ove le donne
non erano dagli uomini appartate. San Bernardo, quando viaggiava
persuadendo l'Europa a precipitare sopra l'Asia per impedire che la
mezzaluna prevalesse alla croce, Maometto a Cristo, la civiltà alle
barbarie, dettò qui agli Umiliati le regole, per cui alcuni vennero unti
sacerdoti, segregati i due sessi; onde rimase formato il secondo Ordine, di
cui erano questi, che sovra un _prædium_, e vulgarmente _breda_ o
_brera_, avevano fabbricato il convento che conservò l'antico nome. Il
terzo Ordine riconosceva per istitutore il beato Giovanni da Meda, che
nella casa di Rondineto, oggi collegio Gallio a Como, fondò i preti
Umiliati. Tanto crebbe l'Ordine, che nel solo Milanese possedeva ducenventi
case (case e canoniche chiamavano i loro conventi), e in ciò si
distingueva dagli antichi di san Benedetto e dai recenti di san Domenico e
san Francesco, perchè dedito per istituto all'operosità manufattrice.
La seta in quei tempi era cosa rara, e una libra pagavasi fino a 180 lire:
nè Milano pare ne abbia posseduto manifatture prima del 1314, quando
molti Lucchesi, avendo perduta la patria per la tirannide di Castruccio, si
sparsero per l'Italia portandovi quell'arte che già tra loro fioriva.
Vivissimo all'incontro era in queste parti il traffico e il lavorìo
della lana, e gli Umiliati ne facevano la parte maggiore. Nel 1305, questi
di Brera appunto avevano inviato alcuni dei loro a piantare manifatture
sino nella Sicilia: per Venezia spedivano a tutta Europa gran quantità
di panni, e guadagnavano immense ricchezze, con cui compravano immensi
poderi, soccorrevano i bisognosi, e potevano persino, nelle debite
proporzioni, prevenir quello che fece la Compagnia delle Indie in
Inghilterra col servire di somme il patrio Comune, Enrico VII imperatore ed
altri sovrani.

Gran credito perciò godeva quest'Ordine; e sovente ai membri di esso
affidavasi pubbliche incombenze, singolarmente di riscuotere le gabelle,
percepire i dazj all'entrata della città, trasportare peculj, conservare
pegni. Ma essendo d'ogni istituzione umana il corrompersi, tralignarono
anche gli Umiliati: le ricchezze bene acquistate furono convertite male:
all'operosità subentrarono l'ozio e i vizj che ne conseguono: immensi
tenimenti erano goduti in commenda da pochi prevosti che sfoggiavano in
lusso di tavola e di trattamenti: tanto che gli scandali che ne nascevano
indussero san Carlo Borromeo a domandarne l'abolizione nel 1570, destinando
gran parte dei loro beni a favore d'un Ordine allora nascente, i Gesuiti.

Questi pure, passato il loro tempo, vennero dal papa disfatti, e il
grandioso palazzo ch'essi avevano fabbricato a Brera, fu destinato
all'istruzione, all'astronomia, alle belle arti, di cui oggi sono colà
le scuole e i modelli.

Così ad un podere successe una manifattura, a questa l'educazione,
infine il culto del bello: sicchè quel palazzo può in alcun modo
segnare l'andamento della società.

A quel posto però, nei giorni di Buonvicino, sorgeva un monastero
disadorno secondo i tempi, e una vasta chiesa di stile gotico, lavorata di
fuori a marmi scaccati bianco e nero. Sui due campi laterali si vedea da
una banda il beato Rocco, pio pellegrino di Mompellieri, morto poc'anni
prima, dopo essere vissuto in continuo servizio degli appestati,
perlocchè veniva riverito e invocato come tutore contro i contagi che
allora di frequente ripullulavano; dall'altra un san Cristoforo, persona
gigante, con un Gesù bambino a cavalluccio; effigie che poneasi sulle
facciate e lungo le vie, perchè credeano che, al solo mirarla, desse la
buona andata, e preservasse dalla morte improvvisa.

Nel mezzo si apriva una portella, cui faceano stipite certi fasci di
colonnine ritorte a spira, con attorno fiori, rabeschi, uccelli; e che
sorreggevano un arco acuto, di sopra il quale sormontava un terrazzino,
sostenuto da due colonne dì porfido, le quali, invece di base,
impostavano sopra due grifoni in atto di spiegare le ali. Quel terrazzino
era il pulpito, da cui nei giorni festivi, i frati predicavano alla folla
concorsa in sul sagrato, all'ombra di un olmo centenario.

V'ha dei momenti, quando l'animo nostro è disposto, quasi direi
necessitato a meditare su tutto ciò che si affaccia ai sensi: le cose
medesime, che cento volte si erano vedute con indifferenza, toccano e
colpiscono.

Quante fiate Buonvicino era passato innanzi a quel piazzuolo, a quell'olmo,
a quella chiesa senza più che inchinarsi, come si usa ai luoghi
benedetti! Ora vi si fermò; tenne gli occhi sopra una porta che, di
fianco alla chiesa, introduceva al convento, e vi lesse scritto: _In loco
isto dabo pacem_.

La pace? non era quella ch'egli avea perduta? che andava rintracciando? un
momento di calma non era la più ambita delle dolcezze fra le sue
burrasche? Perchè non entrare laddove era promessa?

Ed entrò.

I conventi, in qualunque concetto voglia aversene la santità e la vita
contemplativa, erano un ricovero, a cui volentieri rifuggiva l'uomo
sbattuto dagli affanni; il loro silenzio, la devota quiete, quel distacco
dagli affari mondani, li faceva somigliare ad isole fra il turbolento mare
della società: e il cuore bersagliato dalla fortuna (onesta parola, onde
si velano la slealtà, l'ingratitudine, l'incongruenza degli uomini) vi
cercava, e spesso anche vi trovava il balsamo della dimenticanza.

Fra i duri casi di mia vita, non m'usciranno mai dalla mente otto giorni,
che volli vivere in un monastero. La situazione di quello, sotto
incomparabile temperie di cielo, ricreato dalla vista di un'ubertosa
amenità campestre e montana, contribuirono senza dubbio a rendermi la
tranquillità ch'io era venuto a domandarvi. Ma sotto quei portici
taciturni, in quelle fughe di corridoj, non popolati che da persone, in
ogni apparenza diverse da quelle che siamo avvezzi scontrare pel mondo,
sempre mi tornava al pensiero Dante Alighieri, quando, errabondo al par di
me, lasciata anch'egli ogni cosa più caramente diletta, anch'egli
indispettito colla patria e coi compagni di sua sventura, là per la
diocesi di Luni si assise in un chiostro a meditare. Dove un frate, vistolo
rimanere così a lungo osservando, gli si appressò chiedendogli:--Che
volete, che cercate, buon omo?»--Egli rispose:--Pace».

E per desiderio di pace Buonvicino si condusse sotto l'atrio, ove la
tettoja proteggeva i muricciuoli, disposti ai pitocchi che numerosi,
principalmente nella carestia d'allora, venivano per le zuppe ivi
distribuite ogni mezzodì. Sulle pareti d'allato vedeasi la storia, vera
o leggendaria della istituzione degli Umiliati: e chi oggi in quel palazzo
ammira i capolavori degli artisti antichi e le mediocrità dei moderni, a
fatica saprebbe figurarsi la rozzezza, onde allora v'erano pitturate a
guazzo certe immagini lunghe, smilze, in punta di piedi, senza movenze
nè scorci, senza ombre nè fondo nè terreno.

L'indovinare che cosa significassero non sarebbe stata facile impresa, se
non fossero venuti in soccorso caratteri e versi non meno grossolani. A
manritta dunque si mostrava un diroccamento di case, di mura, di chiese, e
la scritta _Mediolano_ indicava doversi intendere le rovine di questa
città, allorchè rimase desolata per opera dell'imperatore Federico
Barbarossa e de' suoi confederati, pur troppo italiani. Sul dinanzi, alcuni
in abito dimesso, parte in ginocchio, tutti colle mani giunte, avevano a
significare i cavalieri milanesi che, secondo la tradizione, fecero voto,
se mai la patria si rassettasse dalla schiavitù, di congregarsi a vita
di penitenza e di santità. Ciò dichiarava la sottoposta iscrizione in
questi che, almeno nell'intenzione dell'autore, erano versi:

    Come diruto Mediolano
    De Barbarossa cum la mano
    Li militi se botano a Maria
    Ke laudata sia.

Erano dalla banda sinistra figurate delle case, quali finite, quali ancora
in costruzione per indicare Milano, se distrutto dalle dissensioni, or
rifabbricato dall'affratellamento dei Lombardi: e una dozzina fra signori e
dame, non distinti che dal prolungarsi a queste la guarnacca bianca fino
sul tallone, mentre agli altri dava appena al ginocchio, recandosi a
braccio e in collo dei fardelli, cioè i loro averi, si dirizzavano ad
una chiesa, sovra la quale, fra certe nuvole che avresti scambiato per
balle di bambagia, appariva la Madonna, e la scritta diceva:

    Questi enno li militi humiliati
    Quali in epsa civitati
    Solvono li boti sinceri.
    Dicete un ave o passeggieri.

La rusticità dei versi e del dipinto non offendeva Buonvicino, a poco di
meglio abituato; poichè, sebbene fossero già vissuti Dante e Giotto,
ristoratori della poesia e della pittura; sebbene i canti di quello fossero
letti pubblicamente e commentati in Lombardia, e Giotto fosse venuto qui a
dipingere in Corte di Azone Visconti, non per questo il gusto era diffuso;
e non era l'infimo degli scolari di Andrino da Edesia pavese quel che aveva
eseguito il grossolano dipinto.

Bensì la storia quivi rappresentata rispondeva bene allo stato interno
del nostro Lando, talchè vi stette alquanto fiso in muta contemplazione.
Angiolgabriello da Concorezzo portinajo, allorchè lo vide accostarsi
alla soglia, si trasse da banda, dicendogli:--Iddio vi benedica»; ed
esso entrato, si trovò in un cavedio erboso, nel cui mezzo un pozzo,
presso al quale verdeggiava un agnocasto, arboscello che nei chiostri mai
non lasciavasi mancare, credendo giovasse a mantenere illibata la
castità. Tutt'intorno girava un portico in volta, sostenuto da
pilastrelli di cotto, sotto al quale altre immagini, del merito delle
prime, istoriavano la vita operosa d'alcuni santi, come san Paolo che
tesseva fiscelle, san Giuseppe intento alla pialla, i Padri dell'eremo che
faceano carità insieme trecciando foglie di palma.

Del resto ogni cosa quieta. Passeri a migliaia stormivano su per le
tettoje, mentre qualche rondine primaticcia aliava esplorando e meditando
il nido sotto quelle volte, ove mai non le era stato turbato: i numerosi
telaj, che si vedevano disposti negli spaziosi cameroni, riposavano in quel
dì, sacro al meditare: tratto tratto appariva alcun frate in tunica di
lana bianca: sovr'essa un'onestà, pur bianca, cinto i lombi d'una
coreggia, cogli zoccoli in piede e coll'aria di grande mestizia,
conveniente al solenne lutto di quel giorno. Erano avvezzi a vedere
estranei vagare per le loro case: non ne facevano meraviglia, non
domandavano, non temevano: la religione proteggeva le ricchezze ivi
raccolte, e rendea sacre le persone, che la divozione o la sventura vi
conducesse. Onde passavano da lato a Buonvicino, esclamavano _Pax vobis_, e
seguitavano la loro via.

Tutto questo insieme facea su Buonvicino l'effetto di un placido zefiro
sopra un lago mareggiante. Vagò osservando, riflettendo, e il suo passo,
dapprima frettoloso e incomposto, veniva lasciando la furia, e dando
indizio della calma che a poco a poco le subentrava. Udivasi fra ciò un
accordo di voci, ma fioco, lontano come uscisse di sotterra, intonare una
lugubre melodia; dietro al cui suono Buonvicino arrivò nella chiesa. Era
affatto oscura acciocchè meglio ajutasse il raccoglimento: nessuna
lampada, nessun cero luceva sullo spogliato altare: un bisbiglio di
preghiere, fatto da devoti che non si vedeano, ricordava gli angelici
spiriti che, nel giorno medesimo, furono intesi gemere invisibili nel
tempio di Gerusalemme quando moriva il loro Fattore. Nella confessione o,
come diciamo noi Lombardi, nello _scuruolo_, i frati ripetevano a muta le
lamentazioni di Geremia, e il racconto così semplice e così
appassionato della morte di Cristo.

Tentone si inoltrò Buonvicino, e appressatosi ad una delle sedici
colonne che in tre navate dividevano il tempio, trovata alcuna cosa, le si
inginocchiò davanti, e tastando si accorse esser un avello, con sopra
effigiato colui che in esso riposava. Era di fatto il sepolcro di Bertramo,
primo gran maestro generale degli Umiliati, che aveva loro dettate le
costituzioni, e si era addormentato in Dio nel 1257.

Sopra quell'urna appoggiato il capo, Buonvicino pianse, dirottamente
pianse. Una devota compunzione tutto l'aveva preso: il pensiero di un Dio,
di una fine che tutti aspetta, di un Giusto, soffrente per le colpe altrui,
di un dolore universale, era sottentrato al sentimento delle personali
affezioni, all'idea dei danni antichi, del recente errore, della patria, di
Margherita, di quanto il mondo l'aveva fatto godere e soffrire. Quel godere
del mondo (egli pensava) a che riesce se non a scontenti e noje? Qui invece
all'austerità della quaresima, al lutto di questi giorni, succederà
il tripudio, l'alleluja: l'altro domani, scontrandosi per le vie, l'un
l'altro saluterà esclamando: _È risorto!_--salubri penitenze che si
risolvono in una santa esultazione!

Ciò meditando, Buonvicino si sentì toccar il cuore, e fermò la
risoluzione di togliersi dal tramestio mondano, e rendersi tutto a Dio. La
sera non uscì dal convento; chiese d'esser annoverato tra i fratelli, e
l'ottenne; in breve fu vestito e professato. Persona di tal credito fu
tenuta un prezioso acquisto per la congregazione: la fama se ne diffuse
tosto, genza che destasse gran meraviglia, perchè non erano rari
somiglianti casi. I buoni ne benedissero il Signore; Buonvicino più fu
diletto dai suoi amici, più rispettato dai padroni; i malevoli stessi,
ora ch'egli più non dava ombra, ne confessavano i meriti e le virtù.

Egli, assaporando quella _pace di Dio che oltrepassa ogni intendimento_,
per alcun tempo attese alle cure comuni del nuovo suo stato; risolto poi di
ordinarsi prete, sì per esercizio di pazienza, sì per acquistare una
cognizione, buona a tutti, indispensabile a un sacerdote, prese ad
esemplare la Sacra Bibbia. Oh allora, che pascolo trovò all'intelligenza
e al cuore! Oltre la rivelazione delle superne verità, quanto conforto
ne trasse a' suoi casi, quante consolazioni! quanto impulso al bene! Nei
canti dei profeti sentiva continuo l'amor di patria, ond'esso aveva caldo
il petto; la sventura v'è ogni tratto ricreata di speranze;
l'ingiustizia che signoreggia, o manifesta, o colla maschera del diritto,
trova colà un continuo appello ad altri giorni, ad altro giudice;
concordia, amore, eguaglianza, giustizia, animano da capo a fondo quel
libro, nel cui studio frà Buonvicino, accorgendosi quanto gli uomini ne
deviassero operando a fini personali anzichè al bene comune, dividendosi
in oziosi che godono e faticanti che stentano, in ribaldi che ingannano e
sopraffanno, e leali che beneficano e soffrono, non che prendere odio per
gli uni, disprezzo per gli altri, gli abbracciava tutti in generosa
benevolenza, e nell'intento di amicarli, di concordarne gli sforzi a quella
che è prima condizione di ogni sociale progresso: la moralità.

Molto durò, discosto da ogni pratica di gente; cominciò poi ad uscire
predicando, e allora gran fama si levò, non tanto della sua bravura,
come della grande sua bontà. Diffondevasi tra il popolo, massime della
campagna; giacchè pel popolo, diceva egli, pei poveri specialmente, ha
parlato Cristo, fra vulgari scelse i seguaci suoi, le primizie della
Chiesa. Ne istruiva dunque l'ignoranza sulla eguale origine degli uomini,
sulla comune destinazione; mostrava donde veniamo; dove si va; i più
semplici doveri, le più schiette virtù di padri, di figli, di sposi,
di operaj, erano perpetuo suo tema; ingenuo e fin vulgare nel dir suo,
sminuzzando il pane della parola secondo la capacità; facendosi, come
Eliseo, piccolino per ravvivare le piccole membra.

Passava quindi in concetto di santo, poichè, sebbene non fosse andato
pellegrino al Monte Gargàno, a Roma, in Terrasanta, sebbene non facesse
di quei miracoli, di cui smoderata era allora la frequenza, operava il
miracolo più insigne, quello di rendere buoni gli uomini colla voce e
coll'esempio. E poichè allora pur troppo fra quelle razze ineducate
succedevano frequenti battibugli di contumelie e peggio, tutto egli davasi
nel ricomporre la concordia, e mirabili effetti otteneva di conversioni.

Molti potrei raccontarne, se non udissi alcuno de' miei lettori domandarmi
se questa sia una leggenda di santi. Dirò dunque soltanto come una volta
(questo accadde in Varese mentre egli trovavasi colà nella Cavedra, casa
del suo Ordine) uno dei Bossi ed uno degli Azzati, primarj borghesi, erano
venuti a parole, dalle parole ai fatti, e dietro loro una turba
parteggiante minacciava un sanguinoso scompiglio.--Bisogna chiamare fra
Buonvicino», suggerì alcun prudente. Così fanno; egli accorre,
procura mitigare gl'irritati, rammentando le promesse e le minacce di
Cristo che ci vuole umili al pari di sè; ma il Bossi, che era dei due il
più tracotante e bizzarro, cieco nella collera, volse il furore contro
il frate, e bestemmiando Dio, le chieriche, le cose più riverite,
cominciò a picchiarlo.

Picchiare un religioso era tenuto tale sacrilegio, che gli astanti parte si
ritrassero come atterriti, parte si accingevano a volerne vendetta.

E frà Buonvicino, su quel primo momento, sentendo più l'impulso delle
antiche abitudini, che non la legge d'abnegazione, che erasi da sè
medesimo imposta, afferrato l'assalitore, l'ebbe sbattuto a terra, e alzava
il pugno contro di esso; ma l'ira diede luogo subitamente; rientrò in
sè; mise un sospiro, quasi dolente che l'antico uomo ad ora ad ora
ricomparisse; sollevato il temerario, se gl'inginocchiò davanti, e
incrociando le braccia sul petto, con umiltà tanto più sincera quanto
che era generosa, gli disse: «Perdonatemi! non sapevo quel che
facessi».

L'atto pio commosse il prepotente, il quale cadde egli medesimo ai piedi
dell'offeso, chiedendo a gran voce perdono, misericordia; e tornato a
coscienza, diventò esempio di quelle cristiane virtù, di cui la somma
è la carità.

Nè meno famoso venne frà Buonvicino a Milano. In quei tempi che tutto
andava per collera e fazioni nella Chiesa, nel foro, nelle scuole, nei
conventi, nel campo, i contendenti si ingegnavano di trarre il frate dalla
loro. Nel più vivo erano le questioni teologiche, se la luce apparsa sul
Taborre fosse creata od increata: se il pane che mangiavano e la tunica che
vestivano Cristo e i suoi fosse loro proprietà o di uso soltanto; se gli
angeli e i santi godessero della beatifica visione della divinità,
ovvero stessero sotto l'altare di Dio, cioè sotto la protezione e
consolazione dell'umanità di Cristo, fino al dì del giudizio. Ma qual
volta alcuno volesse metter Buonvicino sul ragionarne, e risolvere tra il
dottor Angelico, il dottor Sottile, e il dottor Singolare, esso rispondeva
che il nostro non è il Dio delle contese, che vuolsi studiare nella
religione per rendere un ossequio ragionato, non per introdurre la superbia
dell'umana sapienza nelle cose che il savio venera tacendo.

Che ne avvenne?

Sulle prime, tutte le parti egualmente il disapprovarono, e chi il
chiamò pusillanime cristiano, chi troppo cieco credente. Egli non
rispose, continuò, e, come accade sempre, tutte le parti egualmente
finirono per rispettarlo. Piuttosto avendo conosciuto i vizj della
città, penetrato nelle sale dei grandi come nelle officine del fabbro, e
sotto la trabacca del soldato, sapeva dove occorressero i rimedj: alla
libertà del paese, guasta non tanto dalla prepotenza de' dominatori,
quanto dalla corruttela dei dominati, trovava ottimo ristoro predicare il
Vangelo, scuola della libertà vera, vera opposizione e alla tirannia dei
capi e alla sfrenatezza dei soggetti; vera soluzione del più importante
problema sociale, quello di render soddisfatti coloro che non posseggono,
assicurando il riposo di quei che posseggono. Per tal modo riusciva caro ai
sofferenti che sollevava con superne consolazioni, e riverito dai potenti,
i quali, nell'uomo probo, non ligio ai superbi loro capricci, sono
costretti a venerare l'imperio della nobile virtù.

Margherita, già non crederete che egli la dimenticasse; più non si
dimentica quando si è amato così. Nè della donna sua temeva egli
lo spregio: non ne aveva egli veduto le lagrime in quel terribile momento?
La ricordava sempre come la persona più cara che avesse lasciata in un
mondo da cui si era diviso. Per lungo tempo ne schivò affatto la vista;
la prima volta che osò domandarne conto a Francesco Pusterla, che, come
altri amici, veniva tratto tratto a salutarlo, quel nome, quasi avesse
dovuto bruciargli le labbra, tornò più fiate a morirgli in gola: pur
finalmente lo pronunziò con un rossore, con un tremito convulso di tutta
la persona.

Al fine la materia restò domata dallo spirito, e quando Franciscòlo
gli parlava della sua domestica felicità, sentivasi inondato, non più
da invidia, ma da tutta pura compiacenza. Nelle orazioni sue, la persona
prima e più caldamente raccomandata, era la Margherita, senza che per
questo il pensiero disviasse dal Creatore alla creatura: anzi, una dolce
speranza il lusingava, che le espiazioni sue, le sue preghiere dovessero
acquistare alla Margherita una serie di felicità.

Non doveva essere esaudito, perchè la felicità vera non è
germoglio di queste glebe terrestri.

Allorchè si sentì sicuro di sè, tornò una volta a casa della
signora Pusterla; ripassò con altro cuore su quel ponte, sotto quegli
atrj, su per quelle scale: entrò nel memore salotto; e vi trovò la
Margherita che fanciulleggiava col suo Venturino.

Qual momento fu quello pei due amanti! Ma l'una e l'altro vi si
presentavano col vigore acquistato in lunga risoluzione virtuosa.

Frà Buonvicino ragionò di Dio, della fralezza dell'uomo; toccò del
passato come una rimembranza cara e dolorosa; chiese perdono; si staccò
dalla cintola un rosario di grani di cedro a faccette, su ciascuna delle
quali era intarsiata una stella di madreperla, e con pendente una croce,
allo stesso modo lavorata. Era paziente fatica del suo ritiro, e
consegnandola a Margherita,--Tenetela per mia memoria. Possa questa un
giorno venirvi di consolazione! e nel recitarne le orazioni, pregate Dio
per un peccatore».

Queste parole, quell'atto non furono senza lacrime dell'uno e dell'altra.
Margherita si strinse al seno e premette alle labbra quel dono, che
assumeva un carattere sacro innanzi all'intelletto, nel mentre al cuore
lasciava indovinare quante volte frà Buonvicino dovette pensare a lei
nel lungo tempo duratovi intorno.

Quel rosario, quella croce, doveano mischiarsi, deh come! nelle avventure
di quella infelice!



CAPITOLO IV.

L'ATTENTATO.


All'erta!--piglia!--segui!--lascia!

Queste voci schiamazzate dai cacciatori, ed un urlare e guaire di segugi e
di levrieri, un sonare di corni, uno sparnazzare di falchi e di sparvieri,
uno scalpiccìo di palafreni e di giumenti, il ragliare della cavalcatura
del buffone Grillincervello, traevano i Milanesi a vedere una grossa
comitiva, che, col signor Luchino, usciva a caccia dalla porta Comasina, e
che dai cittadini faceva esclamare:--Oh bello!» ed ai contadini:--Povere
le nostre campagne!»

A chi esce di quella porta verso Como, dopo corso un dieci miglia, fra
Boisio e Limbiate, si affaccia sulla mancina un vago palazzotto, a cui la
lieta situazione fece dare il nome di Mombello. Sta sul colmo di un
poggetto, ultimo ondeggiamento del terreno che, via via digradando dopo le
altissime vette delle Alpi, qui viene a perdersi nell'interminabile pianura
lombarda. Di lassù spazia lo sguardo sopra le feconde campagne del
Milanese, da cui sorgono tratto tratto casali, grosse terre, borgate, e
più in là la metropoli dell'Insubria, colla meravigliosa mole del
Duomo, monumento dell'originalità e della potenza dei tempi robusti e
credenti; dall'altra parte vagheggia un cerchio di ubertose colline, poi di
superbe montagne, che a mattina e a tramontana limitano l'orizzonte, varie
di forma, di altezza, di tinte: alcune verdeggianti e coltivate a grano e a
vigne: altre non vestite che di boscaglie; altre in fine brulle e
squallide, siccome la vecchiaja dell'uomo che male trascorse la sua
gioventù.

Quel palazzo, come ora è, fu rifabbricato dai signori Crivelli nel
secolo scorso; negli ultimi anni del quale venne in celebrità,
allorquando il giovane Buonaparte, sceso a nome della repubblica francese a
rendere serva la Lombardia col solito titolo di liberarla, colà si
piacque di porre alcun tempo il suo quartiere generale.

Ivi, attorno al giovane eroe, figlio della libertà e che credevano
intento a dispensarla, mentre non mirava che a farsene erede, accorrevano a
portare servilissimi omaggi i deputati delle improvvisate repubbliche
d'Italia, alle quali la prepotenza militare aveva diminuito il numero delle
azioni libere, cresciuto quello delle obbligatorie; concesso licenza di
pagare assai più, e di piantare sulle piazze un grande albero, intorno a
cui far gazzarre e risa e balli e canti, finchè a qualche burbanzoso
ufficiale piacesse intimare il silenzio. Di tali dimostrazioni rideva il
Buonaparte in quella villa; rideva della sincerità dei pochi, e si
giovava dell'astuzia dei più; e intanto preparavasi a mercatare Venezia,
ed a spianare a sè medesimo la via di salire a un trono, innalzatogli da
coloro che dianzi, coll'abbatterne un altro, aveano proclamato al mondo lo
sterminio dei regnanti e l'era della libertà e dell'eguaglianza,--non
però della giustizia.

Non ti spaventare, lettor benigno; non temere che noi vogliamo qui
tracciare il pendio, per cui l'Italia passò dal dominio dei Visconti
sino a quello di Napoleone: il cenno fatto di lui non è che una delle
tante e troppe digressioni del nostro racconto, alla quale ci recò la
menzione di quel palazzo. Poco prima dei tempi da noi descritti, era stato,
con isplendidezza pari alle loro dovizie, fabbricato dai signori Pusterla
per villa suburbana; abbellito di tutti gli artifizj, onde allora si
sapesse far lieta una casa campestre; giardini con ogni maniera di belle
piante e rare, bei poggi di vigne, grotte, zampilli e ruscelletti da lungi
condotti, davano amenità e frescura, mentre gli appartamenti offrivano
tutte le agiatezze, non disgiunte da esteriore apparenza di forza.
Poichè ai quattro angoli della fitta muraglia che lo girava, sorgeano
torri di pietra, capaci ad ogni occasione di tener fronte a qualche
improvviso attacco che, in tempi di tante agitazioni fra i privati e di
sì poca forza nel Governo, potea venire o dal popolo ammutinato, o da
bande di masnadieri, o da emuli baroni.

Quivi appunto erasi ridotta la signora Margherita allorquando il suo
Franciscòlo, lusingato dalla confidenza mostratagli da Luchino Visconti,
si era, mal per lui, assunta la esibita ambasceria a Mastino della Scala.
Nè le dissuasioni di frà Buonvicino, nè le carezze della donna sua
erano valse a stornarlo da incarichi, i quali, vergognosi sotto vergognoso
dominio, potevano sembrare un assenso dato all'oppressione della patria:
nè ad indurlo a vivere in decoroso ritiro, muta protesta che ognuno
può senza pericoli opporre ai cattivi reggimenti. Come egli dunque si fu
partito, essa preferì togliersi alla città, e nella quiete campestre
risparmiarsi il dispiacere di veder il trionfo dei tristi, e cercare più
frequenti le occasioni di fare il bene.

Altrimenti la intese o volle intenderla quel Ramengo da Casale, adulatore
di Luchino, che altra volta ci venne occasione di nominare. Il quale,
presentatosi al Visconti, pochi giorni dopo che Francesco Pusterla se ne fu
andato per Verona,--Signore (gli disse), madonna Margherita si o collocata
a Mombello. Certamente ella cercò la solitudine perchè ad alcuno
piacesse di consolargliela. Non vorrà la serenità vostra onorarla di
una sua visita?»

Il partito più destro che i cattivi signori traggono dai cortigiani,
è il farsi suggerire da loro il male, di cui già avevano
l'intenzione, e così scusarsi in alcun modo davanti alla propria
coscienza. Luchino, dissimulatore dei proprj sentimenti, non mostrò fare
caso di un suggerimento che tanto gli diede per lo genio: ma pochi giorni
dopo, ordinava una gran caccia clamorosa nei boschi di Limbiate.

Era la caccia passione dominante in Luchino, siccome negli altri signori,
che vi trovavano una imitazione ed un esercizio preparatorio della guerra.
Immensa quantità di selvaggina si annidava pei frequenti boschi,
moltiplicandosi protetta dall'impunità, poichè le leggi, riservando
questi animali al diletto dei principi o dei feudatarj, punivano di
gravissime pene il contadino che avesse ardito turbarli, non che ucciderli,
quand'anche li vedesse correre sopra i suoi campi e desolarli. Ma i
patimenti di questi, che importavano? non erano che vulgo: e il principe
intanto si ricreava, e attorno a lui altri signori venivano in grossa
comitiva, tutti, benchè da caccia, in abiti eleganti. Imperocchè i
nobili, scemate le occasioni di distinguersi dagli altri nelle magistrature
e fra le armi, s'erano vôlti a gareggiare di vestiti e di lusso; e
siccome uno scrittore contemporaneo dice, _cominciò la gente
ismisuratamente mutare, abiti sì di restimenta sì della persona:
cominciò a fare li pizzi delli cappucci lunghi: cominciò a portare
panni stretti alla catalana e collare, portare scarselle alle coreggie, e
in capo portare cappelletti, sopra lo cappuccio. Poi portavano barbe grandi
e folte, come bene giannetti spagnuoli volessero seguitare. Dinanzi a
questo tempo, queste cose non erano anco. Si radevano le persone la barba,
e portavano vestimenta larghe e oneste; e se alcuna persona avesse portato
barba, fora stato avuto in sospetto d'essere uomo di pessima ragione, salvo
non fosse spagnuolo, ovvero uomo di penitenza. Ora è mutata condizione,
idea, diletto. Portano cappelletto in capo per grande autorità; folta
barba a modo di eremitano; scarsella a modo di pellegrino. Vedi nuova
divisanza! E che più è, chi non portasse cappelletto in capo, barba
folta, scarsella in cinta, non è tenuto covelle, o vero poco, o vero
cosa nulla. Grande capitana, è la barba. Chi porta barba è temuto_.

Che se l'ingenuità, soverchia davvero, di questo narratore non vi
tediasse, vorrei lasciare ad esso il descrivervi i costumi di Luchino, poco
mutando delle sue parole. Facciamolo, e a chi non piace, salti al fondo.

_Luchino visse in signoria anni nove in tanta pace e giustizia, che non si
trovava un terreno che si crollasse. Con l'oro in mano gira l'uomo franco.
Fu uomo severo senza alcuna pietà. Mai non perdonava. Secondo lo
peccato, secondo la fallanza puniva. Questo messer Luchino, benchè
guardie avesse d'uomini da piede e da cavallo a modo regale, niente di meno
ebbe una speziale e nuova guardia con seco. La guardia sua erano due cani
alani grandi e_ _terribili, grossi come leoni, lanuti come pecore; gli
occhi avevano rossi e terribili. Questi due cani alani sempre lo
seguitavano per la corte, l'uno dalla parte ritta, l'altro dalla parte
manca. Quando mangiava solo stavano a tavola tuttavia con esso quattro
grandi cani e della carne dava ora ad uno ora all'altro. Quando stava in
piedi, la molto baronia gli faceva intorno piazza con silenzio per temenza
dei cani: nulla si crollava, nulla parlava. Che se per ventura lo signore
un poco guardasse alcuno con malo sguardo, subito li cani li erano sopra in
canna, e davanlo per terra. Anche questo messere Luchino fu uomo molto
giusto, nè per oro nè per argento lasciava di fare giustizia,
sicchè sua terra era franca. Molto amava lo popolo minuto_.

Quale amor di popolo e di giustizia fosse quel di Luchino, di Luchino che
solo nei cani si fidava, il dica chi (come il Maj nei palimsesti) sa
leggere altre parole sotto alle apparenti. È vero ch'egli favoriva _lo
popolo minuto_, ma per deprimere i grandi, non già per sentimento del
bene: son però queste le vie della Provvidenza, che fa dai despoti
stabilire l'eguaglianza in faccia ad un padrone, finchè vengano tempi
che avverino l'eguaglianza in faccia alla legge.

Se l'annunzio del venire di Luchino conturbasse la Margherita, non occorre
che io ve lo dica. Acconcia colla leggiadria che ai campi si conviene,
atteggiata d'ogni grazia ma pur maestosa, ella accolse la brigata
allorchè si dirizzò per riposarsi al suo palazzo: nella sala e nei
tinelli avea fatto disporre lauti e delicati rinfreschi pei signori e per
la famiglia; goduti i quali fra l'allegria ed i festosi motteggi, e fra le
sguajate smancerie di Grillincervello, cui la dama opponeva un dignitoso
silenzio, Luchino chiese di ammirare a parte a parte la bella posta e la
ben intesa eleganza del luogo. La signora il compiacque, e dal poggio
spaziandosi giù per la pendice, tutto mostrava a Luchino, mentre i suoi
seguaci animavano quel quadro, spargendosi in gruppi ad ammirare quel cielo
così salutevole alla vita, e le ridenti circostanze, ove in quella
stagione ogni cosa appariva nel colmo della bellezza e della bontà.

Ma la dama traevasi continuamente a mano il suo Venturino; una grave
damigella non le si dipartì mai da fianco; e dietro, alcuni famigli in
aspetto di far onore all'ospite, il quale trovò appena agio di poter
dirle alcune galanterie, che essa mostrò accettare come nulla meglio che
gentilezze universali e insignificanti. In sul partire adunque, Luchino,
dopo aver levato a cielo la situazione gli adornamenti,--Ma per una
solitudine (susurrò a Margherita) sarebbe bene che voi foste più
sola».

Sperò il temerario averle fatto intendere l'animo suo; lo sperò tanto
più, in quanto cortesissime gli erano parse le accoglienze della bella
cugina; e la virtù conosciuta in questa, non che rimoverlo dai turpi
suoi divisamenti, più ve lo infervorava, per quel mendo umano
d'impuntarsi maggiormente ove più difficoltà si affaccia. Nè
mancavano d'aggiungere legna al fuoco Ramengo e gli altri cortigiani,
esaltando i meriti della bella e gli atti cortesi onde aveva accolto e
onorato il principe parente. Unico il buffone osava lanciare motti al
signor suo, di caccia fallita, di non so che altre baje, le quali, mentre
moveano a riso Luchino, più ne istigavano l'amor proprio a voler ridurre
ad effetto il suo capriccio.

Quella prima gita non era stata se non come la correria che si fa sotto una
piazza nemica, tanto per riconoscere il luogo e le opportunità
dell'accampamento e degli assalti. Non passarono molti giorni, e Luchino,
con poco seguito di fidati, ricomparve baldanzoso a Mombello. Ricomparve
sgradito ma non inaspettato: chè troppo la donna erasi avveduta come e
le lusinghe della parentela, e l'autorità del grado, e il bagliore delle
ricchezze dirigesse egli ad un iniquo fine. Era dunque cresciuto il
pericolo, non per la virtù di Margherita, ma per la pace sua, la quale
rimase turbata dal contrasto durato in frenare e respingere le proposizioni
dell'audace, dall'incertezza del fin dove egli spingerebbe altre volte le
sue persecuzioni.

Mentre Luchino tornava quel giorno verso Milano, computando dentro di sè
i progressi che potesse aver fatti verso il fine delle sue voglie, e
coll'allegria propria e col fragore della brigata cercando di lasciar
indovinare un trionfo che sperava, che voleva agevolare col darlo già
per ottenuto, Grillincervello gli disse:--Guarda, guarda, padrone! Colui
là certo è un tuo debitore»; ed accennava un giovane che a cavallo
veniva via a rotta per la strada, e che, come s'avvide del corteggio del
principe, la diede attraverso i campi per iscansarlo.

Egli era quell'Alpinòlo che, se vi ricorda, abbiamo incontrato nel primo
capitolo, a fianco del Pusterla, e del quale, poichè avrà molta parte
nel nostro racconto, conviene che diciamo. Passava per un di quei tanti
senza genitori, cresciuti come una pianta in mezzo al deserto.

Ottorino Visconti, fratello della nostra Margherita (quel desso sulle cui
avventure vi ha fatto piangere un amico mio) avea nel 1329 dall'imperatore
Ludovico il Bavaro ottenuto in feudo Castelletto sul Ticino e le
giurisdizioni del Novarese, dominj restati poi nei Visconti d'Aragona,
discendenti da quella famiglia. Per gratitudine egli andò ad
accompagnare quel sovrano a Pisa; e reduce di là, varcato il Po non
lontano da Cremona, gli accadde di fermarsi ad un casolare sulla riva, in
cui stava una famigliuola di mugnaj, che nei barconi guidavano i mobili
loro mulini a cercare la più opportuna corrente, e che, quando ne
capitassero, tragittavano i passeggieri. Quivi desiderando un tratto
riposarsi, Ottorino chiese che alcuno dei fanciulli gli tenesse il cavallo,
mentre sbrucava un poco di erba sul pratello quivi innanzi.--Io no.--Neppur
io» rispondevano dispettosetti, e scappavano volgendosi ad ora ad ora a
guatar il cavaliero e la bestia con una meraviglia sospettosa. Ma uno di
essi, che al corpo pareva di più età, ma in fatto contava appena
sette anni, si fece innanzi baldanzoso, e--Che paure? a me». E preso
alla briglia il palafreno, lo osservava, lo palpeggiava, godeva di
porgergli l'erba di propria mano, di sentirsene il fiato sopra il volto,
facendosi bello di poter dominare un sì grosso e generoso animale; poi,
con un sospiro, qual non sarebbesi atteso dalla verde età e dal contegno
ingenuo e risoluto di lui, esclamò:

--Oh ne avessi uno io!»

Ottorino, che compiacevasi al vedere quella vispa franchezza,--Che ne
faresti tu?» gli chiese.

--Eh! so ben io che ne farei, io. Correrei per mari e per terre a cercar di
mio padre».

--Ma il padre tuo non l'hai tu qui?» replicò Ottorino.

--Oh! signor no!» rispose crollando il capo con mesta tenerezza il
garzoncello. «M'hanno trovato su queste rive; m'hanno portato in quella
casa; m'hanno tirato su... Ma... non aver i suoi! non poter mai dire come
tutti gli altri, caro babbo!»

--E tua madre?»

Si rimbambolarono gli occhi al fanciullo, e mentre col dosso d'una mano li
tergeva, tendendo il dito dell'altra proferì:--Eccola là»; e
mostrava una croce sur un rialto, alla quale era appesa una fresca
ghirlanda di margaritine e garofanetti.

Ne prese pietà Ottorino, e--Verresti tu meco?»

--Se stesse a me! Ma recherei dispiacere a questa povera gente... mi
vogliono tanto bene!... Ma non ci ho mio padre!»

Quei mugnaj avevano di fatto messo un grande amore nel ragazzo: quando
però il Visconti chiese glielo lasciassero condur via, l'uomo
rispose:--Oh signoria, la è troppo buona. Se lo porti pure. Tutta
bontà di Vossignoria».

Ma la Nena, moglie di lui, forse che avesse in astratto sentito parlare dei
guaj del mondo e delle bisbeticherie dei signori, cagliava, e al garzone
diceva:--Non badargli! rimani qui. Pane non te ne verrà meno se vorrai
lavorare: e sarai quieto e dabbene e timorato di Dio».

Maso invece (così chiamavasi il mugnajo), uomo che aveva girato il
mondo, cioè era andato a prendere grano e riportar farina sino a Cremona
e a Casalmaggiore, e che davasi a intendere d'aver conosciuto gli uomini
perchè aveva conosciuto molti gastaldi e molti granaj, le dava sulla
voce, e--Come? vorresti tu rubargli questa fortuna? Non vedi? egli è un
diavoletto. Gran salute, gran coraggio, grande appetito; ha tutte le
condizioni per diventare un grand'omo. Lascia pure che sua signoria se lo
conduca, e vedrai, farà passata. Già non è nato mugnajo, nè il
deve diventare».

Le ragioni del marito, come succede, prevalsero: la Nena, sul congedarlo,
mentre rassettava indosso quel po' di cenci al fanciulletto che balzava
tant'alto dalla contentezza, gli diceva:--Guardati dai pericoli, fuggi le
cattive compagnie, le donne e le bettole», come dicono tutte le madri
nel licenziar i figliuoli, Maso gli soggiungeva:--Rispetta sua signoria e
fa fortuna»: e Ottorino si menò seco il ragazzetto.

Quest'era appunto il nostro Alpinòlo, e Ottorino destinava farsene uno
scudiero; e intanto che venissero gli anni, lasciarlo per paggio a Bice sua
moglie. Ma ohimè! tornando in patria scoperse che Bice l'avea tradito,
ed erasi fuggita a viver male nel castello di Rosate con Marco Visconti suo
cugino; il quale poi, sazio o insospettito, un giorno la trabalzò dalla
finestra nella fossa, salvo a piangerla dirottamente dopo morta.

Ottorino ne patì come uomo di sentir generoso che vedesi ingannato da
persona carissima; andò cercando distrazione fra le imprese e nei
viaggi, ed il cordoglio lo trasse a morte sul meglio del vivere: e nel 1336
fu sepolto in Sant'Eustorgio di Milano, presso suo padre Uberto.

Lasciò egli raccomandato Alpinòlo specialmente alla Margherita,
consolatrice sua in quel crepacuore; onde il garzone attaccassimo a lei,
con essa passò nella casa Pusterla, ove serviva a Franciscòlo in
uffizio di scudiere. Animo esuberante di affetto, non trovandosi al mondo
persona su cui per naturale legame potesse rivolgerlo, tutto l'aveva
diretto, dirò meglio, avventato sulla famiglia in cui era aggrandito: e
ne amava le persone e gli interessi coll'impeto di una passione, qual
poteva essere in un giovane che, non disciplinato da consigli di superiori,
conservava in tutto il vergine loro vigore la foga, l'irriflessione,
quell'estremo bisogno di sensazioni e di felicità, che sono pregio e
difetto della giovinezza. Un desiderio, anzi una vera mania di libertà
avevano ispirato in esso i bollenti discorsi del suo giovane signore, e le
compagnie che in Milano frequentava di giovani acuti alle novità, e di
veterani memori delle franchigie antiche e dispettosi della presente
servitù. Si sarebbe detto che, al modo onde gli uomini sollevati da
bassa fortuna s'ingegnano di farla dimenticare, così egli volesse far
dimenticare altrui, dimenticare egli stesso di non avere nè parenti
nè patria di nascita, coll'amare oltre misura quelli di adozione. Alla
sua balda imperturbabile volontà non era sacrifizio che paresse grave
per servire la repubblica milanese o i figli di Uberto Visconti e il
Pusterla: mettere per essi la vita gli saria parso ben poca cosa.

Tali caratteri che, qualora si fissino sopra un'idea o sopra una persona,
hanno per nulla tutto il resto del mondo, scarsissimi s'incontrano nelle
odierne società, il cui attrito, come fa coi ciottoli il torrente,
leviga e pareggia tutte le disuguaglianze della superficie. È un bene?
è un male? Chiedete se è bene o male la polvere di cannone, la quale,
ove saviamente si diriga, serve di potenza e di difesa; sregolata, diviene
micidiale.

Se a questo fare di violenza, mai non iscompagnata da generosità,
accoppiate la freschezza dei diciassette anni, una schiettezza ardita,
eppure educata alquanto dal conversare coi signori, una melanconia su tutti
i suoi sentimenti diffusa dall'ignorare i parenti suoi, comprenderete come
dovesse venir caro ai Milanesi, gente per natura d'ottimo sangue; nè
dico solo agli umili, ma a quelli ancora di alto grado. La stessa
incertezza dei natali, che il mondo, per una delle mille sue ingiustizie,
suole ascrivere a colpa, o almeno guardare colla superba compassione che
tanto si avvicina all'insulto, non che nuocere ad Alpinòlo, il rendeva
anzi più interessante a chi lo conoscesse, per la smania perpetua
ch'esso mostrava di trovare, di ricuperar suo padre, di togliersi dal volto
questa, ch'egli chiamava infamia, del non avere genitori. Se volta avveniva
che udisse narrare le angustie di qualche malarrivato,--Ma egli almeno ha
padre o madre», esclamava. Qualora mirasse un fanciulletto a mano o fra
le braccia dei genitori, struggevasi di pietà, di desiderio. Quante
fiate la Margherita il sorprese, che contemplando il suo Venturino e
blandendolo con melanconiche carezze, frenava le lagrime a stento!

Come la Margherita fosse opportuna a ispirar amore in chiunque le si
accostasse, già deve il lettore averlo compreso: e deve il lettore, per
poca esperienza che abbia del mondo, avere osservato come coloro che poco
hanno a lodarsi degli uomini, si volgano con entusiasmo di devozione alle
donne, in cui trovano la compassione, il disinteresse, l'affettuosità,
per così dire, che negli uomini rimangono o spente o soffocate dai
calcoli dell'amor proprio e dal tumulto delle faccende.

Perciò sopra la Margherita aveva Alpinòlo concentrato tutto l'affetto
che dapprima portava ad Uberto e ad Ottorino estinti, e ad altri due
fratelli di essa che allora combattevano in Palestina; non affetto qual
suole intendersi da uomo a donna; una specie di culto, tale da distruggere
tutti i computi della vanità, tutte le speranze della passione: e
considerandola come un punto lucente fra l'universale tenebria della
società, non avrebbe tampoco saputo pensarla capace d'azione men che
generosa e santa.

Se alcuno mai non ha versato lacrime sul seno di donna rispettata, se mai
non ha all'occhio di lei rivelato un cuore ferito e contristato, non
indovinerà quali momenti doveano esser quelli, in cui Alpinòlo,
sedendo vicino alla signora sua, coll'affetto di un fratello, colla
riverenza di un vassallo, le apriva le proprie ambasce. Su queste gli
uomini avrebbero sorriso sdegnosamente siccome di una debolezza, di una
fanciullaggine, di una esagerazione di sentimento: ma in lei trovavano un
eco, una simpatia, ed alcune di quelle parole che bastano a tornare per un
pezzo il sereno a chi più era da nubi ottenebrato.

Nell'anno precedente a quello in cui siamo col nostro racconto, i Visconti
erano stati ad un pelo di perdere il dominio. Lodrisio Visconti, nipote di
Matteo Magno, corrucciato di vedersi escluso dalla signoria, tentò fare
novità, fidando sui molti scontenti, sulle promesse di qualche vicino,
sul proprio ardire e sulla fortuna, e mosse contro Azone una banda di
mercenarj. Questa banda, composta di Tedeschi e guidata dal capitano
Malerba, fu chiamata la _Compagnia di San Giorgio_, ed è la prima delle
molte che poi resero il valore un mestiere, e che, terribili non meno agli
amici che ai nemici, tempestarono per due secoli la già abbastanza
afflitta patria nostra.

Contro l'istante pericolo presero le armi tutti i Milanesi, i quali, se non
trovavano gran fatto a lodarsi dei presenti dominatori, avevano però
abbastanza lume d'intelletto per non credere alle promesse di libertà,
che Lodrisio voleva effettuare colla violenza; nè sperare che un branco
di masnadieri comprati venisse a raddrizzare i torti e rinsanichire la
giustizia in un paese straniero. Non avendo però saputo impedire che
Lodrisio passasse l'Adda a Rivolta, giungesse fin nel contado del Seprio,
al cui dominio pretendeva, e si accampasse a Legnano, i Milanesi mossero ad
incontrarlo colà con tremilacinquecento cavalli, duemila balestrieri,
quattordicimila fanti, ragguardevole esercito per sì piccolo Stato. Lo
comandava Luchino, non ancora principe, il quale dispose l'avanguardia a
Parabiago, a Nerviano il centro, la retroguardia a Rho; ma sorpreso di gran
mattino il 21 febbrajo (era domenica, e nevicava a fiocchi) ebbe un tale
tracollo, che rimase egli medesimo prigioniero, e fu legato ad un albero
finchè la giornata fosse decisa.

Lo vide in quest'arduo Alpinòlo, che dietro a Francesco Pusterla
combatteva: e tosto recatone avviso ai cavalieri più fidi d'arme, con
essi rinfrescò la battaglia; e raddoppiando gli sforzi, giunsero a
ricoverare il capitano. Se non fosse stile della storia il non riferire mai
che a persone illustri il merito delle illustri azioni, avrebbe essa
confessato che la principale parte in quel fatto l'ebbe Alpinòlo, il
quale, facendo meraviglie della sua persona, arrivò primo sino al
Visconti, e tagliatone i lacci, rimessolo a cavallo, e cacciatagli in mano
una mazza ferrata, tornò con esso a mostrare il volto ai nemici; i
quali, al fine d'una giornata in cui cinque volte si rintegrò la
battaglia, andarono in piena rotta, lasciando prigioniero lo stesso
Lodrisio, che stentò degli anni assai in un carcere a San Colombano.

È questa la battaglia di Parabiago, tanto celebrata fra i Milanesi, in
cui si narrò che sant'Ambrogio comparisse nell'aria con un poderoso
staffile, percotendo quei mercenarj[7]; e in memoria della quale si
fabbricò un insigne tempio sul luogo dove Luchino fu liberato, con
ordine che ogni anno, nel dì stesso, considerato come festivo, i dodici
signori della Provvisione vi tornassero in grande solennità a far
un'offerta in comune, per assistere ad una messa speciale, nel cui prefazio
si scagliavano imprecazioni contro quelle masnade: rito che seguitò fin
quando san Carlo Borromeo lo restrinse a una visita alla basilica
ambrosiana in città.

Per allora grandi feste, grandi falò si fecero in Milano, e Azone con
pomposo corteggio recatosi a Parabiago, vestì cavalieri quelli che
più si fossero nella battaglia segnalati. Un araldo d'arme chiamava un
dopo uno i prodi, coi nomi e i titoli della famiglia e dei genitori: e non
trovandosi macchie, gli diceva:--Vieni, e t'accosta a ricevere il cingolo
militare, di cui la patria e gli altri cavalieri ti credono meritevole».
In questa guisa furono da esso araldo nominati ed esaminati Ambrogio
Cotica, Protaso Caimi, Giovanni Scaccabarozzo milanesi, Lucio Vestarini
lodigiano, Inviziato di Alessandria, Lanzarotto Anguissola e Dondazio
Malvicino della Fontana piacentini, Rainaldo degli Alessandri mantovano,
Giovannolo da Monza, Sfolcada Melik tedesco: i quali un dietro all'altro si
presentavano ad Azone, che ricevendone il ligio omaggio, dava ad essi una
leggiera gotata, presentava la spada, e ne circondava i lombi colla cintura
cavalieresca; mentre due altri cavalieri allacciavano ai loro talloni gli
sproni d'oro. Fu poi chiamato Giovanni del Fiesco genovese, fratello della
signora Isabella moglie di Luchino, ma gli onori non poterono esser renduti
che al suo cadavere, là recato sopra ricca bara, accinto di tutte le
armi come quando, ai fianchi del cognato combattendo, era rimasto ucciso.

Ultimo si proclamò il nome di Alpinolo, ma quando fu chiesto chi fosse
il padre suo e quale la schiatta, nessuno potè renderne conto; egli
stesso ammutolì confuso, come al rimembrare d'una vergogna; e non
potendo provare di non uscire di stirpe non infamata, non venne ammesso
all'onore dei prodi. Se la cosa il pungesse nell'anima, consideratelo. Solo
la tirannia più sozza e sconsigliata parevagli che potesse badare alla
razza, anzichè alla personale virtù: paragonava sè a questo, a
quello, singolarmente al Melik, tedesco prezzolato, e da quell'ora si fece
più astioso contro i Visconti, più sempre smaniato di conoscer suo
padre; e somigliante a certe vergini involontarie dopo una serie di
desiderj delusi, era divenuto irritabile, stizzito colla società, a dir
suo, così mal regolata: e sempre più entusiasta per coloro che vi
formavano eccezione, sempre più bisognoso di nuovi sogni, di pericoli,
di prove rinascenti.

I Milanesi davanti a quasi tutte le case nobili costumavano un porticale,
dove poter accogliersi ad asolare, a discorrerla cogli amici, a carattarsi
l'un l'altro, così portando la vita pubblica e comune d'allora, come il
rinchiudersi e isolarsi è portato in altri tempi dal non vivere ciascuno
che per sè, dal non far più che sè stesso centro e periferia di
ogni azione. Di sessanta che erano questi luoghi di ritrovo, che chiamavano
_Coperti_, ora appena sussiste quello dei Figini, fabbricato poco dopo in
piazza del Duomo[8].

Appunto sotto uno di questi Alpinolo, in sul mangiare, barattava parole,
col fuoco che egli in ogni cosa poneva, allorchè se gli avvicinò un
tal Menclozzo Basabelletta, umore satirico, beffardo, e caldo popolano,
come quei tanti in cui lo sprezzo tiene luogo di libertà. Non so se per
amore di bene, o per dispettosa invidia, o per piaggiare la plebe, che
anch'essa ha i suoi adulatori, si faceva indagatore maligno, e sarcastico
detrattore dei nobili, dei ricchi, dei magistrati.

Salutato egli il giovane, e battendogli sulla spalla,--Oh! (gli disse)
quella cima di tutte le donne, quella coppa d'oro di cui non rifini di
contar miracoli, scusa assai bene la lontananza del marito col ricevere il
magnifico signor Luchino. L'ho visto io più volte uscire verso la villa
di lei».

Chi avesse veduto Alpinolo inalberarsi nell'udire trassinato fra un pieno
circolo quel nome a lui sacrosanto, l'avrebbe assomigliato a un basilisco
che s'avventa a chi gli trasse la pietra. Rosso come i bargigli d'un
tacchino, divampante negli occhi.--Menti per la gola, sparlatore
villano!» urlò con irte le chiome; e cacciando a mano la sciabola,
saltò senz'altro alla vita del petulante. I circostanti accorsi
aiutarono questo a sottrarsi; poi con parole, e più a forza di braccia
ritenendo Alpinolo, poterono alfine quietarlo. Pure, giurando a gran voce
vendetta, ripetendolo bugiardo, stringendo le dita in pugno, pestando de'
piedi, digrignando i denti, corse in furia a casa i Pusterla, e senza
proferire parola, che tra quell'ira non avrebbe potuto articolarne alcuna,
si difilò alle scuderie, e gettata la briglia al primo cavallo che gli
venne sotto la mano, vi saltò su di netto e via a spron battuto.

--Salva! salva!» esclamavano le madri nel vederlo venire di carriera, e
si affaccendavano a levare di mezzo alla strada i bambini trescanti. Egli
via, prestamente ebbe guadagnata la porta Comasina, situata poco oltre il
ponte Vetere: e uscitone per la strada allora angusta e bistorta, percoteva
in fuga il corridore, quando, non essendo molto lontano da Boisio, conobbe
di lontano la compagnia di Luchino, che tornava di Mombello.

Augurossi di non avere occhi, tanto gli trafiggeva il cuore quel trovar
vero ciò ch'egli aveva al Menclozzo con tanta sicurezza disdetto. Più
che mai fuori di sè, figgendo gli sproni nella pancia al cavallo, il
precipitò di foga traverso ai frumenti spigati, evitando la brigata
abborrita. Allora fu che lo notò Grillincervello, ma non potè
intendere le imprecazioni, che non solo col pensiero, ma colla voce, ossia
con un rantolo, con un gorgolìo inarticolato, slanciava contro di loro
Alpinolo.

Siffatto, per viette non usate egli giunse a Mombello: in mezzo al cortile
balzò dal cavallo, e senza por mente a questo, così come era
polveroso e affiatato si presentò alla Margherita. Era la prima volta
ch'e' si permettesse con lei simile eccesso di famigliarità: ma era
anche la prima volta che per lei concepisse altro sentimento che di
venerazione. Non appena però si vide incontro il soave e sicuro aspetto
di quella bellissima, ancora un non so che turbato dalla visita ricevuta, a
guisa d'un bel cielo sul cui zaffiro la passata bufera lasciò tuttavia
qualche nuvoletta, ogni sdegno fu quieto in Alpinolo, ogni sospetto
dileguato: e come era stato subito a supporre il male, altrettanto subito
rimproverava sè stesso acerbamente d'aver potuto un istante dubitare di
quell'angelo. Chinò dunque gli occhi, quasi indegno si credesse di
fissarla; ma pure non potè lasciare di dirle:--Anche qua Luchino?»

La Margherita, colla dignità della virtù a cui non giungono
gl'insulti direttile, alzò il capo, e in tono di dolce rimprovero
esclamò:--Alpinolo! questa parola avrebbe potuto venire da tutt'altri:
ma da voi non l'avrei mai temuta».

Ruppe in singhiozzi Alpinolo, e le si gettò ai piedi chiedendole
perdono: narrò il sospetto, intese la spiegazione: e il conchiuso dei
loro discorsi fu ch'egli subitamente istruisse d'ogni cosa frà
Buonvicino. Non era scorso il domani, che Buonvicino era venuto alla
Margherita, e persuasala a pigliare i passi innanzi, e ridarsi senza indugi
alla città, come ella fece, tenendovisi ignorata nel chiuso palazzo
finchè ritornasse il marito.

Luchino pochi giorni tardò a rivenire all'assalto, pieno di una
contumace fidanza. Accostandosi a Mombello, trova un silenzio perfetto: le
finestre chiuse: nessuna bandiera sulle torrette. Luchino comincia a
sbuffare dal dispetto, Grillincervello dalle risa: questo lancia il suo
somaro, e poco poi torna indietro riferendo:--L'uscio è imprunato,
domine, c'è la faccia di legno.» Sviano dunque, e venuti alla corte
rustica domandano al gastaldo che n'è della signora del luogo.

--È partita.

--Quando?

--Jer da sera, eccellentissimo.

--Per dove?

--I fatti dei padroni io non li cerco, io.

--Ma non aveva ella disposto per rimaner qua dei giorni molti?

--Anzi dei mesi, eccellentissimo.

--Onde dunque l'improvvisa risoluzione?

--I fatti dei padroni io non li cerco, io. Mio dovere è obbedire,
eccellentissimo».

Troppo rincresceva a Luchino che altri dovesse accorgersi d'un torto
fattogli, d'un mancatogli riguardo; sicchè mostrò di pigliare la cosa
in riso; e prese a celiarne egli stesso, a lasciar quasi intendere che
ciò fosse un accordo, un'intelligenza. Ma questa necessità del
fingere ne aizzava tanto più lo sdegno, e pieno di maltalento, giurava
pigliar vendetta di quello che chiamava oltraggio. Legna al fuoco
aggiungevano quinci i lazzi del bigherajo che non si rassegnava a comparire
ingannato, quindi il vile cortigiano Ramengo, che, per sue ragioni malvolto
verso la Pusterla, sapeva con arte fina esacerbare contro di lei il
principe, sperando addensare un turbine sul capo della innocente.

Nè la speranza scellerata gli fallì. Da quel punto l'amore, dirò
meglio, il voluttuoso capriccio di Luchino, attraversato, si converse in
fiera collera: e con profonda atrocità si propose, così in generale,
di perdere quella infelice. Occasioni di nuocere a un nemico non vengono
scarse al potente, e pur troppo gliene offrono talora le stesse vittime
designate, talora gli amici di quelle. Fu il caso.

Alpinolo, coll'impeto sconsigliato a lui naturale non si limitò ad
adempiere la commissione di Margherita: la quale anzi gli aveva ingiunto di
risparmiare a suo marito la cognizione d'un oltraggio, per resistere al
quale ella sentiva abbastanza forte sè stessa, non abbastanza forte lo
sposo per accoglierlo come uom deve, o per legittimamente punirlo. Ma se a
lei la prudenza insegnava a rivelare il men che si può de' guai
irremediabili, Alpinolo era invece persuaso che il mostrare le piaghe
equivalga a rimediarvi. Non appena dunque ebbe inviato frà Buonvicino
alla signora, senza farne motto ad alcuno tornò fuori di città, e
tirò per la più breve a Verona.

Senza dar riposo mai al suo corpo, senza distinguere il fitto meriggio
dalla notte più fonda, stancando la cavalcatura, non l'indomito suo
corpo, scorreva paesi e paesi, ma ancora più a furia trasvolava il
pensiero, in un delirio di fantasie, vie più incitato dalle memorie dei
luoghi per cui traversava.

In Crescenzago era morto Matteo Visconti:--Anch'essi questi grandi, questi
prepotenti finiscono come l'ultimo della plebe. Oh se anche adesso il papa
volesse parlar alto, e quando uno si fa tiranno, negargli le consolazioni
della religione, la comunione coi fratelli!» A Gorgonzola il re Enzo era
caduto prigione dei prodi Lombardi:--Ora vanno essi a prigione dei
principi». Al ponte di Cassano i Milanesi avevano respinto Federico
Barbarossa; una lega benedetta dalla croce, v'avea fiaccato l'orgoglio di
Ezelino...; Treviglio stava libero ancora;--Possa conservarsi!»

Così al forte di Caravaggio, così a quelli di Mozzanica e d'Antignate
erano accoppiate ricordanze, vive perchè recenti, perchè ripetute dai
padri ai figliuoli.

Scorrendo il territorio bergamasco, Alpinolo si ricordava di quando
v'accorreano d'ogni parte gl'inviati della città, per giurare a Pontida
la reciproca difesa. Brescia gli tornava a mente i figliuoli, attaccati dal
Barbarossa innanzi alle macchine murali, e nullostante percossi dai
genitori, affinchè la pietà paterna non guastasse la patria
libertà. Il lago di Garda, le rôcche di Lonato, del Sirmione, di
Peschiera, di Castelnuovo per cui passò, le tante altre onde vedeva irte
le alture, gl'inspiravano un fiero coraggio, un orgoglioso dispetto,
paragonando il passato col presente; vedendo tutto oro in quello, in questo
tutto fango e sozzura.

Alle mura dei borghi e delle città, ai palazzi del Comune, ai tempj, ai
canali che crearono la fertilità d'intere provincie, egli
domandava:--Chi vi ha compiti?» e tutti pareangli rendere una sola
risposta:--La libertà. Ma ora (soggiungeva nella infervorata fantasia)
perchè non altrettanto? perchè le braccia non basterebbero ad
abbattere questi tirannetti che minacciano tremando? e render alla patria
le franchigie e il primitivo splendore?.... Perchè siamo divisi».

Al mezzo del seguente giorno pervenne a Verona, dove, per usar una frase
diplomatica, regnava l'ordine sotto la tirannia dei signori della Scala.
Capo della fazione guelfa in Italia era di quei tempi Roberto re di Napoli,
della ghibellina gli Scaligeri e i Visconti. I Guelfi (e chi nol sa?)
teneano col papa, i Ghibellini coll'imperatore, secondo credevano che l'un
o l'altro potesse meglio giovare alla patria ed alla libertà. Ma poi e
papa e imperatore erano stati messi da banda: il primo risedendo in
Avignone, allontanava la speranza di proteggere l'Italia o forse d'unirla
in un solo dominio: gli altri, senza nè forza, nè denari, nè
opinione, solo si reggevano in quanto erano sostenuti dai diversi
principotti; onde, conservando pure gli antichi titoli di fazione, e Guelfi
e Ghibellini non miravano che a crescere in dominazione.

Estendere la loro su tutta Italia era l'intento sì dei reali di Napoli,
sì dei signori di Milano e di Verona: ma appunto per ciò si
contrastavano gli uni gli altri; di modo che la politica, la quale, nei due
secoli precedenti, aveva operato a passioni ed entusiasmo, in questo era
ridotto a calcolo e ponderazioni; e gl'Italiani avevano inventata quella
bilancia di poteri, che divenne poi norma universale in Europa, e fu non
poche volte sostituita al diritto e alla giustizia.

Lunghi e fieri contrasti avevano tolto il re Roberto dalla speranza di
signoreggiare tutta Italia; ora a ciò avevano l'occhio Mastin della
Scala, e Luchino Visconti. Era Mastino succeduto a Cane suo zio, quel _gran
lombardo_, la cui cortesia fu il _primo rifugio e il primo ostello_
dell'esule Allighieri: e nessuna delle virtù, ma tutti i talenti n'aveva
ereditato e l'ambizione: comandava a nove città, state capitali
d'altrettante repubblichette, e ne traeva in gabelle settecentomila fiorini
d'oro; potè mandare a spedizioni lontane fin quattromila cavalli; e
chiesto dai Fiorentini di vender Lucca per trecensessantamila zecchini,
rispose non aver bisogno di quelle miserie.

Conveniente a tanta ricchezza era lo splendore di sua Corte, ove dava anche
magnifico ricetto agli uomini illustri, costretti ad esulare dalla patria,
assegnando a ciascuno agiati appartamenti, con dipinture allusive al loro
stato e grado; e sino a ventitrè signori vi si trovarono raccolti una
volta, i quali avevano tenuta, e per varie guise perduta la dominazione di
qualche città.

Non è qui il luogo di descrivere le arti, per cui andava acquistando
preponderanza sull'Italia, del cui dominio erasi lusingato a segno, che
fece preparare un diadema tutto gioje per coronarsene re. Ma una lega degli
altri principi, istigata dalla gelosia dei Visconti, gli ruppe il disegno;
del che egli voleva il maggior male ai signori di Milano, e non cessava di
scalzarne l'autorità. La mossa mal riuscita di Lodrisio fu tutta
maneggio di Mastino: ma fallita quella, perduta anche Padova, conobbe che
non era il caso di usare la forza aperta; e voltosi agli scaltrimenti,
propose patti. Per conchiudere questi era stato da Luchino, siccome
vedemmo, prescelto il Pusterla, sì per allontanarlo dalla moglie, sì
ancora perchè, conoscendo come costui non gli fosse troppo affezionato,
si persuadeva condurrebbe la cosa tanto tiepidamente, da non istringer un
nodo al quale nè egli era inclinato da vero, nè vi credeva inclinato
lo Scaligero, di cui anzi sempre nuove macchinazioni gli venivano
all'orecchio.

Che se Mastino cercava pace, v'era stato indotto anche dalla scomunica
lanciatagli dal papa, perchè, il 27 agosto 1338, esso e Alboino fratel
suo aveano per le vie di Verona, scannato il vescovo Bartolomeo della
Scala, per astio privato, dando poi voce ch'egli tenesse intelligenza coi
Veneziani e i Fiorentini per consegnare in man loro Verona, ed ammazzare i
due signori. Della scomunica ei si risero da principio; ma quando videro le
loro cose andar a fascio, pensarono davvero a torsela di dosso col
sottoporsi a pubblica penitenza.

Grave penitenza, giacchè richiedeva che, per quaranta giorni, portassero
dì e notte il cilizio, andassero scalzi e col cappuccio sugli occhi;
giacessero sul pavimento; non lavarsi, non radersi, non tagliare l'unghie,
non conversare, non accostarsi alla moglie, sedere per terra; sul desco
ignudo non mangiare, nè carni, nè uva, nè cacio, nè pesci; puro
pane e acqua tre giorni la settimana; levarsi al tocco del mattutino,
assistere agli uffici fuor di chiesa, oltre recitare certe orazioni.
Però non appena essi impetrarono perdono, la penitenza fu mitigata; e il
dì che Alpinolo vi giunse fu appunto quello in cui essi Scaligeri
facevano l'ammenda imposta. In camicia, a capo nudo, esso l'incontrò
fuori la porta di Verona, donde fino alla cattedrale andarono con in mano
un doppiere acceso, di sei libbre, e facendone portare innanzi a sè
altri cento somiglianti. Venuti poi alla chiesa (era domenica e tempo di
messa solenne) offersero quei ceri, chiesero perdono ai canonici, e furono
ribenedetti. In aggiunta dovevano, entro sei mesi, offrir a quella chiesa
un'immagine di nostra Donna d'argento e dieci lampade, con una rendita
bastante a tenerle accese: e istituirvi sei cappellanie con venti fiorini
d'entrata ciascuna. L'anniversario dell'uccisione del prelato, ciascuno dei
due peccatori dovea nodrire e vestire ventiquattro poveri: digiunare tutti
i venerdì: se mai si facesse il passaggio in Terrasanta, mandarvi venti
cavalieri, mantenuti per un anno. Il papa di rimpatto, oltre assolverli, li
nominava vicarj, essendo vacante l'impero, contro un annuo tributo di
cinquemila fiorini.

Acconciatosi anche col pontefice, tanto meno si sentiva Mastino la voglia
di accettare i gravi patti proposti dal Visconte. Era dunque mancato il
principale oggetto dell'ambasceria del Pusterla, sebbene riuscisse in una
commissione segretamente affidatagli da Luchino; ed era di ottenere che lo
Scaligero non lasciasse più uscire dai suoi Stati Matteo Visconte,
fratello di Barnabò e di Galeazzo, inviato anch'esso in aspetto di
ambasciatore, ma in fatto perchè a Milano egli dava ombra allo zio.

Fino a servire alle segrete intenzioni ed ai sottofini di Luchino erasi
lasciato indurre il Pusterla dall'ambizione, dal piacere di piacer al
padrone. Ora pensate qual dovesse egli rimanere allorquando Alpinolo, colle
vive tinte somministrategli da un'esagerata immaginazione, a sbalzi, a
scosse gli espose gli osceni tentativi di Luchino. Nessun maggiore dispetto
che sperimentare ingrato colui, per cui vantaggio siasi commesso
un'ingiustizia, un peccato. Lo provava Franciscolo, il quale esacerbato
contro Luchino quanto dianzi trovavasi a lui ben vôlto, scoprendo essere
un nuovo oltraggio quello ch'esso aveva accettato per una riparazione degli
oltraggi antichi, risolse senza più di abbandonare il suo posto e
tornare alla città, pieno di truci pensieri, e della speranza non solo
di ovviare lo scorno, ma di potersene vendicare.



CAPITOLO V.

LA CONGIURA.


--Buon Gesù, che foste anche voi pargoletto, e sin d'allora cominciaste
a soffrire, e crescevate in età e sapienza, soggetto ai vostri genitori,
ed acquistando grazia presso Dio e presso gli uomini, deh vogliate
custodire la mia fanciullezza, fare che io non contamini l'innocenza; e che
le opere mie, conformi al voler vostro, promettano bene di me ai parenti ed
ai cittadini miei.

--Buon Gesù, che tanto bene voleste ai vostri genitori, vi sieno
raccomandati i miei; benediteli, date loro pazienza nei travagli, forza
nell'obbedienza, e la consolazione di veder crescere me quale essi
desiderano nel timor vostro.

--Buon Gesù, che amaste la patria sebbene ingrata, e piangeste
prevedendo i mali che le sovrastavano, guardate pietoso alla mia;
sollevatene i mali; convertite coloro che colle frodi o colla forza la
contristano; alimentatele la fiducia del bene, e fate che io possa divenire
un giorno cittadino probo, onorevole, operoso».

Così faceva ripetere la Margherita al suo Venturino, che le stava
inginocchiato davanti, tenendogli le manine giunte fra le sue mani. Una
madre che insegna pregare al suo figlioletto, è l'imagine più sublime
insieme ed affettuosa che possa figurarsi. Allora la donna, elevata sopra
le cose terrene, somiglia agli angeli che, compagni della vita,
suggeriscono il bene e ritraggono dal peccato. Al bambino poi, coll'idea
della madre, si stampa in cuore la preghiera ch'essa gl'insegnò,
l'invocazione al Padre che è nei cieli.

Giovinetto, allorchè le lusinghe del mondo vogliono avvoltolarlo nelle
voluttà, esso trova il coraggio di resistere, invocando quel Padre che
è nei cieli.

Va tra gli uomini; scontra, la frode sotto al velo della lealtà, illusa
la virtù, beffeggiata la generosità, caldi nemici e tepidi amici;
freme e maledirebbe l'umana razza, ma si ricorda di quel Padre che è nei
cieli.

Se, mai il mondo lo vince, se l'egoismo, la viltà germogliano nell'animo
suo, vive però in fondo al suo cuore una voce amorevolmente austera,
come quella della madre allorchè gl'insegnava la preghiera a quel Padre
che è nei cieli.

Così traversa la vita, poi sul letto dell'agonia, deserto dagli uomini,
non accompagnato che dalle opere sue, volge ancora il pensiero ai giovanili
suoi giorni, a sua madre, e muore con una fiducia serena in quel Padre che
è nei cieli.

E questa preghiera faceva ripetere la Margherita al devoto pargoletto:
indi, spogliatolo ella stessa colle pietose cure che alle madri vere non
sono un peso ma la soavissima delle dolcezze, lo coricava, il baciava, e
coll'effusione della materna compiacenza, gli esclamava sopra,--Tu sarai
buono!»

Non appena giù. Venturino aveva chiuse le pupille a quel caro sonno
della fanciullezza, che in braccio agli angeli si addormenta senza un
pensiero, senza un pensiero si desta.... Beati giorni! i più belli nella
vita:--e non sono avvertiti.

Margherita contemplava l'accelerato anelito del bambino: il vivido
incarnato, che il sonno gli diffondeva sulle guance, la invitò a
baciarlo, e le brillava in volto quell'ineffabile contentezza, che non sa
se non chi rimase assorto nell'osservare chiusi due occhi, che devono
sorridergli amorevoli allo svegliarsi.

Staccatasi da lui, la Margherita si fece nella sala dove stavano quella
sera accolti gli amici più fidati della casa, venuti a salutare il
tornato Francesco. La gioja del rivederlo avea nella donna compensato i
dispiaceri cagionatile, dalla sua lontananza; e fatta come era per sentire
le dolcezze domestiche, le pareva che, al rivedersi dopo qualche tempo di
assenza, dopo un pericolo, nulla dovesse piacer meglio al marito che
starsene quieto colla moglie, col figlioletto, tre vite in una. Ma altri
pensieri bollivano nell'anima di lui, e tutto il dì non sapeva che
ragionar di vendette, e macchinarne.

A Verona non aveva dissimulato a Mastino l'oltraggio nuovo e l'antico
rancore: del che profittando pei fini suoi, lo Scaligero il rinfocò, e
gli promise che, qualunque risoluzione prendesse, non gli verrebbe egli
meno di assistenza e protezione. A Matteo Visconti, per quel che mostrarono
poi i dissolutissimi suoi portamenti, non dovevano fare schifo le
scostumatezze dello zio: ma volenteroso di sommovere lo stagno per
pescarvi, egli aggiunse nuovo ardore alla stizza del Pusterla, e gli diede
lettere per Galeazzo e Barnabò suoi fratelli, dove gli esortava a
ricordare chi erano, e profittare dell'occasione per finirla una volta di
rimanere schiavi, com'egli si esprimeva, ad un prete e ad un manigoldo.

Tornato il Pusterla a Milano nascostamente, nè la bandiera sulla torre
annunziò la venuta sua, nè la solita scolta d'uomini d'arme vegliava
alla porta. Ma poichè tutto il giorno ebbe tempestato là entro, senza
che la donna sua valesse a mitigarlo, abituato alla vita clamorosa, ai
circoli, alla discussione, bisognoso di sempre nuove e forti emozioni,
neppur quella prima sera egli seppe rimanersi tranquillo in famiglia: ma
d'ordine suo, Alpinolo aveva recato l'avviso di sua venuta agli amici coi
quali più si confidava, e questi la sera, un dietro l'altro, per una
portella segreta verso la via segreta dei Piatti entravano a ritrovarlo e
consolarlo.

L'esteriore del palazzo era muto, oscuro, talchè si sarebbe detto
disabitato. Ma non appena Franzino Malcolzato, tristo arnese e fido
portiere, aveva fatto passare gli amici dalla corte rustica in una seconda,
venivano accolti da valletti eleganti in vesti aggheronate a giallo e nero,
i quali, reggendo torcetti di cera, gl'introducevano ad una vasta sala
terrena isolata nel mezzo dell'edifizio, e attorniata dal giardino.
Arazzerie storiate coprivano le pareti; qui e qua scansie, con suvvi vasi e
piatti di majolica a rilievo di frutte colorate, e due ampj finestroni,
aperti a ciascun lato e incortinati di zendali a partite di vaghissimi
colori, davano accesso all'aria della sera, temperando graziosamente la
caldura del giugno. Quivi entro, chi attorno a Franciscolo, chi seduti sui
capaci scanni di velluto, chi presso ad una tavola, su cui avevano gettato
alla rinfusa guanti, mantelli, spade, berretti, discorrevano, narravano,
chiedevano, udivano. Si discernevano dagli altri il bollente Zurione,
fratello del Pusterla, il moderato Maffino da Besozzo, Calzino Torniello da
Novara, Borolo da Castelletto ed altri arrabbiati ghibellini, cui ora
veniva lezzo d'un principe che, per opera loro stabilito, non mostrava di
averli in quel conto che s'erano ripromesso.

Ultimi arrivarono i fratelli Pinalla e Martino Aliprandi, d'origine
monzesi; il primo gran mastro di guerra, l'altro rinomato giurisperito.
Avevano acquistato la grazia del signor Azone coll'aprirgli, nel 1329,
Monza, che poi Martino, essendone podestà, cinse di mura; Pinalla la
difese contro l'imperatore Lodovico il Bavaro, indi a capo dell'esercito
visconteo, campò Bergamo dal re di Boemia; per le quali prodezze, la
pasqua del 1338, era stato in Sant'Ambrogio, armato cavaliere insieme col
nostro Pusterla. In tal occasione fu a spese di questo aperta una corte
bandita, e giuochi d'arme e solennità così sontuose, che a memoria
d'uomo le maggiori non s'erano vedute. Ma da quell'auge era Pinalla scaduto
allorchè, nell'invasione di Lodrisio, posto a difendere l'Adda a
Rivolta, si vide dalle sue truppe vilmente abbandonato, e costretto a
fuggire. Una nuova guerra, in cui vendicarsi della noncuranza di Luchino,
od almeno con audaci imprese e ben riuscite, cancellare quell'onta, era il
suo più vivo anelito.

Tra gente così fatta e in una simile occasione (ben ve lo potete
figurare) tutt'altro che pacati avevano ad essere i ragionamenti, dove
l'idea degli oltraggi che ciascuno aveva ricevuti in privato, dava risalto
ai pubblici guaj. Uscivano dunque in propositi esagerati e violenti contro
i dominatori del loro paese, tanto più franchi, quanto più sapevano
fedele il circolo tra cui versavano.--Oh sì!» esclamava Franciscolo,
allora appunto che la Margherita, coricato il suo bambino, entrava nella
sala.--Cotesti vecchi ci van ricantando i mali del tempo della nostra
libertà; ogni tratto battagliamenti; un continuo doversi esercitare alle
armi tutti, sino i fanciulli: poi ad un tratto suona la _martinella_;
traggono fuori il carroccio, e ognuno, voglia o non voglia, dee vestirsi di
ferro, lasciare gli agi di sua casa, i guadagni del mestiere, correre negli
aspri perigli della zuffa, o negli oscuri dell'agguato; poi ogni altro
giorno rivolte cittadinesche, esigli, diroccamenti, uccisioni... Oh se
avessimo un capo che con mano vigorosa ci frenasse!--Così la
discorrevano cotesti timidi, a cui natura negò sangue generoso o
l'età lo intepidì».

E Zurione interrompendolo:--Codesto è amor di patria! Or mangino di
quello che si son preparato. La libertà finì, non finirono le guerre:
morti, esigli abbondano, e non più pel bene della patria, ma per sodare
costoro nel dominio, per ribadirci da noi le proprie catene. Allora le
guerre le volevamo noi stessi, noi stessi le decretavamo: era il bollore di
un momento, poi si racquetava, e i frutti maturavano a favor di tutti o dei
più. Ora egli solo le comanda a suo talento, per particolari interessi,
e noi bisogna farle: nostra la fatica e sua la gloria».

--Dite bene» esclamava Alpinolo: «Sua la gloria. A chi toccò il
merito della vittoria di Parabiago? chi ne menò trionfo? chi ne
profittò? Han detto: Luchino è valoroso, dunque esaltiamolo
signore.--Sì, ma se non fossimo stati noi...

--Oh perchè (ripigliava Zurione) perchè lo ricoverasti tu dalla forca
a Parabiago?

--Sarebbe stato certo il migliore a lasciarvelo (entrava a dire il dottore
Aliprando): che non si vedrebbero oggi i privilegi dei nobili calpestati,
non messi a fascio i Ghibellini coi più marci Guelfi: non aggravati di
tributo i gran signori come gl'infimi della plebe, non trascurato chi fu...

--E noi si tace!» saltava su Alpinolo con occhi divampanti, e battendo
la palma sulla tavola. «Perchè non possiamo vendicarci? Che? non v'ha
più spade? non hanno più nervi le braccia lombarde? Basta voler
essere liberi e saremo».

Ed alzava uno sguardo alla Margherita, quasi per cercarle in viso
l'approvazione. Margherita era stata dalla prima fanciullezza abituata a
udire in sua casa discutere delle pubbliche cose; onde erasi formato un
modo proprio di vederle, di apprezzarle; e, rispetto a quei tempi di tanto
vivere a comune, il suo favellare di politica non riusciva punto ridicolo,
com'è in altre stagioni l'udire una donna decidere su quistioni, davanti
a cui stanno dubbj gli uomini più saputi: decidere secondo le
impressioni del momento, secondo le massime di chi più le avvicina.
L'educazione datale dal padre suo le insegnava a discernere la ragione
dalle esagerazioni di quegli infuriati, i torti veri dai pregiudizj della
passione. Non potendo però nè calmare l'impeto di loro, nè
insinuare i ragionamenti suoi, tenevasi in disparte, e attaccò discorso
col dottore Aliprando.

Questo, come uom di lettere che egli era, andava fastoso d'avere ottenuto
pel primo in Milano i _Rimedj dell'una e dell'altra fortuna_, dati fuori
allor allora dal Petrarca, e si era fatto premura di recarli quella sera
alla Margherita, sapendola amante delle belle novità. Essa interrogando,
come si fa, il parere di lui, sfogliava il libriccino, fissando così di
corsa gli occhi su questa o su quella carta; allorchè colla bella mano
chiedendo un tratto silenzio, in voce soave, al cui suono tutti si tacquero
attenti, come se nel baccano d'una taverna si ascolti all'improvviso una
dolce melodia di flauto, così favellò:--Udite come ben discorre il
libro che qui il dottore mi favorì. _Li cittadini guardarono come ruina
di nessuno quella ch'era ruina di tutti; onde conviene con pietà e paura
cercare di placar gli animi; se non fai profitto presso gli uomini, pregar
Dio pel ravvedimento dei cittadini._[9]

Intese l'indiretta risposta Alpinolo, e--Se ai cittadini manca l'impeto di
una concorde volontà, un solo uomo che può fare? che non può il
coltello d'un risoluto?...»

Allora l'Aliprando recatosi in mano il libricciuolo, soggiungeva:--Madonna
è come l'ape: non liba dai fiori che il miele. Pure l'ape anch'essa ha
il suo pungiglione per chi la offende; e volete udire quel che il divino
poeta parli altrove? _Avete_ (così leggeva dal libro stesso) _avete il
signore, a quella guisa che la scabbia avete e la tosse. Idee
contraddicenti buono e padrone. Chiamar buono un signore è dir una
lusinghiera bugia e manifesta adulazione. Pessimo egli è, da che toglie
a' suoi concittadini la libertà, che è il massimo dei beni
quaggiù, e per empier la_ _voragine d'un solo insaziabile, rimira a
occhi asciutti migliaja di soffrenti. Sia affabile, sia piacevole, sia
largo in donare a pochi, le spoglie di molti: arti dei tiranni che il vulgo
chiama signori e li prova manigoldi_.

--Bene! Bravo! Ben pensato! ottimamente espresso!» scoppiava d'ogni
parte fra i congregati. E il dottore contento di quell'applauso come se
fosse dato a lui proprio, seguitava:

--Or attendete al più bello: _Come laceri li tuoi fratelli, coi quali
hai passato insieme la puerizia e l'adolescenza, coi quali usaste il
medesimo cielo, i medesimi sagrifizj, i medesimi giochi, le medesime gioje,
i medesimi pianti? Or con che faccia vivi laddove sai che la tua vita è
odiata da tutti e la tua morte a tutti desiderosa?_[10]. Che ne dite? Vi
par egli ravvisar questo ritratto? non è scritto apposta per...

--Per Luchino: chi ne dubita? è tutto lui», ripigliavano a più
insieme, e l'uno commentava, l'altro voleva vedere coi proprj occhi le
parole sacrosante del grande Italiano, dell'Italiano veramente libero,
com'essi chiamavano il Petrarca, senza far caso che egli allora stesse
corteggiando i prelati ad Avignone, che lambisse Luchino, e che, misurando
la bontà dei principi dalla liberalità, chiamasse il vescovo Giovanni
il più grand'uomo d'Italia [11]; adulazione di cui doveva poi
rimproverarlo un altro illustre di quei tempi, Giovanni Boccaccio,
rinfacciandogli di vivere stretto in amicizia col maggiore e pessimo dei
tiranni d'Italia, in Corte piena di strepito e corruzione, come era la
viscontea.[12]

La Margherita, dolce per naturale e pei prudenti consigli paterni,
frapponeva qualche parola per disapprovare gli esagerati spedienti, e
mostrava come il lamentarsi a tal modo di un cattivo reggimento non faccia
che peggiorare quello, ed invelenire i soffrenti: dover piuttosto, chi lo
può, procurare legittimamente di mitigarlo, non mai attizzare fra gli
oppressi un'ira impotente: in caso diverso, altro non restare che o
soffrire in pace o mutare di cielo.--Mio padre (soggiungeva essa) l'ho
inteso più volte replicare: _Ai novatori la pazienza_. Nessuna riforma
può attecchire se non sia radicata nel popolo. E questo popolo non è
come amano figurarselo diversi, nè tutto oro, nè tutto feccia.
Costretto sempre alla fatica, non si abbandona gran fatto ai sentimenti, e
piuttosto calcola i vantaggi immediati. Non ridetevi dei pareri di una
donnicciuola. Io ve li do sull'esperienza di mio padre, il quale aveva
anche in bocca questo proverbio: Il popolo è simile a san Tommaso: vuol
vedere e toccare. Ma voi, come? voi parlate di libertà, e non
interrogate il volere del popolo: di virtù, e pensate cominciare
dall'assassinio?»

--No, no: dite bene», la sosteneva Maffino Besozzo. «Non a sì
estremi partiti si vuol ricorrere. Uccidere un tiranno cos'è mai! domani
la plebe se ne fa un altro. È un direzzolare, e non ispegnere il ragno.
Miglior via conoscevano i padri nostri. La religione stabilì in terra
uno, maggiore dei re, perpetuo custode della giustizia, tutela al debole
contro del prepotente. Quando in lui si aveva fiducia e a lui si ricorreva,
l'innocenza trovava ascolto e la spada dei tiranni perdeva il filo contro
al manto dei papi che copriva l'umanità. Vi ricordi un imperatore, che
scalzo domanda a Gregorio VII perdono delle ingiustizie commesse. Quando il
Barbarossa voleva soffocare la libertà lombarda, chi si fe' capo della
nostra lega? chi impedì che Italia cadesse tutta sotto alla tirannide
sveva? chi represse l'immanissimo tiranno Ezelino? Oggi noi diffidiamo
della potenza inerme, rimettendoci più volentieri a quella delle spade.
Eccovi i frutti».

--Uh! il guelfo ipocrita!--il papista!--il frate!» pronunziavano tra
sè gli altri: ma ragioni da opporre a quei fatti non suggerivano
facilmente, e perciò rifuggivano nel sofisma. E il Pusterla
ripigliava:--Il papa! che sperare da lui? Ligio alla Francia, vuol farsi un
regno in terra, nè più nè meno di tutti costoro. Scampo non v'è
proprio che nel popolo».

--E il popolo (l'interrompeva Martin Aliprando) il popolo non siamo noi?
non è generalmente sentita la gravezza della dominazione dei Visconti?
Perchè dunque non dovrà ogni buon cittadino avvisare al meglio della
patria? Chi sono costoro? donde hanno il potere? donde se non dal popolo? e
il popolo che gli elesse può ritirare da loro l'autorità che ha dato.
Questo popolo però o guaisce oppresso, o tace spauroso. Per farne chiaro
il voto, unico mezzo è la sommossa.

--E le armi?» soggiungeva Pinalla.

--Lo Stato (riprendeva Franciscolo) è cinto da potenti, o gelosi, od
invidi della grandezza di Luchino. Qual più facile cosa che intendersi
con loro? A Verona ho veduto quanto basti. Altro che sollecitare l'amicizia
di costui! Lo Scaligero non vede quell'ora di mostrargli i denti. E il
fatto stesso di Lodrisio attestò che a spegnere il biscione bastava una
banda raccogliticcia. Che sarebbe se fosse un capo creduto dal popolo?

--Lodrisio stesso non si potrebbe trarre dalla sua prigione di San
Colombano?» addimandava Zurione.

Ma Pinalla in tono di dispetto:--O che? non c'è altri che sappia reggere
la spada quanto e meglio di lui?»

--Non c'è (soggiungeva Borolo) altri capi di miglior nome? Bernabò e
Galeazzo son pure in urto collo zio: alzerebbero tosto la bandiera se
fossero certi di trovare seguaci.

--A proposito, che conto si può fare su costoro?» chiedeva il
Pusterla, mezzo indispettito dal non sentire proposto sè stesso.--Io
tengo per essi lettere del loro fratello Matteo: ma non so per quanto
spenderli.

--Spiriti liberi son essi, innamorati del pubblico bene e della
libertà», gridava Alpinolo, facile a supporre in altrui i sensi suoi
proprj. Ma il Besozzo, più esperto e penetrante, replicava:--Della
libertà? Aspettiamo a dirlo quando sederanno in potere. Vedete quando
altri assedia una città? è tutto cura a demolirne le difese, aprir la
breccia, diroccare le mura. Fate che se ne impadronisca; ogni suo studio
sarà di rinfrancare i bastioni, raccomodare, saldar le muraglie. Così
costoro che aspirano alla potenza.

--E per questo (aggiungeva Ottorino Borro) Luchino gli ha in uggia.
Bernabò per altro fa il sornione, e si mostra con noi voglioso di
libertà, con lui spensierato del dominare. Il bel Galeazzino poi se la
passa pompeggiando in comparse, e dividendo con Luchino il talamo
giacchè non può il trono».

Un'ilarità universale destavasi a quello scherzo, di mezzo alla quale
Zurione tornava su:--Ma che mestieri di rivenir sempre a cotesta famiglia,
che Dio perda? Ci hanno bistrattato i loro padri, dunque assumiamo capi i
figli: bell'argomentare davvero! Mancano cittadini generosi e potenti in
città? Manca fuori chi ne darà mano? Qualche nemico si muova, noi lo
assecondiamo...

--E una folla di persone innocenti si precipita sotto le spade per
l'acquisto di un bene che non conoscono, che forse non vogliono, e si trae
sulla patria la guerra, e guasti, e ammazzamenti, e prepotenze, e un esito
incerto, o forse una vittoria, cui unico frutto sia mutar padrone».

Così aveva la Margherita interrotto il cognato, esponendo coll'aria di
calmo convincimento che è proprio della ragione. Ma non è questo il
tono che faccia colpo sopra animi concitati e:--Con queste dottrine di
nulla mai si verrà a capo. Il ben pubblico deve preferirsi al
particolare.--Nessuna impresa più santa che liberar la patria»,
esclamavano gli uni a gara degli altri: e Franciscolo con guizzo di
dispetto proruppe:--Ebbene; si stia colle mani in mano: facciamoci pecore,
perchè il lupo ci mangi: taciamo, e colui conculchi i nostri privilegi,
contamini le nostre donne...»

Appena questa parola gli fu uscita dalla gola, accorgendosi che fitta
dovesse dare alla moglie sua, se ne pentì: ma era detta. Facendosi
appresso a lei la accarezzava, le dava ragione, le ripeteva il titolo di
cui ella mostrava più compiacersi; quello di «mia buona
Margherita»; però quella sua parola era stata accolta con un
bisbiglio di approvazione, e aveva drizzati i discorsi sopra l'insulto
tentato da Luchino, e sopra altre dissolutezze e sue e dei suoi. Chi
ricordava il fatto del Lando di Piacenza: chi quello di Umbertino da
Carrara, il quale, oltraggiato nella moglie da Alberto della Scala, alla
testa di moro che portava per cimiero fece aggiungere corna d'oro, e poco
andò che, per suo maneggio Padova fu tolta agli Scaligeri.--Non è la
prima volta che uno perde una bella città per aver tentato una bella
donna.--Gloria immortale ai liberatori della patria!--Gloria a Bruto ed a'
suoi imitatori!--Oh la libertà! Viva la repubblica! Viva
Sant'Ambrogio!» erano voci che facevano echeggiare la sala; e siccome
allo scaricarsi della bottiglia elettrica, tutti rimangono scossi quelli
che stanno entro la sua atmosfera, così quei Lombardi venivano agitati
tutti dal parlare d'un solo; alla guisa che avviene nelle moltitudini,
l'ardor dell'uno trasfondevasi in tutti; tutti parlavano, ognuno rincalzava
le ragioni dell'altro e ne aggiungeva di proprie; i più seguitavano a
ripetere ciò che essi ed altri già prima avevano detto: era quel
vortice che trascina, quell'ebbrezza che non lascia luogo a peso e misura.
Tanto più allorquando in mezzo all'adunata comparve un moretto, vestito
di bianco alla orientale, con grosse perle agli orecchi, al collo: il
quale, con alzate le braccia al modo di certe anfore antiche, reggeva sopra
il lanoso capo un vassojo d'argento in forma di paniere, nel quale erano
disposti d'ogni sorta rinfreschi e confetture. Insieme un paggio recava una
sottocoppa d'oro cesellato, sulla quale una capacissima tazza, del metallo
istesso e di fino artifizio, entro cui un altro paggio, da una brocca
d'argento, versò vino prelibato. Primo Franciscolo, a cui fu offerto in
ginocchi, l'accostò alle labbra, indi mandò in giro fra gli amici la
coppa che più volte venne ricolma, talchè l'amor di patria fu
riscaldato dal generoso liquore.

--Un brindisi alla libertà di Milano», propose Alpinolo.

--Sia, sia», replicarono tutti, e votando le tazze, gridavano:--Viva
Milano! viva Sant'Ambrogio!»

--E muojano i Visconti» aggiungeva Zurione, e non mancava chi facesse
eco a questa voce, senza che alcuno si levasse, come in tempi da noi poco
lontani il Parini, a correggere quel grido col dire:--Viva la libertà, e
morte a nessuno».

--Già non è cosa da finire così», esclamava il Pusterla. E il
Borro:--Ne va del bene della patria, dell'onore lombardo, della domestica
sicurezza.

--Si, sì: bisogna pensarvi di buon senno;--prendervi su qualche bravo
partito», gridavano a vicenda o insieme i due Aliprandi, il Borolo e gli
altri; indi con quelle potenti strette di mano, con cui pare si voglia
esprimere senza parole quanto valga l'accordo della volontà, si
congedavano, e gettatisi sulle spalle i mantelli, calcatisi i berretti in
capo, se ne andavano un dopo l'altro, promettendosi di tacere, di pensarvi,
di rivedersi.

La Margherita, appena il discorso si volse sopra l'ingrato argomento, che
le rimembrava l'oltraggio ricevuto e il dispiacere di non aver potuto
tenerlo nascosto, lasciò la sala e ritirossi alle domestiche
occupazioni. Se dicessi che affatto le riuscisse disgustoso quell'ardore
non mostrerei conoscere il cuor delle donne, sempre disposto a gradire gli
atti che annunziano generosità, impeto, vigoria di volontà: forse
perchè confidano trovare un appoggio più saldo alla debolezza, che
è, o che noi le persuadiamo essere loro appannaggio. Certo quei nomi di
patria, di libertà, d'eroismo, se v'ha su cui vivamente facciano
impressione, sono le donne; e la Margherita non era di natura dall'altre
differente.

Un sovvertimento civile poi era un'idea abituale di quei tempi di vivi
dispetti, d'immaginose speranze, di cozzanti interessi, quando le lotte,
che oggi vediamo agitarsi sulle tribune e nei giornali, si risolveano nelle
piazze e a colpi di stocchi. Milano singolarmente, negli anni precessi, era
corsa per assidua vicenda di tumulti, tanto da far dire a san Bernardo che
egli non aveva trovato nel mondo gente così facile a rivolgersi e
sconvolgersi quanto il popolo nostro [13]. E quantunque allora le cose
prendessero altro assetto, fino ad avere il Petrarca potuto chiamare i
Milanesi i più miti tra gli uomini[14], però la memoria del passato
era ancor viva e vivrà, come vive e vivrà la ricordanza delle
clamorose imprese di Napoleone, sebben noi non le abbiamo vedute.

Pure v'ha dei discorsi, delle azioni che uno non sa disapprovare e insieme
non vuole sanzionarle colla sua presenza. Tal era questo baccano per
Margherita, la quale però era affatto lontana dal temerne verun danno,
sì perchè i governi d'allora, piuttosto violenti che astuti, non
conosceano l'arte di spargere fra i governanti il sospetto, più
micidiale che la paura, col cingerli di spie e di timor delle spie: sì
ancora perchè quelli radunati da Franciscolo erano persone fidate alla
prova: tanto fidate, che egli non aveva esitato a manifestar loro la sua
onta e la venuta sua a Milano, cose che dovevano per tutti gli altri
restare un mistero. Imperocchè erasi preso accordo, principalmente col
consiglio di fra Buonvicino, che la Margherita col figliuolo seguirebbe lo
sposo, per rimanere con esso nel Veronese, fin a tanto che il tempo recasse
migliori opportunità.

Aveano dunque lesta ogni cosa alla partenza, che era stabilita per la notte
dell'altro domani: ma il domani sta in mano di Dio.



CAPITOLO VI.

UN'IMPRUDENZA.


Quell'adunanza erasi tenuta la sera del 18 giugno 1340: e i più dei
convenuti, col dormirvi sopra, ne avranno dimenticato i discorsi;
probabimente gli avrà dimenticati lo stesso Pusterla.

Ma bollivano per entro la fantasia del giovane Alpinolo, il quale, a forza
di rimestarli, e volgerli, e interpretarli, vi diede corpo; dove non erano
che parole, immaginò fatti: le minacce scambiò per disegni, i
desideri per macchinazioni; e da una parte coll'impeto a lui naturale,
dall'altra colla insana passione di certi pari suoi di tenersi alcunchè
qualvolta si trovino avviluppati in qualche caso di criminale, si credette
depositario del segreto di una trama, la quale potesse, a vedere e non
vedere, dare il tracollo ai presenti tiranni--Certo (egli ragionava tra
sè e sè) il Pusterla intendeva più che non sonassero le parole. Un
uomo di quella levatura vorrebbe nodrire speranze e passare a minacce
quando non si sentisse le spalle al muro? A me non apersero tutta la cosa,
e in ciò li lodo. Qual merito ho io per entrare a parte di trattati, ove
ne va la sorte di tutta la Lombardia? Ma lascia fare; saprò ben io
mostrare quel che vaglio: saprò ben io fare acquisto di loro confidenza
col guadagnare un mondo di proseliti a causa così santa».

Per tale argomento, fu coi suoi più fidati amici, con quelli di più
nerbo e di più cuore, e che in particolare si mostravano sviscerati
della libertà, famelici di cose nuove, invogliati di menar le mani, e
gl'infervorò, ed ingegnossi di diffondere la sua fanatica persuasione,
facendo intendere che si tenessero per avvertiti, che il cielo si caricava,
che il tumore stava per venire a capo. Alcuni l'ascoltarono cupidi e
volentieri, perchè v'è un gran numero, non meno allora d'adesso, ai
quali ogni cambiamento, ogni soqquadro suona fortuna o miglioramento; altri
si stringevano nelle spalle dicendo,--Se saranno rose fioriranno». Vi fu
chi lo trattò da delirante o millantatore, quasi o sognasse, o volesse
farsi tenere un pezzo grosso; e costoro riuscivano i più funesti;
giacchè, piccato dall'incredulità o dall'insulto, smaniavasi a due
braccia per acquistar fede alle sue parole; e tra il fervore della sua
disputa, lasciavasi uscire il nome del Pusterla e degli Aliprandi e del
signor Galeazzino e di Bernabò, e del terzo e del quarto, che parte ci
avevano mano, parte, al modo suo di ragionare, doveano avervela
indubbiamente. Così il secreto suo, secreto d'un affare che era, si
può dire, tutto nella sua immaginativa, divenne il segreto di molti
giovinotti di poco cervello e di molta lingua, che lo propagarono ciascuno
nel circolo de' suoi amici: sempre, come avviene al passar di bocca in
bocca, dando per assoluto il probabile, per certo l'accennato; e ciascuno,
per dimenticanza, per vanità, per millanteria aggiungendovi qualche cosa
del suo.

Ad Alpinolo poi bastava che uno gli gettasse gli occhi addosso per
comprendere come un vivo pensiero l'agitava dentro. Che, a furia di
ripetere una falsità, alcuno finisca a persuaderla a sè stesso, non
è osservazione nuova. D'altra parte Alpinolo, se la congiura non v'era,
egli stesso l'aveva fatta davvero; aveva parlottato, aveva concertato tutto
un dì, e col discorrerne rinfocata la passione e la persuasione, aveva
ai suoi amici stretta la mano in segno di dire:--Ci rivedremo; faremo;
diremo»; con alcuni avea giurato odio ai Visconti e morte ai tiranni,
per Dio, per la sua porzione di paradiso; aveva forbito le armi sue,
calcolato su quelle degli amici, sulle più che stavano nelle botteghe.

Galvano Fiamma, allora professore di teologia nei Domenicani a
Sant'Eustorgio, poi capellano e cancelliere di Giovanni Visconti, nella sua
Storia Milanese ci lasciò memoria come qui si contassero ben cento
fabbriche d'armi, oltre i lavorieri subalterni di ferrareccia; in cui si
occupavano da diecimila persone; se ne facevano, soggiunge egli, di
lustranti come specchi, le quali spedivansi fino a' Tartari e Saracini. Per
potere esser meglio sopravvegliate dai loro abbati e consoli, e da chi
doveva far osservare le minute prammatiche, credute necessario al buon
andamento, le varie arti stavano distribuite in appositi quartieri, come
accennano i nomi tuttora conservati alle vie degli Orefici, dei Mercanti
d'Oro, dei Fustagnari: e in quelle che oggi pure diciamo degli Armorari,
degli Spadari, degli Speronari, aprivano le botteghe e le fucine tutti gli
armajuoli.

Su e giù per queste vie, non vi saprei contare quante volte
passeggiasse, o dirò più giusto, camminasse Alpinolo, occhieggiando
per entro, e facendo il computo di quanti uomini se ne potrebbero guarnire.
Da per tutto era un picchiar di martelli, uno stridere di lime, un soffiar
di mantici, un cigolare di mole d'arrotini, un friggere di ferri roventi
tuffati nell'acqua o nell'olio; e fra ciò un bociar di padroni, un
fischiare e canticchiar degli opranti; suono che ad Alpinolo facea miglior
sentire, che non l'accordo di scelta orchestra ad una fanciulla di quindici
anni, condotta la prima volta ad un festino. Al vedere poi dentro e di
fuori appiccate agli arpioni alla rinfusa, o disposte a guisa di trofei,
ronche, partigiane, daghe, stocchi, palosci, balestre, spadoni a due mani,
zagaglie, corazze di lamina, di maglie, di squame, buffe, morioni, e scudi
rotondi, a cuore, a doccia, di frassino, di cuojo, di metallo, ne veniva al
giovane un sollucheramento, quale ad un avaro in contemplando mucchi di
zecchini in bisca; o più innocentemente ad un letterato, allorchè
traversa per una via dove siano libri di qua, libri di là e in fantasia
li compra, li legge, li studia, li adopera per far altri libri e
immortalarsi.

In alcune di quelle ferrarie entrava Alpinolo, e domandava quanto potesse
comprarsi un petto, quanto una cervelliera, quanto valesse un uomo arnesato
a piastra e maglia dal cimiero agli sproni: non comprava nulla, ma lasciava
intendere così in nube, che potrebbero venir a taglio e presto. I fabbri
l'ascoltavano e rispondevano:--Magari! Già noi braccianti, che cosa si
desidera? non già che ci diano i quattrini a ufo, ma che ce li facciano
guadagnare»; nè interrompevano il lavorìo per la ciarla.

Singolarmente sulla cantonata degli Spadari, per voltare dove allora era
l'unico forno del pan bianco, famoso sotto il nome di _prestiti della
Rosa_, e dove stette fino ai dì nostri un'effigie di sant'Ambrogio, cui
toccò, tempo fa, di andare prigione per aver voluto fare un miracolo che
ai Giacobini non garbava, stava casa e bottega un tale Malfiglioccio della
Cochirola, il cui padre lavorando s'era acquistato assai credito e dei
buoni denari. Il Malfiglioccio subentratogli, argomentando che, se il padre
suo avea fatto bene, anche egli dovea continuare sulle orme di esso senza
scattare d'un pelo, si guardò bene dal voler ammettere nella sua fucina
nessuno dei miglioramenti che, secondo va il tempo e la pratica, aveano gli
altri introdotto; anzi li derideva come novità, bizzarrie della moda,
che domani cascherebbero.

--Sempre s'è fatto così (diceva) e di ragione la sapevano più
lunga i padri nostri, i quali tornavano già di scuola quando codesti
guastamestieri non vi andavano ancora». Che ne avvenne? il solito
effetto. Le sue pratiche si sviarono, e mentre cresceva il da fare agli
altri, a lui non capitava più che da raccomodare qualche vecchia
armadura di qualche ambrosiano tagliato all'antica, e delle antiche usanze
tenace.

Alpinolo, vedendolo stare soletto in bottega a tirar con pace il mantice, e
con pace rivoltare un ferro nei carboni, non temendo scioperarlo,
attaccò più lungo discorso con esso, e lamentate le miserie dei
tempi, gli accennò che potrebbero anche mutarsi.

--Così fosse!» sospirava Malfiglioccio. «Vi so dire che non si
guadagna neppur l'acqua da lavare le mani. Chi ha famiglia bisogna stia a
stecchetto, e rosichi pan e pane: e la è bazza quando la festa possiamo
fare il miglio in vino. Uh, a rispetto di tempo fa! di quando la buon'anima
di mio padre era abbate della nostra maestranza! Che lavorare! che
coccagna! I fiorini fioccavano a casa nostra. Qua un palvese, là una
manopola, poi un frontale, poi schinieri: tre soprastanti e cinquanta
garzoni noi si aveva a servigio, e avessero avuto cento braccia, per tutti
v'era da lavorare accaniti notte e dì, che appena se avanzava tempo da
mangiare un boccone strozzato. Ora tutto pace, tutt'acque morte; pare non
si sentano più sangue nelle vene. Questi frati non sanno se non predicar
pace. Cosa credono, che Domeneddio ci abbia fatto le braccia per tenerle
spenzolone? Se la dura di questo piede, si può chiuder bottega e metter
baracca di ferravecchio.

--Vi piacerebbe dunque che tornassero quei tempi?» domandava Alpinolo.

--Se mi piacerebbe! Darei la metà del poco che ho per vedere ancora una
brava guerra. E ce n'ha di molti, sapete, in un Milano, ce n'ha di molti
cui pizzicano le mani. E, viva Dio, la guerra a chi non piacerebbe? Là
si vede quel che un uomo vale: si acquista onore, si acquistano stipendj;
un po' si guadagna, un po' si ruba, e tutto il mondo ne ha».

Alpinolo, straccontento d'aver anche il voto degli artigiani,--Ebbene
(soggiungeva) state di buon cuore: il rimedio non è lontano. Mettete
ordine ai ferri del vostro mestiere, che avrete a lavorare di buon polso:
ve lo prometto.

--Sì? davvero? (insisteva l'armajuolo). Bene! Il mio negozio godette
sempre credito assai, e non v'è arma colla lupa che regga al paragone
delle mie. E quanto ai prezzi, cortesia con tutti, e più con voi che
siete degli avventori».

Indi salutando Alpinolo che partiva, e ripetendogli,--Mi raccomando»,
gli faceva di berretta, poi mettevasi a sportello colle mani in mano a
disapprovare le novità, e masticarsi le speranze.

Non mi sarei arrischiato di degradare la dignità della storia con queste
trivialità, se fossero state per Alpinolo nulla più di quel che siano
per la maggior parte un mezzo di incantare la noja che strascinano da un
conoscente all'altro. Per esso al contrario erano un interrogare il
pubblico voto; erano nuovi fili di speranze, dietro ai quali più sempre
certo si rendeva che la cospirazione esistesse, che stava per sovvertirsi
da capo a fondo lo Stato.

Nei quali sogni pensate come egli mescolasse le affezioni sue private!
Abbatter quel giudice e surrogargli quell'altro: a quel podestà tutto
Visconti serbare la fine di Beno dei Gozzadini, cioè trascinarlo per la
città, poi buttarlo nel canale; Luchino, quel maledetto Luchino,
metterlo a brani, e al posto suo collocare (già ve lo immaginate)
collocare il Pusterla e quell'angelo della Margherita. Allora, giustizia in
ogni cosa; non più tributi, non più impacci; allora i buoni in alto e
i malvagi sotto; allora... Che bei tempi! che viver d'oro! quante nuove
glorie! quanta universale felicità!

Caldo, briaco di questi pensieri, e già parendogli trovarsi al fatto,
Alpinolo entrò nel Broletto Nuovo, quello che oggi chiamiamo Piazza dei
Mercanti. Credo che molti al pari di me si saranno fermati delle mezz'ore a
contemplare, in quel grandioso edifizio, la mescolanza degli stili, e a
leggere disegnata in essi la storia delle arti e delle variate dominazioni
di questa città. Siffatta mescolanza per altro non si vedeva quando
Alpinolo vi capitò.

Poichè il coraggio di spendere, e l'attività del fabbricare non son
nate da jeri nei Milanesi, avevano essi coll'animosa lautezza che dava la
libertà, comperato le case e l'area di quel centro della città, per
radunarvi i principali uffizj; e nel 1228 fecero la piazza quadrata, con
cinque porte, alle quali dai quartieri principali capitavano cinque vie
acciottolate, una dal Duomo, una da Porta Nuova, una dalla Comasina, una
dalla Vercellina; l'ultima usciva verso gli Orefici, e chiamavasi delle
Carceri, perchè colà appunto erano le carceri dette _Malastalla_, ove
si chiudevano i debitori fraudolenti e i giovani indisciplinati; ottimo
rimedio per spegnere i debiti di quelli e rimettere a questi il senno in
capo. Nel bel mezzo di quella piazza, essendo podestà quell'Oldrado de
Grassi da Tresseno, il quale, pel suo zelo nel bruciare gli Eretici si
meritò una statua a cavallo che ancora si vede colà incastrata nel
muro, si eresse nel 1233 dalle fondamenta il palazzo della Ragione, nella
cui parte superiore stava una capacissima sala pei tribunali, e nella
inferiore, fra triplice corso di sette archi, uno spazzo coperto, qual si
conveniva ai comodi del popolo in tempo che a popolo si governava la
città.

Tutt'in giro erano fabbriche, con archi, colonne e porticali, ove potere i
negozianti ripararsi dal mal tempo, e donde si aveva accesso alle varie
magistrature. Quivi, attigua al palazzo della Ragione, avea casa il
podestà, colle carceri: quivi, il palazzo di città, segnato di fuori
colla croce rossa in campo bianco, ornata di palme ed ulivi, per far
intendere che Milano era glorioso non meno in pace che in guerra; e dentro
il quale sedevano i padri della patria a deliberare il meglio, cioè
quello che i forti comandavano o che insinuavano gli scaltriti; quivi era
il collegio dei nobili giureconsulti, che portavano un vestone di porpora,
coi cappucci e i baveri foderati di vajo; quivi il collegio dei notari e
dei fisici, gente che impinguava sui morbi corporei e sui morali della
povera umanità: quivi ancora l'uffizio del Panigarola, ove i mercadanti,
colla solita sincerità, notificavano tutte le vendite e i contratti, ed
ove si conservavano ricavate nel sasso, le precise misure dello stajo,
delle tegole, dei mattoni, per risolvere le differenze, ed inoltre una
rozza pietra, la quale si faceva, come diceano, acculacciare dai mercanti
che _rompessero il banco_, cioè fallissero di pagare, se col sacco o per
mera disgrazia i giudici non guardavano poi tanto pel sottile. Quivi pure
Azone Visconti aveva, nel 1336, eretta la badia dei mercanti, con banchieri
e cambiatori là dove ora è l'uffizio dei telegrafi, e di rimpetto la
badia dei mercanti d'oro, d'argento, di seta: quivi i tribunali civili, ove
salivasi per una scala, presso cui è ancora esposta al pubblico una
lapide, la quale insegna come dal litigare nascono inimicizie, si getti
denaro, si turbi l'animo, si sciupi il corpo, si lasci l'onesto per
l'inonesto, non s'ingrassino che i procuratori; quei che sperano rimangono
con un pugno di mosche, e quando pure riescano, al tirar delle tende si
trovano avere, in spese e in mangerie legali, buttato tanto o più che
l'acquistato.

Così la lapide: ma le cronache soggiungono che pochi facessero pro
dell'avvertimento, perchè quelli che andavano colà a muover liti
aveano sugli occhi una benda postavi dall'amor proprio, sicchè da una
parte si davano a intendere d'aver ciascuno la ragione dalla sua,
dall'altra credevano che al mondo vi fosse giustizia. Noi però, meno
maliziosi delle cronache, pensiamo che al consiglio non si desse nè si
dia ascolto, perchè scritto con caratteri gotici e in latino.

Questo pezzo d'anticaglia è dei pochi scampati a quella, per non dir
altro, benedetta smania di rinnovare:[15] mercè la quale, della badia
dei mercanti più non rimane vestigio; il portico del collegio dei
dottori e dei fisici fu ridotto a più recente architettura, ed abbellito
il campanile che a mezzo di quelli era stato eretto nel 1272 da Napoleone
della Torre per dar i tocchi al mezzodì, alle due di sera, e quando
alcuno veniva condotto al supplizio: il palazzo della Ragione convertito in
archivio è chiuso e intonacato, sicchè a pena disotto a un erto
strato di calcina si discerne la forma delle antiche arcate, come un
pensiero maschio di sotto all'inviluppo d'un parlare artifizioso e
cortigiano. Anche le logge sono abbattute, ma per fortuna non potè, nel
Seicento, venir condotta a termine la fabbrica delle Scuole Palatine verso
gli Orefici, onde sussiste ancora parte della loggia degli Osj, cominciata
nel 1316 da Matteo Magno.

Questo edifizio era rivestito di lastre di marmo bianco e nero, diviso in
due porticati di cinque archi, un sovra l'altro: nei parapetti superiori si
vedono ancora scolpiti in altrettanti scudi le arme delle sei primarie
regioni della città: e ne aggetta un pulpito, sulla cui spalletta
un'aquila tiene fra gli artigli una scrofa, per segno dell'alto dominio
dell'Impero sopra questa città, che, come sanno i ragazzi, deriva il suo
nome dalla scrofa lanosa. Su quel pulpito, che il vulgo chiamava _parlera_,
comparivano il podestà o i consoli ad annunziare al popolo convocato i
bandi e le leggi ed a sentirne il parere; ora vi stanno sotto venditori di
fusi e rocche a travagliare, e guardar la sentinella tedesca, che
placidamente passeggia innanzi e indietro dei cannoni.

So bene che a coloro, ai quali piace veder le cose vecchie senza i moderni
guasti, chiamati miglioramenti, gradirebbe non poco che, anche a costo
della comodità, si fossero le fabbriche lasciate nell'antico assetto.
Benchè tali allora durassero, potete ben credere che Alpinolo neppur
d'un'occhiata le degnò, fissando invece la moltitudine ivi congregata di
gente serva, e che, al dir suo, fra pochi giorni tornerebbe libera,
magnanima, costumata:--fra pochi giorni.

Delle due piazze laterali, quella dov'è l'antico pozzo e la campana del
Comune serviva ai mercanti che trattavano di cambj e di traffici; l'altra
pel grano e il vino; era vietato, pena dieci soldi di terzoli, ingombrare
con panche e con altro le volte, come pure a male donne e ai loro mezzani
d'entrarvi, acciocchè a miglior agio vi potessero piazzeggiare i
negozianti e i gentilomini, pei quali erano anche disposte pancacce da
sedersi, e stanghe e traverse _per potergli ponere sopra,_ dice il Corio,
_falconi, astori et suoi sparvieri o altri uccelli, al piacer et
comodità di qualunque volea._

Stavano dunque colà chi cavillando un soldo, chi discorrendo di
novità, chi asolando scioperato, e lodando e confrontando i falchi di
Norvegia, d'Irlanda, di Danimarca; mentre alcuni ripetevano i miracoli,
onde in quei due ultimi anni aveva cominciato a rendersi famosa la Madonna
di San Celso, e così quelle di San Satiro, di San Simpliciano, di
Sant'Ambrogio; altri stavano intenti ad un pellegrino che, col bordone e il
sarrocchetto, montato sopra un tavolette, raccontava la meravigliosa storia
di Paolozzo da Rimini, che in Venezia viveva molte quaresime senz'altro che
bevere acqua calda, e che essendo dagli inquisitori tenuto prigione, non
fece che confermare la verità del portento: o ad un cantimbanco, che
sopra un cartellone segnava una folla di figure che chiamava uomini, e che
spiegava essere le venticinquemila persone che, il 27 marzo passato, si
erano raccolte a Corrigisior sul Cremonese, scalze e seminude,
flagellandosi a sangue e facendo limosine, dirette da una bellissima
giovane, avuta in concetto di santa; finchè scoperto che era raggirata
da un mal arnese, la fu condannata al fuoco.

Chi s'immaginasse una festa da ballo, numerosa, allegra ove ciascuno pensa
allo spasso, alla festività, allo spettacolo del momento: e in mezzo a
quella folla un uomo, il quale ha disposto una mina, cui fra un momento
vuol dare il volo e mandare in aria il festino, i sonatori, i danzanti, gli
spettatori, potrebbe aver un'idea di ciò che sentisse Alpinolo in mezzo
a quella turba. Sotto ai portici ove stanno coloro che rivendono usati i
nostri libri, dopo che se ne annojarono coloro che o li comprarono nuovi a
bottega, o gli ebbero per attestazione dell'ossequio e dell'amicizia degli
autori, passeggiava bravamente Alpinolo, misurando e pesando coll'occhio
quanti incontrava, come per dire--Tu sei con me, tu sei contro me».

Ed ecco, mal per lui, capitargli fra' piedi Menclozzo Basabelletta, quel
desso, se vi ricorda, il quale un giorno lo proverbiò su le visite che
la signora Pusterla riceveva da Luchino, e n'ebbe da Alpinolo quell'iroso
rabbuffo. Al vederlo sentì questi risuscitar in cuore tutto il dispetto
che aveva allora provato, aggiunta la vergogna che provò dappoi, quando,
in apparenza almeno, lo trovò veritiero. E gli parve che uno sguardo
maligno, un maligno sorriso del Basabelletta volessero dirgli:--Non avevo
io ragione allora?» Accostatolo dunque siccome per rispondere a lingua
al rimprovero che si credeva diretto a occhi,--Ebbene? (gli disse) con
quanto ingiusti denti avevi allora morso la signora Margherita.

--Eh! tu il devi sapere meglio di me», riprese l'altro con fredda
ironia.

Ed Alpinolo, frenando a stento la rabbia,--Guarda! vorrei cacciarti in gola
codesti insulti a furia di sergozzoni, se non sovrastasse il momento, che
tu stesso hai da veder chiaro più che per le mie parole.

--Bravo ragazzo! (ripigliava il Basabelletta) ora profitti nel viver del
mondo. Bada a me: prometti sempre sulle generali; altrimenti col venire a
precise particolarità, ti toccherebbe poi a trovarti di nuovo smentito,
e deriso dei tuoi millanti.

«--Eh no!» replicava Alpinolo, sempre più infervorandosi.--Non
sono millanti: derisioni non temo: ti so dire che questa condizione di cose
tentenna: che costoro hanno a regnarci per poco.»

E il Basabelletta:--Ci regneranno, perchè il diavolo ajuta i suoi e
perchè son troppi quelli che sanno cianciare come te, e poi all'opera
non valgono la metà di quel che mostrano a parole».

Considerate se Alpinolo sentisse pizzicarsi le dita! ma parendogli in
quelle espressioni ravvisare uno, su cui fare fondamento per l'ideata
rivoluzione, mandò giù, e stringendogli convulsivamente la mano, il
trasse verso un canto ove fosse men gente, e guardandosi intorno e
abbassato la voce,--Quel che è stato è stato (gli diceva): ma
poichè tu pensi diritto, sappi che le ciancie prenderanno corpo, che le
speranze non sono in aria questa volta: che dove il popolo tutto è
malcontento, dove il principe esecrato, basta una favilla a destare un
incendio maledetto. E la favilla, ti assicuro, v'è già chi batte la
pietra per suscitarla.

--Sai che?» ripigliava il Menclozzo.--Si vorrebbe che men pieghevoli
avessero le schiene cotesti nobili; men ligi al padrone fossero e più
amorosi alla plebe. Credilo: gli uomini sono come le nespole: per maturare
vogliono la paglia. Sulla paglia dei casolari troveresti ancora dei cuori
generosi: ma mentre il popolo s'invigorisce sulle glebe e nelle officine, i
ricchi si smaschiano in giuochi e tornei, a caccie, a balli, a far
tavolacci, e a cercar gloria nell'ostentare codardia alla Corte. I nostri
buoni vecchi era loro vanto il sostenere la plebe nella Credenza di
sant'Ambrogio, francheggiarne i diritti contro chi voleva soperchiarla...
Ma il mondo invecchia peggiorando e di quella santa razza più neppur uno
ce n'è: neppur uno.

--E tu sempre (così soggiungeva Alpinolo, sentendosi brillar dentro il
cuore a quel parlare), sempre tu pigli san Michele pel diavolo. La razza
dei buoni vive, ed io la conosco; e pensano al popolo più che tu non
credi, e se l'intendono, e frappoco... e sapranno rendere giustizia a chi
sente come te generosamente. Credimi e spera.

--Ch'io speri? Da senno me ne dà cagione il veder anche quelli che meno
dovrebbero lasciarsi pigliar per la gola. Il tuo Pusterla per uno. Che non
otterrebbe se egli stesse con noi? Invece, appena Luchino gli gettò
quell'osso dell'ambasceria, accomodò l'anima alla servitù, e fatto
dolce come un miele, se la campa a Verona senza un pensiero nè di sè,
nè della patria, nè di qualche altra cosa che gli stringe più
sulla pelle.

--Sta colà, non ci pensa eh!» saltò Alpinòlo tutto fuoco. Or
--sappi invece... ma stia in te, sappi che il mio signore non è
--altrimenti a Verona: se v'andò fu solo per intendersela con Mastino;
--ed ora è qui in Milano, in petto ed in persona: e... Insomma, ti
--basta? sei ora convinto?

--Belle fandonie!» esclamava ridendo il Menclozzo--Povero ragazzo! tu
sei buono, e ti fanno bevere grosso. Qualche servitore te l'avrà dato a
intendere: forse qualcuno avrà cantato per farti cantare...

--A chi farla bere?» interrompeva Alpinolo, rosso come bragia.--Ma per
chi m'hai tolto? Non ho io a credere a questo par d'occhi? Sappi dunque che
jer sera, in casa i Pusterla, io persona prima, ho parlato con lui, con
Zurione, con una mano di persone tutte di primo conto, e han detto quel che
basta: e già dispongono: e non s'andrà all'altro sabbato a pagar le
partite...» e seguitò via contando tra quel ch'era vero, e quel
ch'egli si era immaginato. Ma l'altro, o incredulo davvero, o per
quell'umore suo di contraddizione,--Va là, va là (replicava); c'è
chi lo terrà indietro: e quell'acqua cheta della signora Margherita...

--Chi? Margherita? che celii?» continuò l'improvvido.--Essa non vede
anzi quella sant'ora di nettar il paese da queste sozzure. Ella ci narrò
la storia di Galvagno Visconti suo antenato, il quale, al tempo del
Barbarossa, andava attorno vestito da buffone, colla cerbottana in mano,
fingendo strologare: e intanto macchinava, e conduceva maneggi per la
liberazione della patria. Ha fino soggiunto: «Allora i savj facean da
matti; oggi i matti si credono troppo savj.»

Qui è da sapere che, fosse arte o piuttosto accidente, gli archi del
portico, sotto al quale discorrevano Alpinòlo e il Menclozzo, sono
combinati in maniera da produrre il fenomeno delle così dette _sale
parlanti_; fenomeno che alcuno de' miei lettori avrà potuto osservare in
san Paolo di Londra, nella galleria di Glocester, nella cattedrale di
Girgenti, e più vicino, nel palazzo ducale di Piacenza, nella sala dei
Giganti a Mantova, e fin in una volta del parco di Monza. Consiste in
ciò, che uomo non può dire paroluzza sì cheta presso ad uno dei
quattro angoli estremi di esso portico, che non sia inteso da chi si
collochi al pilone diagonalmente opposto all'arco. I fisici ne diano la non
difficile spiegazione; la storia nostra si contenta di dire che v'era chi
ne traeva profitto. Queto come non fosse fatto suo, mentre i due
disputavano, gli ascoltava a quel modo Ramengo da Casale, di cui più di
una volta ci occorse di far menzione. Adulatore di Luchino, come abbiam
detto, però sapeva anguillare in modo da non inimicarsi i nemici di
questo; blande erano le sue parole, ambigui i fatti: mai non sarebbesi
posto colle une e cogli altri in manifesta contraddizione con veruna parte,
cercando anzi andare a versi a tutti, e riusciva ad illudere molti. Fra
quei molti che non penetravano entro la scellerata anima di Ramengo, era
Alpinolo, al quale la cieca persuasione della bontà di sua causa faceva
credere che ogni uomo dovesse parteggiare colle sue opinioni. Quindi nè
ombra di sospetto gli nacque allora quando Ramengo, come lo vide scostarsi
dal Menclozzo, se gli avvicinò, ed avendo già inteso quanto bastasse
per iscalzarne il resto,--Imprudente! (gli disse) tu parlavi or ora col
Menclozzo... gli avresti mai detto!...» e ammicava con aria
d'intelligenza.--Sei ben certo ch'egli sia dei nostri? Non t'ha dato
Franciscolo il segno per riconoscerci?

--No», rispose Alpinolo.

E l'altro continuava:--A me l'ha dato Zurione, e non credo aver buttato il
giorno invano, ma spero con maggiore prudenza di te. Tu a chi n'hai
parlato?»

Qui Alpinolo nominò parecchi di coloro cui n'avea fatto motto, e degli
altri cui volea farlo: e Ramengo, che non ne perdeva parola, gli
chiese:--Ma non ti sei tu inteso con Galeazzo e Bernabò?

--Non io: ma l'avranno fatto gli altri che c'erano jer sera.

--Eh! non so chi tra loro abbia con essi bastante entratura, o chi voglia
avventarsi a corpo perduto come te e me.

--Come? dite poco? (seguitava l'imprudente). I due Liprandi non son tutta
cosa con loro? dove trovar gente più animosa che il Besozzo e quel da
Castelletto?

--Milanesi! (esclamava l'altro scotendo il capo). Buona gente; di cuore; ma
per darsi moto, per voler risolutamente, è inutile, bisogna ricorrere a
quei di provincia.

--E per questo (seguitava il garzone) v'è il Torniello da Novara: e
stamattina l'ho già veduto parlare con...

Così rinvesciava e ciò che sapeva, e ciò che immaginavasi; ed
esponeva come fatti veri e successi quei che erano sogni di sua fantasia.
Poi, contento di aver conosciuto un nuovo apostolo, abbracciatolo con un
movimento generoso e cordiale, voltava via per cercarne altri, mentre
Ramengo si difilava al palazzo, e faceva dire al Signor Luchino d'avere a
comunicargli cosa della più grave urgenza. Luchino comandava che
entrasse.

Ma gli è tempo che diamo a conoscere ai nostri lettori questo malnato.

Ramengo era detto da Casale appunto dal luogo donde nasceva nel Monferrato,
e donde, bambino in fasce, era stato portato via nel 1209, quando quella
terra si era ribellata a Matteo Visconti per darsi a Giovanni marchese di
Monferrato ed ai Pavesi. Il padre di lui, soldato di ventura, senz'altra
ricchezza che la spada, era venuto a Milano a procacciare sua ventura al
soldo dei Visconti. Morto poi nelle battaglie, sulla stessa via lo avea
seguito Ramengo, siccome l'unica nella quale sperasse acquistar nome e
ricchezze, e contentare l'avara ambizione che lo struggeva. Nè il
sollevarsi era difficile cosa in quei tempi agitati, quando Dante si
lamentava che diventasse un Marcello ogni villano, il quale venisse
parteggiando. Che se ognuno non avesse in pronto esempj di subite fortune,
potrei ricordare Giovanni Visconte da Oleggio, povero fanciullo, raccolto
di quei di appunto dai Visconti, e messo chierichetto in Duomo, poi fatto
cimiliarca, poi podestà di Novara, poi generale di tutte le armi di
Luchino, e suo logotenente e capitano per tutto il Piemonte: ovvero la
bizzarra storia di Pietro Tremacoldo, detto il vecchio, mugnajo lodigiano,
che divenuto famiglio dei Vestarini che colà dominavano, ottenuta da
essi in custodia una porta della città, una bella notte v'introdusse
certi suoi assoldati, levò Lodi a rumore, prese i Vestarini, e chiusi in
un _vestaro_, come il vulgo chiama l'armadio, ve li fece morir di fame,
proclamando sè stesso signore di Lodi.

--Se questi e quelli, perchè non anch'io?» diceva Ramengo tra il suo
cuore, ogni qualvolta udisse tali o siffatti racconti: e poichè si
sentiva incapace di salire con arti buone, disponevasi a quelle qualunque
fossero che il potessero giovare, adulazioni, viltà, tradimenti.

I Pusterla, che avevano lauti poderi nel Monferrato, ed erano per alcun
tempo stati feudatarj di Asti, aveano tolto in protezione il padre di
Ramengo, acquistandogli credito e posto nelle milizie. Ma persone, la cui
vista rammenti il dovere di una gratitudine che non si ha, divengono
esecrate al malvagio. Ramengo, cresciuto con cuor tristo, se al mondo un
n'era, uno di quei cuori per cui è necessità l'odiare, abborriva
svisceratamente la famiglia Pusterla, perchè n'era stato beneficato; ma
avendone tratti molti vantaggi, e molti altri sperandone, dissimulava; e
fattasi una fronte inesplorabile, mostravasi coi Pusterla devoto sino alla
viltà e piaggiatore, mentre con inquieta scontentezza procurava alzarsi
sulle loro rovine.

Ruppesi intanto la guerra fra Ghibellini e Guelfi, e il papa, scomunicato
Matteo Visconti, mandò l'esercito a sostenere gli anatemi, tanto che
Matteo, atterritone, rinunziò il potere a Galeazzo suo figliuolo; e
datosi a vita devota, morì poi nella canonica di Crescenzago. Allora
Galeazzo spinse vivamente le ostilità; e fattosi confermare signore di
Milano, chiese sussidj a tutte le città vicine. E poichè i Guelfi
fautori dei Torriani, guidati da Simone Crivelli, da Francesco di
Garbagnate e dal cardinal legato, tentavano passare l'Adda per entrare su
quello di Milano, tutto al lungo di quel fiume dispose corpi
d'osservazione, e rinforzò le rôcche. A Trezzo stava quel Marco
Visconti di cui un amico mio sì bene vi espose le bravure e i patimenti:
il castello di Brivio, un forte eretto a Olginate e la rocchetta di Lecco
erano governati dal padre di Franciscolo Pusterla: il quale, volendo che
suo figlio facesse il noviziato delle armi, gli affidò quest'ultima,
ponendogli però ad ajutante Ramengo. Ciò avveniva nel 1322.

Lecco in quel tempo era poco meglio che un mucchio di rovine. Imperocchè
essendosi esso ammutinato contro i Visconti nel luglio del 1296, Giavazzo
Salimbene podestà di Milano, coi collaterali del capitano e tutti gli
stipendiati della repubblica, cavalcò a Merate, e quivi congregati molti
fanti della Martesana, mosse sopra Lecco, ne levò dugencinquanta
ostaggi, che spedì a Milano, poi ordinò che fra tre giorni tutti i
terrieri uscissero dal luogo, e a Valmadrera si collocassero colle loro
robe a cielo scoperto, e guai a chi si movesse. Infelici! dovettero
obbedire, e di là dal lago videro bruciare la patria loro, non
conservata che la rocchetta per tenerli in soggezione; poi intesero
pubblicarsi un bando, che mai più quel borgo non fosse rifabbricato.

Simili vendette erano a tutt'altro opportune che a far amare il dominio: e
in quelle parti più sempre si infervorò l'animosità contro dei
Visconti, alimentata dalla intelligenza che manteneano colà i Torriani,
oriondi della vicina Valsassina. E sebbene le replicate vittorie dei
Visconti avessero fiaccato la potenza di questi, ogni qualvolta però
riuscissero a sollevare il capo, i Torriani trovavano appoggio in questi
terrieri. Devotissimi a loro v'erano i Ticozzi, i Manzoni, gli Invernizzi e
principalmente Gualdo della Maddalena. Col volgere dei casi, la famiglia di
questo era stata disfatta, egli ucciso in battaglia; l'unico figlio
Giroldello, menato ostaggio, era riuscito a camparsi, e aveva ultimamente
preso servigio nelle truppe guelfe: nè rimaneva in Lecco che una sorella
sua Rosalia, teneramente amata da Giroldello, più amata ancora dopo che
da lei lo distaccava la sventura.

Bellissima era cresciuta la Rosalia, e con quel prepotente bisogno di amore
che istillano negli animi dolci le sciagure dei primi anni, e che più si
accende quando mancano attorno le persone su cui sfogarlo.

Franciscolo Pusterla, giovanissimo allora, aveva conosciuto la coetanea
fanciulla, e ne compassionava la situazione, tanto più perchè la
vedeva così bella: qualità che ha tanta parte nei sentimenti destati
da una fanciulla. Riguardandola come vittima innocente delle civili
discordie, come martire d'una fazione, cui la sua famiglia stessa aveva
aderito, e che ora rimaneva nobilitata dalla sventura, volentieri trovavasi
con lei, le usava maniere di singolarmente amico, e con arti di delicata
beneficenza sapeva recarle opportuni soccorsi: tanto che i molti che han
costume di non credere alla generosità se non interessata, bucinavano
che Franciscolo l'amoreggiasse.

La conobbe anche Ramengo, e le pose amore.

Ma no: di questo sentimento, che in tanti è germe d'azioni generose, non
si deturpi il nome usandolo a significare quel che Ramengo provò per
Rosalia. Calcolo, mezzi, risultamenti egli vedeva solo colà, dove gli
altri dell'età sua vedono affetti, piaceri, illusioni. Unica meta d'ogni
suo operare era di togliersi alla nativa bassezza, ed avanzare negli
impieghi e alla Corte, fossero qualunque le vie. Tra le vicende d'allora
aveva egli veduto salire quando i Visconti, quando i Torriani: e sebbene
ora paresse assodato il dominio dei primi, non poteva un accidente
rimettere gli altri in potere? Collegarsi col Visconti nel tempo del loro
maggiore ascendente era idea che il desiderio poteva suscitargli, ma che la
ragione ributtava siccome un delirio. L'umiliazione presente all'incontro
porgeva il destro di amicarsi coi secondi; gran cose bollivano: il paese
era in guerra e la sorte delle armi va sempre dubbia: se mai tornasse
prospera ai Torriani, qual merito di essersi unito a loro in tempi di
sfortuna, quanta ragione per venirne ingrandito!

Ma sposare la causa loro apertamente sarebbe stato un mettersi a
repentaglio. Se invece prendesse per moglie la Rosalia, essa era tanto
meschina, tanto sola oggidì, da non ispirar gelosia a chi che fosse; da
non impedirlo d'esercitare il rigore contro chiunque desse segno di
devozione al nome torriano. Qualora poi i Visconti venissero sbalzati dal
dominio, la Rosalia non solo gli varrebbe di tavola per campare dal
naufragio, ma per approdare anche ad una riva fiorita.

Con questi calcoli si preparava ad un'unione, che solo l'accordo dei
caratteri e la virtù possono rendere beata: con questi e con altri
ancora più turpi. Aveva egli avuto sentore della predilezione di
Franciscolo per la Rosalia, e l'aveva creduta spinta chi sa fin dove. Ma
poco brigandosi di ciò, coglieva volontieri un'occasione di vendicarsi
del Pusterla coll'usurpargli l'amica. A lui, che si teneva per un gran che
nelle guerre, metteva astio quel trovarsi soggetto a un garzoncello, che
allora faceva le prime armi. È ben vero che questi interamente a lui
deferiva nelle cose di guerra, ma però aveva più volte posto freno
all'eccessivo rigore onde perseguitava la parte avversa; e principalmente
una volta gli aveva fatto seriissimi rimproveri perchè avesse mandato
uomini in traccia di Giroldello, venuto in Lecco a salutare nascostamente
la sorella, e ingiunto a loro che, non potendo vivo, il prendessero morto,
Ramengo cominciò da quel punto a considerare Franciscolo colla stizza
onde un fratello diseredato guarda l'altro dovizioso: a tenerlo per un
impaccio a' suoi progressi; a contrariarlo sott'acqua, aspettando luogo e
tempo di far peggio.

E per contrariarlo richiese la mano della Rosalia a certi lontani parenti,
alla cui custodia era stata commessa: i quali, tra per disgravarsi d'un
peso, tra per la speranza di cessare le persecuzioni contro Giroldello,
assentirono. Conchiuso il sì, Franciscolo sovvenne lautamente a quanto
occorreva pel corredo e per le nozze; dal che Ramengo a crescere i sospetti
e pigliarsene peggior talento: ma godeva di cavarne intanto alcun frutto:
quando l'avesse fatta sua, penserebbe a custodirla.

La Rosalia, come succedeva allora e come succede anche oggi al più delle
fanciulle, ne venne informata ad affare conchiuso, e consentì senza
sapere che si facesse. Non conosceva ella Ramengo, nè questi avea fatto
opera per meritarsene la benevolenza, ma quando si vide a lui congiunta di
un nodo che la morte sola può sciogliere, formò sua delizia di quel
ch'era precetto; e come fa l'amore, vedendo generosità e nobili
sentimenti e beneficenza in quanto aveva fatto e faceva Ramengo, andò
lieta di trovare uno su cui traboccare la piena di un affetto, che non
aveva sin allora avuto sfogo, e lo amò con tutto l'impeto d'una prima
passione.

Amare l'oggetto che si possiede: è pur divina cosa.

Per brutale che uno sia, non è possibile che, nei primi tempi almeno,
non ami la donna sua, quella con cui divide i piaceri, i dolori, le cure
della vita. E Ramengo pose anch'egli amore alla ingenua sua Rosalia, e
gustò le dolcezze del voler bene e dell'essere ben voluto; le quali
avrebbero anche potuto ridurlo a più miti pensieri, persuaderlo a cercar
quello, in cui solo è la felicità di quaggiù, il diffondere il
bene fra coloro che ne circondano, grande o piccolo che sia il circolo
nostro.

Ma da quei momenti di virtuosa concitazione ben tosto ricascava egli nelle
abitudini antiche, spoglie di ogni gentil sentire, e per cui sino i più
soavi affetti prendevano del fiero e dell'atroce. Severo, bisbetico, cane,
poi a sbalzi cortese ed affettuoso, or accarezzava la donna sua, ora ne
conculcava i sentimenti: oggi batteva villanamente chi avesse osato recarle
la più lieve noja od esitato nell'obbedirla: domani le comandava colla
rigidezza che soleva a' suoi soldati, sottraevasi alle dimostrazioni
gentili di lei; teneva insomma i modi più opportuni ad alienarsi un cuor
di donna.

Conosceva egli il suo torto, ma non che emendarsene, ne traeva ragione di
inviperire; non che farle merito della pazienza onde la meschina tollerava,
argomentò che ella se ne vendicasse col tradirlo; argomento vago affatto
ma che pure in lui divenne un bisogno, per trovar nella donna un nuovo
oggetto di livore. Gli antichi dubbj intorno al giovane Pusterla rinacquero
più forti; la pietà di esso parevagli segno di colpa: e poichè il
Pusterla tornava sovente da lei, e seco volentieri passeggiava talora lungo
quelle rive, colla compiacenza di un giovane che trovò un'anima ingenua
ed appassionata; e, qualora di lei parlasse, vi metteva l'ardore che suole
la gioventù, non anco avvezza a fingere, a temere, a dissimulare.
Ramengo ne divenne furiosamente geloso, o, a dir più proprio, ne colse
pretesto di resuscitare la rabbia che i benefizj passati e la presente
soggezione gli avevano messa in cuore contro del Pusterla. Con severi
rabbuffi adunque intimò alla donna come per conto nessuno volesse più
soffrire Franciscolo in sua casa, imponendole al tempo stesso che si
guardasse bene dal dire, nè lasciare intravedere a questo il comando del
marito. Ordine che costrinse Rosalia a quegli obliqui andamenti, cui tanto
spiace alle anime leali il vedersi ridotte dalla prepotenza e dalla
ingiustizia; e non isfuggendo questi all'occhio scrutatore del marito, ne
crescevano i biechi sospetti.

Se non che Franciscolo abbandonò Lecco per correr colle armi dei
Brianzuoli in soccorso dei Visconti, i quali, dall'esercito guelfo crociato
incalzati vivamente, si videro fino assediati in Milano. Breve per altro
durò il buon vento ai Crociati, stantechè il Visconte, chiamate tutte
le forze disperse, non solo liberò Milano, ma a Vaprio diede un tale
tracollo ai nemici, che i Torriani da quell'ora perdettero ogni speranza di
principato, e i loro fautori andarono sbrancati in varie parti.

Ramengo, secondo che la fortuna delle armi gli faceva scorgere nella donna
sua un istrumento opportuno od inutile alle sue aspirazioni, l'aveva o
meglio o peggio trattata, ma quando seppe rovinate le speranze dei
Torriani, usò maniere di tal rigore, con quanti nel territorio si
potevano credere devoti a quella parte, che tutti ne stavano pessimamente.

La Rosalia, che erasi data a credere di poter qualche cosa sull'animo del
marito, osò interporre alcuna parola per mitigarlo almeno al suo
Giroldello, ma egli avea preso tanta insolenza, che più non si poteva
seco: ributtò villanamente la supplicante; poi, come d'un mezzo che
più non tornava ai suoi usi, la tolse a tedio, e di voglia se ne sarebbe
disfatto quando avesse potuto e celarlo agli occhi altrui, e trovare
qualche appiglio onde vincere il residuo di pietà che anche ai più
malvagi fa rincrescere l'immolare alcuno senza ombra di colpa.



CAPITOLO VII.

L'ANNEGATA.


Una mattina, la sentinella avanzata della rôcca di Lecco riferì a
Ramengo come, sul tardo della sera precedente, si fosse avvicinato alla
fortezza, un, non sapeva chi, e aveva vibrato uno strale sul verone dove
stava la Rosalia, la quale avealo raccolto.

Divampò alla notizia Ramengo, persuaso che colui fosse il Pusterla, il
quale continuasse in tal guisa la tresca colla donna sua per fargli scorno.
E gli balenò innanzi l'idea di potere, e disfarsi di lei, e procurare un
dolore atroce alla casa dei Pusterla, con un assassinio giustificato dal
dover suo di custode: sicchè commise alle guardie che, se mai ciò
avvenisse di nuovo, traessero senz'altro sopra lo sconosciuto temerario,
l'uccidessero, e zitti.

La sera, di fatto, ecco di nuovo l'uomo si avvicina alla rocchetta:
Rosalia, che stava affacciata al balcone, non appena lo vede, slancia di
tutta forza verso di lui un sasso; quegli lo raccoglie, ma non appena
prendeva la via del bosco per ritornarsene, un colpo di balestra al capo lo
stende morto stecchito. Gli furono subito addosso le guardie, e trovarono
che non era se non un valletto incognito: nessun segno, nessuna divisa dava
indizio dell'esser suo, ma gli rinvennero il sasso, a cui era legato un
viglietto.

Ramengo, il quale aspettava col feroce dispetto che provano gl'ingannatori
nel vedersi ingannati, quando ricevette la notizia e lo scritto, compose la
bocca ad un riso somigliante al ringhio di un lupo che avvisò la preda;
congedò gli uomini: sciolse il foglio:--non è indicato a chi sia
diretto, ma è la mano di sua moglie, e tra spasmodiche convulsioni, vi
legge queste parole:

/# _Che dolcezze, da gran tempo sconosciute mi fece provar in tua lettera!
Tu vuoi, dunque per amor mio avventurarti a nuovi pericoli? Stringerti
anche una volta al cuore, è consolazione, che appena io osavo sperare.
Ma se egli ti vede, ne va la vita. Però l'altro domani egli uscirà
alla notte a perlustrare i posti sul lago. Appena partito, io esporrò
sul verone, a levante, un pannolino, e tu scendi alla portella di soccorso
che conosci. Quante cose ti dirò! Sai? il mio seno è fecondo. Possa
quel che nascerà somigliare a te! Addio, addio! Come tripudio al solo
pensare che tra poco abbraccerò il mio diletto!_ #/

A gran pena Ramengo durò sino al fine; morsicò il viglietto,
morsicò le proprie mani, e sbuffando, bestemmiando, muggendo come un
toro ferito, correva di su, di giù, dall'occhio mezzo nascosto tra le
ciglia corrugate gettava faville, dalla bocca mandava spuma, colle dita
serrate in pugno percoteva i mobili, le pareti, sè stesso: poi rompeva
in esecrazioni infernali contro la donna sua, contro il drudo di lej.

Tanto è vero che può la gelosia sorgere anche dove tace
l'affetto;--la gelosia, primogenita dell'amor proprio, che non tanto
c'inviperisce per la temuta perdita della persona diletta, quanto per
l'onta di vederci posposti e svergognati.

Più Ramengo non sapeva dubitare che la Rosalia nol tradisse: chi fosse
il complice suo, l'argomentava; i sospetti vaghi erano ormai certezza; non
restava che un partito solo--la vendetta.

Il furor suo l'avrebbe tratto in quel punto medesimo a correre addosso alla
sciagurata.--Scannarla, cavarle il cuore, strapparle dalle viscere il feto
non ben vivo, e stritolarlo sotto ai piedi, erano immaginazioni in cui si
compiaceva--e si mosse per darvi effetto; e già ghermiva la spaventata
Rosalia, quando gli parve che questa punizione non fosse di lunga mano
proporzionata all'enormità dell'oltraggio. Anche il drudo avrebbe voluto
cogliere ad una rete:--Oh allora allora!» E si pentiva d'aver lacerato
il foglio:--Avrei potuto inviarlo, trar lui pure nel laccio... Ma...
inviarlo! a chi? dove? Se non avessero ucciso il vile mezzano, avrei ben
io, a forza di tormenti, straziandolo a membro a membro, avrei ben io
saputo strappargli il nome dell'infame. Ecco che vuol dire precipitar le
vendette! Ma ora, oh l'ho imparato ora: questa sarà lunga, tormentosa...
Tremate, o scellerati!»

Sperò che, quantunque non ricevesse la risposta, potrebbe l'amante
capitare ugualmente: e però l'altro domani, sull'ora bruna, accennò
di doversi partire. La Rosalia lo congedò col solito affetto,
coll'affetto che opponeva ai mali suoi tratti, lo accarrezzò:--Perchè
(gli diceva), perchè sempre così aggrondato? Io ho paura. Ramengo,
sta buono!» e colla delicata destra gli palpava le ispide gote, mentre
coll'altra mano abbracciandolo, stringevasi tutta lusinghiera contro il suo
fianco: e con quella più tenerezza che poteva, alzava gli occhi gonfi di
pianto, verso i torvi e cagneschi di lui.--Sta buono. Mi vuoi bene ancora?
Dimmelo! accarezzami: non sono la tua Rosalia? non porto qui dentro un
nostro figliuolo? via, un bacio innanzi partire...»

Chi colla pietra infernale gli avesse toccato la viva carne, non avrebbe
recato a Ramengo tanto strazio, quanto lei con simili parole.--La bugiarda!
la infame! vuol con carezze ricoprire il tradimento: baciarmi e vendermi.
Ma ti pagherò della moneta stessa: inganni per inganni».

Tentennò, divincolossi, parve voler proferire alcuna parola, ma non si
udì che un rantolo nella gola; tese le mani verso le braccia di lei,
quasi per trarsela al seno; indi, come preso d'insuperabile repugnanza,
coll'atto medesimo la ributtò fieramente da sè, e senza un'occhiata,
senza un motto andossene precipitoso.

Ella sospirò, pianse: erano stranezze pur troppo solite in lui: ma ella
non vi si era mai incallita.

Ramengo salì in barca, allargossi, poi presa di nuovo la spiaggia e
tornato, si appiattò dietro una macchia donde potesse, non visto, vedere
la rôcca: ed ecco fra non molto, sciorinarsi il pannolino sul concertato
balcone. Al primo vederlo si rinnovarono, addoppiaronsi le furie di lui: il
cuore gonfiato non pareva gli potesse più reggere in petto: gettavasi
sul terreno, svelleva brancate di erba e le addentava, alzavasi, traeva la
sciabola, percoteva nelle piante, nei sassi, schiantava i rami, gli
arbusti, bestemmiava Dio, gli uomini, il cielo. La notte si offuscò;
egli, accostatosi di più, si appoggiò fra due piante vicine, e tra
quelle protese la faccia, come la jena quando aspetti al varco la gazzella:
fissato alternatamente al viottolo, alla porticina, al verone.

Ed ecco su questo apparire Rosalia, in una candida vesticciuola lina, e
mostrare di spingere lo sguardo via via per la pendice, come all'incerto
lume cercasse discernere un aspettato. Delusa, rientrava; usciva ancora:
sedevasi appoggiando il gomito sui balaustri del verone, e chinando la
bella faccia nella mano, in una ansiosa ma soave aspettazione. Qualche
volta alzando gli occhi alle stelle, sospirava: qualche altra li teneva per
alcun tempo coperti, poi più fisi gl'intendeva, se mai in quel mezzo
fosse comparso l'atteso: anche qualche canzone intonava, d'aria placida e
malinconica, che lene lene si perdeva tra i patetici silenzj della notte, e
si mescolava al fiottare lontano dell'onda, che frangeva al primo margine
del lago sottoposto.

Ma l'aspettazione della Rosalia e di Ramengo restò delusa. Non per
questo egli si stancò; ma e la seconda e la terza sera rimase alla
vedetta, e fin alla sesta soffrì quell'orribile tortura, sempre
lusingandosi di veder giungere il rivale, sempre colla rabbia in cuore,
coll'assassinio in mente: ma sempre invano. Ebbe tempo fra ciò di
stillarsi la sua libidine di vendetta: e fra le atroci veglie di quelle
notti, l'andò ruminando, pungendosela alla fantasia, raffinandola quanto
fosse mestieri per satollare quell'anima sua, ingorda di strazio e di
sangue. Il figlio che essa maturava nelle viscere doveva possedere la vita
per poterla perdere: lasciarlo nascere, metter lui pure a parte del
castigo, esacerbare le pene della madre, a cui dovessero giungere tanto
più micidiali, quanto meno aspettate.

Dissimulando pertanto, continuò verso la Rosalia col tenore di prima,
crescendo anzi di cortesie come chi medita un tradimento: se non che fra le
carezze, l'occhio suo fissavasi talvolta sopra di essa con un baleno
così sinistro, così cristallino, ch'ella, gettandogli le braccia al
collo gli domandava:--Cos'hai, Ramengo? tu mi guati così!»

Non rispondeva egli; ai baci di lei sentivasi correre dalle chiome ai piedi
un fuoco d'inferno: le dita sue irrigidite e convulse stringevano
involontariamente il pugnale, era duopo che la respingesse da sè, ed
uscisse all'aria aperta a sfogare l'indocile rabbia. Comprendeva la Rosalia
che una grave tempesta versava l'animo di lui: soffriva, taceva, non gli
scemava l'amore: consolavasi negli arcani godimenti della donna che sente
in sè stessa un altro essere, unito e pur diverso, vivente della
medesima vita, scosso da movimenti comuni, amato come sè e vagheggiato
come un altro: e tripudiava nel vedere avvicinarsi il tempo di metter alla
luce un bambino, pegno dell'amor loro, che l'amor loro crescerebbe colle
cure prodigategli d'accordo, coi vezzi infantili, colle speranze che
danzano intorno alla culla del primo figliuolo.

Maturato il tempo, ella espose un maschio: ed appena nel bacio primo ebbe
dimenticato il sofferto travaglio,--Recatelo (disse) a suo padre».

Gli recarono di fatto quella creaturina così gracile, che, sotto le
prime impressioni dell'aria e degli oggetti esterni, vagiva e agitava le
membra inferme: spettacolo d'affetto per tutti, d'ineffabile esultanza per
chi è padre. Ma l'occhio di Ramengo si fe' più feroce che mai;
digrignò i denti: un riso sinistro gli raggrinzò le labbra: tolse il
fanciullo sopra un braccio; coll'altra mano afferrò il pugnale, e trasse
al neonato.

La bambinaja fu abbastanza lesta per sottrarlo a quel colpo, diretto al
seno: ma non così affatto, che non gli recidesse, povera creaturina!
l'indice della mano sinistra. Alla vista del sangue che ne sprizzava, agli
strilli spasmodici del fantolino, il violento gettò lo stile, e
maledicendo e bestemmiando fuggì.

Che cuore l'amorosa Rosalia all'udir questo fatto! Affievolita dal
travaglio del parto, in quello stato in cui ogni commozione può divenire
micidiale, fu per soccombere. Però la ferita si trovò di facile
medicazione; donne venali prodigarono a lei quell'assistenza che le negava
il marito: questo ridivenne mansueto e pentito. Non del pentimento però
che avvia all'emenda: ma s'indispettiva seco medesimo d'essersi dall'ira
lasciato trasportare a tradir il secreto, che del suo scorno come della
vendetta volea fare con tutti, se fosse possibile fino coll'aria: onde
accagionando di quell'escandescenza certe sue cure penose, la fantasia
turbata da molesti pensieri fino il desiderio di cimentare l'amore di lei
colla pazienza e la costanza, si mostrò mitigato, venne al letto della
moglie, le parlò cortesemente.

Questa fu la medicina migliore, il miglior ristoro alla travagliata. Stese
la pallida mano tremante allo sposo, che gliela strinse nella sua: gli
mostrò il bambino che teneva al petto; e--Vedi (gli diceva) vedi
com'è bello! come poppa soavemente! È tuo figlio: è figlio nostro.
Di', non gli farai paura più? gli vorrai tu bene? Che viso d'alabastro!
come spira amore! Guarda: egli apre gli occhi.--Cari quegli occhietti! son
tutti gli occhi tuoi. Come ti somiglia! Prendi: levalo fra le braccia:
dagli un bacio»; e glielo sporgeva.

Ramengo, comunque fiottasse dentro, lo prese, il guardò fiso fiso, gli
accostò le labbra alla faccia, e lo baciò o ne fece le mostre. Ma una
furia di baci gli prodigava la madre, che in estasi d'amore, di
contentezza, sentendo tutta la beatitudine d'essere moglie e madre, amata e
amante, non poteva saziarsi d'osservarlo, di carezzarlo; lo fasciava, lo
snudava, l'adornava, l'atteggiava; traboccando sopra di esso quell'eccesso
d'affetto, che non le era dato versare sul marito.

Ma pel marito quella scena era una prolungata tortura: non vedeva nel
bambino che un frutto del delitto: non vedeva in lei che una infedele: e
più gli appariva tenera ed amorosa, più la esecrava come scaltrita
ingannatrice.--Tante carezze, per qual altro fine che per ingannarmi? È
sì affettuosa a quel fanciullo: qual meraviglia? Lo concepì dagli
infami suoi amori». E guardandolo, nol trovava per nulla somigliante a
sè: quegli occhi semichiusi, quel malatticcio pallore, quella cascante
gentilezza d'un neonato, punto non gli pareano ritrarre de' suoi robusti
lineamenti, del fuoco del suo sguardo.--No, no: non è mio figlio.
L'iniquo Pusterla m'ha oltraggiato. Mal per lui, giuro a Dio! Per ora
muojano madre e figlio, verrà l'ora, oh verrà anche per lui».

Così diceva tra il suo cuore; ma lo dissimulava, e in atti mostravasi
calmo colla moglie, le dava del buono per la pace, tanto che la Rosalia ne
rimase confortata, perdonò facilmente--e che non perdona l'amore? e come
non è ingegnoso a trovare scuse alla persona diletta?--Egli lo ama
certo: oh come non amare quest'angelo? l'ha baciato: e ogni giorno più
lo amerà. E quando col primo riso lo saluterà? e quando articolerà
una parola? E la prima che l'insegnerò sarà _babbo_. Appena potrà
mutare i passi, caro fanciullino! correrà da me a lui bamboleggiando,
gli si avvinghierà alle ginocchia, e gongolando gli ripeterà,
_babbo_. Esso dimentica per lui le cure, la guerra, le armi: umano si
curva, il toglie fra le braccia, lo paleggia, se lo leva sulle spalle, sul
capo, lo bacia e ribacia, poi viene a deporlo sul mio grembo. Crescerà
poi; verrà grande, bello, robusto come lui: tutti lo guarderanno; e gli
stranieri e le donne chiederanno; chi è quel pezzo di giovane? Ed io e
Ramengo ne esulteremo, e vedremo in lui il conforto dei nostri vecchi
giorni.

Questi sogni passavano per la mente della malata, intanto che porgeva
medicamenti e latte al fantolino; e da questi ricreata, a poco andare
tornava in vigore, lasciava il letto, ricompariva per la casa. Poichè
Ramengo le si offriva mansuefatto e gentile, la Rosalia, non che sgombrare
ogni corruccio, fin la memoria depose del maggior torto che ad una madre
possa recarsi, un insulto al suo bambino, e tornò tranquilla come prima,
e festiva nelle nuove cure, nel nuovo affetto.

Poco tempo dopo ch'ella fu risanata,--era sull'imbrunire d'un giorno di
maggio, bel tempo, quieto; il primo calore rendeva grazioso il soffiare
dell'aria vespertina, e Ramengo disse alla moglie:--Vedi bella sera. Che
non usciamo noi a far due passi? te ne dovresti trovar meglio».

--Volentieri», esclamò in tripudio la Rosalia, di nulla più
desiderosa che di cogliere ogni prova d'affezione venutale da lui, per
volergliene sempre più bene.

--E il bambino? (soggiungeva) Lo coricherò, è vero? Attendi tanto
ch'io l'abbia addormentato.

--Perchè nol recheremo anch'esso? (rispose Ramengo) O forse ti da noja
il portarlo?

--No! (esclamava ella affettuosa) «Oh non sai come ad una madre sia
gradito peso il proprio figliuolo? Non l'ho portato io tanto tempo qui?»

Così dicendo, l'avviluppava in un pannolino, e di costa al marito, si
avviava. Uscirono dalla rôcca, e presa la china, vennero verso il lago.

Era la prima volta che, dopo la sua malattia, essa rivedeva il cielo aperto
e sereno, il lago, i monti; tutta ne tripudiava, e come a chi esce da
prigione, il petto parea dilatarsele nel respirare quelle arie così
soavi, così vitali. Scesi laddove il lago slanciava quietamente le
ondate sovra le arene del margine, quietamente, benchè lo squagliarsi
delle nevi montane e la stagione oltre l'usato dritta alle pioggie,
l'avessero straordinariamente gonfiato, là sovra un muricciuolo
sedettero, contemplando quella pianura ondosa, che neppure da una barca era
solcata, perchè i sospetti guerreschi le avevano fatte colar tutte al
fondo. La Rosalia ora guardavasi alle spalle il Resegone, dalle cui cime
merlate il sole ritraeva gli ultimi raggi; ora dinanzi, il varco della
Valmadrera in cui la luce tramontando parea ricoverarsi, come il sangue al
cuore d'un moribondo; e accarezzava il lattante suo, lo vezzeggiava, e
parlandogli come se veramente egli potesse intenderla e risponderle,
diceva:--Apri gli occhi, amor mio: aprili, guarda questo bellissimo
spettacolo. Vedi là i monti? Un giorno li conoscerai ben tu. Sulle loro
coste, fin sulla vetta inseguirai i cavriuoli, lesto tu pure come un
cavriuolo, godendo l'aria pura, i lieti soli, la libertà. E quando sarai
di qui lontano, salirai su qualche poggio, su qualche torre, per discernere
ancora quelle creste: piene delle memorie di tua fanciullezza. E questo
lago? Mira: c'è dentro un altro bambino, bello come te. Ma un giorno tu
v'andrai per entro davvero a nuoto, lo solcherai in barca.

--E perchè (l'interruppe Ramengo), perchè non andiamo un tratto noi
pure in barca?

--Sibbene! (ella esclamò): purchè a te non ne incresca la fatica.

--Oh al contrario; è uno spasso, un esercizio.»

E in due salti fu al molo, ove sotto chiave si custodivano due navetti per
servigio del cartello, gli unici lasciati in tutta la riviera; e dati i
remi all'acqua, vi raccolse la Rosalia, che sedette sulla prora col
fanciullo, mentre Ramengo battea la voga. Scesero così giù giù per
la riva, su cui oggi va crescendo la città di Lecco: passarono sotto al
ponte, pochi anni prima gettato dal signor Azone, e seguitando fra Pescate
e Pescarenico, vennero dove l'acqua dilatavasi in ampio bacino. Intanto era
sparito affatto il giorno; le cime circostanti spiccavano nette e brune
dall'azzurro fosco d'un cielo senza nubi: e i naviganti, essendo nel mezzo,
appena distinguevano la riva: ma dalle finestre delle scarse casipole
vedevano esalare il fumo del fuoco a cui la povera gente coceva quel poco
di cena che l'interrotta pesca permetteva. Tutto era pace intorno e dentro
alla Rosalia, che inondata di soave giocondità, posava la bocca sulla
madida fronte del dormente bambino; allorchè d'improvviso Ramengo
batté fieramente del piede sul fondo del navetto, sicchè tutto lo
squassò, e fece trabalzar la madre e destare in sussulto il
fanciulletto. Indi urlò:--Traditrice infame! hai creduto celarmi le
sozze tue tresche. T'ingannasti. So tutto: e l'ora del castigo è
battuta. Scellerata, muori».

Sbigottita: cogli occhi, la bocca spalancati; pallido il viso; con una mano
serrandosi al seno il pargoletto, protendendo l'altra colle dita irrigidite
in atto istintivo di difesa, voleva la meschina rispondere, domandare,
pregare: ma non gliene lasciò tempo l'infellonito, il quale slanciati
nell'acqua i remi, si avventò egli pure nel lago. La Rosalia mise uno
strido, in cui sonava l'accento della disperazione; coperse gli occhi,
allorchè lo vide gettarsi dalla barca; scoprendoli poi, al fioco barlume
del crepuscolo potè vedere come, nuotando, egli guadagnasse la riva.

Cessato allora lo spavento pei giorni del marito, rimase dapprima attonita
e tolta di sè, dubbia se fosse un sogno; poi quando cominciò a
rinvenire, volse il pensiero sopra sè stessa, e sopra la sua situazione.
Sola, in mezzo d'un gonfio lago, in piccola barca, senza remi per aiutarsi,
sola con un bambino, la cui vita le era più cara della sua propria!
Ruppe alla prima in un pianto angoscioso, e le lacrime piovevano sulla
faccia dell'ignaro lattante. Ma tantosto la scosse dal doloroso letargo il
sentirsi bagnare le piante. Quel vendicativo avea strappato il capecchio
ond'ora calafatato il legno, sicchè l'acqua vi trapelava lenta lenta per
le commessure. Stette la tapina coll'occhio incantato sul fondo della
barchetta, e parve consolarsi.--Un'ora, due al più, e sarà empita:
affonderà: io con essa... e sarà finito quest'inferno.--Ma... e il
mio bambino?»

A tal pensiero rabbrividì; e affaccendandosi allora nel cercare
salvezza, quanto dapprima disperando aveva agognato la morte, si strappò
a furia dal capo, dal petto i veli, e con quelli si pose a ristoppare le
commessure, attentissima coll'occhio, coll'orecchio, se da veruna fessura
trapelasse acqua ancora; e quando più non le parve, si consolò,
riprese il fanciullo, sedette, guardò a questo, guardò alla riva,
guardò al cielo... Il bambino era sopito: la riva lontana, silenziosa
come l'egoista alle miserie dei suoi fratelli, il cielo bello, limpido,
qual suol esser al terminare di maggio in quelle floride parti della
florida Lombardia, la luna scema spuntava allora di dietro i monti
dell'Albenza, le cui vette si disegnavan sovra il profondo ceruleo
dell'aria per la quale scintillavano migliaja e migliaja di stelle.

Quante sere, lucide come questa, avea la Rosalia passate nell'amorevole e
gioconda compagnia delle amiche, presso ai parenti, spensierata fanciulla,
lieta di placidi gaudii, di allegre fantasie! E dopo sposa, quante volte,
in quell'ora, sul battuto della rocchetta erasi badata ad ascoltare i
malinconici concenti dell'usignuolo, od a spingere lo sguardo giù verso
la riva e per lo scarco delle colline, se vedesse tornare lo sposo!--Ed
ora? L'idea dello sposo le richiamava alla mente i più minuti casi del
passato; gesti, parole, tratti, che avevano voluto o non vedere o
interpretar in bene, ed ora le rivelavano una miserabile tela di sdegni
covati, di meditate vendette. Da lui condannata di colpa, onde non si
conosceva rea, di cui poteva giustificarsi con una parola, condannata a
penare qui, com'ella si credeva, una notte intera, nel deserto delle acque,
fra il disagio e la paura...--Oh! che nessuno mi venga a soccorrere?...
Nessuno?... Certo egli a quest'ora è giunto al castello; entrò in
casa, rivide i luoghi pieni delle memorie de' nostri primi giorni di
felicità; nessuno gli si fece incontro a festeggiarlo; rivide il letto,
rivide la cuna,--la cuna vuota; si ricordò di me, del bambino che non ha
colpa; s'è pentito d'averci messi a questa croce, e corre a salvarci.
Oh! saprò ben io dissipare i suoi sospetti: saprò bene col doppio di
amore quietargli ogni sdegno... Mio Ramengo! ancora mi vorrà bene,
m'abbraccierà ancora. Ecco, la sua destra è sotto al mio capo; la
sinistra mi accarezza, e tra noi due è questo caro fanciullo, e ci
baciamo tra noi, e lo baciamo lui. Ve'! qualcosa di chiaro s'inoltra nel
fondo... È senz'altro la sua barca.»

Il lume si avanzava lento, eguale, ma pallido, azzurrognolo, accostavasi
alla barca;--era un fuoco fatuo che seguitando si disperdeva. La Rosalia,
che al suo avvicinarsi aveva mandato il grido di chi implora soccorso, che
coi palpiti ne aveva misurata la distanza ed il lentissimo procedere, come
anche questa speranza dileguò, sospirava, piangeva, piangeva.

Posò il bambino sullo scannello di prua, e inginocchiatasi e sporgendosi
da una proda, cominciò colle mani a imitare l'ufizio di remo, se mai
riuscisse a farsi più presso alla riva. Il navicello si moveva, sì,
ma aggirandosi intorno a sè stesso, senza nulla guadagnare verso il
lido, talchè, stanca, rifinita, scoraggiata, tornò la dolorosa a
sedersi, a levarsi in grembo il fanciullo, a coprirsi gli occhi con le
mani, a piangere ancora, a fantasticare.

--Questa notte, per lunga, per ambasciosa, passerà: verrà il mattino;
alcuno comparirà, mi farò sentire; sarò aiutata, tratta a riva...
E poi? che farò io? dove anderò? Ritornare a lui?... ma se egli mi ha
scacciata... se ha decretata la mia morte... E la gente?... che dirà la
gente se mi vedono tornare a questo modo? Comprenderanno il fatto, me
incolperanno di tradimento, Ramengo di violenza. Che ne sarà di lui? di
me? Che avesse egli a soffrire per mia cagione? Oh Dio! Dio!» e
raddoppiava i gemiti, alzava le strida: strida da passare il cuore, ma che
si perdevano inesaudite nel silenzio dell'ondosa pianura e della notte
arcana.

Solo, tratto tratto riscosso da quelle, il fantolino mesceva ad esse i suoi
vagiti; ella carezzandolo allora, baciandolo, porgendogli la mammella, il
tranquillava; e, quasi avesse intendimento, gli diceva:--Dormi, fanciullo
mio, viscere mie, dormi. Questi mali almeno tu non li senti, tu. Ma la
povera tua madre!... Oh! sono io, vedi; sono io che ti ho dato la vita, son
io che ti nutrisco di me stessa, che ti alleverò, che ti educherò. E
guarda! ora son qui, di notte al bujo, sola, in una barca, nel mezzo di un
lago che non ha fondo... non ho un palmo di terra dove posare i piedi; non
un sasso dove declinar la testa. Ma tu intanto, tu almeno riposa. La tua
cuna, la morbida coltricina ti aspettano invano stasera, ben mio; pure hai
le mie ginocchia per letto, hai per guanciale il mio seno: il seno di una
madre: puoi tu desiderar di meglio? Oh no? Tu poppa in pace. A me sola i
guaj, a me la tempesta, a me l'inferno. O Signore! O Madonna santa! Ma voi,
Maria, foste anche voi madre, anche voi portaste un bambino, e fu cercato a
morte, e vi toccò di camparlo fuggendo. Deh! traetevi a compassione di
me; guardatemi dal cielo, datemi forza di passare questa notte,
quest'angosciosa notte, questa notte d'inferno».

E si segnava, segnava il bambino, bisbigliava le sue preghiere, e un poco
di pace sembrava pure stendersi sovra quell'anima ambasciata. Le chiuse gli
occhi una stanca calma; un lieve sonno la tolse all'ansia del presente. Ma
breve. In sobbalzo si svegliò, riaperse gli occhi, non bene ancora
sdormentata, credendo trovarsi nella propria camera, nel letto consueto, ma
tantosto guardando, toccando, si riconobbe, ricordò dov'era, come v'era
arrivata.

Coll'appressarsi della mattina, erasi levato una brezza sottile e
frizzante, che la faceva intirizzire e batter i denti, e che, ajutata da
quella che gli idraulici chiamano contrazione della vena, spingeva,
lentamente sì, ma sempre in giù la barchetta. Foschi nuvoloni si
erano pure addensati attorno alle creste della Grigna e del Resegone, che
incalzati dai venti delle diverse gole, di qua, di là avanzandosi come
due schiere nemiche, avevan tutto ottenebrato il cielo. Poi spesseggiavano
i lampi, un tuono sordo brontolava, cominciò la pioggia, si fece
dirotta, ed una furiosa tempesta si gettò sul lago. La Rosalia si volse
a guardar Lecco, sempre più s'andava quello discostando; e per quanto al
tetro guizzo dei lampi ella aguzzasse le pupille, nessun soccorso vedeva
comparire, nessuno più ne sperava.

Allora si presentò al pensiero della costernata la probabilità, indi
la certezza di un caso peggiore, che dapprima nol si fosse immaginato;
allora cominciò a capire che l'alba dovea, non che terminare i suoi
patimenti, esacerbarli.

L'acqua cadeva come se la versassero; dove ripararsi? come? La barca non
aveva padiglione, non tenda; già il brontolio dei tuoni e lo schianto
delle saette avevano svegliato il bambino, e le braccia materne non
bastavano a schermirlo. Dapprima, ella si trasse la sottana in capo, e
sotto a quel tetto sè medesima e lui protesse; ma l'acqua incessante
ebbe ben presto inzuppati gli abiti che grondavano, ond'ella si batteva il
petto, stracciava le chiome, percotevasi il capo; più non vedeva, più
non sentiva. Coricò il fantolino sul fondo, ove più rialzato lasciava
un po' d'asciutto, indi messasi carpone, appoggiata sulle mani, si fece
tetto a quello; e in sì penosa attitudine, porse al bambino la poppa, al
modo che sogliono le belve delle foreste.

Scarso partito anche questo! All'acqua trapelata la sera per le fessure,
aggiungevasi ora quella che il cielo rovesciava; le ginocchia, le gambe di
lei ne erano immollate; pure, pazienza! tollerava. Ma sempre più
alzandosi, dal peso medesimo determinata, saliva l'acqua anche dov'era
posato il bambino, onde la misera più non sapeva che farsi, come
schermirlo. Si levò di dosso i panni, e inzuppandoli nell'umore entrato,
li spremeva fuori dalle prode; facendo pala delle mani accostate, buttava
fuori l'acqua; ma in questa fatica di tanto stento e di piccolo profitto
conveniva lasciar discoperto il fanciullo che tutto si infradiciava, che
correva pericolo d'annegarsi. Spossata, la Rosalia tornò a collocarsi
carpone, strinse il fanciullo contro il petto, e piangeva e pregava, mentre
intanto continuava la pioggia come Dio la sa mandare, e l'aria di
tramontana cacciava il battello all'ingiù. Tratto tratto sollevando il
capo, essa vedeva traverso a quel diluvio, passar sulla riva i casali e le
terre, e come venne là dove alla Rabbia dopo Olginate, il fiume piglia
un corso violento, sentì trabalzare, aggirare vorticosamente il suo
legnetto: si credette sommersa,--baciò il bambino, e raccomandò
l'anima sua al Signore--l'anima sua e la vita del suo poppante. Ma dopo
sospinta alquanto dalla corrente, e respinta dalla ritrosa, si trovò in
mezzo alle acque che riposavano di nuovo, lentissimamente inoltrata dal
vento che scemava di forza.

Oggidì le molte palancose, che, o per comodo della pescagione, o per
dedurre l'acqua ai mulini, furono piantate in quel lago ove torna a
restringersi per formare il fiume dell'Adda, lo impigriscono talmente, che
fra Olginate e Brivio può dirsi un paludo morto, ingombro di alghe e di
cannuccie. Ma in quel geloso tempo servendo di frontiera, non permettevano
i signori di Milano che rimanesse rallentato da qualsifosse ingombro,
sicchè sbrigliato scorreva; oltrechè, essendo, come abbiamo
accennato, rigonfio per le nevi sciolte e per frequenti acquazzoni,
versavasi per quell'unico suo scaricatore, e seco traeva la navicella di
Rosalia. All'avvicinarsi d'ogni casa, d'ogni villaggio, quante speranze
sorgevano in cuore della meschina che alcuno la vedesse, la sovvenisse! Ma
era troppo di buon mattino: pei timori di guerra nessuna nave, come abbiamo
ripetuto, solcava allora quel fiume, e la direzione della corrente la
trascinava verso la riva sinistra, deserta di abitazioni.

Anche a Brivio da ultimo passò innanzi, e come vide scostarsi pure
questo castello, come si sentì trasportata rapidamente dal fiume, che
sotto di quello scende a scorsa, si diede per senza scampo perduta. Il
temporale, secondo suole in quella stagione, erasi presto sfogato; e
Rosalia, alzando gli occhi, vide lo stesso vento che avea addensate le
nubi, spingerle ora lontano, al modo onde si dileguavan le sue speranze, e
spazzare la volta del cielo, sulla quale cresceva il sole. Ma qual pro che
il cielo cessasse d'ispirarle sgomento, se non minore glielo infondeva la
rapidità dell'Adda, che, raggirandola, barellandola, la traeva frammezzo
a isolette, a selve, a dirupi, ove non avvisava un abituro, un campo
coltivato? Gli occhi di lei più non avevan lacrime, non più voce la
gola; e quelle ore di spasimo le avevano impresso sul volto un solco
profondo, come anni ed anni di cordoglio, come un'ora di colèra. Con una
stupida maraviglia levava gli occhi al cielo, li girava sulle spiaggie che
le si involavano dai lati, li chinava sulle acque che spumavano,
rumoreggiavano, facevano vortice dinanzi al serpeggiante navicello; ma
sempre finiva col fissarli sovra il suo pargoletto con un amore più
intenso, quanto più s'accostava alla disperazione.

Si assettò di nuovo, se lo coricò sulle ginocchia, gli porse una
poppa... l'altra.... Ohimè! erano inaridite!... Una notte come quella,
in sì fiero struggimento e sì prolungato, ne aveva esausto il latte.
Invano il bambino colle avide labbra facea forza di suggere; invano ella
stessa le premeva; a forza di dolori ne sprizzava sangue vivo, ma nessun
nutrimento. Un'altra idea s'aggiungeva dunque alle atroci da cui era già
straziata: l'idea di aver a morire dalla fame, prima che le acque gli
inghiottissero.---Ma no (diceva tra sé), il fiume è violento, molti
scogli l'ingombrano; romperemo a qualcuno... Ecco là in fondo come
spumeggia intorno a quel masso... ecco là come pare si precipiti. Ivi
sarà l'ultimo tratto, sarà la fine di tante pene.--Ma, e il mio
bambino? tu, frutto delle mie viscere? Perir anche tu? perire innanzi di
aver gustato la vita? innanzi di aver altro provato che pochi giorni di
pianto? O mio Dio! Dio mio! salvate quest'innocente! O angelo suo custode,
venite, levatelo sulle vostre ali, portatelo a salvamento! e me, me
lasciatemi pur al mio destino, non piangerò, non gemerò, morrò
contenta, solo che sopravviva il figliuol mio... Ma che? tu vagisci?...
poverino! hai tu fame? Oh trista me! Desolata me! E non avere onde
ristorarti! o doverti vedere a languire, e forse a morire fra poco!

Le tornavan copiose le miserabili lacrime, ed ancora porgeva il capezzolo
al figliolo, ma ancora senza frutto! onde, convulsa, disperata, chiamava,
strideva;--non rispondeva nessuno; nessuno l'udiva... Illanguidita,
piegavasi sovra il pargoletto, giungeva le sue alle labbra di lui,
nell'atto del colibrì quando porge la lingua a suggere per alimento agli
aerei suoi pulcini.

Rapido intanto, tortuoso caracollando scendeva il navetto. Qualche casipola
di pescatori, qualche mulino scorgeva di distanza in distanza; alcun
contadino, alcun boscaiuolo, alcuna lavandaia, intenti alle opere loro
sulla spiaggia, ove n'era alcun lembo, se vedeano quella barchetta di
lontano, la fissavano un tratto; qualcheduno esclamava:--Strano gusto
d'andare giù pel fiume ora che è così grosso!»

Ma altri soggiungeva:--Non vedi che non ha remi, nè timone? È una
barca che si perde.

--Si perde? Corriamo ad ajutarla. Malann'aggia la guerra che ci tolse i
nostri battelli!»

Correvano, e non sapevano dove, e gridavano verso la barca, e alcuno
affrettavasi ai posti dov'erano le sentinelle e le vedette, ma prima che
fossero arrivati, l'acqua superba avea tratto innanzi la navicella così
che più non potevano se non guardarle dietro ed esclamare:--Povera gente
che v'è dentro! Gli ajutino le anime del Purgatorio!»

Il fiume, che in quello spazio corre a rotta anche ne' tempi ordinarj, ma a
vero precipizio quand'è gonfiato, giunto al luogo che chiamano il _Sasso
di San Michele_ da una chiesuola erettavi dalla timorosa pietà, entra in
un letto più angusto, con furia ancor più minacciosa. Dico il luogo
appunto, ove, tre secoli dopo quel tempo, venne aperto a gran forza ed
artificio un canale navigabile, che dal sovrastante villaggio è
denominato il _Naviglio di Paderno_, e che con moltiplicati sostegni modera
l'acqua in modo, che senza guasto le navi discendono l'altezza di
ventisette metri nella traccia di un miglio o poco più.

Nulla eravi allora di ciò, e il fiume in balia di sè stesso dando
volta, s'insaccava in quella stretta, che oggi ancora, benchè difesa da
salda e fitta travata, mette i brividi ai pochi naviganti che s'avventurano
a passarle da lato, e che ripetono al piloto, ai rematori, di tenersi ben
rasente alla riva opposta, mentre si raccomandano al Signore, e rammemorano
i non rari casi d'infelici, che l'inesperienza o l'impeto strascinò
attraverso per le Trecorna, come vien chiamato quel gorgo. Di qua e di
là del quale ergesi a picco una montagna, da cui i secoli divelsero
enormi catolli, onde è seminato ed irto quel varco. Alcuni si alzano
giganti da emulare i greppi laterali; altri sporgono appena a fior
dell'acqua la cima tagliente; dell'acqua che, riurtata fra i massi,
spumeggia loro intorno, si ritorce in sè stessa vorticosa, ruggisce
sì che da lontano se ne ascolta il frastuono, come da lontano se ne
vedono balzare le spume ad incanutire i più erti scogli, e diffuse in
minutissima spruzzaglia, ingombrar l'aria d'una nebbia trasparente, e
colorarsi dell'iride, rinfrangendo i raggi del Sol levante e del morente.

Intese la Rosalia il grave e minaccioso frastuono, poi vide quell'abisso;
in soprassalto di terrore si scosse dal momentaneo assopimento, cacciossi
le mani nelle chiome irte sul capo; aperse quindi le braccia, le tese colle
dita aggranchite, spalancò gli occhi, la bocca ad un _ah!_ disperato
quando la barca fu presso, quando venne dal vortice strascinata. Al primo
sobbalzo si credette morta; premette al seno il bambino, quasi il suo seno
potesse sottrarlo da quel furore; avventò uno sguardo ansioso sulle
rive, quasi lusingandosi che le potesse bastar la forza per recare,
sventurata! attraverso quell'impeto, fin colà il diletto suo peso.

Udiva frattanto il fondo della barca crocchiare strisciando sul fendente
dei macigni: era diguazzata ora dalle onde che sovverchiavano il legno, ora
dal piovoso polverio, in cui quelle si risolveano frangendo contro i
ronchioni; ogni nuovo fiotto era una trafittura; nessuna era quella della
morte. La morte coglie bensì l'uomo, contento fra le lautezze della
gioja, ma risparmia l'infelice quando la invoca siccome termine delle sue
miserie.

Ed io, nato sulle rive di quel fiume, non dimenticherò mai d'aver
veduto... Egli era un povero sartore della mia terra, fidanzato ad una
setajuola della riva opposta, povera anch'essa, ma ricchi entrambi di
sentimento. Salì egli in battello per varcare il fiume, e andarla a
trovare; l'Adda era grossa: veniva la sera; egli, mal destro nel remare: la
corrente gli tolse la mano e gli strappò un remo, onde giù e giù.
Noi accorremmo; egli fece ogni industria per ajutarsi, ma non vedendo
più modo, in abbandono d'ogni rimedio umano--parmi vederlo
tuttora--inginocchiossi, incrociò le mani sul petto... noi pregammo per
l'anima sua. Al domani si trovarono giù per le Trecorna i galleggianti
frantumi del suo battello.

--La setajuola!

Ma per Rosalia non andò così. La sua barchetta, per non so qual
ventura, ficcossi fra due scogli vicinissimi, uno dei quali, d'ingente
mole, era stato rovesciato dal caso sopra l'altro, in guisa che questo gli
serviva di puntello, come il guanciale a cui un gigante riposasse le membra
enormi, stancate nella battaglia; e sotto al loro cavo, alcuna quiete avea
quel bollimento. Ivi non percosse la barchetta sì forte da andarne
spezzata, e il rincalzo delle onde ve la tenne come confitta e in tentenno
fra il mugghio, fra i vortici, fra la spuma, fra la continua aspettazione
della morte irreparabile.

La Rosalia si levò, curvossi sopra quell'acqua--un salto e più non
comparire fuori,--e aver finito, finito questo prolungato crepacuore.--Ma,
e il bambino? Oh finchè pure un filo di vita restasse, bastava per
attaccarvi la fiducia. Misurava coll'occhio l'ertezza di quelle rupi;
arrampicarsi fin lassù... nulla pareva impossibile alla forza, dirò
meglio, alla frenesia dell'amor materno. Ma e poi?... gente all'intorno non
v'è: il rovinio delle acque non lascia intendere le chiamate. Avrebbe
dunque a morir lassù di fame, dopo aver uno ad uno noverati i singulti
del moribondo figliuolo, dopo sorbito stilla a stilla il calice di quella
desolata agonia. Ora la corrente, che tanto l'avea dianzi spaventata, le
pareva desiderabile, come un rimedio, come l'unica speranza; poteva forse
recarla ad una riva, dove alcuno la guardasse, la soccorresse. Ma qui, qui
non altro poteva aspettare che la morte.

Risoluta pertanto ad avventurarsi di bel nuovo, col vigore che le
infondevano il prepotente istinto della vita e la pietà materna,
puntò le braccia contro quei massi, ne staccò la navicella aderente,
sicchè fra essa ed il macigno potesse mettersi un filo appena d'acqua,
il quale di subito dilatandosi il passo, allontanò il legno, e spinse;
l'istante dopo trovavasi ancora in balia della corrente, trovavasi fra
nuovi gorghi, fra nuovi scogli, poi librata all'impeto dell'Adda che,
emersa da quel sasseto, e ripigliando libero corso, la portava colla
rapidità del desiderio. Lo sgomento attuale cancellava la ricordanza del
precedente; avrebbe voluto ancora trovarsi fra quei sassi, fra quelle
angustie di prima, ma ferma ed appoggiata; e pregava Iddio di ridurla
colà, di presentarle un altro scoglio, ove un istante assicurare la vita
sua e del suo bambino. Chieder salvezza più non osava: assai le era
invocare la morte men dolorosa; o piuttosto ella medesima non sapea più
che dimandare, se non ogni momento, una situazione diversa da quella in cui
si trovava.

Però, dopochè nuovi pericoli la sgomentarono sotto al castello di
Trezzo, l'Adda, spaziando in men ripido letto, portava la navicella con
minor violenza, e nelle vicinanze di Vaprio, l'andava sempre più
accostando alla sponda, sicchè un raggio di speme tornò a brillare
sugli occhi di Rosalia. Di fatto ella fu dalla ritrosa trascinata rasente
ad un masso, che scalzato di sotto dal batter delle onde, formava una
grotta, dalla cui volta pendevano i radicioni e i torti rami d'un
caprifico. Ad uno di questi venne fatto a Rosalia di ghermirsi, e
coll'estremo di sua forza stringendolo,--Grazie al Signore, (esclamò)
eccolo salvato».

Respirò; con occhio consolato riguardò il suo bambino, e sul volto le
si fece tal mutazione, qual era successa nel cielo quella mattina. Il
fiotto tentava bensì di scostare il barchetto, ma essa, attenendosi con
ambe lo mani, ne vinceva lo sforzo. Cominciò poi a mirare d'intorno. La
rupe, dov'essa era fermata, sporgeva erta e discoscesa. Per quanto l'occhio
arrivasse, non si discerneva un approdo. In sulla sinistra dell'Adda,
stendevasi fiorita e verdeggiante la pianura, e per quella vigorosi
contadini e bizzarre Bergamasche attendevan giulivamente dietro alle opere
campestri; ma tanta era la lontananza, tale il rombazzo del fiume, che ella
non potea farsi intendere fin colà. Intanto il sole, giunto a mezzo del
suo corso, sferzava cocente il nudo capo di lei, procurandole un nuovo
tormento, quasi fosse destinata a tutti provarli in quel giorno. E le ore
passavano, e col fuggire di quelle cominciò ad accorgersi come la sua
posizione fosse mutata, non migliorata. Colà, soletta, scevra da tutti,
non vedeva modo come ajutarsi. Forse la disperazione avrebbe potuto
invigorirla ancora tanto, da ghermirsi di sterpo in sterpo, di ronchione in
ronchione, su fino alla vetta, ma e il bambino? Abbandonarlo non era neppur
pensiero che le nascesse, e con esso in collo, nè di muoversi tampoco le
era fattibile: solo per esso tenevasi così avvinghiata al ramo
salvatore.

Il bambino poco dopo si risvegliò, prese a guajolare, tormentato
dall'incomodo posare sugli assi, dalla fame, e dal sole che lo coceva anche
sotto ai panni, con cui, sciorinando il proprio capo e il seno, l'aveva
ricoperto Rosalia. Ogni suo strillo era un coltello al cuore della madre,
che tanto più addentro la trafiggeva, quanto erasi ormai creduta in
salvo.

E come chetarlo? Se abbandona lo sterpo, eccola di nuovo travolta nei
terrori di prima.--Forse è un villaggio qui vicino... ma, e se nol ci
fosse? se non arrivassero in tempo?» Allora tremava che il ramo non si
schiantasse, e viepiù lo stringeva, col furore onde chi affoga si
appiglia a che che gli si offerisca; e gelava e sudava qualora, intontita
dal sole, le paresse veder la rupe ondeggiare e cedere, o sentisse venirsi
meno la forza e fiaccar le giunture delle dita, che sbattevano in
convulsione.

Finchè però stava così, non poteva accarezzare il languido
infante, non premerlo al seno, non l'acquetare baciandolo, cullandolo sulle
ginocchia, fra le braccia. Più dunque non le restava che la voce, colla
quale il veniva confortando, lusingandolo a pazientare, a tacere, a
dormire: non temesse più: verrebbe presto il soccorso; tornerebbe a suo
padre, al suo tetto.... Fin qualche cantilena intonava per
addormentarlo.... cantava in quello stato, in quella agonia!

Ma il fanciullo nè ascoltava, nè smetteva il rammarichio e gli
striduli vagiti, che facevano a brani il cuore di essa. Tentava ella ogni
arte per accostarglisi, toccarlo almeno coi piedi, colle ginocchia, mentre
pure colle nude braccia supine aggavignavasi al caprifico. Più di una
volta fu per lentare le dita e lasciarsi ancora all'arbitrio del fiume, ma
non osava, e rompeva in più dirotto piagnisteo, che accordavasi con
quello del fanciullo in un'armonia di desolante pietà. Tratto tratto
ripigliando alquanto di lena, alzava un grido, il più forte che poteva;
udivasi l'eco iterarlo; l'eco insensibile come l'anima dell'avaro; gli
uccelli annidati fra quei macchioni, sbucavano strepitando, sparnazzando;
ma nessuno rispondeva; un momento dopo, tutto era rientrato nel silenzio,
appena rotto dal cozzare delle onde, che frangendo contro il masso,
facevano barellare il navicello.

Così la fiducia tornò a dileguarsi; più non videsi davanti che la
morte, resa anzi più atroce dalla necessità di eleggere tra
l'affrontarla col rimettersi alle onde, o sorbirla qui per estenuamento di
fame, con sugli occhi il languire affannoso, negli orecchi lo straziante
piagnucolare di quell'innocente. Quante miserie aveva essa mai osservate in
sua vita; quante madri infelici le erano occorse, tutte ora le tornavano a
mente: le une mendicanti dal duro passeggiero un tozzo da sfamare i
pargoletti; le altre, confitte sur un pagliericcio, inferme, senz'altro
poter dare alla loro prole che compianto; espulse di casa da prepotente
soldataglia, da disumani mariti, coi bamboli in collo;--ma i mali di
nessuna le parevano pari ai suoi: quelle avevano i piedi in terra, potevano
strascinarsi in cerca d'un alimento: destavano, se non altro, compassione
in chi le sguardava, ma essa!... Quante preghiere quel giorno non
recitò! quanti voci non fece! Se usciva da quel travaglio, se campava il
suo bambino, avrebbe digiunato tutti i venerdì, poi tutti i giorni;
portato di continuo un cilizio sulla nuda carne; visitato, ginocchione, i
Santuarj. Pareva che le preghiere la calmassero alquanto, la rianimassero;
ma come il suo bambino levava di nuovo i vagiti, smarrita, disperata,
ancora si dava a gridare, a bestemmiare, a maledire chi di tanti patimenti
le era cagione.

Il sole intanto calava; e la vampa, onde per tante ore l'avea
sferzata, dava luogo a quel piacevole ventare, che ricrea le sere in
riva ai fiumi. Già sulla spiaggia opposta Rosalia vedeva, oh con
che invidia! i bifolchi, togliendosi alle fatiche, incamminarsi ai
pacifici casolari: il boatiere cacciarsi innanzi la mandra pasciuta:
la fanciulla colla verga ravviare i branchi di paperi al pollajo. Era
l'ora del crepuscolo, l'ora delle rimembranze per chiunque godette,
per chiunque soffrì, per chiunque amò. Ma per Rosalia non veniva
che preludio di nuovi tormenti. La notte si oscurerebbe: se la fortuna
non aveva mandato nessuno a soccorrerla il dì, quanto meno la sera!
Pure di sopra al capo suo le pareva e no intendere un sussurro, una
faccenda:--Oh se riuscissi a farmi sentire!» E per quanto spossata,
alzò uno strillo,--il ripetè,--credette essere stata intesa,
perchè si fece silenzio: lo raddoppiò, e di fatto gente si
avvicinò all'orlo del masso, e--Chi è laggiù?» gridò una voce.

--Io... una infelice... ajuto, ajuto!» rispose la costernata.

--Ma come siete lì?» richiese la voce.

Ella non replicò se non--Ajuto! ajuto! prendete il mio bambino.»

Erano veramente persone, che passando l'avevano intesa: e come poterono
comprendere ch'ell'era una donna in pericolo di sua vita, pensarono a
salvarla. Ma come? il discosceso della rupe impediva, non che d'accostarsi,
nè tampoco di vedere se costei fosse nell'acqua, se in nave, se s'uno
scoglio. Andare per una barca sino a Vaprio era lungo viaggio, poi più
lungo il salire a ritroso della corrente; ella intanto si sarebbe affogata.

--Volete una corda?» le gridarono.

--Sì, sì... una corda: Ajuto, ajuto... subito... Il mio bambino
muore.»

Lesti adunque presero un canapo, che per buona ventura si trovava sul
carro, e lo calarono giù: ma parte che essi non sapevano il luogo
appunto ove ella si fosse, parte che il masso, sportando, teneva la corda
discosta dalla barca, mai non potè la infelice vedersela sì vicino,
che osasse abbandonare il suo ramo; e veniva dicendo:--A ritta--A
mancina--Non la posso prendere--Ajuto--ajuto!»

Finalmente la corda le rasentò la persona, onde la Rosalia, sicura omai
di poterla tenere, lasciò il ramo per ghermirla.

Ahi lassa! non appena sciolse la mano, l'acqua respinse la barchetta; la
fune tutta molle le sguisciò fra le mani, che intormentite non avevano
forza di fermarla; essa vide un'altra volta fuggir la riva; vide le persone
che dall'alto del sasso la stavano additando, compiangendo, gridando
accorr'uomo. Protese le braccia esclamando--Ajuto»; sollevò verso di
loro il suo bambino; li commosse a tenerezza, ma essi più non sapeano
via di soccorrerla; il fiume già l'aveva tratta lontano, già la
portava impetuoso.

L'ultima occhiata che la Rosalia volse al lido, le mostrò un pio
sacerdote, che, a vederlo, pareva le gridasse a gran voce la formola
dell'assoluzione dei peccati, alzando la destra in atto di benedirla:
mentre tutti i circostanti, piegate le ginocchia, oravano per lei, come si
ora per l'uomo in agonia.

Essa ricoricò il suo bambino, poi lasciossi in abbandono cader sul fondo
del perduto barchetto. Fra tanti e sì variati patimenti, fra il digiuno,
fra la nausea, fra la speranza tante volte nata e tante sparita, solo
l'amor materno l'aveva tenuta in vita; ora prevaleva l'ambascia; le si
offuscarono gli occhi, più non vide, più non udì...

Possa il suo pensiero in quegli ultimi istanti essersi affratellato a quel
dei fedeli, pietosamente preganti in sulla riva, per domandare con essi dal
Cielo quel rimedio, che più dalla terra non poteva aspettare!



CAPITOLO VIII.

I DISASTRI.


L'uccisore di Rosalia frattanto, guadagnata la riva, traversò le rovine
di Lecco, monumento di vendetta pubblica: rivide la macchia, fra cui esso
aveva concepito la vendetta privata, che ora tornava d'aver compiuta;
entrò nella rôcca, nella camera sua, e respirando come persona giunta
al termine di un difficile cammino, buttandosi sui letto esclamò:--Alla
fine son contento.»

Ma contentezza non segue al delitto, neppure in chi vi ha fatto il callo:
le gioje che esso procura sono tempestose, come l'inferno da cui procedono.
Quelle coltri, quel materasso riuscivano ispidi, pesanti per Ramengo;
voltavasi, contorcevasi, volendo pure a sè medesimo simulare
tranquillità, chiudeva gli occhi, si provava di dormire, ma rivenendo in
sè, trovavasi averli spalancati, fisi, incantati sopra i fantasmi che
l'immaginazione gli presentava. Non erano fantasmi di paura, ma quei della
donna sua, del figliuolo, delle loro ambasce; e lì immobili, confitti
alla proda del suo letto, al capezzale, alla porta: sicchè non potendo
stornarli, procurava mutar lo spavento in un'atroce dilettazione. Balzò
di su la coltrice, salì sulla vedetta: e quivi fermi gli sguardi
lampeggianti sopra il lago, col fosco crine spartito sulle due tempia
convulse, il pugno sopra la spada, l'altra mano aggrappata ad un merlo, si
sarebbe detto una statua posta colà ad ornamento o a spauracchio.
Tentennò poi risolutamente il capo, e proferì:--Sei là! là in
mezzo. Maledetta! perchè non dura eterna questa notte? perchè non
può colei sentir in essa tanti affanni, quanti da due mesi a me ne ha
fatti soffrire!»

Poi mirò farsi bujo verso tramontana, e un nebbione, quasi densa fumea
di fornace, avanzarsi radendo il lago: previde la burrasca, e ne
tripudiò: tripudiò quando la vide scoppiare: ogni groppo di vento che
rompesse, ogni fulmine che cascasse, egli trasaliva d'infernale piacere,
nella frenesia della rabbia figurandosi quel che ne patirebbe la donna.
L'acquazzone tutto il lavava; gli strideva tra le chiome il vento;--e' non
lo sentiva; non sentiva altro che l'ardore della vendetta.

Solo al primo albeggiare si tolse da guardare il lago; e salito a cavallo,
uscì furiosamente lunghesso la riva se mai essa vi fosse approdata, se
piuttosto la procella ne avesse rigettato il cadavere. Nulla vide, nulla ne
intese raccontare, onde fu al colmo della soddisfazione, sperando che,
com'era stato suo disegno, il lago avesse inghiottito e la vittima e le
traccie del delitto. Su quei primi giorni mascherò il rimorso con una
smania di operare; spedì attorno a cercare se mai il nembo o la piena
avessero fatto pericolare alcuno: sotto veste di esplorare gli andamenti di
certe bande che infestavano la valle San Martino, mandò di qua, di là
scorridori che gli riferissero a minuto quanto udivano, ma nessuno gli fe'
cenno di una donna affogata: onde esclamò:--Hai pur dato l'ultimo
tuffo!--Possa la tua agonia essere stata lunga, affannosa quanto te
l'auguro io, quanto la meriti! Possa io un giorno, come ho goduto, della
tua morte, così godere di quella dell'infame tuo drudo!»

A chiunque abbia idea della disordinata prepotenza dei governi militari in
ogni tempo, e della confusione speciale d'allora, quando, per troncare un
viluppo inestricabile, fu fatto uno statuto[16] che nessuno si ricercasse
per delitti commessi durante la guerra di Monza dal primo novembre 1322
all'undici dicembre 1324, sarà agevole spiegare come veruno
giuridicamente chiedesse conto a Ramengo della donna scomparsa; in privato
poi, coi subalterni gli valeva la superiorità per farli tacere: coi pari
e coi superiori non gli mancavano sfuggite e pretesti. A Lecco diede voce
che la Rosalia fosse andata a Milano: a Milano che fosse corsa ad unirsi
co' suoi parenti forusciti; poi che era morta, morta lei, morto il bambino,
e se ne finse accorato, celando il suo delitto sotto impenetrabili
apparenze, come celato lo aveva la superficie del lago, cui unicamente
l'aveva confidato.

La prima volta che di ciò fu inteso, il giovane Pusterla se ne mostrò
tocco nell'anima, siccome succede allorquando vediamo peccare chi più ci
pareva dabbene; allorquando vediamo chiuder il libro della vita chi non ne
avea scritto ancora che pochi fogli. E non rifiniva di chiederne; e
s'ingegnava di consolare Ramengo, prima colla speranza che certo ella
tornerebbe al marito, al dovere: poi, dopo credutala estinta,
coll'enumerarne le belle doti, e rammentare certi atti minuti, certe
leggiere parole, che tra i casi ordinarj sfuggono innotati, ma che tornano
a mente vivacissimi allorchè scomparve quello alla cui memoria erano
attaccati.

Ma questa commiserazione, questi encomj, ben altro suono facevano a
Ramengo. Non già ch'e' fosse cotanto geloso dell'onor suo che credeva
oltraggiato: ma la commiserazione faceva dispetto a lui, bramoso di
eccitare invidia: e nella ribalda anima sua il rimorso palliavasi sotto
altri affetti, dei quali soli era capace: odio, disprezzo, vendetta.

Sebbene verun tribunale, veruna potente voce chiamasse conto a Ramengo
dell'operato, sì lo interrogava fieramente una voce interna, quella che,
se i gran malvagi asseriscono di non sentire più, o mentiscono, o il
vero è che l'hanno soffocata sotto altre voci, principalmente sotto alla
smania che gli invade di nuovi delitti. Come l'ubbriaco, allorchè il
vino comincia a fargli dar volta al capo, crede ripararvi col berne del
nuovo: come una donna che d'una prima infedeltà sentesi spinta a
cancellare la memoria col commetterne di nuove, e sostituire la vorticosa
illusione della voluttà alla severità dell'innocenza perduta e al
salutare stimolo della coscienza; tale Ramengo per rapirsi allo strazio del
primiero misfatto provava una diabolica necessità di consumarne di
nuovi. E com'è sottilissimo l'amor proprio a trovare scuse fino alle
atrocità; così Ramengo versava ogni colpa sua sul Pusterla: fingeva a
sè stesso di avere amato Rosalia d'immenso amore, sinchè tra i loro
cuori non si frappose quell'esecrato: esagerava le speranze che avea
fondate su quel fanciullo; e col lungo fingere un tal sentimento, talvolta
Ramengo ritrovava in sè un vero rammarico di avere perduta quella sposa,
di cui gli ricorrevano a mente le rare doti del corpo e dell'animo, e le
dolcezze ch'essa gli prometteva.

Più ancora compiangeva il perduto figliuolo: così è dolce cosa a
tutti il vedersi crescere intorno un bambolo, col quale ritessere il
cammino della vita: così all'ambizioso è caro il poter erigere su
quello la speranza e i disegni dell'avvenire! Nè poteva Ramengo
ripiegare con un nuovo matrimonio, poichè da una parte la vulgare
opinione aggiungeva non so che obbrobrio alle seconde nozze e a chi le
contraeva; i feudatarj ne esigevano una tassa a profitto delle loro stalle:
obbrobrio che, a chi pretendesse trovar ragioni delle popolari ubbie,
parrà strano davvero in tempi che nessuno se ne apponeva al concubinato,
all'adulterio. Ma se questo riguardo era gittato alle spalle dai principi e
dai maggiori cittadini, doveva rispettarlo Ramengo, smaniato com'era di
salire, e quindi in necessità di accarezzare e i vizj de' magnati e i
pregiudizj de' volgari. Dall'altra parte chiedendo una seconda sposa poteva
indurre e questa e i parenti a cercare più sottilmente l'esito della
prima moglie, e rimestare così una sucida pasta.

Doveva dunque dire addio alle casalinghe consolazioni, smettere la lusinga
di potere, quel che a stento gli veniva fatto per sè stesso, montare
sublime per via di un figliuolo. Ma, anzichè accettare ciò come
conseguenza e punizione del suo misfatto, non volea vedervi che una ragione
onde portare peggior odio al Pusterla, onde concentrare su lui solo tutto
l'astio, che era un bisogno dell'anima sua, e che dapprima sfogava contro
la povera Rosalia.

Però una vendetta subitanea e violenta poteva fallirgli, e venire
punita, e non corrispondeva agli spasimi che nella sua immaginazione a lui
preparava. Conservò dunque le apparenze di servitù e di amore verso i
Pusterla, anzi le raffinò, come è stile dei traditori: non avresti
detto potersi dare altri più zelante dell'onor di quella casa: ma
intanto ne spiava ogni andamento, simile al lupo cerviero, che con lunga
persistenza seguita la vittima che destinò pasto alla rabbiosa sua fame.

Corsero gli anni: al Pusterla incontrarono i casi che già accennammo, e
si sposò colla Margherita Visconti. Ramengo, siccome cliente della
famiglia, assistette alla pompa della benedizione conjugale: e quel sacro
istante, in cui il cuore balza fra due vite, fra i desideri del passato e
le promesse dell'avvenire, ricordò al feroce il momento in cui egli
erasi giurato amore colla sua buona Rosalia. Vide poi la tenerezza e la
felicità spargere fiori a gara intorno e sopra della Margherita: con
invidioso struggimento vide il suo abborrito diventar padre d'un vezzoso
fanciullo: la beatitudine che quello godeva nelle incolpate mura
domestiche, gli riaprì, se mai erasi rimarginata, la ferita onde in
grazia di lui dicevasi trafitto.--Ecco! a me rapita una moglie, un
figliuolo: messa nell'animo mio questa procella.... tutto per colpa di
lui... ed egli nel colmo d'ogni felicità! E quel bambino? Oh un figlio!
se avessi io pure avuto un figlio! quanti ineffabili gaudj! quante floride
speranze! Poter anch'io amare, poter destare invidia! E non l'avrò
mai... mai! Colpa di chi? Ed egli lo ha... e così bello! Ha una donna...
una tal donna! Oh potessi turbargli cotesti godimenti! oh potessi mescere
alle sue labbra un sorso del fiele, di cui esso ha attossicate le mie!»

L'astio (tant'è versatile!) assunse perfino le apparenze di amore.
Perocchè, o rimanesse veramente preso anche Ramengo alla virtù e alla
bellezza della Margherita, come se un demonio s'invaghisse d'un cherubino:
o non si tenesse per pagato fin a che non ricambiasse collo scorno lo
scorno che dal Punteria pretendea aver ricevuto, incominciò a
corteggiare la costui moglie. E prima le venne in atti ed in parole
prodigando le lusinghe, da cui ella potesse argomentare come di lei vivesse
passionato: spinse quindi la sfacciataggine fino al punto di richiederla
apertamente di amore. La Pusterla vedevasi di così immensa distanza
superiore a colui, del quale, se non sapeva tutte le nequizie, indovinava
per istinto la maligna natura, che dalla sozza sua persecuzione affatto si
trovava sicura, e senza farne motto a veruno, le parve assai castigarlo col
disprezzo. Ramengo però non era uomo da fare come sbigottito e vinto al
primo colpo: anzi viepiù s'infervorava, fosse per punta, fosse
perchè, confidente nei meriti suoi, come suol essere chi non ne ha,
credesse potere coll'assiduità riportare una vittoria, tanto più
gloriosa quanto più difficile. Oltrechè fermamente erasi proposto di
cominciare le sue vendette contro il Pusterla dal contaminarne la donna: e
quando pure non vi dovesse riuscire nel fatto, anche le apparenze gli
sarebbero bastate; bastato che la vulgare malignità trovasse onde
appuntare la Margherita, e turbare i sonni a Franciscolo.--Ma costei
(diceva tra sè) non è costei come tutte le donne? A qual di esse
torna ingrato un omaggio che si presti alla loro bellezza? Oh cadrà,
cadrà: venga solo l'occasione».

E l'occasione parvegli venuta nell'incontro che sto per dirvi.

Sebbene non ancora tanto divulgata come si fece poi nel secolo XVI e nel
seguente, pure già correva allora l'opinione, che un uomo potesse far
patti cogli spiriti dell'inferno, ed acquistare così una facoltà
soprannaturale, alcune volte di giovare, più spesso, di nuocere altrui.
Sapevasi che versiere e stregoni potevano destare i turbini e quietarli;
ogni temporale si credeva da loro suscitato; e ne trovavano irrefragabili
prove nelle strane apparenze che assumevano le nubi accavallandosi, e nelle
quali l'immaginazione ravvisava figure di giganti, di bestie, di demoni.
Gli astrologhi, generazione molto attenente alle cose della magia, davan
norme ai principi, che dal cenno di essi facevano dipendere le azioni loro,
le guerre, le partenze. Ove, per dirne una sola, ricorderò l'avventura
del Petrarca che, mentre nel nostro duomo recitava un'adulatoria orazione
per l'inauguramento di Bernabò, Galeazzo e Matteo Visconti, si vide sul
più bello interrotto da quell'astrologo Andalon del Nero, che altrove
mentovammo, il quale aveva scoperto esser quello il preciso minuto della
combinazione di stelle migliore per fare la cerimonia. Ogni malattia poi
alquanto bisbetica veniva attribuita a fascino e sguardo maligno: erano
fatture di streghe gli accidenti, di cui l'uomo o non sapeva render ragione
o non aveva coraggio d'incolpare sè stesso: e credevasi ch'elle si
congregassero, certe notti, in certi luoghi, a tenere i loro conciliaboli
infernali.

Nè tutte queste opinioni erano germogliate unicamente nelle teste
plebee: forse anzi si apporrebbe chi dicesse al contrario non essersi tra
il vulgo radicate se non in grazia delle discussioni e degli ordinamenti di
chi dirigeva il vulgo. Le città dettarono leggi contro i maliardi:
qualche chiesa introdusse formole per esecrarli e scongiurarli; i sapienti
ne discutevano di proposito e sul serio; quando poi i tribunali
processarono per delitti di malía, la credenza diventò certezza:
volevate che i giudici e i tribunali s'ingannassero? Da una parte dunque
ridotta a sistema, questa opinione si confermò in coloro che
pretendevano di sapere, dall'altra, sparsa tra il vulgo da parabolani
d'ogni abito e d'ogni condizione, acquistò fin al segno, da parere
bestemmiatore ed eretico chi ne dubitasse.

Crescendo adunque il potere e il numero degli streghi a misura delle
persecuzioni, anche i ripari e gli antidoti si moltiplicarono: e mentre la
classe culta aveva scongiuri e fiamme, il popolino ne praticava di meno
empj e atroci; ad ubbie opponeva ubbie; e tra siffatti rimedj,
efficacissima era tenuta la rugiada della notte di San Giovanni. Chi si
bagnasse a quella, asserivano poter tutto l'anno vivere sicuro da
fatucchiere: certe erbe sbocciate e côlte in quella notte, erano il
tocca e sana degl'incanti. La quale opinione si collega ad altre che qui
non è il posto di commentare, ma di cui alcuna traccia è rimasta viva
fin nel secolo delle macchine a vapore, sì in Italia, sì fuori. In
tutto il nord, dalla Svezia alla Sassonia e sul Reno, si accendono ancora
grandi falò pel San Giovanni; un Inglese trovandosi in Irlanda la
vigilia di quel giorno, fu avvisato non si meravigliasse se a mezzanotte
vedrebbe accendersi dei fuochi su tutte le alture del contorno[17]; a
Newcastle le cuciniere fanno quella sera fiammate di gioia, a Londra gli
spazzacamini vi menano danze e processioni in vestire grottesco; in una
valle della contea di Oxford, detta Caval Bianco, si raccolgano tutti i
vicini a _ripulire_, come essi dicono _il cavallo_[18], cioè a svellere
l'erba da uno spazzo sterrato, che rappresentava un cavallo colossale, ed a
passarvi la giornata fra campestri allegrie. Io so di paesi lombardi ove,
malgrado le proibizioni, quella notte suonano continue le campane:
fanciulletto fui più d'una volta, da qualche femminella all'antica,
condotto a ricevere la guazza di San Giovanni, e in diversi luoghi mi
furono mostrati enormi noci, i quali, fin a quella sera conservatisi aridi
come di gennajo, la mattina si trovano verdeggiare del più folto e gajo
fogliame.

Ai tempi della nostra Margherita, in proporzione della fede o della
corrività, più solennemente celebravasi la vigilia di San Giovanni.
Dal cadere della sera fino all'alba successiva non tacevano mai le squille
sui centoventi campanili della città, affinchè le streghe, a cui, se
nol sapeste, è spaventosissimo lo scampanio, non potessero cogliere le
erbe nocevoli, nè impedire con loro malizie che fossero côlte le
preservative: intanto la gente non velava occhio per uscire garagollando a
ricevere la guazza miracolosa. Era quindi una specie di festa, un
berlingaccio notturno. Nei villaggi, adunati tutti alla campagna, su
qualche aja, in certi luoghi da ciò, i villani, al suono di zampogne e
cornamuse, canticchiavano, ballonzavano, pregavano: dico la gioventù,
nel mentre che i vecchi strascinatisi anch'essi pigramente al lampaneggio,
ripetevano una litania di storie di streghe: una donnicciuola assicurava
d'avere ella stessa veduto il tale o tal caso: l'altra di avere conosciuto
due, tre, più fatucchiere: quale, intender ogni notte un gatto miagolare
sul tetto della vicina: quale sentir la sua pigionale, di mezza notte,
massime quando il marito non fosse in casa, aprire e bisbigliare,
certamente, col foletto; il maggior numero e le più sincere si erano
quelle che assicuravano in vita loro non aver mai patito di malíe,
perchè mai non aveano lasciato di bagnarsi alla rugiada del San
Giovanni.

La Chiesa, che in tutto allora interveniva, neppur qui mancava: come si
continuò fino a noi nella solennità del Natale, così allora in
quel giorno si celebravano tre messe, una a mezzanotte, l'altra all'alba,
la terza sull'ora nona. Durante e dopo la messa notturna, si cantava un
ritmo, cioè un inno, una sequenza, lunga e di metro variato, della quale
pongo qui sotto per saggio alcune strofe[19]; la cantavano preti e
chierici; e il popolo, a tutta gola e cogli spropositi onde suol rifiorire
i cantici latini, rispondeva per ritornello:

   _Quam beatus puer natus
      Salvatoris angelus,
    Incarnati nobis dati
      Verbi vox et bajulus._

In Milano, senza ch'io vel dica, immaginerete che la solennità era
più raffinata e clamorosa. Niuno sarebbe rimasto fra le mura: tutti
uscivano chi di qua, chi di là; i più verso una selva, posta dove
ancora si dice San Giovannino alla Paglia: ed era una gara delle donne di
venirvi in begli abiti bianchi e divisati, che facevano singolare spicco al
bujo della notte; scollacciate secondo che portavano l'usanza e la
stagione, e con una vaghezza di fiori in capo, in mano, alla cintola, al
lembo delle vesti. Molte in coro intonavano certe canzoni, di semplici
note, cui gli uomini tenevano bordone; altre ad allegre sinfonie menavano
vivaci carole: non potendo nel recinto di quella selva penetrare nè
lettighe nè cavalli, e trovandosi a ronzare tutti a piedi, indistinti i
nobili dai plebei, i ricchi dai pezzenti, tolto di mezzo l'oltraggioso
ricordare della diversità delle fortune, nasceva una libertà sicura e
procace, somigliante a quella dei balli mascherati in carnevale. La notte,
la folla, l'allegria non è mestieri ch'io vi dica di quanti disordini
fossero cagione od incettivo in tempi come quelli.

Se la Margherita credesse anch'ella e temesse le streghe e le altre
superstizioni, non ho argomenti nè per asserirlo, nè per negarlo;
è probabile di sì, giacchè, quando un errore è divulgato,
troppo poche sono le menti privilegiate che ne siano tenute monde dallo
spirito di osservazione e dal rifiuto dell'opinione popolare. Fatto è
che colla folla soleva anch'essa colà condursi, ed unita alle compagne,
prendersi onestamente sollazzo, andando in ronda quanto la notte durava.

Credette valersene agli effetti suoi il vile Ramengo, e standole
indivisibile al fianco siccome un rimorso...

I cronisti, da cui ricaviamo tutta questa serie abbastanza sconnessa di
fatti, sebbene in alcune particolarità usino troppo più licenza che
nol comporti la raffinatezza degli orecchi moderni, qui non discendono a
chiarire la cosa; nè altro appare, se non che Ramengo si avvicinò
alla Margherita; e quanto insolente si comportasse il possiamo argomentare
da ciò, che ella, tutta gentile e temperata che era, lo percosse d'uno
schiaffo.

Per un'anima bieca che, simile ad un vaso fetido ove si corrompe anche la
rugiada che vi caschi, convertiva in occasioni di scelleraggine fino i
più soavi affetti, non domandate se questa fu profonda, immedicabile
ferita. Nol rimorse la propria colpa: solo vide l'orgoglio suo oltraggiato,
il contaminato onor suo: la sete di vendetta, che già lo stimolava
contro dal Pusterla, altrettanto e più fiera s'accese ora contro della
donna di lui:--Sì, sì; un colpo solo le farà scontare tutte.
Orgogliosa! ti avrà a tornare a mente la notte del San Giovanni!»

Di questo accidente la Margherita non credette opportuno far cenno al
marito: infatti a che pro? quanto a sè, tenevasi più che abbastanza
sicura contro un essere tanto spregevole: dal manifestarlo allo sposo
potevano nascere e turbazioni e guai vicendevoli. Ramengo però da
quell'ora non osò comparire in casa i Pusterla; le prime volte che si
avvenne in Franciscolo, il cansò studiosamente; ma dal modo con cui egli
si comportava seco qualora lo trovasse in altre case, o nelle comparse, o
sotto ai coperti, ebbe a chiarirsi che nulla sapeva dell'occorso; si
rassicurò, non si mitigò. Prese anzi maggior corruccio dal conoscersi
disprezzato, e nè tampoco creduto degno di ira: e poichè l'odio dei
tristi grandeggia di tutta l'altezza onde il nemico sovrasta ad essi, gli
pareva non aver bene di sè, finchè coloro non avessero redento col
sangue i fattigli oltraggi. Sulla casa ove più non ardiva portare i
passi, teneva aperti gli occhi indagatori: già vedemmo con quali
seduzioni lusingasse Luchino a voler contaminare la bella donna: sapendo
poi la ruggine che era tra il Pusterla e i Visconti, confidava non
tarderebbe l'occasione di rovinarlo. Un'accusa è così presto trovata!

Quasi un anno era passato dal caso che vi raccontai, ed il prossimo ritorno
della solennità di San Giovanni aveva rincrudita in Ramengo la mal
saldata piaga. Le disposizioni dei cittadini per festeggiare quella notte,
da cui tre giorni appena li dividevano, i preparativi delle donne, il
tripudio con cui ne ragionavano i fanciulli, pei quali un dì festivo
è un avvenimento, suscitavano in lui una maggiore furia di dispetto. Or
pensa, lettor mio, se a gran disegno gli venisse l'imprudente colloquio di
Alpinolo, il quale gli poneva in mano uno stilo avvelenato, onde colpire
non la sola Margherita e il consorte di essa, ma quegli altri amici,
ch'egli esecrava appunto perchè amati da loro; e nel tempo stesso gli
lastricava la via di sollevarsi nel favore del principe con questa prova di
zelo. Ambizione! l'idolo suo: e per raggiungerlo v'era di mezzo la testa
dei suoi nemici.

Recatosi dunque alla Corte, e ottenuto accesso al signor Luchino, gli
rivelò la gran trama, e ben crederete che trovò i colori più neri
per aggravare la colpa e l'idea del pericolo. Il tornare secreto del
Pusterla a Milano, abbandonando la sua destinazione, già dava titolo a
sospettare: fresca era la memoria di Piacenza, perduta da Galeazzo, (noi
l'abbiamo accennata parlando di frà Buonvicino), appunto per maneggi
d'un marito oltraggiato: Luchino poi e sapeva di meritar l'odio di molti,
ed agognava l'occasione di punire su Margherita le virtuose ripulse. Quando
il tristo può ritrovare un pretesto onde, sotto velo di giustizia,
mascherare l'iniquità, non ha egli il suo voto?

Dalla relazione di Ramengo appariva che i primi da cogliere dovevano essere
o il Basabelletta o Alpinolo: e secondo le deposizioni di questi, regolarsi
per gli altri. Ma Alpinolo era conosciuto come un fiero, che avrebbe
resistito a qual volessero maggiore tormento, anzichè peggiorare in
nulla la causa dei suoi benefattori: avrebbe anzi voluto in ogni guisa
scaricarli, a costo della propria vita: vita d'uomo oscuro, e quindi di
poca importanza. Parve dunque miglior consiglio porre lo mani addosso al
Basabelletta; poco interesse aveva costui a tacere: e la corda gli
strapperebbe quante confessioni bastassero per procedere, non importa se
giustamente, ma legalmente, contro degli altri che più stavano a cuore.

Coll'abituale suo passo violento, e balestrando gli occhi in qua e in
là, attraversava Alpinolo la piazza del Duomo, sempre infervorato nelle
medesime fantasie; allorchè ode chiamarsi con voce sommessa e
incalzante. Si volge, e ravvisa uno dei sergenti del capitano di giustizia,
col quale egli soleva non di rado trovarsi in radunanze popolari, al
giuoco, negli spettacoli, sulla taverna, luoghi che Alpinolo bazzicava per
moltiplicare a sè ed alla buona causa amici e fautori tra la plebe e tra
la gioventù. E gli giovò: poichè colui, passandogli a fianco, con
aria di misterioso sgomento, gli disse:--Seguimi»; e senza mostrare che
fosse fatto suo, piegò verso il Broletto nuovo, e quivi ridotti in uno
di quei chiassuoli, badato ben bene che nessuno gli ponesse mente,--Va,
(disse ad Alpinolo con voce affannata) va, e fuggi, e fa fuggire subito il
Pusterla.

--Ma perchè?

--Il signor Luchino manda ordine che siano incarcerati lui, la moglie,
tutti voi altri.

--Ha forse scoperto?...

---Sì: ogni cosa; hanno messo alla tortura il Menclozzo ed ha
schiodato...

--E chi fu la spia?

--Dio lo sa! Nessuno ha parlato oggi col principe fuorchè Ramengo.

--Ramengo!» proferì Alpinolo, spalancando gli occhi con aspetto e con
voce d'un terrore disperato. Dunque era un traditore quello di cui egli si
era interamente assicurato! dunque di un tal precipizio era colpa la sua
imprudenza! Urlando e bestemmiando sè e lui, neppur fece motto al
benevolo sergente (dei ribaldi ci conservarono il nome le cronache; questo
benedetto non parve degno di menzione; stile vecchio), e viepiù che di
passo corse Alpinolo giù per la via dei Mercanti d'oro [20]; fu alla
Balla, e fattosi alla porticina posteriore della casa Pusterla, bussò
violentemente.--Oh, oh? volete sfondare l'imposta?» gridò una
vociaccia di dentro; e si vide da un finestruolo da lato sporgersi una
testa nera e barbosa, con due occhi sdrusciti e uno sberleffe attraverso
alla gota. Costui, che chiamavasi Franzino Malcolzato, erasi acquistato pel
paese un tristo nome di fastidioso e manesco, a molti appoggiando e pugni e
brave coltellate, ora per conto suo proprio, ora per l'altrui, finchè fu
tolto al servizio del Pusterla. Un signore anche buono tenevasi sempre agli
stipendj alcuno di questi bassi scellerati, sì perchè fosse uno
strumento di meno in pugno dei suoi nemici, sì anche per potersene
all'uopo servire contro di essi, in tempi che la giustizia si faceva troppo
spesso a punta di spade e di pugnali, o almeno a bastonate.

Quest'arnese, come vide e conobbe Alpinolo, tosto gli ebbe dischiuso.

--Dov'è il signor Franciscolo?» chiese il giovane pressato.

--È fuori.

--E Margherita? la signora?

--Attorno anch'essa.

--Ma dove, in nome di Dio?

Il Malcolzato non rispose che facendo spalluccie. Ed Alpinolo imperversando
e bestemmiando, corse alle scuderie, saltò sul cavallo più corridore,
e lanciollo a tutta briglia per correre dove potesse immaginare che i
Pusterla si fossero condotti; e l'ultima parola che ne intese il Malcolzato
fu:--Maledetto Luchino e chi fa per lui!»

--E maledetto sia,» replicò egli guardando dietro al garzone, il
quale se n'andava che nè anche il vento: poi, per incantare la noja del
far la sentinella, sedutosi s'un muricciuolo daccanto alla porta, diede
occhio alla serpe viscontea che era dipinta quivi sur uno stipite, e
zufolando la guardò beffardamente. Già aveva mal sangue coi Visconti
perchè gl'impedivano di esercitare liberamente le sue prepotenze; in
quella casa era solito udir parlarne tutt'altro che col miele sulle labbra;
ora, ispirato anche dalla sonora imprecazione di Alpinolo, così per
celia raccolse un pezzo di carbone, e attorno a quell'arma disegnò, come
sapeva, due pali ritti ed uno traverso, che dovevano significare una forca,
dalla quale scendeva una soga che si attortigliava al collo del biscione. E
guardando la sua fattura colla compiacenza onde Hayez può aver guardato
la Giulietta o la Stuarda da lui create, sghignazzava, e ripeteva con una
certa buffa intonazione:--Il biscione impiccato! impiccato il biscione!
così vada il suo padrone».

Stava il tristo nella goffa estasi sua, quand'eccogli addosso il temporale.
Perocchè all'ordine di Luchino, il connestabile Sfolcada Melik, con una
grossa banda di quei mercenarj suoi compatriotti, che Luchino comprava per
sua difesa perchè ignoravano il parlar nostro, non badavano alle
scomuniche del papa, nè cedevano a lusinghe di novatori, mosse tosto per
sorprendere in casa i gran ribelli. Allo scalpitare dei cavalli, al grave
passo dei pedoni, uscivano dalle botteghe, facevansi alle finestre le
persone;--Che è? Che non è?--È Sfolcada Melik, che Dio ce ne
scampi!--Dove vanno? perchè vanno?--Guarda, guarda, hanno seco picconi,
arieti, scale. Che vadano a pigliare una fortezza?»

I più quieti lavoratori si accontentavano di guardar dietro alla truppa,
stando a sportello o sui balconi; altri, come facchini, carbonari,
macellaj, correvanle dietro, e domandavansi un l'altro dove andassero, e
nessuno sapeva soddisfarne la curiosità. Vedendoli drizzarsi alla Balla:
--E che si che vanno a far la festa al signor Barnabo? o al bel Galeazzino?
Già, dà ombra a Luchino--già ne è geloso».

Ma la sbirraglia volta.--Sta a vedere! si fermano al vicolo
Pusterla;--appoggiano le scale al verone.--Vedi ve' colui come s'arrampica!
e' par tutto un orso!--Come?--Chi?--I Pusterla?--O Madonna di San Celso!
Son miei protettori. Scappa, scappa, che non mi credano del loro
partito».

E i più scappavano: il che chiamasi prudenza; gli altri stavano a
guardare, ma nella rispettosa distanza in cui li tenevano le labarde dei
soldati di Sfolcada Melik: parte dei quali dava da qui l'assalto alla
porta, alle finestre, fino al tetto; un'altra, alla guida di uno, che la
buffa calata sul viso impediva di conoscere, svoltò nella via dei
signori Piatti, e arrivò addosso a Franzino Malcolzato, intento a quel
giuoco che dicemmo.

--Una forca! impiccato il biscione! minacciata la forca ai Visconti! Ecco:
fin ai servi sono nell'intelligenza!» Così diceva alcuno, forbottando
e legando il Malcolzato, a cui una sbarra cacciata in bocca impediva di
gridare, come le corde gl'impedivano di rispondere ai molti pugni, onde
valorosamente il percotevano i Tedeschi.

Per quell'usciuolo intanto, e giù per le finestre e dal tetto erasi
versata nel palazzo la piena assalitrice, prendendo i pochi servi trovati;
poi si diffuse per le stanze come assaltasse un castello nemico, cercando i
gran malfattori, e tra via facendo profitto per sè col cambiar di
padrone al buono e al bello che capitasse sotto le mani.

Ma innanzi a tutti davasi da fare quel tale dalla visiera calata, e che,
mostrandosi pratico della casa, con vera passione frugava le camere, e
pareva scontento a mano a mano che, entrando in una, la trovava deserta, od
occupata da tutt'altri che da quelli che cercava. Quando in una galleria
vide Venturino, il bel fanciullo della Margherita, che infantilmente
trescava con uno sparviero, senza udire o temere il fracassìo che
attorno al palazzo succedeva. Col labbro tremante nel più amaro
sogghigno, si avventò contro lui quel malvagio, il ghermì, lo
fissò quasi volesse sbranarlo cogli occhi; e mentre il meschinello
strillava a tutta gola, e chiamava il babbo, la mamma sua, egli lo serrava
ferocemente contro al petto, e gli chiedeva con istanza,--Dov'è tua
madre?» Ma poichè egli non rispondeva se non con urli e lacrime, esso
lo minacciava, il percoteva, e senza un istante abbandonarlo, continuava le
indagini per ogni camera, per ogni ripostiglio più secreto. Che se non
poteva trovare nè il Pusterla, nè la Margherita, raccoglieva però
le armi, le valigie disposte, tutto ciò che potesse attestare o la
presenza di Franciscolo in Milano, o i preparativi di una rivolta:
singolarmente fu lieto al trovare la lettera che Matteo Visconti, per mezzo
del Pusterla, avea da Verona inviata ai suoi fratelli. Fatti poscia
incatenare i servi, già s'accingeva a partire non del tutto soddisfatto,
quando, nel metter il piede sul ponte levatojo, vede affacciarsi la
Margherita.

Nella carestia che allora dominava, molte donne, per vera fame, aveano
fatto getto della loro onestà. Là verso Sant'Eufemia abitava una
famigliuola, ridotta a tale necessità, che i genitori diedero ascolto
alle sozze sollecitazioni di un ricco, promettendo alle voglie di esso una
loro figliuola, purchè egli provvedesse ai loro bisogni. La fanciulla,
allevata nelle massime dell'onestà e nel timor di Dio, non reggeva
all'idea desolante d'un amore senza virtù e senza avvenire; supplicava
il cavaliero, supplicava i parenti; ma quello al mal talento, questi alla
fame più volentieri porgevano orecchio. Ridotta alle strette, la zitella
ricorse alla Margherita, e non fu invano, che i soccorsi di lei
risparmiarono un delitto. Ora, sopraggiunta a lei l'inaspettata partenza,
volle dapprima compire l'opera sua, e sebbene affaccendata nell'allestirsi
al viaggio, trovò un momento da correre a casa della meschina, nell'ora
che sapea d'incontrarvi il nobil uomo. E quivi, non dandosi per intesa
degli indegni patti ond'egli entrava colà, tolse a lodarlo della
carità usata con quella gente; gli espose come ella avesse trovato un
marito alla fanciulla, un onesto cardatore di pannilani, e che domani si
farebbero le promesse; talchè egli era in tempo a mostrare la sua
generosità.

Il ricco, preso da siffatta bontà, che non tocca mai tanto come quando
è vôlta sul consolare gli altrui patimenti, fece come la Margherita
volle; fu chiamato lo sposo, dato l'anello, e la Margherita se ne partì
tra mille benedizioni di quella povera gente, che instava perchè ella
domani assistesse ai contenti da lei preparati.

Oh le benedizioni dei poveri fruttano sempre, ma non nell'infeconda terra
delle tribolazioni.

Mentre, imbaccucata nella mantiglia, la Margherita tornava, vede trar
gente; avvicinandosi, s'accorge d'un serra serra intorno al palazzo:--Che
sarà?» al cuore di una sposa, di una madre, quanti spaventi! Tra la
folla, tra la soldatesca si apre il passo; più d'uno le
diceva:--Fuggite, salvatevi!» ed ella stessa, giunta al lembo della
calca, vedendo quell'invasione nel palazzo, stava in forse d'andarsene,
allorchè mirò uscire dalla porta quel mascherato, recantesi in
braccio il suo diletto bambino.

In simili casi una donna conosce pericoli? una madre? Si slanciò alla
volta di quello; ma neppure di raggiungerlo ebbe tempo; giacchè
l'incognito, non appena la scorse, diede un guizzo d'infernale compiacenza,
che fece guaire il fanciullo abbracciato; e additando la donna a Sfolcada
Melik,--Eccola: è dessa; legatela».

Il connestabile diede l'ordine; ma come, assalendola, ne ebbero fatto
cascare lo zendado, ed apparvero quella bellissima fronte maestosa, quegli
occhi avvivati dall'amore, dalla temenza, quelle bianchissime carni
impallidite, quell'aspetto, su cui con tanta eloquenza si dipingevano e
l'accoramento e la generosità che le faceva dimenticare il suo pericolo
nell'altrui, ristettero anch'essi quasi tocchi da sacro sgomento. Ma lo
Sfolcada, che poco capiva delle affettuose parole da lei indirizzategli, e
che non voleva rincrescersi di far male a quella razzaccia di Lombardi,
contro dei quali era lautamente stipendiato, le fece por le manette, e
strascinarla via; non prima però che quel malnato, nascosto dalla
visiera, si accostasse alla infelice, e mostrandole il figliuolo, le
dicesse in voce sommessa, ma rabbiosa:--Margherita, vi ricordi la notte di
San Giovanni».

Poichè allora non adopravasi cura per illudere il popolo, gli arresti si
facevano clamorosamente, a suon di campane. E la campana del Broletto nuovo
aveva cominciato a tempellare; a' cui rintocchi alzando il capo, gli
operosi dimandavano:--Che s'attacchi fuoco?» Ma poi intendendo che non
era altro se non un atto di giustizia, esclamavan beati i loro tempi,
perchè più non erano, al suon della squilla, costretti interrompere i
lavori per accorrere sull'armi. Propagandosi però quei tocchi a martello
di chiesa in chiesa, moltiplicandosi il rumore di vicinanza in vicinanza,
mano mano che i satelliti andavano pei varj quartieri imprigionando or
l'uno or l'altro, una sollecita curiosità, un panico terrore invadeva i
cittadini: tutta Milano andò sottosopra; i bottegaj chiusero: i privati
stangarono gli usci. Quando tale scompiglio si dilatò, era sulle
ventitrè: l'ora che, di solito, chi ne aveva, mettevasi a cena: e che
dai telonj, dalle officine tornavasi ai tugurj suoi la plebe operosa.
All'intendere quella novità, avresti veduto i Milanesi arrestarsi un
l'altro, farsela ripetere, poi fitto fitto ripeterla essi stessi ai
sopravvenuti, al compare, al collega, al camerata.

--Che? anche questa? nuove vittime? nuove crudeltà?»

E sorgeva in ciascuno un sentimento misto di pietà, di indignazione, di
ritorno sopra sè stessi: sentendo così in confuso che, quanto oggi
accadeva agli altri, poteva domani toccar a loro. I più deboli, i
denarosi, i pusillanimi, stringendosi nello spalle ed esclamando,--Poveri
noi! poveri noi!» si ritiravano chiotti chiotti a pollajo, senza
rivolgersi indietro; chiudevano ben bene le porte, e fattosi attorno un
cerchio della sbigottita famiglia, si davano a pregare, raccomandarsi al
Signore; come il contadino allorchè vede in aria certi nugoli
bianchicci, per così dire stracciati, ed ascolta un sordo continuo
brontolar del tuono, che lo fa pensare alle fatiche durate, alla messe
spigata, all'inverno imminente.

Ma gli animosi (e in quel secolo non erano i meno), quelli i quali alla
loro vita s'erano bagnati di sangue nelle frequenti scaramuccie, e di tempo
in tempo alimentavano l'abito della bizzarria e della fierezza
coll'attaccar risse e col mischiarvisi, od almeno star a vedere, appena
udito il caso, buffonchiavano, sbattevano per terra i berretti, arruffavano
i mustacchi e il ciuffo, poi sui crocicchi, nelle piazzuole, facevano
capannelli, ove comunicando un all'altro l'ardore, come più faville che
unendosi formano un incendio, se prima mormoravano, allora prorompevano in
sonanti imprecazioni; e senza guardare che fosse padrone o non padrone,
facevano a chi peggio dicesse del signor Luchino; lodavano il Pusterla,
forse non per altro motivo se non perchè era perseguitato; rammentavano
i tempi de' loro vecchi, quando si faceva senza d'un padrone, e si viveva
da papi.

--Come?--che? nuove catture; nuovi sbandimenti? (così dicevano con varie
voci e discordanti) Arrestato il cavalier Pinalla? un fior di galantuomo di
quella fatta! Io ho servito per cinque campagne sotto la sua bandiera; egli
è mio protettore spacciato.

--E suo fratello Martino? Pensate! domenica udiva messa in San Lorenzo a
due passi da me.

--E me? gli è mio vicin di casa, e non mi scontrava mai che non mi
dicesse,--Schiavo, Pizzabrasa.

--Anche Beltramolo d'Amico fu menato su ripiegato ripiegato, sai?

--Ah! quello gli sta bene: è un ghibellino marcio. Non l'ho inteso io a
dire che il papa ha fatto male a scomunicare l'imperatore e il signor
Matteo? Malann'aggia! Se non ci fosse il papa a fare star a segno questi
cani grossi, che ne sarebbe di noi e del popolo!

--Ma pel popolo e per Sant'Ambrogio si sarebbe fatto a pezzi Borolo da
Castelletto; e anch'egli è col muso alla ferrata. Quanto me ne sa male!
Un avventore di meno al mio macello.

--Il peggio è però di quella buona signora Margherita.

--Un occhio di sole.

--Un angelo in carne.

--Ad un pitocco non diceva mai, Andate in pace; nè, Tornate domani.

--Colla penuria che corre, in porta Ticinese nessuno ha patito la fame.

--Alla mia nonna inferma ogni dì ne mandava un fiaschetto».

E seguitavano innanzi con questi encomj finchè dandoci alle furie,
gl'interrompevano certe vociaccie sgangherate e risolute:--Ah cane!--ah
demonio!--Così becca via un per uno i nostri bravi signori!--Che razza
di città ha da diventar questa mai? Non ci resteremo che noi pitocchi.
--E allora chi verrà alle botteghe? chi ci toglierà per servitori?
chi ci pagherà da bere?--Bel vivere, perdio, vorrà essere allora?

--Vivere? (soggiungevano altri). Se pure ci lascerà vivere. Perchè io
lo vedo come in uno specchio; una volta che colle sue manifatture abbia
spazzato via i grossi, ingojerà i piccini in una boccata; come il lupo
colle agnella dopo squartato il cane.

--Oh se avremo giudizio (replicava Antellotto Braccioforte, fabbro ferrajo
tutto affumicato, e con voce usata a vincere il fragore delle incudini); se
avremo giudizio, non aspetteremo che arrivi sino a questo: e vi piglieremo
sopra un bravo rimedio a tempo.

--Un rimedio: sicuro: Un bravo rimedio; dice bene Antellotto (davano su a
molti insieme). Già non è il primo che si fa freddo. Abbiamo snidato
anche i Torriani: abbiamo strascinato per le strade anche Beno dei
Gozzadini.--Oh sì certo! bisogna pensarvi di maledetto senno, perchè
ormai chi è più sicuro nemmeno in casa propria?

--Oh, in quanto poi a casa mia (gli interrompeva il bottajo Calcintesta)
com'io son dentro del mio uscio, l'ho a vedere quel muso bravo che ha da
portarvi dentro i barbigi, l'ho a vedere.

--E anch'io--e anch'io», replicavano altri, destinati, tutta la vita
loro ad essere, come i più, null'altro che l'eco delle voci altrui, che
l'ombra degli altrui gesti; e imitando Calcintesta, col capo e colle pugna
facevano terribili atti di minaccia, che Dio ne scampi.

--E se (ripigliava il ferrajo) se si avrà a fare qualche fazione, a
menar le mani, ehi, camerati, mi avete visto delle altre volte. Per qualche
cosa mi dicono il Braccioforte.

--E nemmen io non son mai dato indietro ai pericoli.--E nemmen io»;
replicava il solito coro.

--Ohe! (saltava su il Pizzabrasa) suonano il terzo segno della campana! la
ritirata. A casa, a casa. Io non ho lanterna, e non mi sento di pagare le
venticinque lire di multa.

--Neppur io: dunque buona sera.

--Tutt'ora che mi vogliate, sul terraggio di porta Tosa, lo sapete. Addio,
compare, buona sera.

--Schiavo, Beccalò.--Dormi bene, Peregrosse»; e quei crocchi si
scioglievano, come un muro sotto alla mano del mastro che demolisce;
versavansi per le vie ad uno, a due, a più, difilandosi alle loro
casipole, al Guasto, alla Vetra, al Broglio, dove la poveraglia abitava,
stivata sino a venti per camera, uomini, donne, fanciulli alla mescolata.
Tra via seguitavano a parlottare, a brontolare, a rinfocolarsi a vicenda.
Giunti ciascuno sulla propria soglia, nel dividersi dalla compagnia, in
atto di far mari e monti, si danno certe strette di mano che fanno
spalancare le bocche, ed entrano nelle loro cameruccie. Colla prima sera i
poveri allora si mettevano a letto per potere colla prima alba essere ai
mestieri; e i lumi erano una rarità. V'è dunque bujo, se non quanto
le rischiara qualche raggio di luna, che batte attraverso le impannate di
carta oliata. All'aprire risoluto ed impetuoso dell'uscio, la moglie alza
il capo dal piumaccio, domandando perchè più tardi del solito;
quattro o cinque fanciulli, che le posano daccanto, e che furono tenuti
svegli fin allora dalla fame, chiedono al babbo che cosa portò da cena:
ma i babbi infuriati non badano, non rispondono nè a donne nè a
ragazzi, ed acceso un lumicino a mano, s'inviano a spiccar dal muro, a
trarre di sotto al letto le loro armadure: scoprono la barbuta che era
stata di loro padre e del padre del loro padre, ammaccata dalle asce
fraterne e dalle straniere; cacciano a mano lo stocco; tentano il ferro
della lancia, e si danno a spazzarne la polvere e i ragnateli, a
dirugginare, ad ugnere, ad affilare, a provarsele in capo, al dosso, in
pugno, ad armeggiare, facendo fischiare gli spadoni a due mani sovra il
capo dei coricati.

A tale scena le povere donne balzano sgomentate dal letto, avvolgendosi un
cencio intorno alle nude carni, che le camicie erano un lusso di pochi,
ed--O cara Madonna, di San Satiro! (esclamano) cosa c'è--che
fai?--perchè così scalmanato?--T'è accaduto qualche incontro?--Te
n'hanno fatto una grossa?» e piangono, e fansi il segno della croce; e i
ragazzi, vedendo la madre a piangere piangono anch'essi, s'aggruppano con
una meraviglia paurosa attorno al padre, pregandolo a dire cos'è, cos'ha
da succedere, a non lasciar piangere la mamma. Egli, così fra
l'allestire l'armatura, risponde con parole ricise e a spizzico!--Eh,
niente... non v'è niente... Toglietevi fuor dei piedi... Che volete mai
saper voi, tenerume? preparo le armi perchè... perchè... è sempre
bene trovarsi all'ordine. Non è niente, vi replico: via, volete finirla?
che serve piagnucolare? ci vuol altro che lagrime. Sangue ha da essere:
sangue.--Per me non sarò il primo, ma giuraddio se mi schiacciano la
punta d'un dito... Cani! gliela faremo vedere.--I Milanesi son buoni, ma
non di là da buoni. Pazienza e pazienza va bene; ma poi la scappa, e
rotto una volta il ghiaccio, saranno guai. Brutti mostacci!...»

Queste e più violente parole, dette coll'energia del dialetto e
coll'espressione dell'ira, sono atte a ben altro che a tornare tranquille
le agitate famigliuole; onde per quella sera è un sbigottimento, una
sospensione, un trambusto. Di cenare nemmanco si parla: ma ogni tratto
affacciarsi e tender l'orecchio ansiosi al minimo bisbiglio: e sgomentarsi,
ed accorrere ad ogni ubbriaco che schiamazza, ad ogni battente che si
rabbatte più risoluto: poi da un balcone all'altro chiamarsi a nome,
e--Compare, niente di nuovo?

--No, niente; e voi?

--Neppur io»; e tacere un istante per replicare un momento dopo con un
altro la stessa domanda, la stessa risposta.

A poco a poco però quell'ardore sbollisce: le donne pietose, i vecchi
prudenti riescono a mandar a letto gl'infuriati: l'ultima parola è una
minaccia, ma intanto le impannate una dopo l'altra si ravvicinano; i lumi
appena trapelano dalle accostate finestre, poi si spengono, e tutto rientra
nell'oscurità, nella quiete.

Alla mattina, svegliati tra il sì e il no, in mezzo al pacifico
sbadiglio consueto si risovvengono del tramestio, della furia schiamazzante
di jer sera; se ne vanno lentamente rivocando alla memoria le ragioni, i
successi: traggono il capo di sotto la coltre;--Come? già chiaro!»
Tendono l'orecchio, sentono la calma solita, il solito tranquillo ronzío
delle altre mattine. Sbaldanziti dunque e tutti calma, tranquillamente
stirandosi, tranquillamente mettendosi in dosso, tra il fare si affacciano
alla finestra.--Tutto è quieto: le botteghe ancora chiuse: le campane
non suonano che a mattutino o a messa; lattivendoli, ortolani, mastri
muratori, braccianti s'avviano alle loro faccende consuete.

--Tanto meglio! (esclamano). Sia ringraziato il Signore».

Al coraggio della paura è sottentrata la viltà della sicurezza: a
quel grand'impeto, a quella viva stizza, un languore d'inferno: se non che
per codarda apprensione vorrebbero non aver fatto, non aver detto quel che
si ricordano di jeri:--Ma erano molti, e di ragione nessuno avrà badato
a me. Al caso dirò ch'io era in cimberli».

Riprendono le scuri, le seghe, le cazzuole; raccomandano alla moglie di
riporre le armi tratte fuori, di far dire le orazioni ai puttini, di avere
scodellata la zuppa per quando suona la _zavatara_ (così, dal podestà
che la fece fondere, chiamavasi un campanone in Cordusio che annunciava il
mezzodì): e sbocconcellando un pezzo scusso di pan di miglio, goffi
goffi tornano ai lavorieri, docili, spensierati, come se nulla fosse
accaduto. Di quel cacciare di lingua, delle fragorose imprecazioni, delle
minaccevoli smargiassate della sera innanzi, null'altro è sopravvissuto
che un rumore misterioso, una curiosità piena di diffidenza, un cauto
mormoracchiare coi vicini di bottega, cogli amici di più specchiata
confidenza.

--E sicchè? ci ha novità?

--Mah! non ho inteso niente: quando capiterà qui un mio avventore, che
è tutta cosa del cuoco del luogotenente del capitano di giustizia,
saprò il fatto a minuto.

--E degli arrestati che ne sarà?

--Daran da fare a mastro Impicca (quest'era il nome del boja d'allora). Gli
statuti parlano chiaro: _Suspendatur eo modo ut moriatur_.

--Volete dire, eh? E noi andremo a vedere, dico bene?

--Mah! non so che dire. Chi ha buono non rimescoli. Che gerarchie entrano
per la testa a questi signori? Toglier a cozzare coi muricciuoli! È
proprio come se le lumache facessero a testate coi montoni. Dico bene?

--Voi dite come un predicatore.

--L'è il caso di quell'asino che, jer l'altro passando per di qui,
s'impuntò di non voler più andare innanzi. Che ne seguì? il
padrone lo mazzicò finchè poteva portarne; e la bestia, scalcia,
ragghia, ricalcitra, alfine dovette cedere e seguitare.

--Già il proverbio non falla: legar l'asino dove vuole il padrone.

--Tal quale. Gli uomini sono nati parte per obbedire, parte per comandare,
dico bene? Poco su, poco giù, comandi un solo o comandino molti, le cose
vanno dello stesso piede; e ad ogni modo noi, se vogliamo trarre in
castello, ci convien lavorare tutta la giornata: dico bene?

--Benissimo. Quanto a me, io sto coi frati e zappo l'orto. Se oggi odo
gridare _Popolo_ e _Viva Sant'Ambrogio_, grido anch'io _Popolo_ e
_Sant'Ambrogio_; se domani urlano _Viva i Visconti_, ed io urlo più
forte _Viva il biscione_.

--Bravo! così si sta amici con tutto il mondo.

--E si muore a suo letto».

Quindi si danno a fischiare una cadenza, a cantacchiare un motetto, a
sollecitare i battimazza perchè lavorino, a dare uno scapellotto al
fattorino impertinente, a far sentire più vivo lo strisciar delle piale,
il ronzare dei tornj, l'affollare dei mantici, lo stridio delle lime e
delle seghe, il picchio dei martelli: mentre la folla dei curiosi, dei
ricchi, degli scioperoni, degli affaccendati, dei divoti, seguita a
riempire le strade, le case, le piazze, le chiese, secondo l'usato, allegro
e melanconico ciascuno secondo gli accidenti suoi proprj; e nessuno in
particolare dolendosi di quello che era male di tutti.

La domenica seguente fu una memorabile solennità in Milano. Poichè i
tiranni hanno l'amor proprio di volere che i loro sudditi sieno
allegri--ottimo preservativo da quell'incomodo vizio del pensare--pompe e
feste si ricordano ogni tratto, introdotte o praticate dai principi
lombardi. A noi vaglia il ricordarne due in Milano, cominciate nel 1335 da
Azone Visconti: l'annua processione del _Corpus Domini_, e la festa della
Natività di Maria, in cui ogni città e borgo doveva, per suoi
deputati, mandare a Milano la propria insegna e un drappo di seta da
offrire alla metropolitana; i quali drappi, il primo anno, sommarono a
centoventidue, del valore di settemila fiorini.

Alla solennità celebrata nel giugno, ove ci troviamo col nostro
racconto, avea dato occasione il capitolo generale dei Domenicani, tenuto
nel convento di Sant'Eustorgio, sotto alla direzione di Ugo Vantemann,
sedicesimo generale di quell'Ordine recente e vigoroso; e vi fu dato
compimento col trasferire il corpo di Pietro martire da Verona, stato
ucciso a Barlassina da chi mal soffriva lo zelo di esso nello stabilire ed
esercitare fra noi l'inquisizione contro l'eresia. Giovanni di Balduccio da
Pisa, uno dei primi ristoratori della scultura, aveva in Sant'Eustorgio
preparato quell'arca di sì stupendo lavoro che tutti avete veduto; e
nella quale Giovanni Visconti, fratello di Luchino, in gran pontificale
depose le sacre reliquie, con una sfarzosa processione, decorata da tutti i
vescovi della provincia, dalla Corte, dal fior della nobiltà, dai
paratici, voglio dire dalle sessanta badie d'artefici e negozianti,
ciascuna con divise particolari e collo stendardo del proprio Santo
protettore. Dalle città vicine, da tutto il contado accorse il popolo a
folla, e tutto il dì fu uno scampanare a Dio lodiamo, e corse di
barberi, e rappresentazione di misteri, e preghiere, e ubbriachezze, e una
devozione, e un'allegria da non dire; poi la sera canti e suoni e luminare
e fuochi di gioja--che il vulgo non distingue mai dai fuochi d'artifizio.



CAPITOLO IX.

BRERA.


Fra il generale rimescolamento di quella funesta giornata, che debolmente
noi ci provammo di ritrarre, e che non può essere adeguatamente compreso
da chi non esca affatto dalle costumanze d'oggidì, tutte quiete, tutte
regolate, coperte, personali, per trasportarsi in quelle d'allora, piene di
pubblicità, di vita, di spettacolo, di frastuono. Alpinolo, a maniera di
disperato, cacciandosi per le vie di Milano, cercava il Pusterla, ne
domandava a quanti conoscenti incontrasse, batteva anche ad alcune case, ma
nessuno gliene sapeva dar contezza: i più anzi lo credevano delirante, e
rispondevano:

--Il Pusterla? Oh sì! gli è lontano delle miglia più di
quattro», giacchè solo a pochissimi era noto come egli fosse
ritornato in città.

Così cercando senza curare del proprio pericolo, riuscì Alpinolo
sulla piazza dei Mercanti, e la vista di quel luogo, di quei portici gli
esacerbò il cordoglio; insaccò poi per l'angusta callaja di Santa
Margherita di Gisone, e venuto al luogo, che chiamavano le Case Rotte pei
rottami che vi si vedevano del diroccato palazzo dei Torriani e del loro
giardino, quivi appunto incontrò il Pusterla.

La storica verità ci ha pur troppo costretti ad avvertire i lettori come
egli, non soddisfatto nei tranquilli godimenti, cercasse un tumulto di
affetti in indecorose passioni. Il mondo lo sapeva e non gliene faceva
colpa, sì perchè corrotti erano i tempi, sì perchè egli era
uomo ricco, giovane, bello; qualità che, non so per qual bizzarra
ragione, sogliono far perdonare simili e peggiori traviamenti. Lo strano
poi si è che questi traviamenti servivano ai maligni di testo per
beffarsi della Margherita, quasi che uno potesse rimanere disonorato dalle
colpe altrui: quasi non tornasse a maggior lode di quella virtuosa
l'irreprovevole modo ond'ella si conduceva verso sè stessa e verso il
marito.

E appunto il Pusterla, non sapendo durare un intiero giorno pacifico nel
suo palazzo, era uscito per salutare qualche amica sua, ed anche per dare
una volta nella città, come chi toglie congedo da un suo diletto, che
per un pezzo non dee rivedere.

E fu ventura. La Margherita, che era andata a fare del bene, capitò nei
manigoldi; suo marito, che andava per tutt'altro, li schivò:--tanto
s'inganna chi aspetta quaggiù il compenso delle azioni.

Ma ravvolto in una veste comune, senza divisa, e col cappuccio in sugli
occhi, neppure Alpinolo non l'avrebbe conosciuto, s'egli medesimo,
ponendosi col cavallo attraverso alla corsa di quell'infuriato, non gli
avesse chiesto:--Ove, così a precipizio?»

Non ho parole per descrivere il sentimento che Alpinolo provò nel
ravvisarlo; e senz'altro rispondere, afferratagli la briglia del
cavallo:--Fuggiamo», gli disse.

Non ebbe tempo l'altro di chiedere perchè; e secondando quell'imperio di
spaventato, giù a spron battuto volse con esso per la via, che allora
affatto ristretta serpeggiava tra monasteri e chiese, ora spaziosa e a filo
signoreggia, fiancheggiata da caffè, da palazzi, e dal teatro della
Scala; varietà di secoli. Ma giunti là dove questa è tagliata da
un'altra via, che da dritta metteva ad altre chiese e monasteri, da mancina
ad un antico olmetto che le dava il nome, ecco venire soldati da ambe le
parti; onde più e più stimolando al corso gli alenati cavalli,--Corriamo
(ripeteva Alpinolo), spronate; oh potessimo raggiungere la porta!»

Ma come furono in vista della postierla, videro difesa anche questa da un
drappello sulle armi; talchè disperato, il giovane cominciò a
strapparsi i capelli a ciocche, a bestemmiare gli uomini e Dio, e più
non avvisando modo a campare, si volse tutto affannoso a Franciscolo
dicendogli:--Siete perduto... cercano di voi... tutto è scoperto... vi
vogliono morto».

Quelle interrotte parole spiegarono al Pusterla ciò che gli avevano
già fatto presumere quella foga, e il trarre dei soldati, e il
martellare delle campane. Ma se l'impetuosità abituale, cresciuta
all'eccesso per l'angustia presente e pel feroce rimorso, non lasciava ad
Alpinolo trovare un partito allo scampo, Francesco, più calcolato, lo
ravvisò, e girata la briglia verso il convento di Brera, ivi si rifuggi.

I conventi (e chi nol sa?) erano asili inviolabili, come le croci, come i
sagrati, come le chiese, come i palazzi del Comune: rimedi infelici ad
infelici legislazioni, ma che facevano meno sciagurato nell'applicazione il
desolante eccesso delle pene minacciate, il precipizio onde i magistrati le
applicavano, e la furia vendicativa dei prepotenti. In Brera dunque,
ancorchè potesse essere stato veduto entrare, Franciscolo doveva tenersi
sicuro; onde Alpinolo, allorquando lo vide scavalcare colà, respirò,
come una madre che veda tornar sicuro nella camera un fanciulletto, il
quale per isconsiderata vivezza erasi condotto a passeggiare sull'orlo d'un
tetto. Precipitossi dunque a terra, baciò il limitare, poi abbracciando
le ginocchia al suo signore, e bagnandole di copiose lagrime, si accingeva
a contargli la colpa sua e il tradimento di Ramengo, quando il Pusterla lo
interruppe dicendogli:

--Va, e salva Margherita».

Spaventosa allora balenò alla mente di Alpinolo l'idea che la Margherita
potesse anch'ella correre pericolo, e questo dubbio ne moltiplicò
l'angoscia. Un piloto che adoperi a rimettere a galla un naviglio, dalla
sua inesperienza trascinato nelle secche; un famiglio che aiuti a spegnere
l'incendio, da esso incautamente suscitato; un amoroso che voglia trarre
l'amata donna da deplorabile situazione, ove esso l'ha sconsigliatamente
ridotta, non operano con tanta ansietà, con quanta Alpinolo. Il meno che
pensasse era il proprio pericolo; e, o fosse che le guardie poco badassero
a questo giovane, scambiato per nulla meglio che un ordinario scudiero,
fosse che la confusione di quel parapiglia lo giovasse, fosse quel concorso
di circostanze che chiamasi fortuna, fatto sta che egli riuscì, sempre
correndo a fiaccacollo presso al palazzo dei Pusterla. Quando vide la folla
maggiore intorno a quello, gli brillò un raggio di speranza: confidò
che i Milanesi vorrebbero salvare i loro concittadini e benefattori, e
cominciò ad alzare il grido di--Viva la libertà!» La turba dava
luogo a questo cavalcante infuriato, ed udendone il grido, guatavansi uno
in faccia all'altro, e chiedevano:

--Cosa vuole colui?

--Che diamine urla?

--Viva la libertà? Deve essere qualche pazzo. Largo, largo, dategli il
passo».

Sciagurato! Alpinolo arrivò al vicolo Pusterla nel momento appunto che i
soldati eransi tolta in mezzo la Margherita, e se la portavano incatenata.
Al colmo della rabbia e del dolore, precipitossi verso di quelli, e non
trovandosi allato la spada, volea cominciare a menar le pugna, persuaso di
essere assecondato dalla turba, che credeva lo avesse seguito; ma
volgendosi indietro per rincorarla, si trova solo: non un viso di amico,
non una simpatia di indispettito; nei più una vile e stupida
curiosità: negli altri un'inerte compassione. Quasi vergognoso di stare
più oltre fra una razza sì codarda, già si avventava per morire
tra le alabarde mercenarie, allorchè dietro agli altri vide quel
mascherato, nel quale già i lettori hanno riconosciuto Ramengo. Tenevasi
egli, come abbiamo detto, il figliuolo del Pusterla, lieto nell'atroce
cuore di farne uno strumento di squisita vendetta, comunque la cosa andasse
a finire; e se pur non potesse cogliere l'abborrito Pusterla, consolandosi
almeno di rapire a questo le inenarrabili gioje della paternità, che per
cagione di lui credeasi avere egli stesso perdute. Strillava Venturino,
invocando sua madre; ma ruvidamente gli turava la bocca Ramengo, e a volta
a volta, gli percotea la vita e il capo, senza quasi che alcuno ponesse
mente ad esso, intenti com'erano alla maggior pietà della madre.

Ben vi pose mente Alpinolo, il quale pur troppo accorgendosi di non poter
essere per nulla d'ajuto alla Margherita, si spinse addosso allo
sconosciuto, gridando:--Lascia, lascia!» Questi non rimase ad
aspettarlo, ma via spronò pei tortuosi chiassuoli di colà intorno.
Sentendosi però già sopra il giovane, e sperando accalappiarlo colle
usate frodi, si fermò, e mostrando chiamarlo a sè,--Almeno (disse con
aria sospettosa e con voce alterata) almeno questo l'ho salvato».

Tanto bastò perchè Alpinolo sospendesse il suo furore, e credendolo
un amico, gli dicesse:--Porgilo a me, porgilo a me, che lo renda a suo
padre.

--E dov'è suo padre?» chiese il mascherato.

Il giovane schiudeva già la bocca ad una nuova imprudenza, quando la
prima gli corse al pensiero, e con essa l'immagine più viva
dell'esecrato Ramengo; alla quale paragonando la voce e gli atti
dell'incognito, lo riconobbe per quel desso. Mugghiando allora come un toro
percosso, se gli avventò al collo, gridando:--Ah traditore! Ah spia
infame!» Qui cominciò una lotta, nella quale il ribaldo, per
difendere sè stesso, dovette lasciar cadere Venturino, che a fatica e
piangendo salvossi di sotto ai piedi degli scalpitanti cavalli, mentre
Alpinolo, ghermito il nemico alle gavigne, gli pestava il muso e la
persona, e, fattegli perdere le staffe, il lanciava per terra. Colui si
appigliò al giovane con tanta forza, che lui pure trasse di sella, onde
entrambi s'avvoltolavano sullo sterrato, a guisa di due villani rissosi.
Alpinolo era disarmato e leggiero: l'altro, col morione e la lamiera di
ferro; ma i pugni onde il giovane lo tempestava, pareano colpi di mazza, e
non gli lasciavan ripigliar fiato; sinchè Alpinolo, riuscito a
cacciarselo sotto e piantatogli un ginocchio sul petto, e la sinistra mano
alle fauci, colla destra gli veniva traendo di cintola la _misericordia_.

Misericordia, chi nol sapesse, chiamavano certi pugnali, con cui, dopo
avere scavalcato il nemico colla lancia o colla mazza, i guerrieri gli
saltavano addosso a finirlo. Tale stravolgimento di nome non farà,
spero, maraviglia al secolo nostro, avvezzato anche a più strani, che
parrebbero una fina arguzia se non fossero troppo atroci.

Ramengo, sul punto di pagare in una volta tutte le sue iniquità,
chiedeva perdono, e gridava agli uomini, a Dio, talchè fu inteso dai
soldati, da cui, non visto, s'era diviso; il connestabile Sfolcada Melik
comparve coi suoi in capo della via, e tra il fosco e il chiaro veduto
quell'abbarruffamento, accorreva. Alpinolo conobbe non restargli tempo da
perdere, e avere un obbligo più sacro che non la vendetta; onde
abbandonando la sua vittima, e giurandogli che arriverebbe a lui pure il
suo sabbato, si tolse sotto al braccio Venturino, e in men che dire addio,
saltando in sella, spronò verso la parte opposta a quella onde traeva
gente.

Il bujo e il trambusto di quella giornata ajutarono Alpinolo a scampare: ma
divenuto ora cauto quanto era prima sconsiderato, più non osò
rivolgersi alla casa degli Umiliati ove stava ricoverato il Pusterla,
temendo che i passi suoi fossero spiati, e potessero tradire la traccia
dell'amico. Rinvolto perciò Venturino, il teneva nascosto al seno, come,
una gemma unica che avesse salvata in mano ai ladri; come la sola reliquia
con cui potesse redimere la colpa di aver involontariamente gettato in
precipizio l'amico, il protettore suo, il salvatore della patria. Così
svignava per le strade più deserte, occhieggiando se scontrasse persona
fidata, cui consegnare Venturino; ma di nessuno più sì assicurava; in
chiunque vedesse temeva uno spione, un traditore: e intanto il fanciullo,
mal frenando il pianto e l'impaziente desiderio, gli veniva tratto tratto
esclamando:

--Rimettimi a casa... Dov'è il mio babbo?... La mamma dove l'hanno
portata?»

Il padre suo fra ciò, ricoverato nella cella di frà Buonvicino, in
massima segretezza stava trepidando sulla sorte sua, degli amici, della
moglie, del figliuolo. Già il lettore ha compreso come l'animo di esso
fosse tutt'altro che tempra di stocco. In battaglia aperta o in campo
chiuso, in maneggiare lancia e destriero, non la cedeva ai migliori, nè
mai fu veduto a fronte dei nemici abbassare gli occhi, nè mentire, nè
ritirarsi: ma avea bisogno lo spettacolo, l'applauso, mancandogli affatto
il coraggio civile, coraggio paziente, che sotto il cumulo dei guai, si
conforta col testimonio della propria coscienza, o colla patetica gioja di
lontane speranze. Dalla fanciullezza cresciuto negli agi, avvezzo a vedersi
rispettato, obbedito, non avendo sentite mai le utili lezioni della
sventura, non si era a questo disposto; e la presente infelicità più
gli pesava, quanto erano maggiori i beni a cui aveva attaccato il cuore,
senza immaginare di doversene disgiungere mai più. In questa cella
medesima, quando ancora il cielo era ridente, Buonvicino lo aveva esortato
a spiccarsi decorosamente dalle pompe cortigiane: ora, strappato con onta
da quelle, doveva ricoverarsi quivi come un reo, come un perseguitato,
avvilito agli occhi di quel pubblico, nel cui concetto aveva tremato di
scapitare. Lasciò da banda le perdite reali, le dolcezze della casa,
della patria, degli amici; una donna di cui più vive ora gli si
presentavano le virtù, e più enorme il torto d'averla trascurata.
Quindi, sollecito e povero di consigli, non che far fronte alla sventura,
le si piegava sotto, come il salice alla bufera; nè trovando in sè
vigore o prudenza, implorava l'uno o l'altra da Buonvicino, e con una
desolazione scoraggiata, non sapea che stringer la mano al frate e
ripetergli:--Amico... padre!... Buonvicino! mi raccomando a voi; son nelle
vostre mani... che devo fare?»

Se allora Buonvicino gli valesse, lo argomenti chi nei maggiori suoi
bisogni sentì la necessità di avere un amico, il quale voglia e
sappia consigliare, soccorrere, avventurar, sè stesso. Misurando
l'ansietà del Pusterla, dalla sua medesima, dopo che gli ebbe compartite
quelle consolazioni che per momenti siffatti serbano la religione e la
fiducia nella Provvidenza, uscì per prendere lingua, per conoscere se la
Margherita abbisognasse di ajuto, o non potesse ricevere più che
compassione. Con qual cuore egli fendeva le strade della città! con qual
trepidazione si accostava ai crocchi, o schiamazzanti o sbigottiti delle
persone, per raccogliere qualche notizia, qualche parola a mezzo! con che
ansia interrogava qualche frate, qualche suo fidato! Pur troppo venne
assicurato di quello che già presentiva: la disgrazia della Margherita:
ma non avendo potuto sapere nulla di Venturino, si fece maggiore di sè,
e trasse fino al palazzo dei Pusterla. Quivi una ciurma di popolaccio
esultava nel dare il sacco, porzione di sue ingiustizie che Luchino
concedeva all'ingordigia plebea per farla silenziosa e applaudente.
Buonvicino vi entrò, salì, cercò ogni ripostiglio, chiese a tutti,
ma nulla scoprì del figlioletto.

Vide la sala--quella memore sala!--Ogni cosa era scompiglio e guasto; ma
colà, nel vano d'una finestra, al luogo appunto ove, nel giorno del suo
errore e del pentimento, egli avea veduto la Margherita, scorse un telajo
da ricamo, che a nessuno doveva aver fatto gola, come cosa da troppo poco.

Su quello aveva la Margherita cominciato a trapuntare il fiorellino,
chiamato come lei. Oh quando lo cominciò, chi le avesse detto che non
doveva finirlo, e dove aveva a ritrovarlo!

Questa reliquia egli si tolse, la baciò, se la pose sul cuore,
proponendosi di non distaccarla mai più da sè; poi subito un affetto
generoso gli si elevò nell'anima, che condannando questo rimasuglio di
affetto mondano, gli ricordava la via di perpetua abnegazione, su cui era
entrato, e lo persuase di recare quel dono al Pusterla:--qual cosa potrebbe
riuscirgli più preziosa di quella, su cui la donna sua aveva fatto
l'ultimo studio?

In tal guisa uscì di nuovo; uscì per l'ultima volta dal funesto
palazzo; quanto il cordoglio glielo permetteva, esortando la ciurma ad
esser buoni, a star cheti, a non esacerbare con atti o con insulti le
miserie di chi già soffriva abbastanza. La turba lo ascoltava,
sospendeva i sacrileghi guasti, dicevansi uno all'altro:--Gli è quel
buon frate, quel frate santo»; ma appena aveva rivolto le spalle, e alla
riflessione succedeva l'istinto, ritornavano a far come prima e peggio.

E difatto, in quel caso, il frate santo che nascondeva e favoriva la fuga
di uno, perseguitato dalla legge, era prevaricatore; coloro che mandavano a
sacco e guasto la roba d'un ribelle, operavano legalmente:--nuovo argomento
in favore di chi fa sinonimi giustizia e legalità.

Tristo e desolato, col capo basso e rinvolto nel gabbano, si ravviava
Buonvicino al suo convento, tra le fosche vie della città, dove appena
negli spazj più dilatati la luna gettava uno sguardo senza calore, come
l'ammirazione che un logorato damerino comparte alla bellezza; come la
compassione che alla miseria concede l'egoismo. Ma poichè, sulla via
stessa di Brera, giunse alla chiesa di San Silvestro, ode chiamarsi con
replicata istanza. Riscosso quasi a forza dalle dolorose sue meditazioni,
così alla bruna scorge alcuno che, addopato ad un pilastro, gli accenna
cautamente; si accosta, e ravvisa Alpinolo, il quale occhieggiando se
veruno, quantunque fosse già buon'ora di notte, il potesse notare, gli
consegna il piccolo Venturino. Un lampo di fulgidissimo sereno tra la fitta
tenebria d'un uragano potrebbe appena assomigliarsi alla gioja che
irradiò il volto di Buonvicino; abbracciò il fanciulletto, strinse al
seno e baciò in fronte Alpinolo, il quale tristamente esclamava:--O
padre, non lo merito.... Salvate questo fanciullo.... salvate il
Pusterla... Ditegli... la colpa di tutto fu....»

E i singhiozzi lo interrompevano: sicchè Buonvicino, udendo avvicinarsi
una pedata:--Benedetto te! (gli disse) Va, fuggi; che il Signore
t'accompagni, e renda a te il padre, come tu rendesti al genitore questo
figliuolo».

Coperto poi sotto al gabbano il fanciullo, col favore della notte chiusa
entrò inosservato in Brera, dove le regole eran ben lontane dai rigori
imposti agli Ordini più recenti.

Lunghi, penosi volgevano intanto i momenti al Pusterla, chiuso in una
cameretta, col tormento, che è sommo, quello di vedersi ridotto
all'inazione allorchè maggior bisogno occorrerebbe d'operare: ridotto ad
aspettare una decisione capitale senza poter nè cansarla, nè
migliorarla; dubbioso su quello che fosse accaduto della casa sua, di sua
moglie, del suo bambino; dubbioso su quel che accadrebbe di lui medesimo;
senza il coraggio di prendersi tanta sciagura in pazienza e in espiazione.
Quando Buonvicino entrò nella cella, era bujo affatto, lo che tolse a
Francesco di vederne la fronte, pallida come di cadavere, ma tutta
l'estensione della sua disgrazia dovette comprendere quando, chiesto a
Buonvicino della Margherita, questi non fece che stendergli la mano
convulsa e madida di sudor gelato, mentre un singhiozzo mal represso gli
rivelò il pianto dell'amico.

E l'uno pianse coll'altro, e con essi il fanciullo;--povero fanciullo,
già abbastanza intelligente per comprendere la paterna afflizione; non
abbastanza ragionevole per conoscere l'arte di non esacerbarla. Egli si
abbracciava a suo padre, e il padre a lui, coll'impeto onde, nella perdita
di una persona cara, più ci attacchiamo a quelle che sopravanzano,
più proviamo il bisogno di sapere che le amiamo, che ne siamo amati, di
dirlo, di sentircelo dire. E tratto tratto Venturino rompeva in lacrime
più dirotte, e,--Babbo (esclamava), la mamma... oh se tu l'avessi
veduta! L'hanno legata come un ladro. Povera mamma! guardava me, chiamava
te, ma non piangeva....Dove sarà la mamma? andiamo a cercarla; stiamo
con lei:--con lei anche in prigione!»

Suo padre non poteva altro che raccomandargli di tacere, di star zitto,
perocchè frà Buonvicino neppure ai suoi confratelli erasi fidato di
rivelare il segreto che chiudeva nella sua cameretta. Anzi, per
dissimularlo, quella sera e il giorno da poi comparve tra essi alle opere,
alle salmodie consuete, soffogando il dolore che lo struggeva. Ma ognuno
potrà immaginarsi che trafitture fossero per lui i comuni discorsi, di
cui erano tema inevitabile i casi del giorno precedente; e quando alcuno ne
domandava lui stesso, e conoscendolo amico dei perseguitati, gli compartiva
le sguajate consolazioni cha usa la società, e che non fanno se non
invelenire le ferite. Colpo più forte portò al soffrente il prevosto
della casa, frà Giovanni da Aliate. Eccellente uomo era questo, ma,
siccome avviene troppo ordinariamente nei capi, qualora tra i loro
dipendenti abbiavi alcuno che si faccia amare e rispettar più di loro,
sentiva contro di Buonvicino un certo rancore, che egli intitolava zelo per
la salute de' suoi confratelli. La venerazione in cui Buonvicino era tenuto
nel convento, l'amore che gli portavano i cittadini, la fama di valente e
di santo che godeva presso l'universale, e' li scambiava per attentati
all'autorità sua propria. Non gli parve dunque vero di cogliere
un'occasione onde umiliare quello che esso chiamava orgoglio di Buonvicino,
il torto cioè di valere da più: e perciò quando si trovarono tutti
uniti in circolo, il prevosto avviò il discorso su quella cattura, e,
volgendosi a Buonvicino con tutta l'amorevolezza necessaria per rendere
più vivo il colpo, gli mostrò come avesse mancato di prudenza
mantenendo entratura con una casa, che già da un pezzo era conosciuta
per turbolenta e avversa al principe; indi rivolto agli altri, e
specialmente ai giovani, gli ammoniva che andassero cauti nella scelta
degli amici: meglio non averne; ma, se non altro, cercassero gente quieta e
dabbene: non imitassero l'esempio di certuni che, nutricando sotto al
mantello dell'umiltà la superbia e l'affezione al mondo, anzichè
volgersi ai poveri di Cristo, amano accomunarsi coi ricchi e coi potenti
della terra; nè di cert'altri, ai quali sta bene quel che Festo diceva a
San Paolo: _Insanis; multor te literæ ad insaniam convertunt_.

Tutti gli occhi naturalmente si fissarono sopra Buonvicino; i più dei
confratelli dissero col cuore, ed alcuni anche colle labbra, che il
prevosto aveva ragione, sebbene non s'inducessero a credere che Buonvicino
avesse torto: altri però, e massime i novizj, chinavano il capo e
tacevano, e dopo un silenzio meditabondo esclamavano con un sospiro:
--Povera gente!» e taluni anche--Povero Buonvicino!»

Questi nulla rispose al rabuffo del prevosto, e, come sogliono le anime
ambasciate, osservò rapidamente gli astanti per indagare su quale di
loro potesse far conto in un caso di bisogno: se non altro, qual sentimento
proverebbe al conoscere la vera sua situazione; e raccolto lo sguardo,
quasi non avesse trovato a riposarlo, raggrinzò la fronte a guisa degli
uomini forti, che concentrano i loro patimenti avvisando inutile ed
imprudente lo svelarli quando veruna parola non sarebbe bastante a ritrarne
la profondità, dove nessuno sarebbe capace di comprenderli.

Nella casa di Brera per tutto il giorno vi era un'attività faccendiera e
regolata, quale appena negli opifizj più fiorenti delle più vive
città ai giorni nostri; dalla porta un continuo entrare di carri,
portando ballotti di lana greggia, ed uscire di altri, carichi di panni
finiti; un pesare, un misurare, un battere di telaj, misto talvolta a
devote salmodie, tal altra a qualche cantilena popolare. Il silenzio
imposto negli altri monasteri, mai non erasi potuto prescrivere a questi,
che per ciò avevano poco prima vinto una lunga lite col pontefice,
siccome anche per non andar obbligati al digiuno: nè questo, nè
quello trovando conciliabili coi traffici e col lavorìo, a cui
specialmente si riguardavano dedicati.

In mezzo a quell'incessante rumore, zitto, occulto stavasi Franciscolo col
suo bambino, accovacciato nella cella angusta, più sicuro che in
qualsivoglia fortezza, ma col battimento di cuore troppo naturale alla sua
desolata posizione. Il dì Buonvicino li lasciava sempre soli, tra per
non mettere ombra col trascurare le solite occupazioni dell'istituto, e tra
per darsi attorno, e informarsi di quello che importava sapere. La notte
poi tutta la vegliava il buon frate coll'amico a discorrere dei casi loro,
a provvedere, a confortarlo.

Di cosa mal condotta noi sogliamo dire anche oggi «La par roba di
rubello»: il qual motto nasce da ciò, che le case e i poderi dei
proscritti per titolo politico solevano mandarsi a guasto: demolire le
prime, lasciar gli altri incolti. Azone Visconti però avea proibiti
questi eccessi, e la plebaglia dovette sapergli mal grado d'averle tolto il
gusto che, simile anche in questo ai fanciulli, essa prova nel distruggere.
Il palazzo dunque dei Pusterla non fu diroccato e solo mandato a sacco; gli
amici di Franciscolo che non erano riusciti a fuggire, doveano fra poco
venir sottoposti al giudizio; della Margherita nulla si sapeva: silenzio
che dava maggior ragione a temere.

Mentre una volta frà Buonvicino stava cogli infelici suoi ospiti, odono
un suono di trombetta avvicinarsi, cessare, poi risonar più dappresso,
interrompendosi di nuovo, sinchè chiaro lo si intese ai piedi del
convento. Il fanciullo, che facilmente veniva divagato da un'impressione
nuova e gradita, si mise in ascolto con compiacenza, invitando gli altri a
fare l'istesso, ed accostando il piccolo indice al naso per accennare che
tacessero, che gli lasciassero goder tutta quella distrazione. Era il
banditore del Comune, il quale veniva gridando per la città con una voce
da passar i tetti:--Cento fiorini d'oro di mancia a chi consegna vivo o
morto Franciscolo Pusterla». Qui un minuto di silenzio, poi dava fiato
allo strumento, e ripigliava:--Signori, taglia di cento fiorini d'oro sulla
testa di Franciscolo Pusterla, capo d'una scellerata combriccola per
abbattere il signor Luchino, scannare i preti, disfare la santa religione,
e far morir di fame la povera gente.--Signori....»

E così alternando il sonare e l'urlare, allontanavasi fra una turba di
plebe che lo seguiva; alcuni inorriditi delle annunziate enormità,
appena credendo che gente così scellerata potesse vivere sotto l'occhio
del sole, altri ideando qual bella fortuna sarebbe la loro se riuscissero a
scoprire e consegnare il bandito: l'ideavan quegli stessi, che, se mai ne
fosse venuto il caso, per natural bontà avrebbero rinunziato alla taglia
ed ajutata la fuga dell'accusato.

Intesero frà Buonvicino e il Pusterla quel suono: e Franciscolo
esclamando,--Una taglia! come un lupo, un orso!» coprì la testa del
suo Venturino perchè non udisse quelle funeste intimazioni; poi rimasto
un momento ad immaginare l'impressione che farebbe sulla ciurma, sui
malevoli, sugli invidiosi, sugli indolenti, alzò gli occhi inviso a
Buonvicino, e se gli buttò al collo, siccome una donna che, udendo
narrare i tradimenti d'altri mariti, si abbraccia al suo fedele,
esclamando:--Ma tu no; tu non mai».

Tolta la speranza di poter giovare alla Margherita, a sè, agli amici,
non rimaneva a Franciscolo altro partito che di cercar salvezza colla fuga,
e ritirarsi ad aspettare tempi migliori.--Va pure! (gli dicea frà
Buonvicino) Se per la Margherita vi sarà modo di scampo, o almeno di
consolazione, sai se qui lasci chi l'ama davvero, chi non farà meno di
quel che faresti tu medesimo, senza esporsi ai pericoli come te. Oh,
risparmia almeno a quella poveretta il sapere perduti e te e questo vostro
angioletto. Va; fuggi; fuggi lontano più che puoi: non dar troppo facile
credenza alle speranze, onde i forusciti lusingano sè stessi e gli
altri: non ti fidare a vanti, a promesse di stranieri. Lungo è il
braccio dei cattivi, e molte e tortuose le loro vie, più che il giusto
neppur se lo possa immaginare».

Una mattina, Angiolgabriello da Concorrezzo, portinajo che conoscete della
casa di Brera, schiudeva il cancello della porta rustica, e lasciava uscire
un barroccio di pannilani, senza dir altro se non,--Iddio vi benedica».

In alto di esso, coricato boccone e celato dalla sargia, era un fanciullo e
dietro dietro gli venivano due Umiliati, uno ravvolto nel gabbano bianco di
lana sparato dinanzi e col cappuccio, secondo costumavano i sacerdoti del
terzo ordine: l'altro a foggia dei laici, col gabbano anch'esso, greggio,
chiuso davanti e sparato ai lati per trarne le mani, con le pantofole ai
piedi, e in capo una gran berretta, della quale il popolo nostro li
soprannominava _i berrettani_. Erano essi fratel Buonvicino, il Pusterla e
Venturino. A questo avevano raccomandato vivamente di tacere, di non
muoversi: e il poveretto dimandò--Si va forse a trovare la mamma?» e
con questa speranza si accomodò e tacque. Chi entro fragile zattera
abbandona una punta di scoglio dove era stato gittato dalla tempesta, e per
riguadagnare il porto espone di nuovo la sua vita alla ventura dell'infido
elemento, può dar immagine di quello che provavano dentro i due amici al
primo metter piedi fuori dalla inviolabile soglia del convento, per dare
alcuni passi nella città ove tutto era pericolo.

Vero è però, che, essendo già trascorsi alquanti giorni da quella
prima sfuriata di guardie, di bandi, di sospetti, e credendosi omai presi o
scampati tutti que' gran nemici dello Stato, meno attento occhio si aveva
sopra coloro che uscissero. Anche le perquisizioni della finanza non
mettevano a rischio i nostri viandanti, atteso che gli Umiliati godevano
esenzione dal dazio di dieci soldi terzuoli, che ogni pezza di panno pagava
all'uscire. E poichè un portinajo veniva eletto a voce di popolo per
ciascuna porta della città, che vegliasse onde veruna frode non fosse
fatta nella riscossione, alcune erano affidate agli Umiliati, cioè la
porta Giovia, la postierla delle Azze, e questa del Guercio d'Algiso, dalla
quale appunto avevano a passare i fuggiaschi.

All'avvicinarsi dunque del loro carro, come fu conosciuto essere merce dei
frati, nessuno venne a farne la veduta: i due Umiliati di guardia
esclamarono--Pace, fratelli»: e--Pace anche a voi», rispose
Buonvicino: ed uscirono. Quando si trovarono allargati nella campagna,
Franciscolo osò alzare gli occhi, girarli intorno, rimirar ancora quel
bel cielo lombardo, imporporato dall'aurora, e che viepiù gli pareva
bello dopo che da molti giorni nol rimirava se non attraverso una socchiusa
finestra. Chiamò il figlioletto, che fin allora si era tenuto quatto,
colle mani sugli occhi, senza trar fiato, al modo onde si rimpiattano sotto
le coltri certi mal avvezzati, per paura delle fantasme. L'innocente
rizzò il biondo capo, e la prima cosa fu un sorriso al genitore il quale
se lo levò fra le braccia, teneramente baciandolo e ribaciandolo: e gli
disse:--Ora siamo salvi».

Venturino corrispondeva a quelle carezze, poi fissando in volto al padre
due occhi d'inesprimibile tenerezza, domandò:--E la mamma?»

Come potevano rispondergli i due se non col dare in uno scroscio di pianto?
e ricorrendo su tutti i casi del vivere suo con quella sventurata,
Francesco stette un momento rivolto verso le torri che s'abbassavano della
sua terra natale.

Oh, la patria, quando la si abbandona è pur cara! E quando la si
abbandona a quel modo! quando vi si lascia tanta parte di sè!

Una volta usciti di città, potevano i nostri profughi riguardarsi come
in sicuro. I Governi d'allora, tutti impeto e di forza e poca astuzia,
neppure sognavano la raffinata oculatezza dei secoli moderni. Quindi nè
posti di gente d'arme, nè squadriglie di birri, nè chi cercasse
dell'esser vostro, nè le mille cautele onde nei tempi colti la Polizia
tutela la pubblica tranquillità. La gente poi della campagna non aveva,
come la cittadina, sofferto l'influenza corruttrice della Corte e degli
artifizj dei tirannelli; e come serbava più vive le ricordanze della
goduta libertà, nutriva costumi schietti, compassionevoli: quei costumi
che si alterano fra le egoistiche importanze della città, e che non
furono ancora, per fortuna, disimparati affatto dai più lontani
abitatori della campagna lombarda. Quindi da per tutto, nei riposi del
lento loro viaggio trovarono liete accoglienze, cordiale ricovero.--Pace a
questa casa ed ai suoi abitanti», esclamava frà Buonvicino entrando:
e il padrone di casa correva loro incontro, levandosi il berretto:--Oh
entrino i servi del Signore. Dove vanno, e' portano la benedizione come le
rondini». E accomodatili di quel che abbisognavano, e chiesto con
ingenua curiosità donde venissero, ove andassero, come prosperassero i
traffici, quanto si vendesse il braccio di panno, con altrettanta
ingenuità raccontava le sue faccenduole, domandava un parere, esponeva
un affanno.--Oh! la brina questo aprile ci portò via mezzo il frumento.
Ma le vigne mostrano bene.--Mia moglie? la poveretta è morta. Eh! se la
ci fosse ancora, non vi sarebbero questi garriti colla mia nuora, che se la
dice male cogli altri di casa. A proposito, il suo ultimo bambino, che non
fa ancora l'anno, ha i bachi. Queste donne dicono sia qualche cosa di
peggio, qualche malía: c'è qua una vecchia nostra vicina con
cert'occhi, che.... Basta! loro sacerdoti non vorrebbero si pensasse male.
Pure... farebb'ella la carità di benedirlo?»

E frà Buonvicino benediceva il fanciullo malescio; esortava la nuora a
conservarsi dabbene, e augurava all'ospite una ricompensa di poco in questo
mondo e di godimenti nell'altro.

A Varese, il carro dei panni doveva far capo alla casa degli Umiliati di
colà, che ancor chiamano la Cavedra. Quivi il Pusterla mutati abiti, si
separò col figlio da Buonvicino.--Addio (esclamava questi intenerito).
Vedi le parole scolpite sopra del nostro convento? _Spera in Deo_. E tu le
scolpisci in cuore. Riposa le tue speranze in quel Signore che dà una
patria anche alla capra silvestre, e guida nel loro passaggio le rondini
pellegrine. Egli è da per tutto e per tutti: ed a chi lo invoca di cuore
piove sull'anima consolazioni, che il mondo non sa dare e non può
rapire: Invochiamolo insieme: preghiamo che una volta ancora ci possiamo
rivedere--rivederci in pace e in amore, a giorni più quieti per te, per
me, per lei, per la patria nostra».



CAPITOLO X.

IL PROCESSO.


A Milano intanto erano stati disposti i processi delle persone arrestate
per l'affare della congiura. Il signor Luchino Visconti era studioso di
serbare le apparenze della giustizia; e i suoi lodatori rammentavano spesso
a grande encomio il seguente fatto. Aveva egli commesso il governo di Lodi
al suo prediletto figliuolo naturale Bruzio, giovane studioso di lettere,
ma immerso a gola in ogni turpitudine. Sotto la costui balìa accadde che
un gentiluomo lodigiano uccidesse un altro, onde fu preso e condannato nel
capo. I parenti del reo si presentano a Bruzio, e--Messere (gli dicono), se
avete bisogno di denaro, non perda la testa il figliuol nostro, ed eccovi
quindicimila bei fiorini, un sopra l'altro».

Ciò udendo, Bruzio, avido dell'oro, cavalcò a Milano, fu dal padre, e
inginocchiatosegli davanti, gli chiese grazia pel delinquente, mostrandogli
come egli potrebbe così ristorarsi della sua povertà. Luchino fece
segno ad un sergente che gli portasse il suo elmo, il quale era forbito e
lucente, con sopra un bel cimiero, coperto di velluto vermiglio: ed
avutolo, disse a Bruzio:--Leggi queste parole che vi sono scritte».
Dicevano _Justitia_.--E la giustizia (soggiunse) noi porremo ad effetto;
nè permetterò che quindicimila fiorini possano più della mia
divisa. Va e torna a Lodi, e fa giustizia, od io la farò di te».

Giustizia di questo calibro ne troverete facilmente presso i peggiori
tiranni; troverete anche chi l'ascriva loro a merito, merito ad assassini
che fedelmente spartiscono fra loro ciò che rubarono alla strada. Ma
alcuni opinano che vera giustizia non possa mai esercitarsi laddove chi
governa ha interesse diverso dei governati; poichè, qualora si trovino
questi in collisione con quelli, l'istinto dell'utile personale si mescola
alle decisioni, quasi senza che i giudici se ne avvedano. Quanto più
doveva succedere in tempi tanto grossolani, e ignari della dignità
dell'uomo!

Il diritto di sangue nelle repubbliche lombarde, dopo la pace di Costanza,
spettava al podestà, magistrato che generalmente chiamavasi da paese
forastiero, durava in posto uno o due o tre anni, e proferiva le sentenze
di concerto con un luogotenente o vicario condotto seco, e con alcuni
pratici della legge e delle costumanze, a norma di queste e di quelle. Il
travalicare però il diritto nei casi di Stato era abuso di cui già si
lordavano le repubbliche, e peggio i tirannelli succeduti ad esse in ogni
parte d'Italia. Quando fu trovata, o dirò meglio, quando si tornò a
studiare la ragione scritta nelle Pandette, i potenti non curarono gran
fatto le garanzie ivi sancite dalla libera sapienza romana, ma trassero a
loro servigio le esorbitanti leggi, che la timida tirannide dei Cesari
aveva mescolate agli ordinamenti migliori; e si valsero di quegli esempj
per farne puntello alla mal fondata autorità e credersi giustificati,
se, nei casi di maestà, trascendevano il diritto.

Allora i giureconsulti, non guardando più ciò che era giusto ma
ciò che era scritto, sugli esempj di una società nella quale non era
ancora venuto Cristo ad erigere un potere tutelare contro la spada,
degenerarono a schifosa servilità, e divennero adirati campioni della
parte ghibellina, per quel genio d'imitazione romana che tante cose ha
già guaste nel nostro bel paese. Quando il Barbarossa adunò a
Roncaglia la dieta italiana, famosi legisti pronunziarono che l'imperatore
era padrone del cielo e della terra, delle vite e delle robe. Poco meno
sostiene Dante nel ghibellino suo libro _De Monarchia_. I giureconsulti
avevano sempre, come si dice, in manica un discorso per indurre la città
a mutare il governo a popolo in governo d'un solo: i tirannelli non
domandatemi se facessero lor pro di dottrine per le quali la legalità
non si riponeva nella ragione, ma negli atti del governo, qualunque ei si
fosse: che sostenevano essere assolutamente obbligatorio il comando della
legge, e la legge essere ciò che piace al capo: pel qual modo essi
tiranni poterono vantarsi protettori della libertà, purchè questa
venisse definita il poter fare tutto ciò che non è impedito dalla
legge.

Sentono di quello spirito gli statuti criminali di Milano, dei quali il
CLXVII sancisce che _ribelli del Comune milanese s'intendono tutti coloro,
che fanno contro al pacifico stato del signore e del Comune di Milano:_ il
precedente ordina che, nei casi di ribellione, presa in così lato senso,
il podestà e i giudici suoi, tutti e singoli sieno tenuti per proprio
uffizio ad investigare e procedere per indizj, argomenti e tormenti, e con
tutti i modi che parrà; ed a punire e condannare.

Così elastici regolamenti facevano che in ogni paese, come dice il
Muratori, quando per semplici sospetti o per vendetta si voleva togliere
taluno dal mondo, sempre era in pronto la voce e il processo di congiura.

E la voce d'una congiura l'avea qui sparsa Luchino; si trattava ora di
convalidarla con un processo. Il 15 giugno, vale a dire sei giorni prima,
era entrato podestà in Milano Francesco de Oramara marchese di
Malaspina, giureconsulto anch'egli, e adoratore della lettera scritta, che
poneva per primo dovere d'un magistrato il conservare la quiete; e
nell'assumere la carica aveva giurato di far osservare gli statuti del
Comune di Milano, e principalmente gli accennati contro i ribelli, o come
qui li chiamavano, i _malesardi_. Non avrebbe dunque messo impaccio alla
condanna de' ribelli: ma dall'altra parte egli era un onest'uomo, corto
sì, ma retto, retto quanto bastava per venir raggirato da uno scaltro
birbante; ma incapace assolutamente di menare una brutta pasta per
piacenteria o per sordide speranze. L'uomo da ciò l'aveva in serbo
Luchino.

Quella banda di San Giorgio, che v'ho detta raccolta da Lodrisio Visconte a
danno del Milanese, dopo sconfitta a Parabiago, si era sparpagliata; e i
mercenarj, avvezzi alla prepotenza ed al saccheggio, e buttatasi alla via,
rubavano, assalivano, incendiavano; terribili ancora a minuto sotto il nome
di Giorgi. Per reprimerli, fu dato licenza a chiunque di farsi giustizia da
sè: e le memorie dei tempi ricordano che Antonio e Matteo Crivelli, cui
i Giorgi avevano guaste le ville, quanti ne poteano avere gli arrostivano,
e infarcendoli di avena, li davano a' cavalli; ad altri sul Cremonese fu
stratagliata la pelle sul dorso a modo di nastrini indi il boja li
frustava, gridando ad ogni colpo «Stringhe e bindelli». Così si
educavano i privati e il pubblico all'umanità.

Luchino, per quel suo amore così fatto alla giustizia, aveva contro ai
Giorgi istituito un magistrato nuovo, il capitano di giustizia, con
autorità amplissima. E perchè il mite naturale de' Milanesi non
rattenesse nell'esecuzione, scelse a quel posto un tal Lucio, severissimo
uomo, il quale, imprigionando e impiccando a josa, sbrattò dai ladri il
contado. Dai ladri dico grossi e minuti; giacchè molti signori, annidati
nelle rôcche e nei palazzotti di campagna, non lasciavano passare immune
se non chi avesse il salvocondotto della miseria. Anche a costoro pose
freno Luchino: impedì le guerre tra persone e persone, famiglie e
famiglie: dichiarò che tutto il contado immediatamente dipendesse pel
criminale da Milano; sicchè i feudi si limitarono a semplice
giurisdizione, non a tirannia: e i cortigiani del principe lo poterono
lodare d'avere stabilito l'eguaglianza di tutti in faccia alla
legge;--eguaglianza però dalla quale si dovevano intendere eccettuati i
forti, gli scaltri, gli adulatori, il principe, i suoi favoriti, e i
favoriti de' suoi favoriti.

Miglioramenti così fatti sono una vera benedizione del Cielo qualora
vengano da principe buono e di rette intenzioni: se mai è un tristo, gli
somministrano armi terribili, che, dopo adoperate pel pubblico bene, può
far servire al suo malnato talento. Luchino di fatti colla stessa mano onde
feriva i nemici della società, abbatteva i suoi personali. Nel che
egregiamente era servito da quel Lucio, così austero, così pratico
delle leggi, o a meglio dire, dei tranelli del Foro, così zelante di far
osservare il diritto: cioè la volontà del principe, e non già per
coscienza erronea, ma perchè smanioso di togliersi d'addosso un'enorme
vergogna che lo rimordeva più che un misfatto, quella d'essere nato da
povera gente e povero egli stesso. A chi abbia profondo nell'animo questo
abborrimento è facile, vi so dir io, il trovar modo da fare passata ed
arricchire, perchè il merito, quando si vuol vendere, trova facilmente
compratori.

E Luchino aveva comprato costui, e adoperatolo altre volte a' suoi fini:
onde non esitò a porre gli occhi sopra di esso anche nel presente caso,
e cominciò dal carezzarlo e solleticarne la vanità. Nel giorno della
solenne traslazione delle ossa di san Pietro martire, la gran festa che
abbiamo accennata terminò per la Corte in uno splendido convito, ove
sedevano il vescovo Giovanni, tutti gli ambasciatori delle città e dei
principi, gran signori e letterati sì paesani, sì avveniticci; e
tanto straordinaria era la profusione, che Grillincervello, facendone le
meraviglie, disse all'orecchio di Luchino:--Padrone, hai qualche pesce da
pigliare per la gola?»

Ho detto profusione, ma niuno diasi a intendere che nelle grosse spese di
quel pasto si trovasse nulla della finitezza e del buon gusto che oggi
possiamo immaginare ed effettuare. La prima messa fu di marzapani e
pignocate dorate, colle armi della biscia; indi vennero pollastrelli con
savore; due porcellini e due vitelli interi, dorati anch'essi; poi
un'abbondanza di spicchi di castrato, di capretti interi, di lepri e
piccioni e fagiani e pernici e storioni, e quattro pavoni coperti di tutte
le penne e due orsi; tacio le cento maniere di gelatine, di salse, di
paste, di canditi, di frutte, uno sfarzo di piattelli e tazze d'argento,
d'acque odorose date replicatamente alle mani, come lo rendeva necessario
il non usarsi le forcine; vini poi squisiti e senza misura. Ogni nuova
imbandigione era portata a suono di tromba e d'altri strumenti, da donzelli
superbamente divisati, fra mezzo ai quali scorreva Grillincervello, tenendo
in allegria con motti e con versi e strofe da ciò, e ricevendo da questo
e da quello i rilievi e i doni, dei quali aveva fatto un cumulo su un
deschetto in disparte, dicendo che gli basterebbero per mantenere quindici
giorni le molte mogli e i molti figliuoli che, secondo la scostumatezza de'
pari suoi, egli teneva in casa.

I discorsi erano vivi tra i convitati; altrimenti da quel che sogliano ora
a tavole principesche, e questo era una nuova lusinga all'amor proprio di
Luchino, giacchè neppure la ilarità dei bicchieri non suscitava
ragionamenti che gli potessero tornare spiacevoli. La quiete e felicità
dei popoli soggetti, gli atti di beneficenza, le prodezze guerresche,
l'onta dei nemici, qualche lepida avventura privata, porgevano ampio
soggetto di ciance e d'adulazione. Mal vi apporreste credendo dovessero
schivare studiosamente di discorrere delle disgrazie della settimana, degli
infelici che languivano nelle prigioni, mentre alla Corte si sguazzava. Non
era quello un nuovo trionfo del signor Luchino? Non era un pericolo
ovviato? un atto di pubblica giustizia? Poco tardarono dunque a formare
tema di discussione il podestà ed il capitano di giustizia, collocati
vicino e in mezzo ad altri giureconsulti.

Dei cui discorsi avvedutosi, Luchino volse la parola a Lucio, e--Voi (gli
disse), voi che delle leggi sapete quel che n'è; voi che tutti
interrogaste gli oracoli dell'antica sapienza, qual pensiero fate sopra
tanto caso? che n'avrebbero sentito quegli insigni nostri progenitori i
Romani?»

Qui la calcolata vigliaccheria del capitano era accresciuta dal vedersi
distinto in mezzo a tanta nobiltà; sicchè senza esitare
rispondeva:--Il giudizio intorno a traditori della patria può egli
essere dubbio? Quanto a me, avvezzo a sostenere francamente la giustizia, a
decidere secondo quella, che che me ne deva costare, dico e mantengo che,
se la vostra serenità risparmiasse il sangue di costoro, verrebbe meno
a' suoi doveri, e tradirebbe il potere affidatole dal popolo».

Quanto bel suono faccia ai tiranni l'udirsi parlare del dovere di essere
cattivi e di fare a proprio modo, sarebbesi potuto scorgere dalla
compiacenza che scintillò nell'occhio di Luchino. Il quale, lieto di
essere stato così bene compreso, continuava:--Sì, ma qui s'avrà a
fare con volpi vecchie: gente da toga e da spada, scaltriti a segno da
negare i fatti più evidenti.

--Principe, a vincere nemici insegnatemi voi: per far parlare un ostinato,
non ho bisogno di scuola».

Così sotto alla maschera di rozza veridicità ascondeva colui la
più turpe adulazione, e pattuiva l'infamia; e qui come d'un bel fatto,
venivasi vantando di difficilissimi processi, dove era riuscito a
convincere al modo suo i più scarsi d'incolpazioni; dietro a che la
disputa s'infervorava tra que' legulej, e durava gran pezzo dopo levate le
mense; finchè Luchino, tratto in disparte il capitano, gli affidò
l'incarico di guidare quel processo, e conchiuse:--I Pusterla sono
ricchissimi possessori; e al fisco abbonderanno i mezzi di compensare
lautamente i fedeli suoi ministri».

Furono sproni a buon cavallo; e Lucio da quell'ora non pensò che ad
ordire le fila per la tela meditata.--Datemi in mano due righe d'un
galantuomo, m'impegno di trovarlo reo di morte», ha detto non so qual
moderno forestiero. Pensate poi allora, quando il maltalento dei capi e la
corruttibilità dei giudici non si trovavano frenate da provide garanzie
e dall'opinione e quando fin la tortura poteva essere adoperata per
istrappare di bocca la verità o quella che voleasi verità.

Oltre il consiglio generale, in cui sedeva la suprema autorità, ne era
in Milano un altro particolare di ventiquattro cittadini, dodici del popolo
e dodici dei nobili, parte _juris periti_, cioè letterati e cogniti
delle leggi, parte _morum periti_, cioè senza lettere ma pratici delle
costumanze patrie e degli statuti: duravano in uffizio due mesi,
chiamavansi società di giustizia, ed a loro spettava il conoscere i
delitti di maestà preseduti sempre da un giudice forestiero.

Il giudice presidente o capitano era esso Lucio, il quale passò dunque
in rassegna per iscegliere quelli che facessero al suo caso.

Ecco qua (diceva egli tra sè stesso) gente di idee nuove, ma che
pretende cavate dal Vangelo, la quale riporta tutto al regolo della
giustizia, supponendo che la giustizia sia una cosa reale, e che s'attacchi
non alle convenzioni degli uomini, ma ai voleri di Dio. Fanatici! utopisti!
credono che il principe deva star alla rettitudine come l'infimo de' plebei
e che sia un gran che la testa di un uomo, per quanto oscuro. Non fanno per
me.

--Quest'altri sono incamminati sul buon sentiero e sanno volere la
giustizia senza rinnegare la politica; giusti fino al trono. Nelle
differenze tra privato e privato e' si farebbero coscienza di portare danno
pur d'un bruscolo; ma qualora si tratti del principe, la pensano più
liberalmente. Alcuno di questi giova introdurlo nel consiglio, perchè
gridano alto giustizia, leggi, ragione, e fra il popolo hanno voce d'essere
zelatori. Gridino pure; ma in consiglio i seniori li compatiranno come
inesperti, e il voto loro rimarrà eliso dai meglio assennati.

--Questi altri, onesti di fondo, incanutirono nel mestiere, onde si sono
formata l'abitudine di veder sempre nero, di credere tutt'uno accusato e
reo, e necessari alcuni sacrifizi al pubblico bene. Un pajo anche di
questi. Un pajo di quei gran giurisprudenti che, fino dalla scuola, si sono
avvezzati a intendere e proclamare che suprema legge è il pubblico bene,
e del pubblico bene prima condizione la quiete: nè la quiete potevasi
conservarsi altrimenti che col rispettare l'ordine stabilito, qualunque
esso sia; e in conseguenza essere il maggior reo colui che dà moto a
novità.

Luchino poi aveva cominciato a mostrarsi rigoroso cogli uffiziali di Corte,
i quali avessero angariato o rubato ai cittadini, e con tormenti li
sforzava a palesare gli illeciti guadagni. Chi fosse tinto di questa pece
aveva dunque, come diceva Lucio, una museruola alla bocca per tacere e fare
a modo.

Tra sì varie maniere di vedere la giustizia, Lucio potè costituire il
suo consiglio senza neppur ricorrere all'abiettissima viltà di quelli
che si vendono per denaro ai potenti, e che speculano sul piatto degli
oppressi. D'altra parte egli sapeva benissimo come in tali vertenze gli
svantaggi dell'accusato sieno tanti, che è un prodigio d'innocenza chi
n'esce purgato: aggiungeva le torture, sieno le sfacciate e strillanti
della corda e del cavalletto, sieno le ipocrite ed ignorate della prigione
e della lentezza: onde, esaminata ogni cosa, esaminate le speciali
circostanze di un delitto di Stato, ove accusatori, testimonj, giudici
sanno di gratificarsi il padrone coll'aggravare gl'imputati, si trovò
d'aver buono in mano e disse a sè medesimo:--Cuor mio riposa: un bel
palazzo e un ricco podere e la confidenza del mio signore non mi possono
mancare».

Ma per essere sempre più sicuro del fatto suo, il capitano sottopose per
primo a giudicatura quel Franzino Malcolzato, servitore del Pusterla,
bravaccio famigerato per risse e ferimenti e omicidj. Costui, come si vide
posta innanzi da un canto la tortura, la forca, o al men che fosse la
prigione perpetua; dall'altro promessa l'impunità qualora si confessasse
reo e manifestasse le volute colpe del padrone e i complici suoi, non
esitò nella scelta, e Lucio trionfò della sua invenzione. Secondo
dunque gli veniva questi suggerendo; il Malcolzato disse che d'una grande
congiura aveva inteso ragionare: sparlar abitualmente del principe e de'
suoi fatti; discorrere di speranze, di vicine mutazioni, d'un avvenire
migliore; il suo padrone aver tenuto a Verona spesse e segrete conferenze
col signor Mastino della Scala e con Matteo Visconti: aver ricevuto colà
Alpinolo, spedito in gran diligenza dai congiurati milanesi, e con questo
esser venuto di volo alla città, spesso tra via bestemmiando il signor
Luchino; nel palazzo del Pusterla esservi armi; quella tal sera aver egli
introdotto colà i più fidi amici, che dissero, che disposero, che
giurarono uccidere, incendiare, rubare;--e seguitò narrando cose tanto
assurde e contraddittorie, da mandarlo ai pazzarelli o condannarlo di
impostura.

Nel consiglio di giustizia non mancò chi riflettesse all'incongruenza di
tali deposizioni; ma Lucio fece sentire come i tumulti bisognasse frenarli
col porre il piede sulle prime faville; che se la pace di tutti richiedeva
qualche vittima, tornava meglio colpire quel ribaldo, che non mettere a
repentaglio tante teste segnalate.

Vero è che la giustizia non dovrebbe accettare diversità di persone,
ma quante altre cose non dovrebbe! i pochi opponenti, vedendo prevalere
l'opinione dei più, entravano in diffidenza della propria e in timore
d'ingannarsi; la riverenza pel potere sì profondamente era nei più
radicata, che, senza avvedersene, mescolava nei giudizj la probabilità
di godimenti, d'onori, di partecipazione a qualche brano dell'autorità
stessa; poi essendo molti a giudicare, ciascuno vi portava una volontà
meno ferma, una meno intera valutazione delle conseguenze, che non avrebbe
fatto qualora da solo avesse avuto a prendere la deliberazione; e la
responsabilità dell'esito pareva diminuita in ragione del numero dei
colleghi. Finalmente, riflettevano, si tratta d'un mal arnese, da cui la
società non può aspettarsi bene di sorta.

Guai all'uomo che patteggia un solo momento coll'austerità di sua
coscienza! se è privato, diverrà un iniquo; se magistrato, un
satellite; se principe, un tiranno.

A quell'indegno procedere non resse Bronzino Caimo, valoroso giurisperito,
che in piena adunanza osò mostrarne l'enormità ai suoi colleghi.
Lucio (anche i tristi s'ingannano qualche volta) non aveva dubitato di
trasceglierlo, perchè, sebbene non dissimulasse la sua avversione alle
violenze di Luchino, neppure i nemici di questo mostravano farne gran
capitale, attesochè si dichiarava sempre abborrente dalle illegali
opposizioni e dai miglioramenti recati colla spada: onde solevano dire
ch'egli pretendeva raddrizzare il mondo coll'aspersorio e col messale.

Ma l'aspersorio e il messale lo facevano ripugnante a qualunque viltà, e
coraggioso sostenitore del vero; tanto che la processura da Lucio
impiantata non sarebbe in modo veruno potuta giungere a compimento, ove
prima non si fosse punito costui, che osava di aver ragione.

Lucio pertanto, in segreto interrogatorio, potè far confessare al
Malcolzato, che Bronzino Caimo era esso pure dei congiurati, anzi uno dei
più pericolosi perchè ragionevole, e quando il generoso si preparava
a non permettere che fosse, così senza un richiamo, violata la
giustizia, si vide egli medesimo trascinato nelle prigioni, e chiamato
innanzi a quei giudici stessi, ai quali doveva servire per lezione di
docilità.

Senza dunque che altri più fiatasse, le confessioni del Malcolzato
furono tenute buone: poi sotto pretesto che egli non volesse dir tutto
quello che sapeva, gli venne tolta la promessa impunità, e, condannato a
morte, fu tra pochi giorni appiccato, siccome ministro scellerato delle
scellerate trame del Pusterla. Il popolo corse a vedere, e disse:--N'ho
gusto! egli era un prepotentaccio, e meritava di finir così. Viva i
nostri padroni che purgano il mondo da questa feccia».

Ma come le ingiustizie s'incatenano! Da questo supplizio restava convenuto,
non solo tra il popolo, ma in giudizio, che una congiura esisteva, che
n'era capo il Pusterla, che il secondavano gli altri nominati, oltre i
più non iscoperti. Potevansi dunque chiamare in processo gli altri sopra
un fatto, della cui verità non si doveva più dubitare dopo che era
passato, come dicono, in giudicato: ed a Lucio non restava più altro a
fare che mostrarne colpevoli gli imputati....

Oh, togliamo una volta le mani da questa sozza pasta, congratulandoci dei
progressi che alla ragione criminale fecero fare coloro, i quali non
temettero offendere i principi col francheggiare la sicurezza di tutti.

Per allora la conclusione fu che, terminati i dibattimenti della società
di giustizia, i trombetti del Comune andarono in giro per la città, e ad
ogni crocicchio fermandosi, dato fiato alle trombe, invitarono i capi di
famiglia, perchè, il tal giorno a mezzodì, si radunassero alla
concione generale nel Broletto nuovo.

In questo generale parlamento risedeva, come ho detto poco sopra,
l'autorità suprema del governo: intendo di diritto, perchè nella
pratica si credeva che, col nominare un principe, si fossero i cittadini
spontaneamente esonerati di un tal peso per gettarlo sulle spalle a questo,
il quale poche volte gli incomodava a venire a dir di sì.

Una delle poche volte fu questa, acciocchè coll'ombra del suffragio
universale sanzionassero un nuovo atto di sua tirannia. Già sulla loro
decisione verun dubbio non provava il Visconte, conoscendo per esperienza
come il voto della moltitudine così congregata non sia null'altro che
l'espressione di quello degli intriganti, da cui si lasciano raggirare quei
più che non ebbero nè voglia nè tempo nè capacità di ponderare i diritti
e la giustizia. D'altro lato, guardando di mal occhio queste apparenze
repubblicane, che sopravvivevano insieme colla monarchia, Luchino
godeva screditare tali assemblee nell'opinione, col farsele consorti
nei delitti.

Allora adunque che furono ivi radunati i cittadini, comparve in mezzo di
loro la società di giustizia, e il capitano, salito sulla parlera,
espose la congiura scoperta e sventata, nominò i rei, pubblicò le
sentenze proposte sì contro gli imprigionati, si contro i fuggiaschi. I
quali ultimi non erano pochi, giacchè tutti quelli che sapevano di
essere in qualunque modo dispiaciuti al Visconte, sebbene del presente
fatto non avessero nè colpa nè conoscenza, temettero ch'egli
cogliesse volentieri quest'occasione, in cui il rigore pareva giustificato.
Quelli dunque, che nei tempi di fazione si eran chiariti nemici del
biscione, fuggirono; fuggirono quelli che altre volte n'erano stati
perseguitati, ragione per esserlo di nuovo; fuggirono Ottorino Borro e
Pagano Casati, per non provar novamente i guai che a lungo avevano sofferto
nelle prigioni di Binasco; fuggirono Lodovico Crivello, Bellino della
Pietrasanta, altri ed altri neppure nominati dalle imprudenti o dalle
estorte accuse, ma, che il Visconte e i suoi enumeravano come argomento
della estensione di quella trama.

Fra quelli che erano intervenuti al colloquio funesto, e contro cui vi
erano imputazioni dirette, erano riusciti a sottrarsi Zurione, fratello di
Franciscolo, Calzino Torniello da Novara, Maffino Besozzo ed altri, che, se
tutti io nominassi, alcuno si dorrebbe perchè avessi richiamato in luce
il delitto e la pena de' suoi avi, altri se ne farebbe bello, siccome d'una
domestica gloria:--tanto in ciò vanno concordi le opinioni.

Letti i processi, voglio dire quella parte di processi che a Lucio piacque
estrarre, apparve così enorme la colpa di tutti, che i novecento
capifamiglia, i quali davano voto segreto con sassolini bianchi e rossi,
trovaronsi tutti d'accordo nel confermare la condanna, eccetto una qualche
dozzina, che dovevano o avere sbagliato, o non compresa la serenissima
volontà.

I fuggiaschi vennero dichiarati sbanditi dallo Stato milanese, scaduti
dalla nobiltà, cioè mutato il sangue; i nomi loro scritti sul libro
dei signori ricevitori della Camera del Comune di Milano, e le effigie
rozzissimamente dipinte sul muro del Broletto nuovo, appese alla forca. Ma
ciò che è più positivo, i beni loro restarono messi al fisco, e
quelli soli del Pusterla salirono al valore di dugentomila fiorini d'oro,
che oggi si ragguaglierebbero a dieci milioni di franchi.

Di somma voglia Luchino avrebbe côlto il destro di togliersi d'in su gli
occhi i tre nipoti, Bernabò, Galeazzo e Matteo, siccome gliene offrivano
ragione le lettere trovate in casa Pusterla, e che furono l'argomento di
maggior peso in quel processo. Ma egli non aveva osato farne proferire
sentenza finale, tra perchè il fratello vescovo erasi interposto a
favore loro con vive istanze, tra perchè temeva si levasse ancora tanto
rumore, quanto pochi anni prima per l'assassinio di Marco Visconti.

Davanti a una Madonnina che soprastava alla porta Romana, furono dunque
accesi due torchietti, e intimato a Bernabò e al bel Galeazzino (Matteo
era già sul Veronese) che, prima che i due ceri fossero consumati fino
al verde, eglino dovessero uscire di città: e, come se ne furono iti, fu
mandato un bando che li dichiarava esclusi dallo Stato come _sospetti della
fede, violatori della pace, spergiuri detestandi; et che non potessero
contrar matrimonio, nè morendo avere sepoltura ecclesiastica_.

Pur troppo, come sapete, ritornarono; fecero di questo paese il peggio che
seppero, vennero sepolti in chiesa, e lasciarono prole niente migliore.

Il peggio toccò agli infelici ch'erano stati côlti. Martino e Pinalla
Aliprandi, chiusi nelle carceri pretorie in piazza dei Mercanti sotto alle
scale del palazzo, da un pertugio di quella carbonaja poterono udire la
sentenza che li condannava a morir colà entro di fame. Poi il dì
seguente videro Borolo da Castelletto, Beltramolo d'Amico, e l'incorrotto
giudice Bronzino Caimo, decapitati sulla piazza stessa; li videro, e come
dovettero invidiarne la pronta morte, essi costretti a doverla aspettare a
gradi a gradi, con tutti gli atroci spasimi del digiuno!

Ogni anno si soleva imporre sul censo una taglia straordinaria, detta il
fiorin d'oro, molto incresciosa non meno alla nobiltà che alla plebe. La
mattina dell'esecuzione, Luchino pubblicò che quell'anno la condonava, e
che non la riscoterebbe più fuorchè nel caso d'invasione di nemici.

Tanto bastò, e fu sin troppo, perchè il dabben popolo milanese
dimenticasse quel sangue, anzi corresse a vedere quell'atto di giustizia
del suo generoso signore; il popolo, tanto somigliante ai fanciulli, che da
ogni cosa traggono motivo di festa, che contemplano giocondi lo strato
disteso sulla bara del padre, e dicono _oh bello_ alle molte candele accese
ai funerali della madre loro.

I giudici, uscendo di carica, si trovarono consolatissimi d'avere, per la
pubblica sicurezza, lavorato tanto, colla soddisfazione d'essere pur
riusciti a scoprire i traditori del paese e castigarli. Più soddisfatto
rimase il capitano Lucio, il quale da un viglietto di Luchino si trovò
assegnato per residenza il palazzo dei Pusterla alla Balla, e conceduto ad
uso il delizioso podere di Montebello, salvo ad accordargliene la
proprietà quando fosse deciso definitivamente intorno al Pusterla e alla
sua famiglia.

Anche la storia doveva, come spesso, offrire l'umile servigio della sua
penna alla prepotenza; talchè, o prezzolata, od abbagliata, o trovando
più comodo il credere che l'esaminare, affogando sotto pompose parole il
vero, e mentendo l'eloquente semplicità dell'affetto, scrisse qualmente
lo sciagurato Francesco Pusterla, benchè il più ricco e il più
nobile fra i signori milanesi, benchè con gran favori e con gelose
missioni distinto dai Visconti, aveva macchinato a rovina di essi, e
meritato così di cadere dalla opulenza di Giobbe nella miseria di
Giobbe: grand'esempio di non tentare novità contro ai signori del
proprio paese.

Così un consesso indipendente processò: la legge proferi la sentenza:
il suffragio universale la confermò: il popolo applaudì; la storia
perpetuò. Chi più avrebbe osato dubitare dell'esistenza di una
cospirazione, e della giustizia con cui fu castigata?



CAPITOLO XI.

LA PRIGIONIERA.


E Margherita?

Fortunati del mondo, se tutto questo racconto non fa per voi, meno ancora
questo capitolo, che versa tutto fra solitari patimenti, che voi non
potreste capire. Ma chi soffre, chi ha sofferto, mi intenderà, li
compatirà.

Nessuno forse de' miei lettori (giacchè non posso sperare che queste
pagine mie varchino di molto il recinto di Milano) nessuno forse sarà
passato sul ponte di porta Romana senza voltare un'occhiata alla casa sulla
destra di chi esce, alla cui facciata servono di fregio certi bassorilievi
che rappresentano Milano riedificata dai collegati lombardi. Queste
sculture, testimonio della rozzezza, di esecuzione e della rettitudine di
concetto nelle arti belle del secolo duodecimo, ornavano la porta della
mura che quivi, in due archi, era stata fabbricata al tempo appunto della
Lega Lombarda; dove poi sta ora quella casa, Luchino edificava una
fortezza, la quale di molto allungavasi fra la via del _terraggio_ e la
fossa. Nell'anno in cui ci troviamo col nostro racconto, quella fortezza
non era peranco terminata: le reliquie poi di essa, e singolarmente un'alta
torre, durarono sinchè, mezzo secolo fa, non fu demolita da quella or
savia or pazza foga di riedificare, che non sa far di nuovo senza
cancellare le traccie degli avi.

Nell'alto appunto di questa torre venne rinchiusa la Margherita: e la
stanza a lei destinata nulla avea dello squallore, con cui
quell'atrocità che si chiama giustizia punisce l'uomo, che essa non ha
ancora sentenziato degno di pena. Una finestruola le permetteva di vedere,
attraverso alle sbarre di ferro, i comignoli della città: si accorgeva
ancora d'un mondo che le viveva d'attorno; ancora udiva le campane, le
cavalcate, il fragore delle officine; vedeva il cielo, il sole, il verde:
scarsi ristori del tanto che avea perduto: ristori però di cui si
conosce il pregio immenso allorquando il raffinamento della crudeltà ha
fatto sperimentare quanto si può star peggio.

Eccola dunque sola, strappata a tutte le consuetudini della vita, alla
libertà delle occupazioni, degli ozj, quasi non dissi dei pensieri: in
balia di gente sconosciuta, da cui non intende mai una parola pietosa, mai
non riceve uno sguardo di compassione; dove ogni rumore è una mano
gelata che le stringe il cuore, ogni tirar del catenaccio è un colpo di
coltello.

E questo, perchè?

Una profonda oscurità le cela ogni cosa.

E tutti i suoi cari?

Ah! le lacrime, che aveva rattenute fintanto che non contemplava se non la
propria situazione, quando rifletteva al figliuolo, allo sposo, in copia le
sgorgavano dagli occhi sconsolati. Qualche motto che ha potuto raccogliere
dalla tranquilla crudeltà dei sergenti, che la trassero di casa e dalla
schiamazzante indolenza della plebe accorsa a vederla, e che accennava
tradimento, principe, ribellione, castigo meritato, le lasciarono
argomentare si trattasse di un delitto di fellonia, onde fosse accusato il
Pusterla. D'altra parte, sotto tiranni, qual è il delitto che si appone
a chi non n'ha alcuno? Ed ella conosceva Luchino, sapeva d'averlo irritato
colla sua virtù; la parola poi che le gridò quell'ignoto nell'atto
che partiva incatenata, le lasciava indovinare i segreti maneggi di una
lunga e scellerata vendetta. Che non aveva dunque a temere? Lo sposo forse,
certo il figliuolo sono stati côlti--gettati in carcere--dove?--come?
Stanno forse qui, qui vicino a lei.--E non saperlo! e non vederli!--e con
loro chi sa quanti dei loro amici? forse i più cari.

Allora le si affacciava alla mente un giudizio, di cui la sentenza fosse
prestabilita, indi una condanna, un supplizio.--Dio! Dio! Ella si copriva
gli occhi colle mani, gettavasi boccone sullo stramazzo, fremeva convulsa,
lacrimava: poi quando questo sfogo medesimo aveva tornato un poco di calma
ai suoi pensieri, ella rifletteva:--Se Luchino è sdegnato contro di me,
contro me sola dee versare il suo furore. Qual colpa hanno al suo cospetto
que' miei innocenti? Oh fossi certa che del mio strazio avesse egli ad
accontentarsi! come paziente soffrirei ogni travaglio! come lieta
incontrerei la morte più tormentosa!--Ma colui.... oh non se ne
sazierà. Antichi rancori, invidie antiche gli risorgeranno nell'animo
ora che gli venne il destro di soddisfarle, e punirà in essi le colpe
che non hanno, per lacerare me nella parte più sensitiva del cuore».

E qui tornando sui sogni di un'agitata immaginazione si vedeva dinanzi le
torture, il patibolo, il manigoldo; e quel ch'è peggio delle torture,
del patibolo, del manigoldo, il ghigno di colui, che con fredda vendetta ce
li prepara; onde scorata profondavasi nell'abisso dell'incomparabile sua
miseria!

Pure la speranza, che negli infelici non è calcolo ma istinto, veniva
volta a volta a lusingarla. Nei primi giorni pensò che quella potesse
essere una dimostrazione e null'altro, un atroce scherzo per isgomentarla e
smuoverne la ritrosia:--Domani verranno a liberarmi. Di me che vorrebbero
mai farne?»

Ma troppo presto le correvano a mente altre scelleraggini di Luchino: e
prima ancora che quel domani indarno aspettato la disingannasse, già lo
aveva fatto la ragione.

Se non che al rimembrare le colpe di Luchino, diceva fra sè stessa:--Non
è costui odiato da tutti i cittadini? non ha egli rapite a mano a mano
tutte le franchigie di questo popolo che, fremendo, lo vede sciupare i
frutti del suo sudore e del suo sangue? Francesco, all'incontro, il mio
Francesco, non è amato, accarezzato da ognuno? Quanti poveri non
sovvenne la nostra famiglia? a quanti oppressi non diede la mano? quanti
non giovò di opere e di consiglio? Deh con che indignazione si sarà
intesa per la città la nostra cattura! Certo, il nuovo misfatto avrà
colma la misura della pazienza; balzeranno alle armi:--ecco, si
combatte:--i pochi vili fautori di esso si nascondono per sentimento di
giusta vergogna, per paura della tremenda vendetta popolare; le lancie
prezzolate nol difendono che col valore di gente mercenaria;--i buoni
trionfano: Luchino è in fuga; la città torna franca; si disserrano le
prigioni; fra le acclamazioni del popolo, Franciscolo corre a me.--Oh
contento! rivederci dopo tanto pericolo! dopo sì acerbo soffrire! ed
essere stati occasione di tornare la patria in libertà».

Questa idea diffondeva sulla pallida fronte della Margherita il raggiante
incarnato della speranza; ma o scricchiolar di catene, o cigolio di
chiavacci la richiamavano, infelice! alla troppo diversa realtà. Passa
intanto un giorno, due, tre; una settimana, due, e la liberazione non
viene, non viene l'impeto popolare, il quale, se al primo istante non
trabocchi, sbolle e si racqueta. Bensì il continuare al solito del
rumore cittadino l'avverte come ciascuno badi a sè, nè curi più
che tanto se altri viva tormentato. Che più? ode, vede le cavalcate
passar rumoreggiando in vista della sua prigione, dirizzandosi a fare di
sè pomposa mostra su quel corso, o ad esercitarsi nelle caccie e nelle
gualdane: suono di chiarine festose, popolari canzoni: di tempo in tempo un
festivo dar nelle campane, chiaro le dimostrano come gli spensierati
cittadini ridano sulla tomba dei loro fratelli, la quale può, il giorno
da poi, schiudersi sotto ai loro piedi.

Però la disperazione stessa ha la sua calma; e il tempo, scorrendo sopra
le piaghe dell'anima, mentre le incancrenisce, fa sentirne meno vive le
fitte. Già con quieta melanconia può la Margherita rivolgere per
alcuni momenti il pensiero sul passato, sul presente, sull'avvenire: ogni
ora del giorno le ricorda un'occupazione, a cui soleva altre volte
dedicarla. Alla mattina, quando incontro alla prima luce dischiude gli
occhi riposati, poichè sparve quella istantanea illusione che, sul primo
svegliarsi, fa credere al prigioniero di trovarsi ancora nella sua camera,
nel suo letto, pensa come occuperebbe quel giorno se fosse libera di sè.
Sono placide cure casalinghe, santità di affetti famigliari, opere di
pietà, doveri di religione. Qui come lo passerà? Come gli altri,
inerte, lungo, pensieroso, angustiato.--Ma chi sa? forse oggi qualche bene
mi succederà: se non altro un accidente che distingua la monotonia dei
patimenti».

Questa fiducia l'accompagnava il mattino; vedeva il sole crescere
sull'orizzonte, poi chinarsi come si era chinato jeri, e l'altro, e
l'altro; e al modo stesso si ripetevano gli stessi piccoli casi, gl'insulti
stessi, le stesse fitte d'ogni dì. Veniva l'ora del crepuscolo,--l'ora
delle memorie e delle meditazioni; ripensava ad altri giorni, ad altre
sere, le paragonava con queste, e coricavasi colla speranza medesima, colla
quale si era levata; e al mattino la ritrovava ancora sullo spinoso
capezzale.

La ragione--la filosofia.--Oh che sono mai le loro consolazioni quando il
male stringe?

Ecco un sapiente ti grida,--Meglio il dolore che il disonore.

Oh sì: ma ciò toglie forse che il dolore prema?

--L'uomo (soggiunge un altro) è nato alle pene.

Tristo conforto una sì crudele necessità! Ma come meritò egli
questo castigo del nascere? E poi, egli gira gli occhi intorno, e vede
altri, colmi d'ogni bene di fortuna; prosperi gli scellerati, anche
tranquilli dopo che soffocarono il grido della coscienza tra il vortice di
commessi e di meditati delitti: vede esultare nella vendetta coloro stessi
che lo fanno soffrire così. Perchè non hanno sortita anch'essi la
loro porzione di patimenti? Qui la filosofia che cosa risponde?

Verrà un terzo, che freddamente chiede:--Il rammarico a che giova?

--Ah! lo sa troppo la infelice che a nulla giova, e questo appunto
l'accòra, che, da tanta afflizione, verun frutto non venga a sè,
veruno a' suoi cari.

Più risoluto intuona un altro:--Non vi è male fuorchè la colpa.

Non vi è male? eppure essa lo sente, e tale che le vince le forze. Si
trattasse di doglie del corpo, le tollererebbe. Fossero soltanto mali suoi!
ma qui ha consorti nei patimenti le persone più caramente dilette: uno
sposo, un figliuolo che nulla ha per anco gustato, e già si satolla di
fiele. O filosofo, condannerai gli affetti più naturali? e come
conforterai chi da questi appunto è tormentato? Gli rammenterai forse
altri tempi, felicità godute? Ah taci, che il rincorrere i beni passati
gli esacerba la presente condizione.

O gli ripeterai i pomposi esempj degli eroi e de' sapienti del mondo, e il
generoso modo onde tollerarono i guaj, con cui sempre il mondo li
ricambiò? Ma quanta parte non vi aveva l'ostentazione? L'eroe che
affronta la morte in campo, sa che migliaja di spettatori lo guardano, sa
che muore per la salute della patria, per una causa, che è o che crede
buona; sa che la gloria di un nome eterno seguiterà al suo coraggio,
mentre un eterno obbrobrio verrebbe dietro ad un istante di viltà. Chi
sconta sul patibolo la colpa di aver avuto ragione troppo presto, si
conosce spettacolo dell'intera società, la quale dal suo ultimo contegno
giudicherà della sua dottrina; e vuole colla propria costanza suggellare
la santità della causa per cui muore, e l'infamia di chi lo fa morire.

Ma qui è una sventurata, sola, senza testimonj, se non chi o per
abitudine è reso incapace di compassione, o per viltà la sbeffeggia;
ed ignora se, fuori di là, pur uno si ricordi che ella soffre.

--Ma ha il testimonio della buona coscienza.

Oh! l'innocente sta forse a condizione peggiore del reo: questi conosce il
suo peccato, prepara le discolpe, calcola le conseguenze, se non altro
dice,--L'ho meritato». La innocente invece non sa perchè tormenta;
questo solo sa, di tormentare senza colpa per satollare la rabbia d'un
nemico. Può l'animo non covar rancore? e il rancore non è senso
spasmodico, che basta ad avvelenare sino la felicità?

Belli sono, o filosofi, i precetti vostri, banditi dalle cattedre e dai
libri; eccellenti contro ai mali passati ed ai futuri; ma se il presente
incalza, allora natura reclama il suo diritto, e ridendo di voi, li
sparpaglia al vento.

La Margherita non ignorava queste consolazioni: che suo padre, conoscendo
quanti triboli ingombrano questo breve tragitto dalla cuna alla bara,
l'aveva già fanciulla premunita contro il mutarsi della fortuna; e le
lezioni dei primi anni tornano vive in mente a chi è dalla sventura
arrestato nel corso, e costretto a volgere un minuto sguardo sugli anni
trascorsi. Ma poichè ne aveva amaramente conosciuta la vanità, altri
sentimenti doveva cercare nella sua memoria e nel suo cuore, ed
esclamava:--Santa religione! in mezzo al tumido spirito del secolo,
tripudiante nell'ebbrezza delle passioni, nella soddisfazione del senso,
nella superbia della scienza, tu comparisti ad insegnare il perdono, la
pazienza: dal nascere tuo fosti nutricata di lagrime e di sangue; tra
lagrime e sangue crescesti ad occupare la terra!--Oh benedetto conforto,
largito dal Cielo nelle miserie che i ribaldi accumulano sulla terra!

Tutta assorta in quella, Margherita contemplava il nulla delle cose di
quaggiù: come nessuno sia senza colpa in faccia a Colui, che scopre
macchie negli angeli suoi, e che esercita con afflizioni anche la giusta
vita per tramutarla, espiata, in una migliore. Allora essa rammentava un
testimonio che, presente a ciascun sospiro, esplora il cuore e i pensieri,
registra ogni lagrima per compensarla. Esulta l'empio nelle disoneste
prosperità? Margherita il compiange, sapendo che altro giudice lo
aspetta con altre bilance a rivedere le ragioni di chi soffre e di chi fa
soffrire. Trovasi divisa dai suoi; forse mai più non li vedrà--mai
più in questa vita; ma un'altra ne segue, per la quale tesorizza ogni
istante di patimenti.

E quali esempj le offre questa religione? Un Dio, che veste le miserie e il
peccato altrui: viene tra i suoi, e n'è ripudiato; benefica, e non trova
che ingrati; sparge il vero, ed è calunniato, e la calunnia trionfa; un
amico lo vende, gli altri lo abbandonano; un popolo, fra cui trascorse
beneficando, lo grida a morte, e morte decreta una politica atroce mentre
lo confessa innocente. Quanto lui chi soffrì? Sei tu innocente? ma chi
come lui? Patisci per la giustizia? ed egli era venuto in terra a portare
la verità e la libertà vera. Egli pure sentiva tutte le umane
affezioni: sulla tomba di Lazzaro pianse: s'indispettì alla durezza di
cuore dei Giudei: anelò mangiare la pasqua coi fratelli: gemette sui
preveduti guaj della patria; antivedendo la passione, venne tristo fino
alla morte, pregò che quel calice gli fosse levato; quando ne sorbiva le
ultime stille, si querelò col Padre che l'avesse abbandonato;--e
spirò, e lasciava detto che, chi non togliesse la croce sua, non era
degno di lui.

E sua madre? quanto più grande, più innocente e santo ella conosceva
il divin Figliuolo, tanto più acuto coltello le trapassò l'anima, dal
povero tugurio dove appena aveva come ripararlo nascente, fin quando
esangue se lo vide deporre fra le braccia. Il mondo la saluta regina dei
dolorj, donna dei tribolati. Come un amico partecipe delle umane angoscio,
la invocava Margherita nella semplicità del suo cuore:--Tu pure fosti
madre: fosti tu pure calunniata; vedesti il Figliuol tuo in mano dei
malvagi. O Maria, prega per me, prega per loro.

E recavasi fra le dita il rosario.

Era quel rosario, che fra Buonvicino pentito le avea donato, augurandole
che un giorno potesse da quello cavare consolazioni. Quel giorno è
venuto, e vere consolazioni essa ne attinge. Bacia la crocetta di legno
pendente da quello, la preme sul cuore, la stringe fra le mani
giunte:--è il segno delle tribolazioni santificate dalla pazienza e
dall'amore; e inginocchiata si dà a ripetere la salutazione a Maria; e
l'orazione insegnata da Cristo qual compendio di quanto dobbiamo sperare e
domandargli. Allorchè ripeteva _Perdona a noi, come perdoniamo a chi ci
offese,_ arrestavasi per esaminare se davvero ella perdonasse:--santo
precetto, ignorato, o non inteso dalla superbia del secolo, ma che pone il
colmo alla perfezione, nel tempo stesso che fa un dovere la serenità
dell'amore: ed a cui volle Iddio aggiungere la sanzione maggiore, il
perdono ch'egli pure concederebbe a chi avesse perdonato.

Poi quando Margherita implorava da Maria che pregasse per lei _adesso e
nell'ora di sua morte,_ la materia prevaleva un tratto allo spirito, e le
si affacciava alla mente quell'ora, tanto diversa da quanto fin là si
era immaginato.--Chi sa? forse qui, qui sepolta in un carcere, dovrò
aspettare, pigro, tormentoso l'estremo momento; e quando giungerà, non
amici che mi confortino: non un occhio che mostri compassionarmi: non una
voce conosciuta, che dagli spasimi dell'agonia mi richiami un istante
ancora alla vita: non una mano che risponda alle lente strette della mia.
Guarderò intorno, nè incontrerò che visi inconsapevoli, e quelle
persone che m'hanno fatto soffrire. E quando gli occhi miei più non
vedranno, una mano straniera sbadatamente me li chiuderà.

Qui un pensiero più truce le soccorreva: un morire diverso, subitaneo,
violento--il patibolo, una folla indifferente spettatrice, un superbo che
sorrida... Per tutta la persona un fremito le scorreva, e, come se
veramente avesse quelle immagini orrende sugli occhi, li copriva colle
palme e--Maria, Maria! pregate per me adesso e in quell'ora.

Per onorare la Madonna, univa la sua preghiera a quella di tutti i fedeli
allorchè le squille invitavano a salutarla. E principalmente quando, la
sera, parevano congedare i mortali dalle fatiche del giorno al riposo,
rammemorando un altro riposo perpetuo, dove ci attendono coloro che prima
di noi patirono e sperarono quaggiù, la Margherita, suffragando ai
defunti, abbandonavasi nei pensieri del passato, ricordava coloro che aveva
veduti staccarsi dal mondo, pregava per una madre che aveva appena
conosciuta, per un padre... Oh quanto sentiva di dovere a quel padre!
quanto ora gliene tornerebbe soave un detto solo, una consolazione!

Poi le cadeva in mente che forse, tra i poveri morti, v'erano altre persone
a lei più vicine, uno sposo, un figlio:--Chi sa se Luchino li
risparmiò?--Chi sa se già non mi aspettano all'altro mondo? E
sconsolavasi, e piangeva dirotto: finchè la speranza veniva a mormorarle
nell'orecchio colla voce d'un angelo--Sono vivi: li vedrai.

Ma quando?

Poichè a molte superstiziose osservazioni propende chi soffre, mille
pronostici andava ella traendo dai più naturali fenomeni: un sogno era
un presagio:--Quando quel ragno avrà compita la sua tela uscirò di
qua entro:--Conterò venti giorni, e a capo di questi verrà qualche
novità. Il finire e il cominciare d'ogni mese, d'ogni nuova settimana, e
il mutare delle stagioni, e i dì foschi e i sereni, davano appiglio alla
malata immaginazione per chimerizzare, per temere, per confidarsi.
Principalmente all'accostarsi delle solennità, le si serena la speranza
che rechino la fine di lunghi tormenti, e ne valuta a giorni ed ore
l'avvicinamento;--e giungono e passano. Allora un più giulivo dar delle
campane, un più frequente brulicar di persone in abito adorno, la fanno
ricorrere col pensiero ai riti onde la Chiesa festeggia quei sacri
anniversarj; ai tempi quando, con una pace ineffabile, ella vi assisteva;
un sacerdote apriva i tesori della parola, bandendo i precetti dell'amore,
della mansuetudine, della pazienza; un inno più allegro dei pieni cori,
un'armonia solenne degli organi le diffondeva nell'anima una serenità,
sconosciuta fra i godimenti del mondo.

Ma ora? Quei giorni in nulla sono differenti dagli altri, se non quanto li
rende più melanconici il paragone. Appoggiata la testa e intrecciate le
dita ai rigidi cancelli della sua prigione, abbassa lo sguardo su quei
tranquilli, che con lieta premura s'avviano al tempio, alla festa, quasi
voglia indovinare chi siano, di che favellino.--Questi altri tornano
liberamente alle case loro.--La casa! oh quante dolcezze sono compendiate
in questo nome! e quanti tormenti per chi ne è staccato da violenta
mano! Vedi là quella madre col bambolo suo: forse gl'insegna le
orazioni, forse gli dà un buon consiglio, un rimprovero affettuoso. Oh,
anch'io una volta, aveva anch'io un fanciullo che amava me quant'io lui,
che mi chiamava mamma. Oh parola di ineffabile espressione! Ed era così
bello, così carezzevole, così innocente! gli angeli parevano gioire
nel suo riso: i suoi baci mi facevano prelibare il paradiso. Ei sarebbe
cresciuto: soave consolazione della vita mia, di suo padre... Ah forse nol
vedrò più più! Deh santa Vergine! liberatemi da queste pene:
tornatemi a mio marito, a mio figlio, a casa mia.--La mia casa... la casa
mia!--O almeno fatemi contenta di questo! che una volta, una sola volta, io
possa rivedere, abbracciare il mio bambino!»

In tal guisa la Margherita strascinò i pigri giorni dell'estate, sola,
destituita d'ogni conforto, se non quello che traeva dalla sua religione e
dal tempo che medica tutto.

Coloro frattanto, per cui cagione essa pativa, saranno rimasti quieti e
senza pensieri, ai comodi della vita, agli spassi. Deh! come può uno
godere un istante di tranquillità quando sa che quest'istante è
aggiunto alle angoscie della sua vittima? Come può un giudice, non dico
divertirsi e distrarsi, ma appena riposare, ove rifletta che ogni ritardo
prolunga gli spasmodici dubbj d'un essere pensante e delle tante persone
che vivono della vita di lui? Penetrate nei fondi delle prigioni,
interrogate l'animo di chi v'è rinchiuso, calcolatene, non
coll'orgoglio, ma colla virtù che sente, l'eternità dei giorni
inoperosi, l'ambascia delle notti insonni, toccate quella fronte, in cui
bolle un pensiero d'uomo, quel cuore che palpita per una moglie, in grazia
sua desolata, pei figli rimasti senza pane, per un padre che la sua
lontananza spinge nel sepolcro. Ed è uomo come voi, come voi redento da
un Sangue prezioso, come voi incamminato ad un avvenire, ove la prepotenza
e l'oppressione staranno su diverse bilancie. E forse è un innocente,
che non aspetta altro che il giudizio per trionfare nella sua virtù. E
voi gli prolungate questi spasimi di un'ora, di un giorno? che dico? mesi
ed anni il tenete fra gli squisiti tormenti dell'incertezza, che sarebbero
troppi a punire il maggior delinquente? Oh riflettete!...

Ma che? dipingendo il secolo decimoquarto, m'era uscito di mente ch'io vivo
nel decimonono, quando la voce di filosofi e della crescente civiltà
abbastanza tonarono a ciascuno i suoi doveri: talchè il mancarvi, non
è ignoranza, ma perversità.

La giustizia d'allora, ignara dei pigri avvolgimenti moderni, anzi più
spacciativa che nol comportasse la sicurezza dell'innocente, non avrebbe
lasciato languire Margherita sì a lungo nell'aspettazione di un
processo, quando non fosse stato una mira particolare di Luchino, che
voleva punirla della virtù, trarla forse agli indegni suoi propositi, o
giungere per suo mezzo ad avere in mano anche il Pusterla. Però un
giorno, tornando d'aver corso lo sparviero, rientrava il Visconti dalla
porta Romana: leste le guardie, dando fiato al corno, calarono il ponte
levatojo: si disposero in ala di qua e di là, mentre egli passava in
mezzo a loro: giunto ai piedi dell'arco, fece di berretto, e piegò la
fronte fin sulla chioma del cavallo innanzi all'effigie della Madonna,
scolpita sopra quella porta. Poi girando l'occhio a sinistra, dove si
lavorava la sua rocchetta, si risovvenne di colei che in quelle prigioni
pativa, cioè si risovvenne che poteva farla patire d'avanzo.

--Ehi, Grillincervello», disse sorridendo al buffone, inseparabile
compagno:--Ti ricordi della bella dama che tempo fa ti mostrai su quel
terrazzo alla Balla, e tu mi dicesti....

--Che la non è biada pei tuoi denti», interruppe lo sguajato.

--Sai tu dov'ella sia?» richiese il principe.

--In catorbia: lo so.

--Dunque?...

--Mah! badate (ripigliava il buffone) che il _dunque_ non sia precipitato.
Quante volte io vedo sul vostro piattello un ghiotto boccone che mi tocca
l'ugola: dite per questo che io possa bagnarmene il dente? Gli è grazia
che ne senta l'odore».

Sogghignò Luchino, e,--Va, buffone, e di' al carceriere che passi alla
nostra Corte».

In quei tempi non si stava tanto sul sottile delle convenienze; e persone
di Corte erano, come l'astrologo e il buffone, così il carceriere e il
boja; i quali poi nella raffinatezza successiva non dovettero ricevere gli
ordini, nè presentare la relazione ai grandi se non per infinita scala
di intermediarj: tutto a vantaggio della verità e della tenerezza di
cuore.

Non paja adunque sconveniente che il carceriere si presenti in petto e in
persona a Luchino; nè di conseguenza che noi ci fermiamo un tratto a far
conoscenza con quello, che da tanto tempo era unico compagno della nostra
Margherita.

La giustizia non si faceva--allora--coscienza di collocare presso al cuore
delle sue vittime l'indivisibile tormento di un uomo, scelto tra la feccia
più ineducata della società, onde esercitare quest'ultimo grado della
tirannia, che appunto per essere l'ultimo, pesa più grave, come più
immediato, e perchè chi lo occupa vuole sopra i suoi dipendenti
vendicarsi delle umiliazioni che soffre dai superiori, e si attribuirebbe a
colpa la pietà, se pietà mai potesse germogliare in gente che
s'induce a guadagnare un pane sui martirj altrui.--Dico allora, quando la
malata e pietosa fantasia di Silvio Pellico non aveva ancora creato di
pianta lo Schiller e la Zanze.

Il custode della Margherita, a vederlo, era un coso lungo lungo e badiale,
colla pelle tutta chiazzata e a mascherizzi, occhi guerci e suffornati in
archi di ciglia setolose, capelli rossastri spartiti in sulla fronte, e
tirati giù come una cornice barocca attorno a quel poco viso che
lasciava discoperto una folta e sudicia barbaccia, da mettere nausea e
spavento. Nasceva egli dalla valle d'Imagna nel Bergamasco; e i suoi buoni
compatriotti supplivano allora, come anche oggidì, alla scarsezza del
terreno col lavorar al tornio l'acero e il faggio delle loro selve in
palle, mestole, taglieri, truogoli, zipoli e siffatti, che poi scendono a
spacciare a Bergamo o a Milano. Anch'egli era stato dirizzato su quell'arte
del mestolajo, come suo padre, come suo nonno, e il padre e il nonno del
suo nonno; ma diverso in tutto da loro, sin da giovinetto gli era stato
mutato il proprio nome di Macaruffo in quello di Lasagnone, perchè non
sapeva piegar la schiena, e la poca fatica gli era una sanità. Cambiò
mestiere più volte, ma senza trovar mai basto che gli entrasse; e
dicendosela assai meglio colle mezzine che collo scalpello e col tornio,
stavasi tutta la giornata indarno, mangiando il pane a tradimento.
Accoppiando così l'abborrimento al lavoro colla insofferenza della
povertà e colla leccornia più triviale, avrebbe rinnovato il misfatto
di Giuda per buscar denaro e golerie col minor lavoro. La sua gioventù
fu infamata di sozze e vili cattività fra' suoi valligiani, i quali
solevano dire che esso contraffaceva a tutti i comandamenti del decalogo,
eccetto quello del non lavorar la festa. Sperando che questa dovesse
rimettergli il senno, gli diedero moglie; ma un bel giorno e' la piantò
con un figiuolo in braccio e un altro nel ventre, a buscarsi il tozzo come
potesse, od a basir di fame; egli calossi alla pianura, e mescolatosi ai
Giorgi, si buttò alla strada. Neppur tanto coraggioso per riuscir bene
nella scelleraggine, poco andò che il capitano Lucio se l'ebbe nelle
branche.

Ma questa, soleva egli dire, fu la sua fortuna. Perocchè, facendosi
rapportatore degli antichi suoi camerata e dei malandrini che gli erano
dati compagni nella prigione, acquistò tanta grazia presso il capitano
di giustizia, che tolto di là, mercè due sode braccia, un muso duro e
un cuore più duro ancora, fu destinato prima per aguzzino, poi per
carceriere nella torretta di porta Romana. Superbo coi sofferenti perchè
vile coi superiori, sapeva che col ceffo e coi modi avrebbe sgomentato
quelli, mentre a questi per nessuna cosa del mondo avrebbe osato dire un
no.

Nei primi giorni che la Margherita si trovò nella costui balìa, per
procurarsi quelle prime necessità che il suo stato portava, ella dovette
cedergli a poco a poco ogni superfluo che le fosse rimasto addosso; nè
esso le concedette requie finchè non la ebbe ridotta al più positivo
e indispensabile vestire. Colla sommessione dell'agnello che lambisce la
mano di colui che lo scanna, essa gli parlava: ma quello, burbero sempre,
sardonico, stizzoso, rispondeva, la proverbiava, sghignazzava. Essa gli
ragionò di compassione, nè tampoco il nome ei ne conosceva. Essa gli
ragionò di Dio: ei sapeva che vi era, gli recitava per abitudine le
devozioni, da sua madre insegnategli, ma non andava più in là, e
nemmanco figuratasi che questa credenza dovesse modificare le sue azioni, e
tanto meno fargli tradire l'obbligo del suo mestiere, che credeva quello di
essere spietato.

Per quanto deva patirne la _storica dignità_, non voglio tacere questa
circostanza minutissima. Una volta (fu sui primi di maggio) Lasagnone
entrò nel carcere di lei con una bella rosa fra l'orecchio e le tempia.
Un fiore, quel fresco colorito, quella rugiadosa fragranza, dovettero
suscitare mille care idee nella Margherita, che mossa da innocente
desiderio, con affettuosa commozione additando la rosa, disse al
carceriere:--Donatela a me.

--Ah sì? La vi piace, eh? rispose il villanzone; pigliò fra le dita
la rosa, la annusò sgarbatamente, mostrò porgerla alla meschina; poi
ritirandola di scatto e sfogliatala, la gettò per la finestra, e
sghignazzando come di un lepido fatto, se ne andò.

Che caso da' nulla, non è vero? finalmente non si trattava di pane, non
d'altra necessità; eppure, che volete? alla Margherita fece tanto colpo,
e tanto se ne ricordò, che quando una volta potè sfogarsi con un
confidente, gli ripetè questo a preferenza di cento altri torti.

--Lesto, lesto, Lasagnone, che ti chiama il sor padrone intonò
Grillincervello, sporgendo la testa rasa da un finestruolo al lungo
corridojo delle prigioni, e ritraendolo presto e fuggendo come fa un lupo
dal luogo dove altre volte restò preso alla tagliuola.

--Me? domandò Macaruffo tra meravigliato e pauroso: ma non ricevendo
risposta, fretta fretta gettò via un suo abituale saltambarco sdruscito
e bisunto, infilò un cappotto marrone alquanto migliore, si tirò
sulle orecchie un berretto rosso, diede una girata a tutte le prigioni se
fossero ben assicurati i chiavacci: e messosi in cintura a sinistra un
grosso coltellaccio, a destra il mazzo delle chiavi, uscì frettoloso.
Passò davanti a San Nazaro, lasciò a destra il lago artificiale
presso al luogo ove sorge l'Ospedale, e di cui serbano memoria le vie di
Pantano e di Poslaghetto e venne a San Giovanni in Conca. Fin qui
stendevasi il palazzo, o piuttosto l'aggregato dei palazzi dei Visconti; e
Luchino stava continuandone la fabbrica con quattro grandi torri ai canti,
e dentro ogni migliore comodità. Nel tornare quivi era scavalcato il
principe: dato un'occhiata alle costruzioni, censurato, lodato, ordinato
siccome dee fare un padrone; quindi per un corridojo coperto, largo dieci e
più braccia, e che accavalciava i tetti, era venuto fino alla Corte, ed
entrato nelle splendide sale.

Poco tardò a sopraggiungere Macaruffo, e lasciandosi dietro quelli che
non avevano se non da esporre al principe i loro bisogni o domandargli la
giustizia, fu introdotto da Grillincervello, il quale, con un fare tra
goffo e maligno, scotendo i sonagliuzzi, imitava il rovistio delle chiavi,
che tintinnivano ad ogni passo del montanaro. E poichè questi, col
berretto in mano, rannicchiato presso allo stipite della porta, faceva
grandi inchini, grande strisciar di piedi, il buffone forbottandolo gli
diceva:--Bada, frusto villano, che non mi stracci il tappeto: vien di
Damasco, e me lo pagheresti con altrettanto della tua pelle».

Luchino, senza guardare in viso al carceriere, domandò:--Che fa la
signora Margherita Pusterla?

--Oh!... magnifico.... serenissimo.... Oh signor principe! la sta da papa
rispondeva l'altro.--Nessuno che le torca un capello. Non trae mai fiato di
lamento. E poi le domandi, e sentirà.

--Ma di me che dice?» richiese il Visconti.

--Dice... cioè... oh serenissimo... oh magnifico...» e seguitava
questa litania, non tanto per adulazione, quanto perchè non sapeva che
cosa rispondere; onde corrugava la fronte, e fissava due occhi stupidamente
indagatori in faccia al padrone, come per leggervi se dovea rispondere che
lo bestemmiasse, ovvero che lo benedicesse. Ma leggere sul freddo e
impassibile viso di Luchino, era impresa difficile anche ad occhi molto
più aguzzi de' costui; laonde imbarazzato egli cagliava. Se non che lo
trasse di pena Grillincervello dicendo:--Su, parla: che? hai tu veduto il
lupo? Scommetto la mia marotta d'argento che essa ne ragiona col miele
sulle labbra: n'è vero?

--Appunto (parlava il carceriere): non sa finire di lodare la sua
beneficenza che le ha dato sì vistoso alloggio.

--E sicuro dai ladri», interrompeva il buffone.

--E che la fa trattare come neanche a casa sua».

Qui il bergamasco taceva, seguitando a confermare l'asserito cogli atti del
viso e con premer la mano sul petto, e Grillincervello saltava su:--Non lo
sapeva io? Padrone, tu puoi quando che sia licenziare il tuo Andalon del
Nero, e nominare me per astrologo serenissimo. Egli pronostica dalle
stelle, io dal mio can barbone, che più gliene appoggio di sode, e
più mi corre a leccar la mano».

Luchino fece un moto delle labbra che somigliava a un sorriso; poi voltosi
al carceriere,--Da qui innanzi però trattala meglio, ed ogni mezzodì
vieni a levare alla nostra cucina un piatto da recarle».

Poi, al tempo stesso che, alzando la mano, gli accennava d'andarsene,
soggiunse:--E le dirai che il principe si ricorda di lei».

--Carità pelosa» mormorò il buffone. Il carceriere spalancava
tanto d'occhi, corrugava la fronte, rotondava la bocca dalla meraviglia, e
pensava fra sè:--Trattar bene un prigioniero! Ch'e' voglia morire?»
Poi, moltiplicando le riverenze profonde fino a terra, dava indietro per
uscir a modo dei gamberi, allorchè Grillincervello, dopo una sonora
risata, ghermitolo per un braccio, e col dito dell'altra mano accennandolo
a Luchino, disse:--Lasagnone meriterebbe il suo nome in superlativo se di
quel piatto non ungesse la sua golaccia, ed a voi non desse ad intendere
che madonna ne viene grassa, e che ve ne sa gran mercè.

--Potrebbe fargli (ripigliò con fiera ilarità il Visconti), potrebbe
fargli il pro che ha fatto jeri la lepre a quell'altro».

Bisogna sapere che il giorno innanzi era stato côlto uno sciagurato, il
quale aveva avuto l'imperdonabile ardimento di uccidere un lepratto: ed il
principe freddamente aveva sentenziato che il delinquente mangiasse quella
bestia così cruda, con ossa e pelle e tutto, come dovette fare, e in
conseguenza crepare.

Grillincervello intese l'allusione, ed esclamando:--Dio salvi i cani da
tali bocconi!» accompagnò con un calcio Macaruffo, il quale tra i
denti augurava che il desinare diventasse tanto tossico al linguacciuto
beffardo, perchè gli avesse sturbato il disegno che aveva già fatto
sopra la vivanda della cucina principesca.



CAPITOLO XII.

PEGGIORAMENTO.


Il giorno dappoi, all'ora che Lasagnone soleva portare alla Margherita una
pagnotta, una scodella di zuppa ed una brocca d'acqua, le comparve dinanzi
con volto più mansueto, a somiglianza d'un orso quando fa cerimonie.
Obbediva egli così a colui, al quale egualmente avrebbe obbedito se gli
avesse comandato,--Lasciala consumare di fame». E poichè le ebbe
deposto per terra il vaso dell'acqua e accomodata la scarsa prebenda, a
guisa di chi vuol mettere in sapore di cosa inaspettata, diceva:--Qui poi,
ci ho un lacchezzo per vossignoria»; nel mentre che pian pianino, sto
per dire con devozione, veniva rialzando i lembi di un tovagliuolo, di
sotto al quale comparve un fragrante manicaretto. Tirò il fiato per le
narici colui, come un segugio che fiuti il sito del selvatico, e mettendosi
la mano sul cuore, esclamò:--Oh buono!» poi deponendolo avanti alla
sventurata, che, a quei garbi così insoliti e così goffi, a quella
voce così stranamente indolcita, così forzatamente cortese, apriva la
fisonomia ad un malinconico sorriso,--Questo (le soggiunse) glielo manda
l'illustrissimo signor Luchino: padrone nostro e di tutta Milano; e dice
che glielo manderà tutti i giorni, dice; e che vuole sia trattata sempre
da par sua: e dice che si ricorda di lei».

Questo cambiamento in meglio recò tutt'altro che conforto alla
Margherita. Come succede al giusto conculcato dal prepotente, ella
sentivasi di gran tratto superiore al suo nemico; e a guisa di una molla
d'acciajo, più era calcata, più con vigore rimbalzava. Oggi però
che ne riceveva una cortesia, e pur troppo non poteva recarsi a crederla da
pietà o dalla acquistata certezza dell'innocenza sua, ma dovervisi
celare qualche insidia; oggi le si apriva dinanzi all'immaginazione
un'altra serie di patimenti e martirj nuovi che le sovrastavano. Quindi,
allorchè il carceriere le fissava gli occhi guerci in faccia, aspettando
di vederla tripudiare dall'allegrezza, un profondo sospiro mandò ella
invece dal petto, e sollevando lo sguardo gonfio di lagrime al cielo,
esclamò:--A voi mi raccomando».

Era corso il suo pensiero alla madre del bell'Amore: a lei si era votata
contro i preveduti assalti. Si ricordò quando, bambina, le insegnavano
ad offrire un fiore a Maria Vergine coll'astenersi, in certi giorni più
devoti, da qualche vivanda che le facesse gola; buon avviamento a quelle
abnegazioni che, in troppo più gravi cose, deve poi nella vita fare per
forza chi non vi si abituò per virtù. Anche allora dunque voltasi
Margherita a Macaruffo, e colla destra lievemente respingendo il tagliere
ch'ei le sporgeva:--No (disse), no. Vedete? coteste delicatezze a me non
s'addicono. Per reggere la vita n'ho assai di questo pane e di questa
zuppa. Trovate di grazia un poveretto--qualche infermo che conosciate
più bisognoso; dategli questo piatto, e raccomandategli che preghi per
me.

--Come? la non lo vuole?» esclamava il carceriere, fuori di sè tra
per lo stupore e per la fiducia di farne suo pro: e colla più tepida
insistenza, che ingegnavasi di fare apparire sincera, ripeteva:--Senta,
senta!» e annusava la pietanza e l'avanzava verso di lei:--Senta
fragranza! È un pasticcino di beccafichi da serbatojo, tutti sugna. Ah
buono! Un boccone da tornar il gusto a un morto.

--Tanto meglio (replicava la Margherita) quel poveretto lo mangierà
più volentieri.

--Ma... a... a...!» riprendeva Lasagnone assumendo un'aria seria e
contrita.--Il signor principe ha ordinato di darlo a lei, o sarebbero guaj.
M'ha fatto una minaccia che... il Signore me ne scampi!

--Il principe non lo saprà. Io l'ho per accettato; fate conto che
l'abbia goduto io: e destinatelo, vi prego, all'uso che vi ho detto.

--Deh che buon principe eh?» soggiungeva Macaruffo, pur collo sguardo
incantato sopra la vivanda.--Ella può veramente chiamarsi fortunata
d'essere nelle sue mani. Pare fino che abbia compassione di lei».

La Margherita chinava la testa, e colui seguitava:--Dunque darlo proprio ad
un pitocco.

--Si, e che preghi per coloro che soffrono, ed anche per coloro che fanno
soffrire.

--Buon pranzo a vossignoria», esclamò Macaruffo, traendosi il
berretto con un'insolita gratitudine, e tiratosi dietro l'uscio, se
n'andò contento che non gli parea vero; e non era disceso da metà la
scala, che si sedette, e postosi quel leccume sovra le gambe incrociate, si
diede ad ingojarlo con avidità, nell'estasi di tutta la sua ingordigia
lamentandosi che fosse poco, e leccandosi le dita, le labbra, i barbigi, il
piatto: invidiando quasi all'aria gli effluvj che gliene avea rapiti.

Il giorno da poi narrò alla meschina d'averlo dato ad un mendicante.--Se
l'avesse veduto! sciancato, lebbroso, che non lo guarirebbe l'arcivescovo
il dì delle palme [21]; non poteva reggersi sulle gambe, e ogni po' che
io tardassi, e' cascava certamente di pura fame. Con che gola ricevette il
suo dono! Aveva ad essere qualche cosa di ghiotto, io credo: Bocconi di
quella fatta non ne pappano nemmeno i pitocchi. Fu certo la sua vita. E sa?
egli ha mandato una furia di benedizioni addosso a lei, ai suoi vivi ed ai
suoi morti».

Era questo uno di quegli esordj _per insinuationem_, che in retorica
c'insegnavano, giacchè alla conclusione di esso, discoprì e le
presentò un altro intingolo, che, giusta il comando, egli era stato a
prendere dalla cucina di Corte.

--Bene! (disse la Margherita) lodato il Signore che, anche in questo stato,
mi presenta il modo di soccorrere i miei poveri fratelli! Ed oggi abbiate
la compiacenza di fare altrettanto con quest'altro.

--Come? anche oggi?» saltò su il carceriere, fingendo meraviglia di
quel che già aveva per lo meno sperato.

--Sì (ripetè la signora); anche oggi.

--E anche domani?

--Anche domani, e così l'altro, e finchè me ne manderanno.

--Ma (replicava il ghiotto), se egli, se il signor principe le domandasse,
che cosa gli risponderà? Non vorrei che credesse...

--Gli dirò che l'ho sempre ricevuto.

--E che lo ringrazia, n'è vero?»

Così tutto a pasto uscì il leccarde, cantarellando sommessamente--Di
peggio non capiti».

Ma domandandole che cosa avrebbe risposto al principe interrogata, egli
avea fatto rabbrividire Margherita, la quale presentiva che dovrebbe
trovarsi faccia a faccia col suo persecutore. Nè quella paura tardò a
verificarsi. Pochi giorni dopo, Luchino, girando da quelle parti con un
codazzo di soldataglia e di cortigiani, si volse di tratto al suo buffone
dicendogli:

--Grillincervello, vogliamo noi fare una visita a madonna Pusterla?

--Questa volta non ci sarà pericolo che madonna colei la troviate
partita», rispose il buffone.

Rinfrescavano queste parole al principe una memoria spiacevole se altra
mai, onde, a guisa d'un mastino traditore, che repente si volge a morsicare
la mano da cui lasciavasi quietamente palpeggiare, digrignò i denti
stizzito, e vibrò la mazza contro il motteggiatore insolente. Il quale
fu destro a schivarne il colpo, e cacciandosi fra la turba esclamava
guajolando:--S'e' mi coglieva, poveri i grilli del mio cervello!» Poi
Luchino toccò di sprone il cavallo, e s'avviò alla rocchetta. Al suo
venire, si cala il ponte, guardie gridano, guardie accorrono, un ossequio
universale, un pendere attenti ad ogni suo cenno;--e tutto questo
perchè? perchè egli ha nome il padrone...

Gonfio di tanti omaggi, ebbro dell'universale obbedienza, della
vigliaccheria universale, entra, scavalca verso un appartamento che egli
avea fatto allestire onde in ogni caso potervisi, come in luogo più
sicuro, riparare da una prima furiata del popolo; e lasciata
nell'anticamera la comitiva, come fu in una stanza interna, mentre un
paggio gli sfibbiava l'armatura, ordinò al carceriere che portasse
colà la signora Margherita.

Lesto Macaruffo fece sonare un mazzo di chiavi; orribile armonia, onde
tutta si risentì la nostra infelice, tanto più quando in quell'ora
straordinaria l'intese drizzarsi verso la sua prigione ed aprirla. In fatto
egli schiuse, e con un ghigno di maliziosa petulanza sporgendosi mezzo in
quella camera, le disse:--Buone nuove, signora, buone nuove:
l'illustrissimo signor principe è di là che l'aspetta».

Chi avesse detto alla Margherita--Sei condannata a Morte», non le
avrebbe dato nel sangue una mano così gelata, come annunziandole che
doveva trovarsi testa a testa con quel cattivo. Impallidì, sentissi
venir meno, talchè le convenne appoggiarsi ad una seggiola; sudò,
gelò, poi gettatasi ginocchione, pregò fervidamente.

La interruppe il carceriere con un--Andiamo; lesta, che il suo tempo è
prezioso».

Ella rincorata si alzò, e ripetendo--Andiamo», si avviò: mentre
Macaruffo le teneva dietro replicandole:--La si ricordi che le pietanze io
gliele ho portate:--e se non le volle, colpa sua: e che le ho detto che il
principe si ricorda di lei;--e che l'ho trattata sempre come va...» La
aspettava Luchino in un salotto, assiso in un seggiolone a intagli dorati,
coperto di damasco: aveva deposto la corazza, l'elmo, gli schinieri, ed
incrociando le gambe, appoggiava ad uno dei bracciuoli il gomito sinistro,
e al dosso della mano la guancia. Due vivissimi occhi scintillavano nel
viso di maschia bellezza, quale tutti l'avevano i Visconti; un viso, su cui
la virilità aveva reso stabile qualche ruga, disegnatavi prima
dall'orgoglio e dal dispetto. Ricca capellatura gli scendeva inanellata dal
capo scoperto sopra le larghe spalle; e fissato alla porta, lasciava
trapelare sul volto una mistura di turpi speranze, e di appagate vendette.

La Margherita gli comparve dinanzi in un vestito bruno, dimesso e trito, ma
nelle pieghe di quello e nell'acconciatura del capo si rivelavano ancora le
graziose consuetudini della donna elegante, la quale un tempo dalle labbra
di chiunque la vedesse, strappava un grido di ammirazione. Da quel tempo oh
come era mutata! eppure fra tanti segni di patimento compariva ancora
troppo più bella, che non avrebbe essa desiderato per isfuggire alle
malnate voglie del suo tiranno. Ma più bella ancora la rendeva
quell'aspetto di superiorità, che la fronte dell'innocente conserva,
allorquando, per le non rare combinazioni sociali, si trova chiamato a
giustificare la propria virtù innanzi all'iniquità prevalente;
superiorità così sublime, che un savio disse, essere lo spettacolo
più maraviglioso agli occhi degli Dei.

Poichè all'uomo abituato alle nequizie poco costa una nuova, Luchino
stava aspettandola colla indolente attenzione onde l'uccellatore attende la
preda al paretajo. Forse, erudito come era, gli veniva in mente
quell'imperatore romano che, carezzando la testa d'una sua amata, le
diceva:--Mi piaci tanto più, perchè penso che con una parola posso
fartela balzare ai piedi».

Vero è che nell'animo suo non aveva fatto disegno di usare violenza con
essa: dirò più retto, non aveva pensato che dovesse tornarne bisogno.
L'anima abjetta crede gli altri somiglianti a sè. Luchino nei volubili
suoi capricci rado o non mai aveva (miseri tempi!) trovato la bellezza
resistente alle lusinghe dell'oro, della vanità, del potere. Come
credere che l'avrebbe fatto questa? questa, a cui i passati patimenti
dovevano aver fatto chiaro da chi pendesse ogni sua fortuna; come un cenno
di lui potesse ridurla infelicissima, o sollevarla a primeggiare nella
Corte fra le sue eguali, e tornarla, che è più, al marito, al figlio,
che importa se contaminata?--Il temere di essi, lo sperare in essi, il
vivere per essi è pure l'unico sentimento, che nei sudditi suppongono i
tiranni, e che credono bastante a frenar sino il pensiero; che dico? a
farli sino amare. Quindi cortese salutò la tribolata, e--In quanto
diverso stato io vi riveggo, madonna.

--In quello (rispose la Margherita) in cui piacque alla vostra serenità
di ridurmi.

--Ecco!» esclamava Luchino, rizzando il capo e battendo della mano sulla
sedia.--Ecco già sulle prime una parola schifa e superba. I casi dunque
non vi avranno rintuzzato cotesto orgoglio? Perchè non riconoscere
piuttosto i vostri errori? perchè non dire: Sono nello stato ove mi
trassero le mie follie--e le altrui?

--Principe (replicava la signora con una dignità accorata), vi prego
ricordare che non fui per anco giudjcata: e che il giudizio potrà
mostrare come a torto mi si appongono delitti che ignoro. La sicurezza
della mia fronte dovrebbe del resto attestarvi della mia innocenza».

Sogghignò egli col freddo e crudele orgoglio, che suole il potente
ribaldo al nome di virtù, e--La sicurezza (soggiunse) l'ostenta anche il
ladrone, reo del sangue di molti. Non ho veduto mai un ribelle, che sulle
prime non abbia in ogni atto, mostrato quell'innocenza che poi alle prove
scomparve. Ben forti ragioni, o signora, ben forti devono essere quelle che
m'indussero a trarre qui una persona, che voi sapete se io stimo... se
amo».

E sorgendo le si avvicinò con aria di procace dimestichezza; essa dava
indietro taciturna e sospirosa. Come feriscano al vivo le proteste d'amore
fatteci da colui che ci perseguita, neppure al mio più atroce nemico
augurerei di sperimentarlo.

--Ma voi (continuava Luchino) come rispondeste alle prove del mio affetto?
Alterigia, fastidiosi dispregi e scherni, e dietro a questi, facile
passaggio, congiure, tradimenti. Or chi siete voi da volervi alzare contro
il vostro padrone? Miserabili! egli soffia, e vi fa polvere».

Così ora placido, ora severo egli veniva da varie bande tentando l'animo
di essa, che sempre dignitosa, ne riprovava gli argomenti, lasciava sfogare
le sue escandescenze; aveva ragione e gli chiedeva perdono, mentre egli la
ingiuriava e chiamavasi offeso:--vicenda tanto consueta nei fasti della
povera umanità. Sovratutto poneva essa ogni studio a sviare, a troncare
un discorso che egli pur sempre rappiccava, il discorso d'amore: e
poichè Luchino insisteva, essa gli disse:--Ma se è vero, o principe,
che mi amate, perchè non inchinarvi alla preghiera mia, la prima e forse
l'ultima che io vi faccia? Salvate il mio sposo, salvate mio figlio!» e
gettatasegli ai piedi, gli abbracciava le ginocchia, con tutta l'eloquenza
d'una bellezza innocente ed infelice ripetendo:--Salvateli!

--Sì (rispondeva egli): sta in voi; voi ne sapete il modo. Meno orgoglio
da parte vostra, ed io li salvo, ve li rendo».

Il timore che i suoi cari fossero già caduti vittima del nemico, aveva
sempre straziato quella meschina. Non saprei accertare se con arte e per
meditazione le fosse uscita quella preghiera, onde scoprire la verità:
ma dalla risposta veniva rassicurata che erano vivi; onde tripudiando nel
cuore e non celando di fuori l'interna gioja--Che? (esclamava), vivono
dunque tuttora? rendetemeli; sono innocenti... io sola sono rea; me punite,
me: ma loro... O signore! ve ne prego col calore, onde in punto di morte
voi pregherete Dio a perdonarvi... Deh concedetemi ch'io li veda; una volta
sola vederli, poi fate di me lo strazio che vi piace».

Era venuto per tormentarla, e l'aveva contro voglia consolata: avea fatto
conto sullo scoraggiamento di essa, e senza accorgersi le era stato egli
medesimo cagione di sorger d'animo, di esaltarsi. Di ciò non poco
s'inquietava Luchino, e come succede a chi incontra inaspettati incagli,
viepiù si avviluppava quanto ingegnavasi d'uscirne e perdeva
dell'abituale sua freddezza; ora volendo farsi un merito di questa
involontaria rivelazione, ora procurando, strapparle la speranza ond'ella
si lasciava lusingare: e--Non dubitate no (replicava esso) li vedrete, oh
li vedrete e ve ne rincrescerà. Dovunque siensi trafugati, non
tarderò a raggiungerli. Allora... oh allora...

--Trafugati? come? sono dunque sfuggiti?» proruppe la donna quasi fuor
di sè dalla insperata consolazione.--Dunque non sono in vostro potere?
Vivi e non in poter vostro! Oh gioja!» Sorgeva, alzava al cielo le mani,
e sulla faccia lacrimosa scintillava un raggio d'ineffabile contentezza.
--Gran Dio! (esclamava) ti ringrazio! Io mi lamentava che tu m'avessi
dimenticata nel fondo delle sciagure, e non era: no, non m'avevi
abbandonata. Che mi fanno ora i martirj? O principe, più non mi lagno,
più: soffrirò che che spasimi volete; tacerò: raddoppiate pure,
raffinate i tormenti miei; se essi sono salvi, più non mi cale della mia
vita».

Colla gioja di essa cresceva il furore del tiranno, indispettito dell'aver
rivelato una notizia, che non sapeva da lei ignorata, del vedersi messa a
nudo e rinfacciata così la sua ingiustizia, nè altro sperarsi da lui
se non un esacerbamento di castigo. Ora dunque raddoppiava le minacce, ora
tentava profittare del turbamento di lei per gl'indegni suoi istinti: ma se
ella aveva resistito prima a lusinghe ed a paure, pensate ora, che sapeva
vivi e liberi i suoi cari, ora che si teneva dall'ira di lui sicura,
poichè n'erano sicuri gli oggetti per cui palpitava.

Accorciamo ai lettori l'ansietà di quel colloquio, più facile a
immaginare che onesto a riferirsi, e basti il conchiudere che la Margherita
trionfò.

--Trema! tu non sai fin dove possa giungere la mia vendetta!» furono le
ultime parole che le gridò dietro l'iracondo, mentre ella sollevando gli
occhi, ridenti di quella illibata serenità che è un raggio di cielo
sul volto della virtù campata da grave pericolo, ringraziando Iddio,
s'avviava alla sua prigione.

Luchino, sbuffante, scalpitando, digrignando i denti e mordendo le dita
passeggiò alcun tempo di su, di giù pel salotto; indi, prese le armi,
uscì buzzo, taciturno, agitato: passò senza far motto nè cenno tra
i cortigiani, che inchinandosegli, si tentavano un l'altro col gomito, ed
ammiccavansi malignamente. Come fu sul pianerottolo della scala, ecco
farsegli incontro l'impertinente Grillincervello, e presentargli una
pezzuola, dicendogli:--Perchè vi forbiate la bocca».

L'insulto era pungente, il momento scelto male, e la baja tornò sul capo
del beffardo, giacchè Luchino d'un calcio il trabalzò sino al fondo
della scala onde restò sì mal concio, che per tutta la vita ebbe ad
andare sciancato. I cortigiani, la famiglia: che tutti gli volevano il
peggior male del mondo in grazia di quella lingua, onde per dritto e per
traverso scornacchiava ognuno, accennavansi un coll'altro, e gonfiando le
gote, e a fatica reprimendo gli scrosci delle risa, si dicevano
sottovoce:--Ve' ve': e' rotola come un battufolo. Questa è lezione col
sale e col pepe!» Alcuno anche più caritatevole tentava aizzargli
contro i cani, e passando dappresso a lui che sanguinava dal capo rotto e
sdolorava delle peste membra, gli sgrignava sul viso ripetendogli a mezza
voce:--Ben ti sta malignaccio!»

Quindi tacitamente s'avviavano dietro a Luchino, che saltato a cavallo, si
cacciò di carriera verso il palazzo. Non era amore che lo
martellasse,--poteva mai tale sentimento pigliar vigore in un'anima
logorata dalle voluttà? Era corso di piacere in piacere sfiorando quel
che di bello gli occorreva sulla perversa sua vita; se costei resisteva,
che doveva importarne a lui? Cento altre il potrebbero compensare. Ma,
d'altra parte, ebbro d'orgogliosa ambizione, aveva veduto i signorotti
d'Italia cercarlo amico o paventarlo nemico; avea veduto umiliarsegli
davanti quelli che, mentre durava in condizione privata, lo soperchiavano:
avea veduto (quel che più valutava) inchinarsegli certi cittadini, gran
vantatori delle patrie libertà: all'intorno tutto pendeva da un suo
cenno: ed ora una donna, una sua prigioniera, osava resistergli,
insultarlo,--poichè nel vocabolario dei tiranni chiamasi insulto il
protestare contro le loro iniquità. Di ciò l'amor suo proprio non
sapeva darsi pace, e si rodeva entro, e il ciglio corrugato, e
l'aggrondatura della fronte davano spia dell'animo esagitato. La gente, che
lo vedeva venir via per le strade a spron battuto, con dietro la turba e la
famiglia, salvavansi a precipizio; e se alcuno gli alzava gli occhi in
volto, avvertendo quello iroso cipiglio, esclamava:--Acqua grossa
oggi!» e facendo di berretto, tirava muro muro.

Non ebbe questa precauzione un fanciullo di forse dieci anni, il quale era
stato messo da' suoi genitori sull'uscio di via con un canestrino di
ciliegie primaticcie, per offrirlo al principe, sperandone, come altre
volte gli era successo, una buona mancia. Attento ad ubbidire senza più
altro guardare, il garzone si postò in mezzo alla strada con un
ginocchio a terra e il canestro sovra il capo: ma Luchino quando se
n'accorse fe' un cenno ai mastini suoi fedeli compagni, e questi gittatisi
sul malcapitato, l'addentarono, lo pestarono, senza che nessuno, nemmanco i
parenti, ardissero dare il ben gli sta a quegli animali.

Arrivato poi al palazzo, Luchino smontò senza far parola; salì,
stette un poco da solo; chiamò quindi il cancelliere, come per distrarsi
dalle proprie cure collo spacciare gli affari altrui, e chiese che
l'informasse. Prese questi alcune pergamene, e scorrendole coll'occhio--Qui
(diceva) il castellano di Robecco avvisa che fu colto un pastore, il quale
tagliava un palo nei boschi di vostra serenità.

--Segargli le mani», diceva Luchino.

Il segretario inchinavasi, e proseguiva:--Nel borgo di Abbiategrasso, dove
è la villa della magnificenza vostra, alloggiò un pellegrino
proveniente di Toscana: e s'è scoperto qualche caso di peste.

--S'abbruci l'albergo, il pellegrino, gli ospiti e tutto», rispondeva
Luchino.

--Scrive da Lecco il connestabile Sfolcada Melik, come uno dei suoi soldati
rubò la marra ad un bifolco.

--S'impicchi colla marra a canto.

--Fu fatto così appunto, ed al villano pagata la marra. Ma costui la
notte, andò a levar via dalla forca quell'arnese.

--Ebbene, si appenda anch'esso alla forca medesima, e la marra fra loro
due.

--Sarà obbedita. Qui poi c'è una lettera di Ramengo da Casale...

--Ramengo? e donde?» l'interruppe Luchino con sollecitudine.

--Da Pisa sul punto d'imbarcarsi: e scrive in cifra che ha fiutato, dice,
il covile della preda che vostra serenità, intende, e fra breve confida
di consegnargliela.

--Sì? bene, bene! approposito davvero!» esclamò Luchino battendo
palma a palma come per applaudire a sè stesso, e con un riso di
selvaggia consolazione.

--Ma (ripigliava il segretario) esso Ramengo, oltre gli augurj e baciamani
di formalità, fa a vostra serenità una domanda.

--Una domanda? che non è mai sazio? Genia infame cotesti spioni! non
basta la confidenza che se ne mostra? Feccia vilissima, che si schiverebbe
fino di toccar col piede, se non tornasse necessaria a tener in dovere
cert'altri. Ma cosa vuole? dite su, udiamo.

--Egli rammenta che, a chi consegna un bandito, il capo 157 degli statuti
di Milano concede di poter liberare un altro da qualunque...

--Che viene ora a metter in mezzo gli statuti? La legge sono io. Ma insomma
cosa vuole, cosa chiede?

--Implora che la vostra serenità conceda, senza restrizione, impunità
d'ogni delitto commesso sì a lui, sì a suo figliuolo.

--Suo figliuolo? Dove l'ha? nol conosco.

--Soggiunge in fatto che si riserba di farlo conoscere alla serenità
vostra.

--Sì sì bene!» rispose Luchino--Speditegli subito il breve
d'impunità la più intera, la più assoluta, ma a patto che al
più presto abbia consegnato nelle mie mani chi deve. Largheggiate pure
in promesse; ma insistete perchè sia presto, infallibile. Capite?
presto.

--Sempre nuovi argomenti della sovrana clemenza» esclamò il
cancelliere strisciando una riverenza e ritirandosi: e Luchino, lieto in
viso più che non potesse essere in cuore, stropicciava le mani, chinava
a scosse il capo con una ferina voluttà e pensava:--Ecco, il castigo
segue davvicino all'oltraggio. Superba! sarai contenta. Mi sentiva proprio
bisogno di questo balsamo. Ora mi trovo sollevato».

Non occorre dirvi che dei severi ordini di quel giorno, buona parte ricadde
sopra la Margherita. Non solamente esso le levò quel ristoro
giornaliero, ma la fe' gettare in una prigione assai peggiore e,
sotterranea. Il carceriere, essere miserabile, contento di bistrattare a
baldanza le persone a lui consegnate, come le vide tolto quel cibo ch'era
un sacrifizio gradito alla sua ghiottoneria, le divenne oltre misura
severo, quasi per vendicarsi di lei che avesse demeritato un favore,
unicamente a lui profittevole. Che se dapprima il corruttibile animo suo
scendeva con essa a qualche cortesia, almeno di parole e a modo suo, ora
con atti dispettosi, con arguzie che fan tanto male a chi soffre,
compiacevasi esacerbare le vendette del suo signore.

La carcere dove essa fu mutata nel recinto istesso del castelletto di porta
Romana, era proprio conveniente a quei tempi, in cui furono fabbricate le
Zilie di Padova da Ezelino, e da Galeazzo i Forni di Monza, nei quali i
condannati si calavano per un foro della volta, e posavano sopra un
pavimento scabro e convesso, in tanta angustia di spazio, da non potersi
nè tirar ritti sulla persona, nè distendere per terra. In quei forni
era stato custodito Luchino per alcun tempo dall'imperatore Lodovico il
Bavaro: e poichè la sventura ai tristi non fa se non peggiorarli, volle
che poco migliori riuscissero queste, che stava fabbricando.

La Margherita nella sua poteva appena mutare quattro passi: nessun'altra
luce che la scarsa d'un alto finestruolo, il quale usciva a fior di terra
in un cortile, per modo che nei giorni piovosi l'umidità vi scolava e ne
rivestiva d'afronitro le pareti. Passati i giorni vernerecci, era allora
incominciato il maggio, quando le tiepide arie fanno brulicare la vita nei
campi, e infondono un ineffabile sentimento di gioja negli animali e
nell'uomo. Dalla primitiva sua stanza, Margherita aveva veduto rinfrescarsi
il verde dei prati, le gemme degli alberi gonfiare e sbocciarne le foglie
primaticcie, delle quali, coll'amore e colla compiacenza che solo i
prigionieri conoscono, ella osservava dì per dì e misurava il
crescere, il dilatarsi, il verdeggiare; aveva sentito i venticelli fecondi
alitarle sul viso: garruli stormi di augelletti rinnovare i canti e gli
amori sotto al soave raggio del sole, che più sempre inalzandosi, faceva
men lungo il tedio delle notti, sì caro il rosseggiare della mattina e
del tramonto, invitando i mortali a ringraziare il Signore, che all'inverno
fa succedere la primavera, ai patimenti le consolazioni.

Ma qui, nulla di tutto ciò, non più il sole, non più spaziare
colla vista sopra le sterminate campagne, e lontan lontano, verso
occidente, posarla sulle montagne, appena distinte dall'orizzonte: qui non
più una pianta, non una zolla erbosa, non vedere un uomo che a suo
talento vada o resti o torni; non potersi affissare nei melanconici
splendori della luna: solo tenebria e lezzo e il tacere di un deserto, o le
querule bestemmie di un inferno. Eppure le lagrime della Margherita
scorrevano più libere, meno angosciose.

Al primo entrare in quella tana, si prostrò ginocchione a ringraziare la
Madonna; aveva salvato il suo pudore, e di più aveva appresa quella
vitale novella. Oh come lo disacerbavano i patimenti! come le sorrideva
l'immaginazione! E poichè il prigioniero ama gettarsi lontano colla
fantasia, e fermarsi su casi che possono succedere dopo molti anni,
anzichè considerare quelli più vicini che troppo crudamente lo
richiamano alla spietata sua situazione, le veniva nel pensiero e nella
speranza un giorno, in cui col marito e col figliuolo ritornerebbe libera
nella città, alla campagna, a tuffarsi nelle onde di luce, che così
limpido versa il sole sulle terre lombarde, a rivedere le rive del lago
Maggiore, piene delle vergini memorie dell'età sua più gioconda
perchè più spensierata; e poi invecchiare nella propria casa, colmata
di dolcezza da un figlio, degno di tutto l'amor suo, e con lui, coi
figliuoli che nascerebbero da lui, ritesserne piacevolmente il viaggio
della vita. Immaginando quel tempo, se ne figura al vero le gioje, e ne
ringrazia Dio, e già le pare essere con Francesco suo, col suo
Venturino, nei luoghi usati, fra cari amici, e più di tutti gli amici
caro quel Buonvicino, che le aveva dato la maggior prova possibile di
amore, quella di trionfare del proprio amore.

Nulla era accaduto che l'avesse pur d'un capello avvicinata all'avveramento
di questi sogni: ma era fatta certa che que' suoi cari vivevano tuttavia; e
la speranza è tanto ingegnosa a ordir le sue tele, appena trovi un filo
pur debole a cui attaccarle!

Quindi, allorchè la mattina un tardo raggio di fioca luce scendeva
attraverso le ferriate della sua prigione, col primo pensiero ella correva
ai suoi cari, che godrebbero intera la delizia della luce; ad essi mille
volte fra le monotone cure del suo giorno; ad essi principalmente nell'ora
che il dì se ne andava; ora feconda di tanti sospiri all'esule, al
solitario, a chiunque ama, a chiunque patisce. Li sapeva liberi; dunque ne
andava seguitando le orme;--dove? con chi? non poteva indovinarlo, ma
poteva essere per tutto ove non giungesse la tirannide viscontea: tanto
più vasto campo alla fantasia della paziente. E le idee carezzate fra il
giorno le si riproducevano poi nel dormire, e le facevano consolati almeno
gli istanti del sonno. Soffriva, deh se ancora soffriva! pure un pacato
raggio a volta a volta diradava quell'oscurità, sicchè talora
l'avresti fin detta allegra.

Più d'una volta Macaruffo si accostava origliando all'uscio della
prigione, forse per il barbaro gusto di sentirla mormorare e indispettirsi,
e tutt'al contrario l'udiva, con sommessa voce ma soave quanto un flauto
che risuoni di lontano fra il tacer della notte, cantare le litanie,
pregando la Madre degli afflitti che pregasse per noi.--Malann'aggia
costei!» esclamava lo scortese.--Che mai non deva io vederla
impazientirsi?» Egli ignorava che ella sapeva invocare Iddio. A
sturbarle però almeno un istante quella calma, il villano bussava,
rumoreggiava attorno alla porta, alzava in tono minaccievole quella sua
voce rantolosa e squarciata: un ribrezzo correva per la persona alla
Margherita, e lunga pezza il cuore le batteva convulso: il canto per tutto
quel giorno era interrotto: lugubri fantasie si attraversavano alla sua
mente, e piangeva, e invocava il nome del Signore, e lo supplicava di
potere una fiata, una sola, per un sol momento rivedere lo sposo, il suo
figlioletto!

Qualche volta anche le giungeva all'orecchio il vagire di un bambino, una
voce fanciullesca che chiamava la mamma, o ripeteva la parola
dell'innocenza sicura. Erano forse figliuoli di qualche soldato, o chi sa?
di qualche prigioniera, con cui dividevano e della quale alleviavano il
castigo. Ma alla Margherita quanti pensieri suscitavano, quanti affetti!
che non avrebbe dato per poterli vedere, vedere quell'età, somigliante
agli angeli, quei cari occhi da cui non traspare che ingenuo affetto e un
amore non simulato, non calcolatore, e una placida curiosità; nulla di
maligno, nulla di crudele, nulla di bugiardo! Se mai potesse almen da lungi
rimirarli, inerpicavasi ella verso il pertugio da cui riceveva lume ed
aria. Ah! non vedeva che mura scabre, altissime, con alte finestruole
ferrate, entro alle quali altri languivano, forse innocenti al pari di lei,
forse il ladro, l'assassino. Ne intendeva le voci: per lo più erano o
sucidi parlari, o bestemmie, o un batter rabbioso dei ceppi contro le
spranghe: nessuna parola di pace, nessuna di benevolenza, di perdono. Per
implorare su di essi il dono della pazienza, essa pregava il Signore, e in
quell'atto alzando i begli occhi, vedeva un piccolo campo di aria, e
fermavasi a contemplarlo. Oh come il prigioniero conosce ogni stella, ogni
nube, ogni accidente del palmo di cielo, in cui tante volte ha fissato lo
sguardo!

Poi se miravasi dinanzi, a fiore della sua finestra era lo sterrato del
cortile, per cui passeggiava una sentinella: tratto tratto vedea giungere
qualche nuovo infelice, e rabbrividiva; qualche altro uscirne liberato, e
con lui consolavasi: alcuno anche partire pel patibolo, ed era volta che
esclamava:--Almeno quegli ha finito». E l'occhio le si empiva di
lagrime; scendeva, pregava; poi, come se l'idea del morire, la quale fa
tanto spavento ai fortunati, recasse a lei la consolazione di sapere che
quei mali non durerebbero eterni, e che un altro ordine doveva venire
appresso, sedevasi più tranquilla sul rozzo suo trespolo, e quivi
rincorreva i tempi passati, tempi di virtuosa giocondità, di benefica
floridezza; pensava a' suoi cari, alle speranze.

Talvolta perfino intonava le canzoni che aveva intese, che aveva ella
medesima ripetute mentre giovinetta attendeva al donnesco lavoro, o quando
colle compagne vagava di primavera cogliendo mazzolini di primolette e
virgulti di mirtillo, ovvero nell'estate, in una barchetta, lungo le
floride rive del Vergante, lasciandosi in balìa di un placido
venticello, salutava le bellezze della natura, e al creatore di essa
porgeva l'omaggio di un cuore puro e giocondo. Erano cantilene di amore;
più spesso erano arie melanconiche, la cui mesta armonia meglio si
addiceva allo stato dell'animo suo. Singolarmente le andava al cuore una
romanza, in altri tempi composta da Buonvicino, e che egli medesimo più
volte aveva accompagnata col liuto, mentre essa la cantava sopra le note,
pure da lui ritrovate. Ed era questa:

AMALIA

    --Torni alfin, diletto Piero!
    Ti vedrò col nuovo dì».
    Lieta Amalia in tal pensiero
                       S'addormì.

    Ecco il mira. In armi splende
    Qual l'Olrisio fe' tremar.
    Sul suo cuore il cuor ne intende
                       Palpitar.

    Oh il tripudio del ritorno
    Fra le braccia dell'amor!
    Volge in riso quel bel giorno
                       Il dolor.

    A lui narra i lunghi affanni,
    Notti insonni, ansiosi dì:
    Pa lui sente i casi, i danni
                       Che patì.

      Ahi, fu un sogno! Spirto lieve
    Ei serena il suo dormir
    Con delizie onde non deve
                       Mai gioir.

      Sanguinoso al nuovo giorno
    Le presentano un cimier:
    È il cimiero ond'ella adorno
                       Ha il suo Pier.

    --Già vicino al patrio lido;
    Man rival l'assassinò:
    Cadde, e l'ultimo suo grido
                       Te chiamò.--

      Chiusa Amalia in pio recinto
    Fra le suore del Signor,
    Canta Iddio, ma al caro estinto
                       Vola il cor.

      Dal seren di miglior vita,
    Dolce spirto, miri al suol?
    Odi il gemer dell'attrita?
                       Vedi il duol?

      Dolce spirto, l'ora affretta
    Che, disciolto il mortal vel,
    Presso a te la tua diletta
                       Goda in ciel.


Fermavasi alquanto la Margherita, poi ripeteva:

      Oh il tripudio del ritorno
    Fra le braccia dell'amor!
    Volge in riso quel bel giorno
                       Il dolor.

E dopo un altro istante di silenzio pensierosa tornava a cantare:

    Ahi fu un sogno! Spirto lieve
    Ei serena il suo dormir
    Con letizia onde non deve
                       Mai gioir [22].

A che pensava ella? di chi si ricordava? Un giorno, là, sul far della
notte, le interruppe questo canto uno scalpicciare nel cortile, maggiore
del consueto, un tuono di sghignazzi, d'insulti, fra cui si distingueva un
rammarichio più gentile che non soglia fra prigionieri, ed affatto
discorde dalle aspre voci che oramai sole era abituata a udire. Il cuore
dello sventurato è così aperto sempre alla paura! Coll'ansietà di
una colomba, che abbia veduto il cuculo fissare gli occhi sul fecondo suo
nido, balzò la Margherita allo spiraglio, colle delicate mani si
ghermì alle grosse sbarre, gettò lo sguardo verso quel rimescolamento,
vide un fanciulletto che, scomposta la bionda capellatura sopra gli
occhi, strillando e dibattendosi fra le braccia degli sgherri, andava
gridando:--Babbo! babbo!» verso di un altro che tutto in catene e
col volto dimesso, lo seguitava.

Ah!--La Margherita mise uno strillo come d'uomo percosso nel cuore, e cadde
svenuta sul pavimento. L'occhio, l'orecchio, benchè di lontano,
benchè a lume incerto, le avevano in quei due infelici fatto avvisare il
suo Franciscolo, il suo Venturino.

Poveretta! Si fosse almeno ingannata.



CAPITOLO XIII.

RICONOSCIMENTO.


Camminerebbe pur bene il mondo, se, nell'effettuare lodevoli disegni,
ponessero i buoni tanto impegno, quanto nei loro scellerati i ribaldi, pei
quali le malvagità che non han potuto compire, sono un debito che si
credono obbligati di spegnere. Luchino e Ramengo avevano raggiunto la
Margherita e molti dei presunti congiurati: ma si eran lasciati sfuggire
Franciscolo, e tanto bastava perchè considerassero il colpo come
fallito. Ramengo specialmente rodevasi dentro, che il suo nemico avesse
potuto camparsi col figliuolo; il figliuolo che tanto gli faceva stizza e
invidia, come quello che gli rammentava l'unica gioia innocente che esso
agognasse sulla terra, e che, come voleva credere, per colpa di
Franciscolo, eragli stato tolto di godere.

--Che importa (diceva tra sè) che costui deva andare ramingo sopra la
terra? Egli ha un figliuolo. Io vivo in patria, ma solitario; non avrò
mai un figlio, le cui bellezze e le glorie si riflettan sopra di me, che
m'aiuti a salire, che faccia me invidiato quant'io invidio altrui.

E più smaniava di vendetta allorchè rifletteva come quel fanciullo
l'avesse avuto in propria mano, e gli fosse stato rapito con forza e con
ischerno da quell'abborrito Alpinolo, a cui sempre più male voleva, come
sogliono i ribaldi a coloro che ne sfuggirono gl'inganni o la violenza.
Nell'ebbrezza pertanto della sua scelleraggine, propose al signor Luchino
di uscire all'inchiesta del gran cospiratore e dei complici suoi. Per
colorire la cosa, Luchino comprenderebbe anche Ramengo nella lista degli
indiziati e degli sbanditi: talchè egli, in aspetto di perseguitato,
entrerebbe creduto e compatito in mezzo ai forusciti, e potrebbe così,
sotto l'ombra d'una fraternità di sentimenti e di castigo, discoprirne
le trame; ritrovare il nascondiglio del Pusterla, e forse trarlo nelle
reti. Così leali mezzi adoperavano i principi--allora.

Ben fornito a denaro, ma in apparenza di fuggiasco, e travisandosi col
mutar foggia di barba, di capelli, di vestito, uscì dunque Ramengo di
città, e prima scorse lo Stato dentro ai confini, se mai s'avvenisse a
qualche amico dei profughi che stesse macchinando, o che gli desse fumo di
ciò che gli importava. Da per tutto ritrovava la gente bassa intenta ai
lavori dei campi, al traffico, alla domestica economia; i baroni nei loro
castelli desiderosi di godere la vita e di conservare il poco potere che
avevano ancora; i giovani cupidi di imprese in guerra e in amore; e per
mezzo a tutti, preti e frati che predicavano la necessità di amarsi, di
compatirsi, di negar la propria volontà, chi voglia vivere meno male
questi fugaci giorni dell'esilio. Ramengo entrava fra loro narrando,
chiedendo, tentando; essi gli rispondevano senza sospetto, senza doppiezze;
rimembravano migliori tempi, l'udivano volentieri quando esso per
suggestione accennava la probabilità che rinascessero, ma tutto finiva
qui; ed egli, domanda, guarda, rifrusta, nessuna potè trarre alla luce
delle bramate iniquità. Fermò dunque in animo di proseguir le sue
indagini verso il cuore d'Italia, e dirizzossi al Po. Schivando
Pizzighettone e Cremona, come faceva di tutte le città lombarde, dopo
Grotta d'Adda piegò in quel terreno che scende laddove l'Adda mette foce
nel re dei fiumi; terreno allora del tutto incolto, ghiajoso e sterpigno,
in cui le acque esercitavano a baldanza i loro guasti, non frenati dalla
mano dell'uomo. Nel fendere quella lama, un improvviso temporale, come suol
avvenire sul mettersi dell'autunno, colse Ramengo in sulla sera, ove, non
che vedere alcun ricovero, nè tampoco un sentiero discerneva che lo
avviasse. Cacciato dalla pioggia battente e dalla notte che cadeva,
spronò il cavallo senza sapere verso dove, ma secondo il terreno gli
pareva abbassarsi, sperando che in riva al fiume troverebbe una casipola,
un navalestro, un pescatore. Di fatto la sua fortuna, o la disgrazia
altrui, gli fece discernere un giovane mugnajo, che a mazzate cacciavasi
innanzi l'asinello colla soma del grano, per riparare la quale erasi cavata
la giubba, buttandovela addosso al modo di sargia.

--Ehi! quel ragazzo! c'è a trovar un ricovero da queste bande?

--La venga con me. Qua a mancina sta un macchione di pioppi, indi il fiume
e il mulino di mio babbo».

Così rispose il ragazzetto, ma poichè il somarello andava più di
buona voglia che di buon passo, Ramengo n'ebbe abbastanza di
quell'indicazione, e toccò via di trotto serrato, sotto all'incessante
acquazzone, finchè alcuni lastroni di macina l'avvertirono del mulino
cui era già addosso, senza peranco vederlo. Un lampo gli mostrò sopra
un dosserello la casipola, in riva al fiume, coperta da due pioppi
piramidali e da un cespuglio di ontani, e vicina ad un barcone da mulino.
Da un finestruolo e dalle fessure degli assi mal confitti sbucavano liste
di fumo e traluceva la vampa di un fuoco allegro, sul quale una donna
veniva rosolando una frittella, come ne davan l'avviso e l'odore oleoso e
lo scroscio che confondevasi con quello della pioggia esterna.

Ramengo, scavalcato, bussò risoluto alla mal chiusa portella; un cane
alzò subito vivi latrati: la donna di dentro abbandonando il fuoco e
rompendo a mezzo un'_Ave Maria_, corse ad alzare il saliscendo, gridando:

--È lui: è Omobono: entra: tu devi essere lavato come un....

Interruppe il paragone al vedere, invece del somaro, un puledro che ansava
e fumava, e invece del figliuolo ch'ella aspettava, uno sconosciuto;
però men dispiacente che maravigliata, con rusticale cortesia
l'invitò ad entrare. Entrò di fatto Ramengo in una cucina bassa,
tuffata, fumicosa, col pavimento di terra battuta e disuguale; nel mezzo
quattro sassi fermavano il focolare, dove ardeva una fiammetta, e sebbene
fosse appena di settembre, la famiglia stava a godersela come di gennajo,
mentre recitava il rosario. La vampa che se ne diffondeva mostrava gli
utensili più necessari a preparare i cibi grossolani; la madia, una
cassapanca, un par di scannelli; poi appiccati agli arpioni, alle
rastrelliere, nasse, fiocine, bertovelli, lenze, e insieme vagli e sacchi
d'un bianco polveroso come il vestire di quegli abitatori.

Al comparire dell'ignoto, un ragazzo ed un vecchio si levarono da sedere;
Ramengo senza tampoco salutarli si fece al fuoco, dicendo:--Che tempo del
diavolo! Ho dovuto ritirarmi qua entro per non annegare.»

Il vecchio, riponendo la coroncina e racchetando il cagnuolo,
soggiungeva:--Se vossignoria si contenta di ciò che v'è, è a suo
piacere.»

Egli, accomodandosi al fuoco, donde quelli con rispettosa cordialità
s'erano ritirati,--Sopratutto (disse) vorrei riparato bene il mio cavallo.

--Oh per questo (replicò il sere di casa) vossignoria non si dia pena:
ci abbiamo uno stallino pel nostro giumento, con riverenza parlando, e dove
i bardotti stabbiano qualche volta i rozzi che tirano l'alzaia. Vi
troverà anche la compagnia di un puledro, che le so dire vale il suo.
Ehi! Dondino, va a riporlo.»

--Un altro puledro? (chiese sbadatamente Ramengo) e di chi? Vostro?

--Mi corbella, signoria? nostra una bestia di quella fatta? È d'un
cavaliere nostro amico.

--Un cavaliere vostro amico? (ripetè Ramengo con un certo sogghigno
beffardo). E come si chiama?

--Si chiama... Oh vossignoria deve conoscerlo... è tanto nominato! Si
chiama il signor Alpinolo».

E proferiva questa parola con una dignitosa compiacenza, col tono solenne
d'un medico che pronuncia il nome greco della malattia considerata,
sicchè era una squisitezza il vederlo. Ma Ramengo a quel nome rizzò
la testa, tese le orecchie, siccome il suo cavallo quando udisse schioccare
la frusta, ed esclamò:--Alpinolo? che veniva da Milano? un tòcco di
giovane ben complesso? sui diciott'anni, capelli neri, ricciuti, occhi di
fuoco?

--Ma sì, ma sì, (interruppe il buon mugnajo a quella descrizione da
passaporto). Forse che vi sono due torrazzi di Cremona o due Alpinoli a
questo mondo? Signoria, sì, quel desso in petto e in persona.

--Oh come capitò da queste bande, che non ci verrebbe uno se non
perduto? e lo dite amico vostro?» Ed ora dov'è? continuò Ramengo,
mal celando l'ansietà messagli in animo da questa notizia.

L'altro, tutto pacato, se non che un'aria del più perdonabile orgoglio
rideva sul suo volto, proseguiva:--Ebbene, ha da sapere vossignoria.... Oh,
l'è una favola a dirla. Ma prima si accomodi. Ehi, Omobono, (così
diceva a quel tale garzoncello, figliuol suo, ch'era giunto anch'esso, e
che tanto volentieri avrebbe trovato sgombro il focolare e lesta la cena),
accosta un trespolo, reca una bracciata di legna, poi va a dare un'occhiata
al mulino se tutto è bene. Vossignoria si faccia presso al fuoco, che
non abbia a pigliarsi una infreddatura. Oh, questa pioggia le ha passato la
gabbanella: la dia qui alla mia donna da sciorinare.

--Sì, sì, ma continuate quel che v'ho chiesto.

--La sappia dunque che il signor Alpinolo.... tale quale mi vede, io son
suo padre... cioè... egli deve a me la vita. Anzi sono più che suo
padre, perchè suo padre è stato... che so io?... qualche crudelaccio
che lo buttò via; che, quanto fu da lui, tentò di mandarlo a male
e...

--Non dite così» gli dava sulla voce la Nena, sua moglie; giacchè
il lettore può essersi accorto ch'erano quel Maso e quella Nena, da cui
Ottorino Visconti avea portato via Alpinolo ancor fanciullo.--Non dite
così; siete troppo facile a pensar sinistro.

--Eh!» rispondeva Maso, dimenando il capo e stringendo le labbra con un
garbo fra di bonarietà e di importanza:--Tu non hai perduto mai di vista
i pioppi di questa riva. Ma io del mondo n'ho veduto la parte mia, e ho
sempre trovato che chi pensa male pensa bene. Fatto è che Alpinolo
moriva se non ci fossi stato io.

--Ed io?» soggiungeva la donna.

--Sì; anche tu: ma la storia è lunga e vossignoria vorrà dormire,
neh?

--Contate, contate» insistette Ramengo, non tanto desideroso d'incantare
la noja coll'apprendere la storia d'Alpinolo, come intento a scavare dove
egli si trovasse, avendo per fermo che con lui sarebbe anche il Pusterla. E
chi dirà se quell'anima truce non meditasse anche di ricambiare
l'ospitalità del pescatore coll'accusarlo d'avere tenuto mano coi
ribelli e d'averli ricoverati? Purchè gli tornasse conto, purchè si
avvicinasse alla sua meta, che importavano all'ambizioso quelli che doveva
in sul cammino calpestare? Ma il mugnajo, sicuro dell'innocenza sua,
proseguiva:--Per rifarmi dunque da capo, vossignoria deve sapere che... un
pezzo fa... vogliono ben essere sedici o diciasette anni, n'è vero, Nena?

--Fate il vostro conto» rispondeva la moglie.--Sapete che allora io
aveva al petto il nostro Omobono che è qua.

--Appunto! or mi raccapezzo; sconta dall'anno che passarono di qua i
Fiorentini soldati, con tutte quelle croci segnate sulle spalle; e dicevano
che il papa per ogni milanese che ammazzassero, gli assolveva da un peccato
mortale».

Il buon uomo voleva dire dei crociati che, al tempo della guerra di Monza,
mossero contro de' Visconti sotto al cardinale legato. Ma Ramengo, ristucco
di tante digressioni quanto n'è il nostro lettore,--Facciamola un po'
corta», gridava risoluto.

--Or bene (seguitava il pescatore); diciott'anni fa, salvo errore, una
mattina appena l'alba, come è costume di noi molinaj, m'alzavo per
cacciare in alto il barcone: quand'ecco là basso, dove il fiume fa una
ritorta o un gorgo sotto agli ontani, vedo attraversato un barchetto, fatto
in tutt'altra foggia dai nostri, e nessuno che lo guidasse. Qualche
disgrazia, diss'io tra me; i barcaroli si saranno annegati. Corriamo a
tirarlo alla riva, se mai capitasse il padrone: se no, sarà legna per
st'inverno. Ma indovini mo?»

Qui Maso alzavasi sulla predella, e traendo la mano dalla giubba, la
sporgeva distesa verso Ramengo.

--Dentro v'era una donna con un bambino».

A queste parole, uno sbadiglio che errava sulle labbra di Ramengo, si
convertì in un Oh! e sentendosi tutto rimescolare, balzò in piedi di
scatto; l'attenzione sua cambiò di natura, e spalancò gli occhi
addosso il vecchio, il quale proseguì:--Una donna e un bambino; signor
sì: non c'è meraviglia che tenga: ma una donna vestita bene: n'è
vero, Nena? doveva essere di condizione: giovane, bella che non le dico
altro: e il bambino non finiva forse un mese. Ma l'uno e l'altro erano
bagnati, fradici, e inoltre morti.

--Morti?» urlò Ramengo.

--Morti: sì, signore» continuò Maso.--Io dissi: Bella pesca ho
fatt'oggi! Li trassi a riva; chiamai gente, li levammo fuori, li portammo
in casa, e qui mia moglie, che tiene della medichessa, si pose intorno a
loro ostinata di farli rivivere. Ma tutti li tenevamo per ispacciati;
pallidi, freddi, non polsi, non fiato: Che vuoi? le dicevamo, vuoi
rinnovare la risurrezione di Lazzaro? le dicevamo. Ma ella, questa buona
donna incapricciata che fossero vivi ancora, tanto fece e tanto, che li
vide ancora a respirare.

--Erano dunque vivi» interruppe Ramengo con viva impazienza.

E il pescatore:--Gnor sì, vivi, ma se non fu un miracolo questo, io per
me non credo neppur a quelli del santo di Padova. Il bambolo, appena
riavuto, si attaccò al seno della mia donna, e in poco tempo tornò
vispo e bello.

--L'avesse veduto!» entrava in mezzo la Nena.--Un bambino che pareva
pitturato: bianco, sodo, come di cera: certi occhietti da mangiarlo; dritto
come un fuso: e solamente aveva manco l'indice della mano sinistra.

--E si vedeva (interrompevala Maso) che gli era stato tagliato via: che'l
vi avesse qualche brutto male. Ma per seguitare, signoria.... o l'ho
ristucco con queste chiaccole?

--No, no, seguitate; ma presto; come andò a finire?» diceva Ramengo:
e se la stanza non fosse stata così buja, lo avrebbero veduto divenire a
tratto a tratto smorto e divampante, e il suo labbro e le sopracciglia
contrarsi e squassarsegli tutto il corpo in violenta convulsione. Maso
intanto, con quel misto di bonarietà e di rustichezza che distingue i
costumi campagnuoli ed insieme coi sentimenti generosi senza ostentazione,
che meglio si trovano quanto più basso si discende nella scala sociale,
proseguiva pacatamente:

--E sicchè... ma dove son restato? Ah si! ora mi raccapezzo. E sicchè
il bambino a vedere e non vedere si rifece sano e in tono. Ma colla madre
fu un altro cantare. Tornò sì in vita: quando aperse gli occhi si
guardava intorno e chiamava... un certo nome...., un nome bisbetico....
Nena, lo ripeschi tu quel nome?

--Diceva, Ramengo, mio Ramengo dove sei?

--Chiamava Ramengo?» tonò lo sconosciuto.

--Sicuro!» seguitava il pescatore.--Proprio Ramengo; non m'è uscito
mai di mente quel nome. La non sapeva dir altro: ed anche quando delirava
non faceva che ripeter quello, e....

--E qual altro? chiese il fellone, spalancando gli occhi incontro alla
nuova parola che aspettava.

--E diceva anche: Povero bambino, e molte altre volte, Caro, perchè non
vieni? tanto aspettarti? ma avesti paura, eh? Egli è burbero, ma è
buono» ed altre cose senza senso, perchè era fuori di sè. Già
del guarirla non ne fu nulla. Quel che la mia Nena le fece intorno non si
potrebbe mai dire.

--Oh bello!» ripigliava la donna con una compiacenza tutta ingenua.--Ho
fatto il mio dovere. Non siamo nati per volerci bene, per farci del bene
uno all'altro? Dico vero, signor forestiere? E poi, chi non avrebbe ajutato
quella povera creatura! A vederla si capiva ch'era fresca di parto: bella
che doveva essere stata un angelo: ma sfinita e tutta pesta, e guardava con
due occhi da ammansare una tigre».

Ramengo si scostava dal fuoco, e sciorinandosi e soffiando passeggiava pel
camerotto.

--Che, le fa caldo?» domandava Maso.--Pure badi che le fumano ancora gli
abiti indosso.

--Sì, sì» gridò questi con un tono dispettoso: ma finite
cotesta cantafavola, prima che vi venga un canchero nella lingua. Non so
come diavolo c'entrino queste bubule con quanto io vi ho domandato.

--Come c'entrino? bubule?» ripigliò il molinaro, un pocolino
meravigliato di quelli sbattimenti.--Ora lo sentirà. La donna dunque
andò di male in peggio. Entro quella barca, sole, acqua, fame, lo sa lei
sola ed il Signore quel che ha sofferto: e quando a riciso ce ne contava
alcuna cosa, bisognava piangere come ragazzi. Pure anche un cieco avrebbe
veduto che qualch'altra cosa le stava sul cuore, peggio che i patimenti del
corpo, una passione, ma di quelle! Perchè, appena si trovava in sè,
dava in pianti dirotti, e non c'era più via di farla parlare. Quando
vide il suo fantino riavuto, si fece serena come un occhio di pesce, lo
prese, lo baciò, il guardò fisa fisa: poi ricadde in delirio:--E l'ha
voluto ammazzare?... e non lo vedrà più... e non conoscerai nemmeno
tuo padre--e altre parole da vera delirante.

--Per venirne a una, costei è viva o morta?» saltò su Ramengo
impazientito.

--E Maso:--Vede quelle foglie, là, entro quel bugigattolo, con sopra un
po' di materassuccia? Sono il nostro letto, e quivi, potè ben farne la
mia Nena, ma quella poverina dopo pochi giorni spirò.

--E quando spirò (seguitava la Nena asciugandosi gli occhi col
grembiule) l'avesse vista! Mi stringeva le mani sode sode. Capivo ben io
quel che voleva dire! Voleva dirmi: Tenete da conto il mio bambino e...

--E voi che n'avete fatto?

--Che vuoi che ne facessi? lo allattai del mio petto, diventò
grandicello, e buono come il pane, ma vivo come un pesce e ardito come un
capriuolo, e stette al nostro mestiere, fin quando un signore, che aveva il
nome di quelli che comandano a Milano, il menò con sè, ed ora è il
signor Alpinolo.

--Ma chi fosse costei non ve lo disse? nol poteste sapere?» domandava
Ramengo con ombrosa curiosità.

--Mah» rispondeva la Nena.--Cosa non avrei dato per saperlo! Una donna
così gentile, un puttino così innocente, qual crepacuore pei loro
parenti d'averli perduti! E se io avessi potuto presentarmi ad essi, e
dire: Io so quel che n'è successo; la gioja loro mi sarebbe stata cara
un mezzo mondo.

--E conti poco il gusto di saperne la storia?» parlava Maso.--Perchè,
Dio buono! la doveva venire da lontano: che barche di quella generazione
sul Po, lo conosco tutto quanto è lungo, non ce ne vanno».

E la moglie ripigliava:--La storia sarà che suo marito un giorno
l'avrà menata a spasso: lui cascò nell'acqua; i fiumi erano
grossissimi, e la poveretta fu menata giù.

--Ah! sarà» rispondeva Maso dimenando il capo:--ma ti ricorda come
esclamava,--Perchè lo ferisci? quel coltello piantalo nel mio cuore!--Io
sarei piuttosto di credere che un qualche suo nemico l'abbia ridotta
così.

--E perchè avevano a lasciarla viva?» saltava dentro Omobono.

--Come sei materiale! per farla penare di più. Dei cattivi ce n'è di
molti, credilo a me che so del mondo; ed essi conoscono bene che il morire
è poco: ma il bevere la morte a sorsi a sorsi, come ha fatto questa
creatura...

--Oh, babbo mio, chi gli fosse bastato il cuore di far ciò, aveva ad
essere non un uomo, ma un demonio in carne e ossa».

Quali dovessero sonare a Ramengo tali discorsi, lo immagini il lettore.

Ai rimproveri della coscienza opponeva lo spietato gusto della vendetta,
più sentito ora che comprendeva quanto essa fosse stata atroce; ora che
la vedeva non finita ancora; e che senza saperlo, trovava d'aver già
contro il frutto del delitto, preparato nuove trame onde perderlo, e ciò
che più il dilettava, perderlo insieme coll'autore dei suoi giorni, e
d'un sol colpo sterminare quanto al mondo aveva di esecrato. Quindi, dopo
un breve silenzio, che i buoni villani aveano creduto di compassione,
addimandò:--E Alpinolo dov'è?

--Lo sa lei?» rispose il mugnajo, contraendo il capo fra le spalle.
Quattro o cinque settimane fa, una notte tardi tardi, eramo a letto, e
sentiamo un cavallo arrivare: fermasi: bussano:--Qualcuno, diss'io fra me,
al quale faccia male l'aria di qua del Po, e voglia passarlo. Mi affaccio,
domando.--Chi è?--Son io.--Chi io?--ed egli--Padre (perchè m'ha
sempre conservato questo nome), son Alpinolo: apritemi». Corsi io, corse
la Nena, corsero Omobono e Donnino; per tutti era una festa il suo arrivo.
Ripone il cavallo: entra... Se l'avesse visto! che cera! che occhi!--Al
figlio di mia madre non la si dà ad intendere, gli diss'io; te n'è
capitata una grossa: di' su: possiamo nulla per te? E lì mia moglie e i
miei figliuoli a confortarlo, ad esibirsi, a interrogarlo; non rispondeva;
stava come trasognato; poi scrollava il capo, pestava i piedi,
esclamando:--Infame! maledetto! E quella meschina? ed io dargli ascolto?--e
simili voci, da cui nulla si raccapezzava. Volevamo indurlo a mettersi a
letto con noi: non volle: ci pregò d'andar noi a dormire: ma era
possibile? sedemmo dunque sui sacchi di farina e sullo spento focolare:
egli stava appunto ove ora lei, colla testa fra le mani, così; e noi
attorno a guardarlo, a sospirare anche noi, finchè cominciò a farsi
giorno. Allora alzossi, passeggiò innanzi indietro, appoggiossi alla
spalletta dell'uscio, e stette intento all'alba che spuntava. Certo allora
gli rivenivano per la mente i giorni di sua fanciullezza, quando non era
che figliuolo di Maso, e correva spensierato e folleggiante con questi
altri a diguazzarsi nella rugiada. Eh! loro signorie hanno de' grandi
piaceri nel loro stato, ma non è poi tutto oro; e noi poveri abbiamo
anche noi i nostri, e meno scese di capo. Insomma è che Alpinolo parve
un tantin sollevato; ci chiese scusa, povero giovane! del dolore
cagionatoci la notte; che erano avvenute a Milano gravi disgrazie; cacciati
a prigione dei suoi più cari amici; che per lui non v'era pericolo, ma
andava per certe sue bisogne ad un luogo qui poco oltre, onde ci lasciava
il cavallo; e se mai tardasse oltre una settimana, era buon segno, e
vorrebbe dire che aveva preso altra strada, e il cavallo diventasse nostro
e i denari. Ci baciò tutti, e piangeva: e se n'andò; e dopo d'allora
l'ha visto lei?

--E dell'anello?» diede su la vecchia.

--Oh questo che cos'ha a che fare?

--Ha che fare moltissimo» riprendeva essa.--Conviene ben dire che gli
frullasse pel capo qualche fatto assai rischioso, se depose quelle robe che
mai non aveva divise da sè.

--Che robe sono?» domandò Ramengo. E il mugnajo, quasi per supplire
all'inettitudine di sua moglie che tartagliava nel cominciar il racconto,
proseguì:--Essa vuol dire che Alpinolo, già uscito di casa, fermossi,
pensò, esitò un tratto, poi si cavò dal seno un arnese e dal dito
un anello che sempre portava; baciò il tutto affettuosamente, e li diede
a mia moglie, dicendo: Custoditeli con ogni cura: è quanto or mi resta
di caro nel mondo: e replicò i pianti, tornò a baciarli, poi se ne
fuggì a precipizio.

--E cotesto arnese che cos'è» richiedeva il traditore.

--È tutta l'eredità di sua madre», gli replicava la Nena.

--Essa nelle ultime sue ore non faceva che baciarli e guardarli; poi mi
fece promettere gli avrei dati al bambino, perchè li portasse sempre, in
memoria, diceva, delle due persone che più di tutte, diceva, essa amò
al mondo. E sono, un anello di diamanti, e un borsellino con cuciti entro
due pezzetti di carta, due lettere, mi hanno detto.

--Due lettere?» proruppe con voce tonante Ramengo, i cui occhi gettavano
faville.--Due lettere di Rosalia? Ove sono? a me: voglio vederle: datemele:
presto: le voglio.

Quel tono imperioso, quel gridare, quel muoversi violento, parvero cosa
straordinaria alla rustica famiglia, che in muta ammirazione guardava al
forsennato, mille sospetti formando: ma poichè egli instava, la donna si
volse al marito e--Ch'io glieli mostri?»

Questi fe' spalluccie; ma l'altro replicava:--Sì, sì, datemeli: li
voglio, o vi mostrerò chi sono: porrò a soqquadro la casa: li
torrò per forza»; e tanto minacciò e promise, che la donna aprì
la cassapanca, e con occhio sospettoso rivoltasi a colui--Ma mi promette di
restituirmeli?»

Prima di rispondere, esso glieli aveva strappati di mano, e con un tremito
febbrile strinse Fanello:--era l'anello ch'egli avea dato alla Rosalia
quando la promise sposa. A guardarlo, che pensieri gli corsero alla mente,
che tempi si ricordò! Tempi d'amore, di pace; che avevano lampeggiato un
istante sul bujo dell'anima sua, come se una rosa germogliasse fra le
cocenti arene del Sahar. Colle dita tremanti fece un moto quasi volesse
avvicinarlo alle labbra, poi dispettoso lanciollo per terra. E mentre la
Nena premurosa ne seguiva il fosforico brillare fra le tenebre, e raccolto
lo riponeva, gli uomini con un silenzio pieno di aspettazione si fissavan
sopra quell'uomo, alla cui figura cresceva terrore la rossastra luce del
fuoco. Egli stracciava il sucido involto dell'amuleto, e svolgeva due brani
di pergamena, indi accostatosi ad un tizzone, leggeva tra sè:

_Poichè il destino della nostra patria è deciso, la abbandono, e vo
contro gl'infedeli. Solo m'affanna il discostarmi da te che sopra ogni cosa
amo. Cinque giorni rimango da queste parti. Se puoi eluder la vigilanza di
lui, fa ch'io possa una volta vederti, abbracciarti. Il valletto che ti
reca questo, doman sera tornerà per la risposta. Qualunque rischio a me
non parrà troppo per poterti dire a voce quanto ti ami il fratel tuo._

In quelle carte Ramengo cercava, voleva trovare il delitto, e scopriva
invece l'innocenza della Rosalia! Come intontito rimase alcun tempo sopra
quei caratteri; poi ripensando, svolse a furia l'altro viglietto:--Chi sa
che non trovi in esso quello che cerco?» ma era della medesima mano, e
vi stava scritto così:

_Tutti questi giorni aspettai il valletto, colla risposta;_ _nè l'un
nè l'altra arrivò. Che sarà? Parto dunque senza vederti, sorella
diletta, ma dovunque io sia, qualunque sorte m'attenda, te porterò
sempre in cuore, sempre il Cielo pregherò di concedere a te la
felicità, ch'io non devo conoscere più. Addio._

--Dunque ella era innocente!» proruppe Ramengo in un tono che fece
sbigottire tutta l'intenta famigliuola. Sorse furibondo, mugolando,
cosperso di bava, digrignava i denti, morsicò e fece a brani quei
viglietti, e cacciavasi le mani nei capegli, stracciandoli a ciocche. Gli
ospiti, ad uno spettacolo di cui nulla comprendevano, eransi tutti insieme
ristretti da un canto, e la donna si segnava dicendo:--Ch'e' sia
indemoniato?» Egli per la rozza cucina trascorreva a passi concitati,
ora bestemmiando, ora gridando con voce senza parole; poi d'un calcio
sfondò la porta e uscì. Era una notte fosca come i suoi pensieri; la
pioggia ingagliardita e tuoni e lampi l'accompagnavano; ma egli non vedeva,
non udiva la notte, l'acqua, il vento, il cielo malvagio. Donnino, che gli
tenne dietro così di lontan via, lo vide a gran passi traversare la
campagna, e poi ben tosto il perdette di vista, e tornando al casolare, ne
contava fra meraviglia e paura, le smanie, l'agitazione, esclamando:--Deve
aver le lune ben a rovescio».

Altro che lune! era un demonio, col quale in cuore Ramengo continuò
l'errante corso. L'aver ucciso una innocente ed a quel modo, sarebbe stato
ragione sufficiente per giustificare quel turbamento disperato in un animo
molto ribaldo. Ma nel suo non era commozione di pentimento, bensì una
foga di ire, di dispetti, poichè il tristo, non che indursi a dar torto
a sè medesimo, dai proprj peccati trae motivo di nuovi odj: vaso guasto,
ove sin la rugiada si corrompe; serpe, nel cui seno perfido il miele
diventa succo mortale. Quella donna egli l'aveva pure amata: aveva provato
le dolcezze dell'essere riamato, come si suole di cosa perduta, ne
rammentava tutti i pregi, nessuno dei difetti, il peccato in lei supposto
era scomparso. Ed egli l'aveva uccisa! Aveva privato sè dell'unica
incolpevole dolcezza che in vita sua gustasse mai!--Foss'ella vissuta, oh
come diversa sarebbe trascorsa la mia vita! Placido in grembo della
famiglia, padre di cari bamboli.... Padre! oh! essere padre! questa
consolazione l'ho libata, ma solo quanto bastasse per sentire più grave
la maledizione del non poterla provare mai più. Fosse ella vissuta; che
importerebbe a me questa superba di Margherita? che invidiar alle gioje del
Pusterla? E di tutte queste privazioni, chi fu la causa? se non il Pusterla
istesso? Maledetto! egli mesce il veleno nella mia tazza; egli appuntò
un coltello fra me ed il seno delle mia donna. Scellerato! S'ei non l'amava
perchè farne le mostre? perchè tentar di sedurre quell'angelo?
perchè, se non per farmi onta e dispetto?»

E stringendo il pugno, e stralunando gli occhi verso il cielo, scagliava
sopra di quell'innocente le imprecazioni più rabbiose e più
immeritate.--Se tu non fossi stato (proseguiva) sarei con onore vissuto tra
gli uomini, non trascinato sopra una via, per la quale ora mi è forza
camminare. Sì... è forza ch'io ne tocchi l'estremo; e se per tua
cagione perdetti i gaudj dell'amore, possa io almeno inebbriarmi in quelli
della vendetta! Rosalia! Rosalia! te lo giuro! ti vendicherò! ti
vendicherò!»

Così la conoscenza del suo delitto a nuovi delitti lo traeva;
somigliante a chi, nel terrore di un incendio, getta nuova esca al fuoco,
sperando di soffocarlo.

Taceva, seguitava, errando come una cosa pazza per la landa uliginosa,
affondandosi nelle pozze, saltando i fossati, poi si fermava, apriva il
pugno coi brani dei viglietti lacerati, che macchinalmente stringeva,
fissava su di essi gli occhi cristallini, dimenava il capo:--Ecco! essa gli
avrà baciati tante volte, vi avrà sparso sopra chi sa quante lagrime;
sarà morta premendoli al cuore, col nome di suo fratello sulle labbra,
mentre avrà traboccate l'ira e le maledizioni sopra colui che la
uccideva... Sopra lui, e non sopra quello che ne era la causa! Col latte
avrà stillato l'odio nel mio bambino, gli avrà insegnato ad
abborrirmi... Ma no! oh no! egli ignora l'autore dei suoi giorni, e spasima
di saperlo, per poter con lui comparire nella società, ed ottenere
quell'onore della cavalleria che gli fu negato, sol perchè d'ignota
razza. Certo lo cerca, e non sa che quel desso erasi posto sulle orme sue
per trarlo a rovina. Ma ora il troverò ben io, me gli paleserò: gli
dirò che son suo padre. Qual tripudio per lui aver trovato un padre!
come mi amerà! ed io amerò lui, compenserò lui dei torti fatti a
quella sciagurata; potrò ricomparire nel mondo tenendomi ai fianchi un
figliuolo, che sarà il mio decoro, il sostegno e la consolazione dei
miei vecchi giorni. Ma che? no! neppur questo mi sarà dato forse. Eccolo
involto nella malvagità del Pusterla. Perdio! avrà dunque il Pusterla
a presentarsi traverso a tutte le mie gioje, a tutte? essere causa sempre
dei miei tormenti? Maledizione sul capo di lui!»

E imperversava di nuovo: poi fermavasi a guardare la notte, ad ascoltar lo
scroscio dell'acqua, unica voce nel silenzio della campagna disabitata.
Quella campagna, quella notte un'altra gliene ricordava, un'altra in cui
aveva ricevuto dalla Margherita quell'affronto; un affronto che omai non si
poteva lavare se non col sangue. A tale rimembranza viepiù ribolliva il
suo furore; nell'istante che scopriva il proprio misfatto e la innocenza
dell'uccisa e del perseguitato, invece di pentimento, concepiva i più
atroci disegni di vendetta.

Pure tra quell'inferno gli tornava innanzi giocondo il pensiero del sapersi
padre! padre di un figlio che, ignorando l'antica sua colpa, l'avrebbe
amato come quello che gli porgeva il modo di collocarsi con onore nella
società; sostituendo così sempre il calcolo al sentimento, come uomo
avvezzo a non vedere negli uomini che mezzi od ostacoli al salire. E quel
figlio era lì vicino; e forse coll'alba poteva vederlo; forse tornando
nel casolare vel troverebbe. Appena dunque la nuova luce gli lasciò
distinguere gli oggetti circostanti, s'avviò per rintracciare la strada.
Molto era corso quella notte, l'acquazzone aveva cancellato ogni sentiero,
ogni pedata per la selvaggia lama; pure il muggito del fiume si udiva,
dietro al quale dirigendosi, arrivò dopo lungo cammino, alle sue rive,
secondando le quali distinse finalmente la baracca de' mulinai. Vi si
accostò come uomo che va ad intender la sentenza di sua vita o di sua
morte, entrò, ed alla Nena, che stava accosciata al fuoco, e che tutta
si risentì al vederlo, chiese:--È tornato?

--Chi?» domandò ella.

--Chi! chi! Alpinolo.

--Signor no... ho gran paura... Dio nol voglia, ma qualche disgrazia deve
certo essergli accaduta. Un animo me lo fischia all'orecchio. Povero
giovane!»

E fra il così dire, dava pure qualche sguardo sospettoso e di sottecchi
a quell'ignoto, ripensando in che gran bestia l'avea veduto la sera
antecedente. Egli fece sellare il cavallo, e se n'andò, lasciando detto
che, se mai Alpinolo capitasse, ad ogni patto il ritenessero finchè egli
tornasse, importandogli come la vita di parlargli. Quel giorno, il domani,
e i seguenti vagò alla ventura, secondo che il capriccio, il caso, il
cavallo, qualche idea, qualche superstizione lo portassero: fermavasi in un
paese senza un perchè, camminava, tornava indietro, finchè ricapitava
pur sempre al mulino. Quivi il suo giungere turbava la vita ingenuamente
spensierata di quella buona gente, che ricordandosi quelle furie, avrebbero
visto meno male il traboccare del Po.--Fosse almeno la febbre costui
(talvolta diceva la Nena) che con una messa a san Sigismondo me ne
libererei». E qualche altra:--Fin Giuda a casa del diavolo trova riposo
la domenica: ma per costui non c'è festa che tenga».

Così colla testa ingombra di pregiudizj e col miglior cuore del mondo,
non sapeva perchè, ma non poteva tollerare quell'uomo:--E neppure il
nostro cagnuolo (soggiungeva) si è potuto mai assuefare a vederlo senza
guaire come se lo pelassero».

Ma poichè per gli importuni ci vuol meglio che augurj e imprecazioni,
Ramengo tornava sempre, assiduo come un creditore; la prima domanda che
faceva era sempre di Alpinolo se fosse comparso; la risposta era sempre il
medesimo no.



CAPITOLO XIV.

PISA


Perduta ormai la speranza di rivedere Alpinolo, certo che, dovunque fosse,
costui ne avrebbe fatte di tali da lasciarsi scoprire anche troppo. Ramengo
andava tra sè pensando ove rintracciario; giacchè il desiderio di
scoprire un figlio lo faceva disviare dalla pesta che fin la aveva
ansiosamente fiutata. In una delle sue corse alla ventura, mentre
costeggiava il Po, ascoltò di sotto un macchione uscire un fischio come
d'uomo che chiami: s'accosta: era un barchettajuolo, il quale sommessamente
gli chiese:--Vuol forse passare, signor cavaliere?

--Perchè cotesta domanda?

--Oh la si lasci servire. Conosco ai panni ch'ell'è un milanese. Se n'ho
passati queste settimane!»

Tali parole diedero la spinta all'irresoluta volontà di Ramengo, il
quale risposto un sì piuttosto agl'interni suoi ragionamenti che
all'inchiesta del barcaruolo, calossi, fece allogare il cavallo nel
barchetto: poi mentre il rematore faceva forza vogando e tagliando
obbliquamente il filone del fiume, il ribaldo, intento a scalzare, gli
domandava dei passeggieri, degli abiti loro, dei discorsi, del dove si
dirigessero: poi l'interrogò se fra quelli aveva veduto un bel fante
così e così, dipingendo Alpinolo.

--Eh eh! (rispondeva il remigante) se dovessi averli a mente tutti. L'è
stato un via vai! Però... quel che mi descrive mi pare di averlo veduto
sì: un uomo così fra i trenta e i trentacinque...

--No, no: meno: neppur venti; capelli neri...

--Appunto: or mi raccapezzo: occhi grigi, bassotto, tarchiato...

--Anzi, occhi neri: alto tanto più di me; ben tagliato in tutte le
membra:--impossibile vederlo e non ricordarsene.

--Uh! tanti asini si somigliano».

Capì Ramengo che l'uomo era tanto gonzo, tanto occupato del mestier suo,
da non poterne succhiellar nulla: onde giunto all'altra riva, scarsamente
regalatolo, si mise alla ventura, perchè l'unica indicazione datagli dal
navalestro fu che quei profughi erano _andati di là_. Varcò ancora da
luogo a luogo, richiedendo da per tutto, e da per tutto udendosi rispondere
che Milanesi di fatto, se n'eran veduti molti, ma niuno sapeva ridire chi
fossero, dove si dirizzassero: al più conoscevasi che andavano fuori via
dalla patria per la tirannide di Luchino.

Ma altri tiranni egli vide dominare per le varie città di Romagna: a
Rimini i Malatesta, gli Ordelaffi a Forli, a Faenza Francesco di Manfredi,
i Polenta a Ravenna: Roma lamentavasi vedova, dopo che i papi, tramutandosi
in Avignone, l'avevano abbandonata alla tirannide di que' suoi baroni,
contro dei quali doveva pochi anni dopo, sollevare generosa ed impotente la
voce Cola Rienzi: Bologna riceveva vita e splendore da forse quindicimila
Italiani e Tedeschi, studianti sulla sua Università, la quale fino
d'allora procacciavale il titolo di _dotta_ che conservò sin qua, come
conservò nello stemma la parola LIBERTAS, quantunque già in quei
tempi si fosse ai papi assoggettata. Valicando poi l'Apennino, Ramengo si
calò nel bel paese toscano.

Quivi la libertà era con maggior gelosia custodita, quanto a peggiori
abusi vedeansi rompere i signorotti di Romagna e di Lombardia: tutte le
terre difendevano acremente le loro franchigie, ed abborrivano il governo
d'un solo. Ma come sperare che una fanciulla si conservi innocente fra
bordellieri e femmine da conio? Quei tristi vicini se ancora non osavano
attentare direttamente alla libertà dei Toscani, se ne preparavano la
via col romperli, e col fomentarvi i mali umori. Sotto pertanto a
quest'infame influenza, le nimicizie cittadine ivi peggio che altrove
imperversavano: e i nomi di Guelfi e Ghibellini, che negli altri paesi
avevano quasi perduto la significazione, mantenevano quivi una tenace
vitalità. Ghibelline erano Pisa ed Arezzo; guelfe Pistoja, Prato,
Volterra, Samminiato, Siena, Perugia e principalmente Firenze; talchè,
invece di maturare un concorde sentimento di nazionalità, dal quale
soltanto potevano sperare frutti per l'avvenire, combattevansi e
contrariavansi l'una l'altra; patria riguardavano l'angolo dove ciascuno
era nato: forestieri ed avversarj tutti quelli d'altra terra, tanto più
accaniti quanto più vicini; e nelle loro querele invocavano spesso o le
funeste armi o la più funesta mediazione dei comuni e più veri
nemici, gli stranieri.

Fra quelle lotte però sentivasi la vita: ciascuno capiva quel che
valesse di per sè, e quel che potrebbe d'accordo cogli altri; il
commercio, l'agricoltura, le arti erano salito in gran fiore; pittura,
scultura, architettura, offrivano modelli, che il difficile nostro secolo
non cessò di ammirare; e la lingua, venuta a mano di Dante Alighieri
morto venti anni prima, e del Petrarca e del Boccaccio, giovani ancora,
acquistava il primato che più non perderà, sopra l'altre d'Italia.

Come in quella Grecia, a cui per tanti lati somiglia la patria nostra, si
dimenticavano le mutue nimicizie per convenire ai giuochi in Olimpia,
così l'umore allegro dei Toscani li raccoglieva alle splendide feste,
onde solevano spesso ricrearsi le diverse città, o nelle solennità
dei loro santi patroni, o per memoria di antichi fatti, o per celebrazione
di nuovi. Pisa in quel tempo aveva appunto riportato vantaggio contro i
Moreschi, che dalle coste d'Africa infestavano il Mediterraneo e l'Italia;
onde, per solennizzare quel trionfo e la presa di alcune loro galee,
dovevasi finire il carnevale colla festa di Ponte. Nè d'altro che di
questa udiva Ramengo ragionare per tutta Toscana allorchè vi capitò:
chi poteva, preparavasi per andarvi; gli altri se ne struggevano di
desiderio.--Perchè non v'andrò anch'io?» disse Ramengo. «Fra
tale concorso di gente, nulla più probabile che incontrar quello ch'io
cerco».

E vi si drizzò.

Pisa in quel tempo era nel maggior suo fiore. Porto frequentissimo come
(fatta ragione ai tempi) oggi sono Amsterdam e Londra, nel 1283 aveva
armate fino centotrè galee per guerreggiare Genova, che gliene oppose
centosette: vedeva a' suoi mercati accorrere Mori d'Africa, Normanni del
Settentrione, Turchignoti di Levante; mandava i suoi legni verso le Indie
orientali a caricarsi di spezie, che poi diffondava per tutta Europa,
riportandone in cambio legnami, canapa, stoffe, denaro. Alle speculazioni
congiungendo l'amore per le arti belle, innato nella patria nostra, dalle
imbarbarite regioni dell'Asia i Pisani traevano marmi, colonne, sculture,
di cui abbellivano la patria: di Palestina recarono terra per riempiere il
loro cimitero, onde poter dormire in terra santa; attorno a quel cimitero,
i ristoratori delle arti belle fabbricavano, scolpivano, dipingevano,
più insignemente perchè l'originalità non era stata per anco
soffogata dall'imitazione, nè il raffinamento materiale aveva tolto la
mano alle idee ed al sentimento. Su quelle pareti era stata ridotta a
figure la _Divina Commedia_ di Dante, per leggere la quale avevano eretta
una cattedra nella nuova Università;--poesia, pittura, scuola nazionale
e religiosa: commercio, arti, devozione, sapere, libertà; begli elementi
della vita italiana d'allora.

Oggi Pisa è ben altro. Una borgata a mare, allora appena avvertita, le
tolse quel resto di commercio, che le mutate condizioni d'Europa lasciarono
alla Toscana; i cencinquantamila suoi abitanti sono ridotti ad un settimo
appena; la marmorea cattedrale, lo stupendo battistero, la mirabile Loggia
dei mercanti, gli altri edifizj di antica maestà fanno un melanconico
contrasto coll'erba crescente per le vie spopolate, col silenzio delle
ammutolite officine, coll'inoperoso vuoto del suo Lungarno; e la bizzarra
Torre sembra chinarsi in atto di compassione per deplorarne le perdute
grandezze.

--Potenzinterra! ei dee venire da in capo al mondo se mai non ha inteso
parlare della festa di Ponte»; diceva a Ramengo l'oste Acquevino, che,
venuto giovane da Pontedera senza un becco d'un quattrino, come egli
diceva, in sulla via di Pisa avea rizzato dapprima un frascato, ove dava
bere a' mulattieri, cavandone le spese e qualche zaccherello di vantaggio;
poi coi quattrini facendo quattrini, e spacciando gran nomi ai piccoli vini
che la sete faceva parere strabuoni, murò un'osterietta, che, se alcuno
gli diceva essere piccola, egli, senza certo aver mai letto di Socrate,
rispondeva,--Così potessi averla sempre piena di avventori». Posta
sur un dosserello, aveva dinanzi uno spazzo ove si giocava al pallamaglio,
e da cui vedevansi passar rasente quelli che si avviavano alla città, e
dominavasi la vasta pianura, che da un lato scende fino al mare, dall'altro
è chiusa da collinette biancheggianti nel verde degli olivi, e
tramezzata dall'Arno che poi a forma di semicerchio divide Pisa. Colà
Acquevino fatto maturo e grassotto, ma sempre fresco, snello, gran
chiacchierone, gran lodatore del suo paese, del bel cielo, della buon'aria,
della buona gente, quanto un poeta arcade, dava alloggio a qualche
forestiere, facendogli poi nello scotto pagare la colpa di non esser
toscano; somministrava bubbole e da bere a vetturieri e pedoni; e con
religiosa integrità serbava prosciutti del Casentino e fiaschetti
d'aleatico e di Montepulciano, che un professore dell'Università aveva
paragonati all'ambrosia e al nettare degli Dei; similitudine che Acquevino,
da venti anni ripeteva come nuova di zecca a tutti i signori, che (diceva
egli col tono onde una civettuola dice esser brutta per sentirsi raffermare
il contrario) venissero ad onorare quella sua catapecchia.--E (soggiungeva)
qui gente non ne manca mai. Perchè io non sono come que' miei
confratelli, che vogliono far commenti all'altrui starnuto. Libertà per
tutti; chi paga è buon amico».

Vedendo arrivare in sulla sera Ramengo solo e con magra valigia, gli aveva
dapprima fatto gli occhi grossi ed era stato con lui tant'alto; ma quando
lo intese comandare la camera migliore, i più squisiti bocconi, il
centellino più scelto, e gli balenarono all'occhio i fiorini d'oro
lampanti, onde aveva rigonfia la borsa, disse fra sè:--Costui vuol
riuscire meglio a pan che a farina»; e mutò cantare: non fu buon
garbo che non gli usasse, e mentre si dava fretta intorno alle pietanze e
ai forestieri, trovava qualche ritaglio di tempo per regalare due parole
all'ospite dalla buona borsa, e vantargli il suo paese e la sua
osteria.--Pisa (gli diceva) fior del mondo; senza far torto a nessuno, e
meno al suo paese, signor forestiere. E se non fosse stata Pisa, tutta
Toscana era a manco d'un pelo di venir turca, e non si berrebbe
vino.--Ch'io le ne mesca un altro bicchieretto?--Vogliono esser forse
trecent'anni, i Saracini avevano posto piede in Calabria: ma i Pisani,
nemici dei nemici di Dio, mandarono il fiore della nostra gioventù a
snidarli. Cosa pensano quei dannati? Con navi sottili e col diavolo che li
ajuta, nel fondo della prima notte di gennajo hanno faccia di entrare in
Arno, invadono il sobborgo, lesti e queti così che nessun popolano se
n'accorse, fuorchè ai colpi dei malnati e alla vampa degli incendj.
Allora tutti a fuggire senza guardarsi alle gambe, e senza pensare ad
avvertire la città perchè si mettesse in difesa. Una donna sola, oh
viva le donne toscane!--la sola Cinzica de' Sismondi, attraversa i
maledetti che già occupavano il ponte d'Arno, corre ad avvisare la
Signoria; e subito un dar delle campane, un sonar di trombe, un leva leva,
un presto presto, un corri corri, tutti, a vedere e non vedere, pigliano le
armi; fanno fronte ai Saracini che, rincacciati, n'hanno di grazia a fare
salva chi può, si tolgono di testa il baco di mai più tentare la
gente più valorosa di cristianità. In memoria di quel trionfo sul
ponte stesso...»

Qui Acquevino, richiesto da altri avventori, dovette interrompere la
narrazione di quel fatto, successo intorno al mille, e in memoria del quale
il borgo rifabbricato di là d'Arno fu nominato di Cinzica, ed istituita
la festa del Ponte. Noi meno, pressati dagli avventori che non fosse
Acquevino, procureremo supplirgli alla meglio nel divisarne il modo.

La smania di fazioni, di allegrie, di battaglie, di devozioni tutt'insieme,
che Pisa, colonia greca, aveva dalla Grecia portato, suggerì quel genere
di festa; lo tenne vivo il desiderio politico di alimentare gli spiriti
guerreschi, tanto necessarj per mantenere la pace e tutelare i diritti.
Imperciocchè in grazia di quella, i più valenti e animosi fra i
giovani pisani si addestravano continuamente nelle armi e nei movimenti del
corpo; e in tal guisa formavansi prodi e disciplinati sotto capitani, che,
come più esperti, erano a ciò trascelti per voce di popolo, e che,
dopo le finte lotte, poteano guidare anche alla vera.

La città e il territorio si dividevano in due fazioni, chiamate dei
Bianchi e di Borgo, ovvero di Sant'Antonio e di Santa Maria, da due chiese
una di qua, l'altra di là del fiume. Nappe di color diverso, per lo
più intrecciate e regalate dalle belle, distinguevano i parteggianti; e
per quindici giorni innanzi alla festa non era quasi nient'altro che
lottare e tambussarsi, ora in pochi, ora in più, con guasto anche di
molte vite. Giunto poi il dì solenne, i combattenti delle due fazioni,
protetti il capo di celate, con alla mano noderosi randelli che chiamavano
i targoni, schieravansi dai due capi del ponte di mezzo, formando una
fronte di forse quaranta. Non appena alzata la sbarra, si movevano
all'incontro, e venuti al colmo, allora era il menar delle mani, il
cozzare, il picchiarsi; e la baja diventava pur troppo da vero. I primi,
coi targoni appuntati al petto, pigiavano, spunzavano contro gli avversarj;
altri menavano, facendosi piazza; alcuni carpone si ficcavano tra le gambe
dei combattenti, o per arrovesciarli, o per alzarli di peso e buttarli in
Arno. Sulle spallette intanto venivano i capitani, col battacchio
anch'essi, dando un poco di regola a quel tumulto, rincorando, zombando, ma
coll'occhio attento a schivare gli avversarj, che, se vedevano il bello,
con uno spintone li sbalzavano dal ponte. Sotto a quei colpi, tra quella
furia, guaj a chi stramazzasse ai piedi della calca! Il men male era per
chi dai parapetti traboccassero in Arno, ove stavano pronte le barchette a
raccorli. Del resto si ferivano, si abbattevano, si disarmavano avversarj,
si facevano prigionieri; nè per tre quarti d'ora restava il calcare, il
ferire, l'accopparsi, come diceva Acquevino, con mirabile tripudio degli
spettatori. Dalle finestre, dai terrazzi, dalle bertesche, d'in su i tetti,
una calca di gente attendeva, smaniando di gioja, di timore, di applausi,
d'incoraggiamenti, di fischi, secondo che questa o quella parte piegava o
prevaleva; secondo che era in fortuna o in disdetta l'amico, il parente,
l'amante; secondo che Sant'Antonio o Santa Maria più acquistavano del
combattuto ponte; e sì gran fervore ponevano nel matto parteggiare, che
madri, sorelle, amiche, all'udirsi annunziare le ferite e fino la morte dei
loro cari, domandavano qual delle due parti avesse avuto il meglio, e se
l'annunzio rispondeva ai loro desiderj (Spartane fuor di tempo) obliavano i
più teneri e sacri affetti per prorompere in festose acclamazioni.

Spirato il termine concesso a quel furore, sonavasi a raccolta, calavansi
di nuovo le sbarre, e la parte che più avea preso dell'erta, veniva
gridata vincitrice. Qui le baldorie, il trionfo, e i più segnalati
campioni, incoronati dalla Signoria, abbracciati, baciati da chiunque avea
la fortuna d'esserne, in quel giorno, amico; e scornacchiare i vinti, e
cantare inni, come fossero stati distrutti i nemici della patria.

Poichè le usanze sopravvivono al loro motivo, i Pisani continuarono il
sanguinoso spasso anche quando il valore non solo era divenuto inutile, ma
si sarebbe reputato una colpa; e finalmente Pietro Leopoldo di Lorena,
trovandolo troppo per un giuoco, troppo poco per una guerra, lo proibì.

--Non ha mai visto, signor forestiero, in vita sua e per tutto il mondo, un
tal concorso di cristiani?» domandava l'oste a Ramengo, il quale, la
mattina dello spettacolo, stava sopra un terrazzino, ombreggiato da un
leccio, osservando Pisa e la folla che vi traeva. E girando in tondo la
mano distesa, seguitava:--Le par poco? Che sciali! Che bellezza! che brio!
Un toscano si discernerebbe anche di mezzo alla moltitudine di Val di
Giosafatte. Quelli che vede in lucco maestoso sono i Fiorentini; ricchi
sdondolati, sa, speculeranno anche sulla festa. Quest'altri, tutti in
fronzoli e in fiocchi, sono Pistojesi; quelli là, da Siena, la gente
più leale e sincera delle tre parti del mondo. Il desiderio di vedere le
nostre feste gli ha fatti dimenticare delle vecchie emulazioni; e a Pisa
tutti saranno i ben accolti, e nemmeno si temerà che ci portino la
peste. Oh veda la bella cavalcata! Sono signori della Versilia e della
Lunigiana, terribili nei loro castelli non meno che sul mare; lo sanno i
viandanti.--Buon divertimento a lor signori! Posso servirli di
nulla?--Questi sono di que' ricchi cogli arnioni, e vengono dalla val di
Nievole, fertile e ridente, ch'è il paradiso di Toscana, come Toscana
è il paradiso del mondo. Snidarono essi gli antichi baroni, e si
piantarono nei loro palazzotti per coltivar le vigne e gli uliveti.
Osservi, belle e robuste figure. E tutti hanno in groppa fanciulle e donne,
che, non v'è rimedio, le eguali non vede il sole, per quanto giri.--Viva
il bel sole, vivano le belle donne di Toscana».

Così, ma a spizzico e scappa scappa, raccontava l'ostiere a Ramengo,
intanto che dava ricapito agli altri, che cominciavano bene la mattinata
con un fiaschetto; e quel vivo spettacolo pareva ammansare il truce animo
di Ramengo, che, nella contentezza di sapersi padre, nella speranza di pur
trovare suo figlio, di riconciliarsi con esso, pareva entrare in una vita
nuova, e talora sentivasi preso da un tal accesso di benevolenza, che
proponeva lasciare la micidiale e infame sua scelleraggine, e cercare con
belle azioni la stima dei buoni, la tranquillità dell'animo, la
serenità che attorno a sè vedeva regnare nella turba festiva.

Alla quale intento, mirava dai poggetti, dagli scenderelli, dai tragetti,
sbucare i villani, a larghi cappelli di treccia bianchi, con nastri rossi e
neri; e quadriglie di contadinotte che, cammin facendo, trecciavano la
paglia.--Esse scendono dai colli di Signa (ripigliava Acquevino). Questi
sono i robusti montanari di Lucca. Cotesti pallidi e scialbi vengono dai
contorni del lago di Bientina»; ed ai vivaci colori del loro vestito
faceano contrasto i bigi e neri e bianchi delle tonache di tanti frati, e
il marrone dei mendicanti, che accattavano pei poveri e per Dio.

Su per l'Arno intanto vedeva un mondo di bacchette guizzare leggiere fra
mezzo ai grossi legni ancorati. Chi capitò a Pisa per la festa della
Luminara, che si rinnova nel giugno d'ogni terzo anno, ed ha goduto, per
non più dimenticarlo, l'incantevole prospetto di quella città, con
tutti gli edifizj, le cupole e i campanili accesi a lumicini e fiammelle, e
una quantità di navicelle illuminate vogare l'una a prova coll'altra,
potrà immaginare il tripudio che, in tempi tanto più prosperi ad
essa, vi si doveva fare alla festa di Ponte. Fra tutta quella moltitudine
era una curiosa allegria; eccitata viepiù dal felice rinnovarsi della
stagione, ed alimentata da capricciosi scherzi, da bizzarri motteggi, che
si facevano, che si slanciavano gli uni agli altri, nella dolcissima e
vivace loro favella. Un coro di giovani, dando fiato alle zampogne,
accompagnava gli accordi di altri che cantavano la nota ballata:

    Vaghe la montanine pastorelle,
    Donde venite sì leggiadre e belle?

E com'ebbero finito l'aria, una forosetta, che, per grandi occhi e per
guancie rubiconde come una melarosa, si discerneva dalle compagne,
rispondeva con voce più robusta che delicata, mentre appunto passava
sotto al balcone ove stava Ramengo:

    E s'io son bella, io son bella per mene,
    Nè mi curo d'aver de' vagheggini;
    E non mi curo niun mi voglia bene,
    Nè manco vo' ch'altri mi facci inchini.

--Guarda che bella tosa», esclamò un giovane, sbucando di dietro la
taverna, e spingendosi audacemente verso la fanciulla. Al suono della
parola e dell'accento forestiero si voltò Ramengo, e riconobbe un
crocchio di Lombardi. Quando ogni paese portava diversissime foggie di
vestimenti, bastava un'occhiata per discernere gente da gente; e i Lombardi
d'allora, dico i più ricchi e da festa, usavano nobili panni, assettati
alla persona, foderati di seta, o cappe tedesche foderate di vaj; cappucci
alle gote con fregi d'oro intorno alle spalle; ai piedi calze e calzeroni;
alla cintura larghe correggie con fibbie d'argento, da distinguerli al
primo sguardo.

Vibrò Ramengo un'occhiata fra loro; fissò con sguardo scrutatore quei
visi, ed accertatosi che fra quelli non v'era chi lo conoscesse per veduta,
o gli potesse interrompere i disegni suoi, scese, e col parlare si diede a
conoscere per loro compatrioto. Tosto gli furono essi intorno con
quell'amorevole premura, onde si suol salutare un concittadino su terra
lontana, dove basta la comunanza di patria per far riguardare siccome amico
anche uno sconosciuto.

In quella libera città avevano fatto capo i molti forusciti da ciascuno
dei varj paesi lombardi; e quivi, pascendosi delle speranze, dolce e
indigesto nutrimento dei profughi, preparavano maneggi ed armi contro al
tiranno della patria loro. Ma il tiranno della patria loro aveva il
vantaggio, che ha sempre chi già trovasi in possesso d'una cosa, sovra
colui che ne lo vuol privare; e mentre essi menavan trattati a danno di
lui, altri più vivi ne raggirava sott'acqua, Luchino; quelli andarono
sventati, questi riuscirono al loro intento.

Ma non anticipiamo gli eventi, e ci basti per ora mostrare come quella
festa, al pari di tutte le altre antiche e moderne, nostrali e forestiere,
potesse rassomigliare al color di rosa, che tinge le guancie d'alcuni
consumati da mal sottile: sul volto non appare che la sanità, ma dentro
cresce lo spasimo e il marasmo; oggi sorridono, domani morranno.

Ramengo, sicuro tra quei sicuri, salutava, rispondeva, abbracciava,
stringea la mano a questo o a quello, e sebbene potesse sperare che il nome
suo fosse tra i forusciti riguardato come quel d'un amico, d'un compagno di
sventura, gli parve però prudenza il dissimularlo, e si diede per un tal
Lanterio da Bescapè, nato all'ombra del Duomo di Milano, abitante alle
Cinque Vie, e come loro fuggiasco dalla patria,--perchè (diceva) chi
può reggere regga in una terra, a quel modo oppressa da così
scellerato tiranno. Tenga egli seco i suoi mastini, tenga il suo Sfolcada
Melik; non chi sentesi nelle vene stilla di sangue italiano».

Pensate se quelle parole andassero a' versi de' forusciti, e quasi il
parlare avventato fosse infallibile contrassegno di spiriti animosi e
sinceri, già, senza un sospetto al mondo, computavano il nuovo arrivato
per un acquisto; già prendevano occasione di narrargli ciascuno i torti
fatti da Luchino alla loro patria, a Cremona, Pavia, Lodi, Como, Bergamo,
ed i particolari loro disgusti, o domandarlo de' suoi, che immaginate
s'egli sapeva impiantare e colorire al vero. Ognuno poi si affrettava a
chiedergli di questo o di quello fra i parenti, fra gli amici che aveva
lasciato a Milano.

--A che partito sono gli Aliprandi?

--Morti per fame.

--E Bronzino Caimo, quel gran moderatone, sta sempre col tiranno?

--Sta col muso alla ferrata per aver osato difendere la verità, se pure
non gli è già capitato di peggio.

--E Matteo Visconte?

--Confinato a Morano di Monferrato.

--E Barnabò?

--In Corte dello Scaligero. E dicono farà un parentorio con quella
signora regina.

--E Galeazzino? sempre bello? sempre galante? sempre adoratore di madonna
Isabella?

--Oibò! Il signor Luchino dorme soltanto finchè vuole. Il bel
Galeazzo è vagabondo per povertà, e per far perder allo zio la sua
traccia. Dicono però sia in Fiandra»,

Così rispondeva Ramengo alle varie domande, lieto di mostrarsi informato
per guadagnare maggior fede, e di narrare quel che sapeva onde ricavarne
quel che cercava. Perocchè, come il marinaro nel riveder le onde quiete,
come il ladro al presentarglisi un bel tiro, come il beone all'entrar in
una bettola, dimenticano ogni proposito antecedente, così Ramengo
dissipò quei momentanei impulsi al bene, tosto che si vide innanzi
l'occasione di poter nuocere; volle mentire sulle prime, affine di
scoprire, se potesse, ove trovare Alpinolo, quindi, al solito, un peccato
il trasse all'altro, all'ebra necessità del delitto, a far il male per
il male istesso.

--Ma dunque (gli domandavano quegli infervorati), che vivere è oggi a
Milano?

--Il vivere (rispondeva Ramengo) dell'inferno e di ogni paese in
servitù. Luchino ogni giorno più imbaldisce, perchè vede che le
alre città, spaurite, vengono a lui, come il bove che volontario andasse
al macello. Dieci n'ebbe già Azone in obbedienza, non è vero? Ebbene,
costui già v'aggiunse Bobbio, Asti, Parma, Crema, Tortona, Novara,
Alessandria....

--Vili! così lor pute la libertà? così vogliono farsi puntello al
trono di uno scellerato?» l'interrompeva Aurigino Muralto da Locarno. Ed
Acquevino, che mesceva loro del più generoso, ripetendo,--Guardino
com'e' brilla, spruzza, salticchia! Resusciterebbe un morto», ascoltando
quegl'infervorati loro parlari, quel prendersela così d'impegno,
dimenava il capo ed esclamava:--Poveri paesi! Viva la libertà toscana!
Per dio bacone, viva il giardino d'Italia!... Ma trovato quest'aria, questo
vino, questa pace, cosa importa a loro chi sia e quale il padrone? Non
basta ciò alla vita beata?» E andandosene canterellava:--Nè per
tempo nè per signoria non ti dar malinconia».

Prediche al deserto. Ramengo, dopo vuotata una tazza con quei
compatrioti, proseguiva:--Giudichereste però che egli cresca per
questo in potenza? Tutt'al contrario: ingelosi le potenze vicine, e al
primo vento le barbe diverranno rami. I signori Gonzaga lo guatano da
Mantova in cagnesco; il conte di Savoja già levossi i guanti, e
prepara delle buone armi; il marchese di Monferrato non vede quell'ora
di romperla seco. Ma chi la romperà in modo da non rappiccarla
più, ve ne accerto, sarà Mastino della Scala. Nel paese poi non
vi dico altro. Sapete che gran ghibellino si è mostrato Luchino
finchè durò in condizione privata. Chi non avrebbe creduto che
dovesse ora in ogni cosa dar mano alla parte migliore? sostener i
nobili contro la ciurmaglia? Ma no, li tratta nè più nè meno
di quel che faccia coi Guelfi più marci nell'anima. Questi però
non gli credono, e lo tengono un impostore; gli altri se gli
rovesciano ogni di più; cosicchè gli è proprio il colosso di
Nabucco dai piedi di creta.

--Ma il sassolino che basti ad atterrarlo?» soggiungeva Caccino Ponzone
cremonese.

--Eh! il sassolino ci saria ben egli (rispondeva quel falso) e se... Ma
lingua taci...» e battevasi sulla bocca.

Era il miglior modo di metterli in savore, onde, stringendosegli viepiù
intorno e punzecchiandolo,--Che? dite su; c'è qualche nuvolo in aria?
c'è speranze? Abbiamo ben compreso che voi in cose di Stato pescate al
fondo. Perchè far misteri con noi? la causa dei Milanesi non è quella
pure di noi tutti? e siam qui per dare di spalla quanto valiamo. Non si
aspetta che quel momento del Signore, il _dies irae_. Ma chi dirigerebbe?

--Se Franciscolo Pusterla...» Proferito questo nome, Ramengo si recava
sulla sua, con una di quelle pause a tempo, che sono il giuoco dei
maliziosi, e girava uno sguardo aggressivo su tutti quegli impavidi visi,
come per succhiellarne il pensiero più arcano. Ma non facea bisogno di
tanto perchè l'imprudenza andava in essi di pari coll'ardor giovanile,
tanto che il tristo n'ebbe miglior mercato che non isperava.--E che? (gli
domandavano coloro) siete anche voi di quelli del Pusterla?

--Come! se sono dei suoi?... (ripigliava Ramengo) Chi aveva il mestolo di
tutta quella faccenda a Milano? e perchè m'ho avuto di grazia ad uscirne
colla pelle? Ora qui (e li mostrava) ho dispacci da recare a lui... ma,
acqua in bocca, che alcuno non mi ascoltasse. La prudenza non è mai
troppa. Coloro hanno bracconi da tutte le bande. Io ho lettere per lui dal
signor Mastino della Scala...»

Ramengo punzava, ed emetteva queste parole a scosse; balestrando gli occhi
in faccia a tutti: essi credevano per cautela, in fatto era per ispiare
l'impressione che su loro faceva, e se alcuno potesse o volesse dargli
notizie o modo d'averne. E notò alcuni che dimenavano il capo, come
volessero esprimere,--Non ne faremo niente»; sicchè continuò:--Ma!
quando si dice gli uomini!... Chi lo avrebbe creduto? Egli, che poteva, sol
che volesse, divenire capo e salvatore della patria, ora dorme... s'è
rimpiccinito... scappa come un fiacco paltone...

--E' bada a fare _mea culpa_ ai piedi di un fornaio...» uscì a dire
Aurigino Muralto.

Fornajo di mestiere, quindi _Fournier_ di soprannome era stato il padre di
Benedetto XII papa, allora sedente in Avignone. L'indicarlo a quella guisa,
anzichè spiattellarne il nome e il luogo, era stato una di quelle povere
transazioni che fanno colla prudenza coloro i quali sanno alle sue leggi
rassegnarsi solo fino ad un certo punto.

Aurigino non si sarà creduto d'aver fatto il minimo, male, non n'avrà
concepito il minimo rimorso, eppure avea messo lo spione sulla traccia, che
più non perderebbe. Ramengo toccava appena il suolo colle piante per
l'esultanza di questa scoperta, ma dissimulando e facendosene appieno
informato,--Di certo (proseguiva) e' s'è messo ad Avignone come un
chierico, il quale aspiri al cappel verde o al rosso, o come un basso
delinquente, che cerca sicurezza celando lo stocco micidiale fra le tonache
e le cocolle. Ma lo ridesteremo noi da codesto pigro sonno... oh, lo
ridesteremo!

--E qui (soggiungeva il Ponzone) troverete amici suoi, da potervi dare
indirizzo e ajuto.

--Vi saranno, m'immagino, suo fratello Zurione, Maffino da Besozzo, quel
della Pietrasanta...» domandava Ramengo. E gli rispondevano:--Sì, ma
chi ne mostra più amore e devozione è lo scudiere Alpinolo.

--Alpinolo?...» ripetè colui, sentendosi dai capelli alle piante
rimescolare.--Alpinolo? dov'è? ch'io lo veda tosto, ho estrema
necessità di parlargli per cosa che molto dappresso lo tocca. Dov'è?
dov'è?

--Che furia!» saltava su quel mezzo prudente da Locarno.--Finiamo di
bere, e poi venite con noi. Laggiù ve li faremo trovar tutti. Che festa
per loro a rivedervi!...

--Ma io voglio parlare con Alpinolo dapprima... con lui testa testa. Le
cose so come vanno trattate»; e mentre egli era dominato dall'ansietà
di trovare un figlio, e dalla speranza che, scoprendosegli padre, ne
avrebbe e perdono ed amore, essi continuavano a bere, a discorrere, a
ragionare, massimamente di Alpinolo.

--È un demonio colui quando si tratta di mettersi ad un'avventura.

--E per un proponimento non ha il pari. Ti ricordi, Ponzone, i primi
giorni? Noi lo credevamo muto: nè parlava nè faceva segno. Che è,
che non è, aveva fatto proposito di non proferire sillaba per sei mesi.

--E così giovane! (soggiungeva il Muralto.) Che gran soldato vuol
riuscire!

--Ed ai nostri giorni (replicava il Lambertengo) se n'è visto dei
soldati, con nient'altro che la propria spada, fare slanci, e toccare i
primi gradi. Costui lo vedo già a un gran posto.

--Di chi dicono? (s'inframmetteva Acquevino) Di quel garzonotto con quegli
occhi senza secondi? E come se lo conosco! Caspita! gli è di buon gusto
e vien a bere qui tal volta un par di gotti, e non mesce a miseria; e dice
che vini come i toscani, è inutile, non se ne trovano al mondo nè in
maremma. L'altro dì era con alcuni; e dagliene un sorso, dagliene un
secondo, erano brilli; e venuti a parole, uno gli disse:--Taci là, tu
che non hai nemmeno padre.--Non avea finito, che Alpinolo, senza dire,
guarda che ti do, stampandogli le cinque... volli dire le quattro dita
della sua mano sulla guancia, gli buttò tre denti in gola».

Che suono facessero ad un padre, ad un tal padre, siffatte parole,
immaginatelo. Sapeva d'esser vicino al figlio, e quel figlio lo sentiva
lodato: lodato per quell'unica virtù ch'egli valutava: l'unica che, in
tempi di quella sorta, potesse aprirgli facile varco alla glòria e alla
potenza. Che lusinghe per la vanità di Ramengo! come struggevasi di
vederlo, di abbracciarlo! Come si componeva in bocca le parole per calmare
la prima furia! Dimenticava perfino di avere scoperto il nascondiglio del
Pusterla, dimenticava Luchino ed i premj sperati e le giurate vendette.
Quindi, col cuore palpitante, al modo che gli aveva palpitato nelle notti
che stette appostando il drudo della Rosalia, calossi verso Pisa in mezzo a
quei buoni Lombardi, i quali, intrecciati braccia con braccia, intonavano
le canzoni della patria loro,--canzoni che per l'esule finiscono sempre in
un sospiro!



CAPITOLO XV.

PADRE E FIGLIO.


Entrando nella città, ritrovarono tesi da parete a parete drappelloni
bianchi e vermigli, e filze di verzura secondo la stagione, che ivi
chiamano _le fiorite_; dai balconi e sui muri sfoggiavansi ricchi tappeti e
arazzi portati di Levante, e stoffe di seta, che alle Corti dei re parevano
ancora un lusso esorbitante, e qui abbondavano in mano di quegli attivi
negoziatori. In alcun luogo zampillavano fontane di vino, tra un'ingorda
ciurmaglia intenta a riceverlo nelle aperte bocche, od attingerne col cavo
della mano; in altri apparivano credenze e buffetti carichi d'ogni
rarità venute dal Mar Nero, dal Golfo Arabico, dal Baltico, e serbate in
memoria delle ardite e felici navigazioni. Brigate di giovani pisani, con a
capo i loro più valenti e denarosi signori, tutti divisati ad un modo,
con vesti di colori appariscenti, e briose cavalcature, movevano incontro
ai vegnenti e salutavano i nostri Lombardi, i quali rispondevano:--Addio,
Benedetto Lanfranchi!--Bel puledro, Nieri!--Passerino si discerne sempre
alle più ricche divise!--Viva Banduccio Buonconti!--e stavano ad
osservarli, mentre, dietro a gonfaloni con varie imprese e con motti
bizzarri e ingegnosi, a suon di nacchere, di tamburi, di zuffoletti, si
tiravano appresso la turba. Meno pompose venivano poi, dirigendosi al
tempio od al ponte, le arti e le maestranze, guidate dai loro abati, tutti
vestiti a una taglia, e tutti con un tal abbandono d'allegria, che Ramengo
non potè di meno di riflettere quanto a Luchino avrebbe dato gusto
l'avere un popolo così festivo, e quindi così facile a governare e
raggirare.

Udiva intanto un gridio, un trescamento di merciajuoli, che, colla bottega
ad armacollo, gridavano, a' bei vezzi, a' bei nastri, agli abitini, alle
crocette; di montanari che, al suono di ribecchini e tamburelli, facevano
ballare i cagnuoli e le marmotte; di Lucchesi che esibivano santini di
gesso, santa Zita, loro patrona, e santa Verdiana da Firenze, che dava a
pascere ai serpenti. Altrove si faceva cerchio attorno al cerretano dai
rimedj e dai segreti, od al cantastorie il quale mostrava sur un
cartellone, il disastroso allagamento di Firenze dell'anno 33,--quando,
(diceva esso) quest'Arno che vedete tanto quieto, straripò sulla
città, portando via bestiame, case, palagi e migliaja di persone, che
pareva il finimondo. Perchè non s'è portata via del tutto quella
città, che Pisa ne sarebbe più grande e più gloriosa?»

Così il cantafavole; e il popolaccio, con villano patriottismo, ne
secondava l'imprecazione, gridando:--Mora Firenze! e viva Pisa!» nè
volevasi ricordare che il ciurmadore istesso, poco prima o poco dopo,
avrebbe in Firenze augurato col rabbioso Ghibellino che la Capraja e la
Gorgona chiudessero la foce dell'Arno, sicchè in Pisa annegasse ogni
persona.

La genìa dei cerretani, e col nome proprio e con altri più onorevoli,
non s'è ancora estirpata, come ognun vede; bensì è finita
un'altra, che avea gran corso allora. Persone non d'ingegno, ma di memoria
e di fronte vetriata, ricorrevano a quei che sapessero far versi; e parte a
prezzo, parte per misericordia, parte per importunità, ne impetravano
alcune composizioni, italiane o provenzali, che poi, con grande enfasi e
gesti smaniosi, recitavano su per le fiere e nelle sale. Il Petrarca [23]
ci ha lasciato memoria di molti fra costoro, che gli vennero innanzi poveri
in canna, od ottenuti da lui alcuni sonetti, li rivide, pochi anni dopo,
ben in arnese, ben in carne e ben al soldo, mercè le largizioni degli
ammiratori.

Il poeta era dunque miglior mestiere che non oggidì, quando di simil
arte più non avanzò se non qualche improvvisatore, da assettar
piuttosto nella riga di quelli descritti innanzi.

Ramengo, infatti, ne intese di molti, i quali, in abiti bizzarri,
accompagnandosi colla ghironda e la mandòla, gridavano stanze e sonetti
appunto del Petrarca, di Cin da Pistoja, di Guido Cavalcanti, o leggende in
cui si ricordavano le antiche vittorie dei Pisani sopra i Saracini di
Sardegna, le imprese loro alle Crociate, il valore della Cinzica de'
Sismondi, le cortesi prodezze di Uguccione della Fagiuola; senza
dimenticare il conte Ugolino, sulla cui fine versavan tanto obbrobrio,
quanta dispettosa compassione v'avea profuso l'Alighieri.

Fra il latrato, la gioja, la curiosità del popolo, che non si ricordava
come la peste già irrompesse da ogni banda nel paese; che non si
sovveniva di aver avuto fame jeri, e che l'avrebbe domani ancora,
spingevansi i nostri Lombardi verso i varj posti dove sperassero scontrare
Alpinolo, e li seguiva Ramengo, al quale il cappuccio a gote dava il modo
di celarsi, quando mai imbattesse persona che gli convenisse evitare.
L'ansietà che doveva stringergli il cuore, non tolse ch'e' restasse
compreso di maraviglia nel veder quella stupenda piazza, ove nel mezzo
sorge la maestosa cattedrale; davanti, il battistero rotondo di San
Giovanni, e la torre inclinata, tutta a colonne; da lato, il Camposanto:
storia compita e parlante delle arti belle in Italia. Byron, anche ai
nostri giorni, chiamava quella piazza un sogno orientale; qual doveva
apparire colla mobile decorazione di una folla sterminata e vivace?

Fra la quale videro guizzare un Milanese, a cui, dando la voce, il Muralto
addomandò:--Ehi, Ottorino Borro, perdio tanta premura? Sapresti dirci
ove stia Alpinolo?

--Sta in prima fila per combattere al Ponte; là sono tutti i nostri
camerata. Corro a raggiungerli»; e si perdette tra la calca.

--Ma come gli entrò il ticchio (esclamava Ramengo) di mettersi a questo
inutile sbaraglio? Combattere in frotta colle pertiche come un villano?

--Andate a dirlo a lui (gli rispondevano). È così fatto. Quando sia
da porsi in prova il coraggio, il volerlo distogliere è un buttare il
fiato».

Mentre queste parole erano fra di essi, la campana del Comune
toccò.--È il segno! è il segno!» gridarono i nostri, e accorsero,
ed a spintoni si fecero strada. Ma di arrivare fin presso al
combattimento non era speranza; onde, ficcatisi sotto un portico,
sostenuto da una colonna di porfido egiziano e da una greca scanalata,
un po' colle buone e un po' colle brusche salirono sovra certe are,
qui portate dall'Attica, e poterono dominare quella folla di teste,
parte nude, parte coperte colle più varie foggie del mondo, dal
vistoso turbante del Levantino al positivo berretto del Veneziano;
dalle ondeggianti piume del cavaliere provenzale, all'abborrita
reticella gialla dei poveri Ebrei; dal tòcco di velluto ad oro dei
baroni napoletani, al cappuccio arrovesciato dei Milanesi, che si
erano posti fra i primi per testimonj alle prodezze del loro compagno.

Allora, a suon di tromba, comparvero il gonfaloniere e gli anziani sotto un
pergolo adornato a guisa di un padiglione turco; la turba spettatrice
più sempre si accalcava, mentre i disposti al combattere fremevano
impazienti attorno alle sbarre dei due capi del Ponte, come freme un
torrente attorno alla chiusa. Poi, quando ad un nuovo segnale caddero le
sbarre, fra uno schiamazzo universale, tutti con tutti andarono ad
affrontarsi, e per quanto Ramengo guardasse, non gli apparve nella prima
mezz'ora che una procellosa mescolanza di gente che assaliva, di gente che
respingeva, che si raffagotava; noderosi randelli a furia picchiavano su
quelle povere teste, su quelle povere spalle; e gli urli di chi batteva,
gli strilli di chi era battuto, mescolavansi alle acclamazioni di:--Viva
Santa Maria! viva Sant'Antonio!»

Cresceva furore ed interesse alla scaramuccia l'esservisi, come soleva,
interessate le fazioni e i politici puntigli; e le due parti dei Raspanti e
dei Bergolini, che nei consigli e nelle frequenti baruffe per le strade
dividevano Pisa, qui avevano tolto la prima a favorire Santa Maria, l'altra
Sant'Antonio; onde il grido di guerra, le bandiere, gli applausi, gli
insulti infervoravano la rabbia, il baccano, fieri quanto si possa
immaginare.

Poi a poco a poco divenuta meno stivata la mischia pei morti, i feriti,
gl'intronati, gli stanchi, già si poteva discernere da qual parte la
fortuna piegasse; intanto si vedevan ora deporre dalle barche, intirizziti
e guazzosi, quelli raccolti dal fiume, ora i mal capitati strascinarsi da
sè, od esser portati a braccia fuori della zuffa, premendosi le mani
sulle membra fiaccate, sulle tempia sanguinanti, protestando al cielo e
alla terra di non avventurarsi mai più in quegli stolti badalucchi;--ma
quelli che guarivano, credete a me che vi saranno tornati.

Però, dinanzi a quelli della parte di Santa Maria e dei Raspanti, si
vide ben tosto sopra gli altri distinguersi uno per disperata robustezza di
colpi, pel cerchio che largamente si faceva, per la rovina che menavasi
davanti. Ramengo, alle fattezze e al grido dei compatriotti, non tardò a
riconoscere Alpinolo, nè più da esso dispiccò gli occhi, ora
inquieto del vederlo in pericolo, ora pieno di compiacenza e meraviglia a
tanto vigore, e mostrando agli altri Lombardi quei colpi, che veramente
parevano più che da uomo.

I Bergolini e Sant'Antonio non poterono a lungo stare alla prova di quella
furia; e per sottrarre le teste voltarono il dosso. Allora quelli che, come
dietro a un torrione, s'erano tenuti a riparo alle spalle di Alpinolo, con
un coraggio da non dire si precipitarono addosso ai fuggenti, per aver la
gloria, men bella forse, ma più sicura, di batterne i terghi, urlando a
tutta gola:--Viva Santa Maria!--Viva i Raspanti!--Vergogna ai
Bergolini!--Viva i Gambacurti!--Viva gli Aliati!--Abbasso Dino della
Rôcca», questi eran i nomi dei capi delle due fazioni. Alpinolo
cessò le picchiate quando cessò la resistenza, ed appoggiatosi al
riposato targone, osservava, immoto come uno scoglio fra le ondate, il
facile coraggio della vittoria.

Ad un cenno del gonfaloniere, fu di nuovo abbassata la sbarra; trombe e
chiarine diedero dentro a giubilo: Santa Maria scampanava a distesa, e i
Milanesi, fattosi largo, accostaronsi ad Alpinolo, e tripudianti
abbracciandolo, se lo tolsero sopra le braccia per recarlo a ricevere la
corona dalla Signoria, e gridavano:--Viva Alpinolo!--Viva Milano!--Viva
Sant'Ambrogio!» E poichè la folla di rado grida un _viva_ senza
aggiungere un _mora_, è probabile, quantunque la storia nol dica, che
gridassero:--Morte al Visconte!--Morte ai traditori della patria».

Il lampo di gioja che quel trionfo faceva brillar sul viso di Alpinolo,
mescevasi in modo indefinibile colla cupa costernazione che vi avevano
improntata i casi passati, e coi segni d'un dolore profondo e celato che lo
straziava. Quando Aurigino Muralto, riuscito ad accostarsegli,--Sta su
allegro (gli gridò). Buone nuove: è arrivato un Milanese.

--Un Milanese?... e chi?

--Un tuo conoscente: Lanterio da Bescapè; occhio dritto del Pusterla; e
t'ha a dire cose di gran rilievo, ma a te solo.

Un tumulto di idee scosse in quel punto la mente di Alpinolo; e Francesco,
la Margherita, fra Buonvicino, gli Aliprandi, gli amici tutti lasciati a
Milano se gli pararono innanzi, colla speranza forse di vederne alcuno,
d'averne forse un messo, certo notizie; onde, coll'impazienza più viva,
senz'altro aspettare i premj nè la corona, sviluppatosi dalle braccia
dei compatriotti, si difilava verso là dove gli avevano detto che
troverebbe quest'amico, sotto al portico dei Marmi, con una premura tale,
che guaj ai petti, alle braccia di coloro che gl'impedivano il
passo.--Eccolo! vello!» dissero i Lombardi, mostrando l'avveniticcio ad
Alpinolo, che, fissandolo, si trovò a fronte Ramengo.

Invano avea questi voluto sottrarsi all'incontro, ed avere Alpinolo da
sè a sè; invano ora accennava al garzone che tacesse, venisse, dovea
parlargli. Un padre che abbia scorto un aspide attorcigliato al collo
dell'unico suo figliuolo, non fa gli occhi così spaventati come Alpinolo
allorchè i suoi scontrarono l'esecrata faccia del traditore.

--Ramengo!» urlò con voce somigliante ai mugghi di toro ferito a
morte; e non badando agli atti che questo gli faceva, agguantar di nuovo il
randello, sua arma trionfale, e scaraventarsi alla volta di esso,
gridando:--Infame spia!» fu un batter di palpebra. I Lombardi, non
sapendo spiegare quell'ira, si ritraevano e il lasciavano fare, ma non
istette ad aspettarlo Ramengo, che, visto quel flagello, precipitossi
dietro ai marmi, ivi accumulati, ed uscendo dall'opposta parte, si ficcò
dove la calca era più serrata, e gobbo gobbo tra quel brulicame cercava
di sgattajolare. L'iracondo, con un diavolo per pelo, non lasciava però
di seguirne le vestigia, ripetendo a gran voce:--Spione! pur t'ho côlto!
Largo! guardate la vita! lasciate ch'io l'accoppi! un colpo le pagherà
tutte!» e per farsi piazza, batteva da destra, da sinistra su chiunque
pe' suoi peccati gli cascasse fra i piedi.

Il vulgo pisano, non diverso dal vulgo degli altri luoghi e degli altri
tempi, aveva già provato un poco di dispetto (chi vuole, lo chiami
nazionale) al veder che uno _straniero_ avesse riportato l'onore di quel
giorno; e, come suole, gliene volevano male i vincitori, non meno che i
vinti. Ora poi nel veder quello stesso, se non bastava mostrare di non
curarsi del premio, accendersi in ira sì rabbiosa, e senza conoscere il
perchè di quella bussa disperata, non se ne davano pace:

I più timidi levavano il volo, come colombi grulli, spaventati; i
prudenti s'addomandavano:--Con chi l'ha costui?» e facevano largo; ma
quelli di spiriti più vivi, quelli che ancora si sentivan la stizza
d'altri colpi toccati dalla mano di lui, perdettero la pazienza, e
cominciarono a voltarsegli con un viso brusco, e rompere la strada a lui ed
ai concittadini suoi, che per amor di patria, anche senza dimandarne la
cagione gli davano spalla.--Per tutti i santi del calendario! (esclamava il
popolaccio). E' pare che costui abbia bevuto sangue di drago e pasciuto
carne di cocodrillo».

--Vuoi finirla una volta, ambrosiano insatanassato?

E qui tra Milanesi e Pisani cominciava quella battaglia di lingue, che suol
precedere la battaglia di mani.

--Fatevi da banda, anime di sambuco! Pisani, vitupero delle genti!»
gridavano i Lombardi guardando in cagnesco.

--Andate via, Milanesi mangiafagiuoli», rispondevano i Pisani mostrando
il pugno.

--Meglio fagiuoli che non le _cee_[24] che se ne comprano trentasei per un
pel d'asino.

--Che state dunque qua, baggiani da dodici la crazia? che mutate l'Arno
nella cantarana di Sant'Ambrogio.

--Ci stiamo perchè possiamo. E però?... spendiamo dei vostri?
Covielli, che un solo Milanese vi ha volti in fuga a diecimila?

--Odi parlare che par tedesco!

--Odi che favellando par che sgargarizzino!

--Sì--no»; le ingiurie eran più che le parole; dalle parole si fu
ai fatti:--Sono Guelfi, sono Ghibellini, sono Raspanti traditori»; una
frastagliata di minacce, poi para, picchia, martella: una soda baruffa si
impegnò, peggiore della prima e di maledetto senno, per calmar la quale
ebbero a fare e dire assai, parte i soldati, parte i prudenti e i nobili e
il gonfaloniere; più d'uno restò morto sul campo, moltissimi ebbero
di che ricordarsene per tutta la vita; ma come spesso nelle baruffe degli
innocenti profittano i ribaldi, tra quel bolli bolli potè Ramengo
pigliare il tratto innanzi, e tra il pigio della folla, andarsene a Dio ti
rivegga.

Quando Alpinolo s'accorse che il più seguirlo era un perder tempo, non
vi starò a descrivere che rumore menasse, quanto bestemmiasse quel che
si bestemmia quando altro non si sa o non si ardisce, cioè il destino,
per averglielo mostro un tratto, poi tolto di nuovo: sopratutto dava
biasimo a quei Lombardi come imprudenti, come sconsigliati, per avergli
pôrto ascolto; e che bisognava arrestarlo, e che non s'ha a prestar fede
al primo avventuriero che capita... ma tra quel rimproverare sorgeva la
voce della coscienza a dirgli: _E tu?_

Allora gli cadevano le parole di bocca e la baldanza di cuore, nè più
pensando a rimbrottare altrui, con sè solo la prendeva, tornava a
maledire sè stesso, e il dì che nacque, e chi lo generò, e la
fantasia entratagli di mettersi a combattere; la quale se non fosse stata,
avrebbe incontrato Ramengo, avrebbe fatto le vendette di sè, di
Franciscolo, di quell'angelo di Margherita, della patria, per sua cagione
perduta, dell'umanità da lui disonorata.

Io auguro che i lettori miei trovino, quantunque in tempi più fieri e
meno maliziosi, essere strano che diverse persone dessero nel calappio,
teso dal ribaldo. L'auguro per il loro meglio, giacchè questo proverebbe
che essi non hanno, ai loro giorni, avuto incontri con simile fiore di
scellerati, nè conoscono per prova con quanta sottigliezza sappiano essi
insinuarsi negli animi, colorire l'impostura, ammantare di generosità
l'infamia, di amicizia il tradimento, e col mutare voci e costumi, placidi
coi quieti, iracondi cogli stizzosi, bugiardi con tutti, acquistarsi fede
d'ogni parte. L'auguro anche in quanto sarebbe indizio che non hanno mai
provato i duri passi dell'esilio, nè quindi indovinano, quanta
consolazione rechi, a chi va profugo dalla patria, lo scontrarsi in altri,
di sorte e di pensieri conformi; quanto facile sorrida la speranza di
potere, con un modo o coll'altro, spesso coi più disastrosi, ricuperare
la terra nativa. A chi di tali cose avesse esperienza, pur troppo non
saprebbe di stravagante e di improbabile la confidenza che, al primo
incontro, posero in Ramengo quei garzoni, e che in lui collocherà un
altro nostro amico [25].

Perocchè Ramengo, appena si trovò campato dal pericolo di cadere
ammazzato dal proprio figliuolo, comincio fra sè a rammaricarsi e
indispettirsi. E abituato com era ad imputare sempre altrui le conseguenze
dei suoi proprj delitti, ed a cercare nell'ira rimedio ai rimorsi, anche
per questo accidente voleva sempre maggior male al Pusterla.--Perchè
egli m'ingannò col mostrarsene amoroso, uccisi la mia donna. Un figlio
almeno mi restava di lei, un figlio che poteva formare la mia compiacenza,
rendermi invidiato da quelli che ora mi disprezzano, ed ecco fra noi
cacciarsi di nuovo quest'infame, e per le pazze sue fantasie, padre e
figlio rimangono divisi, inimicati. Ma no; mai non desisterò finchè
io non riesca a riconciliarmi col figliuol mio. Torrò di mezzo costui
che l'affascina, allora ci ravvicineremo io ed Alpinolo; ricomparirò con
esso nella società a Milano, alla Corte. Quando io sarò salito in
grandissimo stato, oh chi mi cercherà di qual passo io vi sia giunto? Ma
tu, tu maledetto... tu che sei cagione di staccarlo da me, ora so dove ti
annidi; e non sia mai uomo se non te ne fo scontare la pena col sangue.
Allora solo le poste saranno pareggiate».

E scrisse a Luchino Visconti la lettera che abbiamo trovata in mano del
segretario, il giorno del colloquio di lui colla Margherita, nella quale
gli chiedeva l'impunità per suo figlio, ed accennava in nube d'essere
sul punto di partire per raggiunger il Pusterla. Di giorno più non
osò mostrarsi per le vie di Pisa; non tornò all'albergo presso
Acquevino, il quale teneva infamata la sua bettola per aver dato ricovero
ad un cotale, e ripeteva che di quella genia non ne fu mai stampa, nè
mai ne sarà in Toscana. Un bucuccio segnato con una frasca, e dove per
pochi soldi dormivano facchini, marinaj e male donne alla loro posta, diede
ricovero a Ramengo nei giorni seguenti, ma abbondando di denari e di
scaltrimenti, non tardò ad accontarsi con un capitano di marina, il
quale, col primo buon vento dovea mettere alla vela per Antibo, e con esso,
di fatti, tra pochi giorni abbandonò sano e salvo l'Italia.

Alpinolo, che nè dì nè notte si dava pace per trovarlo, e in tutte
le vicinanze lo appostava, e spiava ogni angolo più riposto, ogni
concorso più affollato, ebbe un bell'aspettarlo; nè più lo doveva
incontrare se non--vedrete in qual orribile luogo!



CAPITOLO XVI.

L'ESULE.


      Sull'ardua montagna, d'un ultimo sguardo
    Mi volgo a fissarti, bel piano lombardo;
    Un bacio, un saluto, ti drizzo un sospir.
    Nel perderti, oh quanto mi sembran più vaghi
    L'opimo sorriso dei colli, dei laghi,
    Lo smalto dei prati, del ciel lo zaffir!

      Negli agili sogni degli anni felici,
    Ai baldi colloqui d'intrepidi amici,
    Nel gaudio sicuro, fra i baci d'amor,
    Natale mia terra, mi stavi in pensiero:
    Con teco, o diletta d'amore sincero,
    La speme ho diviso, diviso il timor.

      Tra cuori conformi, nell'umil tuo seno
    In calma operosa trascorrer sereno,
    Fu il voto che al cielo volgeva ogni dì;
    Poi, senza procelle sorgendo nel porto.
    Del pianto dei buoni dormir col conforto
    Nel suol che i tranquilli miei padri coprì.

      Ahi! l'ira disperse l'ingenua preghiera;
    Rigor non mertato di mano severa
    Per bieco mi spinge ramingo sentier.
    O amici, piangenti sull'ultimo addio,
    O piagge irrigate dal fiume natio,
    O speme blandita con lunghi pensier,

      Addio!--La favella sonar più non sento
    Che a me fanciulletto quetava il lamento,
    Che liete promesse d'amor mi giurò.
    Ignoto trascorro fra ignoti sembianti;
    Invan cerco al tempio quei memori canti,
    Quel rito che al core la calma tornò.

      Al raggio infingardo di torbidi cieli,
    All'afa sudante, fra gl'ispidi geli,
    Nell'ebro tumulto di dense città,
    Il rezzo fragrante d'eterni laureti,
    Gli aprili danzati sui patrj vigneti;
    La gioja d'autunno nel cor mi verrà.

      Intento al dechino dei fiumi non miei,
    Coll'eco ragiono de' giusti, de' rei,
    Del vero scontato con lungo martir.
    Il Sol mi rammenta gli agresti tripudj;
    L'aurora, il silenzio dei vigili studj;
    La luna, gli arcani del primo sospir.

    Concordia ho veduto d'amici fidenti?
    Tranquilla una donna tra tigli contenti?
    Soave donzella beata d'amor?
    Te, madre, membrando, gli amici, i fratelli,
    Te, dolce compagna dei giorni più belli,
    Che acerbe memorie s'affollano al cor!

      Qual pianta in uggioso terreno intristita,
    Si strugge in cordoglio dell'esul la vita;
    Gli sdegni codardi cessate, egli muor,
    Se i lumi dischiude nell'ultimo giorno,
    L'amor dei congiunti non vedesi intorno,
    Estrania pietade gli terge il sudor.

      Al Sol che s'invola drizzò la pupilla;
    Non è il Sol d'Italia che in fronte gli brilla,
    Che un fior sul compianto suo fral nutrirà.
    Spirando anzi tempo sull'ospite letto,
    Gli amici, la patria, che troppo ha diletto,
    L'estrema parola dell'esul sarà.

Così, non è molto, lamentavasi taluno, nel punto di abbandonare
l'Italia; eppure la condizione dell'esule quanto non è oggi senza
confronto migliore di allorquando la subiva il Pusterla! Agevolezza di
comunicazioni hanno oggi, sto per dire, tolte di mezzo le distanze e le
barriere fra popolo e popolo; posta di lettere, giornali, commercio,
viaggi, fecero comuni a uno le usanze, le idee di tutti; una gente conosce
l'altra, una all'altra somiglia per vestire, per costumi:--sei fuori, ma
frequente incontri tuoi concittadini, ma ogni tratto te ne giungono
ragguagli; calchi una terra forestiera, ma le simpatie di nazione, di
opinioni, di ingegno, di speranze vengono a mitigarti la durezza
dell'esilio, ti fanno trovare nuovi amici, udire in diversa lingua
l'espressione dei tuoi medesimi sentimenti, la fratellevole compassione per
le tue sventure. Allora, al contrario, da paese a paese, per quanto vicino
e confinante, correva maggior differenza, che non oggi dall'America
all'Europa; poco si conoscevano le lingue; uno Stato ignorava quel che
succedesse nel suo limitrofo; e corrieri a posta ci volevano per
trasportare lettere o notizie.

Quanto aveva dunque a dolere a Francesco il dipartirsi dalla terra natale!
e dipartirsene, non colla pace della rassegnazione, nè tampoco col
magnanimo dispetto dei forti, costretti a cedere alla prepotenza degli
eventi; ma da una parte cruciato da irrequieto desiderio di operare,
dall'altra sollecito di quel che di lui direbbe la patria, direbbero i
conoscenti, direbbe la posterità; avvegnachè non aveva egli concepito
per gli uomini quella dose di disprezzo, che si richiede in chi voglia
giovarli davvero, senza nè curarne i torti giudizj e maligni, nè
temerne l'ingratitudine.

Quando frà Buonvicino accomiatò il Pusterla, lo commise alla
fedeltà di Pedrocco da Gallarate, capo di una di quelle specie di
carovane che, due o tre volte l'anno, facevano il viaggio di Francia per
portarvi le derrate di Levante e i panni nostrali; raccattarvi lino,
canapa, lana, e trasmettere il denaro in natura, come erasi costretti a
fare prima che fossero praticati i giri di cambio.

Avea Pedrocco la persona come un facchino: faccia abbronzata
dall'avvicendarsi dei soli e dei geli, mani robuste e callose da scusare il
martello e le tanaglie; una casacca, stretta alla vita da una larga cintura
di cuojo nero, ricamata a punti rossi, gli teneva pronto un paloscio,
mentre il cappuccio tirato sugli occhi gli dava una fierezza di fisonomia,
da far credere che per ogni poco lo caccierebbe a mano. Eppure a praticarlo
era il miglior cuore del mondo: indole giuliva e tranquilla che non avrebbe
fatto male ad una mosca; e col girare perpetuo aveva acquistato quella
franchezza di trattare, quella estensione di veduta, quella spontaneità
di riflessioni, che appena un lungo studio può dare a chi non uscì
mai dal tetto paterno. Distinguiamolo bene dai cavallari d'oggidì,
poichè in fatto egli era il capitano di una banda di mulattieri, uno
spedizioniere ambulante. Da tutte le parti riceveva commissioni per vendere
e comprare, per riscuotere somme e versarne, per avviare speculazioni; onde
dovea goder reputazione di destro e di galantuomo. Ma per massima
tramandatagli dal padre e dall'avo, adempiva le incombenze affidategli
senza cercare più addentro; onde al modo stesso avrebbe portato
un'indulgenza plenaria ed una sentenza di morte; una cassa di reliquie ed
il prezzo dell'infamia e del tradimento.

Aveva ora caricato il suo convoglio di panni, usciti dalle fabbriche degli
Umiliati di Brera e della Cavedra di Varese, per recarli a Lovanio, a
Sedan, agli altri luoghi, donde ora ci arrivano se possono e quando
possono; e come Buonvicino gli ebbe raccomandato di condurre questo
amicissimo suo e di tacere, si pose la mano al cuore, esclamando:--Padre,
farò ogni mio possibile»; e con fedeltà anche maggiore del solito
assunse questo incarico, per la grande stima in che vedeva tenersi
Buonvicino.

--La si confidi a me (diceva Pedrocco al Pusterla), io la servirò di
cappa e di coltello. Anche cotesto piccolino vuoi menare in Francia? Ei
comincia presto. Ma anch'io, alla sua età, passeggiavo già le
montagne, e dopo d'allora ho girato tutta la vita come un arcolajo. E conta
vossignoria piantare negozj in Francia?»

Il Pusterla rispondeva di no, e lasciava comprendere come fuggisse la
tirannia del suo paese. Pedrocco l'interrompeva:--Di queste cose io non me
ne intendo: ma in Francia la si troverà da papa. E il papa stesso non
lasciò la sua Roma per la Francia altrui?»

Con una fila di muli si avviarono dunque per la Valgana, indi per
Marchirolo a Pontetresa, confine allora del contado rurale del Seprio, e
varcata la Tresa, costeggiarono la rupe Cislana verso Luino, finchè
voltarono nella Val Travaglia. Ma quando erano più inviluppati tra
quelle gole, ecco sbucava loro addosso una masnada di armati, che in sulle
prime fecero paventare Francesco per la vita propria e del figliuolo;
sicchè, raccolti i mulattieri, preparavasi a venderla cara. Presto
però si accorsero come quelli non attentavano alla vita: andassero pur
dove volevano, purchè lasciassero quivi le robe, o pagassero una enorme
taglia: giacchè provenivano da Milano, e coloro appunto eran nemici del
signore di Milano.

Pedrocco protestava che, nemici o no, egli di cose politiche non se
n'intendeva: ch'era roba dei frati, e che l'avrebbero a fare con tutti gli
Umiliati di Lombardia, e col papa che li proteggeva. Ma quei masnadieri
poco tenevano conto delle minaccie: e davano già mano a spogliarli, se
non che il Pusterla intese come fossero uomini d'Aurigino Muralto da
Locarno. Era questi, se vi ricorda, uno dei fidati del Pusterla,
intervenuto all'adunanza della sera fatale; e cercato a morte dal Visconte,
invece di fuggire cogli altri, erasi ridotto fra i patrj monti ed a
Locarno, ond'era signore, e quivi intesosi coi Rusconi, dominatori di
Bellinzona, aveva alzato bandiera contro Luchino.

Quel nome, quell'annunzio bastò per dissipare dall'animo del Pusterla
tutti i proponimenti di quiete, di fuga, di nascondiglio.--Aurigino?
(diceva agli uomini di masnada), grand'amico mio: guaj a colui che
toccherà un filo di questa roba! Siamo del partito istesso: vengo a far
causa con lui».

E ottenne di fatto che quei masnadieri, i quali avevano una specie di buona
fede al modo loro, e di diritto delle genti al modo dei moderni Beduini,
lasciassero quelle robe in deposito: mentre Pedrocco, che ripeteva non
intendersi nulla nè di partiti nè di causa comune, tornava a Varese
per impegnare gli Umiliati a riscattare le mercanzie. Il Pusterla si
imbarcò sul Lago Maggiore, ed oh come il piccolo Venturino pareva
deliziarsi al vedere tanta bellezza di cielo, di acqua, di rive, un pelago
circondato da scabre montagne o da spiagge ammantate da lussureggiante
vegetazione! Vi restava un tratto coll'occhio incantato, poi volgendosi al
padre,--Oh se ci fosse mamma!» esclamava: e l'uno premeva il volto al
volto dell'altro, e sospiravano. Ma se il cuore e la mente del fanciullo
non si pascevano che di amore, ben altre idee occupavano il genitore; il
quale già si figurava capo di un esercito di prodi e risoluti montanari,
terribile al Visconte; e via di vittoria in vittoria scorreva col pensiero
fino al momento di dettar patti a Luchino, e ricuperare per forza di armi
la patria e la consorte. Arrivando di fatti a Locarno, vi fu ricevuto
coll'entusiasmo onde si suole un nemico d'un nostro nemico; feste, tripudj,
e mostrargli ogni apparecchio, ed esagerargli le forze, e menarne trionfo,
quale forse gli Americani allorchè il giovane La Fayette andò a
spargere per essi il nobile sangue francese. Ma Aurigino Muralto era in
casa sua, era capo: per rinunziare al comando si vuole più virtù e
meno impeto che non avesse il giovane ribelle. Cortesie dunque senza fine
al Pusterla; dato libero l'andare al convoglio di Pedrocco; ma quanto fosse
ad autorità, nessuna ne concedeva al foruscito; al quale, il trovarsi
meno che secondo in piccola terra sapeva d'agresto, assai più che non
l'obbedire nella patria, in città grande, ad una grande famiglia. Alle
brevi illusioni tenne dunque dietro un prestissimo disinganno: e colla
solita irrequietudine, già si augurava in qualunque luogo prima che in
questo, ove gli amici stessi, diceva, l'abbandonavano, il tradivano.

Che far dunque? Ripigliare il duro viaggio dell'esule, che va e va, nè
sa dove riposi al fine dell'amara giornata.

Sopraggiunse intanto Pedrocco, che era corso ad avvisare gli Umiliati del
sorpreso convoglio; e mentre ringraziava Francesco di averglielo
riscattato, gli dava lettere di Buonvicino, ove, con tutto l'ardore
dell'amicizia, lo supplicava a fuggire, a scostarsi più che poteva, a
non lasciarsi allucinare dalle troppo facili speranze dei forusciti:
ricordasse che la vita della Margherita poteva dipendere da un suo moto:
pensasse al figliolino che aveva seco, e che doveva conservare all'amore di
quella sventurata; poi gli esponeva i preparativi che Luchino faceva, e
contro cui certamente non avrebbe potuto reggere un pugno di sollevati,
comunque coraggiosi.

In effetto Luchino, indispettito della resistenza oppostagli da quelli di
Locarno e di Bellinzona, e dei guasti che recavano alle sue terre con
correrie e rappresaglie incessanti, temendo anche il contagio tanto sottile
dell'insubordinazione, volle con uno sforzo straordinario domare la
straordinaria opposizione. Dal Po, dal Ticino, da Pizzighettone, da
Mantova, da Piacenza, raccolse nel Tesinello navi da tal servigio, ben
fornite in opera di battaglia; fece fabbricare sei _ganzerre_, barche di
grossissima portata, con cinquanta remi ed ampie vele e torri e macchine,
montate ciascuna da cinque o seicento armati. Capitanata da Giovanni
Visconti da Oleggio, la flotta venne pel Lago Maggiore ad assaltare
Locarno; mentre Sfolcada Melik da terra guidava un grosso di mercenari, che
sottoposero Bellinzona, e scesero di là contro i Muralti, assalendoli
così vigorosamente, che Locarno fu espugnato; i capi dovettero per le
montagne fuggirsene; i primarj borghesi furono trasportati a Milano; e per
tenere quel posto in soggezione, fu fabbricato un robusto castello;
sicchè i rimasti dovettero chinare il capo, rodere il freno, e
raccomandare ai loro figli pazienza e vendetta.

Prima che questi avvenimenti si compissero, Francesco Pusterla, secondando
in parte i consigli dell'amico e la prudenza, in parte il dispetto del
vedersi posposto, erasi ritirato da Locarno, ove si fecero di lui tante
beffe, quanti applausi dapprima: e in compagnia ancora di Pedrocco valicava
le Alpi per vie, segnate unicamente dallo scolo delle acque, e da qualche
croce che additava i passi ove altri viandanti erano caduti in precipizio.
Faceva uno strano spettacolo ai profughi nostri quella fila di muli, che,
tenendosi sempre sull'orlo dei precipizi, s'arrampicavano tortuosamente,
lenti e col capo basso, senza che per l'ampia solitudine altro si udisse
che il battere dei loro zoccoli, il tintinnio delle loro sonagliere, e
fioccare i giuraddii dei mulattieri. Nel centro della carovana Francesco
procedeva sopra un mulo più robusto, tenendosi in groppa il suo
Venturino: e pedestre a canto di lui camminava Pedrocco, accorrendo qua e
là a dar gli ordini opportuni come uomo esperto, poi tornando pur sempre
a sollevare con parole la noja del signore lombardo.

--Oh di qui in Francia si va d'un salto. Io vi sarò tornato trenta volte
alla larga. Paese d'ogni bene è quello: a petto suo, la Lombardia non
vale la metà.--Come vi si stia a Governo? Mah! di queste cose io non me
ne intendo.--Le strade? Faccia conto siano tutte sull'andare di questa che,
come sa, l'ha fatta il diavolo. Abissi, precipizi, rovine e frane tra i
monti; boschi, pantani alla pianura; ladri da per tutto. I muli però
sanno ove tenere i piedi, ed alle volte si compie il viaggio senza che uno
se n'accoppi. E poi, che serve aver paura? Se si muore, buona notte: tanto
una volta quella corbelleria la s'ha da fare.--Dice bene: il peggio sono i
malandrini. Non ha visto come l'abbiamo scappata bella con quelli
laggiù? Nel mille trecento, e non mi ricordo quanti, tornavamo da
Avignone con sessantamila fiorini d'oro che fumavano. Mi getto via nel
rammentare quel bel marsupio. Me gli aveva fidati il santo padre da recare
al cardinale del Poggetto, suo nipote o non so che altro, per pagare le
truppe ch'egli assoldava onde tenere in senno certe fazioni, ed altre cose
che io non me n'intendo. Il santo padre, perchè gli stavano sul cuore,
mi diede cencinquanta cavalieri per convogliare i miei trenta muli:
cavalieri, le so dir io, che ne tremava l'aria. Si va; si passa fiumi e
monti senza incontro: quando insaccatici in una valle della Savoja, io
comincio a notare certe faccie che non promettevano nulla di bene, ed
avvedermi di un certo armeggio. _Pas peur_, dissero quei cavalieri
francesi: _noi mangiare Italiani in un boccone._ Ma convien dire non si
fossero ben raccomandati a san Cristoforo pel buon viaggio: poichè i
Francesi hanno tutte le buone volontà, ma non la divozione. Mentre
stavamo, come si fa, votando non una bottiglia, ma una botte, eccoci
addosso una banda, Dio sa di quanti. Ferma, dagli, piglia, lascia: quei
Francesi parevano tanti Orlandi paladini. Ma bisogna confessare che, per
menar le braccia, gl'Italiani non hanno pari al mondo. Insomma quella
truppa, ch'erano di Pavia, gettarono a terra i Francesi, e sollevatili dal
peso dei cavalli, li rimandarono ad Avignone a piedi come pellegrini; a me
poi tolsero la metà giusta del denaro e dei somieri, cosa che non era
più accaduta dacchè i Pedrocchi vanno da Gallarate in Francia; e
dovetti condurre al cardinal legato quel che mi rimaneva».

Così Pedrocco dava risposta alle varie domande del Pusterla, risposte
meglio opportune a distrarlo che a confortarlo. Ma più che al disagio ed
al pericolo della via, accoravasi il Pusterla per l'abbandono della patria;
e quando giunse sul ciglio del monte che separa le due favelle, arrestossi,
guardò di qua, di là, il cielo, la terra: pareva le ginocchia gli
mancassero sotto, talchè Pedrocco gli domandò se si sentisse male.
Egli rispose sospirando:--Qui finisce l'Italia».

Anche questa era una delle tante cose che il buon cavallaro non intendeva,
pure il confortava alla meglio, raccontandogli siccome anche in Francia vi
fossero uomini simili a noi, e buone case, e monti, e fiumi, ed erba alla
primavera, e messi all'estate e all'autunno le delizie della vendemmia; i
Francesi amabili, dilettevoli, sociali, buoni e vattene là: Ma il
Pusterla ripeteva:--Non è l'Italia».

Ma una vera Italia (soggiungeva Pedrocco) ella potrà ritrovare in
Avignone. Là cardinali, là servi, là camerieri, là poeti, là
buffoni, tutto italiano».

Il Pusterla voleva far capire all'altro i disconci che venivano all'Italia
dallo starne fuori i pontefici, e le sconvenienze della politica e della
religione; ma Pedrocco, protestando che di queste cose non s'intendeva,
magnificava le splendidezze dei prelati, e il continuo andare e venire di
corrieri, di soldati, di ambasciatori, di roba, di denari, e i bei guadagni
che egli ne cavava.

--E conoscete voi colà Guglielmo Pusterla?

--Chi? l'arciprete di Monza? Se ve l'ho accompagnato io stesso.

--E come vi sta?

--Sta benissimo: grasso, trionfale, ha salute da campar cent'anni.

--Lo so: ma dico se il papa lo favorisce; se saprà le disgrazie della
sua famiglia a Milano: se in Corte è il ben veduto.

--Mah! di queste cose io non me n'intendo».

V'era però una materia, in cui Pedrocco s'intendeva come Manzoni nel far
versi, e che importava non poco anche ai Pusterla. I Lombardi, nel tempo
che si reggevano a comune, erano deditissimi al traffico, e frequentavano
Francia, Olanda, Fiandra, Inghilterra, fin l'estrema Russia, dove aprivano
case di commercio, e dove ancora se ne conserva memoria nel nome d'alcune
strade e quartieri. Lombardi anzi venivano colà per antonomasia chiamati
i banchieri; perchè davano opera principalmente al cambio del denaro e
agli imprestiti. Perduta coi governi a popolo l'energia della classe media,
primo elemento delle speculazioni ardite, ormai quel traffico era passato
nei Toscani: ma i più denarosi fra i Lombardi non s'erano ancora
immaginato che il guadagnare col commercio sporcasse la nobiltà, nè
quindi avevano ritirato dai negozianti i capitali, come fecero due secoli
dopo, quando l'albagia pitocca degli Spagnuoli diede, con questi
pregiudizj, l'ultimo tuffo alla vivacità commerciale del nostro paese,
uccidendone la prosperità mentre gli rapivano l'essere, il fare, il
pensare.

I Pusterla, ricchissimi non meno di terreni che di capitali, ne aveano
investiti dei grossissimi sulle banche dei Lombardi, dei Lucchesi, dei
Fiorentini a Parigi. Ora venivano a grand'uopo a Franciscolo per ristorarlo
dei beni confiscatigli in patria, e apprestargli il modo di potere, sopra
la terra straniera comparire, non solamente col decoro conveniente alla
grandezza di sua famiglia, ma col lusso ancora che la sua vanità
desiderava, e che trovavasi e si trova necessario per acquistare
considerazione fra gli sconosciuti, e non avere bisogno di quella
compassione, che tanto confina col disprezzo.

Da ciò avevano materia di ragionamenti i due viandanti, ove Pedrocco era
nella sua beva, e potè dare buon indirizzo all'innominato suo compagno.
E questo ne profittava grandemente, non solo per ciò, ma anche perchè
la vita di quel trafficante, tutta attiva di corpo e placidissima di
spirito, dava tregua alle agitazioni di lui, gli mostrava altre vie nella
società, che dapprima egli non aveva nè tampoco immaginate: gli
faceva qualche volta invidiare di trovarsi fuori delle politiche
turbolenze, o almeno di mutare la traditrice compagnia dei grandi, in
quella meno appariscente e più sincera delle persone occupate. Ma la
forza dell'antica consuetudine rivaleva: e non appena si vide sul suolo di
Francia, sicuro e con quanti denari bastavano per accattarsi amici, si
congedò dalla compagnia di Pedrocco, senz'altro conservarne se non la
ricordanza che si suole d'un buon galantuomo, incontrato su questa strada
che tutti battiamo senza sapere dove ci conduca.

E prima Franciscolo trascorse i varj paesi della Francia, cercando un poco
di svago, e cogliendo i fiori, che, sul cammino d'un ricco, naturali o
artefatti, spuntano da ogni terra. Venne poi a Parigi, la città del
fango (_Lutetia_), che tuttavia giustificava quel nome colla sozzura delle
sue strade. Da ogni parte del mondo vi accorrevano studenti
all'Università, metodo tanto opportuno d'educazione allorchè non
v'era la stampa e scarseggiavano i libri, quant'è ora disutile e
pernicioso. Era cancelliere di essa Università Roberto dei Bardi
fiorentino, il quale, facendo gli onori all'illustre arrivato,--L'Italia
(dicevagli) primeggia pel diritto, Parigi per la teologia e per le arti
liberali. A ragione il nostro Petrarca chiamò questa città un
paniere, ove si raccolgono le più belle e rare frutta d'ogni paese:
poichè vi convengono quelli che siano in qual vogliate facoltà
eccellenti. Il nostro sommo Alighieri, nell'esiglio suo, qui studiò dai
gran dottori della Sorbona, e il dirò per vergogna dei tempi, lasciò
di farsi addottorare solo perchè gli vennero meno le spese. Qui avemmo
anche Giovanni Boccaccio, un giovane che farà onore alla patria, e che
raccoglieva novelle da Francesi e Provenzali, e le riduceva in vulgar
nostro. Da Padova ci arrivarono dodici garzoni, che il signor Ubertino da
Carrara qui mantiene a scuola di medicina. Vive poi, e vivrà sempre la
memoria degli Italiani che qui lessero scienza: un Pier Lombardo novarese,
maestro delle sentenze; un Egidio Romano, un Albertino da Padova
agostiniano, il francescano Alessandro da Alessandria, i due astrologi
immortali Dionisio Roberti da Borgo San Sepolcro e Pietro d'Abano padovano,
e quei che valgono per tutti, il dottore Serafico e l'Angelico».

Denotavansi con tali nomi, chi nol sapesse, Bonaventura da Bagnarea e
Tommaso d'Aquino, gigante della scienza dei secoli cattolici, la cui
sintesi grandiosa da nessun posteriore tentativo fu eguagliata.

--Ed ora (proseguiva il valoroso Fiorentino, prodigo di lodi come un
segretario e di frasi come un accademico) ora piangiamo estinto Nicolao de
Lira l'autore della Postilla Perpetua sopra tutta la Bibbia, e del
Commento, opera di tanta lena, che a stento crederanno i posteri le abbia
potute un uomo terminare. A questo augusto concilio di dotti, non
altrimenti che a Bologna, ricorrono prelati e città e principi o per la
decisione di casi di coscienza, o compromettendo i loro litigi. Volete
più? lo stesso re d'Inghilterra Enrico II sottopose a noi le sue
differenze con Tommaso da Cantorbery. Le scienze sono il rifugio nei mali,
l'ha detto l'oratore d'Arpino. A queste volgete l'animo; qui fermate vostra
stanza, e provate quel che ne cantò Giovanni da Salisbery:

    _Felix exilium cui locus iste datur_».

Il Pusterla trovava in fatto Parigi gajo, vivace, pieno di quel fecondo
movimento, che infonde ad un paese il fiore della gioventù radunata.
Tanti v'erano gli studenti, che a fatica trovavano alloggi sulle piazze; li
vedeva discorrere o disputare, seduti in circolo sopra la paglia: nella via
degli scrivani aveano tutto quel che occorresse per lo scrivere: diecimila
amanuensi attendevano continuamente a copiare libri. Gli scolari la mattina
badavano alle lezioni, il dopo pranzo alle dispute, la sera alle
ripetizioni. Quest'era il lato bello; ma Francesco scoprì ben presto le
magagne che vi covavano; attorno ai venditori di vino, che lo spacciavano
per le vie, quei giovani commettevano disordini d'ogni maniera: usurieri ed
ebrei traevano profitto dall'inesperta loro generosità: male donne li
corrompevano, per cui cagione non passava giorno che non si facessero
baruffe e sangue.

E poi la Francia non era il paese che potesse far dimenticare l'Italia a
chi non vi avesse passioni od interessi predominanti. Taciamo la
diversità di cielo, la coltivazione delle terre, trascurata a confronto
della Lombardia, il sudiciume delle città, la miseria delle borgate, il
disagio delle abitazioni: la Francia non erasi purgata dalle ferocie del
medioevo passando, come i nostri paesi, attraverso alla libertà
municipale. I governi a comune avevano tra noi fiaccato il potere feudale:
e quei baroni che nelle rocche minacciose, ricinti da vassalli e da servi
della gleba, facevansi unica legge il loro superbo e minaccioso talento,
erano stati rintuzzati dai campagnuoli, dai mercanti, dai giureconsulti, da
tutti i borghesi, e costretti a disarmare la loro prepotenza e farsi
cittadini. I tirannetti, che usurparono dappoi il comando, non fecero che
ajutare quest'opera; e, come vedemmo in Luchino, sebbene non per amore del
popolo, ma pel proprio vantaggio, vennero stringendo sempre più il freno
ai feudatarj aumentando le franchigie del vulgo per fare contrasto a
quelli; e dilatando viepiù i privilegi della popolazione campestre, la
quale, sotto le repubbliche, aveva cominciato a mutarsi dalla condizione di
schiavi in quella di coloni, e ricuperare l'umana dignità. In generale
dunque la nobiltà d'Italia non era più che un patronato, onde il
plebeo si affezionava e si legava col ricco.

Tutt'altrimenti in Francia: mille baroni erano altrettanti piccoli re, il
cui dominio viepiù pesava quanto in più angusto confine lo
esercitavano. Non una moltiplicità di repubblichette, non una lega di
queste gli aveva imbrigliati; e quantunque il re, il quale non era che il
primo fra di essi, s'ingegnasse di opporre a loro le comunità cui veniva
rinvigorendo, era ben lontano da riuscire a notevole risultamento; e il bel
regno di Francia consisteva allora in un re impotente, pochi forti
oppressori, la moltitudine oppressa.

Quindi prepotenze in ogni parte e di ogni genere: quindi miseria: quindi
l'arbitrio al posto della giustizia e delle leggi. E Pedrocco, tutto che
lodatore delle cose di Francia quanto alcuni miei amici che non la
conoscono, non poteva cessare i lamenti per gli spessi pedagi, per le
generose mancie che doveva dare ai capi degli uomini d'arme, per le
menzogne onde doveva ricoprire la ricchezza del suo convoglio. Poi
additando varj castelli al suo compagno di viaggio,--I vassalli di questo
(diceva) sono obbligati per turno a ripulire le stalle del padrone.--Questi
altri non possono far testamento, senza lasciare metà dei loro beni al
feudatario.--Il vescovo e principe di Ginevra succede nell'eredità di
chiunque muore senza figli.--Vede là quei villani colle pertiche in riva
a que' paludi? Sono obbligati a far la ronda, acciocchè i ranocchi non
disturbino il padrone mentre dorme». Tacio le prelibazioni oscene; tacio
quel che era comune, il contadino pareggiato nelle fatiche ai bovi che
l'ajutavano: alla porta di ogni castello, insieme col teschio di lupi e di
cervi, e cogli avoltoj confitti sulle imposte ferrate, spenzolava da una
carrucola la corda della tortura, in segno del diritto di sangue; e sulla
spianata ergevasi la forca, da cui a dozzine pendevano i giustiziati per le
più lievi cagioni, per un capriccio, per una vendetta.

Ben altro giudizio delle cose di Francia dovranno portare gli esuli
d'oggidì: ma i lamenti che da loro intesi mi fanno calcolare con quanto
maggior ragione il Pusterla dovesse dire allora, che, per amare assai la
sua patria, conviene aver veduta l'altrui.

E poi Parigi aveva già fin d'allora il privilegio funesto delle grandi
città, di poter uno vivervi, godere, spasimare, morire, senza che altri
gli badi o se n'accorga. Il che, se era il caso per un profugo bramoso di
pace e d'oscurità, non poteva per verun modo accomodare a Francesco,
sempre desideroso di primeggiare, sempre spinto all'azione, al movimento, e
che colà andava confuso, inosservato, fra una turbo che veniva e tornava
e cambiavasi ogni dì; fra un numero infinito di pitocchi, che beneficati
non facevano se non divenire più importuni, e chiedergli denaro
coll'insistenza del ladro, fra la spensierata scolaresca, fra i segregati
dottori, fra anime che non potevano neppur comprendere i patimenti d'un
esule italiano.

Ma una parte di Francia tutta italiana, siccome gli aveva detto Pedrocco,
erano il contado Venesino, padroneggiato dai papi, e la città d'Avignone
appartenente a Roberto re di Napoli; nella quale Clemente V, il 1305, aveva
trapiantato la sede pontificia, e per gridare e sperare che gli Italiani
facessero, e per quanto sembrasse strano che i papi preferissero restare
sudditi in Francia, anzichè sovrani a Roma, più non la tornarono sul
Tevere se non nel 1376.

Colà dunque si rivolse il Pusterla, e vi trovò una vita, un moto
straordinario. Dimessa l'idea di trasferirsi in Italia, Benedetto XII
faceva murare, per alloggiar come si conviene al capo della cristianità,
e tutti i cardinali ergevano palazzi, splendidi d'ogni suntuosità, e non
inferiori alla Corte di verun principe d'allora. Artisti italiani vi
accorrevano ad abbellirli, altri a lusingare coi canti, colle piacenterie,
colle novelle, cogli strologamenti: dei porporati ognuno v'avea condotto
numerosa famiglia di servi e camerieri e scrivani; talchè poteva dirsi
proprio una colonia d'Italia, con tanto maggiore verità, perchè quel
clima meridionale fa ricordare le dolcezze del nostro.

In un tempo quando il papa stava ancora disopra delle autorità temporali
come depositario della celeste, vale a dire della giustizia, vedevansi alla
sua Corte ambasciadori d'Ungheria, di Polonia, di Svezia, d'altri
potentati, che rimettevano all'inerme sua decisione le loro politiche
differenze: cosa che deve recare grande scandalo al secolo nostro, il quale
vuol piuttosto vederle risolte colle bajonette o rattoppate dai Castelreagh
e dai Talleyrand coi protocolli...

I cittadini di Monza, agitati dentro dalle fazioni dei Magantelli e degli
Stratoni, e minacciati fuori dalle armi dei Visconti e Torriani, avevano
(già ne abbiam toccato una parola) nascosto il prezioso tesoro della
loro basilica, che valeva ventiseimila fiorini, cioè un milione e mezzo
d'oggidì. Il nascondiglio non era conosciuto se non dal canonico Aichino
da Vercelli; il quale, venuto in caso di morte, ne fece la confidenza a
frate Aicardo arcivescovo di Milano, e questo al cardinal legato Bertrando
del Poggetto, che lo fece cavar fuori e trasferire in Avignone. Ora
quietati i tempi, per ricuperarlo avevano i Monzesi mandato il loro
arciprete Guglielmo Pusterla, insieme con lo storico Buonincontro Morigia.
E sebbene quell'arciprete non fosse ancora potuto venire a capo di nulla,
erasi però insinuato nella grazia dei papi, seguitando tre regole di
condotta, che a modo di proverbio egli ripeteva sovente; lasciar andare il
mondo co' suoi piedi, fare il dover suo piano e tranquillamente, e dir bene
de' superiori. Le aveva imparate in convento sin da quando era novizio, ed
ora con queste meritò di essere scelto prelato di Corte, ed in appresso
arcivescovo di Milano.

Di buon cuore com'era, fece egli una festa da non dire a suo nipote
Francesco, il quale, col mezzo di lui, potè collocarsi bene, ottenere
alla Corte rispetto ed amorevolezze, e speranza di acquistare entratura col
papa, nella cui assistenza ormai vedeva l'unica via di migliorare la
condizione sua e della patria. Ma quest'ultima corda non sonava bene allo
zio arciprete, il quale era il più nuovo uomo nei garbugli della
politica.

--Caro nipote (egli diceva) tu eri ricco; tu stavi da papa; tu invidiato da
tutti; che importava a te che regnasse Pietro o Martino? Lascia cuocere i
potenti nel loro brodo, e troverai maggior pace. Guelfi e Ghibellini,
l'imperatore e il pontefice, la tirannide e la libertà, tutte idee
astruse; è necessario che vi siano, come gli scandali: ma un galantuomo
può arare dritto senza intrigarsi di queste gerarchie. Credi a' miei
capelli grigi, _experto crede Ruperto_: lupo non mangia carne di lupo: e i
potenti se l'intendono quando si tratti di spalleggiarsi fra loro.
L'imperatore par che l'abbia col santo padre: ma se vedesse un altro sul
punto d'opprimere il santo padre, darebbe mano a questo per abbattere il
primo. E tanto meno ti riuscirebbero cotesti intrighi ora che il papa è
un uomo di pace e _bonæ voluntatis_. Giovanni XXII, nelle cose del mondo
e nelle questioni scolastiche (diciamolo, chè tanto e tanto è morto)
si affaccendava troppo; morì lasciando diciotto milioni di fiorini in
oro, e sette in vasellami e gioje e con questo marsupio poteva fare più
che non Archimede colla sua leva: _coelum terramque movebo_. Ma sono otto
anni ch'egli è in paradiso; e il papa adesso è di tutt'altro umore.
Per sapienza teologica non è un'aquila: degl'intrugli di gabinetto se
n'intende buccicata: tanto meglio: e così non desidera che metter acqua
là dove i suoi predecessori attizzarono il fuoco; ribenedire dove essi
avevano scomunicato. Quando, contro ogni sua aspettazione si sentì
chiamato papa, sai quel che disse ai cardinali? Cari fratelli, i vostri
voti si sono accordati sopra un asino. Tant'è umile! E con lui non han
nulla a sperare nipoti e parenti. Una sua carissima nipote gli fu chiesta
sposa da un gran barone, ed egli non consentì, perchè non era da par
suo, e la maritò ad un negoziante. Di sposa, ella col suo consorte venne
a trovarlo qui, e tutti dicevano,--Chi sa che regali!» Indovina mo?...
gli accolse bene, ma li rinviò senz'altro che rifarli delle spese di
viaggio, e dare la sua santa benedizione. Vedrai la sua anticamera zeppa di
abatini e di monsignoroni che vengono a sollecitare benefizj: ma egli
preferisce di lasciarli vacanti, anzichè, com'esso si esprime, adornare
di gioje il fango e l'argilla. Quando egli solleva qualcuno a dignità,
si può assicurare che egli ha trovato del merito sodo».

E in così dire, lo zio arciprete rizzava il capo con un sentimento di
decoro che non potevasi dire superbia. Franciscolo pensava:--Mio zio ha bel
dire che non gli piove addosso»; e s'ingegnava di fargli capir quella
ch'ei chiamava ragione, ma il buon uomo lo interrompeva:--Non hai tutti i
torti; molto hai perduto; hai lasciata quella donna, che la pari non si
trova al metodo. Ma tutto questo perchè? T'ho pur detto delle volte
assai che, per camparla bene, bisogna _facere munus suum taliter qualiter_.
Se mi avessi dato ascolto, non avresti voluto primeggiare: _bene vixit qui
bene latuit_. Ora l'esperienza ti ammaestri. Stavi bene, volesti star
meglio: vedi frutto? Almeno profitta di quel che ti avanzò per tirar
innanzi alla meglio questi pochi anni di vita. _Fugit irreparabile tempus._
Vuoi piaceri? vuoi spassi? vuoi pompe? qui non hai che a desiderare. Vuoi
conoscenze di letterati? vedi quanti poeti provenzali; vedi quel che tutti
li vale, il gran Petrarca. Vuoi discussioni fine e puntigliose di teologia
e di erudizione sterminata? ti farò conoscere il monaco calabrese
Barlaamo, quel che insegnò il greco al Boccaccio. Fu mandato qui da
Andronico imperatore di Costantinopoli per maneggiar la riconciliazione
della Chiesa greca colla latina. Quello è un uomo! L'avessi inteso jeri
a otto disputare contro gli onfalopsichi! Questi eretici dicono: Chiuditi
nella tua cella; siedi da un canto, leva lo spirito sopra le cose terrene;
appoggia la barba sul petto; fissa l'umbilico; tieni il respiro; cerca
nelle viscere tue il cuore, sede della potenza dell'anima, e vi troverai
dapprima tenebre, poi una luce limpidissima come quella apparsa sul Monte
Tabor. Ma frate Barlaamo risponde....»

E qui lo zio arciprete, coll'interessamento di un dilettante, esponeva a
Francesco le ragioni, con cui il monaco confutava questa specie di
quietisti: ma dall'addurle ci dispenseranno facilmente i lettori, come
volentieri ne l'avrebbe già allora dispensato il nipote. Il quale, o per
voglia o per forza dovette acquietarsi al consiglio dello zio; a Corte, da
tutti i cardinali, fra tutti i cittadini lo rendevan il ben accolto sì
le sue aderenze, sì la splendidezza che sfoggiava negli abiti, nel
treno, nell'avviamento della famiglia, tanto da poter emulare quella dei
prelati. E per quanto noi ci sentiremmo inclinati a dipingere bello e
ideale lo sposo della nostra Margherita, siamo costretti a dire che,
siccome la prospera, così l'avversa fortuna non sapeva egli portare
dignitosamente; giacchè, invece di rendere sacra la sua sventura con un
decoroso dolore, voleva schivar la compassione collo star sulle gale, e non
perdere la maggioranza del vivere sfoggiatamente. Al pericolo poi che gli
poteva venire dall'essere conosciuto e nominato, credeva di ovviare col
rendersi, come faceva, ben accetto chiunque fosse di nome e di potere o di
scienza segnalato in Avignone.

Tra questi riportava allora il vanto Francesco Petrarca, già famoso per
tutta Europa, sebbene appena in età di trentasei anni, e caro ai papi ed
ai prelati. Stava di casa a Valchiusa, poche miglia discosto da Avignone,
impinguandosi di benefizj, scrivendo di filosofia, imitando i versi dei
Provenzali in sonetti e canzoni italiane, che doveano smentire quel detto
che chi imita non sarà imitato; dando pareri ai potentati, che non gli
ascoltavano, o facendo da quattordici anni l'amore in rima con Laura,
figlia di Audiberto di Noves, cavaliere della provincia avignonese, donna
di trentadue anni, da quindici maritata con Ugone de Sade, sindaco di
quella terra, al quale, mentre il poeta ne veniva cantando la verginale
castità, ella avea partorito uno stuolo di figlioletti. Il poeta
platonizzando aspirava all'amore di Laura; Laura a una fama estesa ed
eterna col far la schiva quanto bastasse per non lasciarsi sfuggir di rete
il cantore; ella riuscì nell'intento; se anch'esso, è disparere tra i
fisiologi e gli estetici.

Il Petrarca era esule anch'esso; avea scritto dei _Rimedj dell'una e
dell'altra fortuna_: filosofo patriotto per voce comune e grand'amatore
dell'Italia, Franciscolo, che lo avea conosciuto a Padova e a Milano,
sperava dal colloquio di esso ritrarre e consolazioni e consigli; onde si
recò in Valchiusa, e volle condurvi anche il suo Venturino, persuaso che
ai fanciulli l'aspetto e il favellare d'un grande sia ispiratore di
generosi sentimenti.

In un enorme masso apresi una profonda oscura grotta, dalla quale sbocca la
Sorga, che, chiusa da inaccessibili scogli, forma questa valle, che trae il
nome dalla natura sua. Quivi in una deliziosa villetta Franciscolo
ritrovò il Petrarca, in mezzo ad anticaglie, di cui esso faceva gelosa
conserva, e a grandi armadj di noce, ben chiusi a chiave, entro ai quali
custodiva il tesoro de' suoi libri. Non appena lo riconobbe, il poeta gli
lesse il sonetto

    Piangete, o donne, e con voi pianga amore,

che allor allora aveva composto per la morte di Cin da Pistoja, stato suo
maestro in poesia.

Finito il quale, e domandato se non gli paresse veramente un capolavoro,
senz'altre parole attendere dal Pusterla oltre le congratulazioni,--Deh
perchè (gli diceva), perchè abbandonaste Italia e l'onorata riva?
Anch'io ho corso le barbare terre; visitai le Gallie fino al Reno, e
l'Alemagna non per alcun negozio, ma per desiderio d'imparare, come quel
grande che molte città vide e costumi d'uomini; ho costeggiato i lidi di
Spagna, navigai l'Oceano, toccai l'Inghilterra; ma quanto vidi, più m'ha
fatto amare ed ammirar l'Italia. E come volentieri per essa lascerei questa
Babilonia occidentale di cui nulla più informe il Sol vede; lascerei il
Rodano feroce, simile all'estuante Cocito ed al tartareo Acheronte[26], se
non mi trattenesse amore, se qui tutte non avessi le mie dolcezze. Il 6
d'aprile 1327 vi conobbi quella, che per sempre mi doveva tor pace; e
queste chiare, fresche, dolci acque della Sorga divennero il mio Ippocrene.
Qui scrivo in rime vulgari i miei sospiri pei presenti; ma già rimansi
dietro il secondo anno da che ho cominciato l'_Africa_, poema che mi
farà immortale a paro con Virgilio e Stazio nell'età ventura. Qui mi
trovano gli amici, qui mi cercano i grandi della terra; e sebbene io non
dia retta alle fole de' medici e degli astrologhi, vedo quanto fosse
veridico uno di questi, allorchè a me fanciullo indovinò che godrei
l'amicizia di tutti i più illustri e grandi uomini della mia età. E
voi, date anche voi opera agli studj?»

E poichè Franciscolo rispose un mezzo sì,--Attenetevi (prosegui il
Petrarca) attenetevi ai classici. Cotesti moderni filosofanti non vi
gabbino. Meglio tornerebbe studiassero in Cicerone, che non in Aristotile e
Averoé, da cui succhiano l'empietà. Anche me vorrebbero far ateo: e
perchè io sto al _credo_ vecchio, dicono che son un buon uomo, ma
ignorante».

Quando poi il Pusterla, bramoso di pur dire anch'egli qualche cosa, e
massime di quel che più gli stava sul cuore, entrò a discorrere di
Milano,--Milano! (l'interruppe il poeta) paese glorioso per salubrità, e
per clemenza di clima invidiato! di quante cortesie non mi colmarono e
colmano i Visconti! Il signor Luchino, gran protettore del bel sapere:
grande specchio di giustizia quel fratel suo arcivescovo e mio padrone! Ma
dite, che fa quivi Giovanni da Mandello, il dolcissimo degli amici miei? E
a Bergamo? non dimenticherò mai, l'ultima volta che vi fui, un orefice,
il quale mi venne a molte miglia incontro colle maggiori feste del mondo, e
mi volle ospite suo, e spese ogni avere per festeggiarmi; incantato della
mia gloria. Oh i posteri lo sapranno. A Bergamo conoscete il Grotto,
fortunato raccoglitore delle opere del gran padre dell'eloquenza?
Osservate: e' m'ha copiate le _Quistioni Tusculane_, di cui io non aveva
scoperto che parte, e mandommele a regalare. Che carattere elegante! Io
stesso, calligrafo qual mi vanto a nessuno secondo, non n'eguaglierei la
nitidezza. Ma voi, deh, quando tornerete in Italia, cercate per me opere di
Cicerone. L'Italia è inesauribile miniera. Colà ho rinvenuto il
trattato _de Gloria:_ che gioja di libro! Ora l'ho prestato a Convenevole
maestro mio [27], che se ne delizia. In Verona scopersi le _Lettere
famigliari_, e queste _ad Attico_ che ora trascrivo: le opere di Catone, di
Censorino, di Varrone sopra l'agricultura, le _Commedie_ di Plauto, le
_Istituzioni_ di Quintiliano, colà io le ho disseppellite. Che non darei
per iscavare il libro _De Republica_ che deve esser una perla, e le
_Consolazioni_ e le _Lodi della filosofia_! Ma in Francia, nulla v'è a
profittare: i libri sono merce esotica. Basta il dirvi che in tutto
Avignone non trovereste un esemplare della _Storia Naturale_ di Plinio, se
non dal papa o da me».

Per accorciarla, il Petrarca non parlò che per sè, che di sè; onde
Venturino ebbe a dire allo zio arciprete:--Come predica bene quel signor
canonico!» e Franciscolo, lasciandogli la sua ammirazione, portò seco
l'idea che questi grand'uomini non rechino grande ristoro nè grande
ajuto nelle infelicità. Se pensasse il vero, lo dica chi ne praticò.

Io toccherò innanzi, contando come gli occhi del Pusterla si volgessero
continuamente all'Italia, e per tornarvi non gli pareva qualche volta
neppur troppo grave la prigionia e fino la morte. In sulle prime, la
ricchezza sfoggiata il fece trovar bene alla Corte pontificia, guardato,
accennato da ognuno, ed all'ambizione del comparire univasi, per mitigare
le sue amarezze, la speranza di poter cogliere i frutti del martirio,
più sempre agognati che le sue palme.

Perocchè il papa se la diceva poco coi Visconti, i quali, desiderando
tiranneggiare la patria, opprimevano la causa guelfa per affidarsi agli
imperatori, da cui ricevevano sempre appoggio i nuovi signorotti. Le cose
erano procedute a segno, come altrove abbiamo accennato, che il papa, in
castigo del parteggiare coll'imperatore Lodovico scomunicato, proferì
l'interdetto contro i Milanesi. Terribili e spaventose conseguenze recava
questo castigo; gli altari restavano senza croci nè candellieri, se non
al momento che si celebrava la messa a porte chiuse: nessuno, eccetto i
chierici, i pellegrini, i mendicanti ed i fanciulli minori di due anni,
potevano seppellirsi in luogo sacro: nessuno accettavasi alla penitenza ed
all'eucaristia se non in articolo di morte; proibito il menar moglie o
baciarla o mangiare carni, e fino radersi: ogni giorno, a terza, sonavano
le campane, al cui tocco dovevano tutti recitare preci di penitenza.

Vero è bene che, parte perchè abituati, parte per espresso comando
dei Visconti, queste proibizioni non erano così a minuto osservate in
Milano; e i papi stessi, rimettendo dal primitivo rigore, erano discesi a
qualche concessione; però, in tempi come quelli ove la religione
esercitava tanto imperio sulle opinioni e sulla vita, troppe anime timorate
venivano a trovarsi in continuo contrasto fra la coscienza propria ed i
comandi superiori, dal che seguiva uno scontento universale, un desiderio
ogni giorno più sentito di tornare in pace col capo de' Fedeli. E già
Novara, Como, Vercelli, altre città avevano fatto la loro sommessione al
papa, promettendo di non aderire a Lodovico il Bavaro nè a veruno
scismatico, onde erano state ricomunicate. Bologna, che aveva ricalcitrato
al pontefice, ora, per lo spavento di vedersi privata d'ogni splendore col
perdere l'Università, e per la speranza che la Santa Sede potesse
colà trasferirsi, erasi di nuovo piegata all'obbedienza. Siffatti esempi
potevano moltiplicarsi a scapito dell'autorità de' Visconti; tanto
più che l'imperatore Lodovico, del quale chiamavansi vicarj, era scaduto
interamente di credito e di potere: e non più riverito perchè non
più temuto; non poteva col nome suo ricoprirne l'usurpato potere.

Tenevano conto di tutti questi fatti coloro che raggiravano le tresche
politiche; e quindi accarezzavano il Pusterla, che davasi gran moto, e
spendeva senza misura, nella fiducia di nuocere ai nemici della sua patria.
Ma intanto da questa patria nessun ragguaglio riceveva, stante la
scarsità dei corrieri, i quali non venivano spediti che espressamente da
Corte a Corte pei pubblici affari o pei principeschi. Ed oltrechè questi
rimanevano un segreto dei gabinetti, e i privati stavano anni ed anni a
conoscere gli avvenimenti anche strepitosi delle terre forestiere, ogni
comunicazione era con Milano interrotta per le ruggini sopradette. Da Pisa,
città di più vivo commercio, sapeva il Pusterla che stavano colà
suo fratello e gli altri che noi v'incontrammo; aveva loro, per sua
sventura, dato a conoscere dove fosse: qualche imbasciata n'avea ricevuto;
ma parte neppur essi erano esattamente informati delle condizioni di
Milano, parte trascuravano gli interessi e gli affetti privati per
discorrere dei disegni sediziosi, delle esagerate speranze. Che ne sarebbe
dunque de' suoi conoscenti? degli amici? di Buonvicino? E Margherita? la
sua Margherita, alla quale oh come ora gli rimordeva d'aver recato torti,
d'averle causata tanta sciagura, di non essere con lei camminato alla
felicità! Oh potesse mitigarne in qualche modo i patimenti! potesse
chiederle perdono! potesse almeno averne notizie! mandargliene. Quindi un
intenso struggimento di tornare, se non altro di avvicinarsi alla terra
natale.

E poichè alle anime passionate ogni accidente per piccolo
s'ingigantisce, fortemente il commossero gli ambasciadori, che
contemporaneamente giunsero da Parigi e da Roma per invitare a gara il
Petrarca a ricevervi la corona trionfale. Allorchè questi, preferendo la
patria, si recava ad incoronarsi di alloro in Campidoglio, il Pusterla
nemmeno potè sorridere al vedere il grand'uomo mostrare suprema
contentezza nel ricevere un _lauro_, principalmente perchè somigliava di
nome a colei che _sola gli pareva donna:_ e vedendolo restituirsi in Italia
fra gli applausi, fra un trionfo che rinnovava la pompa dei tempi antichi,
a vanto non più d'insanguinati conquistatori, ma del pensiero e della
scienza, ebbe tal pressura al cuore, che per gran tempo ne stette
malato--malato di quel mal di patria, che spezza tante esuli vite.

Col Petrarca era egli cresciuto di dimestichezza nel vederlo presso i
cardinali a cui profondeva adulazioni; e l'aveva pregato che dall'Italia
gli scrivesse. Lo fece il grande Aretino, e poichè gli ebbe dipinto coi
colori retorici le rivedute bellezze del paese _che Apennin parte_, e la
festosa venerazione onde l'accoglievano da per tutto, lo esortava a fuggire
da quel suo ricovero:--Va da per tutto, anche fra gl'Indiani, purchè tu
non duri in cotesta Babilonia, non rimanga ancor vivo in cotesto inferno.
Avignone è sentina d'ogni abbominio: le case, i palagi, le chiese, le
cattedre, l'aria, la terra, tutto v'è pregno di menzogna; le verità
più sante vi sono trattate di favole assurde e puerili; terra di
maledizione, se non avesse dato i natali a Laura»[28].

Il Petrarca con ciò non faceva che un esercizio di stile, egli che in
quell'_inferno_ erasi annicchiato così per bene, e che fra poco vi
doveva tornare di voglia: ma strazianti cadevano quelle parole sull'anima
ulcerata del Pusterla. Al quale già riusciva insoffribile quella fredda
compassione; quella diffidenza che tiene dietro ai passi dei forusciti per
farli più amari; quella perpetua propensione degli uomini, e massime dei
fortunati, ad attribuirò all'infelice la colpa delle sue disgrazie, e
credere un tristo colui che non seppe camparsela bene in casa sua, fra'
suoi concittadini. E poi la pietà è sentimento istantaneo, e presto
da luogo all'indifferenza.

A fargli ancora più rincrescere la stanza d'Avignone sopravvenne un
cambiamento di politica rispetto ai Visconti. Luchino e Giovanni
sentirono la necessità di rappattumarsi colla Corte pontificia;
onde spedirono ad Avignone soggetti creduti ed esperti, quali furono
Guidolo del Calice sindaco e procuratore, che già aveva maneggiato
la sommessione di altre delle città interdette, Mafino Sparazone
giureconsulto, e Leone Dugnano, quel che dappoi compilò gli Statuti
milanesi. Le benevoli inclinazioni di Benedetto XII agevolarono il
rintegramento della pace e della concordia. Lo zio arciprete, tutto
sereno, un giorno raccontò al Pusterla:--Consolati! la nostra
patria torna finalmente al cuore, torna la pecorella sviata all'ovile.
Oggi, in pieno concistoro, i messi del signor Luchino protestarono
della piena e sincera riverenza figliale e della zelante fedeltà
dei Visconti verso la Santa Sede, ad ogni voler della quale mostransi
disposti a consentire. A nome del signor loro professarono di credere
che il papa non può esser degradato dall'imperatore, come
pretendeva quel superbo Lodovico di Baviera: che, quando l'impero sia
vacante, come è adesso per la scomunica e la deposizione d'esso
Lodovico, al papa solo ne spetta l'amministrazione, e quindi da lui
solo Luchino e Giovanni riconoscono il governo di Milano e delle
città dipendenti». Il Pusterla, a cui tutt'altro che buon suono
faceva quest'annunzio,--Ma (l'interruppe), questo vuol dire ch'essi
dichiaransi soggetti al pontefice in parole, purchè egli li lasci
padroni in fatti.

--Non credere però (ripigliava l'arciprete Guglielmo) che il papa non
abbia ingiunto di buone condizioni. I Visconti, nè direttamente nè
indirettamente imporranno gravezza di sorta sopra luoghi e persone
religiose: pagheranno l'annuo tributo di cinquantamila fiorini d'oro; a
queste condizioni il santo padre cassa come iniqui i processi d'eresia
fatti contro i Visconti, diciannove anni fa: li nomina vicari imperiali di
Milano e delle altre città: permette che Giovanni venga
all'Arcivescovado di Milano, riservandone alla Santa Sede diecimila fiorini
di rendita. Ogni scomunica, ogni interdetto rimane prosciolto a patto che
si erigano in Milano due cappelle a San Benedetto, una in Sant'Ambrogio,
l'altra in Santa Maria Maggiore: ove in perpetuo, il giorno che i vescovi
di Lodi, di Cremona, di Como ribenediranno la città in questo maggio,
abbia a cantarsi messa coll'intervento del principe e de' magnati, e
distribuire a dugento poveri un pane di frumento da dodici once.
Quest'ultima condizione la suggerì il papa di propria testa.

--E degli esuli? e dei prigionieri, non disse nulla?

--Nulla: raccomandò per altro ai signori di Milano d'essere pii,
generosi, più pronti a ricompensare che a punire, se vogliono che
altrettanto faccia con loro il Signore. Ma, nipote mio, appena io mi
contengo dalla gioja al pensare la contentezza dei Milanesi, de' miei buoni
Monzaschi quando udiranno la fausta novella: e riaperte le chiese, e
sepolti in luogo benedetto i loro morti, intender di nuovo i cantici,
assistere alle cerimonie solenni che da venti anni più non vedevano!»

E le lagrime agli occhi venivano all'arciprete in così parlare. Ma
questi trattati, questa conclusione molto male notti cagionarono al nostro
Franciscolo, tra il dispetto delle speranze fallite e del prosperato
nemico, ed il timore di vedere in compromesso la propria sicurezza.
Oltrechè coloro, i quali si conducono non per sentimento ma per
machiavellica, e che alla Corte blandivano il Pusterla come uno stromento
da poter venire a taglio contro i nemici del loro padrone, ora gli facevano
poca accoglienza e manco cera, sì perchè diventato inutile, sì per
non fare cosa che disgradisse al nuovo amico: e i cortigiani, che pigliano
il tono dai capi, il ricevevano con tale grazia anacquaticcia, che la sua
ambizione ne pativa acerbamente, e gli persuadeva che quella non fosse
più aria per lui.

In così funesto punto giunse in Avignone Ramengo, e si presentò al
Pusterla come ad un amico. In fatti egli era un antico fedele di sua
famiglia, legato ad esso dal benefizio: era stato lo sposo di quella
Rosalia che, se egli non aveva amata d'amore, aveva però tanto
compatita; le enormità di lui, l'attentato all'onore della Margherita,
gli erano restati ignoti. Quanto all'ultimo tradimento, Alpinolo su quel
primo momento erasi gettato a' piedi del Pusterla per confessargli la
propria debolezza e la scellerata perfidia di Ramengo; ma per correre a
sapere il destino della Margherita s'interruppe, e confessioni di tal
genere se non si facciano in un primo impeto di generoso pentimento la
riflessione ne toglie il coraggio.

Così era succeduto al giovane, che animosissimo contro gli aperti
cimenti, veniva meno in que' minori, ove non trattavasi che d'affrontare il
perdono d'un offeso. Colle penitenze imposte a sè medesimo acquetò il
comando che la coscienza gli faceva di manifestare il suo errore, e si
tenne discosto da Franciscolo. A questo invece, allorchè stava
rimpiattato nella cella di Brera, frà Buonvicino aveva nominato Ramengo
tra quelli banditi come ribelli: e quantunque sapesse che costui non aveva
mai avuto parte seco, non che a trattamenti, neppure ad alcun discorso
politico, forse che migliori ragioni aveva Luchino di perseguitare gli
altri tutti! Non poteva essergli parsa colpa bastante l'avere Ramengo
portata antica osservanza e servitù colla casa del Pusterla?

Al primo veder Ramengo, se gli fece incontro l'esule nostro con
cordialità, domandandolo:--Siete venuto spontaneo o spinto?

--Mezzo e mezzo», rispose l'altro: ed infilò quante bugie occorrevano
per acquistar fede e compassione presso il signore. Concittadino adunque,
noto d'antica benevolenza, come lui esule della patria, come lui
perseguitato e forse per sua cagione: erano titoli più che sufficienti
onde il Pusterla accogliesse a braccia aperte quel mostro, lo volesse
ospite suo e con ansietà prendesse a ragionar seco di quel ch'è il
primo discorso d'ogni foruscito, la patria ed i suoi.

Pur troppo il liuto era in mano di chi lo sapeva sonare. Avviluppando il
falso col vero, seppe Ramengo, non che rimuovere ogni sospetto dal cuore
del Lombardo, acquistarsene intera la confidenza. In uno sfogo che da tanto
tempo non gli era più consentito, Francesco espose al nuovo venuto i
dispetti suoi pel mutato contegno de' cardinali e il sospetto fondato, a
dir vero, sopra troppi altri esempi di somiglianti slealtà.

Devo ricordarvi, lettori miei, come Ramengo ai rifuggiti di Pisa avesse
mostrato certe lettere di Mastino della Scala, delle quali diceva dover
essere portatore al Pusterla. Era un'altra ordita di sua accia.
Perocchè, sapendo quanto Francesco fosse bene nelle grazie dello
Scaligero, e come questo l'avesse confortato a vendetta durante la sua
ambasceria a Verona, finse, d'accordo con Luchino, una carta, nella quale
il signore veronese mostrava all'amico suo come gli fosse venuto lezzo
dell'arrogante potenza del Visconti, aver già cominciato a mostrarsegli
avverso coll'impromettere sua figlia Regina all'esule Bernabò Visconti:
ora volere del tutto buttar giù buffa, e bandire guerra a costoro che
ponevano in gran punto la libertà di tutta Italia. Lo invitava pertanto
alla sua Corte promettendogli e lauti assegni e grado d'autorità pari al
merito d'uomo sì universalmente caro e riverito: che trarrebbe sotto a'
suoi vessilli chiunque fosse voglioso di ricuperare la patria e il franco
stato.

Sopra un animo ambizioso e irrequieto come quel del Pusterla, il colpo
riusciva da maestro; e Ramengo, battendo il ferro mentre era caldo, gli
espose le condizioni di tutta Italia, i disegni dei forusciti che aveva
potuto subodorare a Pisa: raccontò come con questi si fosse abboccato ed
inteso, e che anche da parte loro veniva a sollecitarlo perchè prendesse
pietà della patria, che gli chiamava mercede: uscisse dall'inerte
riposo: si ricordasse come Matteo Visconti dopo nove anni d'esiglio, fosse
tornato in signoria, allorquando i peccati dei Torriani prevalsero a quelli
di lui.--Ed ora (soggiungeva) i peccati del Visconti hanno colma la
misura. Dei vostri amici alcuni già hanno perduto la testa sul patibolo,
lasciando a voi per eredità il vendicarli: altri aspettano ancora un
giudizio, di cui voi non potete cambiare l'esito prestabilito; i liberi
tramano qualche nuovo colpo. E la donna vostra? quella incomparabile geme
nelle prigioni del sozzo Luchino. In chi altri può essa avere speranza,
dopo Dio, se non in voi? Finchè qui dimorate, la vostra sicurezza è,
o vi sembra maggiore: ma intanto neppure un passo date per la salute di
lei. Non avrà ella ragione di credere che l'abbiate dimenticata o in
poco conto? I cittadini vostri non potrebbero accusarvi di codardo o di
neghittoso? voi, quel solo che potete dar ombra a Luchino, e state qui allo
schermo dei manti sacerdotali? Se invece osate, se raccogliete gli amici, i
consorti vostri, più di sei capelli diventeranno canuti al tiranno della
Lombardia, tutta Italia si scoterà dal pigro sonno. E poniam pure che lo
Scaligero vi venisse meno delle sue promesse--promesse di principe--;
nemici al Visconti ne troverete in ogni lato per darvi mano. Pisa stessa,
avversa e timorosa, quanto si voglia, non darà soccorso ad uomo sì
reputato, per ficcare una spina nel piede al suo nemico? coi denari e col
credito vostro facilmente assoldate delle bande in ajuto della causa
migliore. Lodrisio non fu ad un pelo di rovesciare la baldanza dei Visconti
con nulla meglio che una turma prezzolata? Quanto più voi che, non in
soccorsi mercenarj, ma porrete fidanza in coloro che generosamente
combattono per la patria e per la libertà».

Queste o sì fatte ragioni convalidava col venire tratto tratto, in vista
tutto pieno di compassione, stimolando la gelosia del Pusterla nel
dipingere il pericolo in cui si trovava l'onestà della Margherita. E si
confessi ad onore di Francesco, che gran colpo faceva sull'animo di lui il
timore che ella potesse credersene dimenticata; e che la noncuranza
mostratane nei giorni di sua prosperità, ora la dovesse trarre nella
persuasione che, lontano e fra distrazioni d'ogni genere, egli negligesse
l'eccesso delle miserie di lei. E chi dirà se quest'idea veramente non
si aggiungesse qualche volta ai tanti spasimi di quella nostra infelice?

Ondeggiando tra la fantasia che gli sorrideva un avvenire di vendetta e di
dolcezza, e i consigli dello zio e di Buonvicino, talora sospinto ad
avventurare ogni cosa di bel nuovo per uscire dal tedio d'una calma,
somigliante a quelle micidiali che colgono talvolta i naviganti in mezzo ai
mari dell'equatore; tal altra bramoso di pace, di un riposo di cui si
sentiva più cupido che capace, provava la pessima delle condizioni,
quella d'uomo che non sa prendere partito.

--Perchè non ricorrete a Tommaso Pizzano?» gli suggerì Ramengo.

Era il Pizzano un astrologo, in quel tempo rinomatissimo ad Avignone; e il
sostituire ai calcoli della prudenza gli indovinamenti degli impostori o le
lusinghe di chi non sa che consentire, era allora, e non allora soltanto,
ottimo spediente per gli esitanti. Piacque il consiglio a Francesco; e
l'astrologo, dopo che, con gran mostra di studj e di cognizioni arcane,
ebbe molti giorni durato ad osservar la mano di lui e le stelle, e formare
l'oroscopo, e trovare l'ascendente, alfine gli annunziò:--La vita vostra
si trova ora in gravissimo punto; alcuno, col mostrarvisi grazioso, pensa
tradirvi ai vostri peggiori nemici».

Non bisognò più avanti per confermare il Pusterla nel dubbio già
concepito che la Corte papale volesse, come una vittima espiatoria,
consegnarlo al perdonato Visconti. Si allestì dunque alla partenza; e
per quante ragioni gli adducesse lo zio, per quanto il buon uomo
l'esortasse, fin colle lagrime agli occhi, a dar ascolto alla divina
sapienza, la quale chiama stolti coloro che spendono il loro denaro in
tentare la rovina dei potentati, per quanto lo assicurasse che tradimenti
così neri non dovevansi mai aspettare da sacerdoti del Dio della
giustizia, il Pusterla si ostinava più sempre nel suo proposito di
tornare in Italia.--Finalmente (diceva) che male me ne potrebbe seguire?
Non mi pongo già in arbitrio del mio persecutore: lo tolga il cielo: non
mi confido ciecamente ad una indulgenza, ad una generosità menzognera.
No: rivedo l'Italia.--Italia! chi può proferirne il nome senza
aggiungervi bella e sventurata? Mi accosto agli amici, a' miei sofferenti,
alla Margherita. Colà potrò più da vicino scorgere e calcolare la
situazione della patria mia; e più che non Avignone, terra da preti, mi
fornirà di sicuro e decoroso asilo Pisa: Pisa libera, signora dei mari,
e nemica dei Visconti».



CAPITOLO XVII.

TRADIMENTO.


Pertanto al principio di luglio del 1341, colle lettere che in diligenza
spacciavano da Avignone gli ambasciadori milanesi per mezzo di Pedrocco da
Gallarate, il signor Luchino riceveva un biglietto di Ramengo, che noi
riporteremo tal quale l'abbiamo tratto fuori dagli archivj segreti.


_Magnifico Domno Luchino_

_Come arrivè, juxta la jussione vostra, in Avenione, è reuissilo de
trovare el malesardo Francisco Posterola, cum el toso. Nil magis cupiens
quam fare servitii al prenze nostro, a ki messer Domenedio konceda
lætizia, my sono andato dreto tanto, che induxetti ello a imbarcarse
verso Portum Pisarum. E mo se partiremo per Niza de Proventia, La seguente
septimana, Deo favente, fiemo in mare sul naviglio nuncupato el Caspio.
Ideo suplico vostra magnificentia a disporre de modo ut al nostro advento
sia parato per catturare el Prefato Posterola et putto. Tunc riferirò
più destensamente omne cosse a piedy de la Vostra Serenità, ke ora
baso humilemente.

Pridie kal. julii anno domini MCCCXLI.

                      Ramingus de Casale._

Secondo che qui accennava, appena si fu messo mare acconcio, Ramengo salpo
da Nizza, conducendo il suo nemico, nulla più diffidente che la pecora
tratta dal villano al macello. E la fortuna servì ai disegni dello
scellerato, meglio ch'e' non potesse sperare: giacchè, mentre non mirava
che a trascinare il Pusterla in luogo più vicino, dove meglio potesse
nascere occasione di darlo preso, essa gli agevolò di consegnarlo
direttamente all'inimico.

Pisa (già ne toccammo), capitana della parte ghibellina in Toscana,
gareggiava continuamente con Firenze guelfa: e questo soverchio mescolarsi
delle cose di terra ne aveva disavanzato la potenza sul mare. Intenti a
favorire gli imperatori svevi ed Enrico VII e gli altri, accorrenti al
fiuto delle italiche ricchezze, i Pisani trascuravano di necessità il
commercio ed i lontani possedimenti; la Sardegna si videro tolta dagli
Aragonesi; dovettero abbandonare molti banchi della Siria, acquistati nelle
crociate, più non valendo a proteggerli contro i Musulmani per terra e
contro i corsari sull'acqua; e più non furono i più ricchi e
rispettati mercanti di Costantinopoli e dell'Adriatico.

Dentro provavano il contraccolpo delle scosse esteriori; ed era un
parteggiare micidiale, un odio, un sospetto, che distruggevano l'accordo,
necessario per la prosperità e la sicurezza dignitosa. Alcun tempo prima
la fazione popolare aveva avuto il sopravvento, e poichè questa pendeva
sempre alla bandiera guelfa, legò amistà con Firenze. Non potevano di
ciò darsi pace i nobili, ghibellini per affezione, per eredità, per
calcolo personale, e senza far mente ai reali vantaggi della patria; onde
stavano addocchiando ogni occasione d'umiliare i popolani, romperla con
Firenze, e tornar in auge la fazione imperiale. E l'occasione venne,
allorchè i Fiorentini, desiderando acquistare Lucca, posseduta allora da
Mastino della Scala, rifiutarono come sospetti gli ajuti che Luchino
esibì loro onde toglierla per forza, e la comprarono per
dugencinquantamila fiorini, a patto di lasciarle il governo a comune.

Un rumore senza pari levarono i Ghibellini pisani d'un tale acquisto, per
cui la città, loro nemica naturale, come caritatevolmente dicevano, si
accampava alle stesse porte di Pisa; e sparsero voce che i Fiorentini
avessero stabilito di ridurre Pisa a nulla più che un quartiere, col
nome di Firenzuola. Tali voci, appunto perchè esagerate, guadagnarono
fede tra il popolo; si gridava all'infamia del governo che aveva sopportato
un tale obbrobrio; e secondo le suggestioni dei mettimale, deliberarono di
romper guerra a Firenze.--Daremo ogni aver nostro (dicevano), fin le nostre
donne prenderanno le armi; ma perdio, non lasciamoci togliere Lucca; e il
Signore per certo darà vittoria al diritto contro l'iniquità
arrogante».

Tornati allora in posto i nobili, se l'intesero coi principali Ghibellini
di Toscana e, quel che più importa, con Luchino Visconte, il quale,
indispettito dal rifiuto dei Fiorentini, bramoso di fare onta all'abborrito
Scaligero, sperava inoltre di potere stendere così l'influenza sua sopra
quelle parti, e forse, poichè da cosa nasce cosa, anche il dominio; e
vantaggiarsi di tanto coll'aggiungere ai suoi Stati mediterranei anche un
porto di mare. Chiese dunque a' Pisani cinquantamila fiorini d'oro, l'annuo
omaggio di un palafreno, di due falconi pellegrini e di uno marino; e
consentitigli, ebbe a sè Giovanni Visconte d'Oleggio, soldato di
ventura, che da chierichetto del duomo di Milano salì fino a dominare
dappoi Bologna; e gli affidò duemila cavalli, dicendogli
all'orecchio:--Va, e muovi difilato sopra Pisa: entravi, e in sicurezza di
pace occupala; e fa che i molti partigiani nostri gridino me signore. Se
così ti vien fatto, buon per te».

Ventura fu che l'accortezza degli scaduti popolani rimediasse alla
ambiziosa cecità dei nobili signoreggianti; il colpo fu scoperto e
riparato, e Giovanni e Luchino, senza far mostra di nulla, ajutarono in
fatti Pisa ad ottenere Lucca.

Ma non va mai senza castigo un popolo libero, che attenta alla libertà
d'un altro.

L'alleanza di un tiranno subdolo e attivo qual era Luchino peggiorò i
costumi repubblicani di Pisa, e la trasse a consigli sleali e scellerati.
Che per la prima cosa egli domandasse lo sfratto dei rifuggiti lombardi,
facilmente l'immaginerete. Mandata la proposizione a partito, molti
generosi favellarono contro una domanda sì bassa e vergognosa, ma i
contrarj prevalsero, e quei miseri furono costretti cercare altrove nuovi
oltraggi.

Nelle piccole cose e nelle grandi, nei gabinetti delle dame e in quelli di
Stato, una concessione ne chiama un'altra, un passo dato in falso ne esige
un secondo. Io non vi enumererò i diversi errori, a cui trasse i Pisani
la funesta amicizia del tiranno, bastandomi dirvi che Luchino osò
chiedere di potere, nelle loro acque, appostare il naviglio che riconduceva
il Pusterla, col pretesto che questi fosse un suo gran nemico, un
insidiatore della pubblica quiete; il quale veniva a muovergli incontro una
maledetta trama.

I vili suggerimenti di pochi calcolatori ambiziosi, che si pretendevano
interpreti della pubblica volontà, impressero sulla libera Pisa questa
nuova macchia, senza che la popolazione generosa ne avesse colpa; e
consentirono che Buonincontro da Samminiato, condottiero agli stipendj di
Luchino, arrestasse in mare una galea sotto bandiera pisana, e ne
strappasse fuori il ribelle d'un altro Stato.

Così nera, sozza, avvilupata procedeva la politica--di quei tempi.

Varia fortuna corse sulle prime il vascello il _Caspio_, che di Francia
riconduceva il Pusterla: rovesci di pioggia, turbini di vento e tempeste
furiose, più che non sogliano mettersi in quel mare, parevano quasi
voler respingere gli sventurati dalla terra desiderata e funesta.
Venturino, riavendosi dal nauseato stupore in cui lo aveva gettato il
trabalzare del naviglio,--O padre (diceva) perchè ci siamo dipartiti da
quel paese? Là stavamo fermi in terra e sui nostri piedi».

E il Pusterla rispondeva:--Perchè quella non è la nostra patria.

--Ma ora dove si va?

--Nol sai? andiamo in Italia.

--In Italia? Oh dunque nel nostro caro paese, eh? Là udremo ancora
parlare come noi, è vero? Là vedremo tutta gente che si conosce. E la
mamma la troveremo noi subito?

--Povera mamma!» replicava Francesco sospiroso; e, carezzando i biondi
capelli del suo fanciullo,--Sì, la vedremo, se Dio vorrà. Ora prega
per lei.

--Pregare? Oh, non passa giorno ch'io nol faccia; non momento che io non me
la ricordi. Anche stanotte me ne sono insognato. Eravamo là nella
villeggiatura di Montebello; ma la villeggiatura era in città; stavamo
in sala, io e lei; e tu entravi a cavallo con un esercito... Oh, non mi
raccapezzo... ben so che non l'ho mai veduta più bella, nè più
cara. Oh fossi io grande! avessi io il braccio forte! forte come te, come
Alpinolo, correrei ben io a liberarla!»

Il Pusterla lo abbracciò intenerito, e alzando gli occhi verso Ramengo,
che teneva su loro intento lo sguardo, come la vipera sull'usignuolo
ammaliato,--O amico, (gli disse) qual consolazione nella solitudine, nelle
sventure, il trovarsi allato un figliuolo!»

Come al gettar olio sul fuoco, tal divampò Ramengo nell'intendere
parole, che gli rammentavano quanto esso pure avrebbe potuto godere di
quella consolazione; e come gli fosse stata rapita, diceva egli, da quel
Franciscolo che ora n'era beato.--Ma il sarai per poco!» urlò
stringendo le pugna verso il cielo, e precipitossi a sfogare il suo furore
giù nella stiva, tra la meraviglia dei compagni di viaggio.

Frattanto una mattina, al dissiparsi di una nebbia leggiera, simile al velo
che si getta sui mille ninnoli, sugli eleganti gingilli dei tavolini delle
nostre sale, che li copre senza nasconderli, il sole nascente mostrò
spiccate le coste d'Italia. Francesco le contemplava in un'estasi religiosa
piena di memorie, mentre la sua fantasia, stanca di prevedere il male, non
gli dipingeva che le immagini deliziose del passato, le lusinghevoli
dell'avvenire. E il fanciulletto, attenendosi alla mano del genitore, gli
andava col piccolo dito segnando le cime di terra ferma, miste alle
fantastiche apparenze di qualche bianca nuvoletta, sorta sull'orizzonte, e
chiedendo:--Che monte è quello che sporge là in mare? e quell'altro
così elevato e acuto? e questa vetta nevosa? Vedi l'altra laggiù che
fuma? Oh non è un paese quel bianco? Pisa sta forse dentro a quel seno?
Ve' ve' quel vascello che si avvicina! Ei porta sulla bandiera il biscione
come a Milano».

Stava in fatto così: ma quello che pel fanciullo era oggetto di
consolazione, fu di terribile pronostico per Francesco. A osservar la nave
che si accostava, trassero passeggieri sul ponte, e già distintamente,
insieme coll'arma di Pisa, discernevasi quella dei Visconti. Curiosi di
saperne la ragione, non più tosto furono a portata della voce, il
capitano del _Caspio_ chiese nuove a quell'altro.--Viva Pisa e i
Visconti!» fu la risposta; indi, colla concisione e il disordine solito
in tali incontri, informò come Pisa si fosse congiunta coi Visconti di
Milano, e che dal suo porto continuamente traversavano legni alla Sardegna,
ove Luchino, per recente eredità, possedeva il giudicato di Gallura.

--Pisa allearsi col Visconti! (esclamava qualche Pisano) Sarà la
società della pecora col lupo.

--Non dartene gran pena (gli soggiungeva un secondo). È un cavallo
bizzarro che per poco sopporterà il freno; e sbalzerà di dosso il
cavaliere. La servitù non è per le città ricche di marittimo
commercio.

--Per me (diceva il capitano, contemplando con occhio indifferente quella
nave, i passeggieri, il mare, il cielo), per me, comunque stia la patria,
poco me ne cale. Vivendo sempre sulla nave, io mi sento libero come
l'elemento che trascorro».

Questi e simili commenti facevansi a quella notizia; ma per Francesco
riusciva la più spaventosa che in quel momento potesse ascoltare.
Trattavasi nulla meno che della vita sua e del figliuolo, perdute
irreparabilmente se desse in quelle navi. Bianco dunque come le vele del
suo bastimento, coll'ansietà che gli cagionavano l'istinto della vita e
l'amore di padre, cominciò a supplicare il capitano perchè al più
presto desse la volta indietro e tornasse in Francia, esibendogli pagare,
non che le spese del tragitto, ogni danno che ne venisse a lui e agli altri
naviganti, e una grossa mancia per soprappiù; ne destava anche la
compassione col palesare chi fosse, perchè si trovasse colà, a quel
pericolo esposto; prendesse pietà di quel fanciulletto innocente. Udiva
il capitano quelle ragioni, quelle preghiere, seguitando a scompartire le
occhiate fra il supplicante, i passeggieri, il sole, l'acqua; poi,
stringendosi nelle spalle, disse:--Di tutte coteste fazioni io non
m'intrico: io sono libero come il mare. Ma devo stare agli ordini di quel
signore».

E accennò Ramengo, il quale bruscamente gli intimò:--Il vostro
dovere, e innanzi!»

Che benda squarciarono tali parole d'in sugli occhi del Pusterla! Ragioni,
suppliche, lacrime, che non adoperò a intenerire quell'atroce? Per
quanto gli repugnasse l'animo del piegarsi, di cui quel momento gli
rivelava tutta la turpitudine, pure, nulla credendo sconvenevole a un
padre, fino ai piedi gli cadde, e, unito al suo fanciullino, ne
abbracciò le ginocchia, gli rammentò le antiche benemerenze di sua
famiglia, il nome di Rosalia.--Anche voi dovete intender che cosa sia
l'amor paterno.... voi ancora un momento foste padre....»

Il satanico riso che guizzava sulle labbra di Ramengo nel contemplar
l'umiliazione, nell'udir le preghiere del suo nemico, e nel sentirsi
determinato a non esaudirle, si convertì in un ruggito feroce a queste
ultime parole, e,--Padre ancora e marito sarei, se tu non eri, o
maledetto!» esclamò, lanciando con un gesto brutale lontano da sè
il supplicante. Poi soggiungeva:--Ma ringrazio Dio che almeno ho gustato la
consolazione di veder tu pure straziato in quell'affetto onde hai privato
me».

Non poteva il Pusterla comprendere del tutto il senso di queste parole: la
beffarda e insieme atrocissima espressione del ribaldo, non consentiva di
chiederne una spiegazione; e poi il sentimento di sua dignità era
rinato: e colla superbia che sente l'uomo leale allorchè si trova
calpestato dall'infame, voltò dispettosamente le spalle a Ramengo, e,
senz'altro più dire se non:--Mio povero Venturino!» abbracciatosi al
suo fanciullo, sedette sopra la coffa in calma discorata. I passeggieri non
restavano indifferenti a quel patimento, alcuno interpose parola presso
Ramengo, e non profittò più che la voce di un mendicante sulla borsa
di un avaro; i Pisani volevano persuadere il Pusterla a non temere, che,
essendo in mare, su libera nave, non correrebbe rischio di sorta; altri gli
profondevano consolazioni generiche e triviali, giacchè gran filosofi
sono gli uomini nel sopportare le disgrazie altrui e nel consolarsene!
Scampati dai pericoli, vicini a uscire dalle noje della lenta e discomoda
navigazione, allettati da un bel giorno, da un prospero vento, dall'aspetto
del lido, della patria, la salutavano rallegrati.

Solo il Pusterla, tenendosi sulle ginocchia Venturino, sospirava in
silenzio, curva la testa sulle spalle del figliuolo, il quale, strettegli
le braccia al collo, piangeva dirottamente.

Oh! i pericoli, quando sopravvengono all'uomo libero di sè e delle sue
membra, che può volere, può tentare uno sforzo onde svellersi dalla
penosa situazione, se non altro, coll'avventarsi in una peggiore, pare che
raddoppino il coraggio. Ma qui, sopra una nave, coll'inevitabile aspetto
delle medesime cose, delle persone medesime, vedersi oncia ad oncia
avvicinare al precipizio, e non poter tampoco allungare un braccio al
riparo! Deh come allora invocava la tempesta, paventata i giorni innanzi,
avesse anche dovuto in quella perire! Ma calmo affatto era il cielo, e se
non fosse stato l'argenteo solco che la chiglia lasciavasi dietro,
sarebbesi potuto credere il legno fermo in un mare di cristallo; la tinta
carica della volta aerea confondevasi col colore dell'acqua; il sole faceva
scintillare mille vaghi splendori sulla liquida pianura, simili a diamanti
che tempestassero la sciabola di un guerriero.

Il Pusterla girava gli occhi per l'orizzonte, cercando una nube, una vela,
un qualunque oggetto ove aggrapparsi con un resto di speranza, e non vedea
nulla: gli alzava verso la Meloria, verso quelle coste d'Italia che di
tanto desiderio avea desiderate, verso i monti lucchesi... Per vederli da
lontanissimo, o piuttosto per indovinarli, s'era tante volte arrampicato
sui più erti picchi di Francia, stando ad osservarli col mesto tripudio
d'un ritorno più ambito che sperato. Ed ora che se gli facevano sempre
vicini, gli osservava collo spavento di chi, in buja notte smarrito per
deserta campagna abbia seguitato un lume lontano colla fiducia che gli
segnasse un ricovero amico; e si trova condotto invece ad una spelonca
d'assassini.

La nave intanto era stata veduta, e di dietro la Capraja sbucarono due
galere a remi battenti, movendosi alla volta di essa: la vipera viscontea
sciorinata in penna non lasciava dubitare di chi fossero. Il Pusterla le
guardò avvicinarsi; ardì gettare ancora un'occhiata sopra l'infame
Ramengo, ma senza trovargli in viso che una scellerata contentezza: onde
per disperato si aggruppò ancora col singhiozzante figliuolo, e chiuse
gli occhi aspettando l'inevitabile destino. Così prostrossi boccone
nella sua piroga il selvaggio indiano, che sentivasi irresistibilmente
strascinato verso la cascata del Niagara.

Non appena i due legni si furono avvicinati, chiamarono il _Caspio_
all'obbedienza, ed ammainate le vele, si venne all'arembaggio. Il capitano
Samminiato richiese i nomi dei passeggieri; e Ramengo traendosi innanzi, e
accennando quel pietoso gruppo, esclamò:

--Questo qua è Francesco Pusterla».

Colla turpe soddisfazione della sbirraglia quando giunse a ghermire la
preda, si lanciarono tosto i soldati addosso all'infelice, la cui unica
voce fu ancora,--Mio povero Venturino!» e caricato di catene, lo
gettarono nella stiva e seco il figliuolo;--colà almeno gli fu tolto
l'aspetto della ribalda gioja di Ramengo.

L'oro che seco portava il Pusterla divenne bottino del traditore, il quale
non si fidò di rimettere il piede in Pisa, ricordevole dell'avventura
dell'altra volta, e domandò al capitano del _Caspio_ che lo tragittasse
a Genova. Questi, volendo (ripeteva) esser libero come il mare, pose a
terra il suo carico, e tosto diede la volta per dove Ramengo gli comandava.
Il quale poi sbarcato, a gran giornate come chi reca una prospera novella,
attraversò la Liguria e il Monferrato, toccò a Vigevano i confini del
Milanese. Quivi però dovette subire una contumacia, essendo allora
sospetticcio di peste, e massime nella Toscana, ove la fame dei due anni
precedenti sviluppò la contagione in modo che la sola Firenze perdette
in quell'estate quindicimila cittadini. Veniva come un tremendo foriero di
quella che infierì sette anni dopo; intendo la troppo famosa, descritta
dal Boccaccio, che sterminò centomila persone in Firenze, ottantamila in
Siena, quarantamila a Genova, settantamila a Napoli, fra Sicilia e Puglia
cinquecentotrentamila, restando alcune città, come Trapani, affatto
disabitate; e perdendo tutta Europa tre quinti degli abitanti. Era ben
altro che il colèra.

In quell'occasione valse la severità di Luchino, che con rigorosissimi
cordoni tenne lontano l'imminente flagello. Per tanto Ramengo dovette
durare la quarantena a Vigevano, poi per lo stupendo castello di
Bereguardo, fabbricato dai Visconti, passò sopra il ponte gettato sul
Ticino, lungo un miglio, largo e sfogato a segno da potervi sopra correre
tre carri di fronte e sotto le navi più grosse; con ponti levatoj in
capo, e due rôcche di legno assai forti in ordine di battaglia.
Benchè fosse uno dei bei lavori architettonici, non credo che Ramengo
v'abbia posto gran mente; e tanto meno, nel venire da Abbiategrasso a
Milano lungo il Ticinello, avrà considerato l'ardimento d'una
piccolissima repubblica, che osava tentare una tanta opera, qual era
condurre artifizialmente il Ticino per trenta miglia fino alla città.
Entrò in Milano per la stessa porta Ticinese, dond'era entrato
quell'altra volta colla parata trionfale; passando dalla Palla, diede
un'occhiata al palazzo del Pusterla, ove in benemerenza abitava il capitano
Lucio; e coll'aria trionfale di chi sente d'avere compita una bella, se non
buona impresa, si presentò alla Corte di Luchino.

Il buffone Grillincervello stava nell'anticamera in mezzo a camerieri e
donzelli e paggi, insinuando la morale, e additando i buoni esempj con
certe sue storiacce, ond'era provvisto a dovizia.--E sicchè (diceva) non
vedendo ella altro modo di trovarsi col ganzo, ed egli non rifinendo di
richiederla, gli fece intendere che, la tal notte, entrasse nella camera
dove essa dormiva col marito, e si facesse alla proda del letto, dalla
banda di lei.--Ma, se il marito sente, e m'accoppa» diceva il baggiano.
Ed ella:--Portate in mano un par di guanti, e se vi accadesse di esser
sentito, scoteteli, imitando il batter delle orecchie di un cane. Egli vi
crederà il bracco suo fidato, che cuccia sempre nella stanza
vicina.--Non occorre altro; e l'uomo piano piano, quatto quatto, entra fin
al talamo beato. Un'anima di sambuco di quella sorte, pensate che paura!
che battisoffiola! Moveva i passi come camminasse sulle uova; teneva il
fiato, da gonfiare come una bôtta: ma quando si dice nascere
disgraziati! il diavolo ci mise la coda, e ser colui urtò della
maledetta nella cassapanca da piedi della lettiera. Il marito ode:--_Chi
è là?_ e il prode, che non aveva pelo che non gli tremasse, comincia
a dimenare i guanti. L'argo ripete l'intimata, e l'altro a scuoter più
forte. Il marito balza dal letto; e il gaglioffo, vedendo che l'agitare dei
guanti non bastava, credette far l'effetto coll'aggiungere, con una gorgia
da Cittadella, _Sont el brach_»[29].

Uno scoppio di risa vive e sguajate secondò ed interruppe quel racconto;
nel più vivo delle quali appunto ecco entrare Ramengo. Tutti gli sguardi
si volsero a lui, come al comparire d'un resuscitato; Grillincervello,
troncata a mezzo la favola, tese il dito verso lui con un _oh_ lungo e
strascicato, fece due capriole, ed entrato da Luchino roteando il suo
berretto e facendo mille attucci da babbuino,--Marcia, sparisci e torna
(esclamava). Quanto mi pagate, ed io colla mia polvere di biribara, vi fo
comparire qua in petto e in persona Ramengo da Casale?».

Luchino non mostrò nè meraviglia, nè piacere; già l'aspettava,
onde asciutto rispose:--Entri.

--Entri qui, o in carbonaja?» domandò Grillincervello meravigliato.

--Qui, qui,» replicò Luchino.

--E ch'io vada ad avvertire mastro Impicca di prontare i ferri del
mestiere?

--Meno scene», l'interruppe Luchino, bujo come un diesire: e
Grillincervello, che sentivasi ancora del le bôtte rilevate in
quell'ultima lezione alla rocchetta di porta Romana, non istette a farselo
dire due volte; e introdotto Ramengo, diceva agli scioperoni
dell'anticamera:--Non avevo mai visto i tordi andare a cena col
cacciatore».

Il vile cortigiano espose a Luchino di punto in punto tutta la sua
involtura e l'iniqua trama, mettendo nel racconto la furfantesca
soddisfazione che gli scaltriti usano nel narrare come trappolarono un
semplice ed innocente. Luchino gli attendeva colla severità consueta, e
s'avvicendavano in lui la contentezza della riuscita, e l'inesauribile
disprezzo che tutti provano pei traditori e per le spie.

--Ed ora (soggiungeva Ramengo dopo finito) se ho ben meritato della vostra
magnificenza, permetta ch'io la supplichi ad impegnarmi di nuovo la fede
sua per la promessa impunità da qualunque delitto, sì a me, sì a
mio figliuolo.

--Dove avete cotesto figliuolo?» chiese Luchino.

--A tempo la vostra magnificenza il saprà; ed io confido potrà farsi
al potere di essa robusto sostegno, quanto volonteroso fu il genitore».

Tratta di seno la pergamena dell'impunità, già speditagli, come
altrove abbiamo veduto, fece che Luchino vi apponesse di proprio pugno la
firma. Conteneva essa che a Ramengo da Casale e a quello che egli
indicherebbe per suo figliuolo, fosse conceduta intera impunità; col
solito ordine a tutti gli ufficiali di rispettare quella ordinanza. Ramengo
teneva in serbo questo colpo estremo per mostrare all'esacerbato Alpinolo
quanto l'amasse, e mitigarlo, e cancellato di bando e di condanna
restituirlo in patria agli onori ed alle ricchezze.

Ma ad onori e ricchezze aspirando, prese egli a mostrare a Luchino la
grandezza dei prestatigli servigi: come per questi si trovasse, non solo
scompigliato nelle proprie faccende domestiche--tacque della buona presa
fatta sopra il Pusterla,--ma disonorato in faccia dei cittadini: qualora se
ne sapesse: onde era del decoro del principe di conferirgli un grado, un
impiego che lo tornasse e mantenesse in riputazione e in grado di
continuargli i servigi. Nol lasciò finire Luchino, ed allumandolo
biecamente, con atto sprezzante ed iracondo, gettatagli ai piedi una borsa
di denaro,--Tieni (gli disse) i pari tuoi si pagano con argento e non con
dignità»: e gli volse le spalle, nè più ne volle udire.

Quanto sia al povero nostro Pusterla, non tardò molto ad arrivare
anch'egli: e il popolo corse a vedere quel famoso capo di ribelli, quel che
voleva mandare Milano sottosopra, disfare lo Stato e ristampare la
religione. Esso pure fu rinchiuso nella torretta di porta Romana; dove
appunto lo vide entrare la sciagurata Margherita, che noi lasciammo svenuta
a quella vista. Al male vogliamo credere il più tardi possibile; ed
essa, la infelice, s'ingegnava di non dar fede ai proprj occhi:--Vedendo
così a spicchio, mi sarò ingannata.--Sarà una illusione dell'amore
e del timore». Ma ogni dubbio le fu tolto un giorno, che il carceriere
Macaruffo entrò nella sua segreta con un portamento di manierato
sussiego, e con un viso schizzinoso, sciamando:--Che tanfo qua entro! Che
odor di chiuso! Perchè non date aria all'appartamento? Non vi si
regge»: e facevasi vento con una pezzolina di seta. La Margherita fu
presta a riconoscere il raso, sul quale ella aveva incominciato a ricamare
una margheritina, che poi non potè finire: quel raso che Buonvicino
aveva tolto dalla sala nell'ultimo giorno che vi entrò, e dato in
carissimo dono al Pusterla, il quale recollo sempre con sè. Ora nel
ravvisarlo, la Margherita si scosse tutta, come alla memoria di soavi
affezioni, di cari giorni, dell'ultimo istante di sue gioje tranquille:
e--Donde aveste quel ricamo?» domandò con ansietà all'aguzzino.

--Che? vi piace?» le rispose il ghiotto, scherzosamente
sciorinandoglielo sopra gli occhi.--Me l'ha dato un altro camerata,
alloggiato qui presso, e che voi conoscete.

--Franciscolo?

--Brava l'indovina! il signore, signorissimo Francesco.

--È veramente lui!» proruppe essa, piuttosto esclamando fra sè,
che non interrogando quel tristo, il quale seguitava:

--Lui appunto: ne dubitate? credereste non ci capitino che dei vestiti di
frustagno? Guardate. Sta sotto a questa chiave ch'è qui!

--E il figliuolo?

--Oh anch'esso, s'intende. Sarebbe una barbarie separar il figliuolo dal
genitore».

Già, per quanto s'industriasse di far inganno a sè stessa, la
Margherita era persuasa anche prima di aver qui vicino i cari suoi; e lo
sapeva la desolata stanza, riempiuta, quei giorni, di gemiti senza
consolazione; ma l'udirselo ora assicurare, ma il vedersi dalle schernevoli
guise di quel figuro strappato fin l'ultimo filo di speranza e di
illusione, faceva su lei quel che fa sopra un reo l'udirsi leggere la
sentenza di morte, benchè già prima ne conosca il tenore.

--E (seguitava colui) m'ha dato questo fiore; ve' come è bello!
perchè vi saluti voi e ve lo faccia vedere.

--Sa egli dunque che io sono qui?» domando la Margherita, ravvivando la
voce, affievolitale da quello stringimento di cuore.

--Se mi disse che vi salutassi, e che....

--E che altro mi manda a dire?

--Oh, vi manda a dire delle altre pappolate... uh! tanto da non venirne a
capo dentr'oggi. Ma non me le ricordo più.

--Deh! procurate ridurvele alla mente», diceva Margherita stendendo le
mani giunte verso il torto ceffo di colui, in atto di tale pietà, che
avrebbe commosso le pietre. Chi sa?... forse le doveva dire cose, che
importassero alla, vita di entrambi; se non altro, una parola d'amore da
colui, al quale tanto maggior bene voleva dopo che quel ricamo le mostrava
quanto viva e delicata memoria di lei serbasse. Ma quel rozzo, digiuno di
ogni sentir gentile, con un gesto espressivo le rispondeva:--Ridurmele a
mente? Non avrebbe ella, signora mia, qualche cosa allato per ajutarmi la
memoria?...

--Nulla; buon Dio! nulla. Voi lo sapete. Tutto quel poco che mi era rimasto
ve l'ho pur dato, tutto, tutto. Che cosa mi avanza più se non questo
trito vestire? Deh! una tal grazia vogliate farmela per carità. Oh, chi
sa che un giorno io non torni in grado di compensarvene? Se no, ve ne
rimeriterà Iddio».

E blanda, supplichevole, appoggiando le belle mani sulle spalle di colui,
tentava piegarne l'impassibile cupidigia, ma non faceva sovra di esso
maggior colpo che il sospiro di un vento di aprile sopra una montagna di
marmo.--Che Dio? che diavolo? che carità? che compensare? (egli saltava
su). La carità, io son uomo da riceverla, non da farla. I _chi sa_ e le
promesse di là da venire, il bettoliere non le scrive. Alle corte; o
avete qualcosa da darmi, e schiodo; se no, statevi colla vostra
curiosità in corpo, finchè non ve lo dica io».

E poichè essa non aveva proprio nulla sottratto all'ingordigia di lui,
nè potea dargli altro che lacrime, che una accorata supplicazione, e
inginocchiarsi a pregare il Signore, esso, rizzato un muso duro, le voltava
tanto di spalle, e facendo sonare più forte i chiavacci nel rinchiudere,
si allontanava pel lungo corridojo cantazzando, finchè la Margherita
più altro non intese fuorchè la sentinella, la quale di e notte
passeggiava dinanzi alle prigioni, alternando due passi uniformi, come
senza volontà, quasi due pesi metallici che a vicenda battessero
sull'ammattonato.



CAPITOLO XVIII.

IL SOLDATO.


Sdrajone sul pavimento se ne stava il carceriere Macaruffo nel corridojo
delle prigioni, facendo sue prove di appetito sopra un tozzo di pane
inferigno e una fetta di lardo, e succiando tratto tratto da una brocca di
vino, che con affettuosa devozione tenevasi fra le gambe, distese sul
terreno. Era notte e silenzio, nè altro splendeva se non un fioco
lampione sospeso alla volta e una lanterna sorda deposta a manritta di
Macaruffo, i cui raggi lo illuminavano a mezzo, e venivano riverberati da
un mazzo di chiavi, pendentegli dalla cintura, e delle quali si sentiva lo
sgarbato tintinnio ad ogni volta che egli desse. Una sentinella passeggiava
da capo a fondo, taciturna, facendo dei monotoni passi rimbombare
sordamente il concamerato corridojo, poi si fermò accanto al carceriere,
e impugnata con ambe le mani l'asta della lancia all'altezza della testa,
se ne fece puntello alla persona, alquanto incurvata verso il Bergamasco,
al quale drizzò così la parola:

--Compare, la tua cena è parca da senno.

--Pane d'un dì e vino d'un anno (rispondeva l'altro). Ce ne fosse
sempre, col caro d'oggidì! Tutto costa un occhio, e nel mestiero si fila
sottile. Maledetta sia l'ora e il momento che scelsi questo mestiero! Fare
il cane tutto il giorno, ingegnarsi di tormentar più che si può gente
che non m'ha offeso per nulla: e in pagamento aver da litigare il pane, e
in tasca neppur tanto da far cantare un cieco. Uf!»

E qui tirava un buon fiato di vino, poi, forbendosi la bocca col dorso
della sinistra, soggiungeva tentennando il capo:--Se non fosse... se non
fosse....

--Ma se tanto ti pesa codesto arrabbiato mestiero, perchè non
lasciarlo?» lo interrogava il soldato.

--Lasciarlo, eh? Mi fai ridere, e ho male. Hai un bel dire tu che hai tutta
la casa nella valigia. Ma di' su: come si fa allora a mantener la moglie e
una nidiata di ragazzi e un'altra di vizietti? E mia madre m'ha fatto qui
un osso, che, è inutile, non posso lavorare: mi fa male: sarebbe un
accopparmi. Ma che serve darsi delle scese di capo? Cacciamo i fastidj
trincando. Mille pensieri non pagano un debito».

E tornava attaccar la bocca alla mezzina, poi ne offriva al soldato con
rozzo garbo, dicendogli:--To', camerata, tirane un sorso, chè il vino
sbandisce le malinconie».

Quegli prendeva la brocca, ne gustava, o almeno vi poneva le labbra, e,
rendendogliela,--Dunque vuol dire che se tu trovassi da vivere altrimenti,
lo faresti, eh?

--Se lo farei? e di che voglia! Non so qual altra vita non durerei per
abbandonare le chiavi, il nervo, i ceppi, i catenacci e il diavolo che se
li porti! Qualunque vita, purchè non fosse quella manifattura del
lavorare. Mi terrei di passeggiare tutto il dì nato a far la ronda, come
te; andrei fino a Gerusalemme in ginocchio, quand'anche vi fossero cento
miglia, perchè, vedi, io son mantello da ogni acqua, purchè si
buschino quattrini, e non vi si abbia a mettere la schiena.

--Ma dimmi, se nel tuo mestiero ti cascasse da guadagnare?...

--Guadagnare?... (domandava Macaruffo con ansietà) Guadagnar denari?

--Per esempio... (continuava il soldato) una cinquantina di fiorini
d'oro?...»

Il carceriere guardò in faccia all'altro con un'aria di attonita
mentecattaggine, poi diede fuori in uno scroscio di riso sgangherato, come
chi ne sente una grossa, ed esclamando,--Sì! son lì che covano!»
bagnatasi di nuovo la gola, porse il fiasco alla sentinella,
dicendogli:--Bacia, bacia questa reliquia, che, a quanto vedo, il cervello
ti comincia a ballare la frullana, e così finirai di darvi volta.

--Non do la volta per niente, (ripigliò l'altro, ricusando di bere) ti
parlo del miglior senno», e cacciò a mano una borsa di pelle, e
svolgendola, fece scintillare allo sguardo del carceriere un bel marsupio
di oro. Stupefatto, questi balzò in piedi; di tratto l'occhio suo,
luccicante per quel che aveva bevuto, lo divenne ancor più per la
maraviglia, e, presa la lanterna, ne fece rimbalzare i raggi sopra quei
ruspi, che il soldato gli faceva scorrere davanti per metterlo in maggior
succhio; e, col dito teso verso di quelli,--Tu, (esclamava) tu, povero
soldato, tanta grazia di Dio? Deh, che mestier grasso è la guerra! Chi
più ruba è più bravo. Quello doveva esser il mio pane. Viver di
robatura non di limatura. Se però non vi fosse quell'appendice del farsi
ammazzare...

--Questi (replicava il soldato con una bizza mal repressa) questi non sono
rubati, ma di buon acquisto. E... e se fossero tuoi?

--Se fossero miei? (rispondeva l'altro, sempre col tono dello stupore). Se
fossero miei, domanderei se Bergamo è da vendere.

--Ebbene, (continuava l'altro) prima di domattina possono diventare belli e
tuoi, e senza una fatica al mondo.

--Che celii?... Ma per guadagnarli, di' su, che s'ha a fare?

--Nient'altro (ripigliava il soldato abbassando viepiù la voce) se non
tirar un catenaccio, e lasciar andare di gabbia due uccelli.

--Zt!...» fece il carceriere, premendo la mano sopra la bocca della
sentinella. Poi, con un tono serio e profondo,--Che? come? due carcerati?
Poffar mio! Camerata, so che tu burli».

Posò ancora in terra la lanterna, borbotton borbottone; si tornò a
sedere dinoccolato presso di quella; pensò, vi bevve sopra, e tacque un
momento.

Ma i fumi del vino facevano effetto: maggior effetto faceva il bagliore di
quei zecchini, il quale, siccome avviene a chi guardò nel sole, era
rimasto fitto, indelebile negli occhi a Macaruffo, che in vita sua mai non
ne aveva veduto altrettanti. Onde il soldato che, scontento del primo
tentativo, non però disperato, avea ripreso il regolare suo passeggiare,
ebbe per buon augurio quando, al tornargli appresso, Macaruffo, con voce
più di rammarico che di collera, rappiccò il discorso, dicendo:--Ma
ti pare? Lasciar fuggire due prigionieri! Domani si cercano: non vi son
più. _Ehi, Lasagnone, che n'è?--Illustrissimo, io non ne so niente,
io; proprio niente, in coscienza_. E lui: _Fuor camicciuola: mettetelo
sulla corda_; e dalla corda alla forca. Cu cu! Avrei fatto la pannata al
diavolo. I denari va bene, ma la forca! Di me, mia madre non ne fa più.

--Oh certo (soggiunse la sentinella affettando scarso interesse per la
cosa); certo, se tu fossi gonzo al segno da lasciarti pigliare. Ma, pareva
a me che con cinquanta di tali fratelli in saccoccia, vi fosse a far meglio
che cotesta arte.--In quanto? in quattro ore tu sei ai confini; varchi
l'Adda, ed eccoti a casa tua, sulle tue montagne, ove voglio chiamar bravi
quei che ti verranno a rintracciare. Tu rivedi la moglie, i figliuoli;
rizzi casa: prendi figura di galantuomo in paese; fai collottola, e la
sguazzi in pace e trionfale».

L'altro teneva le pupille intente senza trar fiato, assorto nelle belle
fantasie che quelle parole e quei denari sviluppavano nel suo cervello,
come in quello di una fanciulla le prime lusinghe di chi le parli d'amore.
Poi, strette le labbra e scotendo il capo, esclamava:--Campare da vivo e
ben avere da morto, è pur bella cosa: non dice male, no, costui». Poi
si tornava a tacere, a pensare; onde il soldato, che s'accorse di far
breccia, rincalzava così:--Ma fai bene: sta a cotesto pane: chè, chi
non sa ghermirla, non la merita. Mi ero figurato che a cinquanta di questi,
guadagnati in grazia di Dio, tu non dovessi torcer il grifo. Tal sia di te.
Questo tesoretto non mi mancherà modo di goderlo, a me. Tu seguita a
ugnerti il muso col tuo lardo, e se un bel giorno al signor Luchino
salterà la bizzarria di cacciarti fuor dei piedi, e tu, vecchio e
impotente a lavorare, colla moglie e coi ragazzi, per Dio! allora dirai:
mia colpa».

E facendo sonare la borsa, se la rimise nella fusciacca, e continuò le
sue volte innanzi indietro, ostentando più trascuranza quanto la cosa
gli stava più a cuore, e più sentivasi combattuto fra la voglia di
rompere il muso allo sciocco montanaro, e la necessità di tener buono
colui, e di star egli medesimo in cervello.

Tutto questo a Macaruffo pareva un sogno, e si fregava gli occhi, quasi per
accertarsi di essere ben desto, e che non fosse, com'egli diceva, uno
scherzo del decotto di uva; e in tentenno fra la paura e l'ingordigia,
l'andava librando dentro di sè. Alzossi; colle mani alle reni e la
faccia curvata, a guisa di un matematico che cerchi la soluzione di un
problema, si pose anch'egli a misurare il corridojo con certi passi
disuguali, ora celeri, ora rallentati, secondo gli passavano i pensieri.
Dapprima andava a ritroso della sentinella; poi, come vide che questi non
rompeva il ghiaccio, se gli accostò:

--Ehi, camerata, chi avrebbero ad essere cotesti uccelli da sgabbiare?»

Il soldato, facendo maggiormente il fastidioso perchè capiva prender
buona piega la faccenda, rispose:

--Mi piacque! Dal momento che non te ne senti, cosa accade far coteste
none? Per iscalzare, eh, poi correre a rifischiarlo? ma ti costerebbe
salata!» e spalancando due occhi di fuoco, faceva colla labarda un
gesto, del cui significato non si poteva dubitare.

--Chi? io la spia? nemmeno pel doppio oro di quel che hai tu allato. Di',
via; non istare sul tirato; toccala su; ho forse detto assoluto che non
volessi? parla dunque. Chi sono costoro?»

Il soldato, accostandosi di più a Macaruffo, gli proferì
all'orecchio:--Quel signore e quella signora là»; ed accennò le
porte, sotto alle quali, uno dall'altra lontano, stavano rinserrati
Franciscolo Pusterla e la Margherita.

--Capperi! (esclamò il carceriere) uccelli grossi.

--O grossi o no, cosa fa a te? (ripigliava l'altro). Quando tu sei fuori,
tanto monta l'aver liberato costoro, come l'aver lasciato sgattajolare lo
spazzaturajo, che fu preso stasera e uscirà domattina. Col divario che
quelli,--già chi non muore si rivede,--quelli ti tratteranno in modo che
buon per te: il monello, all'incontrario, la prima volta che gli darai
nell'ugna ti farà la sassajuola».

Macaruffo ruminava un poco; indi tornava su:--Questa m'entra. Ma in fede
mia, il denaro non m'indurrebbe. Credi, se c'è persona per cui farei
questo servizio, sarebbe quella signora appunto. È così buona! Io la
bistratto, l'aspreggio, che anche Giob rinnegherebbe la pazienza: ed essa
mai un lamento; e mi saluta con cortesia, e mi augura bene a me quand'io
gliene fo delle crude e delle cotte.

--E poi è innocente (soggiungeva il soldato); innocente come una santa:
è una mostruosa iniquità di quell'infame...

--Che innocente o non innocente? (l'interrompeva Macaruffo) I padroni san
loro quel che va fatto, e noi dobbiamo obbedire senza cercare il quinto
piede nel montone. Se la castiga così il signor Luchino, se le ha tolto
fino quei bocconi da paradiso, avrà le sue buone ragioni. E messer
quell'altro chi è?

--Suo marito.

--Lo so; ma che cosa ha fatto?

--Niente, al par di lei; com'è vero che son battezzato».

E Macaruffo sogghignando:--Qui dentro tutti ripetono la stessa canzone. Se
tu sentissi! ci pare il limbo dei bambini. Ma appunto, anche un bambino
egli tiene con sè.

--Sì, suo figliuolo; figliuolo di lor due.

--Ma, vo' dir io, e quello avrebbero a lasciarlo qua?

--No, no: andrà con loro.

--Ma tu hai parlato soltanto di due.

--Oh quest'altro si sottintende: è la giunta soprammercato» diceva
con qualche impazienza l'uom d'arme. Ma l'altro:--Che giunta? che
soprammercato? non tirarmi fuori altre gretole. Se ha da andarsene anche
quello, voglion esser altri quattrini. Dici poco? Tre persone per cinquanta
fiorini! Fuori, fuori degli altri; già per quel che ti costano! O
ripiega in altro modo: o se non sai, buona notte; il cecino resterà in
bujosa.

--Odi, mascalzone (ripigliava il soldato, frenando a stento il parossismo
di rabbia): cinquanta fiorini sono qui, (e gli gettava la borsa): pel
ragazzo guarda questo». E distendendo la mano sinistra, mostrava in dito
un bel diamante. Il carceriere fissandolo, toccandolo, volgendone le
brillanti faccette diversamente alla luce, domandava:--È scaglia di
bicchieri?»

Il soldato lanciò un potentissimo giuraddio, ed esclamando a tutta
voce,--Che tristo ti faccia Iddio! se tu sapessi quant'è prezioso!»
andò colle pugna sul viso del malnato, e col calcio della lancia
battè per terra con tal forza, che Macaruffo diede un passo indietro,
parandosi colle mani spiegate, e dicendo:--Ih ih, che furie! Casca il mondo
per così poco?»

L'altro, ricompostosi come chi si frena per necessità, e col nifo di un
ragazzo che inghiotte una medicina disgustosa perchè sua madre lo
assicura che altrimenti non guarirà, ripigliava:--Questo anello, parola
d'onore, val la metà di quei danari e d'avvantaggio. E te lo darò a
te in prezzo del figliuolo, al primo uscir loro all'aria aperta».

Qui un gran ricambio di _ma_, di _se_, di objezioni, di confutazioni;
sinchè, per non ve l'allungare, il partito e la fuga e il come e il
quando rimasero accordati. Il soldato baciò l'anello, e stette a
contemplarlo fiso fiso. Macaruffo, strettagli la mano e detto--Birba chi
manca», sdrajatosi di nuovo sull'ammattonato, pieno d'allegrezza e di
buon pro ti faccia, al lume della lanterna guardava, pesava, numerava,
fiutava persino i fiorini. Tante volte il denaro corruppe per un delitto;
allora corrompeva per salvare degli innocenti: corruzione ancora: ma del
peccato non deve ricadere la sua parte sopra coloro che strascinano a
commetterlo?

Qui però, o lettori, dovete esser curiosi di sapere chi fosse il
pietoso, che patteggiava lo scampo di esseri, pei quali, tristo il mio
racconto se voi non aveste preso interessamento.

Era Alpinolo. Vi deve ricordare come il lasciammo, in quella funesta sera
del 20 giugno 1340, sulla via di Brera, dove consegnò a frà
Buonvicino il fanciulletto del Pusterla. Scarico di quel sacro peso, allora
primamente rivolse gli occhi sopra sè stesso; e non dubitando di essere
anch'egli compreso nel novero dei proscritti, trascinato piuttosto
dall'istinto della conservazione che da un calcolo di salvezza, errò di
via in via, di porta in porta, e lungo tutta la mal compiuta mura,
finchè là verso la rocchetta di porta Romana, dove era un montone di
materiali preparati per finire i lavori di questa, trovò modo di
uscirne, siccome l'avevano trovato molt'altri dei perseguitati e dei
timorosi.

Vedutosi alla campagna, si diede a fuggire in arbitrio di fortuna e secondo
il cavallo lo portava, come una cosa pazza. Pur troppo conosceva che
immediata cagione di tanto disastro era stato lui medesimo; e per quanto
gli paresse non averne colpa più che di una imprudenza, colpa che la
coscienza dei giovani così facilmente si perdona; per quanto si
industriasse di voltar ogni male a carico dello scellerato Ramengo, pure,
se non un atroce rimorso, certo il più disperato furore lo lacerava:
bestemmiava tutta la razza umana, quasi fosse complice delle iniquità
del suo offensore: ma poi finiva col maledire sè stesso, perchè non
avesse mai saputo frenare gl'impeti sconsigliati di gioventù, perchè
non avesse imparato mai la virtù che, diceva egli, è somma ed unica
nella società, quella di simulare e dissimulare cogli uomini, in cui non
vedeva più che ingannatori ed ingannati, che oppressi ed oppressori, che
il brutale dominio della forza, o il maligno dell'astuzia.

Ben cercava consolarsi, rassicurarsi almeno, col riflettere a quanto aveva
operato per salvezza del Pusterla, all'avere a questo serbato un figlio;
che gli facesse conoscere la speranza, che l'attaccasse all'avvenire. Ma,
come attribuire lode a sè stesso d'avere in parte medicato una ferita,
da lui medesimo aperta?--Non è il Pusterla tuttavia nel forte del
pericolo? quando pure gli riesca di camparne, qual vita sarà la sua,
esule dalla patria, profugo fra sconosciuti, diviso da ogni suo bene, dalla
Margherita?... E questa? Sventurata! sa Dio quante ambasce, quanti
patimenti! Ed io son qui, qui in sicurezza?... No, no, si ritorni;
dividerò con loro i guaj, di che sono stato o causa od occasione;
andrò fuggiasco con lui: lo servirò da fante: gli parlerò della
Margherita, gli conterò il mio fallo, diventerò per penitenza il suo
schiavo: assisterò almeno alle sue miserie, come fui a parte di sue
fortune».

E così, senza dar lena o fiato al suo cavallo, voltava la briglia e si
metteva a ritornare verso Milano. Schiariva già l'alba: ed ecco altra
gente venire di colà cavalcando. All'incerto crepuscolo li ravvisò:
erano altri Milanesi, o colpiti dalla persecuzione, o paurosi di quella, o
goffamente vani di mostrarsi perseguitati. Aveano a capo Zurione, fratello
di Francesco Pusterla, il quale ravvisato Alpinolo,--Ehi! qual furia? dove
si va? verso Milano? indietro, indietro.

--Perchè?» domandò il giovane con piglio fra torvo e smemorato, a
guisa di persona destata per forza.

E l'altro:--Come? non sai nulla? tanti arresti...

--Li so pur troppo!» esclamò Alpinolo.

--Tu avevi entratura colla casa nostra; non la camperesti netta. La
città è chiusa; drappelli di soldati battono la campagna su tutte le
direzioni. Indietro con noi.

--E il signor Franciscolo?» proferì Alpinolo, più per una
riflessione sua che per una domanda ad altrui.

--Non si sa: è scappato; lo raggiungeremo.

--La sua signora?

--L'hanno pigliata».

Se sapete come accori l'udirci assicurare da altri di una disgrazia, di cui
pure siamo certi, non vi stupirete che Alpinolo, a questi detti, si
scotesse da quella specie di sonnambulismo, e urlando, e cacciandosi le
mani fra i capelli prorompesse:--Maledetta spia!

--Oh sì (entrava a dire Ottorino Borro). Non può essere stato altri
che qualche infame spione. Ma...

--Ma non andrà a Roma a pentirsi», l'interrompevano gli altri in
coro; e ruminavano chi potesse esser costui, senza però nè indovinare
nè darvi appresso; e giurando di fargliela pagare. Pronta allora come un
vendicatore, insistente come un rimorso, affacciavasi ad Alpinolo l'idea
del suo peccato: e che colui che maledivano era lui appunto; e perdeva il
coraggio di riferire come la cosa fosse passata. Tutti avrebbero inteso la
sua colpa; pochi udita, nessuno accettata la scusa.

Persuaso dalle loro istanze, e comprendendo come il suo tornare sarebbe,
non solo inutile, ma anche dannoso crescendo i testimonj e le vittime, si
accompagnò col Torniello, con Maffino da Besozzo, con Ludovico Crivello
e cogli altri foruscenti.

Ma da una parte quei fuggiaschi, per cacciare l'incalzante pensiero di
quanto abbandonavano o perdevano, volentieri cercavano ogni occasione di
spassarsi. Benchè si trovassero ancora su terre viscontee, la tirannide
non faceva sentire il suo maligno influsso così lontano da sè, nè
soffocava i buoni frutti della primiera libertà; incontravano cuori
amorevoli, gente cortese, ospitale, che gli soccorreva d'ogni loro bisogno,
li compativa, ed ajutava come potesse. Deposto quindi ogni timore,
cercavano conforti ai casi loro col bagordare sulle bettole, tentare le
fanciulle, mescersi ai giuochi nelle borgate dove arrivavano. Del che li
disapprovava apertamente chiunque avesse fior di senno, e principalmente
Maffino da Besozzo, che ripeteva doversi acquistare credito alla propria
causa, e chiarire l'ingiustizia degli oppressori, con un dolore decoroso,
col mostrarsi allo straniero degni dell'amore dei buoni e superiori
all'odio dei ribaldi. Ma un rabbioso dispetto ne provava Alpinolo, che
avrebbe voluto vederli tutti desolati e sempre colla lacrima sugli occhi,
l'imprecazione sulle labbra. Anche il loro frequente augurare ogni mala
ventura a chi avea cagionato tutto quel disastro, era un martoro
insoffribile al giovane, talmente che più non potea vedersi fra loro.

Una mattina, cerca, aspetta, più non trovano Alpinolo.--Ove sarà
andato?» uno domandava all'altro, e nessuno sapeva rispondere: onde,
persuasi che, per qualcheduna delle sue stravaganze, avesse preso altro
partito ai casi suoi, seguitarono la strada, e passarono in terre sicure.

Imperocchè quello sminuzzamento d'Italia, che sempre di tanto
pregiudizio riuscì al suo politico ordinamento, di qualche vantaggio
tornava a chi fosse costretto sottrarsi alle persecuzioni, offrendogli a
pochi passi dalla patria un asilo, salvo almeno dalla prima furia, e
sinchè il persecutore non avesse tempo di preparargli insidie anche
colà.

Alpinolo, scostatosi da loro con orribili pensieri per la testa, si
avviò lunghesso il Po, verso i luoghi dove avea passato la sua prima
fanciullezza. Quante care immagini gli destava in mente il rivedere quei
luoghi! immagini placide, serene, come son quelle dei primi anni: trastulli
puerili; quiete cure attorno a colui che chiamava padre, ajutando a
distender le nasse, a mettere giù le insidie ai pesci, a cercare
vermicciuoli da infilare su la lenza: immagini a cui aggiungeva una
solennità profonda il bujo della notte che tutt'intorno taceva, e che
formavano, deh quale contrapposto collo stato presente di lui, or che
tornava reo di tanta colpa, abbominevole altrui, esecrabile a sè stesso.

Quali accoglienze avesse alla capanna dei mugnaj lo udiste già
raccontare da Maso a Ramengo. In quel piccolissimo mondo era stato un
grande avvenimento la partenza di Alpinolo, era un grandissimo il suo
ritorno; onde tutti, Alpinolo qua, Alpinolo là; e la gioja e le carezze
loro e fin il tripudio del cagnuolo, avrebbero imbalsamato l'animo di esso,
ove meno profonda ne fosse stata la piaga. Egli, traendo tutto a suo
tormento,--Ecco! (diceva) qui tanto tripudio pel mio ritorno; tanto
disgusto quando scomparirò: e laggiù in quella fogna di città,
spariscono a quel modo tante persone e tali, e pochi lo sanno, e meno se
n'accorano. O gente, gente! Davvero somigliante all'erbe, che una per una
sono fresche e verdi, ammucchiate fermentano e imputridiscono».

Abbiamo già detto altrove siccome colà lasciasse il cavallo, i
denari, e fin quell'anello che teneva caro sopra ogni cosa, come unica
eredità e memoria de' suoi genitori, e che a sè stesso avea giurato
di non levarsi di dito se non per l'ultima cosa di questo mondo. E per
l'ultima credeva egli in fatto abbandonarla, giacchè il suo divisamento
era di uccidersi, per finire a questo modo gli spasimi della sua delirante
volontà.

Con tale proposito, scese al margine del fiume, colà appunto ove gli
narravano che la prima volta avea preso spiaggia semivivo con sua madre: e
dove poi cresciuto, avea piantato una croce sopra il cadavere di essa,
educandovi fiori all'intorno. Ora i fiori erano appassiti; la croce stessa,
battuta dal vento, era crollata. Con mortale scoraggiamento stette a
contemplarla Alpinolo, poi affissossi al fiume, coll'occhio cristallino e
incantato d'uomo senza speranza, e proruppe:--Deh perchè non mi diede
sepoltura quando appena nato m'accolse? Almeno sarei morto innocente e
senza tanto peso d'affanni... e di colpe; senza conoscere gli uomini... in
grembo a mia madre! Oh madre, madre mia! Aver una madre, un padre, qual
consolazione in terra maggiore di questa? Ah! ella è morta, e chi sa
quanto sofferse. Ma mio padre... perchè nol vedo, nol conosco, non gli
parlo una volta? una volta almeno non posso dirgli, Padre mio? Oh questo
solo basterebbe a innondare di dolcezza una vita, di cui non ho assaporato
che il fiele. Mio Dio! se siete in cielo, se ascoltate il pregare degli
uomini, fatemi vedere una volta mio padre; un solo momento, e di più non
vi chiedo.--Ma... che importa a me di mio padre? che m'importa di nessuna
cosa terrena? Tutto è finito. Quest'acqua, ecco il mio rimedio e la mia
speranza: mi fu culla, mi sia tomba. Fra un momento si avvolgerà sopra
il mio capo, ed avrà spento quest'incendio.--Addio!»

Volgevasi a dare un'estrema occhiata al rozzo casolare dei quieti
mugnaj.--Fossi almeno figliuolo di quelli! Avrei padre e madre. Scarso di
speranze e di patimenti, stando al bene e al male con loro, sarei vissuto
della vita oscura e vegetativa degli operosi, che nascono e muojono
ignorati dal mondo che nutriscono. Povera gente! così buoni! Il cavallo
e i denari miei li rifacciano delle spese per me sostenute... Ecco! ho
imparato anch'io dal mondo a credere che tutto si compensi a denaro, a
rispondere denaro ove si domanda sentimento e cuore. Deh almeno ignorino
per sempre la mia fine».

Disse, e si slanciò nel fiume.--O giovani! a tale passo lo strascinava
qual altra cosa se non l'imprudenza?

Nessuno lo vide, eccetto il fido cagnuolo, che si pose ad urlare, a
guajolare, correndo e ricorrendo dal mulino fino alla riva: l'acqua si
chiuse sopra di lui, poi trasportatolo assai più in giù dal luogo ove
erasi tuffato, lo risospinse a galla fra un istante. Ma quell'istante avea
fatto risorgere in Alpinolo l'amore della vita e una risoluzione istintiva
di trarsi in salvo. Espertissimo nel nuoto, ben presto si ridusse all'altra
riva, dove spossato si gettò sulla ghiaja, flagellata dalle onde; ed un
sopore di stanchezza, somigliante al sonno, lo prese. Quando l'anima
tornò agli uffizj suoi, era pentito del tentato suicidio.--Perchè
dare altrui il gusto di avere una vittima di più, un nemico di meno? E
quanto al castigare me stesso, il morire che è mai? Un momento. Il
peggio è vivere: qui sta la forza, qui il coraggio: non nella viltà
di sottrarsi a un peso che ci aggrava.... Ed io vivrò, vivrò pel mio
tormento, ma anche per la punizione di quello scellerato».

Così rasciutti al sol di luglio i panni, unico avere rimastogli, per
trovare come pascersi, su quelle prime si allogò presso un contadino,
aiutandolo nei sudati stenti della segatura. Con due braccia di quella
forza e una tal pertinacia di volontà, era presso a tutti il benvenuto.
Già udimmo annunziare come si fosse imposto il castigo di non profferire
sillaba per sei mesi, nè occorre vi dica se egli l'osservasse a puntino,
e se questo il facesse più caro ai villani, sì per compassione di uno
sgraziato muto, sì perchè non perdeva tempo nel chiaccolare. Così
mise il collo sotto, tirando la vita l'un dì per l'altro, finchè
l'ottobre terminò i lavori campestri: ed egli, ajutandosi alla meglio,
riprese la via, tanto che si avvenne in altri profughi lombardi, i quali lo
tolsero seco, e non sapendosi spiegare quest'improvvisa infermità di
lui, lo rimisero in assetto di panni, e il tramutarono a Pisa. Quivi a suo
tempo ricuperò la favella con meraviglia di tutti, e senza che mai ne
spiegasse la cagione. Già ne fu narrato come a Pisa succedesse il suo
incontro con Ramengo, e come questo gli sfuggisse. Tristo e peggio contento
che mai fosse, Alpinolo per tutti i giorni successivi non si diede pace,
ricercandolo in ogni canto, appostandolo su tutte le vie: ogni giorno
più volte ritornava alla bettola d'Acquevino a ricercarne: ma questo gli
rispondeva:--Cosa credete, che Pisa sia un orto? bisognava mettergli un
grano di sale sulla coda». In fatto Ramengo gli sfuggì pur troppo, ed
egli si rimase col suo farnetico.

Ma sebbene quella città si governasse liberamente, e desse ricetto a
questi e ad altri dei tanti che si sottraevano ai tirannelli, sorti in ogni
paese d'Italia, non è però che vi fossero i ben veduti. Da antico, in
cuore di questi poveri Italiani sono radicati orribili rancori fraterni,
che fanno riguardare come straniero chiunque nacque di là dal monte o
dal fiume ond'è circoscritto quel palmo di terra che chiamano la patria:
rancori che li fecero più ingordi della vendetta che gelosi della
sicurezza; ostinati a volere schiavi pericolosi coloro che avrebbero potuto
provare fedeli e soccorrevoli amici; e che li spinsero a disputarsi a
vicenda un dominio ed una libertà che non doveva a nessuno toccare. Se
poi, da una parte l'esule eccita a compassione i generosi, dall'altra gli
animi vulgari (e il vulgo è più numeroso che non si creda), avvezzi a
confondere la forza col diritto, la vittoria colla giustizia, lo riguardano
con un occhio, se non disprezzante, almeno ombroso, quasi un irrequieto
che, se non seppe trovarsi bene in patria, amico a' suoi compaesani, peggio
il potrà in terra forestiera.

Questo esacerbava ai nostri profughi la loro situazione: talchè,
segregati da quasi tutti i cittadini di colà, si adunavano fra di loro,
e massime le sere nell'alberghetto di Acquevino; ove, discorrendo col
dialetto nativo, trovandosi fra visi tutti conosciuti, cantando le patrie
canzoni, ragionando gl'interessi della terra natale, facevano illusione a
sè medesimi, quasi ancora calcassero quel suolo che ambivano tanto.

L'ostiere li veniva accarezzando, e persuadendo a smettere gli impetuosi
loro disegni,--Fate a mio consiglio, non c'è anche in Toscana buon'aria,
bel vivere, liete campagne, squisito vino e cortesi donne? Perchè
bramate miglior pane che di frumento? Godete la vita e la gioventù».
Ma essi ne beffavano i codardi pareri, e confondendo l'iroso desiderio
colla speranza, tramavano le guise di ricuperare la patria e di
migliorarla, senza mettervi però nè la pazienza, unica operatrice
degli stabili mutamenti, nè un giusto calcolo delle difficoltà che
poi sono rivelate dal primo accingersi all'opera.

Scarse (già molte occasioni avemmo di ripeterlo) erano le comunicazioni
fra gli Stati, non occorrevano gazzette che, spacciando il falso ed
alterando il vero, servissero agli interessi delle fazioni; e se Pisa pei
tanti negozj poteva, più d'ogni altra città d'Italia, cioè del
mondo, ricevere e trasmettere notizie, queste però arrivavano ricise e
in ombra nelle lettere dei mercanti, dei quali era costume non dare mai
nè derrate senza giunta, nè novelle senza frangia. Ciò appunto
apriva più vasto campo alle immaginazioni concitate, che sopra un motto,
un cenno, ergevano i più superbi edifizj, cui la prima aria mandava in
fumo, siccome il bel fenomeno della fata morgana.

Tra quei rifuggiti, molti n'avea di buona fede, che disinteressantemente
amavano la patria, ricordavano i passi che aveva fatto mentre si governava
a comune, e vagheggiavano la gloria di renderla a quel franco stato,
durante il quale tanto era progredita. E per l'abitudine, tanto più
naturale all'uomo quanto è più giovane e sincero, di supporre in
altrui i proprj sentimenti, credevano che i compagni della sventura e del
servaggio fossero anche compagni d'affetti e di pensieri; e che per via di
ragioni si potrebbe, non che Milano, tutta Lombardia ridurre concorde nel
non tollerare un'ingiusta oppressione. E a dimostrarla ingiusta ricorrevano
alla storia,--fievole voce dove tuonano altre più robuste; e ricordavano
i tempi della Lega Lombarda, e l'ultimo atto ove i nostri aveano espresso
la loro volontà, cioè la pace di Costanza; ne sognavano il
rinnovamento, e una federazione che resuscitasse la penisola a nuove sorti
gloriose.

Capo di questi che, comunque passionatamente, pure ragionavano, era Maffino
da Besozzo, quel che, ancora in patria, vedemmo come fosse accusato di
freddo, di moderato, di troppo cristiano.

Pover'omo! balzato nella sventura, ridotto a vedere sempre in opposizione i
diritti col fatto, la giustizia coll'esito, fu tratto al sepolcro da una
malattia endemica tra i forusciti, e che i medici non seppero battezzare,
perchè nei loro cataloghi non hanno classificato il crepacuore.

Altri operavano ad impeto e per vendetta: credevano legittima qualunque via
per ottenere il vantaggio della patria; esageravano, e per sino fingevano i
torti privati e i comuni; i disastri cagionati al paese da Luchino: torti e
disastri che credevano fin troppi per sollevare, al primo invito, tutta
Lombardia contro dei Visconti; ottenere il favore degli altri popoli in
nome dell'umanità; e determinare l'imperatore a sposare la causa dei
molti deboli infelici contro un solo prepotente fortunato.

Questi conoscevano l'uomo!

I pochi poi, meglio astuti degli uni e degli altri, che volevano raggirare
la cosa secondo i loro fini e verso i proprj intenti, applaudivano alle
valenterie dei secondi; fiancheggiavano le ragioni dei primi, e mostrandosi
zelantissimi della libertà, e d'intelligenza coi ben pensanti d'ogni
paese, venivasi acquistando sopra i forusciti un'autorità, che, qualora
se ne presentasse il destro, avrebbero adoperata poco meglio di coloro cui
miravano a spodestare. A questi si conveniva la divisa di tutti i
rivoluzionarj ambiziosi: «Esci di là, che ci voglio entrar io». Mi
dispiace a dire che i più frugatori tra questi erano Zurione Pusterla ed
Aurigino Muralto, che dal vinto Locarno erasi qui pure rifuggito, e che vi
ricorda qual tristo servigio rendesse al nostro Francesco.

A quali appartenesse Alpinolo è mestieri ch'io ve lo dica? ma la
fierezza spensierata ch'egli dimostrò nell'incontro con Ramengo, fece
conoscere agli ambiziosi come costui potesse divenire stromento opportuno a
qualsivoglia colpo arrischiato: onde posero ogni artifizio ad ingannarlo
sul vero stato degli affari, esagerando il malcontento dei Lombardi, le
speranze, le intelligenze, le forze congiurate.

Scorso il primo inverno fra progetti, fra ordire macchinazioni e dilatarle
in Milano e negli altri Stati, coll'aprirsi della primavera aumentarono le
speranze dei nostri forusciti. Nè crediate che avessero trovato qualche
miglior modo ai loro disegni: ma è uno dei fatti più accertati (ne
diano poi la ragione i fisiologi) che il ringiovanirsi della stagione
veniva e viene riguardato dai desiderosi di novità come apportatore del
compimento dei loro voti. Onde, nel mentre ai moderati le circostanze
parevano o sfavorevoli o disopportune, e predicavano doversi aspettare
l'occasione sicura, perchè un tentativo fallito è un puntello al
potere minacciato, gli impetuosi li tacciavano di vigliacchi, di rémore,
d'invecchiati.

--Mentre l'erba cresce, il caval muore (esclamava Ottorino Borro).
L'occasione, se da sè è lenta a venire, bisogna farla nascere. Non
è già tutto disposto?

--Tutto (rispondeva il Muralto). Per messi, per lettere, da ogni parte io
sono stimolato. È un fremito universale... non vedono quell'ora di menar
le mani. In tutti i quartieri di Milano c'è combriccole dei nostri:
nostri sono i caporioni delle altre città: Guglielmo Bruciato di Novara,
Simone da Colobiano in Vercelli; in Cremona Venturino Benzone....

--Passerino Bonacossi di Mantova (l'interrompeva Zurione Pusterla) e il
Lanzavecchia d'Este, ecco, mi scrivono delle gagliarde pratiche che hanno
in piedi con Guglielmo Cavalcabo di Cremona, con Giovanni e Simon da
Coreggio e con Brandaligi de' Gozzadini di Bologna».

E il Muralto soggiungeva:--Per Franchino Rusca di Como, Castellino Beccaria
pavese, e i Tornielli di Novara, e i Vestarini di Lodi, un segno appena, e
sono assicurato che, a vedere e non vedere, metteranno in piedi altrettanti
eserciti.

--Ma in che anni?...» domandava Caccino Ponzone da Cremona. E Bellino
della Pietrasanta gli rispondeva:--Uh! gli anni son fatti per le prigioni.
Il povero Maffino da Besozzo, ripeteva che le nespole maturano solo col
tempo e colla paglia. Non siamo neanche a tiro. Vuolsi aspettare il momento
favorevole, e coglierlo al volo.

--No, no, (ripigliava Zurione) non aspettare: tener tutto in pronto,
perchè occasioni può nascerne una come cento.

--E quali sarebbero?

--Eh! si va a Roma per più strade. Se, per esempio, ai Visconti rompesse
guerra il papa...

--Il papa? (saltava su Ottormo Borro). Ma se non sa predicare che pace, se
non sa cercare che concordia.

--E se fosse vero quel che ci disse quel milanese il giorno della festa di
Ponte, che Mastino della Scala...

--Quello era uomo da credergli!...» così il Pietrasanta interrompeva
Aurigino; ma più violentemente l'interrompeva Alpinolo, mandando tutte
le pesti e tutte le saette addosso all'esecrato Ramengo. Poi, come si fu
racchetato un po' il bollore episodico, suscitato da quel nome e da
quell'idea, Zurione ripigliava:

--L'occasione però meglio opportuna sarebbe se il signor Luchino
morisse.

--A questa ci si ha da venire senza fallo! ma Dio sa quando!» esclamava
Lodovico Crivello.

--È ben vero (seguitava il Pusterla) che la si potrebbe accelerare...

--Un buon veleno, eh?» arrischiossi a dire il Ponzone.

--Sì, (rifletteva il Pietrasanta) ma chi deve essere quel muso che
glielo mesca? Cinto di cagnotti, non accosta al labbro un cibo che non gli
abbiano fatto la credenza gli scalchi.

--Ma, (tornava su il Ponzone) da un coltello vo' veder io chi gli faccia la
credenza.

--Oh sì, un coltello (parlava l'impetuoso Ottorino Borro). Quand'io feci
il passaggio oltremare intesi come nella Siria viva un gran principe;--lo
chiamavano il Veglio della Montagna--e tiene ai suoi cenni uno stuolo di
bravi, devoti a ogni prova, che han nome gli Assassini. Vuole egli disfarsi
di qualche nemico? castigare un oppressore? dice a un Assassino:--Va e
ammazzalo». L'Assassino va e va, gira l'Asia, gira la cristianità,
finchè lo trova. Trovatolo, se gli inchioda ai fianchi, sinchè viene
il bello. Allora gli pianta un pugnale attossicato nel cuore, e con un
altro uccide sè stesso».

Applaudivano quei focosi al racconto, alla risoluzione, alla fedeltà; e
Zurione, commentando diceva:--E che?... mancherà chi voglia fare, per
salvezza della patria, quel che altri fanno per superstiziosa obbedienza?
Tanti si tolgono da sè la vita per fuggire un momentaneo dispiacere, e
nessuno vi sarà che abbia una colpa da tergere, un fallo da riparare
coll'avventurare così santamente la sua? O il colpo riesce, e
sopravvive, quanta universale riconoscenza! se perisce, qual dolce riposare
sotterra, fra il compianto generale, con una fama perenne, agguagliato a
quei generosi Armodio e Bruto, e altri eroi che liberarono il mondo da
simili pesti!

Divampava, a tale discorso, Alpinolo; e considerando sè stesso come
causa di tanti mali, lo credeva diretto proprio e unicamente a sè. Nè
in tutto apponevasi al falso, poichè il demagogo aveva fatto disegno
sulla vita di quel giovane ardimentoso, il quale, già da un pezzo
sitibondo di sangue, trascinato dalla forza prepotente di un pensiero
abituale, ora più non frenandosi, si fece avanti, e battendo il pugno
sulla tavola, gridò:--Io sarò quello!»

Una concorde acclamazione lo saldò nel suo proposito. Milano è
città grande e popolosa: la barba cresciuta sul giovane volto di
Alpinolo, e coltivata al modo che solevano i soldati, le chiome in altra
guisa composte, un abito diverso e divisato gli davano fiducia di rimanervi
sconosciuto. Giusto in quei dì era corsa voce che il signor Luchino
soldava truppe; poichè, non essendovi allora eserciti stanziali nè
una fittizia necessità avendo giustificato il martirio di due milioni di
Europei, condannati a patimenti e disagi per tener le nazioni una in
soggezione all'altra, aveano i tirannelli compreso che, per acquistare e
conservare il potere sgradito, unico spediente era il circondarsi di truppe
mercenarie, pronte a ogni cenno, a scannare quelli che essi chiamavano loro
figliuoli.

Luchino, ridotto, come tutti gli oppressori, a minacciare tremando, con
titolo di dare riposo ai cittadini, gli aveva disarmati: ma i molti
insofferenti alla vita tranquilla e i Giorgi, sottrattisi al rigore del
capitano di giustizia, o in grosse bande o sparpagliati, mantenevano la
guerra a minuto, infestando le strade, e fin le borgate assalivano e
saccheggiavano. Che pensò dunque Luchino? Gli invitò a sè,
promettendo stipendiarne il valore. Così soggettati a militare
disciplina, poteva agevolmente tenerli in freno e a ogni suo volere; essi a
vicenda trovavano comodo peso la milizia, che porgeva occasioni di rubare e
soperchiare impunemente, senza i disagi del vivere in boscaglia. Accettavan
dunque il partito, e seguitavano a frotte i pifferi che andavano in volta a
reclutarli; poi, sotto il comando di Sfolcada Melik, divenivano guardiani
dei luoghi che prima solevano infestare.

Fra questi fece disegno d'arrolarsi Alpinolo, confidando gli verrebbe il
destro di trovarsi vicino al principe,--Alla prima occasione (diceva esso
ai compagni d'esilio) io lo assalgo....

--E non lasciarlo nemmen confessare. Vada al diavolo eternamente»,
soggiunse il Muralto. Esso, con occhi di bragia, proseguiva:--Così
potessi col colpo istesso finir qualche altro!... Poi...

--E poi (l'interrompevano i consorti) corri per le vie con quel pugnale
fumante alla mano: il popolo ti trae dietro esultando; la patria è
salvata dalle sue branche, e il tuo nome immortale».

Se quelli che così dicevano parlassero persuasi e di cuore è bene non
cercarlo: ma Alpinolo, convinto che tutti partecipassero all'ardore suo
istesso, non era cosa che non si promettesse.--Ma, alla peggio, (diceva) so
come si fa a morire».

Con tal proposito rientrò in Lombardia, ben provvisto a denaro.

Non volle scostarsi dal Po senza visitare anco una volta il mulino dei suoi
educatori. Travisato, e in quell'arnese, a pena in sulle prime il
riconobbero: fin il cagnuolo gli abbajò contro, come a un paltoniero, ma
quando il ravvisarono, che gioja per quella buona gente, per Maso, e per la
Nena principalmente, nel vederlo tornare dopo che non era male che non ne
avessero temuto! La loro contentezza toccava nel più vivo l'anima
affettuosa e passionata di Alpinolo; rifletteva:--Se è tanta, in persone
non legate a me se non dai benefizj fattimi, quanta sarebbe se fossero i
miei veri genitori?.. come tripudierei se una volta raggiungessi quella
somma delle felicità, da me immaginata, di poter trovare il padre
mio!»

Per la prima cosa ridomandò dai mulinaj quello che di carissimo avea
loro dato in serbo: le lettere di sua madre e l'anello. Non sapevano essi
come esporgli la cosa, e finalmente, mortificati, a ritaglio, supplendo
l'uno quando mancava all'altro la parola, gli narrarono quel ch'era
accaduto coll'ignoto signore, e lo sperpero delle lettere, e le smanie mai
più vedute. Quali imprecazioni non avventò Alpinolo contro colui che
aveva trassinato così sacri pegni! ma quando gli fu pôrto il
diamante, quasi gli venisse restituito un figliuolo da gran tempo perduto,
si attutì, lo premette contro le labbra, e più di una grossa lagrima
gli cadde su quell'unica memoria dei suoi genitori. Andò a prostrarsi
sulla zolla che copriva sua madre, ne ravviò i fiori d'attorno, indi
prese congedo.

--Ora non sarai di tornata fin Dio sa quando! (gli diceva la Nena). Io sono
vecchia: un'altra volta non mi troverai più. Ricordati sempre di me
nelle tue orazioni.

--Non parlargli di malinconie (soggiungeva Maso). Io ho girato il mondo, e
so che le montagne stanno a posto, ma gli uomini s'incontrano. Ci
rivedremo, n'è vero, signor Alpinolo?

--Sì, (rispondeva questo) forse più presto che non pensiate, e in
tutt'altro aspetto.

--E di buon umore», ripigliava la Nena.

--E carico di onori e di ricchezze», aggiungeva Maso, il quale, pratico
del mondo, sapeva in che consistano le sue felicità.

Alpinolo se n'andò; raggiunse un drappello di quelle cerne ed entrò
con esse in Lombardia. Eran costoro feccia di gente come chiunque fa
mercato del proprio sangue; ai più, da un sucido stracciume trasparivano
le carni sporche e abbronzite; molti ancora avevano manco un occhio o una
mano, perchè come ladri avevano già subita la pena degli statuti di
Milano, che infliggevano, pel primo furto, la perdita di un occhio; pel
secondo, l'amputazione della mano; pel terzo la forca; ma sozzi, storpi,
ladri, servivano ugualmente ai fini di Luchino.

Nè avvicinandosi ai luoghi di sue giovanili memorie esultava l'animo di
Alpinolo; anzi, con una scontenta maraviglia, con un iracondo stupore,
vedeva come, nonostante i guaj della tirannide, i contadini seguitassero,
tranquilli, ai lavori; i trafficanti, al commercio; i padri, alle faccende
casalinghe; egli ch'erasi immaginato dappertutto sconforti e desolazioni,
che pietà fosse il vederli; e che fin la terra fin l'aria sfruttata,
immalsanita, dovessero partecipare al duolo e all'onta del servaggio.
Quando poi dai casali e dalle borgate traevano, come si fa, a guardare
quella frotta di soldati, e dietro e a paro di loro marciavano i fanciulli,
misurando il passo secondo la cadenza dei pifferi, il cuore faceva sangue
ad Alpinolo, sembrandogli che avrebbero tutti dovuto riguardar con orrore
quegli artefici di loro catene.

Ma, (diceva tra sè), non è che vulgo ignorante e materiale. In
città, oh, in città sarà tutt'altro andare».

E in città fece la sua entrata fra un centinaio di quella soldataglia, e
colà pure la plebe a riguardare le nuove reclute, e chiamarsi l'un
l'altro, e mostrarsele, spensierati come la pecora quando vede arrotare il
ferro destinato a scannarla. Intanto su per le piazze cerretani e
saltimbanchi mantenevano nel vulgo quell'allegria, che tanto piaceva a
Luchino; i signori, in una attività inoperosa, passavano i giorni fra
risa e motti e festeggiar compagnevole; le botteghe, non che fiorire come
prima, erano cresciute in numero e in appariscenza; stabilite tessiture
d'oro, d'argento, di seta; introdotte bellissime razze di cavalli e di cani
da caccia; il vino, migliorato coll'innestare la vernaccia sulle viti
nostrali, moltiplicava le ubbriachezze popolari e la patrizia festività;
_ganzerre_ sul Ticino e sul Po, mettevano Milano in comunicazione cogli
altri paesi, talchè, non di una città, ma aveva aspetto di una intera
provincia, dove argento, oro, perle, larghissime balzane, sfoggiavan le
donne sui vestimenti; nelle case cibi squisiti, bevande prelibate e
forestiere, e ogni guisa di delicatura.

Questo fenomeno riusciva inesplicabile ad Alpinolo, il quale ignorava come
ripiglino fiore le terre confortate di pace e di sicurezza; e come alla
prosperità materiale si fossero vôlte interamente le classi medie,
dopo che il governo di un solo le dispensava dal dover necessariamente
pigliare parte alle fazioni interne e alle guerre esteriori. Quei
principotti poi, mentre calcavano i ricchi e chi faceva ombra,
favoreggiavano la moltitudine; avevano gara tra sè, non meno in
magnificenza di Corte e di apparati, che in prosperità e ricchezza dei
piccoli loro Stati; poco o nulla si impacciavano nelle particolarità
dell'industria e del commercio, abbandonandoli all'operosità di ciascuno
e all'emula concorrenza; onde, nel mentre coll'avarizia, colla libidine,
coll'invidia, colle personalità tormentavan chi stava a loro vicino,
lasciavan godere agli altri i comodi della primitiva libertà, senza le
agitazioni di essa.

Soltanto l'eccesso della politica depravazione rovina a bella posta il
traffico e la cultura di un paese per fiaccarlo: soltanto più tardi
sentì la Lombardia la silenziosa oppressione di governi che, senza
individualmente uccider nessuno, dissanguavano l'intera nazione. Potrebbero
i primi paragonarsi ai flagelli, che tratto tratto desolano un paese:
guerre, turbini, contagi, poi cessano, e lo lasciano rifarsi; gli ultimi,
ai miasmi che corrompono l'aria, e che, senza parere, moltiplicano vittime
alla sorda, ma continuamente.

Chi però ha fiore di sentimento, pensi quanto atroce penitenza si fosse
imposta Alpinolo in quell'ostinato suo intento. Tra una marmaglia
spregevole e spregiata, dipendente dal brutale comando del connestabile
Sfolcada Melik, vivere ancora, passeggiare per quella città che in sì
diverso aspetto lo aveva veduto; che in ogni luogo gli ridestava tante
memorie; che vie più aveva cara dopo costretto ad abbandonarla: vivervi
come uno straniero, come un ministro della tirannia; e non potere mai con
veruno manifestare le commozioni di un cuore convulso. Mirava le case ove
già soleva essere il ben accolto e passare le gaje serate: ora stavano
chiuse per lui. Imbattevasi talora in alcuno degli amici, con cui tante
volte avea comunicato timori e speranze, ragionato del presente,
dell'avvenire, che gli avevano promesso ogni poter loro per la causa del
bene; ora tacevano, obbedivano. Scorreva ancora per la via degli Spadari:
Malfilioccio della Cochirola non v'era più, chè, a forza di
rimpiangere i tempi passati, era ito ad acculacciare la pietra: ma tutti
gli altri lavoravano come e più che prima; lavoravano (pensava Alpinolo)
le armi dei proprj padroni, le punte contro i proprj petti. S'incontrò
qualche volta anche nel Basabelletta: cauto e coll'acqua in bocca costui
tirava lungo le pareti, contento d'averla scampata, nè più brigandosi
di leggere sul libro dei ricchi e dei potenti. Passava Alpinolo dal palazzo
dei Pusterla, vuoto degli antichi padroni, ed abitato dal capitano di
giustizia Lucio;--un Lucio sostituito a Franciscolo, alla celeste
Margherita!

Le persone da questa beneficate se la saranno certo ricordata, se la
ricordava la fanciulla di Santa Eufemia, per lei campata dal disonore: ma i
poveri, gli infelici, i disuniti cosa altro possono che amare? Spesso in un
chiassuolo, sur una piazzetta, Alpinolo scorgeva otto o dieci giovani,
stretti a colloquio animato, confidente, misterioso: il cuore gli diceva di
che parlottassero; tanto più che, quando s'accostava lui, con quella
divisa in dosso, li vedeva o disperdersi timorosi, o non dissimulare con
atti e con motti lo spregio verso chi aveva venduto il suo sangue per
ribadire le loro catene. Come l'animo di lui si struggesse sotto quella
lenta tortura, io non farò prova di descriverlo. Fu per soccombere delle
volte assai, e fuggire;--ma rimeditava il suo fallo, e gli pareva che ad
espiarlo fosse scarso qualunque inferno.

Fatalità! certe anime robuste, nate fatte ad ogni gran cosa, capaci de'
più ostinati sacrifizj, delle più magnanime risoluzioni, quante volte
si vedono andar traviate, e svaporare quella vampa in null'altro che il
rendere infelici sè ed altrui, perchè all'impeto della volontà non
è proporzionata la ragionevolezza: perchè conoscono ogni eroismo fuor
quello della pazienza.

Così spasimava Alpinolo quando stava scevro e solitario dagli altri;
quando era accompagnato, seppelliva dentro il suo dolore; obbediva come un
automa ai cenni dei caporali, per quanto se ne facesse schifo; mescevasi
alle gozzoviglie de' suoi commilitoni, a trar sulle carte, a sbalzare dadi,
ove, ad onta delle severe proibizioni del principe, biscazzavano il loro
guadagno; pagava ad essi il fiasco, lasciavasi spillare il suo, tanto per
farseli amici: onde tutti «Quattrodita» di qua; «Quattrodita»
di là: unico nome col quale il conoscessero.

Ma il vino, che nelle orgie nauseabonde tracannava di brigata, tornava in
tanto veleno a quel dispettoso; e al vedere una ruga sdegnosa che tratto
tratto gli solcava la fronte, e ne alterava il baldanzoso raggio giovanile,
era facile accorgersi come quella fosse una testa pensante, fra tutte
l'altre impassibili e macchinali. E nel bel mezzo di loro, mentre in
apparenza alternava con essi i brindisi e lo sguajato motteggiare,
concentravasi in sè stesso, e fremeva e si stomacava del dover vivere
confuso tra quella schiuma di ribaldi, che per mestiero, diceva, oggi
custodiscono l'assassino, domani il martire generoso; oggi difendono una
vita insidiata, domani ne spengono mille; oggi scannano il nemico, domani
il camerata; e sotto la divisa che si chiama del prode velano la massima
della viltà, un'obbedienza irriflessiva sino al delitto, ai voleri di
colui che ne forzò la volontà.

Fu alcuna volta che si arrischiò a gettare fra di loro alcune lontane
parole di emancipazione, di libertà; pei più era un parlar di colori
a ciechi: i pochi che lo intesero gli chiedevano che pazzo gli toccasse di
desiderare di meglio? non era libertà la loro di aver da mangiare e bere
e fare stare gli altri?

Alpinolo davasi premura di assentire a dottrine così antiche, e rodendo
il freno, capiva la necessità di non far conto che sopra sè stesso
per l'adempimento de' suoi disegni.

Non gli era riuscito difficile accostarsi a Luchino. Quando il Visconti si
presentava spettacolo ad un popolo che opprimeva e disprezzava, credevasi
sicuro perchè cinto di guardie: eppure fra queste n'era una, il cui
unico pensiero era d'ammazzarlo. Alpinolo, in fatti, dominato da
quell'idea, tratto tratto divampava in viso, e negli occhi, sporgeva sino
la mano al pugnale: pure il trovarsi circondato da pronti nemici, e, quel
che più gli pesava, da incerti fautori, lo smoveva dal proposito di
sangue. Allora poi che gli veniva un bel destro di scannare Luchino, e
forse porre in salvo sè stesso, quello che prima gli era parsa una
giusta vendetta, anzi un fatto glorioso, gli si presentava come un delitto:
spingevasi innanzi, poi si ritraeva sgomentato, perchè la coscienza con
voce imperiosa gli diceva, _No_. Di questo provava dispetto e vergogna come
d'una fiacchezza, d'una viltà, d'un perfidiare alla parola data a sè
stesso: e nei momenti di passione tentava conficcarsi nel suo proponimento,
e rinvigorire la volontà con ragioni, con superstizioni, con distillare
le colpe altrui e il proprio livore. Stava mezzo un dì appoggiato su
quel canto del Broletto nuovo, dove erasi lasciato tradire da Ramengo: ore
ed ore teneva gli occhi fissi sovra la porta dei Pusterla, donde avea
veduto strascinar fuori la Margherita; andò alla Madonna di S. Celso,
che in quegli anni appunto aveva cominciato a diventar celebre per
miracoli; e con un fervore intenso, ma distratto ed irrequieto, ben altro
da quello di chi prega la giustizia ed ottiene la pace, supplicò nostra
Donna:--Datemi forza per uccidere il nemico del pubblico bene e di quella
santa che tanto v'imitò. Se me ne fate la grazia, voglio andare
pellegrino armato a Nazaret, e non tornare finchè io non abbia ucciso
mille di quegli infedeli, che negano culto al vostro santo nome».

Da questa insana preghiera, da quel voto di vendetta fatto alla Madre di
misericordia, credette egli d'avere attinto nuovo vigore, e pochi giorni
dopo parve gliene nascesse favorevole occasione. Era di guardia ad un
gabinetto di piacere, posto in mezzo ad artificioso boschetto nel parco di
Belgiojoso, delizia dei Visconti; e guardando attraverso al graticolato
della gelosia, che vi lasciava liberamente circolare l'aria, vide Luchino
che, rinvolto nel mantello, vi si era addormentato: addormentato solo, coi
due mastini al piede, che dormivano anch'essi. Alpinolo rinnovò il suo
voto, accostossi, brandì il pugnale, l'innalzò sul capo del tiranno,
esclamò dentro di sè:--Cane! non ti ridesti più fino al giorno del
giudizio».

Il giorno del giudizio!

Questa idea se gli attraversò come una sbarra che, gittata fra' violenti
passi d'un furibondo, lo fa cadere per terra.--Il giorno del giudizio!
Dunque e lui ed io avremo a trovarci un dì al cospetto di un giudice
comune: Anche Luchino potrà a quel tribunale aver torto.--Ed io? dovrei
mostrare, io, la mano lordata d'un assassinio?»

Simile pensiero gli rattenne il colpo, sventò in un minuto la
risoluzione maturata per un anno; e cautamente indietreggiava per uscire,
ma non potè fare così cheto, che non risvegliasse i cani. Balzano
questi abbajando: Luchino stesso destasi e sorge impugnando la spada: volle
il caso che in quella il capitano Lucio entrasse a riferire con aria
trionfale, siccome il giorno innanzi, nella rocchetta di porta Romana,
erano stati condotti Francesco Pusterla e il suo figliuolo.

L'accostarsi del soldato fu interpretato per zelo d'avere voluto dar avviso
che alcuno veniva, ed Alpinolo restò salvo; ma qualunque peggior
tormento, ma il lacerargli brani a brani le membra non avrebbero a pezza
uguagliato lo strazio ch'e' provò nell'intendere la fiera novella, nel
mirare la gioja spietata di Luchino e del capitano di giustizia, a udirli
dire:--Ora daremo spaccio a tutto. Domani a Milano; e presto ogni cosa
sarà finita».

Anche questo supplizio gli serbava la sua imprudenza! Or chi dipingerà
le furibonde smanie di lui? Nuovo sangue parevagli accumularsi sulla sua
cervice; e da quest'ora; diverso consiglio il predominò, quello di
tentare la liberazione di quegli infelici. Concepire un disegno e balzare
al momento dopo l'esecuzione, senza per nulla calcolare i passi intermedj,
era stile di Alpinolo: e chi gli avesse posto mente, sarebbesi accorto
come, da quel punto, egli acquistò quella specie di serenità, che
nasce da una forte risoluzione.

Non ebbe a stentare per farsi destinar alla custodia delle carceri di porta
Romana, ma al momento di superarle, tutte gli si attraversavano le
difficoltà dell'impresa, come un viandante giunto ai piedi di una
montagna, comprende insormontabile l'ertezza d'un varco, che da lungi gli
era parso un lene declivo.

--Di notte quando le altre sentinelle dormono (considerava tra sè),
scanno il carceriere, e libero quei tre infelici. Oh la gioja di rivederli
congiunti!--Ma... e se colui schiamazza?... poi, come troverò le chiavi?
come la via per trarli non visti da questo andirivieni di camere, di
anditi, di scale?--E poi, e poi... ucciderlo? cosa mi ha egli fatto di
male? Un'altra vittima, un innocente; che forse ama ed è amato, che
forse ha quel ch'io non ho, un padre. Son io forse il signor Luchino da
sgozzare un uomo senza valutare il dolore che ne verrà a tanti esseri
incolpevoli? E coll'aggiungermi quest'altro peso alla coscienza, potrei
sperare d'alleggerir il primo? Per cagion mia non s'è pianto assai?»

Risolveva dunque di guadagnarlo a denaro--In tal caso (pensava egli)
l'avrà voluto da sè, qualunque cosa accada. Ma ancora, e quando siano
tratti di carcere? Come camparli se di fuori nessuno mi dà mano, se
nessuno mi prepara l'occorrente alla fuga? Darmi io stesso in traccia dei
cavalli? noleggiarli io? postarli? mi darei nell'occhio: potrei essere
indicato, e mandare tutto in fumo. Ne andasse solo la mia vita, non
esiterei; ma la loro! Dunque è forza mettersi in mano di qualche altro.
Ma a chi far capo?... Non ho io già troppo caro pagata l'aver una volta
creduto ad alcuno? E poi che sozzura d'uomini non mi son veduto d'attorno?
I più vi credono pazzo se vi prendete affanni per altrui: quelli di
miglior pasta v'ajuterebbero anche, purchè ciò non ne guastasse gli
agi, non rompesse i sonni, non tardasse il pranzo, sovratutto non
disgustasse i superiori. I giovani chiamano merito il potere; i gradi, le
dovizie; e politica e sapienza il conoscere l'arte di procacciarsene; i
vecchi erigono in virtù l'impotenza dei loro desideri; i pochi generosi
giaciono sviliti, e contenti di guajolare e di bramare. O uomini! uomini!
tutti tristi, corruttibili e corrotti; nominate prudenza la scaltrezza;
virtù la dissimulazione; vizio necessario la falsità: il potere vi
sgomenta; l'astuzia vi divide; l'oro vi compra; l'aspetto dell'innocenza
non fa che allettarvi ad ingannarla!»



CAPITOLO XIX.

FUGA.


Così esclamava Alpinolo nell'amarezza del cuore, quando al suo
abbattimento trovava unico appoggio il disprezzo; ma poi a molte eccezioni
gli andava la mente, e sopratutto a una persona, sulla quale sentiva di non
poter dubitare: fratel Buonvicino. A lui avrebbe potuto aprire alla libera
il suo pensiero; a lui che, tornando, avea trovato tale appunto qual nel
fuggire lo aveva lasciato; ma qui medesimamente v'eran ostacoli,
esitazioni, paure.--Se gli spiego tutta questa matassa (egli pensava), mi
riprenderà; vorrà far prediche; troverà un mondo di ragioni da
opporre; la prudenza sarà d'impaccio al coraggio; vorrà la meta e non
la via che vi conduce; parlerà di giustizia, quasi al mondo ve ne sia
più la semenza. Sebbene... giustizia? non è egli diritto l'adoprare
ogni sorta di armi contro chi ogni sorta ne adopera a danno
dell'umanità? E che? Dunque il ribaldo perchè non teme l'inferno,
sarà tanto avvantaggiato sopra il giusto? Perdonare!... soffrire!...
Sì! sì! belle parole: ma non fanno che crescere baldanza in chi mette
il piede sul collo all'umanità. E poi alla fine, che male può
tornarne? O l'effetto mi riesce a disegno, ed ecco salvata l'innocenza,
ecco impedito un delitto, ecco lavatami dalla coscienza questa macchia,
questo verme che nè giorno nè notte riposa. Se il tentativo fallisce,
se la fortuna mi disajuta... pei Pusterla nulla è peggiorato. Non sono
essi già al colmo del pericolo e della miseria, dacchè si trovano in
tali mani? E quando pure ne accelerassi di alcuni giorni la morte, non è
acquisto il sottrarli più presto alla barbarie dei manigoldi? Quanto a
me la vita mia cessò da un pezzo di appartenermi: è appassita prima
di neppur sviluppare intero il suo fiore. Come potrei spenderla meglio che
tentando lo scampo degli innocenti? Se muojo, avrò soddisfatto in parte
al grande obbligo che mi rimane a scontare: troverò finalmente la
quiete... cesserò di fremere, di esecrare.

Durata molti giorni la lotta coi suoi pensieri, e sempre più
riconfermandosi di tentare ad ogni costo l'impresa, deliberò di rivelare
al frate quel tanto solo che fosse indispensabile, cioè il fine, non i
modi. Un dì, tra il chiaro e il fosco, si conduce al convento di Brera;
contempla un momento quella soglia, ricordandosi con qual devota
gratitudine l'avesse baciata il giorno che vide sopra di essa salvato il
Pusterla; e al portinajo chiede di veder frà Buonvicino.

Angiolgabriello da Concorezzo, antica nostra conoscenza, nol misurò da
capo a piedi coll'occhiata scrutatrice, abituale ne' portinaj ma, tutto
dolcezza e benevolenza, rispose:--Fratel Buonvicino? Volete forse
confessarvi, signor soldato? Dio vi benedica! entrate in chiesa; lo
chiamerò. Vado e torno.

--No, non l'incomodate; se c'è, anderò io stesso alla sua cella. So
dove sta.

--Ah, siete pratico della casa? Lo conoscete quel sant'uomo?» e qui
cominciava per recitare una leggenda di sue virtù, ma come vide che
Alpinolo gli avea vôlte le spalle, badandogli come un pedante al buon
senso, gli esclamò dietro:--Passate, passate pure, che Dio vi
benedica!»

Stava frà Buonvicino nella piccola camera, le cui masserizie, secondo la
regola, si riducevan al paglione con un capezzale e due lenzuola di lana e
a un predellino di legno. Su questo sedeva il frate, inchinata la fronte,
le mani intrecciate sulle ginocchia, cogli occhi fissi sopra un qual si
fosse oggetto indifferente, e senza vederlo. Alle rughe anticipate della
sua fronte, alle guancie pallide e scarne, all'occhio affossato, ognuno
avrebbe potuto dire «Per costui il pensare è soffrire»; ma nel
dolore di esso non v'era abbattimento, e potevasi scorgervi frammista una
speranza--o forse una memoria.

Al passo incerto, all'ansioso occheggiare, al tono della voce, ben
avvisò frà Buonvicino nel soldato qualche cosa di straordinario;
onde, sorto dal meditabondo riposo, se gli fece incontro col consueto
saluto:--La pace sia con voi, o fratello».

Non rispose l'altro al benedetto augurio se non interrogando:

--Padre, siamo soli?

--Soli con Dio.

--Nessun pericolo che altri c'intenda?

--Nessuno», rispose il frate, e fissava attentamente il nuovo arrivato,
il quale, fattosegli più vicino, chiese:

--Padre, amate voi Margherita? la Pusterla?»

A una domanda così inaspettata, una domanda che egli schivava di fare a
sè stesso, per quanto la maestà della sventura avesse resa più
venerabile e santa agli occhi suoi quella che un tempo aveva amata d'amore,
tutto si risentì frà Buonvicino: rizzò la testa abbattuta, pose la
mano sulla bocca del soldato, come per imporgli silenzio, rabbattè
attentamente l'uscio e l'impannata della celletta; indi, afferrando il
braccio dell'ignoto,--Ma voi chi siete?

--Sotto le spoglie del vile prezzolato, non mi riconoscete, fratel
Buonvicino?»

Dai patimenti, dal nuovo abito e dall'arte sfigurato, tardava Buonvicino a
ravvisarlo; poi, come l'altro si nominò, anch'egli, con tono di
meraviglia e di interrogazione, ripetè:

--Alpinolo?» poi ne strinse fra le mani il capo, e,--Figliuol mio! tu
qui? Come ardisci rimanere? Perchè cotesta divisa--tu?»

Alpinolo, alla presta e con termini di viva esecrazione, senza perdonare a
sè stesso, gli espose il seguito delle sue avventure; la parte che aveva
avuta al disastro del Pusterla, il tradimento di Ramengo, che fece
raccapricciare il frate, e che gli scoperse di tratto una serie di
iniquità, quali non aveva sospettate possibili.

--Ora comprendo (esclamava) perchè Ramengo è tornato sicuro, mette
casa riccamente, e si allegra, e par che dica all'anima sua, _Godi, esulta,
abbiam trovato il nostro riposo._ Ma tu, per amor del cielo, come sei tu
qui? perchè?»

E Alpinolo,--Come io sia venuto e perchè sotto queste divise, è un
segreto ch'io giurai di non manifestare: non vi riuscirà però
difficile l'apporvi.

--Sciagurato! un assassinio?...» prorompeva frà Buonvicino,
respingendolo dalle braccia tra cui lo teneva serrato a guisa di un padre
che accoglie al pentimento un traviato figliuolo.

--Padre (interrompeva quell'altro l'incominciato rimprovero) qualunque
vostra ammonizione sarebbe fuor di luogo e di tempo. Così avessi avuto
il coraggio! Ma più di quel che potreste dirmi ora a voce, mi disse e mi
dice sempre la vostra immagine, che tratto tratto mi si affaccia a ripetere
quei consigli che m'avete dati tante volte in mia fanciullezza. Ora però
non sono qui per questo. Rispondete: amate voi Margherita? il Pusterla?

--Se gli amo!» esclamò l'Umiliato, e corrugò la fronte guardando
il cielo con un sospiro.

--Ebbene, dovete darmi mano a salvarli.

--Salvarli? Oh come?» domandò con ansietà frà Buonvicino; e
come, quando nel bujo di una camera divampi il zolfanello, di subito rompe
le tenebre una gaja luce, che poi immediatamente spegnendosi, lascia di
nuovo al bujo, così nell'occhio di frà Buonvicino lampeggiò una
gioja vivissima, ma passeggiera; all'istante un melanconico velo gli
ottenebrò la fronte, e le esclamazioni di allegrezza finirono in un
doloroso ohimè. Poi soggiunse:--Ah garzone, garzone! tu sei ancora quel
desso; ancora non hai abbastanza imparato a che possa trascinarti cotesta
foga intemperata, cotesto operar sempre, e non riflettere mai. Tu precipiti
te stesso e loro.

--Padre, (replicava l'altro) il mezzo, a dirvelo, è meglio nol
conosciate; sull'esito però ho calcolato abbastanza: e, se il diavolo
non vi mette... cioè, se l'accidente... Insomma, anderà bene. Andasse
anche male, ad essi che può risultar di peggio? Quanto a me, della vita
mia non devo conto a nessuno.

--No? nemmeno a Colui che te l'ha data, e che può chiederti perchè
l'hai gettata, innanzi che egli medesimo te la ridomandasse? Non sono
davanti a lui eguali l'assassino e il suicida?»

Stette un momento sopra pensiero Alpinolo, poi, stringendo ancora la mano
al frate, ripigliava:--Vivete pur tranquillo su quanto riguarda me. Il
cuore mi dice che nessun male ne avverrà. Proprio dal cuore mi viene
questa potente ispirazione, e le ispirazioni di raro ingannano».

Tentennò il capo frà Buonvicino, e, posandogli l'altra mano
amorevolmente sulla spalla,--O figliuolo! e cotesta ispirazione da chi
l'hai tu implorata? hai tu pregato mai con fede Iddio?

--Iddio! (interrompeva il giovane) c'è egli proprio questo Dio?» E,
subito correggendosi,--Ah, sì, certo, egli vi è: vi deve essere per
aver creato la Margherita, per aver tratto con sè mia madre in paradiso.
Ma in paradiso che fa egli? perchè non reprime l'iniquità? perchè
lascia il reprobo mangiare in pace il pane delle delizie, mentre il giusto
affanna ai suoi piedi? Perchè il Pusterla è in carcere, e Ramengo fra
gli agi? Perchè voi qui a gemere sulle miserie comuni, e Luchino in
trono a moltiplicarle?

--Di poca fede! (replicava frà Buonvicino con un sospiro) Chi t'ha dato
il diritto di scandagliare l'inesplorabile abisso della Provvidenza? Giusto
è Dio, e i suoi giudizj sono veri e approvati per sè stessi; l'uomo
li riverisca, nè presuma comprenderli. Pure tu, sei tu entrato nel cuore
dell'empio e del savio? Hai visto quel che si nasconde sotto le bugiarde
apparenze del godimento e delle pene; dell'umiliazione e del trionfo? Che
se anche in terra questo patisce e quello esulta, forse che il regno di Dio
finisce fra gli angusti confini di questa vita? Sarà giorno, quando, in
bilancie assai diverse da quelle dell'uomo, staranno il riso e i patimenti,
le soperchierie e la pazienza: quando i fortunati udranno dirsi: la vostra
porzione di beni già l'avete tocca in terra. Frattanto ti viene lezzo
dell'iniquità che domina il mondo? della mal provvista distribuzione di
ciò che il secolo chiama beni e mali? Torci da loro, e forbendoti del
fango, solleva il pensiero sopra queste lotte terrene, e pensa a Dio, e
prega Dio».

Soprastava l'altro così un poco, siccome in meditazione, poi
ripigliava:--Pregare! Quanto tempo ch'io non prego Dio di vero cuore! Oh,
mi ricordo, allorchè fanciullo, col signor Ottorino, colla Margherita,
io veniva a questo chiostro, in questa chiesa, e il dolce nome di padre,
che non potevo dare a nessun uomo, lo davo a Quello che è nei cieli, e
pregavo, e svelavo i miei peccati, i miei pensieri a un buon sacerdote;
questo mi benediceva, sicchè, tranquillo e consolato, io me ne partiva
siccome un angioletto. Che dolcezze! che giorni! Ora sono perduti, e
irreparabilmente.

--Ma chi ti toglie (soggiungeva il frate, con premurosa amorevolezza) chi
ti toglie di far altrettanto, qualora tu il voglia, in questo medesimo
istante? Credi forse esausti i tesori della misericordia? quel Padre non
è sempre là colle braccia aperte ad aspettarti? Che non rispondi alle
sue chiamate?

--No, no, (replicava il giovane con tono deliberato) no! impossibile!
impossibile! Finchè un odio bollente, sanguinario mi parla solo di
vendetta, come potrei? come ardirei? No, no; verrà tempo: son giovane;
forse non durerà sempre a questo modo. Oh allora!... Ma adesso a quel
che importa... Io mi apersi con voi, perchè in voi solo ho fiducia. Non
venni per chiedervi parere: gli è un perder tempo il tentare di
stornarmi. Ho bisogno di voi. Rispondetemi risoluto. Se io trovo modo di
consegnare a voi il Pusterla e la sua donna, prendete sopra di voi di
ridurli a salvamento?

--Così Dio m'ajuti come il farò! me ne dovesse costare la vita! Ma...

--Ebbene, sia vostra cura che, in tutte le seguenti notti, tre cavalli di
gran lena siano lesti a quell'enorme noce, sapete? là a mezzo della
strada di Quadronno, di costa alla vigna di Susone dei Cantù. Il vulgo
racconta non so quali paurose fole di quel luogo, di quella pianta, di
streghe, di tregenda, di sabati; e però nessuno vi bazzica; onde è
opportunissima per chi non patisca di queste ubbie».

Il frate taceva, pensava, come chi è preso da un desiderio senza
speranza; e il giovane, con accorata insistenza, ripigliava:--Vi domando
pur poco! Lo farete voi? A ogni modo, se vi ricusate, non sarà che un
crescere i pericoli a me e a loro. Lo farete?»

Frà Buonvicino, deciso meno dagli argomenti del giovane che dalle
ragioni librate fra sè, sollevò la fronte depressa, e con aria di
tranquilla energia, ben diversa dalla impetuosa temerità di Alpinolo,
rispose:--Lo farò.

--Deh, siate benedetto!» esclamò Alpinolo con effusione di gioja
riconoscente, stringendogli con ambe le mani la destra, e baciandola e
ribaciandola; poi, divisati i luoghi, distintamente accordata ogni cosa,
già si avviava a partire, quando si rivolse, e, messo a terra il
ginocchio,--Un'altra grazia, o padre: beneditemi».

Il frate, commosso, posò le palme sopra il capo inchinato di Alpinolo,
e,--Dio ti benedica! voglia insinuarti uno spirito di amore, di prudenza,
che temperi cotesta impetuosa volontà...»

Nè finì, sentendosi intenerire ai singhiozzi di Alpinolo, il quale,
come rimproverandosi questa commozione, si levò, e precipitossi fuori
della cella, misurò rapidamente il corridojo, illuminato da un fioco
lampione, e, giuntone in capo, si volse, rimirò il frate, il quale
ancora dalla soglia gli accennava colla mano, e si dileguò.

Tali concerti ritornarono ad Alpinolo tutta la baldanza del pensiero, e
provò la confidenza che ispira una robusta deliberazione, tanto
somigliante alla soddisfazione di un disegno compito. La sera dopo, era
egli sciolto del servizio, onde si condusse verso Quadronno per vedere se
il frate vi stesse, secondo l'intelligenza. Scontrò un ragazzo il quale
a furia scappava, e quando vide Alpinolo,--Signor soldato, (gli gridò)
non andate in là. Al noce v'è una frotta di diavoli in forma di
cavalli»; e continuò a correre verso la città come spiritato; e
tutta la vita sua seguitò a dire a chi non credeva, che stregoni e
demonj e tregende erano cose di fatto, e che egli ne aveva l'esperienza dei
proprj sensi;--esperienza infallibile, come dicono i filosofi.

In fatto Alpinolo, accostatosi presso al noce concertato, vide tre cavalli
in ordine con un famiglio che li teneva: e se le tenebre non avessero
impedito la vista, poco quindi lontano, dietro ad una macchia, avrebbe
scorto il frate che durava in orazioni e in aspettazione. A ogni stormir di
foglia, a ogni susurrare del vento autunnale fra i pampani della vigna,
risentivasi frà Buonvicino, e guardava; poi, a ora a ora alzavasi a
mirare verso la porta Romana se alcuno arrivasse, e sempre se ne torceva
deluso. Veder una volta ancora la Margherita, vederla salvata dall'abisso
ove l'avea fatta perduta, darle la buona andata, poi tornarsene a
raccomandarla al Signore, queste erano le fantasie che lusingavano il
povero frate; e la delizia di saperla una volta contenta co' suoi cari,
tanto più cari dopo tanto vicendevole patire. Ma poi le infinite
difficoltà se gli affacciavano, e disperava, e cadeva colla fronte sulla
terra pregando e singhiozzando.

L'altro domani toccava ad Alpinolo montare la guardia; e solo allora
legò col carceriere il discorso che abbiamo riferito, per non lasciargli
tempo a riflettere, e per tenergli le mani ne' capelli. Con esso rimase
d'accordo che, quando egli, dopo la scolta che a momenti verrebbe a
rilevarlo, entrerebbe ancora in sentinella, farebbero uscire i due dalla
prigione, e per la guardina del carceriere, scendere in un cortiletto
posteriore, dov'era la porta del soccorso, non divisa dallo spianato che
per un fossatello largo un passo.

Abbiamo già fatto avvertire come la Rocchetta non fosse ridotta a
compimento; molte parti ancora imperfette di mura; non approfondita la
fossa; lavori tutti che erano stati sospesi perchè il luogo
riconoscevasi non abbastanza addatto; per la qual cosa venne poi
abbandonato, fabbricando invece il forte dall'altra banda verso San Nazaro.

Tutto ciò agevolava un'evasione.--I soldati (diceva Alpinolo) se la
dormiranno a quell'ora così tarda; benchè la luna sia nel suo pieno,
è però questa sera adombrata da nuvoloni minacciosi, talchè
l'oscurità ci darà favore. Se possiamo procedere senza rumore, niente
più facile che andar fuori.

--Come poi sarete fuori (soggiungeva Macaruffo) pensateci voi; che, quanto
a me, m'allaccio le scarpe, e la do per la campagna senza guardarmi ai
piedi, finchè non sento rumoreggiare il fiume d'Imagna».

Poco dopo venne un soldato a dare lo scambio ad Alpinolo; venne
sbadigliando e divincolandosi come chi allora si sdormenta, e dicendogli
con una voce sonnacchiosa:--Avevo attaccato di gusto. Te beato, o
Quattrodita, che hai dinanzi due belle ore da dormire della grossa!»

Alpinolo gli cedette il posto senza lasciare scorger nulla e si ritirò
nel camerotto; si ritirò, ma (lo crederete agevolmente) tutt'altro che a
riposo; bensì all'agitazione naturale del tempo che scorre fra la
deliberazione d'un disegno pericoloso e l'effettuarlo. Terribile tempo,
quando tutte le forze dell'anima stanno assorte in quel pensiero, in
quell'avvenire così vicino e forse così lontano; in un avvenimento,
che fu lungo tempo meditato, svolto, blandito, e che sarà condotto a
termine fra pochi istanti, o non più! Come gente che si accalchi a udire
una ambita novella, così mille idee di possibili pericoli si affollano
alla mente, e dietro a queste altrettanti spedienti per ripararvi; tutti
gli scorre l'intelletto, a nessuno s'appiglia. Ora una fidata speranza
già trasporta l'uomo al momento dopo... Gli vedresti allora l'occhio
scintillare, allungarsi le labbra ad un sorriso. Poi la riflessione slancia
attraverso all'immaginativa un cupo spavento; ostacoli insormontabili tra
il frutto e la mano, ogni cosa scoperta, sventata; allora il ciglio si
rabbuja, aggrinzasi la fronte, un ribrezzo invade la persona, i capelli
s'arricciano, il sangue rigurgita al cuore, e un freddo sudore cola giù
per le guancie.

In questo sogno immaginoso passavano Alpinolo e Macaruffo le due ore,--ore
lente come il passo della morte. Il giovane computava ormai imminente
l'istante che riscatterebbe ogni suo errore, restituirebbe alla libertà
e all'onore vittime innocenti, farebbe per astio amarissimo al tiranno
molte giornate. Gli pareva già vedere i Pusterla mettere il piede fuor
della Rocchetta;--Ecco i cavalli; si monta; si sprona.--Addio, Milano!
domattina trovano il carcere vuoto; che rodimento il signor Luchino! ha da
mettere più di sei e più di dodici capelli canuti. Invano tenta
soffocare il dispetto fra le tazze e le lascivie e il concetto di nuovi
oltraggi.--E Ramengo? vedersi sfuggire le sue vittime--mancargli sotto la
base, su cui ideava sollevare la scellerata sua grandezza--sapere liberi e
lontani quelli che alzerebbero la voce a proclamarlo infame, traditore,
spia!--Presto, cavalli su tutte le direzioni ad inseguirci.--Eh sì! noi
siamo in sicuro. Si va; si rivede il tugurio de' mugnaj che curarono la
bambina mia vita; ci tragittano; voliamo di là, troviamo i
fratelli.--Qual gioja d'essere ancora fra cuori consenzienti, poter ancora
fremere, bestemmiare!

--_L'hai tu scannato quel maledetto?_ mi domandano: _No, ma ho fatto dì
--meglio: ho strappato due vittime di bocca al biscione._--Sono conosciuti,
--festeggiati; la vista loro rinfuoca gli sdegni, rinfresca la memoria di
--quanto patì ciascuno; più non è che un fremere d'armi: ci
--uniamo: vendetta è il nostro grido; si muove sopra Milano; il popolo,
--sazio della costui tirannia, esce in folla ad ingrossare le nostre file;
--appena sa che appressiamo, la città rumoreggia: dà su e,
--_sant'Ambrogio, sant'Ambrogio!_ scannano quella sua caterva di scherani:
--e lui, quel cane... oh potess'io essere il fortunato, che, tra la mischia
--e non più da assassino lo incontrassi, lo abbattessi, gli piantassi
--questo pugnale nel cuore!»

Gli brillava dentro il coraggio, e con un moto macchinale che preveniva la
volontà, brandiva di fatti il pugnale in atto di chi mena un mandritto;
e soffiando, si sentiva andar tutto in sudore. Trasse di capo il morione;
colla palma terse la fronte, e anch'egli si pose a sedere sul pancone,
sopra il quale tranquillamente sdrajati russavano due dei suoi commilitoni.
Tenne il guardo biecamente fisso su loro:--Anime vendute! ministri della
prepotenza! Ancor due ore, ed avrò gettata di dosso l'infame vostra
assisa. Ancor due ore, e poi... E poi? forse da qui a due ore essi saranno
levati contro di me, addosso a me. Se si destassero? se udissero?--Ch'io
gli ammazzi?--Ma altre guardie vegliano là abbasso.--No; non ci voglio
pensare. Frà Buonvicino prega».

E cacciava quest'apprensione come un maligno fantasma; e quasi per
istordirsi diceva:--Che temere? dormono sodo. Importa assai a que' ghiotti
se stia per cadere il tiranno che ne ha comprato il valore! D'altri suoi
pari sono piene le città d'Italia, non mancherà chi li tolga a
stipendio per sicurezza de' suoi delitti e per isgomento della virtù
generosa».

Quindi, per far inganno a sè stesso, e mostrarsi ai proprj occhi
spensierato e sicuro, piegava il capo, e quasi si trattasse di deludere
altrui, fingeva addormentarsi.--Sì, addormentarsi! La coscienza d'un
gran pericolo, e non solamente suo, lo scoteva in fiero soprassalto;
acceleravano il battito le arterie: chi l'avesse esaminato, ne avrebbe
scorto il viso pallido, scontrafatto come il cadavere d'uomo violentemente
soffogato. Sentendosi mancar il respiro, si alzò: chiotto chiotto
affacciossi ad un finestrone alto e stretto, s'abbracciò ad un'esile
colonnina, posta a sorreggere due archetti acuminati che facevano il
vôlto; e sporto il capo fra lo stipite e quella, stette osservando la
cupa maestà della natura, addormentata nel fondo della mezza notte. Il
cielo era ingombro di nuvoloni, pregni di pioggia e di tempesta, che rapidi
pel fosco silenzio camminavano, cozzavano, accavalciavansi, come i pensieri
nel capo di esso.

--Oh, versassero almeno torrenti di acqua! rumoreggiasse il tuono,
sicchè, fra il crosciare della pioggia e lo schianto dei fulmini,
andasse inascoltato ogni rumore de' passi nostri! Perchè... già
un passo basta a risvegliare questi mastini.--E allora?... Oh ma no:
tutto è silenzio, il tuono li desterebbe: meglio così. E la luna
sia velata, almeno sinchè abbiam valicato quel fossatello. Allora,
giù pei campi... il desiderio di libertà impenna l'ale a
quegl'infelici.--Quanti ringraziamenti! quanto ben me ne
vogliono!--No, no; ora non è tempo di parole, di ringraziamenti;
lesti al noce; colà sono i cavalli...»

E l'occhio di lui correva via via per la pianura, colla celerità che
augurava possibile ai passi fuggitivi. La campagna era posseduta dalla
sorda bonaccia che suole precedere lo scoppio della tempesta.--Fra poco
(rifletteva Alpinolo) quella quiete sarà rotta dallo scalpitare de' tre
cavalli che ci porteranno lontani da questa maledetta Milano».

E spiegando verso la città il pugno, in atto di chi slancia un sasso,
rizzavasi, e incrociate le braccia sul petto anelante, si poneva a
riguardarla.

--Anche colà tutto dorme. Dorme il povero, trovando nel sonno tregua
alla fame, mal saziata col tozzo che o un ostinato lavoro o la superba
carità del dovizioso gli procacciarono; dorme il ricco, smaltendo la
sovrabbondante cena; dormono i forti concordi e i disuniti oppressi: dorme
il tiranno... Possibile che dorma esso, mentre tante voci gridano contro di
lui vendetta in cielo? mentre qua vegliano tanti per sua cagione, per
ordine suo, nel dolore beffato? mentre per lui son io tempestato così?
Eppure sì, dorme certo: non l'ho visto io dormire nel parco di
Belgiojoso? Che fa a lui il duolo, il pianto dei miseri, se quel duolo,
quel pianto ne assodano il potere?

--Ma i cittadini?... Dormono anch'essi. Oh, se non vegliarono mai neppure
di giorno! Se, cullati dalla pace tra le oziose braccia, hanno sempre gli
occhi chiusi ai torti, onde vengono oppressi ogni ora, ogni momento?
Vigliacchi! hanno veduto la rovina di tante persone lor care, e tacquero.
Che fa a loro il soffrire degli altri? E quand'anche toccano una nuova
sferzata dall'oppressore, si risentono un tratto, danno una volta stizzosa
pel letto gridando, _Come si sta male!_ poi rattaccano più sodo. Se
alcuno alza la testa, vede gli altri che dormono, e non l'odono o non gli
badano; onde per lo meglio tace, si adatta, e l'_ahi_ che preparava,
finisce in un _va bene_. Quando verremo a liberarli, non ci cureranno:
staranno forse contro di noi. Vigliacchi! Eppure tanti ne
conobb'io--generosi, pronti a versare il sangue per l'utile comune. Or dove
sono? Dove son più quei giorni? Ecco! appena diciannov'anni io conto, e
già rimpiango il passato come un vecchio che gemette sulla tomba di
tutti i suoi conoscenti!»

Lievemente ondeggiando il capo, cogli occhi aggravati da una spasmodica
veglia e colla bocca socchiusa, stava incantato a riguardare quei tetti,
quelle torri, su cui tratto tratto qualche nuvola squarciandosi versava un
raggio di luce, tanto chiaro quanto fugace. Adesso erano immagini lontane,
ch'egli cercava nelle proprie rimembranze; la fanciullezza sua, gli
spensierati trastulli, rive tranquille dove era destinato a trascorrere sua
vita, ignorando le iniquità degli uomini; accudendo un mulino,
insidiando ai pesci, ed imbandendoli la sera sulla mensa frugale, pari a
tutti gli altri mugnaj.

--Eppure no: chè essi hanno padre, madre, fratelli; io no, io nessuno!
io germogliato come il grano di segale che il vento trasportò in cima di
questa torre. Oh potessi almeno rimembrare di mia madre! potessi
richiamarmi i sorrisi, i vezzi onde m'avrà vagheggiato appena io nacqui,
e in quella sua terribile corsa giù pel fiume!»

Osservava in dito l'anello, il baciava e ribaciava.

--Avevo giurato di non ispiccarmelo se non morendo. Ora lo butterò in
gola all'avaro carceriere. Che importa! Trattasi di compire una buona
azione. Tu ne sei contenta, o madre: non è vero? Tu sei santa lassù,
e ti piace ch'io salvi quest'altra santa in terra».

E raddoppiava i baci intenerito.

--Ma mio padre? dov'è egli? perchè non lo conosco? Oh se lo sapessi!
se il rivedessi! una parola di lui basterebbe a formare la dolcezza di
tutta la mia vita; un suo consiglio temprerebbe questa foga rovinosa.
Vederlo, trovarlo ed esser beato--beato come nel paradiso!»

Nè con minore sospensione d'animo passava quel tempo Macaruffo. Seduto
per terra con una gamba distesa e coll'altra piegata in modo, che colle
giunte mani la reggeva al ginocchio, inchinato il capo sicchè tutta la
faccia rimaneva adombrata, guardava egli sottecchi dietro dietro al soldato
che sbadatamente passeggiava. L'aria fiera di quel soldato, la partigiana
che quegli recavasi in mano, e il cui ferro luccicante riverberava a
momenti la fievole luce del lampione, mettevano i brividi a Macaruffo.
Già gli pare d'essere scoperto, e vedersi quel guerriero venire incontro
a ferirlo; già sentesi il gelo di quell'arma in mezzo al ventre...
aspira con angoscia, come davvero ferito; ed un _ahi_ di spavento gli corre
fino alla gola. Allora per isviare la paura caccia la mano in tasca, palpa
la borsa, lento la slega, fa scorrere sotto ai polpastrelli gli zecchini; e
come un innamorato forma mille proponimenti, che tutti poi distrugge il
primo rivedere dell'oggetto de' suoi sospiri, così i terrori sbrattano
dall'animo del carceriere al tocco, al rovistìo di quel metallo.

--Uno, due, tre... venti... quarantanove, cinquanta! e sono miei!»
pensava egli.--Altro che giuggiole! Tanti anni di fatica non mi partorirono
che stenti e miseria; ed ecco una notte mi fa capitare quello che in vita
mia neppure avevo sperato! Oh stamattina devo pure essermi segnato bene!
Ora capisco perchè il fuoco jersera soffiava a quel modo... Ed io
balordo anguillai prima di accettare! Sì, sì; m'han detto giusto a
chiamarmi il Lasagnone. Ma ora sarà finito questo rodimento di ascoltare
ogni tratto, Lasagnone to qua, Lasagnone fa questo, fa quello. E i
bettolieri? chè non c'è buco dove io non abbia messo il chiodino:
domani gli avrò pagati di moneta corrente. Domani di quest'ora, se le
gambe mi dicono il vero, si arriva a casa: moglie, figli saltano dal
pagliericcio, mi si fanno intorno a chiedere: _Che novità è codesta?
non è Natale, che anche i banditi vengono a casa.--Cheti là_, dico
io: _son fuggito.--Ma il signor Luchino?_ dice la donna. Dico io: _Me ne
infischio del signor Luchino e di chi fa per lui: mangi chi vuole quel suo
pane di sette croste_, dico: _vale meglio un cantuccio del mio paese e lo
stare in santa pace a maturar le ossa al mio focolare, che non tutta la sua
città e il suo palazzo,--Sì_, dice la donna: _ma mangiare?_

Allora senz'altro buttar fiato, caccio a mano la borsa; la fo
sonare:--_Che? sono cappelletti di chiodi?_ domanda Bortolino. Io li verso
sul desco, e vedono--oh vedono! Che festa mia moglie! Perdincibacco, non fu
sì allegra da nozze. E i puttini, che non han mai visto dindi,
richiedono: _Che roba son cotesti, o tata?--Sono_, dico io, _tutto quel che
uno vuole: sono quelli che fanno muovere il mondo, e godere il paradiso in
questa vita e nell'altra. Venerateli_, dico, _che hanno l'impronta di
sant'Ambrogio. E se il tale e il tal altro vivono in sciali e la portano
alta, e se noi baciam basso e gli obbediamo e facciamo le sberrettate, gli
è perchè essi hanno di questi un buon dato. Altrimenti il Lasagnone
sarebbero essi, ed io il bello e il buono e il bravo. Ah ah!_

Si stropicciava le mani e brillava, e rideva davvero, talchè il soldato
di sentinella si fermò a guatarlo. Quell'occhiata operò su di lui
l'effetto, che sopra un insolente scolaretto côlto in fallo produce il
cipiglio del sopraggiunto pedagogo. E rapido come il mutar dei vetri in una
lanterna magica, si convenivano quelle ridenti immagini in immagini tetre,
di pericoli, di castighi: e con queste gli entrava il consiglio di un
tradimento.

--Ah Macaruffo, buona minestra hai fatto! Ma son in tempo di ripigliare la
parola. Or ora, quando ricompare il Quattrodita, gli vo incontro e gli
dico: _Assolutamente non voglio; ho detto per baja_. Ma egli rivorrà il
suo denaro. Fossi matto! I fiorini al giorno d'oggi valgono sessantaquattro
soldi di terzoli, e non se ne trovano sulle siepi.... Se potessi salvare la
capra e i cavoli!--A buoni conti i fiorini sono in saccoccia (e li palpava,
quasi per accertarsene): potrei andare dal signor Luchino e spiattellargli
tutto.--Spiattellargli tutto! e poi? Vengono, pigliano il Quattrodita,
l'impiccano: questo va di suo piede. Ma a me, cosa mi entra in tasca? Egli
non potrà più pagarmi il fiasco e un boccone, come ha fatto le tante
volte: e quel ch'è peggio, l'anello di diamante è bell'e andato. È
vero che potrei dire, _Signor Luchino illustrissimo, ho da cantare, ma
voglio una mancia_: egli me la prometterà: promettere costa poco: ma che
mantenga? Dirà: _Hai fatto parte del tuo dovere_, e mi darà delle
zucche marine. È poi, e poi, stesse li. La pena sarebbe che
soggiungesse: _Quei fiorini sono di mal acquisto_, e me li togliesse, e li
serbasse coi suoi, tutti d'acquisto eccellentissimo».

Pure questo partito, e come più sicuro, e come il meglio confacente alle
abitudini sue, gli piaceva al gusto; ma anche qui non era tutto
zucchero--Come ho da fare? Piantar qui, e correre a svegliare
l'illustrissimo?--Mai più... di quest'ora! Lo dirò a questa guardia?
Oibò! Forse è di balla col camerata; se no, crederà ch'io sia in
cimberli. Gli mostrerò in prova i denari. Ecco subito un bolli
bolli:--ma il Quattrodita è un bizzarro, che Dio ne guardi. Certo sta
all'erta, tutt'in orecchi come una lepre: al primo passo che fo, salta
fuori; a colui non gli croscia il ferro: e m'ha certi occhi, da non vi
metter nè olio nè pepe a tirarmi una lanciata. Una lanciata! Allora
l'illustrissimo mi rammenderà quell'occhiello?»

Fra questi e simili pensieri trascinò quel pajo d'ore. Non erano finite
quando Alpinolo uscì a rilevare la sentinella, mostrandosi in atti
ancora sonnacchioso.

--Bravo Quattrodita: (gli diceva il soldato) Arrivi a tempo: tengo a fatica
aperti gli occhi.

--Va pur là, Pagamorta (rispondeva Alpinolo), e dormi col cuore quieto,
che se anche lascerai trascorrere il tempo non ti guasterò il sonnellino
dell'oro».

--Viva il Quattrodita» replicava l'altro, sporgendogli la mano
rozzamente.--Tocca. Un po' burbero, un po' stizzoso, ma di buon fondo.
Bravo ragazzo! Lascia fare, che appena io diventi principe, ti erigerò
caporale».

E con un ghignazzo che si conchiuse in un sonoro sbadiglio, se ne andò.
I passi di lui rimbombarono lungo il corridojo, più e più sempre
allontanandosi: ed Alpinolo li contava, guardandogli dietro con ansietà.
Quello entrò nel camerotto, lasciò rabbattersi dietro l'uscio, e
tutto ritornò nel silenzio. Alpinolo diede una girata origliando,
guardando; e non udendosi fiato, si accostò al carceriere:--Ebbene?

--Ebbene?» replicò Marcaruffo, alzando il capo come per ismemorato, a
guisa d'un baco da seta che dorme, e fissando in volto ad Alpinolo due
occhi d'artificiosa storditaggine. Ma questi in atto imperativo e
minaccioso afferrandogli il braccio, diceva:--Sta su: l'ora è opportuna.

--E poi?» domandava l'altro, mentre rizzavasi dinoccolato, e sentendo in
quel punto meglio che mai quanta distanza corra fra il promettere di fare e
il fare.

--Come? tu cagli? e i denari?» replicava risoluto Alpinolo.

--E il diamante?» ridomandava Macaruffo.

--Sì, il diamante è qui; ed al varcare della soglia ti giuro da uom
d'onore che sarà tuo. Ma a noi! il tempo stringe.»

L'altro si mosse dimenando la testa, e brontolando fra sè:--Uomo
d'onore, uomo d'onore!» Ma una guardatura fulminante di Alpinolo, ed una
stretta di mano che parve una tanaglia, lo fece accorto che non era più
tempo di trarsi in dietro, e neppure di star in tentenno. Per far dunque
che almeno l'effetto gli riuscisse senza sconciature, si trasse le scarpe,
ossia gli zoccoli che allora ne facevano le veci; inginocchiossi, e
recitò una preghiera che solo il terrore gli traeva sulle labbra, e
colla quale non voleva se non domandare a complice il Cielo. A taciti passi
allora inoltrandosi, spense il lampione che fiocamente rischiarava il
corridojo; spiccò dalla cintura le chiavi, e s'avviò muro muro e
tastone verso la carcere di Francesco Pusterla.

Solito sempre a mutare i passi fragorosamente, fischiando e cantando
canzonacce con voce assordante, senza verun riguardo ai prigionieri, a cui
il gridare spezzava i sonni e conturbava la fantasia, ora ciampeggiava con
tutte le gelose e timide premure d'una madre, la quale gira attorno alla
cuna dell'ammalato suo bambino. Il men che lieve fruscio dei panni gli
metteva i brividi; i passi suoi, comechè fosse scalzo, gli pareva sonare
più che quelli di un guerriero tutto ferro dai capelli alle piante; fin
l'anelito studiavasi rattenere: le chiavi, per cura che adoperasse, girando
nella toppa scricchiolavano, crocchiava l'imposta, onde se gli rizzavano le
chiome in capo. Men pauroso, ma più sollecito, Alpinolo gli era sempre
alle spalle, colla sospensione di un ladro mentre il compagno sconficca lo
scrigno di un usuriere. Alla fine il chiavistello fu aperto, tirato il
paletto; e Alpinolo si precipitò giù per due o tre rozzi scaglioni,
chiamando sommessamente--Francesco! signor Francesco!»

Questi, al sentir dischiudere la prigione in ora tanto insolita e in più
insolito modo, già coll'immaginazione era corso a quei timori, che sono
abituali nei carcerati; una violenza, un assassinio. Buttossi ginocchione,
chiese a Dio mercede dei suoi peccati, e gli raccomandò l'anima sua come
se fosse sul punto di comparigli davanti; risvegliò il suo Venturino,
baciollo, il rincantucciò nel più riposto angolo della prigione,
dicendogli «Sta zitto»; lo ricoperse col suo stramazzo; gli pose
davanti, come trincea, i soli arnesi che vi si trovavano, uno sgabello e la
brocca: premura di paterno istinto, che ricorre ad ogni mezzo di difesa,
per fiacco e inutile che il mostri la ragione. Così la chioccia, udendo
la romba del nibbio che volge sopra il capo di essa le ampie ruote, chiama
o ricopre i pulcini sotto l'ala, che neppure un momento li schermirà dal
rapitore.

Fra queste ambasciose attenzioni ode chiamarsi a nome: si scuote: è una
voce conosciuta, ma da gran tempo non intesa--Chi è là? assassino o
amico?» domandò.

--Silenzio! un amico», rispose Alpinolo, e si nominò.--Vengo a
camparvi: non perdete tempo, usciamo.

--E la Margherita?» fu la sola voce che replicò Franciscolo.

--Verrà anch'ella.

--Dio ci ajuti!» e strinse al giovane la mano in modo di esprimergli
tutta la gratitudine passionata dell'uomo che, abbandonato da tutti,
tradito, vicino a morte, ritrova un amico. Il giovane la sentì, e
parevagli significare tante cose, che fossero fin troppo a compensare quel
che aveva operato. Poi Francesco tolse sulle braccia il bambino,
replicandogli:--Taci».

Il carceriere, a cui quel brevissimo indugio era parso un'eternità, non
li vide, gli udì rimontare la scaletta, e raccomandò loro
all'orecchio--Fate piano».

Così vennero alla stanza della Margherita.

La meschina non erasi dimenticata (e di che si dimentica il prigioniero?),
non si era dimenticata che quel dì era il settimo anniversario del suo
Venturino. Per una madre, per una malarrivata, di quante idee doveva essere
feconda una tale rimembranza! Le doglie del parto, mitigate dalla
consolazione di vedere, di toccare, di baciare una tenera creatura, un
essere vivente, frutto delle proprie viscere, pegno d'un amore benedetto,
illibato; nuovo nodo di tenerezza fra lo sposo e lei; e non saziarsi di
guardarlo, di blandirlo, di comporlo; e col proprio latte sostentargli la
vita che essa medesima gli diede, sono gioje di che il Cielo privilegiò
le madri per ristoro ai travagli e alle fatiche del sacro loro stato.

Ricorrendo su quel giorno, alla Margherita tornavano in mente una stanza
agiata, un onorevole letto e tante persone intente a prodigarle amorevoli
cure, compatimento, congratulazioni: ed un marito contento, e le speranze
che carolano intorno alla cuna d'un neonato.

Ma ora? Tutto mutato: squallore, tenebre, insulto stizzoso, il dubbio, lo
sgomento; e, peggio di tutto ciò, il trovarsi disgiunta dal marito, e
saperlo gettato in tormenti pari ai suoi, se non forse più atroci. E
quel fanciullo, quell'essere innocente e caro, sua compiacenza e suo
conforto, in sull'alba della vita, condannato, senza colpa, a soffrire le
pene dello scellerato. Questo dì, che soleva essere una domestica
festività, un giorno di felicitazioni sintanto che vissero insieme, ora
non poteva che esacerbare gli spasimi, ora che, così vicina a lui, a
loro, non poteva neppur una volta abbracciarli, nè tampoco vederli. Oh!
vederli, vederli almeno da lontano, questo le pareva sarebbe bastato a
innondarla di dolcezza; e ne richiedeva il buon Gesù, e inginocchiata
pregava che almeno quella tenera pianticella fosse risparmiata, potesse
crescere alla vita, conservando memoria e compassione di un padre, di una
madre, chi sa a qual fine destinati.

Poi, quando l'orazione le aveva tornato alcuna calma, esclamava:--Signore,
sia fatta la vostra volontà».

Alfine aveva declinati gli occhi al sonno; il sonno che, a malgrado dei
tormentatori, vien pure soccorrevole alle ambasce del sofferente. Candida
anima! il suo angelo le svolgeva innanzi sogni, visioni di tranquilli tempi
andati, consolatrici speranze. Ridestandosi le immagini contemplate nel
giorno, le era d'avviso trovarsi libera, e scorazzare sicura fra i suoi,
sulle rive del lago Maggiore; ed era una primavera, bella quanto mai possa
vedersi: tutto fiori, tutto riso, tutto quel mistico canto onde la natura
par che conviti i mortali al banchetto della gioja e della benevolenza, e
la fantasia vi aggiungeva quei magici vezzi che colorano un lungo desiderio
insoddisfatto. Le pareva stare colà a trastullo colle fanciulle
coetanee, ma esser già madre, e mostrare a quelle il suo bambino, che
tenevasi alla poppa, e sollevandone lento lento i pannolini, scopriva ad
esse quel viso d'alabastro, quegli occhi azzurri come il cielo, donde le
era disceso.

Ed ecco la ferisce una voce lontana, fioca,--Margherita! Margherita!»

--È mio marito (dic'ella): quanto tempo che non ne intendo la voce!
Sarà uscito di prigione, e vorrà vedere suo figliuolo. Ora vengo.
Addio, compagne; state allegre finchè io ritorni».

E così continuando il sogno, alzasi di fatto dal giaciglio, e colla
sorda voce del sonnambulo, risponde:--Vengo», e si muove realmente, e
sente abbracciarsi. A quel tocco, all'intendere una voce che le suona qual
dovette a Lazaro quatriduano sonare quella del divino amico che dal regno
dei morti lo richiamava, si sveglia anch'essa, e trovasi in braccio al suo
Francesco:--in braccio ad esso, e fra loro il fanciullo. Credeva sognare
tuttavia, moveasi, fregava gli occhi;--quella era pure la mano di lui che
le premeva il capo contro il suo volto; erano pur quelli i suoi baci: vere
lacrime sentiva scorrere infocate tra la guancia di lui e la sua.

Qual momento! Godine, infelice! godine l'ebbrezza, meritata con sì lungo
soffrire; godi un lampo che folgora attraverso la notte del tuo patire:--un
lampo.

--Zitta (le disse Francesco) e seguimi».

Nulla rispose la Margherita; gli tolse dalle braccia il fanciullo, e lo
strinse al cuore, lo coprì di baci, lo innondò di lacrime:--O madri,
voi sole sarete capaci di comprendere quell'istante. Il pargoletto non
sapeva chi così affettuoso lo baciasse, lo stringesse; ma anch'egli, per
quel ricambio che l'amore impone, prodigava i baci e le carezze. La
Margherita, premendogli il volto contro il proprio seno, tra per amore e
perchè stesse cheto, si mise sui passi del marito. Il quale, presala pel
braccio, s'atteneva ad Alpinolo, che colla labarda in una mano tentando,
coll'altra stava appigliato al carceriere; e questo, a passi lenti e
lunghi, procedeva, col corpo aggobbato quasi per occupare spazio minore,
appoggiandosi tutto sul piede posteriore, sporgendo le mani tentone, e
fermandosi ogni tratto in ascolto.

Già è varcato il primo corridojo; pas ato l'uscio, entro cui dormono
le guardie; traversato un andito oscuro, entrano nella cucina del
carceriere, il quale rabbatte dietro di sè l'imposta, e respira, come
già avesse compito il più difficile dell'impresa. Un altro usciale
metteva a un cortile:--l'aprono:--là in faccia si vede una
porticina;--cinque passi: uscir da quella, saltare il piccol fosso, e sono
in salvo. Dalla soglia tendono l'orecchio.... tutto è silenzio. Una
sentinella, sdrajata boccone sur un muricciuolo dallato, appoggiando la
fronte sulle braccia, dormiva. Macaruffo l'additò ansioso a Alpinolo; ma
questi, spunzonandolo, gli fece intendere a cenni che non era nulla; che
dormiva sodo; niente paura, non si sveglierebbe. Escono: scendono tre
gradini: la Margherita, venendo ultima con Venturino, poneva il piede sul
lastrico; la luna fendeva in quello il denso velo delle nubi, e un limpido
raggio mostrava uno all'altro i fuggitivi, e lasciava distinguere la povera
Margherita, pallida, scarna, in un trito e lacero vestire, diffuso il crine
sulle spalle mezzo scoperte, come donna che sorge allora allora dal letto,
eppure bella in tanto travagliosa negligenza.

Francesco e Alpinolo volsero uno sguardo pieno di amore, di compassione, di
venerazione sopra di essa: il bambino sollevò anch'egli il capo, e colla
manina facendo indietro i capelli che ingombravano la vista, fissò gli
occhi per veder chi fosse l'amorevole portatrice; la scôrse: la
ravvisò. Che tripudio, povero fanciulletto!--O mamma! mamma!»
esclamò con uno strillo acuto, a guisa di chi rivedesse vivo un suo
caro, che aveva pianto estinto; e le gettò le braccia al collo.

Gelarono tutti a quel grido, essa gli turò colla mano la bocca:--invano!
era tardi.

La sentinella riscossa alzò il capo, vide gente, balzò in
piedi.--Ajuto! gente! all'armi!» Non finì di urlare queste parole,
che Alpinolo, dirupatosegli addosso, in men ch'io lo dica gli ebbe spiccato
il capo di netto; poi, colla sciabola insanguinata alla mano, accennava
agli atterriti che fuggissero, campassero; egli starebbe alla porta per
impedirne l'uscita ad altri, finchè essi guadagnassero tempo.

Tutto inutile! Il grido d'all'arme era giunto agli altri soldati; da ogni
parte traevano con lance, con fiaccole, gridando, minacciando. Alpinolo,
col furibondo coraggio di una tigre che difende i suoi parti, cominciò a
menare prima la spada, poi la lancia, infine il troncone di questa, col
potere che aveva maggiore, sicchè ne stramazzò tanti quanti ne colse.
Ma arrivatogli alle spalle Sfolcada Melik, gli girò sul caschetto un
sodo colpo di mazza, che lo fece, tutto grondante del sangue suo e
dell'altrui, ruzzolare come morto ai piedi della Margherita. Li baciò
col labbro convulso Alpinolo; poi, alzando su di essa lo sguardo
ondeggiante, esclamò:--Perdonatemi».

Macaruffo in sulle prime volle mostrare d'essere accorso anch'egli allor
allora, e sguainando la coltella che teneva alla cintola, con parole fiere
rivolto ai fuggiaschi, gridava a testa:--Ah cani! indietro, o vi scanno
tutti. Di queste s'ha da farne a me? di queste?»

Ma dovette accorgersi che il ripiego non valeva, e poichè il Melik,
bestemmiando in suo tedesco e menandogli di piatto la sciabola sulle
spalle, gli diede la funesta certezza d'essere scoperto, gettato l'arma e
la fierezza, si prostrò a terra, e colle braccia aperte e sollevate
badava a strillare:--O Signore! o Vergine benedetta! pietà!
misericordia! ho moglie! ho figliuoli!»

La Margherita intanto erasi abbracciata col marito: le loro lacrime si
confondevano: i vagiti del fanciullo rompevano l'aria, ma nell'ansietà
di quel terribile istante nulla si dissero, se non che Francesco
esclamò:--O mia buona Margherita!» la parola così cara a quella
infelice già nei prosperi suoi giorni, oche egli pronunziò con un
tono da esprimere a un tempo amore, speranza, disperazione, una scusa, una
preghiera, una domanda, una risposta, un giuramento.

Tutta ne comprese la forza Margherita, e ne trasse una stilla di ineffabile
consolazione anche in quello spasimo orrendo, anche fra le urla e gli
schernevoli insulti dei soldati mascalzoni, che a forza li dividevano e li
ricacciavano nelle loro prigioni.



CAPITOLO XX.

UN FRATE E UN PRINCIPE.


Frà Buonvicino, come l'altra notte, avea serenato, aspettando coi
cavalli al noce in Quadronno; perocchè le regole del suo Ordine erano
aliene da ogni severità, e per poco che l'abuso le avesse rilassate, non
si faceva caso che alcuno stesse anche tutta la notte fuori di convento.
Aveva, dissi, vegliato in aspettazione, pregando, e talvolta abbandonandosi
a una gioconda speranza che il Signore darebbe favore all'innocenza, tanto
da operare un miracolo per trarre la Margherita in libertà; immaginava
la gioja di sapere in salvo persone tanto care, il contento di rivederle
una volta ancora, e poi mandarle dove fossero sicure dalla tirannia. Ma
queste lusinghe davano tosto luogo a un arcano spavento, ai calcoli
desolati della ragione: e figurandosi tutti i pericoli possibili, gelava,
sudava, e buttavasi colla faccia sulla terra, supplicando Iddio che li
salvasse: Iddio che solo il poteva.

Il minacciare del nembo non lo distolse di là; ben altro avrebbe
affrontato per rivedere la Margherita. Ma quelle ore eterne passarono: i
galli cominciavano a cantare dai rustici casali del vicinato,--Neppur oggi
(egli disse) sarà potuto riuscire». Adunque rinviò il mozzo coi
cavalli ad un'attigua cascina donde gli avea levati, gli diede la posta per
la sera vegnente al luogo medesimo, e ritornossi al convento di Brera,
facendo un distorto giro delle porte.

Ancor non era ben chiaro il giorno, e i foresi del vicino borgo si
avviavano a Milano per vendere il latte, l'uva, le ortaglie; chi con due
gran corbe infilate al braccio, chi con due zane in bilico sulle spalle,
uno colla gerla piena in dosso: l'altro cacciandosi innanzi un somarello:
quali spingendo le carriuole; alcune villane sbracciate e scollacciate e
col guarnelletto di stampato, reggevano in capo secchi di latte, coi gomiti
a manico di vaso: e parlavano tra sè del temporale della notte passata
che divideva l'estate dall'inverno, della prosperità e delle disgrazie
dei loro campi e degli orti, della fame che correva, della peste che
minacciava, della comare, dell'amico: e facevano assegnamento sui denari
che ricaverebbero quel dì.

Giunti alla spianata fra San Calimero e la torretta di porta Romana, vedono
da un ramo spenzolare non sanno che: s'avvicinano: è un uomo
impiccato.--Ehi, compare! gua'; quella pianta ha messo un grappolo
massiccio.

--Oh oh! chi sarà mai!

--Mah!

--E che diamine ha al collo?

--Una borsa.

--Una borsa? volete dire che sia piena di quattrini? E la additavano a chi
veniva dietro, e si struggevano di saperne, per essere i primi a
raccontarlo o nelle case dove andavano a portare le uova e i baccelli, od
alle fantesche, loro pratiche, che capitavano colla corbella sul mercato.

Quando vennero fuori della rocchetta i primi soldati, che solevano
appostare le bolle ortolanine per volere di esse il dondolo, e per pungerle
con qualche arguzia sguajata, si conobbe il fatto. E così la mattina per
tempo la notizia si diffuse, e il verzajo (così chiamano a Milano il
mercato delle erbe e delle civaje, che allora tenevasi in piazza Fontana)
fu tutto un pettegolezzo, un raccontare e domandare della grande ribellione
che avevano fatto i prigionieri nella rocchetta di porta Romana, ammazzato
i soldati, sfondate le porte, alcuni fuggiti, altri ripresi; e due
singolarmente (chi fosse non importava; già s'intende ladri, o simile
lordura, che i galantuomini non vanno a prigione) avevano corrotto il
carceriere per fuggire; ma côlti, erano stati ricacciati in bujosa, e il
carceriere mandato sui due piedi in piccardia.

Anche in Brera, il primo lavorante che capitò la mattina,--Sapete
niente, frate Angiolgabriello?» disse al portinajo.

--No: dite su, che Dio vi benedica; cosa c'è di nuovo?»

E l'altro:--Udite, e poi segnatevi»: e gli riferiva il trambusto
avvenuto a porta Romana, nel modo che andava per le lingue, e colle
alterazioni che sogliono subire i racconti nel passare di bocca in bocca o
di penna in penna;--argomento opportunissimo a dimostrare, per nostra
discolpa, la inclinazione che ha l'uomo al romanzo storico.

Frate Angiolgabriello da Concorezzo non tardò a correre a raccontarlo al
prevosto frà Giovanni di Agliate. Questo era ancora a letto:
esclamò--Povera gente!» diede una volta, uno sbadiglio, e rattaccò
un sonnellino. Con maggiore curiosità si facevano intorno al portinajo
gli altri laici e professi per udirla: ed egli, glorioso d'essere il primo
a spargere una notizia e di andare per la comunità siccome autore (tanto
questa gloria d'autore lusinga fin nelle minime cose!) volentieri la
diceva, e ridiceva come il cieco la sua leggenda. I frati ascoltavano col
pacato interesse, onde si ascolta una notizia che non ci riguarda; al
più, una moderata compassione, e i migliori, facendosi il segno della
santa croce, esclamavano:--Gesummaria per loro!»

Ma chi fossero quei fuggiaschi troppo lo comprese fra Buonvicino
allorquando, appena mise piede fuori della cella, il portinajo, che non
aspettava che lui, corse subito a raccontargli il fatto, senza sapere di
qual coltellata lo trafiggesse.

--Ma l'appiccato (chiese egli) era veramente il carceriere o un soldato?

--Il carceriere, che Dio lo benedica»; rispondeva frate
Angiolgabriello:--chi me lo narrò, l'aveva coi proprj occhi veduto. Ed
io sono stato il primo...

--E nessun soldato n'andò di mezzo, che si sappia?» l'interrompeva
frà Buonvicino.

--Eh eh! e quanti!» ripigliava l'altro, trinciando l'aria colla destra
spiegata.

Frà Buonvicino trasse il cappuccio sugli occhi, ma non sì presto da
celar la sua emozione agli occhi del narratore. Il quale dappoi al suo
racconto aggiungeva questa nuova circostanza per dimostrare a tutti di che
tempra compassionevole fosse il fratel Buonvicino, che Dio lo benedica.

Quest'ultima tavola del naufragio era dunque fallita. Non già che frà
Buonvicino vi avesse posta troppa fidanza; ma l'uomo è così fatto,
che, col lungo fermarvisi sopra, si affeziona anche a ciò che egli
medesimo sa non essere altro che sogni e fantasie. Due giorni e due notti
aveva egli trascorse, fissato, assorto in quell'idea, in quella speranza:
ed era svanita; svanita così dolorosamente! Gli piangeva il cuore per
Alpinolo, che credeva dover esser perito in quel parapiglia: figuravasi i
peggioramenti degli amici suoi; sicuro che l'oppressione avrebbe da ciò
preso motivo per esacerbarne la condizione. Poi il giudizio loro si sarebbe
precipitato; e la prepotenza avrebbe côlto volentieri quest'occasione di
mostrare come le intelligenze, di cui più non potevasi dubitare,
imponessero la necessità di togliere ai fautori dei Pusterla la speranza
di camparli con qualche nuovo tentativo.

Pur troppo dunque prevedendo l'esito, disperando d'ogni umano soccorso,
volgevasi a Dio, a lui che può mitigare l'ambascia di chi patisce e la
fierezza di chi fa patire. All'augusto sacrifizio dell'altare se compunto
sempre si accostava, quel giorno si presentò con più intenso fervore;
tremando, piangendo, pregò per le povere anime di quelli ch'erano caduti
uccisi, per Alpinolo: Dio è tanto buono! tiene a calcolo anche il
sospiro d'un momento: forse quel giovane sarà uscito da questa vita
perdonando e perdonato, ed ora si trova ricoverato sotto le ali di Quello,
delle cui misericordie non è numero. Pregò quindi pei due Pusterla,
che Dio moltiplicasse a loro la pazienza; che ai loro giudici compartisse,
non tanto il lume per conoscere la verità, quanto il coraggio per
sostenerla. E gli parve che il Cielo nuovo pensiero gli ispirasse, un
pensiero coraggioso e nobile: il ventilò: si risolse.

Altamente compreso della dignità del suo ministero, frà
Buonvicino era ben lontano da quella timida prudenza, che insegna a
tacere davanti al peccatore potente. Non aveva egli sottocchio le
parole di Dio e gli esempj dei profeti, degli apostoli, del maggiore
dei profeti, e di Cristo? il Signore aveagli detto per Ezechiello: _Te
posi sentinella in Israele: annunzia la mia parola. Se quando io dico
all'empio_, morrai, _tu glielo taci, sicchè esso persiste nelle sue
vie, egli morrà, nell'iniquità, e del suo sangue domanderà
conto a te_[30].

Per questo i Veggenti d'Israele nelle corrotte città si affacciavano
gridando penitenza: e benchè il vulgo ne soverchiasse la voce, e gli
oppressori intimassero silenzio, non isbigottivano, e continuavano
gridando, Penitenza. Così gridava il Battista alle genti sedute nelle
tenebre della morte, e portava la minaccia alla Corte del re, e
n'aveva--ricompensa antica--prigione, supplizio.

Poi gli apostoli, fra la pertinace superbia de' Giudei e la spensierata
lascivia delle genti, bandivano una legge di spirito, contraria alla legge
della carne; instavano opportuni, importuni[31]; battuti, scherniti,
uccisi, l'ultima voce loro sonava ancora una vigorosa professione della
verità. Chi avesse lor detto di piegarsi ai rispetti del mondo, alle
spietate necessità della politica! Non così gli aveva ammaestrati il
Divino, che scese a portare la spada della parola, che predicava il regno
della giustizia in faccia ai sofisti, agli ipocriti, ai forti congiurati,
sebbene sapesse lo trarrebbero a morte per seduttore dei popoli e ribelle.
Chi volle innestar il Vangelo sulla pusillanime prudenza dei figliuoli
degli uomini, piegarlo agli interessi del secolo, a rinfrancare i
prepotenti contro i deboli, dovette snaturarlo nel carattere suo
principale.

Non così l'aveva inteso frà Buonvicino; onde altre volte era uscito
per le vie di Milano rimproverando i disordini della plebe, gli stravizzi
dei ricchi, la corruttela degli obbedienti e l'eccedere dei magistrati.
Vero è che allora, quando non erasi ancora aperto questo cancro
dell'indifferenza, questo ateismo pratico, la voce dei religiosi sonava
venerata, perchè suggerita da intima convinzione, ed ascoltata con fede:
i sacerdoti si guardavan per annunciatori di pace, come il loro capo era
destinato a stare sopra i potenti della terra coll'inerme eredità di
Cristo per insegnare la giustizia colà, dove tutto regolavasi a forza di
spade o d'astuzia.

Traviarono? mescolarono gl'interessi della fede con quelli del secolo?
Compiangiamoli: ma quale ingiustizia attribuire alla religione i disordini
ch'ella appunto riprova! Benediciamo anzi la Provvidenza che, tra la
ferocia di animi incomposti, tra quel cozzo degli elementi sociali, avesse
stabilito un ministero di riconciliazione[32] per frenare il braccio del
violento, spruzzare l'acqua della pace sui rancori fraterni, chiamare i
furibondi a deporre gli sdegni nelle braccia d'un Crocifisso. Benefico
potere, che interponeva il nome di Dio agli atti umani; se non altro,
protestava in favore della calpestata umanità: chi oggi ne adempie le
veci? Le istituzioni umane vanno soggette a speranze e timori; può la
prepotenza lusingarle od atterrirle; può la scaltrezza farsele alleate;
tristo chi non si affida che nella polizia e nelle bajonette, e chi a
queste non sa opporre che la rivolta e l'assassinio.

Frà Buonvicino fermò dunque in animo di andar a perorare dinanzi a
Luchino la causa dell'innocenza. Invocato Colui, che solo può dare
efficacia alla verità, forza alla persuasione, e far dalle rupi
zampillare acque vive, si diresse al palazzo, come Natan andava a
rinfacciare a David il suo peccato. Le persone vulgari, che lo vedevano
meditabondo e sopra sè attraversare le vie, dicevano ai loro
figlioletti:--Gli è un santo: quando lo scontri baciagli la mano». I
nobili, facendo tacere l'orgoglio della nascita avanti ai meriti
dell'intelletto e del cuore, gli cedevano il lato rispettosi; le guardie
del palazzo e gli adulatori diedero il passo, inchinandosi a colui che
indovinavano come venisse a bandire la verità dove essi facevano ogni
studio per palliarla; ma è privilegio della verità il rendersi
venerata da coloro stessi che l'abborrono, come è privilegio della
lusinghiera viltà il toccare lo sprezzo anche di quelli, innanzi a cui
arde i suoi fetidi incensi.

Nell'avvicinarsi alla torre, entro cui soggiornava Luchino, quattro fieri
mastini si levarono incontro al frate, con un abbajare, con un ringhio, che
a stento repressero i custodi. Grillincervello, trattosi anch'egli il suo
burlesco berretto, senza permettersi contro del frate i motteggi che a
nessuno risparmiava, corse ad annunziarlo al Visconti, limitandosi a dire
sottovoce agli altri:--Oggi il principe ha predica in camera».

Il Visconti stava in quel momento ritirato in un riposto gabinetto della
sua torre, insieme con un uomo di gran barba, ravvolto in una veste nera,
lunga fino ai talloni; il quale, con aria d'importanza o d'impostura (l'una
somiglia tanto spesso all'altra), teneva il dito teso sopra una figura
geometrica che aveva delineata, e che veniva dimostrando al principe. Un
astrolabio ed una sfera armillare posti fra loro, indicavano come costui
fosse un astrologo. Era di fatti quell'Andalone del Nero che ci fu nominato
altre volte, non meno celebre a Milano che fosse ad Avignone quel Tommaso
Pizzano, si mal a proposito consultato dal Pusterla.

Luchino, come tutti solevano nei casi più dubbj e rilevanti, aveva
interrogato Andalone nientemeno che sopra un problema, a cui attendono da
secoli migliaja di persone... cioè se fosse possibile congiungere
l'Italia sotto un solo signore, e se egli potrebbe essere quel fortunato.

Gli elementi per risolvere quest'arduo problema sarebbero certo assai
diversi ai nostri giorni; per lo meno non v'entrerebbero più quel che
allora pareva capitale, voglio dire il consenso delle stelle e le influenze
celesti. Anzi io credo che, in tale discussione, troppo poco si guarderebbe
di sopra dei tetti.

Giovane, prode di sua persona, ricco d'accorgimenti e di scaltrezze, non
mai rattenuto nella sua vita dallo sgomento d'un delitto, valutando gli
uomini come mezzi, le alleanze come lacciuoli, i patti come un'esca agli
incauti, e ragione la prepotenza, e giustizia la buona riuscita, Luchino
poteva sperare di raggiungere una meta, alla quale avevano sempre avuto la
mira i suoi predecessori: raggiungerla, purchè qualche aspetto maligno
di pianeti nol contrariasse. Ma chi spassionato guardasse alle condizioni
del paese, trovava da un lato le abitudini radicatissime in popoli avvezzi
a riguardarsi non solo come stranieri ma come nemici, la malvagia ingerenza
degli stranieri che soffiavano nelle ire fraterne, le gelosie degli altri
signorotti, e l'ostacolo interiore di una potenza che i diritti temporali
sosteneva con armi spirituali, allora spaventosissime.

Queste cose vedeva Andalone del Nero colla prudenza della politica: ma
fingendo leggerle nella congiunzione degli astri, aveva rizzato l'oroscopo,
ed ora spiegandolo a Luchino, da una parte non voleva scemare credito
all'arte sua con promesse che uscissero poi vane, nè dall'altra
disperare affatto l'ambizioso signore. Esponeva dunque le cose con tale
avviluppo, con gergo sì dottrinale, con tanti misteri, che Luchino nè
sapeva trovarvi accarezzate le sue speranze, nè volea vederle sventate,
talchè ne rimaneva scontento e indispettito.

Più s'indispettì all'annunzio di Grillincervello. Conosceva egli
Buonvicino fin da quando era nel secolo, e lo temeva come uno di quegli
uomini dritti, che alle opere scellerate, agli iniqui consigli oppongono un
ostacolo legale quando possono, o, quando non possono, una passiva
resistenza;--uomini odiosi al potente ribaldo, giacchè con nessun atto
eccedente gli offrono ragione o pretesto di reprimerli, di perseguitarli.

A mal cuore sentì pertanto il venire di lui; pure non ardì negargli
udienza, sì perchè rispettato, sì perchè la recente sua
riconciliazione col papa il costringeva a maggiori riguardi verso i
religiosi. Onde comandò andasse ad aspettarlo nella sala della
Vanagloria, acciocchè la regia pompa del luogo facesse meglio sentire la
gran distanza fra il principe temuto e l'umile frate, fra l'uomo circondato
dalla forza e quello che non ha se non le umili virtù della beneficenza.

Quivi entrando, Luchino, sebbene si fosse messa intorno al cuore la
calcolata freddezza di un potente che va ad ascoltare chi ha già
deliberato non esaudire, pure con sembianze cortesi mosse verso frà
Buonvicino, dicendogli--Ben giunto! che ci recate, o padre?»

Al che frà Buonvicino inchinandosi,--Quando il ministro del Dio della
misericordia si affaccia alla soglia di un potente, può egli recarvi
altro che consigli di mansuetudine e di clemenza?

--E sempre saranno qui ben accetti», soggiungeva Luchino con affettata
sommessione, da cui ingegnavasi di non lasciar trapelare l'alterigia, che
di leggieri acquista chi non sa se non essere obbedito. E il
frate:--Siatene benedetto! Ma non basta che l'orecchio sia dischiuso al
vero, se il cuore poi non lo riceva. O principe! corrono per la città
strani rumori di nuove vendette...

--Vendette! vendette!» interruppe l'altro rinforzando la
voce.--Vendette! solito nome con cui la malignità qualifica le
punizioni. Dunque se un traditore mi si solleva in casa, se alcuno trama
per togliermi quel che a diritto possiedo, ed io punendolo riparo me e la
società di cui son tutore, avrà a dirsi vendetta? Non m'ha data Iddio
la spada per ferire?

--E Dio», riprendeva il frate con voce tanto più commossa quanto
iraconda erasi fatta quella del Visconti. E Dio vi conceda lume per ben
adoperarla. Ma avete esaminato voi stesso se mai non vi traviassero
personali affezioni? Siete certo che non v'inganni alcuno di quelli, di cui
sta scritto che _preparano continuamente saette per colpire nelle tenebre i
buoni?_[33] Avete considerato come il sangue innocente gridi incessante al
cospetto dell'Agnello?»

Nei moti del Visconti appariva la insofferenza di un linguaggio così
vero, ma così inusitato, e il frate proseguiva:--Ma sia; abbiano ordito
tradimenti; non è un precipizio punir l'attentato come la colpa? Quanti
cuori non vi guadagnerebbe la clemenza? quanti non ne rimoverà da voi il
rigore? Oh la clemenza! essa è un vanto per l'autorità benefica, è
un calcolo per i malvagi allorchè suggerisce che ogni enfiato non si dee
tagliare, che il rigore può imporre il silenzio, ma non infonder
l'amore, unico fondamento stabile della podestà. Essa è un calcolo
allorchè fa vedere quanto divario corra fra un principe benedetto dal
popolo, che egli dirige da buon pastore, corregge da padre amorevole, e un
altro che nol frena se non tenendogli alla gola il pugnale. Guai al giorno
che quel pugnale si spuntasse! Ma questi sono discorsi di prudenza umana.
Io son ministro del Vangelo, e come tale vi domando: Siete voi
cristiano?»

Rizzò la testa Luchino a un'interrogazione che gli sonava potente
come uno scongiuro, ma tosto armatosi dell'ironica indifferenza contro
cui si spuntano e la ragione e la pietà, tentennando il capo,
rispondeva:--Cristiano? io? me lo chiedete voi, o padre? voi di un
convento che dovrebbe conoscermi?

--Come tale (ripigliava frà Buonvicino) fate ogni opera onde conformarvi
a quel divin Modello, che non domanda olocausti ma giustizia, che al par di
sè ci vuole temperati e misericordiosi. Ora egli intimò preciso, che,
se il fratello ci offende non una volta, ma settanta volte sette,
altrettante condoniamo; e promise misurar noi colla misura che avremmo
cogli altri adoperata. E voi stesso rinnovate quel patto ogni giorno
allorchè pregate che egli perdoni a voi, come voi agli offensori. Or
quando ripetete questa preghiera, bagnato del sangue, anzi pur delle
lagrime di un nemico, non vi ricorda che vi è un punto a cui tutte le
strade mettono capo? che un giorno un giudice...

---Lo so, lo so», interruppe Luchino, sollecito di sviare un pensiero
che fa gelare il ribaldo sotto alla corazza o fra un cerchio di spade.

--Lo so: ma so ancora che l'ingiustizia invendicata provoca a nuove offese.
Bello, sì, sublime è il Vangelo, ma per ridurre in pratica quella sua
angelica società, converrebbe che tutti l'adempiessero».

E il frate,--Ma quando il fallo altrui potè scusare il nostro? E se
tutti seguitassero cotesta vostra ragione, che sarebbe il mondo più che
una spelonca di ladri? Ah! già troppo la forza ha dominio nelle cose
umane; già suggellò atroci distinzioni fra gli uomini. Invece di
scusarsi coll'esempio di chi travia, perchè i potenti, perchè voi non
vi fate esempio agli altri; non cercate rilevare l'umana dignità
abbattuta, col sostituire il diritto alla prepotenza?

--A questo modo vorreste inferire che sin ad oggi errarono quelli che
punirono, errarono le leggi, errarono i nostri antichi, e quei lumi di ogni
sapienza, i Romani».

E il frate di rimando:--Quelle leggi chi le ha fatte? l'uomo, abisso di
contraddizione e di miseria. Ma più sopra sta un altro legislatore,
infallibile, scevro da passioni e da interessi, che ha fatto legge la
carità, dovere il perdono. Se le istituzioni umane vi si conformano,
benediciamo il Signore. Ma se sono disformi, se i sudditi mormorano...

--E di che non mormorano essi?» interruppe Luchino.--Non udite come
continui suonino i loro lamenti? Mormorano di quei gloriosi imperadori
romani; mormorarono contro il gran padre mio; mormoreranno di me. Perchè
dunque piuttosto non vi diffondete tra cotesti, intolleranti di ogni
autorità, a predicare la somma delle virtù, la subordinazione?
perchè non mostrate a codesti perpetui scontenti come il comandare sia
peso assai più grave che non l'obbedire? Oh no; allora non
occorrerebbero codesti panegirici della clemenza, i quali tornano conto
solamente ai rei, come ai vinti il panegirico della generosità».

E col piglio fra sprezzante e scrutatore che acquistano coloro, in cui la
politica soffogò l'umanità, fissava di traverso la venerabile fronte
di frà Buonvicino, mortificato, ma non da riguardi umani, e più
nobile in mezzo ai patimenti. Il quale proseguiva:--Se i popoli si
lamentano sempre, non correte a trarre per unica conseguenza che siano
dunque incontentabili. Quanto alla subordinazione, che altro facciam noi se
non bandirla tutto dì fra il popolo? Oh forse la verità va riguardosa
allorchè parla a coloro, coi quali può essere franca impunemente? Ma
Dio ci comandò di dirla al forte; e per questo ci teniamo obbligati a
predicare che, nel libro stesso ove è imposto ai sudditi di obbedire,
è comandato di ricordare che tutti vengono da un padre, tutti camminano
a un fine. A chi in contrario procede, quale castigo intima Iddio? che
_tremeranno ove non sia timore_.[34] Se poi gli eccessi del capo, non dico
scusino ma traviino il popolo, se questo popolo mormori, se pensi togliere
l'autorità a chi ne abusa, avrà questi il diritto di vibrare la spada
contro agli offensori? Non l'ha rintuzzata egli stesso il giorno che la
volse a sostenere l'iniquità?

--Egregiamente!» riprendeva Luchino; e pratico nell'antico sofisma che
mostra il torto dell'avversario col fargli dire più che non abbia
inteso, continuava:--Egregiamente! negare al principe il diritto di punire!
renderci da meno di un superiore dei vostri conventi! Ma già il mondo
non s'impara fra quattro mura, nè il governo di una comunità
ecclesiastica insegna quel che giovi a una città, a un popolo... Sì,
sì, vorrei veder io chi starà arbitro fra me e cotesto popolo; chi
verrà a dirmi,--Trascendesti i patti, dunque discendi».

E batteva la mano sul pomo della spada. Ma frà Buonvicino,--Ecco dunque
qual parrebbe a voi il gravissimo dei misfatti: l'osar parlarvi la
verità. Sempre dunque misura delle opere la potenza, ogni quistione
risolta colla forza, per la quale potete comandar di tacere. Eppure questa
società vi ha affidato il potere: essa è l'organo di Dio, il quale
è superiore a cotesto brando in cui fidate...

--Eppure» l'interrompeva Luchino colla compiacenza di chi ferisce
l'avversario colle armi sue stesse:--eppure questo Dio si compiace di esser
chiamato il Dio delle vendette».

Ma il frate, senza esitare,--Sì, perchè egli è giusto per essenza,
e però vendica gli innocenti, giudica le giustizie, si fa rifugio
dell'oppresso e del tribolato. Ed egli, scevro da passioni e da interessi
mondani, dettò una legge superiore a queste, fatte dall'uomo, fallibile
per cuore e per mente, una legge di mansuetudine e di perdono. Ed egli
stesso ha dato la spada ai signori della terra, ma per punire, non per
vendicarsi, per tutela della società, non per oltraggio, non per far
misura delle opere la potenza. Se il patto s'infrange, non cessa da questo
istante il diritto? E il ministro di Dio non ha obbligo di rinfacciarlo al
trasgressore?»

A guisa di un fanciullo caparbio e ritroso, che non sa come replicare, pur
non vuole obbedire, il Visconti con un tal riso che gli era proprio,
esclamava:--Obblighi nuovi! nuovi incarichi!

--Nuovi! (soggiungeva fra Buonvicino) nuovi quanto il libro ove il più
sapiente dei re scriveva: _Ascoltate, o regnanti; imparate, o giudici: da
Dio v'è dato il potere, ed egli interrogherà le opere vostre, e
vedrà se mai voi primi aveste contraffatto alla sua legge_[35]. Nuovi
quanto il Vangelo, dove è raccontato del servo che fu sentenziato alle
tenebre inferiori perchè non aveva usata al conservo debitore la
misericordia che egli stesso aveva ottenuta dal padrone. Meno poi avrebbero
a somigliar nuovi in Milano, e a voi che tante volte traete a pregare alla
basilica ambrosiana. A quella stessa drizzavasi un altro principe, la
più gran maestà della terra, un Teodosio imperatore romano:
quand'ecco uscirgli incontro un vescovo, il mite Ambrogio, e rimproverargli
il sangue versato in città ribelle. Eppure questa città era sorta
alle armi e all'eccidio. O principe, il mite Ambrogio non ricevette alla
comunanza della preghiera e del sacro pane l'imperatore finchè con lunga
penitenza non ebbe tersa la macchia.... O principe, e le mie son novità?

--Ma al nome sia di Dio; in conclusione che volete da me? (dava su Luchino
con irrefrenata impazienza). Che io disserri le prigioni, o mi empisca il
paese di furfanti e di assassini?»

Allora il frate con tono supplichevole,--Sono tutti furfanti e assassini
quelli che chiudete nelle vostre prigioni? E con loro confusi non gemono
forse altri, non dirò rei, ma accusati di trame contro la vostra
autorità? Quale impresa tentassero io nol so. Ma se, così pochi,
pensavano togliervi un potere difeso dal popolo che ve lo conferì, non
meritan piuttosto compassione che castigo? Non torna meglio farsene
altrettanti amici col perdono? Se poi avete ragione di credere che il
popolo stesse con loro, come persuadervi che il sangue di pochi
affogherà le ragioni comuni? e allo sdegno sostituirà nella
moltitudine l'amore, unico fondamento durevole all'autorità? Non è a
temere piuttosto che il gemito di ogni vittima risuoni nei cuori già
commossi, per eccitarvi il desiderio di vendetta? Tanto più se le
vittime sono illustri, se care per virtù, se credute innocenti. O
principe, voi tenete nei ceppi Francesco Pusterla e la donna sua....

--Che? tutta la predica dunque riesce a questo? Ove si tratti di bella
donna, anche voi, reverendo, ne prendete a cuore la sorte?»

A fra Buonvicino andarono nel fondo dell'anima queste parole. Recatosi in
sè stesso, rapidamente esaminò se i primieri affetti avessero troppo
parte nella condotta sua presente: gli parve di no, ma disse in cuor
suo:--Ciò sia in riscatto dei miei trascorsi» e tacque. Luchino, a
cui quello scherzo era sfuggito in un momento ove il naturale prevalse alla
riflessione, rifattosi più serio di prima, continuava:--Voi non ignorate
come i costoro complici siano stati processati, e come dalle spontanee loro
confessioni pur troppo risulti che la famiglia Pusterla, ingrata a tanti
benefizi, stava a capo di una trama contro la sicurezza mia e del mio
Stato. Osereste richiamare in dubbio un giudicato?

--Anche Cristo fu giudicato; giudicati i martiri, e il cristiano che sel
ricorda, sa che talora la spada della giustizia emula il coltello
dell'assassino: sa vedere l'innocente perfino in chi sale al palco, e il
riprovato da Dio in colui che lo condannò.

--Ebbene, Dio li salvi se sono giusti (parlava Luchino). Quanto a me, per
non sembrare mosso da particolari affetti li sottoposi a giudici
indipendenti, e secondo parrà alla loro rettitudine, sarà fatto.

--Qui appunto sta il forte, (riprese la parola fra Buonvicino animandosi),
che sotto al manto della rettitudine non si mascheri l'iniquità. I
giudici saranno eglino incorrotti? Avranno il coraggio di sentenziare
diverso da quel che altri accenna loro come desiderio del padrone?»

Non parve vero a Luchino di trovare un appiglio onde irritarsi e gridare, e
sottrarsi così alle argomentazioni del frate, che più lo serravano
quando erano esposte con maggiore aspetto di calma e di soggezione.--E che?
(gridò) osereste dubitare dell'integrità dei miei giudici? Padre,
finchè parlaste di noi, finchè mi intimaste i miei doveri, dritto o
no, io vi ho dato orecchio colla sommessione di un fedel cristiano. Ora non
più: voi intaccate i più onorevoli fra i miei cittadini. Silenzio,
dunque: basta. Della premura che vi prendete per l'anima nostra e per la
nostra fama, gran mercè: ve ne ringrazieremo meglio che con parole. Ma
qui finisce la vostra parte. Vi sono leggi, e vi sono giudici per
applicarle. Innanzi ad essi compariranno cotesti vostri protetti, vedranno
snudate le loro scelleraggini, e... morranno».

Così disse con quella voce risoluta che non ammette più replica, e
quest'ultima parola, traboccatagli come in ricatto della forzata degnazione
adoperata sino allora, rimbombò terribile per la dipinta volta del
salone, e a guisa di un fulmine colpì il frate, che ammutolito chinò
la testa. Quando la rialzò, vide Luchino che varcava la soglia a passi
concitati, lasciandolo solo. Così anche le poche volte che la verità
può accostarsi all'orecchio dei tiranni, la funesta abitudine di veder
fatta legge la propria volontà reprime quel grido, e pone ancora al
luogo del diritto l'arbitrio e la potenza.

Luchino tornò ad almanaccare la conquista di tutta Italia con Andalon
del Nero; l'Umiliato discese come cieco le scale del palazzo; attraversò
la città compassionando i popoli, a cui Dio manda il peggiore dei
flagelli che accolga nei tesori dell'ira sua, una trista signoria; e venne
al convento di Brera, meditando le miserie del giusto, le quali gli gridano
come la sua patria non è quaggiù.



CAPITOLO XXI.

SENTENZA.


Frattanto ogni cosa era disposta pel nuovo giudizio. Quel Lucio, capitano
della giustizia, del quale abbiamo accennato i severi e maligni
procedimenti, era stato, in premio del suo zelo e della fedeltà, messo
al temporario godimento del palazzo in Milano e della deliziosa villa di
Mombello, ricchezza un tempo e ricreazione dei Pusterla; lasciandogli
scorgere che, qualora i primitivi possessori cessassero di potervi
pretendere mai più, ne rimarrebbe in lui l'assoluta padronanza.

In un anno egli vi si era naturalmente affezionato, e naturalmente
desiderava conservarseli tutta la vita, tramandarli al suo carissimo
primogenito; e, o non ritornare mai più nella patria, la quale ricordava
la vergogna de' suoi bassi natali e della originaria sua povertà, o
recarvi un fasto e una ricchezza che gli attirasse l'invidia di chi prima
gli aveva avuto compassione. Il mezzo poi era così facile! Quando mai
l'avaro e l'ambizioso si tolsero da un loro divisamento perchè costasse
un'ingiustizia?

Facile, ho detto, il mezzo, cioè la condanna dei Pusterla, poichè i
giudici sapevano di gratificarsi il potente coll'aggravare il preteso
colpevole, e che, sentenziandoli a morte, secondavano la legge, la forza,
la passione di una di quelle anime dispotiche, in cui il non volere aver
torto è il sentimento surrogato a tutti gli altri. E già come
complici della congiura del Pusterla molti erano stati mandati al
supplizio: forse anche è vero che alcuni, o per violenza di tormenti, o
per propria fiacchezza, o perchè credessero minor male il versare ogni
colpa sopra chi pensavano trovarsi in luogo sicuro, avea deposto a carico
di Francesco quanto bastasse alla legge per chiarirlo reo. Egli stesso, il
Pusterla, col fuggire avea somministrato un indizio di sua reità. Il
principe poi aveva manifestato troppo apertamente il voler suo col violare
persino il diritto delle genti affine di aver nelle mani quel famoso
ribelle; come tale egli era stato rappresentato ai Pisani, affine d'indurli
a consegnarlo; come tale nominato alle varie Corti che s'informavano di
quel fatto; come tale ritenuto nei discorsi del popolo, fra il quale la
congiura del Pusterla era divenuta, a forza di ripeterlo, un fatto di
comune persuasione.

Senza dunque parlare dei vigliacchi che non valutano la coscienza se non
pel vantaggio di poterla vendere, anche i meno ligi fra i giudici,
convocati a formare la commissione di giustizia, erano in disposizione
sfavorevole affatto ai Pusterla. I nuovi tenevano a gran calcolo l'onore
fatto ad essi dal Visconti col trasceglierli a riconoscere la rettitudine
del suo procedere; e poichè ognuno crede sè medesimo probo e
generoso, persuadevansi che egli, coll'elegger loro, avesse dato prova di
giustizia, e quindi, senza quasi accorgersi, pendeano a non mostrare
ingratitudine a Luchino col contrariarne i disegni.

Ben n'avea di quelli che, come buoni padri di famiglia, come cittadini di
uno Stato che conservava il nome ed alcune apparenze di repubblica, avevano
fremuto contro di un processo che l'equo sentimento e l'esame spassionato
dichiaravano iniquo: ma le fittizie opinioni della società hanno saputo
creare due onestà diverse pel particolare e pel magistrato, e
insinuarono che uno possa come privato ammirare colui, che come giudice
pretende esporre all'infamia.

Io non dico che queste cose si analizzassero come oggi: dico che come oggi
le si facevano.

Quanto a coloro che avevano già avuto mano nel giudizio precedente,
troppo interesse trovavano che il nuovo non ne discordasse. Posto ancora
che contro dei Pusterla fossero mancate tutt'altre prove, fossero anzi
(caso poco men che impossibile in processi di tal genere) apparse
dimostrazioni di sua innocenza, il confessarlo incolpevole non tacciava di
falsi i giudizj precedenti? Che sarebbesi detto se fossero risultati
innocenti quelli, su' cui compiici già si era proferita una condanna?
Dove sarebbe andata la dignità della giustizia qualora si fosse mostrato
possibile che ella s'ingannasse? e s'ingannasse in decisioni irreparabili?
il ritrattarsi è tale forza di virtù, che rare volte ne è capace
un privato: non so se mai un corpo.

Pendevano dunque i giudici a volere trovar reo il Pusterla, persuasi fosse
questo un atto di mera giustizia; per lo meno una conseguenza immediata e
necessaria delle giustizie antecedenti. Così l'iniquità ha natura
simile all'acqua; se appena faccia pelo in un edifizio, per robusto ch'e'
sia, a poco andare l'avrà scassinato e riverso.

Lettori miei, di buon cuore e di buon senso, voi vedete che io m'ingegno di
mostrarvi come l'uomo, passo passo, giunga a reprimere il sentimento del
retto e del dovere, deposto in fondo all'anima sua. So chi da tali fatti
deduce che quel sentimento è un sogno, che l'uomo è una belva feroce,
a frenare la quale bastino appena la forza dei patti sociali e la
severità delle leggi: ma se esploreremo le vie che guidano al
pervertimento morale, e quel che possano l'educazione e le leggi, vedremo
che, se esso si vela e si deturpa fra l'ambizione, l'egoismo e la
prepotenza, vive però nelle anime schiette e paghe del loro stato, per
attestarne l'origine divina.

Per la pura verità bisogna confessare che la causa del Pusterla
trovavasi ora di gran lunga peggiorata. In quel suo esigilo erasi egli
veramente adoperato a cercar nemici al Visconti; gli stava a fronte
Ramengo, il quale smaniava di trarre a fine una tela scelleratamente
ordita, e pur troppo poteva produrre a carico di Francesco le pratiche
conosciute a Pisa, i discorsi da lui tenuti nell'abbandono della
confidenza; in fine il suo tentativo per unirsi allo Scaligero, a danno del
Milanese. Farsi capo di esercito straniero contro la patria era colpa, che
destava orrore a qualunque buon Lombardo.

Dopo ciò mi permetterete ch'io tralasci la fralezza delle prove,
l'assurdo dei confronti, il sofisma delle deduzioni, le confessioni estorte
o con tormenti o con raggiri o con suggestioni; tutto l'artifizio onde
Lucio e gli altri s'industriarono a travisare la verità. Qui, come
altrove, la storia potrebbe aver apparenza di satira.

Che se pure fra i disconforti che troppo spesso ella reca, vorremo in tutto
questo cercare cosa che ne consoli, sia il considerare quanto la dignità
dell'uomo abbia, da quel tempo in poi, acquistato rispetto. Allora dalla
condanna restava generalmente colpito, non il reo soltanto, ma tutta la
famiglia; e non intendo solamente del disonore, che fin oggi non
s'imparò a limitare unicamente sul colpevole, ma le pene ancora
ricadevano sugli aderenti del condannato, come sugli averi di lui. Nei
delitti di Stato principalmente la brama di atterrire con esempj spaventosi
faceva che i fratelli, la donna, i figliuoli s'involgessero nella condanna
del ribelle; teneri fanciulli (tutte le storie il ricordano) vennero, per
le colpe dei padri, sepolti nelle carceri, tratti al patibolo, dati a
sbranare ai cani. Ora la nascita e la parentela danno soltanto diritto a
gradi ed onori; allora si era più atroci, ma anche più logici.

Terminato il processo segreto dalla commissione di giustizia, il voto
doveva, come l'altra volta, essere esposto al consiglio generale, che
rappresentava o figuravasi rappresentare il popolo milanese. E Lucio in
fatti, congregatolo per ordine del signor Luchino, gli presentò il
processo affinchè lo trovasse giusto, e ne ratificasse la sentenza.

La campana del Broletto nuovo, che invitava i capifamiglia a radunarsi, ad
ascoltare e dir di sì, piombò sul cuore di frà Buonvicino, come un
preludio di morte, come i botti dell'agonia; e abbandonata la sua cella,
discese a pregare nella chiesa. Quivi si andò a prostrare davanti a
quell'avello medesimo, sopra il quale erasi inchinato nel memorabile
giovedì santo, in cui Dio gli aveva parlato al cuore e chiamato a
penitenza ed a vita nuova. Quante cose erano mutate da quel giorno! Anche
ora la Margherita stava in cima dei suoi pensieri, ma deh in qual diversa
sembianza!

Meditò, pregò pei sofferenti, pei loro oppressori: somigliante ai
primi seguaci di Cristo allorchè, nelle perseguitate catacombe, si
raccoglievano sulle ossa dei martiri a supplicare il Signore pei loro
fratelli, che in quel momento suggellavano col sangue la fede nella
virtù e nella verità. Invocò lo Spirito divino perchè mitigasse
colui che pur troppo aveva in sua mano la vita di quegli sventurati;
perchè, se non altro dissipasse da quegli infelici lo sconforto e i
dubbj desolati, se mai, come pur troppo temeva, fossero destinati a vuotare
il calice sino alla feccia.

Quando la vita sua propria fosse stata in quel momento sotto alla
deliberazione di un tribunale, non avrebbe frà Buonvicino fatto
altrettanto fervida e passionata l'orazione, non ne sarebbe stata
altrettanto penosa la incertezza. A volta a volta gli sorgeva in cuore una
consolante fiducia nella bontà morale dell'uomo, nel trionfo dei
sentimenti generosi, ma tosto ne ricadeva in disperato abbandono. Tutto
allora fissavasi in Dio; in Dio che si farebbe sostegno e premio
dell'innocenza, che non darebbe il giusto qual nuovo trofeo all'empietà:
ma poi si ricordava che Dio non somiglia al fango coronato del mondo, la
cui autorità cessa appena che, come l'ultimo degli schiavi, ritorni alla
polvere donde è uscito, ma che il suo regno si stende oltre i confini
della tomba, e di là appunto cominciano le sue retribuzioni.

Alcune ore egli era rimasto così assorto nella meditazione e nella
preghiera, allorchè sentì gentilmente toccarsi la spalla. Levò lo
sguardo come persona riscossa da un profondo pensiero, e vide accanto a
sè un giovane in elegante vestitino succinto, metà cilestro e metà
bianco, schietto, assettato in modo da dar rilievo all'adatta struttura e
all'agile robustezza del corpo, su cui il farsettino e i calzonetti non
facevano tampoco una piega. Appoggiando con leggiadria al fianco sinistro
la mano arrovesciata, con cui reggeva il berretto di velluto, pur bianco,
donde cascava con grazioso vezzo una piuma di pavone, posando la destra sur
una elegante bacchetta di ebano col pomo e il calzuolo di terso argento,
tenevasi esso in rispettosa distanza, con quell'atto di ossequiosa
gentilezza che si imparava nelle Corti. Una grossa serpe ricamata di
argento sul suo giustacuore non lasciò dubitare a frà Buonvicino che
non fosse un cameriere del Visconti; e, palpitando di speranza e di timore,
se gli levò incontro coll'occhio che tutta ne esprimeva l'ansietà, e
disse:--Che ha a comandarmi il signor vicario?»

Al che l'altro con un inchino rispondeva:--L'eccellentissimo signor vicario
presenta per mio mezzo i suoi rispetti alla riverenza vostra; ha mandato
larga limosina di messe al convento, e si raccomanda specialmente alle
orazioni di esso. Poi le fa sapere come a quelli che furono stamane
giudicati....

--Furono dunque giudicati?» l'interruppe frà Buonvicino,
impallidì, arrossì, e chinando gli occhi, con voce profonda
richiese:--E come?

--Alla morte» soggiunse l'altro con una indifferenza avviluppata nella
cortesia, a quel modo che insegna il bel tratto sociale.

Frà Buonvicino ebbe appena forza di ridomandare--Tutti?

--Tutti» riprese l'altro.--E il principe, in singolar testimonianza
della sua stima concede a vostra riverenza di poterli assistere negli
ultimi loro momenti».

Fu vera pietà? fu un insulto raffinato questo di Luchino? Il frate nol
cercò, ma in un istante misurò tutta l'acerbità di questa nuova
situazione, una di quelle in cui il cuore o si spezza o s'impietrisce.
Sollevò lo sguardo al cielo esclamando,--Si compia il sacrifizio!»
indi, rivolto al messo,--Ringraziate il signor vicario di questo, che
ricevo da lui come un favore, e dal Cielo come un'ultima prova.... e la
più tremenda».

Delle ultime parole l'araldo non avrà inteso che il suono. I sentimenti
profondi delle anime appassionate come possono venir compresi da chi si
è logorato fra le apparenze pompose e le frivole importanze di una
società in maschera? Onde, strisciando nuovi inchini, se n'andò a
portare a Luchino i ringraziamenti del frate; e il frate tornò a
inginocchiarsi, a orare, a prelibare tutta l'amarezza del calice
preparatogli, e supplicare Iddio che desse coraggio a lui, a loro; che il
sostenesse nel più doloroso e più sublime uffizio del suo ministero.

Al tocco del mezzogiorno dell'altro domani la Margherita sente aprire la
sua prigione, e alza gli occhi:--Oh! non è un burbero carceriero; non
incontra, come al solito, uno sguardo insultatore o indifferente; no:
vede,--oh! vede, conosce un amico--Buonvicino!--Sulle prime non sa credere
a sè stessa: un _ah!_ uno spalancar degli occhi, un tender le braccia,
rivelano la maraviglia ond'è inondata: poi balza dal suo scannello, si
avvicina al frate....

Momenti così fatti non hanno parole; e il muto linguaggio non esprime
altro, se non che la piena dell'affetto impedisce di manifestare l'affetto.
Quando poi riebbe le parole,--O padre! (esclamò) o fratello! qual
consolazione è mai questa? Neppur addomandarla al Signore avrei osato.
Il Signore dunque si ricorda di me, e mi manda un angelo fra questo
purgatorio!

--Iddio, figliuola, non si dimentica di nessuno, neppure del vermicciuolo
che calpestiamo passando. Tanto meno poi delle creature che più a lui
somigliano».

Così il frate, con una voce carezzevole, affettuosa ed accorata, che
mostrava come egli a fatica ritenesse le lacrime e che le cavava altrui. La
Margherita infatti ruppe in un forte scoppio di pianto: era sì gran
tempo che non provava l'ineffabile consolazione di piangere sopra un seno
amico, di sfogar un'anima ambasciata con chi l'accettasse, la comprendesse,
la compatisse! Poi, fra i singhiozzi ripigliava:--Lo so, padre, lo so che
Dio non si scorda di nessuno, che non si è scordato di me. Oh chi
m'avrebbe sostenuta fra tante angoscie se non era il pensiero del Signore?
Ma dite: mio marito?... il mio Venturino?... Ne sapete notizie? Vi è
permesso di darmene?»

E lo fissava con una sollecita attenzione, fra lo sgomento d'un sinistro
annunzio e la fiducia che un tale amico non gliene dovesse recare che una
consolante. Si rannuvolò novamente in viso frà Buonvincino,
corrugò la fronte, e traendo un grave sospiro, come se il cuore gli
scoppiasse,--Finora (rispose) sono sani--finora! gli ho abbandonati
testè. Fui con essi jeri, vi sarò anche domani. Ed oggi e domani e
l'altro verrò a portare a voi, buona Margherita, quelle consolazioni,
che un Dio morto in croce ha lasciato per gli infelici, destinati a
seguirlo ne' patimenti».

Una parola umana all'orecchio di chi soffre non ha prezzo sulla terra.
Quanti, nei primi passi dell'errore a cui forse li sospinse la negligenza e
il disprezzo degli uomini, o torcerebbero o si ravvederebbero, qualora
l'orgoglio degnasse inchinarsi a sussurrare all'orecchio loro una voce di
commiserazione, un invito al pentimento, un fiduciale richiamo alla
virtù! Ma l'uomo pensa al castigo, alla vendetta; ed esacerbando, ostina
nel delitto chi così facilmente potrebbe ravviare al bene. Quando poi
patisce il giusto, come la Margherita, abbandonato agli strapazzi degli
scherani, all'ansietà della solitudine, un motto di conforto somiglia
alla voce dell'angelo, che ad Agar, languente di sete col bambino nelle
solitudini di Betsabea, additava la fonte ristoratrice.

A questi salutevoli conforti non providero le istituzioni umane; ma la
religione che, mentre tutta sembra intenta al cielo, non abbandona mai in
terra chiunque dubita, travia, combatte, patisce, ha scritto fra i più
assoluti precetti della misericordia il visitare i carcerati[36]. Le
convenienze degli uomini, le quali nulla hanno a fare col vangelo, delle
carceri hanno formato un luogo di squisiti tormenti per l'uomo, non reo
perchè non ancora sentenziato. Ma nei paesi cristiani non hanno ancora
rimosso dal sofferente le consolazioni della pietà religiosa, nè
l'uomo condannato a morire ha privato dell'ultimo conforto, del mostrargli
aperte le vie del cielo quando gli uomini lo cacciano dalla terra.

E che conforto sia quello il provava la nostra Margherita. Pur troppo
l'apparizione del ministro della penitenza le annunziava chiaramente che il
suo fine si avvicinava: però in quel momento sembrava tutto dimenticato,
tutto, pel tripudio di trovarsi ancora presso ad un uomo; un uomo diverso
da quelli, che soli da gran tempo vedeva, tormentati o tormentatori; uno
che per ministero doveva esser buono, compassionevole, devoto alla
sventura; uno poi come questo.

Con nuovo sfogo di pianto attestò ella dapprima la sua commozione: e
frà Buonvicino non glielo interrompeva se non con qualche riflessione di
pietà, di Dio, di perdono. Come essa potè riavere la favella, mille
domande affollava intorno a que' suoi cari. Non aveva ella compreso il
senso delle parole di frà Buonvicino? o nol voleva comprendere? Poteva
la ragione dirle altro, se non che erano destinati al supplizio al pari di
lei? Eppure voleva fare ancora illusione a sè stessa: e qual volta le
correva al labbro una interrogazione precisa sulla sorte di essi, la
respingeva sempre, quasi il sentirsene assicurare dovesse rompere quel
tenue filo di speranza, al quale, siccome l'uomo che affoga, voleva pure
tenersi appigliata in quell'estremità.

--E il mio Francesco? Tanto m'ero allegrata allorchè lo seppi salvo!
Come ricadde nelle mani di costoro? non l'avevate voi avvisato di non
fidarsi?... Oh quel giorno ch'io l'ho veduto a condurre! Quanto deve
anch'egli aver sofferto! Eppure in tanti patimenti non s'è scordato mai
di me. Se sapeste! Egli ebbe cura di raccogliere un cencio, dove io aveva
cominciato a ricamare un cesto di margheritine, quando mi condussero via di
casa. Egli lo raccolse, il serbò: oh queste finezze non le sa che
l'amore più vero, più gentile».

Frà Buonvicino chinava la testa e taceva. Ella proseguiva:

--E vi hanno narrato di quella terribile notte? Io non so bene ancora
rendermi conto di quel trambusto. Parmi, tuttavia fosse un sogno. Eppure
no, no, l'ho veramente abbracciato il mio Francesco; ho portato veramente
su queste braccia il mio Venturino.--Sfinita come sono, non avrei creduto
mi reggesse la forza di mutare due passi; ma l'amore materno che non fa? Io
lo sostenni; l'avrei sostenuto, quel povero fanciullo, camminando per molte
miglia. O padre, che consolazione fu quella! che speranza! quanta vita in
quei beati istanti!... e quanto fugaci!»

Sospirava, e copertasi la faccia colle mani taceva; indi abbandonandosi di
nuovo agli impulsi di un cuore schietto, bisognoso di esalare in parole
l'affetto che da tanto tempo vi stagnava,--Oh se sapeste (continuava) se
sapeste a mezzo quanto mi hanno fatto soffrire!» E gli raccontava alcuni
dei suoi patimenti, i più vivi, i più ricordati, con una melanconia
profonda, eppure scevra d'ogni rancore.--Qui dentro (proseguiva) sono
entrata il 20 di giugno anno passato: or siamo al primo d'ottobre:
quattrocensessantasette giorni! Vi pare? non uno ne sfuggì inavvertito
alla prigioniera: non uno in cui la monotonia de' patimenti quotidiani non
fosse rotta da qualcuno straordinario. E qui non vedere, non ascoltar altro
che oppressi o tiranni: mai una faccia amica, paziente, caritatevole: mai
una parola di consolazione; mai poter credere; mai esser creduta! E
neppure, vedete, neppure un poco d'aria libera da respirare.--Io che
l'amava tanto! io che là in riva al mio lago... Oh voi dovete ben
ricordarvene!»

E qui si gettava sulla rimembranza delle serene ore giovanili, indi
ripigliava:--Ma coloro che possono, deh come non pensano al tanto che fanno
patire?... Ah pur troppo ci pensano!»

Gemeva, e una nube subitanea di corruccio le conturbava la fronte. Poi
sforzandosi di stornare il pensiero dai suoi persecutori, seguitava
dicendo:--E il sole?... o frà Buonvicino, come deve parer bello il sole;
il sole nella sua pienezza, nella libertà, su per le colline! Io non ne
ho sentito che l'afa per tutta quest'estate; ed ora, in tal rezzo, già
rabbrividisco dal freddo. Eppure non fa che cominciare l'ottobre. Che
sarà poi in dicembre, in gennajo!»

Un sospiro gemebondo del frate fece accorgere la Margherita del vero; e
cascando ginocchione, esclamò,--Ah sì! allora non ci sarò
più».

Un dirotto pianto seguitò all'ineffabile espressione di queste parole,
così semplici e così solenni. Tanto è bella la vita, che
l'abbandonarla rincresce per fino a chi la sostenta solo di travagli e di
privazioni. Non insulti il riso delle anime forti all'accoramento della mia
meschina. La generosità non consiste nel disprezzare la vita, sibbene
nel non commettere alcuna viltà per conservarla. Chi durò i
combattimenti da cui ella era uscita vittoriosa, ne schernisca il dolore,
gli altri compiangano.

--Morire! (prorompeva essa) Morire così giovane! e morire innocente!

--Anche Cristo era innocente, figliuola mia; e lasciò per esempio nostro
sè stesso, che bestemmiato tacque, che possente non minacciò, che
moriva perdonando».

Così le diceva il frate; e dopo che l'indulgente sua pietà ebbe
secondato l'affanno dell'angoscia, blandamente cominciò a svolgerla
dalle cose del mondo, per fissarla unicamente nel pensiero di Quello,
davanti al quale fra poco doveva comparire. Queste idee non riuscivano a
lei strane e nuove; già seminate in cuor suo nella prosperità, erano
rampollate fra le traversie: e la fiduciale compunzione da essa palesata la
mostrò a frà Buonvicino tanto più degna di vivere, quanto meglio
la trovava disposta a morire.

Facilmente il lettore potrà immaginarsi come passassero il tempo fra
loro, come lo passassero dopo che si abbandonarono la prima giornata.

Un uomo, che, sfinito da lunga e dolorosa malattia, e dai tedj, sovente non
meno spiacevoli, della cura e dei medicamenti, comprende o da aperte parole
o dagli atti mal dissimulati dei parenti, dei circostanti che per lui è
finita, che conviene disporsi al viaggio, da cui in eterno non si ritorna,
sente in quell'istante rincalorirsi l'affetto della vita; e come un autore
che, giunto al termine di un'opera sua, la rilegge e medita foglio per
foglio, parola per parola, così egli ripassa sopra un corso di giorni
ormai compito; numera ad una ad una le persone dilette, da cui fra breve
sarà spiccato; ritorna sulle abitudini, sui luoghi, sulle cose che
amò e che sta per lasciare: può rassegnarsi, per virtù benedirà
anche il Padrone della vita e della morte, ma natura reclama i suoi
diritti; e deh come ne lusinga la languida vitalità anche il più
fioco raggio di scampo che gli baleni sugli occhi! Il momentaneo ristoro di
una medicina, pochi minuti di sonno riposato, uno spasimo che si rallenti,
una buona parola del medico, un'adulatrice congratulazione dei visitanti,
gli fanno riguardare come certa la guarigione; già in sua mente ritesse
la vita; quanti propositi, quante fantasie, quante opere, quanti
godimenti!... Sciagurato! l'istante successivo, il male si aggrava, e lo
spossamento, l'anelito, il rantolo vengono a poco a poco rimovendolo dalle
affezioni, e facendogli desiderare l'indolente calma del sepolcro.

Ma chi, sano di sua persona, in tutta l'integrità delle forze del corpo
e della mente, si conosce destinato a vivere ancora molti anni, sopra ai
quali ha fatto un calcolo tanto più fondato, quanto egli è giovane e
vigoroso, eppure ode intimarsi aver gli uomini decretato ch'egli muoja, che
muoja il tal giorno, alla tal ora determinata: questo è tormento oltre
il quale non sa spingersi la più tetra immaginazione. Nè questo
avverrà nel fervore d'una battaglia, ove la foga, lo spettacolo, la
mischia confusa, un'ira coraggiosa, una feroce emulazione inebriano i sensi
e gli spiriti così, da gettar alle spalle il pericolo: ove il pericolo
stesso è incerto, possibile la resistenza, la franchezza applaudita,
ogni dimostrazione di timore beffata; ove il colpo giungerà
repentino--se pure giungerà. Neppure è la condizione di chi trovasi
in alto mare, sopra un legno che affondi, senza scorgere a tiro d'occhio
una spiaggia, un naviglio. Quell'immensità medesima del cielo e delle
onde sembra sostenere la speranza; l'affaccendarsi della ciurma a
ristoppare, ad allegerire, a riversare l'acqua nell'acqua conforta
l'immaginazione: la distraggono i tanti compagni di sventura se non altro
vede unicamente la mano di Colui che padroneggia gli elementi e che ordina
ogni cosa al meglio delle sue creature.

Ma qui, nella muta solitudine inosservata d'una prigione, sapere che ogni
respiro avvicina alla morte: e contarne ogni passo, e non poterla nè
impedire nè ritardare; e conoscere che un cenno degli uomini basterebbe
a tornarti in mezzo del cammino di tua vita, ma che gli uomini hanno
decretato il momento, in cui un altr'uomo, che non ti conosce, che non
conosci, snuderà il tuo collo, ti saluterà amico, e per guadagnare
una mercede, in un atomo ti renderà cadavere sformato!

L'umanità, nei vantati suoi progressi, ha studiato il modo di render
quell'atomo men doloroso al corpo: fremette pensando che gli avi nostri ne
esacerbassero gli spasimi: disputò, sperimentò qual sia men
tormentoso al corpo: il soffogarne il respiro con un laccio, o il rompergli
il petto colle palle, o lo spiccarne il capo: con delicata sollecitudine
valutò il calibro e la scorrevolezza del capestro, il fermo polso dei
prodi che mirano all'inerme petto del loro camerata, il fendente della
mannaia che deve sprofondarsi in un ceppo, ma attraverso il collo di un
uomo; calcolò i guizzi dell'appiccato, notò il rossore che coperse il
viso di una magnanima decollata.

Miserabili! aggiungete queste atroci ironie alle troppe altre, onde
mascherate d'ipocrita sensibilità l'egoismo. Miserabili! sembra troppo
il dolore, dolor di un momento; se il carnefice non è abbastanza destro
per lunga esperienza, se alla vittima prolunga il patire, un fremito, un
bisbiglio, una indignata commiserazione si fa intendere tra la folla
accorsa a vedere: _Infelice! meschino! pover'anima, quanto sofferse!_
Pietà interessata, o piuttosto macchinale simpatia della natura alla
vista delle pene di un nostro simile: pietà sconsiderata che non avverte
al lento, penoso, atroce martirio dei momenti sì lunghi mentre passano
sì celeri quando si contano passati, che compongono quell'uno, quei tre
giorni interposti fra la sentenza e la esecuzione...

Ma quel dolore è inevitabile; ma la società ha diritto di recidere i
membri infetti.

Sì? so che'l si dice; ho udito filosofi e statisti sostenerlo, filosofi
e statisti impugnarlo, con ragioni per lo meno equilibrate, sicchè il
dubbio stesso dovrebbe sospender l'azione. Che sarà se vi si aggiungano
l'umanità e la religione: se la speranza ponga una mano su quel capo
destinato al manigoldo, e mostri che si può farne ancora un cittadino,
un padre, migliorandolo colle tremende lezioni della sventura, o colle
amorevoli del perdono? se la fede indica una stilla di un sangue d'infinito
prezzo, caduta a redenzione anche sovra quel capo che dal giudice è
impassibilmente decretato alla forca, alla forca impassibilmente trascinato
dal manigoldo?

E se mai fosse innocente? se capace di pentirsi, di tornar utile? come
rimediare al colpo di quel ferro che tanto studiaste perchè riuscisse
men doloroso? E se pure è una di quelle che voi chiamate necessità,
come la guerra, come tante altre cose che per tali proclamate, permettete
che io non ammiri tutti i progressi di una società, costretta a rimedj
siffatti; di una società che stipendia un uomo per ucciderne un altro,
che rende spettacolo dei cittadini il supplizio di un loro fratello.

Se però la religione non ha potuto ancora abolir le pene capitali,
neppur segnando ciascuno col suggello della redenzione, neppur mostrando
come a quel modo stesso finiva il Giusto; come, colui che ora è
martoriato, può, il momento dopo, esultare fra i beati; se non potè
ancora ispirar tanto amore quanto basterebbe per far cessare i delitti,
ella accostossi a quelli che soffrono, e portò consolazione fino a quel
terribile punto, per cui il mondo più non ne ha veruna.

Tra queste passò la Margherita il primo dei tre giorni concessile per
prepararsi alla morte. Il secondo, a mezzodì, ricomparve frà
Buonvicino presso la tribolata. Sul volto di lei era cresciuto il pallore;
tutto annunziava come nessun riposo fosse stato concesso all'ansia dei suoi
pensieri. Non per sè sola aveva essa patito: erasi rivolta ad altri
esseri così cari, così vicini, e che pure non potea vedere, non
rivedrebbe più--o li rivedrebbe sul patibolo.--Anche sul volto di frà
Buonvicino, alle traccie di un lungo e abituale tormento se ne erano
aggiunte di nuove e spasmodiche. Quando ebbe salutato la sua penitente, con
voce fioca e ben diversa da quella di uomo che annunzi un favore, una
grazia,--Signora, (le disse) vogliono ch'io v'informi come le consuetudini
vi concedono di poter domandare quella grazia che vi piaccia».

L'occhio sbattuto e abbacinato della Margherita lampeggiò d'una gioja
speranzosa; sopra il volto esangue le si diffuse un rossore così
gentile, come quello onde l'immaginazione dipinge all'esule montanaro un
tramonto di primavera sulle nevose cime della sospirata sua patria. E senza
esitare esclamò:--Che mi mostrino mio marito».

Il frate l'aveva preveduto, e a stenti frenando le lacrime rispose:--Di
questo desiderio non può oramai consolarvi che Dio.

--È morto?» chiese ella ritraendosi spaventata, e tendendo le mani
irrigidite.

Il silenzio del frate e un sospiroso abbassar del capo, le diedero una
terribile conferma.

--E mio figlio?» richiese ella con angoscia crescente.

--Vi aspetta in paradiso».

Come colpita da un fulmine, rimase immota, non pianse, non parlò: chè
dolori siffatti non hanno nè lacrime nè parole; poi, come rinvenuta,
esclamò:--Ecco spezzati tutti i legami che mi tenevano avvinta a questa
terra»; e levando gli occhi in atto di una sublime offerta, conchiuse:
--Prepariamoci a seguitarli».

Si prostrò ginocchioni dinanzi alla sua seggiola, fra i singhiozzi
ripetè le preghiere di suffragio pei morti, alternandole col frate, il
quale erasi con lei inginocchiato; udì con rassegnato accoramento le
ultime affettuose parole e le tenere scuse che le mandava il suo Francesco:
intese con che coraggio fosse egli, un'ora prima, salito al supplizio in
pace con sè stesso e cogli uomini, e conducendosi a mano il suo
fanciullo, a cui aveva sperato essere scorta sul cammino di una vita
splendida e nominata, e in quella vece lo doveva sorreggere sulla scala
infame del patibolo.

I pensieri dunque della Margherita non avevano più dove arrestarsi in
terra: dunque il cielo, oltre essere il porto da tante procelle, era anche
il solo luogo dove oramai potesse ella confidare di raggiungersi con quei
suoi diletti, unica speranza, unico suo voto da tanto tempo. Colla
confessione terse le macchie che potessero aver appannata l'anima sua,
santificata prima dalla beneficenza, poi dagli affanni, e colla fiducia di
chi è ben vissuto, si dispose a presentarsi al tribunale di un Dio, la
cui giustizia è così diversa da questa inumana del mondo.

In quel mezzo la città seguitava tranquillamente le sue fatiche ed i
suoi riposi. L'alidore della stagione, la scarsa vendemmia di quell'anno,
la guerra che avevan temuta, la peste che temevano, l'ultimo balzello
imposto, le domestiche faccende, i pubblici divertimenti, erano il tema
vagabondo delle comuni conversazioni. Alcuni parlavano del supplizio
eseguito quella mattina; altri annunziavano che il giorno da poi s'aveva a
giustiziare qualche altro: ma i privati sofferimenti non dovevan dissestare
i negozi e gli interessi comuni. Abitudine antica: giacchè frà
Buonvicino nell'osservare un siffatto contegno, ricordavasi come già dai
suoi tempi, Isaja lamentasse che _mentre il giusto perisce, non v'è chi
in cuor suo vi pensi_[37].

I membri della commissione di giustizia, alle care famiglie, ai raccolti
amici, nelle case, sotto i coperti, raccontavano gli andamenti di quel
processo, il gran da fare che si ebbe per convincere persone, che si
ostinarono sempre a protestarsi innocenti: ma si sentivano, dicevano essi,
tolto un peso dal cuore coll'aver, dopo sì gran tempo, esaurita una
causa tanto importante e avviluppata.

Che se alcuno domandava loro se la sentenza fosse stata giusta,
dimostravano che era stata legale.

Il signor Luchino quella mattina abbandonò Milano, per passare un pajo
di giorni a Belgiojoso, villa tanto opportuna per le caccie in quella
stagione. Usciva con lui la signora Isabella, che della lontananza del bel
Galeazzino sapeva e darsi pace e rifarsi. Cavalcava con essi di conserva
l'arcivescovo Giovanni, che nell'attenta pettinatura della corona di
capelli che circondavangli la rasa testa, e nell'esattezza delle pieghe e
nella disposizione di una grande tonaca rossa foderata di zibellino, a
maniche larghe, mostrava un desiderio più che scolaresco di far pompa di
una bellezza che lo faceva primeggiare sovra tutti i prelati del mondo.
Dietro a loro seguitava uno stuolo di amici, amici da Corte, e servi e
cacciatori e palafrenieri. Il vulgo traeva ad ammirar que' bei cavalli,
quelle stupende mude di segugi di Tartaria, quei falchi di Norvegia;
vantava il lusso dell'arcivescovo, la furberia della signora Isabella, e la
grande abilità di Luchino a trar d'arco, a cogliere col lancione una
lepre, un cervo, un cinghiale.

Questo popolo, nel dare a Luchino il diritto di condannare a morte i rei,
non gli aveva dato anche quello di fare la grazia? Una parola di lui poteva
dunque camparli, anche secondo l'opinione di chi li tenesse per colpevoli.
Ora non è micidiale del pari chi trucida e chi, potendolo impedire, nol
fa? e potendolo così agevolmente?

Ma queste considerazioni non passavano per la mente al dabben popolo
milanese--d'allora.

Si sarebbe desolato ove la grandine avesse guasti i campi: ma avrebbe
creduto follia il togliersi fastidio per un'ingiustizia che si commetteva a
carico di altri cittadini.



CAPITOLO XXII.

LA CATASTROFE.


Come gli antichi adornavano di fiori le vittime che conducevano a scannare
sugli altari, così un costume universale copre di cortesie l'uomo che
deve essere abbandonato alla giustizia, cioè al carnefice. Anche la
Margherita, la vigilia della sua morte fu tolta dalla tana entro cui da
mesi languiva, e collocata in una stanza, meno lurida, che serviva di
chiesino. Anche questa era angusta, ma elevata e ariosa; una finestruola
ingraticolata di ferro dava la vista sopra la campagna; un materasso, un
tavolino, un ginocchiatojo e due sedili ne formavano tutto l'addobbo; un
altare posticcio con due candelieri di legno faceva ricordare quelli, su
cui i primi cristiani immolavano l'ostia incruenta nelle perseguitate
catacombe.

Ivi la Margherita passò la notte--l'ultima sua notte--in preghiere e
meditazioni. Pensava alle cose del mondo: tutto le rammentava che doveva
lasciarle fra poco, ma vi si era ella forse attaccata più di quello che
fosse necessario per conoscerle e trascurarle? Pensava ai suoi cari, e
consolavasi di doverli presto rivedere in paradiso. Rincorreva il suo
passato; non le pompe e gli illustri natali e la decantata bellezza e le
magnificenze invidiate le tornavan ora in mente, ma lacrime terse,
opportuni consigli, pietà profusa, ingiurie perdonate, risparmiati
disgusti, li conosceva un tesoro riposto e vicino a fruttare.

Quello spiro d'aria più fresca, che suole mettersi sull'avvicinare
dell'alba, la riscosse con un brivido molesto: e le corsero al labbro
queste parole:--Che freddo avrà il mio Venturino colà alla campagna
aperta!»

Erano voci strappatele dall'istinto, che la ragione trovava vaneggianti, ma
non provava per assurde. Affacciossi quindi alla finestruola, e pose mente
al primo biancheggiare dell'alba, colà verso i monti della bergamasca;
un cielo limpido, soave, d'un tremulo sereno, qual suole nelle prime
mattine dell'ottobre invitare ai passeggi, alle caccie, alla giuliva
faccenda delle vendemmie. Dappertutto alla pompa dell'estate era succeduta
la fantastica pacatezza dell'autunno. Una rugiada biancheggiante luccicava
sugl'incurvati steli delle erbe nei prati intorno, e sulle tremule foglie
dei pioppi che in lunghi filari stendevansi per la campagna, agitandosi e
sibilando come sentissero la vita, come salutassero l'avvicinarsi del sole,
così caro dopo le notti già lunghe e più che fresche.

La Margherita si affissò in quello spettacolo:--L'ultima aurora che io
vedo!»

Così ogni cosa le rammentava come tutto fosse sul punto di finire; il
rammentava a un'anima, che dalla nascita porta in sè l'orrore della
distruzione, il desiderio della immortalità.

Ma a che vorrei io provarmi di ridire che cosa passasse nell'anima di essa?
quante memorie e affetti e tormenti e desiderj e pensieri terreni e celesti
si affollassero, si mescessero nella sua mente? Mille e mille soffersero,
se non in quel grado, però a quel modo: l'uomo li compianse, e ne crebbe
il numero.--Affrettiamoci alla fine.

Non appena albeggiò, frà Buonvicino presentossi all'uscio della
cameretta, e ritenne il piede sulla soglia in riverente e pietoso silenzio
contemplando la Margherita che pregava.

La lanterna, ch'egli recavasi in mano, lasciando lui e tutto il resto nel
bujo che colà entro dominava ancora, raccoglieva i raggi sopra la
Margherita, la quale così pareva alcuna cosa più che mortale. Erasi
ella inginocchiata sul nudo pavimento, china la fronte sopra le mani
giunte, e queste, appoggiate sur una sedia, avevano intrecciato fra le dita
un rosario di cui stringevano la crocetta:--quel rosario stesso, quella
croce, che con sì paziente cura avea frà Buonvicino medesimo
intagliati nei primi giorni di sua conversione, e che aveva a lei
presentato mentre dimorava in una ricca casa, cinta da ogni maniera di
agiatezze e di eleganze, applaudita, contenta, fortunata, con a fianco il
marito e sulle ginocchia un bambino, il quale cianciugliando la chiamava
madre. Ed ora? quel marito, quel fanciullo erano sotterra, e fra pochi
istanti ella pure sarebbe precipitata con loro. Osservandola frà
Buonvicino con questi o simili pensieri, più e più gli si affondava
l'occhio, si affilavano le scarne guancie, simili a un ruscello, ove
l'assidua vampa del sole disseccò ogni umore, non lasciando che l'arido
solco. Attento in lei, non ardiva turbare quello stato, che somigliava a
calma. Anzi sarebbesi detto che ella dormiva, se tratto tratto un guizzo
convulso, che le correva dal capo alle piante, non avesse dato troppo segno
che ella vegliava, pativa.

--Sia lodato Gesù», pronunziò finalmente il frate con voce fioca e
sommessa, alla quale risentitasi, la Margherita levò il capo, balzò
di scatto in piedi, e facendosegli incontro colle braccia tese, dimandò
col tono dell'angoscia:--O padre, vi è qualche speranza?»

Così questo balsamo, che natura preparò agl'infelici, come il latte
della nutrice all'egro bambino, mai non vien manco fino all'ultima ora
della vita. Il frate sospirò, alzò la destra e gli occhi al cielo, e
proferì:--Lassù sono le speranze che non falliscono».

La faccia della Margherita, cui una viva fiamma aveva tutta colorita, di
nuovo si fece pallida come tramortisse: giunse le mani; anch'ella eresse al
cielo gli occhi lagrimosi, ed esclamò:--Signore, la vostra volontà e
non la mia».

I conforti, le orazioni dei giorni antecedenti furono rinnovate in questo,
tanto più vivamente quanto più sentivasi l'uno e l'altro vicini a
separarsi fra loro e dalla terra, per ricongiungersi a Dio.

Frà Buonvicino offrì in presenza di lei il sacrifizio dell'altare, la
commemorazione quotidiana del Giusto immolato per la verità, per la
redenzione degli uomini, coi quali aveva diviso il pane e le miserie.
Poichè il sentimento dei proprj mali non toglieva alla Margherita di
conoscere e valutare gli altrui, si accorse a troppi segni dell'ambascia
morale onde era compreso frà Buonvicino, e pregò Dio di dargli forza
al passo tremendo. Dopo che il frate le ebbe comunicato il pane degli
angeli, la travagliata si rasserenò; e, munita di viatico sì
prezioso, stette con lui ragionando del nulla di questo mondo, delle gioje
a venire, dell'incontro coi suoi cari in grembo al vero amore.

Se io riferissi quei discorsi, sarebbero di edificazione alle anime pie:
potrebbero forse, in terribili momenti di lotta e di scoraggiamento, recar
ristoro a qualche accorato; ma che direbbero i lettori, che diranno già
essi di un racconto, ove i più cercavano forse null'altro che il
passatempo spensierato o un rimedio o un palliativo a quella micrania
dell'anima, la noja, e invece vi trovano la riflessione e la religione?

Dai pii ragionamenti furono scossi quei due pietosi al tocco di una campana
a martello.

Trasalì la poverina; il frate si fece come se gli avessero confitto un
pugnale nel cuore. Avevano entrambi indovinato esser l'agonia che, per lei,
per lei sana, batteva la squilla del Broletto, ove doveva succedere
l'esecuzione. Intanto uno spesseggiar di passi, un affaccendarsi di
persone, un tirare di catenacci, lo scricchiolare d'un carro, davano avviso
che era giunto il gran momento. La Margherita s'inginocchiò, e volle che
di nuovo frà Buonvicino le compartisse l'assoluzione, e come in articolo
di morte, chiamasse sopra di lei la benedizione del Signore. Il frate,
levato in piedi, con solenne dignità di voce e di atto, protese le
braccia, e spiegate le palme sopra il capo inchinato della donna, colla
fronte supina, pallida sì, ma inondata di quella fiducia, che non
alligna se non in chi crede e teme e spera altre cose che le mortali,
pareva che congiungesse il cielo cui tenea levato lo sguardo, con quella
penitente su cui ne invocava la misericordia e le retribuzioni. Margherita,
in ginocchio avanti ad esso, colle braccia incrociate sul seno e le bianche
mani che spiccavano sopra il nero vestito, piegando il collo in
atteggiamento di compunta rassegnazione, ricevea quelle parole tremende e
consolatrici. La lanterna, posata sullo scannello e divenuta pallida per la
luce cresciuta del giorno, guizzando ad ora ad ora come sullo spegnersi,
vibrava attorno alla testa della bella pregante un'aureola di tremoli
raggi, qual si dipinge in giro al viso dei santi.

Ella ascoltò, segnossi, indi sorse come chi, avendo posto assetto ad
ogni affar suo, si muove ad un lungo viaggio, da cui più non deve
ritornare. Ma il frate allora cadendole ai piedi,--Signora (esclamò) fin
qui ho adempito al sublime ministero di sacerdote dell'Altissimo. Ma io son
uomo; io sono un peccatore miserabile: voi siete una santa. O signora!
prima... prima di... vogliate dirmi che mi perdonate... mi perdonate se un
tempo, io sciagurato, insidiai alla vostra virtù. Voi la conservaste.
Benedetta! che così avete procurato a voi, a me tali consolazioni in
quest'ora tremenda.

--Sì, benedetto Iddio», rispose ella con languida ma soavissima
favella.--Fu dura la battaglia allora: temetti non bastarvi incontro: ma il
Signore ci ajutò; e diede a voi fermezza di generosa risoluzione.
Perdonarvi?»

E singhiozzando gli posava le candide mani sovra la testa piegata.--Perdono
io non devo accordare a voi, che non mi offendeste. La vostra memoria mi
restò sempre come schermo contro gl'inganni del mondo. Nei pericoli
della gioja, fra i sinistri consigli del dispetto, io ripensava ai vostri
nobili patimenti, io mi ripeteva, _Che ne dirà Buonvicino!_ Ed ora che
son qui... Ah! di quel che vi devo non potrà retribuirvi che Dio».

Lo rilevò di terra, gli mostrò quel rosario, quella croce; e
baciandola aggiungeva:--Quando voi me la donaste, vi ricorda? Voi mi facevi
l'augurio che un giorno potesse tornarmi di consolazione. Quel giorno è
venuto... così diverso da quanto nè io nè voi nè altri avremmo
allora potuto figurarci... e le consolazioni mi sono abbondate! Amico, io
voglio morire con questa corona sul petto. Dopo che... io sarò... voi
stesso levatemela dal collo.--Ah! il collo allora non l'avrò più... E
serbatela sempre, in memoria della povera Margherita, che tanto e sì
bene amaste».

Tacque, pianse, poi facendosi nuova forza, ripigliò:--Al signor Luchino
andrete voi; voi stesso, ve ne prego: fate anche questo sacrifizio per me.
E direte che gli perdono: Troverà egli superba questa parola? Ditegli
che in paradiso pregherò per lui... che abbia compassione della mia
povera patria. È questo il voto di una morente».

Qui nuovo silenzio, nuovo pianto, da cui la destò un altro botto della
campana ferale; onde riprese:--Buonvicino, amico mio, vero amico... addio!
addio! ci troveremo in cielo, e presto!»

Si sforzò di proferire con fermezza queste parole, ma il singhiozzo
gliele ruppe in gola: il frate ripetè «Presto!» indi si trasse il
cappuccio sugli occhi, e s'avviarono.

Già in piazza de' Mercanti era stato raccolto un visibilio di popolo, o
dalla curiosità, o dal non sapere che altro farsi, o dal gusto plebeo di
contemplare la soffrente natura, o dal contento di vedere una giustizia o
una vendetta. Il caso, non così frequente, d'una donna condotta al
supplizio, fece trarre anche più gente del consueto.

Da un giuggolo, o come diciamo noi lombardamente _zenzuino_, aveva preso
nome un'osteria, presso alla quale erano il ricetto delle male femmine,
cinto di mura, e la casa del carnefice, dietro al palazzo di giustizia, ove
durò fin testè. Da quell'osteria, da quel lupanare molta gente
sbucò quando videro mastro Impicca avviarsi cogli orribili attrezzi del
suo mestiere, e sempre nuova turba gli si affilava dietro per la strada.
Gli artieri, smettendo il lavoro s'invitavano uno coll'altro.

--Dove vai?

--Al broletto nuovo a vedere. E tu, non ci vieni?

--Un momento, e verrò anch'io».

I garzoncelli erano svignati dalle botteghe; le madri accorrevano portando
in braccio i pargoletti, affinchè abbandonati non piangessero; i signori
venivano a cavallo facendosi largo fra la pedonaglia, ed eccitando le
maledizioni di quelli a cui si piantavano davanti; ed era una pressa
d'arrivare i primi, di farsi più vicini, di collocarsi più
opportunamente.

Già in altra occasione ebbi a divisarvi la piazza dei Mercanti, quella
che allora dicevano il Broletto nuovo.

Delle due piazze, in cui esso rimane diviso per via del Palazzo della
ragione, quella a libeccio, che sin qua conservò maggiori vestigia
dell'antico, era appunto destinata al supplizio dei nobili (i plebei si
giustiziavano al _prato delle forche_ verso Vigentino): poichè la
civiltà, nè troppo affinata nè abbastanza ipocrita, non si dava
gran pensiero di allontanare il boja dal giudice, il luogo della sentenza
da quello dell'esecuzione. Un palco di tavole posticcio innalzavasi dal
mezzo, affinchè maggior numero di gente potesse godere la scena, e su
quello veniva disponendo ogni cosa il manigoldo, uomo adusto e tarchiato, i
cui robusti muscoli pronunziati si poteano contare, e vedeansi guizzare
sotto l'abbronzita pelle del corpo, non coperto che da due rozze brache di
pelle, strette alla carne. Fra goffi sghignazzi stava egli col suo garzone
saldando due assi fra cui doveva inginocchiarsi la paziente, librando la
mannaja con cui doveva farle balzare la testa saggiandone il filo,
esercitandovi il braccio.

--Ehi mastro Impicca, questa scala tentenna», diceva il fattorino.

--Lascia pure, lascia (rispondeva il manigoldo). Quei che ci salgono non
badano tanto per la sottile: quando discendono, non se la sentono sotto ai
piedi».

Alcuni soldati, antichi compagni di Alpinolo, i quali, ordinati dal
connestabile Sfolcada Melik a piedi della scala e intorno al palco,
contenevano la folla, ridevano a quegli scherzi, applaudivano a' bei colpi
che colui trinciava in aria; si ricambiavano le più lepide celie con
un'indifferenza assassina, della quale ho trovato poco migliore, sopra un
campo diverso, la serena tranquillità con cui un logoro damerino scherza
sui sentimenti di una bellezza appassionata, facendole stillar sangue col
carezzarle gentilmente una piaga infistolita.

Il più limpido sole che possa vedersi in Lombardia nelle migliori
giornate della vendemmia, inondava d'una bianca luce e d'un mite calore le
fosche pareti del Broletto, e risaltava sopra quella mobile decorazione di
teste, la più parte scoverte, sopra petti ignudi di robusti operaj,
sulle intarsiate carnagioni di donne vulgari, sui frustagni e le mezzelane
dei braccianti, a cui facevano contrasto i variopinti mantelletti dei
nobili, le piume ondeggianti dei berretti di velluto, il luccicare delle
corazze e dei bruniti morioni. Pieno stivato era lo spazzo; le altane e gli
sporti dei tetti circostanti erano orlati di faccie curiose: alcune dame
(ho a dirlo?) avevano fatta ressa di trovare un balcone, un terrazzino, da
cui potessero mirare quella infelice, ed onorarla di loro commiserazione.
Arrampicati sugli sporti, spenzolati dalle ferriate, saliti uno sulle
spalle dell'altro, i ragazzetti facevano dispregi ai vicini, lanciavano
motti ai lontani, davansi scappellotti nascondendo la mano, come si fa in
grande nella società. Qualche madre, mostrando al suo fanciulletto
quell'apparecchio di morte, gli dicea:--Vedi quell'uomo lassù, colla
barbaccia così nera e la cotenna così rossa? È quel che mangia i
cattivi in due bocconi: è il bau: è il demonio; e se piangerai, ti
porterà via».

Il fanciullo sbigottito gettava le tenere braccia attorno al collo di sua
madre, e celava il viso nel seno di essa.

Alcun altro facendosene nuovo, forse chi sa? per un ultimo resto di
vergogna d'essere vanuto a bella posta,--E chi è (domandava) che hanno
da giustiziare?

--L'è (rispondeva il fortuito vicino) la moglie di quel che hanno fatto
morir jeri.

--Ah, ah! (soggiungeva un terzo) dunque la madre di quel piccolino, che
hanno ucciso insieme col signor Pusterla.

--Che? (ripigliava il primo) hanno ucciso anche un piccolino?

--Sicuro di sì (entrava una donna): e che bel ragazzino! due occhi
azzurri come questo cielo: un visetto da Gesù bambino; capelli poi, che
parevano oro filato. Io mi sono voluta mettere proprio da piè della
scala, per farlo vedere a questo mio figliuolo ch'è qui, affinchè
tenga a mente come Dio castiga i cattivi: e per questo ho veduto ogni cosa.

--Contatela anche a noi: contatelo, comare Radegonda».

E la Radegonda, superba d'intrattenere un crocchio,--Conterò (diceva).
Quando fu là... ma per carità, fate un po' di largo: volete
soffogarmi il mio Tanuccio? E sicchè, allorquando si trattò di
montare su per la brutta scala, a vederlo quel fanciullo! non voleva a
nessun patto; puntava i piedi, strillava, piangeva...

--E come forte! (interrompeva il Pizzabrasa). Lo si sentiva fin là dalla
loggia dei Mercanti, dov'io m'ero annicchiato; e chiamava, babbo, mamma!

--Tal e quale (ripigliava la donna); e che aveva paura di quel ceffo
così brutto, tendendo il ditino verso mastro Impicca. Suo padre
singhiozzava che non poteva parlare: ma il frate confessore gli si
abbassò all'orecchio...

--Anche questo ho veduto», tornava il Pizzabrasa ad interromperla; e
smanioso di far pompa di sue empiriche cognizioni, proseguiva:--E i biondi
capelli del bambino si mescolavano colla barba e colla nera chioma
dell'Umiliato, che parevano i ghirigori d'oro s'un coltrone da morti. Ho
visto anche come il bambino accarezzava il frate, mentre questo gli
parlava: e il frate...

--Come si chiama il frate?» dava su quel primo, che per sistema facevasi
ignaro di tutto, e parlava sempre col punto d'interrogazione. Allora
rispondeva una figura, vestito mezzo da prete, con faccia di devota
presunzione, ed era lo scaccino della Passerella:--Egli è quello che
predicò la quaresima passata in Santa Maria dei Servi. Avrebbe
convertito anche un re Erode. Ma i tempi sono guasti, e profittava nè
più nè meno che se predicasse al deserto.

--Ma il nome?

--Buonvicino, dei frati della ricchezza di Brera. Ma le ricchezze ch'egli
cerca, come ripete sempre il mio signor curato, non sono di quelle che si
acquistano col tessere panni. Lo conoscete il mio curato? quello è un
uomo! chiedete, domandate, egli sa tutto a mena dito... e...

--Ma cosa diceva il frate al bambino?

--E lui cosa rispondeva?

--E suo padre cosa faceva?» interrogavano tra molti, non badando ai
panegirici del sacristano, più che a quelli d'un giornalista.

Qui la Radegonda, ch'erasi alquanto indispettita di aver perduta la
tribuna, contentissima ora di poterla riprendere quando nessun altro poteva
dar ragguaglio, così ripigliava:

--Piano, piano: parlate voi o parlo io? Certuni vogliono ficcar il naso, e
ne sanno un pien sacco. Cosa volete che il frate gli dicesse? Che andasse
con coraggio; che da lì a un momento sarebbe cogli angeli in Paradiso.

--E il fanciullo?

--E il fanciullo a non volere; e dire, _Lo so; il paradiso è un bel
luogo; vi sono gli angeli; vi è il Signore; v'è quella cara Madonna:
ma io voglio star qui con mio padre e colla mia mamma: voglio star qui con
loro_, replicava e piangeva.

--Santa innocenza!» esclamava per istinto di compassione e non senza
qualche lagrima, alcuno degli astanti, il quale poi, a interrogarlo se quel
bambino fosse stato ben ucciso, avrebbe risposto di sì a non dubitarne.
E la narratrice proseguiva:--Allora il frate--chi non l'ha visto! Sapete
quando alcune volte, all'estate, la moglie del diavolo fa il bucato, che
piove e nell'istesso tempo dà il sole? Così era il viso del frate.
Gli cadevano dagli occhi lagrime grosse come i grani d'un rosario, e
tutt'insieme sorrideva come un angelo anche lui. E poi diceva al ragazzino:
_Tuo padre viene con te in paradiso_.

Il fanciullo lo guardò con occhi consolati, poi richiese: _Ma la
mamma?--La mamma_, rispondeva l'Umiliato, _verrà anch'essa tra poco_.
Allora il bimbo: _Dunque se io stessi al mondo rimarrei senza di loro?_ E
come il frate gli disse di sì, egli si pose co' suoi ginocchi a
terra...»

Qui il singulto smentì l'ostentata franchezza della narratrice, che
quasi vergognavasi d'avere o di mostrar compassione di condannati, come una
damina di piangere al teatro; e il Pizzabrasa proseguiva:--Si mise a
ginocchi, alzò al cielo due manine piccole, piccole e bianche come di
cera, e intanto il manigoldo gli tagliava i capelli, e gli faceva i bocchi
per mettergli paura.

--Quanto avrei pagato ad essere presente:» Saltava su qualche
circostante. «Mi piacciono tanto queste scene così affettuose!

--E perchè non venirvi?» gli chiedeva un vicino.

E l'altro:--Che volete? m'è toccato andare fin laggiù a San Vittor
grande, a portare una briglia e una sella che avevo raccomodate.

--Ma però (ridomandava il primo interlocutore) avrete visto a far la
fattura ad altri.

--Oh certo; ma a donna mai.

--Io (tornava a parlare lo scaccino della Passerella) io ho veduto quando
hanno giustiziato la Mainfreda, quella scolara della Guglielmina, che
voleva farsi papa. Lo Spirito Santo incarnato in una femmina, e i preti e
il papa donne! Si può dar di peggio!»

E qui, colla facilità onde la compassione suole distrarsi dalle sventure
non sue, voltavano il discorso sulle tonsure che le costei seguaci si
facevano in mezzo alle treccie: su quel nascondiglio al terraggio di Porta
Nuova, dove femmine e maschi si congregavano, e poi spegnevano i lumi e
buona notte.

Altri spettatori frattanto di maggiore calibro discorrevano sulla colpa de'
condannati.

--Che giustizia, eh, quella del nostro vicario!» esclamava Malfiglioccio
della Cocchirola, il quale, fallito nel suo mestiere, or dava pareri ai
governanti.--Se meritano castigo, neppure a' suoi parenti egli la perdona.

--Erano gente senza religione», diceva un chierico in aria contrita.

--Ma se contano all'incontrario che l'uomo era fuggito ad Avignone per
intendersela col papa.

--Se era ad Avignone, perchè non starvi?

--Era dunque un guelfo marcio.

--Guelfo? (ripigliava il Malfiglioccio). Coteste le son novelle sparse per
dare pasto a voi, gente grossa che credete. La sarebbe curiosa che fosse un
peccato pei Milanesi l'essere guelfi. Per l'abbondanza che ci recarono
quegli imperatori e i loro Ghibellini! tanta da averne troppo per odiarli e
noi e i nostri figli e i figli dei nostri figli.

--Eh, voi non dite male (riprendeva il primo). Ma i nostri padroni amano
più stare attaccati all'imperatore che non al papa: perchè quello
è lontano e non dà fastidio; e se commettono birbonate non li
scomunica.

--Zt,» faceva un altro ponendosi il dito sul naso; poi con voce sommessa
seguitava:--Se ho a dirvela, io so da uno di quelli che hanno mano in
pasta, che i giustiziati di adesso e cotest'altri dipinti là sul muro,
avevano fatto una maledetta trama per venderci agli stranieri, per metterci
sotto la dominazione degli Scaligeri di Verona.

--Come? di queste? dite vero? Cosa ci hanno a fare gli Scaligeri ed i
Veronesi con noi? Noi si vuole il biscione, e Sant'Ambrogio» gridavano
zelanti patrioti. E--Viva il biscione, Viva Sant'Ambrogio» ripetevano
molti altri: il qual grido dai fautori del principe veniva interpretato per
un'espressione di popolare consentimento all'atto che si stava per
eseguire.

Non mancavano però di quelli che, senza impacciarsi colla politica, ne
tiravano della morale brava e buona, ripetendo ai loro vicini:--Ma! non so
che dire. Colpa loro se sono stati così gonzi di lasciarsi acchiappare.
I delitti si vogliono commettere colle debite cautele. Dico bene,
Basabelletta?»

Tale interpellanza era drizzata a quel Menclozzo Basabelletta, preso e
torturato per cagione dei discorsi tenuti appunto in piazza dei Mercanti
con Alpinolo, e che era venuto ad osservare quell'apparato per
esclamare,--L'ho scappata bella!» Non aveva dunque voglia nè di
rispondere, nè di commentare; e senza darsene per inteso, guardava al
cielo e diceva:--Bel tempo oggi: vuol durare».

Ma ai balconi, sui terrazzini circostanti, e nelle camere delle
magistrature, ben più fini e socievoli discorsi tenevano signori e
damine, di gualdane, di battaglie, dei pettegolezzi privati: degli
ondeggianti favori della Corte; della passata dei tordi e della scarsezza
delle lepri; chiedevano e riferivano novità; leggevano sul libro e di
questo e di quello. E la signora Teodora, sposa novella di Francesco de'
Maggi, una delle più lodate per avvenenza e per l'arte d'approfittarne,
domandava così sbadatamente nel mettersi il guanto:--E come ha nome
cotesta che hanno da far morire?

--Margherita Visconti por servirla», rispondeva pronto Forestino,
figliuolo naturale del principe, che faceva il vagheggino tra quelle
bellezze.

--Visconti? (ripigliava la sposa). È dunque parente del signor vicario?

--Così alla lontana», rispondeva il giovane: ma il buffone
Grillincervello soggiungeva:--Ed avrebbe potuto venire con lui a parentela
molto stretta: e appunto per non l'avere voluto, le tocca questo fine.

--Eppure le deve rincrescere (diceva qualche altro). È così giovane:
così bella!

--E poi non assuefatta a morire», l'interrompeva il burlone, e destava
all'intorno una vivace ilarità. Poi voltandosi a Forestino e al costui
fratello Bruzio, intorno ai quali, perchè sterponi d'un gran signore,
facevasi un circolo rispettoso, diceva loro a mezza voce:--Serenissimi, vi
do avviso che, se mai aveste fatto assegnamento sulla sposina del signor
Francesco dei Maggi, ella non m'ha l'aria di essere disposta a imitare dama
Margherita».

A tali detti Bruzio chinava gli occhi con ipocrita modestia; e mentre il
maligno giullare correva di qua e di là a stornare la melanconia e i
pensieri seri con arguzie, e giustificare con lazzi la iniquità, i due
imitavano il padre loro donneando, mentre coll'assistere alle giustizie di
lui preparavansi poi ad imitarlo quando potrebbero.

Fra ciò la campana aveva ricominciato i rintocchi: ogni picchiata del
martello destava un suono, prolungato dall'oscillare del metallo; moriva;
un momento di silenzio, poi un altro colpo, indi un altro, lento come i
palpiti di un moribondo--e come quelli straziante.

--Viene?

--No.

--Ma che tarda?» si chiedevano l'uno all'altro, ed era un diffuso
ronzío di curiosa impazienza, nè più nè meno di quanto in
teatro indugiano al alzare il sipario.

--Che le avessero fatta la grazia?» domandava qualcuno.

--Per me tanto e tanto n'avrei piacere»: e il pubblico in fatti ne
avrebbe avuto piacere tanto, quanto della esecuzione, perchè l'una e
l'altra gli offrivano del pari argomento di ammirare, di scuotersi, di
discorrere, di censurare, e di applaudire.

Ma presto furono tolti da quest'idea al vedere sulla _parlera_, che già
era stata coperta di uno strato nero e di cuscini di velluto, uscire i
principali magistrati, il podestà, il suo logotenente, e sopra gli altri
distinto il capitano Lucio. Ve l'ho replicato che la giustizia era atroce,
ma non ipocrita, e venivano a rimirare il compimento del loro lavoro.

Poi non tardò a vedersi un brulicare più vivo nei vichi strettissimi
di là intorno, a sentirsi un susurro, un ronzío più fitto, più
pronunziato verso il portone che esce sulla Pescheria vecchia, per dove
appunto doveva sfilare la compagnia ferale, dopo fatto un lungo giro
affinchè a maggior numero fosse dato godere della scena o profittare
della lezione.

--È qui, è qui», cominciavasi a dire: e come un drappello di
difensori della patria al cenno di un prepotente caporale, così tutta
quella calca si leva in punta dei piedi, tutti i colli si protendono, tutte
le teste si piegano a quella banda, tutti gli occhi. Ed ecco,
all'accelerato rintocco della campana, comparire dapprima uno stendardo
nero orlato di argento, sul quale era effigiato uno scheletro in piedi,
colla falce nell'una, l'oriuolo a polvere nell'altra mano; alla sua dritta
un uomo col capestro al collo; a sinistra un altro col proprio teschio
nelle mani. Dietro, coppia a coppia, si affilavano i fratelli della
Consolazione. Erano una devota scuola, fondata in Santa Marta dei
Disciplini alla Romana, come chiamavasi un oratorio, che poi fu ridotto in
una delle meglio architettate chiese di Milano. Di questa scuola che poi fu
trasferita in San Giovanni alle Case rotte, era principale istituto il
confortare i giustiziati e suffragarli. Procedevano i confratelli in una
veste di tela bianca collo strascico, e col cappuccio tutto cucito in giro,
sicchè non potevasi levare che colla tunica stessa; al posto del viso
non vedevasi che una croce di scarlatto, sotto i cui traversi si aprivan
due forellini, tanto solo da dar luogo alla vista; sopra il cuore portavano
una medaglia nera, dove era effigiato un Gesù crocifisso, con ai piedi
della croce il teschio del santo Precursore; discinti in vita, colle mani
giunte entro le maniche cascanti, avevan sembianza di notturni fantasmi.
Gli ultimi portavano un cataletto, mentre a coro in lugubre melodia,
cantavano il _Miserere_:--cantavano le esequie, portavano la bara per uno
che era sano tuttavia.

Fendendo la turba giunsero presso al patibolo, ove deposero il letto
funereo: e su per la scaletta e a piè di quella si schierarono in due
file per ricevere tra loro la condannata, formando quasi una barriera fra
il mondo e un essere che, di lì a pochi istanti, cesserebbe di
appartenervi.

Ed ecco, tratto da due bovi guarniti a nero, avanzarsi lentissimo un carro,
e sopra quello la povera nostra Margherita.

Per obbedire a quel vago sentimento, che comanda di ornarsi per tutte le
cerimonie, anche le più melanconiche, la Margherita aveva voluto
accomodarsi di un abito nero decente, e ravviarsi, e lisciare i capelli, il
cui nero lucente viepiù spiccava sulla fredda uniforme bianchezza di una
pelle morbidissima ma patita. Sul collo, dove un tempo le perle facevano
gara di candidezza, ora appena le coccole del rosario parevano segnare la
traccia, che fra poco la mannaja solcherebbe. Fra le mani giunte stringeva
la crocetta pendente da quello, senza rimuovere mai gli occhi che già
solevano splendere di giuliva benevolenza, ed ora, sbattuti in dogliosa
spossatezza, non vedevano più che un oggetto, una speranza.

Le sedeva a canto frà Buonvicino, ancor più pallido di lei se era
possibile, con alla mano la crocifissa effigie di Colui che patì tanto
prima di noi, e per noi; e le andava tratto a tratto suggerendo una
preghiera, un conforto: di quelle preghiere che nei giorni della gajezza
infantile c'insegnano le madri, e che rincorrono opportune fin nei momenti
più disastrosi.--Signore, nelle vostre mani raccomando lo spirito
mio.--Maria, pregate per me nell'ora della morte.--Esci, anima cristiana,
da questo mondo che ci è dato per esiglio, e torna alla patria
celeste.--In paradiso ti rechino gli angeli, santificata dai tuoi
patimenti».

Nessuno guardava ad altri che a lei. Benchè sfinita da tanti martirj,
benchè colle traccie in viso della morte vicina, quando la videro
esclamarono tutti:--Oh com'è bella! Così giovane!» e più di una
lagrima cadde in quel punto, più di un sudario di seta coperse gli occhi
delle signore; più di un guanto, usato ad impugnare lo stocco,
asciugò o respinse il pianto che spuntava sul ciglio dei cavalieri. E si
voltavano a guardare verso la tribuna, verso Lucio, se mai sventolasse la
fusciacca bianca in segno di grazia.

Dietro al carro, colle braccia avvinte al tergo, sì stretto che la corda
entrava nella carne, scarmigliato il crine e la barba giovanile, bendata la
testa con un cencio di fazzoletto, in lacero arnese, serrato fra i soldati,
arrancavasi ai piedi zoppicando e doglioso, un altro nostro conoscente,
Alpinolo. Le percosse rilevate la notte della fuga non l'avevano ucciso, ma
solo tramortito; poi, rinvenuto, i medici si adoperarono a restituirgli la
salute, intanto che i giudici si preparavano a togliergli la vita.

In fatti anch'egli venne sottoposto al giudizio, che però, trattandosi
non di un uomo, ma di un soldato, era sciolto da tante formalità, e
affidato alla spicciativa procedura dei suoi capi. Ma questi non riuscirono
mai a farlo parlare: i tormenti più squisiti furono adoperati: come
fosse poco lo slogargli le braccia, gli fu applicato il fuoco alle piante
dei piedi finchè ne scolasse l'adipe; ficcategli delle punte sotto alle
unghie: oppressogli il petto con enorme peso: tutto soffrì senza
contorcersi, senza proferire una sillaba. Soltanto una volta, che gli
spasimi doveano averlo posto fuori di sè, fu inteso proferire queste due
voci, _Poveretta_ e _Padre mio_.

Non appena fu qualche istante lasciato libero, tentò sfracellarsi il
cranio contro delle pareti, onde da quell'ora fu continuamente guardato a
vista. Ma chi egli fosse, nessuno lo sapeva: i camerata lo conoscevano pel
Quattrodita e nulla più: lombardo pareva alla bastarda pronunzia, ma
nè del nome nè della condizione sua non si potè venire in chiaro,
onde colla semplice indicazione di--un soldato per soprannome il
Quattrodita--, venne condannato a dover fare da boja nel supplizio dei
Pusterla, e dopo di loro essere giustiziato anch'egli; il suo cadavere
tratto a coda d'asino alle forche fuori porta Vigentina, e ivi lasciato
impeso per pascolo dei corvi.

Neppur dopo condannato vi fu modo di fargli aprir bocca; se non che,
allorquando fu interrogato, secondo l'uso, se prima di morire avesse nulla
a dimandare, chiese gli si restituisse l'anello che aveva sempre portato in
dito. Quell'anello, unico suo bene ereditario, gli rammentava, se non
altro, di avere avuto una madre, ora che gli toccava di morire senza aver
adempito quella che era stata l'idea fissa di tutta la sua vita, cioè di
trovare l'autore dei suoi giorni: onde, allorchè gli fu esaudita la
domanda, se lo ripose in dito colla devozione di un moribondo.

Quando Francesco e Venturino furono condotti a morte, Alpinolo era stato
trascinato ai piedi del palco, perchè, secondo la sentenza, dovesse fare
le veci di manigoldo. Ma era facile eseguire la condanna in ciò che
concerneva il suo cadavere, non era altrettanto nell'armargli la mano
contro di coloro, che tanto aveva egli fatto per salvare. Intimatogli
quell'ordine ferocemente insensato, e scioltegli le mani, esso entrò in
tal furia, si pose in atto così minaccioso, che n'ebbero di grazia a
legarlo di nuovo, persuasi che, fin quando gli rimanesse fiato, non si
piegherebbe a tanta infamia.

Anche senza di ciò, nel veder sul patibolo que' suoi cari, nel pensare
che avea contribuito a condurveli, considerate come Alpinolo si sentisse
nel cuore! Se non che gli fu di alcuna consolazione il trovare che la
Margherita non era con loro.--La tigre (disse fra sè) rimase satolla col
sangue nostro».

Come ebbe veduto balzare la testa del fanciullo, poi quella del padre,
versando dalle pupille grosse lagrime, più di rabbia ancora che di
dolore, si mosse francamente per porgere il collo al manigoldo, credendo
che allora fosse la sua volta. Ma in quella vece si vide rimosso dal palco,
senza conoscere il perchè, tratto ancora al suo fondo di torre a
macerarsi un altro giorno, compassionando il giudizio veduto, e paventando
la vergogna di un perdono e la gratitudine della clemenza.

Ma al domani fu cavato di nuovo, e il suo tormento giunse veramente al
colmo quando scôrse la Margherita, la sorella di Ottorino, la sua amica,
la signora sua, tratta sul carro dei malfattori a rinfrescare col suo
sangue il sangue del consorte e del figliuolo. Così incatenato ne
seguiva il lento cammino, cogli occhi il più spesso inchiodati a terra,
talvolta balestrandoli sopra la moltitudine, quasi per cercarvi o il
generoso coraggio che strappasse la vittima al tiranno, o almeno la
generosa compassione, il cui fremito è compenso ai più rovinosi colpi
dell'iniquità potente. Ma non avvisando in tutti che una indolente
curiosità, atterrava novamente gli sguardi in atto di fiero disprezzo, e
li riposava su quelli della martire; e allora esalava un sospiro dal più
profondo del cuore.

Come l'onda trabocca al levare della chiusa che la reggeva in collo,
così dietro ai soldati che tenevansi in mezzo Alpinolo, si rinchiudeva
la folla divisa, e si accalcava, ingegnandosi di mettere il passo innanzi a
chi gli aveva preceduti, per vedersi poi oltrepassati anch'essi dai nuovi
che sopravenivano. E già il carro era ristato ai piedi del palco: un
solenne silenzio possedeva la turba spettatrice. La Margherita smontò,
accostossi alla scala--la scala che per lei era quella del paradiso. Il
carnefice, discesole incontro, le porse la lurida mano, come per ajutarla a
salire. Era la mano che, il giorno innanzi, si era intrisa nel sangue dei
suoi diletti! La Margherita, con un fremito istintivo, ma senza odio, la
ricusò, e con passo quanto più poteva sicuro, incominciò a
montare.

Povera martire! non hai finito di patire.

Passava ella in mezzo ai confratelli della Consolazione, quando da uno di
essi, con voce sommessa ma fiera, sentì dirsi:--Margherita, ricordatevi
la notte di san Giovanni».

Come la rana già morta guizza al passar della corrente elettrica,
così la Margherita, che già pareva tolta dalle cose terrene,
trasalì al suono di quel motto; volse lo sguardo, pieno di terribile
maestà e di profondo orrore, sovra il miserabile che aveva parlato, e
traverso ai fori della buffa vide fissato sopra di sè un occhio acuto
come di velenoso serpente.

Quelle parole lo diedero a conoscere anche a frà Buonvicino, il quale
stava a fianco della Margherita: sporse la mano a questa che, vacillando in
atto di cadere, gliela ghermì collo spaventato vigore, onde, nei momenti
che ci strazia un nemico, sentiamo imperioso bisogno di stringerci ad un
fedele. E l'Umiliato, ponendole innanzi alla vista il crocifisso, le
gridava:

--Egli morì perdonando ai suoi uccisori».

Ritenne Margherita le pupille nella devota effigie, le alzò al cielo,
parve riconfortata, e raggiante del presentimento dell'immortalità,
giunse sul funereo palco. Un istante appresso, il carnefice, afferratala
per le nere chiome, presentò al popolo la testa recisa e boccheggiante.

Un fremito universale ruppe la taciturnità: chi diede in pianti, chi
esclamò, chi intonò le preghiere di suffragio; i più vicini
gridarono ai remoti e a quelli che non avevano veduto:--È morta».
Allora, colla furibonda ansietà onde i cani assetati si precipitano alla
fontana, furono visti alcuni correre sul patibolo, raccogliere in una
scodella il sangue che sgorgava dal busto e pioveva dal capo, e fumante
tracannarselo. Erano infelici, tormentati dall'epilessia, i quali credevano
con tale rimedio orrendo guarire dalla più orrenda delle infermità.

Allorchè la Margherita porse il collo al fendente, frà Buonvicino,
messosi con lei in ginocchio, alle orecchie, che fra poco più non
udrebbero, le mormorò gli ultimi conforti; poi, con un atto risoluto,
come chi finalmente esce da lunga situazione penosa, impugnato il
crocifisso, levò con esso le giunte mani al cielo, le abbassò fin sul
tavolato, e si lasciò cadere colla fronte sopra di esse. Il sangue di
quella vittima lo spruzzò. Tutto era consumato, ed egli non si rimoveva
da quell'attitudine. Fu scosso... Era morto.

Così l'angelo destinato a custodia di ciascuno, appena cessa di vivere
quello al cui fianco era stato collocato dalla Provvidenza, compiuta la
divina sua missione, ritorna con esso in Paradiso.

Sulla compassionevole scena tenevano fisso l'occhio due altre persone, con
sentimenti, deh come diversi: Alpinolo e Ramengo, giacchè era lui
appunto il confratello insultatore. Il primo, sotto all'aspetto di
scellerato, copriva un generoso pentimento, un'immensa compassione, che
nella fine lagrimata di quegli esseri virtuosi, gli faceva dimenticare
affatto come, tra pochi momenti, avrebbe anch'egli a seguitarli di là
dei confini della vita.

Ramengo, sotto alla maschera della pietà, celava uno di quei cuori
nefandi, che l'ira di Dio slancia talvolta sulla terra per una prova, e per
un saggio dell'inferno. Guatava egli la Margherita, siccome pago della
spasimata vendetta; e quando mirò spiccato il bel capo, si sporse
avanti, struggendosi di potere, come quegli altri sciagurati, smorzare la
lunga sete col sangue che ne sprizzava, e del quale alcune goccie gli
chiazzarono il bianco vestito; contemplò, numerò, analizzò le
spasmodiche contrazioni della faccia moribonda, il pallore che la occupava
man mano che abbandonavala il sangue, il rotare degli occhi, che, più
sempre affondandosi nelle orbite, parevano ingordi della luce violentemente
rapita; s'immaginò perfino che uno sguardo ultimo lanciassero sopra di
lui, ed esclamò:--Ora sono soddisfatto».

Mentre il carnefice, rimovendo la raschiatura inzuppata di sangue, e
collocando nella bara il tronco esanime, che sotto al suo piede aveva
cessato il doloroso vibrare, esclamava «E uno». Ramengo, girando la
vista, si trovò dinanzi il soldato sconosciuto, che con coraggio cupo e
taciturno montava sul patibolo. Pallido e sbattuto per le ferite del corpo
e dei patimenti dell'animo, la morte istante non lo agitava però, nè
deprimeva la fierezza della sua fronte, somigliante, a quella di un angelo
decaduto, che si orgoglia del suo peccato, e non vuole perdono.

Appena gli vennero sciolte le mani incatenate alle reni, di schianto,
siccome allo sbandarsi di una molla, se le recò alle labbra baciando
l'anello. Quel diamante, fiammeggiando sugli occhi di Ramengo, gliene
dovette richiamare alla memoria uno somigliante, che aveva altre volte
posto in dito alla sua Rosalia, e poi trovato nella capanna di quei mulinaj
sul Po. Questo vago senso e momentaneo si tramutò ben tosto in un fiero
sbigottimento allorchè vide il condannato trarsi l'anello dal dito,
affisarlo teneramente, baciarlo, premerselo al cuore, baciarlo di nuovo;
indi, coll'espressione di chi si divide dalla cosa che più di tutte ha
cara, che anzi unica ormai ha cara sopra la terra, porgerlo al garzone del
manigoldo, e dirgli:--Tieni; dopo morto, va e seppelliscimi presso a quella
santa».

Tra quel fatto, Ramengo avea osservata la mano di Alpinolo, con un dito
meno: il dito appunto che esso aveva reciso al suo figliuolo, allorchè
gli trasse nel suo geloso furore; quel dito, quell'anello, il suono delle
parole misero il colmo alla sua agitazione. Si fece un passo avanti, spinse
il braccio, e rapito l'anello di pugno al manigoldo, esclamò:--Lascia
vedere! lascia vedere!»

Rimase questi attonito all'atto. Alpinolo gli fissò sul viso mascherato
gli occhi tra curioso e indispettito; l'altro, mirando il condannato, fra i
lineamenti scomposti e alterati non esitò a raffigurarlo. Raffigurò
Alpinolo, il figliuol suo,--quello che tanto aveva desiderato, tanto
cercato,--quello che solo poteva restituirlo alle consolazioni dell'amore,
alle speranze della vanità, all'invidia del mondo; lo trovava, ma col
piede sul patibolo, e portatovi da lui medesimo.

Non si ritenne: e come fuor di sè gridando,--Alpinolo, Alpinolo, ti
ravviso», si scagliò tra il carnefice e lui, che già era salito
sul pianerotte. Alpinolo ristette maravigliato nell'udire una voce che a
nome pareva richiamarlo alla vita. Il carnefice, non sapendo spiegare
questa scena, rimase un tratto sospeso, poi gridandogli,--Via, sgombrate,
toglietevi fuor dei piedi», tornava per afferrare la vittima a sè
destinata.

Ma quel rimbaccucato, opponendosegli a viva forza,--No, no, (gridava), egli
non deve morire, no... Egli non è quello che è creduto... Non è un
soldato mercenario... S'è infinto. È il bravo scudiere Alpinolo: quel
desso che salvò il signor Luchino a Parabiago.--No, signori, no... non
deve essere ammazzato così come un assassino.

--Che bubbole mi contate? (ripigliava mastro Impicca.) Sia chi si voglia,
il mio mestiere è di ammazzarlo. Credete che io non sappia far la festa
anche ad uno scudiero? Le vostre ragioni dovevate dirle al signor vicario.

--Sì (replicava Ramengo con ansietà), il signor vicario le sa; non lo
ha condannato: è un puro sbaglio... Per lui mi ha dato l'impunità,
per lui... Aspetta... per carità... un momento... sospendi... Signori
soldati, badate: questo qua, che si finse un vostro camerata, è lo
scudiero Alpinolo, quel che fece prodezze a Parabiago--l'avrete certo
sentito a menzionare, eh? Bene, è desso; e s'è fatto vostro compagno.
Ma voi certo non soffrirete che un camerata vostro vada alla forca.--Udite,
datemi mente.--Non dico di salvarlo ingiustamente: ingiustamente il
lasciereste morire.... Di grazia, fate sospendere un momento... una
mezz'ora sola. Vi prego, vi scongiuro, per le vostre donne, pei vostri
figliuoli... C'è nessuno fra di voi che abbia moglie? che abbia un
figliuolo? Fate che aspettino: chiamate il vostro capitano. Ehi, signor
Melik, lei che è così bravo, così valoroso.... questo giovane non
è quel che credono; lo guardi, non lo conosce? ha combattuto con lei il
giorno di santa Agnese: dov'ella s'è fatto tanto onore. E quando il
signor vicario saprà chi è, li castigherà se l'avranno lasciato
finire a questo modo... perchè egli, il signor Luchino, mi ha rilasciato
lettera d'impunità.--No, non deve morire.--Che? a Milano comanda il
principe o il boja?--Non ha da morire, no!»

E bruscamente respingeva la branca del manigoldo, stesa impazientemente
sopra di Alpinolo. All'ascoltar queste parole recise, affollate, emesse
traverso al panno della visiera col gorgoglio di un fiasco, pel cui collo
angusto si versi l'acqua della pancia capace, con un tono di angoscia, di
affetto, di spavento, i soldati si guardavano l'un l'altro in viso; il
capitano, che non sapea rendersene ragione, facevasi più d'accosto per
conoscere il vero: se Lucio fosse stato ancora presente, sarebbero ricorsi
a lui per nuovi ordini: ma egli, tosto che vide compiuta la sua giustizia,
senza curarsi più che tanto di un soldato, che nè tampoco aveva un
nome, se n'era ito a desinare. Tutto il vulgo spettatore accalcavasi
viepiù da quella parte; e,--Chi è quel mascherone?--che fa colà
tra il boja e il condannato?--cosa predica?--perchè questo ritardo?»
e i più lontani facevano prova di aprirsi un varco a spintoni; quelli
arrampicati sugli sporti o accomodati ai balconi, ai loggiati, alle
finestre, sporgevansi in fuori a guisa dei passeri nidiaci, allorchè
sentono la madre ritornare coll'imbeccata.

Mastro Impicca, sazio dell'indugio, battendo il piede così, che fece
sobbalzare e sonare tutto il palco, esclamò con dispetto:--Ho altro a
fare che dar ascolto alle tue fandonie, mascherone maledetto! Fatti da
banda. In un batter d'occhio te lo spedisco, e dopo gli farai complimenti
quanti vuoi»; e si accingeva a ridurre queste parole in fatti.

Ma Ramengo ripigliava:--No, no. Ti dico che tu non ci hai a far nulla: che
fu condannato in iscambio: Ha il breve d'impunità: gliel'ho ottenuto
io... O che? non deve valere il decreto fatto, firmato e suggellato dal
vicario di un imperatore? Se tu sapessi quel che ho fatto per
ottenerglielo! E ora il frutto di tante fatiche farmelo perdere a questo
modo?»

E perchè il manigoldo, incapace di ragioni come di pietà, metteva
risolutamente le mani alla vita di Alpinolo, Ramengo, inferocito, lo
percosse di tale spunzone nei fianchi, che, cogliendolo improvviso, lo
gettò ruzzolone dal palco. La plebaglia, vedendo a cascare il carnefice,
ruppe in alti schiamazzi, in un batter di mani, in un _bravo! bene!_ come
quando vedeva un bel colpo alla pallamaglio. E Ramengo, lanciatosi al collo
di Alpinolo, vedendo che i soldati si movevano per mettere un termine colla
forza a questa nojosa resistenza,--Signori soldati (esclamava), signor
capitano, voi, gente così generosa, volete ora venire a dar mano al
boja, voi? a fare da boja voi stessi? Vergogna! Io posso farvi del bene.
Dei denari ne ho molti, ne ho troppi--ve li darò--ve ne darò
finchè ne volete, ma deh! ajutatemi, soccorretemi a camparlo. Giù le
mani, canaglia! cosa credete, che egli sia carne venduta al pari di voi?...
Egli è... è mio figliuolo!»

Il condannato fino a quel punto non avea compreso nulla più che gli
altri della pietà inattesa e disinteressata d'uno sconosciuto,
così lontano dall'idea, che purtroppo egli erasi formata della
universale nequizia e vigliaccheria. L'udirlo parlare di impunità,
di grazia ottenutagli, il vedere frapposto un ostacolo alla sua morte,
che anche pei meglio risoluti è un gran passo; la premura
appassionata che traspariva da ogni parola, da ogni gesto di
quell'incognito, lo tenevano assorto e in dubbio, come uomo che sta
sur un filo tra la vita e la morte. Ma appena udì quella parola di
figliuolo, tutto si riscosse, ed esclamò:--Come?... figlio? voi mio
padre?»

Sventurato! mai in tutta la vita sua non aveva inteso dirigersi quella
parola soave; non aveva gustato mai la dolcezza dei domestici affetti;
aveva sempre ambito, ma anche disperato di poter mai dire «O padre
mio». Ed ora--Sarebbe possibile? questo sconosciuto sarebbe il padre
mio? Eppure deve ben essere così. E chi altri se non un padre si
curerebbe di un miserabile già sotto la mano del carnefice?

Quindi con inesprimibile sentimento accoglievasi tutto anch'esso contro
Ramengo, lo abbracciava, trasaliva sotto gli amplessi di lui. Ora sì che
il timore della morte lo invadeva! ora sì che avrebbe voluto ritrarre i
piedi dal patibolo, tornare alla vita, dove gli era preparata una
soavità non assaporata mai; dove non si troverebbe più solitario:
dove all'esser suo si mescolerebbe un elemento nuovo, da cui ogni cosa
restava modificata tutt'altrimenti, e che, togliendogli quel nauseato
dispetto degli uomini ond'era invaso da un pezzo, gli abbelliva i molti
giorni promessigli dalla sua fresca età. Colla fantasia ne scorreva i
casi; sedeva a un convito d'amore ignorato; ritesseva una tela di vicende,
a fianco di un padre, sotto una mano amorevole, che lo esortasse, il
reprimesse, l'applaudisse. Ma se da questo sogno, che in un atomo abbraccia
tanto tempo, ricadeva sul presente, eccogli davanti un ceppo, fumante
ancora d'un sangue prezioso, e dove, fra un istante, anch'egli verserebbe
il suo, sotto agli occhi di una moltitudine indifferente, tra la quale
forse sarà mescolato colui, quell'esecrato autore di tanti mali; e
starà a contemplarlo e sorridere.

A tali immagini, il garzone, pur dianzi così sicuro, sgomentavasi come
il fanciullo all'idea del fantasma, e altrettanto abborrendo dalla
distruzione quanto prima l'avea desiderata, ascondeva la faccia contro il
seno dello sconosciuto, e ripeteva angosciosamente:--Padre, salvatemi.
Sì, sono Alpinolo; sono il figliuol vostro; salvatemi».

Queste parole inferocivano il vigore di quell'altro, il quale con una
smania rabbiosa lo cingeva delle braccia convulse, strideva, chiamava il
cielo, chiamava gli uomini, implorava pietà, giustizia...

Pietà, giustizia implorava egli!

Ma il conestabile Sfolcada Melik, nojato ormai di questo indugio,--Suvvia,
(disse ai soldati) non sia mai detto che lasciaste ritardare la giustizia
da un mascalzone. Animo: traetelo di là, e avanti».

Si mossero eglino di fatto, e tolsero in mezzo Alpinolo, il quale allora,
dato nelle furie, cominciò a menar calci e pugni, mordere, graffiare,
sinchè, sferratosi, riuscì a strappar di mano ad uno la mazza
ferrata, e disposto a far le forze estreme, cominciò con essa a lavorare
di qualità, che mal per chi l'accostava. I soldati, che, da quella notte
in poi, sapevano come pesassero le costui braccia, impacciati anche
dall'angustia e dal barcollamento del palco, davano indietro, intanto che
Ramengo, collocatosi in mezzo della scaletta, come per abbarrarla del suo
corpo, gridava in risposta al conestabile:--A chi mascalzone? Mascalzone
sei tu, tedesco venduto! Io, sai chi sono io?» E stracciandosi d'in sul
viso il cappuccio, si scopriva esclamando:--Sono Ramengo da Casale; impara
a rispettarmi!»

L'alterazione prodotta della maschera e da una situazione così strana,
non aveva lasciato che Alpinolo riconoscesse alla voce chi fosse il suo
protettore. Ma come lo intese nominarsi, come, sospendendo un terribile
colpo su cui abbandonavasi a due mani, si volse, e raffigurò quella
faccia, la faccia che gli era fitta nella memoria siccome quella di un
demonio, si tramutò a guisa di un uomo, il quale mentre accarezza e
palpa il suo fido cane, tornato dopo lunga assenza, ascoltasse taluno
gridargli:--Bada che è rabbioso».

Slanciò la mazza sul palco, e cogli occhi stralunati, colle braccia e
gli indici protesi rigidamente verso di lui, profferì:--Ramengo! voi mio
padre!» Mandò un urlo disperato, levò la faccia al cielo, colle
mani fra gli irti capelli, indi, invano rattenuto da quell'altro, che a
guisa di energumeno smaniando, divincolandosi, pregava, bestemmiava,
chiedeva perdono, corse egli stesso a furia, a sottoporre il capo al
fendente.

Un minuto dopo, il disciplino tenevasi boccone, abbracciato ai piedi di un
cadavere, seguitando a prorompere in urli, in pianti, in imprecazioni--ma
chi l'avrebbe compassionato? era una spia.

I confratelli della Consolazione intonarono la preghiera dei defunti, e
levando il feretro, più carico del preveduto, si avviarono a Santa Marta
per darvi sepoltura. Il popolo, rispondendo a quelle preci, sfollava dalla
piazza e si diramava anch'esso, per le varie stradelle, cedendo il passo a
nuovi curiosi, che a fiotti si avvicinavano al patibolo per vedere, se non
altro, gli apparati e gli avanzi, ed informarsi di quell'ultima scena. Poi
ritornarono ciascuno alle occupazioni della giornata, fra le quali più
di uno usciva tratto tratto esclamando con un sospiro:--Povera signora!»

--Un bel colpo!» diceva un altro.--La non deve aver patito nulla. Non si
può dire che i nostri signori non ci mantengono uno dei carnefici meglio
esercitati.

--Hai visto (aggiungeva un terzo) con che divozione, prima di sottoporre la
testa, ella baciò il Crocifisso?

--E non volle (replicava un altro) che il boja le levasse il fazzoletto dal
collo».

Qualche femminetta soggiungeva:

--Ma! a quest'ora la sarà in purgatorio a mondarsi dei suoi peccati. Il
Signore è misericordioso.

--E quel frate (riflettevano altri) se era sì dolce di cuore non dovea
far quel mestiero di assistere i giustiziati. Manca gente avvezza a queste
funzioni? Si sa: non tutti son buoni per tutto».

Un altro intanto aggiungeva:--Che cosa poi saltasse in mente a quel
disciplino di non voler lasciare, come dice il mio padrone, libero corso
alla giustizia, vattela accatta.

--Avrà creduto di far un'opera di misericordia», rispondeva lo
scaccino della Passerella.

--Oh, sta a vedere! (tornava su il primo) Che ci ha a fare la misericordia
coll'impedire che si ammazzi? Opera di misericordia è seppellire i
morti, dico io.

--Per me (udivasi qualche giovane) è la prima che ne vedo di queste, ma
sarà anche l'ultima. Gesummaria! alla notte mi tornerà sempre sugli
occhi quella figura, quel tronco, quel sangue...» e rabbrividendo si
copriva il viso.

--Tutto sta ad assuefarsi» rispondeva un uomo maturo.

Ma questa era la ciurma, ignorante e brutale a segno da trarre curiosa a
tali miserie. Che se la storica verità ci costrinse a rivelare, pur
troppo al vero, quel vulgo, ci è di soddisfazione l'assicurare come la
razza dei generosi non fosse scarsa, frammezzo agli insultanti dominatori e
ai vili depressi; sconosciuta da questi, sospetta a quelli, ma destinata a
far fede della virtù, allorchè i casi umani trarrebbero qualcuno a
rinnegarla indispettito. Con fremito virile, e con dignitoso compatimento,
riguardarono essi quel caso come un pubblico lutto, una lezione, un avviso;
parte abbandonarono la città, perchè non sembrassero tampoco colla
loro presenza autorizzare l'assassinio legale; alcuni vestirono a lutto;
altri manifestarono anche in aperte voci l'indignazione, ed erano gli
stessi che avevano disapprovato il Pusterla finchè lo credettero
cospiratore.

Le madri poi, le buone madri lombarde, narrando quel caso ai raccolti
figliuoli, e commovendoli a pietà, facevano loro suffragare i poveri
condannati, e ripetevano:--Preferite di esser la Margherita sul patibolo,
che non Luchino sul trono».

Così quel giorno tutti parlarono della meschina, del frate, del
disciplino; molti ne discorsero anche il domani, più pochi il terzo
dì; poi nuovi mali, nuovi casi, nuovi supplizj vennero ben tosto a far
dimenticare quei primi, a destare nuove curiosità, nuova compassione,
nuove ciancie.

La scena si fu alla Corte, allorquando, ritornato Luchino a Milano,
Grillincervello si pose dinanzi a lui ad atteggiare quel supplizio, ora
contraffacendo con attucci e moine la rassegnata devozione della Margherita
e la profonda pietà di fra Buonvicino,--tanto è facile volgere in
riso le cose più serie e le più sante!--ora smaniando e armeggiando
come aveva fatto Ramengo, eccitando al riso la brigata, e riscotendo gli
applausi di quelli che ne erano stati testimonj oculari, e che
esclamavano:--E' fa tal quale».

Luchino ne rise più degli altri, ma uno storico soggiunge che quella
notte non dormi.

Chi può averlo detto a quello storico?

Poi anche alla Corte, come in città, a breve andare tutto fu messo in
dimenticanza. Di fatto, al raccor dei conti, che cosa era succeduto? Alcuni
innocenti in aspetto di rei eran stati percossi dall'iniquità in aspetto
di giustizia: accidente tanto solito nella società--d'allora--, che non
poteva destare nè mantenere a lungo l'interesse, non che l'orrore.

Ed io medesimo, ben lo sento, io ho troppo presunto col darmi a creder che,
con patimenti così usuali, potessi tanto tempo occupare il lettore senza
annojarlo.

Ma l'ho detto, e lo ripeto, non ho scritto per tutti, anzi, non ho scritto
pei più, sibbene per quelli che davvero soffrono o hanno sofferto. Oh,
se tra le pene ingiuste, con cui la calunnia, o la vendetta, o la satanica
voluttà del far male, o anche l'interesse del potere e la pretesa
necessità delle circostanze opprimono qualche volta l'innocente, se
alcuno verrà un giorno a ricordarsi della mia Margherita; e nel pensare
quanto quella pover'anima ha patito anch'essa dai cattivi, se ne sentirà
un solo momento confortato; se mai nell'ora della prova qualche virtù vi
trovasse un sostegno, una vergogna, qualche vizio, non crederò perduta
la fatica di questo lavoro, dovesse pur rimanere trascurato e venire deriso
dai miei compatriotti: n'avrò anzi conseguito quel compenso che unico
desidero,--unico, dopo che il meditare e descrivere le sventure di quella
meschina, disacerbò in lunghi e terribili giorni le mie.



CONCLUSIONE.


Prima di finire, volendo toccare un motto anche delle altre persone che
s'incontrarono colla Margherita in questo racconto, dirò come, tre anni
dopo, un caso intervenne a Grillincervello, il più spiacevole caso che
gli fosse mai tocco nella sua vita beffarda e beffata, ridente e paziente.
Il signor Luchino, nella deliziosa sua villeggiatura di Belgiojoso
manteneva un intrigo con una fanciulla paesana; ma, o non gli convenisse il
farne mostra, o volesse solleticare il logoro senso del piacere col savore
del pericolo e del mistero, egli conduceva di piatto questo suo amorazzo, e
non traeva a sè quella facile bellezza se non di sera al bujo,
facendola, per una porticina d'in fondo al parco, entrare in quel casino,
dove Alpinolo l'aveva visto una volta a dormire, posto fra gli ombrosi
andirivieni di un artificioso boschetto. Non isfuggi la tresca alla maligna
curiosità del buffone, e si propose di giocare un mal tiro al signor
suo, per farne poi scene.

Non so se mi sia venuta occasione di accennarvi che Luchino, in mezzo a
tanta fierezza, era pauroso del diavolo, del fantasma, degli esseri
impalpabili, contro di cui non valevano nè la spada sua, nè il
ringhio dei mastini, nè le labarde degli scherani. Una sera, non aveva
egli fatto che entrare colla druda nel conscio nascondiglio, quando, tra il
fosco, gli appajono sulle pareti, in livida luce, i contorni di certe
strane forme, metà uomini e metà bestie, con immense code e corna, e
occhiacci stralunati, e tanto di lingue sporgenti; e nel tempo stesso
comincia un fracassio, un sibilo fremente, un agitar di catene: le figure,
il sobbisso che attribuiscono al diavolo coloro che pretendono di averlo
veduto e udito.

La ragazza, tra piena di ubbie, come sono o erano queste campagnuole, tra
rimorsa del suo peccato, voglio lasciar pensare a voi di che paura restasse
presa. Ma neppure il signor Luchino seppe contenersi; e sgomentato non meno
di un fanciullo male avvezzo, sbucò gridando accorr'uomo.

Gli sghignazzi di Grillincervello gli diedero ben tosto a capire come
fossero orditure di costui, il quale, con non so che sue misture, aveva
rappresentato quegli spaventosi apparimenti. Accorsero servi, accorsero
soldati con fiaccole, con armi, accorsero i figliuoli e la eccellentissima
moglie e monsignor arcivescovo; talchè quella che dovea restar mistero,
divenne una pubblicità, con iscapito dell'_onore_ della docile
contadina.

A Luchino, occorre ch'io vel dica? quel tiro spiacque che niente più;
non tanto per veder rivelato quel suo tafferuglio (alla fin fine erano
peccati abituali, e sapeva egli stesso riderne e farne ridere) ma per aver
mostrato a quella donna, al giullare, agli accorsi, la sua paura: cosa che
con tanto maggior sollecitudine si nasconde, quanta più se n'ha.
Cacciò mano alla _misericordia_, e Grillincervello non mangiava più
pane se, lesto come uno scojattolo, non si fosse arrampicato sino in vetta
di un olmo, dove, appollajato, serenò quella notte alla fresca.

Il dormirvi sopra attutì la bizza di Luchino, non però così, che
non volesse farla scontare al buffone con altrettanta e maggior paura. Il
domani, dietro mangiare, quando solevano introdursi i buffoni a cantare e
spassare, e colle arguzie loro agevolare la digestione signorile, Luchino,
voltosi ai tre suoi bastardi, alla moglie, al fratello arcivescovo e agli
altri commensali, disse:--Voglio che ci divertiamo».

E ordina che venga Grillincervello.

Questo, al non vedersene più fatto cenno nè motto, argomentava che
quella sua bizzarria fosse, come tante altre, messa sotto un piede. Pure,
volendo meglio dileguarne la ricordanza col far ridere di più, si mise
addosso una veste di raso perlato, che la signora Isabella aveva, pochi
dì prima, regalato ad una delle mogli o femmine di lui. Piccinacolo
com'era, se la strascicava dietro, e con quel ceffo da beffana, e due gran
mustacchi cho s'era acconci, e con istrani reggimenti del corpo, avrebbe
mossa a riso la malinconia in persona.

Tutti in fatto cominciarono le risa più grasse; ma Luchino no; anzi, con
un piglio arcigno se altra volta mai, lo rimbrotta delle insoffribili sue
petulanze, e comanda a mastro Impicca (personaggio il quale seguitava la
Corte), che lo conduca davanti a quel casino istesso, e senza più, lo
appicchi per la gola. Indi invita i commensali a vuotar colà alcuni
fiaschi di San Colombano, e vedere il castigo del mal burlone.

Benchè il tono di Luchino gli paresse fiero e risoluto oltre
l'ordinario, ed egli si sentisse in colpa, nonostante quello sciagurato,
persuaso o volendo persuadersi non fosse altro che una celia, fece ogni
prova per voltar la cosa in burla, con una affettata paura ed uno svenevole
accoramento. E Luchino, sodo. Come dunque egli vide il padrone ripetere
l'ordine con un fare davvero spaventevole, e nessuno dei circostanti
mostrar segno di favore nè di compatimento, e il carnefice ghermirlo
senza cerimonie, fu preso da tanto sbigottimento, quanta era dapprima la
sua baldanza. Bianco siccome un panno lavato, tremebondo come un
paralitico, non reggendosi sulle ginocchia, mentre il boja ora lo tirava,
ora lo spingeva, strillava al pari di un'aquila, chiamava misericordia, e
volgendo la faccia contrita, raccomandavasi ora al padrone, ora al prelato,
ora ai figliuoli, e massimamente alla signora Isabella e alle dame di lei,
rammentando ad esse che aveva tre mogli e una nidiata di puttini. Poi,
vedendosi non ascoltato dagli uomini, non lasciò santo che non
invocasse; implorava almeno di confessarsi, di salvar l'anima; ma nessuno
facea viso, non che di esaudirlo, neppure di commiserarlo; e il maggior
loro da fare era il tenersi serj e composti, a malgrado dell'enorme
antitesi fra quel vestire, quel ceffo, e quelle supplicazioni. Ed
oltrechè per abitudine non pendevan troppo alla pietà, volevano
così tener mano con Luchino, sapendo non esser altro che una baja, da
risolversi comicamente, e riderne poi per mezz'anno.

Intanto mastro Impicca arriva al luogo designatogli, getta la soga a
cavalcione di un ramo di quercia da un capo, e dall'altro, formato un nodo
corsojo, lo circonda al collo del buffone, e fattolo salire, o piuttosto
portatolo su per quattro o cinque piuoli di una scala a mano, ivi
appoggiata, gli da una spinta, e giù.

Un ghigno universale scoppiò allora fra gli astanti, nascosti nel bosco:
giacchè, secondo l'intesa, non essendo il capestro assicurato al ramo,
il buffone, invece di restarvi appeso e strangolato, cascò stramazzone
sull'erba. Fattisi dunque tutti vicini ad esso, chi lo chiamava, chi lo
urtava coi piedi, chi lo punzecchiava colla mazza o colla spada, e
rinforzando le risa, gli ripetevano:--Ohe! sta su!--Che? ti sei
addormentato?--Lazzaro, vien fuori» gli gridava l'arcivescovo; e
Forestino soggiungeva:--Gua' come imita bene il morto».

Il fatto però stava che egli era morto davvero: lo spavento lo aveva
accoppato. Questo principesco divertimento non dispiacque a tutti, molti
anzi si tennero di buono al veder tolto di mezzo questo implacabile
morditore.

--Visse come i cani di legnate e di buoni bocconi: come un cane sarà
sepolto», disse Forestino prendendo al braccio e conducendo via la
signora Isabella.

--Salute a noi finchè non torna lui», soggiunse Bruzio seguitandolo.
Anche Luchino, volgendo un'ultima occhiata nel partire, esclamò:--Me ne
sa male: mi faceva tanto ridere».

Al che monsignore:--Basta fargli dire del bene».

E Borso:--Puh! di buffoni non è scarsità»; e girava un'occhiata
fra sprezzante e atroce sopra i cortigiani che stavano attorno.

Chi mi domandasse come la signora Isabella sentisse e sopportasse questi
disordini del marito, e gli scorni che le recava, sarei costretto a
rispondere: «Al modo di molte: facendone altrettanto». Quando essa
partorì due figliuoli, Grillincervello diceva che Luchino poteva
mangiare in venerdì la parte che vi aveva avuto; nel che pare che egli
non desse lontano dal vero, attesochè, dopo morto Luchino, essa
dichiarò che non venivanle da lui.

Una volta poi, essa, volendo trovarsi comodamente con un certo, anzi, con
certi suoi innamorati, finse aver fatto voto di visitare San Marco in
Venezia. Grossa comitiva di signori e dame principali delle varie città
obbedienti ai Visconti, l'accompagnarono nel devoto e voluttuoso
pellegrinaggio, e sull'esempio della principessa sfoggiarono in lusso e
lautezze non mai più vedute, e ruppero in scandaloso libertinaggio.
Tutto il mondo ne facea cronache: solo il marito, come suole avvenire, ne
rimaneva all'oscuro, finchè l'astrologo suo Andalon del Nero, fingendo
leggere nelle stelle quel che contavasi per tutte le barbierie di Milano e
di fuori, ne diede notizia al Visconti. Questi consentiva ad essere
tradito; ma ingannato, no: e, furibondo della beffa più che
dell'oltraggio, mancò all'abituale sua dissimulazione, e lasciossi
intendere che, con un bel fuoco, stava per fare la più grande giustizia
che mai si fosse eseguita.

Non l'avesse mai detto. Isabella intese che bisognava prevenirlo. Come fu,
come non fu, Luchino, di ritorno da una corsa, beve una coppa di vino, ed
è preso da dolori atroci; chiamano quel dottissimo Matteo Salvatico, il
quale nel visitarlo impallidisce, guarda in viso alla signora che piangeva
e strillava, si pone un dito alla bocca, e chiesto che mal fosse, risponde
in aria di oracolo:--Un bel tacer non fu mai scritto».

E Luchino morì, sette anni dopo il supplizio della nostra buona
Margherita, e fu sepolto, dissero le gazzette d'allora, _cum grande honore
de cavalli et de bandiere, cum infinito dolore de l'arcivescovo et de la
inconsolabile moglie, et incredibili lacrime de tutti li fedeli sudditi de
Milano et contorni_.

Quell'_incredibili_ non si legge che in pochi esemplari genuini.

Dopo queste dimostrazioni, tutte del pari sincere, la signora lasciossi
racconsolare, e il popolo obbedì volentieri al solo arcivescovo
Giovanni. Era egli oltremodo magnifico, gran persecutore degli eretici,
gran limosiniere, gran fautore dei letterati e del Petrarca, il quale e i
quali seppero mostrarne la medaglia da un lato solo: la storia mostrò
anche il rovescio a chi possieda lente per leggere di sotto la patina della
retorica e dell'adulazione. Il popolo, accortosi di aver poco migliorato,
desiderò disfarsene; e la morte ne lo disfece dopo cinque anni.

Non erano ancor finite le splendide esequie fattegli in pubblico, e le
imprecazioni lanciategli in privato, che, per paura non mancasse un
padrone, noi popolo col suffragio universale ci affrettammo di eleggere
principi Bernabò, Galeazzo e Matteo, quei tre fratelli che i nostri
congiurati avevano sperato liberatori del paese. Essi coi fatti davano
segno di far ogni male, e i Milanesi se ne promettevano ogni bene. Il
servire era diventato abitudine, abitudine non si può dire altrimenti
che comoda; la lunga dominazione dei primi Visconti aveva associato al nome
di questi l'idea di padronanza; onde, sebbene l'elezione si facesse dai
novecento, scelti dal principe ad organi del voler popolare, si sarebbe
creduto ingiustizia il non conferire il potere a un Visconti, non per altra
ragione se non perchè un Visconti lo aveva avuto e abusato.

Quei tre, compromessi da giovani come nemici della tirannia, o, per dirla
alla moderna, come liberali, sapete che non riuscirono migliori. Galeazzo e
Bernabò per maggiore comodità di divisione, ammazzarono Matteo, e si
spartirono lo Stato, facendo a chi peggio. Le lepide enormità di
Bernabò, che diceva d'essere nei suoi paesi papa e imperatore, sono vive
nella tradizione vulgare; e i Milanesi più non potevano durarle, quando
un bel giorno intendono che Giovan Galeazzo, figliuolo e successore del bel
Galeazzino, un'acquamorta, un santocchio, tirò in trappola lo zio
Bernabò, e lo ha cacciato nel castello di Trezzo, a crepare di rabbia,
se non fu di veleno.

Il popolo, tutto allegria di vedersi senza fatica liberato dal tiranno,
gridò _Viva la libertà_, o unanimemente acclamò per padrone il
nipote traditore. Questo non dirazzò dagli avi, e per esimere i Milanesi
dall'incomodo di eleggere ogni volta il figlio o il nipote del morto,
chiese dall'imperatore di Germania, e ottenne in proprietà questo bel
paese. L'imperatore, contento di buscar soldi, gli concesse questa grossa
porzione, senza tanto guardare a diritto, e colla cortesia onde io
regalerei quel poderetto che mi hanno assegnato laggiù in Arcadia,
quando ne fui acclamato pastore. Il popolo, stracontento di avere un duca,
e un duca che fabbricava il Duomo di Milano e la Certosa di Pavia,
assistette in affollato tripudio alla inaugurazione di esso e...

Nessuno ignora le vicende che da quel punto corse il ducato, or preda degli
ingordi, or rapina dei prepotenti, or trastullo degli scaltriti, or dote di
donne come i mobili e le mandre, finchè traverso a lunghi e indecorosi
dolori, potè arrivare a quel riposo e a quella felicità che ciascun
vede.

Se alcuno mi domandasse a che riuscì quel Lucio capitano di giustizia,
che tanto erasi affaccendato a spegnere la razza dei ribelli, non si
aspetti una fine cattiva, simile alle altre del mio racconto, le quali
sarebbero troppe se non fossero storiche. Era diritto che il compenso
venisse generoso a chi generosamente aveva ajutato il principe a liberarsi
da' suoi nemici. Il lauto e delizioso podere di Mombello, confiscato come
roba di ribelli, fu da Luchino concesso a Lucio, il quale si ritirava
colà a riposo ogni qualvolta glielo consentissero le pubbliche
occupazioni, e le cariche affidategli dalla gratitudine della patria,
cioè del principe, in cui vantaggio continuò ad esercitare la lunga e
onorata canizie.

In un oratorio, là tra Bovisio e Mombello, si vede ancora una grande
arca di granito, con un epitaffio che loda la vita e piange la morte di
uno, del quale sul coperchio si vede l'effigie ad alto rilievo, col
berretto dottorale in capo e la toga fino ai piedi, e colle braccia
incrociate sul petto, al modo onde muojono i buoni cristiani.

Là dentro fu sepolto Lucio.

Là dentro aspetta il giudizio di Dio.

FINE.



FONTI STORICHE



PETRI AZARII _notarii novariensis synchroni auctoris chronicon de gestis
principum Vicecomitum_.


Luchinus _gessit et æegrum animum contra magnates, qui conversationem
habuerant cum præfato domino Azone. Et dicebatur, quod id faciebat
propter alterum de duobus; scilicet, aut pro co quod morti domini Marci
fratris sui assenserant consulendo, aut quia, tempore domini Azonis, ipse
paucum profictum ex titulo et honore habebat. Nam præfatus dominus Azo
consiliariis suis multum credidit, et eum eo in infinitum facti sunt
opulenti. Et pro eo dictos consiliarios male tractabat, etiamsi essent de
optimatibus Mediolani. Et inter alios erat Franciscolus de Pusterla, ditior
et felicior quovis Lombardo, si tamen temporalia hominem possunt facere
felicem. Et quod sit rerum, audietis. Nam pulchriorem et nobiliorem
mulierem Mediolani habebat in uxorem. Nobiliorem quia de Vicecomitibus;
pulchriorem, quia etiam vocabatur Margarita. Et certe mirum fuit, quod nemo
in luxuria erat dicto Franciscolo coæqualis, in tantum quod a prandio se
levabat ut haberet coitum cum ipsa Margarita uxore. Et sic faciebat
equitando, si debuisset de equo descendere, et invadere publicas
meretrices. Ex ea habuerat tres filios mares, pulchriores forma aliquibus
Mediolani. Et si aliter fuissent, degenerassent, quia ipsorum parentes tam
vir quam mulier formosi ultra modum erant et valde pulchri. Domum autem in
Mediolano habebat pulchriorem; possessiones, mobilia, in tantum quod
numerus non extabat, et certe alter Job potuit dici_. _Sed quia ad plenum
enarrare longum nimis esset, concludam, quod præfatus dominus
Franciscolus accusatus fuit de quodam tractactu. Et certe potuit esse
verum. Nam dicebatur, quod ipsius uxor prædicta conquesta fuerat, quod
dominus Luchinus voluerat nobilitatem ipsius turpi coitu fædare. Nam
præfatus dominus Luchinus extiti luxuriosus. Et quod gravius erat,
propter ægrum animum, quem in eo ridebat, habebat de statu dubitare. Et
certe si, prædictus dominus Franciscolus cogitata cito explevisset, de
facili fuissent effectum consequuta. Sed quia tanti et potentes cives ipsi
tractatui assentiebant, necessarium fuit ab aliquo publicari, et male.
Quocirca dominus Luchinus multos cepit, et capti fuerunt statim decapitati,
et fame aliisque tormentis necati. Et quia nimis longum esset enarrare
opus, de ipsis ad præseus tacetur. Dicam, quod prædictus Franciscolus
fugit, ed eum pluribus ex filiis Avenionem se reduxit. Sed quia nec ibi,
nec ultra mare, nec citra permisisset cum vivere, necessarium, fuit alio
divertere; nam exploratores ipsum sequebantur: et captus fuit in marinis
partibus, super Portum Pisanorum, et ducti fuerunt Mediolanum. Multos alios
publicatos accusavit, quos morte, peremit. Et demum ipsum et filios duos
cum parentibus in Broleto decapitari fecit, et quosque tam mares quam
fœminas, et ipsam Margaritam consumavit, quæ propterea alia fuit
Hecuba, ut legitur in processibus Trojanorum. Purgavit adeo dominus
Luchinus corum contumaciam, quod credo nunquam Mediolanenses ausuros
tractare (etiam quia timidi sunt a natura) contra Vicecomites_.



BERNARDINO CORIO, _L'Istoria di Milano_.


_Nel medesimo anno (1340), ancora nell'agosto, Francesco da Pusterla, il
quale in Milano sopra ogni altro cittadino di ricchezze abbondava, avendo
ridotto a sua divozione Galeazzo et Bernabò supradetti, insieme con
Pinella et Martino fratelli de' Liprandi; Borollo da Castelletto, et un
Bertoldo d'Amico, conspirarono contra di Luchino Prencipe di Milano, da gli
antecessori del quale erano fatti grandi, tanto di ricchezza, quanto di
riputatione, et nome. Cominciarono adunque a trattare della morte_ _del
Prencipe, onde Giuliano, fratello di Francesco, impetrando aiuto ad
Alpinolo Casale, li manifestò il tutto, per esser lui suo caro amico.
Costui di subito al fratello Ramengo riuelò il trattato, la qual cosa
intendendo Francesco sopradetto, non essendogli Ramengo beniuolo, pensò
che la cosa saria palesata al Prencipe, il perchè di subito insieme col
fratello, et due figliuoli già di età perfetta, fuggì da Milano,
et secretamente andò in Auignone, et Ramengo senza metterli tempo,
hauuta la certezza del fratello, fece intendere a Luchino Visconte quanto
contra di lui s'era ordinato. Onde Pinalla, Martino, Borollo et Beltramolo
gli fece imprigionare, et posti al tormento manifestarono la cosa. Fatto
dunque che hebbero il processo di tanto maleficio, gli furono confiscati
tutti i suoi beni, et posti nelle carceri furono fatti gli ambi fratelli
morir di fame. L'Amico, à più uituperoso fine fu reseruato. Le
famiglie sue restarono in somma pouertà. Malgherita, mogliera di
Francesco, germana di Luchino per esser lei sorella di Ottorino Visconte,
et figliuola di Vberto, quale fu fratello di Matteo Magno, essendo stata la
inuentrice di tanta scelleraggine, fu crudelmente incarcerata, et Francesco
dall'altro canto per le continue insidie, in Auignone quasi non era sicuro.
Et così finalmente un Milanese con simulazione fuggì da Milano et
andò in Auignone; il perchè da Luchino fu messo nel bando, et lui
dell'altro canto faceva venire a Francesco lettere contrafatte da parte di
Mastino della Scala, che volesse andare a Verona, concio fosse che da lui
sarebbe honorato con onesto stipendio. Credette Francesco alle false
lettere, il perchè partendosi giunse a porto Pisano, dove la potenza di
Luchino era oltra modo estimata, per difendere lui i Pisani dai Lucchesi.
Quivi mandò adunque Buonincontro di San Miniato Toscano, et suo
Condottiero, il quale come Francesco, ed i figliuoli furono giunti, li fece
prigioni, et fra pochi giorni essendo condotti a Milano, nella pubblica
piazza del Broletto furono decapitati; per impositione del Prencipe,
Beltramolo sopradetto, palesamente fu il manegoldo. E dopo per essere molto
odiato da Luchino, cantra del quale ancora nei tempi passati altri
mancamenti hauea commesso, fu strasinato a coda di due Asini fino alle
forche, fuora della città, dove senza dimandar perdono de i suoi
peccati, con una catena al collo per insino dai corvi fu devorato, restò
impiccato con perpetue esecrazioni d'ogni viandante._



NOTE



[1] In questo punto ci viene sottocchio una biografia dell'autore,
    premessa a una bellissima edizione d'una nuova traduzione
    spagnuola della sua _Storia Universale_, e vi leggiamo: «En
    la prison, con medios que solamente los presos saben procurarse,
    compuso una novela, en que, ideando un proceso de Estado formado à
    Margarita Pusterla por los Visconti, revelaba las iniquidades de
    los procesos politicos modernos. Esta novela ha sido colocada al
    lado de la de Manzoni, y traducida en todas las lenguas: en
    Francia conocemos cinco traducciones diferentes. Una novela que
    sobravive al ano en que ha visto la luz, no deja de ser fenòmeno
    bastante raro en el dia.»


[2] La famiglia Pusterla era d'origine longobarda, e riconoscevasi
    indipendente, cioè rilevava i suoi feudi direttamente
    dall'imperatore, portando in segno l'aquila imperiale nello
    stemma. A queste famiglie, nel governo a comune, di preferenza
    conferivansi le dignità, sì perchè non potevano spendere
    largamente, sì perchè non erano legate da giuramento o da fedeltà
    ad altro signore. I Pusterla in fatto ebbero altissime cariche e
    civili e militari ed ecclesiastiche, e ne conseguirono ingenti
    ricchezze. Fin trentacinque ville possedeano con amplissime
    tenute, e quasi tutto a loro spettava il territorio di Tradate, in
    libero allodio, e non per infeudazione imperiale nè vescovile.

    In Milano padroneggiavano quasi tutto il quartiere di porta
    Ticinese, da Sant'Alessandro fino al Carrobio, e vuolsi
    introducessero nelle case quelle palanche e cancellate, che
    costumano fra la porta di via e il cortile interno, e che
    chiamiamo pusterle. A un dato giorno questa famiglia allestiva un
    enorme cavallo di legno, il quale tirato dai Facchini della Balla,
    a suon di strumenti procedeva pel corso di porta Ticinese fino al
    duomo; quivi schiudevasi come il cavallo di Troia, e ne usciva
    gente coi regali, di cui i Pusterla facevano omaggio alla
    metropolitana; terminavasi con lauti trattamenti all'innumerevole
    clientela.

[3] Poichè spesso ci verrà fatta menzione delle monete d'allora,
    giovi avvertire che l'intrinseco della lira imperiale era di grani
    634 d'argento, cioè circa un'oncia e mezzo: la lira dividevasi
    in 12 soldi imperiali; e 32 di questi ossia 64 terzuoli formavano
    il fiorino o zecchino d'oro, che oggi sarebbe 10 franchi.

[4] È scomparso nei nuovi allineamenti

[5] Oggi Via Torino.

[6] Abbiatene qui un saggio:

             Sentii de la paxion de Dè,
               qual el sostene de li Zudè.
               Che ve vojo dir e contare
               Se vuu me volì ascoltare,
               Com'ella fo e en qual mesura,
               Segondo che dise la Scrittura.
               Perzò prego, se vel piaze,
               Ca vuu le debia odir en paze
               E odir in gran pietate
               Del re de sancta majestate,
               Zoè Cristo fiol de Dè
               Che fo traido dal Zudè,
               E che durò gran paxion
               Senza nessuna offension.
               Ma per nui miseri peccator
               Soffri obbrobrio e desonor,
               E per nuu sol preso e ligaa
               E tutto nuo despojaa.
               Color ch'il presen e ligàn
               D'aguti spin l'incoronàn,
               Suso in alto lo faxian stare,
               Poi se l'intinzean adorare
               Con befe e con derexion
               Tutti stavan in ginucion.
               E si dixean: Quest'è re.
               Ma no gh'aveano bona fe,
               Po ghi coprian i ogi e 'l volto,
               Chel no vise poc ne molto,
               Una gran cana chigi avean
               Entre lor se la sporzean, ecc, ecc.


[7] E in prose e in versi di quei tempi ci è serbato memoria del
    fatto.

      _Malerba ch'era nel corno destro, blasfemava sancto Ambroxio
      in soa lingua.--Maledetto quel camisone bianco che ha menazzato
      colla scutica! mai la spata mia a potuto far colpo.--Queste
      parole di Malerba furono hodite da tutti. Et siccome Dio, facto
      uno funicolo, caccioe quelli compravano nello templo, così el
      spirito di sancto Ambroxio spartì loro barbari come se fosse
      tratto ogni generatione di bombarde._

    E Gaspare Visconti cantava, in bocca d'Antonio Visconti:

          A Parabiago, rotto il nostro campo
        Era, e già preso il mio fratel Luchino,
        E la nemica schiera fea tal vampo,
        E ognuno di noi di morte era vicino,
        Visibilmente, in aria deste un lampo
        Che se po' dir celeste, anzi divino,
        Col camisotto bianco et con la sferza,
        Che alcun non resse alla percossa terza.

[8] Fu poi demolito nel 1864; come furono cambiati i nomi di molte vie
    e delle porte; gran segno di rigenerazione, e forse unico.

[9] _De remediis utriusque fortunæ_, 1, 85.

[10] _De remediis, ecc._, 1, 95.

[11] Vedi i versi latini e l'epistola familiare XVI, 11, 12.

[12] Epistola del 1335, pubblicata poco fa a Padova.

[13] _Non inveni in mundo populum adeo facilem ad conversionem et
    subversionem, sieut populum mediolanensem_.

[14] _Mitissimi hominum_.

[15] Per questo fatto e per altri antecedenti e susseguenti, giova
    ricordare che questo libro fu compito nel 1831. I cambiamenti si
    succedono così a precipizio nell'ordine materiale siccome nel
    morale! Oggimai tutto v'è scomposto, e sgarbatamente aperta la
    piazza stessa, ch'era unica in Milano.

[16] È il CLXXII degli Statuti Criminali di Milano.

[17] Vedi il _Gentleman's Magazine_ 1795.

[18] _Scour the horse._

[19] Nondum natum sensit regem
           Nasciturum juxta lego
           Sine viri semine.

        Quem dum sensit in hac luce
           Tamquam nucleum in nuce
           Conditum in virgine....

        Lux non erat sed lucerna:
           Monstrat iter ad superna
           Quibus suum pax eterna
           Pollicetur gaudium...

        Ab offensis lava, Christe,
           Præcursoris et Baptiste
           Natalitia colentes,
           Et exandi nos gementes
           In hac solitudine._

[20] Via Torino

[21] In quel giorno l'arcivescovo, tornando dalla processione a San
    Lorenzo, lavava un lebbroso in Carrobio.

[22] Sì questa romanza, sì l'ode dell'_Esule_, furono messe
    diverse volte in musica.

[23] _Senitium Lib. V, ep. 3._

[24] Così pronunciano per ceche; certi pesciattolini come anguilline
    bianche che il vulgo mangia a Pisa. Per beffa, dicesi che i Pisani
    si segnano in nome di san Ranieri, der gioco der ponte, della
    luminara e delle cee.

[25] È ad avvertirsi che tutto ciò era stampato dieci anni prima che
    un identico fatto si avverasse a Parigi col Partesotti: il quale
    fingendosi esule e liberale, tramò coi fuoriusciti italiani, e i
    loro disegni comunicava alla Polizia di Milano: ordì di trarre uno
    dei capi nello mani di questa, imbarcandolo per una spedizione
    contro il regno dì Napoli. Morendo, fu onorato di generose
    esequie: poi nelle sue carte si trovarono le copie dell'infame
    carteggio.

    GLI EDITORI.

[26] Mi sarei ben guardato dal far dire al Petrarca cosa, nè quasi
    parola, che non fosse nelle opere sue.

[27] Che non glielo restituì, onde quell'opera andò perduta pei
    posteri.

[28] _Quid libet vide; Indos quoque, modo ne videas Babylonem, neque
    descendas in infernum vicus_, etc. Vedasi _Epistolarum sine
    titulo liber, epp._ 15, 16.

[29] Sono il bracco.

[30] Capo XXIII.

[31] A Timoteo II. IV, 2.

[32] Ai Colossensi, 5.

[33] Salmo X.

[34] Salmo XIII.

[35] Sapienza, VI

[36] Pochi altri precetti sono espressi con maggiore asseveranza ed
    insistenza. Tobia visitava i suoi fratelli in cattività porgendo
    loro salutevoli avvisi (_Tobia_ I.15): San Paolo prega la
    misericordia di Dio sopra Onesiforo, che non prese vergogna delle
    catene di lui (II. _a Timoteo_ I. 16); ed agli Ebrei scrive,
    si ricordino degli imprigionati come fossero imprigionati con
    essi. Cristo nel dì del giudizio dirà ai buoni:--Io era in carcere
    e mi visitaste: «benedetti dal Padre mio venite alla gloria»; ed
    ai malvagi:--Via da me, maledetti, perchè io era infermo e in
    carcere, e non veniste a trovarmi» (_Matteo_ XXV).

[37] LVII, 1.



    INDICE

    L'Editore ai Lettori                  Pag. 1
    CAPITOLO I. La parata                  «   7
      «    II. L'amore                     «  22
      «   III. La conversione              «  38
      «    IV. L'attentato                 «  54
      «     V. La congiura                 «  72
      «    VI. Un'imprudenza               «  83
      «   VII. L'annegata                  « 100
      «  VIII. I disastri                  « 120
      «    IX. Brera                       « 141
      «     X. Il processo                 « 154
      «    XI. La prigioniera              « 166
      «   XII. Peggioramento               « 181
      «  XIII. Riconoscimento              « 196
      «   XIV. Pisa                        « 210
      «    XV. Padre e figlio              « 223
      «   XVI. L'esule                     « 232
      «  XVII. Tradimento                  « 257
      « XVIII. Il soldato                  « 269
      «   XIX. Fuga                        « 292
      «    XX. Un frate e un principe      « 311
      «   XXI. Sentenza                    « 323
      «  XXII. La catastrofe               « 337

    Conclusione                            « 361
    Fonti storiche                         « 367
    Bernardino Corio--L'istoria di Milano  « 368





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