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Title: Senz'Amore
Author: Colombi, marchesa, 1840-1920
Language: Italian
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(This file was produced from images generously made
available by Biblioteca Nazionale Braidense - Milano at
http://www.braidense.it/dire.html)



  LA MARCHESA COLOMBI

  SENZ'AMORE



  MILANO

  ALFREDO BRIGOLA e C.--EDITORI
  Via A. Manzoni, 5.
  PROPRIETÀ. LETTERARIA

  Varese, Tip. Macchi e Brusa.



PREFAZIONE.


Il proto, nel comporre questo libro, si meravigliava, di trovare
tratto tratto della gente innamorata. Come mai, dacchè il volume è
intolato _Senz'Amore?_ E, da quel proto coscienzioso e prudente che è,
mi metteva nelle bozze di stampa un bel punto d'interrogazione in
margine ad ogni scenetta d'amore, ad ogni palpito, per quanto segreto,
che sembrasse a lui aver per movente il sentimento proscritto dal
libro, e che l'aveva in realtà.

Perchè i lettori non abbiano a spedirmi essi pure i loro punti
interrogativi, i quali, non avendo il comodo delle bozze di stampa,
dovrebbero venire per posta costando a loro la spesa del francobollo,
o peggio dovrebbero venire in qualche articolo critico, costando a me
il dispiacere d'un rimprovero ingiusto, metto in questa pagina la mia
risposta ai punti d'interrogazione del proto, e con essa rispondo
anticipatamente anche a quelli dei lettori.

Intitolando questi racconti: _Senz'Amore,_ ho voluto alludere alla
tristezza, alla solitudine, all'abbandono sconsolante di molte
esistenze, sulle quali la grande passione che nacque con Adamo e che
morrà soltanto coll'ultimo uomo, se pure morrà, non ha sparso le sue
grandi commozioni, le sue gioie vive ed i suoi vivi dolori Ho voluto
dire che le miserie umane sono infinitamente più cupe quando non hanno
quel conforto: e che, fra i poveri, fra gli infelici, fra i
diseredati, i soli assolutamente diseredati, assolutamente infelici,
assolutamente poveri, sono quelli che non amarono, o non furono amati:
la povera Cecchina della _Fede,_ la madre di Marco nella
_Confessione,_ le due vecchie delle _Vite squallide_, _Le
Affittacamere_, Vicentino il prete, Pietro ed il ciuchino delle
_Briciole d'Epulone_.

Non è una tesi che mi sono proposta, e non ho inteso insegnar nulla nè
rimediare a nulla. Non si può mettere l'amore dove non c'è; e, ad ogni
modo, non so chi la provvidenza potrebbe incaricare di questa briga.
Ho voluto fare degli studi dal vero su questo tema, come nell'altro
volume che seguirà questo,--quando seguirà,--e che s'intitolerà
_Amore_, studierò il conforto che questo sentimento può recare alle
miserie della vita, e di che illusioni, di che poesia, di che sorrisi,
di che idealità può arricchire le più povere esistenze.

Saranno due studi che avrò fatto per amor dell'arte, come un pittore
fa degli studi di paesaggio o di figura, senza pretendere di bandire
la legge dell'amore, o di imporre una multa a chi non è innamorato.

Avrei fatto a meno di scrivere questa prima pagina, quando era già
composta l'ultima, se i dubbi del proto non mi avessero fatto temere
che il mio titolo potesse far prendere in isbaglio il volume per un
libro di morale o un libro di scuola, che proprio, con mio sommo
rincrescimento, non è.



PSICOLOGIA COMPARATA.


Il pollaiolo fece entrare il cuoco di casa Trestelle nella
retrobottega, a vedere il suo nuovo apparecchio per l'ingrassamento
meccanico dei volatili. Lo aveva fatto venire da Parigi; una riduzione
di quello inventato da Odile Martin; costava cinquecento lire. Era una
grande stìa, o piuttosto un piccolo carcere cellulare di forma
cilindrica. I polli avevano una cella per ciascuno; erano incatenati
pei piedi al fondo; non si potevano muovere, nè vedevano nulla a
destra nè a manca. Udivano gli altri prigionieri gorgogliare qualche
_cocò-cocò_, o mandare una specie di rantolo; e sporgevano il capo
curiosamente dal vano dinanzi della stìa; ma non vedevano che la
penombra vuota della stanzaccia, che era quasi una cantina, perchè si
dovevano scendere parecchi scalini per arrivarci, ed era debolmente
rischiarata da due fori aperti nell'alto della parete.

Dagli occhi di quei polli sì vedeva che erano tutti impensieriti.
Rispondevano _cocò-cocò_ sullo stesso tono sommesso, poi tornavano a
sporgere il capo colle pupille lucenti come fiammelle, ed il loro
sguardo, ed il movere inquieto del collo parevano dire:

--Dove sono quegli altri?

Quella stìa di nuovo genere non aveva nè beccatoio nè beverino.

--E il becchime? domandò il cuoco di casa Trestelle.

--Il becchime non ingrassa, sentenziò il pollaiolo coll'aria di chi la
sa lunga. State a vedere qual è il mangime che fa la fortuna dei polli
e la nostra.

Prese colla destra un tubo di gomma infisso in una caldaia dove c'era
una miscela di latte e farina d'orzo; afferrò colla sinistra il becco
d'una gallina, e v'introdusse il bocchino del tubo; poi, premendo col
piede un pedale, mise in moto una pompa, che mandò la razione voluta
dalla caldaia nello stomaco della bestia.

--Ecco, disse togliendo il tubo e passando ad _operare_ il pollo della
cella seguente. Per otto ore questa gallina è provveduta.

--Non mangerà altro? domandò il cuoco stupefatto.

--Ha avuta la sua misura rispose il pollaiolo. Guardate; «Centilitri
venticinque»; ed accennò una lastra di latta con quella cifra incisa,
infissa sulla parete esterna della cella. Ogni pollo aveva la sua
razione indicata a quel modo, come la dieta dei malati sui letti
dell'ospedale.

Ce n'erano di grassissimi, immersi in una specie di sonnolenza ebete,
come ghiottoni assorti nella beatitudine del chilo. Soltanto quando la
macchina girava sul perno, ciondolavano stupidamente sulle gambe,
sproporzionate al peso del corpo, socchiudevano gli occhi un momento,
poi ricadevano nel loro sopore.

C'erano dei capponi dagli occhi ardenti come brace, che si scotevano
tutti in uno sforzo supremo per tirar su una gamba sotto l'ala. Ma la
catena era ben salda, ed i due piedi dovevano rimanere immobili sul
fondo della prigione; ed i capponi gorgogliavano una specie
d'imprecazione e gli occhi fosforescenti mandavano lampi.

La gallina invece, la pollastrella ch'era stata cibata per la prima,
aveva la testina fine, i movimenti del collo ondulati, le penne
lucenti, ed il suo corpo, floridamente arrotondato dall'assoluto
riposo e dalla nutrizione conveniente, non era ancora deformato dalla
pinguedine.

Appena il pollaiolo ebbe finito di nutrirla, diede una scossettina al
capo, allungò il collo per ingollare del tutto il latte a la farina
d'orzo che le avevano messo in corpo, poi guardò in giù avidamente
come cercando qualche cosa da beccare.

Ma era ad un piano alto; c'erano molte celle sotto la sua, per cui il
pavimento rimaneva lontano, ed in quella semi-oscurità non le riusciva
di vederlo. Dubitando forse de' suoi occhi, sperando nel buio, spinse
due o tre volte il becco in giù, più in giù, quanto glielo permise la
legatura dei piedi; ma non toccò nulla, e si ritrasse.

Il cuoco si fece più accosto, e guardò nella cella. La gallina s'era
accovacciata, e rimaneva immobile cogli occhi chiusi come se dormisse.
Ma, traverso le palpebre sottili, l'occhio si moveva, ed un pigolìo
sommesso e lieto accompagnava il suo respiro.

Tratto tratto apriva gli occhi, poi li richiudeva in fretta, come
premurosa di ripigliare il filo d'un sogno caro. Forse, nell'ardore
del desiderio giovanile, si figurava di razzolare nello spazio
sterminato d'un'aia; sognava, in quel beato dormiveglia, la vita
rumorosa d'un cortile rustico; una ressa di tacchini, di anatre, di
oche, di polli che s'incrociavano, si urtavano, vociavano alto, e le
liti dei galli, che facevano accorrere ed ammutolivano di sgomento, la
folla del pollame.

Due o tre volte le sfuggì una voce gongolante, un _ohhh!_ gutturale e
prolungato, e mostrò un momento gli occhi ridenti di gioia. Chi sa che
non rivedesse colla fantasia da gallina, gli sciami di piccioni
bianchi, turchini, violetti, i bei polli volanti nell'aria, che
scendono nei cortili a narrare le vastità azzurre dell'orizzonte,
devastano in fretta e in furia il becchime e ripartono a volo. E le
aiuole verdi, e la delizia di aprirsi un varco nella frescura
dell'insalata ancora bianca, del prezzemolo tenerello, delle fragole
bagnate di rugiada, come nei labirinti d'una foresta, e l'emozione
viva d'affrontare la granata dell'ortolana, o di scansarla dietro i
cavoli grandi!.. Solo chi è nato per vivere all'aperto, nell'infinita
libertà dei campi, può immaginare che visioni di verde, d'azzurro, di
sole, potevano balenare a quegli occhi chiusi! Ed il galletto
innamorato che segue la gallina colla testa alta, e la cresta
rosseggiante, che le si pianta dinanzi con una gambina alzata, assorto
in ammirazione fissandola cogli occhi sanguigni...

Ad un tratto s'udì sorgere dal cortile d'un pollaiolo accanto la voce
giuliva d'un galletto libero:

--_Chicchirichi!!!_

La gallina si rizzò d'un balzo; le penne le si gonfiarono intorno, la
cresta si fece scarlatta, e, tutta fremente di gioia, sporse il capino
dalla cella, e voltando il collo a scatti di qua e di là, guardò nel
vuoto cogli occhi dilatati, come se vedesse gli orti, l'aia, il gallo;
e, dal fondo del cuore, mise fuori anch'essa una voce acuta,
giubilante come una risata:

--_Chicchirichìiiii!!!_

--«Gallina che canta da gallo, temporale o disgrazia» disse il cuoco,
il quale, malgrado i suoi vent'anni di vita cittadina, non aveva
dimenticati i proverbi del basso Novarese dov'era nato; e se ne andò
canticchiando fra i denti una vecchia canzone burlesca:

    «Senza galletto, la mia gallina
    O poverina--come farà...»

Ma le dava un'intonazione malinconica, allentava le cadenze, pareva
che cantasse il _Miserere_; e finì la strofetta con un sospiro, poi
camminò a lungo in silenzio, borbottando solo di tratto in tratto:
Poveretta!


Giunto a casa, depose le provviste in cucina, poi salì finchè c'erano
scale, alle soffitte dove i padroni gli avevano assegnata una camera.
C'erano parecchi usci sul pianerottolo, ed uno era socchiuso. Prima di
aprire il suo, il cuoco spinse quello, ed entrò. Era una camera lunga
e stretta, coll'ingresso ad un capo ed una finestrella all'altro.
Pareva un _omnibus_. Contro la parete destra, accanto all'uscio, c'era
un lettuccio poco più largo appunto del sedile di un _omnibus_; nella
parete di contro c'era il camino, ed ai due lati del camino, un
cassettone ed un armadio nel muro per le stoviglie, la pentola, il
secchio, la mestola e tutti gli arnesi da cucina. Ai piedi del letto
si rizzava l'asta d'un attaccapanni mobile, le cui gruccie
scomparivano sotto un carico di vestiti, coperti tutt'in giro da una
vecchia gonnella scolorita, stretta in alto da un cordone passato in
una guaina, e ricadente giù molle come un ombrello senza stecche, che
dava a quel mobile economico un'apparenza misteriosa. Sembrava un
trabicolo, sembrava una incubatrice per i bachi, e, pel momento, la
sua rotondità ricordò al cuoco la macchina per ingrassare i polli, e
gli strappò ancora un sospiro.

--Sempre malinconico, signor Battista?--gli disse la sua vicina di
soffitta, con un sorriso amichevole, alzando gli occhi dal tombolo sul
quale stava rammendando una trina di Honiton.

Era una giovane sui vent'anni, ma così mingherlina, pallida e bassina
di statura, che ne dimostrava sedici, a dir molto. Non aveva altri
parenti che la madre; ed anche con quella non viveva insieme, sebbene
abitassero nello stesso casamento.

La madre serviva una zitellona sola ed inferma giù nei mezzanini; un
servizio pesante, perchè doveva fare da cuoca, da cameriera, ed anche
da infermiera, di giorno e di notte, dormendo accanto alla padrona, e
spesso vegliandola. Questa la pagava pochino, e la manteneva a
stecchetto cogli avanzi del suo mangiare da malata, ed in compenso
esigeva di molto, e guai se la serva l'abbandonava un dieci minuti per
salire dalla figliola. Ma aveva l'astuzia di farle balenare la
speranza d'un buon legato, e la povera donna si sacrificava e
sopportava tutto, pensando le due belle camerine che avrebbero poi
mobigliate lei e la sua Teresa con quel denaro, e che vita tranquilla
avrebbero passata insieme, lavorando senza ammazzarcisi.

Per questo la Teresa rimaneva sola nella soffitta, ma la madre le
teneva gli occhi sopra, e badava chi saliva e scendeva. Del resto,
erano precauzioni superflue; la Teresa era una buona figliola,
tranquilla, e la sua giornata era così occupata che non aveva tempo di
badare ad altro che al suo lavoro. Dall'alba alla sera era sempre là
sotto la finestrella alta, col tombolo in grembo, puntando e
ripuntando nei fori delle trine degli eserciti di spilli, colla
maestria d'un generale che dirige una manovra.

Era una buona operaia. Le signore se l'erano raccomandata l'una
all'altra e le affidavano trine di molto prezzo. Quel lavoro le
fruttava a sufficienza per i suoi modesti bisogni; ma era faticoso,
difficile; e doveva eseguirlo rapidamente per non ritenere a lungo
quegli oggetti di valore. Per accontentare tutte le sue pratiche,
doveva lavorare di giorno e di sera, assiduamente, anche la festa,
sempre con quel tombolo sulle ginocchia, sempre sotto quella
finestrella, per raccogliere quanta più luce poteva sulla trina in
riparazione. L'inverno ce n'era poca della luce là dentro; ma quando
veniva l'aprile, giù dal finestrino cadeva una striscia chiara,
rosseggiante nelle ore meridiane ch'era una delizia. Sovente la Teresa
alzava il capo dal tombolo e rimaneva cogli occhi fissi su quel
quadrato turchino di cielo che vedeva traverso la finestra, e ne
pensava la vastità, e l'infinito paese che ricopriva. Era come un
paesaggio che Michetti avesse dipinto per lei, ed essa ci vedeva tutto
il mondo, come un infermo, che ammira le bellezze della natura in una
marina appesa alla parete di contro al suo letto, e s'imbarca su
quelle navi minuscole, e traversa gli oceani, e sfida pericoli
immaginarii.

--Sempre malinconico, signor Battista?--Aveva detto la fanciulla che,
nella serenità confidente de' suoi vent'anni, sorrideva spesso delle
tristezze incomprensibili del vecchio. Ed allora Battista le aveva
detto della macchina per l'ingrassamento meccanico dei volatili.

--Una barbarie! Tenere quelle bestie al buio senza mangiare nè bere;
perchè non si poteva dir mangiare il ricevere tre volte al giorno un
nutrimento nello stomaco senza averne sentito il gusto.

La Teresa lo ascoltava stupefatta. «Sì; era crudele. Povere bestie!
Farle vivacchiare a quel modo prive d'aria e di luce, toglier loro la
libertà di starnazzare, e d'appollaiarsi, condannarle a non gustar mai
le delizie del greppo, contrariare tutti gli istinti della loro
natura! e perchè? Per il vantaggio di pochi signori che al loro
_greppo_ troveranno un bocconcino più saporito.... Povere bestie!
Povere bestie!»

E la fanciulla, che passava la vita rinchiusa in quella stanzetta,
colle mani e gli occhi forzatamente intenti sul tombolo, s'inteneriva
sulla sorte crudele dei polli prigionieri.

--È così bella la libertà! diceva. E correre per la campagna verde...

--Come la conosce la campagna, lei che non esce mai da questa stanza?
domandò il cuoco.

--Ci sono stata una volta, quando andavo a scuola ad imparare il
mestiere. La maestra, pel suo onomastico, ci condusse tutte a pranzare
a Sesto. Allora ne ho visti dei polli felici. C'era una covata di
pulcini che beccava pigolando beatamente sopra un letamaio; ed avevano
l'aria soddisfatta e ghiottona come tanti bimbi intorno alla vetrina
d'un confettiere.

Continuò a lavorare in silenzio, sorridendo alle sue memorie, poi
riprese:

--È tutto bello per loro quando si trovano nel loro ambiente rustico.
C'era un'enorme scrofa, disfatta dalla eccessiva pinguedine, che
sonnecchiava grugnendo ai piedi del letamaio al quale si addossava,
colla pancia stesa e tremolante come una vescica piena d'acqua o una
pelle di olio. Ed i pulcini, beccando e pigolando, scesero giù l'uno
dopo l'altro su quella vasta superficie nerastra; e passeggiavano come
sopra una piazza, cacciando il becco fra i crini, e comunicandosi a
vicenda le loro impressioni con dei _pi pi pi_ pieni di meraviglia. Ce
ne fu uno che imprese un viaggio d'esplorazione nei labirinti d'un
orecchio; ma la scrofa, sentendosi solleticata, diede uno scossone che
lo fece cadere a terra con tutti i suoi compagni. E che pigolìo
allora, che chiocciare della mamma spaurita, che batter d'ali, che
vocio per tutto il cortile!...

Smosse parecchi spilli, intrecciò i capi di filo facendo risuonare i
fusi innumerevoli che si urtavano, poi, sorridendo sempre alle sue
immagini serene, tornò a dire:

--Com'è bella la campagna!

--E neppure oggi non esce? domandò il cuoco. Se vedesse che giornata,
che sole!

--Che! Non ho tempo neppure di farmi la minestra. Non so quando mi
potrò muovere; ho un lavoro straordinario. Le signore hanno bisogno
delle trine per le bagnature; s'io vado a spasso chi le prepara? Debbo
star qui tutto il giorno e tutta la sera chi sa fin quando; e la mamma
pure ha bisogno che lavori per darle un po' di quattrini....

Il cuoco ridiscese alla sua cucina più malinconico di prima,
strascicando ancora più lentamente le cadenze della sua canzone:


    «Senza galletto, la mia gallina
    O poverina--come farà....»


E la Teresa continuò ad armeggiare cogli spilli e coi fusi. Tratto
tratto alzava il capo e lo spingeva indietro girandolo da destra a
sinistra per isgranchirsi il collo indolorito dal lungo star curvo.
Più volte si coperse gli occhi con una mano, e li tenne stretti per
riposarli. Poi ripigliava con maggior lena il lavoro; ed intanto
ripensava la miseria di quei polli: «Quanto dovevano essere infelici!
Certo non cantavano più là dentro; dovevano morire di malinconia.»

Sull'imbrunire, mentre la Teresa si curvava cogli occhi fin sul
tombolo per profittare dell'ultimo barlume di giorno, s'udì una voce
d'uomo, giovane ed alta che cantava:

    «Morettina dove vai?
    Vado a Monza sul tranvai.»


La Teresa stette un momento a sentire, poi posò il tombolo, salì in
piedi sulla sedia, e s'affacciò al finestrino che metteva sul tetto.
Guardò quella distesa sterminata di tetti e comignoli e gronde e
grondaie e cupole di chiese e campanili, e più lontano, come una
fascia verde, le cime degli ippocastani dei bastioni; poi l'azzurro,
l'azzurro chiaro, infinito, come se dopo i bastioni ci fosse il mare.
E le parve di vedere la campagna de' suoi ricordi; le parve d'esser
laggiù, non più bambina con la maestra trinaia, in un'osteria di
Sesto, ma giovinetta innamorata della libertà, dell'aria pura, della
natura bella, e di camminare, di camminare sotto i viali verdi,
sull'erba umida e fresca.

    «Morettina dove vai?
    Vado a Monza sul tranvai....»

ripeteva un po' in falsetto quella voce di tenore.

E la Teresa pensava d'andare a Monza sul tranvai, col suo vestito da
festa; e quel giovane che cantava, quello o un altro, era là sulla
panchetta del tranvai che l'aspettava. Andavano insieme; lui la
guardava negli occhi e lei si sentiva arrosire. Non parlavano, ma
erano felici, felici in silenzio, finchè scendevano alla stazione, si
pigliavano a braccetto, e via pel viale fin giù nel parco, dove
sedevano accanto, sull'erba verde, sotto il cielo turchino...

Le balzava il cuore di commozione, le brillavano gli occhi guardando
nell'ombra che era scesa tutt'intorno sulla città, e lei pure colla
voce tremante si mise a cantare:

    «Morettina dove vai?
    Vado a Monza sul tranvai
    Vado a Monza sul tranvai...»


Il cuoco, che stava rigovernando giù in fondo al cortile presso la
finestra della cucina, alzò il capo verso il tetto che non vedeva, ed
esclamò malinconicamente:

--Com'è bella la gioventù!



UNA CONFESSIONE

RACCONTO.


--A martedì, disse Marco, stringendo lungamente la mano della sua
sposa e guardandola fisso.

--A martedì, rispose lei, abbassando gli occhi e facendosi rossa come
una fiamma. Egli si chinò e la baciò sulla fronte il che sollevò un
vocío di commenti giulivi da parte della mamma, delle amiche, e di
vari signori. Ma, nè Marco nè la Maria mostrarono d'udire quegli
scherzi. Per loro nulla era più serio del sentimento che li turbava.
Si strinsero la mano di nuovo e si separarono in silenzio.

Erano alla stazione di Camerlata. Marco salì in convoglio per tornare
a Milano. La sposa colla sua mamma ed alcuni conoscenti, montarono in
varie carrozzelle da nolo per tornare alla villa, tra Gradate e
Portichetto.

Le nozze dei due giovani si dovevano celebrare il martedì prossimo a
Gradate, ed era appunto la sera del giovedì, quattro giorni prima, che
Marco si separava per l'ultima volta dalla sua sposa. Aveva passata
quasi una settimana alla villa della vedova Nardi, che stava per
diventare sua suocera, ed in quel tempo s'era fatta la richiesta al
Municipio, s'erano presentate le carte necessarie, e Marco ne
riportava le copie a Milano, per riporle fra i documenti di famiglia.

Salito nel vagone guardò traverso lo steccato la Maria che saliva in
carrozza, svelta ed elegante; nell'oscurità della sera non vedeva che
la linea della persona disegnata dal vestito chiaro. Ma l'aveva nel
pensiero, nel cuore, negli occhi, e gli pareva di distinguere il viso
lungo e delicato, la pelle bianca, i grandi occhi turchini ombreggiati
da ciglia scure, la fronte larga e bassa, ed i bei capelli biondi che
le facevano intorno una frangia di riccioli.

Non s'amavano d'un lungo amore da romanzo, non erano cugini nè amici
d'infanzia. Un conoscente comune aveva detto a Marco:

--Dovresti sposare la signorina Nardi. Non è ricca, ma ha una trentina
di mille lire, è semplice, colta, gentile, timida come una bambina
dinanzi agli estranei, ma in famiglia è allegra, schietta e
coraggiosa. E sopratutto è buona; profondamente buona.

--Non la conosco, aveva risposto Marco.

--Non conosci quella bionda alta e sottile che incontriamo spesso,
quando siamo a Como, sulla strada di Camerlata in compagnia di una
signora matura, che è sua madre?

Era la mamma di Marco che prendeva parte al discorso per richiamargli
alla mente la giovinetta. Suo figlio aveva venticinque anni passati;
ella desiderava che si ammogliasse, ed osservava le fanciulle che
incontrava, per cercare una nuora. Quella le era andata a genio; era
anch'essa, come Marco, figlia unica d'una vedova; l'analogia della
situazione poteva essere una causa d'amicizia, un vincolo fra le due
mamme.

Marco si ricordò infatti quella giovinetta. L'aveva osservata poco;
gli era sembrata una bambina. Ma dopo quel discorso ci pensò, se la
richiamò alla mente, bella, ingenua nella sua gioventù immacolata, e
provò un turbamento al pensare che quella fanciulletta candida la
darebbero a lui, che potrebbe essere sua, vivere con lui nella più
stretta intimità.

Il giorno dopo gli riesci d'incontrarla che usciva di casa colla
madre; la seguì da lontano, inebriandosi all'idea di possedere quella
bella figurina bionda, che gli altri osavano appena guardare, dinnanzi
alla quale si dovevano studiare delle perifrasi per velare i discorsi
meno che puri, ed evitare ogni parola ardita. La vide farsi rossa
rossa nel salutare un signore che aveva inchinata sua madre, e pensò
che quel rossore verginale egli potrebbe, forse tra poco, baciarlo.

La signora Bellazio incaricò l'amico, da cui era venuta la prima
proposta, di fare la domanda di matrimonio; le signore Nardi madre e
figlia conoscevano Marco di persona, e la Maria si fece molto rossa
quando sua madre le domandò come lo trovasse.

Il portatore dell'imbasciata fu incaricato d'invitare i signori
Bellazio a passare una giornata alla villa Nardi presso Gradate; e
Marco vi andò agitatissimo, turbato da mille curiosità, impazienze,
paure. Era già innamorato, e quando ripartì la sera per Milano, non
solo era fidanzato, ma era certo d'essere amato dalla Maria.


Erano passate sei settimane soltanto, e Marco tornava un'altra volta a
Milano solo; ma era l'ultima. Fra quattro giorni doveva andare a
Gradate, prendersi la sua bella sposa, e partire con lei per un luogo
qualsiasi; lui solo con lei sola. Quell'amore di due mesi era più
caldo che un amore d'infanzia, che una passione contrastata da anni.
Serbavano tutta la loro freschezza d'impressioni, non avevano esaurita
la gioia di vedersi, di parlarsi, di studiarsi; si promettevano ancora
un mondo di scoperte e di rivelazioni nella conoscenza più intima.
C'era nel cuore di Marco la commozione profonda di chi aspetta una
gioia sicura. Non si impazientava. Si deliziava di pensare a quel
breve passato; di sentire la sua tenerezza, di figurarsi quella di lei
ricordandone le parole, gli sguardi, i rossori; e di pregustare la
felicità che si era assicurata. Era una commozione che lo faceva
piangere, ma anche il piangere gli riesciva dolce.

Arrivò a Milano tardi. Sua madre era già a letto. S'affaccendava tutto
il giorno fuori di casa, nel nuovo alloggio che avevano appigionato,
per apparecchiare il quartierino degli sposi, accanto al quale s'era
riservate tre stanzette per sè; e quando rientrava nella casa che
stava per abbandonare, era tanto stanca che andava subito a dormire.

Marco invece era troppo eccitato quella sera per aver sonno. Aprì la
cassetta della scrivania nella quale doveva riporre i documenti di
famiglia che aveva riportati. Pose la sua fede di battesimo in una
busta con quelle de' suoi fratelli e d'una sorella. Erano stati
quattro, ed ora si trovava solo.

Mise un sospiro, che passò come un soffio lieve sul giubilo del suo
cuore, poi prese una seconda busta, sulla quale era scritto di mano di
sua madre: «Fedi mortuarie.»

Anche là ce n'erano parecchie, tutte piegate insieme l'una nell'altra
per ordine di data. Marco aperse il piego e si pose a leggerle:
«Alberto Bellazio; morto il 20 gennaio 1873, nato il 2 febbraio 1847.»

--Aveva ventisei anni, povero Alberto, pensò Marco. Ora ne avrebbe
ventotto, sarebbe già ammogliato; aveva un'amore d'infanzia colla
signorina Montani.... E si figurò quella graziosa donnina giovane alle
sue nozze; invece da parte sua non c'erano altri parenti che sua madre
da invitare.

Mise da parte quella fede, e guardò l'altra che stava sotto:

«Elena Bellazio, maritata Villa, morta il 4 luglio 1871, nata il 10
agosto 1845.»

--Anche lei aveva ventisette anni, ed ha lasciati quei due bambini
tanto gracili, che il padre dovette andare a stabilirsi in riviera per
tenerli vivi coll'aria e coi bagni di mare.

La gioia di Marco era offuscata. Il pensiero di quei cari morti che
gli lasciavano tanto vuoto intorno, di quei nipotini la cui vita era
tanto incerta, lo rattristava. C'era ancora una fede da togliere prima
di mettere a posto quella del padre.

«Vittorio Bellazio morto il 30 settembre 1868, nato il 2 agosto 1843.»

A ventiquattro anni non ancora compiti. Si moriva tutti tanto giovani
nella sua famiglia! Povera mamma! Di quattro figli ne aveva già
sepolti tre. Ed era stata sola a sopportare quegli immensi dolori. Il
marito l'aveva perduto da tanti anni, quando i figli erano ancora
piccini. Marco non l'aveva neppure conosciuto. Era nato da poche
settimane, quando il padre era morto, dopo sei anni di matrimonio. Sei
anni, povera mamma, e poi venticinque di solitudine. E non s'era
rimaritata, non aveva amato più. Tutti quegli anni di gioventù li
aveva consacrati ai suoi figli...

Marco rimaneva intento su quella carta, col capo fra le mani,
fantasticando tutto quel passato triste, quelle date funebri che
avevano funestata la sua famiglia; e non poteva scacciarsi dal
pensiero quell'età: ventisette anni. Tutti erano morti prima di
compire i ventotto. E lui ne aveva quasi ventisei.

Se anche lui avesse dovuto morire fra un anno, fra pochi mesi! E
lasciare la sua sposa vedova, così giovinetta... E magari con un
bambino; un bambino gracile, malaticcio, come i figli della povera
Elena... E condannarla ad una vita d'abnegazione e senz'amore come
quella della sua mamma!.. Oh Dio Dio! Ma perchè morivano tutti. a
quell'età? Che maledizione li perseguitava?

Lui era sempre stato assente in quelle circostanze. Aveva passati sei
anni in Isvizzera; i particolari delle malattie che gli avevano
portati via tre fratelli li ignorava. Ma doveva essere una soia
identica malattia; una triste eredità di famiglia.

Impaziente, nervoso, frugò ancora fra le carte, e tirò fuori le
dichiarazioni mortuarie del medico, delle quali sua madre aveva
serbate le copie.

«Tisi polmonare. Tubercolosi. Tisi galoppante...»

Marco s'era fatto pallidissimo, fino le labbra erano bianche. Tremava
tutto, aveva le mani diaccie, ed un infinito abbattimento lo invadeva
come se stesse per morire.

--La tisi non perdona. Io pure dovrò andarmene come i miei fratelli.
Questo pensiero si formulò nel cervello di Marco come una verità
accertata, indiscutibile. Gli pareva impossibile di non averlo saputo
prima. Era alto e sottile; era magro anzi. Ecco perchè sua madre non
gli aveva mai voluto parlare delle malattie de' suoi poveri morti.

Gli diceva che quel discorso la rattristava troppo. Ma invece, era per
non impensierir lui, che lo sfuggiva. E suo padre pure era morto prima
dei ventotto anni, d'una malattia di languore, diceva la vedova.
Doveva essere lo stesso male che si era riprodotto nei figli. Marco
esaminò le dichiarazioni mediche che rimanevano, spiegazzando le carte
con mano febbrile. Anche il padre era morto di tisi polmonare.

Marco ripensò i bambini di sua sorella pallidi e biondi, colle manine
lunghe o la vocina esile.--Così sarà tutta la nostra generazione. La
mia, perchè quei bambini non vivranno tanto da procreare altri
infelici...

Tutti i sogni ridenti che aveva portati da Gradate erano dileguati;
pareva che gli avessero steso dinanzi un velo nero fitto.

Vedeva sè stesso debole, steso in una poltrona, e la sua bella sposa
dimagrita, curva sulla culla d'un bimbo moribondo, in una casa
malinconica...

Piangeva un pianto silenzioso, desolato; piangeva la sua salute
perduta, le sue speranze morte, il suo amore...

--Dovrò confessar tutto alla Maria ed a sua madre. Non voglio
ingannarle. In coscienza non potrei farlo. Se accetta di dividere la
mia vita di sventura...

Quella scena triste tornò a passargli dinnanzi al pensiero; e la Maria
era vestita a bruno, ed il bimbo moriva...

--Se accetta? Ma son io che non debbo accettare il suo sacrificio. Son
io che debbo rinunciare a sacrificare una povera giovane, a mettere al
mondo dei bimbi malati, ad eternare la disgrazia che pesa sulla mia
famiglia...

Sonò il tocco dopo mezzanotte. Alla metà di settembre le nottate
cominciano ad essere fredde. Marco sentì un brivido percorrergli le
reni, ed un impeto di tosse gli scosse un momento il petto. Crollò il
capo, come per dire: «Ecco, sono andato.»

Poi prese un foglio di carta e si mise a scrivere. La penna scorreva,
scorreva nervosamente, le righe si coprivano con grande rapidità, ed
intanto i singhiozzi lo scotevano tutto, e tratto tratto qualche
lagrima cadeva sul foglio. Si asciugava gli occhi perchè non ci vedeva
più, e tirava via a scrivere, a scrivere. Era un addio disperato,
tragico, alla sua sposa. Non doveva vederla più, ed esser forte. La
sua coscienza glielo comandava; voleva obbedire coraggiosamente, pel
bene di lei. Poi cominciava a dirgliene la ragione. E si fermava a
piangere su quelle morti immature, su quelle tombe, e s'inteneriva, e
s'abbandonava a ricordare i suoi sogni di felicità svaniti per sempre,
a fare grandi proteste d'amore e di devozione malgrado tutto, fino
alla morte, alla sua morte solitaria...

Traverso i vetri chiusi della finestra si vedeva già il bianco
dell'alba che non pareva ancora luce, e Marco non aveva finito di
scrivere, e piangeva sempre. Continuò ad accumulare le pagine, triste,
desolato, ed ogni volta che la brezza mattutina, gli dava un brivido,
provava come il terrore della morte.


Quando, più tardi, entrò nella camera della sua mamma, la povera donna
fu impaurita, tanto era pallido in viso, cogli occhi cerchiati e
profondamente mesti.

--Che cosa ti accade, Marco? Per carità! gridò balzandogli incontro.

Egli si lasciò andare come morto sopra una sedia, e cedette ancora ad
un impeto di pianto. Poi, facendosi forza, vergognoso di quell'atto di
debolezza, si asciugò gli occhi, cercò di rinfrancare la voce, e
disse:

--Non è nulla, mamma; non istò male per ora; soltanto, sento una
sensazione di freddo in mezzo alle scapole, ed ho un po' di tosse...

La mamma si fece bianca bianca, ed un'espressione di inesprimibile
angoscia le alterò il volto. Aveva udite tante volte quelle parole!

--Ma da quando hai la tosse? domandò tutta tremante. Da quando ti è
venuto questo male?

--Chi lo sa? È il nostro male di famiglia; ne portiamo il germe
nascendo... Ma questo non importa, soggiunse Marco sedendo accanto
alla signora Bellazio, che a quel discorso era caduta sulla sedia in
una profonda desolazione. Non importa ch'io viva qualche anno più o
meno. Quello che mi affligge è di non averci pensato, avanti di
contrarre un'impegno colla Maria... Io non ho diritto di prender
moglie per trasmettere ai figli la disgrazia che ha colpiti tutti
noi...

E le disse la sua risoluzione, tornando a commuoversi.

--Staremo fra noi, mamma. Mi assisterai tu come hai assistiti gli
altri, ed almeno non avremo rimorsi...

Le preghiere, le persuasioni della madre non valsero a nulla; era così
convinto di dover morire che si sentiva già staccato da tutto;
studiava in sè i sintomi del male, e vedeva coll'immaginazione il
quadro della sua fine.

Tutto quello che la signora Bellazio potè ottenere fu che non
prendesse una risoluzione prima d'aver parlato col medico.

Lei non poteva credere che Marco fosse malato.

--Sei sempre stato forte, andava ripetendo. È la prima volta che dici
d'aver la tosse. E poi, non rassomigli a nessuno de' tuoi fratelli, nè
al babbo, poveretto. Rassomigli a me che sono robusta. Ma che! Ma che!
Tu non hai nulla...

Il tempo incalzava. Si chiamò il medico il giorno stesso; il dottor
Andreoni, un vecchio che aveva assistiti tutti i figli ed il marito
della signora Bellazio. Egli fece una lunga oscultazione, esaminò il
giovane minutamente, e si mostrò soddisfatto del suo stato.

--Non solo non ha la menoma lesione ai polmoni, disse, ma non ha
nessuna disposizione ad averne. Ha un bel torace ampio, e
l'apparecchio respiratorio non potrebbe essere meglio costituito. Stai
di buon animo, figliolo. Potrai morire di qualsiasi male, perchè tutti
si muore, ma non morrai di tisi.

La signora Bellazio piangeva di gioia a quelle parole. E Marco pure
parve rassicurato. Soltanto disse che aveva ricevuto una scossa, che,
qualunque ne fosse la causa, pel momento non si sentiva bene. E senza
mandare quella lettera disperata che aveva scritta, volle ad ogni
costo che si differissero le nozze per qualche tempo, finchè egli non
si sentisse completamente ristabilito in salute.

La signora Bellazio andò in persona a Gradate il giorno stesso per
evitare che si facessero gli ultimi apparecchi; espose le circostanze
che avevano inquietata pel momento la coscienza delicata di Marco, ed
ottenne dalla signora Nardi, non solo una facile adesione, ma una
vivissima approvazione per quella misura di prudenza, che mirava a non
esporre sua figlia ad un matrimonio disgraziato. Le due vedove si
separarono amichevolmente:

--I ragazzi sono giovani, conclusero; quando Marco sarà guarito, se la
Maria sarà ancora libera, si riuniranno.

In casa Bellazio si riprese la solita vita. Da circa un anno, Marco
aveva ottenuto il posto di direttore meccanico in una grande officina.
Passati quei giorni di turbamento, ricominciò ad uscire il mattino pe'
suoi lavori, ed a passare la giornata fuori. Era taciturno, e questo
faceva meraviglia perchè aveva un carattere naturalmente sereno ed
espansivo. Ma sua madre attribuì quella malinconia all'allontanamento
della sposa, alle speranze che aveva lasciate svanire, e non gliene
parlò. Alla fine di settembre madre e figlio andarono ad abitare il
nuovo alloggio preparato per gli sposi; ma la sposa non c'era, e
l'inaugurazione del quartierino elegante fu tutt'altro che festosa. La
camera nuziale rimase chiusa, e Marco si fece mettere un letto nello
studio, una stanzetta piccola dove stava rinchiuso tutte le ore che
non erano reclamate dalle sue occupazioni fuori di casa, assorto in
lunghe letture.

Sua madre avrebbe preferito di passare la sera in compagnia, o di
vederlo andar fuori e divertirsi; ma egli rispondeva sempre:

--Questa sera non ho voglia di parlare; preferisco leggere un poco;
sarà per domani, mamma. Ma il domani di star allegro e di divertirsi
non veniva mai.

--Non ti senti bene? domandava spesso sua madre. Ma egli la
rassicurava: era soltanto un po' stanco... E lei confidava che col
carnevale tornerebbe allegro, e si riprenderebbero le relazioni colle
signore Nardi.

L'ottobre passò uggioso a quel modo. Neppure l'ora del piccolo pranzo
di famiglia, che altre volte era tanto animata dalle ciarle di Marco,
dalle sue dimostrazioni affettuose verso la mamma, dalle loro
discussioni sulla musica, sull'esposizione di Brera, sulle mode, sulle
nuove pubblicazioni, ora era silenziosa e triste. Marco mangiava poco
e distrattamente, ed appena aveva finito, pigliava un giornale o un
libro per aspettare il caffè, poi se ne andava nella sua camera.

Qualche volta la signora Bellazio lo pregava di accompagnarla a
teatro. «Al Manzoni c'era la compagnia Pietriboni che dava una nuova
commedia di Ferrari. Al Dal Verme c'era l'opera semiseria con artisti
buoni...» Marco non si faceva pregare; ma rimaneva tutta la serata in
fondo al palco, senza prestare la menoma attenzione allo spettacolo.

In novembre il dottor Andreoni, che andava qualche volta a passare la
sera colla signora Bellazio, le disse:

--Che cos'ha Marco? Questa mane l'ho incontrato; era un po' abbattuto,
e serio serio. Ha in mente ancora quella malinconia della tisi?

--No, rispose la madre. Dice che non ci pensa più; ma di certo ha
cambiato carattere dopo che ha mandato a monte il matrimonio.

--Cerchi di ravvicinarlo alla sposa. Dacchè è rassicurato sulla sua
salute, non c'è più ragione che rinunci a' suoi disegni. L'amore della
sposa, il cambiamento di vita, l'orgasmo delle nozze, gli faranno del
bene. Non mi piace quella tristezza.

La signora Bellazio ne parlò al figlio:

--Ora che sei persuaso di non essere ammalato, perchè non vai a fare
una visita alle signore Nardi che sono tornate in città?

--Non mi pare il caso, rispose Marco. Dacchè abbiamo rotto il
matrimonio...

--Rimandato soltanto, a tempo indeterminato; e fra noi non c'è stato
nessun dissapore. Temevi per la tua salute, hai preso tempo a
riflettere. Ora stai bene, la tua affezione è sempre la stessa per la
Maria, mi figuro. È naturale che tu ritorni a lei.

--È ancora troppo presto, disse Marco. E poi, non si sa che
impressione abbia fatto sulla Maria il mio distacco. Preferisco
incontrarla in società, vedere prima come si contiene, se si mostra
risentita, se ha cambiato pensiero...

Ma in società Marco non ci andava. Diceva sempre che era stanco, che
aveva da scrivere, e differiva di volta in volta. Si faceva sempre più
misantropo.

Il dicembre fu molto rigido. Ci furono delle grandi nevicate che
rendevano le contrade quasi impraticabili. Andando all'officina, dove
per la fine dell'anno si dovevano fare delle riforme e degli
ingrandimenti, Marco si prese un'infreddatura, che lo obbligò a stare
qualche giorno a letto. La signora Bellazio fece subito chiamare il
medico, e quando questi entrò in camera, Marco disse:

--Ci siamo, dottore; ora comincia la tosse.

--E domani finirà, rispose il medico ridendo; poi, dopo averlo
visitato, soggiunse:

--Ti sei buscata una bronchite; leggera, ma che ti farà stare a letto
una settimana.

Marco sorrise con aria incredula, e non rispose.

Dopo cinque o sei giorni si alzò, ma sempre più triste. Il dottor
Andreoni lo trovò seduto in una poltrona colle mani pendenti, il capo
chino, un'aria da vittima rassegnata, come se fosse stato infermo
tutta la vita. Gli applicò il termometro sotto l'ascella, lo esaminò,
poi disse:

--Sei guarito; abbiti un po' di cura per alcuni giorni ancora, e non
c'è altro. Sta di buon animo.

--Sì, sì, sono guarito; ripetè Marco col solito piglio incredulo.

--Perchè lo dici a quel modo? Cosa ti senti?

--Nulla mi sento. Sto benissimo. Fra sei mesi starò anche meglio. Non
vede come ingrasso? E mostrò le sue mani, che infatti, da qualche
tempo, erano smagrite, como tutta la sua persona.

--Sfido! Se non mangi...

--Si mangia a seconda dell'appetito che si ha, e si ha appetito a
seconda della salute.

--Ma la salute, mio caro, dipende anche molto dalle disposizioni
d'animo in cui viviamo. Tu, da un pezzo in qua, ti dai alla vita
solitaria, alla malinconia. Se credi che questo regime ti giovi...

--Caro dottore; io non sono più pauroso d'un altro. La morte non mi
spaventa; ma ammetterà che la prospettiva di finire come i miei poveri
fratelli, di lasciar qui la mamma sola, dopo averle straziato il cuore
con una lunga malattia, non è fatta per mettermi di buon umore.

--Ma dove la vedi questa prospettiva? domandò il medico; t'assicuro
che sei forte, che stai benissimo.

Marco mostrò parecchi trattati di medicina che aveva sulla scrivania,
e che da qualche tempo erano diventati i suoi libri prediletti, e
disse:

--Questi sono più sinceri di lei, dottore; mi dicono la verità che lei
vorrebbe nascondermi, e mi fanno bene, perchè mi preparano
all'avvenire che mi aspetta.

Il dottore si trattenne a lungo a discorrere con lui; gli espose
minutamente il suo stato di salute, la sua costituzione, quali gli
risultavano dalle ripetute visite, precisamente come avrebbe fatto con
un collega chiamato in consulto. Ma Marco gli rispondeva colla solita
ragione del male ereditario. Quell'idea gli si era fitta in mente con
una forza spaventosa, e gl'impediva di apprezzare qualsiasi argomento
in contrario.

I giorni passarono, venne il gennaio, cominciarono le feste del
carnevale, e Marco continuava a stare in casa come un convalescente.
Quando gli dicevano di uscire rispondeva che faceva freddo, che il
tempo era umido, e rimaneva per lunghe ore immobile nella poltrona, e
guardava fuori dalla finestra con certi occhi da moribondo che saluta
la luce, che faceva veramente pietà.

Il medico cominciò a mettersi in pensiero seriamente.

--Se vai di questo passo, ti ammalerai davvero, gli diceva.

Ma tutto era inutile, e Marco dimagrava visibilmente.

Sul finir di gennaio il dottor Andreoni prese a parte la signora
Bellazio e le disse:

--Mia cara signora, bisogna assolutamente che quel ragazzo cambi modo
di vivere, se non vuole ammalarsi. Sono quattro mesi che si sta
crucciando con un'idea penosa; è dimagrato, e quella malinconia
potrebbe procurargli il male che teme.

--Ma cosa posso fare? domandava la povera donna piangendo; ho tentato
ogni mezzo, gli ho proposto di viaggiare, ho invitati i suoi amici,
l'ho obbligato ad accompagnarmi fuori; ma, con chicchessia e dovunque,
la sua tristezza non lo abbandona mai. Cosa posso fare, mio Dio?

--Cerchi di persuaderlo che non ha nessun male, che non ha
disposizione alla tisi; non c'è altro. Infatti non ci ha disposizione,
glielo assicuro io in coscienza.


Dopo un lungo colloquio col medico, che passò una parte della serata
con lei, la signora Bellazio entrò da Marco, pallida ed abbattuta,
cogli occhi ancora rossi, ed un gran peso sul cuore. Era una scena
desolante. Avere in sè la certezza che il suo ultimo figlio era sano,
che avrebbe potuto vivere, e vederlo spegnersi volontariamente per un
pensiero ostinato, vederlo andare incontro alla morte straziante de'
suoi poveri fratelli, era una tortura, per quella madre già tanto
sventurata.

Eppure in quel momento era evidente che un'altra agitazione la
turbava. Lottava con sè stessa. Sentiva d'avere un dovere da compiere,
e non ne aveva la forza.

Un momento s'accostò al figlio, e susurrò: «Senti, Marco;» poi le
mancò il coraggio di proseguire; una timidezza invincibile le
strozzava le parole in gola. Quello che doveva dire era troppo
difficile.

Sull'imbrunire, rinfrancata dalla penombra che la avvolgeva come in un
velo, cominciò:

--Senti, Marco; debbo dirti una cosa...

Ma quand'egli le alzò in viso i suoi occhioni indifferenti con
un'aspettazione senza interessamento, si intimidì un'altra volta, e
soggiunse fremendo:

--No; non posso. Vi sono delle confessioni difficili; troppo
difficili, per una povera donna.

Andò fin sull'uscio per ritirarsi nella sua camera, poi tornò
indietro, nervosa, eccitata, ed esclamò:

--E tuttavia non posso lasciarti passar la notte così. Da' retta, tu
non sei malato, non puoi esserlo; capisci che non puoi esserlo;
capisci che non puoi? Che sono io che te lo dico?

--Tu ne sai di molto, rispose Marco, col suo sorriso rassegnato. Lo
dici oggi perchè l'avrai udito dal medico. Ma se non è oggi sarà
domani. Quando si è di quel ceppo....

--Ma se _non sei_ di quel ceppo! gridò la povera donna, nascondendosi
il volto fra le mani e scoppiando in singhiozzi.

--Mamma!... esclamò Marco balzando in piedi.

Ma la vide in una convulsione di pianto, avvilita, vergognosa, e non
osò dir altro.

Ella rimase un momento, forse aspettando una interrogazione
conciliante sulla colpa che confessava, poi uscì sempre piangendo e
senza scoprirsi il volto.


Marco non ebbe il coraggio di trattenerla. Provava un'ignota
sensazione di vergogna come se il colpevole fosse stato lui. Ad un
tratto si sentì travolto in tutt'altro ordine di sentimenti e d'idee.
Il germe del male di famiglia non c'era; non potè pensarci più. Ma
sentì un'onta pesargli addosso, come un nemico da combattere, e tutto
il suo sangue si mise a ribollirgli nelle vene. Non era debole, non
era malato, ed aveva un avvenire dinanzi a sè. Sentì di dover agire,
ed il primo pensiero che gli si affacciò alla mente fu per sua madre.

L'aveva vista piangere di vergogna, e ne sentiva una grande pietà.
Avrebbe voluto andare ad abbracciarla, a dirle che comprendeva quanta
abnegazione doveva esserle costata la rivelazione di quel segreto; che
quell'atto di lealtà espiava molto; che l'amava sempre, che voleva
perdonarle. Pensava delle scuse per lei; la sua gioventù, l'infermità
del marito, forse un matrimonio contratto senza amore; ma al momento
d'avviarsi gli mancò il coraggio.

Dacchè era al mondo, era avvezzo a trattarla con tanto rispetto, che
gli sarebbe sembrato d'insultarla facendo allusione a quanto lei aveva
confessato. Era un argomento di cui non era possibile parlare fra
loro. Non avrebbe osato neppure di rivederla per qualche tempo;
sarebbe bastato che i loro occhi si fossero incontrati, per
confonderli e farli arrossire tutti e due.

Si diede a pensare seriamente che cosa potrebbe fare.

Dopo quella rivelazione le cose erano mutate per lui. Il patrimonio
del signor Bellazio non gli apparteneva. Egli poteva, per salvare
l'onore di sua madre, portarne il nome, ma non voleva appropriarsene
il denaro. Quando aveva domandata la mano della Maria era quasi ricco;
ora possedeva soltanto il suo impiego e poche migliaia di lire
guadagnate nella sua brevissima carriera da ingegnere, e che aveva già
spese in parte per addobbare la sua nuova casa.

--Se mi ama davvero, questo non dovrebbe cambiare le sue risoluzioni,
pensò. E stabilì di andare dalle signore Nardi la mattina seguente.

Quanto a sua madre, non si sentiva la forza di rivederla pel momento.
Scrisse un biglietto:

    «Mamma cara,

«Perdonami se vado via per alcuni giorni senza salutarti; e consolati
nel tuo cuore amoroso, pensando che sono guarito dalle ubbie che mi
tormentavano,

«Vado dalle signore Nardi. Le mie circostanze sono un po' mutate. Non
so se la sposa che avevo scelta quando mi credevo ricco s'accontenterà
ora d'un povero giovane senza patrimonio.

«Perchè sai che non ne ho, non posso averne. L'usufrutto appartiene a
te, e la proprietà della sostanza Bellazio spetta ai figli della mia
povera sorella.

«Ho fede nell'affezione e nella generosità della Maria, e credo che il
matrimonio si farà egualmente e presto. In tal caso accompagnerò
quelle signore a Gradate, perchè desidero di maritarmi quietamente in
campagna, e poi anderò a fare un breve viaggio per aspettare il giorno
delle nozze. Allora ci rivedremo, mia cara mamma, e vivremo sempre
uniti, nel nostro bel quartierino, che la tua bontà ci ha preparato, e
dove la camera nuziale non sarà più chiusa. Parleremo dell'avvenire
che ci aspetta, soltanto dell'avvenire; e saremo tutti felici. Tu pure
sarai felice, mamma cara e venerata sempre.

                    «_Il tuo_ MARCO.»


Quando la mattina volle consegnare la lettera alla cameriera, da
rimettere a sua madre appena si fosse svegliata, gli fu risposto che
la signora aveva dovuto uscire di buon'ora, ed aveva lasciato nella
sua camera un'imbasciata per lui.

Marco entrò subito nella camera di sua madre, e trovò infatti un
biglietto sulla scrivania diretto a lui.

--«Non posso assistere alle tue nozze, scriveva la povera donna, nè
vivere, come avevo sognato, presso di te. Non si può illudersi che il
male non si espii presto o tardi; e questa è la mia espiazione. Vado a
Nervi presso i bambini della povera Elena, e se il loro babbo mi
vorrà, rimarrò con loro. Posso sperare almeno che tu mi scriva?»

L'umiltà di quella lettera fece male al cuore buono di Marco. Ma egli
non potè a meno di approvare quella separazione.

Erano appena le nove, e sarebbe stato impossibile andare a quell'ora
in casa Nardi. Impiegò il tempo che gli rimaneva da aspettare, a
scrivere una lettera a sua madre, invece di quella che aveva
preparata. Le notificò la sua risoluzione di rinunciare al patrimonio
Bellazio, ed aggiunse dei rimpianti per la sua lontananza e delle
espressioni affettuose, molto al disotto però della tenerezza
vivissima che provava in quel momento per lei. Temeva che qualsiasi
manifestazione insolita potesse parere un'allusione alla confessione
ricevuta, e si trattenne per non dir troppo.

Dalle signore Nardi, Marco trovò facilmente il modo di spiegare come
si fossero dissipati i dubbi che lo tormentavano circa la sua salute.
L'assicurazione ripetuta del medico dopo un'osservazione di quattro
mesi, era più che sufficiente a persuadere chiunque della sua buona
costituzione. Ma fu imbarazzato per addurre una ragione soddisfacente
del suo improvviso cambiamento di stato. Non c'era tempo da pensarci
su, e dovette appigliarsi al solito pretesto delle speculazioni mal
riescite. Gli era rimasto soltanto un piccolo capitale, che aveva
sacrificato per fare una rendita vitalizia a sua madre, affinchè
potesse godere le agiatezze alle quali era avvezza....

Se si fosse trattato di persone più cupide ed esperte di affari,
sarebbero forse nate discussioni sulla legalità della cosa. Ma la
Maria era innamorata, e non badava ad altro; e la madre, vedova
anch'essa, approvò di buon grado quello che un figlio devoto aveva
fatto per un'altra madre vedova. Del resto gli sposi, tra tutti e due,
potevano mettere insieme circa dieci mila lire all'anno; Marco era
avviato in una buona carriera e la sua condizione prometteva di
migliorare sempre; era ancora un discreto partito. Quelle ragioni
d'interesse spiegarono anche l'allontanamento improvviso della signora
Bellazio. Certo fra lei ed il figlio c'era stata qualche discussione
che, per quanto accomodata, lasciava un lieve screzio, e li faceva
desiderare di non far casa comune.

Le nozze, il viaggio, quelle prime sorprese della felicità,
assorbirono talmente Marco, che non ebbe testa di pensare a nulla.
Mandò due telegrammi a Nervi, nei quali non faceva che dare nuove
ottime di sè e della sposa, e sfogare la sua gioia. Fu soltanto al
ritorno, coll'animo più tranquillo, che cominciò ad avvedersi d'un
grande riserbo nelle lettere di sua madre.

Erano scarse e brevi; parlavano pochissimo di lei, e più dei bambini,
che crescevano sempre bellini e gracili. Marco aveva risentita tanta
riconoscenza per l'abnegazione, con cui quella povera donna, ch'egli
avrebbe onorata sempre come una santa, s'era avvilita con una
confessione tanto penosa, pur di rassicurarlo sulla sua salute, che
non capiva come mai ella non gli tenesse conto di tanta gratitudine e
di tanta indulgenza. Dal canto suo la madre, in quella prima lettera
di Marco, dove anche le parole di perdono e d'amore erano tenute nei
limiti del linguaggio abituale, per timore d'offenderla con
un'allusione al suo errore, aveva trovata una freddezza, che non la
faceva pentire di certo della sua confessione eroica, ma gliela faceva
considerare mal compensata.

Ella si andava ripetendo la vecchia storia di Cristo e della Maddalena
che ha incoraggiati tanti errori, e imbaldanziti tanti colpevoli, e
pensava che Marco era stato crudelmente severo verso di lei, che gli
aveva consacrata tutta la vita. Quel rifiuto del patrimonio non
l'aveva preveduto, e la crucciò profondamente. Avvezza ad una vita
molto agiata, le pareva che Marco dovesse patire delle privazioni. E
d'altra parte, a che titolo poteva insistere perchè accettasse quel
danaro? Non osò parlarne; non osò neppure mandare il dono di nozze che
aveva preparato per la sposa; tutti i suoi gioielli nuziali rilegati a
nuovo. Era ancora una ricchezza di casa Bellazio; la respingerebbero
di certo, e lei fremeva al solo pensiero di quell'affronto.

Dal canto suo Marco diceva:

--Povera donna. Nell'impeto dell'affetto materno la sua coscienza le
ha strappato quella confessione: ma ora rimpiange l'aureola d'onestà
che ha dovuto sacrificarmi, e nel suo orgoglio offeso non mi perdona
d'averla involontariamente obbligata ad un'umiliazione.

Finirono per credere ciascuno ad un risentimento che in realtà non
esisteva nell'altro. Cioè, esisteva, sì, nell'animo di Marco, un
immenso rammarico per quella colpa della madre. Come mai aveva
offuscata la sua bella riputazione di donna onesta? E chi era
quell'uomo? Ci pensava con fastidio, e non avrebbe voluto conoscerlo.
Non gli perdonava d'aver avvilita sua madre. E quel povero marito
malato, debole, condannato ad una morte immatura, e, per colmo di
sventura, tradito, prendeva nel suo cuore generoso il posto del padre
che disprezzava. Di tutto questo si era proposto di non lasciar
trasparire nulla alla sua povera mamma, e di perdonare, di perdonar
tutto, di gettare un velo sul passato, ricordandosi soltanto la sua
lunga vita di solitudine e di dolore e di devozione materna.

Ma la freddezza di lei inasprì il suo giudizio, ed egli finì per
pensare:

--Infine, se si allontana da me, se non vuol vivere colla mia sposa
onesta, vuol dire che sa di non meritarlo, o che non mi ama quanto io
credevo.

E rivolse tutto il suo affetto alla propria famiglia, la quale andò
d'anno in anno aumentando d'un piccolo essere, che reclamava un
grandissimo posto nel suo cuore e ne' suoi pensieri.

Quando i bambini furono quattro, e la Maria, un po' stanca, sentì il
bisogno d'un aiuto, Marco non osò pregare sua madre di venire a vivere
in casa sua. S'era allontanata di sua volontà, non gli aveva fatto
neppure una visita in sei anni; non conosceva nessuno de' suoi figli;
non lo amava più. Egli diceva fra sè:

--Accade alle volte che una donna onesta, trascinata in fallo da un
momento di passione, prenda in uggia il figlio che le ricorda
quell'ora vergognosa della sua vita. Io poi, che fatalmente dovetti
saper tutto....

Fu la madre di sua moglie che andò a vivere con loro per assistere la
Maria nelle sue cure materne.

Marco provò un momento d'imbarazzo quando dovette annunciare alla
signora Bellazio quella novità. Due volte cominciò una lettera su
quell'argomento, ma non gli riescì di concluder nulla. Finì per dire
la cosa semplicemente, come una circostanza secondaria in una lettera
delle solite, senza mostrare di darci maggior importanza.

«Mia suocera, che in causa dei bambini è venuta a vivere in famiglia
con noi, m'incarica di unire i suoi saluti affettuosi ai nostri....»

La risposta, sebbene molto ritardata, era piena di malinconia. La
mamma ritrovava tutta la sua tenerezza. «Si struggeva di vedere Marco.
Sapeva che la vita attiva lo aveva fortificato, che era anzi sulla via
d'ingrassare. Il medico glie lo aveva scritto. Le era riserbata quella
gioia dopo tanti dolori, di sapere che suo figlio vivrebbe lungamente,
sano, con una famiglia rigogliosa. Oh quanto desiderava di vederla
quella famiglia, quanto!»

Marco, nel segreto del suo studio, pianse su quella lettera della
madre. «Ella si teneva in corrispondenza col medico per essere
informata della sua salute, povera donna. Egli l'aveva accusata a
torto di non amarlo. Non era che il sentimento della sua umiliazione
che la teneva lontana.»


Marco non aveva mai avuto bisogno di cure mediche in quei sei anni.
Aveva un florido appetito, digeriva senza avvedersene, dormiva bene,
resisteva alla fatica; il suo umore era sereno ed uguale, i suoi nervi
tranquilli. La Maria, nei lievi incomodi delle sue crisi materne,
aveva desiderato d'essere assistita dal suo medico di famiglia, che
più tardi aveva curati anche i bambini nelle loro piccole malattie.

Il vecchio medico Andreoni era stato lasciato da parte. Marco lo aveva
incontrato qualche volta qua e là, ma aveva appena scambiate poche
parole, e l'aveva lasciato senza invitarlo a visitare sua moglie. Gli
rimaneva un resto d'imbarazzo per la scena della sua tisi supposta;
non sapeva in che termini la signora Bellazio gli avesse spiegata la
guarigione di quell'idea fissa. Temeva che sapesse tutto, perchè
godeva da anni la confidenza della famiglia. Ed il dottore era tanto
vecchio, e d'un'onestà così esemplare e riconosciuta, che Marco si
trovava male dinanzi a lui, pensando che forse giudicava severamente
sua madre.

Ma, al ricevere da lei quella lettera affettuosa, provò un gran
desiderio di rivedere il vecchio amico della sua famiglia. Dacchè sua
madre gli scriveva, e riceveva da lui le informazioni sulla salute del
figlio, era certo ch'egli la teneva sempre nella stessa
considerazione, e non sapeva nulla.

Non osò andarlo a trovare dopo tanto tempo, ma frequentò il circolo
politico dove l'aveva incontrato qualche volta, sperando in una
combinazione fortunata. Sgraziatamente la combinazione non capitò, e,
domandando ad un conoscente, seppe che il dottor Andreoni era
ammalato.

Allora non esitò più, ed andò a vederlo. Non era una malattia grave;
era un accesso di podagra che impediva al vecchio quasi ottuagenario
di uscire di casa. La vista di Marco gli fece un piacere vivissimo.
Gli strinse le mani, tanto commosso, che alla prima non potè parlare;
poi gli disse:

--Dammi un buon bacio, figliolo; e raccontami come stai e cosa fai.

Marco lo informò della sua situazione, della sua famiglia, di tutto.

--Cinque bambini! esclamò il vecchio. Daranno molto da fare alla tua
sposa.

--C'è la sua mamma che l'aiuta, disse Marco un po' imbarazzato.

--Ma non vive con voialtri, osservò il vecchio,

--Sì, da qualche mese facciamo casa comune; appunto per i bambini....

--Ah! Era il posto della tua povera mamma, quello! sospirò il medico.

--Ma quegli altri due laggiù che sono orfani, hanno tanto bisogno di
lei, s'affrettò a rispondere Marco.

--È vero, è vero, soggiunse il medico. E la tua salute come va? Ci hai
più pensato alla tisi?

--Che! Non ci ho disposizione; disse Marco. Ora ingrasso davvero. E
poi ho fatte le mie prove. Capirà che la direzione d'un'officina così
vasta non mi lascia molto riposo. Alle volte mi tocca di salire venti,
trenta chilometri al giorno, in montagna, per vedere dei materiali;
non posso badare nè al sole nè all'umidità; eppure non ho mai avuto
una tosse. Sono refrattario.

--E non hai paura che quel male si sviluppi?

--Che! È stata un'impressione giovanile. Ero appunto nell'età in cui
sono morti tutti i miei. Ma ora l'ho passata quell'età, e di parecchi
anni, purtroppo.

--Quanti anni hai?

--M'avvio verso i trentatrè,

--Dunque ora sei sicuro. Ed il medico continuò a parlargli di
quell'argomento. Gli narrò molti casi, di famiglie colpite da una
malattia ereditaria, nelle quali poi il contagio s'era arrestato per
non ripetersi più per molte e molte generazioni. Del resto Marco non
ci pensava più da un pezzo, ed anche indipendentemente dalla ragione
suprema che gli aveva data sua madre, non capiva come mai avesse
potuto lasciarsi impressionare a quel modo.

Quando si alzò per congedarsi, il vecchio gli disse:

--Non permetterai che, quando potrò uscire, io venga a conoscere la
tua signora?

Marco accolse quella domanda con gioia; provava un vero sollievo a
quel ravvicinamento. Infatti, circa due settimane dopo, il dottor
Andreoni andò in casa Bellazio, si fece subito amico colla Maria e
volle vedere tutti i bambini che trovò belli e floridi. Più li
esaminava e più si metteva di buon umore.

--Che toraci! esclamava, e che organi vocali! Questo deve rassicurarti
sullo stato dei loro polmoni.

Marco sorrideva di compiacenza. Aveva infatti la calma serena d'un
uomo felice.

--Se li vedesse tua madre! disse il medico. Una nube passò sulla
fronte di Marco. Forse quella stessa salute di lui e dei figli, non
farebbe che richiamarle il ricordo vergognoso della loro origine.

Intanto le nuove di Nervi erano consolanti a proposito dei nipotini di
Marco. L'aria marina aveva rifrancata la loro costituzione debole. La
ginnastica, un buon regime igienico, avevano contribuito a risanarli.

Tutti e due avevano scelta la carriera militare, e si disponevano ad
entrare in un collegio dì marina.


Una mattina Marco ricevette un biglietto dal dottor Andreoni che lo
pregava di recarsi da lui, e vi corse subito.

--Non sono venuto io da te perchè avevo bisogno di parlarti da solo,
disse il vecchio appena lo vide entrare. Aveva un'aria assai grave, e
Marco si impauri.

--La mamma è ammalata? domandò ansiosamente.

--No, figliolo. Tua madre è sana e forte, ed è lei che ha trasfuso in
te quell'onda di sangue puro che ti ha salvato.

Marco chinò il capo, e non disse nulla.

--Sicuro, ripigliò il medico. Lei, lei sola, capisci?

L'imbarazzo di Marco cresceva. Cosa voleva dire quell'allusione? Alzò
gli occhi imbarazzato, un po' severo, come per far comprendere al suo
vecchio amico che quel discorso era indiscreto. Ma il dottore
continuò:

--Al suo sangue robusto devi la tua salute fisica; ed al suo cuore
generoso ed eroico, devi la tua salute morale.

Tacque un minuto, guardando il giovine onestamente negli occhi, poi
vedendolo turbato e commosso soggiunse:

--Ti ha ingannato! È sempre stata la più onesta delle mogli, adorava
il suo povero marito, ed adora te, perchè sei tutto quanto le è
rimasto di lui.

Marco si alzò con impeto, tutto pallido e tremante come per correre ad
abbracciare sua madre. Poi si gettò al collo del vecchio, e rompendo
in un pianto convulso esclamò:

--Oh, dottore! Mi dica che è vero!

--L'ha immaginato lei, nella sua disperazione quell'inganno pietoso.
Me lo disse più tardi, ed io non potei che approvarlo, dacchè ti aveva
guarito dall'idea fissa che ti perseguitava; ma non sapevo che dovesse
costarle tanto dolore, nè durar tanto. Speravo che tu la richiamassi,
e che avreste continuato a vivere insieme fino al giorno in cui,
vedendoti rassicurato, ella potesse giustificarsi con questa lettera.

E gli porse una lettera suggellata. Marco l'aperse, e, traverso le
lagrime che gli velavano gli occhi, lesse:

«Figlio mio, legittimo e caro:

«Il medico mi dice che, se non riesco a rassicurarti sulla tua salute,
la tua vita e la tua ragione sono in pericolo.

«Finora non vissi che per te, ti sacrificai la mia gioventù; ora ti
sacrifico assai più: l'orgoglio d'essere stimata da te. Affronto il
tuo disprezzo per salvarti; mi accuso d'una colpa che non ha commessa;
ma quando sarò morta, il dottore, o chi ne riceverà l'incarico da lui,
ti consegnerà questo foglio. Ed allora saprai che oggi ho mentito per
salvarti, ma che non ho mai mancato a' miei doveri di moglie; e
rispetterai ancora la mia memoria.»

Quella lettera portava la data di circa otto anni prima; il giorno
indimenticabile di quella rivelazione.

Il povero giovane si disperò, pianse come se avesse ricevuto un
annunzio di sventura. Non poteva perdonare a sè stesso di avere
creduto quell'enormità, d'aver lasciato sua madre sotto il peso di
quell'accusa. Diceva al vecchio parole crudeli perchè aveva permesso
quel sacrificio inumano, poi lo baciava, e lo bagnava di lagrime, e lo
benediva per averglielo rivelato.


La mattina del giorno seguente, dopo la colazione, la signora Bellazio
madre stava nella stanza da pranzo di suo genero a Nervi, preparando
il corredo dei giovani marinai, tutta intenta a numerare le camicie,
le calze, le pezzuole. Ma era triste. Quei fanciulli, che aveva
cresciuti con tanta cura, se ne andavano; il padre voleva stabilirsi
alla Spezia per essere vicino a loro. E lei doveva di nuovo cambiar
paese, trovarsi un'altra volta fra gente ignota, lontana da tutti
quelli che amava. Suo genero, del resto, aveva poco più di
quarant'anni. Era amantissimo dei grandi viaggi; era lui che aveva
insinuato ai figli l'idea di scegliere quella carriera. Alla prima
partenza, di certo egli si sarebbe imbarcato per seguirli; e lei
sarebbe rimasta sola, ora che cominciava a sentirsi vecchia,

--Arrivano dei signori, nonna, disse il più giovane dei suoi nipoti,
entrando tutto eccitato; sono scesi or ora al cancello del cortile.

La signora Bellazio si scosse di dosso qualche filo bianco, che le era
rimasto dal riavviare la biancheria, e s'avviò verso l'uscio per
andare nel salotto.

Ma, prima che ci arrivasse, vide entrare il vecchio medico, che le
aperse le braccia, e le disse:

--Sono qui tutti, e sanno ogni cosa. L'ho detto; non ne potevo più;
ora che lei rimaneva sola...

E Marco si precipitò al collo di sua madre, singhiozzando come un
bambino; e dopo un primo sfogo le mise intorno tutti i suoi figli, e
sua moglie, dicendo:

--Oh, mamma cara! mamma santa!

La Maria s'era inginocchiata presso la suocera e le baciava le mani,
mentre i bambini, a cui avevano detto di abbracciare la nonna,
esclamavano giubilanti:

--Un'altra nonna! un'altra nonna!



VITE SQUALLIDE.


Erano due vecchie zitelle, e vivevano sole. La signora Rosa, tutta
piccina, tutta giallina per una malattia epatica, portava una
cuffietta bianca con alcune cocche di nastro turchino. La trina ed il
tulle erano di cotone, rilavati ed insaldati finchè ci potevano
reggere; ed il nastro aveva conservata appena una pallida tinta del
turchino primitivo. Nessuno, neppure tra i più vecchi conoscenti, si
ricordava d'aver mai visto la signora Rosa senza la cuffia; il fatto
era che quella cuffia l'aveva adottata prima di compir i quindici
anni, quando aveva sofferto per la prima volta un'itterizia acutissima
che non era poi mai guarita del tutto, e l'aveva accompagnata
fedelmente per tutta la sua povera vita. La signora Caterina invece
era forte e robusta, alta come un granatiere; ed anche i suoi modi
bruschi e la sua intelligenza rudimentale, sarebbero stati più adatti
ad un soldato che ad una signora. Signora, tanto per dire; ed equivale
a donna del ceto civile; ma quelle due sorelle erano poverissime.
Possedevano di patrimonio comune ed indiviso, seimila lire, le quali,
collocate presso un banchiere amico e lontano parente, fruttavano una
somma netta di trecento lire all'anno.

Fino a pochi anni prima che io le conoscessi molto davvicino, le due
zitellone avevano avuto la madre completamente cieca. A quell'epoca un
cugino parroco, cedeva alla vecchia parente un quartierino, annesso
alla sua parrocchia di S. Giovanni; quattro camere ed un giardinetto.
Lo cedeva gratuitamente, a condizione che le tre donne tenessero in
ordine la biancheria della chiesa ed i paramenti.

Con quanta coscienza adempivano a quell'impegno! La domenica e tutte
le feste comandate mettevano da parte i lavori dai quali cavavano da
vivere, e, dalla mattina alla sera, s'affrettavano ad intrecciare alte
trine a maglie complicate, per le tovaglie dell'altare. La signora
Rosa, che sapeva lavorar di fino, ricamava a punto buono l'animetta
per coprire il calice, il corporale, le cotte; orlava finamente i
camici, gli amitti, ed i purificatori. Non c'era sagrestia più ben
tenuta di quella di S. Giovanni.

La signora Caterina aveva la passione dei fiori; una passione muta,
senza espansioni, e modestissima. Non ricercava piante esotiche o
fiori di specie rara; curava devotamente i suoi geranî, i suoi
oleandri, le limonarie, le aspedistre, ed era felice di moltiplicarli,
di coprirne tutto il parapetto e tutte le aiuole del piccolo giardino.
Era la sua unica distrazione, il suo solo piacere.


Le trecento lire di rendita delle tre donne non bastavano al loro
vitto, per quanto modesto. Ed esse lavoravano per un negozio.
Lavoravano assiduamente, un lavoro monotono e mal compensato, e ci
mettevano uno zelo da artista. La signora Rosa cuciva biancherie
finissime, faceva trafori che parevano trine, rammendi che non
lasciavano più trovare la traccia della laceratura. La signora
Caterina non lavorava che a punto di calza; ma in quello era maestra.
Le venivano dal negozio delle calze colorate a disegni strani, delle
uose dello spessore di due centimetri, giubbini e mutande modellati
come maglie da teatro, coperte da letto d'un lavoro complicatissimo.

Lei prendeva quei modelli con mal garbo, dichiarava che erano
sciocchezze, che un bel punto semplice valeva sempre meglio, che, del
resto, lei non era capace d'imitare quelle corbellerie; che, neppure
sapendo, l'avrebbe fatto, perchè non metteva conto; erano idee da
gente leggera; preferiva perdere la pratica del negozio che
sottomettersi a fare quelle stranezze....

Intanto guardava, esaminava ben bene il modello co' suoi occhi loschi,
preparava i ferri in misura, la lana, infilava i punti, e, dopo
qualche tentativo più o meno felice, riesciva sempre a copiare la
nuova maglia.

Allora cominciava a sorridere colla sua povera bocca storta, un
sorriso muto e gongolante di legittimo orgoglio. E si metteva a quel
nuovo lavoro con ardore, immaginava tutte le applicazioni che gli si
potevano dare, se ne innamorava, disprezzava tutti i punti dell'anno
precedente; poi, quando il nuovo cominciava a passar di moda, si
ribellava, protestava, s'aggrappava a quell'ultimo capriccio, finchè
non ne veniva un altro ad innamorarla daccapo. Erano i suoi soli
amori, da vent'anni in poi, ed erano sempre amori degli altri, che le
venivano imposti.

Una volta sola nella sua vita aveva avuto un amore suo, un amore
d'elezione. Era come un romanzo la storia della signora Caterina; lei
non ne parlava mai, ma la signora Rosa si compiaceva di raccontarla
sommessamente, guardando sua sorella con un'ammirazione retrospettiva,
che nessuno poteva più condividere.


Da giovinetta, la signora Caterina era bellissima di volto come di
persona; allora c'era ancora suo padre, negoziante di generi
coloniali, che guadagnava molto; la famiglia viveva benino, e quella
bella fanciulla consolava i genitori del cruccio d'avere la
primogenita malata, ed invecchiata anzi tempo col suo pallore
giallognolo e la sua cuffia. Quando la Caterina ebbe vent'anni, le
misero il primo vestito da ballo e la condussero ad una festa. Là fece
la conquista d'un professore di contrabasso dell'orchestra della Scala
di Milano, che si trovava a Novara per la gran Messa in musica della
festa di S. Gaudenzio.

Prima di ripartire per Milano, egli domandò la Caterina in isposa; e
si combinarono le nozze col consenso di tutti, per la prossima Pasqua.
Durante quei mesi, lo sposo faceva frequenti gite a Novara. Non era nè
molto giovane nè molto bello; aveva una persona colossale, un viso
paffuto e colorito, troppo colorito. Ma era gioviale, buono,
espansivo; la Caterina ne fu presto innamorata come un'eroina da
romanzo. L'abito da ballo fu riposto nell'armadio, perchè il
corpulento fidanzato non si sentiva bastantemente leggero per danzare,
e non amava di vedere la sua bella sposa danzare cogli altri: ella non
rimpianse quel piacere appena assaporato; il suo amore si compiaceva
del sacrificio.

Dal dì di S. Gaudenzio, che è il 22 gennaio, alla Pasqua, corsero
dieci settimane, e furono dieci visite dello sposo, dieci gioie mute e
frenate per la Caterina, che lo vedeva in presenza dei suoi, gioiva e
palpitava di sentirselo accanto, ma non osava aprir bocca, e lo
guardava appena. La decima visita, però, doveva unirli per sempre; e
lo sposo, che giunse la sera, era tripudiante, esaltato, pazzo d'amore
e di felicità. La Caterina piangeva in silenzio; si sentiva tanto
contenta e tanto amata, che ne era commossa.

La mattina, vestita da sposa, e pallida pel turbamento interno, era
più bella che non fosse stata mai. Rimaneva muta dinanzi allo
specchio, guardandosi fissa, come se quella bella figura le riescisse
nuova, e sorridendo forse al pensiero della gioia che proverebbe il
suo sposo al vederla. La piaceva di sentirsi ammirata. Scese le scale,
voltandosi indietro per vedersi lo strascico dell'abito bianco; era il
suo primo abito a strascico.

C'erano tutti gl'invitati, e le carrozze erano alla porta. Soltanto lo
sposo non era comparso.

Aspettarono un quarto d'ora, poi giunse il sagrestano a dire che in
Duomo tutto era pronto, e che il parroco si impazientava, perchè
c'erano molti ammalati di vaiuolo, che aspettavano i sacramenti.

--Infatti c'è il Tale che sta male, ed il Talaltro che è moribondo,
disse il padre della sposa che conosceva tutte le famiglie della
città. Questo vaiuolo fa strage, da pochi giorni in qua.

Si mandò un garzone del negozio all'albergo a chiamare lo sposo, per
non far attendere il parroco più a lungo. Lo sposo dormiva
saporitamente. Bussa e ribussa, non c'era verso di farsi udire; e
l'uscio della camera era chiuso internamente. Era un giovane
assestato; aveva con sè il denaro pel viaggio da nozze, aveva dei
gioielli, e non s'era fidato, con quel sonno di piombo che benediva le
sue notti, a lasciar l'uscio aperto in una pubblica locanda.

Vedendo che il giovane del negozio non tornava nè collo sposo nè colla
risposta, il suocero ci andò lui, e volle che l'albergatore facesse
aprir l'uscio del suo futuro genero.

--Ieri sera era in allegria, ha bevuto anche qualche bicchiere di
marsala; chissà quando si sveglierebbe, a lasciarlo fare.

L'albergatore aveva una seconda chiave, colla quale riescì a spingere
fuor dalla toppa quella che c'era di dentro, e poi ad aprire.
Entrarono nella camera. Le imposte erano chiuse, e lo sposo dormiva
sempre.

--Che sonno da marmotta!, disse l'albergatore. E spalancando le
imposte, fece entrare un bel raggio bianco di sole invernale che
illuminò tutta la stanza.

In quella la voce del suocero esclamò:

--Per Dio! Si doveva prevederlo, che era una disgrazia!

Il giovane giaceva col capo rovesciato sui guanciali, il volto
pavonazzo, gli occhi iniettati e grossi come se fossero per uscire
dall'orbite, e la bocca contorta, dalla quale pendeva la lingua
stretta fra i denti, ed orribilmente gonfiata. Era morto d'apoplessia.

Si fece di tutto per ingannare la Caterina. Si disse d'un telegramma,
che lo aveva chiamato improvvisamente a Milano, che tornerebbe... Ma
non c'era apparenza di verità. Il matrimonio sospeso, il turbamento
mal dissimulato di tutti, le fecero indovinare una catastrofe, e la
misero in una convulsione terribile. Piangeva, urlava, sragionava, si
strappava i capelli e le vesti, voleva fuggire, voleva gettarsi dalle
finestre.

Bisognò chiamare il medico, il vecchio medico di sua sorella Rosa, che
era sempre in cura pel suo fegato. Per disgrazia, appunto quel giorno
il medico era a letto con un'infreddatura. Gli altri erano tutti in
giro per le visite mattutine; e nè in casa nè alle farmacie si
potevano trovare. Intanto la ragazza dava in ismanie, pareva che
impazzisse.

Finalmente il padre pensò ad un malato di vaiuolo, presso il quale un
medico aveva passata la notte, perchè l'infermo era aggravatissimo. Vi
accorse, e trovò appunto il dottore che usciva dalla camera del
moribondo. Non gli parve vero di condurlo subito da sua figlia, che a
forza di calmanti si tranquillò, sebbene rimanesse inconsolabile.

Era guarita dalla convulsione; però, dopo alcuni giorni, fu presa dal
vaiuolo, che si sviluppò violento, terribile. Il medico le aveva
portata l'infezione. La sua forte natura, la sua gioventù lottarono
lungamente, e trionfarono del male; ma la bella fanciulla rimase
orrenda. La bocca era contorta, gli occhi loschi; la pelle violacea e
fortemente butterata pareva la corteccia d'un popone; ed uno
stiramento di nervi sotto la guancia sinistra, torceva perennemente il
collo da quella parte. Così erano finite la gioventù e la bellezza
della signora Caterina. Quelle dieci visite dello sposo, avevano
riassunta tutta la parte di poesia e d'amore, concessa alla sua povera
vita.

Dopo d'allora erano passati molti anni. Il padre era morto, lasciando
gli affari del negozio in cattivo stato; e le due sorelle,
invecchiate, s'erano trovate povere colla madre cieca, e s'erano
ritirate nella casa del prete, dove, per dodici anni, avevano fatto la
stessa vita di lavoro e di reclusione solitaria.

Dopo dodici anni, la madre cieca si era spenta quietamente, senza
malattia grave, senza dolore. Ed allora il prete aveva reclamato il
suo quartierino.

Quando io le vedevo giornalmente, la casa di San Giovanni non era più
che una memoria rimpianta del loro monotono passato. La signora
Caterina non aveva più fiori. Abitavano sulla piazza del mercato di
contro alla nostra casa. Avevano una camera da letto, dove dormivano
tutte e due, ed una prima stanza che chiamavano sala, ma che in realtà
sarebbe stata una cucina. C'era un camino, nel quale la signora
Caterina cucinava il pranzo, una tavola coperta di marmo bianco, che
era il mobile di lusso, l'orgoglio delle due sorelle, due seggiole
poste ai lati del balcone, e, contro la parete di faccia alla tavola,
un mobile misterioso coperto con un tappeto verde. Quel mobile erano i
fornelli; ma non funzionavano da fornelli. Nei due vani, destinati ad
accogliere il carbone acceso, erano stati messi due grandi bacini di
terra, che lungo il giorno stavano coperti da un'asse sul quale si
stendeva il tappeto. Nel vuoto sotto i fornelli c'era il secchio
coll'acqua, c'era la mestola e c'erano due casseruole lucenti, avanzo
della passata grandezza, che non s'adoperavano mai.

Per quanto di buon'ora si alzassero i vicini, nessuno riesciva mai ad
essere tanto sollecito da prevenire le due zitellone. Quanto a me, a
qualunque ora scendessi dal letto, le vedevo sempre sedute ai due lati
del balcone, con due panierini di vimini ai piedi per riporvi le lane,
il filo, le forbici, e tutti gli arnesi da lavoro. La signora Rosa
cuciva, tenendosi il lavoro sulla punta del naso perchè era miope; e
la signora Caterina faceva calze con una rapidità sorprendente, dalla
parte del cuore, perchè non poteva voltare il capo dall'altro lato.
Aveva raccolta qualche novità da raccontare alla sorella, perchè a
quell'ora aveva già fatta la sua corsa giù nella piazza del mercato,
per le provviste della giornata. Narrava il prezzo delle ova, del
burro, dei legumi, e se dalla fruttaiola l'aveva servita la madre o la
figlia, e quanta gente c'era dal salumaio. La signora Rosa ascoltava
in silenzio; aveva i gusti più fini, e quelle ciarle da mercato non la
interessavano.

Quando mancava un quarto d'ora al mezzodì, la signora Caterina posava
il lavoro nel suo panierino, allontanava il paracamino, accendeva il
fuoco e con un pentolino ed una padelletta, che stavano appunto
nascoste sotto il camino, preparava il pranzo: una zuppa di magro,
oppure condita col lardo, e delle ova o della verdura.

Al mezzodì tutto era pronto, e le due sorelle pranzavano, civilmente,
con una bella tovaglia pulita sulla tavola di marmo. Poi la signora
Rosa, colle sue mani gialline e delicate, toglieva il tappeto che
copriva i fornelli, alzava l'asse, e nei due bacini, rigovernava. Non
ho mai capito perchè quella faccenda la facesse appunto lei, che aveva
bisogno di serbare il suo ricamo candidissimo. Forse perchè era tanto
esigente sulla pulizia, e non si fidava della rigovernatura sollecita
che avrebbe fatta sua sorella. Ad ogni modo le sue mani non serbavano
la menoma traccia di quell'ingrata operazione; erano sempre morbide e
gialline, ed il ricamo non ne pativa. Al tocco il camino era di nuovo
mascherato dal paracamino, i fornelli, ricoperti dall'asse e dal
tappeto, avevano ripresa la loro aria misteriosa di sarcofago, e le
due sorelle erano sedute al loro posto ai lati del balcone, coi loro
lavori, che non ismettevano più fino alla sera.

Quando imbruniva, profittavano del breve momento in cui non era tanto
buio da accendere il lume, per cenare con pane e noci, o pane e frutta
fresca, a seconda della stagione. Poi accendevano una lampadetta ad
olio, e tornavano a lavorare fino alle nove. Dacchè erano venute ad
abitare di contro, la sera la passavano spessissimo da noi. Ma sempre
lavorando. In casa loro, il balcone aperto era l'unico distintivo
dell'estate; il caldanino ai piedi era l'unico distintivo
dell'inverno. Il fuoco non era mai acceso nel camino fuorchè quando
s'aveva a preparare il pranzo. Stufe non ce n'erano. I caldanini erano
fatti colla carbonella e duravano tutto il giorno; e dovevano
prepararli in quelle ore mattutine che non mi riescì mai di
sorprendere, quando nessuno, tranne le due zitellone, era fuori dal
letto. Da venti, da trenta, da quarant'anni facevano sempre quella
vita, tutti i giorni eguale, meschina, arida, senza un bene,
strascicando una salute sciupata in una sequela di privazioni.
All'estate l'aria era cattiva. Tutti s'andava in campagna; Novara
rimaneva deserta. Le due sorelle s'affacciavano al balcone per vederci
salire in carrozza, colle valigie, la mattina della partenza; ci
salutavano colla mano, e prima che la carrozza avesse voltata la
cantonata, erano ancora sedute ai loro posti, coi loro lavori.
Passavano per noi tre mesi di gite, di vendemmie, di merende, di balli
campestri, di recite di beneficenza, di spassi d'ogni maniera; ed alla
fine di novembre, arrivando in città, sbucando sulla piazza, le prime
cose a vedersi erano la signora Rosa e la signora Caterina ai due lati
del balcone, coi due panierini, e la calza, ed il ricamo.

Veniva il carnovale; c'erano i teatri, i balli, noi s'andava fuori
quasi ogni sera; le due zitellone non potevano più venire a lavorare
in compagnia; ma la loro vita non mutava; era sempre quella, sempre
eguale, regolata come un orologio; sempre le stesse cose alle stesse
ore. Eppure non si lagnavano mai, ed erano sempre pulite, e pei giorni
di festa serbavano un vestito di seta nera; andavano superbe delle
loro trecento lire di rendita, e la signora Caterina diceva: «E non
sono imbarazzata a guadagnarne altrettante». La signora Rosa sorrideva
in silenzio, perchè in realtà la maggior parte di quel magro guadagno
era dovuto a' suoi fini lavori; ma la signora Caterina, che era la più
forte, si considerava come capo della casa, e parlava sempre in prima
persona.


Un giorno, un unico giorno indimenticabile, le vidi capitare a casa
nostra in un'ora insolita, mentre era chiaro, e si sarebbe potuto
lavorare. La signora Caterina era più rossa, più violacea del solito;
la signora Rosa era più gialla, ed ansimava di più. Entrarono nello
studio del mio padrigno, e chiusero l'uscio.

S'udì un parlare concitato, poi dei singhiozzi; poi l'uscio si aperse
e la signora Rosa uscì per la prima col viso inondato di lagrime; ma
neppur il pianto convulso aveva potuto arrossare la sua faccina
anemica; era giallina come al solito; soltanto gli occhi natavano
nelle lagrime e la faccia era lucida. La signora Caterina si soffiava
il naso, e diceva, facendo l'indifferente: «C'è una nebbia quest'oggi
che la si taglierebbe col coltello». Mio padrigno aveva la parrucca di
sghembo coll'incavo d'un orecchio in mezzo alla fronte; segno di gran
turbamento di spirito. Uscì subito colle zitellone.

Il banchiere, amico e lontano parente, pressa il quale erano collocate
le seimila lire famose delle povere donne, era fallito.

Per più d'un mese non udii parlar d'altro che di fallimento, di
sindaci di fallimento, tanto per cento, ecc. ecc. Non credevo di veder
più la fine di quel discorso; e mi faceva una gran pena. La signora
Rosa non era più giallina, ma color d'arancio, e non mangiava più. La
signora Caterina, malgrado la diminuzione della rendita, faceva delle
spese stravaganti per preparare dei piattini alla sorella. Comperava
del cervello di capretto; un giorno mise persino al fuoco una delle
casseruole relegate sotto i fornelli. La signora Rosa sorrideva d'un
sorriso mesto, e contemplava con ammirazione la sua sorella burbera e
buona, che non se ne avvedeva perchè non poteva voltare il capo.


Ci fu un grande andirivieni in tribunale; e poi una mattina le due
donne vennero da noi, portando qualche cosa nel grembiule. La signora
Rosa aveva sempre quel sorriso desolato; ma la signora Caterina era
raggiante di gioia. Nel grembiule aveva tremila lire; il cinquanta per
cento ottenuto dal sindaco del fallimento sul loro capitale. Quel
capitale lei non lo aveva mai veduto, era come nominale. Invece le
tremila lire le sentiva, vedeva luccicare i marenghi nel suo
grembiule; alla sua corta intelligenza riesciva impossibile di
comprendere che aveva fatta una perdita, mentre aveva tutto quel
denaro che le tintinniva in grembo; le pareva d'essere arricchita, e
rideva del suo riso muto e gongolante, dicendo alla sorella:

--Via! Ti posso dare molti fritti di cervello, con tutto questo.

Mio padrigno trovò modo d'impiegare quelle tremila lire al sei per
cento. Ma tuttavia v'erano sempre centoventi lire all'anno di meno: il
prezzo della pigione. Senz'allontanarsi dalla piazza le povere donne
mutarono alloggio e presero una camera sola. Poi ripigliarono la
solita vita lavorando ancora di più, mangiando ancora meno, facendo
durare più a lungo le cuffie della signora Rosa, i vestiti, le scarpe;
ma serbandosi sempre pulite, e nei giorni di festa portando sempre il
vestito di seta nera.

Mio padrigno morì; la nostra famiglia si disperse. Io fui assente da
Novara parecchi anni; quando ci tornai, di passaggio, le due zitellone
erano ancora sedute ai due lati del balcone, coi due panierini ed i
due lavori. La signora Rosa ricamava cogli occhiali, la signora
Caterina aveva delle rughe che complicavano ancora più i rabeschi
fatti dal vaiuolo sul suo volto violaceo. Si intrattenevano ancora,
una del romanzo della signora Caterina, l'altra dell'avventura del
fallimento.

Sempre malate, sempre miserabili, sempre laboriose, sempre rassegnate,
hanno bisogno di tutte le forze, di tutto il coraggio, e di tutte le
ore della loro povera vita, per mantenerla in quello squallore. Ora
debbono essere vecchie del tutto; in quell'età in cui i mali si
aggravano, il lavoro riesce più difficile, e le forze mancano per
sopportare le privazioni.

Ma finchè la morte o l'infermità non le avranno atterrate, lavoreranno
ancora, lavoreranno sempre, lavoreranno l'una per l'altra, e,
nell'assenza d'ogni speranza, la loro anima semplice e mite non
conoscerà la disperazione.

Ricchi generosi che amate di far il bene, e cercate le miserie
tragiche nelle cronache dei giornali, quando le due seggiole saranno
abbandonate ai lati del piccolo balcone, possa il caso o Dio farvi
alzare lo sguardo a quei posti deserti. Forse nei loro lettini bianchi
le due vecchie piangeranno per la prima volta di non poter lavorare.
Forse la più malata sarà già morta, e la superstite, nella sua
miseria, soffrirà sola.



LE BRICIOLE D'EPULONE.


«Quei poveri _spostati!_ Quegli infelicissimi che debbono vivere con
una rendita insufficiente ai loro bisogni!» È un tema di discorso dei
più commoventi. Non c'è famiglia che non ne conosca qualcheduno, o
anche parecchi, e non ne senta una grande pietà. La sera d'inverno,
quando la vampa attirata dall'aria, russa ed ansima nella stufa, e la
lampada velata da un paralume spande intorno una luce mite, e l'acqua
pel tè gorgoglia nella cuccuma, e la tavola è coperta di giornali, di
disegni, di ricami, di fotografie, di romanzi che ci hanno occupati
piacevolmente un'ora prima, e ci occuperanno ancora allo stesso modo
più tardi, o il domani, ci rannicchiamo ben bene nelle poltroncine a
molla, sui divani morbidi, e, nella generosità del nostro cuore,
facciamo un confronto straziante fra la nostra esistenza e quella di
quei poveri spostati. «Vi sono degli impiegati a cento lire al mese e
con una speranza d'avanzamento così lento! Dovranno avere i capelli
grigi per arrivare a dugento lire. E i maestri di scuola? E questi? E
questi altri? Ce n'è che si struggono per guadagnare tre lire al
giorno. Pare incredibile; eppure è una crudele verità.

«Il peggio è per quelli che erano in una condizione migliore; trovarsi
ad un tratto impoveriti, e dover rinunciare alle loro abitudini
d'agiatezza! Perchè, infine, erano avvezzi a vivere _come noi!_ E
debbono accontentarsi di pranzare in un'osteria a due lire, di dormire
in una cameruccia mobiliata, e magari di cercarsi un sovraccarico di
lavoro per potersi pagare i vestiti e le scarpe, e passar la serata a
fare delle traduzioni, o tenere in ordine il libro mastro di un
negozio. E pochi anni prima andavano in carrozza...»

Conobbi molte persone buone e ricche, le quali s'intenerivano fino al
pianto per quelle miserie. Gli spostati erano l'oggetto della loro
massima compassione, ed inventavano ogni sorta di sotterfugi delicati
per alleviare le difficoltà della loro vita, senza umiliarli. «Quelli
che sono sempre stati poveri, dicevano, fanno minor pena, perchè sono
avvezzi a quella vita, non si vergognano, possono fare ogni sorta di
lavori, possono mendicare, e se la cavano sempre. Ma i _poveri in
guanti_ che debbono serbare una certa apparenza di benessere...»

Una contessa ne conosceva uno che era figlio di un ricchissimo
possidente. Soltanto pochi anni prima la sua famiglia era due volte
millenaria; aveva carrozza, non se ne parla nemmanco, e servitù, ed
una mensa ospitale; sempre gente a pranzo, sempre invitati a
villeggiare nella sua bella campagna, e per lui maestri di lingue,
maestri di musica, di scherma, d'equitazione, e che bei cavalli da
sella! E l'aveva goduta fino a ventun anno questa cuccagna. Poi il
padre s'era messo nelle speculazioni, tutto gli era andato male, e
s'era ridotto con nulla; era morto povero. Ed il figlio era venuto a
Milano con cinquanta lire al mese.

Dio! se ho dovuto udirne, e farne, delle esclamazioni su quel
miserrimo caso! E se n'ho ascoltate delle ammirazioni per quel giovane
coraggioso, che s'accontentava di quella condizione finchè non gli
capitasse di meglio! La contessa pietosa gli aveva offerta una
cameruccia con pochi mobili in una sua casa che affittava ad operai,
tanto per risparmiargli la spesa della pigione. Avevano scritto ad una
parente di lui agiata, e l'avevano indotta a dargli ancora venti lire
al mese. Facevano settanta lire in tutto, e con quelle il giovane
martire riusciva a vivere; ed era sempre d'umore sereno, serbava
sempre i suoi modi da gentiluomo, ed aveva tanta cura de' suoi abiti,
reliquie della passata grandezza, che non isfigurava punto in società.
Ma che privazioni doveva soffrire! Non fumava, se non quando qualche
conoscente gli offriva un sigaro, il dopo pranzo, perchè spesso
l'invitavano a pranzo. Ma di solito andava a desinare all'osteria
solo. E qualcuno aveva osservato che qualche volta non beveva vino e
non prendeva frutta. Una minestra, un piatto di carne, ed un po' di
formaggio.... Un eroe addirittura!


Conoscevo la vita dei contadini nelle risaie del Novarese, e nella
bassa Lombardia, e sul Piacentino nella vallata del Po; paesi di
febbre, di pellagra; conoscevo i quartieri più poveri della grande
città. E certi spettacoli induriscono il cuore. Quella minestra, quel
piatto di carne, quel formaggio, non mi strappavano nemmeno un
sospiro.

La miseria umana m'aveva confidati ben altri dolori! Alcune finestre
interne del mio quartiere aprivano appunto sul cortile dell'osteria,
dove il giovane milionario decaduto, e molti altri infelici dai minimi
stipendi, compievano ogni giorno l'atto eroico di pranzare con due
lire, e magari con meno.

Una quantità di camerieri e cuochi e guatteri erano in moto fin
dall'alba a mettere in ordine e pulire ogni cosa; c'era una donna che
passava delle ore accoppiando grembiuli da cucina, e tovaglioli, e
tovaglie sporchi prima di darli al bucato; c'era un uomo che tutto il
santo giorno girava il manubrio del tostino. Ogni mattina veniva il
carro chiuso del panettiere, col pane comune, ed il pane da caffè; poi
il carro del macellaio, quello del pollame, quello delle ova; un
ortolano portava dei grandi panieri di verdura e di frutta; ed in
tutte le stagioni, anche nel cuore dell'inverno, un contadino
conduceva un carro di ghiaccio. Appena arrivato buttava addosso al
cavallo sudato una coperta di lana, poi saliva sul carro e cominciava
a scaricare quella massa gelata, coi piedi nel ghiaccio, maneggiando
con forza il badile, riscaldandosi, sudando, senza punto badare a
coprirsi come aveva coperto il cavallo.

Tutti costoro lavoravano a preparare quel miserabile pranzo a due
lire, ed anche a meno. Poi i camerieri, i guatteri, quanti servivano
all'osteria, mangiavano gli avanzi dei poveri spostati. E gli altri
tornavano alle loro case e si nutrivano d'una minestra condita col
lardo, o d'un po' di polenta non condita affatto.

Al confronto, il pranzo a due lire era un banchetto da Epulone, e
tutta quella gente ne raccoglieva le briciole. Ma c'era anche un
Lazzaro che moriva di fame alla porta.


Verso le sette del mattino entrava nel cortile, aprendosi la via tra
quell'andirivieni di provveditori, il carro d'un allevatore di maiali,
colla grande botte nella quale raccoglieva la rigovernatura per
ingrassare le sue bestie. Quel villano aveva un servitore, un
trovatello, che sua moglie aveva preso a baliatico all'ospedale, e che
s'era tenuto per mandarlo fuori a custodire i maiali. Da dieci anni
faceva quel mestiere, e la mattina veniva in città col padrone, per
vuotare nella botte i secchi della rigovernatura. Quand'era freddo o
pioveva, il villano si rinvoltava bene in un grosso pastrano, e si
tirava sulle gambe una copertaccia di lana; ma il servitore aveva
sempre gli stessi calzoni e la stessa giubba di fustagno; e attraverso
gli strappi, sulle ginocchia ed altrove, si vedevano le carni
assiderate. Non aveva calze, portava le scarpe vecchie del padrone,
che lasciavano uscire le dita, ed erano tanto grandi che s'empivano
d'acqua ed i piedi ci andavano a sguazzo.

«Ma lui era giovane, diceva il villano. Alla sua età non doveva aver
bisogno di coprirsi, nè poteva soffrire dell'umidità; e se non fosse
stato un principio di pellagra a renderlo così pigro e malandato, un
ragazzo come quello, a sedici anni, avrebbe dovuto esser forte come un
toro. Ed invece non era buono a nulla; e bisbetico! In certi momenti
si buttava in terra, e si rotolava, ed urlava come un pazzo; e
dicevano che anche quello era un effetto della pellagra; un brutto
effetto per un padrone che si teneva in casa quel ragazzo da quand'era
poppante. Ma lui era un buon padrone; e purchè, malato o sano, il
ragazzo lavorasse, anche pellagroso non lo mandava via, e continuava,
a dargli la polenta come gliel'aveva data sempre, ed a lasciarlo
dormire sul fienile. Il fienile era aperto ai quattro venti, e la
polenta era fatta col grano fermentato; ma a sedici anni non si è
sensibili a queste cose, e se Pietro non avesse avuto la pellagra,
avrebbe dovuto esser forte come un toro.»

Scendevano dal carro tutti e due; il padrone entrava all'osteria per
mangiar un boccone. Pietro apriva la cassetta sotto il sedile del
carro, e tirava fuori un pezzo di pane di gran turco; poi prendeva un
secchio, e col secchio in una mano ed il pane nell'altra,
mangiucchiando ed andando a trasciconi, cominciava il trasporto della
rigovernatura.

Quando usciva col secchio pieno, riponeva il pane nello sparato della
camicia, alzava il secchio con tutte e due le braccia, e versava nella
botte una broda scura e densa, nella quale nuotavano degli avanzi
spoltigliati. Qualche volta, prima di versare il secchio, lo posava
sulla botte, immergeva il braccio fino al gomito in quel luridume, e
lo rimoveva per far venire a galla quello che c'era di solido; e se
vedeva qualche avanzo di carne o di pesce, li pescava, li rinvoltava
in un cencio di pezzuola turchina, e li nascondeva sotto una coperta
umidiccia che faceva da cuscino al sedile del carro; poi tra un
secchio e l'altro, quando il suo-padrone non c'era, andava a sollevare
la coperta ed addentava avidamente quei rimasugli.

I monelli ed i guatteri si divertivano di quel selvaggio. Lo spiavano
per coglierlo sul fatto, e quando stava per mordere al suo pasto, gli
gridavano imitando i camerieri che servivano i signori nell'osteria:
«Filetto al sugo! Costolette alla marsigliese! Servito!» Pietro non
capiva la burla, ma capiva che lo burlavano, e mostrava i pugni ai
monelli.

Quasi alla stess'ora della botte di Pietro, sovente assai prima,
arrivava il carro d'un ortolano che veniva a prendere le spazzature.
Era tirato da un asino magro e piccino. L'ortolano staccava il ciuco,
lo legava con una corda ad un anello infisso nel muro, poi apriva la
botola delle spazzature, e prima di buttarle sul carro, le rimoveva
per vedere cosa c'era di buono; e trovava sempre qualche limone
ammuffito, qualche mela mézza, che metteva da parte sull'orlo della
botola; anche il ciuco adocchiava delle cose appetitose, dei torsoli
di frutta o di cavolo. Ma la corda era troppo corta e non poteva
arrivarci; ed il padrone gli legava il muso in un sacco di fieno
ispido come paglia: doveva mangiar quello; mangiarlo col muso legato
per non distrarsi. Intanto tutti i monelli che passavano gli tiravano
la coda: ci si attaccavano per dondolarsi, abbandonandosi a
quell'appoggio con tutto il loro peso. Il povero ciuchino scuoteva la
testa.

Avevo preso a cuore quell'essere umano e quella bestia che morivano
lentamente, ogni giorno un poco, per la crudeltà degli uomini.


Una mattina di febbraio mi alzai ed apersi le imposte un po' più
presto del solito. Il ciuchino era solo al suo posto: ma non aveva il
muso legato nel sacco: era troppo malato. Aveva un largo tumore in
fondo al dorso sopra la coda, e teneva, le orecchie basse, e tratto
tratto rabbrividiva tutto. Pioveva da tutto il giorno innanzi, da
tutta la notte: una pioggia fitta, incessante, diaccia. Il cielo era
grigio come di piombo, l'aria rigida, un fanghiccio nerognolo copriva
il cortile e la pioggia cadeva, cadeva.

La botte di Pietro entrò, tutta lucente dalla lunga lavatura. Il
padrone ed il cavallo erano coperti da un cencio di lana inzuppato.
Pietro era vestito co' soliti abiti: stava tutto raggrinchiato, come
se volesse farsi entrare le gambe e le braccia nel torso per
riscaldarle. Si lasciò cadere dal carro tutto d'un pezzo, e rimase là
tremando e scotendosi, colla facciona gialla così grossa che pareva
ingrassato.

Il padrone gli buttò contro il secchio, e lo spinse verso l'uscio
dell'osteria gridandogli:

--Muoviti, fannullone!

Rabbrividì lungamente dondolando il capo, poi s'avviò strisciando i
piedi nel fango o col dorso curvato, mentre il padrone gli veniva
dietro borbottando:

--E dire che ha sedici anni! Ho avuto fortuna con costui!

Quella mattina Pietro immergeva più lungamente il braccio nella
rigovernatura fumante. Quel calore gli faceva bene. Ma era lento,
lento: penava a muoversi, e le vene della fronte erano turgide come se
stessero per iscoppiare. Nel terzo secchio trovò un pezzo di
costoletta, e s'affrettò a cavar fuori la pezzuola umida ed a
rinvoltarcelo dentro: ma non fece in tempo a portarlo sotto il sedile:
udì la voce del padrone che veniva fuori coll'ortolano e ricacciò la
pezzuola e tutto nello sparato della camicia. I due uomini
s'accostarono al ciuco, ed esaminarono il tumore. I monelli, a forza
di tirargli la coda, l'avevano ridotto in quello stato.

--Non mi riesce di farlo suppurare per quanti impiastri ci metta,
disse l'ortolano impensierito dalla paura di perdere la bestia.

--Bisogna tagliarlo, suggerì l'allevatore di maiali.

--Sie? Chiamare il veterinario, che mi prenderà due lire!

--È sempre meglio che condurlo alla scuola dei veterinari, dove,
invece di curarle, le bestie malate le fanno morire con un'acquetta,
per guardarci dentro e studiare le malattie.

L'ortolano rimaneva impaurito dinanzi a quest'alternativa, e l'altro
riprese:

--Del resto si può fare anche senza del veterinario. Se aveste un
temperino....

Il padrone del ciuco entrò nell'osteria, e ne uscì con un cameriere in
abito nero e sparato bianco, che pareva un signore. Aveva anche un
temperino in mano, e sorrideva di quei due villani, e dell'asino, e
del male, e di tutto.

--Dov'è che si deve fare questa grande operazione? domandò con aria di
sprezzo, accostandosi al ciuco ed arricciando il naso, perchè la
botola delle spazzature aperta mandava un puzzo atroce.

I due contadini, un guattero, un carbonaio, alcuni garzoni delle
botteghe vicine, gli si fecero intorno curiosi.

--Ma piove, gridò il cameriere; non sentite che la pioggia bagna? E
diede uno spintone all'asino per cacciarlo più contro il muro e
mettersi lui al riparo sotto la grondaia mentre lo operava. Gli altri
non badavano a quella pioggerella minuta, e strinsero il cerchio per
veder a tagliare e ad uscire il sangue.

Pietro pure voleva vedere, e cercò di farsi posto; ma il suo padrone
lo cacciò via. Egli si mise a strascicarsi intorno, tentando di
rizzarsi sulle spalle degli altri; ma tutti lo respingevano, ed era
troppo piccolo per vedere stando dietro. Allora s'affrettò,
inciampando e dondolando, fino al suo carro, e salì in piedi a
cassetto. Era un po' lontano, ma era alto, e di là vedeva tutto.
Fremeva d'impazienza e di curiosità. Allungava il collo, protendeva la
testa enorme, e la sua facciona gialla, più gialla del solito, quasi
livida, sembrava animarsi in quell'eccitazione dell'aspettativa
feroce. Fissava gli occhi iniettati e lucenti sulle mani del
cameriere, sul dorso gonfio dell'asino, come assetato di sangue, come
se dovessero cavarlo alla bestia per darlo da bere a lui.

Rideva di un riso muto, colla bocca aperta e le labbra tese sui denti
grigi; rideva da far paura.

Il bel cameriere immerse il temperino nella pelle tumefatta, e lo
spinse forte innanzi, aprendo un largo taglio. Il sangue sprizzò, si
stese, fece una larga macchia rosseggiante sul dorso della povera
bestia, che tremò tutta ed alzò prodigiosamente il capo in uno spasimo
silenzioso. Alla vista del sangue il pellagroso, dall'alto del carro,
lasciò sfuggire una risata rauca e stonata, una risata da briaco o da
pazzo. Poi sciolse frettoloso la sua pezzuola bagnata, e morse
avidamente il pezzo di costoletta.

--_Filet de boeuf_ al madera! Servito! gli gridò sghignazzando un
guattero che usciva dall'osteria. Pietro alzò i pugni; ma l'altro
tornò a dire: «Ecco il madera!» E gli scaraventò nel viso un
rimasuglio di rigovernatura rimasta nel secchio.

Il pellagroso rivolse a lui la faccia grondante di quel luridume, coi
denti stretti, ed i pugni serrati e tremanti in atto minaccioso. Il
guattero continuò a ridere, ed a contraffarlo; e Pietro più
rabbiosamente gli scoteva contro i pugni irrigiditi, e si faceva più
rosso negli occhi e più livido nel viso. Poi cominciò a ridere, a
ridere forte con un suono opprimente di rantolo; e ad un tratto, coi
pugni alti e senza cessar di ridere, parve che si spingesse innanzi
come se si avventasse contro il guattero, e piombò dal carro.

Tutti gli corsero curiosamente intorno, abbandonando il ciuco che era
stato medicato e non divertiva più, Pietro si dibatteva ed ululava
sommesso, e dalla bocca gli usciva una schiuma bianca.

--È il _brutto male_, disse l'ortolano dal ciuco.

--È l'epilessia, corresse il cameriere elegante, ripulendo il
temperino nel grembiule del guattero.

--No; è la pellagra, disse il padrone di Pietro. Mi fa spesso questa
scena. Ora mi toccherà di metterlo sul carro come un morto, e per
tutto il giorno non lavorerà più.

E mentre, coll'aiuto dell'ortolano e del carbonaio, lo sollevava con
mal garbo, andava borbottando:

--E dire che ha sedici anni! Un bell'affare che ho fatto a pigliarmi
questo mangiapane!

Intanto l'asino, abbandonato a sè stesso, scosse lungamente il capo ed
il dorso indolorito; poi adocchiò il mucchio di frutta mézze e di
torsoli raccolti dal suo padrone sull'orlo della botola; allungò il
collo, allungò il muso, si spinse tutto innanzi tendendo la corda, che
scricchiolò sull'anello e parve vicina a spezzarsi, fiutò lungamente,
sfiorò col muso la provvista appetitosa, e riuscì ad afferrare colla
punta delle labbra un torso di cavolo.

Guardò il carro della rigovernatura che usciva lento e cigolando dal
cortile, ed a piedi del sedile, raggomitolato come un cencio, il solo
ragazzo che non gli aveva mai fatto alcun male, che non gli aveva mai
tirata la coda. Scosse le orecchie, poi addentò beatamente quel
torsolo bianco e succoso, vero cibo da ciuco malato, che non gli
sarebbe toccato di certo, se quel ragazzo, cadendo dal carro, non
avesse fatto accorrere l'ortolano lontano da' suoi averi. E, se mai
gli asini pensano, dovette pensare che la provvidenza è grande.



LE AFFITTACAMERE,


I.

La prima che conobbi diceva d'appartenere ad una famiglia patrizia.
Non ho mai cercato dì verificare la sua nobiltà, ma avrebbe potuto
essere autentica, perchè non è raro il caso di nobili decadute che
sbarcano magramente i loro ultimi lunari, facendo l'affittacamere. Ad
ogni modo però, il sangue azzurro doveva averlo avuto soltanto dalla
madre, dacchè si chiamava borghesemente signora Giuditta, e viveva
d'una piccola pensione che le pagava il governo come figlia
d'impiegato governativo, sebbene ai tempi remoti di suo padre, Milano
fosse ancora sotto il governo austriaco.

Rammentava una parentela numerosissima. Una serie di fratelli, di
sorelle, tutti sposati a gente ricca e titolata; zii e cugini che
avevano palazzi e servitù numerosa, e carrozze e cavalli. Aveva la
manìa delle grandezze. Di tutti quei personaggi, se pure esistevano,
non si vedeva mai l'ombra. O erano morti, o non pensavano punto a
quella povera mummia. Ma lei aveva bisogno di parlarne, perchè,
nell'isolamento in cui viveva, quegli esseri assenti o immaginari le
creavano una famiglia illusoria, che non mancava mai di presentare a'
suoi pigionanti, e mettevano nella sua triste vita da vecchia
indigente, dei pensieri di lusso che la insuperbivano.

La signora Giuditta confessava di non essere più giovane, sebbene non
dicesse mai la sua età. A vederla le si sarebbero dati cento anni;
forse non li aveva tutti; ma era una rovina; magra come uno scheletro,
colla lunga persona incurvata ed il volto tormentato da rughe che
traversavano in ogni senso la pelle flaccida. Le erano rimasti i
capelli, altra volta biondi, ora d'un grigio giallognolo, e li
pettinava alla moda de' suoi tempi, in due grossi riccioli ai lati
della fronte. Non aveva più denti in bocca, e portava una vecchia
dentiera, dono d'una sua nobile parente, la quale non poteva più
servirsene perchè la molla non teneva più. Quella dentiera era causa
di episodi spaventosi. Sovente, a mezzo d'uno degli interminabili
discorsi sconclusionati della signora Giuditta, le si vedevano tutti i
denti irrompere terribilmente fuori dalla bocca; ed ella s'affrettava
con ambe le mani a respingerli dentro, e li rimetteva a posto a bocca
chiusa, con un rumore d'ossame che dava i brividi. Aveva l'abitudine
di star a letto tardi, ed entrando da lei prima del mezzodì, si aveva
la mortificazione di sorprenderla colla bocca vuota e nera come una
caverna, dalla quale uscivano parole biasciate ed incomprensibili,
mentre, sul tavolino da notte, quella mandibola gialla di cadavere,
metteva paura. Altre volte il congegno guasto della dentiera troppo
aperto, rifiutava di chiudersi; e la signora Giuditta rimaneva colla
bocca spalancata, vociando: «Ah! ah!...» e doveva fuggire in camera a
togliersi la dentiera per poterla richiudere.

Le trecentosessanta lire della sua pensione non bastavano di certo
alla zitellona per provvedersi vitto ed alloggio. Aveva dei mobili,
avanzi della passata grandezza, i quali, distribuiti nelle due camere
che affittava mobiliate, le costituivano una piccola rendita. Ma guai
se una di quelle camere fosse rimasta qualche mese vuota! Sarebbe
stato un disastro per la povera donna, che, pagata la pigione del suo
quartierino, calcolava su quattrocento lire circa, per vivere tutto
l'anno.

Lei abitava un bugigattolo mezzo buio, con una cucinetta buia del
tutto, nella quale l'unico fuoco che s'accendeva era la fiammella a
spirito della macchina da caffè. Le sole camere chiare erano quelle
che affittava.

Malgrado la sua povertà, la signora Giuditta non accettava nessun
inquilino ad occhi chiusi. Ne prendeva informazioni, poi gli fissava
l'ora di ritirarsi la sera, gli proibiva di far chiasso in camera,
faceva delle oneste restrizioni sulle persone che poteva ricevere, e
lo avvertiva che non gli avrebbe data la chiave del portone. Preferiva
affittare alle donne. Vergognosa com'era della sua povertà, viveva
affatto da sola, non era neppure desiderata in compagnia di certo,
dacchè appunto solitudine e miseria ne avevano fatto un essere
lamentevolmente ridicolo. Non vedeva altri che i suoi pigionanti, e su
loro faceva pesare tutta la socievolezza del suo carattere, e tutta la
sua curiosità di vecchia. Voleva sapere i loro interessi e raccontare
i suoi. Per lo più aveva in casa artisti da teatro, scrittori,
pittori, poeti, concertisti di passaggio, gente più o meno rinomata. A
quei contatti la vanità femminile della vecchia era sempre eccitata;
lei pure voleva essere qualche cosa ed avere dei trionfi da narrare. E
non potendoli trovare nel presente, li evocava dal passato. Erano
sempre lo splendore della sua famiglia, la parentela illustre, e poi
la bellezza della sua gioventù. Una volta, alla Scala il vicerè aveva
domandato: «Chi è quella bella _popola?_» Un'altra volta ci doveva
essere _un concorso a premio per le più belle gambe di Milano;_ poi
era andato a monte, ma se si fosse fatto, il premio sarebbe toccato a
lei. Molti scultori e pittori avrebbero voluto averla per modello;
soltanto il suo decoro non le aveva permesso di prodigare alle arti i
tesori della sua bellezza. E le proposte di matrimonio che aveva
avute! Tutte di giovani bellissimi, facoltosissimi, nobili come tanti
re. Non diceva mai perchè non ne avesse accettata nessuna.

Delle sue strettezze non parlava mai. Usciva sull'imbrunire, e
rientrava in casa portando sotto lo scialle qualche pezzo di carne
rifredda, comperata da un rosticciere pel suo desinare. Ci aggiungeva,
a titolo di minestra, un caffè e latte che riscaldava sul fornellino a
spirito, e non altro. Ma ne faceva grande mistero, e, per mangiar quel
boccone, si rinchiudeva durante un'ora e più, dicendo pomposamente:
«Vado a pranzo.»

Aveva un salotto. Il locale più angusto, più mal situato del
quartierino; un buco da cui non si sarebbe potato cavare nessun
partito; una stanzuccia di passaggio. Le stoffe dei mobili sbiadite, i
legni senza lucido, le cornici scrostate, s'univano alla signora
Giuditta per affermare che avevano veduti tempi migliori. Sopra una
scansìa facevano bella mostra delle confettiere di cartone scolorito,
qualche pezzo d'argento Cristophle che ricordava l'incoronazione di
Napoleone primo, e delle chicchere di porcellana, vecchie senza essere
antiche, religiosamente coperte da un velo verde, che doveva aver
fatto cinquant'anni prima il viaggio da nozze sul cappello di qualche
sorella della proprietaria. Disopra al camino eternamente spento, fra
molte fotografie ingiallite, era appeso in una cornicina di cartone,
qualche cosa come uno specchietto vecchio a cui mancasse in più luoghi
la foglia. Quello specchietto era stato altre volte un dagherrotipo
che, collocato di sghembo, con un raggio di sole che lo battesse in
diagonale, in un dato punto della stanza, ed in certe ore speciali,
rifletteva un non so che, come un profilo intagliato nell'acciaio. Ma
il tempo aveva cancellato ogni cosa; e non rimaneva che un vetro
macchiato, sul quale soltanto l'entusiasmo cieco della signora
Giuditta s'illudeva di vedere il ritratto del Modena, il pigionante
illustre fra gli illustri, che aveva fatta la gloria della sua casa.
Quel salotto, l'affittacamere lo metteva a disposizione de' suoi
pigionali; preferiva che ricevessero là che nelle loro stanze, e
quand'era riescita a far gelare un visitatore in quel buco, aveva
l'aria d'aver fatto una larghezza all'inquilino che aveva ricevuta la
visita, e diceva: «Così vedranno che lei abita in una casa ammodo.»
Poi domandava se aveva fatto vedere a quel signore la sua galleria
fotografica di pigionanti illustri. «Gli ha mostrato il ritratto della
Marchionni? Del Boccomini? Del Modena?» Era la sua ambizione aver
gente famosa in casa sua.

Le persone ignote per quanto buone, cordiali, e se anche pagavano
meglio delle altre, non le nominava mai.

La signora Giuditta usciva così poco dal suo guscio che la vedevo di
rado. Ma ogni tanto andavo a domandarne nuove. Un giorno, dopo
un'assenza di parecchi mesi da Milano, entrai nella sua porta per
salire a vederla.

--È morta, mi disse il portinaio. È morta di vaiuolo nero
all'ospedale.

--Perchè all'ospedale? domandai.

--Gli inquilini delle sue stanze erano fuggiti appena saputo il suo
male, ed era rimasta sola.

--Ed i suoi parenti?

--È venuto un nipote, mi rispose ancora il portinaio, ma soltanto dopo
che era morta per portar via i mobili.

--Non furono venduti pei funerali?

--Nossignora. I funerali li pagò quella donnina che veniva spesso ad
abitare una delle sue camere mobigliate.

--Quale donnina?

--Non la conosceva? È la moglie d'un commesso viaggiatore, e, quando
il marito era in viaggio e lei non poteva seguirlo, veniva dalla
signora Giuditta per non rimaner sola. Le voleva bene; era l'unica che
andasse a prendere sue nuove all'ospedale....

Non era nella galleria dei pigionanti illustri quella, e la povera
vecchia non me ne aveva mai parlato.

Mutati i particolari della dentiera, dei riccioli, con qualche
variante nelle piccole manìe, le affittacamere di condizione civile
somigliano tutte dal più al meno alla signora Giuditta. Per loro
quella magra industria rappresenta la fine d'una vita delusa; una
tavola di salvamento a cui si aggrappano per non morire d'inedia,
quando hanno perduto famiglia, agiatezza, gioventù ed illusioni.

Ce ne sono altre invece, che non furono mai più fortunate, che vengono
dal popolo; per quelle la professione dell'affittacamere non è una
fine ma un principio, un punto di partenza per giungere a gloriosi
ideali. Ne cito un esempio nel capitolo seguente.


II.

La madre aveva servito molti anni in una casa signorile. La sua
padrona, morendo, le aveva lasciati dei mobili, coi quali la Teresa
era tornata in famiglia a deplorare co' suoi la spilorceria della
morta.

--Non ho avuto fortuna, diceva. Ci sono delle signore che hanno
qualche affezione da nascondere, debbono ricevere lettere, visite,
uscire senza farsi scorgere, e senza l'aiuto della cameriera non fanno
nulla. Oppure fanno dei debiti colla sarta, colla modista, bisogna
farle star zitte perchè il marito non gridi, ed è ancora la cameriera
che cerca una somma in prestito, va ad impegnare i gioielli, a vendere
qualche cosa; ed allora la padrona non guarda pel sottile, le mancie
corrono, si hanno dei doni, si può raggranellar del denaro per non
morire poi nella miseria. A me invece è toccata una padrona che non
vedeva più in là del naso; marito e figli, figli e marito; nessun
lusso; ed in casa lavorava che era una vergogna. A questo modo una
cameriera rimane sempre povera. Non è come la cuoca che maneggia il
denaro; per noi se non capita una circostanza....

La Teresa aveva un marito, operaio sfaccendato, un figlio quasi sordo
e quasi muto, inetto a qualsiasi mestiere, e due figlie.

Dopo aver disprezzati quei mobili «dei cenci, che non metteva conto di
dir grazie, buoni da far legna per l'inverno, che una donna ricca
avrebbe dovuto vergognarsi di lasciarli in eredità, ecc.» ciascuno vi
adagiò sopra le sue speranze.

--«Mobiliare delle camere da affittare,» Questa fu l'idea concepita ed
approvata da tutta la famiglia. Ma ogni individuo la considerava sotto
un punto di vista speciale.

--I mobili sono miei; se ne caveremo da vivere, la padrona di casa
sarò io sola, suggeriva l'orgoglio della Teresa.

--Ci sarà sempre qualche poltrona o qualche tavola da restaurare, si
dovranno stendere i tappeti, appiccar le cortine od i capoletti; sarà
una scusa per lasciar la bottega, e non far più il falegname,
calcolava l'infingardaggine del marito.

--S'avranno in casa degli artisti, degli ufficiali, dei signori; ci
faranno la corte, e troveremo da maritarci bene e saremo ricche. Era
l'ideale delle ragazze.

E tutti d'accordo pensavano:

--Quello stupido Michele, che non sa parlare e ci sta sulle spalle a
tutti, terrà pulite le camere e servirà i pigionanti. Sarà un modo di
cavarne partito.

Quando conobbi quella gente erano molti anni che facevano
l'affittacamere.

L'ideale della Teresa s'era avverato in parte. La faceva da padrona
dispotica col marito e lo tiranneggiava. Ma le figlie tiranneggiavano
lei. Avevano voluto tenere dei pigionali a dozzina, e la Teresa era
stata obbligata a cucinare il pranzo, ed a servire a tavola, dove
c'era sempre il suo posto, ma non le si dava tempo di sedere. Era una
vecchietta secca ed arcigna, che si faceva gli occhi cisposi a forza
di rimpiangere la spilorceria della defunta padrona, la grettezza dei
pigionanti, la pigrizia del marito, la meschinità della professione,
l'ingratitudine degli uomini....

Il marito aveva infatti lasciata da anni la bottega, ma era curvo a
forza di piegarsi ai comandi di tutti; le tre donne gli rinfacciavano
il pane che mangiava; gli facevano fare ogni sorta di lavori in casa,
ma non ne tenevano conto; ed egli faceva tutto male e di malavoglia;
ma qualche cosa doveva pur fare, e non aveva mai un soldo in tasca, e
passava le giornate sonnecchiando sotto una tempesta di rimproveri,
lasciando dire, e mangiando quel che gli davano, seduto al focolare
come un gatto domestico.

La figlia maggiore, Ernesta, era vecchia, anemica, un po' calva; le
mancavano parecchi denti, ed aveva il lobo d'un orecchio spaccato. Da
un gran pezzo aveva lasciato il mestiere di modista, e teneva in
ordine la biancheria delle camere e degli inquilini. Era sempre in
moto, sempre affaccendata; si pettinava a metà del giorno, qualche
volta la sera; se il lavoro era soverchio non si pettinava affatto.
Strascicava le ciabatte, portava dei vestiti tutti frittelle, colla
pedana sfilacciata, la vita disadatta, i gangherini o i bottoni
mancanti, ed una vecchia pezzuola annodata al collo. Ed in
quell'arnese, se s'imbatteva coi pigionanti, si metteva a discorrere
di _partizioni_, di _scritture_, di _quartali_, d'impresari, di
soprani _pastosi_, di tenori che _baritoneggiano_, di _do di
petto_.... conosceva tutto il gergo teatrale, e se ne gloriava.
Toglieva la fascia ai giornali teatrali degli artisti che aveva in
casa, e li scorreva curiosamente, poi diceva alla madre o alla
sorella, o, in mancanza di quelle, anche al padre:

--Ha avuto un _gran successo_ a Lisbona. Ha fatto furore al Covent
Garden nella _Linda_. È _scritturato_ a Bukarest con quaranta mila
lire per venticinque recite e la _beneficiata_....

--Quello è un grande artista! Che fortuna deve fare! È un fenomeno!

E tutta la famiglia stava in ammirazione di quell'innominato che
chiamavano sempre _lui_, e l'Ernesta si pavoneggiava, e godeva, come
se si fosse trattato di lei stessa o di suo marito. Si abbandonava a
narrare dei particolari gloriosi della carriera di _lui_: dame che se
n'erano innamorate, giovani dell'_alta aristocrazia_ che avevano
staccati i cavalli dalla carrozza e l'avevano strascinata all'albergo,
serenate, doni di gran valore, versi.... Chiunque li avesse uditi
parlare con quella passione, con quell'entusiasmo, avrebbe creduto che
quella gente ricordasse un caro assente, un figliolo, la gloria e
l'amore della famiglia.

Invece _lui_ era stato l'amante dell'Ernesta; l'aveva trascinata con
sè per qualche tempo di teatro in teatro, facendola stare nelle quinte
ad aspettarlo con un mantello per coprirlo quando rientrava sudato,
facendole portare la scatola da toletta, cucire gli accessori dei
costumi. Poi un bel giorno lui aveva sposata una prima donna ricca, e
l'Ernesta era tornata a casa coll'orecchio fesso da uno schiaffo, che
le aveva fatto saltare l'orecchino da un capo all'altro del teatro.

E di quelle scene brutali ne aveva sofferte molte, a giudicarne dallo
stato in cui era ridotta; e sui primi tempi dopo il suo ritorno non
aveva osato mostrarsi per le strade di Milano, aveva pianto, aveva
mandato ogni sorta d'imprecazioni. Ma le imprecazioni erano sempre
state rivolte alla moglie. Tutto l'odio dell'Ernesta e della sua
famiglia era per quella donna. «Se non fosse entrata di mezzo lei coi
suoi denari, presto o tardi l'Ernesta sarebbe riescita a sposarlo, ed
ora sarebbe moglie d'un grande artista, e ricca, ed in grado di
aiutare i suoi....»

La slealtà, il carattere violento, i trattamenti brutali di _lui_,
s'erano andati cancellando dalla loro memoria man mano ch'egli saliva
in rinomanza. Non potevano voler male ad un uomo che aveva acquistato
tanto nome e tanto denaro. La loro cupidigia e la loro vanità erano
lusingate solo dall'idea che essi avevano avuto in casa il tenore
famoso, che l'Ernesta era stata due anni con lui, e possedeva ancora
delle lettere sue!

Intanto la figlia minore era cresciuta e s'era fatta una bella
giovane. A quindici anni, prima assai d'avere ben imparato il mestiere
di sartora, aveva lasciata la scuola di sartoria perchè le altre
scolare erano troppo volgari; non poteva adattarsi a vivere con loro.

Non già che la Teresa avesse mai pensato di far istruire la figlia.
L'aveva mandata alle scuole comunali, finchè non l'aveva creduta in
grado di essere accettata da una sarta per fare le imbasciate e
portare lo scatolone, e poi non ci aveva pensato più. Ma la Maddalena
aveva ascoltate fin da bambina le reminiscenze teatrali della sorella,
e ne era sempre stata orgogliosa. Poi era cresciuta nella compagnia
dei cantanti, attori, giornalisti, ufficiali, che occupavano le stanze
mobiliate. Quei signori l'avevano vezzeggiata da bambina, e
corteggiata appena s'era fatta adolescente. Un giovane tenente, che
aveva passato più di sei mesi a Milano, le aveva insegnato un po' di
francese, usando per libri di testo i romanzi di _Dumas père_. La
Maddalena se n'era appassionata. Credeva d'averci imparata la storia
di Francia, e quando poteva parlare di Maria Antonietta, di Luigi
decimosesto, della rivoluzione, di Marat, si dava l'aria di saperla
lunga. Quel tenente era stato il suo primo amore; un amore
sentimentale da giovinetta. Poi era partito e non se n'era saputo più
nulla; gli era succeduto il cronista d'un giornale teatrale, che aveva
portato da leggere alla Maddalena delle romanze, dei libretti d'opera,
e le aveva letti lui stesso dei versi del Fusinato, e le Lettere a
Maria dell'Aleardi, sulle quali la Maddalena aveva versate molte
lagrime, all'indirizzo del tenente. Ne aveva imparati dei brani a
memoria, che declamava con enfasi, sbagliando le pause.

Tutte queste sentimentalità erano state causa del disaccordo tra la
Maddalena e le sue compagne di scuola alla sartoria. Lei si credeva da
più di loro, e voleva sfoggiare il suo sapere. Loro la trovavano
stravagante e la burlavano.

Quando la Maddalena si mise a lavorare in casa, tra che non sapeva
ancora il mestiere, tra che pensava a tutt'altro, fece un grande
sciupìo di roba, disgustò le prime pratiche, e le rimase tutto il
tempo immaginabile per leggicchiare e declamare, e fare le
chiacchierine galanti cogli inquilini delle stanze mobiliate.

Nello stesso casamento, al pian terreno, c'era un giovane tappezziere
che s'era innamorato della sartorina; ma lei si credeva nata ad alti
destini, e diceva che «_colla sua educazione_, non avrebbe mai potuto
adattarsi a sposare un operaio. Era avvezza a vivere _in una società
più alta_». E la famiglia partecipava alle sue illusioni.

Anzichè scoraggiarsi pel caso disgraziato dell'Ernesta, ne traevano
degli argomenti in appoggio alla loro vanità. Vedete un po', dicevano,
che fortuna ha fatto quello là, e che gloria si è acquistata. Se
l'Ernesta fosse sua moglie, ora sarebbe come una regina. E invece, se
avesse sposato un operaio, sarebbe una povera donna, e si logorerebbe
la vita a lavorare pel marito e pei figli. Non ci sono che gli
artisti; il mondo è per loro.

Che l'Ernesta poi non fosse stata sposata, e fosse finita così
miseramente, era per loro un caso eccezionale da attribuirsi
all'incontro fatale di quella prima donna ricca. La Maddalena sarebbe
certo più fortunata.

C'era sempre fra i pigionanti qualche preferito, pel quale si
appassionavano tutti, madre, padre e figlio; quello era il candidato
alle nozze della Maddalena. Portava dei biglietti d'ingresso pei
teatri, accompagnava le due sorelle, vestite troppo in gala, ed ornate
di vecchi cappellini e piume e gioielli falsi, avanzi di qualche
cantante passata per le loro stanze mobiliate, pagava un gelato, o un
bocconcino da cena al ritorno, che godevano tutti in famiglia sulla
tavola della cucina; e questo bastava per farlo entrare in grazia:
«Era gentiluomo, le aveva accompagnate rispettosamente come fossero
state due dame; e generoso; e con che bontà si era messo a cenare in
famiglia; si vedeva subito una persona bene educata; se la Maddalena
sapeva accaparrarselo....»

Poi il candidato se ne andava pei fatti suoi senza domandare la mano
della ragazza, e diventava un briccone o poco meno.

La Maddalena era troppo romanzesca per badare al denaro; per lei
l'ingegno era tutto. Si innamorò d'un attore drammatico affatto
ignoto, che era succeduto al cronista del giornale di teatri, nel
sottoscala. Era poverissimo, ma si sentiva destinato alla gloria.
Ammirava la cultura straordinaria della sartina; la dichiarava capace
di comprenderlo, e sovente la sera recitava per lei sola delle scene,
che _nessun altro attore sapeva interpretare_. Tutta la famiglia si
commoveva, piangeva, lo trovava sublime. Poi, «con quella bontà delle
persone d'ingegno», diceva la Maddalena, la faceva provare a recitare
anche lei. E lei declamava con enfasi dei versi di libretti d'opera,
che erano la sua passione; ce n'erano di quelli che la facevano sempre
piangere, specialmente quelli della _Traviata: «Croce e delizia al
cor»_.

Per la Maddalena e per l'attore fu il contrario. Cominciarono dalla
delizia. La croce venne dopo vari mesi, quando egli trovò da
collocarsi in una buona compagnia, e partì dicendo, col suo bel
accento romano, che andava _«a cogliere allori per la sua fanciulla»_.

E ne ebbe infatti di quegli allori che, sebbene senza radici e
destinati ad appassire presto, giovano sempre ad un artista. Ma quanto
ad offrirli alla «sua fanciulla» non ci pensò affatto. La Maddalena
cominciò dallo scrivere lettere piene di fiducia e d'amore, e dal
parlare con tutti del suo fidanzato, del suo sposo, coll'idea di dare
all'assente una prova di fedeltà. Ma l'assente non ne tenne conto, e
la povera giovane passò per quella lunga serie di giorni affannosi, in
cui la donna innamorata aspetta ogni mattina una lettera che non
viene, riprende a sperare ogni sera, e torna ad esser delusa il
domani, fa mille congetture dolorose, trema, poi riscrive, poi aspetta
daccapo, finchè il sospetto le si insinua nel cuore, si rafforza,
cresce fino alla disperazione.

La disperazione della Maddalena fu doppiamente grande, perchè le
nacque una bambina, ed in quella circostanza il padre, chiamato con
suppliche e telegrammi, rispose con una lettera fredda, esprimendo dei
dubbi sulla sua paternità. «La casa era sempre piena di giovinotti, la
Maddalena chiacchierava con tutti, e lui non poteva sapere fino a che
punto fossero andate le loro relazioni».

In un giorno di scoraggiamento l'Ernesta, che aveva sempre in mente
delle scene teatrali, disse:

--Se ora il tappezziere venisse a dirti: «Io t'amo sempre, perdono
tutto, tua figlia sarà mia figlia; vuoi sposarmi?»

La Maddalena crollò il capo e rispose:

--Non potrei adattarmi. Sono avvezza alle persone ben educate, ben
vestite, che parlano bene. Poi soggiunse guardando la sua bambinetta
che giocava per terra:

--Quando l'Aida sarà grande (le avevano messo quel nome d'opera)
baderò bene di non affittare che a giovani già avviati nella loro
carriera. Se Alberto non avesse avuto bisogno di allontanarsi da me
per guadagnarsi nome e denaro, non mi avrebbe dimenticata.



FEDE.

/* O let him whose sorrow
  No relief find,
  Trust in God and borrow
  Ease for heart and mind.

    _(Inno protestante)_.


Ormai non era più possibile negare che l'unico figlio ed erede del
professore Trestelle, filosofo materialista, aveva un'ombra scura
intorno al labbro superiore. E, dacchè questa verità era stata
riconosciuta, le esigenze del signorino avevano rotto ogni freno. Le
sue scarpe non erano mai lucide a sufficenza; ed i colori e la finezza
delle calze erano argomento di lunghe e minute istruzioni, e di
altrettante lagnanze; i solini riescivano sempre o troppo o poco
insaldati, e nessuna tavolozza possedeva la tinta precisa di turchino
che avrebbero dovuto avere.

La zia Giuliana, sorella del professore materialista, e la serva,
erano affaccendate tutto il santo giorno per tenere in ordine il
guardaroba del Don Giovanni in erba; ed intanto il governo della casa,
la cucina ed il resto, andavano alla peggio.

Un giorno il professore filosofo, che nella sua qualità di
materialista, alla tavola ci badava molto, chiamò sua sorella, posò
gli occhiali sul volume di Darwin che stava leggendo, e disse:

--Così non si va avanti. Bisogna prendere una donna che si occupi
esclusivamente della cucina.

La zia Giuliana cominciò le ricerche, e le aspiranti si succedettero a
processione, e ciascuna aveva da narrare una storia commovente per
raccomandarsi.

Il professore materialista rideva del suo riso da scettico a quelle
narrazioni, e rimandava le postulanti.

Finalmente si presentò una vecchia smilza e lunga, vestita di nero,
tutta ravviata e pulita, con uno scialle nero che le copriva il capo e
veniva ad incrociarsi sul petto.

--Come vi chiamate? domandò la zia Giuliana.

--Cecchina.

--Siete maritata?

--Sono vedova.

Il professore, che assisteva a quel dialogo, smise di leggere,
accavallò le gambe, e, preparando il sorriso scettico, stette a
sentire la barbarie del marito. Ma la Cecchina non diceva nulla.
Allora cominciò lui per incoraggiarla:

--E vostro marito....

--Mio marito è morto, che Dio l'abbia in gloria.

Il sorriso scettico si accentuò terribilmente, ed il professore
ripresa:

--E non v'ha lasciato nulla?

--M'ha lasciato tre figlioli.

--E con questi tre figlioli siete obbligata a servire?

--Sono poveri ed hanno famiglia; se lavorano loro, è giusto che
lavori anch'io.

--E vivete sola?

--Nossignore. Sto col più giovane dei miei figli e colla nuora.

--Andate d'accordo colla nuora?

--Si cerca di sopportarsi con pazienza, da buoni cristiani....

Il professore, senza alzar gli occhi dal libro, disse:

--Non credo che facciate al caso nostro. Si cercava una cuoca.

--Scusi tanto, riprese la Cecchina. Mi era stato detto che si
contenterebbe d'un mangiare semplice.... Scusi tanto.

E s'avviò verso l'uscio. Ma la zia Giuliana le teneva dietro cogli
occhi. Sapeva che la cucina casalinga e pulita era il debole di suo
fratello, e la pulizia di quella donna la incantava. Perciò indovinò
che non sarebbe disapprovata trattenendo la cuoca, e le domandò:

--E voi lo sapete fare un mangiare semplice e buono?

--I miei signori si contentavano, rispose la Cecchina.

--Perchè li avete lasciati i vostri padroni?

--Perchè i figli s'erano fatti grandi e volevano un cuoco.

La zia Giuliana disse che prenderebbe informazioni; ed infatti le fu
confermato quanto la Cecchina aveva detto. Per dieci anni aveva
servito nella famiglia d'un avvocato. La signora aveva una malattia in
una gamba, e la povera donna l'aveva sempre curata, medicata,
assistita. Poi l'aveva vegliata assiduamente quand'era stata per
morire; ma morta lei, i figli avevano trovato che un cuoco avrebbe
dato alla casa più lustro di quella povera vecchia, ed avevano
licenziata la Cecchina senza nessun compenso pe' suoi lunghi e fedeli
servigi, tranne il salario convenuto.

La Cecchina aveva cinquantasei anni, ma ne dimostrava almeno dieci di
più. Aveva pochi capelli, quasi tutti bianchi, gli occhi infossati
nelle orbite, e due solchi alle tempia, che facevano pensare ai crani
umani allineati negli ossari; le guance erano due cavità, ed il mento
sporgeva innanzi pel ravvicinamento delle gengive, a cui erano mancati
quasi tutti i denti. Eppure dalla fronte, dalla linea diritta del
naso, dalla piccolezza della bocca, e dall'ovale del volto, si capiva
ancora che quella donna era stata bella.

La zia Giuliana disse che, fra le cuoche che s'erano offerte, quella
era la migliore per ogni rispetto, ed il professore, sempre
brontolando che era una beghina, una baciapile, un'ignorante, finì per
accettarla al suo servizio.

E beghina era infatti la Cecchina. Ogni mattina, prima d'andare dai
padroni, entrava in chiesa a sentire la messa, e la sera, nel tornare
a casa sua, passava ancora a dire un'Avemmaria. Ma era laboriosa,
discreta, onesta; e la zia Giuliana, che badava a mantenere l'ordine
della famiglia ed era tollerante per il resto, lasciava che suo
fratello gridasse contro la «strana confusione d'idee di quella donna
e gli errori grossolani, e fatali al progredire della civiltà», e si
teneva preziosa la nuova serva, e le pigliava a voler bene, e la
interrogava sul suo passato.


C'erano degli episodi strazianti, delle scene tragiche in
quell'esistenza oscura e desolata.

La Cecchina era figlia d'un salumaio di Como, che aveva un po' di
quattrini e soltanto quattro figlioli; tre maschi e quell'unica
fanciulla. S'era maritata a diciassette anni con un uomo vicino ai
quaranta, che aveva una vecchia relazione con una mugnaia di
Borgovico.

Naturalmente, di quella relazione la Cecchina non ne sapeva nulla
allora; ma il marito, che era un barocciaio e faceva continui
trasporti di grano al mulino, aveva sposato quella giovinetta più per
i soldi del babbo che per lei; tanto più che il babbo salumaio, aveva
una cera da moribondo pel mal di fegato che soffriva, e non gli si
sarebbero dati sei mesi di vita; i figli maschi se n'erano andati pel
mondo, chi a Lecco, chi a Varese, ed uno fino a Milano; ed il
barocciaio calcolava che, morto il vecchio, avrebbe fatto casa comune
colla suocera, e sopratutto banco comune nella bottega. Tutto questo
andava molto a sangue alla mugnaia, la quale, per il denaro, avrebbe
venduta l'anima al diavolo, e tanto più facilmente aveva venduto il
suo carrettiere a quella giovinetta, sicura come era di ricomprarlo
con un'occhiata furba de' suoi occhi trentenni.

Non occorre dire che, dopo il matrimonio, Ambrogio continuò, grazie al
grano ed al mulino, la sua tresca colla mugnaia grassa come una
quaglia, serbando alla giovane sposa gli amplessi violenti delle sue
ore d'ebbrezza, e le busse delle ore tristi, quando l'altra lo
tribolava per avere i quattrini, che il suocero si ostinava a serbare,
con quel filo di vita epatica, che gli durava Dio sa come.

Intanto madre natura, che non è punto sentimentale, badava a fare il
suo compito senza curarsi se il carrettiere fosse ubbriaco od
innamorato; e nella casa della giovine sposa i bambini si tenevano
dietro l'uno all'altro come le canne dell'organo; ce n'erano già tre,
due maschi ed una bimba.

Ed il salumaio non moriva. Anzi, contro ogni aspettativa, un bel
giorno gli morì la moglie di polmonite. La povera Cecchina pianse
amaramente la perdita della sua mamma; ed il carrettiere riformò il
suo programma, e pensò di andar a vivere col suocero il quale, oltre a
mantenergli la moglie ed i figlioli, gli avrebbe lasciato metter mano
nella cassetta del banco.

Ma il suocero, epatico e malandato com'era, si trovava per l'appunto
nella stessa condizione di lui; aveva un'amante; e la recente
vedovanza gli permetteva di sposarla. Figurarsi se voleva in casa
tutta quella tribù di figlia e genero e bambini, a disturbargli la
luna di miele! Lo avesse pur voluto lui, c'era la seconda moglie che
ci metteva riparo, perchè alla cassetta del banco voleva starci lei;
era quello l'unico amore che l'aveva spinta nelle braccia magre del
vecchio salumaio.

Allora il barocciaio sfogò contro la Cecchina tutta l'amarezza della
sua delusione, e furono rampogne, busse, miserie d'ogni sorta, fino al
giorno tremendo in cui la poveretta si vide portare a casa il marito
moribondo sopra una barella.

--Aveva il viso, i capelli, il collo, tutti coperti di sangue, narrava
la Cecchina; e non si capiva neppure dove fosse la ferita. Quando vidi
quell'orrore, mi posi a gridare: «Madonna santa! com'è stato?» E gli
uomini che lo avevano portato mi risposero: «È per quella strega
bionda di Borgovico. Ha saputo che Ermanno il barcaiolo le bazzicava
in casa, e ci andava dopo di lui; e lui, nell'uscire, lo ha aspettato
alla porta, e quando l'ha visto venire, gli è balzato incontro colla
sua frusta da carrettiere, gridando:--«Vai dentro se n'hai il cuore,
che ti stacco il collo con questa corda, guarda!» Ma l'altro, che va
sempre col coltello affilato in tasca, ha detto: «Serbala per le
bestie la tua corda da frusta, villano: questo taglia meglio, per Dio
santo!» E lo ha steso in terra d'un colpo».

La Cecchina abbassava la voce nel raccontare quelle infamie, e
sopratutto le bestemmie, come se temesse che il Padre Eterno avesse a
sentirla di lassù. Ma la zia Giuliana la interrogava con tanto cuore,
che lei si faceva animo a raccontar tutto, e proseguiva:

--Mandai una vicina a chiamare il medico, e misi in fascie un lenzuolo
buono, per bendare la testa a mio marito, e mi veniva il pianto dal
cuore, perchè, malgrado tutto, era il mio uomo, ed avevo quei
figlioli; ed avrei fatto ogni cosa per assisterlo ed alleviargli il
male. Ma appena potè parlare, egli domandò la sua mugnaia; la chiamava
piangendo, «che quell'altro brigante non gliel'avesse a portar via».
Cosa farci? Era moribondo, e la volontà dei moribondi non si deve
contrariare. Mi toccò a me d'andarla a cercare, e pregarla di venire
se non voleva farlo morir disperato. E poi dovetti starmene in un
canto a veder lui che si buttava con le braccia fuori dal letto
incontro a quella donna, e la supplicava:

«Oh Maddalena, non mi abbandonare, che t'ho voluto tanto bene; non mi
abbandonare!» E morì pregando lei come se fosse stata la Madonna.

Rimasta vedova, la Cecchina aveva dovuto provvedere per parecchi anni
a sè ed ai figli col solo lavoro delle sue mani. Aveva fatto la
lavandaia, la serva, la barcaiola, la filatrice. Poi i figli avevano
cominciato a guadagnare qualche cosa. Ma, avvezzi ad esser mantenuti
dalla mamma, si facevano tirare pei denti a dar qualche soldino in
casa, e soltanto la figliola, tornando dalla filanda, portava tutti i
denari della settimana alla Cecchina, e non domandava nulla.

C'era un altro giorno doloroso, un altro nuvolone nero su
quell'orizzonte grigio, su cui il sole non aveva mai mandato un raggio
di calore nè di luce.

La Cecchina, istigata dalla zia Giuliana, narrava la partenza di suo
figlio per l'esercito, mentre il professore sorbiva, lento lento, il
caffè.

--Giovanni era stato esente dalla leva perchè era il primo ed io era
vedova, diceva la vecchia; e pochi mesi dopo aveva preso moglie e se
n'era andato a Dongo a lavorare nella fabbrica di ghisa. L'anno dopo
dovette andare Michele alla leva; quello non c'era modo di salvarlo.
Quando dovette partire, spogliai la casa di tutto quanto avevo. Quella
poca tela messa da parte per la ragazza la vendetti; e poi gli diedi
fin il mio anello nuziale, che lo vendesse a Milano per procurarsi
qualche soldo. La mia figliola, poveretta, diceva: «Dategli tutto,
mamma; accontentatelo, perchè sarà lui che dovrà darvi pane quando
sarete vecchia; io me ne vado con questa tosse; m'ha uccisa la
filanda». Io non credevo, perchè era tanto giovane e, dalla tosse in
fuori, non pareva malata; era più stanca che altro; con un po' di
riposo avrebbe ripreso colore e sarebbe tornata come prima; ne ero
sicura. Quello che mi crucciava era Michele, che se ne andava via fin
in capo al mondo, dove c'erano i briganti.


--Quella mattina, me la ricordo sempre. Tirava un vento che il
battello a vapore saltava sul lago come un cervo nel bosco, e veniva
giù una pioggerella diaccia, che era come sentirsi cadere addosso
tante punte d'aghi. Quando mi alzai, Michele era già uscito; e la
Teresa dormiva nel mio letto tutta rossa in volto come un fiore;
dormiva il dolce sonno della gioventù; ed io pensai: «Che morire!
questa la salvo per me; il re non me la prende questa, e fra un mese
sarà guarita; non si muore con quei colori, e con quel sonno
profondo».

--Ed uscii in punta di piedi pensando a quella consolazione che mi
restava, in mezzo a tanti guai. Quando mi accorsi che pioveva, non
tornai neppure indietro a pigliare l'ombrello per non svegliare la mia
figliola. Per che cosa svegliarla? per condurla a piangere laggiù alla
stazione? C'è sempre tempo di piangere a questo mondo.

Ci volle un bel tratto a giungere a Camerlata, e quando arrivai ero
fradicia. La folla dei coscritti e dei parenti s'era riparata sotto la
piccola tettoia, dove si stava pigiati che non si poteva muovere un
dito. Ma io ero alta, e rizzandomi in punta di piedi, potevo cercare
il mio figliolo al disopra delle teste degli altri. Dopo molto
guardare, mi riescì di scorgerla in un angolo la sua testa bruna e
riccioluta. Michele era là, rincantucciato in fondo alla stazione, col
viso rivolto al muro; e guardava in terra. Mi sentii serrare il cuore.
Ero sicura che pensava alla sua mamma, e si nascondeva la faccia, per
non farsi scorgere che ci pativa tanto ad abbandonarmi; non era un
ragazzo espansivo, ma in quel momento il suo cuore di figlio doveva
farsi sentire. Chiamai più volte: «Michele! Michele!» Ma non mi udì.
Allora feci a spintoni, senza badare alle maledizioni ed agli urti che
mi rispondevano, ed a forza di fare, mi riescì di arrivargli vicino,
tanto da potergli toccare una spalla. Si voltò in fretta, ed aveva gli
occhi rossi e grossi come pugni. Gli stesi le braccia singhiozzando:
«Sono qui, Michele, sono io». E mi pareva che dovessi morire là sul
suo cuore, oppure andargli dietro dove il re lo mandava.

Ma lui non me le stese le sue braccia. Il capo solo aveva voltato
verso di me, e la persona era ancora rivolta al muro, e le sue mani
posavano sulle spalle d'una ragazza pallida, che piangeva senza
asciugarsi le lagrime.

--Oh mamma! mi disse, cosa vi è saltato in mente di venir fuori con
questo tempo?

Io non potei rispondere; avevo un gruppo in gola, ed un freddo mi
correva nelle vene, come quando avevo veduto il mio uomo morire colle
mani sulle mani della sua mugnaia. Mi caddero le braccia, e rimasi là
senza dir nulla; egli mi susurrò spingendo il capo indietro:

--Andate, mamma, andate a casa; non lasciate sola quella poveretta,
che se ne va alla malora, se ne va.

Che il signore mi perdoni, perchè in quel momento non ci ho veduto
più, e gli ho gridato:

--Taci, malaugurio! Non ti basta di abbandonare la tua mamma come un
cane per badare a far all'amore, mi vuoi far morire quella sola
figliola che mi vuol bene! Non troverai mai bene a questo mondo,
guarda!

M'era appena scappata di bocca quella parola, che ero pentita; ma
avevano aperto i cancelli, e tutti s'erano pigiati per uscire. Mi
trovai là, vergognosa di quanto avevo detto, abbandonata, estranea a
tutti in mezzo a quella gente che si baciava e piangeva l'un per
l'altro. Il cuore di mio figlio se l'era preso quella giovane che non
aveva fatto nulla per lui. Ed io, che lo avevo allevato, e che m'ero
distrutta lavorando per dargli pane, ero così mortificata d'essere
andata là a sorprenderli, come se avessi fatta un'azionaccia.

Gli avevo portato un dispiacere e delle male parole all'ultim'ora, per
mia memoria. Non osai più accostarmi. Lo vidi che dal vagone
continuava a parlare con la sua ragazza ed a stringerle la mano
traverso lo sportello, ed a guardarla con quegli occhioni gonfi, dove
c'era tanto amore da riempiere il cuore a dieci mamme; ma non ne
toccano alle povere mamme di quegli amori e di quelle occhiate là.
Neppure quando il treno si mise a fischiare, per dire: «Badate, si va
via; affrettatevi a salutare le vostre mamme»; neppure allora pensò a
cercarmi. Le carrozze si allontanarono adagio, adagio, poi più in
fretta, più in fretta, e lui sempre fisso a guardare quella giovane,
come se lo avesse messo al mondo lei; e quando il treno era tanto
lontano che stava per scomparire, si vedeva ancora una cosa che
sporgeva dal finestrino e s'agitava adagio, adagio, con un movimento
di grande malinconia: era la testa di Michele che salutava la sua
ragazza.

--Ecco; l'uomo non è che un animale, disse il professore materialista,
che, senza parere, aveva dato retta a quel discorso, e seconda gli
istinti della natura.

E la Cecchina, che non aveva capito le sue parole, disse, appunto come
se rispondesse:

--Se non fosse stato il pensiero della religione, io l'avrei
strangolata quella giovane, che mi rubava il cuore di mio figlio. Ma
pensavo che questa vita passa presto, e ne viene un'altra dove saremo
tutti uguali, poveri e ricchi, e chi più avrà patito troverà più
compenso....

Il professore mise fuori una risatina scettica, e la Cecchina,
credendo che riflessa di quanto leggeva nel libro, abbassò la voce e
disse, parlando alla zia Giuliana:

--È sempre la speranza d'una vita migliore che ci dà la forza di
sopportare i dolori di questa vita qui.


Una mattina che Ettore doveva andare a caccia, fece un casa del
diavolo perchè la Cecchina tardava a giungere con certe calze di lana
forti, che aveva avuto l'incarico di preparargli per quel giorno.

--Non può tardar molto, disse la zia Giuliana; sarà andata alla messa.

--Ma è insopportabile questa beghina, gridò il giovinotto. Ci fa
aspettar tutti pel suo pregiudizio della messa. Cosa spera cavarne? Il
pane siamo noi che glielo diamo.

--Bisogna aver pazienza, osservò la zia; è una buona donna.

--La morale, sentenziò il professore, può svolgersi e progredire da
sè, distaccandosi dalla religione.

--Ma che cosa promette la morale a questi disgraziati, che non hanno
avuto un'ora di gioia in tutta la loro vita? Che compenso può dare per
tutti i dolori che hanno patito? domandò la zia.

--Se fossero meno ignoranti, rispose il professore,
comprenderebbero....

--Ah! se lo fossero, meno ignoranti! Ma intanto sono così; e
patiscono, ed hanno patito dacchè sono al mondo; e dacchè sono al
mondo si sono rassegnati, perchè hanno creduto ad un compenso nel
mondo di là. Ma va ad illuminarli colla tua scienza; va a dirgli che
il mondo di là non esiste; che quando avranno ben tribolato finchè
resta fiato nei loro poveri polmoni, andranno sotterra, e sarà finito
tutto; che delle gioie che gli altri godono, degli amori che ci
consolano, de' tuoi buoni pranzi, del bel fuoco a cui ti scaldi, della
poltrona morbida dove siedi comodamente a chiacchierare per
distruggere la loro fede, non ne proveranno mai le dolcezze; che se
furono diseredati in questa vita, peggio per loro; che l'altra non è
che un sogno.... Provati ad illuminare la loro ignoranza prima di
farli eguali a te, e vedrai se si rassegneranno ancora, e se non
diranno che, poichè non c'è una vita migliore, vogliono ad ogni costo
la loro parte di bene in questa.

La sera, nell'ora in cui il tepore del caminetto ed il caffè caldo e
profumato tenevano legato il filosofo nella sua poltrona, la zia
Giuliana interrogò la Cecchina sulla sua figliola.

--Oh! Dio! Di tutti i miei dolori, quello è stato il più crudele,
esclamò la vecchia. Da quel giorno che Michele me l'aveva detto, non
potei più levarmelo dalla mente che se ne andava. Più la vedevo rossa,
e più pensavo: «Ecco; ha la febbre che la brucia di dentro». La
condussi all'ospitale, ma non la vollero tenere; e mi dissero che
bisognava nutrirla bene. Sempre carne e vino buono. Dove le potevo
pigliare queste cose io? Lavoravo come un ciuco; tutto il giorno alla
fonte a lavare, che mi si raggranchivano le gambe pel gelo; tutta la
notte ad agucchiare, dormendo appena tanto da non morire; ma ci voleva
altro. Quando passavo dinnanzi al caffè e vedevo dei giovinotti forti
e robusti che mangiavano delle bistecche, mi sentivo tutto il sangue,
tutto il mio sangue di madre, che ribolliva: e dover tornare a casa a
darle della minestra di riso a quella poveretta! E così se n'è andata;
l'ho vista morire ogni giorno un poco, finchè una mattina mi disse:

--Mamma, torna presto dalla fontana, perchè mi sento come se dovessi
andarmene quest'oggi.

Anch'io lo sentivo, e mi si schiantava il cuore. Non andai alla fonte;
andai dal parroco, e per quella volta non ebbi vergogna a dirgli che
mi desse qualche cosa per fare un brodo a quella povera creatura cara.

Ma quando tornai colla carne, era già fredda. Neppure vederla morire,
m'è toccato! Ah! se non fosse il pensiero di ritrovarla nel mondo di
là....

--Non aveste mai una consolazione in tanti anni, che ci narrate sempre
dolori? domandò la zia Giuliana.

--Mai! esclamò la Cocchina, coll'accento della verità. Poi,
riprendendosi, soggiunse:

--La mia consolazione è di pregare il Signore che mi riunisca alla mia
figliola nell'altra vita, e che dia del bene a' miei figli che sono
tanto poveri che si induriscono il cuore e diventano persino cattivi.

La zia Giuliana prese dal tavolino il trattato di filosofia e lo porse
malignamente al professore. Ma quella sera il filosofo non lesse
forte, e la mattina dopo, quando Ettore ricominciava a gridare contro
la bigotteria della Cecchina, che per andare a pregucchiare gli faceva
aspettare il caffè, fu il babbo stesso che disse:

--Lasciala stare, povera donna.... Poichè la sua fede le fa del
bene....



TRE PAIA D'ALARI.


Il maestro Cavalletti aveva la moglie, otto figlioli, sè stesso ed una
servetta da mantenere; è vero che esercitava due professioni: dava
lezioni di pianoforte ad una lira per lezione--prezzo da provincia,--e
sonava la viola nell'orchestra del teatro, quando il teatro era
aperto, che è quanto dire soltanto nel carnovale. Ma erano sempre
undici persone a vivere sul lavoro di dieci dita. È facile immaginare
come scarseggiassero i mobili in quella casa. Però non mancava un così
detto pianoforte, vecchia spinetta scordata ed inaccordabile, sulla
quale tutti i membri della famiglia sapevano eseguire un pezzo ad
orecchio, non escluso l'ultimo bambino di cinque anni, che sonava la
prima battuta del _Parigi, o cara,_ con un ditino solo.

Il più vecchio della casa era il babbo, che non aveva ancora
quarant'anni; erano tutti sani, tutti belli, tutti allegri. Dal
mattino alla sera la spinetta non si chiudeva mai, e le sue note
stridenti straziavano senza posa i nervi dei vicini; ma i Cavalletti
avevano dei nervi robusti, e sopportavano con serenità olimpica le
stonature, le voci rauche ed affannose di quell'invalida, che da tempi
immemorabili formava il diletto della famiglia.

Un'altra cosa, che durava da tempi immemorabili, e che non era
tollerata con altrettanta rassegnazione, specialmente dalla signora
Cavalletti, era l'assenza completa degli alari nel camino. Ogni volta
che s'accendeva il fuoco, bisognava architettare con infinito studio
l'edificio delle legna per tenerle sollevate senza quegli arnesi
indispensabili. Ma, appena il fascio di rami era bruciato nel mezzo,
_crac_, si piegava, e tutte le legna precipitavano giù nella cenere,
soffocavano la vampa e spegnevano il fuoco. Bisognava ricominciare
daccapo, per riescire, su per giù, agli stessi risultati, e dopo vari
esperimenti, la cenere pioveva fuori dal caminetto, le legna
sporgevano nere, polverose, aggressive, tutta la famiglia aveva le
mani tinte, e la stanza era più diaccia di prima; le ragazze si
lagnavano d'aver insudiciato il ricamo, i ragazzi ridevano, ed i
parenti, visto il caso disperato, concludevano che il meglio era
andarsi a coricare; si risparmiava freddo, legna e fatica. Soltanto la
signora Cavalletti mentre ricopriva colla cenere quel simulacro di
fuoco, diceva: «Se ci fossero gli alari!...»


Una mattina il maestro, nell'uscir di casa, vide dal portinaio due
alari di ferro. Era la fine dell'anno, l'epoca dei pagamenti, ed il
borsellino del maestro non era del tutto a secco.

Si pose a contemplare quei due arnesi, formati da pochi bastoncini di
ferro, che parevano due croci.

--Li vuol comperare? disse il portinaio. Sono dell'inquilino del terzo
piano che li vuol rinnovare.

--Quanto costano? domandò il maestro, nel quale la tentazione si era
svegliata affamata, come una marmotta che si desta dopo sei mesi di
sonno.

--Non saprei; ma poco di certo, rispose il portinaio; li hanno dati
alla cuoca; è lei che li vende.

Si chiamò la cuoca, si scambiarono domande ed offerte, ed il maestro
finì per pagare due lire e cinquanta centesimi quegli alari, che
risalirono trionfalmente i tre piani da cui erano discesi, ed uno di
più, e furono accolti dalla signora Cavalletti coll'entusiasmo con cui
si accoglie l'appagamento d'un ideale.

Quel giorno la serva rientrando dal mercato, i ragazzi e le giovinette
tornando dalla scuola, trovarono i bambini in capo alla scala, che,
cogli occhi luccicanti ed il sorriso che scopriva i dentini bianchi,
facevano a chi darebbe primo la grande novella e gridavano tutti col
più alto tono della loro vocina:

--Sai che ci sono gli alari! Ci sono gli alari!

I nuovi venuti, senza nemmeno posare il cappello, colla cartella dei
libri a tracolla, correvano a vedere, e tutti gli altri dietro per
gioire della loro ammirazione. Anche il maestro, che aveva fatto
l'acquisto, quando giunse a pranzo ricevette da tutta la famiglia in
coro il grande annunzio, e sebbene rispondesse ridendo: «Li ho
comperati io», dovette andar a vedere gli alari a posto nel camino
spento, salvo ad ammirarli dopo pranzo nell'esercizio delle loro
funzioni. Quel giorno il desinare fu corto. Tutti erano impazienti di
dar fuoco alle legna. E la sera nessuno ebbe sonno, nessuno si tinse
le mani, la signora Cavalletti non ebbe nulla da fare col fuoco, che
crepitava allegro fra rami e ceppi solidamente sorretti dagli alari.
Tutta la famiglia, raccolta intorno al camino, apprezzava la nuova
agiatezza che s'era procurata, e ne godeva.

--Era una spesa necessaria, diceva il capo di casa.

--E ne avremo finchè vivremo noi, e poi li lasceremo ai nostri figli,
soggiungeva la madre.

--Così il caminetto fa buona figura, osservavano le ragazze, e se
capitasse qualche amico, non si avrebbe a tremare di vedergli rovinare
il focolare domestico sulle scarpe, per disgustarlo delle gioie della
famiglia.

E capitò infatti qualcheduno, e si fecero cuocere le castagne per
festeggiare l'acquisto degli alari.

Tutti si coricarono tardi, ben riscaldati e contenti; il fuoco, che
era stato fino allora una fonte di lagnanze, di disturbi e di liti,
divenne un elemento di benessere nelle serate d'inverno, e la famiglia
Cavalletti, dopo l'acquisto degli alari, ebbe un desiderio di meno ed
un piacere di più.


L'inquilino del terzo piano era un romanziere; uomo d'ingegno, di
spirito, colto, amabile, riesciva piacevolissimo in compagnia. Aveva
la moglie ed una figliola di sedici anni, colte esse pure, che
sapevano intrattenere il capo di casa, e tenergli testa nelle
conversazioni, spesso un po' fantastiche, un po' sottili, colle quali
rallegrava, e qualche volta turbava anche, le sue serate domestiche.
Il dottor Valeri passava spesso la sera dal signor Carpi, che abitava
il primo piano del casamento: un riccone che aveva molti quattrini e
li spendeva allegramente.

Appunto una sera, entrando nel salotto sfarzoso del suo vicino, il
dottore vide luccicare nel caminetto due alari monumentali di bronzo
dorato. Non avevano gran pregio per il disegno, e non erano neppure di
molto buon gusto. Ma costavano parecchie centinaia di lire, ed il
proprietario, che li aveva fatti venire da Parigi, ne andava superbo,
senza troppo badare alle linee più o meno artistiche; erano due alari
da gran signore, tutti ne convenivano. Cosa si doveva pretendere di
più?

--Che progresso! esclamava il signor Carpi giubilando. Quando penso a
certi vecchi alari di ferro che ho trovati nel castello di Trestelle
quando l'ho comperato, e che ornavano il focolare ospitale di quei
marchesi! Io non sono marchese; i miei avi non so che fossero alle
crociate; eppure con questi alari se ne comprerebbero dieci paia di
quelli là. Al punto cui sono giunti ora il _comfort_ e l'eleganza, la
vita riesce veramente bella.

E, sdraiato in una comoda poltrona, gioiva del suo splendido acquisto,
che aggiungeva un lusso di più alle tante ricchezze della sua casa.


Fu appunto quella sera che il dottor Valeri, amante del bello come
tutti i poeti, alla vista di quei sontuosi alari di cattivo gusto,
sentì tutta la miseria de' suoi rustici alari di ferro, e provò il
desiderio d'averne un paio più eleganti dei suoi, e di miglior gusto
di quelli del Carpi. Il giorno dopo andò egli stesso nel miglior
negozio della città, fece metter sossopra ogni cosa, fece una scelta,
poi si pentì, poi scelse di nuovo; mutò parere una dozzina di volte, e
finì per comprare due buoni alari di ferro nichellato, con _motivi_ di
bronzo dorato, che pagò circa un centinaio di lire. Regalò alla cuoca
i loro modesti predecessori, che passarono a deliziare la famiglia del
quarto piano, e collocò nel caminetto i nuovi alari maestosi e
lucenti.

Ma non si è poeti senza essere un po' filosofi, e non si è filosofi
senza essere cavillosi, senza almanaccare e far lunari a proposito di
tutto, senza cercare in ogni cosa il pelo nell'ovo, a costo di
rendersi infelici.

Quella sera il dottor Valeri, stando accanto al fuoco, incominciò ad
osservare ben davvicino coll'occhialetto i nuovi alari, poi disse:

--Questi lavori francesi hanno però sempre qualcosa che non soddisfa
interamente il gusto. Li chiamano lavori d'arte industriale, ma
«_Maurice ne fait rien, c'est Lazare qui fait tout_». L'arte ci entra
per 5 e l'industria per 95. Sono cose fatte bene, ma, anche in quelle
che hanno maggior apparenza di lusso, si vede la lesineria, la
preoccuzione del far presto e del buon mercato. In ogni disegno, in
ogni fregio, apparisce l'avidità del fabbricante, che pensa a
risparmiare cinquanta centesimi di metallo e di lavoro.

--Via! disse la signora Valeri, non cominciamo a guastarci il piacere
di quest'acquisto col troppo sottilizzarci sopra. È un fatto che di
alari simili se ne vedono pochi.

--Se ne vedono pochi! esclamò il dottor Valeri. E non sai che il
fabbricante ne manda migliaia e migliaia di questo stessissimo modello
per tutto il mondo? Già, sono copiati, e male, da un paio d'alari del
museo di Cluny, che ricordo benissimo, e che vidi anche incisi in un
libro del Lacroix. Figurarsi che gusto, avere un oggetto che conoscevo
a memoria prima di possederlo, e che forse m'accadrà d'incontrare
domani in dieci case d'amici. Metteva conto di spender cento lire per
questo!

--Cento lire! sospirò la signorina. E pensare che c'è tanta gente che
muore di freddo, e che con cento lire si potrebbero comperare venti
quintali di legna! Pensare che quei poveri naufraghi della _Jeannette_
vanno errando fra le nevi ed i ghiacci della Siberia, senza fuoco e
senza pane!

--Ci si trovano per loro volontà, disse la mamma, nè possiamo
aiutarli.

--Sì; ma la loro volontà è stata eroica, e quell'eroismo frutta a loro
tanti patimenti, i piedi gelati, la tisi, l'oftalmia, forse la morte;
e noi perchè siamo indolenti, ci godiamo le poltrone soffici, il fuoco
e gli alari.... È la giustizia di questo mondo.

--Fortunatamente queste miserie sono rare, osservò la signora Valeri.
Qui non ne vediamo.

--Ma ne vediamo delle altre non meno strazianti, ribattè la ragazza.
Alla villa dei signori Icchese, che pure sono dei padroni buoni e
generosi, c'è nel casamento dei contadini un vecchio, infermo da
molti, molti anni. La mattina, tutti i suoi di casa vanno a lavorare
in campagna, e lui rimane solo; non può voltarsi se altri non l'aiuta;
deve passare la giornata, otto, dieci ore, sempre nella stessa
positura; gli dolgono le ossa fino allo spasimo, gli si lacera la
pelle, gli si formano delle piaghe; ma deve rimanere là, immobile sul
fianco indolenzito, senza un cane che lo assista; ed è un capo di
casa, un padre di famiglia. E quando i giovani rientrano dai campi,
stanchi, affamati, lo voltano con mal garbo, infastiditi di quella
nuova fatica. Ha il letto in una stanza a terreno, proprio di contro
alla finestra; e quando io passavo nel cortile, e lo vedevo là, con
quegli occhi fissi e desolati, in quell'abbandono, fra quelle coperte
miserabili e sporche, vecchio, sofferente, inebetito, sentivo vergogna
della mia gioventù, della mia salute, de' miei bei vestiti, e passavo
tutta curva per non far nascere nella sua mente un confronto
disperante.

--Tu l'hai veduto soltanto in quest'ultimo periodo della sua vita; in
gioventù sarà stato felice. Intanto ha dei figli, dunque ebbe degli
amori e delle gioie. Credi pure, bimba, che queste disuguaglianze
profondamente ingiuste non possono esistere; la somma della felicità e
dell'infelicità è distribuita equamente per ogni vita umana.

--Tu non sai forse, disse il dottor Valeri alla moglie, che questo,
prima di te, lo disse il Leopardi. Io ci ho pensato a lungo, ed ho
finito col persuadermi che è vero; perchè i piaceri non si gustano se
non relativamente alla condizione in cui si vive. Se quel vecchio
fosse trasportato nello stato nostro, godrebbe una beatitudine
infinita, esulterebbe di gioia. Se egli pensasse a noi, supporrebbe
che noi viviamo una vita di delizie. Invece il nostro animo è
nient'altro che tranquillo, ed in un angolo del nostro cuore veglia la
malinconia. E se nella condizione nostra mettessimo ora un gran
signore, il signor Carpi, per esempio, si troverebbe miserabile.

--Eppure, babbo, non puoi negare che abbiamo gustati dei giorni di
vera felicità, e speriamo di gustarne ancora; mentre quel vecchio....

--Quel vecchio avrà esauriti i suoi. Noi abbiamo goduti dei giorni di
felicità? Li sconteremo più tardi colle ricordanze e coi confronti.
L'ha detto anche Dante che la ricordanza dei giorni felici è il
maggiore dei dolori. È un fatto che la somma della felicità è uguale
per ogni vita umana. Quanto più uno s'affretta a goderla, a
restringerla in un breve spazio di tempo, tanto più squallidi
rimangono gli anni sui quali l'ha presa in anticipazione. Una donna
che è molto bella, molto amata in gioventù, esaurisce tutte le sue
gioie, e poi passa il resto de' suoi giorni a rimpiangere la bellezza
perduta, a desolarsi della sua decadenza, del suo isolamento.
Napoleone I a Sant'Elena era di certo più infelice de' suoi compagni,
perchè era caduto da più alto, aveva goduto di più. A noi stessi,
questa sera danno piacere questi alari nuovi, ma domani la serata ci
parrà più vuota perchè non avremo un'altra novità da gustare.
Qualunque cosa facciamo, non possiamo che trasportare da un giorno
all'altro la poca gioia assegnata a ciascun giorno, e mangiare
anticipatamente la rendita dei giorni futuri.

Rimasero tutti per qualche momento silenziosi, guardando il fuoco
malinconicamente.

Intanto entrò la serva, tutta animata e sorridente, e, nell'accendere
i lumi per i padroni, disse:

--Scendo ora dal quarto piano. Si è fatto un gran ridere; si sono
mangiate le castagne; una vera festa per quegli alari che hanno
comperato.

--Ne sono contenti? domandò il dottor Valeri.

--Altro che contenti! Felici! esclamò la serva.

--Ecco, concluse la signora Valeri; loro sono felici, e noi... Sapete
che ho da dirvi? Che è un guaio lavorar troppo col cervello, che...
«_Ah! ne raisonnons pas, c'est bien assez de vivre_».



NELL'AZZURRO.


Era una giornata serena dello scorso agosto. Il cielo era tutto
azzurro cupo, tranquillo, senza una nube bianchiccia o cinerea, che
macchiasse di un'ombra nera le pendici rocciose dei monti; senza
neppure quegli screzi rosei a tinte luminose e calde, che sono,
sull'infinita serenità del cielo, come l'espressione dell'affetto
sulla bellezza d'un volto.

Il sole alto del meriggio spandeva una luce bianca, abbagliante,
monotona sul vasto piano della Brianza, ed appena le masse enormi
delle montagne gettavano delle ombre scure sulle colline sottostanti.

Nelle adiacenze della villa tutto era fresco e rinverdito dalle
pioggie recenti; i fiori abbondavano, e, con quel resto di profumo
scampato alle frequenti lavature degli acquazzoni, attiravano i
piccoli sciami di farfalle bianche, a svolazzarci intorno il loro
giorno di vita.

M'avanzai sulla scalinata fuori dalle sale vaste ed ariose, facendo
lunghe inspirazioni di quell'aria buona, e pensando che i contadini,
se si nutrono male, se lavorano come negri, se patiscono ogni sorta di
disagi, hanno però quel grande compenso dell'aria vasta, abbondante,
pura dai miasmi e dalle esalazioni malsane delle grandi città. Hanno
la luce, lo spazio e l'immensa bellezza della natura....

Pensavo codesto allontanandomi via via dalla villa, isolata nel suo
largo piano di giardini e pergole e boschetti, ed avviandomi verso un
gruppo di case coloniche sferzate dal sollione. Mi ricordavo i bei
quadri del Santoro Rubens, tanto ammirati all'Esposizione di Torino,
ed un po' trascurati dai critici; quei gruppi di case bianche, un po'
screpolate, un po' scrostate, battute dal sole ardente del mezzodì,
povere, nude, di cui la grande bellezza è la verità. E pensavo, come
avevo pensato dinanzi ai quadri del Santoro, che avrei voluto vivere
in quelle case, che il bello non è soltanto nelle ville e nei palazzi
signorili; che, forse, la villa maestosa che mi ero lasciata dietro,
era meno pittoresca di quei casamenti miserabili, a cui l'arte non
avrebbe avuto bisogno d'aggiungere nulla, nulla fuorchè il loro
immenso sfondo di cielo azzurro, per farne un bel quadro.

In tutto questo c'è la bellezza della semplicità, della natura. I
contadini godono il meglio della creazione: vivono una vita primitiva,
che è la vera vita, naturale, senza artifizi, e crescono più forti di
noi, ed hanno meno impegni e meno crucci; e non hanno il cuore
avvelenato dai nostri dubbi e dal nostro scetticismo, e conservano gli
affetti vergini e forti. Oh, la pace serena delle campagne!....

Di passo in passo, e di paradosso in paradosso, giunsi nel cortile dei
coloni. Sebbene avessi gli abiti corti, dovetti rialzarli qua, e poi
là, e poi ancora là, per non insudiciarli in certe pozzanghere
melmose, che le oche sorseggiavano beatamente, dimenando la coda in
segno di piacere.

Una serie di pollai e di porcili, catapecchie di canne e di legna
erette alla peggio, facevano un semicerchio di fronte alle case. Ogni
famiglia aveva il suo, ed il cortile ne era circuito ed enormemente
ristretto. Ed ogni famiglia possedeva il suo letamaio appena fuori
dell'uscio. Sotto la vampa del sole, quelle grandi masse in
putrefazione fermentavano, ed esalavano un puzzo atroce che avvelenava
l'aria. E tra casa e casa, i fasci di canapa, rizzati ad asciugare,
confondevano le loro esalazioni pestifere con quelle dei pollai, dei
porcili, del letame. Erano ondate di malaria che mi sentivo entrare
per la bocca, pel naso, per tutti i pori, e mi davano un senso di
paura che mi limitava il respiro, come se, ad ogni inspirazione,
dovessi ingoiare i germi di una malattia.

Ma i contadini non ne facevano caso. Le donne erano sedute sui
rispettivi usci coi bambini in collo; i fanciulletti ruzzolavano in
terra nel sudiciume, mangiucchiando un resto di zuppa, fatta con pane
dì granturco e brodo di acqua e lardo. E gli uomini, che avevano
finito quel banchetto, s'occupavano, chi a rassettare la canapa, chi a
frenare col badile certi rigagnolotti nerastri e viscidi, che
sfuggivano dalla base dei letamai, ricchezze disperse, che
s'infiltravano nel suolo infecondo del cortile e delle stanze terrene.

Una giovane bruna, massiccia, con due larghi occhioni stupidi e
chiari, annaspava matasse di seta, piangendo in silenzio; un pianto
cruccioso, soffocato, punto drammatico, un vero pianto di dolore; un
pianto di madre.

Non poteva parlare; furono le altre donne della sua casa, Maddalena la
cognata, e la vecchia nonna, che risposero per lei. Aveva una bimba
moribonda.

--Sono i denti, disse la nonna. È più d'un mese che sta male a quel
modo; ma ora avrà presto finito.....

--In casa nostra i maschi sono forti, ma le bimbe non si salvano,
soggiunse la Maddalena. Io ne ho perdute sei.... o sette?....

--Sette, suggerì la nonna.

--È vero, sette. Sono morte tutte. Cosa farci? Sono cose preparate.

--Il Signore ce le dà, il Signore ce le piglia, tornò a dire la
vecchia, a cui il puzzo del letamaio insegnava l'apatica rassegnazione
di Giobbe,

Un singhiozzo infrenabile della povera mamma; desolata, rispose a
quella sentenza crudele. Continuò a girare l'aspo con una mano sola,
mentre coll'altra alzava il grembiule, e vi nascondeva dentro le sue
lagrime silenziose.

Salii al piano disopra per vedere la bimba malata. La finestra della
stanza da letto era chiusa, e, di fuori, una specie di tettoia di
paglia scendeva giù come una tenda, per intercettare quella poca luce
che avrebbe potuto entrare da quell'apertura troppo stretta. Un odore
di granturco, di frutti conservati, di saponata e di panni sporchi,
respingeva indietro. La bimba moribonda era stesa sulla culla, e
ravvoltolata in una quantità assurda di pannolini, di fascio, di
gonnellino, di scialli, tutta roba di colore sospetto, che esalava un
odore scellerato. Aveva coperto anche il viso con un cencio di
salvietta.

In quell'ora ardente, in quei giorni canicolari, la cosa che faceva
più spavento a quel cuore di madre, era l'aria; e soffocava la sua
creaturina sotto quel mucchio di sudiciume per preservarla dal freddo.

La piccina era tutta gonfia, e sulle sue piccole membra arrotondate
dall'edema, dovunque c'era una di quelle fossette che sono la grande
bellezza dei bambini, il tempo aveva deposto una traccia nera. Non
potei a meno di farlo notare alla madre, e di domandarle se non lavava
la sua figliola.

Mi rispose che attribuiva la sua malattia all'averle lavati i piedini
un mese prima, _in luglio, coll'acqua del pozzo_.

Le diedi un po' sulla voce; cercai di persuaderla che l'acqua non fa
male, che la nettezza è il primo elemento di salute, che i bambini
vanno lavati spesso, ecc., ecc.

Quelle donne m'ascoltavano meravigliate e la Maddalena disse:

--Ecco. Noi s'ha tanta paura a toccare i bambini coll'acqua fredda, e
loro, che sono signori, non ci badano manco. _Forse_ non si farebbe
male a lavarli, come dice lei.

E la nonna, dopo un momento di riflessione, fece questa scoperta
peregrina:

--E sarebbero anche più puliti!

Ridiscesi quel rompicollo di scala buia, e tornai nel cortile, seguita
dalle tre donne.

La Maddalena teneva in braccio una piccola trovatella, che aveva presa
a baliatico dall'ospedale, dopo aver sepolta, come la madre dei
Macabei, la sua settima figliola. Era una bimba sottile fino alla
trasparenza, delicata e bianca come un gelsomino, ma bella come
l'amore dei mortali ne crea di rado.

--Madonna santa! Dice che è bella codesta? esclamò la nonna. Se pare
un morticino!

--Sarebbe forse bella, disse la Maddalena che ci metteva
dell'ambizione, se non fosse tanto distrutta e senza colore.

--Ma come volete che i bambini stieno bene con questo putridume
d'intorno? Perchè avete messo la canapa qui? Non sapete che guasta
l'aria, che la rende malsana?....

--Lo crede, signora? disse con aria di dubbio. Noi ci si è avvezzi e
non si sente nulla. Si potrebbe ben metterla un po' più lontano la
canapa.

--E i letamai? soggiunsi incoraggiata da questa mezza concessione.
Perchè non li trasportate giù nei campi lontano dall'abitato?

--Oh provvidenza cara! esclamò la nonna ridendo. E tutti si misero a
ridere; poi un uomo si fece innanzi appoggiato al badile con un
atteggiamento dottorale e mi disse:

--Ce lo metterebbe lei il suo scrigno, laggiù nei campi? Il letamaio,
si figuri che sia il nostro scrigno; è di lì che caviamo quel poco
pane. Se lo mettiamo lontano, come si fa a sorvegliarlo perchè non ce
lo rubino?

--Ma intanto qui l'aria si guasta, ed i bambini muoiono. Sospirai
scoraggiata da quell'argomentazione troppo convincente.

--Questo è vero che ne muoiono tanti, confermò la madre dei Macabei.
Ma cosa farci?

E la vecchia soggiunse:

--Vanno a star più bene di noi. Hanno finito di tribolare.

La madre della piccola malata continuava ad annaspare in silenzio,
ingoiando tratto tratto un singhiozzo; ed ogni tanto mi guardava con
certi occhi ebeti, traverso le lagrime, che facevano piangere. Non
avevo mai visto dolore più represso e muto nella sua intensità. Se ne
vergognava, e faceva sforzi inauditi per dissimularlo.

Il giorno dopo, quando tornai nel cortile, la bambina era morta.

--E la Teresa? domandai. È lassù presso il cadaverino della sua
figliola?

--Che! mi risposero. È andata alla Madonna del Bosco. Dice che vuol
star là tutto il giorno.

Se n'era andata, mentre il corpo della piccola morta era sempre là
nella culla.

--È andata sola? domandai. Suo marito non è con lei?

--Oh signora! Suo marito è nei campi a lavorare.

--Povera donna! sospirai, addolorata dalla grande sventura che le era
toccata.

--Crede, che m'è dispiaciuto anche a me? disse la nonna, dubitando
quasi ch'io potessi prestar fede a tanta sensibilità.

--Ed alla mamma rincresce _anche_ di più; soggiunse la Maddalena, che
era riescita a questa scoperta dopo i suoi sette esperimenti.

Più tardi vidi il marito della Teresa seduto sul sasso davanti
all'uscio col figliolo primogenito sulle ginocchia. Lo carezzava
leggermente colle sue grosse mani; pareva un padre amoroso; credo che
lo fosse realmente per quel fanciullo robusto; ma una bimba di pochi
mesi, è troppo piccola e fragile cosa, per quelle rozze nature; non ha
ancora una personalità; sembra a loro una puerilità il piangere per
quell'inezia muta ed inerte nelle sue fasce, come si piange per una
persona matura. Gli domandai della moglie, e mi rispose con aria da
uomo che la sa lunga:

--Io gliel'ho detto alla mia donna, che non istia a far scene: che non
va bene. Vuol ammalarsi anche lei?

--E la lasciate laggiù sola, alla Madonna?

Pietro mi guardò, poi si guardarono l'un l'altro, lui, la nonna e la
cognata un po' confusi. Non capivano cosa pretendessi.

--Quando tornerà? domandai.

--Ma! disse la nonna. Non l'ha detto. Ha i suoi parenti da quelle
parti; forse anderà da loro.

--Ma verrà prima di sera?

--Chissà! rispose il marito. Potrebbe restare a dormire da' suoi.

Erano tutti tranquilli. Nessuno si mostrava afflitto per la bimba
morta, nessuno era inquieto per la madre, il cui dolore, in mezzo a
quella rozza apatia, pareva un caso patologico, un esaltamento.
Cercavano anzi di scusarla, mi dicevano che era giovane, che era la
prima volta che le moriva una creatura, e che era accaduta la
disgrazia quando non ci era ancora preparata. E ripetevano come per
riabilitarla ai miei occhi:

--Ma fra qualche giorno le passerà, e non ci penserà più.

Ero tormentata dal pensiero di quella donna abbandonata a sè stessa,
con quel gran dolore, in un luogo solitario. Pensavo ad alcune mie
amiche inconsolabili, che, dopo molti anni, piangono ancora amaramente
i figlioletti perduti, e soffrono al vedere un bambino di quell'età.
Pensavo di che compianto, di che doglianze, di che venerazione noi
circondiamo quel santo dolore di madre, senza che ci riesca tuttavia
di mitigarlo. E fremevo all'idea di quell'anima desolata e sola
nell'isolamento della campagna, senza una parola amica per
confortarla, senza uno sguardo amoroso che vegliasse su di lei. Ai
piedi della Madonna del Bosco sapevo che scorre l'Adda; e sapevo pure
a che consigli estremi e disperati può condurre un gran dolore.

Tutto il giorno fui in pena; e quando cominciò a farsi buio indussi
Pietro ad andare in cerca della moglie. Ci andò per compiacermi, senza
comprendere di cosa avessi paura.

Non c'erano che due chilometri, e tornò presto, tranquillo come
quand'era partito.

--È andata da' suoi, mi disse. Gliel'ho detto ancora che non deve
crucciarsi a quel modo. S'avrebbe pari se s'avesse a far così. Anche a
mio fratello è morta una bimba quest'inverno; e bella, e prosperosa! È
morta in due giorni di quel male in gola; ed aveva già quattro
anni....

--Ma anche a lui sarà dispiaciuto...., osservai.

--Siii; sulle prime gli è dispiaciuto tanto; ma cosa farci? È venuto
con me una giornata; siamo stati fino alla sera a Lecco.....

Prima di lasciare la campagna andai daccapo a vedere della Teresa. Era
tornata, ma non era in casa. Domandai come stesse:

--Oh le è passato, mi risposero parecchie voci; poi la Maddalena
soggiunse:

--_Forse_ di dentro le rincresce ancora; ma ora è _ragionevole_.

Passando nell'orto vidi la Teresa, curva a terra che raccoglieva delle
patate. La chiamai e si rizzò per salutarmi. Aveva gli occhi rossi e
le lagrime le rigavano il viso. Se le asciugò in fretta col rovescio
della mano, e si sforzò di sorridere nel dirmi:

--Buon giorno, signora.

Aveva il pianto alla gola e le tremava la voce, povera donna. In
quella venivano in su due contadini, un giovane ed un vecchio, curvi
sotto il carico enorme di cinquanta chilogrammi di fieno, che
portavano sul capo. Sotto quella frangia di erbe penzolanti che li
soffocava, il loro volto era violaceo, le vene erano turgide, gli
occhi iniettati per lo sforzo. Le goccie di sudore, dalla fronte
scendevano sulle ciglia, e prima di cadere pendevano tremolando come
lagrime. Nel passarci accanto il più vecchio guardò la Teresa, e fece
l'atto di crollare il capo, che però il peso esorbitante gli
constringeva all'immobilità, e disse con voce strozzata dallo sforzo:

--È ancora giovane, povera figliola. Lasci passare degli anni, e poi
lo capirà anche lei, che quelli che stanno meglio sono quelli che se
ne vanno in paradiso.

Tenni dietro coll'occhio a quella vecchia figura ricurva, schiacciata
sotto quel carico inumano. Dio gli conservi la fede consolante del
paradiso!



SENZ'AMORE.


I.

--Oggi è venuto alla scuola un ragazzo nuovo, che ha lo stesso nome di
me! esclamava un fanciulletto di undici anni, in sottanella da
chierico, entrando tutto affannato nella cucina del signor Dogliani,
colla cartella a tracolla, e il panierino della colazione sul braccio.

--Oh!

--Ah sì!

--Che ridere! risposero ad una ad una le tre sorelline alle quali
aveva parlato; ma risposero sbadatamente, senza distogliere la loro
attenzione dalla cuoca che stava girando lo sprone intorno agli
agnellotti per frastagliarli a bei festoncini uniformi.

--Tutti e due i nomi! tornò a dire lo scolaretto accostandosi alla
tavola. E guardava le bambine aspettandosi di vederle molto
meravigliate.

--Tutti e due i nomi! Vincenzo Dogliani!

Ma le bambine avevano ben altro da fare pel momento che dargli retta.
La Laura prendeva ad uno ad uno gli agnellotti, e li disponeva giro
giro sulla tafferia. La Maria, un po' più piccina, che poteva avere
sette anni, raccoglieva i ritagli di pasta man mano che la cuoca li
staccava, e li passava all'Elena, la sorella maggiore, già vicina ai
dieci anni, che ne faceva una pagnotta, la rimpastava e la rispianava,
col matterello.

Vincenzo stette un tratto a guardarle, poi, vedendo che nessuno gli
badava, cercò di togliere il matterello all'Elena, col pretesto
ch'egli aveva maggior forza per maneggiarlo, e la fece stizzire. Tentò
aiutare la Laura, e si fece dar sulla voce dalla cuoca perchè toccava
gli agnellotti colle mani sudice; e finì col prendere il vasetto della
tafferia, e, colla scusa di infarinare gli agnellotti, fece cadere una
tale pioggia di farina sulla tavola, sulle mani della cuoca, sul capo
delle bambine, dappertutto, che la cuoca, spazientita, li cacciò fuori
tutti quattro, e chiuse dispettosamente l'uscio della cucina.

L'Elena si mise a correre ridendo e scotendo il capo per farne cadere
la farina, e gli altri dietro, tenendosi per gli abiti.

Così entrarono come una raffica nella stanza da pranzo, dove il signor
Dogliani leggeva un giornale accanto al fuoco mezzo spento, ed una
giornante stirava la biancheria di bucato sulla tavola a ribalte, che
più tardi doveva essere allargata ed apparecchiata pel pranzo, ed
intanto, colle ribalte pendenti e coperta dallo stiratoio, serviva ad
un uso più modesto.

In casa Dogliani tutto era modesto. Non c'era salotto, nè studio;
quella stanza da pranzo teneva luogo di tutto; era vasta e ben
rischiarata da due porte a vetrate che mettevano nel giardino. Presso
una di quelle porte, che non si apriva mai, c'era un tavolino da
lavoro dove la Caterina, ch'era l'unica serva di casa, sedeva la sera
a rammendare il bucato, ed a prepararlo per quella stiratora, la quale
andava a giornata una volta ogni settimana. Alla parete di contro era
addossata una vecchia credenza, e presso la credenza c'era l'uscio. Le
altre pareti erano occupate, una dal camino colla rispettiva cassina
per la legna, l'altra da una scrivania sulla quale i ragazzi facevano
i compiti di scuola, quando il signor Dogliani non ci sedeva lui col
suo librone dei conti.

Il signor Dogliani era un uomo sulla cinquantina, taciturno, spesso
accigliato, un po' scontroso. Voleva un gran bene ai figli, ma non lo
sapeva dimostrare, o non voleva; di certo non li accarezzava punto,
non si intratteneva a chiacchierare e ridere con loro, ed essi erano
sempre in suggezione col babbo. Del resto era spesso fuori a
sorvegliare i suoi fondi, ed i figlioli passavano la giornata a
scuola. Si riunivano soltanto all'ora del pranzo.

Quel giorno, dopo essere entrati con tanto chiasso, le tre bimbe ed il
fanciulletto ammutolirono subito appena s'avvidero che il babbo era
già in casa. Lo salutarono, poi si raggrupparono intorno al tavolo per
guardare la stiratora, che badava a dire: «Laura, non appoggiare i
gomiti sulla salvietta che non la posso piegare. Maria, tira indietro
le manine, bada che il ferro scotta.»

Vincenzo credette il momento buono per richiamare l'attenzione delle
bambine sulla grande nuova che aveva riportata dalla scuola, e che in
cucina non aveva suscitata tutta la meraviglia ch'egli si era
promessa.

--Date retta dunque, disse a mezza voce. Oggi è venuto alla scuola un
ragazzo nuovo che ha lo stesso nome di me; nome e cognome....

Questa volta il risultato fu più inaspettato ancora della prima,
perchè, mentre le bambine stavano per rispondere, la stiratora urtò
col piede Vincenzo sotto la tavola, poi si mise un dito sulla bocca,
accennando che stesse zitto, e che anche le bambine stessero zitte,
che c'era il babbo.

--Che male c'è?... cominciava a dire Vincenzo, alzando apposta la
voce, perchè gli pareva che anche il babbo dovesse interessarsi di
quel fatto, ed ammonire la stiratora che lo lasciasse parlare.

Ma il babbo non intervenne, e l'altra daccapo ad urtargli il piede con
più forza, ed a fargli dei cenni misteriosi perchè stesse zitto. Poi
disse:

--Fammi il favore, Vincenzo, domanda alla Caterina se l'altro ferro è
caldo.

Era una buona donna, vecchia di casa, avvezza a trattare i ragazzi
senza cerimonie, e Vincenzo obbedì, ed uscì correndo per andare in
cucina. Ma non poteva capire perchè non s'avesse a parlare dinanzi al
babbo di quel suo compagno fenomenale. Era così bello d'aver quella
cosa meravigliosa da raccontare! Dacchè aveva udito la combinazione
strana di quel nome, era stato ansioso d'andarlo a ripetere a casa, di
chiacchierarne colle sorelline, e colla Caterina. Perchè mai glielo
proibivano?

--Perchè mai? domandavano impensierite le bambine che erano corse
tutte in cucina sulle calcagna del fratello, secondo una loro
abitudine di partire e di arrivar sempre in frotta come una volata di
passeri.

--Zitti, ragazzi! esclamò la stiratora, entrando anche lei in cucina
col ferro in mano col pretesto di cambiarlo. Non parlate di quello
scolaro nuovo dinanzi al babbo.

--Ma perchè, Rosa? Di', perchè? esclamarono in coro i bambini,
piantandole in volto i loro otto occhi sbarrati, curiosi, come otto
punti interrogativi. E la Rosa, sempre affaccendata e misteriosa;

--Perchè gli farebbe dispiacere. Lasciatemi andare, via....

--No, no. Di', che cosa gli importa al babbo? Che cosa c'è da far
dispiacere?

--Non gli fa dispiacere, lo irrita.

--Ma perchè? Perchè?

--Ve lo dirò poi; lasciatemi andare, che non s'avveda che sono uscita
per parlare di questo. E cercava di svincolarsi; ma i ragazzi la
stringevano davvicino:

--No, no. Dillo ora, Rosa. Perchè?

--Perchè quel ragazzo è figlio d'un suo fratello; ma zitti; vi dirò
tutto questa sera. E profittando dello sbalordimento prodotto da
quella rivelazione, la Rosa sfuggì alle otto braccia che la
trattenevano, e tornò al suo lavoro.

Questa volta sì che lo stupore fu grande! Esistevano un fratello del
babbo, ed un suo figliolo! Dunque essi avevano un cugino! I ragazzi
perdettero la parola dalla stupefazione, ed invece di correre tutti in
sala da pranzo dietro la stiratora, come non avrebbero mancato di fare
in tutt'altra circostanza, rimasero aggruppati sull'uscio della cucina
a fare delle congetture, a parlare tutti insieme, finchè la cuoca li
chiamò perchè aiutassero a preparare la tavola, mentre la Maria stava
ancora domandando a tutti «se un cugino che non si è mai visto resta
cugino egualmente» senza aver ottenuto una risposta che schiarisse il
suo dubbio.

Di solito a pranzo il babbo domandava:--Cosa c'è stato di nuovo alla
scuola? Ed i ragazzi cominciavano a raccontare, si animavano,
parlavano forte, ridevano o si bisticciavano; e, ad ogni modo, il
signor Dogliani poteva tacere e pensare a tutt'altro, senza che per
questo regnasse nel desinare di famiglia quel silenzio glaciale, che
toglie l'appetito e fa cattivo sangue. Ma quel giorno non la fece la
domanda che dava la stura alle chiacchiere. Di certo aveva udita la
famosa nuova di Vincenzo, e non voleva che se ne riparlasse.

Fu un pranzo silenzioso, sbrigato alla lesta; e subito dopo il signor
Dogliani uscì.

Si può figurarsi con che furia i ragazzi si precipitarono in cucina
intorno alla Rosa che finiva di mangiare, per farle dire di quello zio
e di quel cugino.


II.

--Sì; il vostro babbo aveva un fratello, disse la Rosa; ed erano
venuti su insieme come voialtri, e, da uomini fatti, vivevano ancora
uniti. Possedevano questa casa in Santhià, ed un po' di terreno che
non bastava a farli vivere. Quell'altro, il signor Teodoro, faceva dei
grandi affittamenti di prati e risaie; e vostro padre dirigeva i
lavori, teneva i conti, badava al raccolto, alle vendite. Così gli
interessi comuni prosperavano. Ma quando tutti e due pigliarono moglie
quasi nello stesso tempo, dovettero separarsi. Allora il babbo si
tenne la casa; al signor Teodoro toccarono quei pochi fondi di
famiglia; e ciascuno tirò via ad affittar terreni ed a farli fruttare
per suo conto. Questo fratello qui era di umore tranquillo, pensava a
lungo prima di fare una cosa, e non la faceva se non la credeva buona;
e la vostra povera mamma era una donnina di casa, modesta, che
lavorava dalla mattina alla sera. Quegli altri invece, se il marito
era allegro e sbadato e temerario, la moglie lo era due volte tanto.
«Se si facesse quell'affidamento di diecimila lire?» diceva lui.
«Facciamolo anche di quindicimila», diceva la moglie. E, conchiuso il
contratto, badavano a raccogliere i frutti del terreno, ma punto punto
a pagare l'affitto; ed a fine d'anno i raccolti erano goduti,
quattrini non ne restavano, bisognava ricorrere ai mezzi rovinosi,
ipotecare quei pochi fondi che erano rimasti dall'eredità paterna,
vendere. Poi, appena avevano ripiegato alla meglio, non pensavano più
a malinconie, e ripigliavano la loro vita allegra. C'erano sempre
frotte di signori di Vercelli invitati in casa loro, e pranzi e cene
che era una baldoria, e viaggi ad ogni tratto.

I bambini stavano a sentire esterrefatti quelle narrazioni che
parevano una fola, e tratto tratto scambiavano tra loro degli sguardi
che esprimevano una grande ammirazione per quello zio splendido e
giocondo. La stiratora continuò:

--Bisogna anche dire che qui voialtri venivate al mondo in fretta e in
furia, uno sulle calcagna dell'altro, come fate ora quando correte per
la casa, e la vostra mamma, buon'anima, non aveva tempo d'uscir
dall'uscio; mentre laggiù c'era un solo bambino, un po' infermiccio
che stava seduto in una carriola, e non dava da fare a nessuno.

--Era quello lì della mia scuola? domandò Vincenzo che non poteva
figurarsi quel ragazzo tanto lungo, seduto in una carriola da bimbo
infermiccio.

--Era quello, rispose la Rosa. Lo avevano chiamato Vincenzo, come te,
dal nome di vostro nonno. Come fu, come non fu, un bel giorno
capitarono qui il signor Teodoro e la moglie, che non ci venivano mai,
e presero il padrone alle strette, là nella stanza da pranzo, e gli
fecero una scenata, che li sentivo esclamare e piangere fin fuori
dall'uscio chiuso. Il fatto era questo: che il signor Teodoro, con
quella smania di far le cose in grande, e di guadagnare grandi somme,
si era arrischiato in una speculazione con un negoziante di Vercelli,
aveva sottoscritto delle carte per avere denaro in prestito; poi era
venuto il tempo di pagare; le carte erano lì che parlavano chiaro, e
lui non aveva quattrini. E non c'era modo di uscirne: o pagare, o
fallire.

--Che cos'è fallire? domandarono i ragazzi.

--È un imbroglio da negozianti che non mi riesce di spiegarvi. Tanto
non capireste. Ma di certo non è una cosa buona, tutt'altro. E qui il
padrone strepitava «che non avesse ad accadere quella vergogna, che
anche lui ne avrebbe patito nella riputazione, che un galantuomo non
deve fallire....» Poi quando quell'altro parlò chiaro e domandò il
denaro a lui, ventimila lire che gli occorrevano entro pochi giorni,
il vostro babbo si consultò con la signora, buon'anima, e poi rispose:

--Senti; queste ventimila lire io e mia moglie le abbiamo messe da
parte a forza di lavoro e di economia, perchè abbiamo dei figlioli;
chissà quanto ci vorrà a rifar questa somma, seppure la si rifarà mai
coi raccolti che non sono più quelli di una volta. Dunque bada a
pensarci seriamente; se questo denaro ti può salvare dal fallimento,
pazienza, te lo daremo, e sarà quel che Dio vorrà. Ma se devi fallire
ad ogni modo, non lo portar via ai nostri poveri bambini, a cui lasci
già la vergogna e gli toccherebbe la povertà insieme.

Ma quell'altro giurò per tutti i santi: «che con quei quattrini là,
non solo avrebbe accomodato tutti gli affari suoi, ma avrebbe fatto
questo e quest'altro, e guadagnato il doppio di quella somma, e che
l'avrebbe restituita coi frutti», e un mondo di promesse alla sua
maniera. Qui il babbo non ci credeva a tutte quelle grandezze, perchè
sapeva che testa aveva suo fratello; ma disse alla signora:

--Questo gli risparmierà il fallimento; cosa vuoi farci? ci va del
nostro onore.

E lei rispose:

--Ma sì; se è necessario daglieli pure, e qualche santo provvederà.

E gli diedero le ventimila lire per salvare la loro riputazione di
gente onesta.

Ma non salvarono nulla, perchè il signor Teodoro, quand'ebbe i denari
in mano, pensò a fare delle grandi speculazioni in America, e scappò
laggiù lasciando qui tutt'i debiti. A Santhià non si parlava d'altro,
e qui in casa si è fatto un gran piangere ed un gran vergognarsi.
D'allora vostro padre, che era già sempre di poche parole, si è fatto
così silenzioso, ed è divenuto più solitario e scontroso che non era
prima; perchè gli pareva che la gente nel vederlo dicesse: «Eccolo il
fratello del fallito». Dio, se ci ha patito! E la vostra povera
mamma,--io le ho sapute da lei tutte queste cose, che mi voleva bene,
e mi diceva tutto per isfogarsi,--non fu più lei dopo quel gran
cruccio, e per la pena di veder suo marito umiliato a quel modo; si
può dire che è stato quello il principio della sua malattia, povera
donna, che Dio l'abbia in gloria. Ora sono due anni che il signor
Teodoro è tornato dall'America con quel figliolino, che s'è rinforzato
un po'; la moglie gli è morta laggiù in mezzo ai selvaggi; e lui ha
girato un po' a Vercelli, un po' a Chivasso, un po' a Torino, ha
finito di consumare quei pochi quattrini che aveva, ed ora è venuto a
Santhià, e vorrebbe che il fratello si rimettesse a far interessi
comuni con lui. Glielo ha fatto dire da varie persone, ma il babbo ha
risposto che lui fa conto di non aver fratelli, dacchè quello che
aveva non è più degno di portare il suo nome, per la cattiva azione
che ha fatta. Dice che è stato il disonore della famiglia e la rovina
de' suoi figli, e non vuol sentirne parlare. Ecco. Dunque, tu,
Vincenzo, bada a non venir più fuori colla tua novità del ragazzo
nuovo, che ha il nome eguale al tuo, perchè gli fai dispiacere, al
babbo. Questa mattina t'ha udito; ho visto io che il giornale gli si è
messo a tremare nelle mani.

Vincenzo e le due sorelle maggiori avevano ascoltato con grande
attenzione e curiosità quella lunga chiacchierata, e la prolungarono
ancora con molte domande sui particolari, mentre la piccola Maria
dormiva placidamente, colle braccia incrociate sulla tavola ed il
capino sulle braccia.


III.

Da quel giorno il nuovo Vincenzo Dogliani, quel personaggio di cui non
si poteva parlare ad alta voce, e che aveva una storia, divenne, nella
immaginazione de' suoi cugini, una specie di eroe da romanzo. Lo
chiamavano Vicenzino per distinguerlo dal primo Vincenzo, ed appena
questi tornava dalla scuola, le sorelline, curiose di qualsiasi
informazioni sul cuginetto, domandavano:

--E Vicenzino?

Vincenzo dal canto suo era sempre pronto a darne notizie.

--Il suo compito è stato il più bello della scuola, Ha avuto nove in
geografia. Quest'altro mese avrà la medaglia...

Ma le ragazze preferivano altri particolari meno scolastici. Volevano
sapere se era bello, e quanto era alto, e dove abitava, e se il suo
babbo non lo accompagnava alla scuola; e, soprattutto, una domanda
ripetevano ansiosamente ogni giorno:

--Non gli hai parlato?

Sgraziatamente ci volle del tempo avanti che Vincenzo potesse
rispondere di sì. Vicenzino si teneva in disparte, ed evitava
studiatamente il cugino. Egli conosceva i rapporti di parentela che
univano le due famiglie, e le cause che le avevano disunite.

Aveva poco più di dodici anni, ma era un fanciullo riflessivo, e la
sua intelligenza si era sviluppata presto, grazie alla vita
avventurosa che gli era toccata. Aveva veduto da piccino il babbo e la
mamma godersela in continui spassi, poi piangere e smaniare perchè
avevano speso troppo. Poi, a cinque anni, era stato trasportato a
Genova, e di là sopra un bastimento; e, durante il lungo tragitto,
aveva udito suo padre parlare con esaltazione del dono generoso del
fratello, e dei disegni di speculazioni che faceva lui per far
fruttare quel danaro, il quale doveva essere la sua salvezza e la sua
fortuna.

Poi, laggiù in America, erano tornati i mali giorni, i debiti, i guai,
e si erano scritte lettere al fratello di Santhià sperando da lui
altri soccorsi. E per quanto, vedendo che le sue lettere rimanevano
senza risposta ed i soccorsi non giungevano, il signor Teodoro,
dimentico del beneficio ricevuto, accusasse il fratello di avarizia e
di non aver cuore, Vicenzino si ricordava quanto aveva udito prima, ed
il sacrificio che lo zio aveva fatto per loro, e capiva dov'era la
ragione e dove il torto. In America avevano cominciato dallo stringere
molte relazioni nella colonia europea; dal dar pranzi e serate, dal
fare i gran signori. Il signor Teodoro diceva che questo acquistava
credito; e così le ventimila lire erano sfumate, e dietro quelle erano
sfumati anche i nuovi amici. E quando Vicenzino aveva veduto la sua
casa nella miseria, e più tardi la mamma, che non era più elegante nè
bella, deperire ogni giorno senza nessuno che l'assistesse, aveva
pensato spesso a quei parenti di Santhià che non aveva mai veduti, ma
che dovevano esser buoni perchè avevano dato tutto il loro avere al
suo babbo in un giorno di sventura. Poi aveva pensato, perchè mai non
li aveva conosciuti quei parenti; perchè mai il suo babbo e la sua
mamma non li frequentavano affatto quando erano nella prosperità, o,
almeno, quando se la spassavano? E perchè avevano ricorso a loro
quando s'erano trovati in quel gran guaio ed abbandonati da tutti? Lo
sapevano dunque che quelli erano più buoni di tutti? Che erano capaci
di perdonare il loro lungo abbandono, la loro noncuranza, e di fare
del bene senza badare al proprio risentimento, soltanto perchè gli
altri ne avevano bisogno e perchè era bene? Aveva pensato tutto questo
il piccolo Vicenzino; ed il suo cuoricino di bimbo si struggeva di
tenerezza per quegli zii che avevano soccorso il suo babbo.

Dacchè aveva cominciato a ragionare, il suo babbo era stato l'amore,
la gioia ed il cruccio della sua giovane vita. Mentre la sua mente
precoce vedeva e riconosceva i torti di quell'uomo, il suo cuore ne
era affascinato. La madre non lo aveva mai vezzeggiato molto; il suo
amor proprio di bella donna non era lusingato dall'aspetto malaticcio
di quel bimbo, che fino ai cinque anni era stato quasi incapace di
camminare; e quando il bimbo, un po' rinvigorito, aveva cominciato a
crescere, a muoversi come gli altri, e ad essere ammirato per la sua
bellezza gracile ed un po' effeminata, la povera donna era già tanto
ammalata che non prendeva più interesse a nulla.

Il padre invece, dacchè suo figlio aveva sviluppata quella gentile ed
esile persona, che gli dava l'aria d'un piccolo principe, dacchè quel
volto bianco, quegli occhi turchini, quei lineamenti delicati avevano
perduta l'espressione penosa della sofferenza, andava superbo della
bellezza del fanciullo; lo chiamava «il suo arcangelo biondo», si
gloriava di lui come si era gloriato della moglie quando questa era
stata oggetto dell'ammirazione di tutti, più per vanità che per
intensità d'affetto. Il signor Teodoro aveva sempre bisogno di
insuperbirsi di qualche cosa, di vantare una superiorità qualsiasi.
Altre volte era andato superbo del suo lusso, della vita signorile che
menava, del denaro che spendeva. Ora di denaro non ne aveva più, ma
gli erano rimaste le idee grandiose, alle quali credeva in buona fede:
immaginava delle speculazioni impossibili, dei grandi affittamenti di
terreni da pagarsi dopo il primo raccolto, che, ben inteso, doveva
essere abbondantissimo, e diceva:

--Lasciate soltanto ch'io abbia concluso questo contratto, e poi
vedrete come farò presto a rifarmi un patrimonio. Pago tanto, raccolgo
tanto; mi resta tanto di guadagno; e l'anno venturo con questa somma
in commercio posso cavarne tanto...

Era la storia della donna dal paniere d'ova.

E le sue ricchezze avvenire, dacchè nè lui nè la moglie non erano più
giovani, le destinava a far brillare suo figlio.

--Ti metterò nel primo collegio d'America; ne uscirai con
un'educazione da principe; e quando ti condurrò in Italia ti saranno
aperte tutte le vie. Ti faranno deputato, senatore, ministro....

Si eccitava a quelle idee magnifiche e vane; rizzava orgogliosamente
il capo, s'impettiva, gli brillavano gli occhi e si sentiva veramente
felice, come se quei sogni fossero già avverati, ed egli fosse già il
padre fortunato del primo diplomatico d'Italia.

Se per caso si trovava in possesso di una piccola somma, trascurava di
pagare i debiti, di comperare le cose più necessarie, per portare un
abito o un berretto nuovo a Vicenzino.

--Voglio che tu figuri bene, gli diceva contemplandolo; hai un grande
avvenire, ma per raggiungerlo è necessario salvare le apparenze. Il
mondo è leggiero, e ci bada molto alle apparenze. Voglio che
t'ammirino fin d'ora, e che questi americani capiscano che non sei un
ragazzo comune.

Vicenzino si sentiva intenerito da quelle dimostrazioni, e non osava
respingere i doni del padre per timore di affliggerlo. Pensava:
«Povero babbo, mi vuol tanto bene che fa delle pazzie per me». Ed
adorava quel padre puerile come un gran fanciullone ingenuo, che ha
bisogno di molta indulgenza. Specialmente dopo la morte di sua madre
aveva riportato su quell'unico parente tutto l'affetto del suo cuore.

Avrebbe voluto poter consacrare al suo idolo una stima pari all'amore.
Ma non poteva dimenticare il fatto delle ventimila lire.

Quando poi era tornato in Italia, quel pensiero aveva preso a
tormentarlo come un incubo. Gli pareva che tutti conoscessero
l'ingratitudine di suo padre, la sua slealtà, e che lo disprezzassero;
ed egli si sentiva umiliato, e soffriva dolorosamente di quel
disprezzo. Uscendo nella strada col babbo, gli parlava con atti di
devozione, tratto tratto gli baciava la mano, come per dire alla
gente: «Vedete come lo onoro, io che lo conosco davvicino?» Reagiva
contro il giudizio del pubblico, che in fondo era anche il suo, e
pretendeva di modificarlo.

Ma quelli che lo intimidivano di più, erano i suoi parenti
sconosciuti. Si figurava la casa da dove erano uscite le ventimila
lire indimenticabili, come il tempio di tutte le virtù, e lo zio,
grande e terribile come il Padre Eterno nella sua giustizia offesa, lo
faceva tremare.

Suo padre invece, nella sua inesauribile vanità, non avendo altro di
cui far pompa pel momento, faceva pompa di quel fratello stimato e
ricco. Gli attribuiva un patrimonio immaginario, e diceva ai vicini di
casa:

--Conoscete il signor Anselmo Dogliani, quel riccone?.... Non sembra,
perchè è modesto, ma se ne ha di quattrini! Io lo so perchè sono suo
fratello.

Gli operai che abitavano l'umile casamento in cui s'era alloggiato
lui, non la sapevano tanto lunga; per loro chiunque non lavorava a
giornata era un signore, ed ammiravano compiacentemente
quell'inquilino fanfarone, che aveva una parentela così ricca; tanto,
in quelle ore di riposo, non avevano di meglio a fare.

E l'altro, lusingato, tirava via a raccontare come un giorno il
fratello gli avesse dato ventimila lire (qualche volta diceva trenta,
cinquanta) così sulle unghie; e soggiungeva, tronfio come un tacchino
che fa la ruota:

--Sono passate tutte per queste mani; e ci è passato ben altro! Se ne
gloriava; non provava nè riconoscenza pel fratello, nè vergogna di sè.
Si sentiva superiore a quei poveri, ed era felice.

Quando Vicenzino era stato alla vigilia d'andare alla scuola, gli
aveva detto in presenza dei vicini:

--Domattina alla scuola troverai tuo cugino, il figlio di mio fratello
Anselmo. Si chiama Vincenzo Dogliani come te. È il nome di nostro
padre...

Vicenzino si era fatto tutto rosso. Lui, piccino com'era, non traeva
vanto di quella parentela; si sentiva sulle spalle tutti i torti del
padre, e l'idea di trovarsi in faccia al cugino lo faceva piangere di
vergogna.

Appena entrato nella scuola aveva cercato ansiosamente di indovinare
qual'era il figlio di suo zio; ma non aveva osato domandarne a
nessuno.

Poi lo aveva veduto vestito da prete, e questo aumentava la sua
suggezione. Quel costume eccezionale formava l'orgoglio di Vincenzo e
l'ammirazione de' suoi compagni. Quei riccoli provinciali di Santhià
consideravano il neo chierico come un ragazzo serbato ad alti destini.
Sapevano che aveva avuto un pro-zio arcivescovo, dal quale proveniva
il benefizio ereditario nella sua famiglia; e ripensavano il piviale
d'oro e la mitra dell'arcivescovo di Vercelli, che era stato l'anno
innanzi a Santhià per amministrare la cresima. Si figuravano di vedere
Vincenzo vestito a quel modo, in mezzo ad una nuvola d'incenso, sotto
un baldacchino bianco ed oro, con tanti preti intorno, andare in giro
pian piano per la chiesa, dando degli schiaffettini con due dita sulle
guancie arrossate dei bimbi, e susurrando delle parole latine. Di
certo non poteva essere un ragazzo come gli altri, uno che doveva
arrivare a codesto, ed i suoi compagni avevano per lui un certo
rispetto.

Vicenzino si sentì addirittura avvilito da quella futura autorità
ecclesiastica. Gli parve che Vincenzo fosse prete apposta, per
presentare i torti di suo padre al tribunale divino. Si rannicchiò, si
rimpicciolì nel suo angolo remoto da ultimo venuto, ed evitò persino
di guardare il cugino, e se ne tenne lontano come un reprobo
dall'altare. Gli pareva ad ogni momento di vederselo venire innanzi a
chiamarlo «figlio d'un ingrato». Nella sua mente paragonava i due
fratelli Dogliani ad Abele e Caino, e tremava di vergogna e di
spavento.

Invece Vincenzo, che ammirava il parente sconosciuto, per quanto c'era
di meraviglioso nella sua storia di grandezza, e di miseria, e di
emigrazione in paesi lontani, era anche lui in suggezione e non osava
avvicinarlo. E Vicenzino, interpretando anche questo a suo modo,
pensava: «Ecco, mi sfugge; suo padre gli ha proibito di parlarmi». E
non ebbe neppure un momento l'idea temeraria di opporsi a quel giusto
divieto. Continuò a stare in disparte, a non parlare, a non giocare
con nessuno.

Studiava; lo faceva per inclinazione, e per diventare un grand'uomo,
come diceva suo padre. Aveva un ideale, un ideale serio e senza
azzurro, ben differente dagli ideali fantastici dei fanciulli; un
ideale prosaico da uomo venale: «Guadagnare ventimila lire».


IV.

Vincenzo non amava il latino. Quella lingua morta non voleva entrargli
nella testa. Appena usciva di classe sentiva il bisogno di darsi
movimento, di gridare, di reagire in tutti i modi a quella quiete
opprimente. L'idea del cómpito lo crucciava, ed egli rimandava a più
tardi l'ingrato dovere; e quando per forza ci si metteva, aveva
tardato tanto che non c'era più tempo per tutto, e lasciava indietro
il lavoro latino, il più lungo e difficile.

Più volte il signor Anselmo Dogliani aveva ricevuto delle lagnanze dai
maestri per la negligenza del figlio appunto nel latino, senza il
quale la carriera ecclesiastica non era possibile. Egli lo aveva
ammonito severamente, e lo trattava con sussiego, sebbene passasse poi
le notti a vegliarlo, quando, nelle lunghe e gloriose battaglie a
palle di neve coi compagni, si buscava delle tossi, che minacciavano
di schiantargli il suo petto robusto.

Lungo l'inverno Vincenzo pensava: «Avrò tempo a studiare questa
primavera, quando le giornate saranno più lunghe...» Ma nella
primavera la campagna era bella, ed era un piacere andare in giro. Per
studiare c'era tempo gli ultimi mesi...

Un giorno il signor Dogliani gli disse:

--Se quest'anno non passi gli esami, debbo toglierti la sottana, e si
perde il benefizio, che omai è la nostra sola ricchezza. Queste sono
le consolazioni che mi dai.

E c'era una tale sfiducia e tanta amarezza in quelle parole, che
Vincenzo se ne sentiva annientato; lui che aveva creduto di poter
essere il sostegno della famiglia. Avrebbe dato Dio sa che cosa per
poter tornare indietro al principio dell'anno, e incominciare l'annata
in tutt'altro modo, studiando un poco ogni giorno...

Venne il termine dell'anno scolastico; tutti gli altri esami andarono
così così, tanto da passar la classe. Ma quando Vincenzo si trovò alle
prese colla traduzione latina si sentì perduto. Vide svanire la sua
veste da prete, si vide con vergogna ridivenuto un semplice fanciullo
come gli altri, in pantaloni e giubba, senza la menoma speranza di
piviale e mitra d'oro.

Ed il babbo, che era tanto afflitto pel benefizio perduto! Quel
benefizio di certo era una ricchezza, Vincenzo non aveva idea di
quanto fruttasse; ma gli pareva qualche cosa come le ventimila lire
portate via dallo zio d'America. Dacchè era al mondo aveva sempre
udito parlare di quel benefizio. Molte volte gli era venuto
all'orecchio questo discorso, che l'aveva fatto palpitare d'orgoglio:
«Se le ragazze non troveranno marito perchè non hanno dote, avranno
sempre il fratello prete, e non mancheranno di nulla». Gli era
sembrato d'esserci già, grande e maestoso, nella sua bella casa
parrocchiale, e di atteggiarsi da sovrano magnifico e generoso,
raccogliendo le sorelle sotto la sua protezione: «Venite qui tutte. Io
provvedo». Ed invece, là, nella sala degli esami, doveva convincersi
che egli non sarebbe mai il fratello prete, dacchè non potrebbe
entrare in seminario; che non potrebbe mai far nulla pel babbo e per
le sorelle, e che sarebbe sempre considerato nullo come lo era stato
fin allora.

Mentre questi pensieri passavano l'un dietro l'altro, lenti e neri
come un funerale, nella mente di Vincenzo, il tempo concesso al
cómpito latino scorreva, e sulla pagina bianca non c'erano che delle
lagrime che gonfiavano in vari punti il foglio. Man mano che uno
scolaro piegava il lavoro, lo consegnava all'assistente e se ne
andava, Vincenzo si sentiva più scoraggiato, come se le sue insegne
ecclesiastiche fossero uscite dall'uscio ad una ad una dietro quei
ragazzi. Pensava:

--Ecco, quando saranno andati via tutti, e resterò qui solo, dovrò
dire che non lo so fare il cómpito, ed allora, addio benefizio. Dovrò
tornare a casa con questa nuova.

S'era già fatto un gran vuoto intorno a lui. Non c'erano più in classe
che sei o sette scolari di poca vaglia, assai lontani l'uno
dall'altro. Ora che la vigilanza dell'assistente cominciava a
stancarsi e sarebbe stato più facile eluderla, Vincenzo non poteva più
domandare aiuto a nessuno, perchè i suoi vicini erano tutti usciti, ed
era solo nel banco.

Stava col gomito sinistro sul banco ed il capo appoggiato alla mano,
mentre colla destra teneva la penna sulla carta nell'atto di scrivere;
ma non scriveva. Aveva gli occhi fissi in terra tra il sedile ed il
banco, e piangeva in silenzio.

Ad un tratto, di sotto al sedile, vide sorgere una mano con un
fogliolino piegato, e posarglielo sulle ginocchia. Vincenzo era troppo
avvezzo alle gherminelle di scuola per non capire all'istante. Quel
fogliolino era la traduzione latina, la sua salvezza, la sua veste da
prete, il seminario, il benefizio, la ricchezza della sua famiglia. La
gioia lo invase, gli diede un tremito per tutte le membra, un calore
ardente alle guancie. Ma non gridò, seppe frenarsi. Prese il foglio,
lo spiegò pian piano in grembo colla mano destra, senza togliere il
gomito dal banco, senza muovere il capo. Poi ripigliò la penna, e,
sempre nello stesso atteggiamento, si mise a ricopiare febbrilmente il
cómpito che gli era piovuto bell'e fatto dal cielo, fremente di veder
scorrere i minuti, ansioso di arrivare alla fine.

Aveva appena scritte poche parole, quando l'assistente disse parlando
al fondo della classe dietro a lui:

--Dogliani Vincenzo, laggiù; cosa fai sotto il banco?

--Ho raccolto il foglio che m'era caduto...... rispose colla voce
turbata Vicenzino. E, consegnata la sua pagina, uscì tutto rosso in
viso, senza guardare il cugino. Ma questi non ignorava più da che
parte gli era venuto quel soccorso.


V.

Vicenzino fece la strada di corsa. Nell'eccitazione della mente, col
cuore che gli sussultava, non avrebbe potuto camminare adagio. Se non
aveva del tutto raggiunto un ideale lungamente vagheggiato, lo aveva
avvicinato assai, ed aveva intraveduta la possibilità di raggiungerlo.

Dacchè aveva conosciuto Vincenzo, il rimpianto per la vecchia rugine
di famiglia che lo avviliva in faccia al cugino, era diventato un
tormento pel suo cuore. Oh, se avesse potuto riparare quel passato!
Vedersi stendere la mano da quei parenti! Entrare in quella casa! Se
avesse potuto diventare l'amico di Vincenzo!

Tutto l'anno la sua immaginazione aveva divagato intorno a
quell'aspirazione, che si andava facendo più intensa, a misura che il
tempo passava lasciandola insoddisfatta. Fantasticava delle scene
drammatiche in cui egli con atti eroici salvava la vita a Vincenzo:
poi scene tenere che lo commovevano fino al pianto. Altre volte erano
idillî buffi coi quali blandiva dolcemente la sua manía. Pensava di
uscire solo, di notte, di andare sotto le finestre di Vincenzo e di
cantare una serenata che aveva udito in teatro:

    «Bella siccome un angelo
    «Ti vidi e t'adorai...

Diceva _bello_ invece di _bella_, e cantava con una voce un po' falsa
ed ineguale da adolescente, ma che prometteva di diventare una bella
voce di tenore, e che possedeva un accento di passione assai raro nei
tenori da teatro.

Copiava nei libri che gli capitavano sotto mano dei brani declamatorî
sull'amicizia, e li raccoglieva in un taccuino, dedicandoli nel
segreto del suo cuore a Vincenzo.

Finalmente gli esami gli avevano fornito il mezzo di dare una prova
del suo affetto al cugino. Era un mezzo poco drammatico, ma di una
tale utilità, che Vincenzo l'apprezzò altamente.

Non salì nelle nuvole come il sentimentale Vicenzino; però, appena
copiata la famosa traduzione latina, corse fuori dalla scuola,
impaziente di saltare al collo del suo salvatore per ringraziarlo. Ma
Vicenzino non lo aveva aspettato. Egli non isperava dei
ringraziamenti. Al confronto delle gesta eroiche che aveva sognate di
compiere per Vincenzo, quanto aveva fatto gli pareva troppo piccola
cosa. Ma era felice ad ogni modo di essersi creato un rapporto con
lui, ed era corso via per la campagna, per deliziarsi con una delle
sue visioni, non più fantastica ed inverosimile, ma rievocata dal vero
in tutti i suoi particolari: le lagrime silenziose di Vincenzo che
sgocciolavano sul foglio bianco, lo sforzo fatto da lui, Vicenzino,
per avvicinarlo senza essere veduto dall'assistente, ed il turbamento
e la passione che aveva posta nel compiere quell'atto tanto comune
nelle scuole, dove è considerato semplicemente una burla ai maestri.

In casa Dogliani fu un gran chiacchierare dei ragazzi sul bel tratto
di Vicenzino, e le cuginette lo ammirarono molto.

A pranzo il signor Anselmo domandò a Vincenzo con piglio severo:

--E così? l'esame di latino?... e crollò il capo come per dire che non
ne sperava nulla.

--L'ho fatto bene! gridò Vincenzo con uno scoppio di voce. Tutta la
pagina senza un errore..... E gesticolava pavoneggiandosi come se
credesse realmente di averlo fatto lui quel lavoro.

--Oh! Oh! esclamò il babbo. Dio ti benedica, figlio mio. Dio ti
benedica! E mise un gran sospiro di sollievo, e si rasserenò tutto,
poi stese la mano traverso la tavola, e disse:

--Via, diamoci una buona stretta di mano come due amici. Ti avevo
giudicato male, ma vedo che non vuoi affliggermi. Ti ringrazio di
questa buona nuova.

Vincenzo mise la sua mano in quella del babbo, e scoppiò in un pianto
dirotto. Era il rimorso, ridestato dalla tenerezza di quelle parole,
che lo faceva piangere. Ma pochi minuti dopo non ci pensava più, e,
felice di aver contentato il babbo, guardava le sorelline con
orgoglio, dall'alto della sua gloria.

Finito il pranzo, tornò ad uscire in cerca di Vicenzino; ma quello
strano ragazzo non si lasciò vedere, ed egli portò in giro per tutto
il paese la sua riconoscenza, a rischio di farla raffreddare. Fu
soltanto pochi giorni dopo che lo incontrò.

Vincenzo s'era fermato a confabulare in istrada con alcuni compagni
per uno spasso che dovevano pigliarsi la mattina seguente, quando vide
passare Vicenzino, che s'era fatto rosso al vederlo e camminava lesto
lesto, come se non lo avesse riconosciuto.

--Oooh! Vicenzinooo!... strillò Vincenzo con quanta voce aveva in
corpo, e rialzando la sottana, e lasciando cadere in terra il largo
cappello da prete, raggiunse di corsa il cugino, gli buttò le braccia
sulle spalle per obbligarlo a voltarsi, e gli disse tutto eccitato:

--Anche tu verrai a cercar fanghi con noi domani. È bello, sai, ci si
diverte tanto...

E rivolgendosi ai compagni che l'avevano seguito da lontano, gridò:

--Verrà anche lui! Voglio che venga perchè è mio cugino, e mio
amico... e perchè... perchè...

Non lo potè dire il perchè. Gli pareva che gli altri dovessero burlarsi
di lui, se sapevano che faceva tanto caso di quell'avvenimento
scolastico. Si voltò invece a guardare Vicenzino e soggiunse:

--Lo sappiamo noi il perchè. E, dandogli un'altra stretta alle spalle,
lo fece girare due volte intorno a sè, in segno di tenerezza, poi lo
piantò là, corse a pigliare il suo cappello e se ne andò, gridando da
lontano:

--Ricordati, Vicenzino! Domattina alle sei, qui, sulla piazza.

Vicenzino fu puntuale come un innamorato, e da quel giorno i due
fanciulli furono inseparabili. Vincenzo inventava ogni sorta di
chiassate per quegli ultimi mesi che gli rimanevano di libertà, si
ubbriacava d'allegria, di rumori, di giochi; correva fino a perdere il
fiato, faceva salti da rompersi il collo, metteva grida da schiantarsi
il petto, ed era felice.

Vicenzino lo seguiva dovunque assorto nella gioia di aver raggiunto il
suo ideale. Avrebbe voluto Vincenzo più quieto, più esclusivamente
suo. La brigata dei compagni, che si tirava sempre dietro, lo
manteneva così distratto, che non poteva fissarsi sopra un'idea, e la
continua eccitazione dei giochi che lo attraevano, paralizzava la sua
immaginazione ed il suo cuore. Non era possibile ottenere da lui un
discorso intimo, una confidenza, uno sfogo d'espansione. Era troppo
divagato. Ma tuttavia era là accanto a Vicenzino; tratto tratto gli
saltava al collo o gli dava un urtone, non erano più estranei l'uno
all'altro, si davano del _tu_...

Tutti e due pensavano qualche volta al seminario, che doveva
separarli. Vincenzo ne parlava con orgoglio. Il seminario era il primo
passo verso la sua futura grandezza.

--Quando dirò la prima messa, diceva, si farà una gran festa. Il babbo
darà un pranzo magnifico, perchè il benefizio è mio. Tu mi scriverai
un sonetto apposta, ed il municipio farà i fuochi d'artificio...

Vicenzino lo ascoltava con deferenza, poi gli domandava dolcemente:

--Mi scriverai quando sarai in seminario? E si consolava un poco della
loro prossima separazione, riflettendo che, nelle lettere, avrebbe
osato meglio esprimere tutta la sua tenerezza, domandare un equo
ricambio di quell'amicizia che sentiva con tanta intensità, e che
Vincenzo pigliava un po' troppo alla leggera.


VI.

Tutto questo accadeva nell'autunno del 1859. Ai primi di novembre
Vincenzo, che aveva appena compiti i tredici anni, partì da Santhià
per andare in seminario a Novara.

Il benefizio, legato alla famiglia Dogliani da uno zio arcivescovo di
Vercelli, non era molto grasso. Era un capitale di trentamila lire
investite nella casetta abitata dal signor Anselmo ed in un fondo che
egli coltivava con ogni cura per cavarne il maggior frutto possibile.

Nei piccoli paesi si vive con poco, e quel fondo e un altro dell'egual
misura all'incirca, che il signor Dogliani prendeva in affitto, gli
fornivano un'entrata magra, ma sufficiente per vivere co' suoi quattro
figliuoli.

Aveva indugiato a mettere Vincenzo in seminario finchè non avesse
passate tutte le classi che poteva fare in paese, dove c'era un
ginnasio di terza classe per tardare quanto più era possibile ad
aggravare il bilancio di famiglia con quella pensione.

L'avversione che Vincenzo aveva sempre dimostrata pel latino aveva
tenuto in pensiero il signor Anselmo tutti quegli anni. Se suo figlio
fosse fallito agli esami, se fosse stato dichiarato assolutamente
inabile a quello studio, avrebbe dovuto rinunciare a fargli percorrere
la carriera ecclesiastica, e per conseguenza al benefizio; e la
famiglia sarebbe rimasta senz'altro mezzo di sussistenza che il lavoro
di lui, già avanti negli anni, che poteva mancare da un giorno
all'altro e lasciare i figli nella miseria.

Per tutte queste considerazioni la buona riuscita dell'esame aveva
assunta tanta importanza, ed aveva disposto l'animo del padre ad una
gran deferenza per quel fanciullo, che considerava come il sostegno
della casa e delle bambine.

Nella quiete del seminario Vincenzo si propose di lavorare seriamente
per non deludere le aspettative di suo padre, che aveva riposta tanta
fiducia in lui. L'intelligenza non gli mancava, e meno libero, meno
distratto, fra condiscepoli già avvezzi alla disciplina della
comunità, che giuocavano poco e studiavano seriamente, potè egli pure
applicarsi con ardore a vincere le difficoltà dello studio. Non riescì
mai a distinguersi fra i primi della scuola, ma superò d'anno in anno
gli esami, e, compiuti gli studi liceali, ricevette gli ordini minori,
e fu ammesso al primo corso di teologia.

Fin dai primi mesi della loro separazione, Vicenzino aveva cominciato
a scrivergli, e quelle lettere, giungendogli nella lontananza di tutti
i suoi, nel raccoglimento di una vita uniforme e quieta, gli avevano
risvegliata la fantasia. Quelle proposte d'amicizia fervente ed eroica
lo avevano appassionato, ed egli aveva riposto in quell'affetto tutto
l'ardore che metteva prima nei giochi e nei piaceri. Si erano
scambiati giuramenti di completa fiducia, e di reciproco aiuto, a
costo di qualunque sacrificio.

Anche Vicenzino aveva lasciato quasi subito Santhià. Suo padre era
riescito a collocarsi come fattore in un tenimento signorile presso
Vercelli, dove mandava a scuola il figlio per fargli continuare gli
studi liceali, dopo i quali intendeva che andasse a Torino
all'Università, e prendesse una laurea. Era la sua ambizione, ed in
essa aveva attinto il coraggio di cercare un impiego e di adattarvisi,
il che gli costava non lieve sacrifizio, sebbene lo avesse ridotto ad
una specie di sinecura. Si consolava facendola da despota e signore
coi contadini suoi dipendenti. Intanto il fanciullo, intelligente ed
amante dello studio, faceva progressi meravigliosi.

Così i due giovani amici erano giunti uno a diciotto, l'altro a
dicianove anni, senza essersi più riveduti. Nell'inverno del 1864
Vincenzo trovò nella biblioteca del seminario, fra i libri che era
permesso agli alunni di leggere: _Il primato morale e civile
degl'Italiani_, di Gioberti. E, dopo avere scorse le prime pagine con
fatica, si era venuto via via interessando a quella lettura, che gli
aveva ravvivato nel cuore il sentimento patriottico fino allora
latente. Provò un vivissimo desiderio di saperne di più, e, non
trovando altre opere di quel genere, ne domandò ad un compagno, il
quale poteva avere dei libri per mezzo di un fratello, che glieli
consegnava di nascosto nelle visite domenicali. Cosi lesse _Le
speranze d'Italia_, del Balbo. E quelle vecchie speranze, in gran
parte conseguite, gli fecero palpitare il cuore. Ripensò quell'immenso
passaggio di soldati francesi che aveva veduti nel 59. Suo padre, con
una coccarda tricolore sul cappello, lo aveva condotto a Vercelli,
dove, in piedi sopra un tavolino da caffè, aveva veduto per ore ed ore
sfilare soldati e baionette, ed aveva udito gridare: «Viva l'Italia!
Viva l'Italia!» Anche lui aveva gridato colla sua esile vocina da
fanciullo, ed i soldati si erano messi a ridere, dicendo: «_Le petit
prêtre_».

Allora non aveva capito gran cosa; ma ora, a diciotto anni, tutto
quelle scene gli tornavano in mente, ed il solo ricordo di quelle
masse esultanti, di quelle armi, di quelle grida di popolo, lo
esaltavano. Dopo le _Speranze d'Italia_ lesse una raccolta di poesie
patriottiche, del Berchet, del Foscolo, del Manzoni. Imparò a mente i
cori del _Conte di Carmagnola_, e la sera li ripeteva tra sè nel
silenzio del dormitorio buio, e si addormentava mormorando con fervore
quei canti di guerra. Erano le sue preghiere.

La sua testa si esaltò, il suo sangue giovane cominciò a ribollirgli
nelle vene, e le mura del seminario gli parvero una prigione, e la
sottana nera gli riescì grave. Passò dei giorni di ansietà crudeli,
combattuto tra la smania di correre da suo padre, di gettare la veste
ed il tricorno, e di dirgli: «Sono italiano, mi devo alla mia patria,
non voglio essere prete», ed il dolore di portare un colpo simile al
povero vecchio che aveva fede in lui, e che quella sua risoluzione
avrebbe ridotto alla miseria. Non aveva più testa allo studio, evitava
i compagni, smaniava, si strappava i capelli, piangeva disperatamente,
non scriveva neppure più a Vicenzino, gli pareva d'impazzire. Nelle
ore di ricreazione, mentre i piccoli seminaristi giocavano, ed i
grandi discorrevano ad alta voce, egli profittava di quel chiasso, che
impediva di distinguere i vari suoni, per cantare i vecchi inni del
1848, che si udivano ancora qualche volta nelle campagne del Piemonte.
Un giorno fu sorpreso da un assistente mentre strillava con tutta la
forza de' suoi polmoni--_Va' fuori d'Italia, va' fuori, o
stranier!_--e fu rinchiuso per castigo in un camerino di penitenza.
D'allora confuse l'assistente coi tiranni della patria, e quando
pensava alla redenzione d'Italia, pensava di redimersi dall'Austria e
da lui.

Circa quel tempo le lettere di Vicenzino cominciarono a farsi meno
verbose, meno sentimentali. Aveva realmente qualche cosa da scrivere
all'amico, un'angoscia da confidargli. Suo padre era ammalato. Egli
cessò di fantasticare sull'amicizia, per descrivere le sofferenze
dell'infermo, la tosse, l'affanno, le veglie; per riferire i giudizi
del medico.

Vincenzo aveva voluto bene a quel parente senza conoscerlo, forse per
una certa analogia nei loro caratteri. La sua malattia lo distolse
alquanto dai pensieri turbolenti che lo agitavano. Aspettava le nuove
dell'infermo con ansietà, ed aveva ripreso a scrivere all'amico, per
dargli coraggio e dirgli parole di simpatia. Un giorno ricevette un
biglietto brevissimo: «Mio padre è morto quasi improvvisamente, quando
pareva che cominciasse a star meglio. Sono solo al mondo.»

Erano vicine le feste di Natale. Vincenzo domandò una licenza per
andar a passarle in famiglia, e partì, impaziente come Damone
accorrente alla salvezza di Pizia.

Prima di andare a Santhià scese a Vercelli, e corse a vedere il cugino
nella fattoria dove aveva vissuto quegli ultimi anni con suo padre, e
dove l'aveva perduto. I due fanciulli erano molto cambiati, ma si
riconobbero subito. Tutti e due erano cresciuti. Vincenzo era forte,
quasi grasso, colorito in volto, ed una folta barba nera, sebbene
accuratamente rasa, gli coloriva di una tinta azzurrina le guance ed
il mento. Vicenzino invece, più alto del cugino di quasi un palmo, era
pallido e magro. I suoi dolci occhi turchini erano abbattuti dalle
veglie e dal pianto, ed i capelli biondi, arruffati sulla fronte gli
facevano una bella aureola, da arcangelo.

La loro lunga corrispondenza li aveva fatti conoscere così intimamente
l'uno all'altro, che ogni soggezione era scomparsa fra loro, ed al
primo vedersi si stesero le braccia, come se, prima di quella
separazione, avessero già vissuto molto tempo insieme. Vicenzino
pianse lungamente in silenzio, e Vincenzo non cercò di consolarlo. Se
lo teneva abbracciato come per fargli sentire che, dopo quel grande
amore che aveva perduto, gli restava ancora la sua amicizia; ma non
glielo diceva. Vicenzino però sentiva il cambiamento avvenuto nel
cugino in quei quattro anni. Lo sentiva egualmente impetuoso, ma
espansivo, riflessivo, serio, e questo gli faceva bene. Era l'amico
che egli aveva sognato.

Sfogato l'impeto del dolore, Vincenzo disse:

--Vieni con me. E, con quel fare sicuro ed imperioso che gli aveva
guadagnata altre volte una facile superiorità sui compagni, gli buttò
addosso mantello e cappello, e lo condusse alla stazione di Vercelli,
dove presero il treno che doveva condurli a Santhià.

Arrivati in paese si diressero subito verso la casa Dogliani. Erano
passate le quattro del pomeriggio, e nevicava; era quasi buio. Quando
furono a pochi passi dalla porta videro il signor Anselmo che si
avanzava dalla parte opposta.

--Babbo, gridò Vincenzo. E la sua voce echeggiò nel silenzio della via
deserta. Il signor Dogliani si fermò; rizzò il capo, che teneva chino
per ripararsi dal freddo col bavero del mantello, e, vedendo una
figura lunga e nera da prete, esclamò stupefatto:

--Vincenzo! Sei tu?

--Sì, rispose Vincenzo. Vengo a condurti un figlio di più. E spingendo
innanzi Vicenzino soggiunse mestamente:

--Suo padre è morto.

Il signor Dogliani tremava tutto come côlto da brividi, e non
rispondeva, e Vicenzino, mortificato da quel silenzio, vedendosi
respinto, fece per andarsene. Ma Vincenzo gli riprese il braccio, poi
accostando il volto a quello del padre e parlandogli sommessamente,
gli disse:

--Siamo amici da anni, e mi ha reso dei servigi....

Ma il signor Anselmo lo interruppe colla voce tanto commossa, che
spiegava il suo lungo silenzio:

--È figlio di mio fratello, e basta. Poi, accennando la porta di casa
colla mano che tremava come una foglia scossa dall'aria, disse a
Vicenzino:

--Entra.

Nella stanza da pranzo le ragazze aspettavano il babbo per mettersi a
tavola. L'Elena aveva quattordici anni, e pareva già una signorina. Le
altre due pure erano cresciute, ed avevano gli abiti troppo corti e le
gambe troppo lunghe.

Al vedere entrare i due giovani egualmente inaspettati, misero
un'esclamazione, e balzarono incontro al fratello. Ma il volto pallido
del signor Anselmo che comparve subito dietro al figlio, aveva qualche
cosa di più grave del solito, che le fece ammutolire. Egli però disse
semplicemente alle fanciulle, mettendo una mano sulla spalla di
Vicenzino:

--Vi conduco un nuovo cugino, lo conoscete?

--Sì, risposero le due ragazze maggiori. E quell'affermazione non
meravigliò affatto il babbo, che di certo aveva indovinato che da un
pezzo le sue figlie prendevano a cuore quel parente. Egli le presentò
ad una ad una, dicendo:

--Elena, la mia primogenita; Laura, la nostra piccola massaia, e
Maria, che ti farà sopportare i suoi capricci, perchè tra tutti
l'abbiamo viziata un pochino.

Fu la sola allusione che fece all'installamento del nipote in casa
sua. Poi tutti si misero a tavola, e la Laura cominciò a scodellare la
minestra.


VII.

Vincenzo doveva passare dieci giorni a Santhià per cominciare l'anno
nuovo colla sua famiglia. Ma, malgrado la presenza dei due giovani, la
casa era malinconica e silenziosa. Vicenzino aveva il cuore riboccante
di riconoscenza, ma sentiva che non avrebbe potuto parlarne senza
commoversi, ed evitava quell'argomento. Guardava lungamente Vincenzo,
ed i suoi occhi si empivano di lagrime. La stessa povertà della casa
che lo aveva ospitato lo commoveva. Le ventimila lire date a suo padre
acquistavano un valore assai maggiore, dacchè sapeva che il signor
Anselmo viveva quasi meschinamente, e la sua ammirazione per quello
zio, facendosi più grande, aumentava la sua tristezza per i ricordi
del passato.

Anche Vincenzo, con grande stupore delle sue sorelle, parlava poco ed
era spesso impensierito. Quando, con una vecchia burla che aveva
sempre lusingata la sua vanità, lo chiamavano arcivescovo, non
s'insuperbiva più affatto, e con quella cortesia che si usa tra
fratelli e sorelle, scoteva le spalle e borbottava: «Stupide».

La Laura, discorrendo coll'Elena di quel cambiamento, diceva:

--Non è più tanto vanitoso Vincenzo; si va migliorando.

Ma l'Elena, che non era assorta nelle faccende di casa, per le quali
non aveva gusto, ed aveva più agio di studiare il fratello, rispondeva
impensierita:

--Chissà che cos'abbia, povero Vincenzo!

Una mattina che i due giovani erano usciti a fare una lunga
passeggiata sulla neve gelata della strada maestra, incontrarono un
gruppo di contadine con dei panieri di ova e pollame, che andavano a
vendere a Santhià. Una bella donnona sulla trentina, che camminava
davanti a tutte, dondolandosi sui fianchi, guardò arditamente in
faccia Vincenzo, poi, ammiccando alle compagne con un riso maligno che
le scopriva dei bellissimi denti, susurrò abbastanza forte per essere
udita:

--Che bel prete!

Le altre risero forte.

Vincenzo si fece rosso, i suoi occhi lampeggiarono di sdegno; mosse un
passo innanzi come se volesse attaccar briga; ma subito si frenò, e
mormorò con rabbia:

--Sciocche! Villane!

Vicenzino, che aveva abbassato gli occhi per pudore, fu meravigliato
di quel risentimento, e disse:

--Via, non t'ha detto nulla di male, infine.....

--Sono villane, ripetè Vincenzo con denti stretti. Non sanno veder un
uomo vestito di nero senza chiamarlo prete.

--Ti fanno un onore anticipato, tornò a dire Vicenzino con piglio
conciliativo; se non sei ancora prete lo sarai.

Vincenzo stette un po' senza rispondere, guardando in terra, poi disse
colla voce strozzata:

--Già, lo sarò.

Vicenzino si fermò sui due piedi e fissò in volto il cugino. Questi
era acceso come una fiamma, teneva gli occhi chini a terra, e si
mordeva rabbiosamente le labbra. Vicenzino gli prese le mani e gli
domandò con affetto, ma coll'accento imperioso di un amico che ha
diritto di conoscere i segreti dell'amico:

--Che cos'hai?

Vincenzo non rispose e scosse il capo come per dire: «A che serve? È
un caso disperato». E due lucciconi, che gli tremavano sugli occhi,
caddero come due perle sulle mani congiunte dei due amici.

--Non sei contento di far il prete? tornò a domandare Vicenzino.

--Saresti contento tu? rispose l'altro con uno scoppio di voce che
tradì un singhiozzo.

--Io non ho la vocazione.

--Ed io l'ho la vocazione? Ho il benefizio; ho il dovere di conservare
quella rendita al babbo che è vecchio, alle sorelle che non hanno
dote... Eccola la mia vocazione! Debbo sagrificarmi per gli altri;
sagrificarmi tutta la vita.

--Eri pur contento del tuo stato, prima.... insistè Vicenzino.

--Prima ero un ragazzo. Non pensavo neppure d'aver una patria. Credevo
che le guerre si facessero solamente nei libri di Storia. Perchè non
avevo mai visto un Tedesco qui, non pensavo che vi sono delle
provincie d'Italia che essi invadono.....

E raccontò le sue letture, le sue febbri d'entusiasmo patriottico, le
lagrime divorate in segreto.... Parlava con enfasi, piangeva, tremava
tutto ed esclamava disperatamente:

--Dovrò rimanere inerte come un vile! Come un vile!

Vicenzino aveva già espresso all'amico il suo piano d'avvenire:
compiere da sè in casa quell'anno di studi per non obbligare lo zio a
pagargli una pensione a Vercelli; poi prendere il diploma di maestro
superiore, e collocarsi come insegnante nel ginnasio pareggiato di
Santhià per guadagnarsi la vita, durante il tempo che gli mancava
ancora prima di essere chiamato alla coscrizione. Ma egli pure aveva
sentimenti patriottici e si proponeva, se durante quei tre anni
Vittorio Emanuele od altri avessero _fatto qualche cosa_, di
arruolarsi come volontario.

Egli comprese dunque l'afflizione di Vincenzo, la sua lotta crudele
tra il dovere di figlio e quello di cittadino, e, non vedendo altro
mezzo di consolarlo, gli disse:

--Chi impedisce ad un prete di battersi quando occorra per la sua
patria?

--Nulla glielo impedisce nell'eccitamento di una crisi politica,
nell'ardore di una battaglia; ma il giorno dopo tornerà ad essere
estraneo a tutto quel che si fa pel suo paese; sarà sempre un prete,
ed io sento che son nato per essere un soldato. Oh, se non avessi quel
benefizio che mi lega...

--Se tu fossi cappellano d'un reggimento..., del _mio reggimento_....,
disse Vicenzino.

Nella sua desolazione Vincenzo s'aggrappò a quell'idea che gli
permetteva di fare una vita attiva, di vivere in caserma, di battersi,
di raccogliere i feriti, di assisterli, di conservare alla sua
famiglia il benefizio del quale viveva, essendo meno prete ed un po'
soldato. Ne parlarono a lungo, e Vincenzo, coll'ardore che metteva in
ogni cosa, finì coll'innamorarsi della sua missione di cappellano, e
gli ultimi giorni della sua vacanza apparve animato, eccitato,
contento, e partì colla fantasia riscaldata, facendo giurare a
Vicenzino di tenerlo informato di quanto si preparerebbe per la
liberazione di Venezia, e di chiamarlo al primo sintomo di prossima
guerra.


VIII.

Prima d'andare a rinchiudersi, Vincenzo pensò a provvedersi di libri,
per isfogare colla lettura, la passione che gli ferveva nel cuore.
Comperò i romanzi di Guerrazzi, di Massimo d'Azeglio, di Tommaso
Grossi, e li lesse e rilesse con l'avidità di chi morde un frutto
proibito.

Ma, accanto ad ogni maschia figura d'eroe, egli trovava una dolce
figura di donna, il cui nome si confondeva con quello della patria nel
pensiero del guerriero innamorato. E, a misura che il tempo passava,
il conforto che il povero seminarista aveva trovato nell'idea di farsi
cappellano di reggimento, prete-soldato, non gli bastava più; tornava
a sorgergli nell'anima, più ardente di prima, la ribellione contro il
suo destino. Alle scene di guerra che avevano turbata la sua fantasia,
ora succedevano le scene d'amore, che la turbavano ben più. Gli
bastava di portare lo sguardo sulla tonsura de' suoi compagni, per
sentirsi tutto ardere di sdegno. L'uscire in istrada colla lunga fila
dei seminaristi era un supplizio per lui. Gli pareva che gli uomini
ridessero nell'incontrarlo, e che le donne, nel guardarlo, non
arrossissero come arrossivano guardando gli altri giovani della sua
età. Si ricordava la contadina rubiconda che sulla strada di Santhià
gli aveva detto: «Che bel prete!» E si mordeva i pugni e piangeva di
rabbia. Egli non sarebbe mai altro che un bel prete!

Quei due anni, dal sessantaquattro al sessantasei, furono due anni di
tortura per lui. La sua veste nera gli era divenuta addirittura
odiosa. Non osava confidare a Vicenzino le angoscie segrete che lo
agitavano; si vedeva preso inesorabilmente nella fatale alternativa di
essere un cattivo prete o un figlio crudele, troppo debole per
accettare il sacrificio, troppo buono per liberarsene ad ogni costo.

Intanto Vicenzino viveva nell'azzurro di un bel sogno d'amore. Stando
in casa coll'Elena, omai vicina ai quindici anni, bionda, pallida,
sentimentale come lui, dal cuore generoso, dalla mente elevata, era
venuto a poco a poco a trattarla con intimità fraterna.

La Laura era nata massaia. Trottava tutto il giorno per la casa, dalla
cantina al solaio, badando alla cucina, alla guardaroba, alle
provviste per l'inverno, dando ordini, ricevendo conti. La Maria
andava ancora alla scuola, e quand'era in casa correva sempre sulle
calcagna della sorella più attiva. L'Elena invece aveva dei gusti
signorili. Le sue mani erano sempre bianche, e ne aveva una cura
grandissima; portava i suoi vestiti, più che modesti, con un garbo
squisito, e trovava sempre modo d'avere un fiore nei capelli e qualche
nastro sul petto. Delle faccende domestiche aveva scelta la più
pulita. Riceveva e raccomodava il bucato. Il tavolino da lavoro dove
altre volte si occupava come sapeva meglio la Caterina, ora era
diventato il posto dell'Elena, che ne aveva coperto il cuscino con un
ricamo, e ci aveva messo accanto un bel cesto di vimini ricamato
anch'esso, nel quale riponeva la biancheria da rammendare. Nella
cassetta del tavolino teneva sempre qualche libro, e tratto tratto
lasciava il lavoro per leggere un poco.

Vicenzino studiava allo scrittoio poco discosto, e quando aveva
finito, non aveva che da voltare la sedia per trovarsi accanto al
tavolino dell'Elena, in faccia a lei. Le parlava del libro che stava
leggendo, delle lettere di Vincenzo, della sua infanzia triste da
fanciullo malato, dell'America; le confidava i suoi disegni
d'avvenire.

--Sono avvezzo a studiare da solo. Nel tempo che sarò soldato studierò
sempre, assiduamente, e quando ritornerò, potrò avere il diploma
superiore per insegnare nei licei. Allora avrò una buona situazione.

Non diceva di più. L'Elena era troppo bambina perchè egli osasse
parlarle d'amore. Ma pensava che nei due anni che gli rimanevano,
avanti di essere chiamato alla coscrizione, la bambina sarebbe
diventata una giovane, e l'avrebbe amato, e prima di partire per
quella lunga assenza, col cappotto e la giberna, egli le avrebbe
svelato il suo segreto, ed avrebbe portato con sè, nella vita rumorosa
delle caserme, nelle marce faticose, nell'uggia delle manovre,
nell'eccitazione della guerra, la soave fiducia d'essere amato, di
trovare al suo ritorno quella dolce fanciulla bionda che lo avrebbe
aspettato, che gli porgerebbe la mano, e gli direbbe «sono tua». E la
situazione, guadagnata con tanto studio e tanta fatica, egli potrebbe
dividerla con lei, colla sua sposa, solo con lei, in un lungo avvenire
d'amore e di pace.


IX.

Ma prima che la coscrizione chiamasse Vicenzino a portare il cappotto
e la giberna, il movimento del 1866 per la liberazione del Veneto,
venne a fare un'utile diversione nelle idee dei due giovani. Appena
Vicenzino potè scrivere segretamente all'amico, che Garibaldi
raccoglieva i volontari per una prossima guerra, il povero seminarista
dimenticò i suoi segreti dolori, e, bollente di patriottismo, non
pensò che ad ottenere da suo padre il permesso d'uscire
temporariamente dalla sua prigione per andare a battersi. Il signor
Anselmo Dogliani non era uomo da opporsi.

Verso la fine di maggio i due cugini partirono per Milano, eccitati
dalla novità del viaggio, dei nuovi paesi, della guerra, comperando ad
ogni stazione giornali e proclami, stringendo amicizia coi giovani
della loro età che viaggiavano verso la stessa meta, sognando la
camicia rossa e la vittoria.

Ma furono presto separati. Vicenzino rimase ferito nel primo scontro a
Ponte Caffaro, e fu trasportato all'Ospedale di Salò. Vincenzo andò
solo a Monte Suello ed a Bezzecca, col cuore diviso tra l'entusiasmo
della guerra e l'ansietà per l'amico lontano; ed appena i corpi
volontari furono sciolti, corse a raggiungerlo. Vicenzino era fuor di
pericolo, ed in istato di essere condotto a casa. Ma era ancora
debolissimo; il viaggio era lungo, il caldo opprimente. Bisognò farlo
viaggiare comodamente, lasciarlo riposare una notte a Milano, un'altra
a Novara. Vincenzo lo accompagnava con una sollecitudine
affettuosissima, scegliendo i treni del mattino per evitargli l'ardore
dei vagoni infocati dal sole di agosto, procurandogli i brodi
sostanziosi di cui aveva bisogno, reggendolo fra le sue braccia quando
doveva fare qualche passo. Vicenzino, colla mente confusa dalla
eccessiva debolezza, senza voce per parlare, sentiva dolcemente quella
tenerezza da amico, e la confondeva nel suo pensiero coll'altra
tenerezza lungamente sognata; e, malgrado le sue sofferenze ed i
disagi del viaggio, assorto in una specie di vaneggiamento sereno, si
sentiva felice.

Vincenzo invece, appena cessato l'eccitamento della battaglia, aveva
pensato con raccapriccio al ritorno in seminario, ove doveva ricevere
gli ordini maggiori alla fine d'agosto, dopo pochi giorni soltanto:
gli ordini maggiori che lo consacravano prete, che lo obbligavano a
rinunciare per sempre ai sogni inebrianti della sua gioventù. E si era
fatto cupo, silenzioso, scoraggiato, e tratto tratto un impeto d'ira
gli faceva salire il sangue al volto, o la profonda disperazione gli
strappava le lagrime.

Quando, arrivati a Santhià, i due giovani entrarono in casa, l'uno
appoggiato all'altro, le fanciulle, che erano corse ad incontrarli,
nell'entusiasmo che in quei giorni riscaldava tutti i cuori, li
abbracciarono tutti e due come due fratelli. Vincenzo, coll'animo in
tempesta, rimase freddo; non era più il giovane ardente di due mesi
prima: un'ombra di tristezza profonda oscurava il suo volto. Ma la
fine inaspettata e sconfortante della campagna, gli forniva un
pretesto per nascondere i suoi veri sentimenti. Alle domande inquiete
dell'Elena e di suo padre, rispondeva:

--Non credevo che le cose dovessero finire a questo modo.

Vicenzino solo non s'avvedeva di nulla. Appena aveva sentito sulle sue
guancie le labbra della Elena, s'era messo a tremare, ed era scoppiato
in un pianto convulso. Era troppo debole per quella sorpresa di
felicità.

--È la stanchezza, s'era detto in casa; è un accesso nervoso. E
Vincenzo, che non vedeva l'ora di sottrarsi agli sguardi del padre e
delle sorelle, aveva portato quasi di peso il cugino in camera, e
l'aveva fatto coricare. Sfinito, in uno stato di prostrazione, vicino
a svenire, Vicenzino sorrideva come un estatico. Poco dopo Vincenzo
gli domandò:

--Come stai?

--Sono felice, susurrò l'ammalato.

Vincenzo si scostò dal letto premendosi i pugni sugli occhi, battendo
i piedi in terra, fremendo per tutto il corpo. Rimase a lungo colla
faccia rivolta alla finestra aperta, come se contemplasse lo splendido
tramonto che irradiava la cima delle Alpi lontane, come tante punte
d'oro, e chiudeva l'orizzonte turchino con un'immensa striscia d'un
rosso infocato. Ma il povero giovane non vedeva nulla, e stava voltato
così per divorare le sue lagrime senza farsi scorgere. Era una
precauzione superflua. Vicenzino guardava nel vuoto, nell'ideale; non
si accorse di quella disperazione, e, con un filo di voce, chiamò:

--Vincenzo!

L'eccesso della sua felicità gli pesava sulla coscienza come un
rimorso. Sentiva di doverla rivelare all'amico; l'aveva attinta nella
sua casa, gli era venuta da lui, ed aveva potuto fargliene un segreto!
Alla sua fantasia indebolita questo sembrava un atto di mala fede, una
colpa. Vincenzo si avvicinò, cupo, senza parlare, e l'ammalato gli
disse:

--Ho un segreto da rivelarti.

L'altro non rispose, ed egli, credendo che aspettasse quella
rivelazione, riprese:

--Ora non ho forza. Ti scriverò. Poi mormorò: Sono tanto felice!

Vincenzo lo abbracciò con impeto, tanto stretto che gli fece male, poi
uscì singhiozzando.

Rimase ancora alcuni giorni in famiglia, finchè vide Vicenzino un po'
rinforzato dalle cure e dall'agiatezza della casa. Ma il tempo
stringeva. Era martedì, e la domenica seguente doveva ricevere gli
ordini maggiori. Il signor Dogliani sembrava inquieto, temeva che
Vincenzo non avesse tempo di prepararsi alla cerimonia, e lo esortava
a tornare in seminario. Vincenzo non si fece più pregare. La mattina
del mercoledì salutò con infinita tenerezza tutti i suoi, abbracciò il
padre piangendo, e partì. Ma quando fu per salire in vagone disse a
Vicenzino che l'aveva accompagnato in carrozza col signor Dogliani
alla stazione:

--Non ti senti la forza di venire fino a San Germano? Sono pochi
minuti di corsa in ferrovia; anche tu, babbo; accompagnami ancora
questo trattino.

--Temo che Vicenzino si stanchi, rispose il signor Dogliani, e non sia
poi in grado di venir domenica a Novara per la cerimonia; vogliamo
esserci tutti; è una gran giornata domenica....

Vincenzo non rispose altro. Strinse forte la mano a tutti e due, e
salì in fretta nel vagone.


X.

Vicenzino si rimetteva rapidamente. L'Elena, dacchè era tornato così
malato, gli usava delle cure gentili ed amorevoli che lo inebriavano.
Nell'eccesso della gioia il giovane convalescente doveva far violenza
a sè stesso per non lasciar irrompere la passione che lo agitava.
Voleva confidarsi prima a Vincenzo; subito dopo la cerimonia, la
domenica, sperava di averlo un momento solo con sè, e di rivelargli
quel segreto che non poteva più contenere.

--Sarà la prima confessione che riceverà, pensava; e mi sembrerà
d'essere già unito a lei quando mi avrà ascoltato....

Il venerdì, dopo pranzo, si era trovato solo coll'Elena presso il
solito tavolino, che gli richiamava tante dolci memorie. Parlavano di
Vincenzo, del gran giorno dell'ordinazione; ma Vicenzino era
distratto. Dalla finestra aperta la luce chiara batteva sul capo
dell'Elena, ed un leggero soffio d'aria le agitava i riccioli sulla
fronte e sul collo. Egli la guardava avidamente, pallido, tremante, e
ripensava il bacio di quelle labbra che aveva sentito sulle guancie la
sera del suo ritorno.

--Non l'hai osservato anche tu? domandò la Elena che aveva parlato fin
allora della tristezza misteriosa di Vincenzo.

--Che cosa? rispose Vicenzino che, assorto nella sua estasi d'amore,
non aveva capito nulla. L'Elena lo guardò meravigliata, co' suoi
grandi occhi grigi e limpidi. Ma, all'incontrare quello sguardo,
Vicenzino si fece rosso come una fiamma, e, sentendo di non poter
tacere più a lungo, si alzò ed uscì in giardino.

Passeggiò un pezzo, agitato, nervoso, commosso, ma profondamente
felice. Gli era sembrato di leggere una speranza in quegli occhi
grigi. Non aveva più che un giorno da aspettare, poi potrebbe parlare
del suo amore; parlarne a lei. Vincenzo glielo avrebbe permesso. Si
figurava quel momento, ripeteva fra sè: «O Elena, quanto ti amo!...»

In quella vide uscire in giardino la piccola Maria con una lettera in
mano. Mentre si avanzava verso di lui per consegnargliela, guardava la
soprascritta e diceva, come se parlasse tra sè:

--Sembra la mano di Vincenzo; ma non può essere perchè non viene da
Novara. Non viene neppure dalla posta; l'ha portata un contadino.

Però quella lettera era proprio di Vincenzo. Anche Vicenzino
nell'aprirla pensava: «Come mai non viene da Novara?» Ma appena n'ebbe
scorse poche righe, gridò:

--Ah per Dio! poveri noi!

E, respingendo la bambina che gli stava curiosamente dinnanzi, prese
la rincorsa ed uscì senza cappello, correndo come un matto.

Quella lettera era il solito addio dei suicida, e cominciava colla
solita frase:

--«Quando riceverai questa lettera avrò cessato di vivere». Poi
spiegava disordinatamente le sue ragioni: «Non posso ricevere gli
ordini maggiori senza commettere un sacrilegio; e d'altra parte non
posso rinunciare alla carriera ecclesiastica perchè ridurrei mio
padre, che si fa vecchio e malaticcio, alla miseria. Capisco che la
mia morte non rimedia a nulla, ma non ho il coraggio di vivere. Non ho
voluto rientrare in seminario. Ho errato tutti questi giorni per la
campagna come un'anima in pena, cercando la soluzione al terribile
problema della mia vita; ma non l'ho trovata. Non so far nulla, non
sono in grado di guadagnar nulla. Dopo aver rovinato mio padre ne'
suoi ultimi anni, dovrei vivere a sue spese. Vedi che non è possibile;
sarebbe una vergogna, un delitto. Preferisco morire...»

Vicenzino fermava tutti i contadini che vedeva per domandare
affannosamente, fremendo d'impazienza:

--Sei tu che hai portata questa lettera a casa Dogliani?

Tutti dicevano di no; ed egli correva, di su, di giù, come un matto,
agitando la lettera in alto, guardando tutti supplichevolmente, e
gridando:

--Chi l'ha portata? Ma chi l'ha portata? Dove posso cercarlo? Mio Dio,
dove? dove?

Poi, mentre si avviava, sempre di corsa, per una strada che metteva
fuor dal paese, senza sapere dove andasse, si vide venire innanzi il
signor Dogliani seguito da un contadino, e l'udì gridare tutto
stupito:

--Ho trovato quest'uomo, che dice d'aver portata una lettera di
Vincenzo, che è a San Germano, all'albergo del Gallo...

--Ah! a San Germano! Sei chilometri! urlò Vicenzino; e via, con una
corsa disperata verso la strada maestra.

--Seguitelo, seguitelo; non vedete che impazzisce? gridava il signor
Dogliani tremando tutto sulle vecchie gambe. Intanto il contadino era
riuscito a raggiungere Vicenzino, e gli aveva strappata la lettera che
egli continuava ad agitare in alto senza sapere quel che facesse. Ma
non potè fermarlo.

Il signor Dogliani guardava quell'uomo venire verso di lui col foglio
in mano, e pareva che ne avesse paura. Quando l'ebbe preso fece per
leggere, ma era già troppo buio, e dovette accostarsi al lume d'una
bottega; mormorava:

--Che cos'ha? Cos'è accaduto?

Poi, quando ebbe cominciato a leggere, vacillò come un ubbriaco.
Scosse due o tre volte nervosamente il capo, ma continuò a leggere
cogli occhi fissi sul foglio, tremando a verga, e sussultanto di
tratto in tratto. Ma non gridava, non diceva nulla, e guardava sempre
il foglio.

I pochi contadini che, allarmati dalle smanie di Vicenzino, si erano
fatti intorno al vecchio, furono pronti a sorreggerlo quando barcollò,
e videro che aveva gli occhi vitrei come impietriti e non leggeva più
da un pezzo.


XI.

Intanto Vicenzino proseguiva la sua corsa sfrenata, fremendo all'idea
di non giungere in tempo, singhiozzando, smaniando ad alta voce. Dopo
un tratto vide venire una carrozza, e le si precipitò contro a rischio
di farsi sfracellare, gridando colla voce strozzata dall'ansimare
violento:

--Lasciatemi salire; presto; bisogna che io sia a San Germano fra un
quarto d'ora.

Era la carrozza di una famiglia signorile di Santhià; il cocchiere
conosceva il piccolo Dogliani, l'_americano_, e lo tirò su quasi senza
fermare, dicendo:

--Perchè non pigliare la strada ferrata, se aveva tanta fretta?

A quel pensiero Vicenzino si cacciò le mani nei capelli e mise un
grido furioso.

«Aveva lasciato morire il cugino per la sua balordaggine!» Come mai
non aveva pensato alla strada ferrata? Era impazzito di certo...

E fece per balzar giù dalla carrozza, come se volesse prendere il
treno. Davvero il dolore e lo spavento lo facevano delirare. Il
cocchiere lo trattenne, e, un po' colle buone, un po' colla violenza,
riuscì a persuaderlo che il treno era passato da mezz'ora, per
conseguenza prima che egli avesse ricevuta la lettera di Vincenzo. Era
commosso anche lui da quella disperazione, e frustava i cavalli senza
pietà, e li faceva volare addirittura sulla strada maestra. Ma
Vicenzino si impazientiva di rimanere inerte in carrozza; batteva i
piedi furiosamente, si mordeva i pugni, si strappava i capelli.

Appena vide il campanile della chiesa di San Germano, cercò un'altra
volta di buttarsi giù, come per arrivare più presto all'albergo; ma il
cocchiere lo frenò ancora giurandogli che arriverebbero prima colla
carrozza; ed infatti, dopo due minuti, si fermava all'albergo del
Gallo, dove Vicenzino saltò nell'atrio e infilò la scala, senza neppur
aver aperto lo sportello della carrozza.

L'oste corse fuori dalla cucina, e gli gridò dietro:

--Dove va? Eh, signore, dove va? E l'altro, senza fermarsi:

--C'è qui mio cugino; un giovane che si è chiuso in camera per
uccidersi; se pure non s'è buttato in acqua.... Presto, presto, per
carità!...

Fu un allarme generale. Oste, ostessa, tutta la famiglia, tutto il
vicinato invase la scala e si avventò all'uscio dell'unico ospite
dell'albergo.

--Ha detto che si coricava presto perchè non istava bene.....
borbottava l'oste tutto impaurito. Chi poteva pensare?...

L'uscio non era neppure chiuso a chiave. Vincenzo sapeva che in quella
modesta locanda di villaggio non c'era caso che i camerieri entrassero
a sorprenderlo. Il povero giovane era steso sul letto, colle vene dei
polsi aperte, pallido, freddo, morto. Il braccio destro pendeva giù
dal letto, ed il sangue sgocciolava ancora per terra. Il sinistro era
steso lungo il fianco ed immerso nel sangue che aveva inzuppate
lenzuola e coperte. Ma un grumo che si era fermato sulla ferita aveva
arrestato l'emorragia.

--Oh mio Dio! Se gli fosse rimasto tanto sangue da farlo rivivere!
esclamò Vicenzino; e, mentre fasciava stretto l'altro braccio,
gridava:

--Chiamate il medico, il farmacista, chiunque può aiutarlo.

L'oste spinse un ragazzo fuori dell'uscio, dicendogli:

--Va, corri.

Ma si strinse nelle spalle sfiduciato, e tutti crollavano il capo.
Quel giovane era morto.

La voce di una tragedia all'albergo del Gallo, era già corsa da un
capo all'altro del paese; e il medico, che passava la serata in
farmacia, si era affrettato spontaneamente, e s'avviava su per le
scale, appunto quando il ragazzo scendeva in cerca di lui. Lo respinse
per salire più presto, ed entrò affannato nella camera, domandando:

--Cosa c'è? Cos'è stato?

Tutti si scostarono per lasciarlo avvicinare al cadavere; ma appena
egli lo vide, gridò:

--Per Dio! è troppo tardi. L'avete lasciato morire!...

--No, no! urlò Vicenzino. Senta, non può essere morto. Guardi; qui il
sangue si è rappreso.

Il medico esaminò il povero giacente, gli applicò un orecchio sul
petto, e rimase quasi un minuto oscultando; quando si rizzò, il suo
volto non esprimeva nulla di consolante. Strinse forte il torace del
paziente, lo scosse ripetutamente, poi oscultò di nuovo. Nella camera
regnava un silenzio solenne. Tutti gli occhi erano fissi sul medico.
Vicenzino, che lo spiava più avidamente di tutti, appena lo vide
risollevare il capo, mise un grido di gioia. Infatti il medico disse:

--C'è un battito lievissimo, irregolare, ma c'è. E subito prendendo il
moribondo per le spalle, lo tirò sino alla sponda del letto, e gli
abbassò il capo fin quasi in terra, poi si mise a stropicciargli forte
tutto il corpo. Dopo alcuni minuti la pelle cominciò ad arrossire un
pochino, e le pulsazioni si fecero più distinte. Ma il malato era
talmente dissanguato, che non ricuperava i sensi. Il rum, l'etere,
tutti i cordiali portati sollecitamente dal farmacista, non riescirono
a farlo rinvenire.

--Povero giovane, disse il medico; questo non è di quelli che si
suicidano soltanto un poco per commuovere la gente. L'ha fatto sul
serio.

--Ma non morrà? implorò Vicenzino. Non è possibile, non deve morire!

Il medico si strinse nelle spalle, ed applicò al paziente due
vescicanti che aveva fatti preparare. Sotto l'azione di quella prova
dolorosa, Vincenzo ebbe un lieve sussulto, e poco dopo mosse una mano,
come per portarla alla parte dolente.

Ma non fu che un cenno, a cui le forze non risposero, e, dalla bocca
aperta, non uscì alcuna, voce. Tuttavia la respirazione si era fatta
quasi regolare, e, dopo circa mezz'ora di cure energiche, Vincenzo
aperse gli occhi e fissando le pupille dilatate sul volto di Vicenzino
che gli stava dinnanzi, parve riconoscerlo.

Tuttavia la sentenza del medico non fu consolante.

--Ha perduto troppo sangue, disse; è impossibile che si riabbia da sè.
Soltanto la trasfusione potrebbe salvarlo.

Vicenzino si rizzò, impetuoso ed ardente come un eroe che corre al
sacrifizio, gridando:

--Oh il mio sangue, tutto il mio sangue per lui!

Ma anche questa volta il suo eroismo fu inutile.

L'oste possedeva un agnello, ed il medico preferì aprire le vene di
quella bestia, che quelle di un essere umano, il quale non sembrava
neppur averne di troppo. L'operazione fu fatta con rapidità, e
l'effetto ne fu quasi immediato.

L'infermo mise due o tre gemiti, girò gli occhi intorno, fece un lieve
cenno di saluto a Vicenzino, ingoiò qualche cucchiaio di marsala, poi
ricadde in un assopimento profondo ma tranquillo. Allora il medico
dettò le prescrizioni per la notte; brodo ristretto, vino, cordiali,
ed il più assoluto riposo; poi si ritirò, promettendo di tornare il
mattino, e lasciando buone speranze.

Vicenzino rimase solo dinnanzi a quell'ombra dell'amico adorato, del
fanciullo forte e felice, che era andato a cercarlo nel suo abbandono,
che gli aveva dato una casa, una famiglia.


XII.

Vicenzino stette un pezzo accanto al letto, contemplando quel bel
volto di una pallidezza marmorea, quegli occhi profondamente
infossati, curvandosi coll'orecchio sulle labbra di Vincenzo per
udirne il respiro lieve come un soffio. Oh! era così felice di poter
udire quel respiro! Era stato lui che glielo aveva dato. Gli pareva
che Vincenzo gli appartenesse come cosa sua, dopo che, in un modo
qualunque, aveva contribuito a richiamarlo alla vita. Provava un
sentimento grave di responsabilità, come se omai toccasse a lui di
render conto al mondo della felicità di quell'esistenza che aveva
voluto ad ogni costo strappare alla morte. La sua amicizia si
riscaldava d'una tenerezza protettrice, paterna. Sentiva un gran
desiderio di togliere all'immobilità quella creatura che aveva un po'
messa al mondo lui, di abbracciarla, di farla parlare, di sentirla
vivere. Dovette allontanarsi per resistere alla tentazione.

Pian piano, camminando in punta di piedi, andò a sedere accanto alla
finestra aperta. Nell'immenso buio di quella notte soffocante
d'agosto, nel silenzio profondo del villaggio addormentato, la sua
fantasia da poeta evocava come un'oasi laggiù, lontano, la casa di
Santhià, coi vetri delle finestre scintillanti al sole, e la porta
aperta, e sulla soglia il bel vecchio coi capelli bianchi, e le
fanciulle sorridenti, e tutte le braccia stese verso di lui, portatore
della lieta novella. Si ricordava tremando il bacio dell'Elena
quand'era tornato dal campo. Ora tornava da ben altra battaglia. Aveva
lottato colla morte e riconduceva un figlio a suo padre.

Ad un tratto, un pensiero terribile gli balenò alla mente. Quale
sarebbe ora l'avvenire di Vincenzo? Aveva voluto uccidersi per non
farsi prete, ed era per rimetterlo in quella condizione odiosa ch'egli
l'aveva salvato? Salvarlo dalla morte non era più un bene, se non
poteva anche salvarlo da quel destino che gli faceva orrore, se non
poteva renderlo felice. A queste riflessioni gravi e penose, il
sentimento di responsabilità si faceva sentire potentemente nel cuore
onesto di Vicenzino, e lo turbava come una minaccia.

Ne' suoi tre mesi di vita militare Vincenzo si era lasciata crescere
la barba che, con quel pallore da moribondo, con quelle traccie di
patimento sul volto, gli dava l'aria di un Nazzareno. La fantasia
eccitabile di Vicenzino se lo figurava nei giorni di tortura che aveva
passati errando solo per la campagna, implorando come Cristo:
«Allontanate da me questo calice», quando per allontanarlo si era
rassegnato a morire a ventun'anni, nel fiore della gioventù e della
salute. Ed egli, l'amico fedele, il parente vincolato da tanta
gratitudine, era andato a cercarlo nella pace fredda della morte, per
dirgli: «Sorgi, povero spirito abbattuto dalle lotte, ricomincia a
lottare; povero corpo sfinito dalla emorragia, torna a curvarti sotto
la tua croce». No. Questo non poteva essere. Sarebbe stato crudele.
Bisognava ad ogni costo che Vincenzo, ricuperando i sensi, potesse
consolarsi di essere tornato alla vita, e non maledirla un'altra
volta.

Ma come fare? Come? Persuadendo il signor Dogliani a perdere il
benefizio? Non sarebbe stato difficile, perchè amava molto suo figlio,
e non avrebbe voluto punto sacrificarlo. Ma poi, come avrebbe vissuto,
povero vecchio? Vincenzo l'aveva detto: doveva immolare sè stesso, o
condannare suo padre alla miseria. Essere un cattivo prete o un figlio
ingrato.

Vicenzino ripetè a sè stesso tutta la storia del passato. La
generosità dello zio pe' suoi genitori, la loro sconoscenza, e (nel
segreto del suo cuore lo diceva con amarezza) la loro slealtà. Si
rammentò la devozione riconoscente ed il desiderio profondo di
espansione che avevano travagliata la sua infanzia sentimentale ed i
sacrifici che avrebbe voluto fare per dimostrare a quei parenti la sua
gratitudine. Con che cuore avrebbe dato la vita per loro!

Ebbene, ora era venuto il momento di mostrarsi grato, di compensare
benefizio per benefizio. Era venuta l'ora d'essere eroico. Ma non si
trattava di buttarsi in Po, di ricevere un colpo di fucile nel petto,
di quegli atti di devozione istantanei che si compiono in un
eccitamento di passione e durante un attimo. Era un eroismo di tutti i
giorni, di tutte le ore, che il suo gran cuore generoso suggeriva alla
sua immaginazione atterrita. Era l'immolazione della sua libertà, del
suo avvenire, delle sue aspirazioni, delle sue speranze. Della sua
libertà, che si sentirebbe vincolata in tutti gli istanti della sua
vita, del suo avvenire condannato a battere tutt'altra via di quella a
cui tendevano le sue aspirazioni, delle sue speranze, che gli
sorgerebbero ogni giorno impetuose nel cuore, per essere di nuovo ogni
giorno con una lotta violenta respinte e soffocate.

Doveva prendere per sè il calice che Vincenzo aveva voluto
allontanare, la croce sotto la quale era caduto: una vita senza amore.
Doveva farsi prete.

Il benefizio, per volere del testatore, in caso che il ramo
primogenito dei Dogliani non avesse un figlio prete, doveva passare ad
un figlio del ramo secondogenito, che volesse abbracciare la carriera
ecclesiastica. E, soltanto nel caso che anche questi mancasse, il
capitale sarebbe passato ad un'opera pia. Egli solo dunque era come
fatalmente indicato, per risolvere la situazione dolorosa che aveva
portato il carattere violento di Vincenzo ad un partito disperato.

Anche l'anima generosa di Vicenzino si ribellava a quell'immenso
sacrificio. I suoi vent'anni l'impaurivano; il pensiero dell'Elena lo
faceva piangere.

E pianse lungamente, scosso da forti singhiozzi, un pianto amaro,
disperato. Aveva sempre dinanzi al pensiero il giorno in cui Vincenzo
era andato a cercarlo alla fattoria, orfano, solo, miserabile, e
l'aveva condotto a suo padre; e questi, aprendogli la sua casa, gli
aveva detto: «Entra.»

Sentiva che doveva tutto in compenso di quella generosa ospitalità;
eppure rimaneva perplesso, raccapricciava dinanzi all'audacia di
quella risoluzione.

Prima dell'alba s'udì un rumore affrettato di zoccoli, ed un
contadinello portò un biglietto desolato dell'Elena.

Il signor Dogliani, riportato in casa la sera come svenuto, era stato
colpito poco dopo da un attacco d'aploplessia. Soltanto molto tardi
nella notte aveva ricuperato i sensi e la parola, ma tutto il lato
destro era rimasto paralizzato. Il medico aveva detto che, quando pure
potesse guarire, sarebbe infermo pel resto de' suoi giorni. Intanto
stava ancora assai male, e le figlie, che lo curavano tremando per la
sua vita, non potevano abbandonarlo, neppure per correre presso
l'altro malato di San Germano, altrettanto caro.

Erano tutti ansiosissimi per Vincenzo. Sapevano appena dal cocchiere
che aveva condotto Vicenzino, che non era morto. Il povero vecchio non
faceva che disperarsi all'idea di perdere il figlio, e di lasciare le
figliole nella miseria; non v'era modo di calmarlo....

Dinanzi alla scena straziante che gli presentava quella lettera, le
esitazioni di Vicenzino cessarono. Con un sospiro, che gli veniva dal
fondo del cuore, gemette: «È necessario.» E scrisse all'Elena un
biglietto che le mandò dallo stesso contadino:

«Vincenzo è fuori di pericolo; vivrà, e sarà felice. Rassicura il
babbo; non sarete nella miseria; il beneficio che Vincenzo perde lo
acquisto io; rimane nella famiglia, dacchè tuo padre m'ha accolto come
un figlio. _Sarò io il fratello prete._»

Era la prima lettera che scriveva all'Elena; ed era per chiamarsi il
fratello prete! le lagrime gli oscuravano la vista, e cadevano grosse
e fitte sulla carta; eppure a lui pareva di compiere un dovere
inevitabile, di fare una cosa naturale. Pensava: «Chiunque nel caso
mio farebbe lo stesso.» Era della creta di cui si fanno gli eroi.


XIII.

Quando, un'ora dopo, alla luce bianca e melanconica dell'alba,
Vincenzo si svegliò e gli sorrise, Vicenzino era ancora pallido ed
abbattuto, ma non piangeva più, ed il suo volto era calmo. Vincenzo si
guardò intorno trasognato, ingoiò avidamente il brodo ed il vino che
Vicenzino gli porgeva; poi, a poco a poco, il suo sorriso si dissipò e
l'espressione del suo volto si fece ansiosa. Gli tornava la memoria, e
con essa tornavano tutti i dolori della vita. Mise un gran sospiro,
gli si empirono gli occhi di lagrime, e sussurrò:

--Perchè non m'hai lasciato morire?

Era la parola dolorosa che Vicenzino s'era immaginata di udire, ed
alla quale s'era preparato a rispondere col sacrificio di tutto il suo
avvenire. Ma s'era preparato con coraggio, e la sua risoluzione era
ferma. Gli rispose con la voce un po' commossa, ma semplicemente, e
sforzandosi di sorridere:

--Perchè hai prese le cose troppo tragicamente, amico. Se non ti
sentivi proprio di farti prete, perchè non dirlo? Sai pure che a tutto
c'è rimedio, fuorchè alla morte.

--Non a tutto. Ricordati l'uggiosa circostanza del benefizio che mio
padre perderebbe. E con che potrebbe vivere, alla sua età? Sai ch'io
non sono in grado di guadagnar nulla per ora, e chissà fin quando; tu
stesso dovrai andare soldato fra poco, e non potrai aiutarlo....

--Ma se tu lasci il beneficio, sono io che lo eredito. Ed allora non
andrò più soldato, e tuo padre vivrà quasi come vive ora....

--Ma tu neppure vuoi esser prete! esclamò Vincenzo. Tu me l'hai
detto....

--Non avrei voluto altre volte, riprese Vicenzino, chinando il volto
sulle mani dell'amico per nascondere la sua agitazione, e parlandogli
sommesso all'orecchio. Ma, dacchè ho provato ad uscire dal paese, a
vedere un po' di mondo, ho compreso che il movimento, il tumulto, le
passioni violente, non sono fatti per me....

Il cuore gli batteva da schiantargli il petto, aveva la gola arsa e le
labbra tremanti. Posò la bocca sulla mano di Vincenzo, e la baciò
devotamente per prender coraggio e per non alzare il capo.

Vincenzo, nella sua estrema debolezza, era come abbagliato da quella
rivelazione, e, senza poter cercare di vederci più chiaro, disse
pensosamente carezzando il capo dell'amico:

--E vorresti farti prete?

--Sì, sussurrò dolcemente Vicenzino colla voce affannata e rotta dalle
pulsazioni violente del cuore. Prenderò il tuo posto al Seminario. Sai
che so il latino; che ho studiato un po' di tutto; è la mia vocazione
lo studio.... Fra un anno, potrò prendere gli Ordini maggiori....

Sentì che un singhiozzo gli soffocava le parole in gola e non disse
altro. Vincenzo fece uno sforzo per mettersi a sedere sui letto. Poi
sollevò con tutte e due le mani il capo di Vicenzino, e guardandolo in
faccia gli disse:

--Ma non pensi che hai vent'anni, e che la vita è lunga? Che sarai
morto a tutte le gioie? Che non avrai mai una famiglia?

Vicenzino impaurito da quello sguardo, aveva fatto uno sforzo violento
sopra sè stesso, ed era riescito a dominare la sua commozione. Potè
rispondere col suo sorriso dolce, che, da adolescente, lo faceva
paragonare ad un arcangelo:

--Non siete voi altri la mia famiglia? Cercherò di essere non
collocato lontano da voi; e voi mi amerete un poco....

--Io ti adoro, noi ti adoreremo tutti, insistè Vincenzo. Ma non basta
per un uomo giovane....

Prima che dicesse di più, Vicenzino s'affrettò a rispondere a quel
pensiero, che temeva di sentirgli esprimere, e che gli straziava il
cuore:

--Io non ho amori. Poi si alzò, ed andò ad affacciarsi alla finestra,
perchè la voce gli si strozzava in gola, e le lagrime gli velavano gli
occhi.


XIV.

Più volte, durante la sua convalescenza, Vincenzo tornò su quel
discorso che riesciva penosissimo al suo compagno. Ma c'era tale
giubilo nel cuore del malato, tanto ardore di giovanili speranze, che
il pensiero della felicità che dava, confortava in parte Vicenzino di
quella che perdeva. Ogni giorno i due giovani avevano nuove del signor
Dogliani, il quale benediva il nipote come il salvatore della sua
famiglia. Era sempre l'Elena che scriveva, e lei pure aveva pel cugino
parole di fervente gratitudine. Si sentiva che era commossa; c'erano
delle lagrime nelle sue lettere, e Vicenzino, nel leggerle, pensava
che il suo sacrificio era stato compreso in tutta la sua grandezza, e
che un altro cuore soffriva con lui dello stesso dolore. E questo
pensiero gli dava coraggio.

Appena l'ammalato fu in grado di muoversi, i due giovani tornarono
insieme a Santhià; e Vicenzino trovò su tutti i volti ed in tutti i
cuori le traccie della sua bella azione. Nella casa, benchè impoverita
per l'infermità del padre, regnava il contento per il fratello
ricuperato e felice; e la fronte grave del vecchio infermo, esprimeva
la calma e la gioia di vedere assicurato l'avvenire de' suoi figli.
Egli stese al nipote la sola mano che poteva muovere, e gli disse
piangendo:

--Dio ti benedica! figlio mio, Dio ti benedica!

Ma le fanciulle non saltarono al collo del loro giovane parente; non
lo baciarono come quando era tornato dal campo. Gli parlarono con
affetto e con una gratitudine rispettosa; ed egli fin d'allora sentì
d'essersi fatto prete.

Rimase pochi giorni in famiglia, poi, col cuore addolorato, ma
coll'anima forte, partì pel Seminario, mentre Vincenzo, seguendo lo
slancio del suo carattere impetuoso ed avido d'emozioni, tornava ad
arruolarsi, ma questa volta nella milizia regolare, per fare la
carriera del soldato.

Per un anno Vicenzino studiò assiduamente, e, nelle aride discipline
della teologia morale e dogmatica e del diritto canonico, cercò un
contrasto alle calde aspirazioni ed ai rimpianti del suo giovane
cuore. Ma a vent'anni passati, quella vita di reclusione,
quell'esistenza in comune con una frotta di giovani cresciuti in
convitto, che avevano tutte le ingenuità e tutte le malizie dei
collegiali, che si compiacevano di giuochi puerili, di pettegolezzi
insulsi, era, per la natura gentile di Vicenzino, qualche cosa di
irritante, che eccitava più che mai i suoi nervi già tesi. Quelle
risate goffe, quei discorsi scuciti, offendevano il sentimento
d'abnegazione sublime e grave che gli riempiva il cuore. E la fede
cieca ed il fervore religioso, vero o apparente, che lo circondavano,
non trovavano eco in lui. Sentiva di non aver intorno nessuno che
potesse comprenderlo, e si racchiudeva tristamente in sè stesso.

La notte poi, quando tutti dormivano in quelle lunghe file di letti
bianchi che parevano tombe, ed egli solo vegliava alla luce scialba
d'una lanterna, che proiettava negli angoli delle ombre paurose, sotto
il grande Cristo scarno che biancheggiava in alto colle braccia
lungamente stese sul fondo nero della croce, gli pareva di trovarsi
vivo in un cimitero, lo coglieva un senso d'abbandono e di morte,
sentiva che non era più di questo mondo. E tuttavia questo mondo
esercitava il suo fascino potente sulla sua fantasia; ed il povero
giovane subiva lotte crudeli, tentazioni di ribellione, che lo
impaurivano. E si metteva più accanito allo studio, per consacrare al
più presto con un voto solenne, quella risoluzione che la foga della
gioventù faceva ancora vacillare.

Appena ebbe compito il ventunesimo anno, prese il suddiaconato, e fu
irrevocabilmente prete.

Allora, non avendo più nulla a temere dalla propria debolezza, si
sentì più calmo. L'idea alta del dovere lo rassicurava, e potè
dedicarsi con tutta la sua intelligenza allo studio. A 22 anni e 6
mesi, ottenne di ricevere il presbiterato, e poco dopo lasciò il
Seminario, ed in capo a pochi mesi, ebbe la fortuna d'essere collocato
come viceparroco nella parrocchia stessa della famiglia Dogliani, dove
il parroco già avanti negli anni, aveva bisogno un aiuto, per la parte
più faticosa del suo ministero.

Ed allora cominciò per Vicenzino la sua triste vita senza amore. La
sola passione che gli era concessa, era quella del bene; ed egli
metteva tutto il suo cuore nell'assistere i moribondi, nel soccorrere
i poveri, nel sollevare gli spiriti abbattuti con parole di conforto e
di fede. Ma non era un cattolico fervente, aveva idee liberali, e
questo attenuava di molto agli occhi de' suoi superiori il merito del
suo zelo. Egli però se ne consolava col pensiero di far vivere la sua
famiglia adottiva col magro frutto delle sue prime fatiche, e colla
rendita del suo beneficio. Ma anche questa nobile gioia doveva
essergli amareggiata e resa difficile. Alla fine del 1870 la nuova
legge sui beni ecclesiastici minacciò di sopprimergli il benefizio; e
fu soltanto dopo una lite lunga e dispendiosa per rivendicarlo, che
potè riaverlo, diminuito d'un terzo.

Dovette cercare di dar lezioni in paese, farsi ripetitore presso vari
studenti del liceo, per sovvenire ai bisogni della casa e del vecchio
infermo. Tra i suoi doveri ecclesiastici e quelli d'insegnante, faceva
una vita laboriosa, occupato tutte le ore del giorno, e spesso
strappato al sonno la notte, per accorrere al letto di qualche
ammalato.

Quelle fatiche, nelle quali si esaurivano le sue forze giovanili, lo
lasciavano prostrato, e la sua mente stanca non aspirava che al breve
riposo che le era concesso. Così viveva relativamente tranquillo,
troppo occupato per pensare ad altre eccitazioni, ad altre tempeste.
Soltanto la presenza dell'Elena qualche volta lo turbava. Uno sguardo,
una parola amichevole, bastavano a richiamargli al pensiero le dolci
visioni d'avvenire ch'egli aveva vagheggiate altre volte, ed a
gonfiargli il cuore di amarezza e di rimpianti. Ma, troppo onesto per
abbandonarsi a quelle fantasie tentatrici, egli si consolava de' suoi
sogni svaniti, pensando che una volta, nel segreto del suo cuore
quella bella fanciulla bionda lo aveva amato. E quel vago ed innocente
ricordo era la sola gioia della sua vita.

A vent'anni la Laura venne fidanzata ad un giovane napoletano
impiegato al telegrafo. Ci furono due mesi di agitazione insolita in
casa. Gli apparrecchi pel corredo, i doni nuziali, i disegni
d'avvenire, ed un po' il rincrescimento della separazione, perchè lo
sposo doveva essere traslocato a Milano, occupavano straordinariamente
le fanciulle. Poi c'erano le visite dello sposo, le sue tenerezze, i
rossori espressivi della giovinetta, i loro colloqui a mezza voce.
Vicenzino faceva la parte di vecchio parente; provvedeva a tutto,
assisteva a quelle visite; pensava alle carte, alla richiesta al
municipio, alle pubblicazioni, a tutto. Ma in quei giorni era triste e
nervoso, e la sua alta missione di carità non bastava a consolarlo.

La vigilia delle nozze, mentre gli sposi, colla mano nella mano, erano
assorti in un lungo silenzio d'amore, la Maria che a diciotto anni
aveva ancora tutta la spensieratezza d'una fanciulla viziata, disse
all'Elena:

--Perchè la Laura, che è più giovane, si marita prima di te?

--Io non penso a maritarmi, rispose l'Elena. E c'era un accento di
malinconia così profonda in quelle semplici parole, che Vicenzino si
sentì tutto turbato. Essa lo aveva amato, aveva compreso il suo
sacrificio, ed accettandolo pel bene de' suoi, s'era sacrificata con
lui. Quando uscì per ritirarsi, nel silenzio della strada buia, il
giovane prete alzò le braccia al cielo e ringraziò Iddio per quella
gioia.

Vincenzo doveva arrivare nella notte pel matrimonio della sorella, e
quando vide l'amico la mattina seguente, gli trovò un aspetto così
soavemente calmo, così sereno, che non ebbe neppure l'ombra d'un
sospetto del sacrificio che gli aveva fatto, ed abbraciandolo
allegramente gli disse:

--Mio bell'arcangelo, eri proprio nato per essere prete.

L'anno seguente si maritò la Maria, ed anche lei se ne andò fuori di
paese. La casa divenne silenziosa e mesta, troppo vasta, per quel
vecchio infermo e quella fanciulla. Vicenzino ci tornava ogni sera: il
vecchio steso in una poltrona leggicchiava un giornale o sonnecchiava.
L'Elena lavorava al suo tavolino, ed il cugino sedeva dall'altro lato,
in faccia a lei, come una volta. Parlavano della salute del babbo,
delle sorelle lontane, di Vincenzo che stava per passare ufficiale;
erano tanti affetti comuni, tanti vincoli che li legavano. Vicenzino
narrava de' suoi poveri, de' suoi malati, che l'Elena prendeva molto a
cuore. La vita omai pareva facile e dolce al giovane prete, confortata
da quella pura affezione fraterna, e dalla calda amicizia di Vincenzo.
Omai le prove erano finite, le tempeste erano cessate; qualche anno
ancora, poi Vicenzino prenderebbe il posto del vecchio parroco che
pensava a ritirarsi, accoglierebbe i suoi due parenti nella casa
parrocchiale, e vivrebbero assolutamente in famiglia. E quando, per
disgrazia, dovesse mancare il sig. Dogliani, sarebbe passato del
tempo, del tempo assai. I due cugini non sarebbero più giovani,
avrebbero presa l'abitudine di vivere uniti, e potrebbero continuare a
vivere così, come buoni fratelli, senza pericolo. E chissà, forse
allora anche Vincenzo, stanco della vita militare, avrebbe ascoltato
il consiglio del suo cuore affettuoso e riconoscente, sarebbe venuto a
vivere presso il suo salvatore, con una sposa e dei bambini,
riscaldando il suo triste focolare da prete colla vista di quella
felicità di cui andava debitore a lui. Gli pareva di vederle, intorno
alla sua mensa, le dolci testine bionde, e di udire la voce di
Vincenzo a dirgli:

--La gioia d'essere sposo e padre sei tu che me l'hai data.... Quella
gioia Vicenzino se l'era strappata dal cuore per cederla al cugino; ma
era contento del suo sacrificio, pensando che l'Elena l'aveva compreso
e ne aveva accettata la sua parte, che aveva lei pure rinunciato ad
esser sposa e madre, per esser fedele a quel primo raggio d'amore che
le era balenato davanti un momento; e che il pensiero di lei tornava
col suo, alla dolcezza di quel ricordo.


XV.

Così passarono due anni. L'Elena ne aveva ventitrè ed aveva già preso
l'aspetto calmo ed un po' grave d'una zitellona. Si vedeva che aveva
accettata la sua situazione, e, dal sorriso dolce e sereno che volgeva
a suo padre ed a Vicenzino, dall'aria riposata colla quale badava alla
sua casa e prendeva cura di loro, si comprendeva che era contenta;
quei due affetti bastavano ormai al suo cuore. Vincenzo faceva tratto
tratto delle visite a Santhià, e riempiva la casa del rumore allegro
della sua spada e della sua voce gioconda. Era un bell'ufficiale,
elegante, spiritoso, gaio; e Vicenzino s'aspettava di volta in volta
la notizia del suo matrimonio. Non poteva tardare. Era per avere una
famiglia che non aveva voluto essere prete, ed il cuore amoroso di
Vicenzino si struggeva d'avere la sua parte di quella famiglia
giovinetta.

Intanto il vecchio parroco sentiva il peso di quei due anni di più, ed
aveva rinunciato alla sua carica, che, dopo la Pasqua, doveva essere
occupata da Vicenzino. Mancava poco più d'un mese all'avverarsi del
melanconico sogno, lungamente vagheggiato, di trasportare il vecchio
zio e la cugina nella casa parrocchiale, e di stabilirvisi in
famiglia, pel calmo ed uniforme avvenire che li aspettava. Vicenzino
si occupava delle riparazioni indispensabili alla casa, e ci metteva
tutto il suo cuore. Ogni cosa era modesta anzi disadorna. Le mura
erano bianche in tutte le stanze, senz'altro ornamento che pochi
quadri sacri. La camera destinata al signor Dogliani era la sola in
cui ci fosse il pavimento coperto da un tappeto, ed una sedia a
bracciuoli. Ma l'austerità dell'addobbo era mitigata dai fiori che
ornavano le finestre, dalla vegetazione abbondante che verdeggiava nel
piccolo giardino, dalla prospettiva grandiosa dei monti lontani e dei
colli, dall'aria pura e dal sole che entravano in abbondanza dagli
ampi finestroni. Semplici com'erano, tanto lui che l'Elena, potevano
vivere felici in quella parrocchia un poco isolata dal paese; e
l'Elena avrebbe trovato modo di rendere elegante quella povera dimora,
col modo grazioso di collocare un mobile, con qualche pianta verde, o
soltanto colla sua presenza.

Era circa la metà di marzo; le giornate erano già lunghe, ed un tempo
costantemente splendido anticipava la primavera. Vicenzino era stato
trattenuto a lungo presso un moribondo, e quella sera giungeva molto
in ritardo in casa Dogliani. Contro le abitudini freddolose del
vecchio, la porta a vetrate che dava sul giardino era aperta, ed una
luce, insolitamente abbagliante, metteva come un gran quadro bianco in
quella cornice vuota, che si disegnava sul fondo scuro della sera.
Vicenzino, che era entrato appunto dal giardino per abbreviarsi la
strada, pensò quale festa ricorresse il domani. L'Elena aveva
l'abitudine di festeggiare le solennità con qualche improvvisata la
sera della vigilia per compensare Vicenzino delle maggiori fatiche che
doveva sostenere in quelle circostanze. Gli suonava qualche bel pezzo
di musica sacra sul pianoforte, gli faceva trovare tutta una tavola
coperta di fiori, che poi disponevano insieme per la sua chiesa, dei
ricami o delle trine fatte da lei per le tovaglie del suo altare. Ma
no. Il domani non era che la quarta domenica di quaresima.... Cosa
poteva essere quella novità?

Vicenzino entrò sorridendo, malgrado il suo aspetto stanco e
abbattuto, come per andare incontro alla lieta novella. Ma non c'era
nulla di nuovo. Soltanto la due grandi lampade del camino erano
accese, e, sulla credenza, c'erano ancora delle posate, dei piatti di
dolci e di frutta, delle bottiglie, come quando c'è stato un invito a
pranzo.

--Delle novità questa sera? domandò Vicenzino all'Elena che gli era
andata incontro fino alla porta.

--O, delle grandi novità...., rispose la fanciulla con un accento
tutto nuovo. Egli la guardò come per interrogarla, e la vide colorita
in volto, cogli occhi luccicanti, e con una bella rosa nei capelli.

--Che cos'è? Cos'è stato? È tornato Vincenzo? tornò a dire Vicenzino.

No, non ancora. Il babbo ti dirà..., disse l'Elena mettendogli una
sedia accanto alla poltrona del signor Dogliani. Poi se ne andò al
pianoforte che era aperto, e si mise a suonare un minuetto, con dei
_pianissimo_ che sfumavano come un profumo lieve di viola, e degli
_andante_ che parevano scoppi di risa.

Vicenzino, meravigliato di quella musica tutt'altro che quaresimale,
domandò allo zio:

--Ma si può sapere che bella cosa è accaduta, che qui si fa festa?

--O, la festa non è per noi, mio caro Vicenzino, sospirò il vecchio.
Noi resteremo soli, non avrai più che questo povero vecchio infermo
nella tua bella casa parrocchiale....

Vicenzino si sentì impallidire, e non ebbe la forza di parlare.
L'infermo riprese:

--La nostra Elena se ne va anche lei.

--È capitato uno sposo? disse Vicenzino tutto tremante.

--O, è un pezzo che è capitato. Sono sette anni che lo aspetta. Era
nelle Indie... Vicenzino si alzò come per andare a congratularsi colla
cugina, ma in realtà per nascondere il tremito che lo scoteva tutto.

S'avviò lentamente, si fermò a guardare in giardino, poi chiuse le
vetrate, mormorando che l'aria era troppo fresca per lo zio; e
finalmente, pallido ancora ma padrone di sè, andò a sedere presso
l'Elena, e le domandò:

--Dunque avevi un segreto?

--Sì, disse l'Elena voltandosi a guardarlo coi suoi begli occhi
limpidi. Ma non devi lagnarti, perchè ne profittavate tutti. Era il
segreto del mio buon umore, della rassegnazione con cui vedevo passare
gli anni e partire le mie sorelle. Ero certa che sarebbe tornato.

--Da sette anni? balbettò Vicenzino.

--Sì. Da quando tu eri a Vercelli col tuo povero babbo. Egli passò
quell'anno qui in permesso; s'era ammalato nel suo primo viaggio al
Giappone....

--È in marina?

--Sì; nella marina mercantile.

--Ah, era per questo che amavi tanto i libri di viaggi, i vasti
orizzonti, i quadri di marina....

--Sapevo che quella sarebbe un giorno la mia vita.

--Ma eri certa fin d'allora che pensava a te, che sarebbe tornato?

--Ero certa del suo cuore come lo sono del tuo, rispose l'Elena con
tutta la fede del suo forte amore, senza dubitare della pena che
poteva fare al povero prete quel confronto.

--In sette anni non hai mai avuto un dubbio? domandò ancora Vicenzino
aggrappandosi ad un'ultima speranza, che, almeno in un'ora di dubbio,
quel giovane cuore si fosse rivolto a lui.

--Mai. Disse risolutamente l'Elena. Se avessi dubitato di lui sarei
morta.

Vicenzino si sentì morire in cuore l'ultima gioia. Non lo aveva amato
mai; non lo aveva compreso; non era per lui che era rimasta fanciulla.
Era per un altro! Anche il suo passato, il solo ricordo che lo
consolasse, il solo raggio d'amore della sua vita, era spento. Ebbe
uno di quegli impeti di dolore irresistibili, che possono sopraffare
anche le anime più forti. Riaperse la porta del giardino, ed uscì a
capo scoperto nell'oscurità. L'Elena credette che volesse passeggiare
un poco per continuare il suo interrogatorio, e, devota alla sua
autorità da fratello prete, si alzò per seguirlo. Ma egli camminava a
passi concitati e s'era già perduto nel buio della notte.

--Vicenzino non sembra contento del mio matrimonio, disse l'Elena
rientrando presso il padre, e spingendo la sua poltrona a ruote per
condurlo a coricarsi.

Il vecchio scosse il capo bianco, e sospirò:

--Gli è che la vita sarà triste per noi. Quanto a me sono vecchio,
pazienza. Ma lui ha ventisei anni....


XVI.

Però il giorno dopo Vicenzino rassicurò l'Elena. Quella sera era
stanco, e triste per aver assistito fin allora un moribondo. Ma era
contento della sua felicità, oh, tanto contento. La sua pallidezza e
gli occhi infossati confermavano che infatti era stanco. L'Elena si
tranquillò, e la sera stessa gli presentò il suo sposo.

Vicenzino fece per lei quanto aveva fatto per le altre cugine.
Soltanto, in quei giorni quaresimali, vicino alla Pasqua, colla nuova
casa da ordinare, era tanto occupato che di rado poteva passare la
sera cogli sposi. E mentre essi deploravano la sua assenza, egli, solo
nel suo studio squallido come una cella da frate, si sforzava di
leggere o di studiare, ma rimaneva sempre cogli occhi fissi senza
veder nulla, mentre le lagrime gli sgorgavano sulle pagine.

Vincenzo, che giunse in paese pochi giorni prima delle nozze, trovò il
cugino molto abbattuto. Ma la sua venuta fece tanto piacere a
Vicenzino, che presto le traccie della sua stanchezza scomparvero. Fu
soltanto un po' commosso il giorno della cerimonia nel benedire gli
sposi, e dovette scusarsi di non fare nessun discorso di circostanza
in causa di quel suo malessere nervoso, per cui alla menoma lettura,
alla menoma parola un po' tenera, si turbava fino al pianto.

--Resterò io a finire il mio permesso qui per farti guarire, disse
Vincenzo abbracciandolo allegramente. Io non dico parole tenere.

Ed infatti, partita anche l'Elena, il suo umore gioviale era la sola
cosa che mettesse un po' di vita in quella casa deserta. Erano già
traslocati nella casa parrocchiale, ma parecchie camere rimanevano
chiuse. Vicenzino le aveva preparate per l'Elena. Durante il soggiorno
di Vincenzo a Santhià, il giovane prete si sentì riscaldare il cuore
da quell'amicizia che aveva riempita tutta la sua gioventù. E gli
rinacque la speranza di vedersi crescere intorno i bimbi dell'amico,
di aiutarlo ad allevarli ed istruirli, di trovare un pascolo pel suo
cuore amoroso in quei nuovi affetti. Vincenzo non ne parlava mai.
Forse aveva anche lui un segreto come l'Elena. Forse se lo chiudeva
nell'anima come lei fin dal giorno in cui aveva preferito morire che
vivere senz'amore. Ma Vicenzino aveva bisogno di quel conforto ora che
l'amico stava per lasciarlo; ed il giorno della sua partenza gli
disse:

--Quando tornerai?

--Chissà! rispose Vincenzo. C'è un tratto da Napoli a qui. Quando
potrò avere un permesso un po' lungo....

--E.... tornerai solo? domandò Vicenzino esitando.

--Come, solo? ripetè l'altro. Poi, ad un tratto indovinando dal
sorriso di Vicenzino cosa aveva voluto dirgli, esclamò con una risata:

--Ah! no no. Dio mi scampi! voglio la mia libertà. Il matrimonio non
lo desiderano che i preti, perchè non lo possono fare.

Vicenzino sentì un brivido corrergli per tutto il corpo. Era per
questo che si era sacrificato!

Gli anni passarono lenti, monotoni, tristi nella casa parrocchiale. Il
vecchio s'andò lentamente spegnendo, perdendo ogni giorno una parte
delle sue facoltà, finchè chiuse gli occhi, ed il giovane parroco
rimase solo. Solo a trent'anni, senza fervore religioso per riempirgli
il cuore, camminando faticosamente sull'arida via del dovere. Il suo
aspetto concentrato e mesto non gli ravvicinava i cuori. Tutti lo
rispettavano, era circondato di stima, ma non aveva amici. Era sempre
pallido e magro, la sua persona alta e fine s'incurvava come quella
d'un vecchio, ed i capelli biondi cominciavano ad incanutire. In paese
dicevano che si distruggesse a forza di macerazioni e digiuni devoti.
Lo credevano un santo: nessuno sapeva che era un martire. Qualcuno
cominciò a dire che era di quei cristiani entusiasti, di cui si fanno
i missionari. Altri ripeterono che voleva farsi missionario. La voce
finì per diffondersi in paese: «Il parroco va in missione alle Indie.»

Vicenzino lo seppe, ma non aveva la vocazione nè l'energia per
quell'impresa. E continuò la sua vita monotona, triste, solitaria.

Un giorno, dopo cinque anni, l'Elena gli scrisse una lettera
disperata. Suo marito era morto di febbre gialla sul bastimento che li
riconduceva in Italia. Era sbarcata a Genova con un bambino. Non aveva
coraggio di vivere fra la gente; il movimento della città la
spaventava. Gli domandava di accoglierla. «Sarò la custode della tua
casa, e tu alleverai il mio povero Vicenzino. Mi perdonerai il mio
immenso dolore. Non sarò una compagnia piacevole come altre volte; ma
ti compenserò col mio affetto della tua grande bontà, e tu
m'insegnerai colla tua fede a rassegnarmi...»

Fu l'ultimo sfogo di passione, l'ultima convulsione di pianto, che
scosse l'anima forte e combattuta di Vicenzino. L'ultima lotta della
sua vita. Rispose all'Elena.

«Non sai che mi faccio missionario? È un pezzo che nessuno ignora
questo mio disegno in paese. Non ho più casa da offrirti. Colla
prossima missione partirò per le Indie. Saluta Vincenzo, e digli che
si faccia una famiglia anche lui. È triste invecchiar solo.»



FINE.



INDICE

  Psicologia comparata
  Una confessione
  Vite squallide
  Le briciole d'Epulone
  Le affittacamere
  Fede
  Tre paia d'alari
  Nell'azzurro
  Senz'amore





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