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Title: Piccoli eroi - Libro per i ragazzi
Author: Cordelia
Language: Italian
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*** Start of this LibraryBlog Digital Book "Piccoli eroi - Libro per i ragazzi" ***


(This file was produced from images generously made
available by Biblioteca Nazionale Braidense - Milano)



[Copertina]

  CORDELIA


  PICCOLI EROI
  LIBRO PER I RAGAZZI



  MILANO--FRATELLI TREVES, EDITORI--MILANO

  ROMA
  Corso, N.^o 383

  TRIESTE
  presso G. SCHUBART.

  BOLOGNA
  Angolo Via Farini.

  NAPOLI, Piazza Sette Settembre, 26 (Largo Spirito Santo).

  LIPSIA, BERLINO, VIENNA, presso F. A. BROCKHAUS.

  PARIGI, presso J. Boyveau. 22. rue de la Banque.


[Occhiello]

  PICCOLI EROI.


[Verso]

  DELLA MEDESIMA AUTRICE:

  Il regno della donna. _Sesta edizione_          L. 2 --
  Dopo le Nozze. _Terza edizione_                    3 --
  Prime battaglie. _Terza edizione_                  2 --
  Vita intima. _Sesta edizione_                      1 --
  Racconti di Natale. _Seconda edizione_             3 50
  Casa altrui. _Quarta edizione_                     1 --
  Catene. _Seconda edizione_                         3 50
  Per la gloria. _Seconda edizione_                  3 50
  Forza irresistibile. _Seconda edizione_            3 50
  Il mio delitto. _Seconda edizione_                 3 50
  Mondo piccino. Con 15 incis. _Quarta edizione_     2 --
  Mentre nevica. Con 12 incisioni. _Quarta edizione_ 2 --
  Nel regno delle Fate. Illustrazioni di Edoardo
  Dalbono. _Terza edizione_                          7 50
  Il Castello di Barbanera. _Seconda edizione_       4 --
  ---- Edizione economica                            2 --
  I nipoti di Barbabianca. Illustrato da E. Matania.
  _Seconda edizione_                                 4 --
  Racconti di Natale. Edizione illustrata da Dalbono,
  Macchiati e Colantoni. _Seconda edizione_          4 --
  Casa altrui, racconti illustrati da E. Matania e
  da Vespasiano Bignami. _Seconda edizione_          3 --
  Alla ventura. Con 90 inc. di G. Amato. _Sec. ed_.  4 --



[Frontespizio]


  CORDELIA

  PICCOLI EROI

  _LIBRO PER I RAGAZZI_


  MILANO

  FRATELLI TREVES, EDITORI

  1892.


[Verso]


  PROPRIETÀ LETTERARIA

  _Riservati tutti i diritti._

  Tip. Fratelli Treves.



Questo libro è la semplice storia di alcuni fanciulli che passano i
mesi d'autunno in campagna assieme alla sorella maggiore, la quale
insegna loro la scienza della vita, e coglie l'occasione degli
avvenimenti che succedono tutti i giorni, per dar loro saggi consigli
ed utili ammaestramenti.

Le allegre scampagnate, le visite agli stabilimenti industriali, i
divertimenti all'aria aperta, vengono alternati colla lettura di
racconti, nei quali si narra la storia di eroismi ignorati, di
sacrifizî sconosciuti.

Questo libro è dedicato ai ragazzi dai nove ai quattordici anni. Spero
anch'io, per servirmi delle espressioni di un illustre e caro maestro,
che esso possa interessare i giovani lettori e far loro un po' di
bene.



PICCOLI EROI



LA FAMIGLIA MORANDI.


Appena il signor Morandi potè riaversi dal colpo provato per la morte
della moglie, sentì una stretta al cuore pensando al suo impiego, che
lo teneva fuori di casa tutto il giorno, e ai suoi sei figliuoli
ancora giovanetti, dei quali bisognava occuparsi.

--Come posso fare?--disse con accento straziante, tenendosi la fronte
colle mani in atto disperato.--Non so più dove dare del capo!

Maria, una bella fanciulla di diciassette anni, colla faccia di
madonnina e gli occhi espressivi, gli si avvicinò e mettendogli le
braccia intorno al collo disse:

--Babbo, tu pensa al tuo ufficio; ai ragazzi penserò io.

Il signor Morandi la guardò in faccia per accertarsi se dicesse da
vero, ed esclamò:

--Che cosa puoi far tu che sei quasi una bimba? Se almeno tutti i
ragazzi fossero d'indole docile come Vittorio e Giannina, ma gli altri
tre.... Oh la sarebbe una cosa superiore alle tue forze!

--Senti, babbo,--riprese Maria.--Lo so, di mamme non ce n'è che una,
ed è impossibile poterla supplire, ma quello che potrebbe fare
un'altra persona, ti prometto di farlo io; chè infine i miei fratelli
li conosco da tanto tempo e gli voglio bene.

--È vero, sei una donnina, ma tanto giovane che non puoi sapere quello
che ci vuole a condurre una casa come la nostra.

--Mi farò vecchia, sono così seria che tutti mi danno molti anni di
più; vedrai, babbo, che resterai contento.

--Non pensi che dovrai sacrificare la tua gioventù in un ufficio
ingrato?

--Faccio qualunque sacrifizio piuttosto che veder un'altra persona far
le veci della mamma, mi ci metto con tutta la buona volontà e ti
prometto di fare il possibile affinchè tu possa stare tranquillo.

--E sia!--disse il signor Morandi dando un sospirone di sollievo e
alzandosi per nascondere la sua commozione; poi prese fra le mani la
testolina bruna della figlia e la baciò dicendole:

--Dio t'aiuti e faccia sì che non t'abbia mai a pentire dell'incarico
che ti sei preso!--Poi chiamò gli altri figliuoli e disse loro
accennando a Maria:--Questa sarà la vostra mammina, mi raccomando,
siate buoni e non la fate troppo inquietare.

Ecco come Maria si trovò a diciassette anni al governo della casa,
coll'obbligo di dover pensare a cinque figliuoli irrequieti.

Non era ancora uscito suo padre, che Maria ebbe timore d'aver presunto
troppo delle sue forze; dei suoi fratelli, Carlo, il maggiore, era
insubordinato, Elisa piena di pretensioni, come se fosse una
principessa, Vittorio studioso ma disordinato, Mario vivace ed
irrequieto e la sola Giannina docile e buona; e mentre si sentiva
disposta a dar loro dei consigli e ad aiutarli negli studii, come avea
sempre fatto, le dava pensiero il fare da massaia. Quell'ufficio non
era il suo ideale, non sapeva nemmeno da che parte incominciare,
specialmente con una famiglia tanto numerosa, colle poche rendite di
cui poteva disporre e in una città dispendiosa come Milano.

Il padre era impiegato alla ferrovia, aveva un discreto impiego, ma
per mantenere tutta la famiglia con un certo decoro bisognava fare
miracoli di economia, come avea sempre fatto la signora Morandi.

Da principio Maria continuò collo stesso sistema della mamma, e si
arrovellava il cervello a far conti per venirne a capo coi quattrini
che le dava il babbo.

Il suo sogno era di poter a furia di abilità e di economia far godere
alla famiglia una vita agiata, ed il suo scopo, veder bene avviati i
ragazzi.

Essa avea fatto in cuor suo intera rinuncia dei suoi desiderii e delle
sue aspirazioni, per consacrarsi interamente al benessere della
famiglia.

La mattina s'alzava prima di tutti, e dopo aver dato ai fratelli una
bella ciotola di latte, li mandava a scuola mettendo nel loro paniere
qualche cosa per la merenda, affinchè potessero aspettare
tranquillamente l'ora del pranzo.

Eppure per quel po' di merenda bisognava vedere come la facevano
stizzire!

Elisa era spesso imbronciata di dover portare soltanto pane e burro o
un po' di cacio, mentre molte compagne avevano nel paniere prosciutto,
arrosto, biscotto ed altre leccornie; a Carlo non bastava mai nulla,
avrebbe voluto una porzione da lupo. Mario invece, nella sua
sbadataggine, era capace di dimenticare a casa la merenda; meno male
che Vittorio era sempre contento e Giannina divideva spesso il suo
companatico colle compagne che portavano alla scuola pane solo.

Spesso a Maria venivano le lagrime agli occhi per la sua impotenza a
tener tranquilli i ragazzi, per l'impossibilità di vederli contenti;
però al babbo non diceva nulla per non tormentarlo, egli avea già
abbastanza pensieri pel capo; ed essa tenea tutto dentro di sè, ma
qualche volta non ne poteva più e si sentiva affranta e scoraggiata.

Godeva un po' di tranquillità sol quando i fratellini erano alla
scuola; allora si sedeva a rattoppare i loro vestiti, a rammendare la
biancheria, faceva calcoli colla sua testolina per vedere di fare
delle economie, sempre preoccupata del loro benessere.

Uno dei pensieri che rallegrava le sue ore di solitudine era di poter
condurre in campagna i fratelli a passar le vacanze. Era una sorpresa
che preparava loro fra pochi giorni, un sogno che stava sul punto di
realizzare.

Parecchi anni prima, un vecchio zio avea lasciato loro in eredità un
casolare di campagna presso il villaggio di M....

Era modestissimo e composto in tutto di sette stanze con davanti un
pezzo di terra circondato da un muricciuolo. Non vi avevano mai
abitato, perchè colla mamma, spesso ammalata, quella casa mancava di
comodità ed era tanto lontana dal villaggio, che prima di poter aver
medico e medicine c'era tempo di morire.

Il signor Morandi non avea potuto trovare nè da venderla nè
d'affittarla, e la teneva come una cosa inutile, finchè fossero venuti
tempi migliori da poterla riattare, oppure da trovare un compratore.

Maria sapeva di quella casetta, e dandole pensiero avere in città, nel
tempo delle vacanze, quei cinque diavoletti, volle andare a vedere se
c'era la possibilità di poterla abitare, e parlò di questo suo disegno
al babbo.

--Chissà quante spese bisognerà fare per abitarla!--egli
rispose.--Credo che sia un sogno.

Maria fece una corsa fuori di città un giorno che i ragazzi erano a
scuola, e trovò che la casetta era abitabile: semplice, con pochi
mobili, di forme antiquate, non eleganti, ma non vi mancava nulla di
quello che era strettamente necessario; la sola spesa sarebbe stata di
dare una mano di bianco alla cucina. Appena ritornata, disse al padre:

--Il letto dello zio, che è il migliore, va bene per te, gli altri, se
non sono molto soffici, non importa, noi siamo giovani e non abbiamo
bisogno di tante ricercatezze.

E il padre acconsentì, contento di farsi dare i suoi giorni di
permesso durante l'autunno, per fare un po' di campagna.

Maria, nei momenti di calma, pensava a quei due mesi d'autunno, come
ad una festa.

I ragazzi, stando all'aria aperta in libertà, avrebbero acquistata
tanta salute; intanto essa avrebbe anche fatto delle economie. In quel
pezzo di terra davanti alla casa dove lo zio coltivava i suoi fiori,
essa s'era contentata di conservare qualche rosaio presso la porta
d'ingresso, ma avea fatto piantare, nel resto del campo, cavoli,
fagiuoli, piselli, patate, pomidoro, prezzemolo, insalatina e tutta la
verdura che sarebbe bisognata per la casa, e quella verdura s'era
offerto a coltivargliela un vicino; così non avea spese: poi al
villaggio tutto era più a buon mercato che in città; insomma essa era
felice di questo suo disegno. Era soltanto preoccupata degli studii
dei suoi fratelli, perchè, se dovevano ripetere gli esami, allora
addio campagna! avrebbe forse dovuto rinunciarvi, e a quel pensiero si
sentiva stringere il cuore.



GLI ESAMI.


Era una giornata calda nel cuor dell'estate. Elisa e Giannina che
frequentavano le scuole elementari, e Carlo che andava al ginnasio,
dovevano far l'esame appunto in quel giorno, e Maria, ansiosa di
saperne l'esito, andava ogni tanto alla finestra per vederli spuntare
di lontano.

Vennero prima le bambine contente, avevano risposto bene ed erano
certo passate. Carlo invece entrò di cattivo umore, e tutto furioso
gettò il cappello da una parte e i libri dall'altra. Maria si sentì
dare un colpo al cuore, e capì subito che cosa significasse quella
furia.

--Gli esami non sono andati bene?--chiese con un sospiro.

--Il professore è un asino,--disse Carlo irritato.

--Sarai tu un asino, che non avrai saputo rispondere; almeno lo
confessassi, e non fossi tanto presuntuoso. Dunque non sei passato? Me
l'aspettavo.

--Mi domandò certe cose difficili; poi i compagni mi facevano ridere,
mi sono confuso, ecco.

--Mi dispiace,--disse Maria con amarezza,--così tutti per colpa tua
dovranno rinunciare alla campagna.

--Non dir questo, Maria, posso studiare anche là, anzi studierò meglio
in mezzo alla quiete campestre.

--Gli è che forse non avrai più bisogno di studiare. Sai che cosa ha
detto il babbo? Se non passi ti metterà ad un mestiere, almeno ti
guadagnerai il pane.

--Siete matti,--disse Carlo,--io far l'operaio? Mai più. Lo sai, io
voglio diventare un personaggio celebre, un eroe.

Le sorelline si misero a ridere.

Maria gli disse che principiava molto bene; del resto sarebbe meglio
diventare un buon operaio, che un cattivo dottore.

--Non lo dire al babbo che l'esame è andato male.--disse
Carlo,--studierò e ti prometto di non ripetere l'anno; non lo dire al
babbo, ti prego.

--Non lo dirò, ma lo verrà a sapere, lo domanderà ai professori.

--Spero che non avrà tempo.

--Però in villa ci andiamo, non è vero, Maria? chiese colla sua
--grazietta Giannina, la bimba più piccola.

--In villa?--disse Maria.--Non è una villa la nostra, ma una povera
casetta di campagna.

--Se Elisa raccontò ad Angiolina Merli che avevamo una bella villa,
con un bel giardino!...

--Sempre le tue solite fanfaronate,--disse Maria rivolgendosi con
accento severo ad Elisa.--Possibile che non ti corregga mai di questo
vizio?

--Tutte raccontano che vanno in villa e parlano di viali ombrosi, di
giardini fioriti, e l'ho raccontato anch'io, per non essere da meno
dello altre.

--Lo sai che non voglio che tu dica quello che non è vero.

--L'Angiolina non può mica vedere.

--È forse la figlia della cucitrice? È una buona ragazza.

--Sì,--disse Giannina,--è la più attenta di tutta la scuola, e quando
Elisa raccontava della villa avea le lagrime agli occhi pensando che i
suoi genitori erano tanto poveri e non potevano andare nemmeno a
respirare un po' d'aria buona; essa diceva: «Invece di una villa mi
contenterei di andare in una capanna, pur di essere all'aria aperta e
vedere un po' di verde.»

--Ebbene, la inviteremo a venire con noi,--disse Maria,--è una brava
ragazza, conosco sua madre e si fa un'opera buona, così anche vedrà la
differenza che passa fra la villa fantastica che le ha descritta Elisa
e la casa modesta dove andiamo ad abitare.

Elisa s'era fatta tutta rossa e diceva:

--Maria, ti prego, non farlo, lo racconterà alle compagne e rideranno
di me.

--Sarà il tuo castigo, così imparerai a non esagerare le cose e a non
farti credere più di quello che sei.

--Piuttosto invita l'Evelina,--disse Elisa.

--Ti pare? Essa è abituata a viver più riccamente di noi, ci dovremmo
mettere in impegno e far delle spese, e poi non si troverebbe bene;
invece per Angiolina non cambiamo nulla delle nostre abitudini e si
troverà bene come una regina. Evelina sarebbe un disturbo inutile
perchè non ho nessuna intenzione di fare degli inviti; riguardo ad
Angiolina si fa una buona azione. Così uno di questi giorni andremo
dalla signora Merli per invitarla.

--Chissà se sua madre la lascerà venire!--disse Elisa.--Sarei proprio
contenta che non le desse il permesso.

In questa speranza si calmò, ma era sempre preoccupata dal dubbio che
Angiolina accettasse, e quel pensiero le turbò la gioia d'aver
terminati gli esami.



MARIO E VITTORIO.


Vittorio faceva la seconda e Mario la prima classe delle scuole
tecniche. Erano tutt'e due intelligenti, ma Vittorio tranquillo,
studioso, diligente, e Mario invece irrequieto, non avea voglia di
studiare e non stava mai attento. Avea dovuto perdere un anno per la
sua condotta, e perchè in scuola si burlava non solo dei compagni, ma
dei professori.

Maria era impaziente d'aver notizie dei suoi fratelli, e ad una
cert'ora s'avviò colle ragazze alla scuola, ma quando entrò
nell'atrio, s'accorse che gli esami non erano ancora terminati. Vi
trovò molti babbi e molte mamme, anch'essi impazienti di aver notizie
dei loro figli, e alcuni ragazzi che uscivano a due a due, a gruppi,
chiacchierando assieme e gesticolando, alcuni saltando dalla gioia,
altri, incerti, fermati ad attendere che uscissero i professori, nella
speranza di saper qualche cosa sull'esito dei loro esami.

Quelli che vedevano da lungi i genitori si univano a loro e quasi
tutti erano contenti d'aver terminato le scuole per quell'anno, e
della prospettiva di due o tre mesi di vacanza.

Finalmente uscì Vittorio e s'avvicinò alle sorelle colla faccia
contenta, sicuro dell'esame che avea fatto.

--È andato bene?--disse Maria.

--Il professore m'ha domandato una cosa facile e m'ha detto: bravo!
Come sono contento!--S'alzò in punta dei piedi e diede un bacio a
Maria.

Mario uscì correndo e saltando, si mise a giocare alla palla coi
libri, e fermatosi davanti alla turba dei suoi fratelli disse:

--Non mi chiedete nulla?

--Dalla tua allegria si direbbe che è andato bene.

--Credo di sì, io non sapevo molto di quello che m'hanno domandato,
sono andato avanti diritto senza interrompermi, e pare siano rimasti
contenti.

Intanto Maria vide uscire il professore di Mario che conosceva bene,
per avergli raccomandato spesso il fratello, gli si avvicinò e gli
chiese notizie dell'esame.

--Può dire d'esserne uscito per miracolo, e se non lo salvavo io....

--Ne fece qualcuna delle sue?--chiese Maria.

--Guardi!--rispose il professore, e levò di tasca un pezzo di carta
che mostrò a Maria, dicendo:--Questo è il professore che assisteva
all'esame, se l'avesse veduto, pensi che classificazione gli avrebbe
data!

Era una buffa caricatura che faceva ridere anche non avendone voglia.

Mario rideva e diceva:

--Era troppo bello con quel naso a punta e con quella barbetta; non ho
saputo resistere alla tentazione di disegnarlo.

--Pensi,--soggiunse il professore,--che egli m'ha chiesto che cosa
facesse colla matita il signorino. Io m'avvicinai, vidi di che si
trattava e prendendogli la carta risposi: È uno sgorbio, e dissi a
Mario che quella non era l'ora di disegnare; l'ho salvato per
miracolo.

--Grazie,--disse Maria al professore, poi rivoltasi a Mario lo
rimproverò.

Non poteva perderlo quel brutto vizio di mettere tutti in caricatura?

E Mario rideva e diceva:

--Era troppo bello; era troppo bello.

E il professore salutando Maria, le susurrò a bassa voce:

--Che cosa vuole! è un capo ameno che mi diverte, non sono capace
d'essere severo con quel ragazzo, però ha troppa smania di burlarsi di
tutti, o finirà coll'aver qualche dispiacere.

Ma Mario non sentiva nulla e tutto felice di aver terminato per
quell'anno la scuola, diceva ai suoi libri: Miei cari amici, ora vi
vado a mettere al sicuro, e finchè durano le vacanze non turberò il
vostro riposo. E andava avanti correndo, urtando la gente come se
fosse il padrone della città.



LA CUCITRICE DI BIANCHERIA.


Anna Merli abita, per spender poco, un piccolo quartiere al terzo
piano d'una gran casa un po' fuori del centro. Ha una bella cucina
chiara e spaziosa, una camera grande dove dorme col marito, e nello
stesso tempo sta tutto il giorno a lavorare. Vicino c'è un camerino, o
a dir meglio un bugigattolo, dove dorme Angiolina. Il marito è operaio
meccanico, essa cucitrice di biancheria, e fra tutt'e due guadagnano
appena tanto da poter vivere colla figliuola.

Un giorno Angiolina, mentre la mamma faceva andare il pedale della
macchina da cucire, stava mettendo in assetto la cucina e lavando le
stoviglie che avevano servito pel pranzo, quando sentì bussare
all'uscio e fu tutta sorpresa di trovarsi in faccia alla Maria e
all'Elisa Morandi.

--Mamma,--disse,--c'è qui l'Elisa Morandi colla signorina Maria.

La Merli sospese il lavoro e andando incontro a Maria e ad Elisa
esclamò un po' confusa:

--Che bella sorpresa!

Fece sedere Maria davanti alla macchina, mentre Angiolina conduceva
Elisa dal lato opposto della camera.

Maria disse subito lo scopo della sua visita: desiderava che la
signora Merli le facesse il favore di lasciar andare l'Angiolina in
campagna con loro.

--Quanto sono buoni,--esclamò la cucitrice,--di pensare alla mia
figliuola! Poverina, è così palliduccia e ne avrebbe tanto bisogno di
un po' di campagna; ma non sarà troppo incomodo per loro? e poi noi
siamo povera gente, e temo che mia figlia faccia cattiva figura coi
suoi vestiti modesti.

--Non si dia pensiero di questo,--disse Maria,--abbiamo non poco da
fare a tirare innanzi anche noi colla massima economia e non nuotiamo
nel lusso, ma già che nostro zio ci ha lasciato una casetta in
campagna, e c'è un letto di più, ho pensato d'invitar l'Angiolina che
è una brava ragazza, ed è stata delle prime della scuola; così sarà
una compagnia e un buon esempio per le mie sorelle.

--Oh per questo, della mia Angiolina non posso lagnarmi; se avesse
veduto come mi ha assistito poco tempo fa quando fui ammalata, e non
per questo trascurava la scuola, e poi....--qui si avvicinò per dire
qualche cosa all'orecchio di Maria e non farsi sentire da Angiolina
che si era avvicinata a loro.

--Povera Angiolina,--esclamò Maria,--sono proprio contenta di poterle
procurare un po' di distrazione.

Intanto la signora Merli chiamò a sè la figlia, e le disse dandole un
bacio:

--Sai, figliuola mia, la ragione per cui la signorina Maria si è
incomodata a venir fin quassù? È stato per invitarti ad andare in
campagna con loro.

--Io in campagna! lo dici per celia,--rispose la fanciulla facendosi
rossa.

--Proprio sul serio,--disse Maria,--so che sei amica dell'Elisa, e ho
pensato che avrà piacere di averti insieme almeno per quindici giorni.

--È vero?--chiese Angiolina rivolta ad Elisa che se ne stava in un
angolo tutta confusa.--Non lo merito, sai; vedi, quando mi raccontavi
della tua bella villa credevo che tu lo facessi per farmi dispetto,
perchè ero povera e non potevo andare anch'io in campagna, e ho
pensato male di te, sono stata ingiusta, perdonami.

--Anch'io mi sono ingannata,--disse Elisa,--non è una villa la nostra,
ma una casa, lo ha detto Maria, poi vedrai, ma non aspettarti grandi
cose,--e diede un sospirone, contenta d'aver rimediato alle
esagerazioni dei giorni passati.

--Sarà sempre troppo per me; mi basta un po' di aria libera e vedere
degli alberi verdi. Che gioia, che felicità!--e si mise a saltare e a
battere le mani.

Ad un tratto si fece seria e disse:

--Ma e tu mamma resterai sola! non ho cuore di lasciarti.

--Ora sto bene, e sono contenta che tu vada a divertirti; non pensare
a me, la sera ho il babbo e di giorno ho la mia macchina che mi tiene
compagnia; piuttosto ringrazia queste signore che hanno voluto farti
questa sorpresa.

Angiolina si avvicinò a Maria e,--Grazie! le disse volendo baciarle le
mani, ma essa la baciò in volto, poi volle che la signora Merli
riprendesse il lavoro interrotto, anzi la pregò che le mostrasse come
poteva lavorare così speditamente e tanto bene.

--Ci vuole un po' d'abitudine e d'attenzione,--disse, e le mostrò come
si dovea infilar l'ago in modo che il filo avesse una tensione uguale,
e dove si dovea mettere il lavoro e come bisognasse sempre condurlo
colle mani, affinchè l'impuntura venisse diritta.

--Appena avrò fatta qualche economia, voglio prendermi anch'io una
macchinetta da cucire,--disse Maria,--è un gran risparmio di tempo.

--Può comperare una macchinetta a mano; costa meno, e per una famiglia
basta,--disse la Merli;--ma se mi vuol far proprio un piacere quando
ha qualche lavoro lungo venga da me, io metto la macchina a sua
disposizione. Me lo promette, non è vero? magari le fossi utile a
qualche cosa! Sarei felice di mostrarle la mia riconoscenza; è proprio
un'opera buona quella che fa per la mia figliuola.

--Sono ben contenta,--disse Maria congedandosi.--Dunque siamo intese;
dopodomani alla stazione,--e uscì tutta lieta d'aver avuta quella
buona idea.

Elisa si sentiva felice d'aver cancellata l'impressione del suo
racconto esagerato, e diceva:

--Per gente che vive in due camerette, la nostra casa farà l'effetto
di una villa; io però sarei stata più contenta d'avere l'Evelina.

--E non ti fece piacere la gioia di quella povera gente!--disse
Maria.--Sei proprio senza cuore. Dà retta a me; se avessi invitato
Evelina, o avrebbe rifiutato, essa che ha tante ville, migliori della
nostra catapecchia, o avrebbe accettato con mal garbo e credendo di
farci un onore, si sarebbe trovata male, e per giunta ci avrebbe
sprezzati e criticati, mentre invece possiamo esser contenti d'aver
fatto una buona azione e d'aver reso un servizio a persone che lo
meritano e ci serberanno un po' di gratitudine.



IN CAMPAGNA.


Il treno rallentava, ed i ragazzi volevano slanciarsi fuori,
impazienti di correre per l'aperta campagna.

--Adagio,--disse Maria,--volete rompervi una gamba prima di arrivare;
finchè non siamo ben fermi, vi proibisco di muovervi.

--Io sono lesto,--esclamò Mario.

--Non ho paura,--disse Carlo.

--Tutto va bene; ma scendere quando una carrozza è in moto è una grave
imprudenza; tanti altri più agili di voi e più coraggiosi si sono
rovinati per tutta la vita; si tratta d'un minuto e non c'è proprio
bisogno d'essere impazienti.

Intanto il treno s'era fermato e giù discesero lesti come tanti
scoiattoli, impazienti di correre.

Maria volle invece radunare prima tutto il bagaglio e consegnarlo ad
un facchino, raccomandandogli di portarlo a casa sua subito, poi
s'avviò assieme ai ragazzi, tutti contenti di trovarsi all'aria
aperta, in mezzo ai prati verdi, lontani dalla scuola e dalla città.

Maria aveva un bel da fare a dirigere quella schiera irrequieta. Alla
donna di servizio disse di fermarsi al villaggio per far le provviste
più necessarie: legna, carbone, candele, pane, vino, carne, uova e
burro; le raccomandò di far presto; intanto sarebbe andata avanti coi
ragazzi ad aprire la casa.

Vittorio le domandava notizie di tutti i villini che vedevano, Carlo
saltava sui muricciuoli e nei fossi lungo la via, Elisa osservava le
ville più belle, e Angiolina e Giannina ammiravano tutto, ed erano
allegre e contente di trovarsi in campagna.

La loro casa, poco lontana dalla stazione, era una casetta con un
balcone grande, coperto da un pergolato di vite, che circondava tutto
il muro del cortile; era molto semplice, quadrata, bianca, colle
persiane verdi, e d'aspetto ridente. Davanti c'era qualche vaso di
fiori e dai lati la verdura che Maria avea fatto piantare e che essa
fu piacevolmente sorpresa di trovare molto cresciuta.

--Come sono contenta!--disse.--Guardate quei fagioli che s'arrampicano
lungo il muro, e quella insalatina fresca; voi ragazzi, quando avrete
riposto nei cassettoni la vostra roba, coglierete un po' di
quell'insalata per pranzo.

Ma nè Carlo nè Mario non se la sentivano di lavorare, volevano correre
e divertirsi; invece Angiolina si mise subito all'opera con una
prontezza che fece meravigliare Maria.

Essa l'aiutò a disfare i bauli e le casse, a scopare le camere e
spolverare le mobiglie con un'abilità da vera massaia.

Giannina voleva imitarla, ma non ci riusciva, invece di radunare la
polvere in un mucchio per poi raccoglierla nella cassetta delle
spazzature, la sparpagliava per la stanza e dovette rinunciarvi.

--Sei ancora troppo piccina.--disse Maria,--dovrebbe piuttosto farlo
l'Elisa.

Ma Elisa invece perdeva il tempo ad osservare le stampe attaccate alle
pareti del salotto, rappresentanti la leggenda del Figliuol prodigo,
ed i mobili, che guardava con aria sprezzante, trovandoli vecchi e di
cattivo gusto.

Al pianterreno non c'erano che tre stanze, la cucina, il salotto
grande, spazioso, con tre finestre, ammobigliato con una tavola
rotonda nel mezzo e intorno un canapè coperto di damasco di lana
verde, due poltrone uguali, e delle sedie di paglia; addossata ad una
parete una credenza a tre piani per mettervi i tondi all'ora del
pranzo, dovendo quel salotto servire da sala da pranzo, da studio e da
ricevere; accanto poi c'era uno stanzino per la donna di servizio. Il
piano superiore era composto di quattro camere da letto grandi e
ammobigliate colla massima semplicità: nella prima dovea dormire il
signor Morandi e Vittorio, nella seconda Mario e Carlo, nella terza
Maria e Giannina, nella quarta Elisa e Angiolina.

Quando ritornò la donna colla provvista, Maria volle che s'occupasse
unicamente della cucina; le premeva troppo che le casseruole e le
pentole fossero pulite bene e le tavole lavate colla potassa; diede
un'occhiata agli arnesi di rame per assicurarsi che fossero stagnati,
perchè diceva sempre: Non c'è bisogno di fare dei manicaretti, ma
quello che si mangia deve essere sano e pulito.

Poi andò al piano superiore e si fece aiutare dall'Elisa che si prestò
di malavoglia a rifare i letti, mentre gli altri mettevano i loro
vestiti nei cassettoni; ma i ragazzi facevano un'insalata di tutto, e
l'Angiolina aveva un bel da fare per mettere un po' d'ordine in quei
cassetti. Essa diceva:

--Fate così; le camice da una parte, le mutande dall'altra, e nel
mezzo le cose minute, i fazzoletti, le calze, le cravatte; vedete, ci
sta tutto in un cassetto, nell'altro potete mettere i vestiti.

--Ma non c'è l'attaccapanni?--disse Carlo.

--Sì, ma è meglio lasciarlo libero, vedrete che in poco tempo sarà
carico anch'esso.

Fece mettere i libri nel cassetto del tavolino che ognuno aveva nella
propria camera; così, col suo aiuto, la casa fu presto in ordine,
anzi, ebbero tempo di pensare anche agli adornamenti.

In un armadio trovarono dei vecchi tappeti: uno fu disteso in salotto
davanti al canapè, con un altro copersero la tavola; poi corsero nel
cortile, spiccarono un ramo di rose fiorite, vi aggiunsero un geranio,
qualche ramo d'erba odorosa, formarono un mazzo di fiori che misero in
mezzo alla tavola, ed il salotto prese un aspetto più gaio ed
elegante.

Quando tutto fu in ordine, Maria per contentare i ragazzi li condusse
a fare un giro nel villaggio prima del pranzo; passando, andò a
salutare il curato che era stato tanto amico di suo zio, e li accolse
sorridendo.

Era un buon vecchietto che parlava volentieri del tempo passato, e
raccontava le storie del quarant'otto, avendo preso parte in quella
rivoluzione, e dimenticando il presente in quei ricordi.

Maria, stimando utile per i ragazzi la conversazione di quel buon
vecchio, lo invitò a casa sua, e gli chiese intanto notizie degli
altri villeggianti.

Egli raccontò che la bella villa sulla collina apparteneva ad una
famiglia di ricchi industriali, che portavano molto vantaggio al paese
perchè avevano una grandiosa fabbrica laggiù nella valle, che dava
lavoro ad un gran numero di operai, e poi perchè spendevano molto, e
il signor Guerini, proprietario della villa e della fabbrica, non
dimenticava nè i poveri nè la chiesa, anzi avea regalato a sue spese
un nuovo organo.

--E quel casino rosso laggiù in fondo al viale?--chiese Maria.

--È il casino del professore Damiati, una persona molto istruita che
viene qui a villeggiare da qualche anno.

--L'ho inteso nominare, è professore al ginnasio, non è vero?--riprese
la fanciulla;--mi piacerebbe tanto conoscerlo perchè vorrei pregarlo
di dare delle lezioni a Carlo che deve ripetere un esame.

--Glielo farò conoscere,--disse don Vincenzo,--anzi, se andiamo verso
la posta, lo incontriamo di sicuro.

--Ebbene, tanto meglio, se non le incomoda siamo pronti.

E s'avviarono tutti insieme parlando della stagione, della campagna e
dello zio, che don Vincenzo nominava sempre con vero rincrescimento.

--Crede,--diceva,--che dopo la sua morte mi pare quasi di non viver
più nemmeno io? Ci siamo conosciuti giovani, alle barricate di porta
Vittoria nelle Cinque Giornate; sono momenti dei quali non ci si
dimentica, e poi siamo stati sempre amici, tanto ch'egli è venuto ad
abitar qui per me, e ci si divertiva a stare assieme la sera
ricordando il tempo passato; le ore trascorrevano in un lampo; penso
sempre a quelle belle serate.

--Venga ora che ci siamo noi a raccontarci di quel tempo, sarà tanto
utile anche per i ragazzi.

--Ecco il professore,--disse don Vincenzo accennando ad un giovane che
veniva verso di loro, assorto nella lettura del giornale che era
arrivato in quel momento, e seguito da un bel cane.

--Signor Damiati? signor Damiati?--chiamò il curato.--Deve aver
trovato delle notizie molto interessanti in quel giornale, che non
alza nemmeno gli occhi per salutarmi.

--Davo una scorsa alle novità del giorno, ma di questa stagione anche
la politica tace,--disse Damiati alzando gli occhi e salutando.

--C'è qui la signorina Morandi che desidera conoscerla,--soggiunse don
Vincenzo.

Il professore salutò Maria e fece una carezza a Mario che gli era
vicino, mentre gli altri ragazzi avevano fatto circolo intorno al
cane.

--Ho inteso parlare di lei,--disse Maria,--e speravo proprio
incontrarla, anche perchè desidererei un favore.

--Dica pure, se posso esserle utile....

E un po' timidamente, quasi tremante, gli disse come era imbarazzata
per Carlo, temendo che da solo non potesse studiare, e lo pregava che
gli volesse dare qualche lezione, qualche suggerimento....

Il professore disse che proprio quando era in campagna avea deciso di
riposare e di non obbligarsi a dar lezioni, ma essendo tanto vicini
avrebbe fatto un'eccezione, sarebbe stato felice di andar a passare
qualche ora nella loro compagnia, e così quasi conversando avrebbe
potuto aiutare Carlo nei suoi studii.

--Mi farà un vero regalo,--disse Maria,--scusi, sa, se sono stata un
po' ardita di chiederle un favore così subito, senza conoscerla, sono
tanto umiliata di non potere aiutar io mio fratello, perchè di latino
non so proprio nulla.

Il professore promise di andar presto a vederli, poi si salutarono
tutti, e Maria tornò a casa coi ragazzi, contenta del modo con cui
avea occupato quel primo giorno; anche i ragazzi eran felici della
bella passeggiata e soltanto Carlo pareva imbronciato all'idea di
dover rimettersi a studiare.



L'IDEALE DI CARLO.


La famiglia Morandi era raccolta nel salotto intorno alla tavola
rischiarata da una lampada appesa al soffitto. Il signor Morandi
leggeva il giornale, Vittorio guardava un libro illustrato, Maria
accomodava della biancheria insieme all'Angiolina che aveva chiesto di
aiutarla, mentre Giannina pregava Elisa, che non ne avea voglia, di
farle dei vestiti per la bambola.

--Andiamo,--disse Maria,--falle questo piacere.

--M'annoio,--disse Elisa.

--Ti annoierai di più a non far nulla,--soggiunse, poi rivolgendosi a
Carlo disse:--Tu spero ti metterai a studiare il tuo latino.

--Che noia! sempre questo eterno latino!--rispose il ragazzo facendo
spallucce;--io già, sai, non m'importa di diventare uno scienziato,
voglio essere un uomo d'azione, un gran generale, un eroe: Alessandro,
Giulio Cesare, Napoleone; ecco i miei ideali, al diavolo i libri,
lasciatemi fare il soldato,--esclamò Carlo cogli occhi lucenti e il
viso in fiamme, tutto eccitato da quella giornata passata all'aria
aperta.

--Sì,--disse Maria ironicamente,--dopo bisognerà improvvisare una
guerra per mettere il tuo eroismo alla prova. Ora, mio caro, il mondo
è cambiato, e al giorno d'oggi la parola eroe ha un significato molto
diverso da quello che aveva una volta; eroe si può esserlo in tutti i
luoghi, in tutte le professioni, alla scuola, all'officina, fra le
pareti domestiche, purchè uno dimentichi sè stesso, rinunci al proprio
piacere, alla propria volontà, per un alto ideale, per il bene del suo
paese, della propria famiglia e dei suoi simili, e forse è un eroe
tanto più grande, perchè il suo eroismo è ignorato e non vi è spinto
dall'idea della gloria che è sprone a grandi sagrifizi. Se vorrete, vi
leggerò quando sarete stati ubbidienti, alcune storie vere, ch'io ho
raccolto, di eroismi ignorati, nella speranza che possano esservi
utili; sarà un modo di occupare queste serate d'autunno.

--Brava!--disse Vittorio.--Che gioia! I tuoi racconti mi piacciono
tanto.

--Vediamo questi eroi!--disse Carlo,--anzi, dovresti cominciare
subito.

--Per questa sera,--rispose Maria,--contentati di studiare; il mio
manoscritto è in fondo al baule.

--È tanto noioso questo latino! Ora poi che sono in vacanza....

--Ebbene lascia stare,--disse il signor Morandi interrompendo la sua
lettura,--ti prometto che se non passi l'esame ti mando a fare il
ciabattino.

I fanciulli diedero in una risata, mentre Mario continuava colla
matita a scarabocchiare sulla carta.

--Ecco il tuo ritratto,--disse a Carlo quando ebbe terminato.

Le ragazze ansiose s'avvicinarono a Mario e si misero a ridere con
tutta la forza dei loro polmoni, alla vista d'una figura che avea un
po' il profilo di Carlo, seduta al bischetto con un paio di scarpe in
mano tirando lo spago; con sotto la scritta: _l'eroe dello spago_.

Carlo, indispettito, diede uno schiaffo a Mario che si ribellò, e
incominciarono a picchiarsi e a prendersi per i capelli.

Maria li divise e rivoltasi a Carlo disse tranquillamente:

--Un eroe che batte un ragazzo più giovane di lui! Che vergogna!

Carlo rimase mortificato da quelle parole, ma tenne tutta la sera il
broncio al fratello, il quale andava dicendo che, volere o non volere,
avrebbe illustrato tutti gli avvenimenti e i tipi che gli sarebbero
passati davanti durante le vacanze e i racconti che si sarebbero fatti
intorno a lui. Se suo fratello voleva essere un eroe, egli aspirava
alla gloria d'un grande artista e voleva esercitarsi a cogliere il
vero che gli cadeva sott'occhi.



I RACCONTI DI MARIA.


I ragazzi non si dimenticarono la promessa di Maria e non la
lasciarono in pace finchè non cercò il manoscritto. La sera dopo
quando furono tutti radunati intorno alla tavola la supplicarono
impazienti di incominciarne la lettura.

Aveva appena lette le prime parole, che entrò don Vincenzo assieme al
professore Damiati.

--Continui pure,--dissero.

Maria voleva sospendere la lettura dicendo che erano storielle scritte
per i ragazzi e non potevano interessare persone come loro.

Ma non ci fu verso, vollero che continuasse, altrimenti minacciavano
di andarsene.

--Sono tutta confusa,--disse Maria,--di avere un simile uditorio, non
so più dove sia rimasta,--soggiunse riprendendo il manoscritto.

--Incominci dal principio,--disse il professore,--vogliamo sentir
tutto, e mentre Mario stava temperando la matita per illustrare il
racconto, come diceva lui, tutti gli altri fecero silenzio per
ascoltare la lettura di Maria.

Essa incominciò colla voce un po' tremante, ma chiara e armoniosa, a
leggere il suo racconto.



  LA FIGLIA DEL CANTONIERE.

  Pierina era la figlia, del guardiano della casa cantoniera numero 6,
  posta presso ad un modesto villaggio, sulla via del Gottardo.

  Fra i primi ricordi dell'infanzia, al primo risvegliarsi della sua
  intelligenza intorpidita, essa rammentava che parecchie volte al
  giorno, suo padre usciva con qualche cosa arrotolata oppure con un
  lanternino in mano, e pochi momenti dopo, si sentiva uno strepito, che
  pareva il terremoto e faceva scuotere fino dalle fondamenta la piccola
  casa, poi il rumore si affievoliva, finchè si dileguava in lontananza.
  Non sapeva che cosa fosse, ma quando usciva il padre, essa stava
  attenta, aspettando il solito rumore.

  Una sera che il babbo era assente, ed essa un po' irrequieta, la mamma
  accese il lanternino, la prese fra le braccia e uscì sulla strada.

  L'impressione che provò quella volta non la dimenticò più.

  Vide lontano una massa scura, grande, gigantesca, con due occhi rossi
  infocati, che sbuffava e mandava lampi di fuoco, come un mostro
  fantastico, e quella massa nera veniva precipitosamente verso di loro
  come se volesse ingoiarle, stritolarle. Nascose la testa sulla spalla
  della mamma, chiuse gli occhi e si mise a gridare.

  La mamma non si mosse: stette ferma al suo posto finchè il mostro fu
  passato e si sentì il rumore diminuire in lontananza e ad un certo
  punto cessare.

  Pierina continuava a piangere e a tremare.

  --Bisognerà bene che ti abitui al passaggio del treno, mia piccola
  paurosa,--le disse la madre riconducendola in casa.

  E infatti s'abituò in breve a quel rumore, anzi quando cominciò a
  camminare e sentiva lo strepito della macchina, voleva correr fuori a
  veder il vapore, e avrebbe voluto toccarlo, e colle manine tese faceva
  festa al luccicore dell'ottone intorno alla locomotiva, seguiva cogli
  occhi la colonna di fumo, ed esclamava guardando in alto: bello!
  bello! In poco tempo, quell'oggetto che l'aveva tanto sgomentata era
  divenuto il suo divertimento, anzi, quando lo sentiva in distanza,
  correva sulla strada ferrata in mezzo alle rotaie, ballando e saltando
  dalla gioia.

  E allora la sua mamma, tutta agitata, usciva a prenderla fra le
  braccia e le dava tante busse da farla strillare.

  --Non devi andar sulla strada quando viene il treno, hai capito?--le
  diceva.

  Ma Pierina non capiva nulla, soltanto sapeva che quando andava sulla
  strada per far festa al vapore, prendeva le busse che le facevano
  male, e un po' alla volta perdette l'abitudine d'andarci, e si
  contentò di salutare il treno dalla finestra o dalla corte, davanti
  alla casa.

  Fattasi più grandicella, incominciò a frequentare la scuola del
  villaggio, e tutte le mattine quando vi si recava, sentiva nelle
  orecchie la voce della mamma che le diceva:

  --Ricordati, prendi il sentiero della montagna, non passare lungo le
  rotaie.

  --Oh mamma, non sono più una bimba,--rispondeva,--e non c'è pericolo
  che vada sotto al treno.

  --In ogni modo sono più tranquilla se prendi l'altra strada; qualche
  volta ritornando colle amiche, chiacchierando, non si sa mai, una
  disgrazia è presto venuta, e noi siamo tanto abituati al rumore del
  treno che ci può venir addosso senza che ce ne accorgiamo.

  Ormai Pierina era una cantoniera perfetta, e spesso quando i suoi
  genitori erano occupati, andava lei stessa, all'ora che passava il
  treno, a fare i segnali.

  Il padre l'aveva istruita bene, perchè potesse far le sue veci e lo
  aiutasse, tanto più che la mamma doveva occuparsi d'un altro bimbo
  ancora in fasce e non poteva muoversi di casa. Il cantoniere prima che
  passassero i treni, percorreva la strada affidata alla sua custodia,
  poi dava un'occhiata ad un ponte sospeso sopra un precipizio, per
  vedere se non ci fosse alcun guasto, specialmente dopo qualche
  temporale, e quando aveva veduto che tutto era in ordine si metteva al
  suo posto, e tenendo in mano la bandieruola verde indicava al treno
  che poteva proseguire; se la via era ingombra prendeva invece la
  bandiera rossa e lo faceva arrestare.

  Pierina lo aveva accompagnato spesso, era stata attenta e aveva subito
  imparato ogni cosa, tanto che tutta felice di poter rendersi utile,
  diceva spesso al babbo:

  --Se hai da fare, va pure, penserò io al passaggio dei treni.

  --E posso fidarmi?--le diceva,--non dimenticherai l'orario?

  --Non c'è pericolo, poi la mamma me lo rammenterebbe.

  Pierina era tanto attenta e diligente che di lei potevano proprio
  fidarsi, anzi essa era al suo posto sempre dieci minuti prima del
  passaggio del treno col segnale in mano, colla sua faccia sorridente e
  i riccioli biondi agitati dal vento e indorati dal sole.

  I conduttori e i macchinisti dei treni che percorrevano quella via,
  conoscevano già la Pierina, e quando s'avvicinavano alla casa
  cantoniera numero 6, pensavano che forse avrebbero veduto la
  _biondina_ che faceva loro l'effetto d'una bella apparizione. Qualche
  volta la salutavano con un cenno, ma essa era sempre là ferma e seria,
  tutta compresa del suo ufficio.

  E vi fu un periodo di tempo che vedevano sempre la _biondina_ e di
  giorno e di sera, là in vista col segnale in mano, e si potea dire che
  la guardia della strada era unicamente affidata a lei.

  Ciò avvenne perchè suo padre, una notte avendo dovuto aspettare il
  treno in ritardo, mentre nevicava, s'era presa una polmonite, e avea
  dovuto starsene a letto, mentre la mamma dovea stare ad assisterlo.

  Il male avea fatto progressi, e il medico diceva che non c'era più
  speranza.

  La Pierina non sorrideva più, avea il cuore grosso e le lagrime agli
  occhi, ma non dimenticava l'ora del passaggio dei treni, sapeva che i
  suoi genitori non avevano più testa, e doveva pensarci lei.

  Ed anche il giorno che il babbo morì, e la sua mamma piangeva, essa
  non dimenticò d'andare alle ore consuete al suo posto.

  Il babbo glielo avea detto tante volte in quei giorni che era
  ammalato, di non dimenticare l'orario; ed ora ch'egli non era più là,
  essa stava ancor più attenta.

  Passarono alcuni giorni, e la sua mamma piangeva sempre.

  --Perchè piangi?--le diceva Pierina,--ormai non c'è rimedio, se ti
  ammali, che cosa facciamo io e Luigino?

  --Penso,--le rispondeva,--che ora che non c'è più lui, ci manderanno
  via dalla nostra casetta, e vedi, io voglio bene a questa casa dove
  sono venuta col mio uomo, dove vi ho veduti nascere.

  --Anch'io voglio bene alla mia casetta, ai miei fiori, alle montagne e
  al vapore che passa,--disse Pierina.--Vedi, non potrei vivere nemmeno
  senza di lui, ma come abbiamo potuto fare questi giorni che il babbo
  era ammalato, potremo fare ancora; io sono grande e posso pensare alla
  strada.

  --Sì, ma vedrai che ci manderanno via,--e a quel pensiero non poteva
  darsi pace.

  Quando venne un ispettore, mandato dalla direzione della ferrovia, per
  vedere come fosse composta la famiglia, la povera donna lo supplicò in
  ginocchio che le lasciasse la casa cantoniera.

  --È un mese che ce ne occupiamo noi, e, vede, non è mai accaduto
  nulla; è questione di qualche anno, poi mio figlio crescerà, e allora
  saremo tre come prima.

  --Ma si tratta di una grande responsabilità,--diceva l'ispettore,--e
  non possiamo lasciare la guardia a due donne, ed una di queste ancora
  bambina.

  --La mia Pierina è come un uomo, attenta, coraggiosa, intelligente;
  vedrà, vedrà che saranno contenti di noi, ma ci lasci al nostro posto.

  L'ispettore era commosso dalle lagrime di quella donna, ma non poteva
  decidersi a cedere alle sue preghiere.

  --Basta, vedremo,--disse,--io farò il possibile, ma senza un uomo è
  difficile, quello che posso fare per voi è di lasciare per il momento
  le cose come stanno; tutti gl'impiegati dei treni m'hanno detto bene
  di voi e della bambina; fingerò di ignorare che vostro figlio è un
  bimbo, e per qualche tempo procureremo di tirare innanzi, ma attente
  che non succeda nulla, e non dimenticate d'esser sempre al vostro
  posto.

  La povera donna dovette contentarsi di quelle parole, ma viveva sempre
  con quella paura nel cuore e col pensiero di dover da un giorno
  all'altro abbandonare la sua casetta ed andare raminga coi figli a
  guadagnarsi il pane.

  Pierina faceva miracoli: fra un treno e l'altro trovava il tempo di
  andare alla scuola, ma quando il treno dovea passare essa era sempre
  là, immobile al suo posto, e si divertiva a seguire collo sguardo
  quella lunga striscia nera che s'incurvava come una serpe, sul dorso
  dei monti, entrava nelle viscere della terra, e usciva trionfante,
  divorando la strada; che le passava innanzi, soffermandosi come per
  salutarla, per poi riprendere il suo cammino con maggior forza di
  prima.

  Le pareva di veder passare un amico, e diceva che non avrebbe potuto
  vivere in un luogo dove non avesse veduto passarle davanti cinque o
  sei volte al giorno il vapore.

  Se prima l'avea guardato con paura, poi con ammirazione, dopo che la
  maestra le ebbe spiegato come la forza che fa muovere tutto
  quell'ammasso di carri, carrozze, di gente e di roba, non è che un po'
  di vapore, formato dall'acqua in ebollizione, e sapientemente
  compresso, cercava di studiare il movimento di tutti quei congegni,
  combinati tanto bene, e come mossi da una volontà sola, da un potere
  misterioso.

  Un giorno che una macchina s'era fermata davanti alla sua casa, essa
  potè salirvi e vide il focolare come una bolgia infocata, entro la
  quale continuamente un operaio getta enormi pezzi di carbone che
  bruciano in poco tempo, e la caldaia, dove bolle l'acqua
  continuamente, e i motori, e le valvole di sicurezza, e il fumaiuolo
  donde esce il vapore dopo che in quella complicazione di congegni ha
  dato l'impulso che muove tutta quell'immensa massa; ma essa avrebbe
  voluto comprendere il mistero di quei congegni e scoprirne la forza
  arcana, e ci pensava sopra tutte le volte che lo vedeva passare.

  Era una giornata burrascosa sul finir di novembre. Tutto il giorno
  avea nevicato in montagna, e raffiche di vento scuotevano le cime
  degli alberi, ruggivano nelle gole dei monti.

  Luigino era ammalato, e la mamma non lo poteva lasciare un minuto.

  Pierina, come al solito, dava un'occhiata alla strada, ed era al suo
  posto al passaggio dei treni, senza curarsi dell'infuriar della bufera
  e della pioggia che cadeva a torrenti.

  Tutt'a un tratto verso l'ora del tramonto, mentre stava colla mamma ed
  il fratellino, che si lagnava nel suo letto, soffrendo più del solito,
  s'udì uno scroscio, un rombo terribile che fece tremare la casa come
  se crollasse.

  --Mio Dio! che cosa succede? è la fine del mondo?--disse la donna.

  --Vado a vedere,--disse Pierina.

  --Con questo tempo? aspetta almeno che sia cessato, prenderai un
  malanno.

  --Bisogna vedere, non sai che deve passare il treno delle cinque?

  --È il diretto, non rallenta.

  --Ma se fosse accaduta qualche disgrazia?

  --Alle due è passato il treno, e tutto era in ordine,--disse la madre.

  --Ma questo rumore? vado per stare tranquilla, non ho paura, sai, ci
  sono avvezza.

  Si coperse bene con un mantello impermeabile, e uscì.

  Tornò dopo cinque minuti tutta agitata, accese in fretta la lanterna
  rossa che attaccò ad un bastone. Prese il corno che stava quasi sempre
  inoperoso attaccato al muro e se lo mise a tracolla.

  --Che fai?---le disse la madre.

  --È venuta una frana, è caduto il ponte, che orrore!

  --Che cosa intendi di fare?

  --Bisogna fermare il treno.

  --Sei pazza?

  --Lascia fare a me, non t'inquietare, vedi, preparo i segnali.

  --Se non li vedono con questo tempo, con questa nebbia?

  --Suonerò il corno.

  --Se non lo sentono?

  --Speriamo che possano vedere o sentire. Vado, mamma, è l'ora.

  Incappucciata nel suo mantello nero con un lampione rosso in una mano
  e la bandiera nell'altra, uscì, mentre il vento era più impetuoso che
  mai, e una pioggia gelata tagliava la faccia.

  Pierina non si sgomenta per il tempo, il solo pensiero che la
  preoccupa è che quelli del treno vedano oppure odano i segnali. Il
  dubbio che le fa battere il cuore, è che con quel tempo non stiano in
  vedetta, tanto più essendo il treno diretto che non rallenta quasi
  mai. Sente il fischio in distanza della vaporiera, il suo cuore batte
  più forte, l'idea che quel lungo treno possa sfracellarsi nel
  precipizio le mette i brividi, è già in vista, ed essa soffia nel
  corno con quanto fiato ha in corpo, comincia disperatamente ad agitare
  la lanterna e la bandiera, ma il treno non rallenta, Pierina grida, si
  smania, suona più forte, ma il rumore delle carrozze e del vento rende
  indistinto il suono del corno, e il vapore s'avanza, sempre
  imperterrito, ed è già a pochi passi dalla fanciulla.

  Essa non pensa più al proprio pericolo, s'avvicina, è quasi davanti
  alla macchina, sta per toccarla, soffia nel corno con tutta la forza
  dei suoi polmoni, non vede più nulla, le par di sentire come un gran
  frastuono nelle orecchie, e cade esausta per terra.

  Si trovò sollevata dalla madre, la quale non potendo resistere
  dall'inquietudine, era uscita quando aveva sentito avvicinarsi il
  treno, e vedendo il pericolo a cui s'era esposta la figlia, sfogava la
  sua nervosità battendola come quando era bambina.

  --Un bel spavento m'hai fatto prendere,--diceva,--non vedi che è stato
  un miracolo se non sei stata stritolata; che imprudenza!

  Pierina nel vedere il treno fermo, immobile come una gran massa
  inerte, rideva e piangeva nello stesso tempo.

  Non era dunque caduto nel precipizio! O quale miracolo! essa che avea
  creduto d'esser precipitata anche lei, era invece caduta affranta
  dalla fatica: le parea di sognare trovandosi ancora viva.

  Ma intanto, mentre i conduttori chiedevano e volevano vedere la causa
  di quella brusca fermata, i forestieri strepitavano e si lagnavano
  d'essere stati disturbati e fermati così tutt'a un tratto, là in mezzo
  alla strada, con quel tempo, e furibondi, aprivano gli sportelli e
  scendevano per saperne la ragione.

  --Eccola la ragione,--disse il macchinista, conducendo tutti quei
  curiosi al ponte,--possiamo ringraziare il Signore se non siamo tutti
  sfracellati laggiù.

  --Ma come ve ne siete accorto?

  --È stata questa bambina,--disse andando a prendere per un braccio
  Pierina,--e possiamo ringraziar lei prima di tutti, essa ci ha
  salvati,--e raccontò come proprio all'ultimo momento vedendo
  quell'ombra nera avvicinarsi alla macchina, e come un oggetto rosso
  agitarsi davanti ai suoi occhi, non avea pensato che a stringere i
  freni e a fermarsi; era stata una gran scossa, egli era caduto quasi
  giù dalla macchina, anche tutti i viaggiatori avevano dovuto rimaner
  tramortiti dal colpo, ma erano vivi e lo dovevano alla _biondina_.

  Mentre il capo conduttore dava ordini affinchè alcuni uomini andassero
  al villaggio a cercare mezzi di trasporto, per il trasbordo dei
  viaggiatori e della roba, e telegrafava alle stazioni vicine che la
  strada era ingombra, e che mandassero dei soccorsi, i viaggiatori
  curiosi vollero scendere per vedere il luogo del disastro.

  C'erano uomini e donne di tutte le età e di tutte le condizioni,
  alcuni ben vestiti e imbacuccati in ricche pellicce, altri con
  scialletti di lana avvolti intorno al capo, e ruvidi mantelli intorno
  alla persona.

  Molte signore al vedere quella voragine, dove avrebbero potuto esser
  precipitate, svenivano; altri scherzavano dicendo:--Sarebbe stato un
  bel salto!--ma tutti ammiravano il coraggio della fanciulla che li
  aveva salvati.

  La sua mamma invece continuava a sgridarla e a dirle:

  --Un filo soltanto mancava che andassi sotto alla macchina; che cosa
  avrei fatto senza di te? Perchè sei stata così imprudente?

  --Ho pensato a tutta quella gente che sarebbe morta, a tante mamme, a
  tante bambine che avrebbero pianto, a me non ho pensato,--rispose.

  Una signorina inglese era in ammirazione davanti a Pierina, e tutta
  sorpresa che sua mamma la sgridasse.

  --Come è brutale quella donna!--disse scambiando alcune parole in
  inglese colla signora che l'accompagnava, poi rivoltasi alla Pierina
  soggiunse:

  --Vuoi venire con me? sono ricca, ti terrò come una sorella, ho una
  bella casa; starai tanto bene, nessuno ti sgriderà, vuoi venire?

  Alla donna chiese:

  --Me la lasciate? vi darò in cambio dei denari.

  La donna non capiva e la guardava in faccia come trasognata; ma
  Pierina aveva capito bene, e gettando le braccia al collo della sua
  mamma, esclamò:

  --Resto colla mia mamma, nella mia casetta, sono tanto contenta!

  Un signore, ad imitazione della signorina inglese, volea fare qualche
  cosa per la fanciulla che li aveva salvati quasi miracolosamente, e
  disse:

  --Piuttosto, per mostrare la nostra gratitudine, facciamo una
  sottoscrizione per questa povera gente,--e incominciò a dare l'esempio
  levando fuori del borsellino cento lire e tutti gli altri concorsero
  secondo le loro forze.

  Ma Pierina non voleva accettare.

  --Non ho fatto che quello che dovevo,--disse,--siamo qui apposta per
  guardare la strada; ma se volete proprio esserci utili, dovete dire
  alla Direzione della ferrovia che abbiamo fatto il nostro dovere, che
  nemmeno un uomo poteva fare di più; raccomandate loro che ci lascino
  la nostra casa cantoniera, il nostro cantuccio dove viviamo tanto
  felici.

  --Lasciate fare a me,--disse il signore ch'era un ingegnere addetto
  alla direzione della ferrovia.--Lo faremo certo, e dopo un fatto
  simile credo non vi manderanno via, ma in ogni modo accettate questo
  denaro, vi servirà a pagarvi la casa nel caso non volessero lasciarvi
  la guardia d'un posto tanto pericoloso, e la Direzione della ferrovia,
  vi assicuro, ne fabbricherà un'altra vicino al ponte.

  Intanto erano venuti i muli e i carri per caricare la roba, e passare
  al di là del precipizio, sul sentiero della montagna.

  Molti viaggiatori lasciarono un ricordo alla Pierina, e
  l'abbracciarono, ed essa, quando tutto fu ritornato tranquillo, disse
  alla mamma che ancora non poteva rimettersi dallo spavento passato:

  --Sono contenta; almeno non ci porteranno più via la nostra casa.

  --Quanto sei buona!--le disse la madre,--ed io che t'ho sgridata, ma,
  sai, non ho pensato che al tuo pericolo; avevo perduta la testa.

  --Non ti crucciare, mamma, lo so che mi vuoi bene, e pensare che
  quella signora voleva che andassi con lei! Doveva esser pazza.


Tutti quei ragazzi avevano seguito attentamente il racconto senza
fiatare.

--Bello, bello,--esclamarono,--peccato che sia finito! ma ce ne
racconterai un altro, è vero?--disse Giannina.

--Un'altra sera, ora sono stanca.

--Brava!--esclamò don Vincenzo.

--È bello davvero,--disse il professore.

--È una storia vera,--disse Maria,--non ho fatto che trascriverla.

--E aggiungervi un po' della vostra grazia e del vostro
sentimento,--soggiunse il Damiati.

--È bellissima la sua idea, e spero non mancherà di avvertirmi quando
ne leggerà qualche altro.

--Si figuri, ne sono tutta orgogliosa, e non mi sarei mai aspettata
che queste storie per i ragazzi, potessero interessare un professore
come lei; ma ella è tanto buono!

Poi per cambiar discorso guardò quello che stava scarabocchiando Mario
in silenzio.

--È proprio incorreggibile,--disse mostrando al professore i disegni
del fratello.

Era una carta che rappresentava un treno dal quale scendevano dei tipi
veramente buffi d'inglesi impalati, di forestieri camuffati con
mantelli ridicoli; c'erano teste che guardavano fuori dai finestrini
coi capelli irti e le facce spaventate, oppure con dei berretti dalle
fogge più strane. Davanti a tutti poi, una bimba, con una cappa nera,
con una bacchetta in mano, in atto di fermare il treno.

Il professore osservò quei scarabocchi e disse:

--Non c'è male, ha dell'attitudine a cogliere il lato ridicolo delle
cose, e una certa facilità di disegnarle.

Poi rivoltosi a Mario, soggiunse:

--Però oltre che cercare di perfezionarti nell'arte del disegno, devi
tenerti in mente una cosa: che se è bello qualche volta far spuntare
il sorriso sulle labbra, e far risaltare anche il lato umoristico di
un fatto o d'una persona, ci sono certi fatti, certe virtù che non si
possono mettere in ridicolo, senza mostrare poco criterio o poco
cuore. Non bisogna lasciarsi trascinare dalla smania di faro lo
spiritoso a qualunque costo; vedi, per esempio, in questo tuo disegno
tutti possono ridere al vedere quelle facce spaventate, quelle persone
vestite in modo bizzarro, perchè sono persone immaginarie, e possono
anche esser ridicole; ma hai avuto un bel camuffare la povera Pierina
con quella cappa nera, hai potuto ben farla piccina, tutti quelli che
ne conoscono la storia, rispetteranno quella veste, come si rispetta
il cappotto del soldato crivellato di palle sul campo di battaglia, e
più l'hai fatta piccina, più grande appare il suo eroismo. Impara
dunque a distinguere quello che può essere colto impunemente, o anche
con vantaggio, da quello che deve esser sacro ad una persona di cuore.

--Come parla bene, professore!--disse Maria.--Vede, tutte queste cose
le ho pensate tante volte, ma non sapevo dirle come le ha dette lei:
se mi volesse aiutare ad educare questi ragazzi!

--Volentieri,--rispose,--sono a sua disposizione per quello che posso.

Intanto era venuta a don Vincenzo la voglia di fare anche lui la sua
predica, e disse che appunto l'arma di satirizzare, adoperata bene,
può recare dei vantaggi, e citò il Giusti, che colle sue poesie
satiriche, gettando il ridicolo sopra i principotti che opprimevano da
tiranni l'Italia, diede loro il colpo di grazia, tanto che col suo
spirito fu uno dei principali autori dell'indipendenza del nostro
paese.

Damiati, al vedere che don Vincenzo incominciava il suo discorso
favorito, e non avrebbe terminato tanto presto, s'alzò dicendo:

--È tardi, un'altra sera io farò la lezione a Carlo, e don Vincenzo vi
potrà raccontare tutte le sue avventure del quarant'otto; se domani
intanto i ragazzi vogliono venire a fare una passeggiata con me sulla
collina, potrò continuar loro la mia predica, se non si annoiano.

Essi accettarono con gioia, e Maria ringraziò con un sorriso il
professore che la sollevava un po' dal pensiero di quei ragazzi
vivaci.

Mario stava ancora disegnando.

Il professore gli disse salutandolo:

--Ti raccomando, se fai la mia caricatura, non farmi troppo brutto;
però te lo permetto, ma certe cose, no.

Quando fu uscito assieme a don Vincenzo i ragazzi si misero a ridere
forte.

Il professore doveva essere un mago, aveva proprio indovinato: Mario
faceva il ritratto del Damiati in piedi su un pulpito, in atto di
predicare.



UNA PASSEGGIATA.


Il professore Damiati, la mattina dopo, mentre un bel sole di autunno
indorava la cima delle colline e le goccie di rugiada tremolavano
sull'erba dei prati, chiamò, passando da casa Morandi, i ragazzi per
condurli a passeggiare sulla collina. Voleva indurre a seguirli anche
Maria colle fanciulle, ma ella si scusò dicendo di dover accudire ad
alcune faccende domestiche e promise di andare ad incontrarli più
tardi, verso l'ora del tramonto.

Il professore aveva intenzione di condurre i ragazzi ad un Santuario
che si vedeva biancheggiare sulla cima d'una collina in mezzo alle
piante verdi, dove un tempo c'era un chiostro. Di lassù si godeva una
bella vista e nei mesi d'autunno era il pellegrinaggio favorito delle
comitive di villeggianti; vi andavano a far colazione, per passare
tutta la giornata all'ombra delle piante e visitare nel medesimo tempo
il Santuario.

Si avviarono, allegri, col paniere pieno di viveri in mano, e Vittorio
si offerse di portare anche quello del professore. Mario aveva, oltre
al paniere, l'album, che portava sempre con sè per disegnare gli
avvenimenti della giornata.

Damiati cercò di star vicino a Carlo e incominciò subito ad
interrogarlo dei suoi studii e volle sapere perchè non cercasse di
essere più attento alla scuola e di contentare la sorella.

Gli rispose quello che diceva sempre:

--Non sono nato per studiare, voglio fare il soldato.

--E credi che i soldati non abbiano bisogno di studiare? Naturalmente
tu non ti contenteresti di esser soldato semplice.

--Il mio sogno è di diventar generale, vorrei fare come Garibaldi.

--Probabilmente se tu avessi il coraggio e l'abilità di Garibaldi, ti
mancherebbe l'occasione per metterli alla prova e per farli conoscere.
Non capisci che ora i tempi sono cambiati, e colle armi perfezionate
anche le battaglie si vincono al tavolino e la guerra è diventata una
scienza? Poi le guerre di conquista non sono più conformi alla nostra
civiltà, e l'Italia libera e indipendente non ha più gran bisogno che
i suoi figli le consacrino il loro coraggio e il loro sangue, bensì le
occorrono ingegni educati a forti studii, che la facciano ricca e
potente.

--Se non potrò fare il soldato, diventerò marinaio,--disse Carlo.

--E avresti poi la forza di sopportare una vita dura e piena di
pericoli? Non sai quanti ragazzi attratti dalla poesia del mare, dopo
aver provato quella vita di privazioni e di paure, vi hanno rinuncialo
spossati e spoetizzati. Prima di esporsi alle grandi fatiche, bisogna
aver coraggio di affrontare le piccole, prima di essere grandi,
bisogna esser piccoli eroi, come dice bene tua sorella; perciò, se
vuoi darmi retta, incomincerai a vincere la tua pigrizia ed a metterti
a studiare sul serio; quando avrai superate le difficoltà che ti si
presentano, quando avrai fatto degli sforzi per fare non quello che ti
piace, ma quello che è tuo dovere, sarai già incamminato a diventare
qualche cosa e forse anche un eroe se te ne capita l'occasione; ma dà
ascolto a me, principia col riportare qualche piccola vittoria sopra
te stesso, le altre verranno da sè.

Lo lasciò poi andare dicendo che non voleva annoiare tutta la
compagnia a furia di prediche e incominciò ad ammirare il paesaggio, a
cogliere dei fiori lungo il sentiero della collina, e fu una gara fra
quei ragazzi per arrampicarsi sui declivi onde scoprire i ciclamini
che si vedevano spuntare in mezzo al verde. Quel sentiero girava
intorno al monte, incurvandosi e salendo sempre, mentre da un lato
c'era la valle profonda che in certi punti faceva l'effetto d'un
baratro.

Il professore raccomandò ai ragazzi di tenersi dalla parte del monte,
perchè dall'altra, c'era pericolo di cadere nel vuoto. Proseguivano il
loro cammino, arrampicandosi e cogliendo fiori, quando tutt'a un
tratto, ad una svolta della strada, videro avanzarsi verso di loro una
mandria di buoi, che occupava tutto il sentiero e sbarrava la via. I
ragazzi si fermarono esitanti.

--Avanti, Carlo--disse il professore,--tu che vuoi fare il soldato
dovresti essere il più coraggioso, passa per il primo in mezzo a quei
buoi.

--Non c'è posto--disse tutto tremante il ragazzo.

--Avvicinati! coraggio!

Carlo s'arrampicò sul monte per evitare quegli animali, ma lo fece
così in fretta e con tanta paura che un vitello ch'era sul pendio lo
rincorse, ed egli gridando, tutto pauroso, rifece i suoi passi e si
nascose dietro il professore.

Tutti si misero a ridere e il professore disse a Vittorio:

--Prova tu, vediamo se hai più coraggio.

Vittorio si fece innanzi ubbidiente e passò in mezzo a quelle bestie
come se nulla fosse, seguito dagli altri, che dopo il suo esempio non
vollero esser da meno di lui.

--Vedete,--disse Damiati,--che non c'è da temere, quelle sono le
bestie più docili che ci siano, basta non spaventarle. Osservate, le
conduce un ragazzo.

Infatti il mandriano era un ragazzo di forse quindici anni.

--Io non ho mai capito come bestie così grosse,--disse Mario,--si
lascino condurre da un ragazzo così piccolo; io al loro posto
scapperei.

--Sì, ma ai loro occhioni, come si suol dire, un ragazzo è un gigante,
e poi non conoscono la forza che possiedono e non si ribellano che
quando sono infuriati--disse il professore;--vi assicuro che le bestie
sono buone, basta non molestarle.

--Sì, ma i leoni?

--Se hanno fame s'ingegnano come possono e se incontrano per istrada
una buona preda l'ammazzano; io invece conosco dei ragazzi che
tormentano, inutilmente, delle povere bestioline che non fanno nulla
di male. Chi è più crudele?

Mario aperse la mano tutto confuso e lasciò fuggire una farfalla che
ci teneva chiusa.

--L'avevo presa per copiarla,--disse;--del resto sono bestie stupide
che non sentono nulla.

--Speriamo sia così, in ogni modo questi animali hanno la vita di un
giorno e non bisogna esagerare nemmeno nella compassione; anche gli
scienziati li tormentano, ma con uno scopo utile, solo non mi piace
che si faccia per crudeltà.

Intanto s'avvicinarono alla meta. In mezzo alle piante secolari si
vedeva sorgere una chiesetta circondata da cappelle, poi, accanto, una
casa e un cortile con un gran porticato che pareva un convento.

--Ci sono i frati?--chiese Vittorio.

--No,--rispose Damiati,--c'è soltanto un custode che si fa chiamare
col nome di eremita, ed è infatti un eremita dei nostri tempi.

--Che gioia!--disse Mario;--sono proprio contento di far conoscenza
con un eremita.

--È un uomo come gli altri.

--Come! io che me lo figuravo con una tonaca e una barba lunga; allora
non c'è nessuna novità.

--Un vero eremita dovrebbe essere quasi un selvaggio, una persona che
vive soltanto colla natura e mangia solo i frutti della terra; ora è
cambiato anche questo, ci sono degli uomini che vivono solitari, ma a
patto di scendere ogni tanto al villaggio quando sono stanchi della
solitudine, e forse stanno soli perchè sono d'un carattere così
bisbetico che non vanno d'accordo col loro simili,--disse Damiati;--ma
ecco l'eremita.

Infatti un uomo veniva incontro a loro e chiedeva se volessero vedere
la chiesa.

I ragazzi lo guardavano con curiosità e gli chiesero se non
s'annoiasse di star sempre lassù solo. Egli disse che non aveva
bisogno di nessuno; gli domandarono la sua età e la ragione per cui si
fosse ritirato in quella solitudine, ma non volle dir nulla, e visto
ch'essi avevano levato le provviste dai loro involti, s'offerse di
portare dei sedili e dei piatti perchè potessero mangiare comodamente
all'ombra delle piante.

Prima di tutto si misero a mangiare, perchè l'aria fresca della
mattina aveva aguzzato il loro appetito, e divoravano la carne, le
uova sode e le altre provviste che avevano recato, come se fossero
bestie affamate.

--Bisogna lasciar qualche cosa per l'eremita,--disse Mario.

--Ma io ho fame,--rispose Carlo.

--Non ci pensate,--disse Damiati,--al caso gli lasceremo qualche
moneta;--poi fece loro ammirare il bellissimo paesaggio che si vedeva
da quel posto: di faccia una fila di colline verdeggianti intersecato
da strade che formavano delle righe bianche, poi giù una valle sparsa
di paeselli con un torrente che scendendo dallo montagne
l'attraversava e sul quale stavano in certi punti sospesi dei
ponticelli pittoreschi.

--Bello!--diceva Mario,--come mi piacerebbe dipingere questo quadro,
ma quando sarò più grande lo farò. Senta, professore, dica al babbo ed
a Maria che mi facciano studiare la pittura.

--Se avrai una vera inclinazione, lo faranno certo, ma intanto devi
cercare da te stesso di esercitare l'occhio a cogliere il vero; prova
a ritrarre quel paesaggio e ne vedrai la difficoltà. Si fa presto a
dire voglio essere un artista, o voglio essere un eroe, come dice tuo
fratello, anzi a questo mondo tutti vorrebbero essere qualche gran
cosa, tutti hanno grandi aspirazioni, ma pochissimi riescono ad uscire
dalla mediocrità. Sentite, ragazzi, ora siete giovani e dovete pensare
a faticare e a lavorare molto, e forse dopo potrete avere il premio
che sperate.

Mario s'era posto a disegnare colla matita in mano e l'album aperto,
ma dopo due o tre tentativi inutili per copiare il paesaggio si
contentò di fare la caricatura di Carlo che fuggiva inseguito da un
vitello perdendo lungo la via il paniere della colazione, e disse:

--È inutile, io non sarò altro che un pittore caricaturista.

--Chi sa che cosa diverrai!--disse Damiati.--È troppo presto per
saperlo, intanto pensa a studiare.

Visitarono la chiesa e poi scesero saltellanti dalla collina, contenti
della loro passeggiata. Ai piedi del monte trovarono Maria, Elisa,
Angiolina e Giannina e tutti assieme s'avviarono verso casa narrandosi
gl'incidenti della giornata.

Ad un certo punto videro un gruppo di ragazze guardare attentamente
per terra; Elisa, che era molto curiosa, si avvicinò a quel gruppo
composto della signorina Guerini, l'istitutrice, e di una loro amica,
ma appena si accostò, le altre se n'andarono senza salutarla, ed essa
si trovò davanti ad una biscia morta che faceva ribrezzo. Corse subito
a raggiungere la sorella, dicendo tutta imbronciata:

--Hai visto la signorina Guerini? che superbia!

--Perchè? S'è fermata un momento, ma non metteva conto che si fermasse
di più per quella bella vista.

--È stato per non salutarci; domanda anche a Carlo come questa mattina
sono passati davanti a noi in carrozza senza nemmeno degnarsi di
guardarci.

--Non vi conoscono e non si saranno accorti di voi, che non siete poi
dei personaggi illustri.

--Ma Alberto è stato alla scuola elementare con me?--disse Carlo.

--Non se ne ricorderà; ma perchè volete occuparvi degli altri?
Pensiamo a godere piuttosto della nostra passeggiata.

Ma Elisa che sperava di far amicizia colla signorina Guerini era
imbronciata, Giannina ed Angiola correvano avanti per fermarsi a
coglier fiori e Mario raccontava a Vittorio che voleva fare la
caricatura di Alberto Guerini quando passa tutto superbo sul suo
velocipede, senza degnarsi di guardare i miseri mortali che camminano
lungo la via.

--Vedi,--diceva,--voglio disegnarlo in tre tempi: prima nell'atto che
passa superbo lungo la strada, poi quando scende impetuosamente da un
declivio, e finalmente nel punto che cade in un fosso colle gambe
all'aria e il cappello un miglio distante.

Maria parlava invece col professore Damiati domandandogli consigli sul
modo d'educare i ragazzi, sempre preoccupata dal pensiero dei cinque
figliuoli, e quando la salutò sull'uscio di casa essa gli raccomandò
di venire spesso la sera a trovarli insieme a don Vincenzo.

--La loro conversazione sarà tanto utile ai miei figliuoli,--disse
Maria;--mi raccomando, non mi abbandonino.



SERATE IN FAMIGLIA.


A don Vincenzo pareva di ringiovanire quando andava a passar la sera
in casa Morandi. Perciò vi andava spesso e volentieri, accompagnato
dal professore, che ammirava la dolcezza e l'abnegazione di Maria la
quale si dedicava così giovane al benessere della famiglia e
all'educazione dei suoi fratelli. Egli era tutto felice di esserle
utile e s'era fitto in capo di far amare lo studio a Carlo; lo trovava
un po' pigro e svogliato, ma sperava, aiutandolo nelle difficoltà,
stuzzicando il suo amor proprio, di riuscire a renderlo più docile ed
a fare che dedicasse qualche ora della giornata allo studio.

Gli parlava più da amico che da professore, ed il ragazzo si
rassegnava a studiare con lui, in grazia delle storielle piacevoli e
degli aneddoti curiosi che gli raccontava e delle passeggiate che
sapeva organizzare per divertirlo quando rimaneva contento dei suoi
cómpiti.

Però la sua idea fissa erano i fatti eroici, i lunghi viaggi, la vita
avventurosa, e diceva sempre:

--Io studio per non vedervi imbronciati, ma se capita l'occasione,
scappo e mi faccio soldato, marinaro o esploratore.

Quando don Vincenzo parlava del quarant'otto, Carlo pregava Damiati di
sospendere la lezione e s'avvicinava con tanto d'orecchi alla tavola,
dove le ragazze lavoravano, e il prete ricominciava per la centesima
volta i suoi racconti, ma sempre animandosi, gesticolando in modo che
pareva avessero la virtù di levargli una ventina d'anni dalle spalle.

«Ora si muore, si vegeta,--egli diceva,--quelli erano tempi in cui si
viveva, ogni giorno c'era qualche novità, qualche avvenimento che ci
faceva battere il cuore, e s'era tutti uniti in un solo pensiero come
se attraverso tutte le nostre teste passasse una medesima corrente
elettrica.

«Io, in quel tempo, ero a Milano al seminario a studiare, ma anche là
dentro, fra quelle quattro mura, in mezzo ai nostri studi, penetravano
le idee che correvano per la città, si sapeva tutto quello che
accadeva, eppure non vi saprei dire in che modo quelle notizie
giungessero fino a noi.

«Voi, nati in questi tempi, non sapete che cosa voglia dire non esser
padroni in casa propria, essere tenuti schiavi, spiati e magari posti
in prigione e condannati per una parola sfuggita involontariamente,
per un'occhiata mal interpretata; pensate che un mio fratello il quale
aveva dato senza accorgersi uno spintone ad un ufficiale austriaco, fu
posto agli arresti e mancò poco che fosse fucilato.

«Ve la immaginate voi la nostra vita agitata? Eppure era così bella,
si congiurava nascostamente, s'era pieni di speranze nell'avvenire, e
ci si consolava delle continue sofferenze nel vederci tutti uniti
nelle nostre aspirazioni e nei nostri desiderii.

«Noi si studiava, ma la nostra mente faceva mille progetti per
concorrere a liberare il nostro paese, ognuno di noi sognava d'essere
un eroe e di riuscire in qualche impresa ardita da far tremare quelli
che ci opprimevano; fra una lezione di latino e di teologia si
scrivevano dei versi nei quali s'invocava l'angelo sterminatore che
sperdesse i nostri nemici. Quando poi si seppe che Pio IX, il nostro
pontefice, favoriva la libertà, allora furono inni al Santo Padre,
preghiere che ci aiutasse, e lo adoravamo in ginocchio come si adorano
i Santi e la Madonna. Vi assicuro che vivevamo in un'agitazione
febbrile, ognuno di noi era una specie di bomba pronta a scoppiare
alla prima scintilla, e quando si seppe che fuori c'era la
rivoluzione, che si facevano le barricate, allora nessuno seppe star
tranquillo, si fece anche noi la nostra piccola rivoluzione interna, e
si volle prendere parte agli avvenimenti.

«Mi par ancora ieri, e sì che ne sono passati dei begli anni; quando
ci si mise a fabbricare le barricate, si pareva matti, si entrava
nelle case a prendere lo mobiglie che potevano servirci, si
spogliavano gli appartamenti, si smantellavano le fabbriche per
adoperare i materiali onde sbarrare le vie, ci si cambiava in
facchini, manovali, e poi si finiva col diventare non soldati, ma
leoni per difendere le barricate che avevamo innalzate con tanta
fatica, e là, dietro a quei ripari, fabbricati dalle nostro mani, vi
dico io che ne ho vedute di scene commoventi, vi assicuro che se
vivessi cent'anni, il ricordo di quei tempi basterebbe per riempirmi
la mente e tenermi compagnia.

«In quei giorni tutta la popolazione era nelle strade, le donne
scappavano in casa qualche ora per prepararci da mangiare, e poi
venivano a recarcelo colle loro mani.

«Mi pare di vedere ancora una bella giovane di venti anni venir tutti
i giorni con un canestro pieno di viveri, che distribuiva
indistintamente a poveri e ricchi, amici e sconosciuti, a tutti quelli
che erano là instancabili, oppure accasciati dalle ferite e dalla
fatica a combattere; ci appariva come una fata benefica, quando un
giorno, mentre faceva la distribuzione dei viveri, scoppiò una bomba
accanto a lei e rimase ferita orribilmente: fu un urlo d'indignazione
in tutti noi e ci si mise a combattere con maggiore energia per
vendicarla.

«Mi ricordo d'un bambino che s'arrampicava come uno scoiattolo sulle
barricate, e munito dei sassi che avea tolti dal selciato della via li
lanciava con forza sopra quelli che osavano avvicinarsi; di tratto in
tratto veniva la madre a strapparlo da quel posto pericoloso.

«--Sei matto,--gli diceva,--ad esporti così?

«Ma egli ritornava sempre al suo posto elevato; e quando una palla gli
trapassò un braccio, egli disse:

«--Non è nulla, fasciatemelo presto che ritorni al mio posto, per
fortuna ho ancora un braccio buono.

«Non ci fu verso, volle ritornare ma cadde svenuto, e dovettero
trascinarlo via per forza.»

--Come mi sarebbe piaciuto vivere in quel tempo!--disse
Carlo;--allora, sì, avrei potuto diventare un eroe.

--Eravamo tutti eroi,--soggiunse don Vincenzo,--però non si poteva
fare altrimenti, non era permesso di tremare nè di aver paura. Mi
ricordo un signore che trovò il figlio nascosto dietro una porta, e
trascinandolo fuori per un braccio gli disse:--Almeno muoviti e fa il
galoppino da una barricata all'altra, e se vengo a sapere che non hai
fatto il tuo dovere, non ti riconosco più per figlio.

Quando don Vincenzo s'infervorava in quei discorsi, anche il signor
Morandi, di consueto silenzioso, si animava e parlava di quei tempi
quando anch'egli si era trovato in mezzo alla rivoluzione e bloccato a
Venezia.

Come avea sofferto in quel tempo! Anzi, quelle sofferenze gli avevano
lasciato un'ombra di tristezza che non si sarebbe cancellata mai più.

--Pensi, don Vincenzo,--disse una volta,--a Milano la rivoluzione è
durata cinque giorni, ed è quasi stata una festa, ma io che mi son
trovato a Venezia, ed ho sofferto la fame per un anno!... E ai figli
disse: Se sapeste che cosa voglia dire soffrire la fame, come sareste
contenti della vita che fate, come godreste la vostra agiatezza e la
vostra tranquillità!

--E perchè non ci racconti nulla, babbo?--chiesero i ragazzi.

--Quel tempo mi ricorda cose troppo tristi,--rispose il signor
Morandi;--mio fratello è morto a Marghera, mia madre morì di dolore,
non posso evocare quei giorni senza che mi si spezzi il cuore; la
libertà mi è costata troppo cara.

--Come saranno stati belli i primi tempi di libertà, dopo tante lotte
e tanti sagrifizi!--disse Maria.

«--Si dovette attendere ancora dieci anni, ma quei primi giorni furono
deliziosi,--disse don Vincenzo,--fu una gioia da non poter comprendere
se non si è provata. Si pareva pazzi, per le vie ci si abbracciava
tutti, amici e sconosciuti, si saltava dalla contentezza, si parlava
dalle finestre, poveri, ricchi, tutti amici, tutti uniti, come si
fosse una sola famiglia; quando entrarono i nostri soldati fu una
frenesia: una pioggia di fiori li coperse, un grido d'entusiasmo uscì
da tutto le bocche, tutti volevano vederli da vicino, i ragazzi
andavano in mezzo alla truppa, fra le zampe dei cavalli, si voleva
ammirarli, abbracciarli, i nostri fratelli, i nostri soldati che
avevamo tanto desiderato. Quando poi entrarono i bersaglieri correndo,
seguendo il ritmo della loro allegra fanfara, lesti, colle penne dei
cappelli agitate dal vento che correndo per le vie come se volassero,
parevano un gaio stormo d'uccelli che venisse a portarci la primavera,
la pace, l'allegria, allora l'entusiasmo fu al punto culminante. So
che tutti ridevamo, piangevamo, eravamo pazzi; in quel delirio di
gioia avevo la febbre; so che dovetti andarmene a casa affranto, non
potei dormire, tanto ero agitato, e se chiudevo gli occhi mi vedevo
una danza di bandiere a tre colori, di soldati e di cappelli da
bersagliere.

«E la gioia maggiore fu di vedere il nostro re Vittorio Emanuele
entrare a Milano col suo aspetto marziale, la sua faccia aperta e
buona. Sono stati momenti quelli che non si dimenticano, e vedete, io
non invidio la vostra gioventù baldanzosa, piena di speranza
nell'avvenire, perchè sono contento d'esser vissuto in quei giorni in
cui eravamo tutti fratelli, e come si era stati compagni nelle lotte e
nelle privazioni si ritornava ad esserlo nella gioia comune.

«Però passato quel tempo d'entusiasmo la vita m'apparve monotona. Pio
IX non era più quello di prima, dovevano avergli cambiata la testa;
noi, preti, in città, non avevamo più tante simpatie, e il mondo mi
parve così brutto che volli venire in campagna, dove lo spettacolo
della natura è sempre grandioso ed attraente.

«Qui ho trovato delle gioie tranquille e non mi pento della mia
risoluzione, ho degli amici che mi vogliono bene, ho i miei fiori, gli
uccelli che ritornano ogni anno a fare i nidi sotto al mio stesso
tetto. Quando poi avevo vostro zio che era stato un mio compagno del
quarant'otto e non si stancava mai di ricordare quel tempo, io non
desideravo nulla di più, e proprio bisogna dire che il Signore mi vuol
bene; dopo che m'ha dato il dispiacere di togliermi quel buon amico,
ecco che siete venuti voi ed io posso ritornare in questa casa, che mi
ricorda tante cose, e vi vedrò ritornare tutti gli anni come gli
uccelli dei miei nidi; crescere, poi magari prendere il volo, finchè
un giorno o l'altro lo prenderò io il volo. Intanto, l'avervi
conosciuto sarà una consolazione dei miei ultimi anni, e poi sono
certo che resterà qualcuno a ricordare il vecchio curato, non è vero?

--Ora deve star qui tanti anni con noi, non dobbiamo pensare a
malinconie,--dissero in coro i ragazzi.

--Anzi,--soggiunse il Damiati che avea terminato di ripassare il
compito di Carlo,--la signorina Maria dovrebbe raccontarci le
avventure d'un altro piccolo eroe.

--Questa sera, no,--disse Maria,--una bella figura farebbero i miei
eroi dopo i discorsi del quarant'otto! Se volete v'invito per domani
sera.

--Bene, bene, domani sera è impegnata,--disse il professore.

E si contentarono di far ancora un po' di chiacchiere finchè Mario
terminava una vignetta dove pretendeva d'aver rappresentato la
rivoluzione del quarant'otto con bombe, barricate e una tal confusione
nella quale non si poteva raccapezzare nulla, tanto che anche il
futuro artista dovette concludere che i quadri storici non erano il
suo forte.



IL PROCACCIA.


Angiolina era andata a prendere il manoscritto e l'avea posto davanti
a Maria, mentre tutti gli altri stavano intorno alla tavola attenti ad
ascoltarla.

--Quest'oggi--disse Maria--è una storia molto semplice, e forse dopo i
fatti eroici di ieri sera non riuscirà ad interessarvi; procurerò di
esser breve.--E preso il manoscritto incominciò:


  Siamo in un tugurio sopra una montagna; intorno, delle praterie, verdi
  l'estate, e l'inverno coperte di neve, delle cime aguzze di monti con
  boschi di abeti neri e di tratto in tratto qualche capanna, qualche
  casolare, in mezzo a quella solitudine

  In una camera povera, affumicata e quasi spoglia, se ne sta
  rannicchiata accanto al fuoco una donna dall'aspetto macilento e
  tremante dal freddo.

  Un ragazzo entra portando un fascio di legna.

  --Ecco, mamma, della legna per riscaldarci.

  --Se bastasse!--disse la Maddalena con un sospiro,--ma bisogna
  mangiare,

  --Abbiamo ancora della farina,--rispose il ragazzo che si chiamava
  Antonio,--poi Francesco m'ha lasciato i suoi quattrini prima di
  partire.

  La donna diede in un sospiro più forte sentendo nominare l'altro
  figliuolo e disse:

  --Se almeno me lo avessero lasciato, non si correrebbe il pericolo di
  morire di fame, oppure se mi sentissi bene, qualche cosa potrei fare,
  ma invece me lo mandano soldato ora che avevo più bisogno di lui.

  --Ci sono io,--disse Antonio.

  --Che cosa vuoi fare tu che sei ancora bambino?

  --Ho dodici anni e sono forte, cercherò del lavoro e l'ho promesso
  anche a Francesco.

  --A proposito, che cosa ti ha detto prima di partire?--chiese la
  donna.

  --Nulla! che cercassi del lavoro, anzi scendo al villaggio per vedere
  se trovo da fare qualche cosa.

  Così dicendo uscì, e mentre scendeva la montagna erta e sdrucciolevole
  per la neve caduta, andava pensando a quello che gli avea detto
  appunto Francesco prima di partire pel reggimento.

  Egli era vissuto fino a quel giorno senza crucci, andando alla scuola,
  e i giorni di vacanza giocando cogli amici. Avea spesso fatto qualche
  piccolo servizio al fratello o alla mamma, e all'ora consueta trovava
  in casa un boccone da mangiare, che, per quanto fosse semplice, gli
  facea l'effetto di un cibo squisito, ed era vissuto tranquillo e
  felice come un uccellino.

  Ma quella mattina, dopo il discorso fattogli dal fratello, si sentiva
  trasformato, i suoi pensieri non erano più tanto allegri e gli pareva
  d'esser già un uomo col peso d'una grande responsabilità.

  --Senti,--gli avea detto Francesco,--se non mi chiamavano soldato, non
  t'avrei parlato di nulla, e non avrei turbato con delle inquietudini
  la tua età spensierata, ma parto, e devo dirti tutto quello che mi
  pesa sul cuore da tanto tempo. Tu ora così piccino devi aver molto
  giudizio e fare il capo di famiglia.

  --E la mamma?--avea detto Antonio.

  --Povera mamma! Non sai che è molto ammalata? il dottore dice che ha
  mal di cuore e non deve aver pensieri nè inquietudini, ha bisogno di
  mangiar bene e di non faticare; insomma, bisognerebbe essere ricchi,
  oppure ch'io potessi pensare per tutti, invece ora a lei devi pensarci
  tu, finchè sono via; ti raccomando, sai, bada che quella povera donna
  non soffra, fa tutto il possibile, magari chiedi l'elemosina, ma
  procura che non le manchi un po' di pane; io, sta tranquillo, cercherò
  di mandarti qualche soldo, ma che cosa può fare un povero soldato!

  Antonio pensava a questo discorso e a Francesco che nel farglielo avea
  le lagrime agli occhi, e rammentava come l'avea preso fra le braccia
  stringendolo stretto contro la sua faccia, quando gli promise di
  lavorare e guadagnare il pane per sè e per la mamma ammalata.

  Ma ora in quella strada deserta, intirizzito dal freddo, vedeva che
  era più difficile di quello che avesse immaginato.

  Se fosse la buona stagione, pensava, potrei offrirmi a qualche
  mandriano per pascolare le bestie, ma siamo d'inverno.... Vedremo, giù
  al villaggio può darsi che trovi qualche occupazione.

  Egli nella sua mente vagheggiava i tempi delle fate, quando bastava
  esser buoni e ubbidienti, per veder subito qualche fata accorrere ad
  aiutarci; egli sarebbe stato tale per meritare la protezione di una
  buona fata, e si guardava intorno se ci fosse qualche animaluccio da
  salvare, qualcuno da soccorrere, come se fossero ancora quei bei
  tempi; ma non c'era anima viva, e soltanto udiva il rumore del vento
  che usciva dalle gole dei monti e scuoteva le cime degli abeti.

  Quando vide le prime case del villaggio il suo cuore si aperse alla
  speranza; in quelle case abitava della gente, e forse qualcuno si
  sarebbe mosso a pietà di lui.

  Camminando adagio per quelle vie deserte, vide aprirsi una porta ed
  una donna uscire con un paiuolo in mano, per ripulirlo.

  Si avvicinò a lei e si fece coraggio di chiederle se avesse qualche
  occupazione da dargli.

  --Posso far di tutto,--disse,--ripulire e lavare la casa, aver cura
  delle bestie, far delle commissioni.

  --Sei matto,--disse la donna;--coi tempi che corrono, non c'è
  abbastanza da lavorare nemmeno per noi.

  Egli proseguì il suo cammino con un sospiro.

  Vicino alla chiesa, vide un uomo piuttosto ben vestito che veniva
  incontro a lui.

  Egli si fece avanti, e pensando alla mamma ammalata, a quello che gli
  aveva detto il fratello, stese la mano per chiedere l'elemosina.

  --Non ti vergogni?--gli disse quell'uomo,--alla tua età chiedere
  l'elemosina! va a lavorare, piccolo vagabondo.

  Non chiedeva di meglio che procurarsi del lavoro, avrebbe voluto
  dirglielo, ma sentì come un gruppo alla gola che gli tolse il respiro
  e corse via senza dir nulla, vergognandosi.

  Cominciava ad essere scoraggiato e pensava se non fosse meglio per
  quel giorno ritornare a casa, quando udì il rumore della diligenza che
  arrivava, e non si mosse, nella speranza che quelli che venivano di
  lontano fossero più pietosi.

  La diligenza si fermò davanti all'osteria della Posta, ed egli corse
  subito per togliere ai viaggiatori le sacche, gl'involti che avevano
  in mano, e per aiutare a scaricare i bauli. Ma l'oste che al rumore
  della diligenza era uscito, diede uno scappellotto ad Antonio
  dicendogli:

  --Levati dai piedi, non abbiamo bisogno del tuo aiuto.

  Il povero ragazzo non potè più resistere e diede in uno scoppio di
  pianto.

  La figlia dell'oste, uscita anch'essa all'arrivo dei viaggiatori, ebbe
  compassione di quel ragazzo e si avvicinò domandandogli che cosa
  avesse.

  --Volevo guadagnarmi qualche soldo aiutando a scaricare i bauli; ho
  tanto bisogno di trovar lavoro, colla mamma ammalata e mio fratello
  soldato, ma sono troppo disgraziato, dovrò tornare a casa a mani
  vuote.

  La fanciulla fu commossa dalle parole di quel ragazzo che le pareva
  sincero, e pensò di aiutarlo.

  --Vieni,--disse,--ti darò un po' di brodo per riscaldarti.

  --Per me non importa, ma è per la mia mamma che voglio guadagnare
  qualche cosa.

  --Povero ragazzo!--pensò la fanciulla. Poi si rivolse a lui
  dicendogli:--Posso fidarmi di te? sei forte per portare un pacco sulla
  montagna nella cascina chiamata Colombara?

  --Se sono forte! Lo credo io! Mi dia questo pacco.

  --Ma potrai farlo? Non lo lascerai cadere lungo la via?

  --No, stia sicura; glie lo giuro!--disse mettendosi la manina sul
  petto.

  --Bada che è pesante.

  --Sono forte.

  --Ecco,--disse la ragazza consegnandogli un involto alquanto
  voluminoso;--vedi, è inutile, è più grande di te.

  --Non abbia timore,--disse Antonio. Prese un pezzo di legno che trovò
  in terra, si fece dare una corda e vi attaccò il pacco solidamente e
  se lo mise dietro le spalle.--Mi pare una piuma,--soggiunse,--domani
  ritornerò a vedere se ha altri pacchi da consegnarmi.

  --Bada di portarlo direttamente alla Colombara, ti daranno venticinque
  centesimi per la tua fatica; buon viaggio, procura di non
  sdrucciolare.

  --A rivederci domani,--disse Antonio tutto contento e saltellando
  sulla strada fangosa, come se andasse ad una festa.

  Il pacco era pesante, la salita faticosa, ma egli non sentiva nulla,
  nella sua felicità di poter fare qualche cosa ed essere utile alla
  mamma; pensava ch'egli aveva trovato una buona fata, e ormai l'ostessa
  l'avrebbe protetto. Aveva una faccia così buona quella ragazza che si
  teneva sicuro che non l'abbandonerebbe più, e saliva saliva la
  montagna con quei pensieri allegri, non sentendo nè il freddo, nè il
  disagio del cammino; eppure ci voleva circa un'ora per giungere a
  destinazione, e quando la montagna si faceva più erta egli sentiva il
  pacco farsi più pesante, ma era pieno di coraggio e andava avanti
  finchè giunse alla cascina, tutto sudato.

  Gli venne incontro una ragazza e gli chiese se avesse una lettera per
  lei.

  --Non m'hanno consegnato che questo pacco, ma domani ritorno in paese
  e domanderò se vi sono lettere per voi,--disse Antonio.

  --Ricordati,--le disse la fanciulla,--per ogni lettera che mi porterai
  ti darò un soldo, prendi intanto.---E gli diede i cinque soldi per il
  pacco ed un bicchiere di vino per giunta.

  Antonio discese la montagna canterellando, egli aveva un progetto con
  cui sperava di mantenere la sua mamma, e gli pareva già d'esser ricco.

  Giunse a casa allegro portando una bottiglia di latte e un po' di
  pane, comperato lungo la via.

  Trovò la mamma inquieta della sua lunga assenza.

  --Bisognerà bene che tu mi lasci andare se vuoi che guadagni da
  vivere; non sono più un bimbo io, e non c'è pericolo che mi perda.

  Essa si mostrò contenta del figliuolo, ma pensava sempre al suo
  Francesco che era lontano, e tutte le volte che Antonio ritornava dal
  villaggio, gli chiedeva ansiosa se avesse ricevuto lettera dal
  fratello.

  In pochi giorni Antonio era diventato il corriere della montagna.
  Aveva tanto pregato Rosa, la figlia dell'oste (ch'egli si ostinava a
  riguardare come la sua buona fata), che affidasse a lui tutti i pacchi
  e la corrispondenza della montagna, che malgrado la sua giovinezza
  glielo aveva accordato. Sempre però gli diceva:

  --Bada che non sia troppa fatica e troppa responsabilità per un
  ragazzo come te; se perdessi una lettera, guai! non ti darei più nulla
  e dovresti pagare la multa.

  Ma Antonio la rassicurava, e la supplicava di lasciare a lui
  quell'incarico, affinchè potesse guadagnare qualche soldo, per poter
  comperare il pane alla sua mamma.

  E così, ogni mattina, scendeva al villaggio, ed era tutto felice
  quando la diligenza portava tanti pacchi e tante lettere per gli
  abitanti della montagna, e bisognava vedere come si caricava, tanto
  che qualche volta la sua personcina scompariva sotto quella massa di
  roba; ma più ne aveva, più era contento, e girava la montagna per
  delle ore, finchè avesse tutto consegnato all'indirizzo preciso.

  Il ragazzo era ormai un amico per gli abitanti di quei casolari, che
  gli venivano incontro col sorriso sulle labbra, in attesa di notizie
  dei parenti lontani.

  La ragazza che abitava alla Colombara stava ad attenderlo sempre
  sull'uscio, nella speranza che le portasse qualche lettera del suo
  promesso sposo, ch'era soldato; essa lo faceva sempre entrare a
  riscaldarsi, e non mancava mai di dargli un bicchiere di vino o una
  ciotola di latte; gli faceva anche delle confidenze e gli raccontava
  quello che Enrico le scriveva, quando egli le portava una lettera.

  E Antonio le parlava di Francesco che era soldato anche lui, e le
  raccontava che aveva voluto andare a Massaua in un paese lontano
  lontano, dove si moriva dal caldo, ma per guadagnare di più; e ciò gli
  dava pensiero perchè le lettere tardavano a venire, e per non vedere
  inquieta la mamma dovea dirle che aveva avuto notizie, anche se non ne
  sapeva nulla.

  --Dille che Enrico mi scrive che sta bene,--gli diceva la
  ragazza,---sono soldati tutti e due, ed è naturale che essendo
  dell'istesso paese, si possano conoscere.

  E così Antonio diceva sempre alla mamma che Francesco stava bene;
  l'avea saputo alla Colombara.

  C'erano giorni che in paese non arrivava nulla e Antonio dovea
  tornarsene a casa tutto avvilito d'aver perduta la sua giornata.

  Ci fu un periodo di tempo che nevicava forte, e andar per quelle
  montagne era difficile e pericoloso.

  La Rosa lo consigliava di aspettare che il tempo si facesse migliore;
  ma egli non le dava retta, e quando c'era qualche cosa da portare,
  voleva andare lo stesso, a costo di arrivare a casa sfinito e
  assiderato.

  Dalle notizie che raccoglieva da quelli che avevano i parenti lontani,
  avea saputo che in Africa c'era stato un combattimento con morti e
  feriti, ed egli era in pensiero pel fratello che da tanto tempo non
  mandava notizie; anche la mamma era inquieta e per calmarla le diceva
  che Francesco faceva sapere col mezzo d'Enrico che stava bene e li
  salutava.

  Però quella vita cominciava ad esser troppo faticosa per lui, e quel
  dover tenere tutto chiuso in sè stesso, gli opprimeva il cuore,
  s'aggiunse che la malattia della mamma s'aggravò ed egli andava al
  villaggio coll'inquietudine di trovarla peggiorata, ritornando a casa
  la sera.

  Un giorno ebbe come una scossa quando trovò una lettera del sindaco
  che avea delle comunicazioni da fare alla sua mamma. Non disse nulla e
  andò tutto solo a sentire la ragione di quella chiamata.

  Quando il sindaco gli disse che l'aveva fatto chiamare per dirgli che
  suo fratello era morto a Dogali combattendo contro Ras Alula, egli non
  volea credere e stette là ad aspettare che gli dicesse d'aver fatto
  per celia, ma il sindaco gli confermò la tremenda notizia.

  --Consolati,--gli disse,--è morto da eroe, e certo gli daranno la
  medaglia.

  Ma che cosa gl'importava e la medaglia e che fosse morto da eroe, se
  non sarebbe ritornato, e non l'avrebbe più riveduto! E alla mamma come
  avrebbe potuto dare quella terribile notizia? No, non era possibile,
  piuttosto che dirglielo non sarebbe ritornato a casa.

  Infatti non disse nulla, ma gli pesava di dover continuare ad
  ingannarla; andò a consigliarsi colla sua amica alla Colombara, ed
  anch'essa lo esortò a non dir nulla alla mamma; era inutile
  affliggerla, poichè non aveva che pochi giorni di vita.

  Essa compiangeva il povero Antonio; ma quel giorno era contenta perchè
  le aveva portata una lettera nella quale Enrico le scriveva che
  sarebbe presto venuto in congedo.

  Essa regalò al suo amico tante cose da portare a casa; delle frutta,
  della farina e delle uova.

  --Prendi,--disse,--almeno che la tua mamma abbia da sostentarsi.

  Ma egli non pensava che al suo fratello morto e al segreto che dovea
  tenere in petto.

  Quando entrò in casa volle mostrarsi contento, ma aveva le lagrime
  agli occhi.

  --Perchè hai quella faccia?--gli disse la mamma.

  --Sono stanco, ecco.

  --E di Francesco non sai nulla?

  --Sta bene, me lo dissero alla Colombara.

  --Pure dovrebbe scrivere, io sono inquieta,--replicò la povera donna.

  Antonio non parlò più in tutta la giornata, e da quel momento avrebbe
  voluto star tutto il giorno fuori perchè la mamma non gli chiedesse di
  Francesco. E stava fuori infatti il maggior tempo possibile, e in casa
  non parlava mai; si era fatto chiuso e muto come una tomba.

  Anche la sua mamma era di cattivo umore, si lagnava sempre dei suoi
  mali, borbottava perchè egli non le raccontava più nulla e Francesco
  non scriveva.

  Ed egli continuava la sua vita faticosa, sempre in giro sulla
  montagna, carico di pacchi e di lettere, che portavano ora la gioia
  ora la tristezza nei tugurii di quei montanari.

  Un giorno, di ritorno dalle sue escursioni, trovò la mamma che si
  dibatteva in preda a violente convulsioni fra spasimi atroci; egli
  corse a chiamare il medico che tentò di calmarla, ma essa era uscita,
  avea saputo che suo figlio era morto ed era ritornata a casa in quello
  stato.

  Quando incominciò a rinvenire se la prese con Antonio che non le aveva
  detto nulla, e continuò a rimproverarlo dicendogli che non aveva cuore
  perchè le avea tenuto nascosto un fatto simile, e l'avea ingannata
  sulla sorte del suo figlio prediletto.

  Antonio, tutto confuso, non sapeva che cosa dire; ma la sua vita
  diventava più triste e più insopportabile e il suo lavoro più ingrato.

  Egli si sentiva la voglia di andarsene solo, lontano, per non sentir
  più quei rimproveri che sapeva di non meritare; ma poi pensava che
  senza di lui la sua mamma sarebbe morta di fame e rimaneva.

  Pochi ragazzi avrebbero avuto tanta pazienza di sopportare i
  rimproveri e le ire di quella donna, divenuta quasi pazza dal dolore;
  ma egli si rammentava le raccomandazioni di Francesco e continuava a
  lavorare per lei, a curarla quand'era ammalata ed a sopportare
  pazientemente le sue sfuriate.

  E quando un giorno la trovò morta nel suo letto e non lo sgridò più,
  egli si sentì un groppo alla gola e pianse d'esser rimasto solo al
  mondo.

  Egli continuò a girare quei monti, ma triste, senza parlar mai, con
  un'idea fissa nel capo: di andar soldato in Africa e di uccidere Ras
  Alula per vendicare il fratello.


Questa storia aveva interessato molto Carlo, il quale diceva che,
sebbene non avesse da vendicare nessuno, sarebbe andato anche lui
assieme ad Antonio in Africa, tanto per andare alla guerra.

E Mario alla vignetta che rappresentava Antonio che saliva la montagna
sepolto sotto una quantità di pacchi e d'involti, ne aggiunse
un'altra, che rappresentava Carlo, il quale, appena incontrato un
africano, fuggiva a gambe levate come se avesse veduto il diavolo.



LA FIERA.


La mattina, mentre Maria colle sorelle ed Angiolina attendevano alle
faccende domestiche, i ragazzi solevano fare una passeggiata fino al
villaggio.

Un giorno ritornarono tutti animati, allegri, raccontando che nei
giorni seguenti ci doveva essere la fiera del villaggio: avevano letti
gli avvisi che promettevano feste, fuochi e luminarie: poi in piazza
incominciavano già a piantar banchi, baracche, per mostrare fenomeni
viventi, un teatro di burattini, una giostra e tante altre cose;
doveva proprio essere una vera baldoria, ed essi erano contenti
pensando di approfittare di tutti quei divertimenti.

Maria disse chiaro e tondo che non li avrebbe lasciati andare a
divertirsi se prima non avessero dedicato qualche ora allo studio,
perchè ci doveva esser tempo per tutto e che non pensassero di
starsene in piazza tutto il giorno.

Carlo ed Elisa non volevano intendere quelle ragioni, e replicarono
che durante la fiera volevano far festa, come tutti quelli del
villaggio, e facevano progetti di divertirsi, d'assistere a quegli
spettacoli, e già, prima del tempo, cominciavano a distogliere la
mente dallo studio. Maria con quei due ragazzi pigri ed insubordinati
si sentiva scoraggiata e avvilita nella sua impotenza di renderli
ubbidienti.

Guai se gli altri non l'avessero compensata delle sue fatiche colla
loro dolcezza di carattere e colla loro ubbidienza! Specialmente
Giannina la rendeva contenta cercando d'imitare l'Angiolina, la quale
era una perfetta massaia e una ragazza ben educata e piena di cuore.

Maria era sempre più contenta d'aver invitata l'Angiolina, perchè
colla sua operosità dava il buon esempio alle altre. Essa la mattina
si alzava prima di tutti, e dopo aver dato aria alla camera ed essersi
lavata e pettinata, rifaceva il suo letto ed anche quello di Elisa, la
quale non finiva mai di star allo specchio a ravviarsi i capelli, e
non le parea vero d'avere un'amica che facesse anche la sua parte di
lavoro.

--Come sei buona!--le diceva,--ma che non sappia Maria che sei tu
quella che metti in ordine la camera, altrimenti mi sgrida.

--Mi piace tanto, mi fa tanto bene questo moto, diceva l'Angiola; e
intanto andava di qua e di là a spolverare i mobili, e quando aveva
finito scendeva per dare una mano a Maria e alla donna di servizio.

Poi si mettevano tutte a lavorare, e quel giorno appunto dovevano
terminare di orlare delle lenzuola, e ci si misero tutte e tre con
molta assiduità per restare libere pei giorni di fiera. Angiolina
rimpiangeva la macchina da cucire della sua mamma, ma la Maria diceva
che aveva piacere che le sorelle s'avvezzassero a cucire a mano;
esercitavano così la pazienza, stavano tranquille e potevano
chiacchierare.

--Le macchine,--disse,--vanno bene quando c'è fretta, ma forse sono
una delle ragioni per cui le donne al giorno d'oggi sono tanto
nervose, non dico per te, Angiolina che sei un'eccezione; ma mi pare
più sano raccogliersi intorno al tavolino e stare assieme a
discorrere. Guardate come sta bene Giannina, orlando il suo
fazzoletto.--Infatti quella bimba lavorava con una grazia che faceva
venir voglia di baciarla.

Mario si annoiava quando le ragazze lavoravano, e andava a tirar loro
le trecce e non le lasciava un momento in pace.

--Bada che domani non ti conduco alla fiera,--disse Maria,--se non
stai tranquillo.

--M'annoio,--disse Mario.

--Fa qualche cosa.

--La vostra caricatura, allora.

--Quello che vuoi, basta che ci lasci quiete.

Ma mentre le ragazze facevano andar l'ago sulla tela colla massima
rapidità, i ragazzi erano distratti e continuavano a parlare dei
divertimenti che avrebbero goduto il giorno appresso.

Mario tutt'a un tratto nel temperare la matita si tagliò un dito, e
andò da Maria pallido per lo spavento.

--Non è nulla,--disse la fanciulla, e legò con un fazzoletto il dito
tagliato. Andò poi a prendere nell'armadio la cassetta della farmacia,
ne tolse cotone e pezzuole fenicate, e con queste, legò stretto il
dito del fratello raccomandandogli di star tranquillo e di star più
attento un'altra volta.

L'Angiolina le chiese perchè adoperasse quelle pezzuole che puzzavano,
invece di un semplice pezzo di tela. Allora Maria spiegò come è sempre
più prudente di fasciare una ferita con roba disinfettata.

--Vedi,--disse,--noi siamo circondati da microbi, cioè da animali
invisibili che se penetrano nell'organismo ci possono avvelenare il
sangue e farci molto male. Quando la pelle è tagliata, è come se ci
fosse una porta aperta per lasciarli entrare; sicchè è sempre meglio
adoperare sostanze che riescono loro nocive.

Angiolina stava ad ascoltarla a bocca aperta; poi dopo aver pensato un
momento, disse:

--Ma quella volta che la mamma si ferì la mano colla macchina da
cucire, se io l'avessi fasciata come il dito di Mario, non le sarebbe
venuta la risipola?

--Probabilmente no,--rispose Maria,--perchè quello è un male che viene
spesso da infezione del sangue.

--Pensare che s'io avessi saputo queste cose la mamma non avrebbe
sofferto tanto! Ma m'insegnerà, non è vero, tutto quello che sa di
medicina?--disse rivolgendosi a Maria.

--Volentieri. Prenderai degli appunti, come ho fatto io stessa, e come
desidero che facciano anche le mie sorelle; nella vita non si sa mai
quello che può accadere, ed è una grande soddisfazione prevenire i
mali che possono venire ad una persona di famiglia e saperli curar
bene.

--Ma dimmi, una volta non c'erano questi microbi?--chiese Giannina.

--C'erano,--rispose Maria,--ma nessuno lo sapeva, perchè non si
potevano vedere; fu l'invenzione dei microscopii potenti, che fece
scoprire tutto un mondo invisibile, e fu l'ingegno di grandi
scienziati che a furia di studii e d'esperienze riuscì qualche volta a
trovar il modo di combattere questi nemici. Un tempo quando uno era
ferito gravemente, gli si faceva un'operazione chirurgica, e la morte
era molto probabile: ora invece coi nuovi sistemi questo pericolo è
molto diminuito.

Angiolina stava attenta a quei discorsi come se si trattasse di un
racconto fantastico.

--Come è bella la scienza e quanto mi piacerebbe studiarla! Ma mi
dica, se non si hanno alla mano dei disinfettanti, come si fa?

--Si può sempre lavar la ferita coll'acqua bollita, perchè ad un certo
grado di calore tutti i microbi muoiono e l'acqua bollita è già
disinfettata.

Mario, che era pauroso e sentiva dolore nella ferita, era tutto
pallido e temeva di aver qualche microbo; la sorella lo rassicurò, ma
volle cambiare discorso, promettendo ad Angioina di darle una lezione
di medicina domestica in seguito, tranquillamente, dopo finito il
chiasso della fiera.



_LETTERA DI ANGIOLA ALLA SIGNORA MERLI.

    Cara mamma.

    Come sei stata buona a lasciarmi venire in campagna colla signora
    Morandi! Quanto mi diverto! E quante cose avrò da raccontarti al mio
    ritorno.

    Da tre giorni siamo in piena baldoria, c'è la fiera in paese e ci
    siamo dati tutti alla pazza gioia.

    Però oggi la signorina Maria volle che si rimanesse in casa a
    raccogliere le nostre idee, e per non restare oziosi ci disse di
    scrivere le nostre impressioni sulla fiera del paese.

    È una specie di gara, per vedere chi di noi scrive meglio, e questa
    sera il professar Damiati giudicherà, e classificherà i nostri
    componimenti.

    Io approfitto subito di questa giornata di tranquillità, e sono felice
    di aver tempo di scriverti; ma Carlo quando seppe che oggi si stava a
    casa, ha fatto il muso, l'Elisa andò di malavoglia a prendere i suoi
    quaderni, e sento Mario, nella stanza vicina, irrequieto, che s'alza
    ogni momento per correre alla finestra ad ogni più piccolo rumore che
    vien dalla strada.

    --Ma mi accorgo che anche la mia signora figlia si perde in
    divagazioni inutili,--mi par di sentirti dire.

    Hai ragione, mammina mia, ed ecco che torno all'argomento.

    T'assicuro che la vita di questi giorni pare un sogno. Il nostro
    villaggio non è più riconoscibile.

    Nella piazza quasi sempre spopolata e tranquilla, tanto che quando
    passavamo per andare alla messa o alla posta, non s'incontrava che
    qualche donna colle secchie la quale andava ad attingere l'acqua alla
    fontana, o qualche contadino colla gerla sulle spalle, c'è un
    frastuono indiavolato, intorno alla chiesa sono collocati dei banchi
    colle tende bianche, e sui banchi una quantità di oggetti variopinti e
    luccicanti, che si vendono per quarantanove centesimi, e una folla di
    contadine vestite da festa, alcune venute dalle montagne, nei loro
    costumi tradizionali, colle camicette bianche ricamate, i corpetti di
    velluto, la vita corta, e le vesti di panno con bordure rosse, che
    guardano cogli occhi meravigliati, tutta quella roba, incerte su
    quello che devono comperare; poi banchi pieni di dolci e frutta, e in
    terra mucchi di stoffe variopinte, poi delle altre distese sui muri, e
    i venditori che gridano da assordare, e una folla che non lascia
    passare se non a forza di spintoni.

    La parte più interessante dello spettacolo è sul prato dietro la
    chiesa, dove c'è una giostra che è il gran divertimento dei ragazzi,
    poi il teatro delle scimmie, che mi ha tanto divertito, ed è molto
    buffo. Pensa, delle scimmie vestite da gran dame, coi cappellini
    piumati, e i vestiti guarniti di gale, che fanno delle scene buffe e
    graziose.

    Ce n'è una che mi piace tanto; si mette il cappellino davanti allo
    specchio, come si potrebbe far noi, si guarda con compiacenza, poi
    quando un'altra scimmia vestita da cameriera, le dice che la carrozza
    è pronta, sale in carrozza,--una carrozzella colle ruote dorate, e
    tirata da due cani bardati con molta eleganza,--si sdraia, sui cuscini
    con grande sussiego, tenendo colla mano l'occhialino, e di tanto in
    tanto facendosi vento con un gran ventaglio.

    Il cocchiere e lo staffiere sono due scimmie vestite di azzurro, coi
    cappelli a cilindro, coi galloni d'oro, e anch'esse stanno sedute a
    cassetta, così impettite e serie come la loro padrona.

    Quando la carrozza ha fatta due o tre giri sul palcoscenico, la
    signora scende, e si fa portare da mangiare; pare che le vivande non
    siano di suo aggradimento, perchè va sulle furie, e getta il piatto in
    faccia al cameriere, e irritata sbattendo il ventaglio, salta in
    carrozza, e via senza salutare nessuno. Se sapessi quanto ci ha fatto
    ridere! ti assicuro che non ne potevo più.

    Fuori, sul prato, abbiamo assistito ad un altro spettacolo. Una
    compagnia di saltimbanchi avea steso un tappeto, tirata una corda, e
    facevano salti ed esercizii ginnastici.

    C'era una bimba, tanto carina, che l'avrei mangiata coi baci. Avea una
    bella faccia bianca, coi capelli biondi come l'oro, e degli occhi
    dolci e buoni, tanto che mi pareva, una piccola fata; essa mi faceva
    compassione così vestita, succinta con un piccolo gonnellino a
    pagliuzze d'argento. Ballava sulla corda con molta grazia, e tutti
    andavano pazzi per lei; però anch'essa si diverte, ed è tutta felice
    quando le battono le mani.

    La chiamano _polentina_, e il pubblico non è mai sazio di vederla,
    tanto che quando ha terminato i suoi giochi, si sente gridare da tutte
    le parti:

    --Ancora, ancora, Polentina,--e lei, quantunque stanca, e rossa
    infocata, riprende i suoi esercizii allegra e sorridente.

    Benchè essa sembri contenta della sua sorte, io la compiango; e quando
    ho veduto la sua casa, ho pensato quanto io sia felice d'avere una
    mamma come te, che pensa a farmi star bene, e degli amici come i
    Morandi che mi fanno tanto divertire.

    Se vedessi la casa di _Polentina_!

    È un carro coperto di tela, dove dorme assieme al suo babbo, che suona
    la gran cassa; alla sua mamma, che dice la buona ventura, vestita da
    zingara, e ad uno scimmiotto.

    In quel carro dormono, fanno da mangiare, e si portano da un paese
    all'altro, dove vanno a ripetere sempre i medesimi giuochi.

    Povera gente! Eppure non si mostrano malcontenti della loro sorte.

    Mi sono anche molto divertita a vedere la cuccagna, ch'era una cosa
    nuova per me.

    Tu, sai già di che cosa si tratta: è un albero alto alto, liscio, dove
    in cima sono attaccate tante buone e belle cose, che i contadini
    devono conquistare, arrampicandosi lassù, a furia di braccia e di
    ginocchi, ciò che riesce abbastanza difficile, perchè quell'antenna è
    tutta insaponata e sdrucciolevole.

    Se avessi veduto quanti ragazzi tentavano quella salita, e poi non
    erano ancora a mezza strada che scendevano giù sdruccioloni, fra le
    risate e i motteggi di tutta la popolazione.

    Finalmente, dopo molti tentativi inutili, uno riuscì ad arrivare in
    cima, poi un altro, poi un altro ancora. Bisognava sentire che
    applausi e che grida da tutte le parti!

    Come erano contenti quei ragazzi, che scendevano carichi dei trofei
    della vittoria.

    Erano polli, salsicciotti, sciarpe colorate, e anche dei borsellini
    con qualche moneta.

    Don Vincenzo, ch'era vicino a noi, e che se la godeva come un bambino,
    diceva che in questo gioco c'è la sua moralità: prima è un esercizio
    ginnastico, poi mostra che non si giunge alla meta senza fatica.

    Più tardi, ci dovevano essere i fuochi d'artifizio; i ragazzi volevano
    aspettarli, ma la signorina Maria non volle, perchè dice che di notte,
    in mezzo alla folla, sono pericolosi; una volta essa vide un fanciullo
    sfigurato, per esser stato colto da un razzo in mezzo alla faccia;
    dunque non metteva conto per un piccolo divertimento, esporsi ad un
    pericolo anche lontano, ed ho trovato che aveva ragione.

    Se sapessi che buona ragazza, è la signorina Maria! Ho imparato da lei
    tante cose, in questi pochi giorni, più che se fossi andata a scuola;
    essa sa tutto: sa curare gli ammalati, fasciare le ferite, fa dei
    buoni dolci, e poi ha scritto dei racconti, che ci legge qualche
    volta, ed è per me una vera festa il sentirli.

    Se una buona fata mi domandasse di esprimere un desiderio, ti assicuro
    che non chiederei, come farebbe l'Elisa, gli equipaggi e i vestiti
    eleganti della signorina Guerini, nè di essere un famoso pittore, come
    vorrebbe Mario, o un eroe come Carlo; ma le chiederei di farmi
    rassomigliare a Maria.

    Spero che quando saranno ritornati in città, mi lascerai andar spesso
    in casa Morandi; sarà il mio più grande divertimento, ed io studierò,
    e sarò buona per meritarmelo.

    Addio, mammina, abbraccia il babbo, e sta sicura che per quanto io mi
    trovi qui assai bene, pure sono impaziente di abbracciarti._

                La tua ANGIOLINA.

    P.S. _Prima di spedirti la lettera ti racconto l'esito della nostra
    gara.

    Alla presenza del professore Damiati si diede lettura dei nostri
    scritti.

    Quello di Vittorio, e quello della tua figlia furono giudicati i
    migliori.

    Carlo ed Elisa erano troppo distratti per poter far bene.

    Mario mostrò un foglio di disegni che fecero rider tutti.

    Rappresentavano il teatro delle scimmie, e le scimmie eravamo noi:
    Elisa che voleva imitare la signorina Guerini, Carlo il ragazzo
    Guerini, io la Maria, la Giannina volea imitar me; insomma tutti
    scimmie, e sopra scrisse: Impressioni della fiera.

    Veramente nel programma non c'era un cómpito di disegno, ma si rise e
    glielo hanno passato per buono.

    Mi sono dimenticata nella mia descrizione di parlarti di un ciarlatano
    che ci fece molto divertire, e siccome Vittorio lo descrisse nel suo
    componimento, così te lo mando perchè tu ti possa formare un'idea
    esatta del modo con cui abbiamo passato questi giorni. Addio, e un bel
    bacio._



RICORDI DELLA FIERA (_dal taccuino di Vittorio_)


IL CIARLATANO.

Dove sono? Chi fu il mago che ha trasformato il mio villaggio? Forse
siamo di carnevale? Che frastuono! Che baraonda! Ma è pur bella
qualche volta un po' di confusione!

Ed io godo in questi giorni di fiera appunto perchè durano poco.

Mio Dio, che strepito!

--Signorine, vengano a comperare! novantanove centesimi al pezzo,
guardino che bella roba.

--Della tela bellissima, dei fazzoletti, tutto a buon mercato; avanti
avanti, signori!

--Il teatro delle scimmie, le sette meraviglie del mondo! il cosmorama
pittorico! entrino, signori, che resteranno sorpresi!--E simili grida
da tutte le parti, tanto che mia sorella ha tutte le ragioni di dire
che ha la testa grossa come un pallone.

--Taratatà taratatà, che cos'è questo rumore che viene laggiù dalla
strada maestra? Si vede un nuvolo di polvere, s'ode uno scalpitìo di
cavalli, tutti tacciono per un momento e si domandano:

--Che cosa sarà?

Le trombe squillano più forte, la massa nera s'avvicina, e già si
distinguono quattro cavalli bianchi attaccati ad un cocchio alto e
maestoso.

Vengono a gran carriera, son già vicini alla piazza.

--Largo largo, indietro, eh op, eh op.

La folla si restringe, si pigia, e il cocchio passa a mala pena in
mezzo a quel mare di teste e s'arresta nel centro della piazza.

Un uomo di mezza età, colla barba brizzolata, d'aspetto abbastanza
simpatico, sale sul seggio davanti, il quale è tutto ricoperto di
velluto rosso, e si rivolge a tutta quella folla, intenta ad
ascoltarlo.

Parla bene, con voce sonora, dice di chiamarsi Rocco Lavarione, d'aver
studiato all'università, viaggiato mezzo mondo e conclude che possiede
una polvere miracolosa che guarisce tutti i mali, ed invita quella
gente a farsi avanti per comprarsela.

Il professore Damiati dice che è uno dei soliti ciarlatani; però io
non mi sarei mai figurato un ciarlatano dall'aspetto così
rispettabile.

«Venite venite,--intanto egli continua dall'alto del suo cocchio,--io
non sono un ciarlatano, quello che dico è la pura verità, comperate la
mia polvere, se non avrà la virtù ch'io vi prometto me la renderete,
ed io vi restituirò il vostro danaro; posso parlar meglio di così?
vedete che non arrischiate nulla.»

Tutta quella popolazione, rimasta incerta fino a quel momento,
incomincia a scuotersi; già una donna si avvicina, sale sul cocchio e
domanda la polvere, che le viene subito data per una lira; un'altra
segue il suo esempio; un giovanotto dice di avere un dolore sulla
faccia, e Rocco Lavarione gli fa una fregagione colla sua polvere, e
poi gli chiede:

--E il dolore non lo sentite più?

Il ragazzo dice di no e se ne va tutto contento.

Incomincia il pigia pigia della gente intorno alla carrozza; tutti
stendono le mani per chiedere la polvere miracolosa.

Rocco Lavarione e il suo domestico non hanno braccia bastanti per
appagar tutti; le lire piovono nel vassoio, s'accumulano in un
momento. E tutta quella gente se ne va contenta col pacchetto di
polvere in mano, sorridente come se portasse a casa un tesoro.

Vicino a noi c'è un gruppo di villeggianti che vorrebbero persuadere
quei contadini che è un inganno, ma essi non credono e continuano ad
affollarsi intorno al cocchio di Rocco Lavarione.

Se si mette in dubbio l'efficacia di quella polvere essi ci guardano
con occhi feroci; e infatti perchè togliere loro la fede e la
speranza?

L'idea di possedere un farmaco che guarirà i loro mali, non è già una
felicità?

Il professore presso di noi dice che il popolo è come un fanciullo che
vuole il meraviglioso.

Al medico del villaggio, che si presenta come qualunque altra persona
e che pure ha studiato, non credono, ed invece hanno fede in
quell'uomo che parla come un oracolo, dall'alto della sua carrozza.

Io vorrei comperare un pacchetto di polvere per sapere di che cosa è
composta, ma mia sorella non vuole; lo fa invece un mio vicino, il
quale dal vestito si capisce che non è un contadino.

Al vedere quel signore ben vestito che s'avanza verso Rocco Lavarione,
si fanno arditi anche i più timidi; e coloro che se ne stavano
incerti, tutti s'avanzano a far ressa intorno al cocchio; i danari
piovono, i pacchetti sfumano e Rocco Lavarione sorride contento, e
quando vede diradarsi la folla, mette il danaro in un sacco di pelle,
fa sferzare i cavalli, e via di corsa, aprendosi un varco in mezzo
alla gente che lo segue cogli occhi, mentre egli si dilegua in
lontananza, come una visione fantastica. I venditori ricominciano ad
offrire la loro merce; si sente la gran cassa richiamare gli
spettatori nel teatro delle scimmie, e noi restiamo a discutere se sia
permesso approfittare della credulità della gente per intascare danaro
come fa Rocco Lavarione.

Taluno dice che non si dovrebbe permettere; altri invece gli danno
ragione di far così, finchè vi sono gonzi che si lasciano pigliare.
Uno racconta la storia di quell'uomo, e narra che una volta era un
povero diavolo che aveva anche studiato per far il dottore, ma non era
riuscito a conseguire la laurea, avea cercato un impiego inutilmente e
stava quasi per morire di fame, quando gli venne l'idea della sua
polvere, che se non ha la virtù che egli le attribuisce, è composta di
erbe aromatiche polverizzate e non è nociva.

--Infine ha diritto di vivere anche lui,--soggiunge,--e se la gente si
lascia ingannare, suo danno.

In tutta la giornata non si fece che pensare a quello spettacolo, ed
io me ne tornai dalla fiera con una grande compassione per tutta
quella gente credula, così felice dell'acquisto fatto, e per Rocco
Lavarione, che era un ciarlatano per quanto sostenesse di non esserlo,
e in quello stesso momento mi pareva di vederlo felice intorno ad una
tavola ben guernita, mangiando il suo pranzo, tutto allegro del danaro
guadagnato, e mi domandavo se la sua baldoria durerà molto tempo; ma
mi persuadevo che durerà fintanto che al mondo vi saranno dei gonzi,
cioè ancora per un bel numero d'anni.



TOM E FRIDA.


Quella sera, dopo che i ragazzi ebbero terminato di leggere i loro
componimenti, vollero che Maria leggesse uno dei suoi racconti. Non
era giusto che essa non prendesse parte alla gara dei suoi fratelli.

--Già che lo volete, ne leggerò uno volentieri, ed anche d'un
argomento che ha qualche analogia coi divertimenti di questi giorni,
ma il mio, sarà fuori di concorso.

--In quanto a questo, le decretiamo subito il primo premio, e credo
che nessuno se ne lagnerà,--disse il professore Damiati.

--Benissimo!--esclamarono gli altri applaudendo,--ed ora sentiamo
questo racconto.

--Ed io rinuncio ad illustrarlo,--disse Mario,--mi sono stancato
troppo colla mia composizione.

Maria aveva già cercato nella sua cartella il racconto che avea
promesso di leggere ed incominciò.


  Tom e Frida erano fratello e sorella, e non sapevano in qual modo si
  fossero trovati a far parte del circo equestre diretto dai signori
  Harris, nè perchè li chiamassero con quei nomi esotici, essi che erano
  nati sotto il bel cielo d'Italia.

  Tom era maggiore di Frida di quattro anni, e aveva soltanto un vago
  ricordo della sua infanzia.

  Si rammentava, come in sogno, un bel paese illuminato dal sole, dove
  stava tutto il giorno all'aria aperta, in mezzo al profumo dei fiori,
  allegro e felice; poi una notte mentre dormiva nel medesimo lettuccio
  con Frida, si ricordava d'aver sentito tremare la casa, poi un rombo,
  un grido, e avea visto il palco della camera abbassarsi in modo che
  poteva toccarlo colle sue manine, e tanti sassi, tanta polvere, da
  rimanere accecati, poi più nulla.

  Qualche tempo dopo si era trovato nel circo del signor Harris, assieme
  ai cani sapienti, alle scimmie ammaestrate ed ai cavalli addestrati
  all'alta scuola.

  Aveva sentito parlare d'esser stato salvato colla sorella quasi per
  miracolo al tempo del terremoto di Casamicciola, perchè la trave della
  sua stanza avea formato come un arco sopra il letto, impedendo alle
  macerie di schiacciarlo assieme alla sorella.

  Essendo rimasti soli al mondo, la signora Harris era stata così buona
  da accoglierli nel suo circo, per educarli all'alta scuola come i suoi
  cavalli.

  Infatti ogni giorno c'erano parecchie ore di lezione. Tom doveva
  imparare varii esercizii ginnastici, e di equilibrio: poi, fare i
  salti mortali e montare i cavalli più indomiti.

  Egli avrebbe preferito fare qualche altra cosa; ma era agile e forte,
  e si prestava abbastanza volentieri a quegli esercizii, che imparava
  colla massima facilità; invece Frida, gracile e delicata, si rifiutava
  spesso di ubbidire alla signora Harris, e allora erano colpi di frusta
  che scendevano sulle sue spalle delicate, perchè la padrona voleva
  adoperare il medesimo sistema colle persone, e coi suoi cavalli.

  Tom fremeva quando facevano piangere la sua sorellina, e una volta che
  le fece scudo colla propria persona s'ebbe una scudisciata così forte,
  da dover rinunciare alla volontà di difenderla.

  Essi vivevano uniti, tenendosi abbracciati, o giocando assieme, e
  quasi estranei a tutto quel mondo di bestie e d'uomini peggiori delle
  bestie, che viveva intorno a loro. Ogni volta che venivano chiamati
  per gli esercizii, Frida piangeva, e nascondendo la sua testina sulle
  spalle del fratello diceva:--Non voglio.--

  Egli proponeva di far doppio lavoro, anzi di fare le parti di Frida,
  purchè la lasciassero in pace; ma la signora Harris diceva che nessuno
  della compagnia doveva mangiare il pane a tradimento, e se Frida non
  era buona di lavorare da sè sola, doveva rassegnarsi a fare gli
  esercizii assieme cogli altri.

  La bimba pesava poco, ed era molto utile nelle piramidi umane dove il
  suo posto doveva esser sempre su in cima; tremava come una foglia
  dalla paura, quando la signora Harris faceva gli esercizii sul cavallo
  e la tenea ritta in piedi sulle spalle mentre il cavallo galoppava
  colla massima celerità.

  Mandava allora dei piccoli gridi; credeva di morire, e l'Harris le
  dava dei pizzicotti nelle gambe per farla tacere.

  Soltanto quando faceva qualche esercizio assieme al fratello non si
  ribellava; egli la prendeva delicatamente, si sdraiava in terra e poi
  colle gambe in aria, i piedini di lei appoggiati sui suoi, girava
  intorno come una ruota, e quand'era stanca apriva le braccia, ed essa
  spiccava un salto e cadeva in grembo a lui con tanta grazia che tutti
  applaudivano.

  --Quando sono con te mi sento sicura,--diceva Frida;--ma quando sono
  presa da quelle manacce, mi vien freddo e mi par di morire.

  Tom, nella speranza di render i suoi padroni più buoni colla sorella,
  imparava sempre nuovi giuochi: era riuscito a salire e scendere sopra
  un piano inclinato, con una gran palla sotto i piedi, a fare il doppio
  salto mortale sul cavallo in moto, a correre col velocipede sopra un
  filo di ferro, mostrando una destrezza ed un coraggio straordinarii in
  un fanciullo di dodici anni; ma queste cose, invece di giovare,
  recavano danno a Frida, perchè i coniugi Harris, avidi solo di
  guadagno, diventavano più esigenti colla fanciulla, che volevano
  seguisse l'esempio del fratello. Ogni giorno le insegnavano qualche
  nuovo gioco, ed essa piangeva sempre, che era proprio una compassione.

  Si può dire che gli Harris, i loro quattro figliuoli e Tom e Frida,
  unitamente a quattro cani, due scimmie e quattro cavalli, formassero
  il nucleo della compagnia stabile; poi si scritturavano ogni tanto,
  per qualche sera, degli artisti avventizii, che erano ora qualche
  fenomeno vivente, ora dei ginnasti famosi, oppure degli animali
  sapienti.

  Una volta si trovavano in una città di provincia dell'Italia
  settentrionale, quando si unirono a loro due ginnasti, che facevano
  delle cose meravigliose, restando appesi solo coi piedi a due trapezii
  collocati in alto sotto alla vôlta del teatro. Erano giuochi da
  mettere i brividi, pensando al pericolo di una caduta che poteva
  riuscire pericolosissima, benchè sotto ci fosse una rete per ammortire
  il colpo.

  Quando questi ginnasti, i quali erano marito e moglie, videro Frida,
  dissero:

  --Quanto è leggera! Pare una palla, che bei giuochi si potrebbero fare
  con questa bimba!--

  --Prendetela,--dissero gli Harris,--e fatela lavorare, con noi non fa
  quasi nulla.

  Essi furono contenti, e un giorno la condussero su, in alto, dove
  c'erano i trapezii; la bimba piangeva, ma la fecero tacere a furia di
  busse.--Avanti, marmotta,--le dicevano quando essa non voleva salire
  le scale malsicure, che univano la rete ai trapezii.

  Una volta in alto, la donna prese in braccio la bimba e si lasciò
  cadere colla testa in giù tenendosi coi piedi attaccata al trapezio;
  il marito dall'altro trapezio nella stessa posizione, aspettava colle
  braccia aperte, e a quell'altezza incominciarono a gettarsi la bambina
  come se fosse una palla; essa strillava, ma non le davano retta. Tom
  era in teatro cogli occhi in alto per non perder nulla di quella
  scena, e fremeva di sentirsi impotente a liberare la sorella da quel
  supplizio.

  --Va benissimo,--esclamarono gli acrobati,--questa sera faremo il
  giuoco che sarà di un bellissimo effetto, e tu bada di non
  piangere,--dissero a Frida,--se apri bocca, guai a te!

  Tom pregava che la lasciassero in pace, ma nessuno gli badava, e la
  sera Frida fu costretta a prender parte ai giochi della coppia
  volante.

  Il teatro era pieno di spettatori, le signore tremavano per la povera
  piccina, quando la videro lassù sotto la vôlta del teatro gettata come
  una palla; ma era un'emozione mai provata, un gioco nuovo e
  applaudivano calorosamente, tanto che dovettero ripetere il gioco, e
  la coppia degli acrobati era trionfante.

  Ogni sera, quand'era il momento della rappresentazione, Frida usciva
  tremante e Tom stava ad osservare tutti i suoi movimenti, non
  staccando gli occhi da lei, e quando la vedeva scendere, le correva
  incontro, la prendeva fra le braccia e la portava via.

  --Basta,--diceva la bimba piangendo e tutta ansante,--non voglio più,
  mi fa troppo male.

  --Anche a me fa male--diceva Tom--vederti lassù; potessi andar io in
  tua vece, come sarei contento!

  --No, no, non dirlo, vengono le vertigini, par di vedere una buca
  profonda colla bocca aperta per ingoiarci; è terribile.

  Una sera tutti erano al solito posto, i due ginnasti salirono le scale
  di corda trascinandosi dietro Frida che aveva gli occhi pieni di
  lagrime; aveva detto di non sentirsi bene, di avere un forte mal di
  capo, ma l'esercizio era annunciato nel programma e bisognava
  eseguirlo.

  I due coniugi incominciarono le loro evoluzioni, mentre la bimba
  riposava, seduta sopra un trapezio, tenendo in mano una corda.

  --Andiamo, a noi,--disse la donna, aprendo le braccia per pigliare
  Frida.

  Essa si lasciò andare, come corpo inerte, e incominciarono il solito
  gioco, mandandosela da una mano all'altra come una palla, ad un certo
  punto essa ebbe una specie di vertigine, perdette i sentimenti,
  sgusciò di mano alla donna e andò a cadere a capo fitto nella rete.

  Un gemito partì dal petto della bimba, un altro dagli spettatori, e un
  grido da Tom, il quale tutto tremante s'arrampicò sulle corde che
  scendevano dall'alto, e lesto come un gatto andò nella rete, prese fra
  le braccia Frida e la portò giù.

  Essa sentendosi nelle braccia del suo amico aperse gli occhi.

  --Ti sei fatta male?--disse Tom.

  --Sono tutta stordita,--rispose la fanciulla.

  Appena fu scesa, il signor Harris le si avvicinò e volle che
  camminasse.

  --Non posso,--disse Frida.

  --Un momento solo, devi uscire e mostrare che sei viva;--così dicendo
  la strappò dalle mani di Tom e la spinse in mezzo al circo, dove la
  piccina fu salutata da un applauso.

  Tom li raggiunse con un salto, riprese la sorella fra le braccia, e la
  condusse via mandando ad Harris un'occhiata feroce.

  --Non voglio più fare quell'esercizio,--disse Frida.

  --Non temere, appena potrai reggere alla fatica, andremo via, lontano
  da qui; io farò di tutto piuttosto che sopportare questo supplizio.

  --Sì, andiamo presto,--disse la bimba.

  --Ancora non sei forte abbastanza.

  --Con te posso andare fino alla fine del mondo, non ho paura.

  Una notte mentre tutti dormivano, Tom e Frida zitti, zitti, uscirono,
  prima dagli alloggi della compagnia, e poi dalle porte della città, si
  misero a correre per potersi trovare il giorno dopo molto lontani dai
  loro aguzzini. Però ad un certo punto Frida rallentò il passo.

  --Sei stanca?--disse Tom.

  --Non è nulla, andiamo avanti.

  Ma venne il momento che la bimba non si sentì più la forza di
  proseguire.

  Tom la prese in braccio, e così fece ancora qualche chilometro, tanto
  per mettere maggior distanza fra sè e gli Harris.

  L'aria della notte e la lunga strada aveva aguzzato il loro appetito e
  non avevano un soldo in tasca per comprarsi del pane.

  Fu quello il primo momento in cui Tom si trovò seriamente
  impensierito, nel dubbio di aver salvato la sorella da un pericolo,
  per poi farla morire di fame.

  Cominciava appena ad albeggiare, e le strade erano deserte.

  --Entriamo qui,--disse Tom trovando una cascina aperta, di quelle che
  si trovano in mezzo ai boschi e servono ai boscaiuoli per riporvi gli
  arnesi del lavoro,--quando sarà giorno andremo laggiù dove si vedono
  quelle case, e domanderemo del pane.

  Sdraiati sulla paglia si addormentarono, e si svegliarono quando il
  sole era già alto sull'orizzonte. Tom incominciò a temere d'essere
  inseguito dagli Harris, e si mise a correre con Frida attraverso il
  bosco finchè giunse al villaggio nel pomeriggio.

  Avevano fame; ma Tom non ebbe coraggio di chiedere l'elemosina e pensò
  di guadagnarsi qualche soldo facendo qualcuno dei suoi giochi.

  Egli s'era portato in un sacco i suoi arnesi, e là, in mezzo alla
  piazza sulla nuda terra incominciò a far salti, capriole, giocò con
  delle palle e dei piatti, tanto per divertire quella gente, mentre si
  sentiva stanco e affranto dalla fatica. Guadagnò qualche soldo che
  valse a fargli proseguire la via e continuò così per parecchi giorni,
  conducendo la sua sorellina, soffermandosi quand'era stanca, facendo i
  suoi giochi quando aveva fame, e temendo sempre d'essere scoperto ed
  inseguito dagli Harris.

  Un giorno lesse nei giornali che gli Harris offrivano un premio a chi
  scoprisse il luogo dove dovevano esser nascosti due ginnasti della
  compagnia, che erano fuggiti rubando degli attrezzi di proprietà dei
  signori Harris.

  Tom si sentì i brividi al leggere quelle parole, e come gli facessero
  una colpa d'aver portato con sè gli attrezzi ch'egli adoperava sempre,
  e che avea pagati cento volte col suo lavoro; e lo colse tanta paura
  d'essere preso, che da quel momento pensò di andare lontano, lontano,
  dove non sentisse mai più parlare degli Harris, che gli avevano fatto
  tanto male.

  Incominciò a camminare giorno e notte senza fermarsi; quando Frida era
  stanca la prendeva in braccio e continuava il suo cammino guardandosi
  indietro nel timore d'essere inseguito. Se incontrava qualche carro
  per via, supplicava che gli permettessero di salirvi per fare un
  tratto di strada assieme alla sorella; diceva che doveva andar lontano
  lontano, e che la bimba era stanca e ammalata.

  Essa era pallida, gracile, ma non parlava mai, contenta di appoggiarsi
  solamente sopra suo fratello, e di non far più quegli esercizii che le
  incutevano tanta paura.

  Un giorno arrivarono in una bella città in riva al mare, dove c'erano
  tanti bastimenti pronti per la partenza.

  Il primo pensiero di Tom fu d'imbarcarsi sopra uno di quei bastimenti
  e andare in un paese lontano, dove gli Harris non l'avrebbero potuto
  raggiungere.

  Ma non aveva danari; poi, sopra un bastimento non avrebbero accolto
  tanto facilmente due piccoli vagabondi, come qualche volta s'erano
  sentiti chiamare andando per i villaggi, e infatti coi loro vestiti
  sbrindellati, colla faccia pallida, ne avevano tutta l'apparenza.

  Tom, deciso d'imbarcarsi ad ogni costo, pensò ad uno stratagemma.

  Sull'imbrunire, mentre una folla d'emigranti caricava la propria roba
  sopra il bastimento, s'offerse di aiutare a trasportare i bagagli.

  Era forte, alzava dei pesi enormi per la sua corporatura; venne
  accettato. Così incominciò ad andare avanti e indietro in mezzo a quel
  via vai di gente e di facchini, finchè s'accorse che s'erano abituati
  a vederlo e non badavano più a lui.

  Allora prese per mano Frida, e la condusse sul bastimento, e scesero
  giù per una scala erta e stretta finchè entrarono in un bugigattolo
  nascosto, buio, dove non c'era pericolo che nessuno li potesse
  scoprire.

  --Ed ora, zitti,--disse Tom,--non dobbiamo muoverci finchè il
  bastimento non è in moto.

  Frida aveva paura in quel bugigattolo che pareva una tomba e stava
  vicina al fratello, facendosi piccina e rannicchiandosi come un
  uccello spaurito.

  Stettero così delle ore, che parvero interminabili, quando udirono
  prima un gran movimento, poi un rumore, e finalmente si sentirono
  trasportare lontani con delle scosse che li facevan traballare nel
  loro antro.

  --Usciamo,--disse Frida,--ho paura.

  Ma Tom non osava uscire; all'idea che il suo stratagemma venisse
  scoperto gli batteva il cuore dalla trepidazione.

  E intanto il bastimento andava, andava a tutto vapore; dovevano esser
  lontani dal porto; ma Tom non osava uscire.

  Tutto ad un tratto videro un'ombra nera, entrare nel loro bugigattolo:
  era un marinaio venuto a prendere del carbone; il quale quando vide
  muovere qualche cosa, accese un lanternino e--Che cosa fate qui,
  piccoli vagabondi?--chiese vedendo i due fanciulli che tremavano come
  una foglia.

  --Pietà,--disse Tom,--non abbiamo fatto nulla di male, ho voluto
  fuggire i miei padroni, che mi maltrattavano.

  --Intanto uscite di qui,--disse il marinaio,--e sentiremo che cosa ne
  penserà il capitano.

  Quando i ragazzi furono alla presenza del capitano, Tom raccontò la
  sua storia, e dichiarò che avrebbe fatto qualunque servizio, anche il
  più umile, per guadagnare il vitto per sè e per Frida.

  --Vedrà, sarà contento di me,--disse il ragazzo coll'accento della
  sincerità.

  Il capitano si lasciò commovere da quelle parole e disse:

  --Basta, vedremo; se vi condurrete bene, vi perdonerò la vostra
  scappatella, altrimenti appena arriviamo in America, vi farò mettere
  in prigione.

  Ma Tom era buono, ubbidiente e servizievole; tutto il giorno in piedi,
  non si stancava di correre, e rendersi utile. Egli s'arrampicava come
  uno scoiattolo sugli alberi del bastimento, scendeva le scale colla
  massima rapidità, e stava ritto in piedi, anche quando il mare era
  agitato, e i più esperti marinai traballavano e perdevano
  l'equilibrio; non era un ginnasta per nulla.

  Il capitano si affezionò a quel fanciullo così docile e laborioso, e
  gli propose di restar con lui e di fare il marinaio.

  Il mare era sempre stato il sogno di Tom, e a quella proposta egli si
  sentì battere il cuore dalla gioia, tanto che si sarebbe sentito una
  voglia prepotente di abbracciare il capitano.

  --Essere marinaio!--pensava,--viaggiare, vedere paesi nuovi, fare un
  mestiere nobile, vestire una divisa onorata, invece della maglia del
  saltimbanco, servire il proprio paese, invece di avvilirsi a fare il
  giocoliere e divertire una folla che l'avrebbe sprezzato; questa era
  la felicità, la riabilitazione, ed esclamò:--Ma dice davvero?

  --Sì, sì, davvero.

  --E Frida potrà stare con me?

  --Questo no, non è possibile.

  Tom stette un poco a pensare, diede un'occhiata alla sorella che gli
  era vicina, e lo guardava in aria supplichevole, e rispose:

  --Grazie, capitano, la sua proposta mi fa tanto piacere, ma non posso
  accettarla.

  --E perchè?

  --Non posso abbandonare la mia sorellina.

  --E che cosa farai quando sarai arrivato?

  --Mi farò scritturare in qualche circo equestre, e ritornerò alla vita
  del saltimbanco: è il mio destino.

  Sì dicendo prese fra le braccia Frida, e scappò via; aveva un nodo
  alla gola, temeva di pentirsi, di lasciarsi tentare ad accettare fa
  proposta del capitano, e non voleva, no, non voleva abbandonare la sua
  Frida.

  La bimba, ormai sicura che Tom non l'avrebbe lasciata, gli cingeva il
  collo colle sue piccole braccia; batteva le mani dalla contentezza ed
  era felice. Essa però non poteva comprendere la lotta che avea dovuto
  sopportare il di lui nobile cuore; nè il grande sacrificio che avea
  fatto per lei.



LE RICETTE DI MARIA.


La fiera era terminata, ma i ragazzi continuavano ad essere distratti,
irrequieti e non avevano voglia di rimettersi a studiare.

Carlo voleva andare a vedere in piazza se ci fosse ancora un po' di
gente e Mario desiderava salutare _polentina_ e le scimmie prima che
partissero; Maria disse che non poteva accompagnarli perchè avea
promesso d'andare colle ragazze a visitare una donna ammalata e poi
avevano da occuparsi in casa; soli non li avrebbe lasciati, perchè in
paese c'era ancora troppa confusione.

Più tardi videro passare il professore Damiati e Carlo si fece
coraggio per chiedergli d'accompagnarli fino al villaggio.

--Volentieri,--disse il professore,--se vostra sorella lo permette.

Visto che andavano col professore, Maria non aveva più nulla a ridire,
e i tre ragazzi tutti contenti, presero il cappello e s'avviarono
assieme al Damiati.

Elisa rimase imbronciata, perchè anch'essa avrebbe desiderato andar a
divertirsi; ma Maria volle che le fanciulle restassero in casa ad
occuparsi; erano state a zonzo abbastanza nei giorni passati.

Infatti avevano da cucire della biancheria; da aggiustare i loro
vestiti e da fare tante altre piccole cose trascurate durante la
fiera.

Prima di tutto uscirono per andare a vedere una povera donna, una
vicina di casa, che si era scottata gravemente un braccio. Quella
stessa mattina aveva chiamato Maria, la quale con delle compresse
inzuppate d'acqua fredda e con qualche goccia d'etere versata sulla
ferita era riuscita a calmarne gli spasimi; ora andava a farle la
fasciatura e portava con sè tutto l'occorrente. Essa desiderava che le
sue sorelle assistessero a simili medicazioni, affinchè imparassero a
fare altrettanto se si fosse presentata l'occasione.

Elisa aveva ribrezzo di tutte le piaghe, Giannina diventava pallida e
quasi si sentiva mancare, ma dovevano avvezzarcisi per contentare
Maria: la quale diceva sempre:

--Voi siete di quelle che in un caso di disgrazia, invece di recare
aiuto, scappereste un miglio lontano, e intanto il povero ammalato
potrebbe morire, per mancanza di soccorso.

Angiolina invece, si metteva di buona voglia ad imparare; e quando
furono dalla donna si fece forza ed aiutò Maria a fasciarle il
braccio.

La poveretta diceva di sentirsi un po' più sollevata, ma lungo il
braccio aveva una piaga con tutt'attorno una striscia rossa
infiammata. Maria la medicò con tutta delicatezza, lavando la piaga
con acqua tiepida, poi mettendovi delle filacce inzuppate d'acqua
fenicata e fasciando il braccio in modo che la fasciatura non si
muovesse e nello stesso tempo non fosse tanto stretta da impedire la
circolazione del sangue; poi legò un fazzoletto dietro al collo della
donna in modo che le scendesse sul petto e le fece mettere dentro il
braccio.

--Vi raccomando di non muoverlo,--disse Maria salutandola, ed uscì
dicendo:--Giacchè Elisa si mostra tanto delicata, la prima volta che
ci sarà da fasciare un ammalato, dovrà occuparsene lei.

Quando furono a casa incominciarono a parlare di mali e rimedii.

Angiolina voleva notarsi i consigli di Maria; essa aveva sempre il
rimorso della risipola venuta alla sua mamma, perchè non aveva saputo
curarla bene.

--Pensare che s'io avessi saputo tante cose come lei,--diceva a
Maria,--la mamma non avrebbe sofferto tanto! Non so perchè a scuola
non insegnino una scienza che è così utile.

Maria la confortava, dicendole che trattandosi d'un male grave è
sempre meglio chiamare il medico, ma aggiungeva che è certo una
soddisfazione il saper assistere una persona cara ed esserle utile,
almeno se il dottore tarda a venire; anzi, giacchè in quella mattina
non avevano distrazioni, avrebbe dato qualche norma in proposito.

Angiolina prese la penna per scrivere; sapendo che in fatto di
medicina bisogna essere esatti, temeva che la memoria non le servisse.

--Gli accidenti che possono succedere più spesso in una
famiglia,--disse Maria,--sono il tagliarsi con un coltello, con un
vetro, con delle forbici; se il taglio è semplice, basterà lavarlo
coll'acqua fredda, unire gli orli della ferita e legarla con un pezzo
di tela; se la ferita è più profonda bisogna comprimere un po' più
forte; se poi il sangue che esce in gran copia, di color roseo, mostra
che è stata tagliata un'arteria, allora la cosa è più grave, bisognerà
fortemente comprimere la ferita colle dita: se le bende o una moneta
avvolta in un pezzo di tela non bastano, legare stretta l'arteria
sopra la ferita e non stancarsi di far tutti questi sforzi per
arrestare il sangue, finchè venga il medico.

--E quando ci si abbrucia?--chiese Angiolina.

--Avete veduto come ho fatto a quella donna. Basterà una fasciatura
con qualche cosa di fresco, come un pezzo di tela bagnato d'acqua o
della neve o del ghiaccio; quando il dolore è un po' calmato, converrà
fasciare la ferita con pezze inzuppate nell'acqua fresca, aggiuntavi
qualche goccia di acido fenico.

Una persona che si espone ad un freddo intenso può aver le membra
gelate in modo da perderle, perchè si sospende la circolazione del
sangue e la carne s'incancrenisce; in questi casi non bisogna
assolutamente esporre la parte offesa al fuoco, perchè ne sarebbe
certa la perdita, bisogna invece, far ritornare la circolazione e il
calore lentamente con fregagioni fatte prima colla neve e col
ghiaccio, senza mai stancarsi; poi con pezzuole di lana, e così a poco
a poco riscaldare il membro intirizzito.

--E se ci punge un insetto?--chiese Angiolina.

--Se ti punge un insetto, ciò che avviene spesso in campagna, sono
utili le fregagioni fatte con acqua ed aceto o acqua fenicata, o
meglio ancora coll'ammoniaca: rimedio che bisognerebbe aver sempre
pronto, perchè salva anche dal veleno della vipera; però se avete la
disgrazia d'essere morsi da uno di questi animali venefici, bisogna
legare subito la parte sopra la ferita, bruciarla coll'ammoniaca, e
prenderne anche per bocca, mista coll'acqua.

--Come ha fatto ad imparare tutte queste cose?--chiese Angiolina.

--Sono vecchia,--disse Maria,--poi ho sempre avuto il desiderio
d'imparare quello che può esser utile, e credete pure che recar
sollievo ad un ammalato, salvare una persona cara, è una grande
felicità.

Angiolina voleva altre ricette e altri insegnamenti, ma Maria disse
che prima ancora di portar soccorso ai mali bisogna procurar
d'evitarli, e ciò si può fare facilmente con un po' d'attenzione.

--In casa vi sono sempre dei veleni,--soggiunse,--che servono per
varii usi domestici; bisogna tenerli lontani dalle cose che si
mangiano, poi non devono essere a mano e si deve scrivere sulle
boccette _veleno_ con tanto di lettere; poi ci sono le cose facilmente
infiammabili, come il petrolio, la benzina, l'alcool, ecc. e bisognerà
tenerle lontane dal fuoco, e se per caso con tali materie avviene un
principio d'incendio, bisogna esser pronti a soffocarlo con cenere,
con coperte, e mai gettarvi un liquido che potrebbe mutare un semplice
accidente in una grave disgrazia. Anche nell'adoperare le cose
taglienti bisogna aver riguardo; trattandosi poi di armi, è una grave
imprudenza tenerle cariche in casa, e specialmente i ragazzi non
dovrebbero mai toccarle.

Quelle fanciulle stavano tutte ad ascoltar con tanto d'orecchi;
Giannina diceva che voleva imparare tutte quelle cose che sapeva la
sorella. Elisa invece confessava che non sarebbe mai stata buona da
nulla, e soltanto alla vista del sangue cadeva in svenimento.

Ma Maria sosteneva che con un po' di buona volontà ci si avvezza a
tutto, che anch'essa una volta scappava al vedere una ferita, ma che
avea voluto vincere quella ripugnanza e si era poi trovata tanto
contenta.

Angiolina andò a prendere una bambola e volle che Maria le insegnasse
a fasciarla e a curarla come se fosse ferita, ma la bambola era di
legno e non poteva servire, sicchè Giannina si prestò a lasciarsi
fasciar lei un dito e poi un braccio.

Maria mostrò come si doveva fare, poi si provò Angiolina, poi Elisa;
ma nè una nè l'altra riuscirono a fare una fasciatura così forte come
quella di Maria. Poi essa volle che imparassero a preparare un
impiastro; prese dalla sua farmacia un po' di farina di semi di lino,
e insegnò a versarci sopra l'acqua bollente e fare come una poltiglia,
poi a stenderla sopra una stoffa leggera e cucirla tutto intorno in
modo che non uscisse; questa cosa divertì molto quelle bambine; come
se fosse un gioco, vi si misero di buona voglia. Pareva proprio che ci
trovassero gusto, e visto che Giannina si stancava di far la parte di
ammalata, ricominciarono colla bambola, che da quel giorno fu
considerata come un'inferma, ebbe la testa fasciata, le braccia
coperte d'impiastri, e venne messa a letto dove di tratto in tratto
riceveva le visite delle sue infermiere.



EROISMO DI VITTORIO.


Le bambine stavano ancora sedute lavorando accanto a Maria, la quale
aveva un bel da fare a rispondere alle interrogazioni di Angiolina,
che non si stancava mai d'imparare cose nuove, quando s'udirono delle
voci, poi dei passi e finalmente entrarono nella stanza tre ragazzi
che parevano indiavolati e il professore che volea salutare Maria.

I ragazzi si misero a parlare tutti in coro e raccontare dei
saltimbanchi che avevano veduto partire, di _Polentina_ che avevano
salutata, e poi di un cane, di Vittorio, dei signori Guerini; una
confusione di discorsi che assordavano quelle povere ragazze, le quali
non riuscivano a capir nulla e si turavano le orecchie.

--Zitti, zitti,--disse il professore Damiati,--ora parlerò io; intanto
presento alla signorina Maria un altro piccolo eroe, che potrà
figurare con onore nella sua collezione.

--Come! Vittorio? fa per celia?--disse Maria.

--Quella marmottina!--soggiunse Elisa ridendo.

Vittorio sentendo che si parlava di lui, era andato tutto confuso a
rincantucciarsi e per far qualche cosa avea preso un libro in mano.

--È proprio così,--soggiunse Damiati,--e Carlo e Mario sono testimoni
della sua prodezza. Io però voglio raccontare il fatto come è
avvenuto, perchè so che sarà utile a queste bambine, e poi il coraggio
di Vittorio merita di essere conosciuto.

Dunque andavamo verso il villaggio dove c'era sempre molto chiasso,
sebbene un po' meno che nei giorni passati.

I venditori ambulanti raccoglievano le mercanzie e le mettevano nelle
casse. I saltimbanchi spogliavano le baracche, e caricavano i carri di
roba, mentre le scimmie facevano le capriole e Polentina salutava
tutti, mangiando dolci, che le venivano regalati da qualche
ammiratore.

Noi ragionavamo; e facevamo le nostre osservazioni. Abbiamo anche noi
salutato Polentina e regalato un pomo ad una scimmia che ci avea stesa
la mano e i ragazzi si divertivano in mezzo a quella confusione, tanto
che non avrebbero voluto più ritornare a casa; c'erano anche i Guerini
coll'istitutrice, e Mario voleva restare finchè restavano loro; non so
veramente per qual ragione, perchè essi non si voltavano mai dalla
nostra parte; ma forse per studiare il naso dell'istitutrice inglese.
Finalmente quando essi si mossero, anche noi, dietro di loro, ci siamo
posti in cammino. Bisogna sapere che io ero con Mario, e davanti
camminavano Vittorio e Carlo, i quali si trovavano più vicini alla
comitiva dei Guerini.

Tutto ad un tratto, non so precisamente come sia avvenuto, perchè io
ero intento a dare delle spiegazioni a Mario, si vede sbucare un cane
brutto, brutto, si slancia dietro ai Guerini che non potevano vederlo
e nello stesso tempo sento Vittorio gridare:

--Un cane idrofobo, scappate, correte!

Quelli non badano e continuano la loro strada, non sospettando di aver
il cane proprio alle calcagna colla bocca aperta, la lingua fuori,
tanto che poco mancò che afferrasse la gamba di Alberto. Quand'ecco
Vittorio in un lampo prende un sasso e lo scaglia con tutta la sua
forza sulla testa del cane, il quale, quantunque mezzo tramortito dal
colpo, si volge furente contro Vittorio, mentre i Guerini infuriati
non sapendo nulla del cane, gridavano voltandosi verso di noi:--Chi è
quel villano che getta sassi?

A questo punto m'accorsi di tutto quello che accadeva e vidi il
pericolo di Vittorio, che con un coraggio qual non mi sarei mai
aspettato aveva preso un altro sasso per scagliarlo contro al cane
inferocito. Non so se sia stato precisamente il sasso di Vittorio o un
colpo di bastone ch'io gli assestai sul capo: ma il fatto è, che il
cane cadde morto, e noi potemmo pensare al pericolo corso e nello
stesso tempo al coraggio e alla rapidità colla quale Vittorio aveva
operato.

Ma io non ho potuto trattenermi dal dire in inglese all'istitutrice di
casa Guerini additando il nostro eroe:--Potete ringraziare Vittorio
Morandi se non siete stati morsicati da un cane idrofobo.

--Come idrofobo?--disse la signorina.

--Sicuro, proprio così, guardate, e le facevo osservare la lingua nera
e la bava che usciva dalla bocca del cane steso morto per terra.

I ragazzi tremavano e non potevano parlare per l'emozione.

--Non toccatelo,--dissi,--e andiamo a casa, perchè abbiamo bisogno di
rimetterci dallo spavento provato. I Guerini se n'andarono salutandoci
appena; eppure forse Vittorio ha salvato loro la vita.

--Ma era proprio idrofobo?--disse Maria tutta commossa pensando al
pericolo al quale erano sfuggiti i suoi fratelli.

--Sì, sì, idrofobo!--disse Vittorio.--me ne sono accorto subito, aveva
una faccia brutta, la testa bassa, la lingua fuori, la bocca
spalancata, la coda strasciconi, era brutto brutto, proprio come mi ha
spiegato il professore che sono i cani idrofobi.

--E perchè non sei scappato?--disse Elisa.

--Ho visto che andava verso i Guerini, e mi son fatto coraggio.

--E se ti mordeva?--disse Maria.

--Non m'hai insegnato tu che bisogna fare quello che si deve, senza
pensare a ciò che può accadere?

--Meritava proprio che tu esponessi la vita per quegli antipatici
Guerini!--disse Elisa.

--L'idrofobia è una cosa così terribile!--soggiunse Maria, tutta
pallida all'idea del pericolo cui s'era esposto il fratello; poi lo
fece venire vicino, gli prese la testa fra le mani e gli diede un
bacio dicendogli:

--Va, sono proprio contenta di te; non avrei immaginato tanto coraggio
con un'apparenza così tranquilla.

--E Carlo che cosa faceva,--disse Elisa,--egli che vuol essere un
eroe?

--Carlo aveva la testa bassa e non fiatava.

Vi fu un momento di silenzio, nessuno voleva parlare.

--Ma dunque che cosa faceva?--chiese Maria, rivolgendosi a Mario.

--È scappato,--disse Mario,--come ha fatto ora; infatti, mentre
tenevano quel discorso, Carlo tutto confuso era sgattaiolato fuori di
casa.



LA FAMIGLIA GUERINI.


Carlo, tutto avvilito d'essersi scoperto pauroso la prima volta
appunto che s'era presentata l'occasione di mostrare un po' di
coraggio, pensò di mettersi a studiare sul serio, anche per sfuggire
alle beffe dei fratelli che non lasciavano di tormentarlo.

--Ecco il nostro eroe!--diceva Elisa.

--Guarda che bella figura facevi!--diceva Mario mostrandogli una
caricatura dove scappava a gambe levate, mentre Vittorio combatteva
con un cane.

--Lasciatemi in pace, voglio studiare,--rispondeva Carlo;--del resto
io non sono così sciocco da esporre la mia vita per chi non mi saluta
nemmeno quando m'incontra. Egli avea detto al professore che volea
studiare, e mostrargli che se non avea coraggio di affrontare i cani
idrofobi, avea quello di superare le difficoltà della grammatica.

Damiati era contento di poter frequentare la casa Morandi, perchè si
trovava bene in quell'atmosfera serena e quieta, ed era tutto pieno
d'ammirazione per Maria, che sotto apparenze modeste avea molto
ingegno e non comune istruzione, non che rara pazienza nel sopportare
tutte le impertinenze dei fratelli, cui correggeva senza perdere la
calma e non lagnandosi mai della sorte che le era toccata, di perdere
i più begli anni della giovinezza nel fare da mamma.

Egli era pronto a renderle servigio, e contento di aver ridestato un
po' d'amore allo studio nella mente di Carlo, ci metteva tutto
l'impegno a renderglielo facile e piacevole.

Stava appunto correggendo i lavori del suo allievo, mentre Maria
lavorava accanto alla finestra assieme alle sorelle e ad Angelina che
le continuava a chiedere ricette domestiche, Mario scarabocchiava, e
Vittorio leggeva un libro di viaggi, quando tutt'a un tratto quel
silenzio fu interrotto da un rumore di ruote, e una carrozza si fermò
appunto davanti alla loro casa.

--I signori Guerini,--disse Elisa guardando dalla finestra;--mio Dio,
che disordine che c'è qui!--soggiunse guardandosi intorno.

--Non è nulla,--disse Maria,--è il disordine che c'è sempre in una
stanza dove si studia e lavora; io non mi confondo per così poco, sei
tu che hai fatto tutto questo disordine tagliando i vestiti per la
bambola.

Ma Angelina aveva già radunati i ritagli di stoffa che erano in terra
e li aveva portati in cucina nella cassetta della spazzatura, appunto
mentre la signora Guerini entrava accompagnata dai suoi figli.

Tutti si alzarono, e vi fu nel salotto un momento di silenzio vedendo
entrare nella stanza modesta quella bella signora vestita colla
massima eleganza. Ma essa fece cenno che nessuno si scomodasse, e
rivoltasi a Maria, disse che avea saputo il pericolo corso dal suo
Alberto e avea voluto condurlo in persona a ringraziare il suo
salvatore.

Così dicendo essa dava intorno un'occhiata come per cercare a chi
dovesse rivolgersi.

Maria chiamò Vittorio, il quale si fece innanzi tutto confuso; la
signora Guerini lo accarezzò, lo presentò al figlio, dicendogli:

--Spero che sarete amici, e il mio Alberto non si dimenticherà mai che
l'hai salvato da un gran pericolo.

--Io non ho fatto nulla che meriti tutti questi elogi, è stata una
combinazione, ho veduto una brutta bestia e l'ho uccisa.

--Sei altrettanto modesto quanto coraggioso!--disse la signora che si
era seduta, e indirizzato il discorso a Maria le fece molti
complimenti dell'aver educato così bene quei ragazzi.

--Creda che non ci ho alcun merito,--disse Maria,--quando hanno una
natura buona, riescono bene.

La signora parlò ad uno ad uno a tutti i ragazzi e chiese i loro nomi,
poi presentò la sua figlia Elvira, che poteva avere l'età di Elisa, ma
se ne stava silenziosa accanto alla mamma e non osava parlare.

--È molto timida,--disse la signora Guerini,--ma spero che farà
amicizia colle bambine, come già vedo Alberto che fa coi ragazzi....

Infatti Alberto parlava con Carlo che avea interrotta la lezione e con
Vittorio, poi osservava gli scarabocchi di Mario e si smascellava
dalle risa vedendosi rappresentato sul punto di esser morso da un
cane, scappando da una parte mentre Carlo scappava dall'altra.

Il professore s'era unito al crocchio dove c'era la signora Guerini,
la quale diceva a Maria che avea appunto udito far i suoi elogi dal
professore e da don Vincenzo, e invitava tutti ad una festa campestre,
che dovea dare nel suo giardino il giorno dopo.

Maria disse che dopo la morte della mamma faceva una vita molto a sè e
tentò di rifiutare, ma la signora Guerini ci mise un po' di
insistenza; era una cosa alla buona, proprio campestre, senza
etichetta, e aggiunse che avrebbe avuto un immenso dispiacere se non
fossero andati tutti a rallegrare la sua casa; si fece promettere da
Maria che non sarebbero mancati, poi la pregò di leggere ai suoi figli
uno di quei bei racconti che divertivano tanto don Vincenzo e che
erano così istruttivi.

--Sono racconti da ragazzi,--disse Maria tutta confusa.

--Ed è per questo che ho piacere che i miei figli li sentano, e la
pregherò d'invitarci tutte le volte che ne farà la lettura.

--Sono tutti troppo buoni,--mormorò Maria.

--Sono così belli quei racconti!--entrò a dire Angiolina,--anzi
bisogna che ora ne legga uno ogni giorno, perchè voglio sentirli tutti
prima di andare a casa.

--Andiamo, ce ne legga uno,--disse la signora Guerini.

--Sì,--soggiunse Angiolina,--almeno il più breve.

--Ebbene, già che lo volete, non mette conto che mi faccia pregare; lo
dico volentieri, tanto più che l'eroina è una persona di mia
conoscenza.


  UNA PICCOLA FATA.


  Era una famigliuola modesta e felice perchè si contentava di poco. Il
  babbo era operaio meccanico e guadagnava venticinque lire la
  settimana, la mamma era cucitrice di bianco, e lavorava per vivere con
  un po' d'agiatezza, e possibilmente far qualche risparmio.

  Avevano una figlia che era la loro consolazione e il costante pensiero
  di tutti e due.

  Volevano procurarle quel benessere che avevano invano sognato per
  loro, e lavoravano con maggior lena e con più coraggio pensando alla
  cara bambina.

  Vivevano a questo modo da parecchi anni; la figlia frequentava la
  scuola, studiava con amore, ed era fra le prime della sua classe,
  tanto che i genitori formavano i più bei sogni per quella bimba
  d'ingegno.

  Volevano che potesse studiare e diventar da più di loro, non c'era
  sacrificio a cui si sarebbero rifiutati per lei, ed essa era tanto
  buona che meritava tutto il bene che le volevano.

  In casa non mancava nulla; il marito consegnava alla moglie tutta la
  sua settimana e non spendeva un soldo all'osteria; dicendo che se la
  sera si sentiva voglia di bere un bicchiere di vino, preferiva di
  berlo in casa, nella sua cameretta tepida e ben illuminata, avendo
  accanto la moglie e la figlia, che lo rallegrava col raccontargli i
  fatti e gli avvenimenti della scuola, e colle sue allegre risate.

  Qualche volta prendeva la figlia sulle ginocchia, e le raccontava
  delle storielle, mentre la mamma faceva andare la sua macchina da
  cucire per terminare un lavoro urgente.

  A lei non veniva mai meno il lavoro, essa era precisa, onesta, i
  principali negozianti la conoscevano, le davano quantità di
  commissioni, tanto che il lavoro si ammucchiava nella sua stanza, ed
  essa era lieta pensando al benessere che così poteva procurare alla
  famiglia.

  Ma un giorno l'allegria scomparve da quella casa.

  Lavorando in fretta, facendo correre allegramente il pedale della sua
  macchina, l'ago, senza che si accorgesse, le trapassò una mano, tanto
  che dal dolore fu sul punto di cadere svenuta.

  Era sola in casa, e trovò appena la forza di mettere la mano dentro
  l'acqua fresca, poi sentendo quietare il dolore fasciò la ferita, e
  fece uno sforzo per mostrarsi sorridente quando rientrarono il marito
  e la figlia.

  --Che hai, mamma?--chiese la piccina vedendole la mano fasciata.

  --Non è nulla, mi sono punta, ma passerà.

  Però quel giorno non ebbe voglia di mangiare, e il giorno dopo non
  potè servirsi della mano che si era tutta gonfiata.

  Essa non disse nulla al marito per non affliggerlo; ma la accorava il
  non poter continuare a lavorare; appunto in quei giorni aveva promesso
  di terminare dei lavori urgenti che dovevano servire per il corredo
  d'una sposa.

  --Perchè non mangi?--le diceva la bambina.

  --Non mi sento troppo bene, è questa mano che mi duole, ma guarirà.

  --Va dal dottore,--le disse il marito.

  --È inutile, noi non abbiamo tempo d'essere ammalati; questa sera mi
  metterò un impiastro.

  Ma la notte, invece, il male s'aggravò, e le venne la febbre, tanto
  che la mattina il marito prima d'andare all'officina andò a chiamare
  il medico.

  La bambina, sentendo che la mamma era ammalata, e che doveva venire il
  medico, non volle andare alla scuola, e pregò una compagna che venisse
  a dirle la lezione che avevano fatta, così avrebbe potuto studiare
  restando in casa.

  Quando venne il dottore trovò che il male era grave, c'era già un
  principio di risipola, poi la febbre era abbastanza alta.

  Raccomandando alla donna il massimo riposo, ordinò una medicina da
  prendere ogni due ore, e disse che forse avrebbe dovuto fare un
  piccolo taglio alla mano, ma in ogni modo per parecchi giorni non
  c'era da pensare ad alzarsi.

  La fanciulla si sentiva venire le lagrime agli occhi, vedendo la sua
  mamma ammalata più di quello che avrebbe immaginato; ma si fece
  coraggio e le disse:

  --Tu stattene quieta, alla casa penserò io.

  --Sì, ma il mio lavoro che il negoziante aspetta e che gli premeva
  tanto.... Chissà che cosa penserà di me!

  --Passerò io, e gli dirò che sei ammalata,--disse la fanciulla.

  --Non dirgli nulla, forse domani starò meglio, e se potrò lavorare
  cercherò di far presto.

  Ma il giorno dopo stava peggio, aveva la febbre e vaneggiava.

  Padre e figlia s'erano messi d'accordo di star alzati la notte, prima
  uno, poi l'altro per assistere l'inferma.

  La fanciulla, quantunque piccina, pareva una infermiera provetta,
  scriveva tutte le prescrizioni del dottore per non dimenticar nulla, e
  le eseguiva a puntino, poi colle sue mani preparava dei brodi
  succolenti per l'ammalata, e il mangiare per il babbo, a sè pensava
  poco, non n'aveva tempo, spesso si contentava d'un po' di latte e un
  po' di pane.

  Ma la malattia si prolungava, e la mamma era sempre preoccupata del
  suo lavoro.

  Una sera, mentre l'ammalata riposava, la fanciulla provò ad avviare la
  macchina e a far andar avanti il lavoro che stava ammucchiato in una
  cesta.

  Vide che le riusciva bene e continuò ad andare innanzi, approfittando
  dei momenti nei quali la mamma dormiva, perchè quando era desta doveva
  stare ad assisterla.

  La povera donna si crucciava sempre, e diceva al dottore:

  --Mi faccia guarir presto, ho bisogno di alzarmi, di lavorare; esser
  ammalati e non guadagnar niente per giunta è una gran pena.

  --Stia tranquilla che guarirà presto, specialmente se starà un po'
  quieta.

  Alla figliuola diceva invece:

  --Come faremo ad andare avanti se non posso lavorare?

  --Mamma, bada a guarire, non pensare a nulla.

  Il lavoro andava sempre avanti, e la fanciulla vedendo che le riusciva
  bene, lavorava, lavorava tutte le notti; si sentiva stanca, le sue
  palpebre si facevano gravi pel sonno, ma essa lo combatteva facendo un
  giro per la stanza e dandosi dei pizzicotti, e il lavoro procedeva
  sempre, finchè un giorno, lo portò tutta contenta al negoziante senza
  dir nulla alla mamma, e tornò a casa con un gruzzolo di danaro che
  capitava a proposito, perchè colla malattia avevano quasi consumato
  tutti i risparmi.

  Quando la fanciulla era stanca da non potersi più reggere in piedi
  incominciò la convalescenza per la mamma: era tempo.

  Il dottore prediceva che fra pochi giorni l'inferma avrebbe potuto
  alzarsi, e intanto la fanciulla poteva dormire di più mentre la mamma
  non aveva più febbre, la ferita s'andava rimarginando e non c'era
  bisogno di vegliare la notte.

  Il primo pensiero della povera donna quando si sentì meglio, fu di
  chiedere il suo lavoro.

  --È stato consegnato al mercante.

  --E chi lo ha terminato?

  --Io non so, sarà stata una fata.

  La donna guardò in faccia la figlia, poi si ricordò d'averla veduta
  come in un sogno, nelle sue notti febbrili, tutta intenta a far andare
  la macchina da cucire e alla sua mente apparve la verità.

  --Figlia mia,--disse abbracciandola,--sei stata proprio tu; ma come
  hai fatto a far questo miracolo?--poi la guardò bene in faccia, e
  soggiunse:--Povera bimba, si vede; sei tanto pallida, e hai sotto agli
  occhi quei due cerchi neri; e pensare che non m'ero accorta di nulla!
  Come si diventa egoisti quando si è ammalati! Ma ora dovrai andar
  fuori all'aria aperta e divertirti, sarò io che ti curerò.

  --Vedrai, mamma, che il saperti guarita mi renderà per la gioia il
  colore alla faccia; non temere, sto bene e sono tanto contenta.


--È la storia di Angiola,--saltò su Giannina.

Angiolina era tutta confusa, e disse:--È un tradimento, ma la storia
non è terminata.

--Raccontaci il seguito,--disse Giannina.

--Ecco,--soggiunse Angela:


«Quella bambina, non meritava d'essere collocata fra le eroine, perchè
ognuno al suo posto avrebbe fatto lo stesso; si trattava della sua
mamma! ma è stata più fortunata di tante altre. Un giorno è capitata a
casa sua una buona fata, la quale l'ha condotta in campagna, in mezzo
agli alberi verdi, agli uccelli che la mattina la rallegrano coi loro
canti, e nella compagnia di tanti bei bambini, con tanti divertimenti;
davvero che quella fanciulla domanda sempre a sè stessa, perchè è
stata tanto fortunata.»


Tutti le fecero festa, la signora Guerini la additò come esempio ai
suoi figli, poi salutando Maria, disse:

--Sono proprio felice d'esser venuta in mezzo a fanciulli così buoni,
vi assicuro che nell'uscire dalla vostra casa ci si sente migliori; vi
supplico, non mancate domani alla nostra festa; abbiamo bisogno di
buone fate come siete voi, a rivederci; anche voi, professore,
ricordatevi.

Maria li accompagnò alla carrozza e stette coi fratelli sulla porta
finchè li vide allontanarsi sulla strada maestra.



LA FESTA CAMPESTRE.


--Andremo, è vero, Maria?--disse Elisa, appena fu uscita la signora
Guerini.

--Non so,--rispose Maria,--devo pensarci, perchè se mi fa piacere
essere in buona relazione coi nostri vicini, non ho mai pensato di
entrare nella loro intimità; c'è fra noi troppa distanza; essi sono
ricchi, e ci potrebbero trascinare a delle spese che per noi sarebbero
una rovina, e forse ci renderebbero malcontenti della nostra vita
modesta, che ora ci piace tanto.

--Andiamo, andiamo, ho tanta voglia di vedere la villa; dicono che è
così bella,--disse Elisa.

--E a me Alberto mi ha promesso di farmi andare in
velocipede,--soggiunse Carlo.

--Voi, proprio non lo meritereste; se mi risolverò a condurvi sarà per
compensare Vittorio d'essere stato coraggioso.

--Andiamo,--supplicava Mario,--così potrò fare qualche caricatura!

Maria non seppe resistere a quelle preghiere e promise di
accompagnarli.

Allora Elisa incominciò a pensare ad aggiustare il suo vestito, quello
che metteva i giorni di festa, ed era tutto sciupato; voleva andare in
paese a comperare dei nastri per adornarlo, ma Maria si oppose. Non
voleva spendere un centesimo per quella festa, e tanto meno per
fronzoli inutili; bisognava contentarsi di andar vestiti semplicemente
e non mettersi in capo di essere ammirati: soltanto voleva dare
un'occhiata ai vestiti chiari per vedere che non ci fossero macchie o
strappi, e durante il giorno ebbe un bel da fare a ripulirli e
stirarli, e dar loro qualche punto. Angiolina le era di grande aiuto e
pensava alle sue amiche senza pensare a sè stessa.

Essa diceva che avrebbe fatta una figura meschina col suo vestito di
lanetta bigia ed anzi si era proposta di stare a casa; ma quando capì
che Maria non gliel'avrebbe permesso, si rassegnò, dicendo che si
sarebbe nascosta in un canto perchè nessuno badasse a lei.

Per tutta la giornata quei ragazzi non fecero che parlare della festa;
erano allegri, felici, gridavano e saltavano come pazzi.

Maria stava sopra pensiero; dopo la fiera, la festa in casa Guerini:
erano troppi divertimenti, troppe distrazioni, e chi ne andava di
mezzo era lo studio, e temeva che Carlo non potesse passare gli esami;
ma egli la rassicurava. Avrebbe studiato con più lena dopo essersi
divertito.

Il giorno dopo all'ora stabilita s'avviarono verso villa Guerini.

Maria era vestita semplicemente di lana, con un cappellino di paglia
che le copriva la fronte; le sorelle avevano aggiustato e ripulito i
loro vestiti chiari e in mezzo alla campagna facevano una bella
figura.

Quando giunsero davanti al gran cancello della villa, si fermarono un
po' timide, non avevano coraggio d'andare avanti.

Anche Maria, che non era avvezza a frequentare la società, si sentiva
confusa e impacciata, ma si fece coraggio ed entrò seguita dalla sua
compagnia. Attraversarono un viale ombreggiato ed un giardino tutto
formato da gruppi di conifere, di piante esotiche e di macchie
fiorite.

--Come è bello!--dicevano i ragazzi in ammirazione;--pare un giardino
incantato.

E pareva incantato davvero: ad ogni tratto s'apriva un viale, poi si
trovavano quasi rinchiusi in un boschetto misterioso, poi veniva un
po' di rado dove entrava esultante un raggio di sole, e alberi, e
fiori, e sedili coperti di musco; ma per un bel tratto non trovarono
anima viva; ad un certo punto soltanto incontrarono due cani danesi,
che fecero subito amicizia con Mario e Giannina, e finalmente dopo
aver passato un viale più largo si trovarono davanti alla bellissima
villa tutta circondata di piante fiorite e illuminate dal sole,
rallegrata da immensi zampilli d'acqua, che a quella luce parevano
spruzzi di diamanti, e davanti videro un bel prato verde dove era
preparata una quantità di giochi, e si trovavano aggruppate varie
persone, belle signore eleganti, e vispi bambini che correvano e si
trastullavano, ridendo e riempiendo quel giardino di vita e
d'allegria.

I signori Guerini fecero molte feste ai Morandi, e la signora presentò
al marito, Vittorio che aveva salvato Alberto, Angiolina quella brava
figliuola ch'era stata tanto utile alla sua mamma, e Maria che amava
già come una vecchia amica, della quale don Vincenzo e il professore
Damiati avevano sempre parlato con molta stima. Il signor Guerini era
un uomo cortese, ma d'aspetto severo, e a quei fanciulli dava
soggezione tanto che gli stavano innanzi cogli occhi bassi senza
parlare.

Egli, per fargli animo, disse loro di raggiungere il crocchio dove si
trovavano Alberto ed Elvira cogli altri invitati, e mentre si
disperdevano correndo sul prato, rimase a chiacchierare con Maria.
Parlarono dei bimbi e del modo di educarli: egli si mostrava
impensierito, perchè ai suoi figli piacevano troppo i divertimenti e
poco lo studio, e mostrò il desiderio che frequentassero casa Morandi,
dove sapeva che i ragazzi erano studiosi e passavano le giornate
occupandosi.

Maria parlò dei suoi fratelli, poi ammirò il giardino, la villa, e si
mostrò riconoscente d'esser stata invitata ad una festa così bella,
come non ne avea mai veduto l'uguale.

Infatti la festa riusciva bellissima, arrivavano da lontano degli
equipaggi che conducevano signore eleganti, e bimbi belli, e ben
vestiti.

Sul prato verde e pieno di gente, gli attrezzi della ginnastica e
l'altalena erano presi d'assalto; poi si giocava alla palla, al
volano, ai cerchi; in mezzo ad un boschetto ombroso c'era un casotto
di burattini, che al momento in cui s'incominciò la rappresentazione
raccolse intorno a sè tutta quella schiera di bimbi.

Carlo fece una corsa in giardino sul velocipede di Alberto, Vittorio
si fece prestare una macchinetta fotografica e volle tentare di
cogliere qualche gruppo. Furono serviti dei rinfreschi, dei
pasticcini, che formarono la delizia di tutti quei bimbi, e il
divertimento terminò con un ballo campestre in mezzo al prato.

Fu una festa completa, che lasciò una durevole memoria nei ragazzi
Morandi, i quali non avevano mai assistito ad un simile spettacolo,
tanto che appena ritornati a casa, Angiolina scrisse subito alla sua
mamma la lettera seguente:


            _Cara mamma,_

    _Te la puoi imaginare la tua figliuola ad una splendida festa in una
    villa grandiosa, di quelle che si trovano descritte nei libri delle
    fate?

    Eppure, la tua figlia c'è proprio andata, in carne ed ossa, colla sua
    vesticciuola di lana bigia e il suo cappellino di paglia semplice e
    modesto.

    Ma se avessi veduto che allegria! che splendidezza! Fu una vera
    fantasmagoria! ne ho ancora la testa tutta confusa!

    Figurati un bel giardino grande, anzi immenso, con tanti viali, tanti
    boschetti e tanti fiori; pensa che allontanandosi dalla casa c'era da
    perdersi come in un labirinto.

    Fortunatamente che non c'era bisogno d'allontanarsi tanto, perchè
    tutti i divertimenti erano vicini, raccolti intorno alla villa; un
    vero incanto.

    Della villa non potrei fartene la descrizione, perchè non vi entrai
    che un momento solo, ed ho preferito stare in giardino dove c'erano
    tanti giochi e tante bambine.

    Non mi ricordo nemmeno tutto quello che ho fatto; so che ho giocato,
    ho ballato come una disperata, ho assistito ad una rappresentazione di
    burattini; figurati che Arlecchino voleva far da maestro agli altri, e
    intanto diceva una quantità di spropositi, che ci facevano smascellar
    dalle risa.

    Ho mangiato una quantità di pasticcini deliziosi, e mi sono tanto
    divertita, che credo in paradiso non ci si possa divertire di più.

    C'era una lotteria, con regali per tutti, ed io ne ho avuto uno
    bellissimo, un astuccio con l'occorrente per scrivere; poi Alberto
    Guerini, il quale ha una macchina fotografica, fece la fotografia di
    tutti i presenti, a frotte, a gruppi, e mi promise una copia del
    gruppo, dove c'entro anch'io, per memoria di una giornata così bella.

    Ritornando a casa, non si fece che parlare della festa. Elisa era
    fuori di sè, e invidiava Elvira destinata ad una vita così ricca ed
    elegante. Carlo avrebbe avuto una gran voglia del velocipede di
    Alberto, e Vittorio diceva di volersi fabbricare una macchinetta
    fotografica; il professore gli avea spiegato tanto bene come era
    fatta, che sperava di riuscirvi.

    Anche Mario e Giannina erano allegri, e pensavano di andar spesso in
    casa Guerini; ma Maria non sembra pensarla così, osservando che la
    vita non è una continua festa, che bisogna studiare e lavorare, e che
    per quest'anno non avrebbe accettato un altro simile invito.

    Poi voleva persuadere Elisa che i signori Guerini, con tutte le loro
    ricchezze, dovevano aver molte brighe; intanto tutto il da fare che si
    erano presi per divertire quella gente, poi quell'essere sempre in
    giro, od aver sempre degli ospiti, doveva esser una vita faticosa, che
    non lasciava tempo all'intimità ed al raccoglimento.

    A me pare che abbia tutte le ragioni, e che facendo una vita a quel
    modo, non ci sia nemmeno tempo di volersi bene, e di scambiare le
    proprie idee colle persone care.

    Ti confesso però che mi sono divertita molto, appunto perchè non avevo
    mai assistito ad una festa simile; ma se ciò si ripetesse spesso, mi
    stancherei, e non sarei contenta di passare il tempo a divertirmi
    senza esser utile a nessuno.

    Tu temi che mi rincresca ritornare in città! Mamma mia, non dir queste
    brutte cose! Ho avuto molto piacere di passar quindici giorni in
    campagna, mi sono tanto divagata; ma rivedere dopo tanto tempo la mia
    mamma e il mio babbo, e ritornare alla mia casetta, è per me la gioia
    più grande.

    Mi spiace più di tutto perdere i bei racconti di Maria; ma essa mi ha
    promesso di leggerne qualche altro finchè rimango qui, e poi di
    mandarmeli tutti, sono racconti che mi piacciono tanto; pare che il
    mondo sia più buono, dopo averli sentiti.

    Addio, mamma mia; addio, babbo, fra tre o quattro giorni sarò di nuovo
    con voi, vi racconterò tutto quello che ho goduto, e che sarebbe
    troppo lungo scrivere, e vi farò vivere della mia vita di questi
    quindici giorni; la vostra_

                     ANGIOLINA.



DOPO LA FESTA.


Maria era disperata; dopo la festa di casa Guerini i suoi fratelli
erano tanto fuori di sè che non riusciva più a farli studiare; non
facevano che parlare del divertimento goduto, delle splendidezze di
quella villa. Carlo era infatuato del velocipede, Vittorio della
macchina fotografica, e si era proposto di farsene una, sicchè Maria
diceva loro chiaro e tondo che dopo una visita di ringraziamento, non
sarebbe ritornata tanto spesso a villa Guerini, ma i ragazzi
aspettavano Alberto ed Elvira, che avevano promesso di venire ad
ascoltare un racconto di Maria.

Aspettavano anche il professore e don Vincenzo, perchè ormai i
racconti si leggevano di giorno, in un angolo della corte, sotto un
pergolato.

Elisa era impaziente che venissero; intanto si guardava nello specchio
per vedere se era ben pettinata e quasi si vergognava della sua casa
modesta, del suo giardino, il quale non era che una corte con un po'
di piante, e diceva:

--Chissà che cosa diranno i Guerini, loro che hanno una villa così
bella!

--Sciocca,--le diceva Maria,--colle tue idee sarai sempre disgraziata;
noi non siamo ricchi e non possiamo competere coi nostri vicini; se
non si contentano di venire nella nostra casa modesta, rimangano pure
nella loro villa. Tu certo nei loro panni sdegneresti di venire da
persone modeste come noi.

Elisa rimase tutta avvilita ed andò ad abbracciar la sorella
dicendole:

--Non andare in collera, hai ragione, sono troppo ambiziosa, e voglio
correggermi; ma non vengono mai,--soggiunse guardando fuori dalla
finestra.

--Pazienza,--disse Maria,--abbiamo vissuto tanto tempo senza di loro e
potremo vivere ancora.

--Eccoli, eccoli,--esclamò Carlo.

Infatti si sentì in distanza un rumore di ruote, e poi una carrozza si
fermò davanti al cancello del cortile.

Scesero i ragazzi Guerini e l'istitutrice. Alberto diede a Vittorio
una lente di una sua vecchia macchina fotografica, come gli aveva
promesso, perchè si facesse una macchinetta; e una scatola di lastre
preparate, affinchè potesse divertirsi a fare delle fotografie, e dopo
gli avrebbe mostrato il modo di svilupparle.

Elvira, dopo aver salutate le amiche, pregò Maria che le leggesse una
delle sue belle storie; intanto erano venuti anche don Vincenzo e il
professor Damiati, e tutti si sedettero sotto il pergolato con tanto
di orecchie attente per non perdere una parola del racconto di Maria.


  CARMELA.


  L'infanzia di Carmela fu triste, la madre le morì quando era ancora in
  fasce, ed essa fu costretta a vegetare sola sola, in una viuzza di
  Napoli, dove non penetrava raggio di sole, mentre il padre, Giovanni,
  girava la città vendendo ostriche ed altri frutti di mare.

  --Sta tranquilla, e bada di non farti male,--le diceva prima di uscire
  di casa; poi le lasciava qualche cosa da mangiare, dei gusci di
  ostriche per giocare, e se ne andava fino alla sera in giro per la
  città.

  Carmela non ardiva uscire dalla sua buia stradicciuola, ed era
  contenta quando qualche bimbo del vicinato si fermava a giocare con
  lei.

  Così cresceva pallida, come una pianta priva di sole; avea i capelli
  nerissimi, che non pettinava mai, arruffati e tanto in disordine che
  le nascondevano la faccia e gli occhi, belli ed espressivi.

  Si era ormai abituata a quella vita e avrebbe desiderato che
  continuasse per molto tempo, quando avvenne un fatto che portò il
  disordine in casa, e le fece provare il primo dolore della sua vita.

  Un giorno il padre venne a casa ad un'ora insolita conducendo con sè
  una bella donna, bianca, rossa e grassa; proprio il ritratto della
  salute,

  --Questa donna ti farà da mamma, e non starai più sola,--le
  disse,--bisogna che tu le voglia bene.

  Carmela alzò gli occhi, guardò la donna e rispose:

  --Non avevo bisogno di nessuno; stavo tanto bene sola.

  --È un vero mostriciattolo,--disse la donna, dando un'occhiata alla
  bambina, che s'era rincantucciata e nascosta in mezzo ad un mucchio di
  cenci.

  --È molto buona, e non dà noia; te la raccomando,--soggiunse Giovanni
  rivolgendosi alla moglie.

  Ma ad Anna non piaceva quella bimba, che la chiamava mamma, e le era
  d'impiccio; essa aveva sposato Giovanni per godersi un po' di libertà,
  almeno nei primi anni di matrimonio, e cominciò ad averla in uggia,
  fin da quel primo giorno.

  Per Carmela che desiderava soltanto star quieta, la pace era finita,
  perchè Anna, amante dei propri comodi e del farsi servire, la faceva
  sgambettare e lavorare tutto il giorno.

  --Bisogna bene che s'avvezzi a far qualche cosa, se non vuol mangiare
  il pane a tradimento,--diceva al marito ed alle vicine. Le comandava
  di far questo o quello, di attingere l'acqua, o accendere il fuoco per
  far bollire i maccheroni, di scopare le stanze, e magari di
  aggiustarle i vestiti; se la bimba non ubbidiva, erano busse che
  cadevano sulle sue spalle senza pietà, sicchè a Carmela toccava
  rassegnarsi e sgobbare come un mulo.

  E fu peggio, quando nacque in casa un'altra bimba, e Carmela fu
  costretta a fare anche da bambinaia, e guai se non toccava la sua
  sorellina con tutta delicatezza! Se la bimba faceva capricci, la colpa
  naturalmente era di Carmela, e a lei toccavano i rimproveri e le
  busse.

  Di carattere dolce, non diceva nulla, non si lagnava, si rassegnava
  alla sua trista sorte e piangeva in silenzio.

  Molte volte s'era proposta di raccontare al padre i maltrattamenti
  della matrigna, poi non ne aveva avuto il coraggio. Del resto non
  avrebbe servito a nulla, perchè Giovanni, innamorato della moglie al
  punto d'esserne schiavo, non vedeva che cogli occhi di lei, e
  anch'egli preferiva Graziella, colle sue guancie rosee e paffute,
  colla allegria chiassosa, che dava vita alla casa come un raggio di
  sole, a Carmela buona, dolce, ma sempre triste, muta e rassegnata.

  Mano mano che Graziella cresceva, erano per lei, non solo le carezze e
  i baci, ma altresì i vestiti più belli, i bocconi più saporiti; in
  casa i genitori la tenevano come una regina, e appagavano tutti i suoi
  desiderii, ed essa era capricciosa, volea sempre uscire, andare a
  divertirsi, e la mamma che non sapeva negarle nulla, la conduceva al
  passeggio, in riva al mare, a giocare cogli altri ragazzi, e lasciava
  Carmela sempre a casa, a far bollire la pentola, come Cenerentola.

  Se per caso mostrava desiderio anch'essa di uscire, per vedere qualche
  cosa di più gaio della stradicciuola, dove vegetava priva d'un raggio
  di luce, la madre le faceva capire che colla sua faccia gialla era ben
  meglio che restasse nell'ombra, e già che non poteva brillare alla
  luce del sole dovea rassegnarsi ad essere utile alla famiglia.

  Carmela nel suo isolamento aveva un solo amico: il figlio d'una vicina
  che abitava nella stessa viuzza, e che da bambino aveva giocato
  assieme a lei coi gusci d'ostriche. Egli si chiamava Gennaro, e quando
  sapeva che la signora Anna era uscita, andava dalla Carmela a
  raccontarle i piccoli avvenimenti della sua scuola, le parlava dei
  compagni, dei suoi divertimenti, della campagna, del mare e delle
  rappresentazioni di Pulcinella, alle quali assisteva spesso, ed essa
  stava là intenta ad ascoltarlo, pendeva dalle sue labbra e per quei
  racconti avrebbe lasciato qualunque divertimento.

  Un giorno Gennaro la venne a salutare; avea stabilito di andar a fare
  il mozzo sopra un bastimento, e dovea andare lontano lontano a girare
  il mondo, perchè volea diventare marinaio.

  --Che farò ora senza di te?--disse Carmela.

  --M'aspetterai, e quando ritornerò, ti racconterò tante belle storie
  di paesi che non conosci.

  --Vedrai delle altre bambine, e ti dimenticherai di me, che sono
  brutta.

  --Non è vero, i tuoi occhi sono tanto belli e buoni, che non li
  dimenticherò certamente.

  Era la prima volta che Carmela sentiva fare un elogio della sua
  persona, ed era commossa, avrebbe voluto dire tante cose al suo amico,
  ma non poteva; un groppo alla gola le toglieva il fiato; però lo
  guardò coi suoi occhi buoni, con uno sguardo espressivo che voleva
  dire:--Torna presto.

  Dopo quel giorno, rimase ancora più triste; ma quando la matrigna le
  diceva che era un mostriciattolo, essa pensava alle parole di Gennaro,
  e si consolava.

  Graziella cresceva a vista d'occhio, era bianca, rossa e prosperosa,
  ma di una bellezza volgare; avea poco cuore, e quando poteva, cercava
  d'umiliare la sorella in tutti i modi possibili; raccontava i suoi
  trionfi, i complimenti che le venivano fatti; era continuamente
  occupata ad adornarsi e ad agghindarsi allo specchio, pensava sempre a
  vestiti nuovi, tanto che il babbo dovea lavorare dalla mattina alla
  sera, per appagare i suoi capricci.

  --Ma non ti pare che sarebbe tempo che Graziella guadagnasse qualche
  cosa?--diceva Giovanni alla moglie.

  --Lascia che si diverta, è ancora una bimba,--rispondeva Anna; però,
  un giorno si decise di metterla da una sarta, affinchè imparasse il
  mestiere; ma ciò non valse ad altro che a darle un pretesto per stare
  di più fuori di casa, e per diventare più vanerella.

  Carmela s'era rassegnata anch'essa a tenere Graziella come un essere
  privilegiato, e l'ammirava continuamente; si divertiva anzi ad ornarla
  come una bambola, ed a vederla farsi più bella, dopo aver indossato la
  veste nuova che aveva aiutato a cucirle, rubando delle ore al sonno.

  Graziella era una piccola egoista, non amava che sè stessa.
  Accarezzava Carmela quando aveva bisogno del suo aiuto; la mamma,
  perchè la conducesse ai divertimenti; il babbo, quando voleva che le
  desse quattrini per comperare dei fronzoli; e godeva la vita senza
  pensieri, passando lunghe ore fuori di casa, assieme alla madre, non
  curandosi nè di Giovanni, che lavorava come un cane, nè di Carmela,
  che si preoccupava di preparare loro la minestra, e porre in ordine la
  casa.

  Un giorno Anna e Graziella si spaventarono nell'udire che una loro
  vicina era morta di vaiuolo, e che la malattia regnava nella città.
  Ebbero subito il pensiero di andare lontano; ma Giovanni disse che non
  avea quattrini da sprecare per capricci. Perciò dovettero rassegnarsi
  a rimanere, ma tremavano dalla paura di prendere la malattia, e quando
  uscivano di casa, cercavano di star in mezzo alla via per non toccare
  il muro; non parlavano più coi vicini, ed erano infelici di dover
  vivere con quel pensiero. Un giorno Giovanni venne a casa con una
  febbre fortissima, e le due donne divennero pallide come morte, quando
  il dottore affermò che si trattava di vaiuolo.

  Il primo pensiero di Anna fu di mandare il marito all'ospedale,
  dicendo che sarebbe stato curato meglio; ma egli disse che voleva
  morire nel suo letto: in quanto a lei era padronissima di andarsene,
  se temeva di prendere il male; in quanto a lui qualche santo lo
  avrebbe aiutato.

  --Non è per me, è per Graziella,--disse Anna,--sarebbe peccato che la
  sua faccia rimanesse butterata; non posso permettere che rimanga qui a
  questo pericolo.

  --Andate,--disse Carmela,--resterò io che sono brutta.

  Anna non si fece ripetere due volte questa proposta, e rispose:

  --È giusto; è inutile che stiamo qui tutti; tu sola basti; poi si
  tratta di tuo padre: ti raccomando di curarlo bene e guarda di non
  prender quel brutto male; anzi è meglio che tu ti faccia vaccinare.

  Anna non s'avvicinò nemmeno al letto per salutare il marito, e assieme
  a Graziella, che quando aveva inteso parlare di vaiuolo non era più
  entrata in casa, andò a Portici, presso una vecchia parente.

  Carmela rimase sola accanto al letto dell'ammalato, non dormendo nè
  giorno nè notte per assisterlo, e quando il dottore le diceva:

  --Badate, è una malattia contagiosa, non vi avvicinate troppo a vostro
  padre--essa non gli dava retta, e si contentava di lavarsi col
  sublimato corrosivo o coll'acido fenico, dicendo:

  --Faccio queste cose, perchè voglio star bene e poter assistere mio
  padre, e che non resti solo; ma per me, non m'importa di nulla.

  Per parecchi giorni sopportò le più crudeli sofferenze; avvilita
  dall'impotenza di recar sollievo al povero infermo. Vi fu un momento
  che il padre, in preda ad una febbre ardente, voleva gettarsi dalla
  finestra, ed essa temè di non aver abbastanza forza per trattenerlo.
  Nè poteva far assegnamento sull'aiuto di alcuno, perchè tutti
  fuggivano la loro casa come se fossero appestati, ed essa era alla
  disperazione; sola, col padre delirante, che voleva alzarsi, che non
  la riconosceva più, e la cacciava via. Fortunatamente quel periodo non
  durò molto, e a furia di cure e di riguardi il male prese una buona
  piega: ma bisognava vedere com'era sfigurato il povero Giovanni! avea
  la faccia gonfia, tutta piena di piaghe, e Carmela con una pazienza da
  santa, vinceva il ribrezzo e la nausea che quella vista le incuteva,
  per curarlo e diminuirgli lo spasimo.

  Furono venti giorni di vero martirio per la povera figliuola; e quello
  che le dispiaceva di più, era vedere che nè la madre nè Graziella
  davano segno di vita, mentre l'ammalato domandava nel delirio
  continuamente di loro.

  Quando Giovanni incominciò a star meglio, allora conobbe la grande
  abnegazione della sua figlia, e l'egoismo della moglie e di Graziella,
  e disse a Carmela:

  --Tu sei un angelo. Guai se non eri tu a curarmi! sarei morto come un
  cane; e dire che a te non badavo nemmeno! Come mi pento d'essere stato
  così ingiusto! Ma ora, noi due staremo sempre assieme, e le altre
  resteranno là dove sono andate; non le voglio più vedere.

  Carmela le difendeva:--Sarebbe stato un peccato che Graziella venisse
  presa da una malattia così terribile, che può lasciar tracce sul
  viso,--diceva scusandole.

  Ma Giovanni non voleva saperne più nè della moglie, nè dell'altra
  figliuola, e diceva abbracciando Carmela:

  --Si sta tanto bene noi due, e non voglio più che tu faccia la vita
  che facevi una volta; verrai con me a girare la città, a respirar un
  po' d'aria libera: ne hai di bisogno, sei tanto pallida.

  Quando la casa tu disinfettata, e Giovanni guarito, ritornò Anna, ma
  egli non la volle vedere.

  Anna se la prese con Carmela, dicendo che le aveva guastato il marito,
  che non le voleva in casa perchè Graziella era più bella di lei; e
  mentre s'avventava contro la figliuola per batterla, entrò Giovanni,
  che, rivoltosi alla moglie, disse:

  --Voi non siete degna di respirare l'aria che respira quest'angelo;
  voi mi avete abbandonato, essa mi ha assistito e m'ha salvato.--Poi a
  Carmela, disse:--Andiamo via noi da questa casa, giacchè loro non
  vogliono andarsene.--E condusse fuori la figlia, la quale diceva alla
  matrigna:

  --Vado per obbedienza.

  Giovanni era forte, robusto e non avea paura del mare; s'unì ad una
  compagnia di pescatori, e quando faceva buona pesca, andava a venderla
  assieme a Carmela, la quale si sentiva rivivere trovandosi tutto il
  giorno all'aria aperta che le accarezzava la faccia, le penetrava nei
  polmoni, e la rinvigoriva.

  Essa però pensava sempre ad Anna e Graziella, che non sapevano
  lavorare, e sarebbero certo morte di fame; e quando il padre aveva
  fatto una buona pesca, riempiva in segreto una cesta di pesci, e
  sull'imbrunire andava nell'antica viuzza accanto alla casa dove era
  nata, e sulla soglia lasciava la cesta, e poi rifaceva la via in un
  lampo.

  Anna e Graziella quando la prima volta trovarono i pesci presso
  l'uscio, dissero:

  --È la provvidenza che si ricorda di noi.

  Esse non erano più riconoscibili tanto soffrivano; non sapevano
  lavorare, e per conseguenza non avevano di che mangiare.

  Graziella era bensì ritornata a lavorare dalla sarta, ma non
  guadagnava che pochi centesimi. Anna aveva offerto i suoi servizi a
  qualche famiglia, ma non essendo buona a nulla, dopo le prime prove
  veniva licenziata.

  --Tutto colpa di quel mostricciattolo di Carmela, che ha stregato
  Giovanni durante la malattia,--diceva Anna, e si sentiva crescer
  l'odio che aveva sempre avuto per quella fanciulla.

  Quando trovavano la cesta di pesce sulla porta, dicevano che certo
  qualche buona fata pensava a loro, e per far qualche soldo, vendevano
  il pesce ai vicini.

  Graziella sarebbe stata curiosa di sapere chi dovesse ringraziare del
  pesce, e volea spiare sull'uscio per scoprire qualche cosa; ma Anna
  non volea saper nulla: diceva che era meglio credere che venisse dal
  cielo e non aver obbligazioni con alcuno.

  Una sera che Carmela avea portato il pesce al posto consueto, e se ne
  tornava a casa, incontrò nella viottola buia un bel marinaio che la
  guardò negli occhi.

  --Gennaro, siete voi?

  --Carmela!--esclamò,--non vi avrei più riconosciuta, vi siete fatta
  bella come una fata.

  --E nemmeno io vi avrei riconosciuto, se il cuore non m'avesse detto
  che eravate voi.

  --Ma che cosa fate ora?

  --Sto in riva al mare, e faccio la pescatrice.

  --Volete che vi accompagni!

  --Venite.

  Così traversarono la città raccontandosi a vicenda le loro avventure
  di tutto il tempo in cui erano stati lontani. Ad un certo punto, il
  marinaio si fermò, e le chiese guardandola negli occhi:

  --Volete che ci sposiamo? io sono stanco di star solo.

  --Perchè no?--rispose Carmela,--se è contento il babbo!

  --Andiamo a chiederglielo,--disse Gennaro.

  E senza por tempo in mezzo, andò da Giovanni a chiedergli la mano
  della figlia.

  Il giovane era forte e aveva voglia di lavorare, e Giovanni non seppe
  trovar altra risposta che questa:

  --Se vi piacete, pensateci voi; io non ho nulla in contrario.

  E così combinarono, e Carmela si sentiva contenta come una regina.

  Però il giorno del matrimonio, disse al padre:

  --Perchè io sia felice devi farmi un bel regalo.

  --Tu sai che non sono ricco.

  --Ma tu puoi fare quello che chiedo.

  --Ebbene; che cosa vuoi?

  --Prima, promettimi che lo farai.

  --Sentiamo.

  --Devi perdonare alla mamma e a Graziella.

  --Non me ne parlare.

  --Ti prego, babbo, se vedessi come hanno sofferto; non si riconoscono
  più: sii buono, fammi contenta. Dunque, le faccio venire?

  --Fa pure, sei tu la padrona.

  E Carmela corse, anzi volò alla sua vecchia casa, entrò come un razzo,
  e disse:

  --Mamma? Graziella? venite, venite, il babbo vi perdona.

  Graziella la guardava stupefatta, Anna era muta dalla sorpresa.

  Finalmente Graziella le gettò piangendo le braccia al collo, e le
  disse:

  --Sei stata tu, non è vero, a far decidere il padre? Quanto sei buona!
  E fosti anche tu quella che ci portava sempre il pesce, e pensava a
  noi?

  --È stato chi è stato, e non se ne parli più; il babbo vi perdona, ed
  è contento di ritornare con voi; andiamo.--E le trascinò fuori, fino
  in fondo alla strada, dove Giovanni e Gennaro l'aspettavano.

  --Ecco, babbo, oggi tutti devono esser felici, abbraccia la mamma e
  Graziella!--Poi presentò il suo sposo.

  --Che bel giovane!--disse Anna.--Si diventa buoni quando si hanno di
  quelle fortune!--soggiunse ironicamente.

  --Io la sposo, perchè Carmela è sempre stata buona,--disse
  Gennaro,--perchè ho saputo l'assistenza che ha fatto a Giovanni quando
  fu ammalato, e penso che se mai mi capiterà una disgrazia simile, non
  mi lascerà morir solo come un cane.

  --Basta, basta,--disse Carmela,-- non voglio che pensiamo a
  malinconie, dobbiamo stare allegri.

  Graziella disse alla mamma:

  --È vero! Carmela merita la sua fortuna; Gennaro ha ragione, è sempre
  stata buona anche quando io era cattiva; ma ora che ho provato che
  cosa è soffrire, ho più compassione per gli infelici.

  Carmela la fece star zitta dandole un bel bacio.

  Giovanni disse a Gennaro, scotendo il capo:

  --Graziella è giovane, e se ne farà ancora qualche cosa: ma l'altra è
  proprio incorreggibile.


Quando Maria ebbe terminato, quell'uditorio stato attento dal
principio alla fine incominciò a far dei commenti, tutti ammirarono la
bontà e l'abnegazione di Carmela, ed erano contenti che l'altra
ragazza fosse stata punita. Maria osservava che quantunque nel mondo i
buoni non siano sempre premiati e i cattivi puniti, in ogni modo far
il proprio dovere è una tale soddisfazione che non ha bisogno d'altri
compensi. Mario come al solito avea fatto la caricatura di Carmela
brutta come un mostriciattolo, con una grande cesta di pesci sulla
testa e Graziella davanti allo specchio a farsi bella.

Intanto venne la signora Guerini colla carrozza a prendere i figli, e
pregò Maria di andar spesso alla villa, dove quasi tutti i giorni dopo
la cinque vi era un po' di gente e i ragazzi si sarebbero divertiti
giocando assieme.

Maria ringraziò, e disse:--che non avrebbe potuto approfittare spesso
dell'invito, temendo che i troppi divertimenti servissero a distrarre
i suoi fratelli dagli studii, specialmente Carlo che dovea ripetere
l'esame; ma chiese il permesso di condurli invece a vedere la
fabbrica, perchè essi lo desideravano e sarebbe stata una cosa molto
istruttiva.

La signora Guerini disse che alla fabbrica potevano andare quando
credevano, anzi soggiunse che Alberto ed Elvira sarebbero stati felici
di accompagnarli. Così fissarono la gita per la mattina dopo, e
Vittorio pensava di mettere intanto in ordine la sua macchinetta
fotografica, e far fotografie e poi andare a svilupparle nella camera
oscura di Alberto.



VISITA ALLO STABILIMENTO GUERINI.


Nel punto dove la valle si allarga e il torrente scendendo dalle
montagne rumoreggia fra i sassi, si vede biancheggiare un vasto
fabbricato quadrato, con grandi cortili e degli altissimi fumaiuoli
che sembrano toccare il cielo.

I ragazzi Morandi erano passati tante volte davanti a quel fabbricato,
s'erano fermati a sentire il rumore delle macchine e il canto degli
operai, ma non avevano osato entrare, trattenuti da un cartello sul
quale era scritto: _Non entrano che le persone addette ai lavori_;
perciò quel giorno, tutti contenti, uscirono di casa prima dell'ora
stabilita, impazienti di ritrovarsi coi loro amici.

Maria avea pregato il professore Damiati di accompagnarli. Egli così
istruito, che sapeva parlare di tutto con chiarezza, avrebbe potuto
dare ai ragazzi delle spiegazioni sulle macchine, e la visita allo
stabilimento sarebbe stata più utile con una guida come lui.

Vittorio poi, che aveva la passione delle macchine, e diceva che
avrebbe voluto fare l'ingegnere meccanico, era lietissimo di quella
passeggiata e la considerava come una vera festa.

Passando da villa Guerini chiamarono i loro amici, e trovarono che il
signor Guerini in persona voleva accompagnarli e far loro gli onori
del suo stabilimento. Egli, strada facendo, incominciò a raccontare la
storia della sua azienda.

Narrò che suo padre gli aveva lasciato un filatoio, ancora incompiuto,
posto nell'ala più vecchia del fabbricato, ed egli a poco a poco s'era
innamorato di quel genere di lavoro, era andato in Inghilterra a
studiare i nuovi sistemi di filatura, avea ampliato la sua fabbrica,
vi avea aggiunto una tintoria, e finalmente la tessitura delle stoffe,
che ora occupava la parte principale del fabbricato; egli parlava con
amore del suo stabilimento, che avea veduto nascere e crescere sotto
ai suoi occhi, ma diceva di essere stanco, e impaziente che suo figlio
potesse supplirlo per riposarsi.

Così discorrendo erano giunti davanti al cancello, ed entrarono tutti
nel primo cortile passando per la camera del custode; un ampio
stanzone dove il signor Guerini, mostrò intorno al muro, attaccate ad
una tabella, delle medaglie con un numero progressivo; ogni operaio ne
avea una che dovea consegnare al custode quando entrava e farsela
restituire all'uscita per verificare l'ora d'entrata e le ore del
lavoro.

Nel primo cortile c'erano mucchi di lana e di cotone in bioccoli, che
gli operai caricavano sopra carri a mano e trasportavano sotto ad una
tettoia per la pulitura. Là sotto videro alcuni grandissimi recipienti
d'acqua bollente, più in là, dei forni per asciugare, poi più giù
delle macchine per scardare il cotone e la lana ripulita, e
dappertutto una quantità di uomini, donne e ragazzi occupati a
trasportare, a ripulire, separare la merce buona dalla cattiva.

Non fecero che traversare quella tettoia, fermandosi poco, perchè il
signor Guerini diceva che quelle operazioni non erano molto
importanti; ma fecero una sosta più lunga nella tintoria, dove dentro
a grandi caldaie, bollivano materie d'ogni colore e dove degli operai
sudanti per il caldo eccessivo, prodotto da quei liquidi in
ebollizione, gettavano nelle caldaie matasse di filo greggio che si
tingevano nei più vivi colori, poi le mettevano ad asciugare, ma
spesso dovevano passare per un'altra tinta, e forse per altre ancora.

--Andiamo avanti, che qui c'è troppo sudiciume,--diceva Elvira, ma i
ragazzi si divertivano nel vedere tutto quelle pozzanghere rosse,
verdi, violette, quelle acque di tutti i colori che correvano in
appositi canaletti e poi andavano a finire in un fosso, che le
conduceva nel torrente.

--Ora capisco,--disse Carlo,--perchè qualche volta si vede l'acqua
tinta di vari colori.

--Badate di non sciupare i vestiti,--disse il signor Guerini.

Uscirono all'aperto e s'avvicinarono a un luogo donde si sentiva il
rumore delle macchine, che pareva un mare in burrasca.

--Oh bello!--esclamarono in coro quei ragazzi, quando entrarono in un
bel stanzone spazioso, ben illuminato, dove c'era una quantità di
macchine in moto e si vedeva un bel numero d'operai attenti al lavoro;
un vortice di ruote, di pulegge, di cilindri, un luccichio di metalli,
tanto che per il primo momento non poterono raccapezzarsi in quella
confusione, con quel rumore assordante.

--Questi sono i filatoi,--disse il signor Guerini;--sono quasi tutti
uguali l'uno all'altro, e per non far confusione, fermiamoci ad
osservarne uno.

Si fermarono davanti ad una bellissima macchina, grande, rotonda, dove
dal centro usciva il cotone e la lana a falde, e a mano a mano che
passava da alcuni forellini messi in moto da ruote dentate, s'andava
assottigliando, in modo che si avvolgeva in fili sottilissimi intorno
alle centinaia di rocchetti, che giravano continuamente, come in una
danza vertiginosa.

Il signor Guerini fece fermare la macchina, perchè vedessero bene, e
allora il professor Damiati spiegò, come quegli arnesi dove il cotone
era disposto a falde quasi in natura, facessero l'ufficio della
conocchia che adoperavano le donne antiche per filare, e mostrò quale
progresso si era fatto da quel tempo, in cui s'impiegavano parecchie
giornate per filare un solo gomitolo di cotone, ed ora se ne filano
centinaia in un'ora.

--Pare una magia,--dicevano quei ragazzi tutti attenti a vedere come
in quel continuo ballare di rocchetti e di fili, le cose procedessero
con tanta prestezza e precisione, ed espressero il desiderio che si
rimettesse in moto la macchina; poi stettero ad osservare
meravigliati, estatici, ammirando la velocità con cui andava, e la
prontezza colla quale gli operai riappiccavano il filo che qualche
volta si spezzava durante il lavoro, cambiavano i rocchetti e
fermavano la macchina quando accadeva qualche incaglio.

--Pare una gran ragnatela,--disse Mario, che stava ad ammirare a bocca
aperta quello spettacolo nuovo per lui.

--Mi pare che ce ne sieno tante di ragnatele!--soggiunse Angiolina,--e
dire che non ho mai pensato, che per una gugliata di cotone ci volesse
tanto lavoro!

--Ma credi che con quel cotone si possa lavorare?--chiese Alberto
Guerini.--Senti,--e le diede un filo, che appena teso, si spezzò.

--Vedete,--disse, mostrando di essere istruito nella materia,--ora
venite con me e vi farò vedere.

E li condusse vicino ad un'altra macchina, la quale serviva di
torcitoio, cioè torceva i fili di due o tre rocchetti avvoltolandoli
intorno ad uno solo; e qui Alberto tutto contento di poter far sfoggio
della sua scienza, soggiunse:

--In questo modo si fa il cotone più o meno grosso, secondo che si
torcono insieme due, tre o quattro fili; e così il cotone che serve
per cucire, si può far forte quanto si vuole.

Tutti i ragazzi stavano a bocca aperta, davanti a quelle macchine in
moto, a quegli operai attenti al lavoro, che parevano anch'essi far
corpo colle loro macchine, ma furono ancora più maravigliati quando
andarono nello stanzone della tessitura.

--Oh bello!--disse Giannina fermandosi davanti ad un grande telaio,
dove erano tesi in bell'ordine dei lunghissimi fili, e una spola
correva avanti e indietro con grande rapidità, formando, dove passava,
una tela fitta e compatta.

--Pare un topolino!--esclamò Mario.

--Ecco, vedete, questo è l'ordito,--disse il professore Damiati,--e il
filo che lo attraversa guidato dalla spola è la tessitura; badate come
quando la spola è passata, con un macchinismo quasi automatico, una
metà dei fili s'abbassa e l'altra metà si alza perchè i fili che
devono essere intrecciati si alternino coi fili trasversali.

--E che cosa sono tutte quelle spole?--disse Carlo.

--È per fare un tessuto di colori diversi; ogni colore ha una spola, e
l'operaio deve stare attento di cambiarla al momento giusto.

--Come è bello!--disse Vittorio,--mi piacerebbe star qui tutto il
giorno,--e intanto guardava sotto alle macchine, cercando di scoprire
il loro meccanismo, si arrovellava il cervello in mezzo a
quell'intrecciarsi di ruote e di cilindri, e diceva che gli pareva
impossibile, che tutte quelle macchine così esatte e perfette, fossero
fatte dagli uomini.

Mentre erano là con tanto d'occhi ad osservare, la tela si tesseva con
grande rapidità e si avvoltolava intorno ai cilindri; e nel medesimo
tempo dalla parte opposta ne usciva altrettanto ordito, e Vittorio
continuava a guardare dicendo:

--È meraviglioso, io ci perderei la testa.

Il professore spiegava come l'invenzione di quelle macchine fosse
avvenuta a poco a poco, a furia di uomini d'ingegno che vi apportarono
sempre nuovi miglioramenti e coll'aiuto delle nuove scoperte
nell'industria; narrò che i primi tessuti erano cose grossolane, poi
l'arte del tessere si perfezionò col telaio inventato da Jaquard, ma
anche quello era rozzo, pesante, e la spola doveva esser guidata dalla
mano, finchè a poco a poco si giunse al punto di poter ottenere colla
massima facilità una immensa quantità di lavoro, specialmente dopo che
s'incominciò ad adoperare il vapore come forza motrice.

Maria avrebbe voluto stare tutta la giornata in quel tempio del
lavoro, ma temeva di abusare della bontà del signor Guerini, il quale
trascurava in quel momento le sue occupazioni, per servire loro di
guida; poi temeva che una visita tanto prolungata, potesse distrarre
gli operai; sicchè dopo aver dato un'occhiata alle stanze meno
importanti dove la tela veniva imbiancata e cilindrata, dove ai
rocchetti di cotone si appiccicavano dei bigliettini colla marca di
fabbrica e si mettevano in scatole per la spedizione; dopo essersi per
ultimo soffermata davanti alla macchina a vapore, dalla quale partiva
tutto il movimento, uscì da quel luogo riportandone un'impressione
indimenticabile.



LA MACCHINA FOTOGRAFICA.


Vittorio era riuscito coll'aiuto d'una lente regalatagli da Alberto, a
mettere assieme una macchina fotografica molto semplice, ma colla
quale si riprometteva un grande divertimento, pel tempo delle vacanze.

Ecco come avea fatto per combinare la sua macchinetta:--Prima prese
una cassettina di legno, che foderò di stoffa nera, avendo cura che
non vi penetrasse nemmeno un filo di luce: poi collocò davanti la
lente destinata a raccogliere i raggi luminosi e mandarli nell'interno
della cassetta, o camera oscura; guardò se gli oggetti posti davanti
alla lente si disegnavano bene e con chiarezza, sopra un vetro
smerigliato che pose dietro alla cassetta per fare l'esperimento. La
macchinetta era riuscita bene; ed egli poteva benissimo al posto del
vetro smerigliato mettere dei vetri preparati col bromuro d'argento, e
sensibili alla luce. Studiò un sistema per cambiar i vetri entro un
sacco nero, in modo che non fossero esposti alla luce, e fece un
cappello aderente alla lente da mettere e togliere a mano, e intanto
studiava una forma più comoda di otturatore.

Egli voleva fare il ritratto di tutta la sua brigata, prima che
partisse l'Angiolina; faceva i dispetti a Mario che coi suoi disegni
non avrebbe potuto più gareggiare con lui, il quale copiava scene e
paesi colla rapidità fotografica.

Quando la sua macchina fu pronta, fece posare al sole tutta la
famiglia, e si stizziva perchè, vedendo la sua aria importante da
provetto fotografo, non potevano star fermi, nè trattenersi dal
ridere. Rifece tre volte il gruppo nella speranza che riuscisse almeno
una volta; poi non ebbe pace finchè non gli venne fatto d'andare alla
villa Guerini per sviluppare le sue lastre nella camera oscura
d'Alberto, il quale dovea fargli da maestro.

Andò assieme a Carlo, che era ansioso di vedere i risultati della
fotografia, e quando furono tutti e tre rinchiusi nella camera buia,
Alberto versò un liquido in una bacinella e disse:

--Vedete, questo è idrochinone, una sostanza che farà risaltare la
imagine sul vetro; si potrebbe anche adoperare l'acido pirogallico,
l'ossalato di ferro e tante altre cose; ma io preferisco questo,
perchè mi pare migliore.--Poi coperte le lastre col liquido,
gl'insegnò a scuoterlo fino al punto di veder disegnarsi qualche cosa,
infatti sui vetri si andavano figurando delle linee bianche e nere
come per virtù magica.

--Vedete,--disse,--gli oggetti chiari più in luce, vengono neri, e
viceversa, le cose scure vengono chiare, perciò queste si chiamano
negative. Ecco ora questo vetro è abbastanza nero, mettiamolo in
questa bacinella, dove c'è un po' d'iposolfito di sodio il quale
scioglie i sali d'argento ormai inutili; così, ora, la negativa è
completa, possiamo portarla alla luce; però prima bisogna lavarla bene
nell'acqua pura.

Quando furono alla luce ebbero la dolorosa sorpresa di trovare una
negativa colle figure doppie.

--Oh rabbia! si sono mossi,--disse Carlo tutto imbronciato.

--Mi pare che sia la macchina che s'è mossa;--disse Alberto,--queste
però sono riuscite meglio; ma sono senza testa,--soggiunse osservando
la seconda negativa.

La terza era meglio delle altre, ma le persone avevano la faccia nera
e poco distinta, e anche quella non si poteva dire ben riuscita, però
bisognava lasciarla asciugare prima di stamparla, e poterne vedere
l'effetto. Alberto regalò agli amici qualche pezzetto di carta
preparata, affinchè potessero stampare le fotografie, ed una
bottiglietta con un liquido per fissarle sulla carta.

--Quando questa carta è esposta alla luce senza negativa viene tutta
nera,--disse Alberto--e non si vede nulla;--e spiegò come le parti che
sulla negativa erano chiare venivano scure sulla carta, perchè la luce
vi passava liberamente e l'anneriva, mentre le parti scure rimanevano
chiare; ed era tutto contento di poter fare da maestro a quei ragazzi,
che per la prima volta avevano nelle mani una macchina fotografica.

Andarono a casa tutti allegri, credendo che una volta stampata la
fotografia avrebbero potuto mostrare la loro bravura, ma appena Maria
diede loro un'occhiata, disse tutta spaventata:

--Che cosa avete fatto? Non vedete che i vostri vestiti sono
macchiati?

Essi si guardarono e risposero confusi:

--È vero--ma non ci si vedeva in quella camera buia, buia; c'era
soltanto un lanternino rosso.

--E intanto avete sciupato i vestiti, e così non potrete più venire in
nessun posto, e molto meno dai signori Guerini, perchè non posso
comperarvi degli abiti nuovi per i vostri capricci.

--Prova a ripulirli--disse Vittorio.

--Non vedete che gli acidi hanno intaccato il colore? ormai non c'è
rimedio, non si possono ripulire.

Maria era disperata, voleva rompere la macchinetta, perchè quelli non
erano divertimenti per loro, costavano troppo, ed era certa che non
erano riusciti e non avevano fatto altro che perdere il tempo e
sciupare i vestiti.

I ragazzi si misero a stampare, e rimasero proprio malcontenti di
vedere i gruppi così mal riusciti, e che tutti avevano le faccia scure
come se fossero africani.

Elisa non voleva essere così brutta, Giannina diceva che pareva una
scimmia, e Angiolina diceva d'essere un mostro.

I fotografi erano avviliti, e Vittorio si dichiarava vinto e diceva di
voler rinunciare alla fotografia, anche per non dare dispiacere alla
sorella. Carlo avrebbe voluto la macchinetta di Vittorio per
perfezionarsi; ma Maria la prese e la chiuse in un armadio, mentre
Angiolina pensava al modo di mettere un pezzettino di stoffa nuova con
un rammendo, dove erano le macchie, tanto per non vedere delle faccie
scure l'ultimo giorno che restava in loro compagnia. Invece Mario
trionfava; aveva ragione di essere nemico della fotografia! almeno coi
suoi scarabocchi non sciupava i vestiti e anzi, già che gli capitava
la buona occasione, s'accinse a fare la storia delle gesta
fotografiche dei suoi fratelli.

Lavorò tutta la giornata, e quando mostrò i suoi lavori, furono
accolti da un'ilarità generale.

Erano tre quadretti, pieni di spirito; nel primo la posa, coi
fotografi che si davano grande importanza e gli altri negli
atteggiamenti più grotteschi; il secondo rappresentava la camera
oscura, cioè uno stanzino buio dove misteriosamente i suoi fratelli
versavano un liquido sui loro vestiti, invece di versarlo sulle
negative; poi finalmente il quadro finale: i fotografi coi vestiti
macchiati e con in mano due pezzi di carta che rappresentavano dei
personaggi senza testa, o con due teste, i fotografi con tanto di
naso, e Maria che si disperava di vederli in quello stato.

Tutti risero, e Angiolina pregò Mario di regalarle quei disegni.

Maria faceva uno sforzo per star seria, ma avea una gran voglia di
ridere, e sgridava Mario di non esser buono che a burlarsi di tutti.

Più tardi quando vennero il professore e Don Vincenzo, essa raccontò
loro le disgrazie dei suoi fratelli, che s'erano sciupati i vestiti; e
disse ch'era proprio adirata colla fotografia e con tutte le nuove
invenzioni.

Don Vincenzo fece eco alle sue parole; anch'egli trovava che si viveva
meglio nei tempi passati senza tante macchine, tanti giornali e tante
scoperte. Appunto quella mattina aveva letto in un giornale che un
operaio aggiustando un filo della luce elettrica era rimasto fulminato
e che era avvenuto uno scontro ferroviario: tutte cose che in altri
tempi non sarebbero accadute. Damiati non voleva sentire quei
discorsi; egli che era un vero uomo moderno, amava il progresso e
ammirava i nuovi ritrovati della scienza: diceva soltanto che
bisognava esser preparati a tutte queste novità. Invece ci
comportavamo da bambini, esagerando in tutto; prima eravamo rimasti
spauriti dall'invasione di tante macchine, che si credevano opere
infernali, dopo s'andò all'eccesso opposto, e si riguardò tutto come
un giochetto, mettendo spensieratamente le mani fra le macchine,
bruciandosi e avvelenandosi coi preparati chimici, esaltandosi il
cervello colla lettura dei giornali, impazienti di correre e
d'arrivare, dopo che il vapore avea sostituito i cavalli, avidi di
notizie dopo che correvano col telegrafo, e tutta una vita agitata e
febbrile che venne a turbarci la calma.

--A me, vi confesso,--soggiunse,--piace questo movimento e questo
progresso, ma vorrei solo che i nostri figli fossero anche essi pari
alle difficoltà dei nostri tempi; cioè, più avveduti, più prudenti, e
conoscessero i pericoli che aumentano da tutte le parti, e avessero
l'avvertenza di schivarli. Se quell'operaio avesse saputo il modo con
cui si forma l'elettricità, avrebbe saputo scansarsi prima di
lasciarsi uccidere dalla corrente elettrica; se Carlo e Vittorio
avessero saputo come erano composti i liquidi che adoperavano per la
fotografia, non si sarebbero macchiati i vestiti; forse, causa la loro
ignoranza avrebbero anche un giorno o l'altro potuto bere in sbaglio
uno di quegli acidi, e avvelenarsi. Ora la smania d'arrivare a tutto,
di saper molte cose, fa sì che si studia superficialmente: la scienza
resa popolare, ci famigliarizza anche colle cose più nocive, e si è
circondati da pericoli prima ancora di conoscerli e di saperli
evitare. Una volta invece la scienza era possesso di pochi; si
circondava di silenzio e mistero, e naturalmente c'erano meno
pericoli; ma le popolazioni erano invece ignoranti e superstiziose.

Consigliò poi i ragazzi a diffidare delle sostanze che non conoscono,
ad esser prudenti e studiare per poter rendersi ragione dei pericoli,
e tenerne lontane le persone di famiglia.



PARTENZA DI ANGIOLINA.


Angiolina vedeva volar via con rammarico le belle giornate che passava
in campagna assieme ai suoi amici; ma la mamma la sollecitava a
ritornare a casa, ed essa s'era decisa di partire assieme al signor
Morandi, il quale dovea recarsi in città.

Bisognava proprio che pensasse al piacere di rivedere la sua mamma,
per non dolersi troppo di abbandonare quella vita che le piaceva
tanto.

Aveva ancora un giorno di vacanza, e quella giornata volle impiegarla
bene. Essa radunò tutta la sua roba e chiuse la sua valigetta; poi
andò a salutare tutti gli angoli della casa e del cortile; volle per
ultimo uscire per andare alla posta, ed ivi trovò il curato e il
professore, che come al solito, parlavano delle notizie del giorno.

--Domani non sarò più qui--pensò, e quasi senza volerlo i suoi occhi
le si empirono di lagrime.

Quando fu seduta a tavola disse:

--È l'ultimo giorno che pranzo con voi.

--Vuoi restare finchè stiamo tutti?--chiese Maria,--a noi fai piacere.

--Ho la mamma che m'aspetta,--rispose Angiolina.

--Ma ritornerai l'anno venturo--disse Maria.

--Per me sarei tanto contenta, e vivrò tutto l'anno con questa
speranza.

Poi volle a tutti i costi portare con sè alcuni lavori che Maria dovea
fare.

--Li terminerò io--disse;--così occupandomi dei vostri lavori mi
sembrerà d'esser meno lontana da qui.--Poi soggiunse:--Mi dispiace per
tante ragioni andar via, anche perchè non sentirò più raccontare le
belle storie di Maria.

--Belle o brutte, te ne leggerò in città,--disse Maria,--intanto mi si
presenterà forse l'occasione di aggiungerne delle altre.

--Ci vedremo dunque anche in città?

--Certo.

--Come sono contenta! mi dispiace meno d'andar via.

Poi voleva dire tante cose per esprimere la sua riconoscenza, ma non
aveva coraggio.

--Sono una sciocca,--disse a Maria,--non so dir nulla, ma mi hanno
fatto tanto bene queste settimane passate all'aria aperta; e poi ho
imparato tanto, è così brava lei! Come mi piacerebbe poterla imitare!

E Maria le prendeva la testina e le dava tanti baci dicendole:

--Non hai bisogno d'imparar nulla da nessuno, conservati una buona
figliuola come sei e come vorrei che fossero le mie sorelle.

--Ecco l'ultima notte che dormo in questa stanza, ecco l'ultima
colazione che faccio con voi,--andava dicendo la fanciulla. Ma la
colazione non la fece, perchè non ne aveva voglia: era troppo commossa
di lasciare quei luoghi, dove si era trovata tanto bene.

Andò nella sua camera e discese col cappellino e la borsetta in mano.

Tutti vollero accompagnarla alla stazione, e darle qualche ricordo:
Vittorio le regalò un libro, Giannina le porse un mazzo di fiori,
Mario le regalò un disegno che rappresentava tutta la famiglia Morandi
in lagrime per la sua partenza.

Essa era turbata e non trovava più parole per ringraziare.

--È troppo, è troppo, grazie,--continuava a dire,--quanto siete buoni!

Arrivarono alla stazione cinque minuti prima che partisse il treno.

Dovette subito mettersi al posto, ma stette al finestrino a
chiacchierare coi suoi amici; aveva da raccomandar loro tante cose e
specialmente di scriverle, di dirle tutto quello che accadeva in quel
paese e di tornar presto in città, dove essa avrebbe contato i giorni
aspettandoli. Le pareva d'aver ancora tanto da dire, ma si udì il
segnale della partenza.

--Addio, addio,--disse sporgendo la manina fuori dal finestrino; poi
fu vista quella manina scuotere un fazzoletto bianco mentre il treno
spariva in distanza.

--Addio, addio,--gridarono tutti sventolando i fazzoletti, e stettero
là fermi finchè videro un punto nero che correva, correva lontano,
finchè non udirono più il rumore del treno, poi rifecero la strada
fatta, ma più tristi, come se mancasse loro qualche cosa e sempre
parlando di Angiolina.

--Ecco una ragazza che dovreste prendere per modello,--disse Maria.

--È vero, è tanto buona,--disse Giannina,--voglio proprio aiutarti
come faceva lei.

Elisa pensava invece, che sarebbe toccato a lei ad aiutare la sorella
maggiore; ma ciò le dava noia perchè il suo maggior piacere sarebbe
stato di far la signora e non pensare che ai divertimenti, come Elvira
Guerini.

Essa propose alla compagnia d'andare appunto a trovare i Guerini per
consolarsi della partenza di Angiolina; ma Maria replicò che di
distrazioni ne avevano avute anche troppe, e bisognava pensare a
lavorare e a studiare, altrimenti Carlo non avrebbe passato l'esame;
poi non voleva andar troppo spesso in casa Guerini; perchè la sua
famigliuola modesta al contatto coi Guerini avrebbe certo acquistato
delle abitudini e dei bisogni che non avrebbe potuto soddisfare.

--Quelle sì sono persone felici!--disse sospirando Elisa, e si
rassegnò a tornarsene a casa, ma tenne il broncio per tutto il giorno,
tanto che Vittorio si maravigliava che l'Elisa si rattristasse tanto
per la partenza di Angiolina.



L'EROE DELLA MONTAGNA.


La mancanza di Angiolina era tanto sentita da tutta la famiglia
Morandi, che pareva fosse partita, assieme alla fanciulla, anche una
buona dose d'allegria.

Elisa era di cattivo umore, perchè non aveva più l'aiuto dell'amica,
per metterle in assetto la camera, per rammendarle i vestiti, e per
tante altre cose, che Angiolina faceva colla massima indifferenza, e a
lei davano noia. Giannina cercava di aiutare un po' più Maria, correva
ad eseguire le sue commissioni, preparava la tavola, e faceva il
possibile per rendersi utile, ma era tanto piccina, che le sue deboli
forze non bastavano a far tutto.

Anche i Guerini venivano più di rado, perchè avevano degli ospiti coi
quali dovevano andare tutto il giorno in giro pei dintorni. Però
veniva un po' più spesso il professore Damiati che si trovava sempre
bene in casa Morandi. Per far piacere a Maria, dava lezione a Carlo,
ed agli altri ragazzi utili suggerimenti, e spiegava loro tutte le
cose che non riuscivano a comprendere.

Egli incoraggiava Maria a leggere i suoi racconti, che erano il
divertimento di tutta la brigata, e avevano servito a quietare la
vanagloria di Carlo, che prendendo a modello quelli eroi, diceva di
contentarsi di eroismi più modesti. Giannina e Mario, i quali si
annoiavano senza Angiolina, avevano pregato Maria di leggere l'eroe
della montagna, come aveva promesso da tanto tempo; ed essa vedendo
che la conversazione languiva, prese il suo manoscritto e incominciò
la lettura.


  La famiglia di Nando Verres, viveva in una casupola ai piedi delle
  Alpi, ed era felice. Nando, forte come una quercia, conosceva tutti i
  passi difficili delle montagne circostanti, ed era molto ricercato
  come guida dai viaggiatori, che volevano avventurarsi sulle cime
  aguzze di quelle alture, sempre coperte di neve.

  Nella buona stagione, non restava mai in casa, anzi le persone che lo
  volevano, dovevano impegnarlo qualche settimana prima per poterlo
  avere, e non si muoveva se non lo pagavano bene.

  Egli avea bisogno di guadagnar molto, poichè avea la moglie e una
  nidiata di bimbi da mantenere; il maggiore dei quali, che si chiamava
  Nando come il padre, aveva appena quattordici anni.

  Il montanaro era partito con un signore inglese una mattina all'alba,
  per una gita che dovea durare tre giorni, ma quando fu il terzo
  giorno, la moglie cominciò ad essere inquieta non vedendolo ritornare;
  essa ogni tanto usciva dal suo casolare per contemplare il cielo
  grigio, e le montagne che erano tutte coperte da una nebbia fitta, e
  nel vedere quel cattivo tempo, si sentiva stringere il cuore, perchè
  temeva qualche sventura.

  Nei primi anni di matrimonio, quando il suo uomo era sulla montagna,
  stava sempre inquieta; poi quando lo vide tutte le volte ritornare con
  un bel gruzzolo di quattrini, non ci pensò più; ma diceva sempre che
  non avrebbe voluto che i suoi figliuoli facessero quel mestiere dove
  c'erano troppi pericoli; però il figlio maggiore avea voluto spesso
  seguire il padre nelle gite alpestri e difficili, innamorato anch'egli
  delle alte cime, e dell'aria frizzante della montagna che gli dava
  appetito e gli rinvigoriva i muscoli.

  Madama Verres, come la chiamavano nel villaggio, continuava dunque a
  guardare il cielo e i monti coll'ansia nel cuore.

  Nella notte aveva sentito la bufera rumoreggiare nelle gole delle
  montagne, la pioggia cadere lenta e senza tregua, ed avea un triste
  presentimento, come non aveva avuto mai.

  Passò due giorni in quell'inquietudine, quando si presentò a lei un
  messo venuto dalla città vicina a chiedere notizie del signore inglese
  partito con suo marito, per la montagna.

  --C'è la madre di quel signore nella massima inquietudine;--disse,--si
  parla di un tempo orribile, di una compagnia che si è perduta sulla
  montagna, e mi ha mandato a vedere se ne sapete qualche cosa.

  --Nulla, nulla, muoio anch'io dall'incertezza, dalla paura di qualche
  disgrazia,--disse la povera donna.

  --Bisognerà far delle ricerche,--disse il montanaro,--la signora
  inglese promette una ricompensa a chi le porterà notizie del figlio;
  ma nessuno si vuol arrischiare a salir la montagna con questo tempo.

  --Andrò io,--disse Nando, il ragazzo di quattordici anni.

  --Sei pazzo?--gli disse la madre.

  --Sono forte, conosco la montagna e la strada che è avvezzo a seguire
  il babbo, e sono certo di trovarne le tracce.

  --E se avvenisse qualche disgrazia, che cosa faccio io?

  --Ti prometto di ritornare, e di portarti notizie di babbo.

  Prese una bisaccia di tela, con alcuni viveri, si munì di un bastone
  ferrato, e di corde, si fece seguire dal suo cane che non lo
  abbandonava mai, e s'avviò sulla montagna senza ascoltare le preghiere
  della mamma che temeva di perderlo.

  Salì il sentiero lubrico del monte pieno di speranza, seguendo la via
  che soleva tenere suo padre. Camminò, avanti avanti, sempre salendo
  per ore intere, ora in mezzo alla fitta nebbia, ora sotto ad una
  pioggia che gli arrivava alle ossa; sempre cercando intorno a sè le
  tracce del passaggio del padre; nella notte si ricoverò in un rifugio,
  e quello fu il primo posto dove trovò segni del passaggio di persone
  viventi: in terra vide dei resti di viveri, poi la paglia
  coll'impronta di due persone, che dovevano aver dormito la notte, ed
  una di quelle impronte era proprio della lunghezza di suo padre.
  Dovevano certo esser passati di là per salire sulla cima del monte.

  All'alba si rimise in cammino, sempre seguito dal cane, osservando
  tutto ciò che potesse indicargli il passaggio di qualche persona.

  Il sentiero era scomparso sotto ai mucchi di neve caduta; egli col
  bastone ferrato ruppe quella neve, ma inutilmente; e avanti, avanti
  sulla montagna che si faceva più erta e pericolosa; si sentiva gelare,
  e pur dovea continuare il suo cammino. Ad un certo punto vide il cane
  inquieto, far dei moti strani, e scorse le traccie d'una valanga, che
  dovea esser caduta di recente.

  --Cerca, cerca,--disse al cane.

  E il cane obbediente cominciò a raspare colle zampe, finchè si fermò
  guardando e dimenando la coda; infatti sentì sotto la neve qualche
  cosa di molle, divenne pallido e cominciò a tremare; non avrebbe
  potuto continuare il suo lavoro senza l'aiuto del cane, che a furia di
  zampe cercava di rompere la neve gelata.

  Quando si potè scoprire qualche cosa, non ci fu più dubbio: erano
  esseri umani quelli che erano sepolti in mezzo alla neve. Allora Nando
  si mise con maggior lena a disseppellire quella massa nera che si
  faceva più distinta, la quale prese forma di un gruppo di braccia e di
  gambe che non si capiva che cosa fosse; ma quando fu del tutto
  scoperta, Nando riconobbe il padre raggomitolato assieme all'inglese,
  che avevano trovato tutt'e due la stessa morte orribile.

  Solo, in quella solitudine, con que' due cadaveri davanti agli occhi,
  si sentì stringere il cuore, e pensò alla sua mamma; ma il freddo
  incalzava, e non c'era tempo da riflettere; lasciò il cane a guardia
  dei cadaveri, vide in distanza degli abeti, vi andò correndo, ne
  strappò dei rami, e fece una specie di slitta, dove adagiò i due
  cadaveri, e discese la montagna trascinandoseli dietro con una corda;
  il sentiero era sdrucciolevole, avea le mani intirizzite, si sentiva
  mancare; ma era coraggioso e volea resistere fino alla fine.

  Era notte quando giunse al villaggio, e non avea coraggio di
  presentarsi alla mamma.

  Ma essa, che stava continuamente alle vedette, gli andò incontro, e
  quando vide il corpo del marito steso sui rami d'abete, cadde svenuta
  nelle braccia del figlio.

  La poveretta rimase parecchi giorni quasi inebetita, non potendo
  persuadersi che il suo uomo fosse morto, e non sapendo come campare
  tutti quei figliuoli. Quando vennero nuovi forestieri a cercare della
  guida Nando Verres, si presentò loro il figlio e disse:

  --Eccomi.

  --Come, vuoi tu andare così giovane, e dopo l'esempio di tuo
  padre?--gli disse la madre.

  Egli mostrò i fratellini e disse:

  --Bisogna che pensi a te e a loro; non temere, mamma, ti prometto che
  non mi esporrò ai pericoli inutilmente,--e sì dicendo partì e in poco
  tempo divenne degno successore di suo padre.

  Ma sebbene egli sia ora una delle guide più rinomate delle Alpi, la
  signora Verres, quando parte, ha sempre le lagrime agli occhi, e trema
  sempre temendo di non rivederlo più.



SCIOPERO ALLO STABILIMENTO GUERINI.


Una mattina quando Carlo e Vittorio ritornarono dall'ufficio postale
dove erano stati come al solito a prendere i giornali, raccontarono
che tutto il villaggio era sottosopra, perchè gli operai dello
stabilimento Guerini s'erano posti in isciopero, e dissero che nella
piazza e per le vie, dappertutto si parlava di questo avvenimento, e
c'erano gruppi d'operai, come se fosse festa.

Più tardi quando il professore andò dai Morandi a dar lezione a Carlo,
egli diede maggiori ragguagli.

Gli operai avevano preso il pretesto da una multa, che il direttore
aveva inflitta ad uno di loro, per chiedere aumento di paga e
diminuzione delle ore di lavoro, e non avendo ottenuto nulla, quella
mattina non erano andati alla fabbrica.

Per quel giorno non si parlò d'altro che di quel fatto; ad ognuno se
ne domandava notizie. Mario voleva sapere che cosa significasse questo
sciopero, e il professore spiegava, come gli operai per ottenere
quello che desideravano, si univano assieme e disertavano dal lavoro
per obbligare il proprietario a conceder loro quello che esigevano.

-Sì, ma intanto non guadagnano,--disse Mario.

--Non è vero,--disse il professore.--Dovete sapere che s'è formata una
società fra gli operai. Ognuno quando lavora, versa nella cassa della
società una piccola somma, che poi serve a pagare gli operai che si
mettono in sciopero, i quali in questo modo hanno la paga anche senza
lavorare.

--È una cosa ingiusta,--disse il ragazzo.

--È un modo come un altro per far la guerra al proprietario; mezzo che
in certi casi può essere giusto, e riesce a migliorare la condizione
dell'operaio; ma molte volte l'operaio abusa di questa forza, va
all'eccesso, ed allora il danno è tutto suo.

--Chissà come saranno inquieti ed irritati i signori Guerini!--osservò
Maria.

Più tardi giunsero notizie peggiori; l'agitazione fra gli operai era
grande; essi avevano fischiato i signori Guerini, e gettato dei sassi
dietro la loro carrozza; si diceva che ci fossero dei feriti. A quelle
notizie Maria non potè più star ferma e decise di andare alla villa
Guerini per sapere qualche cosa di preciso.

--Non è prudenza muoversi,--disse Carlo,--gli operai se la possono
prendere anche con noi.

--Dove è andato il tuo eroismo?--chiese Maria,--qui non si tratta di
esporsi per capriccio ad un pericolo. È una famiglia di persone
gentili che ci hanno accolto colla massima cortesia ed ora si trovano
in angustie; mi par nostro dovere di andar a sentir le loro notizie e
vedere se possiamo giovare in qualche modo ai nostri amici; non
abbiamo fatto male a nessuno e non dobbiamo temere.

--Vi ammiro anche questa volta per il vostro coraggio,--disse il
professore,--soltanto vi chiedo il permesso di accompagnarvi, anch'io
desidero offrire i miei servigi ai signori Guerini.

--Andiamo,--disse Maria.--Carlo ed Elisa, che sono più grandi, possono
venire con noi; gli altri restino a casa; è inutile dar tanto
nell'occhio e andare in frotta, come se si trattasse d'una festa.

--E se vi succedesse qualche cosa?

--E non temete d'essere d'incomodo in questo momento?--chiesero i
ragazzi.

--Se siamo d'incomodo non ci riceveranno, ecco tutto;--rispose
Maria,--noi avremo fatto il nostro dovere. Non c'è pericolo che ci
succeda qualche cosa; in ogni caso entreremo dalla porticina del
giardino e nessuno ci vedrà.

Maria si mise il cappello e uscì assieme ad Elisa, seguita da Carlo e
Damiati.

S'avviarono verso casa Guerini evitando di passare in mezzo al paese;
però nelle vicinanze della villa incontrarono delle brigate di operai,
che ragionavano fra loro e gesticolavano con vivacità. Proseguirono la
strada senza badare a quei crocchi di persone disoccupate, e giunsero
alla villa, dove i signori Guerini li ricevettero mostrandosi molto
grati della loro premura e dispiaciuti che potessero aver qualche noia
per cagion loro.

--Siamo messi all'indice,--disse la signora tutta addolorata,--e
quello che mi rincresce di più è di vedere l'ingratitudine dei nostri
operai, che abbiamo pur trattato sempre bene, come fossero nostri
figli.

Poi raccontò come la mattina avesse voluto accompagnare il marito alla
fabbrica, perchè sarebbe stata inquieta di lasciarvelo andar solo.

--Se vedeste--soggiunse,--che desolazione! Pare un cimitero; tutte
quelle macchine là immobili, quegli stanzoni freddi, vuoti, quel
silenzio.... fa stringere il cuore.

Il signor Guerini era tutto irritato, e andava avanti e indietro per
la stanza pensando al danno che gli recava quello sciopero, alle
commissioni che non poteva eseguire, e più di tutto a quella gente,
alla quale avea dato lavoro, a tutti quei contadini, che gli dovevano
l'esistenza e che ora gli si ribellavano.

Ogni tanto veniva qualche messo mandato dal direttore dello
stabilimento: una commissione d'operai sarebbe venuta il giorno
appresso per dire ciò che pretendevano.

Seppero che il sindaco aveva telegrafato alle autorità della
provincia, e nella giornata doveva venir della truppa per tenere a
dovere gli operai più turbolenti.

La signora raccontò una scena commovente.

Cinque operai erano andati al lavoro malgrado le minacce dei compagni,
dicendo che non avevano nessuna ragione di abbandonare una famiglia
che li aveva sempre beneficati. Gli altri volevano entrare a forza per
trascinarli di là, bastonarli, e forse ucciderli; tanto che essa
stessa li avea pregati di sospendere il lavoro; ma quando uscirono
dalla fabbrica furono accolti a furia di fischi e d'insulti; era una
cosa che faceva proprio pena. Era vero che dei sassi erano stati
lanciati dietro alla loro carrozza. Fortunatamente non avevano ferito
nessuno, ma erano tutti sgomentati e tremavano ad ogni più piccolo
rumore e ad ogni suonata di campanello.

--E come farete questa notte?--disse il professore.

--Chiuderemo bene la villa, e starà alzato qualcuno a far la guardia.

--Se voleste venire da me,--disse il Damiati.

--O da noi--disse Maria.

--Grazie,--ma prima di tutto non si vorrebbe attirar su di voi l'ira
del popolo, poi non vogliamo abbandonare la casa; sarebbe una viltà.
Anche i ragazzi devono abituarsi alle lotte e alle difficoltà della
vita; se in questi giorni avrete coraggio di venire a tenerci
compagnia, ci farete un regalo; nei momenti difficili quando si ha
tanti nemici, fa piacere aver dei buoni amici, e vedere che non ci
abbandonano.--

Maria promise di passare alla villa gran parte della giornata coi suoi
fratelli, e si offerse per tutto quello che potesse loro esser utile.

Le faceva proprio pena vedere quella famiglia in quel frangente, e
chiusa in casa come in una prigione, e quando furono usciti, chiese ad
Elisa se avrebbe avuto piacere in quel momento trovarsi nei panni
d'Elvira, ch'essa invidiava tanto.

--Sono in prigione, ma è una bella prigione, dove io ci starei tutta
la vita,--rispose la fanciulla.

--Ti annoieresti,--disse Carlo,--come un uccello si annoia in gabbia,
anche se è d'oro.

--Ora passano, è vero, un brutto momento, ma io mi cambierei subito
con loro,--disse Elisa. Però quei fatti la fecero riflettere, e capì
che più si è in alto, più ci sono dolori, e che forse sua sorella
aveva ragione nel dire che la vita modesta e ignorata ha pure i suoi
vantaggi.

Vedendo gli operai abbastanza quieti, fecero un giro nel villaggio, in
mezzo ai gruppi di gente dove non si parlava d'altro che dello
sciopero; e di operai che ragionavano fra loro sul da farsi.

Bisognava resistere,--dicevano,--era tempo di finirla, erano stanchi
di lavorare come bestie da soma, per mantenere il lusso dei ricchi,
volevano godere e divertirsi, era venuto anche il loro tempo.

In alcuni gruppi c'erano le donne che volevano dar consigli e dir la
loro ragione. Maria fermò una donna che conosceva ed era moglie d'un
operaio, e le chiese se fosse contenta d'aver il marito ozioso tutto
il giorno e se non sarebbe meglio che lo consigliasse a riprendere il
lavoro.

--Si soffre oggi per godere domani,--rispose,--vogliamo anche noi
vestir bene come loro, e farci servire; siamo stanche di soffrire.

C'erano altre che si mostravano dispiacenti, temevano che i mariti
prendessero il vizio di bazzicare all'osteria, ed anzi andavano a
levarceli di là; ma quelli le invitavano a bere insieme, alla riuscita
della loro causa; e verso sera la piazza e le vie del villaggio
presentavano uno spettacolo poco piacevole. Gli operai uscivano
dall'osteria mezzo ubbriachi cantando delle canzonacce, coi cappelli
per traverso e le vesti in disordine. Anche qualche donna era un po'
brilla, e i ragazzi non avendo più freno, girellavano per le strade e
facevano baldoria.

Maria volle subito ritornare a casa e fece osservare ai fratelli la
differenza che passa fra l'operaio quando è al lavoro, serio, attento,
colla faccia composta, che mette allegria a vederlo, da quando è
ridotto in quello stato dall'ozio e dal vino, come in quel giorno, che
dava uno spettacolo da stringere il cuore.

Vi fu sull'imbrunire un momento che pareva ci fosse in paese la
rivoluzione: fu quando venne e s'accampò vicino al villaggio una
compagnia di soldati; allora il furore di quel popolo ubriaco era tale
da metter paura: volevano dar fuoco alla fabbrica, uccidere il signor
Guerini, e non si quietarono se non dopo l'arresto degli operai più
turbolenti.



DON VINCENZO.


Lo sciopero durava da dieci giorni e non accennava a finire. Al
chiasso e all'eccitamento dei primi momenti, era succeduto una specie
di cupo abbattimento.

In villa Guerini erano stanchi di star chiusi come in prigione, e di
non veder una fine a quella condizione di cose, ed essere costretti a
vivere sempre nell'ansia dell'incertezza; per fortuna avevano la
famiglia Morandi e il professore Damiati che passavano quasi tutta la
giornata con loro, e ciò li confortava, ma il signor Guerini era
stanco, scoraggiato, di cattivo umore.

Nel villaggio si vedevano capannelli d'operai che vagabondavano
stanchi anch'essi di quella vita oziosa, ma decisi a continuarla, a
resistere per vincere. Anche le donne erano stanche di aver sempre tra
i piedi i loro mariti oziosi e desideravano che quello stato di cose
terminasse; in dieci giorni, non s'era fatto un passo; soltanto tutti
erano affranti, e capivano che a quel modo non potevano durare.

Don Vincenzo era il più afflitto di tutti, non riconosceva più il suo
villaggio quieto e tranquillo e i suoi parrocchiani un tempo tanto
laboriosi. Egli li vedeva tutto il giorno all'osteria, li sentiva
alzare la voce e tremava per quelle povere famiglie che sarebbero
state vittime innocenti. Egli voleva finirla, e dopo aver avuto una
lunga conversazione col signor Guerini, decise di parlare la domenica
prossima dal pulpito ai suoi fedeli. Infatti, dopo la messa, egli si
rivolse al popolo e così incominciò il suo sermone.

«Dove sono,--disse,--i miei fedeli parrocchiani che andavano la
mattina al lavoro cantando allegri e felici? Dov'è il mio villaggio
tranquillo nel quale non si incontravano che facce liete, e che vedo
ora tutto pieno di gente oziosa e vagabonda, di facce scure e
minacciose, di persone briache? Io non riconosco più questi bei luoghi
dove regnava la pace, dove fervea il lavoro, e mi par d'essere in un
altro mondo.

«Io vi parlo come un padre parlerebbe ai suoi figli, penso al vostro
bene e a quello delle vostre famiglie; per me ricchi e poveri siete
tutti uguali, e vi assicuro che mi sento una stretta al cuore nel
vedervi lasciare il lavoro per motivi futili. Vorrei sapere di che
cosa vi lagnate. Non volete multe? Fate in modo di non meritarle,
state attenti al vostro lavoro, precisi all'ora di entrare
all'officina, e persuadetevi che quando si è in una popolazione tanto
numerosa come la vostra, certe leggi ci vogliono per mantenere la
disciplina. Volete diminuite le ore di lavoro? Per quali ragioni?
Forse per aver più tempo di stare all'osteria e consumare i vostri
risparmi? Lasciate chiedere diminuzione di orario a quelli operai che
sono infelici davvero, destinati a lavorare nelle miniere, senz'aria,
senza luce, esposti ad ogni istante a mille pericoli. Ma voi, vivete
in stanze vaste e spaziose, basta guardarvi in faccia per vedere che
siete il ritratto della salute, voi dovete mercanteggiare le ore di
lavoro? Vergognatevi; eppure anche questo non basta, ed ecco che
chiedete una maggiore mercede, e vi lagnate, e dite che siete voi che
mantenete il lusso del proprietario, mentre invece dovreste
ringraziarlo ch'egli col porsi a capo d'un'industria abbia trovato il
modo di occupare degnamente voi e i vostri figli.

«Poi credete d'esser voi soli a lavorare e ch'egli poltrisca
nell'ozio. Come v'ingannate! quando voi riposate in seno alle vostre
famiglie, senza pensieri nè preoccupazioni, egli invece pensa a tutta
la sua azienda, consuma il cervello sui registri, è turbato da mille
incertezze, affranto dalla fatica e dalla responsabilità della
fabbrica immensa a cui deve dare l'impulso, non ha un minuto di pace,
e voi invece di aiutarlo, gli mettete dei bastoni nelle ruote; quanto
siete ingrati! Pensate a quello che era questo paese quando non c'era
lo stabilimento Guerini, a quello che eravate voi, condannati a sudare
per lavorare una terra sterile, senza un raggio di sole nella vostra
vita, senza una speranza per i vostri figli.

«Ora avete il benessere, l'agiatezza, guadagnate abbastanza per vivere
e se avete giudizio potete far anche qualche risparmio; alla fabbrica
potete occupare i vostri figli; se siete intelligenti, se amate il
lavoro, potete riuscire a guadagnare una bella mercede, e la quiete
per la vecchiaia; e tutto questo a chi lo dovete? Al signor Guerini. È
inutile che facciate rumore, è proprio così. Egli era ricco senza di
voi, e v'assicuro che avrebbe potuto vivere benissimo e forse più
tranquillo, con quello che possedeva; ma pieno di vita, di coraggio,
odiando l'ozio che avvilisce, pensò di adoperare le sue ricchezze per
ampliare la piccola filanda lasciatagli dal padre, e sorse quel vasto
stabilimento che per tanti anni fu la vostra provvidenza, che ha dato
lavoro a voi e ai vostri figli, e fu la ricchezza di questo paese.

«È vero, ne convengo, anche il signor Guerini ha approfittato del
vostro lavoro, ma voi che cosa sareste senza di lui? È inutile che vi
vogliate sostituire a lui, che gridiate all'ingiustizia; a questo
mondo tutti abbiamo assegnata la nostra parte, e tutti abbiamo diritto
di vivere, dal più piccolo insetto all'animale più intelligente, ma
tutti dobbiamo stare al nostro posto.

«Voi tutti, siete come le ruote che compongono una macchina: ognuna ha
la propria parte per piccina che sia, ma se non è combinata assieme
alle compagne, se non è messa al suo posto da un ingegnere
intelligente, non è che un pezzo di metallo inutile, buono solo da
mettere nei ferravecchi.

«Il proprietario è l'ingegnere, e mettetevi bene in testa che voi
nulla valete senza di lui.

«Io parlo pel vostro bene; lo vedete, che io conduco una vita semplice
e modesta come voi.»

--Mangia dei buoni capponi,--s'udì una voce gridare fra la folla.

«È vero,--riprese il prete--alle volte mi permetto il lusso di mangiar
bene, ma è cosa che potete fare voi pure; soltanto preferite bere dei
litri di vino di più. Ma vi ripeto, non faccio lusso, e se vado nelle
case dei signori, è quale vostro ambasciatore; narro loro i vostri
bisogni, le vostre pene, e a voi porto i soccorsi che essi mi danno; e
se foste venuti da me invece di abbandonare il lavoro, forse le cose
si sarebbero accomodate e voi non sareste stati tutti questi giorni
vagabondi, oziosi, come bestie raminghe senza casa nè tetto. No, non è
possibile che questo fatto sia venuto da voi, siete stati certo mal
consigliati da qualche scioperato che non avendo voglia di lavorare
trascina gli altri nella strada cattiva; e Dio voglia che non ve
n'abbiate a pentire.

«Debbo confidarvi una cosa che mi venne all'orecchio? E vi assicuro
che è proprio la verità. Sapete che cosa il signor Guerini ha
intenzione di fare?

«Se domani non tornate al lavoro, egli, stanco di lottare con voi, di
assistere alla vostra ingratitudine, ha deciso di chiudere lo
stabilimento, di vendere le macchine, e andare lontano a riposarsi in
quiete, e lo farà di sicuro perchè è disgustato del mondo e di voi.

«Ecco a qual decisione l'avrete trascinato. E voi che cosa farete? Chi
ne soffrirà in questa lotta? Chi avrà compassione di voi, che pure
avrete voluta la vostra rovina?

«Me ne dispiace per le vostre famiglie, che non ne hanno colpa, per i
vostri figli innocenti. Ma voi, donne, perchè non pregate i vostri
mariti che ritornino a migliori consigli? Perchè non li supplicate che
questo fatto crudele non avvenga? Pensate che cosa sarà il nostro
villaggio una volta che sarà chiuso per sempre quel tempio del lavoro;
ch'era l'allegria e la gloria del nostro paese! Non vedete? passando
davanti allo stabilimento sembra di passare davanti ad un cimitero,
tutto è mesto e silenzioso; quel luogo dove pochi giorni sono regnava
il moto e la vita, quel luogo dal quale i vostri mariti uscivano
contenti dopo una giornata di lavoro, a godere l'aria aperta, la casa,
i figli; lieti perchè avevano fatto il loro dovere e guadagnato il
pane per sè e la propria famiglia. Io tremo pensando all'avvenire che
vi aspetta; alla miseria, alla fame, a quello che sarà di voi tutti
quando vi mancherà il lavoro; pensateci finchè siete in tempo; io v'ho
avvertito, ho fatto il mio dovere.»


Finita la predica, un mormorìo s'udì echeggiare per la chiesa; pareva
il mare in burrasca, tutti si domandavano se fosse vera la notizia che
aveva dato don Vincenzo; alcuni alzavano le spalle, dicendo che il
curato era d'accordo coi signori e aveva fatto per spaventarli; però,
specialmente le donne, le quali avevano fede nel loro curato che aveva
sempre detto la verità, tremavano che quel fatto si avverasse, e
pregavano i mariti che ritornassero al lavoro. Essi si riunirono a
gruppi sulla piazza della chiesa parlando vivacemente e discutendo
sulla notizia che avevano intesa, incerti su quello che dovessero
fare.

Decisero di recarsi in commissione da don Vincenzo per assicurarsi se
fosse vero quello che aveva affermato, e dirgli nello stesso tempo le
loro ragioni.

Essi erano un po' meno arditi perchè avevano saputo il rifiuto di
alcune società operaie alle quali avevano domandato soccorsi,
essendovi altri scioperi, sicchè se proprio il signor Guerini avesse
chiuso lo stabilimento, non avrebbero dopo poco tempo avuto da vivere.

Furono scelti gli operai più stimati e che sapevano parlar meglio per
recarsi da don Vincenzo.

Essi, quando furono alla sua presenza, dissero che non pretendevano di
mettersi al posto del proprietario, ma volevano la giustizia;
lavoravano e avevano diritto di poter viver bene.

Don Vincenzo fece loro capire che il modo di vivere era una cosa
relativa; egli sapeva che il Guerini era uno dei proprietari giusti,
di quelli che cercano il benessere degli operai, ma non poteva dar
retta ai loro capricci; si sa, il danaro più se n'ha, più ve ne
sarebbe bisogno, e dovevano contentarsi e non esiger troppo.

Volevano parlare tutti ad un tratto, tanto che don Vincenzo dovette
alzare la voce per rimetter un po' d'ordine. Narravano che avevano
tutti numerose famiglie da mantenere, e che i viveri crescevano di
prezzo ogni giorno. Tutto ad un tratto entrò un uomo conducendo, anzi
quasi trascinando, una ragazza pallida, magra, che metteva
compassione.

--Vede se siamo ingiusti?--disse rivolto al prete,--mia figlia è
ammalata e non ho mezzi per farla guarire; noi non domandiamo di aver
dei palazzi, delle carrozze, ma almeno abbiamo diritto d'avere il
necessario per curare i nostri figli ammalati; non domandiamo per le
nostre famiglie che soffrono che una parte di quello che gettano via i
ricchi nei divertimenti.

--Ha ragione; bene!--gridarono tutti quegli operai, facendo eco alle
parole del loro compagno.

--Adagio,--disse don Vincenzo,--qui si va fuori del seminato; tutti
quelli che mi hanno chiesto dei soccorsi, sono stati esauditi, anzi la
signora Guerini mi dà ogni anno una somma da distribuire a questo
scopo; perchè non mi avete detto nulla della vostra figliuola?--disse
rivolto all'operaio che avea parlato.

--Sono troppo orgoglioso per domandar l'elemosina,--egli rispose.

--E chi può sapere che avete la figlia ammalata? Potete farne una
colpa al signor Guerini se lo ignora? Poteva indovinarlo? In che modo?
Vedete, avete delle pretese eccessive. Il vostro principale, se avete
in casa degli ammalati, son sicuro che farà qualche cosa a vostro
favore, ma non potrebbe farlo per tutti indistintamente, altrimenti
dovrebbe poi domandare l'elemosina per sè e per i figliuoli.

È già un po' di tempo che io ho consigliato il signor Guerini
d'istituire una cassa di soccorso per gli operai ammalati, e che tutte
le multe che vengono pagate vadano a beneficio di quella cassa; ora vi
faremo aggiungere qualche cosa anche per le vostre famiglie, quando
c'è qualcuno ammalato; va bene? Ecco; basterà la fede del medico che
dichiari vostra figlia ammalata perchè possiate avere un supplemento
alla paga; credete, tutti sono disposti a pensare al vostro bene,
purchè siate ragionevoli; ma ve lo dissi, se continuate a star oziosi,
si chiuderà la fabbrica; e allora piangerete, ma inutilmente.

Terminato questo discorso il prete stette ad aspettare.

Gli operai si consultarono fra loro a bassa voce, poi uno parlò a nome
di tutti:

--Non piace nemmeno a noi stare in ozio, e desideriamo riprendere i
lavori; siamo disposti a cedere qualche cosa, se anche il principale
farà qualche concessione; per esempio possiamo rinunciare alla
diminuzione d'orario, se ci aumenta almeno il salario.

--Non posso promettervi nulla,--disse don Vincenzo,--parlerò al signor
Guerini in proposito; ma se volete un mio consiglio, tornate domani al
lavoro, e vi prometto ch'egli farà il possibile per contentarvi.

--Prima ci conceda quello che è giusto, e poi ritorneremo.

--Andate, o altrimenti ve ne pentirete,--disse il prete congedandoli.

--Verremo più tardi a sentire la risposta.

Dopo qualche ora ritornarono da don Vincenzo e seppero che se
tornavano al lavoro, il signor Guerini dava un aumento ai migliori
operai, e la signora stabiliva della sua cassetta particolare una
cassa di soccorso per le famiglie degli operai ammalati; ma se la
mattina non entravano allo stabilimento, la fabbrica sarebbe stata
chiusa per sempre, perchè il Guerini era stanco d'essere compensato
così male da persone ch'egli aveva beneficate.

Dette queste parole, don Vincenzo licenziò gli operai i quali stettero
tutto il giorno formando dei crocchi in mezzo alla piazza, incerti su
quello che dovessero decidere.



DOPO LA BURRASCA.


I signori Guerini incominciarono a sentirsi più tranquilli. Da quello
che aveva detto loro don Vincenzo, dalle persone che venivano dal
villaggio e dalle voci che correvano, capivano che lo sciopero era
quasi alla fine, che gli operai, venuti a migliori consigli, erano
persuasi di riprendere il lavoro.

In quella casa, pareva che dopo molti giorni di pioggia fosse entrato
un raggio di sole, tutti erano allegri e contenti; Alberto ed Elvira,
stanchi di quella forzata prigionia, parlavano già di passeggiate, di
trottate all'aria aperta e volevano riacquistare il tempo perduto.

Come erano annoiati di star rinchiusi nella loro villa! Guai se non
avessero avuta la compagnia dei Morandi, che da buoni amici erano
venuti tutti i giorni a confortarli ed a tener loro compagnia!

--Che buone persone!--diceva la signora Guerini parlando dei loro
vicini--non c'era da divertirsi alla villa in questi giorni, eppure
sono sempre venuti. È ben vero che gli amici si riconoscono nelle
circostanze, e noi dobbiamo esser riconoscenti a quelli che non ci
abbandonarono nei momenti difficili.

Anche i ragazzi s'erano affezionati ai Morandi e li aspettavano con
impazienza, tanto più che Maria aveva promesso di riprendere la
lettura dei suoi racconti, appena fosse succeduta un po' di calma alla
trepidazione di quei giorni.

I Morandi s'erano infatti avviati verso la villa, ma Maria volle
passar prima dal paese per sentire se le voci che correvano fossero
esatte e per avere il piacere di confermarle ai signori Guerini.

Traversarono il villaggio in mezzo ai crocchi d'operai che ragionavano
tranquillamente, contenti anch'essi d'aver presa una decisione.

--Però se non cede anche il padrone, noi ritorneremo a passeggiare per
le vie.

--Se crede di farci ritornare al lavoro promettendo quello che non ha
intenzione di mantenere, si sbaglia; l'avrà a fare con noi!--Si
sentiva esclamare di tratto in tratto da quegli operai.

Ma erano voci isolate, come gli ultimi lampi di un temporale che sta
per cessare. Le donne li persuadevano ad esser ragionevoli, avevano
sofferto abbastanza in quei giorni vedendo i loro mariti erranti per
le osterie, ed era tempo che la quiete ritornasse nelle loro case.

Se prima sui muri c'erano scritte delle massime che incitavano il
popolo alla ribellione, ora, si leggeva da per tutto queste e simili
espressioni:

    _Operai al lavoro!_
    _Il lavoro nobilita._
    _Chi non ha lavorato non gusta il riposo._
    _Chi non lavora s'annoia._

E Maria approfittava di quel risveglio al sentimento del lavoro che
era come nell'aria, per dare ai fratelli degli utili suggerimenti.

--Avete veduto coi vostri occhi gli effetti dell'ozio?--diceva--ciò
dovrebbe servirvi d'ammaestramento, e mettervi nell'animo la volontà
di lavorare. Presto le vacanze sono terminate, e anche per voi
torneranno i giorni del lavoro; procurate di mettervici di buona
voglia, se vorrete l'anno venturo godervi i mesi d'autunno contenti e
senza pensieri.

--E tu, Elisa, dopo aver veduto che anche nelle case dei ricchi vi
sono delle noie e delle preoccupazioni, non dovresti più invidiarli.

Elisa non voleva ancora confessarlo, ma in cuor suo dava ragione alla
sorella, e si proponeva d'essere in seguito più modesta e più
laboriosa.

Intanto erano giunti a casa Guerini, dove trovarono tutti di buon
umore, perchè avevano saputo che gli operai avevano deciso di
riprendere il lavoro.

--È come se mi avessero tolto un peso dal cuore,--diceva il signor
Guerini.--È certo che se gli operai non avessero ceduto, ero deciso a
chiudere la fabbrica e a ritirarmi dagli affari; ma vi confesso, che
per quanto io mi senta stanco di lottar sempre, ed essere compensato
coll'ingratitudine di quelli ai quali ho fatto del bene; pure all'idea
di lasciare la mia fabbrica che ho veduto sorgere dal nulla, che fu il
pensiero costante della mia vita, il mio orgoglio, la mia ambizione,
che amo come i miei figli, vi assicuro che sarei morto di dolore.

Egli, dicendo queste parole, avea quasi le lagrime agli occhi; ma
diede un sospirone di sollievo, e alzandosi soggiunse:

--Ora è finita, non pensiamoci più, parliamo d'altro.

Cambiarono discorso, ma per un po' di tempo continuarono a
chiacchierare dei fatti del giorno; intanto entrò don Vincenzo assieme
a Damiati, anch'essi a rallegrarsi che tutto stesse per finir bene.
Raccontarono d'aver parlato agli operai, e che tutti erano disposti a
ritornare l'indomani all'officina.

Quando i ragazzi furono seduti intorno alla tavola, e che la
conversazione incominciava a languire, essi pregarono Maria di leggere
il racconto promesso, e stettero tutti attenti ad ascoltarla.

--Leggerò un racconto che ha qualche relazione coi fatti di questi
giorni,--disse Maria incominciando la sua lettura,--eccolo:


  L'EROE DELL'OFFICINA.

  Gigi e Pinella, figli d'operai, abitavano fuori di Porta Ticinese
  nella stessa casa in due stanze vicine. Erano nati nello stesso anno
  ed era sorta una specie di rivalità fra le loro mamme, dacchè ognuna
  voleva che il proprio figliuolo fosse più bello e più intelligente
  dell'altro; tanto che dopo la nascita dei figliuoli si guardavano in
  cagnesco, e si bisticciavano per cose da nulla.

  --Rosa, mi pare che il vostro figlio sia piuttosto
  palliduccio,--diceva Filomena alla mamma di Pinella,--dovreste dargli
  l'olio di fegato di merluzzo.

  --Gigi è più grasso, ma non vedete che ha sempre qualche cosa alla
  pelle? Ve lo dico io, non è un grasso sano, e preferisco il mio
  mingherlino,--rispondeva Filomena.

  Quando poi i ragazzi cominciarono a frequentare la scuola, c'erano
  sempre nuove questioni.

  Pinella studiava, era intelligente, e si faceva onore, e la Filomena
  moriva di rabbia e picchiava Gigi che invece d'andare a scuola si
  fermava per strada a giocare coi compagni.

  --Di quel vostro figlio non ne farete mai nulla,--diceva la
  Rosa,--deve avere il cervello come quello d'un pulcino.

  --Badate ai fatti vostri, e sarebbe assai meglio che non faceste
  studiar tanto il vostro figliuolo! Non vedete che ha la faccia gialla
  come un limone? Per conto mio preferisco un asino vivo a un dottore
  morto,--rispondeva Filomena.

  Anche fra i ragazzi era un continuo bisticciarsi; andavano a scuola e
  giocavano assieme, parevano buoni amici, ma poi per una cosa da nulla
  attaccavano lite, ed erano busse d'inferno che fioccavano, tanto che
  spesso Pinella andava a casa o col naso rotto o con delle contusioni
  sulla faccia, e la Rosa si metteva a sbraitare che le ammazzavano il
  figliuolo, e che non era contenta se una volta o l'altra non faceva
  metter Gigi in prigione.

  Quando Pinella ebbe terminato le scuole elementari, Rosa senza dir
  nulla a Filomena lo fece entrare nella tipografia dove lavorava il
  padre di Gigi, perchè imparasse il mestiere.

  Era una tipografia che lavorava molto. Pinella fu destinato
  all'officina delle macchine, e gli diedero l'incarico di star dietro
  la macchina tipografica a ritirare i fogli che uscivano stampati.

  Egli era tutto orgoglioso del suo incarico, e quando incontrava Gigi
  che andava ancora a scuola colla cartella sotto il braccio, si dava
  delle arie e gli diceva:

  --Buon divertimento alla scuola; io vado all'officina.

  Gigi si sentiva a quelle parole soffocare dalla bile, e un giorno
  disse chiaro e tondo ai genitori che non voleva più andare alla scuola
  dove insegnavano cose inutili e che voleva far l'operaio come Pinella;
  che infine aveva la sua stessa età ed anzi l'altro era più
  mingherlino.

  Il padre voleva che continuasse a studiare, dicendo che meritava quel
  castigo perchè non era passato agli esami ed era rimasto più indietro
  del compagno.

  Ma la Filomena dava ragione al figliuolo, diceva al marito che egli
  era pure diventato un buon operaio senza bisogno di tanti anni di
  scuola che era tempo che Gigi guadagnasse, e doveva assolutamente
  trovargli un posto nella tipografia, come l'avea trovato la Rosa per
  Pinella.

  Una volta che le entrò in capo questa idea, tormentò tanto il marito,
  che questi per aver un po' di pace, fece accettare Gigi nella stessa
  tipografia dove egli era impiegato da tanti anni, e dove c'era
  Pinella, ma essendo occupati tutti i posti principali, nella
  tipografia tennero Gigi come galoppino.

  Egli era incaricato di far le commissioni, di portare le bozze di
  stampa, spazzare la stamperia e far tanti altri piccoli servizi.

  Si rassegnò a quegli umili uffici piuttosto che di tornare alla
  scuola, ma il suo sogno era di occupare il posto di Pinella, e dal
  momento che entrò in tipografia fece tutto il possibile per metterlo
  in cattiva vista dei compagni.

  Pinella era contento, e non si curava della malevolenza di Gigi; egli
  era sempre là sulla sua macchina, attento a tutti i movimenti,
  guardandola come un essere soprannaturale, cercando d'indovinare il
  mistero di quelle ruote e di quei congegni, che funzionavano con tanta
  precisione, da continuare per delle giornate a dargli stampati, e
  tutti uguali, i fogli ch'egli le porgeva bianchi.

  Quel fatto che pure vedeva ripetersi cento volte all'ora, lo
  sorprendeva sempre.

  --È un mostro--pensava--ecco, io gli dò della carta bianca da
  mangiare, ed egli me la rende scritta, e con tante belle cose che poi
  si spargono per il mondo a seminare il sapere; è come una magìa;--e
  avrebbe voluto legger tutto quello che stava scritto su quelle pagine,
  e il suo sogno era di veder smontare una di quelle macchine, e di
  poter riuscire a combinarla colle sue mani.

  Quando il macchinista la faceva fermare per accomodar qualche congegno
  o per ungerla con un po' d'olio, egli ne osservava tutti i movimenti,
  si chinava per vederne l'interno, e si arrischiava a domandare qualche
  spiegazione.

  Quando era a casa, pensava sempre alla macchina, ed era felice la
  mattina di andare al suo posto; ci si divertiva e gli pareva quasi di
  trastullarsi con un balocco, e le voleva bene come se fosse una sua
  creatura.

  Gigi soffriva nel vederlo lieto e contento sull'alto della macchina,
  che appena appena si degnava di guardarlo, e quando gli passava vicino
  gli faceva sempre delle boccacce, oppure cercava di sgualcire i fogli
  ch'egli teneva ammucchiati accanto a sè, pronti ad essere stampati.

  Gigi aveva giurato in cuor suo di rubare il posto all'amico, e sperava
  di riuscirvi.

  Il solo difetto di Pinella era di star qualche momento come incantato
  a guardare i movimenti della macchina, oppure di fermarsi a leggere
  qualche brano interessante sui fogli che uscivano stampati.

  E Gigi non mancava di far osservare ai compagni quei momenti di
  distrazione.

  --Guarda come è incantato,--diceva al padre accennando Pinella.--Se
  fossi io al suo posto!

  E un giorno che Pinella rimase a casa ammalato, egli riuscì ad
  impadronirsi di quel posto e decise che non glielo avrebbe mai più
  lasciato.

  Quando Pinella ritornò all'officina e trovò occupato il suo posto,
  sentì come un colpo al cuore, e soffocato dall'ira, avrebbe voluto
  salire sulla macchina e strappare di là il suo compagno, ma, di
  carattere dolce e non sentendosi forza di lottare con uno più forte di
  lui, si contentò di dire:

  --È una cattiva azione.

  E da quel giorno non parlò più a Gigi, e gli tolse il saluto; ma
  quando passava vicino alla sua macchina, si sentiva venir le lagrime
  agli occhi.

  Eppure, quando non aveva altre faccende, era sempre là davanti alla
  sua macchina e sebbene vedesse Gigi tutto trionfante fargli gli
  sberleffi, egli restava là come affascinato, senza poter staccarsene.

  A casa era sempre triste e avvilito, e la sua mamma quando seppe il
  tradimento di cui egli era stato vittima, giurò una guerra implacabile
  ai suoi vicini. Da quel giorno le due donne si fecero tutti i dispetti
  possibili; non parlarono più, si chiusero la porta in faccia,
  sparlarono l'una dell'altra, si gettarono addosso mucchi d'immondizie,
  e se non si presero per i capelli, fu perchè si sfuggivano per non
  farne qualcuna troppo grossa.

  Era la vigilia di Natale, e nella stamperia dove si trovavano Gigi e
  Pinella, ferveva il lavoro; tutte le macchine erano in moto; si dovea
  far molto e presto, perchè c'era una quantità di lavori, che dovevano
  esser terminati prima di sera.

  S'era aumentata la pressione al vapore, e le macchine andavano con una
  celerità vorticosa.

  Tutti gli operai della tipografia erano allegri e loquaci, parlavano
  della festa che avrebbero passato in famiglia, il giorno dopo; dei
  cibi che avrebbero mangiati, dei divertimenti che avrebbero goduti;
  poi quella rapidità di lavoro, quel rumore delle macchine, dava a
  tutti un eccitamento febbrile, che si diffondeva per lo stabilimento,
  e gli animava, come se fossero tutti scossi da una corrente elettrica.

  Gigi era al suo posto, ma distratto, pensando alle feste, ai dolci, ai
  giuochi, alle battaglie colle palle di neve cogli amici; si affrettava
  a mettere i fogli sotto la macchina sembrandogli colla fretta di
  terminar più presto la sua giornata di lavoro.

  Pinella era come al solito intento ad osservare la sua macchina
  prediletta e Gigi, che pareva esaltato e non sapesse quello che
  faceva.

  E il lavoro continuava sempre, colla rapidità e la forza delle ultime
  ore.

  Ad un tratto, Gigi lasciò cadere un foglio, e si chinò distratto fin
  sotto alla macchina per raccoglierlo, frettoloso, non sapendo quello
  che facesse, ma non fu più visto alzar la testa, e un grido straziante
  s'udì uscire di sotto alla macchina, al quale rispose un grido di
  tutti i presenti, che avevano capito che un loro compagno s'era
  impigliato fra le ruote d'una delle macchine.

  Pinella non gridò, ma svelto come uno scoiattolo saltò sulla sua
  macchina e strinse il freno con tanta forza, che la fece fermare
  all'istante, poi si chinò e trasse fuori Gigi, col braccio
  sanguinante.

  Tutto questo fu fatto in un secondo, mentre gli operai spaventati dal
  grido non s'erano mossi.

  --Bravo,--gridarono.

  --Evviva Pinella.

  Intanto il padre di Gigi che aveva assistito alla scena, s'era
  avvicinato tutto ansioso al figlio che aveva le carni del braccio un
  po' strappate, ma era vivo, e si capiva che la ferita non era
  pericolosa.

  --Ringrazia Pinella--gli disse--se non sei tutto stritolato e ridotto
  una massa senza forma; che cosa hai fatto? Dove avevi la testa per
  metterti a quel rischio?

  Egli non rispondeva; confuso, avvilito, si lagnava del suo braccio,
  quantunque il medico chiamato in fretta avesse dichiarato che la
  ferita non era pericolosa.

  Passato quel primo momento di confusione, tutti ammirarono la
  prontezza e la bravura di Pinella, e prima di uscir dallo stabilimento
  gli fecero una ovazione, e quasi lo portarono in trionfo.

  Egli si schermì; era timido e tutto quel chiasso gli dava noia; chiese
  solo di ritornare a riprendere il suo posto preferito accanto alla
  macchina.

  --Ti daremo un posto migliore,--gli disse il capo-macchinista.--Ti
  prendo sotto la mia protezione, e guai chi oserà farti del male!

  Quando andò a casa e raccontò alla mamma il fatto, essa disse:

  --Quella gente proprio non meritava che tu lo salvassi; ti vogliono
  tanto male!

  Più tardi terminata la cena sentì picchiare timidamente all'uscio,
  entrò la Filomena conducendo Gigi col braccio al collo.

  --Rosa, permettete,--disse tutta confusa,--voglio dare un bacio al
  vostro figliuolo, sono stata ingiusta, lo riconosco.

  --Fate pure,--rispose la Rosa voltandosi dall'altra parte e sentendosi
  commossa.

  --Hai un bel cuore;--disse Filomena a Pinella, e lo gettò nelle
  braccia di Gigi dicendo:

  --Dovete essere amici, e anche noi, non è vero, Rosa? dobbiamo
  dimenticar il passato, e se non vi rincresce domani che è Natale si
  potrebbe suggellare la pace pranzando assieme.

  Rosa non poteva rispondere, aveva le lagrime agli occhi, e quando potè
  parlare disse:

  --Io non ho mai avuto nulla con voi, era tutto per amore del mio
  figliuolo.

  --E lo merita, è proprio un buon figliolo, potete andarne superba. E
  tu devi chiedergli scusa d'avergli preso il posto--disse rivolta al
  figlio.

  I ragazzi erano confusi di trovarsi ancora amici, ma erano contenti,
  si guardavano in faccia e sorridevano.


Un applauso salutò la fine di questo racconto.

Era venuta a proposito la descrizione di un'officina; e quell'aver
tutta la settimana pensato e discorso di lavori e di operai l'aveva
reso più interessante.

--È proprio bello,--disse il signor Guerini,--e ve ne faccio i miei
complimenti.

--Lo lessi, perchè in questo momento mi parve fosse opportuno;--disse
Maria;--vi ringrazio d'avermi prestata attenzione.

Mario, come al solito, si era sfogato a far disegni uno più buffo
dell'altro, che tutti si passarono di mano in mano.

Rappresentavano nientemeno che un ragazzo che usciva dalla macchina
tipografica colla faccia stampata, poi Gigi che faceva le boccacce a
Pinella, e questi che dava un abbraccio alla macchina, ed altre simili
stramberie.



ULTIMI GIORNI.


Maria si sentiva stringere il cuore al pensiero di lasciare quel
casolare di campagna dove avea passato due mesi deliziosi e dove s'era
trovata tanto bene: ai ragazzi pareva addirittura di andare in
prigione ed erano tutti imbronciati all'idea di lasciare quella vita
all'aria aperta, allegra e spensierata per riprendere la via della
scuola ed essere obbligati a stare delle lunghe ore immersi nello
studio.

Maria avea detto che anche le cose migliori devono finire, che quella
vita era bella perchè diversa da quella di tutti i giorni, ma che
bisognava decidersi a ritornare in città.

Incominciò ad occuparsi con ardore dei preparativi della partenza,
tanto per stordirsi e sentir meno il distacco da quei luoghi piacevoli
e da tante persone simpatiche, alle quali avea posto affezione.

Era verso l'ora del tramonto dell'ultima giornata di villeggiatura e
un'ombra di tristezza passava sulla fronte serena della fanciulla
all'idea delle lotte quotidiane che l'aspettavano in città per far
studiare i suoi fratelli e tener disciplinata quella schiera
irrequieta.

Quando vennero don Vincenzo e il professor Damiati per passare quelle
ultime ore nella sua compagnia, erano dispiacenti anch'essi di dover
interrompere la piacevole consuetudine di vedersi tutti i giorni, e di
veder partire i loro amici.

La sera era bella e piena di profumi, e stettero fuori per un po' di
tempo, girando per il giardino e contemplando la luna che sorgeva
sull'orizzonte come un disco infocato.

I ragazzi presero in mezzo a loro don Vincenzo, e gli fecero
raccontare un episodio del quarant'otto.

Maria e il professore passeggiavano lentamente rimpiangendo i bei
giorni passati, e formando progetti per l'anno venturo, quando si
sarebbero ritrovati insieme, in mezzo a quelle colline.

--Verrà a vederci qualche volta anche in città?--disse Maria.--Se
sapesse il bene che mi ha fatto coi suoi consigli e il suo
aiuto!--soggiunse.--Anche Carlo dopo le sue lezioni è un altro
ragazzo, ha preso amore allo studio, e credo che passerà l'esame; non
so in qual modo esprimerle la mia riconoscenza, per quello che ha
fatto per noi.

--Non mi faccia andare in collera,--rispose il professore.--Che cosa
dovrei dire io, che dopo averla conosciuta, dopo essere stato ammesso
come amico nella sua famiglia, mi sono riconciliato col mondo? Vede,
avevo avuto dei dispiaceri, ero disilluso; certe virtù credevo che non
esistessero che nei romanzi, e lei mi ha fatto ricredere; poi sa, che
la storia dei suoi piccoli eroi m'ha interessato molto? sa, che ha una
grande facilità di raccontare e tener desta l'attenzione cogli
scritti, e mi sorprende come non abbia mai pensato di pubblicare i
suoi racconti, che mi piacerebbero tanto?

--Senta, professore,--disse la fanciulla,--è poco tempo che ci
conosciamo, ma mi pare di parlare ad un vecchio amico, e voglio
aprirle intero il mio cuore. Quando viveva la mamma, ed io ero una
ragazza spensierata, non avendo altre occupazioni che i miei studi e i
miei giuochi, avevo fatto anch'io un bel sogno; ed era di poter un
giorno mettere sulla carta tutte le fantasie che mi passavano pel
cervello, i sentimenti che traboccavano dal mio cuore, e poi di poter
spargere quelle fantasie per il mondo, in modo che capitassero nelle
mani di altre fanciulle, a portar loro qualche ora di distrazione o
d'obblio, e così, avere in qualche angolo del mio paese delle amiche
sconosciute che mi volessero bene, e che pensassero a me con simpatia,
oppure aver la speranza di confortare un dolore, di far vibrare un
cuore assopito, e dopo morta, lasciar ancora qualche cosa di me, e
forse la parte migliore del mio pensiero.--Ero troppo orgogliosa, e
sono stata punita,--soggiunse con un sospiro.--Non è stato che un bel
sogno.

--Che potrebbe però realizzarsi,--disse il professore.

--I sogni rimangono sogni, e forse è meglio così,--rispose Maria.--Ed
ecco la realtà,--soggiunse, accennando ai fratelli, che
s'avvicinavano, per rientrare in casa.--Ora,--riprese avviandosi
dietro a loro,--tutti i miei sforzi devono mirare soltanto al loro
benessere, ogni individuo è un mondo da studiare, ogni mente un campo
da coltivare, e quando si hanno i figliuoli, dobbiamo dedicarci
interamente a loro, nè è possibile che ci sia tempo da pensare ad
altro.

--E a sè non penserà mai? nemmeno se un giorno un onest'uomo che le
piacesse, la supplicasse d'essergli compagna per tutta la vita; se le
balenasse la prospettiva d'avere i suoi proprii figli da educare,
rifiuterebbe l'amore e la felicità?

--Certo, finchè i miei fratelli avranno bisogno di me.

--Cioè, finchè le sue sorelle avranno trovato marito, e i suoi
fratelli una occupazione.

--Naturalmente.

--Ma sarà vecchia allora?

--Pazienza, sarò contenta d'aver compiuta la mia missione.

--Lei è una santa che vorrei adorare in ginocchio,--disse il
professore.

Intanto erano tutti rientrati, e quando furono seduti intorno alla
tavola, la conversazione si fece generale.

I ragazzi volevano che Maria raccontasse la storia d'un altro piccolo
eroe, ma le era impossibile: non ne avea voglia; poi la sua collezione
era esaurita.

Allora il professore disse ch'egli sapeva la storia d'un eroe che
valeva più di tutti quelli di Maria.

--Ce la racconti,--disse Giannina.

--Andiamo, incominci, ch'io farò le illustrazioni,--saltò su Mario.

--La storia del mio eroe, o meglio della mia eroina, si racconta in
poche parole,--disse il Damiati.

--Si tratta d'una fanciulla, che godeva la vita spensieratamente come
voi, aveva un bel sogno che la riempiva di gioia, dei pensieri che le
illuminavano la fantasia e che un giorno spontaneamente rinunciò alle
aspirazioni di gloria, ai sogni di felicità, ai suoi piaceri, alla sua
giovinezza, per dedicarsi interamente a dei fanciulli che non erano
suoi, e così condusse una vita di sacrificio e d'abnegazione, sempre
serena, sempre sorridente, senza lagnarsi mai, contenta della sua
sorte.

Eppure ne aveva delle noie per la sua giovane età! pensate: un ragazzo
non voleva studiare, una ragazza egoista e vanerella, un terzo
studioso, ma disordinato, poi una bimba da educare, un birichino da
dover frenare, e le toccò questa fatica, mentre era ancora nel fior
degli anni. Forse col tempo quei ragazzi comprenderanno il suo immenso
sacrificio e l'apprezzeranno, e forse invece la ricompenseranno
coll'ingratitudine.

--Questo no!--proruppe Vittorio avvicinandosi a Maria, e saltandole al
collo per abbracciarla.

--Cattivo professore!--esclamò Giannina, seguendo l'esempio del
fratello.

--È la storia di Maria,--dissero Carlo ed Elisa, raggruppandosi tutti
intorno alla sorella.

--Ha ragione, signor professore, è una vera eroina.

--Vediamo come la pensa Mario,--disse Damiati, strappandogli la carta
che stava scarabocchiando.

--Bravo Mario!--esclamò mostrando il disegno.--È la prima volta che ha
fatto qualche cosa di buono.

Non era una delle solite caricature, ma il disegno rappresentava Maria
colla sua faccia dolce da madonnina, ed un'aureola intorno al capo
come una santa, e ai suoi piedi i suoi fratelli in atto di adorarla,
promettendo d'esser buoni per far contenta la loro mammina.

--Bravo!--gridarono tutti in coro.

--Benissimo,--disse don Vincenzo,--Mario diventerà un buon artista,
perchè ha del cuore,--e rivoltosi a Maria, soggiunse:--Se poi con una
sorella come voi, non facessero tutti il loro dovere, sarebbero
davvero ingrati.

Maria era confusa, non trovava parole per rispondere, e sentiva una
dolcezza che le veniva dal cuore, e le faceva venir le lagrime agli
occhi; teneva la testa bassa, baciando Mario e Giannina per non far
vedere la propria commozione, e balbettava:

--È un tradimento, è un vero tradimento.

Ma quando più tardi salutò il professore e don Vincenzo, si sentì
prendere da una malinconia dolce e tranquilla, e le pareva che il suo
cómpito fosse più facile, dopo che aveva avuto l'approvazione dei suoi
amici, e quella prova di affetto dai fratelli, e si sentiva d'essere
più agguerrita nel rientrare in città a ricominciare la vita di tutti
i giorni; e salutandoli disse loro con un sorriso:

--Non compiangetemi, sono tanto felice!


FINE.



INDICE.

                                                    Pag.
  La famiglia Morandi                                 1
  Gli esami                                           8
  Mario e Vittorio                                   12
  La cucitrice di biancheria                         16
  In campagna                                        22
  L'ideale di Carlo                                  31
  I racconti di Maria                                35
  LA FIGLIA DEL CANTONIERE                           36
  Una passeggiata                                    62
  Serate in famiglia                                 78
  IL PROCACCIA                                       83
  La fiera                                          104
  _Lettera di Angiola alla signora Merli_           110
  Ricordi della fiera                               118
  TOM E FRIDA                                       124
  Le ricette di Maria                               146
  Eroismo di Vittorio                               154
  La famiglia Guerini                               160
  UNA PICCOLA FATA                                  165
  La festa campestre                                175
  Dopo la festa                                     184
  CARMELA                                           186
  Visita allo stabilimento Guerini                  208
  La macchina fotografica                           217
  Partenza di Angiolina                             225
  L'EROE DELLA MONTAGNA                             230
  Sciopero allo stabilimento Guerini                240
  Don Vincenzo                                      249
  Dopo la burrasca                                  251
  L'EROE DELL'OFFICINA                              265
  Ultimi giorni                                     280



MILANO--FRATELLI TREVES, EDITORI--MILANO


  CASA ALTRUI
  RACCONTO DI
  CORDELIA


È un vero romanzo dedicato alla gioventù, morale senza pedanteria,
istruttivo ed interessante ad un tempo. È la storia semplice e
commovente d'un ragazzo povero accolto in una casa di ricchi ed è
svolta in modo da parlare al cuore dei giovani e da educarne la mente.

L'esito avuto dall'edizione di lusso di questo romanzo e la costante
domanda di libri di lettura per la gioventù, ci hanno consigliato di
farne un'edizione economica alla portata di tutte le borse che sarà
certo bene accolta nelle famiglie e nelle scuole e formerà la gioia
dei giovani avidi di letture buone ed interessanti.

4.^a edizione.--Un volume in-16 di 240 pagine: UNA LIRA.


  Letture illustrate per i ragazzi

  RACCOLTE DA
  CORDELIA e ACHILLE TEDESCHI

  Dopo la scuola. Un volume di 520 pagine, con 334
  incisioni                                               L. 6 50

  Fanciulli del giorno. Un volume di 520 pagine,
  con 334 incisioni                                       »  6 50

  In vacanza. Un volume di 520 pagine, con 334 incisioni  »  6 50

  Serate in casa. Un volume di 520 pagine, con 334
  incisioni                                               »  6 50

  Il libro delle avventure. Un volume di 528 pagine,
  con 310 incisioni                                       »  6 50

_Legato in tela e oro, L. 8.50 ciascun volume._


Dirigere commissioni e vaglia ai Fratelli Treves, editori, Milano.



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  CUORE
  DI
  EDMONDO DE AMICIS

119.^a EDIZIONE.


Questo libro non ha più bisogno di elogi nè di raccomandazioni. Fu
accolto con entusiasmo in Italia ed all'estero. È entrato da sè in
tutte le scuole e in tutte le famiglie dei due mondi. Tutti i
municipii lo preferiscono come libro di premio, ed è generalmente
adottato come libro di lettura. Fra noi ebbe in un sol anno lo spaccio
favoloso di 52,000 esemplari (ora ha già sorpassato i cento mila);
all'estero sono uscite le traduzioni inglese (New-York, Crowell),
spagnola (Madrid, Fernan Fe), polacca (Leopoli), altra polacca
(Varsavia), tedesca (prof. Vülser, Basel), ungherese (G. Dolinay),
portoghese (de Novaez), serbo croata (prof. Sansovic), svedese
(Nyblom), olandese (N. Gosler), boema (Styblo ed.), danese
(Copenaghen, Biblioteca univ.), russa (prof. Krestowsky), francese
(Paris, chez Delagrave), ed armena (Mechitaristi di San Lazaro).

I più illustri insegnanti e i più celebri letterati hanno parlato di
questo libro considerandolo come il migliore che sia stato mai scritto
per i ragazzi; citiamo fra gl'italiani: Domenico Berti, Ruggero
Bonghi, Carlo Gioda, A. G. Barrili, E. Checchi, contessa Della Rocca,
Ida Baccini, F. Verdinois, E. De Marchi, Ed. Magliano, Cesare
Lombroso. In pieno Parlamento fu proposto a modello dal deputato Roux
e dal ministro Boselli. Fra gli stranieri ne fecero ampie recensioni:
Mark Landau, nella _Gazzetta Nazionale_ di Berlino; il dottor Emil
Burger, nella _Gazzetta di Breslavia_; Ed. Rod, nella _Nouvelle
Revue_; Ed. Cottinet, Fernandez Florez, a Madrid; il giornale
scolastico di Vienna che si intitola _Die Volksschule_; il prof. G.
Stritar, che tenne pure a Vienna una conferenza speciale al club slavo
su questo ch'egli chiama _un libro d'oro_.

LIRE DUE.--In tela e oro, Lire 3.

(Per gli Stati dell'Unione Postale: L. 2,50; in tela e oro, L. 3,60).


Dirigere commissioni e vaglia ai Fratelli Treves, editori, Milano



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D'IMMINENTE PUBBLICAZIONE

  FORZA
  LIBRO PER I GIOVANETTI DI GIOVANNI DE CASTRO

Guerra all'ozio.--Amore per amore.--Privazioni salutari.--Lo spirito deve
progredire.--Lo specchio dell'anima.--Nettezza fisica e morale.--
Rafforziamo i nervi.--Al mare, al mare!--Buon sangue.--Buon umore.
--Autoeducazione.--Il senso della misura.--Romanticherie.--Dormenti e
sonnolenti.--Il circolo di Popilio.--I lottatori.--Schiavitù volontaria.--I
genii del male.--Autoistruzione.--Miraggi seduttori.--I due regoli della
vita.--Voci dilette.--Potenza del libro.--Vita fisica.--Cura dei
muscoli.--Giuochi ed esercizi utili.--Ginnastica antica e moderna.--Salute
e bravura.--Il sentimento della montagna.--Ancora l'alpinismo.--Congedo.

LIRE DUE.--Legato in tela e oro, Lire Tre.

LIBRI COLORATI PER I RAGAZZI

L. 1,25 il volume -- legato su cartoncino -- L. 1,25 il volume.

  I. I FRATELLI GOLOSETTI.
  II. EMMA E LA SUA BAMBOLA.
  III. GUIDO E CARLETTO.
  IV. L'avventura di due disobbedienti
  V. RITA LA SALTATRICE.
  VI. I FRATELLI ROMPITUTTO.

  Sono sei racconti illustrati ognuno da sei tavole colorate.
  I racconti sono di A. TEDESCHI, i disegni di Ed. XIMENES.


Dirigere commissioni e vaglia ai Fratelli Treves, editori, Milano.



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  TESTA

  DI
  PAOLO MANTEGAZZA


Non è l'antitesi nè la contraddizione del _Cuore_, ne è il
complemento. Il concetto dell'opera è detto dall'epigrafe: _Seminare
idee perchè nascano opere_. Il libro insegna con esempii e racconti
che le tre virtù fondamentali della vita sono: _onestà, lavoro e
idealità_;--che cuore senza testa, vuol dire nave senza timone;--testa
senza cuore, vuol dire timone senza vela;--testa e cuore insieme,
significano armonia di tutte le energie del pensiero e del sentimento,
significano un _galantuomo intelligente_, cioè un uomo perfetto. Tutto
dev'essere ispirato dal cuore, guidato dalla testa. Protagonista, è
l'Enrico del _Cuore_, il libro è dedicato a Edmondo De Amicis.

  =16.^a= EDIZIONE.

  _Un volume in-16 di 320 pagine_: =LIRE DUE=
  In tela e oro: LIRE TRE.


  PENSIERI ED AFFETTI INTIMI
  DIARIO DI
  GIAMBATTISTA GIULIANI


Giambattista Giuliani non fu meno ammirato per la bontà dell'animo e
pel decoro di una vita tutta spesa nello studio e in opere buone, che
per la nobiltà dei suoi scritti, intesi a innalzare in Italia il culto
del genio dantesco ed esaltare le poetiche bellezze del vigente
linguaggio toscano. Questo diario fu lodato come grandemente educativo
ed è adottato dal Consiglio scolastico di Firenze come libro di
premio.

  LIRE DUE. -- Legato in tela e oro: LIRE TRE.

Dirigere commissioni e vaglia ai fratelli Treves, editori, Milano.



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  DIRETTO DA CORDELIA
  E DA ACHILLE TEDESCHI

  GIORNALE
  dei FANCIULLI

  Anno XI--1891

Premiato con medaglia d'oro dalla Lega degli Asili Infantili

  Anno, L.12 -- Semestre, L. 6,50. -- Trimestre, L. 3,50.
  (per l'Unione Postale, Fr. 18).

_Esce ogni settimana in 24 pag. di elegante formato-album._


=Il Giornale del Fanciulli=, si è sino dal suo primo giorno
proposto di preparare i suoi lettori alle lotte, alle difficoltà, ai
doveri della vita. È rimanendo fedele a questo programma che si
conquistò il grande favore che lo mantenne alla testa di tutti i
giornali che si pubblicano per l'infanzia in Italia.

Centesimi 25 il numero

Premio agli associati annui: IL PICCOLO COLORISTA, otto lezioni
d'acquarello per fanciulli: un album con esemplari facili e
piacevolissimo per l'avviamento allo studio del colorito.

(Aggiungere 50 centesimi per l'affrancazione del premio.--Per l'U.P.,
1 Fr.).


MONDO PICCINO LETTURE ILLUSTRATE PER I BAMBINI Anno VI -- 1891

NEL REGNO 3 LIRE L'ANNO

(Per gli Stati dell'Unione Postale, Fr. 8).


Esce ogni settimana in otto pagine contenenti pregevoli racconti,
eleganti poesie, bozzetti drammatici, scientifici, morali dei nostri
più stimati scrittori, nonchè giochetti varii, divertimenti; numerosi
disegni di celebri artisti illustrano gli scritti. Il suo prezzo mite
lo rende accessibile alle più modeste fortune.

_Esce ogni giovedì in 8 pagine riccamente illustrate_

Centesimi 5 il numero.

Dirigere commissioni e vaglia ai Fratelli Treves, editori, Milano.

MILANO--FRATELLI TREVES, EDITORI--MILANO

BIBLIOTECA DEL MONDO PICCINO

Con copertina in cromolitografia

  ALCOTT (L.). _Viaggio fantastico di Lilì_. Con 18 incisioni.
  --_Gli Ultimi Racconti_. Con 11 incisioni.
  BAYLOR (F. C.). _Gino e Gina_. Con 24 incisioni.
  BOYESEN (H. H.). _Fra cielo e mare_. Con 33 incisioni.
  BROOKS (E. S.). _I ragazzi nella Storia_. Con 45 incisioni.
  BURNETT (Francesca). _Un piccolo lord_. Con 25 incisioni.
  --_La povera principessa_. Con 16 incisioni.
  CONTI (E.). Con 22 inc._Vita e miracoli della signorina Ines_
  CORDELIA. _Mentre nevica_. Con 12 incisioni.
  --_Il castello di Barbanera_. Con 100 incisioni.
  FAVA (Onorato). _Granellin di pepe_, 2^a ediz. Con 12 disegni.
  --_Al paese delle stelle_. Con 24 incisioni.
  GLAVE (E. J.). _I primi passi di un esploratore_. Con 50 incis.
  HARTWELL CATHERWOOD (Mary). _Le campane di Sant'Anna_.
  Con 22 incisioni.
  OTIS (G.). _I piccoli venditori di giornali_. Con 12 incisioni.
  SALVI (Edvige). _Passeggiate in giardino_. Con 106 incisioni.
  SCHWATKA (F.). _I fanciulli dei ghiacci_. Con 34 incisioni.
  SCOPOLI-BIASI. _Un dono della nonna_. Con incisioni.
  SPERAZ (Ginevra). _Di casa in casa_. Con 17 incisioni.
  TEDESCHI (A.). _Il libro del signor Trottolino_. Con 8 incis.
  TROWBRIDGE. _Il Picchio rosso_. Con 10 incisioni.
  --_L'orologio del signorino_. Con 12 incisioni.

  LIRE DUE al volume.
  Legato alla bodoniana: Lire 2,50.--Legato in tela a oro: Lire 3,25.

  BACCINI (Ida). _Passeggiando coi miei bambini_. Con 24 disegni.
  --_Perfida Mignon_! con 30 incisioni.
  CONTI (Edoardo). _Il romanzo di un fanciullo ricco_. Con 14 inc.
  CORDELIA. _Mondo Piccino_. 2.^a edizione, con 15 incisioni.
  GALLINA (G.). _Così va il mondo, bimba mia_. Con 39 disegni.
  STAHL. _Il rosaio del fratellino_. Con 22 incisioni.
  --_Il paradiso del signor Guido_. Con 22 incisioni.
  --_Avventure della signorina Ladretta_. Con 24 incisioni.

UNA LIRA al volume.

Legato alla bodoniana: Lire 1,50. -- Legato in tela e oro: Lire 2,25.

Dirigere commissioni e vaglia ai Fratelli Treves, editori, Milano.



MILANO -- FRATELLI TREVES, EDITORI -- MILANO


BIBLIOTECA ILLUSTRATA PER I RAGAZZI (Copertina Rosa)


VOLUMI PUBBLICATI:

  ALCOTT (L. M.). _Jack e Jane_, riduzione dall'inglese di Sofia
      Santarelli. Con 25 inc.
  BAUDE: _Mitologica per i giovanetti_.  Con 117 incisioni.
  CERVANTES. _Don Chisciotte_.  Nuova traduzione ridotta ad uso
      dei fanciulli. Con 64 inc.
  COLET (L.). _Infanzie di uomini celebri_, 3.^a ediz. Con 57 incis.
  CONTI (E.). _Cani, gatti e ragazzi_.  Con 44 incisioni.
  DEPPING (G.). _Meraviglie della forza e della destrezza_. 96 inc.
  DOLLARI. _La storia di un gatto_.  Con 67 incisioni.
  Du CHAILLU (P.). _Avventure nella Terra dei Gorilla_.
  _Favole italiane_ di celebri autori.  Con 31 disegni.
  FÉNÉLON. _Favole_. Con 28 inc.
  FEUILLET (Ottavio). _Pulcinella, sua vita e sue numerose
      avventure_.  Con 90 incisioni.
  HAUFF. _La carovana_, racconti orientali. Con 46 incisioni.
  ---- _L'albergo della Selva Nera_.  Con 58 incisioni.
  HEBEL. _Storielle brevi_. 27 inc.
  LEANDER (R.). _Sotto la cappa del cammino_. Con 11 inc.
  LESAGE. _Gil Blas_. Nuova edizione destinata all'adolescenza.
      Con 50 incisioni.
  MAYNE-REID. _Al mare_! 29 inc.
  MILANI (G.). _Armonie poetiche della natura e della scienza_.
      Con 52 incisioni. 2^a ediz.
  MISS MAC INTOSCH. _Racconti di zia Caterina_. Con 120 inc.
  ---- _Nuovi racconti di zia Caterina_.  Con 58 incisioni.
  MORANDI (Felicita). _Ida e Clotilde_.  Con 26 incisioni.
  OUIDA. _Il Fanciullo d'Urbino_, illustrato.
  PHILLIPS. _Rosetta o I figli della fattoria._ Con 15 incisioni.
  PORCHAT. _Novelette meravigliose_.  Con 21 incisioni.
  RENAZZI. _Fra la favola e il romanzo_. Con incisioni.
  SCOPOLI-BIASI. _Reseda_. 22 inc.
  SÉGUR (contessa di). _L'albergo dell'Angelo Custode_. 75 inc.
  ---- _Il cattivo genio_. Con 90 inc.
  ---- _Il generale Durakine_. 57 inc.
  ---- _I buoni ragazzi_. Con 80 inc.
  STEVENSON (R. L.) _L'isola del tesoro_. Con 24 incisioni.
  SWIFT. _Viaggi di Gulliver_. Abbreviati ad uso dei fanciulli.
      Con 57 incisioni.
  TROWBRIDGE (J. T.). _Mea culpa_.  Con 18 incisioni.
  VAN BRUYSSEL. _I clienti del vecchio pero_. Con 53 dis.
  VILLARI (Linda). _La Conca d'oro_. Con incisioni.

  Ogni volume, L. 2,25.--Legato in tela e oro, L. 3.


  BIMBI Storielle di OUIDA.  L. 3,50.--Leg. in tela e oro:  L. 4,50.

  OCCHIO AI BAMBINI del dott. C. MUSATTI.  L. 2.--Leg. in tela e
  oro: L. 2,75.

Dirigere commissioni e vaglia ai Fratelli Treves, editori, Milano.



MILANO--FRATELLI TREVES, EDITORI--MILANO


ALFABETI ILLUSTRATI E COLORATI

I libri illustrati hanno sempre avuto fortuna presso il mondo piccino;
il disegno colorato vale meglio di ogni altro avvertimento ad attirare
e a mantenere desta l'attenzione del ragazzo, e l'attenzione è la
chiave di vôlta dell'edificio che deve costruire il maestro. Abbiamo
voluto compilare un _Nuovo Alfabeto Illustrato_ col miglior gusto
possibile e col maggiore sfarzo di tinte, tanto quanto possa
permetterlo la cromolitografia, per richiamare appunto con efficacia
alla mente del ragazzo tutta l'attenzione desiderabile, facendo della
tavolozza il suggeritore della sillaba e del pennello il missionario
dell'alfabeto.

Se il bambino ha già qualche dimestichezza coll'alfabeto si potrà
fargli leggere tutte le pagine come si trovano; in caso diverso,
bisognerà fargli apprendere prima le sillabe di ogni pagina, poi le
parole che si trovano al piede delle pagine, in ultimo i raccontini.


GRANDE ALFABETO ITALIANO

24 pagina colorate e 24 di testo con splendida copertina in colori e
oro: L. 6.

Ogni pagina in-folio grande, colle figure colorate, ha il suo testo di
riscontro che segue in ordine grafico i soggetti rappresentati.--Il
testo è compilato sulla scorta degli ultimissimi dettati didattici.


Alfabeto e Sillabario CON ANIMALI

_Edizione economica a gran buon mercato. 20 pagine a colori._
Centesimi 50.


Sillabario Illustrato PER I BAMBINI

20 tavole a colori e 20 pagine di testo LIRE TRE.


Prime Letture PER I BAMBINI

20 tavole a colori e 20 pagine di testo LIRE TRE.


IL PICCOLO COLORISTA OTTO LEZIONI D'ACQUARELLO

Bellissimo album in cromolitografia, con esemplari facili e
piacevolissimi per l'avviamento allo studio del colorito, LIRE TRE.


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MILANO -- FRATELLI TREVES, EDITORI -- MILANO


  OPERE ILLUSTRATE
  DI
  GASTONE TISSANDIER


Gli eroi del lavoro.

Un volume di 412 pagine in-8, con 40 incisioni L. 5 --

I. Gli umili.--II. I grandi ingegneri.--III. Gli scienziati.--IV.
Industriali e commercianti.--V. Pittori, scultori, musicisti--VI.
Letterati, poeti, filosofi.--VII. Magistrati e giureconsulti.--VIII.
Navigatori e marinai.--IX. I grandi generali.--X. Uomini
politici.--XI. Capi di Stati e sovrani.--XII. L'amore dell'umanita.

Il Tissandier segue l'esempio dato e la via tracciata da Samuele
Smiles nel suo celebre _Self-help_, tradotto in tutte le lingue col
titolo: _Chi s'aiuta Dio l'aiuta_. I due libri si completano a
vicenda. Anche qui si presentano gli episodi più salienti della vita
dei più grandi lavoratori di tutte le nazioni, sistematicamente
aggruppati.


I martiri della scienza.

Un volume in-8 di 420 pag. con 57 inc. L. 4 --

Eroi del lavoro e martiri del progresso.--I conquistatori del
globo.--Esploratori delle alte regioni atmosferiche.--La scoperta del
sistema del mondo.--La stampa.--Provando e riprovando.--Creatori di
scienze.--L'industria e le macchine.--Battelli a vapore e ferrovie.--I
medici.--Scienza e patria.--Soldati semplici.


Le ricreazioni scientifiche.

Un volume in-8 di 464 pagine con 226 incisioni L. 3 50

Queste _Ricreazioni Scientifiche_, che ebbero un enorme successo a
fascicoli, lo conservarono anche in libro, essendo uno dei più
graziosi, più ricchi e più istruttivi regali che si possano fare alla
gioventù. È poi un eccellente libro per la campagna, offrendo soggetti
di svariati passatempi.

Dirigere commissioni e vaglia ai Fratelli Treves, editori, Milano.



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OPERE DI E. DE AMICIS


IN-16

  _Vita Militare_. 19.^a impressione della nuova edizione del 1880
      riveduta e rifusa, con l'aggiunta di due bozzetti.         L. 4 --
  _Marocco_. 12.^a edizione                                         5 --
  _Novelle_. 9.^a edizione                                          4 --
  _Olanda_, 12.^a edizione                                          4 --
  _Costantinopoli_. 15.^a edizione                                  6 50
  _Ricordi di Londra_. 10.^a ed. con 21 disegni                     1 50
  _Ricordi di Parigi_. 6.^a edizione                                3 50
  _Ritratti letterari_. 2.^a edizione                               4 --
  _Poesie_. 4.^a edizione                                           4 --
  _Gli Amici_. 9.^a edizione. Due volumi                            7 --
  _Cuore_, Libro per i ragazzi. 119.^a edizione                     2 --
  _Alle porte d'Italia_. Nuova edizione completamente rifusa ed
      ampliata dal'autore coll'aggiunta di due nuovi capitoli       3 50
  _Sull'Oceano_. 18.^a edizione                                     5 --
  _Il romanzo d'un maestro_. 10.^a edizione                         5 --
  _Il Vino_. Nuova edizione in-16 illustrata da A. Ferraguti,
      Ettore Ximenes ed E. Nardi.                                   2 50


IN-8, ILLUSTRATE.

  _Marocco_. Con 171 disegni di S. Ussi e C. Biseo. 2.^a ediz.  L. 15 --
  _Costantinopoli_. Con disegni di Cesare Biseo                    20 --
  _La Vita Militare_. Con disegni di V. Bignami, E. Matania,
      D. Paolocci e Ed. Ximenes. 2.^a edizione                     15 --
  _Olanda_. Con 41 disegni e la carta del Zuiderzee                10 --
  _Gli Amici_. Edizione ridotta dall'autore e illustrata da
      Gennaro Amato, Gaetano Colantoni, Isidoro Farina, Dante
      Paolocci, Ettore Ximenes, Giuseppe Pennasilico.               4 --
  _Il Vino_, ilustrato da A. Ferraguti, Ettore Ximenes, Enrico
      Nardi.  Splendida pubblicazione con disegni colorati          6 --
  _Sull'Oceano_. Splendidamente illustrato da 191 disegni
      originali di Arnaldo Ferraguti                               20 --
  _Alle Porte d'Italia_. Splendidamente illustrato da 178 disegni
      originali di Gennaro Amato                                   20 --
  _Cuore_, Splendidamente illustrato da 200 disegni originali di
      A. Ferraguti, E. Nardi, G. A. Sartorio                       20 --

Sotto i torchi:

  _Fra casa e scuola_, racconti e bozzetti.

In preparazione:

  _1° maggio._

Dirigere commissioni e vaglia ai Fratelli Treves, editori, Milano.



NOTE DI TRASCRIZIONE

I racconti (composti in carattere più grande) sono stati indentati due
spazi.

Le lettere (composte in corsivo) sono state indentate quattro spazi.

Sono stati corretti i seguenti refusi:

  che guardano cogli occhi meragliati tutta quella roba,  (P. 112)
  poi ci sono le cose facilmente imfiammabili  (P. 151)
  specialmente dopo che s'inminciò ad adoperare (P. 215)
  essa raccontò loro le digrazie dei suoi fratelli (P. 223)


Nel racconto SCIOPERO ALLO STABILIMENTO GUERINI. compare
nell'originale:

  Più tardi quando il professore andò dai Guerini a dar lezione a Carlo,

che è stata corretto in

  Più tardi quando il professore andò dai Morandi a dar lezione a Carlo,





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