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Title: Rime di Argia Sbolenfi - con prefazione di Lorenzo Stecchetti
Author: Guerrini, Olindo, 1845-1916
Language: Italian
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*** Start of this LibraryBlog Digital Book "Rime di Argia Sbolenfi - con prefazione di Lorenzo Stecchetti" ***


      RIME
       DI
  ARGIA SBOLENFI


       CON
    PREFAZIONE
        DI
  LORENZO STECCHETTI



  QUARTA EDIZIONE



  BOLOGNA
  PREMIATO STABILIMENTO TIPOGRAFICO
  SUCCESSORI MONTI
  EDITORI

  MDCCCXCIX



  L'EDITORE
  ADEMPIUTI I DOVERI
  ESERCITERÀ I DIRITTI SANCITI DALLE LEGGI



PREFAZIONE



Ecco un libro sbagliato.

E poichè una cortese ma assidua insistenza durata oramai tre anni,
riuscì pure a levarmi di sotto questa prefazione che non scrissi
volontieri, così, per patto espresso, mi serbai il diritto di dire
l'animo mio tutto intero e lo dico.

      * * *

Ai lettori (se il libro ne avrà, che non li merita) riuscirà difficile
capire come diavolo possa esser nata una insanità simile a questa; ed
ecco, per quel ch'io so, come avvenne.

Vegetava in Bologna, e può darsi che vi agonizzi ancora, un foglietto
di carta stampata venduto una volta la settimana ai cittadini che non
sanno come sciupare il tempo. S'intitolava «_È permesso?..._» e non
poteva uscire dalla breve cerchia delle mura poichè mordeva solo gli
uomini che dentro alle mura hanno fama, uffici o difetti. Perciò era
scritto o in dialetto o in italiano così fitto d'idiotismi da parere
un peggiorativo del dialetto. Lo dirigeva un certo Cesare Dallanoce,
al cui cognome botanico s'era appiccata l'aggiunta di _Moscata_;
giovane nottambulo, di qualche spirito, con un fisico di cercopiteco
peggiorato, sotto al quale stavano mescolati l'odio e la bontà in un
connubio stravagante. Anzi l'odio era uno e le bontà parecchie; e
segno dell'odio cieco, furibondo, indomabile era il Presidente di
questa Deputazione Provinciale che non gli aveva mai fatto niente;
anzi non gli badava nemmeno. Ma il Moscata era fatto cosi e se la sua
bestia nera avesse fatto più miracoli che non S. Antonio di Padova,
gli avrebbe tolti i meriti ad uno ad uno, mordendolo e lacerandolo
tutti i sabati nel suo foglio di carta.

Tolto questo brutto difetto, che doveva esser vizio di natura
incurabile, era buon diavolo e tutti gli volevano bene. Prestava
volentieri sè stesso e il giornale per opere di beneficenza, non
diceva troppo male del prossimo suo, insomma era simpatico a molti ed
odiato da nessuno.

Aveva avuto la fortuna, fin da principio, di contare tra i
collaboratori «_El sgner Pirein_» il signor Pierino, il cui nome ed il
cui tipo non saranno dimenticati così presto dai bolognesi.

Antonio Fiacchi, bravo e buon giovane di brillante ingegno, aveva
trovato questo esilarantissimo tipo del vecchio petroniano col
cappello bianco a cilindro l'estate, il tabarrino a pipistrello
l'inverno e le scarpe di panno tutta l'annata; il vecchietto
brontolone, credenzone, ricordatore inesausto dei tempi passati,
detrattore dei presenti, ma in fondo ingenuo sino alla balordaggine.
In un altro di questi giornaletti municipali aveva fatto le prime
armi, in un dialetto italianizzato che accresceva comicità al
contenuto di certe lettere che non possono ricordarsi tuttora senza
ridere. Il tipo aveva fatto fortuna ed era quasi assunto alla dignità
di maschera cittadina come il dottor Balanzone; cosicchè in certe
feste carnovalesche, in un villaggio di legno e di cartone che serviva
da fiera, il signor Pierino fu fatto sindaco e sciorinò proclami ed
allocuzioni da non dire. Ma il Fiacchi fu chiamato a Roma e il signor
Pierino tacque.

Il _Moscata_ che aveva buon fiuto, lo cercò pel suo giornaletto, ma il
Fiacchi rispondeva a buona ragione che, fuori dell'ambiente bolognese,
si sentiva disorientato e che temeva di non far nulla di
buono. _Moscata_ insistè e si venne a questo che il signor Pierino
Sbolenfi avrebbe scritto come corrispondente dalla capitale; e così
fu.

Allora il bel tipo ideato dal Fiacchi rivisse in una serie di lettere
datate «dalle rive del Colosseo» che fecero la fortuna del giornale.
L'egregio signor Sbolenfi aveva ingrandito l'allegro campo dell'arte
sua ed oltre alle amene confidenze delle sue tribolazioni famigliari,
ci dava le impressioni romane ricamate sulla tela delle proprie
avventure. E lo vedemmo uscire di non so qual Ministero, autocandidato
al tempo delle elezioni Giolitti, perdere l'impiego e cercarne un
altro per perderlo di nuovo. Lo vedemmo custode dei tempietti
municipali sacri alla Dea Cloacina abbandonarsi a meste riflessioni
sulle miserie umane ed a giudizi comparativi argutissimi sul
giornalismo contemporaneo in relazione ai riti celebrati nel suo
tempietto. Ma poichè le autorità municipali nel tempo del colèra
avevano segretamente ordinato a lui ed ai colleghi una sorveglianza
intima sulla condotta dei cittadini ed egli aveva propalato la cosa
nel giornale, eccolo di nuovo senza impiego ed in cerca di un
altro. Insomma tutto un romanzo comico, pieno di trovate felici, di
festività arguta e qualche volta di velata melanconia.

E il signor Pietro Sbolenfi aveva per moglie la signora Lucrezia e per
figlia la signorina Argia, attrici principali nella stravagante
commedia della sua vita. La grafomania è contagiosa e la signorina
Argia cominciò a mandare al giornale le sue epistole lamentevoli e
pretenziose.

Si voleva, a quel che pare, crear un altro tipo; quello della ragazza
che ebbe una mediocre istruzione e che, inacetita dal celibato, chiama
il pubblico a testimonio delle sue isteriche sofferenze, Il tipo non
era così allegro come l'altro; di più non era nuovo e le
manifestazioni dell'isterismo essendo spesso erotiche, c'era pericolo
di cadere in una triviale pornografia.

E la signorina ci cadde malamente, lunga e distesa.

È ben vero, lo ripeto, che il tipo non si poteva intendere senza
l'erotismo; ma c'è modo e modo. È ben vero che i lettori di un
giornale quasi in dialetto non avrebbero inteso bene una Nuova Eloisa
e che per ottenere l'effetto occorreva sal grosso di cucina, non aromi
delicati; ma resta tuttavia che nulla giustifica il turpiloquio mal
velato sotto gli equivoci grossolani, la scatologia suina che non si
vergogna della sua loia. Ci fu chi torse il naso, ma purtroppo il
pubblico in generale applaudì!

Così l'Argia si mise in piazza, prima, come ho detto, con certe
lettere ridicolose che rifacevano l'ortografia e lo stile paterno, poi
a poco a poco, con certe poesie non meno ridicole di cui son saggio le
prime di questo sbagliato volume.

Unico merito, se pure è tale, è un progressivo levarsi e correggersi,
come di chi, avvistosi dell'errore, cerca di spacciarsi dal brago. Ma
ciò non scusa in modo alcuno la bassezza e la sudiceria sciocca degli
esordi.

A questo modo la poetessa (come si battezzava da sè modestamente)
seguitò a metter fuori le sue fagiolate e il male non sarebbe poi
stato grande se non si fosse pensato a raccoglierle in volume. Ah,
veramente il bisogno di una sporcizia di più, a questi, bei lumi di
luna, non era sentito!

A me pareva impossibile che si potesse giungere a questo; tanto che,
pregato anni sono, di fare la prefazione alla raccolta, dissi di sì,
nella certezza che non se ne sarebbe fatto nulla. I versi erano ancora
pochi e pensavo che fino ad un volume la poetessa non ci sarebbe
arrivata; ed ahimè, ci arrivò!

Ora innamorata dell'Imperatore di Germania che credeva venuto a Roma
per sposar lei, ora intabaccata di un canonicaccio di manica larga,
degno Vescovo di Seboim, la pettegola figliò tanti versi da mettermi
al punto di mantenere la promessa. Non è a dire quante scappatoie
cercai per esimermene, come volli dissuadere, come temporeggiai! Ma
non ci fu verso. La parola era data e, per quanta ripugnanza ci
avessi, dovetti mantenerla. Solo mi riserbai di dire schiettamente
quel che ne penso, non perchè il disapprovare possa valermi di scusa,
ma perchè lo sfogarsi dopo tutto è un sollievo.

       * * *

Se frugo nei più intimi ripostigli della mia coscienza, non ci trovo
nulla che mi chiami all'onore degli altari. In quel quarto d'ora di
notorietà cui, come tanti altri, soggiacqui, non fui precisamente
lodato come continuatore delle virtù di S. Luigi Gonzaga o come emulo
di Giuseppe servo di Putifar. Tempi, ahimè, troppo lontani e che
volentieri rivivrei; parole e versi che, potendo, ridirei senza
rimorso e senza rossore; ma tempi, ahimè, troppo lontani!

Dico questo, non per balorda libidine di parlare de' fatti miei, ma
perchè si creda che, disapprovando senza restrizioni queste
scelleraggini, scrivo per convinzione e non per affettazione. Allora
ed oggi mi persuadeva e mi persuade la teoria della immacolatezza
dell'arte, purchè sia arte e sia bella. Venere Anadiomene e Cristo
Crocifisso sono rappresentati ignudi tutti e due e nessuno dei due
nella rappresentazione artistica è immorale. Onorato di Balzac, che
non è poi il primo capitato, nell'_Avant--propos de la Comédie
Humaine_, diceva--«_Le reproche d'immoralité qui n'a jamais failli à
l'écrivain courageux, est d'ailleurs le dernier qui reste à faire
quand on n'a plus rien a dire a un poète. Si vous étes vrai dans vos
peintures, si à force de travaux diurnes et nocturnes vous parvenez à
écrire la langue la plus difficile du monde, on vous jette alors le
mot immoral à la face_»--Solo il brutto è immorale.

È perciò che questa studiata ricerca del brutto, del triviale,
dell'imbecille, mi irrita. Questa non è più arte, è laidezza, è
turpiloquio spregievole; ed ho appunto voluto ricordare il quarto
d'ora di notorietà che ebbi in passato perchè si vegga che la
disapprovazione non viene da bigotta ipocrisia, ma da convinzione
salda intorno alla ragion d'essere dell'arte. E che cosa ha da fare
l'arte con queste cretinerie pediculose che s'intitolano _romanze,
favolette_ etc.? Anzi è bestemmia solo il ricordare il nome santo
dell'arte a questo proposito e il criterio non corrotto del pubblico
italiano condannerà senza dubbio e senz'appello queste stolte
sconcezze all'obbrobrio ed all'oblio che meritano.

Mi duole di dover parlare così acerbamente, ma era, lo sento, mio
stretto dovere.

Più avanti la poetessa (chiamiamola così, poichè lo vuole) lascia lo
sterquilinio in che si compiaceva e si innalza, per quanto glielo
permettono le deboli penne, ad una forma un po' più elevata. C'è per
esempio un «_Inno a Venere_» che, se nel concetto è della più abietta
pornografia, nella esecuzione si può dire più conforme ai canoni della
lirica; ed io, appunto per quel che ho detto di sopra, non lo
disapprovo affatto. Qui si potrà parlare d'arte, ma nella prima parte
del volumetto, no, mai. Tutt'al più ci potremmo rifugiare nella
caricatura, nella rimeria giocosa, negli scherzi più o meno piacevoli,
ma il giudizio, anche il più indulgente, sarà sempre di riprovazione.
La stupidità può muoverci alla compassione, ma l'affettazione, la
caricatura della stupidità, specie se oscena, potrà muoverci al riso
per un momento, ma non mai all'applauso sincero.

Nè vale sfoderare illustri esempi. Ma chi oserebbe parlare del Berni,
del Burchiello od anche dei poeti maccheronici o fidenziani a questo
proposito? Certo, in quei capitoli e in quei sonetti c'è il doppio
senso, l'allusione mal velata, la forma volutamente pedestre: ma il
punto di partenza è proprio diametralmente opposto a quello da cui
parte la nostra poetessa. Il Folengo, per esempio, par che voglia
rifare (almeno nella _Zanitonella_), il contadino che si sforza di
parlare come il cittadino, l'idiota che si sforza di parlar colto. Qui
invece è la persona colta che si sforza di parere abietta. Là c'è uno
che vuoi uscire, come il Vallera della Nencia, dal dialetto e dalla
rusticità e cerca il comico nel tentativo di elevarsi alla dignità
dell'arte; qui, al contrario, abbiamo la ricerca del comico
intervertita, la rappresentazione di una persona colta che, per far
ridere, si abbassa e si infanga in tutti i letamai che trova per via.
Là c'è una caricatura del tentativo di salire, qui del discendere. Là
c'è il pagliaccio che esce dal circo e s'ingegna di far intendere che,
uomo anch'egli, soffre ed ama; qui abbiamo invece la persona per bene
(almeno lo spero!) che s'incanaglia e si fa pagliaccio per far ridere
colle smorfie e le contorsioni del viso infarinato. È perciò che male
si potrebbero addurre gli esempi come scusa, perchè gli esempi non
calzano.

Si può essere di manica larga, vantarsi spregiudicati e sorrider di
tutto; ma in fondo al cuore resta pur sempre qualche cosa che si
rivolta al puzzo ed alla lordura. La ripugnanza pel laido è istintiva
e si vede mal volentieri un'artista, o una che si crede tale, far
getto così sconciamente della propria dignità. Avete visto in qualche
«caffè concerto» di ultima classe certe matrone appassite e verniciate
cantar colle gambe e gesticolare colle natiche? Ne inorridite ancora?
Ebbene, questa della signorina Sbolenfi è letteratura da «caffè
concerto.»!

Dunque, riprovazione piena, intera ed assoluta.

       * * *

Ed ora che ho detto per lungo e per largo il parer mio, bisognerà pur
cercare in questo scellerato libercolo, non dirò qualche cosa degna di
lode, che non ce n'è, ma un pretesto per invocare le circostanze
attenuanti. Una prefazione che fosse una stroncatura da capo a fondo
sarebbe una mostruosità. Proviamoci.

Si potrebbe dire intanto che l'autrice ha fatto bene ordinando queste
cose sue in modo che crescano sempre di serietà (!) e di correzione.
Parte dalla insanità cercando di salire alla lirica e in questo
successivo progresso è il filo che lega il volume. Bisogna ricordare
che si tratta di una pettegola semi letterata che va raffinandosi a
poco a poco. Questo almeno pare che sia il concetto generale e, anche
nei volumi di liriche, credo lodevole un legame che costringa le parti
diverse. Sia un mazzo di fiori, sia un fascio di stecchi, un vincolo
ci deve essere, se no, invece di un mazzo o di un fascio, avremo un
mucchio incoerente di spazzatura. M'è sempre piaciuto, anche nelle
raccolte di versi, un romanzo che spieghi tutto. Il Canzoniere del
Petrarca (se non è peccato mortale ricordarlo qui ed a questo
proposito) non è egli dunque un romanzo d'amore? Un concetto unico
circola per le diverse parti, come il sangue nelle membra e vivifica
l'opera nella mente del lettore. Un libro deve essere un organismo.

Ed anche non è da passare senza almeno un segno di benevolo
consentimento sul tentativo di poesia patriottica ed un po'
socialista, che fa capolino in fondo al volumetto. In questi nostri
bellissimi tempi pareva che il patriottismo consistesse tutto nel
prendere la roba altrui. Di qui i disastri eritrei, di qui l'epizoozia
dei commendatori, la quistione morale e i sospetti, confortati da
troppe probabilità, sulla corruttela, la venalità, la disonestà
insomma, di chi doveva esser esempio del contrario. Sottrarre gli
accusati all'istruttoria ed ai giudici costò poco ad una maggioranza
metà di amici, metà di complici, ma è facile capire come questi segni
di decadenza morale fossero dolorosamente sentiti da tutti coloro pei
quali il patriottismo non fu mai una chiave falsa per aprire gli
scrigni pubblici o privati. «Avete fatta l'Italia per mangiarvela»
dissero i clericali, così pronti a profittare delle calamità del loro
paese; egli Italiani, scettici per istinto, rilessero dubitando le
pagine della storia loro e sentirono rimpicciolire in se stessi le
sante idee di patria, di indipendenza e di libertà. Quanto male
abbiano fatto alla coscienza italica gli ultimi scandali, lo dirà
purtroppo l'avvenire: per ora intanto la patria non è più di moda.

Di moda invece vuoi diventare il clericalismo. Chi guadagnò diventa
conservatore e conservatori si dicono e sono tutti gli arrivati. Se,
per fortuna delle idee liberali, la cocciutaggine della decrepitezza
non mantenesse così ampia la fossa che separa l'Italia dal papato,
tutti questi conservatori d'oggi sarebbero papalini domani. Già le
classi abbienti fan l'occhio di triglia alla teocrazia, si offrono e
si danno. Poichè la fiducia nella protezione della Benemerita Arma è
scemata e i timori per la sicurezza della proprietà sono cresciuti,
gli abbienti pensano che la paura dell'inferno può essere utile ed
efficace. Di qui un ritorno interessato alla religione e l'adorazione
nuova di un Dio personale, terribile e punitore. Non è la fede che fa
queste miracolose conversioni, ma il basso, il laido interesse. Se
costoro pensassero di trovare altrove una buona tutela dei beni o
delle cariche, con la stessa facilità sarebbero domani protestanti,
ebrei e magari repubblicani. Per conservare una buona rendita si può
portare anche il berretto rosso.

E così si veggono a poco a poco scomparire i partiti intermedii nella
gran massa dei cittadini. Si riveggono soltanto in Parlamento, poichè
per giungere su quegli scanni, è necessario l'ibridismo. Il deputato
deve essere come il pipistrello che si diceva topo od uccello secondo
il bisogno; deve essere _possibile_ sempre ed atto per indecisione di
lineamenti a qualunque trasformazione. Ma il paese non è così e va
scindendosi in due grandi partiti; il clericale e il socialista.

E sono le due uniche schiere dove ci sia ancora vitalità, abnegazione,
e passione di proselitismo. Tutto il resto è morto od è moribondo.
Guardatevi intorno e dite se questa non è la verità.

Così a poco a poco ciascuno entra in una di queste due parti, secondo
le convinzioni o gli interessi. Gli odiatori del nuovo, i timorosi
dell'avvenire, tornano penitenti a Canossa; gli altri che hanno ancor
fede nel progresso dell'umanità, nella perfettibilità dell'assetto
sociale, fanno un passo innanzi e, socialoidi oggi, saranno socialisti
domani.

E dell'esser andata piuttosto con chi va avanti che con chi retrocede,
volevo tener buon conto all'autrice di queste rime; di quelle, dico,
che chiudono il volume. Tuttavia, siccome questo sarebbe un giudizio
di opinione e non di letteratura, me ne astengo. Ma ho voluto dir
tutto questo anche per notare un altro difetto del libro; quello cioè
di esser formato, nella sua parte men pessima, di rime di occasione,
le quali, come è naturale, colla occasione, sfioriscono. Molti fatti e
molte allusioni domani non saranno più ricordati; alcuni anzi, anche
oggi, sono quasi fuori della nostra memoria. È perciò che questo
libercolo, secondo me, è nato morto, e gli sta bene! Già era meglio
che non nascesse.

Ma quel che sopratutto mi piace nella poetessa, (come si chiama lei) è
l'aver sdegnato i novissimi deliri simbolisti e decadenti, nei quali
pure poteva cascare, tratta com'era dalla smania della stravaganza. Di
questo, senza restrizione alcuna, la lodo.

Oh, i preraffaelisti! Chi ci libererà finalmente da questi nuovi
monaci in veste di artisti, che per libidine di novità, per ricerca di
_posa_, retrocedono sino alle puerilità del Beato Angelico, nell'odio
affettato ed ipocrita della vita vera e della forma plastica? Perchè,
lettori, chinatevi pure, raccogliete i torsoli di cavolo, magari le
pietre e scagliatemi tutto sulla testa, ma lasciatemi dire quel che
sento: il Beato Angelico non lo posso soffrire. Ah, come sono
antipatiche quelle sue Madonne magre allampanate, con gli occhi
inebetiti e le carni verdoline; e quegli angeli col parucchino biondo
bene arricciato, la trombettina alla bocca e il tutto su fondo d'oro!
Bella roba, per Dio, impiastrava questo frataccio, in pieno
Rinascimento! Anche un passo indietro e tornava ai bizantini, vivente
Donatello! Se c'è qualche cosa da ammirare in lui, sono i suoi
ammiratori.

Ed ora, a sentire questi nuovi missionari dell'arte ideale,
bisognerebbe ritornare forse più indietro. La carne è impura per loro
come per gli asceti della Tebaide, e dipingono certe figure anemiche,
sofferenti per stento di pubertà malaticcie, che fanno venir sulle
labbra il motto imperativo stampato su tutti i muri _Bevete il
Ferro-china Bisleri_! Bevetelo e lasciate in pace queste figurine di
uomini senza polpe e di donnine che vedon bianco. Non ci sono solo
angoli al mondo; ci sono anche le curve.

È certo che lo studio e la riproduzione del mondo esterno come è,
costano più fatica che non l'operare secondo una formola od una
maniera. Non è così difficile il buttar giù una di queste faccine
insipide e di madreperla, come il mettere il sangue e la vita in un
viso di carne sana come fecero il Correggio e il Tiziano; e sia. Ma
perchè mascherare l'impotenza colle teorie e tornare indietro e non
confessare piuttosto che manca la forza per andare avanti? Ah no,
mangiate carne o ricorrete magari a tutti i ricostituenti, a tutti gli
intrugli farmaceutici più corroborativi, ma non dipingete più
fantasime e burattini!

E come sono noiose le sciarade del simbolismo! Pensare che ci sono dei
superuomini che invidiano gli allori di Oscar Wilde; pensare che tutto
questo è un regresso, un ritorno al Medio Evo, proprio quando sta per
cominciare il secolo ventesimo! Ma dunque sarà proprio vero che
l'intero genere umano sia malato di nervi, poichè in tutti questi
libri non si trovano che squilibrati e mattoidi? Non ci sono più donne
sane in terra che da ogni pagina vaporano le aure dell'isterismo? È
possibile che non si trovi più un cuore buono, un cervello
equilibrato, un utero normale? L'epilessia e l'allucinazione sono
dunque la regola e la sanità l'eccezione?

Se i disturbi dell'innervazione sono così generali, come sembra a
questa letteratura psicopatica, non sarebbe egli più utile
raccomandare ai sofferenti, non la morfina, ma le docciature e la
bicicletta? Se l'esaurimento nervoso è il male che affligge la
presenti generazioni, non sarebbe meglio leggere l'Ariosto all'aria
aperta, piuttosto che inghiottire l'Ibsen nell'afa del teatro? Ma no;
l'Ariosto non è più di moda e l'aria aperta sciupa il candore della
pelle clorotica; e così sia!

Anche la signorina Sbolenfi è isterica, e come! Ma essa sorride della
propria imperfezione e la mette in caricatura, per finire il volume,
se non perfettamente risanata, almeno convalescente. E di questo
ritorno a lodarla, perchè è troppo facile, in tempi di contagio,
ammalare come il prossimo.

        * * *

Ed ora che ho detto il bene e il male, depongo volentieri, anzi con
gioia, la penna che non avrei preso in mano se una promessa non mi ci
avesse costretto. Abbandono il libro al disprezzo dei virtuosi ed alle
risate di quegli altri, lieto, in quanto a me, di aver imparato
questo; che non bisogna prometter mai prefazioni e tanto meno farne.

L. STECCHETTI



                             A
                      PIETRO SBOLENFI

                         LA FIGLIA
                           ARGIA

                        RICONOSCENTE

                           OFFRE
                           DEDICA
                          CONSACRA



LIBRO PRIMO


LE CRETINE



  SI DESCRIVE UN VAGO DESIO![*]


  Condannata da l'empio destino
    a l'iniquo mestier della cuoca,
    io compongo vicino alla fuoca[1]
    i miei deboli versi d'amor,
      e l'imago d'un giovin divino
    m'apparisce a gli sguardi incantati;
    sento l'orma de i passi adorati
    echeggiarmi ne l'vergine cor!

  Quant'è bello il diletto garzone
    cui le grazie fan lungo corteo!
    Rassomiglia a Giulietta e Romeo
    che la penna de l' Tasso cantò!
      E' robusto sì come Sansone,
    è più forte di Tirsi e d'Orlando,
    e se snuda il durissimo brando
    qual mal donna resister ci può?

  Vieni meco, mio energico amico,
    ch'io ti stringa in un morbido amplesso!
    Tu sei bello, sei forte, sei desso,
    il marito che innanzi mi sta!
      Ma chi rompe l'imene pudico,
    ma chi turba il mio sogno fremente?
    E' mio padre che grida furente:
    «La brasàdla la pòzza e d' strinà!»[2]


        (_Pensata nella domestica cucina
          e scritta ivi il giorno dopo_)


  [*] Questo fu il primo parto della nostra Poetessa e le mende
    storiche e mitologiche ne accusano l'inesperienza.

  [1]: Focolare, _Dialetto bolognese_.

  [2] "La costoletta puzza di bruciato", _Dial. bol._



  LA BALLATA DEL RE MORO


  Tra le palme del deserto
    C'è un magnifico castel,
    Ch'è impossibile di certo
    Di trovarne uno più bel.

  Ivi tien la sua dimora
    Di quei popoli il signor.
    Egli è bello e giovin, fuora
    Che ha il difetto d'esser mor.

  Stando assente dal paese
    D'una vergin s'invaghì.
    Era bella e bolognese,
    E difatti la rapì.

  Ma suo padre, ahi sorte dura!
    Che mandarla giù non può,
    Si rivolse alla Questura
    Che due guardie ci mandò;

  E alla patria abbandonata
    La volevan trascinar,
    Ma la bella innamorata
    Non voleva ritornar,

  E rivolta al suo diletto
    Ci diceva: «o bel re mor,
    »Fa il piacere, tienmi stretto,
    »Non lasciarmi con costor!

  »Deh, non fia che il fato amaro
    »M'allontani dal tuo sen!
    »Ah, difendimi, mio caro,
    »Che ti voglio tanto ben!»

  Ma il re moro pensieroso
    Resta muto sul sofà
    E un pensiero mostruoso
    Nello sguardo e in cor gli sta!

  Poichè il moro non risponde
    Sta la bella in oppression;
    Straccia via le chiome bionde
    E si butta in ginocchion.

  E poi fece tante cose,
    Disse, pianse e supplicò...
    Ma quel porco non rispose,
    Stette zitto e la piantò!



  SONETTO

  CONTRO UN ANONIMO CHE CI FECE LA BURLA DEL TELEGRAMMA[*]


  O scellerato che tirasti su
    Quel genitor che il cielo a me largì,
    Hai ben ragion che sei non si sa chi
    E il telegramma senza il nome fu!

  Empio, domanda pure a chi vuoi tu
    Se son cose da far quelle che lì,
    Che sta sicuro che se fosti qui
    Staresti un pezzo di non farne più,

  Che colla forza la maggior che ho
    Ti vorrei scorticar da capo a piè
    E con la pelle tua farmi un paltò!

  Nessun ti salverebbe, a meno che
    Fosti bello e robusto anzichenò
    E promettesti di sposarmi me.


  [*] L'ottimo Signor Pietro Sbolenfi si portava candidato alla
    Deputazione in tutti e tre i Collegi di Bologna. Il vero merito
    non è mai conosciuto e lo Sbolenfi rimase in terra. Un malvagio,
    rimasto avvolto nelle ombre del mistero, telegrafò allo sconfitto
    candidato che invece la sorte gli aveva sorriso. La famiglia quasi
    impazzì di gioia, il signor Pietro diede le dimissioni dal suo
    impiego di ff. di inserviente di III classe e si trovarono sul
    lastrico. Onta sul cranio indegno che pensò simile orrore!



  SI DESCRIVE UN TEMPORALE
  NEL DESERTO


  Che veggo? Che miro? Rimbomba già il tuono!
    Il tempo mi pare che faccia da buono!
    Ahi, miser chi a casa scordato ha l'ombrel!
  La grandine è grossa che pare una noce
    E omai per vederci nel scuro feroce
    Accender fa d'uopo frequenti candel.

  Che veggo? Che miro? Un giovin garzone
    Che solo soletto traversa il ciclone
    E par che non curi dell'acqua il piombar!
  Ah, certo tra i lampi lo guida l'amore!
    Mel dice la speme che m'arde nel core!
    Ah, certo quell'uomo mi viene a sposar!

  Deh, frena il furore, fa un poco più adagio,
    Che tu nol rovini, mio buon nubifragio!
    Deh, fa che non giunga bagnato al mio sen!
  Che veggo? Che miro? Ah, cruda mia stella!
    M'illuse la speme, ho fatto padella![1]
    Egli era il Questore, non era il mio ben!!


  [1] Prendere un granchio: _Decapodus brachiurus_ Linn.



  LA MIA GHIRLANDA POETICA[*]

  _Ad Enrico Zanettini_


  I

  Questa è la mia ghirlanda! Il lauro eterno
    Intrecciato co' fior, m'orna la fronte
    E così salgo il dilettoso monte
    Che il Nume de' poeti ha in suo governo.

  Questa è la mia ghirlanda e state, o verno
    O venti, o geli, non le arrecan onte.
    La bagnò l'onda del Castalio fonte,
    Col raggio la baciò l'astro superno.

  Eccola: a voi, poeti, a voi la mostro
    Olezzante di rose e di vïole,
    Pura qual neve che sull'alpe fiocca.

  Eccola dei color di croco e d'ostro,
    Leggiadra come un fior che s'apre al sole:
    Dio me l'ha data e guai chi la tocca!


  II

  Ma se tu, Zanettin, toccarla vuoi,
    L'Argia t'adora e non se ne lamenta
    E se magari ami fiutarla, il puoi,
    Che tu ne sarai lieto ed io contenta.

  Vieni Enrico ed ammira i color suoi:
    Prendi e sciupala pur se ti talenta,
    Poi che intatta la porgo agli occhi tuoi
    E sguardo indagator non la sgomenta.

  La conservai qual me la diede Iddio
    Pura nella favella e nei pensieri,
    Sogno dei vati e de' guerrier desio;

  Ma poichè mi son legge i tuoi voleri,
    Ad un solo tuo cenno, Enrico mio,
    Te la do tutta quanta e volentieri!


  [*] Enrico Zanettini domestico di S.E. Reverendissima Mons. Vescovo
    di Fano, respinse indignato l'effemeride dove scriveva la
    Poetessa, perchè infetta di massime eterodosse. La signorina Argia
    gli pose affetto e gli inviò una corona di cardi con questi
    sonetti.



  LA BATTAGLIA DI SADOVA


  S'ode a destra tirar per la valle,
    A sinistra si tira lo stesso;
    D'ambo i lati si vedon le palle
    Da pistole montate scoppiar.
      Lunghi e grossi ch'è un gusto guardarli
    Sono i pezzi che scarican spesso,
    E se alcuno provasse a tastarli
    Sentirebbe la mano a scottar.

  Colle gambe per aria da un lato,
    Colle gambe per aria dall'altro,
    Cade a terra il meschino soldato
    Che l'amante al paese lasciò.
      Fieramente si drizza l'ardito,
    Cautamente si china lo scaltro,
    E ciascun ha un enorme prurito
    Di pigliar meno botte che può.

  Da una parte si sente un comando,
    Una bomba dall'altro si sente;
    Gli ufficiali che impugnano il brando
    In un lampo si vedon venir.
      C'è chi un membro sul campo ha perduto
    E rimane per sempre impotente:
    C'è chi morto in un fosso è caduto,
    Nè più mai gli fia dato d'uscir.

  Finalmente Bismarck grida in fretta:
    «Abbiam vinto!»--ed un'eco risponde!
    Va pur là, Cancelliere polpetta,
    Anche questa la devi pagar!
      Assassini! Ed intanto arrabbiate
    Ardon mille ragazze infeconde!
    Assassini! Se i maschi ammazzate,
    Noi dovremo i somari sposar!


  SI DUOLE
  DI ESSERE ABBANDONATA DALL'AMANTE

  SONETTO SBOLENFIO


  Già con versi diversi offersi a Tirsi
    Un cor lieto d'offrirsi e gliel'apersi,
    Ma i carmi tersi se n'andar dispersi
    Ed io soffersi quel che non può dirsi.

  Potè fuggirsi dunque e non sentirsi
    Il crudo petto aprirsi al mio dolersi?
    Potè amato sapersi e compiacersi
    D'indispettirsi meco e di partirsi?

  Tardi lo scorsi e tardi il piè ritorsi
    Dai sentieri percorsi! Urge fermarsi
    E rassegnarsi dei rimorsi ai morsi.

  Quei dì son scorsi ed or che resta a farsi?
    Il crin velarsi, il bruno intorno porsi,
    E i discorsi trascorsi, ahimè, scordarsi!



  LA ROMANZA DEL PAGGIO


  Son circa tre anni, tre mesi e tre giorni
    Che il paggio Fernando montava a caval
    E adesso galoppa per questi contorni
    Saltando gli abissi, le piante e il canal.

  Per cosa galoppa? Un turco infernale
    Al povero paggio l'amante rubò
    Ed ora egli cerca quel porco maiale,
    Perchè di sbranarlo Fernando giurò.

  Ma il turco, ben visto dal proprio Sovrano,
    Fu giusto per Pasqua promosso Pascià;
    Pascià da tre code, che dopo il Sultano
    È l'uom più codardo di quella città.

  Fernando che il seppe, fu svelto e ci andiede
    E incognito al turco si fe' presentar.
    Un monte di ciarle d'intender ci diede,
    Di modo che a pranzo si fece invitar.

  Mangiato l'allesso, mangiato l'arrosto,
    Il turco si fece portare i marron,
    Sui quali Fernando buttò di nascosto
    Dei torcibudella che avea nei calzon.

    --«O Dio, che dolori! Chiudete la porta ...
    Chiamatemi il prete... più regger non so ...
    Io muoio!...» Ed insomma, per farvela corta?
    Fu tanta la sciolta che il turco crepò.

  Allora Fernando andò sull'altana,
    Chiamò la sua bella, la fece scappar,
    Ci diede i quattrini la Banca Romana
    E a casa col treno potetter tornar.

  Garzoni e donzelle che attenti ascoltate
    La lieta canzone che pianger vi fa,
    L'amore del prode Fernando imitate,
    Però col permesso del vostro papà.



  RISURREZIONE[*]


  Suonate campane la Pasqua giuliva,
    Prendete o fanciulli in mano la piva,
    Fedeli soldati sparate il cannon!
       Risorto è il giornale che dianzi moria,
    Risorto è Pierino, risorta l'Argia,
    La vergin che disse la casta canzon!

  Pudiche fanciulle, dal pianto cessate,
    La danza del ventre pel gaudio danzate,
    La vostra Sbolenfi tra i vivi e tuttor.
      E, vergine sempre, ritorna fra voi
    Tirando più forte d'un paio di buoi
    Il carro funesto del proprio dolor.

  Deh, come, o fanciulle, deh come piangeste
    E tristi nel letto solingo diceste
    «La nostra Sbolenfi perchè non è qui?»
      Ma mentre la bella defunta pareva,
    La morte che in pugno già stretta l'aveva,
    Dischiuse le dita e quella fuggì.

  Ed or che il mio canto più dolce rinacque,
    All'opra interrotta che tanto vi piacque,
    Pudiche fanciulle, tornate con me.
      Destata dal sonno, col plettro rivengo,
    Lo scuoto, lo stringo, nel pugno lo tengo
    E voglio provarvi che morto non è.


  [*] Rinasceva l'effemeride nella quale la Poetessa e Pietro, suo
    genitore, deponevano le loro secrezioni cerebellari.



  IL LAMENTO DEL PRIGIONIERO[*]


  Cadea la notte. Già il cancelliere
    Avea degli atti chiuso il volume
    E il Presidente disse all'usciere:
            «Portate il lume!»

  Non un sussurro s'udia nel Foro,
    Nemmeno un lieve ronzar d'insetto,
    Quando, calzati gli occhiali d'oro,
             Lesse il verdetto,

  E disse: «Vista la legge, udita
    La parte avversa, pesati i danni,
    La pena è questa:--Galera in vita
            Per quarant'anni».

  Briscola! Quando mi sentii preso
    Così da questa sentenza infame,
    Cascai per terra lungo e disteso
            Come un salame,

  E il giorno dopo due immense palle
    Recar dovetti per ogni dove,
    E mi fu scritto dietro le spalle
            «69»

  Quante ferriate nella finestra!
    Quanti bigatti nel mio pan nero!
    Quanti fagioli nella minestra
            Del prigioniero!

  Ed il mobilio? Ecco un saccone
    Dove gl'insetti tengon cappella
    E per ... (s'intende) là in quel cantone
            C'è la mastella.

  Sono vestito di panno grosso
    Con un stifelius tagliato male,
    E la catena che porto addosso
            Pesa un quintale.

  Con una lima, frega e rifrega,
    Potrei scappare non osservato ...
    Ah, se potessi farmi una sega,
            Sarei beato!...

  O giornalisti, da sera a mane
    Vi sia presente questo mio stato.
    Un _per finire_ fatto da cane
            M'ha rovinato!

  [*] Parla il Direttore della effemeride citata, il quale era
    accusato di aver commesso un _per finire_ diffamatorio, mentre
    non era che cretino. Il processo andò a monte.



  PIANTO DELLA CHIESA BOLOGNESE
  SENZA PASTORE

                             _Non relinquam vos orphanos;
                                         veniam ad vos._
                                               Jo. XIV, 18.


  Sopra le piume vigilando sola,
    Colei che già fu di Petronio e Zama
    Leva le palme al ciel, languida e grama,
    Poi che gaudio d'amor non la consola.

  Lungo uno strazio è nella sua parola
    Qual già nel pianto di Rachele in Rama,
    E dal vedovo letto il __Padre__ chiama
    Perchè non scordi la fedel figliola.

  E prega e mostra le gramaglie nere
    In che da sì gran tempo il viso asconde,
    E la nave di Dio senza nocchiere:

  Ma il suo pianto non posa e n'ha ben d'onde
    Poi che il barbaro __Padre__, alle preghiere
    Con l'iniqua parola,[1] ahimè, risponde!


  [1] L'_iniqua parola_ è una interiezione dialettale bolognese
    che suona ingiurioso invito ad operazioni pneumatiche.



  TEMPESTA IN MARE


  Fra Bordighiera e Nizza,
    Dove più azzurro è il mar,
    Un giovin marinar
        L'albero drizza.

  Forte, gentile e bello
    Vola sull'Ocean,
    Col suo timone in man,
        Come un uccello.

  Nè morte nè ferita
    Gli fa terror, perchè
    Assicurato egli è
        Sopra la vita;

  Ma dalle parti basse
    Di Greco e Maestral
    Si leva un temporal
        Di prima classe,

  S'odon da lunge i tuoni
    Si vede lampeggiar
    E allora il marinar
        Dice: «Coioni![1]

  Se dura niente niente
    Tra poco si anderà
    In pasto ai baccalà
        Sicuramente.

  Le braghe di fustagno
    Umide sono già....
    Cosa dirà mamà:
        Se me le bagno?

  In mar si sta benone,
    Ma, se credete a me,
    Si gode più al Caffè
        Del Pavaglione,[2]

  E se a toccare il suolo
    Arrivo col seder,
    Piuttosto che il nocchier
        Fo il ruscarolo».[3]

  Ma per combinazione
    Mentre dicea così,
    Il tempo si schiarì
        Là, in quel cantone.

  Dell'onde il mal governo
    In un balen cessò
    E il temporale andò
        Verso Paderno.[4]

  L'iniqua alfin parola
    Ode in un porto dir
    E tira un gran sospir
         Che lo consola.

  Gli affari di famiglia
    Scorda e l'orrendo mar
    E corre a ritrovar
        La Centomiglia;[5]

  Ahi lasso! e i suoi quattrini
    Li spende così mal
    Che va nell'Ospedal
        Da Gamberini.[6]

  Vedi da ciò quant'erra
    Il detto popolar
    Che dice: «_loda il mar,
        Tienti alla terra_».


  [1] Interiezione marinaresca che denota sorpresa.

  [2] Condotto da Enrico Lamma in piazza Galvani a Bologna.

  [3] Raccoglitore ambulante di detriti organici. _Dial. bol._

  [4] Qui la geografia è bastonata. Paderno non è tra Bordighiera e
    Nizza, ma sui colli a sud di Bologna.

  [5] Etera peripatetica e scalcagnata che disonora i vicoli di
    Bologna.

  [6] Già Direttore della Clinica Dermosifilopatica all'Ospedale di
    S. Orsola.



  PER LA CADUTA DI PALAMIDONE
  SONETTO SBOLENFIO DI PRIMA CLASSE


  Il Ministero e zero invero contano
    Spesso lo stesso e solo un sesso vantano.
    A un'unità di qua o di là si montano,
    Di un voto ignoto al moto indi si spiantano.

  Sorretti e accetti i Gabinetti affrontano
    Ritti i conflitti ed i sconfitti schiantano;
    Poi, grati ai Fati se i soldati ammontano
    A tanti quanti son bastanti, cantano.

  Ma se i fiacchi o i vigliacchi i tacchi puntano,
    O se un minuto il muto aiuto allentano,
    Liti e garriti tra i partiti spuntano.

  Desti gli onesti e questi si addormentano;
    Rimovi i chiovi e i novi più si appuntano;
    E tasse e sopratasse a masse aumentano!



  ALLA POETESSA
  ARGIA SBOLENFI

  SONETTO[*]


  _Gentil Donzella cui Ciprigna dona
    Lieto il color delle Acidalie rose,
    Cui di lauri raccolti in Elicona
    Di Cirra il Nume una ghirlanda impose,

  Ben fosti cara al nato di Latona
    Se del Parnaso in sulla via ti pose
    E del sacro Permesso a te sprigiona
    Dolci di mele Ibleo l'onde famose!

  Ma se fia che tra breve alla palestra
    Rieda, di nuovi onor carica e pregna,
    Non dilettarci sol, ma ci ammaestra;

  E di Quirino alle nepoti insegna
    L'arte soave in che tu sei maestra,
    O della Lesbia Saffo emula degna!_

                           Di EDRA COPRODITE
                           _Pastore Arcade_


  [*] Umile parto dell'umilissimo chiosatore.



  A
  EDRA COPRODITE
  PASTORE ARCADE


  RISPOSTA


  Saggio Pastor, poichè il tuo nome _suona_
    Chiaro nelle città dotte e _famose_,
    Dall'altezza ove stai mite _perdona_
  Alle mie rime tristi e _vergognose_.

  Ahi, la ghirlanda che il tuo cor mi _dona_
    È purtroppo d'alloro e non di _rose_
    E vorrei barattar questa _corona_
    In carni meno crespe e più _polpose_!

  Che m'importa il saper come _maestra_
    L'arte di Saffo quando Amor mi _sdegna_
    Scaricandomi addosso la _balestra_?

  Vorrei mutar questa vitaccia _indegna_,
    Vorrei sentir suonare un'altr'_orchestra_...
    Un marito, per Dio[*], chi me lo _insegna_?

  [*] Bacco.



  SI COMPIACE DELLE PROSSIME NOZZE [*]

  SONETTO SBOLENFIO


  Spero davvero che il mio fiero isterico
    Male, che assale quale un fucil carico,
    Cessi gli spessi accessi e il mio rammarico
    Cada per strada e vada nel chimerico.

  Bandito è il rito ed un vestito serico
    Stato è tagliato, come o dato incarico;
    Del normal verginal segnai mi scarico,
    Che l'ara cara già prepara il chierico.

  Sposo! ed oso un focoso panegirico
    In onor di chi al cor l'amor teorico,
    (Che splende e non accende) or rende empirico.

  Chi è matto affatto, questo fatto storico
    Può far burlar nel suo ghignar satirico,
    Ma intanto io canto e accanto a LUI mi corico!


  [*] Ahi, non fu vero!



  EGLOGA[*]


  MELIBEO

  Titiro, tu che d'un gran faggio all'ombra,
    A gambe aperte, stravaccato[1] stai,
    Mangiando allegramente una cucombra,[2]

  Un canonico sembri e chi sa mai,
    Chi potesse vederti le budelle,
    Bollettario, anche te che sghissa[3] avrai!

  Io stento invece e queste pecorelle
    Sono ormai senza tetto e senza pane
    E campan di polenta e di sardelle.

  Hai forse avuto eredità lontane?
    Hai rubato una pisside o un ciborio?
    O ti fai mantener dalle sottane?

  TITIRO

  Amico Melibeo, questo è notorio
    E lo san fino i sassi di Bologna,
    Che tu sei sempre stato un tabalorio;[4]

  Ma non sapevo, e il dico a mia vergogna
    Perchè l'imparo adesso solamente,
    Non sapevo che fossi una carogna.

  Qual reo sospetto t'è venuto in mente,
    Asino porco, sulla mia condotta?
    Sono un pastore onesto ed innocente!

  E se non fossi mio compatriotta
    Ed anzi amico mio di Seminario,
    Tu mi faresti venir su la fotta.

  Basta; veggo però ch'è necessario
    Dirti come domai l'iniqua rana,[5]
    Essendo un fatto un po' straordinario.

  Tu saprai che quest'altra settimana
    Una dolce fanciulla, un puro fiore,
    Che delle poetesse è la sovrana,

  Magrolina se vuoi, ma un vero amore,
    L'Argia Sbolenfi insomma, e ho detto tutto,
    Sposa ... imagina chi? L'Imperatore!

  La nuova si sapeva dappertutto,
    Ma io la vidi sol nell'_È Permesso_,[6]
    L'unico foglio serio e di costrutto.

  Appena letto, allon! mi sono messo
    Le braghe dalla festa e il gabbanino
    E son corso da lei come un espresso;

  Ma siccome era chiusa in camerino
    A far dei versi al suo futuro sposo,
    Fui ricevuto dal signor Pierino[7]

  Che largo, liberale e generoso,
    Mi offerse cordialmente da sedere,
    Ma il caffè no, perchè gli dà il nervoso.

  «Ohi, chi vedo!»--«Tersuà»--«Bravo! ho piacere!
    »Cosa porti? L'agnello?»--«Nossignori»--
    »Peccato, che t'avrei dato da bere!»--

  Così ciarlando, ecco l'Argia vien fuori,
    La qual, come saprai, ci diedi il latte,
    (Ossia mia moglie) e latte dei migliori.

  Era in disabigliè, con le ciabatte,
    Una sottana bianca e un zuavino
    Che ci arrivava appena alle culatte.

  «Oh!»--lei dice--«Mo bravo Titirino!
    »Non sai chi sposo? Ah son tanto felice
    »Che a momenti mi viene uno smalvino![8]

  »Fra pochi giorni sono Imperatrice!
    »Sei venuto a veder la tua sovrana?
    »Ti farò ricco, e sai chi te lo dice!

  »A tua moglie ci pago una collana,
    »E con l'acqua di felsina, all'armento
    »Fin da quest'oggi laverai la lana.

  »Farò indorar le vacche ed il giumento,
    »Ti selciarò la stalla di brillanti,
    »E l'aldamàra[9] tua sarà d'argento.

  »Or vanne Titirino e quei birbanti
    »Che tempo addietro mi credevan pazza,
    »Crepino d'accidente tutti quanti.

  »Vanne a Bologna, sta contento e sguazza,
    »Che in compenso del latte che m'hai dato,
    »Io ti farò più ricco di Cavazza![10]»--

  Io dico _grazia!_ vado, e sul mercato
    Da un buon amico mio, sessanta lire
    Al sessanta per cento, ho ritrovato;

  Ma il primo vaglia che mi fa venire
    L'Imperatrice Argia, pago ogni cosa,
    Faccio il porco e mi voglio divertire.

  Ecco spiegata la ragione ascosa
    Di tutta quanta l'allegrezza mia,
    Viva il signor Pierin! Viva la sposa!

  MELIBEO

  Viva l'Imperator! Viva l'Argia!!!


  [*] Per errore di troppo eccitabile imaginazione, la Poetessa
    credette che S.M. l'Imperatore di Germania venisse l'ultima volta
    a Roma per chiedere al Sommo Pontefice il divorzio dalla
    Imperatrice e sposar quindi lei.--Vedi le note in fondo al
    capitolo.

  [1] Coricato. _Recubans sub tegmine fagi_. VIRG. Dum stravaccatae
    pegorae marezant_. MERL. COCCAI _Zaniton._

  [2] Cocomero, anguria. _Cucurbita citrullus_ Linn.

  [3] Appetito furibondo.

  [4] Uomo di poco cervello. _Captus mentis_.

  [5] Non è la _rana esculenta_ Linn. ma il sinonimo bolognese di
    miseria. Questo simbolico batracio ricorrerà sovente in queste
    carte.

  [6] L'effemeride in cui videro la luce molte di queste rime.

  [7] L'onorando signor Pietro Sbolenfi, degno genitore dell'autrice,
    cui è dedicato il volume.

  [8] Che Dio ci liberi e scampi tutti! È un accidente.

  [9] Concimaia.

  [10] Il Conte Felice Gavazza, banchiere, riputato per uno dei più
    ricchi bolognesi.



  SI SCUSA PER AVERGLI MOSTRATO POCO RISPETTO[*]


  Mio diletto Signor, poichè vedesti
    Senz'alcun velo il negro mio misfatto,
    Signor, perdona e fa che in te non desti
    Scandalosi pensier l'orribil fatto.

  Nel momento fatal forse dicesti:
    «Cos'è quello, per zio?! Divento matto?
    È questo l'occhio dell'Argia? Son questi
    L'aspetto e i vezzi suoi? Mo niente affatto!»

  E ben dicesti! Anch'io quanto mi posi
    Viceversa così, pensai lo stesso
    E tu lo sai che non te lo nascosi;

  Ma, deh, quell'affaraccio dell'ingresso
    E il panorama che alla folla esposi,
    Scordali, Cocco, e sposami lo stesso!


  [*] Recatasi incontro a S.M. l'Imperatore, salì sopra un palo e,
    urtata dalla folla, cadde a capofitto, mostrando al suo sperato
    amante, com'ella dice, poco rispetto.



  SFOGO CONTRO COLUI[*]


  C'era una volta in Roma una ragazza
    Il cui nome gentil non vi dirò,
  Che per l'Imperator divenne pazza
    E di dargli la man si lusingò.

  Ei venne a Roma e per la gioia grande
    Ella dinanzi a lui cadde boccon
  E gli mostrò che non avea mutande
    In omaggio all'igiene e alla stagion.

  Bismarck, quando lo seppe, andò in furore,
    Afferrò penna, carta e calamar
  E poi telegrafò all'Imperatore
    Che per l'amor di Dio non stesse far,

  E _quella donna_ ci si mise dietro
    Seguitandolo sempre per città,
  Dal re, dal papa, in piazza ed in San Pietro,
    Raccontandogli mille infamità.

  E lui sentendo questa sinfonia,
    Da prima cominciò a tintinagar,[1]
  Poi nel più bello piantò lì l'Argia
    E coi Sovrani s'imbarcò per mar.

  L'empio! Intanto la povera tradita
    Nei Cappuccini andò per la passion;
  Mutò speranze, desideri e vita,
    Ed, ancella di Dio, prese il cordon.

  Caste donzelle, deh, accogliete in seno
    Questo consiglio che mi vien dal cor.
  Portate sempre le mutande, o almeno
    Copritevi se vien l'Imperator!


  [*] _Colui_, ahimè, è l'alto personaggio di cui alle rime precedenti,
    e _quella donna_ la sua legittima e graziosa consorte.

  [1] Tentennare. _Dial. bol._



  AVE CRUX![*]


  All'illustre e Venerato prosatore
       e suo diletto genitore
        questo segno d'onore
            pegno d'amore
              col cuore
                Argia
                 dà

           Padre    diletto,
           Sbolenfi  Pietro,
           Al tuo  cospetto
           Vinta  m'arretro,
           Perchè sei degno
           D'aver  un regno.
  Ma poichè il regno ti negò la sorte
  E giaci  oppresso dall'immonda  rana,
  Col tuo bel libro sfiderai  la morte,
  Il bel libro cui feci io  da mammana,
  Il bel libro che può dirsi un portento,
  Da cui speriamo alfine il nutrimento.
           E poichè il mondo,
           Non  ti  fa onore
           Vieni,   giocondo
           Mio     genitore,
           Che ad  alta voce
           Ti dò   la croce!


  [*] L'ottimo ed erudito Signor Pietro Sbolenfi, genitore della
    poetessa, aveva stampato un applaudito volume di ricordi
    bolognesi. La poetessa lo rimeritò della dedica fattale con questo
    segno d'onore.



  L'APPARIZIONE

  ROMANZA


    Crudo ed avaro, nel suo castello
  Viveva il Conte del Meloncello,[1]
  Quindi nessuno ci volea ben.

    Trattava i figli come serpenti,
  E, dice un libro, che ai suoi serventi
  Il pane e l'acqua ci dava appen.

    Il primogenito di nome Augusto
  Era un bel giovine, svelto e robusto,
  Che l'ammiravano per la città.
    Membro dei Reduci dalle Crociate,
  Molte godevasi maccaronate
  Coi Soci, e andavano di qua e di là.

    Lo seppe il padre che, all'olmo andato,[2]
  A sè un sicario tosto chiamato,
  Mettere il figlio fece in prigion.
    Cavar gli fece l'elmo e lo scudo
  E in una torre lo mise nudo
  Ed era, ahi vista! senza i calzon!

  Ma il padre barbaro che una mattina
    Privo di lampada stava in cantina
    E, come al solito, tirava il vin,
      (Ah, proteggeteci Angeli e Santi!)
  Fetente e squallida si vide avanti
  L'ombra terribile d'un cappuccin.

  E l'ombra disse: «Non hai vergogna
    Di quel che hai fatto, brutta carogna?
    Libera il figlio; dà mente a me!»
      Al padre infame, pel terror grande,
    Cambiar colore fin le mutande,
    Tal che ammorbava da capo a piè.

  Indi, recatosi alla prigione,
    Con mano tremula aprì il portone
    E disse: «Vattene dai piedi fuor!»
      Augusto, libero, ratto andò via,
    Indi, impiegatosi, sposò l'Argia[3]
    E lunghi vissero giorni d'amor.


  [1] Arco a due chilometri da Bologna. Il castello non esiste
    più, ma invece vi si trovano, una stazione di Guardie di P.S.
    e un'osteria.

  [2] Andato in furia.

  [3] Ahi, non fu vero!



  IN DISPREZZO DI UNO SPASIMANTE VECCHIO E STORTO

  SONETTO SBOLENFIO


  Ridicolo che il vicolo girandoli,
    Sciupi i sassi coi passi e indarno ciondoli.
    Ti parlo schietto, io non ammetto scandoli,
    Ne sopporto uno storto che mi sdondoli.

  Gli affetti celo e in denso velo ascondoli
    Ai vegliardi testardi; indi burlandoli,
    Li mando in bando quando, innamorandoli,
    Strazio i lor cor e nel dolor sprofondoli.

  Se i maschi adoro, pur tra loro io scindoli
    In vecchi molli c'hanno i colli pendoli
    E in giovinetti eretti e di buone indoli;

  Ma i somari tuoi pari io vilipendoli
    E far puoi quel che vuoi, tu non m'abbindoli,
    Vecchio brutto, distrutto e tutto a sbrendoli!


  CONFIDA LE SUE PENE ALLA BEATA VERGINE

  SONETTO SBOLENFIO


  O pia Maria, ve' della mia terribile
    Pena terrena la catena ignobile!
    Vien manco il fianco stanco ed è impossibile
    Ch'io resti a questi mal molesti immobile!

  Dura sciagura, arsura inestinguibile,
    Ricetto eletto han nel mio petto e, mobile
    La mente, sente un serpente invisibile
    Che ha vinto, estinto, in lei l'istinto nobile!

  O Bella Stella, o Verginella amabile,
    Ascolta, volta a me stolta e volubile,
    La preghiera sincera e vera e stabile.

  Odo che un nodo sodo e indissolubile
    Fa fiorita ogni vita attrita e labile....
    Mia pia Maria, fa ch'io non sia più nubile!!



  IN DISPREGIO DELLA IMMONDA RANA[*]

  SONETTO SBOLENFIO


  Rana, sovrana dell'umana e ignobile
    Razza, che pazza sguazza in brago orribile,
    Sdegno il tuo regno indegno e sfido immobile
    Mira! l'ira tua dira e inestinguibile!

  Tardi e codardi dardi avventi al nobile
    Mio petto, schietto, eletto e irremovibile.
    Sprezzo il tuo lezzo e in mezzo al volgo mobile,
    Vera guerriera e fiera, io sto invincibile.

  Il mondo in fondo è tondo ed è volubile,
    Come una luna la fortuna è instabile,
    E, onesta o lesta, niuna resta nubile;

  Sol io, mio Dio, col mio desio ineffabile,
    Giaccio, e non straccio il tuo laccio insolubile,
    Rana ircana, malsana e miserabile!!


  [*] Batracio simbolico di cui vedi indietro.



  TAVOLETTE MORALI


  I

  Il coccodrillo
    Chiese al mandrillo:
      «Perchè sei qui?»
  Disse il mandrillo
    Al coccodrillo:
      «Perchè di si!»

          _Morale_

  Opra tranquillo
    Come il mandrillo
    La notte e il dì.


  II

  Un pollaio, di gennaio,
    Nel solaio d'un notaio
    Un porcaio diventò;
  Ed un pollo non satollo,
    Il suo collo mezzo frollo
    Col midollo si mangiò!

          _Morale_

  Imparate, disgraziate
    Non pigliate cantonate
    Se bramate dei _cocô_!


  III

  La cicala avea cantato
    Tutto luglio a perdifiato.
    Quando il caldo fu sparito,
    Si sentì molto appetito
    Ed andò dalla formica
    Domandandole una spica.
    La formica le richiese:
    «Che facesti l'altro mese?»
    La cicala allor riprese:
    «Ho cantato, o dolce amica!»
    «Brava!»--disse la formica--
    «Tu facesti arci benone
    «Ed invece d'una spica,
    «Prendi, cara, ecco un zampone!»

            _Morale_

  Imitate in ogni cosa
    La formica generosa.


  IV

  Una sciabola un po'sciocca
    Col revolver litigò
    E finì col dirgli: «tocca
    Questa lama e tacerò!»
  A costei che lo contrasta
    Con sì stolta vanità,
    Il revolver disse: «tasta
    Queste palle, e zitto là!»

            _Morale_

  Ragazze, non scherzate
    Con l'armi caricate!


  V

  La pulce milanese
    Che vive di stracchino,
    Fuori del suo paese
    La credono un pulcino.

            _Morale_

  Un uomo d'esperienza
    Si fida all'apparenza.


  VI

  La farfalletta
    Sopra la vetta
    D'una polpetta
    Si riposò.
  Ma una civetta
    Accorse in fretta
    E, poveretta!
    Se la mangiò.

            _Morale_

    Lettor, sta attento e vedi
  Dove tu metti i piedi.


  VII

  La pispola diceva al pispolino:
    «Bada di non sporcarti il gabannino!
  Ma il pispolin la madre non paventa
    E in umido finì con la polenta.

            _Morale_

  Ubbidisci alla madre ed al fratello,
    O nell'umido andrai come l'uccello.


  VIII

  Un tonno innamorato
    Lesse i _Promessi Sposi_
    E tutto riscaldato
    Da sensi religiosi,
    Andò pianin pianino
    A farsi cappuccino.

            _Morale_

  Fai bene se t'astieni
    Dal legger libri osceni.


  IX

  Una foca in vaporino
    Volle andar sino a Bazzano,
    Ma le cadde il taccuino
    Dalla tasca del gabbano
    E se volle andarci mai
    Dovè prendere il tramvai.

            _Morale_

  Toccherà sempre così
    A chi viaggia in venerdì.


  X

  Un delfino al mare in ripa
    Che fumava nella pipa,
    Prese fuoco e si scottò;
    Ma uno struzzo di passaggio
    Lo guarì con del formaggio
    Che sul buco ci applicò.

            _Morale_

  Questa favola mi pare
    Che v'insegni a non fumare.


  XI

  Fece l'ovo un giovin gallo
    Fuor del nido e lo covò,
    Ma uno svizzero a cavallo
    Non volendo lo schiacciò.

            _Morale_

  Di qui apprendi, o giovinetto,
    A far l'ovo nel tuo letto.


  XII

  Il soldo ed il baiocco
    Trovandosi in questione,
    Portavano lo stocco
    Nascosto nel bastone;
    Ma tosto i deputati
    Votarono un'inchiesta
    E furon condannati
    Al taglio della testa.

            _Morale_

  Chi tradisce l'amicizia
    Cade in man della giustizia.


  XIII

  Il leon per fare il bagno
    Punto fu dal pesce ragno,
    Ma un dentista forestiere
    Lo guarì con un clistere.

             _Morale_

  Chi vuol far l'altrui mestiere
    Molte volte fa piacere.


  XIV

  Lo storione--in un cantone
    Profittò dell'occasione,
    Ma il leone--cappellone
    Gl'intimò contravvenzione.

            _Morale_

  Son molti i guai--che ti risparmierai
    Se a ritirarti a tempo imparerai.


  XV

  Tra la provvida formica
    E il catarro di vescica
    Fu contratta società.
  Ma si sciolsero ben tosto,
    Perchè ognuno ad ogni costo
    Pretendeva la metà.

            _Morale_

  Non c'è gusto in un bel gioco
    Quando dura troppo poco.


  XVI

  La pecora inferma
    Tirando di scherma
    In breve guarì.
  Ma perse il tabarro
    E prese un catarro
    Del quale morì.

            _Morale_

  Questa piccola novella
    Vi consiglia la flanella.


  XVII

  L'ippopotamo droghiere
    E il merluzzo salumiere
    Ragionavan con piacere
    Ciaschedun del suo mestiere.
  Ma un astuto alligatore,
    Anche lui commendatore,
    Disse: «Ah stupidi! il migliore
    È il mestiere del signore.»

            _Morale_

  Se le bestie parlan bene,
    Frequentarle si conviene.


  XVIII

  Il re Tappella
    Facea la guerra,
    Ma dalla sella
    Cascò per terra
    E nel tracollo
    Si ruppe il collo.

            _Morale_

  Per detto generale
    Chi casca si fa male.


  XIX

  La lima ed il limone
    Per causa dei giornali
    Ebbero una questione
    Davanti ai tribunali,
    Ma proprio nel momento
    Di farsi onor coll'arte,
    Tirò sì forte il vento
    Che portò via le carte.

            _Morale_

  Oh che gioia, oh che contento
    Se tirasse solo il vento!


  XX

  Stava il corvo alla finestra
    Aspettando la mammana
    E teneva nella destra
    Una forma parmigiana.
    Una volpe ivi passò
    Ed a lui così parlò:
    «Deh, chi mai vide un uccello
    Più piacevole e più bello?
    Se il tuo canto è come il viso,
    Sei l'uccel del Paradiso!...»
    Ascoltando queste cose,
    Tosto il corvo le rispose:
    «Cara volpe, a chi mi loda
    Dico: baciami la coda!»

            _Morale_

  Se qualcun vi loda spesso,
    Rispondetegli lo stesso.


  XXI

  La tinca in una cassa
    Piena di formentone
    Si fece tanto grassa
    Che diventò un tincone.

            _Morale_

  A molti il vizio
    Fa quel servizio.


  XXII

  La sega ed il ditale
    Sposi a dieci anni soli
    Dal nodo coniugale
    Non ebbero figliuoli,
    Perciò, con atto egregio,
    Fondarono un collegio.

            _Morale_

  Son sterili soventi
    Le nozze tra parenti.


  XXIII

  Il bue disse alla vacca:
    «Vuoi tonno o vuoi salacca?»
  La vacca disse al bue:
    «Dammeli tutti e due!»

            _Morale_

  Nelle giornate magre di quaresima
    Son simile alla vacca anch'io medesima.


  XXIV

  Un somaro in Egitto per scommessa
    Sposò una poetessa
  E in barca la condusse al Cairo e a Menfi...

            _Morale_

  Sposate ARGIA SBOLENFI!!!



  IL GENTIL CAVALIERO


  Va per la selva nera
    Solingo un cavalier
    Ornato d'un cimier
        Colla criniera..

  Dai piedi fino al mento
    Coperto è di metal;
    Galoppa il suo caval
        Che pare il vento.

  Quand'ecco che un romito
    Innanzi gli si fa
    E dice: «vieni quà,
        Guerriero ardito!

  C'è una fanciulla pia,
    Leggiadra anzichenò,
    E il padre la chiamò
        Sbolenfi Argia.

  Ti sta nel suo palazzo
    Fremente ad aspettar
    E tu l'hai da sposar
        Bravo ragazzo!

  Faresti un buon affare
    E non puoi dir di no.
    Io vi mariterò;
        Valla a pigliare!...»

  A questa esortazione
    Commosso il cavalier,
    Nel ventre del destrier
        Piantò lo sprone,

  E si partì al galoppo
    Bramoso di venir,
    Veloce come al tir
        Palla di schioppo...

  Scorsero gli anni e i mesi,
    I giorni e le stagion,
    Ed io sul mio balcon
        Sempre l'attesi!

  Ma invan lo sguardo esplora
    Le strade ed i sentier;
    Il prode cavalier
        Galoppa ancora!!



  ¡POBRE CARLOS![*]


  ¿Habla: se puede ser mas desdichada?
    Quiereba Carlos el toreadores,
    Ma un toro viense in la plaza mayores
    Y per matarlos el sfrodò la espada

  El toro escapò vias por la contrada
    ¡Mo Carlos, dietros. fagando romores!
    Cuando el toro ¡ahi de mi, caros señores!
    Per de dietros ce apogia una cornada.

  Carlos cascò cridando ¡ahi, porco mundo!
    Viense el medico y hablò: ¡mo bozaradas,
    El corno ha penetrado ensino al fundo!

  ¡Parece un nido carico de vrespas;
    Las pobras chiapas miranse sfondadas,
    Todo està roto y buena noche crespas!


  [*] Lo Spagnuolo non beve... certo l'onda del Mançanares!



  LA RISPOSTA DELLA FIGLIA MALEDETTA


  Padre, nei giorni, ahimè! vissuti insieme,
    Nei tristi giorni in cui, non pur degli agi,
    Ma fin del pane ci fallìa la speme,

  Quando furtivi, squallidi e randagi
    Le poma guaste cercavamo e l'ossa
    A piè de' monasteri e dei palagi,

  Quando il verno crudel con la sua possa
    Sotto il breve lenzuol ci costringeva
    Come morti a gelar dentro la fossa,

  Padre, la figlia tua non si doleva
    Sotto il duro flagel della fortuna.
    Io mi sentiva forte e non piangeva,

  Ma poi chè, fior di gioventù, la bruna
    Mia pubertà sbocciando, amor m'apprese,
    Obliai le miserie ad una ad una.

  Il gaudio della vita in cor mi scese
    E nuovo e forte palpitò il desio
    Nel petto ansante e nelle vene accese.

  Ma tu, sorpreso del delirio mio,
    Mi chiedevi talor--figlia, che hai?
    Aprimi il core: il padre tuo son io!--

  T'amo, Pietro Sbolenfi, e ben lo sai,
    Tanto, che al dolce suon dei detti onesti
    Non te lo apersi, ma lo spalancai.

  --_Mo, tananòn Mingheina!_--allor dicesti--
    Costei già sogna il matrimonio e i figli!
    È tempo di vegliarla e di star desti!--

  Mi sciorinasti allor cento consigli
    Di virtù, di morale e di prudenza
    Per agguerrirmi il cor contro ai perigli.

  --Cara figlia--dicevi--abbi pazienza,
    Sceglilo ricco e sceglilo maturo,
    Che pigliarlo in bolletta è un'imprudenza.

  Cerca, se puoi, di metterti al sicuro!
    Guarda tuo padre e resta persuasa
    Come il campar senza quattrini è duro.

  Guarda invece il canonico di casa!
    Quanti fogli da cento ha nel borsello
    E che salute nella faccia rasa!

  Prendi, mia cara, un uomo come quello.
    Fattene la signora e la padrona
    Ed anche il Re si caverà il cappello!--

  Per ciò, figlia esemplar, docile e buona,
    Eseguendo alla lettera i tuoi detti,
    Me ne andai col canonico in persona!

  Ed or perchè ti duoli e perchè getti,
    Quasi porco ferito, alti clamori?
    Perchè, dimmi, perchè ci hai maledetti?

  Perchè vieni a cianciar de' tuoi dolori,
    Mentre tu ci portavi il candeliere
    E fosti Galeotto ai nostri amori?

  Io lo dirò il perchè! Sperasti avere
    Dal genero sognato agi e monete
    Per menar le ganascie a tuo piacere,

  Ed or che sei rimasto con la sete
    Fai lo scontento e lo scandalizzato
    Perchè tua figlia dorme con un prete!

  Ma padre mio, ti sei dimenticato
    Tutto ad un tratto la parola detta
    Ed il consiglio che m'avevi dato?

  Tu mi dicevi di tenermi stretta
    E ferma del canonico al mantegno....
    Io mi ci tengo e tu m'hai maledetta!

  Andiamo, smetti questo finto sdegno!
    Ribenedici la diletta figlia
    Or che porta d'amor nel seno un pegno!

  Presto nonno sarai! Spiana le ciglia
    Che un bugiardo furor move ed infiamma.
    Sta quieto per ragioni di famiglia

  Ricevi un bacio e tante cose a mamma.



  SI DESCRIVE UNA RUSTICA CAPPELLA


  Ben sovente
    T'ho presente
    Nella mente,
    Vezzosissima cappella,
    E il tuo aspetto
    Nel mio petto
    Fa l'effetto
    Della cosa la più bella.

  Parlo a stento
    Dal contento,
    Anzi sento
    Che mi manca la favella,
    E deliro
    Quando in giro
    Io ti miro
    Rosseggiar superba e snella!

  Quasi nera
    T'alzi altera
    Nella sera
    Che il candor degli astri abbella;
    T'alzi ed io
    Nel cor mio
    Ti desio
    Vezzosissima cappella!



  INNO AL SALAME


  O progenie divina,
    o d'ogni ben cagione,
    figlio di Salamina
    e de'l Re Salomone;
    o de la fame infame
    trionfator, Salame,
    balzi or l'agile strofa innanzi a te;

  a te, forte e gentile
    onor de 'l genio umano
    e de 'l mondo civile
    consolator sovrano,
    ne le cui forme dorme
    una possanza enorme
    che squarcia i monti e sfonda il trono a i Re.

  Fatto con diligenza,
    o montanaro, o fino,
    con l'ova sode o senza,
    sempre tu sei divino
    e t'amo e ognor ti bramo
    e Nume mio ti chiamo
    e tua mi giuro e ti consacro il cor.

  Oh quante volte, oh quante,
    ne' sogni miei ti vedo
    e vinta e palpitante
    stringerti a 'l cor mi credo
    e desta, la mia mesta
    sorte m'appar funesta,
    poichè tu manchi a 'l mio focoso amor.

  E pur la rabbia ostile
    disonorarti brama
    e de 'l onagro vile,
    vile figliuol ti chiama;
    ma tu sorridi e gridi
    --tornate a i vostri lidi
    e cessate d'infrangermi i calzon!--

  Deh, se ne i dì sereni
    io mi sperai tua sposa,
    tra le mie braccia vieni,
    sovra il mio sen riposa.
    Orgoglio mio, ti voglio
    far co' miei baci il soglio,
    lo scettro, la corona e il padiglion!



  LAMENTO[*]


  Piangete al gran galoppo,
    Dolcissimi lettor!
    Il nostro Direttor,
          Moscata, è zoppo!

  Che se a qualcuno importa
    Saperne la cagion,
    Sappiate che al Veglion
          Prese una storta.

  La storta che ha pigliata
    Passava pel caffè
    Vestita da _bebè_
          Molto scollata.

  Ed ei che aveva piena
    La tasca di quattrin
    Ai Quattro Pellegrin
          Le diè una cena.

  Costei che aveva i denti
    Aguzzi anzichenò,
    Gli bevve e gli mangiò
          Tre abbonamenti.

  Indi, per sua sventura,
    Si volle sdebitar,
    Ma non pagò in denar,
          Pagò in natura.

  E il nostro Principale
    Dopo due giorni o tre,
    Cos'è, cosa non è,
          Si sentì male.

  Basta, per farla corta,
    Il nostro Direttor
    Ricorse al suo dottor
          Per questa storta,

  Che stette un pò dubbioso
    Indi gli suggerì
    Santalo del Midi,
          Malva e riposo.

  Piangete al gran galoppo,
    Dolcissimi lettor,
    Il nostro Direttor,
          Moscata, è zoppo!


  [*] Cesare Dalla Noce detto Moscata dirigeva l'effemeride
    in cui la Poetessa faceva le sue armi.



  LIBRO SECONDO



  LE DECADENTI



  Pornografia? Sta bene:
    Ma siete voi sicuri
    Che il fine ognun misuri
    Dalle apparenze oscene?

  E appunto a voi conviene
    D'esser sprezzanti e duri
    Quando lo sanno i muri
    Che fondo vi mantiene?

  Tartufi rugiadosi,
    Quanto prendete al mese
    Per esser virtuosi?

  O di virtù modello,
    Chi vi rifà le spese
    Del gioco e del bordello?



  ANACREONTICA

  Chi pel selvoso monte
    Lascia la nuda valle
    E del roccioso calle
    L'erta salendo va,
          Sente grondar la fronte
          E vacillare il fianco,
          Sente che il piè già stanco
          Forza d'andar non ha.

  Ma giunto in su la vetta,
    Con l'occhio erra lontano
    Sul verdeggiante piano
    Che gli si stende al piè.
          Allor trionfa e getta
          Un grido alto e giocondo;
          Vede soggetto il mondo
          E se ne sente il re.

  Anch'io così, sudando
    Su la ribelle rima,
    Potei toccar la cima
    Lieta del sacro allor.
          E, sotto a me guardando
          Con la pupilla altera,
          Maggiore e assai più vera
          D'altri sentirmi in cor.

  Perciò sappia chi viene,
    Folle, a contender meco
    Od a negarmi, bieco,
    La seggiola curùl,
          Che tre scodelle piene
          Di tagliatelle asciutte
          Io me le mangio tutte
          E vado..... ad Irminsùl.[1]


  [1] Località ignota, forse dell'altro emisfero



  L'ALBA

    Vegliai! Dice la fiamma omai languente
    Che il petrolio calò nella lucerna.
    Vegliai piangendo ed ecco lentamente
    Destarsi al novo dì la Città Eterna.

  Le carrette dei broccoli e la gente
    Ripassan sotto alla magion paterna,
    Il padre russa e un campanil si sente
    Laudar da lungi la Bontà Superna.

  Lieto un chicchirichì vien da lontano
    Da' cortil suburbani e da' pollai
    Destati dal chiarore antelucano;

  Ed io, infelice, di dolenti lai
    L'aria, l'acqua, la terra assordo invano,
    Perchè un gallo per me non canta mai!



  IN MARE

    Eccoti o mar, solenne ed infinito,
    Del divino poter simbolo e stampa:
    Eccoti, e in faccia a te cade atterrito
    L'occhio che di febea fiamma divampa.

  Sei tremendo nell'ira e al tuo ruggito
    Non regge prora e poppa mai non scampa,
    Ma nella calma tua, liscio e pulito,
    Sembri la ciccia di Minghino Svampa.

  Ecco un'aura d'amor scende dal cielo
    E va dell'onda che pur or posava
    Soavemente accarezzando il pelo.

  E la persona mia che lorda stava,
    Ora la porgo aperta e senza velo
    Al mar che me la bacia e me la lava.



  LA CAPRETTA

               _Florentem cytisum sequitur lasciva capella._
                             VIRG. _Ecl_. II, 64.


  Quando trovo qualcun che me la mena,
    La mia capretta, a pascolar sul monte,
    Tutta la sento di dolcezza piena
    Guizzar pel gusto che le brilla in fronte:

  E se poi qualchedun me la rimena,
    Corro tosto a lavarla ad una fonte,
    Indi l'asciugo e non è asciutta appena
    Che a trastullarsi ancor le voglie ha pronte.

  Sempre sana e piacente, al caldo e al gelo
    Va intorno e cogli scherzi altrui diletta,
    Tanto la tenni e l'educai con zelo.

  Eccola quì che una carezza aspetta,
    Fresca, pulita e non le pute il pelo.....
    Dite, chi vuol baciar la mia capretta?



  IN BICICLETTA


    Giammai, scoccata da una man feroce
    Dall'arco teso non fuggì saetta
    Come sul suo sentier corre veloce
                      La bicicletta.

  Volan le rote e mentre sulla via
    Nessun rumor presso di lei si sente,
    Qualche imbecille al corridore invia
                      Un accidente.

  A me che importa se della canaglia
    M'insegue il riso o il mormorar d'alcuni,
    Se l'iniqua parola altri mi scaglia
                      O il _molla Buni_?

  Io corro, io volo sulla bicicletta
    Questo ideal delle cavalcature:
    Chi soffre d'emorroidi o di bolletta
                      M'insulti pure,

  Ch'io son beata e un fremito m'assale,
    Mi avvolge un'onda di piacer sovrano
    Quando vengo stringendo il trionfale
                      Manubrio in mano.

  Io son beata allor che fra le gambe
    Sento il rigido ordigno e in quegli istanti
    Tendo le coscie e l'agitar d'entrambe
                      Lo spinge avanti.



  AD UN OROLOGIO GUASTO


    Poi che il pendolo tuo giù penzoloni
        Non ha più moto ed impotente stà
  E gl'inutili pesi ha testimoni
        Della perduta sua vitalità,

  Vecchio strumento, m'affatico invano
        A ridestar l'antica tua virtù;
  Inutilmente con l'industre mano
        Tento la molla che non tira più.

  Questa tua chiave, che ficcai si spesso
        Nel suo pertugio, inoperosa è già;
  Rotto è il coperchio e libero l'ingresso
         Ad ogni più riposta cavità.

  Deh, come baldanzoso un dì solevi
        L'ora dolce del gaudio a me segnar
  E petulante l'ago tuo movevi
        Non mai spossato dal costante andar!

  Quante volte su lui lo sguardo fiso
        Or tengo e penso al buon tempo che fu.
  Se almen segnasse mezzodì preciso.....
        Ma sei e mezza!... e non si move più!



  A LUI


    Perchè, Mio Bene, se vicin mi siedi
    Taci e rivolgi gli occhi ai travicelli,
    Oppur ti osservi attentamente i piedi
    Quasi credendo di trovarli belli?

  Guardami invece gli occhi e leggi e vedi
    Di quante fiamme il nuovo amor li abbellì;
  Guardali, non temer, fissali e credi
    Che prometton ben più ch'io non favelli.

  Parla e fa che il timor non vinca e prema
    Del tuo vergine cor l'immenso affetto:
    Chi vuol gli amplessi miei, tenti e non tema.

  Parla, poichè il mio gaudio, il mio diletto,
    La mia felicità sola e suprema,
    Dalla tua lingua, amico mio, l'aspetto.



  È VERO


    Io dissi: «Ah, come pendo!
    Mi sembra di cascar!»
    Ma tosto sorridendo
    Rispose il marinar:

  «Pieno di scene orrende
    Sarebbe il mondo intier
    Se tutto quel che pende
    Dovesse, oh Dio, cader!»



  AFFETTI DI UNA PELLEGRINA
  ALL'AUGUSTO VEGLIARDO

  DOPO LA VISITA


    Agl'immensi Tuoi piè, Padre, chinata
    Stetti trepida in volto e reverente;
    A Te levai le palme e Tu clemente
    Mi facesti partir racconsolata,

  Ond'io terrò nella memoria grata
    La benedetta imagin Tua presente
    In fin ch'io viva, e spesso con la mente
    A questa tornerò santa giornata.

  Tutto ricordo: i detti Tuoi soavi,
    Le Angeliche Sembianze, il carcer tetro
    E l'angolo preciso in cui parlavi.

  Ricordo fin la guglia di San Pietro
    Che, guardando dal luogo ove tu stavi,
    Io l'avevo davanti e Tu didietro.



  LA BALLATA DEL CAVALIER DISCORTESE


    I

  Poi che il sol tramontò, poi che lontana
    piange la mesta squilla il dì che muor,
  da 'l solingo veron la castellana
    canta così alle stelle il suo dolor:

  «Qui presso, tra due monti, è rimpiattato
    un castello che il sol mai non scaldò.
  Il vento che vi spira è avvelenato,
    Buco è il suo nome e se lo meritò.

  »Invece in faccia a 'l sol ride scoperto
    questo palagio mio cinto di fior.
  Ride tra i boschi, ospitalmente aperto
    ad ogni dolce peregrin d'amor.

  »L'altra notte vegliai su 'l mio balcone
    e vidi ne la valle un cavalier,
  oh, come bello! e con l'aurato sprone
    il cavallo spingea lungo il sentier.

  Il cor mi palpitò quando lo scorsi,
    l'aspetto suo mi vinse e mi rapì.
  Tutta tremante da 'l balcon mi sporsi,
    tesi le braccia e gli parlai così:

  --Fermati cavalieri Deh, tante cose
    vorrei dirti!.... Ove vai? Fermati quì!--»
  Ma galoppando il cavalier rispose:
    Signora, io vado a Buco...--«e poi sparì».


  II

  Vittima di se stesso e del destino
    Ecco torna da Buco il cavalier;
  Carogna tentennante, a capo chino,
    Tra le gambe gli zoppica il destrier.

  L'errore dell'andar, tornando, espia,
    Poichè la strada pessima trovò
  Ed il pantan della fetente via
    Da capo a piedi lo contaminò.

  Passa così sotto al veron fiorito
    Dove la voce dell'amor sentì;
  Passa e si duol d'avergli preferito
    Il laido Buco dove imputridì.

  «Deh, colline ridenti, ombroso bosco
    Lieto d'acque perenni e di piacer
  E voi, labbra di rosa, ora conosco
    In che guai mi travolse un reo pensier!

  Deh, affacciati al veron, tu che m'hai detto
    --Cavalier, dove vai? Fermati qui!--
  Ecco torno pentito, ecco nel petto
    Col rimorso, l'amor mi rifiorì!»

  Uscì la bionda castellana e china
    Del memore balcone al davanzal,
  Non vide un cavalier, ma una latrina,
    Un lurido fantasma intestinal

  E disse:--«Alfin la collera celeste,
    Mossa dal mio pregar, ti castigò!
  Scortese cavalier, quella è la peste.....
    Lo spedale è più avanti!... «--E se ne andò.



  SONETTI MITOLOGICI


  I

  ATTEONE

  (_Dipinto ad olio_)

    Guardate! Atteone
    Osserva il prospetto
    Ignudo e perfetto
    Che Trivia gli espone.

  La Dea, che suppone
    Gli perda il rispetto,
    Le corna e l'aspetto
    Di cervo gl'impone.

  Fuggita è lontana
    Dal tempo presente
    La bella Diana,

  Ma sono cresciuti
    In modo indecente
    Le corna e i cornuti.


  II

  LEDA

    Giove, padre degli Dei,
  Vide Leda e innamorato
  Ebbe il gusto depravato
  Di volerne gl'imenei

  E l'aggiunse ai suoi trofei
  Con l'astuzia e con l'agguato,
  Poi che in cigno tramutato
  Si calò nel grembo a lei.

  Donna Leda gli diè il covo,
  Ma con questo bel lavoro
  Fu gallata e fece l'ovo.

  Già l'effetto è sempre quello
  Quando ruzzano fra loro
  Una donna ed un uccello.


  III

  DANAE

  Acceso il Tonante
    Per Danae d'affetto
    Ottenne l'effetto
    Mutando sembiante

  E, splendido amante,
    Le cadde nel letto
    Prendendo l'aspetto
    Dell'oro sonante.

  Da noi, siamo schietti,
    Ne andava in possesso
    Cambiato in biglietti;

  Che in oro o in argento
    Ci avrebbe rimesso
    Il 5 p. %.


  IV

  ATALANTA

  Atalanta giovinetta
    Alla corsa ognun sfidava
    E sì forte galoppava
    Che pareva in bicicletta.

  Per passarla, una burletta
    Ippomène imaginava
    E, correndo, le gettava
    D'oro in palle una cassetta.

  Adocchiandole sì gialle,
    Per volerle raccattare
    Ella uscìa dal ritto calle;

  Il che serve per provare
    Che le donne per le palle
    Si farebbero pelare.


  V

  PAN

  Pane, cornuto Iddio
    Benchè non abbia moglie,
    Sul margine d'un rio
    S'appiatta in fra le foglie.

  Assalta di scancìo
    Le Ninfe e poi le coglie,
    Facendone sciupìo
    Secondo le sue voglie.

  Però fissa e solinga
    Ebbe una fiamma in core
    Per la gentil Siringa:

  Dal che dedur conviene
    Che il povero signore
    Non orinasse bene.


  VI

  IO

  Io, diventata vacca
    Per volontà di Giove,
    Fessa, dolente e stracca,
    Così diceva al bove:

  «Come mi sento fiacca
    E rotta in ogni dove!
    Non valgo una patacca
    In queste forme nuove:

  »Il fieno m'è indigesto
    E i visceri m'annoda
    In modo disonesto.

  »L'utile sol ch'io goda
    Nel mutamento, è questo:
    Che guadagnai la coda.»



  LA ROVINA DEL SASSO[*]

  (_Per un numero unico_)


  Fu la scena soltanto,
    Fu il drammaccio cruento,
    Che vi commosse al pianto.

  Se il monte non cascava,
    Morivano di stento
    Ma nessun ci badava.


  [*] Per intendere questo epigramma bisogna sapere che nel comune di
    Sasso erano alcune grotte nel monte e alcune catapecchie dove
    parecchie famiglie disgraziate tenevano coi denti la vita. Tutti lo
    sapevano, lo vedevano è passavano. Rovinò il monte e fece quel che
    non aveva fatto la fame: uccise i disgraziati. Subito si fecero
    sottoscrizioni, conferenze e numeri unici e in uno di questi la
    Poetessa, sott'altro nome che il suo, inserì i versi qui sopra.



  SONETTO[*]


  Usci la «Romanina»
    E il labaro spiegò,
    Ma l'orda libertina
    Lo prese e lo stracciò,

  E tale una rovina
    Di calci si levò
    Che rotto per la china
    Qualche osso sacro andò.

  La barca di San Pietro
    Che a prora è fessa già,
    Si rompe anche di dietro!

  Non vede Santità?
    Gli han detto «__vade retro__»
    E Satana ci va.


  [*] La Società cattolica detta la _Romanina_ volle celebrare in Roma
    non so che festività a Cristoforo Colombo e andò al Pincio con
    làbari, trombette, oratori e simili strumenti. Alcuni giovani
    liberali presero a pedate i dimostranti che scappano ancora.



  AL MIO DESTRIERO

  ODE


  Non la criniera lucida, poi che non la possiedi,
  ma il ventre di maiolica e i quattro eburnei piedi
            concedimi, o corsier;
  fammi inforcar la candida tua groppa e su gli arcioni
  starò, superba amazzone, senz'armi e senza sproni
            o ausilio di scudier,

  chè tu, gentil quadrupede, non scalpiti con l'ugna
  quando la groppa docile porgi a l'usata spugna
            e a 'l salubre sapon,
  ma su le zampe, immobile e mansueto, aspetti
  d'acque lustrali il tepido lavacro e i larghi getti
            de l'industre sifon.

  Te cavalcando, visito tutto de' sogni il regno,
  ed un polledro rapido, non un caval di legno,
            allor tu sei per me,
  e ne'l sognar mio bellico, un capitan mi sento:
  le schiere mie galloppano con le bandiere a 'l vento
            ne 'l cospetto del Re,

  Savoia! e i prodi, memori de la fortezza antica,
  freno non danno a l'impeto e già l'oste nimica
            le terga a noi voltò.

  Che val se, a 'l campo reduce, scendo di sella esangue,
  se da uno squarcio orribile veggo fuggirmi il sangue?...
            La palma a noi restò!

  Le schiere avverse fuggono, ma tu fuggir non sai
  e sovra i piè di mogano solennemente stai
            fermo, senza fiatar.....
  Ma i sogni, ahimè, svaniscono. Cessata è la battaglia!...
  L'ora de 'l pranzo è prossima: datemi la tovaglia
            chè mi voglio asciugar.



  ODE FARMACEUTICA


  Ho sognato un mar di laudano
    Denso, nero e sterminato,
    Come un piano formidabile
    Di sciroppo concentrato.
      Sovra l'onde immote e brune,
      Tra i vapor del zafferano,
      Svolazzavano importune
      Molte mosche di Milano,

  Io, per far con meno incomodo
    Di quel mar la traversata,
    Mi recai sul porto prossimo
    E vi presi una fregata.
      Il suo nome si leggea
      Scritto a lettere d'un metro,
      Vale a dir FARMACOPEA,
      E l'aveva per dietro.

  Grossi e ritti erano gli alberi
    Con le vele di cerotto,
    Con le sartie e con le gomene
    Verniciate di decotto;
      E la nave fabbricata
      Di campeggio e legno quassio,
      Era tutta incatramata
      Di ioduro di potassio.

  Drappeggiati in negre tonache
    Molti giovani assistenti
    Impastavano le pillole
    Lassative od astringenti,
      Le supposte, i vescicanti
      E gli empiastri da enfiagione
      Da servire ai naviganti
      A merenda e colazione.

  Un po' il fuoco che facevano,
    Un po' il caldo naturale,
    In quel tanfo farmaceutico
    Mi sentivo venir male;
      Per cui, visto un recipiente,
      Ci sedei sopra di botto
      E, vedendo un assistente,
      Chiamai forte--Ehi, giovinotto!--

  --Che comanda?--chiese il giovane--
    Vuol di malva una infusione?
    Vuol copaive in mucilaggine?
    Preferisce una iniezione?--
      Adirata lo ribattei:
      --Non son quella che credete!
      Non ho il male che avrà lei;
      Ho soltanto un po' di sete.--

  --Sete?--disse--Il male è piccolo
    E guarir con l'acqua suole;
    Ma se l'acqua ella desidera,
    Mi dirà come la vuole.
      Forestiera o del paese?
      Vuol Tettuccio o Castrocaro?
      Vuol un po' d'acqua ungherese
      O un bicchier di sale amaro?--

  --Voglio solo acqua purissima!--
    Furibonda allor gli osservo.
    Mi rispose:--Va benissimo,
    Ma in che modo gliela servo?
      Perchè buono è da sapersi
      Che da noi s'usa di bere
      In due modi assai diversi;
      O per bocca o per clistere.--

  Detto fatto e dalla tonaca
    Con un gesto pittoresco
    Tirò fuori una gran cannula,
    Un affare gigantesco,
      E mentr'io gridava:--Ehi, sente...
      Lei m'ha preso per isbaglio!--
      Quel birbone d'assistente
      Lo puntava nel bersaglio.

  Se non era che voltandomi
    Torsi il fianco un poco a destra,
    Quell'infame di flebotomo
    Scaricava la balestra;
      Ma, insistendo l'animale,
      Ne successe un serra serra
      E, com'era naturale,
      Tutto il brodo andò per terra.

  Io credeva d'esser libera,
    Ma mi accadde un altro guaio
    Ch'egli prese dietro a corrermi
    Col pestello del mortaio.
      Un orrore, uno spavento,
      Un battaglio da museo,
      Una razza di strumento
      Da sfondare un mausoleo!

  Io già stavo per soccombere
    Alla orribile balista,
    Ma gridai--Galeno salvami,
    Da quest'empio farmacista!--
      E ad un tratto, e fu un enigma,
      Spirò un'aria purgativa
      Che pareva un borborigma....
      E sbarcai sull'altra riva.



                     ALLA
       SOCIETÀ EMILIANA DELLE LAVATRICI
        COME SEGNO DI OMAGGIO CORDIALE
             QUESTA ODE OSTETRICA
                  È DEDICATA

             _Multiplicabo aerumnas tuas et conceptus tuos:
                     in dolore paries filios._
                               GEN. III 16.


  Nell'interno del bacino,
    Semprechè non sia deforme,
    Vedi un corpo piriforme
    Appoggiato all'intestino,
    Appo cui fisso rimane
    Con diversi ligamenti
    E coi rami divergenti
    Delle trombe falloppiane.

  Ivi, quando è cominciata
    L'ordinaria emorragia
    E una certa ipertrofia
    S'è per ciò manifestata,
    Dal follicolo maturo
    Esce l'ovulo vagante
    Che il processo fecondante
    Mette subito al sicuro;

  Chè lo impiglia, anzi lo imbuca
    Nella tunica villosa
    Che presenta la mucosa,
    La qual mutasi in caduca
    E nel crescere diventa
    L'amnio e il corion, traversati
    Da quei vasi complicati
    Che nutriscon la placenta.

  Ivi il germe ha forma e cresce
    In un sacco membranoso
    Pien di liquido sieroso
    Dove nuota come un pesce
    E la sua vita fetale
    Svolge senza sentimento,
    Ritraendo l'alimento
    Dal cordone ombelicale.

  In quel tempo la gestante
    Non si sente molto bene
    E per solito le viene
    Qualche voglia stravagante.
    Ha lo stomaco disfatto,
    L'energia molto depressa
    E cammina un po' sconnessa
    Causa il ventre tumefatto.

  Finalmente la sorprende
    Un disturbo del sensorio
    E un dolor premonitorio
    Lungo il rachis le discende.
    Il marito al suo lamento
    Corre, interroga e le dice:
    «Vo a chiamar la levatrice
    E ritorno in un momento!»

  A intervalli lunghi e rari
    Incomincian le pressioni
    E le forti contrazioni
    Delle fibre muscolari.
    Sono sistoli speciali
    Cui la diastole consente
    E interessan totalmente
    Le pareti addominali.

  Ecco intanto alla degente
    Si rinnovano i dolori
    Sempre più provocatori
    E di ritmo più frequente,
    Finchè, sotto alla pressione,
    Il liquor che l'amnio serra
    Rompe il sacco e va per terra,
    Precursor dell'epulsione.

  La faccenda allor va lesta
    E non c'è d'aver paura
    Se però la creatura
    Si presenta con la testa.
    Ma nel caso che al contrario
    Si presenti con un braccio,
    Può accadere un affaraccio,
    E il chirurgo è necessario.

  Non son fatti sì frequenti,
    Ma se mai caso si desse
    Che l'ostetrico dovesse
    Operar rivolgimenti,
    O usar ferri, allor conviene
    Star tranquilla, ilare, ardita,
    Che la scienza è progredita
    E le cose andranno bene.

  Dopo un grido indebolito,
    In un premito finale,
    Nasce un maschio ed è vitale
    Come annuncia il suo vagito.
    Sente allor di gioia un'onda
    La puerpera nel core
    E con l'ultimo dolore
    Viene espulsa la seconda.

  Gentilissima lettrice,
    Ti narrai chiara e sincera
    In che modo e in che maniera
    Nasce al mondo un infelice:
    Non gittar strilli d'orrore
    Da lussarti le ganasce;
    Meglio dir come si nasce
    Che narrar come si muore.



  KLYSO

    Su'l reo lito che Pasife
  contaminò con l'esecrando fallo
    forse l'industre Dedalo
  torse in cavo cilindro il tuo metallo,

    Ei lavorò ne l'ebano
  la mobil elsa e, con la man divina,
    su la sudata incudine
  per consiglio d'Igea temprò la spina.

    I suoi possenti farmachi
  Esculapio di poi t'ascose in seno
    ed a i dolenti podici
  consolator t'offrì turgido e pieno.

    Oh, qual grido di giubilo
  il tuo primo apparir ne 'l mondo accolse!
    Come le terga subito
  la constipata umanità ti volse!

    e tu, buono, e sollecito
  più de l'altrui che de la tua fortuna,
    a le ribelli viscere
  pronto volasti ad esplorar la cruna;

    nè ti commosse il torbido
  occhio che a l'opra tua natura oppose,
    nè d'atre bocche l'alito
  cui tolse il fato d'emular le rose;

    ma la compressa canula
  un tepido zampillo alto sospinse
    che, su l'esempio d'Ercole,
  Caco ne l'antro suo sorprese e vinse.

    Corsero allor le lubriche
  linfe la cieca via che a l'Orco immette
    e strani indi scoppiarono,
  da l'opposto emisfer, venti e saette.

    Indi a i redenti visceri
  un po' di pepe e sal non parve ostile
    ed i mal sani fegati
  riser, purgati da la densa bile.....

    A voi, ventri purissimi,
  che di mal digerirmi avete il vanto,
    a voi consacro e dedico
  l'opportuno rimedio e questo canto.



  HUNYADI JÀNOS

  _Al Signore_
  ANDREA SAXLEHNER
  Buda-Pesth


  Non più anelanti a i pascoli latini
    le barbare cavalle Attila caccia;
    rivisse il fior de gl'itali giardini
                      su la sua traccia.

  Tacque indarno il deserto e crebbe l'erba
    dove l'alta Aquilea fumando giacque;
    da le fecondi ceneri superba
                      Venezia nacque.

  Il Danubio lavò le curve spade
    grondanti di gentil sangue romano,
    ma di quel sangue mai goccia non cade
                      versata invano,

  e con le stille che tingevan l'onde
    de 'l pescoso Tibisco e de la Drava
    di Roma il fato a fecondar le sponde
                      barbare andava,

  e di messi la steppa e di vitigni
    rise, ed a 'l sol che civiltà conduce
    i biechi de i mongoli occhi sanguigni
                      vider la luce;

  nè più l'Europa giudicò minaccia
    ma baluardo de' magiari il petto,
    quando il Corvino alzò la spada in faccia
                      a Maometto;

  nè più imprecò il latino in val di Pado
    a i varchi onde calò di Dio il flagello,
    ma l'unno che morì sotto Belgrado
                      disse fratello.

  Oh, benedetto il suol che trepidava
    sotto il galoppo de la santa schiera
    se l'unnìade Giovanni alto levava
                      la sua bandiera!

  Oh, benedetto il suol che de la buona
    ausonia civiltà reca le impronte
    se de l'unnìade in nome a noi sprigiona
                      salubre un fonte

  a 'l cui salso licor cedon le avare
    viscere umane il faticoso pondo,
    cantando inni sonanti a 'l salutare
                      flusso giocondo.

  E poi che il fato reo l'opera vieta
    de le viscere tarde invan spremute,
    a l'ungarica possa anch'io, poeta,
                      chieggo salute.

  Non il regal Tokay, ma l'acqua umile
    che Buda ci mandò mi fia sollievo.
    Tendimi il nappo Igea. Buda civile,
                      a te lo bevo!



  NEL BAGNO

  ODE


  Pel fiammante de l' ciel tramite sacro
    gli agitati corsier disfrena il sole
    e d'onde fresche a 'l salutar lavacro
                      luglio ci vuole.

  O fortunata se veder potessi
    tremolar la marina a l'orizzonte,
    o tra selve d'abeti e di cipressi
                      fredda una fonte!

  Ma il iato mi negò, come ha costume,
    il bacio di salubri acque cadenti
    e de 'l sonante mar le bianche spume
                      rotte da i venti.

  Pur, qual lo scrigno famigliar concede,
    me ancor d'umili terme allieta l'onda
    che in brevi cerchi accarezzar si vede
                      la ferrea sponda.

  E se zefiro alcun non va temprando
    de l' sol le vampe con la sua carezza,
    il serico flabel l'aure agitando
                      copia la brezza.

  Ivi, gettando allor la tenue vesta
    pudicamente ignuda, io volgo il passo.
    Disciolto il crin da l'apollinea testa
                      fluisce a 'l basso;

  fluisce e lambe il tergo mio che mostra
    callipigie beltà che il sole ignora...
    Onde, apritemi il seno! ecco la vostra
                      dolce signora!

  Io non t'invidio il fior de 'l corpo bianco,
    o de le ciprie spume eterna figlia,
    se a l'concavo sedil concedo il fianco
                      come a conchiglia.

  Onde apritemi il seno! ecco, m'assido
    su 'l metallico trono ... ecco m'affondo,
    e la parte di me che lascia il lido,
                      cala ne'l fondo,

  ove, strisciando con l'esperta mano,
    detergo il lezzo a le inquinate membra.
    Mormora l'onda ed il suo picciol piano
                      il mar mi sembra,

  e le tempeste sogno e veggo e sento
    l'imperversar de l'aquilon crudele
    e le triremi trionfali a 'l vento
                      scioglier le vele

  e una nave puntar, negra su l'onda,
    la bocca d'un cannon fetente e cupo...
    Numi, che scoppio!... Ne vibrò la sponda
                      de 'l semicupo!



  A UN VASO NUOVO
  DI PORCELLANA GINORI

  ODE

        Andovvi poi lo Vas d'elezione.
        DANTE, _Inferno_, II.


  Te non Pandora da l'abisso a gli uomini
         recò, nefasto dono
  onde il perenne ancor pianto de' miseri
        sale di Giove a'l trono,

  ma l'arte ti plasmò tra i colli floridi
         che a Doccia son ghirlanda,
  e l'Arno industre che ti vide nascere
        vergine a noi ti manda;

  vergine qual su l'alpe inaccessibile
        candor di nevi intatte,
  qual ne' chiusi presepi in larghe ciotole
        de le giovenche il latte.

  Il labbro immacolato ecco sorridere
        veggio, curvato in arco
  e, ingordo, ne 'l candor concavo, accogliere
        de' lombi miei l'incarco.

  Ecco il tuo ventre d'un sonoro crepito
        ripete il rauco invito
  e de le fauci spalancate a 'l fornice
         tardar sembra il convito.

  Ahi, ma 'l candor de l'ermellino perdere
        omai dovrà 'l tuo smalto!
  Triste a tutti è la vita e cose orribili
        vedrai da 'l basso a l'alto.

  Udrai ne l'ampia oscurità le raffiche
        de l'uragan possente
  e sovra te discatenato d'Eolo
        il soffio pestilente,

  e piover caldo e grandinar meteore
        precipitate a l' basso
  e rimbombar di male olenti fulmini
        lo scoppio ed il fracasso.

  Pender biechi vedrai, ne l'aura torbida,
        lo Scorpio ed i Gemelli
  e incomber sovra te, negri e monoculi,
        Polifemi novelli.

  Quanti atroci dolor le umane viscere
        celino, allor saprai
  e sotto breve foglio in forme ignobili
        deposti in te li avrai.

  Così tra breve, maculato il lucido
        onor de 'l ventre bianco,
  ti sentirai, da crepe immonde infrangere
        l'affaticato fianco,

  ed un vil sterquilinio avrà le briciole
        de le tue membra rotte!....
  Crudo è 'l fato e noi donne a te siam simili,
        o chicchera da notte!



  AI COLLEGHI


  Tangheri di poeti
    Che, se andate in amore,
    Raccontate i segreti
    Di tutte le signore,

  Siate meno indiscreti
    Negli affari di cuore
    E imparate dai preti
    Che non fanno rumore.

  Chi spiffera in tribuna
    Quello che il cor gli detta,
    Non farà mai fortuna.

  Noi non abbiamo mica
    Scrupoli a darvi retta:
    Temiamo che si dica.



  "NASCITVRO"[*]

         _Exultavit in gaudio infans in utero meo._
                                   LUC. I, 44.


  No, che su zolla sterile
    Non fu gittato il seme
    Se, lacerato il solido
    Guscio che invan lo preme,
    Esce il rampollo e germina
    Pei campi o per le aiuole,
    Schiuso al tepor del sole
    Sotto al clemente ciel.

  No, la bollente gocciola,
    Plasma del germe umano,
    Nel sitibondo fornice
    Non fu scagliata invano
    Se nel mio fianco turgido,
    Come in risposta cella,
    Un'anima novella
    Veste il corporeo vel.

  Oh, alfin potrò conoscerti
    Amor santo e sereno
    Di madre e roseo stringermi
    Un pargoletto al seno....
    Addormentarti, crescerti,
    Potrò sul grembo anch'io,
    Sangue del sangue mio,
    Frutto d'immenso amor!

  T'insegnerò a disciogliere
    I passi e le parole,
    Ti narrerò, baciandoti,
    Gl'incanti delle fole,
    Indi trarremo in giubilo
    Lungo un campestre calle
    Seguendo le farfalle
    E raccogliendo i fior.

  Ti guiderò per l'ardue
    Strade dell'arti prime
    L'alto volume aprendoti
    Delle materne rime;
    Io sulle illustri pagine
    Ti condurrò la mano,
    Io t'aprirò l'arcano
    Del mondo e del saper.

  E allor che il sangue giovane
    Ti pulserà nel petto
    E sentirai le trepide
    Ansie del primo affetto,
    Sarò al tuo fianco assidua
    E virilmente fida
    Consigliatrice e guida
    Nei dubbi del sentier.

  Al focolar domestico
    Io sarò presso ancora
    Quando velata e timida
    Mi condurrai la nuora
    Che me, benigna pronuba,
    Dirà perversa e cruda
    Se nel tuo letto, ignuda
    Vergin, la spingerò.

  E quando i fior del talamo
    Matureranno i frutti,
    Ava prudente e provvida
    Io veglierò per tutti;
    Poi con le palme tremule
    Carezzerò i nepoti
    E a Dio la prece e i voti
    Per loro innalzerò.

  E già mi veggio, debile
    Vecchia, tra lor seduta
    Narrar, senza rimpiangerla,
    La gioventù caduta
    E i versi miei ripetere
    A un coro d'innocenti,
    I versi miei fulgenti
    Di virtuoso zel.

  Ava, così, amorevole
    E santa educatrice.
    In mezzo ai biondi pargoli
    Vivrò lieta e felice
    E quando giunga al termine
    La vita mia modesta,
    Reclinerò la testa
    Per ridestarmi in ciel.

  Forse ch'io sogno?... Ah, palpita
    Pur nel mio grembo un vivo
    E freme e balza e s'agita
    Or che a lui penso e scrivo....
    Deh, perchè tardi o nobile
    Della mia gloria erede?
    Non sai che la mia fede
    E l'amor mio sei tu?

  Ma intanto?... Ah, un dubbio orribile
    Mi sta confitto in core.
    Sento un mister nell'anima
    Pensando al genitore....
    Parla, se puoi rispondermi,
    Tu che doman vivrai;
    Dimmi, se pur lo sai,
    Il padre tuo chi fu?

  [*] Credeva di avere concepito un figlio. Invece aveva preso
    freddo e tutto finì con una fuga d'aria compressa.



  A
  SUA ECCELLENZA REVERENDISSIMA
  MONSIGNOR VESCOVO
  TITOLARE DELLA CHIESA CATTEDRALE
  DI SEBOIM
  NELLE PARTI DEGLI INFEDELI
  QUESTO NUOVO LAVORO
  DI MANO AMICA SE NON ESPERTA
  ACCRESCA IL PIACERE DELLA ESALTAZIONE

          _Ut ambules in via bona._
                  PROV. II, 20.


  Signor, poi che una Diocesi
    Dall'Augusto Vegliardo hai conseguito
    E l'anello di Vescovo
    Come novello sposo hai messo in dito,

  Tra il fumo dei turiboli,
    Tra il plauso della folla intorno accolta,
    Mite Pastor di Seboim,
    Porgi l'orecchio e la mia voce ascolta.

  Deh, quando sul tuo popolo
    Benedicendo stenderai la mano
    E la lieta Pentapoli
    A piè del trono avrai come un Sovrano,

  Serbati buono e i miseri
    Intorno a te raccogli e li consola;
    Ricorda Cristo e predica
    Più con l'esempio e men con la parola.

  Non insegnare ai chierici
    Che il Pontefice solo aprir può il cielo;
    Non insegnare il Sillabo,
    Ma lo scordato ormai vecchio Vangelo.

  Trafficator non renderti
    Di Giubilei, Congressi e pellegrini,
    Ma proibisci l'Obolo
    E l'altre furberie per far quattrini.

  Nell'ira tua scomunica
    Chi va col collo torto e il viso basso;
    Lascia che di Quaresima
    I Diocesani tuoi mangin di grasso;

  Non annoiare i pargoli
    Col Catechismo, i Salmi e la Scrittura;
    Dà lor le chicche e mandali
    A scuola od a saltar lungo le mura,

  Lascia ballare i giovani,
    Lasciali far l'amor quando han ballato
    E se poi si confessano
    Ridi e dichiara: «quel ch'è stato è stato!»

  Non ributtar la femina
    Che degli affetti suoi non fu padrona;
    Pensa a Maria di Magdalo:
    I peccati d'amor Dio li perdona.

  Non tormentare i parroci
    Per le chiacchere intorno alla servetta;
    Dì lor che i Sacri Canoni
    Non vietano d'andare in bicicletta.

  Così facendo, i popoli
    Tutti t'obbediran come d'incanto
    E nei venturi secoli
    Avrai solenne culto e sarai santo.

  O benedetta, o nobile
    Alma, sottratta alla terrestre lue,
    Allor vedrai le monache
    Baciar devote le reliquie tue.

  Sotto quel bacio fervido
    Si rizzeranno alla virtù natìa,
    Rinnovando i miracoli
    Che, vivo, hai fatto per la dolce Argia.



  «EN REV'NANT D'LA REVUE»


  _J'aime le doux parfum qui vient de la cuisine,
    Le parfum de la soupe et l'encens du roti,
    Le Champagne mousseux et la Chartreuse fine,
    Et les petits fours chauds qu'on vend chez Maiani.

  J'aime un bas bien tiré qu'on voit sur la bottine
    Paraître avec malice comme un secret trahi;
    J'aime guetter le soir le lit de ma voisine
    Qui ne se doute guere du binocle ennemi.

  J'aime tous les plaisirs dont la terre est feconde
    Et le cancan tout comme le noble cotillon;
    J'aime la brune--hélas--mais j'aime aussi la blonde.

  Et pourtant il n'y a qu'un seul plaisir de bon,
    Qui enfonce, croyez moi, tous les plaisirs du monde,
    Et c'est rire d'un âne qui se pretend lion._



  LE ELEZIONI DI MILANO--1895


    I

  Lode a te sia, Milano,
    Poichè Papa Leone
    Ti manda di lontano
    La sua benedizione!

  Vieni a baciar la mano
    Del Vicerè padrone
    E torna piano piano
    Ai giorni del bastone.

  Il tempo è già maturo
    Pel giudizio statario
    Ed il carcere duro.

  Intanto, Segretario
    Del Sindaco futuro,
    Sarà Don Albertario.


    II

  Per grazia del Signore
    Un regime paterno
    Studiato dal Questore
    Diventerà governo

  E il vigile censore
    Ricaccerà all'inferno
    I libri e quest'orrore
    Di spirito moderno.

  Chi avesse poi prurito
    Di fare il liberale,
    Sarà preso e punito

  E il Regno Temporale
    Sarà ristabilito
    Per decreto reale.



  DEO CREPITVI SACRVM


  O spirito santo
    De' visceri umani
    Che tutti del canto
    Conosci gli arcani,
    Che onori e letifichi
    D'armonici fiati
    Gli sforzi dei vati,

  Dal buio profondo
    Dell'antro nativo
    Prorompi nel mondo
    Sonoro e giulivo;
    Di tepidi balsami
    Circonda ed allieta
    Lettori e poeta.

  Tu, soffio eloquente
    Del verbo divino
    Concesso ugualmente
    Al ricco e al tapino,
    Tu sei come l'anima
    Per leggi fatali
    Comune ai mortali.

  Conforti il villano
    Che pasce gli armenti,
    Alberghi sovrano
    Ne' chiusi conventi,
    De' gravi canonici
    Compagno canoro
    Solfeggi nel coro.

  Nel casto segreto
    Dell'intima cella
    Rallegri discreto
    La pia monacella;
    Nel ballo, da timide
    Fanciulle compresso,
    Sospiri sommesso.

  Tu visiti e curi
    Con equa fortuna
    Palazzi e tuguri,
    Altare e tribuna
    E avvolto di porpora
    De' plausi tra il suono,
    Favelli sul trono.

  Ma guai se vapori
    Dal patrio forame
    Recandone fuori
    Il glutine infame!
    Purissimo spirito
    Che l'alvo ricrei
    Allor più non sei;

  Ma pregno diventi
    D'essenze funeste
    Che ammorban le genti
    Col tanfo di peste
    E guasti e contamini
    I lini più ascosi
    Di segni schifosi.

  Così colorito
    Per nostra sciagura,
    Di soffio gradito
    Diventi sozzura;
    Degnissima imagine,
    Ritratto vivente
    Del tempo presente.

  Lentato ogni freno
    Ti getti sul mondo
    Spargendo il veleno
    Dell'alito immondo
    E appesti ed infracidi
    Le menti ed i cuori
    Di turpi vapori.

  Maestro nell'arte
    Di nuovi delitti
    Tu lordi le carte
    Del plico Giolitti,
    Tu puzzi nel carcere
    Sul labbro bugiardo
    Del vecchio Bernardo.

  Aiuti i sensali
    Dei voti comprati,
    Avalli cambiali
    Pe' tuoi deplorati,
    Trionfi, pontifichi
    De' ladri nel coro,
    Men porco di loro.



  FANTASIA EGIZIANA


  Al Nilo, al Nilo! Nasconderemo
    Laggiù mia bella l'amor deriso,
    Là sconosciuti noi ci faremo
    Non una casa ma un paradiso,
    Sul chiaro margine dell'acque calme
    Dove si specchiano verdi le palme.

  Il chiosco vedi ch'io t'ho fiorito
    Di cento rose come un giardino!
    Dentro ai bracieri d'oro brunito
    Fuman le lagrime del benzoino
    E dal marmoreo balcone aperto
    Vampe d'amore manda il deserto.

  Nera nel cielo color di rosa
    Che nel tramonto caldo risplende,
    Come una lupa libidinosa
    Accoccolata la sfinge attende,
    E grave un alito di strani amori
    L'acre vivifica nozze dei fiori.

  Alle carezze molli del vento
    Data la lunga cesarie d'oro,
    Nell'onda tenue del vel d'argento,
    Nudo del bianco seno il tesoro,
    Sarai mia sempre, mia tutt'intera,
    Se non ti viene prima il colera.


    QVANDO
  IL PREFETTO DEL RE
  E IL SINDACO DEL COMVNE
  RENDEVANO OMAGGIO
  A SVA EMINENZA REVERENDISSIMA

  DOMENICO SVAMPA

  PRETE CARDINALE DEL TITOLO DI SANT'ONOFRIO
  ED ARCIVESCOVO DI BOLOGNA
  QVESTO CARME BENE AVGVRANTE
  AL SVO FORMOSO PASTORE
  ARGIA SBOLENFI
  DEDICAVA


  Signor, poi che ti sta supplice ai piedi
    Questa Felsina tua che un dì sdegnosa
    Bacio di prete sofferir non volle,
    Costei che, infranto il trono in cui tu siedi,
    Cercando libertà tinse gioiosa
    Del suo sangue miglior l'itale zolle,
    Absolvi or la pentita e le concedi
    L'amplesso del perdono
    Dimenticando dell'error l'audacia.
    Sii generoso e buono
    Con chi, come a Signor, la man ti bacia
    E poi che piango ravveduta anch'io,
    Misericorde ascolta il canto mio.

  Un tempo, e ben lo sai, morta di fame,
    Schiava del tuo stranier temprò la plebe
    Ceppi a se stessa su la propria incude:
    Pe' sacerdoti tuoi le turbe grame
    Reser feconde le sudate glebe
    E sul solco natio caddero ignude
    Ai campi della Chiesa util letame;
    Ma un Dio consolatore
    Da' sacri templi a lor dicea: «Soffrite,
    Turbe nate al dolore
    E che felici nel dolor morite,
    Poi che v'aspetta in ciel di Dio il sorriso
    E sol de' tribolati è il paradiso».

  Dolci tempi, o Signor, ma triste il giorno
    In cui la libertà disse il suo nome
    La prima volta nella rea Parigi,
    Poi che le turbe allor volsero intorno
    Torbido l'occhio e scossero le some
    Brandendo l'armi ad operar prodigi
    Di che all'anime pie duro è il ritorno.
    Germogli del mal seme
    Crebbe il tristo terren le idee novelle;
    Compresso indarno, freme
    Tra i nuovi ceppi il popolo ribelle
    E poi che in cor gli agonizzò la fede
    Non più la libertà, ma il pan ci chiede.

  E grida: «Senza gioia e senza luce,
    Martiri del lavoro e degli stenti
    Moriamo e il pane ancor ci si rifiuta.
    Aprimmo il solco e non per noi produce,
    Altri ha le lane e noi guardiam gli armenti
    Altri ha la messe e noi l'abbiam mietuta.
    Nuovo un tiranno i servi suoi riduce
    A maledir la vita
    E, come bruti a litigar le ghiande;
    Ci calca inferocita
    La gente nuova che facemmo grande,
    Ma lieto il dì della riscossa arriva:
    Corriamo all'armi e la giustizia viva!»

  Deh! soccorri, o Signor! Più non ci giova
    Rinnovar le catene ed i tormenti
    O sfrenar birri alle cercate stragi.
    Troncata l'idra i capi suoi rinnova
    E i pubblicani ed i giudei dolenti
    Tremano su gli scrigni e nei palagi
    Dove il tripudio del goder si prova.
    La turba macilente
    Accorre e di morir non ha paura
    Poi che, soffrendo, sente
    Che a lei la vita e non la morte è dura....
    Deh, Signor, ci soccorri e se al desio
    Mancan le Guardie, ci difenda Iddio!

  E se il tuo Dio ci costa, a noi che importa
    Quando i ribelli al timor suo riduce
    E delle turbe ci ridà il governo;
    Quando agli eletti suoi l'ausilio porta,
    Quando tra i volghi creduli conduce
    L'util minaccia ed il terror d'inferno
    Ed ha il demonio pauroso a scorta?
    Ben venga Iddio se reca
    Fede agli umili, securtà ai possenti,
    L'obbedienza cieca,
    Il catechismo, i preti, i sacramenti,
    De' frati tuoi la sacrosanta loia,
    Il Sant'Ufficio, la mordacchia e il boia.

  Ben vedi che timor, non cortesia,
    I magistrati nostri a' piè ti caccia
    Inginocchiati a far debita ammenda.
    Ieri nemici ognun di lor fuggìa
    Fino il pretesto di guardarti in faccia,
    Ma la tema del poi gli animi emenda
    Ed eccoli a gridar Gesù e Maria.
    Reca dunque, o Levita,
    Benedetti dal ciel giorni soavi
    Alla città pentita,
    Al Senator che te ne dà le chiavi;
    Stringi la briglia nella man paterna
    E questo popol tuo reggi e governa.

  Canzon vanne alla sede
    Del Pastor cui fu porto
    Omaggio di paura e non di fede.
    Egli è saggio ed accorto
    E se ben tu lo guardi
    Gli leggerai nel viso: «È troppo tardi!»



  SAMBVCI[*]


  A voi fecondi clivi
    Sabini, a voi vestiti
    Di frondeggianti viti
    E di feraci ulivi,
    Tra cui muggendo viene
    Il turbolento Aniene,

  A voi, nel roseo incanto
    Del moribondo sole,
    Sante d'amor parole
    Disse d'Orazio il canto,
    Ma del tripudio il giorno
    Passò senza ritorno.

  Rade, ai pendii fiorenti
    Dove ridean le vigne,
    Germoglian le gramigne
    Agli sparuti armenti:
    Nega al villan la vita
    La terra insterilita.

  Che se, vincendo l'arsa
    Rabbia del sol rovente,
    Sudata lungamente
    Cresce la messe scarsa,
    Lo scarno agricoltore
    La miete al suo signore;

  E a lui la terra magra
    Matura il reo frumento
    Che gli distilla il lento
    Velen della pellagra,
    Quando clemente il cielo
    Non l'arde in sullo stelo....
    .........................

   [*] Frammento. Tutti ricordano ancora la fame sofferta dagli
     infelici abitatori di Sambuci (Roma) nell'inverno del 1895.



  A VENERE GENITRICE

  INNO

              _In lectulo meo per noctes quaesivi
              quem diligit anima mea: quaesivi
              illum et non inveni,_
              CANT. CANTICOR. III. I.


  --«Guarda, mortal, le fiamme
    De' larghi occhi lucenti
    E le chiome fluenti
    Sulle superbe mamme.
    Guarda! L'estremo lembo
    Gittai che ti copriva
    La pubertà giuliva
    Che mi fiorisce in grembo.

  Vieni e sui fior ti giaci
    E me sui fior ricevi;
    Tra le mie labbra bevi
    Il dolce miel de' baci,
    I lombi miei circonda
    Con le possenti braccia,
    Stringimi al sen la faccia
    E l'amor mio feconda.»--

  Così parlò e sorrise
    La Dea porgendo il fianco
    Soavemente bianco
    Al giovinetto Anchise
    Poi volse le parole
    In gemiti sommessi
    E dei divini amplessi
    Fu testimonio il sole.

  Vittima anch'io d'Amore
    Omai dispero aita
    Poi che la sua ferita
    Mi sanguina nel core,
    Nè lacrimar mi vale
    Nè maledir, costretta
    A spasimar soletta
    Sul vergine guanciale.

  Che se fugaci istanti
    Di pace al sonno chiedo,
    Mille fantasmi vedo
    Pel glauco ciel vaganti.
    Passa sul campo arato
    Caldo di nozze il vento
    E in se recar lo sento
    La febbre del peccato.

  Desta così all'ebbrezza
    Del germinar, la terra
    Le viscere disserra
    Del sole alla carezza
    E con le carni e il core
    Arsi da fiamme arcane,
    Urlan le genti umane
    «Amore, amore, amore!»

  Tra l'ombre e gli spaventi
    Delle materne selve
    Si stringono le belve
    In ciechi accoppiamenti
    E dalle fulve arene
    Che il mar commosso esclude
    Perfidamente ignude
    Mi chiaman le sirene,

  Mentre di Bromio stanche,
    Roche per gli ebbri canti,
    Le lubriche Baccanti
    Gittan le vesti bianche
    E sui compressi fiori
    Curvan le rosee forme
    Sotto l'impulso enorme
    Dei Fauni assalitori.

  E allor mi desto sola
    Sul letto immacolato
    Coll'urlo disperato
    Del mio martirio in gola....
    Deh, morrei pur gioiosa
    Se fossi in quel momento
    Segnata dal cruento
    Stigma di nuova sposa,

  Se nella gonfia mole
    Dell'utero fecondo
    Balzar sentissi il pondo
    Della concetta prole,
    Se alfin delle mie pene
    Lieta chiudessi il ciglio
    Addormentando un figlio
    Tra le mammelle piene!

  O Dea, Madre, Signora
    Dei vivi e della vita,
    Dal mar di Cipro uscita
    Al bacio dell'aurora,
    Che il premio a noi concedi
    Nella tenzon gentile
    Ed al vigor maschile
    Il fior del sangue chiedi,

  Se di perenni rose
    T'ornino ancor l'altare
    Le verginelle ignare
    E le conscienti spose,
    Se l'atra onda Letea
    Il biondo Adon ti renda,
    Pietà di me ti prenda
    Madre, Signora, Dea!



  IL PRIMO CAPELLO BIANCO


  Si levan sospinti dal vento
    I bianchi vapori dei monti;
    Nel cielo di piombo le nubi d'argento
    Cacciate, travolte, nascondono il sol.

  Recando la mota dei letti
    Traboccan le torbide fonti;
    La piova scrosciando rovina dai tetti
    E un largo pantano contamina il suoi.

  Languisce la terra sopita
    Nel soffio del freddo aquilone;
    Ai rami gelati non torna la vita,
    Le gemme aspettanti non s'aprono ancor.

  O fosche giornate d'orrore,
    Dov'è la novella stagione?
    Dov'è primavera fragrante d'amore
    Che scalda e feconda le nozze dei fior?

  Deh, riedi e coi giorni più miti,
    O maggio, conduci il sereno:
    I canti dei nidi sui peschi fioriti,
    L'odor delle rose risveglia con te.

  Infondi coi baci del sole
    La vita nel freddo terreno,
    Fiorisci le zolle di fresche viole,
    Ravviva i ligustri degli alberi al piè.

  O maggio, e doman tornerai
    Dai fior salutato e dal canto;
    A tutti doman la gioia darai,
    Io sola piangendo tornar ti vedrò.

  Io sola son morta all'affetto,
    Io sola mi struggo nel pianto;
    Letizia di vita non sento nel petto,
    Germoglio d'amore nel sangue non ho.

  Il verno da me più non toglie
    L'orror delle bianche pruine;
    Al sole di maggio il gel non si scioglie,
    Il gelo di morte che il cor mi coprì.

  Il primo capello canuto
    Quest'oggi mi svelsi dal crine....
    Ah, giovane tempo, sì presto caduto,
    Con te la speranza quest'oggi morì!



  SONETTI DECADENTI


  DIES

  Il sole brucia implacabile, uguale,
    Le stoppie gialle del pian vaporoso,
    L'azzurra volta del ciel luminoso
    Riflette in terra la fiamma estivale.

  Non move foglia. La vita animale
    Langue in un grave sopor neghittoso
    Turba la pace al meriggio affannoso
    Solo un molesto frinir di cicala.

  Sull'erba verde, nel bosco frondoso,
    Fresco t'ho fatto di fiori un guanciale
    E tu vi adagi le membra al riposo.

  Dormi discinta nell'ombra ospitale
    Ed io contemplo con l'occhio bramoso
    L'onda del petto che scende e che sale.


  NOX

  Dell'alta notte la negra magia
    M'empie il cervello, mi filtra nel core.
    Un soffio passa sull'anima mia,
    Un freddo soffio che m'empie d'orrore.

  Sente di fuori, l'orecchio che spia,
    Strani bisbigli che metton terrore,
    Ma nelle case la vita s'oblia
    Come annegata in un denso stupore.

  Solo nel buio, laggiù, della via,
    Dietro una tenda, l'immobil candore
    Un lume fioco da lungi m'invia.

  Rischiara forse il discreto bagliore
    Lo spasimar d'un atroce agonia
    Od il gioir d'una notte d'amore?


  APENNINO

  O monti, albergo di pace infinita,
    Ancor nel vivo ricordo rimane
    Il susurrar delle chiare fontane
    Tra la fragranza dell'erba fiorita

  E il tremolar della luce salita
    Coll'alba fresca alle cime lontane
    Nel rado vel delle nebbie montane
    Su i boschi pieni di canti e di vita

  E nel tepor della rorida mane
    Fioco il belar dell'agnella smarrita
    Od il rintocco di meste campane.

  Oh, nel mister della selva romita
    Fuggir con lei dalle cure mondane
    E tra i capelli sentir le sue dita!


  ADRIATICO

  Il mar lambendo instancabile e lento
    La sabbia fina dell'umida sponda,
    Con ritmo uguale mandava un lamento,
    Quasi un singhiozzo, alla notte profonda.

  Occhi benigni, le stelle d'argento
    Guardavan fisse la terra feconda.
    Amor vagava nel ciel sonnolento
    Ed io sperai la fortuna seconda.

  Il cor t'apersi con timido accento,
    Sfiorai col labbro la chioma tua bionda
    Ed al trionfo credetti un momento....

  Addio, fantasmi d'un'ora gioconda,
    Sogni d'amore dispersi dal vento,
    Care speranze cadute nell'onda!


  MILLE

  Al suo balcone s'affaccia beata
    La dama, tratta dal maggio fiorente.
    Il sol carezza la treccia dorata,
    La rosea gota ed il labbro ridente.

  Il giovin paggio da lunge la guata
    E tutto caldo d'amore si sente
    Nè gli par cosa terrena e creata,
    Ma ben di cielo angioletta vivente.

  Correr vorrebbe a battaglie cruente,
    Soffrir pugnando una morte spietata
    Sol per averne uno sguardo clemente;

  E pur la dama dagli occhi di fata,
    E pur la bianca angioletta piacente
    Dal dì che nacque non s'è più lavata!


  SETTECENTO

  Mormora l'arpa toccata in sordina
    Lento un motivo che par minuetto.
    Lenta la dama danzando s'inchina,
    Tutta eleganza, sussiego e belletto.

  Di nei segnata, la pelle argentina
    Manda un profumo sottil di zibetto:
    Sotto una nebbia di candida trina
    Ansano i bianchi segreti del petto.

  Danza e sul molle tappeto trascina
    La ricca vesta ed il piè piccioletto
    Col portamento d'altera regina.

  Tutti scoraggia col rigido aspetto,
    Con l'occhio pieno di calma divina,
    E lo staffiere l'attende nel letto.


  PAROLE

  Dolci parole d'amor, susurrate
    Presso i cespugli fioriti di rose,
    Parole dolci, parole gioiose,
    Appena dette che mai diventate?

  Salite al cielo col vento e volate
    Degli angioletti alle labbra amorose,
    O, come accade dell'ottime cose,
    Parole dolci, nel nulla tornate!

  Ahi, che piuttosto all'inferno dannate
    Sì come streghe mendaci e schifose,
    Forma e veleno di biscie pigliate

  E, tra i cespugli nativi nascose,
    Mordete al core gli amanti e li fate
    Vittime e strazio di cure gelose!


  MUSICA

  L'ultime note languenti, velate,
    Muoiono come sospiri sonori
    In un tripudio di mazzi di fiori
    In un profumo di donne scollate.

  E il sangue tende le arterie gonfiate,
    Passan su gli occhi fugaci bagliori;
    Tutta la vita prorompe di fuori
    Sotto l'impulso di forze ignorate.

  Allor le forme ci sembran mutate
    E ridipinte di strani colori,
    Quasi fantasmi di cose sognate.

  Poi tutto passa; ma resta nei cuori
    Come un rimpianto di gioie passate,
    Come un presagio di nuovi dolori.



  MORBUS


  Chi, quando il giorno muore,
    Ode, seguendo il Gange,
    La tortora che piange
    Sotto i roseti in fiore
    E, lungo l'acque stanche
    Specchio alle palme nere,
    Vede passar le schiere
    Delle pagode bianche,

  Lento discerne ancora
    Fumar dal tardo fiume
    Il denso putridume
    Che in faccia al sol vapora,
    E galleggiar sull'onde
    Carogne omai disfatte
    Che l'acqua gialla sbatte
    Sulle fangose sponde.

  Lungo i giuncheti pigri,
    Nido di serpi immani,
    Piangono i caimani
    E ruggono le tigri,
    Mentre nell'aria bassa
    Del crepuscolo torvo
    Gracchia sinistro il corvo
    Sazio di carne grassa.

  Allor nel plumbeo cielo
    S'erge dall'acqua oscura
    D'un angiol la figura
    Chiusa da un fosco velo,
    E sale a poco a poco
    Sul livido orizzonte,
    Gocciando dalla fronte
    Sangue, veleno e fuoco.

  Sale gigante e solo
    Dell'universo in faccia,
    Tende le negre braccia,
    Apre l'immenso volo....
    Ah, invan chiudi le porte,
    Trista progenie d'Eva;
    Ecco, su te si leva
    L'angelo della morte!

  E passa infaticato
    Sulle città fastose,
    Sovra le ville ascose,
    Sovra il castel merlato,
    Sul casolar che ride
    Di sue virtù contento....
    Passa solenne e lento
    E dove passa, uccide.

  Sul suo cammin, segnato
    Dai morti e dai morenti,
    Alto le umane genti
    Mandano un ululato.
    L'orror dell'ecatombe
    Fin la speranza scaccia
    E mancano le braccia
    Per iscavar le tombe...

  Del cor premendo i moti,
    Sbarrando gli occhi tardi,
    Inchiodano i vegliardi
    Le bare dei nipoti;
    Col pianto sulle gote
    Le madri moribonde
    Piegan le teste bionde
    Sopra le culle vote.

  Dubita l'uom che venga
    Il mondo all'ore estreme
    E guata in alto e teme
    Che il sole in ciel si spenga,
    Mentre gli grida il prete:
    «Guai nel gran giorno all'empio!
    »Portate l'oro al tempio,
    »Poichè doman morrete!»

  Sul sacro limitare
    Cadono allor gli oranti,
    Lordan gli agonizzanti
    Le pietre dell'altare
    E pur la turba stolta
    Che ciecamente adora,
    Inginocchiata implora
    Iddio, che non l'ascolta.

  Turba, che il vacuo gelo
    Della tua fede or tocchi,
    Muori, volgendo gli occhi
    Inutilmente al cielo.
    Alle pupille offese
    Il vero or si disserra:
    Non ti mentì la terra
    Quando per lei ti chiese,

  Non ti giurò promesse
    D'un avvenir mal certo,
    Ma dal suo fianco aperto
    Ti germogliò la messe.
    Giovin, dell'odio invece,
    L'amor ti accese in seno,
    E per un giorno almeno
    Miglior di Dio ti fece.



  ELEZIONI


  Musa mia dolce, che le alterigie
    De' carmi arcigni non hai sul viso,
    Tu che rallegri l'ore mie grigie
    Di stravaganti scoppi di riso
    E volentieri mostri la pelle
    Dai larghi strappi de le gonnelle,

  Musa mia dolce, vieni, discendi
    A la solinga mia cameretta;
    Avide ai baci le labbra tendi,
    Libera i lacci de la fascetta,
    Sciogli la chioma bruna e ricciuta
    E chiudi l'uscio. L'ora è venuta,

  L'ora in cui l'odio fermenta e invade,
    Lurida peste, le menti e i cuori;
    In cui la gente giù per le strade
    Rutta bestemmie, rece rancori
    E, masticando laide querele,
    Inghiotte o sputa veleno e fiele.

  Ognuno in queste turpi giornate
    Morde o calunnia, froda o minaccia.
    Lo sterco e il fango colto a manate
    All'avversario si scaglia in faccia.
    Riddano in piazza, lerci e impudichi,
    Spie, deplorati, ruffiani e plichi:

  E i giornalisti, tinta di loia
    La meretrice penna d'acciaio,
    Pur che sia piena la mangiatoia
    Vendon la feccia del calamaio
    Per imbrattarne l'onore altrui,
    Quasi superbo che paghi Lui.

  Indi, nell'ora concessa al voto,
    Cupi, nervosi, van gli elettori,
    Parlando basso col viso immoto,--
    Guatando come cospiratori
    E in ogni canto dice un cartello:
    _Votate questo!.... Votate quello!...._

  Entro la sala buia e fetente,
    Sozza la gromma vernicia i muri
    E intorno a un desco men che decente
    Seduti in cerchio cinque figuri
    Veglian con l'occhio cogitabondo
    L'urna di vetro dal doppio fondo.

  S'apre la chiama. Nel pigia pigia
    Vota ciascuna pecora sciocca.
    Ardono alcuni di cupidigia,
    Ad altri l'ira torce la bocca,
    Ma quasi tutti, dopo votato,
    Palpano il prezzo del lor mercato;

  E tutti, uscendo, da un reo contagio
    Attossicato sentono il cuore.
    Chi entrò dabbene n'uscì malvagio,
    Chi entrò ribaldo n'uscì peggiore.
    Chi vinse, il turpe bottino aspetta,
    Chi perse, spera nella vendetta.

  Ecco i comizi! Di quando in quando,
    Se non accade qualche sinistro,
    Dall'urna falsa sbuca onorando
    Un frodolento caro al ministro,
    O un imbecille pien di commende;
    E l'un si compra, l'altro si vende.

  Or perchè debbo far da mezzano
    All'ingordigia di Calandrino?
    Perchè mi debbo lordar la mano
    Scrivendo il nome d'uno strozzino?
    Perchè gettarmi nella battaglia
    Sotto gli sputi della canaglia?

  Musa mia dolce, sulla tua faccia
    Ride un giocondo color di rosa.
    Passerò lieto fra le tue braccia
    Il giorno laido, l'ora schifosa.
    Sciogli la chioma bruna e ricciuta
    E chiudi l'uscio. L'ora è venuta.



  DOPO IL PLICO


  Meglio, Trento, per te se dalle mura
          Sante aspettasti invano
  Il vessillo che i patti e la paura
          Respinsero lontano.

  Meglio, Trieste, indarno a queste sponde
          Tener l'anima fissa;
  Meglio indarno aspettar che lavin l'onde
          La vergogna di Lissa.

  Deh, non cercate della madre il petto,
          Figlie aspettanti ancora,
  Poichè il fracido cancro ond'egli è infetto
          O uccide o disonora.

  La madre, del vessillo a tre colori
          S'è fatta un origliere
  Per fornicar co' suoi commendatori
          Scappati alle galere.

  Vende l'onore de' suoi figli morti,
          Gioca le glorie avite
  E fa copia di se negli angiporti
          Delle banche fallite.

  Questa, questa è colei per cui sperate
          Cessar le vostre pene
  Ed essa per paura ha patteggiate
          Fin le vostre catene;

  Ed essa, in Roma, penitente adora
          La fraude vaticana
  Baciando la rea man che gronda ancora
          Del sangue di Mentana....

  Ah, no, questo di vizi ampio carcame
          Che al bacio vil si prostra,
  Ah, no per Dio, questa bagascia infame
          Non è la madre nostra.

  Mentì chi l' disse! O voi, dai fortunati
          Sepolcri ove dormite,
  Martiri nostri ormai dimenticati,
          Levatevi e venite!

  Voi che gridaste Italia e il piombo intanto
          Vi rompea la parola,
  Voi che ne confessaste il nome santo
          Col capestro alla gola,

  Smascheratela voi la svergognata
          Che adultera col prete;
  Dite a questa carogna incoronata
          Che non la conoscete.

  Altra è la sacra Italia, amor dei forti
          Che un dì fu vostra cura.
  Oh, destatela voi, poveri morti,
          Se i vivi hanno paura!

  Fate che torni e nella destra rechi
          Una spada infocata
  Contro questi ladroni obliqui e biechi
          Che l'han vituperata.

  Arda col foco suo fin che bisogna
          Questa stalla d'Augìa,
  Tagli col ferro la civil vergogna
          E la giustizia sia!



  DA CAPO

            _Consurgite et ascendamus in meridie,_
                        JEREM VI, 4.


  Se nella mesta sera,
    Cinto di luce strana,
    Lo scoglio di Caprera
    All'occidente levasi
    Superbo sulla nera onda lontana,

  Il marinar che passa
    Sull'agile naviglio
    Tien la bandiera bassa
    E tra le palme ruvide
    Il duro capo abbassa e china il ciglio.

  Là, nella calma enorme
    Della morente luce,
    Sotto il granito informe,
    Presso le acacie memori
    L'ultimo sonno dorme il nostro duce.

  Dorme il Messia invocato
    Nel giorno del dolore,
    Dorme il gentil soldato
    Che amò come una vergine
    E col suo s'è fermato il nostro core.

  Quando il leon scoteva
    L'ampia cesarie d'oro,
    Un popolo sorgeva
    Bello, gagliardo e giovane
    Che la pugna chiedeva e non l'alloro;

  Sorgean gli eroi sublimi
    Che il duce taciturno
    Primo davanti ai primi
    Guidava all'ardua carica
    Contro Calatafimi e sul Volturno;

  Poi, rotta nel cimento
    La schiera e pur non doma,
    Cadea senza un lamento,
    Mal vendicata vittima
    Sul colle di Nomento in faccia a Roma.

  Nè alcun tendea la mano
    A mendicar mercede,
    Nè per voler sovrano,
    Nè per clamor di popolo
    Mentiva il capitano alla sua fede,

  Chè il duce ed il soldato
    Chiudevan ne' petti ardenti
    Il cor di Cincinnato
    E ai solchi ritornavano
    Del plauso non cercato assai contenti.

  Ed or che resta? O santo
    Sangue versato invano,
    O fior d'Italia, pianto
    Un dì con tante lagrime,
    Or ti mette all'incanto il pubblicano!

  O gloria unica al sole,
    Pura in tante vicende,
    Alla crescente prole
    Pura dovevi scendere
    E ti compra chi vuole e ti rivende!

  Tutto governa l'oro,
    Tutto è sottil garrito
    Di legulei nel foro
    E de' comizi il traffico
    Frutta come tesoro al più scaltrito.

  Il suo veleno occulto
    Ci mesce la menzogna
    E gli ebri, nel tumulto
    Dell'ira, si barattano
    La calunnia, l'insulto e la vergogna.

  Ahi, della prima schiera
    Non resta alcuno in vita?
    Dunque laggiù a Caprera
    Col biondo Cristo italico
    L'incolpevol bandiera è seppellita?

  Ah no! Sacra coorte,
    Per l'ultima battaglia
    Ti risparmiò la morte:
    Inerme e pur terribile
    Di Roma su le porte ancor ti scaglia.

  Non sangue essa ti chiede,
    Ma invoca i difensori.
    Schieratevi al suo piede,
    Voi forti, e proteggetela
    Con l'incorrotta fede e gli alti cuori.

  Trombe dal sonno scosse
    Sonate alla raccolta!
    Correte alle riscosse,
    Salvate voi la patria,
    Vecchie camicie rosse, un'altra volta!

  Alto il vessillo alzate
    De' traditori a fronte.....
    Ma voi, deh, riposate
    Nelle giberne lacere
    Cartucce non sparate all'Aspromonte!



  PRIMO MAGGIO MDCCCXCV


  Passano lenti. Un lampeggiar febbrile
    arde a ciascuno il ciglio.
  Passan solenni e da le dense file
    non si leva un bisbiglio.

  Toccandosi le mani ognun di loro
    cerca il vicin chi sia.
  Se i calli suoi non vi segnò il lavoro,
    quella è una man di spia.

  Sotto l'aspra fatica e il reo destino
    molti già son caduti,
  molti il carcer ne tiene od il confino,
    e pur sono cresciuti.

  Striscia il gran serpe de la folla oscura
    dei ricchi su le porte.
  Dentro, nello stupor de la paura,
    si ragiona di morte.

  Intanto il passo de la muta schiera
    allontanar si sente
  e nel silenzio de la fosca sera
    spegnersi lentamente.

  Ecco allora Epulon, vinto il terrore
    socchiude l'uscio e guata
  e dice: «lode a Crispi ed al Signore,
    anche questa è passata!»

     * * *

  È passata, ma invan te ne compiaci
    ne l'allegre parole.
  Son gli antichi rancor troppo tenaci
    per tramontar col sole.

  Nel ferreo pugno non hai più la plebe
    che serva un dì schernivi:
  germina l'odio da le pingui glebe
    che mieti e non coltivi.

  Ne le officine fumiganti e nere
    contro te si cospira:
  sotto la casa tua, ne le miniere,
    pronta allo scoppio è l'ira

  e mal ti gioverà crescer guardiani
    a le porte sbarrate;
  l'armi custodi del tuo aver, domani
    da chi saran portate?

  Chi ti difenderà domani, quando
    le turbe mal nudrite
  assedieranno le tue case, urlando:
    «è il primo maggio: aprite?»

  Oh, ben gli sguardi noi tendiam levati
    a l'avvenir fecondo
  e tu chini la fronte! I tuoi peccati
    hanno stancato il mondo.



  NOVEMBRE


  Addio sorrisi dell'albe rosate,
    Addio tramonti che d'oro parete!
    Novembre porta le tristi giornate
    E delle nebbie la bigia quïete!

  Gli uccelli migran in file serrate
    Cercando a volo contrade più liete,
    Ma noi restiamo, calcando immutate,
    Sul fango vecchio, le vie consuete.

  Restiamo e sempre le stesse infinite
    Noie e le stesse speranze remote
    C'infliggeranno le stesse ferite.

  Finchè abbassando le teste canute,
    Chinando al suolo le pallide gote,
    Qui marcirem come foglie cadute.



  MENTRE PARTONO


  Tu che aprendo il mercato alla menzogna
        Alto salir potesti
  E che senza pietà, senza vergogna,
        Vivo, di noi ridesti,

  Or nella tomba dormirai contento
        Buon vecchio di Stradella,
  Che accompagnar solevi al tradimento
        L'arte di Pulcinella.

  Dormi, buon vecchio, ormai dimenticato
        Dai servi e dai rivali
  E sogghigna se 'l puoi. T'han perdonato
        I morti di Dogali.

  A ben più grave e più feroce guerra
        L'Italia è condannata;
  Nuovo sangue latin beve la terra
        Dell'Eritrea bruciata.

  Nuove vittime ancor di rei consigli
        Cadran sull'arse arene
  E nuove madri cresceranno i figli
        Per ingrassar le iene!

  Lascia, scarno villan, lascia il sudato
        Solco a te non diviso.
  Tu non devi morir dove sei nato,
        Dove amor t'ha sorriso.

  La gentil civiltà de' tuoi signori
        Ti spinge alla battaglia.
  Va, povero villano, uccidi e muori.
        Dopo, avrai la medaglia.

  E mentre i legulei ti lauderanno
        Con sonanti parole,
  Oh, come l'ossa tue biancheggieranno
        Gloriosamente al sole!

  Sulla sabbia deserta e funerale
        Rotoleranno al vento,
  Ma in qualche trivio della Capitale
        Sorgerà un monumento.

  Su cui tra i bronzi falsi e le sculture
        Dell'arte a buon mercato
  Sarà il tuo nome, o buon villan, se pure
        Non l'han dimenticato.

  Piange intanto colei che la tua culla
         Vegliò amorosa e forte;
  Piange le tristi nozze una fanciulla,
         Le nozze con la morte.

  Ma il padre invece, al ciel rivolto il ciglio,
        Giunte le palme grame,
  Dice:--beato te povero figlio,
        Che non avrai più fame.--



  ALPINI


  Quando l'ora verrà, l'ora che deve
    Esser l'estrema che vedrete al mondo,
    Voi cercherete invan col moribondo
    Occhio l'alpe natìa, bianca di neve.

  E indarno de' ghiacciai la brezza lieve
    Ricercherete nell'ansar profondo.
    Oh, quanto lungi al labbro sitibondo
    Saran le fonti ove il camoscio beve!

  Ahimè, madri dolenti e fidanzate
    Dolenti, dite voi se questo è il santo
    Il giocondo avvenir che sognavate?

  Vanno all'inutil sacrificio e intanto
    Noi veneriam le vanità sfacciate
    Cui piacque il sangue loro e il vostro pianto!



  ULTIME NOTIZIE


  Le madri, nel tormento
    Crudel d'un dubbio arcano,
    Cercan con l'occhio intento
    Qualche speranza invano.

  Non sale un noto accento
    Dall'aspettante piano,
    Non una vela al vento
    Sul freddo mar lontano!

  Ed ecco, il messaggero
    Nunzio della fortuna
    Passa sul lor sentiero,

  E a lui chiede ciascuna,
    Bianca d'angoscia, il vero:
    «Che novità?»--«Nessuna!!»



  PISCICOLTURA


  Se un pesce grosso sparpagliò cambiali
    E non le ha mai pagate,
  O le pagò col voto, i suoi giornali
    Dicon: «cose private!»

  Se vende un gran cordon, poscia negato,
    E lo vende a un briccone,
  Son cose che riguardan l'avvocato,
    Cose di professione.

  Se il Codice Penal soffre gli sfregi
    De' suoi superbi sprezzi,
  Se fa comprare o vendere i Collegi,
    Sono pettegolezzi.

  Ma se un pesce piccin, stando digiuno
    Sente un po' d'appetito,
  Peggio poi se lo dice a qualcheduno,
    È subito ammonito.

  Se gli sembra che il secolo egoista
    Viva delle sue spoglie,
  Se incappa in qualche idea da socialista,
    San Stefano lo coglie.

  Se vede Bosco o De Felice in sogno,
    Se soffre e non dispera,
  Se ha visto il Lega fare il suo bisogno,
    In galera! in galera!



  SERMONE DI NATALE


  O Messia profetato ai sofferenti,
    Pietoso un dì consolator del mondo,
    Inutilmente ormai torni alle genti,
            Bambino biondo!

  Non è più il tempo in cui l'amor potea
    Illuminar le menti e incender l'alme,
    In cui per te Gerusalemme avea
            Osanna e palme.

  O dilettose al cor notti stellate
    De' colli galilei sui dolci clivi,
    Tra il canto delle donne innamorate,
            Sotto gli ulivi;

  O susurranti al sol gaie fontane,
    Di solinghi riposi allettatrici,
    Cui sale la canzon delle lontane
            Spigolatrici;

  O vigne d'Israel che i dolci frutti
    Maturaste all'umil schiera seguace,
    Voi non l'udrete più chieder per tutti
            Giustizia e pace!

  E tu, benigno, che a cercar scendevi
    L'agnel che si smarrì nella campagna
    E l'Evangelo dell'amor dicevi
            Sulla montagna,

  Guarda! Un'idolatria cauta e discreta
    Agli Apostoli tuoi cresce l'entrate.
    Pietro che ti negò, batte moneta;
            Tommaso è frate.

  Il sangue che grondò dalla tua croce
    Oggi feconda l'odio e non l'amore.
    Presso al complice altar veglia feroce
            L'inquisitore.

  L'astuta ipocrisia dell'egoismo
    Che la ragione all'util suo sommette,
    Distilla le bugie del catechismo
            Nelle scolette

  E nella Chiesa che chiamar non sdegna
    Santo l'inganno e la menzogna pia,
    Angelico Dottor, Barabba insegna
            Teologia.

  Perchè tornar se alla novella pena
    Oggi trarresti inutilmente il fianco?
    Più balsami non ha la Maddalena
           Pel rabbi stanco.

  Non si ricorda più d'averti amato,
    Ma, isterica romea, col bacio scende
    Al laido piè che, del tuo nome ornato,
           Caifa le stende:

  E colei che chiamar madre ti piacque
    E nel sepolcro il corpo tuo compose,
    Or vezzeggia i clienti e vende l'acque
           Miracolose.

  Fuggì, foggi da noi, bambino biondo:
    Torna piangendo dal presépe al cielo.
    Il Sillabo di Pio cacciò dal mondo
           Il tuo Vangelo.

  Dall'avarizia vinta e dal peccato
    La tua fede morì povera e nuda.
    Oggi nel nome tuo regna Pilato,
           Governa Giuda.



  ALLE MADRI

  _Dedicato
  ad Anna E......._


  Madri, lo ricordate il dì sereno
    In cui d'amore il pegno
  La prima volta nel fecondo seno
    Vi diè di vita un segno?

  Con che orgoglio gentil del grembo incinto
    Allor vi compiaceste!
  Come la culla col materno istinto
    Morbida gli faceste!

  E poi che al suo vagir tacque il dolore
    Del fianco insanguinato,
  Con che speranze, o madri, e con che cuore
    Benediceste il nato

  E nutrito di voi lo riscaldaste
    Stringendolo sul petto,
  E se morte il ghermìa, glielo strappaste
    Col prepotente affetto!

  Lo cresceste così, biondo fanciullo,
    Sovra i fidi ginocchi,
  Vegliando il primo passo e il suo trastullo
    Con l'anima negli occhi

  E speraste veder l'ore supreme
    In braccio a lui più liete....
  Quanto amor, quanti baci e quanta speme,
    O madri che piangete!

  Ed ora? I vostri figli a mille a mille
    Cadder lungi da voi
  Perchè un ladro impazzito e un imbecille
    Si son creduti eroi.

  E vi tentano ancor, gli scellerati,
    Con le astute parole,
  Ma i cadaveri nudi e mutilati
    Si putrefanno al sole,

  Ma già dai loro immondi antri, le iene
    Calando irsute e scarne,
  Leccano il sangue de le vostre vene,
    Straccian la vostra carne!

  E il delitto cadrà nel grave oblio
    In che omai tutto langue?
  No, levatevi voi, donne, perdio,
    Raccogliete quel sangue,

  Gettatelo ululanti e scapigliate
    Dei colpevoli in faccia;
  Quando il giorno verrà, non dubitate,
    Ne troverem la traccia;

  E dite agli altri, o neghittosi, o incerti,
    «Pietà di noi vi prenda!
  La nostra patria è qui, non nei deserti
    Dell'Abissinia orrenda!

  Pietà, chiediam pietà, madri dolenti,
    Figlie, sorelle, spose;
  Pietà, per gl'insepolti e pei morenti
    Su l'ambe sanguinose!

  Non tolga vite ai campi, a le officine,
    La conquista rapace.
  La nostra patria è qui. Datele alfine
    La giustizia e la pace!»

  Dite così. Ma se domani ancora
    Tripudieranno i ladri
  E moriranno gl'innocenti, allora,
    O dolorose madri,

  Non porgete più latte al mite Abele
    Che s'acconcia al destino,
  Ma raccogliete ne le poppe il fiele
    Per allevar Caino.



  AGLI EROISSIMI


  Giusti della fallita Apocalissi,
    Marci Porci Catoni, in questo errai
    Che delle birberie forse ne scrissi,
            Ma non ne feci mai.

  Oh se n'avessi fatto, e lo potevo,
    Di che frasche m'avreste incoronata!
    Un'abiura e tra i grandi anch'io sedevo,
            Illustre deplorata!

  Ma l'arte di lustrar le scarpe ai ladri
    Curvando il dorso, mi negò natura;
    Perciò gridate che incitai le madri
            A strillar di paura.

  Chi parla di viltà? Chi con gagliarde
    Frasi, dopo il caffè, facil tribuno,
    Povere donne, vi chiamò codarde
            Perchè vestite a bruno?

  Chi fumando in poltrona, empie i giornali
    Di vendette, di stragi e di rovine,
    Da la ciambella moderando l'ali
            Dell'aquile latine?

  Chi dei debiti nuovi alla conquista
    Le apostrofi all'onor guida in falange
    E soggioga lo Scioa dal liquorista,
            Insultando chi piange?

  Ah, siete voi? Salute o ben pensanti,
    In cui l'onor s'imbotta e si travasa;
    Ma dite un po', perchè gridate «avanti!»
            E poi restate a casa?

  Perchè, lungi dai colpi e dai conflitti,
    Comodamente d'ingrassar soffrite,
    Baritonando ai poveri coscritti
            «Armiamoci e partite?»

  Partite voi, se generoso il core
    Sotto al pingue torace il ciel vi diede.
    O Baiardi, è laggiù dove si muore
            Che il coraggio si vede,

  Non quì, tra le balorde zitellone,
    Madri spartane di robuste prose,
    Che chieggon morti per compor corone
            D'alloro, ahi, non di rose!

  Ma no, non partirete! A questi tempi,
    Se dovesse mancar «la parte sana,»
    Chi resterebbe a predicar gli'esempi
            Della virtù romana?

  Chi resterebbe a consolar coi detti
    Le vedove beltà che il bruno adorna?
    Chi li farebbe i brindisi ai banchetti
            Per chi parte o chi torna?

  Ah, forti Aiaci della guerra a fondo,
    Ussari della morte, ah, non tentate
    D'uscir di qui per conquistare il mondo,
            Perchè, se ve ne andate,

  Forse la vigna che godeste voi
    Fruttar potrebbe ad operai più scaltri...
    No, restate, restate a far gli eroi
           Con la pelle degli altri!



  QUANDO IL MUNICIPIO DI BOLOGNA
  FESTEGGIÒ LA B.V. DI S. LUCA
  ESPONENDO I CENCI ANTICHI
  PER INVITO DEI CLERICALI
  MASCHI E FEMINE


  Dicono--Gesù mio, quanto schiamazzo
    Per due vecchi tappeti!
  Nemmen se ritornassero in Palazzo
    Gli Svizzeri ed i preti!

  I contadini a non vederli esporre
    Ci credevan birbanti;
  Sono elettori anch'essi e quando occorre
    Votan pei ben pensanti.

  Che v'importan quei cenci o i _Credi_ fatti
    Recitar nelle scuole?
  Siam liberali. Non badate agli atti,
    Badate alle parole.

  Rispondono--I tappeti alla ringhiera
    Non son stracci e cimosa;
  Cencio di pochi palmi è una bandiera,
    Ma vuol dir qualche cosa.

  O le liste da chi furono empiute
    E da chi consigliate?
  Voi ci diceste; non le abbiam vedute:
    E pur lo sapevate!

  Confessatelo, via, siate leali,
    Poichè non siete scaltri:
  Voi pascete di fumo i liberali
    E d'arrosto.... quegli altri.

  Ma v'è chi dice--Ecco, Bisanzio ancora
    Con le ciarle si regge
  Dei cento legulei della malora
    Che gli falsan la legge.

  Lasciamoli cianciar del più e del meno,
    Lasciamoli garrire;
  Noi guardiamo più in alto, ad un sereno,
    Ad un santo avvenire.

  Noi guardiamo più in alto e questa bassa
    Miseria non ci tange.
  Con ben altra eloquenza il cor ci passa
    La voce di chi piange!

  Ma quando il pianto cesserà e verranno
    Ben altre feste, allora
  Quelle coltri lassù, riscalderanno
    Il letto a chi lavora.



  L'IDILLIO DI ORLANDO

        Che non può far d'un cor ch'abbia soggetto
        Questo crudele e traditore Amore,
        Poichè ad Orlando può levar dal petto
        La tanta fè che debbe al suo Signore!
          ARIOSTO, Orl. Fur. C. IX, I.


  Apparia tremolando all'orizzonte
    La tenue luce della nuova aurora
    E la vaghezza delle rosee impronte
    Crescea più viva coll'andar dell'ora,
    Quando, sul fido Brigliadoro, il Conte
    Uscì pensoso di Baldacco fuora
    E d'ignoti sentier sull'erba molle
    Lentamente discese il verde colle.

  Come giovine sposa, allor che il sole
    Fra le cortine del balcon s'affaccia
    Lascia lenta le coltri e volger suole
    Al conscio letto con desìo la faccia,
    Ma, rivestita poi, non più si duole
    Rimemorando i baci e il sonno scaccia,
    Indi lieta intrecciando il crin disciolto
    Canta allo specchio e amor le ride in volto.

  La natura così malvolentieri
    Dai notturni riposi uscir parea
    Semivelata dai vapor leggeri
    Che lenta l'aura del mattiti movea,
    Ma poi ridesta e de' color primieri
    Rifiorendo col dì, tutta fremea
    In un gaudio fecondo, in una ebbrezza
    Di gioventù, d'amore e di bellezza.

  Non sgomentati del cavallo ai passi
    L'inno di gioia ripetean gli augelli,
    Pareano susurrar tra l'erbe e i sassi
    Giocondi epitalami anche i ruscelli.
    E i caprifogli penduti dai massi,
    Scotendo i rami a guisa di capelli,
    Gocciavan perle di sottil rugiada
    Sulle nozze de' fior lungo la strada.

  Nel tripudio d'amor ringiovanita
    La pianura parea tutta un giardino
    Che vaporasse tepida e squisita
    La fragranza de' fiori al ciel turchino,
    Sì che pien di desìo, gonfio di vita,
    S'apriva il chiuso cor del Paladino
    E conquisa cedea l'anima fiera
    Alle lusinghe della primavera.

  Dimenticò Re Carlo e i suoi baroni
    E il santo gonfalon del fiordaliso,
    I giganti, le fate e gli stregoni,
    Gano schernito ed Agramante ucciso.
    Dimenticò gli assalti e le tenzoni
    Tra lo stuol battezzato e il circonciso
    E vide col pensier mille rosate
    Imagini di donne innamorate.

  Rivide Olimpia, offerta all'esecrando
    Mostro, chieder mercè nuda e tremante
    E passar sorridendo e sospirando
    Fiordispina, Isabella e Bradamante.
    Vide Marfisa non curar pugnando
    Le salde nudità del petto ansante
    E d'Angelica sua gli occhi procaci
    Languir di gaudio di Medoro ai baci.

  Allor si sentì solo e in cor gli scese
    Gelida un'onda di malinconia,
    Tal che a se stesso dubitando chiese
    Se la gloria non fosse una pazzia;
    Ed una voce in fondo al core intese
    Dirgli: «che val la tua cavalleria
    »Che valgon le tue gesta e il tuo valore
    »Senza un bacio di donna e senza amore?»

  Discendeva così fantasticando
    Intorno a questa sua doglia novella,
    E sospirava fieramente, quando
    Vide dal bosco uscire una donzella
    Che raccogliendo fior venìa cantando
    Soavemente e la persona bella
    Di tal vivo desìo lo prese e punse
    Che spronò Brigliadoro e la raggiunse.

  Si trasse l'elmo, dall'arcion si sporse
    E con voce tremante amor le chiese.
    Lentamente a mirarlo il viso torse
    La giovinetta ed a sorrider prese.
    L'occhio le scintillò, ma quando scorse
    La croce sull'usbergo e sul palvese,
    La scintilla si spense ed il sorriso
    Subitamente le sparì dal viso.

  E disse: «Cavalier, tu porti in petto
    Del Dio che adori il segno e la dottrina
    Tu segui Gesù Cristo, io Maometto;
    Tu sei di stirpe Franca, io Saracina;
    Io cingo fiori al capo e tu l'elmetto,
    Tu sei nato possente ed io tapina;
    Vanne e ti basti sol ch'io ti confessi
    Che t'amerei se tu a Macon credessi.»

  Eh, come lieti tra le verdi fronde
    Cantavano gli augelli i novi amori,
    Come all'aura d'april le rubiconde
    Corolle aprivan tripudiando i fiori,
    Come splendeano al sol le chiome bionde,
    Come ridevan gli occhi incantatori,
    Allor che il Paladin vinto si diede
    E per un bacio rinnegò la fede!



  AI REDUCI DALLO SCIOA


  Quando spuntar vedrete a l'orizzonte
    Questo suol benedetto e sospirato
    E la brezza natia su l'arsa fronte
    Il bacio vi darà del ben tornato;

  Quando in folla calar vedrete al lido
    I cari vostri a salutar le prore
    E il dolce vento de la patria, il grido
    Vi porterà de l'aspettante amore;

  Quando nel cor di rimembranze pieno
    L'impeto cesserà de la tempesta
    E, consolati, sul materno seno
    Riposerete alfin la stanca testa;

  Se vi parrà d'udir fioco un lamento
    Che seco il pianto e la tristezza porti
    Ascoltatelo pur senza sgomento;
    «Quella è la voce dei compagni morti

  Che dice:--«All'avvenir sorridevamo
    Quando il destino ci portò con lui
    Ed ecco che con voi non ritorniamo,
    Noi mal sepolti ne la terra altrui.

  Ma, dite, la giustizia alzò il flagello
    Su gli eroi da poltrona e i paladini?
    Chi come bestie ci cacciò al macello,
    Il supplizio subì degli assassini?--»

  Voi rispondete:--«Ahimè, dormite in pace
    Del triste campo nel silenzio enorme!
    Qui dei delitti la memoria tace,
    Qui stipendiata la giustizia dorme.

  Sovra i tumuli vostri erra feroce
    La iena e ne la notte urla il leone,
    Ma gli eroi da poltrona hanno la croce
    E gli assassini vostri han la pensione».



  NOTTE D'AUTUNNO


  Infuria il vento e nella bieca notte
      Fredda la piova incalza.
  L'acqua che stroscia dalle gronde rotte
      Sui ciottoli rimbalza.

  Entro l'oscurità profonda e vuota
      Delle vie taciturne
  Guizzan, specchiate nell'immonda mota,
      Le fiammelle notturne

  E nel sordido fango e nel pattume
      Putrefatto del suolo,
  Miserabile spettro, agita il lume
      E fruga il ciccaiolo.

  Quand'ecco dal silenzio esce lontano
      Scalpito d'una rozza
  E tra la pioggia, il vento ed il pantano,
      Appare una carrozza

  Che in un dirugginìo di chiavistelli
      Trabalza oscenamente,
  Col profilo dei birri agli sportelli
      E le lanterne spente.

  E il ciccaiol che vive razzolando
      Nel brago e nel fetore,
  Sente lo schifo e brontola sputando:
      «Passa un commendatore!»



  IL MIO CUORE


  Il mio cuore è uno scrigno di velluto
    Che con sette sigilli è sigillato,
    Molti voller saperne il contenuto,
    Ma nessuno finor l'ha indovinato.

  Lungamente il segreto ho mantenuto
    E, il labbro come il cor tenni serrato,
    Ma più a lungo tacer non ho potuto
    Ed i sette sigilli ho lacerato.

  Sappiate dunque che nel cor segreto
    Chiudo i ricordi del tempo remoto,
    I fiori secchi dell'april mio lieto,

  Fra cui quest'oggi, per gentile invito,
    Scesi a frugar con l'animo devoto
    Per cavarne un sonetto impallidito;

  Un povero sonetto impallidito,
    Fior dell'anima mia morto e seccato,
    Che tra le foglie sue reca smarrito
    Come un lontano odor del mio passato,

  Come un ricordo vago e scolorito,
    Un'eco lieve del tempo beato,
    Un rimpianto profondo ed infinito
    Di tutto quel che in giovinezza ho amato.

  Ed ecco che il sonetto esce discreto
    Da la prigion dove dormiva ignoto
    E rivede tremando il mondo lieto.

  Va dunque, o mesto fior da me cresciuto,
    Porta a chi m'ama del mio core il voto,
    Ed a chi m'odia porta il mio saluto.



  PARLA IL LIBRO


  Son la fontana che nasce sui monti
    Limpida e gaia tra i sassi sonanti,
    Fresco ristoro di greggi vaganti,
    Vergine ancora di mura e di ponti

  E che, ingrossata da torbide fonti,
    Bagna e feconda le valli aspettanti,
    Poi, ferma in larghe paludi stagnanti,
    Vapora febbri nei grigi tramonti;

  Indi travolta a città pestilenti,
    Livida inghiotte le salme dei vinti
    E scalza e scuote le reggie possenti,

  Finchè, gli spazi del mare raggiunti,
    Tra i flutti eterni dal vento sospinti
    Si perde e gode l'oblio dei defunti.



  COMMIATO


      Secoletto borghese,
  Ecco il libro finì. Chiudilo in pace,
      Degno di te lo rese
  Quell'arte che ti meriti e ti piace.



  INDICE


  PREFAZIONE, vii


  LIBRO PRIMO--LE CRETINE

  Si descrive un vago desio
  La ballata del Re Moro
  Sonetto contro un anonimo che ci fece la burla del telegramma
  Si descrive un temporale nel deserto
  La mia ghirlanda poetica
  La battaglia di Sadova
  Si duole di essere abbandonata dall'amante
  La romanza del paggio
  Risurrezione
  Il lamento del prigioniero
  Pianto della chiesa bolognese senza pastore
  Tempesta in mare
  Per la caduta di Palamidone
  Alla poetessa Argia Sbolenfi (Proposta)
  A Edra Coprodite, pastore arcade (Risposta)
  Si compiace delle prossime nozze
  Egloga
  Si scusa per avergli mostrato poco rispetto
  Sfogo contro colui
  Ave Crux
  L'apparizione
  In disprezzo dì uno spasimante
  Confida le sue pene alla Beata Vergine
  In dispregio della immonda rana
  Favolette morali
  II gentil cavaliero
  ¡Pobre Carlos!
  La risposta della figlia maledetta
  Si descrive una rustica cappella
  Inno al salame
  Lamento


  LIBRO SECONDO--LE DECADENTI

  Anacreontica
  L'alba
  In mare
  La capretta
  In bicicletta
  Ad un orologio guasto
  A lui
  È vero!
  Affetti di una pellegrina all'augusto vegliardo
  La ballata del cavalier discortese
  Sonetti mitologici
  La rovina del Sasso
  Sonetto
  Al mio destriero
  Ode farmaceutica
  Ode ostetrica
  KLYSO
  Hunyadi Jànos
  Nel bagno (Ode)
  A un vaso nuovo di porcellana Ginori
  Ai colleghi
  «Nascituro»
  Al vescovo di Seboim
  «En rev'nant d' la revue»
  Le elezioni di Milano (1895)
  _Deo crepitvi sacrvm_
  Fantasia egiziana
  Le visite del Cardinale
  Sambvci
  A Venere genitrice
  Il primo capello bianco
  Sonetti decadenti
  Morbvs
  Elezioni
  Dopo il plico
  Da capo,
  Primo Maggio MDCCCXCV
  Novembre
  Mentre partono
  Alpini
  Ultime notizie
  Piscicoltura
  Sermone di Natale
  Alle madri
  Agli eroissimi
  Coltrici festive
  L'idillio di Orlando
  Ai reduci dallo Scioa
  Notte d'autunno
  Il mio cuore
  Parla il libro
  Commiato



  Finito di stampare
  il dì XXIV Dicembre MDCCCXCVIII
  nella tipografia dei Successori Monti
  in Bologna





*** End of this LibraryBlog Digital Book "Rime di Argia Sbolenfi - con prefazione di Lorenzo Stecchetti" ***

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