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Title: L'Amuleto
Author: Neera, 1846-1918
Language: Italian
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(This file was produced from images generously made
available by Biblioteca Nazionale Braidense - Milano at
http://www.braidense.it/dire.html)



  MILANO, MDCCCXCVII


  L'AMULETO


  ROMANZO
  DI
  NEERA


  MILANO
  L. F. COGLIATI, Editore
  1897.



  Tip. Editr, L. F. Cogliati
  Sezione nel Pio Istituto pei Figli della Provvidenza
  Piazza Filangieri, 3.


  Diritti di traduzione riservati all'autore



L'AMULETO



Quando morì carico d'anni e d'onori il generale Maurizio di Rocca
Tournion, un piemontese di vecchia razza che aveva fatte le sue prime
armi in Crimea e diventò poi tanto celebre nelle guerre fortunose
della nostra indipendenza, i suoi eredi che erano parenti lontani, si
divisero le suppellettili del suo piccolo appartamento da scapolo. Ad
uno di essi toccò fra le altre cose un astuccio di una forma bizzarra
in cuoio lavorato, evidente provenienza di qualche bazar di Oriente.
L'astuccio era largo poco più di un palmo, chiuso con un cordoncino di
seta stinta ed emanava un profumo misto di essenza di rosa e di
tabacco fino. In un angolo dove gli arabeschi del cuoio avevano
lasciato un breve spazio, erano state impresse a secco due spade
incrociate sormontate da una rosa. Fra il raso della fodera c'era un
manoscritto, un centinaio di foglietti di carta sottile, resistente,
coperti con una di quelle calligrafie nervose non larghe nè alte come
porta oggi la moda, ma spezzate, minute, eppure non prive di una
intima eleganza che noi dobbiamo cercare, per farcene una idea, nelle
lettere delle nostre bisavole. Il testo era in francese. Poche note a
matita traversavano i margini--scritte queste dalla mano pesante del
generale. Del generale era pure un foglio congiunto al manoscritto a
guisa di prefazione e di schiarimento; prova che il defunto ci teneva
e che se avesse pensato a fare testamento, il misterioso manoscritto
avrebbe avuto probabilmente una destinazione diversa che non quella di
cadere sotto gli occhi del pubblico.

Ma ecco senz'altro le parole del generale. "Avevo vent'anni. Sotto le
mura di Sebastopoli la vita andava con un treno d'inferno: guerra,
gioco e vino. Ci si coricava senza sapere se al domani si avrebbe
potuto fare lo stesso, incerti d'ogni ora, d'ogni minuto, avendo la
morte sulla soglia e bivaccando nelle nostre tende con una
spensieratezza fatalistica per cui qualcuno di noi perdeva in una
notte metà della sua sostanza. Nessuno pensava all'avvenire. La punta
delle nostre baionette, la bocca dei nostri cannoni, tutto era lì. Il
mio capitano salutava sempre l'alba con queste parole: Buon giorno,
madama Morte, è oggi che mi prendi?

"Io non ricordo nella mia vita un tempo più pazzo e più eroico di
quello.

"Un giorno, in un periodo di tregua, il pranzo che ci accolse tutti
insieme per festeggiare l'onomastico del nostro colonnello prese,
dalla solennità della circostanza e dal momentaneo riposo, un
carattere di ricevimento mondano che fece penetrare sotto la tenda un
soffio della patria lontana, delle nostre famiglie, delle abitudini
care e signorili della nostra infanzia. C'era un mazzo di fiori sulla
tavola, se non mi sbaglio; ma quello di cui sono sicuro, è che un
sottotenente lesse dei versi. Avendo perduto la sera prima fino al mio
ultimo soldo mi trovavo nella migliore disposizione per fare dei
brindisi e non a parole soltanto.

"Col crescere dell'allegria i discorsi si portarono sulle donne. Io,
avendo già molto brindato alla salute del colonnello, mi trovavo
sprovvisto di argomenti sentimentali e inforcai lì per lì un tema
sulla inferiorità della donna sostenendo che non sa amare se non in un
modo meschino, gretto e privo di poesia. Lanciai anche con molta
energia e discreta fortuna alcuni aforismi di questo genere: L'amore
della donna è come la spuma dello sciampagna, se non si beve subito
ricade sul piede del calice. La donna non ama che per vanità, per
trovare una conferma della sua bellezza. La donna ecc. ecc.

"Ero all'apice de' miei trionfi oratori, quando mi accorsi di un
personaggio che non avevo visto prima; me ne accorsi per la profonda
tenacia dello sguardo che teneva fisso su di me, con una espressione
inquietante, dove si poteva leggere tanto la disapprovazione quanto
una non celata simpatia. E veniva quello sguardo dagli strani occhi
bizantini, pieni di mistero, nerissimi, di un vecchio aitante nella
persona, altero nel portamento, con una occulta sovranità di pensiero
che si tradiva nel gesto regale, nella maestà tranquilla degli atti,
nel corruscare delle pupille.

"Domandai al mio vicino chi fosse quell'ignoto commensale, ma non me
lo seppe dire o lo dimenticai. In realtà dimenticai molte altre cose
di quel pranzo memorabile. Dopo il cognac noi giovani formammo un
gruppo a parte e quando mi mossi non vidi più al suo posto il vecchio
dagli occhi nerissimi; tuttavia, forse per una allucinazione della mia
mente esaltata, mi pareva che qualche cosa di luminoso fosse rimasto
al di sopra del suo posto vuoto.

"Il giorno dopo stavo fuori della tenda, non ancora perfettamente
snebbiato dai fumi della sera prima ed ero malinconico. Pensavo a mia
madre; mi pareva di vederla nella sua poltrona di velluto verde, così
bella ancora e così interessante nel suo pallore di donna delicata,
volti il cuore e la mente all'unico figlio che adorava e che si
trovava tanto lontano. Per la prima volta la morte mi si presentò
sotto il suo terribile aspetto di divisione eterna. Potevo morire
senz'aver riveduto mia madre, e lasciarla sola nel mondo, sola a
piangermi! Tenevo il gomito appoggiato sul ginocchio e la fronte sulla
mano, per cui non Lo vidi avvicinarsi, ma Egli mi raggiunse, e mi
toccò sulla spalla--Egli, il vecchio.

"La stessa espressione di rimprovero triste e dolce stava sul suo
volto. Mi alzai di botto, quasi obbligato a mettermi in una attitudine
di rispetto davanti a quell'uomo singolare.

"--Fanciullo--Egli disse con voce tenera e grave--ieri voi avete
bestemmiato.

"--È vero,--risposi, chinando la testa perchè nel ricordare i discorsi
del giorno prima sentivo salirmi una vampa di rossore.

"Il vecchio sempre tenero e grave, senza mostrare di accorgersi del
mio turbamento, soggiunse:

"--Siete così giovane!

"Queste erano le parole di mia madre. Sì; ella pronunciava spesso le
identiche parole passandomi nei capelli la sua mano sottile. In quel
momento, già disposto dai pensieri precedenti, ebbi un brivido. Non ho
vergogna a confessarlo; ero commosso, come preso nella rete di un
fascino sopranaturale.

"--Pensate a vostra madre?--soggiunse Egli con una penetrazione che
già non mi meravigliava più.--È in suo nome che vi prego di accettare
questo ricordo. Nei nostri paesi si crede ancora alla virtù degli
amuleti.

"Mi porse il piccolo astuccio di cuoio contenente il piccolo
manoscritto; e siccome io guardavo dubbioso ora il dono ed ora il
donatore, disse:

"--La storia che leggerete in questo manoscritto è assolutamente vera.
Non mi chiedete il nome dei personaggi, nè il luogo, nè il tempo;
questo non vi occorre. Occorre a voi sapere che in tal modo amò una
donna.

"Pronunciate queste ultime parole si allontanò così rapidamente che
non potei soggiungere nulla e rimasi col curioso amuleto tra le mani,
ricordo materiale di una avventura che altrimenti mi sarebbe parsa un
sogno. Aspettai invano di rivedere il misterioso vecchio. Il giorno
seguente si riprese l'attacco della fortezza e non pensai più a lui,
cacciando l'astuccio di cuoio in fondo al bagaglio.

"La prima persona che lesse l'anonima storia raccolta in questi fogli
fu mia madre. Io la posi sul suo grembo il giorno del mio ritorno ed
ella mi disse poi che ne era rimasta molto colpita e commossa. Si
fecero insieme delle induzioni, ma senza poter stabilire precisamente
nulla, nè sulle persone, nè sui luoghi, nè sul tempo. Dopo tutto il
vecchio aveva ragione. Che cosa importa?"



Il Manoscritto


So il mese--era febbraio--e la giornata:--una giornata splendida--e
l'ora. Era l'ora in cui il mio salotto divampa così stranamente colle
sue cortine di seta rossa di contro al sole e i mobili cupi, quasi
austeri, sembrano animarsi di un occulto ardore in quella atmosfera di
fiamma.

Mi trovavo in piedi accomodando dei fiori in un vaso; il mio piccolo
Alessio, seduto sul tappeto cantarellava colla sua vocetta tanto
commovente:

    M'alzo col sole della mattina,
    mando una prece dal core a Dio.

--Alessio--gli dissi--sta zitto un momento; mi sembra di aver udito
dei passi.

--Sarà Pietro.

--No, non credo che sia Pietro. Aspetto nostro cugino, sai, il signore
della Querciaia. Sarai gentile con lui, nevvero?

--Mi piace la Querciaia--riprese il mio bambino--perchè vi sono tanti
uccelletti sulle piante.

In quel momento Pietro sollevò la portiera e Lo introdusse.

Questo mio parente non lo avevo mai veduto. Egli era stato prima in
collegio, poi all'estero; ricordavo sua madre morta l'anno prima e che
era una angelica creatura, ma di lui non avevo mai visto neppure un
ritratto. Solo mi era giunta la fama del suo ingegno ed era questo che
mi preoccupava un poco. Abituata ad una esistenza meschina, sempre
sola col mio bimbo, con Pietro e colla vecchia Orsola, lontana da
qualsiasi centro intellettuale, da qualsiasi parvenza di società, che
cosa avrei detto a questo giovane culto e distinto?

Per fortuna, siccome mi trovavo già in piedi a mezzo del salotto, non
fui molto impacciata nello stendergli la mano e Alessio che si alzò
subito e venne a nascondersi fra le mie gonne mi fornì l'argomento del
discorso.

Così di primo acchito non posso dire che mi fosse riuscito nè
simpatico nè antipatico, ma certo mi parve non comune e guardandolo
bene lo trovai bello di una bellezza fiera e delicata insieme.

Egli pure mi guardò senza spavalderia con un'attenzione minuziosa e
seria.

Di mio marito non disse una sola parola. Sapeva senza dubbio che egli
viveva quasi sempre lontano da me, ma avrebbe potuto chiedermi sue
notizie; almeno mi parve che dovesse farlo. Mi domandò invece come
passavo il mio tempo e se leggevo. Leggere? Ciò mi sorprese un poco.
In realtà guardandomi attorno, non vedevo alcun libro nel mio salotto.
Mio marito aveva dei libri nella sua camera, ma non mi ero mai
interessata di sapere che cosa fossero. Gli dissi che Alessio mi
occupava molto, che cucivo tutti i suoi abiti e coltivavo anche
discretamente i fiori del mio giardino; poi facevo i conti di casa con
Pietro e ripassavo la guardaroba insieme all'Orsola.

--Tutta la vostra vita è qui?--chiese Egli con un accento che mi parve
racchiudesse un recondito disprezzo.

--Ho anche i miei poveri.

--Ah!

Dopo questa esclamazione fatta in tono reciso e freddo comprese forse
di aver sbagliato, perchè si affrettò a dirmi qualche cosa di gentile,
chinandosi ad accarezzare il mio bambino.

--Vicini non ne abbiamo, nevvero?

--No. I soli vicini siamo noi due.

Sorrisi dicendo così ed Egli pure sorrise rivelandomi una espressione
nuova del suo volto e della sua anima. In quel momento non sentii più
soggezione e mi sembrò allora che egli fosse proprio mio parente.

--Siamo i soli vicini di campagna, e siamo anche i soli nella
famiglia. Ci deve ben essere qualcun'altro, uno zio, credo?...

--Sì, che ha fatto un cattivo matrimonio. Sua moglie si è comportata
molto male con noi. È una donna ambiziosa e invidiosa; fa apposta a
venire nella nostra chiesa alla domenica per umiliarci e per
costringerci a cederle il banco che....

--Di grazia, lasciamo queste volgarità. Cara cugina, nè a me nè a voi
non devono interessare affatto. Vi pare?

Arrossii a queste parole, rammentando quante volte avevo tenuto quel
discorso con Orsola. Egli ebbe il buon gusto di non accorgersene e
gliene fui immensamente grata.

Poi incominciò a parlare de' suoi viaggi. Siccome io ne presi
occasione per deplorare la mia vita solitaria dicendo che nei viaggi
si imparano molte cose, Egli soggiunse:

--Le sole cose necessarie a sapersi si possono imparare in qualunque
solitudine. I viaggi aggiungono certamente qualche dote allo spirito
ma non è l'importante. L'importante è sempre dentro di noi.

Anche questo mi sorprese. Io non mi sarei mai immaginata che un uomo
della buona società osasse contraddire così apertamente una signora
alla sua prima visita.

--Resterete per un po' di tempo alla Querciaia?

--Per molto tempo. Potrò anche stabilirmivi se per esempio trovassi
una donna ideale, una moglie degna di me.

Spalancai gli occhi senza dir nulla, ed Egli soggiunse con quel suo
sorriso che rendeva dolce qualsiasi parola, come se vi gettasse sopra
una luce:

--Vi sembro orgoglioso? ma bisogna essere orgogliosi, è il principio
di tutte le virtù.

--Ho sempre inteso dire il contrario. È l'umiltà che è virtù.

--Errore, errore.

Si accorse di avermi scandalizzata e disse subito:

--Noi dobbiamo almeno conoscere le nostre forze, di questo converrete;
sopratutto quando si tratta di scegliere il compagno o la compagna
della intera vita. Vi sembra bella l'umiltà che ci fa accettare un
essere indegno di noi, nostro inferiore, che ci darà dei figli dei
quali forse dovremo arrossire?

Guardai con angoscia il mio Alessio, tanto bello e tanto buono. Il
piccolo amore, essendosi accorto del mio sguardo pieno di tenerezza e
di terrore, mi tese i suoi braccini ed io me lo strinsi al seno con un
impeto straordinario.

--È carino questo fanciullo--disse Egli posandogli una mano sulla
testa--ma ecco che i vostri occhi scintillano di orgoglio materno;
cara cugina, non avete paura di far peccato?

Avevo voglia di ridere e di piangere insieme. Mi sentivo un gruppo
alla gola e un formicolio nelle vene, come se vi si fosse infiltrato
un licore nuovo.

--Del resto--mormorò crollando il capo, quasi rispondendo a un
invisibile interlocutore--è naturale che sia così.

--Voi dovete giudicarmi molto sciocca e molto semplice.

--Semplice sì, sciocca no.

Come mai questa asserzione che non conteneva il più lontano
complimento, che era appena educata e niente più, mi riempì di uno
strano giubilo? Avevo forse bisogno che venisse lui ad assicurarmi che
non ero sciocca? A buon conto ripresi:

--Ma le persone semplici non vi devono piacere molto.

--Avete ragione, non molto.

--Grazie.

--Non c'è di che. Vi ho voluto dimostrare i pericoli della semplicità.
Potete immaginarvi che io mi lasci sfuggire nessuna occasione per
insegnare quel poco che so alle persone che mi interessano?

--Ma io--risposi prontamente--mi rifiuto a ispirarvi il benchè minimo
interesse.

--Ciò non sta in voi.

--E perchè?

--Perchè la simpatia è affatto libera. Vi è permesso di chiudermi la
vostra porta (mi darete anzi a questo proposito i vostri ordini
formali) ma non potete impedirmi di pensare a voi e di adoperarmi per
il vostro bene.

--Mi sembrate un originale.

--E sia. Vedete che non mi offendo. È già un buon principio per
restare amici.

--Io, se dovessi avere un amico vorrei che fosse principalmente buono
e poi affezionato, devoto e compiacente anche, disposto a sopportare i
miei difetti--perchè non è questo il maggior pregio dell'amicizia:
compatirci reciprocamente?

--Ho il dispiacere di dovervi contraddire ancora. Direte che la colpa
è mia, ma ciò non mi impedirà di pensare che è vostra. Cara cugina,
avete delle idee orribilmente tarlate. Pare impossibile che una così
graziosa testolina racchiuda un simile museo di ferravecchi.

--Come? La bontà, la devozione, la fedeltà, la tolleranza, la
compiacenza...

--...la gentilezza, la pazienza e aggiungiamone pure ancora una mezza
dozzina, delle vostre virtù, vedete che le conosco; ebbene non sono
queste le qualità della vostra cameriera (come si chiama? Brigida,
mettiamo) e di quell'ottimo Pietro che venne ad aprirmi l'uscio e che
si ricorda di avermi visto piccino?

--Orsola e Pietro--esclamai quasi ferita da quella punta di ironia che
sembrava colpire queste mie vecchie affezioni--sono certamente le
migliori persone che io conosca.

--Ve l'ho forse negato? Piacciavi rammentare che sono stato
precisamente io a caricarli di tutta quella corona di virtù, è vero o
no?

--E allora?

--Allora torniamo all'argomento. Voi desiderate nell'amico le stesse
qualità dei vostri servitori?

--Le qualità appartengono indistintamente a tutti.

--Abbiate pazienza e rispondetemi categoricamente. Desiderate
nell'amico le qualità di Orsola e di Pietro?

--Perchè no?

--Dunque sì?

--Ebbene sì.

--Ebbene no, no, no! Comprendo, badate, comprendo benissimo che la
devozione, la bontà, la tolleranza possano essere il maggior risultato
nei rapporti tra servitori e padroni; che ad ogni modo questi ultimi
debbano apprezzarli assai, ma io chiedo ben altro al sentimento che
riunisce due esseri eguali, senza scopo di lucro nè di interesse. Dove
sarebbe l'idealità dell'amicizia se questa si limitasse a una dolce
tolleranza e ad una amabilità benevola? Questo è ciò che si fa nel
mondo, lo so bene e voi pure ve ne accontentereste. Quattro
chiacchiere, una passeggiata, una colazione fatta insieme, la scelta
dello stesso sarto e il gusto per la stessa musica, ecco secondo voi
l'amicizia! Ci vuole altro vi dico, altro, altro. Che me ne farei di
un amico che non dovesse contribuire al mio miglioramento, al mio
innalzamento? All'amico, pensate, dobbiamo dare qualche parte
dell'anima nostra, aprirgli questo sacrario immacolato e farlo
riposare nel nostro cuore. L'amicizia è metà dell'amore, è qualche
volta tutto l'amore: _una cosa grande!_

Pronunciò queste ultime parole con un accento profondo che mi diede un
brivido. Seguì un lungo silenzio.

--Dunque devo tornare?--disse mio cugino alzandosi lentamente.

Mentre stavo per rispondergli, interruppe:

--Vi prevengo che sono poco tollerante, mediocremente buono, gentile a
scatti e che non mi impegno per la fedeltà.

--Allora farete quello che vi aggrada--gli risposi, sforzandomi di
sorridere.

--Grazie del permesso.

Si inchinò molto ossequiosamente ed era sul punto di allontanarsi
quando Alessio inciampando nel tappeto cadde a terra battendosi la
fronte. Gli strilli del mio bambino lo fecero tornare indietro e un
poco forse le mie esclamazioni di dolore e i forti baci e le tenerezze
che gli prodigavo per acchetarlo.

--Che cosa è successo?--chiese con voce calma, gettando una rapida
occhiata al piccino.--Perchè piangi? Un uomo non deve piangere.

Il mio bambino tacque subito e si pose a guardarlo cogli occhioni
larghi ancora bagnati. Egli sorrise e voltandosi verso di me, disse:

--Non commovetevi troppo cugina se volete restare forte.

Pochi momenti dopo io e Alessio, sollevando le cortine di seta rossa,
lo vedemmo allontanarsi lungo il viale e Pietro che entrava allora per
annunciarci che il desinare era pronto disse:

--Che uomo s'è fatto!

--Tu lo hai conosciuto, Pietro?

--Oh! sì molto. Quando era ancora un ragazzetto veniva da queste
parti. Egli aveva una singolare predilezione per il boschetto di
acacie, in fondo al giardino; stava là delle ore intiere a scrivere
versi e il padrone diceva che quel ragazzo aveva molto ingegno.

--Come va che io non lo ricordo?

--La signora era troppo bimba allora; lo avrà visto ma non se ne
rammenta. D'altronde egli entrava poco in casa; avendone avuto il
permesso dal padrone passava il suo tempo nel boschetto delle acacie.

La visita di mio cugino mi lasciò un'impressione che nei successivi
giorni di silenzio e di solitudine crebbe anzi che scemare. Egli avea
suscitato nella mia mente un tumulto di idee affatto nuove e quasi
risvegliato un senso nascosto, qualche cosa che dormiva in me, che
sembrava morto, che sarebbe forse realmente morto senza quella potente
evocazione.

Alla domenica, in chiesa, Orsola che veniva sempre con me, mi mostrò
la mia cattiva parente sussurrando:

--Veda che aria di sfida ha quella goffa!

Ed io risposi, rischiarata da una luce superiore:

--Non occupiamocene, Orsola.

Nel ritorno dalla chiesa--era la fine di febbraio--mi parve di non
avere mai visto tanto limpido sole, nè così lieti gruppi di casolari
lungo la via e--questo fu senza dubbio un effetto della mia
immaginazione--prima assai del tempo inturgidivano i rami dei mandorli
dentro gli orti.

--Orsola--dissi con uno slancio che mi veniva dal fondo del cuore--non
ti pare che la vita sia bella?

--La vita, mia buona signora, non è nè bella nè brutta. È la vita.

Avrei voluto che Orsola continuasse il suo discorso sviluppando il suo
pensiero, ma ella invece soggiunse scuotendo il fazzoletto sulle sue
scarpe nuove:

--Quanta polvere!

Tornata a casa la giornata non mi sembrò più splendente come prima.
Forse il sole si era nascosto; le cortine rosse del mio salotto non
ardevano di quel dolce colore di fiamma che gli dànno l'aspetto di un
tempio preparato per misteriosi riti. Anche qualche altra cosa mancava
al mio salotto. Io solevo passare le domeniche d'inverno giuocando con
Alessio, chiacchierando con Orsola e con Pietro finchè non fosse
giunta la stagione di raddrizzare i rosai e di preparare le sementi
nuove; ma quella domenica mi parve interminabile.

--Pietro--dicevo di tanto in tanto--credo che abbiano suonato il
campanello.--Va a vedere.

Pietro andava a vedere e riferiva:

--Nessuno, signora.

Raccontai ad Alessio una lunga favola; la favola del principe che era
stato trasformato in bestia e che doveva rimanere bestia finchè la più
bella fanciulla non si fosse innamorata di lui.

--Questo è impossibile--diceva Alessio.

Ed io:--perchè impossibile?--Se per esempio la fanciulla avesse capito
che sotto le forme bestiali c'era il principe?

Ma Alessio non si interessava a questo problema. Io invece lo trovavo
di una bellezza che non m'era apparsa mai prima di allora. Quanto
dolore in quell'essere nobile oppresso da un destino inumano e quanta
gioia nell'istante della liberazione! Come egli doveva amare veramente
chi lo aveva così veramente amato!

Prima di andare a tavola Orsola, tutta turbata, venne a dirmi che la
conserva di pere aveva preso la muffa. Ora mi ricordo benissimo che in
altre circostanze consimili io avevo diviso le pene di Orsola, ma
quella volta non mi fu possibile; cercai anzi di persuaderla che era
una disgrazia ben meschina.

--Che daremo al piccino quando mangia alla sera il suo pezzetto di
pane?

Così brontolava l'Orsola girando fra le mani il barattolo della
conserva.

--Potremo ben dargli un po' di miele, non ti pare, Orsola? E se
mancasse il miele credi che non basterebbe un po' di burro sul pane?

--Dio benedica la signora--esclamò Orsola--oggi trova tutto bello e
tutto buono!

Effettivamente mi pareva che fosse zampillata dentro di me una
fontanella, una fontanella di gioventù e di vita; me la sentivo
sorgere dal cuore, precipitare sui polsi, dilagare sotto la pelle. Mi
venivano in mente cose alle quali non avevo mai pensato; mi
sorprendevo ad ascoltare nell'aria voci arcane e giulive, quasi un
coro di ore felici che mi venisse incontro; ed era tale la mia
compenetrazione col mondo invisibile che avevo qualche volta la
sensazione di sentirmi crescere dei fiori nelle mani, dei fiori sui
capelli.

Un giorno stando alla finestra vidi passare mio cugino. Egli alzò il
capo e mi salutò molto garbatamente; l'indomani venne a farmi visita.

--Come avete tardato!--gli dissi.

--Avevo bisogno di vedervi per essere sicuro di non riuscire molesto;
per questo passai e ripassai ieri sotto le vostre finestre. La
facciata della vostra casa misura quaranta passi e il fianco
trentadue. Il palazzo della Bella nel bosco non era forse così vasto.

Egli aveva un modo di parlare naturale e diceva le cose più sublimi
come le più umili semplicemente, collo stesso accento convinto e
persuasivo. Si guardò attorno e chiese:

--Dov'è l'omino?

Alessio sbucò di sotto una poltrona con un pulcinella in mano e le
guancie tinte di melassa.

--Che faccia curiosa ha questo bimbo!

--Orsola dice che assomiglia a suo padre e Pietro dice che assomiglia
a me.

--Ecco una prova dell'acume dei vostri consiglieri.

Pensai (pulivo nel frattempo la faccia di Alessio) che quando egli
nacque suo padre era a Parigi, secondo il solito; che alle mie
ardenti preghiere di ritorno aveva risposto che gli affari lo
trattenevano--quali affari, mio Dio?--che poi aveva visto una sola
volta suo figlio e che da due mesi mancavo di sue notizie.

--Mi sembrate triste.

--La solitudine è triste.

--Come mai, in compagnia di Pietro e di Orsola?

Oh che cattiveria! Sì, questa mi sembrò una cattiveria e una mancanza
di cuore. Presi dal tavolino il mio ricamo e infilai l'ago senza
rispondere. Io avevo forse desiderato la visita di mio cugino ed ecco
che la speranza tanto rosea si mutava in un'aspra realtà. Ero decisa a
non aprire più bocca; fu Lui che prendendo un gomitolo di seta celeste
e palleggiandolo nelle mani, disse:

--Ho trovato alla Querciaia un disordine orribile. Mi piace
esteticamente quella vecchia fabbrica che ha i muri di una fortezza e
sui muri tante rose arrampicanti, e poi io sono sentimentale, sento
delle voci arcane in tutti gli angoli della casa dove i miei vecchi
sono nati e sono morti; ma, francamente, vi sono troppe ragnatele,
troppi topi e troppi usci che non chiudono. Ho impiegato sei giorni,
tanti quanti ce ne vollero per la creazione del mondo, a ordinare i
libri negli scaffali. I quadri sul solaio mi daranno un da fare
grandissimo; io non sapevo di avere tanti antenati alloggiati così
male. Mi sento sopratutto mortificato in riguardo di una leggiadra
bisavola bella come un amore, con certe maniche corte sopra un braccio
idealmente bianco e certe mani... così, come le vostre. Un topo le ha
portato via il fazzoletto ch'ella reggeva con due dita; oh come
metterei volontieri a quel posto il mio cuore,

    Al posto di una trina
    Un cuore sanguinante....

I versi non sarebbero cattivi, ma sono falsi, il che è peggio. Il mio
cuore non sanguina affatto; è giovane, forte e gaio. Farò mettere la
mia bisavola, dopo accurati restauri, nel salotto e questo mi pare
tutto ciò che si può pretendere da un nipote.

--Un nipote poeta--dissi, avendo potuto durante la sua divagazione
rimettermi un poco.--Anche il boschetto di acacie che sta in fondo al
mio giardino sa che siete poeta.

--E voi come lo sapete?--chiese sorridendo.

--Non vi è noto che le piante parlano?

--Ah! sì è vero! La quercia disse una volta alla canna: perchè ti
pieghi così facilmente al soffio del vento? La canna abbassò la testa
mortificata; ma venne un forte uragano, la canna si piegò a tempo e la
quercia investita dal fulmine fu gettata a terra.

--Perchè era stata superba!--esclamò Alessio trionfalmente.

--Vedo che la mia favola non è nuova.

--Racconto sempre delle favole al piccino.

--Fate bene. Questi grandi insegnamenti in forma umile si imprimono
nella mente e appena che il terreno sia propizio dànno frutti
insperati. Quando io avrò dei figli li alleverò con un sistema affatto
semplice e patriarcale, tuttochè ispirato ad una moderna libertà di
concetti. Molti complicano l'educazione con una infinità di pratiche
inutili, spesso nocive, mentre sarebbe così facile educare nel
sentimento del bello e del vero.

--Io prenderò presto un buon precettore per Alessio.

--Ma dove lo prenderete? Una buona madre è rara, un buon padre più
raro ancora, un buon precettore quasi introvabile. Vi consiglierei di
stare al minor danno.

--Che in questo caso sono io?...

--Appunto; oh! ma un danno così minimo....

Egli pronunciò queste parole con una dolcezza che mi commosse.

--Sono troppo ignorante, è vero.

--Non occorre neanche una grande cultura per allevare un fanciullo e
farne un uomo. Quando si ha un'anima come la vostra si arriva a tutto
per sola forza d'amore.

Aveva detto: _un'anima come la vostra_. Conosceva Egli la mia
anima? Questo dubbio mi turbò, ma per un solo istante: la confidenza
rinacque subito al suono della sua voce leale, al contatto delle sue
idee elevate sempre, anche quando non erano gentili.

--Dovreste leggere un po'.

--Oh! sì, volontieri!--esclamai con impeto.

Egli stette in silenzio, meditando, con un baffo chiuso fra l'indice e
il pollice. Sembrava aver dimenticato dove si trovasse ed io mi
guardavo bene dal disturbarlo perchè sentivo che anche senza parole la
sua compagnia era preziosa.

Finalmente disse:

--Vi porterò io qualche libro.

Si alzò per partire.

--Non state più tanto tempo senza lasciarvi vedere, ve ne prego.

--Dipenderà dal caos in cui mi sono cacciato. Vi immaginate voi ch'io
possa fare le cose a mezzo? La Querciaia è da rifare e bisogna
rifarla. In questi paesi non si hanno gli operai che si vogliono e in
molte faccende conviene ingegnarsi da sè. Conoscete un buon falegname,
per esempio?

Discorrendo lo avevo accompagnato fino all'uscio. Una ondata di sole
entrò dalla porta aperta e Alessio si pose a battere le mani.

--La primavera è venuta--disse Lui--non fiorisce ancora il vostro
giardino?

--Oh! appena qualche giacinto. Andiamo a vedere.

Discendemmo lo scalone tutti e tre e quando fummo nel viale mio cugino
si fermò a guardare il giardino ancora brullo ma colle aiuole già
smosse, preparate per la seminagione.

--Sapete che è una posizione magnifica questa?

--Non c'è male, abbiamo fin troppo sole.

--Fra quindici giorni tutto sarà sbocciato qui; la Querciaia invece è
in ritardo. Ah! ecco il boschetto chiaccherino che divulga i
segreti....

Eravamo presso alle acacie e ci mettemmo a ridere discretamente, con
un intimo accordo che era tutto una dolcezza.

--Quando i rami saranno verdi tornerete qui ad ispirarvi.

--Non ho più tempo ora di fare versi.

--Ma di essere poeta sì? Ho sempre pensato che si può essere poeti
senza scrivere versi.

Egli mi guardò in un modo intenso e scrutatore, contento e quasi un
po' sorpreso di quello che avevo detto, come se superassi in quel
momento una sua segreta speranza. E l'aria intorno era divina, rotta
da lievi ondate di profumo che venivano dai giacinti.

Alessio correva innanzi e indietro per il viale.

--Alessio! non correre tanto, ti farà male.

--Credete davvero che gli possa far male--disse mio cugino--o non
subìte voi pure l'impressione di tutte le donne, le quali sentono
istintivamente il dovere di occuparsi dei loro figli ma non avendo
lena di cercare ciò che potrebbe essere il loro vero vantaggio, si
appigliano alla lezione più comoda e più vicina?

--O vicino o lontano ciò che interessa i nostri figli non è sempre il
nostro dovere?

--Soave Mentore, mi inchino alla vostra saggezza, ma non abbiate paura
della corsa. Essa è una preparazione alla vita.

Si levò il cappello per salutarmi e siccome io andava cercando qualche
altra parola prima di decidermi a quella di congedo, vedevo la sua
testa scoperta nel nimbo della luce e i suoi capelli che la brezza
sollevava con una morbidezza di mano amante. Non so perchè, ma trovavo
una soavità rara nel vedermelo davanti in quella attitudine di
rispetto, sì che la prolungai, dando forse anche a lui una sensazione
indefinita di piacere che mi parve di scorgere riflessa ne' suoi
occhi.

E ancora, come la prima volta, la sua visita mi lasciò uno strascico
di gioia, una pienezza di idee, di orizzonti nuovi. Qualche cosa di
simile lo avevo provato nella mia primissima gioventù, risanando da
una grave malattia. Era, come allora, un risveglio di tutta la mia
sensibilità, un accorrere di forze e di desiderî verso una vita nuova,
o precisamente un incominciare a vivere.

Per quanto volessi indagare nelle mie più lontane memorie non avevo
mai conosciuto nessuna persona che somigliasse a mio cugino; nessuno
mi aveva mai parlato nel modo che parlava lui.

Veramente chi avevo io mai conosciuto oltre il mio povero padre quasi
infermo, i nostri contadini, qualche amico visto ben di rado, il
dottore, il curato e mio marito?

Lontanamente nella mia infanzia si delineava il ricordo di un vecchio
signore che veniva qualche volta in casa nostra e che mio padre
chiamava un uomo superiore. Mi restò in mente questa parola per aver
udito mio padre che diceva alla mamma, in seguito ad una contesa di
parenti: "Ascoltiamo i consigli di*** che è un uomo superiore." Da
allora in poi mi misi a considerarlo attentamente tutte le volte che
veniva e mi restò impresso, più che il suo volto, l'espressione di
esso: certi movimenti di sdegno, certi altri di pietà, sopratutto una
attitudine costante di slancio e di distacco dalla terra.

Non potrei dire che mio cugino somigliasse al signor***, molto più che
mio cugino era giovane e bello e il signor*** aveva i capelli bianchi
e le guancie infossate, ma pure se c'era un paragone possibile io
dovevo risalire fino a lui e ricordarmi la profondità di quegli occhi,
la luce di quel sorriso. Tutti gli altri uomini e donne, entrando in
una casa chiedono: Come va la salute? Poi discorrono del tempo, del
caro dei viveri, della epidemia dominante, dei fatti dei vicini e
dell'ultimo morto.

In collegio mi avevano parlato, è vero, degli eroi greci e romani e in
chiesa dei nostri santi martiri; avevo anche letto in una Antologia
classica gli squarci dei migliori poeti, ma tutta questa gente era
così lontana da me che io non la potei mai rivestire di carne e di
ossa, nè pensare mai che fossero miei simili.

Quando mi presentarono l'uomo che dovevo sposare mi parve, nella
limitazione de' miei confronti, quasi perfetto. A me, povera fanciulla
ignara, la sua disinvoltura di giovinotto elegante fece molta
impressione e poichè mi faceva regolarmente la sua corte credetti che
mi amasse. Forse, chi lo sa! mi avrà amata allora--quantunque io abbia
compreso di poi che quello non poteva essere il vero amore. Nemmeno un
anno egli stette con me; si annoiava della mia compagnia e della
solitudine campestre e appena ebbe la certezza del bambino che doveva
nascere tornò alle sue abitudini di società mondana e di viaggi. Mi
aveva promesso di darmi un appartamento in città per passare assieme
almeno l'inverno, ma se ne schermì sempre o con una scusa o
coll'altra; così senza scissure e senza ragioni il nostro matrimonio
si era quasi sciolto. Sulle prime avevo pianto assai e assai pregato;
mi ero umiliata a confessargli che non potevo vivere a quel modo, ma
poi non so come, la calma era venuta.

La mia salute molto delicata (uno dei pretesti che egli accampava per
non condurmi in città) mi fece quasi trovare una felicità in quello
stato di rinuncia e mi ero fossilizzata così senza rimpianti e senza
desiderî. Mio figlio e i due vecchi domestici formavano tutta la mia
famiglia. Quante sere d'inverno ho passate con Alessio addormentato in
grembo e l'Orsola che mi raccontava per la centesima volta le nozze
de' miei genitori! Anche Pietro mi ridiceva gli aneddoti del tempo
passato; uno de' suoi favoriti era quello dei miei cinque anni, quando
egli mi aveva persuasa che si prendono i passeri ponendo loro un
granello di sale sulla coda ed io uscivo in giardino colle tasche
piene di sale. E rideva, rideva ancora il buon uomo!

Dicendo a mio cugino che vicino a noi non c'era nessuno avevo
dimenticato le due figlie del defunto dottore, zitelle di quarant'anni
che non essendosi mai allontanate l'una dall'altra venivano insieme
qualche volta a trovarmi. Mi tendevano la mano, senza staccare il
gomito dall'anca, così tutte chiuse e raccolte nella loro persona che
mi davano l'aspetto di cartocci vuotati per un misterioso processo
senza essere stati aperti. Parlavano pure sempre insieme, a mezza
frase ciascuna, quasi sorreggendosi scambievolmente. Erano brutte,
povere, non avevano mai avuto una gioia nella vita, ma essendo stata
la loro madre bella ed elegante vivevano all'ombra della sua memoria
non senza un certo orgoglio. Si parlava di cintura sottile: _come la
mamma:_ diceva l'una; e l'altra: _ne abbiamo ancora la misura in
un corpetto di raso._ E la prima: _bianco._ A cui la seconda
soggiungeva: _fu quando la dichiararono regina della festa._ E
sorridevano tutte e due beatamente, stringendo le braccia esili contro
la vita grossa.

Ma poi non c'era proprio altro per dieci miglia intorno.

Aspettavo dunque con impazienza la terza visita di mio cugino.

Egli non venne così subito e mi fece avere invece un pacco di libri
con un biglietto "Vi mando i pensieri che io amo." Non diceva altro
quel biglietto eppure mi pareva che contenesse tante cose.

Usciva da esso la sua voce sonora, imperiosa, il suo sguardo
scrutatore, la sua anima così fuori dal comune. Non c'era in quella
breve riga una sola parola gentile, non un accenno affettuoso, ma era
tutta una gentilezza di concetto o tale mi parve, pensando che le idee
elevate erano ciò che Egli amava più che tutto al mondo e facendone
parte a me così umile ed oscura, mi dava la maggior prova di simpatia
ch'io avessi mai ricevuta. Compresi allora più che mai la vacuità
delle solite frasi, dei complimenti superficiali e sentii
l'umiliazione di essermene qualche volta compiaciuta.

Una grande gioia calma e serena mi innondava il cuore. Quale oscuro
destino o quale Dio veggente mi inviava la consolazione? Perchè
veramente ciò che provavo era questo: una consolazione. Sorgeva in me
lentamente un'altra me stessa, una parte di me che avevo dimenticata e
che veniva a completarmi, quasi una persona creduta morta che ci
gridasse un giorno aalle spalle: sono qui.

Come avevo potuto fino allora vivere di nulla al pari di una farfalla?
Mi sembrava ora che il mondo fosse pieno di tante idee, di tante
bellezze ignorate, di tante gioie austere e forti ed anche di sorrisi
più intensi, più alati, più profondamente dolci di quelli a cui ero
avvezza. Che cosa mi avevano annunciato tutti gli aprili della mia
vita se non il ritorno dei fiori? Ed ecco che questo aprile novo mi
recava un tributo di ricchezze spirituali non mai sognate.

Mi posi subito a leggere i libri di mio cugino, dapprima con qualche
difficoltà, poi meravigliata di comprendere e di gustare anche
problemi che una volta mi sarebbero parsi ardui e privi di interesse.
Erano pagine di poeti, di pensatori, di anime calde ed elevate. Erano,
strano a dirsi, rivelazioni di idee che avevano tratto tratto gettato
un baleno nel mio spirito, come raggi che passano davanti e dileguano,
come astri intraveduti in un lontano cielo ai quali non si crederebbe
possibile di arrivare. Ed erano amici, amici nuovi e sicuri che mi si
mettevano a lato, ora facendomi sorridere, ora facendomi riflettere,
pungendomi, spronandomi, sempre con quella deliziosa sensazione di
completamento, di linfa saliente su per i rami, che colma e che
matura.

Prima assai del tempo--come aveva detto Lui--i rosai del mio giardino
spuntarono tutti. La festa dei colori e dei profumi era intensa. Io e
Alessio non potevamo più stare rinchiusi. L'Orsola, sofferente di
reumi, mi ammoniva talvolta ma io non avevo più una fede cieca nella
sua sapienza e correvo alla voce della primavera che mi chiamava
all'aperto.

Alessio era felice al pari di me. Ruzzolandosi nella sabbia formava
una cosa sola col palpito della terra, colle piccole vite dei bruchi e
dei moscerini, coll'erba che cresceva, col gattino suo compagno di
corse e di capitomboli, e sostando finalmente nella breve ombra dei
rosai intuonava la sua canzone "M'alzo col sole" alla quale mi univo
io pure con una voce trillante che faceva dire all'Orsola: Badi, si
piglierà una raucedine.

Mio cugino mi sorprese un mattino della seconda metà di aprile
inginocchiata nel mezzo di una aiuola, con un grembiale bianco, le
mani coperte di vecchi guanti, intenta a spogliare i rosai dai bruchi
che minacciavano di devastarli. Diventai molto rossa quando lo vidi e
sorgendo lesta in piedi volli scusarmi per la volgarità di quella
occupazione.

--Non trovo che sia una occupazione così volgare; lo è molto meno del
chiacchierare senza scopo.

Mi venne allora la persuasione che egli avesse un po' di quello
spirito ribelle che si piace a contraddire; volevo vedere tuttavia
come avrebbe sostenuto il suo asserto.

--È ideale forse questo mucchio di bestioline che si contorcono l'una
sopra l'altra?

Scossi intanto per terra la lama del vecchio coltello che mi aveva
servito a raccogliere i bruchi, non senza nascondere un intimo
ribrezzo.

--Qualunque azione è ideale se ha per scopo l'ideale. Chi ha maggior
diritto di vivere secondo voi, il bruco o la rosa?

Esitai un istante, levandomi i guanti brutti di terra, poi dissi:

--L'uno e l'altra.

Egli ebbe un movimento di impazienza e soggiunse precipitando le
parole:

--Allora perchè distruggete i bruchi?

--Perchè mi distruggono le rose.

--Dunque? Sì, il silenzio vi sta bene colla testa leggermente piegata
e lo sguardo pensoso che indovino di sotto le palpebre, ma vi prego di
rispondere a questo quesito importantissimo: Chi ha maggior diritto di
vivere?

--Io vorrei che i bruchi non distruggessero le rose per poterli
salvare anch'essi. Ecco.

--Io vorrei! Io vorrei! Bel modo di rispondere a un interrogativo così
preciso con un condizionale così vago. E pretendete di ragionare!

Il suo accento era canzonatorio, ma non troppo. Risposi in tono
conciliante:

--Capisco, voi volete dire che dal momento che bisogna scegliere
conviene scegliere il meglio. Ma chi mi assicura che in tal caso il
meglio sia la rosa? Non è forse il mio egoismo che me lo suggerisce?

--Vedete un po' che razza di filosofo mi sbuca fuori da queste
gonnelle!--esclamò Lui con una specie di allegrezza della quale mi
sfuggiva il significato ma che trovavo assai dolce.--Tenete bene a
mente che la rosa ha per sè la sua ragione di trionfo perchè la rosa è
la bellezza.

Avendo in quel medesimo istante spiccato un bocciolo me lo battè
scherzosamente sulla spalla. Io mi rizzai e fingendo un tono di offesa
dissi, scandendo le sillabe:

--_Nemmeno con un fiore!_

Egli afferrò subito l'allusione, rise, e poichè la frase citata
trovavasi in uno dei volumi che mi aveva mandato, questo ci servì di
passaggio a un altro ordine di idee.

Improvvisamente dissi (mi ero giurata di tacerlo, e non so come mi
sfuggì):

--Perchè siete stato tanto tempo senza lasciarvi vedere? La Querciaia
è ancora in disordine? Avete trovato il falegname?

--Il falegname!--fece Lui come uno che cade dalle nuvole.

--Sì--risposi umilmente, già pentita--me ne avevate chiesto uno.

--Ah! E voi credete che io doni il mio tempo a simili cose?

--Mi diceste pure che il riordinamento della Querciaia vi occupava
assai.

--E mi occupò. Ma posso occuparmi più di dieci o dodici giorni di
mobili, di muri e di travi maestre?

Seguì un lungo silenzio.

--In questi giorni--Egli disse, dopo una leggera esitazione--io pensai
dei poemi!

Una grande soggezione mi prese ancora, come la prima volta che lo
avevo veduto, e temendo sopratutto di dire una sciocchezza tacqui.
Egli parve per un po' di tempo non accorgersi neppure della mia
presenza. Sfogliava distratto la rosa che aveva côlta dianzi
disseminandone i petali sulla sabbia, così lontano da me che me ne
sentii quasi ferita. Alla fine, per quella delicata abitudine di uomo
a modo che stringeva dappresso la sua natura indipendente e selvaggia
fece con uno sforzo ritorno alla conversazione.

--Cavalcate voi qualche volta?

--No, mai.

--Io ripresi questo esercizio da che sono tornato; mi piace
immensamente, mi riposa.

--?

--Ve ne meravigliate? Capisco anche questo, ma vi assicuro che per me
è un riposo. Sono stato ieri al campo delle croci.

--Fin là!

--Prendendo la via più malagevole.

--Ma perchè?

--Per amore delle difficoltà. Figuratevi che giunto al Passo del cervo
trovai il ponte rotto e piuttosto che retrocedere, saltai....

--....il Passo del cervo??

--Sì.

Un gran grido di orrore fu la mia risposta alla confessione di una
simile temerità. Il Passo del cervo è il punto più difficile delle
nostre montagne, un burrone spaventevole, un abisso senza fondo.

--Sapete che nessuno lo ha mai fatto, nessuno?

--E questa la bellezza.

Egli disse ciò con una gioia tranquilla e profonda, collo stesso
accento semplice col quale pochi istanti prima aveva proclamato che
"la rosa ha in se stessa la sua ragione di trionfo perchè la rosa è la
bellezza."

Che cosa intendeva Egli dunque per bellezza? Quale significato
misterioso racchiudeva per Lui questa parola comune? Io vedevo bene
che non c'era ombra di vanteria ne' suoi discorsi, che tutto ciò che
Egli faceva e diceva, se pure aveva rispondenza con una intima nota di
orgoglio, non era affatto da confondersi colla volgare superbia e
colla vanità impotente. Gli dissi:

--Voi disprezzate la vita?

--Tutt'altro! pensate, è il nostro maggior bene; o per lo meno è il
mezzo indispensabile per raggiungerlo. Ma si devono fare tutte le cose
che si _sentono_.

--Anche un pazzo può sentire il desiderio di precipitare da una
finestra--esclamai.

Ed Egli molto pacatamente:

--Si capisce. Seguirebbe con ciò la sua vocazione pazzesca e si
ucciderebbe, la qual cosa, non potete negarlo, sarebbe un bene per lui
e per la società. Ma io non mi sono ucciso ed è questa la mia ragione.

Siccome tenevo la testa bassa, poco convinta, Egli mi prese la punta
delle dita con somma dolcezza e continuò evidentemente felice di
dovermi combattere su quell'argomento:

--Cugina, cugina, sempre le vostre idee tarlate. Anzitutto voi pensate
che io possa morire. È possibile?--(sorrise tanto leggiadramente
intanto che non lo credei possibile neppure io).--E poi, ammettiamo
l'assurdo, se io fossi caduto in fondo al Passo del cervo con quale
diritto mi si sarebbe compianto? Io sono solo, libero, non amo, non
sono amato, la mia vita mi appartiene e chi sa, chi può indovinare,
chi si arrischierebbe a dire che l'istante di ebbrezza da me provato
nel varcare l'abisso non valesse più di venti o trent'anni spesi a
rialzare le spalliere del mio giardino? Credete che il valore di una
esistenza sia raccolto nella sua lunghezza? E se io non potessi dare
più nulla al mondo, se l'anima mia avesse esaurita la sua forza, se
l'ideale a me concesso fosse già stato raggiunto, non è ancor meglio
precipitare dalla cima di un monte piuttostochè morire per un cancro o
per una risipola?

--Basta, basta--implorai--mi fate male.

E mentre Egli mormorava a fior di labbro:--Ecco come sono le
donne!--io, più che al pericolo corso, pensavo adesso alle parole:
_non amo, non sono amato:_ che mi avevano dato un tuffo nel
sangue e non so quale ignoto ardore, come un misterioso bisogno di
colmare quella solitudine superba, di obbligarlo a scendere da quei
regni inaccessibili del suo pensiero e mescersi cogli altri uomini ed
essere uomo.

Come più vivo sentii quel giorno il vuoto della sua partenza! Lo
sentii con una acuta nostalgia di tutto il mio essere, con un
sentimento crescente del nulla in cui vivevo, in cui ero sempre
vissuta. Senza padre, senza marito, senza fratelli, il mio cuore
riposava nell'amore per il mio piccino; ma accanto a questo amore
fatto di protezione e di rinuncia, quali nuovi diritti si ergevano
imperiosi a domandare la loro parte? Una aspirazione di vita superiore
mi dominava come sola meta degna, quasi il perchè di una esistenza che
avevo fino allora sciupata meschinamente senz'alcun frutto. Il
desiderio di essere come Lui, di somigliargli almeno, divenne in breve
il bisogno più ardente della mia anima.

Nello stesso tempo un dubbio mi rodeva, sottile. Quale opinione aveva
Egli di me? Come mi trovava in confronto delle tante donne che aveva
dovuto conoscere? Ripensavo ad una ad una le sue frasi, le sue parole,
e per una parte mi confortavo, per l'altra mi pareva che egli mi
tenesse a distanza, che diffidasse; d'onde un affannoso desiderio in
me di rivelarmi, di fargli sapere quali tesori di ammirazione e di
affetto conteneva il mio cuore e come Egli avrebbe potuto disporne per
crescere una seguace al suo ideale.

In quei giorni ricevetti una lettera di mio marito. Pietro nel
consegnarmela, disse: Oggi la signora sarà contenta. Io ero difatti
contenta quando mi giungeva una di queste lettere perchè speravo ogni
volta di trovarvi l'annuncio della felicità. Questa volta invece
rimasi fredda; capii perfettamente che mio marito era uno straniero,
uno straniero passato attraverso la mia casa, attraverso il mio cuore.
Un sentimento nuovo di dignità mi faceva vergognare di essermi data
con tanta leggerezza a un uomo che non conoscevo.

Ora, se i miei sogni d'amore erano caduti per sempre, non avrei potuto
fabbricarmi una felicità sollevando a più alta cima i miei affetti?
Escire dal mio piccolo io e comprendere ed amare le cose superiori non
era ancora una salvezza, un porto in vista? Tanti anni sciupati in una
vita meschina e senza scopo si potevano alla fine redimere. è
sopratutto la fine (avevo letto in uno dei libri di mio cugino) che
nobilita una esistenza, come la conclusione dà il valore di un'opera.

Adoperandomi a migliorare me stessa preparavo senza dubbio un bene per
mio figlio. Senz'ombra di rimprovero, ma con una certa tristezza
pensavo al modo col quale ero stata allevata io. I miei genitori erano
pur buoni; mi avevano amata, si erano presa cura della mia salute; da
piccina mi sorvegliavano perchè non avessi a cadere e fatta
grandicella consultavano attentamente il colorito delle mie guancie,
mi pesavano e conchiudevano che crescevo come un melo. Ma avevano mai
posto mente, le care creature che non vorrei offendere neppure con un
sospetto, allo svolgersi della mia piccola anima? Ero buona come loro
e tanto bastava a quelle coscienze semplici. Comprendevo adesso che i
genitori devono fare di più e questo compito riguardo al mio Alessio
mi spronava, dandomi un ardore e una forza che non supponevo di avere.

Come fanno le persone che non cambiano mai, che sono ancora a
cinquanta e a sessant'anni quel che erano a venti e a trenta? Io
conosco un mercante girovago che quando viene ad offrirmi la sua
mercanzia la svolge tutt'ad un tratto, sì che con una semplice
occhiata si fa il giro della sua cassetta; e un altro ne conosco che
slega i suoi batufoli gradatamente, apre ad uno ad uno i suoi cartocci
e quando si crede che abbia finito tira fuori ancora qualche sorpresa.

Non riesco a trovare un paragone più nobile; in fondo però non
arrossisco di eguagliarmi a così umili creature e questo confronto coi
merciaioli mi fa sorridere. È uno strascico delle mie abitudini
semplici, de' miei gusti modesti che non intendo di cambiare, anche
ora che la mia mente si affaccia ad orizzonti più vasti. Ho trovato in
me un'altra donna, è vero, ma questa non rinnega la donna primitiva.
Noi andiamo a pari, da buone sorelle.

Il mutamento o meglio l'accrescimento della mia anima avvenne per
gradi. Mi ricordo benissimo; io andavo aggiungendo tutti i giorni
qualche trama a' miei sentimenti e nuove scoperte facevo sempre; ora
dei punti oscuri che si illuminavano poco a poco, ora dei piccoli
pertugi che si allargavano sopra vedute impreviste, ora un debole filo
di luce che si faceva intenso, a cui si aggiungevano altri fili e
diventava un fascio di raggi.


Mio cugino veniva regolarmente a trovarmi, sereno, calmo; mi portava i
suoi libri, li discuteva con me, voleva assolutamente che gliene
dicessi il mio parere. Io sbagliavo spesso ed Egli si accingeva a
correggere le mie idee con pazienza, con una tenacia amorevole di uomo
convinto, penetrato della sua missione. Nei giorni migliori, quando lo
capivo bene, gli si manifestava in volto una gran gioia e una luce
spirituale raggiava nel sorriso che si schiudeva sulla sua bocca come
un fiore al sole.

Avanzandosi la bella stagione eravamo sempre fuori; o in giardino
accanto ai rosai, o sotto le acacie, o nei piccoli sentieri adiacenti
dove Alessio correva con una reticella in mano a caccia di farfalle.

--Avete cacciato anche voi le farfalle nella vostra infanzia?--chiesi
una volta a mio cugino.

--Come no? L'uomo nasce con questo istinto e le farfalle, i
coleotteri, i cervi volanti sono le sue prime vittime.

--Non le sole?

--Certo, non le sole. Che cos'è la vita se non un continuo
avvicendarsi di vincitori e di vinti?

Ecco, ci succedeva così. Non si tenevano sempre dei lunghi discorsi o
delle dissertazioni, ma Egli gettava là una di queste frasi incisive
ed io la raccoglievo ed Egli lo sapeva; e tutto ciò fluttuava intorno
a noi quasi il filo misterioso di una tela che si stesse ordendo, come
pagliuzze che posate a caso fra due rami si venissero a restringere
poco a poco formando un nido. Sentivo del nido la protezione,
l'appoggio ed anche il tepore dolcemente soffuso, che prendeva in
certi momenti una strana consistenza di realtà.

Questo lo osservavo principalmente quando Egli mi guardava, con quei
suoi occhi profondi e seri ove l'anima saliva con un ardore di fiamma
compressa. Mi sentivo allora vicina a _qualcuno_, ad uno più
forte di me, padre e fratello insieme.

E questo padre, questo fratello, questo maestro saggio e severo di cui
ammiravo il sapere e l'alta intelligenza era allegro come un bambino,
era semplice, era ingenuo quando rincorreva Alessio per i viali e il
suo riso fresco e sonoro si mesceva al riso di mio figlio. La vita
entrava finalmente nella vecchia casa abbandonata!

                    * * *

--Sei molto mutata bambina, molto mutata.

Quando eravamo sole l'Orsola mi dava ancora del tu; e quel giorno
eravamo sole nella mia camera davanti alla finestra aperta, lei con
una spugna in mano imbevuta d'acqua e sapone, io coi capelli sciolti
al sole di luglio.

--Perchè dici che sono cambiata? In che cosa ti pare che lo
sia?--diedi intanto un'occhiata allo specchio e l'Orsola si affrettò a
soggiungere:

--Oh! non nel volto, no, Dio ti benedica, mi pare che abbi ancora
diciotto anni. Sei più giovane adesso di qualche mese fa. Io dico
dentro di te.

--E che cosa vedi dentro di me?

--Tante cose che non capisco.

--Ti sembrano belle o brutte queste cose?

Orsola tacque.

--Non ti voglio più bene forse?

--No, non è questo.

--Dimentico qualcuno de' miei doveri di padrona di casa?

--Non è questo.

--Non sono una buona mamma?

--Non è questo, non è questo.

--Oh! se vuoi farmi giuocare a mosca cieca è passato il tempo.

--Ecco!--fece l'Orsola con profondo sconforto--l'hai detto.

Mi voltai tutta d'un pezzo a guardare la mia vecchia domestica.

--Mi pare--ella continuò con una specie di allarme:--che mentre il
volto ti è rimasto giovane il tuo cuore abbia maturato assai. Non ridi
più come una volta alle facezie di Pietro e quando io ti narro quello
che so, fingi di ascoltarmi ma io vedo bene che non t'interessa.
Appena l'anno scorso, guarda, avresti giuocato ancora a mosca cieca!

--Cara Orsola, dobbiamo restare bambini tutta la vita?

--E perchè no, Myriam?

La buona vecchia aveva pronunciate queste parole e il mio nome con una
così ingenua convinzione che mi posi a ridere e la calmai con una
carezza. Guardandola, pensai ch'ella doveva essere vicina ai
settant'anni e per la prima volta mi posi a misurare la distanza che
ci separava. Povera Orsola! La sua persona secca ed attillata di
vecchietta pulita era scossa da un lieve tremito, il capo grigio si
inclinava quasi a indagare la terra che fra non molto doveva
accoglierla, la luce smorta delle pupille sembrava ritirarsi poco a
poco nel mistero dove si decompongono le vite.

--Orsola--le dissi--tu però credi che vi è in me qualche cosa che non
cambierà mai?

Ella sollevò lo sguardo tremulo e mi fissò intensamente. Molte parole
non sarebbero riuscite ad allacciare i nostri pensieri; quello sguardo
sì. Mi prese la mano e la baciò mentre io le rendevo il bacio sui suoi
capelli grigi.

In quel mese di luglio, mio cugino si lasciò vedere poco, ma la casa
restava anche in sua assenza piena di lui. Per il solo fatto di
esserci stato Egli vi era. Me lo sentivo vicino, gli rivolgevo la
parola quasi avesse potuto rispondermi. Mi piaceva a immaginarmi le
sue contraddizioni e a trovare le risposte più atte a calmarlo. Questa
ginnastica del pensiero della quale Egli era l'unico perno occupava le
mie ore d'ozio, mi era compagna nelle lievi occupazioni della
giornata, mi seguiva dovunque come un profumo penetrante e nascosto.

Quando venne finalmente mi parve preoccupato. Io dissi che faceva
caldo--poi dissi che il personaggio di Sita nel Ramayana indiano mi
sembrava un simbolo--dissi pure che la rosa bianca, la rosa gialla, la
rosa carnicina, non possono temere il confronto colla rosa
purpurea--ed Egli non trovò da contraddirmi in nulla. Tratto, tratto
mi guardava con una immobilità scrutatrice e m'aspettavo da un momento
all'altro che parlasse, ma non parlò quasi mai in tutto il tempo della
visita da lui occupata ad aprire ed a chiudere quindici scatolette
giapponesi di graduata ampiezza che Alessio aveva dimenticate sul
tappeto.

A un certo momento gli chiesi se quel balocco lo interessava.

--Moltissimo--mi rispose premurosamente.--Non potete credere come sia
rapida in me la successione delle idee. Io penso ora ad una quantità
di cose alle quali voi non avete mai pensato. Vi sono delle catene
d'amore tristi e terribili, dolorosi avvicendamenti di passione e di
sdegno, di fiamma e di gelo. Mi pare qualche volta di vedervi un
occulto giudizio, un castigo che si riverbera di persona in persona
per qualche colpa comune che tutti debbono scontare. È un fenomeno
strano ed inquietante. Si potrebbe stabilire una specie di dinamica
materiale sopra tali rapporti. Non sarebbe difficile di riunire in
proposito un certo numero di leggi che riuscirebbe interessante
riscontrare nella pratica. Non mi capite, nevvero?

--Poco, lo confesso.

--Me lo aspettavo. Appena che si esce fuori dal solito giro di
pensieri, le donne non capiscono nulla. Eppure si tratta dell'amore,
un sentimento del quale a sentir voi avete il monopolio.

Non lo avevo mai visto così cattivo. I suoi occhi erano torbidi come
cielo che si rannuvola profondamente.

--Per conto mio--risposi--conosco così poco l'amore che non saprei
parlarne.

--Neppure per intuizione?

--Mi pare che voi cercavate dei ragionamenti.

--Inutile, inutile!--fece lui e buttando da parte le scatole
giapponesi si diede a passeggiare per la sala in lungo ed in largo.

Di lì a poco Alessio si attaccò alle sue mani e lo trasse in giardino.
Li seguii turbata e a malincuore per i viali che imbrunivano nell'ora
crepuscolare. Li vidi entrare nel boschetto delle acacie, dove
sedettero sopra una panchina; entrai io pure e presi posto accanto a
mio figlio.

Era una serata meravigliosa, come ne abbiamo nei nostri paesi certo a
compenso dell'eccessivo calore dei giorni estivi. Sentire la natura,
sentire la vita era in quel momento una tale delizia che nessuno di
noi provava il bisogno di parlare. Nella dolcezza incombente sembrava
fondersi a poco a poco anche la gravità di mio cugino. Egli ascoltava
tranquillo il fremito misterioso che in mezzo agli alberi innalzavasi
dal mondo invisibile degli insetti e dei piccoli uccelli e poichè
Alessio fece l'atto di gettare dei sassi in un cespuglio gli disse:

--Sta cheto, disturbi la toeletta notturna delle farfalle.

Alessio--non compiva ancora sette anni--rise molto all'idea di quella
toeletta; forse si immaginava di vedere le farfalle col lungo
camicione da notte simile a quello che aveva lui.--E sorrisi anch'io,
dominata da un improvviso bisogno di letizia, prendendo le sue manine
e ponendomele in grembo.

Era molto chiaro ancora, ma sotto le acacie l'ombra cresceva di minuto
in minuto; la testa di Alessio appoggiata contro il mio braccio,
restava al buio; quella di mio cugino invece prendeva luce da una
radura dei rami ed era così immobile e bianca nel riflesso lunare che
sembrava una statua. Aveva il profilo duro, l'occhiaia profonda, il
mento fortemente disegnato degli uomini in cui predomina la volontà.
Io non so quanto tempo passasse nel più assoluto silenzio. Alessio si
era addormentato colle sue manine nelle mie. Un rumore di carri
trascinati a stento sulla ripa vicina, le zampe dei cavalli
scalpitanti, gli urli e le grida dei carrettieri non lo svegliarono.

--Ecco che questi uomini durano fatica a guidare i loro carri sulla
montagna, viaggeranno tutta notte e faranno viaggiare le loro bestie a
furia di urli e di eccitamenti per portare il carico dall'uno
all'altro paese. È il loro mestiere, non ne conoscono altri; lavorano
volonterosi e domani quando torneranno alle loro case calcoleranno
minuziosamente quanto hanno guadagnato, per riprendere il giorno dopo
la stessa cosa.

Mio cugino fece queste riflessioni a mezza voce senza muovere la
testa, continuando a darmi colla sua immobilità l'illusione di una
statua. Ma tuttavia avendo io mormorato un leggerissimo _sì_
continuò:

--E chi acquisterà la mercanzia saranno altri uomini che si credono
superiori perchè invece di faticare alla notte sulle ripe sassose,
dormono in buoni letti, tenendosi accanto le loro borse di cuoio piene
di monete.

A questo punto lo scalpitare dei cavalli, gli urli e le bestemmie
presero un tono così alto che le manine di Alessio trasalirono nelle
mie. Temendo che si spaventasse nel sonno, mi chinai su di lui e lo
baciai in fronte. Intanto i carrettieri avevano raggiunto il culmine
della salita e discendevano dall'altra parte; il silenzio riprendeva
il suo impero alto e solenne.

--Il Signore disse che tutti gli uomini sono fratelli. È a questo che
pensate?--domandai timidamente.

--No--rispose mio cugino, senza adirarsi--penso che tutti dovrebbero
_salire la loro erta_.

Egli aveva un modo di pronunciare certe parole come se fossero più
grandi delle altre.

--Comprendo. Tutti devono lavorare nella misura dei loro mezzi.

--Credete di comprendermi, ma non mi comprendete ancora. Non è tutto
questo.

La sua voce si faceva sempre più dolce e malinconica; anche il suo
profilo aveva modificato qualche linea della abituale rigidezza. Le
ombre addensandosi, oscuravano il suo volto che pur restando statuario
sembrava perdersi nella vaporosità di un sogno antico.

Mai in vita mia avevo provato un sentimento di umiltà simile a quello
che mi invadeva allora. Con un filo di voce e sporgendo la fronte al
di sopra della fronte di mio figlio pregai:

--Parlatemi dei vostri ideali!

Non rispose subito. Io sentivo un bisogno ardente di attingere alla
sua anima e nello stesso tempo una paura di turbarla, come se una
mossa imprudente potesse distruggere il miraggio luminoso che la
circondava. Sentivo che quegli istanti erano unici e solenni, che
cadevano di secondo in secondo nella eternità e che io li perdevo. Non
vedevo quasi più mio cugino.

Nella oscurità feci un movimento che portò i miei capelli a sfiorare i
suoi. Egli si ritrasse vivamente. Io mi alzai.

Alessio, svegliandosi all'improvviso, mi chiamò con una intonazione di
pianto, per cui lo tenni ancora fra le braccia cullandolo, mentre
uscivo lentamente dal bosco.

--Addio--Egli disse quando fummo sul viale bianco battuto dalla
luna.--Vi risponderò più tardi.

--Lasciate almeno che io segua da lontano il vostro pensiero.

--Oh! come lo potreste, così debole!

Mi parve che un sorriso d'incredulità passasse sulle sue labbra e me
ne sentii ferita.

--Vedrete! Vedrete!--gli singhiozzai dietro mentre si allontanava--e
poichè un'angoscia infinita mi serrava il cuore ebbi ancora la forza
di gridare: Vedrete!

Egli si voltò, alto e ritto nel gran viale che sembrava d'argento.
Fece un gesto di commiato e disse: Vedremo!


Il giorno dopo quasi alla stessa ora, eravamo ancora quasi allo stesso
posto; ma più all'aperto, di contro alla luna che sorgeva dolcemente
falcata. Percorrevamo il viale a passi così lenti, io e mio cugino che
Alessio si divertiva a misurare quattro o cinque volte di corsa le
piccole tappe della nostra passeggiata.

--Che cosa credete che sia--diceva mio cugino--la più alta missione
della donna?

--Fare il bene?...

Egli si accorse della mia esitazione e soggiunse, incoraggiandomi:

--Sì, può darsi. Ma qual bene? l'elemosina che versate alla domenica
nella cassetta della chiesa? Vi ho vista.

--Mi avete vista? Quando? Venite in chiesa voi?

--Ecco che invece di cercare qual'è il vero bene, la curiosità
femminile prende il sopravento!

Il sorriso bonario che accompagnò queste parole valse a rassicurarmi
sulla disposizione che aveva in quel giorno il suo spirito quantunque
continuasse con una intonazione di leggiero _persiflage_.

--E vi piacerebbe che vi dicessi di qual colore era il vostro
cappellino o quanto meno se si addiceva al pallore interessante del
vostro volto. Non è così?

Mi finsi un po' sdegnata:

--Non è proprio così. Voi mi trattate sempre come fossi una bambina.
Non vi risponderò più.

Egli incrociò le braccia dicendo:

--Lasciatemi meditare sulle conseguenze di questa orribile disgrazia.

Ignoro perchè questo scherzo mi piacesse tanto; per due o tre minuti
sentii che il cuore mi balzava con una letizia infantile. Mi
allontanai di qualche passo mostrando di voler raggiungere Alessio
alla corsa, ma Egli mi richiamò.

--Parliamo dunque sul serio poichè lo volete. Non potete immaginarvi
il bene che potrebbero fare le donne riconducendo la fede nel cuore
degli scettici.

Improvvisamente, come mi succedeva tanto spesso con Lui, passai dalla
gioia all'apprensione:

--Ah!--esclamai--deve essere ben difficile.

--Difficile, sì.

--Ma perchè gli uomini sono scettici? Io non capisco forse bene che
voglia dir ciò, ma mi pare una brutta cosa. Di che dubitano alla fine?

--Delle donne.

--Vi pare giusto?

--E a voi?

--A me no.

Egli irruppe con impeto:

--Allora perchè trovate che è difficile convincerli?

Non seppi rispondergli subito e intanto che cercavo la parola, mio
cugino soggiunse, con un accento basso, dolcissimo, pieno di una
inenarrabile malinconia:

--Se le donne sapessero quali tesori racchiude il cuore di un giovane!
Più siamo nobili e buoni e più elevato è il nostro sogno femminile.
Noi allora non vediamo la donna, la inventiamo, la fabbrichiamo noi
con quanto c'è di meglio nella nostra fantasia. L'animo nostro allora
come un albero in fiore, mette tutti i giorni un germoglio nuovo e
tutti insieme noi li raggruppiamo intorno al nostro fantasma ideale.
Ma poi viene un momento.... basta, ho forse torto di parlarvi così.

Effettivamente io non comprendevo. Molte volte mi pareva che noi due
ci somigliassimo appieno, che fossimo eguali di cuore e di mente;
molte altre invece vedevo disegnarsi tra me e Lui grandi macchie
ignote, sorgere ostacoli che non conoscevo, aleggiare pensieri che non
avevo mai avuti, e sentivo la presenza di una quantità di forze che
non sospettavo neppure, quasi un mondo dove Egli vivesse e che fosse
per me chiuso.

Capisco bene che non riesco a spiegarmi ma mi è così difficile anche
l'intendermi, poichè tutte le nostre sensazioni assumevano una forma
vaga, indistinta e i nostri discorsi non li finivamo sempre, presi e
soggiogati dal fascino di ciò che non si può dire a parole.

Dal canto suo credo che subisse le altalene del dubbio ed ora mi
credeva degna delle sue confidenze, ora no. Ora mi apriva l'anima sua,
generoso, ardente, ora si trincerava in una freddezza superba.

Però dopo gli ultimi frammenti di colloquio ci sentivamo più uniti,
più vicini. Era, in me almeno, una vaga speranza di accordo del quale
mi cresceva ad ogni istante il bisogno e fui beata quando lo vidi
cedere al desiderio di venire tutti i giorni. Pregustavo lungamente la
dolcezza della sua visita; la pregustavo nell'aprirsi delle finestre
davanti al nuovo sole, nell'andirivieni dell'Orsola che spalancava il
salotto e metteva a posto quella sedia che Egli avrebbe rimossa
ancora, nelle occupazioni che intraprendevo seguendo il suo spirito di
perfezionamento, per cui il piacere di pensare a lui assumeva davanti
alla mia coscienza semplice e priva di esperienza la profonda
soddisfazione di un dovere compiuto.

Vedevo anche volontieri l'affetto che Egli aveva saputo destare nel
mio piccolo Alessio e i progressi che il bimbo faceva sotto di Lui.
Solamente Orsola e Pietro, colla diffidenza che hanno i vecchi per
ogni innovazione, erano rimasti un po' in disparte, ma a poco a poco
si ammansavano. L'Orsola aveva pur dovuto convenire che quest'unico
mio parente rappresentava bene la famiglia e Pietro approvando si era
accontentato di soggiungere: Per quello che si può giudicare. Eravamo
dunque tutti felici--io e il mio piccolo mondo.


Una domenica uscendo di chiesa con Orsola e con Alessio scorsi da
lungi mio cugino che ci veniva incontro sorridendo.

--Che miracolo!--feci io.

--Era pur necessario che vi facessi una improvvisata perchè a vedermi
sempre in un dato posto e in un dato luogo devo venirvi in uggia. Le
donne amano la varietà.

--Mi piacerebbe che non mi confrontaste troppo colle altre donne. È
poi vero che mi assomigliano? Faccio una vita troppo diversa dalla
loro per non essere un po' diversa anch'io. Intanto vi dichiaro che di
questa improvvisata la parte che preferisco è proprio quella che
conoscevo già.

--Cugina, voi mi guastate.

Disse così, ma mi accorsi che il complimento gli avea fatto piacere.
Quando era contento i suoi occhi brillavano in un modo affatto
speciale e stringeva le labbra quasi stesse assaporando nell'aria una
fuggente sensazione di voluttà.

--Sapete, poichè il guasto lavora ed io sento che sto per diventare
importuno, che potreste farmela anche voi una bella improvvisata?

--Per esempio? (il cuore prese a battermi).

--Penso che una piccola diversione, venti minuti di cammino, vi
condurrebbero alla Querciaia. Deve essere del tempo assai che non la
vedete ed io sarei fiero di mostrarvene i miglioramenti.

Prima che io aprissi bocca, Alessio gridò:

--Sì! Sì! andiamo alla Querciaia.

--La visitai due o tre volte quando c'era vostra madre, ma siccome la
cara donna era inferma non potei vedere nulla oltre il salottino dove
ella stava abitualmente.

--E la sala vecchia?

--Non la conosco.

--E il giardino?

--Nemmeno.

--Oh! allora bisogna proprio venire. Orsola non avrà difficoltà ad
accompagnarci, vero?

L'Orsola, direttamente interpellata, si credette in dovere di fare dei
complimenti; disse che non era abbastanza ben vestita per mettersi
insieme ai signori, che non meritava l'onore e tante altre belle cose,
in seguito alle quali mio cugino toccò leggermente la frangia del suo
scialletto e concluse:

--Benissimo, dunque siamo intesi, avanti.

Ritengo che ognuno di noi fosse intimamente contento di quella gita,
ma la gioia di Alessio varcò tutti i confini. Aveva visto una sol
volta la Querciaia e gli era rimasta impressa nella memoria per i suoi
folti boschi pieni di uccelli. Egli però non credeva che si potessero
prendere mettendo loro un granello di sale sulla coda, la qual cosa
faceva dire a Pietro che i ragazzi del giorno d'oggi sono troppo
furbi.

La casa che prendeva il nome dalle fitte quercie che la circondavano
era un ammasso curioso di fabbricati di diverse epoche, sovrapposti od
aggiunti di mano in mano dagli ultimi proprietari con una singolare
indifferenza dello stile e dell'architettura che li aveva preceduti;
ma quei tetti alti e bassi, quel campionario di finestre d'ogni
grandezza e d'ogni forma, non presentandosi con pretese di palazzo
disarmavano la critica; avevano l'aria di dire: siamo un po' buffi, ma
abbiate pazienza, ci hanno fatti così.

Un piccolo domestico venne ad aprirci il cancello del cortile e un
giovine cuoco pose fuori da una finestra il suo tondo viso
incorniciato dal berretto bianco.

--Ecco la mia servitù, campione e merce--disse mio cugino
additandomeli.

--Sono ben giovani.

--Voi avete la casa moderna coi servitori antichi; io ho la mia
vecchia bicocca con questi due giovani merli a custodirla. Come si fa!
La cameriera di mia madre che ci stava da ventidue anni è morta subito
dopo la sua padrona e io dovetti prendere quello che potei trovare.

L'Orsola sembrava assai meravigliata che una casa senza donne potesse
reggersi in piedi e furtivamente andava scrutando tutti gli angoli coi
suoi occhietti esperti di massaia. La sorpresi anche a toccare con un
dito la superficie dei mobili per assicurarsi che non c'era polvere.

Del resto l'aspetto generale dell'interno era in perfetta armonia
colla facciata. Per andare da una camera all'altra c'erano quasi
dappertutto gradini da salire o da scendere, ciò che formava la
delizia di Alessio.

Mio cugino faceva gli onori con molto garbo; ad ogni tratto mi dava la
mano e mi guidava nei passaggi difficili.

--Convengo--disse Egli con una modestia tra finta e vera--che non c'è
qui gran che da vedere e devo chiedervi scusa se mi sono valso di una
menzogna per procurarmi il piacere di una vostra visita.

Mio cugino non mi aveva abituata a troppi complimenti e compresi che
se allora me ne faceva qualcuno era nella qualità di padrone di casa
educato; pure gliene fui molto grata e lo ricambiai assicurandolo che
la sua casa era interessante; nè mi parve di aggiunger nulla alla
verità.

Una soddisfazione tutta intima l'avevo poi nel percorrere passo a
passo le stanze che Egli abitava, che lo avevano visto nascere, che
Egli doveva certamente amare. La vecchia sala mi parve assolutamente
bella, colle sue dorature rimaste intatte accanto al broccatello
stinto e col gran numero di ritratti che coprivano le pareti. Mi
ricordai a questo proposito che l'ordinamento dei ritratti era stata
una delle sue grandi occupazioni appena giunto alla Querciaia e volli
che mi mostrasse la leggiadra bisavola alla quale i topi avevano
portato via il fazzoletto.

--Oh! eccola, eccola--Egli disse tutto lieto--l'ho collocata al posto
d'onore perchè veramente è la bellezza della famiglia. Procurate di
trovarle qualche somiglianza con me... Ma non guardatela così da
vicino, vi prego, non avete la luce giusta.

Mi prese dolcemente per un braccio e mi collocò nella visuale che gli
sembrava più opportuna perchè il quadro potesse ottenere tutto il suo
risalto e, tuttochè allentando la mano, Egli la tenne ancora sul mio
braccio finchè mi ebbe spiegate le finezze del dipinto che mi parve
veramente delizioso. Era, sopra un fondo giallo, una signora vestita
di nero, col bel collo e colle braccia nude circondate da una trina
vaporosa di una esecuzione e di un effetto sorprendenti. La testa
acconciata a _toupet_, colla cipria, nascondeva il colore dei
capelli, ma l'arco fino delle sopraciglia era nero e di un nero più
pallido un po' dorato, gli occhi, pieni di una grazia altera. Un
sorrisetto impercettibile errava tra le labbra serrate e nella posa di
tutto il busto trapelava una leggera aria di sfida che le conferiva
una seduzione acuta e rara. Le mani della bella creatura, attaccate al
braccio con un polso di una delicatezza aristocratica si prolungavano
sottili, quasi diafane, a sostenere una rosa carnicina.

--Vedete, lì c'era il famoso fazzoletto di trine che i topi si sono
portato via ed io accomodai la rottura quasi in ginocchio, come un
celebre frate del quattrocento dipingeva le sue Madonne. Ma accanto a
quelle trine lì non mi arrischiai di metterne nessun'altra, capite,
nevvero? E allora ricorsi ad una rosa.

--L'avete dipinta voi questa?

--Certo. Le rose sono tradizionali nella nostra famiglia, non lo
sapete? Il nostro stemma porta una rosa al di sopra di due spade
incrociate e mio nonno fece piantare i famosi rosai che coprono queste
vecchie muraglie; li vedrete meglio quando scenderemo in giardino. Io
amo molto le rose. Ma prima di staccarci da questo ritratto,
osservate, vi prego, l'espressione interna che il pittore ha saputo
rendere. Un bel profilo, una bella bocca, due begli occhi, due
candide, sottili e rotonde braccia non sarebbero alla fine gran cosa
se dietro e dentro a tutto ciò non si vedesse la molla segreta che
agisce, l'anima. Ciò che forma il fascino di questo ritratto è la sua
personalità. In quella vitina nera, noi vediamo rizzarsi una volontà
imperiosa ed energica, vediamo la malizia intelligente di quel
sorriso; quelle pupille brune che hanno del falco e della colomba
insieme ci rivelano un temperamento di squisita e superiore
femminilità. La donna che ha ispirato una simile tela doveva essere
forte e soave. è per questo che io l'amo. Oh! ma dite se non è un
dolore a pensare che quelle mani nate per guidare alla luce si sono
disfatte sotterra in preda ai vermi!

--Non si saranno rinnovate esse?

Così mormorai timidamente--e poiche vidi lo sguardo di Lui fisso sulle
mie mani mi sentii presa da un grande turbamento. Per qualche minuto
non osservai più nulla di quello che seguì.

Attraversammo due o tre altre stanze, finchè, davanti a un uscio
semichiuso, mio cugino disse:

--È la mia camera.

Intravidi confusamente il biancheggiare di un letto in mezzo a due
alte librerie di stile severo. Lì accanto si apriva una specie di
terrazzo coperto dove stavano riunite le memorie dei suoi viaggi:
curiosità levantine, oggetti artistici dell'Italia, manifatture
inglesi, gingilli francesi, armi spagnuole.

--Non vi riposerete un momento?--disse Lui.

Sedemmo in ampie e comode poltrone coperte di cuoio davanti a una
tavola tutta ingombra di carte geografiche, di disegni, di atlanti.
Egli prese un Album e aprendolo:

--Volete vedere i miei schizzi a matita?

Un centinaio di disegni sfilarono sotto i miei occhi colle linee vive
dell'impressione côlta dal vero. Qualcuno sembrava appena abbozzato,
qualche altro più attentamente condotto aveva finezze di artista.

--Siete stato in tutti questi luoghi?--domandai meravigliata e quasi
invidiosa di tante memorie.--Quante cose sapete!

Mio cugino, poi che Alessio e Orsola si estasiavano innanzi a un
gruppo di ouistiti impagliati, prese a voltarmi i fogli dell'Album
attirando la mia attenzione sui punti che lo avevano maggiormente
interessato, facendomi passare dal Bosforo al Tamigi, da Pompei a
Trianon, da Saragozza a Norimberga. A un tratto disse:

--Questa è una vecchia strada di Parigi.

--Parigi!--esclamò Alessio correndo verso di noi--dove sta il babbo.

Anche l'Orsola colpita da quel nome, volle venire a guardare dietro la
spalliera della mia poltrona e la udii che mormorava tornando al
gruppo degli ouistiti: "Non vale proprio la pena di lasciare il
proprio paese." Io arrossii lievemente ponendo la mano distesa sotto
la fronte a schermo degli occhi. Egli vide e con grande delicatezza
cambiò la corrente delle idee, sorvolando sul mio imbarazzo sì che
l'antica tristezza, per un momento risorta, tornava a quietarsi
nell'onda di letizia che mio cugino sapeva diffondere intorno a sè;
una letizia profonda e serena di spirito superiore, di chi sa elevarsi
al disopra di ogni miseria umana e dominarla. Era precisamente questa
impressione di sentirmi sorretta e portata che mi faceva stare tanto
bene accanto a Lui, che mi metteva nel cuore una fiducia più dolce di
qualsiasi sentimento, che mi faceva trovare qualche cosa della
indulgenza di un maestro buono anche nelle sue violenze. E là nella
sua casa, nella casa piena di Lui, sentivo l'orgoglio e la soavità
insieme d'essergli parente.

Una scaletta esterna mascherata sotto le rose ci condusse nel giardino
ampio e riccamente ombreggiato.

--Dovete dimenticare--disse mio cugino--il viale così ben tenuto della
vostra villa per trovare qualche vaghezza in questa boscaglia.

Non ero di tale opinione. Qualsiasi altro giardino non avrebbe vestito
meglio la casa bizzarra alle cui muraglie nere salivano i tralci dei
rosai con una violenza di fioritura che nessun artificio frenava. Era
un irrompere di rose di tutti i toni, di tutti i colori, bianche,
scarlatte, gialle, che si aggrovigliavano in libera scelta, ottenendo
effetti impreveduti di contrasto e sinfonie armoniche che l'arte più
sottile non avrebbe neppure immaginato e dietro a queste rose le alte
querce si profilavano sulla trasparenza del ciclo, solenni e austere.

La mia ammirazione restava muta, mentre l'Orsola si diffondeva in
esclamazioni e Alessio faceva dieci domande ad ogni minuto. Mi
scendeva sopratutto intimo e inebbriante al cuore il piacere che
trapelava dagli occhi e dalla voce di mio cugino; quantunque Egli non
abbandonasse il contegno riserbato che era in lui duplice effetto di
educazione e di natura, sentivo nella mia dolcezza la dolcezza sua.
Non so fino a quando sarebbe durata l'estasi di quella visita se
l'orologio suonando non ci avesse ammoniti che il tempo passava.

--Signore Iddio--fece Orsola--come è tardi!

Ci accomiatammo sorridendo, un po' trasognati, come presi da un
incanto. Prima di uscire dal giardino Egli si accostò a un cespo di
rose carnicine e staccandone un fiore me lo porse.

--È la rosa della mia bisavola--disse.

Non vidi la strada del ritorno. Pietro ci aspettava dieci passi fuori
della porta, guardando ora a destra ed ora a sinistra con una mano sul
fianco, perchè non era mai capitato un ritardo simile. Quando ci vide
tutti e tre, mise fuori un gran sospiro di sollievo.

--Di che cosa temevi, buon Pietro? l'orco non c'è più.

--Temere bisogna sempre.

Così rispose Pietro che rappresentava in casa mia il senno e la
prudenza e forse per non lasciar svanire l'effetto del consiglio,
durante gli ozî del pomeriggio festivo, raccontò ad Alessio la favola
del lupo che si era messo una pelle di pecora per poter penetrare
nell'ovile.

--Pietro--gli dissi ridendo--tu sei pessimista. A udirti bisognerebbe
diffidare del mondo intero.

--Gli uomini sono cattivi, signora.

--Tutti?

--Tutti un poco e a certe ore.

Mi affrettai a togliere dalla testina di Alessio questa affermazione
recisa dicendogli che gli uomini sono sempre buoni purchè il vogliano.
Io ne ero tanto persuasa! Parlai, giuocai e risi con Alessio durante
il resto del giorno. Verso sera caddero quattro goccioline di pioggia
che ci impedirono di scendere in giardino. Alessio allora andò in
cucina dove l'Orsola stava preparando certe conserve di suo gusto ed
io mi posi al cembalo. Da quanto tempo non me ne occupavo più! Le
cartelle di musica si trovavano in un grande disordine. Non sono mai
stata una esecutrice di molto valore, avendo piuttosto disposizione
per il canto che per la musica, ma conoscevo abbastanza bene gli
spartiti di Porpora e di Scarlatti. Cercando così in mezzo alla
vecchia musica, trovai una canzone che avevo dimenticata e mi venne
voglia di provarla. Mi posi a leggerla con tanto ardore che non udii
il passo di mio cugino; quando me ne accorsi smisi subito.

--Perchè?--Egli disse--ve ne prego, continuate.

--Oh! non merito un pubblico.

--Vi ho consigliato altre volte di non abusare della modestia, è una
virtù deprimente. Scommetto che avete fra le mani un gioiello;
lasciatemi almeno vedere.

--È una canzone antica.

--Che fa? Sono spesso così graziose queste canzoni. Incominciamo a
leggerla.

    "Un grido sconsolato
    "cade del mondo ai piè;
    "l'Amore s'è involato,
    "l'Amor, l'Amor dov'è?"

--Ebbene, dove volete trovare una spontaneità più fresca e più
giovanile?

    "Spente son le tede,
    "Solo nascosto egli è...
    "cercatelo con fede,
    "l'Amor, l'Amore c'è!

    "Chiuso nel breve volo
    "è forse d'un pensier
    "o in uno sguardo solo
    "o in un lungo tacer.

    "o nella stretta altera
    "d'una mano di gel,
    "o dentro una chimera
    "o in un sogno di ciel.

    "o nell'odio o nell'ira
    "o nella cieca fè...
    "Se ride o se sospira
    "s'anche è nascosto c'è!"

--Non è bella? non è bella? Ah! possibile!

Trasse una sedia accanto e si pose a cercare le note. Io allora lo
aiutai, meravigliata dell'accento che Egli dava alla sua
interpretazione.

--Anche musicista siete?

--Sicuro, sicuro. Tutto. Ma sapete che è carina la canzone? Via,
fatemela sentire colla vostra bella voce. È appunto per soprano.

Non c'era garbo a rifiutare e cantai. Egli mi ascoltò con quella
passione interna colla quale faceva ogni cosa, tenendo gli occhi non
su di me e non abbassati a terra ma fissi innanzi nel vuoto dove certo
vi era un mondo visibile per Lui solo: ma egli doveva pure vedermi in
quel mondo e tale pensiero mi metteva un calore nelle vene di cui la
mia voce doveva risentirsi.

Quando ebbi finito non disse brava, ma vidi che stringeva le labbra in
quel modo che io conoscevo e me ne venne al cuore una improvvisa onda
di dolcezza. Allora anche, non so come nè perchè, una ignota voce
d'istinto mi suggerì: Fuggi! Ma in qual maniera avrei potuto fuggire?
E dove? Senza mostrare di accorgersi del mio turbamento, Egli riprese
la canzone alla terza strofa:

    "Chiuso nel breve volo
    "è forse d'un pensier,
    "o in uno sguardo solo
    "o in un lungo tacer."

Quelle parole dette da Lui, mi producevano un turbamento nuovo che io
credetti di poter dissimulare andandomi a sedere lontano e prendendo
fra le mani un lavoro.

Il giorno dopo, quando Egli mi disse: Non vorreste cantare
oggi?--risposi di no ed Egli non insistette; tuttavia il motivo di
quella canzone risuonava intorno a noi così morbido ed insistente e
tacitamente inteso che pareva una carezza sospesa nell'aria. E ancora
nelle sere seguenti, nè io cantai nè Egli me ne richiese, ma la
canzone stava in mezzo a noi calda e palpitante come persona viva.


Intanto si era giunti all'agosto; la temperatura continuava a
crescere, benchè le giornate fossero più brevi e il malessere prodotto
dall'afa sembrava giustificare una sensazione di languore che mi
prendeva spesso in mezzo alla gioia rinascente della mia vita.

Passavano i giorni e le settimane in una grevezza di piombo fuso; io
perdevo ogni energia. L'Orsola scrutando il cielo sentenziava: Questo
tempo non cambia fino alla luna nuova.

L'alba del 26 agosto mi schiuse le palpebre dopo una notte agitata e
piena di sogni. Mi alzai rapidamente e assicuratami che Alessio
dormiva tranquillo scesi in giardino e mi posi a passeggiare; ma ben
presto il giardino mi parve angusto, escii nella campagna, presi i
viottoli, costeggiai i ruscelli, entrai nei boschi, respirando con
delizia l'aria del mattino ed esponendo il volto alla carezza dei rami
che mi sprizzavano sulle gote accese una pioggerella di rugiada. Pei
meandri intricati della selva i miei capelli si sciolsero e piovvero
su di essi fogliuzze di robinie e profumati fiori di calicanto.
Nell'erba umida le mie scarpe leggere perdettero ogni consistenza ed
io sentivo il terreno molle sotto le piante dei piedi. Mi avanzavo
nella luce del sole nascente, nell'umidore dei prati e i calici
bianchi dei convolvoli e gli occhi azzurri delle pervinche si aprivano
intorno a me come mani tese di amici, come sguardi di sorelle. Tutti i
rumori del bosco erano canzoni, i pigolii dei nidi erano tutte
preghiere ed io pure cadendo in ginocchio pregai in mezzo alla natura
in festa come dinanzi all'altare di Dio.

....................................................................

Quando feci ritorno nella mia camera Alessio si svegliava allora
chiamando mamma.

Il resto della mattina dovetti impiegarlo nel regolare con Pietro i
conti di casa; poi venne il dottore a visitare l'Orsola che aveva la
tosse e più tardi due suore della carità a cercare l'elemosina per i
fanciulli abbandonati. Le ore terribilmente lunghe del pomeriggio le
passai coricata sul divano del salotto dove dormii e sognai di essere
sospesa sopra un'onda in mezzo a un mare burrascoso e quanto più
cresceva la burrasca l'onda si alzava portandomi in alto. Prima di
pranzo scrissi una lettera d'affari e lessi per una mezz'ora Pascal,
ma mi parve freddo. Il suo ritratto sul frontispizio del libro
allontanava la mia simpatia; non è così che m'immagino un pensatore,
un uomo fatto per trascinare le anime. Non dovrebbe egli avere una
gran luce negli occhi?

Verso il tramonto l'afa crebbe a dismisura, il cielo andava coprendosi
di nubi; io ero spossata fino all'esaurimento. Quando venne mio cugino
mi trovò seduta sotto i rosai accanto alla casa, non avendo nemmeno
avuto lena di percorrere il sentiero.

Era forse un po' prima dell'ora solita. Insensibilmente Egli allungava
il tempo di stare con me; eravamo entrambi sempre più desiderosi di
vicinanza, di comunione, ed era in entrambi una gran voglia di dirci
tutto, tutto, fino i pensieri fuggevoli di un istante. Da me a Lui le
più semplici parole si vestivano di un fascino misterioso che subivamo
insieme, sì che eravamo giunti a intenderci con uno sguardo, con un
piccolo movimento del capo. Qualche volta si diceva nello stesso tempo
la medesima cosa.

--Soffrite?--domandò prendendomi il polso.

--Siete anche medico?--domandai alla mia volta sorridendo e senza
aspettare la sua risposta soggiunsi--No, sto bene.

Stavo in quel momento veramente bene, con una dolcezza che mi
allacciava tutta, per cui anche lo spossamento prodotto dal caldo si
mutava in un simpatico languore.

--Che cosa avete fatto oggi? tornò a chiedere Egli, riconducendo
delicatamente il mio polso sovra i miei ginocchi.

Dovetti rispondere anche questa volta, come tante altre, _nulla_,
quantunque fosse così vivo in me il desiderio di potergli raccontare
cose grandi e belle. E cademmo nel silenzio, strano silenzio che
sembrava crescere in proporzione del desiderio di parlare ma che era
tanto dolce, dolce come non saprei dire.

In quello stesso posto, accanto ai rosai, vedevo sorgere lentamente la
mia immagine piccoletta in un giorno in cui me ne stavo fra il babbo e
la mamma, tutta festosa per un abitino che portavo per la prima volta,
chiaro, a piccoli mazzi di ciliegie. Cogliele! cogliele! mi diceva
Pietro che passava innanzi e indietro annacquando i fiori. Se mio
cugino mi avesse vista allora! E se mi avesse vista quando caddi nel
serbatoio dell'acqua per pigliare una farfalla che vi si era posata
sopra! E quando trovandomi accanto al cancello col grembialino pieno
di nocciuole le diedi tutte a un vecchio mendicante che aveva fame e
che intascò le nocciole gettandovi sopra uno sguardo desolato! Il
giardino conosceva la mia vita, anno per anno, giorno per giorno, mi
aveva vista a ridere, mi aveva vista a piangere, mi vedeva ora immersa
in quei pensieri; poveri pensieri senza dubbio, pensieri di donna....
Voltai la faccia per vedere che cosa faceva intanto mio cugino. Egli
aveva preso un velo bianco che mi ero levata dal collo nei momenti
della maggior caldura e lo teneva fra le mani brancicandolo, mi parve,
con una nervosità insolita.

Temetti di averlo annoiato col mio silenzio e gli rivolsi la parola.
Egli non mi rispose che con un monosillabo inconcludente. Allora,
poichè una corrente fresca aveva rotto improvvisamente l'aria, volli
riprendere il mio velo ed Egli me lo cedette a stento, sempre senza
parlare, con uno sguardo smarrito che non gli avevo mai visto. L'aria
doveva essere molto mutata se, annodandomi intorno al collo il piccolo
velo avvertii una sensazione assolutamente piacevole, tanto che lo
strinsi e strinsi vieppiù per sentirmelo meglio contro la pelle.

--Il tempo muta, dissi poi, incominciando a provare l'inquietudine di
un silenzio troppo prolungato.

Mio cugino sollevò gli occhi, guardò il cielo qua e là, rispose: Può
darsi. E per quanto io cercassi alcuna cosa da aggiungere non trovai
altro.

Sorgevano intanto i lievi rumori della sera, gli insetti che si
ritiravano nelle loro tane, qualche cane che abbaiava in lontananza,
qualche foglia che cadeva nella grevezza dell'ora quasi gemendo di
avere resistito tutto il giorno invano. Nella casa, il lume portato a
mano dall'Orsola vagolava di camera in camera presiedendo i
preparativi per la notte.

--Mamma--gridò Alessio dalla soglia dove era stato fino allora a
trastullarsi con Pietro--ho sonno.

--Vengo, amor mio.

--Non allontanatevi--disse Lui; e la sua voce era di chi abituato a
comandare, prega a fatica.

--Ma è l'ora.

--No, non è l'ora.

--Guardate come è buio.

--È il temporale che si prepara.

--è vero. Che cielo minaccioso!

Restammo cosi qualche istante, incerti, quasi cercando una parola
suprema per spiegare una sensazione ignota. Alessio tornò a gridare:
Mamma, ho sonno!

--Addio--pronunciai rapidamente levandomi in piedi.

Egli ripetè con una dolcezza penetrante:

--Non allontanatevi.

--Il bimbo ha sonno, siate ragionevole, amico mio.

Dissi _amico mio_, come non dicevo mai, perchè mi parve che in
quel momento Egli avesse bisogno di una parola gentile.

Rispose rassegnato: Addio. Io raggiunsi la scala senza voltarmi
indietro, seguendo Pietro che portava il piccino già mezzo
addormentato.

Quando Alessio fu disteso nel suo lettuccio, quando l'ebbi baciato e
ribaciato, tornai in anticamera a domandare a Pietro se aveva
accompagnato mio cugino per fargli lume in quella sera tanto buia. Il
mio domestico rispose che il signore era già partito e che egli era
arrivato appena in tempo a chiudere il cancello.

--Bene--gli risposi--andate pure a coricarvi.

Era veramente ancora presto, non avevo sonno. Pensai di finire la
serata leggendo quietamente, ma non trovai subito il libro che cercavo
e mi indugiai un poco intorno alla musica, decisa tuttavia a non
suonare per non svegliare Alessio. Volli continuare il mio ricamo ma
sul gomitolo non c'era quasi più seta. Allora rimasi a lungo ritta nel
mezzo della stanza, colle dita intrecciate dietro il dorso, immobile.
Non so se mi parve solamente o se davvero qualche cosa di lieve battè
intanto contro i vetri. Mi avvicinai alla finestra e l'apersi. Il
tempo era sempre minaccioso; mi sporsi fuori sul davanzale guardando
giù nel giardino. Dovessi vivere mille anni non dimenticherò mai più
la voce che intesi:

--Myriam, sono io, ho bisogno di parlarvi.

--Quale follia--dissi procurando di conservare un tono basso e
calmo--che cosa fate ancora lì? Chiamo Pietro; egli non s'è accorto
che eravate in casa.

--Non chiamate alcuno; ho bisogno di parlarvi, ve l'ho detto.

Accorgendosi che esitavo, imbarazzata, Egli soggiunse:

--Apritemi, ve ne prego.

Accesi un lume e discesi. Nello schiudere la porta un soffio di vento
mi spense la candela così che non potei frenare un piccolo grido. Egli
tirò il catenaccio perchè l'imposta non sbattesse e prendendomi la
mano mi trasse sulla scala semibuia senza pronunciare una sola parola,
guidandosi al raggio della lucerna che usciva dal salotto. Non avevo
paura, non potevo aver paura di Lui e tuttavia tremavo. Appena giunti
nel salotto mi lasciai cadere sopra una sedia e gli chiesi
angosciosamente:

--Che cosa volete?

Oh! ma come avrebbe potuto rispondere? Era pallido, di un pallore
azzurrognolo, e i suoi occhi avevano una tale espressione di
smarrimento che indietreggiai sbigottita. Egli si pose in ginocchio e
nascondendo il volto nel mio abito vi soffocò una parola che non
intesi.

Mi sentivo diventar di gelo, colla sensazione di una sofferenza
diffusa in tutto il mio essere e poichè la sua testa stava sempre sui
miei ginocchi e le sue braccia si alzavano verso di me implorando, mi
gettai indietro col busto, irrigidita dal terrore, cercando di
sfuggire il suo contatto.

--Vi ispiro tanta ripulsione?--mormorò ancora la sua voce stranamente
alterata.

--No, no, ma lasciatemi!--gridai in un impeto di paura, di dolore, di
avvilimento.

--Myriam, vi amo.

--Non è vero.

Pronunciai queste parole con una amarezza che lo colpì. Si rizzò in
piedi, col volto disfatto, cogli occhi torvi.

--Badate, quest'ora era vostra. Non mi avrete mai più così, mai più!

Chinai il capo sotto la misteriosa minaccia, stringendomi le braccia
contro la vita con dei brividi di freddo; nè so quanto tempo passasse.
Un lampo venne d'improvviso a rischiarare il buio vano della finestra;
allora lo pregai dolcemente di andare a casa.

Ritto e fiero nel mezzo della stanza, sembrava che Egli combattesse
internamente una dura battaglia e già piegava ancora verso di me, già
aveva una supplica negli occhi.

--Andate, andate, andate.

Io ridissi questa preghiera, cercando l'accento più persuasivo, più
fermo e più dolce insieme.

Uscì senza far motto. Lo seguii fino ai piedi della scala, disfatta,
reggendomi a stento, udendo con terrore la pioggia che incominciava a
cadere.

Aperse la porta mentre uno scoppio di tuono scosse tutta la casa; la
sua alta persona balenò per un istante sulla soglia, si curvò,
disparve. Io mi accosciai a terra, singhiozzando, in preda a una
convulsione di lagrime.

L'uragano intanto si avanzava con una furia terribile, rombava
nell'aria, muggiva nelle gole dei camini, ululava svettando gli
alberi, schiantandone i rami con lunghi gemiti che parevano di persona
viva.--Mio Dio, mio Dio--mormorai colla faccia contro il
suolo--abbiate pietà di Lui!

L'acqua scrosciava violentissima; per le fessure della porta entrava
un vento gelato; i lampi e i tuoni si seguivano con una frequenza
spaventosa. Uno specialmente fu così fragoroso che credetti ne
sprofondasse la terra. Oh! dov'era Lui?... solo, nelle tenebre, fra
l'imperversare della bufera.... A questo pensiero il freddo che mi
rattrappiva le membra divenne fuoco ardente. Per un istante intravidi
la folle tentazione di correre sui suoi passi, di chiamarlo.... Mi
alzai, ricaddi, posi la mia testa infuocata sul gradino della scala,
invocai Dio, invocai la morte.... poi non seppi più nulla finchè mi
trovai fra le braccia di Pietro e di Orsola che mi ricondussero di
sopra, inerte e docile come una bambina e mi posero a letto.

Essi svegliandosi nella furia dell'uragano erano discesi per vedere se
tutti i vetri fossero assicurati e trovandomi svenuta ai piedi della
scala immaginarono che fossi discesa per lo stesso motivo, e che un
malore m'avesse côlta.... Poveri vecchietti cari! Poveri vecchi che mi
volevano tanto bene!

                    * * *

Tutta notte vegliai prestando l'orecchio al vento che non ebbe mai
posa tutta notte--e sempre con quella impressione di dolore, di colpo
portato in pieno petto. Avevo un bisogno irresistibile di piangere e
non potevo. L'incanto era rotto. Sei mesi di dolcezza, quasi di
felicità, erano dileguati, non sarebbero tornati più, distrutti da un
istante così breve. Avevo pianto tanto quando erano morti mio padre e
mia madre, eppure sapevo che dovevano morire; _ma Lui perchè aveva
fatto questo?_ Ecco, pronunciavo anch'io parole più grandi delle
altre, come certe parole che Lui pronunciava, dandomi la visione di un
mondo superiore. Egli non mi aveva creduta degna di seguirlo per
quella via. Non mi aveva amata; ah! sopratutto non mi aveva amata
mentre io fidavo tanto in lui!

A questa considerazione un fuoco violento mi salì alle guancie e un
desiderio di batterlo, di umiliarlo, di dirgli che era stato vile.
Alcune storie udite qua e là, certi apprezzamenti dei quali nella mia
assoluta ignoranza della vita non avevo compreso la portata, mi
tornavano in mente tumultuosi, maturando con una precipitazione
dolorosa tutto ciò che era rimasto incompleto nella mia piccola
esperienza di donna solitaria. È dunque così che le donne cadono ed è
di questo che insuperbiscono gli uomini? Ed Egli pure! Egli pure!!...

Strisce arroventate mi solcavano la fronte, il collo, il petto; le
tempie mi battevano disordinatamente. L'uragano era oramai una cosa
sola con me stessa; il vento che flagellava gli alberi flagellava pure
le mie membra ardenti di febbre; udivo nello scrosciare della pioggia
le mie stesse lagrime, le lagrime avare che gli occhi non volevano
darmi. Ecco, si aprivano una strada attraverso le cateratte del cielo,
scorrevano nella valle, sui monti, nelle foreste, sulle case dei
placidi dormienti, nel sonno ininterrotto dei rudi lavoratori, nella
veglia attenta e amorosa delle madri, nelle visioni alate dei bimbi,
forse in qualche insonnia pensosa di un vecchio prossimo alla
tomba.--Scorrevano le lagrime brucianti del mio cuore, insieme alle
lagrime di tutto il mondo in quell'imperversare di tutti gli
elementi.... Orrida notte durante la quale agonizzò l'anima mia fino
all'ultima resistenza del soffrire.

Neppure verso l'alba mi chetai. Orsola che non aveva voluto
abbandonarmi e che si era addormentata sopra una poltrona, venne a
toccarmi la fronte.

--Hai la febbre Myriam, bisogna chiamare il medico.

Non mi opposi e non dissi di sì, indifferente. Orsola andò subito a
svegliare Pietro perchè potesse trovare il dottore in casa prima delle
sue visite del mattino. Poi tornò al mio capezzale, mi diede da bere,
mi baciò due o tre volte le mani con una passione muta e concentrata.

--E Alessio?--disse improvvisamente--il caro piccino non s'è accorto
di nulla. Guarda come dorme!

Sollevò leggermente il velo sulla culla di mio figlio e me lo mostrò
tutto roseo nel sonno. Provai allora un impeto tale di tenerezza che
balzando fuori dal letto corsi alla culla e mi lasciai cadere in
ginocchio lagrimando. Orsola, spaventata, temeva che fossi in preda al
delirio della febbre. Per tranquillizzarla tornai a coricarmi,
lasciandomi rinvoltare da lei nelle coperte con quella docilità che le
faceva tanto piacere, e mettendomi colla faccia verso il muro
continuai a piangere adagio adagio.

Quando venne il dottore non mi trovò una vera febbre, ma solo uno
stato di grande eccitamento per il quale mi consigliò il riposo.

Non durai fatica a stare a letto tutto il giorno perchè ero desiderosa
di solitudine, di silenzio, di una libertà piena e completa che mi
permettesse di ritrovarmi colla mia coscienza. Volevo indagare la
folla di pensieri contradditori che mi agitavano commisti a
irritazione, a sdegno, a tristezza e a non so quale recondita oscura
soddisfazione che non sapevo decifrare.

Anche una curiosità mi venne e insieme un timore. Quale contegno
avrebbe Egli tenuto d'ora in avanti? Mi avrebbe chiesto scusa? Questo
lo giudicavo indispensabile. Egli aveva mancato verso di me in tutti i
modi, abusando della mia inesperienza, della mia solitudine e della
mia fiducia in Lui. Era stato vile, era stato vile. Ma dovendo
riconoscere questa terribile verità vedevo aprirmisi davanti un
abisso. A chi avrei creduto d'ora in poi? Pensavo la mia umiltà
ardente e mi vergognavo di averlo ammirato tanto, di averlo collocato
nel mio pensiero al di sopra degli altri uomini. Era forse Egli niente
più che un ipocrita?

Appena tale sospetto si venne formando dentro di me, appena il suono
delle sillabe mormorate a fior di labbro si ripercossero contro le
pareti del mio cervello, un urto di protesta mi scosse il petto, come
se qualcuno conscio e vigile avesse gridato: No!--E per un po' di
tempo ogni idea mi rimase sospesa, paralizzata.

La furia dell'uragano erasi intanto domata, non vinta interamente. Io
vedevo il cielo e un lembo di collina attraverso le tende di velo
della mia finestra. Il vento soffiava ancora ma meno impetuoso, gli
alberi resistevano, alcuni sprazzi di azzurro apparivano qua e là
vincendo la collera delle nubi.

Alessio era venuto allora a salutarmi; avevo nelle mani la freschezza
delle sue manine e sulle guancie il suo bacio un po' umido odorante di
uva spina. Nel seguire cogli occhi la sua piccola persona che si
allontanava pensai: Ecco un uomo! Così le idee ritornavano a pulsare
nel mio cervello e mi parve di vedere mio cugino fanciulletto, a
correre su e giù per le stanze della Querciaia.

No!--disse ancora la voce dentro di me.

Prendendo a esaminare la condotta di mio cugino da quel luminoso
giorno di febbraio in cui mi venne davanti (lo rammentavo nella luce
vampante delle cortine rosse) che cosa potevo io rimproverargli? Non
era stato leale sempre? Sincero sempre? Per sei mesi continui Egli
aveva portato l'elevazione nella mia anima. Sei mesi potevano bene
bilanciare un'ora. Un sentimento nuovo, quasi di compassione tenera e
materna sorgeva in me per quel torbido istinto maschile che fa
vacillare i più forti--e insieme una gioia di essergli stata accanto
nella prova, di sentire che potevo perdonargli. Innanzi a questo
pensiero sbolliva l'ira.

Ciò che vi era di generoso nella mia risoluzione mi rialzò a' miei
propri occhi e non dubitai che avrebbe ottenuto presso di Lui lo
stesso effetto.

Le mie lagrime rincominciarono a scorrere, ma così dolci! Intravedevo
già la sua confusione, il suo pentimento e la soavità di quell'istante
in cui tutto sarebbe stato cancellato. Mi fermai a questo pensiero,
perchè la mia piccola testa non reggeva a un lavorio così nuovo per
essa. Avendo trovato un punto di sostegno e di consolazione mi vi
abbandonai riposando per un po' di tempo in una specie di torpore
benefico che somigliava al sonno.

Apersi gli occhi che già le ombre della sera invadevano la camera e mi
prese il terrore che Egli venendo mi trovasse a letto. Saltai giù, mi
vestii rapidamente, passai appena il pettine nei capelli, entrai nel
salotto.

--Signore Iddio!--fece l'Orsola.

Alessio tutto contento corse ad abbracciarmi; Pietro udendo la mia
voce, venne a darmi il buon giorno. Io li persuasi tutti che mi
sentivo bene, che dal momento che non avevo febbre era inutile stare a
letto. Volli pranzare e fui molto allegra, di un'allegria artificiale,
come se avessi bevuto dello sciampagna. Però via via che il tempo
passava, mi cadevano le parole. Ad ogni stridere di ghiaia in
giardino, al più piccolo rumore indistinto trasalivo e mi prendeva una
inquietudine che non mi fu possibile nascondere a lungo.

--Penso, signora (l'Orsola in presenza di altri, fosse pure solamente
Alessio, non usava mai il tu) che avrebbe fatto meglio a non muoversi.

--Forse hai ragione.

--Vuol tornare a letto?

--Aspettiamo ancora un momento...

Tenevo Alessio contro i miei ginocchi mostrandogli le figure di un
libro di storia naturale, ma ero agitata per modo che non riuscivo a
voltare i fogli: a un tratto dissi:

--Deve essere ben tardi!

--Sicuro che è tardi--replicò la mia buona Orsola, insistendo nella
sua idea--appunto per questo deve coricarsi.

Mi alzai, inquieta, senza rispondere e andai ad appoggiarmi al
davanzale della finestra dalla quale si scorgeva il viale in tutta la
sua lunghezza e le aiuole del giardino peste e malconce.

--Poveri alberi, poveri fiori, come sono ridotti!--esclamai
compassionando essi e il mio cuore insieme.

--Il temporale di questa notte è stato una rovina. Due alberi furono
sradicati a poca distanza di qui e il figlio dello scaccino che si
trovava in istrada venne buttato a terra dalla furia del vento.

Queste notizie non erano fatte per calmarmi. Egli pure si trovava in
istrada sotto la bufera; io stessa ve lo avevo cacciato! Una specie di
rimorso si aggiunse alla mia inquietudine e rimasi cogli occhi fissi
sul viale, incantata da una nuova visione di dolore.

Entrò Pietro colla lucerna accesa. Io dissi ancora:

--Ma è dunque ben tardi!

Dietro l'inquietudine, dietro il rimorso, ecco sorgere una malinconia
acuta che mi dava al cuore delle strette di morsa. Perchè non
veniva?... Vi fu un momento in cui Alessio seguì l'Orsola in cucina ed
io tornai a precipitarmi col busto fuori della finestra come se avessi
potuto attirarlo col desiderio. Perchè non veniva?

Il cielo era buio con poche stelle. Un'aria purissima, frizzante,
tutta imbevuta dei fiori e dei rami recisi palpitava al di sopra degli
alberi, sembrava il respiro stesso della notte adagiata ne' suoi umidi
veli. Dopo tanti giorni di caldura opprimente quella freschezza
appariva una benedizione. Ma perchè Egli non veniva?

A un tratto l'Orsola si presentò sulla soglia colla determinatezza di
una risoluzione invincibile:

--Cara signora il letto è pronto.

Risposi opponendo una fiacca resistenza, mormorando: Sì, sì.... E mi
indugiai a guardare i quadri appesi alle pareti, a raddrizzare un
fiore nella giardiniera, a stendere sulle poltrone un ricamo gualcito.

Feci una sosta esterefatta innanzi alla pendola del caminetto; la
sfera segnava nove ore. Nessuna illusione era più possibile.

--Andiamo--sospirai con un accento così debole che Orsola dovette
indovinarlo più che sentirlo.


Poco dopo tutta la casa era buia, tutti gli usci e le finestre chiuse,
il silenzio profondo. Cogli occhi sbarrati nella oscurità io mi
domandavo ancora: Perchè non è venuto? e di tutti i sentimenti provati
in quelle ventiquattr'ore; lo sdegno, la vergogna, la pietà, il
perdono, il rimorso, la tristezza, quest'ultima sola rimase dilagante,
sconfinata.

Che cosa era dunque accaduto che io non potevo indovinare? e d'onde mi
veniva tanto dolore per un fatto che avrebbe dovuto offendermi anzi
che rattristarmi? Avevo paura de' miei pensieri, avevo paura
d'indagarli. Volli dormire ma non vi riuscii, quantunque il sonno mi
gravasse le palpebre. Un'idea mi stava fissa nel cervello
tormentandolo: Ieri a quest'ora Egli era qui!

Con una incoscienza di sonnambula scivolai fuori dal letto, riaccesi
il lume, tornai nel salotto. Là mi fermai immobile. Quello era il
posto, quella l'ora. La medesima sedia sulla quale ero stata seduta
quando Egli mi si inginocchiò davanti era ancora vicino alla tavola,
un po' di traverso, come aspettando. Che ansia mi prese nel rifare a
memoria il piccolo colpo che mi era parso di udire contro i vetri....
Non osai aprirli, non osai! Mi posi sulla sedia e mi sembrò che
ardesse. Una allucinazione strana mi faceva sentire il calore del suo
respiro, la sua testa appoggiata a' miei ginocchi, le sue mani alzate
a implorarmi--e non era più una sensazione di spavento, era una
sensazione di ebbrezza.... Dio! Dio! ma dunque lo amavo!

Quale nuovo abisso di pensieri e di dolore! Mi chiusi la fronte
coll'istintivo bisogno di sfuggire a tutto quello che mi circondava, a
me stessa se avessi potuto. Pensare non era più possibile; nessuna
idea, nessun concetto, nessuna parola riusciva a rompere la pesantezza
del mio cervello che avrei potuto credere paralizzato se una specie di
chiodo martellante sul cranio non mi avesse dato colla sensazione di
una orribile sofferenza anche quella della vita.

Chi sa quanto tempo rimasi là, sola! La candela si accorciava a poco a
poco e le ombre crescevano nella stanza disegnando sul pavimento delle
lunghe striscie mobili che mi facevano trasalire. Un gran freddo che
mi prese prima alle braccia e poi in tutto il corpo mi ricondusse nel
mio letto, dove appena giunta spensi il lume e mi gettai colla faccia
in giù, sprofondata, annientata.

Ebbi veramente la febbre, così che rimasi alcuni giorni in preda a un
torpore continuo. Solamente verso sera mi prendeva un po' di
inquietudine e spiavo i rumori di fuori, ma nessuno e nulla entrò
dalla porta invincibilmente muta; non una persona, non una lettera.
L'agonia della aspettativa si prolungava nel modo più straziante; io
non avrei mai creduto che il silenzio potesse torturare con tanta
raffinatezza.

Una sera, sentendomi un po' meglio, Alessio giuocava seduto sul mio
letto. A un tratto esclamò:

--Ma perchè nostro cugino non viene più?

Chinai il capo con una confusione di colpevole e Pietro che era
entrato colle medicine mi disse di aver visto il suo servitore e
saputo da esso che il signore si trovava assente. Fu un momentaneo
sollievo; Pietro soggiunse di avergli a sua volta comunicato la
notizia della mia malattia e questo mi turbò. Che cosa ne avrebbe
pensato Egli? E dove si trovava? E perchè era partito? E quando
sarebbe ritornato?

Nuovi pensieri, nuove congetture, nuovi dubbi e terrori; nuova
angosciosa aspettativa.

Altri eterni giorni passarono ancora. Mi ero ristabilita in salute, ma
vagavo per la casa come un'anima in pena, o piuttosto come un corpo
che ha perduta la sua anima. Una mattina l'Orsola venendo in camera a
portarmi il caffè disse che c'era stato un uomo della Querciaia a
domandare mie notizie in nome del suo padrone che era ritornato. Mi
balzò il cuore per la gran gioia. In tutti quei giorni di sofferenze
avevo quasi dimenticata l'offesa, solo sentivo il vuoto della sua
lontananza. E ricominciai ad aspettare un giorno, due giorni....

Mi trovavo con mio figlio presso il cancello del giardino--era un bel
pomeriggio di settembre--Alessio stava scuotendo un alberello di
piccole mele rosse quando si pose a gridare battendo le mani:

--Eccolo, eccolo!

Come può reggere il cuore a simili commozioni? il fragile cuore che si
spezza così facilmente, che per un lieve urto sospende tante volte per
sempre il suo battito? È una cosa che non ho mai potuto capire. Il mio
cuore in quel momento parve voler scoppiare e subito dopo, quando Lo
vidi ritto innanzi al cancello, si strinse improvvisamente, impietrò.
Sentivo che una maschera di gelo copriva la mia faccia.

Alessio che aperse il cancello e gli corse fra i ginocchi
tempestandolo di domande mi lasciò il tempo di trovare un contegno
indifferente, il solo dietro cui potessi riparare in quel subito
assalto.

Veniva Egli coll'intenzione di farmi visita, o passava per caso e per
curiosità? Non lo seppi mai.

Egli ad onta della grande disinvoltura, evitò nei primi momenti di
parlarmi direttamente e dopo di avermi salutata si rifece con Alessio
rispondendo con una certa agitazione alle sue domande infantili. Solo
più tardi mi chiese:

--E la vostra salute?

--Io sto benissimo, sono sempre stata bene; sapete, i miei vecchi mi
amano tanto che trasformano in una malattia ogni mia emicrania.

Mentii così, con piacere, per un bisogno pudico di nascondergli le mie
sofferenze. Egli mi prese alla lettera, sbozzò un sorriso e raccattato
un sasso sul viale invitò Alessio a una sfida di tiro contro un punto
lontano. Chiacchierò poi del più e del meno con volubilità, senza
approfondire nessun argomento. Mezz'ora prima del pranzo prese
commiato.

Questa visita mi lasciò un lungo strascico di amarezza, un
malcontento, una inquietudine. Tornò due giorni dopo alla stessa ora,
col medesimo contegno distratto e superficiale. Alla terza o alla
quarta visita compresi che la spiegazione non sarebbe più venuta.
Tutto era finito nel modo più impreveduto e più volgare.

Ma se tutto era finito esternamente, le dolci sere passate insieme, i
lunghi colloquii, le confidenze, le trepide attese e la irrompente
gioia di sentirmi vicina un'anima come la sua, non era finita, no, la
trasformazione della mia anima.

Egli mi aveva presa su di un piccolo romito sentiero e sollevandomi in
alto colle sue ali poderose mi aveva mostrato gli orizzonti della
vita. Ora toccava a me a salire colle mie proprie ali. Era il momento
di mostrarmi degna di Lui.

Io avevo bene letto (poichè leggevo ora) che si inghirlandano i
battelli e le leggere navicelle prima di lanciarli sulle onde in preda
ai turbini e alle tempeste. Avevo avuta io pure la mia ghirlanda,
basta. Può un fiore durare più di un fiore?

Ma mentre mi rendevo così ragione di tutto non ritrovavo la calma.
L'amo! l'amo! l'amo! Questo grido disperato echeggiava per tutti gli
angoli della mia casa, nel salotto austero che prendeva sotto il sole
un ardore di fiamma, nel giardino tante volte percorso insieme, nel
bosco delle acacie dove una sera mi ero sentita invasa dai suoi
ideali, alla finestra che sembrava aver ritenuto l'eco della sua voce
prorompente nel silenzio della notte, sul guanciale in cui avevo
soffocati i primi singulti del mio amore. Strana e dolorosa ironia,
finchè Egli mi era vicino e fedele non mi ero accorta di amarlo; ora,
ora divampava l'incendio, ora che lo perdevo!

Un acuto martirio diventarono da allora in poi i nostri colloqui, dove
al simpatico abbandono subentrava la diffidenza e l'osservazione
continua. Il non venir più alla sera, in quell'ora che sembra
stringere più dolcemente gli affetti, mi dava una vera e profonda
malinconia. Sembrava una tacita conferma della sua minaccia: _Non mi
avrete mai più così, mai più!_

Soffrivo e non volevo mostrarglielo; piangevo in segreto e mi
presentavo a Lui sorridente e gaia; ma a tutto il mio lavorio di
indifferenza Egli ne opponeva un altro egualmente tenace di durezza,
quasi di sprezzo. Il maggior punto della sua difesa in questo senso
era di non intrattenermi più de' suoi pensieri, de' suoi progetti, de'
suoi sogni. Se tentavo di ricondurlo su questa via, se gli chiedevo di
Lui, rispondeva: "Oh! che volete mai che vi dica!" e vi era tutto un
sottinteso di allontanamento e di freddezza che mi feriva nel più
profondo del cuore.

A volte la sua crudeltà mi suggeriva una fiera ribellione. Avrei
voluto dirgli che se uno di noi era l'offeso, uno di noi l'ingannato,
uno solo era anche in diritto di freddezza e di sprezzo e quell'uno
era io. Ma appena queste parole sorgevano dall'intimo mio sdegno al
varco delle labbra un gran rossore mi invadeva tutta; mi pareva che
avrei sopportato qualunque cosa piuttosto che ritornare io stessa alla
memoria di quella terribile sera. E ancora dicevami la voce intima
della coscienza: Sei tu sicura che Egli sia il solo colpevole? Questo
amore così tardi rivelato al tuo debole spirito non s'era già tradito
agli sguardi veggenti di Lui? Puoi giurare che un gesto, un motto, un
improvviso colorirsi e scolorirsi del volto, una stretta di mano più
intensa, un solo lungo attendere della pupilla non gli abbiano fatto
palese ciò che tu ignoravi? Non ha tremato la tua mano in quella sera
stessa prendendo da Lui il piccolo velo che doveva avvolgerti il
collo? E allora, e allora, perchè accusarlo solo? È Egli il solo
colpevole?

Alla fine di queste lotte violenti con me stessa chiedevo: Che cosa
farò? Cessare di amarlo mi pareva impossibile. Il resto era mistero.

Pensavo qualche volta alle persone saggie che in ogni circostanza
della vita si tracciano una linea di condotta; per parte mia non
riuscivo nemmeno a capire che cosa possa essere una linea di condotta.
Volevo fare ciò che è bene e compiere il mio dovere sempre, ma quale
era in quel momento il bene e quale il mio dovere? La mia coscienza
era troppo vicina al mio cuore forse, e non mi trovavo altri
consiglieri accanto. Nel caos di queste idee una sola emergeva chiara
e sicura: la necessità di nascondere a Lui lo stato dell'anima mia e
non saprei nemmeno se tale sicurezza mi veniva direttamente dal mio
dovere o se molta parte vi avessero l'orgoglio, la dignità e il
desiderio di vincerlo in questa battaglia.

Passò in tal modo tutto settembre; venne l'ottobre co' suoi cieli di
madreperla. Il viale del mio giardino si coperse di foglie rosse e
gialle: le acacie si facevano esili di giorno in giorno rarificando
il bosco, quasi tutte le rose erano morte. Compresi per la prima
volta e penetrai a fondo la grande tristezza dell'autunno.--E
tuttavia--pensavo--rifioriranno le rose, il bosco rinverdirà--io
sola non avrò più nè fronde nè fiori!

Il tempo piovoso mi tenne chiusa in seguito nel mio appartamento dove
lessi molto. Chiesi a mio cugino se non avesse altri libri da darmi ed
Egli rispose che non credeva averne di _addatti per me_. Un
sorriso ironico accompagnò queste parole. Andavo abituandomi a quella
ostentazione di disprezzo; non era, non poteva essere sincera e avendo
coscienza di non meritarla restavo impassibile sotto i colpi, gemendo
nel mio interno e struggendomi in una malinconia senza nome. Egli
avrebbe forse desiderato di vedermela questa malinconia, sul volto, ma
la nascondevo invece come il mio più geloso segreto.

Una volta restammo soli. Cadeva il giorno abbreviato da una nebbia
umida e densa. Non reggendo più a ricamare nella luce incerta della
finestra mi alzai per mettere a posto il lavoro e trovandomi accanto
al cembalo mi posi a riordinare la musica, così, automaticamente,
forse per sfuggire un'intima sensazione di imbarazzo. Egli aveva certo
un progetto nella sua mente perchè mi si avvicinò col volto torbido e
chiuso.

Ponevo allora la mano sulla canzone antica. I ricordi della sera
felice in cui l'avevo cantata per Lui mi diedero una stretta al cuore
così violenta che sentii il bisogno di padroneggiarmi. Feci scorrere
le dita sulla tastiera e ne trassi il motivo più allegro e più comune,
insistendovi, colla tenacia aperta di chi vuole ubbriacarsi a
qualunque costo. Colla coda dell'occhio vedevo il suo volto
contrariato e pensavo:--Oh! se parlasse adesso! Ma nello stesso tempo
ero presa da un terrore folle che mi faceva precipitare le note in una
ridda vertiginosa di un effetto violento. Aveva Egli detto qualche
cosa? mi pareva poichè per un istante il suo respiro era venuto verso
di me recando un suono; ma che cosa aveva detto? Temevo troppo di
saperlo. No, no, quello non era il momento. Lo avevo aspettato per
tanto tempo; ora non più. Non ero preparata... non ne avevo la
forza.--Lo... lo... ma la fatale parola che echeggiava tutto intorno a
me non dovevo nemmeno in quel momento pensarla. Ah! Se invece di
parlare Lui, avessi parlato io? aah! aah!... se mi avesse indovinato?
mai, mai, questo mai!

Rovesciai la testa indietro come trascinata dalla musica, presa da un
accesso di ilarità convulsa e prolungata. Egli stava in piedi e teneva
fra le mani un piccolo regolo che aveva levato in quel momento dal
tavolino. I nostri occhi si incontrarono con un incrociamento acuto,
quasi feroce da parte sua. "Vi batterei" disse. Se non fosse stato
quello sguardo avrei potuto credere che si trattasse di uno scherzo,
ma in quello sguardo avevo veramente sentita la percossa.

...................................................................

Una donna d'ingegno od anche solo esperta della vita e del cuore umano
avrebbe saputo trovare la parola efficace nel momento opportuno per
finire una situazione equivoca e penosa. Io no. Riconoscevo la mia
pochezza, la mia assoluta inettitudine. Amare e soffrire; non potevo
far altro. Era forse per questo che Egli mi disprezzava? Non sapeva
dunque che cosa vuol dire amare? Le altezze sublimi del suo spirito
non lo avevano ancora portato su quella vetta dove l'universo
scompare, dove senza pompa e senza riti si compie nel mistero della
natura l'olocausto di un essere a un altro essere. Egli che aveva
creduto di vincermi in un amore piccolo e volgare non sapeva di quale
fiamma ardevo io. Non sapeva, non sapeva, Lui che sapeva pure tanto
della vita!


Questo pensiero era il mio unico conforto, il mio rifugio, il mio
orgoglio.

Ma il contegno di mio cugino doveva mutare ancora. Non più iroso nè
sdegnoso, non più l'intenzione visibile di offendermi che era pure un
modo di occuparsi di me; egli trovò un sistema di spensieratezza, di
giocondità impudente che mi feriva molto di più e che mi disorientava.
C'era in esso questo sottinteso: Povera donnicciuola che ti lusingasti
per un istante di avermi allettato colla tua giovinezza appassita, la
tua triste casa, il tuo piccolo cuore--vedi il volo della mia forte
gioventù e fatti da parte. Nulla abbiamo di comune, io non mi curo di
te.

Così ad ogni nuovo colloquio, contrariamente ai primi che tanta gioia
e tanta ricchezza mi portavano, mi sentivo sempre più povera e
meschina. L'evidente suo desiderio di ritogliermi tutto quello che mi
aveva dato di simpatia, di stima, di confidenza, di devozione, di
elevazione sembrava veramente farmi il vuoto d'intorno. Il filo che ci
teneva uniti si assottigliava di volta in volta spaventosamente e il
timore che si spezzasse mi faceva trascorrere fra un'ansia indicibile
i giorni in cui non si lasciava vedere. Io volevo riconquistarlo a
qualunque costo.

Oh! le malinconiche serate dell'inverno, con Alessio che si annoiava
sui suoi libri dipinti, con Orsola e Pietro che mi guardavano in
silenzio dal fondo dei loro occhi semplici e buoni, forse indovinando!
Che tenerezza mi prendeva per quei cari vecchi il cui affetto si
chiamava vita!

Ero, in certi istanti, vile. Quando l'angoscia mi stringeva più
terribile mi veniva la pazza tentazione di domandargli una tregua, di
muoverlo a pietà per il mio cuore che sanguinava. Mi pareva che gli
avrei io chiesto scusa pur di rivedere il suo bel sorriso di un tempo
e sentirmelo vicino con quella muta palpitazione delle fibre che
tradisce la simpatia. Pure, quando Egli veniva a trovarmi, appena il
suo passo ne rivelava la presenza anticipandomela, ogni sogno folle
precipitava in fondo al cuore. Lo salutavo senza una alterazione nella
voce, gli porgevo una mano di marmo; la mia freddezza sembrava
crescere per una violenta reazione quanto più lo avevo desiderato e
invocato, ma non era forse qualche volta eccessiva?

Un giorno temetti di essermi rivelata. Egli era entrato ilare e
giulivo secondo il solito, forse con una punta di cattiveria nelle
pupille della quale non mi accorsi che più tardi ripensandovi. Dopo i
primi discorsi superficiali esclamò:

--Finalmente non sono più solo alla Querciaia. Rammentate il
padiglioncino a destra, quello che fece fabbricare mio padre per
disporvi le sue raccolte botaniche? Ebbene, l'ho affittato a due
signore, madre e figlia, che avendo subìto dei rovesci di fortuna
dovettero ritirarsi in campagna. È una buona notizia, nevvero? molto
più che la figlia è un angelo di bellezza.

Centinaia di lucciole mi passarono davanti agli occhi. Egli mi
domandò: "Vi sentite male?" con un tale accento che se avessi dubitato
delle sue intenzioni me ne doveva rendere certa. Risposi che soffrivo
da qualche tempo di capogiri, che li attribuivo alla mia vita troppo
rinchiusa. Ardevo di chiedergli dei particolari su quelle signore, ma
me ne guardai bene. Egli che aveva tanto desiderio di darmeli quanto
io di saperli me li lasciò cadere dall'alto con preziosità ostentata.
Disse che la signora era vedova di un colonnello, che era molto
distinta, che sembrava assai delicata di salute; che la figlia le
usava i più teneri riguardi, che era un piacere vederle insieme
strette dal più soave degli affetti e così dignitose nella loro
solitudine.

Feci subito la riflessione che amavo tanto anch'io il mio piccolo
Alessio, che eravamo noi pure ben soli, peggio ancora che soli,
abbandonati: e un gruppo di lagrime mi costrinse a sbattere le
palpebre, tossendo, soffiando forte come presa da una infreddatura.

Di lì a poco, mentre si parlava d'altro, mio cugino soggiunse
improvvisamente che la fanciulla era molto alta di statura, elegante e
che somigliava un poco al ritratto della sua leggiadra bisavola. Oh!
questo poi! Perchè doveva somigliare alla sua bisavola, proprio lei!
La strana affermazione prendendomi alla sprovvista non mi permise di
trattenere una esclamazione di protesta assai vivace.

--Ebbene, che c'è? Perchè vi riscaldate?

--Non è possibile!

--Perchè non è possibile? Credete che il volto di Elena abbia beato
solamente i suoi contemporanei? Tutto si rinnova nella natura.

Qualche idea se non assolutamente simile certo molto vicina, era già
stata scambiata fra noi in occasione della mia visita alla Querciaia.
Ero stata io a parlarne per la prima, ed Egli aveva allora guardate le
mie mani e gli era sembrato forse che somigliassero a quelle della sua
bisavola....

Come tutto ciò era lontano benchè due soli mesi fossero passati!


Il morire di quel giorno mi parve ancora più triste dell'usato.
Riprendendo a poco a poco le vecchie abitudini, dacchè mi trovavo
sola, Orsola e Pietro davano delle capatine nel mio salotto offrendo
alla mia mestizia l'ingenuo conforto delle celie che conoscevo da un
quarto di secolo e che non bastavano più a distrarmi. Ero presa da una
specie di sgomento davanti a quei due esseri che erano invecchiati
così placidamente nella mia casa, vicini e calmi come i due vasi dalla
fioritura di zinco che ornavano i pilastri del cancello. Quante volte
le brine erano cadute davanti a loro ed erano fioriti i mandorli e gli
uccelli avevano cantato e le farfalle si erano inseguite lungo le
siepi ed aveva odorato cupamente il bosso in fondo alla selva senza
che essi avessero chiesto di più alla vita! La giovinezza non li
toccò, la vecchiaia li raggiunse sfiorandoli appena, la morte li
attendeva con braccia di madre. Domandai loro in un momento di
tenerezza se non avessero mai amato. La donna mi rispose di no, l'uomo
sorrise. Chi di essi aveva ragione?

Io venivo frattanto a conoscere sempre più la inenarrabile malinconia
delle cose. Somigliava il mio salotto a un cimitero sparso di croci;
vi piangevo nel vano della finestra le illusioni fuggite sui fili
azzurri e rosei delle mie sete da ricamo e accanto al cembalo le note
appassionate della canzone che non avevo più avuto il coraggio di
cantare. Un parafuoco che Egli soleva prendere in mano per gingillarsi
durante le nostre discussioni, una coppa di bronzo che Egli ammirava,
il posto dove aveva l'abitudine di mettersi, la sedia che preferiva e
la luce che gli era più cara rappresentavano a' miei occhi i termini
del sentiero che avevamo percorso insieme. Mi dicevano: è finito, di
qui non passerai più. Sì, lo sentivo, tutto era irrimediabilmente
finito senza ebbrezza e senza colpa, quasi senza lotta, così--finito!

La regolarità della gradazione che mio cugino poneva nel rendere le
sue visite più rare e più brevi mi dimostrava la freddezza del suo
calcolo e mi faceva perdere anche l'ultima speranza che avessi potuto
avere in una amichevole spiegazione. C'era qualche volta tanta ferocia
nella sua indifferenza, tanta durezza nel suo disdegno, lanciava con
tanta voluttà le parole più atte a ferirmi che mi riusciva di sollievo
la fine della sua visita e lo salutavo anch'io con freddezza e con
indifferenza. È ben vero che mi struggevo internamente in un folle
desiderio di abbracciare i suoi ginocchi che mi faceva prendere in
orrore me stessa, per ricominciare poche ore dopo la sua partenza a
desiderarne il ritorno.--Questo lavoro di sdoppiamento continuamente
rinnovato, queste violenti repressioni che non impedivano la reazione
di inauditi ardori abbattevano la mia salute, non potei
nasconderglielo, e anche questo gli servì per pungermi. Disse che mio
marito aveva ragione di lasciarmi in campagna, che la donna è una
creatura imperfetta, di ostacolo e d'impaccio sempre alle forti lotte
maschili, salvo--Egli soggiunse con un raddoppiamento di
crudeltà--qualche rara eccezione di florida giovinezza che bisognava
tanto più ammirare ed amare.


Mi trovò in un pallido pomeriggio della fine d'autunno semi-sdraiata
sul divano. Vedendolo tentai subito di alzarmi, respingendo una
pelliccia che mi copriva le gambe.

--Restate, restate--disse--sono avvezzo a tali cose oramai; la mia
vicina è sempre ammalata. Questa è anche una ragione per cui mi vedete
di rado, le dedico tutto il tempo disponibile; faccio bene nevvero?

C'era nel suo accento una nota di durezza che non volli rilevare.

--Io lo penso--risposi.

--Mi sembrate accesa in volto.

--Deve essere una fiamma momentanea, ho freddo invece. L'inverno si
annuncia rigido quest'anno.

--Tutt'altro. È un tempo splendido per passeggiare; sicuro bisogna
essere sani. La signorina Emma... ve l'ho detto che la signorina si
chiama Emma...

--Non so, non ricordo...

--Emma! il più bel nome che io conosca. Non è vero che è un bel nome?

Mi trovavo del parere contrario; tuttavia un sentimento di fierezza mi
impedì di contraddirlo apertamente. Frattanto Egli insistette:

--Non è vero? Non è vero? Dite che è bello.

Allora soggiunsi con indifferenza:

--Se vi fa piacere! Sapete, è questione di gusti.

--Lei che è la viva immagine della primavera--soggiunse mio cugino con
fuoco--non sente punto l'inverno; ha bisogno di muoversi, di
camminare. Sua madre mi permette di accompagnarla qualche volta in
fondo ai prati--non più in là, si capisce--ma sono passeggiate
deliziose. Ora Ella mi precede colla sua bella figura onduleggiante,
ora mi sta a lato inebbriandomi della sua vicinanza, di quel fresco
odore di mammola che hanno certe fanciulle... è curioso, a guardarvi
adesso mi sembrate pallida.

--Non vi badate.

--Scherzi nervosi senza dubbio.

--Può darsi.

Fin qui arrivai a rispondere; dopo, un tintinnio nelle orecchie e un
velo davanti agli occhi mi impedirono di seguire il filo del discorso,
senza però che Egli se ne accorgesse, essendomi celate le mani e mezzo
il volto sotto la pelliccia. Ma forse Egli ebbe allora un impeto di
compassione; mi accomodò delicatamente la pelliccia intorno alle
braccia e vidi nei suoi occhi un raggio dell'antica luce. Tremai tutta
ed ebbi paura di me. Come lo amavo, come lo amavo, se il solo tocco
della sua mano mi faceva beata in mezzo a tanta umiliazione!

--Myriam--così Egli disse per tentarmi, già pentito della sua
bontà--non vi dispiace che vi prenda per mia confidente?

--Perchè dovrebbe dispiacermi? Io sono sempre quella che conosceste.

--Quella, quale?

--Colei che vi accolse or fa un anno unico suo parente e che da voi
apprese la via delle verità superiori.

Un lungo silenzio seguì le mie parole. Potei credere per un istante di
essere tornata ai dolci e profondi colloqui di un tempo. A un tratto
Egli esclamò:

--Non conoscete la vita, non sapete nulla, non comprendete nulla.

--Ohimè--feci quasi involontariamente--lo temo.

Egli proseguì con violenza.

--Avete voi solamente un concetto dei diritti dell'uomo, del suo posto
di fronte all'esistenza? Sapete di quali lotte, di quali combattimenti
noi abbiamo bisogno? Sapete che ardente focolare d'amore sia il nostro
cuore?... Oh! non interrompetemi. Non mi parlate dei vostri amori di
femminuccia fatti di lagrime e di rinuncie. Noi nell'amore vogliamo il
trionfo sempre, la vittoria sempre e quando non ci riesce di ottenerli
il nostro cuore è così vasto che accogliamo in esso l'odio e la
vendetta. Misere, misere animuccie che ci venite a parlare di perdono
nello stesso modo che rechereste colle vostre piccole e bianche mani
inermi un secchiolino d'acqua per spegnere un incendio!

Pronunciando le ultime parole si era alzato. Il suo volto aveva una
fierezza dolorosa, le labbra erano contratte, gli occhi scintillarono
tutti invasi dalla sua anima. Io credo di non averlo mai amato tanto
come in quel momento. Vidi allora ed abbracciai i suoi più intimi
pensieri, li accolsi in me, li strinsi dentro di me, compresi le sue
lotte, i suoi dolori, le sue intime tristezze; fui sua in uno slancio
irresistibile quanto occulto. Volli parlare, ma nessun accento uscì
dalla mia bocca.

--Mi accorgo di stancarvi, vi lascio--disse Egli con una dolcezza
protettrice e benigna, come se lo sfogo precedente lo avesse
calmato.--Guarite!

Gli stesi la mano in silenzio. Egli la prese senza stringerla. Disse:
Avete freddo ancora? ed avendo io risposto di no, col capo, si avviò
per uscire; ma dopo pochi passi riprese voltandosi indietro:

--Vi mando l'Orsola?

Feci uno sforzo per sorridere.

--Grazie, sto bene.

Non era precisamente quello che volevo dire; non era, ad ogni modo,
tutto. Mi rizzai sul gomito seguendo ansiosamente collo sguardo la sua
persona che stava per scomparire. Apersi le labbra, sospirai, ricaddi.
No, non poteva ancora comprendere.


Però dopo quel colloquio mi sentii più forte. La mia strada si
veniva delineando retta e sicura; perseverare doveva essere il mio
motto, non importa a quale prezzo. Sarebbe stato assurdo se avessi
preteso di lesinare sul prezzo di un premio così ardentemente
agognato come il suo amore--oh! non il volubile e basso amore
ch'Egli m'aveva offerto, ma l'amore nuovo, peregrino che Egli stesso
vagheggiava senza potervi credere, a cui aveva accennato una volta
chiamandolo _una cosa grande_ e del quale senza dubbio non mi
giudicava degna--dimenticando che ero della sua famiglia e che in me
pure ferveva un desiderio di emulazione, quasi un bisogno di lotta e
di conquista.

Era precisamente dinanzi alla sua forza che si era risvegliata la mia;
era dinanzi al suo piccolo orgoglio d'uomo che la mia coscienza mi
apriva la via ad un orgoglio superiore, dal quale mi veniva tanto
coraggio e tanta fede insieme. Dare, dare ancora, dare più di quanto
si ottiene e di quanto si può sperare, non è questo il divino segreto
dell'amore? Dare tutto è molto, ma dare il meglio è più che dare,
poichè implica la scelta e l'innalzamento.

La principessa che amando sotto spoglie bestiali un principe degno di
lei gli fece il dono della sua gioventù e della sua bellezza, non
avrebbe amato che a metà se il principe non doveva per forza del di
lei amore riprendere i caratteri di creatura spirituale. Nella favola
tutto procede per la completa felicità--il principe e la principessa
si sposano--ma la vita offre di rado la felicità completa. Bisogna
scegliere. Io non dubitavo di avere scelta la parte più preziosa,
quella che il tempo non può distruggere, che gli uomini non invidiano
e non insidiano, che non mi avrebbe data nessuna gioia esterna, ma che
doveva essere il tabernacolo delle mie più segrete compiacenze.

Fu in uno di quei giorni che Orsola venne a farmi la confidenza delle
relazioni che passavano fra mio cugino e le pigionali della Querciaia,
concludendo:

--È evidente che la vecchia signora tende le reti per procurare un
marito a sua figlia.

--Non è forse un giudizio temerario?--mi arrischiai a dire, con calma,
quantunque il mio cuore palpitasse d'ansia.

--Tutto il paese ne parla. Parlerebbe se non ci fosse niente?

--Sai bene che la malignità è sempre pronta. È così facile pensar
male!

--Ma si tratta di fatti e non di pensieri. Egli passa la giornata da
quelle signore e come non bastasse esce per i prati insieme alla
signorina.... Io, se fossi madre, non lo permetterei, ma quella
signora le dico ha il suo fine.

--Dopo tutto è un fine onesto.

Pronunciai certamente queste parole con un fil di voce, perchè
l'Orsola non vi badò e stava per continuare le sue indiscrezioni, se
io non avessi provato una crescente vergogna dello stare ad ascoltarla
e non le avessi imposto recisamente il silenzio.

Con queste piccole vittorie mi abituavo al dominio di me stessa; quasi
ogni giorno rinunciavo a una gioia, a una curiosità, a una lieve
soddisfazione, tendendo tutte le mie forze a raggiungere ciò che era
oramai il mio unico scopo, che doveva tenermi luogo di felicità:
mostrarmi degna di Lui. E mi abituavo pure a pensare la mia vita priva
di Lui, a sostituire a Lui i suoi ideali, spiritualizzando la mia
passione, elevandola alla dolce religiosità di un culto. Mettevo un
ardore tenace a cancellare dalla mia memoria ciò che avrebbe potuto
rimpicciolirlo per ricordarmi solo della benefica influenza che aveva
esercitata sopra di me colle qualità del suo ingegno e del suo animo
così nobilmente virile. è questo che dobbiamo fare noi donne: emulare
l'uomo nelle forze spirituali, non per contendergliele, ma per
aggiungervi le nostre idealità. La sfida che Egli m'aveva lanciata una
sera nel viale del mio giardino, si svolgeva ora cogli inevitabili
particolari cruenti. Oh! Dio, non somigliava al terribile
combattimento narrato nella sacra scrittura di Giacobbe lottante una
notte intera nella oscurità con un angelo? Lo stesso mistero dolente
ci avvolgeva, i nostri colpi cadevano ciechi nel buio, ma al pari di
Giacobbe io sentivo che avrei vinto. Che importano allora le ferite?

....................................................................

La chiesa del nostro villaggio era piccolina e molto antica. Collocata
sopra una altura, vi si accedeva per uno di quei sentieri scaglionati
nella montagna, dove l'erba cresce tra sasso e sasso, che è così dolce
salire lentamente nelle mattine bianche o nei pomeriggi soleggiati,
colla pace nello spirito e la fede nel cuore. Io l'amava
particolarmente, la chiesetta. I miei genitori vi si erano sposati; vi
ero stata battezzata e sposata io pure e molti sogni, molte
aspirazioni indefinite vi avevano preso il volo insieme alle nuvole
d'incenso e alle rose offerte alla Madonna. La conoscevo palmo per
palmo, dalle pareti grigie al soffitto di legno e all'unico altare di
stucco verdastro colle statue dei quattro apostoli. Sapevo che non era
bella, me lo avevano detto; ma a me, poichè l'amava, sembrava anche
bella.

Tutte le domeniche prendevo il mio posto nel banco di famiglia con
Orsola e con Alessio ed era un'ora ben soave quella che passavo così,
tranquilla, nella dolce religiosità del culto cattolico, in mezzo alle
umili e buone donne del villaggio. Le distinguevo una per una; elle
sorridevano dai loro posti al mio bambino e facevano all'Orsola dei
cenni amichevoli. Ma una domenica--Alessio era leggermente
indisposto--andai sola.

Volgeva la fine di novembre, un novembre grigio e freddo che vestiva
di tristezza tutte le cose; eppure, camminando sotto gli alberi mezzo
sfrondati, nella reliquia delle foglie che già da lungo tempo cadute
stendevano sul terreno un tappeto bruno chiazzato di giallo, era in me
una insolita energia che mi faceva tenere la testa alta e aspirare con
avidità la brezza pungente, già quasi invernale. Mi stringevo nel mio
abito un po' troppo leggero con una intima sensazione di resistenza
fisica in perfetta armonia colle mie lotte interne. La salita la feci
leggerissimamente, portata da una forza occulta su per il declivio
erboso fino alla porta della chiesa. Un vecchio cieco che da vent'anni
vi tiene dimora vendendo le immagini mi riconobbe non so se al passo o
al fruscìo del mio abito.--La pace sia con voi--disse e l'augurio mi
scese al cuore, dolcissimo.

Trovai la chiesa piena di gente, le sacre funzioni già incominciate.
Avviandomi al mio posto fra il gruppo delle donne inginocchiate che si
stringevano per lasciarmi passare, vidi accanto alla pila dell'acqua
santa due signore; una attempata, l'altra giovanissima. Non ebbi
bisogno di chiedere chi fossero. Un tuffo nel sangue me lo disse.
Raggiunsi il banco a tentoni e mi inginocchiai o piuttosto caddi
nascondendo il volto fra le mani.

Venivano certo per la prima volta in chiesa perchè io non ve le avevo
mai scorte. La persona cadente della vecchia signora, la sue guancie
profondamente emaciate, serbavano traccie di una nobile bellezza sulla
quale la malattia lenta e implacabile aveva già posto il suggello
sacro della morte. Fu una apparizione che mi impressionò oltre ogni
credere. Della figlia non mi fu dato vedere che l'alta figura elegante
e snella come l'aveva descritta mio cugino; girò la testa al mio
passaggio, ma io l'avevo già oltrepassata e nulla potei afferrare
della sua fisionomia. Però, durante la messa, sentii la loro presenza
ossessionante e quella vaga specialissima sensazione di malessere da
cui siamo presi quando abbiamo qualcuno alle spalle che ci osserva e
che noi non possiamo osservare.

Appena terminati i divini uffici uscii. Nel ripassare nuovamente
davanti alle due signore speravo di poterle vedere meglio; non fu
così, perchè al momento opportuno, invece di sollevare gli occhi, fui
presa da uno scrupolo bizzarro e chinai il capo affrettando il passo.

Fuori, sulla spianata deserta, mi fermai a respirare fortemente
l'aria che così frizzante e cruda mi entrava con un grande
refrigerio nel petto. Anche quella prova era venuta! Tutto arriva,
fatalmente, inesorabilmente, di ciò che deve arrivare.--Oh! mio
Dio!--pensai--datemi forza fino alla fine.--E poichè i fedeli già
uscivano in folla dalla chiesa mi allontanai con maggiore rapidità,
dileguandomi sotto gli alberi, con fermezza sì, ma non senza
affanno; lo conosceva questo affanno il mio cuore che sembrava
essersi fatto piccino piccino e non battere più che colla lentezza
di una agonia.....................................................
..................................................................

Nevicava da tre giorni senza interruzione; un deserto bianco mi
separava da ogni essere vivente. Sapevo da Pietro che le strade erano
quasi impraticabili e mi parve una giustificazione sufficiente per mio
cugino che non vedevo da due settimane, motivo per cui restai molto
sorpresa una mattina, al trovarmelo innanzi.

--Sono qui per combinazione--disse subito Lui--andai d'urgenza a
chiamare il medico per la mia vicina che si trova agli estremi e
pensai di entrare a salutarvi perchè chi sa quando potrò tornare.

--Vi ringrazio, ma vi prego non datevi pena per me.

--Le donne sono spesso puntigliose...

Interruppi tranquillamente:

--Non credo di avervi mai dato motivo di pensar questo. In ogni modo
sappiate che vi giudico assoluto padrone del vostro tempo.

Egli non rispose. Dominato da una eccitazione nervosa seguì il corso
dei propri pensieri a voce alta dicendo:

--Fanno veramente pietà.

Vidi che era molto impressionato dalla malattia della sua vicina e
gliene chiesi notizie.

--Vi preme dunque di saperle? Credevo che non aveste simpatia per
loro.

--Io non le conosco e non le giudico. So che vi sono care e tanto
basta per interessarmi ai loro dolori.

Mi guardò intensamente per la durata di un secondo; abbassando poi gli
occhi sul suo cappello dove stavano rapprese alcune falde di neve,
disse:

--La madre ha pochi giorni da vivere, la figlia resta sola al mondo.

--Dio vegli su di loro!--esclamai con una commozione
sincera.--Pregherò con tutto il mio cuore.

Ancora un lampo de' suoi occhi, ancora un silenzio; indi:

--Addio.

--Arrivederci--mormorai con infinito dolore e tenerezza insieme.

--Sì, arrivederci.

Pentito di questa parola che gli parve troppo dolce soggiunse:

--Non sarà tanto presto.

Restai agitata per tutto il giorno in preda a una folla di sentimenti
contradditorî. La mia immaginazione fatta all'improvviso veggente lo
seguiva nel padiglione abitato dalle due straniere; scorgeva la madre
abbattuta nel suo letto; la figlia desolata, smarrita--e Lui dividersi
fra l'una e l'altra. Oh! certo, esse dovevano amarlo. Una stretta al
cuore mi avvertiva che il sacrificio non era ancora consumato, che
avrei dovuto spargere ancora molte lagrime segrete e soffocare molti
desideri ribelli.

L'indomani mandai Pietro a chiedere nuove dell'inferma. Stava male.
Allora ci unimmo tutti, io, Pietro, Orsola e il mio piccolo Alessio e
recitammo la preghiera degli agonizzanti. Quando l'ebbimo finita io
dissi: Preghiamo ancora perchè questa madre, se Dio lo permette, sia
conservata alla sua creatura.

L'Orsola mi si fece accanto e accostando al mio orecchio le labbra
tremanti sussurrò:

--Sarai benedetta, Myriam.

--Oh! perchè?--feci io turbata, sentendomi salire al volto un rossore
improvviso.

La mia buona vecchia non rispose, e siccome la vidi chinare la fronte
sulle palme congiunte pensai ch'ella pregasse per me.

Verso il tramonto un merciaiuolo ambulante al quale Pietro aveva
consegnato delle stoviglie da accomodare ci avvertì che la signora
forestiera era morta e che la figlia abbandonata sul cadavere pareva
volesse seguirla, tanto era l'eccesso della sua disperazione.

--Non c'è nessuno che la conforta?--chiesi.

--Chi vuol mai! La Querciaia è affatto isolata e quelle signore non le
conosce anima viva. Io lo so perchè passo di là colla mia merce.

Mi guardai attorno, guardai fuori dalla finestra nel deserto di neve,
guardai in alto il cielo quasi bianco. Povera fanciulla!

Il merciaiuolo intanto si disponeva a continuare il suo viaggio e già
si era posto sulle spalle il suo carico quando io gli chiesi se
avrebbe potuto mandarmi prima di notte una carrozza. Mi rispose di sì
e in mezzo alla stupefazione di Orsola e di Pietro gli ordinai di
condurmela subito senza perder tempo. Baciai Alessio che si era
aggrappato alle mie gonne e che si pose a gridare:

--Mamma, perchè piangi?

Io non lo sapevo; non mi ero accorta di piangere.

Feci i miei preparativi con una grande commozione, avvertendo che
avrei condotto a casa l'orfanella per quella notte e raccomandando
all'Orsola di apparecchiarle una camera.

Quando giunse la carrozza vi salii, seguita dai consigli dei miei
buoni vecchi che mi esortavano a ripararmi bene e a tenere chiusi i
vetri. Poco più di mezz'ora ci separava dalla Querciaia ma ne
impiegammo quasi il doppio a rompere una via in mezzo alla neve che il
freddo intenso aveva congelata e sulla quale volavano affamati e
rattristanti i pochi superstiti di una tribù di corvi.

In quel paesaggio squallido, non più velato dalle folte piante e dai
rosai, la Querciaia mi apparve colla sua strana architettura
multiforme di rôcca e di convento insieme. Feci fermare dinanzi alla
porticina del padiglione che mi venne aperta da mio cugino in persona.

--Voi!--esclamò, e nessuna parola potrebbe esprimere ciò che vi era di
sovrumano nel suo accento e nel suo sguardo.

In piedi, sulla soglia, circondata da un fitto nuvolo di neve, io non
sapevo come spiegare la mia presenza. Fu Lui che mi prese per la mano
con dolce impero e rapidamente, in poche parole, ci intendemmo.

Mi guidò presso la fanciulla che si trovava in uno stato
compassionevole e che mi guardò senza stupore ricevendo le mie prime
parole con una atonia di persona che il dolore rende quasi demente.

La camera dove si trovava era nuda, gelida; vi era stato acceso il
fuoco evidentemente ma nessuno lo aveva alimentato. Osservandola non
mi parve più quella elegante figura che avevo intravista un giorno in
chiesa. Aveva le treccie sciolte e scomposte, le mani pavonazze per il
freddo; un tutto insieme di abbandonato, di scorato, di fuori di sè,
che trovò subito la via della mia pietà. Se qualche sentimento poco
nobile e poco puro mi aveva altre volte turbata cessò in quel punto,
davanti a quella vera tristezza.

Mio cugino che mi guardava intensamente si accorse di ciò che si
svolgeva nel mio interno. Prese una mano della fanciulla e ponendola
nelle mie mani le disse con calore:

--Fidatevi di lei! È un'amica.

Non si era potuto piegarla nè al riposo, nè al cibo; non c'era lì
accanto una sola famiglia che potesse ospitarla, non una sola donna
che la accarezzasse. La notte si avanzava terribile e paurosa in
queste condizioni. Mi chinai sulla poveretta mormorando con quanta
maggior dolcezza mi fu possibile:

--Volete venire con me?

Ella fece un balzo e mi guardò sbigottita.

--Non temete--soggiunsi--sono madre.

A queste parole ruppe in un gran pianto e mi nascose la testa in seno.

A poco a poco riuscimmo a persuaderla. Mio cugino le promise che non
avrebbe abbandonata la casa, che la salma sarebbe stata vegliata
religiosamente. Così cedette e ripartii insieme alla fanciulla, nella
carrozza chiusa, attraverso il deserto di neve che formava una ben
degna cornice ai nostri due dolori. Mio cugino restò sulla soglia
finchè la carrozza scomparve. L'ultima espressione che mi restò della
sua fisionomia fu quella di una serietà infinitamente dolce.

L'Orsola aveva preparato un buon fuoco e dei cordiali. Ella mi aiutò
efficacemente a sostenere e a confortare la derelitta al primo arrivo.
Più tardi, quando l'ebbi condotta nella sua camera e che il sonno
venne finalmente a calmarla, quando la vidi riposante e sicura sotto
il mio tetto, affidata a me, protetta da me, una larga onda di
dolcezza mi invase e pensai che Lui in quello stesso momento doveva
essermi vicino coll'anima.


Vegliai tardi quella sera, rileggendo una lettera di mio marito lunga
e complicata nella quale mi diceva che era deciso a stabilirsi
definitivamente a Parigi in vista di un posto all'ambasciata e che gli
gioverebbe avere con sè la famiglia, che Alessio trovavasi oramai
nell'età propizia per incominciare la sua educazione e che se io non
avessi nulla in contrario potrei raggiungerlo a Parigi col bambino. Le
riflessioni suggeritemi da questa proposta erano tali da tenermi
sveglia, venendo a incrociarsi in un momento così solenne con altre
preoccupazioni ed altri pensieri egualmente gravi.

La mia vita cambiava; vedevo necessariamente in essa un nuovo
indirizzo, nuovi doveri, nuove lotte forse.

L'orfanella stava ancora vestendosi nella sua camera quando venne mio
cugino a prendere le disposizioni per il funerale. Mi trovò sul
pianerottolo della scala con un fascio di semprevivi sulle braccia.
Indovinandone la destinazione arrossì come per eccesso di piacere, poi
facendosi subito pallido mormorò con nobile semplicità:

--Non vi conoscevo, Myriam, ora sì. Come siete buona!

Nessuna parola poteva riuscirmi più cara di quella--tanto invocata,
tanto desiderata--epperò un grande turbamento e una commozione
vivissima mi obbligarono ad appoggiarmi contro la parete.

Egli soggiunse:

--Mi perdonate?

Dio, che gioie vi sono al mondo!

Le mie mani sotto i semprevivi tremarono; abbassai il capo per
invitarlo tacitamente a seguirmi ed anche per dirgli di sì. Avrà Egli
compreso il mio silenzio?

Le occupazioni serie e penose di quella giornata non mi lasciarono più
sola con Lui nè con me stessa, ma io avevo una gioia così profonda nel
cuore che mi sentivo le ali.

Decisi di tenere la fanciulla presso di me finchè non fosse venuta una
vecchia amica di sua madre che si era offerta per ricoverarla, in
attesa di provvedere meglio al suo avvenire. Intanto le fui compagna
nella triste cerimonia del distacco, la sorressi e asciugai le sue
lagrime. Scoprivo in me delle energie insospettate e un coraggio che
non avrei mai creduto di avere. La poveretta mi dimostrava la sua
riconoscenza in modo toccante. Furono giornate calme insomma, piene di
intima e malinconica dolcezza, quali non avrei credute possibili.

Un segreto istinto mi trattenne dall'interrogare mio cugino sui suoi
progetti per l'avvenire dal momento che Egli non vi faceva nessuna
allusione e quando la fanciulla fu partita e che Egli riprese le sue
visite assiduo, affettuoso, sembrò che nulla fosse cambiato intorno a
noi. Meglio ancora, era come se avessi fatto un cattivo sogno e
provavo la gioia ingenua del risveglio.


Una sera--veniva ancora qualche volta alla sera--gli comunicai la
risoluzione di raggiungere mio marito a Parigi. L'improvvisa notizia
lo scosse ma in fondo conservava forse una certa incredulità. Mi
guardò intensamente come per vedere se avevo un secondo fine e la
diffidenza tornò a sfiorarlo.

--Perchè andreste a Parigi proprio ora?...

Presi la lettera di mio marito e gliela lessi tutta, facendogli notare
che Alessio entrava nel suo settimo anno e che se suo padre cominciava
ad occuparsene il mio dovere era di secondarlo.

--In fondo non vi dispiace a andare a Parigi. Deve essere così.

Ignoro quale espressione di intima tristezza salì in quel momento dal
mio cuore al mio volto perchè Egli soggiunse con una pronta effusione
di simpatia:

--No, no, Parigi non è fatto per voi. Vi troverete peggio che in un
deserto e vi tornerà spesso in mente questa casa e queste campagne.

--Sì, lo credo.

--E tutto quello che lasciate qui.

--Anche.

Sopra queste parole ci fermammo. Avevo l'impressione che qualcuno nel
salotto ci stesse a guardare. Erano forse le ore dell'anno trascorso,
le ore piene di luce e di tenebre che non dovevano tornare mai più.

--Che cosa faranno--disse Egli, colla intonazione scherzosa che gli
serviva quasi sempre per nascondere un sentimento profondo--queste
sedie, queste poltrone, questo tavolino da lavoro così pieni della
vostra fisionomia e del vostro profumo?

--Riposeranno sotto le loro coperte di tela greggia.

--E i vostri due vecchi?

--Poveri vecchi!

--Ed io?.....

--Ah! voi...

Qualcuna delle ore che ci stavano ascoltando dovette fremere nel suo
involucro di larva; mi parve che un velo sbattesse nell'aria; mi
sentivo presa da mani invisibili. Egli ripetè a voce bassa:

--Che farò io?

--Voi--(era appena un soffio la mia voce) prenderete una compagna.

--E se non volessi prenderla?

Tacqui. Egli ripetè con grande ardore:

--Se non volessi prenderla, dite?...

Non aveva fatto un sol passo verso di me, il suo corpo era rigidamente
immobile, ma negli occhi gli bruciava una fiamma.

Misurai tutti i confini della tentazione, ne vidi la profonda
dolcezza, sentii salire a me da oscurità ancora inesplorate inauditi
fantasmi di ebbrezza e di passione. Una sola parola che pronunciassi
ed Egli era mio--lo sentivo--tutto mio in quella solitudine beata,
lungi dal mondo, nella primavera che rinasceva, nel mio cuore che si
era aperto all'amore, che tremava e palpitava sotto il suo sguardo e
nella visione della sua carezza. Tutto si sarebbe rinnovato; le soavi
sere, i colloqui confidenti, l'abbandono dell'anima, la gioia di
vivere insieme... Era così violento il desiderio che ne tremavo. Ma
che cosa ne vedeva Egli? Col capo chino sul mio ricamo tentavo di
contarne i punti e solo dopo averli contati risposi:

--Fareste male. Le vie del sogno sono molte, quella della vita è una
sola. Dovete ammogliarvi.

--Siete sincera?--domandò, figgendomi gli occhi in volto.

Pensai che un momento di debolezza mi avrebbe perduta
irremissibilmente.

--Lo sono--risposi.

Egli mi lanciò uno sguardo acuto e chinò la fronte.

Fu quello uno dei nostri ultimi colloqui. Avendo scritto a mio marito
che acconsentivo a andare a Parigi col bambino, mi rispose invitandomi
ad affrettare la partenza perchè avrebbe potuto venirmi incontro a
mezza strada. Il destino aiutava così il mio coraggio.


L'inverno era quasi finito, la temperatura non era più rigida e qua e
là si squagliava la neve; il mio giardino esposto al sole non ne
serbava più traccia. Guardando i rami nudi delle acacie pensavo con
malinconia che non li avrei visti fiorire.--Oh! mia diletta signora,
aveva esclamato l'Orsola piangendo--quando ritornerai io sarò morta.

Dovetti nascondere anche a lei la mia angoscia, mentre salutavo in
silenzio tutte le piante, tutti i sassi, tutti i muri. Andando in
chiesa una domenica--l'ultima domenica--salutai pure da lontano la
Querciaia ricordando il giorno sereno in cui l'avevo visitata con
altri occhi e con un altro cuore.

--Io so--dissi a mio cugino la vigilia della partenza avendomi
sorpresa dinanzi al cembalo occupata a riunire la musica--che dovrò
pur rivedere questi cari luoghi e questi cari oggetti, ma li rivedrò
io _come sono ora_?

--Siatene certa. Che mai si perde lungo la vita se non la materialità
del fatto? Lo spirito delle cose è immortale. è questo in fondo ciò
che noi amiamo.

Egli sapeva dire, come sempre, al momento opportuno le parole più
penetranti. A un tratto mi chiese:

--Fate conto di portare questa musica a Parigi?

Ebbi un momento di confusione durante il quale dai tasti del cembalo
gemettero le patetiche battute della canzone antica, ma ripresi
subito:

--Occorre forse?

Una segreta involontaria espressione dovette trapelare dalla mia voce
perchè Egli non diede alcuna importanza al suono di quelle tre parole
e subito ne penetrò il significato di profonda tenerezza. Vidi allora
il suo bel volto rischiararsi e l'anima sua venire a me fiduciosa ed
intera. Era questo che Egli aveva sognato nelle prime aurore del suo
affetto, prima, assai prima che l'oscuro mistero dei sensi lo
acciecasse? Era a questo che Egli pensava la sera memorabile in cui mi
aveva detto: "Non vi immaginate il bene che potrebbero fare le donne
riconducendo la fede nel cuore degli scettici?" E comprendeva anche
questo--questo sopratutto--che solo da una ispirazione alta poteva
nascere un amore come il mio? Io lo credo; altrimenti non avrebbe
avuto il suo sguardo tanta serenità e tanta dolcezza.

Ogni dubbio era scomparso oramai. Dalla penombra del cembalo dove si
era posto vidi sorgere in Lui un desiderio soave di comunione che
aveva qualche cosa di toccante nella maschia fierezza di quell'anima.
Pensai allora: Una donna--Emma od un'altra--verrà a prendere un posto
nella sua casa vuota, nel suo cuore appassionato. Molti cambiamenti
troverò certo ritornando di qui ad alcuni anni, molti fiori morti,
molte cose morte e qualche sepolcro sarà pure dentro di me.... ma chi
mi potrà togliere questa suprema gioia di avergli dato, io, una fede?

Ero presso alla finestra. Sollevai la cortina color di fiamma
guardando giù nel giardino. Nei primi tempi della nostra relazione mio
cugino aveva osservato che esso era troppo ben tenuto, troppo
regolare, che gli mancava la poesia e il mistero dei luoghi
abbandonati. Ecco--pensai--ora si vestirà della poesia che gli manca;
verrà l'abbandono a tessere le sue fitte ragne intorno alle aiuole,
verrà la tristezza, verrà il mistero ad oscurare l'ombra degli alberi
e verrà mai l'ala dei nostri spiriti a battere insieme su questo
sentiero dove pur senza confessarlo ci amammo?

Egli mi si pose accanto, mi prese la mano. Io continuai tuttavia i
miei pensieri e accarezzando cogli occhi i dolci rosai che nella
brezza di marzo si preparavano alla rinascenza udii la sua voce
profonda che mormorava:

--Dunque addio, Myriam. Ci rivedremo?

Gli strinsi la mano con un leggero indugio, senza voltare la testa,
senza guardarlo, senza parlare; ma Egli ben comprese questa volta ciò
che nascondeva di malinconico e di ardente il mio silenzio.

FINE.





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