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Title: Poesie scelte
Author: Pellico, Silvio, 1789-1854
Language: Italian
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*** Start of this LibraryBlog Digital Book "Poesie scelte" ***


by the Bibliothèque nationale de France (BnF/Gallica) at
http://gallica.bnf.fr)



POESIE SCELTE

DI

SILVIO PELLICO

DA SALUZZO.


VOLUME UNICO.


PARIGI,
BAUDRY, LIBRERIA EUROPEA,
3, QUAI MALAQUAIS.

1840.



BIBLIOTECA
POETICA ITALIANA

CONTINUATA DA QUELLA
DEL BUTTURA.

TOMO XXXVI.


CONTINUAZIONE

TOMO VI.



DALLA STAMPERIA DI CRAPELET,
RUE DE VAUGIRARD, Nº 9.


SI VENDE PURE
DA STASSIN E XAVIER,
9, RUE DU COQ-SAINT-HONORÉ.



AL LETTORE.


Amore sotto le più nobili forme ne' gaudi, amore e rassegnazione ne'
mali sono anima al vivere di Pellico, sono l'espressione de' suoi
versi; chè in essi l'anima di lui tutta è diffusa. In questo giudizio
speriamo verran coloro che leggeranno le seguenti poesie, le quali
abbiam scelte, toltone la _Francesca_, dalle molte pubblicate
dall'autore dopo la sua liberazione dallo Spielberg.

Inclinando alquanto col secolo fummo parchi nel dare di quelle rime
del nostro autore in cui egli trascorre alla contemplazione delle cose
divine. Un libro ascetico o quasi ascetico sarebbe letto da pochi,
forse da nessuno di coloro che ne abbisognano, e resterebbe quindi
senza frutto. L'armi spirituali lampeggino sole nelle sacre bigonce,
ma ne' libri di amena letteratura portino miste agli umani diletti le
salutari punture.

                                               A. RONNA.



FRANCESCA DA RIMINI

TRAGEDIA.


    Noi leggevamo un giorno per diletto,
      Di Lancillotto come amor lo strinse,
      Soli eravamo e senza alcun sospetto.
    Per più fiate gli occhi ci sospinse
      Quella lettura e scolorocci il viso.
      Ma solo un punto fu quel che ci vinse.
    Quando leggemmo il disïato riso,
      Esser baciato da cotanto amante,
      Questi, che mai da me non fia diviso,
    La bocca mi baciò tutto tremante.



PERSONAGGI.


LANCIOTTO, signor di Rimini.
PAOLO, suo fratello.
GUIDO, signore di Ravenna.
FRANCESCA, sua figlia e moglie di Lanciotto.
UN PAGGIO.
GUARDIE.

_La scena è in Rimini nel palazzo signorile._



FRANCESCA DA RIMINI.



ATTO PRIMO.


SCENA PRIMA.

_Esce_ LANCIOTTO _dalle sue stanze per andare all'incontro di_ GUIDO,
_il quale giunge. Si abbracciano affettuosamente._

    GUIDO.

    Vedermi dunque ella chiedea? Ravenna
    Tosto lasciai; men della figlia caro
    Sariami il trono della terra.

    LANCIOTTO.

                                 Oh Guido!
    Come diverso tu rivedi questo
    Palagio mio dal dì che sposo io fui!
    Di Rimini le vie più non son liete
    Di canti e danze; più non odi alcuno
    Che di me dica: Non v'ha rege al mondo
    Felice al pari di Lanciotto. Invidia
    Avean di me tutti d'Italia i prenci:
    Or degno son di lor pietà. Francesca
    Soavemente commoveva a un tempo
    Colla bellezza i cuori, e con quel tenue
    Vel di malinconia che più celeste
    Fea il suo sembiante. L'apponeva ognuno
    All'abbandono delle patrie case
    E al pudor di santissima fanciulla,
    Che ad imene ed al trono ed agli applausi
    Ritrosa ha l'alma.--Il tempo ir diradando
    Parve alfin quel dolor. Meno dimessi
    Gli occhi Francesca al suo sposo volgea;
    Più non cercava ognor d'esser solinga;
    Pietosa cura in lei nascea d'udire
    Degl'infelici le querele, e spesso
    Me le recava; e mi diceva.... Io t'amo.
    Perchè sei giusto e con clemenza regni.

    GUIDO.

    Mi sforzi al pianto.--Pargoletta, ell'era
    Tutta sorriso, tutta gioja, ai fiori
    Parea in mezzo volar nel più felice
    Sentiero della vita; il suo vivace
    Sguardo in chi la mirava, infondea tutto
    Il gajo spirto de' suoi giovani anni.
    Chi presagir potealo? Ecco ad un tratto
    Di tanta gioja estinto il raggio, estinto
    Al primo assalto del dolor! La guerra,
    Ahimè, un fratel teneramente amato
    Rapiale!... Oh infausta rimembranza!.. Il cielo
    Con preghiere continue ella stancava
    Pel guerreggiante suo caro fratello...

    LANCIOTTO.

    Inconsolabil del fratel perduto
    Vive, e n'abborre l'uccisor; quell'alma
    Sì pia, sì dolce, mortalmente abborre!
    Invan le dico: I nostri padri guerra
    Moveansi; Paolo, il fratel mio, t'uccise
    Un fratello, ma in guerra; assai dorragli
    L'averlo ucciso; egli ha leggiadri, umani,
    Di generoso cavaliero i sensi.
    Di Paolo il nome la conturba. Io gemo
    Però che sento del fratel lontano
    Tenero amore. Avviso ebbi ch'ei riede
    In patria, il core men balzò di gioja;
    Alla mia sposa supplicando il dissi,
    Onde benigna l'accogliesse. Un grido
    A tal annunzio mise. Egli ritorna!
    Sclamò tremando, e semiviva cadde.
    Dirtelo deggio? Ahi l'ho creduta estinta,
    E furente giurai che la sua morte
    Io vendicato avrei... nel fratel mio.

    GUIDO.

    Lasso! e potevi?...

    LANCIOTTO.

                       Il ciel disperda l'empio
    Giuramento! L'udì ripeter ella,
    Ed orror n'ebbe, e a me le man stendendo:
    Giura, sclamò, giura d'amarlo: ei solo,
    Quand'io più non sarò, pietoso amico
    Ti rimarrà... Ch'io l'ami impone, e l'odia,
    La disumana! E andar chiede a Ravenna
    Nel suo natio palagio, onde gli sguardi
    Non sostener dell'uccisor del suo
    Germano.

    GUIDO.

            Appena ebbi il tuo scritto, inferma
    Temei foss'ella. Ah, quanto io l'ami, il sai!
    Che troppo io viva... tu mi intendi... io sempre
    Tremo.

    LANCIOTTO.

          Oh, non dirlo!.. Io pur, quando sopita
    La guardo... e chiuse le palpebre e il bianco
    Volto segno non dan quasi di vita,
    Con orrenda ansietà pongo il mio labbro
    Sovra il suo labbro per sentir se spiri:
    E del tremor tuo tremo.--In feste e giochi
    Tenerla volli, e sen tediò: di gemme
    Dovizïosa e d'oro e di possanza
    Farla, e fu grata ma non lieta. Al cielo
    Devota è assai: novelle are costrussi.
    Cento vergini e cento alzano ognora
    Preci per lei, che le protegge ed ama.
    Ella s'avvede ch'ogni studio adopro
    Onde piacerle, e me lo dice, e piange.
    Talor mi sorge un reo pensier... Avessi
    Qualche rivale? O ciel! ma se da tutta
    La sua persona le traluce il core
    Candidissimo e puro!... Eccola.


SCENA II.

FRANCESCA E DETTI.

    GUIDO.

                                    Figlia,
    Abbracciami. Son io...

    FRANCESCA.

                          Padre... ah, la destra
    ch'io ti copra di baci!

    GUIDO.

                           Al seno mio,
    Qui... qui confondi i tuoi palpiti a' miei
    Vieni, prence. Ambidue siete miei figli:
    Ambidue qui... Vi benedica il cielo!
    Così vi strinsi ambi quel dì che sposi
    Vi nomaste.

    FRANCESCA.

               Ah, quel dì!... fosti felice,
    O padre.

    LANCIOTTO.

            E che? forse dir vuoi che il padre
    Felice, e te misera festi?

    FRANCESCA.

                              Io vero
    Presagio avea, che male avrei lo sposo
    Mio rimertato con perenne pianto,
    E te lo dissi, o genitor: chiamata
    Alle nozze io non era. Il vel ti chiesi;
    Tu mi dicesti che felice il mio
    Imen sol ti farebbe... io t'obbedii.

    GUIDO.

    Ingrata, il vel chieder potevi a un padre
    A cui viva restavi unica prole?
    Negar potevi a un genitor canuto
    D'avere un dì sulle ginocchia un figlio
    Della sua figlia?

    FRANCESCA.

                     Non per me mi pento.
    Iddio m'ha posto un incredibil peso
    D'angoscia sovra il core, e a sopportarlo
    Rassegnata son io. Gli anni miei tutti
    Di lagrime incessanti abbeverato
    Avrei del pari in solitaria cella
    Come nel mondo. Ma di me dolente
    Niuno avrei fatto!... liberi dal seno
    Sariano usciti i miei gemiti a Dio,
    Onde guardasse con pietà la sua
    Creatura infelice, e la togliesse
    Da questa valle di dolor!... Non posso
    Nè bramar pure di morir: te affliggo,
    O generoso sposo mio, vivendo:
    T'affliggerei più, s'io morissi.

    LANCIOTTO.

                                    O pia
    E in un crudele! Affliggimi, cospargi
    Di velen tutte l'ore mie, ma vivi.

    FRANCESCA.

    Troppo tu m'ami. E temo ognor che in odio
    Cangiar tu debba l'amor tuo... punirmi...
    Di colpa ch'io non ho... d'involontaria
    Colpa almeno....

    LANCIOTTO.

                    Qual colpa?

    FRANCESCA.

                               Io... debolmente
    Amor t'esprimo...

    LANCIOTTO.

                     E il senti? Ah, dirti cosa
    Mai non volea ch'ora dal cor mi fugge!
    Vorresti, e amarmi, oh ciel! nol puoi...

    FRANCESCA.

                                            Che pensi?

    LANCIOTTO.

    Rea non ti tengo... involontarii sono
    Spesso gli affetti...

    FRANCESCA.

                         Che?

    LANCIOTTO.

                             Perdona. Rea
    Io non ti tengo, tel ridico, o donna:
    Ma il tuo dolor... sarebbe mai... di forte
    Alma in conflitto con biasmato... amore?

    FRANCESCA.

    (_Gettandosi nelle braccia di Guido._)

    Ah, padre, salva la mia fama. Digli,
    E giuramento abbine tu, che giorni
    Incolpabili io trassi al fianco tuo,
    E che al suo fianco io non credea che un'ombra
    Pur di sospetto mai data gli avessi.

    LANCIOTTO.

    Perdona: amore è di sospetti fabbro.--
    Io fra me spesso ben dicea: Se pure,
    Fanciulla ancor, d'immacolato amore
    Si fosse accesa, e or tacita serbasse
    Il sovvenir d'un mio rival, cui certo
    Ella antepone il suo dover, qual dritto
    Di esacerbar la cruda piaga avrei,
    Indagando l'arcano? Eterno giaccia
    Nel suo innocente cor, s'ella ha un arcano!
    Ma dirlo deggio? Il dubbio mio s'accrebbe
    Un dì che al fratel tuo lodi tessendo,
    Io m'accingeva a consolarti. Invasa
    Da trasporto invincibile, sclamasti:
    Dove, o segreto amico mio del cuore,
    Dove n'andasti? Perchè mai non torni,
    Sì che pria di morire io ti riveggia?

    FRANCESCA.

    Io dissi?

    LANCIOTTO.

             Nè a fratel volti que' detti
    Parean.

    FRANCESCA.

           Fin nel delirio, agl'infelici
    Scrutar vuolsi il pensier? Sono infelici,
    Nè basta: infami anch'esser denno. Ognuno
    Contro l'afflitto spirto lor congiura;
    Ognun... pietà di lor fingendo... gli odia;
    Non pietà no, la tomba chieggon... Quando
    Più sopportarmi non potrai, la tomba
    Aprimi sì; discenderovvi io lieta:
    Lieta pur ch'io... da ogn'uom fugga!

    GUIDO.

                                        Vaneggi?
    Figlia...

    LANCIOTTO.

             Quai su di me vibri tremendi
    Sguardi! Che li fec'io?

    FRANCESCA.

                           Di mie sciagure
    La cagion non sei tu?... Perchè strapparmi
    Dal suol che le materne ossa racchiude?
    Là calmato avria il tempo il dolor mio;
    Qui tutto il desta, e lo rinnova ognora...
    Passo non fo ch'io non rimembri...--Oh insana!
    Fuor di me son. Non creder, no...

    LANCIOTTO.

                                     ... A Ravenna,
    Francesca, sì, col genitor n'andrai.

    GUIDO.

    Prence, t'arresta.

    LANCIOTTO.

                      Oh, a' dritti miei rinunzio.
    Dalla tua patria non verrò a ritorti:
    Chi orror t'ispira, ed è tuo sposo, e t'ama
    Pur tanto, più non rivedrai... se forse
    Pentita un giorno e a pietà mossa, al tuo
    Misero sposo non ritorni... E forse,
    Dall'angosce cangiato, ah, ravvisarmi
    Più non saprai! Ben io, ben io nel core
    La tua presenza sentirò: al tuo seno
    Volerò perdonandoti.

    FRANCESCA.

                        Lanciotto,
    Tu piangi?

    GUIDO.

              Ah figlia!

    FRANCESCA.

                        Padre mio! Vedesti
    Figlia più rea, più ingrata moglie? iniqui
    Detti mi sfuggon nel dolor, ma il labbro
    Sol li pronuncia.

    GUIDO.

                     Ah, di tuo padre i giorni
    Non accorciar, nè del marito vane
    Far le virtù per cui degna e adorata
    Consorte il ciel gli concedea! Più lieve
    Sarà la terra sovra il mio sepolcro,
    Se un dì, toccando, giurerai che lieto
    Di prole festi e del tuo amor lo sposo.

    FRANCESCA.

    Io accorcerei del padre mio la vita?
    No. Figlia e moglie esser vogl'io: men doni
    Lo forza il ciel. Meco il pregate!

    GUIDO.

                                      Rendi
    A mia figlia la pace!

    LANCIOTTO.

                         ... Alla mia sposa!


SCENA III.

UN PAGGIO E DETTI.

    PAGGIO.

    L'ingresso chiede un cavalier.

    FRANCESCA.

                       (_A Guido._)

                                  Tu d'uopo
    Hai di riposo: alle tue stanze, o padre,
    Vieni.     (_Parte con Guido._)


SCENA IV.

LANCIOTTO E IL PAGGIO.

    LANCIOTTO.

          Il suo nome?

    PAGGIO.

                      Il nome suo tacea:
    Supporlo io posso. Entrò negli atrii, e forte
    Commozïone l'agitò: con gioja
    Guardava l'armi de' tuoi avi appese
    Alle pareti: di tuo padre l'asta
    E lo scudo conobbe.

    LANCIOTTO.

                       Oh Paolo! Oh mio
    Fratello!

    PAGGIO.

             Ecco a te viene.


SCENA V.

PAOLO E LANCIOTTO _si corrono incontro e restano lungamente
abbracciati._

    LANCIOTTO.

                            Ah, tu sei desso,
    Fratel!

    PAOLO.

           Lanciotto! mio fratello!--Oh sfogo
    Di dolcissime lacrime!

    LANCIOTTO.

                          L'amico,
    L'unico amico de' miei teneri anni
    Da te diviso, oh, come a lungo io stetti.

    PAOLO.

    Qui t'abbracciai l'ultima volta... Teco
    Un altr'uomo io abbracciava: ei pur piangea...
    Più rivederlo io non doveva?

    LANCIOTTO.

                                Oh padre!

    PAOLO.

    Tu gli chiudesti i moribondi lumi.
    Nulla ti disse del suo Paolo?

    LANCIOTTO.

                                 Il suo
    Figliuol lontano egli moria chiamando.

    PAOLO.

    Me benedisse?--Egli dal ciel ci guarda,
    Ci vede uniti e ne gioisce. Uniti
    Sempre saremo d'ora innanzi. Stanco
    Son d'ogni vana ombra di gloria. Ho sparso
    Di Bizanzio pel trono il sangue mio,
    Debellando città ch'io non odiava,
    E fama ebbi di grande, e d'onor colmo
    Fui dal clemente imperador: dispetto
    In me facean gli universali applausi.
    Per chi di stragi si macchiò il mio brando?
    Per lo straniero. E non ho patria forse
    Cui sacro sia de' cittadini il sangue?
    Per te, per te, che cittadini hai prodi,
    Italia mia, combatterò; se oltraggio
    Ti moverà la invidia. E il più gentile
    Terren non sei di quanti scalda il sole?
    D'ogni bell'arte non sei madre, o Italia?
    Polve d'eroi non è la polve tua?
    Agli avi miei tu valor desti e seggio,
    E tutto quanto ho di più caro alberghi!

    LANCIOTTO.

    Vederti, udirti, e non amarti... umana
    Cosa non è.--Sien grazie al cielo, odiarti
    Ella, no, non potrà.

    PAOLO.

                        Chi?

    LANCIOTTO.

                            Tu non sai:
    Manca alla mia felicità qui un altro
    Tenero pegno.

    PAOLO.

                 Ami tu forse?

    LANCIOTTO.

                              Oh se amo!
    La più angelica donna amo... e la donna
    Più sventurata.

    PAOLO.

                   Io pur amo; a vicenda
    Le nostre pene confidiamci.

    LANCIOTTO.

                               Il padre
    Pria di morire un imeneo m'impose,
    Onde stabile a noi pace venisse.
    Il comando eseguii.

    PAOLO.

                       Sposa t'è dunque
    La donna tua? nè lieto sei? Chi è dessa?
    Non t'ama?

    LANCIOTTO.

              Ingiusto accusator, non posso
    Dir che non m'ami. Ella così te amasse!
    Ma tu un fratello le uccidesti in guerra,
    Orror le fai, vederti niega.

    PAOLO.

                                Parla,
    Chi è dessa? chi?

    LANCIOTTO.

                     Tu la vedesti allora
    Che alla corte di Guido...

    PAOLO.

                              Essa...

    (_Reprimendo la sua orribile agitazione._)

    LANCIOTTO.

                                     La figlia
    Di Guido.

    PAOLO.

             E t'ama! Ed è tua sposa?--È vero;
    Un fratello... le uccisi...

    LANCIOTTO.

                               Ed incessante
    Duolo ne serba. Poichè udì che in patria
    Tu ritornavi, desolata abborre
    Questo tetto.

    PAOLO.

                 (_Reprimendosi sempre._)

                 Vedermi, anco vedermi
    Niega?--Felice io mi credeva accanto
    Al mio fratel.--Ripartirò... in eterno
    Vivrò lontano dal mio patrio tetto.

    LANCIOTTO.

    Fausto ad ambi ugualmente il patrio tetto
    Sarà. Non fia che tu mi lasci.

    PAOLO.

                                  In pace
    Vivi; a una sposa l'uom tutto pospone.
    Amala...--Ah, prendi questo brando, il tuo
    Mi dona! rimembranza abbilo eterna
    Del tuo Paolo.

    (_Eseguisce con dolce violenza questo cambio._)

    LANCIOTTO.

                  Fratel...

    PAOLO.

                           Se un giorno mai
    Ci rivedrem, s'io pur vivrò... più freddo
    Batterà allora il nostro cuor... il tempo
    Che tutto estingue, estinto avrà... in Francesca
    L'odio... e fratel mi chiamerà.

    LANCIOTTO.

                                   Tu piangi.

    PAOLO.

    Io pure amai! Fanciulla unica al mondo
    Era quella al mio sguardo.... ah, non m'odiava,
    No; non m'odiava.

    LANCIOTTO.

                     E la perdesti?

    PAOLO.

                                   Il cielo
    Me l'ha rapita!

    LANCIOTTO.

                   D'un fratel l'amore
    Ti sia conforto. Alla tua vista, a' modi
    Tuoi generosi placherassi il core
    Di Francesca medesma... Or vieni...

    PAOLO.

                                       Dove?...
    A lei dinanzi... non fia mai ch'io venga!


FINE DELL'ATTO PRIMO.



ATTO SECONDO.


SCENA PRIMA.

GUIDO E FRANCESCA.

    FRANCESCA.

    Qui... più libera è l'aura.

    GUIDO.

                               Ove t'aggiri
    Dubitando così?

    FRANCESCA.

                   Non ti parea
    La voce udir... di... Paolo?

    GUIDO.

                                Timore
    Or di vederlo non ti prenda. Innanzi
    Non ti verrà, se tu nol brami.

    FRANCESCA.

                                  Alcuno
    Gli disse ch'io... l'abborro? glien duol forse?

    GUIDO.

    Assai glien duol. Volea partir; Lanciotto
    Ne lo trattenne.

    FRANCESCA.

                    Egli partir volea?

    GUIDO.

    Or più quieto hai lo spirto. Oggi Lanciotto
    Spera che del fratel suo la presenza
    Tu sosterrai.

    FRANCESCA.

                 Padre, mio padre! Ah, senti...
    Questo arrivo... deh, senti, come forti
    Palpiti desta nel mio sen!--Deserta
    Rimini mi parea; muta, funebre
    Mi parea questa casa; ora... Deh, padre,
    Mai non lasciarmi, deh, mai più! Sol teco
    Giubilar oso e piangere; nemico
    Tu non mi sei... Pietà di me tu avresti,
    Se...

    GUIDO.

         Che?

    FRANCESCA.

             Se tu sapessi...--Oh, quanto amaro
    M'è il vivere solinga! Ah, tu pietoso
    Consolator mi sei!... Fuorchè te, o padre,
    Non evvi alcun dinanzi a cui non tremi,
    Dinanzi a cui tutti del core i moti
    Io non debba reprimere... Nascosto
    Non tengo il cor; facil s'allegra e piange:
    E mostrar mai nè l'allegria nè il pianto
    Lecito m'è. Tradirmi posso; guai,
    Guai se con altri un detto mi sfuggisse!...
    Tu... più benigno guarderesti i mali
    Della tua figlia... E se in periglio fosse...
    Ne la trarresti con benigna mano.

    GUIDO.

    No, il cor nascosto tu non tieni... I tuoi
    Pensier segreti... più non son segreti,
    Quando col tuo tenero padre stai.

    FRANCESCA.

    Tutto... svelarti bramerei... Che dico?
    Ove mi celo? Oh terra, apriti, cela
    La mia vergogna!

    GUIDO.

                    Parla; il ciel t'ispira.
    Abbi fiducia. Il fingere è supplizio
    Per te...

    FRANCESCA.

             Dovere è il fingere, dovere
    Il tacer, colpa il dimandar conforto;
    Colpa il narrar sì reo delitto a un padre,
    Che il miglior degli sposi alla sua figlia
    Diede... e felice non la fe'!

    GUIDO.

                                 Me lasso!
    Il carnefice tuo dunque son io?

    FRANCESCA.

    Oh buon padre! nol sei...--Vacillar sento
    La mia debol virtù.--Tremendo sforzo,
    Ma necessario! Salvami, sostienmi!
    Lunga battaglia fin ad ora io vinsi;
    Ma questi di mia vita ultimi giorni
    Tremarmi fanno... Aita, o padre, ond'io
    Santamente li chiuda.--Ah, sì! Lanciotto
    Ben sospettò, ma rea non son! fedele
    Moglie a lui son, fedel moglie esser chieggo!..--
    Padre... sudar la tua fronte vegg'io...
    Da me torci gli sguardi... inorridisci...

    GUIDO.

    Nulla, figlia, raccontami...

    FRANCESCA.

                                Ti manca
    Lo spirto. Oh ciel!

    GUIDO.

                       Nulla, mia figlia.--Un breve
    Disordin qui... qui nella mente...--Ah, dolce
    A vecchio padre è l'appoggiar le inferme
    Membra su figli non ingrati!

    FRANCESCA.

                                Oh, è vero!
    Giusta è la tua rampogna; ingrata figlia,
    Ingrata io son: puniscimi.

    GUIDO.

                              --Qual empio
    Di sacrilega fiamma il cor t'accese?

    FRANCESCA.

    Empio ei non è, non sa, non sa ch'io l'amo;
    Egli non m'ama.

    GUIDO.

                   Ov'è? Per rivederlo
    Forse a Ravenna ritornar volevi?

    FRANCESCA.

    Per fuggirlo, mio padre!

    GUIDO.

                            Ov'è colui?
    Rispondi; ov'è?

    FRANCESCA.

                   Pietà mi promettesti;
    Non adirarti. È in Rimini...

    GUIDO.

                                --Chi giunge!


SCENA II.

LANCIOTTO E DETTI.

    LANCIOTTO.

    Turbati siete?... Eri placata or dianzi.

    GUIDO.

    Diman, Francesca, partirem.

    LANCIOTTO.

                               Che dici?

    GUIDO.

    Francesca il vuol.

    FRANCESCA.

                      Padre!

    GUIDO.

                            Oseresti?...

    (_Parte guardandola minacciosamente._)


SCENA III.

LANCIOTTO E FRANCESCA.

    FRANCESCA.

                                         Ahi, crudo
    Più di tutti è mio padre!

    LANCIOTTO.

                             Abbandonarmi
    Più non volevi; io ti credea commossa
    Dal dolor mio. Per fuggir Paolo, d'uopo
    Che tu parta non è; partir vuol egli.

    FRANCESCA.

    Partir?

    LANCIOTTO.

           Funesta gli parria la vita
    Ne' suoi penati, ove abborrito ei fosse.

    FRANCESCA.

    Tanto gl'incresce?

    LANCIOTTO.

                      Invan distornel volli;
    Di ripartir fe' giuramento.

    FRANCESCA.

                               Ei molto
    Te ama...

    LANCIOTTO.

             Soave e generoso ha il core.
    Debole amor (pari m'è in ciò) non sente...
    E pari a me, d'amor vittima ei vive!

    FRANCESCA.

    D'amor vittima?

    LANCIOTTO.

                   Sì. Non reggerebbe
    Il tuo medesmo cuor, se tu l'udissi...

    FRANCESCA.

    Or perchè viene a queste piagge adunque?
    Cred'ei che m'abbia alcun altro fratello
    Onde rapirmel?... Per mio solo danno,
    Certo, ei qui venne.

    LANCIOTTO.

                        Ingiusta donna! Ei prega,
    Pria di partir, che un sol istante l'oda,
    Che un solo istante tu lo veggia.--Ah, pensa
    Ch'ei t'è cognato; che novelli imprende
    Lunghi viaggi; che più forse mai
    Nol rivedrem! Religion ti parli.
    Se un nemico avess'io, che l'oceàno
    In procinto a varcar, la destra in pria
    A porgermi venisse... io quella destra
    Con tenerezza stringerei, sì dolce
    È il perdonar.

    FRANCESCA.

                  Deh, cessa!.. Oh mia vergogna!

    LANCIOTTO.

    Chi sa, direi, se quel vasto oceàno,
    Fin che viviam, frapposto ognor non fia
    Tra quel mortale e me? Sol dopo morte,
    In cielo... E tutti noi là ci vedremo...
    Là non potremo esser divisi. Oh donna,
    Il fratello abborrir là non potrai!

    FRANCESCA.

    Sposo, deh, sappi... Ah, mi perdona!

    LANCIOTTO.

                                        Vieni,
    Fratello!

    FRANCESCA.

             Oh Dio!

    (_Si getta nelle braccia di Lanciotto._)


SCENA IV.

PAOLO E DETTI.

    PAOLO.

                   --Francesca!... eccola... dessa!

    LANCIOTTO.

    Paolo, t'avanza.

    PAOLO.

                    E che dirò?--Tu dessa?--
    Ma s'ella niega di vedermi, udirmi
    Consentirà? Meglio è ch'io parta, in odio
    Le sarò men.--Fratel, dille che al suo
    Odio perdono, e che nol merto. Un caro
    German le uccisi; io nol volea. Feroce
    Ei che perdenti avea le schiere, ei stesso
    S'avventò sul mio brando; io di mia vita
    Salvo a costo l'avria.--

    FRANCESCA.

    (_Sempre abbracciata al marito, senza
    osar di levar la faccia._)

                            --Sposo, è partito?
    Partito è Paolo?.. Alcuno odo che piange;
    Chi è?

    PAOLO.

          Francesca io piango; io de' mortali
    Sono il più sventurato! Anche la pace
    De' lari miei non m'è concessa. Il core
    Assai non era lacerato? assai
    Non era il perder... l'adorata donna?
    Anche il fratello, anche la patria io perdo!

    FRANCESCA.

    Cagion mai non sarò ch'un fratel l'altro
    Debba fuggir. Partir vogl'io; tu resta,
    Uopo ha Lanciotto d'un amico.

    PAOLO.

                                 Oh! l'ami?...
    A ragion l'ami. Io pur l'amo... E pugnando
    In remote contrade... e quando i vinti
    E le spose e le vergini io salvava
    Dal furor delle mie turbe vincenti,
    E d'ogni parte m'acclamavan tutti
    Fortissimo guerrier, ma guerrier pio...
    Dolce memoria del fratello amato
    Mi ricorreva, e mi parea che un giorno
    Mi rivedrebbe con gentile orgoglio...
    E tutta Italia e sue leggiadre donne
    Avrian proferto amabilmente il nome
    Dell'incolpabil cavaliero.--Ah, infausti
    M'erano que' trionfi! il valor mio
    Infausto m'era!

    FRANCESCA.

                   Dunque tu in remote
    Contrade combattendo... ai vinti usavi
    Spesso pietà? Le vergini e le spose
    Salvavi? Là colei forse vedesti
    Che nell'anima tua regna.--Che parlo?
    Oh insana.--Vanne. Io t'odio, sì!

    PAOLO.

                   (_Risolutamente._)

                                     Lanciotto,
    Addio.--Francesca!...

    FRANCESCA.

    (_Udendo ch'egli parte, gli getta involontariamente
    uno sguardo._)

    PAOLO.

    (_Vorrebbe parlare; è in una convulsione
    terribile, e temendo di tradirsi fugge._)

    LANCIOTTO.

                         Paolo: deh, ti ferma!


SCENA V.

LANCIOTTO E FRANCESCA.

    FRANCESCA.

    Paolo... Misera me!

    LANCIOTTO.

                       Pietà di lui
    Senti, barbara, o fingi? A che ti stempri
    In lagrime or, se noi tutti infelici
    Render vuoi tu? Favella; io ragion chieggo
    De' tuoi strani pensieri; alfin son stanco
    Di sofferirli.

    FRANCESCA.

                  E sono pure io stanca
    Di tue ingiuste rampogne; ed avrò pace
    Sol quando fia ch'io più non veggia... il mondo!


FINE DELL'ATTO SECONDO.



ATTO TERZO.


SCENA PRIMA.

    PAOLO.

    Vederla... sì, l'ultima volta. Amore
    Mi fa sordo al dover. Sacro dovere
    Saria il partir, più non vederla mai!...
    Nol posso. Oh! come mi guardò! Più bella
    La fa il dolor: più bella, sì, mi parve;
    Più sovrumana! E la perdei? Lanciotto
    Me l'ha rapita? oh rabbia! oh!.. il fratel mio
    Non amo? Egli è felice... ei lungamente
    Lo sia... Ma che? per farsi egli felice
    Squarciar doveva ei d'un fratello il core?


SCENA II.

FRANCESCA _s'avanza senza veder_ PAOLO.

    FRANCESCA.

    Ov'è mio padre? almen da lui sapessi
    Se ancor qui alberga... il mio... cognato!--Io queste
    Mura avrò care sempre... Ah, sì, lo spirto
    Esalerò su questo sacro suolo
    Ch'egli asperse di pianto!... Empia, discaccia
    Sì rei pensieri: io son moglie!...

    PAOLO.

                                      --Favella
    Seco medesma, e geme.

    FRANCESCA.

                         Ah, questo loco
    Lasciar io deggio: di lui pieno è troppo!
    Al domestico altar ritrarmi io deggio...
    E giorno e notte innanzi a Dio prostrata
    Chieder mercè de' falli miei; che tutta
    Non m'abbandoni, degli afflitti cuori
    Refugio unico, Iddio.      (_Per partire._)

    PAOLO.

                               (_Avanzandosi._)

                         Francesca...

    FRANCESCA.

                                     Oh vista!--
    Signor... che vuoi?

    PAOLO.

                       Parlarti ancor.

    FRANCESCA.

                                      Parlarmi?--
    Ahi, sola io son!... Sola mi lasci, o padre?
    Padre, ove sei? la tua figlia soccorri!--
    Di fuggir forza avrò.

    PAOLO.

                         Dove?

    FRANCESCA.

                              Signore...
    Deh, non seguirmi! il voler mio rispetta;
    Al domestico altar qui mi ritraggo:
    Del cielo han d'uopo gl'infelici.

    PAOLO.

                                     A' piedi
    De' miei paterni altar teco verronne.
    Chi di me più infelice? Ivi frammisti
    I sospir nostri s'alzeranno. Oh donna!
    Tu invocherai la morte mia, la morte
    Dell'uom che abborri... io pregherò che il cielo
    Tuoi voti ascolti e all'odio tuo perdoni,
    E letizia t'infonda, e lunga serbi
    Giovinezza e beltà sul tuo sembiante,
    E a te dia tutto che desiri!... tutto!...
    Anche... l'amor del tuo consorte... e figli
    Da lui beati!

    FRANCESCA.

                 Paolo, deh!--Che dico?--
    Deh, non pianger. La tua morte non chieggo.

    PAOLO.

    Pur tu m'abborri...

    FRANCESCA.

                       E che ten cal, s'io deggio
    Abborrirti?... La tua vita non turbo.
    Diman io qui più non sarò. Pietosa
    Al tuo germano compagnia farai.
    Della perdita mia tu lo consola:
    Piangerà ei certo... Ah, in Rimini, egli solo
    Piangerà, quando gli fia noto!...--Ascolta.
    Per or, non digliel. Ma tu, sappi... ch'io
    Non tornerò più in Rimini: il cordoglio
    M'ucciderà. Quando al mio sposo noto
    Ciò fia, tu lo consola: e tu... per lui...
    Tu pur versa una lagrima.

    PAOLO.

                             Francesca,
    Se tu m'abborri che mi cale? e il chiedi?
    E l'odio tuo la mia vita non turba?
    E questi tuoi detti funesti?...--Bella
    Come un angiol, che Dio crea nel più ardente
    Suo trasporto d'amor... cara ad ognuno...
    Sposa felice... e osi parlar di morte?
    A me s'aspetta, che per vani onori
    Fui strascinato da mia patria lunge,
    E perdei...--Lasso! un genitor perdei.
    Rïabbracciarlo ognor sperava. Ei fatto
    Non m'avrebbe infelice, ove il mio cuore
    Discoperto gli avessi... e colei data
    M'avria... colei, che per sempre ho perduta.

    FRANCESCA.

    Che vuoi tu dir? Della tua donna parli...
    E senza lei sì misero tu vivi?
    Sì prepotente è nel tuo petto amore?
    Unica fiamma esser non dee nel petto
    Di valoroso cavaliere, amore.
    Caro gli è il brando e la sua fama; egregi
    Affetti son. Tu seguili; non fia
    Che t'avvilisca amor.

    PAOLO.

                         Quai detti? Avresti
    Di me pietà? Cessar d'odiarmi alquanto
    Potresti, se col brando io m'acquistassi
    Fama maggior? Un tuo comando basta.
    Prescrivi il luogo e gli anni. A' più remoti
    Lidi mi recherò; quanto più gravi
    E perigliose troverò le imprese,
    Vie più dolci mi fien, poichè Francesca
    Imposte me l'avrà. L'onore assai
    E l'ardimento mi fan prode il braccio;
    Più il farà prode il tuo adorato nome.
    Contaminate non saran mie glorie
    Da tirannico intento. Altra corona,
    Fuorchè d'alloro, ma da te intrecciata,
    Non bramerò, solo un tuo applauso, un detto,
    Un sorriso, uno sguardo...

    FRANCESCA.

                              Eterno Iddio!
    Che è questo mai?

    PAOLO.

                     T'amo, Francesca, t'amo,
    E disperato è l'amor mio!

    FRANCESCA.

                             Che intendo?
    Deliro io forse? che dicesti?

    PAOLO.

                                 Io t'amo!

    FRANCESCA.

    Che ardisci? Ah taci! Udir potrian... Tu m'ami!
    Sì repentina è la tua fiamma? Ignori
    Che tua cognata io son? Porre in obblìo
    Sì tosto puoi la tua perduta amante?...
    Misera me! questa mia man, deh, lascia!
    Delitto sono i baci tuoi!

    PAOLO.

                             Repente
    Non è, non è la fiamma mia. Perduta
    Ho una donna, e sei tu; di te parlava
    Di te piangea; te amava; te sempre amo;
    Te amerò sino all'ultim'ora! e s'anco
    Dell'empio amor soffrir dovessi eterno
    Il castigo sotterra, eternamente
    Più e più sempre t'amerò!

    FRANCESCA.

                             Fia vero?
    M'amavi?

    PAOLO.

            Il giorno che a Ravenna io giunsi
    Ambasciator del padre mio, ti vidi
    Varcare un atrio col feral corteggio
    Di meste donne, ed arrestarti a' piedi
    D'un recente sepolcro, e ossequïosa
    Ivi prostrarti, e le man giunte al cielo
    Alzar con muto ma dirotto pianto.
    Chi è colei? dissi a talun.--La figlia
    Di Guido, mi rispose.--E quel sepolcro?--
    Di sua madre il sepolcro.--Oh, quanta al core
    Pietà sentii di quell'afflitta figlia!
    Oh qual confuso palpitar!... Velata
    Eri, o Francesca: gli occhi tuoi non vidi
    Quel giorno, ma t'amai fin da quel giorno.

    FRANCESCA.

    Tu... deh, cessa!... m'amavi?

    PAOLO.

                                 Io questa fiamma
    Alcun tempo celai, ma un dì mi parve
    Che tu nel cor letto m'avessi. Il piede
    Dalle virginee tue stanze volgevi
    Al secreto giardino. E presso al lago
    In mezzo ai fior prosteso, io sospirando
    Le tue stanze guardava: e al venir tuo
    Tremando sorsi.--Sopra un libro attenti
    Non mi vedeano gli occhi tuoi; sul libro
    Ti cadeva una lagrima... Commosso
    Mi t'accostai. Perplessi eran miei detti,
    Perplessi pure erano i tuoi. Quel libro
    Mi porgesti e leggemmo. Insiem leggemmo
    «Di Lancillotto come amor lo strinse.
    «Soli eravamo e senza alcun sospetto...
    Gli sguardi nostri s'incontraro... il viso
    Mio scolorossi... tu tremavi... e ratta
    Ti dileguasti.

    FRANCESCA.

                  Oh giorno! A te quel libro
    Restava.

    PAOLO.

            Ei posa sul mio cuor. Felice
    Nella mia lontananza egli mi fea.
    Ecco: vedi le carte che leggemmo.
    Ecco: vedi, la lagrima qui cadde
    Dagli occhi tuoi quel dì.

    FRANCESCA.

                             Va' ti scongiuro,
    Altra memoria conservar non debbo
    Che del trafitto mio fratel.

    PAOLO.

                                Quel sangue
    Ancor versato io non aveva. Oh patrie
    Guerre funeste! Quel versato sangue
    Ardir mi tolse. La tua man non chiesi:
    E in Asia trassi a militar. Sperava
    Rieder tosto, e placata indi trovarti,
    Ed ottenerti. Ah, d'ottenerti speme
    Nutria, il confesso.

    FRANCESCA.

                        Ohimè! ten prego, vanne:
    Il doler mio, la mia virtù rispetta.--
    Chi mi da forza, ond'io resista?

    PAOLO.

                                    Ah, stretta
    Hai la mia destra? Oh gioja! dimmi: stretta
    Perchè hai la destra mia?

    FRANCESCA.

                             Paolo!

    PAOLO.

                                   Non m'odii?
    Non m'odii tu?

    FRANCESCA.

                  Convien ch'io t'odii.

    PAOLO.

                                       E il puoi?

    FRANCESCA.

    Nol posso.

    PAOLO.

              Oh detto! ah, mel ripeti! Donna,
    Non m'odii tu?

    FRANCESCA.

                  Troppo ti dissi. Ah crudo!
    Non ti basta? Va', lasciami.

    PAOLO.

                                Finisci.
    Non ti lascio, se in pria tutto non dici.

    FRANCESCA.

    E non tel dissi... ch'io t'amo.--Ah, dal labbro
    M'uscì l'empia parola!.. io t'amo, io muojo
    D'amor per te... Morir bramo innocente:
    Abbi pietà!

    PAOLO.

               Tu m'ami? tu?... L'orrendo
    Mio affanno vedi. Disperato io sono:
    Ma la gioja che in me scorre fra questo
    Disperato furor, tale e sì grande
    Gioja è, che dirla non poss'io. Fia vero
    Che tu m'amassi?... E ti perdei!

    FRANCESCA.

                                    Tu stesso
    M'abbandonasti, o Paolo. Io da te amata
    Creder non mi potea.--Vanne: sia questa
    L'ultima volta...

    PAOLO.

                     Ch'io mai t'abbandoni
    Possibile non è. Vederci almeno
    Ogni giorno!...

    FRANCESCA.

                   E tradirci? e nel mio sposo
    Destar sospetti ingiuriosi? e macchia
    Al nome mio recar? Paolo, se m'ami,
    Fuggimi.

    PAOLO.

            Oh sorte irreparabil! Macchia
    Al tuo nome io recar? No!--Sposa d'altri
    Tu sei. Morir degg'io. La rimembranza
    Di me scancella dal tuo seno: in pace
    Vivi. Io turbai la pace tua: perdona.--
    Deh, no, non pianger! non amarmi!--Ah, lasso!
    Che dico? Amami, si: piangi sul mio
    Precoce fato...--Odo Lanciotto. Oh cielo,
    Dammi tu forza!--(_Chiamando._) A me, fratel!


SCENA III.

LANCIOTTO, GUIDO E DETTI.

    PAOLO.

                                           L'estremo
    Amplesso or dammi.

    LANCIOTTO.

                      E invan...

    PAOLO.

                                Nè un detto solo
    A' miei voleri oppor. Funesti augurii
    Qui meco trassi: guai s'io!...

    LANCIOTTO.

                                  Che favelli?
    Sdegno ti sta sul ciglio!

    PAOLO.

                             --Ah! non di noi...
    Del destino è la colpa.--Addio, Francesca.

    FRANCESCA.

    (_Quasi fuor di se con grido convulsivo._)

    Paolo... Ferma!

    LANCIOTTO.

                   Qual voce!

    GUIDO.

    (_Reggendo la figlia._)

                             Oimè le manca
    Il respiro.

    PAOLO.

    (_In atto di partire._)

               Francesca...

    FRANCESCA.

                           Ei parte... io muojo.

    (_Sviene nelle braccia di Guido._)

    PAOLO.

    Francesca... oh vista... si soccorra.

    GUIDO.

                                         Figlia...

    (_Francesca è recata nelle sue stanze._)


SCENA IV.

LANCIOTTO E PAOLO.

    LANCIOTTO.

    Paolo... Che intendo?... Orrendo lampo scorre
    Sugli occhi miei.

    PAOLO.

                     Barbaro! godi: è spenta...
    Morir mi lascia: fuggimi.        (_Parte._)


SCENA V.

    LANCIOTTO.

                             Fia vero?
    Essa amarlo? E fingea!...No: dall'inferno
    Questo pensier mi vien... pur...--Dalla reggia
    L'uscire a Paolo s'interdica: a forza
    Gli s'interdica.--Oh truce vel! si squarci.


FINE DELL'ATTO TERZO.



ATTO QUARTO.


SCENA PRIMA.

LANCIOTTO E PAGGIO.

    LANCIOTTO.

    Che? Guido affretta il suo partir? Vederla
    Voglio, veder voglio Francesca. Innanzi
    Anche colui mi venga... Paolo.

    PAGGIO.

                                  Il tuo
    Fratello?

    LANCIOTTO.

             Il mio... fratello.


SCENA II.

    LANCIOTTO.

                                Il mio fratello!
    Fratello m'è: più orribile è il delitto.--
    Essa l'odiava! ah menzognera! Io pure
    A quell'odio credei. La lontananza
    Di lui, cagione di sue lagrime era.
    A rieder forse in Rimini Francesca
    Secretamente l'invitò.--Ti frena,
    O pensier mio; feroce mi consigli
    La mandi porre ahi! su quest'elsa...io tremo!


SCENA III.

GUIDO E LANCIOTTO.

    LANCIOTTO.

    Fuggirmi forse è di tua figlia intento?
    Senza ch'io'l sappia spera ella fuggirmi!
    E tu a sue brame...

    GUIDO.

                       È necessario!

    LANCIOTTO.

                                    Ah, rea
    Dunque è tua figlia!

    GUIDO.

                        No: tremendo fato
    Noi tutti danna a interminabil pianto!

    LANCIOTTO.

    Rea non la chiami, e d'esecrando foco
    Arde?

    GUIDO.

         Ma forte duol ne sente, e implora
    Di fuggir da colui.--Ripigliò appena
    I sensi, e pieno io di vergogna e d'ira
    Dagli occhi tuoi la trassi: ed obbliando
    Quasi d'esserle padre, a' piè d'un santo
    Simulacro prostratala, snudai
    Sul suo capo l'acciaro, ahi, minacciando
    Di trucidarla e in un di maledirla,
    Se il ver taceva. Fra singhiozzi orrendi
    Favellò l'infelice.

    LANCIOTTO.

                       E che ti disse?

    GUIDO.

    M'affoga il pianto. Ella è mia figlia...--Porse
    La sua gola all'acciaro, e lagrimosi
    Figgeva gli occhi negli asciutti miei.--
    Sei tu colpevol? (le gridai) rispondi,
    Sei tu colpevol?... pronunciar parola
    Non poteva ella dall'angoscia... A forza
    Mi si commosse il cor. Per non vederla
    Torsi gli sguardi, e mi sentii le piante
    Abbracciare, e lei, prono a terra il volto,
    Sclamar con voce moribonda: Padre,
    Sono innocente.--Giuralo.--Tel giuro!...
    Ed io in silenzio m'asciugava il ciglio.--
    Sono innocente, replicò tre volte...
    Gettai l'acciar, l'alzai: la strinsi al seno...
    Padre infelice e offeso son, ma padre.

    LANCIOTTO.

    Oh rabbia! L'ama ed innocenza vanta?
    Lunge dagli occhi miei, più allegro amore
    Con Paolo spera; ah, sen lusinga in vano!
    Di seguirla a Ravenna ei le promette...
    Oh traditor!.. Siete in mie mani ancora.

    GUIDO.

    Queste canute mie chiome rispetta.
    Salvarla io deggio... tu, più non vederla.

                                  (_Parte._)


SCENA IV.

LANCIOTTO E PAOLO.

    LANCIOTTO.

    Sciagurato, t'avanza.

    PAOLO.

                         Uso non sono
    Ad ascoltar sì acerbi modi: in altri
    Rintuzzarli saprei. Ma in te del padre
    L'autorità con sofferenza onoro.--
    Parli a fratello o a suddito?

    LANCIOTTO.

                                 ...A fratello.--
    Rispondi, Paolo. Se tua sposa fosse
    Colei; se alcuno a te il suo cor rapisse,
    E se quei fosse il tuo più dolce amico...
    Un uom che, mentre ti tradia, stringevi
    Come più che fratello al seno tuo...
    Che faresti di lui?--Pensavi.

    PAOLO.

                                 Io sento
    Quanto ti costa l'esser mite.

    LANCIOTTO.

                                 Il senti?
    Fratello, il senti quanto costa?--Il nostro
    Padre nomasti. Ei mite era co' figli,
    Anche se rei credevali.

    PAOLO.

                           Tu solo
    Succedergli mertavi. E che mai dirti?
    Oh, come atterri la baldanza mia!
    Anch'io talor magnanimo mi credo:
    Al par di te nol son.

    LANCIOTTO.

                         Di': se tua sposa
    Fosse?

    PAOLO.

          Francesca? Ah, d'un rival pur l'ombra
    Non soffrirei.

    LANCIOTTO.

                  Se un tuo fratello amarla
    Osasse?

    PAOLO.

           Più non mi sarìa fratello.
    Guai a colui! Lo sbranerei col mio
    Pugnal, chiunque il traditor si fosse.

    LANCIOTTO.

    Me pure assal questo desio feroce,
    E trattengo la man che al brando corre:
    Credilo, a stento la trattengo. Ed osi
    Del tuo delitto convenir? Sedurre
    La sposa altrui, del tuo fratel la sposa!

    PAOLO.

    Meno crudel saresti, or se col brando
    Tu mi svenassi. Un vil non son. Sedurre
    Io quel purissimo angiolo del cielo?
    Non fora mai. Chi di Francesca è amante
    Un vil non è: lo foss'ei stato pria,
    Più nol sarebbe amandola: sublime
    Fassi ogni cor, dacchè v'è impressa quella
    Sublime donna. Io perchè l'amo, ambisco
    D'esser uman, religïoso e prode:
    E perch'io l'amo, assai più forse il sono
    Ch'esser non usan nè guerrier nè prenci.

    LANCIOTTO.

    E inverecondo più d'ogn'uom tu sei.
    Vantarmi ardisci l'amor tuo?

    PAOLO.

                                Se iniquo
    Fosse il mio amor, tacer saprei, ma puro
    È quanto immenso l'amor mio. Morire
    Mille volte saprei pria che macchiarlo.--
    Nondimen... veggio di partir la forte
    Necessità.--Per la tua donna al tuo
    Fratel rinuncia... ed in eterno!

    LANCIOTTO.

                                    Iniquo
    Non è il tuo amore? E misero in eterno
    Tu non mi rendi?... Obblierò ch'io m'ebbi
    Un fratel caro: ma potrò dal core
    Di Francesca strapparlo? E il cor di lei
    Non porterai teco dovunque? Odiato
    Vivrò al suo fianco. Nol dirà, pietosa,
    Non mel dirà, ma ben il sento; ah, m'odia,
    E tu, fellone, la cagion ne sei.

    PAOLO.

    L'amo, il confesso... Ma Francesca, oh cielo
    Di lei non sospettar.

    LANCIOTTO.

                         Anco ingannarmi
    Vorresti? Il pensier tuo scerno. Tu temi
    Che un giorno in lei mi vendichi, in Francesca,
    Nella tua amante: e or più desio men prendi
    Che? d'immolarvi non ho dritto? io regno:
    Tradito sposo ed oltraggiato prence
    Son io. Di me narri che vuoi la fama:
    Di voi dirà: perfidi fur.

    PAOLO.

                             La fama
    Dirà: Qual colpa avea, se giovinetto
    Paolo a Ravenna fu mandato, ed arse
    Pel più leggiadro de' terrestri spirti?--
    E tu quai dritti hai su di lei? Veduto
    Mai non t'avea: sol per ragion di stato
    La bramasti in isposa. Umani affetti
    Non diè natura anco de' prenci ai figli?
    Perchè il suo cor non indagasti pria
    Di farla tua?

    LANCIOTTO.

                 Che ardisci? aggiungi insulto
    A insulto ancor? No, più non reggo.

                  (_Mette mano alla spada._)


SCENA V.

GUIDO, FRANCESCA E DETTI.

    FRANCESCA.

                        (_Prima di uscire._)

                                       Padre!
    Stringer l'arme li veggio.

    GUIDO.

    (_Vuol prima trattener Francesca; quindi
    si frappone tra Paolo e Lanciotto._)

                              Ferma.--Ah, pace,
    O esacerbati spiriti fraterni!

    PAOLO.

    Più della vita mi togliesti: poco
    Del mio sangue mi cal, versalo.

    FRANCESCA.

                                   Il mio
    Sangue versate: io sol v'offesi.

    GUIDO.

                                    Oh figlia!

    LANCIOTTO.

    Il sacro aspetto di tuo padre, o iniqua,
    Per tua ventura ti difende. Statti
    Fra le sue braccia: guai s'ei t'abbandona!
    Obblierò che regia fu tua culla:
    Peggio di schiava tratterotti. Infame
    È l'amor tuo: più d'una schiava è infame
    Una moglie infedel... Questa parola
    Forsennato mi rende. Io tanto amarti,
    Tanto adorarti, e tu spregiarmi?... Altero
    Ho il cor, nol sai? tremendamente altero:
    E oltraggi v'han, che perdonar non posso.
    Onor mel vieta... Onor? che dissi? noto
    Questo nome t'è forse?

    GUIDO.

                          Arresta.

    LANCIOTTO.

                                  Io intendo,
    Io dell'onor l'onnipossente voce:
    Nè allorch'ei parla, più altra voce intendo,
    E vibro il ferro ovunque accenni.

    FRANCESCA.

                                     Ah padre!
    Ei non m'uccide, uccidimi tu, padre!

    LANCIOTTO.

    Vaneggio?... Voi raccapricciate?...--Oh Guido!
    Quando canute avrò le chiome anch'io,
    E vivrò nel passato, e freddamente
    Guarderò i vizi e le virtù mie antiche...
    Anche allor rimembrando un'adorata
    Sposa che mi tradia, tutta l'antica
    Disperata ira sentirò nel petto,
    Ed imprecando fuggirò col guardo
    Verso il sepolcro, onde mie angosce asconda.
    Ma non verrà quel dì. Verso il sepolcro
    Mi precipita l'empia oggi: del mio
    Vicin sepolcro già il pensier l'allegra:
    Di calpestarlo essa godrà... Seco altri,
    A calpestarlo verrà forse!

    FRANCESCA.

                              Oh cielo!
    Dammi tu forza, ond'io risponda.--Io sorda
    Alle voci d'onor... Se Paolo amai,
    Vil non era il mio foco: Italo prence,
    Cavalier prode, altro ei per me non era.
    Popoli e regi lo lodavan. Tua
    Sposa io non era... Ah, che favello? Giusto
    È il tuo furor; dal petto mio non seppi
    Scancellar mai quel primo amor! E il volli
    Scancellar pur... Con quell'arcano io morta
    Sarei, se Paolo or non riedea, tel giuro.

    PAOLO.

    Misera donna!

    FRANCESCA.

                 A lui solo perdona;
    Non al mio amante, al fratel tuo perdona.

    LANCIOTTO.

    Per Paolo preghi? Oh scellerata!...Uscirne
    Di queste mura ambi credete? Insieme
    Di riunirvi concertaste. Al padre
    Di rapirti fors'anco ei ti promise.

    PAOLO.

    Oh vil pensier!

    LANCIOTTO

                   Io vil?--Partirà l'empia
    Sì; ma più te mai non vedrà.--Di guardie
    Si circondi costui. Passo ei non muova
    Fuor della reggia.

    PAOLO.

                      Tanta ingiuria mai
    Non soffrirò nel tetto mio paterno.

                      (_Vuol difendersi._)

    LANCIOTTO.

    Tuo signor sono. Quel ribelle brando
    Cedi.

    PAOLO.

               (_Oppresso dalle guardie._)

         Fratel... tu disarmarmi... Oh come
    Cangiato sei!

    FRANCESCA.

                 Pietà!... Paolo!

    PAOLO.

                                 Francesca!

    LANCIOTTO.

    Donna...

    GUIDO.

            Vieni; sottrati al furor suo.


FINE DELL'ATTO QUARTO.



ATTO QUINTO.


SCENA PRIMA.

(La sala è illuminata da una lampada)

FRANCESCA E GUIDO.

    FRANCESCA.

    Deh, lo placasti?

    GUIDO.

    (_Venendo dalle stanze di Lanciotto._)

                     Egli mi vide, e sorse
    Spaventato dal letto.--Oh cielo! è giunta,
    Sclamò, quest'alba sciagurata. Io debbo
    Perder Francesca?... Ogni consiglio or cangio:
    Senza lei viver non poss'io.--Frattanto
    Lagrime amare gli piovean sul volto:
    E or te nomando infuriava, or pieno
    D'amor ti compiangea. Fra le mie braccia
    Lungamente lo tenni, e con lui piansi,
    Libero freno al suo dolor lasciando.
    L'acquetai poscia con soavi detti,
    E il convinsi che meglio è che tu parta
    Senza vederlo. Andiam.

    FRANCESCA.

                          Padre, non fia:
    S'or nol riveggio, nol vedrò più mai.
    Rancore ei serba contro di me: secura
    Del suo perdono esser vogl'io.

    GUIDO.

                                  Ti calma.
    Perdonato egli t'ha; perdonar Paolo
    Pur mi promise.

    FRANCESCA.

                   Oh gioja! Ma, deh, in questo
    Sacro momento, non nomar, ten prego,
    Colui che appieno obbliar deggio... e il bramo!
    Già meno forte egli nel cor mi parla:
    Già mi riparla la virtù perduta,
    E il pentimento e la memoria sola
    Dello sposo fedel che tu mi desti,
    E ch'io non seppi amar.--Parlargli chieggo
    Anco una volta. Deh, non adirarti!
    Questa grazia m'ottieni. I miei rimorsi
    Per la passata ingratitudin tutti
    Mostrar gli vo': prostrarmi a' piedi suoi:
    Di non sprezzarmi scongiurarlo. Vanne:
    Digli che, s'io non lo riveggio, ahi parmi
    Del perdono del ciel chiusa ogni speme.

    GUIDO.

    A forza il vuoi? Qui il condurrò.


SCENA II.

    FRANCESCA.

                                     --Per sempre
    Dunque ti lascio, o Rimini diletta.
    Addio, città fatale! addio, voi mura
    Infelici, ma care! amata culla
    Di... quei prenci... Che dico!--Eterno Iddio,
    Per questa casa ultima prece io t'offro,
    Bench'io sia rea, non chiuder, no, l'orecchio.
    Nulla chieggo per me: per que' fratelli
    Prego: tua destra onnipossente posi
    Sul capo lor... Chi veggio?


SCENA III.

FRANCESCA E PAOLO.

    PAOLO.

    (_Prorompendo forsennato con una
    spada alla mano._)

                               Oh sovrumana
    Gioja! Vederla ancor m'è dato.--Ah, ferma!
    Se tu fuggì, io t'inseguo.

    FRANCESCA.

                              Audace! ahi lassa!
    E come in armi?

    PAOLO.

                   Sgombre ho le mie guardie
    Coll'oro.

    FRANCESCA.

             Oh ciel! nuovi delitti...

    PAOLO.

                                      Io vengo
    I delitti a impedir. Paga non fora
    Contro me, credi, la gelosa rabbia
    Del fratel mio; te immolar pensa. Orrendo
    Spavento è quel ch'or qui mi tragge.--Al sonno
    Chiusi dianzi le ciglia, ed oh qual truce
    Visïone m'assalse! Immersa io vidi
    Te nel tuo sangue moribonda: a terra
    Mi gettai per soccorrerti... il mio nome
    Proferivi, e spiravi!--Ahi disperato
    Delirio! Invano mi svegliava, il fero
    Sogno mi sta dinanzi agli occhi. Mira:
    Sudor di morte da mie chiome gronda
    Al rammentarlo.

    FRANCESCA.

                   Calmati...

    PAOLO.

                             Furente
    M'alzai, corruppi i vili sgherri: un brando
    Strinsi... Ahi, temea di più non rivederti!
    Qui ti ritrovo: oh me felice!... Imponi:
    Come del cor, del Braccio mio reina
    Tu sei: morir per te desìo.

    FRANCESCA.

                               Rientra,
    Oh insano, in te. Quell'uom che oltraggi, a noi
    Già perdonava. Fuggirai. Che speri?

    PAOLO.

    Se te col padre tuo salva non veggio
    Fuor di queste pareti, abbandonarti
    Non posso. Infausto, orribile presagio
    Pe' giorni tuoi m'affanna.--Ah, tu non m'ami!
    Tu rassegnata...

    FRANCESCA.

                    Esserlo è d'uopo.
    PAOLO.

                                     Or dimmi:
    Quando, ove mai ci rivedrem?

    FRANCESCA.

                                Se in terra
    Fine avrà... l'empio nostro amor...

    PAOLO.

                                       Non mai!...
    Dunque non mai ci rivedrem!--Francesca,
    Su questo cor poni la man. Talora
    Tu questa mano ti porrai sul core
    E de' palpiti miei ricorderatti:
    Feroci sono: pochi fien!

    FRANCESCA.

                            Oh amore!

    PAOLO.

    Adorata t'avrei: non fora un giorno
    Passato mai ch'io non cercato avessi
    Di farti ognora più e più felice...
    M'avresti reso (oh incantatrice idea!)
    Padre di prole a te simile: avrei
    A' miei figli insegnato ad onorarti.
    Dopo Dio prima, e come io t'amo amarti!

    FRANCESCA.

    Il solo udir questi tuoi detti è colpa.

    PAOLO.

    Nè mia giammai!...

    FRANCESCA.

                      Che parli? Eternamente
    Quant'io deggia al mio sposo e a' generosi
    Suoi sacrifici sentirò. Solenne
    Protesta or odi:--Se l'ingiusto fato
    Lui seppellisse pria di me, perpetue
    Conserverò le vedovili bende:
    Nè coll'amarti mai, fuorchè in silenzio,
    Offenderò la sua santa memoria.

    PAOLO.

    Mal m'intendesti: augurii empii non formo:
    Viva e m'uccida il fratel mio. Ma lungi
    Dall'ira sua tu pur, Francesca, ah, vivi:
    Vivi, e in silenzio amami, sì!... Ne' mesti
    Tuoi sogni spesso mi vedrai. Beata
    Ombra dì e notte al fianco tuo starommi
    Adorandoti ognor.

    FRANCESCA.

                     Paolo...

    PAOLO.

                             Tiranni
    Gli uomini e il cielo fur con noi.

    FRANCESCA.

                                      T'acqueta.
    Misera me! Non ci perdiamo... Ah, padre!

                             (_Chiamando._)

    PAOLO.

    Più non ha dritti alla sua prole un padre
    Che a sue voglie tiranniche l'immola.
    Chi de' tuoi giovanili anni sepolto
    Ha il fior nel pianto? Chi questa tremenda
    Febbre in te mosse onde tutta ardi? All'orlo
    Chi della tomba li spingeva?... Il padre!

    FRANCESCA.

    Empio, che dici?...--Odo fragor.

    PAOLO.

                                    Null'uomo
    Potrà strapparti da mie braccia.


SCENA IV.

GUIDO, LANCIOTTO E DETTI.

    LANCIOTTO.

                                    Oh vista!
    Paolo?... Tradito da mie guardie sono...
    Oh rabbia! e ad esser testimon di tanta
    Infamia, o Guido, mi chiamasti? Ad arte
    Ella a me ti mandò. Fuggire o farsi.
    Ribelli a me volean: muojano entrambi.

    (_Snuda il ferro e combatte contro Paolo._)

    FRANCESCA.

    Oh rio sospetto!

    GUIDO.

                    Scellerata figlia,
    A maledirti mi costringi.

    PAOLO.

                             Tutti,
    O Francesca, t'abborrono: me solo
    Difensor hai.

    FRANCESCA.

                 Placatevi, o fratelli:
    Fra i vostri ferri io mi porrò. La rea
    Son io...

    LANCIOTTO.

             Muori!    (_La trafigge._)

    GUIDO.

                   Me misero!

    LANCIOTTO.

                             E tu, vile,
    Difenditi.

    PAOLO.

    (_Getta a terra la spada e si lascia ferire._)

              Trafiggimi.

    GUIDO.

                         Che festi?

    LANCIOTTO.

    Oh ciel! qual sangue!

    PAOLO.

                         Deh... Francesca...

    FRANCESCA.

                                            Ah, Padre!...
    Padre... da te fui maledetta...

    GUIDO.

                                   Figlia,
    Ti perdono!

    PAOLO.

               Francesca... ah!... mi perdona...
    Io la cagion son di tua morte.

    FRANCESCA.

                                  Eterno...
    Martir... sotterra... oimè... ci aspetta!

    PAOLO.

                                             Eterno
    Fia il nostro amore... Ella è spirata... io muojo...

    LANCIOTTO.

    Ella è spirata.--Oh Paolo!--Ahi, questo ferro
    Tu mi donasti! in me si torca.

    GUIDO.

                                  Ferma,
    Già è tuo quel sangue; e basta, onde tra poco
    Inorridisca al suo ritorno il sole.


FINE DELL'ATTO QUINTO ED ULTIMO.



ROSILDE

CANTICA.


  Dove il trovatore componesse questa cantica non appare; soltanto
  vedesi ch'egli era fuori di patria ed infelice nelle agitazioni in
  cui si trovavano a que' tempi le repubbliche lombarde--presso le
  quali si ricava dai suoi poemi ch'egli peregrinò diverse volte--è
  probabile che ivi s'attraesse lo sdegno d'alcuna di esse o di
  Federigo.



ROSILDE.


      Canzoni de' miei padri, antiche istorie
    Che a' felici d'infanzia anni imparai
    Nel mio alpestre idioma (inculta lingua
    Ma d'affetti guerrieri e di mestizia
    Gentilmente temprata e dolce al core!)
    Riedete nel mio spirto: e col soave
    Risovvenir delle pietose note
    Illudetemi sì che a' miei dolori
    E al carcere ov'espio vani ardimenti
    Togliermi io creda, e a me ritornin l'ore
    Di mie gioje infantili--o di Saluzzo
    Nell'amato che prima aere spirai--
    O sui fragranti colli onde di fiori
    E limpid'acque Pinerolo è lieta--
    O per gli Eridanini ameni poggi,
    Ove la sera il Torinese ascolta
    Della lontana villanella il metro
    Che avventure d'eroi dice e d'amore.
    Oh poetica terra! oh popolata
    D'alte cavalieresche rimembranze
    Or gaje or triste, commoventi sempre!
    Tu la prima onda porgi e le tue valli
    Il primo letto al giovin re de' fiumi,
    Ed ei ne' campi tuoi cresce educato
    Come in orto di fiori! E di quell'orto
    Mentre il voluttuoso aere m'inebbria
    Veggio intorno--ove ch'io l'occhio sollevi--
    Con fiero atto seder sovra le alture
    Negre castella, e scemasi a tal vista,
    Ma no, non cessa e sol natura cangia
    La voluttà che mi ridea nel core
    E più seria diventa e non men dolce;
    E allora il pastoral flauto lasciando
    Toccar desio la trobadoric'arpa.
      Musa, o patria, a me sien le tue memorie:
    Rosilde io canto.--
                       Bella era ed amata
    E al suo sposo e signor tenera amante:
    E--come a fiore un fiorellin s'appoggia--
    Nelle braccia materne un pargoletto
    Della madre al sorriso sorridea.
      Se torna dalla caccia il cavaliere
    Teodomiro, oh quanto gli par lunga
    La salita al castel! non perchè il domi
    Grave stanchezza, ma perchè alla sposa
    Adorata il pensier vola ed al figlio:
    Erge ei gli occhi alla torre--e v'apparìa
    Lui desiando la venusta dama
    Col leggiadro bambin, quasi dal cielo
    Scesa fosse d'Iddio la Vergin Madre
    A consolar d'un suo sguardo i mortali.
      Ma improvviso precipita il dolore
    Sui dì felici! Era un mattino, e in riva
    Stava al Lemna natio Teodomiro
    Inseguendo il cinghial. Vibra la freccia,
    E tra questa e la belva, ahi, dal cavallo
    Spinto è il giovin Denigi, e cade esangue!
    Denigi il fratel d'arme, il fido amico
    Dell'uccisore! (Vive ancor negli inni
    Di tue vaghe fanciulle, o Pinerolo,
    La beltà di Denigi e il suo coraggio.)
      Oh rammarco! rammarco! e dacchè tinto
    Del sangue dell'amico è il cavaliero,
    Sfuma ogni gioja sua. Sovra il castello,
    Così beato in pria, siede e vi spande
    I negri vanni suoi l'angiol del male;
    E dello spirto scellerato il riso
    Fama è che molti udir di notte tempo,
    Quando consunto da languor si spense
    Di Rosilde il figliuolo, e del materno
    Pianto ulular le desolate sale.
    Nè qui del mal le orribili minacce
    Termine han pure. Ahi! di Rosilde istessa
    Le giovanili guance scolorarsi
    Vede lo sposo, e andarsi a poco a poco
    Estinguendo in que' grandi occhi il bel raggio
    Onde dianzi splendean con tanta vita:
    E in segreto ei sospira, e mentre asconde
    Con ridenti parole il suo timore,
    Gli s'arriccian le chiome immaginando
    Un'altra tomba--e in questa tomba chiusi,
    Chiusi quegli adorati occhi per sempre!
      Presso a morte ella venne. E allor proruppe
    Nel già incredulo cor del cavaliero
    Religïon con tutta sua possanza:
    E sceso a Pinerolo, al maggior tempio
    Ricchi doni profonde, e con solenni
    Riti espiar l'involontario cerca
    Omicidio commesso, e (se mai peni)
    Suffragar di Denigi il caro spirto,
    Onde placato il ciel renda a Rosilde
    Vita e gioja e di madre il dolce nome.
      Ahi! nel sonno gli appar l'amico spettro,
    E non irato è il volto suo, ma mesto
    Come d'un che pietoso asconder brami
    Le proprie, e più d'altrui senta le pene,
    Nè gli si doni il sollevarle; e porti
    Una coppa amarissima, e non sia
    Quella coppa un rimedio, e ber si debba!
    --Deh, spiegati! dicea Teodomiro,
    Spiegati!--Ed il fantasma una lontana
    Strada additava, e in fondo a quella strada
    Con eccelse basiliche sorgea
    Una grande città: dir sembra--«Vanne,
    Là Dio ti chiama!» e mentre ivi lo affretta
    Con una man si copre il volto e piange.
      Atterrito si desta il cavaliere:
    L'oscuro sogno medita; ispirato
    Alfin si crede. «Ah! non v'ha dubbio, è Roma
    Quella grande città: col pio vïaggio
    Te, Denigi, da tue fiamme, e da morte
    La cara donna liberar degg'io»--
    Dice, e ad un tempo a ciò s'astringe in voto.
      Esultate, o colline! ad abbellirvi
    Torna col redivivo occhio Rosilde.
    Di festive ghirlande olezzan tutte
    Del castello le sale: echeggian l'arpe;
    Stagion tornò di danze e di conviti:
    L'angiol della sventura è dileguato.
      Ma fido al voto suo prende il bordone
    Teodomiro e seco uno scudiero,
    Nè che la sposa il segua egli consente;
    Perocchè a lei vicino ardua non fora
    Più penitenza alcuna, e potrìa il cielo
    Gravemente punirnelo.--«Addio, sempre
    Più sempre amata! i giorni tuoi mi serba
    E l'amor tuo! qui fra due lune io riedo.»
      Piangea Rosilde, e dalle care braccia
    Strapparsi non potea: nè di Rosilde
    Tutte eran quelle lagrime che il volto
    Inondavano al sire.--Oh dolorose
    Partenze, sì, ma di dolcezza miste,
    Quando due cuori che batteano insieme
    Breve tempo si staccano, ma l'ora,
    La lieta ora si dicon del ritorno!
    Ahimè che di partenze altre son conscio
    Più dolorose! allorchè a forza svelti
    Da geloso tiranno eran due cori,
    Nè dirsi addio potean, nè lor rimase
    Speme che di ritorno ora risplenda!
      Compie una luna dacchè orando e cinta
    D'umil cilicio, infra i digiuni e il pianto,
    Quasi pia vedovella, entro il solingo
    Castel vivea la innamorata donna,
    Di niun pensier curando altro che un solo,
    Quando dal suo veron gli occhi volgendo
    Giù sul pendio, salir vede un canuto
    Che pare (ed è) il fedele Ugger, che il sire
    Accompagnato ha in romeaggio.--«Ahi lassa!
    Solo ritorna? Oh palpiti! oh funesti
    Presentimenti!»--E indietro si ritrae:
    Si riaffaccia indi al veron: prestigio
    Creder vorria ciò ch'ella vede; e il santo
    Segno si fa della salute, e sclama,
    «No, mio Gesù, no, non sia ver! non sia!»
      Ma giunto è il vecchio, e a' pie della signora
    Singhiozzando si getta.
                          «O mio buon servo!
    Tu mi rechi la morte, io già t'intendo:
    Narra ov'ei cadde; ah, ch'io sovra la terra
    Che lo ricopre, almen mi tragga e spiri!»
      «O Donna, il fido Uggero a te dinanzi
    Non tornerìa, se del suo sir la tomba
    Veduto avesse.»
                    «Che dicesti? Ei vive?
    Ah! sciagurata più non sono.»
                                  «Ascolta,
    Signora mia: non lusingarti, grave,
    È grave assai questa sciagura: è incerto
    Del mio sire il destino. Appena giunti
    A quel varco eravam dove la terra
    Al Piacentin del Po bagnano l'onde,
    Allorchè un passegger, forte spronando
    Il cavallo ver noi: fuggite, grida,
    Fuggite, e pelegrini! un'orrenda oste
    Invaso ha la contrada: il fero Otlusco
    Co' suoi prodi vaganti Ungari il fianco
    Occupò di Piacenza, e impossessato
    S'è d'un vicin castello, e in quel castello
    Quanti più può, chiude prigioni, e immensi
    Indi al riscatto vuol tesori o il sangue
    Versa degli infelici.--Il cavaliere
    Che così ne parlava era un prigione
    Al cui riscatto i teneri parenti
    Tutto venduto avean, servi e poderi
    E rocche avite. E il giovin cavaliere
    S'era con altri prodi a fratellanza
    Religïosa consacrato, e il voto
    Di que' frati guerrieri è i pellegrini
    Difendere e gli oppressi e la innocenza;
    Ma nè il coraggio lor, nè tutti i brandi
    Dell'afflitta città respinger ponno
    Il fero Otlusco: sue terribili armi
    Son gli stessi prigioni onde la strage
    Minaccia se assalirlo osin le genti.--
    Mercè rendiamo al generoso, e in fretta
    Ricalchiamo la via. Ma quando soli
    Teodomiro ed io per una selva
    Ci scostiam dal periglio, «aita! aita!»
    Sentiam gridar da lunge: onor ci vieta
    Negare aita a chi la implora: il ferro
    Snuda Teodomiro: il seguo: a zuffa
    Con gli Ungari veniamo. Avean rapita
    Al suo sposo una dama. Ahi, che potero
    Contro a sì forte stuol soli due brandi?
    Mira sul petto mio le non ben salde
    Ancor ferite, onde i nemici a terra
    Mi lasciar, mentre vinto e prigioniero
    Strascinavano il sire. Allorchè appena
    Riavermi e sorreggermi sull'egro
    Fianco potei, mossi ad Otlusco e chiesi
    Del mio signor divider la sciagura:
    Ma il barbaro esultò, mi risospinse,
    E appeso ad una croce un uman tronco
    Mostrandomi:--«Al tuo sir, disse, egual sorte
    Fra pochi dì sovrasta, ove quant'oro
    Val sì nobile vita io non riceva.»
      «E ch'è mai l'or? grida Rosilde: ah, tutto
    Si sagrifichi tosto: assai di gemme
    Erede io fui...»
                «Deh, ciò bastasse, o donna!
    Ma tal chiede riscatto il masnadiero,
    Cui ben pavento non s'adegui alcuna
    Di tue ricchezze. E il tempo incalza: i giorni
    Numerati ha il crudel.»
                           --Quando la donna
    L'enorme udì richiesta somma, il lume
    D'ogni speranza a' guardi suoi s'estinse:
    E come il Giusto[1] in Idumea, percosso
    Dall'eccesso de' mali, osò il suo grido
    Elevar verso Dio, ragion chiedendo
    Del non mertato aspro flagel--Rosilde
    Così, nel colmo del suo affanno, obblia
    Che col suo Creator, dritto la polve
    Di contender non ha: ma il Creatore
    Come allor per quel Giusto, or si commove
    Per la infelice delirante, e a detti
    Che nell'angoscia le sfuggian, perdona.
      E che sai tu, cieco mortal, se Iddio
    Non conduce le sorti e non ti scaglia
    Incontro alla sciagura, onde il tuo spirto
    In più che umane lotte trionfando
    Vieppiù a Lui s'assomigli? Al Sempiterno
    Mancheran forse i modi e le delizie
    Onde il lor guiderdone abbiano i forti?
    Va', pia Rosilde, al tuo destin: che sono
    Mai di Teodomiro e di te stessa
    La pace e i giorni, ove allo scampo Iddio
    D'una intera città voglia immolarli?
      Scuotesi: amor le ridà forza, e nulla
    D'intentato consente.--E drappi d'oro
    E splendidi monili e vasi e perle
    Tutto che mobil sia d'alto valore
    Sui giumenti si carca. In fretta e campi
    Vendere e torri non poteansi: in pegno
    Alla Badia li affida, e ne ritrae
    Non picciolo tesoro.
                        «O mia signora,
    Deh! non avventurarti,» invan ripete
    Il prudente scudiero; «a me abbandona
    Questo messaggio.»
                   «A tutto, il barbaro Unno
    Resister può, non d'una moglie al pianto,»
    Sclama la dolorosa.
                       «Eppur, deh! pensa
    Che non è fede ne' malvagi. E s'egli
    I tesori rapisse, e te prigione,
    Donna, tenesse?»
                «Ah! del mio sposo al fianco
    Andar carca di ferri, anzi che lunge
    Aver tesori e libertà, ben chieggio.»
      Dice, e comanda, e vuole. E sulla via
    Col fido Ugger, co' pochi servi, assisa
    Eccola sulla mula.--Ahi! così un tempo
    Da' Francesi inseguito io colla madre
    Pargoletto fuggìa: si soffermava
    Il viandante attonito e chiedea
    Da qual parte calato era il nemico.
      Oh cavalieri improvidi, ch'a imbelli
    Arti educate le fanciulle! Or d'uopo
    Qui sarìa di valore! In mezzo all'armi
    E all'arroganza od all'insidie forse
    Troverassi Rosilde, e le vien meno
    Segretamente al sol pensarvi il core.
    Dal palagio paterno uscita mai
    Pria non era del giorno in che da Susa
    Mosse al castel dello sposato amante:
    E qualche volta appena ivi la faccia
    D'alcun ospite vide, e tutto serba
    Il pudor dell'infanzia e la paura.
    E quel debole petto or notte e giorno
    Per le selve cavalca! e ad ogni fischio
    Trema di fronda, e gli urli della lupa
    Ode, e vede la sera da lontano
    I fochi, ove, chi sa? forse cenando
    Novi omicidii medita un ladrone!--
    «Per me non tremerei: ma se rapiti
    Mi fossero que' carchi, onde salvezza
    A te verria, Teodomiro, allora?»--
      Ed ei, Teodomir--dall'alte mura
    Ove geme prigion, stassi alle doppie
    Sbarre aggrappato della sua fenestra:
    Ad ore ad ore immobilmente figge
    Sovra l'ampio orizzon l'occhio bramoso:
    Bramoso? e che mai spera?--Ah! nulla spera!
    Estinto credo il fido Ugger: Rosilde
    Saper di lui non può.--«Questo vil cibo,
    Che invan mi si largisce, alfin dispendio
    Parrà soverchio, e m'alzeran la croce;
    Venga, venga quel dì!»--Tal è il febbrile
    Suo frequente desio. Fero contrasto,
    Bramar come riposo unico morte,
    E inorridir pensando al disperato
    Lamento di chi t'ama, allorchè il grido
    Udrà del tuo martirio! e nuovamente,
    Quasi l'orribil vita che tu vivi
    Bramar di proseguire, onde non giunga
    Alle tue sale mai quel desolante
    Indubitabil grido _Ei più non vive!_--
    Da quelle sbarre guarda, e nulla spera
    Teodomir: ma i dì passan talvolta,
    Ed umana figura egli non vede,
    Perocchè a tergo della torre il campo
    Giace degli Unni, e a questa parte è un vasto
    Tratto deserto di palude e arena
    Che ad un bosco confina, e solo a manca
    Veggonsi dietro agli olmi i campanili
    Della città, e se il vento agita i rami
    Si scoprono gli spaldi... Agita, o vento,
    Agita quelle fronde! e il prigioniero
    Veggia talor sovra gli spaldi il passo
    Di vivente persona! È un indistinto
    Tormentoso bisogno al solitario
    Il veder l'uomo--Almen da lunge! un santo
    Misterioso amor lega i mortali,
    Se distanza li scevra: ah! come a noja
    Puon da presso venirsi e farsi guerra?
    Anco i nemici quasi ama, se ascolta
    Lor selvaggia canzon Teodomiro,
    Che pur l'Ungaro canto è umana voce.
    E se nel bosco alcuna volta udìa
    La percossa lontana della scure,
    Pur frenava il respiro, e da que' colpi
    Alcun piacer traea, perocchè all'occhio
    Della mente pingeasi il buon villano
    Che coll'ardua fatica alla diletta
    Moglie porgeva e a' dolci figli il pane.
    Ahimè, ben d'uopo è ch'uom giaccia all'estremo
    D'ogni miseria onde gli sien ricchezza
    Così povere gioje!--E se nel bosco
    Tace la scure--e taccion gli Unni--e tace
    Negli olmi il vento--e dalle torri il caro
    A' meditanti suon della campana--
    Chi allor molce, o prigion, tue tetre noje?
    Oh allor--quel ciglio ch'uom giammai non vide
    Nel lutto inumidirsi, in mesta guisa
    Abbassandosi a terra, a larghe stille
    Versa il dolore!
                     «Oh mia Rosilde! io sono
    L'autor di tua sciagura! Io da celeste
    Credea ispirazione essere al pio
    Viaggio mosso, e m'illudea il consiglio
    Dello spirto a cui gioco è l'uman pianto!»
      «A cavallo! a cavallo! ecco una preda!»
    Così sclama, e già sprona, e già seguito
    Da cento lance è Otlusco. Oh, qual fu l'alma
    Della timida donna al furibondo
    Proromper d'una squadra! oh spaventose
    Urla che assordan l'aere, e men saccheggio
    Sembran nunciar che rapido macello!
      Discende dalla mula. Il cor le manca,
    Ma invoca il suo buon angiolo e confida
    Nel suo soccorso, e pallida e smarrita--
    Pur risoluta--avanzasi all'incontro
    De' masnadieri, e con la mano accenna
    Che raffrenino il corso ed ascoltarla
    Vogliano per pietà.--V'è nell'aspetto
    Dell'inerme e del debole un arcano
    Che ispira reverenza anco ai feroci:
    E se il debole opprimono, è un comando
    Che natura non fece, è un altro moto
    Che senza sforzo non si compie, e il compie
    Pensata voglia di trionfo o lucro.
      Commovente spettacolo! Un istante,
    E dalle scalpitanti ugne pestata
    Esser potea la misera--un istante,
    E l'avventata squadra immobil sta:
    Così Otlusco imperò.
                        Smonta, s'appressa
    All'atterrita dama: e sopra il viso
    Dell'assassin colla insultante gioja
    Della propria potenza e colle dure
    Tracce di crudeltà, v'è come un fosco
    Lume che quelle tracce e quella gioja
    Addolcisce un momento, e sembra quasi
    Raggio di cortesìa. L'opra era forse
    Di tua beltà, o Rosilde? o forse innanzi
    Ch'atti inumani il trasformasser, grande
    Fu dell'eroe lo spirito, e quel raggio
    Di cortesìa reliquia è di quel tempo?
      Ma in alme dal delitto degradato
    A' moti generosi un pentimento
    Di sentirli succede, e--unica a loro
    Nota virtù--della virtù il dispregio.
      «Signor, la sposa io son d'un prigioniero
    Di cui t'offro il riscatto. Ove regina
    Nata foss'io, per quel riscatto un regno
    Dato t'avrei: ma ciò ch'io m'ebbi or pongo
    Tutto a' tuoi piedi, e supplice scongiuro
    Che il mio Teodomir tu mi ridoni.»
      «Donna, ravviso il tuo scudier. Recato
    T'avrà il pregio in che tengo il signor tuo:
    Nè mai per men del valor suo di tanto
    Peregrino giojel fia che mi spogli.»
      «Deh! non macchiar tue forti gesta, o sire,
    Schernendo gl'infelici: ecco non vile
    Tesoro, e tu il gradisci: e fa' che priva
    Di quanto io possedea, tranne il consorte,
    Di mia miseria non curante, io possa
    Ogni dì benedirti.»
                       «Olà mi segua
    Quel convoglio al castel.»
                              Trema e rimonta
    Rosilde la sua mula, e a fianco a Otlusco
    Dinanzi agli altri avviasi, e da lontano
    Guarda con desiderio e con affanno
    Quelle mura ove chiuso è il suo diletto.
    Ma l'avaro ladron vede l'amore
    E la bellezza della dama, e volge
    Nell'astuto pensier nova perfidia.
      Arrivano al castel: spiegansi i doni,
    E Otlusco a sè venir fa il prigioniero.
    Oh emozion de' due teneri sposi
    Nel rivedersi! Udì Teodomiro
    Ciò che a salvarlo fea Rosilde, e gioja,
    Stupore e gratitudine è in lui tanta
    Che parole non trova.--Il sospettoso
    Unno quel muto giubilar mirando,
    «No» sclama «non è ver, queste non sono
    Vostre sole dovizie; in voi non fora
    Sì poco duol nel perderle: al riscatto
    Ben puon di te, o guerriero, esser bastanti,
    Ma pari a questi quattro volte un dono
    Vo' per la donna che prigion ritengo.»
      Piansero, supplicàr. Barbaramente
    Sono divisi, e dal castello a forza
    Dagli Ungari cacciato è il cavaliero.
      Che diverrà la misera? E ove mai
    Teodomir ritroverà tant'oro
    Qual dal perfido vuolsi? Il pio scudiere
    Gli rammenta i congiunti. «Ah, i miei congiunti
    Possenti son, ma antiche guerre e invidia
    A me feali inimici, e non che ajuto,
    Scherno n'attendo nella rea fortuna!
    Vendere il mio retaggio? E lenta è l'opra;
    Nè molto indi trarrei, poichè sì pingue
    Già ne diè somma chi toglieali in pegno.»
      Mentre varii nel cor volge pensieri,
    E un furibondo più dell'altro, e tutti
    Fausti a vendetta sì, inefficaci
    A liberar la cara sposa--e mentre
    Tenta indarno in agguato al masnadiero
    Toglier la vita--e mentre indarno ai prodi
    Frati guerrieri e all'armi piacentine
    Recasi e prega e stimola e, a gran rischio
    Di cagionar d'ogni prigion la strage,
    Pur li spinge a battaglia, e dieci volte
    (Con finti attacchi) in lontananza spera
    Trarre l'oste malvagia e della rocca
    Rapidamente impadronirsi, e sempre
    La vigile degli Unni arte il delude--
    A investir la città pensa in segreto
    Con audacia incredibile il ladrone.
    Oh scellerata notte! Un tradimento
    Forse ad Otlusco aprì le porte: il ferro
    E il foco cinque giorni orribilmente
    Scorre per ogni via, per ogni chiesa,
    Per ogni ostello, e disperato sembra
    Del popol vinto il più risorger mai.
      Nè per l'amor sol della preda esulta
    Di sue vittorie il barbaro: egli esulta
    Perocchè quanto più temuto e forte,
    Tanto più grande apparir crede al guardo
    Dell'altera Rosilde. Il ferreo core,
    Non si sa come, al pianto di Rosilde
    S'era commosso, e in guisa ch'ei sul punto
    Fu alcune volte d'asciugar quel ciglio,
    Libera rimandandola al marito:
    E se eseguia il magnanimo pensiero
    Non avrebbe sol lei, ma seco tutti
    I suoi tesori rimandati. Un giorno
    Alla stanza ei movea della dolente
    Col nobile proposto, ahi! ma rivide
    Quelle angeliche forme, intese il suono
    Di quella voce, e gli morì sul labbro
    La pensata parola, e generoso
    Esser più non potè. Parlò d'amore,
    E, ciò che mai sofferto ei non avea,
    I dispregi sofferse, e quei dispregi
    Eran pugnali all'alma del superbo,
    Eppur chi li avventava era a lui caro.
      Nè degli altri prigion pari alla sorte
    Di Rosilde è la sorte. A lei l'uscita
    Sol tolta è del castel, ma le si dona
    E visitar gli altri infelici e alquanto
    Alleviar lor pene e dalla croce
    Redimer chi dannato era e taluni
    Render senza riscatto a lor famiglie.
    Con benefico intento e varia speme
    Va serbando la vita, e all'esecrato
    Ladron si finge meno irata, e volta
    Tutta è a cercarsi occasïon di fuga.
      Ma maggior di lor possa è il breve sforzo
    Di gentilezza e di pudor nei vili;
    Parer grandi vorriano e oprar da grandi
    Incominciato appena avean--nel basso
    Sentiero ecco ricalcali natura,
    O abitudin d'infamia, o delirante
    De' sensi ebbrezza, o il giubilo del male.
      Prudenza e preghi e dignità e disdegno
    Più a Rosilde non val. Fra le volgari
    Delle coppe esultanze, il masnadiero
    Motti d'amor--ma temerarii--vibra,
    Ed orgogliosi (ah, il tuo bel nome, Amore,
    Non merta il foco de' profani!)
                                   «O stolta,
    A che ostinarti contra il fato? E credi
    Che, dacchè l'ha perduta, in vedovanza
    Perenne stiasi il tuo primier compagno?
    Ah, ch'ei ben già di tua mancanza in braccio
    D'amante altra consolasi! A cercarti
    Forse riedea? Ti vendica: le nozze
    D'Otlusco accetta. Splendida ben altra
    Che non Teodomir t'offro ventura:
    Invitte squadre io guido, un regno innalzo
    Cui le più ardite signorie curvarsi
    Dovran d'Italia: te possanza e pompa
    E adoramenti faran lieta, e madre
    Sarai di regi.» (E in così dir con guardo
    inverecondo alla pudica un braccio
    Osa afferrar.)
                  «Deh, signor mio! Te irrito
    Se il passato rammento e i dì felici
    Che da te lunge io trassi: a sgombrar l'ire
    Dal ciglio tuo, quindi in silenzio io pongo
    Il prisco ond'arsi immenso amor: ti basti
    Questo silenzio. E se ostinata speme
    Nutrir pur vuoi ch'amor novel me accenda,
    Fa' che d'atti tirannici e scortesi
    Io mai capace non ti scorga, e al tempo
    Lascia il mutarsi del cor mio.»
                                   Tra umile
    E maestosa così parla: e tenta
    Allontanar pur quel terribil punto
    Cui già da lungo con preghiere e pianto
    S'è apparecchiata.--Mesi e mesi invano
    Sperò in Teodomir: più non ritorna.
    Nelle pugne sperò, ma invan: la palma
    Sempre è dell'Unno. Invan sperò d'aprirsi
    Qualche strada alla fuga: omai non resta
    Scampo ad infamia, altro che un sol--la morte.
      A timid'alma arduo dover, la morte.--
    Ma non feroci tutte fur le donne
    Di cui l'alto morir narran le istorie.
    A talune, o pittor, forse tra quelle
    E maschi tratti e gigantesca possa
    E spirito guerrier dar non dovevi:
    E mite cor portavano, e formate
    Eran solo ad amore, e d'una spada
    Inorridiano al lampo, eppure (oh grande,
    Oh ben più grande era virtù!) a dispetto
    Della dolce indol femminile, il seno,
    Anzi ch'a onore o amor farlo spergiuro,
    Colla tremante man si laceravano!--
      Ahi giunta è l'ora per Rosilde! Un varco
    Era all'audacia del fellon, quel varco
    Or più non è. Nè avvidesi ei che l'armi
    Appese alla parete ella adocchiasse:
    La parete adocchiava e già scagliata
    Col volo d'un baleno erasi a un ferro
    La generosa... allor che risonanti
    Di spaventose grida ode le sale.
    Due i momenti non furo: assaliti ode
    Rosilde gli Unni, e un rapido pensiero
    Non mai previsto or le risplende, e il ferro
    Che in sè volger dovea, vibra al tiranno.
      Cade--e su lei rovesciasi--e quel ferro
    Dal seno Otlusco a sè strappando il pianta
    Ed il ripianta dieci volte e in viso
    E nel fianco alla misera, e fra gli urli
    E i colpi e il duolo e le bestemmie ei spira.
      Tal nel castel la spaventevol scena
    Presentavasi agli Ungari, allorquando
    Prorompea l'oste. Impugnano le lance,
    A far fronte s'accingon, ma l'orrenda
    Morte del condottiero e la sorpresa
    Sì gli atterrìa che immemori son fatti
    Dell'antica lor possa e a vergognosa
    Fuga si dan per la campagna.--I prodi
    Esuli Piacentini al forte, fatto
    Duce Teodomiro, eransi spinti
    Perir giurando o vincere: e mai fermo
    Da moltitudin ciò non fu che tutti,
    Per quanto lunghi sien feri gli inciampi,
    Visti a crollar sotto ai suoi piè non li abbia.
      Ma come or sì poco ardua è la vittoria?
    Donde il terror de' barbari? Nè Otlusco
    Fu veduto pugnar.
                      Parla un morente
    Ungaro e accenna del suo sir la sorte:
    «Femminea man lo trucidò!» Ai vincenti
    Raddoppiasi la gioja.--Ov'è la santa,
    La salvatrice della patria?--Schiuse
    Son le carceri: mischiasi col grido
    De' redentori il grido di cinquanta
    Liberati prigioni.
                       «E tu, Rosilde,
    Che non accorri? Dove sei? Rosilde!
    Diletta sposa!»
                   Ardea fosca una lampa
    Nella gran sala. Spaventato n'esce
    Il vecchio Ugger: nel suo signor s'incontra;
    Ritrarnel vuol. Ma già Teodomiro,
    Tra rovesciate mense e armi, scoverto
    Ha l'immane cadavere d'Otlusco:
    Con gioja gli s'appressa--oh vista! un altro
    Cadavere ei copria! Rosilde--
                                 E intanto
    Che il più infelice de' mortali esclama
    Miserandi lamenti (oh mescolanza
    Che drizzar fa le chiome!) urla di gaudio
    Metteano, ignari i suoi compagni ancora,
    E con festa il chiamavano: «A te dessi
    Questa lieta vittoria! A' fuggitivi
    Riposo non si dia! Guidane, o prode!
    La città si riacquisti!»--
                              A poco a poco
    Cessa il giulivo dissonante strepito:
    Il luttuoso caso odono: muti
    Reverenti s'affollano alla sala:
    Tutti lor gioja oblian: l'egregia donna
    Mirano--e oh che pietà! quel cavaliere
    Dianzi sì dignitoso, or nella polve
    E nel sangue si rotola ululando,
    Nè più gli cal che forse altri il dispregi.
      «Ite, o felici: agevol cosa è omai
    Il ripigliar la città vostra. Otlusco
    Da costei fu atterrato... oh, ma vedete
    La generosa!»
                 E il sen tutto squarciato
    Di Rosilde accennava e quelle care,
    Or deformi sembianze: ed oltraggiando
    Il fido Ugger che il contenea, una spada
    Afferrava, ma indarno, onde svenarsi.
      Riacquistò le sue mura il fortunato
    Popolo piacentino. Ebber perenne
    Del vedovo stranier cura i pietosi
    Ospiti, ed a Rosilde a eterna gloria
    In mezzo al foro alzaro un monumento;
    E allorquando, tra pochi anni recisa
    Fu dal dolor la vita di quel prode,
    Chiuse le sue infelici ossa nell'arca
    Venner dov'eran di Rosilde l'ossa.
      Ahi! quell'arca vedeasi a' tempi ancora
    Della mia fanciullezza, e il padre mio
    La visitò: ma quando pellegrino
    Adulto mossi tra i Lombardi, e volli
    A mia debol virtù porger conforto
    Quelle sacre onorando ossa d'eroi,
    Più non rinvenni che un'infranta pietra,
    E su quella sedea, laide canzoni
    Vil giullare cantando, e gli fea cerchio
    Con ghigni infami la plaudente plebe!


[Nota 1: Giobbe.]



NOTE.


    Tu la prima onda porgi....

Il Po scaturisce dal Monviso nel marchesato di Saluzzo. In questa
apostrofe sembra comprendersi tutto ciò che or forma il Piemonte, o
gran parte.

    Stava a Lemna natio....

Lemina, o Lemna, è un torrente presso Pinerolo.

    S'era con altri prodi a fratellanza
    Religïosa....

Nel medio evo il bisogno di difendersi contro gli abusi d'ogni specie
fece sorgere molte confraternite benemerite della società. Gli
aggregati rimanevano laici, e il loro ufficio non era che
l'adempimento di qualche penoso dovere: proteggere i viaggiatori,
assistere i feriti, gl'infermi, ec. Così i vincoli della grande
fratellanza umana stati spezzati dalla barbarie si andavano con
vincoli parziali riannodando. Ma il fervore si cangiò ne' secoli
seguenti in manìa: da tutte parti s'elevarono confraternite che invece
di beneficare l'umanità l'infettavano di superstizioni; tali furono i
_beguini, i fratelli e sorelle dello Spirito Santo, i flagellanti,
ecc._

                 .... Il fero Otlusco
    Co' suoi prodi vaganti Ungari....

Molte orde di Ungari scesero in Italia nel principio del secolo X; ciò
fa congetturare che la storia di Rosilde appartenga a quel tempo. Esse
furono prima respinte dall'imperatore Berengario, ma poi egli stesso
le chiamò per far fronte a Rodolfo, re della Borgogna transjurana, e
se ne pentì. Invece di obbedirgli, si sbandarono per tutta la
Lombardia, devastando campagne e città; da queste orde allora Pavia fu
saccheggiata e incendiata.

    .... Ma i dì passan talvolta
    Ed umana figura egli non vede....

Vedi l'Ecclesiaste che forse commisera particolarmente la prostrazione
dello spirito: _Væ soli! quia cum ceciderit non habet sublevantem se!_

    A talune, o pittor.

Questo cenno d'un pittore potrebbe sorprendere chi si ricorda d'aver
letto che il Cimabue fu il primo, dopo la barbarie de' mezzi tempi, a
ristabilire la pittura in Italia. Ma vedasi il Tiraboschi il quale
prova con molti esempii che anche ne' secoli anteriori l'Italia non
mancò mai di pittori: essi erano in gran parte Greci, ma molti pure
nazionali.--Siccome il poeta non nomina il suo pittore, forse si
trattava di uno o più quadri allora famosi, alla cognizione de' quali
bastasse l'indicarli; o forse null'altro volle il trovatore che
esprimere quel suo sentimento, non doversi dall'artista mai togliere
alla donna--nè anche quando è tratta da dolore o virtù a qualche
grande atto di coraggio--il bello ideale della donna che è la
dolcezza. Pare che per quanto il comportava il soggetto ei non si sia
dipartito da questo sentimento anche nel dipingere una amazone, una
selvaggia, la _Tancreda_: in più d'un passo di quel poema cerca
d'attenuare ciò che ha di forte il carattere della guerriera. Chi
conosce il teatro sarà dell'opinione del trovatore: avrà veduto che
un'attrice per quanto sia valente, s'ella crede di dover dare alle
eroine i tratti degli eroi, essa può far raccapricciare, ma non mai
commuovere; se invece l'attrice non è che eroina, cioè _donna_ nel suo
più nobile significato, allora le sue lagrime ne strappano molte.

                  A eterna gloria
    In mezzo al foro.

Ciò non regge colla chiusa. Ma il trovatore parlava dell'intenzione di
chi eresse il monumento. Non è egli così di lutto ciò che si fa per la
ricordanza de' posteri? Si suppone sempre l'infinità dei secoli: e un
furore popolare, un terremoto, cento cause possono distruggere oggi
ciò che jeri si credeva eterno.

    Più non rinvenni che un'infranta pietra....

Piacenza fu, tra le altre città lombarde, spesse volte desolata dalle
accanite guerre tra nobili e popolo, e il partito vincente distruggeva
non di rado ciò che era stato onorato dal vinto.

    Vil giullare cantando....

I trovatori di genere elevato chiamavano _giullari_ i poeti vili e
buffoni: e questi non erano già gli adulatori soltanto del volgo.
Trattandosi qui d'una storia molto anteriore alla poesia a noi nota
de' trovatori, parrebbe che la voce _giullare_, fosse un anacronismo.
Ma è certo che in tutti i tempi vi furono poeti, e particolarmente
poeti vili e buffoni: nè a qualunque età questi appartengano,
sconviene loro la voce _giullare_, che significa _giocoliere_,
_ciarlatano_.

                    E gli fea cerchio
    Con ghigni infami la plaudente plebe!

Questa pittura d'anime abbiette profananti un monumento eroico induce
a credere, che ciò fosse in un tempo d'anarchia.



ADELLO

CANTICA.


  Questa cantica è divisa in tre parti. La prima si riferisce ai tempi
  di Berengario I, negli ultimi anni del suo regno, e ai tempi del
  breve regno di Rudolfo in Italia: la seconda verte sulla prima
  impresa d'Adello, regnante in Italia Ugo di Provenza succeduto a
  Rudolfo: la terza scorre sovra alcuni tratti della vita di Adello,
  che possono riferirsi ai tempi di Ugo, e d'alcuni fra i successori
  di questo, cioè Lotario suo figlio, Berengario II marchese d'Ivrea,
  Ottone I, ecc.; giacchè è detto che Adello morì vecchio.



ADELLO.


I.

      Quando oltre l'Alpi il giovinetto Adello
    Dal povero movea tetto paterno,
    Pria di varcarle, un guardo all'orizzonte
    Natìo rivolse e pianse: e rammentando
    De' genitori la virtù e l'affetto
    Ripetè il pronunciato innanzi a loro
    Fervido giuramento.--
                          «Ah, no, al tuo nome,
    Patria degli avi miei, nè al vostro, o santi
    Parenti alcun disdor l'opre d'Adello
    Non recheranno mai! Verrà in Italia
    Il cortese straniero, e dirà--Pace,
    O terra, di gentili alme nutrice!
      Poi la via proseguì.--Scudiero al vecchio
    Suo consanguineo ei già che, di possanza
    Ricco e di fama, appo Lïon, sui colli
    Della Sonna fioriti e sulla Rocca
    Incisa dominava. Al giovinetto
    Accoglienza amorevole il canuto
    Giorgio far si degnò. Molto gli parla
    De' cari genitori, e si compiace,
    Perocchè del garzon commossa uscìa
    Dal cor la voce, e gli soggiunge--«Il cielo
    Non prosperò del padre tuo i destini,
    Ma un ospite leal diegli, un amico
    Che a lui la destra, e a chi da lui ne venga
    A stender pronto è ognor.»
                             Quell'onorata
    Destra baciava Adello, e umile e fida
    Servitù prometteva al suo signore.
      Degli antichi scudieri e famigliari
    Già l'ossequio acquistossi il verecondo
    Italo garzoncello: e i cavalieri
    Col sir congratulavansi e le dame
    Per l'onestà del nuovo alunno: e lieto
    Questi fra sè dicea: «Giungervi possa
    Autori de' miei dì, quanto il lontano
    Vostro figliuol dagli stranieri è amato!»
    Ma di Giorgio crescea la bionda figlia
    E di beltà un miracolo e d'amore
    E di grazia era, e di virtù, Eloisa:
    Ambìan la mano sua molti di Francia
    Illustri cavalieri, e al prode Arnaldo
    Il padre la destina. Era negli occhi
    Della fanciulla e sulle labbra un pronto
    Di cortesìa e candor nobil sorriso,
    Ch'ove volgeasi consolava: e quando
    Ella uscìa del castel, gl'infimi servi
    E il passeggiar mendico avidamente
    A mirarla si feano, e ognun tornava
    Più sereno al suo ufficio e a' suoi dolori.
    Ma quel tenue sorriso era qual pio
    Raggio di luna che ricrea il ramingo,
    Eppur misterioso un sentimento
    Move che non è gioja--e più soave--
    Della gioja fors'è, ma dolce ispira
    Di meditar vaghezza e di silenzio:
    Tal la sera in un tempio è melodia
    Di giocondo ma augusto organo--ascolta
    Delizïando l'anima pensosa.
      Quella tinta lievissima, quell'aura
    Che alla beltà del timido sembiante
    Beltà diresti aggiunga, e par sia nube--
    Non nube di dolor, ma di gentile
    Malinconia, e pietosa indole un cenno--
    Quell'è l'incanto irresistibil donde
    Sì affettuosi a lei volgonsi i guardi.
      Nel tetto suo, dalle verginee stanze
    Fuori di rado appar: ma dagli aerei
    Passi se il fievol suon per le echeggianti
    Sale s'annunzia--o al genitor si rechi,
    O a visitar famiglio infermo--e Adello
    Sulla sua via si trovi, oppur da lungi
    Trasvolar l'abbia vista, ei di sè ignaro
    Palpita, e quasi un angiolo trascorso
    Ivi fosse e beato abbia quell'aere,
    Ei le sale ricalca ove Eloisa
    Passò e santificar sentesi il core.
      Ai conviti paterni, infra le antiche
    Sue dame e il padre assisa--o accanto ad essi
    Passeggiando tra i fiori--o nella barca
    Che a' giorni estivi a tarda ora per l'onde
    Va qua e là gli zefiri cercando,
    Della donzella i saggi detti ammira
    Il giovine scudier: ma pochi sempre
    S'udian, nè quel silenzio era quel velo
    O infecondo o superbo; era quel velo
    Onde beltà pudica asconder crede
    I suoi tesori, e più pregiati e certi
    L'altrui commossa fantasia li adora.
      No, all'intelletto uman, o esterno mondo,
    Non sei bastante; esprimer tutto, indarno
    Agogneresti, i sensi percotendo
    Co' tuoi colori e suoni: egli in su porta
    Più grande un mondo--l'ineffabil regno
    Di quel principio che in noi pensa e scerne
    L'alta armonia delle create cose.
    In quel regno mental l'uomo adorando
    Contempla il bello, e più e più il vagheggia
    Qui, perchè in tutto il suo fulgor qui splende!
    Perciò di caste immagini è silenzio
    Quell'arcana vaghezza, onde men cara
    È talor la parola.--Oh, che mai sono
    Le scritte bende, onde il pennel presunse
    Della madre di Dio dirti l'amore?
    Non le ingegnose bende, il sacro volto
    Dica al Figliuolo «Io t'amo:» ivi un indizio
    L'immaginante spettatore, e tutta
    Troverà in sè di quell'amor la istoria.
      Ma quella possa, ohimè! ch'hanno le menti
    Di penetrarsi una nell'altra, ad onta
    Che di mister si cingano, scoverto
    A Eloisa e Adello ha la vicenda
    Del lor misero affetto. Ambi più volte
    Guardandosi arrossiro: e--inosservato--
    Talora Adel della fanciulla il volto
    Atteggiarsi a mestizia ed a profonda
    Estasi vide, e impallidir se udìa
    Reduce dalla caccia il giovin prence
    Ch'esser le dee consorte, e più se udìa
    Di costui rammentarsi i genitori
    Che dal Reno s'aspettano, e allorquando
    Giunti essi fien, si compieran le nozze.
      Nè lieto ad Eloisa è più il festivo
    Giorno del padre suo? l'inclito giorno
    Sacro al santo de' prodi, al generoso
    Di Cappadocia cavaliere?[2] Ah! tutto
    L'affettuoso adopra onde il sereno
    Ritrovar de' passati anni, e compiuta
    Far l'allegrezza del buon sir.--Gioiva
    Questi alle danze e al canto de' vassalli,
    Ma più d'ogni altro è a lui grato l'omaggio
    Della tenera figlia e dell'amato
    Italo suo scudiero.
                        Essa dell'armi
    Le glorie ignora, e sol del padre canta
    I pacifici giorni, e la clemenza
    Verso i nemici, e il benedir concorde
    De' felici suoi servi, e il dolce ospizio
    Che appo il suo focolar trova l'illustre
    Pellegrino e l'oscuro, ed il credente
    E l'infedel--ed ogni strofa chiude
    Intercalando un giubilo d'amore:
    «Ah sì, tal d'Eloisa è il genitore!»
    Ond'è che men degli altri anni gioconda
    Comparia la donzella, e più diletto
    Pur la sua voce trasfondea ne' cuori?
    Ah, dovunque la tua fiamma s'apprende,
    Ivi, o Amor, è una vita, ivi un incanto
    Che tutte le gentili arti sublima!
      Universal lode era, e d'Adello
    Non pur motto s'udìa: ma il guardo a caso
    Sovra lui pon la giovin dama, e il guardo
    Innamorato incontra--e, oh, d'ogni lode
    Ben più le parve!
                     Il mutuo turbamento
    Perocchè romoroso era l'applauso,
    Null'uom vide o capì.--Si ricompone
    Adel: sulla infiorata arpa coll'agili
    Dita preludo, e l'armonia celeste
    Gli versa in cor de' mali suoi l'obblio.
      Son guerrieri i suoi carmi. Ei di san Giorgio
    Dice l'eroico spirto--E della figlia
    Di quel re dice il pianto e le sciagure
    Che divorata esser dovea dal drago,
    Quando il cappadocèo redentor venne
    Della beltà e dell'innocenza. Ignuda
    La vergine regale al drago esposta
    Pinger non osa Adel: cinta d'un velo,
    Il sembiante ei le dona d'Eloisa,
    E il biondo crine ed il ceruleo sguardo
    E sì amabil ne trae quadro pietoso
    Che a tutti molce gli ascoltanti il petto.
    L'arrivo ei dice del campione e l'ira
    Contro a' codardi cavalier che il brando
    Non consacrano a' deboli, e a quel sesso
    In che onorar dobbiam Maria: e descrive
    La terribil battaglia; e la sconfitta
    Del mostro immane; e il giubbilo e il trionfo
    Che la turba apparecchia; e la modestia
    Del vincitor che involasi, e a novelle
    Per la terra trascorre inclite imprese.
    Oh, allor d'Adel, nell'inno suo di fuoco,
    Tutto il cavalleresco animo splende!
    I bei fatti lo esaltano; una viva
    Sete di gloria lo divora: in vago
    Disordin, nella mente i grandi esempi
    Gli si confondon del guerrier ch'è in cielo
    E quelli del suo sir, e a entrambi aita
    Chiede e virtù perchè lor orme ei prema.
      Quell'affanno, quel nobile desìo,
    Più che le lodi avutene commove
    Il magnanimo vecchio:
                         «Eccoti, o figlio,
    L'onorato mio ferro; i dì verranno
    Ch'io giacerò cogli avi, e questo ferro
    Mieterà ancor per mano tua gli allori!»
      Al valente cantor doni gentili
    Porgean le dame, e il sir dicea: «Tu sola,
    Figlia, sconosci la virtù e le nieghi
    L'amabil guiderdone?»--Alla paterna
    Dolce rampogna ella sorride, e tosto,
    Vergognando, discignesi dal petto
    Candida sottil zona, e sovra l'arpa
    Leggiadramente del cantor la posa.
      Oh che son gli altri fregi? Il tempo forse
    Potrà la rimembranza o scancellarne
    O almen scemar; ma questa zona!--
                               «Il seno
    D'Eloisa cingevi! e tu sentito
    Hai di quel seno i palpiti! e sentito
    Forse li hai raddoppiarsi (ahimè, pur troppo
    Ell'è certezza!) allor che o la mia voce
    Udia da lunge o i guardi miei trovava
    E mie pene leggeavi!» Ah, da quell'ora
    Così delira Adel!
                     Spesso un tintinno
    D'arpa s'ode la notte entro il castello:
    Egli è il misero amante che riposo
    Sul letto non rinvenne, e con dimesso
    Suon quelle melodie va ricordando
    Che più son care ad Eloisa--e il bianco
    Lin che dal musical legno discende.
    Sopra il volto li ondeggia e sopra il core,
    E reverenti baci egli v'imprime,
    E gli parla e il ribacia, e talor forse
    D'una lagrima il bagna.
                           Il destin move
    Un dì la giovin dama a errar solinga
    Tra le rose dell'orto, ed ivi il caro
    De' suoi pensier segreti idolo incontra.
      Ambi treman, ritrarsi ambi vorriano:
    Ma, perch'egli era mesto, una soave
    Parola essa gli volse--«Adello, udiste
    Favellar d'uno spirto che ogni notte
    Già da alcun tempo bea il castel di queti
    Armonici sospir?»
                     «A quello spirto,
    O cortese mia donna, era speranza
    Che i suoi sommessi asconditi sospiri
    Ignorati sarien: s'alcun li udiva,
    Uopo è ben che nemico abbiasi il sonno--E
    a quello spirto assai dorria se il sonno
    Mancasse ad altri come a lui.»
                                  Nullo era
    In se quel dir; d'eluderlo v'avea
    Pur mill'arti o troncarlo: ahimè, quell'arti
    Ad Eloisa non sovvengon! Pochi
    Confusi detti replicò, e que' detti
    Molta pietà spiravano. Ah, d'ossequio
    Sol parlò Adel, ma questa voce uscìa
    Sì tenera e tremante, che simile
    Era alla voce «amore!» Ed ei soggiunse
    Sì meste cose di quei dì in che privi
    Saranno questi fiori e quel castello
    Di chi li fea sinor giocondi--e, spesso
    Interrotto, pur dice anco di fiori
    A cui del sol manca la luce, e a terra
    Allor chinan la testa... e più non sorge!
      «Oh Adel, t'intesi! il tuo proposto è orrendo:
    Tu vagheggi la morte!»
                           «Oh donna! Il giorno
    Che tanto audace io fui d'innalzar gli occhi
    Sovra cosa divina, era decreta
    La morte mia dal ciel quel giorno.»
                                        Il pianto
    Sgorga a forza dagli occhi d'Eloisa;
    Ma dignitosa ell'è tutt'ora, e gravi
    I modi e le parole. Un lampo d'ira
    Le balenò piangendo e dir parca:
    Così m'astringi ad avvilirmi?--Ei muto
    Angosciato abbassava le pupille
    Più che mai reverenti onde la donna,
    Lagrimando non vista, il duro peso
    Della vergogna non sentisse. E il pio
    Riguardo ella scerneva, e in petto quindi
    Pietà maggior la inteneria.--
                                 --Tal'era
    Di que' semplici eventi la catena
    Che (impreveduta) avea le due inesperte
    Alme condotto alla fidente e vana
    Compassïon del vicendevol duolo.
    Ma oh come quelle bell'alme, incapaci
    Pur d'un pensier che da virtù non tragga,
    Accusansi ciascuna in sè medesma
    Del biasmevol colloquio!
                            È questa adunque,
    Pensava Adel, la mercè ingrata è questa
    Ch'io rendo al mio signore? a lui che tanti
    Su me profuse beneficii e pegni
    D'amistà nobilissima ed esempi
    Alti d'onor? Così rammento i cenni
    De' genitori miei, la veneranda
    Storia de' lor martirii e come in venti
    Ben più gravi sciagure immolàr tutto
    Fuor che lor fede a' cari prenci e al dritto?
      In chi di giusti nacque, è onnipossente
    La rimembranza de' dettami austeri
    Nell'infanzia bevuti e il sacro accento
    Con che amando addolcianli e padre e madre.
    Disonorar con vili atti egli teme
    L'immacolata lor canizie, e questo
    Gentil timor, ne' gran cimenti--allora
    Che virtù langue--di virtù lien loco.
      «Ahi, che feci, Eloisa? Ove trascorse
    L'incauto labbro! Oh, un infelice obblia
    Che ardì il tuo sdegno provocar! L'insania
    Onde vittima gemo, ancor la voce
    Del dover mio non soffocava appieno.
    Che insano fui--non vil--tel dirà il pronto
    Mio abbandonar questo adorato albergo
    Onde più mai non rivederti. Un alto
    Delitto le contrade itale afflisse
    E vendetta domanda: io la grand'ombra
    Di Berengario a vendicar mi reco.
    Cadrò nel campo dell'onore: udrai
    Forse in breve il mio nome e dirai «Basso
    Fu il viver suo, ma egli moria da forte.»
      Ma non men che in Adel s'avviva in petto
    Ad Eloisa di virtù il bel raggio:
    E ipocrisia sdegnando e vano orgoglio,
    Qual sorella gli parla e con decoro
    Quasi di madre e di regina--eppure
    Sol favellar così potea un'amante.
      Un celeste idïoma era, onde i pochi
    Predestinati cuori han conoscenza
    Che amaron come Adello, e un'Eloisa
    Sulla terra trovarono, e una volta
    Piansero insieme, e da quel dì migliori
    Si sentir--benchè forse, ahi, più infelici!
      Ella accenna infrangibil l'imeneo
    Che del suo padre la saggezza ha fermo,
    E dice sacro quel dover che legge
    A entrambi lor fa il separarsi e pace
    Ricercar nell'assenza: e poi soggiunge
    Con enfasi gentil quanto l'uom possa
    Sublime farsi nel dolor, se invitto
    Ai colpi di fortuna animo opponga,
    E più, se nel dolore ei sempre aneli
    A far sì, che ad un lito (ond'esul mosse)
    Spesso la fama sua giunga e tai fatti
    Narri di lui, che ognun qui dire ambisca:
    Io lo vidi, io 'l conobbi, ei mi fu caro!
      Con più tenera voce indi Eloisa
    Il rampogna che morte ei nelle prime
    Pugne minacci d'incontrar; gl'intima
    Di viver--
               «Donna, ah da te lunge?--
                                         «Vivi
    Alla patria, a' parenti... ed al conforto
    Pur d'Eloisa!»

    Questo detto ha fisso
    Del futur campion l'alto destino!


[Nota 2: San Giorgio, principe di Cappadocia.]


II.

    «Ben t'avvenga, o stranier, che non disdegni
    Del proscritto la stanza! Oh, il curïoso
    Mio desir non t'offenda: avresti il suolo
    Di Verona toccato? o nulla almeno
    Dell'infelice mia patria t'è noto?»
      «Verona tua, gran Valafrido, ancora
    Non visitai, ma qui di Francia io movo
    Per quella volta.»
                      Adel così dicendo,
    Una scritta porgeva: e con ossequio
    (Mentre quei legge) osserva le sembianze
    Dell'eroe cui per molte cicatrici
    Beltà non scema: è in Valafrido un misto
    Tal di guerriera cortesìa e fierezza
    Che affetto ispira e in un tema e stupore.
      «Che? Tu del sir di Rocca Incisa alunno,
    Di lui ch'a Eligi mio chiuse le ciglia?--
    E dal felice tetto del vegliardo
    L'ardente febbre involati de' prodi,
    Il bisogno di gloria? Oh, dritto ei parla,
    Con paterna amarezza lamentando
    Giorgio il tuo dipartir! _Ne' generosi
    V'è un impulso di Dio che li sospinge:
    Uopo è onorarlo, anche se il cor ne pianga._»
      Adel s'inteneria rammemorando
    Del suo signor l'affettuoso sdegno,
    Quando i suoi preghi a forza il combattuto
    Congedo ottenner. Poi dalle ospitali
    Accoglienze animato--«O Valafrido,
    Guida mi sieno i tuoi consigli: acceso
    Dall'alta istoria di tua eroica fede
    Pel trucidato nostro italo Augusto,
    Al sitibondo mio ferro ho la morte
    Del traditor giurata.»
                          «O giovinetto,
    il cor mi brilla udendoti. Perduta
    Tutta de' giusti ancor dunque la stirpe
    Non è in Italia? I giusti--oh, ma son rare
    Stille che pure cadono dal cielo
    In torbido ocean, che inosservate
    Nelle giganti sue schiume le ingoja!
    T'arrida un giorno la fortuna: or tempo
    È di sostar: te perderesti indarno
    E del trafitto Cesare quel sacro
    Unico avanzo su cui pende il brando
    Dell'assassin.»
                   «Ciò che a salvar la figlia
    Di Berengario lungamente opravi
    Noto m'è o Valafrido...»
                            «E non t'è noto
    Che al novo italo sire Ugo negando
    Chinar l'insegna mia, se dalle mani
    Dell'assassin Rasperto ei non togliea
    La donzella regal, meco possente
    Esercito ebbi che d'onore al sacro
    Nome parea tutto avvampar? L'infido
    Ugo mi trae ne' lacci suoi chiedendo
    A me di pace il parlamento: i dritti
    Son vïolati delle genti: in ferri
    Tratto mi veggio. Ov'eran le promesse
    Dell'esercito mio? dove la sete
    Di giustizia e vendetta? Oh vitupero!
    I creduti leoni eran conigli
    Che un fischio sperde. Alla prigion m'involo,
    A mie castella mi ricovro, ai servi
    Do franchigia e virtù: la fede e il grato
    Animo in prodi trasmutò gli abbietti:
    Pugnar, morirò al fianco mio. Ma invano
    Sperai che gara in petti altri e gentile
    Pudor si ridestasse. Il soverchiante
    Numero mi sconfigge: Ugo e Rasperto
    Al suoi adeguan le mie rocche, e a stento--
    Ramingo, insidiato, egro--l'afflitta
    Testa posar m'è in questi monti dato.»
      «Signor, tu il sai, soccombe il retto, e vana
    Però non è la sua caduta: è crollo
    Che desta le sopite alme e del retto
    A compir le sublimi opre le incalza.»
      «Adel, m'ascolta: speme una accarezzo,
    Sol una.»
              «Qual?»
                      «La grande alma d'Ottone.
    Io in Lamagna trarrò, moverò l'ira
    Del generoso: il vindice d'Italia
    E del tradito imperador fia Ottone.»
      Al quarto dì si separar gli eroi:
    Valafrido oltre l'Alpi, e Adello mosse
    Alla città infelice ove vassallo
    Del re malvagio domina nel sangue
    Il feroce Rasperto. Avea costui
    Folto stuol di satelliti, raccolti
    Tutti d'infra le truci orde venute
    Di stranie terre alla rapina.--Adello,
    Onde vie meglio ascondere che in petto
    Lombarde cure ci prema, avventuriere
    Natìo di Francia fingesi, cui sorte,
    O errori giovanili, o irrequïeta
    Brama d'eventi fuor di patria spinse.
    Tacitamente a lungo ogni suo passo
    Esplorato venìa. Seco si stringe
    Un burgundo guerrier: cieca fidanza
    Mostragli Adel, sognati casi narra,
    Forte invaghito del mestier dell'armi
    Dicesi, e a poco a poco ode gli offerti
    Patti, e ingaggiarsi appo Rasperto assente.
      L'avvenenza d'Adel, la signorile
    Sua destrezza nell'armi attirò in breve
    Del tiranno gli sguardi, e di sua corte
    Agli ufficii l'assunse.
                            Adel fremea
    Nell'incurvar l'altera alma alle bieche
    Non imparate ancor del debole arti:
    Ma incurvarla era forza, o prorompendo
    Mal augurata far l'impresa. È lieve,
    Di Berengario sulla tomba il mostro
    Strascinar per le chiome e trucidarlo;
    Ma di Rasperto riman poscia il crudo
    Nipote Euger, che in sua balia rinchiusa
    Tien nella torre Sigismonda e il sangue
    Versar della infelice orfana puote.
    Pria che vendetta dell'estinto or vuolsi
    Dell'oppressa innocenza oprar lo scampo.
      Cauto osservar gli spiriti, una tela,
    Se arride il tempo, ir preparando, e il cenno
    Di Valafrido attendere--tal era
    Lo spettante ad Adello inteso incarco.
      Ma più lune trascorsero, e l'eroe
    Di Lamagna non torna, e orrende nozze
    (Onde gli ambiziosi emuli tronche
    Sien le speranze) intimansi alla figlia
    Di Berengario coll'infame Eugero.
      Repente sulle piazze alla sommossa
    Chiamar la turba? Ed a qual pro? Non altri
    Tentaron questa via? Tosto immolati.
    Dalla viltà del volgo,--od a ritrarsi
    Costretti si vedeano, onde il tiranno
    Non estinguesse del lor re la figlia.
    Dar l'assalto alla torre? e con quai brandi?
    Ah, in molti petti è l'ira, il desio in tutti
    Della vendetta, la virtù--in nessuno!
    O almeno Adel non la scoverse.--Un fido
    Servo, che collattaneo era del vecchio
    Padre d'Adello, e indivisibil sempre,
    Fin dal natal del giovin sir gli stette,
    De' suoi segreti è il sol custode: oh, gli anni
    La destra aggravan d'Almadeo; compagno
    Fora mal certo nel ferir!
                              «Buon padre,
    Urge il tempo, ho deciso: ad ogni rischio
    Sol rimango io, ma Sigismonda è salva.»
      «Che dici o mio signor?»
                             «Sotto l'ammanto
    D'altra grave cagion, rapido cocchio
    E destrieri apparecchiansi: al tramonto
    Portator de' messaggi io di Rasperlo
    Al re m'invio--ciò crederassi--il cocchio
    Tu guiderai; più prezïoso un pegno
    In mio loco ivi fia. Non della corte
    D'Ugo il cammin, ma di Vinegia prendi:
    Sino al mar non ristarti: un agil legno
    Senza indugio v'accolga, ed al suo illustre
    Proscritto zio la vergine conduci.»
      «Deh, l'arcano mi spiega!
                             «Odi: tu sai
    Che alla prigion della regal donzella,
    Fuorch'a entrambi i tiranni e alle lor guardie,
    Ad uom recarsi non è dato. Appena
    Due antiche ancelle--e l'una a Sigismonda
    Nutrice fu--ponno ogni dì all'afflitta
    Di compianto e amistà porger ristoro.
    Ad esse favellai. Della nutrice
    Le spoglie io vesto, all'altra m'accompagno,
    In carcer resto, e assuntesi le spoglie
    Della nutrice, Sigismonda fugge.
    Ir non può in fallo il colpo: occhio severo
    Su queste donne non s'estende. Inferma
    Da lungo è quella onde la voce io tolgo:
    Muta sol ivi penetrar, ravvolta
    In ampio velo: al scender della torre
    Al lor umile tetto uom non le segue.
    Buje or sono le notti: al destro lato
    Del vicin tempio le fuggiasche trovi.
    Salgano il carro immantinente: sferza
    Senza posa i cavalli.»
                           «O signor mio,
    Che fai? tua vita perdi: a' genitori
    Pensa.»
            «Agli esempii lor penso: la vita
    Posposer sempre al maggior ben--l'onore!»
      «Del tinto personaggio a me la cura
    Dona, all'illustre zio tu stesso adduci
    La salvata donzella.»
                          «Oh, ben da tanto
    M'estimo io sì! nè a tue virtù, la gloria
    Di morir per sì giusto atto, minore
    Certo sarìa! Ma di soverchia mole
    È, Almadeo, tua presenza: in guisa niuna
    Dal travestir s'illuderian gli sgherri:
    Me affida inoltre il valor mio: l'acciaro
    Del padre d'Eloisa io sotto ai lini
    Donneschi porto, e allor che s'avvedranno
    (Dopo molte ore, deh, ciò sia!) le guardie
    Dell'inganno sofferto, io d'atterrarle
    E scampar non dispero; e piena l'opra
    Forse eseguir che il morto re domanda.»
      Resistenza e preghiere e ammonimenti
    Ripetè invan l'antico.--I fatti egregi
    Pensa anche il vil talvolta: il sol gagliardo
    Li pensa e compie--e tra il pensiero e il fatto
    È una ferrea catena, e niuna scossa
    Quella catena fa ondeggiar.
                                Le donne
    Alla torre presentansi. Il guardiano--
    «Dio ti ridoni la salute o inferma!»
    E la sana risponde: «Oggi l'affanno
    Più dell'usato la meschina opprime,
    Nè a veglia quindi appo la dama a lungo
    Starci forse potremo.» E ciò dicendo,
    Al saluto venal porgea cortese
    Qualche mercede.
                     Inesplorate i neri
    Avvolgimenti della torre ascendono,
    E lor la trista cella si disserra
    Di Sigismonda; indi il guardian sen parte.
      Tutto in breve ode la fanciulla. Invasa
    Da sorpresa e rossor, confusi, incerti
    Detti favella. Il giovin cavaliero
    E la vecchia fedel con premurose
    Istanze le fan forza. Ah, d'involarsi
    Dall'infame imeneo trattasi, i dubbi
    Stolti, funesta ogni esitanza fora!
      Della nutrice a Sigismonda i veli
    S'appongono.--L'inferma appo la dama
    Lunga dimora far non può: al suo letto
    Già si ritira. In fondo era alla cella
    Adel quando il guardian chiuse, e le donne
    Fuor della torre addusse; ed osservato
    Perciò non venne.
                      Poich'è sol, del manto
    Che il cingea si discioglie, e il suo guerriero
    Aspetto ripigliando, avido tende
    E inquïeto l'orecchio. Ei di sventura
    Trema--non già per sè: sull'elsa ha il pugno:
    I perigli ricorda in cui quel brando
    Conquistò a Giorgio la vittoria: stretta
    Si tien sul cor la zona d'Eloisa--
    E sovrumana forza alla sua destra
    Tal s'infonde, che intrepido i suoi giorni
    Venderia e cari a folta schiera innanzi,
    Ma alla fuggiasca pensa e per lei trema.
      «Che direbbero Italia e Valafrido,
    E i miei parenti e un dì Eloisa, ov'io
    Con improvvida audacia a morte spinta
    Avessi Sigismonda? Eppur la scelta
    Di più partiti io non avea, e il peggiore
    Era l'indugio. Strepito non odo:
    Oh cielo, arriso avresti? Ale ai corsieri
    Presta, lor tracce agli inseguenti ascondi!
    Propizii sovra il mar spira i tuoi venti!
    In porto adduci l'innocente afflitta,
    E ch'io pera, se il vuoi, ma inglorioso
    Non sia il mio fato!»
                         Secoli son l'ore,
    Ma pur segue una l'altra, ed ogni istante
    Reca in Adel nova speranza e gioja.
      Verso il mattin--prostratto era ei davanti
    A un crocefisso, e per la patria orava,
    E per tutti i mortali, e più pei cuori
    Che sono al suo più strettamente avvinti--
    Quando un suono di passi e di parole
    Pei rimbombanti angusti anditi giunge
    Al prigioniero. Stridono le chiavi
    E gli orrendi cancelli. In piedi ei balza:
    Ascolta--e i ghigni scellerati scerne
    Dell'impudente Euger. Venìa il malvagio
    Ad annunciar, che irrevocabil cenno
    Dell'empio sir, ferme ha in quel dì le nozze.
      Ma la porta dischiudesi--oh sorpresa
    Spaventevole al reo, d'imbelle donna
    In loco all'affacciarglisi improvviso
    Incalzante guerrier! Pongon la mano
    Alle spade i satelliti e il lor duce,
    Urla mettono orrende, orrendi colpi
    Metton, ma invan: già steso è al suolo Eugero,
    Già spiccia il sangue da più petti: in cerca
    D'aita e in fuga altri si volge: umana
    Opra questa non credon, ma prodigio
    Invincibil del cielo. Adel si slancia
    Con volo irrefrenabile atterrando
    Tutti gl'inciampi, e della torre è uscito.
      Al popol corre, con possente voce
    Incita a compier l'alta impresa: ei narra
    Dell'involata all'esecrande nozze
    Figlia di Berengario.
                         «Avventuriero,
    Qual credeste, io non son, d'estrania terra!
    De' Saluzzesi monti, italo io sono,
    Figlio del sire Adel, che antico servo
    Fu dell'ucciso imperador! Vendetta
    L'adirata onoranda ombra a me chiese,
    A voi tutti la chiede. Oggi la taccia
    Si lavi che (già omai volge il terz'anno)
    Vi disonora e dican la fraterne
    Ed emule città--_Giacea nel fango
    Per rio destin, non per viltà, Verona!_»
      Il suo apparir maraviglioso, i caldi
    Accenti del guerrier, la reverenza
    E la pietà che spiran le ferite
    Onde il volto gronda--e par ch'ei solo
    Conscio non siane--un inatteso effetto
    Producon nella turba. Al denso stuolo
    Delle feroci mercenarie lance,
    Che con Rasperto irrompono, non cede
    Come altre volte il volgo: aspra battaglia
    Le vie e le piazze insanguina: le opposte
    Ire in eroi trasmuta anco i più vili.
    Adel s'azzuffa col tiranno. Ivi era,
    Ivi a mirarsi spaventevol cosa
    Il furor de' gagliardi, il mortal odio,
    E di disperazion l'ultima prova!
    Lunga è la lotta, dubbia è la vittoria:
    Si soffermano il popolo e i guerrieri,
    E alterno è il plauso ed il terror. Ma alfine
    Precipita il tiranno: a quella vista
    Sgomentati si sperdono gli sgherri:
    Grida di gioja il popolo manda--e Adello
    Trionfator, ma semivivo, cade
    De' suoi compagni d'arme infra le braccia.
      Dio quella vita ad altre angosce ed altre
    Glorie serbava: ma all'esauste vene
    Del campion di Verona a grave stento
    Riedè salute.
                 Un dì, al suo letto ei vede
    Inoltrarsi due duci. Uno ei ravvisa:
    È Valafrido. Di Lamagna i prenci
    Questi trovato avea sì nelle interne
    Discordie avvolti, che niun d'essi cura
    Prender potea dell'itale fortune.
    Oh come Valafrido i dolci amplessi
    Rende al ferito eroe! come gentile
    Dal labbro suo suona la lode al forte
    Fatto d'Adel! Nè men commosso e onesto
    Favellando applaudìa l'altro guerriero.
      Il magnanimo zio di Sigismonda
    Quegli è che ad onorar venne l'ignoto
    Della nipote redentor:--Più giorni
    Con delicata indagine il vegliardo
    Spiò se in cor d'Adel fiamma d'amore,
    Eccitatrice d'alte gesta, ardesse
    Per l'augusta donzella, e dagli accorti
    E amici detti un raggio tralucea,
    Qual di desio che Adello osi a tai nozze
    Elevar sue speranze.
                        Il perspicace
    Garzon di quel linguaggio i sensi intende:
    Ma cortesìa vuol che li ignori, e aperto
    Scansi rifiuto. Quindi uopo tingendo
    D'amichevol conforto e di fidanza
    A sollevar del mesto animo il pondo,
    Con fil e candor narra al buon vecchio
    L'umile istoria de' suoi giovani anni,
    E il foco inestinguibile che inceso
    Le virtù d'Eloisa e la bellezza
    Han nel suo petto, e tutto dice--tranne
    Che riamato ei sia.--Ben gli era nota
    La sfolgorante venustà e la dolce
    Alma di Sigismonda, e come i prenci
    Si contendan sua destra e quella destra
    Porti forse venture alte di regno;
    Ma più che ogni tesoro e più che i troni
    È a lui la sua Eloisa--oh doloroso
    Sovvenir d'un bel sogno! inutil culto!
    Inutil no, giacchè sublima il core!


III.

      Nell'arduo calle della gloria i primi
    Cantai passi d'Adello: or trasvolando
    Sull'ali rapidissime del tempo,
    Additerò sol come lampi i lunghi
    Patimenti e le gesta onde l'eroe
    Gli anni suoi segnalava.
                             Ugo, insultando
    Delle città, de' vescovi e de' forti
    Itali castellani a' privilegi
    E schernendo i trattati ed impunita
    La libidin lasciando e la rapacia
    De' suoi baroni, acceso avea nel regno
    Di civil guerra la esecranda face.
      Dal furor della plebe i regii messi
    Lacerati venian: le inesorate
    Lance del sire offeso alla vendetta
    Trucemente scagliavansi. Ammucchiati
    I cadaveri ingombrano le strade,
    Nè v'ha chi li sotterri: il pellegrino
    Riede al natio villaggio, e indizio appena
    Del loco ov'ei sorgea songli i mezz'arsi
    Rottami delle pietre e pochi teschi--Forse
    del padre e dei fratelli i teschi!
      Tal de' Lombardi era lo stato. Adello
    De' depredati borghi e monasteri
    In difesa accorrea: di lui, nemico
    Più formidabil non avea il tiranno.
      Ma in breve queste guerre han tratto all'imo
    D'ogni miseria la contrada: il mese
    Della messe venia, ma il sol versata
    La sua virtù feconda avea ne' semi
    Dell'ortica e del cardo; e da lontano
    Il fuggiasco villan piangea sul brando
    Che a' dì più lieti gli falciava i campi.
      Ride Burgundia. «Or tempo è di riporre
    I nostri ferri agl'Itali divisi!»
    E già possente esercito calava
    A sicura vittoria. Allora Adello
    Vede la gran rovina: ad impedirla
    Non v'è che la concordia, e alla concordia
    Città rivali stringer sol può un scettro.
    Del nome suo l'autorità sopisce
    Gli odii: ei radduce le cosparse insegne
    Appo la regia insegna. Or la salute
    Dell'itala corona oprisi, e il guardo
    Sulle colpe ond'è tinta uom non sollevi.
      L'impulso dell'eroe quasi un novello
    Spirto ne' pria diversi animi ha infuso.
    Ugo, con maraviglia, in sua difesa
    Color vede morir cui dianzi ha raso
    Le castella o i tugurii: il crudo petto
    A forza inteneriasi: ambir la gloria
    Parve di scancellar co' benefizii
    E con la giusta signoria le cieche
    Ire sue prime. Adello, e altri guerrieri
    D'onesta fama, sedi ebbero somme
    Nel consiglio del re--ma quando piena
    Fu de' Burgundi la sconfitta e saldo
    Novellamente il trono, ecco, al tiranno
    Ombra fa il nome del suo prode, e al dritto
    Favellar suo magnanimo la taccia
    Dassi ben tosto di ribelle orgoglio.
      Dicon vetuste cantiche il giudizio
    Scellerato ch'espulso ha dalla patria
    Chi la patria avea salva.
                             Andò il ramingo
    Del veneto leone agli stendardi
    E lor sacrò la spada sua.--I superbi
    Isolani, già tempo, avean le spiagge
    Di Dalmazia predate e con la frode
    Tolto di là tal venerando oggetto
    Che da secoli e secoli a fraterno
    Pellegrinaggio i Dalmati adunava
    E fea d'un ricco monister la gloria:
    Era la lancia d'un antico eroe
    Che dal giogo pagano in molte pugne
    Sottratto avea le natie valli. Il grido
    Degli eccelsi miracoli, operati
    Dalla reliquia di quel santo, al furto
    I mal devoti veneti sospinse.
      Ma intanto rotte più fiate, e sempre
    Rinascenti nell'ira e più tremende,
    Di padre in figlio le tribù selvagge
    Con giuramento avvinconsi al racquisto
    Dell'onorata lancia o a eterna guerra.
      Un feroce lor capo, Adeoniro,
    Col manto di pio zelo, infesta il mare
    D'incessanti, audacissime, inaudite
    Piraterie. Sui piccioli sui legni,
    Di ladroni invincibili una turba
    Ei radunò che d'uom, fuorchè l'aspetto
    Null'altro serban; fama appo i lontani
    Sparse ch'uomin non erano, ma mostri
    Prodotti dai nefandi abbracciamenti
    Delle dalmate streghe e de' demoni.
    Niuna legge li stringe altra che un voto--
    Pronunciato col rito abbominando
    Di libare in un calice una stilla
    Di caldo ancor veneto sangue--e il voto
    È d'assalir qualsiasi veleggiante
    Pin di San Marco, o scompagnato corra
    O a torme, o debol sembri o poderoso,
    E dalla pugna non ristar ch'o estinti
    O vincitori. A queste anime atroci
    Ogni pietà verso i nemici è ignota,
    Ma tra loro mirabile è una gara
    D'assistenza e giustizia e comunanza
    Di beni e mali. Adeonir divide
    Il bottin, nè maggior parte a sè dona
    Che al più abbietto compagno. In gozzoviglie
    E in limosine sprecan, non curanti
    Tutti del pari, ogni tesor soverchio,
    Quand'armi e barche e attrezzi hanno, ed ai figli
    E alle donne e a' feriti han provveduto.
    Tal delle imprese loro è la ventura,
    E con tali atti di barbarie han tinto
    Di stragi l'onde, che il nocchier più ardito
    Nell'adriaca laguna inoperose
    Tien le sue sarte, e unanime la voce
    Dell'atterrito popolo s'innalza
    Perchè il furto s'espii ch'a furor tratto
    Ha de' Dalmati il santo, e a' loro altari
    Con doni la fatale asta si renda.
      Il senato assentì: ma col ritorno
    Della reliquia, pur mutar natura
    Non potè l'indomato avido spirto
    De' bugiardi pirati: e con più angoscia
    Pianse Vinegia le nuove onte, e mosse
    Con alte navi e prodi capitani
    Ad estirpar di que' malnati il seme.
      Ahimè, che de' suoi prodi il morir forte
    Non giovò alla repubblica! In tai giorni
    Di lutto universale, uno straniero
    Sorge e il linguaggio degli eroi parlando,
    Radduce nelle curve alme il coraggio.
    Quello stranier pugnato avea sui pini
    Della sconfitta armata, e al valor suo
    De' pochi avanzi si dovea lo scampo.
    Era Adello! Il magnanimo senato
    Plaude all'ardir del cavaliero; un novo
    Armamento decreta: Adel le prore
    Capitanando, alla vittoria corre,
    E sepolcro i pirati ebber nell'onde.
      Favorita canzon del marinaro
    Divenne questa istoria, e tutti i liti
    D'Italia l'impararono, e ne' gioghi
    Più segregati d'Apennino--allora
    Che un sir bandisce all'ospite il festino--
    Dice al suo vate: cantaci il bel nome
    Del vincitor de' dalmati pirati.
      Memoria non restò delle sciagure
    O degli affronti perchè Adel partissi
    Dalle bandiere del leone. Amalfi
    Diede ospizio e onoranza al capitano,
    E per lui prosperò; la terra e l'acque,
    Più d'una volta, del suo sangue intrise,
    Ma invitto il vider sempre e più tremendo.
    Tacerò quelle pugne e dirò il giorno
    Che--tempo era di pace e vincolato
    D'Amalfi all'armi il brando ei non tenea--
    Adel coll'oro suo recossi ai Mori
    Che in Tunisi avean sede, e quanti schiavi
    Potè redense. Il sacrificio ei compie
    D'ogni suo aver, perocchè morti entrambi
    Son gli adorati genitori, e il pio
    Figlio all'anime lor schiudere il cielo
    Spera con opre che al Signor sien grate.
      Un dì, secondi egli aspettava i venti
    Per la reddìta, ed ecco entra nel porto
    Con festive urla un predator; parecchie
    Sbarca gementi vittime, e fra quelle--Oh
    sorpresa! oh sciagura! Adel ravvisa
    Un cavalier troppo a lui noto, è desso,
    D'Eloisa lo sposo!
                       Ai primi amplessi
    (Ed oh quanti dolori in quegli amplessi
    Squarcian d'Adello il nobil cor! qual misto
    D'antica gelosia, di riverenza
    Per le virtù del sir, di generosa
    Compassïon, d'affanno immaginando
    Le pene d'Eloisa in udir preda
    Ai scellerati masnadier lo sposo!)
    Ai primi sfoghi di pietà, succede
    L'interrogar sollecito dell'uno
    E il racconto dell'altro.
                              «Oh Adel compiuta
    È la sventura mia! Tu vedi il figlio
    Del felice Usignan, già di castella
    Sì ricco e d'armi, cui possenti trame
    Di perfidi congiunti han da sei lune
    Rapito ogni dominio. I figli miei
    E lor misera madre (ah, poich'al duolo
    Il tuo signore e mio, Giorgio soggiacque!)
    In salvo a Nizza appo mia suora addussi.
    Ivi una notte una masnada irrompe
    Di Saracini. Io d'Eloisa, e quanti
    Dolci pegni m'avanzano, la fuga
    Combattendo proteggo: oh, almen per loro
    M'arrise il ciel! Ma cinto, disarmato,
    Carco di ferri io vengo. Anzi il mattino
    Salpan le collegate arabe navi:
    Quai di Spagna eran, quai del Sardo e quali
    Di quest'africo lito; a me la somma
    Lontananza toccò!»
                       Frenava Arnaldo
    Con viril forza il pianto: Adel, compreso
    Da tanta folla d'infelici e cari
    Pensieri, il volto si copria e lasciava
    Alle lagrime sue libero sfogo.
      «E anche il mio antico sire è nel sepolcro!
    Sì lunghi anni di gloria, e poi nel lutto
    Morir miseramente! ecco, empia terra,
    Il guiderdon che alla virtù largisci!--
    Ma no, delle onorate opre la meta
    Non è il sorrider di mortal fortuna:
    Amaro a' giusti è il vivere, e beato
    Solo quel dì che al mondo vil ti toglie!»
      Così esclamava Adel, sazio de' giorni
    Glorïosi, ma sterili di gioja
    Ch'ei tratto avea, da quando allontanato
    Erasi da Eloisa. E or par che tutta
    Da mal estinte ceneri risorga
    La giovenil sua fiamma: i detti, il volto
    D'Arnaldo lo riportano ai remoti
    Tempi del suo delirio. Ei vede i colli
    Della Sonna fioriti--il santuario
    Ove la pia fanciulla iva sovente
    A lagrimar sulla materna tomba--
    L'inghirlandata barca ove ella, assisa
    Sulle ginocchia di suo padre, al canto
    Talor sciogliea la voce; e talor l'inno
    Era d'Adello; e allor della donzella
    Più timido era il canto e più pietoso!
      Che pensa, Adel, tua nobil alma? I campi
    E le rocche d'Arnaldo andrai col brando
    A racquistar pe' figli suoi? ma in ceppi
    Ei qui rimansi: squallido, languente
    È il suo sembiante: il duol forse e la dura
    Servitù in breve troncheranno il filo
    Di quella vita... Libera Eloisa?
    Oh pensiero infernal! Ma nella mente
    Anche de' giusti sfolgora i suoi foschi
    Lampi l'inferno--e più son giusti appunto
    Perchè talvolta eguali a' rei son quasi,
    Ed allor non soccombono, e con arduo
    Sforzo sopra il mortal fango s'innalzano.
      D'altri schiavi al riscatto ogni tesoro
    Già avea consunto Adello: al predatore
    D'Arnaldo in cambio, egli offresi. Accettato
    Venne il partito, perocch'egro il primo
    Schiavo parea, e salute e forza spira
    Del novel la persona. Il sir francese
    Queste mosse ignorava, e i suoi voraci
    Crucci addoppiava l'esser conscio, ahi troppo
    Degli affetti d'Adello. Alta è la stima
    Che la virtù dell'Italo gli desta;
    Ma pur già scorge nel futuro, accanto
    Alla donna (e ancor bella era Eloisa)
    Il rival cavaliere, e quella stessa
    Virtù che in esso ammira è il suo spavento.
      Ma oh come in sè medesmo ei si vergogna
    Di sì bassi concetti, allor che tolte
    Vede a sè le catene, ed alle braccia
    Poste d'Adel!
                 «Che fia? Non mai! Sublime
    Insania, Adel, ma insania è questa! infermi
    Giorni redimer di chi tutte ha tronche
    Le vie di rimertarti e così all'imo
    Cadde che d'ogni grande atto la speme
    Da fortuna gli è tolta--e invece i giorni
    Preziosi immolar di chi seconde
    Tutte ha le sorti e per la gloria vive!»
      «Arnaldo, i pregi tuoi taccio che sommo
    Ti fer sempre a' miei guardi; or sol rammento
    Quanta importanza i giorni han di chi i sacri
    Titoli vesta di marito e padre:
    Appo tal, nulla è la deserta vita
    Di chi solingo passeggia la terra
    (E tal son io), di chi, s'allegri o gema,
    Niun bea il suo riso e niun piange al suo pianto.»
      Volea soggiunger l'altro. Adel temendo
    D'aver con triste voci intenerito
    Il suo rivale e forse appalesato
    Della stanca dolente alma il segreto,
    Apre un gentil sorriso--Va', gli dice,
    A consolar la tua dolce famiglia;
    Cura nostra primiera esser de' questa:
    Indi per me non t'affannar: lontane
    Non son l'itale sponde, e ivi sì egregi
    Cuori mi fean di loro amistà dono,
    Che in me certezza è la lor gara al pronto
    Riscatto mio.
                 «So, generoso Adello,
    Che in sue nuove tempeste Ugo invocava
    Il braccio tuo; so che anelò Vinegia
    Di ritorti ad Amalfi, e che in ciascuna
    Itala signoria ferve la brama
    Di possederti a suo campion: ma esporti
    Di fortuna a' capricci, ah no, non posso!
    Sol crederei, se in mia balìa fosse indi
    Il tuo pronto riscatto: oh, ma ti dissi
    La mia piena miseria!»
                          Uopo ad Arnaldo
    Il ceder fu. Partì sulla primiera
    Cristiana prora: agl'Itali l'annunzio
    Esso, con altri dall'eroe redenti,
    Portar di questo fatto. Onor parea
    Stringer più d'una terra alla salvezza
    Del guerriero in catene: il sir francese
    Non osò dubitarne; Adello stesso,
    Benchè scevro d'orgoglio, aver sul grato
    Animo altrui credea qualche dritto--
      Tutti obbliaro il misero! quattr'anni
    Le afriche solitudini l'han visto,
    Con abbietti compagni ad opre abbiette
    Sotto varii tiranni i suoi sudori
    Spargere oscuramente--ed eroe ancora
    Esser per gl'infelici, o alleviando,
    Con gravarne sè stesso, i lor dolori,
    O al rassegnato suo religïoso
    Senso le svigorite alme estollendo.
      Chi ai Saracini il tardo inaspettato
    Prezzo portò del cavaliero? Un messo
    Che dalle rocche vien d'Arnaldo. Il sire
    Fedeli colleganze e alto valore
    Ricondotto hanno a' suoi dominii e a tutta
    La paterna sua gloria.
                           Adello è asceso
    Sull'ospital naviglio: al marsigliese
    Porto ei veleggia. Oh come dir la gioja,
    La gratitudin che il bel cuore inonda?
    Come i diversi palpiti, approdando?
    Poi, sul corsier veloce alle castella
    Del suo benefattore e d'Eloisa
    Senza posa traendo?
                       «Ei giunge: incontro
    Moveangli il sire ed Eloisa e i figli
    (Figli di quell'imen; pur cari all'alma
    Gentil d'Adello!) Mutui i commoventi
    Detti suonano e i teneri singhiozzi
    E la sincera nobil lode. Un riso
    Del ciel parea per que' mortali eletti
    Aver portato sulla terra il gaudio
    Che dal suo trono Iddìo raggia ai beati!
    Ma quel foco di vita che nel ciglio
    Brillava ad Eloisa, insolito era.
    Da lungo tempo in essa è illanguidito
    Il fior della salute. Adel s'accorse
    Ch'ella reggeasi con fatica; e intende
    Che nella notte in che da Nizza a fuga
    Ella errava co' figli, un dardo colse
    Leggermente un di questi: ahi, velenato
    Fors'era il dardo! Il bambinel da orrenda
    Crescente piaga si struggea: la madre
    Quella piaga lambendo al figliuol suo
    Crede render la vita e, ohimè, s'illuse!
    Sotterra è il pargoletto, e da quel tempo
    A stento l'arte di Salerno e i voti
    Appesi sugli altari e i benedetti
    Maravigliosi farmachi al dolente
    Sen dell'eroica madre addur novello
    Sembran vigor.
                   Ben tosto Adel conobbe
    Che sol gli affetti subitanei un breve
    Ponean rossor su quelle guance. Il dolce
    Soggiorno alcuni mesi ei protraèa
    Appo gli ospiti amati, e con Arnaldo
    Il timore alternava e la speranza
    Per l'egra donna--Ahi lasso! inferocisce
    Rapidamente il morbo!--Adel sul letto
    Di morte la mirò. Tutta obblïava
    Ei sua virtù: chiedea ragione al cielo
    Dei mali onde a gran fiotti il mondo inonda
    Ch'egli ha creato, e in quegli orrendi fiotti
    Indistinto sobbissa e il buono e il reo.
      «Oh Adel (rispose la morente--e furo
    Questi gli ultimi accenti) oh Adel, ritraggi
    La insensata parola! È il duol cimento
    Ove Dio prova degli umani il core.
    Te a egregi fatti i lunghi sacrifici
    Portaron: nè t'incresca! e parver lunghi;
    Ma, come stral per l'aer, fugge quest'ombra
    Ch'uom vita appella e salda cosa estima!
    Nè infelice è chi muor, ma chi morendo
    Guarda gli anni volati ed alcun'orma
    Da lui lasciata di virtù non trova!»
      Voce a Eloisa allor mancò: sorrise,
    Strinse al seno i figliuoli, all'onorato
    Sposo si volse--e dir parea «Co' figli,
    Adel ti raccomando»--e più non era.
      Così passò la santa.
                          Incerte storie
    Narrano d'un Adel ch'appo i Toscani,
    Dopo quel tempo gli Ungari sconfisse:
    Fors'era il nostro eroe; forse in più gesta
    Ancor brillò la gloria sua. Ma il vate
    Che del sepolcro suo cantò, non dice
    Se non che vecchio Adel morì e mendico,
    Perdonando agl'ingrati, e ripetendo
    Que' detti d'Eloisa: «È il duol cimento
    Ove Dio prova degli umani il core;
    Nè infelice è chi muor, ma chi morendo
    Guarda gli anni volati ed alcun'orma
    Da lui lasciata di virtù non trova!»



NOTE.


                    .... Sui colli
    Della Sonna fioriti e sulla Rocca
    Invisa dominava.

V'è presso Lione, sulle rive della _Saône_, una rupe che ritiene il
nome di _Pierre-Encise_.

    In chi di giusti nacque è onnipossente....

Tutta la cantica sembra avere per iscopo morale queste verità:--che
uno de' più grandi stimoli alla virtù si è l'esempio di parenti
irreprensibili, e quindi il desiderio di consolare con bei fatti la
loro vecchiaja--che nelle passioni in lotta col dovere, quanto più il
sacrificarle a questo è doloroso, tanto più l'uomo che compie questo
sacrificio ha luogo in appresso di congratularsene, trovandosi
nobilitato ai proprii sguardi e più capace di grandi azioni--che
finalmente se sulla terra il premio della virtù è spesso
l'ingratitudine degli uomini e la sventura, al giusto sono abbondante
compenso la sua fama, il testimonio della buona coscienza, e la pace e
le speranze con cui egli solo può scendere nella tomba.

                 .... Io la grand'ombra
    Di Berengario a vendicar mi reco.

Berengario I, dopo gli infelici successi della sua guerra con Rudolfo,
fu assassinato a Verona da alcuni congiurati, capo de' quali era
Flamberto. Tre giorni dopo Milone guerriero fedele all'infelice
imperatore ne fece la vendetta, vincendo i colpevoli e condannandoli
al supplizio: così le cronache. Ma secondo questa cantica uno d'essi
congiurati, Rasperto, riacquistò potere in Verona, ed ebbe in seguito
il favore del re Ugo, che gli lasciò il governo di quella città.

    Che al novo italo sire, Ugo....

Rudolfo tenne poco tempo il regno d'Italia: ei dovette cederlo ad Ugo,
duca di Provenza, che segnalò il suo dominio con le crudeltà e la
perfidia.

    .... La grande alma d'Otone....

Pare che debba essere Ottone di Sassonia, il quale circa 14 anni dopo
quest'epoca conquistò l'Italia.

    Tolto di là tal venerando oggetto.

Leggasi la storia de' bassi tempi e si vedrà quanto fossero frequenti
i furti delle reliquie. Un popolo credeva d'appropriarsi la prosperità
dell'altro, togliendogli o il corpo o qualsiasi altra reliquia del
santo protettore del luogo.

                     .... Che il nocchier più ardito
    Nell'adriatica laguna inoperose
    Tien le sue sarte.

Che un piccol numero di pirati sparga tanto spavento parrebbe
un'esagerazione, se la storia non dicesse come nel secolo XVII i
filibustieri, ammasso di pochi audacissimi ladroni, divennero il
terrore dei navigatori europei, a segno dì tener talvolta interrotta
la comunicazione della Spagna colle colonie americane.

    A stento l'arte di Salerno...,

Nel secolo X Salerno era già famosa per la sua scuola di medicina. (V.
il Tiraboschi.)



EBELINO

CANTICA.


  L'idea di questa cantica non è tutta mia. Il tema vennemi fornito da
  un romanzo storico tedesco, ch'io lessi già tempo, e di cui ignoro
  l'autore. Il merito letterario di quel libro mi pareva debole, ma il
  personaggio d'Ebelino vi spiccava con tratti forti, e mi rimase
  vivamente impresso nella fantasia, come nobile modello di pazienza
  ne' dolori. Ivi narravasi d'Ebelino, non so con qual fondamento,
  ch'ei fosse un povero cavaliero scacciato nell'adolescenza con
  atroci minaccie di morte da sette disumani fratelli, e divenuto uno
  de' liberatori della regina Adelaide. Questo giovane prode passato
  in Germania coll'illustre vedova di Lotario, allorch'ella sposò in
  seconde nozze Ottone I, dipingevasi dal mio autore quale un nuovo
  Giuseppe alla corte d'Egitto, potentissimo e sapientissimo; e a fine
  di meglio somigliare al vicerè di Faraone, Ebelino scopriva anche i
  suoi fratelli, venuti d'Italia a Bamberga senza che immaginassero
  chi egli fosse, e perdonava loro. Conservata alcun tempo la sua alta
  fortuna sotto Ottone II, cadeva poscia vittima d'un traditore
  collegato a molti invidi rivali; ma il traditore stesso, agitato da
  visioni spaventevoli, confessava indi a poco l'innocenza
  dell'immolato Ebelino.



EBELINO.

  _Si bona suscepimus de manu Dei, mala quare non suscipiamus!_

                                                 JOB. 2, 10.


    Inno d'amore e di compianto al giusto,
    Al giusto denigrato! Ebelin, fido
    Campion del magno Ottone e consigliero,
    Colui che al generoso Imperadore
    Verità generose favellava,
    E i biasimati torti indi con mente
    Pronta e amorevol correggea e sagace;
    Colui, che, senza ambizïon nè orgoglio,
    Spesso invece del sir ponea la destra
    Al timon dell'impero, e lo volgea
    Del sir con tanta gloria e securanza,
    Che questi, anco in cimento arduo serrando
    Le auguste ciglia al sonno, a lui dicea:
    «Vigila or tu, che il signor tuo riposa;»
    Quell'Ebelin, che, lagrimato il sacro
    Cener del magno Otton, d'Otton novello
    Fu parimente lunghi anni sostegno
    Di giustizia nel calle, e guida e sprone;
    Sì che a nessun parea che dilettoso
    Ne' poveri tuguri e nelle sale
    Fervesse crocchio, ove lodato il nome
    Non fosse d'Ebelin,--quell'Ebelino
    Morì esecrato, ed era giusto! Amore
    E compianto agli oppressi!
                            Un dì l'Eterno,
    Come a' giorni di Giobbe, al suo cospetto
    Avea tutti gli spirti, e a Sàtan disse:
    --Onde vieni?
                E il maligno:--Ho circuita
    Dell'uom la terra, e non rinvenni un santo.
      Ed il Signore:--O di calunnie padre,
    Non vedestù l'amico mio Ebelino,
    Ch'uomo a lui simil non racchiude il mondo
    Tanta in prosperi dì serba innocenza?
    E l'angiol di menzogna ambe le labbra
    Si morse, e crollò il capo, e disdegnoso
    Disse:--Ebelin? Dov'è il suo pregio? Ei t'ama
    Perchè di beni è colmo. Il braccio or alza,
    Percuotilo, e vedrai s'ei non t'imprechi.
      Ed il Signor:--Giorni di prova a' retti
    Forse non io so stabilir? Va; pongo
    Entro a tue mani dispietate or quanto
    Agli occhi della terra Ebelin porta,
    Fuorchè la vita.
                     L'avversario allora
    Avventossi precipite dal grembo
    Della nembosa nube, onde i mortali
    Atterria lampeggiando; ed in un punto
    Fu su roccia dell'alpi. Ivi gigante
    Si soffermò, e da questo lato i campi
    Della lieta penisola mirando,
    E dall'altro le selve popolose
    De' boreali, l'una all'altra palma
    Battè plaudendo al sovrastante lutto
    D'entrambo i regni, ed esclamò:--Vittoria!
      La più squisita voluttà del male
    Pensò un momento qual si fosse, e al giusto
    Fermò ignominia cagionar per mano...
    Di chi?--D'amico traditore! Il colpo
    Più doloroso e a dementar più adatto
    Chi molto amando irreprensibil visse!
      --Un Giuda voglio! Il dèmone ruggia
    Giù dall'alpe scagliandosi e correndo
    Pe' teutonici boschi, e visitando
    Con infernal, veloce accorgimento
    Città e castella.
                      Iva ei cercando l'uomo,
    In cui scernesse il dolce volto, e i dolci
    Atti, e l'irrequïeto occhio geloso
    Del venditor di Cristo; e non volgare
    Mente si fosse, ma gentil, ma calda
    Di lodevoli brame, ed inscia quasi
    Di sè si pervertisse, e vaneggiasse
    D'amor per tutte le virtù, e seguirle
    Tutte paresse, e infedel fosse a tutte.
      Tale, od un vero giusto esser dovea
    Chi affascinasse d'Ebelino il core;
    E Sàtan nol trovava, e con dispregio
    Maledicea la lealtà nativa
    De' figli del Trïon, popol rapace
    Nelle battaglie, e in sue pareti onesto.
    Ma quando già il crudel quasi dispera,
    Ecco s'incontra in uomo onde il sembiante
    Tosto il colpisce; e fra sè dice:--«È desso!»
    Ed esulta, e più guata, e vieppiù esulta.
      Quel benedetto dall'orribil genio
    Era un prode straniero, e fama tace
    Di qual progenie, e nome avea Guelardo.
      Sul suo destrier peregrinava, e ladri
    Or assaliva, degli oppressi a scampo,
    Or dispogliava ei stesso i passeggeri,
    Se mercadanti, e più se ebrei. Nè spoglio
    Pur quelli avrìa, se a povertà costretto
    Non l'avesse un fratel, che del paterno
    Retaggio spossessollo.
                          A che di bosco
    In bosco errasse, ei non sapea. Sperava
    Dal caso alte venture, e perchè tarde
    Erano al suo desìo, volgea frequente
    Il pensier di distruggersi; e più volte
    Dall'altissime balze misurava
    Coll'occhio i precipizi, e mestamente
    Rideagli il core, e si sarìa slanciato
    Nelle cupe voragini, se voce,
    O aspetto di mortali, o speranze altre
    Non l'avesser ritratto.
                           --O cavaliere,
    Salve.
          --Scòstati, scòstati, o romito;
    Oro non tengo.
                  --Ed oro a te non chieggo;
    Ben d'acquistarne santa via t'accenno.
    Vile è il mestier cui t'adducea sciagura,
    Ma nobile è il tuo spirto. A me tue sorti
    Occulta sapïenza ha rivelate:
    Vanne a Bamberga; ad Ebelin ti mostra:
    Grazia agli occhi di lui, grazia otterrai
    A' clementi occhi del regnante istesso.
      Così Satan, e sparve.
                           Incerto è quegli
    Se fu delirio o visïone. Al cielo
    Volge supplice il viso: in cor gl'irrompe
    De' suoi misfatti alta vergogna; aspira
    A cancellarli, e quindi in poi di tutte
    Virtù di cavaliere andare ornato.
      In quel fervor del pentimento, incontra
    Un mendico, e su lui getta il mantello,
    E sen compiace, e dice:--Uom non m'avanza
    In carità e giustizia.
                          E Sàtan rise,
    E non veduto gli baciò la fronte.
      Alla real Bamberga andò Guelardo,
    Mosse alle auguste soglie, ad Ebelino
    Supplice presentossi, e pïamente
    Da quella bella e grande alma si vide
    Ascoltato, compianto, e di non tarda
    Aïta lieto. Un fascino infernale
    Sovra la fronte di Guelardo imposto
    Ha del demone il bacio. Allo straniero
    Conglutinossi d'Ebelino il core
    In breve tempo; e nella reggia e in campo
    Quei Gionata parea, questi Davidde.
      Mirabile brillava ad ogni ciglio
    Quella forte amistà: Saran fremeva
    Ch'ella durasse, e il volgersi degli anni
    Affrettar non potea. Nè ratto varco
    Sperabil era tra i pensieri onesti
    Che Guelardo nodriva e la sua infamia,
    Tra l'amor suo per Ebelin, tra il dolce
    Nella virtù emularlo, e il desiderio
    Scellerato di spegnerlo. Ma il tristo
    Angiol si confortava misurando
    L'immortal suo avvenire. Appo sì lunghi
    Secoli, breve istante eran poch'anni.
    Ed intanto ci godeva, a quell'imago
    Che tigre, sebben avida di sangue,
    Mira la preda, e ascosa sta, e sollazzo
    Tragge di quella contemplando i moti
    E l'amabil fidanza, ed assapora
    Più lentamente la decreta strage.
      Dopo tanto aspettar, s'appressa il giorno
    Sospirato dall'invido. Al novello
    Otton contrarie qua e là in Italia
    Eran le menti di non pochi, e speme
    Vivea secreta ch'italo Ebelino
    Secretamente lor plaudesse. Il core
    Di molti era per esso, e nelle ardite
    Congrèghe entro a' castelli, ed appo il volgo
    Susurravan, più splendido rinomo
    Non avervi del suo; null'uom più voti
    A suo pro riunir; doversi acciaro
    Dittatorio offerirgli, o regio scettro.
      L'augusto sir dalla germana sede
    Contezza ebbe di fremiti e lamenti
    Nell'alme de' Lombardi esasperate,
    Ed a sedarle con prudenza invìa
    Ebelino e Guelardo.
                       Alla venuta
    Di questi sommi giù dall'alpe, e al grido
    Che fama addoppia de' lor alti pregi,
    E più de' pregi di colui, che sembra
    D'onnipotenza quasi insignorito,
    Ferve ognor più l'insana speme, e tutta
    In congressi pacifici prorompe,
    Ove i duo messi imperïali invano
    Senno indiceano e obbedïenza.
                                --O prodi!
    Così Ebelin risponde al temerario
    De' corrucciosi invito; io condottiero
    Mai contr'Otton non moverò, chè avvinto
    Gli son da conoscente animo e onore,
    E il portai fra mie braccia. E quando insieme
    Del moribondo padre suo le coltri
    Inondavam di pianto, il sacro vecchio
    Nostre mani congiunse, e disse:--Un figlio,
    O Ebelino, ti lascio;--ed a te lascio,
    O figlio, un padre in Ebelino!--Ed era
    In tai detti spirato. Allora il figlio
    Gettommi al collo ambe le braccia, e molto
    Pianse, e chiamommi padre suo, e lo strinsi,
    E il chiamai figlio. Ove pur reo di patti
    Violati con voi fosse il mio sire,
    Biasmo sincer da mie labbra paterne
    Avriane, sì; retti n'avrìa consigli,
    Ma non odio, non guerra, non perfidia!
      --Deh! taccïano, Ebelin, privati affetti,
    Ov'è causa di popoli. Ed ignota
    Mal tu presumi essere a noi l'ingrata
    Alma d'Ottone anco ver te, che dritti
    Tanti acquistasti a guiderdone e lode.
    Ombra a lui fa la tua virtù: onorarti
    Finge, ma stolta è finzione omai
    Ond'ogni cor magnanimo s'adira.
    Possente sei, ma più non sei quel desso
    Che ne' duo regni un dì tutto volvea.
    Tëofanìa il governa, e da Bisanzio
    Sul germanico seggio ov'ei l'assunse
    Recò le greche astuzie, e lo circonda
    Di greci consiglieri. Essi con lei
    Van macchinando contro te ogni giorno;
    Che se finor cadute anco non sono
    Le podestà che a te largì il monarca,
    Della tua rinomanza egli è prodigio,
    E nel tiranno è di pudor reliquia.
    Bada a' perigli, a tua salvezza bada:
    D'Otton l'iniquità rotto ha i legami
    D'ogni giusto con esso.
                           Un de' maggiori
    Così parlò fra gli adunati audaci.
    Nè, sebbene oltrespinta, era appien falsa
    La parola di sdegno e di sospetto
    Circa l'imperadrice e i cortegiani
    Ch'ella a sue nozze addotti avea di Grecia.
      Ma la candida e ferma alma del pio
    Ebelin s'adirò. L'imperadrice
    E Otton con nobil gagliardìa difese,
    E de' Greci sorrise. Ei sì facondo
    Favellava, e amichevole e verace,
    Che i più irati l'udìan con reverenza:
    Con tenerezza quasi, ancor che invitti
    Nel feroce astio e nell'ardente brama.
      Di Guelardo lo spirto a quel congresso
    Funestamente s'esaltò. Il diletto
    Ebelino ei vedea, nella commossa
    Fantasia, re, suscitator di gloria
    Ad un popol redento. Il vedea bello
    Giganteggiare in immortali istorie,
    Com'un di que' supremi, onde la terra
    Lunghi secoli è priva; e sè medesmo
    Socio vedea di quel supremo, e a lui
    Successor forse, e... Che non sogna audace
    Ambizïon, se raggio ha di speranza?
      Quand'ei fu sol con Ebelin, ridisse
    Le voci insieme intese, e commentolle
    Coll'insistenza del favore; e aggiunse
    Maligno esame de' pensier, degli atti
    D'Ottone, e della Greca in trono assisa,
    E degli astuti amici ond'ella è cinta.
    Quasi certezza accolse i più irritanti
    Dubbi e i minimi indizi di periglio,
    E gridò ingratitudine, e diritto
    Alla rivolta. E a grado a grado questa
    Ei necessaria osò chiamare, e il pio
    Ebelin concitarvi. Lo interruppe
    Finalmente Ebelin; duplice tela
    Come già svolto aveva agli adunati,
    Svolse di novo al tentatore amico:
    Qua la turpezza del tradir, là i vani
    Sforzi a potenza e gloria, ove bruttata
    È nazïon da lunghi odii fraterni.
      Negli aneliti suoi s'ostinò il core
    Di Guelardo in quel giorno, e seguì poscia
    A ridir con sofistica, inesausta
    Facondia per più dì l'empie sue brame;
    Sì che non poche volte il generoso
    Ebelino in resistergli, dal mite
    Considerare e dai soavi detti
    Passò a dogliosa maraviglia e sdegno.
      Turbossene colui, ma il turbamento
    Ascose e il disamore, e da quel tempo
    Crescente invidia in sen covò tremenda.
      Novi succedon fortunati eventi,
    Ch'ognuno attesta glorïosi al senno
    Dell'ottimo Ebelin; ma più Guelardo,
    Come negli anni primi, or della gloria
    Del suo benefattor non va giocondo.
    Ei con geloso sospettante ciglio
    Mira la sua grandezza, e superarla
    Vorria e non puote; e detestando, sogna
    Dall'amico esser detestate; e pargli,
    Laddove pria si belle in Ebelino
    Virtù vedea, più non veder che scaltra
    Ipocrisia. De' pervertiti è proprio
    Non credere a virtù; d'ogni più certo
    Generoso atto dubitar motivi
    Turpi, ed asseverarli: in ogni etade
    Così abborriti fur dal mondo i santi.
      Da quello stato di rancor, di mente
    Ognor proclive a gettar fango ascoso
    Sovra l'opre del giusto, è breve il passo
    Ad assoluto di giustizia scherno.
      In Lamagna Guelardo ad altri uffizi
    Di grande onor da Ottone è richiamato,
    Mentre Ebelin nell'itale contrade
    Resta moderator. L'ingrato amico
    Sospetta ch'Ebelino abbia con arte
    Tal partenza promosso, a fin di trarsi
    Uom dal cospetto che in secreto esècri.
      Del congedo gli amplessi ei rende a quello,
    Ma senza avvicendar come altre volte
    Palpiti dolci di desìo e di pena.
    Infinto ei crede ogni atto ed ogni accento
    Del più sincero degli umani, e parte
    Coi fremiti dell'odio, e maturando
    Di non avute offese alta vendetta.
      --Cieco tanto io sarò che vero estimi
    Suo rifiuto ai ribelli? Or che si vaste
    Son le congiure? Or che da lunghe e infauste
    Guerre è stanco l'impero? Or che d'illustre
    Nome a capitanarla, e di null'altro,
    La penisola ha d'uopo? Or che oltraggiata
    Dalla superba, greca, invida nuora
    È quell'antica d'Ebelin fautrice,
    La vantata Adelaide, che alle umìli
    Ombre de' chiostri dalla reggia mosse?
    Or che Tëofania palesemente
    Lacci a lui tende e sua rovina agogna?
    Il menzogner di me diffida: i vili
    Diffidan sempre! Allontanarmi volle
    Non senza mira ostil: me di qui toglie
    Per regnar sol, per non aver chi forse
    Sua sapïenza e sue prodezze oscuri.
    All'amico ei rinuncia; ei nelle schiere
    Del suo tradito Imperador mi brama,
    Nelle schiere d'Otton, contro a cui l'asta
    Scaglierà in breve; e tanto orgoglio è in lui,
    Che nè lo sdegno mio, nè la sagacia
    Non teme, nè il valor! Perfido! io mai
    Stato non fora a tua amicizia ingrato;
    Alla mia ingrato ardisci farti: trema!
    Valor non manca al vilipeso e senno
    Da smascherar tua ipocrisia. Ludibrio
    Ne fur bastantemente il sire, i grandi,
    Le sciocche turbe, e insiem con loro io stesso!
      Così nel suo vaneggiamento infame
    S'agita l'infelice, e non s'accorge
    Che il re d'abisso più e più il possede;
    Così travolve le apparenze ogn'uomo
    Che a livor s'abbandoni:
                             Ecco Guelardo
    Giunto ai reali di Bamberga ostelli;
    Eccolo assaporante i nuovi onori,
    Ma com'egro che, misto ad ogni cibo,
    Sente l'amaro della propria bile.
    Più sovra il labbro di Guelardo il nome,
    Come già tempo, d'Ebelin non suona,
    O su quel labbro se talvolta suona,
    Laude non l'accompagna, e il favellante
    Impallidisce, e torvamente abbassa
    La pensosa pupilla irrequïeta,
    E la rïalza sfavillando; e ognuno
    Scerne che di compressa ira sfavilla.
      Del mutamento avvedasi esultando
    Tëofania, s'avvedono i suoi fidi,
    E al convito di lei con gran decoro
    Visto sovente è quel Guelardo assiso,
    Ch'ella tanto agli scorsi anni abborria.
    Ordiscono essi alcuna trama insieme
    Contro al lontano giusto? o la perfidia
    Tutta covossi di Guelardo in petto?
      Un dì da quel convito esce il fellone,
    E quasi esterrefatto si presenta
    Agli occhi del monarca, e a lui si prostra,
    Ed esclama:--Ebelino è traditore!
    Le rivolte fomenta; alla corona
    D'Italia aspira: sciolta è l'amistade
    Che a lui mi strinse! Eternamente è sciolta!
      E false carte adduce in prova, e adduce
    Di vili già ribelli, or prigionieri,
    Menzogne tai, che faccia avean di vero.
    Ed il monarca trabalzò, fu vinto
    Dalle inique apparenze. Esitò ancora,
    Dubitar volle novamente; a novo
    Esame ripiegò la scrupolosa
    Afflitta anima sua; ma le apparenze
    Trionfaron più orrende e più secure.
    Indi egli irato invìa turba di sgherri
    All'italo paese, onde sia tratto
    Carico di catene il formidato
    Duce a Bamberga.
                    L'innocente duce
    Stanza a que' giorni avea in Milan. Posava
    Una notte, ed in sogno a lui s'affaccia
    Lo stuol de' cari, in varia guerra estinti,
    Fratelli suoi, col vecchio padre; e il padre
    «Fuggi, gridava, sei tradito!» E gli altri
    Con affanno e singhiozzi ad una voce
    Ripetean: «Fuggi, fuggi!»
                             Ei si risveglia,
    E per quell'alme prega, e s'addormenta
    Un'altra volta. E in sogno ecco apparirgli
    Il magno Otton primiero ed Adelaide,
    Non cinta ancor di monacali bende,
    Ma il serto imperial sopra la fronte.
    Meste eran lor sembianze, ed a lui: «Fuggi
    Fuggi, dicean, del figlio nostro l'ira!
    Ira per te sarìa mortal!»
                             Si desta
    Il nobil duce, e per quell'alme prega,
    E s'addormenta un'altra volta. E vede
    Il tempo antico e la città solenne
    Ove sorge il Calvario, e là pur vede
    Di Getsèmani l'orto, ed appressarsi
    Una frotta d'armati, e Iscarïote
    Dare il bacio alla vittima!... Ed oh vista!
    Iscarïote era Guelardo!
                           Balza
    Spaventato destandosi Ebelino,
    E que' tre sogni avvertimento estima
    Dell'angiol suo. Fuggir vorrìa; ma dove?
    Ma perchè? Fugge l'innocente mai?
    Pochi istanti anelò fra que' pensieri
    Di stupor, di tristezza, e piena d'armi
    Fu ben tosto la soglia. Udì Ebelino
    Che dal suo Imperador venìan que' ferri,
    E il cenno di seguirli: ai manigoldi
    Cesse con muto fremito la spada,
    E porse ai ceppi gli onorati pugni.
      Quasi ladro il trascinano, e Milano
    E tutta Lombardia mira quel crollo
    Sì inopinato. Il prigioniero obbrobri
    Soffre inauditi; e non sarìagli pena
    Dagli sgherri soffrirli: itale voci
    Lo irridon per la via, maledicenti
    Al passato suo lustro. E quale esclama:
    --Va, di rivolte eccitator maligno!
    Va, scellerata causa, onde su noi
    Cesare versa il suo tremendo sdegno!--
    Qual:--Va, codardo degli Otton mancipio,
    Che d'Italia campion far ti negasti!
    Ben or ti sta de' tuoi servigi il premio!--
    Qual più schietto prorompe:--Erami noia
    Udir chiamarti _il giusto_; alfin delitti
    Potrem di te sapere ed abborrirti!
      Quant'è lunga la via sino a' confini
    Delle italiche valli, Ebelin tacque
    Degli spregi sofferti. Allor che in cima
    Dell'alpe fu, rivolse gli occhi, e alzando
    Le incatenate braccia,--Oh maledetta
    Troppo da' vizi tuoi, misera patria,
    Sclamò, non io ti maledico! Il cielo
    Figli ti dia che s'amino fra loro,
    Ed amin te com'io t'amava e t'amo,
    E più di me felici acquistin gloria
    Senza espïarla con dolori e insulti!
    --Maledicila! gridagli all'orecchio
    Una voce infernal.
                      --Ti benedico
    L'ultima volta! ripres'egli.
                                E pianse
    Siccome pio figliuol sulla ignominia
    D'una madre infelice; e gli sovvenne
    Quanto già quella madre avea prefulso
    In virtù fra le genti, e a depravarla
    Quante cagioni eran concorse! E grande
    Su lei di Dio misericordia chiese;
    E dal dolce aer suo, dalle ridenti
    Tutte illustri sue sponde, ei nè le amanti
    Ciglia diveller, nè il pensier poteva!
    Satan che indarno occultamente spinto
    Avealo ad imprecar la patria terra,
    Urlò di rabbia le sue preci udendo;
    E di Lamagna per alture e piani
    Corse con questo grido:
                           --È alfin caduto
    L'italo malïardo, il seduttore
    De' nostri augusti, il protettor di quanti
    Di Lombardia traeano ad impinguarsi
    Sul germanico suol, genìa predace
    Onde la tanta povertà cresciuta
    In quest'anni da noi! Tutti Ebelino
    Nostri tesori al lido suo recava,
    E colà un trono alzar voleasi, allora
    Che ad atterrar le ribellanti spade
    Inetto fosse per miseria Ottone?
    --Ebelin mora! Universal risposta
    Fu del tedesco volgo. Ed obblïato
    Da migliaia di cuori in un dì venne
    Quanto a lodarlo aveali invece astretti
    La sua mansüetudine, il modesto
    Non curar le ricchezze, il riversarle
    Sulle infelici plebi, il non mostrarsi,
    Benchè pio verso gl'Itali, men pio
    Ver gli stranieri. Quella dianzi nota
    Serie di virtù splendide cotanto,
    Un incantesimo vil parve ad un tratto,
    Una menzogna. Convenìa disdirla:
    Riconoscenza è grave pondo ai bassi.
    Esultan se pretesto a lor si porga
    Di rigettarla, e attaccaticci morbi
    Son odio, ingratitudine e calunnia.
    Conscio de' benefizi innumerati
    Ch'egli avea sparso, avea creduto ognora
    L'irreprensibil cavalier che stretti,
    A lui fosser d'amor cuori infiniti.
    Le ripetute indegne contumelie
    Lo sorpreser, ma tacque; e sovra tanta
    Pravità de' mortali meditando,
    Arrossì d'esser uomo, e innanzi a Dio
    Umilïossi. E vanamente ancora
    Stette Satan mirandolo e aspettando
    Il desìo di vendetta e le bestemmie.
    Chiama l'Onnipossente al suo cospetto
    Tutti i ministri spirti, e a Satan dice:
    --Onde vieni?
                   E il maligno:--Ho circüita
    Dell'uom la terra, e non rinvenni un santo.
      Ed il Signore:--O di calunnie padre,
    Non vedestù l'amico mio Ebelino,
    Ch'uomo a lui simil non racchiude il mondo,
    Tanta nel suo dolor serba innocenza?
      E l'angiol di menzogna ambe le labbra
    Si morse, e disse:--Ov'è il suo pregio? Ei t'ama,
    Perchè, in tuo amor fidando, ei palesata
    In breve spera sua innocenza. Il braccio
    Estendi, e più percuotilo, e vedrai
    Se non t'impreca.
                      Ed il Signor:--Non forse
    Giorni di prova assegno a' retti? Vanne:
    Ebelino è in tua mano; anco sua vita,
    Anco la fama sua, perchè maggiore
    Torni suo vanto e tua immortal vergogna.
      L'avversario precipite avventossi
    Dal grembo della nube, onde i mortali
    Atterrìa lampeggiando, ed in un punto
    Fu su roccia dell'alpi. Ivi gigante
    Si soffermò, e da questo lato i campi
    Della lieta penisola mirando,
    E dall'altro le selve popolose
    De' boreali, l'una e l'altra palma
    Battè plaudendo al sovrastante lutto
    D'entrambo i regni, ed esclamò:--Vittoria!
      Di là scagliossi alla città del trono
    E de' cento felici incliti alberghi,
    E delle orrende mura ove trascina
    Sua catena Ebelin. Desta il demonio
    Ne' giudici, che Ottone a indagin chiama
    Dell'alta causa, aneliti vigliacchi.
    Temon, se reo non trovan l'accusato,
    L'ira d'Otton, l'ira d'Augusta, l'ira
    Di quel Guelardo che per essi or regna;
    E dove il trovin reo, speran più pingui
    Gli onorati salarii, e maggior lustro.
      Chi primiero è fra' giudici? Oh impudenza
    Guelardo stesso!
                    Oh come il core all'empio
    Nondimen trema, udendo che s'appressa
    L'irreprensibil catenato! E questi
    Entra con umil, sì, ma non prostrato
    Animo, e reca sulla smorta fronte
    Quell'alterezza ch'a innocenza spetta.
      Cela Guelardo il suo tremore, e prende
    Così ad interrogar:
                       --Qual è il tuo nome,
    O sciagurato reo?
                     --Sono Ebelino
    Da Villanova, amico tuo.
                            --Rigetto
    L'amistà d'un fello: giudice seggo.
    Che macchinasti co' Lombardi?
                                  In viso
    L'accusato guardollo, e non rispose.
      E Guelardo:--A lor trame eri secreto
    Eccitator; t'offrìan lo scettro, e pronta
    Stava tua destra ad accettarlo in giorno
    Ch'ansio esitavi a stabilire, in giorno
    Che, la mercè di Dio, non è spuntato.
    V'ha fra i complici tuoi chi tua perfidia
    Al tribunale attesta.
                         E poichè muto
    Serbavasi Ebelin, vengon a un cenno
    Que' testimoni nella sala addotti.
      Eran duo di que' truci esclamatori
    Di libertà, di civiche vendette,
    Di patrio amor, che ne' consessi audaci
    Della rivolta più fervean, più scherno
    Scagliavan sui dubbianti e sovra i miti,
    E più capaci d'affrontar qualunque
    Parean supplizio, anzi che mai parola
    Di codardia pel proprio scampo sciorre.
      Questi eroi da macelli, questi atroci
    Ostentatori d'invicibil rabbia,
    Come fur tolti a lor gioconde cene,
    E gravato di ferri ebbero il pugno,
    E il patibolo vider,--tremebondi
    Quasi cinèdi, le arroganti grida
    Volsero in turpi lagrime e in più turpi
    Esibimenti di riscatto infame,
    Altre teste al carnefice segnando.
    Ad Ebelino in riveder coloro
    Isfuggì un atto di stupor:--Voi dunque?
    Voi?... Ma, qual maraviglia? Oh! ben a dritto
    Io sempre le feroci alme ho spregiato,
    E ben diceami il cor quali voi foste!
    Ed appunto perchè troppe vid'io
    Alme siffatte là nelle congrèghe
    Ove il mio plauso si cercava indarno,
    E pochi vidi eccelsi petti, avversi
    Ad insolenza e a stragi, io mestamente
    Presentii di mia patria obbrobri e pianto,
    S'ella sorda restava a' preghi miei,
    E alle minacce mie, quando insensata
    Io vostr'impresa nominava e iniqua.
      I testimoni balbettaro, e fisi
    Gli occhi loro in Guelardo, il concertato
    Calunnïar sostennero. Ebelino
    Più non degnolli di risposta, e chiese
    D'esser condotto anzi ad Ottone a cui
    Parlar volea.
                 Respinge inutilmente
    Guelardo quest'inchiesta, e così forte
    La ripete Ebelin, ch'un de' seduti
    A giudicarlo generoso alzossi,
    Sclamando:--La tua brama, o il più infelice
    Fra gli accusati, porteranno al trono
    Le labbra mie.
                  Null'uom potè di quella
    Anima schietta rattenere i passi:
    Move all'Imperador, franco gli parla,
    E il pio monarca inducesi al colloquio.
      Mentre dunque l'afflitto incoronato
    Nelle regali, splendide pareti
    Aspettava che a lui tratto venisse
    Il già caro Ebelin, nella memoria
    Gli ritornavan gli alti e numerosi
    Servigi di quel prode, e l'amicizia
    Che al magno Otton, suo padre, avealo stretto;
    E commoveasi ripensando quante
    Volte quell'Ebelin con tenerezza
    Lui prence fanciulletto infra le braccia
    Portato avea, quante paterne cure
    Prese per lui, quanti affrontati in guerra
    Per sua difesa ardui perigli,--e il core
    Gli si volgea a clemenza.
                             Ode sonanti
    Nelle vicine sale i trascinati
    Ferri del prigioniero, e gli si gela
    Di pietà il sangue. E quand'entrare il vede
    Pallido, smunto, gli si gonfia il ciglio,
    E magnanimo pianto a stento cela.
      Ebelin pur commosso era, calcando
    Con vincolato piede oggi i tappeti,
    Che tante volte avea con dominante
    Passo calcati, e intorno a sè veggendo
    Tanti, che in altro tempo a lui dinanzi
    S'inchinavan temendo, ovver felici
    Andavan s'egli a lor stringea la destra,
    E ch'or s'atteggian contegnosi, e quali
    A sterile pietà, quali ad insulto.
      Giunto Ebelino alla presenza augusta,
    Piegasi reverente, e aspetta il cenno:
      --Favella, sciagurato: uom con più caldo
    Fervor non brama tue discolpe.
                                  --Sire,
    La mia innocenza esser dovriati scritta
    Ne' lunghi intemerati anni ch'io vissi
    Di tua casa al servizio e dell'onore.
    In inganno te volto han miei nemici,
    E me calunnia opprime.
                          --A tue parole
    Aggiungi prova, e riputato il sommo
    De' tuoi servigi questo fia da Ottone.
      --Se a te prova non son gli atti che oprai
    Alla luce del sol, l'abborrimento
    Sperimentato mio contra ogni fraude,
    Contr'ogni ingiusta ambizïon; se nulla
    A te non dicon queste mie sembianze
    Imperturbate in così ria sventura,
    Preclusa è a me di scampo ogni fiducia;
    Anzi alle leggi mia supposta colpa
    È attestata abbastanza. Altro non posso
    Se non gli estremi del mio zelo sforzi
    In quest'istante consecrarti, o sire,
    Tai verità parlandoti, che forse
    Più non udresti, se da me non le odi.
      --T'ascolto, disse il rege.
                                 Ed Ebelino
    La propria causa obblïar parve, e diessi
    A svolgere di stato alti consigli,
    I bisogni quai fossero additando
    Delle schiere, del popol, dell'altare,
    De' tribunali, e della reggia stessa:
    Quali i provvedimenti unici, rotti
    Ed efficaci ad impedir l'ebbrezza
    Delle rivolte, a raffermar lo impero:
    Quali de' prischi imperadori, e quali
    Del magno Otton le più laudabili opre,
    E quai le insane; e come arduo ognor sia
    Seguir le prime e non errare; e come
    Gli egregi prenci a errar tragge talvolta
    Adulante caterva. Accennò alcuni
    Del sir lusingatori, accennò il vile
    Cangiarsi di Guelardo: e brevi furo
    Su lor suoi detti, e non degnò que' nomi
    D'anime basse proferir neppure.
    Ma que' rapidi detti eran gagliardi,
    Siccome piglio di paterno braccio,
    Che sovra l'orlo d'un dirupo afferra
    Perigliante figliuolo.
                          Otton si scuote.
    Da verità sì energiche, da senno
    Sì giusto e luminoso ed esaltante
    Non era stato mai colpito. In altri
    Colloqui a' dì felici il buon ministro
    Parlava il ver, ma forse in più gradita
    Guisa, sparmiante del suo re l'orgoglio.
    Ora è il parlar solenne, il grido urgente
    D'uom, che vicino a morte anco un tributo
    Di fedeltà solve al monarca e al dritto,
    Tutto dicendo che giovar del pari
    Sembrigli al trono e alle regnate genti.
      Alla beltà del vero e del coraggio,
    E di quel dignitoso intenerirsi
    Che da alterezza vien compresso, e pure
    Nella voce si sente e ne' benigni
    Sguardi si vede, unìasi in Ebelino
    Da natura sortita un'armonìa
    Di nobili sembianze e di contegno,
    Talchè valor più prepotente dava
    A sua favella, ed escludea il supposto
    D'ogni viltà, d'ogni codarda astuzia,
    E facea forza a Otton. Perocchè Ottone
    Stranier non era a simpatia per cuori
    Di grandissima tempra. E fu vicino
    A cedere, a gettare ambe le braccia
    Del prigioniero al collo, al gridar:--Falsa
    Tengo ogni accusa contro al mio fedele!
      Ma Sàtan vide quell'istante, e spinse
    Tëofania d'Augusto in cerca.
                                Bella
    Era la greca donna e di vivaci
    Grazie adorna, e scaltrissima e pungente
    Ne' suoi sarcasmi, ed irridea talvolta
    La bonaria alemanna indol con motti
    Quasi di spregio; e di quei motti spesso
    Arrossia Ottone. E perocch'egli amava,
    L'affascinante sposa, ambìa piacerle
    E far pompa d'accorta alma inconcussa,
    E a tal cagion solea de' generosi
    Sensi in cor frenar gl'impeti al suo fianco.
      Salutata dall'armi, il passo inoltra
    Fra le colonne di que' regii lochi
    La incoronata, e stabilisce e freme
    In vedere Ebelino; e sovra Ottone
    Lancia quel guardo che dir sembra:--Stolto!
    Sedur ti lasci?
                   Tanto, oimè, bastava
    A confondere il sire! Eccol a un tratto
    Con più severa maestà atteggiarsi
    Verso il captivo, e dir:--Riedi: a me il vero
    Tutto paleserassi; e tu, innocente,
    Gloria n'avrai; prevaricato, morte.
      Torna Ebelino al carcere, e già scerne
    Che inevitata è per lui morte. Oh come
    Lenti di nuovo i dì, lente le notti
    Volgon per lui! Quel sempre assomigliarsi
    D'una all'altr'ora, e la perpetua veglia,
    Ed il perpetuo tenebrore--e i cibi
    Immondi e scarsi--e l'aspreggiante voce
    Di questo o quello sgherro--e il frequent'urlo
    D'altri prigioni disperati, in cupe
    Vicine volte seppelliti--e il suono
    De' ceppi loro, e quel de' propri--e il canto
    Osceno del ladron che, bestemmiando,
    La forca aspetta--e i gemiti dell'egro
    Forse non reo che sulla paglia spira--
    E il sollecito passo delle guardie
    Che dicono: «È spirato!»--e questo detto
    Che l'echeggiante corridoio in guisa
    Ripete orrenda--e il pianto d'un amico
    Che, udendo il nome dell'estinto, grida
    Dal fondo d'un covile: «Ahi! gli sorvivo!»--
    E per dispregio di quel pianto il ghigno
    Od il sibilo infame di coloro
    Che trascinano il morto--e, con siffatta
    Serie d'inenarrabili vicende
    Di castel, che i perenni affigurava
    Dell'abisso tormenti, il ricordarsi
    De' dì sereni che svanìr, de' plausi,
    Delle liete speranze, e, più di tutto,
    De' dolci affetti--ah! quella è tale immensa
    Congerie di dolori e di spaventi,
    Che dissennar minaccia ogni più forte
    E sdegnoso intelletto! E se si ponno
    Da intelletto simil serbar talvolta
    Contro all'empia fortuna altero scherno,
    O pensieri di pace e di perdono,
    E di fede nel cielo, ahi! pur quell'ora
    Amarissima vien che ineluttata
    Mestizia il cor miseramente serra,
    E non v'è chi consoli! Ed altre pari
    A quell'ora succedono, e d'angoscia
    In angoscia si cade! Ed un'ardente
    Smania investe il cervello, ed impazzato
    Esser si teme o brama! E il generoso
    Petto chiuder non puossi all'irrüente
    Piena dell'odio che in lui versan mille
    Della viltà degli uomini memorie!
    E feroce si resta, e di sè stesso
    S'inorridisce e sclamasi:--«Son io,
    Benchè non conscio di mie colpe, un empio?»
    E chiedesi all'Eterno, e lungamente
    Chiedesi invan, d'amore una scintilla!
      Quelle angosce conobbe anco Ebelino,
    Ed allora invisibile al suo fianco
    Sàtan sedeva, e gli pingea coll'arte,
    Ch'è propria a lui, tutto che meglio ad ira
    E a disperazïon trarlo potesse.
    Ed Ebelin pur resistea, e pensava,
    In mezzo alle sue smanie, all'Uomo-Iddio,
    Che sublimò i dolori, e fu ludibrio
    D'ingrati e di crudeli: e quel pensiero,
    Che insensatezza all'occhio è de' felici,
    Insensatezza non pareagli, ed alta
    Storia pareagli che gli oppressi in tutti
    Lor martirii nobilita; e volgendo
    Quella storia ammiranda, a poco a poco
    Ammansava gli sdegni e perdonava.
      Ma la parte del cor, che più dolente
    Sanguinava, era quella ove scolpite
    Stavan due care fronti. Una è la fronte
    Della madre decrepita che in pace,
    All'ombra degli altar, da parecchi anni
    Viveasi in Quedlimburgo, e l'altra è quella
    Della madre d'Augusto. Ambe le antiche
    Serrava il chiostro istesso, e raramente
    Alla reggia venìan; che ad Adelaide
    Odïosa la reggia erasi fatta
    Per l'imperar della superba nuora.
      --Qual sarà stato di mia madre, e quale
    Dell'onoranda Imperadrice il core,
    Allorchè udir la mia sventura? Iniquo
    Esse, no, non mi tengono! Esse almeno,
    Mentre a tutti i mortali il nome mio
    In abbominio fia; caro l'avranno!
      Così geme Ebelino. Un dì, ottenuto
    La madre alfine ha di vederlo, e scende
    Alla prigion del figlio. Oh inenarrati
    Di quel colloquio i sacri detti e i sacri
    Abbracciamenti! Oh qual pietà! Una madre
    Che riscattar col sangue suo non puote
    Di sue viscere il frutto! ed il più amante
    Figlio che di sua madre, ahimè! in secreto
    Deplorar dee la lunga vita!
                               Il giorno
    Che dalla inconsolabil genitrice
    Fu Ebelin visitato, oh da qual notte
    Seguito fu! L'espandersi de' cuori
    Nella sventura, è de' sollievi il sommo;
    Ma dopo tal sollievo, allor che mesto
    Il prigionier dalle pietose braccia
    Di persona carissima è staccato,
    E solingo riman, quanto più dura
    Gli è solitudin! Quanto più affannoso
    Il desiderio de' bei tempi in cui
    Fra gli amati vivea! Quanto più viva,
    Più lacerante la pietà ch'ei sente
    Di sè stesso e d'altrui!
                            Me a tal dolore
    Stranier non volle il Cielo, e in ripensarti,
    O decennio del carcere, infiniti
    Strazi ricordo, ma il più acerbo è forse
    Quand'io, abbracciato il genitor, partirsi
    Da me il vedea; quand'io, calde le labbra,
    Del bacio suo, dicea:--Questo è l'estremo!
      Non un decennio, ma più lune ancora
    Durar gli allarmi d'Ebelino. Ei forse
    Nel _giudizio di Dio_ gli accusatori
    Sperava iniqui col possente acciaro
    Düellando atterrar. Chi d'Ebelino
    Avea la forza e la destrezza? E quanta
    Forza o destrezza in düellar non dona
    Senso d'intemerata anima offesa!
    Ma tai _giudizi_ Iddio forse abborrendo,
    Non volle che sancito il reo costume
    Per Ebelin venisse; o del demonio
    Opra fu l'impedirlo. Il pestilente
    Aere del carcer nell'oppresso infonde
    Maligni influssi, ed eccolo abbattuto
    Da insanabili febbri. Il derelitto
    Pur talvolta illudeasi, immaginando
    Che alcun de' tanti, su cui sparsi avea
    Suoi benefizi, or con repente mossa
    D'onore e gratitudin s'offerisse
    A combatter per esso:--attese indarno.
      Spunta il dì della morte, ed Ebelino
    Vien tratto innanzi a' giudici; e Guelardo
    La sentenza gli legge! Il condannato
    Udì, chinò la fronte, e rese grazie
    Tacitamente a Dio che al sacrificio
    Termine alfin ponesse; e bramò ancora
    Una volta veder la genitrice.
      Venne l'antica, e insiem si consolaro
    Con nobil forza alterna, e con alterne
    Religïose cure. Ella ed un pio
    Ministro del Signor soli eran consci
    Dell'innocenza d'Ebelin. Veloce
    Scorre quel sacro tempo, e omai gl'istanti
    Sovrastan del patibolo. Umilmente
    Prostrasi ancora innanzi al sacerdote
    Il giusto cavalier; quindi si prostra
    Anzi alla madre, ed ella il benedice,
    E si dividon sorridendo, e in cielo
    Riabbracciarsi in breve speran.
                                   Move
    Per le vie tra i carnefici, agguagliato
    Al più vil masnadiero, e contro a lui
    Insane urla di scherno alzan le turbe.
      Di quegl'inverecondi ultimi segni
    Dell'odio altrui stupìa, ma per le turbe
    Egli pregava. Ed arrivato al palco,
    Con fermo passo ascese, e parlar volle;
    Ma sue parole non s'udir, sì orrendi
    Vituperi sonavano. Ed allora
    Accennò egli medesimo al percussore,
    E siede sullo scanno, e tosto il collo
    Mise sul ceppo--e la mannaia cadde!
      L'angiol della calunnia, abbenchè indurre
    Non avesse potuto alla bestemmia
    Il retto cavaliere, e or si rodesse
    Invido i pugni, l'alta anima a Dio
    Salir veggendo--audacemente «Ho vinto!»
    Volea sclamar. Ma pria che la menzogna
    Intera uscisse dell'infame petto,
    Piovver dal cielo i fulmini, e il bugiardo
    Spirto ravvolser negli eterni abissi.
      Ov'è il Giuda novel?--Perchè perduto
    Delle guance ha il vermiglio, e la baldanza
    Della voce e del guardo?--E perchè al riso
    Che da Tëofania volto gli è spesso
    Non ride, e gli occhi abbassa, o spaventato
    Mira a destra e sinistra?--E perchè a sera,
    Se in luoghi oscuri passa, affretta il piede
    A illuminata parte, e ansante giunge
    Quasi inseguito fosse?--E perchè cerca
    Talor per via i mendici, e su lor versa
    A piene mani l'oro, e di lor preci
    L'aiuto invoca, e inefficaci poscia
    Di quei le preci ei furibondo chiama?--
    E perchè ne' festini alcune volte
    Cionca e sghignazza, e intrepido si vanta
    Contro a tutte paure, e quando a letto
    Va nell'ebbrezza, trema ed urla, e al fido
    Servo chiede il cilicio e se lo cinge?
      Pentimento ei bramava, e scellerata
    L'alma era fredda, e a pentimento chiusa.
      Un dì, colui con altri sommi duci
    Passò a fianco d'Otton sovra la piazza,
    Ove ancor d'Ebelino ad alto palo
    Vedeasi infisso il teschio. Il traditore
    Volea finger letizia, e le pupille
    Miseramente stralunava, e insieme
    Forte i denti batteangli. Ottone il guarda,
    E vacillar sovra l'arcione il vede,
    E a sostenerlo accorre.
                           --Oh! che ti turba?
    Oh! che ti turba? Gli ripete.
                                 --È desso!
    Sclama Guelardo, il mio tradito amico!
    Chi dal giusto immolato mi sottragge?
      E prepotenza di rimorso invitta,
    Ma non pia, lo costringe. Ei maledice
    E terra e ciel, ma l'alto arcano svela.
    Folto drappello d'ottimati, e folta
    Moltitudin di volgo al confessante
    Fa cerchio, e inorridisce a sue parole,
    Tutta imparando la esecrata istoria.
    Da tanti petti universal s'innalza
    Un lamento:--Oh sventura! oh atroce colpa!
    Il caduto Ebelino era innocente!
      Ed Otton più che gli altri inconsolato
    Raccapricciando grida:--Oh me infelice!
    Era innocente, e trarre a morte il feci!
      Il traditor nel suo sangue stramazza.
    Qual mano il colpo diè primier? Mal puote
    Fama saperlo. I più disser che ratto
    Un ferro in cor si configgesse il tristo,
    Altri che Otton percosselo. Il tumulto
    Ferve con rabbia orrenda. In cento brani
    Ecco lacero, pesto, annichilato
    Il cadavere infame. E s'inchinaro
    D'Ebelino anzi il teschio e imperadore
    Ed ottimati e popolo, e nel tempio
    Dato fu loco alla reliquia santa.
      Alto clamor di giubilo e di rabbia
    Rimbombò nell'inferno, al piombar quivi
    Il traditor, ma sol menonne festa
    L'abbietta e sciocca de' demonii plebe:
    Il lor superbo re, poste con ira
    Su Guelardo le luci e le calcagna,
    Urlò:--Che gloria alma sì vil mi reca!



ILDEGARDE

CANTICA.


  Anche l'_Ildegarde_ è una di quelle cantiche ch'io aveva in lontani
  anni disegnate, e già era questa eseguita in gran parte, ed onorata
  degli amichevoli suffragi del nostro Monti e di Byron. Spariti
  quegli abbozzi con altre carte da me in dolorosa vicenda perdute, ho
  tentato dodici anni dappoi di ricomporre la stessa produzione,
  quantunque non ignaro che difficilmente in età provetta si ritrovano
  le felici ispirazioni della gioventù.



ILDEGARDE.

  _Pars bona mulier bona._

         (ECCLE. c. 26, 3.)


      --Perchè alle torri del superbo Irnando
    Sempre drizzi lo sguardo, o mio Camillo?
      --Sposa, io molto l'amava; e in questi giorni
    Di nevose bufère, ognor la dolce
    Nostra infanzia mi torna alla memoria,
    Quando, arridenti il padre suo ed il mio,
    O di soppiatto noi dalle castella
    Usciti, incontravamci appo la riva
    Congelata del Pellice, e lung'ora
    Qua e là sdrucciolon ci vibravamo
    Ridendo e punzecchiandoci e luttando,
    E sul ghiaccio cadendo, e (bozzoluta
    Indi spesso la fronte o insanguinata)
    Tornando a casa lieti e tracotanti.
    Allora il padre suo, se all'un di noi
    Vedea della caduta in fronte il segno,
    Chiedevagli: «Hai tu pianto?» Ed il ferito
    Gridava: «No.» Ed a tal risposta il vecchio
    Lo prendea fra le braccia e lo baciava,
    L'amor lodando de' perigli e il gaio
    Scherno d'un mal, che sol le carni impiaga,
    E nulla può sull'anima del forte.
    Un dì, com'or, fioccava a larghe falde
    Di dicembre la neve, ed ambo agli occhi
    De' parenti sottrattici e de' servi
    Discendemmo ciascun nostra pendice,
    E ai cari ghiacci convenimmo. Assai
    Sdrucciolammo e ruzzammo, e le condense
    Pallottole durissime a diversa
    Meta lontana, in alto o pe' dirupi,
    Scagliammo a gara, acute urla di gioia
    Ripercosse da acuti echi levando.
    Men da stanchezza mossi che da fame
    Ci abbracciamo, e ciascun monta i suoi greppi
    Anelante alla cena. A quando a quando
    Ci volgevam guardandoci, ed allora
    Che, già molto remoti, un veder l'altro
    Più non potea, salutavamci ancora
    Con prolungati affettüosi strilli;
    E questi udìansi dalle due castella,
    E mia madre s'alzava, e tremebonda
    Al balcon della torre s'affacciava,
    Incerta se di gioco o di dolore
    Voci eran quelle. Ah! in voci di dolore
    Odo mutarsi quella sera infatti
    Le grida dell'amico: «Al lupo! al lupo!»
    Ripeteva egli disperato. Io sudo
    Di spavento, ciò udito, e immaginando
    Di quel caro il periglio. I clivi scendo
    Novamente precipite: il ghiacciato
    Pellice varco, e per gli opposti greppi
    Affannato m'arrampico ed appello:
    «Irnando mio! Irnando mio!» Salito
    Egli era sovra un olmo. Eccol veloce
    Scendere a me. Ma il lupo allontanato
    Ritorce il passo, e verso noi s'avventa.
    Ambo ascendiam sull'arbore, e costrettï
    Lunghissim'ora ivi restiam; chè intorno
    Incessante giravasi la fiera.
    Oh come su quell'olmo il dolce amico
    Teneramente mi stringea al suo seno,
    Il mio ardir rampognandomi! Ei dicea
    Aver alto gridato «Al lupo! al lupo!»
    Per la speranza ch'io vieppiù fuggissi,
    E tristo incontro pari al suo scansassi.
    «E tu invece, oh insensato! ei ripetea
    Vanamente arrischiasti i cari giorni
    Per aïtar l'amico, o coll'amico
    Preda morir di quelle orrende zanne!»
    Ciò dicendo ei piangeva, ed io piangeva
    Suoi cari lacrimosi occhi baciando,
    E tal commozïone era profonda,
    Delizïosa per entrambe! oh come
    Sentivamo d'amarci! oh quanto vere
    Sonavan le proteste, asseverando
    Che l'un per l'altro volontier la vita
    Donata avrìa!--Dall'olmo alfin veggiamo
    Scender di qua e di là dalle pendici
    Fiaccole ardenti. Eran d'Irnando il padre
    Ed il mio che venìan, co' loro servi,
    Degli smarriti figliuoletti in cerca.
    Sgombrava il lupo a quella vista; e noi
    Dall'arbore ospital lieti calammo,
    E saltellanti sulla neve, incontro
    Movemmo ai genitor, con infinito
    Cinguettìo raccontando, io la paura
    Ch'ebbi di perder l'adorato amico,
    Egli la mia temerità e la prova
    Che in questa aveavi di gagliardo amore.
    Oh qual sera di gaudio! oh quanta lode
    Al fratellevol nostro affetto i duo
    Parenti davan! Come altero Irnando
    Mostravasi di me! Com'io di lui!--
    Di nostra püerizia i dolci giorni
    Da mille vicenduole ivan cosparsi,
    Che all'uno e all'altro certa fean la mutua
    E generosa fede! E così stretto
    Vincol di due schiettissim'alme... il tempo
    Dovea spezzarlo!
                    In questa guisa geme
    Il cavalier Camillo. Ed Ildegarde
    Dalle corvine chiome e dalla svelta,
    Maestosa statura:--O sposo amato,
    Perdona, prego, al mio pensier; non colpa
    Fu in te forse d'orgoglio! Hai tu alcun passo
    Nobilmente tentato al benedetto
    Dagli Angioli e da Dio pacificarvi?
      --Di nostre nozze intera anco non volge
    La luna, o mia diletta, e mal conosci
    Del tuo Camillo il cor. Non di rossore
    Perciò si tinga il tuo bel volto, o donna:
    Garrir, no, non ti voglio: imparerai
    Col tempo qual possanza in questo core
    Abbian gli affetti. Se tentai? Se dieci
    Volte l'orgoglio mio non s'immolava
    Per racquistarmi quell'amico? Indarno
    Ei più non è quello di pria: uno spirto
    Di maligna superbia il signoreggia:
    Ei (tu vedi s'io fremo a questo detto!)
    Ei mi dispregia!--
                      L'arrossita dianzi
    Ildegarde a tai detti impallidiva,
    Mostrüoso sembrandole il destarsi
    Dispregio in chi che sia verso un mortale
    Sì per cavallereschi atti famoso,
    Qual era il pio Camillo. E l'abbracciava
    Vibrando sguardi or con gentil disdegno
    Alla torre d'Irnando, or con desìo
    Passïonato al caro sposo. E sguardi
    Tai gli dicean: «S'altri spregiarti ardisce,
    La stima ten compensi in ch'io ti tengo.»
      Qual della inimistà la cagion fosse
    De' duo generosissimi, in diversi
    Inni diversamente i trovadori
    Cantan d'Italia. Applaudon gli uni a Irnando,
    Che, ito in Lamagna giovinetto, ad uno
    De' contendenti re sacrò il suo ferro;
    Altri a Camillo applaudon, che s'accese
    Pel secondo aspirante al real trono,
    Ma aspirante illegittimo. Speraro
    Camillo e Irnando un l'altro süadersi
    All'abbracciata parte. E l'un de' duo,
    Non si sa qual, trascorse a villanìa.
      Furor di fazïon trasse dapprima
    Questo e quello davvero a stimar vile
    Il già sì caro amico. Assai palese
    Delle avversarie crude ire sembrava
    L'iniquità ad Irnando: ei non potea
    Creder che onesto intento in alcun fosse,
    Il qual per esse parteggiasse. Al pari
    A Camillo parea dell'altra causa
    Evidente l'infamia essere al mondo.
      In qualunque dei duo fallisse primo
    La carità di confratello, e germe
    Altro o no di rancor vi si aggiungesse,
    Furon veduti inferocir nel campo
    Come leoni. Ma l'atroce guerra
    E l'alterna fortuna delle insegne
    Loco porgean a esercitar da entrambe
    Parti eccelse virtù. Cento fïate
    Camillo e Irnando, ad ammirarsi astretti,
    Dicean ciascun tra sè: «L'amico mio,
    Sebben malvagio, egli è un eroe pur
    sempre!»
      Già quegli anni di sangue or son passati;
    Già molte spente sono illusïoni
    Nelle agitate lor menti guerriere,
    Benchè in età ancor verde. Eppur concordia
    Lor generose palme, ahi! non rinserra.
      Beato d'una sposa era anche Irnando,
    E questa il dolce avea nome d'Elina,
    E di più figli era già madre. Il cielo
    Dato le ha cor fervente, ed intelletto
    Gentil, ma entusïastico. Natìe
    Le pedemontanine aure in che vive
    A lei non son; romano è sangue; e il padre
    D'Elina, de' ribelli ognor nemico,
    Morì con gloria in campo. Ella supporre
    Non potria mai che Irnando ingiustamente
    Odio porti a Camillo. A lei Camillo
    Noto non è, ma sel figura indegno,
    Irreconcilïabile, covante
    Sempre perfidie. E motto mai non dice
    Per calmare il marito allor che l'ode
    Fremer contra il vicin.
                           Folli stranezze
    Del core umano! Irnando, ancorchè fiero
    Più di Camillo, e a malignar proclive,
    Più bei momenti non avea di quelli,
    In che, pensando alla sua dolce infanzia,
    Questo o quel nobil detto o nobil atto
    Del caro, oggi abborrito, ei ricordava.
    In quei momenti (e rivenian di spesso)
    L'alma gli sorrideva, immaginando
    Quando ad entrambo tornerìa dolcezza
    Esser amici ancor: ma appena accorto
    Di questo desiderio, ei ripigliava
    A esacerbarsi, a biasimar sè stesso
    Di soverchia indulgenza, ed intimarsi
    Perseveranza d'astio e di disprezzo.
      Vedute in tanti cavalieri avea
    Mutazïoni di principii abbiette!
    Gli uni servi al buon prence, indi congiunti
    Perfidamente all'avversario suo;
    Gli altri farsi un Iddio del tracotante
    Contenditore al trono, e poi, caduta
    La sua potenza, irriderlo. E di tali
    Apostasie si repetea sovente
    La turpe inverecondia. E le più altere
    Alme se ne sdegnavano, e temendo
    Apostate parer, persistean truci
    Ne' giurati decreti, ove decreti
    Sconsigliati pur fossero. Ogni volta
    Che Irnando dalle sue balze rimira
    Il castel di Camillo, e rivolgendo
    Va quanto spesso col diletto amico
    In quelle sale, a quel verron, su quelle
    Mura, per quel pendìo, sovra quell'erto
    Ciglione, in quella valle, avea di santi
    Affanni e santi gaudii conversato,
    Di repente corrucciasi, e la fronte
    Colla palma fregando, a sè ridice:
    «Via quelle stolte rimembranze! obbrobrio
    L'onorar d'un sospiro i dì bugiardi,
    Che amabil tanto mi pingean quel tristo!»
      Men concitato da alterigia, avea
    Camillo a dame ed a baroni ufficio
    Pacifero richiesto. E quelle e questi
    Sordo trovaro a lor parole Irnando.
    Ma alla dolce Ildegarde or molto incresce
    Questa fera discordia; ognor paventa
    Che i fremebondi prorompano a guerra.
      --Freddi interceditori, o sposo mio,
    Forse fur quelle dame e que' baroni
    Di cui mi narri. Di te degno oh come
    Stato sarebbe il presentar te stesso
    Con amabil fidanza e quell'iroso!
      --Che parli, o donna? Io, non colpevol, io
    Codardamente supplice a' suoi piedi!
      --Codardìa consigliarti, o mio diletto,
    Potrebbe mai la sposa tua? Dinanzi
    A lui, supplice no, ma con onesta
    Securtà mosso io ti vorrei. Da quanto
    Pinger mi suoli di quel prode offeso,
    Incapace ci sarìa di fare ingiuria
    A chi chiedesse entro sue torri ospizio.--
      Se il pio consiglio accolga, esita alcuni
    Giorni Camillo; indi alla sposa:--O amica,
    A tanto, no, non posso umilïarmi;
    Ma non perciò mi ristarò da speme
    Di pacificamento. Un messaggero
    Mai non mandai direttamente ancora
    Con parole d'onore all'orgoglioso.
    Forse gli estranei intercessori sdegna,
    Ma vedendo a sè innanzi un mio scudiero,
    E amici detti per mia parte udendo,
    Commoverassi, e non vorrà esser meno
    Generoso di me.--
                     Compie Camillo
    La divisata prova. Indi attendea
    Il ritorno del messo, e d'una sala
    Passava in altra irrequïeto, e indugio
    Soverchio gli sembrava.
                           --Il furibondo
    Sdegnasse dare all'invïato ascolto?
    O frodoloso intento, o vil lusinga
    D'animo impaurito ei sospettasse,
    E rispondesse coll'atroce insulto
    Di vïolar con carcere o con morte
    La sacra testa dell'araldo mio?
    Fellon! Guai se ciò fosse! A molta scese
    Mansuëtudin questo cor; ma un cenno,
    E rïascender lo vedresti ad odio
    Maggior del tuo, più spaventoso, eterno!
    Che dico? Bassa villania in quell'alma
    Inebbrïata da gigante orgoglio
    Non può capir. Abbietto spirto io sono
    Che immaginar sì turpe fatto ardisco.
    Intenerito si sarà; lung'ora
    Colmerà di dolcissime domande
    E d'onoranza il mio scudier; seguirlo
    Qui vorrà forse, o rattenuto or fia
    Da momentanee cure. A mezzo solo
    Esser seppi magnanimo. Io medesmo,
    Come la donna mia mi consigliava
    Io, non un messo, a lui mover dovea.
    Oh! alla mia vista uopo ad Irnando certo
    Stato non foran più parole; in braccio
    Gettato a me sariasi, e senza vane
    Spiegazïoni, e dolorose, entrambo
    Rïappellati ci saremmo amici.
      Così tra sè il bramoso. Ed evitava,
    Per nasconderle il suo perturbamento,
    Della diletta sposa il dolce incontro.
      Ei cammina a gran passi; o nella sedia
    Breve momento s'agita, e risorge
    Tosto con ansia ad amor mista e ad ira,
    Or all'una effacciandosi, or all'altra
    Delle fenestre, or fuor della ferrata
    Negra sua porta uscendo, e non badando
    Al can che gli si appressa, e rispettoso
    Scuote la coda, e abbassa il ceffo, e spera
    Dalla man signorile esser palpato.
      Dai merli del terrazzo alfin gli sembra
    Lo scudier ravvisare. È desso, è desso.
      Al cavalier rimescolasi il sangue,
    E contener non puossi. Il ponte varca,
    Discende in fretta la pendice; incontro
    Al vegnente lo stimola sfrenata
    Smania d'udir.
                  --Perchè sì tardo movi?
    Gridagli.--
               I passi addoppia il fido, e parla:
    --Signor del tuo nemico entro la soglia
    Appena addotto io fui...
                            Camillo udendo
    Suo nemico nomarlo, impallidisce:
    E l'altro segue:
                    --Appena addotto io fui,
    I sensi tuoi gli esposi.
                            --In quali accenti?
      --Quali a me li dettasti. _Oh cavaliero!_
    Dissigli, _il signor mio, dopo ondeggiante
    Con sè stesso luttar, cede al bisogno
    Di ricordarti sua amistà, di sciorre,
    Per quanto è in lui, quel gel, che rie vicende
    Frapposto aveano fra il suo core e il tuo_.
    Io proseguir volea. Rise il superbo
    Amaramente, ed esclamò: _Non gelo,
    Ma orrendo sangue è fra i due cor frapposto!_--
    Proseguii nondimen, tuoi decorosi
    Sensi esponendo. A' primi istanti vinto
      Da prepotente anelito parea,
    Sebbene al riso s'atteggiasse ognora,
    Ed ostentasse di vibrarmi i guardi
    Della minaccia e del dispregio. Ei detti
    Di maggiore umiltà dal labbro mio
    Certo aspettava. Non trascesi: umìle,
    Ma dignitosa serbai fronte e voce;
    Ed ei sognò ch'io lo schernissi. _Audaci
    Son tue pupille, o giovine!_ proruppe;
    _Abbassale!--Non già! Timor non sente_,
    Risposi, _di Camillo un messaggero.
    --Mandotti il temerario ad insultarmi_?
    Riprese urlando, _a far vigliacca prova
    Della mia pazïenza? A tentar s'io
    Contaminar vo' mia illibata fama,
    Tua vil pelle col mio ferro toccando,
    O alle fruste segnandola? Va, stolto
    Incettator di vituperi e busse;
    Riporta al signor tuo, ch'uom che si pente
    De' tradimenti suoi, ch'uom che desìa
    L'amistà racquistar d'un generoso,
    Con ambagi non parla, e schiettamente
    Dice: Il cammin ch'io tenni era turpezza._
    A sì indegne parole arsi di sdegno
    Per l'onor tuo. _Via di turpezza mai
    Non calcherà, mai non calcò il mio sire!_
    Gridai. Ruppe il mio grido, e con un fiume
    Di fulminea infrenabile eloquenza,
    Tutta rammemorò la sciagurata
    Storia del trono combattuto. E questa
    Fu una trama, al dir suo, d'illustri iniqui
    Striscianti a piè del volgo, e lordamente
    Convenuti d'illuderlo e spogliarlo.
    E tu.... fremo in ridirlo.
                              --Io? Segui.
                                          --Un vile
    Patteggiator di condivisa infamia,
    E condivisi lucri.
                      --Ei ciò non disse!
    Ei ciò non disse!
                     --Il giuro.
                                --E non troncasti
    La scellerata voce entro sua gola?
      --La troncai svergognandolo. E costretto
    Fu ad arrossire e replicar: _Non dico
    Ch'ei fosse, ma parea di condivisi
    Lucri patteggiatore, e per lavarsi
    Di macchia tal non bastano le ambagi.
    Solennemente si ricreda, e provi
    Che insensato, ma mondo era il suo core;
    Provi ch'egli esecrato ha le perfidie
    De' nemici del re; ch'egli esecrato
    Ha l'opre inique ond'or l'impero è afflitto!_
    Viltà sembrato mi sarìa modesti
    Accenti opporre ad arroganza tanta.
    Tel confesso, signor: ciò che gli dissi
    Appena il so. Non l'insultai, ma cose
    Di foco, certo, mi piovean dal labbro
    Contro a' denigratori; e di te laude
    Tal gli tessei, che fu colpito e plause.
    _Va, buon servo_, mi disse; _amo il tuo ardire,
    ma non del tuo signor la ipocrisia_.
      --Oh ciel! diss'egli ipocrisia? Ingannato
    Non t'han le orecchie tue?
                              --Disselo, il giuro.--
    A queste voci il cavalier si torse
    Rabbïoso le mani, e con un misto
    Di voluttà e di fremito, in più pezzi
    Franse un anel, che dono era d'Irnando,
    Ed a' caduti pezzi impallidendo
    Il piede impose, e li calcò nel fango.
      --È finito! proruppe.--Ed iracondo
    Lagrimava, nè udia del messaggero
    Parola più, nè rispondeagli.
                                A guerra
    Precipitato contra Irnando ei fora;
    Ma nol permise il ciel. D'una sorella
    Alla difesa mover dee Camillo,
    La qual di Monferrato all'erme balze
    Co' pargoletti suoi vedova geme,
    Da illustri masnadieri assedïata.
      Solinga intanto ecco Ildegarde. E voti
    Per la salute dello sposo alzando,
    E per la sua vittoria, e pel ritorno,
    Pur trema che allorquando ei dalle pugne
    Rieda di Monferrato, incontro al sire
    Del vicino castel rompa la guerra.
      Un dì mirando quel castel, le cade
    Nell'animo un pensiero;--E s'io medesma
    Colà traessi, e mia nobil fidanza
    Vincesse il cor della romana altera
    E del truce baron?--
                        V'ha certi miti
    Senni, e tal era d'Ildegarde il senno,
    Che pur sono arditissimi, e formato
    Gentil proposto, se pur arduo ei paia,
    Tentennan poco, ed oprano. Tranquilla
    Il seguente mattin, poichè alla messa
    Nel delubro domestico ha innalzato
    Il femminil suo spirto appo lo Spirto
    Che regge i mondi e agli atomi dà forza,
    Ildegarde s'avvia sovra il suo bianco
    Palafreno seduta. A lei corteggio
    Sono una damigella e due famigli.
      Quand'ella giunse a' piè dell'alte mura
    Del castello d'Irnando, un momentaneo
    Palpitamento presela, e memoria
    Di perfidie tornolle, ahi troppo allora
    Frequenti fra baroni! e pensò quale
    Disperato dolor fora a Camillo,
    Se il visitato sire oggi smentisse,
    Brïaco d'odio, il vanto invïolato
    Che di leal s'ebbe sinora! Il guardo
    Volse alla damigella; e impallidita
    Era al par d'essa. Il guardo volse ai duo
    Famigli, e impalliditi erano, e osaro
    Interroganti dir:--Retrocediamo?
      --Stolti! diss'ella; e rise, ed innoltrossi.
      Intanto del castello in ampia sala
    La romana bellissima traea
    Dalla ricca di gemme ed indorata
    Conocchia il molle lino, e fra le punte
    Di due candide dita lo umidiva;
    Indi con grazia angelica all'eburneo
    Fuso il pizzico dava, e con accento,
    Che a labbra subalpine il ciel ricusa,
    Cavalleresche melodie cantava.
      Belli come la madre accanto a Elina
    Sedeano un bimbo ed una bimba, a lei
    Innamoratamente le pupille,
    Da negre e lunghe palpebre ombreggiate,
    Alzando vispe, e ogni ultima parola
    Della strofa materna ripetendo
    Con cantilena armonïosa d'eco.
    Ed a quest'eco s'aggiungea la grave
    Voce del padre lor, che per la caccia
    Un arco preparava, e spesso l'arco
    Ponea in obblìo, l'affascinante donna
    Mirando e i figli, ed i lor canti udendo.
      Portavan l'aure il suon del fervid'inno
    D'Ildegarde all'orecchio. Ella scendea
    Dell'arcione, ed a' paggi sorridente,
    Ma con trepido cor, dicea il suo nome.
      Qual fu d'Irnando la sorpresa! Ascolto
    E onore a dama diniegò egli mai?
    Qual pur siasi Ildegarde, ei le va incontro
    Con reverente cortesìa, e l'adduce
    Innanzi a Elina. Alzasi questa, e posa
    L'aurea conocchia, e di seder le accenna.
      --Vicina mia gentil (prende Ildegarde
    Così a parlar), da lungo tempo agogno
    Veder tuo dolce volto, e palesarti
    Un mio desìo.
                 --Qual? le dimanda Elina.
    --D'ottener tua amistà, di consolarmi
    Teco de' miei dolori.
                         --E che? Infelice
    Sei tu? Come?...
                    E nel troppo accelerato
    Immaginar, già Elina e il cavaliero
    Presumon ch'ella fugga il ritornante
    Camillo forse, ch'a lor occhi un mostro
    Verso tant'altri, un mostro esser dee pure
    Verso la sciagurata a lui consorte.
      Ad Ildegarde appressansi amendue,
    Ed Irnando le dice:--Il ferro mio
    Non fallirà, s'hai di mestier difesa.
      Ma oh stupor! La soave, in altro modo
    Che non credean, prosegue:
                              --Il sol non vede
    Donna di me più dal suo sposo amata,
    O buona Elina, e anch'io, quando al castello
    È il mio signore, ed io filo cantando,
    Spesso il miro al mio fianco, ed accompagna
    La mia colla sua voce; e molte volte
    Abbaian nel cortile i guinzagliati
    Cani pronti alla caccia, ed alla caccia
    Propizio è l'aer di levi nubi sparso,
    Ed ei pur meco stassi, ed al cignale
    Fino al seguente dì tregua consente.
    Ignoto ad ambo è il tedio, o se noi colse
    Alcuna volta, mai non fu quand'uno
    All'altro amato cor battea vicino.
    Ed oh a qual segno in esso, in me, di nostra
    Solinga vila crescerà l'incanto,
    Allor che a noi (se il ciel pietoso arrida
    Alla dolce speranza!) uno o più figli,
    Siccome questi, fioriranno a lato!
      S'interrompe Ildegarde, e per gentile
    Impeto d'amorosa alma commossa,
    O per arte gentile, o per un misto
    D'impeto ed arte, i due bambin si prende,
    Uno a destra uno a manca, e li accarezza
    Con baci alterni e voluttà di madre,
    Sì che la madre vera e il genitore
    Inteneriti esultano, e amicati
    Tanto per lei vieppiù si senton, quanto
    A' pargoletti lor vieppiù è cortese.
      --Oh come a te in bellezza, o mia vicina,
    Questa bimba somiglia!
                          E ciò Ildegarde
    Dicendo, preme lungamente il labbro
    Sovra la rosea guancia paffutella
    Della cara angioletta, e la baciucchia.
    Poscia gitta la mano amabilmente
    Sulle ricciute chiome del fanciullo,
    E qua e là le palpa, indi pel ciuffo
    A sè lo trae, e, baciatolo, gli dice:
      --Sai tu che appunto sei, qual mi fu pinto
    Da fedel dipintore, il padre tuo
    Ne' suoi giorni d'infanzia? Inanellato
    Il fulvo crin, larga la fronte, arditi
    E amorevoli gli occhi...
                            E questi detti
    Pronunciando Ildegarde, involontaria
    O accorta, alzava paventoso un guardo
    Sul cavaliero. Ed ei si perturbava
    Ricordando Camillo. Allor la pia
    Ambagi più non volve; e con candore
    Dice quanta cagion siale di tristo
    Rincrescimento il dissentir d'Irnando
    E di Camillo.
                 --O degna Elina! ov'anco
    D'uno dei duo per indomato orgoglio
    Quella discordia non cessasse, amiche
    Esser non possiam noi? Commiserarci
    Non possiam noi di questa ria fortuna,
    Ed amar nostri sposi, e niun furore
    Lor condivider che sia oltraggio al dritto?
      Dall'anima d'Elina un «sì!» prorompe,
    E si stringono al seno.
                           Irnando balza
    Rapito a quella vista, a quegli accenti,
    E vorrìa discolparsi; ad Ildegarde
    Vorrìa provar nessuna esso aver colpa
    Nell'odio sorto fra Camillo e lui.
    Strano mortal! mentr'ei d'inenarrati
    Spregi e d'ingratitudine a Camillo
    Accusa vibra, il corruccioso lagno
    Con cui ne parla, non par quel dell'odio,
    Ma d'un amor geloso. Ei non perdona
    All'uom ch'ei tanto amava, essersi fatto
    Un idol d'altra gente! aver potuto
    Per nemici obblïar sì sviscerato
    Fratel, qual gli era dall'infanzia Irnando.
      Ciò non isfugge all'ospite avveduta,
    E con lenta eloquenza insinüante,
    Che più e più le udenti anime scuote,
    Pinge in Camillo a que' trascorsi tempi
    Un fautor generoso (errante forse,
    Ma generoso) d'abbagliante insegna,
    E che a virtù immolar tutto credea,
    Fin le dolcezze d'amistà più care.
    E come pur tal amistà in Camillo
    Vivesse, ella soggiugne, e come i giorni
    Sospirass'egli della pace, in cui,
    Placato Irnando, il rïamasse ancora.
    Dice inoltre com'ei, reduce all'onde
    Del Pellice natìo, concilïarsi
    Con Irnando agognava, e si valea
    D'intercessori invan; come ad Irnando
    Mandò il proprio scudiero, e fu respinto.
    Dice gli sguardi mesti e affascinati
    Di Camillo al castel del primo amico,
    E a quell'arbore e a questa, e a quel vallone
    Ed a quel poggio, e del torrente ai flutti
    Ove insieme natavano, ed ai ghiacci
    Ove lungh'ore sdrucciolon vibravansi,
    Ridendo e punzecchiandosi e luttando,
    E sui ghiacci cadendo, e (bozzoluta
    Indi spesso la fronte o insanguinata)
    Tornando a casa lieti e tracotanti.
      --Oh che facesti, sposo mio? prorompe
    La fervida Romana; un altro, un altro
    T'eri foggiato e l'abborrivi. Io pure,
    Qual lo foggiavi, l'abborrìa; ma il mostro
    Che innanzi agli alterati occhi ci stava,
    No, non era quel pio, cui sì dilette
    Son dell'infanzia le memorie tutte,
    Cui tu sempre sei caro, e che sì caro
    Ad Ildegarde non sarìa, se iniquo.
      --Sarebbe ver? balbetta Irnando; e il ciglio
    Gli si rïempie di söave pianto.
    Ei m'amerebbe ancora? Ei non per beffe
    A me mandò que' freddi intercessori
    Che sì mal peroravano, e quel troppo
    Zelante messagger che m'inaspriva
    Col suo ardimento? E ch'altro volli io mai
    Ch'esser amato da colui ch'io amava?
    D'odiarlo io giurava, e non potea!
    Ma e se la tua benignità, Ildegarde,
    Ti traesse in error! S'ei mentre alcuna
    Rammemoranza di me pia conserva,
    E quasi m'ama nel passato ancora,
    Pur qual son m'esecrasse, ed appellarmi
    Collegato di vili anco s'ardisse?
    Se sconsigliati egli dicesse i passi
    Che al mio castello hai mossi, e dall'irato
    Cor prorompesse: «Amar non posso, Irnando!
    Amarlo più non posso!»
                          I dolorosi
    Dubbii vieppiù son da Ildegarde sgombri,
    Col ricordar sull'amicizia antica
    Questo o quel detto di Camillo.
                                   --Io dunque
    Era il superbo! esclama il cavaliero:
    Espïar debbo mia ingiustizia. In guerra
    Lunge da me l'amico mio periglia;
    Ad aïtarlo di mie lance io volo.
      E i suoi fidi raguna, ed abbracciate
    La palpitante Elina ed Ildegarde
    E i pargoletti, in sella monta e parte.
      Per molti dì le due vicine a gara
    Si consolavan, si pascean di speme,
    E alterne visitavansi, aspettando
    De' baroni il ritorno, o messaggero
    Che di lor favellasse. Ascondon ambe
    Il lor perturbamento, e sol ciascuna,
    Quando al proprio castel siede romita,
    Numera i giorni ed angosciata piange.
    Quella dicendo: «Oh non avess'io mai
    Conosciuto Ildegarde! Ella funesta
    Forse è cagion che il mio signore è spento!»
    L'altra a Dio ripetendo: «Il mio Camillo
    Salva, e s'a me rapirlo è tuo decreto,
    Deh ch'io presto lo segua, e per mia causa
    Vedova Elina ed orfani i suoi figli
    Ah no, non restin!»
                       Cede alla possanza
    Del suo rammarco alfin l'inconsolata
    Moglie d'Irnando, ed una sera asceso
    Il solito cíglion con Ildegarde,
    Donde vedeasi per più lunga tratta
    La polverosa via, nè comparendo
    I cavalieri, o messo alcun, prorompe
    Abbracciando i figliuoli in disperato
    Pianto, e respinge dell'amica il bacio.
      --Va, sciagurata, lasciami; a' miei figli
    Rapisti il genitore! A me rapisti
    Colui che tutto era al cor mio! Colui,
    Pel qual degli avi miei la dolce terra
    Senza cordoglio abbandonata avea!
    Viver senz'esso non poss'io: qual sorte
    A queste derelitte creature
    Verrà serbata, dacchè al padre i ferri
    Tolgon la vita, ed alla madre il lutto?
    Voler, voler del cielo era d'Irnando
    L'inimistà pel tuo fatal consorte!
    Maledetto l'istante in che, ispirata
    Da infernal consiglier, lieta movevi
    A mia ruina! Maledetto il nome
    Di suora che ti diedi!--
                            Al furibondo
    Grido geme Ildegarde, e invan desìa
    Trovar parole per placar l'afflitta;
    Invan gli amplessi iterar tenta. Ognora
    Più duramente rigettata e carca
    Di rimbrotti amarissimi, il cordoglio
    Rispetta dell'amica, e ridiscende
    Dietro a lei mestamente la collina,
    D'ancella a guisa che garrita piange,
    E risponder non osa. A quando a quando
    Si sofferma Ildegarde, e confidata
    Tende l'orecchio e nella valle mira,
    Che voci udir le sembra; e quelle voci,
    Ahi! manda il villanel, che dagli arati
    Campi co' buoi ritorna, ed a lui cara
    Son compagnia l'antica madre, curva
    Sotto il fascio dell'erbe, e la robusta
    Moglie, peso maggior di rudi sterpi
    Con elegante alacrità portando.
      Ne' dì seguenti, al consüeto poggio
    Le due donne riedean, ma fremebonda
    Sempre era Elina, e, tramontato il sole,
    Moveva a casa delirante d'ira
    E di dolore; ognor vituperata
    Ma affettüosa la seguìa Ildegarde.
      Odon lontane grida, e nella valle,
    Come all'usato i guardi avidamente
    Con palpiti d'amor gettano entrambe
    E di speranza e di paura. Il cane
    Drizza i villosi orecchi, ed un acuto
    Insolito latrato alza, e si scaglia
    Giù per la praterìa precipitoso,
    Folte siepi saltando ed ardui fossi
    E scoscesi macigni. E ad intervalli
    Sparisce e ricompare, e tace, e abbaia,
    Nè mai s'arresta.
                     --E sarà ver? Son dessi,
    Son dessi certo! Esclamano a vicenda
    Con ebbrezza febbril le desïose.
    Ma se alle lance reduci or mancasse
    Uno de' capitani, od ambo forse?
    Oh spaventoso dubbio! Oh sventurate!
    Chi ne assecura?
                    Sì dicendo, il passo
    Raddoppiano affannate. Al piano giunte,
    Odon le scalpitanti ugne veloci
    D'uno o duo corridori: ah fosser duo!
    Fosser de' duo baroni i corridori!
    Scerner gli oggetti mal lasciava un denso
    Nembo di polve. Ah sì! Lor lance appunto
    Camillo e Irnando precedean, con ansia
    Di riveder le dolci spose. Oh gioia!
    Oh certezza felice! Il lor saluto
    Suona per l'aer, ben son lor voci queste.
    Eccoli; balzan dall'arcione. Oh amplessi!
    Oh istante indescrittibile! E il consorte,
    Poichè ciascuna ha stretto al seno, e assai
    L'ha coperto di lagrime e di baci,
    Ciascuna dell'amica infra le braccia
    Gittasi giubilando.
                       --Il dolor mio
    Aspra mi fea: perdonami Ildegarde.
      E Ildegarde alla suora il detto tronca,
    Ponendo bocca sovra bocca, ed ambe
    Pur di lagrime bagnansi. I fanciulli
    Preso frattanto ha fra le braccia Irnando,
    E accarezzato li accarezza, e gode
    Porgendoli a Camillo, e di Camillo
    La nova tenerezza rimirando.
      Mentre ascendono il colle, evvi un bisbiglio,
    Un esclamar, un alternarsi accenti
    Di cortesìa e d'amore, un romper folle
    In pianto e in riso, un mescolar dimande
    E risposte e racconti, e i cominciati
    Detti obblïar per detti altri frapporre,
    Che niun di lor cosa veruna intende.
      Nel castello d'Irnando entrano. E assisi
    Nella gran sala--e da donzelle e fanti
    Portate l'ampie coppe--e zampillato
    Fuor de' fiaschi ospitali il ribollente
    Dal roseo spumeggiar bel nibbïolo--
    E del giocondo brindisi i sonanti
    Tocchi osservati--e roborato il core--
    Allor le maschie voci alzano a gara
    I baroni, e ripigliano il racconto
    In più seguìta, intelligibil foggia:
    --Oh qual buon genio t'ispirò, Ildegarde,
    Te in così tempestiva ora spingendo
    A rannodar fra Irnando e me l'amato
    Vincol che stoltamente io franto avea!--
      Così Camillo, e l'interrompe l'altro:
      Io lo stolto! Io il feroce!--
                                   E quei la mano
    Sovra il labbro gli pon rïassumendo:
      --Oh qual buon genio t'ispirò, Ildegarde!
    Perduto er'io, se redentrice possa
    D'amistà non venìa. L'assedïante
    Ladron dapprima sbaragliai, ma il tristo
    Novella frotta ragunò. Me chiuso
    Nel castel della suora, egli ogni giorno
    Schernìa e sfidava. Io sul fellone indarno
    Prorompeva ogni giorno: ahimè! gli sforzi
    Del valor mio nulla potean su tanto
    Nover crescente di nemici. A noi
    Già le biade fallìan, già fallìan l'armi,
    E già il cessar d'ogni speranza e il cruccio
    Rabido della fame a' guerrier nostri
    Consigliavan rivolta ed abbandono.
    Universal divenne voce alfine:
    «Arrendiamci! arrendiamci!» Il masnadiero
    Promettea vita a ognun fuorchè a mia suora
    E a' suoi figliuoli e a me. Tra minaccioso
    E supplicante, io i perfidi arringava,
    Che della rocca aprir volean le porte:
    --«Sino a dimane il tradimento, o iniqui,
    Sino a dimane sospendete!» Un resto
    Di pietà e di rispetto, al grido mio,
    Rïentrò in cor de' più. «Sino a dimane!
    Sclamarono, e se Dio pria dell'aurora
    Portenti oprato non avrà a tuo scampo,
    Lo scampo nostro procacciar n'è forza.»
    Oh spaventosa notte! Oh fugaci ore!
    Oh come orrenda cosa eraci il suono
    Del bronzo che segnavale! Oh angosciato
    Appressarsi dell'alba! Oh sbigottiti
    Muti sembianti della mia sorella
    E de' suoi pargoletti! Oh contrastante
    Dignità di parole in prepararci
    A' vicini supplizi! Ed oh com'io
    Tra me dicea: «Deh! che non seppi amico
    Tutta la vita conservarmi Irnando?--
    Improvviso frastuono udiam levarsi
    Fuor delle mura. Che sarà? Oh prodigio!
    Una pugna! E con chi?--«La man di Dio!
    La man di Dio!» gridan mie turbe: a terra
    Mi si prostran pentite, il giuramento
    Di fedeltà rinnovano; a gagliarda
    Sortita le süado, ed infinito
    Macel lung'ora de' nemici è fatto.
      Qui il narrar di Camillo Irnando tronca:
    --Ah! s'impeto cotanto, e se cotanta
    Prodezza ad ammirar non m'astringevi,
    Me gli assaliti sconfiggeano! In fuga
    Eran molti de' miei, già in fuga io stesso
    Omai volgeami disperato: i colpi
    Tuoi scomposer l'esercito inimico,
    E di salvezza io debitor t'andai!--
      S'avvicendan la lode i cavalieri,
    L'uno dell'altro memorando i fatti.
    Alfine Elina sclama:--Ad Ildegarde
    Spettan tutte le lodi! Innanzi a lei
    Prostratevi, e la sua destra baciate.--
      E i cavalieri prostratisi, e la destra
    Baciano d'Ildegarde, e penitenza
    Le chieggon del furente odio passato;
    Ed ella in penitenza un'annua festa
    Intima in questo e in quel castel, che _festa
    Dell'amistà_ si chiami, e dove uficio
    De' vati sia cantar quanti sospetti
    Calunnïosi partorisce l'ira,
    E quanto l'ira accrescano le ambagi
    De' falsi intercessori, e quanto egregia
    Sappia interceditrice esser la donna.
      --E da me, per mia ingiusta ira, qual vuoi
    Penitenza? soggiugne in umil atto
    Palma a palma accostando, ed il ginocchio
    Piegando Elina.--
                     Ed Ildegarde:--Il primo
    Figlio, o diletta, che ti nasca, il nome
    Porti del mio Camillo; e mi sia dato,
    Se figli avrò, chiamarli Irnando o Elina.



AROLDO E CLARA

CANTICA.


  Questa cantica nacque in giorni di somma sventura, ne' quali io,
  sentendomi troppo inclinato a sentimenti di sdegno, procacciava di
  vincerli col ragionare fra me stesso sulla bellezza della
  mansuetudine. Era in me indelebile un consiglio del buon Alessandro
  Volta, il quale un dì m'aveva detto queste parole, distogliendomi
  dallo scrivere satire:--«La poesia arrabbiata non migliora nessuno;
  e se v'avviene di sentirvi iracondo e propenso a spargere la bile in
  versi, paventate di diventar maligno. Vorrei anzi che allora
  cercaste di raddolcirvi, poetando sopra qualche nobile esempio di
  carità e d'indulgenza.»



AROLDO E CLARA.

  _Sed si esurierit inimicus tuus, ciba illum; si sitit, potum da
  illi._

                                           (Ep. ad Rom. 12.)


I.

    Piangi, o la più gentil fra le convalli
    Dello spumante Pellice, ove un giorno
    Alle sale d'Aroldo i Saluzzesi
    Cavalieri affluìano ad alte feste.
    Più non vedrai delle sue torri a sera
    Uscir giulivo il cieco vecchio Aroldo,
    Caramente appoggiando un braccio e l'altro
    Sovra Ioffrido e Clara, ed il canuto
    Ciglio volgendo con amor, ma indarno,
    Ai dolci rai del tramontante sole.
      Que' figli suoi nascean gemelli, e santa
    Tenerezza li univa. Or sola e mesta
    Clara accompagna il cieco padre a sera
    Fuor della torre, perocchè il gagliardo
    Fratel devote ha l'armi alla difesa
    Del pio Tommaso suo ramingo prence
    Contro i nemici della patria terra.
      Rosseggiava bellissimo un tramonto
    Sulle nevi lontane, e stupefatto
    Pareva il sol che dal romito albergo
    A salutarlo non venisse il vecchio.
    Ahimè, quell'era di sventura un novo
    Spaventevole dì! Schiudesi alfine
    La porta del castello, e con veloci
    Passi agitatamente escono Aroldo,
    Clara e più servi; nè il canuto ciglio
    Ai soavi del sole ultimi rai
    Volger si cura. Che avvenia?--Dal campo
    Infausto messo è giunto. Il pro' Ioffrido
    Contro l'usurpator del saluzzese
    Seggio osando tropp'oltre avventurarsi
    Nel calor della pugna, il circondaro
    L'empie straniere spade, e prigion cadde.
      Speme di riscattar sì cara vita
    Nutre il barone antico; e vuole ei stesso
    Trar supplichevol senza indugio al truce
    Fortunato invasor, che se talora
    Immolar gode i miseri captivi,
    Talor si placa a ricca d'oro offerta,
    Molto dovendo da sua iniqua sede
    Oro il tiranno effonder sulle bande
    Dell'alleato provenzal monarca.
      Giunto al margin vicino ove al tragitto
    Nel rigonfiato Pellice è apprestata
    La navicella, Aroldo porge il bacio
    Del congedo alla figlia. Allora al collo
    Gli s'avvinghia la pia.--Sola a mie stanze
    Non riederò, buon genitor; pupilla
    Esser della tua fronte a chi s'aspetta
    Se non a me? Forse pietà maggiore
    Assalirà dello sdegnato sire
    Il cor, s'umano ha cor, prona a' suoi piedi
    La veneranda tua canizie e gli anni
    Giovenili di vergine scorgendo,
    Che colla vita del fratel la vita
    Chiede del padre.
                     Vuole opporsi Aroldo,
    Ma mentre in barca ei scende, ella d'un balzo
    Già vel precede, e al consentir paterno
    Fa cogli amplessi vïolenza, e l'onde
    Perigliose attraversano. Ma ov'era
    L'Angiol del vecchio afflitto e l'Angiol tuo,
    Generosa innocente? A voi non velo
    Fecer colle tutrici ale a celarvi
    Alla vista de' prossimi ladroni
    Che irrompono co' brandi alla rapina.
      Voler divino ai nembi di sfortuna
    Lascia possanza sovra i giusti un tempo;
    Ma breve è il tempo sotto il sole, e arcana
    Nei patimenti una virtù Dio pose
    Ch'anco i giusti migliora e a sè li innalza.
      Sbandato di predoni era un drappello,
    Che della guerra col favor raccolto
    S'era d'Itale spiagge e di straniere
    A rubamenti ed omicidii, altero
    Linguaggio alzando di zelanti eroi,
    Campioni della patria e di Manfredo.
    S'azzuffan del baron coi fidi servi,
    E nell'orrenda mischia ad uno ad uno
    Dal soverchiante numero feriti
    Vengon que' servi, e de' vincenti in mano
    Son le ricchezze che a comprar la vita
    Destinava del figlio il cieco sire.
      Intero un dì per boschi e per dirupi
    Ei trascinato colla figlia venne,
    Ma il manto della notte ai duo infelici
    Prestò propizie tenebre, e dal mezzo
    Del brïaco drappel de' masnadieri
    Quetamente si trassero alla valle.
      Come lontani fur dall'empia frotta,
    E ardiron favellare, il cieco strinse
    La figlia al seno, e grazie alte le rese
    D'averlo addotto a salvamento, e lei
    Per l'accorto suo senno e per la dolce
    Filial carità ribenedisse.
      --Or dove, o padre, senza aïta alcuna
    Ci avvïeremo?
                  --O Clara mia, remoti
    Siam dal nostro castello, e a ritornarvi
    Il tempo mancheria; son prezïosi
    Tutti gl'istanti; acceleriamo il passo
    Verso il campo nemico, appo le triste
    Di Saluzzo rovine. O senza doni
    Compariremo anzi al tremendo sire,
    Ma sincere promesse il piegherranno
    A moti di clemenza. Inoltre ho fede
    In mia canizie e in queste spente occhiaie
    E nel pianto che versano, e ben anco,
    Figlia, nel tuo.
                    Pensava Aroldo ospizio
    Prender non lunge, ove la figlia al raggio
    Della luna scorgea l'amica torre
    D'un consanguineo sir. Ma là giugnendo,
    Odon che il giorno pria furibonda oste
    Era quivi passata e avea deserta
    La rocca e trucidato il castellano,
    E devastato a' villici i tugurii.
      Il negro pan de' villici dispersi
    Piangendo rompe colla figlia Aroldo,
    E beono alle lor tazze. Indi sen vanno
    Per tutti i casolari, invan cercando
    Palafreno o giumento: avean le schiere
    De' nemici avidissime votata
    In que' lochi ogni stalla.
                              --Ahi, dilungati
    Vieppiù ci siam dal tetto nostro, o padre!
    Or dove andrem?
                   --Pedon la via si segua
    Sino al mattin: buio non è, dicesti.
    Fa cor; preghiamo camminando, e al guardo
    D'altri ladron te, mia dovizia or sola,
    Te il ciel pietoso asconderà.
                                 Sì disse,
    E di padre l'affetto e di sorella
    Lena lor porge insino all'alba. Il campo
    Mostrossi allora al pauroso orecchio
    Della fanciulla pria che agli occhi.
                                        --O padre,
    Odi tu, disse, odi tu roco un suono
    Simile al suon della bufèra o a quello
    Di molte acque correnti?
                            Il vecchio capo
    Ei soffermò, ed immemore un istante
    Delle sue angosce, alzò la barba e rise.
      --Oh di qual gioia quel fragor m'empiea
    Negli anni miei di gloria! È il campo, o figlia!
    Noto è ad orecchio di guerrier quel suono,
    Come voce di sposa al suo diletto.
    Un dì così fremente io il bellicoso
    Aere appena sentia, sovra il mio scudo
    Battea forte l'acciaro, e dai precordii
    Metteva un grido che atterrìa da lunge
    Del nemico le scolte. E i miei congiunti
    Dicean: «Voce è d'Aroldo, oggi si pugni,
    Chè dove è Aroldo, è la vittoria.» Or fiacca
    È questa voce, e più la destra, e al breve
    Giubilo del guerrier tosto succede
    In me a quel suono il trepidar del padre.
      Proseguiro alcun tempo, e quindi Clara,
    Che sino allor söavemente a' detti
    Del genitore avea frammisti i suoi,
    Incominciò a interrompersi, e risposte
    Dar che, non conscio l'intelletto, un moto
    Parean sol delle labbra. A poco spazio
    Vedea della distante oste per l'aure
    Quasi di nave altissimi duo pini
    Elevarsi e ondeggiar, poscia fermarsi
    Come al suolo confitti. E secondata
    Venìa quell'opra da un clamor che il primo
    Clamor non era, ma or fischiante or rotto
    Da infami ghigni o da cupo silenzio.
      A' sensi suoi creder dovea? Le cime
    Parean gravate de' duo legni, e il pondo
    Che le gravava non scerneasi. Udito
    Spesso Clara ha di barbari supplizi,
    Ove ad appesa vittima lo strale
    Drizzano i bersaglieri, ed ottïen palma.
    Quei che divide dalle ciglia il teschio.
      Di tai supplizi un questo fora? Oh dubbio
    Peggior di morte! E chi alla sbigottita
    Dice s'uno colà de' morïenti
    L'amato suo fratello ora non sia?
    Chi le dice se il passo al genitore
    Vietare a forza ella non debba? Ahi lassa!
    E se il padre trattien, non di Ioffrido,
    Che forse ancor sull'albero non pende,
    Cagionerà la morte?... Ad ogni costo
    Vadasi al fatal loco!
                         Il piè, tremando
    In ciò pensare, affretta. In man la mano
    Della meschina Aroldo tien.--Di gelo,
    Fra sè diceva, è questa man, siccome
    Quella ch'io strinsi di sua madre al letto
    Ove s'estinse.
                  Indi il vegliardo scuote
    Il capo, quasi scuotere volesse
    Un malaugurio, e non potea.--Di morte,
    Figlia, i negri m'inseguon pensamenti.
    Abbi pietà di mia vecchiaia, e i cari
    Detti mi porgi che tue labbra sciorre
    Uniche san, quando scorato è il padre.
      Nata ne' giorni di sventura, e in erma
    Torre cresciuta, ove sorelle e madre
    Vide spirar, sollecita a sinistri
    Presentimenti schiuder l'alma, è fatto
    In lei religïon. Si raccapriccia
    In udir che s'affaccin alla mente
    Del genitore e in quest'istante i negri
    Pensamenti di morte. A lui si volge,
    Apre le labbra--e i consolanti detti
    Ch'uniche sciorre un dì sapean, non trova:
    Non trova, ed ahi! la prima volta è questa
    Che inobbedito di suo padre è il cenno.
      --Più de' pensier miei tristi or malaugurio
    M'è il tuo silenzio, ei dice.
                                 E lo spavento
    In lei crescendo, e a' rai primi del sole
    Splender veggendo le volanti frecce,
    Improvviso s'arresta.--Oh genitore!
    Non c'inoltriam: non odi tu le strida
    Degli assassini?
                    --Il figlio, il figlio mio
    Forse a morte strascinano: affrettiamci.
      --Deh, padre, ferma! a' piedi tuoi ten prego.
    Io stessa innanzi andronne, e se Ioffrido
    In vita è ancor, di novo al fianco tuo
    Tosto mi rendo, ma te... O ciel! raddurre
    Te vivo a casa allor io posso almeno!
      --Sciagurata, che parli? Orrende cose
    Forse tu vedi e a me non dici. Ovvero
    Fra quelle voci che il mio antico orecchio
    Non distinte percuotono, tu scerni
    Voci di morte e del fratello il nome.
    Che vedi tu? Che al giovenil tuo orecchio
    Porta il tumultüoso aere d'atroce?
      --Nulla, o buon padre. Ma t'arresta; pensa
    Che se tu, giunto appo i nemici, udissi
    L'orribil caso... tu m'intendi... allora
    Orfana forse rimarrei nel campo.
      --Me perder temi, e non t'avvedi, insana,
    Che scellerata è tua pietà? Egli muore,
    E tu qui mi rattieni? Il varco sgombra,
    Tel comando, obbedisci.
                           All'inusata
    Ira paterna impaurissi Clara;
    S'alzò. Con passi rapidi il cammino
    Misura il cieco, e strascinata quasi
    La giovinetta il segue. Erasi spersa
    La turba intanto che cingea i duo pini,
    E presso a questi il padre e la sorella
    Arrivan di Ioffrido. Ella più volte
    Erse il ciglio tremando, e insanguinate
    Scorse due salme, e incontanente a terra
    Ritrasse il guardo. E non varrìa sovr'esse
    Fiso tenerlo ad indagar; chè franta
    Han la coppa del cranio, e dal mozzato
    Lor sembiante piovea cèrebro e sangue.
      Ma quell'orrida vista e lo spavento
    Forza a' ginocchi tolgonle ed al core:
      --Padre! dic'ella, padre!... E qui stramazza
    A' piè d'Aroldo.
                    E mentre brancolando
    Col caro pegno tra le braccia fugge
    D'in mezzo della via, però che udito
    Brigata di cavalli ha scalpitante
    Di qua dal campo alla sua volta, e ignaro
    Ad un de' lati fermasi, ove un tronco
    D'albero sente; innanzi a lui lo stuolo
    Giunge de' cavalieri. Era Manfredo,
    Che di baroni provenzali cinto
    Per intenti di guerra iva il terreno
    Intorno visitando. Una fanciulla
    Scorge egli tramortita ed un vegliardo;
    E voltosi ad Aroldo, acerbamente
    Così gli grida:--O discortese e stolto,
    Perchè nel sangue d'un fellone e sotto
    Il patibolo tratta hai quell'afflitta,
    Cui toglie i sensi il raccapriccio?
                                       --Oh sire,
    Oh novo sire di Saluzzo! esclama
    L'antico cavalier, cui non intera
    L'aspra parola del crudel pungea,
    Nota è ad Aroldo ancor la voce tua:
    Aroldo io son dalle romite torri
    Che si specchian nel Pellice. E l'illustre
    Tuo genitor te adolescente spesso
    Adduceva a mie sale, e co' miei figli
    In un calice sol beevi a mensa.
    Ah per memoria del tuo estinto padre
    Oggi pietà di me ti prenda! Il figlio
    Ch'unico maschio avanza a mia vecchiaia,
    E cadde tuo prigion, deh non rapirmi!
    Io non leggeri doni a te in riscatto
    Dal mio castel portato avea, ma iniqui
    Predatori per via m'hanno assalito.
    Alle mie braccia il caro figlio rendi,
    E qual tributo m'imporrai ti solvo,
    Pareggiasse anco de' miei campi aviti
    L'intero pregio.
                    --O sciagurato Aroldo,
    Di qual osi tributo or favellarmi,
    Se finor tutto mi negasti? È tardi.
      --Tardi, o sire, non è. Seguita, è vero,
    Fu da bollente figlio mio l'insegna
    De' prischi Saluzzesi e di Tommaso,
    E la vittoria a tua prodezza arride.
    Ma tu il fervido oprar del giovinetto
    Dona pietosamente al supplicante
    Suo genitor che in venti pugne il sangue
    Versò pel nobil padre tuo, quand'esso
    Con tanta gloria signorìa qui tenne.
      --È tardi, o vecchio, e duolmene. In te accogli
    Tutta la forza ond'è capace il core
    D'un cavalier. Sovra quel legno pende
    Un trafitto cui grazia altra non posso
    Conceder più che di ritorlo ai corvi,
    E consentirgli de' suoi cari il pianto.
      Disse, e accennando che una guardia il morto
    Dalla croce calasse e all'infelice
    Lo rimettesse, cogli sproni un tocco
    Dïede al cavallo e col suo stuol disparve.
      Clara i sensi racquista, e oh di dolore
    Qual novo orrendo palpito! Era dunque
    Il fratel suo quel miserando ucciso!
    Eccolo tolto dal funesto legno;
    Ed ella il raffigura a cicatrici
    Che sul petto ei portava. Oh come il vecchio
    E l'angosciata giovin su quel corpo
    S'abbandonan piangendo! Ella in lino
    L'infranta testa pïamente avvolge,
    E chiede aiuto ai vïandanti. A dolce
    Carità si commove una famiglia
    Di Saluzzesi agricoltori, e dato
    Viene un carro con bovi, onde al lontano
    Castello il morto cavalier si tragga.


II.

    Or da quel giorno d'ineffabil lutto
    Rivolgiamo la mente oltre a sei lune,
    E la mesta mia cantica, i solinghi
    Pianti dell'orbo vecchio e di sua figlia
    Commiserando, svolga altra vicenda.
      Era una sera: alle vetuste mura
    Del baron s'appresenta un fuggitivo,
    A cui ferite e febbril sete esausta
    Miseramente avean la voce. Aroldo
    Piena di vino gli mandò una coppa
    Con questi detti: Al focolar t'accosta
    Sin che apprestata sia la cena, e al sire
    Perdona del castel s'ei di sue stanze
    Non uscirà, dove cordoglio il tiene.
      Clara portò que' detti, e il fuggitivo
    Che al maestoso inceder cavaliero
    Parea e mendìco a' finti panni, il volto
    Pria si coverse, indi con pronti passi
    Balzar tentò fuor della soglia, a guisa
    Di mortal che, caduto in impensato
    Orribile periglio, aneli scampo.
    Ma nella mossa impetuosa a lui
    Manca il fievole spirto, e piomba a terra.
    Clara il soccorre, il mira, ed alla negra
    Ricciuta barba e al crine ella il ravvisa.
      Chi era? Chi!... Manfredo! il già possente
    Desolator della sua patria! il ladro
    Che alla corona del nepote osava
    Stender la man sacrilega, e sul capo
    Inverecondo imporsela, e i diritti
    Calpestar più sanciti, e di Saluzzo
    Dirsi benefattor, serva a stranieri
    Brandi facendo la natìa contrada!
    Fortuna alfin l'abbandonò: fuggiasco
    Da compiuta sconfitta è l'empio sire,
    E per sottrarsi agl'inseguenti ferri
    Ei s'è imboscato in varii lochi, e ignote
    Calcò deserte rupi. Indi pel sangue
    Nella pugna perduto e per la rabbia
    Gli s'era da brev'ora intorbidato
    Sì fattamente il lume del pensiero,
    Che mal sapea dov'ei movesse, e giunto
    Era ai campi d'Aroldo altra credendo
    Sponda toccar. Qui più dal dolce tempo
    D'adolescenza riportate mai
    Non avea l'orme, ed alberi e tugurii
    Mutato avean l'aspetto della terra.
      Sol quand'ei vide Clara, appien le soglie
    Raffigurò d'Aroldo, e se bastata
    A lui fosse la possa, ei rifuggìa.
      Manfredo! e senza guardie! e semivivo,
    Sotto il tetto dell'uom cui trucidato
    Non in battaglia, ma in supplizi ha il figlio!
    Clara il conosce, e mentre a lui gli spirti
    I famigli richiamano, ella corre
    Alle stanze del padre, e già già quasi
    A lui così sclamava:--Esci, un prodigio
    Ad ammirar del Dio delle vendette:
    Sull'ossa di tuo figlio a spirar viene
    Il suo assassin!
                    Ma in quell'istante gli occhi
    Della donzella alzaronsi a parete,
    Onde pendea dell'Uomo-Dio morente
    Effigie veneranda, e a quella vista
    L'irrompente parola in cor rattenne.
      Religïoso fremito la invase
    Dinanzi a quell'effigie.
                            --Oh mio Signore!
    Quai voci arcane alla tua ancella parli?
    Tu irreprensibil fosti e sì infelice!
    E a quei che l'uccidean pur perdonavi!
    Or chi sa? Forse il dolce mio fratello
    Pe' falli suoi fuor dell'eterna reggia,
    In carcer sotterraneo, o d'inquieti
    Elementi per l'alte aure ludibrio
    Sta ancor penando, e a liberarlo vane
    Fervon le preci, e in loco d'esse un atto
    Di virtù nostra è d'uopo! O fratel mio!
    Forse quest'atto or chiedi. Ah, virtù somma
    È il perdonar! Cert'è che in cielo entrando
    Tu perdonar, tu e noi, tutti dobbiamo
    Come a noi perdonato ha il Redentore!
    Ma padre è Aroldo: esser maggior potrìa
    Delle forze d'un padre il dare aïta
    D'un caro figlio all'uccisor. La lancia
    Ei no giammai non bagnerìa nel sangue
    D'uom che toccò la mensa sua... Ma pure
    Chi può segnar dove talor trascorra
    Nella foga dell'ira un core offeso?
    Chi mi consiglia? Ah tu; gran Dio, tu solo!
      Disse, e prona curvossi, e lungamente
    Con ambascia pregò. Temea d'orgoglio
    Esser tentata; innanzi a Dio temea
    Calunnïar la santa alma del padre.
    Ma nella mente repentino un raggio
    Di fidanza pienissima le splende,
    E ratta sorge e dice:--Ah sì, fratello!
    Questo è il momento in che del ciel la porta
    A tue brame si schiude: io di tua gioia
    Sento il reflesso, e quella gioia è Dio!
      Un servo entrava:--Damigella, o carco
    D'inaudite peccata, o fuor di senno
    È lo stranier. Che far dobbiam? D'Iddio
    Parla tra sè com'uom cui prema occulto
    Di vendette terribili spavento,
    E di qui vuol fuggir.
                         --Tosto bardata
    Per lui sia mia cavalla.
                            Il servo parte
    Maravigliato, ed obbedisce. Intanto
    Antico armadio la fanciulla schiude,
    Ed indi tratto un de' paterni manti,
    Al leve suo tesor poscia s'affretta
    D'auree monete, e in una borsa il pone.
      Così ver l'agitato ospite mosse,
    E que' doni offerendogli--D'Aroldo
    Questa, gli disse, è la vendetta, o sire.
      Fremea la generosa in lui mirando
    L'uccisor di Ioffrido e il formidato
    Di Saluzzo oppressor, ma pïamente
    Frenò il ribrezzo, e dal balcon la corte
    Del castello accennando, a lui soggiunse:
      --Ecco a' tuoi cenni un corridor: se lena
    Ti basti, fuggi, e t'accompagni il cielo!
      Clara sparve, ciò detto. E l'infelice
    Tiranno--Angiol! gridò.--Poi diè dal core
    Uno scroscio di pianto. Ed allor forse
    Pentimento verace a lui fu strazio,
    Le proprie atroci colpe rammentando,
    E rammentando il giovine Ioffrido,
    E quel misero cieco che appoggiato
    Ad un alber credeasi, e gli grondava
    Sovra la testa, ahi, di suo figlio il sangue!
      Frettoloso Manfredo i doni tolse;
    L'inaudita pietà benedicendo,
    D'Aroldo cinse su le spalle il manto,
    E quindi a pochi tratti il vide Clara
    Dalla fenestra, che, al cortil venuto,
    Con sembiante commosso intorno intorno
    Iva gli occhi volgendo, e verso il cielo
    In atto di preghiera ergea le mani,
    Poi le briglie toccava ed era in sella.
      Fermato ivi un istante, ad alta voce
    Mise queste parole:--Aroldo! Aroldo!
    Tu sol Manfredo hai vinto. Io del perduto
    Seggio e de' vituperi onde vo sazio,
    Consolarmi potrò; non potrò mai
    Consolarmi d'aver tua nobil alma
    Col più truce rigore insanguinata.
      Udì il vecchio baron quel forte grido,
    E balzò dalla seggiola esclamando:
    --Figlia! il nemico nostro! il maledetto
    Uccisor di Ioffrido!
                        E sul rugoso
    Pallido volto del canuto il foco
    S'accese del furore. A' piedi suoi
    Clara gettasi allora, e gli palesa
    Ciò che d'oprar le ispirò Iddio.
                                    --No, Iddio
    Questo non t'ispirò! prorompe Aroldo;
    Manfredo è un empio! ei di dominio sete
    Portò infernal su queste invase terre,
    Che al suo nepote, a lui sovrano, tolse!
    Infame della patria e del suo prence
    Manfredo è traditor. Per sollevarsi
    Sulla sede non sua, trasse alleati
    E Provenzali e Càlabri e venduti
    Guelfi di tutta Italia allo sterminio
    De' nostri feudi e delle nostre plebi,
    E incenerì Saluzzo!... e il figlio mio,
    Il figlio mio su scellerata croce
    A' carnefici suoi diede bersaglio!
      Lunga e tremenda di rammarco e d'ira
    Fu l'eloquenza dell'antico. A lui
    Clara abbracciava le ginocchia, e santi
    Detti porgea con supplice dolcezza:
      --Le iniquità punir sol puote Iddio;
    Noi non possiam sul misero fuggiasco
    Punirle coll'acciar: solo a punirle
    Una guisa n'è data, ed è il perdono.
    Càlmati, o genitor; pensa che o degno
    Per penitenza diverrà Manfredo,
    O, rimanendo iniquo, a lui carboni
    Saranno inestinguibili sul core,
    Giusta il dir dell'Apostolo, i rimorsi
    E fra l'alme perverse il danno eterno.
    A Dio il giudicio! a noi l'umil dolore,
    E il benefico palpito e l'eccesso
    Della pietà non sol sugl'innocenti,
    Ma pur sui rei, perocchè tutti d'uopo
    Del perdono di Dio morendo avremo!
      --Oh mia figliuola! sclama alfine Aroldo,
    Ti benedico; santamente oprasti!
      L'alza, al petto la stringe, e lagrimando
    Mercè le rende che alla prova il senno
    D'esacerbato padre ella non mise.
      Un dì alle torri del baron fu visto
    Giungere di Manfredo un messaggero
    Da lontana contrada, e apportatore
    Venìa di ricchi doni. Eran tre lune
    Che pace avean l'ossa d'Aroldo, e muto
    Era il castello, ed in vicino chiostro
    Cinta di sacre lane, i dolci salmi
    L'orfana, per la cara alma del padre
    E del fratel, tutte le notti ergea.



POESIE LIRICHE.



LA MIA GIOVENTÙ.

  _Cor mundum crea in me, Deus._

                      (PS. 50. )


    Lamento sui fuggiti anni primieri,
      Che fecondi di speme Iddio mi dava,
      E di ricchi d'amore alti pensieri!

    Tra giubili ed affanni io m'agitava,
      Ed incessanti studi, e bramosia
      Di sollevarmi dalla turba ignava;

    E spesso dentro al cor parola udìa
      Che diceami dell'uom sublimi cose,
      Tali che d'esser uomo insuperbìa.

    Pupille aver credea sì generose
      Il mio intelletto, che dovesser tutte
      Schiudersi a lui le verità nascose;

    E di ragion nelle più forti lutte
      Io mi scagliava indomito; sognante
      Che sempre indagin lumi eccelsi frutte.

    Quella vita arditissima ed amante
      Di scienza e di gloria e di giustizia
      Alzarmi imprometteva a gioie sante.

    Nè sol fremeva dell'altrui nequizia,
      Ma quando reo me stesso io discopriva,
      L'ore mi s'avvolgean d'onta e mestizia.

    Poi dal perturbamento io risaliva
      A proposti elevati ed a preghiere,
      Me concitando a carità più viva.

    Perocchè m'avvedea ch'uom possedere
      Stima non può di se medesmo e pace,
      S'ei non calca del Bel le vie sincere.

    Ma allor che fulger più parea la face
      Di mia virtù, vi si mescea repente
      D'innato orgoglio il luccicar fallace.

    E allor Dio si scostava da mia mente,
      E a gravi rischi mi traea baldanza,
      Ed infelice er'io novellamente.

    Se così vissi in lunga titubanza,
      Ond'or vergogno, ah! tu pur sai, mio Dio,
      Che tremenda cingeami ostil possanza!

    Sfavillante d'ingegno il secol mio,
      Ma da irreligiose ire insanito,
      Parlava audace, ed ascoltaval'io.

    E perocchè tra' suoi sofismi ordito
      Pur tralucea qualche pregevol lampo,
      Spesso da quelli io mi sentìa irretito.

    Egli imprecando ogni maligno inciampo
      Sciogliea della ragion laudi stupende,
      Ma insiem menava di bestemmie vampo.

    Ed io, come colui che intento pende
      Da labbra eloquentissime e divine,
      E ogni lor detto all'alma gli s'apprende;

    Meditando del secol le dottrine,
      Inclinava i miei sensi alcuna volta
      Di servil riverenza entro il confine.

    Tardi vid'io ch'a indegne colpe avvolta
      Era sua sapïenza, e vidi tardi
      Ch'ei debaccava per superbia stolta.

    Trasvolaron frattanto i dì gagliardi
      Della mia giovinezza, e sovra mille
      Splendide larve io posto avea gli sguardi;

    E nulla oprai che d'alta luce brille!
      E si sprecar fra inani desideri
      Dell'alma mia bollente le faville!

    Lamento sui fuggiti anni primieri
      Che d'eccelse speranze ebbi fecondi,
      E di ricchi d'amore alti pensieri!

    Ma sien grazie al Signor che, ne' profondi
      Delirii miei, pur non sorrisi io mai
      Agl'inimici suoi più furibondi:

    Sempre attraverso tutte nebbie, i rai
      Del Vangel mi venian racconsolando;
      Sempre la Croce occultamente amai.

    Ed il maggior mio gaudio era allorquando
      In una chiesa io stava, i dì beati
      Di mia credente infanzia rammentando:

    Que' dì pieni di fede, in che insegnati
      Dal caro mi venian labbro materno
      I portenti onde al ciel siamo appellati!

    Di nuovo fean di me poscia governo
      La incostanza, gli esempi, ed il timore
      Dell'altrui vile e tracotante scherno;

    E l'ira tua mertai per tanto errore:
      Ma gl'indelebili anni che passaro
      Ritesser non m'è dato, o mio Signore!

    Presentarti non posso altro riparo
      Che duolo e preci e fè nel divo sangue,
      Di cui non fosti sulla terra avaro

    Per chiunque a' tuoi piè pentito langue.



I PARENTI.

  _Deus enim honoravit patrem in filiis._

                     (ECCLI. c. 3, v. 3.)


    Inno di gratitudine e d'amore
      Al Creator de' nostri cuori amanti,
      Di tutte meraviglie al Creatore!

    Dacchè pel fallo prisco doloranti
      Alla luce veniam, qual dolce aïta
      Nè' genitori è data a' nostri pianti!

    In ogni coppia umana, onde la vita
      D'altri umani si svolge, ecco una diva
      Pe' figliuoletti carità infinita.

    Vedi la vergin titubante e priva
      D'ogni ardimento, simile a cervetta
      Che intorno guata, e de' perigli è schiva.

    Chi nella fievol, timida animetta
      Opra mutazïone inaspettata,
      Quand'è fra il coro delle madri eletta?

    Di progenie d'Adamo al ciel chiamata,
      Grave è il sen della dianzi paventosa,
      E il pondo regge da dolor cruciata.

    Ed il porta con forza generosa!
      E dopo un figlio compro a tanto prezzo
      D'orrende angosce, altri portar pur osa!

    Oh di strazii mirabile disprezzo
      In creatura sì gentil, che solo
      Parea nata de' fiori al molle olezzo,

    Onde bëasse a lei d'intorno il suolo
      E le dolci aure col suo bel sorriso,
      E morisse alla prima ombra di duolo

    Per destarsi felice in Paradiso!

           *       *       *       *       *

    Vedi la donna col suo piccol nato,
      Che suggendole il seno a lei sorride
      Sebben abbiale tanto egli costato,
      La madre da lui mai non si divide.
      Insazïata il guarda, insazïato
      È il provveder ch'ei non s'affanni e gride:
      Animo lieto o da timore oppresso
      Nella veglia o nel sonno ha ognor per esso.

    Lo sposo benchè a lei caro cotanto,
      È più caro perch'ei pur ride al figlio;
      Sovente, favellando a lei d'accanto,
      S'avvede ch'ella e core e mente e ciglio
      Tien sovra il pargol con sì forte incanto,
      Che non ha udito il marital consiglio:
      Allora ei tace e mira, e con dolcezza
      Il lattante e la madre egli accarezza.

    Oh tristo il giorno, oh trista l'ora, quando
      Giace nella sua cuna egro il bambino,
      E la giovine madre sospirando
      Ad ogn'istante riede a lui vicino,
      E invan teneri detti prodigando
      Tien sulle amate labbra il petto chino,
      Ma l'offerta mammella ei bacia appena,
      E non la sugge, ed a vagir si sfrena!

    Oh con qual lutto miserando allora
      La spaventata si rivolge a Dio!
      Oh come al dubbio che il figliuol le mora
      Trema se in lei fu reo qualche desìo,
      E perdono dimanda, e s'infervora,
      Promettendo al Signor viver più pio!
      I soli Angioli ponno anzi all'Eterno
      Sì ardente prego alzar, qual è il materno.

    Giorno di liete voci, ora felice,
      Quando seman del pargolo i vagiti!
      Quand'ei cerca la dolce genitrice
      Con isguardi dal riso ingentiliti!
      Quand'ei di novo il caro latte elice,
      E scherzoso riprende i suoi garriti!
      Tai porge allor la madre inni d'amore,
      Quai mandar può de' Serafini il core!

           *       *       *       *       *

      Ov'alti rischi fervono,
        Vieppiù la madre ardita
        Pel frutto di sue viscere
        Pronta è a donar la vita.

      Ella, se fera scoppïa
        Divoratrice vampa,
        Verso la cuna avventasi,
        E il pargoletto scampa.

      Se il picciol piede illusero
        Di cupo rio le sponde,
        La madre piomba rapida,
        E il tragge, o muor nell'onde.

      Ella, se il figlio palpita
        Tra infetto aere tremendo,
        Tenta i suoi dì redimere,
        Le piaghe a lui lambendo.

      Se patria e tetto invadono
        Empie, omicide squadre,
        Stringe i suoi figli, e impavida
        Pugna per lor la madre.

           *       *       *       *       *

    Tal è la nobil donna ingigantita
      Dalla materna celestial possanza,
      Che a tutte generose opre la invita.

    Ma un sacrifizio v'è che ogni altro avanza,
      Ed è in lei quell'assidua ed operosa
      Sulla cara progenie vigilanza.

    Alma di buona madre più non posa
      Finchè non ha ne' figli suoi destata
      Di virtù la favilla glorïosa.

    Nè puote alma di figlio esser pacata
      Fra inique gioie, se ha una madre anco
      Che i vestigi di lui tremando guata,

    E occultamente prega, e s'addolora.

           *       *       *       *       *

      Negli anni primieri
        Del forte maschietto,
        V'è mente selvaggia,
        V'è indocile affetto;
        Par ch'indi s'annunci
        Futur masnadier.
          La picciola belva
        Se alcun la minaccia,
        Vieppiù baldanzosa
        Innalza la faccia;
        Di colpi, di rischi
        Non prende pensier.

      Qual è quello sguardo,
        Qual è quella voce
        Che frena l'audacia
        Del picciol feroce,
        Incanto sì dolce
        La donna sol ha.
          Ed ella ripete,
        Ripete l'incanto,
        Frammesce sorriso,
        Disdegno, compianto,
        E amore gl'infonde,
        Gl'infonde pietà.

      Non bada la saggia
        Se petti inumani
        Diran che a domarlo
        Suoi studi son vani;
        In cor d'una madre
        Speranza non muor.
          E quei che parea
        Futur masnadiero,
        S'infiamma del bello,
        S'infiamma del vero,
        Divien della patria
        Gentile decor.
        . . . . . . . .



LE PASSIONI.

  _Gustate et videte quoniam suavis est Dominus._

                                     (PS. 39, 9.)


    Dov'è mia gioventù? Dove i bëati
      Anni d'amor, del Rodano appo l'onde?
      Dove il ritorno a' miei dolci penati,
      E mia stanza alle Insùbri aure gioconde?
      Dove in Milano i glorïosi vati
      Che mi cingean dell'apollinea fronde?
      Dove mia gloria alle applaudite scene?
      E poi dove il decennio infra catene?

    Io di carcere usciva egro, e piangendo
      Il mio buon Federico e gli altri cari,
      Cui dato ancor da quel recinto orrendo
      Rieder non era ai desïati lari:
      Poscia esultava, Italia rivedendo,
      Ed alfin temperando i giorni amari
      Fra gli amplessi de' mei sacri canuti,
      Per me sì lungamente in duol vissuti.

    E omai da un lustro tutto ciò trascorse!
      E nuovi plausi a me la patria diede,
      E di nuovi Aristarchi ira mi morse,
      E di nuovi propizi ebbe la fede,
      E nuova infanzia a me d'intorno sorse,
      E di morte vid'io novelle prede,
      E «Vana cosa è questo mondo!» esclamo,
      E separarmen voglio--ed ancor l'amo!

    L'amo perch'alme vi trovai fraterne,
      Che all'alma mia s'avvinser dolcemente,
      E diviser mie gioie, e nell'alterne
      Pene collacrimàr sinceramente:
      E v'ha tali amistà che fièno eterne,
      Benchè tessute in questa ombra fuggente,
      Benchè tessute ov'ogni nobil core
      S'apre appena a virtù, lampeggia e muore.

    Degg'io, poss'io da tutte cose amate
      Divellere una volta il mio pensiero?
      Io, le cui sorti furono esaltate
      Da tanto lutto e tanto gaudio vero!
      Io, le cui rimembranze innamorate
      Han su mia fantasia cotanto impero!
      Io, cui balzar fa sin talora il petto
      Vista di leve, inanimato oggetto!

    Reduce a lidi miei, dopo che giacqui
      Sepolto vivo per sì cupe notti,
      Agli affetti più teneri compiacqui
      Che la sventura non avea interrotti;
      Nè agli estinti carissimi pur tacqui
      Culto di preci e di sospir dirotti;
      Indi a rivisitar presi le antiche
      Pagine ch'ebbi a dolce veglia amiche.

    E sovente su libri polverosi
      La man vo riponendo tremebonda,
      Ed apro, e parmi a' giorni studïosi
      Tornar di giovinezza, e il pianto gronda!
      E trovo i segni che ne' libri io posi,
      Ove con mente mi fermai profonda,
      Ove ad alti pensier d'amato autore
      Commento fei di verità o d'errore.

    Pur con sensi diversi or vi rimiro;
      O libri tanto amati a' dì primieri:
      Vate son io, ma spento è in me il desiro
      Di prostrarmi idolatra anzi agli Omeri.
      Se volgendo lor carte ancor sospiro,
      Magia non è de' grandi lor pensieri:
      Più d'un libro m'è caro, e pure in esso
      Di rado cerco lui; cerco me stesso.

    E non sol me vi cerco: alla memoria
      Del me passato aggiugnesi indivisa
      Di palpiti d'amor söave istoria,
      Quando un'egregia m'infiammava in guisa,
      Ch'io per lei sola ambìa pietate e gloria,
      Ch'io sempre in lei tenea l'anima fisa,
      Che d'un sorriso suo per farmi degno,
      Sempre agognava ingentilir lo ingegno!

    E se pio talor fui, pregio egli è stato
      Di quella generosa animatrice:
      Era ad essa straniero il forsennato
      Foco d'amor che mi rendea infelice;
      Ma compatìa mie pene, ed elevato
      Volea il mio spirto, e lo volea felice,
      Ed allor che più insano io le parea,
      S'affannava, e garrivami, e piangea.

    Quella donna, onde il bel, nobile viso
      Polvere è da molt'anni, e l'alma in Dio,
      Non disamai, benchè da lei diviso,
      E onorerolla tutto il viver mio:
      Ma nuovi poscia affetti han me conquiso,
      E quel primiero ardor s'intiepidìo:
      Quel ch'era in me un incendio, è una favilla
      Che come lampa ad un sepolcro brilla.

    Senza obblïar la già cotanto amata,
      Altra ammirai ch'or dispartita è anch'essa;
      E in me virtù credendo io sublimata
      Per averla a sì bello angiol commessa,
      L'anima mia da orgoglio inebbrïata
      Vana si fea di lungo ben promessa:
      Giorni d'alto dolor mi mosser guerra,
      E a lei pur venni tolto, ed è sotterra!

    Sete d'amor, sete di studi, e sete
      D'innalzar sopra il volgo il nome mio,
      Gran tempo mi rapìan sonno e quiete,
      Nè scerno se ammendato oggi son io:
      Tu che del cor le latebre secrete
      Solo ravvisi e mondar puoi, gran Dio,
      Pietà di me che tanto sempre amai,
      E sino a te l'amor non sollevai!

    Tante cose sfumarono al mio sguardo,
      E tutto giorno sfumar altre io miro!
      Valga d'esperïenza il raggio tardo,
      In che sforzatamente oggi m'aggiro,
      Ad oprar alfin sì che più gagliardo
      A tua bellezza s'erga il mio desiro,
      E nulla tanto da' mortali io brami,
      Quanto ch'ognun tuoi pregi scorga ed ami!

    La legge tua non è d'irto rigore,
      Sol le idolatre passïoni abborri:
      Lunge che a te dispaccia amante cuore,
      Ad un cuor fatto gel più non accorri.
      Tu vuoi che a' miei fratelli io con ardore
      Così soccorra, come a me soccorri:
      Tu vuoi che in forte guisa il bello io senta,
      Tu vuoi che al giusto il plauso mio consenta.

    Tu doni a' figli tuoi mente e parola,
      Non perchè il dono tuo venga sepolto;
      Tu non imprechi investigante scuola
      Su non vietato ver fra l'ombre avvolto:
      In odio a te l'indagin empia è sola
      Che contra il cenno tuo l'ardire ha volto:
      Tu gl'ignari del mal chiami felici,
      Ma il veggente non reo pur benedici.

    Tu che sei tutto amor, la sacra stampa
      Della natura tua nell'uomo imprimi:
      Gagliardo sprone e inestinguibil lampa
      Tu sei di tutti aneliti sublimi.
      Tu godi quindi se il mio spirto avvampa
      Per que' tuoi fidi che in virtù son primi:
      Tu godi se fra lor taluni eleggo,
      E nel lor santo oprar meglio ti veggo.

    A me tu dato hai queste fiamme ardenti,
      Con cui desìo de' petti amici il bene,
      E con cui studïando i tuoi portenti
      Traggo esultanza, e di capirti ho spene:
      Così caldo sentir più non diventi
      Esca giammai di vanità terrene:
      Mie passïoni in guisa tal governa,
      Che lode sièno a tua saggezza eterna.

    Sempre le temo, e sempre sento ancora
      Che in amar altre cose io troppo m'amo:
      Cieca errò mia bollente alma sinora,
      E presa fu di sua superbia all'amo.
      Distruggi il suo sentire, o lei migliora;
      O vil torpore, od amor santo io bramo;
      Ah no, non vil torpor, dammi amor santo,
      Tu che le tue fatture ami cotanto!



SALUZZO.

  _Et sit splendor Domini Dei nostri super nos._

                                   (PS. 89, 17.)


    Oh di Saluzzo antiche, amate mura!
      Oh città, dove a riso apersi io prima
      Il coro e a lutto e a speme ed a paura!

    Oh dolci colli! Oh maëstosa cima
      Del monte Viso, cui da lunge ammira
      La subalpina, immensa valle opima!

    Oh come nuovamente or su te gira
      Lieti sguardi, Saluzzo, il ciglio mio,
      E sacri affetti l'aër tuo m'ispira!

    Nelle sembianze del terren natìo
      V'è un potere indicibil che raccende
      Ogni ricordo, ogni desir più pio.

    So che spiagge, quai siansi, inclite rende
      Più d'un merto soave a chi vi nacque,
      E bella è patria pur fra balze orrende;

    Ma nessuna di grazia armonìa tacque,
      O Saluzzo, in tue rocce e in tue colline,
      E ne' tuoi campi e in tue purissim'acque.

    Ogni spirto gentil che peregrine
      A piè di queste nostre Alpi si sente
      Letizïar da fantasie divine.

    Sovra il tuo Carlo, e il dotto suo parente[3],
      Che pii vergaron le memorie avite,
      Spanda grazia immortal l'Onnipossente!

    Dolce è saper che di non pigre vite
      Progenie siamo, e qui tenzone e regno
      Fu d'alme da amor patrio ingentilite.

    Più d'un estero suol di canti degno
      Porse a mie luci attonite dolcezza,
      E alti pensieri mi parlò all'ingegno:

    Ma tu mi parli al cor con tenerezza,
      Qual madre che portommi in fra sue braccia
      E sul cui sen dormito ho in fanciullezza.

    Ben è ver che stampata ho breve traccia
      Teco, o Saluzzo, e il dì ch'io ti lasciai
      A noi già lontanissimo s'affaccia.

    Pargoletto ancor m'era, e mi strappai
      Non senza ambascia da tue dolci sponde,
      E, diviso da te, più t'apprezzai.

    Perocchè più la lontananza asconde
      D'amata cosa i men leggiadri aspetti,
      E più forte magìa sul bello infonde.

    Felice terra a me parea d'eletti
      La terra di mio Padre, e mi parea
      Altrove meno amanti essere i petti.

    E mi sovvien ch'io mai non m'assidea
      Sui ginocchi paterni così pago,
      Come quando tuoi vanti ei mi dicea.

    In me ingrandiasi ogni tua bella imago;
      Del nome saluzzese io insuperbiva;
      Di portarlo con laude io crescea vago.

    E degl'illustri ingegni tuoi gioiva,
      E numerarli mi piacea, pensando
      Che in me d'onor tu non andresti priva.

    Vennemi quel pensiero accompagnando
      Oltre i giorni infantili, allor che trassi
      Al di là delle care Alpi angosciando.

    Nè t'obblïai, Saluzzo, allor che i passi
      All'Itale contrade io riportava,
      Benchè in tue mura il capo io non posassi.

    Chè il bacio de' parenti m'aspettava
      Nella città ch'è in Lombardia regina,
      E colà con anelito io volava.

    E colà vissi, e colsi la divina
      Fronde al suon di quel plauso generoso,
      Che premia, e inebbria, e suscita, e strascina.

    Oh Saluzzo! al mio giubilo orgoglioso
      Pe' coronati miei tragici versi,
      Tua memoria aggiungea gaudio nascoso.

    Oh quante volte allor che in me conversi
      Fulser gli occhi indulgenti del Lombardo,
      E spirti egregi ad onorarmi fersi,

    Ridissi a me con palpito gagliardo
      La saluzzese cuna, e mi ridissi
      Che grata a me rivolto avresti il guardo!

    E poi che in ogni Itala riva udissi
      Mentovar la mia scena innamorata,
      Ed ai mesti Aristarchi io sopravvissi,

    L'aura vana, che fama era nomata,
      Pareami gran tesor, ma vieppiù bello
      Perchè a te gioia ne sarìa tornata.

    Mie mille ardenti vanità un flagello
      Orribile di Dio ratto deluse,
      E negra carcer mi divenne ostello.

    Non più sorriso d'immortali Muse!
      Non più suono di plausi! e tutte vie
      A crescente rinomo indi precluse!

    Ma conforti reconditi alle mie
      Tristezze pur il Ciel mescolar volle,
      E il cor balzommi a rimembranze pie.

    Del captivo l'afflitta alma s'estolle
      A vita di pensier, che in qualche guisa
      Il compensa di quanto uomo gli tolle.

    E quella vita di pensier, divisa
      Fra le non molte più dilette cose,
      Ora è tormento ed ora imparadisa.

    Io fra tai mura tetre e dolorose
      Pregava, e amava, e sentìa desto il raggio
      Del poëtar, che il cielo entro me pose.

    Miei carmi erano amor, prece e coraggio;
      E fra le brame ch'esprimeano, v'era
      Ch'essi alla cuna mia fossero omaggio.

    Io alla rozza, ma buona alma straniera
      Del carcerier pingea miei patrii monti,
      E allor sua faccia apparìa men severa.

    E m'esultava il sen, quando con pronti
      Impeti d'amistà quel torvo sgherro
      Commosso si mostrava a' miei racconti.

    Pace allo spirto suo, che in mezzo al ferro
      Umanità serbava! A lui di certo
      Debbo s'io vivo, e a' lidi miei m'atterro.

    Morto o insanito io fora in quel deserto,
      Se confortato non m'avesse un core
      Nato di donna, e a caritade aperto.

    Scevra quasi or mia vita è di dolore,
      Ad Italia renduto e a' natii poggi,
      Ov'alte m'attendean prove d'amore.

    Benedetti color, che dolci appoggi
      Mi fur nell'infortunio, e benedetti
      Color, che mia letizia addoppian oggi!

    E benedetta l'ora in che sedetti,
      Saluzzo mia, di novo entro tue sale,
      E strinsi a me concittadini petti!

    Non vana mai su te protenda l'ale
      Quell'Angiol, cui tuo scampo Iddio commise,
      Sì che nobil sia cosa in te il mortale!

    L'alme de' figli tuoi non sien divise
      Da fraterna discordia, e mai le pene
      Dell'infelice qui non sien derise!

    Le città circondanti ergan serene
      Lor pupille su te, siccome a suora
      Ch'orme incolpate a lor dinanzi tiene.

    E le lontane madri amin che nuora
      Vergin ne venga di Saluzzo, e questa
      Abbia figliuola reverente ognora;

    E la straniera vergin, che fu chiesta
      Da garzon saluzzese, in cor sorrida
      Come a lampo di grazia manifesta!

    Pera ogni spirto vil, se in te s'annida!
      Vi regni indol pietosa ed elegante,
      E magnanimo ardire, e amistà fida!

    Mai non cessino in te fantasìe sante,
      Che in dottrina gareggino, e sien luce
      A chi del bello, a chi del vero è amante;

    E del saver tra' figli tuoi sia duce
      Non maligna arroganza, invereconda;
      Ma quella fè che ad ogni bene induce;

    Quella fede che agli uomini feconda
      Le mentali potenze, a lor dicendo,
      Ch'uom non solo è dappiù di belva immonda,

    Ma può farsi divin, virtù seguendo!
      Ma dee farsi divino, o di viltate
      L'involve eterno sentimento orrendo!

    Tai son le preci che per te innalzate
      Da me son oggi, e sempre, o suol nativo:
      Breve soggiorno or fo in tue mura amate,

    Ma, dovunque io m'aggiri, appo te vivo!


[Nota 3: Carlo Muletti e Delfino suo padre, storici di Saluzzo.--Io
m'onoro dell'amicizia di Carlo, e parimente di quella del maggiore
Felice, suo fratello.]



LA BENEFICENZA.

  _Esurivi enim, et dedistis mihi manducare._

                            (MATTH. 26, 35. )


    Mentre tanti di nome e d'or potenti
      Volgono a vanitate e nome ed oro,
      Nè a taluni più bastano i contenti
      Che sulla terra Iddio concede loro,
      Mentre a meglio goder cercan furenti
      La propria gioia nell'altrui disdoro,
      Simili a falsi Dei d'età lontane
      Che a' lor piedi volean vittime umane;

      E mentre mirando
        Que' ricchi malvagi
        Il volgo fremente
        Che invidia lor agi,
        Esagera, infuria,
        Invoca dal Ciel
        Su tutti i felici
        Sanguigno flagel;

    Que' flagelli rattiene il ricco pio
      Che riparar gli altrui misfatti agogna,
      E oprando assai per gli uomini e per Dio,
      Anco d'essere inutil si rampogna:
      Degl'innocenti aiuta il buon desìo,
      Gli erranti tragge a salutar vergogna;
      Onora l'arti ed anima l'artiero,
      E chiamar vorrìa tutti al bello, al vero.

      Il volgo commosso
        Ripensa, si calma,
        Capisce che il ricco
        Può aver nobil alma;
        Insegna a' suoi figli,
        Che pace e lavor
        Del povero sono
        Salute e decor.

    Salve, o di carità sacra fiammella
      Che accendi il cor del pio dovizioso!
      Se a noi mortali fulgi or così bella,
      Qual fulgi tu dell'anime allo Sposo?
      A lui che, tutte mentre a sè le appella,
      Le appella a mutuo affetto generoso!
      A lui che quando cinse umano velo,
      Ci palesò che tutto amore è il Cielo!

      Amore santifica
        Tesori e palagi,
        Amore santifica
        Tuguri e disagi;
        Amor sulla terra
        Può tutto abbellir,
        L'impero, il servire,
        La vita, il morir.

    Amato molto, amato sia il Signore
      Ch'è modello de' ricchi impietositi!
      Amato molto, amato sia il Signore,
      Modello ai cuori da sventura attriti!
      Amato molto, amato sia il Signore
      Che noi vuol tutti alla sua mensa uniti!
      Amato molto, amato sia il Signore
      Che per l'anime umane arde d'amore!

      Oscuro o potente,
        Di Dio tu sei figlio,
        Fratello degli Angioli,
        Ancor che in esiglio!
        Gran fallo ci avvolse
        Nel fango e nel duol:
        Amiam! ci fia reso
        Degli Angioli il vol!



LE SALE DI RICOVERO.

  _Qui susceperit unum parvulum talem in nomine meo, me suscipit._

                                             (MATTH. 18, 5.)


    «Son pargoletto e povero e ammalato;
      Abbi pietà di me, Gesù bambino,
      Tu che sei Dio, ma in povertà sei nato!

    Me qui lascia la mamma ogni mattino
      Nel solingo tugurio, ed esce mesta
      Il nostro a procacciar vitto meschino.

    Ancella move a quella casa e questa,
      Ed acqua attinge e lava e assai si stanca,
      E vive appena, ed indigente resta.

    Qui soletto io mi volgo a destra, a manca,
      Senza dolcezza di parole amate,
      E fame ho spesse volte, e il pan mi manca.

    Le melanconich'ore prolungate
      M'empion l'alma di pianto e di paure,
      E mi sfogo in ismanie sconsolate.

    Amor la madre assai mi porta, e pure
      Quando al tugurio torna e pianger m'ode,
      Spesso le voci sue prorompon dure;

    Talor mi batte, e duolo indi mi rode,
      Sì che allor quasi affetto io più non sento,
      E in maligni pensieri il cor mi gode.

    Povera madre! il viver nello stento
      Estingue nel suo spirto ogni sorriso,
      Ed anch'io più cruccioso ognor divento.

    Gesù, prendimi teco in Paradiso,
      O tempra la tristezza che m'irrita,
      E rasserena di mia madre il viso:

    Fa ch'ella trovi ad allevarmi aïta,
      Fa che deserto io non mi strugga tanto
      Fa che un po' d'allegrezza orni mia vita.

    Se ad altri bimbi io respirassi accanto,
      E non sempre gemessi, e qualche mano
      Söavemente m'asciugasse il pianto,

    Crescerei più benevolo e più sano
      E più caro a la madre io mi vedrìa:
      Lassa! altrimenti ella fu madre invano!

    Ella al mio fianco in pace invecchierìa,
      E per essa con gioia adoprerei
      A laudevol sudor mia vigorìa.

    Le poche forze ai patimenti rei
      Soggiaceranno in breve, e, fuorchè pena,
      Nulla i miei giorni avran fruttato a lei.

    Ovver, se presto a morte non mi mena
      Tanta miseria, crescerò doglioso,
      Me coll'afflitta madre amando appena.

    Ed ella pur mi dice che odïoso
      Il povero alla terra e al ciel rimane,
      Quando alle brame sue non dà riposo,

    Quando coll'ira in cor mangia il suo pane.»

      Ed ecco del bimbo
        La mamma ritorna:
        È stanca, ma un raggio
        Di gioia l'adorna;
        S'asside a lui presso,
        Lo stringe al suo sen,
          «Oh quanto sinora
        Mi dolse, o figliuolo,
        Lasciarti ogni giorno
        Sì tristo, sì solo!
        T'allegra: celeste
        Soccorso a noi vien.

      «Nell'ore ch'ai figli
        Non ponno dar cura
        Le madri, cui preme
        Fatica e sventura,
        Da provvide menti
        Ricovro s'aprì.
          Alquanto risana,
        E là tu verrai:
        Son piene due sale
        Di pargoli omai:
        Giocando, imparando,
        Vi passano il dì.

      «Al santo pensiero
        Che aprì quel ricetto,
        Ministre si fanno
        Con tenero affetto
        Più vergini umìli,
        Sacrate al Signor:
          Null'altro che amarti,
        Il sai, potev'io,
        Ma quelle söavi
        Ancelle di Dio
        Più dolce, più giusto
        Faranno il tuo cor.

      «Io, conscia che al figlio
        Non manca un'aïta,
        Trarrò senza pianto
        Mia povera vita,
        L'usato lavoro
        Stimando leggèr.
          Al tetto materno
        Verrai verso sera,
        E sempre alzeremo
        Concorde preghiera
        Per l'alme pietose
        Che asilo ti dier.»

    Quel fanciulletto già infermiccio e tristo,
      Indi a non molto, in sì benigna scuola,
      Rosee le guance e lieti i rai fu visto.

    Oh d'amorose labbra la parola
      Quanto a' cuori avviliti, e più a' bambini,
      Addolcisce le doglie e li consola!

    D'entrambo i sessi i pargoli tapini
      Ivi sottratti vanno a rio squallore,
      Ed a costumi stolidi e ferini.

    Che invan vorria la madre o il genitore
      Occhio assiduo tener sui cari pegni,
      Qua e là faticando per lungh'ore.

    Abbandonati a sè, crescere indegni
      Veggionsi quindi d'assai plebe i figli,
      Egre le membra ed egri più gl'ingegni.

    Per cadute e per cento altri perigli
      Vedi qual di storpiati e di languenti
      Esce turba da' poveri covigli!

    Quanti avrian le persone alte e ridenti
      Ch'essi strascinan luride e contorte,
      Perchè guaste d'infanzia agli elementi!

    Oh benedetti voi che sulla sorte
      Della schiatta plebea v'intenerite,
      E pensate a scemarle e vizi e morte!

    In voi sì belle le grandezze avite
      Non son, quant'è il magnanimo disìo,
      Onde a tanti innocenti asilo aprite.

    Memori siete di quell'Uomo-Iddio
      Che, cinto da drappel di bambinelli,
      Li confortava col suo sguardo pio,

    Ed imponea d'assomigliare a quelli.

      E voi benedette,
        Donzelle pietose,
        Che al Dio de' bambini
        Facendovi spose,
        Di madri assumete
        Le pene e l'amor.
          Per voi dalla terra
        Piacer non alligna:
        Fors'anco taluno
        Vi guarda e sogghigna,
        Vi chiama delire
        Da stolto fervor.

      Ma voi non curanti
        Di plauso o di scherno,
        I poveri amando
        Amate l'Eterno,
        Ai bimbi servendo
        Servite a Gesù.
          Il mondo che ignora
        Del core i misteri,
        Non sa che più dolce
        Di tutti i piaceri
        È l'umil conflitto
        D'arcana virtù.

      La vergine sacra
        Al Dio degl'infanti
        Sublima sue pene
        Con palpiti santi;
        È abbietta ai mortali,
        Ma l'anima ha in ciel.
          Con Dio nella mente
        Le cure più gravi,
        Le cure più vili
        Diventan söavi:
        Bassezza non tange
        Un'alma fedel.

      La vergine sacra
        Al Dio de' bambini
        Vagheggia in Maria
        Affetti divini,
        Le impronte cercando
        Di lei seguitar.
          Non volgono ai bimbi
        Tirannico ciglio
        Color, che mirando
        Maria col suo Figlio,
        Li veggon dal cielo
        Sui bimbi vegliar.

      Ah! sì, benedette
        Voi tutte, o bell'alme,
        Che ai miseri infanti
        Porgete le palme,
        Di padri e di madri
        Vestendo l'amor!
          Pensier non vi preme
        Di plauso o di scherno:
        I poveri amando
        Amate l'Eterno:
        Ai bimbi servendo
        Servite al Signor.


FINE.



INDICE.


AL LETTORE                                       1
FRANCESCA DA RIMINI                         Pag. 1
ROSILDE                                         79
ADELLO                                         115
EBELINO                                        169
ILDEGARDE                                      213
AROLDO E CLARA                                 251
POESIE LIRICHE                                 277


FINE DELL'INDICE.





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