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Title: Mentana e il dito di Dio - Episodi narrati dal superstite Ettore Pozzi - Seconda - edizione, con importanti aggiunte fatte dall'Autore
Author: Pozzi, Ernesto, 1843-
Language: Italian
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*** Start of this LibraryBlog Digital Book "Mentana e il dito di Dio - Episodi narrati dal superstite Ettore Pozzi - Seconda - edizione, con importanti aggiunte fatte dall'Autore" ***


(This file was produced from images generously made
available by Biblioteca Nazionale Braidense - Milano)



                       MENTANA E IL DITO DI DIO

                              EPISODII.


                        [Ritratto dell'Autore]


                       MENTANA E IL DITO DI DIO

                               EPISODII

                        narrati dal Superstite

                            ERNESTO POZZI

                                 CON

       illustrazioni di DE-ALBERTIS e prefazione di F. GIARELLI

                           SECONDA EDIZIONE

              _con importanti aggiunte fatte dall'autore_
                     _e col ritratto del medesimo_

                                MILANO

                       ULISSE LOMBARDI, EDITORE

                                1889.



              PROPRIETÀ LETTERARIA E ARTISTICA RISERVATA

        Milano, Tipografia degli Operai (Società cooperativa).



Limpido raggio sulla bassa marea de' tempi che volgono, ricompare
_Mentana_, di Ernesto Pozzi.

Il libro è piccolo di mole, ma grande per le memorie che suscita,
per le simpatie che inspira, pei ricordi che evoca. Alla narrazione
appassionata di Ernesto Pozzi, l'arte ha voluto aggiungere, colla
patriottica matita di Sebastiano De Albertis, l'Orazio Vernet della
nuova Italia, una nota calda e generosa. La penna, il pennello e la
spada si sono stretti in un abbraccio ineffabile. Il volontario di
Milazzo, di Mentana e di Digione ha scritto. Il soldato delle Cinque
Giornate, della campagna 1848, di Varese, S. Fermo, 1859, e di
Bezzecca nel 1866, ha disegnato. Due generazioni si sono alleate
per questo volumetto, che a noi, sul tramonto, rammenta un'ora
entusiastica della giovinezza perduta, e che ai venturi, pei quali la
storia d'Italia sarà un culto, insegnerà quanta virtù di cuore e di
braccio animò e condusse i maggiori alle battaglie di popolo.

Bisogna risalire a quei dì. I «calcoli» di Napoleone III davan legge
all'Europa. Il mondo politico si curvava tremante ed adorante innanzi
all'uretra imperiale. Il bollettino del sommo clinico Nelaton, medico
dell'imperatore, regolava il corso delle faccende di quaggiù.

Ma Garibaldi non era un uomo di quaggiù. Bello e sublime arcangelo
della rivoluzione, il soldato dei Due Mondi, aveva, nel deserto delle
speranze d'Italia asservita al secondo impero, elevato il grido di
_Roma o morte!_ E tutto un popolo dietro lui si mise: e dalla gioventù
universitaria, dalle officine, dai campi, dal commercio, dalle schiere
volontarie del 1860 e del 1866 proruppe, eco formidabile, il
plebiscito degli italiani, che gli si stringevano intorno, anelanti a
consacrare nella eterna Roma il nuovo patto della patria una e
redenta.


Invano la diplomazia tentò sbarrare la via alla crociata garibaldina.
Invano il Governo, esitante, incerto, pauroso, s'argomentò di frenare
tanto impeto. Invano Rattazzi, sulle prime trascinato nel movimento,
procurò poi resistere, sicchè, travolto da quella audacia portentosa,
dovette ritirarsi. Invano la reazione, capitanata dal nuovo ministero
Menabrea, ubbidì al cenno delle Tuileries con dichiarare fuori della
legge i combattenti nell'Agro romano. Invano allo _jamais_ di Rouher
rispose la fratricida frase di Failly: «_les chassepôts ont fait
merveilles_». Invano l'augusta parola dell'eletto dai plebisciti fu
provocata dalla reazione per demolire l'impresa. Invano
l'ultra-montanismo francese mandò i battaglioni di Magenta e di
Solferino a rinforzare i reggimenti pontificii. Invano stettero mille
contro dieci. Invano, deserti d'ogni ausilio, i volontarii furono
schiacciati e costretti a rifare in ritirata la strada maledetta di
Passo Corese.

L'affermazione del diritto nazionale non è soppressa dalle catastrofi.
La coscienza d'un popolo non è menomata dalle disfatte. Succede per
essa ciò che successe al mitologico Anteo, soffocato dalle braccia di
Ercole. Toccando il suolo riprende virtù e gagliardìa rinnovate.

Così fu, così è di Montana. Quel sacrificio ritemprò le fibre
rilassate. Quel sangue fece rigermogliare il simbolico albero della
speranza. Quell'olocausto--disse Giuseppe Ferrari--fu una necessità
storica. Ma una necessità feconda. Infatti il cannone che nel 1870
aprì la breccia fra Porta Salara e Porta Pia, era stato tre anni prima
caricato sui tragici colli dell'antica Nomento dalla mano dei martiri
nostri.


Oggi, qui, di Mentana ci riparla il volontario di quel dì: Ernesto
Pozzi: nome caro alla giovane democrazia dei tempi nostri, quando
c'erano ancora dei giovani pel quali la fede nella nuova Italia era
segnacolo in vessillo. Il buono e bravo Ernesto Pozzi, oggi avvocato
grigio e posato, ma allora florido, fresco, instancabile,
insurrezionale perpetuo dell'università; e che col suo fare da
inspirato e la sua testa fatale, tra l'una e l'altra lezione di
diritto, se ne andava col bastoncino fra mani ed un eterno flore nel
nastrino del cappello ad inscriversi fra i partenti, appena odor
lontano di polvere garibaldina sentivasi per l'aria.


Ernesto Pozzi è tutto quel che di più brianzuolo ci sia e ci tenga ad
esserlo. Nato ad Acquate il 9 luglio 1843--il paesello del
favoleggiato _Don Abbondio_ negli ammirabili _Promessi Sposi_--era
spiegabile che i suoi volessero farne fuori un successore al
tremebondo curato manzoniano. Però fra le mura del seminario di S.
Pietro in Barlassina il piccolo Ernesto non trovò la vocazione pel
santuario; sicchè, compiutivi i primi studii, spogliò la veste talare
e le brache corte, ed il liceo Beccaria di Milano ebbelo fra i suoi
più vivaci e più svegliati scolari. Ma nel 1860 c'era ben altro da
fare che studiare filosofia. Ed Ernesto mise sotto chiave i sillogismi
e se ne andò in Sicilia colla seconda spedizione, che ebbe nome dal
generale Medici. L'età immatura avevalo fatto respingere dai ruoli dei
Mille. Ritornato, dopo la campagna, riprese gli studî interrotti, e
nomade cultor delle Pandette, seguì i corsi legali a Torino, a Genova,
a Pisa, dove si laureò. Su pei greppi del Trentino, nel 1866, a
Mentana nel 1867--imperando il reazionario gabinetto Menabrea--fu, per
le sue idee politiche molto accese, messo, con altri patrioti,
all'ombra, nelle carceri genovesi. Ne uscì, dopo un'ordinanza di non
luogo a procedere, tre mesi appresso: e più tardi, le peripezie di
quel processo e di quella prigionia, egli descrisse nella sua: _Estate
in Sant'Andrea_. Nell'ottobre del 1870 partecipò alla campagna di
Francia come capitano; e dopo la battaglia di Pranthoy fu promosso al
grado di capo squadrone di stato maggiore.

Ora Ernesto Pozzi vive a Lecco. Da undici anni è consigliere
provinciale a Como; nelle elezioni politiche fu quattro volte
candidato radicale con migliaia di voti nel suo collegio; e se non lo
si elesse, si fu pei suoi principî schiettamente repubblicani.

Ecco le principali sue pubblicazioni: _Storia e letteratura_, con
altri scritti; _I martiri del 1866 e il maggiore Lombardi_; _Una corsa
per l'Europa_; _La contessa e il banchiere_; _Un'estate in
Sant'Andrea_; _Biografie e paesaggi_; _La libertà combattuta_;
_Scaramuccie_; _Mentana e il dito di Dio_, ecc., ecc.

Su queste opere del ferace ingegno di Ernesto Pozzi, la
_Bio-Bibliografia generale italiana_ del prof. Paolo Zincada,
pubblicata l'anno scorso, raccoglie alcuni giudizi della critica. Per
esempio: la _Storia e letteratura_ fu da Giulio Uberti, il poeta
civile, giudicata con somma lode; sulla _Contessa e il banchiere_ e
sull'_Estate in Sant'Andrea_, Francesco Domenico Guerrazzi scrisse
all'autore lettere lusinghiere, e le _Biografie e paesaggi_ e la
_Corsa per l'Europa_ riscossero gli elogi di Luigi Settembrini. La
_Libertà combattuta_ ebbe la fortuna di quattro edizioni, e alle
_Scaramuccie_ stese la prefazione Filippo Turati.

Inoltre Antonio Ghislanzoni, il solitario di Caprino Bergamasco, nel
terzo volume de' suoi bellissimi _Capricci_--dedicato al
Pozzi--riproduce, rettifica e completa il cenno biografico del
_Dizionario contemporaneo_ di A. De Gubernatis. E senza parlare dello
splendido epistolario di scrittori e di patrioti illustri, gelosamente
custodito da Ernesto Pozzi, già redattore dell'_Unità Italiana_, in
tempi grossi, quando un tratto di penna democraticamente libera
conduceva dritto dritto nella solitudine del carcere politico.


Ecco chi è l'avvocato Ernesto Pozzi, che dà qui alle stampe la seconda
edizione del suo _Mentana_. Edizione aumentata e corretta, e per la
quale l'antico Goliardo garibaldino afferma un'altra volta la
immutabilità della sua fede e della sua scuola: la prima popolarizzata
dall'indelebile carattere mazziniano: la seconda inspirata alle più
incrollabili convinzioni del bello, forte e gentile classicismo
nostrano.

Leggete, leggete, o giovani, questi appunti scritti fra un colpo e
l'altro di fucile. È roba di casa, roba del nostro tempo ed
italianamente sentita, pensata e scritta. Assorgete, o giovani, con
essa e per essa, agli ideali altissimi della patria e dell'umanità--nè
vi sia grave questo prologo breve che l'amicizia lunga ed antica ha
inspirato, ma che la più patente verità delle cose giustifica e
consacra.

    _Milano, 18 ottobre 1888._

                       F. GIARELLI.



         [Monumento in piazza Mentana a Milano.]



Come stavano le cose.


La breve escursione militare del 1867 nell'Agro romano colle varie
scaramuccie, l'assalto e la presa di un castello, un'ecatombe di eroi
ed una sanguinosa battaglia campale merita posto tra i più belli e
brillanti fatti d'armi dei volontari campioni della Unità d'Italia.

L'attacco contro gli ultimi possessi temporali del papa, ridotti per
gran parte a palude, s'iniziò su parecchi punti per sgomentare il
governo pontificio e sparpagliandone le forze verso i confini rendere
possibile l'insurrezione in Roma, entro la quale, con permanente
pericolo della testa, stavano per inspirarla e poscia capitanarla
Luigi Castellazzo, il poeta di _Tito Vezio_, Francesco Cucchi e
Giuseppe Guerzoni, che con Alberto e Jessie Mario fu poi lo storico dì
Garibaldi.

Questi, _Deus ex machina_, doveva raccogliere il più grosso nerbo di
truppe, accorrere in decisivo aiuto della rivolta e restituire il
cuore alla patria colla grande città di Camillo e di Scipione.

Allora in Italia, omettendo gli austriacanti e i cortigiani o
masnadieri dei principi decaduti, esistevano due partiti: il moderato
e quello d'azione. Il primo come il leone della favola reclamava le
prede e accettava gli utili fatti compiuti colla scusa del proverbio
fiorentino, che cosa fatta capo ha; riveriva come tutore e patrono
Napoleone III che ingannava e tradiva gli Italiani al pari dei
Polacchi, e d'accordo coi neo-guelfi aveva colla cruenta convenzione
del 15 settembre 1864 implicitamente rinunciato alla nostra capitale.

Il partito d'azione o dei frementi, audace e circondato di prestigio
per le splendide glorie e le memorabili sciagure del 1833, del 1844,
del 1848, del 1849, del 1853, del 1857, del 1859, del 1860, del 1862,
del 1864 e del 1866, voleva ad ogni costo l'Italia riacquistata da
valore italiano, detestava il sire usurpatore del Due Dicembre e
contro ogni costui trama e prepotenza imponeva e tentava la
liberazione dei sette colli, da dove soltanto riteneva potersi parlare
all'Italia intiera.

E la lotta dei due partiti non era mica platonica, accademica o di
semplici opinioni tranquillamente manifestate. Napoleone nel 1862
ordinava alla sua flotta nel Mediterraneo di colare a fondo Garibaldi
se lo incontrava in mare; in Parlamento i trentatrè della sinistra
storica con Crispi, Guerrazzi, Brofferio, Cairoli, Bertani, Nicotera,
Macchi pugnavano gladiatoriamente colle valanghe di destra e centro;
Bertani rimaneva impassibile come Ajace a sfida contro ministri e
maggioranza, accusati di violazione del segreto delle lettere, che
spaventosamente gli urlavano in faccia; Garibaldi veniva pigliato a
fucilate, ferito e rinchiuso nel bagno penale del Varignano; si teneva
ferma la condanna di esilio e di morte sul capo di Mazzini o si
tentava troncargli i nervi con corrispondenze ed abboccamenti col re;
perquisizioni, arresti, prigione, sequestri, processi, calunnie erano
le armi dei moderati contro i prodi che nutrivano e riscaldavano il
sentimento italiano.

La vecchia e deperita Italia coi suoi vizi, le sue mollezze, la sua
educazione gesuitica e da confessionale e le sue abbiette tradizioni
di servitù, si dibatteva con tutti gli agevoli istromenti del potere
contro il fuoco, l'entusiasmo e la santa vigorosa ribellione della
giovane Italia. E storia la è codesta e certi fanciulloni, che
s'ammantano di pretesa serenità imparziale perchè codardamente
stettero estranei a quelle lotte, sono degni del limbo e di un
indulgente sorriso di commiserazione.

Il partito rivoluzionario si agitava quale vulcano in eruzione e
distruggeva tutti gli ostacoli come lava che spazza via selve, vigneti
e messi finchè non si trovi al fondo. Società, comitati, comizi,
stampa battagliera, voce alta e senza paura, apparecchi d'armi,
tentativi, insistenza per Roma metropoli erano la sua forza e la sua
organizzazione.

Egli non poteva dimenticare la spedizione d'Oudinot a Roma, la subdola
pace di Villafranca, il mercato di Nizza e Savoja coi sessanta milioni
e i dispari trattati commerciali per giunta, le trame per Murat a
Napoli, e per un principe napoleonico in Toscana, le fregate francesi
allo stretto di Messina nel 1860, la continua prevalenza e le minacce
galliche nei nostri negozi, la _démonstration sanglante_ di Custoza
nel 1866, la cessione di Venezia col marchio infamante di Lebeuf, la
revocata conquista del Trentino e la spavalda occupazione di Roma.
Minghetti e Visconti Venosta, che avevano stipulato la vergognosa
convenzione di rinuncia a Roma, e Ricasoli, che vi mandava Tonello per
trattative col papa al quale si pagavano gli interessi del debito
pontificio, cadevano sotto la pubblica indignazione e la reggia doveva
ricorrere al suo parafulmine affidando il governo a Rattazzi.

I Francesi avevano sgombrato Roma l'11 dicembre 1866 e tosto Comitato
nazionale romano, emigrati romani, Unione liberale italiana e Centro
di insurrezione, governato quest'ultimo dal colonnello Giacinto
Bruzzesi, cominciarono la propaganda per l'acquisto della nuova
Gerusalemme. Garibaldi verso la metà dei febbraio 1867 era piombato
d'improvviso come aquila sul continente e il 22 marzo da S. Fiorano
annunciava al mondo, che era superbo di riprendere il titolo e
l'ufficio di generale romano, e poscia raccomandava l'_Obolo della
Libertà_ in chiara antitesi all'_Obolo di San Pietro_.

Nel giugno si tentava un'invasione nel territorio pontificio dalla
parte di Terni, e nel luglio Garibaldi proclamava: «E chi negherà ai
Romani il diritto di insorgere? Agli Italiani il dovere di aiutarli?
Vi è forse una tirannide più degradante di quella del papato, messo lì
nel core della penisola per impedirle di costituirsi; per seminarla di
briganti; per raccogliere nel suo seno tutto quanto l'oscurantismo
mondiale; per mantenere tra questo povero popolo la miseria,
l'ignoranza e la discordia? Missione degna del Bonaparte, protettore
di tutte le tirannidi, fu quella di volere eternare quella di Roma
coll'esecranda Convenzione di settembre.»

Rattazzi, legislatore anticlericale ma uomo politico da burla, il 21
settembre annunziava che seguiva con diligenza grande l'agitazione che
col nome glorioso di Roma tentava spingere il paese a violare i patti
internazionali e soggiungeva: «In uno Stato libero nessun cittadino
può farsi superiore alla legge e mettere sè stesso in luogo dei grandi
poteri della nazione e di suo arbitrio disturbare l'Italia nella dura
opera del suo ordinamento e trascinarla in mezzo alle più gravi
complicazioni.»

Garibaldi per tutta risposta s'era recato a Sinalunga sul confine
romano e Rattazzi ve lo faceva arrestare e tradurre alla fortezza di
Alessandria. Lungo il viaggio, a Pistoja, Garibaldi consegnava a Del
Vecchio, da pubblicare, questa lettera:

«I Romani hanno il diritto degli schiavi: insorgere contro i loro
tiranni, i preti. Gli Italiani hanno il dovere di aiutarli, e spero lo
faranno a dispetto della prigionia di cinquanta Garibaldi. Avanti
dunque nelle vostre belle risoluzioni, Romani ed Italiani. Il mondo
intero vi guarda, e voi, compiuta l'opera, marcerete colla fronte alta
e direte alle Nazioni: Noi vi abbiamo sbarazzata la via della
fratellanza umana dal più abbominevole suo nemico, il Papato.»

Così grandi furono le ire e i tumulti per tale arresto, così imponenti
le ovazioni del popolo e dello stesso esercito, che il governo temette
un pronunciamento e si affrettò a ricondurre l'eroe in Caprera, che fu
circondata da navi di guerra per vietargliene l'uscita. E si giunse al
punto da sparar cannonate e carabinate contro il generale, impaziente
di evadere da quella nuova carcere; ma egli mandava proclami agli
Italiani, tempestava e fulminava, finchè un bel giorno, dopo
miracolosa evasione procuratagli dal genero Canzio e con denaro di
Lemmi, comparve in Firenze e veruno ebbe il coraggio di toccarlo.

L'entusiasmo popolare era irresistibile e il governo ne fu soggiogato.

Acerbi era penetrato in Viterbo, Nicotera si presentava verso
Frosinone e Velletri, Pianciani marciava su Tivoli, si combatteva a
Nerola, a Montelibretti, a Bagnorea ed a Firenze costituivasi il
Comitato centrale di soccorso.

Circa sei giorni prima del suo arresto a Sinalunga, Garibaldi
trasmetteva ai capi dello colonne queste istruzioni, l'originale
autografo delle quali è posseduto da Francesco Tolazzi:

1.º Punto di concentrazione delle colonne invadenti il territorio
Romano a Viterbo.

2.º Si raccomanda ad ogni comandante di Colonna di non impegnare
combattimenti colle truppe pontificie--se non checon molta probabilità
di riuscita.--Ed ove le forze nemiche sieno superiori--manovrare in
modo da concentrarsi su Viterbo ove si troverà probabilmente la
Colonna principale.

3.º Ove un comandante di Colonna si trovasse nella assoluta necessità
di combattere--egli deve ricordarsi e ricordare ai suoi che il mondo
intiero ha gli occhi su di noi--e che sa che noi siamo assuefatti a
vincere.

4.º A qualunque costo i comandanti delle Colonne non devono impegnarsi
in combattimenti colle truppe dell'Esercito Italiano.

5.º Scopo del movimento: è di rovesciare il Governo dei
preti--proclamare Roma Capitale d'Italia--e lasciare il popolo Romano
in piena libertà sulle proprie condizioni di Plebiscito.

6.º Credo superfluo il raccomandare molto un lodevole contegno verso
le popolazioni--I militi della libertà nostri fratelli d'armi--sono
assuefatti a trattare il popolo da fratelli e giammai vi fu
esempio--che si macchiassero di brutture.

7.º Sì darà alle Colonne l'organizzazione ch'ebbero in tutti i tempi i
corpi volontari--acciocchè esse si presentino al paese--ispirandovi
la fiducia e la paura ai nemici d'Italia.

E vi aggiungeva questa _Appendice alle Istruzioni_:

1.º I comandanti delle Colonne hanno il diritto d'impossessarsi
d'ogni cosa appartenente alle Autorità nemiche a profitto della
rivoluzione.

2.º Abbisognando di viveri od altro ne faranno richiesta alle Autorità
Municipali locali--rilasciando loro idonee ricevute.

3.º Una Colonna che si trovi nell'impossibilità di concentrarsi alla
Colonna principale--manovrerà di modo da non combattere con
svantaggio--inquieterà il nemico quanto possibile--e procurerà
frattanto di mettersi in comunicazione col quartiere generale.

4.º In questa impresa gli Italiani, devono ben penetrarsi d'aver su
di loro gli occhi del mondo intiero--e che quindi il nome Italiano
deve uscirne bello, radiante di gloria--e salutato con entusiasmo e
rispetto da tutte le Nazioni.

5.º Fra le eventualità possibili vi è quella d'esser io arrestato.--In
qual caso il movimento deve continuare colla stessa impavidezza come
se fossi libero.--E deve pur continuare anche che arrestassero la
maggior parte dei capi.

6.º In caso non riuscisse una Colonna nell'intento--le altre devono
continuare il moto come se nulla fosse successo.

Rattazzi trascinato dalla corrente non era, più tardi, alieno
dall'inviar le truppe italiane su Roma, ma un veto superiore ne lo
trattenne e giunse voce d'un nuovo intervento francese a Roma, finchè
egli nella sua stridula fiacchezza cedette il posto al reazionario
Menabrea.

Napoleone allo scoppio dei tumulti in Roma e della insurrezione
nell'agro circostante, offeso nell'orgoglio al pari d'un ragazzo
pervicace e atteggiandosi a pedagogo, armato di ferula, minacciò di
bombardar Genova e Napoli e occupar Firenze, come se queste città e
gli Italiani fossero di pasta frolla e da Tolone allestì la partenza
di suoi soldati per Civitavecchia.

A Firenze il governo era in sconquasso e Giorgio Pallavicino, Crispi,
Cairoli, Miceli, De Boni, componenti il Comitato centrale di soccorso,
dominavano quasi arbitri la posizione nell'orgasmo nazionale, Cialdini
invano cercava calmar Garibaldi in un segreto colloquio con lui in
casa Lemmi e non riusciva a raccozzare un ministero.

E' vi furono del momenti in Italia, in cui, come dopo Custoza nel 1860
e poco prima di Mentana, un Cromwell avrebbe potato arditamente
afferrarne le redini e guidarla forse a più splendidi destini. Ma il
patriottismo sincero sovrastava a tutto nell'animo dei capi
rivoluzionari e la paura di guerra civile si trasfondeva nel solenne
ed epico _obbedisco_ di Garibaldi.

Fatto sta però che la vecchia bandiera del 1860 non sventolava per
l'Agro romano e il tentativo del maggior Ghirelli con Franco Mistrali
di innalzarvela da Orvieto e da Orte fu soffocato nel biasimo
generale. A Roma si doveva decidere codesta questione allora
secondaria e giacchè il solo popolo vi lasciava sulla via sangue e
cadaveri, niuno poteva osar prima di risolverla.

Il Comitato centrale di soccorso sedeva in Firenze in una vasta ed
ampia sala presso l'Arno tappezzata in rosso amaranto e sguernita
d'ogni arredo, tranne un tavolo coperto da tappeto verde. Là si
trovava assiduo Giorgio Pallavicino co' suoi occhioni di vivezza ancor
giovanile, che brillavano per la gioia di grandi eventi. Quel vecchio
superstite del 1821 sembrava una robusta quercia solitaria tra i venti
e la frugna delle montagne e rappresentava quella aristocrazia
generosa d'Italia che, sacrificando fortuna e tutti gli agi della
vita, resistette ognora impavida allo straniero e alla schiavitù e
sentiva l'orgoglio personale e la dignità di liberi cittadini. Gli era
sempre devota al fianco la risoluta e simpatica sua signora, che
ricordava i nobili sacrifici e gli amori dello Spielberg e pareva
eccitare quel sereno vegliardo ad ogni nuovo e più ardito rischio.
Egli ed ella accoglievano noi giovani come figli, c'informavano delle
ultime notizie e ci battevano seriamente la mano sulla spalla come a
cui ripromette un bene insperato.

Crispi, fibra d'acciaio ed avvezzo ai più strani pericoli ed a pensate
audacie, era focoso e in un tranquillo al pari del suo Mongibello
coperto di neve, dava ordini secchi e tra l'un comando e l'altro si
stringeva a consulto con Cairoli.

Cairoli, prototipo del patriottismo senza secondi pensieri, aveva i
sopraviventi fratelli nell'Agro romano, era come di consueto dolce,
affabile, pieno d'energia come un geniale guerriero da poema e
blandamente altiero che la sua famiglia non fosse seconda nella
partita d'onore coraggiosamente impegnata. Egli zoppicava per la
gloriosa ferita alla gamba e toccava a noi giovani aiutarne i passi
dalla sala o dal parlamento all'albergo. Il valoroso pavese
ringraziava col suo sorriso da fanciulla e colla sua franca voce di
pieno petto a contrasto stentorea.

Quale doveva essere la felicità di Filippo De Boni, che aveva
descritto gli orrori della santa Inquisizione e gli scandali della
Corte pontificia e sospirava vicina la catastrofe del triregno e del
vincastro cattolico?

Il calabrese Miceli alla vista dei volontari non poteva temere che la
bandiera d'Italia venisse da essi trascinata nel fango.

E i nostri posteri non potranno lamentarsi che la vecchia e la nuova
generazione dal 1848 al 1871 non abbiano loro rimessi in eredità
argomenti di balda poesia e di cavallereschi romanzi e scene degne di
novella e di canto. [Blank Page]



Oltre il confine sacro.


Terni, la patria di Tacito, meritava di essere il centro e il ricapito
dei militi, che s'avviavano al confine per far cessare le vergogne
romane. Colà pareva che l'ombra del fiero storico ne aleggiasse sopra
le teste e ne inspirasse magnanimi propositi contro il covo di vipere
alimentate dalla malaria e dalle febbri palustri della campagna
romana.

Quella piccola e di solito deserta città a bastioni formicolava d'armi
e d'armati; i vecchi compagni s'incontravano e baciavano per via
abituati alle danze della morte, e quasi comica era la confusione tra
noi per risapere se di fronte ai nostri preparativi palesi e nascosti
l'esautorato governo d'Italia li acconsentisse od osteggiasse. Noi
eravamo abbastanza indifferenti alle sue intenzioni e da veri artisti,
mentre si formavano le varie colonne, trovavamo tempo di dare una
capata alla famosa ferriera e di salire a cavallo dei somarelli ad
ammirare dall'una e dall'altra parte, coi versi di Byron, la celebre
cascata delle Marmore.

Colla legione capitanata da Missori il gentile e composta di pochi noi
lombardi e di romagnoli, partimmo a piedi da Terni per Passo Corese.
Tutti eravamo in borghese, meno qualche rara camicia rossa, e giunti a
Cantalupo in una giornata di gran sole, vi trovammo un drappello di
cavalleria regolare, che ci avvertì essere scaglionato a Corese un
reggimento di granatieri per vietarci il valico di confine. Si fecero
i fasci d'armi in un campo fuori del villaggio e poi si ritirarono
tutti i fucili e le munizioni, con incarico a chi scrive di
procacciarne i mezzi di trasporto fin dentro il confine. A notte
Missori partì colla colonna inerme e uno stesso garbatissimo ufficiale
di cavalleria mi provvide al buio i carri pel trasporto della merce di
contrabbando.

Il mattino arrivavo lemme lemme e come un carrettiere, con sottile
scorta a Passo Corese e alla vista dei granatieri lungo la ferrovia e
di due sentinelle impassibili a ciascun lato dell'angusto ponte di
barriera, era il caso di non saper che pesci pigliare.

--Mò si fa la frittata!--dissi fra me.

Gli schioppi e le munizioni erano celati da coperte, e uomini e bestie
si tirava innanzi adagio come stracchi da lunga marcia, ma senz'aria
di frodo e facendo lo gnorri per non pagar dazio.

D'un tratto adocchiai la svelta figura di Missori, che vigile mi venne
incontro e mi passò a fianco susurrandomi di continuare la strada come
se nulla fosse. Quindi egli ritornò verso il ponte e s'imbattè nel
gigantesco Caravà, colonnello del settimo reggimento di granatieri a
guardia del confine, e riconosciutolo tosto per amico, gli strinse la
mano [Vedi illustrazione], aprendo una animata e festevole
conversazione con lui. Il colonnello ci volgeva le spalle quadrate e
in un attimo noi e i carri sgusciammo sul patrimonio di San Pietro.

    [Illustrazione]

Eravamo sul territorio del papa e ci pareva di essere al sicuro, salvo
il buon fine, come di una cambiale in pericolo.

Per quell'istante la fu una gioia sincera e ci saremmo abbracciati
tutti. Dinanzi a noi si stendeva la vasta pianura lungo il Tevere,
ogni colle ci sembrava uno dei sette, le legioni romane e le migliaia
di eserciti barbari ci si muovevano solenni davanti, tutta la storia
di Roma lampeggiava nella fantasia, e fra tanto spettacolo venivamo
anche noi a recitare la nostra drammatica parte.

Coloro che viaggiano tranquilli in un treno ferroviario verso Roma,
non proveranno di certo mai le nostre emozioni e non sussulteranno ai
nostri mesti e forti ricordi.

Missori abbandonò ben tosto il prode colonnello dei favorevoli
granatieri e ci raggiunse per metterci in marcia per Monterotondo.
[Blank Page] [Illustration: Monumento ai fratelli Cairoli a Villa
Glori. Da una fotografia dello stabilimento Broggi di Firenze.]



Sul campo della gloria.


Si sentiva l'odor di polvere e di corto si presentarono gli alti guai
ed i furori della guerra.

Il 23 ottobre, mentre Enrico e Giovanni Cairoli, Mantovani, Isacco, i
fratelli Rosa, Stragliati ed altri sessantrè emuli dei trecento di
Leonida navigavano alle porte di Roma per aiutarvi la sperata
rivoluzione interna e sorpresi combattevano colla morte al fianco
sotto il mandorlo e per la vigna di Villa Glori sui monti Parioli,
Garibaldi compariva a Passo Corese e il 26 con rapidità fulminea
debellava la guarnigione di Monterotondo e s'impossessava di
quell'importante castello.

Da Passo Correse spediva al colonnello Francesco Tolazzi, capo allo
stato maggiore della colonna Acerbi in Viterbo, questi telegrammi:

«Stabilite il Governo Nazionale e fate quanto occorre--qui tutto va
bene.»

«Dite ai Viterbesi ch'essi furono con me il 49 e che li ricordo.»

Dopo alquanto cammino arrivammo alla stazione ferroviaria ai piedi
della collina, in vetta alla quale sorge Monterotondo, e di presente
corse voce di un orrendo misfatto compiutosi in quella piccola casa.

Sei feriti nostri erano stati per breve sosta ricoverati in quella
abitazione solitaria, per venir poscia trasferiti all'ospedale, quando
con ferocia di jene sopraggiunse una compagnia di zuavi papalini. I
poveri feriti nel loro stato d'impotenza dichiararono di costituirsi
prigionieri e il vigliacco capitano degli zuavi rispose loro a suon di
rivoltella. Due garibaldini rimasero uccisi e i loro corpi squartati,
e gli altri tre furono forzati confessarsi ad un prete, che
accompagnava quegli assassini, e poi da costoro traforati a colpi di
baionetta, sì che due n'ebbero diciassette ferite ciascuno e il terzo
trentadue. Il sesto per fortuna era stato poco stante trasportato
all'ospedale militare di Passo Corese.

Avviliti per l'umanità al racconto dell'atroce infamia e meditando
l'urgenza di abbattere la tirannide sacerdotale, salimmo cupamente la
rampa di Monterotondo tra i vigneti, che ne popolano tranquilli e
inconscii la costiera.

Il sole mandava sanguigno e beffardo gli ultimi raggi sulle miserie
della terra, quando premevamo il piazzale, che si stende davanti la
porta S. Rocco della cittadella.

--Contro quella porta si collocarono cataste di legna e Garibaldi in
persona andò sotto la fitta grandine di palle saettate dalle mura a
cospargerle di ragia e ad appiccarvi il fuoco.

--Poco prima dell'assalto finale, Garibaldi fu dagli amici pregato di
ricoverarsi un istante nel convento di Santa Maria per riposarsi e
sedersi all'asciutto, e fu condotto in un confessionale, unico sedile,
ove stette alcuni minuti per balzarne tosto e gridare: avanti! I preti
avevan davvero trovato il loro superbo confessore!

--Il colonnello Eugenio Valzania con Vincenzo Caldesi fu l'eroe della
battaglia di Monterotondo, e vicino a lui cadde ferito l'intrepido
Antonio Mosto, che giace costà in una camera del convento di Santa
Maria.

--Garibaldi si è già avviato verso i dintorni di Roma, leone che fiuta
la battaglia di dentro.

--Il nostro Paolo Carcano, infermo, febbricitante da non reggersi in
piedi, volle a tutti i costi esser portato a combattere sulle braccia
di Rinaldo Arconati, Pedroni da Mendrisio e Pavanini da Padova, che in
quella guisa lo trasportarono qua fin sotto le mura di Monterotondo,
proprio al principiare del fuoco, nel qual punto Leone Beltramini di
Val Cuvia si buscava quattro ferite, due a ciascuna delle coscie.

--Udite coteste altre--soggiungeva con entusiasmo di patriotta e di
amico il giovine Federico Della Chiesa, varesino puro sangue.--Da
dentro Monterotondo la moschetteria si fa in breve spessissima. Stallo
piglia una scala, l'appoggia alle mura della città, e comincia a
salire. A un punto è fatto bersaglio da quanti tiratori si trovano nel
palazzo Piombino. Egli, giunto quasi al sommo, si gira sulla persona,
siede su di un piuolo, indi colla massima pacatezza del mondo
introduce gli indici nella bocca e rivolto verso il castello dà fuori
in una solenne fischiata. La fu una bravata accolta da noi dietro le
barricate con una salva d'applausi. Rinaldo Arconati, gli ingegneri
Gorgo e Bernasconi, con ingenuità da eroi, vanno a tentare una
porticina delle mura se la vuol cedere sotto il loro urto. Un turbine
di schioppettate li accoglie. Ebbene: essi, temendo di venir colpiti
nella schiena, si danno la mano, e volgendo il petto verso il castello
come nel ballo dei lancieri, lentamente tornano fin sotto la barricata
a ritroso. L'Arconati di Cantù riceve una schioppettata che gli buca
il cappello a cencio, lasciandogli nell'ispida capigliatura un solco
diritto come fatto dal parrucchiere.

Infinite le domande e le risposte, e non si smentiva la tradizionale
vivacità e allegrezza dei campi garibaldini.

Stringemmo la valorosa destra al risoluto Valzania e dal loro letto
Mosto e Uziel ci accolsero come forti in riposo e quasi religiosa era
la quiete, che loro serbavano in giro i volontari, spensierati nel
periglio e pietosamente generosi nella sciagura.

Al campo non poteva mancare il più caratteristico tipo garibaldino, la
signora Jessie White Mario, infermiera, medichessa, diplomatica,
corrispondente di fogli inglesi ed americani, soccorritrice con
rischio di vita da una ad altra colonna, ambasciatrice fra gli
eserciti, irrequieta e sempre britannicamente flemmatica, genio del
bene e provvidenza di tutti.

Carbonelli comandava la piazza e aveva dato ordine che i militi del
colonnello Missori non si lasciassero entrare in paese perchè dovevano
immediatamente ripartire.

La notte era buia e senza luna, il firmamento, azzurro e calmo come i
sogni d'una innamorata senza sospetti, brillava di stelle argentee,
che pareva ne sorridessero amiche dal cielo; soffiava dalla Sabina un
rovaio ghiacciato che tagliava la faccia, e messa la nostra colonna in
rango, ridiscendemmo muti la ratta di Monterotondo e c'inoltrammo per
la via Salaria verso Roma. Presso certi cascinali si fece alto, si
staccarono gli avamposti e le sentinelle morte tra la strada e la
sponda sinistra del Tevere, e qua là si accesero dei falò splendenti
come fari per sorvegliare quanto ne accadesse nei dintorni e per
impedire che le membra coperte dai leggieri abiti di autunno ci si
intirizzissero pel freddo e per la umidità delle praterie morbide ed
elastiche al par di pianura di torba.

Chi può ridire i pensieri di un giovane idolatra della storia di Roma
e che ora, come una sua antica guardia, vi si sentiva accosto, stando
pronto alla mischia sulle rive del grande e classico Tevere prima non
mai veduto? Le emozioni di una simile notte non da molti poeti furono
prelibate, e il silenzio solenne, l'oscurità vasta e il deflusso
maestoso del fiume torbido e incalzante come i suoi eventi,
innalzavano l'anima alla intelligenza delle più insigni gesta e delle
più clamorose sciagure. Tristi coloro che vorrebbero banditi gli
studii della romanità e del classicismo latino! Essi non rammentano
che in Roma vive gran parte della nostra storia e che la recente
difesa dal Gianicolo e da San Pancrazio contro quattro eserciti e i
miracoli rivoluzionari della nostra indipendenza furono compiuti al
suo nome e inspirati dagli antichi esempi.

La mattina all'alba proseguimmo il cammino e raggiungemmo Garibaldi a
Castel Giubileo, che su per quei poggi a pochi chilometri da Roma
scorreva agile come pardo e col binoccolo adocchiava intento la città
eterna quasi volesse scrutarne le più recondite vie e ansioso di
precipitarvisi dentro come falco ad ali librate in soccorso dei primi
insorti. Ma Roma si era agitata il 22 ed il 24 ottobre, aveva
distrutto un'ala della caserma Serristori, gittato bombe, assalito
pattuglie, trucidati soldati e ufficiali, combattuto in casa Ajani, ed
ora giaceva immota come una delle sue secolari tombe.

Gli eroici settanta capitanati da Enrico Cairoli non avevano neppur
essi potuto penetrare entro quelle mura fatali e il giorno 23
rendevano indarno illustri a prezzo delle loro vite i vicinissimi
monti Parioli.

Di quello splendido fatto scrisse superbe e patetiche memorie il
povero Giovanni Cairoli, morto poi anch'egli in seguito alle ferite, e
quel suo racconto, insieme alle auree _Noterelle di uno dei Mille_ del
poeta Cesare Abba, dovrebbe essere scuola di patriottismo a tutti ed
insegnato dai nostri professori di letteratura alle novelle
generazioni.

Garibaldi col generale Fabrizi, Alberto Mario, Egisto Bezzi, Stefano
Canzio e un pugno dei suoi militi rimase invano dal 27 al 30 ottobre
nei dintorni di Castel Giubileo e della Cascina di S. Colombo a
spiarvi il cuore di Roma; il 30 si spinse anzi con somma audacia al
Casale de' Pazzi rimpetto al Monte Sacro per eccitare a brevissima
distanza dalla città la rivolta, e deluso ordinò la retromarcia per
accentrare le sue forze in Monterotondo.

Ma intanto i governi e i loro satelliti non dormivano ed avvenivano
cose gravi.

Il generale Menabrea era riuscito a raccapezzare un ministero
reazionario della più pura acqua e il 27 ottobre, appunto il giorno
dopo e quasi a dispetto della vittoria di Monterotondo, annunziando la
formazione del suo ministero faceva pubblicare un memorabile proclama
dal re con ordine a noi ribelli di porci prontamente dietro le linee
delle nostre truppe.

Vittorio Emanuele fra altro vi confessava ingenuamente: «L'Europa sa
che la bandiera innalzata nelle terre vicine alle nostre, sulla quale
fu scritta la distruzione della suprema autorità spirituale del Capo
della religione cattolica, _non è la mia_.»

Ma accadeva ben altro, ad offesa d'Italia e del nostro onore.

Il 28 ottobre sbarcavano a Civitavecchia i soldati di Napoleone III e
il primo reggimento francese si presentò a Roma in piazza Colonna il
30. E in codesto stesso ultimo giorno le truppe italiane varcavano la
frontiera pontificia per combattere la rivoluzione occupandone come di
solito il terreno conquistato; ma dietro imperioso e perentorio
comando da Parigi il nostro meschino governo e vassallo le richiamò
immediatamente come un ragazzo sorpreso in marrone e rosso del
ricevuto rabbuffo.

Il sire di Francia nella sua orgogliosa e punita prepotenza non voleva
in veruna maniera l'unità d'Italia con Roma capitale e il suo pensiero
veniva tassativamente scolpito in seguito nel suo discorso del 18
novembre per la riapertura del corpo legislativo: «I rapporti
dell'Italia colla Santa Sede _interessano l'Europa intiera_, e noi
abbiamo proposto alle Potenze di regolare questi rapporti in una
Conferenza, e di prevenire così nuove complicazioni.»

E Rouher faceva eco e chiosa al padrone collo storico e deriso
_jamais_ di Roma all'Italia e colla frase: «La convenzione del 15
settembre è la ricognizione assoluta, implicita, necessaria,
_reciproca_ del potere temporale e del regno d'Italia.»

Di ripicco Garibaldi il 31 ottobre da Monterotondo invitava i generali
Nicotera e Acerbi a riunirsi al colonnello Pianciani in Tivoli, che
dominando Roma e avendo alle spalle le aspre e sicure montagne della
Sabina doveva diventare la base e il centro delle nostre operazioni, e
risaputo l'intervento francese e dei soldati italiani gridò il 1º
novembre in un fiero proclama: «Se però fatti infami, continuazione
della vigliacca Convenzione del settembre, spingessero il gesuitismo
di una sudicia consorteria a farci mettere giù le armi in obbedienza
agli ordini del Due Dicembre, allora ricorderò al mondo che, qui, io
solo generale romano con pieni poteri, dal solo governo legale, della
repubblica romana, eletto con suffragio universale, ho il diritto di
mantenermi armato in questo territorio di mia giurisdizione.»

L'irritazione e l'entusiasmo fra noi nel campo chiuso di Monterotondo
erano al colmo e insieme l'allegria non per tutto codesto cessava. Il
necessario però ne faceva omai difetto, pane, carne e vino più non
v'erano se non in qualche casa ospitale; quando ne capitava il destro
si mangiavano dei montoni rosolati sulle baionette, dei quali la
Comarca abbonda, si beveva a rinforzo qualche gotto d'acquavite, il
colonnello Missori pagò cinque lire un mozzicone di sigaro e nelle
pipe si fumava corteccia di viti e persino odoroso e vaporoso assenzio
in semini comperati dal farmacista.

Ma per noi fu al sommo disastrosa la diserzione sulle ultime ore di
moltissimi camerati, in guisa che mentre in principio eravamo a
Monterotondo dalle otto alle nove migliaia di militi, ci trovammo il
giorno di Mentana poco meglio di quattro mila. Per esempio, la mia e
la compagnia comandata da Achille Bizzoni si componevano ciascuna di
circa settanta volontari al pari delle altre della nostra colonna, e a
Mentana la più numerosa rimase la mia con quattordici, mentre quella
di Bizzoni colle altre si assottigliò a sette ed anco meno.

Alcuni erano stanchi, affamati ed esausti; non a tutti arride la vita
senza prospettiva e piena di triboli del ribelle, l'insubordinazione è
contagiosa fra i deboli di spirito e le male arti del governo vi
soffiavano dentro. Di tal esodo o fuga venne persino incolpato Mazzini
com'egli volesse subitanea la proclamazione nell'Agro Romano della
repubblica o innanzi tutto la dichiarazione della decadenza della
monarchia in Firenze; ma l'accusa è completamente falsa e contraria
alla storia di quei tempi.

Venendo a Passo Corese noi avevamo già incontrato parecchi fuggiaschi
della Toscana, che a scherno lungo la strada si interrogavano: o dove
vai, Ferruccio? E di ciò molti ponno porger testimonianza.

E Mazzini non era già soddisfatto di Garibaldi, che aveva evocato il
titolo di generale della repubblica romana? Non sapeva egli, che tra i
volontari esisteva un comitato segreto avente incarico di proclamare
d'accordo con Garibaldi la repubblica all'ingresso di Roma?

Mentre il nostro duce annunziava al mondo i suoi pieni poteri di
generale romano, ai piedi della torre del palazzo Piombino in
Monterotondo, a mezzo di una scalinata rustica e tra l'erba bagnata
d'un giorno piovoso, discorrevano con mistero Alberto Mario, sottocapo
dello stato maggiore di Garibaldi, Agostino Bertani, il maggiore
Giuseppe Guerzoni, il colonnello Giuseppe Missori, il giovane principe
Piombino in persona e chi scrive, e in quel colloquio veniva designato
il valoroso, che primo avrebbe dovuto sventolar la bandiera rossa dopo
una vittoria. Il giorno stesso i medesimi e il generale Fabrizi, il
colonnello Menotti, i maggiori Canzio e Bellisomi si radunavano
all'identico scopo in una sala del palazzo Piombino e Garibaldi
assistette alla loro discussione e ai loro progetti.

Non doveva egli Mazzini conoscere simili deliberazioni e concerti?
Potevano i garibaldini acclamare colui, che ribelli ne appellava e ci
contrastava la marcia su Roma? Certo si è che a Roma, a Firenze e in
tutta la penisola il sentimento popolare e lo sdegno nostro ad imprese
fortunate avrebbero punito a misura di carbone chi, disponendo delle
forze d'Italia, se ne giovava per impedirle l'incoronamento della
propria unità.

Un po' di storia a posto non reca danno e certi segreti viene il tempo
che occorre svelarli perchè non scendano nel sepolcro con noi.

Del resto la furia di Napoleone e delle nostre truppe di accorrere sui
nostri passi per schiacciarci non era dessa sola la prova, che l'epoca
della bandiera del 1860 era per noi esaurita e chiusa? Quali furono
sempre in seguito sino alla morte le espressioni e i propositi di
Garibaldi?

Mazzini poi l'11 febbraio 1870 così scriveva al nostro generale:

«Voi sapete ch'io non credevo nel successo, ed ero convinto esser
meglio concentrare tutti i mezzi sopra un forte movimento in Roma, che
non irrompere nella provincia; ma una volta l'impresa iniziata, giovai
quanto potei.» [Blank Page]



Nomentum.


È codesto l'antico nome latino di Mentana, che corrompendosi e
troncandosi si tramutò nell'odierno di quel villaggio adesso celebre
in tutto l'orbe.

La posizione di Garibaldi e de' suoi nella rocca di Monterotondo, il
vecchio _Eretum_, era grave assai per non dir meglio disperata. Il
governo italiano ci avversava a viso aperto come ribelli e banditi,
onde difficilissimo riusciva il procacciarci vettovaglie, indumenti e
munizioni; le nostre truppe, in parte smaniose al pari di Bixio in
Perugia di venirci in aiuto, dovevano invece rimanersene vane
spettatrici del formidabile torneo coll'arma al piede, e data la
contingenza, farci magari fuoco addosso; l'arrivo dei francesi era
pronostico di guerra eccessivamente sproporzionata per numero e per
arnesi di combattimento, i papalini se n'erano ringalluzziti e ne
avevano i movimenti più liberi, ed omai la era una follia l'attendere
prima d'una nuova nostra strepitosa vittoria la rivoluzione in Roma.

Garibaldi non se ne dava apparente pensiero, e tranquillo come un eroe
d'Ossian passava quasi intiera la giornata sul belvedere della robusta
torre di palazzo Piombino, dove tacito e con insistenza da metter pena
fissava verso Roma la meravigliosa cupola di Michelangelo per torcer
poi gli sguardi leonini in giro sul classico Tivoli e sulla plaga
ondulata fra il Tevere e l'Aniene.

A lui certo in quegli istanti ricorreva la memoria della famosa
ritirata da Roma dopo la difesa leggendaria, quando il 4 luglio del
1849 si era con un pugno di valorosi indomiti e colla sua intrepida
Anita accampato qui in Monterotondo ed in Mentana per traversare
inarrivabile e fra nemici ad ogni passo i gioghi degli Apennini verso
Venezia ancora eroica in armi, e coll'occhio della mente in spasimo
avrà visto la sua amazzone brasiliana, compagna di glorie e di
rovesci, seppellita nelle sabbie presso la pineta di Ravenna e
orribilmente disotterrata dai cani, feroci al pari degli austriaci
inseguenti.

Quel grande fidava nella sua perizia e nel suo genio e, non sentendosi
per nulla perduto, aveva per molte e serie ragioni tattiche e
strategiche, ed anche per sfuggire un conflitto civile colle truppe
italiane, divisato di trasferire il suo quartier generale a Tivoli,
dove governava il colonnello Pianciani. Costà aveva dato convegno ai
generali Nicotera ed Acerbi, troppo immerso quest'ultimo
nell'amministrazione di Viterbo, e colla riunione di tutte le sue
sparse falangi avrebbe potuto mettere un forte campo, non di leggieri
espugnabile, sulla ridente altura di Tivoli, in vista e a poca
lontananza della sospirata Roma. Egli faceva frequenti e in persona e
con scorta di pochi ufficiali le sue ardite e famose ricognizioni,
nelle quali aveva preso lingua che i papalini intendevano uscir di
Roma e assalirlo sulla via Nomentana. In Monterotondo stava il nerbo
delle sue forze e per tenersi in comunicazione con Tivoli e
sorvegliare la strada minacciala, egli aveva disposto il battaglione
Ciotti in Mentana e spartiti i volontari del colonnello Paggi a
Monticelli, S. Angelo in Cappoccia, Monte Porci e Monte Lupari, mentre
provvedeva colle poche centinaia di uomini del duca Lante di
Montefeltro contro la possibilità di un assalto alle spalle dalla via
Salaria e dalla insanguinata stazione di Monterotondo.

Il dì dei morti passò in rivista parte dei volontari, che malgrado la
fame e la spossatezza elettrizzò al combattimento, e diede ordine che
il mattino seguente all'alba si partisse per Tivoli. Ma parecchi erano
addirittura scalzi o quasi, ed essendo per miracolo arrivate in
cittadella varie casse di scarpe, non si riuscì la domenica, 3
novembre, ad impedirne la distribuzione, il che ritardò la partenza, e
fu innocente causa della battaglia di Mentana.

Quella famosa domenica del 3 era una vera giornata umida di novembre,
il cielo ingombro da una nuvolaglia trasparente, e il sole faceva di
quando in quando capolino a mezzo e gettava qualche largo sprazzo di
luce verso il pendìo di Tivoli come per rammentare la sua esistenza e
invitarci propizio sulla strada da percorrere. [Blank Page]
[Illustration: ]

Verso le undici antimeridiane, Garibaldi, ansioso per la partenza,
stava ritto in piedi sulla prediletta torre di palazzo Piombino, fiero
come un dì al Gianicolo sulla torretta del casino Savorelli presso San
Pancrazio, e manovrava il cannocchiale da Roma lungo la via Nomentana
e verso Tivoli. Di fianco ne seguivano l'intensa contemplazione il
genero Canzio, Adamoli e lo scrivente, persone tutte vive ancora [Vedi
illustrazione].

D'un tratto l'eroe abbassò il binoccolo, e additandoci la via
Nomentana, ci disse colla sua voce sempre franca e impassibile:

--Laggiù sonvi colonne in marcia verso di noi.

Ci passò il binoccolo e poi soggiunse fra sè e sè, e come di frase da
non raccogliersi:

--Sono francesi.

Quel forte rimirò cogli occhi lincei il punto indicato, e poscia
interrogandoci collo sguardo e muovendosi verso la scala di discesa,
disse con calma pensierosa:

--È necessario partir subito.

Una ventina d'anni poi Francesco Cucchi, che allora cospirava in Roma,
mi raccontò che egli con un prete recossi il 30 ottobre dopo
mezzogiorno a vedere alla stazione ferroviaria l'arrivo dei francesi
sbarcati il 28 a Civitavecchia.

--Don Domenico, applaudite, se no ci sospettano subito per
liberali--susurrava il congiurato Cucchi al complice sacerdote. E
amendue si misero a battere le mani e gridare evviva.

Ma Cucchi poco stante prese un fido pecoraro e gli consegnò per
Garibaldi la notizia dell'entrata dei francesi in Roma con un
bigliettino ravvolto a guisa di pillola in un pezzo di stagno per
tabacco da fiuto, che il mandriano depositava in bocca tra i
mascellari e la guancia protetta da folta barba. Alla uscita da una
porta di Roma le guardie perquisirono il gagliardo buzzurro,
palpandogli persino la faccia, ed egli trangugiò la pallottola col
messaggio. Giunto a Monterotondo, narrò il fatto a Garibaldi, che
ordinava a Basso la somministrazione di un medicinale; onde la novella
dei francesi tornò alla luce e fu dal solo generale risaputa.

Squillarono le trombe pel castello e per le vie, e a mezzogiorno circa
gli scarni battaglioni uscirono in silenzio e con ordine di stare
all'erta dalla porta attigua al palazzo Piombino per alla volta di
Montana, a un due chilometri di lassù.

      [Illustrazione]

Il nostro piccolo esercito offriva l'aspetto il più pittoresco.

Noi eravamo quasi tutti vestiti alla borghese [Vedi illustrazioni],
chi ancora d'estate e chi di mezza stagione, questi col pastrano
sgualcito, quegli con un mantello sciupato o con una sucida coperta in
ispalla, la pluralità in giacchetta, qualcuno pensino in abito a
doppio petto od a coda di rondine o penna d'acciaio, altri addirittura
in manica di camicia, come per venire al pugilato, o col bianco
ammiccante da strappi in tutte le parti, qualcuno in camicia rossa;
predominavano gli artistici cappelli molli alla Vandyk, coi _gueux_
compatriotti del quale era sentita la nostra somiglianza, e qua là
spiccava qualche tradizionale berretto fiammante tra macchie
indescrivibili e sopra la visiera cadente per le scuciture. Fucili ve
n'avevano d'ogni provenienza, natura ed età, senza bretella, con una
fascetta perduta e magari sprovvisti di cane o grilletto o luminello,
scarse o mancanti le cartucce o le capsule, e i volontari, pel maggior
numero studenti, professionisti e negozianti, impavidi, a passo
cadenzato, recavano sugli omeri catenacci irrugginiti, che senza il
beneficio della provvida baionetta non avrebbero servito che da
bastoni contro dei manigoldi. Gli ufficiali procedevano davanti o di
fianco ai militi, giacchè soldati non ci erano per completa deficienza
di soldi, e a loro arma di comando ed offesa brandivano un silvestre
randello od un ramo tagliato al bosco, ben pochi possedendo una
sciabola, un pugnale, una pistola od una rivoltella. Alcuni ufficiali
superiori avevano la fortuna di un cavallo levato ai buzzurri o
mandriani della campagna romana, ma colla cavezza o le redini di
canape, senza sella o senza staffe.

      [Illustrazione]

Oh, la nostra tenuta era magnifica e veramente da parata!

Mentre si camminava, s'udì lo scalpitare di vari cavalli al trotto
serrato e tutta la colonna si fermò ritraendosi verso la siepe a
destra e facendo fronte per vedere i cavalieri e dar loro il passo.

Era Garibaldi col suo Stato Maggiore e il suo aiutante Canzio in tuba,
come davanti il libraio Grondona in via Carlo Felice a Genova.

      [Illustrazioni]

Scese le scale di palazzo Piombino, zufolando con tristezza una sua
vecchia canzone di Montevideo, Garibaldi era uscito ultimo e contro
suo costume al galoppo da Monterotondo, e stava in testa alla
cavalcata con un bianco ronzinante inscheletrito a guisa di quello
dell'Apocalisse, una sella da capraro e le cinghie delle staffe in
corda [Vedi illustrazione]. Al nostro arrestarci mise anch'egli
l'ignaro e squallido quadrupede al passo e ne tolse occasione per
guardarci tutti in muta rassegna. I militi alzarono i berretti e i
cappelli sulla punta delle baionette e lo salutarono col grido: viva
il nostro duce! O Roma o morte!

All'epoca di Aspromonte, nell'agosto del 1862, l'imperatrice Eugenia
aveva cinicamente risposto: Morte e non Roma.

Arrivato egli alla mia compagnia, ridotta ai molti quattordici uomini,
gli feci il saluto militare col bastone a foggia di sciabola, ed egli
a saluto di risposta diede improvviso due così energici colpi di
sprone al suo invalido Pegaso, che lo fece sbalzar d'un tratto a
parecchi metri, e proseguì di volo verso Mentana.

Ricorderò sempre quello sbalzo e chi sa quali pensieri avrà suscitato
in quel magnanimo l'aspetto delle nostre tristi condizioni e delle
nostre armi?

Mentana, che noi nominiamo con riverenza e con affetto come di un nido
dove sono germogliate le più belle speranze della vita, è un paesello
di poco più i cinquecento abitanti e siede in una conca inghirlandata
da verdi poggi. Scendendo dal prossimo Monterotondo, s'incontra a
sinistra una chiesa isolata e poi la strada tira via dritta da
mezzogiorno a tramontana e la fiancheggiano in schiera dall'uno ed
altro lato le case che costituiscono il nostro villaggio e di cui quel
municipio dovrebbe crearci tutti almeno cittadini onorarii. A destra,
in fondo al paese, per un erto chiassuolo selciato di montagna si sale
al castello degli Orsini, e un po' più innanzi la strada consolare si
sbieca a mancina montando alla vigna del Principe o Villa Santucci.

Io e il capitano Enrico Imperatori di Lugano ci eravamo soffermati un
breve istante sul limitare d'una lunga cánova per un bicchiere di vino
bianco, e nel raggiungere tosto alla corsa le compagnie udimmo qualche
non lontano colpo di fucile come d'avvisaglia fra avamposti, e
incontrammo pedestre e solo il generale Nicola Fabrizi, tutto vestito
a nero come in Parlamento, alta e snella la persona, la testa stupenda
di Mosè o dell'apostolo San Paolo, un nero cappello basso o tondo, le
scarpe lucide e un cinturino d'argento sopra l'abito, che reggeva la
spada dal pomo d'avorio di capo di Stato Maggiore [Vedi
illustrazione]. Interessante e superba figura!

      [Illustrazioni]

--Generale--Io interpellai--si pare alle schioppettate: dobbiamo far
caricare le armi?

--Sì--rispose egli senza scomporsi--e voi altri occupato codesta
collina a destra.

Era il tocco dopo mezzogiorno e il maggiore Luigi Stallo si trovò col
suo battaglione d'avanguardia impegnato d'improvviso in una vivissima
moschetteria cogli zuavi pontifici, mentre tutta la nostra colonna era
in marcia. E ciò derivava dal fatto che il colonnello Paggi, per un
ordine mal compreso o dato per errore da un subalterno, aveva
abbandonato le sue posizioni di guardia e si era ritratto a Palombara
lungi dalla Nomentana.

I colli a destra ed a sinistra furono all'atto occupati in catena,
Garibaldi accorse in prima linea e la fucilata si fece generale e
nutritissima come nello scoppio d'una polveriera e in un incendio di
una fabbrica di cartucce. Poco stante rintronarono l'urrà e il grido:
_Viva l'Italia e Garibaldi_ della carica alla baionetta, e i papalini
venivano cacciati in rotta.

Tra i primi feriti vi fu il capitano Giulio Bolis del battaglione
Antongini, colpito mortalmente in pieno petto. Mentre i suoi amici lo
trasportavano in Mentana, Garibaldi chiese chi egli fosse.
All'annuncio: È il conte Bolis di Lugo--esclamò, battendosi la
fronte: Povero Giulio!

Nessuno sospettava la presenza effettiva dei francesi, meno forse
Garibaldi, che li aveva intuiti dalla torre di palazzo Piombino e nel
grave dubbio li aveva a mezza voce annunciati a sè stesso. L'uniforme
non bastava per discernerli, perchè la legione d'Antibo del colonnello
Charrette al servizio del papa ne portava l'identica assisa e si
poteva credere che Garibaldi avesse scambiati i soldati di quella pei
veri francesi sbarcati di fresco a Civitavecchia.

D'un tratto si sospese il grido della corsa alla baionetta, vi fu un
istante solenne di silenzio, che venne bruscamente disturbato da una
chiassosa e rimbombante moschetteria a noi più vicina, e riprese più
vivace di prima l'enorme frastuono della battaglia a colpi di fucile e
di cannone.

Erano i francesi che, vedendo profligati i papalini, accorsero coi
loro battaglioni nella mischia in primo rango e strabocchevoli
rovesciarono da Villa Santucci su di noi la nostra avanguardia di
Stallo, che veniva miseramente ferito nelle gambe. La prima compagnia
dei carabinieri genovesi, nella quale pugnavano i giovani più eletti
ed onore e lustro di Como e Varese, resistè eroicamente alla diruta
cascina Guarnieri, cosparse il terreno di morti e vulnerati, meglio
che cedere si ridusse a quaranta, a trenta, a venti, finchè gli ultimi
undici, accerchiati e soverchiati, trovarono salvezza in una grotta
sprofondantesi, dalla quale uscirono dopo sedici ore prigionieri. La
confusione divenne terribile, le grida dei feriti erano strazianti,
dal campo nemico i colpi di fucile scoppiavano stridenti e incessanti
come rulli affrettati di tamburo, le palle fitte come grandine
giungevano miagolando e fracassando, dei garibaldini inermi lottavano
corpo a corpo coi nemici, ne strappavano le armi, li assalivano a
pugni ed a morsi, li rotolavano insieme per la china, come in una
zuffa cogli orsi, chi correva, chi fuggiva, chi cadeva, il vociare era
assordante dall'una e dall'altra parte, era un certame da disperati,
un pandemonio.

Il colonnello Missori, in arcione su di un cavallo moro [Vedi
illustrazione], che copriva quasi per intiero coll'ampio mantello
grigio, e fra quella gazzarra e pioggia micidiale di proiettili, dai
quali venne trafitto il collo della sua bestia, ritiravasi altiero e
indifferente come in una lizza insieme alla colonna, che si ripiegava
su Montana. Nell'atto che Missori ebbe ferito il cavallo nel collo, e
proprio nel momento del primo attacco generale della linea nemica,
esclamò:

--Come si battono bene i nostri volontari!

E ritirandosi impartì l'ordine ad Enea Crivelli, che il battaglione
Torri-Tarelli occupasse Mentana, dove già sorgeva una barricata a
difesa.

      [Illustrazioni]

In piedi su di essa il tremendo Carlo Nicotera agitava un gran
sciabolone ad incoraggiamento o strepitava e gesticolava come un
ossesso. Il capitano professor Papiri di Fermo caricava e scaricava il
suo schioppetto da caccia, come ad una partita importante di
bersaglio.

Veruno poteva comprendere qual maniera di fucili ci si sparasse contro
e nessuno era in grado di sapere che i _chassepots_ fabbricati a
Brescia compievano per la prima volta le loro meraviglie su di noi.

Ciò malgrado, dalla barricata, dalle finestre delle case, dall'alto
del castello, dal poggio posteriore si teneva vivo il fuoco e i
francesi non poterono o non osarono precipitarsi dalla prominenza di
Villa Santucci lungo la via Nomentana fin giù all'imboccatura
asserragliata del villaggio.

Ma tal grossolana mancanza di tattica o di coraggio negli alleati
dell'altare e del trono è forse spiegabile nel fatto che essi
convergevano gli intenti e gli sforzi verso la nostra sinistra per
scassinarla e tagliarci la strada e la ritirata di Monterotondo,
fidando anche negli aiuti che loro avrebbero dovuto pervenire dalla
via Salaria per percuoterci alle terga.

E là, alla sinistra sul campo dei pagliai, eseguirono prodigi di
bravura Garibaldi e tutti i migliori ufficiali. Bezzi dovette a viva
forza trattenere il venerando Fabrizi, che senza riguardi slanciavasi
nella mischia, e Canzio, spiritoso anche nel pericolo e con una delle
sue mosse caratteristiche, cacciò in testa a Garibaldi il suo cappello
a cilindro per deviare il nemico, che riconosciutolo alla breve
distanza, lo aveva preso di mira; ma i morti e i feriti ingombravano
il terreno, i pagliai venivano perduti, il valore personale mal
reggeva all'urto immane dell'onda avversaria e fu d'uopo cederle il
campo fin presso la chiesa e le prime case di Mentana.

La battaglia poteva esser finita; Garibaldi col centro, la sinistra e
la riserva, costretto a rifugiarsi verso Monterotondo; Mentana e la
destra accerchiate e rese prigioniere, se non trafitte a fil di spada
od a punta di baionetta.

Ma Garibaldi non è un eroe da burla, e non si spaventa per numero
d'uomini di fronte. Egli vola agli unici nostri due cannoni già
magnificamente manovrati dal povero Luigi Fontana, reduce dalla guerra
degli schiavi in America bizzarramente cantata da Walt Whiteman, li
pianta in faccia agli infurianti nemici, tra il plauso risuonante per
le colline li combatte egli solo con quelle bocche da mitraglia; gli
avversari oscillano, si sparpagliano, arrestano la marcia; la prodezza
di un uomo li scombussola e conquide, e un lampo di genio rinfresca la
battaglia e può mutarne le sorti. Garibaldi abbandona i cannoni al
Fontana, comanda una impetuosa carica alla baionetta, le trombe
squillano acute come se esalassero un formidabile grido di maledizione
e di sangue, ufficiali e militi si cacciano a corpo perduto contro gli
sgherri della tirannide, che a loro volta non resistono
all'irrefrenabile cozzo, vengon respinti dai pagliai e travolti
fuggendo e invocando pietà fin su alla storica Villa Santucci.

Vi fu un imponente riposo e come una tregua di Dio, quasi tutti
fossero sbigottiti di quanto accadeva in quel remoto angolo della
terra, e come se il Fato antico fosse in dubbio di farla finita in
quel giorno collo scandalo della prepotenza sacerdotale. L'accanimento
era giunto al parossismo, e quello fu il punto culminante della
battaglia.

Ma il papa e Napoleone III avevano uomini ed uomini da vomitarci
contro, alle colonne sbaragliate dei nemici ne succedevano di nuove a
fiotti e a torrenti, la moschetteria ripigliò stridula e tempestosa
per tutto il campo e in tutte le linee, vittoria e sconfitta con varie
e rapide vicende si alternavano, finchè alle cinque, sull'imbrunire,
la nostra sinistra fu dal numero soverchiante e irruente sfondata per
l'ultima volta, gli alleati ripresero i pagliai, e Garibaldi, per non
venir circuito, dovette retrocedere su Monterotondo. Quivi egli,
salito sulla sua torre di palazzo Piombino da poche ore e prima di sì
tragici eventi abbandonata, meditava ulteriore resistenza, e già ne
aveva impartite le disposizioni; ma consigliato da Fabrizi a nome
degli intimi a ritirarsi, e non sapendo che Mentana era ancora salva e
difesa da un sei o settecento di noi in castello e in borgo, diede a
notte ordine di ritorno a Passo Corese, ed egli, solitario davanti e
chiuso nel suo affanno, che gli fece increscere la vita incolume,
guidava a cavallo la dolorosa retromarcia.

Il governo italiano, che non merita nome od ingiuria, impotente
persino a comprendere la grandezza d'animo e a sentire i battiti del
cuore d'un patriotta, lo fece banalmente arrestare a Figline e
tradurre in quel suo cordoglio al bagno del Varignano, dal teatro
della gloria alla galera, che per la seconda volta veniva da Garibaldi
dopo Aspromonte santificata al pari della croce dei ladroni da Cristo.

Ma il vinto non era Garibaldi, che dal golfo di Spezia invitava gli
italiani a rivolgere il pensiero a Roma e non a lui, bensì il papa:
Mentana aveva chiazzato di sangue il volto, le mani e il pastorale del
faceto Pio IX, e cielo e terra abborrivano dal consumato assassinio.

Al mondo ripugnava il rinnovato abbraccio di Clemente VII e Carlo V, e
non parve nè eroico nè prodigioso che quasi dodicimila tra cesarei e
papalini, con cavalleria, treni d'artiglieria e fucili a dodici colpi
il minuto si lasciassero sconfiggere da quattromila scamiciati senza
armi, e solo dopo ripetute prove li debellassero, senza avere il
fegato di inseguirli e di entrare in Mentana, centro della battaglia.
Se il generale Orsini, succeduto a Nicotera, fosse salito da Frosinone
e Velletri, se Acerbi fosse sceso dalla eterna Viterbo, e se i
colonnelli Paggi e Pianciani fossero calati giù al tuono del cannone
da Palombara e Tivoli, serrando alle spalle e ai fianchi i protettori
del Vaticano, il generale Failly avrebbe egli potuto decantare le
meraviglie dei _chassepots_?

Allora i sicari in cocolla e tonsura non sarebbero usciti dalle
tenebre nè comparsi come corvi sui cadaveri dopo la battaglia per
sfogarvi le loro atrocità.

Un frate, giunto al campo dopo la mischia con una gran croce in mano,
gustava il feroce delitto di percuotere con quel sacro istrumento di
redenzione il corpo dei feriti, che fra gli strazi giacevano al suolo.
La selvaggia opera di quel ribaldo non ebbe fine se non quando alcuni
soldati francesi, scorgendo lo scempio orribile che il forsennato
compieva, si scagliarono contro quella belva e la cacciarono pieni di
umano sdegno e di scandalo.

I papalini arrivati dopo il combattimento infilzavano colla baionetta
i cadaveri de' nostri e poi entravano in Roma insanguinati,
gloriandosi di aver scannati dei garibaldini.

In una palazzina rossa di Mentana, dove erano ricoverati molti nostri
feriti, entrarono dalla parte del monte gli zuavi del papa e loro
ingiunsero di raccomandarsi a Dio perchè per essi la era finita. Poi
colle baionette massacrarono quanti c'erano, meno pochi che sfuggirono
all'eccidio saltando dalla finestra sulla strada.

Ecco quanto scrivevo di ritorno in Milano l'8 novembre 1867 nella mia
relazione sulla _Unità Italiana_:

«Nè sleali, nè vigliacchi fummo noi, e noi non abbiamo, al par dei
Galli, spogliati od uccisi i feriti.

«Due soldati francesi stavano svaligiando un povero ferito
garibaldino. L'uno lo sorreggeva in piedi, e l'altro lo svestiva e
derubava. In quel mentre apparve il prode maggiore Tanara alla testa
di parecchi volontari, ed i malandrini, non sì tosto lo videro,
piantarono nel ventre al ferito la baionetta e si diedero alla fuga.
Uno di essi però pagò la sua infamia, e fu ucciso.»

Al contatto dei soldati del papa e di chiercuti senza cuore e senza
vergogna, anco la cortesia gallica si tramutava in nefande imprese da
masnadieri!

La democrazia italiana invece, oltre quello olimpico di Garibaldi, in
Mentana rammenterà sempre con orgoglio i nomi di Fabrizi, Alberto
Mario, Menotti, Canzio, Valzania, Missori, Antongini, Salomone,
Burlando, Stallo, Bezzi, Guerzoni, Tanara, Cella, Razeto, Mayer coi
suoi ferrei livornesi, e ad uno ad uno di tutti i suoi romanzeschi
paladini, che vi soccombettero ravvolgendosi al pari di Ferruccio nel
vessillo italiano o vi tennero alta e ne riportarono la bandiera senza
macchia o viltà.

E fra questi ultimi va pure con cento altri rimembrato l'allora
diciottenne Emilio De-Albertis, il figlio dell'eminente patriotta e
pittore di battaglie Sebastiano, che soldato l'anno prima in
cavalleria Aosta a Custoza ed ora sergente nella colonna Missori,
nella ritirata, col compagno scultore Riccardo Ripamonti, da Mentana a
Monterotondo, giovine qual era, subì una lacerazione al polmone che
dopo qualche anno lo tradusse al sepolcro.

L'indomani della battaglia il nostro tromba Tito Bianchi di Lecco vide
a sinistra dello stradale in salita fra Mentana e Villa Santucci e
dentro il cavo d'una antichissima e grossa pianta smidollata un
giovane garibaldino ucciso.

Egli mostrava i segni della morte violenta, aveva i muscoli rattratti
ed era stecchito dal gelo della notte.

Ma il biondo guerriero dentro la nicchia dell'albero reggevasi ancora
in piedi spaventoso come lo spettro del rimorso, aveva gli occhi
sbarrati e diacci come acciaio di pugnale e immoto li figgeva tuttavia
a minaccia e vendetta contro l'accampamento dei suoi massacratori.

Quel giovine che combatteva morto e la vecchia scorza del tronco
fulminato e cariato, dentro il quale era ferito, rappresentavano la
tragedia di Mentana.

La nuova Italia aveva soccombuto, ma la sconfitta non ne fiaccava
l'energia della giovinezza: al carcame del papato temporale non
restava che il cadere in frantumi ed in polvere.

Gli splendidi eroismi dei Cairoli a Villa Glori, di Raffaele De
Benedetto a Monte San Giovanni, di Giuditta Arquati in Trastevere e
dei martiri di Mentana non potevano restar a lungo invendicati e
aspettano il loro poeta del trionfo.

[Illustrazione: Ara dei caduti a Mentana.]



I rimasti e il dito di Dio.


In Mentana dal castello, dalle case elevate a due e tre piani, dalle
barricate, dai muricciuoli si continuarono le archibugiate fino a sera
tarda. Noi facendo fuoco e tra il clangore delle trombe e le grida dei
difensori, quantunque in realtà si fossero uditi acuti e quasi
lamentosi gli squilli della assemblea generale e della ritirata,
credevamo che tutto il nostro minuscolo esercito fosse racchiuso od in
giro al villaggio e non ci eravamo accorti che Garibaldi col grosso
delle truppe avesse dovuto indietreggiare su Monterotondo. E ciò
riuscì provvidenziale, perchè la nostra presenza in paese trasse in
inganno il nemico e preservò certo da novella strage e forse da
prigionia il generale ed i battaglioni riparatisi in quella rocca.

Al calar della notte rimbombarono isolati gli ultimi ed infrequenti
colpi dei nostri catenacci, gli alleati da parecchio tempo più non
rispondevano e pel maestoso anfiteatro di colline nascosto dalle
tenebre e intorno a Mentana si formò il silenzio funebre, che sussegue
la ferocia della battaglia. Ci pareva strano di non sapere di
Garibaldi, che portava sempre moto anche nell'oscurità, e di non
vedere verun ufficiale superiore, che visitasse i combattenti o
recasse ordini. Si fece il giro per l'unica strada del villaggio, se
ne esplorarono le adiacenze e si comprese che eravamo rimasti soli e
che un grave compito ci spettava pel mattino, finchè la nostra
posizione non fosse schiarita. Entrati per le case tutte aperte, vi
trovammo i volontari, che giocondi e ciarlieri per una supposta
vittoria, si riscaldavano senza noia alcuna in cerchio a gallorianti
fiamme dei focolari delle cucine preparandosi ad un secondo cimento, o
stanchi si erano coricati lungo i pavimenti, su qualche manata di
fieno o di paglia o su pei letti dei proprietari e delle proprietarie,
che pigliavano parte alla festa notturna come se all'indomani
dovessimo marciare su Roma.

Nella casa a mezzo il paese del sindaco successe un episodio
ricordevole. In una camera a primo piano sgombra di tutto, e nella
quale stavano sdraiati a terra vari garibaldini in dormiveglia alla
penombra d'una lucernetta, egli aveva un tavolo liscio di bianca
pecchia, che pare gli dovesse servire di scrigno. Il sindaco, ottima
persona, aveva accordato la più cordiale ospitalità, nella quale oltre
la legna pel camino acceso a baldoria ci scappava qualche regalo d'un
fiasco di vino. Venuto malgrado la sua buona voglia in qualche
sospetto o per tôrsene anche l'idea, bighellonando così come si usa,
s'accostò al suo tavolo, ne tirò per la chiave il cassetto e guardovvi
dentro. Oh meraviglia! lasciò dischiuso il tiretto e venne affannato a
dirmi che trovava scomparsi parecchi scudi d'argento. Ne corse subito
la voce per le stanze, i garibaldini si levarono tutti in un attimo
come per offesa all'intiero corpo e in un batter d'occhio fu scoperto
il colpevole, che lì sui due piedi si beccò una gragnuola di pugni e
schiaffi, tra il suon dei quali fu costretto estrarre il denaro
involato e fu destinato alla fucilazione da eseguirsi dopo la nuova
battaglia. Gli scudi furono tosto restituiti al padrone, che rimase
sorpreso dello slancio d'onestà di quei giovani, ben pochi dei quali
avevano un soldo in tasca. Biricchini ve n'hanno ovunque, ma questo
incidente attesta qual senso morale dominava fra i nostri valorosi.

Intanto gli alleati non avevano potuto penetrare in Mentana e quella
notte abbastanza fredda dovettero dormire alla serena e quantunque
vincitori farci umilmente anticamera.

Noi avevamo stabilito un Comitato di difesa, ma all'alba scorgemmo le
colline e le strade intorno letteralmente invase da larghi sciami di
nemici e cosparse di calzoni rossi, Garibaldi non si vedeva comparire
nè se n'udiva verun moto, onde ritenendo impossibile qualunque
resistenza si decise l'invio di parlamentari per trattare la
capitolazione ai patti più onorifici. Alzata dal castello la bandiera
bianca, continuò la sospensione d'armi ed i parlamentari capitano
Papiri e tenente Cavo si erano già recati al quartier generale
avversario, il giorno già chiaro e lucido, quando d'improvviso e di
straforo s'avanzò dalla parte della chiesa una sezione del 59º
reggimento di fanteria francese. In testa marciava il suo colonnello e
solo gli corsi incontro a rimproverargli la violata tregua e invitarlo
a ritirarsi al suo posto. Ravvisandogli sul petto la medaglia
commemorativa della guerra di Lombardia nel 1859, meravigliai che egli
portasse ancora quel simbolo d'amicizia con noi e con qualche frase
insolente gli dissi che i difensori del papa dovevano portare la
sottana e non i nostri ricordi. Quell'ufficiale, che forse era un
prode ed un gentiluomo, si fece rosso in viso per le verità
slanciategli come saette a bruciapelo, non rispose verbo alle
contumelie ed essendosi fermato in asso coi suoi soldati si limitò a
dire che secondo i patti conchiusi coi parlamentari, non per anco
tornati, egli aveva avuto ordine di render prigionieri tutti i
garibaldini occupanti le case. E malgrado le proteste s'avanzò nella
via del villaggio.

La convenzione invece stipulata dai parlamentari era la nostra resa
colla piena libertà di tutti senza distinzione fra castello o case.

I volontari dalle finestre avevano assistito al colloquio e tirato
alcune fucilate, ma quando si riseppero prigionieri, per non cedere
intatte le meschine ma gloriose armi, come per un comando elettrico
spezzarono i fucili sui davanzali e con accenti d'imprecazione li
gettarono scavezzati giù in mezzo alla strada. E poi vi scesero
anch'essi e il reggimento fedifrago si convertì in una perfetta siepe
rettangolare di sbirri a baionetta in canna per tradurli captivi a
Roma.

Anch'io era del numero, ma arrestatasi la comitiva presso la rampa del
castello e accortomi di qualche oscillazione per nuovi diverbi sui
patti della resa, inutilmente avvertii di seguirmi il fratello
Francesco e alcuni miei compatriotti di Lecco e, declinando il mio
grado, presi per le spalle e scostai due buoni fantaccini galli, loro
ordinando di lasciarmi il varco, ed essi sbalorditi e ignari aprirono
le file e mi trovai libero fuori del maledetto cordone. Avevo prima
visto il colonnello medico Bertani intento ai feriti nell'oratorio di
Sant'Anna verso la metà del paese e mi ricoverai da lui che, scaltrito
dell'affare, mi assunse provvisoriamente qual membro dell'ambulanza
finchè i carcerieri non si fossero allontanati.

Andava morendo in distanza il rumore dei passi della triste comitiva,
gli abitanti stavano accovacciati per le case, e la strada di Mentana
per tutta la sua lunghezza taceva come un sepolcro.

Salutai Bertani, che tetramente soffriva della patria sciagura
rintuzzando persino le frasi roventi della sua impetuosa bile, uscii
dall'oratorio tramutato in suo ospedale e m'avviai solingo al
castello. Quivi Papiri, Sgarallino, Nicotera, Torri-Tarelli Carlo ed
altri ufficiali gridavano per la tradita capitolazione e i francesi
collocarono subito dopo un picchetto di guardia al portone d'ingresso
e una compagnia in rango e ad armi pronte nel cortile. Eravamo tutti
prigionieri e contro la forza soverchiante non giovava la parola.

Capitò poscia in castello, furibondo e sbraciando come un'anima
dannata, il maggiore Fauchion, capo di stato maggiore del generale
Polhès, che rinserrò quattordici o quindici ufficiali garibaldini
nella oblunga stanzuccia da letto a tramontana della custode, con
intimazione di depor tosto sul tavolo alla parete tutte le armi, di
cui fossimo in possesso, sotto pena in caso di rifiuto d'immediata
fucilazione. Chiuse l'uscio a chiave, che ritirò egli stesso, e se ne
partì.

Dopo un quarto d'ora il maggiore rosso in volto come bragia ed
esalando saracchi fu di ritorno, guardò sul tavolo e vi numerò solo
quattro o cinque tra pistole e rivoltelle.

--Signori ufficiali--garrì egli in francese spalancando l'uscio e
additandoci un pelottone di fanteria postovi in due file a quattro
passi nella corte.--Qui non vi sono tutte le vostre armi: se fra dieci
minuti non le son tutte consegnate, i renitenti saranno fucilati.

Richiuse l'uscio e se n'andò.

Il fratello del generale Nicotera stava ritto in piedi tra la comodina
e il letto della guardiana del castello e aveva arrotolato il suo
sciabolone nel ferraiuolo. Fremendo lo slegò e depose con ribrezzo la
grande lama sul tavolo.

Dopo un venti minuti riapparizione del maggiore più calmo, nuovo
conteggio e ripetuta minaccia, ma senza la fibra bestemmiatrice di
prima.

Io e il tenente Costantino Tamanti delle Marche, uno dei settanta di
Cairoli e chiamato in celia per la sua ampia barba argentea e le
strane avventure il Mago Sabino, stavamo seduti su due sacchi di ceci
nel vano dell'unica finestra in fondo della camera e rimpetto
all'uscio ed eravamo gli ultimi restii possessori di due rivoltelle,
che ad ogni arrivo e minaccia del maggiore cercavamo di meglio
nascondere fra' panni.

--Tu la consegni?--mi chiese Tamanti.

--Io no, e tu, Mago?

--Neppur io.

E attendevamo in silenzio la nostra sorte.

Per fortuna e non si sa per qual cagione Fauchion più non riapparve e
invece un sergente del pelottone, nostra spada di Damocle, venne ad
aprire e a dirci che tutti gli ufficiali erano liberi di uscir dal
castello e scendere in borgo.

Non ce lo facemmo replicare, uscimmo dalla cella, si avvertirono della
cosa molti volontari, che nel cortile ci si accalcarono incontro, e
con noi se la svignarono parecchi di essi annunciandosi alle
sentinelle di guardia per altrettanti ufficiali, giacchè nessuno
recava distintivi.

In quel mentre entravano a scombutta in Mentana le truppe francesi e
papaline, la pareva una orda selvaggia e sitibonda, i dragoni
pontifici sfacciatamente si mescolavano all'artiglieria francese, la
fanteria francese era regolarmente in colonna e i fantaccini del papa
le si cacciavano di mezzo come tanti monelli, cavalli e cannoni
andavano a badalucco e il tutto specialmente per parte dei soldati
papali aveva l'aria di una fiera di ubbriachi.

Un cardinale, alto e tarchiato come un colosso, in veste talare e
calze pavonazze, a capo scoperto, agitando colla sinistra la calotta e
alzando fra la turba l'indice della destra, lungo e grosso come un
palo, sgonnellava tra quei forsennati e strillava a pieni polmoni come
un banditore del mercato:

--È il dito di Dio! è il dito di Dio!

E così vociando il cardinale scorreva come un pazzo tra i gruppi dei
soldati, che non gli davano retta.

Qual fonte di epigrammi per Marziale e di riflessioni per Seneca, che
nell'antica _Nomentum_ ebbero dimora, se in quel punto avessero potuto
rizzare il capo attonito dagli avelli!

La era una scena da piangere e rintontito io stava presso una porta a
contemplarla. Per caso passommi accanto il terribile maggiore
Fauchion, che tirava moccoli contro i papalini e i preti disturbatori
dell'ordine militare, e riconosciutomi per avermi visto in castello e
additandomi i nostri fucili infranti lungo la strada mi apostrofò con
aria di meraviglia e simpatia:

--O come! voi fate la guerra con coteste armi?

Quindi soggiunse impensierito:

--Io non credeva che voi sapeste battervi così da bravi. I garibaldini
ieri hanno combattuto eroicamente.

Mentre in tal guisa quel generoso favellava, venivano dei cannoni, e a
briglia sciolta giunse loro innanzi e sbandato un semplice dragone
pontificio.

Il maggiore si staccò d'improvviso da me, sguainò la sciabola e ratto
come fulmine avventossi contro il mal arrivato dragone, che fu per
cadere da cavallo per lo spavento.

--_En arrière, cochons, traînards! en arrière, lâches, soldats du
pape!_

Testuali sono le invettive e difficile è il supporre lo scompiglio che
produssero.

Era un maggiore, capo dello stato maggiore del generale Polhès, che le
pronunciava, e il dragone mortificato come un gesuita colto in fallo e
tra le risa a scherno degli artiglieri francesi tornò indietro al suo
corpo.

Lo stesso cardinale dal dito di Dio si rivolse alle formidabili
ingiurie, capì che il maggiore irritato non canzonava, mise la
papalina in testa, abbassò dopo un istante di esitanza il famoso
ditaccio, e si fermò ragionevolmente ad ammirare la sfilata delle
truppe francesi, che ora procedeva a dovere.

E storia genuina è tutta questa, e il maggiore Fauchion, se ancora
vive, può attestarla.

Quell'uomo geniale e fosforescente, dopo il suo magnifico colpo di
testa, riponendo la sciabola nel fodero, ritornò a me, e volle a tutti
i costi che entrassi con lui a bevere un bicchiere nella cànova
visitata da me e dal capitano Imperatori il giorno innanzi, a pochi
minuti dalla battaglia.

L'oste spillò due bicchieri dalla botte, il maggiore mi offrì
galantemente il primo e col secondo in mano m'invitò a brindare.

--Maggiore, gli dissi io, io accetto di bevere insieme, ma non posso
toccare il bicchiere con un soldato di Napoleone III, difensore del
papa.

Il maggiore con mia sorpresa mi guardò in faccia con compiacenza e
dopo un minuto secondo, levando il bicchiere, esclamò con tutta
serietà:

--_Sacrè tonnerre_, voi avete ragione; ebbene, viva la repubblica! ora
toccate?


Incredibile il chiasso e il diavoleto dei papalini in Mentana come se
ad essi spettasse l'onore tutto della battaglia vinta.

Essi gridavano, ingiuriavano, acclamavano urlando a Pio nono e per la
massima parte ubbriachi di vino o di paura intuonavano canti osceni e
di dileggio, camminando a biscia come gente, che dopo esser fuggita
sentiva di essere scampata da un grande pericolo.

Colle gradassate volevano vendicarsi dell'aver ripetutamente mostrato
le suole delle scarpe ai garibaldini, e gli è proprio vero che il vile
fa sempre maggior baccano dell'eroe, modesto perchè consapevole delle
difficoltà superate.

Ai francesi dava ai nervi tal condotta dei pontificii e da loro non
partiva un solo evviva a Napoleone.

Quei soldati erano silenziosi, e come stupiti del contatto con gente
briaca e ingenerosa si guardavano attorno senza parola e pareva
vergognassero di una nefanda azione.

Noi eravamo digiuni da due giorni, osservavamo col cuore gonfio di
malinconia la ridda, che ci si ballava in giro, pensavamo alla
battaglia di ieri, al disinganno scaturitone, ai castelli rovesciati,
a Garibaldi e ai ritiratisi, all'Italia e ai parenti, e non ci
accorgevamo neppure che la fame ci rodeva le viscere.

Verso le tre pomeridiane di quel giorno, lunedì 4 novembre, il
maggiore Fauchion per preservarci dalle brutalità dei papalini combinò
che noi saremmo condotti a Passo Corese sotto la scorta di una
compagnia francese. Questa con baionette in canna ci rinchiuse nel suo
quadrato e fissando per l'ultima volta Mentana e i suoi memori poggi
principiammo la dolorosa marcia.

Tutti procedevamo a piedi eccetto il maggiore Sgarallino, Bertani
serio e pallido colla sua faccia a taglio di spada ricordante
l'energica di Saint Just andava di fianco al capitano Fougerousse
comandante la compagnia di sorveglianza, pel silenzio glaciale e pei
passi misurati la intiera comitiva sembrava la confraternita della
misericordia, e solo il livornese Sgarallino taciturno a cavallo nel
mezzo di essa, colla barba e i capelli arruffati che si confondevano
coi peli del berretto di lontra, col ruvido tabarro che gli copriva
col ronzino tutta la persona, arieggiava il Ghino di Tacco ideato dal
suo fantastico concittadino Guerrazzi.

Giunti prima di sera al piè di Monterotondo, mentre contemplavamo ad
estremo vale la famosa torre del palazzo Piombino, vedemmo uscire
dalla porta sottostante ilare, paffuto e rubicondo un grasso e piccolo
pretaccio, che stringeva a braccetto all'uno e all'altro fianco due
vaghissime ragazze, rosse e fresche come mele poppine appena colte, e
ridendo con esse sgangheratamente e gongolando di gioia scendeva la
rampa verso la nostra triste colonna.

I garibaldini a quella vista non poterono trattenere un urlo
d'imprecazione e di motteggio e i francesi, capi scarichi anch'essi e
nemici del prolungato corruccio, malgrado la disciplina dovettero
parteciparvi.

Una folla di contadini guidati da preti ci rispose con ogni sorta di
minaccie e di insulti, e un conte Ramarini facendosi largo coi gomiti
s'avvicinò a Bertani, che camminava in testa della colonna con
Fougerousse, e gli sputò in viso. La destra del severo capitano
francese corse rapida come lampo sull'elsa della spada e il codardo
giudeo guizzò veloce fra la moltitudine e scomparve.

Pochi giorni dopo la breccia di Porta Pia, in settembre del 1870,
Bertani incaricò il commilitone Domenico Narratone, testimonio della
schifosa scena, d'irne a Monterotondo a portare, in compagnia di
Raffaele Giovagnoli, un suo cartello di sfida all'autore dell'indegno
atto di tre anni innanzi. Ma Giovagnoli, nativo di Monterotondo e ben
conoscendo il Ramarini, scrisse a Narratone consigliando Bertani a
desistere dal suo proposito e assicurandolo che il conte papalino,
decorato da Pio nono della croce di cavaliere di non si sa qual
ordine, non avrebbe accettato la sfida. Bertani capì il latino, e
intento a cose ben più gravi non s'atteggiò indarno a capitan Fracassa
e lasciò finir lì il negozio nello sprezzo dovuto.

Da quel punto diminuì la burbera ed ostile distanza tra noi ed i
nostri condottieri; il capitano Fougerousse, uomo dall'aspetto molto
serio, aprì cordiale conversazione con Bertani palesandogli la sua
ammirazione per noi e sensi liberi, come il medico nostro scrisse
poscia in una nota sua lettera, e il maggiore Sgarallino senza rimarco
del capitano francese ordinava egli medesimo da cavallo i riposi a noi
stanchissimi e i movimenti di marcia.

La vita è una continua antitesi dalla nascita all'avello, dalle nozze
al divorzio, dalle danze ai funerali!

Spossati, affranti di dolore, insonnia e fame, arrivammo a notte
inoltrata a Passo Corese, dove i nostri granatieri del settimo
reggimento ci accolsero colle maggiori dimostrazioni di simpatia e ci
ristorarono con quanto era in loro possesso da buoni e leali soldati.

Si partì subito in ferrovia per Terni, dove incontrammo parecchi dei
fuggitivi prima della battaglia quasi avessero il rimorso di far
ritorno alle loro case, e di là a Firenze, dove spargemmo la notizia
non conosciuta delle truppe napoleoniche alla battaglia di Mentana e
in prova consegnai all'Oliva Antonio, direttore del giornale _La
Riforma_, una palla dei loro fucili Chassepots raccattata sul campo.


Così era finita la campagna dell'Agro romano, che quantunque durata
brevi giorni fu tra le più commoventi e disastrose.

Gli sgherri papalini ed i preti avevano coperto di ingiurie i nostri
prigionieri tradotti a Roma nelle stalle di castel Sant'Angelo e poi a
Civitavecchia, sputato loro in volto e loro strappate ciocche di barba
e di capelli; ma Mentana, la gloriosa patria di Crescenzio, era stato
il _Mane, Tekel, Phares_ del Nabuccodonosorre sacerdotale e là in
quello storico villaggio, dove il 23 novembre 800 Carlo Magno col
desinare largiva a Leone III il dominio di Roma e della Comarca, dieci
secoli e mezzo dopo e nello stesso mese, il 3 novembre 1867, Napoleone
III, salito col tradimento e le stragi tiranno di Francia, invano
sorreggeva con nuovo nefasto eccidio il potere temporale dei papi, che
quivi veniva dalla coscienza italiana condannato a morte.

Vero è bene che la breccia di Porta Pia si spalancò, con scarsa
dignità, quando il sovrano gallico ignobilmente aveva ordinato stando
a letto la capitolazione di Sédan e ceduta poi la spada dell'impero al
vecchio Guglielmo di Prussia invece di bruciarsi le cervella piuttosto
che rendersi come Teodoro re d'Abissinia sconfitto dagli inglesi, o
per lo meno di uccidersi al pari dello scorpione ricinto dalla bragia:
ma gli italiani moralmente erano entrati in Roma colla sconfitta di
Mentana, il cui solo nome era per essi divenuto segnacolo di rivincita
e di trionfo.


FINE.





*** End of this LibraryBlog Digital Book "Mentana e il dito di Dio - Episodi narrati dal superstite Ettore Pozzi - Seconda - edizione, con importanti aggiunte fatte dall'Autore" ***

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