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Title: Le tre valli della Sicilia
Author: Sangiorgio, Gaetano
Language: Italian
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(This file was produced from images generously made
available by Biblioteca Nazionale Braidense - Milano)



LE

TRE VALLI DELLA SICILIA

RACCONTO

DI

GAETANO SANGIORGIO



LE TRE VALLI DELLA SICILIA



PARDO

STORIA DI VAL MAZZARA.

                «Purchè tu il voglia la catena è infranta
                    Del tuo martiro.........»
                        _Alberto Buscaino Campo._



I.

    Sutera, 4 aprile 1860.

«La congiura è scoperta, m'è dunque forza fuggire. Ma lascio la mia
Sutera non per viltà, non per codarda e vigliacca paura; ritornerò in
giorni migliori, e allora grideremo a viso scoperto: Viva Italia!
Frattanto ti lego la salute di questo borgo; non faccio di esso un
Vigliena, eppure so di poter dire che molti patrioti l'onorano.
Distruggi le cifre e segreto.»

Questa lettera scriveva nella sera di quel dì Pardo di Sutera a Bino
di Mussomeli, e il giovane Fuoco a mezzanotte la recava. Pardo
accompagnollo sino al ponte sul Platani e là accommiatandolo gli
disse:

--Ricordati, o Fuoco, del povero esule. Domattina avrò lasciata la
valle, ma ora, e sempre, sta saldo alla fede giurata. Più presto che
tu non pensi mi rivedrai.

--Addio dunque, mio Pardo: ora e sempre sarò congiurato.

--Addio!

E mentre Fuoco scompariva entro la bruna callaia del monte, Pardo
ritornava a passi veloci a Sutera.


II.

Ma Buscemo, il traditore, aveva di lontano scorto Fuoco, e in cuor suo
meditato di perderlo. Epperò appena Pardo fu rientrato nel villaggio,
si calò con prestezza dalla rupe, sulla quale era celato, e correndo a
tutta lena attraverso sentieruzzi e bistorti viottoli passò innanzi al
messaggiero e raggiunse Mussomeli che appena spuntava l'alba. Ansante
e trafelato superò la costa che sta tra il torrente e il paese, e
quivi rifatto il respiro chiese del capo delle guardie del Re e mosse
alla volta del suo alloggio.

Buscemo era uomo tra il vecchio e la mezza età, di persona ritta e
tarchiata, calvo e senza barba, cogli occhi infossati e splendenti di
luce sinistra, di portamento plebeo e maligno. Astuto e di malanimo,
aveva venduti i segreti della congiura per pochi ducati e per bassi
odii nutriti da istinti bassissimi, e fatto audace dal delitto avrebbe
accusato il padre per lusinga di premi ed onori. Vile e perverso,
credeva solo nell'oro, e cieco d'avarizia e lussuria, fidava
nell'onnipotenza della servitù per la quale sacrificava onore e
patria.

Tosto il chiamato apparve. Altero nel portamento, dignitoso nei moti,
acuto nel discorso, il capitano mostrava animo ben maggiore
all'ufficio commessogli; e di un sol sguardo misurato Buscemo capì che
aveva a fare con un farabutto.

--Capitano... leal servo del Re, mi tengo in dovere d'avvisarvi che
uno dei noti rivoluzionari di Sutera sta in cammino a questa volta...

--Ha oltrepassata Acquaviva?

--Non so. Pur lo credo! Pigliatelo, capitano, temo sia latore di serie
carte...

--Appartenete alla Sorveglianza di colaggiù?

--No... cioè... capitano, da fedel suddito... amico dell'ordine... la
tranquillità...

--Ho capito, ho capito... quali promesse...?!

--No, no, mio capitano... l'ossequio mio per l'autorità...

--Il vostro nome?...

--Buscemo Stampace.

Il soldato scosse il campanello, e un gendarme entrò.

--Tenete custodito costui sino al mio ritorno... alle guardie date
l'allarme...--e, salutato gravemente Stampace, uscì.

Bino stava chiuso segnando lettere per la provincia, allorchè poco
dopo questo dialogo si battè alla di lui porta. Appena si vide
interrotto nascose un gran fascio di esse entro un vano coperto da
stuoia, e levatosi aprì. Introdotto il visitatore, Bino serrò a
chiavistello, e precedendo lo invitò a sedere in una dulie due
seggiole che fiancheggiavano lo scrittoio.

--Perchè sì presto?

--Oh Bino... grave pericolo vi minaccia... la congiura è scoperta... e
lo spione si chiama Buscemo Stampace.

--Buscemo?!... impossibile, Orlando!...

--Così è... il traditore è guardato da' miei gendarmi... fra un'ora, o
Bino, dovrei eseguire i comandi del Re... lasciate la valle... e
raggiungete, se sta in vostro potere, maestro Pardo...

--Dunque, Pardo?!...

--Avvisato sin da ieri, sta mettendosi in salvo...

--Oh quanto vi dobbiamo, Orlando!... forse un dì...

--Presto... sì, Bino... presto assai!

--Lascerò dunque il mio paese?

--O la fuga... o il carcere!

--Addio, capitano!

--Coraggio, Bino!

Si strinsero con affettuosa tenerezza la mano e si separarono.

Il cospiratore uscì dal salotto e salì le scale, il capitano si calò
il berretto sugli occhi e ritornò al quartiere.

Buscemo gli mosse incontro pauroso e insieme confidente, e siccome gli
occhi d'Orlando lampeggiavano per gioia mal sopita, soffregossi
tripudiando le mani e gridò:

--...Preso?

--Sì, Stampace. Prima di sera partirà sotto buona scorta per Corleone.

--...E là?...

--Il comandante lo condannerà... o che temete, amico mio? la giustizia
scoprirà il resto. A voi intanto penserò io stesso.

--Capitano... accettate i miei servigi...

--Ora e sempre... n'è vero Buscemo?

L'iniquo rabbrividì, ed alzò gli sguardi in viso al gendarme. Ma
questo, immobile, tenne fissi i suoi negli occhi di lui, nel mentre un
sorriso gelato e sprezzante gli errò sulle labbra ghiacciando il
sangue in cuore al delatore.

Stampace, avvilito e tremante, volse le spalle all'uffiziale e
s'allontanò.

Fuoco frattanto, spesseggiando i passi e sempre pensando al fatale
destino, arrivò. Giunto innanzi all'umile dimora di Bino, pose piede
nel piccolo atrio, e stava per proceder oltre allorchè lo stesso
ospite apparve. Si riconobbero tosto, e gettatisi l'un nelle braccia
dell'altro, quasichè si fossero già confidati paure e segreti,
sclamarono insieme:--Povero Fuoco!--Povero Bino!

Fuoco trasse dal giustacuore lo scritto di Pardo e lo presentò
all'amico, ma Bino senza nemmen leggerlo strinse con fratellevole
violenza la mano del giovane e disse:

--Lo so Fuoco. Tutto è scoperto, e or appunto mi porrò in salvo.

--Sapete tutto?...

--Tutto, tutto. Seguimi; piglieremo i sentieri di monte Ficazzo, e
prima di notte caleremo per la china di Vallelunga.

--E come passare inosservati nel borgo?

--Non temere, Fuoco mio. Abbiamo un amico anco fra i gendarmi. Ci
vedesse, alzerebbe gli occhi e piglierebbe altra via.

--Allora, o Bino, partiamo.

--Eccomi!

Ridiscesero la gran via, e giunti sul piazzale del convento viddero
che già era aperto il mercato e molte guardie tenevano l'ordine.
Sorpresi e dubitosi si nascosero fra l'ombre delle ultime arcate del
portico e di là gettarono uno sguardo lungo ed ardente sulla bella
scena che lor davanti si spiegava. Era un va e vieni bizzarro e
multiforme; bovari, mulattieri, pecorai, cantastorie, montanine,
merciaiuoli, girandoli, uomini e donne d'ogni aspetto e d'ogni colore,
si mescevano, si confondevano, si salutavano, partivano, arrivavano;
era un susurrìo vago e indistinto, un bisbiglio or alto or fioco, ma
continuo; attraente spettacolo, che avrebbe messo il riso sulle labbra
e a Nino e a Fuoco, se contrari affetti non tempestavan nel cuore. Pur
con indicibile commozione mirarono quel largo lor noto, quella stretta
per la quale sovente eran passati, quella gradinata bianca e maestosa,
quel portico sotto cui spesso all'imperversar della pioggia
riparavano, quell'ampiezza di cielo che s'apriva nell'alto, quelle
brune montagne che chiudevano tutt'intorno l'orizzonte!

--Su, su, Fuoco. Usciamo dal portico e pigliamo il viale... questi
sollazzi non son più per noi... a che dunque invidiarli?

--Dite bene, Bino. Più a lungo restiam qui maggior doglia ne avremo.

--Seguimi!

E i due fuggitivi a passi concitati partirono.

Se non che un lontano e vago rumore, il quale accresceva e
s'avvicinava soffermolli. A guisa della bufera, che sbucando dai
monti, segnala il suo arrivo col cupo rimbombo dei tuoni ripetuti e
ripercossi dagli echi prolungati e rischiara le tenebre addensate col
guizzo replicato dei lampi, quel rumore andava vieppiù aumentando,
s'allargava, si faceva distinto e vivo, e qui e là interrotto da spari
improvvisi ricordava le sommosse di popolo inferocito ed assetato di
sangue. Un urlo di trionfo d'un tratto scoppiò, e poco dopo il cozzo
incomposto dell'armi colpì chiaro e sonoro le orecchie di Fuoco e
Bino. E nell'istante medesimo Cletto di Villalba sbucava dal viale al
grido di: Viva la patria!


III.

Allora appunto Pardo abbandonava Sutera. Abbigliato da viaggio, colla
fedel carabina ad armacollo, col valigiotto sospeso qual zaino alle
spalle, egli ai primi albori uscì dalla casa e per via rimota
raggiunse il fiume. Ed allorchè si fu messo sul sentiero che lo
costeggia voltosi alla giovin donna che lo seguiva, così
abbracciandola singhiozzò:

--Ritorna al paese Iza ed abbi cura della vecchia Rosalia. Non
guardarmi sì mesta... mi fai piangere.... suvvia, cara, lasciami. Fra
non molto rivedrò questi monti... ed allora, oh sì, Iza, grande, assai
grande, sarà la mia gioia nel baciarti! Vattene, riedi a Sutera.

--Oh Pardo!... le lagrime mi fanno intoppo... qui... Oh, addio,
ritorna presto... e dovunque ti celi ricordati della sposa...

--Oh Iza, e come potrei scordarti?

--Pardo, Pardo, addio!

--Iza, Iza, addio, addio!

E fatti muti dal dolore, i giovani sposi si baciarono ancora una
volta, mestamente sorrisero, e quasi di fuga s'allontanarono.

Pardo la seguì coll'occhio sino a che fu scomparsa su per l'erta della
montagna, e dato uno sguardo lagrimoso alla sua terra diletta, a
quella povera valle in cui suo padre, la madre sua, un amato fratello
eran morti, e che ospitava bella e solinga la pura sua Iza, affrettò i
passi e colla tempesta nel cuore scese sino al pian d'Aragona, e
sempre costeggiando il Platani si diresse alla volta di Felice. Il
fiume gonfiato dagli acquazzoni che pochi dì avanti avevano fradicie
le vette di Casteltermini e Prizzi, rumoreggiava spumeggiante e rotto
fra i massi e le frane, e quel sordo e cupo muggito dell'onde
impetuose accresceva d'assai la tristezza del fuggiasco e gli metteva
in cuore la rabbia della sventura. Pardo fissava con occhi paurosi il
precipizio che s'apriva a lui daccanto, e neppur la bella e
lussureggiante vaghezza dei pendii che dal Cammarata andava morendo
giù giù sino a Ribera gli apriva l'animo a sentimenti di pace e
perdono: piangeva, e del suo pianto vergognava!

--Povera patria,--diceva a sè stesso--Povera Sicilia! E dunque le ire
di Maniscalco ti terranno sempre la speranza? che abbino ad esser per
te fatali come le maledizioni dello sgozzato? E come mai egli
scoprì?!... nessuno, nessuno ci può aver scoperti!... fosse Enzo?...
oh no, il mio sospetto è calunnioso!... Arnoldo?... neppure! buon
Arnoldo, perdona all'amico straziato il solo dubbio!... dunque, dunque
chi?... Avesse Iza parlato?... oh no, Iza... giammai! sciagurato ch'io
sono a sospettare di te!... dunque? sempre questo dunque?!... Cletto?
quel cuor generoso, quell'animo di fuoco?.. Ah, eccolo, eccolo... è
Lapo... sì, è lui!... infame! ci ha venduti?! e quant'oro t'ha
promesso il manigoldo? Lapo, Lapo, trema!... e se non fosse lui?... se
nessuno avesse tradita la congiura? in Palermo, in Alicata... in
Caltanisetta... qualcuno avrà messo a repentaglio il segreto della
trama... no, non è possibile... è Lapo che ci ha venduti! Lapo, Lapo,
trema!--E Pardo fremeva di sdegno... poveretto; nemmanco pensava al
vero iniquo!

Camminava, camminava, ed ai ricordi di patria e libertà si mischiavano
i nomi d'Iza e Sutera. Soffriva davvero, e cacciato da pensieri tanto
angosciosi, il suo passo era incerto e febbrile; divorava la via e le
Madonie vieppiù si perdevano nel lontano orizzonte. Ma il sole già
alto aveva spossate le forze di Pardo; sudato e stanco non avrebbe
toccato il lido che a sera, epperò si gettò supino appiè d'un albero
enorme e presto s'addormentò.

Che giova dirti, o lettore, quali strani sogni, quali orribili casi
gli si dipingessero nella fantasia? Tutti si fanno beati di narrar
fantasmi e ubbie, io invece passerò oltre e lascierò che Pardo gusti
quel poco riposo. Tre ore dormì, e forse più a lungo avrebbe dormito
se lo scalpito sonoro di un cavallo non lo svegliava. Si rizzò e con
moto involontario pose mano alla carabina; ma rasserenossi allo
scorgere che il nuovo viandante eragli conosciuto, eragli anzi amico.

--Diego!--esclamò, e avanzandosi nel mezzo della strada gli fece cenno
s'arrestasse.

--Tu Pardo, qui?

--Sì, Diego, vo in salvo.

--Fuggi?... ma non sai dunque la gran novella?

--No.

--Palermo stanotte è insorta. A Piana, a Monreale, i patrioti stan
cacciando la sbirraglia... certo a quest'ora gli spari echeggiano fra
le valli delle Madonie... Trapani e Salemi forse hanno imitata la
capitale... la rivoluzione sta scoppiando ovunque... e tu fuggi?

--Oh vittoria! Diego, Diego, mi ridoni la vita!

--Orsù, Pardo, benchè fossi diretto a Cattolica, rifarò la mia via.
Sali in groppa e fra due ore siamo a Sutera.

--Diego mio... grazie, grazie... oh qual gioia!

--Suvvia, monta qui.

E il cavallo punto dagli sproni, risalì di corsa l'erta, sollevando un
nembo di polvere.

Suonavano cinque ore dopo mezzodì alla torre di Sutera allorchè
l'ansante animale arrivò. Gran turba di popolani circondò Diego e
riconosciuto nel travestito il lor Pardo, tutti ad una voce gridarono:
Viva Pardo! Viva Pardo! E con essi una donna, la quale si precipitò
nelle braccia dell'acclamato; Iza ribaciava il suo sposo.


IV.

--All'armi! all'armi! tonò Pardo, e dato l'amplesso d'addio ad Iza,
sfoderò la spada; poi strappata di pugno ad un navichiero la bandiera
tricolore, si avviò correndo alla piazza e là sventolandola ripetè ad
alta voce:

--All'armi! all'armi!

--All'armi! all'armi! rispose la turba, e più di cento gli
s'affollarono intorno, con zagaglie e falci alcuni, altri con schioppi
e pistoni, pochi con carabine. Animati da spirito battagliero,
eccitati dall'annunzio della nuova libertà, scossi dalle parole
ardenti dei patrioti, quei montanari bramavan davvero di misurarsi col
nemico; epperò al grido di guerra di Pardo si serrarono in colonna e
sfilarono. Lo sposo d'Iza e Diego misersi a guida dei Suterani, e
salutati i vecchi e le donne lasciarono il paese alla volta di
Acquaviva. Quella brigata di montanari, veduta da lungi, avrebbe
stupito l'osservatore; perocchè il luccicare delle armi ai raggi del
sole scendente e il canto marziale degli inni mettevano in cuore un
tripudio tutto nuovo, indefinibile. Camminavano allegri, e su quelle
fronti abbrunate brillava la gioia e si specchiava il proposito fermo
di vincere o morire. Baldi e spediti, serravano al petto con militare
letizia le povere armi che loro era fatto portare, ed un sorriso di
benevolo plauso sarebbe spuntato sulle labbra del mio lettore nello
scorgere i dieci o quindici provvisti di carabina pulirlo marciando,
spazzarne l'anima, nettarne il focone, caricarla, metterne il cane a
mezzo punto, aggiustar ai fianchi la palliniera. Ed anco gli altri
davano occhiate agli arnesi, apprestandoli e passandoli al più vicino
commilitone in esame. Era proprio il coraggio italiano che li animava;
e lo stesso Pardo, cacciatore provato, d'animo bellicoso, uso alle
fatiche e alle lotte, ne inorgoglì;... giovani tutti, infiammati dal
sacro amor di patria, desiosi di quella libertà per la quale avevano
cospirato e sofferto, incoraggiati dai baci e dagli evviva, mescevano
speranze e conforti, auguravano insieme alla lor terra ed ai
confratelli felicità e gaudio!

--Oh Diego--dopo lungo silenzio disse Pardo all'amico--oh Diego, fra
poco saremo alle mani cogli oppressori. Il tuo annuncio mi ha
sollevato; ora spero!

--Non credo che Mussomeli sia ancor tenuto dai regi. Cletto stamane li
ha cacciati.... e i gendarmi eran quaranta.

--E pensi abbian sloggiato? si saranno serrati nella torre.

--La quale è comandata....

--Da Orlando.... ma anche a lui non è dato scoprirsi ad una numerosa
brigata di sgherri!

--Orlando è audace. Avrà resa la torre....

--A dispetto dei soldati?!.... a quest'ora sarebbe morto.

--E Cletto avrebbe potuto rimaner inerte spettatore dello strazio d'un
fratello?....

--Cletto non sa che Orlando è dei nostri.

--Dunque?...--insiste Diego commosso--dunque?

--Ne sarà nato uno scontro e noi giungeremo opportuni a finirlo.

--E se il capitano è morto?

--Non ha Italia l'albo dei martiri?--e queste parole Pardo pronunziò
in tuono solenne e in atto di convinzione profonda.

Ambedue tacquero, e per alcuni istanti non s'udì che il grave passo
del drappello. Ma di lì a poco due fra i seguaci ruppero il monotono
silenzio e parlarono assai rapidamente questo dialogo:

--Senti, Sandro, credi che la vittoria sarà nostra?

--Che dici, Maso, hai paura?

--No, non temo... abbiamo a capo Pardo, lui...

--Lui sì bravo, sì valente...

--Ardito e prode, ci condurrà a certo trionfo... non sai quanto valga
il nostro Pardo... tre anni or sono... te ne ricordi?

--O che, Maso, pensi che non m'abbia memoria? L'amico Pasquale fu
liberato...

--I gendarmi ebber la peggio...

--Lasciaron due morti... e si nascosero su quel di monte Puccio. Pardo
tambussò per quattro...

--E quel che più monta inspirò coraggio a noi... e ci diresse bene.

--Animo, compagni... gridava lui... animo... salviamo l'amico!

--Pardo sarà sempre il nostro capo; anche quei di Villalba e
Castronuovo eleggeranno lui!... tutti lo sanno bravo.

--Viva Pardo!

--Si, viva il nostro capo--disse forte Maso--Viva!

--Anche voi fidate in Pardo?--interruppe un terzo.

--Senza dubbio, Ascenso, nessuno in Sutera merita più di Pardo la
nostra fiducia...

--Non in Sutera soltanto... anche a Cammarata... a Termini, nella
valle... l'ho sentito lodare... e ne godevo come d'elogio fatto a me
stesso.

--Nell'inverno passato a me mancò il grano e Pardo me lo donò.

--Ed a me rifornì il casale.

--Alla mia vecchia mamma... lo sapete Maso?... regalò coltri e
lenzuola...

--Tutti nella valle lo amano e lo salutano.

--Con lui vinceremo.

--Dovremo a Pardo la libertà delle Madonie.

--Viva Pardo!

--Viva!--gridarono tutti. Viva! ripetè senz'altro Diego. Pardo (chi
nol sapesse) non era facile agli improvvisi entusiasmi, per il che
all'osanna de' suoi rispose:--Amici, grideremo viva sull'orme del
tiranno... allora soltanto! oggi fa d'uopo ordine e coraggio.

--Coraggio! coraggio!


V.

Dalle vette eccelse di monte Puccio sorgeva il sole colla sua corona
di fuoco a diffondere la luce dorata de' raggi sui boschi e sui
vigneti. Irradiati da quel sublime splendore i ruscelli brillavano
serpeggianti fra i prati verde-biancastri smaltati dall'armonico velo
dei fiorellini azzurri e gialli, e gli uccelletti svegliati dal
leggier fruscio delle foglie agitate dalla brezza del mattino volavano
liberi e garruli nell'aria tepida per poi posarsi festanti sulle cime
degli alberi più alti. Era la natura che, riposata nella pace della
notte, si risvegliava e ritornava per l'influsso arcano del disco
fondatore alla vita del dì; erano i figliuoli della terra che col
cessar delle tenebre cessavano dal sonno, e uniti in poetica concordia
innalzavano il saluto degli effluvi e dei canti. Era proprio la
primavera, col rigoglio della gioventù, colla bellezza del cielo e del
creato, col balsamo degli zefiri delle montagne; e là fra i reconditi
Apennini della ferace Sicilia il mattino d'aprile rinnova davvero i
colori alle piante, il miele alle acque, le forze all'uomo!

Sulla piazza di Cammarata bivaccava un battaglione di soldati che
Salzano avea spedito per tener tranquilla la provincia. Levate le
tende di buon'ora, la truppa girandolava intorno ai fasci delle armi,
e gli uffiziali ciarlavano raccolti in crocchio nell'atrio del palazzo
del Comune.

D'architettura severa e massiccia, vasto, annerito dall'età e dalle
pioggie, quel palazzo metteva in animo un tal quale ribrezzo che
incuteva e spauriva; avanzo grandioso dei tempi feudali ricordava le
gesta splendide insieme ed inique dei duchi e dei re angioini ed
aragonesi; triste monumento di anni troppo celebrati, illustri per
sciagure ed infamie. Quel palazzo rammentava l'esosa boria dei forti e
i vigliacchi fremiti degli oppressi; quelle arcate maestose e cupe,
quelle volte polverose, quelle lunghe pareti sulle quali erano dipinti
i fasti dei signori, ritornavano al pensiero la servitù della plebe
avvilita, l'audacia dei protetti, la millanteria dei bravazzi,
l'ignoranza superba dei fortunati, la dispotica inviolabilità dei
frati e dei conventi, la partigiana indipendenza del clero.

In una sala a pian terreno, che dava sul giardino, passeggiava a
lunghi passi il maggiore, e ritta presso la porta del cortile stava la
guardia. Era il maggiore un tal Frazitto di Marsala, uno dei pochi
isolani che tenessero alti posti nell'esercito del re di Napoli. Più
birro che soldato, il Frazitto ubbidiva ciecamente ai comandi dei
capi, e servo dei gigli aveva rinnegata la bandiera nazionale non per
odio ma per viltà; liberticida senza saperlo, egli seguiva con
scrupolosa devozione la sorte di chi lo pagava. Il sovrano non aveva
più devoto suddito di quello, e con croci e danaro ricompensava le
sevizie al paese nativo. Frazitto era amato dagli uomini della reggia,
e specialmente raccomandato a Salzano godeva distinzioni e privilegi.
Il visire di Palermo, certo della fedeltà del _cagnotto_, lo aveva
quindi designato a custode dell'ordine in val di Platani ed investito
della massima autorità, imponendo ad ognuno che lui riconoscessero per
capo ed obbedissero. Teneva spiegata fra mani una carta, ma non
leggeva: l'avviso dello scoppio della rivoluzione gli aveva cacciato
il demonio nelle vene e nella fantasia pigliavan forma e corpo le più
strane idee di sangue e vendetta. Meditava, fremeva, e assai tempo
sarebbe rimasto in preda a quella febbre di rabbia e impotenza se un
gridìo improvviso non l'avesse scosso ed un uffiziale non si fosse
allora appunto precipitato nella sala. Si rivolse brusco brusco, e
ficcando negli occhi dell'apparso due sguardi smarriti, balbettò:

--Altre novità?!

--Pur troppo, maggiore; Vallelunga, Villalba, i pecorai di monte
Ficazzo... sono insorti stanotte.

--Insorti?... e le armi?... e i capi?...

--Le armi eran giunte di nascosto da Girgenti... loro capo è Cletto
Navarro.

--Cletto?...

--Sì, maggiore.

--Maledizione! tutto a rovescio! oh foss'io il monarca!

--Maggiore...

--Che volete, tenente?

--Attendo gli ordini.

--Comandate la raccolta... fra mezz'ora... a Villalba.

Frazitto, allorchè l'uffiziale fu lontano, gettò la carta in atto di
dispetto, e tolta rabbiosamente dalla tavola la spada se la cinse
percuotendola sull'ammattonato. Trasse poi dalle borse le pistole, le
sgrillettò, caricolle e riposele. Indi rivolto alla guardia, ordinò
che gli sellasse il cavallo, ed uscì.

Al suo comparire i tamburri rullarono, squillarono le trombe. I
soldati al segno circondarono i fasci, e riprese le armi, si disposero
in fila. I capitani li ordinarono in colonna e sguainate le sciabole
salutarono la bandiera.

Poco dopo il maggiore salì a cavallo, e postosi alla testa della
truppa, lasciò la piazza e calò alla volta del fiume. Ma Frazitto non
aveva ancora percorsa l'ultima via di Cammarata, che un uomo tutto
polveroso e sudato gli gridò fermandolo collo smaniar dei cenni:

--Maggiore, Cletto Navarro è a Mussomeli... la mischia vi è
impegnata... correte all'aiuto...

Quell'uomo era Buscemo Stampace.

Uscito dal quartiere del capitano Orlando, tutto pauroso d'incontrar
qualche cittadino che gli scorgesse incisa in fronte la grave nota
dell'infamia, aveva attraversato per viottoli e viuzze il sobborgo ed
era sbucato sulla piazza dei portici, appunto nel medesimo istante in
cui vi ponevan piede Fuoco e Bino. Benchè messo in sospetto dalla
presenza di tanta moltitudine, Buscemo ebbe presto ravvisati i due
patrioti; epperò sguizzando curvo e tremante tra persona e persona
sgattaiolò e raggiunse assai prima di essi il viale, fermo nella
speranza d'intanarsi a Villalba. Le grida di guerra delle genti di
Cletto gli tolsero ogni fiducia di scampo, quindi scavalcata la siepe
s'appiattò nell'oscurità dei campi e lasciò che gl'insorti, correndo e
vociando, entrassero in paese e s'allontanassero. Passato il pericolo,
si rizzò, prese a tutta corsa la via del monte e senza mai darsi
riposo, ombroso e trepido sempre, ravvisò ben presto i tetti di
Cammarata. Rifatto il respiro, già entrava nel villaggio, allorchè
s'incontrò, come viddimo, nel Frazitto, cui infatto s'indirizzava.

--A Mussomeli dunque!--gridò il maggiore; ed indicato a Stampace un
cavallo a lui vicino perchè lo montasse, e così seguisse con qualche
agio la colonna, riordinò la partenza e a passi celeri camminò verso
il borgo ribelle.

Appena costoro ebbero perduto di vista Cammarata, sul balcone del
palazzo stesso nel quale Frazitto era soggiornato fu inalberato lo
stendardo tricolore, ed Enzo apparendo nel vano delle imposte
spalancate salutò la folla col sacro grido:

--Viva la libertà!

--Evviva Enzo!--rispose il popolo, e accalcatosi nella corte fe' suo
capo l'ardito cospiratore. Il quale, solitario e prudente, aveva
osservato e calcolato, scritto a Pardo, tenute salde le fila della
congiura tra Palermo e Sutera, mantenuto vivo il fuoco della
rivoluzione, provvedute armi, raccolto polvere e ducati. Degno seguace
dello sposo di Iza, fedele ed attento esecutore de' costui ordini,
aveva atteso con ansia e gioia il 5 aprile; l'allontanarsi di Frazitto
fu per lui il segnale d'insorgere, e insorse.


VI.

--Viva la patria! aveva gridato Cletto irrompendo nel piazzale di
Mussomeli, ed a quel grido i giovani del paese erano corsi
all'arme.--Viva il riscatto! risposero avanzandosi Bino e
Fuoco.--Avanti! avanti! esclamarono tutti, e più rapidi della folgore
cerchiarono il mercato e piantarono la bandiera.

Orlando dagli spari e dalle grida ammonito che gl'insorti già stavano
nel borgo, chiuse i suoi gendarmi nel quartiere e messone uno in
vedetta attese gli eventi. Forte gli batteva in petto il cuore, e ad
ogni poco temeva che i soldati si rivoltassero e uscissero. I quali
infatti, prima taciti e sommessi, cominciarono a mormorare, a chieder
perchè il capitano non schiacciasse il nemico sprovveduto, a dubitar
di lui e del riparo, a desiderar la lotta, a invocarla, a gridare, a
minacciare. Inutili comandi diede Orlando; i gendarmi spalancarono le
porte e sbucarono sulla via. Una salva di fucilate li accolse; la
mischia divenne subito terribile, e parecchi morti insanguinarono il
selciato. Orlando, vedutosi solo e certo del trionfo dei patrioti,
corse innanzi ai compagni, e a tutta voce gridò:

--A me Cletto! Viva Italia!

--Orlando, a noi!--Bino replicò,

Ma i gendarmi non cedevano, e il fuoco aumentava. Feriti e scemati,
essi opposero la più disperata resistenza, e pochi contro molti
vendettero cara la vita; mancate le cariche ruotarono in giro l'armi
vuote con furore crescente e sempre più raggruppandosi in cerchio. Era
valore degno di scopo migliore, pur italiano; e gli stessi offensori
li ammiravano e compativano. Quei prodi non sapevano altro nome che
quello del re, non avevano idea dell'Italia e della libertà; non
pensavano che col cervello dei comandanti; difendevano l'assisa, lo
stemma, le spade! Nondimeno, affievoliti e oppressi, dopo un'ora di
lotta, quegl'inferociti si contarono, si trovarono venti, e viddero a
sè intorno una siepe d'estinti. Le armi si erano spezzate, le fronti
grondavano sudore e sangue, il numero degl'insorti cresceva ad ogni
istante, provetti erano i loro duci, nessuna speranza di scampo.
Piegarono quindi, ma piegarono alteri; gettarono l'armi e senza dir
parola nè muover lamento s'arreser prigioni. Cessata la mischia, anco
le ingiurie e le bestemmie cessarono. Il popolo sgombrò la via e si
accordò qualche riposo. Le salme dei morti vennero gettate nel campo
più vicino, ed ai vinti si concesse libertà col comando d'uscir da
Mussomeli. Bino e Fuoco condussero Orlando in presenza di detto, ne
lodarono l'amor pel paese e il coraggio con cui avea sfidate l'ire dei
subordinati, e tanto fecero e dissero che Navarro (il quale temeva
d'inganno ed odiava d'odio generoso la divisa che il capitano
indossava) gli stese cordialmente la mano e l'abbracciò:

--Uniti da grande proposito, saremo sempre fratelli, Orlando!

--Ve ne son grato, Cletto. Quest'abbraccio mi riconforta...

--E vi ricompensa--interruppe Bino--avete molto sofferto!

--Oh sì, molto! L'assisa che vesto m'umiliava; vile fra vili temevo
sempre l'oltraggio del patriota... due soli m'hanno dato speranze...
coraggio... Bino e Pardo.

--Siete amico di Pardo?

--Me ne onoro, Cletto. Lui mi riabilitò, da lui ebbi consigli e
sprone. Oh potessi baciarlo in volto!

--Pardo sarà presto con noi... domani, forse oggi... stanotte...

--Amici--gridò in quella, correndo loro incontro, un giovane
montanaro--amici, sulla postale di Cammarata appare una colonna di
regii. Il denso polverio impedisce lo scorgerne il numero, ma temo
sian molti!

--Soldati?... è dunque un assalto... su, su compagni, asserragliamo le
vie... barrichiamo le porte...

--Volete combatter qui?--osservò Orlando--qui?... all'aperto?...
tagliati dal fiume?... esposti ai loro colpi dall'alto? no, no
Cletto... pieghiamo su Acquaviva...

--Avremo Sutera alle spalle... Pardo vedrà e verrà. Acquaviva è più
sicura.

--È almeno meglio difendibile.

--Dunque ad Acquaviva!--tonò Cletto; e d'un salto fu in piazza.

Intanto gli armati di Vallelunga, Villalba e Mussomeli s'erano
raccolti e schierati; ed allorchè Navarro gridò loro che il nemico
s'avvicinava e che giovava ordinarsi in battaglia sulle alture vicine
ad una voce tutti risposero:

--Ad Acquaviva!

E ad Acquaviva giunsero mezz'ora dopo. E allora appunto Frazitto
occupava Mussomeli.


VII.

Vedesti mai un tramonto d'aprile?

Il sole, dopo avere in tutta la sua pompa attraversata la valle,
scendeva lento lento dietro le punte del Monte Cammarata, irraggiando
quasi d'isforzo i boschi e i pendii. La parte più profonda della
vallata era già immersa nelle tenebre, e il rumorio delle acque
nascoste rompevano solo il silenzio. Ombre melanconiche ed uniformi
velavano i dossi e le calate, e il morir quieto ma solenne del giorno
le aumentava, mettendo nel villico

    Una tristezza che non è dolore.

Le montagne all'ingiro, più umili del gran fratello, cerchiavano con
muta eguaglianza la vasta scena, e dietro ad esse spiccava il ceruleo
del cielo ingemmato dalle prime stelle. Qualche torre rompeva qua e là
il monotono orizzonte, qualche squilla dava il saluto della sera, e il
lontano canto del pastore addolciva la tetra calma della natura. A
poco a poco però anco l'orbita infuocata del sole sparve, e con lui
ogni luce animatrice. L'azzurro celeste brillò più vivo e tagliato, la
luna concesse i suoi primi sorrisi, e quei raggi di argento spezzavano
la tenebria e infondevano la vita pacata e solitaria della notte alle
falde deserte. Le alture d'Acquaviva erano anch'esse inondate da
quella luce, e perchè franate da ogni banda e segate dalla sommità ai
declivii da torrentelli e gore, il contrasto dei dirupi colle spianate
riusciva armonico e pittoresco. Vedute da lontano si sarebbero
assomigliate a piccoli vulcani spenti, i rivoli delle cui lave
impietrati brillassero al cospetto della luna, e di cui i crateri si
fossero per potenza misteriosa riempiuti sotto uno smalto uniforme
insieme e vago di lucidi massi e zolle fiorite. Nuotante in un oceano
indefinito di splendore argenteo, il povero paesuolo s'ergeva sparso
in rustici casali su quelle cime; contemplato da settentrione sembrava
si librasse lassù quasi in atto di fuga, veduto da Sutera pareva
rituffato da palmo invisibile nei gorghi della valle; nuova sirena,
Acquaviva ingannava lo straniero; appariva bella e graziosa, era in
realtà misera e poca. Abituro di mandriani e caprai, teneva aspetto di
luogo delizioso, era all'incontro umile comune, eretto là in alto, fra
le viscere della valle e le vette più giganti, siccome rifugio dalle
bufere e dai turbini.

Questa scena alpestre, questa pace tutta montana, questa quiete
riposata e tranquilla, venivano però spezzate e rotte da alte grida
che partivano da Acquaviva e dalle alture vicine. Erano voci di
guerra, erano urla di vittoria e rabbia, spari, rimbombi, suono d'armi
percosse, lunghi sospiri soffocati, brevi bestemmie. Due schiere
italiane, là, su quelle cime pure italiane, si straziavano, si
uccidevano, vincevano, fuggivano, con ferri italiani, in nome
d'Italia. Gli echi ripetevano quelle grida e quegli urli, e nel buio
della notte avresti detto che uscissero dal seno stesso della terra,
se qualche fuggitivo scorazzante alla cieca, se qualche ferito
sanguinolento e sbaldanzito non fossero ad ogni poco apparsi a dar
conferma alla dura realtà: nati tutti sotto lo stesso cielo, tutti
parlanti l'istessa favella, tutti figliuoli della medesima patria,
combattevano da ore parecchio al grido smisurato di Viva il re gli
uni, Viva la libertà gli altri. Pur

    «D'una terra son tutti: un linguaggio
    Parlan tutti: fratelli li dice
    Lo straniero: il comune lignaggio
    A ognuno d'essi dal volto traspar.
    Questa terra fu a tutti nutrice,
    Questa terra, di sangue ora intrisa,
    Che natura dall'altre ha divisa,
    E ricinta coll'Alpe e col mar.
    . . . . . . . . . . . . . . . .
    Ahi sventura! sventura! sventura!
    I fratelli hanno ucciso i fratelli:
    Questa orrenda novella vi do!.

Un giovane col petto squarciato, col viso sanguinoso, coi panni
bruciati dal fuoco e dalla polvere, scendeva in mezzo a quel disperato
turbinio dal paese lungo il corso di un piccolo torrente. Ad ogni
passo inciampava, piegava le ginocchia, e se forse per solo istinto
non poggiava la persona sulle mani stese al suolo cadeva e cadendo
precipitava dall'alta ripa. Gli occhi smarriti, la pallida fronte, il
respiro angosciato, il tremito delle membra, il sudore gelato che gli
gocciava, ben dicevano che a quel misero ferito era presso la morte.
Pur volle contemplare ancora un istante il triste spettacolo, e
comprimendo colla destra l'affanno del cuore, si rizzò e stese la
libera mano in atto di supremo saluto al paesuolo. A quello sforzo
però svenne, e caduto boccheggiante sull'erba arrossata
mormorò;--Italia, ricevi l'addio ultimo d'Arnoldo--e spirò. Nato e
cresciuto in Acquaviva, moriva cittadino-soldato col nome di patria
sulle labbra!

Guidati da Pardo, gl'insorti ributtavano con ostinato valore gli
uomini di Frazitto; il quale, irato di cedere innanzi a un pugno di
montanari, incuorava colle parole e coll'esempio i soldati a tener
salda la bandiera del Monarca e far onore all'assisa che vestivano. E
per verità combattevano da prodi, ben mostravano d'esser nipoti di
quegli eroi che Murat aveva lanciati fra i ghiacci della Russia a
sostegno dell'aquila francese; ma Pardo, coraggioso ed audace, ardito
nelle avvisaglie e prudente ai ripari, collo sguardo rianimatore,
colla parola infocata, colla mano di ferro, a tutto era pronto, tutto
faceva, ordinava tutto; portato da focoso destriero, correva tutti i
lati del campo, si gettava nel più folto della mischia, qui riparava i
colpi diretti a un fante, là quelli minacciosi all'amico, sereno in
viso siccome uomo che tenga in pugno la vittoria, orgoglioso di
onorare il nome italiano. Il cavallo, quasi esso pure dividesse la
gioia e l'ardenza del padrone, s'imbaldiva, impennava, correva,
volava; e là dove più stretta era la tenzone, dove il fumo era più
denso, dove gli spari rivaleggiavan col tuono, piombava a precipizio,
questo atterrando, quello pestando.

Già da tre ore si battagliava; perocchè appena Frazitto ebbe veduto
Mussomeli spoglio e deserto, aveva inseguito Cletto e raggiuntolo
sulle alture. Ma la fatica non avevagli concesso di assaltar subito le
barricate degl'insorti, e solo a sera potette dar il segno
dell'attacco. Pardo intanto aveva raggiunta Acquaviva, raccolte le
diverse brigate, distribuite armi e munizioni, dati capi e comandi,
eccitati gli spiriti, studiato il terreno; e Frazitto al primo urto
s'era accorto di lottare con prodi, di aver sfidato l'ingegno del più
prode di Val Mazzara. Posti l'uno a fronte dell'altro, il rinnegato di
Marsala e il cospiratore di Sutera, soldati di due opposte bandiere,
devoti a principii ostili, fedeli a giuri avversi, non potevano nè
piegare nè cedere; dal cozzo delle loro spade dovevano scaturire o la
libertà delle Madonie o il servaggio della valle. Frazitto e Pardo lo
sapevano; e perciò aspra e dura era la guerra; avrebber lottato sino
all'infinito piuttosto che dirsi vinti e gettare le armi.

Mancava solo un'ora a mezzanotte, e Pardo voleva vincere. Serrò dunque
le fila de' suoi, comandò a Cletto che ad ogni costo spezzasse la
doppia schiera dei regii, ed a Diego affidò un'eletta squadra di bravi
perchè cogliesse all'imprevista nelle sue ali il nemico e sfondandolo
si cacciasse nel centro. Egli poi, seguito da Fuoco e Bino, e da pochi
arditi, alzò il grido d'allarme e a gran furore piombò addosso al
Frazitto. Fu un urto spaventevole; molti come falciati dalla morte
caddero per non più risorgere. Pardo compiè prodigi; colla spada nella
destra, nella sinistra la pistola, faceva largo innanzi a sè e urlando
ad ogni tratto:--Muojano i nemici!--gettava di sella i cavalieri e
stramazzava i pedoni. Eccitati dal calor della pugna e dal valore di
Pardo, anche Bino e Fuoco rivaleggiarono coi più prodi; quei tre tanto
menaron colpi e spossarono che ben presto i regi perdetter terreno e
spauriti piegarono. Fu un delirio di rabbia, un violento ricambiar di
fendenti e imprecazioni; nessuno rimase illeso, e il campo fu veduto
seminato di agonizzanti e cadaveri, tutti feriti nel petto, caduti
tutti coll'onor del valore;

Cletto e Diego, degni esecutori di Pardo, tempestarono il nemico nei
lati e di fronte.

Pieni di coraggio ed entusiasti, esposero sempre sè stessi per salvar
la vita dei compagni, li eccitarono ad atti di valore incredibili,
apriron loro la via. E tutti, gridando Viva Italia, Viva Pardo,
insegnarono ai soldati che l'amor della patria infonde in animi
generosi coraggio e virtù; uccisero i feritori, feriti uccidevano.
Giovani imbelli su quelle alture divennero veterani, i loro bracci
parevano di ferro, i loro petti invulnerabili. Allorchè uno cadeva
l'altro serrava la fila, e sempre cacciandosi innanzi portavano la
strage nelle nemiche; assottigliati, raddoppiavano il valore e ben
aveva diritto Pardo di gridare dal folto della carnificina:--Su, su,
bravi, fatevi onore, ancora pochi colpi e nostra sarà la vittoria.--

E Orlando?

Il buon Orlando, condotti sulle alture Cletto e gli amici, era disceso
in paese, e salvato dalle ire soldatesche per la divisa di capitano,
aveva raccolti altri giovani e stavali alla lesta, ed il meglio
possibile, ordinando, allorquando Enzo cogl'insorti di Cammarata
comparve. La presenza dei fratelli dell'alto monte, di un uomo sì
ardito, sì ostinato qual era Enzo, ravvivò il desiderio di menar le
mani e in Orlando e nei patrioti rimasti in Mussomeli. Epperò, dato
bando a qualunque assetto, tutti uniti volser le spalle al sobborgo e
salirono alla volta d'Acquaviva. Ivi giunsero nell'ora in cui più
dubbia ed accanita ferveva la battaglia, ed il loro arrivo (non eran
molti, ma freschi e prodi) assicurò a Pardo il trionfo. Orlando ed
Enzo, scorto Pardo, lo seguirono in mezzo ad un turbine di spari e
polvere, e sguainate le sciabole e spianate le carabine caricarono il
nemico coll'audacia dei magnanimi, onorarono sè stessi, s'accrebbero
lustro. E la mischia terminava, e le grida di vittoria echeggiavano
dovunque, allorchè Orlando come percosso da un pugno barcollò e cadde
rovescioni: Buscemo Stampace vedutolo l'aveva preso di mira e gettato
morto da sella!

Caduto Orlando, Buscemo, cacciato dal demone dell'odio, fatto
coraggioso dalla paura, spronò il cavallo contro Fuoco ed
avventandosegli addosso, disse con voce irata e rabbiosa:

--Fuoco, Fuoco, e la lettera l'hai recata?

--Voi Stampace?

--Rendi l'arme, gaglioffo.

--Ah, furfante!--e Fuoco, colto all'improvvisto da un colpo
scaricatogli alle spalle, gettò la spada e dato furiosamente di piglio
al fucile, immerse la baionetta nel ventre al traditore, e sì d'impeto
che il sangue sprizzato dalla larga ferita gl'insudiciò mani e viso.
Frazitto, che poco lungi duellava con Pardo, si scagliò livido di
rabbia sul giovinetto, e, rizzatosi sull'animale, calò un fendente
tanto assestato sul cranio di lui che il filo della spada tagliato il
cerebro ripercosse sulle mascelle, Fuoco, orribilmente mutilato,
stramazzò al suolo; ed intanto Buscemo veniva sollevato dai soldati e
recato in salvamento. Pardo vide, intravvide, avvampò d'ira,
impallidì, ed urlando vendetta piombò sul maggiore.

Diego e Cletto accorsi essi pure allo strazio del povero Fuoco,
perdettero il lume della ragione, e mugghiando terribilmente si
precipitarono in mezzo ai nemici. I cavalli, crivellati da palle e
punture, caddero bocconi, ed i due temerari, impigliati nelle staffe,
furono per loro gran malanno subito circondati. Percossi coi calci
delle carabine e sforacchiati da una pioggia di colpi, Cletto e Diego
penarono lunga pezza a trarsi di sotto ai morti corridori, ma appena
ebbero libera la persona saltarono in piedi e alla gragnuola risposero
con una fitta di botte che mai si vide la più disperata. Benchè due
contro dieci, pur si difesero da eroi, e vivo sangue lor spicciava da
ogni dove. Mani, coscie, reni, collo, faccia, tutto il corpo fu loro
ferito, e così grondanti e sfatti incutevano spavento agli stessi
assalitori. Infiacchiti e stremati, percossi senza tregua, sentirono
però vacillar le ginocchia, s'accosciarono, e già moribondi tenevano
in rispetto quella mano di codardi. E codardi eran davvero, perocchè
ammazzavano due morti..... Non hai ancor letti i nomi di Diego e
Cletto scritti a caratteri d'oro nel sacro libro dei nostri martiri?

La battaglia ora terminata, i regii in fuga, gl'insorti padroni delle
alture avevano inalberato lo stendardo tricolore sul campanile.
Nondimeno Pardo e Frazitto combattevano ancora, e il loro era duello a
morte; serrati l'un contro l'altro, avevano le armi e le vesti
spezzate, e col solo troncone della spada si squarciavano le membra
chiazzandosele di sangue in omaggio d'eguaglianza selvaggia. Gli occhi
volevano schizzare dalle orbite, i denti battevano, il palpito de' due
cuori era febbrile e violento, un tremito di convulso livore correva
loro attraverso la persona: il delirio della tenzone riusciva al suo
colmo, e però fu giocoforza finissero. Raccolte tutte le sue forze
Pardo abbracciò stretto l'avversario, l'atterrò, e cadendogli sopra
gli tuffò e rituffò con gioia suprema l'avanzo del ferro nel petto.
Frazitto non diè un grido, non mosse palpebra, e morì brandendo
tuttavia stretta in pugno la sciabola gocciante. Pardo a lenti passi
s'allontanò e appiè della torre poco discosta cadde svenuto.


VIII.

Spuntava l'alba del 6 e gran folla di popolo s'accalcava sul piazzale
d'Acquaviva. Adagiato su poca paglia lungo i gradini della chiesa, un
uomo, tutto insanguinato, lottava colla morte, e nella sua agonia
sorrideva. Inginocchiata a lui d'accanto, una giovane donna piangente
e discinta gli tergeva con pannolino il sudore, e con affetto sublime
lo baciava in fronte. Dolore acuto e profondo era quello della donna,
e ne' suoi occhi velati e gonfi dalle lagrime ognun leggeva la storia
d'un amore sviscerato e imperituro. Chini sul morente, due giovani
montanari ne contemplavano con visibile angoscia le ferite fasciate e
le labbra semiaperte; avrebber di cuore sacrificata parte della loro
vigoria per salvar la vita dell'amico; non piangevano, ma i loro
sospiri e l'agitazione de' loro sembianti attestavano il cupo e mal
celato strazio dell'animo. La folla stessa singhiozzava; il prematuro
e fatale morir di quell'uomo era dunque un affanno comune, tutti
sentivano che in lui si spegneva un'esistenza preziosa, si recidevano
speranze lungamente nutrite, affezioni cementate dai fatti.

--Addio, Iza mia... addio Enzo, Bino addio... ed a voi pure
popolani... addio! muoio... ma muoio contento... la mia valle è
risorta... e l'isola respira! Abbiate sempre cara la libertà...
sull'altare di essa deponete rancori ed odii... amatela, la patria...
questa terra nostra... questa terra... Oh, sento mancarmi le ultime
forze... addio amici... Iza, Iza mia, ricordati del tuo Pardo... amalo
anche morto... e spesso parla di me alla vecchia Rosalia... ai villici
di Sutera... Oh Sutera!... ieri fuggivo... esulavo... oggi eccomi
ucciso... Addio Iza... Iza!... dammi l'ultimo bacio!--E colle braccia
strinse al seno la desolata sposa, baciandola, ribaciandola,
coll'impeto dell'abbandono estremo. Iza, vinta da tanto dolore, teneva
fissi gli sguardi negli occhi di Pardo; e le suppliche d'Enzo e Bino
perchè di là si levasse, si togliesse a quel luttuoso spettacolo, a
nulla valsero; nessun conforto, consolazione nessuna ascoltò...
abbracciava ancora le spoglie del marito che le campane salutavano con
mesta melodia il sole risorto.


IX.

Nove mesi dopo la tragedia d'Acquaviva Buscemo entrava commissario
d'ordine e pace in Barletta. Riverito siccome personaggio potente, la
città fu parata a letizia per festeggiare _l'eroe di Val Mazzara_!

Così era salutato nelle Puglie Buscemo Stampace.



PIERIO

STORIA DI VAL DI MONE.

                «Tutto dolor!... una memoria segna
                    Cui non cancella il sangue
                    E per età non langue.»
                            _Mariannina Coffa Caruso._


I.

Era un mattino di maggio. Il cielo sereno come suole nella poetica
plaga dello Stretto veniva tagliato nel suo lontano orizzonte dalle
vette degli Apennini di Calabria, ed il sole già sorto indorava con
fantastica armonia le tremule acque del mar messinese. Il placido
venticello della primavera scuoteva le fronde degli alberi ed agitava
sullo stelo le erbe del campo ed i fiorellini del prato. Il pispissio
dei passeri e delle rondini risuonava melodioso nella gran pace di
natura, e lo squillo dei corni pastorali interrotto a tratti dai vaghi
concerti delle campane dei villaggi seminati sulla pendice delle
montagne e lungo la costiera cresceva incanto al sorriso della terra.
Sembrava tornasse la vita alle piante ed all'onde, e gli uccelli
salutassero col canto il ritorno dell'astro lumeggiante. La purezza
dell'aria, lo spiccato del cielo, il verde delle vette, lo smeraldo
dell'acque di Pace e Scilla: tutto ricordava la beata Sicilia,
coll'atmosfera rapita alla torrida India.

A chi abbandona le casupole del Faro per ascendere il monte, s'apre a
poca distanza dal mare una strada larga ma erta, sassosa e qui e là
interrotta da torrentelli e gore. È l'unica via che metta a
Curcoraggio, povero paesuolo a sei miglia dalla costa e che veduto dal
ponte delle navi par costrutto a precipizio poco in su di Messina. Di
là tu vedi la patria di Maurolico, e la cittadella che oggi la
difende: di là scorgi confusa nelle penombre delle falde Aspromonte e
Reggio, la terra delle fate, col suo castello rossastro e col dosso
smaltato di ville e palazzotti; di là ammiri la pittoresca cascata del
San Giovanni e la fuga di colli e colline che, staccate dai bruni
monti ritti a lor tergo, scendono in dolci e fruttiferi declivii al
mare in cui par s'immergano e scompaiano. Ampia veduta hai lassù, e
quasi ti sembra d'aver più libero il respiro, più facile la parola,
più maschie le idee. Sospeso tra cielo ed acque contempli la maestà
del creato e saluti colla poesia del pensiero l'onnipotenza degli
elementi e l'immensità degli esseri. Là vivi vita vera, e le sole ali
ti mancano a spiegar il volo dal ceppo all'alta volta delle sfere.

Su quella strada camminavano due uomini. Amendue rozzamente vestiti ma
con pulitezza, portavano ad armacollo lo schioppo ed appesa alla
cintola l'aguzza falce dei montanari di Val di Mone. Il loro passo era
rapido, e siccome nati fra quelle balze, lesti varcavano i massi per
ogni dove seminati ed oltrepassavano i ruscellini impaludanti la via.
Parlavano concitati, ed a chi li avesse veduti da lontano sarebbe
sembrato altercassero e quasi venissero d'istante in istante alle
mani. Eppure erano amici, ed il loro dialogo calmo e composto. Il più
grande di essi era anche il più vecchio, e nei vivi lampi dell'occhio
mostrava la piena degli affetti che gli tenzonavano in cuore, nel
mentre col pugno sul calcio scuoteva a violenti scosse l'arme sorella.
Il giovane avea neri capelli o mustacchi, ed un sorriso amaro e
beffardo muovevagli le labbra e gli aggrottava lo ciglia. Il primo si
chiamava Bizco, il secondo Pierio. Il padre s'appoggiava al figlio, e
spesso lo contemplava collo sguardo, quasi scrutasse tacito il di lui
pensiero e volesse indovinare quali divisamenti rimuginasse in
cervello.

--È cosa orribile... non so più contenermi.

--Ah sì, l'offesa è profonda!

--La cancellerò col sangue!

--No, Bizco, non cimentatevi. Il nemico è forte... e noi...

--Io pure son forte... vedi queste braccia? hanno calati fendenti
mortali laggiù... vedi questa cicatrice che mi sfregia? l'ebbi al
passaggio del Po, combattendo da prode... ed avrò paura d'un codardo
seduttore? no, no, figlio, non temere... son forte!

--Oh sì, siete forte!... ma povero!

--Colui, lo so, è ricco... ma per Bizco...

--Zitto, padre mio... ecco Zelmira.

--Non una parola, Pierio!

Affrettarono il passo e raggiunsero lo spianato dell'umile chiesuola
del paese. Ivi sostarono, e vedendo la giovinetta muovere alla lor
volta in atto di sorpresa, si scambiarono un'occhiata eloquente, e
separaronsi. Ma prima che Pierio si fosse allontanato, Bizco gli
strinse con isforzo la mano, lo mirò fiso, e disse con lenta voce
solenne:

--Lo giuri?

E siccome il giovane esitava alquanto ed alzava le palme quasi
pregasse, Bizco replicò con ira mal repressa:

--Lo giuri?

--Lo giuro!


II.

--Mia buona Zelmira... adorata figliuola mia... come stai oggi?... e
la tosse?

--Buon giorno, padre mio. Oggi, sì, oggi sto bene. Ma ieri! oh Dio, il
petto mi si voleva spezzare... Sì, sto meglio! Che bel sole, padre,
che allegra giornata!... Dite, non vi sembra che il tepore di queste
aure mi ridoni beltà e vigoria?

--Sì, sì, Zelmira, tutto quello che vuoi. Ma non ricordar più le
passate sciagure! non vedi che mi fai piangere?

E a quell'uomo, abbronzato in volto e dalla mano di ferro, si
inumidivano le ciglia al triste ricordo dell'onta.

--Padre, anche quando sarò morta, vi ricorderete di me? della povera
vostra Zelmira, innocente... sventurata?... sì, n'è vero?

Non era bella Zelmira, ma due grandi occhi neri che le brillavano in
viso la facevano leggiadra e amata, sì che i giovani del contado
corteggiavanla. Il suo portamento era modesto insieme e altero; la
voce argentina, flebile, melodiosa. Pallida sempre, le guancie le si
tingevano in vermiglio solo allorchè i robusti e bei montanari del
villaggio l'occhieggiassero o le augurassero il buon dì e il felice
riposo. Aveva risvegliata simpatia in tutti i vicini, e molti
l'avrebbero chiesta sposa se non fosse stata sul fior degli anni
rapita dal dolore! Contavane appena diciotto, eppure quanti guai
avevano spenta nel di lei giovane cuore la poesia della vita! Tradita
nel suo unico amore, come rosa avvizzita dal vento gelato dell'Alpi
anzichè sbocci, Zelmira deperiva, dimagrava, soffriva: destino fatale
la trascinava alla tomba, senza posa, senza tregua! Era la lenta
agonia del mal sottile, il fuoco dell'esistenza le si spegneva ad ogni
ora, costante: oh, povera fanciulla, come presto ti si sfrondò la
corona delle illusioni!

--E Pierio perchè si allontanò?

--Tuo fratello deve calare a Messina. Se n'è ito a desinare, e fra
un'ora sarà in viaggio.

--E voi rimanete?

--Sì, Zelmira, oggi starò teco: abbiamo a goderci il mezzogiorno
sull'aia. I tuoi polli ci razzoleranno daccanto, e il vecchio barbone
abbaierà di letizia.

--Davvero?

Bizco abbracciò la giovanetta, e cingendola colle braccia la mirò con
ineffabile affezione. E dopo aver così sostato alcun poco, s'avviò,
sempre sorridendo agli amplessi della figliuola. Una casa, di modesta
e pulita apparenza, chiudeva verso monte la piccola piazza della
chiesa, ed in quella entrarono.

--Giaimo, Giaimo!

Così gridò un fanciullino che baloccava sulla porta, ed intanto corse
incontro al genitore ed alla sorella. Il chiamato apparve: era uomo
tarchiato e di atletiche forme, con barba nera e lunga, calvo, in
giubba.

--Oh Bizco, ben tornato! E voi, nipotina?

--Oh zio, buon dì!


III.

Se non ti par fatica, trasportati ora, o lettore, sul largo che sta
innanzi al porto, in Patti. Un piroscafo a ruote, il _Ciullo
d'Alcamo_, fuma poco più in là della lanterna, ed una lancia guidata
dal capitano sta aspettando l'imbarco dei passeggieri. I quali,
aggruppati sulla spiaggia, stringono improvvise amicizie e si augurano
a vicenda placido mare. Ad un cenno del più autorevole fra loro,
scesero alla gondola, e colle gare consuete di precedenza vi
s'assisero. Ultimi a collocarsi, furono una vecchia matrona, una
giovinetta pallida e spaurita per la nuova scena, ed un giovine bello
ed alto, di elegante e ricercato portamento, riccamente abbigliato.
Allorchè tutto fu quieto, la lancia partì, e poco dopo un marinaio
l'assicurava alla scala d'imbarco del vapore. Il capitano e il piloto
aiutarono i viaggiatori a salire, ed allorquando ebber recate sotto
coverta le valigie, raccomandarono la zattera al fianco e sospesero al
bordo la scala. Non passò mezz'ora che l'ordine della partenza fu
dato, e il _Ciullo_ issata bandiera s'allontanò. Nessun vento agitava
le acque, e la bonaccia propizia rallegrava la piccola colonia
navigante. A poco a poco Patti si confuse colle nebbie, e non
tardarono a scomparire anche i grigi lembi dell'isola. La sera
sopraggiunta, i passeggieri lasciarono il cassero e scesero nella sala
e nelle cabine coricandosi alcuni, altri leggendo o ciarlando. I due
giovani e la vecchia auguratosi il buon riposo si separarono e
ciascuno si chiuse nella stanzuccia. Il nostromo e la guardia
sedettero ai loro posti, i navighieri si sdraiarono sulle gomene e
nelle brande, il capitano passeggiò lunga pezza ed alla fine calò egli
pure. Verso mezzanotte tranquillità perfetta regnò nella nave, e la
quiete degli uomini e della natura veniva soltanto di ora in ora
interrotta dall'_all'erta sto_ del mozzo di trinchetto.

Una notte sul mare risveglia la poesia anco nei cervelli più ottusi.
La brezza placida e fresca che increspa la levigata superficie di
esso, la luce opaca e serena del cielo, lo sfumar lontano delle isole
e della spiaggia, l'immenso orizzonte sconfinato alla vista ed eccelso
lassù sotto la volta stellata, il silenzio delle cose, tutto concilia
a pacata malinconia ed a meditazione poetica. Lo smisurato volume
delle acque che fiottano ai fianchi della nave, il pallido azzurro che
sublime diffondesi nell'alto aggiungono maestà alla portentosa scena
notturna, e ben aveva ragione il Byron di prediligere la smorta luce
della notte ed amare le lagune di Venezia e le scogliere di Grecia
allorchè inargentate dal casto raggio della luna gli rinnovavano le
fantasie delle fate, e risovvenivangli le leggende della mezza età coi
folletti incantatori e le vergini nettunie.

Narra la leggenda che sull'estrema punta del Capo Bianco vivesse nel
buio dei tempi una misteriosa sirena, la quale e col canto melodioso e
col suono affascinatore innamorava i naviganti, ed attiratili a sè li
baciava poi li uccideva. Il lampo dello sguardo, il miele delle
labbra, la voluttà delle membra conquidevano i meschini predestinati;
e il Poeta continua dicendo che durante l'agonia di essi la selvaggia
sirena tripudiava. Ai lamenti ed alle lagrime degli assassinati ella
rispondeva con sorrisi e carole; epperò appena morti li gettava a mare
pasto eletto all'orco. Più di mille (così la favola) perirono di
questa morte, e con essi eziandio un sacerdote del tempio ed un figlio
del tiranno; ma l'ira degli Dei scoppiò qual folgore all'annuncio che
il loro messaggero era caduto sotto la scure della sirena, ed uno fra
d'essi, calato in segreto durante la notte, agguantò la vaga del Capo
Bianco e reggendola per le chiome sui venti la trascinò fin sul
cratere dell'Etna e in quello precipitolla!

Il _Ciullo_ era già da un'ora passato innanzi a questo Capo e la torre
di Milazzo già s'era perduta nel lontano orizzonte, allorchè l'alba
sorse. E coll'alba, ridestaronsi anco i passeggieri, i quali salirono
il ponte e là fuori all'aperto, alla larga, si ristorarono tutti e se
ne rallegrarono insieme. Spirava un'aria tepida e leggera che rifaceva
la vita, e la fioca luce del crepuscolo innondando ognor più la vasta
faccia del mare mano mano che l'aurora diveniva giorno pigliavano
forma e colori le nebbiose spiagge che si scoprivano allo sguardo, e
qualcuno salutò con gioia rumorosa le incerte ma eccelse cime dei
monti calabresi. Eziandio il gran Faro apparve, e con lui si fecero
distinte e spiccate le rive che da Divieto corrono a Cariddi: i
delfini guizzavano nelle dorate onde intorn'al battello, e là e qui
gli esoceti saltatori spiccavano ameni voli disegnando fuor d'acqua
una rapida curva di spruzzi lucentati dai primi raggi del sole
montante. Il vapore s'accostava all'isola, e dall'alto del cassero il
capitano guidò l'imboccatura dello stretto e comandò la girata a
destra.

--Oh il felice mattino, Arrigo!

--Sì, mia Emma, è davvero ridente. Se dal mattino si giudica il giorno
passeremo un bel dì.

--Passarlo con te!

--È il mattino degl'innamorati, Emma!

--Arrigo... quanto sei lieto!

--Emma, a te vicino, poss'io aver tristezze?

--Ci vorremo sempre bene... non è vero?

--Sì, sì, cuor mio, sempre, sempre... non è noioso l'amor tuo!...
Emma, Emma... quanto sei buona!

--Saremo felici!

--Sì, felici, Emma mia.

--E se qualche nube sorgesse ad oscurare il mezzogiorno...

--Della nostra felicità? la caccieremo!... posso aver rivali? nessun
padre, nessun fratello... oh via, allora eran pazzie di giovinezza! e
quei malcreati credevan veri i miei baci!... era un passatempo
d'autunno!... sciocchi!...

--E ci ameremo tanto tanto!

--Ci adoreremo, Emma.

--Non ti pare, Arrigo mio, che il sorriso di questo bello stretto
aggiunga gioia alla nostra contentezza?

--Sempre poetica la mia Emma! oh la fortunata coppia che sarà la
nostra!... giovani, ricchi... possiamo desiderarla migliore?

--Arrigo!

--Emma!

Così parlavano il seduttor di Zelmira e l'unica figliuola del barone
di Santa Marina. Teneramente abbracciati, questi giovani sposi si
scambiavano sorrisi e promesse, e da quell'umile angolo della nave
pregustavano le delizie e le feste del palazzo che li attendeva in
Messina. La madre ritta a pochi passi da loro li contemplava in
consolato silenzio, e benediceva dal cuore la fortuna toccata ad Emma
sua; la quale di volta in volta piegava mollemente la leggiadra
testolina verso la mamma e rispondeva con un sorriso tutto vergineo e
pudico ai baci che questa le inviava ed ai saluti della mano. Era
davvero una bella scena, ed Arrigo ne tripudiava: l'amore di Emma,
l'affezione della baronessa madre, lo rapivano e gli erano augurio
auspicato di felice avvenire! Oh chi sa leggere nel gran libro degli
arcani? chi sa divinare il futuro? Arrigo ed Emma, beati d'amore, non
sognavano che amore!

Il piroscafo oltrepassato il torrione del Faro, costeggiava la riva
destra, e già stava per passar innanzi alle casupole peschereccie che
si aggruppano numerose intorno alla Lanterna. Qualche tartana
approdava allora appunto, e parecchi montanini fissavano dalle ripe
con occhio curioso il postale del mattino. I passeggieri s'erano
anch'essi raggruppati sul cassero e gettavano allegre occhiate sulla
riva poco lontana; Arrigo anzi scorto fra le lunghe siepi di fichi il
povero Curcoraggio l'additava coll'indice teso all'Emma ed un sorriso
gelato gli sfiorava le labbra descrivendolo alla madre... lo
sciagurato narrava con ischerno il corteggiamento di Zelmira, la
passione ispiratale, le promesse fatte e tradite, l'improvviso
abbandono, la sdegnosa accoglienza usata alle preghiere ed ai pianti!

--Era un passatempo d'autunno!... sciocchi!

Il capitano stesso affrettava le ultime manovre ed il piloto curvo
sulla guida fissava l'apparsa città, allorchè dalle caldaie si gridò
con voce alta e sonante, con impeto disperato: Fuoco! fuoco! E nel
medesimo tempo uno scoppio terribile ghiacciava il sangue nelle vene
agli astanti.


IV.

Poco dopo una fiamma alta e viva arrossava le onde. La macchina della
nave era scoppiata ed i fianchi di questa mal robusti per resistere al
violento urto andavano man mano squarciandosi. Il fuochista rimase
morto, ed intanto fra sì disperata confusione d'uomini e attrezzi
l'acqua irrompeva a larghi fiotti attraverso i vani e il _Ciullo_
affondava. I passeggieri stretti in gruppo sulla tolda gettavano grida
addolorate e miravano con lugubre esitanza quello sfascio completo,
irresistibile. Il capitano però e l'equipaggio, benchè esterrefatti e
sconsolati, lavoravano a tutt'uomo a rattener colle pompe l'elemento
invasore, e qualche mozzo sceso nella stiva sudava a turar fessure e
precipitar pesi, ma invano. L'acqua cresceva, cresceva, la nave era
irreparabilmente perduta!

--Emma mia, Emma mia... salvati, salvati!

--Oh madre mia! morir sì giovane... in mare!

--Emma, vieni a me.

--Arrigo, Arrigo, salva mia madre!

--Ah sciagura! qual'orribil fine! la nave cola e nessuno ci aiuta!

--Aiuto, aiuto!

--La mia cara Emma... Emma mia... baciami in volto...

--Madre... non so più reggermi! mi batte terribilmente il cuore...
vacillo... aiuto, aiuto!

--Aiuto, aiuto!

--Arrigo, Arrigo mio, ricordati di me... della tua Emma...

--Emma, Emma... non disperare... il capitano calerà la scialuppa...

--Non vedi che abbrucia?

--E nessuno ci salva?... maledizione!

--Nessuno!!! nessuno?... tutto il mio oro a chi salva la figlia del
barone...

--Emma, Emma, dammi un amplesso.

--Soccorso, soccorso!

Soccorso, soccorso! gridavano tutti, e colle mani giunte, cogli occhi
rivolti al cielo, colle ginocchia piegate, aspettavano l'aiuto
supremo, e piangevano!

Soccorso, soccorso! urlavano i marinai, i quali scoraggiti, stanchi
dalle violenti ma inutili fatiche, disperati, miravan torvi il mare e
stavan per salvarsi a nuoto lasciando abbandonato il naviglio e preda
di sventura gli infelici viaggiatori!

Soccorso, soccorso! pregava il desolato capitano, che madido di sudore
e gocciante per le vesti inzuppate scorgeva dall'alto del ponte il suo
_Ciullo_ dannato a sommergere, e vedeva imminente, fatale, il
precipizio!

--Soccorso, soccorso!

--Aiuto, aiuto!

Coraggio, coraggio! si gridava da terra; e quattro lancie spinte da
robuste braccia volavano in soccorso dei naufraghi.

Pericolanti e salvatori s'incuoravano a vicenda, e l'onde già
gorgogliando salivano dagli spalancati boccaporti ed allagavano il
cassero, allorchè le scialuppe raggiunsero lo spezzato vapore ed una
mano di barcaiuoli e montanari si slanciò a furia sulla tolda.

Da questi sorretti o portati scesero i naufraghi nelle lancie, e il
capitano sarebbe stato ultimo ad abbandonare il _Ciullo_ se due uomini
non avesser dovuto porre qualche ritardo nel calare una giovinetta la
quale svenuta e colle vesti scomposte serrava sul cuore la mano di un
giovin uomo e gli abbandonava il capo nel seno. Bizco e Pierio,
sollevata Emma, la deposero sul fondo della barca, ed Arrigo ancor
barcollante e pallido le si assise daccanto e sdossatasi la guarnacca
la stese sulle assiderate membra della sposa, nel mentre la baronessa
spaurita e tremante mirava in viso cogli occhi spalancati figliuola e
genero e stropicciava con febbrile ardore le fredde dita della supina.
Bizco e Pierio intanto raccolti i remi, li tuffarono con vigoroso
impeto nell'onde e vogando serrati raggiunsero le più celeri lancie e
presto le sorpassarono afferrando la riva gremita per curiosi e
compassionevoli.

Nel medesimo tempo il postale scompariva: la lotta tra l'acque e il
fuoco era davvero stata viva, ma le prime avevano trionfato e colla
stiva colma da esse affondarono eziandio i carboni bruciati ma spenti.
La superficie dello stretto ridivenne quieta e piana; solo qua e là
qualche tavola fluttuava ed infissa in una di queste stava ritta pur
non sventolante la bandiera della nave. Il cadavere del fuochista,
unica vittima umana, spinto dall'onde si era avvicinato alla riva, ma
ricacciato da nuove fin nel mezzo, parve s'ostinasse a non abbandonare
la costa dell'isola, e galleggiò incerto per assai tempo, ma alla fine
accavallate dal vento soffiante da Val di Mone le istesse onde che gli
erano bara lo trascinarono nella loro corsa violenta fin presso le
coste di Calabria, e là sulle secche fu infatti raccolto e dai
pescatori tumulato.

Il mal capitato fuochista era di Reggio, e dopo dieci anni ritornava,
morto, alla terra natale!

Scesi a terra, i salvati furono immantinente circondati da donne e
marinai, le une recando ristori e panni, gli altri offrendo sè stessi
e le casupole. La triste comitiva però s'incamminò verso il forte del
Faro, preceduta da quell'uffiziale comandante e seguita da qualche
soldato sbucato dalla batteria in lor soccorso. Procedevano
silenziosi, e fra quelle faccie vispe ed abbronzate avresti scorto il
contrasto dei visi pallidi e smunti, il languore della persona e
l'abbandono delle forze disegnavano su quelle fronti gelate dispetto e
spavento! Pierio e Bizco avanzavano primi portando sulle braccia Emma
e lor dappresso era l'uffiziale il quale sosteneva la baronessa,
aiutato nel pio ufficio da Arrigo. Il capitano, gli altri passeggieri,
l'equipaggio, seguivanli; e negli occhi vivaci di quei pietosi
vallegiani brillava la gioia della buon'azione e il rammarico insieme
della sgraziata avventura. Quella processione sarebbe sembrata un
mortóro, se fossevi apparso un feretro!

Raccolti nella piccola sala della Lanterna, molti fra gli
accompagnatori s'allontanarono, e ad Emma, adagiata sul lettuccio, fur
fatti aspirare sali ed essenze. A poco a poco la giovinetta rinvenne,
e la madre diè un grido di gioia allorchè alla sua amata si sprigionò
dal petto un sospiro. Aprì gli occhi, le si tinser di porpora le
guancie e le labbra, un leggier tremito le corse per le membra, staccò
le mani dal cuore su cui sembravano infisse, alzò il capo, si
ricompose le vesti e le treccie, contemplò siccome estatica e con atto
di meraviglia la genitrice, Arrigo e Pierio, sorrise, mosse la
persona, si rizzò, e chiese con ansia e paura:

--Ove mi trovo?... mamma, perchè son qui?... soldati? un uffiziale?...

--Emma, Emma--disse Arrigo indovinando la domanda della sposa--eccomi
a te... sta queta... siamo in luogo sicuro, siamo tutti salvi...
nessuna disgrazia...

--Oh qual pericolo abbiam corso!

--Emma...

--Mamma... Arrigo...

--Arrigo?!...--sussurrò con mal represso atto di sdegno
Bizco--Arrigo?!--e dall'oscuro canto del salotto fissò lo sguardo sul
giovane.

--Arrigo?!--esclamò ad alta voce l'uffiziale--Arrigo? lui?--e gli si
avvicinò.

--Scusate, signore, è Arrigo il vostro nome?...

--Sì, tenente... ma... quale strana rassomiglianza!... il vostro nome,
uffiziale, il vostro nome!...

--Azzo Carbonera.

--Carbonera!... Oh ch'io t'abbracci, Azzo, mio salvatore!... Azzo!

--Arrigo Rapisardi!

--Amico mio!

--Quale consolazione!

--Come qui, Azzo? due anni son corsi dal nostro viaggio ad Ajaccio...

--Arrigo... ti racconterò poi... ma questa... è la tua sposa?

--Sì, Azzo.

Azzo Carbonera robusto e biondo uomo sui trentott'anni, aveva bella e
ritta la persona, ardito aspetto, occhi splendenti, lunghi baffi,
folta capigliatura. Cospiratore a vent'anni, e scoperto, la sola fuga
lo avea salvato dalla forca: quanto duro gli era stato l'abbandono
della sua cara Sondrio, della nativa Valtellina, delle Alpi sterili e
nude, ma italiane! Valicato lo Spluga, s'era condotto attraverso le
inospiti vallate grigione a Bellinzona, e di là sceso a Lugano s'era
arruolato fra i congiurati ed esule fra esuli sospirava sempre il
riscatto della sua Italia! Mille proscritti tentarono un dì
l'invasione di Lombardia, e dalle gole di Valsolda, sbucarono su quel
di Menaggio colla speranza di eccitare a rivolta gli alpigiani del
Lario e per Como piombar su Milano: ma pochi e male armati, attaccati
dai gendarmi presso Porlezza e sbaragliati, avevan dovuto salvarsi
colla fuga, e sfiduciati ritornar precipitosi nella libera Elvezia, a
piangere i compagni perduti! Azzo se n'accorò, e lasciata Lugano s'era
confinato a Losanna, ove visse parecchi anni scrivendo e cospirando.
Ma la buona stella della libertà era sorta sull'orizzonte anco per la
povera terra dei morti, ed Azzo lasciava il Vodese e passato il
Sempione calava ad Arona, dove con Garibaldi piombava sul lombardo e
da valoroso combatteva a Sesto, a Varese, a S. Fermo. Sospesa la
guerra, dalle rive del Garda faceva voto di viver nell'armi in
servigio della patria, e da allora cingeva la spada. Inviato negli
Abruzzi, aveva assaltate con guerresco ardimento molte bande
liberticide e per un anno s'era battuto con costanza e coraggio fra
quelle gole insidiose ed in quelle boscaglie selvaggie. A Napoli aveva
conosciuto Rapisardi ed amicizia calda e sincera erasi stretta fra
loro: due giovani, entrambi innamorati del poetico e dello strano,
entrambi ardenti e baldi, potevano non unirsi coi santi vincoli
dell'affetto? Vissuti così un inverno, erano partiti assieme per
Corsica e in quell'isola illustre per illustri natali Azzo aveva
salvata la vita ad Arrigo: non chiedermi come e perchè; fu un mistero
per tutti, e il biondo valtellino avevane giurato il segreto al bruno
messinese! Riconoscenza ed amore legavano dunque lo sposo di Emma al
comandante del Faro; replicati baci rannodarono la fratellanza ed il
rossore delle gote ed il lampo degli sguardi ben mostrarono agli
attoniti astanti quale e quanto gaudio commuovesse i lor cuori!

--Lui?... Arrigo?!--con sorda voce ripetè il padre di Zelmira.

--Lui?--chiese Pierio, che incerto e concitato guatava con
raccapriccio il sinistro aspetto di Bizco e mirava con ansietà Arrigo
e l'uffiziale--lui?

--Sì, lui... l'uccisore della mia figliuola!

--Lui?

--Arrigo Rapisardi!

--Il seduttore?...

--Sì, Pierio, lui, lui! È Dio che ce lo invia!

--Quale arcano...

--Snuda il pugnale, Pierio, e compi il tuo giuro.

--Qui?

--Qui.

--Qui, padre mio, fra tanti armati?

--Qui, non monta... Affrettati Pierio!

--Oh Dio mio... mi fa paura il sangue!

--Pierio, Pierio, hai giurato!

--Maledetto giuramento... qui, in un forte!?

--Qui, è l'onor di Zelmira...

--Oh Zelmira!

--È l'onor della sorella... orsù... lo voglio... hai giurato!

E Bizco spinse colla mano l'attonito Pierio, il quale tenendo nascosta
sotto il gabbano la nuda lama barcollando s'avvicinò al gruppo dei
salvati, sempre inseguito dallo sguardo fisso e sanguigno del padre.

--Oh Emma... è un amico fidato che il cielo m'invia;... è Azzo...

--Tutto t'arride, Arrigo mio, anche nella sciagura trovi conforto.

--E fortuna. Si, Azzo, lascia che lo dica... e fortuna!

--Non più, amico. Apprestiamo ad Emma le ultime cure... e lasciamo
quest'umida cameraccia.

--È qui che abiti?

--È il mio alloggio. Che vuoi? noi soldati abbiamo ruvida La pelle
e...

--Ed ottimo cuore.

Ed Emma così dicendo s'alzò e stese in atto affettuoso la sua candida
mano al comandante. Carbonera la baciò, e stringendola con riverente
entusiasmo pronunziò con voce commossa:

--Grazie infinite, signorina... non merito punto le vostre cortesie...
perdonate la mia ruvidezza.

--Azzo, Azzo!--gridò con ilare dimestichezza Arrigo, non farmi il
piagnone... suvvia... abbracciami Emma...

--Che?

--Lo voglio.

--Lo vuoi?... ben di cuore!

E mentre Azzo e la sposa di Arrigo si ricambiavano strette di mano e
carezzevoli parole, Pierio vieppiù s'avvicinava e dietro lui stava
Bizco col pugno teso e coi denti serrati.

L'aspetto del vecchio montanaro era in quell'istante terribile, e
colui il quale l'avesse allora veduto avrebbe irresistibilmente
gridato: all'assassino, all'assassino!

Pierio all'incontro era pallido e trepidante, ansante il petto, lo
sguardo incerto e pauroso, il passo stentato e mal fermo.

Non ancora uso al sangue, il giovane isolano muoveva al delitto
cacciato solo dal demone della vendetta, e sprone fatale eragli il
cupo e minaccioso comando del padre.

--Colpisci, colpisci!--gridogli dietro le spalle il feroce Bizco.

--Grazia per lui, padre mio, grazia per lui!

--Hai giurato!

--Oh Zelmira!

--Colpisci, vigliacco... colpisci!

--Vigliacco?... oh giammai!

Alzò con rapido moto la destra e nel calare il pugnale sul petto alla
vittima tonò:

--Vendetta!

--Vendetta!--ripetè con urlo satanico il Bizco, e sfoderato il
coltello piombò più celere del lampo su Azzo; il quale all'improvviso
pericolo dell'amico aveva sguainata la spada e stava per immergerla in
seno a Pierio.


V.

--Mamma Tecla, mamma Tecla, dite... e Zelmira?

--La vita manca ad ogn'istante alla mia povera figliuola. Poveretta!
se la vedeste! pare un cero; pallida, dimagrata, sparuta, sorride con
un riso angelico e foriero di morte! Povera Zelmira mia! presto, pur
troppo, mi sarai tolta! e allora non ti vedrò più! Oh Signore, mi si
squarcia il cuore... troppo viva è la piaga che m'avete aperta!...
Dio, Dio mio, richiamate a voi me, non lei!... sì giovane, sì bella,
sì gentile! Oh Signore, accogliete la preghiera mia... lasciatela a'
suoi cari... alla madre che dispera!!!

--Suvvia, Tecla, non v'accorate troppo: Iddio prova il vostro
affetto... inchinatevi a lui! Zelmira forse...

--No, Giaimo, Zelmira fra poche ore sarà morta... è il cuore che me
n'accerta... ah sì! quant'è mai sventurata la vecchia Tecla!

--Tecla, coraggio. Il ricordo delle passate sciagure vi fa mesta e
sfiduciata. Buona Tecla!

E il rozzo Giaimo strinse con mano tremante la destra della cognata.
Alcune grosse lagrime gli gocciarono sulle guancie e nell'alzar gli
occhi in viso alla Tecla scorgendola tutta in pianto e addolorata
diede egli pure in uno scoppio di singulti, e quel ruvido ma onesto
cuore fu schiantato dall'affanno. Si abbracciarono, e mentendo a sè
stessi sussurrarono con voce spenta e fievole:

--Coraggio, Tecla!

--Oh sì, fatevi animo, Giaimo!

Già un anno era passato dalla morte di Bizco e dalla cattura di
Pierio, e la nuova sventura aveva stremate le gracili forze della
malata Zelmira. Il vento della montagna le divenne letale, e dovette
rinunciare all'innocente poesia della contemplazione dell'aurora e del
tramonto. Chiusa nella sua solitaria cameretta non vide più le acque
del torrente precipitar dalla vetta e scendere impetuose al mare, non
più seguì coll'occhio il lungo volo delle rondini in traccia di cibo
pei piccini, non più udì il canto delle pastorelle e gl'inni delle
amiche inginocchiate nel tempio! Sola, sempre mesta, unico conforto le
veniva dallo zio e dalla madre; anco gl'infantili schiamazzi del
fratellino le cagionavano pena e dolore! Povera creatura! appassì la
sua bellezza, sparve la giocondità dell'animo, inaridille insomma la
vita; fu il lugubre cammino della tempesta, e nessuno potette illuder
sè, lei, la desolata Tecla! E diffatto la tempesta si scatenò, e fu
rovescio aspettato eppur terribile. L'arcana fiammella della vita che
languida le commoveva il petto, a poco a poco s'ammorzò, e le tristi
parole di Tecla a Giaimo erano pur troppo foriere di sventura! Zelmira
seppe di dover morire, e non un lamento, non una lagrima le strappò
l'annunzio ferale; calma, rassegnata, tutta tranquilla, disse addio
alla sua giovinezza, alla sua povera vita, al suo cielo, a' suoi
monti, a' suoi cari ricordi! Addio affettuoso, addio rosato, casto
simbolo della tradita fanciulla, del suo cuor puro e immacolato, del
suo virgineo e tenero affetto! La poveretta non sentiva rammarichi,
non aveva che amato!

Stava Zelmira supina in s'un gramo pagliericcio coperto da misero
coltrone, colle braccia incrociate sul seno e col capo arrovesciato.
Pallida fra lenzuola bianchissime, la morente fanciulla s'assomigliava
ad un angelo, e da quegli occhi sbarrati e fissi spirava ancora la
movenza della giovinezza. Stille di freddo sudore le bagnavan la
fronte, e le guancie scarne ed infossate lasciavano leggere su quel
viso sfatto la storia dei patiti malori e delle lunghe angoscie. Dalla
bocca semiaperta scorgevansi i denti bianchi e levigati, e le labbra
aride e senza moto mettevano in animo il ribrezzo dell'agonia. Zelmira
affannosamente respirava e lenti erano i battiti del cuore. Ancor
pochi istanti e sarebbe morta!

Ritto a lei vicino, colle palme congiunte in atto di preghiera e col
viso levato al cielo, era il curato di Curcoraggio, vegliardo
d'ottant'anni, venerando per saggezza e carità. L'addolorato pastore
invocava con commosso accento la suprema benedizione per la spirante
pecorella, e quella figura severa, canuta, avrebbe incussa reverenza
eziandio al più sfrenato derisore della poesia di quaggiù.

--La figliuola è agli estremi; datele il bacio dell'addio e pregate
per lei.

Così il vecchio prete a Tecla, allorchè entrò nella stanza con Giaimo.
La disperata donna a quelle strazianti parole diè un profondo sospiro
e senza aggiunger sillaba piegò la persona e cadde genuflessa. Il
montanaro imitolla, e per parecchi minuti non altro s'udì che il
bisbiglio delle preci. All'orologio della chiesa suonarono allora le
ventidue e il sordo rimbombo dei replicati colpi venne a morire fra le
pareti della cameretta di Zelmira. La quale a quei suoni si scosse ed
alzato con moto languido il capo ravvisò gl'inginocchiati ed alla
madre fè cenno s'accostasse. Tecla si rizzò e con lieve passo
s'avvicinò al letto della fanciulla, nel mentre Giaimo a capo chino si
faceva daccanto al pievano e l'interrogava con muta ansietà, collo
sguardo indagatore. Il vegliardo additogli con solenne dignità il
cielo e stringendo all'afflitto la mano gli riunì le palme quasi
volesse raccomandargli pregasse.

--Mamma--pronunciò con fioco sforzo Zelmira--Mamma, sto morendo e ti
saluto per sempre. Via, non piangere... così vuole il Signore e non
sta bene la ribellione... fa di darti pace ed anche allo zio porgi
coraggio e consolazione. Il curato... oh Dio mio, concedimi la forza
di dir l'ultime parole!... il curato mi ha fatto cuore, m'ha promesse
orazioni... e senti, mamma, vedo di non saper più parlare... dato che
il povero Pierio... sì, anche di lui vo' ricordarmi... se mai, lo
faccia Iddio! se mai riuscisse a fuggir dal bagno.... se ritornasse
libero... ebbene, allora dagli un bacio per me, per la sua cara
sorella! povero Pierio mio! quant'eri buono!... ed alla memoria pure
del mio genitore, del tuo Bizco; non tremare, mamma; alla memoria di
lui poni un sasso... un ricordo povero ma affettuoso... laggiù nel
cimitero... ed a me... una croce! Mamma, mamma, non singhiozzare!...
oh Signore! eccomi a te... sento mancarmi il respiro... mi si chiudono
gli occhi!

E ricadde sui guanciali, supina, immobile.

Zelmira era morta.

Tecla e Giaimo alzarono un grido disperato, e se il prete non li
avesse rattenuti si sarebbero forsennati gettati sul corpo dell'amata,
baciandolo per gli occhi, per la bocca, per tutto il volto. Ma
lasciarli più a lungo al dolore non volle il pievano, epperò li scosse
e seco loro usci dalla stanza.

--Abbiate rassegnazione, amici. La poveretta è partita per luogo di
gaudio. Voi Giaimo siate forte, e voi Tecla seguitela colle preci.
Datevi pace e fatene omaggio al gran re.

La madre e lo zio, pur sempre dirottamente piangendo, strinsero con
effusione d'amore la mano scarna del vegliardo, ed attraversato il
piccolo portico scomparvero. Il curato li seguì coll'occhio sino a che
videli perduti fra le ombre della bistorta callaia, ed allora rientrò
e messosi ginocchione presso il lettuccio intuonò il canto dei morti.


VI.

Due anni dopo questa scena di lutto, la campana di Curcoraggio suonava
ancora a mortóro, ed il buon popolo della pieve scendeva, saliva, per
le viuzze del villaggio, accorso alle esequie di una trapassata. Su
quelle faccie, bronzate dal sole, e rugate dagli stenti, si leggeva la
pietà e la compassione, e su per le labbra di tutti correva la triste
storia ed il nome della povera morta. E ben triste davvero era quella
storia! affanni, dolori, angoscie, avevano straziato il cuore della
misera, e testimonii dei patimenti sofferti erano tutti, era il
curato! Il quale parato a funerale, seguiva allora appunto l'umile
feretro, che quattro montanini portavano alla chiesa, spalancata e già
gremita di fedeli. Lunga fila di donne faceva ala alla bara, ed il
loro canto melanconico e flebile squarciava il cuore. Allorchè poi le
spoglie della consorella furono nella casa di Dio lo squillo della
campana salutò colla sua lugubre armonia la novella viatrice e tutto
il popolo genuflesso e devoto fece solenne l'umile rito.

Boccone a lato del cataletto giaceva un vecchio, cui la bianca barba
scendeva scomposta e lunga fino a terra, d'abiti puliti ma rozzi, mal
calzato e soffrente. E certo quell'uomo soffriva, perocchè lo
squallido viso e la sparuta persona dicevano pur troppo ben chiaro,
ch'egli pativa assai e nell'animo e nelle forze: nello sguardo non
scorgesi sovente riflesso lo strazio celato? Grosse lagrime gli
piovevano dagli occhi, e l'affannoso respiro riusciva di volta in
volta a replicati singulti. Piangeva, sì, quel canuto montanaro,
piangeva, ma non per affetti terreni, non per ricordanze dolorose, non
per paura del futuro, piangeva di rassegnazione, e nella sua prece
invocava siccome grazia suprema la morte: povero e solo, fiacco e
combattuto, che sarebbe stata per lui la vita? a somiglianza del
passero, che abbandonato dalla compagna o perduto fra i campi di terra
non sua piange, disperasi e muore, il vecchio isolano sarebbe perito
fra gli stenti sprezzato e solitario!

Anche al curato s'erano inumidite le palpebre, e già stava per
raccomandare al popolo prosternato che pregasse, pregasse di cuore per
la morta, allorchè voci concitate lo scossero, ed alzate le pupille
vide sulla porta un uomo in assisa di galeotto far violenza agli
astanti e penetrar con mal frenato furore nella folla. Cogli occhi
stralunati, colle labbra mosse a selvaggio sorriso, col mento
abbrunito, colla destra involta in sucido fazzoletto intriso di
sangue, colla giubba e le calzature lacere, lo sconosciuto s'avvicinò
con impeto trepidante ai ceri, e respinti quelli che tentavano
barrargli il cammino, diè un guardo cupo ed insieme pauroso alla bara,
e raffigurato il genuflesso si chinò su di lui. Fissarlo in volto,
riesaminar quel sembiante corrugato e smunto, rialzarlo, fu un
istante; soffregò a sè gli occhi a lui le ciglia, chinò in atto
pensoso il capo, si battè con repentino delirio la fronte, baciò a più
riprese l'attonito vecchio e poco dopo gridò:

--Giaimo! Giaimo!

Questi, al grido del suo nome, rispose con altro grido, scosse
vivamente il galeotto, diè in uno scoppio novello di pianto ed
additato il feretro balbettò:

--Là entro dorme Tecla. Oh Pierio! troppo tardi sei venuto.

--Tecla?!... la madre mia?!...

--Sì, figliuolo!

Pierio, quasi colpito da arcano fulmine, cadde sul suolo, ma poco dopo
si rizzò e gettandosi tutto doloroso sul cataletto:

--A che mi giova--urlò--essere libero?

--Pierio!

--Oh madre, oh madre!... la sventura t'ha uccisa!

--Pierio--disse allora Giaimo--Pierio, è Tecla che te lo comanda per
me... giacchè sei, sta libero... salvati... piglia le montagne...

--No, Giaimo, morrò qui, sulla salma della madre. Che mi cale della
libertà, solo... e inseguito?

--Solo?!.., oh Pierio, e al tuo Giaimo non pensi?

--Una squadra d'armati mi persegue... fra poco saranno al monte... oh
ch'io muoia vicino a te madre mia!

--Usciamo, usciamo, mio Pierio; il funebre rito vuol essere
continuato...

--E Zelmira?

--È sepolta laggiù...

--Nel cimitero?!... Povera sventurata!

--La sua fossa è distinta da una croce...

--Oh Zelmira mia!

--Recati là e prega per lei...

--Sorella diletta... prega per me!

--Nessuno oserà profanare la pace delle tombe.

E seguito dallo zio Pierio uscì all'aperto; toltosi alla vista degli
affollati, ripercorse il tratto di via che separa Curcoraggio dal
cimitero, e trovatine aperti i cancelli entrovvi. Giaimo, meno
sbalordito del giovane, pensò chiuder le porte, e ciò fatto raggiunse
il nipote, il quale s'era già inginocchiato appiè del tumulo che
raccoglieva le spoglie dell'amata sorella e lasciava libero lo sfogo
al torrente delle lagrime. I due superstiti rimasero raccolti in
estatica e gemebonda contemplazione lunga pezza, e soltanto si
scossero allorchè il rumore precipitato di molti passi e un sordo
mormorio poco lontano richiamolli alla realtà dell'esistenza. Zio e
nipote, come destandosi tutto spaventati, divinarono il destino che li
aspettava, e piantatisi ritti e minacciosi sulla terra benedetta dalle
ossa di Zelmira si prepararono a difenderla.

Azzo Carbonera, scortato da venti soldati, apparve infatto al
cancello. Tentò aprirlo, e veduto il fuggiasco gli gridò in tuono
minaccioso:

--Aprite alla legge. Aprite!

--Giammai!--rispose con voce ferma Pierio, e cacciate le mani sotto la
giubba ne cavò un coltello che brandì risoluto.

Giaimo veduta l'arme ne gioì, e coi pugni serrati si mise a lato del
nipote.

--Da bravo, Pierio; fa onore alla memoria di Bizco!

Azzo allora ordinò che si scardinasse il cancello, e molti uomini
fatta leva dei ferri ben presto l'ebbero messo a terra. Tolta l'unica
barriera che inciampasse loro la via, i soldati precipitarono verso il
tumulo, ed alcuni avrebbero fatto fuoco, se Carbonara precorrendoli
non comandava s'arrestassero e nessuno usasse dell'armi. S'avanzò
solo, e riconosciuto Pierio, gli disse corrucciato:

--Arrenditi, galeotto.

--No.

--Siamo molti, e tuo solo aiuto è un vecchio...

--Non m'arrendo. Qui sotto sta morta la sorella mia. Qui dunque avrò
fossa; pigliatemi.

--Il figliuolo di Bizco non cede, muore. E con lui morrà il vecchio
Giaimo!

Pierio s'era così ribellato, nè l'uffiziale doveva più oltre
sopportarlo; epperò senza aggiunger parola d'un salto gli si avventò
addosso e tentò disarmarlo. Ma il montanaro era troppo destro per non
preveder quell'offesa, e nel mentre Azzo piegava la spada a percuotere
con un rapido manrovescio il coltello di lui egli lo colpi d'isbiescio
nell'addome. La ferita, benchè leggiera, diè sangue, ed alla vista di
esso Azzo inferocì, e serratosi contro a Pierio, tale una tempesta di
colpi gli scaricò lungo la persona che questi ne rimase tutto
intronato e per pochi istanti stette passivo attore nella scena. Pur
si risentì, e bramoso di vendetta rivolse contro il petto del soldato
l'acuta punta del coltello, stracciandogli la tunica e scalfiggendolo.
La nuova ferita accrebbe l'ira di Carbonera, il quale, dato bando ad
ogni precauzione, si precipitò sul galeotto, e gl'immerse con tanta
furia la spada nel ventre che l'elsa riurtò. Pierio impallidì e
versando col sangue la vita, rovesciò cogli occhi smarriti sul suolo e
giacque.

Giaimo intanto era stato circondato, assalito e fatto immantinente
prigione dai soldati. Debole e disarmato, non avea potuto opporre
resistenza veruna, e pallido per odio insoddisfatto, fu trascinato
lontano dai due campioni e tenuto saldo sino a duello compiuto. La
valentia di Pierio lo consolò, ma ogni illusione svanì quando cadde
morto sul tumulo di Zelmira e vidde Azzo muovergli incontro
sfavillante di gioia e colla spada ancor fumante del sangue
dell'ucciso. Trepido attese dal vincitore l'ordine che lo fucilassero,
ed a quella angoscia s'univa desiderio di cessar tante pene ed unire
per sempre il suo al destino de' cari defunti! Qual fu la di lui
meraviglia allorquando seppesi assolto e libero! Ne rimase
sconfortato, ed uscito dal cerchio de' suoi custodi volò al tumulo e
brandito l'insanguinato coltello che giaceva press'al cadavere di
Pierio se lo cacciò a più riprese in cuore gridando con tutta la voce:

--Eccomi a te, Tecla!

E il mortorio di Tecla passava appunto in quell'istante la soglia del
triste recinto.


VII.

Il dì dopo quest'olocausto di sventurati, due giovani salivano sul
battello a vapore per Patti. Un uffiziale avevali accompagnati sino a
bordo, e poco prima della partenza li salutò ed augurò loro viaggio
felice.

--Addio, Azzo.

--Arrigo, addio.

Ed appena il piroscafo abbandonò il porto, Arrigo disse alla compagna:

--Bel soggiorno a Messina, o Emma; ma molti cattivi v'ho trovati...
v'ebbi molte noie... molte paure...

--E non ritorneremo più colà, n'è vero?

--Giammai!...

E levato lo sguardo su Curcoraggio sussurrò:

--Volevano uccidermi!... ammazzarmi per una leggerezza giovanile!...
perchè la montanina moriva!... plebei, cadeste!

Emma ed Arrigo, perduta in Messina la baronessa, abbandonavano per
sempre quella città.



POLO.

STORIA DI VAL DI NOTO.

                «Ahi! che un'alma sì bella a sì serena
                Non poteva a un mortale esser largita!»
                        _Giuseppe De Spuches._


I.

«Senza ire e senza declamazioni pongo finalmente l'ultima parola a
questo mio lavoro sulla filosofia di Fausto Socino. La quale diè gran
fama al pensatore toscano; e perchè codesta fu trascinata nel fango ed
invilita, ben si voleva oggi ringiovanirla e ristaurarla; oggi in cui
liberi asserti si proclamano ed al vero si dà l'omaggio di franca
sentenza. Cassati i veti, spezzati i vincoli, srugginita la
discussione, era pur dignitoso il ritorno alle glorie obliate;
rivendicatori della sapienza avita noi dobbiamo rizzarne le statue e
svelarne gli arcani filosofemi. Filosofia è oggi verità, e sta bene
che si affretti il riscatto collo studio del passato e coll'analisi
dell'indagini prime. Anche la nuova scienza ha pritanei, ed a quella
guisa che l'astronomo fissa acuto lo sguardo nella stella più remota,
è ben d'uopo che gli odierni pensatori esaminino i ruderi
dell'intelletto: Cuvier ristorò la storia antidiluviana sulle orme di
pochi avanzi animali: la scienza non è dessa immarcescibile, eterna?

«Il popolo, questo sventurato fanciullo che uomini e cose congiurano a
sperdere ed abbrutire, bamboleggiò sempre sotto il giogo dei forti e
degl'immutabili, ed a nulla giovò che di tratto in tratto alcuni
robusti infrangessero le ritorte e gli gridassero: Sorgi e cammina.
Prigioniero di fede accettata perchè poetica, veneratore d'idoli
dorati, seguace di banditori ciechi e servi; egli derise e peggio
lapidò i nuovi apostoli, i soldati della nuova civiltà; stizzì perchè
lo si scuoteva, precipitò nel sepolcro chi lo voleva vivo. Eppure
quelle vittime dell'insano furore erano illustri, or son martiri; e
ieri stracciato l'amaranto che immalinconiva le lor tombe, colle
fronde del giovine alloro se ne compose la corona e la si adagiò sul
cippo funerale. Tarda ma dovuta espiazione, rendimento di grazie
postumo perocchè prima negato, tributo imperituro di riverenza. Lo
sposo alla fidanzata ancor lontana, ma attesa, prepara il velo e le
rose; noi, alla ragione (non risorta perchè non mai morta, ma
rionorata e tornata al trionfo) intessiamo la cerchiata coi fiori più
belli spiccati dai gambi più alti.

«Quattro anni or sono, salpavo dal Giarciore e raggiunta Genova
attraversavo i piani del Monferrato e del Novarese e per le Alpi
scendevo in Elvezia. A Zurigo, nel panteon delle glorie repubblicane,
vidi eretto il sepolcro dei Socini, e perchè meravigliavo di veder
serbate in terra straniera le ceneri dei negatori italiani, il vecchio
grigione che mi era compagno sussurrò: «Ovunque, in ogni tempo,
sempre, le ossa dei martiri sono sacre.» Allora non avevo rifiutata la
credenza dalla povera madre insegnatami, epperò rimasi spaurito dalle
parole della guida e tremai. Oggi non tremo più, ho pensato, ho
riflettuto e mi son convinto; non ho più nè fede nè dubbio, ragiono:
eccomi adunque a deporre sul mausoleo di Socino l'omaggio della
verità. Da questo sconosciuto Pozzallo s'innalzi, una volta, l'inno di
lode al poeta della filosofia; il mio inno, solcato il mare, volerà in
Siena a baciarvi la culla del sommo estinto, varcherà le montagne e i
monti, e là sulla riva del lago scenderà a gridare Alleluia!--Per te
si veggia, come la vegg'io!»


II.

--Ebbene, Polo, avete finito?

--Dottor Cipriano, sì. E ne son contento. Ho resa giustizia al mio
Socino, e la gioventù che studia ed onora me ne sarà grata.

--Il vostro lavoro è serio e n'avrete applausi. Molta dottrina e molto
coraggio vi spiegaste. Al vecchio amico dei Brancato negherete che
faccia lieti augurii allo scolaro?

--Maestro, grazie. Gli elogi vostri mi animano e mi fortificano.
Grazie davvero, dottor Cipriano!

--Bene, bene, Polo...

--Posdomani andrò a leggerlo, come mi s'impose, al collegio di
Modica... e spero anche di potermene servire pel concorso di
Catania...

--So tutto, Polo... Ma voi non sapete però che v'è.... rivale....

--Chi mai?

--Nientemeno...

--Nientemeno...

Ciprigno, girò con sospetto gli occhi all'ingiro, poi fattosi piccino
della persona, accostò la bocca all'orecchio del seduto, ed in atto di
gran mistero gli sussurrò con voce tremante un nome. Era il nome del
figlio di un potente, di un uomo alto e famoso.

--... Lui?!...

--Lui. Che volete, Polo mio? S'è fitto in capo di vincere!

--E vincerà... lo temo!

--Però... animo, Polo... coraggio e costanza.

E così dicendo il dottor Cipriano uscì.

Era il dottor Cipriano uomo di cinquant'anni, di ritta statura,
altero, grave. Calvo e giallognolo, il suo capo aveva un impero
indefinibile, tanto da incuter rispetto e tema in chi lo guardava. Gli
occhi neri, lucenti, muovevansi celermente nell'orbita, ed in quello
sguardo si scopriva l'acutezza indagatrice; la bocca sempre chiusa
lasciava mai o quasi scorgere attraverso le pallide labbra i denti
ancor sani ed interi. Teneva di consueto le braccia incrociate, il
passo era lento e misurato, il moto della persona dignitoso e solenne.
L'abito nero, elegante e slacciato gli scendeva in falde lungo i
fianchi; nessun ornamento dorato gli splendeva sul panciotto pur nero,
e ricercata calzatura teneva ai piedi. Personaggio molto stimato e in
Pozzallo e nella contea tutta, godeva riputazione d'uomo influente e
colto, apparteneva all'Accademia di Modica, aveva casa, giardino e
poderi al Zango, e due volte al mese scendeva a Noto in qualità
d'ispettore delle scuole. Affettava protezione pel giovane Polo e
spesso desinava col suo «adorato figliuolo.»

Conosceva i Brancato da molt'anni, e col padre di Polo aveva avuta
stretta dimestichezza. Educatore di questo dall'infanzia,
frequentavane il palazzo e grande autorità vi godeva. Grave alterco
ebbe un dì col padre Brancato, e da allora in poi erasi licenziato,
mantenendo però una larva d'affezione al discepolo. Assai s'era
parlato di sì clamorosa rottura, nessuno seppene bene il perchè.

Profondo ricordo, del resto, dovevano averne tutti conservato,
essendochè e Polo mai parlava del padre in presenza del dottore e
Cipriano smarriva ogni allegrezza al solo rammentarsene!

Appena ebbe abbandonata la sala, Cipriano s'arrestò, levò in alto la
destra, e volgendosi alla porta per la quale s'accedeva allo studio di
Polo, sussurrò con voce rantolosa e sprezzante:

--Speri vincer la prova?... aver fama dal tuo libello infernale?
ottenere il titolo?... no, no, giovinastro, disilluditi... tra te e la
cattedra sta Cipriano!... non ancora è cancellata l'onta... pensa,
fanciullo, al 14 aprile!

Gli occhi sfavillarono d'indegno tripudio, ed un guizzo di codardo
orgoglio corse al dottore per tutta la persona. Affrettò i passi, e
giunto sul loggiato, salutò colla mano e col viso composto a paterno
sorriso il giovane allora comparso al balcone; onesto e sincero,
poteva Polo sospettare la perfidia di Cipriano? Ad un servo che gli
schiuse i cancelli fe' ringraziamento col leggiero chinar del capo, e
dalla scalea per la quale si scendeva nella piazza del borgo mosse
alla volta della via di Scicli. Là giunto, salì nella carrozza che
l'attendeva, e al cocchiere che lo interrogò disse in tono mellifluo e
piacente:

--A Modica!

Polo seguì dal balcone la partenza del maestro, e il rumore delle
ruote era già tutto cessato che ancora teneva lo sguardo sulla strada
dei colli. Alfine si scosse, s'accostò al parapetto del ballatoio, vi
poggiò i gomiti, e piegando lentamente la persona mirò con occhio
stanco il mare poco lontano.

Vasta scena s'apriva dinanzi e lontano lontano il mare si confondeva
col cielo serrando in armonico cilestre l'orizzonte dell'isola.
Quell'ampia e levigata superficie delle acque era calma, e lunghi ma
incerti raggi di sole screziavano qua e là le placide onde distese
dalla costiera a Gozzo e da Malta al dilungato lido africano. Nessuna
vela ne rompeva anco dai lati la monotona solitudine, sola una
striscia ben sottile di fumo lasciava supporre che un piroscafo
costeggiasse la nebbiata Calabria, L'azzurro dell'atmosfera, non
segato da nuvoloni, era però ad oriente arrossato dai riflessi
lucenti, i quali dipingevano in stupendi colori e con bizzarra
dissonanza quell'angolo del poetico quadro. L'aria non agitata da
venti, era ristorata dalla leggiera brezza della sera di settembre.

Sta Pozzallo alle falde delle leggiadre montagne che dai picchi del
Mongibello scendono in leggiero pendio sino al Passaro ed alla sua
destra scorre e si getta in mare il fiumicello Scicli che sbucato
dalla deserta valletta d'Empedocle tocca Modica e feconda le praterie
del Giarciore e di Donnalucata. Dalla punta di Magaluco a porto
Longobardo, cioè dal faro più meridionale ai declivii del fiume
Ragusa, piccoli seni e piccoli capi s'incatenano e s'intrecciano con
bellissima vaghezza; levando poi lo sguardo su su verso i monti
appaiono, prima campi irrigati e pascoli, indi colline boscose e
smaltate da cascinali e abituri, in fondo colli, più in là i dirupi
dell'ultima catena d'Apennino. E in mezzo allo squallido grigio delle
roccie torreggia l'annerito castello di Modica, il quale (a guisa
dell'aquila che dalla cima della quercia spazia coi torvi occhi il
piano sottostante) edificato sull'altura protegge la città raggruppata
alle falde e sembra minacci anco da lontano l'invasore. Da Magaluco e
da Longobardo lo si scorge ritto frammezzo alle immobili pietre del
monte.

Polo contemplò lunga pezza questa scena, ma intanto la notte era
calata e denso velo ricoprì tutti gli oggetti. Si ritrasse adunque dal
balcone, serrò le vetriate e scese nel salotto. Sedette allo
scrittoio, aperse il manoscritto, e sfogliando s'arrestò senza averne
intenzione alla pagina che così chiudeva:

«Il fine della virtù, ha detto lo storico Cuoco, è la felicità.
Questa, equilibrio tra desideri e forze, e perciò soddisfazione dei
bisogni, non si ottiene che colla libertà, la quale per essere essa
stessa necessaria vuolsi ottenere ad ogni costo, con tutti i modi
razionali che stanno nel potere delle moltitudini. Il buon uso della
libertà genera l'ordine, con cui ogni sistema d'organamento regge e
lavora. Ma ogni culto ha i suoi sacerdoti, la libertà ha i suoi
altari, e infiniti cadranno o fiaccati o spenti appiè del gonfalone di
costei. L'agnello, quando la patria corre pericolo, diventa leone:
allora (così il mansueto Pellico) combatte e vince, o muore!»

Una lagrima di melanconico entusiasmo spuntò sulle palpebre di Polo, e
per non piangere lasciò il libro e se n'andò.


III.

Spuntava appena l'alba del dì susseguente al colloquio di Polo col
dottor Cipriano, che una tartana, la quale nella notte aveva viaggiato
dal Capo Scalambro a Pozzallo, sbarcava al Giarciore un giovane
sconosciuto. Posto piede a terra, costui traguardò lungo il sentiero
se qualcuno apparisse, e rassicurato, a celeri passi s'addentrò
salendo di gran lena la costa. Taciturno e tutto incappucciato nessuno
l'avrebbe potuto ravvisare; il solo camminar frettoloso attestava
ch'egli era vivo, ma nel cervello infiniti pensieri gli s'affollavano
l'un all'altro avversi e nemici. Raggiunto il piazzale del paese,
mosse verso il palazzo Brancato, e battuti tre colpi alla porta stette
sospeso ad aspettare. Poco dopo rimbombò nel silenzio dell'atrio il
calpestìo di alcuno che accorreva e il cigolare dei chiavistelli
risuscitò in petto al giovane l'ansia tormentosa del dubbio; nel vano
dell'apertura si mostrò un altr'uomo, e fatto cenno colla mano che
s'accostasse, sussurrò:

--Siete voi, Luchino?

--Sì, Polo mio!

S'abbracciarono, e stretti in quel commovente amplesso passarono il
portico ed entrarono nella sala. Luchino gettò a terra cappello e
pastrano, si lasciò cadere in una seggiola e disse:

--Finalmente!

--D'ove vieni?

--Da Alicata. Ho parlato agli amici in Palma, a Naro, a Girgenti. Due
settimane or sono ero ancora a Roma: comandato dal Venerabile partii
per Napoli e di là per Palermo...

--Fosti a Palermo?... le nostre idee vi si diffondono? i cugini
lavorano?

--Tutto va bene. Vidi il cancelliere, vidi gli amici, lessi i
proclami... ad alcuni, ai migliori, fu imposto scrivano opuscoli di
morale civile... ed a Ruggiero, sai? il Venerabile ordinò un libro sul
vero destino dell'uomo... è insomma la demolizione...

--Anch'io, Luchino, ho obbedito. La storia di Socino è compiuta.

--Davvero? Oh te beato, Polo, che rechi sì prezioso tributo
all'avvenire... a me tocca sempre l'ufficio del cavallo... corro,
corro, viaggio...

--E da Palermo?

--Da Palermo passai a Corleone, a Sciacca: ovunque ordine e lavoro.

--E speri?...

--Spero.

--Il popolo si lascierà persuadere?

--Oh si, è necessario. Infranto il piedestallo cadrà la statua.

--È la statua di cui parlano i poeti. Tutta d'oro e bronzo, ha i piedi
di creta.

--Il sassolino franato dal monte li spezzerà.

--Dunque?

--Dunque, Polo mio, coraggio ed audacia. Già in Roma si prepara la
rivolta... ai confini della Toscana e dell'Umbria s'agglomerano baldi
e arditi migliaia di giovani... Lui è là; sarà il capitano
dell'impresa.

--Che pensi intanto di fare?

--Stanotte andremo a Modica, raccoglieremo i cugini della città,
ridesteremo gli entusiasmi... e pur la Val di Noto sarà rappresentata
nella falange...

--Domani appunto dovrei leggere al Collegio...

--Sta bene. Molti di essi ci sono amici... e il preside?

--Il dottor Cipriano? il vecchio maestro mio? non lo stimo sleale, è
uomo franco e...

--Anche dopo il 14 aprile?

Polo rabbrividì, ma superatosi aggiunse:

--Sì, Luchino.

--Meglio ancora.

--Stanotte...

--Attendimi. Verrò ai cancelli col biroccio. Darò tre colpi. Non
mancare. Addio.


IV.

«...... non lo stimo capace di leggere filosofia. Balzano e più ancora
settario non milita nel campo della verità, e s'è corpo e cervello
affiliato a' framassoni. Illuso, sedotto, accecato da eretici
paradossi, egli sostiene a spada sguainata e col coraggio ardimentoso
della gioventù le massime della nuova sofistica, e nessuno più di lui
sprezza ed ingiuria le sante tradizioni. Paladino di codeste empietà;
seguace, ammiratore, amico, di codesti novelli scrivacchiatori,
diffonditore di codeste dottrine che paion recenti perchè piovuteci
testè dalla Francia degli Enciclopedisti; nel suo libro,
fortunatamente tuttor inedito, sulla vita e le opere dell'empio
Socino, Polo Brancato, corrotto dall'infame esempio del padre, sparge
a piene mani il ridicolo e la contumelia sulla religione degli avi e
predica coll'impudente alterezza dello stolto fanatico la crociata
(concedete che usi la parola sacra a sublimi ricordanze) contro l'Arca
del Signore! No, no, licenziatelo, affidate la cattedra alla saggia
gravità del duca......»

Così scriveva il dottor Cipriano a personaggio autorevole nell'Ateneo
di Catania, e nel chiuder siffatta lettera delatrice uno strano
sorriso gli sfiorava le labbra. Suggellò il foglio, scosse il
campanello e al chiamato lo consegnò dicendo:

--Mettila subito in posta.

--Sarà fatto... il Collegio è raccolto... si aspetta Vossignoria.

--Vado, vado. Quella lettera a destino.

Passeggiò a lunghi passi la camera e con foga irrompente ripetè a sè
stesso i concetti dello scritto. Gli brillava in viso la
soddisfazione, aveva più largo il respiro, e quasi per istinto batteva
le mani. Alla fine, bruscamente fermandosi nel mezzo dello studio,
alzò la voce e pronunziò:

--Figliuolo di Matteo Brancato... difensore della ragione...
rivendicatore di Fausto Socino... a noi due!

E mosse per uscire. Ma nell'atto di passar la soglia, alzò in contegno
supplice lo sguardo e balbettò:

--Vittoria o sconfitta?

Scosse lentamente il capo, sogghignò e disse:

--Cipriano, trionferai!

La vasta sala, nella quale il Collegio era radunato, sfarzosa per
ricco addobbo e per superba architettura di quel Paolo Labisi che e in
Roma e in Napoli e in Messina e persino nel Messico lasciò egregia
fama, ricorda a coloro che la visitano i più gridati fatti della
storia siciliana. Là entro raccolsero il popolo a comizio i principi
saraceni, il conte Ruggiero, alcuni Svevi; là arringarono Carlo
Angioino e gli ammiragli d'Aragona; là l'ambasciatore di Carlo V
impose alla valle ubbidienza e fedeltà; là Filippo I e uno scudiero
d'Amedeo promisero pace e protezione alla contea; là poetò il netino
Marrasio; là Pietro Pipi scrisse il libro sull'incendio dell'Etna; là
Sinatra dettò le regole dell'Accademia e Antonino Tedeschi raccolse
con pazienza d'erudito le memorie della città, state poi poco dopo la
sua morte disperse dagli ignorantissimi eredi; là entro sempre si
tenne vivo il pensiero della libertà, il desiderio di civile ristauro.
Tele di rinomato pennello ne ornano le ampie pareti ed accanto al
seggio del preside s'erge in bianco marmo l'effigie venerata del
fondatore.

I soci (ben trenta) erano sparsi a gruppi in essa, e fra ciarle e
ragionamenti attendevano la venuta di Cipriano. In un cerchio di otto
o dieci ascoltatori stavano Polo e Luchino, affannati a render conto a
quegli amici dei moti preparati e delle fila tese e annodate.

--Credetemi--diceva Polo,--la nostra è causa giusta, e vinceremo. È
guerra non di conquista ma di filosofia. Questi avanzi del passato,
queste cassandre del risorgimento, devono cadere e cadranno. Tanti
strazi, tanti patimenti sopportati, tanti studi, tante veglie
sostenute, non hanno ad aver compenso? Innumerata schiera di pensatori
agitò, discusse, svolse questi giganteschi problemi... e le sudate
fatiche di tanti onorandi non avranno scopo? La civiltà, il benessere
delle moltitudini, il volo dell'intelletto, sono fieramente
osteggiati... sì, eziandio traditi e venduti!... in quella storica
terra sventurata... e noi lascieremo che il Tevere bagni più a lungo i
campi e le lande di italiani schiavi? Credetemi, amici, non possiamo,
non dobbiamo, non vincere... o che la ragione non debbe alla fine
trionfare? e la ragione non è la verità?

--Ben diceste, o Polo--esclamò preso da entusiasmo Luchino.

--Ben diceste: la libertà di Roma sarà libertà delle nazioni: cacciato
il falco i passeri lasciano il nido e gioiosi svolazzano.

--Luchino, Luchino, il vostro augurio è felice, e tale lo desidero
alla patria. La ragione, svincolata e vittrice, segnerà il
rifiorimento d'Italia.

--E intanto?

--Intanto? aiutiamo colle braccia il lavoro della mente... siamo
soldati per essere utili, ed appena il segnale della battaglia sia
dato io volerò a serrarmi nelle fila dei più arditi.

--Vi seguirò, Polo. Dovessi segnarmi la morte! Luchino rimarrebbe
solo, umiliato, mentre gli amici combattono?

--E muoiono! Sì, perocchè morrei prima di ceder l'arme!

--Anch'io, Polo, vi seguirò--interruppe Pericle.

--Anch'io--gridò Ciro.

--Anch'io, anch'io--esclamarono quattro fra gli ascoltatori, e tutti
serrarono con giovanile baldanza le mani di Polo e Luchino. I quali
commossi alle lagrime, baciarono con vero affetto quei gagliardi.

In quella il dottor Cipriano apparve.

--Signori--egli disse--paterna gioia mi commuove il petto ed in cuore
provo contento grandissimo.

--Che è, che è?

--Finalmente... e dico finalmente, o colleghi, giacchè sino a ieri
avversa gli fu la fortuna... finalmente le squisite facoltà dell'animo
e della mente di un mio diletto figliuolo, vostro egregio amico,
vennero riconosciute.

--Chi mai?--proruppero ad una sol voce Pericle e Ciro, ed i loro
sguardi si rivolsero a Polo.

--Chi mai?!.., e debbo dirvelo?... Polo Brancato, mio adorato allievo,
fu ieri accettato come primo candidato alla cattedra di filosofia...

--Io?!

--E sto mallevadore, signori, che appena data in luce la sua opera sul
grande Socino, Polo verrà eletto.

--Posso sperarlo?

--Oh Polo mio, qual festa!--gridò il buon Luchino, e l'abbracciò. E
dopo lui l'abbracciarono Ciro, Pericle, i colleghi; tre grossi baci
gli stampò in fronte Cipriano.


V.

Dieci giorni dopo quest'onore reso a Polo, Cipriano passeggiava in un
salotto terreno della suo villa al Zango, il quale, paesuolo a mezza
via tra Modica e Pozzallo, sta a cavaliere della china che dai colli
va morendo su Scicli e giù giù sulle sponde del Ragusa. Era sera e
pioveva a dirotto: la brezza umida e intirizzente che spirava dalle
alture verso mare metteva nelle membra un brivido convulso ed
accresceva a mille doppi la noia dell'aspettare. Il preside camminava
da una parete all'altra della camera, le cui finestre s'aprivano sul
giardino. Sovr'al tavolo, ingombro da carte e libri, rosseggiava la
stanca fiammella della lucerna; la luce vaga e melanconica di essa
sparsa a sprazzi lungo le verdastre pareti e le cortine pur verdi
conciliava a cupa tristezza Cipriano, che solo e a capo chino
v'attendeva il vecchio duca *** di Siracusa, e di tratto in tratto
alzava gli occhi verso una clessidra vecchio arnese ereditato da padre
in figlio siccome ricordo di famiglia.

--Che non venga?... eppure la lettera diceva oggi... sì, duca, al
vostro Alberto l'Università... a me... il Rettorato! Ebbene?... la
ricordanza del 14 aprile, il solo rammentarmi di Matteo Brancato... mi
mette in cuore la smania della vendetta... sono dieci anni che la
covo... che la desidero... oggi la fortuna mi aiuta, e non n'userò?...
la mia ambizione non ha ad essere soddisfatta?... e poi... non basta
alle porpore ed alle tiare che ne strazii la crescente rinomanza?...
razionalista, difensore di Socino, amico delle plebi... non è Polo
degno d'anatema?... suvvia, Cipriano, forza... alléati al Duca... la
di lui potenza e la scaltrezza tua... parmi rumor di ruote... sì, sì,
è il duca!... Cipriano, non mentire a te stesso, sii astuto, sii anco
temerario... e fra tre mesi sarai Rettore in Catania!

Si rassettò in fretta la veste e composte le labbra a sorriso mosse
per uscire; ma nell'istante in cui alzava la mano per schiuder le
imposte, queste si spalancarono e la vecchia fantesca entrò
annunciando il duca ***. Cipriano a quel nome fè un inchino profondo e
al personaggio apparso sul limitare sussurrò:

--Duca, troppo onore!

Vestiva il Duca un lungo robbone di saio nero foderato di seta, la
grossa catena d'oro dell'orologio ne ornava la duplice bottoniera, e
la barba bianchissima gli scendeva prolissa sul petto. Severo
nell'aspetto, alteramente libero nel portamento, riciso parlatore,
acuto nello sguardo e attento, il suo volto imponeva; una tal quale
maestà, spirava da quella sua alta figura che nemmanco il più
brillante sfaccendato e impudente sprezzatore avrebbe potuto
sottrarvisi. Abituato alle corti, il duca *** erasi fatto abito la
sostenutezza diplomatica; le sue parole brevi e mordenti recidevano
ogni discussione, e nel fuoco de' suoi occhi scorgevasi viva e
incancellabile l'abitudine del comando. Devoto al Borbone, era stato
in sua gioventù ambasciatore in Ispagna e nella corte di là aveva
esercitata grande influenza, da Madrid inviato a Roma era penetrato
ne' segreti cardinaleschi ed aveva annodata amicizia coi più illustri
porporati. Caduto il padrone, anche il servo cadde; ma il duca ***
uomo ambizioso ed avido d'onori tanto seppe piegare e molcere che
creato Senatore riebbe la primiera autorità e salì di scala in scala
ai più alti titoli del nuovo Reame.

Cipriano, in sembiante umile e dimesso, avanzò verso il duca un
seggiolone e tenendoglisi chinato innanzi ripetè:

--Duca, troppo onore!

--Dottor Cipriano--disse il duca--stimo fortuna l'avvicinarvi. So che
molto è il vostro ingegno, che grandi sono i meriti vostri, epperò mi
consolo davvero d'aver a trattarli con uomo riverito e stimato.

--Duca, i vostri elogi mi confondono. Non mi si convengono, e la
vostra cortesia più che inorgoglirmi m'umilia.

--Suvvia, lasciamo le frasi. Grave discorso abbiamo a tenere. Sedete,
dottore, siete in casa vostra e questi complimenti mi spiacciono.

Il preside s'avvicinò una sedia e messosi al fianco del vecchio
ambasciatore attese che parlasse.

Intanto l'acqua cadeva ancora a rovescioni e la smorta luce della
lampada quasi sentisse ribrezzo della bufera dei colli pareva
dileguasse e svanisse. Il duca e Cipriano, seduti a lato del tavolo,
erano pallidamente rischiarati da quella fioca fiamma, e le loro
fredde e rigide figure sembravano due statue da cimitero.

--Dottore! La vostra lettera mi ha giovato, e tengo sicura la chiamata
del mio Alberto...

--Non feci, duca, che rendere l'omaggio dovuto al figliuol vostro.

--Le precauzioni da me prese e le raccomandazioni vostre accertano
Alberto... il candidato livornese fu fatto ritirare... questo Polo
Brancato...

--Il Brancato?... non temetelo, duca. Giovane, inesperto, esaltato,
traviato da falsi amici e fallace filosofia, egli non può esser tenuto
siccome serio competitore.

--Eppure e in Noto e in Siracusa se ne loda assai l'ingegno.

--Elogi comprati! figlio di Matteo Brancato, consuma l'oro mal
guadagnato dal padre... e da questi ereditò vizi e basse passioni...
affetta razionalismo! tutti gli esaltati per ciò lo esaltano! fa il
patriota!...

--Dottore... lasciamo questo lato... la mia politica... via...

--Sono dodici anni che ci conosciamo, duca... avreste perduta la fede?

--Dottore, dottore!

--Polo Brancato non può nemmanco aver l'audacia di lottare col duca
***!

--Lo spero. Ma pure sarà bene che lo si escluda davvero. Il voto
vostro, dottor Cipriano, è...

--Voterò per Alberto ***.

--Grazie, amico. Ed io che farò per voi?

--Oh duca!

--Dottore...

--Che dite mai?!... mi si proponesse una prefettura non accetterei!

--La dignità di rettore in Catania... lo sapete?... è da un anno
vacante... a Firenze... lo so dai ministri... si pensa ad installarvi
un professore di Genova.

--Beate le scuole se il capo sarà operoso!

--Dottore! e se proponessi voi?

--Duca, duca! burlate?... io, sì fiacco, sì povero di spirito e
dottrina?...

--Voi... bravo, profondamente dotto... amico dell'ordine e delle
legittime potestà...

--Dotto? duca, per carità...

--Che? non ho a dirvi la verità, tutta la verità?

--La verità, non l'adulazione.

--Suvvia, dottore, ho deciso di propor voi a rettore... e lo farò.

--No, duca... lo vieto!

--Dottor Cipriano... non permettetevi più oltre l'opposizione. Ho
deciso.

--Duca... perdonate... giacchè lo volete... obbedisco.

--Fra tre mesi Cipriano Giaracà sarà rettore in Catania!

Chi avesse potuto in quel punto scrutare attraverso il petto nel cuore
di Cipriano v'avrebbe scorta facilmente una gioia violenta appunto
perchè nascosta, la quale commovevagli tutta la persona e gli metteva
ne' pensieri un senso nuovo di tripudio e fiducia. La dignità a lungo
vagheggiata eragli omai offerta, anzi imposta; il preside
dell'accademia della piccola Modica avrebbe presto occupato il seggio
universitario! Di tutto questo bollore, nulla però trasparì sul viso
al dottore; che, come sempre, freddo ed immobile, inchinò il
diplomatico, mormorando il solito ritornello:

--Duca, troppo onore!

Il duca sorrise di compiacenza, e già s'alzava, allorchè uno strano
gridío scoppiato a poca distanza dalla villa lo percosse, arrestandolo
meravigliato. Il preside, spaurito, corse alla finestra, spalancolla,
traguardò fra i salici e le palme del giardino, tese l'orecchio e
ascoltò. Lontano si gridava Viva Italia, ma a poco a poco tutto tacque
e la finestra fu rinchiusa.


VI.

Nel mentre Giaracà attendeva al Zango il duca ***, in una povera
stanzuccia d'una casa poverissima di Modica, Luchino impazientiva pel
ritardo di giovani aspettati. Un fascio di lettere gli stava innanzi
su d'una zoppa tavola, un piccolo valigiotto era appeso ed una pistola
luccicava sul lettuccio. L'amico di Polo sembrava oltremodo agitato,
ed il respiro gli si fece più libero solo allorquando l'uscio s'aprì e
cinque individui comparvero. Vestivano tutti da viaggio, ed appena
entrati abbracciarono stretto Luchino carezzandolo con giovanile
effusione.

--Siete pronti?--disse subito Luchino.

--Eccoci. Partiremo presto?

--A minuti la carrozza sarà in piazza.

Pericle e Ciro, senz'altro, raccolsero la pistola e la valigia, e
spalancato l'uscio discesero. Luchino, disse addio collo sguardo alle
nude ma care pareti della cameretta, intascò il fascio, e fatto cenno
ai tre che precedessero, passò la soglia e chiuse. Poco dopo i sei
viaggiatori da una scura callaja sbucavano sul foro del castello.

Un montanaro s'avvicinò a Luchino e senza mover parola gli additò la
carrozza pronta nel lato più remoto della piazza. Già cadevano le
prime gocciolone e il cielo scuro scuro non dava modo di scorgere gli
oggetti circostanti. Il framassone rispose con un segno misterioso di
mano allo sconosciuto e raggiunta la vettura pregò gli amici a
salirvi. Questi adagiati, trasse dalla tasca le lettere, e consegnolle
all'uomo cui alzando in viso lo sguardo disse:

--Pincio, queste lettere le affido a te. Sono importanti, e lo
smarrimento di una sola di esse rovinerebbe il lavoro... abbine quindi
massima cura e presto inviale a destino.

--Non temete, cugino. So bene che gravi ragioni stanno contenute in
queste carte. Me ne avvisò appunto stamane Polo Brancato.

--Queste lettere sono sue.

--Sapevo.

--Quasi tutte sono indirizzate a Palermo. Qualcuna è per Trapani...
poche a Catania. Pincio, addio!

E la carrozza partì.

Il montanaro non si mosse se non allorchè la vidde assai dilungata, e
dato uno sguardo tutt'all'intorno si pose a riparo dalla fitta pioggia
sotto la merlata della torre. Poco appresso però, lungo le mura del
forte, Pincio sbucò sul foro e a lesti passi risalì alla volta della
montagna.

La carrozza di Luchino ed amici arrivò in quel frattempo al Zango.
Innanzi la casa di Giaracà sostò e Ciro saltò a terra pel primo: dalle
arcate uscì Polo dicendo:

--Eccomi!

--Polo--gridò Luchino--le lettere viaggiano... al resto pensasti?

--A tutto.

--Polo mio--susurrò Pericle--Polo mio, abbiamo a compiere un sacro
dovere... lo so; ma ci arriderà la fortuna?

--Pericle, abbi animo. Al soldato che giura devozione alla bandiera è
promessa forse salva la vita?

--Viva Polo!--esclamarono gli altri eccitati dalle parole solenni del
Brancato--Viva Polo!

--Viva Italia, amici, viva la ragione!

--Viva Italia!

Fu questo grido che scosse Cipriano e il Duca.

--Affrettatevi, Luchino. Prima che spunti l'alba di domani sarò di
ritorno a Pozzallo.

--Sei la guida nostra, o Polo. Non mancarci.

--Domattina.

--All'alba.

La carrozza partì e Polo passato l'atrio suonò alla porta del preside.

Il duca *** all'annuncio del giovane, fe' d'occhio a Cipriano, ed
alzatosi spalancò l'uscio di una camera oscura e là entro a passi
lenti sparve.

Il preside si mosse verso la porta e con un ghigno insidiosamente
beffardo, susurrò:

--Già qui?... le mie arti son dunque riuscite?... l'agnello viene a
riparo presso il lupo?... e lo scritto mi sarà da lui... da lui stesso
consegnato? dunque? Ah, Cipriano, ricordati del 14 aprile!


VII.

--Oh Polo mio!... venite, venite. Qual buon vento?

--Maestro!... prima di abbandonare la Sicilia...

--Partite?

--Sì. Un grave dovere mi chiama in continente; epperò innanzi
lasciare... forse per l'ultima volta... questa patria mia, volli
abbracciarvi, vedervi... affidarvi un incarico.

--Sedete, Polo.

Brancato si lasciò cadere colla persona nella seggiola e veduto
Cipriano imitarlo continuò:

--Davvero, maestro. Solenne è il dovere che vado a compiere fuor della
valle. Che volete? non lo contesto, mi si squarcia il cuore nel dir
addio a' miei monti, al mio paese, al mare che dal terrazzo scorgo ed
ammiro... nel separarmi da un'angelica fanciulla... timore e rispetto
per voi, dottore, per l'età vostra, per l'autorità che avete su me,
m'hanno sinora rattenuto dal confidarvi questo segreto del mio
cuore!... ebbene, anche da lei deggio dividermi... da lei che amo come
folle... che adoro!... lascerò i libri, gli studi... che monta?

--Polo mio... perchè far mistero al vostro Cipriano? sapete bene che
v'ho veduto nelle fasce, che fui il più sviscerato amico di Matteo...

--Povero padre mio!

--Che v'educai e vi fui guida... lasciate la valle? ma quando?
perchè?... solo?

--Lascio la mia terra perchè lassù in riva al Tevere si combatte e si
muore... lascio Pozzallo e le mie care colline perchè onore e dovere
mi chiamano... lascio gli oggetti a me più cari... voi... Eloisa...
amici e compagni... perchè non di soli studi nè di solo amore debbo
vivere... oggi il vero patriota impugna le armi per essere libero e
sapiente domani!

--E partite?...

--Domattina. Sei amici m'aspettano.

--E andate?

--A Rieti.

--Non sta in me, Polo, lo spegnere il santo entusiasmo che v'arde in
petto... non io dirò, a giovane e poeta qual voi siete, restate!
Giacchè questo è il destino vostro... giacchè così avete deciso...
andate, figliuolo... ma anche lontano ricordatevi... oh sì,
promettetelo!... di coloro che v'amano, di me che vi sono affezionato
siccome padre!...

--Oh maestro!

--Di me, sì, che benchè a malincuore in dissenso col genitore sempre
pensai a voi... all'infelice madre vostra!

--Oh dottore! le vostre parole mi commuovono... sento crescermi in
cuore una tenerezza nuova per voi... il perdono che ora offrite alla
memoria del padre mio... raddoppia in me la riconoscenza... ve ne
ringrazio! Ma, vi prego, lasciate che ritorni al primo scopo della mia
venuta.

--Dite, dite, Polo.

--A voi, maestro, nulla de' miei studi è nuovo. M'avete incoraggiato e
fatto plauso.

--Che, Polo? vorreste che avessi sprezzato l'ingegno vostro, l'affetto
grande che portate alla scienza?

--La mia difesa di Fausto Socino non v'è sconosciuta. Domattina
parto... e mi dorrebbe lasciar solo e inutile quel mio breve lavoro!

--Lo recate seco voi?... no, no, Polo, piuttosto affidatelo a me... ne
avrò la massima cura...

--Davvero? oh non m'ero ingannato!

--Dunque, figliuolo?

--Speravo appunto che avreste accettato questo ufficio. Ma non basta,
maestro...

--Suvvia, Polo...

--Desidero che... gli eventi della guerra sono infiniti, potrei non
tornare...

--Che dite mai, Polo? perchè queste malinconie?

--Potrei non tornare... non è egli possibile che una palla m'uccida o
un gendarme mi chiuda in Sant'Angelo? Vorrei dunque, dottore, che
allora... ma solo allora... lo pubblicaste, dedicandolo per me ai
nuovi martiri!

--Polo! ho fede che non adempirò al mandato... perocchè tornerete. Ma
dato che la sorte... vi corra funesta... dato che Cipriano più non
debba rivedervi... allora, oh si, solo allora... affiderò alle stampe
la vita di Socino.

--Grazie, maestro, grazie!

--Non dubitate, Polo. Aveste sempre in me l'amico più fidato... sempre
vi sarò legato coi sacri vincoli dell'affezione!

--Cosicchè... anche morto... avrò in voi un amico, un difensore?

--Oh Polo! cessate, ve ne scongiuro! queste tristezze mi trambasciano,
potreste dubitarne? a me rimarrà sempre in pensiero siccome scolpito a
lettere di bronzo il nome del figliuolo di... Matteo!

--Solo il nome?

--Oh no, Polo mio... non v'amo, io, povero vecchio, come nessun padre
amerebbe?

E Cipriano, con effusione d'affetto irresistibile serrò al petto il
giovane Polo; il quale commosso alle lagrime e in quella mestizia
tripudiante abbracciò con figliale tenerezza il maestro baciandolo e
ribaciandolo.

Passarono parecchi minuti, ed alla fine svincolatisi, il preside
chiese con voce interrotta dai singhiozzi:

--E il Socino?

--Eccovelo, maestro.

Polo infatti trasse dal pastrano il manoscritto e glielo sporse. Il
dottore lo guardò e tutto premuroso andò a riporlo in un armadietto.

--Addio, dunque, maestro.

--Addio, Polo mio, fatevi onore... ma serbatevi alle speranze della
valle!

--Addio, maestro, addio!

Spalancò l'uscio e, quasi fuggisse, s'allontanò.

Il duca *** nel medesimo istante riapparve, e scosso Cipriano che
stava immobile collo sguardo prostrato, gli gridò all'orecchio con
voce cupa e tremante:

--Dottore, il voto vostro è ancora...

--Per voi, duca!

Ed un lampo sinistro brillò negli occhi di Giaracà.

Il duca lo comprese e rispose a quello con uno sguardo di gioia
feroce.

--Cipriano, ricordatevi del 14 aprile!


VIII.

Suonavano dalla torre di Pozzallo le prime ore del mattino, che Polo
apriva il cancello del palazzo e scendeva al mare.

Qualche cosa di greve e pesante minacciava non lontana la tempesta.
Non una foglia, non un filo dell'erba s'agitavano; i pochi uccelli che
là e qui volavano sparsi sull'ampia faccia del mare quasi presaghi di
prossimo uragano, piegavano l'ali e calavano a nascondersi fra i
cespugli e le grotte della ripa; le acque immobili ti davano immagine
di specchio ben lisciato; nuvolaglia bigia e opaca sorgeva lenta lenta
sull'orizzonte e vagava incerta e spezzata per la volta cerulea.
Deboli raggi di luce annunziavano che il sole compariva e quei raggi
rifratti dalle nubi si riflettevano nell'onde, le quali così variegate
simulavano i colori dell'iride. Ogni gaiezza, in quel silenzio e quasi
direi agonia della natura, affievoliva e cessava; indefinibile,
cruccioso sconforto, avviliva l'animo e le sofferenze della vita
ripigliavano in tanta atonia la molcita possanza.

I compagni l'attendevano ed appena lo viddero spuntare lungo l'argine
gli corsero incontro facendogli festa. Ma Polo, pensieroso e mesto,
non rispose col sorriso a quell'amichevole tripudio; anzi, stese loro
le mani in atto d'affetto, esclamò:

--Non rallegriamoci, la partenza dalla terra natale è sempre dolorosa.

--È vero, Polo--rispose Ciro--è vero. Anche a me l'angoscia fa gruppo
qui nel cuore...

--Oh sì, non facciamo ad ingannarci--interruppe Pericle--l'abbandono
delle famiglie è pur straziante!

--Permetti, Polo--disse alla sua volta Luchino avanzandosi insieme con
un giovane d'aspetto robusto--permetti che ti presenti Adolfo.

--Anche voi, Adolfo? V'aspettavo, siate il benvenuto.

--Il vostro esempio, Brancato, mi rinnovò ardire e coraggio. Stanotte
salutai a Scicli lo zio ed ora eccomi seco voi. Spero bene che vorrete
accettarmi compagno: sfideremo insieme la sorte, e se qualche alloro
ci sarà dovuto insieme n'avremo tripudio.

--Alloro?... no, Adolfo. A noi poveri fanti d'esercito sterminato è
unico compenso la gloria di combattere ed anche cadere per la gran
bandiera della risurrezione. Ai soldati oscuri operatori d'ordini a
loro ignoti è serbata la fossa... beate le loro spoglie se vi ponno
riposare con pace! ai condottieri spetta il trionfo; ad essi dunque
l'onore della vittoria e l'alloro!

Nessuno rispose alle melanconiche parole di Polo e però senz'altro
calarono.

Raccolti nell'umile burchio che li aspettava, quegli otto giovani,
prima di spiccarsi davvero dalla riva, gettarono d'istinto uno sguardo
di saluto e commiato ai declivii ed ai colli. E negli occhi rivolti
alle amate alture brillò improvvisa una lagrima, e su quelle fronti
balde e rigogliose passò rapida a guisa di baleno la ricordanza delle
gioie infantili, dei furori del primo amore, dei primi disinganni,
delle disillusioni, della cresciuta esperienza, delle angoscie!

Al balcone della più vicina casa del paese apparve allora la bella
figura d'una giovanetta. Vestiva l'abito nero in segno di lutto, e
quel viso pallido e scolorato aggiugneva avvenenza all'aerea persona.
Guardò giù lungo la costiera e ravvisata la barca alzò la destra
sventolando il fazzoletto. Polo la scorse e al saluto rispose con un
addio prolungato... povero giovine! la sua Eloisa era là, lo salutava,
inviavagli col palmo della mano il bacio dell'augurio! non era uno
strazio, per lui sì disperante del ritorno, quel saluto innamorato?

Adolfo fu muto e non supposto spettatore di quell'addio, guardò
Eloisa, guardò Polo, ed un sorriso di fratellevole compiacenza gli
spuntò schietto e sereno sulle labbra.

Finalmente il burchio, spinto da dieci remi, si staccò dalla sponda e
prese il largo. E nel mentre la navicella ad ogni istante si faceva
vieppiù indistinta e confusa, la giovinetta ritta nel vano del balcone
teneva fisso lo sguardo sull'adorato Polo suo!... allorchè il burchio
fu scomparso, Eloisa si ritrasse precipitosa e pianse!


IX.

Il 2 dicembre di questo stesso anno, nel _Ducezio_, giornale dei
liberali di Noto, si lesse:

«Apparve testè coi tipi dell'Accademia in Modica, la Vita di Fausto
Socino, lasciata inedita da Polo Brancato di Pozzallo. Amaramente
delusi nella nostra aspettazione, non possiamo che augurar l'oblio ad
un libro sì indegno; perocchè vi leggemmo non un'apoteosi o almeno una
difesa dell'onorando sienese, sibbene una trista e gesuitica
filippica. Da Brancato, già da parecchi anni rispettato nell'isola
siccome d'addottrinato ingegno e d'animo caldamente razionalistico,
non ci saremmo mai aspettati tanta violenza partigiana e calunniosa.
Lo scarificatore del buon nome di Socino era egli ipocrita allorchè
predicava la ragione e la democrazia? ovvero gli si affievolì il
cervello innanzi tempo e con esso la costanza e la dignità? Questa sua
Vita non è ad ogni modo altro che un cattivo e mal digesto
abboracciamento della famosa Storia del Socinianismo uscita nel 1723 a
Parigi coll'approvazione in nome di Luigi l'Amato _per la grazia di
Dio re di Francia e Navarra_ dai cancellieri Daguesseau e Carpot; e
per di più non fa parola delle celebrate polemiche dal Socino
sostenute contro Erasmo ed Eutropio recate ed annotate nelle _Fausti
Socini Opera Omnia_ pubblicate in due tomi ad Irenopoli _post annum
domini_ 1656.»

Polo, un mese prima, era morto colpito da palla francese, a Mentana!

E così al martire del razionalismo militante si rapiva dall'iniquità
degl'invidi e dei tristi la gloria di libero pensatore!


FINE.





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