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Title: Le Amanti
Author: Serao, Matilde, 1865-1927
Language: Italian
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(This file was produced from images generously made
available by Biblioteca Nazionale Braidense - Milano at
http://www.braidense.it/dire.html)



  MATILDE SERAO

  LE AMANTI


  LA GRANDE FIAMMA--TRAMONTANDO IL SOLE
  L'AMANTE SCIOCCA
  SOGNO DI UNA NOTTE D'ESTATE.



  MILANO

  FRATELLI TREVES, EDITORI

  1894.



OPERE di MATILDE SERAO,

(_Edizioni Treves_).



  _All'erta, Sentinella!_ racconti napoletani, 3.ª ed.  L. 4--
  _Il romanzo della fanciulla_, 4.ª edizione               2--
  _Il paese di cuccagna_, romanzo, 2.ª edizione            5--
  _Il ventre di Napoli_ (1885), 3.ª edizione               1--
  _L'Italia a Bologna_. Con 15 incisioni                   2--
  GLI _Amanti_, pastelli, 2.ª edizione                     4--
  LE _Amanti_                                              4--



  MATILDE SERAO



  LE AMANTI



  LA GRANDE FIAMMA--TRAMONTANDO IL SOLE
  L'AMANTE SCIOCCA
  SOGNO DI UNA NOTTE D'ESTATE.


  MILANO

  FRATELLI TREVES, EDITORI

  1894.



PROPRIETÀ LETTERARIA.

_Riservati tutti i diritti._



Milano. Tip. Treves



LA GRANDE FIAMMA.

_A Rocco Pagliara._



I.

Nell'ora tarda della sera, partita l'ultima persona amica o
indifferente, per la quale essa provava l'orgogliosa e invincibile
necessità di mentire, chiuse tutte le porte ermeticamente, piombata la
casa nel profondo silenzio notturno, interrogate con lo sguardo
sospettoso fin le fantastiche penombre della sua stanza solitaria,
dove sola vivente era una pia lampada consumantesi innanzi a una sacra
immagine, prosciolto il suo spirito dall'obbligo della bugia e le sue
labbra dall'obbligo del sorriso, ella si lasciava abbruciare dalla
grande fiamma. Immobile, con le palpebre socchiuse e le mani
abbandonate lungo il corpo, ritta come un bianco fantasma nel mezzo
della sua stanza, sentiva un flusso di calore salire alle guancie
delicatamente brune e smorte, un flusso di calore vivificarle il
cervello, un'onda di lacrime calde pungerle i bellissimi grandi occhi
bruni. Scorrevano taciturnamente, senza singhiozzi, le lacrime calde
sulle guancie e le avvampanti guancie se le ribevevano: dal cuore e
dal cervello che ardevano, si diffondeva per tutta la persona
l'impetuoso torrente di quel calore ed ella sentiva tutte le sue
piccole vene palpitare nella fiamma che le dilatava. Lo scoppio della
passione lungamente represso, in quel generoso organismo, assumeva la
forma di febbre ad altissima temperatura: ed essa, vacillante, come se
avesse smarrito il senso di ogni altra cosa che la sua febbre non
fosse, si lasciava cadere sul letto, rigida, con la vestaglia bianca
che si stendeva come un sudario sul broccato scuro della coltre. Così,
sola, con gli occhi sbarrati ove si disseccavano le estreme lacrime,
guardando il soffitto pieno di ombre, col petto sollevato da affannosi
sospiri come i febbricitanti, ella abbruciava di passione per
l'assente, per il lontano: nè le sue labbra convulse osavano
pronunziarne il dolce nome, temendo che le fatali sillabe pronunziate
in quel silenzio, in quella solitudine, rivelassero a tutto il mondo
il suo segreto. Sopra un fondo di fiamma, nella sua fantasia che
vampeggiava, ella vedeva scritte le sillabe divoratrici di quel nome,
in lettere nere e vive, talvolta immobili, talvolta confondentisi in
una bizzarra danza; ma non osava pronunziare quelle sillabe
seduttrici; temeva di struggersi, dicendole; temeva di morire di
dolcezza, pronunziandole.

Quell'entrata così vibrante di febbre appassionata, nelle prime ore
della notte, si ripeteva due o tre volte; pareva che ella si assopisse
in un soave abbruciamento di sangue, in un seguirsi di fiammeggianti
visioni, dove talvolta, accanto al nome adorato, si veniva a delineare
vagamente un fiero profilo maschile, dove uno sguardo superbo e
amoroso lampeggiava; ed ella sentiva tutto il suo spirito carezzato,
cullato da questa visione; la veglia si tramutava in sopore febbrile e
in sogno. Ma, ogni tanto, la visione diventava così vera, così viva,
così fremente di amore che ella udiva, sì, udiva, una voce sommessa
pronunziare il suo nome: ella trabalzava, ripresa da un soffocante
impeto di passione, cercando con le mani, nell'oscurità, quelle calde
mani amate; soffocava, bruciava. Si levava come un'anima errante,
andava al balcone, sollevando la pesante tenda di broccato, schiudendo
le imposte di legno, appoggiando l'acceso volto sul gelido cristallo.
Era alta la notte; nella strada non passava alcuno; spesso, il freddo
vento notturno agitava le fioche luci dei lampioni, riempiendo la via
di bizzarre forme oscure; o qualche viandante in ritardo, ignoto, a
capo basso, passava senz'accorgersi di quel balcone quietamente,
mitemente, illuminato, dietro il quale stava un'ombra immobile;
qualche malinconica carrozza notturna, vuota, dal cocchiere
sonnacchioso, dal sonnacchioso cavallo, veniva lentamente dall'alta
ombra della via, si perdeva lentamente, lontana, nella bassa ombra
della via. Ella guardava questo spettacolo di oscurità e di pace, con
gli occhi intenti, sentendo il freddo esteriore penetrare dalla
fronte, dalle guancie, dalle labbra che quasi baciavano il cristallo:
la sua febbre si calmava; le vene battenti si chetavano; il petto,
oppresso, respirava più liberamente; macchinalmente ella si staccava
dai cristalli, richiudeva le imposte, lasciava ricadere le molli,
strascicanti tende di broccato, faceva un paio di giri nella sua
stanza, guardando talvolta nell'alta e stretta specchiera la sua
figura bianca e i suoi occhi che bruciavano sempre. Come tutti quelli
che soffrono d'insonnia, per una forte causa morbosa o per una forte
causa morale, ricoricandosi, ella sentiva come un grande refrigerio,
dolcissimamente parea che si dovesse addormentare nel ricordo, nella
speranza del suo amore. La passione consumatrice nell'ora che fuggiva,
si faceva tutta tenerezza letificante, diventava un fresco soffio che
le alitava sulla fronte, sugli occhi, sulle labbra, sulle mani, come a
vincerne il bruciore, ed ella si assopiva, nuovamente, con le labbra
che si muovevano a una benedizione. Ma, ad un tratto, un incubo
mostruoso, senza nome, qualche cosa come un'orribile paura, la
scuoteva, la faceva balzare sul letto, come cercando soccorso, non
sapendo, non conoscendo, non pensando più nulla, vinta da uno spavento
folle. Era allora che, levatasi, nella penombra, in preda a un
delirante bisogno di soccorso, ella andava a buttarsi innanzi alla
sacra immagine, prostrandosi sul gradino dell'inginocchiatoio,
abbassando il capo sul duro legno di quercia, dicendo rapidamente le
preghiere, per non pensare, per non sentire, pregando, pregando,
pregando, con un fervore di anima disperata, restando lì, attaccata a
quel legno, come se fosse quello della sua salvazione. Ma sia che
l'alba la sorprendesse dietro i cristalli del suo balcone, o distesa
sul letto con gli occhi spalancati, o sonnecchiante malamente, o
immersa in preghiere con le labbra frementi sui grani di legno del suo
rosario, certo che, a quell'ora gelida, la sua febbre era domata, era
caduta: ella tremava di freddo, pallida, con le labbra violacee, con
la bocca amara, con le ossa rotte, quasi uscisse dal terribile
abbraccio della terzana; il viso le si era allungato e come
pietrificato in un'espressione di sofferenza; i capelli le ricadevano
sul collo, disciolti, prendendo certi profili tragici, che solo le
chiome delle donne appassionate hanno. Invano cercava di riscaldarsi,
buttando sul letto una pelliccia, facendo un gran fuoco nel caminetto,
accendendo tutti i lumi della sua stanza: fra quel grande calore
esteriore ella batteva i denti, si addormentava rabbrividendo,
rabbrividendo, livida, con la fiamma del caminetto che crepitava, con
le candele la cui fiammella strideva nel calore, col sole mattinale
che entrava, scintillando, fra i velluti, i broccati e le pelliccie,
non giungendo a riscaldare quel gelido corpo di donna dormiente, dalle
palpebre scure e fredde come il granito, dalle labbra assottigliate e
tremanti ancora di freddo. Come la mattinata scorreva, entrava la
cameriera, trovando le candele che si consumavano, le legna arse che
si coprivano di cenere, il sole che invadeva tutta la stanza
gaiamente, e quel cadavere dormiente, che riaprendo gli occhi,
rabbrividiva ancora, come se ritornasse dal gelo di un sepolcro. Ogni
mattina, sopra un piatto di argento, la cameriera porgeva una lettera.
Ma già la maschera umana aveva velato la sembianza della povera
febbricitante: ed ella stendeva la mano, con indifferenza, a prendere
quella lettera, aspettava che la cameriera avesse spento i lumi,
riacceso il caminetto, spalancato le imposte al sole, aspettava,
intorpidita e immobile.

--Si sente male?--diceva la cameriera, guardando il volto bruno e
smorto della sua padrona che ella amava.

--No: ho freddo--mormorava la padrona, stringendo la lettera d'amore
nella mano sottile e agghiacciata, senza neppure guardarne la busta,
come se fosse inutile aprirla.

La fanciulla devota le riassettava le molli coltri scomposte
dall'insonnia, le rialzava i cuscini disordinati su cui era
abbandonata la foltezza dei capelli neri, la interrogava con una umile
occhiata: ma vista la padrona tutta perduta in un pensiero, usciva
discretamente dalla stanza, chiudendone la porta, aspettando di esser
chiamata per ritornare. Allora soltanto, con un atto breve, quasi
convulso, la smorta signora faceva saltar via la busta lacerata e
leggeva la lettera tutta bruciante di passione che il suo amore le
scriveva.

Lettera incoerente e puerile, balbettìo talvolta bizzarro, talvolta
monotono di frasi stravaganti che si ripetevano, si accavallavano, si
confondevano, si affannavano sulla carta, come nell'anima malata di
chi le scriveva. Eppure egli non era nè un fanciullo, nè un pazzo, nè
un infermo; era un uomo di trent'anni, vigoroso, completo nella sua
manifestazione morale, che aveva saputo vivere, amare, soffrire. Era
un forte lottatore che le aveva coraggiosamente combattute le sue
battaglie, talvolta vinto, spesso vincitore, mai domato: era un sagace
conoscitore di sè stesso, delle cose e degli uomini, capace di grande
scetticismo e di grande entusiasmo, poichè questa è la vita, e saggio
chi sa apprezzarla e viverla così. Eppure quell'amore nato tardi, nato
improvvisamente, come quei misteriosi e voluttuosi fiori del tropico
che germogliano ricchi e violenti, in una notte, quell'amore impetuoso
destinato a essere soffocato sotto le apparenze fallaci della
cortesia, gli faceva tremare i polsi come se lo assalisse, a ogni suo
nuovo tumulto, il ribrezzo tragico dell'agonia. In certe ore di
pensiero, quando gli era concesso di dialogare con l'anima sua, egli
si stupiva della brevità di quella passione, della sua semplicità,
mentre sentiva dentro sè scardinato ogni senso della realtà, mentre si
sentiva preso per la vita e per la morte. Una sera, in un ballo, egli
aveva scambiato poche parole con la bruna e pallida signora che ancora
portava il nero vestito del lutto, dopo tre anni di vedovanza, che
bizzarramente trascinava al ballo il nero vestito e la persona stanca,
senza sorrisi, senza gioia: e come per un'attrazione ipnotica, egli
aveva seguito dovunque il nero strascico di velluto ondeggiante, cupo
velluto bruno, simile alle acque nere di un lago che gli alberi
coprono: egli aveva fissato gli occhi sedotti sopra la mezzaluna di
opali lattee, scintillanti in riflessi siderali azzurrini, che mettea
una luce selenitica fra i neri capelli di donna Grazia: e come la
snella persona muliebre si muoveva, indolentemente, da un salone
all'altro, egli sentiva di doverla seguire, come un'ombra. Levando
lenta lenta le palpebre, essa lo guardava, ogni tanto, tacendo: e una
irradiazione di fascino partiva da quei grandi occhi neri, arrivava
sino a lui, intensa, vibrante, conquidendolo, a poco a poco, ma
continuamente, ma sicuramente. Nè egli tentava difendersi. Aveva, in
quell'ora, il cuore arido e la vita fatta deserta, se non libera da
una secreta catastrofe famigliare: la donna cui avea dato il suo nome
era assente, lontana, nemica, egli era solo, in tutta la sua lunga
giornata, solo. Perchè difendersi? Si sentiva debole e misero come un
fanciullo abbandonato, mentre tutti applaudivano alla sua fermezza di
carattere, al suo coraggio virile, alla dignità fiera che gli aveva
suggerito la risoluzione più confacente al suo onore; egli si sentiva
timido e fragile come lo stelo secco, che nelle mattinate di autunno
va in cenere sotto il piede brutale del viandante, e lo sguardo di
quella donna parea tremasse di tenerissima pietà, parea che gli
dicesse:

--Vieni.

Breve romanzo e intenso, condotto fuor di loro da una mano invisibile:
un giorno si erano incontrati fuori Roma, in quella umida, lugubre via
Angelica, lungo il fiume tragico che ogni giorno ha il suo morto. Chi
aveva strappato la dama ai suoi convegni aristocratici per mandarla a
contemplare i vortici traditori del Tevere? Chi aveva preso l'uomo
alla sua ambizione, alla sua politica, ai suoi affari? Esiste dunque
una fatalità nella passione; o il cuore ha la sua seconda vista, che è
anche qualche cosa di fatale; o vi è nell'anima una seconda vita
latente, incosciente, sopra cui nulla può la volontà?

--È vero che mi ami?--le aveva chiesto lui, arrossendo e impallidendo,
come se quella fosse la prima volta che parlasse di amore.

--Sì--ella aveva detto, senz'altro.

La virile mano dell'uomo aveva sfiorato la sottile mano guantata di
nero. Si guardavano e si sentivano bruciare di passione; una uguale
grande fiamma li ardeva. Più la reprimevano e più essa divampava
internamente, consumando le loro forze in una febbre singolare.
Temevano il mondo, malgrado che fossero liberi; lo temevano con una
paura di tutti i momenti, con un tremore come d'imminente catastrofe.
Niuno aveva il diritto di muovere loro un rimprovero, eppure essi
temevano tutto, l'uomo che passa e sogghigna, la donna che passa e
sorride, l'impiegato postale che consegna la lettera con uno sguardo
d'intelligenza, il servo che domanda permesso prima di entrare,
l'amico che assume un'aria discreta, l'amica che interroga con un
cenno: la più umile, la più sciocca creatura li faceva fremere di
spavento. Forse, amandosi in quella forma così rovente, sentivano di
abbandonarsi a una passione tanto diversa dai miseri e fallaci amori
quotidiani, da dover meritare l'invidia, il biasimo e la calunnia;
forse, il segreto è la grande condizione dell'intensità. Così si
vedevano, alla sfuggita, ogni tanto, avendo messo nella rapida ora
tanti sogni, tante speranze, tanto fuoco d'amore, che non trovavano
parole, soffocati, come coloro che hanno le vertigini degli altissimi
pinnacoli; in tre o quattro mesi, fra la primavera e l'estate, vivendo
egli a una villa sui colli albani, essa nella palazzina campestre fra
gli aranci di Sorrento, si erano incontrati due volte, per due
giornate, in un villaggio presso Milano, la prima volta, a Baia la
seconda volta. Tutta la loro vita era sospesa a quei due giorni di
passione ardente; tutto l'intervallo fra quei due giorni non era che
una lunga aspettazione di giorni aridi e annoiati, di notti vegliate,
in una rivoluzione del cuore e dei nervi. Ad ambedue, quando, per
consolare le ore di lontananza, essi evocavano quelle due giornate,
appariva come una grande fiamma lieta e alta e divorante; il ricordo
era vasto, immenso, vago, quale un oceano di fuoco, sopra cui qualche
punta appariva, come estremo albero di nave sommersa. Insistentemente
egli si rammentava il volto smorto di lei, quando ella si affacciò al
vagone fermato nella stazione di Monza e, malgrado ogni suo impeto di
evocazione, pur volendo fermamente rivederla col suo delicato e
profondo sorriso delle ore più felici, egli continuava ad avere
innanzi quella faccia pallida di donna morente. Egli cercava di
rianimare tutti i suoi ricordi, di quei due giorni, come ella era
vestita, la foggia della sua acconciatura, le parole che aveva dette,
il tono della sua voce: ma una sola sensazione, acuta, squisita, gli
ritornava, con la persistenza di un martello sull'incudine: il profumo
che avevano i guanti morbidi di Grazia e le mani sottili profumate.
Quando le scriveva di quei giorni, confusamente, egli ritornava sempre
a dire di quella faccia pallida allo sportello e di quelle mani
odorose, di quei guanti così profumati "...che è quel profumo, dimmi,
dimmi, amore, perchè io l'ho confitto nell'anima e ogni tanto mi fa
piangere, come un fanciullo, perche il mio amore è lontano e io non
posso avere, sotto le mie labbra, le sue mani inebrianti?..." Ed ella
nella fiorita campagna sorrentina, quando i villeggianti vicini, o i
suoi ospiti, ritirandosi, l'avevano lasciata sola, libera, ella voleva
far riapparire fantasticamente quei due indimenticabili giorni di
oasi; ma armandosi con la stessa forza, con la stessa intensità, lo
stesso inesplicabile fenomeno psicologico avveniva in lei ed ella non
poteva che ricordare qualche scintilla della grande fiamma. Fra un
turbine roteante d'impressioni, rammentava soltanto, Grazia, un
sorriso enigmatico alla sua domanda: e tu, perchè mi ami? Sì, egli
aveva avuto un sorriso bizzarro, lungo, pieno di un segreto profondo:
ella rivedeva sempre innanzi agli occhi quel sorriso acuto, crudele,
che parea le nascondesse la verità, tormentosamente. E nelle orecchie,
nel cervello di Grazia restava una sensazione fissa, continua,
invincibile, il ricordo della _sua_ voce, quando la chiamava
sommessamente, teneramente, dolorosamente, come se chiedesse amore e
soccorso, come se invocasse pietà: Grazia, Grazia, Grazia!...

Così identica era la loro passione nel carattere, nella profondità,
nella misura che il grande sogno da realizzare nacque nelle loro
fantasie esaltate, contemporaneamente, germogliando nello stesso
pomeriggio autunnale, nella stessa ora di disperazione, mentre erano
lontani lontani, per molte miglia. Ambedue furono colpiti dal
medesimo, irresistibile desiderio, contro cui nulla più poteva
difenderli; ambedue arsero di tale desiderio come se fosse il più
alto, l'estremo delle loro anime. L'immenso avvenire innanzi, alle
loro esistenze ancora giovani, li sgomentava con la sua solitudine
arida, mentre essi portavano in cuore di che riempirlo per sempre, di
una strabocchevole felicità. Al punto in cui la grande fiamma che li
ardeva era giunta in entrambi, era loro insopportabile vivere ancora,
divisi, lontani, estranei: lo stesso cupo dolore li abbatteva. La
paura del mondo, delle sue ciarle, delle sue calunnie veniva man mano
scomparendo innanzi a questo bisogno di amore, di felicità che è in
fondo a tutti i temperamenti umani, più freddi e più silenziosi, e che
nell'ora della passione parla di una voce che nulla fa tacere. Per chi
si sacrificavano? In nome di quale principio, di quale idea, di quale
persona? Su quale altare sconosciuto deporre l'olocausto della loro
passione?

--Io non posso più soffrire, la mia vita finisce--scriveva Grazia.

--Io non posso più soffrire, il mio coraggio è esausto--scriveva
Ferrante.

In tale ardente impazienza, la loro sensibilità sentimentale raffinata
dai sogni, dalle insonnie, dalle lettere incoerenti, si era fatta così
acuta, così squisita, così fremente alla minima impressione, che
quanto li circondava era complice del loro abbandono. Quando donna
Grazia passeggiava sotto gli ombrosi viali della sua villa di Sorrento
e fra gli aranci odorosi le arrivava il canto sottile di qualche voce
innamorata, un improvviso fiotto di lacrime la inteneriva: e coloro
che l'accompagnavano, si meravigliavano. Quando ella vedeva, nella
sera, dalla sua terrazza, levarsi la luna sul golfo napoletano e tutte
le case intorno soffondersi di bianca luce molle, una collera le
saliva alla gola, di non essere via, di non essere con lui, in
quell'ora di dolcezza, una collera contro il tempo che fuggiva, contro
gli ostacoli che si frapponevano al suo amore e contro sè stessa che
non sapeva vincere gli ostacoli. E a Roma, l'autunno è apportatore di
novi, profondi turbamenti alle anime già turbate: quando Ferrante
portava il suo vagabondaggio a Villa Borghese, dove ancora i viali
pare che conservino la appassionata fantasima di Beatrice Cenci, ogni
ombra femminile, snella, dal volto pallido e bruno dietro la veletta,
lo facea trasalire; quando egli portava il suo vagabondaggio serotino
a uno dei teatri, bastava che dietro alla nuca bionda di una donna, in
un palchetto, si profilasse il volto di un uomo innamorato perchè egli
si sentisse, a un tratto, immerso in una disperazione inguaribile.
Allora, lontani, divisi, si tendevano le braccia come creature
anelanti, che sanno un posto solo dove appoggiare il capo stanco: ed è
questo il petto della persona che adorano, assente, lontana.

E allora, confusamente, nella crisi fatale di questa passione, si
venne delineando un piano di amore, imperfetto, vago, ma che conduceva
a un sol desiderio: quello di rivedersi, di stare insieme, lungamente,
per sempre. Ognuno di loro, invece di perdere la propria forza in vani
conati di dolore, avrebbe cercato di adoperarla a vincere tutti gli
ostacoli morali e materiali per potersi riunire, fra quindici, fra
otto giorni, in un paese solitario, tranquillo, in un ambiente di
poesia e d'amore, dove potessero passare sconosciuti o indifferenti
alla folla, o ravvolti in una comune indulgenza. Chi di loro due disse
la parola: Venezia? Chissà! Fu così, naturalmente, che i loro cuori si
fermarono su quel mite orizzonte di arte e di quiete, su
quell'ambiente di case mute e sommerse nel languore che la morte
precede, su quella città dove l'amore pare abbia la sua naturale
atmosfera di pensiero, di lirica umana. Venezia, Venezia! Fu il nome
amabile, seducente, che videro brillare ogni giorno, ogni ora; innanzi
alla loro immaginazione; parola magica che fece scomparire tutte le
altre; sillabe ravvolgenti e incantatrici da cui le loro anime prese,
legate, non si potettero svincolare mai più. E man mano le loro
lettere andarono perdendo tutto quel carattere d'indefinito, tutta
quella vaghezza di contorni, quel continuo agitarsi errabondo dello
spirito, quella incoerenza di anime deliranti: la passione addossata
al muro della realtà, era entrata in un periodo positivo, pratico,
preciso. Ogni giorno, sotto la volontà inflessibile, sotto la doppia
inflessibile volontà, il loro piano acquistava linea, colore, cifra;
il suo aspetto di fatto si veniva così minutamente facendo reale, che,
già quasi quasi, per Grazia e per Ferrante, parea di vivere in quella
realtà. Accanto a questi particolari definiti, matematici, dove la
loro insofferenza si appagava, come per il fatto compiuto, ogni tanto,
ma sempre più scarsamente, si veniva allogando qualche scoppio
improvviso di frase amorosa: oppure una parola soltanto: Venezia.
Anche l'aspetto degli amanti era mutato. Si eran fatti,
nell'esteriore, freddi, risoluti, distratti in un pensiero o in
un'azione, sempre occupati in qualche cosa, schivando, con la
freddezza, la folla degli estranei e anche quella degli amici.
Parlavan poco, brevemente. Non più le belle passeggiate della penisola
sorrentina vedevano comparire il bruno volto pensoso di donna Grazia:
ma in una stanza accanto alla sua erano aperti tutti i bauli, tutte le
valigie della casa e la cameriera, che le voleva bene, ignorava ancora
la destinazione che prendeva la sua signora. Ella vedeva che ogni
giorno donna Grazia veniva chiudendo, in quei bauli e quelle valigie,
tutto quanto aveva di prezioso come valore e come ricordo: ella vedeva
che donna Grazia si aggirava per la casa, in vestaglia di lana bianca
stretta alla cintura da un mistico cordone di seta nera, guardandosi
intorno come trasognata, considerando le pareti vuote e i cassetti
aperti, come se volesse portare via ancora qualche cosa.

--La signora parte per un lungo viaggio?--chiese timidamente, un
giorno, la fanciulla devota.

--Lungo, lungo....--mormorò vagamente, donna Grazia.

--E io debbo venire?

--No.... Meglio che non veniate--soggiunse donna Grazia.

--Tutta sola, un lungo viaggio?--osò chiedere ancora la ragazza.

Donna Grazia chinò il capo e non rispose: un velo di tristezza le
passò sulla faccia. Tacquero.

E Ferrante, come il giorno della partenza si approssimava, non andava
più nei soliti ritrovi di Roma autunnale: male o bene, ma con una
febbre di uomo preoccupato, aveva cercato di risolvere alcuni affari
stringenti, assorbito, distratto, accettando qualunque peggiore
risoluzione, purchè fosse immediata. Quando i suoi intimi lo vedevano
ricomparire, per un momento, gli domandavano, sorpresi:

--Ma che fai, dunque?

--Parto--rispondeva lui, pensando ad altro.

--Dove vai?

Egli faceva un cenno vago, come di paese molto lontano. Per
discrezione, gli intimi non chiedevano altro: sapevano quale tragedia
morale avesse sconquassata la sua famiglia e molti supposero qualche
improvvisa, bizzarra decisione. Anzi, la voce ne corse, avvolta in
veli misteriosi. Una sera, un amico più affettuoso, più insistente,
andò a casa di lui: e lo trovò solo, fumando, con le finestre aperte,
ma col caminetto acceso dove buttava delle carte, dopo averle lette.
Sul tavolino vi erano altri pacchi di lettere, un grosso portafoglio
di pelle, tutto sdrucito, due o tre libri dalla legatura usata e un
paio di minute pistole nella loro scatola che pareva quella di un
gioiello.

--Che fai, ti vuoi ammazzare?--domandò ridendo l'amico.

--Forse--rispose Ferrante, ridendo un poco, ma poco. Nè dissero altro,
mentre nel caminetto le lettere avvampavano allegramente.

Così, nell'alba bigia in cui donna Grazia partì da Sorrento per
Napoli, mentre aveva detto ai suoi amici che sarebbe partita solamente
la sera, in quell'alba bigia, la sua devota cameriera, vedendola andar
via, avvolta nel grande mantello bruno, avvolta nel bruno velo che le
circondava il capo, il viso, il collo, si chinò, commossa, a baciarle
la mano:

--Io la rivedrò, nevvero?--chiese, cercando di trattenere le lacrime.

--Forse--disse donna Grazia, andandosene, senza voltarsi.

Tanto la fatalità li aveva vinti, ambedue.

Donna Grazia non vedeva nè il mite sole che rallegrava le vie di
Napoli, nè le azzurrità fini del cielo e del mare, nè la folla lieta
che si godeva quel giorno soave: chiusa nella carrozza da nolo,
guardando ogni istante il piccolo orologio sospeso alla cintura pur
senza vederne l'ora, ella divorava lo spazio con la mente, cercava di
ripetere per la millesima volta il calcolo del tempo e dello spazio,
per chetare la propria impazienza. Sarebbe partita da Napoli per Roma
alle due e cinquantacinque, col treno più celere, tutta sola nel suo
compartimento; sarebbe giunta a Roma alle otte e trentacinque della
sera; alla stazione avrebbe ritrovato Ferrante e dopo un'ora e mezzo,
in cui non sarebbero neppure entrati in Roma, sarebbero ripartiti, via
Firenze e Bologna, per Venezia, insieme. Insieme! Pensando,
ripensando, pronunciando sottovoce questa parola, ella vedeva
scomparire l'ora, il tempo, lo spazio tutto, una nebbia le scendeva
sugli occhi, una lieve vertigine le confondeva ogni moto. Insieme! Fu
macchinalmente che pagò il cocchiere, scendendo alla _partenza_, nella
stazione, stringendo fra le mani il sacchetto dove erano i suoi valori
più preziosi. La grande galleria coperta dove si prendono i biglietti
era quasi vuota. Ella non vi badò.

--Di prima, per Roma--disse, affannando un po' al bigliettinaio.

--Ecco--fece quello--ma si affretti, perchè il treno parte.

Improvvisamente, presa da una orribile paura, ella si mise a correre,
vedendo appena la sua strada, urtando le persone, lasciando appena il
tempo alla guardia di tagliare il biglietto, arrivando sul terrapieno,
appena a tempo per vedere il treno delle due e cinquantacinque
allontanarsi lentamente. Ella tese le braccia e gridò, come se avesse
potuto fermarlo. Un facchino sorrise; mentre gli impiegati della
stazione, raccolti in gruppo, la guardavano con curiosità. Alla paura
ella sentì subentrare una grande angoscia e una grande vergogna:
rientrò nella sala di aspetto, deserta, si andò a buttare in un
cantuccio, stringendo le labbra per non singhiozzare dietro il velo,
stringendo nelle mani nervose, convulsamente, il manico di cuoio della
borsetta. Perdere il treno, che miseria, che disgrazia ridicola, che
tragedia buffa! Le pareva un'avventura così sciocca, così volgare che
non sembrava possibile fosse capitata proprio a lei, nel momento
supremo in cui si decideva la crisi del suo amore; era fremente di
sdegno e di onta. Tanta forza di volontà, tanto impeto vincitore,
tanto magnetismo trionfante di amore, tanta elettricità condensata...
e farsi buttare a terra da un orologio che non va, o da un cocchiere
che non ha saputo sferzare il suo cavallo. Avrebbe pianto di collera.
Vediamo, quale era la piccola, meschina causa, la causa stupida per
cui tutto l'edifizio era crollato? E cercava, invano, di ricordarsi:
se era stata la propria lentezza nell'annodarsi il velo in casa sua, a
Napoli, nel suo appartamento solitario; o l'esser tornata indietro, un
momento, per aver dimenticato un taccuino da cui non si separava mai;
o il non aver trovato immediatamente la carrozza da nolo; o perchè il
cocchiere avea prescelto la stretta, difficoltosa e ingombra via di
Forcella alla via della Marina, per andare alla stazione. Chi lo sa!
Si trattava di cinque minuti, di soli cinque minuti, cinque
piccolissimi, cortissimi, brevissimi minuti, che si perdono così
naturalmente, così facilmente un po' qui, un po' là, senza saper come:
e la loro perdita, poi, equivale alla rovina di tutto un sogno!

Fu solamente dopo un'ora di riflessioni amarissime, che ella sentì un
soffio di rassegnazione penetrarle nel cuore: ma pur essendosi
calmata, un'amaritudine gliene rimase. Si levò, risolutamente: andò a
leggere l'orario, sulla parete stuccata di bianco. Avrebbe potuto
partire soltanto la sera, alle dieci e quarantacinque. Circa sette ore
di attesa! Pure, non ebbe il coraggio di rientrare in città, a Napoli;
le sarebbe parsa una rinunzia completa. Avrebbe aspettato nella
stazione. Non l'avrebbero mandata via, da quella sala d'aspetto? Non
aveva mai viaggiato sola: non sapeva niente. Il guardiano le si
accostò, guardandola curiosamente. Ella gli donò subito cinque lire:
si sentì meno timorosa. Cercava di ricostruire il suo piano.
Bisognava, innanzi tutto, telegrafare a Ferrante--e tal pensiero la
faceva arrossire, pensava che avrebbe egli detto, trovandola così
sciocca, così distratta da perdere il treno. Che dirà, che dirà?--si
andava domandando, mentre girava intorno alla stazione, senza
ritrovare l'ufficio telegrafico. Alla fine lo trovò. E allora non
seppe dove indirizzare il telegramma; non seppe che cosa dire, si
sentiva così irritata e umiliata, con sè stessa, col caso, che lacerò
i fogli, senza riescire. Alla fine, mettendo l'indirizzo della
stazione di Roma gli telegrafò, così confusamente, che le riesciva
impossibile partire prima delle dieci e quarantacinque, senza
aggiungere le ragioni di questo _impossibile_ e soggiunse, umilmente:
_perdonami_. Lo soggiunse, poichè non potea resistere all'idea del
dolore di lui, Ferrante, non vedendola giungere alla stazione di Roma,
trovando un telegramma invece della sua persona. Oh quelle sette ore
di attesa! La pallida signora, vestita di un grande mantello bruno,
tutta chiusa in un grande velo di garza bruna, snella e flessuosa
nella persona, dall'andatura un po' lenta, un po' stanca, fu vista da
per tutto, ripetutamente, nella stazione, per quel pomeriggio e per
quella sera. Innanzi alle lunghe vetrine del libraio e nella sala
gelida dei bagagli, camminando, fermandosi, sfogliando distrattamente
un libro, aprendo un giornale illustrato; di nuovo alla sala del
telegrafo, donde telegrafò a Sorrento, a due o tre persone che non la
interessavano punto; verso le sette nella sala del _buffet_, dove
prese un brodo e una tazza di caffè, malgrado che non avesse fame,
seguendo con l'occhio distratto i multicolori avvisi della _macchina
Singer_, della _Coca Buton_ e della ferrovia lombarda ai _Tre laghi_;
fu vista finanche fuori stazione, passeggiare in giù e in su, facendo
voltare tutti quelli che la incontravano, mentre essa guardava, certo
senza vederli, il malinconico giardinetto della piazza, e le carrozze
da nolo disposte intorno come i raggi di un cerchio, e le insegne
dondolanti degli equivoci alberghi dal fanale verde o rosso; e da
capo, come se ella non potesse stare ferma, fu incontrata al
telegrafo, alla posta, nei terreni incolti della Piccola Velocità,
presso il venditore di libri e di giornali, su e giù, su e giù per
tutte le gallerie. Questo irrequieto fantasma muliebre vide empirsi e
vuotarsi le sale di aspetto dei viaggiatori che partivano
successivamente per le linee di Salerno, di Castellammare, di Foggia,
di Aquila: vide fermarsi e andarsene i treni carichi di uomini, di
donne, di borghesi e di contadini, che se ne andavano ai loro affari,
al loro lavoro, alle loro cure. E nella ultima ora di attesa la invase
una stanchezza profonda; rincantucciata in un angolo della sala di
aspetto, silenziosa, immobile, col sacchetto sulle ginocchia, ella
guardava le ondeggianti fiammelle del gas che il vento della sera
agitava, e fu il guardiano della sala che l'avvertì della
partenza--tanto in lei si era fatta la convinzione che era inutile più
partire, che Ferrante non l'amava più, che tutto era finito. Tutta la
notte del viaggio, lunga, lenta, con le sue numerose, monotone
fermate, ella la passò in una veglia dolorosa alternata da qualche
torpore doloroso, tutta sola nel suo compartimento, tremando di freddo
malgrado le coperte e le pelliccie. L'alba si levò sulla severa
campagna romana; donna Grazia dormiva, ora, pallida pallida, e solo i
tre lunghi, striduli fischi del treno che entrava in Roma la
riscossero. Le parve di uscire da un sogno triste: il sole illuminava
le prime case di Roma, e la nebbia romana, e il fumo del treno, una
felicità di calore e di luce l'avvolse, scendendo dal vagone,
poggiando la sua mano sottile guantata sempre di nero in quella
tremante di Ferrante. Si guardarono, così, lungamente, fra la folla,
tenendosi per mano, camminando quasi portati.

--Sei venuta, poi....--mormorò lui, cercando di dominare la propria
emozione, intensa, soffocante.

--Credevi che non venissi più?--chiese lei, con uno sguardo
scrutatore, fermandosi un minuto.

--Sì, l'ho creduto--soggiunse lui, chinando gli occhi, confessando con
quelle parole tutte le angoscie della sua serata e della sua nottata.

--Mi perdoni?--domandò lei, umilmente, dolorosamente, sentendo bene
che fra loro era già sorto e consumato il primo dolore.

--Non dir così: tu ti puoi dare e ti puoi ritogliere--disse fermamente
lui, guardando altrove, per non far vedere che sforzo questa fermezza
gli costava.

Essa non rispose. Poteva dirgli che il proprio ritardo non era stata
una crudele esitazione, l'idea novamente feroce di spezzare
quell'amore: poteva semplicemente dirgli che era stata la perdita di
cinque minuti, per annodare il velo del cappello, o per prendere il
taccuino dimenticato e che quindi ella aveva perduto il treno. Le
parve, questa ingenua narrazione, così ridicola, così volgare, che non
osò farla; e lasciò, per viltà, che perdurasse quell'amaro malinteso,
quel senso triste di sfiducia che era nato nell'animo di Ferrante.

Adesso, col facchino dietro, erano in piazza della stazione.

--Dove andiamo?--ella chiese.

--Non so....--rispose Ferrante, incerto.--Avremmo dovuto partire ieri
sera. Stanotte, io non sono rientrato in casa mia, ero così
turbato....

--Quando parte, il prossimo treno, per Firenze?--diss'ella,
brevemente.

--Alle dieci e mezzo, fra tre ore.

--Tre ore, tre ore....--mormorò Grazia, come pensando.

--Vuoi che ti accompagni a casa mia.... non vi è nessuno.... o in
albergo?--E il verbo _accompagnare_ era stato molto sottolineato.

--No, no, a casa tua--rispose subito Grazia, con una paura nella voce.

--Allora, in albergo?--soggiunse lui, pazientemente.

--.... Sì,... ma senza entrare in Roma--e abbassò gli occhi, come
vergognandosi.

--Vi è il _Continentale_ qui dietro, in Piazza Margherita, non ti
stancherai molto.

Seguìti dal facchino che portava le loro robe, vi andarono; sottovoce
come se indovinasse le intenzioni di Grazia, Ferrante chiese due
stanze al segretario dell'albergo; sottovoce costui gli domandò se le
voleva vicine, e Ferrante gli disse subito che non importava. Grazia
saliva innanzi, chinando il capo; alla porta della sua stanza, il
segretario li salutò. Ella restò ferma, guardando Ferrante, con la
mano appoggiata sulla maniglia della porta.

--Rammentati, è alle dieci e mezzo: verrò a prenderti alle
dieci--disse Ferrante, gelidamente.

Le fece un saluto corretto e si allontanò subito.



II.

Ella entrò nella sua stanza e vi si chiuse, buttandosi pesantemente
sopra una poltrona: si sentiva morire di tristezza, sentiva di essere
disamorata, crudele con Ferrante, eppure non trovava ancora uno
slancio di tenerezza, un impeto di passione per fargli dimenticare
tutte quelle noie, quelle punture, quei disinganni, quelle amarezze.
Ma tanta gente era loro intorno, dovunque, alla stazione, in piazza,
nell'albergo, gente estranea, è vero, ma curiosa, dall'orecchio teso,
dallo sguardo acuto! Ella si era chiusa nella sua stanzetta, stanzetta
piccola, linda, ma banale come tutte le stanze di albergo, ma fredda
con tutto il lieto sole autunnale che vi entrava; Grazia si era chiusa
lì dentro, e un profondo pentimento le veniva in cuore, pel modo come
aveva trattato Ferrante; la propria ingiustizia verso quel forte e
docile amante che nulla chiedeva, che non si lagnava, che cercava di
allontanarsi, di ecclissarsi sempre, onestamente, correttamente,
mentre nell'anima gli ardeva la grande fiamma, questa propria
ingiustizia, le faceva orrore, le sembrava un egoismo mostruoso, la
crudeltà di una donna glaciale che pospone sempre il mondo all'amore.
Rivoltata contro sè stessa, si levò per chiamare, per far avvertire
Ferrante di venire da lei: voleva buttarglisi alle ginocchia per farsi
perdonare, poichè egli solo era buono e giusto. Ma mentre era lì per
premere il campanello elettrico, udì parlare sommessamente, nella
stanza attigua. Si fermò: non era sola dunque, malgrado che si fosse
chiusa a chiave? Aveva dei vicini, a destra e a sinistra, forse da
tutte le parti, che, come ella udiva la loro, avrebbero udita la voce
di Ferrante e la sua, parlando d'amore? Oh questi alberghi, che
realtà, che realtà meschina, sconfortante, nauseante! Tornò alla
poltrona, vi si sedette, senza far rumore, aspettando che le voci
cessassero; forse i vicini sarebbero usciti, partiti: allora ella
avrebbe chiamato Ferrante, per farsi perdonare. Ma le voci dopo
qualche intervallo di silenzio, brevissima pausa, si udivano di nuovo:
erano quelle di un uomo e di una donna, che discutevano pacatamente;
si afferrava ogni tanto una parola, facevano il conto del loro
viaggio. Ella fremeva, si agitava sulla poltrona, sperando sempre, a
ogni momento di silenzio, che i vicini se ne fossero andati: ma
quietamente essi ricominciavano a chiacchierare, con un'intonazione
monotona, senza stancarsi. Per un momento Grazia si turò le orecchie
quasi piangendo, al colmo di un urto nervoso che le poche ore di
cattivo riposo del treno non avevano calmato: malediceva questi vicini
che le rubavano quelle altre ore di felicità. Andò ad aprire la
finestra della stanzetta, per sottrarsi a quell'incubo: il sole
allietava tutto il piazzale della stazione, la giornata era dolce e
bella, Grazia, stette guardando come un fanciullo che un nulla
distrae, le persone che passavano sulla piazza. Così assorta, non udì
che la seconda volta, quando bussarono alla sua porta. Era Ferrante:
ma non entrò, rispettosamente.

--Andiamo?--diss'ella sorridendogli.

--Sì--disse lui, sentendo e vedendo la luce di quel sorriso, per la
prima volta.

Ella mise il suo braccio sotto quello di lui: si appoggiava
lievemente. Non potea dirgli nulla: ma vi era nei suoi occhi, nella
sottile mano guantata, in ogni movimento della persona tanta femminile
tenerezza, una così affettuosa domanda di perdono che egli dovette
intenderla, in tutta la sua manifestazione: due volte, per le scale in
penombra, si fermò a guardare il volto della sua donna, quasi volesse
imprimersi nel cuore quella espressione così viva. Chi li vide passare
di nuovo, sulla piazza, per la stazione, andando a mettersi nel
vagone, in quella bionda mattinata di autunno, intese, certamente, che
passava sul capo di quei due felici una silenziosa ora celestiale. Di
quanto intorno ad essi avveniva, quei due più non sapevano: una
macchinale coscienza, memore di altri viaggi, di altre partenze li
guidava nella loro vita esteriore: una coscienza meccanica che si
chetò, anch'essa, quando il treno fu partito da Roma. Erano soli. Una
parte delle tendine color di legno erano tirate, contro il sole che si
avanzava; solo da due cristalli si vedeva il paesaggio fuggente.
Ferrante si era seduto accanto a Grazia: la mano di lei era fra le
sue, stretta mollemente: a un certo momento ella la ritirò, ma
soltanto per sollevare il suo velo bruno; la picciola mano fedele
ritornò subito fra quelle dell'amor suo. Nè dicevano nulla. La delizia
di due amanti, soli nel vagone fuggente per la campagna, fuggente
innanzi ai villaggi e alle piccole città, ha poche delizie che la
eguaglino: tanto è acuto il senso di libertà, di amore inconturbato,
di oblìo terreno che dà quella fuga. Non esistono più nè lo spazio, nè
il tempo, nè l'uomo, nè la vita: esiste solamente l'amore, nella sua
massima condizione d'indipendenza, trasportato lontano, lontano, dove
non vi sia che amore. Che dirsi? Ogni tanto ella sentiva che Ferrante
la chiamava per nome, ripetendone due o tre volte le sillabe
incantatrici: ma forse non la voce di Ferrante, era l'anima che
parlava e l'anima di Grazia stava a sentire. Due o tre volte, a un
lembo di paesaggio illuminato di sole, a un piccolo paese sospeso
lungo i fianchi di una collina, innanzi a una grande pianura maestosa,
i due volti si accostavano, dietro allo stesso cristallo, per vedere
come era bello il mondo esteriore, non quanto quello che portavano nel
cuore. Tacevano. Sentivano che era quella l'ora invocata tante volte,
nelle insonnie della notte, nelle vuote mattinate, nelle sere
affannose; sentivano che era quella la realtà del loro infinito
desiderio, l'amore nella solitudine suprema; e sembrava loro che
qualunque parola dovesse turbare questo sacro raccoglimento, questa
concentrazione di felicità. Niuno sapeva più nulla di loro: essi non
sapevano più nulla, di niente: e poteano dire che il mondo era
scomparso, o era stato assorbito nella incommensurabile dolcezza del
loro amore. Solo quando il sole cominciò a discendere sulla poetica
campagna toscana, un senso di malinconia si mescolò, naturalmente, a
tanta dolcezza. Era una mestizia fuor di loro, che veniva dalle cose:
il paesaggio verde, i colli così pittoreschi, e le bianche case, e il
fiume mormorante sul greto, e i campanili dei villaggi si fecero prima
rossi, poi violacei, poi bigi: tutti i veli avvolgenti, misteriosi,
malinconici del tramonto salirono dalla terra al cielo. Parve che il
treno corresse meno rapidamente, come preso anch'esso da una
fiacchezza; le voci delle stazioni erano meno vivaci, meno allegre,
alcune sembravano rauche, altre fioche; il fiume, apparendo,
riapparendo, assunse un aspetto tragico, di acqua traditrice
gorgogliante; la stretta di mano di Ferrante che teneva nella sua
quella sottile di Grazia, si allentò, come se lo cogliesse una
improvvisa, crescente debolezza e la mano sottile si raffreddò sotto
il guanto. Videro un cimitero: un piccolo cimitero di paesello a mezza
costa, con quattro o cinque cipressi e poche lapidi bianche.

--Beati i morti--ella disse sottovoce quasi parlasse a sè stessa.

--Chissà!--le rispose lui, sul medesimo tono.--Forse amano ancora.

--Tu hai tombe, per il mondo?--gli domandò lei, piegandosi a
guardarlo, in quella penombra crepuscolare.

--No: ma tutti abbiamo delle tombe, in noi.

--Molte cose hai veduto morire?

--Molte cose e molte persone che son vive.

--È triste, è triste--diss'ella ributtandosi indietro, sulla
spalliera.

--La tristezza è in fondo alle anime: non bisogna andarla a
cercare--soggiunse Ferrante, come se pronunziasse una sentenza.

Tacquero. Ella aveva abbassato il velo sul viso di nuovo e il capo sul
petto. Egli si levò, guardò dallo sportello opposto, nella penombra,
per qualche tempo; poi ritornò vicino ad essa, sedendosi.

--Grazia?

--Ferrante?

--Che hai?

--Nulla--fece lei, con un gesto largo.

--Dimmi, dimmi che hai.

--Quello che hai tu--rispos'ella, enigmaticamente.

--Non parlare di me: io sono una quercia fulminata. Tu non puoi essere
come me; sei così giovane, e così bella, Grazia, e così destinata alla
felicità!

--Io ho paura.... paura....

--Di che, amore, hai paura?

--Della vita.

--Fole!--egli esclamò, sorridendo nella penombra.

--E della morte, della morte, assai più.

--La morte è lontana--fece lui.

--Taci, taci--mormorò Grazia--forse passiamo innanzi a un altro
cimitero.

Quasi presa da un vago ma forte terrore, ella si era stretta a lui,
infantilmente, poggiandogli la guancia sulla spalla, chiudendo gli
occhi. Quei due sportelli su cui non erano tirate le tendine di lana,
quegli sportelli oramai neri, nella sera fitta, affascinavano la
donna, come se fossero aperti sull'infinito. Egli se ne accorse,
vedendola immobile, estatica, con gli occhi sbarrati sul nero
orizzonte che fuggiva dietro i cristalli: volle fare un moto per
levarsi, per tirare le altre due tendine.

--No, no--lo supplicò lei, stringendosi ancora, socchiudendo gli
occhi.

Restarono così: il lumicino ad olio del vagone tremava, pareva dovesse
spegnersi ogni momento. Bizzarre ombre danzavano. sui divani:
tenendola stretta a sè, bimba spaurita, Ferrante sentiva che Grazia
affannava un poco. L'aria si era raffreddata. Una angoscia li
opprimeva, entrambi, angoscia ignota, angoscia di chi ha intravvisto
il negro problema dell'infinito. Due o tre volte egli volle muovere
una mano per carezzarle i bruni capelli: ma ella temendo che Ferrante
la lasciasse, rabbrividì di paura. Due o tre volte egli disse,
sottovoce, come un soffio amoroso:

--Grazia! Grazia!

Ma ella fremeva, fremeva, e gli diceva:

--Taci, taci, taci.

Tanto che il lungo, sonoro fischio, triplicato fischio della
vaporiera, le fece gittare un grido di spavento.

--È il fischio di allarme, nevvero--domandò, piena di ambascia, quasi
che non fosse possibile, in quel momento, altro che una grande
catastrofe.

--No, no, è Firenze.

--Tre fischi, grave pericolo--balbettò lei ostinata.

--È Firenze, è Firenze, cara.

L'arrivo spezzò l'incubo. La carrozza in cui essi viaggiavano avrebbe
proseguito sino a Venezia, attaccandosi, al treno in partenza da
Firenze; ma per la partenza ci voleva un'ora e mezzo.

--Scendiamo?

--Sì, sì, sì--disse lei, levandosi, subito, avida di moto, di luce.

--Vuoi pranzare, nevvero, cara?--chiese lui, trattandola
infantilmente.

--Sì, subito, subito--fece ella, attaccandosi al suo braccio, con
un'improvvisa disinvoltura.

Ora, per il livido chiarore del gaz, nella calda sala del Doney,
seduta di fronte a lui, togliendosi lentamente, con un moto
seducentissimo, i lunghi guanti neri, raddrizzando i numerosi anelli
delle sue mani gemmate, appoggiando le lunate spalle a un seggiolone e
distendendo i piedini sopra uno sgabello, ella era ridiventata la
bella, vivace signora dei convegni aristocratici, dei balli
inebbrianti, dei folleggianti _pique-niques_. Anzi, mentre i nervi le
si chetavano nel senso di riposo che dà una sala lucente, tiepida, con
qualche mazzo di fiori sparso qua e là, con una folla rumorosa che si
rallegra nell'apprestamento del cibo, a questa sua bella serenità si
mescolava la maliziosa soddisfazione della donna che gusta la libertà,
il piacere bizzarro e pericoloso della prima, audace avventura di
amore. Essere in compagnia di Ferrante che l'amava, che ella amava,
guardandosi negli occhi, sorridendosi, innanzi a molta gente e senza
punto curarsi della gente, pranzando insieme, come due sposi
innamorati, parlando pianissimamente, a fior di labbro, ciò costituiva
per lei una nuova, acre, vivida, soddisfazione umana, quasi, che ella
esercitasse una lungamente meditata vendetta, di tanti pranzi di
cerimonia, noiosi, banali, fra persone indifferenti e antipatiche. Una
novella impensata trasformazione si faceva in lei: ella si sentiva
fatta di umana argilla, si sentiva donna, si sentiva felice di quella
libertà conquistata a prezzo di tante lacrime, assaporava con lentezza
raffinata la sua parte di felicità terrena. Ferrante, con lo sguardo
profondo dell'amore, le leggeva nell'anima; uno strano sorriso di
conquista gli vagava sulle labbra; ed ella che vedeva questo sorriso
di conquista, non se ne offendeva, no, anzi ne pareva singolarmente
orgogliosa. Un senso segreto ma traboccante di sfida le saliva dal
cuore, ribellatosi al cervello: una sfida contro tutto quello che
aveva venerato, di cui aveva avuto, sino allora, rispetto e paura:
parevale sentire, in quell'ora, la inutilità dell'abnegazione, la
vacuità del sacrificio, la ingratitudine del mondo a qualunque
privazione morale fatta per esso. E come questi superbi e acri
pensieri le passavano nell'anima, corrodendone il buon metallo lucido
del carattere, Ferrante seguiva questo passaggio e nel suo orgoglio di
uomo si gloriava del cangiamento. Donna Grazia prese dei fiori, una
grossa manciata di fiori, dalla fioraia che glieli offriva non senza
timidezza: i morti fiori autunnali di cui ella adornò il suo grande
mantello bruno, fra occhiello e occhiello: e dopo aver aspirato
lungamente il fiore, quasi impercettibile profumo di una rosa thea, lo
offrì a Ferrante con un muto cenno, con uno sguardo pieno di amore,
sguardo così vibrante di elettricità che l'uomo impallidì. Adesso
passeggiavano su e giù, nella galleria di aspetto, coperta di
cristalli, e curiosamente donna Grazia si fermava a tutte le piccole
botteghe, dove si vendevano dei nonnulla, piccoli ricordi fiorentini,
chincaglieria povera di viaggiatori sentimentali ed economici. Essa
volle comprare le noci intagliate che raffigurano la cupola di Santa
Maria del Fiore, le scatolette di legno d'ulivo che vengono da Lucca e
portano sul coperchio le due rondinelle fuggenti, col motto francese;
_je reviendrai_, le scatole da guanti, di paglia, foderate di raso
azzurro o rosso. Pareva una bimba bizzarra e ingenua, al suo primo
viaggio; essa risalì nel vagone, ridendo, ridendo, buttando sui sedili
i fiori, gli oggettini, andando e venendo, con le guancie un po' calde
e le belle mani che sembravano farfalle gemmate, volitanti di qua e di
là. Siccome non si partiva ancora, Ferrante le chiese permesso di
passeggiare sul terrapieno, per fumare una sigaretta.

--Fuma pure--disse lei, crollando il capo, ridendo ancora sottovoce.

Egli accese la sigaretta e si appoggiò a uno dei pilastri della
tettoia, fumando silenziosamente, immobile, guardando il vagone,
fisamente, come se là fosse tutta la sua vita, come se gli fosse
impossibile di perderlo d'occhio. Improvvisamente ella si era fermata,
nel vano dello sportello aperto, appoggiando la testa allo stipite di
legno, e guardava Ferrante che fumava. Attorno a loro i viaggiatori si
arrabattavano per trovare i migliori posti, per la notte: qualcuno si
fermava innanzi al vagone, di cui donna Grazia sbarrava l'entrata, ma
si ritirava subito, tanto quell'alta e snella figura di donna pareva
lei posta a guardia della carrozza. Ferrante prese ancora un'altra
sigaretta bionda, l'accese, la fumò, imperturbabile fra il chiasso di
quella partenza per la linea Bologna-Venezia. Donna Grazia si era
seduta dietro lo sportello, ma teneva il busto un po' inclinato, per
guardare ancora il suo compagno di viaggio: quando gli vide gittare
metà della seconda sigaretta, spenta, mormorò sommessamente:

--Non vieni?

Egli dovette più che udire, intendere, tanto era fioca la voce
seduttrice: fu nel vagone in un attimo, tirandosi dietro lo sportello.

--Fuma anche qui: non mi fa male--disse lei, mettendosi di nuovo i
guanti, mollemente.

--No, no, tu devi dormire--rispose lui, con una tenerezza quasi
fraterna.

Ma fra le pelliccie, gli scialli, le coperte, al caldo, ella si
addormentò assai tardi. Teneva gli occhi chiusi, però, lasciandosi
prendere da tutta quella dolcezza dell'amore e delle cose; ogni tanto,
con un moto adorabile di stanchezza, li schiudeva e trovava gli occhi
di Ferrante fissi su lei, così teneri, così amorosi che la
magnetizzavano di nuovo, nella dolcezza.

--Non dormi?--chiedeva ella, vagamente, come se parlasse in sogno.

--Non ho sonno--diceva lui facendole cenno di chetarsi, sorridendo
tacitamente.

Solo nel mezzo della notte, ella trabalzò, scossa da un grande
fragore, vedendo una gran luce rossastra.

--Che è?--gridò, levandosi a metà.

--Niente, non aver paura: passiamo sul Po.

Sulle rive nere del fiume, nella notte, grandi cataste di legna secca
bruciavano: attorno ad esse i guardiani del fiume vegliavano e si
riscaldavano, temendo l'inondazione autunnale.

--Dormi, non aver paura--soggiunse lui, lasciando ricadere la tendina,
sedendosi accanto a lei, passandole lievemente la mano sui capelli,
per chetarla.

Quando ella si risvegliò di nuovo, all'alba, avevano già oltrepassato
Mestre, erano sulla stretta lingua di terra che attraversa la laguna.
E non si vedeva altro, da tutte le parti, che una grande estensione di
acqua immobile, senza che un solo soffio ne agitasse la tinta
argentina, opaca. Ogni tanto una pianta acquatica, senza fiori, senza
foglie, cioè un cespuglio di rami nudi e neri, irti come spini, usciva
dall'acqua: o un pilone nero, un po' inclinato, sorgeva dal fondo. Una
lieve nebbia argentina ma senza luccicori fluttuava sull'acqua, e
tutto l'orizzonte era della stessa tinta, senza che si potesse
distinguere dove l'acqua finisse, dove cominciasse il velo di nebbia.
Un vento umido e molle alitava. E il vagone parea molle di umidità,
tutto il treno pareva andasse sull'acqua dormiente, attraverso la
nebbia, fra il fiato umido e soffocante.

--Ecco Venezia--disse Ferrante, un po' ansioso, guardando più il viso
di Grazia che il paesaggio.

--Non vi è--diss'ella, vedendo solo la laguna e la nebbia, tremando un
po' nella voce, pallidissima.

Si risedette; due volte mise la testa fuori del cristallo, guardò
attorno, lungamente; si passò le dita sulla manica, come per sentire
se fosse molle di umidità. Alla fine, fra la laguna e la nebbia, sorse
qualche profilo bigio di una massa più oscura.

--Ecco Venezia--ella mormorò, quasi fra sè.--Pare una tomba.

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Come tutte le altre mattine, fosse avvolto nella bigiastra velatura il
Canal Grande e la chiesa della Salute, e lontano, laggiù, scomparisse
addirittura il canale della Zuecca; o la lenta pioggia di ottobre
piovesse solingamente su quell'acqua dormiente, su quella chiesa
dormiente, su quei palazzi dormienti; o il biondo sole illuminasse i
tenui azzurri del cielo e le sagome fini della chiesa e circondasse
l'isola di San Giorgio in un'aureola di luce; come in qualunque
mattinata, Ferrante entrando nel salotto pieno di fiori, trovò donna
Grazia seduta, nel vano dello stretto e lungo balcone a ogiva,
guardando vagamente il paesaggio. Ella portava sempre una delle sue
vestaglie di lana bianca, dalla forma di peplo, che odoravano di
violetta, poichè fra le arricciature di merletto del collo, fra le
morbide pieghe del petto, alla cintura, spuntavano dei freschi
mazzolini di violette. Ella guardava, con gli occhi fatti quasi più
grandi e un po' vitrei dalla lunga contemplazione.

--Che hai?--disse Ferrante, baciandole le mani.

--Nulla--fece lei, con un piccolo sorriso.

--Mi ami sempre?

--Sempre, sempre.

E un cenno largo, come ad accennare un fatto ineluttabile, accompagnò
la monotonia di quella voce dove pareva si fosse infranta ogni corda
di vivacità.

--Sei triste, mi pare--disse lui, chinandosi a guardarla meglio.

Ella sorrise ancora, senza rispondere, gli dette, con un atto gentile,
uno dei suoi mazzolini di violette; egli lo prese, l'odorò e poi lo
rigirò fra le dita, senza parlare.

--Anche tu sei triste?--chiese ella, levando su la testa, con un gesto
affettuoso.

--No, cara. Venivo a chiederti se volevi uscire.

--.... Sì--disse lei, dopo una pausa,--Dove andiamo?

--In giro--fece lui.--Dove tu vuoi.

Invece, la voce di lui era un po' stanca. Senza dire altro, ella si
levò e passò nella sua stanza a vestirsi. Occupavano un vasto
appartamento mobiliato, in uno dei magnifici palazzi del Canal Grande,
dirimpetto alla chiesa di San Giorgio: appartamento mobiliato con
qualche traccia del lusso antico, a cui si mescolava tutta la
confusione fra comoda ed elegante del lusso moderno. Ma le stanze
erano tanto grandi che parevano vuote, sempre; le finestre, i balconi
erano così piccoli che la luce vi entrava scarsamente, anche nelle più
limpide giornate; e malgrado i fiori di cui Grazia riempiva tutte le
stanze, tutti gli angoli, tutti i tavolini, i saloni non si
rianimavano, restavano freddi e muti come se fosse impossibile farvi
risuscitare anche una finzione di vita. Grazia e Ferrante stavano
sempre insieme; spesso, lui, per discrezione, si ritirava nella sua
camera, lasciava Grazia libera; ma dopo un poco, era preso da tale
insoffribile malinconia, che cercava di lei, e la trovava così
insoffribilmente malinconica, che si tendevano le mani, come se l'uno
dovesse salvare l'altro. Quando erano insieme, certo, di fronte a quel
paesaggio grandioso ma dormiente, in quell'ambiente di cose morte e di
cose moribonde, fra quei colori che erano stati vivaci ed erano
pallenti, fra quel silenzio grande di uomini e di fanciulli, certo,
non avevano la grande giocondità delle anime intensamente felici; ma
si teneano per mano, quieti, silenziosi, senza sussulti e senza
tristezza. Si ricercavano, dunque, ansiosamente, come se dovessero
sempre partire per un lungo viaggio, come se dovessero iniziarsi ad un
altissimo diletto spirituale, come se dovessero raccontarsi tutto un
romanzo misterioso, il romanzo del proprio cuore: ma, essendo insieme,
parean subito appagati, senza bisogno di dire nulla, anime che già
l'ambiente aveva impregnate di sè. Così quel giorno, come tutti i
giorni, solo dopo pochi minuti di assenza, donna Grazia ritornò per
uscire, vestita tutta di nero, come sempre, mentre in casa era sempre
vestita di bianco: sul nero vestito, qua e là, dai merletti, dalla
cintura, facevan capolino i freschi mazzolini di violette.



III.

Andarono, per i grandi saloni, per la scalea scuriccia: un servo aprì
loro il portone che dava, per tre scalini, sulla laguna. L'acqua
appena appena fiottava, contro il marmo corroso. Il barcaiuolo che
sedeva a prora della gondola, senza far nulla, aspettando, si levò
subito e domandò qualche cosa, nel suo dolce dialetto:

--Ha detto--spiegò Ferrante a Grazia, interrogandola--se deve togliere
il _felze_.

--Sì, sì--rispose ella subito--lo tolga pure; lì sotto si soffoca.

E aspettarono: il gondoliere, con un certo moto bizzarro, essendo
entrato nella negra cabina dagli ornamenti di ferro lucido, ne sollevò
con le spalle tutta la parte superiore, simigliante alla gobba nera di
un dromedario, al coverchio di una lunga bara di ebano dalle
intarsiature artistiche e dalle finestrine microscopiche: sempre
portandola sulle spalle, la depose innanzi al portone, raccomandando
al servo questo negro _felze_. La gondola ora aveva la sua aria di
barca da passeggiata, con l'elegante rostro lucido a prora, i due
posti di divano, a poppa, foderati di panno nero, adorni di cordoni e
di fiocchi di lana nera, sgabelli neri su cui appoggiare i piedi.
Grazia e Ferrante vi si sedettero, senza dire nulla: e il gondoliere
cominciò a remare verso il Rialto, senza aver loro chiesto nulla. Quel
giorno lo scirocco era più pesante del solito e dava pena al respiro.
Delle zàttere cariche di carbone andavano per il Canal Grande, con un
moto così lento che pareva quasi indistinto; l'uomo della zàttera
puntava sul fondo del canale con una lunga pertica e, facendo forza, e
camminando sulla zàttera in senso inverso della corrente, la faceva
avanzare. Era tutto bruno, arcuato, quasi piegato in due, e passando
vicino, Grazia udì uscirgli dal petto un gemito rauco e cadenzato,
quello che esce dal petto dello spaccalegna.

--Questo non canta certo le ottave di Torquato Tasso, come dicono i
poeti di Venezia--osservò Ferrante, nel cui cuore lo scetticismo
soverchiava ogni tanto il sentimento.

--Eppure questa laguna avrebbe dovuto esser fatta solo per l'amore e
per l'arte--mormorò ella, aspirando il profumo di un mazzolino di
violette--non per il duro lavoro e per la miseria.

--Gli uomini guastano tutto--osservò sentenziosamente Ferrante.

--Sì--approvò lei, chinando il capo.

La gondola andava lentamente, fra il gorgoglìo delle acque smosse; a
un certo punto, lasciando il Canal Grande, infilò un piccolo canale,
fra due alti palazzi grigio-verdastri. Così faceva sempre il
gondoliero che li conduceva in giro, senza chieder loro dove volessero
andare. Due o tre volte lo aveva chiesto: ma essi si erano guardati in
faccia, esitanti, non sapendolo. Ora, non domandava più. A ogni
voltata di piccolo canale gli usciva dal petto un grido gutturale di
avvertimento; a cui spesso rispondeva un altro grido, simile,
dall'altro gondoliere che gli veniva incontro, con la sua gondola.

--Perchè le gondole sono così nere, nere dappertutto, nel panno, nel
legno, nei cordoni, nei fiocchi?--domandò distrattamente donna Grazia.

--Portano il lutto della repubblica--rispose Ferrante, che aveva
accesa una sigaretta e fumava.

--Veramente?--fece ella, guardandolo.

--Veramente.

--È triste, è triste--susurrò lei, colpita.

Ma sbucavano in Cannaregio, il quartiere popolare, le cui case sono
piccole, le cui finestre sono adorne del bucato familiare, le cui
_fondamenta_ sono continuamente battute dai vivaci zoccoletti delle
donne: ed è un andirivieni, al sole, di bimbi biondi, di donnine dai
capelli neri e ricci, a ondate fulve, di uomini piccoli e tarchiati
dai mustacchi folti, ispidi e rossastri, mentre l'allegro e lezioso
dialetto forma un brusìo, dovunque. Anzi, dinnanzi a una casa, vi
erano certi suonatori di chitarra, seduti per terra, mentre una donna
in piedi, sotto l'arco del portone, cantava una bizzarra melopea,
gutturale, quasi orientale, chiamata la _strega_, che un coro di donne
e di bambini riprendeva, a ogni ritornello, con voce sorda e grave.

--Qui sono allegri, almeno--disse donna Grazia, un po' rinfrancata,
sollevandosi sui cuscini.--Restiamo qui, un poco.

Sotto l'arco di un ponticello, accanto al traghetto, la gondola si
fermò. I due amanti tacevano, mentre il gondoliere si riposava. La
canzone della _strega_ continuava, grave, come una canzone di
Costantinopoli o di Algeri: ma i suonatori e i cantanti sogguardavano
spesso i due signori della barca, intimiditi, mentre la musica, a poco
a poco andava diventando più debole, più bassa, come scoraggiata dalla
presenza di quegli estranei. Una ragazza snella, dallo sciallino di
lana rossa, che distendeva una fune da un anello ad un altro sulle
_fondamenta_, per mettervi ad asciugare delle matasse di seta tinta,
si fermò nel suo lavoro, facendo solecchio con la mano, per vedere se
quei signori se ne andavano.

--Andiamo via, non disturbiamo questa buona gente--disse Grazia.

--Sono poco abituati ai forestieri: il Cannaregio è un quartiere di
poveri, di operai--rispose Ferrante.

La barca si allontanò, mentre, alle spalle, ricominciava l'allegro
brusìo del dialetto, ricominciava il ticchettìo degli zoccoletti sulle
_fondamenta_ di pietra levigata, ricominciava la canzone
costantinopolitana della _Strega_. Andarono innanzi molto tempo,
incontrando pochissime gondole, trovandosi a un tratto in un largo
canale deserto: un canale così vasto, così torbido nelle sue acque
immobili, così malinconicamente intonato che donna Grazia, per
vincerne l'impressione, ne chiese il nome al gondoliere.

--È il Canale Orfano, eccellenza.

E la gran leggenda tragica, che era durata, sinistra e tetra, per
centinaia di anni, la leggenda di tutti quei condannati, innocenti o
rei, che dopo aver agonizzato per giorni e mesi nelle carceri
soffocanti della Repubblica, in una notte oscura, facevano l'ultimo
loro viaggio sotto il _felze_ opprimente della gondola, per essere
strangolati tacitamente e gittati nelle acque profonde del Canale
Orfano, si parò innanzi alla fantasia dei due amanti, con tutti i
fremiti di sgomento che tale visione truce può dare.

--Il fondo deve essere coperto di scheletri--disse donna Grazia,
guardando fissamente l'acqua.

--Torniamo indietro--soggiunse Ferrante con voce alterata.

Tornarono: e come il gondoliere affrettava il movimento dei suoi remi,
donna Grazia gli fece cenno, con la mano, di far piano: pareva che
temesse di disturbare quei morti. Ancora, silenziosi, vogarono per i
canali, muti, quasi stanchi, non guardandosi neppure. Il movimento
della gondola, a lungo, li gittava in un intorpidimento di tutti i
sensi; tanto che neppure l'ora fuggente aveva più valore per essi.
Canali seguivano canali: l'acqua era, dove verdastra, dove bigia, dove
semplicemente torbida, dove con un'opaca oscurità di carbone: palazzi
seguivano i palazzi, portoni pesanti chiusi come da secoli, gradini
corrosi dalla salsedine, alti pilastri piantati nelle acque per
legarvi le gondole e che s'inclinavano come se fossero presi da una
inguaribile debolezza, finestre senza cristalli, ma le cui imposte
verdi sembravano sbarrate per sempre. Ogni tanto un monastero, una
chiesa, una bottega d'infilatrice di perle; di nuovo portoni chiusi a
catenaccio e finestre serrate sino all'ultimo piano. La linea era
pura, bella, artistica: la poesia che traspirava da tutto l'ambiente
era grande, ma portava un profumo di fiori morti. E i due cadevano in
un languore di mestizia che ne domava ogni entusiasmo, che ne
annullava ogni impeto di vitalità.

--Qui, dicono fuggisse Bianca Cappello, per andarsene con l'amante a
Firenze--disse Ferrante indicando una finestra bassa di un grande
palazzo.

--Oh!...--fece Grazia, senza aggiungere altro.

E dopo un poco, sogguardando l'uomo che amava, facendo cadere le
parole, ad una ad una, gli chiese:

--Tu sei stato un'altra volta, a Venezia?

Egli intese la profondità della domanda e il pericolo della risposta:
una rapida emozione gli scompose il volto. Ma fu incapace di mentire.

--Sì: un'altra volta--rispose nettamente, buttando nel canale la
sigaretta spenta.

--.... Molto tempo fa?--aggiunse ella, con la freddezza e la tenacità
di un giudice che interroga.

--.... Non molto.

Ella tirava, macchinalmente, ad una ad una, le violette dal mazzolino
che teneva nelle mani e dopo averle fatte girare intorno al dito, le
buttava in acqua, seguendole un momento con l'occhio. Poche ne
rimanevano, smorte, quasi appassite nella larga foglia verde che le
accartocciava, penzolanti sugli stelucci.

--Eri solo?--finì d'interrogare lei, sempre tenendogli piantati gli
occhi sul volto.

Egli non rispose, nè prima, nè dopo, sentendo la crescente crudeltà di
quel dialogo. Non rispose e volse il capo altrove. Allora ella, con
l'aria di una persona perfettamente convinta, guardò un'altra volta le
sue ultime violette e con un atto risoluto, le buttò in laguna, tutte.
Ostinatamente, per nascondere il rivolgimento del suo spirito, egli
guardava dall'altra parte; e anch'essa si mise a fissare un punto
qualunque dell'orizzonte. Una brutta gondola passò: le finestrine del
_felze_, senza i soliti delicati ornamenti di ferro lucido, erano
chiuse coi lucchetti, come una cassa forte. E sulla porticina del
_felze_, a guardia, stavano seduti due carabinieri in tenuta di
viaggio e coi fucili fra le gambe, immobili, in quell'attitudine
seria, pensosa, che dà loro come una nova aureola di rispetto. Era la
gondola del carcere che avendo preso alla stazione i carcerati e i
carabinieri, li conduceva per la laguna, alla tetra dimora. Grazia
seguì con l'occhio il nero convoglio filante sulle acque; poi abbassò
il capo sul petto, reprimendo le ardenti lacrime che le salivano agli
occhi. Fu più innanzi, in un canale laterale che si lega al Canal
Grande nel sestiere di Dorsoduro, che incontrarono la più tetra barca
della laguna. Era tutta nera, come le altre, ma mancava di quella
grazia civettuola della gondola di passeggiata: non aveva, a prua, il
rostro lucido; era più larga, più piatta; si dondolava goffamente
sulle acque: e i due gondolieri, invece del solito gabbano fra
cittadino e marinaro, invece del solito berretto, portavano una
giacchetta nera e un cappello a cilindro, con una coccarda nera. Stava
ferma, la gondola, innanzi a un portoncino aperto; due o tre donne
erano sotto il portoncino.

--Che è quella gondola?--disse Grazia al gondoliere, scattando in
piedi.

--È la gondola dei morti, eccellenza: quelli sono i becchini.

--Andiamo via, andiamo via, Grazia--disse Ferrante rompendo il
silenzio, dolcemente, volendo infrangere il malo incantesimo di quella
giornata.

--No, no, voglio vedere--disse lei, duramente--gondoliere, fermati un
poco.

--È meglio andare, cara, è meglio--ribattè lui, umilmente, crollando
il capo.

Ma ella non gli dette retta. In piedi, appoggiata al divanetto di
destra, guardava nel portoncino nero, donde arrivava un confuso
mormorio.

--Voglio vedere questo morto--disse a sè stessa, senza distogliere gli
occhi dal portoncino.

E quasi la sua anima desiosa di dolore, avesse avuto una forza
magnetica, un tumulto si fece nell'ombra del portoncino, e fra un
piccolo gruppo di donne e di uomini, portata da due altri becchini,
comparve la bara; dietro le persiane di una finestra, al primo piano,
si udiva un singhiozzo disperato e si vedeva una mano convulsa che
tentava di aprirle, mentre qualcuno si opponeva, tenendole ferme.
Questi volevano vedere la bara, che veniva caricata nella gondola
funeraria: la piccola bara, la sottile bara, poichè era la bara di un
bambino, e lassù, era certamente la madre del bimbo che singhiozzava e
tentava disperatamente di aprire la finestra. A un tratto, con un moto
svelto di gente pratica, i becchini gondolieri ficcarono la piccola
bara sotto il _felze_ e ne richiusero con un colpo secco la porticina.
Il picciolo morto era solo, là sotto. Ai quattro lati del _felze_
furono sospese delle povere e pallide corone di sfatti crisantemi, che
una fanciulla piangente in silenzio aveva porto ai becchini.

--Andiamo via, presto, presto--disse nervosamente Grazia al
gondoliere, ricadendo a sedere sul divanetto.

A un tratto era stata presa dall'orribile paura di dover fare la
stessa via del morticino; e soggiungeva, mentre si allontanavano,
senza voltare il capo indietro, _presto_, _presto_. Alle spalle il
singhiozzo della persona che si disperava dietro la gelosia si era
fatto più forte, più alto: la barca funeraria si metteva in moto. Ma
era così lenta, che la gondola di Grazia e di Ferrante scomparve
subito. Quando ebbero camminato per un pezzo, allora soltanto ella si
voltò a guardare Ferrante, ma lo vide così travolto, così pallido, che
ne ebbe orrore e pietà. E dopo un minuto di intensa riflessione, ella
intuì, ella indovinò il pensiero di lui:

--Tu pensi al tuo bambino?--gli disse, sottovoce, nella faccia.

Ah, questa volta, questa volta, egli non ebbe il coraggio di negare:
disse di sì, semplicemente, senz'altro. Ed ella, allargando le
braccia, fece un atto di persona vinta, che lascia andare la sua vita
al vortice soverchiante.

Pure, nella serata, ubbidendo alla sua natura buona e generosa, ella
andò a lui, nella pace fredda del grande salone e lo pregò che le
perdonasse. Si umiliava, tutta confusa, sentendo sempre più grande
farsi la lontananza fra loro, cercando, con la bontà, con la pietà, di
riavvicinare le loro anime, nuovamente. E lo vide tremare, come essa
tremava, di dolore, di tenerezza, di compassione: egli le carezzò
lievemente i capelli, con quel moto affettuoso, famigliare,
aggiungendo qualche vaga parola di conforto: e l'uno voleva consolar
l'altro, a forza, come di una grande sventura ignota, di cui nessuno
dei due voleva pronunziare il nome. Nell'ombra del salone che solo la
vampa del caminetto spezzava, gittando spruzzi sanguigni di luce sul
vecchio tappeto veneziano, essi si tenevano per mano, frementi di
dolore, balbettando incerte parole di consolazione e sembravano,
insieme, in quell'ora bruna, in quella camera, la rovina di una grande
cosa, i superstiti di un naufragio dove tutto avessero perduto.

Nè il sole novello, nè le miti giornate di ottobre, nè gli sforzi dei
loro cuori coraggiosi e onesti, nè la paura della catastrofe che
vedevano avvicinarsi e pure volevano scongiurare, potevano ridonare a
Grazia e a Ferrante, ciò che era irreparabilmente fuggito. Ancora per
vari giorni Venezia che tanti amori e tanti amanti ha visti e dovrà
ancora vedere, per vari giorni la soave città languente di morte, vide
questi due amanti nelle sue _calli,_ nelle sue piazze, nelle sue
chiese, sempre insieme, tenendosi sempre per mano, come se volessero
comunicarsi un fluido che li legasse per sempre, come se volessero
vincere un potere ignoto che aspirasse al dissolvimento. Incapaci di
reggere alla solitudine della loro stanza segregata, della loro casa
così piena di tristezza, incapaci di prolungare un dialogo solitario
senza che li conducesse, istintivamente, inconscientemente, a una
fatale conclusione, essi cercavano di mettere il mondo esteriore fra
loro, desiderosi di quanto potesse distrarre i loro occhi e le loro
anime. Quella semplice e bonaria vita esterna veneziana, li seduceva,
non in sè, ma perchè li toglieva alla tetra domanda della loro
coscienza; le lunghe stazioni sotto le Procuratie, innanzi ai piccoli
tavolini del caffè Florian, dove si ripetono, meno ingenue e meno
piacevoli, le scene goldoniane; le lunghe stazioni, in piazza,
guardando il volo dei colombi che discendono a mangiare il miglio,
buttato dalle candide mani di una fanciulla inglese, ammalata di
nostalgia e di anemia; le lunghe stazioni nella basilica dove, sotto
le arcate che pare abbiano profondità infinite, i lumicini delle
lampade moresche brillano innanzi alle sacre immagini cristiane,
innanzi ai santi e alle sante dalla faccia nera e dal vestito di
argento; le lunghe stazioni sulla riva degli Schiavoni, nell'ora del
tramonto, in una luminosità così fine, così trasparente che nessun
paese possiede, che nessun poeta ha saputo descrivere e nessun pittore
dipingere; le lunghe passeggiate per le straduccie strette che
sembrano corridoi di una immensa casa, la compra di gingilli, di
ricordi nelle microscopiche botteghe di Merceria e di Frezzeria; le
lunghe contemplazioni artistiche nei musei e nelle gallerie, innanzi
ai capolavori umani e divini di Carpaccio e di Gian Bellino, del
grande Paolo e del superbo Tiziano. Qui erano più lunghe e intanto più
pericolose le loro dimore, poichè la sublime arte veneziana è così
fatta di amore supremo e di amore terreno, che è impossibile non amare
o non parlare di amore, per essa. Queste manifestazioni così potenti
della passione, mentre li attraevano, li lasciavano turbati sino agli
strati imi del cuore. Più di una notte, levandosi nella veglia
affannosa, uscendo dalla sua stanza nella bianca vestaglia come un
fantasma che non avrà mai requie, Grazia andava fino alla porta della
stanza di Ferrante e sentiva che anche lui vegliava, passeggiando,
fumando, schiudendo la sua finestra per guardare il negro Canal
Grande. Due volte sentì che egli scriveva, che scriveva tanto
concitatamente che la penna strideva sulla carta. E a chi scriveva?
Ella non osò mai chiamarlo, mai chiederglielo. Due volte Ferrante era
uscito, solo, forse per impostare queste sue lettere; mai era giunta
una lettera di risposta. L'angoscia che li ardeva, adesso, non era più
che dolorosa: era una vampa che li consumava in una lotta contro un
nemico sconosciuto che prendeva sempre più terreno, che ogni giorno
guadagnava una piccola o una grande battaglia; era una fiamma che li
devastava da cima a fondo, facendo il vuoto in essi, senza che le
lacrime alla tenerezza valessero a smorzarne l'incendio. Nè l'uno
diceva all'altro il segreto di queste veglie ardenti e desolate; ma
ognuno lo indovinava questo segreto, sul volto dell'altro, senza
parlare, anzi temendo di parlare. Ancora camminavano accanto, nella
vita, tenendosi per mano: ma a un motto, a un gesto, tremavano di
veder sparire l'amata figura daccanto. La solitudine, la solitudine a
cui nessun segreto resiste, la solitudine che risolve a rilento o
bruscamente tutti i grandi problemi morali dello spirito, era quella
che li sgomentava. Avevano deserta la casa, ora. Un giorno, sul finire
di ottobre, non sapendo dove portare il loro bizzarro tormento,
s'imbarcarono sul vaporetto che porta all'isola del Lido, un'isola
tutta verde, piena di piccole ville, che da una sponda dà sulla
laguna, sul mare immobile, dormiente, dall'altra sponda sullo
squillante, fragoroso, tempestoso Adriatico. È su quella sponda che si
erge il bello stabilimento di bagni marini, dove accorre tutta Venezia
e vengono italiani da tutte le parti, e anche stranieri, tanta è la
gaiezza estiva di quel ritrovo. Ma nulla è più stranamente malinconico
della città di svernatura al mese di agosto, e delle spiaggie di bagni
quando l'estate è fuggita via, da tempo. I viali dell'isola erano
deserti e il piccolo _tramvai_ andava e veniva, pian piano, vuoto,
tanto per fare le sue corse di quel giorno. Lo stabilimento aveva
tutte le porte dei suoi camerini aperte; alcune sbattevano contro le
pareti, per il vento forte del mare, le onde schiumavano rabbiose
contro i pali, frangendosi. Nel grande salone-terrazza, non un'anima;
solo il custode sonnecchiava nel suo casotto, malgrado il cattivo
tempo. Grazia e Ferrante andarono ad appoggiarsi alla ringhiera,
guardando quel grande mare burrascoso che li aspergeva di minute
stille gelide. A un tratto una voce amica li riscosse dalla triste
contemplazione: un altro solitario era, colà, un amico di entrambi, un
gentiluomo meridionale, cuore profondo sotto apparenze un po'
leggiere, un po' scettiche. Era il solo che aveva intravveduto la loro
passione: e trovandoli colà non mostrò nè meraviglia nè freddezza. Per
una stranezza Grazia e Ferrante oppressi dalla solitudine e dalle loro
segrete torture morali, per quanto prima avevano odiato ogni contatto
umano, per tanto in quel giorno furono contenti di trovare
quell'amico, quel terzo. E la conversazione, sui banchi umidi di
salsedine del vuoto stabilimento, fu insolitamente cordiale, come se
un misterioso vincolo legasse spiritualmente quelle tre persone. E
anche Giorgio, il gran signore ricercato dei balli e delle caccie,
lontano da Roma, in quel posto così deserto, in quella giornata di
temporale, pareva avesse dimenticato il suo leggiadro scetticismo,
pareva che una nota più sentimentale, più tenera, vibrasse nel suo
cuore e nella sua voce. Grazia che lo conosceva da anni glielo disse.

--È il contagio--disse Giorgio, con una velatura di sorriso.

--Della persona?--gli domandò Ferrante, serio serio.

--Anche. Ma è Venezia, sovra tutto. Io non posso ritornare in questo
paese, senza sentir rinascere in fondo al cuore tutte le onde
soffocate di tristezza.

--Anche voi?--mormorò Grazia, abbassando gli occhi.

--E perchè ci vieni?--chiese Ferrante.--Perchè scavare in sè questi
strati così amari? I saggi sanno dimenticare.

--Sei un saggio, tu?--gli chiese ironicamente Giorgio.

--No--fece l'altro, con un senso di umiltà nella voce.

--E io neanche. Ogni anno vengo qui per un pellegrinaggio

--Religioso?--chiese Grazia.

--.... pietoso--rispose Giorgio.--Quando la vita esteriore più mi ha
inaridito tutte le fonti del sentimento, quando più mi sento un freddo
egoista capace di sacrificare tutto al mio piacere, quando più mi
corrode la pazza vanità e la folle ambizione, allora io lascio Roma,
lascio Parigi, lascio Londra e vengo qui, solo, a guarirmi, a diventar
più umano, più buono. Voi ridete di me, forse?

--No, non rido--soggiunse Grazia, pensosa, guardando il mare coperto
di bianca spuma.

Ferrante taceva, pensando.

--Venezia mi contrista e mi guarisce--disse il bel gentiluomo, con la
contrizione di un penitente, passandosi la mano sulla fronte, a
scacciarne le ombre che la offuscavano.

Stettero in silenzio, tutti tre: ognuno era preso dal proprio pensiero
e il mare mugghiante accompagnava i voli di quelle fantasie. Fu
Ferrante che si risolse a rompere il silenzio per il primo, sospirando
chiedendo all'amico:

--Dicci questa istoria, Giorgio.

Giorgio guardò Grazia: e benchè ella non parlasse, lesse negli occhi
di lei una preghiera.

--Che vi può importare, una storia d'amore?--domandò Giorgio ad
ambedue, guardandoli.

Ma nuovamente vide in ambedue tanto ardente e doloroso desiderio di
sapere, di conoscere, di misurare, che intravvide financo, dietro il
desiderio, l'angoscia di ambedue. Intravvide, non si spiegò: intese
che come a lui era necessario, in quel momento, uno sfogo, ad essi era
necessario, in quello stesso momento, l'appagamento di quel tormentoso
desiderio.

--Sentite--disse.--Io ho conosciuta quella soave donna a Livorno,
quattro anni fa. Era una polacca; si chiamava Anna; aveva un marito
brutale, e che ne era molto, molto geloso. Ella era piccola, delicata,
con certi lunghi e folti capelli fulvi e una salute così delicata, che
il più piccolo soffio di vento la faceva tossire. Così leggiadra e
così debole, io l'ho amata più di tutte le donne opulente, trionfali,
maestose, l'ho amata più di qualunque donna abbia mai incontrata, più
di qualunque donna potrò mai incontrare sul mio cammino....

--Ella vi ha amato?--chiese ansiosamente donna Grazia.

--Sì--disse Giorgio con semplicità,--Era buona e pia; ma mi ha amato,
con tanto ingenuo trasporto, che io consumato alle esaltazioni della
passione, fui scosso per la prima volta. Era così geloso il marito,
che non le lasciava un'ora di libertà: qualche volta soltanto, quando
ella andava in chiesa, poichè ella era cattolica e lui ateo. Bene, la
cercai in chiesa: ella tremava, povera piccola, poichè diceva che
questo era un sacrilegio, un'offesa a Dio, il quale ci avrebbe puniti,
nell'amore nostro. Ma non poteva fuggirmi come io non potea
trattenermi dal seguirla dovunque, dovunque....

Ferrante e Grazia, ora si guardavano.

--Tanto che--soggiunse Giorgio, preso dall'amarezza eccitante della
sua narrazione--tanto che qualche cosa fu detta al marito; e da un
giorno all'altro egli decise di partire. Oh quella notte! Coi piedi
nudi nelle pianelle, ravvolta in uno scialle, tremando di freddo e di
paura, Anna ebbe il coraggio di lasciare la sua stanza, senza
svegliare suo marito e di venire da me, disperata, soffocando i
singhiozzi. Ogni minuto che passava, di quella notte, poteva metterci
in pericolo di morte, entrambi, eppure non sapevamo dividerci,
delirando di amore e di dolore. Quando dovette lasciarmi, ella
s'inginocchiò per terra e disse una breve preghiera, e sempre
inginocchiata, giurò sopra un piccolo crocifisso di argento che le
pendeva dal collo, che per il giorno venti di ottobre, alle dieci di
sera, ella si sarebbe trovata a Venezia, ad aspettarmi: e che solo la
morte avrebbe potuto impedirglielo....

--Venne?--domandò Grazia.

--Sì--riprese Giorgio--venne.--Aveva giurato. Io era da dieci giorni
all'albergo _Danieli_, nascosto, inquieto, folle talvolta di paura,
talvolta di speranza. Venne. Ma era morente, la piccola adorata; nè io
seppi mai come aveva potuto sfuggire alla sorveglianza del marito, e
quale lotta l'aveva ridotta in quello stato. Pure fingeva di star
bene, per amarmi, per amarmi assai, sempre meglio, sempre più, mentre
discendeva precipitosamente alla morte....

--Una breve stagione d'amore?--chiese Ferrante.

--Diciotto giorni.--Una sera che era andato fuori, costretto da un
dovere inrecusabile, trattenendomi due o tre ore, al ritorno, non la
ritrovai più. Era venuto il marito, improvvisamente, e l'aveva portata
via. Per due giorni girai Venezia come un pazzo, cercandola. Non
credevo a una immediata partenza. Poi mi misi disperatamente in via
per la Polonia....

--E la raggiungeste?--disse Grazia, quasi affannando.

--No--fece Giorgio--era morta per viaggio.

.............................................................

I tre amici, come si avanzava l'ora pomeridiana, uscirono dallo
stabilimento e si avviarono lentamente verso la spiaggia lagunare dove
ancorava il vaporetto che doveva ricondurli a Venezia.

--Voi avete dovuto molto soffrire di quella morte--osservò mestamente
Grazia che camminava fra i due uomini, rivolgendosi a Giorgio.

--Molto: ma per poco tempo. Sapete che il mondo dove viviamo e la vita
che facciamo, non ci permette di soffrire che intensamente.

--È vero--disse Ferrante.

--Però--soggiunse Giorgio--quella poveretta è stata per me la grande,
fuggente, sparente, idealità, buona e pura di cui tutti abbiamo
bisogno per vivere, sia essa una finzione o una realtà, una donna o
un'idea. Intendete ora perchè chiamo Venezia un pietoso
pellegrinaggio; perchè Venezia mi sembra la tomba dove è sepolta tutta
la poesia della mia vita; e perchè quando mi sento divenire perverso a
furia di frivolezze e di scetticismo, io vengo qui a ricordare la
dolce creatura vissuta e morta solo per l'amore.

S'imbarcavano, soli, sul vaporino; poichè niuno faceva più il tragitto
dal Lido a Venezia. Rosso, rotondo, come disco di rame arroventato, il
sole tramontava, basso sull'orizzonte. Erano seduti tutti tre sulla
terrazzina di prora e tacevano. A un tratto Grazia, scuotendosi,
disse:

--Povera donna! Avrebbe potuto vivere, amare, esser felice....

--Chissà!--disse profondamente Giorgio.--Se non fosse morta lei,
sarebbe morto l'amore.

--È vero---disse Ferrante.

--È vero--disse Grazia.

Nè più sino alla sera riparlarono di tal soggetto: tennero compagnia a
Giorgio fino a che egli ripartì, alle dieci e mezzo per Roma,
discorrendo quietamente e freddamente di arte, di poesia, di viaggi,
della società romana e napoletana, cui appartenevano. Invece di
prendere la gondola, per ritornare alla loro casa, in quell'avanzata
ora notturna, essi, per un tacito accordo, se ne andarono per le
strette vie, a piedi, ombre rasentanti le alte muraglie dei palazzi
patrizii, salienti e discendenti per i ponticelli, fermantisi ogni
tanto, per tacito accordo, a contemplare le nere acque dei canali. Non
si davano il braccio, non si tenevano per la mano, non si parlavano:
andavano col capo chino, senza neanche guardarsi, quasi l'uno non si
accorgesse più della compagnia dell'altro. La stazione era assai
lontana, dalla loro casa; il tragitto era lungo e camminando così vi
misero più di un'ora. Arrivati innanzi alla piccola porta di terra,
con una chiave Ferrante la schiuse. Ma non entrarono: si guardarono,
immobili, con una gelida occhiata.

--Addio, Ferrante--ella disse, glacialmente.

--Addio, amore--egli disse, glacialmente.

E si allontanò, nella notte. La porticina si richiuse subito. In
ambedue, la grande fiamma era spenta.



TRAMONTANDO IL SOLE.

_A Enrico Nencioni._



I.


--Chiarina, ti presento un amico, Giovanni Serra--disse la padrona di
casa, mentre Serra faceva un grande inchino.

--Oh Anna, ma io lo conosco!--esclamò Clara Lieti, vivacemente,
stendendogli la mano con un atto famigliare.

--Veramente? E come?--soggiunse Anna, con quel falso interesse
mondano, che copre di amabilità la perfetta indifferenza.

--Da vari anni.... da moltissimi anni.... da un numero infinito di
anni, lo conosco--e Clara finì con una risatina squillante.

--Non tanti, poi, signora Lieti--osservò Giovanni Serra, quasi facendo
una correzione di pura cortesia.

--Allora, tutto va bene, vi lascio insieme--concluse la gentile e
frettolosa padrona di casa, allontanandosi verso gli altri gruppi che
popolavano il suo salone.

Serra restò in piedi, presso la signora Lieti: e taceva. Malgrado la
luce bonaria dei suoi occhi azzurri, la sua fisonomia aveva qualche
cosa di austero, che contrastava con la mondanità dell'ambiente.

--Non sedete?--chiese Clara, reprimendo un breve moto d'impazienza.

Egli ebbe una fugace esitazione; poi, si sedette in una poltroncina,
accanto a lei. A poca distanza da loro, tre signorine chiacchieravano
e ridevano con due giovanotti.

--Perchè vi siete fatto presentare?--domandò Clara a Serra, rompendo
il silenzio, parlandogli con una intonazione più intima nella voce.

--Non sono stato io. Mi ha detto, la signora Anna: venite, vi presento
a una donna di spirito.

--Sono io, disgraziatamente....

--Come, disgraziatamente?

--Lo spirito è una gran disgrazia, per una donna--ella sentenziò, con
una di quelle tetraggini improvvise che le oscuravano la sorridente
faccia.

--Perchè, signora? E un dono affascinante, un dono conquistatore....

--Per conquistare che?

--I cuori degli uomini.

--Bella conquista!

--Non l'apprezzate più?

--No, Serra--ella disse, profondamente.

Egli la guardò, ma senza stupore. Si vedeva che non le credeva. Ella
abbassò le palpebre, per celare un lampo d'ira passeggiera nei suoi
dolci, ma anche fieri occhi castani.

--Mi duole, che vi abbiano presentato....--mormorò, poi, quasi
parlando a sè stessa.

--Lo ripeto, non è colpa mia.

--... come se foste un estraneo--ella soggiunse, vagamente--mentre io
ho pensato a voi.... spesso....

--Oh!--disse lui, con una incredulità modesta e cortese.

--... molto spesso--ella terminò, senz'aver l'aria di accorgersi della
sua negazione.

--E come mai?--domandò lui, con un po' d'ironia, niente altro.

--Così--disse Clara tristemente e brevemente.

Giovanni Serra abbassò gli occhi, quasi celando una domanda che si
potea forse leggere nel suo sguardo. Di lontano, mentre attraversava
il salone per pregare una signora di cantare, Anna mandò loro un
sorriso: li vedea discorrere, era contenta di aver bene collocati due
suoi ospiti.

--Voi non credete alle voci interne dello spirito?--ella gli chiese,
guardandolo fiso, con quei suoi occhi che il pensiero rendea più
oscuri.--Voi non avete inteso che io pensava a voi?

--No, signora.

--Non credete a queste voci, o non ne avete inteso?

--Io ci credo, come credo purtroppo, a tutte le cose sentimentali: ma
nulla mi ha detto nulla--e sorrise.

--Peccato! peccato!--ella soggiunse, a bassa voce.

Cantavano, adesso. Era una signora bionda e fine che, in giovinezza,
si destinava al teatro e che un felice matrimonio aveva tolta al
palcoscenico. Ma ella cantava dovunque, sempre, appena le domandavano
di cantare, posando il suo manicotto o il suo ombrellino, levando la
testolina dal colletto di pelliccia che ornava la sua mantellina, come
un uccelletto canoro che vive del suo canto e morrebbe, se non
cantasse. Tutti tacevano, nel salone: donna Clara Lieti ora guardava
la cantatrice, quasi non volendo perdere una espressione di quel
volto, sereno nella soddisfazione del canto. Poi, voltandosi verso
Serra, pianissimo, gli disse, con un sorrisetto malizioso, tutta
mutata nel viso:

--Non vi siete ammogliato, poi?

--Io? E perchè avrei dovuto ammogliarmi?

--Dicevano....

--Voi ci avete creduto?--egli le chiese, mostrando per la prima volta
una ansietà nel viso.

--No, mai.

--Volevo dire--replicò lui, tranquillizzato.

--Mai creduto, mai--riprese Clara, sorridendo.--Poteano passar gli
anni, potevate viaggiare, cambiar paese, cambiar viso, dimenticare la
patria, ma ammogliarvi, no!

E le balenò il trionfo, nel viso. Egli si ritrasse: una espressione di
austerità, di nuovo, gli chiuse il volto.

--Siete fedele, voi--esclamò lei, ridendo.

--Io, sì--replicò, a occhi bassi, duramente.

--Fedele, _quand même_--e rideva sempre più.

--_Quand même_, no, signora Lieti.

--Vale a dire?

--Vale a dire che il fedele _quand même_, è l'uomo che seguita ad
amare, anche se è schernito, o vilipeso, o abbandonato. A me non è
accaduto nulla di questo.

--Come?--diss'ella, diventata grave.

--Io non ho amato nessuna donna frivola o perfida....

--Oh sì, Serra, voi avete amata la più frivola e la più perfida fra le
donne!--ella esclamò, pianissimo, con un velo di lacrime negli occhi.

--Che importa _quella_? Io ne ho amata _un'altra_--egli dichiarò
pianissimo, guardando innanzi a sè, come se vedesse la visione di una
creatura incorporea.

--Ahimè, sono la medesima persona--Clara disse, pianissimo, con una
mortale tristezza.

--Per me, no.

--È una illusione, Serra. Ella era cattiva, e voi avete gittato il
vostro cuore.

--Il mio cuore serba un divino ricordo, un ricordo ideale a cui resta
fedele: e giacchè tutto si riassume e si risolve in illusione,
signora, io preferisco la mia.

--E la donna umana, la donna terrena, quella fatta di ossa, di carne e
di nervi, quella che vi ha fatto soffrire e vi ha fatto piangere,
l'avete dimenticata, Serra?

A questa domanda così diretta, così limpida, che Clara gli faceva, con
voce pianissima, ma tremante, egli rispose subito, pianissimo, ma
senza tremare:

--No, per molto tempo.

--Per quanto tempo?

--Per cinque o sei anni, credo, portai questo tormento. Dopo, ebbi una
grave malattia. Quando guarii, ero guarito anche del mio segreto
tormento.

--Guarito? Completamente?

--Sì, signora, completamente.

--Felice? Felice?

--Sono come un uomo liberato da una grave e crudele croce. Quando la
depone, egli si sente mortalmente stanco: e, forse, si domanda, se
quella croce non era la sua vita.

--Non so che farei, per vedervi felice, Serra--essa gli mormorò,
pianissimo, con tenerezza.

--Quando volete, sapete anche esser buona.

--Non siate così amaro. È da un'ora, che vi parlo con la più grande
dolcezza.

--È così strana, per me, la cosa, che non la capisco.

--Perchè siete così ironico? Non sentite che vi parlo a cuore aperto?

--Quale cuore, donna Clara?

--Il mio cuore.

--Quello di dieci anni fa?

--Quello di oggi, Serra.

--Io non lo conosco, donna Clara.

--È un cuore pieno di umiltà e di tenerezza.

--E perchè?

--Così. Perchè la gente si stanca di essere cattiva, si disgusta della
propria perfidia, ha la nausea di sè stessa!

--Pare impossibile, donna Clara.

--Non mi chiamate così!

--Non è il vostro nome? Il vostro bel nome luminoso e glorioso?

--È il duro nome di altri tempi; chiamatemi: Chiarina.

--Vi chiamerò: signora.

--Non siate così duro, Serra, ve ne prego.

--Io non sono che rispettoso.

--Il vostro rispetto è freddezza, è sarcasmo. Sapete che odio questa
battaglia di freccie avvelenate.

--Signora Lieti, perdonatemi, se vi ho irritata.

--Non mi avete irritata, mi avete addolorata.

--E da quando in qua voi soffrite, signora?

--Ah il dolore è delle più trionfanti creature, sappiatelo!--ella
disse, battendo le palpebre per diradare le sue lacrime.

Giovanni Serra tacque.

--Scusatemi, se vi ho detto qualche parola pungente--egli riprese,
sottovoce.--Ma la vostra dolcezza, inaspettata, improvvisa, mi ha
sconvolto. Perdonatemi. Nessun cuore vi è più devoto del mio, signora.

Ella lo guardò. Il pallore e la tristezza di quel bel volto di cui
egli aveva adorato la gaiezza, lo colpirono. Anna si avanzava, tutta
contenta, attraverso la gente che discorreva un po' qua, un po' là, ma
riunita secondo le simpatie o gli interessi.

--Ebbene, sono rifioriti i ricordi?--chiese, mostrando i suoi bei
denti bianchi di donna grassottella, elegante, fredda e felice.

--Rifioriti, certo--disse, levandosi, Clara.

--Viole mammole? Rose bianche?

--Crisantemi, crisantemi, Anna!--e sulla tetra parola fece una gran
risata, si licenziò con un sorriso da Serra, con una stretta di mano
da Anna, attraversò il salone, salutando ancora qualcuno ed escì.

Donna Clara Lieti, sotto l'atrio del gran portone magnatizio, in
piazza Santi Apostoli, sentì un gran freddo. Erano gli ultimi di
febbraio: ma sovra, nel salone, il caminetto era acceso, tanta gente
vi si agitava, sotto le lampade coperte dai larghi paralumi rosei. Giù
la via era fredda, nella prima ora della sera: nè via Santi Apostoli è
molto frequentata. Ella affrettò il passo, chiudendosi meglio nella
sua giacchetta di lontra, abbassando la faccia sotto la veletta,
stringendo le mani nel manicotto. Tutto quello che era accaduto,
sopra, da Anna, le appariva molto confusamente in questo primo momento
di solitudine; ma a traverso il tumulto delle sue sensazioni, ella
sentiva, nitidamente, tutta l'amarezza di una delusione. Come, perchè?
Avrebbe forse preferito che Giovanni Serra le avesse parlato del
passato, scherzando, come qualunque altro uomo avrebbe fatto,
violando, nella realtà del presente e dell'oblio, tutta la
sentimentalità di un grande e violento amore? No, lo scherzo l'avrebbe
offesa intimamente, dandole una delusione. Avrebbe ella preferito che
Giovanni Serra, l'uomo che ella avea ragione di stimare come il più
leale che avesse incontrato mai, fingesse, innanzi a lei, un rimpianto
che non sentiva? No, ella avrebbe inteso l'ipocrisia e ne sarebbe
stata tristemente delusa. Avrebbe ella preferito che egli le facesse
una scena violenta, come nei tempi in cui ella infliggeva a un amore
giovane, onesto e ingenuo le torture di una glaciale civetteria e le
perfidie di una fantasia muliebre mobilissima? Chi sa! Ella non sapeva
bene che cosa avrebbe preferito, in quell'incontro con l'antica sua
vittima, se l'oblìo assoluto, o la menzogna gentile, o il rinfocolarsi
della passione: ma quello che era accaduto, non le piaceva. Era
scontenta e triste. Sentiva di aver fatto troppi passi sovra un
terreno infido, su cui aveva vacillato varie volte: e si pentiva della
via intrapresa, così, obbedendo a non so quale segreto impulso del
cuore. E dire che da tanto tempo, nel mistero della sua anima, ella si
preparava a un incontro con Giovanni Serra; dire che aveva tanto
desiderato, mitemente desiderato questo incontro e pensato con umiltà,
con tenerezza, tutte le cose umili e tenere che gli avrebbe dette;
dire che ella aveva tanto creduto all'effetto della bontà e della
dolcezza, sovra un cuore che ella aveva abbeverato di fiele!
L'incontro vi era stato, ma stupidamente combinato, senza poesia; ella
aveva detto le cose umili e le cose tenere, ma le aveva dette male ed
egli non le aveva credute; era stata buona e dolce, e non aveva fatto
che tentarlo dolorosamente, rammentandogli i dolori passati. Ah come
era triste, e scontenta, e affaticata, e infinitamente delusa, di
tutto quello che era accaduto!

--Queste cose del passato, _forse_, bisogna lasciarle stare--pensò fra
sè, e un sospiro le uscì dal petto.

Per andare al Corso ella non aveva osato, a quell'ora, prendere la via
dell'Archetto che è deserta e male illuminata: così, aveva
attraversato tutta la via Santi Apostoli, sul marciapiede, uscendo a
piazza Venezia. Pensò se non fosse meglio, per rientrare in casa sua,
in via Babuino, prendere una carrozza. Ma la folla, di quell'ora, al
Corso, la rincorò: la sua vivace immaginazione ricevette una
impressione, immediata, di distrazione.

--Non ci pensiamo--disse ancora fra sè, sentendo in fondo all'anima
una delusione infinita.

Così, camminò lungo le botteghe fulgidamente illuminate, guardando con
occhio distratto le vetrine. Quanto si pentiva di essere stata così
affettuosa e così dolce, con Giovanni Serra! No, non avrebbe mai
voluto apparirgli leggiera, frivola e schernitrice, come dieci anni
prima; ma avrebbe dovuto trattarlo con disinvoltura, ecco, come se
nulla fosse stato. Come un altro indifferente qualunque. Quasi quasi
aveva tentato di farsi fare una dichiarazione d'amore, da lui! Quasi
quasi gliene aveva fatta una, lei! E quello, intanto, glielo aveva
detto così chiaramente, che non l'amava più! E tutto lo scetticismo
naturale e giusto, che egli aveva alimentato nel cuore dieci anni, non
era sgorgato, quando quasi quasi ella gli aveva detto di amarlo! Ora,
nella via, Clara Lieti, soffriva atrocemente nell'orgoglio. Quasi
aveva chiesto e non aveva ottenuto: quasi si era abbandonata ed era
stata respinta. Un'ira si mescolava alla delusione; ella camminava più
presto, internamente esaltata dalla ferita che aveva scoperto alla sua
superbia. Poi, camminando, ad un tratto, l'ira cadde:

--Bene mi sta--pensò.--Raccolgo quel che ho seminato. Giovanni ha
ragione.

Un uomo la raggiunse: erano in piazza San Marcello.

--Signora, buonasera....--e si cavò il cappello, mettendosele accanto.

Era Giovanni Serra. Un po' pallido, niente altro.

--Buonasera--ella rispose, con voce stanca.--Siete venuto via?

--Sì: avrei voluto scendere con voi di là.... ma siete fuggita,
così.... e poi, si poteva notare....

--Oh, non importa!--diss'ella con un sorriso amaro.

--A me, importa.

La voce di Giovanni pareva meno breve, meno secca. Evitava di guardare
Clara.

--Posso accompagnarvi, un poco?--le chiese, frenando il tremore di
emozione che lo vinceva.

--Sì, sì, anche molto.

--Non seccherà nessuno?

--Chi, _nessuno_?

--Qualcuno che vi ami e che voi amiate.

--Io non amo nessuno e nessuno mi ama, Serra--ella rispose,
freddamente.

--Non è possibile, signora.

--Oh è possibilissimo, credetelo.

--Voi mi parete una donna degna dell'amore di tutto il mondo--e la
guardò con un impeto di ammirazione, in cui parve risorgesse l'uomo di
dieci anni prima.

--Siete stato sempre molto esagerato, per me, Serra--continuò ella a
dire, con un freddo e triste sorriso--e mi avete abituata male. Vi
assicuro che la gente fa di meno di amarmi, senza nessuno sforzo.

--Non vi conoscono--egli disse, a bassa voce.

--Anche chi mi conosce. Specialmente chi mi conosce.

--Siete in un periodo di pessimismo, signora.

--In verità, Serra, niuno pensa di me tutto il male che io ne penso. E
sì che tutti mi giudicano assai mediocremente.

--Non parlate così--egli mormorò.

--Voi stesso, Serra.

--Io ve ne domando perdono. Ero tanto turbato.... mi avete parlato in
un modo così strano....

--Già: è la mia nuova maniera, quella di esser buona--disse Clara, con
un sorrisetto amaro e gelido--ma mi riesce poco, come vedete.

--Fare il male, vi piaceva di più?--egli le chiese, chinandosi a
guardarla attentamente, come quando gli parea intravvedere la verità
di quell'anima femminile.

Ma ella schivò la confessione. Rispose, di scatto:

--Piaceva di più agli altri.

--La perfidia? A chi, dunque?

--A voi.

--A me?

--Proprio. Se io fossi stata una buona e affettuosa donnina e non una
civetta infernale, se fossi stata un'anima pia e tenera e non una
beffarda e arida creatura, mi avreste amata ben poco, credetemi--e le
lampeggiarono gli occhi, come in quei tempi in cui egli delirava per
quegli occhi.

--Se voi foste stata non buona, ma umana, semplicemente umana,
Clara--egli disse, a voce bassa--allora, voi non avreste disfatta la
mia vita.

--Veramente, disfatta? Mi sembra che stiate benissimo--e sogghignò.

--Io non mi lagno, signora--rispose Serra, semplicemente, ma senza
durezza--e non vi rimprovero.

Ella lo guardò, in silenzio. Veramente, in quel momento, mentre
attraversavano piazza Colonna tutta fulgida di lumi, Giovanni Serra le
parve invecchiato. Su quegli occhi azzurri che ogni tanto aveano
qualche cosa d'infantile, parea che veli e veli di lacrime fossero
passati, nell'ombra e nella solitudine, quando l'uomo può lasciar
erompere il suo dolore, oltre le dighe della fierezza. Su quelle
labbra si era posata una stanchezza che ella soltanto ora scorgeva, la
stanchezza di aver invano chiamato un nome, di aver invano invocato un
bacio, di aver invano singhiozzato, nelle ore solinghe dell'abbandono.
Per la prima volta, e con una intensità profonda, ella sentì che vi
hanno ferite che non si chiudono mai, e sentì che il tempo può portare
via una vita, ma non può portare via un dolore da un uomo vivente.

--Quanti anni avete, ora, Serra?

Ella lo chiedeva, così, vagamente, tristemente.

--Trentaquattro, signora.

--Un uomo è giovane, a questa età.

--Anche una donna--egli disse, cortesemente.

Clara ebbe un lieve moto della testa. E con una infinita tristezza,
soggiunse:

--Io non ne ho più trentaquattro, amico mio.

--No? Non eravamo coetanei?

--Eravamo? Non siamo più. Io ho centotrentaquattro anni, credo. È
incalcolabile quanto io sia vecchia, Serra.

E mentre ella si abbandonava a quest'asserzione, piena di un vero
dolore--ella soffriva moltissimo d'invecchiare--tendeva l'orecchio, a
raccogliere la contraddizione. Ma egli non contraddisse; disse, con un
ritorno di candore ammirativo:

--Per me, non sarete mai vecchia.

--Vecchissima, vecchissima!--insistette lei, a denti stretti.

--Non dite questo, non lo credete: io non lo credo.

--Io ho dei capelli bianchi, fra i neri.

--Ma non si vedono: io non li vedo.

--Perchè li nascondo o li mostro con disinvoltura. Se mi guardate
bene, di giorno, ho una quantità di piccole rughe, accanto agli occhi
e accanto alle labbra.

--Non si vedono; io non le vedo.

--Perchè rido sempre. Ma se sono triste, non so come, i miei capelli
bianchi appariscono subito e le mie rughe si vedono tutte, sottili,
che tagliano leggermente la pelle, visibilissime. Che orrore!

Aveva detto questo in fretta, eccitata, come una persona che si
confessa di un suo grave errore, piena di dolore, con una brutalità di
particolari, che le rendean fischiante, quasi flagellante la voce.

--Io vi vedrò sempre come vi ho amata, Clara--egli le rispose, con la
sua buona voce consolante.

--Ah io sono vecchia, Serra: nessuno mi ama più e nessuno mi amerà
più!--gemette ella, levando il manicotto, sino alla bocca, a soffocare
un singhiozzo.

Turbato sino al profondo del cuore, egli non trovò parole per
esprimere il suo pensiero. Forse non ne aveva neppure uno preciso, in
quell'agitazione di sentimenti. Delicatamente, con una tenerezza
paterna, egli le prese una mano guantata e la carezzò fra le sue:

--Poveretta, poveretta!

--Se sapeste, se sapeste!--ella balbettò, al massimo dell'emozione.

--So.... so qualche cosa....--e il calore della piccola mano che egli
sentiva, dall'apertura del guanto, aumentava immensamente la sua
confusione.

--Se potessi dirvi.... amico mio.... se potessi dirvi tutto--ed
affannava, come se i più terribili segreti la soffocassero.

--Tacete.... non dite niente--egli le susurrò, all'orecchio.

--Che bene mi farebbe il parlare, amico mio! ah io mi sento affogare.
Da anni e da giorni, io vorrei gridare, urlare, pur di gittar via la
mia pena.

E lo guardava con occhi così dolorosi e così interrogativi, così
invocanti un orecchio pietoso alle confidenze, che egli si arretrò.
Era pallidissimo: ma Clara, nell'egoismo della sua angoscia, non se ne
accorgeva.

--Non potrei ascoltarvi, Clara.

--E perchè, e perchè?

--Così: non potrei.

--Non mi siete amico, allora?

--Sì, vi sono amico--e parlava con un evidente sforzo.

--E non vorreste confortarmi?

--Vorrei, vi giuro che lo vorrei; ma così, non posso.

--Che crudele siete! Voi sapete che se io potessi dirvi la mia croce,
essa sarebbe meno schiacciante, meno pesante; voi sapete che se io
potessi piangere accanto a voi, a lungo, a lungo, piangere
immensamente, infinitamente, queste lacrime mi laverebbero da ogni
torbido proposito: e mi negate questo sollievo. Ah siete un crudele!
Non eravate, crudele!

Si erano fermati all'angolo di via Babuino, dopo aver attraversata
piazza di Spagna. Egli la guardava, immobile, con gli occhi pieni di
dubbio.

--Ma che donna siete voi, Clara, che non dovete intendermi nè prima,
nè poi? Io, vi debbo consolare, quando tutto il tempo della vostra
gioia è stato dato ad altri? Io? Chi sono io? Niente, nessuno Così
avete voluto che io fossi: niente e nessuno.

--Avete ragione--ella disse, domata a un tratto, caduta nella
rassegnazione e nell'umiltà.

--Non vi rammentate che vi ho adorata come uno schiavo e che avete
battuto sul mio cuore, come si batte sul dorso di uno schiavo? Non vi
rimprovero, non mi lamento: ma voi mi domandate anche della pietà, voi
che non ne avete avuta mai!

--Avete ragione--Clara ripetè, umilmente.

--Vi rammentate, Clara, che vi ho voluto bene così teneramente e che
non me ne avete voluto mai? Vi ricordate che avete lasciato che io vi
amassi, incoraggiandomi talvolta, talvolta avvilendomi, facendomi
passare dalla gioia alla disperazione, in un giorno, e non volendomi
bene mai, mai, nè prima, nè dopo, nè mai? È vero, o no?

--È vero, è vero--ella annuì, chinando il capo, fatta quasi più
piccola dall'annichilimento, in cui la gittavano il rimorso e il
rimpianto.

--Vi rammentate, Clara, che ne avete amato un altro, me presente, che
avete voluto che io lo sapessi, che me lo avete detto, ridendo?

--Sì, sì, è vero.

--E ora, Clara, ora che sono passati dieci anni, ora che voi avete
mutato il vostro cuore, come dite, ora voi siete come allora, voi
volete che io vi conforti, perchè un altro vi ha lasciata. Voi siete
crudele come in quel tempo, Clara: allora ridevate, adesso piangete,
ecco la differenza!

--Scusatemi--ella mormorò, nel colmo dall'avvilimento.

--Ma io sono un uomo, Clara, e se posso avere spezzato il mio cuore,
se posso aver vinto ogni desiderio e ogni speranza, sono sempre un
uomo, e voi non mi potete raccontare i dolori, che vi ha dato l'amore
di un altro!

--Perdonatemi!

E fece l'atto di volergli prendere la mano. Ma egli la ritrasse.

--Non mi avrete capito, mai, Clara. Morirò, ma non saprete nulla di
me--concluse egli, più freddamente, essendo giunto quasi a vincere la
sua emozione.

Così camminarono in silenzio verso la casa di Clara. Ella andava a
capo basso, sentendo di avere errato ancora, di avere inutilmente
violato la fierezza del proprio cuore, mostrandone il segreto dolore,
a un uomo che non poteva avere pietà di lei: sentendo di avere
nuovamente offeso quel cuore che era stato così intieramente suo e che
ora non aveva più forza pel desiderio, avendone solo per la dignità.
Più amaro crebbe in lei il rimpianto, comprendendo di essere passata
accanto all'amore, alla devozione, alla dedizione più completa, senza
accorgersene, abbandonando alla solitudine, all'angoscia questo cuore
inutilmente devoto e inutilmente affezionato. Era troppo tardi,
oramai, anche per far risorgere in questo cuore una mite affezione:
troppo tardi, per ridare a questo cuore la bella luce della fiducia.
Due volte, quasi fosse sola, ella fece un piccolo cenno definitivo,
con la mano aperta che pendeva lungo la gonna e le cui dita pareva
avessero lasciato andare un piccolo e prezioso tesoro. Camminavano
accanto: ma ella che non aveva mai capito chi egli fosse, intendeva
che le loro strade erano diverse. Quando furono innanzi al portone, si
fermarono. Egli aveva l'aspetto più stanco che mai; ma niuna durezza
vi fu nello sguardo con cui la fissò.

--Buonasera--ella disse, con un'intonazione monotona.

--Buonasera--egli rispose, cavando il cappello e facendole un grande
saluto.

Ma non si lasciarono subito. Parea che si dovessero dire qualche altra
cosa. Parea che ambedue sapessero di non doversi veder più e che una
qualche cosa, più intima, più misteriosa, si dovessero dire. Ella gli
stese la mano: egli la rattenne un poco fra le sue, ma senza
stringerla. Ambedue sedavano a stento il tumulto delle loro anime.
Poi, a un tratto, egli le domandò una cosa strana, impensata:

--Che fate ora, sopra?

--Io? Nulla.

--Qualcuno vi aspetterà?

--No. Nessuno.

Il tono era della più perfetta franchezza.

--E voi, che fate?--chiese ella con eguale incoscienza.

--Vado a casa.

--A casa! E che ci farete?

--Non so.

--Buona sera, Giovanni--ella mormorò, facendo per andarsene.

Ah, quale sussulto, lo scosse! Ella che aveva sempre trovato
antipatico, brutto, volgare il suo nome di battesimo, tanto che egli
aveva finito per odiarlo, ella lo pronunciava adesso, dopo dieci anni,
con tanta soavità! Egli s'inchinò e le baciò la mano, leggermente. Si
guardarono: ella volse le spalle; pian piano entrò nel portone,
cominciò a salire le scale. Non era forse incerto il passo della
donna, salendo per quelle scale, alla sua casa deserta? Il passo
dell'uomo era incerto, andando alla sua casa deserta.



II.


Ella lo ricercò, dopo soli tre giorni: ed egli che l'aveva fuggita per
quattro o cinque anni, da quando Clara, dopo un lungo viaggio, era
ritornata in patria, egli si lasciò ricercare e tenne l'invito.
Fatalmente, Clara era troppo sola e troppo libera, adesso. Gli aveva
scritto un biglietto fra il malinconico e scherzoso, per dirgli che la
sera istessa sarebbe andata al vecchio teatro Argentina, dove
cantavano una vecchia musica, l'_Armida_, di Glück. Ella vi arrivò
prima. Vi era un gran ballo, quella sera, all'Ambasciata
d'Inghilterra, e tutta la grande società romana era colà: l'Argentina
era quasi vuota, male illuminata, freddina: pochi amatori di musica
antica stavano nelle poltrone, immobili, a pregustare le melodie
incantatrici. Clara era vestita di nero: stava in un palco di terza
fila, di fianco, scelto apposta: una veletta nera le scendeva dal
cappellino molto semplice e molto carino. Così, sembrava più piccola e
più giovane. Serra tardò. Due o tre volte, ella pensò che non sarebbe
venuto e si pentì di avergli scritto. Aveva la più ferma volontà di
essere umile e schietta, ma il suo amor proprio dava dei sobbalzi
all'idea di un rifiuto sprezzante. Però, quando egli entrò, senza far
rumore, ella chiuse gli occhi, a nascondere la gioia del suo sguardo.
Ella si voltò, gli sorrise e gli stese la mano:

--_O ma belle ténébreuse_....--egli disse, con una certa disinvoltura.

Il tono disinvolto durò così, un pochino. Poi, a lui sfuggì una frase
pericolosa:

--Io non voleva venire....

--E perchè?

--Mah.... per paura.

--Paura di chi?

--Di voi.

--Di me? Paura?

--Me ne avete sempre fatta un poco, Clara.

--Io sono una povera scema--diss'ella, con la più perfetta umiltà--io
non faccio paura a nessuno.

Ed era umile e semplice, nello stesso tempo: e una gran bontà le si
leggeva negli occhi, nel sorriso, trapelava nella sua voce. Gli parve
piccolina, così giovane e sempre così cara! Pure, volle dire
quest'altra cosa lui:

--Credevo che non sareste venuta....

--Io? E perchè?

--Per farmi soffrire....

--Io vorrei che foste l'uomo più felice della terra, amico
mio--esclamò ella, con una sincera convinzione.

Giovanni ebbe un sorriso malinconico. Disse, di nuovo:

--Sì, sì, ho creduto che non sareste venuta....

--Come avete potuto credermi così cattiva?

--Il mio animo è così combattuto dai dubbi, Clara--e il volto gli si
turbò.

--No, no, non parliamo di ciò--ella replicò, subito,
interrompendolo.--Fa male ad ambedue.

--È vero--egli consentì. Un sospiro di sollievo gli uscì dalle labbra.
Ma il pessimo demonio che si annida nelle anime buone e le fa
tormentate e tormentatrici, gli fece soggiungere:

--Mancavate così spesso ai convegni, allora!

Ella guardò sul palcoscenico, un momento. Lo chiamò, poi:

--Giovanni?

--Che volete?

--Mi fate un piacere?

--Sì, subito.

--Vogliamo lasciare in pace il passato? Vogliamo non amareggiarci
qualche ora graziosa, che possiamo passare insieme? Vogliamo essere
anche per un mese, anche per una settimana, anche per una sera, due
cari amici che si ritrovano, che non ricordano più i torti comuni, i
torti di uno, è più giusto, e che si dànno, ingenuamente, alla
serenità e alla letizia di un colloquio senza ira e senza malintesi?
Vogliamo?

--Potremo noi far questo?--chiese Giovanni ansiosamente.

--Se voi lo volete, sì.

--Io lo voglio, Clara.

E quetamente, tirandosi un po' indietro, i due si posero a discorrere
sottovoce, guardandosi con dolcezza, l'uno prendendo la parola
dall'altro, senza mai alterarsi, senza mai alzare il tono della voce,
mentre la soave musica glückiana che culla l'incantesimo del cavalier
Rinaldo, pareva cullasse quel dialogo così mite e così dolce. In
verità, Clara fu perfetta, quella sera. Giustamente malinconica, ella
seppe a tempo sorridere, perchè il loro colloquio non cadesse nella
tetraggine, dove sarebbero risorti gli amarissimi ricordi del passato:
e tutta una dolcezza fioriva dalla sua malinconia e dal suo sorriso,
dalle sue parole come dal suo silenzio. Più, dal suo silenzio. Giacchè
ella lasciò molto che parlasse lui, con le manine inguantate di nero
congiunte sul suo ventaglietto a stelline d'argento, con il viso
intento dietro il sottil velo nero, con gli occhi placidi e dolci, con
la bocca tranquilla e dolce che approvava, con un gentil motto delle
labbra. Sovra tutto, ella non rise mai. Si rammentava che egli, dieci
anni prima, nei tempi dell'amore e del tormento, detestava quel suo
riso squillante e clamoroso che le scopriva tutti i denti bianchi, che
dava un non so che di feroce alle labbra rosee e che le riempiva gli
occhi di scintille. Lo aveva tante volte visto fremere e impallidire,
dieci anni prima, a quel mal riso beffardo e aveva sempre più riso,
per ucciderlo a forza di risate, come in una leggenda! Non rise mai,
quella sera, mentre Armida cantava le sue magiche canzoni, che davano
le visioni ineffabili al sonno di Rinaldo. Lo ascoltò, serena,
raccolta, con un'attenzione così dolce, che l'animo di Giovanni,
restato in grande trepidanza sino all'entrata in teatro, si venne
rassicurando, rianimando, rallegrando. Due o tre volte,
involontariamente, egli alluse al passato, giacchè troppo il suo amore
mancato aveva influito sulla sua esistenza, deviandola, torcendola ad
altri ideali dello spirito, più alti, più inaccessibili e più
tormentosi. Ma ella, dolcemente, non rispose alle allusioni che con un
cenno di umiltà, abbassando il capo: ed egli si riprese subito,
commosso da tanta dolcezza. Solo a vederla così, ascoltatrice intenta
e cheta, tutta data alle parole che, egli le diceva, coi begli occhi
limpidi nella loro nerezza, piccola, vestita di nero, senza gioielli,
senza nulla che sfolgorasse, senza nulla che stridesse, egli si sentì
invadere da una tale letizia dell'anima che giammai gli parve di
averne provata una simile. Ella fu, in questo, perfettissima: giacchè
lasciò svolgersi quell'alta consolazione spirituale, senza avere
l'aria di sospingerla, di provocarla, di goderne come di un trionfo: e
quando lo spettacolo finì, si levò in piedi, pian piano, prendendo il
suo mantello. Egli fu più lesto di lei: ed ella sentì che mentre
l'aiutava ad indossarlo, le sue mani tremavano. Allora, ella ebbe un
pensiero orgoglioso, muliebre. Pensò:

--Ora mi dà un bacio.

Egli s'indugiò a metterle questo mantello ed ella sentì il suo
respiro, sulla sua nuca: ma Giovanni non le dette il bacio. E come
Clara aveva nascosto la sua subitanea ambiziosa idea, così nascose la
sua pronta delusione. Nè fu una delusione fortissima. La dolcezza di
quella serata, aveva ingannato anche lei. Ella sapeva bene di fare uno
sforzo su sè stessa, per reprimere gli impeti del suo temperamento
bizzarro e per essere assolutamente dolce: ma sperava di poter
continuare così, sempre che lo volesse seriamente. E come lui credeva
di aver innanzi una creatura trasfigurata, che gli avrebbe dato le
fredde, tranquille e ultime tenerezze senz'amore, ma tenerezze sicure
di un'amicizia muliebre, così ella si lusingava di poter essere questa
amica gelida, affettuosa e quieta.

Però, ambedue, chiudendo gli occhi, si lasciarono andare a questa
consolante fiducia. Egli cominciò a vederla più spesso. Ella era molto
stanca, invincibilmente stanca della vita mondana che aveva fatta
sempre: e si appartava volentieri. Se andava a una passeggiata, era in
ore strane e in posti deserti: lo avvertiva, egli ci veniva. Se andava
in un teatro era alle terze rappresentazioni, in serate vuote; e dieci
minuti dopo il suo arrivo, entrava lui, nel palco, si sedeva in fondo,
ella si tirava indietro, un poco. Vestiva di scuro, sempre; sapeva di
piacergli così. Si può essere una semplice amica, ma si deve piacere
all'amico. Parlavano con fredda tenerezza. Molto ella ascoltava: ma
quando diceva qualche parola, era sempre sapiente, detta con la più
squisita cautela sentimentale. Giammai un'allusione al proprio cuore,
al proprio stato, nè diretta, nè indiretta: sempre la massima pietà
per gli altri, la massima indulgenza per ogni peccato, come chi sa che
è impossibile non peccare, quando si deve peccare. Egli si era mutato,
però. Non poteva tenere il patto di non evocare il passato. Era la sua
vita, il suo amore di dieci anni prima, e ricompariva sempre più
spesso, fino a che divenne il solo soggetto dei suoi discorsi. Taceva
da tanti anni e con tutti, che ora la verità di quella mortale
passione sgorgava infrenabile. Ella ascoltava, stupefatta; ma non
interrompeva mai. Veramente, egli aveva ragione: Clara non aveva mai
capito quanto era stata amata: ora, lo capiva. Ogni tanto, quando egli
le diceva una delle sue torture ineffabili di gelosia, di allora, ella
faceva un atto come per chiedere perdono, un atto in cui ella si
dichiarava colpevole, sì, ma incosciente, ma ignorante, ma degna di
perdono. Egli la guardava con tanta tenerezza, che, senza parlare, le
diceva di averle perdonato. Quando egli si meravigliava che ella
avesse potuto essere così atroce, essa gli diceva di esserne stupita,
di stupirsene, lei stessa: e ciò come se si parlasse di una donna
assente, di cui si compatissero gli errori. E quando egli giungeva a
narrare certe ore terribili in cui avrebbe voluto morire, pure di
strapparsi dal petto questo amore, ella aveva una frase di pietà
profonda, intima, raumiliata, la frase del carnefice pentito innanzi
alla sua vittima:

--Voi siete buono.

Niente altro, diceva. Ella non si difendeva mai, nè si accusava:
quando egli l'accusava, gli dava ragione, con un'occhiata, con un
triste sorriso, con un cenno espressivo della bella bocca. Vi era un
ritornello, che egli pronunziava sempre, nervosamente, a traverso i
suoi racconti scuciti; un ritornello che rivelava l'attossicamento
della sua vita, in tutte le sue più pure sorgenti, l'avvelenamento
crudele di un sangue giovane e di un'anima, resa inetta a vivere e
incapace di morire così. Il ritornello:

--Che veleno mi avete dato, che veleno!

Quando ella lo udiva, aveva un moto così pessimista della testa e
della persona, sulla crudeltà muliebre, che egli si commoveva.
Talvolta, tornava la frase:

--Quanto veleno, Clara, quanto veleno!

Ella diceva, allora, umilissimamente:

--Avete ragione.

Ma da questa sua umiltà voluta, e poi quasi fatta naturale, nei loro
colloqui, da questo suo abbassarsi nella coscienza dei suoi gravi
torti, da questo non difendersi giammai, da questo dargli ragione,
sempre, da questo racconto triste e violento di un amore
infelicissimo, ella trasse una nuova sensazione e un nuovo sentimento.
Il senso della sua colpevolezza, verso Giovanni, giganteggiò ai suoi
occhi: e il sentimento della riparazione divenne acuto e ardente,
quanto era stata la colpa.

Così, mentre Giovanni risaliva tutta la piena della sua grande
sciagura sentimentale e con la sua sensibilità fine e tenera ne
approfondiva, narrandoli, tutti i dolorosi particolari, Clara che
aveva un temperamento più fantastico che sensibile, esagerava, con una
dura voluttà di abbassamento, contro sè stessa, la propria aridità
passata e l'atroce perfidia. Tanto che, alla fine, secondandolo e
sorpassandolo ella, ambedue sembrarono accanirsi contro una persona
assente, lontana, morta, che ad ambedue avesse commesso i più gravi
torti. Anzi quella lunga istoria intima, tenuta chiusa nel cuore per
dieci anni di esistenza triste, priva di spirituali conforti,
traboccando dalle labbra di Giovanni perdeva molta amarezza, nello
sfogo: e la naturale indulgenza di quel cuore virile che non sapeva
dimenticare, ma sapeva perdonare, trovava delle misteriose scuse alla
donna che era stata con lui senz'amore, senza carità, senza pietà.
Invece, quella medesima istoria, a Clara sembrava più lugubre e più
ignobile che mai, quando ella pensava il come e il perchè della sua
perfidia e della sua durezza. Internamente, ella si maltrattava, molto
più che Giovanni l'avesse maltrattata mai, nei momenti di maggior
furore. Ogni tanto, quando egli le aveva descritto una delle sue sere
tragiche, di quel tempo, quando egli passeggiava le serate intiere
sotto la sua casa, non per vederne le finestre illuminate, giacchè
ella era fuori, a ridere, a divertirsi, ma per aspettarla quando
tornava, per vedere con chi tornasse, per vedere il suo bianco volto
nella oscurità, per udire quel riso alto e beffardo e per
allontanarsi, non salutato, non riconosciuto, non visto, non
rammentato, egli, col più tenero dei rimproveri, le prendeva le mani e
le chiedeva:

--Come avete potuto essere così cattiva?

Ella non s'inteneriva, col viso chiuso, con le sopracciglia
aggrottate, piena d'ira e di disprezzo contro questa Clara tanto
colpevole, e rispondeva, duramente:

--Io sono stata sempre cattivissima.

--Chi sa....--mormorava lui, nella semplice clemenza del suo
animo--chi sa per quali strane ragioni....

--Non v'illudete, Giovanni: per nessuna misteriosa ragione. Non vi
fate di me una figura romantica. Io ero civetta, volgare e cattiva
come l'ultima delle donne, ecco tutto.

--No, no, cara donna, non vi avvilite così--soggiungeva lui, colpito
dai più bizzarri sentimenti, in contraddizione--io non voglio che vi
avviliate. Forse, io fui ingiusto: forse, sono ingiusto ancora adesso.
Chi soffre, chi ama, è così facilmente ingiusto.

--Voi siete il più onesto e il più buono fra gli uomini--ella
rispondeva, con gli occhi velati dalle lacrime.

Tacevano. Spesso, in quel periodo acuto di reminiscenze, mentre
Giovanni si lasciava andare alla immensa consolazione di parlare del
suo amore passato, egli intravedeva confusamente, in queste tenere e
tristi confidenze, non so quale pericolo. L'intensa attenzione con la
quale Clara lo ascoltava, la squisita furberia sentimentale con cui lo
interrogava, i suoi silenzii pieni di una repressa emozione, a un
tratto facevano risorgere tutti i suoi dubbii e la sua anima
sofferente si rigettava indietro, sgomenta di essersi troppo
abbandonata. Spesso, diffidente vagamente, egli tentava di togliere il
discorso, dicendo che questi ricordi lo turbavano troppo: ma ella
l'obbligava, prima con la dolcezza, poi con una certa energia di
volontà coperta di dolcezza, a ritornare alla triste istoria. Una
sera, in una passeggiata al chiaro di luna, gli disse:

--Ditemi tutto. Forse mai più ci potremo vedere così liberamente e
così spesso: forse, fra una settimana, fra un giorno, non ci vedremo
più. Dite, dite, che io sappia, che io non muoia senza aver saputo,
che qualcuno mi ha veramente amata.

--Potremmo non vederci più, Clara?

--La vita è oscura--ella rispose, profondamente.

Forse, per questo, ella moltiplicava gli incontri, dandogli sempre dei
nuovi convegni, ansiosa, affannosa, come se il tempo le fuggisse, come
se ella avesse qualche misteriosa chiamata altrove e che la
presentisse. Ella arrivava più presto, portando dei fiori nelle mani,
come era il suo costume, un po' pallida sempre, sotto le fini velette
nere, vestita quasi sempre di nero, piccola, con un viso che si levava
verso lui, esprimente una immensa ansietà negli occhi dolci che egli
aveva adorato, nella bocca ancora fresca e vivida che era stata la sua
adorazione. Si stringevano appena la mano e si mettevano accanto,
passeggiando piano, non vedendo nessuno, andando per le vie più strane
e più remote, perdendosi per ore intiere, parlando di quel passato che
ella evocava, con un motto, con un gesto. E più il tempo trascorreva,
più cresceva in lei, in duplice corrente spirituale, un infinito
rimpianto per il passato e un acuto rimorso. Di lontano, questo amore
di cui ella aveva riso, in pubblico, questo amore di cui ella si era
burlata, come una pessima femminetta, questo amore per cui ella aveva
avuto il più palese disprezzo, questo amore si faceva più alto, più
puro, più spirituale, staccato dal tempo e dallo spazio, sciolto dalla
realtà dei fatti. In certe sere, in cui lui la riaccompagnava a casa,
sino al portone, non volendo mai salire sopra--non voleva salire, era
inflessibile, non voleva metter piede in casa sua--dopo aver ancora
chiacchierato a lungo, nell'ombra, ella saliva sopra, così smorta che
pareva svenisse. Nella casa non vi era che un sol lume, nella sua
stanza da letto; ed ella l'attraversava, questa muta e deserta casa,
all'oscuro, a tentoni, guardando nell'ombra. Ma quando giungeva nella
sua stanza da letto, ella si gittava sul letto, col capo nascosto nei
cuscini, piangendo, singhiozzando, sull'irreparabile:

--Che ho fatto, che ho fatto! Che amore ho perduto, per sempre, per
sempre!

Acuto rimpianto e acuto rimorso! Essa, forse, nel furore contro sè
stessa, esagerava, dipingendosi come l'anima femminile più turpe
comparsa nella gran falange muliebre; ma non era men vero che la
esistenza di Giovanni Serra era stata infranta da quella passione
infelice, tanto che egli non aveva raggiunto, come il suo cuore e il
suo talento meritavano, nè la gloria, nè la felicità: non era men vero
che egli era un essere senza molla interna che lo spingesse, senza
desiderii e senza speranze: non era men vero che, per questo amore,
egli aveva gittato la sua salute, la sua gioventù e la sua fortuna:
non era men vero che egli possedeva la più preziosa qualità umana, che
è l'onestà, e la sublime virtù che è la bontà. Come non doveva Clara
piangere, nella solitudine della sua stanza, tutte le più ardenti e le
più amare lacrime su questo amore perduto e su questo cuore infranto?
Come non doveva sentire in sè, temperamento mobile e violento,
assetato di amore, assetato di felicità, la ribellione contro
l'irreparabile?

Invero, si trovava di fronte all'irreparabile: ed era quello che le
faceva torcere le braccia, nella notte, quando per tutta una serata
ella aveva udito il mormorio dell'amore, al suo orecchio, ma di un
amore finito, morto. Giacchè ogni parola, ogni frase di Giovanni
Serra, pur restando nella più fine gentilezza da uomo a donna, pur
avendo la poesia della tenerezza, diceva a Clara, che egli non l'amava
più. Invano ella, con l'animo ansioso--era questa, la sua
ansietà--interrogava ogni tono di voce, scrutava il senso riposto di
ogni motto, rifaceva, da sola, tutto il loro dialogo, per scoprirvi
una sottil luce presente. No, non l'amava più, malgrado la commozione
che egli aveva, sempre, nel lasciarla, nel rivederla, malgrado il
fascino che subiva, malgrado la gran tenerezza che dominava ogni suo
atto. Amore vissuto tanto tempo e così ardentemente e ora sepolto
sotto un mucchio di gelida cenere che una mano andava smovendo, mano
sapiente che conosceva la storia di quel fuoco e di quella vampa e che
la rievocava, sulla fredda cenere. Giovanni non parlava quasi mai del
presente, con un atto di finezza d'animo, quasi dolendogli di non
poter ancora ardere come prima, quasi sembrandogli un'offesa al suo
idolo, la fiamma spenta e le ceneri gelate. Non diceva nulla, ma si
capiva così chiaramente, che nulla più, più nulla, non la più piccola
scintilla ardeva innanzi alla cara donna, simulacro vano della
passione, morto, come la passione era morta. Ed ella, sì, singhiozzava
nelle sue notti senza sonno su quella grande fiamma spenta, sentiva di
essere passata accanto alla felicità senza vederla, allontanandosene
per sempre, ma esclamava, fra l'inutile pianto:

--Ha ragione, di non amarmi più, ha ragione: egli soltanto ha ragione,
egli che ha amato!

Ma da queste nascoste battaglie dello spirito che Clara combatteva,
con tutto l'impulso di una natura appassionata, sebbene fugace; da
questa umiliazione in cui la sua anima era caduta, tanto che parea si
prostrasse innanzi a Giovanni Serra; da questo indicibile rimpianto
dell'amore, acutissimo in una donna che aveva amato l'amore sovra
tutte le cose umane e a cui l'età non calmava l'anima; da questo
tormentoso rimorso che si sollevava da tutti gli istinti di giustizia
e di equità offesi, sorse dentro Clara una impetuosa volontà di
correggere e di vincere il destino. Ella pensò, questo: che era suo
dovere morale amare Giovanni Serra, di un amore profondo e devoto che
fosse l'estremo della sua vita, e in cui ella prodigasse tutte le
ultime e supreme dolcezze del suo cuore; che non solo era suo dovere,
ma che era questo il suo desiderio sentimentale più forte, più
immediato, più irresistibile; che non solo era un desiderio
irresistibile, ma che era, questo amore, la più cara speranza del suo
cuore che voleva lavarsi, che voleva purificarsi e diventar nuovo e
candido come il cuore del Salmista; che non solo era la sua più cara
speranza, ma che era la salvazione della sua dignità di donna,
l'assoluzione dei suoi errori trascorsi, la vecchiaia percorsa senza
più sentire rimorsi, aspettando serenamente la morte. Sorto dalle ire
soffocate e dai profondi disprezzi di sè stessa, questo pensiero di
amore l'avea in un baleno soggiogata e tutta l'anima ebbe il calore
del metallo in fusione. Nessuna voce interna l'avvertì di non mettersi
a questo periglioso passo, nelle sue condizioni, alla sua età, con un
uomo come Giovanni Serra: e se talvolta, un nero presentimento la
colpì, a traverso le esaltazioni del suo entusiasmo, se il negro
presentimento le susurrò che ella si avviava a un errore anche più
fatale e anche più irrimediabile degli altri, ella ebbe il cenno
disperato di coloro che sono ebbri di sacrificio.

Giovanni non l'amava più: è vero. Che importava? Il suo cuore di donna
che ella aveva sentito morto, duro come una pietra, per tanti anni,
dentro il suo petto, ardeva di un sentimento dove tutto era elemento
di ardore, il rimorso, il rimpianto, la pietà, la tenerezza, il
bisogno di devozione, il bisogno di darsi, il bisogno di abbandonarsi.
Che importava che Giovanni Serra non l'amasse più? Ella voleva amarlo
così profondamente, così piamente, con tanto completo abbandono di
ogni amor proprio e di ogni orgoglio, con tanto perfetto oblio di ogni
vanità e di ogni altro istinto mediocre umano, che tutto il dolore
passato sarebbe pagato da questa immensa abnegazione amorosa. Ella
voleva espiare il suo passato, soffrendo come egli aveva sofferto,
dando il suo cuore a un essere che non poteva più amarla; voleva
espiare di non avere amato, amando senza speranza, solitaria anima che
recitava un monologo appassionato e doloroso. In fondo, come per tutti
i grandi penitenti, la sua espiazione sarebbe stata anche il pascolo
della sua anima. Oramai, la sua esistenza di donna era deserta. Aveva
trentaquattro anni: e nell'abbandono in cui era caduta, si sentiva
assai più vecchia, incapace di tentare un'altra volta l'ignoto
dell'amore. Era stata molto amata, due o tre volte: ma fatalmente,
questi amori si erano dileguati, come se mai fossero esistiti: e due
volte ella aveva dato il suo cuore, e due volte era stata abbandonata.
Esistenza finita, dunque, giacchè le illusioni non risorgono mai dalla
loro tomba: e le stanchezze morali sono più forti di quelle fisiche.
Che restava a Clara, se non questa ultima speranza di potersi dare a
un sentimento vivido e duraturo, a null'altro simile, senza fallacie e
senza disfatte? La sua espiazione, quella di voler amare Giovanni
Serra, era anche la sua salvazione, giacchè ella sapeva di non poter
vivere senza l'amore, un amore qualunque, ma un amore, un amore!
Meglio, meglio, se ciò non era un'avventura in un cuore sconosciuto,
innanzi a un'anima misteriosa, un'avventura di incerto risultato, ma
portante con sè, forse, una disperazione e un'onta novella: meglio, se
era l'amare una creatura nota, stimata, ammirata per le sue
nobilissime virtù, una creatura senza amore, è vero, ma che aveva
saputo amare, ma che si sarebbe lasciata amare, dolcemente,
teneramente. L'espiazione sarebbe stata la vita della sua anima ed
ella vi si sarebbe buttata con ebbrezza, giacchè quello che più
temeva, per sè e intorno a sè, non era il dolore, ma era l'aridità,
non era la tortura, ma era il silenzio, non era la passione infelice,
ma era l'indifferenza. Un mese prima, ella era immersa nel marasma più
profondo, moralmente così misera che non osava neppur dire a nessuno
la sua miseria: ella si vedeva già finita, senz'amore, senza amicizia,
coi soli legami frivoli mondani, ritenuta per una donna senza
cuore--giacchè questa, fatalmente, era la sua reputazione--e gemente
intanto nel desiderio dell'amore. Ora, ora, da quel pomeriggio in casa
di Anna, ella aveva dato una sublime ragione alla sua esistenza.

Dai grandi occhi spiranti uno strano turbamento, dai subitanei pallori
che le coprivano il volto, quando egli appariva, dalle mani che si
facevano fredde nelle sue, da certi più prolungati silenzii che
regnavano fra loro, dall'imbarazzo crudele di certi momenti, dai
sussulti che ella non sapeva reprimere, a certi atti, a certe parole,
Giovanni intravide che accadeva qualche grave fatto nell'anima di
Clara. Una o due volte, la interrogò:

--Che avete?

--Nulla--ella diceva, chinando gli occhi, mordendosi lievemente il
labbro, come quando non pronunziava la parola che voleva pronunciare.

Egli credette che Clara gli nascondesse un fatto dispiacevole, forse
una lettera dell'uomo che l'aveva abbandonata, o il suo ritorno,
forse. Diventò più freddo, più riservato. Mancò a un appuntamento.
Ella lo rimproverò assai, quando lo rivide.

--Io vi disturbo, Clara--diss'egli, malinconicamente.

--Che vi fa pensare ciò?--gli chiese ella, precipitosamente.

--Sono stato sempre così superfluo, nella vostra vita. È sempre
l'ultimo venuto, che mi ha scacciato. Almeno, confessatemi la verità.

--Non ho nulla da confessarvi, Giovanni.

--Ma voi siete agitata, molto, da qualche tempo.

--Sì, è vero.

--E non volete dirmi perchè?

--No, non ve lo voglio dire.

--Non me lo merito?

--È inutile.

--Non vi posso metter rimedio?

--No--ed ella voltò la testa in là.

--Nè consolazione?

--Consolazione? Forse.

--Ditemi come e lo farò.

--Non qui, Giovanni.

--Dove, dunque?

--Nella mia casa--ella rispose, tendendo a sè stessa, e a lui,
inconsciamente, il più terribile tranello.

--Sapete che non ci verrò mai--egli, disse, sgomento, sentendo il
pericolo.

--Ebbene, io non vi narrerò le mie pene, Giovanni--diss'ella,
tetramente.

--Scrivetemi....

--No.

--Parlate qui, altrove....

--Nella via, in teatro? No, no.

--Io non posso venirci, lo sapete, in casa vostra--egli mormorò, già
più debole, già affascinato.

--Perchè?

--Non mi obbligate a dirlo.

--Ditelo.

--È la casa dove avete amato _un altro_.

--Che ve ne importa, se non mi amate più?--ella disse, levando le
spalle, amaramente.

--Ah io soffro sempre, Clara, anche non amando!

--Quante volte, lo ripetete, che non amate, Giovanni! è troppo--e il
suo tono fu così lamentoso che egli s'intenerì.

--Verrò.... forse.... una sera....

Ella sorrise, nel fondo dell'anima.



III.


Tre volte Giovanni Serra mancò alla sua promessa. Le diceva: verrò
domani sera, alle nove. Clara lo aspettava in preda a una emozione
nervosa, a cui la sua fantasia dava un carattere passionale. Ella dal
pomeriggio dava ordine che nessun altro venisse introdotto e ripeteva
le sue raccomandazioni, alla cameriera, con insistenza: quando l'ora
si appressava, per frenare la sua torbida impazienza, ella si metteva
a riordinare delle carte, prendeva un libro, forzandosi a intendere
ciò che leggeva. Giovanni non veniva. Le fresche rose che ella aveva
messe nei vaselli nitidi, rientrando a casa, parea che declinassero e
languissero, quasi per morte; il fuoco si covriva di cenere, nel
caminetto; ed ella, discesa dalle esaltazioni sentimentali, cadeva in
uno snervamento profondo. Alla fine di queste serate d'inutile attesa,
la parte più sincera di lei pensava che era meglio, lasciar finire,
senza finirla, questa singolare avventura, che le cose morte non si
vivificano e che anche per lei, Clara, così innamorata dell'amore, era
troppo tardi per tentare un ultimo fatto del cuore. Ma l'istinto della
vanità muliebre, mediocre istinto, ma che non isbaglia mai, tanto è
finemente esercitato, le diceva che quegli appuntamenti mancati erano
tante vittorie negative, è vero, ma vittorie, sul cuore di Giovanni:
che chi non va, ha paura di andare; e chi ha paura di andare, ha
sempre il cuore debole e facile a essere trascinato, in un impeto
dell'altrui energia. Così, ella, nelle immense prostrazioni di una
vivacissima speranza delusa, trovava novelle forze per ritentare
l'anima di Giovanni. Egli balbettava, inventava delle scuse magre, per
colorire la sua assenza: ma ella lo vedeva molto confuso. Dietro il
pretesto di un impegno dimenticato, di un ostacolo improvviso, il
freddo istinto della vanità intravedeva il combattimento del cuore di
Giovanni; ed ella se ne compiaceva, dimenticando il suo nobile
divisamento di amare Giovanni, senza domandargli il ricambio. Alla
terza sera, ella lo aspettò dietro i cristalli del balcone; più
nervosa, più triste, più esaltata che mai, ella finì per aprire il
balcone, malgrado il freddo della serata. Ebbene, all'ora indicata,
ella lo vide giungere frettolosamente, a capo basso, fermarsi due
minuti sotto il portone, ed uscire di nuovo, lentamente
allontanandosi. Non aveva avuto la forza di salire. Era un gran freddo
nell'aria, quella sera: ma ella rientrò con le guancie brucianti. E
l'indomani non gli fece nessun rimprovero. Sentiva che Giovanni aveva
subìto una tortura segreta.

Egli venne, al quarto appuntamento, quando ella non lo aspettava più,
alle dieci e mezzo, invece che alle nove. Il suo orecchio fine udì il
suono timido e debole del campanello, udì la voce bassa con cui egli
domandava di lei, in anticamera, e il passo cheto con cui egli si
avanzava, a traverso l'appartamento. Clara soffocava per il battito
del suo cuore: e l'accoglienza che gli voleva fare, disinvolta e
serena, come a un amico che venisse sempre, e le parole che gli voleva
dire, tutto sparve, ed egli la trovò in mezzo alla stanza,
aspettandolo con troppo palese ansietà e porgendogli una mano glaciale
e tremante. Sedettero ambedue non accanto, ma dirimpetto: taciturni,
imbarazzati. Clara non osava aprir bocca; intendeva che la sua voce
l'avrebbe tradita. Egli guardava, come trasognato, i galloni rossi e
azzurri che adornavano il vestito di lana bianca di Clara.

--Mi volevate:--eccomi--egli disse, con un sospiro, chinando gli
occhi.

--Grazie--mormorò ella, semplicemente.

--Chiederete voi che io faccia qualche altro sacrifizio, al vostro
fascino?

--Tanto vi è costato, questo?--Clara interrogò, ansiosamente,
piegandosi verso lui.

Egli si arretrò, quasi temendo la vicinanza di quel volto. Disse:

--Mi è costato moltissimo.

--Ma perchè?--e aveva un tono così ingenuo, chiedendo ciò, ella!

--Proprio, non lo capite?

--No.

--Questa casa mi è odiosa.

E un riflesso di tetraggine gli si diffuse sul volto. Clara si guardò
intorno.

--Non capisco--disse.--Siamo soli....

--Siamo soli?

--Dubitate di ciò?--ed ebbe, sulle belle labbra un riso forzato.

--Io credo che vi sia possibile fare tutto--egli soggiunse,
guardandola con quel misterioso terrore, come quando gli parea veder
sorgere un mostro nella donna.

--Tutto, che?

--Non mi domandate troppe cose, Clara: io sono molto turbato. Parlate
voi, piuttosto.

--Sì--ella annuì, cercando di vincere, prima di tutto, sè stessa.--Lo
vedete, siamo soli. Nessuno può venire e nessuno ha diritto di
entrare. Qui vi è la vostra amica, che vi aspetta da tanto tempo, che
è così felice di passare un'ora, con voi, in una stanza chiusa....

Egli guardò le porte, con una lieve ombra di diffidenza e di paura
negli occhi.

--Anche a voi, fanno terrore le porte socchiuse?--ella soggiunse,
infantilmente. E si levò, andò a chiudere le due porte, fra le tende.

--Voi temete di vedere entrare qualcuno, sempre, è vero, Clara?

--Sì, da bimba, l'ho sempre temuto. Se qualcuno saliva alle mie
spalle, nelle scale, se qualcuno mi seguiva, in un appartamento, se
una porta restava aperta, con un vano oscuro, io era assalita da uno
sgomento folle, e, sentite, adesso--soggiunse, dandogli la mano--solo
a parlarne, io tremo tutta....

Egli trattenne quella mano fra le sue, ma mollemente.

--Sono sempre così sola!--ella soggiunse, e gli occhi le si velarono
di lacrime, mentre il volto, le si tramutava.

Giovanni guardò quello scoloramento e quei begli occhi velati:
impallidì leggermente.

--Non sempre siete stata sola--mormorò, con un'intonazione ironica, ma
non aspra.

--Oh!--e Clara fece un gesto largo, per dire che tutto era finito.

--Lo avete già dimenticato, Clara?

--Intieramente--ella rispose, con un cenno tagliente.

--Dimenticate presto, mi pare.

--Sì, tutto quello che non merita di esser ricordato.

--Ma che meritò di essere amato, però.

--Oh chi non ha errato, nelle cose del cuore? Chi ha mai preso la via
giusta, amando?

--Nessuno, avete ragione--diss'egli, malinconicamente.

--Io ho sbagliato sempre, io--e il bel volto ebbe un fremito di
dolore.

--Sempre?

--Sempre. Mi hanno amata poco: o male: o niente. Sarà una bella burla,
alla fine della mia vita per me, che porto la reputazione di avere
ispirato delle passioni folli, l'accorgermi che nessuno mi ha amata,
mai.

E un doloroso, amarissimo ghigno le contrasse il viso. Clara era
immensamente sincera, in quel momento. Aveva tenuto solo all'amore,
nella vita e, probabilmente, non lo aveva, nè visto nè provato mai.

--Quanto siete ingiusta, Clara!

--Con chi?

--Con me.

--Ah già, è vero, voi pretendete di avermi adorata---ella soggiunse
eccitata, ma schiettissima, sempre.--Chi ne sa nulla! È una leggenda:
tante leggende sono false.

--Perchè dite questo? Perchè volete negare il passato?

--Bella istoria, il passato! Ognuno se ne inventa uno, a propria
convenienza, quando il passato è passato. Chi conosce la verità? Voi
intanto, no: e io, neppure. Forse non mi avete amata mai; e tutta la
leggenda non è che una cosa buffa--e rise clamorosamente, offendendolo
anche col suo riso.

--Clara, io non sarei qui, se non vi avessi amata--egli disse
seriamente.

--Vale a dire?

--Che ci vuole una grande tenerezza, per dimenticare quello che mi
avete fatto: e una grande tenerezza non viene che da un grande amore.

--Bella rovina, illuminata a chiaro di luna--ella disse, non ridendo,
tetramente.

--Ognuno dà quello che può--Giovanni rispose, con una tristezza
semplice.

Clara tacque. Scherzava con un tagliacarte giapponese e se ne pungeva
le dita. A un tratto, si rivolse tutta mutata:

--Perdonatemi, Giovanni: ho avuto un accesso di cattiveria.

--Tanto, per non cambiare--ed egli ebbe un pallido sorriso.

--Sono cose che restano, a filoni, nell'anima. Ma l'anima è così
cangiata!

--Così?--e la tenerezza velava l'incredulità.

--Tutta quanta. Non ve ne siete accorto? Vi sono sembrata la stessa,
in questo tempo, la stessa di dieci anni, ditelo, in coscienza?

--No, non mi siete sembrata la stessa. Ma non vedo la causa del vostro
cangiamento e non so lo scopo.

--Al solito, voi mi supponete qualche infernale progetto? No,
Giovanni, disilludetevi. Nulla vi è di più complicato in me--e
sorrise, con una mesta semplicità.

--Nulla?

--Nulla: a che? Per sedurre chi? Voi siete inseducibile.

--Vi piacerebbe sedurmi?

--Sì, moltissimo--ella esclamò, impetuosamente, con la verità sulle
labbra e nel cuore.

Giovanni fu scosso, da questo colpo diretto.

--La cosa è già fatta--egli disse, piano, cercando una via obliqua,
per ischermirsi.

--La seduzione passata, Giovanni, non conta--soggiunse subito, la
terribile e infelice donna, riportandolo al duello.--Era una pessima
seduzione, fatta da una donna perfida e fallace, una seduzione fondata
sull'inganno, che partiva dalla malvagità e arrivava alla perversità.
Non quella, non quella! Mi sarebbe piaciuto sedurvi, mi piacerebbe
sedurvi, con una seduzione nobile e alta, quella della schietta anima
femminile, che si dà in tutta la sua naturale bontà, con una seduzione
fondata sull'amore, profondo, umile, segreto e pure sgorgante da ogni
atto e da ogni parola!

Si era avvicinata a lui, chinata verso lui, parlandogli: e gli parlava
con una voce tremante, roca, come egli non aveva mai inteso uscire da
quelle labbra. Egli ebbe un atto di smarrimento:

--Tacete, Clara, tacete!

--No, amico mio, non mi fate tacere, non vi ho mai detto nulla, in
questo tempo, e ora muoio, se non vi dico tutto....

--Io non posso udirvi....--e cercava sciogliere le sue mani da quelle
di lei che le tenevano, nell'affanno dell'emozione, strettissime.

--Sì, sì, potete udirmi, giacchè io nulla debbo dirvi che vi turbi,
che vi offenda! Giacchè io non voglio niente da voi, Giovanni, niente!
Voi mi avete amata, è vero, nel passato e io sono sacrilega, quando lo
nego, ma anche il sacrilegio è una forma della passione, anche il
calpestare è una voluttà dell'amore! E ora voi non mi amate più e
avete ragione; io sono stata crudele, io sono stata infame, con voi,
vengono dei momenti in cui mi faccio orrore, ve lo giuro....

Mentre parlava ella, così, singhiozzava e il suo petto si sollevava,
nel singulto. Qualche rara lagrima le usciva dagli occhi e Clara
l'asciugava rapidamente, col fazzoletto. Giovanni l'ascoltava, la
guardava, stupefatto, incapace di difendersi più, e incapace di
sottrarsi al pericolo estremo in cui si trovava.

--Ma, sentite, Giovanni, sentite con pazienza, poichè queste cose mi
soffocano, sino a morirne, e le debbo dire, giacchè sono le ultime
parole di passione che mi usciranno dalla bocca, in questa vita. Sì,
sì, le ultime, poichè io ho trovato in questa mia anima, così
maltrattata, così ingiustamente maltrattata da chi non doveva mai
farlo, ho trovato una sublime speranza, Giovanni, quella di poter
essere un'altra donna, quella di poter amare con un infinito
entusiasmo e una infinita devozione, quella di poter essere in una
estrema tenerezza, una donna leale, pia, umile, vivente solo per voler
bene, così, come una povera creatura ammalata e convalescente si
innamora della vita, di nuovo!

--Illusione, illusione--balbettò lui, tentando reagire contro quella
esaltazione sentimentale, che gli si comunicava, fatalmente.--Voi non
potrete mai far questo, Clara!

--Io posso fare tutto quello che voglio, io lo farò--ella rispose
energicamente, altieramente.--Ah ho ben visto, io, in questo tempo,
nella mia anima, io vi ho letto come in un libro aperto, io so tutto,
io so che una sola cosa può farmi rivivere ed è un affetto schietto e
saldo, senza altri interessi morali che l'affetto istesso, senza altro
desiderio che dare uno slancio di purezza a quest'anima, senz'altro
ideale che la redenzione di uno spirito malato e corrotto.

--Non vi riescirà, non vi riescirà--egli esclamò, in preda a tale
un'agitazione e a una confusione, che gli pareva di non aver parlato
lui, ma un altro.

--Se questo non mi riesce, io sono perduta, Giovanni--ella soggiunse,
cupamente,

--Ma perchè, perduta?

--Perduta, perduta! Questo è l'ultimo anello che mi lega alla vita: se
si spezza, cessa la ragione della mia esistenza. Ebbene, io non posso
perdermi, Giovanni, io non posso morire, io sono vecchia, perchè ho
vissuto troppo, è vero, ma non ho che trentaquattro anni, e sono
troppo pochi per rinunziare, per morire! Io non voglio rinunziare, io
mi abbranco a questa speranza, essa mi deve aiutare a vivere, io
voglio amare così, se no, sono perduta e niuno, niuno può desiderare
la perdita e la morte di una creatura come me!

--Ma chi, chi volete amare?--gridò lui, levandosi, volendo fuggire, ma
non trovandone la forza.

--Voi--esclamò ella, guardandolo con gli occhi sfolgoranti, con le
labbra schiuse che mostravano i bianchi denti minuti, che egli aveva
adorato.

--Me? me? E perchè?

--Perchè voi solo ne siete degno--diss'ella, aprendo le braccia,
chinando il capo, con un atto di umiltà.

--Clara, io sono uno sciocco, un malato, un infelice, io non merito
questo--disse lui, turbatissimo, dando indietro, cercando fuggire.

--Voi siete l'anima più buona e più nobile che io abbia mai
incontrata--ella disse, con un accento profondo di amore, che finì di
sconvolgere Giovanni.

--Clara, voi avrete con me le maggiori delusioni. Io ho sofferto, io
sono stanco, sono vecchio, oh quanto più di voi, così piena di vita,
di vivacità! Clara, Clara, se sapeste quanto sono vecchio, e quanto
sono stanco, non dareste al mio cuore questa tortura, questa
nostalgia....

L'ultima parola era così imprudente! Superbamente, realizzando il suo
invincibile bisogno di espiazione, ebbra di sacrificio, folle di
sacrificio, ella gridò:

--Che importa? Fosse anche così, così mi piacete: fosse anche peggio,
voglio amarvi così!

--È un inutile amore, Clara--egli replicò, tristissimamente.

--Perchè, inutile? L'amore non è mai inutile!

--Inutile, lo vedrete, Clara: io non debbo ingannarvi. Io non vi amo.

--Lo so: non importa--diss'ella, crollando orgogliosamente le spalle.

--Ciò che è fuggito, non ritorna più. Io non posso amarvi di nuovo.

--Non importa--replicò ancora lei, giunta al culmine della superbia e
dell'umiltà sentimentale.

--Clara, Clara, questo è un romanzo: io non ho le forze morali per
seguirvi in questo romanzo.

--Non importa: camminerò sola. Il mio cuore è saldo, quando l'amore lo
regge.

--Oh Clara mia, mia amica buona, voi v'illudete, voi non mi amate
punto, voi siete in preda a un accesso di infinita bontà, voi
v'ingannate, sul vostro cuore!

--Io vi adoro--ella disse, semplicemente, sorridendo.

--Non è vero.

--Provate--ella soggiunse, subito, con una tal luce nello sguardo, con
un tal sorriso di offerta sulle labbra, che il poveretto vacillò.

--Sentite, Clara, io sono il più saggio, fra i due, e invece vi sembro
il più scortese e il più crudele. Clara, restiamo amici, non tentiamo
la Provvidenza, non prepariamoci un avvenire di amarissime delusioni.
Guai, se vi credessi!

--Mi crederete--e sorrise, fiduciosissima di sè e dell'amore.

--Io non vi vedrò più!--gridò lui, sentendo sfuggirgli l'estremo suo
lembo di coraggio.

--Perchè, Giovanni? Non mi amate, è vero: ma non è una dolce
consuetudine di vedermi, per voi?

--Sì, sì, purtroppo....

--Non mi amate, lo so: ma non sono io, la donna che più avete amata?
Non sono io la donna con cui più avete desiderato di vivere, la sola
con cui abbiate desiderato di vivere!

--La sola, la sola!

--Ebbene? perchè mi dovreste fuggire? Dite che siete stanco, ammalato,
vecchio, e che non mi potete amare? Quale pericolo correte, dunque?
Voi avete la gran sicurezza; che temete?

--Nulla.... infatti.... ma dovrò fuggirvi.

--No. Restiamo amici, voi volete così? Restiamoci. Solamente,
solamente io non sarò amica, ma innamorata di voi.

--Clara, sarebbe una condizione insopportabile!

--Io sola, la debbo sopportare! Che fa, a voi? Vi amerò così
quietamente, così segretamente, che quasi quasi non ve ne accorgerete
neppure. Sarete buono con me, ecco tutto: mentre io fui così cattiva!

--Voi, non siete fatta per questo orribile stato di animo, che è
l'amore non corrisposto. Voi siete stata sempre una vittoriosa....

--Lasciatemi provare la dolcezza di esser vinta--disse ella
tenerissimamente.

--Voi finirete per odiarmi, Clara, io lo so!--e fece un atto di
disperazione.

--Ma perchè combattete questa lotta inutile e inefficace, Giovanni,
contro me, contro voi stesso? Perchè mi negate il permesso di volervi
bene, quando ciò non vi costa nulla e quando ciò può anche piacervi?
Perchè rinunziate, quando non vi si domanda altro che di lasciarvi
amare, Giovanni? Che vi fa? Perchè dite di no, quando nessuno vi
chiede di dir sì? Lasciatevi amare, lasciatevi amare, è una cosa tanto
confortante, tanto consolante, credetelo!

Egli non le rispose nulla.

--Vedrete, amico mio, vedrete che questo mio amore, mentre sarà il
segreto della mia esistenza, non turberà la vostra. Fidate in me. Io
vi saprò amare così bene, che non ne avrete nè preoccupazione, nè
noia. Verrete a vedermi, quando vorrete. Io non vi darò le mie ore: vi
aspetterò, sempre. Sarò profondamente felice, quando vorrete darmi
qualche ora del vostro tempo: e se non vi vedrò, ebbene, non uscirà un
lamento dalla mia bocca. Vi scriverò. Mi permetterete di scrivervi, è
vero? Le lettere sono uno sfogo così dolce a chi ama: e non turbano
colui che non ama. Giovanni, Giovanni, lasciate che io vi ami, non mi
togliete questo amore, se vi sono stata cara una volta.

E pian piano, dalla sedia in cui era seduta dirimpetto, gli scivolò
inginocchiata, innanzi, levando il volto trasfigurato verso Giovanni
Serra. Egli la sollevò, nelle sue braccia, dicendole forte,
violentemente come se volesse convincerne sè stesso, mentre la
stringeva a sè:

--Io non ti amo.... non ti amo!

--Ne sei certo?--ella chiese, misteriosamente, con la testa sul suo
petto, col volto proteso a lui.

--Non lo so--balbettò il poveretto, in un impulso di luminosa verità.

E la baciò, sulle labbra. Tutta la virtù di quel cuore d'uomo, in quel
bacio, cadde.



IV.

Infelicissimo amore! Immediatamente Giovanni Serra provò il confuso
avvilimento della sua caduta e Clara la delusione della sua prepotenza
sentimentale. Passata l'ebbrezza singolare e pur triste della grande
serata, ella si trovò di fronte a Serra, nella condizione tormentosa e
misera, di una donna che ama troppo, che vuole amar troppo e che,
sovra tutto, pensa e dice di amar troppo, mentre non è riamata
abbastanza. Infelicissimo amore! Giacchè nello speranzoso e baldanzoso
animo di Clara, restituito ai consueti trionfi della sua beltà e della
sua grazia, tolto dal fittizio ambiente di umiliazione morale, in cui
ella si era collocata con amara voluttà di punizione, rimesso nella
posizione solita ed orgogliosa di una donna che ha conquistato un uomo
o che lo ha riconquistato, in questo animo in cui gli impeti della
immaginazione erano il fondamento della passione e dove la vanità si
nascondeva sotto le forme più semplici, in questo animo tramontò
subito quel purissimo e inaccessibile ideale di un amore che
volontariamente rinunzia alla corrispondenza, di un amore che
volontariamente invoca di esser dolore e di essere espiazione.
L'imperioso cuore che si voleva dare in un immenso sacrificio, privo
di premio, ritirò subito la sua offerta, quando negli occhi smarriti
di Giovanni Serra vide la follia dell'amore, quando egli si curvò a
baciare quelle labbra col trasporto di un uomo che non ha mai finito
di amare, che ricomincia ad amare, con la forza di dieci anni di
ricordi, accumulata e repressa. Clara passò la notte seguente nella
veglia deliziosa, e indescrivibilmente deliziosa di chi ha trovato,
nell'amore, quello che cercava, il gran segreto che tutte le anime
sentimentali e passionali cercano: un amore eguale al proprio, la
corrispondenza perfetta e l'armonia sublime. La vita, infine, aveva
dato, con dieci anni di ritardo, è vero, ma con più potenza di
concentramento, alla donna innamorata dell'amore, ciò che ella non
aveva mai provato, ciò che pochi uomini e poche donne provano sulla
terra: un amore schietto e profondo, così sentito e così corrisposto.
Immensa delusione: e infelicissimo amore!

Poichè, quando ella rivide Giovanni e guardò nei suoi occhi, ella vi
scorse un imbarazzo mortale, una tristezza mortale, come ne nascono
nelle pure coscienze di coloro che caddero per una inesplicabile
debolezza della volontà. Clara credeva, era certa di vedersi apparire
innanzi un uomo felice, ringiovanito, ridato alla forza vincitrice
degli ostacoli e ridato agli entusiasmi dell'età più bella: e invece,
Giovanni aveva l'aspetto di un uomo che ha errato e che sente
amaramente tutto il peso del suo errore. Clara era lieta e dolce,
aveva rialzato i suoi capelli in un grosso nodo attraversato dagli
spilloni di tartaruga, come dieci anni prima, aveva un vestito chiaro
e gaio: e Giovanni la guardava, con certi occhi distratti e stupiti,
dove, ogni tanto, si abbassava il velo di una malinconia intensa,
dove, ogni tanto, passava la nuvola dello sgomento.

--Come siete gioconda, questa sera!--le disse, come trasognato.

--Perchè ti voglio tanto bene--ella gli rispose, dolcissimamente,
prendendogli le mani.

Egli si turbò sempre più.

--Non parliamo di questo, Clara.

--Perchè? Non mi credi? Non mi credi?

Egli tacque. Non le credeva, infatti. Ella intese perfettamente questa
sfiducia.

--Che debbo fare, perchè tu creda?

--Nulla, Clara: non fare nulla. Io sono uno sventurato.

--E perchè? Non ti voglio bene, io, malgrado la tua incredulità? Non
mi vuoi bene, tu?

--Io!--gridò lui.--No, no, non ti amo!

--E che mi hai detto ieri sera, allora? Hai mentito? Sei diventato
bugiardo, ora? Non eri bugiardo, prima.

Giovanni Serra non rispose. Era così pallido, così disfatto ed evitava
tanto di guardarla!

--Amore mio, amore mio--ella riprese, tenerissimamente, carezzandogli
una mano--non tormentarti, te ne prego. Non ti dico nulla, non ti
domando nulla: la mia voce e le mie parole ti agitano, lo vedo. Lascia
ch'io stia vicino a te, così, in silenzio.

Era, difatti, seduta accanto a lui, sul divano, e gli aveva passato un
braccio sotto il braccio; aveva appoggiata lievemente la testa sulla
sua spalla. Un lungo silenzio: ma ella, a occhi bassi, sentiva che il
respiro di Giovanni diventava affannoso. Allora, pian piano, levò gli
occhi, lo guardò, gli mormorò:

--Mi vuoi bene?

Una così grande espressione di dolore, negli occhi di quell'uomo! Ella
tacque, ancora un poco, legata a lui, cheta, respirando appena: poi le
parve che egli le sfiorasse con le labbra i capelli:

--Mi vuoi bene, amore?--chiese, sorridendo nel fondo del cuore.

Giovanni sospirò profondamente e rispose:

--No.

Attraversata da un impeto d'ira, ella si staccò bruscamente da lui, si
levò, esclamando:

--Sei cattivo e scortese.

Una scena dolorosa avvenne fra loro, dove tutta la violenza e tutta la
natural tenerezza del cuore di Clara--tenerezza repressa nel periodo
d'isolamento in cui era stata--sgorgarono in parole precipitose,
ardenti, innamorate e pure ingiurianti: e dove tutta la mitezza e
tutto il profondo scetticismo di Giovanni si manifestarono, più dolci
e più freddi, pieni delle grandi timidità di chi, avendo amato invano
per tanto tempo, ha oramai una paura invincibile di amare. Due o tre
volte, durante questa penosissima scena, ella lo offese in un modo
crudele, poichè era avvezza a calpestare i cuori che adorava, per poi
adorarli più profondamente, dopo; ed egli sentì l'offesa, con un amaro
piacere, giacchè essa lo autorizzava non a reagire, ma ad andarsene,
per non ritornare mai più. Questo, questo, era il suo intimo
desiderio, innanzi a quella donna che lo affascinava e che lo
terrorizzava coi tumulti strani della sua fantasia, con le singolarità
di un temperamento fuggevole e pericoloso, con l'impensato di
un'anima, nella quale la inconscienza assumeva degli aspetti terribili
e dolcissimi. Nel momento in cui ella più gravemente lo ingiuriò, egli
pensò che era giunta la salvazione per lui, se partiva. Ma quando ella
lo vide arrivato alla soglia, quando intese che lo perdeva, così,
miseramente, irrimediabilmente, lo chiamò con una voce così spezzata
dal pianto, che egli si volse, venne a lei. Clara piangeva, Piangeva!
Mai l'aveva vista piangere, Credeva che non potesse piangere, tanto il
gran riso clamoroso, e il riso breve, e il sorriso, e il sogghigno le
eran particolari. Clara piangeva, soffocando dai singhiozzi, con un
lamento che le usciva dalle labbra, continuo. Il cuore di quell'uomo
buono s'infranse, ed egli intese sul suo petto quel povero corpo
femminile scosso dai singulti, ed essa intese da quella voce tremante
e fievole la parola d'amore, strappata dall'essenza di quell'anima,
dolorosamente.

Tali furono, sempre, le amarissime vittorie di Clara; e procedendo
oltre, il combattimento fu diversamente aspro, con forze maggiori o
minori dall'una parte e dall'altra, ma concedenti sempre il più triste
dei trionfi al soldato più energico e più ardente, più abituato alla
guerra dell'amore, più multiplo nelle sue risorse di attacco e di
difesa. Giacchè appena Giovanni Serra si allontanava da Clara, dalla
sua casa, dal cerchio magico in cui ella lo rinserrava, rinasceva in
lui il desiderio della fuga ultima, della liberazione. Quando ella non
era presente ed egli non ne vedeva le grazie delicate, e la novissima
incantatrice dolcezza, e tutta la seduzione muliebre potente, Clara
gli appariva come l'aveva sempre considerata, da dieci anni: una donna
attraente, perfida e fallace, a cui egli aveva gittato inutilmente il
suo cuore e per la quale aveva perduto ogni fede in sè stesso e nella
vita. La figura di una creatura quasi mostruosa, senza pietà
femminile, senza alito di sentimento nell'anima, senza coscienza pel
bene, come pel male, formatasi in dieci anni nel suo spirito, lo
signoreggiava, di nuovo, con novello impulso di ribrezzo, di orrore.
Mutata, forse? Forse. Ella era capace di tutto, anche di vestire
l'aspetto della maggior tenerezza della maggiore nobiltà spirituale, e
di essere, forse, tenera e nobile veramente, per un certo tempo per
ordine della propria volontà, sino a che la natura sopita si
risvegliasse, e l'onda della perfidia e della menzogna trasportasse
via il bel sogno di bontà e di dolcezza. Mutata? E che, perciò?
Anch'egli s'era mutato purtroppo, e dove la lava incandescente della
passione aveva gorgogliato, schiumando, del fuoco, si stendeva il
lapillo grigio e freddo delle devastazioni vulcaniche: dove aveva
vissuto la fede nell'anima umana e nella sua purezza, vi era il gelo
di un dubbio tranquillo e non più torturante: dove avevano balzato di
gioia e di voluttà gli entusiasmi giovanili, vi era l'inazione e
l'aridità. La lealtà, il rispetto, la bontà virile rimanevano intatte
in quell'uomo che aveva avuto in dono, nella giovinezza, le qualità
più nobili dello spirito: ma ciò che restava, non bastava all'amore.
Una parte di quel cuore, era veramente finita. E tutta la sensibilità
che ancor viveva in lui, fremeva di sgomento all'idea di essere stato
ripreso da quel fascino; non si sentiva più la forza morale per quelle
lotte e il risultato non gli sembrava più la sua grande ambizione.
Così, di lontano, egli formava sempre il disegno di non vedere mai più
Clara. Ella gli scriveva delle lettere lunghe e bizzarre, con
un'incoerenza sentimentale che sarebbe stata molto interessante e
molto seducente per un uomo più giovane e più vivace, meno provato dai
dolori della vita, ma che gli produceva un senso di ripulsa, di
maggior distacco: non rispondeva alle lettere. Ella gli mandava degli
appuntamenti; Giovanni vi mancava, due o tre volte. Perchè, alla
quarta volta, egli non resisteva più e vi andava, riluttante, pieno di
tutte le incertezze? Egli non se lo spiegava: e nella sua timida
immaginazione, il fascino di Clara assumeva un aspetto onnipossente;
Giovanni aveva bisogno di credere a un potere ascoso, rarissimo,
unico, per spiegare la mollezza della sua volontà. Perchè, tante
volte, quando egli andava da lei, ben deciso, ben risoluto, a
dichiararle che quell'amore così povero di gioie, così dubbio, così
squilibrato non aveva ragione di essere e di durare, perchè Giovanni,
innanzi al bel volto tranquillo e sorridente di Clara, a quelle mani
che gli si tendevano affettuosamente, al suono di quella voce che ella
rendeva così insinuante, per lui, perchè egli non diceva più niente,
lasciandosi andare alla corrente di quel sentimento, illuso per un
poco, credendo di essere amato, credendo di amare? Perchè, nelle loro
grandi scene, scoppiate improvvisamente, egli aveva provato a
proclamare la sua libertà, la sua indifferenza, sempre più duramente,
meravigliandosi anzi talvolta della propria durezza, ed era riescito
soltanto ad esasperare Clara; ma non aveva svincolato il proprio
cuore? Perchè, mentre egli era dei due quello che meno pensava
d'amare, che meno diceva d'amare, che non scriveva, che rinunziava ai
convegni, perchè, poi, era lui quello che più cedeva, che più si dava,
che più rientrava in servitù, con ritorni di affetto che costituivano
le pochissime soavità di quell'amore? Perchè, una volta, quando
stettero quindici giorni senza vedersi ed ella continuava a
scrivergli, egli non ebbe la forza di non aprire, come aveva
dichiarato, le sue lettere? E una sera, ella passava, sola, triste,
pallida, per una via, rientrando nella sua casa deserta con aspetto di
tale abbattimento ed infelicità, che Giovanni, vedendola innanzi a sè,
non visto da lei, provò uno schianto indicibile. Ritornò a lei,
subito, senza che lo avesse chiamato: e Clara stessa si stupì di
questo ritorno inatteso, mentre il suo cuore si era immerso già
nell'amarezza dell'abbandono. E ingenuamente, puerilmente, Giovanni
non sapendo come spiegarsi la sua debolezza e la sua disfatta, pensava
a qualche cosa d'insolitamente affascinante, e diceva, come un bimbo:

--È una strega.

Ma per colei che misteriosamente lo riconduceva a sè, ogni volta,
questi trionfi erano un tossico. Fermentavano dentro il suo spirito
indomito le ribellioni più profonde contro questo stato di lotta che
avviliva l'idea ch'ella si era fatta di quell'amore e che la
mortificava in tutte le sue vanità muliebri. Ella, infine, lo amava, è
vero, come poteva e come sapeva, con un senso immensamente egoistico
che aveva sempre dominato in quell'anima: lo amava, perchè le faceva
piacere di amare, perchè il suo stato migliore era l'amore, perchè
ella non sentiva la vita che quando era innamorata: l'amava perchè
così aveva voluto ed ora la sua volontà era più forte di lei. Ciò che
la sconvolgeva, era di non sentirsi amata abbastanza, mentre ella
sapeva di dare a Giovanni il meglio che restava di lei: ciò che la
esasperava, era questa battaglia quotidiana che ella sosteneva, per
conservare, se non l'amore, la larva di amore che le portava
quest'uomo: ciò che la faceva delirare di collera, segretamente, era
di avere ancora sbagliato, anche in quest'ultima volta e di non potere
in nessun modo metter rimedio al suo errore. Per il passato, coloro
che l'avevano amata, erano stati tipi soliti, comuni, non più buoni e
non più cattivi di qualunque altro uomo, in modo che il mondo
psicologico di Clara non aveva avuto sviluppo che nelle ombre della
sua anima, assai più grande e assai più complessa di quelle che ella
aveva avuto ai suoi piedi. Ella aveva sofferto per loro, non già per
le complicazioni sentimentali, ma perchè questi due o tre erano esseri
limitati, non meschini, ma limitati, a cui ella aveva creato una
luminosa e inesistente aureola. Aveva sofferto di non essere amata
abbastanza, disprezzando coloro cui mancava la potenza spirituale,
rimpiangendo sempre Giovanni, Giovanni, ch'ella aveva disdegnato e di
cui si rammentava la violenza giovanile di passione: e lentamente,
nella sua coscienza, si era formato il criterio che solo Giovanni
l'avesse amata e che solo lui, così profondo, così intimo, così
squisito, avrebbe potuto amarla come ella desiderava. Gli altri,
erano, infine, poveri diavoli, ai quali ella aveva dato il manto di
porpora della sua immaginazione e uno scettro d'oro, sotto cui ella
medesima si era curvata; ma l'anima bella per sè, grande per sè, unica
nella tenerezza come unica nella passione, era quella di Giovanni.
Ella aveva creduto a una fatalità del destino quando, finendo la sua
giovinezza, prima del tramonto, s'erano incontrati nuovamente ed egli
le aveva parlato dell'amore passato. E in lei si erano dileguate le
profonde stanchezze, mentre più vivo, più forte rinasceva il desiderio
di amare eccezionalmente, di essere eccezionalmente amata. Ella si
rammentava un Giovanni Serra tutto pieno di un ingenuo e vibrante
ardor giovanile, che faceva dell'amore non un breve episodio, come
tutti gli altri, ma il grande affare dei suoi giorni e delle sue
notti, che dava all'amore un tesoro di intima mestizia e di gioie
delicate, che portava l'immagine dell'amata come la sola visione degna
della sua fantasia, e che ne pronunziava il nome con una emozione
vivissima e candidamente mal repressa. Aveva creduto, quando egli le
narrava i suoi dolori passati con sì grande senso di amarezza, che
egli fosse sempre il medesimo: e che era giusto e umano l'amarlo; e
che era una voluttà dolorosa l'amarlo senza conforto; e che, infine,
infine, egli l'amasse ancora, malgrado i tentativi di fuga, malgrado i
dinieghi, malgrado i terrori che gli si dipingevano sul volto,
malgrado che egli restasse freddo e confuso, nelle ore più calde, in
cui ella più si abbandonava a questa estrema passione. E dall'antico
concetto e dal novissimo errore suo, ella traeva un veleno interno di
delusione, un seguito di sconfitte inavvertite da lui, ma di cui ella
provava il colpo nel fondo dell'anima, un ricadere continuamente sulle
proprie speranze e un soffrire per tutte le parti, dall'amore all'amor
proprio, dalla delicatezza all'orgoglio, dalla sensibilità femminile
bonaria alla sensibilità femminile maligna. Come si torturava ella,
per un ritardo di un'ora, per una parola detta con troppa
disinvoltura, per un _voi_ apparso improvvisamente nel più intimo
discorso: e il suo umore si cangiava, per la sottile ferita ricevuta,
ed egli, che non sapeva di aver ferito, si stupiva del cangiamento, e
arretrandosi, pallido, come se avesse visto un fantasma, le diceva la
tetra e monotona frase:

--Voi siete sempre la stessa.

Sì, Clara era sempre la stessa, con un carattere mobile e pure
ostinato, con una energia breve e caduca, con un disprezzo intimo e
cordiale di sè, con un egoismo a cui dava le forme nobili dell'amore,
con un desiderio di vivere e di godere che non si saziava mai; e su
tutto questo fondo stravagante, e spesso perfido, e spesso capace dei
più alti sagrificii, il ricordo di una vita vissuta mediocremente, il
ricordo di sciocchi errori e di delusioni meschine. Era sempre la
stessa, lei, ma da tutti i pianti versati nella solitudine della sua
casa, da tutte le angoscie soffocate sotto la sua maschera di donna
mondana, da quell'abbandono in cui aveva passato un anno, le era
venuta innanzi alla mente la grande verità, che tutti i calcoli
dell'egoismo sono sempre sbagliati, e che bisogna vivere per gli
altri, per poter essere felici. Non era fatta per questo, la sua
natura capricciosa ed esaltata: ma la sua volontà le imponeva di
assuefarsi alla più semplice verità umana, che è la felicità altrui:
ed ella giungeva con uno sforzo supremo là dove altre creature
arrivano naturalmente e la sua bontà calma, la sua dolcezza ragionata,
la sua serenità esteriore avevano, forse, maggior merito, poichè ella
affogava in esse tutto il clamore di un'anima ribelle. Soffriva
profondamente, perchè non era amata abbastanza, perchè non era neppure
certa di essere amata: dentro le vene ardeva il sangue per collere
improvvise: cento volte ella sentiva la tentazione di scacciare
Giovanni da sè, di non vederlo mai più. Ma il pensiero che egli,
veramente, la credesse ancora una perfida femmina, capace del male per
la voluttà del male, ma l'idea di desolare ancora Giovanni, con una
catastrofe spirituale, tale che per sempre ne restasse violata la sua
memoria, la rigettavano nell'amore e nel sacrificio.

E più il suo spirito spasimava per la battaglia che sosteneva, più
ella prodigava a Giovanni Serra i tesori della più squisita affezione.
Egli, talvolta, ne restava avvilito. Ora, non le diceva più di non
crederle; nè, d'altra parte, la fiducia nasceva in lui, bensì uno
stupore malinconico. Quando ella gli dava qualche novella pruova, non
chiesta, di amore, egli restava confuso e rammaricato:

--Io non merito questo, Clara. Tu esageri sempre: e che sarà il nostro
avvenire, così?

--Io ti amerò sempre egualmente--diceva ella, esaltata.

--Quante volte l'hai detta la parola _sempre_?

--Ah tu sei crudele!--esclamava lei, abbassando il capo per nascondere
il suo pallore.

Sì, quell'onest'uomo, quell'uomo onesto e buono era spesso crudele,
con lei. Non s'accorgeva di colpirla, così duramente: o non la credeva
sensibile: o credeva che fosse necessario di colpirla, per guarirla da
questo morbo spirituale che la teneva. Certi giorni, dopo un'assenza
di una settimana, le appariva innanzi quietissimo, avendo l'aria di
non vedere che ella era disfatta dall'attesa, non dando nessuna scusa
alla sua mancanza. Un dialogo freddo si stabiliva fra loro due: le
labbra di lei fremevano leggiermente, perchè reprimevano lo sdegno:
egli non capiva ciò e dopo un'ora trascorsa, così, in uno strazio fine
e pur terribile, egli si levava per andarsene:

--Vieni domani?--ella diceva, a occhi bassi, pallida come uno spettro,

--Non so.

--Dopodomani, allora?

--Non ti saprei dire: ho delle faccende noiose da sbrigare.

--Ah!--diceva lei, senz'altro, sentendosi morire.

--Ti scriverò, quando posso venire.

--Va bene.

E lentamente lo seguiva, mentre si avviava alla porta: gli porgeva una
mano gelida ed immota. Talvolta, egli le chiedeva:

--Che hai?

--Nulla--ella rispondeva con voce così mutata che egli avrebbe dovuto
capire. Ma, temendo una scena, egli se ne andava, senz'altro. Come
ella correva nella sua stanza, gittandosi sul letto, mordendo i
cuscini, ingiuriando la freddezza di Giovanni, imprecando alla propria
viltà, esalando tutta l'ira della sua delusione, soffocando le grida
del suo cuore che insorgeva contro un dolore così atroce! La crisi
durava una notte intiera: ella si addormentava all'alba, con gli occhi
rossi di lacrime, con il petto ancora esalante sospiri. Egli non
sapeva nulla di ciò. Ella temeva che Giovanni la fuggisse per sempre,
se diventava troppo insistente e troppo noiosa. L'altiera donna era
giunta a credersi una seccatrice. Pure, qualche sera, quando più
l'onesto e buon'uomo era stato crudele, ella sentiva cadere le forze
della sua rassegnazione. Allora gli appariva infelice, così
accasciata, così perduta in un abisso di delusioni, che l'oscuro
mistero della sua tenerezza per Clara, si svelava. Una volta, egli era
andato via. Appena fuori, sulle scale, egli intese, dietro la porta
ancora chiusa, un tale scoppio di singhiozzi che tornò indietro, bussò
e la trovò smarrita, incapace di affogare i suoi lamenti, incapace di
dominarsi più. Qual notte! Egli le parlava ed ella, perduta in un
oceano di amarezza, non gli rispondeva, mentre, come se fosse sola, si
raccomandava alla Madonna ed ai santi, perchè la liberassero da quelle
torture. Egli le prendeva le mani, ma ella le ritraeva, come
inorridita, convulsa, per rivolgerle al cielo, per chiedere la pace,
la pace, niente altro: egli cercava di abbracciarla, ma quel corpo
fremente gli sfuggiva; essa passava da un divano all'altro, camminava
al buio, per le altre stanze, parlando sola, gemendo, tutto il suo
male, gemendo di dover amare così, gemendo di essere così poco amata.
Notte fatale, invero: giacchè fu allora soltanto ch'egli capì tutta la
gravità del loro caso: giacchè fu in quella scena di lacrime, di
convulsioni, in cui ella pareva avesse dimenticata persino la sua
presenza, che egli le parlò, per una volta, come dieci anni prima,
come un innamorato, come un amante. Egli s'inginocchiò innanzi a lei e
le chiese perdono della sua condotta, e la pregò che avesse pietà di
lui; la scongiurò di credergli, quando le diceva che nessun essere le
era devoto come il suo, e di compatirlo se egli non sapeva amarla, se
egli non sapeva ritrovare in un'anima stanca, malata, vecchia, gli
accenti e gli entusiasmi dell'amore; che per quanto egli poteva amare,
l'amava; che era poco, sì, era poco, per una donna appassionata come
lei; che ella meritava un miglior innamorato, un miglior amante; ma
che lui non poteva amar meglio, ma che egli le aveva dato tutto, dieci
anni prima, e che quella devastazione era opera sua. Mentre ella,
sfinita, esausta, si passava ancora sugli occhi aridi il fazzoletto
bagnato di lacrime, Giovanni, ai suoi piedi, le narrava ancora la sua
miseria sentimentale presente, la sua morbosa sensibilità che aveva
paura dell'amore, la sua impotenza spirituale, tutta la rovina
irreparabile che gli impediva di esser per lei il perfetto innamorato,
il perfetto amante. Alle sue ginocchia, in una evocazione straziante,
di quello che era stato il suo passato d'amore e nello strazio della
presente realtà, egli versò poche, cocenti lacrime, le più dolorose
che avesse versate mai. Smorta, con gli occhi spalancati su lui,
reggendosi la testa con le mani, ella che aveva gridato tutta la sua
desolazione, udiva ora le parole di una ben diversa miseria, di un
disfacimento umano assai più tragico del suo; e mentre l'alba faceva
il cielo di un freddissimo biancoverdino, i due amanti si guardarono,
presi da una pietà immensa, per sè stessi, e sentendo che nessuno dei
due poteva consolare, giammai, giammai l'altro.

Ella, folle oramai di sacrificio, fu dimentica di sè, e si rassegnò a
una forma qualsiasi dell'amore, purchè Giovanni non l'abbandonasse.
Rinunziava alla passione, chiudendo gli occhi: ella che adorava solo
la passione! L'amasse Giovanni, come voleva, come poteva, quando
voleva: purchè quel residuo di tenerezza fosse suo! Oramai ella
diventava simile ai malati che, giorno per giorno, vanno rinunziando
alle dolcezze che godono i sani e fanno un ragionamento malinconico a
ogni rinunzia. Diceva, ella:

--Tu, che non mi scrivi mai....

E se egli annuiva, ella frenava il suo spasimo. Giovanni, un tempo, le
aveva troppo scritto: adesso non ne aveva più la forza. Altre volte
diceva:

--Tu non vieni; è vero, domani sera?

Ed era perchè soffriva troppo, a udirlo dire da lui che non sarebbe
venuto. Parlando dell'amore, ella soggiungeva, con un debole sorriso:

--Tu che mi vuoi bene così poco....

E lo sogguardava, ansiosamente, per osservare anche l'espressione più
fugace. Egli sorrideva, acconsentendo al fatto di amarla poco: Clara
indietreggiava, disperata internamente della pruova. Qualche volta,
bonariamente, ella gli tendeva un tranello:

--Perchè mi ami così poco? Io ti voglio troppo bene.

--Perchè non posso di più.

--Non puoi, non puoi? Tenta.

--Oh no!--esclamava, con un tono di stanchezza, di sfiducia, di paura.

--Io ti amo troppo--ella diceva, affogando di dolore, ma non
mostrandolo.

--È ciò che mi trafigge. Io sono un indegno, Clara.

--E se non ti amassi più?

Giovanni impallidiva e taceva. Quel pallore, la rincorava.

--Se non ti amassi più, di'?

--Mi rassegnerei malinconicamente. Sono stato un grande sventurato,
sempre.

--Ti rassegneresti?--e fremeva, ella.

--Mi rassegnerei.

--Mi riesce impossibile di non amarti, Giovanni!--ella esclamava.

--Se tu volessi, ti sarebbe facile. Credimi, non ti ho meritata prima:
non ti merito adesso. Era destino!

--Parliamo d'altro--diceva lei, brevemente, vinta.

Ma si rinnovava ogni giorno, ogni sera, il duello, sopra una ben
semplice frase così cara a tutti gli amanti. Quando ella era di umore
più lieto, gli diceva:

--Già, non ti domando se mi vuoi bene. Sarebbe inutile.

--Sarebbe inutile--mormorava lui, sorridendo, cercando di scherzare.

--Non mi ami affatto?--e la voce lievemente le tremava.

--Affatto.

Clara taceva, incapace di scherzare più.

--Che hai?--chiedeva Giovanni.

--Nulla.

--Nulla? Ti ho rattristata?

--Un poco.

--Sono un infelice--diceva Giovanni, così schiettamente addolorato,
che Clara non osava proseguire la discussione.

Ma, talvolta, la domanda era diretta:

--Mi vuoi bene?

E se lui era tranquillo, senza fremiti nella sua sensibilità, le
rispondeva:

--Tu lo sai.

--Non so nulla. Ripeti un poco,

--Quante volte lo vuoi sentire, Clara!

--Gli è che non lo dici mai, mai, mai!

--A che serve?

--Mi serve: mi serve immensamente. Te ne prego, Giovanni, Giovanni
mio, mio amore, dimmi se mi vuoi bene!

--Ti voglio bene--diceva lui, a occhi bassi, quasi per forza.

--Quanto?

--Quanto posso.

--E poco, è vero, è poco?

--Perchè mi ricordi che sono un poverello, in fatto di amore? Perchè
mi rinfacci la mia miseria? Perchè mi rimproveri se non ho più lena,
se non ho più una scintilla di entusiasmo? Clara, Clara, tu mi uccidi,
così!

--Perdonami--diceva lei, scivolandogli inginocchiata innanzi, con un
moto che le era familiare.

--Io non debbo vederti più--diceva lui, come se parlasse a sè stesso.

Oppure, la frase cara agli amanti riappariva in altri modi tormentosi.
Talvolta, dopo un lungo silenzio, vagamente, distrattamente, come per
un moto delle labbra, ella chiedeva:

--Mi vuoi bene?

Giovanni non rispondeva. Immediatamente, ella diventava trepida e
ansante:

--Giovanni, mi vuoi bene?

Allora egli usciva dalle sue riflessioni e vagamente, distrattamente,
diceva:

--No.

--Giovanni?

--Clara!

--Hai detto che non mi ami?

--L'ho detto.

--Ed è vero?

--È vero.

Silenziosamente, ella curvava il capo, e le lacrime le discendevano
sulle guancie. Giovanni la guardava, desolato: poi, le andava vicino,
le carezzava una mano, le baciava le guancie bagnate di lacrime.

--Ho scherzato--diceva.

--Tu non ischerzi mai.

--Ho scherzato.

Tutto finiva, così: ma le lacrime erano state versate. E infine, sulla
frase cara agli amanti, avveniva ancora questo:

--Tu non mi chiedi mai, Giovanni, se ti voglio bene!

--Perchè chiedertelo?

--Non ti piace saperlo?

--No, non mi piace.

--Ti tormenta, il mio amore?

--Sì, mi tormenta tanto.

--Ma perchè, ma perchè?

--Perchè mi hai amato troppo tardi--esclamava lui, per la centesima
volta;--perchè io non sono più il giovanotto appassionato di dieci
anni fa, ma un uomo arido e stanco, senza speranze e senza desiderii!
È tardi, è tardi, Clara.

--Mai tardi, per l'amore.

--Siamo vecchi, Clara: il nostro sole tramonta.

--Dio mi salvi dalla notte--ella mormorava, avvilita, senza più
energia.

Vi fu un giorno, però, in cui tutte le ombre malinconiche, e le
incertezze, e i timori parvero dileguati. Era nella calda estate ed
ella era andata ad Albano, sui colli, per fuggire l'aria soffocante di
Roma. Colà, lo aspettava pazientemente, per giornate intiere, ma egli,
pur promettendo di venire a trovarla, pur scrivendole, non veniva mai.
Per tre o quattro volte ella era andata alla stazione, inutilmente.
Una grandissima tristezza adesso opprimeva la donna superba; giacchè
le pesava sulle spalle tutto l'irreparabile del suo errore
sentimentale. Volontariamente ella si era ingolfata in questo amore;
con ostinazione di passione ella ne aveva abbracciata la croce; la sua
fantasia l'aveva spinta ai più duri sacrificii; e adesso erano
impegnati il suo cuore e il suo onore. Stando sola, nella freschezza
dei colli albani, ella approfondiva l'immensità del suo ultimo fallo e
quel verde riposato tutt'intorno, e quella serenità la crucciavano.
Infine, un giorno egli giunse, quasi inaspettato. Era così lieto! Le
disse, subito che non era venuto, ma che aveva sofferto molto, a non
venire: che l'aveva molto amata, nella sua assenza: e le domandò, se
ella lo amasse ancora. Così lieto! Ella diventò lietissima. Andarono,
insieme, sotto l'ombrellino di Clara, a una lunga passeggiata, a
braccetto, a traverso i sentieri di campagna, fra i prati fioriti.
Clara aveva un vestito di seta leggiera, di un bianco avorio: e un
gran cappello di merletto avorio come una cuffia. Pareva molto più
giovane e così delicata che egli la chiamò, ridendo: _Madame la
marquise_. Ella era raggiante. Si sedettero sull'erba, all'ombra di un
elce secolare, famoso in quelle campagne, e le loro anime furono così
assolutamente e perfettamente armoniose, in quella solinga e serena
campagna, che essi si guardavano e indovinavano l'un l'altro i
pensieri. Si dispersero, due volte, per la via, ridendo, scherzando,
baciandosi, dietro l'ombrello abbassato di Clara: e _Madame la
marquise_ arrossiva finemente di gioia, sotto l'ombra bianca del suo
grande cappello. Non un motto del passato: non un pensiero del domani:
non un velo di amarezza, mai. Egli aveva l'aria di un fanciullo;
strappò dei fiori di campo, odorosissimi, ne fece un gran fascio, lo
portarono all'albergo in trionfo. Là pranzarono soli, soli, in un
angolo della stanza da pranzo, guardandosi negli occhi, sorridendosi,
toccandosi le mani nel porgersi un bicchiere, un piatto, ebbri di una
gioia di vivere che li faceva impallidire di piacere. Andarono sulla
terrazza dell'albergo, soli sempre, tenendosi per mano, tacendo,
dicendosi nello sguardo innamorato quelle cose profonde e intime, che
l'amore pensa e non dice. Ogni tanto, ella chiedeva:

--Mi vuoi bene?

--Sì--rispondeva lui, semplicemente, senza reticenze.

--Quanto?

--Molto.

--Io ti adoro--ella concludeva, arrossendo.

Alla sera, ella lo ricondusse alla stazione, attaccata al suo braccio,
innamoratissima di lui, mentre lui non sapeva staccare lo sguardo da
quei cari occhi: si baciarono nella penombra della stazione, senza
pensare a chi li guardava. Il treno si mosse, ella restava a guardare
e lui si sporgeva dallo sportello, salutando.

Ella gli scrisse, nei giorni successivi, otto o dieci lettere, folli:
egli non rispose. Aveva giurato di ritornare: non ritornò. Ella
ripartì per Roma, prima che la villeggiatura finisse.



V.

Vestita di bianco, con un leggiero scialletto di crespo bianco sulle
spalle, Clara, in quelle ultime lunghe sere di estate, aspettava
Giovanni al balcone. Prima, la solinga donna leggeva un poco, si
aggirava come un fantasma per la casa deserta; poi, verso le nove,
approssimandosi l'ora dell'arrivo, ella esciva sul balcone,
interrogando le penombre di via del Babuino. Malgrado che l'afa di
quella fine d'agosto togliesse la gente alle case soffocanti e la
spingesse per le vie, in cerca di un fantastico fresco, via del
Babuino era spopolata. È lontana dal centro: ed è via di forestieri,
che la popolano solo nell'inverno. Pochissima gente l'attraversava;
avanzandosi la sera, non più un viandante. Clara guardava l'alto della
strada, verso piazza di Spagna, donde giungeva sempre Giovanni, quando
giungeva: e appena una persona svoltava l'angolo, essa si piegava sui
ferri, cercando distinguere l'alta figura e il passo un po' lento, a
lei così noti. L'ora serotina si svolgeva, calda, spesso attraversata
da un molle soffio sciroccale; Giovanni non compariva. Affaticata
dallo stare in piedi, ella si sedeva sovra uno sgabello di legno, che
era fuori sul balcone; appoggiava la testa ai ferri, in atto di
pazienza e di riposo; talvolta, un lieve sonno la coglieva; alle
undici e mezzo, che ella sentiva suonare a Santa Maria del Popolo, si
levava, rientrava, poichè Giovanni non sarebbe venuto più. Un brivido
di freddo la coglieva, in casa: e si accostava alla sua scrivania, per
scrivergli un biglietto, una lettera, lagnandosi che egli avesse
ancora mancato alla promessa. Ma, sedutasi, si rialzava subito: a che
lagnarsi? Su sette sere della settimana, egli mancava cinque: e la
lasciava, così, in una interminabile aspettativa, fuori su quel
balcone, in una solitudine e in una malinconia grande, sapendo
benissimo che ella lo aspettava ogni sera e che era sola, solissima.
Adesso, ella non si lagnava più, giacchè le scene la stancavano e la
impaurivano, perduta di energia, precipitata e giacente nella inazione
spirituale di chi ha troppo amato inutilmente: e non lamentandosi lei,
egli non si scusava neppure e aveva l'aria di non rammentarsi che ella
non esciva, non vedeva nessuno, per lui soltanto. Oramai, Clara non
aveva più quelle crisi di violenza, in cui malediceva l'aridità del
cuore di Giovanni e la viltà del proprio cuore che non sapeva
infrangere un legame così fittizio e così torturante: ella era in
preda a quelle sonnolenti rassegnazioni, che abbattono tutte le
persone di carattere impetuoso, dopo un periodo di passione. Sul viso
altiero di Clara, dove sempre aveva brillato il sorriso trionfale
della donna padrona del proprio destino, ora sedeva l'espressione
stanca e paziente della vittima. Quando Giovanni le riappariva
innanzi, ella sorrideva tenuemente, gli si sedeva accanto, ma non
troppo vicino, non gli faceva un rimprovero, gli parlava a voce bassa,
senza ridere mai. Egli la guardava curiosamente: scrutava tutte le
impressioni di quel volto mobile, di quegli occhi vivacissimi, e
scorgendovi come disteso un velo d'inesorabile e quieta tristezza,
crollava il capo, senza dire nulla. Egli stesso era profondamente
triste. Forse, s'imponeva di non andare da Clara, più spesso. Forse,
per una singolare contraddizione del suo spirito, quell'aspetto di
vittima, quel silenzio, quella mancanza di sorriso, lo tormentavano
più di una scena furiosa. Nel settembre, egli partì per Napoli,
senz'avvertirla neanche; ella gli scrisse, tre o quattro volte, delle
lettere pacate, ma senza rampogna; delle lettere dove tutto il fuoco
dell'anima di Clara parea fosse stato smorzato dalle lacrime. Ritornò,
Giovanni, dopo dieci giorni: ed ella non gli fece nessuna
interrogazione, fredda e tenera, fredda e triste, fredda e oppressa da
una fatica morale che le traluceva, torbidamente, dagli occhi.

--Che hai? Che hai?--le chiese lui, quel giorno, con ansietà, andando
volontariamente incontro a una spiegazione.

--Sono stanca--ella disse, chinando gli occhi.

--Di me?

Ella esitò, un minuto. Disse:

--No.

--Finirai per odiarmi, io lo aveva preveduto--egli soggiunse,
desolatamente.

--E perchè, Giovanni? Tu non hai nessuna colpa.

--E tu neanche, poveretta!--replicò lui, prendendole le mani.

Ella si svincolò, dolcemente e freddamente.

--Oh io, sì!--e un vero accento di convinzione, la dichiarava
colpevole di quel malinconico ultimo peccato, pieno di tante
delusioni.

--La colpa è delle cose, è degli anni, è della fatalità--egli spiegò.

--La fatalità è la scusa dei deboli e degli sciocchi--diss'ella
brevemente.--Io ho voluto che questo fosse; la colpa è mia.

--Poveretta, poveretta!--mormorò lui, con voce di pianto.

--Mi sono ingannata, anche questa volta--ella replicò, con una
freddezza di ghiaccio.

L'accenno agli amori passati, il primo che ella facesse durante un
anno e mezzo di relazione con lui, la comunanza del suo amore con gli
altri, nella mente di Clara, gli fece una impressione pessima.

--Io non ti ho ingannata--esclamò lui offeso, contristatissimo.

--Chi sa!--ella disse.--Hai creduto di dirmi la verità: ma quando è
che l'hai detta?

--Mai, mai ti ho ingannata!

--Eppure un giorno mi dicevi d'amarmi e un giorno lo negavi. Quando è
che mentivi?

--Mai, mai, Clara!

--Vedi bene che tu stesso ignori la verità. Tu non sai niente!

--So che soffro, ecco tutto.

--Anche io, molto, Giovanni, molto.

--Non più di me!

--Più di te, più di te, in un modo diverso, con una intensità maggiore
e diversa. Niuno ha mai espiato un peccato più immediatamente e più
rigorosamente di me, credilo.

--Povera Clara, io ti ho portato sfortuna!--e la più grande tenerezza
vibrava in lui.

Ma queste gelide consolazioni non arrivavano a riscaldare il cuore
della donna.

--La fortuna o la sfortuna è in noi--rispose ella, recisamente.

--In me, in me! Sono un essere malaugurato e sventurato.

--E perchè? Non hai amato?

--Troppo presto e troppo male, Clara!

--Non sei stato amato?

--Troppo tardi, troppo tardi.

--I tuoi ricordi saranno dolci, nella vecchiaia--ella soggiunse, con
una glaciale tenerezza.

--Io non giungerò alla vecchiaia degli anni, lo so.

--Fortunato te!

Fu l'unica parola profondamente disperata che le uscì di bocca, in
quello strano duetto. Ma, adesso, i loro scarsi e rari colloqui
diventavano penosi; vi aleggiava una tristezza infinita, i loro volti
erano distratti e assorbiti, un soffio di gelo chiudeva la coppia
amorosa. Amorosa? Niuna parola d'amore, più. Ella, a poco a poco, gli
scriveva meno. Egli se ne lagnò:

--Perchè mi scrivi così poco?

--Ti affliggerei, scrivendoti.

--Tu puoi dirmi tutto, lo sai.

--Non ho da dirti nulla.

Anche quando si vedevano, la conversazione si rallentava fra loro.
Prima, Clara si interessava a tutta l'esistenza di Giovanni
lasciandosi narrare le sue noie e le sue soddisfazioni: adesso, ella
non lo interrogava più. Se egli voleva dirle qualche cosa, lo
ascoltava, ma con gli occhi velati, quasi non intendendo.

--La tua anima è lontana, Clara--le disse, una sera.

--Non è che malata, tanto malata--ella si lamentò.

--Non speri di guarire?

--Sperare di guarire? Questa guarigione è anche la morte.

--La morte è di tutte le anime che hanno amato.

--È vero--ella concluse, a capo basso.

Adesso, ogni tanto, guardandola, mentre essa lo guardava, gli pareva
di vedere delle lacrime negli occhi. Ma esse si dileguavano. Talvolta,
ella si alzava dal suo posto, andava verso un balcone, andava
nell'altra stanza: egli indovinava che Clara rasciugava queste poche
lacrime: l'avanzo dei grandi pianti antichi,

--Perchè ti viene da piangere, guardandomi?--le domandò, infine,
turbato assai di ciò, intravvedendolo.

--Io? No, non piango.

--Perchè me lo nascondi? Non sono il tuo migliore amico?

--Amico? Io non ho amici.

--Il tuo amante, allora?--ribattè lui, dopo una esitazione.

--Io non ho amanti, Giovanni.

--L'uomo che ti ama?

--Nessuno mi ama.

Profondo silenzio. Le lagrime erano inaridite negli occhi di Clara: ma
egli vi ritornò sopra amaramente:

--Non vuoi dirmi, perchè mi guardi e i tuoi occhi si orlano di
lacrime? Ciò è così triste! Mi pare che tu pianga un morto.

--Sono tanti i modi di morire.

Così, in questo ambiente di gelido dolore, di amarezze quiete e
infinite, di grandi veli bigi e fitti che li avvolgevano in una nuvola
di orrenda e intima malinconia, evitavano di vedersi in casa, dove
soffrivano anche più. Non si davano convegno, ma si incontravano
randagi pallidi, vagabondi delle vie remote di Roma, camminando
accanto senza parlarsi, o scambiando qualche motto insignificante. Una
volta andarono al Colosseo; era un chiarore plenilunare bianchissimo,
con un freddo vivido d'ottobre; ella era tutt'avvolta in un mantello
col cappuccio. Si sedette, Clara, sovra uno scalino dell'anfiteatro;
Giovanni, si sedette più giù, vicino a lei, toccandole le ginocchia
con la testa. Il grandioso circo era tutto molle e candido, sotto il
raggio lunare. Ella fece un atto, e la sua mano si posò, lievissima,
sulla testa di Giovanni. Tacevano: la mano restava lì, lieve, fredda,
immota. Egli si volse un poco, prese la mano e la baciò sulle dita,
appena appena, con una carezza casta, fugace; la mano ricadde lungo la
persona. Si guardarono negli occhi, in quella solitudine, in quella
notte chiara, e quello sguardo infinitamente e rassegnatamente
desolato fu inteso, da ambedue, per quel che era, per quel che diceva.

L'indomani, nelle ore tarde pomeridiane, si videro al Pincio, dove
ella gli aveva dato convegno. Ella era vestita di un abito di seta
grigia e aveva una giacchetta di velluto nero; sul cappellino di
velluto nero era una fine veletta nera. Egli pensò, vedendola, a
quella sera di _Armida_, oramai lontana, nelle sensazioni e nelle
memorie. Ma si forzò a scacciare ogni debolezza, tanto temeva di sè.
Clara camminò un poco accanto a lui: poi guardando gli alberi di villa
Borghese, dalla terrazza, gli disse la gran frase:

--Dunque, si finisce?

Ah egli si era creduto più forte! Si sentì vacillare, non potè
rispondere. Che avveniva, dunque, in lui, di contradittorio, di
bizzarro, che questa soluzione tanto da lui invocata, ora gli faceva
orrore?

--Non mi rispondi, Giovanni?--ed ella alzava, ogni tanto, il manicotto
sino alla bocca, come a reprimere un singhiozzo, un grido.

--Tu non hai pietà di me, Clara?

--Tu pensi troppo alle tue miserie, e non a quelle altrui; io non ti
chieggo pietà.

--Tu sei forte.

--Ero forte.

--Tu sei forte.

--La mia unica forza mi ha abbandonata--ella soggiunse, sempre
guardando altrove.

--Quale era?

--L'amore. È finita, Giovanni--ed ebbe un cenno largo, definitivo,
verso la campagna.

--Non ci vedremo più, dunque?---egli chiese, debolissimo, tremante,
come un fanciullo disperato.

--A che servirebbe? A maggiori dolori?

--Come amici.... qualche volta?

--Io non ti sono amica, Giovanni: ti ho troppo amato per esserti
amica.

--Io sono il più sventurato fra gli uomini--egli gridò, gittandosi
sovra un banco, non reggendo più.

Ella gli sedette accanto: aveva gli occhi bassi, dietro la veletta.

--Giovanni, sii buono, non diminuire il mio coraggio. Vedi.... per
giungere a questo, la mia anima ha dovuto fare un così lungo viaggio!
Ho detto io, la parola estrema: io! Che ho innanzi, io? Sai che
esistenza di solitudine, d'inutili e tardi rimpianti, di pentimenti
postumi, di lacrime senza conforto? Sai che lungo e deserto viaggio io
intraprendo, sino alla morte, sola?

--Il più sventurato fra gli uomini!--gemeva lui, con la faccia fra le
mani, come un fanciullo abbandonato.

--Eppure.... io, io stessa rinunzio. Tutto è stato inutile, fra noi:
il tuo amore, prima; il mio amore, dopo.

--Almeno, almeno, non mi avessi amato!--esclamò lui, in un ingenuo
scoppio di dolore.

--Ti ho amato, invece, molto, alla mia maniera, che è certo
imperfetta, poichè tutti siamo degli esseri imperfetti. Ti ho
amato.... così teneramente, così passionalmente.... ma era tardi, era
tardi, era tardi!

--Ma io ti voglio bene, Clara!--egli balbettò, smarrito, vedendo che
ella era per levarsi, per andarsene.

--Ne sei certo?--gli chiese ella, duramente, come nella prima sera del
loro amore.--Ne sei certo?

--Non lo so--rispose lui, annientato, ricadendo sul banco.

--Addio, Giovanni!--ella disse, innanzi a lui, pallida come una morta.

--Non te ne andare, non mi lasciare!--e tese le mani per rattenerla.

Ella si trattenne in piedi, innanzi a lui. Si vedeva che non aveva la
forza di fare un passo. Guardandola disperatamente negli occhi,
tenendole una mano, egli la supplicava ancora, confusamente, di non
lasciarlo, così, in quell'ombra; ed ella non rispondeva, levando il
volto, mordendosi le labbra.

--Giovanni, perchè vuoi che io resti? Che ci porterà di nuovo questa
sera, o il domani? Non saremo sempre gli stessi? Che si muta, per un
discorso o per un giorno? Avevamo strade diverse e ci siamo voluti
amare: questo amore è stato il tuo cruccio, allora; è stato il mio
cruccio, adesso. Riprendiamo la via, più stanchi e più delusi di
prima: Dio benedica la tua strada!

--Non te ne andare, non te ne andare!

--Addio, Giovanni--e gli toccò la mano, con la mano guantata,
allontanandosi subito.

Per l'uomo che singhiozzava, lassù, sul banco del giardino solitario,
come per la donna che discendeva alla città, senza vedere il sentiero,
poichè le lacrime l'acciecavano, il sole era tramontato. Intorno ad
essi era la grande, lunga, infinita notte dell'anima. [Blank page]



L'AMANTE SCIOCCA.

_A Luigi Gualdo._



I.

Paolo Spada aspettava la sua nuova innamorata, con una vivace
curiosità mescolata a una certa tenerezza piena d'indulgenza e a
movimenti improvvisi e insoliti di buon umore. Egli aveva realizzato,
finalmente, dopo alcuni anni vissuti fra i tormentosi piaceri di amori
inconsciamente complicati, dopo aver adorato delle bizzarre e
inquietanti creature che eran tali, naturalmente, o che si
affrettavano a diventare bizzarre e inquietanti al suo contatto, dopo
essere stato adorato nelle forme più turbolenti, più folli e più tetre
dalle medesime creature, finalmente, egli aveva realizzato un suo
antico desiderio: desiderio fluttuante sempre in quell'anima, ora
sommersa in fondo al naufragio di qualche stravagante passione, ora
galleggiante sul mare cheto che segue le tempeste, il desiderio, cioè,
di amare una donna semplice e di esserne amato. Anzi, nei suoi momenti
di accasciamento passionale, quando il più perfido ingranaggio
psicologico e le mistificazioni dei sensi avevano esaltato i suoi
nervi e il suo cuore, quando più egli aveva provato le stanchezze
supreme e le nausee profonde di qualche amore complesso, impreciso ed
enigmatico, egli non diceva di desiderare una donna semplice, diceva:
una donna stupida. Era tale la sua ribellione a nuove avventure
d'amore dove il cuore e la persona avessero dei misteri da rivelare,
delle ombre da indagare, che egli arrivava alla volgarità di certi
uomini comuni, i quali vantano, per aver inteso vantare ad altri,
l'amore umile delle donne che non conoscono l'ortografia. Paolo Spada,
l'artista squisito, narratore di storie sentimentali e crudeli,
cesellatore, di versi ora sonori, ora dolenti, sempre alti, sempre
nobilissimi, rassomigliava, in queste sue rivolte, a un qualunque
farmacista di provincia, che dica il suo avviso sull'amore e sulle
donne, a tre o quattro amici, al lume azzurro di un boccale
illuminato. E, certo, egli l'aveva cercata, spesso, questa donna
semplice, anzi questa donna stupida, per ripetere il suo sincero e
brutale aggettivo: e due o tre volte egli aveva creduto di trovarla e
aveva avuto dei sussulti di gioia, un senso generale di pace nel suo
spirito, come un addormentamento di tutti i sottili dolori che
stridevano sui suoi nervi. Era stato deluso, sempre: giacchè nella
semplicità apparente e ingannatrice di queste donne, egli aveva presto
ritrovato quei segreti moti, quelle illogiche azioni, quelle
incoerenze talvolta leggiadre, talvolta repulsive, che danno all'uomo
innamorato l'acuto e torturante segnale di non so quale mistero
racchiuso in un carattere, in un temperamento muliebre. Fresco e
lieto, egli si era abbandonato alla dolcezza di trovarsi con una
creatura limpida, cristallina: invece, quasi per una ironia, troppe
volte ripetuta, perchè non paresse fatta apposta, egli si trovava
innanzi a un'enigma fisiologico e psicologico. In fondo, alcune di
queste donne erano forse semplici, o meno complicate: ma appena
elevatesi all'onore di essere amate da Paolo Spada e di amare Paolo
Spada, subito vi era in loro, come per magica influenza, un annodarsi
di pensieri, d'idee, di sentimenti, un ravvolgersi di circostanze e di
fatti, un concentrarsi di veli e di ombre, per cui pareva che
cangiassero di natura. Freddamente furibondo per l'inganno, Paolo
Spada rodeva il freno di un giogo spirituale e sensuale, che lo
opprimeva con una monotonia scorante. Quando veniva la liberazione,
quando, cioè, l'amore finiva, egli giurava di essere più cauto, più
sagace in un'altra prova.

Così, a furia di sagacia, di cautela, di gelida pazienza, egli aveva
ritrovata in Adele Cima la donna semplice, a cui il suo cuore stanco e
disfatto anelava. Oh egli l'aveva sottoposta a una quantità di prove,
la giovane donna, dai belli e lunghi capelli castani che si
ammassavano sulla testina, dai grandi occhi lionati che guardavano con
tanta tranquillità e tanto candore, e avevano il fascino della
tranquillità e del candore, dalle fini sopracciglia nere e dalla
fronte un po' breve; e nelle prove, molto lunghe, convincenti,
esaurienti, era risultato che Adele Cima era una donna assolutamente
semplice e anche stupida, un pochino, non molto. La sua beltà mancava
di finezza, la sua persona non aveva nè flessuosità nè opulenze, i
suoi vestiti non erano elegantissimi: e, sovra tutto, ella non sapeva
nulla di ciò, era giustamente persuasa di essere una donnina
piacevole, era convinta di vestire come si conveniva, decentemente,
era contenta di sè senza alterigia, e non aveva occhi per vedere nè il
peggio, nè il meglio di quello che essa rappresentava. A Paolo Spada
ella era piaciuta subito, per la sua freschezza, per non so che di
nuovo e di fragrante, che era in lei, per questi indizii fisici di
semplicità e anche di una certa stupidaggine, gentile, non soverchia,
non urtante; quando ebbe fatti tutti gli assaggi per conoscerne
l'anima, egli si abbandonò subito ad amare questa piccola Adele Cima.
In quanto a lei, lo aveva amato immediatamente. Paolo Spada aveva
fatto su lei un effetto folgorante. Il suo imbarazzo, la sua
confusione, innanzi a lui, avevano qualche cosa di commovente. Le
avevan detto che Paolo Spada era un illustre artista, che era un uomo
celebre: ma ella non aveva letto di lui neppure una riga, e si era
innamorata di lui, così, in un minuto secondo, senza rimedio. Ella si
vergognava molto di questo subitaneo amore e non se lo sapeva
spiegare.

--Io vi amo molto: ma non so il perchè--ella gli diceva, guardandolo
coi suoi buoni occhi, che ingenuamente indagavano.

--Cercate bene--rispondeva lui, sorridendo teneramente.

--È inutile: non so perchè vi voglio bene. Lo sapete voi, forse, che
conoscete tutte le cose?

--Io? Neppure per sogno.

--Allora non vi è, questo _perchè_--soggiungeva lei, subito convinta.

Pure, malgrado questo fulminante amore, Adele Cima era ancora la sua
innamorata e non ancora la sua amante. Ella si rifiutava, debolmente,
con argomenti vaghi, già quasi sedotta e trattenuta da uno sgomento
che, ogni tanto, appariva nei suoi grandi occhi spalancati.

--Vi faccio paura?--le diceva Paolo Spada, un po' scherzando, un po'
rattristandosi,

--Sì--rispondeva Adele.

--E perchè?

--Perchè siete una persona così diversa da me--ella diceva, con una
umiltà sincera.

--Non importa, non importa--era la parola indulgente e carezzosa del
seduttore.

Ella aveva finito per promettere di andare da lui, in quel giorno,
alle due; e Paolo Spada, in un rinnovellamento pacifico di tutte le
sue forze morali, in un rigoglio di tutte le sue energie fisiche,
aveva inteso una viva gioia dilatarsi in lui. Nessun dubbio lo
tormentava, come in tutti gli altri primi convegni, in cui mille volte
aveva temuto che l'amata non giungesse--e gli era bene accaduto, di
aspettare invano!--che un capriccio, un caso la trattenessero: egli
era certo che Adele Cima sarebbe venuta al convegno. Era troppo
semplice per mancare.

--Ed ella verrà anche a tempo, alle due, non prima e non dopo: forse,
si tratterrà per via; per non giungere troppo presto--egli pensò,
leggendo a distanza nell'anima della sua dilettissima stupida, come
già la chiamava.

In onore della semplicità di Adele Cima, egli non fece nessun
preparativo nella sua casetta di via San Sebastianello, che guardava
piazza di Spagna e le prime vette degli alberi del Pincio: altre volte
egli bruciava dei profumi, egli comperava dei gigli, delle orchidee
per piacere alle sue raffinate amanti. Un fascio di rose in un vaso di
cristallo gli parve che bastasse. Del resto, le sue stanze che
formavano il suo quartierino da scapolo, da amante e da scrittore,
avevano in sè tale accumulamento di bizzarrie, nei mobili, nelle
stoffe, nella disposizione, in ogni oggetto, che egli guardava tutto
ciò, con occhio compiaciuto, pensando allo stupore della cara piccola
donna sorridendo, da prima, all'effetto che avrebbe prodotto su lei
ogni cosa, dai tappeti di Smirne, a un idolo di bronzo e avorio
panciuto, orribile; dal letto che era dissimulato sotto una grande
stoffa di chiesa, ai ritratti delle donne amate che guardavano dalle
loro cornici di argento inglese e di cuoio impresso. E una crescente
tenerezza lo invadeva, all'idea di quella buona giovane creatura, così
attraente e così nuova per lui, che veniva col suo passo quieto e
misurato a dargli dell'amore senza enigmi, senza misteri, senza noie e
senza scene. Egli si decideva ad amarla molto e bene, questa povera
Adele Cima, senza mai darle un dispiacere, senza mai farle intendere
da quali altezze di pensiero e di sentimento egli discendesse, per
raggiungere l'umiltà di quell'amore, senza mai comunicarle la febbre
che lo ardeva, nelle sue ore di lavoro e di doloroso lavoro. Voleva
amarla moltissimo e bene, giacchè egli sentiva quale grande refrigerio
alle sue vene ardenti sarebbe venuto dalla freschezza di quell'amore,
quale equilibrio sereno avrebbe messo nei suoi nervi quella mitezza
d'anima muliebre, quale pace forte e vivificante avrebbe data al suo
mobile e inquieto pensiero, la lentezza, la semplicità, la piccolezza
del pensiero di Adele Cima. Sì, quella stupida gli sarebbe stata
infinitamente cara, giacchè sarebbe stata infinitamente utile al morbo
del suo spirito!

Ella venne alle due, precise. Paolo Spada che aveva gli occhi
sull'orologio, come giuocando con sè stesso, sorrise, udendo suonare
alla porta. Andò ad aprire egli stesso. Adele Cima gli apparve innanzi
e gli sorrise, così innamoratamente, che l'uomo sentì vincersi da una
emozione. Invece di baciarla sulle labbra, molto finemente, egli si
inchinò e le baciò la mano. La trattava come una duchessa: egli si
accorse subito che ella era meravigliata e confusa di ciò, cominciando
a non capir nulla, da quel primo bacio. Poi, Adele Cima si distrasse
immediatamente: egli l'aveva condotta a sedere sopra un divano, dove
era gittato uno scialle turco, e le toglieva lentamente un guanto,
scherzando con le dita: essa stringeva ogni tanto la mano di lui,
mentre si guardava intorno, incantata. Mai, aveva visto nulla di
simile: e tutto le sembrava strano e incomprensibile, producendole
esattamente l'impressione che egli aveva preveduta. In sè, egli
sorrise di aver perfettamente indovinato quell'effetto. Adele Cima era
come egli la vedeva, la intendeva, la supponeva, di una facilità
d'interpretazione tale, come se egli rileggesse un libro imparato a
memoria nell'infanzia e tutti i brani gli si ricostruissero nella
mente.

--Vi piace, qui?--le domandò lui.

--.... Sì--ella rispose, dopo un minuto di esitazione. È sempre così
oscura, la casa?

--Sempre. Io odio la luce, in città.

--Ah!--ella disse, senza chiedere altro.--E ci state solo, qui?

--Ho un servo: l'ho mandato via.

--Non vi annoiate, solo!

--No, mai. Salvo quando vi aspetto.

--Io sono venuta puntualmente--ella soggiunse, subito, volendosi
difendere.

--Sì, sì, cara--e le baciò le due mani.

Paolo Spada era innamorato molto, in quell'ora, e la piccola donna
vestita di un bigio comune, di un vestito che egli le conosceva già,
gli piaceva moltissimo: ella era in casa sua: lo amava, ella, perchè
era venuta a lui, senza maggiori indugi, senza pretese, senza domande
di fedeltà, senza patti: lo amava, tutto lo diceva in lei: eppure egli
indugiava a chiederle di esser sua, così, per prolungare quei minuti,
così tranquilli, sicuro oramai di lei, come della luce del sole. Adele
Cima guardò le rose. Egli si alzò, e gliene dette due, le più belle.
Essa non le odorò, non le mise alla cintura, le tenne mollemente fra
le dita, quasi senza guardarle.

--Non amate le rose?--le chiese Paolo Spada.

--.... Sì.

--Forse amate qualche altro fiore, specialmente?

--No, nessun fiore, specialmente.

--Io ho amato molto il giglio, una volta, poi le violette di Parma,
poi le orchidee....

--Che sono, le orchidee....

--Certi fiori molto rari, molto strani....

--Non li conosco--mormorò ella, distratta.

Pure, un lieve pallore l'aveva scolorita. Egli non se ne accorse. Ora,
ella si era levata e avvicinatasi a un tavolino, ne aveva preso un
ritratto di donna.

--Chi è questa signora?

--Quale? Ah!... una russa.

--Una straniera? Siete stato in Russia, voi?

--Sì, una volta.

--È lontano, è vero?

--Lontano: vi fa molto freddo.

--Perchè vi andaste allora?

--Mah!... per seguire questa signora....

--Voi l'amavate?

--Sì.

Un silenzio si fece. Adele Cima si morsicò il labbro inferiore: poi
domandò:

--Come si chiamava?

--Questa russa? Natalia.

--Che bel nome!

--Vi pare?

--Il mio è così brutto, non è vero?--disse ella venendo a lui, con una
espressione di malinconia che lo turbò.

--Adele? Ma Adele vale mille volte più di Natalia--egli esclamò,
volendo consolarla subito.

--Eh, no!--diss'ella, tristemente--è un brutto nome.

--A me piace immensamente, cara.

--Perchè mi volete bene.

--Forse per questo.

--Ma è un brutto nome, non dice nulla.

Si allontanò nuovamente da lui, andò a guardare gli altri ritratti;
egli la seguiva, tenendole una mano, lusingato e intenerito da quella
semplicità, da quella ingenuità. Ella prese un altro ritratto e glielo
porse:

--Era bionda, questa?

--Sì, bionda.

--Vi piacciono le bionde?

--Mi piace la donna che amo.

--Più le bionde o più le brune?

--Quella che amo, quella che amo!--replicò lui, lietamente, felice di
essere amato così e di amare così,

--Il castagno è uno sciocco colore di capelli--ella dichiarò a occhi
bassi, come mortificata da questa inferiorità sua.

--Ma no.

--Me lo hanno detto, lo so. Avrei voluto esser bionda, io.

--I vostri capelli sono belli.

--Ma biondi, sarebbero stati bellissimi--replicò lei, ostinatamente.

Egli le voltò, con un gentile atto, la testa verso lui e la baciò sui
capelli. Ella sorrise, innamoratissimamente: e subito dopo, gli
chiese:

--Tutte queste signore sono state vostre amanti?

--Quasi tutte.

--Sono molte--ella disse, abbassando gli occhi.

--Io non sono più un giovanotto.

--Avete avuto molte amanti; tutti gli uomini ne hanno tante?

--Sapete.... nella nostra professione.... le occasioni sono più
facili....

--Già.... è vero, voi siete uno scrittore. Siete anche un poeta?

--Sì, cara--disse lui, sorridendo.

--Scrittori e poeti pare che abbiano molte amanti--e gli occhi grandi
e belli le si velarono di lacrime.

A quello schietto dolore, egli non resse. Le prese le mani,
l'abbracciò, cercò di consolarla con una quantità di parole vaghe,
come si dicono ai bimbi per farli finire di piangere, per farli
addormentare; ella ascoltava, già subito confortata, guardandolo negli
occhi, credendogli come il bimbo crede alla mamma. Egli le soggiunse
che tutti quelli erano stati amori effimeri, che ella sola era
l'amata, la vera, l'unica: e una immensa fede in queste proteste di
amore si leggeva nel volto di Adele Cima. Pian piano egli l'aveva
condotta di là, nella sua stanza. Sovra una scansietta di legno
scolpito, sostenuta da una gran mano di bronzo, erano, in legature
fini di pergamena, tutti i volumi di prose e di poesie di Paolo Spada.
L'innamorata ne prese uno e l'aprì:

--Che bella carta....--disse, passandovi sovra, lievemente, le
dita.--Voi avete scritto tutto questo?

--Sì, cara.

--È un romanzo?

--Sì, anima mia.

--Deve essere bello. Io ho letto pochissimi romanzi--ella concluse,
posando il libro.

Guardò nuovamente i volumi nello scaffale:

--Ci mettete molto tempo per scriverne uno, di libro?

--Per lo più, molto tempo.

--Ah!--ella disse, chinando nuovamente gli occhi.--E siete solo quando
scrivete?

--Solissimo. Qualunque rumore mi turba. La presenza di una persona,
anche silenziosa, non mi fa scrivere.

--Sì?--ella disse, con un accento fra sorpreso e sgomento.--E perchè
questo?

--Così--egli rispose, un po' brevemente, non volendo darle altre
spiegazioni.

Ella ebbe il contraccolpo di quella piccola durezza. Si sollevò verso
lui, lo guardò, gli chiese:

--Mi volete bene?

--Sì, tanto, cara.

--Vi ho seccato con quella domanda sciocca?

--No, no, non potete seccarmi.

--Io stessa sono una sciocca, compatitemi.

--Io vi voglio bene, non posso compatirvi.

--Mi volete bene, malgrado la mia stupidità?--domandò, fra il riso e
il pianto.

--Malgrado la vostra stupidità, vi adoro--disse lui, lietamente e
crudelmente.

--Ah! grazie.

Come l'ora cadeva, continuando a guardarsi intorno con stupore e con
paurosa ammirazione, Adele Cima diventò l'amante di Paolo Spada; e fu
senza lacrime e senza spasimi, senza proteste e senza giuramenti. Egli
si sentì felicissimo, come mai. In quelle ore d'amore egli non si
tormentò a sorvegliarsi e a sorvegliare l'anima dell'amata: egli non
s'inchinò a misurare il pallore dell'amata e non tese l'orecchio a
raccogliere il balbettìo della passione erompente: egli non pensò ad
esser guardingo, in quell'eterno e terribile istinto di diffidenza,
che, nei maggiori trasporti, divide le anime degli amanti,
insuperabilmente. Il suo cuore e i suoi nervi si trovarono di pieno
accordo in un abbandono giovanile e semplice, singolare in un uomo che
aveva molto e bene e male vissuto, che aveva vissuto, infine. Il
beneficio che egli aspettava dall'amore di Adele Cima, gli venne largo
e completo, giacchè un cordiale, un morbidissimo senso di riposo
avvolse tutte le sue forze, fece tacere ogni stridore, versò balsamo
su tutte le vecchie cicatrici inciprignite: e quando ella fu per
partire, e lui s'inginocchiò innanzi a lei per baciarle devotamente la
mano, un verace, un grande impeto di riconoscenza animava Paolo Spada.
E lei? Innamoratissima e timida, adorandolo già e sentendo una ignota,
invincibile confusione in sè, ella fu felice e taciturna, piena di
sorrisi ineffabili--il suo sorriso era più intelligente dei suoi occhi
larghi e limpidi--piena di dedizioni semplici e complete, obbedendo
alla legge dell'amore con una immensa umiltà che la inebbriava.
Solamente, dopo, ella continuò a dargli del _voi_; e teneramente, egli
la riprese di ciò:

--Dammi del _tu_, cara....

--Non mi riesce.

--E perchè?

Non oso.



II.

L'improvviso e soggiogante amore di Paolo Spada per Adele Cima aveva
preteso che ella venisse ad abitare con lui nella casa di San
Sebastianello. La resistenza della donna era stata debole e vaga:
l'amante con facilità le aveva dimostrato che essendo ella libera e
sola, nulla di meglio le restava a fare che unirsi a lui.

--Io ti darò grande noia: tu sei abituato alla solitudine--aveva ella
opposto, timidamente, due o tre volte.

--Tu sei incapace di annoiarmi, cara--aveva sempre risposto lui, con
quella tenerezza indulgente che era la nota principale del suo amore
per Adele.

Ella era rimasta interdetta e pensosa, come se cercasse una idea,
ancora oscura nella, sua mente, e, forse, la forma per esprimerla.
Finalmente, alle reiterate richieste dell'amante, perchè si decidesse
a venire da lui, definitivamente, ella ebbe il coraggio di dire
questo:

--E se tu, un giorno, non mi ami più?

--Io? Ti amerò sempre, diletta. Capisci che non vi è una ragione al
mondo, perchè io finisca di amarti.

--Pure.... se non mi ami più?--aveva ella replicato, incapace di
entrare in nessuna delle sottigliezze, talvolta crudeli, del suo
amante.

--Non è possibile. Se accadesse.... rimarremmo egualmente insieme....

--Come?

--I mariti e le mogli non ci restano, forse, anche quando non si amano
più?

Adele tacque: ma non era convinta. Con una espressione di rammarico,
soggiunse:

--Senza l'amore, non ci vorrei restare.

Ma queste brevi e innocue discussioni non potevano portare che a un
sol risultato: alla vittoria della volontà di Paolo Spada su quella di
Adele Cima. Ella lo amava profondamente, in una forma tutta
rudimentale, cioè cieca e assoluta. Venne a stare con lui. L'artistico
quartierino non fu guastato in nulla, giacchè vi furono unite altre
due stanze, accanto, che erano disponibili e dove Adele Cima trasportò
i suoi semplici mobili. Un tappeto di Smirne messo innanzi a una porta
della camera di Paolo, nascondeva la comunicazione tra il quartierino
e le due stanze di Adele, tanto che per molto tempo, tutte le visite
di Paolo Spada, amici, ammiratori, seccatori, ignorarono l'esistenza
della donnina dai morbidi e lunghi capelli castani, dai grandi occhi
lionati, così sempre pieni di meraviglia. Appena ella udiva il
campanello, diventava inquieta. Invano Paolo cercava di trattenerla:
se un passo si avanzava, indicando che la persona era stata ammessa
dal cameriere, ella si levava, spariva dietro il tappeto, senza far
rumore, come un'ombra. Gli amici di Paolo Spada le davano una
soggezione grande. Dalla sua stanza, involontariamente, poichè ella si
sarebbe vergognata di origliare, ella udiva elevarsi il tono della
conversazione, molto forte: le dispute si accendevano da un minuto
all'altro, ed ella, non intendendone nè la causa nè lo scopo, non
udendone bene le parole che non arrivavano precise sino a lei, finiva
per avere una paura orribile di queste liti, di questi scoppii di
voce, di questi urli. Poco a poco esse si chetavano: le voci si
facevano più fioche: tacevano: passava un tempo di silenzio.
Timidamente, ella sollevava il tappeto, faceva capolino: o Paolo Spada
era uscito e la casa era deserta: o lo trovava sdraiato sopra un
divano, sprofondato in quei trenta o quaranta piccoli cuscini di raso
ripieni di piume, che gli formavano un letto di riposo, fumando una
sigaretta, a occhi socchiusi, tranquillissimo:

--Che avevate, a gridar tanto?

--Parlavamo d'arte.

--Ah! e si grida così?

--Così, cara.

Del resto, quando non vi era nessuno, Adele Cima stava sempre accanto
a Paolo Spada. Essi pranzavano assieme; un cuoco mandava loro il cibo,
da fuori, giacchè Paolo Spada odiava l'odore della cucina, in casa; il
cameriere li serviva a tavola. Questo pranzo fatto di pietanze
cucinate alla francese, sempre un po' fredde, un po' monotone nella
loro voluta bizzarria, servite in fretta e in silenzio, nella piccola
stanza da pranzo, sotto il chiarore azzurrino, come acquitrinoso, di
una gran lampada sospesa e coperta di uno strano paralume, era una
delle cose che più spostava i gusti e i costumi di Adele Cima. Tutte
quelle conserve, quelle mostarde di gusto inglese che Paolo Spada
sovrapponeva alla cucina francese, finivano di stordirla nelle sue
quietissime inclinazioni culinarie. Per far piacere al suo amante,
ella gustava di tutto, con un certo coraggio, giacchè molte di quelle
cose non le piacevano punto: e sorrideva a lui, con quel luminoso
sorriso dove ella trasfondeva tutta la sua adorazione per Paolo. A
furia di dominarsi, ella aveva quasi finito per amare il fegato d'oca
di Strasburgo, e per tollerare il caviale: ma non le riesciva di
sopportare il roseo salmone, di cui egli era così ghiotto, pranzando
solo con quello, talvolta, e con una tazza di tè. Egli capiva
perfettamente lo stordimento di Adele, e ne godeva, e ogni volta che
l'amore compiva un'altra di queste sorprese e un altro di questi
miracoli, egli aveva un senso di trionfo nel suo animo. Non solo egli
era riconoscente ad Adele Cima, che essendo una povera cara scema,
cercava di seguirlo in tutte le naturali anomalie della vita delle
persone di talento, ma le era anche grato che, malgrado lo stupore,
malgrado l'impressione cattiva, ella restasse quel che era, così
tenera, così adorabile nella sua adorazione per lui. Egli pensava:

--Ella non ama questa cosa: ama me, però: e per questo si sforza di
amare la cosa che odia; forse, non ci riesce: ma a me, che importa?
Vedo il risultato, io. Essa mi adora e divorerebbe i carboni ardenti,
per me.

Uscivano insieme, sempre. Ella avrebbe preferito di andare per il
Corso: anzi, ella trovava via Nazionale la più bella delle vie.
Viceversa, egli era un appassionato, come tutte le anime artistiche,
dell'antica Roma e più della sua solenne e poetica campagna romana.
Egli non si stancava mai di ritornarvi, sebbene da anni ed anni vi
andasse, figliuolo devoto dell'augusta città, ma più delle sue vaste
solitudini. Colà, egli più si raccoglieva e pensava. Quelle estensioni
di terra brunastra, qua e là appena appena sparse di qualche striscia
di erba, quelle ondulazioni singolari del terreno, come per
sommovimento tellurico, quelle alte barriere, che dividono, non si sa
perchè, quei campi infecondi, l'uno dall'altro, quelle rive cretose
che discendono al fiume giallo inclinandovi i neri bracci stecchiti
dei salici, erano il miglior orizzonte per il suo gran sogno di arte e
di poesia. E, amando Adele Cima, volendola insieme, sempre, come
emblema di amore e di pace, come compagnia di equilibrio e di
serenità, egli la conduceva seco, spiegandole benignamente tutta la
grandiosità e la bellezza di quel paesaggio, che non rassomiglia a
nessun altro. Ella lo ascoltava, incantata dal suono di quella voce
così toccante nella sottile velatura che la rendeva un po' roca,
incantata da quella luce di entusiasmo che rendeva più seducenti i
bellissimi occhi di Paolo Spada, incantata dall'armonia di quello che
egli diceva: e chinava il capo, assentendo, diceva un monosillabo,
stringendo la mano del suo amante. In verità, quella campagna romana
la sgomentava; quella solitudine, quella sterilità, quel gran fiume
torbido, quei neri carri di pozzolana su cui passavano lunghi distesi,
sonnecchiando, pipando, fischiando lugubremente, talvolta, i
carrettieri, le opprimeva i nervi. Però, piaceva a Paolo: ciò bastava.
Lo seguiva, docilmente, ogni giorno, in queste passeggiate: anche
quando il tempo era bigio, plumbeo e il gran cielo così tragicamente
si abbassava sulla campagna: ogni tanto egli esclamava:

--Guarda, Adele, quanto è bello....

--Bellissimo--rispondeva lei, subito.

Viceversa, il suo cuore era pieno di tristezza, per quell'ambiente.
Fra le altre cose, ella temeva per Paolo e anche per lei, di prendere
la febbre in quei giorni di autunno, in quelle ore crepuscolari. Ella
che non aveva l'abitudine di fumare, gli chiedeva una sigaretta. Le
avevano detto che la sigaretta è eccellente, contro l'infezione della
febbre romana:

--Tu fumi, cara?

--Sì, sì--diceva lei, con un pallido sorriso.

Ma presto la sigaretta, spenta, le cadeva dalle dita. Ella si
stringeva nel suo mantello. Aveva i piedi gelati e non osava mai
portare un _plaid_, per non dare fastidio a Paolo. Costui, assorto,
taceva. Giacchè, nella consuetudine che aveva dapprima di andar solo
nella campagna romana e nel gran fascino che quell'ambiente esercitava
su lui, egli si dimenticava di avere accanto Adele Cima e lasciava
trascorrere il tempo, nel più profondo silenzio. Il cocchiere
seguitava a far trottare il cavallo, pigramente: la carrozza andava,
andava, lontano, punto nero sopra la via giallastra; e Adele,
obbliata, era presa da una voglia irresistibile di piangere. Allora,
quando non ne poteva più, si voltava a Paolo, lo guardava coi suoi
belli occhi grandi, sorpresi e un po' supplici. Egli la guardava, ma
non aveva l'aria di vederla. Ella lo chiamava, piano:

--Paolo....

--Che vuoi?

--Dimmi qualche cosa.

--Che cosa?

E la voce sua era così strana, come di un dormiente che sogna, una
voce di persona lontana, una voce di anima distaccata dal minuto
presente, dallo spazio presente. Adele trasaliva:

--Mi ami, Paolo?--gli chiedeva, per il bisogno di parlare, di
sottrarsi all'incubo dell'ambiente.

--Ti adoro--rispondeva lui, con un tono di maggior sonnambulismo.

Poi, un silenzio. La carrozza andava sempre.

--Torniamo, Paolo?

--Ancora un po'.

--È tardi, amore....

--Non è tardi.

Ma spesso, queste interruzioni dei suoi pensieri, dei suoi sogni lo
turbavano molto.... Senza durezza, poichè egli amava Adele, le diceva:

--Taci: lasciami pensare.

--A che pensi, amore?

--Penso; lasciami stare.

--Dimmi a che....

--È inutile che tu lo sappia--rispondeva, inasprito, a un tratto.

Ella aveva pianto, la prima volta che le parlò così; ma, peggio, egli
non si era accorto di quel pianto. Da allora, si era rassegnata a
subire tutte le interminabili e tristi passeggiate nella campagna
romana, senza parlare che quando lui la interrogava. Moriva di freddo
e di tristezza, ma soffriva tutto questo per amore di Paolo. Quando
rientravano in città, man mano, si veniva riscaldando: Paolo esciva
dal suo silenzio. Ella sorrideva, di nuovo: e un'altra prova era
passata.

D'altronde, a questi profondi assorbimenti di Paolo ella doveva
cercare di assuefarsi, poichè, in casa, lo coglievano spesso.
Loquacissimo e beffardo, insieme, ma graziosamente beffardo, egli
cadeva, ad un tratto, in una mestizia taciturna che scombussolava,
subito, tutto l'umore sereno e dolce di Adele Cima. Sdraiato, con la
sigaretta spenta fra le dita, immerso in quei molli cuscini che erano
così cari alle sue ore di riposo e di malinconia, Paolo Spada aveva
l'aspetto immobile e triste, l'aria disfatta e triste, gli occhi
socchiusi lasciavano errare uno sguardo vago e triste. Subito, Adele
gli chiedeva:

--Hai sonno?

--No.

--Sei stanco?

--Sì.

--Di che sei stanco? Non sei uscito.

--Sono stanco--mormorava lui, con quella sua voce lontana.

Ella faceva trascorrere un po' di tempo in silenzio. Indi ritornava a
lui:

--Ti senti male?

--No.

--Vuoi qualche cosa?

--No.

--Debbo andarmene?

--Resta pure: ma taci.

Adele chinava gli occhi per non piangere. Le riesciva impossibile
d'intendere la causa della tristezza di Paolo Spada, sfuggendole
assolutamente tutto il lavorio dell'anima di costui. Ella non vedeva
che l'immobilità, il pallore, la taciturnità; ella non capiva, che la
risposta indifferente, o quella dura, nella loro durezza esteriore:
ella intravedeva un mistero superiore dello spirito, arcano, avvolto
in tali veli che giammai la sua piccola mente avrebbe potuto
sollevare, e una pena acuta, intimissima, nascosta con gelosa cura la
torturava, senza che ella volesse mai esprimerla, o trovasse mai
parole per narrarla. Andava a prendere un suo lavoro all'uncinetto,
una di quelle interminabili coltri a rosoni, bianche, e seduta in una
poltroncina, lavorava nel più grande silenzio. Talvolta, la stanchezza
la sorprendeva. Ella sonnecchiava. Il capo le si abbassava sul petto.

--Tu dormi?--le dicea lui.

--No, non dormo--rispondeva lei, trasalendo, scuotendosi.

--Poverina, ti annoio.

--Non mi annoi.

--Le mie _ore d'inchiostro_ sono così odiose!

--Nulla di te, è odioso--ella replicava, a bassa voce.

Ma questa frase _ore d'inchiostro_ le faceva l'effetto di un gran buco
nero nero, dove precipitassero Paolo Spada e l'amor suo, donde ella
non potesse cavar più fuori nè l'amante, nè l'amore. Giacchè la paura
più umile, più comune, che la teneva sempre, che la tormentava in
segreto, era che Paolo Spada l'amasse poco, o non l'amasse punto. Non
sapeva, ella, per quale paese dei sogni egli partisse, in queste sue
ore tetre; neppur supponeva che vi fosse un immenso, interminabile,
infinito paese dei sogni dove se ne vanno le anime dei poeti, degli
artisti, dei sognatori: ma intuiva, così, semplicemente che Paolo
Spada era ben lontano, lontano da lei e dal suo amore in quei momenti,
e che quel corpo, abbandonato fra i cuscini, quel volto smorto e
chiuso non avevano nè sentimento, nè volontà. Ella lo adorava con
tutto il suo piccolo e serio cuore, con la sua piccola e limitata
mente, e oltre l'amore, per natura, per temperamento, per carattere,
non poteva vedere. Beninteso che, sempre, Paolo Spada usciva da una di
quelle crisi di tetraggine, per gittarsi in impeti di folle gaiezza.
Allora egli colmava la sua amante di liete carezze, di adorazioni
gioconde e quasi infantili: la obbligava ad entrare nei magazzini di
mode, dove le comperava pazzamente delle cose che non le servivano
punto; la costringeva a seguirlo nelle grandi trattorie dove ordinava
dei pranzi squisiti, sostenuti da vini generosi: la conduceva ai
teatri, nelle grandi serate: e, sovra tutto, parlava con lei, rideva
con lei, la corteggiava gaiamente, divertendosi di tutte le inveterate
timidità della donna, delle sue ritrosie, del suo terrore del
pubblico. Dappertutto, ella andava a malincuore, poichè ella
preferiva, infine, la loro casa, in cui sempre l'ambiente la
sconvolgeva, ma dove, almeno erano soli. Adesso, a poco a poco Paolo
Spada la veniva presentando ai suoi amici, senz'altro nome che questo:
_la mia Adele_, e al primo movimento di consolazione e di orgoglio che
questo nome le produceva, detto così, da lui, ne subentrava uno di
malinconia, sentendosi ricacciata nell'anonimo, senza personalità,
più, come una povera cosa appartenente a lui, come gli apparteneva un
bastone o un fazzoletto. Questi amici di Paolo Spada erano così
singolari, anche essi! Le parevano tutti affetti da una leggiera o più
grave pazzia, manifestantesi nei modi o familiari troppo, o
fittiziamente freddi, nelle voci bizzarre che pronunziavano parole
anche più bizzarre. Nelle loro conversazioni che ella si ostinava a
voler intendere, ella non afferrava che le prime frasi, e subito la
sua mente si confondeva in quei paradossi sull'amore, sull'arte, sulla
vita, e non ci si raccapezzava più. Nei caffè, per le vie, le
discussioni si prolungavano, accanite, rinascenti, giranti intorno
all'argomento, col ritorno di certi nomi, di certe frasi, di certi
intercalari; ella ascoltava, fingendo l'attenzione, ma senza capire
più nulla. Talvolta, queste discussioni erano nelle vie, di sera:
Paolo Spada e qualche suo amico andavano lentamente, fermandosi ogni
tanto, accalorati, ardenti, e Adele Cima imitava il loro passo, si
fermava con loro, sempre taciturna, levando ogni tanto il suo bel
volto bianco e sorpreso verso Paolo, quasi a pregarlo di finire, di
rientrare. Ma egli non vedeva lo sguardo timido e pregante dei bei
grandi occhi limpidi e semplici, e la disputa si prolungava, mentre
ella cadeva dall'oppressione in un sonno, per cui andava a casa come
una sonnambula. Una notte, così, girarono per due o tre ore, intorno a
piazza Navona, Paolo Spada e Massimo Dias, slanciati in una feroce
discussione sull'Ariosto ed ella, alla fine, mezza morta, non osando
dire nulla, si lasciò cadere a sedere sullo scalino, presso la
fontana. Fu allora che egli si decise a metterla in carrozza ed a
portarla a casa, invaso da una improvvisa pietà che lo rese dolcissimo
e amorosissimo verso la donna.

Questi amici di Paolo Spada la trattavano anche singolarmente. Alcuni
la salutavano correttamente, ma non le dirigevano la parola; altri le
indirizzavano delle frasi galanti in istile letterario; altri la
riguardavano come un camerata e usavano familiarmente con lei, a
grosse strette di mano, chiamandola Adele. Con quella intuizione delle
persone semplicissime, ella sentiva che sotto la correttezza di alcuni
si nascondeva il disprezzo; le galanterie in frasi fiorite la
imbarazzavano e la facevano arrossire; le familiarità la turbavano.
Qualche volta, malgrado la sua timidità, aveva sorpreso qualche parola
che suonava caricatura per lei e certi sorrisi le sembravano dubbi. Ne
aveva parlato a Paolo Spada:

--I tuoi amici mi ritengono per una stupida.

--No, cara.

--Credilo, è così.

--Da che te ne accorgi? Saresti diventata furba, per caso?

--Non lo so: ma per loro, sono un'oca.

--Per loro, come per me, sei una bella, buona, cara donnina, ecco
tutto. Vuoi dei complimenti, a quanto pare.

--Se sono un'oca per te, non voglio essere un'oca per gli altri--ella
soggiungeva, assai più triste, convinta che Paolo Spada si vantasse
della sua ocaggine.

--O cara ochetta sentimentale e mesta, cara piccola oca bianca e
malinconica, finirai per rassomigliare a un cigno--diceva lui, con la
sua voce sonora e pure velata che la seduceva, toccandone le fibre più
recondite del cuore.

Avrebbe ella, forse, voluto allontanarlo, da queste conversazioni, da
queste dispute con questi amici dagli occhi stralunati, dalle ciere
malaticcie, che fumavano la pipa, talvolta, o che erano in una
perfetta tenuta da gentiluomo, in marsina, con la pelliccia aperta,
col fiore all'occhiello, ma che avevano egualmente la ciera morbosa e
gli occhi sognanti, quasi allucinati. Ma era un desiderio, niente
altro: ella era fatta per seguire Paolo Spada in ogni suo
vagabondaggio e per obbedirgli in ogni suo capriccio. Gli faceva
qualche obbiezione, soltanto:

--Ti diverti tanto, in compagnia di Massimo Dias, di D'Arcello, di
Lamberti?

--Non mi diverto punto.

--E allora, perchè li cerchi tanto?

--Mi sono necessarii.

--Oh!

--Le dispute riscaldano il sangue ed eccitano i nervi....

--E fan male alla salute,

--Del corpo, forse. Viceversa, fanno bene alla salute dell'anima, che
è la sola interessante.

--La salute dell'anima? La vita eterna, cioè?

--No, cara--concludeva lui, con quel sorriso d'indulgente amore che
gli spuntava. sulle labbra, quando ella diceva una sciocchezza.

Bensì arrivava il tempo in cui Paolo Spada abbandonava lui gli amici,
non uscendo, chiudendo la sua porta, vivendo in casa per intiere
settimane, fra le sigarette, il caffè e il lavoro. Questi furori di
prosa e di poesia lo assalivano improvvisamente, dopo una gita nei
dintorni, dopo la lettura di un libro, dopo aver ritrovato un vecchio
pacchetto di lettere, ed egli si dava tutto a quel lavoro della
composizione d'arte e della successiva scrittura, sommergendosi negli
abissi della creazione e della forma, come chi da un altissimo picco
si getta nel mare. Non conosceva più, Paolo Spada, in quelle
sommersioni, nè misura di tempo e di spazio, nè fatti o circostanze,
nè necessità o capricci, egli dimenticava l'ora del sonno come quella
dei pasti, egli volentieri restava, in pieno meriggio, con le imposte
sbarrate e la lampada accesa; inchiodato nel suo seggiolone di cuoio,
chino sulla carta, levando ogni tanto, da essa, un par d'occhi
nuotanti nelle visioni, o passeggiante per la stanza da studio,
rapidamente, da un capo all'altro, a testa china, o leggendo ad alta
voce, anzi declamando dei versi o della prosa, gettandosi, talvolta,
da una sedia a una poltrona, ritornando al seggiolone, e, talvolta,
cedendo al sonno, sul gran tavolino da scrivere, con la testa sulle
braccia, come un fanciullo. L'amore? sparito, morto. L'artista si
trovava nel gran tumulto interno che sconvolge ogni altro affetto e
che trasporta nelle ansie e nelle ebbrezze della concezione e della
procreazione d'arte, la febbre che lo ardeva aveva invaso e incendiato
tutto il suo sangue, e le sue fantasime d'arte erano più vive, innanzi
agli occhi della sua fantasia, più belle, più vive, più desiderate,
più amate della vivente Adele Cima, che gli sembrava un'ombra vana e
fredda.

Ella si rendeva un'ombra. Girava intorno a Paolo Spada con un passo
così lieve che non si udiva, non urtava un oggetto, non faceva
stridere una chiave, spariva dalle porte come se si dileguasse
nell'aria. Così ella faceva, un tempo, quando aveva assistito sua
madre gravemente inferma: le pareva di essere presso un malato, tanto
lo stato fisico e morale di Paolo Spada le sembrava scombussolato,
tumultuario, perduto ogni senso di realtà. Obbediente come un bimbo
buono, ella lo aspettava con pazienza alle ore dei pasti, non andava a
letto, talvolta, che tardissimo, vegliando accanto a lui, leggendo un
libro qualunque il cui senso le sfuggiva, o dicendo il suo rosario, o
stando immobile, oramai abituata a questa vita di statua. Lui, che
giammai aveva potuto lavorare con una persona presente nella stanza o
anche nella casa, tollerava perfettamente quella di Adele Cima, tanto
ella si rendeva piccola, minuta, inesistente. Anzi, la voleva presso a
lui. Era come un mobile che si ama, su cui si posano gli occhi
volentieri e le cui linee corrispondono a non so quale bisogno
estetico interiore. Talvolta, in un brevissimo, lucido intervallo, era
vinto dalla compassione:

--Va a letto, cara,

--No, ti aspetto.

--Io ho molto da scrivere, va, va.

--Che importa? aspetto.

--Creperai di noia e di sonno.

--No, niente. Aspetto. Tu hai molto da scrivere?

--Moltissimo: enormemente.

--Non importa, non importa.

Di amore, in lui, non un atto, non una parola. Questo ella vedeva
bene, e un morso le afferrava il cuore. La febbre del lavoro e di quel
lavoro la colpiva solo per i suoi fenomeni morbosi; ella non ne
comprendeva nè la purissima fiamma, nè il nobile tormento, nè
l'ebbrezza del travaglio. Non si spiegava perchè un uomo giovane, sano
e bello, amato, amante come Paolo Spada si desse a quella passione
singolare che ne consumava i giorni, la salute, la beltà, che lo
toglieva, sovra tutto, all'amore. Ah questo, questo, ella non se lo
spiegava ed era il suo cruccio più intimo e più costante! Nel suo
giudizio stretto e poetico della vita, le pareva che un'altra donna le
potesse togliere Paolo Spada, ma non già un foglio di carta bianca e
una penna intinta nell'inchiostro. Che egli scordasse i suoi baci, le
sue carezze, il suo amore così saldo e così affascinante nella
semplicità, per restare i giorni e le notti nella sua stanza di studio
scrivendo, lacerando carte, riscrivendo, passando la penna a grandi
colpi sulle linee scritte, per cassarle, leggendo, declamando,
fumando, bevendo caffè, senza sole, senza luce, senz'amore, proprio,
senz'amore, le sembrava una cosa tanto folle, tanto ingiusta e tanto
crudele che, spesso, sparendo nella sua povera cameretta, se ne andava
a piangere in un cantuccio, solitariamente. Per lei l'amore era la
sola passione, la sola occupazione, il solo pensiero e il solo affare,
e tutto questo, molto semplicemente, in vero temperamento muliebre
nato per il ristretto campo dell'amore. Giammai, in queste sue ore di
desolazione, ella trovava un pensiero contro l'egoismo artistico di
Paolo Spada, giammai ella si pentiva di essersi data a lui, di esser
venuta a vivere con lui, ma si sentiva ed era una creatura
perfettamente infelice.

Quando era stata lungamente assente, egli la chiamava. Ella si lavava
in fretta gli occhi, riappariva quasi sorridente ed egli non vedeva
punto il rossore delle palpebre.

--Perchè te ne vai, Adele?

--Ti disturbo, forse.

--Non mi disturbi. Non ti vedo neppure.

--E allora, perchè mi vuoi?

--Così, per consuetudine.

Ella crollava il capo, mentre si faceva pallidissima. Paolo Spada non
se ne accorgeva. Nell'orgoglio fugace dei momenti di creazione, le
diceva, esaltatamente:

--Sai? Sto scrivendo un capolavoro.

--Lo credo, Paolo.

Ma non gli chiedeva che fosse. Temeva di dire una stupidaggine,
chiedendo.

--È una novella, una lunga novella: ma un capolavoro. Si chiama: _il
vincitore della morte_. Ti piace il titolo?

--Sì, mi piace.

--Veramente, ti piace? Di' la verità.

--Mi piace moltissimo.

--Ora te ne leggo un pezzo. Ti secchi?

--No, amore, no.

Egli dava di piglio alle molte cartelle dove scriveva col suo
carattere lungo e sottile, e con voce tremante, mentre le dita che
tenevano il manoscritto tremavano, egli cominciava la lettura. La voce
si facea più ferma e ondeggiava nei periodi che si legavano l'uno
all'altro, e si abbassava mollemente, s'innalzava violenta.
Attentissima, ella non batteva palpebra. Pure, quest'attenzione non
gli bastava:

--Tu, non mi ascolti?

--T'ascolto.

--Hai l'aria distratta.

--Non è così. Leggi.

Paolo riprendeva la lettura. Si arrestava, per vedere se sul volto di
Adele Cima passasse qualche impressione: e la vedea mutar di colore.
In verità, era quella voce dell'amante, quella esaltazione, il rombo
della lettura, che la commovevano.

--Ti piace? Ti piace?

--Moltissimo.

--Dici sul serio?

--Sul serio.

--Non già perchè mi vuoi bene?

--Non so: mi piace.

Egli finiva la lettura, entusiasmato.

--Ti piace?

--È bellissimo.

--Sì, credo di aver fatto una cosa buona--diceva lui, già un po'
smontato.

--Quante cartelle ne hai scritte?--domandava Adele, dando un'occhiata
obbliqua al manoscritto.

--Sessantacinque.

--E quante altre te ne restano?

--Centocinquanta, più, forse.

--Ah!

Si voltava in là, per non fargli osservare il suo viso, dove la pena
che questa febbre ancora molto, troppo durasse, si dipingeva.
L'indomani, lo trovava tetro e disfatto.

--Ho scritto delle corbellerie ignobili--le dichiarava lui.

--Come? Non ti sembravano un capolavoro?

--Mi sembravano. Ero esaltato. Sono corbellerie.

--A me piacevano.

--Naturalmente.

--Paolo!--era la sola rimostranza dolorosa.

--Mia cara, che vuoi capire tu? Quando piace a te, è segnale di
ignobile corbelleria.

--E allora, perchè leggi a me?

--Così, per sfogare: niente altro.

--Perchè mi domandi il giudizio?

--Perchè gli scrittori sono delle bestie inconcludenti, deboli e
vigliacche--esclamava lui, nella brutalità delle giornate di
abbattimento.

--Non dire questo, Paolo.

--Taci, Adele. Vattene.

Ebbene, ella si accorgeva che negli accasciamenti della sua febbre
d'arte, in quegli accasciamenti in cui tutti i mortali chiedono soccorso
di tenerezza, ella non poteva consolarlo. Sensibilissima
sentimentalmente, ella misurava col cuore timido e trepido questa sua
impotenza e la esagerava. Quel male ignoto e quel dolore ignoto traevano
origine da radici di profonde e sconosciute infermità morali e forse
fisiche: ella poteva bene piegare il volto su quell'ombra, il suo
inesperto sguardo nulla vi potea mai distinguere. Adele si ritraeva, con
un senso vivo di umiliazione sempre rinnovantesi e che le aveva omai
aperto nell'anima una fine ferita sempre sanguinante e sempre frizzante.
Il silenzio era il suo rifugio, dove naturalmente, le più semplici e
anche le più tormentose supposizioni la facean dubitare di sè stessa, di
Paolo Spada, dell'amore. Forse, egli era stanco di lei e non glielo
diceva per gentilezza d'animo; forse, questo suo amore che era niente
altro che amore, offerto con tanto abbandono, ma con tanta monotonia,
aveva già nauseato Paolo; forse egli pensava a quelle sue donne così
raffinate, così squisite, che lo amavano in una forma complicata e
straordinaria, che gli scrivevano quei pacchi di lettere da lui
conservate preziosamente, da lui spesso rilette, spesso giacenti in
confusione sul tavolino da scrivere--talvolta, egli si serviva di quei
documenti per la sua storia d'amore--mentre ella non aveva mai osato di
scrivergli un biglietto, temendo di commettere degli errori di
grammatica e di ortografia; forse, egli già ne aveva trovata
un'altra.... ella era così sciocca, così infelicemente sciocca! Con
cura, ella nascondeva i suoi sospetti, per non torturarlo, giacchè ella
gli risparmiava, amorosamente, qualunque puntura; ma, senza volerlo,
trapelavano.

--Anche oggi, sei così triste, Paolo?

--Anche oggi.

--Ma a che pensi?

--Mi è impossibile di narrartelo: è troppo lungo.

--Dimmi, almeno, a chi pensi?

--A chi? A nessuno, cara.

--A nessuno, proprio? A nessuna donna?

--.... No. Che pensi?

--Nulla, m'immagino. Credevo.... perdonami. Non sei stanco di me?

--No, non ancora.

--Dimmelo, quando sei stanco.

--Te lo dirò, non dubitare.

Ognuna delle risposte di Paolo Spada la meravigliava e la faceva
soffrire. Lo credea sincero. Non amava un'altra donna: non era stanco
di lei: ella gli piaceva ancora. Ma dunque era proprio per questo
terribile lavoro dello scrivere, che il suo amante l'abbandonava, si
dimenticava di lei come se non esistesse, la guardava in volto
trasognato come se non l'avesse mai vista, non le prendeva una mano,
non la baciava? Così sono, dunque, questi uomini che scrivono? E
quest'_arte_, questa parola che ella udiva ripetere continuamente,
senza intenderla, quest'_arte_ pronunziata ora enfaticamente, ora a
bassa voce in tono pauroso, quest'_arte_ le cui quattro lettere
escivano, pronunziate dalla bocca di Paolo Spada, con un ardor amoroso
meglio di qualunque amorosa parola, ella aveva finito per odiarla in
silenzio, con tutta la muta ribellione del suo cuore. Non era una
donna l'arte, nè aveva i capelli neri, biondi o rossi, diversi dai
suoi; non era una persona slanciata dagli occhi grandi e bruni e
scintillanti, mentre i suoi erano limpidi e tranquilli e la sua
persona era piccola e graziosa; non era una donna intelligente e
sapiente, mentre ella era una povera buona, ignorante: eppure Adele
era gelosa di quest'_arte_ e la detestava, con tutto il cuore, come se
fosse una creatura viva. A poco a poco i libri, le carte, il calamaio,
l'inchiostro e la penna, e tutto quello che è il corredo di chi
scrive, le cominciarono a fare orrore: e gli accessi di lavoro feroce,
o gli assorbimenti lunghi in vaghe contemplazioni di Paolo Spada, le
davano l'impressione d'una sua sciagura personale, sempre respinta e
sempre ricadente sul suo cuore. Un giorno, quasi fosse presa da una
curiosità puerile, gli domandò:

--Come ti è venuto in mente, di scrivere?

--A me? Non me ne ricordo.

--Ma infine, hai dovuto cominciare?

--Sì, ho cominciato.... non potevo far di meno di cominciare.

--Perchè?

--Era il destino, cara.

--Non hai mai pensato a fare un'altra professione?

--Mai. Non avrei saputo farla.

--Tu sai far tutto. Perchè non hai tentato?

--E perchè dovevo tentare?--gli disse lui, un po'meravigliato.

--Così.... per fare quel che fanno tutti gli altri--diss'ella,
penosamente.

Egli intese qualche cosa:

--Ti piacerebbe, eh, che io fossi un medico? O un impiegato? O un
ufficiale di cavalleria?--e una lieve ironia era nella sua voce.

Ella impallidì e arrossì. Subito, negò tutto:

--Mi piaci come sei, Paolo.

--Ma saresti più felice con un medico, m'immagino: felicissima, con un
ufficiale di cavalleria: arcifelicissima, con un impiegato, Adele.

--No, no, no--esclamò lei, disperatamente--non posso esser felice che
con te.--Temo.... temo che tu sia infelice.... sono così incapace di
capirti....

--Non vi è bisogno, che tu mi capisca--soggiunse lui--nessuna donna
capisce mai un uomo e viceversa. Io sono perfettamente felice, del
resto, con te che non mi capisci: te lo assicuro. Amami e basta.

Infatti, in quell'amore, così quieto e così uniforme, in quel
sentimento rudimentale che di nessun altro si addoppiava e si facea
difficile, in quell'espansione semplice quotidiana, senza grandi scene
tragiche come senza troppo fini scene di commedia, in quella bontà
costante e suadente, in quell'affetto dove mancava qualunque sorta di
enigma, egli trovava l'ambiente migliore per il suo spirito stanco e
per il suo cuore disgustato di eccentricità. Per troppo tempo, la
donna era stata per lui elemento di curiosità vivacissima nella vita e
nell'arte ed era, quindi diventata sorgente di disordine e di
squilibrio: per troppo tempo, egli aveva errato per i paesi dove il
peccato era anche romanzo e dove il romanzo conduceva al peccato: per
troppo tempo, egli aveva cercato nella donna il pascolo della
immaginazione artistica e l'urto obliquo e complicato dei sensi. Adele
Cima era il riposo della sua stanchezza, era l'equilibrio dell'asse
della sua vita, era la relazione posata e lunga, lunga e sicura, dove
il peccato perdeva ogni tinta turpe e acquistava gentilezza mite
coniugale. Mentr'ella era fuori centro, spostata, messa a contatto di
una esistenza che aveva capovolte tutte le sue poche idee, messa a
contatto con un uomo cento volte a lei superiore, della cui
superiorità ella era un'adoratrice ma anche una vittima, mentre Adele
Cima non giungeva più a riunire le sue forze per vivere, disperse in
un'atmosfera troppo alta per i suoi polmoni, Paolo Spada si
sprofondava nella beatitudine egoistica di colui che ha trovato, per
una rarissima fortuna, lo strumento più adatto alla propria felicità.
Per pensare, per leggere, per lavorare, egli aveva bisogno di non aver
più nè lettere amorose da scrivere o da andar a prendere alla posta;
di non aver più convegni da chiedere o da aspettare; di non aver più
sciarade da sciogliere o drammi da annodare, tutte cose che
impediscono, a uno scrittore, il pensiero, la letteratura, la
scrittura. Adele Cima, in quei tempi di travaglio, mentre era intorno
a lui, non vi era, camminava piano, non urtava gli oggetti, non
chiudeva i libri, non muoveva le carte, spariva, riappariva, senza
domandare di uscire, di pranzare, di dormire: nella sua semplicità o,
piuttosto, nella sua stupidaggine, era un arnese umile e perfetto di
pace amorosa e di paziente tenerezza.



III.

A un tratto, nel cuore innamorato di Adele Cima, e battuto e
mortificato dal sentimento di non essere una donna degna dell'amore di
Paolo Spada, surse una volontà improvvisa, che si maturò nell'ombra e
nel silenzio, che fu covata e si schiuse al calore della passione, di
cui ella ardeva per il grand'uomo. Ella si decise, così, senz'altro, a
diventare una donna intelligente e colta; perchè, almeno, non tutto il
mondo dove l'artista viveva le fosse vietato; perchè ella, almeno,
potesse seguirlo in un discorso, in una divagazione, perchè ella non
restasse più sola e abbandonata ad amarlo, mentre egli se ne andava
negli orizzonti dei sogni e delle visioni a cui ella, misera, non
partecipava. Ella concepì questo audace disegno nelle ore di
solitudine e anche d'infinita mestizia in cui cadeva, quando Paolo
Spada lavorava e si scordava assolutamente di lei: ella accarezzò
entusiasticamente il suo disegno, nel tempo in cui maggiormente
l'esistenza con Paolo le diventava grave e tormentosa, sentendovisi
come una povera creatura perduta e senza guida; ella ostinatamente
studiò questo disegno, quanto più amara e più insopportabile le pareva
la sua inferiorità. Non disse nulla a Paolo. Era taciturna, sempre: e
non avendo mai trovato modo di raccontargli la sua lunga miseria, la
miseria della sua stupidaggine e della sua ignoranza, non volle
neppure rivelargli il rimedio che il suo cuore aveva trovato o credeva
di aver trovato. Con l'eroismo muto dei cuori che sanno amare e amare
soltanto, ma che dall'amore traggono ogni coraggio e ogni luce, ella
si accinse allo scopo, sebbene lo sentisse arduo, lontano, forse
inaccessibile.

La prima cosa che ella tentò, per aprire la sua intelligenza, fu la
lettura dei libri di Paolo Spada. Dopo pranzo, quando egli, fumate
nervosamente quattro o cinque sigarette, si levava come mosso da un
impulso automatico, per sedersi a scrivere, ella si levava e spariva.
Nella sua borsa da lavoro, accanto al merletto all'uncinetto, delizia
borghese di altri tempi, ella aveva sempre un volume, dei varii fra
romanzi e novelle scritte da Paolo Spada: e in camera sua, si metteva
a leggere. Lo stile prezioso, ricercato con quella tortura mentale che
era una delle grandi qualità di Paolo Spada, le produceva la prima
impressione d'incomprensibilità: vi erano delle parole che non aveva
mai lette o udite e dei giri di frase, il cui senso le sfuggiva:
talvolta, delle frasi ripetute le davano fastidio, come il ronzìo di
un moscone nell'orecchio. Non so come, ella aveva udito a parlare del
vocabolario: e finì per ricorrervi, per conoscere il senso vero delle
parole strane adoperate da Paolo Spada. Con molta gravità, teneva il
libro aperto sul tavolino e con l'altra sfogliava il vocabolario: alla
ricerca della parola, lasciava perdere il filo del racconto e, dopo,
non si raccapezzava più. E, spesso, il vocabolario non le spiegava
bene, tutto: ella restava sospesa, pensando troppo per la sua piccola
mente, affaticata, e non trovando più nulla. Se contrariamente, erano
i soggetti di quei romanzi, di quelle novelle che la turbavano
immensamente. Ella aveva letto, come tutte le donnine della sua
levatura, dei romanzi di Montépin e di Ponson du Terrail, qualche
romanzo di Dumas padre e qualcuno, italiano, di Guerrazzi: ma le
istorie di Paolo Spada erano così stranamente diverse da quanto era
stato il poco pascolo della sua fantasia! Tutti i protagonisti di
Spada le sembravano degli ammalati o dei pazzi: spesso la inorridivano
per il cinismo: e quando s'interessava a qualcuno, più simpatico,
ecco, egli moriva. In quanto alle protagoniste, ebbene, ebbene,
malgrado che qualcuna di esse fosse buona e virtuosa, malgrado che
quasi tutte fossero immensamente infelici, per le lotte con sè stesse,
col mondo e con l'amore, ebbene, Adele Cima le odiava, tutte! La
innamoratissima donna leggeva i romanzi e le novelle, più col cuore
che con la mente: e la sua curiosità d'ignorante, era anche fatta di
gelosia. Con quanta carezzosa voluttà Paolo Spada dipingeva certe
figure di donna e Adele Cima vi ricercava, quasi, i ritratti delle
donne che egli aveva amate: con quanta crudeltà egli ne disegnava
delle altre ed erano forse quelle che lo avevano respinto, o,
accettandolo, lo avevano reso infelice! Ella aveva troppo partecipato
alla vita di Paolo Spada e dei suoi amici artisti, per non avere
capito, a forza di udirlo dire, che quanto essi raccontavano nei loro
libri, era loro accaduto: non aveva visto Paolo Spada copiare le
lettere di amore, nelle novelle? Così, la lettura di questi volumi
lenta, ma continua, produsse sullo spirito di Adele Cima, come una
rivelazione sempre più triste, sempre più torturatrice, del passato di
Paolo Spada. Ah egli aveva palpitato, e pianto, e sofferto, e
spasimato, il suo amante, non per lei, ma per altre donne, egli aveva
molto e troppo vissuto, il suo amante, e non con lei; egli aveva avuto
delle scene di passione e di disperazione come giammai con lei! Quante
volte in quelle eterne veglie, in cui ella aspettava che Paolo Spada
si levasse dal tavolino e, chiamandola, le dicesse che era ora di
riposarsi, quante volte ella posò il libro, pallida, disgustata,
avvelenata, sentendo di essere giunta troppo tardi, quando già la vita
aveva detto tutto al suo amante! Quante volte ella si sentì inutile,
inutile a quest'uomo, adesso più che mai, adesso che conosceva o che
le pareva di conoscere tutto il passato, e come pensò, spesso, che
sarebbe stato meglio liberarlo della sua sciocca presenza! Le si
ripeteva, nell'anima, fatidicamente, l'impressione della prima visita,
quando aveva trovato le fotografie delle altre amanti e aveva tanto
sofferto: perchè non era fuggita via, in quel giorno? Pure, un
accanimento la teneva, di legger tutto, di saper tutto.
Involontariamente, qualche parte del suo segreto le sfuggiva:

--Perchè hai fatto morire quel povero Attilio Venturi?--ella chiese un
giorno, al suo amante.

--Attilio Venturi? Chi?

--Il protagonista del tuo racconto: L'_ucciso_.

--Tu hai letto il racconto?

--.... sì--diss'ella, profondamente sconvolta.

--E perchè l'hai letto?

--Mah.... perchè era scritto da te....

--Non vi era obbligo, anima mia.

--Ho fatto tanto male? Sono dunque così sciocca, da non poter aprire
un tuo libro?--e quasi piangeva.

--Non importa, cara--diss'egli, indulgentemente--se ciò ti diverte, fa
pure. Ti è proprio dispiaciuto tanto, che Attilio Venturi sia morto?

--Oh, tanto!

--Egli _doveva_ morire--pronunziò Paolo Spada, col tono dogmatico
dello scrittore.

--Oh!--mormorò ella, senz'altro, sentendo il peso della sua ignoranza
più forte, sulle spalle.

Altri dialoghi simili, consecutivamente, accaddero. Un giorno, un
amico di Paolo Spada aveva elogiato vivamente il volume delle _Storie
crudeli_, in presenza di Adele Cima: e Paolo Spada aveva sorriso alle
lodi. Ella riprese il discorso e arrossendo, disse:

--Tutti i tuoi libri sono così belli e mi piacciono tanto, Paolo! Ma
perchè sei così cattivo, nelle _Storie crudeli_?

--Perchè la vita è cattiva, mia cara--disse lui, con un lieve
rammarico nella voce.

--Oh no, Paolo!

--Che ne sai, tu? Tu non sai nulla.

--Hai ragione--ella disse, soffocando un singhiozzo.

E un'altra volta:

--Non pensavi che la vita era cattiva, Paolo, quando hai scritto
_L'amore di Maria?_

--Quella storia è bruttissima.

--Oh, no!

--Bruttissima, ti dico.

--A me è piaciuta--soggiunse ella, con timidità.

--Questo è il segnale più certo della bruttezza--disse lui, duramente.

Poi quando la vide piangere, cercò di consolarla, carezzandola,
baciandola.

--Tu leggi troppo, ti fa male, Adele.

--Perchè, mi fa male?

--La tua testa è debole, non leggere tanto.

--Come, neppure i tuoi libri?

--I miei meno degli altri. Già, non valgono niente.

--Non dire questo, non dirlo. Perchè li hai scritti, se li disprezzi?

--Così, Adele--rispose lui, enigmaticamente, chiudendosi nel suo
silenzio.

Ma, oramai, il male era fatto. Nel cervello confuso di Adele Cima
turbinavano le frasi e i fatti in disordine: ed ella non afferrava più
il nesso delle cose, ella imbrogliava i nomi dei personaggi e delle
città, ella spesso faceva a Paolo Spada delle domande, dove appariva
anche più chiaramente che ella aveva letto e non aveva inteso nulla.
Due o tre volte, egli la redarguì, vivamente offeso nel suo amor
proprio di artista: ed Adele che non conosceva la sensibilità sempre
raccapricciante delle vanità di scrittore, due o tre volte giunse a
ferirlo: e il modo come egli le si rivoltò contro, modo insolito, di
animale irritato e ingiusto, la sgomentò talmente che, per un pezzo
ella smise di parlargli delle sue letture. Ma il male era fatto. La
serenità della mente di Adele Cima era smarrita, per sempre. Ella era
entrata in una via d'intrichi e di spine che la pungevano e la
soffocavano: nè conosceva più il sentiero per tornare indietro. In
quella confusa e incerta rivelazione di un mondo per lei
incomprensibile e in cui ella intravedeva le perfidie della menzogna,
le malvagità del cuore freddo e duro, le perversità dei sensi non
governati da nessuna delle schiette e fluide correnti del sentimento,
la ingenua anima di Adele si arretrava, compresa di spavento: ma i
suoi occhi avevano intravisto e il fiore del suo candore sentimentale
era per sempre appassito. Sovra tutto, il maggior tossico le veniva da
quelle donne ignote a lei, che Paolo Spada aveva conosciute e amate,
che erano rimaste così impresse nella memoria dell'uomo, che l'artista
aveva voluto renderle nelle sue storie.

Tutte diversamente belle e attraenti sotto la viva penna dello
scrittore, tutte dotate del fascino della vita che vibra, più forte,
nei ricordi e par vita, tutte variamente strane e seducenti, tutte
quante davano al cuore innamorato di Adele Cima le trafitture, e i
sussulti, e i pallori, e gli scoramenti di una gelosia invincibile.
Con curiosità tormentatrice, ella ritornava a rileggere quelle pagine
dove la natural poesia dell'arte ingrandiva e affinava quelle creature
muliebri: e nella loro essenza, nella loro forma, Adele Cima le
invidiava, sentendosi da loro così diversa, così lontana, sentendosi a
loro tanto inferiore da soffrirne come per persone umane che
l'avvilissero con la loro superiorità, ogni giorno, ogni ora:

--Tu hai conosciuto quell'Angelica, del tuo romanzo?--disse, in uno
dei momenti di più forte pena.

--Sì.

--L'hai amata?

--Sì.

--Era molto seducente?

--Molto.

La povera semplice donna tacque. Ah che egli era una persona troppo
sincera, mentre avrebbe potuto risparmiarle queste verità così atroci!

--Perchè hai finito di amarla?

--Mi ha tradito.

--Ah! E se non ti tradiva?

--Io tradiva lei.

--Così.... tutti questi vostri amori.... finiscono col tradimento?

--Quasi tutti.

--Finirà anche il nostro, così?--chiese lei, desolatamente, mordendosi
le labbra per non iscoppiare in singhiozzi.

--Speriamo di no.

--Speriamo? Non è che la speranza?

--In fatto di amore, tutto è fallace. Ma perchè continui a chiedere di
cose spiacevoli? Che ti importa? A che scavi nel passato? Quando mai
tu hai scavato? Amami e basta.

--Anche io ho un cuore e una mente--ella mormorò, mortificata di
essere sempre respinta nelle sue umili e taciturne funzioni di donna
innamorata.

--Credilo, il cuore ti è sufficiente--egli concluse, un po' sul serio,
un po' ironicamente.

Ella sentì l'ironia e non sentì la serietà del consiglio. Una gran
voglia di rassomigliare a qualcuna di quelle donne, di essere meno
monotona, meno semplice, meno limpida, adesso le sconvolgeva l'anima.
I suoi vestiti, dapprima graziosi e carini, ma di una grande povertà
d'invenzione, cominciarono a diventare più ricercati: ella ebbe una
vestaglia di lana bianca, con merletti pioventi e un grosso cordone di
seta bianca che la serrava: ella portò delle camicette insaldate, da
uomo, con una cravatta maschile: ella tentò di tagliarsi i capelli, ma
il parrucchiere la consigliò di non farlo. Queste nuove fogge, però,
la mettevano in imbarazzo e la rendevano goffa. Alle pareti quasi nude
delle sue due camerette ella attaccò dei vecchi ventagli giapponesi,
dei pezzetti di stoffa antica racimolati fra le cianfrusaglie del
quartierino di Paolo Spada e vi sospese dei quadretti che erano stati
donati a lui, e che egli aveva dichiarati orribili; e questo scemo
tentativo di adornamento artistico contrastava con la semplicità e
anche con la volgarità del resto dei mobili. Adele Cima non aveva mai
voluto fumare; anzi il fumo della sigaretta e dei sigari di Paolo
Spada, dei suoi amici, le dava gran fastidio. Si forzò a imparare:
ebbe tre o quattro emicranie feroci, accompagnate dal mal di stomaco,
ma fumò. Soltanto si scolorava come una morta, fumando: e faceva
sforzi enormi per esser disinvolta. Non aveva mai bevuto liquori, con
un disgusto tutto borghese: ella provò il _cognac_, e siccome aveva
inteso parlare del _gin_, come di un liquore singolare, assaggiò anche
quello. Paolo Spada, malgrado le sue profonde distrazioni, i suoi
egoistici assorbimenti, notò a poco a poco tutte queste fittizie
manifestazioni di bizzarria: e il sorriso con cui le accoglieva, aveva
della bontà compassionevole. Due o tre volte, egli rise della
goffaggine di Adele Cima: ed ella fu colpita da quel riso come da una
pugnalata. Una sera, quando più ella era stata tentata di essere
eccentrica e raffinata, e quando meno vi era riescita, quando più era
stata ridicola nei suoi esperimenti, Paolo Spada, le aveva detto, con
durezza:

--Smetti.

Ella si era fatta di mille colori e aveva abbassato gli occhi.

--Non fumare più, smetti; smetti di vestirti come ti vesti; non bere
_cognac_ e non parlare di amore col terzo e col quarto. Smetti,
smetti, Adele.

--Che ho fatto di male?

--Nulla: ma sei ridicola. Chi te lo fa fare?

--Così--diss'ella, con voce fievole, a capo basso.

--Vi è una ragione, a queste stravaganze. Dilla subito.--replicò
improvvisamente.

--L'idea di piacerti....--balbettò l'infelicissima.

--Hai sbagliato. Mi dispiaci enormemente.

--La paura del tuo disprezzo.... hai amato tante donne intelligenti e
fini.... io sono una creatura volgare....

--Mi sei piaciuta come eri: non ti guastare. Smetti tutte queste
buffonate. Tu non ti puoi cangiare.

--Oh Dio!--singhiozzò la poveretta.

--E ringrazia il Signore, invece, che non ti cambia. Se ti cambiasse,
non ti amerei più.

--Perchè mi dici questo?

--Perchè è la verità. Ritorna alla tua semplicità, mia cara, o ci
lasciamo per sempre.

Come ritornarvi totalmente? Ella obbedì, con la devozione della
persona assolutamente innamorata, a quanto le aveva detto Paolo Spada;
ella ritornò, tristemente, alle sue vesti di gusto borghese e ai suoi
cappellini insignificanti: ella lasciò le sigarette e il _cognac_:
ella schiodò tutti i ventagli vecchi e tutti i brandelli scoloriti
delle stoffe, dalle pareti delle sue stanzette. Ma tutti questi atti,
consecutivi, le rammentavano la inanità della sua persona: le
ripetevano, mandando il rosso della vergogna al viso, che ella non
poteva elevarsi, in nessun modo, dalla mediocrità dove era sempre
vissuta: le replicavano, in tutte le forme, che una donna semplice o
anche sciocca, sempre tale rimane e che non vi era speranza, per lei,
di essere considerata da Paolo Spada salvo che per una donnetta di
casa, scema, ignorante, che gli dava dell'amore senza fantasia e senza
drammi, quando egli aveva voglia di essere amato. Lo scorno
dell'esperimento fatto e mancato le ritornava sempre, massime quando,
era sola: ed ella chiedeva al Signore, nelle sue preghiere, per qual
ragione era stata slanciata e poi chiusa in un amore dove tutte le sue
facoltà soffrivano, dove soffocava nel silenzio ogni suo dolore e dove
ella non avrebbe mai più trovato la felicità, giammai.

Le sue sofferenze si acuivano. Ella frequentò molto la chiesa, in quel
tempo. Cercava la liberazione, o cercava la pace; ma non otteneva nè
l'una, nè l'altra, giacchè ella era legata a Paolo Spada per la vita e
per la morte, giacchè ella era sempre in un profondo spostamento
morale e materiale. Paolo Spada, giusto in quel tempo, fu preso da un
accesso di mondanità. Ogni sera indossava la marsina, metteva un fiore
all'occhiello, arricciava e profumava i suoi baffi e partiva. Ella lo
aiutava a vestirsi, avendo per lui le cure minute di una madre: non
gli chiedeva neppure dove andasse e a che ora ritornasse. Lo
aspettava. Quando aveva chiusa la porta; alle sue spalle, cominciava
per Adele una lunga veglia. Ella riordinava la casa, tutta quanta,
dandole il suo assetto notturno; lavorava all'uncinetto, alla coltre
fatta a disegno di stelle, poichè aveva rinunziato alla lettura:
sonnecchiava; si addormentava sulla sedia. Talvolta si svegliava, di
soprassalto, a un rumore: non era nessuno. Talvolta lo stridore della
piccola chiave inglese di Paolo Spada che schiudeva la porta del
quartierino, la scuoteva. Lo vedeva riapparire bene spesso pallido e
stanco, senza voglia di aprir bocca.

--Fai male ad aspettare--le diceva, brevemente.

--Non importa, Paolo.

Non le diceva più nulla, lui, assorto nella stanchezza: non le faceva
una carezza non le dava un bacio: si addormentava di un sonno pesante.
Ella restava sveglia, nervosa, piangendo chetamente talvolta. Vi erano
notti in cui egli rientrava eccitatissimo. Le raccontava tutto,
mettendo in burletta i tipi ridicoli della società, ridendo dei buffi
spettacoli, elogiando fugacemente qualche donna incontrata. Adele
tendeva l'orecchio, a queste lodi:

--Era molto bella, donna Maria Vargas?

--Bellissima: pareva Monna Lisa del Giocondo.

L'amante sciocca, dai capelli castani insignificanti, dai grandi occhi
limpidi e meravigliati, ammutoliva. Egli continuava a chiacchierare,
fumava, si faceva fare del tè che ella aveva imparato ad apprestare
benissimo, mentre le mani le tremavano, nel suo ufficio di donnetta di
casa. E, spesso, tornando da questa casa luminosa, da questi teatri
scintillanti, dove aveva visto delle donne bellissime, dove il suo
animo di artista aveva esaltato la sua ammirazione di uomo, egli era
con Adele Cima così carezzoso e così appassionato che, malgrado la
piccola intelligenza di lei, ignara delle mistificazioni umane
dell'amore, ella intendeva donde venisse questo rinnovellamento
passionato; e tutto il suo essere inorridiva alla mistificazione.
Vagamente, ma ostinatamente, ella era gelosa di tutte queste donne
mondane, signore e attrici, grandi dame e grandi avventuriere che,
preso da un furore di esteriorità tutto estetico, Paolo Spada
ricercava ogni giorno e ogni sera: ma Adele Cima non arrivava a
precisare la propria gelosia. Non diceva nulla: ma fiotti di veleno le
inondavano le vene. Si consumava, dentro, e non voleva dare un sol
dolore a Paolo, sentendo anche che era inutile e dannoso fargli delle
scene. Qualche indizio di tradimento, molto tenue, forse ancora
ingiusto le s'ingrandiva nel cuore appassionato, col dubbio di qualche
fatto compiuto. Paolo Spada aveva cambiato fiore all'occhiello: era
una rosa bianca, adesso, quella che portava ogni giorno. Una copia
dell'_Amore di Maria_ era partita, avvolta in una stoffa medievale, a
rose bianche su fondo rosa pallido, e diretta a un indirizzo
sconosciuto. Un giorno, uscendo per alcune spesuccie, aveva incontrato
Paolo Spada sotto l'atrio della Posta, a San Silvestro: egli aveva
avuto innanzi ad Adele Cima, una leggiera fiamma al viso. Poi,
finalmente, un giorno, Adele ebbe la prova precisa e netta del
tradimento: un biglietto di convegno, di donna Maria Vargas: un
biglietto cascato dalla tasca di Paolo Spada. Era impossibile il
dubbio. Egli rientrò: trovò Adele Cima gittata sul letto, vestita, col
viso verso la parete.

--Che hai? Ti senti male?

--Sì.

--Dove hai male?

--Alla testa.

--Ora ti do l'antipirina. Vado a chiamare il medico?

--È inutile: è un male che passa.

Veramente, egli aveva udito qualche cosa di cambiato nella voce di
Adele Cima: ed aveva esitato a ritornare nella sua stanza. Prima di
uscire, andò da lei, di nuovo:

--Come vai?

--Meglio: grazie.

--Vuoi qualche cosa?

--.... No

--Io torno subito.

--Va bene.

Veramente non si era voltata a lui e la voce era più tronca e più
velata che mai. Ma egli attribuì alla nevralgia tutti quei fenomeni e
uscì. Quando rientrò, alle undici di sera, la trovò ancora sul letto,
supina, in uno stato di abbattimento immenso, con orribili crampi allo
stomaco. Aveva bevuto della morfina per avvelenarsi: l'aveva trovata
in una boccettina che Paolo Spada teneva in serbo, per iniettarsi ogni
tanto. Egli non le strappò questa verità che a furia di affannose
domande, di richieste strazianti, giacchè tutto l'essere di Paolo era
trangosciato all'idea che una povera creatura umana avesse potuto
morire per lui. Ella lo guardava, con occhi così disperati e amorosi,
insieme, che egli non resisteva a quello sguardo. Al medico accorso
Paolo non disse nulla, non seppe neppure ricordarsi la misura della
morfina che Adele aveva potuto ingoiare: e tutta la notte la sciocca
amante che tutto aveva sopportato, ma non aveva saputo resistere al
tradimento, tutta la notte ella fu in pericolo mortale, attaccata al
collo di Paolo Spada, guardandolo con gli occhi stralunati dal male e
dall'amore, toccandolo con le mani gelide e bagnate di sudore, senza
poter pronunziare una parola sola, quasi strozzata, soffrendo come una
dannata o cadendo in prostrazioni che parean simili alla morte.
Accanto a lei, egli agonizzava. Aveva ritrovato il biglietto perduto
di donna Maria Vargas, sotto l'origliere di Adele Cima ed aveva inteso
la ragione di quel suicidio, la ragione immediata e invincibile.

--Perchè hai fatto questo? Perchè?--le gridò, indignato contro sè
stesso, contro i capricci mondani e contro tutte le donne mondane.

La inferma non rispose, ma lo guardò con tale espressione di silenzio!

--Non dovevi farlo. Non ne valeva la pena--le disse ancora lui,
esaltatissimo.

Alla morente gli occhi si sbarrarono in un infinito stupore, come se
ella si meravigliasse, sentendo che un tradimento non è un tradimento.

--Sei una scema; non capisci niente; io non amo che te; sei una
scema--le continuò a dire lui, in preda a una indomabile agitazione.

Adele Cima, a quell'aggettivo che si veniva ripetendo, con tanta
ostinazione e tanta crudeltà, insieme a tanto amore, nella sua agonia,
chiuse gli occhi per morire.

Ma non morì. La salvarono il medico e Paolo Spada. Fu molto tempo
malata, ma guarì. Il suo fu un suicidio mancato, come erano state
mancate varie altre cose della sua vita. Spesso, nella convalescenza,
in un effluvio di tenerezza, innamorato più che mai della sua
stupidina, Paolo Spada le veniva ripetendo:

--Perchè hai voluto morire?

--Per donna Maria di Vargas.

--Ti giuro che non ne valeva la pena, anima mia.

--Oh sì!

--No, no, sei sempre la stessa, non capisci nulla. Se morivi, vedi,
Adele, era perchè non hai mai capito niente.

--È vero--mormorava lei, assorta.

Dopo quel tentativo di suicidio, inutile, che non le aveva dato la
liberazione, ella non domandò a Dio neppure più la pace. Il suo
destino era di vivere, di amare, e di soffrire per l'amore, giacchè il
Signore le aveva inflitto il castigo di amare un uomo diverso da lei
per istinti, per temperamento, per carattere, giacchè sul suo amore
pesava la fatalità del dissidio intellettuale, lo stato di oppressione
della creatura meno nobile e meno spirituale, accanto a un'anima che
saliva nei cieli dell'arte. Ella doveva soffrire e non doveva trovare
rimedio alle sue sofferenze, giacchè le anime alte e squisite trovano
mille vie per isfuggire ai contrasti della vita quotidiana, mentre le
piccole anime li subiscono tutti, senza scampo e senza rifugio.

Poi, più tardi, quando ella fu bene guarita e Paolo Spada fu bene
sicuro che quella donna gli fosse vincolata per sempre, egli scherzò
anche sul tentato suicidio. Chi manca un suicidio, non corre
un'avventura buffa? L'amante sciocca ne rise anche lei, per celare la
vergogna di quella ridicolaggine. Più tardi ancora, Paolo Spada tornò
a tradirla, come si tradisce una buona moglie fedele, con altre donne:
ella lo seppe, ma non trovò la forza di voler morire, temendo troppo
di esser chiamata la più scema fra le donne. Anzi, egli finì per
confessarle le sue scappate, convincendola che erano necessarie alla
sua vita d'arte, ma che egli amava sempre la sua cara sciocca. La
quale sciocca donna non si convinse punto, di questa necessità del
tradimento: vi si rassegnò, piuttosto, poichè voleva il suo destino,
così, che ella, che sarebbe stata felice con un uomo limitato e buono
e onesto come lei, fosse infelicissima con un grande artista.



SOGNO DI UNA NOTTE D'ESTATE.

_A Roberto Bracco._


Massimo era solo. L'amico d'infanzia, non veduto da anni e poi
incontrato improvvisamente per la via, dopo il lieto riconoscimento
era venuto, alle sette, a pranzare in casa di Massimo. E costui che
trascinava pesantemente il fardello di un'estate cittadina, mentre
tutti gli altri anni era partito nel mese di giugno, si riprometteva
una buona serata di ricordi, in compagnia dell'amico ritrovato.
Avevano, infatti, passato due ore insieme fra il pranzo, la sigaretta
e i liquori, chiacchierando dei tempi antichi, cominciando tutti i
loro discorsi con un _ti ricordi_, sorridendo vagamente alle care
memorie che si affollavano alla mente, interrompendosi talvolta, dando
in qualche esclamazione di rimpianto, di nostalgico desiderio. Ma
nella amichevole giocondità che aveva dilatato i loro cuori, si era
presto infiltrato un senso di malinconia; avevano fatte vie diverse ed
erano diventati assai diversi, in tutto; partiti dal medesimo punto,
avendo fatto gli stessi studii, l'amico era adesso un illustre
avvocato di provincia, con moglie e figli, con idee pratiche e
semplici, un po' appesantito di fibre e di spirito; e Massimo se ne
era andato per dieci o quindici anni all'estero, di legazione in
legazione, diplomatico senza passione, indolente, non facendo carriera
per la sua pigrizia, contento o non malcontento del suo posto di
segretario, bello come un meridionale bello, ma già appassito, coi
capelli che si facevano radi sulla fronte e gli occhi smorti, non
ricchissimo, ma abbastanza ricco, e adesso inchiodato da un anno a
Napoli, in licenza--in penitenza, dicevano gli amici. Massimo era
fine, originale, ma già consumato dalla sua esistenza, e segretamente
oppresso da altre cure: l'amico era pieno di talento, ma forte e
tranquillo, rimasto un po' grossolano, chiuso nel buon senso
provinciale che chiama follia l'originalità, e che si mortifica nel
presente, per godere in un troppo tardo avvenire. Così, mentre l'uno
raccontava all'altro la propria vita, colui che ascoltava, apprezzava,
giudicava, freddamente giudicava, senza dire il suo giudizio in forma
cruda, mitigando, è vero, per riguardo all'amicizia d'infanzia, ma
facendo intendere come si trovassero lontani: e a un certo punto si
guardarono in viso, perchè pensarono di essere, oramai, due estranei;
ma non lo dissero. E forse, in fondo, Massimo invidiava all'illustre
avvocato di provincia la sua limitata ambizione e il suo assiduo
lavoro, e la famiglia grassa, pacifica, al sicuro delle tempeste, e la
casa messa alla buona, ma la casa degli avi, la casa dei figliuoli, e
quel senso di praticismo, di serietà, di equilibrio, tutte le cose,
infine, che gli mancavano; mentre l'avvocato invidiava a Massimo la
vita vagabonda ma aristocratica nelle Corti straniere, e l'avvenire
che potea essere splendido, e la libertà di scapolo, e tutte le
avventure di quella esistenza fantastica, e quella casa di giovanotto
elegante e squisito, visioni che avrebbero oramai turbato i suoi sonni
di provincia. A un certo momento, sospirarono ambedue. La serata era
calda: dal balcone aperto del salotto dove fumavano, non spirava un
soffio di aria: solo un acuto profumo di gelsomini veniva di fuori. Si
accorsero di essere diventati malinconici. Troppe cose del passato
avevano ricordate, troppe pietre sepolcrali di persone care perdute,
di amori morti avevano rimosse: tutto questo non si fa senza un triste
piacere, e il piacere poi fugge, e la tristezza resta. Fumavano in
silenzio, con la testa rovesciata sulla spalliera della poltroncina;
poi l'avvocato aveva guardato l'orologio. Per cortesia, disse a
Massimo:

--Vieni via con me?

Ma non si eran forse detto tutto? E non avevan forse fatto male, a
dirsi tutto? Massimo rispose vagamente che doveva scrivere alcune
lettere urgenti; che si sarebbero veduti più tardi, alla Villa, verso
le undici, senz'altro. Freddamente, l'avvocato promise di esserci, e
si divisero, convinti che non si sarebbero riveduti quella sera, e
forse mai più. Per dolce che sia il passato, esso è morto; e fantasmi,
anche soavissimi, turbano l'animo dei più coraggiosi. Quando fu solo,
Massimo si pentì di essersi condotto a casa quell'amico: tante chiuse
cicatrici avevano stillato sangue, in quelle due ore! Mentre egli
seguitava a fumare, nel salotto, udiva il suo servitore che riordinava
la piccola stanza da pranzo; e poco dopo, il giovanotto gli venne a
chiedere se avesse bisogno di lui, in quella sera, chè avrebbe voluto
andarsene a trovare certi amici, per fare una passeggiata, con quel
caldo così grande. Massimo, con una parola, lo licenziò: la porta si
richiuse; egli era perfettamente solo. Ma la sua serata era perduta,
postochè aveva voluto risalire imprudentemente il fiume del passato,
in compagnia di una persona che aveva amata: il viaggio lo aveva
scoraggiato, facendogli perdere quell'ultimo resto di morale pazienza,
che lo aiutava a tirare innanzi quella solitària e fastidiosa estate
napoletana. In queste ore di ribellione, sdraiato, abbandonato a una
mortale spossatezza esteriore, mentre dentro gli si sollevava il
cuore, egli fumava assai certe stupefacienti sigarette egiziane, che
per lo più finivano per stordirlo: ma in quella sera di estate le
sigarette gli si sfacevano fra le labbra strette ed egli le buttava
via, semispente, a pezzetti. Andò al balcone: era al terzo piano di un
gran palazzo di via Gennaro Serra, ed essendo più basse le case
innanzi alla sua, pel livello della via, vedeva un po' di mare e un
grande arco di cielo stellato.

La notte era bellissima, con un gran palpito luminoso della Via
Lattea; ma la brezza non veniva e l'aria opprimeva. Sentendosi
avvampare la testa, solo, stanco e pure non potendo restar fermo,
prese la penna e volle scrivere: ma improvvisamente, innanzi alla
carta bianca, si fece in volto più bianco della carta stessa, quasi
che avesse veduto apparire non so quale visione, fra le penembre della
stanza. Dalla via Gennaro Serra, un continuo rumore di carrozze si
udiva: tutti uscivano dalle loro case, tutti se ne andavano per le
strade, a respirar meglio, a guardare le stelle, a godere la notte
napoletana bella, fresca nelle ore alte. Egli si fece di nuovo al
balcone, soffocando: ritornò alla scrivania, si rimise a scrivere, ma
non vi riuscì. E perchè avrebbe dunque scritto? A che servono le negre
parole scritte sulla candida carta, nella effervescenza della
solitudine, quando il parente, o l'amico, o l'amante che le riceve, le
legge forse dinanzi a estranei, freddamente, ridendone? Troppo tempo e
troppe cose passano fra il momento che si scrive e quello che si
legge, fra chi scrive e chi legge, perchè una lettera serva a qualche
cosa. Un organetto si fermò in piazza Monte di Dio, a suonare, con un
metro largo, con un tempo largo, una canzonetta assai allegra, la
quale così diventava bizzarramente triste; Massimo s'impazientì contro
quel sentimentale o stanco suonatore di organino, che mutava una
tarantella in marcia funebre. Forse il suonatore era vecchio; forse
aveva fatto una magra giornata; forse era un infelice, perciò usciva
dalla sua mano quella nenia così stravagante. Massimo si abbassò sulla
ringhiera del balcone, e da quell'altezza buttò a caso una moneta da
due lire al suonatore. La musica, dopo un poco, tacque: e Massimo se
ne dolse; ora si sentiva più solitario, più annoiato, più insofferente
che mai della sua dimora in Napoli. Che fare, dove andare, dove
portare il suo corpo e il suo spirito, con quali sciocchi? con quali
indifferenti, con quali esseri detestabili andare? Come passare quella
notte di estate? Non avrebbe avuto riposo, lo sentiva: e sentiva che
non vi era rimedio alla sua agitazione. Andava e veniva dalla
scrivania al balcone, macchinalmente, quando un, sottile canto vicino
lo colpì. Si fermò, ascoltando. Il canto veniva da un balcone poco
discosto dal suo, anch'esso al terzo piano: aguzzò gli occhi, vide
un'ombra bianca, era una donna che cantava una vecchia romanza del
Tosti, poco nota, che è piuttosto un recitativo e che comincia così:

    Il gallo canta; e i sogni lieti o tristi
    Fuggon nel grande oblìo.
    Torna al mondo dei sogni, onde venisti,
    Larva dell'amor mio........

La voce era tenue e un po' tremula, ma le parole si udivano
distintamente. Massimo tese l'orecchio, guardò acutamente, e si
accorse che la donna si dondolava sopra una sedia, cantando, come se
si cullasse; aspettò che ella avesse finito, poi, piegandosi sulla
ringhiera, chiamò:

--Luisa, Luisa?

--Che volete?--rispose una fresca e lieta voce femminile.

--Buona sera: vi sto ascoltando, ma la vostra canzone è troppo triste.
Perchè non ridete un poco?

--Così, per ordine vostro?

--Ve ne prego: ridete.

--A che servirebbe?

--Per rallegrare la mia infinita malinconia.

--Voi, malinconico?--e diede in uno scroscio di risa fresco e limpido.

--Brava, brava!--egli esclamò, applaudendo.

Lei, per parlare con lui, si era alzata dalla sedia, si era messa
all'angolo del balcone, curvandosi per veder meglio, e non li divideva
che lo spazio di una stanza; le due case erano vicine.

--Vi basta?--chiese Luisa ridendo ancora.

--Mai abbastanza. Sono un uomo morto, Luisa. Ma quando sarò da quattro
giorni nella tomba come Lazzaro, veniteci voi e ridete; io
risusciterò, ve lo prometto.

--Ci vedremo allora, non mancherò--diss'ella ridendo.

Poi tacque improvvisamente. Massimo, per ringraziarla, si mise a
cogliere dei gelsomini bianchi, odorosissimi, li raccolse in pugno,
tentò due volte di buttarglieli sul balcone: ma erano così leggieri
che caddero in istrada, candidi, roteanti.

--Peccato, peccato!--gridò lei, che aveva indovinato il grazioso
pensiero.

E restò a guardare, giù, come se potesse ancora scorgere quella
pioggerella di gelsomini odorosi. A un tratto, ella diede un piccolo
grido:

--Che è?

--Ne ho trovato uno, per terra. Grazie! Sul balcone di Luisa un'ala di
ventaglio si agitava ed egli ne vedeva luccicare le stelline:

--Siete voi, che avete quel ventaglio?

--Sì; perchè?

--Perchè pare un pezzo di firmamento.

--Non mi burlate--disse lei un po' seria.

Parlavano così tranquillamente, come se stessero in un salotto di
conversazione: ma le notti estive sono così belle a Napoli, ed è così
naturale stare al balcone, o sulla terrazza o nelle vie, è così
naturale la chiacchiera all'aria aperta! Certo l'elegante addetto non
avrebbe fatto così a Bruxelles, o a Copenaghen, dove le notti sono
gelide, e i balconi hanno triplici imposte: nè con le dame della
società sua, si sarebbe permesso una simile famigliarità. Appunto per
questo egli trovava gusto in questa conversazioncella borghese con una
semplice ragazza, da un balcone all'altro, dimenticando la profonda
noia e il disgusto che lo avevano assalito mezz'ora prima. Adesso,
sorgendo da quel poco di mare che si vedeva dai balconi, un globo
rossastro si levava nel cielo, e ascendendo, impallidiva, diventava
roseo....

--.... ecco la luna, signor Massimo--mormorò lei, piano.

Eppure egli udì.

--È una bellissima luna, Luisa--le rispose, con convinzione.

--Fra poco si nasconderà dietro quelle case, e non la vedrò più--disse
la fanciulla, sempre piano.

Egli udiva benissimo. A un tratto, chiamò:

--Luisa?

--Che volete?

--Volete uscire, a veder la luna?

--Sola?

--Con me.

--.... nossignore--disse lei, dopo aver esitato.

--Perchè nossignore?

--Per questo--replicò Luisa, enigmaticamente.

--Venite, via. Torniamo presto.

--No, non posso.

--Siete cattiva, sapete.

Luisa non rispose.

--Se non vi decidete, vado via solo. La notte sarà magnifica e voi non
la vedrete. Peggio per voi! Sono abbastanza vecchio, per non
compromettervi. Volete venire?

--.... non posso.

--Buona sera.

--Buona sera--mormorò ella, lentamente.

In verità, rientrando nella sua stanza, per prendere il cappello e i
guanti, Massimo era indispettito. Aveva trovato un diversivo alle
tristezze supreme di quella serata; la compagnia di Luisa come quella
di un buon camerata, di un buon amico, lo avrebbe distratto. Ed ecco
che quella sciocchina faceva la ritrosa, mentre era libera,
indipendente, mentre egli non si era mai sognato di farle una linea di
corte, da un anno che si conoscevano. Nervoso, abituato a superare
facilmente tutte le difficoltà, il più piccolo inciampo lo inquietava:
non andò di nuovo al balcone, spense tutti i lumi, e battè fortemente
la porta, uscendo sul pianerottolo; anche Luisa era una sciocca! Ma
passando innanzi a un'altra porta che dava sullo stesso pianerottolo,
la vide schiudersi un poco e il profilo bruno di Luisa apparve:

--Signor Massimo?--fece ella, guardandolo coi neri e dolci occhi,
chiedendogli scusa col tono della voce, con lo sguardo.

--Andate là, che non capite niente!--esclamò lui, nascondendo un
sorriso, fingendo di essere ancora in collera.

--Io.... capisco--disse lei, schiudendo addirittura la porta.

Ora si vedeva tutta la sua snella e alta figura, rivestita di un abito
bianco di semplice mussola, con un nastro di velluto nero alla
cintura: si vedeva il delicato volto ovale e bruno, dove la piccola
bocca rosea si schiudeva come un fior di granato; e le sottili
sopracciglia nere e arcuate davano agli occhi neri, per sè buoni e
soavi, un'aria d'infantile meraviglia.

--Perchè avete detto di no, Luisa? Avete così poco spirito? Vi ho
forse mai fatto la corte, io, perche dobbiate temere la mia compagnia?

--È vero, non me l'avete mai fatta--rispose Luisa, senza sorridere,
abbassando gli occhi.

--O dunque? Andiamo, prendete un cappello e una mantellina, fate una
collezione di risate, e venite con me. Sarà un'opera di misericordia
spirituale: sono così infelice!

--Sì? Tanto?--interrogò lei, ansiosa.

--Infelicissimo--confermò lui, fra il tragico e il burlesco.

--Per amore, eh?--chiese ella, arrossendo della domanda.

--Nossignora, ragazza curiosa. Naturalmente, nessuna donna mi ama e
io, naturalmente, non ne amo nessuna. Andate a vestirvi e fuggiamo....

Ella voltò le spalle, ubbidendo. Massimo restò appoggiato allo stipite
della porta aperta, col cappello in mano, rigirando il suo bastoncino
di ebano fra le dita, tranquillo adesso, abbandonandosi al minuto che
passava, senza pensare ad altro. Dopo un poco, brevi passi discreti si
riudirono e Luisa apparve, infilando i morbidi guanti lunghi di
camoscio: aveva messo una mantellina di merletto nero a perline nere
sul suo vestito bianco e un gran cappello di velo nero, una di quelle
scuffie ampie e caratteristiche che stanno divinamente solo a un volto
giovanile. Sorrideva, con le labbra, con gli occhi, guardando Massimo,
così fresca, così luminosa di gioventù e di spirito, che egli espresse
immediatamente la sua opinione.

--Siete una creatura incantevole--disse, con un tono fra la galanteria
e la verità, tanto che ella non seppe nè adontarsene, nè
rallegrarsene.

Per nascondere il proprio imbarazzo, Luisa si voltò a chiudere la
porta di casa sua, mettendosene la chiave in tasca. Si avviarono,
accanto, per le scale, senza che Massimo le offrisse il braccio: ella
aveva un modo di camminare leggiero e spedito che le veniva dalla
estrema giovinezza.

--Sentite--le diceva lui, scendendo--ognuno di noi si secca....

--Io non mi secco mai.

--.... non mi contraddite, voi vi seccate, come me, della solitudine.
Quando state sola, che fate?

--Penso....

--E non vi viene voglia di uccidervi?

--Neppur per sogno. I miei pensieri sono dolci.

--A che pensate?

Ella fu lì lì per rispondere, con sincerità: ma fortunatamente si
rattenne.

--Che v'importa?--mormorò invece, con una certa malinconia.

--Ma insomma, se deviate sempre il discorso, non lo finirò mai. E vi
assicuro che è grazioso, che vale la pena di udirlo, Dunque, che voi
vi possiate seccare o no nella solitudine, questo non preme, ma nella
solitudine mi secco io, e voi siete allegra, voi cantate, voi suonate
l'arpa, voi ridete così bene. Uniamoci insieme, fraternamente, così io
non mi seccherò più, e voi, credo, vi divertirete meglio. È deciso,
eh? Come fratello e sorella, naturalmente. Un giorno o l'altro, poi,
vi mariterei a un amico che amassi molto. È deciso?

Ella rideva, rideva, sommessamente, mentre attraversavano l'ampio
portone. Una risata, però, che aveva qualche soverchio trillo nervoso.

--Non volete saperne?--disse lui, seriamente, fermandosi, sul
marciapiede.--Non è mica una cattiva offerta. Sono vecchio, io, ma
sono sempre un buon figliuolo: ho viaggiato, vi posso raccontare delle
storielle interessanti.... pensateci bene....

--Sì.... sì.... combineremo, un giorno o l'altro--e la fanciulla voltò
la faccia in là, per non farsi scorgere.

Massimo e Luisa scendevano per via Gennaro Serra incontrando una
quantità di gente che saliva e scendeva, ondeggiando, a coppie, a
gruppi, a crocchi, a file, con la mollezza estiva della folla
napoletana. Malgrado che fossero le dieci, molte botteghe erano ancora
aperte e illuminate: non vi si lavorava; delle donne in giacchettina
bianca prendevano il fresco sulla porta, chiacchierando, e
dall'Egiziaca veniva un suono di chitarre e di mandolini. La birreria
Dreher, sotto i marmorei portici di San Francesco di Paola, aveva
messo fuori tutti i suoi tavolini di marmo, e le tazze di birra, dalla
cima schiumosa e nevosa, apparivano alte sui vassoi, portati dai
camerieri, mentre i pesanti piattini di cristallo si accumulavano
innanzi agli avventori. Adesso, sorgendo pallida e mancante sul lato
sinistro, elevandosi sopra l'arsenale di marina, la luna illuminava
tutta piazza Plebiscito. La facciata della Prefettura, tutta chiara
sotto il raggio lunare, aveva delle persone che si muovevano sui suoi
grandi veroni: il Gran Caffè e i suoi tavolini, allargantisi sulla
via, e i molti avventori erano avvolti in un chiarore fantastico, e le
donne recavano con lentezza il cucchiaino del sorbetto alle labbra, o
agitavano il ventaglio pian piano, con gli occhi sgranati, quasi
sognassero. Nella piazza Plebiscito, andando lentamente nella morbida
luce lunare, la gente passeggiava, sulla striscia di pietra bianca,
innanzi alla fontana: e il grande getto d'acqua, alto, sottile, pareva
una piuma bianca, immobile, tutta penetrata dalla luminosità della
luna.

--Che bella notte!--susurrò Luisa, affrettando il passo.

--Vi è troppa gente--disse lui, buttando la sigaretta, diventato a un
tratto pallido e pensoso.

Luisa se ne accorse. Affettuosamente gli toccò la mano con la sua mano
guantata, interrogandolo con lo sguardo; egli non rispose, ma le fece
un cenno che non chiedesse, che non voleva parlare. Per temperare
questo silenzio, graziosamente le prese la manina guantata e se la
passo sotto il braccio, e camminarono più presto, andando verso Santa
Lucia. Qualcuno si voltava a guardare la fanciulla biancovestita, i
cui occhi brillavano soavemente sotto la nera e trasparente aureola
del cappello; ma ella non vedeva nulla, si piegava ogni tanto a
guardare il suo compagno, per osservare se l'umor torvo si fosse
allontanato.

--Ma che avete?--chiese, alla fine, agitata.

--Vorrei.... vorrei non essere qui--proruppe lui, esprimendole tutta
la sua nostalgia inguaribile.

--Ah!---disse ella, senz'altro, chiudendo gli occhi, mentre le labbra
le tremavano.

E Massimo non seppe, o gli mancò la forza di spiegare, di modificare
la sua scortesia. Alta già sopra Capri, la luna imbiancava tutta la
via marina di Santa Lucia, dove mille lumicini si agitavano, dove i
_trams_, carichi di gente che andava verso Posillipo, passavano, ogni
cinque minuti a suono di cornetta, dove le venditrici ambulanti di
acqua sulfurea davano il loro richiamo, dove i pescatori accovacciati
nelle nasse, fumavano la pipetta corta che aveva lo stesso colore
della loro pelle. Appoggiati al largo parapetto che dà sulla via
inferiore di Santa Lucia e sul mare, uomini e donne godevano la prima
brezza notturna che si era messa al sorgere della luna; si udiva
suonare il pianoforte nel salone all'_Hotel de Rome_, il salone che dà
sul mare; laggiù, laggiù, verso il _Wermouth di Torino_, dei cantori
ambulanti cantavano. Negli equipaggi signorili, passavano le donne in
abiti chiari, coi diamanti che scintillavano alle orecchie; Dovunque
gente, dovunque suoni e canti, dovunque la vitalità di un popolo che
lentamente sorbisce la felicità di una notte estiva lunare.

Senza dirle nulla, invece di andare verso il Chiatamone, portandosi la
fanciulla a braccetto, egli le fece discendere la scala che porta alla
via inferiore di Santa Lucia, donde si va ai bagni la mattina; dove i
vaporini approdano, dove approdano i barcaiuoli, con le barchette,
dove sono le sorgenti dell'acqua sulfurea: ivi, su quella lingua di
terra, brulica una folla di marinai, di pescatori, di donnette
popolane, e una trattoria ha le sue tavole, quasi quasi sino all'acqua
nera della riva; i bevitori di acqua sulfurea vi mettono le loro sedie
di paglia, e i bimbi vi vendono le ciambellette brusche. Pure, in
quella notte, quel brulichio bruno si rallentava, quasi che il placido
lume della luna quietasse tutti i movimenti, rammutolisse tutte le
voci, e desse tutta la sua dolcezza alla vivace scena. Quando furono
sull'ultimo scalino dell'ampia gradinata, Massimo e Luisa si
arrestarono un minuto.

--Andiamo a cena?--domandò lui, distratto.

--Oh no!

--È vero, sono una bestia. Eppure dobbiamo far qualche cosa....
andiamo per mare, allora?

--Sì--rispose lei, pensosa--andiamo.

--Ma vi piace di andarvi? non lo dite per compiacenza? Io vi annoio
terribilmente, lo so.... Ma, non è colpa mia. E poi, voi siete buona e
perdonate. Se non volete andare in barchetta, rinunziamoci.

--Andiamoci subito.

Ed egli intese, in quelle parole, una preghiera così spontanea, che
chiamò subito un barcaiuolo. Entrò prima Massimo e invece di dar la
mano a Luisa, per farla discendere, mentre ella esitava, vedendo quel
baratro nero, le stese le braccia, la sollevò leggermente e la
depositò sul cuscino di cotonina, accanto a sè. Il barcaiuolo che
aveva avuto ordine di andare verso Mergellina, vogava tacitamente.
Massimo fumava: ma ogni tanto, dando uno sguardo a Luisa, la vedeva
così tranquilla, così serena, così intimamente felice; ella era così
bella in quell'abito bianco, sotto la trasparente ala del suo
cappello, con le mani abbandonate in grembo, che egli non osava dire
una parola, non volendo turbare quel soave spettacolo. La barchetta si
allontanava in linea retta, per poi girare intorno al forte Ovo: e le
case di Santa Lucia, e la collina di Pizzofalcone parea che
crescessero verso il cielo, verso la luna, come attirate da quel
morbido chiarore. Massimo e Luisa non scambiavano una parola, solo
egli la guardava con insistenza; tutto il delicato volto e la persona
candidamente vestita, avevano in quell'ora e in quel paesaggio un
effluvio di poesia che avrebbe inebriato il cuore più freddo. Ella gli
sorrideva, così, naturalmente, quasi che il suo destino, nella vita,
fosse di sorridergli sempre; e l'ingenuo, giovanile fascino del
sorriso rammentava a lui altri tempi, altre cose, vagamente, dandogli
un infinito e indefinito sentimento di tenerezza. Allora, sottovoce,
egli provò il bisogno di chiamarla:

--Luisa.

--Che dite?--rispose ella, piegandosi per udir meglio.

--Niente.

Ma ancora, più tardi, mentre si allontanavano sempre più verso l'alto
mare, nel candore immacolato della luna, verso l'orizzonte; che si era
fatto chiarissimo, egli la chiamò per nome, assai piano, come se
pronunciasse quel nome per sè stesso, evocandolo, invocandolo, emblema
di dolcezza nelle sue sillabe, nelle sue lettere, nel musical suono,
in quello che era, in quello che rappresentava. Quando quel lieve
soffio l'animava, come una carezza, Luisa s'inchinava, attratta,
vincolata dalla voce e dalla musica; e Massimo vedea che il viso le si
tramutava, onde di sangue le fiottavano alle guancie, onde di pallore
le salivano alla fronte. E non so quale acuta, spirituale voluttà lo
teneva, di vedere scolorare, al suono della sua voce, quel purissimo
volto giovanile: e tutta la tenerezza ch'egli poneva nella parola
_Luisa_, si facea più profonda, sgorgava più larga, per circondare,
avvolgere, abbracciare quella persona di donna. Ma fu un punto, e la
emozione di Luisa era così intensa, egli vide tale smarrimento negli
occhi della fanciulla, che si fermò, e riaccendendo una sigaretta:

--Perchè non cantate?--le disse.--Voi dovete cantare, me lo avete
promesso.

Scherzava con quella ironia cortese che serviva a nascondere il
proprio pensiero. Luisa crollò il capo, tristemente: l'incanto si
dileguava; ella udiva un'altra volta, mentre Massimo parlava, quella
velatura di sogghigno che guastava quante affettuose cose egli
dicesse. Tentò di riafferrare un minuto di dolcezza:

--Chiamatemi ancora--gli disse pregandolo.

--Oh Luisa, Luisa, Luisella, piccola fanciulla cara, se non cantate,
io vi riporto a terra.

A lei gli occhi si riempirono di lacrime; il sangue ascese
impetuosamente dal cuore agli occhi; nonostante schiuse la bocca e con
la sottile voce tremula, diede alle fragranti aure marine una vecchia
canzone. Con le mani congiunte in grembo, con la testa un po' levata,
guardando il gran cielo intorno, ella cantava; la fine bocca rosea si
schiudeva ad arco, mostrando i denti bianchi, scintillanti, e ogni
tanto i soavi occhi seguivano quasi il movimento molle della musica,
aprendosi più grandi sul paesaggio. Massimo si era voltato verso lei,
appoggiando il braccio sul bordo della barchetta, seguendo il ritmo
della canzone che pareva si cullasse nel ritmo del mare. A un tratto,
la voce le si velò; ella tacque.

--Che avete?

--Nulla, nulla.

--Perchè siete così triste, Luisa?

--V'ingannate, non sono triste.... sono anzi così contenta di esser
qui.... credetelo....

Una emozione era in tutto quello che diceva, così sincera!

--Vi credo, Luisa. Dite un'altra canzone....

--Sono tutte cose vecchie!

--Non importa....

--E non tutte sono liete.

--Non importa.... Mi basta che le cantiate voi.

--Non volevate che io ridessi?--insistè lei.--Raccontatemi una delle
vostre storielle interessanti e riderò!

--Se vi racconto una storiella, io, vi faccio piangere--e buttò la
sigaretta in mare.

--Allora tacete. È così dolce questa notte.

Mentre il barcaiuolo vogava verso Mergellina, con un cenno largo Luisa
indicò a Massimo le carezzose linee delle colline che vanno da San
Martino al capo di Posillipo, tutte bagnate dalla luce lunare, con le
loro case chiarissime dalle mille finestre aperte e illuminate, coi
lumi che cingono l'arco della marina napoletana come una linea di
fuoco, con uno scintillio dovunque, per le vie e sulle colline. Essi
attraversavano, tagliandola, la grande striscia fredda, lucente come
metallo, che la luna alta metteva sul mare, dall'orizzonte alla riva,
lunghissima, occhieggiante, come mille specchietti moventisi nel
raggio lunare. Massimo guardò intorno, ma i suoi occhi tornavano al
purissimo viso di Luisa, come se da esso partisse quel fascio di
dolcezza. Ella sostenne un minuto lo sguardo di Massimo, poi le
palpebre le batterono, ammaliate, non reggenti a quel fascino:

--Siete voi che siete dolce--le disse lui, all'orecchio.

Adesso avevano voltato l'angolo di Mergellina, costeggiavano, lungo la
via di Posillipo, tutta piena di ville, di osterie, di _trams_ che
passano continuamente, in tutte le ore della sera, specialmente in
estate. Talvolta, tendendo l'orecchio, si udivano dei canti venire
dalla terra, affievoliti; e le ville, piene di gente sulle terrazze,
sembravano quei castelletti di carta, dai cento bucherelli, che i
bambini illuminano con un solo cerino interno, giocattoli frastagliati
o trasparenti dai personaggi minuscoli. Passando rasente una di esse
dal giardino pensile tutto fiorito arrivarono delle risate, degli
allegri strilli femminili.

--Abbiamo un pubblico cortese--disse Massimo--ci prendono, per due
amanti.

--Ah!--rispose lei, niente altro.

Il palazzo di Donn'Anna si delineava, nero, avanzandosi sul mare: sul
suo lato destro e sul sinistro, delle trattorie popolari erano piene
di banchettatori e di bevitori, ma la facciata che dà sul mare serbava
il suo carattere di rovina disabitata, col mare che entrava chetamente
nei suoi portoni, ormai trasformati in grotte, come quelle di Sorrento
e di Capri. La luna batteva sulla facciata del palazzo, che la
ricchezza e la superbia di donn'Anna di Medina Coeli non aveva potuto
finire, prima di ritornare alla Spagna natìa: e i finestroni e le
finestre prendevano il chiaror lunare, fantasticamente; la rovina
pareva meno aspra, meno tetra, sotto il placido raggio.

Il barcaiuolo che remava più lentamente, per riposarsi, chiese a
Massimo se voleva entrare in una di quelle grotte, con la barca.

--Avete forse paura?--chiese lui a Luisa, prendendone distrattamente
la mano appoggiata al bordo della barchetta.

--No, non ho paura--ella rispose: eppure la voce era velata di
emozione.

L'apertura della grotta era tutta bianca e l'acqua vi fiottava
sordamente, gorgogliando: ma quando la barca s'internò in quel chiuso
laghetto di acqua marina, la oscurità si fece profonda. La barca stava
immobile, in un gorgoglio fresco di onda che batte alle pareti di
pietra, in una gran tenebra. La mano di Luisa era restata in quella di
Massimo: egli la sentiva molle, abbandonata, nella sua, quasi che non
vi fosse miglior sorte, miglior destino per essa. Involontariamente,
egli la strinse, e intese che la mano rispondeva alla sua stretta,
fiaccamente, ma dicendo sempre: sì. Allora egli si piegò; in
quell'ombra, per distinguere la faccia di Luisa; il barcaiuolo remava,
per uscire dalla grotta e quando furono di nuovo sull'aperto mare, al
lume della luna, egli vide due lunghe lacrime scendere da quei belli
occhi e disfarsi sulle guancie. Ah! egli non poteva veder piangere nè
un bimbo, nè una donna, foss'anche di gioia: e fu più turbato di lei.

--Che avete? Avete avuto paura, avete freddo?--chiese
precipitosamente, tenendole le mani, che erano gelide, invero, nei
guanti.

--No, no....

--Sì, sì, sbarchiamo, questo viaggio in mare, alla luna, vi ha gelato.
Sbarchiamo, cammineremo a piedi, per riscaldarci.

Presso il palazzo Donn'Anna vi è spiaggia. Sbarcarono, in fretta, egli
pagò il barcaiuolo e lo licenziò: quello gli disse delle parole di
augurio; anche lui li prendeva per due amanti. Per salire alla strada
dovettero passare presso una di quelle trattorie, fra le tavolate dei
mangiatori e dei bevitori, senza guardare nè a dritta nè a sinistra,
egli sempre un po' agitato, ella che lo seguiva senza badare a nulla,
quasi che il suo fato fosse quello di seguirlo sempre, dovunque, senza
sapere dove si andasse. I bevitori e i mangiatori ridevano e
gridavano: la bianca figura di donna non ne fece voltare nessuno,
tutti erano ebbri del vino, della notte, o delle chiacchiere dette,
con la tanto bella e felice esaltazione meridionale. Massimo e Luisa
scesero per la stretta scaletta, uno presso l'altro, e quando si
trovarono sulla via di Posillipo stettero, esitanti.

--È forse tardi per voi? Volete rientrare?

--Non so.... Voi rientrate?

--Vi accompagnerei, sì, ma senza rientrare. Non dormirò, io,
stanotte....--e voltò la faccia in là.

--Allora.... allora rimarrò ancora un poco--disse fievolmente lei.

--Grazie, siete buona--e le strinse la mano.

Così, camminarono, senza darsi braccio, verso Posillipo, sul piccolo
marciapiede rasentato dai _trams_ che vanno e vengono: imbattendosi in
gente che tornava a piedi, in piccole comitive schiamazzanti, in
coppie solitarie appoggiate al parapetto, guardanti il mare. Massimo e
Luisa, avanzando lentamente, non parlavano, divisi sempre da coloro
che transitavano. Le ville a mezza costa, e quelle giù, al mare,
avevano innanzi ai portoni delle carrozze che aspettavano: i balconi
lasciavano udire la musica che vi si faceva, il sottile e immemore
concerto delle notti estive napoletane: degli equipaggi, di ritorno,
passavano; le donne erano avvolte in lievi scialli bianchi.
Senz'accorgersi della via, Massimo e Luisa andavano innanzi, innanzi:
la linea dei _trams_ finì; si fecero rare, poi sparvero, le osterie;
la gente s'era diradata, a poco a poco, e quando ebbero voltato
l'angolo della villa Dini, la solitudine fu perfetta. Solitudine
bianca, senza terrori di ombre, senza la tetraggine che ispirano la
campagna e il mare, di notte. Solo un alto, lontanissimo cielo;
solitudine mite, piena di giardini in fiore tutti candidamente
frastagliati dalla luce lunare, piena di parchi dai grandi alberi
immersi nel chiarore, piena di vigne folte che l'autunno aspettava,
per la vendemmia, piena di orti dove ancora, come un po' dappertutto,
si udiva l'odore del gelsomino notturno. La via era deserta, l'ora era
tarda, ormai: e solo, ogni tanto, qualche rara carrozza ritornava da
villa Postiglione: tutto Posillipo, con le sue campagne, col suo mare,
coi suoi rotondi piccoli golfi che sembrano, in fondo alla riva, un
grande occhio azzurro divino, coi suoi profumi, pareva che
appartenesse a Massimo e Luisa, Egli camminando con la testa bassa,
con gli occhi bassi, giuocava con la mazzettina di ebano, urtando le
pietruzze della via; Luisa andava accanto a lui, fissando gli occhi
sul mare: ma i suoi occhi avevano un velo innanzi, il suo sguardo
aveva la fissità di chi non vede. Ogni tanto levava una mano alla
fronte, per respingere da parte una ciocca dei suoi neri capelli che
ricadeva sempre: e quel movimento aveva qualche cosa di assai
leggiadro. Quanto tempo camminarono, così, senza scambiare un detto?
Nessuno di loro avrebbe potuto dirlo: presi dal loro mondo interiore,
presi dall'ambiente che li aveva vinti, mancava oramai a loro la
nozione del tempo e dello spazio, erano in quell'oblìo quieto,
addormentatore, che vince tutti i cuori, dopo le emozioni che dà il
sentimento, o che danno le cose. Massimo si riscosse pel primo:

--Che cattivo compagno son io!--esclamò.--Saranno due ore che non vi
dico una parola.

--.... Forse non avevate nulla da dirmi--azzardò lei, con un timido
sorriso.

--V'ingannate: se vi dicessi tutto quello che dovrei dirvi, sarebbe un
opera in-folio, in ventiquattro volumi!

--Dite, allora....

--Ci vorrebbero alquanti anni della vostra vita, per udirmi, cara:
e.... credo che sia meglio non farne niente.

--Ditene qualcuna, di queste cose....--insistè lei, con un tremito
nella voce.

--No, no--replicò Massimo, recisamente.

Ella lo guardò, così triste, che egli non potette celare un moto di
dispetto.

--Ma Luisa! Ma che siete una sensitiva? State ridendo, il che è una
cosa graziosa per tutti, graziosissima per me, e basta guardarvi
perchè la risata vi si spenga sulle labbra! Sorridete, e basta che vi
si dica una parola perchè sparisca il vostro sorriso! Figliuola mia!
Vi avverto che di questo passo, ci vuol poco a essere la donna più
infelice di questa terra.

--Non importa, la felicità--ella rispose, con un sorriso estatico.

--Bugia, bugia! Bisogna esser felici, bisogna avere il cuore di
bronzo! Di bronzo, cara mìa bella!

--Non importa, meglio averlo aperto a ogni tenerezza--replicò con la
forza del suo innocente animo.

--Vi preparate un brutto avvenire, Luisa,--disse lui, glacialmente.

--Non importa--ella ribattè, per la terza volta, con il supremo
coraggio dei cuori buoni.

Ed era così bella della sua gioventù, del suo candore, della sua
abnegazione, così bella per sè, e per quello che confusamente ma
fortemente sentiva, tanto nobile abbandono, tanto alto sacrificio da
lei traspariva, che egli si arrestò, un po' smarrito, ammirando quella
creatura semplice e sana, che si gittava nel precipizio a occhi
chiusi, sorridendo.



I.

--Povera Luisa--mormorò soltanto lui, carezzandole la manina
inguantata che si appoggiava fidente al suo braccio.

--Non mi compatite--ella rispose, crollando il capo, sorridendo a una
idea--io sono più felice di voi,

--Forse--disse lui, con voce breve.

Adesso, dopo avere oltrepassato il ponte di Posillipo, quel largo
poggiuolo che da una parte si affaccia alla collina folta di vigneti,
e dall'altra sopra, una valle che discende al mare, mollemente,
lasciato il lastricato del ponte che suonava sotto i loro passi, nella
notte, erano entrati in un sentiero oscuro, fra una siepe alta di more
spinose, e una muraglia alta, tappezzata di edera, che serra le due
ville ultime sul mare di Posillipo, la villa Postiglione e la villa
_Sans souci_. Era sparita la luna dietro la muraglia, e sullo stretto
sentiero che discendeva, essi non vedevano che un'altissima striscia
di cielo, tutta chiara, dove le pie stelle avevano un tremolìo bianco
e languido. Dagli orti, di nuovo, un confuso olezzo di fiori e di erbe
odoranti arrivava, dove più acuto signoreggiava il profumo del
gelsomino: ed essi andavano in quell'ombra, in quel fresco notturno,
ignari della loro strada, sul molle terreno umido di brina che si
faceva elastico sotto i loro passi. A un tratto, levando gli occhi,
un'immensa linea di paesaggio si schiuse loro innanzi, tutta candida
sotto la luce lunare. Erano al Capo, in quel posto che la fantasia
popolare ha chiamato il _Paradisiello_: e il gran golfo di Napoli era
come una immensa conca chiarissima, cinta da lumi vividi, scintillante
fin nelle borgate, scintillante fino laggiù, laggiù all'estrema punta
di Massalubrense, dove l'abbraccio si chiude; e da qui tutto il gran
mare che bagna i Campi Flegrei e Pozzuoli e Cuma, in una curva
nobilissima e poetica, in un silenzio di cose e di uomini, quasi che
niuno più, dopo i greci e i romani, fosse venuto ad albergare in quel
bellissimo e felice paese. Lo scoglio del Capo si avanzava fra i due
golfi, bagnato di luce da una parte, oscuro dall'altra, ma tutto il
mare, dovunque, qui sotto lambente la pianura vasta dei Bagnoli,
laggiù, sotto l'isola di Nisida, e lontano lontano, era un chiarore
immenso, immobile e quieto.

--Dio, quanto è bello!--ella disse, con la voce velata dalla emozione.

Là innanzi, creata dalla natura, è una piattaforma quasi rotonda, una
terrazza messavi dal Signore, a cui gli uomini hanno aggiunto un
muretto rotondo per appoggiarvisi, per sedervisi; di là tutto si vede.
Di giorno su quella terrazza vi sono tre o quattro mendicanti, vecchie
e piccine, che chiedono fastidiosamente l'elemosina agli stranieri
estatici; ma di notte non un'anima, non un passo. Sulla terrazza,
lungo il muretto e dietro ad esso, pei greppi, cresce l'erba selvatica
odorosa e qualche piccolo fiore agreste. Essi si fermarono colà
silenziosi, appoggiati al muretto, senza lasciarsi, penetrati dalla
poesia ineffabile di quell'ora, in quel paesaggio: poesia intima e
profonda che misticamente li avvolgeva.

--È tutta dolcezza--disse la fanciulla, la cui voce si era velata,
affievolita.

--Infinita dolcezza--rispose lui come un'eco.

--Chi abita in quell'isola, lassù?--chiese ella, levando la mano,
indicando Nisida.

--Una gente trista....--e pareva non volesse continuare.

--Che gente?--insistè lei, piegando il suo bel viso chiaro verso di
lui.

--I galeotti: lì v'è il bagno penale.

--Una gente infelice--ella corresse, umilmente.--Ma le belle notti
estive, le belle notti lunari, si levano anche per essa.

--Cara Luisa....--ripetè lui, vagamente.

Ella lo guardava pronunziare il suo nome, non solo assaporandone la
musicalità, ma sentendone acutamente tutto il tono, tutta la
intenzione. Ogni volta che questo nome usciva dalle sue labbra, ella
aveva un piccolo tremito interno: quando già il nome era stato portato
via dalle onde dell'aria, ancora in lei, nel suo cuore si allargavano
più grandi, più grandi i cerchi di quel tremore.

--Guardate quelle casette, laggiù?--continuò ella, per sfuggire alla
sua crescente commozione, accennando alle casette dei Bagnoli.--Son
tutte chiuse, non un lume. Tutti riposano felici, senz'aver bisogno di
ammirare la notte e la luna.....

--Gli abitanti di quelle casette videro un giorno un orribile
spettacolo--rispose lui, macchinalmente--è qui che hanno fucilato
Misdea.

--Qui?

--Laggiù, in quella pianura.

--In una notte come questa?

--No, in un'alba freddissima.

--Perchè lo hanno ucciso?

--Perchè aveva ucciso.

--Voi mi dite sempre delle cose tristi--ella osservò malinconicamente,
con un lagno infantile.

--Ho torto--confessò lui--anche questa bell'ora dev'essere guastata.
Scusate, cara. Vi assicurò che sono molto infelice.

--E perchè?--ella chiese, curvandosi a interrogare il suo volto.

Ma gli aveva sfiorato con la guancia la spalla.

--Ho scherzato--rispose Massimo, con la voce un po' alterata.--Volete
sedervi?

E le lasciò il braccio, si sedette sul parapetto e accese una
sigaretta. Ella, in piedi, un po' triste di essere stata abbandonata,
con le braccia pendenti lungo la persona, lo guardava.

--Volete fumare?

--No--ella disse.

--Peccato! una sigaretta è deliziosa, qui, a quest'ora.

--Se vi piace, la fumerò.

Egli le offerse il portasigarette russo, di argento, aperto: ella ne
prese una, di sigarette, con le dita sottili: ma mentre gli chiedeva
del fuoco, Massimo, preso da un subitaneo moto di collera, le strappò
la sigaretta e la buttò giù, pei greppi.

--Non fumate, è una brutta cosa, somigliereste a tante donne che
fumano.... tante donne....

--Come volete--disse ella, rassegnatamente.

Ma avendolo visto restar torvo, seccato, cogli occhi bassi, battendo
col tacco contro il muretto, ella voltò le spalle e si allontanò un
poco, girovagando, discendendo verso i Bagnoli, risalendo,
affacciandosi alla vallata. Egli la seguiva con lo sguardo, ombra
bianca attraverso il chiaror bianco della luna, camminare senza
rumore, con appena un fruscio del vestito fra le erbe; e quando ella
ritornò a lui, portava dei ramoscelli fioriti di menta selvatica.
Picciolissimi fiorellini lilla sopra minutissime foglioline verdi;
ella ne odorò un ramoscello e glielo porse.

Il viso di Massimo parve si rischiarasse: egli prese il ramoscello,
l'odorò lungamente e poi, invece di metterlo all'occhiello, lo nascose
nell'apertura del soprabito, dentro, dentro, in modo che non si
vedesse più, deposto e serrato sul petto. Allora ella fece un passo e
con un salto leggiero gli si sedette accanto sul parapetto. Tacevano.
Adesso voltavano un po' le spalle al paesaggio marino e avevano
innanzi solo la via donde erano venuti e le campagne basse di
Fuorigrotta. Ma guardavano, forse, senza vedere. Erano seduti proprio
accanto, le spalle e le braccia si sfioravano, ad ogni lieve
movimento. Sempre fumando la sua sigaretta, egli le sollevò la mano
guantata e ne arrovesciò lentamente il morbido guanto di camoscio.
Pallida e sottile apparve la manina della fanciulla, col braccio
rotondo e bianco.

--Avete una bella mano, Luisa--disse.

Le sue labbra, delicatamente si posarono sulle dita piegate della
bella mano: un bacio che era un soffio. E restò a giocherellare con le
dita, senza poter lasciare quella mano. Ella non poteva parlare.

--Perchè non portate tutti quei cerchiolini di oro, di argento, di
platino, quei braccialettini che tintinnano, salgono e scendono,
continuamente, quando la donna si muove? Sono carini, è vero?

Ella lo fissò, trasognata, come se non avesse udito che l'armonia
della sua voce, senza intendere il senso delle parole.

--Sono carini....--egli ripetè--ve li donerò io, se li volete da me;
mi piacciono tanto.

Ancora scherzava con la mano, quasi attirando a sè la persona e
l'anima della fanciulla: e la bella persona e la povera e cara anima,
non sapeano che piegarsi a lui. La testolina si appoggiò con la
guancia alla spalla di lui, socchiudendo gli occhi; e pian piano,
delicatamente, quasi a sorreggerla, Massimo le passò un braccio dietro
alla cintura, abbracciandola, reggendola.

--State bene così?--le domandò, con voce roca.

Ella accennò di sì, con le palpebre, non potendo parlare.

--Non vi addormentate alla luna, almeno, Luisa. La luna fa impazzire
chi si addormenta al suo chiarore.

Ella ebbe un sorriso così profondo, così enigmatico che lo scosse.
Poi, tacquero. Passò del tempo, così. Confusamente, ogni tanto, nella
mite e intima delizia di quella solitudine, di quella vicinanza, ella
sentiva tremare, talvolta, nella sua, la mano di Massimo; e talvolta,
sentiva il respiro di lui affannarsi. Allora levava le palpebre a
guardarlo: lo trovava intento a fissare il suo volto, intensamente,
con tale un ardore concentrato di visione e di attenzione, che non
aveva ella mai scorto. Il tempo passava, sulle loro teste vicine,
sulle mani dalle dita intrecciate, immobilizzati in
quell'atteggiamento. E ad essa sembrava d'immergersi in un sogno
lungo, senza fine, che ricominciava sempre dal principio, dove
passavano sulle sue mani dei baci leggieri come un soffio, dove
carezzava i suoi capelli una mano molle e lenta, dove un acuto profumo
di fiori che si appassivano, le saliva al cervello, dove una voce
ripeteva il suo nome, sempre, con la profondità dell'amore: un sogno
tutto chiaro di luce lunare, in un divino paesaggio, un sogno
ammorbidito dalla rugiada, dai fremiti della campagna, dal palpitare
del mare sotto la luna. Invero, Massimo, reggendo la bella persona,
tenendone la manina nella sua, sentendo tutta la seduzione di Luisa e
delle cose, dell'ora e del tempo, restava immobile, con gli occhi
socchiusi, cercando di riunire tutti i suoi pensieri, per essere
forte, per vincere il fascino immortale che ha la beltà della donna e
la beltà delle cose, la innocenza della gioventù e la solenne purità
della notte, nella campagna, innanzi al mare. Non lui sognava, che era
uomo, che aveva vissuto, che sapeva; ma quasi vedeva, dietro le tenui
palpebre abbassate di Luisa, negli occhi pronti di dolcezza che si
schiudevano levandosi a lui, vedeva il sogno d'amore, il sogno di
quella notte d'estate distender la sua sottile e salda rete d'argento
sull'anima della fanciulla. E ogni tanto, come il fascino di tanto
muliebre candore, di tanta fede, di tanta giovinezza fragrante si
faceva più alto, pareva anche a lui di smarrir la testa, partito per
sempre, per la siderale, per la selenica regione del sogno. Cercò di
riaversi, di riaccapezzarsi, parlando:

--Dormite?--volle dire, scherzando, a Luisa.

Ma egli stesso non riconobbe la propria voce. Chi aveva pronunziato
quella parola? Ella scosse il capo, con un sorriso così dolce, che
egli non vi potette reggere:

--Vogliamo andar via?--le susurrò all'orecchio. La luna fa impazzire,
Luisa, Luisa....

--Ancora un poco--ebbe la forza di dir lei, nella innocenza della sua
passione.

Ancora un poco. Egli abbassava il capo, soffocando le parole che gli
sgorgavano dalle labbra, interdicendosi persino di carezzare più le
fredde dita della fanciulla, non volendo udire il profumo di
gelsomino, che veniva da lei, di quell'unico gelsomino che ella aveva
raccolto sul balcone e messo in petto, non volendo cedere alla voce di
tenerezza infinita che emanava da lei e da tutte le umane cose,
intorno. Sì, Massimo vedeva bene che ella sognava, oramai, il suo
grande sogno, l'unico e ultimo sogno, sotto la gelida e allettatrice
luce della luna, simile a Elena, la bionda: sentiva che vincendo la
ragione dell'età, del pericolo, dell'esperienza, che vincendo finanche
il profondo segreto del suo cuore, egli stesso, per la ignota forza di
sentimento che rinasce dalle sue ceneri anche nei cuori inceneriti
dalla passione, egli stesso sarebbe stato trascinato dolcemente in
quel sogno, perduto anche lui, come una volta, come sempre. E facendo,
in quell'atto, una delle più dolorose rinunzie della sua vita, il
braccio che sosteneva Luisa si rallentò, un poco: pian piano le lasciò
la mano. Ella trasalì, comprese: si levò, col volto così pallido che
pareva vi si fosse infiltrato il raggio lunare, a raffreddarne per
sempre il sangue e le fibre, si levò con le palpebre battenti, gli
occhi smorti, come coperti da una nebbia torbida.

--Andiamo--ella disse, voltandosi ancora a salutare il mare, la
campagna e il cielo.

Camminarono presto, vicino, senza darsi braccio; Massimo pareva oramai
colto dal freddo, con un desiderio di rientrare in casa. La via era
assai lunga, mentre, al venire, non se ne erano neppure accorti: a
ogni nuovo gomito che faceva la via, egli si piegava, con una certa
ansietà, per vedere se erano vicini; ella lo guardava di sottecchi,
camminando presto anche lei, non osando dirgli nulla. Alla fine gli
espresse il suo pensiero.

--Speriamo di trovare una carrozza.

--Speriamo--ripetè ella.

Ma per un pezzo non ne trovarono; la notte era altissima, tutte le
ville erano chiuse e silenziose, la strada di Posillipo era deserta,
la luna, salita già allo zenit sul cielo, vi batteva a picco, dandole
oramai un aspetto un po' spettrale. Egli osservò che la fanciulla si
stringeva nella mantellina, trasalendo.

--Avete freddo, è vero?

--Un poco.

--Siamo stati troppo tempo.... laggiù....

Luisa non rispose: camminava a occhi bassi, senza voltarsi nè a
destra, nè a sinistra.

--Forse avete paura, cara?

--Un poco.

--E di che?

--Di tutto.... la via è così deserta.... gli alberi sembrano
fantasmi....

--Abbiate paura degli uomini e non dei fantasmi, cara.

--È vero--ella soggiunse, umilmente.

Forse egli stesso, in quell'ora così tarda, in quella deserta
campagna, dove sboccavano tante grotte di tufo dalle immani bocche
nere aperte, aveva come un leggiero brivido di confuso sgomento. Erano
presi dal malessere di chi ha vegliato una notte intera, in preda a
una sovraeccitazione spirituale e fisica, e che ne esce stanco e
infelice, malcontente di sè e del tempo che è trascorso. Ma durò
questo sino a che furono arrivati alla dogana di Posillipo; ivi una
carrozza da nolo, di quelle sgangherate con un vecchio ronzino
sciancato, una carrozza di notte, infine, stazionava. Dormivano il
cocchiere e il cavallo; non si risvegliarono che a metà, quando
Massimo e Luisa vi salirono.

--Portaci a Monte di Dio--disse Massimo al cocchiere.

Costui, sempre sonnecchiando, domandò se doveva alzare il soffietto.

--Sì: fa freddo--rispose secco secco Massimo.

Il viaggio in carrozza si compì pure lentamente, poichè il cavallo si
riaddormentava, ogni tanto: e quando era sveglio, andava con un
trotterello affannoso di sciancato, facendo dei passetti corti corti.
Nella carrozza Massimo e Luisa non scambiavano una parola: ma ella
sentiva che l'ora precipitava e ogni tanto i suoi occhi si rivolgevano
a quelli di Massimo, interrogando. Essa voleva sapere da lui una cosa,
voleva sentirgli dare risposta alla domanda che le ferveva nell'anima,
da quando erano andati soli, per le vie di Napoli, per mare, sotto la
luna. E tacitamente, nell'ombra, con gli occhi, lo pregava di
dirgliela, la parola; e lui intendeva la interrogazione continua,
supplichevole, di quei cari occhi amorosi che volevano essere amati,
niente altro, e si voltava in là, come distratto, cercando di sfuggire
a quella muta domanda. Una amarezza, un'inquietudine lo teneva
agitato, non potendo neppure più fumare le sue eterne sigarette: ed
ella sentiva che il suo sogno non era completo, se Massimo non
parlava. Passava l'ora, fuggiva l'ora, essi ritornavano con la
carrozza per la via fatta, e lui non voleva, non voleva dire....

--Che avete?--finì per domandare lei.

--Sono stanco.

--Vi siete annoiato?--chiese timidamente Luisa.

--Sapete bene di no: non domandate, dunque--disse recisamente.

Ella si scosse al tono un po' duro: e con quanta tenerezza di amore
poteva esservi in lei, dopo qualche minuto di silenzio, non seppe fare
altro che chiamarlo:

--Massimo.

Che fu l'effetto di quella voce, di quella parola? Che gli mise
innanzi, che gli ricordò? È certo che egli quasi quasi si levò,
parendo volendo buttarsi dalla carrozza, fuggendo alle prese di uno
spettro: poi ricadde e con una voce fievole le disse:

--Luisa, non mi chiamate più così, non pronunziate il mio nome, ve ne
prego, se mi volete bene....

Ella tremò, non intese che l'ultima frase, sorrise, con le lagrime
della gioia agli occhi. Erano giunti. Salirono presto, l'uno dietro
all'altro: si fermarono sul pianerottolo, prima di dividersi.
Appoggiata al muro, come esausta, ella lo interrogava ancora con gli
occhi, perchè le rispondesse. Ma egli, turbatissimo, la salutò: ognuno
entrò nella propria casa, lentamente, le porte si richiusero con un
rumor sordo. Faceva un po' di freddo. Albeggiava. La notte di estate
era finita.



II.

Per un mese di seguito Massimo e Luisa si erano riveduti spesso, ma
per pochi minuti, sempre. Quando egli si affacciava al balcone, alla
mattina, la trovava lavorando dietro alla persiana, e vedeva, al
brillare di quegli occhi, che essa lo aspettava: quando egli rientrava
alla sera, trovava la porta di Luisa socchiusa, ella dietro la porta,
sorridendo, e si scambiavano qualche parola. Due volte, attirato da
quell'irresistibile fascino di giovinezza, da quella irradiazione
simpatica che mette attorno a sè l'amore, egli era andato a farle
visita e contando di restar poco, era poi restato molto, tanto
l'ingenuo e profondo amore della fanciulla lo commoveva. Egli la
trattava con una tenera cortesia, con un'affettuosità repressa, e
vedeva scintillare nei begli occhi tanta gratitudine, che la sua
cortese tenerezza cresceva. Ma come i primi temporali di settembre
ebbero spezzata, l'aria calda, egli sparve per qualche giorno, e
invano, ansiosa, impaziente, infelicissima, ella lo aveva atteso sera
e mattina. Infine, una sera, a metà settembre, ella lo vide rientrare;
dalla porta socchiusa ella spiava: non osò chiamarlo, tanto le sembrò
tetro il suo volto. Ma dopo un'ora, ella non ebbe più ritegno, e andò
pian piano a bussare all'appartamento di Massimo. Il servitore, senza
domandare nulla, la introdusse nel salotto: ivi, dietro la scrivania,
sotto il gran paralume di seta rossa trasparente con merletti bianchi,
Massimo scriveva. Era grave, pensoso, e si fermava ogni tanto a
riflettere, con la penna appoggiata alle labbra: in una di queste
pause, vide Luisa.

--Oh cara, cara--disse, levandosi e stringendole le mani--giusto....
vi scrivevo.

--A me?

Si era seduta dall'altra parte della scrivania e lo fissava,
pallidissima.

--Mi scrivevate? perchè?

--Per.... nulla--disse vigliaccamente lui. Poi, vergognandosi,
soggiunse presto:

--Per salutarvi. Parto.

--Partite?--esclamò lei, alzandosi a metà sulla sedia.

--Sì. Parto.

--Per poco?

--Per molto, invece.

--Quanto tempo?

--Quattro, sei anni.

--Ah!--disse ella, chiudendo gli occhi, come se svenisse. Anche lui
era smorto; ma aveva una nervosità che lo ringiovaniva.

--Dove andate?--soggiunse ella, pigliando fiato a stento.

--A Pietroburgo.

--Tanto lontano, tanto....--mormorò ella, con voce di pianto.

--Già--fece lui, con indifferenza--lontano assai.

--E.... non vi fa pena.... non vi dispiace andarvene?

--No--disse lui, brutalmente, sperando guarirla con la crudeltà.

Ella appoggiava la testa a una mano, col gomito sulla scrivania: si
nascose gli occhi coll'altra mano e si mise a piangere zitto zitto, a
lagrime lunghe che le piovevano sulle guancie, sul collo,
continuamente.

--Perchè piangete?--domandò lui, nervosissimo.

Essa gli fece cenno di non domandare; seguitava a piangere,
tacitamente.

--Non è mica morto qualcuno....---tentò di scherzare lui.

--Sì, sì, è morto qualcuno---rispos'ella, a bassa voce--veramente,
veramente, è morto qualcuno.

E, levando il capo, con la santa audacia della passione, gli disse:

--Non ve ne andate: io vi voglio bene.

--Io non merito il vostro bene, cara; fate male a volermene.

--Non posso fare diversamente; vi voglio bene, non ve ne andate.

--Io sono stanco e vecchio, e laggiù il dovere mi chiama.

--Non m'importa: se non potete restare, verrò con voi.

--Cara Luisa, voi perdete la testa, figliuola mia....

--Sì, sì, è da quella notte che l'ho perduta--ella rispose con aria
smarrita.

--Da quale notte?--chiese lui, inconsciamente.

Ma si pentì subito. Presa da un impeto di disperazione, essa scoppiò
in singhiozzi, torcendosi le mani, battendo la testa sulla scrivania,
gridando fra il pianto:

--Oh Dio.... egli ha tutto dimenticato.... Signore, Signore, egli ha
potuto dimenticare.... Oh Dio mio, ha dimenticato, ha dimenticato....

Sgomento innanzi all'opera che egli aveva fatta, non trovava parole
per consolarla, come il malvagio monaco medievale del poeta, che
evocato il demone, non aveva poi più il motto magico per rimandarlo
all'inferno. La lasciava farneticare, impaurito e dolente, pentito e
amareggiato, sentendo tutta la verità di quel dolore, sentendo ancora
una volta la fatalità dell'amore aggravarsi nella sua vita. Poi, non
reggendoci più, si levò, le andò vicino, le prese le mani, la chiamò
per nome e allora un novello fiotto di tenerezza invase l'anima
dell'infelice; ella si mise a domandargli, con una desolazione, con
uno strazio di far pietà:

--Oh Massimo, Massimo mio.... perchè mi lasci, perchè te ne vai?...
come posso stare, senza di te, come posso restare sola, se ti voglio
bene.... Massimo, Massimo, non andartene, non essere senza cuore....

--Luisa, ti prego, non piangere, non dirmi queste cose....

E le tenne le mani, la guardò negli occhi, ipnotizzandola, tenendola
sotto la sua volontà.

--Massimo.... Massimo....--ripeteva lei, calmandosi dolcemente, come
se una speranza le rinascesse nel cuore.

--Se è vero che mi vuoi bene, devi farmi una promessa....

--Prometto.

--.... Di esser buona, di non piangere, di ascoltare con pazienza, con
rassegnazione.

--Prometto--mormorò lei.

--Senti, senti--riprese lui, tenendole le mani, guardandola, sempre
negli occhi--te lo debbo ripetere, tu fai male ad amarmi: io non
merito questo tesoro così prezioso, della tua giovinezza, del tuo
cuore, io sono un uomo senza gioventù, senz'entusiasmo e senza
illusioni. Io so tutto, io ho conosciuto tutto, io ho cento anni come
Faust e non vi è più Margherita che possa farmi ringiovanire. Io sono
un uomo morto, Luisa. Perchè ti sei innamorata di me?

--Così--diss'ella, con la voce monotona della disperazione.

--Senza una ragione?

--Così.

--Non basta, Luisa....

--Credevo..., sì, credevo che tu mi amassi....

--Ti sei ingannata--le disse.--Io non ti ho mai amata.

--Mai amata!--fu l'eco desolata della infelice.

--Perchè hai tu creduto questo, Luisa! Non sai tu dunque che cosa sia
l'amore?

--Ho creduto.... ho creduto.... che vuoi, ho creduto!--disse ella,
aprendo le braccia, con un gesto desolatissimo.

--Tu non sai nulla, cara.

--Forse non so nulla, hai ragione--replicò ella, con la umiltà dei
vinti, dei perduti.

E chinando il capo, volendo almeno trovare una scusa alla sua follia,
cercando ancora un barlume di speranza nei ricordi, riandò tutto quel
sogno di una notte di estate per cui ella aveva fissata la sua vita. E
a ogni dolce particolare, a ogni piccolo e pur grande fatto che le si
presentava alla memoria, ella trasaliva, ella ricadeva nella sua
illusione e alla fine, rendendo tutto il suo pensiero:

--Eppure tu mi hai amata, quella notte, Massimo.

--Si ama sempre un poco la donna che abbiamo accanto--mormorò lui, con
un'ombra di sorriso.

--Qualunque sia?

--Qualunque sia.

--E dopo?

--Dopo, si dimentica subito.

--Ed essa?

--Se è savia, gode del fugace momento e.... non lo rimpiange.

--E se ama, se ama?

--Luisa, tu mi hai promesso di esser calma....

Ella si era alzata e gli parlava concitatamente:

--Ma che ne so, io, di questa vostra ipocrisia sociale, di questa
vostra galanteria mondana; la chiamate galanteria, non è vero? Io sono
una fanciulla semplice, una sciocca, una illusa, io ti amavo già,
quando, quella sera mi hai detto di venir teco. Ma quando si porta
via, di notte, una donna, con le dolci parole che tu mi dicesti,
costei deve credere che tu l'ami! Ma tu, nella barchetta, te ne
ricordi? hai passato un'ora a chiamarmi sottovoce, come se solo le
sillabe del mio nome esistessero! Te ne rammenti? E dopo, dopo, tu non
devi averlo dimenticato, hai preso le mie mani, nell'oscurità della
grotta di donn'Anna, tu le hai strette, domandandomi così qualche
cosa, io ho risposto sì, stringendoti le mani, questo, certo, neppure
lo puoi avere obliato, io l'ho nell'anima, quella stretta di mani....
e laggiù, laggiù, ti rammenti, ti ho dato il fiore di menta, lo hai
baciato perchè aveva toccato le mie labbra, lo hai conservato
gelosamente, lo hai chiuso sul tuo petto, come se volessi che
appassisse colà, al calore del tuo cuore: io ho il tuo gelsomino, dove
è dunque andato il fiore di menta? Ma tu hai baciato la mano, questa
qui, in questo punto, lentamente, dolcemente, con una lentezza e una
dolcezza che mi parve mi facessero morire: ma tu hai tenuto la mia
testa sulla tua spalla, ma tu mi hai abbracciata te ne ricordi,
certamente, te ne ricordi, chi può avere scordato queste cose? ma
insieme, insieme a me tu hai sognato, abbiamo sognato laggiù, nel
paradiso, il nostro paradiso. Oh angeli santi, voi stessi avete dovuto
sorridere, poichè quello era l'amore buono, l'amore bello, l'amore
santo, poichè io amava e tu mi amavi, Massimo, non mentire, non
mentire, non togliermi questa fede....

--Vi sono una quantità di cose che somigliano all'amore e che l'amore
non sono--disse lui, glacialmente.--La sera è chiara, vi è una buona e
bella fanciulla, vi è il mare, vi è la gran poesia di questo paese
nostro, la notte è lunga, il cuore è malinconico--e allora un nome,
chi non lo pronunzia, un fiore chi non lo chiude sul petto, un bacio
chi non lo dà? Sciocco colui che lascia sfuggire questi purissimi
brevi piaceri dell'anima e dei sensi, puri piaceri che non hanno la
macchia del peccato, che non debbono portare alle lacrime, alla
tragedia e che vi fanno egualmente cara una notte, un giorno! Tutto
questo non è affatto l'amore nel suo immenso turbamento, con le sue
lotte quotidiane, con la sua gelosia feroce, con la sua insaziabilità
crudele e con la sua sazietà scorante! È invece un'altra cosa che
all'amore rassomiglia, una cosa carina, graziosa, che resta dolce
nella memoria, che non lascia ferita e che imbalsama poi, col suo
profumo, le ore della vecchiaia. Amore no: tenerezza, simpatia,
fascino, eterna attrazione del femminile, una cosa mite e tanto cara,
senza dolori, senza singhiozzi.... Luisa, Luisa, l'amore è un'altra
cosa, è una vampa, è una vertigine, è uno sconquasso, Dio vi salvi....

--Io sono perduta--ella disse, brevemente,--perchè vi amo e non mi
amate.

Come egli parlava, pianamente, con quella velatura d'ironia che
rendeva triste la sua voce, con quel senso di disdegno che rivelava
l'uomo esperto delle tempeste, come egli le veniva dolorosamente
dimostrando la inanità delle sue illusioni, ella aveva inteso a poco a
poco mettersi fra loro due una grande distanza, quasi che Massimo
fosse già partito, già in viaggio per il gelido paese nordico. Ogni
parola che infrangeva le sue speranze, le s'imprimeva nella mente, col
lieve sogghigno che l'avea accompagnato, con la intonazione sprezzante
che era stata pronunziata: e un lavoro di distruzione si operava in
lei, la parola di lui spegneva tutta la cieca fiducia che ella aveva
avuto nel suo sogno. Illusione, illusione, il bacio, il fiore, il
nome, la voce tremante, la carezza, l'abbraccio, illusione tutto,
morto tutto, finito tutto, finito. Una luce fredda le si era fatta
dinanzi agli occhi della mente: egli aveva ragione, tutto quel sogno
di una notte di estate, sotto il pallido, morbido raggio lunare, era
una cosa graziosa, carina, niente altro, da dimenticare
immediatamente, da ricordare poi più tardi, molto più tardi, con una
certa soavità, anche con un po' di gratitudine. Ella vedeva, vedeva
bene, adesso. La scienza della vita le arrivava di un colpo solo,
netto e preciso come quello di una mannaia che recide una mano: tutto
sanguinava, ma, ella vedeva la verità. E si sentiva, perduta.

Egli taceva. Era tornato al suo posto e giocherellava con la sua penna
di avorio bianco: ma era scomposto nel volto. Affettava una calma che
non aveva: capiva che la crisi non finiva lì e soffriva per sè e per
lei, immensamente. Ma le sue burrasche passate gli davano la forza di
combattere ancora. La fanciulla taceva e pensava, quasi che nulla più
le restasse da dire: anzi si alzò, come per andarsene. Ma arrivò sino
al balcone chiuso e appoggiò ai vetri la fronte febbricitante. Stette
qualche tempo così. Poi, ritornò. Pareva tranquillizzata. Ma si
passava ogni tanto la mano sulla fronte, con un gesto che faceva pena.
Si sedette di nuovo. Massimo la guardava, con una certa ansietà. No,
tutto non era ancora finito....

--E.... ve ne andate?--chiese ella, cercando di rafforzare la propria
voce.

--Sì.

--Quando?

--Domani mattina: o anche stasera.... meglio stasera.

--Infatti.... meglio stasera--rispose lei, monotonamente.--E.... non
mi avreste salutata?

--Vi scrivevo....

--Lasciatemi vedere--diss'ella, pregando.

Egli obbedì, dandole la carta, dove erano scritte soltanto queste
poche linee.

"Cara, cara Luisa--io debbo lasciare, per forza, questo caldo e bel
paese, per un paese freddo e brutto. Me ne vado, pieno di ricordi
della vostra bontà, me ne vado, addio, pregandovi di volermi un po' di
bene, da lontano, per quanto bene vi voglio io...."

--Come potete mentire così?--diss'ella, fieramente, levando la testa.

--Non mento: vi voglio bene: vi ho una gratitudine immensa, mi siete
carissima....

--E partite, partite?

--Parto.

--Ah io non so più nulla, non so più nulla, io ho perduta la testa. Da
quella notte....--mormorò ella, nascondendosi il viso fra le mani. Ma
dopo qualche minuto, ella si levò, andò vicino a Massimo, si sedette
accanto a lui, con una espressione di ansietà, di angoscia sulla
faccia che avrebbe impietosito il cuore più duro.

--Sentite, sentite, voi non avete nessuna colpa, è vero, io non posso
dire nulla contro di voi, voi non mi avete ingannata, sono io che ho
voluto ingannarmi, lo confesso. Ma pure.... io vi amo, io non posso
levarmi dal cuore questo amore, io non resisto al pensiero di restare
sola, qui, mentre voi ve ne andate, così lontano; morirei; sentite,
non ho mai mentito, morirei. Bisogna pur concedere qualche cosa agli
illusi, agli esseri semplici. Il mio destino è di amarvi, Massimo, non
vi è altro, per me. Che volete, il mio sogno continua, io non mi
sveglierò che per entrare nella tomba. Sentite. Lasciatemi venir con
voi: andate solo, andate triste, laggiù, in un paese ove non avete nè
amici nè parenti. Io, qui, non lascio nessuno. Posso disporre della
mia persona, della mia vita. Direte che vi sono sorella, nipote,
governante, direte che sono la vostra serva, mi contento. Purchè io
possa seguirvi, vi servirò, laggiù. Non mi vedrà nessuno; non uscirò,
non andrò in chiesa, rinunzierò al mondo, a Dio, a tutto, pure di
vivere accanto a voi. Non importa, se non mi amate: portatemi via, vi
amo, non posso restare qui. Laggiù, non importa se mi tratterete male,
non importa se mi dimostrerete, che vi secco: io avrò pazienza,
rassegnazione, come voi mi comanderete di avere. Forse, vedete, non vi
nascondo la mia speranza, mi amerete un giorno; lontano, ma può
giungere, il gran giorno! Lasciatemi aspettarlo al vostro fianco,
segretamente, umilmente, piamente, con la fede degli antichi
cristiani; lasciate che io possa spendere la vita mia per voi, non
posso farne altro, della mia vita. Voi siete spesso triste, una volta
le mie risate vi piacevano; vi piacevano le mie canzoni, io riderò, e
canterò per voi, tacerò a una vostra parola, aspettando. Voi non mi
amerete mai, forse, ma io vi amerò, sempre. Ah non mi respingete, non
mi lasciate; se incontrate di notte, un povero cane senza padrone che
vi segue, malinconicamente, voi non lo cacciate via, è vero? Perchè
caccereste me? Siete uomo, siete cristiano, avete cuore, avete pietà,
non mi riducete alla disperazione, portatemi con voi, voglio morire
accanto a voi, non qui, sola, non sola, per carità, portatemi con voi.

E la disgraziata scivolò dalla sedia a terra, cadendogli ginocchioni
davanti, con la testa convulsa fra le mani.

--Luisa, Luisa, che fate?--gridò lui, vivamente, cercando di
sollevarla.

--No, no, resterò qui, sino a che mi avrete fatto questa
grazia--diss'ella, resistendo.

--Luisa, ve ne scongiuro, voi mi fate disperare....--E la sollevò
sorreggendola, aiutandola a risedersi: ella lo guardò supplichevole.

--Ditemi la parola--mormorò abbattuta.

Egli capì che l'ora era giunta.

--Non posso, Luisa.

--Perchè non potete?

--Non posso tenervi nè come moglie, nè come amante.

--A me non importa della mia riputazione: vi voglio bene, voglio venir
con voi.

--Non posso.

--Ma perchè?

--Perchè non vi amo di amore...

--Non importa, vi amerò io.

Egli la guardò, smarrito: l'ora era giunta, l'ora incalzava.

--Io amo un'altra donna!--proclamò lui, a voce chiara.

--Oh!--ella disse, come soffocando. Egli si alzò a metà, come se
volesse aiutarla. Fredda, muta, Luisa lo fermò con un gesto. E solo
nel guardarla in viso con gli occhi dove il cerchio nero, intorno, era
diventato così largo, con le labbra bianche e con due pieghe alle
labbra, dove prima si disegnava la curva del sorriso, con dieci anni
di più, infine, con quella gioventù che pareva sfiorita per sempre,
egli si sentiva torturare dai rimorsi. Ah, che egli non avrebbe mai
voluto pronunziarla, la fatale parola, il segreto profondo del suo
cuore, la nascosta angoscia di tutta la sua esistenza! Aveva esitato
un'ora, arretrandosi davanti agli intimi recessi dove il suo amore
viveva, non sapendo violare quel mistero impenetrabile, non sapendo
ferire così mortalmente quel giovane cuore sì amoroso e disperato.
Giammai, giammai, egli avrebbe confessato ad alcuno che amava, se
quella desolazione di anima buona appassionata, non lo avesse spinto a
tentarne così una disperata salvezza: il suo segreto sarebbe rimasto
chiuso nel cuore, noto solo a Dio e a colei che aveva ispirato
quell'amore, bocca umana non lo avrebbe ripetuto, orecchio umano non
lo avrebbe udito, morto con lui, il segreto. Ma innanzi a quelle
lacrime, a quei singhiozzi, innanzi a quella esistenza perduta, egli
aveva finito per chiedersi se non era un poco colpevole, se non doveva
espiare, tentando di togliere al naufragio quell'anima, con un rimedio
estremo. E aveva dischiuso il tempio dove il suo idolo si ergeva,
fiero e implacabile, aveva mostrato alla disgraziata fanciulla che
l'altare aveva la sua dea, invitta, immortale. Egli, il più mistico
fra i sacerdoti dell'amore, che stava a guardia, silenzioso, immoto,
del tabernacolo che niun occhio d'uomo doveva rimirare, aveva adesso
sollevato i veli sacri e mostrato all'occhio di Luisa la immagine
divina. Si sentiva adesso fiacco, senza coraggio, senza forza, come se
quella parola di rivelazione, avesse vuotato a un tratto le sue vene.
Aveva detto.

Luisa non piangeva, non singhiozzava, non sospirava: era seduta al suo
posto, con la faccia nascosta fra le mani sovrapposte, non dando segno
di vita: anche le mani che avevano tremato sempre, ora erano ferme,
bianche come quelle di una statua. Quando le abbassò, quando rialzò il
capo e Massimo potette vedere la sua faccia, egli sentì il danno
fatto. Oramai la luce di quegli occhi dolci e amorosi si era
intorbidata per sempre, e li opprimeva la inguaribile mestizia delle
speranze infrante: oramai le traccie del riso erano cancellate da
quella delicata e giovanile fisonomia, mentre fra le sopracciglia si
creavano quelle due rughe dolorose delle lunghe cogitazioni
malinconiche; oramai il sangue era fuggito da quelle fresche,
fragranti labbra e il pallore della viola, fiore esangue, fiore
dolente, vi si era impresso, per sempre. La disgraziata aveva parlato,
nella sua ansia, nel suo abbandono, di risa, di canzoni: ma bastava
guardare la serietà oramai incancellabile del suo viso, per intendere
che eran finite, per sempre, le canzoni e le risate. Ah veramente,
veramente, come l'antico audace che tentò disollevare la cortina del
tempio, come a Salammbo, figlia di Amilcare, che pose sul suo capo il
velo di Tani, cosparso di stelle e commise il sacrilegio, così la
povera umile fanciulla era stata fulminata perchè aveva tentato di
schiudere un cuore, perchè aveva voluto entrare nel sacrario della
dea. Invero, egli aveva in sè una pietà immensa e sterile, una pietà
fiacca e triste, per quella creatura fulminata: non sapeva dirle più
nulla, la fatalità sfugge alla discussione, e non ha conforti che
l'attenuino. Infatti, fu essa la prima a parlare. Era una voce senza
dolcezza, senza tristezza, non velata, non roca, ma veramente
spezzata: nessun sentimento vi vibrava più: infranta. Adesso le
domande che faceva, stanche, lente, sembravano l'appagamento di una
mesta curiosità, un riandare sulla sventura, così, per sapere: senza
che la conoscenza novella potesse mai più cangiare nulla di quello che
era stato.

--Voi l'amate.... molto?

--L'amo: quando si ama, si ama.

--Lo so---replicò ella, sempre senza fremito nella voce, sempre senza
luce negli occhi.--Lo so: domandavo.... così.... per sapere.

Il braccio di Luisa era disteso sulla scrivania e la mano sottile
aperta sul panno scuro. E pareva così abbandonata, così bianca, che a
lui sembrò vedere, veramente, una mano di persona morta. Ma salvo ad
averne una infinita compassione, che cosa ci poteva fare, lui? Ambedue
soffrivano, e malgrado tutto, l'uno non poteva aiutare l'altro nella
propria disgrazia; essa lo amava, egli, aveva di lei una pietà grande,
ma l'uno non poteva tergere neppure una lacrima dell'altro. Così è,
l'amore. La divina armonia di due cuori che si scelgano e che si
amino, non risuona che assai raramente, nelle anime umane. E non è,
invece, che una catena, l'amore, di cui gli anelli sono di metalli
diversi, male appaiati, di forme diverse, che si corrodono e si
contorcono, senza potersi spezzare. Che ci poteva fare, lui? Tutto era
inutile, tutto.

--Voi l'amate da molto tempo?--ricominciò lei, con quella intonazione
d'indifferenza, che faceva più male di uno straziante singhiozzo.

--Da molto tempo.

--Da quando?

--Da.... sempre.

--Non avete mai amata alcun'altra?

--No: mai. Vi è un amore che altri non ne ammette.

--È vero: lo so--ella disse, chinando gli occhi.

Poi, tacque, pensando. Sembrava che riflettesse a un'altra domanda da
fare, e che temesse di farla, di cui non potesse ritrovare la forma.
Difatti, due o tre volte fu lì lì per parlare, quasi che la parola
volesse fuggirle irresistibilmente dalle labbra; ma si rattenne. Egli
aspettava, oramai deciso a dir tutto, sempre più debole, sempre più
esausto di forze morali. Invero erano due infelici creature: ma non vi
era nessun rimedio. Alla fine, ella, si decise e disse:

--Voi l'amerete.... sempre?

Prima di rispondere egli si raccolse e nei brevi minuti del silenzio,
ritornò su quello che era stato, su quello che era la sua passione,
provò a misurare il valore e la durata di quel vincolo che gli anni,
la morale e material consuetudine avevano reso profondo e non
risolvibile che dalla vecchiaia o dalla morte.

--Credo.... credo--egli mormorò, esaurito--che l'amerò sempre. Sono
vecchio, Luisa: e la vita non si ricomincia. Voi siete giovane.... e
potete obbliare....

--Voi non avete diritto di parlarmi così--ella disse, con un amaro
sorriso.--Non vi accuso, non mi lagno; ma non cercate di consolarmi
con queste vaghe parole. Io valgo meglio di questi banali conforti.

--Scusatemi--egli soggiunse, inchinandosi a quell'altero dolore, che
non soffriva di essere turbato da nessuna voce, fosse pur quella della
persona amata.--Era un augurio che vi facevo: vi auguro di
dimenticare.... con tutto il cuore, ve lo auguro.

Ella scorse il capo, senza rispondere.

--Voi la raggiungete, colà?

--Sì--egli disse, a bassa voce.

--Vi aspetta?

--No, non mi aspetta: ma mi ha chiamato--soggiunse lui amaramente.

--E voi obbedite?

--Obbedisco sempre. Ella mi ha detto di venir qui, nell'estate,
lasciandomi senza notizie, senza lettere, senza neppure farmi sapere
dove viaggiava: e sono stato qui, tre mesi per obbedirla.

--Ah, va bene, ho inteso--ella disse, senz'altro.

--Adesso mi scrive due parole, dicendomi di raggiungerla, dandomi il
suo indirizzo: e io parto, io attraverso l'Europa, vado dove ella è,
poichè questo, capite, è il mio destino.

--Essa vi ama?

--No.

--Non vi ama?

--No, niente.

--Non vi ha amato?

--Mai.

--Nè avete speranza?

--Nessuna.

--Ma perchè non vi ama?

--Perchè vie della gente che non ama mai, Luisa--gridò lui,
subitamente esaltato.

--È vero, è vero--ella rispose, vagamente.--Vi è molta gente che non
ama ed è forse felice.

--Forse.

--Ma perchè vi chiama?

--Perchè le fa piacere di avere un servo.

Un lugubre silenzio si fece intorno: le due vittime si guardarono,
smorte dello stesso pallore, esauste dallo stesso morbo morale; e fu
lei che per la prima, con una infinita dolcezza, gli disse:

--Voi siete come me.

--Come voi--mormorò l'uomo forte, l'uomo scettico, umilmente,
dolentemente.

Niente altro. Ella si sollevò dalla sedia, rimase ritta davanti alla
scrivania.

--Adesso me ne vado; buona sera.

--Ve ne andate?--chiese lui, un po' affannoso.

--Sì, sì, me ne vado; buona sera, Massimo.

--Restate ancora un poco--balbettò lui.--Ditemi....

--Noi ci siamo detto tutto: non vi è nulla nel vostro cuore che io non
sappia: voi sapete tutto del mio, non vi è più nulla, più nulla; buona
sera.

--Ma che farete?--egli disse.--Voglio sapere che farete!

--Niente--disse lei, voltandosi, facendo un gesto largo con le
braccia.--Niente.

--Non ci possiamo lasciare così--disse lui, tutto
agitato.--Restate....

--Sarebbe inutile. Non _dovete_ voi andare?

--Sì.

--E io _debbo_ restare. Addio, Massimo.

--Addio, Luisa.

Ella se ne andò senza voltarsi, un po' curva, ombra tacita e dolente.
Egli la vide sparire: udì aprire e chiudere due porte. E pensando che
in quel minuto, rientrata nella sua casa deserta, sola col suo dolore,
ella piangeva come tutte le misere creature umane, lui, misera umana
creatura piegò il capo, nel silenzio, nella solitudine, nel dolore e
pianse, di pietà, di rimpianto, su Luisa, su Massimo.



FINE.



INDICE.

La grande fiamma,            pag.  1
Tramontando il sole,          "   91
L'amante sciocca,             "  217
Sogno di una notte d'estate,  "  301



MILANO--FRATELLI TREVES, EDITORI--MILANO

_È USCITO_

     TRIONFO
     DELLA
     MORTE

NUOVO ROMANZO DI

GABRIELE D'ANNUNZIO


Questo nuovo e tanto aspettato romanzo costituirà un vero avvenimento
letterario. Ecciterà le più vive polemiche, gli entusiasmi e gli
anatemi, come tutte le opere di questo potente scrittore. La sua fama
è volata tant'alto, che la più celebre delle riviste, la _Revue des
Deux Mondes_, ha acquistato il diritto della traduzione francese. Il
romanzo si divide in sei parti:


  Libro I: _Il Passato_.
  Libro II: _La Casa Paterna_.
  Libro III: _L'Eremo_.
  Libro IV: _La Vita Nuova_.
  Libro V: _Tempus destruendi_.
  Libro VI: _L'Invincibile_.


La quarta parte, che descrive un pellegrinaggio ad un santuario
d'Abruzzo, è per sè solo un capo d'opera. Mai il D'Annunzio fu così
grande coloritore e poeta come in questo nuovo e importante lavoro,
ch'egli dedica al pittore Michetti.



_Un elegante volume in-16 di 500 pag_., Lire Cinque.


DEL MEDESIMO AUTORE.


  IL PIACERE, romanzo. 6.ª edizione             L. 5--
  POESIE (l'Isottèo, la Chimera), ediz. diamante   4--
  POEMA PARADISIACO; ODI NAVALI. 2.ª ed.           4--


Dirigere commissioni e vaglia ai Fratelli Treves, editori.
MILANO--FRATELLI TREVES, EDITORI--MILANO



GIOVANNI VERGA

Don Candeloro e C.^i


SECONDA EDIZIONE


Era molto aspettato questo nuovo volume del celebre
autore della _Storia d'una Capinera_, di _Eva_, della _Cavalleria
Rusticana_, dei _Malavoglia_. Sarà un nuovo trionfo.

L'elegante volume comprende 12 novelle:


  Don Candelore e C.^i
  Le marionette parlanti.
  Paggio Fernando.
  La serata della diva.
  Il tramonto di Venere.
  Papa Sisto.
  Epopea spicciola.
  L'opera del Divino Amore.
  Il peccato di donna Santa.
  La vocazione di suor Agnese.
  Gli innamorati.
  Fra le scene della vita.


L. 3,50.--_Un volume in-16_--L. 3,50


DELLO STESSO AUTORE:

  _Storia di una capinera_ (13.ª ediz.)              2--
  _Eva_ (9.ª ediz.)                                  2--
  _Eros_ (5.ª ediz.)                                 2--
  _Tigre reale_ (8ª. ediz)                           1--
  _Il marito di Elena_ (6.ª ediz.)                   1--
  _I Malavoglia_ (3.ª ediz.)                         3 50
  _Mastro Don Gesualdo_ (3.ª ediz.)                  5--
  _Novelle_ (4.ª ediz.)                              2 50
  _I ricordi del Capitano D'Arce_ (3.ª ediz.)        2 50
  _Per le vie_, nuove novelle (2.ª ediz.)            2 50
  _Cavalleria Rusticana_. Vita dei Campi (6.ª ediz.) 3 50


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FISIOLOGIA DELLA DONNA

DI

PAOLO MANTEGAZZA


  INTRODUZIONE. La donna è un angelo o un demonio?
  I. Anatomia generale della donna.
  II. Frammento di biologia della donna.
  III. La donna nel tempo.
  IV. La donna nello spazio
  V. Deformazioni artificiali della donna.
  VI. Il vestito della donna.
  VII. Una pagina di psicologia generale.
  VIII. Sensibilità, emozioni e sentimenti nella donna.
  IX. La donna nell'amore.
  X. La donna madre.
  XI. La donna nutrice.
  XII. Le bellezze della donna.
  XIII. Il sentimento religioso della donna.
  XIV. Il carattere morale nella donna.
  XV. La donna nel vizio e nel delitto.
  XVI. I caratteri sessuali del pensiero femminile.
  XVII. La donna nella gerarchia sociale. La contadina e l'operaia.
  XVIII. La donna agiata e la donna ricca.
  XIX. Educazione della donna. La donna professionista.
  XX. L'educazione della donna d'una volta.
  XXI. La donna dell'avvenire.
  XXII. Il concetto del bello femminile attraverso i tempi.


_Due volumi in-16 di complessive 700 pagine_.

TERZA EDIZIONE--LIRE OTTO--TERZA EDIZIONE


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  L'ARTE
  di prender Marito

  DI

  PAOLO MANTEGAZZA

  --TERZA EDIZIONE--


  _Parte Prima_.--IL RACCONTO.

  I. La bambina diventa donna.
  II. Sogni e realtà.
  III. Il primo amore.
  IV. Compaiono sull'orizzonte due altri pretendenti al cuore di Emma.
  V. La fanciulla consulta un'amica e la mamma.

  _Parte Seconda_.--IL MANOSCRITTO DEL BABBO.

  I. Consigli di un babbo alla sua figliuola per la scelta del marito.

    Il marito tiranno.
    Il marito geloso.
    Il marito avaro.
    Il marito debole.
    Il marito brontolone.
    Il marito libertino.
    Il marito fannullone.
    Il marito stupido.

  II. Le professioni rispetto alla felicità nel matrimonio.

    Il marito negoziante.
    Il marito artista.
    Il marito letterato.
    Il marito banchiere.
    Il marito ingegnere.
    Il marito scienziato.
    Il marito industriale.
    Il marito medico.
    Il marito politico.
    Il marito proprietario.
    Il marito avvocato.
    Il marito militare.

  III. Altri consigli del babbo nella scelta del marito.

  IV. Frammento di un codice di diplomazia matrimoniale.

  _Parte Terza_.--LA CONCLUSIONE DEL LIBRO.



_Un volume in formato_ bijou _stampato a colori._

LIRE QUATTRO.


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L'ARTE

DI prender Moglie

DI

PAOLO MANTEGAZZA

--QUINTA EDIZIONE--


  Fra Scilla e Cariddi.
  Il matrimonio nella società moderna.
  L'elezione sessuale nel matrimonio. Dell'arte di sceglier bene.
  L'età e la salute.
  Le simpatie fisiche. La razza la nazionalità.
  Le armonie del sentimento.
  Le armonie del pensiero.
  La questione finanziaria nel matrimonio.
  Gli incidenti e gli accidenti del matrimonio.
  L'inferno.
  Il purgatorio.
  Il paradiso.


_Un volume di 280 pagine in formato_ bijou.

LIRE QUATTRO.


DELLO STESSO AUTORE:


  _Il secolo tartufo_ (4.ª ediz.)                          2--
  _Un giorno a Madera_ (15.ª ediz)                         1--
  _Testa_, libro per i giovinetti (18.ª ediz)              2--
  _India_, edizione illustrata (4.ª ediz,)                 3.50
  _La Natura_, 3 volumi in-8                               30--
  _Gli amori degli uomini_ 2 volumi (11 ediz.)              6--
  _Le estasi umane_ 2 volumi (5.ª ediz.)                   7--
  _Fisiologia dell'odio_ (3.ª ediz.)                       5--
  _Igiene dall'amore_ (4.ª ediz)                           4--
  _Epicuro_, saggio d'una fisiologia del bello (2.ª ediz)  3.50
  _Dizionario delle cose belle_ (2.ª ediz.)                4--


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EDMONDO DE AMICIS


  _La vita militare_ (24.ª ediz.)                          4--
  ----Edizione illustrata (3.ª ediz.)                     10--
  _Marocco_ (14.ª ediz.)                                   5--
  ----Edizione illustrata (3.ª ediz.)                     10--
  _Costantinopoli_ (16.ª ediz.)                            6 50
  ----Edizione illustrata                                 10--
  _Olanda_ (13.ª ediz.)                                    4--
  ----Edizione illustrata                                 10--
  _Novelle_ (11.ª ediz.)                                   4--
    Gli amici di collegio.--Camilla.--Furio.
   --Un gran giorno.--Alberto.--Fortezza,
   --La casa paterna.  ----Edizione illustrata            10--
  _Ricordi di Parigi_ (7.ª ediz.)                          3 50
  _Ricordi di Londra_ (21.ª ediz,)                         1 50
  _Poesie_ (8.ª edizione--1.ª in formato bijou)            4--
  _Ritratti letterari_ (2.ª ediz.)                         4--
    Alfonso Daudet.--Emilie Zola, polemista.--Emilie
    Augier.--Alessandro Dumas.--L'attore Coquelin.
    --Paolo Dèroulède.  _Gli amici_ (9.ª ediz.)            7--
  ----Edizione illustrata (16.ª ediz.)                     4--
  _Cuore _(158.ª ediz.)                                    2--
  ----Edizione illustrata                                 10--
  _Alle porte d'Italia_ (6.ª ediz.)                        3 50
  ----Edizione illustrata                                 10--
  _Sull'Oceano_ (19.ª ediz.)                               5--
  ----Edizione illustrata                                 10--
  _Il Vino_, illustrato da Arnaldo Ferraguti, Ettore
    Ximenes ed Enrico Nardi, _nuova edizione_              2 50
  _Il romanzo d'un maestro_ (10.ª ediz.)                   5--
  ----Edizione economica in 2 vol. (17.ª ediz.)            2--
  _Fra scuola e casa_ (5.ª ediz.)                          4--


IN PREPARAZIONE:

I.º MAGGIO


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CORDELIA


PICCOLI EROI

LIBRO PER I RAGAZZI

_In-8 grande con 36 illustrazioni di A. Ferraguti_.

Lire Quattro.



  _Mondo Piccino_, illustrato (5.ª ediz.)                     1--
  _Mentre nevica_, illustrato (4.ª ediz.)                     2--
  _Il Castello di Barbanera_, ill. da D. Paolocci.            2--
  ----Edizione di lusso (2.ª ediz)                            4--
  _I nipoti di Barbabianca_, illustrato da Edoardo
    Matania (2.ª ediz.)                                       4--
  _Nel regno delle Fate_, ill. da E. Dalbono (3.ª ed.)        7 50
  _Alla Ventura_, con disegni di G. Amato (2.ª ed.)           4--
  _All'aperto_, racconti illustrati da A. Ferraguti,
    E. Nardi e G. Amato (2.ª ediz.)                           4--

  _Il regno della donna_ (7.ª ediz.)                          2--
  _Dopo le nozze_ (3.ª ediz.)                                 3--
  _Vita intima_ (7.ª ediz.)                                   1--
  _Prime battaglie_ (3.ª ediz.)                               2--
  _Catene_, romanzo (2.ª ediz.)                               3 50
  ----Edizione illustrata (3.ª ediz.)                         4--
  Per la gloria, romanzo (2.^ ediz.)                          3 50
  _Casa altrui_, con 24 disegni (2.ª ediz.)                   3--
  ----Edizione economica (6.ª ediz)                           1--
  _Racconti di Natale_ (2.ª ediz)                             3 50
  ----Edizione illustrata                                     4--
  _Il mio delitto_, romanzo (2.ª ediz.)                       3 50
  ----Edizione illustrata                                     3--
  _Forza irresistibile_, romanzo (2.ª ediz.)                  3 50
  _Per vendetta_, romanzo                                     3 50
  Piccoli Eroi, in-i6, ill. da A. Ferraguti (27.ª ed) 2--
  _I nostri figli_ (in preparazione).



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PREZZO DEL PRESENTE VOLUME: Lire 4.



NEL MEDESIMO FORMATO:

_POESIA_


  BALOSSARDI. _Giobbe_ (3.ª ediz.)                        L. 4--
  D'ANNUNZIO. _L'Isottèo e La Chimera                        4--
  ----Poema Paradisiaco--Odi navali_ (2.ª ed.)               4--
  DE AMICIS. _Poesie_ (8.ª ediz.)                            4--
  GRAF. _Dopo il tramonto_                                   4--
  MARRADI. _Nuovi canti _                                    4--
  ----Ricordi lirici                                         4--
  SARFATTI. _Rime Veneziane e Minuetto_                      4--
  VIVANTI (Annie). _Lirica_                                  5--
  NEGRI (Ada). _Fatalità_ (5.ª ediz,)                        4--
  ZENA REMIGIO (G. Invrea). _Le Pellegrine_                  4--


  _PROSA_


  GIACOSA. _La signora di Challant_. Dramma
    in 5 atti (2.ª ediz.)                                    4--
  MANTEGAZZA. _L'arte di prender moglie_ (5.ª ed.)           4--
  ----_L'arte di prender marito_ (3.ª ediz.)                 4--
  PANZACCHI. _I miei racconti_                               4--
  RAGUSA MOLETI. _Memorie e acqueforti_                      4--
  ----Miniature e filigrane                                  3--
  SERAO (Matilde). _Gli Amanti_ (2.ª ediz.)                  4--
  VERGA. _Storia di una Capinera_ (13ª ediz.)                3--


  _Sotto i torchi_


  COLAUTTI (Arturo). _Carmi virili_.
  CORDELIA. _I nostri figli_.


Dirigere vaglia ai F.lli Treves, Editori, Milano.





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