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Title: Dal cellulare a Finalborgo
Author: Valera, Paolo, 1850-1926
Language: Italian
As this book started as an ASCII text book there are no pictures available.


*** Start of this LibraryBlog Digital Book "Dal cellulare a Finalborgo" ***


(This file was produced from images generously made
available by Biblioteca Nazionale Braidense - Milano)



                             PAOLO VALERA

                            DAL CELLULARE
                             A FINALBORGO



                       ILLUSTRATO DA G. ZUCCARO



                                Non è quello che si è sofferto noi
                                quello che più mi pesa, ma quello
                                che si è fatto soffrire agli altri.

                                FEDERICO CONFALONIERI.



                                MILANO


              TIPOGRAFIA DEGLI OPERAI (SOC. COOPERATIVA)

                   _Corso Vittorio Emanuele_ 12-16

                                 1899



                                 ALLA

                           MIA BUONA MARIA



__L'inverniciatore descrive il camerotto di S. Fedele.__


Ho sempre avuto la fortuna di trovare sul cammino della vita dei
simpatizzatori o delle persone che mi volevano bene prima di
conoscermi. Al Cellulare, nello stanzone di «carico e scarico», mi si
registrava e mi si salutava come un personaggio di casa. Mi si
ricordavano episodii della mia vita cui io avevo completamente
dimenticati. Come quello di essere stato alloggiato in una cella come
scrittore scollacciato o come un _égoutier_ della penna.

Tra gli impiegati che volevano assolutamente essermi utili, era un
giovinetto alto, elegante, con una bella faccia illustrata dai baffi
superbi e chiari e illuminata dalla lucentezza degli occhioni neri in
campo azzurro. L'unghia lunga del mignolo e la cravatta di _foulard_ a
palloncini gialli sul fondo solferino pallido, e i manichini che gli
uscivano candidi dalle maniche, gli davano l'aria di gran signore.

--Se le occorre qualche cosa non mi dimentichi.

Lo ringraziai con la voce turbata dalla gentilezza. Era una
consolazione trovare chi non aveva paura di stendervi la mano nelle
giornate di Bava Beccaris. Prima dell'arresto passavo per le vie come
un fantasma che faceva germogliare in coloro che mi conoscevano
un'interrogazione:

--Come, non è ancora stato arrestato?

Gli intimi sgusciavano via come ombre. Era in tutti lo spavento di
compromettersi. Se l'imprudenza mi faceva fermare qualche amico,
l'amico diventava smorto e mi diceva, con l'orologio in mano, che
doveva correre in qualche luogo.

Domandai subito una stanza a pagamento. Era troppo tardi. Le stanze di
lusso erano state tutte prese dai deputati, dai giornalisti e dalle
persone facoltose che mi avevano preceduto. Ma non dovevo
preoccuparmene. L'impiegato che mi voleva bene se ne sarebbe occupato
come di una cosa personale. Per il momento bisognava accomodarsi come
si poteva, perchè il Cellulare non era mai stato così pieno.

--Ha dei libri?

--Neppure uno! Mi hanno sorpreso ieri mattina in letto e nella
confusione mi sono dimenticato di insaccocciare un po' di munizione
intellettuale.

--Non ci pensi, stia tranquillo. Parlerò io al bibliotecario e verrà
immantinenti a portarle volumi che le piaceranno. Dei romanzi che ho
letto io e che le faranno passare le giornate come in un sogno.

--Di Barrili?

Uscito dalla stanza della registrazione, passai un cancello di color
oscuro e mi trovai in un ambiente assai diverso. Non c'erano più
riguardi. L'angelo custode mi trattava volgarmente col voi.

--Tirate fuori tutto ciò che avete nelle tasche!

Nella stanza della visita mi ingiunse di svestirmi, e di fare presto,
perchè lui non aveva tempo da perdere.

--Fuori anche le calze, mammalucco!

Mi palpeggiò gli abiti e la biancheria con la voluttà dell'aguzzino
alla ricerca di qualche cosa nascosta.

--Che cos'è questo?

--Un lapis!

--Vi piacerebbe un lapis! Perchè non l'avete tirato fuori quando ve
l'ho ordinato?

Non gli risposi neanche. Era anche lui un'autorità del momento.

Mi condusse di sopra al primo piano, e mi chiuse in una stanza
«intermedia». Le «intermedie» servono per i malviventi di passaggio.
Hanno sei o sette sacconi di paglia in terra, la secchia dell'acqua e
il bugliolo delle evacuazioni nell'angolo. Nei giorni di Bava Beccaris
erano affollate di «rivoluzionarii».

Non ci volle molto a capire che i miei cinque compagni erano degli
idioti che nessuno sarebbe mai riuscito a intellettualizzare. Erano
stati sorpresi dal ciclone militare, ma tre di loro non sapevano
neppure il significato della parola rivoluzione. Il quarto era un
giovanotto mingherlino che faceva il tintore in una fabbrica a qualche
miglia dalla ripa di porta Ticinese, e che nella giornata di sabato
era andato con degli altri a bere nelle osterie senza pagare e a
domandare dei prestiti a dei fittabili senza l'intenzione di
restituirli.

--Credevate di fare la rivoluzione?

--Sì, mi disse egli chiudendo le dita a ventaglio. Facevamo della
rivoluzione! Non creda però che si sia fatto denaro. Finita
l'escursione, avevamo bevuto mezzo litro di vino e ci saremo spartiti
una e cinquanta a testa.

Il quinto era un ex-cameriere che si occupava più della sua pipa e del
suo ventre che degli avvenimenti che lo avevano mandato in prigione.
Era uno sboccaccione che mi fece sentire più di ogni altro la
ripugnanza per la coabitazione forzata. Egli non aveva riguardi. Si
scaricava delle ventosità nel modo più indecente.

Il più buono dei tre era un inverniciatore che passeggiava dalla
mattina alla sera coi tacchi ferrati come i piedi dei cavalli,
zufolando, o dando in ismanie per essere stato arrestato senza colpa
alcuna.

--Si figuri che io non ho saputo della morte di Vittorio Emanuele che
ieri; questo per dirle che non ho nulla di comune con l'uomo politico.
Ero in casa che stavo per andare a dormire. Tra le otto e le otto e
mezza sentii bussare. Chi è? Andai ad aprire. Erano due agenti di
questura in borghese. Mi domandarono se ero il tale. Nossignori,
risposi. Come vi chiamate? Così e così. Venite con noi, che il
questore ha bisogno di parlarvi. Il questore? Non me lo feci dire due
volte. Chi male non fa, paura non ha, va bene? Avevo lavorato tutti i
giorni come nelle altre settimane e alla domenica ero andato col mio
ragazzo a pescare.

Di che cosa dovevo avere paura? Dissi alla moglie di non inquietarsi
che sarei ritornato subito. Il signor questore non era uno stupido e
sapeva quel che si faceva. Mi buttai in dosso la giacca in fretta e
giù dalle scale con loro. Mi parevano buoni diavoli. Parlavano come
persone dolenti di avere dovuto disturbarmi. Si figurino! Faccio
intanto una passeggiata. Sul corso di porta Magenta mi diedero anzi un
solfanello per la pipa. Piperei tutta la vita. Quando fummo in
questura parlarono con un altro e mi lasciarono dicendo che sarebbero
venuti a prendermi. Con tante cose da fare in quei giorni, si saranno
dimenticati, perchè li aspetto ancora.

Fatto sta che il nuovo individuo mi disse di vuotarmi le saccocce. Se
non ho niente! Guardi pure. Faccia il comodo suo. Sono uscito di casa
per un momento. D'abitudine non vado mai attorno coi denari in tasca.
Al sabato consegno la settimana alla mia donna e non ci penso altro.
Quando ho il tabacco per la pipa, basta. Non sono mica un beone che
sciupa il sudore di una giornata nelle bettole. Coloro che frequentano
il trani finiscono sempre male.

Dicevo bene? Sicuro che non avevo niente, aperse l'uscio del primo
camerotto e felicenotte. Non mi disse neppure che chiudeva. In casa
mia, nel casone di via Ochette, siamo in sei e si vive tutti in una
stanza. Si sa, un povero operaio non può fare tanto cogli affitti così
cari. Si figuri che pago più di cento lire all'anno. C'è di buono che
il padrone è una pasta d'uomo. Se non arrivo in tempo non mi butta in
istrada. È un padrone di casa che sa anche lui il vivere del mondo.
Con dei figli che mangiano tanto pane, un povero padre non può sempre
pagare la pigione in giornata. Che cosa dicevo? Parlavo del camerotto.
Un vero castigo di Dio.

Mi sono trovato in mezzo a un fumo che mi fece chiudere gli occhi e
tossire come un vecchio di sessant'anni. Non ci si vedeva. Era pieno
come un uovo. Gli uni erano addosso agli altri e nessuno poteva
muoversi. Creda a me che non dico bugie. Erano gli uni sugli altri
come le sardine. Fu una vita da cane la notte del mio arresto. L'aria
che si respirava rivoltava lo stomaco. Faceva venire voglia di
vomitare. Nel piccolo spazio tra l'uscio e il tavolazzo, pareva di
essere in una marcita. Gli sputi di tutta quella gente che masticava
il tabacco avevano ridotto il terreno molle e sdrucciolevole. Coi
piedi nelle pozzanghere si stava malaccio. Si sentivano i reumatismi
venire su per le gambe. Non si poteva camminare perchè eravamo in
troppi. Quando tiravo su il piede per poggiarsi sulla gamba, sentivo
il «ciac» della palta che si staccava dalla suola. I muri sudavano.
Era un sudore che restava alle dita come la gomma. Sul tavolazzo non
si stava meglio. I seduti dovevano tenervi le gambe piegate fino agli
occhi con le dita allacciate. Quando c'era qualcuno che aveva bisogno
di spandere acqua, si voleva morire. La tinozza lasciava venir fuori
un odore che asfissiava.

Non c'era posto, ma il carceriere era un diavolo che non faceva caso a
quello che dicevamo. Apriva e ne cacciava dentro degli altri senza
tanti complimenti. Lui non aveva tempo da perdere. Conosceva nessuno e
trattava tutti alla spiccia. Cinque o sei erano vestiti bene. Si
capiva che dovevano essere persone di considerazione perchè avevano
gli anelli brillantati sulle dita che abbagliavano la vista. Un
signore grosso, col pancione dell'uomo che mangia bene, faceva
compassione. Si asciugava gli occhi e diceva che la sua famiglia
avrebbe pensato male a non vederlo andare a casa. C'erano degli altri
nella stessa condizione. E la mia Margherita? Mi pareva di sentirla
piangere. La vedevo andare alla finestra tutta disperata a cercarmi
giù nell'ombra o all'uscio della scala ogni volta che sentiva i passi
di qualcuno. In dieci anni di matrimonio non ho mai dormito fuori di
casa. E una povera donna che voglia bene al marito si impressiona.

In pochi nasceva il bisogno di parlare. E quelli che dicevano qualche
cosa era per lamentarsi di essere stati portati via dalle loro
famiglie innocenti. Io ero sempre in piedi che aspettavo il posto
d'uno del tavolato. Mi ero straccato a stare lì senza muovermi.

Dovevano essere le dodici. La gente del camerotto sembrava sopita nel
tenebrore della lanterna. Si vedevano qua e là teste che precipitavano
sul petto come cariche di piombo. I gruppi appisolati avevano pose che
in altri momenti avrebbero fatto sgangherare dalle risa. Qua e là si
russava come tanti porci. Lungo il corridoio si udivano, in certi
momenti, tonfi o corpi che si urtavano violentemente con delle grida
che morivano dietro gli uscioni.

Un po' dopo ho dovuto ricaricare la pipa e fumare, per illudermi che
gli individui sulla tinozza erano persone sedute. Venivano via i
miasmi della fogna che mi andavano per la cappa del naso come della
starnutiglia. C'era uno in manica di camicia che non pativa come
pativo io. Mangiava il suo pane senza starnutare. Era già stato in
prigione e ci aveva fatto l'osso. Mi diceva che era uscito ieri
l'altro dal Cellulare e che aspettava la scarcerazione d'ora in ora.
Non era però impaziente. Aveva la sorveglianza e con la sorveglianza
si sta meglio dentro che fuori. Parola d'onore. Dai tredici ai
diciannove anni non aveva fatto altro che uscire per rientrare,
sovente senza guadagnare un centesimo. Gli ho domandato che mestiere
faceva. Parve sorpreso. Sono cose da domandare? _El tirador de
sacchett_.

Pescava nelle tasche delle signore, mi diceva lui, con una delicatezza
che non disturbava le derubate. Doveva essere un buon diavolo, perchè
raccontava su tutto, come tra vecchi amici. L'ultima volta era stato
côlto in chiesa. Non immaginatevi grandi guadagni, mi diceva. In
chiesa si busca da vivere, ma non si fanno quattrini. Le donne vi
vanno a pregare con la moneta in saccoccia per la scranna e per
qualche povero all'entrata. Non c'è che la signora in via a fare spese
di qualche importanza che vi vada col portamonete gonfio. E poi
credete che si possa continuare a lavorare nello stesso sito? Se vi
ritornate prima di qualche mese vi sentite agguantato da due falsi
divoti che vi aspettavano da un pezzo. È una professione piena di
rischi. Se non fosse tardi, l'avrebbe cambiata da parecchi anni. Ma
adesso c'è e bisogna che vi resti.

Venni svegliato dal fracasso dell'uscione. Se ne cacciarono dentro
altri cinque o sei, venuti da chi sa dove, a pugni sulla testa e sulle
spalle. Ero così ingarbugliato dal sonno che non ho potuto vedere le
guardie in borghese che pestavano gli arrestati senza misericordia.
Forse avevano ragione. I cinque o sei non mi parevano facce da
galantuomini. Si erano lasciati battere senza dire una parola. Si
tiravano su i calzoni e facevano sparire i pugni dai cappelli, con la
grazia più naturale del mondo. Chi erano? Pochi di buono
indubbiamente. Sono stato arrestato anch'io, ma non mi si è fatto
nulla. Gli agenti non sono poi dei cani, diavolo. Non dànno via per il
gusto di dar via. Siate onesti, se volete essere rispettati.

Si respirava come i moribondi. Anche quelli seduti incominciavano a
dire che era una vera porcheria chiudere in una stanza lurida tanti
cittadini. L'acqua doveva essere diventata calda come l'orina. Pure si
beveva con piacere perchè c'era una caldura che toglieva il respiro e
c'erano delle ore prima che venisse mattina. Non potete immaginarvi
come mi dispiaceva di non avere avuto cinque centesimi in tasca.
Sognavo l'alba con un bicchierino di grappa. Fa tanto bene quando si
ha i piedi nel sudiciume e si è passata la notte senza dormire. Non so
che cosa si faceva di fuori. Ma di tanto in tanto udivo delle persone
che s'arrabattavano per la muraglia urtate da qualche prepotente che
smanacciava. Erano forse degli altri arrestati che gli agenti
spingevano nei camerotti.

Alle quattro non si poteva più dormire. Si sentiva il sussurro del
brodo che bolle nella caldaia coperta. Si chiacchierava sottovoce. Si
ragionava sui tumulti di Milano.

Nessuno sapeva come avevano avuto principio, ma tutti erano d'accordo
nel biasimarli. Perchè avevano fatta la rivoluzione? Si parlava di
morti e feriti come se ci fosse stata una grande battaglia. Ho sentito
cose da far venir su la pelle d'oca. Perchè avevano fatto la
rivoluzione? Era la domanda che si facevano l'un l'altro di tanto in
tanto. Non si stava forse bene? Non erano che i lazzaroni che si
lamentavano. La gente che lavora non ha tempo di pensare a tante
storie. Il lavoro stracca e non lascia il tempo di sentire asinate.
Quando io vado a casa alla sera, mangio la minestra con ingordigia,
faccio la mia pipata con piacere e vado a letto mezzo addormentato.
Gli oziosi vanno in giro e si scaldano la testa.

Si aperse di nuovo l'uscione con fracasso. L'incaricato pareva in
collera. Povero diavolo, non aveva chiuso occhio in tutta la notte.
Doveva essere sfinito morto. Si fece un'altra infornata. Dicevano che
non c'era più posto. Ma gli agenti provavano il contrario. Cacciavano
su gli arrestati calcandoli alle spalle con sfuriate di parole
porcone. Aspettiamo a biasimare gli agenti. Non si sta su tutta notte
senza perdere la pazienza e non si dicono villanie senza qualche
ragione. L'uscio si richiuse con rabbia. Gli entrati parevano bruti.
Quattro erano malvestiti e dovevano essere vagabondi. Gli altri
avevano l'aria di essere signori. Uno di essi era grosso, piccolo, con
un cappellaccio in testa che faceva paura. Poteva essere un
rivoluzionario. Ho sentito dire che era uno scultore che aveva fatto
la barricata con le sue statue e che aveva messo le mani nel sangue di
un soldato. Pareva abbattuto. Aveva una faccia scolorata che faceva
stremire. Gli altri dovevano essere persone istruite perchè parlavano
con parole difficili. Mi fece colpo la parola lubrico--una parola che
è sempre in bocca del mio padrone quando dà degli ordini agli
spalmatori d'olio.

Dicevano che il suolo era lubricato, per dire che non si poteva stare
in piedi. Erano stati arrestati a domicilio. Si capiva, dal
tutt'assieme, che erano pesci grossi perchè non si mischiavano con gli
altri.

Più tardi è entrato un signore con tanto di catena d'oro. Ci disse che
era stato arrestato sullo stradone di Abbiategrasso. Veniva a Milano
in carrettella e non sapeva dei disordini. Gli hanno domandato in che
mondo viveva. Abbiategrasso non era mica in America. Lui era come me.
Non leggeva mai i giornali e ignorava tutto quello che avveniva. Io
sono buono di leggere, ma faccio troppa fatica. Cinque minuti dopo, le
parole mi vanno insieme e mi pare di essere ciocco. Non sono poi
curioso. A me importa proprio niente di sapere gli interessi degli
altri. Ho anche troppo da fare a tirare innanzi la mia baracca, senza
darmi dei grattacapi.

Dove sono rimasto? Al signore della carrettella. Egli aveva una micca
in saccoccia. Gliela avevano fatta comperare i carabinieri a porta
Ticinese per paura che morisse di fame. Io cominciavo proprio ad aver
fame. Speravo di vedere mia moglie con la sporta. Povera donna. Mi
voleva bene e io rimanevo nel camerotto a perdere il tempo.

Alla mattina, con un po' d'aria fresca e un po' più di luce,
sembravamo tanti ubbriaconi che avessero passata la notte in un
porcile, o in un acquavitaio che ci avesse rasi come una damigiana.
Eravamo bianchi come i cadaveri. Il più allegro era sempre il
precettato. Egli era rimasto in manica di camicia e con la sua giacca
aveva coperto le gambe di uno sconosciuto che tremava dalla febbre e
dalla paura. Gli ho dato la pipa da spazzare una seconda volta.
All'odore del luogo ci eravamo abituati. Non c'era che l'impazienza di
uscire. Chi doveva correre al lavoro, chi aveva degli affari
importanti e chi si sentiva voglia di sgarbugliarsi gli occhi con del
caffè caldo. Prima delle otto eravamo ricaduti nella disperazione.
Perchè non ci si lasciava andare? C'erano gli scalmanati per l'uscita
che non si lasciavano acquietare se non dicendo loro di rammentarsi
che non avevano da pensare a noi soli. Alle otto venne il carceriere a
domandarci se volevamo qualche cosa. Quasi tutti gli domandarono se
non era tempo di liberarci. Ci disse di fare presto, che lui aveva tre
camerotti zeppi di gente che aveva fame. Allora fu una gara, e il
carceriere dovette pregarli di andare adagio. Chi comandava del caffè
e dei sigari, chi del pane e salame e chi una frittura di fegato col
limone. C'erano signori che si ricordavano del limone in un momento da
strapparsi tutti i capelli dalla testa! Non ci furono che due che non
gli diedero seccature: io e il precettato. Eravamo tutti e due senza
il becco di un centesimo. Venuta la distribuzione, si sono ristorati
come hanno potuto. Mangiavano con le mani e stracciavano il pollastro
coi denti. C'erano di quelli che avrebbero voluto il tovagliolo.
Ringraziate Dio, o brontoloni, si diceva, che avete il fazzoletto.

Le persone di cuore non possono mangiare senza dividere con coloro che
non mangiano. Io e il precettato abbiamo finito per menare i denti più
degli altri. Della gente buona ce n'è dappertutto. Ci fu quel signore
col cappellaccio, che dicevano avesse fatto la barricata con le
statue, che mi diede il suo vino. Egli non aveva voglia di bere.
Grazie.

Non so come si faceva a non crepare. Ci mettevamo i gomiti sullo
stomaco per mancanza di posto e tenevamo la mano sulla schiena di
quelli davanti per non buttarci addosso le cose brodose.

I vestiti più bene offrivano i sigari a quelli che non avevano da
fumare. In pochi minuti eravamo tutti in una nube, l'uno non vedeva il
naso dell'altro. Il fumo purgava il camerotto che alle volte puzzava
come una latrina. Verso le dieci o le undici ore eravamo stufi, stufi,
più che stufi. Non si sapeva niente, nè se ci si lasciava andare, nè
se ci si mandava in qualche luogo.

Il caldo era diventato eccessivo. Si sgocciolava. Finalmente si aperse
un'altra volta l'uscione e ci si fece uscire a due a due. Fuori
dell'uscita c'erano dei signori in borghese che a certi individui
lasciavano andare degli scapaccioni. Probabilmente li conoscevano. A
me non si è fatto nulla. Chi male non fa, paura non ha. Mi si fece
salire in un carrozzone e mi si condusse qui al Cellulare. Nel
carrozzone credevo proprio di lasciarvi la pelle. Nella mia celletta
eravamo in tre. Ci mancava il respiro. Provai una grande contentezza
quando mi trovai nel cortile del Cellulare.

Me l'ho scampata bella. Dio non c'è per niente.



__Il soccorso.__


È una scena piangevole che potete vedere ogni mercoledì e ogni
domenica, tra le dieci e la una, sulla piazzetta Filangeri, dinanzi
l'edificio della sventura sociale. Ma in un giorno o nell'altro non
troverete mai la folla delle giornate di Bava Beccaris, quando ciascun
cittadino aveva paura di non essere più cittadino e ogni donna poteva
essere disgiunta dall'uomo da un ordine imperativo o da una mano
brutale.

La mia pagina è una fotografia senza ritocchi di una di queste
domeniche.

L'orologio di un campanile suonava le otto e il sole bruciava le
cervella. Sul piazzale si vedevano alcune carriole cariche di frutta
acerbe o sfatte, di dolci perseguitati dalle mosche e di cose
mangerecce coperte di polvere. Il portone traduceva un corpo di
guardia improvvisato in una città insorta. Un portone coll'andirivieni
della gente che fa paura. C'erano soldati in piedi, soldati che
riposavano sulla paglia sternita nei fianchi, soldati che entravano e
uscivano, soldati che si asciugavano la fronte e si aggiustavano la
giberna sul ventre. Si vedevano andare e venire secondini, guardie di
finanza, delegati, questurini, carabinieri, ufficiali, autorità
carcerarie, autorità militari--tutte persone che ricordavano il
momento, persone dalla faccia feroce, persone che passavano come
ventate di collera, persone pronte a venire alle mani col primo che
avesse detto una corbelleria.

L'ufficiale di guardia pareva, col pensiero, a spasso. Con la ciarpa
azzurra a tracolla, seduto sulla sedia addossata al pilastro con una
gamba sopra l'altra, si ninnolava buttando in alto il fumo diafano
della sigaretta.

Le donne giungevano sole e a gruppi con i fagotti, i canestri e le
corbe piene di roba e si appoggiavano al muro della carcere o andavano
ad occupare i sedili di granito della piazzetta o si aggruppavano alle
altre aggruppate nel largo in faccia al bastione. Tra le popolane dal
faccione prosperoso e dalle maniche rimboccate sull'avambraccio
bronzato, c'erano vecchie che si reggevano a mala pena in piedi, teste
che riassumevano la primavera nella chiarezza mattinale e figure dalla
faccia bianca o scolorata che uscivano dalla moltitudine con le loro
vesti e i loro cappelli neri come tante ditte di un ufficio mortuario.

Imperava il dolore. Ah, se si potesse uscire dal dolore come si esce
dalle porte cittadine! Il dolore distruggeva la ripugnanza delle
vestite bene per le vestite male e assorellava le donne colpite da una
sventura comune. Tutte queste mamme, tutte queste spose, tutte queste
amanti, tutte queste sorelle vedute assieme storcevano il cuore e
facevano venir sulle labbra una parola tragica, una bestemmia brunita
dal rancore, una maledizione che si rompeva nella testa col suono
della lastra di metallo che la martellata manda in frantumi.
Riproducevano l'afflizione, l'ambascia, il dietroscena domestico, il
naufragio femminile, la devozione sublime delle donne affezionate agli
uomini chiusi laggiù, oltre il portone, al di là dei cancelli, negli
sgabuzzini del lugubre edificio imbevuto delle lagrime dell'esercito
della sventura, che ha patito più del Cristo in croce. Nei loro occhi
non era l'ardimento. Nei loro occhi era la stupefazione, lo
sbalordimento, l'umiliazione. Povere donne! Erano donne abbattute,
costernate, vinte dal supremo cordoglio che non le lasciava disfogare
la piena del loro martirio.

I carrettoni chiusi scompigliavano e buttavano manate di nero sulla tela
lugubre che s'allargava a ogni minuto. I traballamenti delle ruote
andavano sul cuore della moltitudine come fitte che si sprofondavano nelle
ferite palpitanti e sollevavano in tutti il vespaio delle supposizioni. A
ogni sussulto si correva involontariamente col pensiero nelle cellette del
veicolo che accarezzavano l'arrestato come la guaina accarezza la lama, a
palpeggiare gli incassati come se si avesse avuto paura che si fossero
rotta la testa o stessero in lotta coll'ultimo alito di vita. Chi saranno?
E l'interrogazione faceva rabbrividire. Forse saranno dei ladruncoli o dei
rivoluzionari o degli innocenti usciti dalle braccia della famiglia,
rimasta in casa a piangere la loro sciagura! E i veicoli della tortura
scomparivano e lasciavano le donne più avvilite di prima.

Questa campana! Si aspettava la campana del soccorso, la campana che
doveva far dimenticare ai cellularizzati la smisurata intelligenza
malvagia degli uomini, degli uomini che hanno per idealità il male, la
campana che consolava lo stomaco di chi mangiava poco e male. Fate
presto, in nome del Signore. Spalancate il cancello, prendetevi la
corba delle vivande divenute fredde lungo la strada, divenute
immangiabili aspettando qui sul selciato due ore, tutto un secolo.
Siate buoni, siate caritatevoli con le povere donne trambasciate!

Il convoglio degli arrestati che veniva verso il Cellulare a piedi
suscitava in ogni seno un orrore indicibile. Non poche donne erano
state obbligate a chiudere gli occhi come quando si riceve un'ondata
di luce in pieno viso. Era una banda che falciava gli ideali di
redenzione più modesti. Sfilavano appaiati ai polsi come individui
usciti da un porcaio o da un sotterraneo, con le ragnatele sulle
spalle, con l'umidore nella gonfiezza sotto gli occhi, con i capelli
irrigiditi in una zuffa spaventosa. Erano laidi, stracciati, dilaniati
dai patimenti. Circondati dai questurini, dai carabinieri e dai
soldati, il loro volto assumeva il colore acceso degli aggressori di
strada che stramazzano i viandanti a coltellate. Alcuni, con gli abiti
che non avevano perduta tutta l'eleganza e con la faccia cadaverica
fino alla fronte, davano l'idea degli insorti còlti sulle barricate
colle mani odoranti la polvere.

Altri, a piedi nudi, coi gomiti all'aria come le ginocchia,
traducevano la loro vita grama di poveracci che basivano sul
marciapiede e stendevano la mano ai passanti.

Le donne si lasciavano commuovere. Alcune singhiozzavano e dicevano
che era meglio morire che vedersi trattati come birbaccioni che
avevano fatto del male. Altre si mordevano le labbra e si
scricchiolavano le dita per reprimere la sensazione che dava loro
stille di sudore e faceva loro pulsare le tempie dal disgusto e dalla
furia.

Non mancavano più che cinque minuti. La calca piegava verso l'entrata.

La prima fila, spinta dai nuovi venuti che si cercavano un posto al
centro tra le proteste generali, andava più di una volta sul cordone
militare che non si rompeva.

La ragazzaglia aveva dimenticato la tensione dell'angoscia generale e
si era abbandonata al chiasso, e le donne, le più attempate, che si
straccavano a stare in piedi, mormoravano con la voce piagnolosa.

Proprio, non si aveva pietà per le donne dei poveri prigionieri. Con tanta
gente che soffre e con tanti soccorsi, la direzione non s'era commossa.
Continuava a ricevere alla stessa ora, nelle stesse ore, come se nulla
fosse avvenuto di straordinario. Inzuccherate il veleno, o signori! Ci
farete penare meno, ci farete! Non ci voleva un gran giudizio per capire
che bisognava far porta un po' prima. Pazienza! pazienza! pazienza! Sì,
pazienza se si avesse avuto il buon senso di mettere alla porta un
cristiano che non strapazzasse tutti come tanti servitori! Ma no! Ci
avevano lasciato quell'anticristo di vecchio sciancato che aveva l'anima
nera con le povere donne.

Tutte le volte che si doveva passare sotto un volpone di quella fatta
ingrossava il cuore davvero. Era un secondino ripugnante, col collo
che si gonfiava come quello del serpente quando va in collera, con la
faccia ridotta a una grossa cipolla ammaccata. Bastava spremerla per
vederla colare di marcia. Dio non poteva dare del bene a questi mostri
verdi come la bile. Respingeva la gente dilatando la gola e dicendo
parole che facevano andare il sangue in acqua. Pazienza. Si era nelle
sue mani e non c'era che dire.

Anche quegli altri del soccorso erano buone lane. Non sapevano dove
stava di casa la buona maniera. Bastava non aprir bene il canestro o
avere dimenticato di fare la lista come volevano loro per vederli dar
fuori come vipere.

--L'ultima volta m'hanno mandata a casa la figlia tutta piangente. Era
uscita dalla coda per isbaglio. Si sa, una povera tosa non può sapere
i regolamenti. L'hanno mandata in fila con un codazzo di rimproveri
come se fosse stata la loro figliuola! Porconi! Non hanno creanza, non
hanno. Ci vorrebbe.... Lo so ben io cosa ci vorrebbe. Acqua in bocca,
che i tempi sono tristi.

--A me mi è toccato di peggio. Mi hanno lasciato il mio Alberto per
ultimo perchè non aveva la lista scritta. Noi, povera gente, non si ha
tempo di scrivere. Loro hanno un bel dire. Vorrei vederli al nostro
posto. La ragione volete che ve la dica io? Hanno la bocca larga come
quella dei coccodrilli e i denti in gola. Quella è la ragione. Ma i
miei denari li mangio io. Sissignori, li mangio io. C'è già troppo da
fare colle disgrazie che ci manda il Signore, per avere da pensare a
queste sanguisughe che ci beverebbero tutto il sangue in una volta!

--Se ci fossero delle persone con due dita di testa ci lascierebbero
entrare senza farci fare anticamera e senza buttar all'aria i cesti
come se fosse roba rubata. Tirano fuori tutto, mettono le mani in
tutto, cacciano il risotto nel salame, la torta nello stufato, le
ciliege nell'insalata e l'arrosto nella minestra. Ci vuole dello
stomaco a mangiare il soccorso.

--Non ditelo a me, per amor del cielo, che ho veduto quello che
voialtri forse non avete veduto. Ho veduto al di là del terzo cancello
come si trattano i cesti. Non ne avete idea. Non ci sarebbe che la
morte che potrebbe farmi dimenticare il disgusto che ho provato in
quella mattina che ho assistito a tanto scempio. Credetelo, in certi
luoghi si ha più considerazione per i torsoli che si gettano ai
maiali. Vuotavano i canestri come se fossero stati sacchi di patate.
Rovesciavano sul tavolo tazzine, piatti, scodelle, tegami, stoviglie,
senza badare se il condimento dell'insalata andava sul minestrone o se
la marmellata si versava sull'arrosto. Erano sgarbati che facevano
venire la rabbia. Ma quando si ha bisogno di loro, bisogna tacere. È
una grande punizione questa che Dio ci ha mandata. Con lo stesso
coltellaccio facevano tutto. Assaggiavano, tagliavano, mettevano
sottosopra. Con lo stesso coltello infarinato e impiastricciato di
intingoli affettavano le pera, rivoltavano la minestra e il risotto,
dimezzavano il pane, facevano in due i limoni, sparavano i polli,
dividevano lo stracotto, mettendosi in bocca ora una fetta di
coratella, ora una striscia di anitra, tra le risate che facevano
male. Riducevano le torte e i pasticci, fatti in casa chissà con
quanti sacrifici, in una condizione compassionevole. Siate poveri
diavoli e vedrete come è dura la vita. Voi state a casa a darvi del
male per mettere assieme un pranzetto come si deve, per il povero
diavolo che avete in prigione, correte come una disperata o prendete
l'omnibus per farglielo mangiare caldo, e poi vedete che tutto va alla
malora, che tutto diventa freddo, che tutto si mescola, le cose
giulebbate con la carne arrostita nel brodo succoso e la cipollata col
fegato nel piatto delle fragole o dei lamponi grossi come le more.
Portate le uova fresche per tirar su lo stomaco a chi ne ha tanto
bisogno e poi venite a sapere che gli sono arrivate in cella
sfracellate, coi tuorli dispersi per le vivande. È una grande
punizione questa che Dio ci ha mandata! Ah sì, non credevo che si
potesse penare tanto a questo mondo! Si fa di tutto per risparmiare i
soldi per un cartoccio di tabacco e al colloquio vi si dice che non
avete cuore di lasciare il vostro uomo senza una pipata per passare il
tempo che non passa mai!

--I sigari o il tabacco, pazienza. Se non si fuma, non si crepa. A me
è andato perduto il cesto, una volta dopo l'altra, per due o tre
giorni. Se non ci fosse stata una buona guardia, mio marito sarebbe
morto consunto di fame. Con una pagnotta di regalo ha potuto tirar
innanzi e scrivermi per domandarmi se ero morta, se l'avevo
dimenticato. È stato un vero crepacuore. Gli avevo mandato un pranzo
da far risuscitare i morti, un cesto pieno di grazia di Dio, e lui,
povero diavolo, era rimasto in cella a straziare il mio nome onorato
con delle ingiurie che non meritavo. Avete ragione voi, Antonia. È una
grande punizione questa che Dio ci ha mandato!

Finalmente! I primi rintocchi rovesciarono la folla verso il banco
delle guardie. La gente sgomitava, si sbuttonava, si riversava tenendo
in alto i canestri, protendendo le borse e i fagotti, pregando di
accettare la corba e supplicando gli agenti a essere buoni, che erano
lì da un pezzo con la roba gelata.

Le guardie non avevano tempo da ascoltare storie. Prima della una
dovevano verificare circa mille soccorsi. Prendevano quelli che
capitavano loro alle mani, senza guardare e senza commuoversi. Chi non
rispondeva sollecitamente alle domande, veniva lasciato col pranzo in
mano. Ogni donna era obbligata a dire, in fretta e in furia, nome e
cognome del detenuto, il numero della cella, se il padre e la madre
erano morti o vivi.

--Cella 89, Giuseppe Agesilao, del fu Pietro e della vivente Teresa
Baragni.

--Avete fatta la lista?

E il braccio di chi non poteva farla vedere, veniva scansato e buttato
dall'altra parte.

Alla una pomeridiana, le donne giunte tardi o rimaste tra quelle che
non avevano potuto consegnare i fagotti, piangevano dirottamente.

La campana aveva chiusa la consegna e la campana non aveva budella.

Era un grande dolore rifare la strada con il mangiare, dopo aver fatto
tanta fatica e avere speso tutto quello che c'era in casa per
consolare i poveri cristi in prigione.

--Aveva ragione Antonia di dire che era una grande punizione questa
che Dio ci aveva mandato!



__Il diario di un mese di Cellulare.__


La mia cella è una fornace. Ho il sole sulla muraglia esterna dal
sorgere al tramonto del sole. Subisco una trasudazione che mi snerva.
Preferisco però l'isolamento alla compagnia della stanza intermedia.
Coi miei compagni sarei divenuto uno scemoide. A poco a poco il loro
linguaggio antintellettuale e trivialmente sbracato sarebbe divenuto
il mio. In otto giorni mi ero già abituato a passeggiare
sull'ammattonato fracido dei loro sputacchiamenti.

Gli _habitués_ del carcere manifestano ogni giorno, alle finestre, i
loro rancori contro i cosidetti rivoluzionari. La polizia ne ha fatte
delle retate e l'autorità carceraria ha dovuto affollarli nelle celle.
Ci accusano di essere gli autori delle loro disgrazie. Dicono che i
giudici, in conseguenza dei tumulti, sono diventati eccessivamente
severi. Coloro che in tempi ordinarii se la sarebbero cavata con delle
settimane o dei mesi, ritornano al Cellulare con degli anni di lavori
forzati e di sorveglianza.

--La sorveglianza--disse uno di loro--conduce al _domino_ (domicilio
coatto).

Il capoguardia è uno sbilucione con tanto di pancia. In questo momento
è impossibile dire se egli sia un burbero con del cuore o se sia in
lui l'anima dell'aguzzino. Perchè il personale di custodia è come
invaso dalla paura di riuscire mite. Parla a monosillabi, ha una voce
che sente del carceriere e preferisce dire di no ai detenuti che gli
domandano qualche cosa. Ieri, dopo tanta insistenza, ho ottenuto il
permesso di tagliarmi le unghie vellutate e lunghe. Ma ho dovuto
tagliarmele alla presenza di questo omaccione che rintuzza ogni
desiderio col regolamento. Il suo ufficio è un bugigattolo in faccia
all'ufficio di matricola. È in esso che ho avuto il primo colloquio.
Il capo metteva la sua faccia tra la mia e quella del mio amico. Ci
teneva addosso gli occhi semichiusi e ci interrompeva tutte le volte
che tentavamo di parlare degli avvenimenti e di scambiarci notizie che
sapevano tutti.

Gli ho ridomandato una cella a pagamento per avere il chiaro alla
sera, la materassa sulla branda e un tavolino con la scranna.

--Ce ne sarebbero così delle persone che vorrebbero questi comodi!
Abbiamo faticato a trasformare una cella a pagamento per don Davide
Albertario, venuto qui il 24. Con un prete non potevamo fare
diversamente. Con le guardie occupatissime siamo anzi obbligati a
mandarlo al passeggio solo per impedire che qualche mascalzone lo
insulti. Si sa, il Cellulare non è un collegio.

È suonata la campana che annuncia la distribuzione del pane. I
prigionieri la chiamano la «voce di Dio». È un minuto di
raccoglimento. Le finestre diventano quelle di un edificio disabitato.
Non si sente più un'anima. I detenuti sono all'uscio ad aspettare che
si apra l'usciuolo con la parola che li invade di piacere: «Pane»! Il
distributore che è uno scopino la ripete a ogni pagnotta che passa per
il buco. Lo ricevo anch'io, ma lo passo, _colombando_, al delinquente
vicino alla mia cella che ha sempre fame. È un ragazzo di diciassette
anni, scolorato come un onanista, e già recidivo. L'ultimo furto lo ha
consumato nello studio del capomastro suo padrone. Egli si aspetta il
dibattimento di giorno in giorno.

La vita carceraria è fatta per imbestiare le persone più buone e più
altamente educate. Dall'oggi all'indomani si passa dal finimento da
tavola alla scodella di terraglia del cane dell'accattone orbo. Non
c'è più biancheria, non ci sono più posate, non ci sono più cristalli,
non ci sono più tondi, più tondini, più fruttiere, più portampolle,
più insalatiere, più portastecchi. Non c'è più che il maiale con un
pezzaccio di legno scavato malamente in fondo.

Come, o signori, ma io sono un inquisito, sono una persona che deve
essere creduta innocente fino all'ultima parola della Cassazione, e
voi mi punite mettendomi in mano uno scopino disfatto e laido perchè
mi scopi la cella, e voi mi obbligate, con le mie mani abituate ai
guanti, a portare fuori e dentro la mia tana il vasone da notte come
un latrinaio qualunque! No, accidenti, no, mi ribello! capite, mi
ribello! Voi non siete autorizzati a punirmi. Voi dovete rispettare in
me il cittadino anche se fossi uno squartadonne.

Ho perduto. Mi è toccato proprio scopare e mettere fuori le porcherie
con le mie mani. La guardia al mio no! di stamane se n'è andata
chiudendomi l'uscio sui piedi. Ella mi avrebbe fatto marcire nella
puzza e nel sudiciume. Potevo ringraziare Dio--diceva--che non mi
aveva fatto rapporto. I superiori mi avrebbero convinto che avevo
torto, con dei giorni di pane e acqua.

Sia fatta la volontà degli altri. Ma se divento io direttore generale
delle carceri!...

Noiosi! gente noiosa! Sono entrati per la seconda volta i battitori e
mi hanno stordito. Battono i ferri delle finestre con un gusto e con
dei finali che spaccano la testa. Tirlic-tirlac, tirlic-tirlac,
tirlac, tirlac! Tirlic, tirlac, tirlic-tirlac, tirlac, tirlac, tirlac,
tirlac, tirlac, lac, lac, lac, lac, lac!

Di che cosa avete paura? Come è possibile che io possa segare o
schiantare i bastoni di ferro se mi avete fatto svestire e se vi siete
assicurati che non è a mia disposizione neppure un chiodo? Se le
vostre guardie non sono corrotte, voi potete smettere di sciupare il
tempo e il personale per rintronarmi le orecchie!

Mi è rimasto in mano il manico del chiccherotto e la terraglia è
andata in frantumi. È come se avessi rotto un caraffa di cristallo
finissimo. C'è tutto il Cellulare sottosopra.

Il secondino di servizio guardò i cocci con aria di sospetto, fece
un'annotazione e richiuse l'uscio. Rividi lo stesso agente con un
sottocapo, il quale entrò a dare un'occhiatina ai frantumi.

--Come avete fatto a romperla?

--Cadde. Me ne faccia dare un'altra a mie spese.

--Uhm!

Stamattina sono stato chiamato ad «udienza». Tra le sette e le otto il
direttore viene al centro della carcere, va in una stanza che
partecipa della rotonda lambita dagli esagoni e dà «udienza».

Coloro che si sono fatti iscrivere e coloro che sono stati iscritti a
loro insaputa, escono dalla cella al suono della campana che chiama a
«udienza», discendono e si fermano sulla punta del raggio, dove
aspettano che Minosse vada in sedia.

È una mezz'ora che l'ho veduto.

Il direttore era seduto a un tavolo di cucina, con la faccia sullo
sfogliazzo e le braccia sul tavolo come pesi in riposo. Con una mano
faceva dei segni rossi in margine al nome e con l'altra andava alla
ricerca della pagina.

--Come avete fatto a romperla?

--Mi restò il manico in mano.

Mi entrò negli occhi come per precipitarsi negli abissi della mia
coscienza e risalirne con la bugia in mano.

--Andate! mi disse.

Ho saputo dopo che ero stato condannato a pagarla. Non sono i venti o
i trenta centesimi che mi fanno sprecare l'inchiostro. Ma io domando
se è giustizia di farmi pagare un chiccherotto che mi si è dato
slabbrato e pieno di crepe e che aveva servito a chi sa quanti
detenuti. Vi pare, o signor direttore, è giusto che un poveraccio
sconti col digiuno un avvenimento che può avvenire a voi, alle vostre
figlie, alla vostra signora, alla vostra serva, a tutti coloro che
bevono?

Mi tocca proprio dare dell'animale all'avvocato Guglielmo Gambarotta.
È qui nel mio raggio, sullo stesso piano, ha la cella piena di volumi,
mi ha lasciato supporre che mi avrebbe fatto fare un'indigestione di
libri e poi mi tiene qui a penare e ad aspettarli ad ogni piede che
passa! Che la guardia non abbia voluto prenderli? Ma e la «colomba»,
non ha ancora imparato a «colombare»?

Non ho ancora finito di scrivere l'interrogazione che sono stato
chiamato alla spia da una voce sconosciuta.

--L'avvocato Gambarotta è uscito. Lo saluta.

--Chi siete?

Nessuna risposta. La sua uscita mi lasciò fantasticare. Che si sia
incominciata la scarcerazione degli innocenti?

Il passeggio è monotono. È come un'altra cella scoperchiata. Il gruppo
dei passeggi è di venti raggi che fanno capo a una rotonda di mattoni,
circondata di pietre, sull'alto della quale è la guardia seduta che
sorveglia i detenuti. In direzione opposta i raggi si slargano fino a
far posto a una filata di otto uomini, l'uno al gomito dell'altro. Il
cancello dalla parte più larga del passeggio ha un lastrone di ferro
che impedisce di vedere il viso di chi passa. I muri divisori sono
alti quattro metri, così che i passeggiatori di un passeggio non
possono vedere, nè capire quello che dicono, i passeggiatori di un
altro.

In venti raggi passeggiano dagli ottanta ai cento individui. Una volta
che i raggi sono popolati, la guardia discende la scaletta che conduce
alla sua altura con una manata di fidibus, li accende e li
distribuisce, di raggio in raggio, ai fumatori.

--Fuoco!

Chiusi tra queste pareti vi accorgete subito che il detenuto che
possegga un pezzo di matita lascia traccia della sua passeggiata,
quantunque sia proibitissimo insudiciare o scrivere sui muri. In
questi segni grafici io non vedo nè il grafomane, nè il delinquente.
Vedo semplicemente l'individuo che dice sul muro quello che non può
dire su un pezzetto di carta. Supponete che un condannato di ieri
possa credere che i suoi amici, oggi o domani, passeranno per lo
stesso passeggio. Non esiterà un minuto a scrivere: «Amici, salute.
Condannato a 14 anni e otto mesi. Uscirò il 1913. Coraggio! Salutatemi
la Nina. Addio.»

Si è detto che la muraglia è il libro della canaglia, perchè vi si
leggono ideacce che non possono nascere nel cervello dei galantuomini.
È dubbio. Io vorrei vedere costoro per qualche mese o qualche anno
nello stesso ambiente. A nessuno di noi, liberi, viene in mente di
scarabocchiare sui muri i «morte ai _boia_!» State in prigione e vi
vedrete un giorno o l'altro trascinati a manifestare il vostro odio
contro la spia che vi avrà denunciato, o al giudice per salvarsi, o
alla guardia per ingraziarsela, o al direttore per ottenere qualche
favore. Le stesse guardie carcerarie, le quali sovente sono vittime
dello spionaggio, partecipano di questo sentimento che erompe e trova
il suo sfogo sulle muraglie delle casematte, degli ergastoli, dei
bagni di tutto il mondo. In Francia i delatori sono perseguitati sulle
muraglie come in Italia.

--«Mort aux _vaches_!»

Ci è toccata la prima ora di passeggio. Si esce volentieri alla
mattina, specialmente quando si ha avuto una notte fosforescente come
quella passata. Non sarebbe mancata che l'imprudenza di un solfanello
per metterci in mezzo alle fiamme. I miei compagni sono quelli di
ieri.

Passeggiavano col piacere delle persone che godono mezzo mondo a
sentirsi in mezzo all'aria fresca. Il detenuto che ha i capelli ritti
come setole piantate nella testa, spingeva innanzi la faccia per
sentirsela alitare sugli occhi. Andavamo in su e in giù fumacchiando e
sparlando della direzione.

Un compagno ci raccontava che in un libro, che gli aveva prestato il
cappellano, era detto che al bagno di Tolone i forzati avevano due
arie di un'ora ciascuna. Qui invece ci si lesina anche quella poca ora
regolamentare.

Col sistema della direzione che ci conta l'ora dal primo tocco della
campana d'uscita al primo tocco della campana d'entrata, il
prigioniero del Cellulare non sta mai a passeggio più di cinquanta
minuti. Non c'è errore e ve lo dimostro. Siamo in un raggio di cento
persone. Ci sono due o tre guardie di servizio. Le celle non si
possono spalancare che tirando indietro il catenaccio. Mettete quattro
o sei mani ad aprirle tutte, e poi ditemi se gli ultimi non devono
uscire otto o dieci minuti dopo. La rientrata ha gli stessi
inconvenienti. Perchè i primi a uscire sono anche i primi a rientrare.
Il regolamento non è oscuro. Dice chiaro e tondo che ci si deve, nei
giorni feriali, «almeno un'ora» e maggior tempo «alla domenica».
Invece alla domenica ci si rubano degli altri minuti. Nei giorni
domenicali non si sta mai a passeggio più di tre quarti d'ora. La
ragione è che si aumentano i servizi con lo stesso personale di
sorveglianza. È facile capire perchè non si protesta. Prima di tutto
non è possibile trovarsi d'accordo in un carcere che ha tanti detenuti
che vanno e vengono in un giorno. Poi si farebbe del male alle guardie
che stanno più male di noi che abbiamo svaligiato o assassinato
qualcuno. Hanno un servizio di diciassette o diciotto ore sulle
ventiquattro e pagano, con le trattenute sullo stipendio ridevole, i
pisolini notturni, e le mancanze che fuori di questo luogo farebbero
storcere le budella dalle risa.

La barba lunga mi ha sempre fatto schifo. Al largo me la faccio radere
una volta al giorno. In questo periodo di Bava Beccaris ho dovuto
lasciarmela crescere quattordici giorni. I peli mi pungevano come
tante pagliuzze.

Adesso sono sbarbato e non mi pento. Ma vi so dire che ho passato un
brutto momento. È entrato nella mia cella un uomo che mi pareva avesse
gli occhi lucidi del bevitore. Il suo alito puzzava di grappa e le
maniche della sua giacca sucida erano lastricate del pattume del
mestiere. A ogni movimento sputava in terra la saliva negra della
cicca che egli rivolgeva come un boccone sotto i denti. Mi ha messo al
collo uno straccio sporco come un cencio di cucina. Gli aveva servito
per sbarbare un raggio intiero. A ogni rasoiata sudavo come sotto
un'operazione chirurgica. Avevo sempre paura di vedermi cadere una
sleppa di carne insanguinata. Sbatteva sul pavimento, che avevo reso
lucido con le mie braccia, le ditate della spuma coi peli che si era
accumulata sul suo rasoio. Il suo modo era spiccio. Dalla eminenza
dello zigomo passava per la guancia come una strisciata di rasoio.

Lascia peli dappertutto, specialmente dove il rasoio non può scorrere
liberamente, come nella pozzetta del mento.

Mi brucia la pelle della faccia come se fosse stata scorticata e ho
ancora per il naso l'odore putrilaginoso del suo sapone orribile.


Stamattina riandavo la canzone:

    C'est aujourd'hui mon jour de barbe

con piacere.

Alle undici maledivo il barbitonsore del Cellulare come un rasoio di
punizione. Egli rade e punisce.

Mi sono messo in corrispondenza con uno _scarpa_ internazionale che ha
la cella al pianterreno. Fu lui che mi scrisse per dirmi che aveva
letto tanti anni sono un mio libro.

Egli è il Rousseau dei borsaiuoli d'alto rango. Si sbottona senza
reticenze. Egli è quello che è, e non ha bisogno di far misteri con
uno che egli chiama un «dottore sociale». Non ha fatto studii, ma ha
letto e viaggiato molto. In un bigliettino di ieri l'altro mi faceva
sapere che non voleva nè la mia commiserazione, nè il mio compianto.
«Il delitto della vita mi ha frustato e fatto saltare al di là della
sbarra del codice penale, ed io non farò mai sforzo alcuno per
rientrare nell'orbita della legge.»

Egli è divenuto la mia miniera. Mi sono attaccato a lui con la tenacia
dei cercatori d'oro capitati in una terra aurifera. Per vederci egli
mi scrisse di piegarmi sulle calcagna domattina al passeggio, vicino
alla cancellata, in uno dei primi raggi, o di fare di tutto, con un
pretesto qualunque, per mettermi fra gli ultimi. Indosserà un gilet e
una giacca di velluto di seta e terrà il cappello duro in mano.

Mi sono stati raccontati gli ultimi particolari di Enrico Corio. Egli
era un tipaccio di giovine che si lasciava concitare dalla libidine
dinanzi la carne del suo sesso.

Dopo avere straziato il ragazzo fino alla strangolazione lo chiuse,
nel luglio del 1896, in una fogna, credendo di seppellire con esso
anche il delitto.

Al Cellulare, durante la lunga istruttoria, egli era preoccupatissimo
di farsi credere innocente. Di carattere piuttosto esaltato, dava in
ismanie, spesso, per convincere la guardia di servizio che egli era
veramente mondo di ogni delitto. E quando gli si diceva che se era
innocente non doveva avere paura, finiva per disperare della
giustizia.

L'accusa non gli impediva di mangiare tutti i giorni con appetito
sempre crescente.

Occupava la cella 53 del sesto raggio. Terminata l'istruttoria
nell'aprile del 97, e saputo che avrebbe dovuto comparire dinanzi i
giurati, divenne inquieto. Pare che non fosse più sicuro della sua
innocenza.

Prima si lasciava trasportare e cercava di convincere le guardie che
non sarebbe mica il primo che si manderebbe in galera innocente. La
direzione, che temeva un tentato suicidio, gli mise alla spia una
sorveglianza speciale e gli fece togliere dal letto le lenzuola che
gli potevano servire per appendersi all'inferriata.

Era domenica, tre giorni prima del processo. In domenica le guardie
sono spostate e sopraccariche di lavori. Il Corio aveva mangiato più
del solito, perchè dopo il pranzo del bettoliniere gli era giunto
anche il soccorso che gli aveva mandato o portato la moglie. Alle tre
del pomeriggio era ancora vivo. La guardia era entrata e lo aveva
sorpreso che stava lavando il fazzoletto senza sapone. Stava appunto
mollificando la tela con la quale intendeva stringersi violentemente
lagola. Alle tre e mezza lo si trovò sdraiato sulla branda, con la
coperta fin su intorno al collo e la testa come affondata nel
guanciale. Pareva addormentato, Il sangue gli aveva ammantata la
faccia di un acceso bruno. Il fazzoletto bagnato con lo stringimento
dell'uomo determinato a morire gli era entrato nella carne e gli si
era perduto sotto il gonfiore. Tagliatogli il laccio tirò una fiatata
che gli sollevò il petto. Egli era ancora tepido. Sul muro col lapis
aveva scritto queste parole commoventi:

«Moglie mia, muoio innocente. Vieni a trovarmi al cimitero.»

Alla mattina del lunedì la Corte andò alla sua cella a redigere il
verbale del suo suicidio, e la direzione mandò il cadavere a Musocco.

Le prove contro di lui erano schiaccianti. Incapace di resistere al
fuoco dei testimoni, volle morire lasciando credere alla persona che
gli era forse ancora cara che egli moriva vittima di un'accusa infame.

Non si capisce come un edificio di circa mille persone possa tirare
innanzi senza un medico in casa. Una volta passata l'ora della visita
medica, potete essere presi dai dolori di pancia, indemoniati da
un'emicrania, disturbati dai crampi allo stomaco o istitichiti fino
alla soffocazione da qualche porcheria che avete ingollato, non c'è
più cane che si commuova del vostro malanno.

Pauroso di morire premete il bottoncino, fate cadere la banderuola per
avvertire la guardia che avete bisogno di lei e poi le dite che state
male, molto male.

--Non sarà niente. Domani mattina fatevi annunciare al medico.

--Signora guardia, non posso aspettare fino a domani. Mi sento morire
ed ho come un martello nella testa che mi dà degli stiramenti nervosi
fino al collo. Mi faccia la grazia di chiamarmi il medico. Veda come
sudo. Sudo come in un bagno a vapore. Favorisca dirlo al direttore.

La guardia, se è buona, chiude l'uscio adagino dicendovi di avere
pazienza che domattina sarete uno dei primi. Se è invece di quelle che
fanno il mestieraccio senza sentire i dolori degli altri, vi scuote
con una sfuriata di parole che vi lasciano tramortito e vi chiude
l'uscio in faccia, dicendo che mancherebbe che si desse ascolto a
tutte le frignate.

--Non dovevate andare in prigione, se eravate ammalato. Andate là che
non morirete. Non è l'anno delle bestie cattive!

Al passeggio non parlavamo che di ammalati, di medici e di infermieri.
I miei compagni erano d'accordo che non c'è carcere o reclusorio o
ergastolo che abbia un'infermeria che s'avvicini a quella delle
persone libere di due o tre secoli sono. È un'infermeria a celle o a
stanzoni che passa sopra qualsiasi precauzione.

--Quella a celle deve essere preferibile.

--Illusione! È un'illusione di credere che quella a celle dia maggiore
sicurezza di quelle a letti a poca distanza l'uno dall'altro. Forse
voi non siete mai stato in infermeria. Io ci sono stato e mi sono
convinto che è migliore quella a stanzoni e a finestroni. Almeno in
uno spazio grandioso, coll'aria che si cambia più rapidamente, si
respira più liberamente e si ha la consolazione di essere con
qualcheduno.

--Convenite che in quella a sistema cellulare c'è meno pericolo
d'infezione.

--Illusione, caro mio. Trovate un pretesto qualunque, fatevi condurre
di sopra e scenderete del mio parere. Voi vedrete che le celle
angustissime--larghe per un letto, col passaggio di un uomo che non
sia troppo grosso--sono allineate su due file di un corridoio largo
poco più di un metro. Avete capito? Gli ammalati, divisi dalle pareti,
vivono in uno stesso ambiente e respirano la stessa aria.

--Con delle malattie contagiose state fresco.

--Così è del sistema curativo. V'immaginate un medico enciclopedico,
che sa tutto, che non consulta che sè stesso, che si sbarazza in
un'ora di cinquanta o sessanta ammalati raccolti nell'ottagono, alla
presenza di tutte le guardie che vanno e vengono, di tutti i
prigionieri che passano e ripassano, e che deve limitare le sue
ricette a cinque giorni di latte, a delle polverine innocue o al pane
bianco con tre dita di una carne soriana che non si lascia masticare
che dai denti d'acciaio, in quattro dita di brodo così detto o di
minestra così detta al brodo? Volete la mia opinione? Prima di
abbandonarvi al delitto interrogate la vostra salute. Se non siete
sanissimo, curatevi, evitate il pericolo di andare in prigione.

--Me l'ha detto anche la guardia, stamane. Non dovevate venire in
prigione.

L'altro, quello coi capelli ritti, fece osservazioni di un altro
genere.

--Non sono così pessimista, ma convengo che in tutto questo sistema
c'è qualcosa di sbagliato. Vi racconto quello che è avvenuto a me in
otto mesi di prigionia. Ho notato, prima di tutto, che per andare in
infermeria bisogna essere più che moribondi. Il medico è sempre
riluttante a mandarvi in una cella d'infermeria. E io non posso dargli
torto. Una volta che egli vi accorda il permesso di sdraiarvi sulla
branda, si sta meglio nella cella del raggio. In quest'ultima c'è più
luce e aria più pura. Il guaio grave, secondo me, è che se m'annuncio
ammalato mi si punisce sopprimendomi l'ora d'aria. Come, il mio
malessere è forse dovuto alla mancanza di moto e d'aria libera e voi
mi tappate in cella tutte le volte che vado dal medico?

Al detenuto che non abbia studiato bene il regolamento possono
capitare giornate dolorose. La guardia di servizio tra le sei e le
sette vi domanda: ammalato? qualche volta, salta una cella senza
accorgersene. E spesso registra il trentatrè invece del trentacinque.
Non c'è più rimedio. Bisogna stare attento domattina e suonare se non
la si vede.

La settimana passata mi sono annunciato ammalato: la guardia mi
rispose:

--Incominciate a mettere fuori la vostra pulizia--cioè a metter fuori
il catino coll'acqua sporca, il vaso da notte e la spazzatura della
cella.

Sono ammalato e si esige da me il servizio della pulizia!

Il quarto compagno è un galeotto. Egli è già stato in galera e ha
fatto il giro di parecchie carceri giudiziarie.

--L'infermeria carceraria è una nota dolorosissima. A Milano gli
ammalati sono trattati, direi quasi, meglio che negli altri luoghi. Ma
qui e dappertutto ho dovuto convincermi che nei casi d'urgenza si
muore come cani. Vi narrerò due casi che non ho ancora dimenticati.
Ero a Bologna al tempo del processo Luraghi, Favilla, Platner e non so
chi altro. Il Luraghi era alloggiato nella mia stanza con altri e il
Platner dimorava in infermeria perchè sofferente di non so quale
incomodo. Erano le nove di una notte buia. Qualcuno di noi russava e
qualcuno di noi si voltava sui fianchi per addormentarsi. Sentimmo un
grido d'uomo spaventato o d'uomo colto da un malore.

--Guardia! guardia!

La guardia non era vicina o era altrove o non sentiva.

--Guardia! guardia!

La voce del detenuto era diventata rantolosa.

--Guardia!... guardia!...

Dopo un quarto d'ora di questo lamento che ci lacerava il cuore
sentimmo dei passi che andavano verso la cella del disgraziato.

--Che c'è? gli domandò la guardia.

--Sono ammalato.... muoio! Signore, fatemi morire!

--Adesso vado a prendere le chiavi.

Di notte le chiavi delle carceri sono in direzione. Nessuna guardia
può aprire le celle. La parola lenta e straziante del disgraziato
discendeva dal terzo al primo piano come un gemito che rimescolava il
sangue.

--Muoio....

La guardia era in viaggio. Doveva discendere al piano terreno, passare
una corte che non è mai finita, andare in ufficio, svegliare la
guardia scelta in possesso delle chiavi e rifare la strada e le scale
fino alla cella di colui che moriva.

Non esagero dicendo che ci vollero venti minuti. Le guardie, abituate
a questi avvenimenti quotidiani o settimanali, ci fanno il callo.

Mezz'ora dopo sentimmo una moltitudine di piedi che discendeva e
faceva tremare le pareti della scala come gente che portasse un peso
enorme sulle spalle.

Il mio vicino di letto mi disse sottovoce:

--Lo portano via!

Vi fu un momento lugubre per tutta la camerata. Ciascuno era compreso
della notizia e ciascuno pensava che un giorno o l'altro poteva
trovarsi nella stessa condizione.

All'indomani si seppe che il detenuto era morto.

Il Luraghi che aveva visto il Platner ci raccontò la scena notturna.

--Ho veduto stamane il Platner, sbattuto come un individuo che non ha
dormito. Gli chiesi se se si sentiva male.

--Non sto affatto bene. Stanotte poi non ho potuto chiudere occhio. Ci
hanno portato su, verso le dieci, un uomo quasi morto. Spirò cinque
minuti dopo che l'avevano adagiato sul letto. Morì mandando uno di
quei gridi che restano nelle orecchie per tutta la vita. Pareva una
voce di rame andata a schiantarsi su una pietra della muraglia. Se
dovessi morire così anch'io? Senza un'anima che mi porga un bicchiere
d'acqua o mi lenisca il passaggio dalla vita tribolata alla pace della
tomba con una parola soave? Mi trovai sotto le coltri terrorizzato dal
brivido che mi aveva dato il pensiero triste. Il medico? Egli è venuto
troppo tardi. Passammo la notte a recitare il rosario dei morti. Col
cadavere nella stanza non c'era altro da fare. Dopo la visita lo
portarono nella cappella mortuaria. Povero diavolo! Nessuno sapeva chi
fosse. Morto, aveva assunta un'aria così feroce che mi faceva chiudere
gli occhi.

Il secondo episodio è identico al primo. Erano forse le dieci. Come al
solito non potevo dormire. Luraghi mi raccontava un incidente del suo
processo.

--Guardia! guardia!

Era un grido che usciva da una finestra delle celle disotto. Tra il
grido e la chiave vi fu l'intervallo di una mezz'ora. Sentimmo i
prigionieri della camerata che lo portarono in infermeria. Morì anche
lui, poco dopo, senza sapere di che male moriva. Quando si fece vivo
il medico, il sole era alto e gli ammalati avevano già pregato per la
sua anima da tanto tempo.

Il Platner rinunciò all'infermeria.

La sera dopo era tra noi a ripeterci coi colori dell'ambiente quello
che vi ho raccontato in poche parole.

Ci salutammo colla promessa che all'indomani mi avrebbero spiegato che
cos'era la «pulce».

Questo sì che fa male! Non posso sentir piangere i ragazzi in
prigione. Perchè li mettono in prigione come gli adulti?

Ce n'è uno che deve essere in fondo a una camerella sotterranea.
Piange come una disperazione. Il suo lamento arriva nella mia cella
come quello di uno che sia stato male ammazzato in una cantina. Ecco
che grida più forte. Mamma! mamma! Taci, taci, tormento delle mie
viscere, tu mi passi per le orecchie come uno spillone puntuto.
Abbiate pietà di un povero ragazzo. Sentite come piange dirottamente!
Con che voce chiama la mamma! Forse egli ha peccato, forse egli ha
disubbidito, forse egli vi ha insultati, ma pensate ai suoi anni,
perdonategli... Bravo, taci, mi fai tanto bene. Il pianto lo ha vinto.
Probabilmente egli è sdraiato nel sonno. Se vedrò il cappellano farò
di tutto per indurlo a gettarsi ai piedi del direttore. Non è
un'umiliazione, quando si è impotenti, genuflettersi ai piedi della
iena che lo ha rinchiuso. Il cappellano non c'è più. Me ne ricordo
adesso. Egli è stato vittima non so se dell'autorità carceraria o
militare. Peccato, era così buono. Ecco che si risveglia, santo cielo.
Dormi, dormi, perchè morirai a piangere in questo modo.

--Oh mamma! mamma! oh la mia mamma!

Carnefici, non capite che vuole la mamma? Lasciatelo andare a casa,
lasciatelo! Siate buoni, sono io che vi prego.

Che cosa volete che abbia fatto un fanciullo di pochi anni? Bisogna
avere le viscere di ferro per resistere alle sue grida, che vanno al
cuore come tante pugnalate! Potessi aiutarti, ma sono chiuso,
ermeticamente chiuso in un buco. C'è nessuno che senta, che si
commuova? E andai all'uscio e premetti il campanello, e feci cadere la
banderuola.

--Che volete?

--Sentite come piange quel ragazzo!

--Badate ai fatti vostri!

--La «pulce» è una visita improvvisa. È avvenuta a me nelle carceri di
Bologna. A Bologna nessuno entra nella cella. Chi fa la pulizia sono i
detenuti incaricati dei servigi domestici. Il coperchio del bugliolo
bacia bene e questo vasone da notte rimane chiuso in un buco che ha
l'apertura anche lungo il corridoio esterno. Lo scopino lo porta via e
ve lo rimette senza annoiare i detenuti nella stanza. Acqua, vino,
cibi vengono serviti dal buco dello sportellino.

Eravamo in quattro. Si fumava. Io penso adesso, quando la Cassazione
mi farà indossare la casacca del recluso, come potrò vivere senza
fumare. Fumo più di quaranta sigarette al giorno.

Una volta ne fumavo cento. Eravamo dunque in quattro. Non si pensava a
nulla. Si spalancò l'uscio senza darci tempo di buttar via sigarette e
pipe. Entrarono quattro guardie, le quali, dopo averci ingiunto di non
muoverci, ci ordinarono di spogliarci. Nudi ci fecero mettere in
quella parte della stanza dove non era che la parete. Ci passarono le
mani per il corpo dal capo ai piedi, ci guardarono tra le dita, ci
frugarono per i capelli, ci palpeggiarono qua e là, ordinandoci di
alzare le braccia e di fare dei passi. Poi ci passarono minutamente
gli abiti premendoli, piegandoli, dissaccocciandoli, guardando
dappertutto. Terminata questa visita minuziosa, la ricominciarono
guardando negli angoli, sui banchi, dovunque poteva essere nascosto
qualche cosa.

Sfecero il letto, cacciarono le mani nel pagliericcio, spiegarono la
coperta, sgrupparono i fagotti e misero le mani nei tascapani. Non
trovarono nulla. Pareva proprio che fossero alla ricerca delle pulci.



__Noterelle del mio amico alla matricola.__

Maggio 1898.


So quanto deve avere sofferto in una stanza con degli altri di
un'altra condizione. Ma non ho potuto aiutarla. Dalla sua entrata sono
avvenute cose incredibili. Il personale di custodia è terrorizzato.
Noi scrivanelli non abbiamo più modo di entrare nei raggi dei
politici. L'Astengo se n'è andato. Era un direttore umano. Il suo
delitto è di avere permesso ai più grossi detenuti politici di
pranzare insieme. Siccome non ci sono locali sufficienti e siccome
anche nella cella i prigionieri sono appaiati per mancanza di spazio,
così non si capisce il rigore della direzione carceraria di Roma.
Provvisoriamente ha preso il suo posto l'ispettore De Luca. È uomo di
cuore. Se ce lo lasciano non abbiamo perduto nulla. Ha fatto
migliorare il vitto e non punisce che quelli che vogliono proprio
essere puniti.

È la prima volta che mi capita di vedere una testa direttiva che
riconosce i diritti dei carcerati. Di solito i direttori dei nostri
giudiziari sono un po' come i direttori delle caserme dei forzati in
Siberia, descritti dal Dostoïewsky--un autore che non mi lascia mai
uscire dalla tristezza. Individui che hanno sempre bisogno di passare
sul regolamento per schiacciare qualcuno o levare qualche cosa a
qualcun altro.

Ho ricevuto la sua noticina. Si fidi pure. È un uomo che per me
andrebbe nel fuoco. La guardia che sorveglia la sua cella non è
cattiva, ma dice tutto quello che avviene nel suo raggio. È dunque
pericolosa. Non ci sono stanze a pagamento a pagarle un occhio. È
inutile strepitare. Procuri di adattarsi. Sono momenti eccezionali. Il
suo pranzo è andato per due giorni in qualche altra cella. Si consoli
che lo avrà mangiato un povero diavolo. La confusione è inevitabile.
C'è una media di settecento soccorsi al giorno. Si raccomandi alla
madonna perchè non le capiti qualcosa di peggio. Va bene, va bene. Dia
sempre retta ai miei suggerimenti. Io la so più lunga di lei e non lo
dico per vantarmi. Lo dico perchè la mia esperienza è più lunga della
sua. Ascolti attentamente. Un buon prigioniero deve essere sempre
pronto a subire la perquisizione. Ravvolga i miei fogliolini nella
carta incerata che le mando e appenda il sacchetto dove la camicia è
più nascosta. In queste giornate di sorprese è una precauzione
necessaria.

Sugli arrestati di maggio non posso giovarle molto, perchè una volta
registrati noi non abbiamo più alcuna comunicazione con loro.

Il giorno sette, cioè sabato, eravamo qui che aspettavamo, di minuto
in minuto, gli arrestati della giornata. Ma non abbiamo registrato che
quattro imputati di delitti comuni, completamente estranei ai tumulti.
Non ricordo bene la data dei primi rivoltosi capitati al cellulare. So
che i primi sono entrati alle sei ore mattina, la seconda o terza
giornata che fosse dei tumulti di Milano. Erano gli arrestati di porta
Ticinese. Sono giunti in uno stato da far pietà ai sassi. Erano stati
trattenuti, nella caserma di S. Eustorgio, più di quarant'ore colle
manette ai polsi. È un po' troppo. Non siamo mica in Russia. La mia
speranza era il dubbio. Non volevo credere che ci fosse gente con
tanto di pelo sullo stomaco. Ho interrogato coloro che li avevano
accompagnati al Cellulare. Il fatto è vero. Le autorità militari,
senza locali adatti, avevano dovuto assicurarsi dei barricatisti con
le manette. Poca gente di buono e fra loro parecchi già noti ai nostri
registri.

Il grosso convoglio degli arrestati è stato quello di domenica. Parlo
sempre delle quattro giornate. Era accompagnato dal delegato Birondi.
Egli entrò nella nostra stanza smorto che faceva paura. Ci si diceva
che aveva sofferto orribilmente a passare per le vie con tanti
arrestati e cogli ordini severi che avevano soldati e agenti di P. S.
Un _molla! molla!_ di qualche matto al largo poteva far nascere chi sa
che tragedia. Tra gli arrestati c'erano il deputato De Andreis, il
direttore dell'_Italia del Popolo_, l'avvocato Romussi, direttore del
_Secolo_, l'avvocato Federici, Valentini, ex direttore della _Sera_,
Ulisse Cermenati dell'_Italia del Popolo_ e il professore Gilardi del
_Secolo_.

Lunedì ho registrato gli onorevoli Turati e Bissolati e la dottora
Anna Kuliscioff.

Il Turati, non appena libero dalle manette, ci disse che non era nuovo
ai nostri registri. Era stato qui, non so quando, a scontare una
sentenza per un reato di stampa.

L'avvocato Leonida Bissolati, direttore dell'_Avanti!_, parla con la
grazia di una signora altamente educata. È tutt'assieme una faccia
intelligente ammantata di un'ombra spirituale. So che ha tradotto
Carlo Marx con un suo amico cremonese. Ma non ho mai potuto leggerlo.
Non c'è ancora nella nostra biblioteca. Se avrà occasione di vederlo
me lo saluti tanto e gli dica della mia simpatia per lui.

La dottora venne registrata dopo. Io non l'ho veduta. Ma mi s'è detto
che essa è venuta qui in vestaglia. È stata arrestata alle cinque del
mattino in casa sua e non le si è dato tempo neppure di acconciarsi
alla meglio. La sua guardiana mi ha raccontato che la prima cosa che
fece in cella fu di accendere una sigaretta. Ho saputo che è una
fumatrice instancabile.

È avvenuto quello che doveva avvenire. Coi continui arresti non
sappiamo più dove mettere gli arrestati. Ieri eravamo 1048. Il numero
eccessivo ha obbligato il direttore a ficcarne, parecchi, tre per
cella, coi pagliericci in terra. Fortuna che non fa troppo caldo.
L'ultimo pesce grosso che registrai fu don Davide Albertario. È alto,
dalle forme erculee. Venne da San Fedele con una comitiva di venti
individui della peggior specie. Quasi tutti recidivi. Per impedire
agli screanzati di dirgli qualche insolenza, il direttore lo manda al
passeggio solo. Mangia bene e riceve il pranzo e la colazione da una
trattoria esterna. Fuma anche lui come un turco. Dopo alcuni giorni
gli concessero, come ai deputati e ai giornalisti, carta, penna e
calamaio. Scrive tutto il giorno ed è sempre in nota per della carta.
Deve essere un grafomane.

Domenica si sarà accorto che diceva messa un'altra voce. Il cappellano
Enrico Villa è stato sospeso e non può più mettere piede nel carcere.
Al suo posto officiava un frate. Lei sa che io sono religioso e può
darsi che pecchi d'indulgenza. Ma credo che sia impossibile trovare un
cappellano come don Enrico. Era un sacerdote che adempiva al suo
ministero con entusiasmo. Lo si vedeva andare e venire come il moto
perpetuo. Appena uno era in cella, andava a trovarlo, a consolarlo, a
incoraggiarlo. Non lasciava mai alcuno senza libri e diceva a tutti
parole che aiutavano a tirare innanzi la vitaccia del cellularizzato.

Il nuovo direttore è tra noi come un flagello. Non dissimula. È una
sovrapotenza assoluta, arricchita dalla funzione di punire. È in lui
come una spaventevole rettitudine. Respira il dolore degli altri come
una donna virtuosa la spiritualità dell'incenso.

La sua vanteria è di essere il direttore che ha fatto mangiare, come
si esprime lui, più cella di rigore ai detenuti di tutti i direttori
d'Italia. Le guardie che vogliono entrare nelle sue grazie devono
dargli ogni mattina prova del loro zelo. Non si sono mai visti tanti
puniti a pane ed acqua come in questi giorni. Se qualcuno si lamenta
dicendo che la sua infrazione non è di quelle punibili col
regolamento, il direttore gli risponde, in modo piuttosto brusco, che
il regolamento interno del carcere lo fa lui, perchè ne è il giudice e
il responsabile.

Il mio compagno all'ufficio di matricola è stato castigato stamane con
dieci giorni di camicia di forza. La sua mancanza era grave. Aveva
dato uno schiaffo a un collega che lo aveva accusato di poltroneria in
questi giorni che non abbiamo avuto tempo neanche di dormire! Era qui
con me da diciannove mesi. Lavorava come un negro ed era forse, tra
noi, il più intelligente. Dopo un semestre di tirocinio gratis il suo
«stipendio», per un lavoro di diciotto ore sulle ventiquattro, era di
dodici lire il mese. Aspetti a dire che non c'era male. Perchè il
governo, sulle dodici lire guadagnate dal detenuto, se ne prende sette
e venti. Non ho mai capito perchè il governo si trattiene sui guadagni
dei carcerati il sessanta per cento. Per me è una truffa. E lo dirò
sempre anche se si tenterà di convincermi del contrario, come si è già
fatto, mettendomi nella camicia di forza. Rubare al detenuto è il più
delittuoso dei delitti. Non le pare?

La camicia di forza è di tela grossolana come quelle delle brande dei
soldati e va giù fin quasi alle ginocchia. Gli occhielli per
stringervi il condannato al supplizio corrono per il dorso da una
estremità all'altra. Le maniche non hanno uscita per le mani. Il
supplizio maggiore è intorno al collo. È una tela rigida che lo sega.
Se le guardie incaricate di chiudervi l'individuo non sono umane, la
camicia di forza diventa una vera tortura. Io credevo di non arrivare
alla fine. Vi respiravo con una fatica rantolosa e lo stringimento mi
dava una molestia che mi faceva impazzire. Dopo qualche ora passata
con le braccia legate sulla schiena, come Gesù Cristo, diventai
furioso. Gridavo, mi rotolavo per il suolo della cella buia e
sotterranea con degli sforzi per liberarmi dal camiciotto che mi dava
un tormento spasmodico, ma nessuno veniva a calmarmi o a vedermi. Non
fu che il sonno che mi diede un po' di requie. Molti dei condannati al
camiciotto che sopprime ogni movimento, implorano la commutazione del
castigo. Preferiscono un periodo più lungo di camerella con pane e
acqua alla tela che pigia le carni su sè stesse con intendimenti
assassini. Ma è difficile che si riesca ad ammansare i direttori. La
clemenza non è il loro forte. Ho conosciuto un detenuto, imbestialito
dagli spasimi atroci, che portò via coi denti un pezzo del tavolato
sul quale doveva dormire.

La maggioranza tace. Essa soffre il supplizio senza mandare un
lamento. Ci sono individui che si farebbero attanagliare piuttosto che
domandare perdono al loro carnefice, come ci sono nature che possono
resistere a tutte le pene dell'inferno.

Il regolamento è meno scellerato dei loro interpreti. Esso dà dei
riposi anche alla camicia di forza e ingiunge che dopo quarantotto ore
consecutive rimanga inoperosa per ventiquattro.

Le infrazioni di poco conto, come le infrazioni al silenzio, sono
punite secondo il sistema del direttore. Alcuni--e sono, mi pare, i
più saggi--puniscono con la soppressione del diritto al passeggio per
tre giorni, altri preferiscono dare addosso allo stomaco dei
disgraziati. Diminuiscono loro la razione del pane di trecento grammi
o l'aumentano dello stesso peso sopprimendo loro la minestra. La
diminuzione del cibo del carcerato non è un castigo. È un omicidio. Il
povero diavolo che sconta parecchie di queste sentenze, anche se
rimane in vita, non è più un uomo. È un invalido. Glielo dice uno che
studia l'ambiente da qualche anno.

La seconda infrazione al regolamento aggiunge alla dieta assassina la
cella di rigore o il rigore del cubicolo o cella sotterranea, dove ero
io quando avevo la camicia di forza.

Se l'infrazione commessa dal detenuto deve essere punita con più di
dieci giorni, allora si raduna d'urgenza il Consiglio composto del
direttore, del contabile, del capoguardia e del cappellano.
Bisognerebbe essere imbecilli per credere all'indipendenza dei
subordinati di un direttore di carcere. Una volta fatto questo
Consiglio, non si esce che condannati. È inutile che le dica che le
guardie hanno sempre ragione.

Non so se le hanno detto che sono qui anche Vittorio Luraghi, l'Herra
e l'avvocato Gelmi. Del secondo non le parlo. Mi pare un incosciente.
Non dimentichi che io sono un condannato comune come loro, e che
perciò sento profondamente il loro grido angoscioso di gente finita.
Di me non ho compassione. Se mi risovvengo dei miei trascorsi gli è
per punirmi con una serqua di vituperi. Con gli altri, sono
indulgente. Trovo in ogni loro delitto una scusa.

Nell'Herra non c'è nulla del Roberto Macaire. Non ne ha nè l'astuzia,
nè l'inquietudine, nè l'audacia. È in cella come un rassegnato. Egli è
caduto come una ragazza che si lascia abbracciare con un bacio
lungo.--Lo aspettiamo alla matricola. Il direttore gli ha promesso un
posto di scrivanello.

Il Luraghi mi desta una compassione indicibile. Tutte le volte che
posso andare nella cella mi sento riempire gli occhi. Non mi parla mai
dei suoi patimenti. Non mi parla che della sua mamma. Egli la piange
come uno sciagurato che dispera. Mi diceva l'altro giorno che la sua
povera vecchia di ottant'anni è il suo grande tormento. Ha paura di
non poterla più vedere. Perdere i denari, perdere una fortuna nelle
speculazioni bancarie è una cosa che si può anche sopportare. Ma
perdere la mamma che si adora, in prigione, è superiore alle forze del
condannato. Io spero che questo terribile dolore gli sarà risparmiato.

La sua vita è triste. Non spende per il vitto che una media di due
lire il giorno. Non va mai al passeggio. Gli ho detto più di una volta
che fa male. Che il moto è una necessità dell'esistenza carceraria. Ma
non sono riuscito a smuoverlo. È testardo, è nemico della propria
salute. Un giorno o l'altro lo porteranno in infermeria perchè non
potrà più andarvi con le sue gambe. Fuma e legge avidamente. Il suo
disgusto è per i battitori e per le mani dei secondini che lo
palpeggiano.

L'avvocato Gelmi è un altro anacoreta che non vuol uscire dal suo
guscio. Non so se sia povero o se voglia tenersi i quattrini. So che
mangia come tutti i prigionieri che non hanno da spendere. Col suo,
non si compera che cinque centesimi di latte. Le confesso che non ha
le mie simpatie, pur essendo in questo luogo. Per me egli è troppo
furbo e i furbi mi spaventano. La mia ripugnanza per lui non mi ha
impedito di domandargli alcune note per il suo libro. Ma egli mi ha
risposto che non potrebbe aderire al mio desiderio che commettendo un
parricidio. Non appena ritornerà tra i vivi, pubblicherà un'opera
intitolata: _La Bancarotta della Giustizia_. La prega di perdonargli
questa gelosia di mestiere, concepibile in un uomo che ha bazzicato
nella redazione di qualche giornale letterario.

Non si dimentichi delle tre giornate di gozzoviglia carceraria. Sono
tre giornate che si segnano lungo l'anno colla matita rossa.

Alcuni si preparano la pancia come se dovessero andare a un banchetto.
A Natale, a Pasqua e nel giorno dello Statuto ci si serve un pranzetto
che ci fa venire l'acquolina. Invece di darci la solita _sboba_
terrosa, ci si porta un piatto di pasta asciutta o un piattone di
risotto giallo fumante, con della cipolla arrostita e annerita che
mette in mente i funghi, con ottanta grammi di carne in umido che
commuove le budella. Di vino non ce n'è che un bicchiere. Ma anche
brusco, per la gola che non beve che acqua, diventa del Falerno o del
Ghemme. Ah, il Ghemme!

È stato la mia perdizione. Vorrei essere fuori per inaffiarmene il
ventre. Mi piace il Ghemme. Con tre o quattro bicchieri di questo vino
sfido un esercito.

Fuori di queste giornate, non c'è che l'avvenimento reale che possa
portarci del benessere.

Va a nozze un principe, o nasce una principessa, o accade al re
qualche cosa che viene celebrato come una gioia nazionale? Il
prigioniero rinasce. Egli vede una sosta nell'applicazione del
regolamento e sogna una diminuzione della pena. Egli è sicuro che si
distribuiranno dei piattoni di risotto e della carne annegata nella
bagna e che verranno probabilmente delle grazie.

Questa è una delle ragioni per cui in carcere siamo più monarchici del
re. Non è che lui che si ricordi degli afflitti sepolti nelle celle. È
lui che ci diminuisce i tormenti. Pur troppo non sempre. Ma qualche
volta, qualcuno gode di questa sua prerogativa. È il re che ci fa
mangiare un po' meglio quando il suo cuore è in giubilo. E non vi
maraviglierete, o signori increduli, se vi dico che gliene siamo grati
e se aggiungo che più di una volta gridiamo viva il re! viva la
regina! con entusiasmo.

Stanotte abbiamo avuto un aumento di detenuti senza aprire il portone
d'entrata. È nato un bimbo. Mi dicono che sia belloccio. È sempre
così. I figli dei tribolati sbucano dall'utero fiorenti di salute.
Sembra che le loro madri siano state lì a covarli nella bambagia,
mangiando bene e bevendo meglio.

La guardiana, che è venuta dabbasso, mi ha assicurato che ha le guance
rosse come una mela e gli occhi azzurrati e lucidi da mangiarseli a
baci.

La madre è una ragazza di vent'anni, o di circa vent'anni, recidiva,
abituata ai furti domestici.

Sa far da mangiare, sa stirare, sa rammendare, ma sa anche involare la
roba dei padroni. Non c'è pericolo che se ne vada da una casa senza
lasciarvi il segno delle proprie dita. La colpa è forse del suo amante
che vive, sovente, alle sue spalle.

Durante la mia breve carriera di _matricolatore_, l'ho registrata nel
librone infame tre volte. Il bimbo, anche se nato nella carcere, non
viene registrato. Il regolamento non permette di mettere a matricola
che i ragazzi superiori ai due anni. Il legislatore deve avere creduto
che, se si può nascere delinquenti, si possono commettere delitti
anche in fasce. Il bimbo della ladra verrà mandato all'ospizio dei
bambini lattanti.

I questuanti sono una vera piaga. Vanno e ritornano periodicamente,
eternamente. Dicono che qui si sta meglio che fuori. Qui, hanno
l'alloggio e il vitto sicuri. Fuori, sono perseguitati, o inseguiti, o
trattati come cani e agguantati come birbe non appena stendono la mano
o cercano di appollaiarsi in qualche luogo.

Il maggior contingente degli accattoni lo dà la campagna. Mi è
capitato di registrare dei pezzi di giovinetti che mi facevano venire
sulla lingua una folata di interrogazioni. Ma loro me le portavano via
dicendo che in campagna, d'inverno, non si trova lavoro. E anche
d'inverno, loro, i loro figli e le loro donne, non si dimenticano di
mangiare.

Dal dicembre del '97 al maggio '98, la questura ce ne ha condotti al
Cellulare una media di quindici al giorno.

I pretori li condannano da tre giorni a un mese di detenzione.

C'è per aria qualche cosa di grosso. Da domani non potrò più tenerla
al corrente. Il nostro amico è sospetto e la vigilanza è stata
raddoppiata. Le guardie cambieranno raggio magari ogni giorno. Il loro
posto non lo sapranno che al momento di andare in servizio. Non si
scoraggi e lasci passare la bufera. Dopo vedrà che non mi chiamo mica
quello che mi chiamo per nulla. Mi cambi il nome se non riuscirò a
riallacciare il filo stroncato dal temporale.



__La pagina intima del processo dei giornalisti.__


Il processo dei ventiquattro è stato chiamato dei giornalisti per fare
del lusso.¹

    ¹ Il processo dei giornalisti è stato il più strepitoso di tutti i
      processi delle Corti militari. I _Tribunali_--divenuti quotidiani
      durante lo stato d'assedio--hanno raggiunto, con esso, la massima
      tiratura, di 35.000 copie. Col processo dei deputati l'interesse
      era diminuito e la tiratura discese alle 10.000.

In verità, i giornalisti rappresentavano la minoranza. Tanto è vero
che ciascuno di loro leggeva l'atto d'accusa facendo tanto d'occhi.

--Come, che c'entro io con costoro?

Si conobbero, o almeno si videro, alle tre del mattino del 15 giugno
1898, nella stanza ove si «caricano e si scaricano» gli arrestati che
vanno e vengono dal Cellulare. Fuori e dentro c'era ressa di
carabinieri silenziosi, tetri, colle mani piene di ferri. Il loro capo
era un capitano con l'occhialino nel cavo dell'orbita, con una cera
accigliata, con due baffi marziali, che passava da una parte
all'altra, col frustino in mano, facendo risuonare gli speroni degli
alti stivali alla scudiera, mentre assisteva all'ammanettamento.

Romussi pareva un po' più ingrigiato. Era ilare, salutava gli amici e
presentava i polsi al suo ammanettatore con la faccia illuminata dal
sorriso. I carabinieri giovani che adempivano a questo servizio erano
più spietati dei vecchi. Continuavano a dare dei giri anche quando si
diceva loro che i polsi facevano sangue.

Don Davide era conosciuto da tutti, ma lui, personalmente, non
conosceva che l'avvocato Romussi, Valera e Zavattari. Non si capiva se
era seccato in mezzo a tanti ignoti che lo guardavano come una bestia
rara. Il capitano lo squadrò dal capo ai piedi, gli girò intorno col
fare di un domatore di belve, e si voltò dall'altra parte percotendo
leggermente lo stivalone. Si capiva che l'aveva su coi preti o che ci
aveva gusto a vederne uno nelle peste.

Don Davide pareva imbronciato. Rispondeva al buon giorno di qualche
amico con la voce grossa di chi è in collera con sè stesso.

La sua veste talare ambrosiana e il suo paltò di panno nero sentivano
il bisogno di parecchie spazzolate. Indossava la veste, cinta dalla
fascia di seta nera, dal giorno in cui dieci tra carabinieri e soldati
di linea entrarono nella casa paterna di Filighera ad arrestarlo. Il
suo paltò polveroso era stato buttato nell'angolo della cella dal
momento che vi era entrato.

L'avvocato Bortolo Federici, noto a molti come repubblicano, attirava
l'attenzione di parecchi per il suo cappello Oberdan nero, sopra un
«completo» caffè scuro. Zavattari era abbattuto, dimagrato, colle
guance infossate e biancastre e con le mani che tremavano come se
avesse avuto la febbre. A uno degli arrestati, che gli aveva dato il
buon giorno, rispose che era ammalato, gravemente ammalato e che, se
non lo si lasciava andare presto, sarebbe morto in prigione. Fu una
nota che diffuse un po' di tristezza in coloro che gli erano vicini. I
carrettoni che li portavano al Castello erano nicchie che obbligavano
gli ammanettati a stare con le labbra ai fori della respirazione.

Smontarono nel cortile ducale pallidi come cadaveri. Il primo a
discendere fu Del Vecchio, un omettino che nessuno, prima dell'accusa,
aveva sospettato che fosse un leone capace di arringare la folla sulle
barricate. Girava gli occhi come trasecolato. Non sapeva trovare una
parola e non seppe trovarla neanche al processo. Accompagnati da molti
carabinieri, si fecero passare in mezzo a due file di soldati e salire
per le scale anguste, al primo e al secondo piano, disperdendoli per
gli stanzoni anticamente occupati dalla Corte degli Sforza. Lungo la
ringhiera del primo piano, avevano messo Chiesi, Seneci, Cermenati,
Federici, Valera, Lallici, Ghiglioni, Romussi. Al secondo piano,
Lazzari, Valsecchi, Zavattari, qualche altro socialista, parecchi
anarchici e il direttore dell'_Osservatore Cattolico_, il quale
occupava la stanza N. 10, colla finestra sul tetto che gli lasciava
entrare l'aria, il vento e la pioggia. Il primo temporale della
seconda notte lo obbligò a salvarsi dall'acqua torrenziale che lo
aveva sorpreso in letto in mutande.

I buchi al centro degli usci dei ventiquattro processandi permettevano
di andare cogli occhi negli stanzoni in faccia, gremiti di arrestati.
Davano a volte l'impressione di un immenso lazzaretto pieno di
colerosi, e a volte di lunghi corridoi affollati di insorti che
agitavano entusiasticamente i cappelli, i fazzoletti e le mani.

All'uscio di ciascuno dei ventiquattro, era una sentinella. Al minimo
rumore che la seccava, metteva la bocca al buco e diceva:

--Eh, fate silenzio o vi mando dentro una pallottola!

Più di uno degli arrestati, per proteggersi dalla «pallottola», è
stato obbligato a far chiamare il capoposto. Don Davide, che non ha
mai avuto paura di farla a pugni con coloro che lo hanno insultato e
come uomo e come prete, nella sua stanza si sentiva a disagio. Temeva
sempre che un Misdea qualunque o una sentinella che esagerasse nella
consegna lo allungasse cadavere. Una sera, mentre passeggiava fumando
un virginia, una sentinella, che doveva essere anticlericale,
continuava a perseguitarlo dalla _spia_ dicendogli di non fare
fracasso, di buttare via il sigaro che era proibito fumare e di andare
a letto se non voleva che ve lo mandasse lui.

Il sacerdote, che non aveva angolo che non fosse visibile alla bocca
di fuoco, venne preso da una specie di panico che lo obbligò a
chiamare ad alta voce il capoposto, il quale, per fortuna, era un
chierico.

I ventiquattro, dopo dieci ore di processo, ritornavano in camera sfiniti
o stracchi morti, mangiavano un boccone e si buttavano sul pagliericcio
con la speranza d'addormentarsi subito e dimenticare ciò che avevano
sentito nella giornata. Le venti o le trenta sentinelle, alla distanza di
pochi passi l'una dall'altra, alle otto precise incominciavano a gridare
con delle voci sgangherate: Sentinella all'ertaaa!--All'erta stooo!
Sentinella all'ertaaa!--All'erta stooo!--Sentinella all'ertaaa!--All'erta
stooo!--Sentinella all'ertaaaaaaaa!--All'erta stoooooooo!--Sentinella
all'ertaaaaaaa!--All'erta stooooooooooooooooo!

Una voce seguiva l'altra con degli o e degli a larghi che spesso
morivano nell'aria come un'agonia e talvolta si rompevano con un
fracasso che metteva sottosopra il cervello dei detenuti che non
potevano dormire. E dopo dieci o quindici minuti di riposo,
ricominciavano a gettare le voci per lo spazio più sgangherate di
prima.

Gli accusati si alzavano al suono della campana con le occhiaie della
gente che patisce d'insonnia. Il direttore del _Secolo_, che non può
dormire che al buio e in un luogo tranquillo, tormentato dalle grida
degli incappottati, si voltava e si rivoltava sul giaciglio anche
quando aveva preso un po' di solfonal o di trional.

Il Chiesi, che non sa leggere in letto perchè gli si chiudono subito
gli occhi, in Castello aveva dei momenti di disperazione perchè non
gli si concedeva il riposo notturno. Ulisse Cermenati, che sa stare
ritto sulle gambe, andava al processo dinoccolato e pieno di sonno, e
Federici raccontava agli amici che accendeva, spengeva e riaccendeva
il lume con dei tentativi di passare la notte leggendo.

Si credeva che il processo fosse ancora più sommario di quello che è
stato. E ognuno che aveva qualcosa da dire si era alzato nell'ultima
notte prima dell'alba, col permesso del capoguardia, a buttar giù
qualche nota. Alcuni dei ventiquattro avrebbero voluto che si fosse
andati al Tribunale col proposito dell'on. A. Costa, quando era tra
gli arrestati al Cellulare. Lasciarsi trascinare dinanzi il Tribunale
di guerra senza dire una parola.

Ma quest'idea non ha potuto prevalere, un po' perchè non si
conoscevano tutti, un po' perchè nessuno poteva comunicare coll'altro
e un po' perchè gli accusati appartenevano a diversi partiti in lotta
fra di loro. Valera, andata a male la proposta del silenzio, credeva
che sarebbe stato utile, per suo conto, di servirsi del sistema di O'
Donovan Rossa, cioè di _guadagnar tempo_ e provare, con la lettura dei
documenti sparsi per i libri e per i giornali, che l'Italia era
gravida di socialismo.

Ma il tampone presidenziale gli è stato messo in bocca tante volte che
dovette sedere come un uomo letteralmente imbavagliato.

Il sistema di O' Donovan Rossa, il quale, tra parentesi, non era
ancora il capo dei dinamitardi, era di valersi del Tribunale per far
conoscere al popolo la condizione del suo paese e protrarre il giorno
della sentenza con la lettura della storia irlandese attraverso gli
ottantatrè _Acts_ o leggi eccezionali, che avevano coercizzata la
nazione per punirla di domandare con insistenza la libertà che avevano
gli Inglesi.

Dopo tre giorni il giudice tappò la bocca al feniano, ma il suo
sistema divenne un'arma poderosa nella Camera dei Comuni, ove i
parnellisti costringevano i deputati coercizionisti ad assistere a
delle sedute parlamentari che duravano perfino quarantadue ore e
impedivano ai ministri, per delle settimane e dei mesi, di far votare
i _bills_ che dovevano imbavagliare gli Irlandesi.

Don Davide, che era sempre stato tenuto separato dagli altri e che
anche al Cellulare si mandava al passeggio da solo, si era preparata
un'autodifesa di circa venti o venticinque fogli da protocollo, per
provare, con grande semplicità, la sua innocenza. Cominciava dal dire
di ignorare il perchè era stato arrestato, carcerato e condotto al
Tribunale, e tirava via affermando che, nè direttamente, nè
indirettamente, aveva mai preso parte ai tumulti.

«Non solo, diceva egli in terza persona, nè indirettamente, nè
direttamente non ha preso parte a tumulti, ma sempre in vita sua usò
dello scritto e della parola per l'ordine nella religione, maestra di
rispetto, fonte di civiltà e di proprietà. Lo stesso avvocato fiscale
che lo incolpa di _fini speciali_, confessa di non sapere il perchè lo
si perseguita. Fini speciali? Dunque, non connivenze con altri
partiti, ma un'azione solitaria. Quale? Repubblicana, no; socialista,
no; dunque? Distruzione dell'Italia attuale e ricostituzione del poter
temporale del papa; questo, suppone l'accusatore. Ora, questo è
assurdo, perchè don Davide Albertario in proposito ha per programma di
attenersi a quello che gli altri poteri, l'ecclesiastico e il laicale,
concertino tra di loro.

«Domando dunque, concludeva don Davide, che mi si lasci libero al mio
lavoro benefico, al mio altare, alla mia famiglia. Sono cittadino e
sacerdote e scrittore che ha fatto il suo dovere. Non rapitemi la
libertà. L'onore, nè voi nè nessuno me lo rapiranno giammai.
Rimandatemi al mio luogo di lavoro.»

Romussi, che, come tutti sanno, è un lavoratore instancabile, si era
alzato alle due antimeridiane a gettar giù cartelle sopra cartelle,
dolendosi, di tanto in tanto, di non avere avuto con sè la collezione
del _Secolo_ per poter documentare la sua vita di giornalista.

Ciononostante, scrisse un mucchio di cartelle che sono state distrutte
o perdute.

Al Castello vi doveva essere un raccoglitore di manoscritti. Perchè di
tanto in tanto si sentiva qualcuno dei ventiquattro lamentarsi di
avere smarrito dei foglietti pieni delle idee che intendeva svolgere
al Tribunale militare. Don Davide fu il più sventurato di tutti.
Perchè, oltre all'avere sciupata la fatica per l'autodifesa, trovò che
una mano ignota gli aveva involato dalla valigia un manoscritto
ch'egli aveva preparato nelle lugubri giornate al Cellulare e che
intendeva pubblicare subito dopo la sentenza. Egli ha potuto far avere
a me una di queste cartelle, scritta con una calligrafia quasi
femminile, e piena di parole feroci contro quelli che chiama i suoi
delatori.

La cosa più noiosa durante gli otto giorni di processo erano le
manette. A tutti noi si mettevano i ferri quando si usciva dalla
stanza per andare al tribunale nel cortile della Rocchetta, quando dal
tribunale si era accompagnati nella stanza a far colazione, quando ci
si riconduceva sul banco degli accusati e quando ci si riconsegnava al
secondino per essere chiusi in prigione fino all'indomani alla stessa
ora. Lungo il passaggio tra un cortile e l'altro, v'era sempre folla.
In quello ducale, era una siepe di ufficiali che amavano vedere da
vicino queste persone pubbliche che avevano scritto delittuosamente
nel giornale socialista, repubblicano, radicale, liberale, cattolico.
In quello della Rocchetta, era la moltitudine, composta di curiosi, di
amici, di preti, di soldati, che sgomitava per mettersi in prima fila
a vedere, salutare, commuoversi, piangere. Si vedevano persone che si
tergevano le lagrime col dorso della mano, persone che agitavano il
cappello per dir loro: coraggio! e persone che levavano in alto le
mani giunte per tradurre la loro desolazione.

La prima volta che riattraversavano il cortile della Rocchetta per
salire a colazione, vi fu un fotografo che sentiva indubbiamente la
prepotenza della funzione del giornalismo moderno di riprodurre la
vita sociale illustrata. Si staccò da un capannello e si presentò
colla sua macchina sullo stomaco dinanzi i primi due dei ventiquattro,
i quali erano il direttore del Secolo e il direttore dell'_Osservatore
Cattolico_ colle mani legate assieme. Romussi si mise un braccio
attraverso il naso e don Davide si tirò il cappello sugli occhi
voltandosi di fianco--entrambi per tradurre la loro indignazione e per
impedirgli di esercitare la sua professione. Anche adesso che correggo
le bozze mi duole di questo loro scatto antigiornalistico. Perchè ci
hanno soppresso uno dei documenti più preziosi delle giornate di
Bava-Beccaris. Se fossi direttore di giornale vorrei che tutti i miei
corrispondenti avessero l'audacia del fotografo giornalista. Allora
sarei sicuro che il mio quotidiano sarebbe il primo quotidiano
d'Italia.

Tra la folla degli avvocati accorsi a dare l'ultimo addio ai
condannati, si distingueva il Majno che camminava con l'ombrello in
una mano e il cappello nell'altra, salutando dappertutto: «Addio,
Chiesi, ciao, Federici, coraggio, Romussi, sta allegro, Valera,
arrivederci presto, don Davide, ecc.»

Nei suoi addii era lo strazio di un avvocato e di un amico reso
impotente dalla legge marziale.

Questa traversata fu un attimo solenne, indimenticabile che fece
piangere più di uno dei diciannove che ritornarono in camera carichi
di mesi e di anni.

La Kuliscioff non ha mai partecipato a questi strazi e a queste
consolazioni, perchè la sua residenza rimase sempre al Cellulare. Ne
veniva e vi ritornava in _brougham_, vestita di nero come un funerale.

Il suo contegno è stato di donna equilibrata. Nelle poche parole che
le si permise di dire, non si occupò che delle sue idee marxiste. Il
resto sembrava per lei estraneo. Di tanto in tanto si assentava per
fumare una sigaretta.

D'altronde, non era la prima volta che essa passava delle giornate in
prigione. Era già stata nelle carceri parigine e poi per più di due
anni nelle prigioni d'Italia.

Poche ore dopo la sentenza, gli anarchici vennero mandati a
Finalborgo, e i giornalisti partirono il giorno seguente, cioè alle 11
della sera del ventitrè.

Alla Stazione Centrale, c'era una folla enorme ch'era riuscita a
sapere l'ora della partenza. Ma i carabinieri fecero entrare i
condannati dalla parte opposta--evitando di passare sulla prima
piattaforma, piena di amici che volevano salutarci. Tra gli intimi di
Romussi, vi era il professore Pietro Panzeri, direttore dell'Istituto
dei rachitici, che piangeva come un ragazzo.

Il vagone cellulare era nuovo o pennelleggiato di fresco. Perdeva un
odore di vernice che faceva turare il naso.

Don Albertario, grosso come era, non riuscì a mettere il piede sul
predellino che aiutato. Nello sforzo gli cadde il cappello da prete:
istintivamente tentò di raccoglierlo, ma si avvide tosto di essere
ammanettato ed alzò gli occhi al cielo.

Nessuno disse una parola. Pareva che la vita fosse finita sul
montatoio. Ciascuno, ravvolto nel proprio dolore come in un mantello,
sentiva gli strazii delle famiglie che singhiozzavano sotto la
tettoia.



__In Vagone cellulare.__

Viaggio notturno da Milano a Finalborgo la notte dal 24 al 25 giugno
1898.


Mentre i carabinieri si preparavano a metterci i ferri per avviarci
alla casa di pena a scontare le sentenze militari, ciascuno di noi
pensava, involontariamente, al carrozzone che ci doveva condurre dal
Castello alla Stazione Centrale. Nessuno di noi aveva potuto
dimenticare la nicchia nella quale, venendo dal Cellulare, aveva
subito, per più di mezz'ora, lo strazio di pencolare tra la vita e la
morte per mancanza d'aria!

I ferri ci distrassero. I carabinieri adempivano alla funzione di
ammanettarci, incalzati dal «fate presto!» del tenente dei
carabinieri, che ci guardava con la caramella nell'occhio.

L'ordine era di ammanettarci a _fior di pelle_. E chi si lamentava
riceveva la buona misura di qualche altro giro di vite. Io protestai.
Dissi che non era possibile che ci fosse ordine di stringerci i polsi
fino a farceli sprizzare di sangue. Mi si fece tacere, assicurandomi
che alla stazione mi sarebbero stati allargati.

Chiusi nel carrozzone, credevamo di morire. C'era un fetore che dava
il capogiro. La cella era angusta, buia, col sedile di legno cosparso
di crostini di pane e coi fori per l'aria che parevano tappati. Il
veicolo ci sballottava in un modo crudele. Quando le ruote
sussultavano sui sassi o attraversavano i binari, ci sembrava che il
carrozzone stesse per rovesciarci sulla strada.

Non abituati a questi viaggi di punizione, sognavamo il treno.

Alla stazione ci si fece discendere passandoci sotto l'ascella, a
zig-zag, una catena che ci teneva uno dietro l'altro e ci impediva di
pensare alla fuga.

Per scappare bisognava che il condannato si trascinasse dietro tutti
gli altri.

Eravamo così male informati sul trasporto del bestiame di galera, che
credevamo sul serio che ci avrebbero fatti viaggiare in un vagone di
terza classe. Invece fummo disillusi non appena ci trovammo in quella
specie di corridoio lungo due filate di celle.

A mano a mano che si saliva, si veniva spinti e incassati dal
carabiniere che aspettava il condannato dietro l'uscio. L'operazione
di cellularizzarci veniva fatta in un modo fracassoso. Si schiudevano
gli usci con collera, si bestemmiava contro i catenacci che cigolavano
senza andare avanti o indietro, si ingiungeva il silenzio con degli
imperativi brutali a coloro che volevano sapere dove diavolo ci si
mandava, e si sbattevano sulla faccia gli usci come tanti schiaffi
ribaldi.

Rimanemmo per qualche minuto sbalorditi. Io mi trovavo in una cella di
mezzo, tra Romussi e don Davide Albertario. Chiesi era in faccia al
direttore del _Secolo_ e io potevo vederlo, attraverso la ferriata, di
profilo. L'avvocato Federici era in una delle prime celle della fila a
destra e gli altri, compresi due che non conoscevo, erano sparsi nelle
celle in fondo.

Aspettavamo con ansia che venissero a liberarci le mani indolenzite
dal peso del ferro che diventava sempre più enorme.

Faceva un caldo eccessivo. Nella tana inverniciata il giorno prima,
coll'uscio sulle ginocchia che non ci permetteva nè di allungare, nè
di incavalcare le gambe, si respirava un'aria pestilenziale e si
sudava come in un forno. L'indugio del treno a mettersi in moto era
per noi un vero supplizio. Speravamo che, lanciandosi nello spazio,
folate d'aria sarebbero venute ad attutirci la sete e a rinfrescarci
la faccia.

Finalmente il treno si era mosso. La lentezza e le prime fermate ci
fecero capire ch'eravamo attaccati a un treno omnibus. Il treno, che
s'incammina adagio adagio e sosta a tutte le stazioni, diventa una
tortura per i poveracci calcati nelle nicchie che lasciano respirare a
disagio e intetrano l'ultima scena dei condannati sulla via della
espiazione.

Invece delle buffate d'aria fresca che non venivano, nè potevano
venire, perchè il nostro vagone era l'ultimo e aveva le aperture in
faccia a due altri, fummo obbligati a incominciare una lotta disperata
contro l'usciuolo dell'inferriata a scacchi, che si chiudeva e
minacciava di soffocarci a ogni scossa.

--Signori carabinieri, facciano il piacere di fermarci l'usciuolo!

I signori carabinieri non potevano essere umani con noi, perchè
avevano ricevuto ordini imperiosi di essere severi e perchè temevano,
a ogni stazione, di trovarsi alla presenza di qualche ufficiale
incaricato di «dare un'occhiata ai polli nella stia». Ma per
l'usciuolo facevano proprio di tutto per inchiodarlo alla parete e
spesso sacramentavano contro la compagnia ferroviaria che si era
dimenticata di configgervi la molla o l'uncino per tenerlo aperto. Di
tanto in tanto veniva qualcuno di loro a sbattercelo indietro con un
sostantivo energico. Ma il più delle volte dovevamo respingerlo noi
con la punta delle dita.

Alla stazione di Pavia, una voce umana riuscì a intenerirci fino alle
lagrime.

--Signor Romussi, signor Chiesi, posso fare qualche cosa per loro e
per i loro compagni?

La persona che parlava era invisibile. Si sentiva solamente che la sua
voce era commossa.

A così poca distanza, eravamo già tutti stracchi morti per la
posizione incomoda in cui ci teneva la celletta, per i ferri che ci
avevano intormentite le braccia e per l'arsura che ci faceva dire a
ogni minuto:

--Signori carabinieri, un po' d'acqua!

La voce dello sconosciuto ci era andata al cuore come una
consolazione. C'era dunque qualcuno che pensava ai poveri diavoli che
soffrivano. Romussi, interpretando il pensiero di tutti, con una voce
che avrebbe impietosito i sassi, disse:

--Se ci potesse dare una gasosa!

Lo sconosciuto ci rispose con dei singulti.

Era troppo tardi. Il ristorante era chiuso e il treno stava per
partire.

--Addio e coraggio! ci disse lo sconosciuto con degli altri
singhiozzi.

Lungo questo viaggio indimenticabile ci domandavamo di tanto in tanto
l'un l'altro se eravamo vivi.

_Chiesi_: Come stai, Fritz?

_Federici_: Bene.

--Don Davide, dormite?

--Magari potessi dormire!

--Romussi, come ti senti?

--Maledettamente male. Non avrei mai creduto che il trasporto dei
prigionieri fosse fatto in questo modo. Siamo trattati peggio delle
bestie.

--Pazienza, che non siamo lontani da Sampierdarena.

Guardando nelle celle della fila opposta mi si agghiacciava il sangue.
La testa dei cellularizzati che ubbidiva al moto del treno si
delinquentizzava in un modo spaventevole. Pareva la testa di un
mostro. Illuminata dalla luce fosca che tremolava, assumeva
proporzioni spaventevoli. La fronte si allungava sovente con delle
gibbosità che facevano abbassare le palpebre dalla paura. Gli occhi
ingrossavano e venivano alla superficie con una luminosità feroce. La
bocca, sbadigliando, spalancava un abisso circondato da una dentiera
enorme che digrignava come quella di un teschio appeso nella penombra.

Lazzari sembrava una iena in agguato.

Lungo le gallerie avevamo il fumo della macchina che entrava nelle
celle a volumi a ubbriacarci e ad avvelenarci le ultime ore.

--Signori carabinieri, un po' d'acqua. Io muoio dalla sete!

A Sampierdarena il cuore del brigadiere si lasciò intenerire dalla
voce piangevole dei condannati.

--Ci faccia dare un caffè, signor brigadiere. Sia buono.

--Dio gliene renderà merito, gli disse don Davide che tirava il fiato
come un uomo che si sente morire.

Il carabiniere con la caffettiera in una mano e la chicchera
nell'altra ci conciliò con l'umanità che sembrava composta di tigri.

Ci si aperse la cella e ce lo si versò in bocca a sorsi, con una
pazienza materna. Bravo carabiniere!

Discendemmo a Finalmarina come gente scampata a un pericolo. Aprivamo
la bocca per sorseggiare l'aria e ci auguravamo che il reclusorio
fosse lontano lontano per aver tempo di sgranchirci le gambe e di
rimetterci dallo sbalordimento di un vagone che chiamavamo assassino.

Qualche mese dopo, nella quinta camerata del reclusorio di Finalborgo,
ricordando questo episodio della nostra vita carceraria, i direttori
del _Secolo_, dell'_Osservatore Cattolico_ e dell'_Italia del popolo_
si strinsero la mano e promisero che, non appena ritornati al largo,
avrebbero intrapresa la campagna contro questa abbominazione che si
chiama vagone cellulare.



__L'arrivo al Reclusorio.__


Alla stazione di Finalmarina non c'erano che cinque o sei persone,
compresi due preti. Eravamo disfatti. Avevamo gli occhi della gente
che non ha dormito, i capelli spettinati, le guance cadaveriche e le
punte dei baffi piegate come una desolazione. Il sole ci illuminava le
lividure ai polsi che avevano assunto un colore nerastro. Ci si passò
la catena da un braccio all'altro e fiancheggiati dai carabinieri e
seguiti dai facchini coi fagotti, ci avviammo verso il reclusorio. Il
silenzio intristiva la scena. Attraversammo il binario, continuammo
lungo la linea ferroviaria fin quasi all'imboccatura di un tunnel e
voltammo a destra, per lo stradone carrozzabile che i finalborghigiani
chiamano delle «catene», perchè è percorso dai galeotti che vanno e
vengono dalla Casa di pena.

I carabinieri ci stavano ai panni e ci incalzavano con degli avanti! È
per loro il momento più trepido. Anche legati come cani, potrebbe
saltare in testa a qualcuno di darsi alla fuga. Sprofondavamo i piedi
nella polvere alta, sollevando un pulviscolo che ci imbiancava e ci
andava per la gola e per le nari come un prurito che ci raddoppiava il
malessere. Rasentavamo Capra Zoppa perseguitati da un'arsura
indicibile. Ciascuno di noi sognava una sorsata di latte o un'altra
chicchera di caffè per snebbiarci il cervello. A metà strada, al dorso
di un parapetto, trovammo un giovine che aveva l'aria di un chierico e
piangeva come un ragazzo. Forse sapeva chi eravamo o forse provava una
commozione violenta dinanzi un prete alto e spalluto che passava
incatenato come un grassatore.

Dopo una ventina di minuti, vedevamo sorgere a destra la torre
quadrata del malaugurato edificio nel quale dovevamo passare tanto
tempo. Svoltammo il ponte, passammo tra mezzo alla folla, infilammo il
viottolo tortuoso a sinistra e, dopo pochi passi, ci trovammo alla
porta del reclusorio di Finalborgo.

L'entrata è quella di un portone qualunque. Non dà l'impressione di
una tomba di vivi, neppure pensando alle sentinelle di guardia.

Ci si tolsero i ferri tra due cancelli che inchiudono l'ufficio del
capoguardia e ci si domandò se avevamo bisogno di qualche cosa.

--Dell'acqua, rispondemmo.

Ce ne portarono due bottiglie e i secondini, con la premura di
dissetarci, ci diedero l'impressione di persone che non incrudeliscono
col Regolamento.

Anche colle mani libere, sembravamo galeotti autentici. Romussi,
coll'ala del cappello floscio che gli ombreggiava la faccia
fuligginosa, col solino gualcito e annerito dal sudore e coi baffi
sottosopra, aveva assunto l'aspetto di un uomo feroce. Chiesi, colla
barba e coi capelli impolverati e coi neracci della notte perduta
sotto gli occhi, pareva un capo ciurma invecchiato di dieci anni in
poche ore. Don Davide in un altro luogo avrebbe fatto scompisciare
dalle risa. Aveva l'aria di un Ernani passato attraverso il polverone
della strada. Al margine del cubicolo, colla tesa del tricorno pelosa
e abbandonata dalle stringhe, colla collarina scomparsa sotto il
merinos, col panciotto dai bottoni escoriati pieno di chiazze, colla
veste talare ammantata di polvere e colle scarpe scalcagnate e coperte
d'uno strato bianco, faceva compassione. Sulla sua faccia erano tutti
i patimenti di uno strazio inenarrabile. I carabinieri consegnarono le
buste dei nostri denari al capoguardia, il quale si mise a
registrarle, ci salutarono e noi passammo nello stanzone a pianterreno
intitolato «banchi di rigore». Lo stanzone, colle due finestrucole che
davano sul viottolo, era buio. Col suo immenso lastrone infisso lungo
la parete, cogli anelloni sotto il rialzo dei piedi e al disopra della
testa, faceva rabbrividire. Si vedeva che eravamo proprio in una casa
di pena. Ogni infrazione al regolamento voleva dire andare sul
tavolato di pietra incatenato alle mani e ai piedi.

Il capoguardia non ci fece cattiva impressione. Era alto, piuttosto
magro, con una voce che faceva sentire il _twang_ americano e con un
accento leggermente meridionale. Valera lo battezzò subito per il
Javert del reclusorio, per un Regolamento ambulante, per il
funzionario che si sarebbe stroncata la vita piuttosto che violarlo.

E attraverso i mesi che siamo rimasti sotto la sua sorveglianza non
abbiamo avuto occasione di modificare il giudizio valerano. Egli è
rimasto, per tutti noi, l'uomo-regolamento, guidato da uno zinzino di
buon senso. Prima di noi, in altre galere, egli aveva avuto sotto di
sè Amilcare Cipriani e De Felice.

Per ammazzare il tempo e impedire agli amici di pensare che stavamo
per diventare dei numeri di matricola, mi misi a narrar loro la fuga
del principe Krapotkine dall'ospedale dei detenuti di San Nicola di
Pietroburgo. Fu un grido unanime di protesta. Era una fuga che
sapevano tutti a memoria. Sapevano della stanzetta al terzo piano
dirimpetto all'ospedale, del violino che suonava che la via era libera
e la carrozza di fuori ad aspettarlo, e dei passi guadagnati sulla
sentinella coi famosi due lati del triangolo.

Entrò il capoguardia mentre don Davide e Federici, dall'alto del
tavolato, cercavano di capire dalla finestruola da che parte
dell'edificio penale ci trovavamo. Egli aveva in mano un opuscolo.

--Loro sono persone educate. Questo è il Regolamento. Lo leggano e
procurino di non violarlo per non obbligarci a infligger loro delle
punizioni.

Rientrò il capo con una guardia che portava il misuratore e con
un'altra che aveva sotto il braccio il mastro dei delinquenti.

--Adesso, dobbiamo registrarli e prendere loro la misura.

Ci lasciammo registrare e misurare con la docilità delle pecore. Non
eravamo mica in galera per romperci la testa contro gli articoli del
regolamento. Il primo a sottomettersi fu Chiesi e l'ultimo Achille
Ghiglioni, l'uomo terribile che aveva messo sossopra tutto Niguarda
con una Cooperativa di commestibili di trecento o quattrocento lire!

L'_attraction_, sulla piattaforma del misuratore con l'asta che
discendeva sulla testa, era don Davide, il quale, tra noi, aveva
raggiunto l'altezza massima. Sul misuratore, con le cosce voluminose e
la grandiosità del torace, egli aveva più del granatiere che del
sacerdote.

Finita questa operazione, ci si annunciò il bagno. Era quello che
desideravamo. Dopo tanti giorni di processo, tante notti passate sul
saccone in terra e un viaggio che ci aveva diminuito di peso, un bagno
era la suprema delle consolazioni corporali. Vi andammo l'uno dopo
l'altro senza ritornare ai «banchi di rigore».

Il bagno era in un angolo della vasta cucina, ove cuoce la minestra
quotidiana dei condannati, diviso da una coperta appesa a due chiodi.
Ciascuno di noi dovette svestirsi e tuffarsi nell'acqua alla presenza
di una guardia incaricata di tener sempre gli occhi sul recluso. Don
Davide ebbe delle ritrosie. Egli non seppe decidersi a liberarsi degli
ultimi indumenti che quando la guardia si rassegnò a voltare la faccia
dall'altra parte.



__Filippo Turati.__

                Il criterio nostro è questo; ogni
                provvedimento sarà vano se non sia
                assicurata al Paese piena ed intera
                libertà: libertà di propaganda, di
                pensiero, d'associazione, d'organizzazione,
                a tutte le classi della società.

                (_Dal primo discorso alla Camera_).


L'ho conosciuto nell'ottanta o nell'ottantuno. Io caricavo l'appendice
della _Plebe_ di Bignami della zavorra umana che scovavo e raccoglievo
negli angiporti e nelle stamberghe, e lui riempiva le colonne di una
terapeutica che inchiudeva, colle spinte e controspinte romagnosiane,
i germi della giustizia sociale. Era forse la prima volta che la
democrazia adulta leggeva in un giornale socialista che la questione
criminale è intimamente connessa colla questione economica. Con un
centinaio di pagine intitolate _Il delitto e la questione sociale_ il
Turati si rivelava un naturalista della scienza penale, un verista che
studiava oggettivamente l'uomo delinquente, un sociologo che accusava
la società di essere «complice impune dei misfatti che freddamente
puniva». Egli credeva fino d'allora che l'ordinamento punitivo fosse
essenzialmente transitorio e che il delitto troverebbe la sua cura in
uno Stato che volesse «a tutti garantito il frutto integrale del
proprio lavoro».

Il suo cruccio erano i suoi nervi. I nervi non gli davano requie. Non
lo lasciavano dormire, non lo lasciavano lavorare e gli distruggevano
il pensiero di prepararsi un futuro intellettuale. Egli si diceva
sfibrato, fiacco, senza attività cerebrale. Doveva morire. Sarebbe
morto fra due o tre anni o fra due o tre mesi, non lasciando di sè che
«misere strofe» ai suoi cari. Tutti i medici lo avevano abbandonato.
Egli era un nevrastenico. La sua era una nevrosi inguaribile.
Pazienza. E ci salutava commosso e ritornava, sfiduciato, alla sua
villa di S. Croce, a due passi da Como, colle tasche e le valige piene
di libri che aveva comperato dal Dumolard o che gli aveva dato a
prestito il suo e il mio amico intimo Felice Cameroni--il critico che
aveva incominciato a predicare lo zolismo nell'appendice del _Sole_.

Durante questa battaglia accanita tra lui e il suo sistema nervoso
egli, come il dott. Pascal, si preparava silenziosamente i _dossiers_
coi quali avrebbe poi intrapresa la campagna per liberare la società
borghese dalle sofferenze sociali. Condannato da una malattia
implacabile, consumava le sue ultime ore nel laboratorio della
putredine sociale a cercare i parassiti distruttori che saccheggiano
l'organismo umano. Morente, sentiva, come Pascal, la voluttà e la
grandiosità della vita, della vita sana, economicamente e moralmente
sana. _Oui, je crois au triomphe final de la vie_.

Egli leggeva, postillava, ammucchiava note sopra note e maturava nel
cervello allargato dallo studio febbrile la rivista alla quale diede
poi tutta la sua intelligenza.

Con la tendenza a credersi eternamente ammalato e dotato della
pigrizia del divoratore di libri che non darebbe mai mano alla penna
della produzione, il Turati sarebbe forse divenuto un frutto secco o
rimasto un autore stitico s'egli non avesse potuto fondere la sua
esistenza con quella di una donna capace di agitargli lo spirito cogli
stessi ideali e di piegarlo a un lavoro meno sbandato e più omogeneo.
E questa donna fu Anna Kuliscioff. È lei che lo ha incalzato, che lo
ha fortificato, che lo ha imparadisato. Lei e lui e la _Critica
Sociale_ non si distinguono più.

La _Critica Sociale_, Filippo Turati e Anna Kuliscioff sono più che un
nome. L'una e l'altro e l'altra si completano. La _Critica Sociale_ è
fatta della loro carne, nutrita del loro ingegno, calda dei loro pensieri.
In essa è la redenzione degli uomini, è la pace nel benessere economico, è
il trionfo della felicità della specie sull'egoismo e sugli interessi
degli individui. La _Critica Sociale_ è stata l'università della
generazione crescente. È dessa che ha dato a quasi tutti noi la «coscienza
sociale». Nata il quindici gennaio 1891, quando il socialismo scientifico
era un lusso per i superuomini delle scienze economiche, fece nascere
nella gioventù la fede nell'uguaglianza di condizione e un bisogno
prepotente di gettarsi negli studi che devono avere per risultato la
sconfitta della borghesia e l'elevazione del proletariato.

La bibbia di Filippo Turati è il _Capitale_. Non c'è altro di più
nutriente. Dal _Capitale_ si esce uomini completi. Un giorno che gli
si è domandato di dire pubblicamente quale libro avrebbe raccomandato
a chi fosse condannato a portarsi seco in un eremo tre soli volumi,
egli rispose ripetendo tre volte il _Capitale_. Con questo libro che
egli paragona o mette al disopra al _Darwin's Journal_, la gioventù
entra nella vita corazzata di altruismo, con una idea chiara dello
Stato a base di produzione socializzata. Ammiratore convinto del
grande novatore della scienza sociale, egli è, necessariamente,
entusiasta dei socialisti tedeschi--talli erompenti, dice lui, dal
forte ceppo scentifico di Carlo Marx--i quali, con la loro marcia
gloriosa, hanno infuturato il più grande fatto e l'esempio più
significante della storia contemporanea.

Cresciuto in un ambiente prefettizio--idolatrato dalla mamma--con un
avvenire trionfale nel foro milanese--circondato dagli agi della vita,
egli preferì discendere nell'agone sociale a lottare per l'esistenza
collettiva--a sostenere i diritti dei proletari incatenati agli
anelloni del salario--ad agitare il programma marxista che deve
eliminare dalla società i ricchi e i poveri.

Lui, coi nervi che gli impedivano un'occupazione costante, si dedicò a
un lavoro febbrile--a un lavoro che aumentava in ragione degli anni--a
un lavoro che lo cacciava dalla redazione sulla piattaforma
pubblica--e dall'angolo del correttore di bozze nel girone
legislativo.

Perdutamente innamorato dei suoi ideali, egli non sospettava che
sarebbe venuto il giorno in cui i suoi nemici--che sono anche i
nostri--lo avrebbero sorpreso sulla strada e svaligiato di tutto.

È stato mandato al reclusorio di Pallanza come incitatore di tumulti e
come un demagogo che mette un po' di barricata in ogni frase. Ma non
c'è nessuno che abbia mai sentito come lui tanta avversione per la
turbolenza oratoria che sprona alla battaglia ogni minuto e per i
«discorsi che acclamano la rivoluzione, sovreccitano i sentimenti
delle masse e fanno sbottonare lo stifelius di un delegato di pubblica
sicurezza». No, il _bavardage épouvantable_ degli esaltati non ha mai
fatto parte del suo bagaglio di piattaforma.

Il socialismo in bocca di costoro non può impensierire alcuno.
Dovrebbe impensierire i suoi nemici quando si ritrae dal palcoscenico
dei teatri diurni per entrare nel laboratorio «a notomizzare col
bisturi della scienza il carcame sociale steso sul tavolaccio della
statistica e della disciplina positiva». Allora sì. Allora gli
statisti dovrebbero proprio incominciare a sentire delle apprensioni.
«Perchè quei miti pensatori, nutriti di cifre e di sillogismi, onesti,
riservati, impeccabili sovente nella vita privata, magari un po'
puritani e un po' quacqueri se se ne gratta la scorza, quei sacerdoti
dell'altruismo, quei mangiatori d'_hascisch_ dell'ideale, hanno più
dinamite nella loro parola e nella scatola ch'è sotto il loro
cappello, che non ne sia nelle tasche dei feniani e nelle cantine di
Pietroburgo: con quest'aggravante che, di cotesta nitroglicerina
spirituale, non c'è doganiere o segugio di polizia dal fiuto fine che
ne possa sentire l'odore e mettervi sopra la zampa. Quando il moderno
Anteo--come il Colaianni definisce il socialismo--che ad ogni caduta
risorge più vigoroso, agguerritosi negli studi e nel raccoglimento,
uscirà in piazza con idee mature e propositi determinati, è allora che
sarà davvero formidabile, quanto prima era innocuo.»¹

    ¹ _Socialismo e Scienza_ di Filippo Turati.

Nell'ambiente parlamentare egli era una forza legislativa--una voce
gagliarda che domanda giustizia per gli affamati di pane, di libertà e
di pensiero--un ragionatore che sa disorientare i legislatori
borghesi, i quali non vogliono convincersi che la società degli
sfruttatori s'avvia verso il periodo della sua naturale
decomposizione. Eloquente, con una dizione esatta, egli sa far
ingoiare, con garbo, agli onorevoli tutto quel diavolo che vuole,
spruzzando la sua prosa tersa ed elegante di una ironia e di un
sarcasmo che non trovate se non in bocca degli oratori altamente
educati.

I discorsi di Sheridan si leggevano una sola volta e si mettevano in
libreria. Quelli di Filippo Turati si leggono e si consultano sovente
come quelli di Burke, perchè sono densi di pensieri, pronunciati in
una lingua che dovrebbe far testo nelle scuole, caldi dell'anima
dell'oratore che vuole condurci ad espropriare la società a beneficio
di tutti.

Va sulla piattaforma con riluttanza. Preferisce il tavolino di
redazione al palco dinanzi la folla che lo saluta col battimano
fragoroso e lo ascolta a bocca aperta. Nemico dei parolai e degli
smargiassoni che sciolgono i problemi con qualche frase alcoolizzata,
non capisce la piattaforma che quando si ha qualcosa da dire. È una
tolda che lo impensierisce, che lo mette in orgasmo, che lo obbliga a
buttar giù note, a raccogliere fatti, a pulire della prosa che andrà
perduta per l'aria, perduta fino a quando avremo anche noi il
quotidiano che darà il discorso tale e quale è pronunciato. Ma una
volta che egli è in piedi, pieno dell'argomento, il suo discorso esce
come dal libro di un grand'uomo.

Tutti lo hanno sentito parlare. La sua eloquenza non è l'eloquenza
bolsa che va in giro per il comizio a mendicare gli applausi. È
l'eloquenza di un grande oratore. Qualche volta pare una tempesta di
pensieri. I suoi periodi snodati, brevi, vigorosi si inseguono con un
calore crescente e precipitano sull'uditorio come un uragano
intellettuale.

La sua penna di giornalista, che gli ha conquistato un mondo di
lettori, è una penna che cesella ed ubbidisce al padrone. Non è mai
sbrigliata anche quando è virulenta o infuria sull'avversario. Produce
uno stile nervoso--uno stile che ti mette sottosopra il sangue--che ti
accarezza--che ti schiaffeggia--che ti intenerisce. Ha immagini
scultorie, grandiose, indimenticabili.

Adesso che i nervi lo lasciano tranquillo, la sua salute si è
rinvigorita e le sue forze intellettuali si sono triplicate. Egli è
diventato un lavoratore metodico come l'autore dei Rougon-Macquart. Vi
può dire coll'orologio alla mano il manoscritto che vi potrà
consegnare in un mese per un anno di seguito.

Veste male, non è mai stato vestito bene. Da giovane andava per le vie
coi calzoni che gli lasciavano vedere tutto il corame della scarpa,
con una giacca o un paletot che lo tirava da tutte le parti e un
cappello floscio che lasciava vedere il suo alto disprezzo per la
spazzola e il copricapo nuovo. Il nodo della sua cravatta traduceva
l'uomo che non si guarda mai nello specchio; era mal fatto e andava da
tutte le parti, tranne che sotto il bottone del solino spesso
sgualcito. Parecchi di noi che scrivevamo nella _Farfalla_ lo
credevamo un _bohémien_ eternamente alla caccia di un _louis d'or_
come gli eroi di Murger. Lo si vedeva e si pensava all'assalto alla
borsa. Ma lui ci stringeva la mano, ci parlava di qualche
pubblicazione e ci salutava senza domandarci nulla. La giornata dopo
che il Giarelli lo aveva fatto diventare celebre presentandolo ai
lettori delia _Ragione_ come autore del _Mago_--un canto che sentiva
del profumo dei suoi anni e che sgretolava il vecchio mondo come il
canto satanico di Carducci--lo pregai di prestarmi un libro.

--Figurati!

Mi lasciai trascinare a casa sua con uno stringimento di cuore. Mi
aspettavo di vedermi spalancato l'uscio di un uomo in mare. Credevo di
trovarlo in una soffitta che venisse inaffiata dalla pioggia, con una
dozzina di volumi pieni di ditate untuose per il suolo, con dei fogli
imbrattati di inchiostro su un tavolo che non sta mai quieto, con una
seggiola sventrata, con una camicia sudicia appesa alla parete e un
paio di ciabatte squinternate vicino a un saccone di foglie di
granturco sui cavalletti di legno.

All'entrata diventai di tutti i colori. La sua casa in via Gesù era di
quelle che respirano il benessere degli inquilini. La portinaia lo
salutò con una mezza riverenza, lo chiamò signor dottore, e gli lasciò
prendere un mucchio di lettere da un casellario che rivelava
l'ambiente signorile. Salimmo per uno scalone, entrammo per l'uscio
aperto da una cameriera e mi trovai coi piedi sul tappeto, in un
salotto sontuoso, circondato da mobili eleganti, cogli occhi che
andavano da una tela di qualche sommità del pennello ai _bibelots_ di
un'_étagère_ superba.

La mamma non pareva la mamma di un figlio che si trascurava negli
abiti fino all'indecenza. La guardavo e pensavo alla castellana. Alla
signora alta, coi capelli bipartiti come una Madonna, con la faccia
signorilmente lunga, con l'abito nero giù a piombo, illuminato intorno
al collo dal pizzo antico e illustrato al seno da una nidiata di
solitari sepolti nelle trine. Nella penombra del salotto le sue dite
affusolate si muovevano e perdevano faville dappertutto.

Se avessi qualcosa da amministrare e potessi indurre Filippo Turati a
prendersi cura del mio patrimonio, non esiterei un minuto ad
affidargli la mia amministrazione. In pochi anni sarei sicuro di
andare verso la ricchezza che ride dei rovesci degli altri. Egli è un
ragioniere consumato. Ha l'occhio nell'avvenire ed è di una esattezza
direi quasi scrupolosa. Questa abilità, che in un uomo di cifre
diventerebbe una virtù grandiosa, in lui è un difetto che gli costa
una somma enorme di lavoro intellettuale perduto. Mi sento male quando
vedo il direttore della Critica Sociale scrivere gli indirizzi degli
abbonati, registrare gli incassi, impaccare libri e correre alla posta
carico come un facchino. Ma lui non smetterà mai. Egli chiama tutto
questo una distrazione. Abituato a non darsi al riposo, continuerebbe
a scrivere e diventerebbe prolisso e slavato come un pennivendolo da
ottanta lire il mese.

Fuma dalla mattina alla sera. Terminata una sigaretta ne accende
un'altra e continua così fino al momento di addormentarsi.

Alcuni che non lo conoscono bene sospettano in lui il tirchione che si
lascerebbe ammazzare piuttosto che metter fuori un centesimo o offrire
una bibita agli intimi che vanno a trovarlo. È un errore grossolano.
Filippo Turati non è uno sciupone. Ma coloro che frequentano la sua
casa sanno che la sua tavola è sempre popolata di amici e che la sua
mano mette sempre nella mano dei bisognisti dei biglietti di banca.

Una sola volta l'ho veduto seccato di sapersi all'uscio persone che
hanno bisogno di dirgli una parola. Stava facendo colazione e questi
signori lo avevano fatto smettere sei volte. Alla settima rifiutò di
muoversi.

--Ah, per oggi basta, perdio! Ditegli che non ci sono, ditegli!

Poi, dopo qualche boccone, si trovò pentito,

--Era forse uno che meritava più degli altri. La ragione è che ne ho
troppi. Da un po' di tempo il mio uscio sembra l'uscio del duca
Scotti.

È buono, generoso, leale, capace di amicizie vere, sentite. Il
socialismo è la sua anima, la sua fede, il suo ideale. Per esso ha
combattuto--per esso soffre--per esso sarà pronto domani e sempre a
morire.



__Il cubicolo.__


Passando per il corridoio dei cubicoli, vidi nel secondo Chiesi, nel
terzo Romussi, nel quarto Federici, e nel quinto don Davide. Credo di
essere diventato pallido come un morto. Veduti col viso ai due bastoni
di ferro in croce dell'uscio, mi parvero delle bestie o delle ditte di
un museo di criminali. Le loro facce non erano più che grinte
spaventevoli, con delle mascelle enormi, degli occhi biechi, delle
fronti con tutte le stimmate del delinquente nato. Entrai nel sesto.
Dopo di me, venivano Achille Ghiglioni e Costantino Lazzari.

Il cubicolo era completamente vuoto. Non vi trovai che una lastra
d'ardesia, larga poco più del corpo d'un uomo, infissa nella parete a
destra. Mi distesi carico di emozioni, chiudendo gli occhi come per
obbliarmi. Sarebbe bastata, una parola qualunque per farmi piangere.
Non avevo paura, ma tutto ciò che si compiva nel silenzio di
quell'attimo mi commoveva fino alla gola. Vi rimasi assopito non so
più quanti minuti. Mi risvegliai spossato. Il cubicolo era così tetro
e angusto che mi ricordai delle camerucce dei famosi forni di Monza,
ove i Visconti avevano scontato i loro mesi di prigionia. Per
muovermi, non avevo che uno spazio di un metro e sessanta di lunghezza
e un metro circa di larghezza. Era alto, con una finestrolina sopra la
porta che riceveva la luce scialba del corridoio chiuso e largo poco
più della tana. Per vederci malamente, dovevo stare cogli occhi alla
inferriata.

Nessuno dei miei compagni fiatava. Si capiva che attraversavano anche
loro il momento della prostrazione.

Sentii Chiesi che domandava a Fritz come stava.

--Bene, grazie.

Nacque subito il dialogo.

_Romussi_: Mi pare di essere in un antro. È possibile che ci si
facciano passare degli anni in questo buco?

_Federici_ lo tranquillava assicurandolo che la segregazione personale
non poteva durare più di un sesto della pena.

_Romussi_: Saccorotto! Ci dici poco a vivere in questa tana per sette
od otto mesi? Ho tentato di leggere col libro alla ferriata, ma ho
dovuto smettere. Vi avrei lasciata la vista...

Chiamammo due o tre volte don Davide senza averne risposta. Credevamo
che dormisse. Invece, il povero prete, entrato nel cubicolo, non seppe
più reggere. Pianse dirottamente. Pianse nel silenzio soffocando i
singhiozzi per non farsi sentire dai colleghi, pregando Dio di
aiutarlo in un momento di tanta ambascia.

Io, che personalmente lo conoscevo da parecchi anni e che durante il
processo avevo ribadita l'amicizia, inquieto del suo silenzio, gridai:

--Don Davide? Che cosa fate? Dormite?

Rispose con una voce cavernosa che non dormiva. Non aveva bisogno che
un po' di calma per riaversi da tutte quelle emozioni che stavano per
strangolarlo.

Fummo sorpresi dalla guardia con le scarpe di cimossa, la quale ci
spiava in agguato.

--Silenzio! gridò imperiosamente il secondino.

Mezz'ora dopo venne il direttore a vederci, cubicolo per cubicolo, col
cappello in testa e la voce che sentiva dell'uomo abituato a parlare
coi galeotti. Così fu anche in seguito. Venne sempre nella nostra
camerata col cappello in testa e col linguaggio dell'uomo che vuole
essere temuto e vuole essere considerato un domatore di dannati alla
galera.

Uscito il direttore dal corridoio, entrò nel cubicolo un pagliericcio
di crine vegetale puntato, assolutamente insufficiente anche per un
corpo mingherlino come quello di Romussi. Mancava ai piedi di mezzo
braccio e bisognava addormentarsi sul fianco e con la faccia al muro,
se non si voleva cadere sull'impiantito.

--Pane!

Trasalimmo.

Era un galeotto con la catena a parecchie maglie, accompagnato da una
guardia, che andava di buco in buco a distribuire la pagnotta.

Il pane regio--come lo chiamavamo--parve a tutti noi immangiabile.
Dovevamo aver fame, perchè eravamo ancora con l'ultima costoletta e
l'ultimo risotto che avevamo mangiato al Castello.

Romussi mi fece sapere che aveva divorata la sua pagnotta fino
all'ultima briciola. Coi suoi denti da mastino e il suo apparecchio
digestivo sempre in ordine, ne avrebbe mangiata un'altra. Gli altri la
sbriciolarono.

--Minestra!

--Uh! sentii dire.

Era un uh! che traduceva la nausea.

Nessuno di noi seppe ingoiare la minestra.

Guardai che cosa mi aveva scodellato nella gamella. Vidi una pasta che
mi pareva esalasse un non so che di tufaceo e una broda piena di
scandellature gialle alla superficie. Tutto assieme mi faceva recere.

L'afa del pomeriggio ci rendeva inquieti e ci faceva sentire un
bisogno prepotente di uscire all'aria a vedere un po' di cielo.

Verso sera, ci si portò una coperta, un fiaschetto d'acqua, un catino
di zinco ed un asciugatoio ruvido a quadrettoni colorati, largo come
un fazzoletto.

Alle cinque, per noi era notte fatta. Ci augurammo la buona sera.

Mi adagiai sul pagliericcio nella speranza di addormentarmi. La
tristezza aumentava in ragione della oscurità che andava diffondendosi
nel cubicolo.

Verso le nove, sentii due mandate all'uscio del portico.

Era la ronda.

La ronda è composta di un sottocapo e di due guardie, una delle quali
porta la lanterna fumosa e puzzolente.

Entra in ogni cubicolo tre volte per notte, sbatte in faccia la luce
della lanterna, da un'occhiata alla finestra e alla ferriata e se ne
va richiudendo l'uscio a chiave.

Ci vogliono dei mesi prima di abituarsi a queste sorprese notturne.

Romussi non poteva dormire che con dei narcotici. Gli sbatacchiamenti
gli davano sui nervi.

Il secondo giorno fu più triste. Ci eravamo alzati all'alba, chiamati
dalla campana come gente che non aveva tempo da perdere e poi ci si
era lasciati nella capponaia a cellucce senza darci un libro, senza
dirci una parola, senza lasciarci sperare che all'indomani saremmo
usciti.

Bisogna proprio essere aguzzini che gustano la voluttà dell'altrui
sventura, per tenere degli infelici cento e più ore sotto
l'impressione che il sesto della loro sentenza verrà consumata in una
tana senza luce e senz'aria!

Nel cubicolo siamo rimasti due giorni e mezzo.

Durante questo primo periodo, non abbiamo visto che un'ombra che passò
dalla nostra cella con una parola per ogni buco: coraggio!

L'ombra era il cappellano.

Uscimmo storditi. Ci palpavamo la nuca e guardavamo il cielo come
abbacinati. Erano bastati due giorni e mezzo per solcarci le guance e
imbrutirci come gente che si levasse da una sbornia potentissima.

Ci scambiammo su per giù gli stessi pensieri.

--Credetti di morire, sapete. Mancavo d'aria: avevo bisogno di moto e
di luce, sopratutto di luce, sopratutto di moto, sopratutto d'aria.

Don Davide aveva avuto delle nausee che lo avevano impensierito.

--Ci fu un momento in cui dovetti raccogliermi e pregare il Signore
Iddio.

Costantino Lazzari aveva l'aria di uno smemorato. Si palpeggiava il
collo e continuava a battere i piedi in terra come per ridar loro la
circolazione del sangue.

Ci si condusse al passeggio in un cortiletto che sentiva del luogo.
Non avevamo che uno spazio di pochi passi inquadrato da muraglie
giallognole, scrostate e sbullettate. Col dorso verso la torricella,
dalle finte finestre, che usciva da un angolo dell'edificio, vedevamo
un largo verde di Capra Zoppa. La torricella era triste e ci ricordava
che in essa erano le celle più orribili del reclusorio.

Al lato opposto della porticina d'entrata del portico, è la muraglia
con le finestruole a mezzaluna e a doppia inferriata, dietro la quale
è una filata di cubicoli.

Quante volte, durante la passeggiata, abbiamo sentito gli inquilini
dei cubicoli prorompere in pianti dirotti!

Nella muraglia che taglia il cortile, è un pozzo chiazzato di verde.

Le due diane dipinte sul muro sono gli orologi solari dei reclusi.
L'una segna il corso del sole dalle 7 del mattino a mezzogiorno, ed ha
per epigrafe: _Sic mea vita fugit!_ Una condanna atroce, dicevamo al
passeggio, per i poveri prigionieri che portano tanti problemi nella
testa, e sono costretti a sciupare il tempo con le mani in mano!
L'altra, adorna dei segni dello zodiaco, si accontenta di avvisare i
galeotti al passeggio che senza sole non serve a niente: _Sine sole,
sileo_.

Le dita della destra battute sul palmo della mano sinistra di un
sottocapo ci avvertirono che la nostra ora d'aria era terminata.



__Nella quinta camerata.__


Nella quinta camerata entrammo il 27 giugno 1898. È al primo piano. Vi
si sale curvando la testa nel buco di un enorme cancello di ferro, la
cui porticina è aperta e chiusa a chiave a ogni passaggio di forzati e
di reclusi da un cerbero negli abiti di guardia carceraria. Col piede
nell'antiporto che mette nell'intimità dell'edificio, subite la
sensazione che state per essere perduti nella vasta tomba del
reclusorio. Al margine di tanti stanzoni affollati di numeri di
matricola, non sentite alito di vita. Vi sembra di essere nell'androne
di un convento spopolato. La voce di un vivo diventa sonora e vi fa
rabbrividire. Dal buio dell'antiporto, si sale a tentoni per il buio
pesto di due scale, si riesce in una specie di pianerottolo fosco come
la nebbia e si sbuca in un corridoio chiaro, in fondo al quale è la
quinta camerata a fianco di altre camerate.

Vi entrammo l'uno dopo l'altro accompagnati da una guardia e da un
sottocapo. L'entrata è un altro cancello di ferro, foderato nella
parte superiore da un lastrone munito di spia, che sopprime il di
fuori fino alla distanza di un mezzo metro da terra. Di modo che i
secondini, accosciati negli angoli, possono assistere ai movimenti dei
piedi, oppure coll'occhio al buco vedere tutti i condannati che escono
dalla rete del regolamento.

La nostra camerata non ha che la spia nella fodera del cancello. Ma le
altre ne hanno due anche nelle muraglie che le fiancheggiano.

La guardia le scopre all'insaputa dei reclusi e li sorprende fuori di
posto o a chiacchierare o a giuocare a dama colle pedine di mollica di
pane.

Di tanto in tanto la udite che ingiunge loro di stare quieti o zitti.

--Fate silenzio, voi, numero tale, se non volete andare in
«camerella»!

La guardia di Finalborgo fa il suo dovere senza esagerazione e senza
imbestialire contro la ciurma che ha delinquito. Ma è possibile, dite,
di rimanere in un camerone di settanta o ottanta individui per delle
settimane, per dei mesi, per degli anni, con una mano nell'altra, col
pensiero istupidito, senza mai lasciarsi scappare una parola,
un'interrogazione, un grido che viene su dall'anima in un momento di
crepacuore? No, non è possibile. Me lo disse tutto il personale del
penitenziario di Dublino quando ero là a visitare i dinamitardi e gli
altri condannati alla servitù penale. La lingua non sa acconciarsi
alla paralisi completa. Me lo disse e lo scrisse il principe di
Krapotkine che ha scontato la condanna francese nella _Maison centrale
di Clairvaux_.

Questo sistema--diceva--è così contrario alla natura umana che non
poteva essere mantenuto che a forza di punizioni. Nei tre anni che
passai a Clairvaux, il sistema era caduto _en désuétude_. Lo si era
abbandonato a poco a poco, a condizione che le conversazioni
all'_atelier_ e alla passeggiata non fossero troppo rumorose.

Volete un documento che le punizioni non riuscirono, nè riusciranno
mai a far perdere agli inquilini delle carceri l'abitudine di parlare?

Ero al Cellulare quando il signor Sampò prese il posto del signor
Astengo. I detenuti conversavano senza vedersi, stando alla ferriata
della finestra. Il nuovo direttore si mise a infliggere delle
settimane e dei quindici giorni di pane ed acqua, con l'aggiunta
magari della cella di rigore, ai violatori del silenzio. Credete che
ci sia riuscito?

Dalla conversazione di finestra in finestra era stato eliminato il
linguaggio stomachevole. Ma il chiacchierìo era rinato pochi giorni
dopo con maggior vigore di prima. E quale castigo, o signori
carcerieri, riuscirebbe mai a tappare la bocca ai prigionieri subito
dopo la sveglia e mentre squilla la campana del silenzio? Voi sentite
mille bocche in una volta che si scambiano dei buon giorno commoventi,
degli addii pieni di cuore, dei saluti che inchiudono il «coraggio!» o
il «non pensarci che passeranno anche questi mesi!»--Ciao, Biscella!

--Addio, Lumaghin!

--Giuliano, dormi bene!

Una sera ci sono cascato anch'io. Un detenuto sopra o vicino alla mia
cella si mise a gridare:

--Numero tale?

--Che c'è?

--Che cosa hai fatto?

Non risposi.

--Buona sera.

--Buona notte.

Questo semplice dialogo mi fece affiggere sul dorso dell'uscio della
mia cella che il direttore mi aveva punito con dieci giorni di pane ed
acqua!

Dopo il Cellulare, il Castello e il cubicolo, la quinta camerata
dell'ex convento dei frati, dell'ordine di san Domenico, ci parve un
paradiso. La percorrevamo in lungo e in largo con delle fiatate di
soddisfazione. Finalmente qui si respira! Le pareti erano pulite,
imbiancate di fresco, con del verde che girava tutto intorno a un
metro d'altezza.

Le due finestre a doppia inferriata, coi famosi cassoni, che non ci
lasciavano vedere dall'alto che un profilo di Capra Zoppa,
diventarono, per noi, delle aperture illimitate che lasciavano entrare
aria a volumi. Le brande lungo il dorso del camerone assunsero la
forma di letti elastici, con dei materassi sprimacciati, sui quali si
poteva adagiare il corpo affranto dai patimenti, con un guanciale
soffice che pareva appena uscito dalle mani del materassaio.

Guardavamo tutto con compiacenza. Paragonavamo l'asse al disopra delle
brande, che correva lungo la parete, a una elegante guardaroba o a una
comodissima dispensa. Ciascuno di noi aveva un largo spazio per
ammonticchiarvi la biancheria e i libri, per mettervi il catinetto di
zinco, la fiaschetta impagliata, la brocca per bere, la spazzola e la
pettinina, la gamella con inciso il nostro numero di matricola e la
pagnotta che ci avrebbero portata tepida due volte il giorno. Il sole
completava la nostra contentezza. Vi entrava un po' di sbieco dalla
prima finestra e veniva a frangersi sui bastoni di ferro della
seconda, lasciando cadere dei barbagli fino al suolo e portandoci del
calore e della gaiezza che si diffondeva dappertutto.

La sola noia del luogo erano le mosche--delle mosche grosse come
quelle che vivacchiano intorno ai letami--delle mosche pesanti che
aleggiavano con un ronzìo greve, che parevano sonnolente anche
nell'aria, che si fermavano sul nostro naso, sulle nostre orecchie,
sul nostro collo, sulle nostre labbra, sulle nostre mani, senza paura
di essere schiacciate dalla nostra collera. Si cacciavano via e
ritornavano a noi con una insistenza feroce e con una ostinatezza che
ci faceva perdere la pazienza. Più di una volta fummo obbligati a
rincorrerle e a dar loro una caccia disperata coi fazzoletti,
inseguendole fino alla inferriata. Ma era della fatica sprecata.
Ricomparivano a sciami più inviperite di prima. Erano le nostre arpie.

In camerata non eravamo più che delle cifre. Gustavo Chiesi era
divenuto il numero 2555, Carlo Romussi il 2556, don Davide Albertario
il 2557, Bortolo Federici il 2558, Paolo Valera il 2559, Costantino
Lazzari il 2560 e Achille Ghiglione il 2561.

La prima volta che si spalancò il nostro cancello e che entrò un
sottocapo con due galeotti a fare la distribuzione degli asciugatoi e
delle lenzuola, ci fu un po' di confusione. Nessuno era ancora
riuscito a tenersi a mente il proprio numero di matricola e a
convincersi che non eravamo più che dei numeri.

--2555?

--Presente!

A mano a mano che si veniva chiamati, si andava vicino al cancello a
ricevere la «biancheria». Per asciugarci la faccia e tutto il corpo,
ci avevano dato una pezzuola di canape ruvidissima, a rigoni
spaventevoli, a listoni alternati, che andavano dal bigio al
cioccolato--due colori che porto nella testa con orrore. Perchè sono
le striscie che rappresentano la casa di pena e riassumono l'emblema
del reclusorio. Sono i colori della camicia, i colori delle lenzuola,
i colori del saccone, i colori del tascapane, i colori delle mutande,
i colori del berretto, i colori della casacca e i colori dei calzoni.

Per tutto il tempo della condanna non si vedono che dei _clowns_.
Delle schiene a rigoni, delle braccia a rigoni, delle gambe a striscie
e delle teste col copricapo listato di caffè e di bigio con dei
puntini che paiono tante punzecchiature di pulci.

Il numero di matricola aveva ingrossato il cuore di alcuni miei
compagni. Romussi si era seduto sul suo sedile di legno con le
lenzuola sulle braccia e l'asciugatoio in mano dicendo: «Saccorotto!»
Don Davide, di temperamento sensibilissimo, che si lascia commuovere,
o trasportare, o abbattere dagli avvenimenti, sarebbe dato fuori a
piangere se non fossimo stati presenti. Gli pareva impossibile, come
diceva lui, che un sacerdote, che indossava la veste talare da
trentasei anni, questa veste, aggiungeva, «che mi fu compagna e amica
nei tempi lieti e tristi», potesse essere diventato il 2557, con la
gamella matricolata e con la branda in una camerata comune ch'egli
doveva calare e piegare al suono di una campana!

Era inutile abbandonarci alle malinconie. Perchè non eravamo che alla
titillazione del sistema. Ci aspettavano ben altre sorprese.

Costantino Lazzari si era seduto, come al solito, tra due brande senza
dire una parola. Egli si teneva come isolato. Non aveva confidenza in
alcuno e nel suo angolo era il suo mondo. Se qualcuno lo interrogava,
rispondeva come un mastino irritato. Una volta che gli domandai se
aveva qualche dispiacere, mi rispose di occuparmi delle cose mie!

--2559?

--Presente!

Presi la mia biancheria e me la appesi dando in una risata che mise
quasi tutti di buon umore.

Noi credevamo che nei penitenziarii i forzati e i reclusi venissero
abbandonati al rimorso dei loro misfatti, e non vedessero che la mano
incaricata di stendere loro dal buco la pagnotta, la minestra e
l'acqua. Invece, in una camerata di galera, si è come in una sala di
ufficio telegrafico. C'è sempre gente che va e viene. Alla mattina,
quando avete ancora gli occhi ingarbugliati, vi dovete mettere sul
guardavoi, nello spazio delle brande, per la «conta». Si spalanca il
cancello ed entrano tre guardie seguite da un sottocapo o da una
guardia scelta che vanno fino in fondo alla muraglia, contando, mentre
passano, uno, due, tre, quattro, cinque, sei e sette. È la consegna
dei reclusi dalla guardia notturna alla guardia diurna. Escono, si
chiude e si schiude di nuovo il cancello per i reclusi che vengono a
portar via il mastello dell'acqua sporca, per il recluso che viene a
prendere il barile dell'acqua, per il forzato che vuota il «bugliolo»
e il pitalone. Il «bugliolo» è il recipiente di legno con coperchio
del liquido puzzolente. Scoperchiandolo, vi sentite in faccia la
tanfata pestifera delle uova putrefatte. Il «pitalone» delle altre
camerate è un enorme mastello che rimane negli angoli e passa per i
corridoi come una cloaca. Nel reclusorio di Finalborgo non ci sono
latrine! Quando si vuotano e passano dinanzi i cancelli, si è come in
mezzo ai bonzoni dei pozzi neri che si scaricano. Il fluido
nauseabondo vi sommerge come in un edificio coperto fino ai coppi di
materie fecali.

Credete di essere lasciato in pace ed ecco il delinquente che viene
col secchione del latte a mescervene nella brocca cinque centesimi.
Rimane chiuso per cinque minuti e poi si riapre per lasciar entrare il
recluso con la pagnotta.

--Pane!

State per mettervi a sedere e si spalanca un'altra volta il cancello.
È il sottocapo che batte le dita della destra sul palmo della sinistra
dicendo: aria!

Ritornati dal passeggio, viene a farvi visita il forzato della spesa.

La spesa non durava mai meno di quindici minuti.

Era la cosa più difficile di questo mondo. Ogni mattina si doveva
sciogliere il problema come si poteva vivere all'indomani con 25
centesimi, se si era condannati alla reclusione come il 2555 e il
2556, o con 35 centesimi se si era condannati alla detenzione come gli
altri numeri di matricola della nostra camerata. Il 2555 rinunciava di
solito al vino. Un quarto di vino costava nove centesimi. Era del
lusso. E si faceva registrare per due «uova al tegame»--cioè per 22
centesimi. Il resto lo scialava in frutta.

Il 2256 non rinunziava alla bibita. Senza una golata di vino non
avrebbe saputo ingoiare tutte le porcherie del bettolino.

La lista della spesa includeva anche il caffè. Il 2557 e il 2559
persistettero per più di una mattina a berne mezza razione di cinque
centesimi. Ma dovettero rinunciarvi. Era un'acqua colorata e tepida di
un sapore che faceva fare gli occhiacci. Lo si inghiottiva come una
medicina disgustosa.

Il 2557 non lasciò mai il suo mezzo litro di vino di 18 centesimi,
anche quando il vino era acre o imbevibile come l'aceto. Egli aveva
uno stomaco di ferro, ma senza una goccia di vino non avrebbe potuto
digerire i piatti del _menu_ carcerario.

Il nostro piatto di forza erano i gnocchi di dodici centesimi conditi
coll'olio, puah! che sentiva della colatura della lucerna. Il lunedì
avevamo la leccornia di 200 grammi di bue in umido per ventotto
centesimi e di 100 per quattordici. La carne era dura come il corame,
e il 2556 diceva appunto che ci volevano i suoi denti o i denti del
leone per masticarla. Nel sugo pepato, pepatissimo, bisognava
mollificare il pane, guardando altrove e mangiando a occhi chiusi. Il
sugo era una miscela che sapeva di un po' di tutto e che diventava
succolento in ragione dello sgrassamento che si compiva in noi sotto
il regime di una dieta di ferro.

Non ho veduto sbatterlo via con indignazione che una volta.

--Aristocratico! aristocraticone! gridammo in coro al 2558.

--Bravi! guardateci in fondo!

C'era un semplice scarafaggio in decomposizione!

Lo regalammo al forzato latrinaio, avvertendolo della nausea in fondo.

Lo prese come un intingolo regale, leccandosi le dita e curvandosi con
la fraseologia dei ringraziamenti sentiti. Ne avessero tutti i giorni
i galeotti di queste vivande che rifocillano lo stomaco e rincarnano
gli ischeletriti!

--La nostra sentenza--ci disse--sembrerebbe meno dura.

Il secondo moto di violenza che ricordo fu quello del 2557. Era una
domenica e indossavamo già la casacca galeottesca. In domenica, in
luogo delia minestra delle undici, c'è la carne e il brodo. Eravamo
seduti al desco. Il 2557 aveva sbocconcellata un po' di pagnotta nel
brodo, come gli altri. In un attimo lo vedemmo alzarsi con un impeto
di revulsione, suggellato da un _porci!_ Egli si era drizzato in piedi
come un fusto d'orgoglio, aveva preso la gamella ed era andato alla
spia del cancello:

--Dite al signor direttore che non sono un maiale! Questa carne puzza
come una carogna!

Fu un sottosopra. Siccome, in fondo, volevano tutti bene al 2557, un
po' perchè era un sacerdote, un po' perchè era un bell'uomo, e un po'
perchè era buono, così venne su subito il sottocapo a constatare il
reato d'incipiente putrefazione e a dirgli che gli avrebbe mandato di
sopra una sleppa di manzo eccellente!

Noi però non gli abbiamo perdonato lo scatto che ci aveva tolto
l'appetito. Il 2555 lo pregò di leggere il «manuale del buon
sacerdote».

--È doloroso che un secolare vi debba richiamare ai doveri che vi
impone la vostra veste. Mangiate quello che vi portano; siate umile,
siate modesto, siate paziente e perdonate a tutti coloro che vi fanno
del male. Andare sulle furie per un po' di carne «passata», è da uomo
volgare.

--Avevo fame! capite che avevo fame! Ho 52 anni, sono alto e grosso e
mi tocca mangiare la razione comune, la razione della gente
mingherlina, piccola, senza il mio apparecchio digestivo! È vero o non
è vero che c'è voluto più stoffa per vestirmi? È vero o non è vero che
c'è il supplemento al vitto per gli uomini della mia proporzione anche
nelle caserme? È dunque naturale che mi si dovrebbe trattare con una
dieta diversa.

--Voi vorreste dei privilegi!

--Abbasso i privilegi!

--Privilegio! gridai anch'io.

--Privilegio! Chi è mingherlino non può mangiare come mangia un uomo
dalle mie proporzioni!

Anche senza avere l'apparecchio digestivo del 2557, in galera si
patisce la fame pur avendo i mezzi per il sopravitto. Se poi non se ne
hanno, si diminuisce di peso di giorno in giorno.

Con 600 grammi di pane cento volte inferiore a quello del soldato, e
150 grammi di pasta sempre scellerata, un condannato si sente i crampi
nello stomaco più di una volta in 24 ore. In tutte le camerate si
ripete la stessa storia:--«Ho fame, si ha fame, abbiamo fame.»

I trentacinque minorenni della nona camerata, quasi in faccia alla
nostra, ci impietosivano. E tutte le volte che potevamo, mandavamo
loro le nostre pagnotte e la nostra minestra.

Senza le nostre cinque o sei o sette o dieci pagnotte al giorno
avrebbero fatto della fame tutti i giorni. Perdio in prigione si
patisce inesorabilmente la fame.

Tanto è vero che in prigione si soffre del digiuno prolungato, che il
2556--cioè il direttore del _Secolo_--mi disse, la seconda volta che
fummo al Cellulare, queste testuali parole che trovo registrate nel
mio diario:

--Una buona novità introdotta dal direttore cav. Codebò è quella di
avere diviso la distribuzione della minestra e del pane. Certi
prigionieri, giovinetti robusti, mangiavano d'un colpo i 600 grammi di
pane, e alla sera si trovavano tormentati dalla fame. Egli pensò di
distribuirlo in due riprese: alle 10 e alle 3. Così pure divise la
minestra quotidiana. I detenuti, con questo sistema, hanno un cibo
caldo, benefico, specialmente d'inverno.

Ma anche così, si pativa. Con una quantità insufficiente e una qualità
abbominevole non era possibile uscire dal regno della fame.



__Nequizie regolamentari.__

I pasti e le cimici.


Gli entusiasmi per la quinta camerata non potevano durare a lungo.
Chiudetemi in un salotto elegante con le inferriate a scacchi e il
cancello di ferro, e vedrete che in pochi giorni i mobili mi
diventeranno odiosi e l'ambiente senza uscita mi incendierà il
cervello e mi ridurrà in un angolo a imbecillire nella mia impotenza.

_Il silenzio è obbligatorio:_ disteso a caratteri neri sul fondo
bianco della muraglia in faccia al cancello, diveniva, di ora in ora,
odioso e intollerabile per dei giornalisti che avevano passata la vita
tra il chiasso delle redazioni. Era una ingiunzione che ci riduceva a
una ragazzaglia di casa di correzione.

Vivere con degli amici--e degli intellettuali come i miei compagni--è
una vera consolazione e spesso anche un'istruzione. La loro parola vi
va per le orecchie come una carezza, vi solleva lo spirito abbattuto,
vi distrae e vi porta in mezzo ai ricordi tumultuosi della loro
professione battagliera. Ma sempre, sempre, sempre, senza mai un
minuto di isolamento, diventa, spesso, una pena e una tortura!

Vi fa male di vedere loro crescere lentamente le unghie sucide senza
aver modo di offrir loro la limettina per tenerle regolate e pulite, e
di assistere a tutto ciò che fuori di galera si fa nel bagno, alla
latrina, nello spogliatoio e nella stanza da letto. E vi sentite
desolati di udire la bestemmia di qualche vostro compagno che aveva
l'abitudine di lavarsi i denti collo spazzolino.

--Che male ci sarebbe--incominciava a dire qualcuno di noi--se la
direzione mi permettesse uno spazzolino e della polvere e dell'acqua
dentifricia?

--E che strappo si farebbe al regolamento se io, prete, continuassi a
indossare quella divisa di sacerdote che io credo di non avere
disonorata?

--Capisco la punizione.

--Io no, non la capisco. Se capisco qualche cosa è la mia separazione
dalla società che posso avere offesa. La punizione che mi distrugge è
un delitto. E lo griderò dai tetti, o meglio dal giornale, non appena
al largo.

--Lasciami dire. Io posso capire la punizione. Ti va? Ma la
raffinatezza di sopprimermi le sigarette se ho l'abitudine di fumare,
di mandarmi a dormire all'ora delle galline invece di lasciarmi
lavorare o studiare, di costringermi a stare sul saccone duro come una
pietra per dieci o dodici ore, di non permettermi una locomozione che
mi mantenga sano, di tenermi in piedi con una nutrizione che mi
restituirà alla mia famiglia, e alla società, idiota e incapace di
guadagnarmi l'esistenza?

--Taci! C'è raffinatezza più diabolica di quella di romperti
violentemente la comunicazione epistolare con tutto il mondo che hai
conosciuto, che conosci, che ti ama e continua a volerti bene, anche
dopo la condanna dei tribunali di guerra? Raffinatezza più triste, più
sciagurata di quella di impedirti di scrivere a tua moglie, a tua
madre, ai tuoi figli, a coloro che ti amano e che ti piangono e che ti
idolatrano, se non una volta ogni tre mesi, se sei alla reclusione, o
una volta al mese, se sei alla detenzione? E anche questa lettera
mensile e trimestrale non è un'altra tortura? Tu non puoi parlare, ti
si dice, che dei tuoi interessi. Non è un interesse dire, per esempio,
ai tuoi di casa di non addolorarsi perchè ti si è mandato alla
reclusione innocente? No, perchè insulteresti la giustizia. Non è un
interesse parlare di ciò che fai e di ciò che vedi, della tua salute,
se stai bene o male? No, perchè il condannato non deve parlare di
quello che avviene nella casa di pena!

Più di una volta, io e don Davide abbiamo dovuto discendere in
direzione a riprenderci la lettera coll'ordine di riscriverla senza
qualche frase contraria al regolamento. Per due settimane ero stato
malaccio. Mi sentivo debole e non sapevo più digerire la pagnotta e la
pasta del penitenziario. Scrissi nella lettera della mia
indisposizione, aggiungendo «che adesso stavo bene». Si poteva essere
più modesti? La direzione trovò modo di farmela rifare.

--Non le pare, signor direttore, o signor capo, che questa sia una
notizia di carattere intimo?

--No, perchè il recluso non deve occuparsi di ciò che avviene nel
reclusorio.

--Aguzzini! gridai mentalmente. Aguzzini!

E le lettere che ci pervenivano dal di fuori? Bastava un accenno alla
vita pubblica, un alito dell'agitazione che si faceva a favore dei
condannati, un'allusione a una prossima amnistia, una frase
ministeriale, il pensiero di un deputato, l'opinione di un giornale,
perchè la mano della direzione corresse sul delitto, con la penna
carica di inchiostro a coprire tutto di nero. Ho veduto delle lettere
piene di chiazze, piene di rigoni che sgrammaticavano la dicitura o
sopprimevano le parole che potevano suscitare delle speranze o lasciar
trapelare la commozione pubblica.

Qualche volta la mano diventava brutale e allora recideva il foglio
alla testa o alle gambe o lo metteva spietatamente in un cassetto
senza neanche dire crepa al numero di matricola al quale era
indirizzato!

Una scena che avrebbe fatto piangere gli amici, se avessero potuto
mettere l'occhio alla spia della nostra camerata, era quella dei pasti
dei primi tempi. Gli abiti dei sette amici, che aspettavano il
monosillabo della Cassazione per uscire o per indossare la casacca
galeottesca, si erano consumati e malconciati. C'erano delle maniche
sdrucite, dei calzoni sfilacciati agli orli, degli occhielli sfatti o
che si sfacevano, delle ginocchia e dei gomiti lucidi o maculati di
larghi oleosi e dei baveri sui quali si era andata accumulando la
forfora di una cute che nessun parrucchiere spazzolava da un pezzo.

Don Davide pareva uno di quei preti descritti dal Porta. Colla veste
piena di macchie, colle calze rotte, colle brache stralucide che
perdevano, col nero, dei brandelli, e con la collarina inamidata da
tanto tempo che lasciava vedere il giallo delle trasudazioni del
collo.

Abituati al tovagliolo e alla posata lucente sul candore diffuso per
la tavola, la mobilia della nostra sala da pranzo si riduceva a una
lunga panca dalla quale sbucavano, di tanto in tanto, gli insetti
rossicci che la povera gente chiama cimici, e a dei sedili di legno
rotondi, le cui capocchie laceravano di frequente i calzoni
dell'avvocato Romussi. Mettevamo la panca vicino alla seconda finestra
e sedevamo quattro da una parte e tre dall'altra. Coi tozzi di pane
sparsi qua e là lungo la panca, colla gamella fumante sul palmo della
mano sinistra, e un moncone di cucchiaio di legno greggio col quale
tentavamo di sbasoffiar via una pasta scondita o condita fino al
disgusto, potevamo essere copiati per un mucchio di pitocchi di
frateria che si scalda lo stomaco colla minestra del convento.

Ho parlato delle cimici, perchè ne ho trovate dappertutto. Nei
camerotti polizieschi, nelle celle del Cellulare di Milano, nelle
stanze del carcere giudiziario di Genova e nello stanzone del
penitenziario di Finalborgo. Dopo la condanna, il Turati occupava, al
Cellulare, una stanza spaziosa e ariosa nell'esagono del secondo
raggio. Io, De Andreis, Romussi e Federici passavamo parte della
giornata con lui. Nessuno di noi poteva adagiarsi sul suo letto a
pagamento, senza che venissero alla superficie filate di queste
schifose bestioline che fanno pancia col vostro sangue. Mi diceva
Turati che di notte sciupava il tempo con questi puzzolentissimi
insetti che non lo lasciavano dormire. Tre o quattro giorni prima che
andasse alla reclusione, il direttore, impressionato dal suo tormento,
gli fece imbiancare il cellone e passare alle fiamme il letto di
ferro.

--Ne ho trovate, ci diceva lo scopino incaricato di farli morire col
fuoco, a nidiate. Morivano mandando un'odore pestilenziale che mi dava
le vertigini.

Un'ora dopo questo nettamento e questa pulitura, ne vedemmo tre che
andavano via, pian piano, per il cuscino!

Nelle vecchie carceri di Genova non mi sono fermato che 15 ore. Se vi
fossi rimasto di più, ne sarei uscito dissanguato. Venivano fuori a
frotte.

Il soffitto ne era pieno e negli angoli delle pareti si potevano
prendere a manate. Alla notte, per paura che mi andassero nelle
orecchie, o su per il naso, o in bocca, fui costretto ad alzarmi. Il
letto ne formicolava. Potevo coglierle a manate al buio. Sdraiato non
mi lasciavano quieto. Le mie mani precipitavano sulle gambe, sul
petto, e le rincorrevano per il corpo senza riuscire mai a
liberarmene. Come erano spietate le cimici del carcere giudiziario di
Genova! In questo carcere maledetto, non ebbi coraggio di mangiare, ma
ebbi l'imprudenza di comandare un caffè. Ritirandolo dal buco
dell'uscio me ne caddero tre nella chicchera e due nel piattino.
Buttai via la bevanda dal disgusto.

Nello stanzone di Finalborgo formicolavano per i cornicioni, si
sorprendevano sulle pareti, si trovavano in letto, nelle screpolature
dei muri, nelle commessure delle finestre, e perfino nelle crepe del
tavolo.

L'ambiente ha una grande influenza sugli individui. Anche l'uomo
cresciuto nella reggia, nelle tombe penali diventa, a poco a poco, un
porco. Dopo due o tre mesi non è più schifiltoso e non si meraviglia
più di nulla. Si abitua a mangiare le cose meno mangiative o più
repulsive con le i mani, a pulirsi le dite nella giacca, a vedersi gli
orli delle unghie calcate di sudicerie nere, a lavarsi maledettamente
male in un cucchiaio d'acqua senza sentirsi invaso dal malessere, a
considerare i pidocchi come amici di casa e a prendere delicatamente
le cimici senza contorsioni e travolgimenti d'occhi.

Se volete convincervi che l'ambiente agisce potentemente
sull'individuo, invitate un ex recluso a pranzo. Osservatelo
attentamente quando mangia e lo sorprenderete più di una volta in
flagrante violazione delle regole più comuni della persona allevata
bene.



__Don Davide Albertario.__


Se il direttore dell'_Osservatore Cattolico_ fosse stato ministro
della chiesa anglicana, a quest'ora egli sarebbe padre di una nidiata
di figli. Perchè le _misses_ non gli avrebbero permesso di consumare
la gioventù nel celibato, in un paese ove il servo di Dio prende
moglie come qualunque altro mortale.

Fisicamente è più corazziere che sacerdote. È un bell'uomo alto,
spalluto, con un petto che traduce la sua salute di ferro, piantato su
due gambe poderose, che fanno tremare le pareti della quinta camerata
di Finalborgo quand'egli passeggia concitato o disperato di sapersi un
leone in gabbia. La dieta della fame non è riuscita a smagrarlo, o a
chiazzargli di lividure le guance voluminose, o a fargli nascere delle
rughe sulla fronte. I suoi 52 anni sembrano 38. Ha la carnagione di un
prelato in fiore, gli occhioni luminosi che rivelano la bontà del suo
animo ed è dotato di una forza che mi piegava in due non appena mi
mettevo a lottare con lui.

La sua attività cerebrale è prodigiosa. Non appena gli furono concessi
gli strumenti di lavoro, la sua mano non è stata più quieta. Con una
corrispondenza che avrebbe tenuto occupati tre segretari, egli trovò
modo, in due mesi, di riempire 587 fogli di protocollo, che
rappresentano l'opera sua di prete, di giornalista, di predicatore e
di recluso. Senza essersi completamente sbottonato, come in una
autobiografia, i lettori--se i manoscritti verranno pubblicati--vi
troveranno il polemista che si ferma dove incomincia l'invettiva, il
letterato che si sdraia con compiacimento nel suo letto intellettuale,
l'oratore che ripassa pieno di letizia attraverso le sue orazioni
trionfali, il sacerdote che sta ritto sulla tolda della sua nave
cattolica, agitando il suo programma che si riassume nella formola
«col papa e per il papa».

È nato nella provincia di Pavia, studiò all'Università
gregoriana--frequentata dagli stranieri che si avviano alla
carriera ecclesiastica. Si laureò in sacra teologia nel 1868, in
diritto canonico nel 1869 e a 23 anni venne consacrato sacerdote
dall'arcivescovo di Milano, mons. Calabiana, unitamente al suo
compagno di infanzia, il padre Zecchi, il noto scrittore della
_Civiltà Cattolica_ e uno dei più insigni oratori della
predicazione sacra.

L'_Osservatore Cattolico_ si può dire sia stato il suo bimbo adottivo.
Incominciò a volergli bene nel 1869 e continuò ad amarlo e a nutrirlo
col suo ingegno fino al giorno in cui Bava Beccarla mandò i
carabinieri e i soldati ad arrestarlo come un malandrino qualunque
nella casa paterna.

Io non posso dire di essere un lettore costante di fogli religiosi. Ma
credo che non ci sia in Italia un giornale del partito che possa
essere paragonato al quotidiano di don Davide. È un giornale che sente
tutta la modernità professionale senza perdere del suo concetto
fondamentale, che è la necessità della chiesa cattolica. È redatto
bene, redatto da giovani che lo seminano di idee col ventilabro e che
riempiono le sue colonne di uno stile spigliato, nervoso, che non
lascia mai giù le ali sui guazzi sociali per paura di sporcare chi
legge. È interessante per ogni lettore. Vi trovate l'appendice
drammatica, l'appendice letteraria, l'articolo politico, il
trafiletto, la cronaca, gli avvenimenti internazionali e una larga
piattaforma per i servizi municipali--per le questioni operaie--per i
problemi dell'avvenire.

L'_Osservatore Cattolico_ è stato condannato nella persona del suo
direttore per queste motivazioni: 1.° perchè ha con fine ironia
combattuta la monarchia; 2.° perchè si è unito ai repubblicani e ai
socialisti e agli anarchici per demolire le istituzioni dello Stato;
3.° perchè ha eccitato all'odio i contadini contro i signori e contro
altre classi sociali; 4.° perchè ha educato il clero alla vita
battagliera invece che alla missione di pace alla quale è destinato da
Cristo.

--Che c'è di vero, don Davide, in tutto questo?

--Per capire la portata della motivazione della sentenza che mi ha
relegato per tre anni in questo reclusorio, bisogna conoscere la
natura del mio giornale. L'_Osservatore Cattolico_ è anzitutto un
giornale che si dedica alla propaganda e alla difesa della chiesa
cattolica e del papa. Siccome l'Italia è aderente a questa chiesa,
così si deve ritenere necessaria la religione al bene sociale, per la
vita presente e per la vita futura, come si deve ritenere necessario
che essa sia tenuta in onore e non perda influenza. Questo è il
caposaldo del programma del mio giornale nel rapporto religioso.

«Nel rapporto politico io, direttore dell'_Osservatore Cattolico_,
sono indifferente alla forma monarchica o repubblicana di governo. Do
la preferenza a quella forma in cui i governanti sono col mio
programma religioso, al quale subordino tutto il resto. Quindi è una
bugia dire che io combatta la monarchia, come è una brutta invenzione
quella di accusarmi di complicità coi repubblicani e socialisti e
anarchici. In un ambiente monarchico io lavoro in mezzo al popolo,
perchè il governo abbia a cessare dall'opposizione contro il papa e
contro la religione e abbia a promuovere la pace religiosa nel paese.

«Il mio programma sociale è ampio e generoso. Io accetto tutto ciò che
nei postulati del socialismo è compatibile colle dottrine della chiesa
cattolica e mi adopero per attuarlo formando l'opinione in questo
senso. Deploro il concetto fondamentale materialista del socialismo,
deploro che non ammetta le verità cattoliche, perchè il materialismo e
la negazione delle verità cattoliche scavano un abisso tra il
cattolicismo e il socialismo. L'_Osservatore Cattolico_ combatte la
speculazione che impoverisce, combatte l'usura, invoca provvedimenti
di Stato che salvaguardino i diritti e gli interessi delle classi
inferiori e ne migliorino le condizioni. Esso però rifugge dallo Stato
collettivista. Tutto questo vogliamo ottenere con la persuasione della
propaganda pacifica, con la carità generosa, col mezzo delle autorità
e delle leggi. Credetelo, è una calunnia dire che io ecciti all'odio o
alla discordia.

«Da questo potete argomentare del valore delle motivazioni della
sentenza del Tribunale militare. No, non sussiste la fine ironia
contro la monarchia, non sussiste la congiura con altri partiti contro
le istituzioni, non sussiste l'eccitazione di odio tra le varie classi
sociali, non sussiste l'educazione del clero in senso opposto alla
missione assegnatagli da Cristo. Non sussiste nulla di nulla. Di vero
non c'è che questo: che si è mandato in galera un innocente.

«Volete una prova che il direttore dell'_Osservatore Cattolico_ non ha
tentato di sviare dal retto sentiero il clero italiano? Da che sono
nella casacca del galeotto, sua santità il papa mi ha mandato la
benedizione più di una volta, e una medaglia d'oro che tengo
carissima, centinaia di vescovi, da ogni parte d'Italia, scrissero a
me e a mia sorella lettere affettuosissime, sacerdoti e vescovi--come
quello di Savona--sono venuti a trovarmi e a ogni distribuzione
postale ricevo, come avete veduto, un mucchio di lettere e di
telegrammi. Se non ci fossero di mezzo i patimenti di questa vitaccia,
che sopprime il sacerdote e distrugge l'uomo, direi che il Tribunale
di guerra mi ha reso un segnalato servigio.»

L'affezione per sua sorella è nota a tutti coloro che leggono le sue
lettere datate da Finalborgo e indirizzate alla «cara Teresa». Sono
lettere castrate e scritte nella condizione di un uomo che non può
dire quello che sente e che vuole. Ma in esse è il pathos di un'anima
addolorata. C'è la tenerezza di chi soffre della separazione e della
lontananza. E la sorella lo ricambia di pari affetto. La sua assenza è
il suo strazio. Per liberarlo, ha messo sossopra mezzo mondo. Ha
mandato una lunga epistola all'episcopato italiano--ha scritto al
presidente dei ministri e ha fatto bussare, a insaputa del fratello,
fino alle porte reali.

In mezzo a noi, don Davide, non ha mai fatto sentire il prete. Egli
era un compagno che prendeva parte alla discussione, che si adattava
in un modo mirabile alla vita comune, e che rideva delle nostre risate
come un giovialone che non si ricorda della condanna.



__I forzati.__


Il «forzato» è colui che sta scontando la sentenza che gli ha inflitto
il vecchio codice. Lo si può dire il martire del bagno penale. Nessuno
ha subito le sue torture. Egli è passato attraverso tutte le sevizie
che sono nel regolamento composto dagli «estratti dei regi bandi del
22 febbraio 1826». Un'infrazione qualunque, come quella, per esempio,
di essere reo di bestemmia o di imprecazione contro l'onore e la
riverenza dovuta alla Maestà di Dio, alla Beatissima Vergine ed a
tutti i santi, lo avrebbe mandato croatescamente sulla panca a
ricevere la punizione di parecchie «bastonate». Tutti noi, compresi i
direttori dei reclusori, possiamo smarrire qualche cosa senza
crederci, per questo, meritevoli di punizioni corporali, non è vero?
Il forzato che perdesse il semplice libretto di «massa» viene invece
disteso sulla pancaccia della bastonata!

Istigando alla disubbidienza o all'ammutinamento o rivoltandosi contro
i «suoi custodi», il galeotto incorreva «nelle pene corporali
estensibili sino alla morte».

Il bastonatore era sempre un grandiglione dalle braccia poderose che
faceva divenire alto il sedere con colpi che strappano dei
misericordia!

L'abito del forzato differisce da quello del recluso. Il forzato a
vita indossa una giacca rossa, porta una callotta verde alta e
rotonda, ed ha sul cuore una striscia nera sulla quale è stampato il
numero di matricola.



Il forzato a tempo ha la callotta scarlatta e la striscia di un verde
slavato. Se vedete un camerotto o un cortile di queste «facce da
galera», vi sentite correre per la schiena i brividi dello spavento.
Provate gli orrori di sapervi dinanzi ai sanguinarii che hanno fatto a
pezzi le donne, squarciata la gola agli uomini e spaccato il cranio ai
bimbi. Il loro abbigliamento e il loro viso galeottizzato triplicano
la ripugnanza che vi ispirano.

Non appena il forzato entrava nello stabilimento di pena, gli
completava la _toilette_ il fabbro, un altro collega che gli ribadiva
al malleolo l'anellone di ferro massiccio della catena. Il catenone a
diciotto maglie era così lungo e così pesante che nessun forzato, per
quanto forte, sapeva stare in piedi più di un'ora.

Uno di questi sventurati di Finalborgo mi descriveva tutta quella
massa di ferro, che il codice gli imponeva di trascinarsi dietro fino
a sentenza finita, con queste parole:

«La maniglia--come chiama lui l'anellone--era assai diversa da quella
che mi vedete ora. Era un grosso cerchio che mi dava un grande
fastidio. Di giorno mi lacerava le mani a ogni movimento e di notte,
con la parte mal ribadita, mi scorticava l'altro piede tutte le volte
che mi voltavo addormentato. Mi alzavo con la gamba stracca e
indolenzita.

«Il catenone mi tribolava dalla mattina alla sera. Non sapevo dove
metterlo. Se me lo tiravo sui fianchi, non sapevo reggerlo più di
dieci o quindici minuti. Erano minuti di spasimi. Se me lo tenevo
sospeso con le mani, dovevo abbandonarlo non appena mi dolevano le
braccia. E se me lo ammucchiavo sulla spalla o sul braccio sinistro,
sentivo subito il bisogno di levarmelo.

«Erano dei quintali che mi indemoniavano. Non era che in terra, seduto
sulla pietra, incatenato al grande anello di ferro confitto nel rialzo
del granito della cella, che potevo trovare un po' di quiete. Con la
maggior parte del peso sul suolo, si poteva tirare il fiato. Ma tutti
noi, di questi ambienti, sappiamo che il moto delle gambe è questione
di vita. Guai al condannato che poltrisca nella disperazione! La sua
sentenza si estingue presto. Egli si avvia col treno lampo al
sepolcro.»

--E adesso, quest'altra di quasi due chili di ferro, che vi penzola
dalla gamba, vi rompe le scatole?

--Una catena alla gamba, coll'anello massiccio che non si può rompere
che colla morte o nel giorno in cui avete finito di espiare la pena, è
un tormento senza nome. Quante volte questa catena mi ha fatto pensare
al suicidio!



Il galeotto di questo straziante periodo, che si chiuse, credo, nel
90, veniva accoppiato con un altro.

Il compagno di «branca», vale a dire di catena, rimaneva indivisibile
per degli anni e degli anni. Attaccati allo stesso anellone del
macigno, dovevano dividersi, con la noia penosa dell'unione
coercitiva, il peso della catena e seguirsi ogniqualvolta uno si
moveva.

Se, per esempio, il 387 si alzava, il 130 non poteva rimanere seduto.
Se uno degli infelici aveva dei bisogni urgenti, l'altro si doveva
accosciare rasente il mastello puzzolente e aspettare che facesse i
comodi suoi. I passi di ciascuno dovevano essere studiati, e il
desiderio del 387 doveva essere il desiderio del 130. Immaginatevi, mi
diceva uno di questi forzati, di trovarvi appaiato con un tale che
avesse la diarrea, come è toccato a me per tre mesi! O supponete, voi
che siete educato, che non avete perduto tutto e che aspirate alla
riabilitazione, di essere inchiodato allo stesso anello con un uomo
volgare, magari brutale, magari capace di fracassarvi lo stomaco con
un pugno per una parola mansueta che gli è andata nell'orecchio come
una scudisciata!

--Ho letto una volta un libraccio che raccontava gli orrori degli
inquisitori spagnoli. Certamente, leggendo, mi si accapponava la
pelle. Ma non credevo che il Gutzman sia riuscito più feroce
dell'inventore della «branca». Essa non vi fa scricchiolare le ossa
contorcendovi, ma a lungo andare vi deturpa e vi masturba la vita
assai più degli ordigni di tortura. Appaiato per degli anni con un
grassatore o un brigante o un omicida! Pensateci un minuto e vi
troverete col capogiro!



In generale il forzato, come lo abbiamo conosciuto noi, è buono. Nella
zona della espiazione diventa un fratello che si intenerisce dei
vostri dolori e vi rincuora alla speranza. A Finalborgo c'è stato un
tempo in cui adempiva alla funzione pietosa d'infermiere Alfonso
Carbone, un capo brigante che aveva della iena e che mutilava le sue
vittime attorcigliandosi le loro budella intorno la mano. In
infermeria, lo si poteva dire una suora di carità. Si alzava a tutte
le ore, accorreva al letto di chiunque lo chiamasse e faceva di tutto
per alleviare le sofferenze. Un compagno, che aveva passato dieci e
più anni al «Castellaccio», mi raccontava della bontà di Cipriano La
Gala. Egli, Cipriano La Gala, era là a scontare la prima condanna di
dieci anni di isolamento. Fu un modello di condotta. Così
irreprensibile che il direttore, signor Brunellesco, dopo sette anni,
lo fece scatenare e mettere in compagnia di altri quindici galeotti.
In sette anni il La Gala non aveva mai detto una parola alla guardia,
che non fosse di ringraziamento. Nella vita in comune, egli era un
agnello che si prosternava alla volontà del primo o dell'ultimo
galeotto. Durante la sua residenza, non ebbe mai un rapporto, mai un
accento che rivelasse l'eroe di tanti delitti.

In galera, ho conosciuto gente che sente la fratellanza come non la si
sente all'aria libera. Ho conosciuto forzati che si sono levati il
pane di bocca per darlo a chi aveva più fame di loro. So di un tale
che si è tolto il panciotto, che si era pagato coi suoi denari--perchè
il panciotto è una concessione del direttore o del medico--per
regalarlo a un poveraccio senza fondo di massa, oppresso dalla tosse a
scatti che non perdona.

La solidarietà per il diritto comune è nel grido di _fuori! fuori!_ di
tutte le camerate, quando i forzati si credono curvati dall'arbitrio e
vittimizzati dagli abusi. Spieghiamoci. Supponete che una guardia sia
tanto cattiva da farvi punire per dei nonnulla o che il pane non sia
che della mota malcotta e indigeribile. In galera non è ammessa la
protesta, nè collettiva, nè individuale. Se voi dite: rifiuto questa
gamella di minestra perchè è immangiabile, siete sicuro che vi si
ordina di portare il vostro materiale lettereccio in magazzino e di
andare diffilati ai banchi di rigore. Se vi fate registrare per
un'«udienza col signor direttore», vi capita, novantanove volte su
cento, che il direttore vi dice che siete un insolente e che fuori,
prima di andare in galera, non mangiavate tanto bene e che per questa
volta vi manda a mangiar meglio nel cubicolo, per una quindicina di
giorni, con l'aggiunta della camicia di forza se osate lamentarvi.

Sovente alcuni forzati, si sottomettono alle punizioni individuali per
richiamare l'attenzione del direttore su questo o quel sopruso. Ma
quando il sopruso continua con maggiore accanimento e quando il
direttore si ostina a «ignorarlo», allora i forzati perdono la
pazienza e ricorrono alla violenza del _fuori! fuori!_.



__Un fuori! fuori!__


Uno di questi ammutinamenti è avvenuto poche settimane sono nella casa
di pena di Padova. L'ultimo di Finalborgo è sotto la data del 3
gennaio 1896. Il direttore Codebò aveva assunta la direzione del
reclusorio nell'ottobre del 1895. Egli vi era andato preceduto dalla
fama di direttore «severissimo», d'un direttore, per esprimermi con la
frase di un forzato, che terrorizzava con una disciplina di ferro.

Direttore di un reclusorio, egli voleva che imperasse il silenzio
assoluto. Il guaio era che gli inquilini di questo bagno penale--come
lo si chiamava mava prima--erano misti: cioè erano reclusi e forzati.

I primi, col nuovo codice, devono scontare la condanna senza parlare;
i secondi, col codice vecchio, possono conversare sottovoce tra loro.

Il reclusorio poi deve essere a celle. E nel reclusorio di Finalborgo
non ci sono che cubicoli, banchi di rigore e celle di punizione in
Torretta. Nei lavorerii in comune avveniva, per esempio, che i reclusi
dovevano tacere e i forzati potevano scambiarsi delle parole
sottovoce.

Il direttore, per impedire che si mancasse di rispetto al regolamento,
fece affiggere un ordine del giorno il quale ingiungeva di farla
finita col chiasso. Forzati e reclusi lo stracciarono. Il direttore
incominciò allora con le punizioni e i reclusi e i forzati si misero a
gridare e a urlare che gli avrebbero fatto un _fuori! fuori!_

La sera prima, i più eccitati si erano scambiati degli abbracci e
salutati con dei baci, dicendosi l'un l'altro: chi sa quando ci
rivedremo!

Il giorno dopo si trovarono--come dicevano loro--decimati. In ogni
camerata ne mancavano venticinque. Dove erano andati? Erano stati
mandati via o erano in punizione?

La questione del malcontento generale non era mica limitata al
«silenzio». I reclusi si lamentavano anche per altre cose. Essi
dicevano, per esempio, che era antiumano e contrario all'igiene
affollare i tavolati delle camerate di ottanta pagliericci. «Dormivano
l'uno addosso all'altro come bestie.» Uno--mi si raccontava--che
avesse avuto bisogno di sputare di notte, doveva mettersi sul sedere e
sbattere l'espettorazione al di là dei piedi.

La direzione persisteva nel mantenere due soli--dico due soli--catini
di zinco, d'un litro e mezzo o due d'acqua ciascuno, per ogni
camerata. Alla mattina era una lotta. Tutti volevano lavarsi nel
recipiente, e invece dovevano contentarsi di una manata d'acqua che
raccoglievano nel cavo delle mani. Questo modo di lavarsi produceva un
altro inconveniente: lasciava le pietre della camerata sempre umide. E
anche la popolazione delle case di pena ha una paura maledetta dei
reumatismi.

Nel subbuglio entrava anche la biancheria. Si cambiavano loro le
lenzuola ogni quaranta giorni e le camicie lacere e acciabattate a
intervalli di quindici giorni.

Il _fuori! fuori!_ era sempre in discussione. I più vecchi ricordavano
ai più giovani che tale grido voleva dire una rivolta: e una rivolta
di forzati e reclusi poteva avere delle conseguenze terribilissime.

Mentre si svolgeva nelle camerate il concetto di limitarsi a una
protesta individuale, si sentirono dei gemiti e delle voci strazianti
che uscivano dai banchi di rigore.

Il _fuori! fuori!_ fu un fatto compiuto.

Tutte le camerate furono in piedi. In ciascuna nacque un pandemonio
indescrivibile. Le «asse dei pancacci»--mi diceva uno di
loro--incominciarono a volare da una parte e dall'altra. Si urlava, si
sgolavano ingiurie e si imprecava contro la giustizia. I reclusi
aggiunsero al casaldiavolo il rifiuto della minestra. Nessuno di loro
aveva voluto sporgere la gamella.

--Datela ai maiali! datela!

Un quarto d'ora dopo, lo stabilimento era invaso dalla truppa, dai
carabinieri e dall'autorità locale.

Il direttore, seguito dai soldati, si presentò all'uscio del banco di
rigore per sedare il tumulto.

I puniti gli risposero scaraventando al buco della spia una fiaschetta
d'acqua. Gli spruzzarono la faccia e lo scalfirono in qualche parte.

Passò al cancello delle due camerate dei reclusi. Lo ricevettero con
degli urli e dei gesti minacciosi. Lo accusarono di essere «causa di
tutto il male» e lo coprirono di villanie.

L'eccitamento divenne così intenso che i capitani dei carabinieri e
della fanteria dovettero pregarlo di ritirarsi.

Gli ufficiali, con delle buone parole, cercavano di calmarli.
Promettevano loro tutto, compresa la giustizia. Ma, mentre riducevano
una camerata alla ragione, le altre davano fuori e strepitavano
dicendo che era meglio morire subito che continuare una «vita infame
come questa». Dappertutto si schiamazzava e si levavano in aria i
pugni come da gente determinata a tutto.

Qua e là si sentivano voci che domandavano un'inchiesta.

--Vogliamo la Commissione! Venga una Commissione da Roma!

A mezzogiorno erano nel reclusorio il prefetto d'Albenga e il sindaco
di Finalborgo.

Il prefetto parlava loro con grazia. Incominciava i suoi piccoli
discorsi così: Poveri sventurati! Ma li terminava dicendo loro che
aveva pieni poteri civili e militari.

--Se non farete silenzio, mi varrò di questi diritti.

Fu come una dichiarazione di guerra.

Gli occhi dei forzati erano illuminati dalla vendetta.

Il capitano ordinò il _pronti_ e i _fucili_ si curvarono verso la
regione del petto dei rivoltosi.

Non ci volle altro. Nacque tra i forzati la gara di voler morir prima.
Ciascuno si cavava la giacca, si sbottonava la camicia e si presentava
ai fucili, gridando:

--Fuoco! fuoco!

Il primo di tutti fu Vitale--un forzato siciliano. Sbattuta in terra
la giacca, diede un addio commovente ai compagni, ne baciò qualcuno
stringendoselo al seno, e con un addio generale, un «addio a tutti»,
si mise innanzi ai soldati:

--Voglio essere il primo! Tirate! tirate! Fate fuoco! fate fuoco!

Coloro che hanno assistito a questa scena mi hanno assicurato che
nessuno aveva mai veduta tanta gente offrire entusiasticamente la vita
grama della galera alle palle militari.

--Avremo finito di tribolare! Fate fuoco! fate fuoco!

Ufficiali e soldati rimasero paralizzati. Sarebbe parso loro una
vigliaccheria di tirare sulla moltitudine che voleva morire.

Il capitano, invece del fuoco, ordinò il pied'armi e si ricominciarono
i discorsi.

Ci si disse che «eravamo tutti figli d'Italia, figli di una grande e
bella nazione e che anche noi un giorno saremmo stati degni di farne
parte».

Le parole affettuose passarono sui loro dolori come un balsamo. L'odio
lasciava posto al moto del cuore.

Le mani dei galeotti irruppero negli applausi e le loro bocche
incominciarono a gridare: Viva l'Italia! Viva l'Italia!

Ai reclusi venne fatto lo stesso discorso e anche nelle loro camerate
risonarono i battimani e il: Viva l'Italia!

I soldati rimasero nel reclusorio tre giorni e i caporioni passarono
sotto consiglio e andarono ai banchi di rigore per qualche mese. Dopo
vennero quasi tutti traslocati in case di pena, ove la reclusione si
svolge in tutto il rigore.

Il risultato è chiaro: il _fuori! fuori!_ fa delle vittime e lascia
gli altri in una condizione peggiore di prima.

In galera non si protesta: si muore.



__L'influenza dei sanguinarii.__

Il Frezza e i «mozzi» nostri amici.


In galera, anche se siete superbiosi o illustri, diventate così
piccini che, in meno di due mesi, non ricordate più se eravate
qualcuno. L'ambiente e i compagni vi sfasciano e vi disperdono il
passato e vi mettono sur una base d'eguaglianza sulla quale i
livellatori del tempo cromwelliano non troverebbero da ridire.

Tra voi e gli assassini della Carcano di via Torino non può essere che
questa differenza: che se non siete sanguinarii come lo Zanzottera e
il Coturno, non dominate la camerata e non suscitate l'ammirazione dei
vostri colleghi di catena che idolatrano il coraggio infuturato nelle
pagine dei delitti celebri.

I sanguinarii, raccontando i romanzi della loro vita, crescono di fama
ogni giorno, diventano temuti e assumono, sovente, il posto di «capo
di società»--il posto più eminente al quale possa aspirare chi indossa
la casacca del forzato. Perchè il «capo di società» è l'arbitro o il
despota dei «paesani» o dei «patriotti».

È lui che scioglie le contese e che ordina il boycottaggio di questo o
quel galeotto sospetto di delazione o di essere il confidente di
qualche agente di custodia. Quando il «capo di società» sussurra
all'orecchio degli altri il nome del «traditore», lo sciagurato si
trova in una condizione peggiore del landlord crudele in Irlanda. Egli
non solo subisce l'isolamento del coleroso, ma è respinto da tutte le
camerate.

Le autorità del penitenziario sono obbligate a curvare la fronte
dinanzi a questa sentenza invisibile che infligge al malnato una
specie di ostracismo sociale. E quando non vogliono sottomettersi alla
legge galeottesca, avviene sempre qualche inaffiata di sangue. Mi
spiego con una di queste tragedie che si è svolta nel bagno di
Castellaccio nel 1880. Due galeotti--un abruzzese e uno di Terra di
Lavoro--vennero assunti come «mozzi», cioè come persone di servizio.
Una spia tra i «mozzi» diventa, in un bagno, una vera disgrazia in
famiglia, mi diceva uno dei miei amici forzati, ora in un altro bagno.
Nessuno si arrischia più a mandare un addio a un «paesano» nella
camerata in faccia.

L'odio per la spia è il sentimento che signoreggia tutti gli altri. In
ogni galera e in ogni carcere giudiziario voi trovate sulle pareti,
sui cancelli, lungo i corridoi e per i muri dei raggi di passeggio un
solo pensiero che nessun direttore è mai riescito a far cancellare,
questo:--Morte ai _boia_! I _boia_, cioè le spie, cioè i Petito, non
hanno quartiere. Sono considerati dei rognosi e presi a pugni e spesso
a coltellate. Dove è uno di loro, l'ergastolano o il recluso o il
detenuto non è più tranquillo. La sua vita rimane un tormento
spasmodico fino alla sua scomparsa. Chi l'uccide diventa un eroe ed ha
l'applauso generale, perfino, spesso, dei secondini che disprezzano le
spie.

Francescone, della provincia di Caserta e Topino, di non so più dove,
vennero incaricati di «accomodare la faccenda.» E costoro, senza giri
fraseologici, proposero ai due «sospetti» il dilemma: o di smettere di
fare il «mozzo»--occupazione che dava loro modo di fare la spia--o di
prepararsi a morire.

I due mozzi che si credevano protetti dal personale del bagno, non
vollero credere alla sentenza e tirarono innanzi a fare il loro
mestiere. La cosa non andò per le lunghe. I due sanguinarii, con un
pezzo di cerchio di mastello, si erano preparati due ferri
affilatissimi. Il giorno in cui, nel cortile di passeggio, capitarono
loro tra i piedi, non esitarono un attimo. Piombarono sulle «spie» a
guisa di due «leoni». Una di esse cadde in terra come un sacco di
cenci. Era morta. L'altra, ferita mortalmente, si contorceva e
boccheggiava nel proprio sangue.

Il Francescone credo che sia ancora nel bagno Dalghera di Finalborgo,
col numero di matricola 2031.

L'influenza del sangue, tra i criminali, la trovate pure nei «delitti
di camerata». I delitti di camerata si limitano a tre: amori
turpi--scoppi di odio personale--e vendette covate a lungo.

I primi possono infiammare o eccitare i galeotti fino
all'omicidio--l'odio personale può erompere con una morsicata che
mangi via il naso o strappi fuori un orecchio o lasci un guazzo
sanguinoso nel collo--e la vendetta--specialmente tra i delinquenti
del Mezzogiorno, quali erano quelli di Finalborgo--si compie quasi
sempre con lo «sfiguramento». Vale a dire facendovi uno sberleffo che
vi renda orribili tutta la vita, come la celebre fioraia milanese
scomparsa dalla scena col viso illustrato dal rasoio di un malnato.

Nel bagno di Castellaccio, per esempio--diceva il mio informatore che
aveva passata la gioventù in parecchi bagni--le «tagliatine di faccia»
erano avvenimenti quotidiani.

Mi pregava però di credere che coloro che si «abbandonavano a questi
brutti scherzi» erano tutti «avanzi di galera».

--E voi credete che queste esplosioni di collera malvagia elevino gli
autori di qualche gradino sugli altri?

--Senza dubbio. Sarà qualche volta anche per paura. Ma è certo che
questi misfatti, se non hanno, s'intende, la disapprovazione della
maggioranza e dei cosidetti capi di società, costituiscono, più che un
merito, una prodezza che dà dell'influenza in mezzo ai compagni.

«Ve ne posso dare la prova, rimanendo qui dove siamo. Voi sapete che
in questo reclusorio, due anni sono, la moltitudine dei condannati era
composta di napoletani e di siciliani. Per una ragione o per l'altra
erano nati, tra loro, odii implacabili. Una popolazione aveva giurato
di estinguere l'altra. Mancavano loro le armi. Ma c'era un fabbro. E
questo fabbro calabrese, che li armò tutti di uno spuntone micidiale,
entrò nella testa dei galeotti come un dio. Non c'era più che lui. Lo
si venerava e coloro che potevano gli baciavano la mano con la quale
aveva fabbricato gli strumenti da sventrarsi l'un l'altro.

--Avvenne poi lo scontro?

--Sono stati armati sette mesi, aspettando tutti i giorni un'occhiata,
o un gesto, o una parola per rovesciarsi, napoletani contro siciliani.
Ma i capi di società che avevano dato ordine di guardarsi bene dal
provocare qualcuno della parte nemica, evitarono il disastro di un
conflitto inaudito rimandandolo di settimana in settimana. Io ne
rabbrividisco ancora.

«Il Natale del 96 dissipò ogni malinteso. I capi si rappattumarono, e
i siciliani e i napoletani si abbracciarono per organizzare il fuori!
fuori!

--So che c'è qui anche il Frezza, l'assassino di Raffaele Sonzogno, il
direttore della _Capitale_ di Roma.

--C'era. È partito, qualche giorno prima del vostro arrivo, per il
bagno, credo, di Civitavecchia.

--Che tipo era?

--Un tipo ignorante. In ventisei o ventisette anni di galera, è
rimasto l'imbecille del processo. La sua mania era di credersi un
personaggio politico--un uomo che aveva «fatto il colpo» per ordine di
Garibaldi.

«Mentre tutti noi, che disprezziamo il sicario, gli dicevamo che non
era che un vile accoltellatore che ammazza per una somma qualunque.
Qualche volta si sentiva umiliato e qualche volta scattava con una
caterva di improperii!

--Diceva mai nulla di Luciani?

--Ch'era contento di sapere che portava la catena come lui. Quando era
abbattuto e si sentiva stufo di questa vita che non gli dava mai un
barlume di speranza, lo chiamava la sua «disgrazia». Senza l'amico del
Paino dell'Olmo, egli diceva che non sarebbe mai andato all'ergastolo.



__Callegari Sante.__


Il Callegari Sante, uno studente di scultura, di diciassette anni, che
fece parte del cosidetto «processo dei giornalisti», si è trovato nel
vagone cellulare che lo conduceva a scontare i suoi diciotto mesi di
casa di correzione, con il Frezza. «La nostra prima tappa, mi disse
questo minorenne, doveva essere Bologna. I miei compagni di viaggio
erano quasi tutti condannati per reati comuni. Nelle celle del vagone
mi parevano tante bestie. Parecchi di loro erano usciti dal reclusorio
di Finalborgo ed erano sulla strada dei penitenziarii sparsi per
l'Italia meridionale. Vicino alla mia cella era un certo Frezza, del
quale non avevo mai sentito il nome--nome che ignorerei forse ancora,
s'egli non mi si fosse rivelato per l'uccisore del povero Sonzogno.
Quantunque separato, sentivo un bisogno prepotente di scappare lontano
da questo ributtante assassino. Ma ero legato come un salame e nessuno
dei carabinieri mi avrebbe cambiato cella. Durante il viaggio non fece
che parlare. Quanto più si andava innanzi, tanto più mi diventava
interessante.

--Non credi ch'egli abbia voluto personeggiare il Frezza? Perchè avevo
sentito dire o letto in qualche giornale che era morto.

--Può darsi anche questo, ma non credo. Per quale ragione mi avrebbe
infinocchiato, se io non lo conoscevo e se fra qualche ora ci saremmo
separati per non vederci più mai?

--Continua.

--A suo modo mi svolse il dramma, persistendo a ribadire il chiodo che
il suo delitto era politico.

«Prima di arrivare a Pesaro, ove dovevamo fare tappa, perchè
viaggiavamo tutti per «corrispondenza», il Frezza mi si era palesato
per un individuo d'animo piuttosto mite. Le dirò un fatto il quale
prova che è in lui un fondaccio morale. Dall'altra parte della sua
cella era una ragazza condannata per i tumulti nei dintorni di
Bologna. Io non potevo vederla. Era ciarliera e un po' licenziosa.
Diceva parole poco convenienti alla età sua. Il Frezza le fece una
predica. Pareva un padre che desse una lavata di capo alla propria
figlia!

«Tra il vagone cellulare e la carcere di sosta, mi trovai accoppiato
con questo sciagurato. È piuttosto alto che basso, è snello ed ha un
non so che sulla grinta che pare della malizia diffusa sulla faccia di
tutti i galeotti.

«Mi raccontava che aveva lasciato il bagno penale di Finalborgo e che
la sua nuova destinazione era Barletta.

«--Questo, mi disse, è il mio dodicesimo trasloco in trent'anni di
bagno!

«Lungo il viaggio mi offerse continuamente del suo pane e del suo
salame.

--Quanto tempo impiegasti da Milano a Urbino?

--Sette giorni per un viaggio di dodici ore! A Urbino entrai nella R.
Casa di correzione--un grande edificio che pare un palazzo, situato
nella parte più alta della città--e, tutto sommato, non mi trovai
male. Ero il numero 362. Quando me lo cucirono al camiciotto mi parve
di sentire l'ago entrare nel mio cuore. Che impressione diventare un
numero! Questo stabilimento--come lo chiamano la direzione e gli
inquilini--ha parecchie officine, quattro dormitorii, in ciascuno dei
quali dormono trentaquattro corrigendi, e due vasti cortili per il
passeggio. Ci mandavano a dormire alle sette e ci facevano alzare alle
sette. Era la cosa più noiosa della casa di correzione. Dodici ore di
letto duro come il macigno, quando si è giovani, sono troppe. Prima
della campana io stavo là supino, ad occhi aperti, colle gambe
impazienti di sdrucciolare dal letto.

--Non vi si facevan fare gli esercizi militari?

--Sì, tre volte la settimana.

«I miei compagni erano tutti minorenni e tutt'altro che simpatici.

«Mi consideravano, per le mie idee, un ladro. Dicevano che volevo la
roba degli altri. Erano sboccaccioni che mi facevano schifo. Sono
esseri degradati, depravati, rotti a tutti i vizi. Mi accapigliai con
uno di loro che mi insultava e andai in cella di rigore, dove mi si
indossò la camicia di forza per alcune ore. Al mio avversario la
lasciarono per alcuni giorni.

«Del direttore posso dire tutto il bene. Egli mi procurò i mezzi di
stare in esercizio, facendomi lavorare come scultore in legno. Riuscii
a fare il busto di Raffaello ed altri lavori lodati dal «capo
officina» e dallo stesso direttore. Il capo officina, prima che me ne
andassi, volle baciarmi. Tenendomi tra le sue braccia continuava a
dirmi di non dimenticarlo e di dire a mia madre che nella casa dei
corrigendi avevo trovato «una brava persona, onesta e degna del mio
affetto!»

«Il nostro vitto era come quello, probabilmente, delle altre carceri.
Una pagnotta nera e una minestra che aveva tutti i sapori, all'infuori
di quello della nostra minestra. Il Natale lo passammo maledettamente
male. Ci aggiunsero al solito vitto un boccone di carne che non
m'invogliava ad averne dell'altra, e un quarto di litro di vino che mi
bruciava la gola.»



__Studio galeottesco.__


L'uguaglianza di trattamento non impediva ai forzati di avere una
grande simpatia per gli inquilini della quinta camerata e di
manifestarla tutte le volte che capitava loro l'occasione. Alla
mattina e alla sera, per esempio, venti o trenta forzati addetti ai
lavori del reclusorio passeggiavano nel cortile sotto le nostre
finestre. Il tintinnìo delle loro catene ci chiamava al davanzale,
cogli occhi tra il cassone e la ferriata. E loro, passeggiando, con
dei cenni rapidi, con degli inchini che nessuno, all'infuori di noi,
poteva avvertire, con dei palpeggiamenti di berretta che parevan
grattamenti di capo, con dei rovesci d'occhi che mi andavano al cuore,
o dei movimenti di labbra che sfuggivano alla sorveglianza, ci
salutavano, ci davano il buon giorno e la buona sera, ci infondevano
coraggio e ci traducevano la loro impotenza a fare qualche cosa per
noi.

La loro passeggiata era per me uno studio. Notavo il loro modo di
andare in su e in giù e chiamavo Romussi e don Davide Albertario a
constatare che il loro passo rivelava il galeotto. Dimostravo loro
come un Jean Valjean avrebbe potuto essere scoperto dal segugio di
polizia anche vent'anni dopo, vestito con eleganza, in una sala
immensa affollata di signori che la percorressero conversando.

Si vedeva che il piede, il quale aveva l'anellone della catena appesa
al fianco o attorcigliata intorno la caviglia, indugiava uno zinzino
più dell'altro a muoversi, e sfiorava assai più il suolo del sinistro,
come se l'uno dei due fosse carico di piombo. Aggiungevo un'altra
osservazione sui passi. Nei passi è l'uomo che è stato in branca, cioè
incatenato con un altro per degli anni e costretto a esercitare le
gambe in uno spazio di pochi metri. Contraggono un'abitudine
indimenticabile. Adesso che sono disgiunti e che è a loro disposizione
un terreno venti volte più lungo e più largo della cella, consumano
l'ora di passeggio come prima, gomito contro gomito, con un movimento
di tre o quattro passi avanti e indietro, voltandosi come quando erano
appaiati, cioè senza urtarsi e senza spostarsi.

I tipi di forzati, che abbiamo conosciuto più da vicino e che possiamo
presentare al pubblico come nostri amici, erano i «mozzi» o coloro che
adempivano alle funzioni domestiche. Il 129 era il latrinaio--un
galeotto che riassumeva il suo delitto come un grande artista. Si
passava la mano sulla fronte e lo paragonava a «un temporale», a «una
notte buia», a «una tempesta». Fu l'uragano dei sensi che gli fece
recidere la gola alla padrona ch'egli serviva come cocchiere a
Ferrara. Egli la voleva o viva o morta. E se la baciò durante il
«temporale» tepida ancora di vita, con gli occhi spalancati che pareva
una strega. Egli è ormai tranquillo e non pensa più, come gli altri, a
rientrare nel mondo dal quale venne scacciato. Per lui, «stare qui o
altrove, è lo stesso. In qualche luogo, mi diceva, bisogna stare».

Veduto da vicino, con gli occhi nelle buche della sua faccia massiccia
e larga, si prova la repulsione di chi si sente a tu per tu con un
sanguinario. Dalle sue linee facciali sbuca il violento, ghiotto
dell'altro sesso. Ha delle occhiate diaboliche, lambite dalle
rughettine che infittiscono e si gonfiano quando spalanca la bocca per
la risata che pare uno scroscio. Le sue mandibole voluminose
completano l'orrore con la zucca enorme, calva alla superficie,
leggermente schiacciata alle pareti.

Intorno alle sue labbra carnose, è diffuso il cinismo che si prolunga
fino alla radice del naso, dove incomincia una fronte spaziosa,
fuggente, giallognola, la quale si increspa ogni volta che parla. Ha
le gambe arcuate e ha sempre fame. Tutte le volte che veniva nella
nostra camerata gli davamo parecchie pagnotte.

Veduto da lontano, immobile, nel sole, con le mani sulle reni e le
pupille velate o addormentate nel fondo cristallino, ha l'aria di un
uomo impagliato.

Un altro tipo curioso sotto parecchi aspetti, era l'infermiere che
veniva nella nostra camerata nei pomeriggi della caldura a inaffiarla
di acido antisettico per tentare di salvarci dalle mosche inique e
dalle cimici implacabili. È un forzato di cuore, che si trova in
galera per avere creduto nella fedeltà della sua donna. È piccolo,
tozzo, giallastro, con una fronte bassa, rugosa e senza fughe, con
delle pupille che stanno spegnendosi nelle occhiaie fonde, con un naso
camuso, delle guance che incominciano a piegarsi e a incresparsi come
cortine vecchie e una bocca che spalanca una voragine di fuoco pallido
e lascia vedere le gengive quasi sguernite.

Non ci fu ammalato che non mi abbia parlato con entusiasmo di questa
perla di condannato che nessun direttore o capo guardia è mai riuscito
a punire in ventisette anni di carriera dolorosa. Me lo si
raccomandava dicendomi che in infermeria, senza di lui, si poteva
morire.

Egli è una suora di carità, un fratello che va dovunque si soffre.
Accorre al letto degli infermi con sollecitudine materna, si alza di
notte se qualcuno si sente male, e, con quel poco che il medico mette
a sua disposizione, cerca di lenire i dolori altrui. Avete la schiena
tormentata dai reumatismi? È la sua mano che viene a battervela, a
spalmarvela di una goccia d'olio come un allievo del professor
Panzeri, o a pennelleggiarvela magari con della tintura di iodio, se
ne ha nell'armadio e se il medico lo ha ordinato. Avete un dente che
vi strazia? Eccolo pronto con la tenaglia. Non è un cavadenti di
professione, ma ha la praticaccia del frate che sdenta il pubblico
senza passare gli esami.

Per provare la bontà del 193, non ho da citare che tre testimoni che
non lo dimenticheranno facilmente. Gaspare Giucchetto, minorenne,
Giovanni Vedani, di 32 anni, e Angelo Vanoni di Luino, come il Vedani,
e padre di tanti figli.

Il primo aveva ricevuto una palla al petto con lesione, pare, al
polmone; il secondo era stato colpito allo stinco, e il terzo aveva lo
stomaco perforato da due proiettili--uno dei quali gli è rimasto nel
corpo. Io li ho veduti in infermeria, subito dopo il loro arrivo.

Erano giunti a Finalborgo in una condizione da commuovere le pietre.
Straziati dai dolori, con le ferite ancora aperte e col Vedani che non
poteva e non può, credo, neppure oggi,¹ stare in piedi, perchè la
ferita continua a produrre materia purulenta. In una infermeria, dove
non ci sono che dei letti, una cassetta di polverine, un vasetto di
tintura di iodio e della liquirizia per i catarri stomacali e le tossi
che non lasciano dormire, anche un infermiere come il 193 non può fare
molto. Ma li curava da cristiano, lavando, fasciando loro le ferite,
aiutandoli a mangiare, curvandosi a ogni minuto per spostare la gamba
al Vedani, la testa al Giucchetto e le spalle al Vanoni, il quale
Vanoni era diventato tetro, perseguitato dal pensiero che il suo
polmone fosse stato toccato dal proiettile. Mi diceva che «si sentiva
il polmone in sussulto».

    ¹ Questo capitolo fu scritto prima del secondo indulto.

Il Gaspare Giucchetto portava il numero di matricola 2749; il Giovanni
Vedani il 2731, e l'Angelo Vanoni il 2747.

Don Davide Albertario non è stato in infermeria che quattro o cinque
giorni a trangugiare due o tre drastici per liberarsi da una tenia che
noi chiamavamo, per ridere, un «serpente boa».

Il direttore dell'_Osservatore Cattolico_ ritornò nella quinta
camerata pieno di entusiasmo per il 193 che lo aveva curato come una
madre. Gli stava alle calcagna quando era in piedi, gli andava intorno
quando era nell'altra stanza a scrivere e sedeva di notte, per delle
ore, vicino al suo letto, a vegliare i suoi movimenti.

Il 193 è vecchio, e nelle mani della giustizia dal 25 luglio 1873 e la
sua condotta è sempre stata irreprensibile. Se io fossi nel ministro
di grazia e giustizia direi: basta! E lo lascerei andare al suo paese
di Ariano di Puglia, a morire in santa pace, sotto gli occhi di sua
sorella, che gli vuol bene, tanto bene.

Il nostro barbiere era un altro omicida, condannato a trent'anni. Nel
reclusorio sembrava mite, gentile, afflitto soltanto di trovarsi in
mezzo a tanta zavorra umana. Era pallido, emaciato, colle sfumature,
intorno gli occhi, degli individui che portano nei polmoni i bacilli
della morte. I suoi colpettini di tosse mi davano la sensazione penosa
di essere accanto a un moribondo. La sua faccia era repulsiva per la
carne scrofolosa gualcita dal coltello anatomico, per le contrazioni
che gli avevano lasciato il segno sulle guance scarne e sulle palpebre
rosse e senza peli.

Ci considerava uomini superiori e ci radeva con una delicatezza
femminile, raccontandoci sovente il suo amore sventurato.

A diciannove anni si era ammogliato con una giovane che ne aveva
diciotto. Dopo la cerimonia nuziale la sposa gli raccontò che un
altro--un «civile»--l'aveva delibata a tredici. Fu una notte
burrascosa quella della sua confessione. La poveretta gli buttava le
braccia al collo piangendo dirottamente e gli domandava perdono. La
colpa non era stata sua. A tredici anni non si ha la testa e una
ragazza si lascia saccheggiare della verginità come un viandante dai
malandrini. Lui la consolò con una sfuriata di baci, impromettendosi
di obbligare il «civile» a farle la dote. Chi rompe paga, era la sua
morale. All'indomani andò a trovare il «ganzo» e a dirgli come stavano
le cose. Il «civile» promise di pagare. Ma i denari non venivano mai.
Allora ritornò a ripicchiare allo stesso uscio e a esigere la
promessa. Il «civile» gli rise in faccia.

--Adesso che l'hai, tientila!

Gli «calò una benda sugli occhi» e lo uccise come un dissoluto
malvagio.

--Il mio dolore massimo è di essere stato creduto capace di
premeditare il delitto.

«Ero andato da lui per riscuotere, non per ammazzarlo. Il mio fu un
impeto di passione. Lo dissi al presidente del mio processo.

Ora ne era pentito. Non potendo andare dalla famiglia, come fra
Cristoforo, a domandarle perdono, le mandò una lettera bagnata delle
sue lagrime.

--La famiglia mi ha perdonato, il parroco del mio paese lo ha fatto
sapere a tutti dal pulpito, ma il governo tace ancora. Ah, è duro il
governo coi poveri condannati! Una volta che siamo pentiti dovrebbe
permetterci di riabilitarci. Invece ci lascia morire in galera o ci
manda fuori quando non siamo più che dei carcami da ricoveri.

«Porto la catena e la giacca rossa da diciannove anni e morirò forse
in galera. Sia fatta la volontà di Dio! Ma mi dispiace, credano, di
non rivedere più il mio paese!

E il dolore gli fece sputare del catarro sanguinoso.

Il sei settembre, il giorno in cui ci rase i baffi, era commosso come
un minorenne perduto nel buco di una cella di rigore. Egli sapeva che
cosa volevano dire questi crepacuori. Nei baffi era l'uomo. Radendoli,
radeva il cittadino e non lasciava dietro il rasoio che un numero di
matricola.

Eravamo in sette e l'operazione durò più di un'ora. Andammo uno dietro
l'altro dal barbitonsore, senza dirci una parola. Ciascuno di noi
sembrava compreso del sacrificio, tranne forse Gustavo Chiesi, il
quale conservò sempre l'attitudine dello stoico. Sotto il rasoio a più
d'uno di noi si riempirono gli occhi. Federici e don Davide furono del
numero. Non si aveva paura, nessuno pensava alla paura, ma l'emozione,
più forte di tutti, rompeva la diga.

Mentre mi si radeva, con la guardia carceraria seduta in faccia, mi
venivano le lagrime in bocca come a un bimbo sculacciato!

--Coraggio! diceva a ciascuno di noi il barbiere. I baffi e la barba
ricresceranno più vigorosi di prima.

--E voi, don Davide, gli domandai qualche giorno dopo, perchè avete
pianto, se non avete mai avuto baffi e se vi facevate radere il labbro
superiore anche prima?

--Perchè mi si infliggeva una punizione infamante. Perchè mi si
riduceva il 2557.

Dall'emozione profonda passammo all'ilarità clamorosa. A mano a mano
che uno di noi rientrava nel camerone con la faccia galeottizzata, si
scoppiava in una risata sonora. Sembravamo dei mostri. Salve le
proporzioni individuali e la voce, potevamo benissimo scambiarci per
dei galeotti sconosciuti.

Il solo che non avesse alterato la figura era il sacerdote. Gli altri
pareva che fossero stati in un'altra stanza a truccarsi o a cambiarsi
la testa.

Gustavo Chiesi, grasso e grosso, aveva del frate Melitone. Il buon
Suzzani--che si chiamava, con compiacenza, «compagno di Carlo
Marx»--aveva assunta l'aria d'un abatino pieno di modestia. Costantino
Lazzari era uscito dalle mani del parrucchiere una edizione
peggiorata. L'avvocato Federici si era trasformato in un santocchione
che sginocchia pelle chiese. Ghiglione era ritornato in mezzo a noi
come un uccello di rapina. Il suo naso lungo si era prolungato e la
punta appariva più adunca di prima. I peli scomparsi dalla guancia
sinistra gli avevano lasciato all'aria una prominenza che gli
delinquentizzava la faccia.

Il nostro barbiere è nato sotto una cattiva stella. Egli ci sbarbava
direi quasi con orgoglio. Considerava il sabato il più bel giorno
della sua vita, perchè poteva scambiare qualche parola con noi. Ma
venne il giorno triste della partenza. Il direttore lo aveva destinato
per il reclusorio di Finalmarina. Trovò modo di venirci a salutare.
Strinse la mano a ciascuno di noi con la voce che tremava. Addio, si
ricordino di me, del povero barbiere pentito del suo fallo. E lo
sentimmo che si allontanava col singhiozzo che egli tentava di
soffocare nel fazzoletto a quadrettoni.



__Il condannato in traduzione.__


Il mio viaggio da Finalborgo a Milano, per subire un altro processo,
mi ha dato modo di studiare una delle pagine più dolorose della
vitaccia del bestiame che passa da una galera all'altra.

Ricordo tutto, come se fosse adesso. Era il 27 luglio, una giornata
afosa. Io e alcuni abitanti della quinta camerata stavamo con la
gamella capovolta, sul mastello dell'acqua sporca, per lasciar colare
la pasta dalla brodaglia maculata di scandellature.

Entrò il sottocapo Osmiani a scompigliarci. Era l'uomo più serio del
personale di custodia. Non sciupava parole. Ci chiamava guardando in
terra e tenendo l'indice della sinistra in alto.

--2559!

--Presente!

Ero già pronto. Mi lasciai baciare teneramente dagli amici, presi il
fagotto sotto il braccio e uscii con la gola rasa di commozione. Per
evitare il disastro di una gita galeottesca avevo fatto di tutto.
Avevo detto al direttore che soffrivo e che non ero in grado di
rimettermi in un vagone cellulare. Ma non ci fu verso. Il medico, dopo
avermi palpeggiato, come se fossi stato di straccio, mi trovò
sanissimo.

Il mio compagno di viaggio era uno della «rivoluzione». Egli era stato
côlto in piazza di Luino durante i tumulti e condannato dal tribunale
militare a sei anni di reclusione.

--Vi rincresce?

--Sì, perchè sono innocente e perchè ero l'aiuto dei miei genitori.

Facemmo la strada a piedi. I veicoli ci empivano gli occhi e la bocca
di polverone bianco e la gente voltava via la faccia inorridita. Un
nugolo di studentesse sull'omnibus a giardiniera ci fece venire le
vampe della vergogna alla faccia.

--Come sono brutti!

E non avevano torto. Il più bel giovine d'Italia, che esca da un
reclusorio, spaventa. In pochi mesi il reclusorio te lo rende
irriconoscibile.

Eravamo giunti tre quarti d'ora prima del treno. Ne ero contentissimo.
Era dell'aria fresca guadagnata. I carabinieri, invece di chiuderci
nella stanza di sicurezza, ci lasciarono sul margine del binario della
stazione. Grazie! Ebbi tempo di fumare tre sigarette. In questo
frattempo, vennero alla mia volta alcuni signori a domandarmi se ero
il tale.

--Sissignori, risposi a colui che mi aveva interrogato.

I signori si tolsero il cappello e si curvarono leggermente.

--Scusino, dissi loro, commosso; ma io non li conosco.

--Non importa. Noi sappiamo chi è lei.

Rimasero lungo il binario fino alla partenza del treno, salutandomi
con un'altra scappellata.

Il vagone cellulare del mio secondo viaggio apparteneva al tipo
vecchio. Era composto di venti celle, divise da un piccolo corridoio
longitudinale, con un largo all'entrata per i rappresentanti dell'arma
regia.

Una volta entrati, si è sommersi nella penombra anche col sole allo
zenit, perchè non ci sono finestre alle pareti dei fianchi.

La cella era più angusta e più nauseosa di quella che mi aveva
condotto nel reclusorio. Col sedile di legno e con le pareti
insudiciate di sputacchi e di mucillaggine nasale, mi sentivo in una
cassa da morto in piedi, con un traversino sotto il sedere. Il legno
mi accarezzava dappertutto. I piedi stavano più male. Si trovavano
sopra uno strato molle e viscido e non potevo alzarli. Per quanto
facessi, non riuscivo a tener su le ginocchia sull'uscio. Si respirava
l'atmosfera riscaldata dall'alito dei detenuti. Lo sfiatatoio era il
contrario di un conduttore d'aria. Si crepava dal caldo e i malviventi
imploravano un sorso d'acqua. Non so da dove venivano perchè a tutte
le stazioni se ne caricavano e in alcune se ne scaricavano.

Il brigadiere che aveva in consegna le stie, era un uomo tarchiato con
una faccia da simpaticone. Quando gli si diceva di essere buono e di
provvedere gli assetati di un fiasco d'acqua, andava sulle furie
dicendo che non voleva essere buono. I buoni non facevano carriera e
lui era già sulla lista dei futuri marescialli.

--Consideratemi cattivo e mi troverete buonissimo.

E io, davvero, ero della sua opinione. In fondo alla mia nicchia, lo
consideravo uno di quegli arnesi di sentina che godono a far patire la
gente tribolata, come godevano i carabinieri dell'Andalusia del
1893-94, i quali davano pane e merluzzo ai morenti di sete e nerbate a
coloro che desistevano dal correre intorno la stanza giorno e notte!

Un po' più in là, dovetti ricredermi. Egli non era la iena che
supponevo. A una stazione intorno il collo della riviera di levante,
si era lasciato impietosire da tutte le voci che gli dicevano:

--Sia buono, signor brigadiere!

E mi ha fatto piacere. Perchè è sempre una consolazione sapere che un
uomo rinsavisce o si stanca del piacere di torturare gli impotenti.

Il brigadiere fece discendere il carabiniere a riempire il fiasco e
ordinò che se ne desse una golata a ciascuno.

Per dissetarvi, il carabiniere è obbligato ad aprire la cella con un
catenaccio che cigola dalla ruggine e non scorre che con dei calci, e
a versarvi l'acqua in gola. Se il carabiniere non è gentile, il
liquido gorgoglia, trabocca dalle labbra e va giù a biscia per lo
stomaco. Io avevo sete, ma non ho voluto suggere al cannello comune.
Pensavo alla infezione. Ma ho dovuto pentirmene. Un'ora dopo mi sarei
lasciato inaffiare il gorgozzule anche da un cannello imbrattato dalle
labbra di una generazione!

Lungo il tragitto è avvenuta una delle solite scene stomachevoli di
questi trasporti. Un poveraccio in traduzione si sentiva incalzato da
una urgenza corporale.

--Signor brigadiere, mi faccia smanettare che non ne posso proprio
più.

--Fate silenzio o vi metterò le catene ai piedi!

Sul pavimento della celluccia, sono gli anelli infissi nel pavimento
per incatenare i furiosi o i pericolosi o i prepotenti.

Il galeotto torturato dai dolori di pancia era vicino alla mia cella.
Udivo che si moveva e si lamentava.

Qualche minuto dopo, l'ambiente era pestifero. Il miserabile si era
sgravato come aveva potuto.

Gli inquilini gli diedero dell'animale a braccio di panno e del porco
senza fine, ma lui si difese dicendo che si fa presto a rimproverare
quando non si è nella stessa condizione.

I discorsi che si facevano erano noiosissimi. I condannati non si
occupano che di pane, di reclusori, di regolamenti, di minestra, di
punizioni, di guardie buone e cattive e di direttori con o senza peli
sullo stomaco. Per me, erano però discorsi utilissimi. Perchè mi
rivelavano la vita intima del detenuto. Il mio _vis-à-vis_, per
esempio, raccontava che le giornate di traduzione volevano dire, per
loro, la fame completa.

«Di solito, diceva, ci si fa partire dal carcere alle quattro
antimeridiane con una pagnotta di seicento grammi di pane stantio, e
nessuno pensa più a noi se non all'indomani per darci un'altra
pagnotta e rimetterci in viaggio. Se la si dimenticasse nel vagone o
la si perdesse mentre si va dall'omnibus al vagone, felicenotte.
Bisognerebbe rimanere digiuni fino all'altra distribuzione. Non si
capisce perchè il trasloco da una galera all'altra faccia perdere il
diritto alla minestra.

«La gente onesta che viaggia tutto il giorno, quando arriva, si mette
a tavola e si ristora con dell'acqua fresca sulla faccia e un buon
pranzo inaffiato bene. Noi galeotti arriviamo, ci si registra e ci si
chiude in una stanzaccia con quattro o cinque pagliericci in terra.
Tutta la nostra consolazione è un secchio d'acqua nell'angolo, stato
riempito magari il giorno prima. Quando sono nel penitenziario ho
diritto, coi miei denari, a una spesa di cose mangerecce di
venticinque centesimi. Perchè il viaggio mi fa perdere questo
diritto?»

E il condannato concluse dicendo che le giornate di traduzione sono,
per il ventre del recluso, le più desolanti. Lo si dimentica.

A Genova ci si fece discendere dopo che il treno si era vuotato. Ci
dovevano essere, col nostro, altri vagoni cellulari, perchè la
«catena» si era ingrossata. Potevamo essere una cinquantina, compresa
una reclusa. La donna, che aveva le mani slegate, non era trattenuta
dal giro della catena comune. Ci seguiva. Era una donna brutta,
bassotta, con tanti capelli neri e con le labbra sottili della
sanguinaria. La maggioranza era in borghese, in viaggio per la casa di
espiazione. I reclusi, col loro abito carnevalesco, colorivano la
scena, e i galeotti, col tintinnìo della catena che penzolava loro dal
fianco, la intetravano. Tutti assieme, circondati da un nugolo di
carabinieri, facevamo paura. Sembravamo il rifiuto delle classi
sociali. Una banda di ladri e di assassini stati colti con le mani nel
sangue delle vittime. C'erano grinte che facevano rabbrividire anche
me che vi avevo fatto l'occhio.

Fuori della stazione ci aspettava una folla enorme. Passammo tra i
commenti degli spettatori e filammo, in linea, per tre o quattrocento
passi, fin dove ci aspettavano i veicoli.

Le vetture erano meno crudeli delle carrozze cellulari. Erano omnibus
lunghi, a giardiniera, col tendone che giungeva a filo dell'orlo del
veicolo. Col tendone legato alla sponda, non potevamo vedere,
curvandoci, che i sassi o le pietre della strada e il lucido del mare
conturbato quando lo rasentavamo. Eravamo pigiati, quasi l'uno
sull'altro, ma rinfrescati, di tanto in tanto, da una buffata d'aria
marina.

L'impressione che si subiva era però più spaventevole di quella di
essere chiusi nel carrozzone cellulare. Perchè quando il veicolo
passava sui sassi metteva in rivoluzione le budella e quando sterzava
pareva che stesse per riversarci nella via sottostante o nel mare.

A un certo punto, i cavalli smisero il trotto. La salita era divenuta
faticosa e i vetturali facevano schioccare la frusta. Nessuno dei miei
colleghi aveva mai fatto tappa al carcere giudiziario di Genova e così
nessuno sapeva se era lontano o vicino. Dalla salita, credevamo tutti
che fosse fuori, lontano qualche miglio dalla cinta cittadina. Mentre
si facevano queste supposizioni, sentimmo le voci che fermarono i
cavalli.

La discesa fu più difficile. Uscendo dal buio, col fagotto nella mano
legata con l'altra, e la catena intorno all'ascella tirata da quelli
che precedono e seguono, si mette il piede sul predellino con la paura
di scavigliare o di ruzzolare sul selciato.

Nella luce dei lampioni foschi e delle fiamme libere dei becchi a gas
delle botteghe che sembravano cave, ero come disorientato. Ci volle
uno strappo di catena per convincermi che facevo parte del convoglio
di galera. La via era ripida e tortuosa. Si saliva lentamente e si
passava attraverso ondate di luce sfacciata. La gente del quartiere
non sembrava interessata di una «catena» che indubbiamente
assomigliava alle altre degli altri giorni. Le donne rimanevano sedute
in terra, dinanzi la porta delle loro abitazioni o sul gradino
all'entrata dei loro negozi, e gli uomini, in manica di camicia,
continuavano a pipare e a chiacchierare tra di loro senza degnarci di
un'occhiata. Carichi del fagotto, con la catenella che tirava ora
indietro e ora innanzi, si saliva sudando. Al secondo svolto di via,
incontrammo due portatrici con due pesi enormi sul capo che facevano
tremolare i loro fianchi possenti. Non abituato a vedere le teste
femminili calcate alla superficie da un quintale di roba, mi parve di
passare attraverso un popolo barbaro che delle donne facesse dei
ronzini.

Arrivai in faccia a un portone spalancato e sormontato dallo stemma
del carcere giudiziario, con la lingua che penzolava dai denti come
quella di un cane. Ero digiuno, con la bocca secca. La lingua mi
sembrava un pezzo di carne dalla pelle ruvida in bocca come un
castigo. A sinistra dell'entrata, era un tubetto di ottone che usciva
arcuato dal muro e lasciava cadere una colonnuccia d'acqua. Il rumore
della caduta sulla pietra decompose la catena. Malgrado gli ordini
imperiosi dei carabinieri che avevano fretta di sbarazzarsi di noi per
andare a cena, nessuno volle muoversi prima di essersi saziato di
acqua fresca. Quando venne la mia volta, rimasi disilluso. Per la mia
bocca, era un'acqua di un sapore marcioso. Dopo una risciacquata e una
golata, la buttai in terra come se fosse stato un liquido avvelenato.
Puah!

Lo smanettamento, la consegna delle buste coi denari e la
registrazione dei detenuti durò una buona mezz'ora. I viaggiatori
sembravano stracchi morti. Nessuno diceva una parola. Qualcuno
sbocconcellava la pagnotta e qualche altro rimaneva in piedi. Io fui
l'ultimo, perchè mi ero posto dietro tutti, sulla panca in giro dello
stanzone immenso. Mi si conosceva di nome e questo mi suscitava la
speranza che avrei potuto indurli a farmi comperare qualche vivanda
per la cena. Ma era troppo tardi. Erano quasi le nove. E i detenuti, a
quest'ora, dovevano avere la pancia piena. Se avessero potuto
aiutarmi, lo avrebbero fatto volentieri. La sola cosa, che potevano
fare per me, era di mettermi in una stanza solo e di offrirmi un
bicchiere d'acqua fresca con del limone del loro fiasco. Accettai
tutto con dei grazie e mi lasciai condurre di sopra da un secondino
che mi aperse e mi chiuse in una stanza.

Delle cimici che divoravano il soffitto, annerivano le pareti e
muovevano il pagliericcio, ho già parlato.



__Anna Kuliscioff.__


È una donna nuova. Imbevuta di idee proibite, uscì dalla società dello
czar come una rivoltosa che non ha paura di stroncare i legami che la
legano al mondo pieno di pregiudizi e di ingiustizie. Fortificata
dall'esempio delle nichiliste delle classi superiori del suo tempo, le
quali abbandonavano la casa paterna come le mogli del teatro di Ibsen
abbandonano la casa maritale, Anna Kuliscioff, consumato il periodo
della propaganda pratica per la campagna russa, si avviò verso
l'esilio, con l'anima piena di negazioni, con la fede nell'avvenire,
determinata a compiere la sua evoluzione intellettuale in mezzo alla
gente latina in lotta per la rigenerazione sociale.

La Kuliscioff è stata la prima nichilista che ho conosciuto. Le venni
presentato da Benoit Malon, a Lugano, quando il comunardo scriveva, se
mi ricordo bene, la _Revue Socialiste_, l'organo massimo, in allora,
delle alte intelligenze dell'emigrazione rivoluzionaria.

La Kuliscioff poteva essere intorno ai venti anni. Mi parve una
vergine slava. Con una testa da madonna, con la carnagione bianca
imporporata di salute, con le trecce lunghe, di un biondo luminoso,
per le spalle, mi faceva pensare alle donne graziose dei
preraffaelliti che in quei giorni ammiravo come uno narcotizzato dai
loro colori.

Malon parlava, e io mi perdevo negli occhi della nichilista, inondati
di quella malinconia che va al cuore come una nota soave, al punto da
farmi riprendere da una voce grave--una voce che mi insegnava che un
socialista non deve contemplare una signorina viva come si farebbe con
una figura sulla tela di un pittore illustre.

Seppi dopo molte cose di lei. Della sua agitazione, dei suoi studi,
della sua prigionia, del suo sfratto dall'Italia, dei suoi amori,
della _Rivista Internazionale del Socialismo_ ch'essa pubblicava con
Costa, della nascita della sua Andreina, delle sue tribolazioni, della
sua laurea di dottora, della sua unione con Turati, della sua malattia
crudele, ma non la vidi più che nel '95, cooperatrice e collaboratrice
della _Critica Sociale_.

Nel '78 il mio pensiero si genufletteva alla bellezza. Oggi, esso, si
inchina alla pensatrice.

Migliaia di donne, in mezzo agli uragani della sua esistenza
fortunosa, sarebbero naufragate cento volte. Anna Kuliscioff è sempre
rimasta in faccia alle procelle come una sfida. Dagli avvenimenti che
volevano inghiottirla, usciva sempre più forte, più saggia, più
preparata a sgomberare la società del passato per far largo
all'avvenire.

Neppure la sua malattia implacabile seppe vincerla. Di tanto in tanto
si diffonde, tra gli amici, una notizia funebre. La Kuliscioff sta
male--la Kuliscioff ha poco da vivere--la Kuliscioff è in fine di
vita. E poi non se ne sa più nulla. Non si parla più del suo male
implacabile. La si rivede, con la sigaretta in bocca, al tavolino
dell'amministrazione o della redazione a lavorare come una negra.
Avveniva, su per giù, la stessa cosa con la Harriet Martineau--la
grande giornalista inglese del tempo chartista. Questa collaboratrice
del _Daily News_ era così sicura di essere agli sgoccioli della vita,
che in un momento disperato si mise a scrivere la propria
autobiografia, incominciando dall'ultimo capitolo per paura di non
finirla.

La Martineau ebbe tempo di completarla e di lasciarla negli armadi
dell'editore per venti anni. Per venti anni i suoi amici si
aspettavano, ogni mattina, di leggere nei giornali la fine della
giornalista che ha prodotto più di ogni altro uomo del suo tempo.

Nel '98 è capitato alla Kuliscioff quello che un secolo prima era
capitato a madame Roland. Di vedersi svegliata all'alba dagli agenti
di pubblica sicurezza e di andarsene in prigione nella vestaglia.

Nelle poche parole ch'essa pronunciò dinanzi il Tribunale militare è
tutta la donna che ho presentato. Compendiano il suo cuore, la sua
modestia e il suo carattere. Leggetele, vi troverete la indifferenza
tragica per tutto ciò che riguarda l'imputata--la serenità della
martire che crede, che persiste a credere, che crederà sempre che nel
socialismo sia la rigenerazione sociale.

«La mia azione nel partito socialista era molto limitata e molto
modesta. Se verranno fuori dei fatti a mio carico io ne assumo fin
d'ora la responsabilità. Io sono socialista da quasi 25 anni, ma in
Italia non feci nessuna propaganda, sia per una certa delicatezza
verso un paese presso il quale sono ospitata, sia per la paura di
essere sfrattata. Io sono poi invalida da un anno, e sono obbligata a
rimanere sempre in casa. In questa condizione come volete che io sia
in caso di fare propaganda?»

In letteratura io e la Kuliscioff siamo divisi da un abisso. Ella, se
l'ho capita bene, sente ancora dell'affezione per la vita romanzesca
intessuta dalla fantasia dell'autore e drappeggiata nella fraseologia
che non lascia esalare i cattivi odori dell'ambiente. Io sono più
rude. Spalanco tutte le porte, discendo in qualunque fogna e mi servo
del linguaggio dei personaggi che riproduco. Il mio temperamento mi
trascina ad essere sincero in ogni manifestazione della vita senza
preoccuparmi se farò smettere di leggere o chiudere il libro anche
agli amici che mi vogliono bene.

La ragione di questo nostro dissenso letterario è che in fondo alla
Kuliscioff è rimasto un po' d'idealismo e un po' di misticismo. Ella
dà la preferenza al libro che lascia vivere qualche illusione e che
non svergina o smaga brutalmente chi legge, e crede alla immortalità
dell'anima. Non mi meraviglierei domani di saperla spiritista.

Sul terreno delle questioni economiche essa torreggia. E il futuro
storico del socialismo italiano lascerebbe un gran vuoto nel suo
lavoro s'egli non ci dicesse l'influenza che questa donna ha
esercitato sul movimento di quest'ultimi venti anni.

Nel resto la Kuliscioff è donna capace di grandi amori e di odii
inestinguibili.¹

    ¹ Non conoscevo la lettera che la Kuliscioff scrisse in carcere. Ne
      taglio via due brani, perchè documentano il mio profilo e
      ribadiscono in tutto la convinzione che la dottora congiunge a
      un'alta intelligenza un carattere adamantino.

      «Sentite, caro Prampolini: voi sapete che non sono ipocondriaca,
      che non sono portata all'esagerazione dei miei malanni fisici,
      anzi sono fatalista e piuttosto fiduciosa della mia resistenza.
      Ho tante volte visto vicina la morte e le ho sempre resistito:
      perchè dovrei proprio morire in questi due anni?

      «Ma, dall'altro lato, sono osservatrice e sono medico. Vedo che
      i sintomi dell'idremia si aggravano: temo che il medico, per
      rassicurarmi, non mi dica tutta la verità, asserendo che non vi
      siano alterazioni renali. Caso mai, dunque, che il mio stato si
      aggravasse, lascio a voi, a Leonida la tutela della mia dignità.
      Vi prego a mani giunte di opporvi a qualunque passo che si
      volesse fare per ottenere la mia libertà con una grazia
      personale o con un indulto speciale. Impedite a chicchessia, per
      amor di chicchessia, fosse anche mia figlia, che mi sia fatta
      un'offesa morale. Se dovessi conquistare la libertà a questo
      prezzo, sarei tanto avvilita, tanto diminuita, tanto degradata,
      che nulla mi sarebbe la libertà, l'affetto pei miei cari,
      l'affetto degli amici buoni. Questa, caro Prampolini, è l'unica
      preghiera che rivolgo agli amici, prima che si rinchiuda la
      nostra tomba.»



__Gli ultimi giorni dei deputati e dei giornalisti al Cellulare.__


Turati, De Andreis, Romussi, Federici e Valera si sono riveduti, dopo
tante noie, con dei baci, degli abbracci e delle strette di mano, nel
_cellone_ esagonale B, numero 2, del secondo raggio. Gli ultimi tre
erano giunti dal reclusorio di Finalborgo e i due deputati erano
ancora sbalorditi dai dodici anni di reclusione che aveva inflitto
loro il Tribunale militare.

La loro vita era piuttosto agitata. Si alzavano, alla mattina,
mezz'ora prima dell'alba e ciascheduno nella propria cella, dopo il
caffè, si metteva al lavoro. Turati aveva sempre un mucchio di lettere
da scrivere e un numero infinito di Riviste da leggere; Romussi, il
quale sdrucciolava dal letto sempre di buon umore, era sommerso nelle
opere di Carlo Cattaneo, del quale stava facendo uno studio; De
Andreis, l'uomo che non pensava mai alla condanna, aveva del lavoro
fin sopra i capelli. Leggeva dei poeti inglesi, tedeschi e
francesi---tre lingue ch'egli deve sapere benissimo--studiava o
piuttosto correggeva il suo latino con lo Schultz alla mano e dedicava
parecchie ore a un lavoro di elettricità che deve avere veduto la luce
prima che gli abbiano spalancate le porte del reclusorio di
Alessandria. Federici si nutriva di storia e negli intervalli
rileggeva l'opera massima di Giuseppe Ferrari, del quale è sempre
stato ammiratore fervente. Valera studiava o fingeva di studiare il
tedesco e passava attraverso la _Social England_ di Traill--volumi che
incominciano col Conquistatore e finiscono col regno della regina
Vittoria, e danno una pittura esatta della vita intima e pubblica di
un popolo che non ha più freni nè per la penna del giornale e del
libro nè per la lingua della piattaforma.

Alle otto antimeridiane, si trovavano tutti nel raggio del
passeggio--un raggio angustissimo--si davano il buon giorno, si
dicevano se avevano dormito bene o male--la maggioranza pativa di
insonnia--si comunicavano le notizie portate loro dalle ultime visite
e dalle ultime lettere e poi incominciavano la conversazione, la quale
era sempre interessante anche quando, per ridere, discutevano della
possibilità di una evasione, citando quelle storiche di Napoleone III,
di Rochefort, dei prigionieri politici della monarchia di luglio, di
Krapotkine, di Bakunine, ecc., ecc.

Ritornavano in cella a lavorare per un paio d'ore e poi, alle undici,
ciascheduno usciva con la sedia, col tovagliolo, con la forchetta e
col cucchiaio di legno e andava a far colazione nel _cellone_
turatiano.

La loro colazione alla _forchetta_ era modestissima. Quando non
ordinavano il risotto alla certosina o la polenta col fegato in
comune, Romussi mangiava i tagliatelli al sugo e la costoletta
coll'osso, Turati un piatto di carne e due uova strapazzate, De
Andreis vi aggiungeva un po' di gorgonzola, Federici faceva precedere
al pollo o al fegato la zuppa alla pavese e Valera alternava le uova
al tegame con la pasta al burro, ben cotta.

La discussione si animava bevendo qualche bicchiere di vino buono
delle bottiglie che mandavano gli amici, mangiando dei dolci che
inviavano la mamma di Turati, o la signora di Federici o di Romussi--e
fumando le sigarette che trovavano un po' dappertutto. Qualche volta
capitavano loro, durante la giornata, dei cestelli di frutta fresca,
dei panettoni che obbligavano De Andreis a mettere sul tavolo la
bottiglia di barolo che Turati dimenticava nell'angolo.

Il deputato di Milano non voleva mai bere. Egli diceva che gli astemi
vivono più a lungo e sani come corni. Ma si insisteva e lui beveva,
versandoselo in gola come una medicina che gli faceva stralunare gli
occhi.

Il discorso eterno era la Cassazione che li teneva sugli aghi. Ma
facciano presto!

Mandateci in galera, dicevano, ma fate presto in nome di Dio!

Nessuno si lasciava cullare dalla speranza che magistrati dell'alto
tribunale avrebbero accolto il ricorso. Tuttavia, quando andava Majno
a trovare qualcuno di loro, rinasceva la discussione con un po' di
fede.

--Me l'ha detto lui adesso! Egli si crede, legalmente, in una botte di
ferro.

--Volete che Majno non sappia quello che dice?

De Andreis faceva il suo solito risolino e voltava le pagine del libro
che aveva fra le mani. Per lui, erano chiacchiere inutili. E si
metteva a sviluppare il suo programma di condannato a dodici anni con
una indifferenza che faceva scappare la pazienza a Turati, il quale
non voleva assolutamente diventare un eroe della casa di pena.

Dodici anni sono lunghi, eterni, sono la vita di un uomo! È un errore,
aggiungeva il Turati, credere che si possa lavorare serenamente in
queste condizioni, quando si manca di tutto, quando si deve vivere in
un buco ove si soffoca d'estate e si gela d'inverno, con venticinque
centesimi al giorno!

Romussi metteva sul tappeto la questione del viaggio. Egli, che si
ricordava del vagone cellulare che lo aveva condotto a Finalborgo con
degli scotimenti di testa, vedeva avvicinarsi il giorno della partenza
con orrore.

Gli rincresceva di lasciarsi chiudere in quella specie di cassa da
morto. Ma non avrebbe ceduto. No, non avrebbe ceduto! Se il Governo
voleva disonorarsi, tanto peggio per lui. E andava sotto la finestra a
dare delle puntate di scarpa nel muro.

--No, no, e poi no! non mi lascerò commuovere dalle lagrime di mia
moglie e di mia figlia. Non voglio andare nel vagone a mie spese per
salvare Pelloux dall'infamia di trattare i giornalisti come
delinquenti comuni!

--Ci lasceremo tagliare i baffi e indossare l'abito del recluso?

La Kuliscioff, che Turati vedeva spesso nella stanza dei colloqui
speciali, era determinata a sostenere una battaglia in favore
dell'abito del condannato politico. Essa aveva già detto al
capoguardia che nessuna guardiana avrebbe osato metterle le mani
addosso per farle indossare la veste abbominevole della reclusa.

Federici non ne era molto interessato. Egli diceva che non si
disonoravano i condannati politici indossando la toletta del
condannato comune. Sono quelli che la impongono loro che si
disonorano. La preoccupazione sua era piuttosto se si dovesse lasciare
sola la Kuliscioff a sostenere la lotta per l'abito. Valera ricordava
che anche i deputati irlandesi, ai tempi delle ultime leggi
eccezionali, erano divisi su questa questione. Il più accanito fu
O'Brien--l'ex direttore dell'_United Ireland_, Egli la considerava una
grande battaglia politica e la sostenne non lasciandosi svestire che
dopo lotte disperate tra lui e gli aguzzini di Kilmainham--prigione di
Dublino. Ci vollero otto carcerieri a strappargli la giacca ed il
panciotto. E i calzoni, otto giorni. Egli stette otto giorni in cella,
in camicia, senza coperta e senza pagliericcio d'inverno, a costo di
crepare di freddo e di starnuti.

Ma poi ha dovuto finire per lasciarsi vestire come gli altri.
Mandeville, il quale ha voluto imitarlo, è uscito sconquassato dai
pugni ed è morto. E gli altri deputati--Hooper, Sheehy e Carew--che
non hanno resistito come O'Brien, dopo il pugilato in carcere, non
sono stati più loro. Anche al Parlamento non si son fatti più sentire
che come votanti. L'amico Michele Davitt, che è ora alla Camera dei
Comuni ed è stato alla servitù penale, come feniano, per sette anni,
non dava alcuna importanza agli sforzi di O'Brien. Mi raccontava che
era del tempo sciupato. L'Irlanda aveva altro da fare che occuparsi
dei calzoni di O'Brien!

A mano a mano che si avvicinavano alla decisione della Cassazione, i
colloqui si succedevano ai colloqui in un modo straordinario. Erano
parenti, amici, compagni di lavoro che andavano al Cellulare come in
processione. Pei condannati, era uno strazio. Passavano da un
abbraccio all'altro commossi della commozione altrui. Toccava ai
condannati far coraggio ai visitatori! Il Turati risaliva qualche
volta sfatto.

--È un supplizio. A momenti, mi facevano piangere!

Romussi, più di una volta, entrava nel cellone colle lagrime negli
occhi.

Federici rientrava e si metteva a passeggiare colle mani imbracciate.
De Andreis invece si toglieva la giacca--lui non stava mai che in
maniche di camicia--la metteva con cura sul letto di Turati, accendeva
una sigaretta e ricominciava a mandare a memoria delle declinazioni
latine!

Il giorno in cui si seppe l'esito della Cassazione mangiarono con
maggior appetito senza punto discuterlo. Lo sapevano anche prima. Il
ricorso per loro non era stato che un modo per guadagnar tempo e per
aderire alla volontà dei parenti e degli amici che volevano che si
andasse fino in fondo. Il dolore comune erano le centocinquanta lire!

--Queste sì, disse De Andreis, che sono state sciupate!

--Rubate! dicevo io.

Dopo la parola della Cassazione fu davvero una pena. Nessuno era
riuscito a dir loro il giorno della partenza e ogni sera si separavano
coll'ambascia di non rivedersi più per del tempo.

--Ci manderanno assieme?

Turati aveva una pallida speranza di rimanere al Cellulare con la
compagna della sua vita o di andare a Pallanza, dove la sua buona
mamma avrebbe potuto andarlo a vedere di tanto in tanto senza fare un
lungo viaggio. Romussi aveva paura di ritornare a Finalborgo, un luogo
maledettamente umido, lontano da Milano, ove gli sarebbero ritornati i
dolori artritici. Federici era considerato il fortunato dei fortunati.
Lui aveva già scontato quattro mesi dei dodici che gli avevano
appioppati e lo avrebbero lasciato a Milano, senza dubbio, a far
compagnia al Maffi, il quale era entrato a fare il sesto nel cellone
da pochi giorni. Forse non lo si sarebbe neppure galeottizzato.

--Te fortunato! gli dicevano.

Di giorno in giorno, ne passarono dodici. Dodici giorni di ansie
crudeli. Facevano il pacco alla sera, dopo essersi salutati con un
abbraccio fraterno, e lo sfacevano alla mattina, ricominciando il
lavoro di suggestionarsi l'un l'altro.

L'ultima sera, disperati di non partire mai e determinati a non
pensare più alla partenza, si proposero di mangiare tutti assieme il
pollo alla cacciatora.

--Allora, disse Romussi, vedrete che ci manderanno via. Il pollo alla
cacciatora è sempre stato l'ordine di partenza. In Castello abbiamo
ordinato il pollo alla cacciatora e ci hanno fatto partire prima di
mangiarlo. Lo abbiamo comandato a Finalborgo e ci hanno rinviati a
Milano.

Alle due e mezzo della notte del 4 settembre il capoguardia andò nelle
celle dei condannati politici a dir loro di alzarsi in fretta che si
doveva partire.

Alle tre si trovavano nell'ottagono Romussi, De Andreis, Federici e
Valera.

La cella di Turati era illuminata.

Vennero ammanettati e cellularizzati nell'omnibus che li aspettava.

Alla stazione centrale si fecero prima uscire De Andreis e Romussi.

Quando discesero dal predellino della vettura Valera e Federici, gli
altri due erano scomparsi.

Turati lo si fece partire per Pallanza mezz'ora dopo, in un omnibus
piccolo, che lo aspettava nello stesso cortile.

Egli si era portato via il materiale per scrivere un libro sul
socialismo italiano. Ma poi, ricordatosi della sua idea fissa, che in
galera non si scrive, smise l'idea per rimpinzarsi di libri.



__La «colomba» e il linguaggio dei detenuti.__


La «colomba» e il linguaggio dei detenuti non si possono capire bene
che dopo sei mesi di cella in una casa di pena o in un carcere
giudiziario, dove la voce degli inquilini è perseguitata dalle
punizioni che macerano lo stomaco e riducono in una tana sotterranea
come tanti animali.

Una volta che siete passati attraverso questo periodo di segregazione
completa, con le guardie di custodia quasi sempre in agguato per
sorprendervi in flagrante violazione del regolamento, voi entrate nel
periodo di adattamento e incominciate a imparare tutte le astuzie che
vi aiutano a modificare la disciplina antisociale che impera
nell'ambiente dei reclusi.

La preparazione alla vita carceraria, nell'isolamento senza
interruzione, vi ha resi più sensibili.

La caduta di un fazzoletto vi fa trasalire come il chiavone che entri
nella toppa. Ci sono momenti in cui vi pare di poter sentire le
pulsazioni del cuore degli individui che abitano ai fianchi della
vostra abitazione. L'udito vi si raffina in un modo che nessuna zampa
di gatto può avvicinarsi all'uscio a vostra insaputa. A furia di
ascoltare le pedate dell'individuo che vi passeggia sulla testa, siete
in grado di distinguere il suo stato d'animo, di indovinare quando il
suo pensiero è tranquillo o rassegnato o quand'esso è sottosopra o
imperversa per il suo cervello come una tempesta.

Un addio sommesso, uscito da una di quelle buche che chiamano
finestre, vi giunge all'orecchio con tutti i larghi della voce
squillante e sonora. L'alito diventa, per il recluso, un suono. Un
suono dolce, un suono che va giù a remigarvi nell'anima come un
notturno tenero ed elegiaco di Chopin.

Dotati di questa percezione, voi sentite nell'aria la voce di un
sepolto come un'armonia lamentosa uscita da un organo toccato da una
mano raffinata. È lui che chiama in aiuto la vostra «colomba», perchè
ha bisogno di sapere o di comunicarvi una notizia, perchè i crampi del
suo stomaco lo obbligano a cercarvi un tozzo della vostra pagnotta,
perchè ha una voglia matta di accendere la pipa o il sigaro, o perchè
desidera farvi leggere un giornale che gli è riuscito di avere per la
via della via.

La «colomba» è una funicella o un attorcigliamento di stracci, di
striscie di fazzoletti o di camicie, o di liste di lana o di panno
sfilacciate. Tutto è buono, purchè si riesca a mettere assieme una
specie di corda lunga tre piani di Cellulare. Per coloro che sono
condannati in un carcere giudiziario e quindi senza biancheria
propria, la «colomba» diventa un problema che non può sciogliere che
la pazienza o qualche detenuto sotto processo capace di regalarvi il
materiale per farla.

Con la pazienza potete rarefare il tessuto della coperta del letto,
del pagliericcio, dell'asciugamano, del fazzoletto e magari degli
abiti che indossate.

Una volta che siete padroni di una «colomba», voi potete mettervi tra
i prigionieri, diremo così, agiati. Voi possedete un tesoro che vi
permette di comunicare con tutte le finestre della facciata
dell'edificio che vi ospita e delle facciate degli altri raggi
congiunti col vostro.

Mi spiego con un esempio.

Supponete che io occupi una cella al primo piano di un ambiente di
cento finestre. Le finestre sentono dell'aguzzino. Vedute all'esterno,
sembrano grandi buche da lettere incorniciate in un rialzo di granito.
All'interno, spaventano il novizio. Hanno l'inferriata staccata dal
pietrone che si protende in fuori e impedisce di vedere le altre
finestre e di agguantare la funicella che penzolasse dinanzi.

Io ho un solfanello e tutti gli altri miei colleghi della mala vita
vogliono fumare. Il solfanello del buon prigioniero deve sempre essere
di legno. Con uno spillo, del quale un vecchio frequentatore di
carcere deve essere munito, a costo di nasconderselo nella pelle, lo
apro in quattro.

Metto i tre quarti nel ripostiglio più recondito della cella, e mi
servo dell'altro per accendere un po' di lisca ravvolta in un
mucchietto di filacce per impedirgli di divampare. Con poco solfo
sulla capocchia, sarei un cretino se mi dimenticassi dell'esperienza
dei miei colleghi. La quale è che non si deve mai passare allo
sfregamento senza prima avere strofinato ben bene un bottone di
metallo o un chiodo delle scarpe o un legno qualunque.

Sfregando leggermente sulla parte calda o infocata voi potete
scommettere che farete pipare tutti.

I miei amici del Cellulare sono tutti pronti e non aspettano che il
segnale che può essere uno starnuto, o un colpo di tosse, o anche una
battuta di mano.

Accendo il mio virginia, tossisco, metto fuori dalla finestra la
scopetta e aspetto la fune dalla finestra del terzo piano
perpendicolare alla mia. Tutto ciò avviene in un modo rapidissimo.
Alla estremità della «colomba» è un peso o un sasso nel sacchetto o
nel mucchietto di cenci. Lo tiro a me con la scopetta, vi lego il
sacchetto con la lisca che fumacchia internamente adagio adagio, sale,
si ferma alla seconda finestra ove è atteso, riprende la via e
scompare nella cella di colui che mi ha lasciato giù la fune.

Costui se ne serve e poi getta il sacchetto attaccato alla fune sulla
scopetta della cella a fianco.

È questo il movimento più difficile della «colomba». Ma la mano
abituata vi riesce al primo colpo.

Il compagno che l'ha presa ne stacca il sacchetto dalla funicella che
viene ritirata, lo appende alla sua «colomba», se ne serve e lo lascia
cadere dalla prima alla seconda finestra, ove sosta come accenditoio e
riprende la discesa per fermarsi alla terza finestra dove avviene la
stessa operazione di staccarlo da una «colomba» per attaccarlo a
un'altra e gettarlo sullo scopino della finestra a fianco.

Mi sono servito dell'esempio più difficile. Gli esempi facili sono con
le finestre sopra o sotto o a fianco della mia. Se non ci sono le
_piantelle_ (guardie) nel cortile che adocchiano, io sono sicuro, con
la «colomba», di soccorrere e di poter essere soccorso.

Il linguaggio dei detenuti è di una semplicità alfabetica. Lo si
impara in mezzo minuto. Ma non si può servirsene che dopo avere
esercitato i pugni sulla parete per dei mesi.

Le lettere dell'alfabeto del prigioniero sono ventuna e ciascuna di
esse corrisponde a un numero:

  a  b  c  d  e  f  g  h  i  l  m  n  o  p  q  r  s  t  u  v  z.
  1  2  3  4  5  6  7  8  9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21.

Io e un altro siamo in due celle divise da un muro. Non ci conosciamo,
non ci siamo mai visti e forse non ci vedremo mai. Ma l'uno desidera
di sapere chi è l'altro e tutt'e due vogliamo narrarci la storia dei
nostri delitti.

Se io batto undici volte, voi avrete capito che ho battuto una m,
mentre se non do che tre colpi avrò segnato il c.

Sono io che invito il compagno dell'altra cella a fare conoscenza o a
parlare con me.

Incomincio con una sfuriata di pugni che pare traduca dell'allegria.

Egli mi risponde con altrettante battute precipitate che rappresentano
il saluto.

Lo interrogo con due colpi secchi e serrati che vogliono dire: sei
pronto?

Egli mi risponde con due battute l'una dietro l'altra che equivalgono
a «sono pronto, parla».

Supponete ch'io voglia domandargli:

--Chi sei?

Batto prima tre colpi, poi otto, poi nove, poi diciassette, poi
cinque, poi nove. Tra una lettera e l'altra c'è una pausa per dar
tempo al mio compagno di battere due colpi e farmi sapere che ha
capito.

In meno di dieci minuti io, colla rapidità delle battute, posso fargli
sapere chi sono, che cosa ho fatto, quante volte sono stato
condannato, se ho L'amante, se sono ammogliato, quando finirà la mia
sentenza e in che modo uscirò senza finirla.

La conversazione termina sempre con una sfuriata di battute da una
parte e dall'altra, come uno scambio di saluti.

Mi sono spiegato?

Di sera, verso l'ora della campana, le muraglie delle celle diventano
i nostri pianoforti. I nostri pugni sprigionano fughe commosse,
preludii che vanno nel sangue come tessuti di tenerezza, arie, duetti,
finali che si diffondono nella grandiosità dell'ombra, come una
fusione di poesia e di musica.



__Note autobiografiche del deputato Luigi De Andreis.¹__

    ¹ Il deputato De Andreis non poteva farmi piacere maggiore di
      autorizzarmi a pubblicare le sue note, messe assieme al Cellulare
      per il tenente Giglio, suo avvocato militare. Non è che l'uomo
      forte che sappia fotografarsi per il pubblico. In un centinaio di
      righe egli ci ha dato, direi quasi, il romanzo del ragazzo
      povero. Senza enfasi e senza una frase che trascini alla
      commozione, egli ti fa piangere. Ti mette in una stamberga dove è
      tutta una famiglia che muore di fame. Con un periodo ti rivela la
      disuguaglianza tragica tra i bimbi dei ricchi e i bimbi dei
      poveri. Da una parte figli che nascono nella batista, che si
      sviluppano suggendo al seno di nutrici superbe, che crescono
      circondati dalle cure delle bambinaie, tra una carezza e l'altra
      delle mamme, in ambienti principeschi. Dall'altra figli che
      sbucano dall'utero materno e cadono in una bracciata di stracci.
      Le madri straziate dalla miseria non possono dar loro il
      capezzolo che negli intervalli della vita ladra. Svezzati, non
      c'è più per loro che il rifiuto di qualche buona donna, o la
      scodella odiosa dell'asilo. La società è loro matrigna. Li
      punisce non appena, nati. Li condanna alle astinenze, alle
      privazioni, agli orrori della carità cittadina o pubblica.

      De Andreis dalla società monarchica non ebbe che calci. Essa nun
      gli ha dato nulla. Lo ha trattato come e peggio di un mendicante.
      È alla sua tenacia ch'egli deve la sua liberazione. È a sè stesso
      ch'egli deve l'uscita dai rigagnoli dell'esistenza plebea. È con
      uno sforzo supremo che il pitocco è salito all'altezza del
      laureato, alla sommità del legislatore, alla grandiosità del
      popolarizzatore di scienze.

      Egli è autore di due manualetti pratici, pubblicati dalla Società
      Editrice Sonzogno: _Manualetto di Elettricità_ e _I raggi X_.

      Di lui mi ricorderò tutte le volte che sarò sulla piattaforma a
      convincere i cittadini che i figli devono essere del Comune.


Sono nato il 29 dicembre 1857.

Mancato presto il padre, Giuseppe, rimase la sola madre, Gadda
Teodolinda, senza alcun mezzo, con sette figli, di cui il maggiore
aveva poco più di 14 anni. Anche i più grandicelli non avevano nessun
mestiere; perchè poco prima della mia nascita, la mia famiglia era
venuta a Milano da Solbiate Olona, dove mio padre era agente di
campagna.

Non so come non siamo morti tutti di fame! Tutti i miei fratelli buoni
a qualche cosa furono messi a lavoro, senza scuola od altro
insegnamento.

Io e mio fratello Benedetto, nato nel 1855, eravamo troppo piccoli per
poter essere messi a bottega.

Appena in età (credo a quattro o cinque anni) fui accettato all'Asilo
Infantile posto sul corso Garibaldi (ora Laura Mantegazza, dal nome
della fondatrice, madre del senatore Paolo Mantegazza); avevo almeno
la minestra a mezzogiorno, e una vesticciuola; alle scarpe spesso
dovevano pensare i benefattori straordinari; molte volte, dopo la
minestra del mezzogiorno, non c'era più nulla fino al mezzogiorno
dell'indomani, tranne qualche pezzo di pagnotta che mi veniva dato dai
vicini, un po' meno poveri di noi.

Finiti gli anni dell'Asilo infantile, fui ammesso al Conservatorio
della Puerizia, dove pure avevo la minestra e la _blouse_. Un vecchio
dottore dell'Ospedale Maggiore, il dott. Adamoli, mi conobbe come
dottore dei poveri; ebbe pietà della mia miseria e fu meravigliato del
mio amore allo studio; perciò la famiglia ebbe da lui qualche
soccorso. Dovevo restare al Conservatorio tre anni, ma vi rimasi, per
grazia, un quarto, per usufruire del nutrimento. Ne uscii nel 1868.

Il fratello maggiore, Giovanni, era morto nel 1866, a Custoza,
caporale nel 65.° regg. fanteria; mia sorella s'era maritata, ed era
la maggiore; e quindi continuavano le strettezze.

All'uscire dal Conservatorio, avrei dovuto mettermi a lavorare; ma
alcuni benefattori, cui la direttrice vantava il mio amore allo
studio, si occuparono di pagare i libri e le spese di cancelleria,
perchè proseguissi gli studi nelle scuole elementari; così feci la
terza e quarta elementare (ora quarta e quinta) dal 68 al 70.
Guadagnavo qualche soldo facendo i cómpiti a qualche compagno, e
vendendo giornali, specialmente nelle vacanze.

Nel 71, benchè fossi sempre il primo della classe, eravamo ancora al
bivio.--Mio fratello Benedetto, due anni maggiore di me, faceva allora
il 2.° corso tecnico provveduto da un benefattore; lo stesso
benefattore provvide alle spese mie; e così mi iscrissi alla Scuola
tecnica, che seguii, sempre primo, dal 1870 al 1873. Il mio nome è
ancora ricordato alla Scuola tecnica di via Bassano Porrone dai vecchi
professori.

Intanto però aumentavano le esigenze della vita, poichè il
benefattore, tranne qualche soccorso irregolare, non pensava che alla
scuola. Perciò, durante il secondo anno di scuola tecnica, cominciai a
far da ripetitore a giovanetti delle scuole elementari, nelle ore
serali; e durante il terzo anno (e gli anni dell'Istituto Tecnico che
vennero dopo) guadagnai da vivere dando ripetizioni e lezioni,
specialmente di matematica e scienze affini, a studenti delle scuole
tecniche.

Finita la Scuola tecnica, ero destinato ad entrare in uno studio
commerciale, come mio fratello Benedetto, ma il mio successo negli
studii e le insistenze e le preghiere del direttore della Scuola
tecnica, signor Vigo Pellizzari, indussero il benefattore a continuare
le spese, e mi iscrissi all'Istituto Tecnico di Santa Marta (ora Carlo
Cattaneo), sezione Fisico-Matematica. Non pagavo nessuna tassa, perchè
raggiungevo sempre il primo posto; e le ripetizioni, benchè mi
costassero enorme fatica, dovendo tutto il giorno attendere alla
scuola, cominciavano a fruttarmi qualche cosa di più. Specialmente
nelle vacanze, quando accorrevano a me molti _bocciati_, per essere
preparati agli esami di ottobre.

Nel 1877 finii l'Istituto Tecnico, primo tra i licenziati; oramai le
condizioni finanziarie mi imponevano di cessare gli studii per dare
qualche aiuto alla famiglia. Ma poichè ripetutamente si era esposta al
Ministero la necessità di fondare delle borse di studio presso la
Scuola d'applicazione degli Ingegneri, si approfittò dell'occasione
mia speciale, a cui le condizioni famigliari impedivano anche la
possibilità di recarmi a Pavia nel Collegio Ghislieri e, _per la prima
volta e per me personalmente_, fu stabilito un assegno di studio di
600 lire annue dal Ministero d'Istruzione Pubblica.

Così nel 1877 fui iscritto alla Scuola Preparatoria dell'Istituto
Tecnico Superiore di Milano.

Le cinquanta lire mensili non sarebbero bastate, alla mia età (20
anni), se non avessi continuato il lavoro delle lezioni private.
Durante i cinque anni dell'Istituto Tecnico Superiore, in media io
davo alla famiglia 70 lire mensili, pensando per mio conto alle spese
personali e agli abiti.

E notisi che le condizioni per il sussidio erano gravissime; perchè io
dovevo ottenere, _non in media, ma in ogni singola materia_, almeno
9/10: bastava un _otto_, perchè il sussidio potesse cessare. Pure
superai sempre la misura richiesta, anche negli esami di laurea, in
condizioni specialissime di salute e di preoccupazioni famigliari e
personali. Non discesi mai al disotto di 94%, e in un anno arrivai a
98%.

Il tempo per le lezioni mancava, perchè l'orario di scuola era
gravissimo (dalle 8 alle 5½ o alle 6); ma mi aiutavo nelle vacanze,
dando perfino cinque lezioni al giorno di calcolo differenziale e
integrale, di geometria proiettiva e descrittiva e di meccanica
razionale.

Laureato ingegnere nei primi di settembre 1882, agli ultimi dello
stesso mese fui assunto dal professore Colombo come ingegnere
dell'allora Sindacato per l'applicazione dei brevetti Edison: e presso
la Società Edison restai fino ad ora.¹

    ¹ De Andreis non era ancora condannato. Adesso egli ha aperto
      studio per suo conto.



Dall'82 all'84 attesi alla costruzione dell'officina in via S.
Radegonda, come direttore dei lavori, e alla posa in opera delle
fondazioni delle macchine e delle caldaie. Finita la costruzione del
fabbricato, fui uno degli ingegneri addetti all'officina elettrica,
sotto gli ordini del direttore sig. J. William Lieb, e fui incaricato
in modo speciale delle caldaie e delle macchine a vapore, e
accessorii. Nel 1887 fui incaricato degli impianti elettrici nella
città di Milano.--Nel 1888 fui incaricato degli impianti (previo
progetto e preventivo) d'illuminazione elettrica fuori di Milano.
Citerò tra gli impianti, quelli dei teatri S. Carlo di Napoli e Carlo
Felice di Genova, della città di Cuneo, della città di Ferrara, ecc.

In una delle mie brevi fermate a Milano allora (poichè specialmente
Napoli e Cuneo mi tennero occupato per quasi tre anni), mi venne
offerta dalla Società Edison la direzione della Società di
illuminazione elettrica di Venezia, a condizioni vantaggiosissime.
Dovetti, con dispiacere del professore Colombo, ringraziare
dell'offerta, per le condizioni specialmente di famiglia: io non avrei
potuto portare mia madre (da tanti anni abituata al quartiere di P.
Garibaldi, e allora sessantacinquenne), in un nuovo elemento, come
Venezia, senza ch'ella ne soffrisse enormemente; e poichè avevamo da
vivere--benchè umilmente--a Milano, rinunciai alla nuova posizione.

Prima di questo incidente era avvenuta la morte del mio fratello
maggiore, Benedetto.

Mio fratello, già capo contabile della ditta Carlo Erba, in Milano, a
un certo punto credette di poter lavorare per suo conto come
rappresentante in generi coloniali. L'attività sua, l'intelligenza,
l'onestà, già l'avevano avviato sopra una via promettente, ma tutti i
suoi fondi erano impegnati con una casa di Buenos Aires, la quale, per
la crisi di quello Stato, fallì. Qui a Milano d'altra parte, la firma
per l'acquisto delle merci era di mio fratello; e in un mio colloquio
con lui, senza che lo sapesse la mamma, egli mi espose lo stato suo,
ed io mi accordai con lui per pagare _a poco a poco con lui_ i debiti
_non suoi_. In pochi anni pagammo forse diecimila lire. Ma mio
fratello si ammalò di lavoro e di consunzione, e nel 1889 morì dopo
sei mesi di letto. Non trovai che un centinaio di lire, e più che
_tremila lire di debito restante_ ancora dell'antico.

Decisi di pagare io _del mio_ i debiti; e li pagai in poco più di un
anno e mezzo, economizzando sulle trasferte e sul mio stipendio di 250
lire mensili.

Parecchi amici mi consigliarono di denunciare che mio fratello non
aveva lasciato nessuna eredità, e non pagar nulla. Rifiutai, d'accordo
con la mamma, e pagai tutto.

Dopo qualche anno le mie condizioni migliorarono nonostante altre e
continue sventure famigliari.

La Società Edison ebbe sempre maggior fiducia in me, perchè nel 1895
fui nominato direttore dell'officina d'illuminazione elettrica di
Santa Radegonda, allora la prima officina d'Italia.

Non abbandonai la direzione dell'officina (che richiedeva vigilanza
notte e giorno), se non dopo la mia elezione a deputato per Ravenna.
Conclusi allora nuovi impegni colla Società Edison, per riservarmi la
libertà di tempo e di lavoro richiesta dall'ufficio parlamentare.

Intanto però avevo già avviato, appunto per la libertà di tempo e
d'ufficio contrattata, parecchi lavori privati. L'impianto di
Molfetta, nella parte di studio, consulenza e collaudo; l'impianto di
Bisceglie, per consulenza e collaudo; l'impianto di Perugia, per
studio e decisione in unione ai signori ingegneri Zunini e Fera. Ciò
per rispondere all'atto d'accusa che dice ch'io mi sono dato _tutto_
alla politica. Si può anche rispondere che parecchie volte invece fui
chiamato dalla fiducia del Tribunale di Milano ad eseguire perizie
giudiziarie, nonostante il mio carattere politico.



Nel 1874 mi inscrissi al partito repubblicano; nel 1876 cominciai ad
apparire in pubblico come oratore. Nel 1882, quasi durante gli esami
di laurea, ebbe luogo un processo mio in Corte d'assise, ed era, non
so se il decimo o il duodecimo. Fui processato anche dopo, e
ultimamente nel 1896 a Milano e Livorno, sempre per delitti di stampa
e sempre assolto. Non fui mai _incriminato_ o _processato_ per i miei
_discorsi_ attraverso l'Italia, in 24 anni di vita politica.

Nel 1892 mi presentai candidato nel primo Collegio di Milano (Porta
Garibaldi e Porta Nuova); nel 1895 mi ripresentai; fui eletto in
ballottaggio con 155 voti di maggioranza. La Camera ritenne eletto il
mio competitore a primo scrutinio. Nel 1897 caddi a Milano per 60 o 70
voti, ma riuscii a Ravenna per più di 150 voti.

Il mio discorso sulla crisi, per cui entrò nel Ministero Rudinì l'on.
Zanardelli, benchè di gravissima opposizione, ebbe gli elogi di tutti,
anche dell'_Italie_!

Dopo non c'è più nulla, perchè la Camera è sempre stata in riposo, ed
io, anch'io, sono stato messo in riposo, qui al cellulare.¹

    ¹ Mentre era al cellulare è stato a un pelo per essere fucilato.



__Rivelazioni di un ergastolano.__

(Note all'autore).


Voi avete insistito tanto, con tante buone ragioni, che io mi lascio
indurre a prendere la matita. Non so come incominciare. Un uomo, che è
in galera da trentadue anni, deve riuscire per gli altri un ingenuo o
un semplicione. Non ho che una pallida idea della ferrovia. Non ci fui
che da inquisito e da forzato. E, anche come tale, me la ricordo come
un cubicolo di punizione.

Non saprei del telefono se non ne avessi veduto l'apparecchio in
Direzione, e ignorerei completamente la luce elettrica, se da qualche
mese non ne fosse illuminato lo stabilimento. Pensate, sono vent'anni
che non esco da questa casa. Venti anni che faccio le stesse scale,
che percorro gli stessi corridoi, che incontro, si può dire, le stesse
facce, che mangio la stessa pagnotta e la stessa minestra, che
ubbidisco alle stesse voci e che mi alzo e mi corico al suono della
stessa campana. Ho dimenticato la forma delle lettere. Non ne ricevo
più da un secolo. Mia madre è morta e i pochi che mi scrivevano mi
hanno seppellito nella loro memoria. E mi facevano tanto bene le
lettere! Una lettera era un avvenimento che mi commoveva i nervi
cerebrali in un modo straordinario. La tenevo nella mano trepidante e
la leggevo per una settimana, piangendo, ricordando, facendo sogni di
rivedere tutto ciò che avevo perduto, e poi, sazio, la mettevo con le
altre e ricadevo nell'insensibilità di prima.

Il passato non ha più alcuna presa su me. Non vivo più di esso e per
esso come nei primi tempi. Non ho più rimpianti, non ho più
aspirazioni. La mia vita è finita, completamente finita. Lo stesso mio
delitto pare diventato il delitto di un altro. Posso rivedere il
sangue che usciva a fiotti dal collo di mia moglie e riudire le sue
ultime grida senza che si accenda il mio polso o si acceleri la
palpitazione del mio cuore. È come se il sangue non fosse stato
versato dalla mano che scrive. Prima, no. Prima, la tragedia mi
metteva sottosopra.

Non potevo rivedere il cadavere che mi ha galeottizzato, senza
rinfuriare col coltello sulle carni insudiciate dalla concupiscenza
dell'uomo che si ubbriacava tra le sue braccia. Esagitato, come chi
non vede che la colpa dell'altro, giuravo, con la bocca piena di
fiele, che non le avrei mai perdonato. Adesso, non ho più rancori.
Ciascuno di noi ha avuto il suo. Ella è stata ricacciata nell'eternità
in un momento tragico, calda ancora dei baci del suo drudo--io sono
stato condannato alla morte lenta, attraverso i supplizi della casa di
pena. Lui? L'ho lasciato fuggire. Con le mani imbrattate di sangue,
sentivo i suoi passi che correvano verso Serralunga, al di là di un
fosso asciutto, senza punto pensare a rincorrerlo. Sono stato vile.
Dovevo ammazzare anche lui. Anche lui doveva scontare la tresca con la
vita. Non vi pare? Chi s'allaccia alla donna di un altro e fuori della
legge, è un nemico della legge. A che gioverebbe, dite, il matrimonio,
se non proteggesse i coniugi e non li obbligasse ad essersi fedeli a
vicenda? Dovevo sgozzarlo come si sgozzano le galline dopo aver loro
torto il collo, dovevo, allora. È l'unico sentimento di vendetta che
sia rimasto in me più a lungo d'ogni altro. Autore di tutto,
rimpiangevo di non averlo trascinato a partecipare della scena finale.
Adesso? Adesso, potrei sedere sulla stessa panca senza trasalire.
L'amante è come se fosse morto.

Avete ragione di interrompermi. A voi importa poco il mio stato
d'animo. Voi non volete del condannato che i patimenti, ed eccomi a
compiacervi.

Sono della provincia di Avellino e nato nel '48. Facevo il massaro, e
il ganzo di mia moglie adultera era il figlio del padrone. La mia
causa durò più di cinque anni e al terzo processo venni condannato
dalle Assisie di Salerno, come da quelle di Avellino e di Benevento,
all'ergastolo.

La sentenza mi fece l'effetto di una legnata sulla testa. Caddi sul
banco degli accusati come istupidito. I carabinieri mi dovettero
scuotere e trascinare fuori della gabbia. Sono passato, tra la folla
che aspettava di vedermi, con il cervello confuso e gli occhi vitrei.
Erano fissi in terra e non sentivo che le fiamme alle orecchie. Tra un
processo e l'altro, ero obbligato a passare da una prigione all'altra.
Il modo di traduzione, ai miei tempi, era feroce. Ogni prigioniero era
considerato e trattato come un brigante.

Per andare, per esempio, da Ariano, il mio paese, ad Avellino, mi
facevano fare quattro tappe, in quattro paeselli, dove era la caserma
dei carabinieri, con la camera di sicurezza. La stanza di sicurezza
era un luogo di tortura, buia come una cantina e larga come una tana.
Rimanevo perduto nella foscaggine per dieci minuti senza raccapezzarmi
il luogo. C'era, di solito, una finestrucola all'estremità della
parete rasente il soffitto, armata di due bastoni di ferro in croce, e
un tavolato con una secchia in un angolo. Vi si respirava un'aria
malsana. Il supplizio incominciava quando mi si mandava a dormire. Me
ne ricordo ancora con dei brividi. Mi si faceva sdraiare con i polsi
nei ferri, mi si ordinava di mettere le gambe nei cavi di un rialzo ai
piedi del tavolato, il carabiniere vi calava sopra la stanga che
chiamavano ceppo, la chiudeva baciata al rialzo con un grosso
lucchetto e mi lasciava così fino all'indomani. Ogni movimento
equivaleva a un dolore atroce e a una scorticatura che diventava, con
le ore, ardente. Legato e adagiato in questo modo, non avevo, per i
bisogni corporali, che i calzoni.

Non ero ancora condannato e potevo essere innocente e già mi si
sottoponeva a un castigo infernale! Mi alzavo dodici ore dopo con le
ossa rotte e le carni indolenzite. Intorno ai malleoli e ai polsi,
erano le strisce lividastre dei tormenti notturni. Mangiavo il pane
che mi davano. Pane che mi si rompeva sotto i denti come un impasto di
terriccio e ghiaia minuta. Nessuno potrà mai descrivere il pane dei
miei tempi. Quello d'oggi, risovvenendomi dell'altro, mi pare del pane
di lusso. L'acqua del secchio era sempre fetida. Pareva attinta in un
pozzo dall'acqua stagnante; qualche volta sentiva della rigovernatura.
Lamentarsi voleva dire inferocire il personale di custodia. Supino sul
tavolato, non m'immaginavo che m'aspettava qualcosa di peggio.

Nelle carceri di Avellino mi trovavo in una parte dell'edificio
chiamato dei «ferri», perchè non vi mandavano che galeotti o individui
che stavano per diventarlo. Era, tutt'assieme, un corridoio composto
di quattordici o sedici stanzoni, in ciascuno dei quali venivano
chiuse cinque persone. Quando entrai in questo ambiente, c'erano
cinquantotto individui condannati ai lavori forzati a vita, e dodici
alla pena capitale. I condannati a morte facevano pietà. Passavano da
un'ansia all'altra. Ogni mattina, per dei mesi, si aspettavano di
sentirsi dire che il momento di prepararsi era venuto. Io ero
ignorante di legge. Ma dicevo che era una crudeltà senza nome tenere
la gente in questa condizione tanti mesi. Trenta giorni di questo
strazio equivalgono bene all'attimo del cappio che fa vomitare la
vita.

Di questi infelici, ne conobbi, intimamente, due. Ora l'uno e ora
l'altro mi raccontavano la loro paura di morire. Avevano una grande
speranza nella clemenza di Vittorio Emanuele. E io li aiutavo a
nutrirla. I loro nomi erano Alfonso Minetti e Carmine De Vito. Il
primo aveva accoltellato il padrone a morte, e il secondo aveva fatto
a pezzi una donna con la scure. Una mattina che eravamo al passeggio e
parlavamo appunto della grazia sovrana, venne una guardia a chiamare
il De Vito.

--Ti vuole il signor direttore.

Supponevamo che fosse stato chiamato per la comunicazione della
grazia. Ritornò la guardia senza il De Vito a chiamare il Minetti.

--Ti vuole il signor direttore.

Non vidi più nè l'uno nè l'altro. Seppi poi che erano stati condotti
in cappella per la preparazione. Quando c'ero io, i sentenziati a
morire venivano legati alle mani e ai piedi per il resto della loro
esistenza, vale a dire per tre giorni e tre notti. Era una precauzione
che impediva loro di sottrarsi alla condanna con qualche atto
insensato. Si dava loro quello che desideravano da mangiare e da bere,
e venivano, più volte nel giorno, consolati dalla parola affettuosa
del sacerdote. Sono però rari i delinquenti che si abbandonano
all'orgia del ventre in cappella. Alfonso assaggiava appena ciò che
gli portavano e Carmine non beveva che della limonata. L'aurora dell'8
giugno 1875 fu triste. Sentivamo i passi affrettati che andavano e
venivano e i rintocchi che diffondevano il terrore per la carcere.
Tutti quelli della mia camera andarono con me in ginocchio. Pregammo
con fervore fino a giustizia finita. Tutti e due sono andati all'altro
mondo pentiti del loro misfatto.

Nella carcere di Benevento mi trovai con un altro condannato di
ventidue anni, che aveva mozzato il capo alla ragazza che non voleva
più sposarlo. Si chiamava Muscischio. Respinta la rinnovazione del
processo, venne isolato in una stanza, al cui uscio era stata messa
una guardia che non doveva fare altro che tenerlo d'occhio dalla spia.
Rimase dieci giorni tra la vita e la morte. Venne graziato il
venticinque aprile 1876. Ritornato in mezzo a noi, ci raccontò lo
spasimo che aveva subito in quelle notti e in quei giorni. Ci diceva
che il pensiero di morire non gli dava mai requie, e che, anche quando
la prostrazione gli chiudeva gli occhi, il suo sonno veniva conturbato
dal carnefice, del quale gli pareva sempre di sentire la voce. Durante
il giorno non mangiava cinquecento grammi di pane. Lo rivedemmo
spaventevolmente denutrito. Egli era contento della grazia, ma diceva
che in dieci giorni aveva sofferto assai più che se lo avessero
impiccato dieci volte.

Finalmente, venne l'ordine della mia destinazione. Il ministro
dell'interno aveva scelto per me il bagno penale di Genova. Non si sa
ancora perchè il delinquente viene mandato a scontare la pena quasi
sempre agli antipodi dal luogo del delitto. La nostra catena era
composta di otto a vita e di tredici a tempo. Parecchi indossavano il
costume del galeotto e parecchi, come me, l'abito, diremo così,
borghese. Non ricordo il nome della nave. Ma sarà difficile che io
dimentichi il viaggio di mare che mi ha convulsionato tutto
l'organismo e mi ha fatto patire le pene dell'inferno. Il tavolato
della camera di sicurezza, paragonato alla stiva, mi diventava un
letto di bambagia. Con l'odore di catrame, si aspirava un'afa che
sentiva di latrina. Pigiati come eravamo, mi pareva di essere in un
affogatoio. I carabinieri non furono certamente umani.

Ammanettati, ci legarono a due a due al braccio e ci incatenarono
tutti assieme. L'uno non poteva muoversi senza tutti gli altri.
Stivati peggio che i conigli in una conigliera, non vedevamo che le
onde del mare che venivano a frangersi sui vetri dei buchi rotondi.
Qualche volta la nave ballonzolava, piegava come se avesse voluto
rovesciarsi sulle acque agitate e qualche altra saliva rapidamente
alla superficie per affondare di nuovo nei flutti che tentavano di
inghiottirla. Alcuni dei miei compagni si erano già vuotati lo
stomaco, non potendo frenare gli impeti del vomito. Io ne sentivo gli
urti, ma tenevo duro. Parecchi di noi avevano le labbra paonazze e le
orecchie orlate del rosso smorto dei febbricitanti. Dalle
finestrucole, la nave ci dava l'impressione che stesse per sommergere.
Il vento muggiva disperatamente e incalzava i cavalloni che venivano a
schiantarsi sui suoi fianchi come fasci di verghe d'acciaio. Nella
stiva, si moriva. Cedetti e incominciai a recere come tutta la catena.
Senza poterci staccare o avere dei recipienti, ci sbattevamo le
eruzioni gli uni sugli altri, imbrattandoci da far pietà ai sassi. La
notte fu ancora più spaventevole. La nave, violentata da tutte le
parti, pareva in deriva. I venti scatenati le andavano sotto e la
elevavano sui flutti come se avessero voluto scaricarla del suo
carico. La nostra catena incominciava a temere un naufragio. Dovevamo
essere orribili. Seduti o sdraiati nelle chiazze della materia
eruttata, recitavamo tutti dei pater e degli ave domandando perdono a
Dio dei nostri peccati.

In un momento in cui fummo invasi da un terrore indicibile, chiamammo
il brigadiere all'uscio della stiva e lo pregammo di metterci in
condizione di poterci aiutare con le nostre gambe e con le nostre
braccia in caso di disastro. Lo supplicavamo con tutte le parole
carezzevoli a nostra disposizione. Gli dicevamo che eravamo condannati
a scontare una pena in un ergastolo, non a naufragare in blocco,
legati come un sol uomo. Se non ci dava modo di salvarci, il delitto
del brigadiere sarebbe stato un delitto peggiore del nostro.

A mano a mano che parlavamo, il terrore ci era entrato fino nel
midollo spinale. Ciascuno di noi gareggiava di vigliaccheria.
Piangevamo e imploravamo la vita come tanti miliardarii attesi sulla
spiaggia dai parenti straziati dal dubbio. Il bastimento, che aveva
tentato di mantenersi in equilibrio con le àncore, pareva avesse rotto
gli ormeggi e fosse in balìa di una corrente che volesse scavargli
l'abisso.

--Abbia pietà di noi, signor brigadiere,

--Pezzi d'asini! Tacete o vi farò incatenare i piedi agli anelloni del
pavimento! Siamo qui anche noi e per colpa vostra e non diciamo
niente. Se andrete in fondo non sarà un gran male. Io ho degli ordini
e non posso violarli. Fate dunque silenzio e non rompeteci più le
scatole. Siamo intesi.

Rimanemmo intontiti. Non credevamo che ci potesse essere un uomo
capace di dirci, in un momento simile, che se anche fossimo annegati
non sarebbe stato un gran male. Nel cervello di molti di noi è passato
il delitto. Se qualcuno di noi fosse stato libero, il brigadiere non
avrebbe potuto finire la frase. Egli sarebbe stato piegato in due e
cacciato in mare da uno dei portelli del naviglio.

Dopo, al bagno, seppi ch'egli non avrebbe potuto fare altrimenti. Era
la legge che ingiungeva al carabiniere di lasciarci annegare
ammanettati in una prigione durante il naufragio della nave.¹

    ¹ I lettori crederanno che l'ergastolano esageri. Ma io posso
      disilludervi. Quello che avveniva allora avviene anche adesso. Me
      lo diceva pochi giorni sono un brigadiere dei carabinieri che si
      è proprio trovato in piena tempesta con una catena di condannati.

      --Ero incaricato di condurli da Civitavecchia alla Sardegna.
      Partimmo con un mare tranquillo. I forzati erano stati stivati,
      incatenati e chiusi nella stiva. La burrasca incominciò nel mezzo
      del mar Tirreno con tanta furia da obbligare il capitano a
      preparare l'equipaggio a tagliare le corde delle lance di
      salvataggio e a dare a ciascun passeggero il salvagente. I miei
      forzati strepitavano e domandavano con alte grida di essere
      slegati e smanettati. Era una scena da far piangere e, se devo
      dire la verità, provai un'emozione che mi inumidì gli occhi.
      Tentai di pacificarli con buone parole dicendo che il pericolo
      non era così imminente come credevano. Loro mi rispondevano
      buttando su tutto ciò che avevano mangiato. Il mare era così
      grosso che attraversava il ponte, e innondava l'interno in un
      modo così rapido e così frequente da impedire ai marinai di far
      lavorare le pompe. Il moto della macchina a vapore non era più
      regolare. Lo stantuffo non manovrava più bene e il tubo sul ponte
      pareva qualche volta che si piegasse a baciare il mare in lotta
      con sè stesso. Quando vidi che il naufragio era imminente andai
      dal capitano e ottenni il permesso di togliere loro le catene.
      Era tutto quello che si poteva fare in un momento spaventoso come
      quello. Loro, i galeotti, urlavano disperatamente, e mi
      accusavano di non avere cuore perchè non toglievo loro le
      manette. Ma nè io nè il capitano potevamo contentarli. Anche se
      fossimo stati arcisicuri del naufragio la legge non ci avrebbe
      permesso di essere umani. Eravamo obbligati a lasciarli affogare
      ammanettati e chiusi nella stiva. È una legge di ferro, ma legge.

      Non c'è penna che possa narrare che cosa ho sofferto e che cosa
      hanno sofferto i forzati lungo la traversata burrascosa. Io
      credevo di essere diventato grigio. I galeotti uscirono dalla
      stiva lividi e paonazzi come gli annegati. Io non sono
      giornalista, ma se lo fossi non starei quieto fino a quando
      questo assassinio legale fosse cancellato dai regolamenti che
      regolano il trasporto dei forzati per mare. Sono severità penali
      che gridano vendetta.

Siamo stati in mare tre giorni e tre notti. Tre giorni e tre notti di
stiva, in mezzo ai guazzi e alle pozzacce delle porcherie vomitate,
senza lavarci, senza svestirci, senza cavarci le scarpe, con un
mastellone per i bisogni corporali vicino a noi, in mezzo a noi, come
se fosse stato della catena, mangiando di tanto in tanto un boccone di
pane insudiciato e stantio e bevendo nella secchia come il cane che vi
tuffa il muso e ne lambisce il liquido con la lingua!

Sbarcammo più morti che vivi. Ci guardavamo sulle pietre del porto
come gente che non sapeva più in che mondo vivesse. Avevamo le
occhiaie dei naufragati. Eravamo macilenti, con le facce bianche come
quelle dei cadaveri buttati sulla spiaggia e andavamo via come
poveracci che non sapevano più reggersi in piedi. Che viaggio, oh che
viaggio! Me ne ricorderò per tutta la vita. Sarà e rimarrà l'episodio
più spaventevole della mia esistenza di condannato perpetuo.

Arrivai al bagno di Genova più morto che vivo. Ci tolsero le manette e
ci slegarono dalla catena che incatenava il braccio dell'uno al
braccio dell'altro. Le mie mani rimasero giù penzoloni come se fossero
state riempite di piombo. Non le sentivo più che come un enorme peso
che mi trascinava verso terra. I ferri m'avevano lasciato un cerchio
profondo e nerastro nelle carni come se i polsi fossero stati nelle
strette della morsa.

Ero tutto in un'acqua. L'arsura prolungata e il polverone dello
stradale, ci avevano perfino attutita la sete spasmodica che avevamo
in mezzo al solleone. Ma non appena vedemmo i mastelli d'acqua,
divenimmo quasi tutti impazienti di agguantare il boccalino. Ne votai
due, uno dopo l'altro, senza prender fiato. Il terzo non potei
finirlo. Mi parve un'acqua di tinta motosa col sapore dell'acqua
salmastra.

Al bagno di Genova non arrivavano mai meno di due o tre «catene» al
giorno. Era come il bagno che incatenava i galeotti che dovevano poi
disperdersi in altri bagni. Cogli altri giunti, eravamo più di una
cinquantina. Coloro, che non indossavano ancora il costume del
forzato, vennero vestiti alla presenza di tutti e di una moltitudine
di guardie. Ci si buttavano gli abiti, senza badare se erano adatti
per un gigante o per un nano. A me, come ergastolano, diedero la
berretta verde, la cravatta rossa, la giacca rossa, e i calzoni con
strisce turchine. I calzoni avevano la gamba destra divisa coi bottoni
per la catena. Non riuscii a mettermeli che aiutato da un mozzo che vi
aveva fatta l'abitudine. Vestito da galeotto, dovevo avere l'aria di
un diavolo o di un sanguinario. Lo scarlatto mi ricacciava col
pensiero nel sangue di mia moglie.

Ci si condusse in un cortilone che gelò il sangue a tutti. Nel mezzo
c'erano due montagne: una di catenoni e una di grossi anelli che
chiamavano maniglie. A destra di questi ferramenti che sospendevano il
respiro, si vedeva una lunga fucina infocata che sparpagliava una
pioggia di faville e incendiava superbamente i battitori del ferro
rovente. Era una scena terribilmente dantesca. Le incudini erano
parecchie. Su alcune precipitavano le mazze che scrostavano il volume
del ferro ardente che incominciava ad assumere una forma, su altre
irrompevano i magli che massellavano i ferri che avevano già assunta
la forma che volevano dar loro. Quando tuffavano nella pila i ferri
che uscivano dalla fucina come pezzi di lava incandescente, e i mozzi
soffiavano col mantice nel bracere, i lavoratori galeottizzati
rimanevano come perduti in una nube bianca e luminosa. I fabbri, per
completare l'orrore dell'inferno, si levavano sui piedi, portando in
alto la mazza, e colle loro braccia poderose si curvavano
violentemente nel fitto dei barbagli che mettevano della brace sulle
loro facce annerite. I sussulti cupi delle catene dei galeotti che
martellavano il ferro mi passavano dalle viscere come un tremuoto. Io
guardavo. Guardavo con gli occhi smarriti nell'incendio, come dinanzi
a uno spettacolo fantastico.

Furono i mozzi che mi scossero. Era venuta la mia volta. Mi chiamarono
vicino alle due montagne, scelsero un catenone e una maniglia e mi
fecero sedere su uno sgabellotto, vicino all'incudine che si levava un
palmo dal terreno.

--Non fatemi male, dissi loro.

--Non fargli male che è di zuccaro!

E quasi tutti i ferratori--che erano degli altri forzati--scoppiarono
in una risata che mi andò al cuore come un punteruolo.

--Dammi qua la gamba, piagnolone!

Mi misero il piede sull'incudine, mi inanellarono il ferro al disopra
della caviglia e poi coi martelli si misero a battere e a ribadire i
chiodi senza pietà alcuna. Avrei giurato che godevano del mio strazio.
A ogni lamento che voleva frenare le brutalità del martello, mi
rispondevano con parolacce che mi facevano male quanto il peso che mi
avevano attaccato al piede.

--Dammi qui la catena da appendergli all'orologio, disse il ferratore
al mozzo.

E me la ferrarono all'anello con dei colpi spietati che davano loro
piacere.

--Basta, basta, Signore Iddio!

Mi rialzai e prese il mio posto il mio compagno di branca, cioè l'uomo
col quale stavo per essere appaiato chi sa per quanti anni. Ero così
assorbito dalla mia sciagura, che non ebbi uno zinzino di compassione
per il mio futuro fratello di catena. Incatenati l'uno con l'altro, ci
si condusse in un ufficio ove venimmo matricolati, lui col numero
3446, io col numero 3414.

Il mio compagno di catena era certo Stefano Cristini, della provincia
di Roma, condannato a sedici anni di lavori forzati, il quale rideva e
mi dava la baia perchè piangevo di essere carico di catene che potevo
a mala pena tenere su col braccio o con le braccia.

--Se fai così, mi disse, staremo assieme poco. Andrai al cimitero
assai prima che finisca la mia sentenza. Caro mio, il pianto è
debolezza d'animo. L'uomo non deve mai perdersi di coraggio. Io ho già
portato le catene per cinque anni nel bagno di Civitavecchia e non
sono morto. Non ci penso neanche a finire i miei sedici anni. Provati
a dire che non c'è rimedio e vedrai che la vita ti diventerà meno
pesante.

Tre giorni dopo lasciammo il bagno alla Foce con una «catena» di
novantasei persone. L'idea di scappare non poteva venire a nessuno.
Eravamo incatenati come delinquenti che non avessero fatto altro al
mondo che pascersi del sangue della gente macellata con le loro mani.
L'estremità della mia catena a destra era stata attaccata
all'occhiello dell'anellone al piede sinistro dell'altro al mio
fianco. Di modo che il mio piede destro e il piede sinistro del mio
compagno di sventura, dovevano fare passi limitati e avere movimenti
isocroni. Si intende che, oltre a questa precauzione alle gambe, ci
avevano ammanettati fino al gonfiore e passata la catena dall'ascella
dell'uno all'ascella dell'altro, lucchettandocela nella schiena
dell'ultimo in fondo. Coi zigzag ci legarono tutti e novantasei
assieme, lasciandoci appena lo spazio per muoverci e per i passettini.

Il passo rapido dei primi veniva sentito dagli ultimi e le punte delle
scarpe di una fila andavano sul dorso delle scarpe di un'altra.

Da questo bagno al Castellaccio c'erano, su per giù, tre chilometri.
Era una strada malagevole che si ascendeva sudando come bestie, sotto
un sole di giugno che scottava fin negli occhi. Perdevamo la lingua
come i cani. I carabinieri che ci circondavano erano quaranta, tutti a
cavallo, armati fino ai denti. Fumavano e si buttavano da una parte
all'altra le birichinate della sera prima con le donne, senza punto
badare al nostro supplizio. L'assieme era lagrimevole. Ci sarebbe
voluto un fotografo. Perchè la penna, per quanto sia addestrata alle
descrizioni minute e sia padrona di un'officina di vocaboli, non
riesce mai a impadronirsi di tutto e a conservare, cogli atteggiamenti
individuali, i colori del quadro grandioso.

Al Castellaccio ci matricolarono, separando i buoni dai cattivi. Le
coppie che avevano subìte punizioni, venivano mandate nelle stanze a
pian terreno, mentre le altre venivano disperse per i piani superiori.
Il bagno era composto di stanze di sedici persone, con otto
pagliericci da una parte e otto pagliericci dall'altra. Così che non
vi so ancora dire la differenza tra le stanze di sotto e quelle di
sopra.

La prima cosa spiacevole del Castellaccio, fu la distribuzione degli
utensili di cucina. Invece della gamella, mi si diede una cosa di
legno rotonda, coperta di due dita di muffa, e un pezzaccio di
cucchiaio che pareva stato in una cantina umida per degli anni. Me li
lavai e me li rilavai senza mai far loro perdere l'odore nauseoso
contratto in un ambiente dalle pareti viscide. Un mio compaesano che
si trovava nella stanza, prese a proteggermi e a consolarmi. Si
chiamava Francesco Gentile, stato condannato a vita dal tribunale di
guerra, come brigante che non aveva voluto sottomettersi al governo di
Vittorio Emanuele. Egli aveva fatto parte della banda dello Schiavone,
il capo brigante che avrete sentito nominare. Il Gentile era vecchio,
ma di cuore. I suoi primi consigli sono stati la mia guida.

--Rispetta tutti e specialmente i tuoi superiori. Procura di farti
amare dal tuo compagno di branca, anche se fosse il peggiore degli
assassini. Perchè senza vincerlo con la tua benevolenza, la vita ti
diventerebbe odiosa e intollerabile. Fatti animo e non lasciarti mai
adescare a far delle confidenze al personale di custodia, se ti preme
di morire nel tuo letto.

Mi prese a volere così bene che il giorno dopo il mio arrivo mi regalò
un piatto di zinco, una striscia di pelle ovattata per mettermi sotto
la maniglia che mi spellava e mi piagava la noce del piede, e un
panciotto di flanella bianca per salvarmi il petto dai clima
traditore. Il gilet era un sacrificio superiore ai bisogni del
galeotto. Ma il buon vecchio mi pregò di non darmene pensiero, perchè
lui, in sartoria, con gli stratagli, avrebbe saputo farsene un altro.

Nella prigione di Benevento avevo imparato a consumare il tempo con
dei lavori di carta. In pochi mesi ero riuscito a mettere assieme una
gabbiuccia che regalai a un secondino. Ma al Castellaccio non c'era
proprio nulla da fare. Eravamo condannati ai lavori forzati per
ridere. Tranne i mozzi addetti ai lavori domestici e alcuni fabbri,
non avevamo da lavorare che col catenone che pesava e ci martoriava.
Era una fannullonaggine tormentosa in tutta la camerata. Il mio
compagno di catena, col quale rimasi appaiato trentadue mesi, era un
originale bizzarro che sapeva, di tanto in tanto, farmi ridere con
qualche frizzo o con qualche lepidezza. Col tempo diventava però
noioso. Ignorante come una talpa, era stato preso dalla pazzia del
dantomane.

Senza capire il sommo poeta, aveva imparato dei canti--specialmente
quelli dei gironi--e me li recitava a ogni quarto d'ora, trascinandomi
sulla riviera del sangue bollente quando avevo voglia di conciliarmi
col genere umano e facendomi lacerare dalle cagne bramose, proprio
nell'ora in cui sentivo il bisogno di una voce pia che mi consolasse e
mi aiutasse a credere che le anime affannate dei cerchi del sepolcro
dei vivi potevano cullarsi ancora nella speranza di un perdono! Non
gli dicevo nulla e fingevo di sorridere sotto la pioggia dei versi che
mi picchiavano il cervello, perchè avevo giurato di non inasprire
colui dal quale non potevo disgiungermi; ma nel silenzio infuriavo e
gli andavo sopra con le verghe a fargli sanguinare le carni. Prostrato
dalla sua voce assassina, dicevo mentalmente: taci! taci! taci! o
«fiera crudele» che io «sono un che piango»! Se volete offendermi,
mandatemi la _Divina Commedia_. Non posso più sentir parlare di Dante.
Se non avessi che i suoi versi in cella, farei voto di non leggere più
mai. Un suo verso mi provoca il vomito.

Il solo spasso che riuscii a conquistarmi a furia di preghiere e di
sottomissioni, fu quello di fare le calze. Non ridete, perchè facevo
ridere anche il mio compagno di catena, ma io, coi ferri, con la lana
e col cotone, ho passato giornate relativamente tranquille. Tra una
soletta e l'altra, mi si addormentava l'idea che dovevo morire alla
servitù penale. A mano a mano che i miei ferri divenivano abili e
frettolosi, riacquistavo la calma che avevo perduta. Mi confortavo
dicendomi che ce ne erano delle migliaia nella mia condizione, che non
uno di loro disperava di rientrare nel mondo. Il mercante di Genova,
che ci somministrava la lana e il cotone, mi fece sapere che era
contento dei miei calzini. Provai a fare delle calze traforate. Le
prime non erano eleganti, ma in seguito non c'era più nessuno nello
stabilimento che mi potesse tener dietro. Quando si voleva illustrare
la gamba con delle calze scicche, si ricorreva, senza esitazione, al
3414.

Due anni dopo ero stufo di calze come di Dante. Lavoravo per ammazzare
il tempo. La mia anima trambasciata non era più nel lavoro. Era la
praticaccia che me lo faceva fare ancora con del gusto. Incominciavo a
credere, col mio compagno, che sciupavo il tempo nel mestiere della
vecchia sdentata che assecchisce sotto la cappa del camino.
L'abitudine del movimento aveva resa inutile la mia attenzione. Così
il mio pensiero sbrigliato mi ripiombava, di tanto in tanto, a
filosofare sulla mia incommensurata disgrazia. Maledivo e stramaledivo
il mio difensore governativo, l'avv. Alfonso Alberosa, che mi aveva
strappato dall'ultimo supplizio. Quante volte mi sono augurato ch'egli
fosse stato afono! Non mi avrebbe salvato il collo. Pazienza. Allora
avevo paura di morire. Nel Castellaccio, invece, sognavo la morte. La
privazione della vita, credetelo, non è il massimo dei castighi. La
condanna a vita sì, che è peggiore della morte esasperata, inasprita
dagli ordigni che lacerano e squartano, e lasciano appesi come un
quintale di delinquenza! Beccaria assassino, tu sei stato il più
iniquo degli scrittori penali italiani. La tua è stata una vendetta,
una atroce vendetta. Tu hai voluto sottrarci al carnefice per
inebriarti dei nostri tormenti. Se la libertà individuale perisce alla
porta di questi edifici, perchè hai tu voluto emendarci? Giuseppe De
Maistre, tu sì che sei stato cristiano. Più ancora che cristiano. Tu
sei stato un avvenirista dell'antropologia moderna. Dato che il mio
pensiero sia veramente criminoso, a che risparmiarmi il tratto di
corda? Ben venga la morte che sopprime il pericolo sociale e la
tortura individuale!

Scusate se mi lascio trasportare. Sono ancora convinto che sarebbe
stato meglio mi si fosse seppellito vivo in un sacco, che non avermi
fatto espiare ventinove anni di galera senza che il sovrano abbia
trovato un minuto per pronunciare la parola perdono. Perdonate, o
signori, a un povero peccatore pentito che ha attraversato tutto
questo periodo senza un'ora di punizione!

Bisogna essere stati in galera per capire la pagina della condotta
bianca come un giglio. È una pagina tragica. Riassume un secolo di
umiliazioni, un'eternità di esistenza carpone, ai piedi del primo e
dell'ultimo tirannello del bagno penale. Scusate se sono commosso. Le
fonti del mio dolore non sono ancora inaridite. Abbiate la bontà di
credere che in fondo sono migliore del vestiario ridicolo che indosso.
Proprio, davvero, ve lo giuro!

Voi mi avete raccomandato di non dimenticare le mie conoscenze di
questi ambienti. Il Castellaccio era pieno di briganti. C'erano tutti
i superstiti della banda Schiavone e della banda di Alfonso Carbone.
Costui era di Mombello, della provincia di Avellino, e un buon diavolo
che mi faceva dei favori. Forse avrete sentito parlare di lui. Egli è
stato vittima del generale Pallavicino, il quale, dopo avere messo
sulla sua testa una taglia di tremila lire, gli scrisse che, se si
fosse presentato spontaneamente, avrebbe dato a lui la taglia e lo
avrebbe condannato a qualche anno di esilio. Il Carbone, prima di
darsi alla campagna, ammazzò due fratelli e un compare della stessa
famiglia per vendicare la morte di un suo fratello, ch'egli diceva di
idolatrare. L'assassino di suo fratello era in galera. Covò la
vendetta per cinque anni--la pena alla quale era stato condannato
l'uccisore. Uscito dalla casa penale gli andò sopra con un
coltellaccio e glie lo ficcò nel ventre fino al manico. Il Carbone
parlava di questo omicidio con dei tremiti i quali rivelavano che la
belva aveva ancora sete di quel sangue.

Il Carbone mi diceva che la sua famiglia era agiata e possidente. Con
lui si presentarono al Pallavicino, che li aspettava per farne una
retata, quattordici della banda--nove dei quali vennero condannati a
morte, cinque a vita e Vincenzo Volpe, minorenne, a venticinque anni.

I condannati a morte erano: Carbone, Ciavo, Longo, Vertuto, Cozzi,
Palombo, Zorio, Savalino, Perrone. Tutti costoro rimasero per qualche
anno sotto la sentenza capitale. Ogni mattina, per quattro anni, si
toccavano la testa. Graziati da Vittorio Emanuele, vennero al
Castellaccio.

La crudeltà del Carbone brigante è in uno dei suoi ultimi delitti.
Egli era riuscito a impadronirsi di una spia che aveva tentato di
farlo ghermire dai gendarmi. Avutolo nelle mani, lo buttò a terra a
ceffoni. In terra gli andò sopra coi piedi, calcandoglisi sulla pancia
e lavorandogli il naso e la faccia colle scarpe ferrate. Quando fu
sazio di questi scherzi crudeli, compiuti alla presenza della banda
che sputava sull'infelice tutto ciò che poteva tirar su dalla gola e
lo bruttava con tutte le ingiurie brigantesche, lo fece svestire e
stare in piedi. Il Carbone era seduto. Lo puntava qua e là col
coltello intanto che gli altri indemoniavano sulla schiena e sulle
natiche del paziente.

Lui, prima di andare a mangiare, gli sprofondò ripetutamente il
coltello nel corpo fino a quando lo vide esalare l'ultimo respiro.
Senza lasciarlo venir freddo, gli fece una larga ferita nel ventre,
raccolse le viscere fumanti e se le attorcigliò a torno il braccio
come un trofeo di vittoria.

Le spie e i falsi testimoni sono i tipi più esecrati dalla popolazione
degli ergastoli. Mentre ero al Castellaccio c'era un certo Santo
Sterpone, nato a Luccoli, della provincia d'Aquila. Era stato
condannato a venti anni, come omicida, per due false deposizioni. In
galera non poteva darsi pace. Diceva a tutti che era innocente e agli
intimi che non sarebbe molto tranquillo se non dopo avere scannati
quei due cani. Noi lo lasciavamo sfogare e ridevamo dei suoi sogni di
vendetta.

--Fra venti anni sarai morto o saranno morti i tuoi testimoni.

Lui ci rispondeva travolgendo gli occhi e mordendosi il labbro.

Con la buona condotta e con l'intelligenza era diventato scrivanello.
Dal momento che ebbe in mano la penna che lo lasciava girellare per lo
stabilimento, la sua vendetta divenne una fiaccola accesa. Non ebbe
più requie. Pensava a una fuga. Studiò bene i più riposti angoli, si
provvide degli strumenti che lo avrebbero aiutato a demolire e a
segare, e aspettò il momento opportuno. Egli avea notato che a fianco
della stanza numero 4, ove dormiva con altri quattro che uscivano a
lavorare, era la cucina con una porta che egli avrebbe potuto
scardinare e con una serratura che non gli sarebbe stato difficile di
staccare con uno scalpello.

Eravamo nell'aprile del 1877. Pioveva che Dio la mandava. La pioggia
torrenziale cadeva sui coppi e sulle pietre con un fracasso che
soffocava ogni altro rumore. Con la pioggia era caduta una nebbia che
non lasciava vedere a due passi.

Al di là dell'uscio della cucina c'era uno spazio, con un alto muro
sul quale signoreggiava il bastione con la garetta nella quale era
accovacciata, indubbiamente, la sentinella.

Il muro, col consenso dei compagni, era stato trapassato nella
penultima notte. I compagni, all'ultimo momento, ebbero paura.
Sterpone, che delirava di mettere le mani nel sangue dei suoi falsi
accusatori, non esitò un minuto. Spostò i quadrelli, entrò nella
cucina come un gatto, levò l'uscio in un attimo, s'arrampicò sul muro
strisciando fin dietro la garetta, e coi rompimenti del tuono si
lasciò giù dal bastione colla leggerezza e l'agilità dello scoiattolo.

Andò al suo paese, precipitò sui falsari come una iena e andò a Roma a
lavorare fino a quando venne denunciato da un compaesano che lo
riconobbe.

Lo rividi a Finalborgo invecchiato, con una sentenza a vita. Era stato
nei bagni di Civitavecchia e di Orbetello ed aveva lavorato, come
compositore di carattere, nella prigione di Regina Cœli di Roma.

È ancora vivo. Aveva fatto conoscenza con una quindicina di bagni
penali. Lo si può dire l'Ebreo errante della vita galeottesca.

In sette anni non feci altro che calzette e qualche maglia coi ferri
lunghi. Chiusosi il bagno di Genova, si impiantò da noi una calzoleria
e un lavorerio di tessitura. Imparai a fare il tessitore.

Non guadagnavo che sei o sette lire il mese, dalle quali dovevo
dedurre il sessanta per cento per il Governo, ma mi piaceva. A poco a
poco finii per amare il telaio come una cosa viva. Il rumore lento e
monotono dei battenti che spingevano l'ordito tra un colpo di spola e
l'altro, suonava al mio orecchio come una melodia che scendeva nel mio
animo esulcerato.

Il tessuto che si avvolgeva sul cilindro, aveva tutte le mie carezze.
Fu una gioia di pochi mesi. Il subbio, sul quale calcavo il ventre,
finì per darmi una infiammazione intestinale. Dovetti andare in
infermeria e poi ricominciare un altro mestiere.

Divenni legatore di libri--come si può diventarlo in un luogo dove si
manca di tutto. Come tale mi si mandò nel bagno di San Giuliano.
Ritentai il telaio e ricaddi più ammalato di prima. Qualche mese dopo
mi si trasportò al bagno di Portolongone. Potete immaginarvi che cosa
abbiamo sofferto nella traversata. Avrei preferito la mulilazione del
braccio destro. Eravamo una catena di cento galeotti. Al nostro sbarco
assisteva una folla enorme. Dal porto al bagno, ci sono tre chilometri
tutti di salita, coi margini dello stradone che smottavano sotto i
piedi e facevano pensare ai precipizi. Prima di arrivare all'ergastolo
si passa sotto un arco rozzo.

L'entrata di questo bagno è tetra. Sente del luogo. Le camere sono
assai più piccole di quelle del Castellaccio e in ciascuna di esse
sono accomodati otto ergastolani.

Quando vi giunsi era affollatissimo. C'erano mille e cinquecento
condannati. Trovai che l'impressione dell'entrata rispondeva
esattamente alla vita interna. Le camere erano senza tavolaccio e
senza letti da campo. Bisognava dormire sullo strapuntino di cinque
chilogrammi di capecchio--in terra, con un cuscino che pareva per la
testa di una pupattola. Le stanze erano male arieggiate. Avevano una
parvenza di finestra nella vôlta e una porta sempre chiusa.

Gli ultimi che arrivano subiscono un ozio di mesi e di mesi. O non c'è
posto, o non c'è lavoro, o non si sono ancora studiati i nostri
caratteri. In un modo o nell'altro si rimane neghittosi.

Il passeggio avveniva sull'alto della terrazza con muraglie così alte
che ci lasciavano come in fondo a una tomba scoperchiata. Non vedevamo
che il cielo sopra le nostre teste.

C'era anche Cipriani, quello che era stato eletto deputato parecchie
volte. Lo tenevano completamente isolato da noi. Occupava una stanza
da solo, andava all'aria da solo e gli portava la minestra un
sottocapo in una scodella di latta. La sua spesa quotidiana era un
quarto di vino. A Portolongone si beveva il vino dell'isola d'Elba.
Era migliore di quello degli altri bagni. Il Cipriani era mite e
buono. Ma si diceva che era di un carattere fiero, altezzoso e anche
borioso. Voleva quello che voleva e non accettava nulla.

Signore, abbiate pietà di me! Dopo una lunga malattia che mi lasciò
sperare la fine delle mie tribolazioni, mi incatenarono di nuovo con
una catena di duecento galeotti e ci stivarono in un bastimento per
Finalmarina.

Non vi dico altro perchè dovrei ripetervi lo strazio e le torture
delle altre volte. Oh, come si soffre, Dio mio, nelle stive dei
bastimenti carichi di galeotti! Vi basti sapere che sulle spiagge mi
pareva o ci pareva di essere usciti da un'orgia di oppio. Eravamo
istupiditi dalla notte spaventevole e ci pareva di non avere più
sangue nelle gambe.

Voi ve n'andrete presto. Ricordatevi del 3414. Pensate qualche volta a
questo povero diavolo che subisce l'ira della legge da ventotto anni
per avere fatto scomparire dal mondo una donna infedele, una donna che
tradiva il marito, un'adultera.

    _Finalmarina, 24 settembre 1898._

                                                  3414.



__Carlo Romussi.__


Non si sa se la sua mano e la sua testa c'entrino per qualche cosa
nella sua sempiterna attività prodigiosa. Si sa ch'egli è una
macchinetta automobile che riempie un foglio dopo l'altro tutte le
volte che c'è da scrivere. Al suo tavolo di redazione voi vedete
sempre proti e compositori che aspettano originali.

Supponete ch'egli stia scrivendo un articolo sulla esposizione
artistica. Gli si dice che mancano ancora due pagine a compilare il
numero unico per i bagni. Consegna il manoscritto sull'arte, corre
difilato alla stazione balneare senza rivedere lo stampone per
riattaccare il filo interrotto e pochi minuti dopo riprende l'opuscolo
sui doveri dei cittadini ch'egli deve finire per domani, o la
prefazione agli scritti di Carlo Cattaneo che ha promesso fino da ieri
l'altro.

Intanto che scrive, passa e ripassa dinanzi il suo tavolo la
popolazione che lavora intorno al giornale e alla casa editoriale.
Impiegati, fattorini, portieri, telegrafiste, traduttori, personaggi
d'amministrazione. Lo si interroga, lo si interrompe, gli si
annunciano visite, gli si rammentano nomi o fatti. Ci sono persone che
hanno bisogno di vedere il signor direttore, amici che vanno a trovare
Romussi, zuppificatori che vogliono infliggergli certe idee su date
questioni, veterani del partito che salgono per stringergli la mano e
interessarsi della sua salute o della salute della sua signora,
archeologi che seggono sulla scranna che trovano per conversare e
buttargli, tra un periodo e l'altro, un monumento storico che è stato
scoperto, o che si minaccia di demolire o che stanno illustrando. Nel
momento in cui si crede stia per incominciare la quiete, entra un
filantropo a squadernargli un progetto che deve commuovere e vuotare
le tasche ai cittadini, o un segretario di qualche circolo o di
qualche associazione operaia che vuole assolutamente ch'egli tenga una
conferenza sul risorgimento del Comune o sulla battaglia di Legnano, o
un disgraziato che è ansioso di leggere stampato il manoscritto che
gli ha portato da tante settimane.

--E questo mio articolo, signor Romussi!

--È sul «bancone». C'è tanta materia da perdere la testa. Ecco, veda,
buttiamo via dei telegrammi per mancanza di spazio.

--Il signor Edoardo Sonzogno lo chiama dabbasso,

Butta lì la penna, passa dagli usci come una folata di vento che
schiuda e chiuda fracassosamente, ritorna di sopra stropicciandosi le
mani o rosso fino alle tempie, e ricomincia l'articolo su Crispi,
parlando tra lui e il manoscritto, come se stesse dettandolo, spesso
posando la voce più fortemente su una sillaba che su l'altra.

--L'onorevole Crispi è una vera sfortuna per l'Italia.

Questa vita quotidiana, capace di ammazzare due o tre uomini, è per
lui un passatempo. Il lavoro ponderoso, quello nel quale è necessario
ch'egli metta i suoi studi e la sua intelligenza, lo fa a casa, mentre
altri dormono o si divertono. Dalle sei alle dieci del mattino e per
parecchie ore del pomeriggio, egli non si occupa che di archeologia,
di storia, di letteratura. Scrive: _Milano nei suoi monumenti_,
_Milano che sfugge_, _Petrarca a Milano_, uno studio sul _Trionfo
della libertà_ di Manzoni, _Sant'Ambrogio_; o mette assieme un volume
di poesie dialettali e italiane che la musa satirica e bernesca
produsse prima e durante le barricate del 1848, eccetera, eccetera,
eccetera, eccetera, eccetera.

Se sono bene informato, egli è al _Secolo_ da ventinove o trent'anni.
Vi è entrato in un modo curioso. Moneta era alla ricerea di un
redattore che avesse delle qualità giornalistiche e una coltura che
andasse al di là di quella dei soliti giornalisti improvvisati. Un
giorno trovò per la strada Leopoldo Marenco, il romantico del
palcoscenico d'allora.

--Senta, professore, non saprebbe mica aiutarmi a scovare un giovane
che abbia imparato qualche cosa e facilità di scrivere?

Il professore di letteratura si passò la mano sulla fronte.

--Eh, proprio, è difficile. Ne ho conosciuto uno, quello sì... Era un
diavolo che sapeva scrivere drammi, novelle, brani di storia,
biografie... La sua penna andava come il vento.

--Se è morto non parliamone.

--È vivo. Ma non so dove sia andato a finire. Aspetti, deve essere a
Pavia. Credo che studii legge. Certamente non vorrà smettere per fare
il giornalista.

In allora, per spiegare la frase dell'autore della _Celeste_, non
erano che gli scapigliati che si compiacessero di prendere delle
sbornie coll'inchiostro di redazione. Erano giovani pieni di coraggio
e anche d'ingegno o degli studiosi che volevano farsi largo, ma
irregolari nella vita e nel lavoro. Nessun direttore poteva contare
sul loro articolo pel numero di domani. Gli editori pagavano poco o
niente e i giornalisti di professione, come è naturale, non
esistevano. Non esisteva che la bohême chiassosa, buontempona,
nottivaga, capace di annunciare in prima colonna e in corpo dieci che
i redattori avevano orgiato e non potevano quindi scrivere l'articolo
di fondo o l'appendice drammatica!

Un anno dopo, Moneta rivide il padre del _Falconiere_ e lo ripregò di
procurargli un giovanotto che avesse la stoffa del giornalista.

--Fra i miei scolari passati e presenti non ne conosco uno. Non potrei
suggerirle che quello dell'anno scorso scorso. Quello là ha tutte le
attitudini per uno scrittore di giornale. Ha una penna pronta,
sollecita, che si piega a tutte le movenze di uno stile facile. Ha
letto molto. È una biblioteca ambulante.

--Me lo mandi, dunque!

--Vedrò di cercarne l'indirizzo.

Un giorno, in cui il pensiero di Moneta era lontano le mille miglia
dal redattore che gli doveva mandare il Marenco, si sentì annunciare
il dottor Carlo Romussi.

--Passi.

Fiscamente non gli fece una grande impressione. Non gli si era
presentato che un omino il quale non lasciava supporre in sè tanta
resistenza al lavoro. In due parole s'intesero. Il Romussi faceva
pratica d'avvocato ed accettava volentieri di passare a teatro le
serate come critico d'arte. Moneta voleva qualcosa di più di un
critico d'arte, ma per il momento si accontentava.

È inutile ch'io dica dei suoi ideali drammatici. Tutti sanno che il
Romussi in arte e in letteratura non è stato figlio del suo tempo.
Egli è entrato nel giornalismo come un vecchio che sente e difende le
glorie virtuose del passato. Assoluto come tutti quelli che credono di
avere il monopolio della verità, ha sempre dato addosso o ignorato la
gioventù che ha portato sul palcoscenico e nel romanzo o sulla tela o
nel marmo la vita con le sue grandezze e coi suoi orrori. Zola fu uno
dei suoi boicottati fino a ier l'altro. La Duse, per lui, è rimasta
un'artistaccia di provincia. Ibsen non gli uscirà mai dalla penna che
come un degenerato del teatro.

La fortuna del _Secolo_ data dalla guerra franco-germanica. Il Moneta
simpatizzava per la Francia antimperiale e la tiratura salì
vertiginosamente dalle otto alle venticinque mila. Era un trionfo
giornalistico che bisognava conservare migliorando il servizio. E
Moneta assunse, come cronista a ottanta lire il mese, l'avvocato Carlo
Romussi.

Il suo primo articolo fece scalpore. Gli altri giornali avevano
narrato il giorno antecedente un grave scandalo contro un patrizio
milanese. Moneta, giudizioso e temperato, non volle lasciar correre la
notizia se non dopo essersi informato personalmente che esisteva una
querela e che c'erano i genitori i quali affermavano che la loro
figlia minorenne era stata deflorata da un duca. Romussi non fu che
l'esecutore. Avuto l'incarico dalla direzione, si mise al tavolino a
fianco della vecchia scrivania del direttore e scrisse più di una
colonna colorita, spigliata, nervosa, paragonando il violatore di
fanciulle al Borgia crapulone. Venuta la minaccia di una querela per
diffamazione, e sinceratisi, con le visite mediche, che la ragazza era
_virgo intacta_ il _Secolo_ trangugiò uno di quei rospi vivi che non
lasciano sopravvivere che la buona fede del giornale.

La cronaca composta di note aride e di fatterelli che facevano
sbadigliare, divenne, nelle mani del Romussi, una rubrica
importantissima. A poco a poco del Broglio del _Pungolo_--il quale
passava per il cronista sommo della Risottopoli per le sue noterelle
patrie e per avere introdotto, tra i fatti cittadini, le notizie che
la questura comunicava a lui solo--non rimase più nulla. La cronaca si
era elevata, Romussi l'aveva intellettualizzata, allungata,
drammatizzata e resa indispensabile. Con lui i pennivendoli più
sfacciati della cronaca cittadina sono stati obbligati a divenire più
prudenti o a frenare la loro ingordigia.

Egli è ora direttore del _Secolo_, di quasi cento mila copie, ma io, a
costo di farmi lapidare, persisto a credere che sia in lui più l'uomo
di lettere che il giornalista. Chi ha letto i suoi lavori e
specialmente _Milano nei suoi monumenti_--un'opera che quando sarà
terminata rappresenterà la sua gloria--non può venire che a questa
conclusione. Egli è un illustratore passionato. Charles Dickens è
stato il primo direttore del _Daily-News_ a due mila ghinee l'anno. Ma
anche i suoi più grandi ammiratori hanno dovuto convenire che la sua
tendenza era verso l'immortale Pickwick. Romussi è sempre pronto a
buttar giù, lì per lì, qualunque articolo su qualunque soggetto. Ma il
giornalismo moderno non si contenta della _vitesse_ della penna. Esso
esige tutta l'attività di un uomo anche se quest'uomo non scrive mai
un articolo. I più grandi direttori dei più grandi giornali del mondo
scrivono pochissimo. John Dilane, l'autore, si può dire, del _Times_
dei nostri giorni, non fu mai _a writer_. Non scrisse che qualche
articolo tra un anno e l'altro. Ma i suoi biografi sono concordi nel
dire che egli era il _Times_.

Carlo Romussi è pieno di cuore, ha ridondanza di affetti ed è un
amico, se vi dà veramente la sua amicizia, prezioso. Egli è capace di
dedicarvi l'esistenza. La sua intimità con Cavallotti, la sua
affezione per Cavallotti, la sua idolatria per Cavallotti sono cose di
ieri. Nessuna donna ha amato il poeta anticesareo coi trasporti del
direttore del _Secolo_. Per degli anni egli non ha veduto che cogli
occhi di lui, non ha palpitato che col cuore di lui e non ha avventato
un'idea politica che non fosse un idea cavallottiana. Ed è stato un
errore. La devozione di Pilorge per Chateaubriand mi commuove. L'uomo
privato può darsi il lusso dell'adorazione. L'uomo pubblico, il
direttore di un giornale, non può sposare un uomo con le sue virtù,
con i suoi difetti, con le sue aspirazioni, con le sue beghe
personali. L'uomo è un individuo, il giornale è una istituzione, è un
veicolo che deve andare in casa di tutti come un informatore.
Cavallotti può odiare il socialismo e i socialisti fin che gli pare e
piace. Il _Secolo_ non può, non deve seguirlo. E con Romussi,
ipnotizzato da Cavallotti, il _Secolo_ ha ignorato per degli anni il
socialismo e i socialisti. Non ne ha più parlato. Per lui non
esistevano o non erano mai esistiti o erano morti. Boicottare un
partito per delle bizze personali vuol dire rendere un cattivo
servizio ai lettori che pagano per essere informati di tutti gli
avvenimenti e alla amministrazione che pubblica il giornale per
arricchire il suo editore o dare grossi dividendi agli azionisti.
Boicottate un uomo pubblico o un partito o una notizia e voi
sopprimerete dei lettori. Il giornale, che non è superiore ai rancori
personali, che non sa essere imparziale cogli amici e coi nemici, che
ha delle antipatie e delle simpatie, che ommette questo fatto ed
esclude quest'altro, perde il diritto a questo nome. Diventa l'organo
di Tizio o di Caio, ma non è più un giornale nel significato
professionale.

Carlo Romussi è nato a Milano il 10 dicembre 1847.



__La tristezza di Natale.__


Ci siamo alzati, come gli altri giorni, al suono del din din, din dan
della campana del reclusorio. I miei compagni parevano tante mutrie.
Rispondevano al buon giorno e agli augurii con dei buon giorno e degli
augurii secchi, come gente che si sarebbe morsicata se non ci fosse
stato di mezzo il galateo. Don Davide andò a dire le tre messe alle
muraglie della cappelletta addossata alla muraglia dell'infermeria,
dicendo di non aspettarlo che non avrebbe bevuto il caffè al ritorno.

L'intervallo tra il caffè e l'aria fu sepolcrale. Passeggiavamo in su
e in giù, con le mani sulla schiena, con la faccia rabbuiata e con gli
occhi che parevano altrove. Il latrinaio, che ci aveva salutati con
tutti i complimenti che aveva potuto raccogliere la sua testa, rimase
senza risposta.

--Signori, buon Natale e tanti anni come questi!

Parecchi di noi lo avrebbero sprofondato. Asino porco di un ammazza
donne, non è buono neanche di essere gentile!

Va all'inferno!

--Aria!

---Ci lasci almeno prendere il caffè, signor sottocapo. Un minuto,
meno di un minuto.

Il caffè era squisito. Era stato fatto dalla mano maestra del Federici
che non lo beveva. Don Davide prese la chicchera senza ricordarsi
dell'ordine che aveva dato. Il moka ci lasciò immusoniti più di prima.

Andammo all'aria come a un funerale. Nel cortile eravamo sbandati.
Ciascuno passeggiava per proprio conto. Pareva che l'uno non volesse
avere contatto con l'altro. Ritornammo nella camerata accigliati e
taciturni. Chiesi sedette sulla branda piegata e si sprofondò in una
_Histoire de la Commune_ illustrata, don Davide si sommerse nel
_Breviarium romanum_ che teneva sempre sul tavolo, Federici aperse il
_Dodo_--un romanzo che riproduce la vita intima inglese e lascia
sentire l'odore della classe che dipinge. Lazzari si rimise sulla
figura che stava disegnando con gli occhi torvi e l'aria di un mastino
che avrebbe addentato il polpaccio del primo che gli si fosse
avvicinato. Suzzani ricominciò a percorrere lo stanzone senza
zuffolare l'inno dei lavoratori, la sua aria favorita che ci regalava
dalla mattina alla sera senza perdere di lena--e Ghiglione, il
tremendo Ghiglione che aveva sobillato con fervore i terrazzani di
Niguarda, si era gettato a capofitto in un manuale di musica da
quindici centesimi.

La colazione passò nel silenzio. Ciascuno mangiava quello che aveva
ordinato senza dire una parola. La sola cosa in comune fu una
bottiglia della cassetta che ci aveva inviato il buon Quadrio,
direttore della _Valtellina_ di Sondrio. Era un vino eccellente che
non bevevamo da un pezzo.

--Buono, dissi vuotando il bicchiere.

Nessuno rispose. Pareva avessi detto loro una insolenza.

Dopo la colazione entrò il sottocapo con un immenso pacco di lettere e
di biglietti di visita e una manata di telegrammi. Si buttarono loro
sopra come avari che ricuperino il sacco dei denari che credevano
perduto per sempre, e si ingolfarono nella lettura intima senza
lasciar trapelare un pensiero dei tanti pensieri che erano loro
giunti.

Le sole cose che riferivano erano i saluti o gli augurii nei quali
fossimo compresi tutti od alcuni di noi.

--Il tale vi saluta tutti!

--L'Aliprandi saluta anche te, Paolino.

--Grazie.

--Il tale augura a tutti buon Natale!

Tra i tanti telegrammi ricevuti nella giornata ricordo quelli di
Bertolazzi, i quali riuscirono a smutriare qualcuno.

--Buon Bertolazzi!

--Buonissimo!

Lungo l'asse che correva al dorso della parete erano parecchi
panettoni. Furono dessi che incominciarono a dar vita alla
conversazione.

--Che cosa ce ne facciamo? Non possiamo mangiarceli tutti.

--E se ne dessimo uno ai poveri forzati? I reclusi del maggio ricevono
qualche cosa, hanno forse ricevuto tutti qualche cosa. Mentre i
perpetui e gli a tempo con la catena, non sono ricordati neppure dai
parenti. Chi ha vergogna di loro e chi li dimentica come individui
morti. E se ne dessimo una fetta a tutti loro? C'è questo del
Mascarini, offelliere di Milano, mandato a don Davide. È grosso come
un cetaceo.

Federici non si fece ripetere l'interrogazione. Se lo portò sul tavolo
e con una cordicella si mise ad affettarlo.

--Quanti sono?

--Ventinove o trenta.

Incaricammo di distribuirlo don Davide Albertario. Fu una scena
commovente--una scena che inumidì gli occhi di tutti coloro che hanno
potuto essere presenti. I forzati si alzarono in piedi, rimanendo
vicini al loro stramazzo, visibilmente commossi. Era forse la prima
volta in tanti anni che sentivano parole dolci pronunciate da una
persona che li capiva e li compiangeva.

«A nome dei miei compagni della quinta camerata--disse loro don
Davide--vi dirigo il saluto in questo giorno di pace; come prete, io
vi auguro la benedizione di Gesù Cristo che consoli il vostro cuore:
accettate questo segno dei sentimenti del nostro cuore desideroso del
vostro bene.» E incominciò subito la distribuzione. I volti duri dei
galeotti si ingentilivano. Dal loro occhio scendevano le lagrime. Don
Davide piangeva e noi, che vedevamo tutto dalla nostra cancellata,
eravamo profondamente inteneriti. Si rimaneva a bocca aperta dinanzi
alla commozione di tanti galeotti che avevano scannati gli uomini,
massacrate le donne, fatto in quattro i padroni e distrutte le
famiglie a colpi di coltello.

Don Davide mi prese sotto il braccio e mi disse:

--Avete notato che piangevano? Dinanzi al prete vestito d'assassino
come loro, reo solo di avere professata la sua fede con maggiore
sincerità e fervore, si sono sentiti le lagrime agli occhi. Non sono
dunque completamente perduti. Credetemi, l'uomo che ha ancora la
rugiada del cuore, è ancora un essere redimibile. Sembravano degli
agnelli. Perchè non vi sarà maniera di rendere duraturi nell'anima di
quegli sventurati questi nobili sentimenti e di ricondurli alla buona
via?

«Ve lo giuro sull'anima mia: non dimenticherò mai questo momento del
Natale in galera. È un episodio che mi resterà nella memoria in
eterno. Mi hanno intenerito come un fanciullo.

--Diamo loro un altro panettone.

--Se si potesse, figuratevi!

Durante la giornata abbiamo avuto la visita del capo guardia prima e del
direttore poi. Il primo ci parlò delle sue noie con dei prigionieri
politici nello stabilimento. Per suo conto avrebbe voluto che ci
avessero lasciati andare oggi piuttosto che domani. Non c'era più modo
di aver pace. Parevamo gente in relazione con tutto il mondo. Una volta
non si vedevano i portalettere che per la Direzione. Adesso il
reclusorio è diventato un ufficio postale. Vi arrivano carri di pacchi
postali, furgoni di biglietti di visita, centinaia di vaglia e di
cartoline-vaglia, specialmente per don Davide, mucchi di telegrammi.
Stamattina ne abbiamo ricevuti più di cento. E non sono mica gli altri
che li registrano. Tocca ai poveracci dell'amministrazione. Non c'è più
tempo neanche di mangiare. Si sciupa un paio di scarpe al giorno. Si
sale, si discende e non la si finisce mai. E lui, per compenso, si trova
con le scarpe rotte da pagare. Il bel mestiere che ha scelto! Doveva
fare.... Basta, ora è troppo tardi. Le responsabilità poi sono tutte
sulle sue spalle. Speriamo che oggi la vada bene e non accadano
disordini. Sarebbe lui la vittima. Perchè il capo guardia dovrebbe
essere dappertutto. Dabbasso, a ricevere, a rispondere, a registrare, e
di sopra, con un occhio in ciascuna camerata. Bel mestiere che è fare il
capo guardia con poco più di tre franchi al giorno! Speriamo che tutto
passi via tranquillo e che si lasci fare un po' di Natale anche al capo
guardia...

--Senta, signor capo guardia, non si potrebbe mica avere qualche
sigaretta di quelle che mi hanno ritirate?

--Quest'altro, adesso! Vorrebbe la gallina e poi anche l'ovo. Vorrebbe
farmi nascere la rivoluzione. Una sigaretta... guai se si sentisse il
fumo.... Tutti gli altri vorrebbero fumare. Si starebbe freschi.
Mancherebbe che ci fosse anche il permesso della sigaretta per far
diventare il reclusorio uno spaccio di tabacchi.

Il direttore era stato in tutte le camerate a fare una specie di
predicozzo sui doveri del condannato e a incoraggiare i reclusi a
sperare nella grazia sovrana. Lo ascoltavano in silenzio, in piedi,
tra una branda e l'altra, e lo lasciavano voltar fuori con dei viva
l'amnistia! che forse lo facevano sorridere.

A noi non disse che qualche parola insignificante e non parlò, con
deferenza, che col Chiesi, il quale sembrava nelle sue grazie. Io lo
vedo ancora passarci in rivista col cappello calcato in testa, col
bavero del paltò alzato e con le mani in tasca. Col suo sguardo truce
e la sua voce da terrorizzatore, non mi invogliava a vederlo, tra noi,
per un pezzo.

Noi poi, escluso sempre il Chiesi, non avevamo ragione di essergli
riconoscenti. A Federici aveva negato parecchie cose che lo avevano
fatto imbestialire più di una volta. A Lazzari aveva fatto sequestrare
tutti i suoi disegni dopo che erano stati finiti. Tra gli altri eravi
un don Davide vestito da galeotto e alcune guardie alla nostra
cancellata, che avrebbero potuto illustrare qualche pagina del mio
libro. A me non lasciò mai scrivere una lettera senza farmela copiare
e ricopiare per delle inezie o delle parole contrarie al suo gusto
letterario. A don Davide ne fece di quelle da farlo venire di sopra
con gli occhi pieni di pianto.

Una volta che il direttore dell'_Osservatore Cattolico_ si era
permesso di mettere, per distrazione, le dita sulla scrivania del
direttore, il signor Reoboamo Codebò gli disse in tono grave:

--2557, tenete giù le mani!

Un'altra volta.... Ma non ricordo più bene il perchè. So che gli si
doveva comunicare qualche risposta ministeriale a una sua domanda e
che la comunicazione gli era stata fatta in un modo brutale o da
fargli capire ch'egli non era più che un numero di matricola.

Eravamo nel periodo della fame, quando stavamo in piedi con la
pagnotta e la minestra. Noi eravamo già tutti intorno la panca che ci
serviva da tavola. Ritornò di sopra con la faccia che pareva un
temporale.

--Che cosa vi è accaduto?

Stette in forse se mangiare o buttar via la gamella.

--Mi è accaduto.... Mi è accaduto che mi si è detto chiaro e tondo che
io non devo considerarmi ormai più che il 2557 e io ho dato fuori.
Sissignori, ho dato fuori! Dunque, dissi al direttore, mi considerano
e intendono trattarmi come un vero delinquente? Sia! La prego però di
darmi la carta per scrivere al ministro Pelloux che mi faccia
fucilare! Laggiù non si conosce che cosa sia la dignità umana e io
gliela farò imparare!!

Noi ci guardammo tutti in faccia come spaventati. Non lo avevamo mai
veduto con gli occhi stralunati e le guance convulsionate dallo
sdegno.

--Calmatevi, don Davide.

--Anche il direttore dopo avere veduto che mi aveva indignato mi ha
detto di calmarmi. Non si è più padroni di sè quando ci si dicono
certe cose!

--Mangiate la minestra che è quasi fredda, e passate sopra alle parole
che vi possono dire in un luogo come questo.

--Siete o non siete il 2557?--gli diss'io ridendo e facendolo ridere.

--Lo sono.

E si mise a manducare.

La novità del giorno di Natale è stata che abbiamo potuto, per la
prima volta, mangiare sulla tovaglia candida, avere il tovagliolo
candidissimo e servirci dei cucchiai, delle forchette e dei cucchiaini
di metallo. Era della roba che ci aiutava a rientrare nella società
che stavamo per dimenticare. Mancavano a completare la tavola
imbandita i coltelli--arnesi pericolosi per della gente in galera.

L'allegria era assente. Si iniziò il pranzo con un bicchiere di vino
bianco di botte e con del presciutto tagliato di fresco. Assaggiammo
una minestra stata cotta sul fornello della trattoria esterna e
attaccammo, con qualche appetito, un tacchino di Filighera e dei polli
stati allevati in Liguria, che mandavamo giù tra una forchettata e
l'altra di insalata giovine. Giungemmo al sabaglione dopo avere
vuotate parecchie bottiglie valtellinesi, senza dire una parola che
valesse la pena di essere ricordata sul palinsesto della mia memoria.

Il pensiero dei miei compagni era probabilmente intorno il collo dei
loro cari. Chiesi pensava alla sua mamma, Federici alla sua signora e
alla sua bimba che spasimava di vedere, don Davide alla sua Teresa, la
sorella che lo idolatra e Suzzani a sua madre che nominava sovente.

Potevamo star su fino alle dieci.

Alle otto eravamo tutti a letto.

Chiesi russava maialescamente da dieci minuti.



__Gustavo Chiesi.__


Gustavo Chiesi è uscito dalle pagine di Mazzini. Tutto ciò che è regio
non entra nei suoi ideali. Tutto ciò che è frivolo non partecipa della
sua esistenza. Le sue alte aspirazioni sono per una Repubblica di
repubblicani ammodernati dalla vita pubblica.

In un periodo di specialisti, egli è rimasto l'uomo di una coltura
straordinaria. Volgendosi verso la montagna della sua produzione, si
può credere che egli abbia dato fondo all'universo. Si è occupato, con
competenza, di tutto lo scibile umano. Di storia, di scienza, di
letteratura, di invenzioni, di geografia, d'arte, di navigazione, di
esplorazioni, di musica, di coreografia, di questioni agrarie, di
strategia militare, di industria, di drammatica, di legislazione. Egli
ha biografato mezzo mondo. Da Dante a Cimarosa, da Leonardo da Vinci a
Cavour, a Cantù, a Crispi. Non c'è uomo illustre nella storia e nel
rinascimento patrio che non sia entrato nella sua collezione
illustrata.

_Self-mademan_ del giornalismo italiano, egli si è scelto un motto
inglese adatto alla sua pertinacia di lavoratore: _time is money_--il
tempo è danaro. Con una testa costantemente in eruzione e convinto che
«la volontà è l'anima dell'ingegno e la vittoria del progresso», egli
resiste al tavolo fino ai crampi nella mano. Passa indifferentemente
da un soggetto all'altro, senza bisogno di sosta. Smette l'articolo
politico e riprende la continuazione dell'appendice, consegna al proto
la pagina critica e si riversa sull'_Italia irredenta_--una
pubblicazione che deve «tener vivo nelle masse il sentimento della
loro nazionalità, il retaggio sacro della lingua, la speranza di una
rivendicazione avvenire».

È difficile trascinarlo in una conversazione che gli faccia perdere il
tempo e il danaro, ma una volta ch'egli si decida per il riposo, vi
trovate con un _causeur_ nel vero senso della parola, con un uomo il
quale sembra non abbia fatto altro nella vita che occuparsi di salotti
aristocratici o di aneddoti politici o di musica wagneriana. Verso
sera, quando si aspettava la luce elettrica o si flanellava, gli
abitatori della quinta camerata lo ascoltavano tra una meraviglia e
l'altra.

Pareva Villemesant o Rochefort che stesse dettando le sue memorie. Si
andava dall'Africa--ove era stato due volte come corrispondente del
_Secolo_--al palcoscenico di una prima donna che ha fatto storia--nel
dietroscena di Caprera quando donna Francesca rimase col
generale--alla redazione di un giornale che si ricorda ancora--a un
periodo tumultuoso che egli sapeva rimettere in piedi tale e quale,
colla data, cogli incidenti, cogli attori principali, sceneggiando il
disastro o il trionfo coi colori di una tavolozza arciricca. Un
semplice paesucolo sconosciuto diventava nella sua bocca di un
interesse sommo. Ce lo circondava delle industrie e degli uomini della
regione e ci diceva l'avvenimento che lo aveva reso celebre.

Pur pensando a Cavallotti quasi balbuziente, dubito che il Chiesi abbia
qualità oratorie. Gli mancano i mezzi vocali e l'inconsapevolezza di
Castelar che sa stare sulla piattaforma con la tranquillità di uno
scrittore a tavolino.

Il processo del tribunale di guerra è riuscito a propalare assai più
il suo carattere, la sua produzione letteraria, la sua attività
giornalistica.

Prima, quantunque avesse scritto una ventina di romanzi, descritta
l'Italia da un capo all'altro, il suo nome non era nelle moltitudini
come oggi. Giornalista che aveva nutrito una legione di giornali, gli
mancava la simpatia nazionale che gli ha data una condanna la quale ha
fatto fremere anche coloro che sono agli antipodi de' suoi ideali
politici.

In Gustavo Chiesi è l'imperturbabilità grandiosa di Danton che dice al
carnefice di mostrare la sua testa al popolo. È rimasto sul banco
degli accusati di un tribunale militare come uno stoico. Se ha aperto
bocca, non è stato per proteggere la sua prosa giornalistica, ma per
salvare i suoi cooperatori e adempiere al dovere di direttore.

--Io non ho da dire che due brevi cose.

«Prima, ringrazio i miei difensori per la grande dottrina colla quale
mi hanno difeso. (Era stato difeso dai tenenti Giglio e Corselli).
Secondo, dichiaro sulla mia parola d'onore che il Cermenati si recò a
Pavia e a Piacenza soltanto in qualità di redattore del giornale, e
per nessun'altra ragione.»

E quando Bacci, il sostituto avvocato generale in missione, escluse
dal numero dei colpevoli Ulisse Cermenati e Arnaldo Seneci,
amministratore dell'_Italia del popolo_, sulla faccia del direttore si
diffuse la consolazione. Egli respirava più liberamente. La reclusione
degli amici gli sarebbe pesata sul cuore come un martirio.

In galera nessuno lo ha mai sentito lamentarsi. Egli lavorava dalla
mattina alla sera e non sostava che per pensare alla vecchia madre che
lo piangeva disperatamente.

Pochi idolatrano la famiglia dei genitori e contribuiscono al suo
benessere come Gustavo Chiesi.

Egli è stato eletto deputato mentre era nel reclusorio di Finalborgo e
Forlì continuerà ad eleggerlo per un pezzo, perchè Gustavo Chiesi non
è di coloro che si abbandonano subito dopo che la giustizia delle
masse ha stravinto la giustizia delle classi.

Conosciuto, lo si ama per la sua intelligenza, per la sua bontà e per
la saldezza dei suoi principii.

In questi tempi di uomini di carta pesta, un uomo di bronzo, come
Gustavo Chiesi, diventa, in un ambiente legislativo come il nostro, un
tesoro nazionale. Tiene in piedi anche i legislatori di pasta frolla.

È dotto, è una biblioteca ambulante ed è una penna incorruttibile che
perseguita i corrotti.



__A Finalborgo studio degli altri galeotti.__


Ci fu un galeotto che ci disilluse tutti. Era il cuoco del
bettolino--un buon diavolo cogli occhioni pieni di lampeggiamenti e
con le ganasce lardose. Aveva per noi della vera affezione. Coi pochi
centesimi che potevamo spendere, si struggeva per farci mangiare meno
scelleratamente che poteva. Sopratutto era pulito. Ci portava alla
mattina una minestra per venticinque centesimi, la quale, in galera,
potevamo dire buona e delle porzioni di gnocchi di patate che
mandavano in visibilio Romussi.

--Neanche la mia cuoca saprebbe cucinarli così bene!

Gustavo Chiesi, che si interessava assai poco della vita del
reclusorio e che giurava, di tanto in tanto, che non avrebbe mai
scritto una riga sulla sua prigionia, aveva della tenerezza per il
cuoco. Ci diceva che, se andava fuori, voleva fare qualche cosa per
lui, perchè lo meritava. Sapevamo che era un fratricida, ma avevamo la
sua parola d'onore ch'egli era innocente. Secondo lui, non fu che il
caso che lo fece trovare nella stanza ove un altro suo fratello
scannava il terzo. In galera poi non si può pretendere di trovare
delle mani immacolate.

Una mattina che avevamo più fame del solito, lo aspettavamo andando in
su e in giù per la camerata e gettando occhiate per il corridoio
attraverso la spia.

--Ma questo cuoco?

Giunse in vece sua un recluso dei fatti di maggio. Che aveva? Era
egli ammalato? Nessuno ne sapeva niente e nessuno ci voleva dire
niente. Alle nostre interrogazioni, si rispondeva con smorfie che
suscitavano una curiosità maggiore. Che cosa gli era capitato? Il
direttore lo aveva condannato a quindici giorni di cella di rigore
e di camicia di forza. Che cosa aveva fatto? Quando lo sapemmo, lo
buttammo tutti idealmente dalla finestra, come si fa con una
persona della quale non si voglia più ricordarsi. Egli si era
appaiato con uno della sua specie.

Dopo quest'uomo triviale che ci ha trascinati nei bassifondi della
malavita, è una consolazione ritornare alla superficie dove sono
esseri di una morale un po' più sostenuta.

Il 598 era il modello di tutti quanti ho conosciuti. Egli gode la
fiducia del direttore e non ne abusa. È fedele, è rispettoso, è
astemio e lavora dalla mattina alla sera come un martire. Va da un
corridoio all'altro senz'essere accompagnato dalla guardia. È il solo
che esca tutti i giorni dallo stabilimento--accompagnato, si intende,
dall'agente di custodia--a portare la corrispondenza alla direzione
dei reclusori ed è il solo che vada fino a Finalmarina a prendere i
medicinali.

Un giorno, mentre il buon Pascotto stava spolverando la lampada della
nostra camerata, gli domandai perchè non scappava.

--Voi non avete più che dodici anni da fare. Ma pensate che la vita è
breve, accidempoli! Nei vostri panni io non esiterei un minuto. Mi
servirei della casacca per insaccarvi la testa del mio guardiano e
obbligarlo a sciupare del tempo a distrigarsela e poi direi: gambe
mie, aiutatemi! Continuerei a fuggire senza mai voltarmi indietro.

Non smise neanche di strofinare la lampada. Per lui erano tutte
sciocchezze. Lui non era uomo da lasciarsi scaldare la testa. Prima di
tutto aveva la sua pena da espiare e non intendeva sottrarvisi se non
gli si faceva la grazia. Aveva violata la legge e la legge doveva
essere rispettata. Ai suoi tempi era stato un bulo e anche un
grassatore di strada. Ma adesso aveva fatto giudizio ed era, per lui,
un piacere mantenersi sulla via retta. La fuga poi, per un povero
cristo, era una ridicolaggine. Come si poteva scappare colla catena o
cogli abiti del galeotto?--E quando siete al largo e cercato
dappertutto dagli agenti di polizia, dove andate a nascondervi? La
vita del fuggiasco è più grama di quella del recluso. Credetelo. E
come troverete da mangiare in giro, senza amicizie e senza denari?
Rubando. E io non farò mai più il ladro.

Egli mi rispondea da uomo emendato, e il mio pensiero incanagliva e
trepidava, preparandosi una fuga clamorosa e spettacolosa. Lui mi
parlava di ridicolaggine e di catena, e io sentivo il mare che si
frangeva fracassosamente sulla spiaggia di Finalmarina. Lui si vedeva
inseguito dai cagnotti sguinzagliati dalla giustizia che non dà
tregua, e io mi gettavo sul mare supino e, a forza di gambe,
raggiungevo la nave straniera che mi accoglieva a bordo a braccia
aperte. Il 598 si vedeva impacciato, perseguitato e morto di fame. Io
mi sentivo libero, sulla piattaforma inglese o americana, circondato
da migliaia di persone che mi salutavano con dei battimani fragorosi e
mi riempivano le tasche di dollari o di sterline udendomi raccontare
le avventure della mia fuga e il periodo della fame de' miei amici
della quinta camerata!

Il 77 era il lavandaio. Era alto come un palo telegrafico, secco come
il merluzzo e giallognolo come la pelle di un giapponese. Con il suo
collo esile, sormontato da una testa poco voluminosa, con le sue
braccia lunghe appese alle spalle come cose floscie giù rasente il
corpo, con la sua faccia piena di rientrature, pareva uno scheletro
ambulante.

Gli occhi, nascosti nelle occhiaie profonde sotto le tettoie ossute e
pelose, sembravano focolari di delinquenza. Erano in essi i guizzi del
delitto che facevano passare per la schiena l'aria fredda.

Tutte le volte che lo guardavo, mi obbligava a liberarmi dai fremiti
che mi suscitava con degli scotimenti di spalle. La sua bocca a culo
di gallina e il suo mento che tirava da sinistra a destra, mi
riassumevano il tipo del luogo.

Aveva la mano denutrita e le dita lunghe del fantasma. Si movevano
come tentacoli. Prendevano la biancheria sporca con un movimento
meccanico. Sul cuore del 77 era il listone nero del suo trasporto, e
sulla sua testa gibbosa era il berretto giallo a spicchio che lo
incadaveriva.

Come tutti i sanguinarii, era di modi carezzosi. Parlava con dolcezza
e non si lamentava mai della sua sorte. Una volta che gli domandai se
pensava di rientrare nella vita sociale, mi offerse una presa di
tabacco con una spallata di sprezzo. Pareva volesse dire: Società
ingrata, non avrai le mie ossa! I suoi compagni mi dicevano che era
religiosissimo. Non mangiava mai senza farsi il segno della croce e
non andava mai sulla branda senza prima essersi inginocchiato a
ringraziare il Signore Iddio di averlo mantenuto buono anche in quella
giornata.

Tra tutti i condannati della quinta camerata preferiva don Davide. Il
sacerdote nel camiciotto del recluso gli faceva sanguinare l'anima.
Non gli pareva giusto che un uomo di «talento», come diceva lui, fosse
in prigione per avere del «talento».

Don Davide si soffiava il naso sovente a Finalborgo. Aveva preso un
raffreddore che gli era divenuto cronico. E il lavandaio, di nascosto,
gli lavava un fazzoletto al giorno e glielo portava pulito e piegato
come una cosa proibita dal regolamento.

L'udito del 77 era molto difettoso.

C'era un recluso che aveva già scontato otto anni e che anche nel saio
della casa di pena non aveva perduto la caratteristica del mestiere
che esercitava prima di essersi intriso le mani nel sangue dei suoi
simili. Lo si vedeva e si pensava al palcoscenico. Egli non poteva
essere che un calcascene. Il suo viso era una ditta teatrale. Una di
quelle facce grassottelle di venticinque anni, con la carne biancastra
della gente che va a letto quando la notte sfittisce, con
l'ombreggiatura per la mezza faccia della barba fitta e nera che ha
subito il contrappelo e con gli occhioni dalle pupille fulgide nella
vivezza lattiginosa che inondano l'assieme di una bontà infinita.

La sua vita di «scrivanello»--una vita che lo lascia libero tutto il
giorno e gran parte della notte--non gli ha fatto dimenticare che gli
mancano quattro anni, anni che egli chiamava quattro secoli anche
quando gli si diceva che la sua liberazione non poteva essere lontana.

Le lettere che riceveva dalla famiglia gli rinverdivano le speranze
ogni tre mesi, ma, tra l'una e l'altra del trimestre, aveva dei
momenti neri di ipocondria. Gli pareva che più nessuno pensasse a lui.
Prima che venisse l'indulto me ne fece leggere una la quale gli dava
l'idea che finalmente il sovrano si era commosso del suo stato. Egli
era convinto che S. M. stava per firmare la sua grazia. Ma il giorno
che mi vide partire senza novità per lui, ricadde nella disperazione.

--«Non mi dimentichi!» mi disse. E dicendolo si asciugava gli occhi,
volgendosi dall'altra parte. «Se posso ritornare a casa, le assicuro
che non mi vedranno più in questi luoghi. L'ho scontata troppo cara
per dimenticare la vita del recluso. Poi ho la mamma e la sorella che
mi vogliono un bene dell'anima. Lei ha letto l'ultima loro lettera e
può dire se hanno del cuore.»

Di mattina, era addetto al medico. Registrava la medicina da mandarsi
a prendere. Dopo, andava per le camerate a raccogliere le ordinazioni
mangerecce, e nel pomeriggio, fino magari dopo la mezzanotte, rimaneva
con un galeotto perpetuo a preparare gli specchietti del movimento
amministrativo quotidiano.

Il suo numero di matricola era il 2107.

Prima dell'attore veniva da noi, col libro della spesa e il calamaio
attaccato per un lembo di pelle al bottone della giacca, uno
scrivanello che aveva ammazzato un carabiniere il quale lo aveva
sorpreso a svaligiare una _carbona_ (casa) fuori di porta Magenta.
L'omicidio gli aveva dato modo di rimanere fuori dalle unghie della
giustizia per parecchi mesi. Ma la gatta, anche dopo una paura
maledetta, va al lardo fin che vi lascia lo zampino. E un bel giorno
lo agguantarono con degli altri ladri o degli altri grassatori e lo
mandarono in galera con una sentenza di vent'anni.

Era recidivo, qualche _colpo_ gli era andato bene e sapeva adattarsi
all'ambiente in un modo meraviglioso. Quando la direzione non lo
imbestialiva coi conti che gli aveva affidato, non si accorgeva di
essere in un reclusorio. Lasciava l'ufficio verso mezzanotte e dalla
spia della nostra camerata lo rivedevamo al lavoro prima delle
quattro.

Qualche volta, se la guardia che lo accompagnava non gli era vicino,
gli dicevo che faceva male a lavorare tante ore in un periodo in cui
gli operai che mangiano meglio si agitavano per un orario quotidiano
di otto. Vi ammalerete e andrete al cimitero senza rivedere Milano.

Mi rispose che stava meglio in ufficio che in infermeria, ove poteva
coricarsi e alzarsi presto senza svegliare alcuno. L'infermeria è uno
stanzone lunghissimo con delle finestre libere dai cassoni e con due
filate di letti quasi sempre vôti.

--Come, vi lamentate di dormire sulla materassa?

--Non mi lamento, ma lei non sa....

--Datemi del voi, gli dissi celiando. Sapete bene che il regolamento
proibisce ai detenuti di servirsi di un pronome che non sia di seconda
persona plurale.

--Giusto, voi non sapete che in letto--anche sulla materassa--sto
male. È l'unica cosa alla quale non sono mai riuscito ad abituarmi. Il
galeotto è incatenato alla branda. Ora, mettetevi nella mia posizione,
e vedrete che darete la preferenza al pisolino sulla scranna dello
scrivanello. La lunghezza della catena non mi permette che di mettere
il piede in terra dalla parte dell'anello e di rimanere, se non voglio
scorticarmi, in una posizione supina. Il letto, per me, è una tortura.

Fu lui che ci iniziò ai pasti dei peperoni, dei pomidori,
dell'insalata di cipolle e di patate coll'aglio e di fagiolini tirati
fuori dalla pasta del convento, quando la minestra era coi fagioli.

Egli è piuttosto piccolo, con la pelle sulla faccia scura e butterata,
con gli occhi un po' loschi e con le estremità del taglio della bocca
non esattamente equidistanti. È tutt'assieme una figura rapace.

Lo abbiamo perduto per avere alzato il gomito. Poco abituato a bere,
un giorno era riuscito ad ubbriacarsi. Lo trovai nel letto della
infermeria incatenato alla branda, con la cuffia di cotone bianco
sulla fronte, che stava aspettando la sbriacatura.

--Che cosa fate? gli domandai.

--Non ho potuto alzarmi alla solita ora per un po' di vino brusco.
Accidenti al vino brusco!

All'indomani, o qualche giorno dopo, il direttore lo mandò nell'altro
reclusorio a mia insaputa e io non ho potuto restituirgli lo
Stecchetti che mi aveva imprestato per passare il tempo.

Lo scrivanello lo sapeva quasi tutto a memoria.



__Fra i passatempi dei condannati.__


Fra i passatempi dei condannati giornalisti nel Reclusorio v'era pur
quello di mettere in versi i fatti che destavano qualche impressione.
Come saggio pubblico le seguenti strofe di don Albertario. La notte
dal 26 al 27 novembre una libecciata terribile devastò la sponda
ligure e recò gravi danni in mare e in terra. A Finalborgo furono
schiantati alberi, trasportati dal vento comignoli e tetti; il camino
della caldaia a vapore del Reclusorio di Finalborgo venne spezzato a
metà, cadde sull'infermeria del carcere, sprofondò il tetto e, per
prodigio, non schiacciò nei loro lettini gli ammalati. Al mattino si
celebrò il fatto doloroso, con le strofe di don Albertario:

      O cielo di Liguria, o ciel furioso,
    E quando, dimmi, la farai finita
    A ridonarmi il sol, la nostra vita,
    Che tieni dentro al guardaroba ascoso?

      Qui, dal tepido mar, dall'alpi algenti,
    Scendon sul lido alla battaglia atroci
    Scirocco e Tramontana, e a lor veloci
    Schieransi intorno i bellici tormenti.

      Dense le negre nubi e gonfie d'ire
    In groppa ai venti stendonsi pel campo;
    Il tuono scoppia inseguitor del lampo,
    De' mostruosi guerrier folle è l'ardire.

      Dalle cime native il ghiaccio chiede
    Borea e lo muta in grandine funesta;
    Libeccio intanto del Tifone appresta
    L'arma a Scirocco che terribil riede.

      «Pel Simun, rugge, per le arene e il fuoco
    «Del genitor deserto, il giuro al cielo,
    «In fra le nevi porterò lo sgelo
    «E di Borea il mugghiar farassi fioco.

      «Siccome nebbie spersi carovane,
    «Come fuscelli sprofondai navigli,
    «Ho atterrato i leon quasi conigli; ... ,
    «Rido del soffio delle Tramontane.»

      Sì dice--e fiero e furibondo attacca
    Con Libeccio e Tifon, colle saette
    Sferza Aquilon dalle scoscese vette
    I suoi guerrieri e lo Scirocco fiacca.

      Le navi trottolâr nell'oceáno,
    E in un baleno l'inghiottisce il gorgo;
    Crollano torri e case; a Finalborgo
    Del fornello il camin vien raso al piano.

      O cielo di Liguria, o mar Tirreno,
    E quando l'aure e l'onde tue saranno
    Serene e quete ed avrà fine il danno
    Orrendo inflitto al dolce lido ameno?

    Non fia sicuro sullo stelo il fiore,
    E allo stranier che ti sospira ed ama.
    Colle tempeste appagherai la brama
    Di qui svernar sul suolo dell'amore?

    Torvo risponde il Ciel: «Allor letizia
    «Del suo sorriso abbellirà la terra,
    «Quando fien salvi i prigionier di guerra,
    «E a splender torni il sol della giustizia.

    «Ma fin che a Finalborgo, tra le pene,
    «Giaceranno innocenti, il mar col flutto,
    «Col vento il Ciel, semineran tal lutto
    «Che in pianto scioglierà fin le catene.»



__Costantino Lazzari.__


Tra l'ottanta e l'ottantatrè i pionieri del movimento marxista
continuavano a battere il chiodo che, se si voleva organizzare i
mestieri, bisognava costituire un partito puramente operaio, il quale,
a suo tempo, avrebbe potuto trasformarsi in partito socialista
italiano. Parecchi operai, che studiavano e frequentavano i circoli di
studi sociali, si misero a concionare in questo senso, e subito dopo
la morte di Carlo Marx la loro organizzazione si potè dire iniziata.

Ormai, si disse, l'operaio farà da sè. Chiunque si occupava di
questioni sociali e non aveva i calli del lavoratore alle mani, veniva
considerato una specie d'intruso. Lo si vedeva negli angoli dei
meetings come un rognoso.

Coi pregiudizi che pullulavano nella testa operaia e con la stampa che
blatterava di progresso e dava eternamente ragione agli intascatori di
lavoro non pagato, senza un giornale che stimolasse, che aiutasse, che
confortasse, che difendesse e che rivelasse la vita che si svolgeva
negli stabilimenti padronali, gli operai non avrebbero potuto tener
duro.

Un giornale era necessario. Senza di esso sarebbero stati calunniati,
schiacciati. Non si domandarono neanche chi di loro sapeva scrivere o
chi di loro sapeva mettere assieme un foglio qualunque. L'esperienza
li avrebbe fatti andare sulle pedate degli altri. Il loro partito era
nuovo e nuovi dovevano essere gli scrittori. Non si trattava di
scrivere in ghingheri. Si trattava semplicemente di dire chiaro e
tondo che cosa volevano, dove tendevano, a che cosa aspiravano. Non
altro. E il _Fascio Operaio_--voce dei figli del lavoro--il 29 luglio
1883 era già nelle mani del pubblico. Lo scopo della pubblicazione era
condensato in queste parole di Malon stampate a destra, in corpo otto,
sotto il titolo del giornale: «Se non pensano a far da loro gli operai
italiani non saranno mai emancipati.»

Nel primo articolo intitolato «chi siamo e che cosa vogliamo»,
dicevano apertamente che erano «operai nel più stretto senso della
parola, cioè, operai manovali».

«Siamo i figli di quella immensa moltitudine a cui la vita non è
concessa che a patto di una perenne produzione--di quella classe che
lavora e soffre, senza adeguati compensi--che vede il frutto delle
proprie fatiche aumentare le ricchezze dei capitalisti.»

L'attività dei redattori del _Fascio Operaio_ era infaticabile.
Restando al lavoro, tenevano conferenze ogni sera, organizzavano la
lega di resistenza ogni volta si trovavano coi compagni, e scrivevano
articoli ogni settimana. In due mesi la «voce dei figli del lavoro»
seppe preparare e inaugurare un Congresso operaio a cui il _Fascio_
mandava il suo saluto «perchè i congressisti erano puramente dei
lavoratori che si ispiravano alla loro coscienza di lavoratori».
«Siate uomini nuovi, diceva loro. Due siano le vostre stelle polari.
L'eguaglianza di tutti gli uomini in faccia alla giustizia e
l'indipendenza della personalità umana.»

Il _Fascio Operaio_ discuteva i problemi operai, polemizzava coi
giornali che si occupavano dei redattori e dei loro articoli,
decomponeva, a poco a poco, il Consolato operaio nelle mani dei
romussiani, e attaccava, con qualche violenza, la democrazia al dorso
del _Secolo_, chiamandola «vile». Cavallotti, che fino dai tempi del
_Gazzettino Rosa_ aveva imitato don Margotti, tenendo nella sua casa
il casellario degli uomini pubblici--casellario che se venisse
pubblicato adesso sorprenderebbe molti e susciterebbe polemiche
infinite--si era occupato anche dei redattori del _Fascio_ e
specialmente di Costantino Lazzari, il quale, oltre essere il
redattore capo del Fascio, era l'anima del partito operaio.

Per capire l'importanza dell'accusa contro Costantino Lazzari, bisogna
ricordarsi che nell'86 Cavallotti aveva già assunto il carattere di
_leader_ parlamentare ed aveva già iniziato il sistema di inseguire e
snidare i corrotti dovunque li trovava o li sapeva.

Nel salone dei Giardini Pubblici, ove aveva finito di parlare
Cavallotti sulle elezioni generali, non appena il redattore capo del
_Fascio_ si permise di domandare la parola, si sentirono voci
spaventevoli.

--Fuori le spie! fuori le spie!

Chi erano le spie? I redattori del _Fascio_. Ma l'indiziato era
Costantino Lazzari. Tanto è vero che nel questionario, che invitava
Cavallotti a dare «risposte categoriche in nome della verità e della
giustizia», c'era questa interrogazione:

--È giusto paragonare il compagno Lazzari ad un agente di polizia?

Cavallotti non volle mai smentire l'accusa e non volle mai dire
pubblicamente su quale documento era basata. Ma tutti gli amici
dell'autore di _Anticaglie_ sapevano e sanno che l'accusa era basata
su una ricevuta di cinquecento lire, firmata da Costantino Lazzari,
nelle mani di Nicotera, ministro dell'interno. Chiunque di noi
l'avesse veduta senza cercare altro, non avrebbe potuto venire ad
altra conclusione. Cioè che Costantino Lazzari non aveva schifo dei
fondi segreti. Ma la cosa non è così. E ne parlo appunto per
distruggere una calunnia che perseguita Lazzari da parecchi anni. Non
lo si può dire prudente, questo no. Prendere del danaro per un partito
senza domandare da che parte venga, con la scusa che il denaro non ha
«odore», è un po' arrischiato. Ma in verità Costantino Lazzari entrò
come un sorcio nella trappola. Non sapeva del tranello. Gli si
esibirono cinquecento lire per il partito in un momento elettorale, le
prese, e le consegnò intatte al partito senza curarsi d'altro. Un
fatto consimile è avvenuto tra i socialisti di Londra. I _tories_
diedero parecchie centinaia di sterline a un _leader_ socialista per
moltiplicare le candidature socialiste tra il candidato _tory_ e il
candidato liberale. Il giuoco era che col terzo candidato i liberali
avrebbero perduto i voti che venivano dati ai socialisti e quindi qua
e là dei collegi. Si gridò al _tory money_, come qui si gridò alla
spia. Ma il _leader_ inglese e il _leader_ italiano poterono salvarsi
mostrando, come Walpole, le mani pulite.

Dopo questo fatto il _Fascio Operaio_--del quale parlo perchè è come
parlare di Costantino Lazzari--e il partito operaio subirono le
violenze prefettizie e passarono attraverso un uragano indemoniato. Il
Comitato Centrale del partito operaio italiano venne sciolto, il
_Fascio Operaio_ sospeso e la redazione intiera messa sotto chiave al
Cellulare per ottanta giorni. I condannati furono cinque, tra i quali
Costantino Lazzari, a tre mesi di carcere e a trecento lire di multa.

E il _Fascio Operaio_ risorse, dicendo che «il socialismo è un gigante
che nessuna forza può vincere».

In Costantino Lazzari è rimasta l'avversione del Fascio Operaio per
gli «intrusi». Un socialista dottore o avvocato o scrittore o
ingegnere o architetto gli fa torcere il viso dall'altra parte. Ha per
tutti costoro un'antipatia invincibile. Li chiama i socialisti dal
panciotto bianco o i socialisti dal _gilé de gess_.

Si dice che la gratitudine non sia il suo forte. Ma è indubitato
ch'egli, giovanissimo, si è dato la briga di soccorrere la sua
famiglia povera, e di mantenere alle scuole di Milano una sua sorella
e un suo fratello.

Ha rinunciato alla carriera commerciale per dedicarsi completamente al
socialismo. Ma le vicissitudini dell'esistenza tribolata gli hanno
fatto riprendere la via di prima. Egli è ora commesso viaggiatore. È
stato in prigione più di una volta. Ma i giorni di Finalborgo gli sono
ancora sullo stomaco. Perchè il Lazzari si considera il povero
Fornaretto del processo dei giornalisti. Egli era nell'Umbria ed è
andato in galera per i tumulti di Milano!

Ha un'istruzione tumultuaria, è un conferenziere improvvisatore, ha
una tendenza sentita verso la misantropia, ed è disgustato degli
uomini e della vita.

Se dovessi riassumere Lazzari, direi, con Tommaso Grossi, ch'egli è un
«orso mal leccato».



__Si muore di fame.__


Per ricordarmi di queste giornate negre, ammucchiavo le mie
impressioni sui margini, sui frontispizi e sotto e sopra gli indici
dei libri. Mi servivo di un moncone di lapis che tenevo nascosto tra
il dorso e la legatura di un volume, il quale rimaneva con me giorno e
notte. I libri che giovano di più al prigioniero sono quelli che
offrono più spazio.

Quelli che hanno cinque o sei pagine bianche prima di arrivare alla
prefazione, che incominciano e finiscono i capitoli con dei vuoti
preziosi, che sono stampati in modo da lasciarvi una linea tra una
riga e l'altra e che terminano in fondo col lusso della entratura. A
me, per esempio, sono stati di grande giovamento la grammatica tedesca
del dottor Friedmann e le _Ascensioni Umane_ del Fogazzaro. Mi hanno
permesso di scrivere un volume su ciascun volume. Se dovessi ritornare
in prigione e qualcuno volesse regalarmi qualche libro, non dimentichi
di dare un'occhiata agli spazi.

Copio, o meglio completo i periodi coi riempitivi che lasciavo fuori
per economia.

«Il periodo della fame venne inaugurato stamane, sei settembre. Se lo
avessi saputo prima, ieri sera mi sarei imbottito con un pranzo
luculliano. Non si è mai contenti. Era una giornata che ci aspettavamo
di minuto in minuto, ed ora che è giunta troviamo che è giunta troppo
presto. Io poi, che non ho tanti denari da spendere, non dovrei
tormentarmi con queste seccature di gola. Tanto più che mi rincresce
di stare a tavola cogli amici, che non sono capaci di mangiare in
santa pace il loro pranzo, senza costringermi, con la massima
gentilezza, ad assaggiare un po' di questa o di quella pietanza.
Adesso siamo pari. La nostra mensa è diventata la mensa degli uguali.

«Che cani! Ci hanno portato via penne, calamai e lapis. Sono venuti a
prendere i libri per registrarli. Ho domandato il permesso di scrivere
una lettera per comunicare agli amici l'avvenimento, ma mi si è detto
che il regolamento non mi autorizza a scriverne che una al mese.
Chiesi, che è alla reclusione, non può scriverne che una ogni tre. A
proposito, egli è alla reclusione, e rimane con noi. Dunque non c'è
differenza che nelle spese e nelle lettere. Lui può spendere
venticinque centesimi e noi, alla detenzione, trentacinque.

«Non riuscirete mai, signori aguzzini, a farmi capire l'utilità
sociale di impedirci di scrivere per tenerci qui a guardarci l'un
l'altro. Seguitiamo a chiacchierare sulla dieta. Nessuno ha paura. Se
non sono morti quelli con la catena che la subiscono da anni senza
migliorarla col sopravitto, vuol dire che non si muore.

«Le latrine sono indecenze primitive. Mi sono messo con la faccia alla
ferriata della prima finestra e sono stato lì per recere. Sotto, nel
cortile, è un mastellone nascosto da un murello a curva, che lascia
venir su una puzza velenosa. È il mastellone dei condannati addetti ai
lavori domestici. Il direttore di questa casa di pena deve avere
l'olfatto molto ottuso. In tutto il penitenziario non c'è una latrina.
Ciascuno fa i suoi bisogni come in un bosco. Peggio che in un bosco.
Perchè qui non potete alzarvi e andarvene via. Qui vi si lascia il
mastellone che riceve il materiale di tutta la camerata tutto il
giorno e tutta la notte. Non lo vuotano che alla mattina e nel
pomeriggio. Noi, per fortuna, non siamo che in sette. Immaginatevi il
fetore costante di una camerata di settanta o ottanta individui! C'è
però un guaio anche nella nostra. In alto alla parete sono due
finestrucole che comunicano con una camerata piena di reclusi. Di
notte e di giorno riceviamo la loro atmosfera appestata e siamo
condannati a sentirli trullare come maiali!

«Non è la prima volta che mangio la pagnotta, ma era un pezzo che non
la sbocconcellavo. Me la hanno portata e mi sono ricordato degli
ultimi tozzi di pane bianco che ho dato al recluso che ci porta il
barile dell'acqua. Come sarebbero buoni, adesso! In un reclusorio non
mi aspetto il pane di fantasia. Ma certamente mi aspetterei un pane
migliore di questo. I cavalli ne mangiano del più buono. Le nostre
sono pagnotte di mollica ammassicciata. Non è la mollica pastosa,
duttile, allungabile, come quella del pane dei signori. È una mollica
friabile, di un colore brunastro e di un sapore sciapito.

«Ho sempre sentito dire che la crosta solida è un indizio della bontà
del pane; Dev'essere abbondante, fitta, resistente, cotta bene. Questa
è molle, sottile, che si stacca senza fatica, che ritiene la ditata
non appena la premete leggermente. Ha un colore tra il rosso-bruno e
il giallo-dorato.

«Fanno sul serio. È cessata anche la pulizia domestica. Prima ci
facevano scopare la camerata e lavare la gamella dai galeotti. Adesso
ci si è detto che la cuccagna è finita. Benissimo. Non marciremo
neanche per questo. Il male è che con la minestra condita d'olio la
latta rimane unta. Senza acqua calda ci ungiamo come guatteri e ce le
laviamo male. Ciascuno di noi si è scelta la giornata di pulizia.
Lunedì Lazzari, martedì Federici, mercoledì Valera, giovedì Chiesi,
venerdì Ghiglione, sabato don Davide, domenica Suzzani. È un movimento
igienico. Si puliscono e si mettono a posto i tavoli e si scopa due
volte il giorno. I più volonterosi e i più abili sono indubbiamente
Lazzari e Federici. Entrambi scopano adagio, passano l'arnese sotto le
brande, si fermano a far uscire i crostini dalle commessure tra
mattone e mattone e tra pietra e pietra e si tirano a dietro il
materiale fino in fondo, senza lasciare per la via polvere e briciole.
Scopa bene anche don Davide, ma non con la diligenza degli altri due.
Se al sabato si dimentica del suo turno, il Chiesi, gli grida subito
alle spalle:

«--Non più privilegi e non più privilegiati!

«Il Ghiglione, campagnolo, scopa male, lo fa di mala voglia e pulisce
i tavoli come un uomo che si senta umiliato.

«La direzione di qualunque casa penale vende ogni mese la _Rivista di
discipline carcerarie_, diretta dal Beltrani-Scalia, direttore delle
carceri (ora, come si sa, ha preso il suo posto il Canevelli). Lo
scopo della rivista è pio. È di assistere con delle sottoscrizioni i
figliuoli derelitti dei condannati. Una cosa la quale vi suggerisce
che la società punisce più i figli che i genitori. Perchè mette sotto
chiave i secondi e lascia sulla strada i primi.

«Le ultime pagine sono occupate dal movimento dei liberati dagli
stabilimenti penali durante il mese. In agosto hanno lasciato uscire
54 uomini e 6 donne per grazia sovrana, 299 uomini e 12 donne per
indulto e 31 maschi e 2 femmine condizionalmente.

«La tabella dei liberati condizionalmente prova che l'Italia è più
crudele d'ogni altra nazione. L'Inghilterra, punto tenera pei suoi
delinquenti, dà loro modo, colla buona condotta e col lavoro
persistente, di guadagnarsi tre mesi su ogni anno. Conquistandosi il
numero fisso di marchette, il condannato, poniamo, a sei anni, è
sicuro di non rimanere in carcere che quattro anni e mezzo. Il nostro
sistema non assicura nulla al condannato e premia la condotta
incensurata con una lesineria che fa piangere. Deduce, su per giù, da
un anno a un anno e mezzo per ogni dieci anni di galera!

«Ne scelgo uno. N. A., di Napoli, contadino, condannato a dodici anni,
è uscito a 37 anni, dopo avere scontato una pena di undici anni ed un
mese!

«Nella stessa tabella si nota che la donna subisce gli stessi rigori.
A. L., di Palermo, entrata nella casa di pena a 38 anni, con una
condanna di vent'anni per omicidio, è uscita dopo una pena di diciotto
di lavori forzati. Che tigri!

«Aggiungo che la liberazione dei condannati non dovrebbe mai essere
lasciata all'arbitrio del direttore--il quale è, novantanove volte su
cento, parziale e crudele.

«Non so se dipende dalla dieta. Ma con una dieta scellerata e
insufficiente ho perduto persino la voglia di leggere. In un mese non
sono riuscito a rileggere il primo volume dei _dieci anni_ di Louis
Blanc. Sbadiglio spesso, e spesso, dopo una specie di torsione alla
regione epigastrica, mi istupidisco in un sopore che mi spaventa. I
miei amici di camerata mi dicono che mangio troppo poco e che butto
via troppo sovente la minestra. Non so che farci. È una minestra che
mi ripugna e che non so ingoiare nè asciutta nè col brodo. Ci sono dei
cani liberi che la lascerebbero nella scodella. Ho notato una certa
sonnolenza anche negli altri. Più di una volta ho veduto Federici
fermarsi sulla pagina, coi gomiti sul tavolo e la faccia nelle palme.
Alle undici antimeridiane d'ieri ho sorpreso don Davide che
dormigliava sul breviario. Anche Lazzari subisce la stessa legge di
prostrazione. Rimane assopito per delle ore. Forse è perchè egli legge
troppo di notte. In Chiesi ho notato che la sua respirazione notturna
è diventata più rantolosa.

«Ci hanno portato di sopra delle lettere piene di cancellature. A noi
che abbiamo il limone per diseppellire le parole dai neracci del
direttore, importa poco. Ma mi piacerebbe che qualcuno, mi rivelasse
l'utilità di queste soppressioni di parole. Una volta che siamo
condannati, che cosa deve importare a voi che qualcuno ci faccia
sapere un breve minuto della vita del mondo dal quale siamo stati
espulsi con tanta violenza? È una cretineria da mettersi con le altre
che si commettono in questi luoghi.

«Il mio amico Mario Borsa, corrispondente londinese del _Secolo_, mi
manda una rivista mensile per tenermi al corrente dei grandi fatti
europei. Una rivista estera non può impensierire alcuno. Qui
impensierisce. Il direttore mi ha fatto chiamare in direzione per
dirmi che non poteva darmela perchè ci sono in essa articoli che si
occupano di cose che non devo sapere! Suppongo per un minuto che vi
sia qualche narrazione sui fatti di maggio. Nossignore, me la nega
perchè vi è un articolo sulla guerra tra gli Stati Uniti e la Spagna!
Sono o non sono un giornalista? Una società che corregge e non abbia
per compito di mandarmi fuori imbecille, dovrebbe procurarmi, anche a
proprie spese, le riviste ed i giornali che mi dovrebbero tenere al
corrente di tutto ciò che avviene. Non vi pare? Anche al Chiesi hanno
trattenuto delle riviste francesi per le stesse ragioni. Asini!

«Piove. Quando piove, il condannato perde il diritto all'aria e al
moto delle gambe. Senza uscire dalla gabbia si diventa di umore nero.
È una meraviglia che uno non s'avventi sull'altro. Ci si tiene nella
camerata sino a quando il cielo si rasserena. E in questa regione,
quando incomincia a diluviare, è capace di tirare innanzi senza
interruzione per una settimana. Nella camerata al dorso della nostra
sembrano diventati tanti leticoni indiavolati. Di tanto in tanto
qualcuno si sfoga gridando: aria! In uno stabilimento di tanta gente
ci dovrebbe essere anche il passeggio coperto. Ma non ci si pensa.
Perchè il bestiame in galera può crepare senza inumidire l'occhio
sociale.

«La visita del medico che abbiamo avuta ieri l'altro mi ha fatto un
effetto strano. Mi parve un uomo incaricato di venire a vedere se
avevamo ancora delle giornate da vivere. Sì, o signori aguzzini, siamo
languidi più di ieri, ma non siamo ancora moribondi. Anche col vitto
insufficiente possiamo vivere degli anni.

«La nota di ieri è stata un po' baldanzosa. Si indebolisce lentamente
e lentamente mi pare che si perda la memoria. Stamane, parlando degli
affamati americani al polo Nord, non ho saputo rammentarmi il nome del
generale che venne trovato inconscio vicino al cadavere di un nero che
gli era stato fedelissimo. E non me lo ricordo neppure adesso. Questo
fatto mi mette addosso del freddo. Credo che a grado a grado ci
avviamo verso l'abolizione della intelligenza. Usciremo delle pagine
bianche. Non sapremo più neppure di essere stati in prigione!

«Siamo calati tutti di peso. Il pancione di don Davide è rientrato di
molto. Forse sarà l'effetto della rasatura dei baffi, ma il naso di
ciascuno di noi mi riproduce il naso dell'allampanato. Anche il
Federici è dimagrito. Parla poco e fa dei pisolini ripetuti con pochi
intervalli. A Chiesi si sono formate le scodellette sotto gli occhi.
Il naso di Ghiglione pare il becco adunco dell'aquila. La faccia di
Suzzani è accesa e si è spiritualizzata. Egli mi ha detto che si sente
di tanto in tanto dei dolori dietro l'orecchio destro. Noto tutto
senza spiegare nulla. Lazzari ha avuto degli stringimenti pilorici.
Dorme poco, e durante il sonno parla con delle interiezioni di dolore.

«A me non passa più nulla. Federici mi ha dato un cucchiaio della sua
magnesia effervescente. Per una concessione speciale egli può
tenersene un vaso e farselo riempire quando è vuoto. Se ne prende una
cucchiaiata ogni mattina in due dita d'acqua. Mi ha fatto bene. Ho
potuto trangugiare la gamella di pasta senza gli impeti di repulsione.
Sento che mi ritornano le forze. Leggo e più rapidamente. Ieri ero
proprio in uno stato compassionevole. Ho dovuto domandare il permesso
di adagiarmi sulla branda. Mi sentivo vicino al deliquio. Sdraiato,
ebbi degli assopimenti leggeri. Mi pareva di essere in decomposizione.
Rimasi più di tre ore col dorso completamente abbandonato allo
stramazzo. Non sentivo più che il languore delle braccia ed un certo
calore insolito alle tempia.

«Il grido che si muore di fame è nell'aria.--Tutte le camerate ci
fanno chiedere dei bocconi di pane. Noi, che soffriamo un po' tutti di
inedia, mandiamo gli avanzi delle nostre pagnotte ai 35 minorenni
della camerata quasi in faccia alla nostra. Tra loro sono pochissimi
quelli che possono spendere per il sopravitto. Devono essere tutti
poveri o figli di poveri. Don Davide, che ha tra loro il suo chierico,
va a dir messa spesso collo schianto del cuore. Gli rincresce di non
avere sempre un boccone di pane da dargli. Quel ragazzo patisce la
fame sotto la sorveglianza governativa! Se fossi direttore dello
stabilimento butterei via lo stipendio. Non saprei mangiare coi piedi
sotto la tavola senza pensare al battaglione di affamati sotto la mia
custodia. Il grido dei minorenni mi sospenderebbe il boccone in gola.

«Stanotte sono stato svegliato da un grido acuto di qualcuno che stava
male nella camerata al dorso della nostra. Non ci ha lasciato più
dormire. Aveva il rantolo bronchiale ed emetteva gemiti che si
ripetevano anche dopo che la guardia gli vociava dalla spia:

--«Fate silenzio, che domani andrete dal medico!

«Un compagno deve averlo soccorso con una goccia d'acqua. Ho sentito i
suoi piedi nudi che correvano da una parte all'altra.

«Come deve essere triste morire in questo luogo!

«La luce misurata dai cassoni alle finestre finisce per indebolirci la
vista. A me si è dilatata la pupilla e Lazzari si lamenta di non avere
un paio d'occhiali. L'indebolimento gli ha come paralizzato i nervi
ottici.

«Alla domenica c'è sempre speranza di rifarsi lo stomaco con una
gamella di brodo e 250 grammi di carne. È sovente una grande
disillusione. Più di una volta si è obbligati a sbattere via tutto. Il
brodo è grasso con gli occhi dell'olio alla superficie che fanno venir
voglia di vomitare, o è magro come l'acqua bollente. Manca sempre di
sale. Quello di stamane vale un fico secco. La carne è peggiore. La
carne di questa domenica è squamosa, sciapita, dura come il corame.
L'ho voltata e rivoltata sotto i denti senza riuscire a masticarla.
Pazienza, aspetterò quella di domenica ventura. Siamo sotto l'azione
del regime forcaiolo da qualche mese e non abbiamo veduto neppur
l'ombra della commissione. Questi signori, che assumono una carica
così importante e poi la trascurano, meriterebbero un po' di
reclusione. La loro assenza dovrebbe essere considerata un delitto.
Ah, se fossi io il loro giudice! Farei mozzar loro le orecchie come ai
tempi della buona Elisabetta.

«Il pane di stamane è esecrabile. Sente dell'acido del lievito che ha
tentato di farlo levare prestamente. Mi par di sentire il gesso sotto
i denti. La mollica umida ha qua e là dei punti biancastri che
rivelano la qualità infame della farina. Ghiglione ci consola
dicendoci che prima, quando lo facevano i galeotti nello stabilimento,
era più buono. Adesso, coll'appalto, è malcotto, pesante,
indigeribile. L'indigestione di un pane come questo produce a tutti
noi effetti straordinari. Sembra che ci fermenti nel ventre. Un'ora
dopo ci sentiamo tutti gravidi. Lo si fa con una farina di quarta o
quinta qualità e con poco o nessun glutine. Preferisco ancora la
pagnotta che i signori danno ai cavalli.

«Anche i galeotti che lo mangiano da tanti anni se ne lamentano e
farebbero un «fuori! fuori!» se non avessero paura di un rincrudimento
di rigore. Sarei contento che una volta o l'altra mi si processasse
per diffamazione. Io non domanderei che la testimonianza dei sei
compagni della quinta camerata e il permesso di citare una cinquantina
di galeotti e un centinaio di reclusi. Proverei come due e due fa
quattro che la qualità del pane è infimissima e che alla reclusione si
imbecillisce dalla fame. Sarebbe uno dei processi più emozionanti di
questo secolo.

«Ho trovato modo di eliminare la pasta dal mio cibo quotidiano. Non
sapevo mandarne giù che qualche cucchiaiata e con ripugnanza. Un
galeotto mi ha raccontato ch'egli vive da anni con l'insalata di
patate e cipolle. Mi sono messo sulle sue pedate una settimana e non
mi trovo malcontento. Qualche volta mi sento sazio. Le patate
potrebbero però esser più buone. Ne butto via una su tre. Si vede che
sono il rifiuto delle corbe. Quasi tutti ci siamo dati all'insalata di
patate e cipolle. L'olio è troppo cattivo e peserebbe troppo sui miei
trentacinque centesimi. La condisco col sale e coll'aceto. Più di una
volta vi aggiungiamo i fagiuoli che troviamo nella minestra di pasta.
Sono fagiuoli bianchi. Compero pure qualche spicchio d'aglio. Ho
dovuto eliminare definitivamente anche il pane. Non potevo più
ingoiarlo. Abbiamo protestato sovente e qualcuno di noi se ne lamentò
col direttore e col sottocapo. Ma all'indomani ritorna peggio di
prima. C'è stato un giorno che non lo si volle in nessuna camerata.
Molti rifiutanti vennero castigati con della cella di rigore. In
prigione non si sa come fare. Se si protesta si è puniti e se non si
richiama con questa misura l'attenzione dell'autorità carcerarie, si
mangia come bestie.

«Tutto il mio essere sta in piedi con trentacinque centesimi al
giorno. Ecco come li ho spesi stamane. Ho comperato cinque centesimi
di sapone, dieci di pane bianco, cinque di patate, tre di cipolle, due
d'aglio, tre di sale, cinque di fichi secchi e due di carta per la
pulizia. La carta per i bisogni corporali e il sapone non dovrebbero
essere a spese del condannato. Come? volete educarmi, e mi impedite di
tenermi pulito e di lavarmi come si lavano tutti i cristiani! I fichi
secchi ho dovuto gettarli nelle immondizie che raccogliamo
nell'angolo. Li aprivo, e uscivano i bachi. Don Davide, mi fece
dimenticare i fichi con un motto latino. _Sursum corda. Sit gressus ad
superiora; melius est ascendere_. In alto i cuori. Volgiamo i passi
alle regioni superiori; è miglior cosa salire.

«Siamo fortunati che non c'è specchio. Ci spaventeremmo. Sento che la
pelle della faccia mi stiracchia da tutte le parti.

«Ho dovuto comperarmi due centesimi di refe per trasportarmi il
bottone dei calzoni. Senza bretelle, li perdo. Sono diventato magro,
magro. Ho i miei dubbi che si esca tutti. Ho sempre avuto schifo dei
sorci. Ma se ce ne fosse uno abbrustolito lo mangerei con l'appetito
dei parigini durante l'assedio della loro capitale. È strano che non
ci siano topi in questo vecchio edificio. Noi non ne abbiamo mai
veduto uno. Ci sono parecchi gatti. Ma rimangono tutti nel cortile e
sono sotto la protezione di una guardia alta, addetta alle celle di
rigore. Un gatticidio potrebbe costarmi parecchi mesi di cella di
rigore e di camicia di forza.

«La ciarla si è ammorzata. Non parliamo più tanto. Una lettera
suscitava, settimane sono, una discussione che durava delle ore.
Adesso la si legge e la si lega con le altre. Sembriamo tanti
nevrastenici. La nostra conversazione è diventata monosillabica. Ci
guardiamo difficilmente in faccia.

«Ho comunicato a Federici i miei timori. Ho paura di uscire idiota. Ci
sono dei momenti in cui sono obbligato a mettermi la mano sulla testa
per paura che mi scappi il pensiero. Egli mi disse che è dovuto alla
mia cocciutaggine di non voler mangiare abbastanza. In carcere bisogna
essere alliatrofago. Inghiottire ogni cosa, anche se ributtante. Con
trentacinque centesimi non si può vivere. E con trentacinque centesimi
mi compero il limone, il sapone, il refe, gli aghi e i bottoni che
perdo. I bottoni sembrano stati attaccati con gli sputi. Son sempre in
terra. Questa mane al passeggio mi sono lustrato le scarpe. Il
sottocapo mi disse che erano indecenti. Erano ormai divenute rosse.

«Ha ragione Federici. E poi tutti i giorni insalata! Son tre giorni
che mi brucia lo stomaco e non la mangio più con lo stesso piacere. Mi
danno 100 grammi di bue in umido per quattordici centesimi. Ma è
necessario uno stomaco foderato di rame per trangugiarlo. A me ha
provocato la nausea.

«Ho notato che Federici verso gli ultimi del mese diventa più cupo.
Pare che incominci a pensare al suo colloquio. Non sono che lui e don
Davide che hanno la consolazione di vedere qualcuno che non sia di
questa casa maledetta. Dopo il colloquio con la sua signora, Federici
risale gaio, amico di tutti, coi saluti per tutti.

«Come mi farebbe bene una goccia di cognac! Mi tirerebbe su lo stomaco
e mi ridarebbe le forze perdute. Il mio corpo deve avere una
calorificazione incompleta. Stanotte mi sentivo freddo. O piuttosto mi
pareva di avere in me un umidore freddo che mi andava dalla radice dei
capelli alle unghie dei piedi. Provavo la sensazione di un organismo
che sta raffreddandosi. Sommerso nell'ombra e nel silenzio
m'intenerivo. Mi sentivo le lagrime in gola e non piangevo. Che cosa
pagherei a essere un fisiologo consumato! Potrei uscire con un diario
completo sulle sensazioni della fame. A me pare che ne risentano tutti
gli organi. Sono spossato dappertutto. Il cervello pare vuoto, la
testa è indolenzita e pesa due volte, le braccia sentono il bisogno di
rimanere adagiate, i polpacci delle gambe paiono carichi di piombo e i
piedi mi danno l'idea che stiano per slogarsi. E tuttavia, dopo i
primi giorni, non ho mai provato le insurrezioni di una fame canina.
Mastico senza piacere come un automa.

«I miei movimenti sono diventati lenti e faccio fatica a tener aperti
gli occhi. Sono determinato a rifarmi con la pagnotta, ma la mia
determinazione non val nulla dinanzi all'atonia dell'apparecchio
digestivo. La forza digestiva è come interrotta. Ieri sera stavo
facendo il letto e ho dovuto sedere sul materasso due volte. Mi
sembravo vicino al deliquio. Federici è stato buono anche questa
volta. Mi ha dato un cucchiaio di magnesia effervescente. L'ho bevuta
col piacere che da lo champagne. Ho respirato più liberamente.

«Ghiglione è andato dal medico. Non ci ha detto nulla. È egli
ammalato? Non è ammalato?

«Vi sono andato anch'io, ma solo per domandargli il permesso di un
bagno. Io mi immergo sempre con piacere nell'acqua. Non capisco come
le persone possano tirare innanzi degli anni senza mai buttarsi
addosso un secchio d'acqua. Pulitevi, se volete star sani!

«Nessuno dorme profondamente. L'insonnia è generale. Qualcuno parla o
straparla. Stanotte ho dovuto confessare alla guardia scelta di ronda
che stavo proprio male. È andato in infermeria e mi ha portato una
polverina di bismuto e magnesia. È un'infermeria che non ha nulla.
Tutti gli ammalati sono curati con delle polverine di calomelano, di
bismuto e magnesia e di bicarbonato di soda. C'è qualche pennellata di
tintura di iodio per i reumatismi e i dolori acutissimi e basta. Il
cavadenti è un condannato. È un vero miracolo che egli non abbia mai
smascellato qualcuno. Il suo sistema è questo: mette la testa del
paziente sulle ginocchia, gli guarda in bocca, si fa puntare col dito
il dente cariato, l'agguanta con la tenaglia e tira. Spesso, nello
sforzo, si levano in piedi operatore e paziente e l'uno segue l'altro
fino alla parete. A una di queste operazioni era presente don Davide.

«Siamo salvi o per lo meno siamo salvi per un po' di giorni. La
signora di Federici è riuscita a far passare del cioccolatte. Deve
avere sgelato il cuore della direzione. Federici ha incominciato
subito col distribuirne due pezzi a ciascuno di noi. Mi sentii
immediatamente ristorato. E non ne ho mangiato che uno. Il secondo
sono stato capace di tenerlo in tasca fino alle sei di sera. Poi ho
cominciato a scartocciarlo con l'intenzione di non rosicchiarne che un
angolo e non ho smesso che a tavoletta finita. Ingordo!

«Ho passato una buona notte e alla mattina mi sono messo a leggere di
gusto. Credendo che fosse permesso a tutti di mangiare del
cioccolatte, ho scritto subito a casa di mandarmene due chilogrammi.
Son stato chiamato dal capo, il quale era incaricato dal direttore di
farmi sapere che il cioccolatte non è nel regolamento. Al Federici
venne dato perchè era giunto come pacco postale e a sua insaputa. Se
giungesse anche a me, a mia insaputa, si potrebbe fare lo stesso.

«Ci sono state annunciate delle cassette, di biscotti. Sarebbero stati
provvidenziali. Li abbiamo aspettati per due giorni. La direzione ci
ha fatto comunicare che potevamo rimandarli a chi ce li aveva spediti
o regalarli all'ospedale di Finalborgo. Non potendo mangiarli noi,
abbiamo votato per gli ammalati.

«Federici, ci tiene in piedi col suo cioccolatte. Non appena ci si
porta la pagnotta, egli va da tutti con una tavoletta e li costringe
ad accettarla. Una tavoletta di cioccolatte in galera, nella nostra
condizione, val un tesoro. Pochi se ne disfarebbero con tanta
sollecitudine. Bisogna avere del cuore per compiere sagrifici come
questi.

«Novità. Ci deve essere qualcuno che lavora per noi. Il periodo della
fame che produce le allucinazioni è finito. È venuto un ordine che ci
permette di spendere settantacinque centesimi al giorno. Abbiamo
subito domandato il permesso di farci fare, a nostre spese, una
minestra collettiva da venticinque centesimi ciascuno. Ci è stata
concessa.

«Incominciamo a smutriarci. Facciamo delle spanciate di baccalà fritto
per venti centesimi. Beviamo quasi tutti un quarto di vino per nove
centesimi. È brusco, accidenti se è brusco! Io e Lazzari siamo
ritornati al pane bianco. Anche Chiesi e Suzzani si son dati al pane
bianco. Don Davide e Federici resistono e continuano col pane della
casa. Il piatto più buono sono le uova al burro arrostite, per
ventidue centesimi. Vi manca però il burro e se c'è lo vedono appena.
Non poche volte sono putrefatte, ma a lamentarsi ce le cambiano. Ci si
dà una tazza di caffè per dieci centesimi. È una tazza di un
boccalino, ma imbevibile. Io e don Davide abbiamo tenuto duro per
qualche settimana, ma abbiamo dovuto rinunciare anche a questo lusso.
Nella tariffa dei generi in vendita nella dispensa, è stata introdotta
la polenta. Con otto centesimi ce ne danno trecento grammi. È buona.
Con ventisei centesimi di salsiccia in umido e una sleppa di polenta,
inaffiata dal quinto di vino, non si crepa. Mi duole che la
concessione della spesa sia stata accordata alla sola nostra camerata.
E le altre, non sono piene di reclusi stati condannati dagli stessi
tribunali militari per un identico delitto?

«Sette dicembre. Non si muore più di fame. Il Governo ci ha inviato il
commendatore Berardi a comunicarci personalmente che da oggi possiamo
mangiare e spendere quello che vogliamo noi. Egli è già stato a
comunicare la stessa notizia al Romussi e al De Andreis nel reclusorio
di Alessandria e a Turati in quello di Pallanza.

«Ecco che cosa mi ha detto:

--Io sono un ispettore inviato dal Ministero. So che lei adesso non
può spendere che settantacinque centesimi e che questo aumento non le
è stato concesso che pochi giorni sono. Da oggi io posso comunicarle
ch'ella può spendere per il suo vitto cinque o anche dieci lire al
giorno, se lo desidera. Non c'è limite. Se non le piace la cucina del
reclusorio può servirsi dell'osteria o dell'albergo di fuori. Desidera
qualcosa altro?

«Uno dopo l'altro gli domandammo due _arie_, cioè tre ore di
passeggio. Perchè un'ora sola, lesinata anche quella, non ci dava
esercizio sufficiente per conservarci sani:

--Concesso, rispose a ciascuno di noi. Desidera qualche cos'altro?

--Se si potesse fumare qualche sigaretta.

--Lo domanderò al direttore. Se fossero completamente separati dagli
altri, non esiterei a dire di sì senza interrogarlo. Lei sa che cosa
voglia dire il vizio di fumare. Gli altri che sentissero il fumo
impazzirebbero e farebbero un chiasso indemoniato e non avrebbero
torto. D'altro?

--Lei sa che noi siamo tutti bevitori di caffè. Se ci permettesse di
comperarci la macchinetta, il caffè, lo zuccaro, lo spirito e di
farcelo quando vogliamo noi, in camerata?

--Concesso. D'altro?

--Scusi, se abuso.

--Faccia, perchè io sono venuto qui per contentarli.

--Grazie. Senta, ci sono libri che il signor direttore non ci consegna
perchè si ostina a considerarli immorali o pornografici. Lei sa che
noi siamo abituati a leggere tutto.

--Concessi. D'altro?

«Mi curvai. Egli mi strinse la mano. Così va fatto.»

...............................................

«Sono uscito con l'indulto. L'indulto è una remissione di pena, è un
perdono. Chi ve lo ha domandato? E se non ve l'ho domandato perchè non
mi date il permesso di rifiutarlo? Non so che farmene del vostro
perdono.

«Sono uscito arciconvinto che nei reclusori italiani si istupidisce la
gente con la fame.

«Un anno di reclusione, con seicento grammi di pane in due razioni e
due mezze gamelle di pasta in brodo al giorno, basta per ritornare
alla società secchi come chiodi e col cervello completamente
rammollito.»

PS.--Permettetemi di aggiungere due parole alle note di Finalborgo.
Sono stato perdonato, non è vero? Ma, o signori, o cosa direste se io,
legge, vi mettessi sotto chiave per dei mesi e poi vi perdonassi? C'è
stato un processo, lo so. Non siamo mica stati mandati alla reclusione
così alla cieca. Ci si è detto che avevamo commesso un delitto. Ma
anche noi, o signori, abbiamo detto e ridiciamo che ci si è mandati in
galera innocenti. E se siamo stati mandati in galera innocenti, non
c'è che una via alla riparazione. Rifare il processo, restituirci
quello che ci si è tolto e risarcirci dei danni. Il risarcimento dei
danni vogliamo, o signori, che ci avete mandati in galera e ci avete
lasciati fuori come mendichi che avessero limosinato l'indulto. Non
altro.



__Achille Ghiglioni.__


Sono sicuro che se Achille Ghiglioni dovesse autobiografarsi, si
presenterebbe ai lettori come un uomo senza importanza. Al Castello,
nella stanza lungo il ballatoio che dà sul cortile della Rocchetta
egli, con grande modestia, si meravigliava di trovarsi impigliato nel
processo dei giornalisti.

Con noi, nella quinta camerata di Finalborgo, è stato il modello degli
uomini industriosi. Si alzava e si metteva al lavoro. In un giorno
egli studiava, senza mai stancarsi, un po' di tedesco, un po' di
olandese, un po' di spagnuolo, un po' di musica, un po' di manuale del
capomastro, un po' di stenografia, un po' di disegno, un po' di
computisteria, un po' di letteratura moderna, un po' di Porta e un po'
di altre cose che non ricordo.

Egli è entrato ed è uscito un tenace cooperatore.



__Io e Federici ritorniamo a Finalborgo.__


La «catena» era composta di noi due. Il vagone cellulare era nuovo e
non puzzava di biacca. Le celle erano assai più comode delle altre del
primo viaggio. I carabinieri non sembravano cattivi diavoli. I ferri
erano noiosi, ma non ci pigiavano i polsi come le altre volte. Chiusi
nelle due celle in fondo, l'una in faccia all'altra, vicini alla
finestra del vagone, non mancavamo di qualche boccata d'aria.

Ricordandomi dei due viaggi, mi dicevo contento.

--Almeno qui, non si crepa. Mi misi in bocca una sigaretta con un po'
di fatica e con un po' di fatica riuscii ad accendermi Io zolfanello.

Federici attraversava la tempesta. Era tetro, non diceva nulla e non
rispondeva alle mie interrogazioni, che volevano distrarlo, se non con
dei monosillabi che non invitavano alla conversazione. Forse si
sentiva umiliato a rifare la strada che conduceva a un reclusorio dal
quale era uscito con tanto piacere, dove erano persone che non amava
rivedere o persone con le quali non avrebbe scambiato una parola, gli
fosse costata la lingua.

Verso Sampierdarena i lineamenti facciali di Federici assunsero una
parvenza di dolcezza. L'uomo stava per convincersi che era inutile
lottare contro l'invisibile. Eravamo nelle mani di sconosciuti che ci
sbalestravano da una parte e dall'altra e bisognava adattarsi. Anche a
me sarebbe piaciuto andare in un altro reclusorio, dove avrei potuto
raccogliere del materiale nuovo, dove avrei potuto fare la vera vita
del galeotto con dei galeotti autentici, dove avrei potuto studiare
tipi che nella quinta camerata non avrei mai trovato. Ma pazienza,
ormai mi hanno abituato a fare la volontà degli altri.

A Sampierdarena il nostro vagone venne staccato e lasciato fuori dalla
tettoia. C'era un intervallo di due ore e mezza. Era un'altra
punizione che avremmo scontata se i carabinieri non avessero avuto
fame. Avevano appetito, volevano mangiare col sedere sulla scranna, e
dare anche a noi il modo di far colazione più comodamente che
ammanettati nella cella. Ci domandarono se volevamo cavarcela con
qualche cosa di asciutto in cella o se preferivamo di andare alla
sezione dei carabinieri con loro. Io non esitai un minuto a votare per
l'uscita. L'idea di muovermi e di respirare l'aria libera mi metteva
gli aghi nelle gambe.

L'indugio di un attimo mi diventava un supplizio. Mi faceva salire le
fiamme alla faccia e mi dava l'impressione che soffocavo. Federici era
riluttante. Lui e Romussi, nel viaggio di traduzione, avevano imparato
che per le strade, di giorno, si attira l'attenzione di tutti i
passanti. Vinse l'aria libera. Uscimmo e fummo contenti. La gente
sostava sulle botteghe, i ragazzi ci correvano dietro, i passanti si
fermavano a vederci, alcuni commentavano, ma noi passavamo senza
darcene pensiero. Ormai ci avevamo fatto il callo.--Chi ci conosce ci
conosce e chi non ci conosce felice notte.

Giunti alla sede dei carabinieri ci si chiuse in uno stambugio buio
più di una cantina, esalante la mefite. Incominciavamo a dolerci di
non essere rimasti in gabbia.

--Piuttosto che mangiare in questo luogo, preferisco la fame.

--Anch'io. Ma vedrai che non saranno tanto cani.

Stavano a farci preparare la tavola.

Facemmo colazione nella loro cucina, la quale aveva una larga apertura
verso il cortile. Mangiammo due ossi buchi indimenticabili. Erano
eccellenti. Bevemmo del vino eccellentissimo, e facemmo scomparire un
pezzo di formaggio di gorgonzola bianco e un'alzata di uva e pesche
saporitissime.

--Vogliono anche il caffè?

--Vada per il caffè!

--La Cassazione ha parlato e può darsi che questa sia l'ultima
colazione dell'uomo libero.

--Non pensiamoci. Ce ne sono tanti in galera e non sono morti.

I carabinieri dicevano anche loro che la bestia non era poi così
brutta come la si dipinge.

--E poi loro! ci si diceva. Usciranno più presto di quello che
credono. C'è tanta agitazione per il paese.

--Sembra che non ci siamo che noi in prigione!

Il maresciallo della caserma era un uomo tarchiato, con una faccia
grossa e grassa da bonaccione.

--Li condurrò alla stazione in carrozza per non farli passare traverso
la folla.

--Grazie.

--Pagheranno la vettura!

--S'intende.

Alla stazione venimmo circondati da una moltitudine che aumentava di
minuto in minuto.

Entrammo in un vagone di terza classe. È stata una vera sorpresa. Non
eravamo mai stati così bene.

Prima che suonasse il campanello della partenza, un signore ottenne il
permesso di salire sul predellino a stringere la mano a Federici.

--Faccia buon viaggio.

--Grazie.

Il signore era commosso. Federici con le mani legate non aveva potuto
stringergliela come avrebbe voluto.

--Partenza!

Il maresciallo ci salutò con un gesto della mano.

Al reclusorio trovai il capo guardia in collera.

--Lei si lascia intervistare!

--Da chi?

--Lei si lascia intervistare dai giornalisti per dir male del
Reclusorio.

Mi vennero in mente parecchi giornalisti che erano venuti a trovarmi
nel camerotto indecente della Corte d'Appello di via Clerici. Chi sa
che cosa mi avranno fatto dire!

--Lei si lamenta!

--Certamente che io sto meglio fuori.

--Non doveva entrare se non le piaceva!

--Non ci sono venuto spontaneamente.

--E va bene, loro hanno sempre ragione!

--Mi faccia leggere questa intervista e le dirò se quello che ho detto
è esatto.

--Gliela farà leggere il direttore!



__I lavoratori della quinta camerata.__


Erano dei mesi che intisichivamo dietro la speranza che un giorno o
l'altro ci avrebbero restituiti il calamaio e la penna. Senza la
distrazione di vuotarci la testa coll'inchiostro, non sapevamo che
infelicitarci con discussioni pessimistiche o nere fino in fondo. Non
vedevamo che delusione e dolore. Anche quando traluceva qualche lampo,
si finiva per intetrarci o immusonirci assai più che seduti sotto le
finestre di faccia a Capra Zoppa, senza una parola.

Non ci si proibiva di leggere. Ma si legge male in una camerata e in
una camerata ove gli individui sono padroni di fare quello che
vogliono. Tu leggi, e gli altri chiacchierano. Tu leggi, e due amici
ti passano innanzi e indietro sussurrandoti il coro:

    A casa, a casa, amici,
    Ove v'aspettano,
    Le vostre spose.

Tu leggi, e un compagno zufola e rizufola per il lungo e per il largo,
per delle ore, l'_Inno dei lavoratori_ e subito dopo, un altro, te ne
canticchia la prima quartina, ricominciandola con sempre crescente
piacere:

    _Su fratelli, su compagni.
    Su venite in fitta schiera,
    Sulla libera bandiera
    Splende il sol dell'avvenir._

Tu leggi, e due altri passeggiano, come in una caserma, o lungo un
corridoio, o nel cortile, con le braccia sulla schiena, battendo i
tacchi, scombussolandoti il pensiero col tremuoto dei piedi. Tu leggi,
ed ecco un animale che si sveglia di soprassalto, con dei versi in
bocca:

    _Me non nato a percuotere
    Le dure illustri porte,
    Nudo accorrà, ma libero,
    Il regno della morte._

Tu leggi, e nasce una conversazione che ti prorompe nel cervello come
una gazzarra di voci, ma che finisce per piacerti e uncinarti a
prendervi parte. Tu leggi, e un prigioniero si sbottona e ricorda
aneddoti contemporanei che ti fanno chiudere il libro, tanto sono
interessanti. Tu leggi, e un agente del reclusorio ti chiama dabbasso,
in direzione, per una cosa che ti si poteva dire con un monosillabo, o
anche fra cento anni. Tu leggi, ed entrano i battitori a scomodarti e
a rintronarti le orecchie. Tu leggi, e suona la campana della
distribuzione della minestra e del pane. Tu leggi.... Credetelo, in
una camerata perdete l'illusione di potervi sommergere in un libro per
ritornare alla vita rifocillato di qualche cosa.

Col permesso di scrivere, il nostro tempo penale si accumulava e si
accorciava rapidamente. Qualche volta si avrebbe voluto che la
giornata di diciassette ore fosse più lunga, per avere modo di
prolungare la gioia del lavoro. C'era tra noi la gara degli operai a
cottimo. Ci si alzava e ciascuno andava al proprio posto. Chiesi e
Federici avevano un tavolo nello spazio in fondo, a fianco della
finestra. Il primo scriveva dalla mattina alla sera, senza mai
smettere che all'ora dei pasti o quando aveva bisogno di stiracchiarsi
le braccia, appendendosi al bastone più alto dell'inferriata. Senza i
libri necessari per un'opera descrittiva, o storica, o politica, egli
si era votato interamente al romanzo--un lavoro, da quello che vedevo,
che non gli costava che la fatica manuale. Non è mai a secco nè di
idee nè di scene. Dotato di un apparecchio digestivo che non gli
annoia il cervello, e arciricco di vocaboli, egli poteva prendere la
penna ad ogni minuto, digiuno o col boccone in bocca, quando pioveva a
diluvio e quando il sole si riversava nella nostra camerata come
un'allegria. Alla mattina riprendeva il filo del racconto senza
neppure degnarsi di leggere l'ultima frase e, dopo la colazione, il
passeggio e il pranzo, ricominciava come se non vi fosse stata
interruzione. Il Sue si popolava il tavolo, sul quale scriveva, di
pupazzi per tenere a mente i personaggi che gli nascevano a mano a
mano che entrava nella intimità del romanzo. Gustavo Chiesi ha potuto
completare _Il Corpo di Ballo_--un romanzo d'ambiente che racchiude
tutta la popolazione del palcoscenico della Scala--senza sciupare più
di alcuni nomi scritti sul cartone dei fogli che produceva. Il suo
modo di composizione è dei più semplici. Incomincia la prima riga e
tira via senza mai voltarsi indietro, cioè senza mai dare un'occhiata
alle cartelle che la sua penna ha ammonticchiato. Non cancella che di
rado, una volta o due alla settimana. Non potendo leggere il suo
manoscritto per la sua calligrafia illeggibile, non lavora di lima che
sulle bozze. Ma è difficile ch'egli si permetta di alterare una frase.
Sul suo stampone non vedete ai margini che poche correzioni o dei
segni che paiono lasciati giù da una mosca che lo abbia percorso con
le zampe umide d'inchiostro. Perchè la frase gli esce limpida,
corretta e brunita, come da una officina. In pochi mesi ha scritto tre
romanzi, letto parecchi volumi e mantenuta una corrispondenza
abbastanza voluminosa.

Il secondo, cioè Federici, si alzava sempre prima di ogni altro, un
po' perchè amava il pediluvio quotidiano, e un po' perchè gli piaceva
diguazzare del catino più lungamente degli altri. Iniziava i suoi
lavori con una spanciata di verbi inglesi, che egli si trangugiava
tranquillamente, tra un passo e l'altro, fatti colla leggerezza e la
mollezza della gallina che non disturba. Lo si vedeva andare in su e
in giù, rasente le brande, colla grammatica sotto gli occhielli
scintillanti, o chiusa con l'indice tra le pagine, con la sinistra sul
collo della destra o cogli occhi che vagolavano per il soffitto come
quelli dell'inspirato o dell'uomo che manda versi o prosa a memoria.
Dopo la distribuzione del pane, la quale avveniva verso lo ore otto,
sedeva e si metteva di schiena al lavoro di traduzione, divorando un
esercizio dopo l'altro, senza magari dire una parola.

E noi, fino a quando non si sapeva di che umore si era alzato, ci
guardavamo bene dal buttargli l'amo della ciarla. Perchè, malgrado la
gentilezza e la squisitezza d'animo, il Federici, era il compagno più
difficile della camerata. Non si sapeva mai da che parte pigliarlo.
Proprio nel momento in cui lo credevate il vostro migliore amico, poteva
scattare per un nonnulla o vi poteva tappare la bocca con una di quelle
parole solenni che arrivano alla testa come un pietrone, o vi poteva
isolare per un tempo indeterminato, senza mai accorgersi della vostra
presenza, anche se vi trovavate gomito a gomito o a faccia a faccia,
allo stesso tavolo. Terminato il boicottaggio, risentivate l'amico che
vi dava il buon giorno, che spartiva i suoi cinque centesimi di frutta
con voi, che vi dava, se ne aveva, con la miglior grazia del mondo, un
pezzo del suo cioccolatte eccellentissimo, o che si metteva con voi al
passeggio, ingolfandovi in una conversazione piacevole e spesso
istruttiva.

Il tempo che gli lasciava l'inglese lo consumava nella lettura.
Leggeva romanzi, filosofia, storia e tutto ciò che di buono gli
capitava tra le mani. In musica mi parve più che un orecchiante o un
buongustaio. Canticchiava sovente le arie popolari o più conosciute
delle opere moderne--sapeva dei pezzi di Wagner come e assai più del
Chiesi che aveva propalato e difeso il maestro di musica dell'avvenire
con uno studio, e correggeva le voci stonate degli altri che volevano
imitarlo.

Don Davide incominciava dopo la messa. Prima della messa passeggiava
impaziente. Se la guardia, che doveva accompagnarlo nella cappelletta,
ch'egli aveva l'audacia di paragonare a un'oasi nei claustri del
dolore, tardava un po', diventava nervoso. Anche noi, il mattino, non
appena in piedi, sentivamo un bisogno immenso di uscire da uno
stanzone dal quale l'afa se ne andava assai lentamente. Per il 2557 un
minuto diventava un secolo. Percorreva la camerata a passi lunghi, con
le mani sul dorso, sotto la giacca, con la faccia torva.

Lo si chiamava e si fingeva di credere ch'egli andasse a compiere i
suoi uffici divini fuori del Reclusorio.

--Don Davide, fate il piacere di comperarmi trenta centesimi di
sigarette virginia.

--Don Davide, se vedete il pollivendolo, mandateci a casa un'anitra,
sgrassata, come quella della settimana scorsa.

Don Davide, non dimenticate di passare dall'oste, che siamo senza
vino.

Don Davide, se trovate del pesce fresco, mandatene a casa una
padellata.

Rientrava ilare e pieno di scuse. Ci diceva che il pescivendolo era
alla spiaggia, che il tabaccaio era andato alla dispensa e che il
pollivendolo non veniva in paese che tre volte la settimana.

Si metteva al lavoro senza indugio. Il suo tavolino era tra il
finestrone e la sua branda. Si perdeva su suoi fogli di protocollo
fino a colazione. Durante il lavoro taceva volentieri, ma non andava
in collera se lo si interrompeva e se si faceva di tutto per fargli
perdere del tempo.

_Chiesi_: Don Davide, come state?

_Don Davide_: Bene, grazie.

_Chiesi_: Che cosa supponete che stiano dicendo, in questo momento, De
Andreis e Romussi?

_Don Davide_: È difficile indovinarlo.

_Chiesi_: Ve lo dirò io che cosa stanno pensando. Stanno pensando a
una chicchera di caffè buono, magari con una goccia di grappa
buonissima.

_Don Davide_: Piacerebbe anche a me, adesso, una tazza di caffè caldo
con uno spruzzo di grappa di quella che ho a casa mia, a Filighera!

Riprendevano il lavoro e poi ricominciavano il dialogo.

_Don Davide_: Che opinione hai tu questa mattina sull'amnistia?

_Chiesi_: Conosco Pelloux. È un soldato, ma un soldato che ha sempre
fatto parte della sinistra. È impossibile ch'egli si mangi il passato
in un boccone. Lascerà passare la tempesta per contentare un po' i
fanatici e poi, alla prima occasione, metterà nel discorso reale, per
guadagnare della popolarità al re, l'amnistia.

Interveniva qualcuno di noi a dire che un soldato non poteva dar torto
ai soldati.--L'amnistia che cosa vorrebbe dire? Che le sentenze
militari sono state ingiuste. E questo un generale non lo può dire.

_Chiesi_: Tu non conosci Pelloux. Nella sua vita parlamentare ha
dimostrato più di una volta di non essere quello che gli inglesi
chiamano un _martinet_ della caserma. L'esercito non può fargli
dimenticare che c'è della gente che soffre ingiustamente.

_Don Davide_: Vedremo.

_Chiesi_: Non sì tratta di voi, don Davide. Voi siete qui per «fini
speciali».

Don Davide intingeva la penna con un risolino, la piegava dolcemente
sul pezzetto di carta che si teneva a destra, e si rimetteva a
scrivere. Nessuno ha mai potuto leggere una riga dei suoi manoscritti.
Ma dai discorsi si sapeva ch'egli riempiva le pagine di impressioni,
di reminiscenze, di note autobiografiche, di vita giornalistica, di
articoli di polemica e di sfoghi poetici.

La sua calligrafia non fa mettere gli occhiali. È nitida e arieggia
l'inglesino. Non è quella dello scrittore che va via all'impazzata e
lascia agli altri la briga di capirla. Se il pane terroso non gli
aveva fatto peso o non gli aveva gonfiato il ventre, il pensiero gli
si sgomitolava senza interruzioni. Giornalista col fondaccio
letterario, gli piace, quando non è infuriato dalla rotativa, rifare
il manoscritto, senza toccarlo troppo o levargli la naturalezza della
prosa spontanea. Il suo stile è pastoso, la sua prosa calda, la sua
penna duttile, il suo periodo limpido come un cristallo. Con qualche
predilezione per la frase pariniana, rifugge dalle inversioni del
poeta del _Giorno_, che svogliano il lettore. L'ingiustizia gli scalda
il calamaio e gli fa produrre una prosa vigorosa, senza ridondanze e
senza i plebeismi del Baretti. Con o senza collera egli non è mai
volgare. Il suo ingegno poliedrico fa pensare a don Margotti. La
tendenza sentita negli scritti di don Davide è la mestizia o piuttosto
l'emozione.

Le tre mila lettere ch'egli ha scritto durante la sua
prigionia--lettere che potrebbero formare, per il pubblico cattolico,
un epistolario interessantissimo--ne sono un documento. Sono in esse
la sua bontà infinita, lo spandimento della sua anima mal rassegnata a
stare in prigione, l'affezione intensa per la gente ch'egli ama e che
lo ama, il perdono incommensurato per tutti gli avversari pentiti che
gli hanno tribolata l'esistenza a 52 anni, proprio quando, diceva lui,
si ha bisogno di un po' di vita buona.

In prigione non ha mai avuto rimpianti. Egli è sempre stato orgoglioso
del suo passato. Non ha mai avuto che parole d'amore per la sua penna
che l'ha mandato «tra i ferri anzichè adattarsi a mentire e adulare»,
come non ha avuto che trasporti per il suo _Osservatore Cattolico_
«divenutogli più che mai prezioso, ora che gli ha procurato il
carcere, e dato occasione di soffrire per la causa che difende e
dimostrare che seriamente anche in faccia alla morte, la difende e la
difenderà sempre.»

Costantino Lazzari consolava i suoi ozii forzati nel silenzio, nella
lettura, nel disegno. Taceva per delle ore, leggeva volumi ponderosi
senza sbadigliare, rileggeva i _Promessi Sposi_ con piacere, la _Vita_
di Benvenuto Cellini direi quasi con entusiasmo e il _Sant'Ambrogio_
di Romussi, superbamente illustrato, con ammirazione, e disegnava,
disegnava sempre. Disegnava galeotti, secondini, reclusi, frontoni del
reclusorio, compagni di camerata. Copiava danzatrici, madonne, bimbi,
uomini illustri, donne celebri, quello che trovava nelle riviste e nei
libri illustrati. Con la tenacia del volere è potere, dell'uomo che
vuol riuscire ad ogni costo, la sua matita faceva progressi
meravigliosi. Le sue figure prendevano forma, diventavano vive,
assumevano la grazia dell'arte.

--Perchè non smetti di fare il commesso viaggiatore e non ti dai
interamente al lapis che ti serve così bene e che ti darebbe una vita
meno stentata?

Perchè era troppo tardi, perchè non aveva fantasia, perchè l'artista,
per essere tale, non deve essere tormentato dai bisogni urgenti della
vita, perchè altri lo precedevano di parecchie miglia.

Non so s'egli abbia continuato e se continui. So che, se all'abilità
del disegno egli potesse aggiungere la sollecitudine, potrebbe
diventare un giornalista che illustra i suoi e gli articoli degli
altri. Egli non è l'ultimo dei ritrattisti. Ha disegnato un don Davide
seduto, vestito da galeotto, il quale resterà il suo capolavoro di
Finalborgo. Ci ha dato una mezza figura di Chiesi mirabile e un
Suzzani intiero, con la gamella in mano, che non dimenticherò
facilmente. Ma io sciupo le parole come il padre di Cellini che voleva
fare del figlio un suonatore di flauto e di cornetta. Cellini lo
contentava di tanto in tanto, con qualche pifferata. Ma continuava per
la sua strada a cesellare. Così sarà di Costantino. Egli diventerà
tutto fuorchè un artista.

Le ore della sera erano le più tranquille. Si passava come
dall'inferno al paradiso. Chiesi, Federici e don Davide--il primo in
mezzo e gli altri due in faccia--avevano una lampada a petrolio in
comune sui loro due tavoli riuniti. Noi quattro ci servivamo della
lampaduccia a luce elettrica, la cui poverezza di luce ci faceva
chinare sovente gli occhi, o ci lasciava per dei minuti sotto un
rossore crudele. Migliorammo la nostra condizione quando a furia di
guardarla ci accorgemmo che aveva del filo attorcigliato che ci poteva
servire per allungarla fin quasi al tavolo.

Tutto sommato, erano ore deliziose. Il chiasso delle camerate vicine
alla nostra cessava con la campana del silenzio. Salvo qualche gola
che sprigionava versi da dannato o qualche voce che dava fuori nel
sonno o qualche disgraziato che manifestava i suoi tormenti fisici con
degli: _oh Signor! femm morì, femm!_, potevamo supporci in un
sepolcro. Si poteva sentire la penna di qualcuno che s'impuntava sulla
carta, o il piede di cimossa di un sottocapo in giro a origliare e a
guardare attraverso i pertugi, o la respirazione di un recluso al di
là della parete, male adagiato. Lo starnuto di Lazzari, fatto a bella
posta per ricordarci che eravamo vivi, ci faceva trasalire o
sussultare come quando si sentono sulle spalle le mani degli
sconosciuti che vi dichiarano in arresto in nome della legge.

Si lavorava immersi nel lavoro. Chiesi a mettere in iscena i suoi
ballabili, don Davide a scrivere una epistola dopo l'altra per vivere
di ricordi e riallacciare i legami col mondo che lo conosceva, Lazzari
a riprodurre il momento storico dei tre lavoratori con un disegno
grandioso che toccava e ritoccava ogni sera senza dirlo mai finito,
Ghiglione a illustrare le parole di un dizionario tedesco con l'idea
froebeliana che chi legge _Himmel_ accanto a una chiazza di cielo e
_Frau_ dinanzi a una testa di fanciulla, impara una lingua e vapore e
non la dimentica più mai.

--Come farai, gli domandavo, a illustrare _ich habe kein Geld_?

--In un modo semplice. Mettendo tra le parole un individuo che si
fruga svogliatamente nelle tasche.

--Ma il tuo dizionario diventerà una montagna!

Federici allargava la zona dei suoi studi nella letteratura di altre
lingue, in manica di camicia, senza mai smettere, senza mai aprire
bocca, come se fosse stato obbligato dal regolamento carcerario a
divorarsi un dato numero di pagine, e Giovanni Suzzani si sprofondava
nei romanzi dell'editore Aliprandi, scoppiando talvolta in risate così
plateali e così rumorose che costringevano il secondino di guardia a
buttare per il buco un ordine imperioso:

--Silenzio!

In certe sere..... In certe sere nessuno lasciava cadere un libro,
nessuno tossiva, nessuno si muoveva come se avessimo saputo che
avevamo alle spalle gli occhi e le orecchie degli agenti incaricati
della sorveglianza notturna.

Ci capitava addosso la ronda, col lanternone fumoso, come una sorpresa
che metteva freddo.

--Sono le dieci!

Non ce lo facevamo dire due volte. In un minuto spostavamo i tavoli,
mettevamo carta e libri al posto, lasciavamo giù le brande, facevamo
il letto e ci buttavamo sul pagliericcio senza aver modo di cambiare
la camicia.

Chiesi era sempre il primo a toccare le lenzuola. Adagiato, con la
guancia sul guanciale, incominciava subito a ruggire come una belva
con una palla nella testa. Don Davide non dormiva subito. In letto,
con una coperta che non lo copriva completamente nè da una parte nè
dall'altra, sembrava un enorme cetaceo a mezz'acqua. Si voltava
faticosamente come un pachidermo. Federici si metteva sul fianco, con
un libro in mano, in una posizione da ricevere la luce sulle pagine e
continuava la lettura per un'altra mezz'ora. Poi mi diceva:

--Ciao, Paolino, dormi bene.

--Ciao.

Lazzari, sentone, con gli occhiali che gli aveva prestato l'amico
Scannatopi e che gli davano l'aria di una vecchia in collera, si dava
furiosamente alla lettura, leggendo cento, centocinquanta pagine di un
fiato, lasciandosi magari sorprendere dalla seconda ronda col libro in
mano.

Dove siamo adesso stiamo assai meglio che nella quinta camerata. Ma
pochi di noi, rientrati in questa vita vertiginosa, rigodranno la pace
delle serate intellettuali del reclusorio di Finalborgo.

L'uomo è un animale che rimpiange perfino la galera!



__Ulisse Cermenati.__


Non so se sia in lui il giornalismo nuovo. So che è giovine e che il
giornalismo lo ha stregato. Anche dopo che la professione gli ha fatto
rasentare la porta del reclusorio, non sa staccarsene. Con la penna
del giornalista gli pare di essere più uomo.

Dal processo è uscito di carattere piuttosto timido. È buono come un
marzapane e ricco al di là delle cento mila lire, ma gli manca
l'audacia giacobina. Tutti i testi, compreso il sindaco di Lecco, ce
lo profilarono con parole che andavano al cuore. Lo stesso Plutarco di
S. Fedele non seppe o non volle adagiarlo nei colori foschi delle
altre biografie.

Sul banco degli accusati lo consideravamo un problema professionale.
Dalla sua condanna o dalla sua assoluzione si doveva sapere se un
giornale potesse inviare sul teatro di una sommossa i suoi redattori,
senza che la legge dei tribunali militari li considerasse dei
partecipanti côlti con le armi alla mano.

--Dopo l'assoluzione, gli domandai un giorno che facevamo colazione al
Savini con un amico, che cosa ti è avvenuto?

--Nulla. Io, Seneci, Zavattari, Del Vecchio, socialista, e Invernizzi,
anarchico, fummo accompagnati a San Fedele da due agenti di P. S. in
borghese, in due carrozze a nostre spese. Nella prima erano Del
Vecchio e Zavattari, nella seconda io e gli altri due. Alla porta
della questura c'era la signora Seneci, colorata dalla morte, che
aspettava il marito con la paura di perderlo un'altra volta.

L'Invernizzi e il Del Vecchio vennero rinchiusi in un camerotto per
ordine del viceispettore Prina. Zavattari e Seneci vennero rilasciati
dopo le solite formalità. Zavattari, quando l'ispettore Latini gli
fece un'interrogazione, divenne un po' agitato. Non voleva sentire più
niente. Voleva andarsene sui monti e non pensare al brutto sogno
attraverso il quale era passato. Io fui sfrattato dalla provincia di
Milano, entro le ventiquattro ore.

All'uscita trovai l'ing. Ongania, sindaco di Lecco, e l'avv. Ignazio
Dell'Oro che mi aspettavano. Stavamo per andarcene, quando il
vetturale che mi aveva condotto alla questura mi ricordò la corsa.

--Dica, e la corsa?

Non mi si avevano ancora restituiti i denari. Il mio amico sindaco
tirò fuori subito il portafogli.

_Vetturale_: Scusi, lei è forse uno del processo dei giornalisti?

--Sissignore.

Diede una frustata al cavallo e via senza la corsa,

--Ho anch'io un cuore, diss'egli scappando.



__L'arresto dei redattori dell'«Italia del Popolo» narrato da un
testimonio.__


A me pare una scena che inchiuda Bava Beccaris. Una di quelle scene
che si svolgono con una rapidità straordinaria, e lasciano dovunque
tracce di un momento che passa alla storia. Rifacendola per il tuo
libro, il mio pensiero si commuove e si contrista come dinanzi una
sventura. Gli è come rivivere l'ora tragica, in cui la stampa si
lasciava strangolare senza neppure il grido della resistenza legale.
Ma non perdiamoci in considerazioni. Tu non ne vuoi. Voialtri del
giornalismo moderno non volete che il fatto nudo e crudo. Io crepo a
digerire i fatti nella prosa arida. Ma sia fatta la volontà di quelli
che sentono l'avvenire del quotidiano diverso dal mio.

La giornata era il 7 maggio 1898--una giornata piena di sole. I fatti
di Ponte Seveso e di via Napo Torriani avevano fatto scrivere al
direttore dell'_Italia del Popolo_ l'ormai famoso trafiletto
intitolato: «Ne erano assetati». Lo salto senza commenti, perchè tu
non hai bisogno di essere sequestrato. Tu non godi i privilegi del
_Corriere della Sera_, neppure in tempi ordinari. Il _Corriere della
Sera_, il quale nei giorni di Bava Beccaris è stato fratricida, ha
potuto, senza molestia di sorta, darlo e ridarlo, tale e quale, ai
suoi lettori, in tre edizioni consecutive. Il proposito del giornale
di via Soncino Merati non può essere sfuggito ad alcuno. Lo pubblicava
e ripubblicava con l'intenzione assassina di infuriare la mano
militare contro i redattori del giornale di S. Pietro all'Orto. Questa
è storia.

Potevano essere le quattro e mezzo. Mi sentivo spossato dalla fame e
dal lavoro e la testa confusa dagli avvenimenti. In redazione c'era
stato l'andirivieni della commozione cittadina. Sembrava una sala
d'aspetto. La gente era andata e venuta sbalordita, concitata,
terrorizzata. Gli sconosciuti entravano, raccontavano con la parola
spaventata dal loro spavento o esaltata dalla loro esaltazione e
scomparivano, senza magari lasciarsi mai più vedere. Erano i reporters
spontanei delle giornate tumultuose.

I locali dell'_Italia del Popolo_ li conosci. Si entrava dal portone
della casa di via S. Pietro all'Orto, si saliva al primo piano, si
passava dallo stanzone amministrativo, si voltava a sinistra, si
entrava nella sala di redazione, e si vedeva il direttore spingendo
l'uscio in fondo alla parete di fronte.

Il _reportage_ spontaneo era cessato. Nella direzione si trovavano
Chiesi e Federici--in redazione Ulisse Cermenati e l'avvocato
Valentini, il quale, come sai, scriveva, in quei giorni, degli
articoli finanziarii. Il Seneci era dabbasso in tipografia che
lasciava andare a casa gli operai, raccomandando loro di ritornare per
l'edizione di notte. Di fuori, dinanzi il locale di distribuzione, la
folla degli strilloni aspettava con impazienza l'ultima edizione della
giornata. Ne avevano vendute delle bracciate nella mattina e nel
pomeriggio, e s'impromettevano di spacciarne assai più nella sera. Il
pubblico era ansioso di sapere che cosa avveniva, ma la cronaca di
qualunque giornale non gli portava che fatti slegati e non gli diceva
come avevano avuto principio, se erano inanellati e perchè
continuavano.

La via di S. Pietro all'Orto venne occupata militarmente. Non
pensavamo neanche che si trattasse di noi. Io poi, che avevo dovuto
essere da una parte e dall'altra e mi ero convinto che Milano stava
per diventare una rete di cordoni militari, tirai via a chiacchierare
sui tumulti spaventosi senza badare a ciò che avveniva nella strada. I
fatti ci assorbivano. Come si erano compiuti? Chi li aveva provocati?
C'era stato scambio di fucilate? Chi sarà stato il primo a far fuoco?
Annegavamo nelle supposizioni senza venire in chiaro di nulla. Il
tavolo del cronista rigurgitava di note sanguinose, ma nessuna ci dava
la chiave della giornata. La nostra conversazione venne interrotta da
una moltitudine di piedi che sentivamo venire alla nostra volta. Erano
il viceispettore Prina, il delegato Gislon, e parecchi agenti in
borghese che invadevano gli uffici dell'_Italia del Popolo_.

Le prime parole che ci dissero furono che il giornale era sequestrato.
Una notizia che ci lasciò tranquilli. Non era la prima volta che ci si
capitava addosso coi sequestri. Ma il Prina non ci permise di tirare
il fiato liberamente, senza aggiungere che era dolente di comunicarci
«la cessazione del giornale fino a nuovo ordine». Il direttore rimase
senza sorpresa. Passammo in stamperia. Assistevano alla scomposizione
del giornale Chiesi, Federici, Cermenati e Seneci. Prima di risalire
negli uffici il Prina diede ordine di non permettere l'uscita ad
alcuno.

In redazione ci si disse:

--Ci rincresce, ma siamo incaricati di fare una
perquisizione.--Nessuno di noi rispose. Tanto e tanto il nostro
consenso o la nostra protesta non avrebbe contato per nulla. Si misero
a perquisire. Guardavano nei cassetti del direttore e dei redattori,
leggevano o scorrevano affrettatamente i manoscritti, raccoglievano le
cartelle scritte o incominciate per i tavoli e frugavano e
adocchiavano dappertutto. Intanto che avveniva questa operazione,
Federici si era affacciato alla finestra, proprio nel momento in cui
De Andreis riusciva, nella sua qualità di deputato, a passare il
cordone militare. Si protese e gli disse:

--Hanno sequestrato il giornale e stanno facendo una perquisizione.
Vieni di sopra.

Due minuti dopo era anche lui in redazione. Terminata la
perquisizione, il Federici chiese, come di legge, che si facesse il
verbale delle cose sequestrate. Uno dei due funzionarii rispose:

--Lo faremo in questura, dove abbiamo l'incarico di accompagnarli.
Loro signori sono invitati dal questore per delle comunicazioni.

_Cermenati_: Allora vuol dire che siamo tutti in arresto.

_Gislon_: Non abbiamo quest'ordine e non credo ci sia probabilità
d'arresto.

_De Andreis_: Come deputato protesto per la perquisizione e per la
violazione di domicilio, senza mandato dell'autorità giudiziaria.

Suggellati i pacchi dei manoscritti sequestrati, il Prina invitò
Chiesi, Federici, Cermenati, l'avvocato Valentini e Seneci ad andare
con loro a S. Fedele.

Senici, in pantofole, domandò il permesso di mettersi le scarpe.

--Faccia.

_De Andreis_: Vengo anch'io.

_Prina_: Scusi, onorevole, ma io non ho ordini che riguardino lei.

_De Andreis_: Io voglio andare dove vanno i miei amici.

_Prina_: Se crede, s'accomodi.

_Cermenati_: Se non siamo in arresto, noi non vogliamo essere
accompagnati dagli agenti di P. S.

Il delegato Gislon li fece allontanare.

In via Soncino Morati, dinanzi l'entrata del _Corriere della Sera_,
incontrammo Colautti. Il Chiesi, incrociando i polsi, gli fece segno
che eravamo in arresto.

--Ci siamo!

Colautti rispose, con un gesto, che non poteva essere.

In S. Paolo, Seneci entrò dal tabaccaio a bere una bibita. Era stato
in tipografia e nel locale di distribuzione tutto il giorno, e aveva
sete. I funzionari non lo aspettarono neanche. Ci raggiunse correndo.
Questo fatto ci lasciò credere che non eravamo in arresto. Che si
tratti solo di dirci che la stampa subirà la censura preventiva da
qualche impiegato di questura?

In questura ci si lasciò in un'anticamera.

--Aspettino; saranno ricevuti dal questore non appena sarà libero.

Aspettammo una buona mezz'ora, facendo mille supposizioni. Annoiati di
essere trattenuti tanto tempo, incominciammo a mormorare. Ma dunque?
Ci prendono per dei domestici, questi signori di questura! Facciano
presto, ci dicano se siamo in arresto, se siamo liberi, e che cosa
vogliono da noi. Entrò un impiegato ad invitarci di andare con lui.

--Tutti, meno l'onorevole De Andreis.

De Andreis non voleva saperne di aria libera. Si mise a protestare con
parole vibrate e a dichiarare ch'egli sarebbe andato dove andavano i
suoi amici. E tutti noi, compreso l'on. De Andreis, passammo in
un'altra stanza, dove ci si trattenne un'altra buona mezz'ora.

Aspettavamo e parlavamo sottovoce. Perchè in questa seconda anticamera
eravamo tenuti d'occhio da un agente in borghese, seduto in mezzo a
noi come un muto. Conversando, si almanaccava sul tempo che ci
avrebbero fatto perdere. Federici manifestava la sua opinione che
anche De Andreis sarebbe stato trattenuto. Qualche altro pregava
quest'ultimo a prendere l'uscio intanto che era libero.

--Libero ci potrai essere più utile che non chiuso in carcere con noi.

Fu testardo e rimase.

Alle sei e mezzo circa entrò un vecchio impiegato a dirci queste
parole:

--Sono spiacente di comunicar loro che, essendo stato proclamato in
questo momento lo stato d'assedio, loro signori sono tutti in arresto.

Ci fu un'irruzione di guardie in borghese le quali, senza tanti
complimenti, ci presero per la manica. Protestammo e dicemmo che non
era il modo di trattare persone che non volevano fuggire, e i delegati
ordinarono agli agenti di lasciarci andare. Discendemmo ed entrammo
nell'ufficio del delegato Eula, il quale, per essere sinceri, ci
trattò con la massima gentilezza. Ci sequestrò carte e matite che
avevamo nelle tasche, ci lasciò denari, orologi e anelli e ci fece
firmare il verbale, porgendo ad ognuno la penna.

--Già che ci deve mandare in guardina, ci potrà mandare anche da
mangiare.

--Senza dubbio.

E il delegato promise che ci avrebbe fatto portare qualcosa
dall'Orologio.

--Devono avere un po' di pazienza, perchè in questo momento ho molte
cose da fare.

Ci si chiuse nel camerotto riservato alle donne, il quale, secondo
l'espressione dell'Eula, era «il meno peggio». Avevamo fame ma non
aspettammo molto. Tre quarti d'ora dopo si spalancava l'uscio ed
entravano _roast-beef_, un fiasco di vino, del formaggio, della frutta
e delle sigarette.

Mangiando si chiacchierava e si rideva.

De Andreis era di opinione che avrebbero montata qualche macchina per
tenerci in prigione.

Federici fumava disperatamente una sigaretta dopo l'altra per cambiare
l'odore dell'ambiente.

Chiesi si contentò di dire che avrebbe pagato il conto.

Un po' più tardi Seneci ci faceva sapere che non aveva mai dormito
così bene.

--Vi raccomando di ravvolgervi la testa nel fazzoletto, se non volete
che certe bestioline vi vadano nelle orecchie.

Cermenati si allungò sul tavolato con una frase tragica:

--Così giovane e già tanto galeotto!

Qualche minuto dopo, ricordandosi d'essere stato dilettante
drammatico, si drizzò in piedi e si mise a declamare un po' d'Amleto:

    Potesse, oh! questa troppo salda carne
    Che mi veste, scomporsi, andar diffusa,
    Sfarsi come rugiada!

Il carceriere, lungo il corridoio, ci impose il silenzio.

--Signori, faccian silenzio!

Ci addormentammo.

Tra le dodici e mezzo e la una venimmo svegliati dal fracasso che si
fece a schiudere l'uscio. Entrarono, tra la sorpresa generale,
l'avvocato Carlo Romussi e il professore Emilio Girardi, accompagnati
dalla guardia carceraria che portava la lanterna fumosa.

_Romussi_: Ho ottenuto il permesso di venirvi a trovare coll'amico
Girardi. E giacchè ci siamo, vogliamo tenervi compagnia fino a
domattina.

Girardi andò sul tavolato con un: dio cane!

Seneci fece loro la raccomandazione del fazzoletto. Romussi ci
raccontò che gli agenti erano andati al _Secolo_ a perquisire la
redazione, a far scomporre il giornale e ad arrestare tutti i
redattori che vi si trovavano. Non vi hanno trovato che il direttore
ed un redattore. Negli uffici vi erano parecchie persone, come
l'Antongini e il Missori. Ma nessuno di loro venne arrestato.
L'episodio storico dell'arresto del direttore del _Secolo_ fu quello
della sedia.

Romussi era al suo tavolo che scriveva non so più che cosa sulle
ultime notizie. Il delegato, col codazzo dei questurini in borghese,
gli annunciò la perquisizione e credo anche la sospensione del
giornale. Romussi disse qualche parola sulla libertà di stampa e
lasciò che l'uomo di questura andasse a mettere sottosopra il suo
cassetto e a rovistare le carte del tavolo unito a quello di lavoro.
Per la maledetta abitudine di Romussi di accumulare i manoscritti gli
uni sopra gli altri per un anno di seguito, gli sequestrarono un
numero infinito di carte e di lettere, non poche delle quali dovevano
essere di Cavallotti. Suggellati i pacchi e fatto il verbale di
sequestro, Romussi e Girardi vennero invitati in questura. Romussi,
prima d'andarsene, voleva scrivere due righe non so se alla moglie o
ai colleghi. Prima di sedere buttò via la penna con la quale aveva
scritto il delegato, diede un calcio alla sedia, sulla quale era stato
seduto e ordinò al portiere di portarla via subito e di bruciarla.

--Portamene un'altra e dammi un'altra penna.

Alla mattina ci svegliammo con le ossa rotte. Avevamo sulla faccia il
colore di una notte trambasciata. Ci eravamo coricati sul tavolazzo,
vestiti come eravamo entrati, e lungo la notte il sonno ci era stato
interrotto centinaia di volte. Dal fracasso degli usci che si aprivano
e si chiudevano, dal trambusto, nel cortile, dei soldati che pareva
arrivassero ogni quarto d'ora, dai piedi che tumultuavano sotto il
portico e dalle voci che giungevano a noi come di gente ammutinata.

Verso le dieci antimeridiane il delegato Eula ci annunciò che era
giunto l'ordine della traduzione al cellulare. Venimmo chiamati a due
a due, e a due a due venimmo legati, polso a polso, con una catenella,
da un maresciallo dei carabinieri alto e spalluto. Eravamo così
appaiati: Valentini e Chiesi, Seneci e Federici, Cermenati e Romussi,
De Andreis e Girardi. Uscimmo ed entrammo in una folla di circa
ottanta arrestati.

Il balcone del palazzo di questura era gremito di altri monturati con
alcuni borghesi. Non posso dire se vi era Bava Beccaris, perchè non lo
avevo mai visto neppure sulla fotografia. C'era certamente il
questore. Un uomo magrettino che ha l'aria di essere gobbo. I grandi
gallonati parlavano tra loro e gli uni ci additavano agli altri col
dito puntato verso noi.

Prima che il convoglio si mettesse in moto, il delegato Birondi disse
a tutti:

--Non salutino alcuno e non parlino, perchè ho ordini severissimi.

Eravamo tutti a piedi, circondati dai carabinieri e dai soldati di
cavalleria col revolver in pugno. Qua e là c'erano parecchi
questurini.

C'incamminammo verso le undici. L'itinerario fu questo: piazza S.
Fedele, piazza della Scala, Santa Margherita, via Mercanti, via Dante,
foro Bonaparte, S. Gerolamo, S. Vittore, via Filangieri.

Gustavo Chiesi abita in foro Bonaparte 93. I suoi vecchi genitori
erano alla finestra che si asciugavano le lagrime col fazzoletto.
Nessun altro incidente.

Sai come si è ricevuti al Cellulare.

De Andreis, il quale si sentiva male per il lungo digiuno, domandò
subito da mangiare. Gli altri lo imitarono. Impolverati, sudati,
passati traverso un'ora piena di pericoli, avevamo una sete da cani
trafelati. L'Astengo, il direttore, ci fece portare dell'acqua con del
fernet dal bettoliniere.

Ci si separò in tante celle e ci si riunì in un cellone a mangiare.
Mangiammo del salame, della pasta al sugo, dell'arrosto e del
formaggio e bevemmo del vino comune. Eravamo serviti da due scopini e
sorvegliati da due guardie carcerarie. Terminato il pasto, venimmo
visitati dal cappellano, accompagnato dal direttore. Subito dopo
Federici, Cermenati, Seneci, Valentini e De Andreis vennero
cellularizzati in infermeria. Romussi e Chiesi vennero chiusi in celle
separate al secondo raggio.

Il secondo giorno vedemmo arrivare in infermeria i deputati Turati e
Bissolati.

Il resto ti è troppo noto perchè io sciupi dell'inchiostro.



__Al Tribunale di Guerra.__

Il primo Atto d'accusa, senza commenti.


Ritenuto che dall'esame dei testimoni, dall'interrogatorio degli
imputati e dai documenti esistenti in processo, risulta quanto
appresso:

Già da tempo i diversi partiti sovversivi, sotto l'egida della libertà
loro concessa, avevano estesa la più attiva propaganda in tutta
Italia; anarchici, socialisti e repubblicani, ostentando un
antagonismo apparente, si trovavano concordi nell'istillare nelle
masse incoscienti l'odio verso le classi più favorite dalla fortuna,
nello screditare l'esercito, le pubbliche amministrazioni, le persone
rivestite di autorità, nel vituperare le istituzioni. I giornali, gli
opuscoli, le riunioni, le conferenze, i comizi di tutti costoro erano
concordi nell'eccitare l'odio di classe, e nel creare ovunque
agitazioni rispondenti ai loro scopi criminosi.

Questa campagna quasi febbrile si accentuò nel decorso inverno; tutto
era ormai pronto all'azione; si attendeva soltanto l'occasione
propizia che si presentò nel disagio economico delle popolazioni, pel
rincaro del pane.

Così sulla fine dell'aprile or decorso moti e tumulti cominciarono a
Minervino Murge, a Bari, a Foggia, ed attraverso le Marche e la
Romagna, si propagarono ben presto in diversi piccoli paesi ed in
alcune città della Toscana, proseguendo poi per l'Emilia fino a
Milano, dove dovevano pur troppo avere il loro pieno sviluppo e
cambiarsi in aperta insurrezione.

In proposito è da notarsi che tutti i moti avvenuti nelle diverse
parti d'Italia non furono fatti improvvisi, isolati, occasionati da
una causa accidentale o locale, ma furono la conseguenza di una lunga
preparazione diretta all'unico scopo di mutare gli ordini
politico-sociali, e della quale erano specialmente creatori ed
istigatori i capi repubblicani e socialisti, appartenenti ai
rispettivi Comitati centrali direttivi residenti in Milano.

Basta a dimostrare ciò il solo esame del modo uniforme col quale i
moti medesimi si svolsero.

Infatti, ovunque, facendo a fidanza coi nobili e generosi sentimenti
dell'esercito, erano disumanamente spinti in prima fila contro la
forza armata i ragazzi, poi le donne e per ultimo venivano gli uomini;
ovunque i primi tumulti furono fatti sorgere nei piccoli centri, allo
scopo di attrarvi distaccamenti di truppa e sguarnire le città e
tentarvi poi un colpo di mano.

E prima di scendere ad indicare le specifiche responsabilità degli
odierni imputati, è altresì utile premettere che Milano fatalmente era
stata prescelta all'azione principale e risolutiva per molte ragioni,
cioè: perchè a Milano la propaganda rivoluzionaria era stata fatta più
attiva e proficua da frequenti riunioni, comizi e conferenze pubbliche
e private tenute dai più influenti, intelligenti, operosi ed energici
capi dei partiti rivoluzionari ivi residenti o convenuti, e col mezzo
dei giornali locali, quali ad esempio _La Lotta di Classe_, il _Popolo
Sovrano_, l'_Italia del Popolo_, il _Secolo_, la _Critica Sociale_, e
per altri scopi speciali l'_Osservatore Cattolico_; perchè in questa
città e nei suoi contorni ingente è il numero degli operai dei grandi
stabilimenti industriali; perchè quivi più che altrove i rivoluzionari
avevano recentemente avuto agio di contarsi e passarsi in rassegna in
occasione dei funerali di Cavallotti e della commemorazione delle
Cinque Giornate; perchè Milano, per la sua posizione geografica, con
minore difficoltà avrebbe potuto isolarsi dal rimanente del regno onde
impedirvi l'arrivo di altra truppa in rinforzo, qualora specialmente
si fosse verificato lo sciopero totale e già pronto dei ferrovieri
uniti in potente lega di resistenza; perche quivi più sollecito
sarebbe stato il soccorso già preparato ed organizzato degli operai e
fuorusciti italiani residenti in Svizzera; ed infine fors'anco perchè,
in caso di insuccesso, con minore difficoltà i capi ed i maggiorenti
avrebbero potuto fuggire e riparare nella vicina, e per loro
ospitalissima, Svizzera, lasciando che i gregari da essi illusi,
ipnotizzati e spinti al macello, scontassero il fio delle loro colpe
nelle prigioni e con la rovina delle famiglie.

Vero è che nella ricca ex capitale lombarda mancava il disagio
economico assunto altrove a pretesto per tumultuare ed insorgere; ma
era però ovvio che altro potesse trovarsi, ed infatti fu doppiamente
trovato nella disgraziata morte di un giovane figlio di notissimo
deputato e nel richiamo delle classi sotto le armi.

Ed appunto per questi pretesti nella mattina del 6 maggio
incominciarono dimostrazioni e disordini che divennero poi tumulti e
vere rivolte con devastazioni e saccheggi nei successivi giorni 7, 8 e
9, nei quali le turbe inferocite, dalle strade, dalle barricate, dalle
finestre e dai tetti, trassero contro la truppa e gli agenti della
forza pubblica colpi di fuoco, sassi, tegole e fumaiuoli.

Finalmente, dopo quattro giorni di fiera lotta, la insurrezione fu
vinta dalla energia delle Autorità superiori militari e dalla
abnegazione e dal coraggio dell'esercito.

A questi tumulti presero parte attiva _Callegari Sante_, _Castelnuovo
Umberto_, _Cerchiai Alessandro_, _Gabrielli Alfiero_ e _Gruppiola
Francesco_; nel 6 maggio si trovarono al Ponte Seveso ed in via Napo
Torrioni, e nel giorno 7 sul corso di Porta Venezia.

Costoro sono anarchici e lo confessano; e tali sono pur anco gli altri
imputati _Baldini Domenico_, _Fraschini Giuseppe_ ed _Invernizzi
Pietro_. Tutti facevano attivissima propaganda delle idee del partito;
sono tristi apostoli del disordine e dell'odio sociale ed hanno
pessimi precedenti politici.

Taluni anche riportarono condanne, cioè il Baldini nel 1893 per
eccitamento all'odio di classe e nel 1894 assegnato al domicilio
coatto; il Fraschini ammonito nel 1889, condannato nel 1891 per
eccitamento all'odio di classe e assegnato nel 1894 al domicilio
coatto; il Gruppiola condannato nel 1897 per apologia di reato;
l'Invernizzi condannato due volte per oltraggio e violenze alla forza
pubblica ed altre due volte per reati di stampa.

Inoltre il Callegari, coll'istigazione del Cerchiai, nel marzo scorso,
alla commemorazione delle Cinque Giornate, portò la bandiera anarchica
con la scritta «_viva la rivoluzione_.»

Il detenuto Gustavo Chiesi si distingue fra i repubblicani
intransigenti; è direttore dell'_Italia del Popolo_, sul quale
giornale ogni articolo tende a scalzare il principio di autorità ed a
suscitare nelle masse sentimenti di odio verso il Governo e le
istituzioni. Ispirò e scrisse nel numero del 6 al 7 maggio l'articolo
«_Ne erano assetati_» ove, narrando i fatti avvenuti nel 6 maggio al
Ponte Seveso ed in via Napo Torriani, fra le altre frasi, tutte
dirette a maggiormente eccitare in quei tristi momenti gli animi della
popolazione, si legge: _In tutta la giornata i tutori dell'ordine non
avevano bevuto, avevano sete, sete di sangue, s'intende._

Fu visto nella mattina del 7 maggio con l'amico deputato De Andreis in
carrozza a Porta Garibaldi fermarsi ripetutamente a discorrere con
persone del popolo; più tardi si installò negli uffici del giornale da
lui diretto, ricevendo dallo stesso De Andreis, che più volte si era
recato alle barricate del corso porta Venezia, notizie ed episodi. In
quell'ufficio furono più tardi ambedue arrestati insieme all'avvocato
Bortolo Federici, al prof. Stefano Lallici, al pubblicista Ulisse
Cermenati ed all'Arnaldo Seneci, che colà si trovavano riuniti in
comitato quando cominciava a fervere la lotta, con la intenzione
manifesta di dirigerla e dare le istruzioni occorrenti per
proseguirla. Ciò risulta, oltre che dal sopraricordato articolo «_Ne
erano assetati_» da due cartelle manoscritte preparate per una nuova
edizione del giornale, nelle quali sta scritto che il deputato De
Andreis, presso le barricate sul corso di porta Venezia, aveva
protestato contro la violenza dell'Autorità, e si riferiscono
avvenimenti esagerati svoltisi sul Corso medesimo, fra questi un
episodio orribile quanto bugiardo sull'uccisione di un bambino per
opera di un vicebrigadiere. Tale intenzione viene pure confermata
dalla risposta data dal De Andreis presso le barricate suddette al
tenente Patella, che lo scongiurava di interporsi per ottenere la
calma: «_Tenente, ormai è tardi, c'è sangue._» A quella riunione di
repubblicani, invitato, doveva intervenire il deputato Filippo Turati
con altri socialisti.

Inoltre il Federici, avvocato di molto ingegno, fervente ed efficace
conferenziere, è membro attivissimo della direzione centrale del
partito repubblicano italiano e collaboratore dell'_Italia del
Popolo_. Durante le dimostrazioni tumultuarie del marzo 1896 istigò le
turbe a perseverare nei tumulti sperando _che il soffio di rivolta
manifestatosi a Milano dilagasse preludendo all'avvento_ _ della
repubblica_; nello stesso anno 1896 firmò un _memorandum_ del partito
repubblicano al paese eccitando alla rivolta; e nel 20 marzo u. s. al
monumento delle Cinque Giornate pronunciò un discorso riassunto
dall'_Italia del Popolo_ del 21 al 22 marzo, ove spingeva all'azione e
annunciava che _stavano per suonare le diane dell'ora novella_ e che
_l'ora fatale precipitava_. Cercò di mettere in buono accordo
socialisti e repubblicani.

Il prof. Lallici, fondatore e presidente del _Circolo repubblicano
irredentista adriatico orientale_, fondò pure un giornale umoristico
repubblicano, _Il Figaro_, che ebbe poca vita a causa di replicati
sequestri. Nell'occasione della commemorazione delle Cinque Giornate
fatta il 20 marzo u. s. si oppose acchè fossero portate le bandiere
con lo scudo di Savoia, e pretese che non fosse suonata la marcia
reale. Nelle dimostrazioni di piazza fu sempre immischiato; accentuò
l'agitazione per il rincaro del pane; e l'opera sua contribuì ad
acuire i sentimenti di ribellione negli adepti del partito
repubblicano in cui milita.

Il Cermenati, pure repubblicano, fu collaboratore col Chiesi e col
Romussi nei giornali da essi diretti.

Il Seneci, amministratore dell'_Italia del Popolo_, fece propaganda di
idee repubblicane e scrisse articoli adatti all'indole del giornale da
lui amministrato.

L'altro imputato, Romussi avv. Carlo, è noto per le sue opinioni
repubblicane e per la sua intimità coi capi più influenti di quel
partito e con Amilcare Cipriani, col quale conferì in Milano circa la
metà dell'aprile scorso; ispirò e dettò nel giornale il _Secolo_, di
cui è direttore, continui e innumerevoli articoli di una deleteria
propaganda contro le autorità e le istituzioni e propugnò sempre una
politica di azione. Basta citare l'ultimo numero dall'8 al 9 maggio,
ove si trovano gli articoli: _A che giovano le perifrasi_, ed il
_Richiamo alle armi della classe 1873_. Ed anche nei suoi discorsi e
nelle sue conferenze predicò sempre con esagerate e false affermazioni
contro l'esercito e tutto ciò che è principio di autorità, non
risparmiando neppure la sacra memoria del re Vittorio Emanuele.

L'ex deputato Zavattari Pietro, pure arrestato, e ascritto al partito
repubblicano-rivoluzionario, prese parte attiva ai tumulti del 1896;
tentò il connubio dei partiti repubblicano e socialista; coprì varie
cariche nei circoli repubblicani, e il suo nome si lesse in tutti gli
statuti, programmi e manifesti del partito stesso; nell'ultima
agitazione per il rincaro del pane si dette a sobillare i rivoltosi,
ad eccitare i perplessi, e specialmente i facchini di dogana, dei
quali è console.

L'imputato Costantino Lazzari è audace socialista fra i più pericolosi
e temibili. Fu uno dei primi apostoli del partito e cooperò alla
costituzione di tutti i circoli e delle associazioni. Dotato di
discreto ingegno, lo ha tutto rivolto all'agitazione settaria; è il
vero socialista di mestiere che campa la vita sui contributi che
pagano gli illusi gregari e sui magri lucri dei giornali del partito,
ove iscrive con stile sempre velenoso e ribelle, onde riportò diverse
condanne. Fece attiva propaganda rivoluzionaria specialmente nelle
Marche e Romagna, ed il recente malumore delle popolazioni pel rincaro
del prezzo del pane fu da lui sfruttato a danno dell'ordine pubblico
in Ferrara, Ravenna e Camerino.

Pure pericoloso propagandista è l'arrestato Gatti Oreste, il quale
cercò sempre distinguersi promuovendo riunioni e prendendo parte a
tutte le manifestazioni pubbliche, nelle quali raccomandava la
disobbedienza e la resistenza alle autorità.

Fanatico socialista è l'altro Achille Ghiglione, che a Niguarda, ove è
domiciliato, sobillò con fervore quei terrazzani incitandoli alla
resistenza e al disprezzo per le autorità e per i padroni. Ha
istituito altresì in quelle campagne circoli e cooperative con base di
resistenza.

L'imputato Paolo Valera è uno dei dirigenti del partito socialista
anarchico, ed esercita molta influenza a causa della sua coltura e
delle sue aderenze con tutti i caporioni dei partiti estremi. I suoi
scritti sono sempre violenti ed informati ai più stretti principii
della lotta di classe. Fu più volte condannato, e nel 1884, per
sottrarsi ad una condanna, riparò a Londra, donde tornò nel 1894, dopo
il termine della prescrizione. Successivamente militò nel campo di
azione e negli ultimi di aprile decorso, discutendosi dai socialisti
sulle manifestazioni del Primo Maggio, esso, appoggiato da un forte
gruppo, propugnò il progetto di resistere alle autorità e di fare ad
ogni costo un pubblico corteo. Facile quindi è a dedursi quale debba
essere stato il di lui contegno negli ultimi tumulti.

Mestierante in politica risultò l'Angelo Oppizio, prima anarchico, poi
repubblicano, ora socialista. Di fenomenale attività nella propaganda,
ha atteso validamente alla costituzione di circoli, ad organizzare e
congressi e riunioni e pubblicare opuscoli, giornali, ecc. Si ingerì
negli scioperi, consigliando la resistenza. In occasione
dell'agitazione per il rincaro del pane tenne concioni spiccanti per
violenza ed eccitamento alla rivolta. Nel 6 maggio, appena scoppiati i
tumulti in via Napo Torriani, fece testamento in vista dei pericoli ai
quali si esponeva; ed infatti risulta che prese parte ai tumulti in
via Galileo unitamente al Turati, e fu arrestato nel 9 maggio a Porta
Monforte durante la mischia.

L'ingegnere Valsecchi Antonio, altro degli imputati, figura fra i capi
più influenti del partito socialista milanese; a Borghetto, suo paese
di nascita, per la insistente e larga propaganda delle malsane teorie,
fu denunciato per eccitamento all'odio di classe. Dopo il 1894 fu
segretario della Federazione Socialista Milanese; e riportò tre mesi
di condanna di confino come dirigente di diversi circoli. Si mantenne
in relazione coi correligionari di fuori, scrisse sui giornali
socialisti violenti articoli, sempre consigliando pubblicamente la
resistenza, ed eccitando alla ribellione, preparando così il terreno
alla violenta ultima rivolta.

Di ugual tempra è Ennio Del Vecchio, pure socialista attivo nella
propaganda ed eccitatore all'odio di classe; fu esso pure condannato
due volte alla pena della multa.

La russa dottoressa Anna Kuliscioff, venuta a Milano nel 1885 dopo
aver peregrinato per le varie capitali d'Europa e città d'Italia, ebbe
prima intima relazione col socialista deputato Andrea Costa, poi col
deputato Filippo Turati, seguendo l'azione di essi. È fervente
socialista e propagandista efficace quanto tenace; cooperò alla
costituzione di circoli, pubblicazioni di giornali, di programmi e di
statuti, figurando indefessamente nei congressi, nelle riunioni, nelle
pubbliche passeggiate. Nel 1894, come dirigente del partito socialista
dei lavoratori italiani, fu condannata al confino. Dopo la elezione di
Filippo Turati a deputato, raddoppiò di attività per la propaganda
delle teorie socialiste; ed all'intento di mantenere ad esso salda la
base elettorale del suo collegio, tenne parecchie conferenze pubbliche
al Circolo Cappellini, cercando di organizzare in lega di resistenza,
inscrivendoli nel partito, gli operai dello stabilimento Pirelli, i
quali, perchè ben trattati, avevano fino a questi ultimi tempi
resistito; e come essa riuscisse nelle sue mire lo prova il fatto che
già 1200 operai si erano ascritti alla lega, ed imbevuti di massime
sovversive, di sentimento d'odio, si segnalarono nel primo giorno
della sommossa a Ponte Seveso e via Napo Torriani, e specialmente le
donne, sulle quali la Kuliscioff esercitava molto ascendente,
dimostrarono maggiore ferocia.

Un altro imputato è don Davide Albertario, direttore dell'_Osservatore
Cattolico_, organo di quel partito clericale intransigente che avversa
le istituzioni e l'unità della patria; di carattere battagliero e
violento, sostenne lotte vivissime con quella parte del clero che si
ispirava a principii temperatamente liberali. La sua condotta poco
morale, non rispondente alla dignità del sacerdozio, gli valse un
processo penale per delitto contro il buon costume ed una procedura
disciplinare per parte della Autorità Ecclesiastica. Tenne conferenze
consigliando e dirigendo nel senso della più aperta intransigenza
l'organizzazione clericale. Nella lunga sua carriera giornalistica i
suoi sforzi furono diretti a far cadere in disprezzo le istituzioni e
l'Esercito, prendendo di mira la stessa Dinastia, onde ebbe molti
sequestri per offese alla Sacra Persona del Re ed alla Real Famiglia.
Divenendo sempre più violento negli ultimi tempi dimostrò tendenza a
favorire il cambiamento della forma di Governo, e da altra parte si
faceva banditore di idee democratiche e socialiste, come apparisce
dall'opuscolo stampato nella tipografia dell'_Osservatore Cattolico_
col titolo «_Dal Socialismo alla Democrazia Cristiana_», gareggiando
così col partito repubblicano e socialista nel combattere la Monarchia
e nel suscitare l'odio di classe. Tale malefica propaganda, esercitata
continuamente con somma energia e fine arte di polemista, agiva pur
troppo sulla parte meno colta dei credenti e del clero, e contribuì
potentemente a formare l'ambiente ostile ed a maturare lo spirito
della rivolta ora repressa. Nel corrente anno ebbe l'Albertario più
occasioni per accentuare l'azione del suo giornale contro le
istituzioni, nel marzo la commemorazione del cinquantenario dello
Statuto e quella delle Cinque Giornate, poi i moti che scoppiarono in
diverse località per il rincaro del pane. Questi moti furono
nell'_Osservatore Cattolico_ malignamente narrati, esagerati,
commentati; ed a qualche altro giornale che rivelava questa condotta
intesa a creare imbarazzi alle istituzioni, rispondeva nel numero dal
6 al 7 maggio: «_Ah canaglie, voi date piombo ai miseri che avete
affamati, e poi vi lanciate contro i clericali._» Questo fu l'ultimo
numero, perchè lo stesso giorno scoppiò la rivolta ed il giornale
sospese le sue pubblicazioni. In tal modo è manifesto che l'Albertario
divide cogli altri imputati la responsabilità della sommossa.

L'ingegnere Giuseppe De Franceschi fu arrestato e denunciato perchè
militò nel campo socialista; vi ebbe per l'addietro una parte attiva;
e più specialmente perchè si ritenne che avesse dato ricetto a
rivoltosi che tirarono sulla truppa a Porte Monforte nel 9 maggio. Ma
dalle assunte verifiche risulta che il De Franceschi dopo il 1894, da
che è proprietario dello stabilimento industriale all'Acquabella, si è
ritirato dal partito socialista e si è astenuto da ogni manifestazione
e propaganda. È risultato altresì che soltanto per errore fu ritenuto
che avesse dato ricovero a rivoltosi nel suo stabilimento, giacchè è
accertato che costoro si erano invece posti in salvo da una piccola
via, che rasentando il fabbricato porta ai campi, e che sul momento
non era stata osservata. Manca quindi a di lui carico ogni
responsabilità penale.

Il Girardi Emilio, arrestato insieme al Romussi, è redattore del
_Secolo_, e sebbene militi nel campo repubblicana, non risulta
peraltro che abbia tenuto pubbliche conferenze ed abbia in qualsiasi
modo fatto propaganda delle teorie che professa, e non sarebbe
coinvolto in alcun delitto.

Considerato che dietro le risultanze sopra indicate gli imputali
_Callegari_, _Castelnuovo_, _Cerchiai_, _Gabrielli_ e _Gruppiola_,
sarebbero incorsi nei delitti previsti dagli articoli 190, 248 e 252
del Codice penale--gli imputati _Baldini_, _Fraschini_ e _Invernizzi_
nel delitto previsto dall'articolo 248--gli imputati _Chiesi_,
_Federici_, _Lattici_, _Cermenati_, _Seneci_ e _Romussi_ nei delitti
previsti dagli articoli 64, 77, 118, 120, 134, 246, 248 e 252 del
Codice penale ed articoli 1 e 2 della Legge 19 luglio 1894 N.
315--l'imputato _Oppizio_ nei delitti previsti dagli articoli 190 e
247 del Codice penale--gli imputati _Zavattari_, _Lazzari_, _Gatti_,
_Ghiglione_, _Valera_, _Valsecchi_, _Del Vecchio_ e _Kuliscioff_ nei
delitti previsti dagli articoli 118, 120, 135 e 246 del Codice
penale--e l'imputato _Don Albertario_ nei delitti previsti dagli
articoli 118, 120, 135, 246 e 247 suddetto e dagli articoli 1 e 2
della Legge 19 luglio 1894, N. 315.

Considerato che in forza dei Bandi pubblicati dal R. Commissario
Straordinario in virtù dei pieni poteri accordatigli con R. Decreto 7
maggio 1898 spetta a questo Tribunale Militare di Guerra la competenza
a giudicare gli individui suddetti pei delitti a ciascuno di essi
imputati;

                PER QUESTI MOTIVI

dichiara non farsi luogo a procedere contro l'ingegnere _Giuseppe De
Franceschi_ e contro il professore _Emilio Girardi_ pei delitti ad
essi rimproverati ed ordina la loro scarcerazione quando non debbano
rimanere detenuti per altre cause.

Pronuncia l'accusa contro:

Callegari Sante, Castelnuovo Umberto, Cerchiai Alessandro, Gabrielli
Alfiero e Gruppiola Francesco Giuseppe; pei delitti previsti dagli
articoli 190, 248 e 252 del Codice penale per essersi associati in più
di cinque persone onde commettere delitti contro l'ordine pubblico, le
persone e le proprietà e per aver usato violenze contro gli agenti
della forza armata commettendo altresì fatti diretti alla guerra
civile.


                Contro:

Baldini Domenico, Fraschini Giuseppe e Invernizzi Pietro; per il
delitto previsto dall'articolo 248 per essersi associati in più di
cinque persone onde commettere delitti contro l'ordine pubblico, le
persone e le proprietà.

                Contro:

Chiesi Gustavo, Federici Bortolo, Lallici Stefano, Cermenati Ulisse,
Seneci Arnaldo e Romussi Carlo; pei delitti previsti dagli articoli
64, 77, 118, 120, 134, 246, 248, 252 Codice penale degli articoli 1 e
2 della Legge 19 luglio 1894, N. 315, perchè allo scopo finale tra
loro concertato e stabilito di mutare violentemente la costituzione
dello Stato e la forma di Governo e far sorgere in armi gli abitanti
del Regno contro i poteri dello Stato, si associarono fra loro ed
altri, e coll'istituire e dirigere circoli, comitati, riunioni o leghe
di resistenza con discorsi e conferenze pubbliche o private e con
scritti pubblicati per mezzo della stampa, furono causa diretta ed
immediata della insurrezione, e cooperarono così efficacemente con
tali mezzi di istigazione alla guerra civile, ai saccheggi ed alle
devastazioni che ebbero luogo in Milano nei giorni 6-7-8-9 maggio
ultimo decorso.

                Contro:

Oppizio Angelo, pei delitti previsti dagli articoli 190 e 247 del
Codice penale, per aver usato violenza contro gli agenti della forza
armata, ed incitato pubblicamente alla disobbedienza della legge ed
all'odio fra le varie classi sociali in modo pericoloso per la
pubblica tranquillità.

                Contro:

Zavattari Pietro Giuseppe, Lazzari Costantino, Gatti Oreste, Ghiglione
Achille, Valera Paolo, Valsecchi Antonio, Del Vecchio Enrico e
Kuliscioff Anna; pei delitti previsti dagli articoli 118, 120, 135 e
246 del Codice penale, per avere pubblicamente eccitato a commettere
fatti diretti a mutare violentemente la costituzione dello Stato, la
forma del Governo ed a far sorgere in armi gli abitanti del Regno
contro i Poteri dello Stato.

                Contro:

Albertario don Davide, pei delitti previsti dagli articoli 118, 120,
135, 246 e 247 del Cod. penale e 1 e 2 della Legge 19 luglio 1894, N.
315, per avere specialmente per mezzo di iscritti pubblicati
nell'_Osservatore Cattolico_ incitato all'odio fra le varie classi
sociali in modo pericoloso per la pubblica tranquillità, ed a
commettere fatti diretti a mutare violentemente la costituzione dello
Stato, la forma del Governo, ed a far sorgere in armi gli abitanti del
Regno, contro i Poteri dello Stato.

Ordina quindi l'invio dei suddetti 24 accusati avanti il Tribunale
Militare di Guerra sedente in Milano competente a giudicarli pei
delitti loro rimproverati rispettivamente.


     _Il Sostituto Avvocato Generale Militare in missione_
                           E. BACCI.



__Il secondo Atto d'accusa.__


Il Pubblico Ministero nella causa contro:

De Andreis Luigi, fu Giuseppe, d'anni 47, nato e domiciliato in
Milano, ingegnere; Turati Filippo, fu Pietro, d'anni 39, nato a Canzo,
domiciliato a Milano, avvocato; Morgari Oddino, fu Paolo, d'anni 33,
nato a Torino, domiciliato a Roma, pubblicista;

Tutti e tre deputati al Parlamento Nazionale--detenuti ed imputati dei
delitti previsti dagli articoli 134, 246, 247, 248, e 252 del Codice
Penale;

Ritenuto che dalla istruita procedura risulta che fino dalla prima
gioventù i tre imputati De Andreis, Turati e Morgari si dedicarono
quasi interamente alla politica, e con la loro attività, energia ed
intelligenza riuscirono ad acquistare grandissima influenza nei
diversi partiti radicali nei quali militavano;

Infatti il De Andreis, repubblicano intransigente, rivoluzionario fino
dal 1892, figurò sempre fra i capi e promotori di tutti i comitati e
circoli repubblicani di Milano, ne fu delegato ai congressi, ed era
uno dei cinque membri del Comitato centrale repubblicano italiano
trasferito da Forlì a Milano, e talvolta ne tenne la presidenza; fondò
poi in ogni porta della città di Milano un circolo repubblicano
rionale. Oratore violento e demagagico nelle conferenze, nei comizi,
nelle commemorazioni e dimostrazioni, spingeva le masse alla
resistenza contro le autorità ed all'azione, che nel 31 gennaio ultimo
in una commemorazione a Russi annunziava _più vicina di quanto potesse
immaginare_; ed in altro discorso per le feste del 50.º anniversario
dello Statuto al monumento di Garibaldi in Milano, disse fra le altre
cose: «il popolo per ottenere le sue rivendicazioni ha due armi: il
voto e la _carabina_».

Il Turati, fervente socialista, propugnò con attivissima propaganda le
dottrine più avanzate del socialismo in Milano e nelle campagne,
istituendo, anche nei più piccoli paesi, comitati e circoli; attrasse
nell'orbita del partito la Lega ferroviaria, la Camera del lavoro con
trenta società operaie e di mutuo soccorso confederate, ed altri
sodalizi, falsandone la primitiva istituzione. Esso è l'autore
dell'_Inno dei lavoratori_ divenuto il grido di guerra del partito; è
direttore della _Critica Sociale_; nella quale rivista, detta
scientifica, si trova per esempio una nota del seguente tenore: _come
diavolo mai l'anno scorso venne in mente al Costa di appoggiare la
proposta d'Imbriani per chiamare l'esercito non Regio, ma Nazionale?
ma l'esercito è bene che si chiami regio come il lotto, come gli
impiegati, come la questura, come tutto ciò che vi è di sudicio in
Italia. Il Costa doveva invece proporre che fosse intitolato regio
anche il debito pubblico._ (N. 9 del 1.º maggio 1898). È altresì da
notarsi che in un articolo intitolato «_Il Domani_» contenuto nel N. 6
del 16 marzo 1896, parlandosi dei gravi moti avvenuti in diverse città
d'Italia dopo la battaglia di Adua, si preconizzò fin d'allora che
_Milano, la città cui son volti tutti gli sguardi, sarebbe stata
l'arena della rivoluzione futura; e si previde che a Milano da 40 a 60
mila persone d'ogni età, d'ogni sesso si riversino senza intesa nelle
vie, si addensino al centro, unite da un solo grido, da un solo
entusiasmo, cui non manca se non chi sappia imprimergli direzione
rapida e precida per vedere instaurato nel Comune un governo
provvisorio locale repubblicano_.

Allo stesso Turati si devono l'organizzazione del partito e
l'indirizzo datogli di odio di classe: illimitata è la influenza che
esercitava specialmente sulle classi operaie, ed è indubbiamente a
ritenersi l'anima e la mente del partito socialista rivoluzionario in
Milano, del quale era il capo riconosciuto ed il rappresentante
ufficiale nelle occasioni più solenni.

Il Morgari può dirsi fosse nella città e provincia di Torino quasi
quello che il Turati era in Milano. Abile, instancabile conferenziere
e propagandista, partecipò a tutte le manifestazioni della vita
collettivisti del partito: organizzò riunioni, pubblicò programmi,
circolari ed opuscoli e specialmente uno intitolato: _L'Arte della
nostra propaganda_ che è un completo manuale da servire pei
propagandisti, fondatori di circoli e gruppi socialisti.

Alla sua ferrea volontà si deve l'incremento dei socialismo
rivoluzionario in Piemonte.

Che con tali mezzi di organizzazione e di propaganda i tre imputati,
insieme e di concerto con altri capi rivoluzionari che si adoprarono
nello stesso senso nelle altre provincie, riuscirono nei primi mesi
dell'anno corrente a creare e mantenere in Italia, e specialmente in
Milano, nei loro affigliati e nelle masse operaie, uno stato di
continuo eccitamento e di tensione e lo spirito di rivolta, la quale
quindi per opera loro era pronta a scoppiare ad un sol cenno,
all'occasione propizia, ed anche per un accidente imprevisto.

Che sebbene repubblicani e socialisti siano discordi nelle teorie e
nei principii, pure sono pienamente d'accordo nel voler cambiare la
costituzione dello Stato e la forma del Governo, ed è questo lo scopo
comune cui miravano i tre imputati e i loro associati con la
propaganda e l'organizzazione dei partiti. Infatti lo stesso Morgari
ebbe a dichiarare nelle sue commemorazioni e conferenze: _Essi, i
socialisti, essere i veri repubblicani, giacchè vogliono la repubblica
non come fine, ma come mezzo, che apre la via al fine di togliere,
insieme al re, gli altri piccoli re di officina, di latifondi e di
banche._

Che oltre a ciò in Milano risiedè fino dopo la sommossa il noto Pietro
Gori, maestro e riorganizzatore degli anarchici, e sull'appoggio e
concorso di costoro, sempre pronti al disordine, alla devastazione ed
al saccheggio, potevasi sicuramente contare, tanto più che col Gori, e
coll'Amilcare Cipriani (qui di passaggio nell'aprile ultimo decorso),
e con gli altri anarchici, vivevano i socialisti in buon accordo,
giacchè di costoro il Morgari dice: _non sono cattiva gente e lavorano
essi pure per il bene della società; ma credono che l'uomo debba
essere libero come l'uccello nell'aria, senza alcuna legge, nè
autorità nè comando, e questo per molto tempo non sarà possibile._

Che inoltre i socialisti avevano sparse le loro malsane, ma
abbaglianti teorie fra i ferrovieri e si erano concertati coi capi
della Lega dei ferrovieri medesimi, onde mediante uno sciopero
generale in occasione di una sommossa fosse ritardato od impedito il
trasporto della truppa ed il richiamo delle classi in congedo.

Che infine anche oltre i confini dello Stato i capi dei partiti
sovversivi tutti uniti e concordi avevano spinte le loro mene; ed
infatti i loro associati predicavano il socialismo e l'anarchia agli
operai italiani residenti in Svizzera, e con una attiva propaganda
erano riusciti a tenerli pronti a scendere in Italia al momento
opportuno per recare aiuto ai compagni rivoltosi.

Che intanto sulla fine dello scorso aprile a causa del disagio
economico delle popolazioni, del quale i capi dei partiti non
mancarono di approfittare, cominciarono moti e tumulti in alcuni paesi
e città dell'Italia meridionale, e a traverso le Marche, le Romagne e
la Toscana, proseguirono a Parma, Piacenza, Pavia e raggiunsero
Milano, ove, per le circostanze e le condizioni già esposte, dovevano
pur troppo avere il loro pieno sviluppo, e cangiarsi in aperta
insurrezione.

Che infatti nelle ore pomeridiane del 6 maggio al Ponte Seveso ed in
via Napo Torriani gli operai dello Stabilimento Pirelli si dettero a
tumultuare sotto vari pretesti e specialmente per l'arresto di un
individuo che spargeva un manifesto socialista diretto: _ai Cittadini
lavoratori_; e tali tumulti si cambiarono in rivolta e guerra civile
con devastazioni e saccheggio nei successivi giorni 7, 8 e 9, nei
quali le turbe--numerosissime di persone di ogni età e di ogni
sesso--si riversarono nelle vie, innalzarono alle porte dei diversi
rioni della città molte barricate, trassero dalle barricate medesime,
dalle strade, dalle finestre e dai tetti contro la truppa e gli agenti
della forza pubblica colpi di fuoco, sassi e tegole, con l'intento di
addensarsi poi al centro unite da un solo grido, da un solo entusiasmo
ed instaurare nel Comune un governo provvisorio locale repubblicano,
come appunto aveva preconizzato il Turati nella _Critica Sociale_ fino
dal 16 marzo 1896, e sarebbero riusciti nei loro disegni senza
l'energia delle Autorità superiori militari, l'annegazione, il
coraggio e la disciplina dell'Esercito.

Che le località, nelle quali nella sera del 6 maggio ebbero principio
i disordini, fanno parte del Collegio di cui l'onorevole Turati è
deputato, dove esso gode della massima influenza sopra i numerosi
operai di quegli stabilimenti industriali; e dove nei giorni
precedenti avevano tenute conferenze alcuni suoi intimi amici e
compagni di fede, quali la Kuliscioff e il Dell'Avalle.

Che il manifesto: _Cittadini lavoratori_, sparso in quel primo giorno
e causa dei primi disordini, e firmato: _I Socialisti milanesi_, ed in
esso si parla _di rivolta della fame e della disperazione, alla quale
il Governo del Re risponde coll'eccidio scellerato dei supplicanti
pane e lavoro_, si parla del _militarismo piovra della nazione a
servizio di alleanze e d'interessi dinastici, di privilegi odiosi_,
ecc.--Si dice _che il Governo del Re ha_ _preparato quelle rivolte e
le ha volute; sono opera sua. La responsabilità del sangue che essa
versa in questi giorni ripiomba tutta sul suo capo_, e dopo altri
periodi dello stesso genera termina: _Giorni gravi si appressano; è
tempo che il popolo Italiano rifletta, ricordi ed alfine provveda a sè
stesso. Il paese, salvi il paese!_ Or bene, si hanno gravi ragioni per
ritenere che di quel manifesto sparso fra le masse in momento di sì
grave commozione pubblica sia autore il _Turati_, il quale poi in ogni
caso deve averlo ispirato e necessariamente conosciuto.

Che durante quei primi disordini il Turati, insieme all'altro capo e
ben noto socialista _Dino Rondani_, ora latitante, si recò sul posto,
si impose alle Autorità esigendo la liberazione dell'arrestato, ed
arringò le turbe raccomandando apparentemente la calma e promettendo
di unirsi e battersi insieme ad esse in un giorno più propizio.

Che nella mattina successiva lo stesso _Turati_ col _Rondani_ si trovò
a Porta Venezia quando si innalzavano le barricate, ed infieriva
maggiormente la lotta, e ad un bravo cittadino che a lui rivolgeva
preghiera d'interporsi e far cessare un inutile eccidio, rispondeva
cinicamente: _I cadaveri servono a qualche cosa: sono le pietre
miliari delle conquiste avvenire del popolo._

Che poco appresso esso ed il Rondani, sempre insieme, si diressero
alla Stazione centrale ferroviaria, ed ivi introdottisi si trattennero
a colloquio presso il deposito delle locomotive col noto socialista,
pur latitante, Giuseppe Mantovani, conduttore ferroviario a riposo,
segretario del Comitato esecutivo della Lega ferrovieri, il quale
subito dopo lavorò a tutto uomo per determinare lo sciopero generale
dei ferrovieri. Infatti nel giorno appresso furono diramate fra i
ferrovieri medesimi due circolari che eccitavano allo sciopero;--nel
dì 9 diversi macchinisti e fuochisti si rifiutarono a prestar
servizio, e firmarono una dichiarazione diretta ad indurre i compagni
allo stesso rifiuto; e soltanto per l'energia delle Autorità superiori
e per il pronto accorrere della truppa, fu evitato lo sciopero, le cui
conseguenze sarebbero state gravissime.

Che in una perquisizione eseguita nel 7 maggio negli uffici del
giornale _L'Italia del Popolo_ fu trovato e sequestrato un biglietto
da visita, in cui s'invitava il Turati e compagni socialisti ad una
riunione coi repubblicani per quel giorno, e sebbene la riunione non
avesse più luogo, pure rimane il fatto a dimostrare il buon accordo
fra i repubblicani e socialisti.

Che nella stessa sera del 7 maggio i capi dei diversi partiti sovversivi
di Milano in numero di circa 20 si riunirono in casa del dott. Ceretti
Vittorio, ora latitante, e da una di lui lettera-testamento ivi
rinvenuta si arguisce in modo sicuro la deliberazione presa di
proseguire nell'insurrezione, che infatti divenne sempre più fiera nei
giorni successivi.

Che nel giorno 8 maggio il Rondani, il fido compagno del Turati, si
recò in Svizzera; ed a Brissago, Locarno, Bellinzona e Lugano cercò
riunire, formare in bande e dirigere al confine i numerosi operai
italiani per accorrere a Milano in aiuto degli insorti.

Ed anche successivamente costui insieme agli altri fuorusciti ha colà
raddoppiato nella propaganda e nello spirito settario, collaborando
nella redazione dei giornali _L'Italia Nuova_ ed _Il Socialista_,
scrivendo od ispirando articoli della maggiore violenza contro lo
Stato italiano, le Autorità e L'Esercito.

Che l'imputato Oddino Mogari nel dì 9 maggio da Torino si diresse a
Milano, ove, dopo lasciata la ferrovia a Magenta, si introdusse in
modo guardingo e misterioso; vi si trattenne il giorno 10, e nel dì 11
giunse a Lugano e col Rodani dette opera ad organizzare le bande che
già si dirigevano al confine; ma poi, al sopraggiungere della truppa,
egli si allontanò recandosi a Roma, ove fu arrestato nel 14 maggio e
fu trovato possessore di L. 1740,05. Egli deve pure rispondere avanti
il Tribunale di Biella di eccitamento all'odio di classe, pel quale
delitto la Camera dei Deputati autorizzò il provedimento in seduta del
14 marzo ultimo decorso.

Che infine l'imputato De Andreis è uno dei principali ed assidui
redattori dell'_Italia del Popolo_, giornale che ebbe sempre di mira
scalzare il principio di autorità e suscitare nelle masse sentimenti
di odio verso il Governo e le istituzioni, ed i di cui articoli
divennero ancor più violenti negli ultimi tempi. Basta infatti leggere
tutto il numero dal 7 all'8 maggio e specialmente l'articolo
intitolato «_Ne erano assetati_» ove, narrandosi i fatti avvenuti nel
6 maggio al Ponte Seveso ed in via Napo Torriani, fra le altre frasi
tutte dirette a maggiormente eccitare in quei dolorosi momenti gli
animi della popolazione, si legge: _In tutta la giornata i tutori
dell'Ordine non avevano bevuto, avevano sete, sete di sangue, si
intende._

Che nel giorno 7 maggio il De Andreis si recò più volte negli uffici
di quel giornale; vi portò, per essere pubblicati, episodii svoltisi a
Porta Venezia, esagerandoli e falsandoli; ed ivi intervenne chiamato
ad una riunione di amici repubblicani.

Che il De Andreis si trovò a Parma, Piacenza e Pavia, nei giorni in
cui si verificarono disordini in quelle città. Nella mattina del 7
maggio era alle barricate di Porta Venezia in Milano, quando più fiera
ferveva la lotta fra gli insorti e la truppa: vi ritornò nelle ore
pomeridiane; e al tenente Petella che lo scongiurava ad interporsi per
ottenere la calma, rispose in tono quasi di sfida: «_Tenente, ormai è
tardi, vi è sangue._» Inoltre, tanto nella mattina quanto nelle prime
ore pomeridiane del 7 fu veduto a piedi ed in carrozza in corso
Garibaldi parlare con diverse persone estranee a quel quartiere,
mentre appunto vi si stavano costruendo le barricate; e finalmente
nelle ore pomeridiane dello stesso giorno fu arrestato negli uffici
dell'_Italia del Popolo_.

Considerando che dietro le risultanze sopra indicate gli imputati De
Andreis, Turati e Morgari sono incorsi nei delitti previsti dagli
articoli 134 e 252 del Codice penale.

Considerato che la Camera dei Deputati nella seduta del 9 luglio
corrente ha accordata l'autorizzazione a procedere contro di essi.

Considerato che in forza dei Bandi pubblicati dal Regio Commissario
Straordinario di Milano in virtù dei pieni poteri accordatigli col
Regio Decreto 7 maggio 1898 spetta a questo Tribunale Militare di
Guerra la competenza a giudicarli,

                PER QUESTI MOTIVI

Visto l'articolo 544 del Codice penale per l'Esercito, pronunzia
l'accusa contro i deputati De Andreis Luigi, Turati Filippo e Morgari
Oddino per i delitti previsti dagli articoli 134 e 252 del Codice
penale comune,--perchè col mezzo di opuscoli, discorsi e conferenze,
col mezzo dell'istituzione di circoli, comitati, riunioni e leghe di
resistenza, ed allo scopo concertato e stabilito fra essi ed altri
capi ora latitanti di partiti sovversivi di mutare violentemente la
costituzione dello Stato e la forma di Governo, riuscirono a suscitare
la guerra civile ed a portare la devastazione ed il saccheggio nella
città di Milano nei giorni 6, 7, 8, e 9 maggio ora decorso, cooperando
anche immediatamente e direttamente all'azione, e procurando di
recarvi assistenza ed aiuto.

Ordina quindi l'invio di essi accusati avanti questo Tribunale di
guerra competente a giudicarli.

        _Milano, addì 17 luglio 1898._

         _Il Sostituto Avvocato Generale Militare in missione_
                               E. BACCI.



__La sentenza contro i deputati.¹__

    ¹ Tolgo questa e la successiva sentenza dai _Tribunali_ di Enrico
      Valdata--il giornale che, nel periodo del Bava Beccaris, fu,
      compatibilmente col momento, il più indipendente ed audace.


In nome di S. M. Umberto I, per grazia di Dio e volontà della Nazione
Re d'Italia. Il Tribunale Militare Territoriale di Milano, funzionante
da Tribunale di Guerra, ha pronunciato la seguente sentenza nella
causa, contro De Andreis Luigi, fu Giuseppe, di anni 47, nato e
domiciliato in Milano, ingegnere; Turati Filippo, fu Pietro, d'anni
39, nato a Canzo, domiciliato a Milano, avvocato; Morgari Oddino, fu
Paolo, di anni 33, nato a Torino, domiciliato a Roma, pubblicista.

Tutti e tre Deputati al Parlamento Nazionale, detenuti ed imputati dei
delitti previsti dagli articoli 134 e 252 del Codice penale, perchè
col mezzo di opuscoli, discorsi e conferenze, col mezzo
dell'istituzione di circoli, comitati, riunioni e leghe di resistenza,
ed allo scopo concertato e stabilito tra essi ed altri capi ora
latitanti di partiti sovversivi di mutare violentemente la
costituzione dello Stato e la forma di Governo, riuscirono a suscitare
la guerra civile ed a portare la devastazione ed il saccheggio nella
città di Milano nei giorni 6, 7, 8 e 9 maggio ora decorso, cooperando
anche immediatamente e direttamente all'azione, e procurando di
recarvi assistenza ed aiuto.

Ritenuto in fatto come emerse, al pubblico dibattimento dalla lettura
dei documenti, dalle deposizioni dei testimoni e dalle dichiarazioni
degli accusati;

Che sui primi dello scorso mese di maggio, in seguito alle agitazioni
manifestatesi in varie parti del regno, e sopratutto pei tumulti di
Pavia, nei quali ebbe a soccombere lo studente Mussi, i vari partiti
politici sovversivi di Milano si trovavano in uno stato di fermento, e
bastava una causa qualsiasi per farli scoppiare in aperta rivolta.
Qui, ove il rincaro del pane non poteva essere causa sufficiente, la
spinta fu data da un manifesto diretto ai lavoratori italiani, nel
quale si leggono frasi eccitanti alla ribellione e che stampato nel
giorno 5 maggio fu divulgato nel pomeriggio del giorno 6 successivo
nelle località di Ponte Seveso e Napo Torriani, ove maggiore è il
numero degli operai addetti ai vari stabilimenti industriali colà
esistenti.

Che quel manifesto essendo stato colpito da sequestro della Procura
Generale, fu eseguito l'arresto d'uno degli spacciatori, ma alcuni
operai cominciarono subito a tumultuare ed astenersi dal lavoro,
reclamando la liberazione dell'arrestato.

Che informato di quanto avveniva in quella località, l'accusato Turati
vi si recò subito coll'ora condannato in contumacia Dino Rondani e
parlando agli operai promise d'intromettersi presso le autorità onde
l'arrestato fosse posto in libertà, e raccomandando loro di rimanere
tranquilli, disse che quello non era il momento opportuno per scendere
in piazza, che quel momento lo dovevano scegliere loro, e non la
questura, e che quando quel momento fosse venuto egli sarebbe stato
con loro, a fare le fucilate.

Che il Turati recatosi dal Questore, dal Procuratore del Re ed alla
Prefettura, ripetè con parole certo meno accentuate lo stesso
concetto, ed ottenne la liberazione dell'arrestato, la quale fu
concessa nella speranza di evitare mali maggiori. Recatosi nuovamente
il Turati dagli operai rese conto della sua missione e si allontanò.

Che poco dopo, in una via adiacente, mentre le guardie rientravano
alla loro caserma, furono accolte da una fitta sassaiola, ed
intervenuta la truppa fu necessario far uso delle armi. Una guardia di
P. S. venne uccisa da un colpo di revolver partito dai tumultuanti;
rimase pure morto un operaio e vi furono diversi feriti.

I tumulti cominciati nella sera ebbero disgraziatamente seguito nel
mattino del 7; gli operai, parte volontari e parte costretti dai
compagni, disertarono gli stabilimenti, la rivolta si propagò in varie
parti della città, sorsero barricate, furono saccheggiati palazzi e
negozi, ed in quel giorno e nei successivi 8 e 9 la truppa si trovò
sempre di fronte ai rivoltosi, dovette far uso delle armi e vi furono
morti e feriti.

Che, premesse queste constatazioni generali, è d'uopo esaminare da
quale causa ebbero origine i tumulti. Si volle far credere, che quanto
successe in quei giorni in Milano non fu che un movimento teppistico,
ma troppi argomenti stanno a provare che fu l'effetto di teorie
sovversive da lungo tempo instillate negli operai dai vari circoli
socialisti e repubblicani, i quali tendevano con metodi diversi ad un
unico fine, quello di mutare violentemente la costituzione politica
dello Stato.

In altra sentenza in questo Tribunale fu già affermato che i moti
scoppiarono improvvisamente, che i capi dei vari partiti furono
sorpresi dagli avvenimenti, e questo giudizio viene ancora confermato
dalle risultanze di questo dibattimento. Questa è certo l'unica
ragione per la quale i partiti non hanno potuto prendere accordi
definitivi, quali dovevano essere nel loro pensiero. Nè la riunione in
casa del dott. Ceretti, nè il tentato, ma non avvenuto convegno
all'_Italia del Popolo_ fra repubblicani e socialisti, sono
sufficienti per provar con certezza l'esistenza di un concerto sul
mezzi d'esecuzione, ed i nuovi elementi sorti dalla discussione di
questo processo non sono tali da infondere nel Tribunale una diversa
convinzione.

Nessun fatto è venuto a dimostrare un accordo fra i tre odierni
accusati, non constando che nei giorni dei tumulti, ed in quelli che
li precedettero, si sieno riuniti, se anche per mezzo d'interposte
persone abbiano potuto concertarsi fra di loro per dirigere l'insorto
movimento.

Mancando la prova del concerto, rimane ad esaminare quale fu la parte
che ciascuno di essi ha individualmente preso nella preparazione degli
avvenimenti e nei giorni della sommossa.

Dai rapporti esistenti in atti consta che il Turati è certo la
personalità più spiccata ed influente del partito socialista milanese.
Direttore e redattore della _Critica Sociale_, scrittore nella _Lotta
di Classe_, fondò circoli socialisti ed attrasse nell'orbita del suo
partito numerose società di operai, inspirando in essi l'odio di
classe, e promuovendo leghe di resistenza verso i padroni. Fu già
condannato per un articolo scritto dopo la condanna di De Felice.

Altra volta lo fu per la pubblicazione di un almanacco socialista e
nelle dimostrazioni del 1896, parlando al pubblico tumultuante, elogiò
gli studenti di Pavia, i quali per impedire la partenza di soldati per
l'Africa avevano svelte le rotaie della ferrovia e fu con quelle
parole causa dei disordini che poco dopo successero alla Stazione
centrale.

Nei numerosi suoi scritti trapela sempre il disprezzo per le
istituzioni e l'esercito. A lui si deve l'_Inno dei lavoratori_,
divenuto il grido di guerra dei socialisti. È designato quale autore,
insieme al Rondani, del manifesto ai lavoratori italiani, di cui si è
sopra parlato. Certo egli ne ebbe conoscenza prima che fosse
divulgato.

Come già si è detto, nel 6 maggio, volendo raccomandare ai tumultuanti
la calma e di attendere il momento opportuno, parlò in modo da
incitare maggiormente, ed il maggiore cav. Montuori, colà comandato
pel mantenimento dell'ordine, chiese al funzionario di pubblica
sicurezza che era là in servizio di potere agire o di far ritirare i
soldati, non volendo che questi assistessero a quelle esortazioni alla
rivolta.

Nel pomeriggio del successivo giorno 7, in prossimità delle barricate
di P. Venezia, sentendo l'avv. Cavalla rimproverare alcuni giovinetti
che si munivano di sassi, osservando loro che era da pazzi esporsi a
morire in quel modo, il Turati si rivolse a lui aspramente dicendogli
in tono da poter essere sentito dai rivoltosi: «I cadaveri servono a
qualche cosa. Essi sono le pietre miliari delle conquiste avvenire del
popolo»; e chiamato a sè il Rondani, se ne andò con lui, dicendo: «Qui
nulla più vi è da fare, andiamo a Ponte Seveso.»

Si recò invece alla Stazione centrale, si abboccò col noto Mantovani,
esso pure condannato in contumacia, e nel giorno successivo si ebbe il
manifesto ai ferrovieri e poscia il tentato sciopero dei macchinisti e
fuochisti che potè essere fortunatamente scongiurato.

L'accusato De Andreis, fino dall'epoca in cui era studente, professò
apertamente opinioni repubblicane, fondò giornali, fece attiva
propaganda delle sue teorie, coll'istituzione di circoli, conferenze e
discorsi pubblici, tendenti sempre allo scopo di cambiare
violentemente alla prima occasione la costituzione politica dello
Stato, parlando sempre con sarcasmo della persona del Re e della sua
reale famiglia.

A dimostrare quali sieno sempre state le sue idee, basterà ricordare
che, avendo il giornale la _Provincia di Parma_ riferito un suo
discorso fatto in commemorazione della morte di Mazzini, osservava che
gli aveva fatto dire essere necessaria una _evoluzione_, mentre egli
intendeva una _rivoluzione_.

Nelle feste cinquantenarie dello Statuto parlando alle Società
radicali riunite al monumento di Garibaldi, disse che il popolo per
ottenere le sue rivendicazioni non ha altro mezzo che il voto e la
carabina. Nei primi giorni dello scorso maggio adempiendo ad un
incarico avuto dal Comitato centrale repubblicano italiano, del quale
era uno dei cinque che lo costituiscono, fu, durante i tumulti, a
Parma, Piacenza e Pavia per osservare quanto vi succedeva.

Era collaboratore ed ispiratore di articoli del giornale l'_Italia del
Popolo_, organo del partito repubblicano, di quel giornale che nel suo
numero del 7 maggio, a disordini già cominciati, scriveva che i tutori
dell'ordine avevano sete di sangue. Nelle cartelle trovate negli
uffici di quel giornale ve ne era una nella quale stava scritto che il
De Andreis fin dal mattino si trovava a Porta Venezia per protestare
contro le violenze dell'autorità.

Sempre nel giorno 7, fu visto in varie località ove vi erano
rivoltosi. Mentre era in casa, due giovinotti lo andarono a cercare
per condurlo all'_Italia del Popolo_, ove erano riuniti vari
repubblicani, e nel recarvisi, lungo il corso Garibaldi, parlò in modo
sospetto con varie persone estranee a quel quartiere, poco prima che
vi si erigessero le barricate.

Che verso le ore 15 il De Andreis si trovò sul corso Venezia in un
punto ove la via era sbarrata dalla truppa ed ivi, avendo chiesto al
tenente dei Reali Carabinieri cav. Petella di farlo passare avanti,
questi gli raccomandò d'interporsi per far cessare i disordini, al
quale invito il De Andreis rispose: «oramai è tardi, vi è sangue».

Che, sebbene a queste parole siasi dall'accusato e da qualche
testimonio, che pretendeva essersi trovato presente, cercato di dare
la significazione dell'impossibilità in cui si trovava di far valere
la sua autorità, pure, pel fatto d'essersi trovato colà ove nessuna
ragione lo giustificava, e pel modo col quale furono pronunciate le
parole stesse, lasciano nel Tribunale la convinzione che egli
approvava la rivolta, tanto che il Petella indignato ebbe a
rispondergli: «peggio per loro», ed ebbe anche l'idea di arrestarlo,
ma ciò non fece perchè in quel momento doveva attendere ad urgenti
incarichi.

Il Morgari è, al pari del Turati, socialista, attivo propagandista del
suo partito; quando scoppiarono i disordini in Milano, si trovava a
Torino, di dove partì dopo che i giornali di quella città
annunaziarono che qui la rivolta era domata. Si fermò a Magenta, prese
il treno che lasciò prima di giungere a Milano ove entrò a piedi
inosservato. Egli disse che era venuto per assumere informazioni sui
moti per conto del giornale l'_Avanti_ e per poterne riferire in una
seduta dei deputati del suo partito che doveva tenersi a Roma nel
giorno 12 di quel mese.

Non risulta quanto abbia fatto dalla sera del 9 a tutto il 10; si sa
che nel giorno 11 era a Lugano di dove andò direttamente a Roma, ed
ove fu arrestato nel giorno 14.

Ritenuto, per quanto sopra, che la propaganda fatta dal Turati e dal
De Andreis, nei circoli, colle conferenze, discorsi e pubblicazioni,
la parte che entrambi hanno preso nei giorni 6 e 7 scorso maggio
durante i tumulti, e della quale si è sopra parlato, costituiscono
quel fatto diretto a suscitare la guerra civile ed a portare la
devastazione, il saccheggio e la strage, contemplato dall'art. 252 del
Codice penale, e punibile nella specie a senso dell'ultima parte
dell'articolo stesso, essendosi ottenuto l'intento, perchè essi non
potevano ignorare quali dovevano essere le conseguenze dell'odio che
avevano seminato fra le varie classi sociali, epperciò è da ritenersi
che essi le abbiano volute, e sono quindi da considerarsi come
cooperatori immediati e come tali penalmente responsabili.

Ma per quanto riguarda il Morgari la sua colpabilità non può ritenersi
accertata, sebbene il modo col quale si è clandestinamente introdotto
in città, darebbe a dubitare sul vero scopo della sua venuta.

                           PER QUESTI MOTIVI

dichiara non essere sufficientemente accertata la colpabilità del
Morgari per l'ascrittogli delitto.

Visti gli art. 485, 486 del Codice penale per l'esercito;

Lo assolve ed ordina che sia posto in libertà, ove non sia per altra
causa detenuto.

Dichiara colpevoli gli accusati Turati Filippo e De Andreis Luigi del
solo delitto di cui all'art. 252 del Codice penale in correlazione
all'art. 63.

Visti altresì gli articoli 31, 33, 39 e 40 del Codice stesso,

Li condanna entrambi alla pena d'anni dodici di reclusione,
all'interdizione perpetua dai pubblici uffici, all'interdizione legale
durante l'espiazione della pena e nelle spese di procedimento.

    _Milano, 1.º agosto 1898._



__La sentenza nel processo dei giornalisti.__


La sentenza, dopo avere ricordato i titoli di imputazione, continua:

Ritenuto che alla pubblica discussione, per la lettura dei documenti,
per la deposizione dei testimoni e per le dichiarazioni degli
accusati, sarebbe risultato in fatto: che da vario tempo si erano
potentemente costituiti in Milano i partiti repubblicano e socialista,
che crearono la Camera di Lavoro, vari circoli, associazioni e leghe
di resistenza, le quali, sotto la parvenza del benessere materiale
degli operai, dovevano nella mente dei capi essere per loro strumento
da valersene in una propizia occasione.

Per far propaganda delle loro idee i partiti si valsero dei giornali
l'_Italia del Popolo_ e il _Secolo_ ed altri ne crearono, quali la
_Lotta di Classe_, _Il Popolo Sovrano_, la _Critica Sociale_ e tutti
uniti intrapresero un'attiva campagna sussidiata da frequenti
conferenze, pubblicazioni di opuscoli e foglietti sovversivi,
ispiranti negli operai e nei meno abbienti desiderii che non sarebbe
possibile soddisfare e che lasciavano in essi sentimenti d'odio verso
le classi più favorite dalla fortuna.

Che a questo odio concorrevano e lo attizzavano alcuni nuclei di
anarchici i quali non perdevano occasione di pubblici comizi per
portare in essi la nota del disordine e far propaganda delle loro
teorie rivoluzionarie.

Che fra i giornali, l'_Osservatore Cattolico_, organo del partito
clericale intransigente, per aspirazioni diverse da quelle di altri
giornali, tendeva allo scopo di sconvolgere gli ordini politici,
vagheggiante restaurazioni che allo Stato attuale sono impossibili.

Che tutti questi partiti, discordi nei principii, ma concordi nel
fine, si valsero delle poco floride condizioni economiche del Regno
per esagerare con fosche tinte le sofferenze del popolo, inviperendo
l'odio fra le varie classi sociali.

Che i tumulti, avvenuti in varie parti del Regno, che si estesero a
Piacenza e Pavia, agitarono profondamente la classe operaia in Milano,
e nelle ore pomeridiane del 6 scorso maggio un fatto, che in altre
circostanze sarebbe rimasto inavvertito, quale fu l'arresto di un
operaio spacciatore di manifesti sovversivi, determinò i primi tumulti
a Ponte Seveso e più tardi in via Napo Torriani, durante i quali vi
furono morti e feriti.

Che quei moti repressi nella sera si ripeterono con maggior audacia ed
organizzazione nei giorni 7, 8 e 9, estendendosi a tutta la città,
mutandosi in aperta ribellione, la quale dovette essere repressa dalla
forza armata con numerose vittime.

Che a disordini già cominciati e nel momento in cui si pubblicava il
Regio Decreto che poneva, in istato d'assedio la Provincia di Milano,
l'_Italia del Popolo_, il _Secolo_ e l'_Osservatore Cattolico_, a vece
di far esclusivamente sentire una parola di pacificazione, scrissero
articoli violenti, esagerarono i fatti già avvenuti, per cui
l'Autorità fu obbligata a sopprimerli, ordinando l'arresto dei
direttori e di alcuni redattori.

Che è ben naturale che ora degli avvenuti disordini ogni partito
cerchi declinare da sè la responsabilità, tentando far credere che
quello non fu un moto rivoluzionario, ma solo teppistico al quale
concorsero i bassi fondi sociali; ma se è giusto ammettere che quel
moto fu improvviso e che i capi di ogni partito furono sorpresi dagli
avvenimenti, è fuori di dubbio che colla loro propaganda ne furono la
causa, riservandosi di trarre profitto da quanto poteva succedere, e
di ciò ne sono prova il fatto che alcuni capi si trovarono nei luoghi
dei disordini, il tentato convegno di repubblicani e socialisti negli
uffici dell'_Italia del Popolo_ mediante l'intromissione dell'avv.
Garavaglia, e l'avvenuta riunione nella casa del socialista dott.
Ceretti, entrambi rifugiati in Svizzera.

Che dall'esposizione generale dei fatti passando a stabilire le
singole responsabilità, è accertato che i primi sette accusati,
Callegari, Castelnuovo, Cerchiai, Gabrielli, Gruppiola, Baldini e
Fraschini, nonostante le contrarie affermazioni di essi, sono tutti
anarchici e non tralasciarono mai sino agli ultimi giorni di far
propaganda delle loro teorie sovversive.

Il Callegari e il Castelnuovo poi presero parte ai disordini di via
Napo Torriani ed a Porta Venezia e devono quindi rispondere anche di
ciò: quanto all'Invernizzi nessuna prova si è raccolta a suo carico e
deve quindi essere prosciolto.

Ritenuto, per quanto riguarda gli accusati Chiesi, Federici, Lallici,
Cermenati, Seneci e Zavattari, che tutti ammettono di essere di fede
repubblicana, ma varie sono le responsabilità e non tutti sono
responsabili.

Cermenati fu arrestato quale _reporter_ dell'_Italia del Popolo_ ed il
Seneci quale amministratore dello stesso giornale.

È constatato che quest'ultimo non scrisse mai articoli di colore
politico; solo si occupò della parte amministrativa e della _réclame_
e quindi nessuna ingerenza aveva nella redazione. Nulla dell'opera sua
risulta incriminabile.

Il Cermenati nella sua qualità di redattore giudiziario e teatrale fu
solo occasionalmente per deficienza di personale mandato dal direttore
a Piacenza e Pavia per riferire sui fatti che là avvenivano e consta
che non prese parte alcuna in quelle manifestazioni.

Nella stessa sua qualità fu pure in Milano dove avvennero disordini
nella sera del 6 e nel mattino del 7 e l'unico fatto che gli si
addebitava era quello di essere l'autore di due cartelle trovate
nell'ufficio del giornale, ma una sola fu riconosciuta di suo
carattere, quella cioè che descriveva fatti avvenuti con tinte meno
fosche, e non incriminabili. D'altronde lo scritto di quella cartella
non fu stampato, nè pubblicato.

Lo Zavattari, sebbene appartenga al Comitato repubblicano, non aveva
altro incarico che quello della contabilità.

Da circa tre anni cessò da ogni agitazione e propaganda; nei giorni in
cui avvennero i disordini fu sempre al suo posto alla Stazione
centrale, consigliando la calma, mentre una sua parola avrebbe potuto
far insorgere i facchini da lui dipendenti sui quali aveva molto
ascendente. A carico quindi dei tre sunnominati non si riscontra
reato.

Prescindendo ora dall'esaminare quanto il Chiesi ha potuto fare quale
direttore dell'_Italia del Popolo_, esso, al pari del Federici, è di
fede repubblicana.

Si volle che nel mattina del 7 maggio fosse sul corso Garibaldi a
conferire con varie persone, ma questa circostanza non risultò
sufficientemente provata.

Che aspirazione sua e del Federici fosse quella di giungere, anche con
un moto rivoluzionario, all'instaurazione di un governo repubblicano,
è facile ammetterlo, ma le risultanze della pubblica discussione non
hanno posto in essere a loro carico alcun elemento sicuro dal quale
desumere che essi in unione con altri concertassero e stabilissero con
determinati mezzi di commettere il reato di cui agli art. 118, 120
Codice penale (fatto diretto a cambiare la forma di governo e a far
sorgere in armi); nè questo elemento può ravvisarsi nella forse
tentata, ma non avvenuta riunione di repubblicani e socialisti
all'_Italia del Popolo_.

Il Chiesi e il Romussi, repubblicano il primo, radicale il secondo,
negli articoli che da lungo tempo scrivevano sui loro giornali,
attaccavano continuamente le istituzioni e le autorità, eccitavano
all'odio di classe e con la lunga serie non interrotta di quegli
articoli crearono l'ambiente dal quale scaturirono i recenti
disordini: la loro opera, nella quale si mantennero sino alla
soppressione dei loro giornali, costituisce il fatto materiale diretto
a suscitare la guerra civile ed a portare la devastazione ed il
saccheggio, come pur troppo avvenne, sebbene ciò non fosse in quel
momento da essi desiderato e sia avvenuto per cause indipendenti dalla
loro volontà.

Escluso un previo concerto tra il Chiesi ed il Federici ed altri,
questi non può essere chiamato a rispondere del reato di cui all'art.
134 Codice penale, in correlazione agli articoli 118 e 120, ma solo di
istigazione a delinquere commessa mediante discorsi e pubbliche
conferenze, nelle quali espresse concetti che tendevano a sconvolgere
gli attuali ordinamenti politici, mantenendosi in questo stato di
propaganda sino al suo arresto, come emerse dalle lettere a lui
sequestrate, le quali rivelano che anche in quei giorni era atteso in
altre città per conferenze repubblicane, e dal fatto ancora della sua
presenza negli uffici di redazione dell'_Italia del Popolo_ nello
scorso 7 maggio.

E dello stesso reato deve rispondere anche il prof. Lallici pel fatto
della costituzione del Circolo Adriatico Orientale d'indole
prettamente repubblicana e per discorsi in pubbliche riunioni.

Non regge l'eccezione pregiudiziale da lui sollevata d'essere egli pei
fatti stessi colpito da un Decreto di sfratto, poichè un provvedimento
di P. S. non può avere effetto di escludere la competenza del
Tribunale a conoscere dei fatti stessi.

Ritenuto, per quanto riguarda l'Oppizio, che egli, designato quale
pericoloso socialista, fu arrestato in mezzo ai tumulti e scrisse
nella sera del 6 il suo testamento dal quale risulta che scendeva in
piazza, e devesi quindi ritenere che abbia preso parte ai disordini di
P. Venezia e d'altre località, cade quindi sotto le sanzioni degli
art. 196, 247 Cod. penale.

Ritenuto in ordine a Lazzari, Gatti, Ghiglione, Valera, Valsecchi e
signora Kuliscioff che tutti appartengono alla parte militante più
attiva del socialismo, che tutti sono propagandisti e da molto tempo
non hanno trascurato occasione di riunioni e conferenze per eccitare
gli operai e, per parte della signora Kuliscioff, le operaie a
premunirsi contro i loro padroni, eccitando l'odio di classe,
preparando il terreno alla rivolta, continuando nell'opera loro fino a
che la rivolta scoppiò e della quale devono quindi ritenersi in varia
misura istigatori.

Quanto al Del Vecchio nessuna prova è sorta a suo carico e deve essere
assolto.

Osservato per ultimo a riguardo di don Albertario che gli articoli del
giornale da lui diretto gareggiavano cogli altri di violenza così da
attaccare con sottile ironia la Monarchia e le istituzioni, seminando
l'odio di classe fra contadini e padroni e fra le altre classi sociali
e distogliendo buona parte del clero da quell'opera di pacificazione
che per la sua missione sarebbe destinato a compiere, costituendo in
tal modo un fomite alla rivolta anche con articoli violenti, quando
questa era già scoppiata.

Ritenuto che da quanto sopra è detto, essendo accertato che causa
unica dei torbidi avvenuti in questa città fu l'opera di propaganda e
sobillazione fattasi nei modi sovra indicati dagli odierni accusati, i
medesimi devono tutti essere giudicati da questo Tribunale di Guerra
che, istituito per giudicare i rivoltosi, è competente a conoscere
tutti i fatti anteriori alla proclamazione dello stato d'assedio, i
quali abbiano correlazione coi disordini avvenuti ed abbiano ai
medesimi dato causa in qualunque modo e con qualsiasi mezzo siano
stati commessi.

                           PER QUESTI MOTIVI

dichiara colpevoli Chiesi Gustavo e Romussi Carlo del delitto di cui
agli art. 64, 252 e 246 Codice penale.

Don Albertario Davide del delitto di cui agli art. 246, 247.

Callegari e Castelnuovo del delitto di cui agli art. 252 e 248,
tenendo conto dell'età inferiore agli anni 18 pel Callegari ed
inferiore ai 21 pel Castelnuovo, ammettendo per quest'ultimo le
attenuanti.

Cerchiai, Gabrielli, Gruppiola, Baldini e Fraschini del delitto di cui
all'art. 248.

Oppizio del delitto di cui agli art. 190 e 249.

Federici, Lallici, Lazzari, Valera, Valsecchi, Kuliscioff del delitto
di cui agli art, 246 e 247.

Dichiara non costituire reato i fatti portati a carico di Zavattari,
Seneci e Cermenati e non provata la reità di Invernizzi e Del Vecchio.

                               CONDANNA

Callegari Sante, anni 1 e 6 mesi di detenzione da scontarsi in una
casa di correzione--Castelnuovo Umberto, anni 2 e mesi 1 di
reclusione--Cerchiai Alessandro, anni 3 di reclusione e 3 di
sorveglianza--Gabrielli Alfredo, 10 mesi di reclusione--Gruppiola
Francesco, 1 anno di reclusione e 3 di sorveglianza--Baldini
Domenico, anni 3 di reclusione--Fraschini Giuseppe, 1 anno di
reclusione e 3 di sorveglianza--Chiesi Gustavo, direttore
dell'_Italia del Popolo_, ad anni 6 di reclusione e 1 di
sorveglianza--Federici avv. Bortolo, anni 1 di detenzione e L. 1000
di multa--Romussi avv. Carlo, direttore del _Secolo_, anni 4, mesi 2
di reclusione e anni 1 di sorveglianza--Lallici prof. Stefano, giorni
45 di detenzione e L. 50 di multa--Oppizio Angelo, anni 2 di
reclusione e 2 anni di sorveglianza--Lazzari Costantino, anni 1 di
detenzione e L. 300 di multa--Gatti Oreste, mesi 2 di detenzione e L.
50 di multa--Ghiglioni Achille, anni 1 di detenzione e L. 300 di
multa--Valera Paolo, anni 1 e mesi 6 di detenzione e L. 500 di
multa--Valsecchi Antonio, mesi 1 di detenzione e L. 50 di
multa--Kuliscioff Anna, 2 anni di detenzione e L. 1000 di multa--Don
Davide Albertario, direttore dell'_Osservatorio Cattolico_, 3 anni di
detenzione e L. 1000 di multa.

                                ASSOLTI

Cermenati Ulisse--Del Vecchio Enrico--Invernizzi Pietro--Seneci
Arnaldo--Zavattari Pietro.



__I giornalisti che assistevano ai processi.__


   Foto: 1 Prof. Nicoletti, _stenografo_
         2 Tedeschi
         3 L. L. Bevacqua
         4 Avv. D. Archinti
         5 Dott. Giuseppe Bolognesi
         6 Italo Bianchi
         7 Ing. Giovanni Biadene
         8 Cav. Leopoldo Bignami
         9 A. G. Bianchi.


I giornalisti non sono ammessi ai Tribunali militari che muniti della
tessera, rilasciata dal Comando del terzo Corpo d'armata. Ne copio una
per conservare il documento:

                                      «_Milano, addì 22 maggio 1898._

«Si autorizza il signor Tal dei Tali ad assistere alle udienze del
Tribunale di Guerra nei locali di S. Angelo e Castello Sforzesco, con
facoltà di redigere i resoconti dei processi.

«Si avverte che il resoconto dei processi dovrà essere puramente
oggettivo¹ e sarà presentato per il visto al R. Commissariato, via
Brera 15.

    ¹ L'essere oggettivo non voleva dire niente. La cancellatura veniva
      fatta tutte le volte che l'Autorità lo credeva conveniente. Potrei
      citare gli episodi delle cancellature.

«Una copia del giornale nel quale sarà stampato il resoconto dovrà
essere spedita al R. Commissariato.

                                «_Per il R. Commissario_
                                «IL COLONNELLO RAGNI.»

Conosco quasi tutti i _reporters_ al nostro processo. Il più vecchio è
probabilmente Leopoldo Bignami, qui per la _Stampa_ di Torino. Quando
scriveva per il _Pungolo_ di Leone Fortis era fegatoso e io lo
chiamavo un latrinista della penna. Adesso mi pare si sia modificato.
Non voglio offendere nessuno. Ma credo che il più illustre tra loro
sia l'A. G. Bianchi, del _Corriere della Sera_. Da semplice _reporter_
di fatti cittadini è diventato uno dei più distinti scrittori di
criminologia. Tra i molti suoi libri, conosco il _Mondo criminale
italiano_, scritto con Ferrero e Sighele, e il _Romanzo di un
delinquente nato_. Pochi possono aspirare al suo avvenire. La bontà di
Giuseppe Bolognesi è proverbiale. È la testa dell'_Associazione
lombarda dei giornalisti_. Le ha dedicato più tempo che tutti i
giornalisti presi assieme. Se volete vederlo in collera, toccategli la
sua istituzione. È cronista della _Lombardia_ (ora del _Tempo_) da
quindici anni. Qui al Tribunale rappresenta il _Popolo Romano_,
L'_Adige_, il _Resto del Carlino_ e la _Nazione_. Non conosco l'avv.
cav. Usigli della _Gazzetta di Venezia_, il giornale più forcaiolo
d'Italia. Mi si dice che l'Usigli, assistendo al processo, da
mangia-giornalisti sia diventato uno dei difensori degli imputati. Non
ho modo di constatarlo. Vedo là in fondo il professore di stenografia
Nicoletti che lavora senza alzare gli occhi. È lui che stenografa,
parola per parola, tutto il processo per i _Tribunali_ divenuti
quotidiani. Il redattore capo della _Perseveranza_ è il cav. Bignami.
Non so se sia lui che abbia scritto certi trafiletti e certi articoli
della _Perseveranza_. So che qui è considerato un lebbroso. Non c'è
alcuno, neppure l'Usigli o il Moschino della _Tribuna_, che gli
rivolga la parola. Lo si punisce coll'ostracismo. Gli è toccato sedere
al tavolo dell'ispettore di questura. Se non è lui l'autore delle
delazioni, doveva rinunciare al posto. Diamine, non si vive di solo
pane. Mi dicono che il resoconto della _Perseveranza_ lo faccia l'avv.
Coridori e con una fedeltà che non trovate nelle altre colonne del
giornale. Il secondo dei fotografati è il Tedeschi della _Provincia di
Brescia_. L'Italo Bianchi è il cronista della _Sera_. È alto e magro
più di ogni altro cronista milanese e lo si vede in mezzo agli
avvenimenti cittadini come un affamato di notizie. È buono e gli si
vuol bene. Ci sono parecchi caricaturisti, ma non conosco che il
Biadene. È un ingegnere che si è innamorato del giornalismo. Ha la
matita pronta e la penna che illustra le sue illustrazioni. Come
caricaturista non ha ancora trovato la testa che lo faccia diventare
celebre. Gould, caricaturando quella di Gladstone, è diventato famoso
in una mattina. Non ricordo il nome dell'artista che è diventato
mondiale coi tre capelli di Bismark. Al processo il Biadene
rappresenta i _Tribunali_.

Vedo anche l'avv. Valdata, direttore di questo giornale. È il
giornalista più coraggioso di queste giornate bestiali. È stato
chiamato al Comando più d'una volta ed è stato minacciato della
soppressione e del bavaglio due volte. Ma il direttore non è scappato
e i _Tribunali_, fino all'ultimo momento della serie quotidiana e, più
tardi, nei numeri della serie settimanale, non hanno mai cessato di
mantenersi indipendenti e di far sentire ai Tribunali di guerra che
razza di zibaldoni erano le loro sentenze.

La _Lombardia_ mi ha fatto l'effetto di una vecchia sdentata. Non ha
più sangue indosso. Il suo redattore al processo è l'avv. Desiderio
Archinti. Quegli che gli è vicino è l'avv. Raspi, redattore del
_Commercio_. So che è liberale. Ma non so dire l'atteggiamento del suo
giornale, perchè non ho modo di leggerlo. L'altro in fondo è il
Bevacqua, un buon ragazzo, ma un po' presuntuoso. Rappresenta la
_Provincia di Como_ ed è il critico teatrale del giornale _La Sera_.



INDICE.


                                                                   Pag.

  L'inverniciatore descrive il camerotto di S  Fedele                7
  Il soccorso                                                       23
  Il diario di un mese di Cellulare                                 35
  Noterelle del mio amico di matricola, maggio 1898                 60
  La pagina intima del processo dei giornalisti                     76
  In vagone cellulare: viaggio notturno da Milano a Finalborgo
          la notte dal 24 al 25 giugno 1898                         89
  L'arrivo al Reclusorio                                            97
  Filippo Turati                                                   103
  Il cubicolo                                                      116
  Nella quinta camerata                                            124
  Nequizie regolamentari--I pasti e le cimici                      139
  Don Davide Albertario                                            147
  I forzati                                                        154
  Un fuori! fuori!                                                 161
  L'influenza dei sanguinari--I Frezza e i «mozzi» nostri amici    168
  Callegari Sante                                                  174
  Studio galeottesco                                               179
  Il condannato in traduzione                                      191
  Anna Kuliscioff                                                  203
  Gli ultimi giorni dei deputati e dei giornalisti al Cellulare    209
  La «colomba» e il linguaggio dei detenuti                        219
  Note autobiografiche del deputato Luigi De Andreis               226
  Rivelazioni di un ergastolano                                    237
  Carlo Romussi                                                    270
  La tristezza di Natale                                           280
  Gustavo Chiesi                                                   291
  A Finalborgo studio degli altri galeotti                         297
  Fra i passatempi dei condannati                                  307
  Costantino Lazzari                                               310
  Si muore di fame                                                 317
  Achille Ghiglioni                                                342
  Io e Federici ritorniamo a Finalborgo                            344
  I lavoratori della quinta camerata                               349
  Ulisse Cermenati                                                 365
  L'arresto dei redattori dell'_Italia del Popolo_
          narrato da un testimonio                                 368
  Al Tribunale di Guerra--Il primo Atto d'accusa, senza commenti   381
  Il secondo Atto d'accusa                                         392
  La sentenza contro i deputati                                    400
  La sentenza nel processo dei giornalisti                         406
  I giornalisti che assistevano ai processi                        412


_Proprietà letteraria ed artistica riservata a sensi di legge._



ILLUSTRAZIONI

  ... si aggruppavano alle altre aggruppate nel largo in faccia
      al bastione. (pag. 24).                                      25

  ... per liberarmi dal camiciotto che mi dava un tormento
      spasmodico ... (pag. 67).                                    69

  .... si veniva spinti e incassati dal carabiniere che aspettava
       il condannato dietro l'uscio. (pag. 90).                    91

  [Filippo Turati]                                                105

  CARLO ROMUSSI.                                                  137

  [Don Davide Albertario]                                         149

  ...ha l'aria di un uomo impagliato (pag. 182).                  183

  Passammo tra i commenti degli spettatori e filammo, in linea,
     per tre o quattrocento passi, fin dove ci aspettavano
     i veicoli. (Pag. 198).                                       199

  [Anna Kuliscioff]                                               205

  LUIGI DE ANDREIS.                                               216

  [1712 - Luigi De Andreis]                                       229

  ... non vedevamo che le onde del mare che venivano a
      frangersi sui vetri dei buchi rotondi. (pag. 245).          247

  --Basta, basta, Signore Iddio! (pag. 253).                      255

  [Carlo Romussi]                                                 271

  [Gustavo Chiesi]                                                293

  [Costantino Lazzari]                                            311

  Sembriamo tanti nevrastenici. La nostra conversazione è
      diventata monosillabica.... (pag. 332).                     333

  [Achille Ghiglioni]                                             342

  ... Chiesi, Federici e don Davide--il primo in mezzo
      e gli altri due in faccia--avevano una lampada
      a petrolio... (pag. 360).                                   363

  [Ullisse Cermenati]                                             366

  [I giornalisti che assistevano ai processi]                     412





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