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Title: Novelle e paesi valdostani Author: Giacosa, Giuseppe, 1847-1906 Language: Italian As this book started as an ASCII text book there are no pictures available. *** Start of this LibraryBlog Digital Book "Novelle e paesi valdostani" *** Internet Archive. GIUSEPPE GIACOSA NOVELLE E PAESI VALDOSTANI TORINO F. CASANOVA, _Libraio-Editore_ _Via Accademia delle Scienze_ (_piazza Carignano_) — 1886 ———— _Proprietà Letteraria_ _a senso del testo unico delle leggi 25 giugno 1865_, _18 maggio 1875, 10 agosto 1882_, _approvato con R. Decreto e Regolamento 19 settembre 1882_ Tip. _Roux e Favale_ (809) ———— A GIOVANNI CAMERANA _Carissimo Amico_, _Ti dedico queste novelle che mi incoraggiasti a raccogliere. Novelle senza intreccio, ma così voleva l’intento mio. Nella maggior parte di esse non invento, registro; di alcune potresti tu stesso attestare la verità. Ma se il lettore non ve la riconoscerà a nulla gioveranno le attestazioni mie e le tue. Non è dunque per chiamartene testimone, che metto il tuo nome sul libro; mi piace affermare qui la nostra vecchia amicizia, invocando il ricordo di quell’Alpe che tante volte ci ospitò insieme._ _Tuo aff.mo_ GIUSEPPE GIACOSA. INDICE · Concorrenza · Storia di due Cacciatori · Una strana Guida · Miserere · La Miniera di Cogne · Storia di Guglielmo Rhedy · L’Estate · Un Prete valdostano · La Guida · Storia di Natale Lysbak · Un Minuetto · Il re Vittorio Emanuele in Valle d’Aosta · Tradizioni e Leggende in Valle d’Aosta · I Solitari · La Leggenda del Piccolo S. Bernardo · I Paesi delle Valanghe · La Neve LA CONCORRENZA Quando Giacomo, gettato sulla pedana il sacco dell’avena ed impugnate le redini alzava il piede per salire a cassetta, le quattro brenne braveggiavano e s’inalberavano come cavalli di razza. La diligenza strappata bruscamente, usciva dal portone con una voltata maestra ad angolo retto e irrompeva di trotto sonagliando giù per la viuzza, mentre egli, un piede sul montatoio ed uno in aria, lanciava voltandosi indietro con spavalda noncuranza, un ultimo lazzo allo stalliere. Poi si arrampicava a cassetta e durava un gran pezzo, dando le spalle ai cavalli, le redini fra le ginocchia, a frugacchiare fra le gambe dei viaggiatori per allogarvi allo scuro il sacco dell’avena e mille involti e pacchi e pacchetti, nulla curando le impazienze di quelli che svegliati a mezzo la notte, borbottavano e si dimenavano nella tenebra calda dell’imperiale. Aveva la più cattiva tappa dello stradale, tutta sali e scendi, e gomiti e cune di rigagnoli, scarnata come un greto, chiusa qua e là fra il monte e il fiume, un accidente di strada, ghiacciata tutto quanto l’inverno, e l’estate in certi punti inondata alto un braccio al primo temporale che gonfiasse la Dora. Faceva due corse nelle ventiquattr’ore, una in salita la notte, l’altra in discesa il giorno. Prima di lui, ogni due mesi, per quel tratto di strada era un cavallo coronato, e spezzata o la sala o qualche razzo delle ruote; dacchè egli aveva preso le redini, in tre anni non s’era rotta una tirella. Per strada lo conoscevano tutti. Carrettieri, contadini, preti, osti, bottegai, carabinieri, mendicanti, suonatori d’organetti, cantonieri, merciaiuoli ambulanti, lucchesi, rivenditrici di fettuccie, tutti lo chiamavano per nome, e davano al suo nome pronunziato in francese, una certa troncatura vibrata che rendeva a pennello la sua indole irrequieta e risoluta. Egli aveva per vezzo di fare eco al proprio nome con una sillaba consonante, e a chi lo chiamava Giac, rispondeva invariabilmente un Crac secco come una frustata. Il suo vezzo era passato negli altri e l’accoppiamento di quelle due voci era diventato nella valle quasi un segno di riconoscimento che affermava il diritto di cittadinanza e stabiliva fra lui e ogni altro un patto tacito di amicizia e di mutui servigi. Era servizievole, di buona memoria, e gioviale sempre. La persona snella e l’aspetto piacevole gli permettevano di essere famigliare con grazia, anche colla gente da più di lui. Possedeva la grazia amatoria, faceva sorridere le ragazze e le donne e le abbracciava di sorpresa senza farsi scorgere; traversando i villaggi, a quante stavano alla finestra rivolgeva una certa mossa rapida della testa, che gli gettava il cappello indietro sulla nuca, mentre le labbra accennavano ad un bacio così improvviso e frettoloso, che appena dava loro il tempo di vederlo, non di adombrarsene. Scherzava a tono con ogni condizione di persone e dava ad ognuno la notizia che lo poteva interessare. Come faceva, stando sempre per strada, a conoscere tutte le conoscenze de’ suoi conoscenti? Fatto sta che le conosceva e le chiamava per nome tanto che Lasquaz, l’usciere, soleva dire di lui: È un censimento. L’inverno, quando la diligenza era vuota, egli sapeva con arte sopraffina adescare i pedoni a salirvi. Prima di raggiungerli allentava la corsa, li accostava di passo, poi li richiedeva di qualche minuto servizio: districare le redini impigliate in un gancio, accorciare una tirella, assestare il primaccino e intanto intavolava discorsi da tirarsi per le lunghe, lasciando indovinare che al fondo ci sarebbe stato il lecco di qualche notizia, di qualche storiella saporita, finchè usciva in un: salite via, che poteva parere la paga del servigio ricevuto; e quando l’amico cascatoci prendeva posto, gli susurrava all’orecchio: ve la faccio a metà prezzo, ma che il padrone non lo sappia. Il padrone lo sapeva e toccava i quattrini. Quel tratto di strada fruttava ora, un buon terzo di più che non solesse per il passato. La notte, l’inverno, tutto il tempo della corsa zufolava quattro o cinque note di una sola canzone; l’estate, discorreva coi cavalli, con quelli di punta specialmente. Quelli del timone, diceva, non hanno tempo di starmi a sentire. A questi le carezze, a quelli le frustate chioccanti. Metteva di volata una cavalla bianca chiamata Forca, e un cavallone rosso, chiamato Rancio. —Rancio, cosa guardi? È una pisciata di mulo che fa la schiuma. Sì. Drizza le orecchie, ciac ciac [due frustate] ebbene? sà di buono? Su la testa Forca, Forca, Forchetta, Forchina e Forcona, bella bianca, ti piace la stalla, eh?—bada che t’inzuppi, leva i ferri o ti levo il pelo,—avanti Rancio, vergogna! È una pietra grigia che splende alla luna, c’era anche ieri.—Te le vuoi pigliare Forca, dimmelo che le vuoi, è vero? è vero? Sono qui, sono qui, eccolo in aria il castiga rozze, il castiga brenne, il castiga some, ciac, ciac, lo senti?—Oh, oh, oh! no, con me! non si fanno i capannoni con Giac! Giac è buono!—Volete spuntare canaglie, devono tirar tutto questi due vecchioni qui sotto? Ci sono dei signori sapete, non è mica la baracca dell’inverno piena di pechini e di pidocchi.—Brava Forca! Lo sapevo, ora si mette al galoppo, ciac, ciac, ciac, anime belle, vi insegno il mestiere. Certe volte il mestiere lo insegnava ai viaggiatori che gli sedevano vicino, e allora erano sperticati elogi delle sue bestie, quattro agnelli, ciac, ciac, che non occorre toccarli mai. Coi signori, tutta gente scribacchina, chiamava _penna_ la frusta e _calamaio_ l’astuccio di cuoio dove riporla in riposo, e via discorrendo. *** Il padrone di Giac, oste del _Cannon d’Oro_, teneva la posta da quindici anni, e vi s’era arricchito ed impinguato.—Era un grosso omaccione dal lardo cadente, pallido per vizio cardiaco e lento come un pachiderma. Un monferrino, capitato venticinque anni addietro in Val d’Aosta conducente di vino, stabilitovisi beccaio, assodatovisi tavernaio e salito poscia alla dignità di albergatore e mastro di Posta. In sua vita, aveva fatto due cose buone: molti quattrini ed una bella ed abbondante figliuola; quelli per sè, questa [essa almeno sperava] per altri. Ora, vecchio, non faceva più nulla; all’albergo pensava la figliuola, la quale, nata quando già il padre prosperava, era chiamata _mademoiselle_ dai forestieri, e _soura Gin_ [signora Giovannina] da quelli di casa; mentre al padrone, venuto su dal nulla, il nome di _Pèro_ [Pietro] non s’era mai potuto nobilitare con un _sour_, ed era somma grazia se negli ultimi anni, più la pancia che la dignità, lo avevano fatto chiamare _Barba Gris_ [zio grigio]. _Soura Gin_ era dotata di una grassezza soda e fresca; bionda, bianca, piccolo naso, piccoli occhi vivissimi, bocca larga, labbra carnose e ridenti, dentatura stupenda. Badava a tutto, compresi i cavalli, era sempre dappertutto, ma più in scuderia, quando sapeva di trovarci Giac. Una volta che a Giac era toccato un potentissimo calcio da una mula, essa gli aveva fasciato la gamba ferita e lo aveva tenuto all’albergo come un signore per oltre una settimana. Un’altra volta, venuti alle mani Giac e lo stalliere, questi ebbe da soura Gin otto giorni di paga ed il congedo immediato. Barba Gris attribuiva quelle cortesie a saggezza amministrativa: Giac essendo una perla di cocchiere, era naturale che la figliuola lo tenesse da conto: ma Giac, sapeva valutarle altrimenti, benchè non adoperasse per procacciarsele; giovialone con tutte le donne, a tu per tu diventava un sultano freddo e non curante e faceva grazia a lasciarsi adorare. Un giorno il caffettiere e tabaccaio del luogo, venne dall’oste a confidargli come qualmente una sua nipote ed erede, si fosse innamorata di Giac, e lo volesse ad ogni costo per marito. Giac non visto udiva il colloquio. —Che ne dite voi? —Dateglielo.—È un accidenti che può far la sorte di una casa. E giù un sacco di elogi. Giac la sera, tornato dalla tappa, così vestito com’era, colla _blouse_ di tela blu e la frusta in mano, prese Barba Gris in disparte, e senza preamboli gli chiese la mano di soura Gin. Il grosso uomo gli piantò in faccia gli occhi stralunati, gli strappò di mano la frusta e rispose: —Questa è la penna con cui vuoi scrivere il contratto? Fila, o te la misuro sulla groppa. —Non volete? Padrone! E andò a cena, poi a dormire sul fienile. Verso la mezzanotte Gin fu a svegliarlo. —Vieni con me. Lo condusse in cucina, lo fece sedere, sturò una bottiglia di Carema, gli sedette accanto, colmò due bicchieri, e levandone uno per toccare gli disse: —Alle nostre nozze! Giac diede una crollatina di spalle.—Essa riprese: —Queste sono due mila e settecento lire che ho raspato in quattro anni di governo. Sono mie. Il padre mi ha detto ogni cosa, bisogna costringerlo, se ti sposo senza il consenso, mi leva dal testamento: è un cane. —E lei non mi sposi. —Con questi quattrini, tu gli pianti la concorrenza, comperi quattro cavalli e l’omnibus della _Croce Rossa_ di Ivrea che è da vendere. I quattrini li avrai trovati da una persona che ti protegge. Parti subito. Fra otto giorni piombi qui coll’omnibus verniciato a nuovo: lo chiamerai «l’_America_» e ci scriverai _Concorrenza_ in giallo che sembri oro. Attacchi tre cavalli, il quarto starà di ricambio, in sei mesi li avrai accoppati ma di qui là nasceranno cose. Farai tappa qui, per dar profitto all’albergo, e mai parole brusche col padre. Siamo intesi? Va. Giac la guardava versargli addosso dagli occhi asciutti tutto il fuoco della sua giovinezza, sentendo di potersela pigliare solo allungando la mano. In quel discorso, tronco, pensato, furbo, dove non era altra parola che d’affari, vibrava una passione ardente, disposta egualmente a concessioni immediate ed a lunghe pazienze. Ogni parola acquistava dalla voce e dall’accento una doppia portata. Passava per il cervello, un cervello mercantile ordinato e spedito, ma scaturiva diritta dal cuore. Diceva le cose assennate, tradiva i sentimenti scomposti, i termini erano da lettera di traffico, la voce era piena d’impeti e di caldezze peccaminose e gli occhi secondavano la voce, foravano e frugavano, cercando nel volto impassibile del giovane, un assentimento che la facesse trionfare come di una vittoria insperata. Il danaro era sulla tavola.—Essa seguitava: Un cavallo, lo trovi a Donnas, che è il grigio di Loutrier; ha otto anni; ora è sfiancato, ma lo rifaremo. Loutrier l’ha comprato tre mesi fa dall’Ebreo, ora lo rivende perchè smette il negozio per la morte del figlio; ce n’è un altro da vendere a Verres dal fornaio, quell’alto alto, colle barbette lunghe: per trecento lire te lo buttano dietro; puoi provare se Viano il conducente ti vende la Bella, è ombrosa e scappa, ma nelle tue mani...! Non si può dire la carezza ammirativa che c’era in quelle parole: _nelle tue mani_, e per accrescerla, essa ne afferrò una di quelle mani poderose e la serrò vigorosamente in una stretta dove raccolse tutto il fuoco della sua impaziente verginità, e tutta la tenerezza dell’animo. E il giovane seguitava a guardarla impassibile, già risoluto di accettare, ma inconsciamente persuaso del potere irresistibile che gli derivava dalla sua freddezza. Gin, ripreso il bicchiere che aveva deposto, lo tese verso di lui. —Non vuoi toccare? —_Topa_—rispose Giac, toccando col movimento del suonatore di piatti—poi bevve d’un fiato e levatosi in piedi intascò lentamente quattrini. —Bondì soura Gin. —Quando torni? —Appena montata la baracca; ma i cavalli che mi ha detto lei non li voglio. A vedermeli comperare farebbero troppi discorsi per la valle; bisogna piombare qui d’un colpo col terremoto dell’_America_. —È giusto: comprali dove vuoi; ma fa presto. —E se me li mangio? Gin crollò le spalle, sicura. Giac s’avviò seguito dalla ragazza. Sull’uscio, questa gli pose una mano sulla spalla; il giovane si voltò brusco, la levò di peso e tenendola tutta inerte nelle braccia, le stampò sulla bocca un bacio lungo e mordente, finchè Gin guizzatagli di mano come un pesce e piantandosegli in faccia, rasente la persona, irrigidita, gli occhi morenti di languore, gli soffiò sul viso: —Vuoi? —_Pas de bétise_, rispose il giovine, in francese, e via di corsa. *** Cominciò dunque la concorrenza. Sul principio l’_America_ scaricava nel cortile del _Cannon d’Oro_, una zavorra di viaggiatori straccioni dei quali Barba Gris diceva ridendo con Giac: Quanto li paghi? e: Caro rispondeva il vetturino.—I cavalli erano tre bestiaccie grame, scarnate e spellate che giungevano svogliate perfin della stalla e duravano un’ora a gonfiare la cinghiaia soffiando come mantici e tossendo, il muso a terra. Giac le aveva comprate per la pelle, tanto per sbarcare la stagione morta di primavera e stupire poi la gente e più l’oste colla muta rifornita di fresco, in principio d’estate. Gli stallieri ne ridevano; Barba Gris, trionfante, badava a vantarli per migliori che non paressero, e lodava Giac d’essersi una buona volta messo da sè, che a servire un padrone c’è da lasciarci le costole. E Giac rispondeva modestamente che lo avevano subillato, che già si pentiva, ma che oramai, finchè duravano le rozze, bisognava tirare il carro, ma una volta crepate... —Io non ti ripiglio però, me ne duole, ma il tuo posto è preso. —Pazienza, cercherò altrove, l’ho fatta e la pago. Con Gin, mai una parola, nè apertamente nè di nascosto:—la ragazza, aveva indovinato il giuoco e lo secondava; solo quando egli sedeva alla tavola degli stallieri, essa dal vano dell’uscio se lo guardava con tenerezza orgogliosa, così giovane e bello, e avveduto e perdurante. Barba Gris non aveva nemmeno calato i prezzi delle sue corse. —Lo faccio per te, diceva a Giac, per non rovinarti affatto. La prima rozza crepò sul principio di giugno, stramazzando morta in cortile, ancora attaccata alla carrozza giunta appena, e l’esercizio seguitò per due settimane trascinandosi al passo delle rimaste. L’oste intanto aveva pubblicato il cartellone colle tariffe estive, affiggendolo a tutti i caffè e gli alberghi del circondario. Fu il giorno 23 giugno, la vigilia di san Giovanni, che Giac, come già Bruto e papa Sisto, gettò la maschera dell’umiltà e si rivelò imperante. Questa volta era la vera _America_ aurifera e adescatrice, una gabbia alta e snella, lucente come uno specchio, la cassa verde filettata di rosso, le ruote rosse coi filetti verdi sui razzi. E la parola _concorrenza_ trombonata da un cartellone sull’alto dov’era scritta a lettere bianche sul fondo nero, e il nome _America_, spiccante sullo sportello, nella gloria dei raggi d’oro. La nuova diligenza si trovò alla stazione all’arrivo dell’ultimo convoglio; l’estate precoce aveva anticipato l’affluenza dei forestieri, un monello improvvisato a fattorino, strillava dallo sportello: _Val d’Aosta, si parte subito_; un facchino raccoglieva intorno gli scontrini del bagaglio. Giac a cassetta, stimolava e ratteneva tre cavalloni morelli che empivano i finimenti colla polpa rifatta in quindici giorni di scuderia a razione di fatica. L’omnibus empitosi in un momento partì rumoreggiando a gran chiocchi di frustate larghe che sfogliavano i rami del viale, come grani di tempesta. Quando sull’albeggiare, dal letto dove vegliava per l’asma cardiaco, Barba Gris sentì irrompere in cortile il vetturone, alla furia composta dei cavalli e al rullo sordo ed eguale delle ruote lo scambiò per una carrozza signorile. Si vestì, scese colla fretta lenta cui era costretto, e trovò la figliuola già affaccendata a servire il caffè ai nuovi arrivati. L’occhio pratico gli disse subito che quei signori non facevano brigata e ne argomentò che la carrozza doveva essere di _servizio pubblico_. Uscì inquieto. La diligenza, stava sotto la tettoia, senza cavalli, il timone nudo piantato come una lancia nel ventre. L’aggirò in silenzio, fiutando un nemico, non lesse la parola concorrenza, scritta troppo in alto, ma il nome: _America_ gli fece inarcare le ciglia. Stette un momento in pensieri, poi mormorò seco stesso _mai più, mai più!_ e entrò in scuderia. Giac e lo stalliere di servizio erano andati, uno per acqua l’altro per fieno. Nella penombra del locale basso, male arieggiato da una finestruccola graticolata e dove la lampada era un carboncino rosso agonizzante, si avviò diritto alle poste dei cavalli forestieri; li sentì soffiare, ne misurò a occhio la statura, una palmata sulla groppa del primo fece un _ciac_ pieno, indizio di carne soda e nutrita, tastò la groppa degli altri due, tesa come un tamburo, e stette pensoso mulinando sospetti e ricacciandoli col solito _mai più, mai più_. Ma nell’uscire, ecco Giac col secchione e la spugna. —Hai trovato padrone? —Roba mia, roba mia! cantò il giovane, senza fermarsi. Barba Gris dovette sedere sull’abbeveratoio; il cuore gli rullava nel petto come poc’anzi le ruote della carrozza in cortile: boccheggiava come un pesce fuor d’acqua, e intanto udiva Giac in scuderia chiamar le bestie per nome e carezzarle a palmate come donne sfacciate, zufolando allegro una fanfara dei bersaglieri. Come riebbe il fiato, urlò traverso l’uscio. —Dove li hai rubati i quattrini? —Eredità del barba. In quella squillò in istrada la cornetta della posta, e la vecchia diligenza imboccato il portone al passo, andò gemendo a fermarsi dirimpetto la sala da pranzo. Ne scesero un carabiniere e il cuoco venuto da un albergo di San Remo a far la campagna estiva al _Cannon d’Oro_. —Ladro! borbottò l’oste avviandosi alla sua stanza, dove si tappò per tutta la giornata. E Giac trovò così il destro di consegnare a Gin il conto di quella prima corsa, datata dal 24 giugno, giorno di San Giovanni, onomastico della ragazza. *** La concorrenza fu tosto accanita e rabbiosa. Adesso anche la diligenza postale andava alla stazione a far gente, strillando il ribasso dei prezzi; ma a imballare i sacchi delle lettere ne andava sempre una mezz’ora e Giac via subito. La postale cambiava i cavalli a mezza strada, mentre Giac filava d’un fiato; è vero che il tempo perduto nel cambio tornava nella forza dei cavalli freschi, ma questo non bastava a ricomprare il primo ritardo. Tuttavia qualche volta ai due terzi di cammino Giac sentiva la postale rumoreggiargli alle spalle, e voltandosi vedeva nelle tenebre luccicare l’occhio acceso dell’alto fanale. Allora in luogo di tenersi da banda per cercare il sodo e scansare le carreggiate, l’_America_ prendeva il colmo dello stradale, sollevando nuvoli di polvere; e cominciava una corsa sfrenata più agevole ai tre cavalli di fronte che al lungo traino dei quattro appaiati. Le discese poi finivano sempre per darla vinta a Giac, il cui polso di ferro, reggeva le bestie sospese alle redini, mentre le frustate e le grida stimolanti e il peso della carrozza le precipitavano in una corsa tempestosa e corretta. Barba Gris in principio stava ogni mattina in ascolto dietro le persiane, se mai udisse prima la cornetta della diligenza, che lo scampanellare della rivale; poi, sfiduciato, aveva mutato stanza, allogandosi nella più remota della casa per non udire nè questo, nè quella; la figliuola lo aveva persuaso a non guastarsi interamente con Giac per non nimicarlo al _Cannon d’Oro_, e non perdere almeno avventori all’albergo. Il soverchio ribasso dei prezzi tentato dal vecchio per vincere la concorrenza, gli era tornato in danno e scorno, inzeppandogli la diligenza di valligiani, locchè ne svogliava i forestieri. La gentaccia mal pagante della postale, appena scesa di carrozza, si sperdeva qua e là, volta alle case ed ai traffichi, la signoria della concorrenza sostava all’albergo. Giac accorto, aveva ristabilita la tariffa intera, sicchè l’_America_ semivuota fruttava più che la postale gremita di gente, e semivuota non era mai. Che spina al cuore del vecchio! I quattrini perduti erano nulla rispetto all’orgoglio umiliato; li avrebbe buttati a sacca pure di spuntarla. Pensò perfino di impiantare un servizio alla svizzera, ma non era impresa da pochi giorni. La salute ne soffriva, l’asma gli s’era fatta più forte e frequente, non parlava più, non scendeva in cortile che per traversarlo e portare al caffè, nel piccolo crocchio taroccante, i rancori che in forma di scherni stentati gli uscivano dall’animo. Gin, impietosita, stava meditando una confessione generale, sperandone pace. Una notte, sul principio d’agosto, si scatenò nella valle un temporale furiosissimo. Sul fare dell’alba, già rasserenatosi il cielo, un merciaiolo parlò, giungendo, di guasti gravi lungo lo stradale. Pochi minuti dopo Lasquaz, l’usciere, recò che alla diligenza erano morti fulminati il cocchiere e due cavalli. Ignorava se alla posta o alla concorrenza, la notizia proveniva dal forte di Bard, avvisato per soccorsi. L’oste, mancategli le gambe, sedeva sullo scalino della cucina guardando intorno e tenendosi il petto. L’asma lo soffocava, ma non c’era verso di farlo salire in stanza. Gin pallidissima avrebbe voluto lanciarsi di corsa per lo stradale a sincerare la notizia, ma l’aspetto sfinito del padre la tratteneva; il cortile era pieno di gente e ne veniva sempre. A quell’ora tutte e due le carrozze erano in grande ritardo. La folla inerte aspettava; i carabinieri erano partiti verso Bard. Dopo un gran silenzio, Barba Gris disse: —La posta ha la cornetta e l’_America_ i sonagli. E tacque di nuovo. Un altro tempo di ansia silenziosa. Il cane del fornaio, dall’altro capo del paese, abbaiava forte come di notte; l’acqua della fontana chiaccherava nell’abbeveratoio. Si udì lontano il _pêê pêê_ della cornetta. Allora il vecchio sorse come respinto da una molla, boccheggiò un momento, gli uscì dalle labbra due o tre volte: _la mia! la mia!_ si lanciò nel mezzo del cortile, fra la gente che s’allargava in cerchio paurosa di pazzie, e si pose a ballare, dimenando alte le braccia, una danza pesante e dolorosamente scomposta. La cornetta trombettava più vicino, poi il carrozzone sboccò nel cortile. Il vecchio ballando sempre mosse ad incontrarla, ridendo con degli ah! singhiozzanti. Come la vide, allargò le braccia, mutò l’ah! della risata in un oh! di maraviglia angosciosa, e stramazzò a terra sul colpo come un sacco. Giac fece in tempo a trattenere i tre cavalli che quasi gli erano addosso. L’_America_ incolume aveva raccolto parte del carico e il postiglione mal concio della diligenza postale. Avvicinandosi al paese aveva suonato la cornetta in segno di gioia per il pericolo scampato. Barba Gris era morto. Giac e Gin si sposarono dopo tre mesi. STORIA DI DUE CACCIATORI Negli ultimi anni del regno di Vittorio Emanuele, i cacciatori di contrabbando erano in val d’Aosta tanto cresciuti di numero e di baldanza, che il Re aveva trovato di non potersene altrimenti liberare se non accogliendo fra i proprii guardacaccia alcuni degli stessi contravventori, i più audaci e fortunati. Tutti conoscono la gran passione che il Re aveva per la caccia alpina, della quale era gelosissimo; di più i frodatori cacciano purchessia, senza discrezione nè discernimento, ed al Re premeva non si estinguesse la bella razza degli stambecchi, della quale in tutta Europa sopravvivono pochi individui, rifugiati sulle falde e nei seni di quell’altissimo gruppo di montagne che si chiama il Gran Paradiso. Ma la caccia sovrana faceva gola ai _touristes_, la carne di stambecco è prelibata e molti Svizzeri avrebbero lautamente pagato un maschio ed una femmina vivi, per trapiantarne la razza e farla allignare nelle proprie montagne. Ne seguiva che parecchi degli stessi guardacaccia, se veniva loro il destro, tiravano la sua brava schioppettata e l’inverno salivano alle più alte foreste a cercarvi i novelli, volgendo a profitto della propria industria l’autorità di cui erano rivestiti e seguitando, s’intende, a far la guerra ai contrabbandieri, anzi tanto più perseguitandoli quanto più la comunanza dal ladroneggio li danneggiava. I contrabbandieri dal canto loro odiavano cordialmente le guardie, perchè erano guardie e perchè rubavano loro il mestiere e ne nascevano spesso delle scene violente e nelle alte solitudini non tutte le schioppettate miravano agli stambecchi, nè tutti i lamenti di feriti erano urli di fiera. Qualche volta, a sera, un montanaro rincasava col braccio e colla gamba fasciati alla meglio, la moglie impasticciava con erbe la ferita, faceva rapprendere il sangue con polvere da schioppo o tabacco trito, l’uomo stava per dei giorni al buio, nella tana umida, sotto il soffio sonnifero delle vacche, masticando cicche e bestemmie e in paese lo dicevano sceso a qualche fiera del Piemonte e tutti conoscevano l’accaduto e nessuno fiatava. Poi il feritore ed il ferito andavano insieme alla bettola, si puntellavano a vicenda tornandone briachi e sapevano tutti e due che alla prima salita in montagna guai trovarsi a tiro. Morto il Re, nei primi mesi fu una cuccagna generale di cacciatori ed uno sterminio di stambecchi e camosci. Un giorno, sul finire della primavera Gregorio Balmet e Vincenzo Marquettaz detto il Rosso, partirono per le vette della Nouva, colle altissimo che si connette alla punta di Lavina e di là al Gran Paradiso per una breve giogaia di creste rocciose pressochè inaccessibili. Sul versante che scende in Val Soana, la Nouva non ha nevi eterne, ma dalla parte di Cogne tutta la costiera del Gran Paradiso è fasciata da una cintura di piccole ghiacciaie ripidissime e più sotto da nevati che soltanto i solleoni di luglio e d’agosto possono sciogliere. Quei nevati sono causa di ritardo ai pastori, cosicchè la montagna tardi abitata e presto abbandonata dà sicurezza di vita e di pascolo all’abbondante selvaggina. Tutta la catena in alto si sviluppa in forma di un anfiteatro vastissimo del quale i punti estremi sono la Becca di Nona ed il Monte Emilius da un lato e dall’altro la Grivola colla sua affilata lama di ghiaccio. Dalla Grivola alla Becca di Nona l’occhio gira per i nevati del Lauzon, per il Gran Paradiso, la Lavina, la Nouva e la Tersiva, formidabile cerchia di nevi e ghiacci eterni, eterna sorgente di freschezza e di vigoria ai pascoli delle chine ed alle foreste della valle. Tali anfiteatri si incontrano spesso nelle Alpi, ma sogliono per lo più aprirsi a valle in un basso orizzonte di cielo; qui, dove i due estremi della catena scendono in Val d’Aosta, l’orizzonte è chiuso dalla larga mole del Monte Bianco; sicchè, veduta dalle alture della Nouva, tutta la vallata di Cogne appare come una gran conca, senza via d’uscita, smaltata in fondo di un verde cupo, più in alto del nericcio o rossastro colore delle roccie nude e sugli orli di un bianco immacolato e sfolgorante. Sotto le mezze luci crepuscolari o nelle giornate grigie, la conca di Cogne ha un dolce aspetto di tranquillità pastorale. Si direbbe che tutta la pace del mondo sia venuta a rifugiarvisi. Il colore quieto ed eguale, che addolcisce l’asprezza delle linee sembra impedirvi ogni moto violento. Le case basse dal largo tetto sporgente hanno l’aria di chioccie covanti; il velluto nuovo dei prati non ha un sol pelo irto. La foresta dorme immobile, rigida; le roccie non mostrano sporgenze e le nevi mute di riflessi paiono immensi guanciali morbidissimi. Ma al sole essa si agita ed assume una sembianza corrucciata e violenta. Incisa da valloni profondissimi essa non è mai tutta illuminata, nemmeno al meriggio. Sempre qualche ombra gigantesca lacera i prati, estingue per larghi tratti di corso il luccicare del torrente, spinge il nero profilo su per le pinete e mette in mezzo alla gaia fioritura estiva dei freddi lembi invernali. Veduta dall’alto, la conca mostra sempre qualche gran bocca spalancata dalle labbra luminose e dalla gola oscura e senza fondo. Di là escono attirate dal sole lame sottili di vapori come lingue di serpi aizzate. Le roccie rivelano scoscendimenti e scogliere acutissime e le nevi sfolgoreggiano accese di una luce insostenibile. I due cacciatori avevano lasciato il sentiero che sale al colle della Nouva e piegando a diritta seguivano nel suo più basso lembo il nevato che volge verso Lavina. La giornata splendida e la montagna pulita come un vetro, promettevano una caccia facile e sicura. I camosci si erano avveduti di loro, poichè le traccie recentissime sulla neve li mostravano passati di fresco, ma il luogo di rifugio non poteva essere lontano; su pel nevato e di lì al ghiacciaio non erano ascesi perchè essi li avrebbero avvertiti e poco discosto a diritta, giusto nella direzione delle peste, il pianoro era bruscamente troncato da un burrone che scendeva a picco fino alla valle. Là certo i camosci, e dovevano essere in molti, si erano nascosti in una gran rovina di massi enormi ed il loro si confondeva col colore della roccia viva. Ma accostati non potevano fuggire. Il burrone, benchè strettissimo, era troppo largo anche al salto del più gagliardo ed impaurito stambecco e le sue pareti liscie ed incrostate di ghiaccio non davano presa a discenderlo. I due camminavano in silenzio, lo schioppo armato e quasi spallato, coll’ansia indicibile del colpo imminente. Un sibilo acutissimo li piantò immobili in attesa; i camosci, una quindicina almeno, erano tutti ritti sulla cresta delle roccie annusando l’aria inquieti dello scampo. Quattro colpi ne precipitarono tre giù pel dirupo, e gli altri fuggirono a salti verso il ghiacciaio. Neanche la pena di portarli a spalle fino alla piana; i camosci c’erano caduti da sè; una buona giornata! I cacciatori corsero ad affacciarsi all’abisso e videro in fondo sulla neve terrosa di una valanca le tre bestie già immobili. Stavano per tornare quando il Balmet accennò subitamente al Rosso la cresta opposta del burrone dicendo: —Le guardie. Erano due com’essi, armati com’essi, fermi a guardarli. —Il colpo è fatto,—rispose il Rosso,—scendiamo. Diffatti le guardie non potevano, per la distanza, averli ravvisati e di cacciatori in paese ce n’era tanti, che valli a scoprire. Al più occorreva, per non perdere la preda, avanzare le guardie nella discesa; una volta padroni dei camosci, a nasconderli ci pensavano essi. Il Balmet non perdeva d’occhio il nemico. —Hanno un cannocchiale. —Sì? A me! E senza pure un secondo di esitanza, il Rosso si pose a ricaricare il fucile dopo di aver minacciato con un gesto le guardie. —Giù!—gridò il Balmet, e si gettò lungo e disteso sulla roccia. Dall’altra partì una schioppettata; il Rosso lasciò cadere l’arma, urlò un Cristo, tentò un passo verso il compagno e rotolò a terra. Le guardie, fatto il colpo, erano scomparse. Balmet si precipitò verso il Rosso. Era vivo ed in sensi; con uno sforzo violentissimo s’era raccolto a sedere e stava tastandosi colla destra il braccio e la gamba sinistra gridando: I porci! i porci! i porci! Due grossi pallettoni lo avevano colpito all’avambraccio sinistro ed alla coscia sinistra ed erano usciti tutti e due, quello del braccio rigando profondamente la carne, e quello della coscia lacerando certo qualche muscolo o qualche nervo motore. Balmet prese un pugno di neve e lo cacciò nelle ferite dopo averle denudate; il Rosso lasciava fare imprecando sempre colla stessa parola ai feritori. —Puoi reggerti? —Impossibile. —Come scendere? —Portami. Ma il Balmet non poteva bastare al peso, il ferito era un demonio di omaccione alto e pieno, da stancare otto braccia. —Aspettami. —Aiutami a levarmi di qui, posami là,—e indicava una macchia verde di erba nuova in basso del nevato. Come vi fu adagiato, il Balmet gli diede la fiaschetta dell’acquavite, un grosso pane, uno straccio di carne salata, si levò di dosso la giacca di lanaccia, gliela pose sulle spalle, gli promise che sarebbe tornato al più presto con aiuti, e via a precipizio per la più diritta. Era forse l’una pomeridiana. Il sole batteva a perpendicolo e l’aria tremava e fumava. Il nevato sudava e si squagliava in rigagnoletti, i quali saltellando per le asperità del suolo o scorrendo lisci sulla neve, rendevano mille musiche allegre, suoni metallici, mormorii sommessi di innamorati, brontolii corrucciati come di vespa rinchiusa, gorgogliavano con accenti di rabbiuzza impotente nelle strette rocciose e poi si combinavano e, come lieti di ritrovarsi dopo tanto silenzio di prigionia, acceleravano la corsa fino a precipitare in cascata di spruzzi argentini giù per qualche dirupo che serbava ancora lungo la parete la riga secca e nericcia che gli avevano lasciato le acque degli anni addietro. Qua e là, nei seni meno assiduamente percossi dal sole, un filo d’acqua tardivo e stantìo gocciolava miseramente con intermittenze di singhiozzo, ed alla prima nuvola che l’oscurasse, stagnava ad un tratto, per rilamentarsi, tornato il sole, come un fanciullo piagnucoloso. Nei larghi fortemente inclinati, in certi punti la terra trapelava con toni neri lucentissimi fra un nevischio diradato come una mussola; in altri luoghi ogni traccia di candore era sparita ed un’erbetta minuscola e tenerissima luccicava al sole. Il Rosso rimaneva immobile, le gambe distese sull’erba, la schiena appoggiata ad un sasso, muto nella rabbia e negli spasimi delle ferite. Ad ora ad ora allungava il braccio sano, raspava quel po’ di neve che gli veniva fatto e mutava empiastri alla piaga; così aveva fermato il sangue. Misurando colla memoria lo spazio che lo separava dalle prime case, contava il tempo che gli rimaneva d’attesa prima che tornasse il compagno. A quest’ora è giunto all’abetaia; avrà preso per il _Clapey_, il terreno è sdrucciolevole, ma egli salta come un camoscio; e lo faceva qui e là e più in basso e ne seguiva la corsa, minuto per minuto, rivedendo i luoghi, richiamandosi in mente tutti i particolari della via. Come la sapeva a memoria la sua montagna; non si era mai avveduto di conoscerla tanto! Chi verrà? Questi è in casa di certo, quell’altro bettoliere sfaccendato sarà giù in Cogne briaco. E poi ci sono le donne. Ma già bisognava fare i conti larghi; la gente ha da fare, non si trovano subito tre o quattro disposti alla prima chiamata. E allora si metteva a capo fitto negli ostacoli, si lambiccava il cervello a cercarne; e forse alle prime case della gente non ce n’era; pazienza saranno un’ora, due ore di più, che importa? ne rimangono delle ore di sole! Provava una tenerezza immensa per gli amici e conoscenti della valle, una vivacità infantile d’affetto per gente cui non parlava da anni. Nel suo monologo silenzioso chiamava: _Quel buon [pg!31] Pietro, quel buon Stefano_; un Pietro ed uno Stefano che aveva minacciato di schiaffi il giorno addietro, e tirava i conti al bilancio delle sue buone azioni, ripensando i mille minuti servigi resi qua e là; ad uno aveva dato mano a levare la vacca da un burrato; un altro quando egli saliva ai camosci lo pregava di sterrargli la tura per dar da bere ai prati; e quando scendeva in Aosta, quante diverse incombenze gli fioccavano addosso! e quante volte i cacciatori suoi compagni l’avevano richiesto d’aiuto per ficcargliela alle guardie; ed egli non aveva mai rinculato. Era un buon diavolaccio in fin dei conti, e colla sua forza un altro sarebbe stato ben più prepotente e manesco di lui. Ma poi veniva la pagina del passivo, ed i pugni ed i calci menati senza misericordia gli facevano, ripensandoli, una sorpresa dolorosissima. Una volta, un marito lo aveva colto allo scuro sul fienile colla moglie, perchè egli era stato un bel pezzo di giovinotto dieci anni addietro e le donne non gli dicevano di no, e a quel marito era stata somma grazia tacere perchè lo conosceva. Che idea di fare così il galluccio su tutte le stie! Bel profitto glie ne restava. Ogni nuovo torto che si scopriva gli dava una trafittura più acuta che non facessero le ferite. Ma era un fanciullo ad accorarsi così. Egli sarebbe ben corso ad aiutare un altro, il primo venuto, anche un nemico quando lo avesse saputo alle sue strette. Oh come sarebbe corso! Che zelo di carità lo infervorava! Avrebbe affrontato mille pericoli per salvare un convalligiano, perchè la valle è una patria stretta e fa parentela. E poi egli era vittima delle guardie, e contro le guardie non si doveva forse dar tutti? Ogni idea che gli veniva gli durava un gran pezzo, non già che la rivolgesse per vederne il fondo o se ne compiacesse; era l’idea che stava lì ferma a martellarlo, picchiando sempre colle stesse parole, e le più testarde erano le cattive. A volte chiudeva gli occhi e pareva dormisse, poi li riapriva di scatto per guardarsi dattorno. E nessuno veniva. Che tempo era passato? Benchè i valloni fossero già scuri, la valle stava tutta sdraiata al sole come una pigra, e le acque seguitavano le loro chiacchere da comari. Ma il soffio freddo del tramonto era imminente. Egli lo vide salire, correre la vallata come un brivido febbrile. Le foreste se lo comunicavano d’una in altra, i rami verdi scuri degli abeti lontani prendevano un fuggevole riflesso argentino che li lasciava più scuri ed immobili, i fieni diventavano grigi un istante curvandosi, e si risollevavano più rigogliosi, ed il soffio passava e saliva sempre rapidissimo. Gli abeti più vicini agitarono le punte come volessero ricusare la notte, i prati più vicini ondeggiarono in disordine; tutti i suoni, tutte le voci della valle furono ad un tratto portati in alto da un’ondata echeggiante; il ferito ebbe un fremito gelido, e poi tornò la calma ridente di prima. Ma il segno era dato! Quella potente onda di suoni aveva chiusa come in un crescendo finale, la grande sinfonia diurna; il sole aveva un bel risplendere ancora, la giornata era finita. La crosta del nevato rassodandosi mandò mille piccoli scricchiolii secchi come scatti di molla, tutte le note allegre dell’acqua tacquero, tutti i rigagnoli stagnarono, la neve mutò la sua mollezza umida in durezza cristallina, e l’aria diventò fredda, tagliente, acerba come un nemico. Già da qualche minuto un sospetto sordo e confuso si era insinuato di mezzo ai pensieri del Rosso. Egli lo avvertiva ad un senso di amarezza acuto, ma non se ne rendeva ragione e non sapeva dargli nome nè corpo. Più che un sospetto, era una tentazione. Rifacendo il cammino che doveva seguire il Balmet, battendo mentalmente a tutti gli usci dei casolari, discutendo fra il timore e la speranza tutte le probabilità di soccorsi, era giunto a dimenticare il suo stato presente ed il dolore delle piaghe, e gli pareva di essere egli sano e disposto, che cercasse aiuto pel compagno ferito. Ma nella sua corsa gli tornava, con una insistenza sempre crescente, il pensiero dei tre camosci uccisi immobili laggiù sulla neve terrosa della valanga. Una bella preda per un uomo solo! Tre camosci! Chi lo impediva di nasconderli in qualche cavo di roccia, o sotto la neve, e di venir poi la notte caricarli sul ciuco ed a tirarne e serbarne tutto il profitto? Anche respingendola, quell’idea lo faceva sorridere di compiacenza. E quando il primo soffio gelato lo richiamò bruscamente alla coscienza de’ suoi dolori, quell’idea non lo lasciò più un istante; ma non era sua, era del compagno e sentiva che anche all’altro doveva esser venuta, che anche l’altro se ne sarebbe compiaciuto, che l’avrebbe respinta, e poi discussa e poi seguita. Allora il sospetto dell’abbandono gli si infisse nella mente e la tardanza del soccorso lo mutò in certezza. In un attimo si vide perduto e la disperazione gli diede una forza immensa. Reggendosi col braccio sano, puntando a forza la gamba sana, si trascinò in mezzo a dolori laceranti fino all’orlo del burrone, e si affacciò all’abisso ghignando di terrore. I camosci erano sempre immobili sulla valanca. Rinacque! Che orribile sogno aveva fatto! Ora la salvezza era certa e vicina. Gli pareva perfino di sentire le voci ed i passi dei giungenti, guardava intensamente qua e là tremando per l’imminenza della gran gioia. Che grido avrebbe mandato a vederli! Tutta l’anima sua sarebbe stata per quei valorosi, tutta la sua vita. Ancora un minuto, un minuto... eccoli! Ma come? Di là? Da quella parte? Su dal burrone gli era giunto il rumore di pietre smosse e rotolanti. Guardò di nuovo. Due dei camosci erano scomparsi ed un uomo, il Balmet di certo, stava curvo sull’ultimo per caricarselo a spalle. Non lo ravvisò per l’ombra e la distanza, ma non poteva essere che lui. All’urlo ruggente ch’egli mandò a quella vista, l’uomo levò la testa, guardò in alto, poi riprese l’opera frettoloso. Dopo un istante la valanca fu tutta deserta. L’ombra era venuta, tutta la valle era scura, il sole fuggiva dai prati e dalle foreste e metteva sulle ghiacciaie all’intorno dei colori dolcissimi di rosa e dei riflessi di un azzurro intenso. Poi anche le ghiacciaie allividivano, i raggi orlavano le supreme vette e dileguavano, e solo laggiù in fondo sul Monte Bianco duravano le carezze della luce. I dorsi nevosi furono ancora per qualche minuto più oscuri che il cielo, ma poi questo prese un colore cinerino e la neve spiccò più netta e più luminosa di esso; poi nel cielo sereno brillarono le stelle, la via lattea fu la maggiore bianchezza e la valle rimpicciolita perdette ogni forma. La gran conca di Cogne fu muta e nera come un sepolcro. Il ferito cominciò a singhiozzare come un fanciullo, poi, furente, si diede ad urlare con voce di dannato. Chiamava, imprecava, pregava, mandava suoni senza nome, fremeva, taceva sfinito, ricominciava più feroce, finchè gli urli tornarono grida umane, e le grida lamenti acutissimi, ed i lamenti gemiti spossati e sommessi. Poi la voce gli mancò anche a quelli. Allora si mise a guardare nell’ombra dinanzi a sè, immobile, istupidito. La mattina era ancora vivo: il giorno gli tornò qualche speranza remota, e sovratutto una lucidezza nettissima di mente. Del Balmet era inutile sperare; ma le guardie fatto il colpo erano forse discese a denunziarlo e l’autorità sarebbe certo salita a cercare di lui. Volendo serbarsi in vita per quell’attesa, tornò a trascinarsi fino al luogo dove il Balmet lo aveva deposto e dove egli la sera prima aveva lasciato quel po’ di provviste che aveva. Fu una fatica lunga e dolorosa. Là addentò senza voglia la carne salata, bevve qualche sorso di acquavite e gli parve tornare in forze. Le piaghe non davano sangue ma cuocevano gonfiando, la coscia specialmente era divenuta grossa e tirava la pelle fino a crepolarla. Gran lavoro seguiva là dentro! Sentiva tutti i nervi stirarsi, irrigidirsi, poi riallentarsi come corde spezzate, ed una irrequietudine invincibile ed un senso torpido di gravezza gli davano bisogno di muoversi e gli impedivano ogni movimento. La mattinata fu serena ed il meriggio cocente. Il calore del sole gli faceva un gran bene e poi non gli pareva di essere così solo in mezzo alla allegria dei suoni. Ma le ore passarono, passarono senza che alcuno giungesse. Un branco di camosci scese placidamente dal ghiacciaio, saltellò sul nevato. Alcuni dei più arditi si accostarono a lui, fiutarono insospettiti che fosse quel corpo scuro e poi rinfrancati dalla sua immobilità gli furono quasi sopra finchè egli con un gesto del braccio sano li impaurì e li mise in fuga. Erano forse gli scampati del giorno addietro. A poco a poco una stanchezza molle, quasi dolce lo aveva preso per tutte le membra, non soffriva più che di sete, perchè l’acquavite non faceva che stimolarlo ed egli aveva finito di raspare tutta la neve che gli stava a portata; ma nulla al mondo gli avrebbe fatto tentare un movimento che lo disadagiasse. Prese un sassolino e lo tenne in bocca per promuovere la saliva e intanto seguitava a guardare diritto dinanzi a sè nell’aria e per la valle dove il verde dei prati gli riposava la vista. Non sperava più, non si lagnava più, non pensava più. Era in uno stato delizioso di morbidezza e se fosse venuta gente a levarlo di là, li avrebbe pregati di lasciarlo solo così com’era ed immobile. Verso l’ora del tramonto qualche leggiera nuvola spuntò dalla parte del Gran Paradiso; poco dopo altre nuvole scavalcarono le vette da ogni lato e si allargarono radendo la montagna, strisciando lungo le roccie con serpeggiamenti lascivi, lacerandosi alle foreste. Altre sbucavano dai valloni con aria sospettosa: esitavano un istante come paurose di essere avvertite e poi correvano a congiungersi alla gran fiumana grigia che oscurava il cielo sulla valle. Nei seni, delle nebbiuzze sottili filavano su per le strette velocissime, come succhiate da qualche enorme bocca aperta nel cielo. Poco alla volta la conca fu chiusa tutto intorno, come da un immenso coperchio; solo laggiù sul Monte Bianco rideva una gaiezza di cielo sereno con luci azzurre color di viola, di rosa e di un giallo ardente. Il Rosso fissava quel solo punto luminoso con una intensità da maniaco. Gli pareva che tutto quell’accumularsi di nembi fosse inteso a suo danno; le nuvole erano nemici che volevano accerchiarlo e soffocarlo. Ma il Monte Bianco vegliava alla sua salvezza e gli diceva di confidare, di non si muovere, che c’era lui, che con un soffio avrebbe sbarazzato il cielo tornandolo pulito come uno specchio. La lotta fu lunga ed accanita. Le nuvole s’accavallavano, si addensavano, diradavano, fuggivano, tornavano con moti convulsi, rigando il cielo di righe bianche esilissime, sporcandolo con grosse macchie grigiastre e color di piombo. La sete gli cresceva, era divenuta ardente, insopportabile, ma egli non poteva muoversi, sempre fisso nella raggiante gloria della grande montagna. La campana di Cogne suonò l’_Ave Maria_, le nubi vinsero, il Monte Bianco fu velato ed il Rosso chiuse gli occhi; morto. Il cielo s’abbassò fino a toccarlo! nella valle pioveva fitto e lassù sulle alture della Nouva, intorno al cadavere cominciò una battaglia di neve rabbiosa e cristallina che si risolvette poi in larghe falde, fioccanti silenziose a perpendicolo. Le donne degli alti villaggi intanto accorrevano alla chiesa e bisbigliavano fra loro di spiriti che la notte innanzi avevano empita di grida e gemiti la valle. UNA STRANA GUIDA Ebbi una volta per guida uno strano uomo irrequieto e verboso, così dissimile da tutti gli altri del suo stato, che la prima metà della strada andai sempre cercando meco stesso un pretesto plausibile per tornar indietro e la seconda, devo dirlo, rimproverandomi di averlo giudicato male. Il modo con cui mi s’era offerto, il suo contegno, lo sguardo, il vestire, il passo, l’accento e perfino la forza erculea veramente straordinaria, tutto in lui m’era argomento di grave sospetto. Ero all’Albergo del Giomen, al Breil in Val Tournanche, e volevo recarmi in Val d’Ajaz all’albergo del Fiery dove avevo dato la posta a parecchi amici. Per il Colle delle Cime Bianche, che è il passaggio più diretto, ero passato altre volte, e poichè quello richiede otto buone ore di cammino, tanto valeva allungarla di tre o quattro, toccare il piccolo Cervino, una delle più mansuete vette del Monte Rosa, e scendere poi da quello in valle d’Ajaz.—Ma, avendo la valigia piuttosto greve, occorreva trovare un mulo che per le Cime Bianche me la portasse al Fiery ed una guida per me.—Ora di muli non ce n’era pur uno e la sola guida che si trovasse, uno svizzero di Zermatt, non voleva saperne di portar peso. Era dunque in pericolo, non solo la vagheggiata escursione al piccolo Cervino, ma altresì il mio passaggio più diretto per giungere al convegno. La vigilia del giorno che dovevo partire, stavo all’imbrunire sull’uscio dell’albergo, guardando inquieto verso le praterie che salgono al San Teodulo, caso mai capitassero guide o portatori di ritorno, quando venne il padrone a dirmi di aver trovato il mio uomo. —L’avete mandato a cercare? —È qui. —Quando è arrivato? —Ora. —Viene dal basso? —No signore, dalla montagna. —Impossibile, l’avrei visto scendere, sono qui in vedetta da un’ora. —Quello non passa dove passano gli altri. —Perchè? Ma l’oste non volle spiegarsi altrimenti; solo chiamò ad alta voce: Jacques. Era un bell’uomo alto alto, membruto, sui trent’anni; grondava di sudore e le stille gli si incanalavano in certe rughe profonde che davano al viso un’espressione di volontà dura e travagliosa. Gran naso retto, gran bocca, una selva di capelli neri e crespi, barba di due giorni. Volli rientrare per levarlo alla brezza assiderante, ma crollò le spalle e mi disse subito: —Lei vuole andare al Fiery e salire prima sul piccolo Cervino? —Al piccolo Cervino ci ho rinunziato, a meno che stassera non capiti un mulattiere che mi passi la valigia per le Cime Bianche. —La porto io. —Allora mi ci vorrebbe una guida per il Cervino. —Vengo io. —Voi volete portare la mia valigia lassù? —Quanto pesa? —Saranno quattro miria. —Bella roba! Mi dà quindici lire. Il prezzo era più che discreto; ma l’amico mi pareva un gradasso. Gli offersi di vedere almeno la valigia, ma ne rise. Non mi piaceva. —Voi fate la guida? —Sicuro. —Avete il libretto? —No. Ho il certificato di congedo assoluto. Ero in artiglieria. —Come vi chiamate? —Tutto per quindici lire? E si mise a ridere con un’aria acerba. —Basta, il nome glie lo dico gratis. Mi chiamo Giacomo Balma. Le accomoda? Visto che il suo ghigno non mi andava, mutò faccia subitamente e aggiunse con accento profondo: —Tre scudi mi fanno comodo, sa; domani sera mi saprà dire se li ho meritati. E dopo una pausa indagatrice: —L’oste mi ha detto che lei lo conosce da un pezzo. Gli domandi pure di me. Riverisco. E scese in cucina. L’indomani partimmo alle tre della mattina. La mia valigia a soffietto, piena zeppa gli parve un fuscello: la portava legata con corde al dorso, come un zaino. Camminava leggiero e spedito zufolando la marcia del Flick e Flock in tempo da bersagliere. La sua andatura aveva qualche cosa d’insolito: non sapevo dire che fosse, ma la avvertivo dissimile dall’altre; più tardi me ne diedi conto: il suo passo non faceva rumore, sembrava sfiorare la terra. Appena avviato s’era messo a discorrere, ma fosse il sonno o il senso di disagio che mi dava la sua compagnia, non gli risposi. Tentò due o tre argomenti, poi smesse e prese a zufolare affrettando il passo. Per salire al piccolo Cervino, si passa il colle del _Saint Theodule_, un colle di ghiacciaio, la cui altezza rimane impressa a memoria per i quattro 3 che ne formano la cifra. È alto 3333 metri. Di solito partendo dal Giomen si sale tosto per il dorso erboso del monte e si affronta poi il ghiacciaio in alto, dov’è quasi piano e quindi meno rotto dai crepacci. Il mio uomo prese invece ad aggirare il monte nella sua falda più bassa, finchè non ebbe trovato una specie di canale inciso nella rocca viva, scabrosissimo e nudo come una lavagna; lo imboccò senza interrogarmi, e vi si inerpicava lesto come uno scoiattolo. Certo a quel modo la salita era più divertente e spedita; dove ci s’aiuta di mani e di ginocchia ed ogni passo vuol essere studiato e misurato, la mente distratta non avverte la fatica; senza contare che il lavoro compiuto appare evidente e l’altezza guadagnata vi ripaga dello sforzo. Ma in certi punti il canale era così scosceso da impensierire. Sul principio, Jacques, nei punti più ardui si voltava e mi porgeva la mano, ma fresco di forze avevo respinto l’aiuto, orgoglioso di cimentarmi colla dura montagna. Allora l’amico s’era messo a camminare per suo conto, abbandonandomi al mio destino. Pericolo di vita non c’era mai, ma quel vederlo su in alto mi faceva un dispetto acerbo. Certe volte, tutto intento ai miei passi, lo scordavo e quando levavo la testa seccato di trovarmi solo, il canale mi appariva vuoto fino alla cima. Dov’era andato colui? Il suo aspetto, la scelta di quella via inusata, la sua andatura, e quello scomparire misterioso, tutto ciò mi metteva in sospetto. Ero sicuro che l’oste, non mi avrebbe affidato ad un cattivo soggetto, ma questa sicurezza non bastava a tranquillarmi. Seguitavo a salire e quando levavo di nuovo la testa, eccolo un’altra volta a suo posto, ma lontano lontano e sempre incurante di me. In principio avevo pensato che in certi punti il canale divenisse impraticabile e che convenisse uscirne per ripigliarlo più sopra, ma mano mano che procedevo mi accorgevo che il passaggio c’era sempre, anzi che andava sempre facendosi più agevole. Gli gridai di fermarsi, ma bisogna dire che la mia voce non gli giungesse, perchè fu gridare al vento. Se non era della valigia, credo che me ne sarei tornato senz’altro. Finalmente lo vidi seduto a terra, aspettarmi. Lo raggiunsi di malo umore; il fondo quasi liscio della roccia si era fatto sdrucciolevole per una vena d’acqua, ed egli s’era fermato per darmi mano che non cadessi. —Perchè vi allontanate? voglio avervi presso di me. —Mi era parso che le piacesse di star solo non volevo seccarlo. —Perchè abbandonate la strada così spesso? Che fate in giro? —Sono della razza dei bracchi, mi piace fiutare intorno il terreno. —Bene, ora non mi lascierete più. —Come comanda. Cercai di intavolare io il discorso, ma questa volta era lui che non ci mordeva. Era spuntato il sole, egli s’era levata la giacca e la portava sul braccio. Dalla cinta di cuoio gli pendeva una accetta da potatore, istrumento insolito alle guide. —Perchè portate quell’accetta? —La porto sempre. —Per farne che? —Così. Mi guardò bene fiso e aggiunse: —Ho anche una pistola, guardi. Levò di saccoccia una pistola corta a due canne e me la diede avvertendomi che era carica. Fui tentato di serbarla: in montagna da noi nessuno cammina armato, le pistole sono un arnese di lusso destinato alle salve d’allegria in occasione di nozze. Ma pensai che, volendo farne cattivo uso, non me l’avrebbe mostrata e glie la ritornai senza far parola. Dopo un quarto d’ora di cammino, mi disse: —Scusi, torno subito. Vada pure lei, lo raggiungerò fra due minuti. E via per la costa. Volli levarmi di dubbio e appena fu avviato uscii dietro di lui dalla gora; lo vidi correre ad una rovina di grossi massi discosta un dieci metri; si chinò, smosse due o tre pietrone, frugando per la terra e tornò indietro. Come avvertì che lo stavo spiando, corrugò la fronte e accese lo sguardo, ma lo spianò e lo spense in un minuto. —Sono andato a pigliare questo pane e questa crosta di formaggio che avevo riposto ieri. Io giro spesso per le montagne e vi dispongo i depositi di viveri.—Mi guardò di nuovo negli occhi e—Non crede? No, non credevo; il pane lo avevo veduto levarselo di saccoccia e il suo turbamento al dubbio di esser sorpreso doveva pure avere una ragione. Cominciavo a sentirmi vivamente inquieto. Egli se ne accorse e diventò subito gioviale e verboso; mi conosceva, aveva domandato di me all’oste, sapeva che ero uno scrittore, come a dire un giornalista, che dev’essere un gran bel mestiere da guadagnare sacchi di quattrini. Lui conosceva la vita della città e leggeva sempre i giornali. Anche sapeva che avevo scritto delle opere per il teatro, un’altra miniera d’oro; ma se volevo dargli retta egli sì che me ne avrebbe raccontate delle storie, e fatti conoscere dei birbanti! Ah, loro vengono qui per il gusto di provare che cos’è la fatica? Se lo sapessero che cos’è! E quanto costa un pezzo di pane! E c’è della gente che ce lo vorrebbe rubare; ma (e si toccava in saccoccia la pistola) ma c’è qui il giudice, il giurato, il pretore, il presidente, e tutti gli accidenti della terra, e se vogliono venire vengano che mi troveranno. Aveva una facondia abbondante e collerica, come di un uomo persuaso di qualche persecuzione continua ed accanita; spezzava il discorso e saltava da un soggetto all’altro come spinto da un tumultuoso getto d’idee e pauroso di smarrirle discorrendo. Aveva certo qualche acerrimo nemico che governava misteriosamente tutti gli atti della sua vita; tutti i suoi discorsi mettevano capo a quello e precipitavano in minaccie indeterminate ed oscure, profferite ridendo, coi denti stretti, i denti bianchissimi e saldi, capaci di spezzare uno scudo. E nel fondo degli occhi gli tremava una inquietudine timida ed umile che contrastava colle violente parole e aveva finito per rassicurarmi interamente. Anche di questo si avvide, e quando gli offersi un sigaro mi disse: —Lei ha pensato male di me. Non sono un birbante, venga qui e capirà tutto. Eravamo ai primi nevati. Il canale s’era allargato e la montagna intorno non aveva un filo d’erba. Era tutta una rovina di massi giganteschi, gran dadi rocciosi lucenti come un metallo, mezzo affondati in un terreno sabbioso, molle per la neve sciolta di fresco e per gli scoli del ghiacciaio. Mi condusse per mano nel labirinto finchè giungemmo ad una specie di grotta formata da due massi che contrastavano puntellandosi a vicenda. Entrò nel cavo carponi e ne uscì con un pacco di poche libbre di peso, involto in stracci laceri; lo sciolse e ne trasse sigari e tabacco. Era un contrabbandiere. Scendendo di Svizzera, disseminava la sua mercanzia in tanti nascondigli diversi, perchè, se mai, non avesse a cadere tutta nelle mani delle guardie. Come ebbe rifatto l’involto, lo ripose nel fondo e tornò a me col viso rischiarato e fidente. Ora che il suo secreto era stato lui a dirmelo, non temeva più di me. —Questo è il più alto magazzino; le guardie non salgono mai sin qui, sanno che a queste alture non c’è più pastori che possano far da testimonio occorrendo, e che qui comando io. E questo è il mio aiutante di campo, aggiunse, togliendo, da una fenditura lì presso, una carabina da doganiere. Il contadino non può persuadersi che il contrabbando sia una azione colpevole, il suo senso morale non arriva alla nozione degli artificiali diritti dello Stato. Sa che il rubare e il far violenza nel prossimo sono atti disonesti, ma non può concepire per disonesto il comprare un oggetto là dove lo si trova a miglior mercato, e lo smerciarlo dove lo pagano caro. La proibizione di un traffico tanto naturale gli pare una prepotenza intollerabile, contro la quale non solamente è lecito, ma meritorio ribellarsi. Di qui un odio violentissimo contro le guardie e il fermo proposito e la fredda capacità di fare a schioppettate se occorre. Le guardie lo sanno e bene spesso quando incontrano il contrabbandiere in luoghi aspri e deserti, se non sono in tale numero da schiacciarlo o se non presumono alla mercanzia frodata un valore eccezionale, fanno le mostre di non avvertirlo e passano guardando dall’altra. Un colpo è presto tirato e a quelle alture un cadavere è agevolmente e durevolmente trafugato. La guardia non torna in quartiere, i sospetti cadono sul vero omicida, partono drappelli e frugano per le gole in traccia del morto, ma prove salde non ne raccoglie nessuno. Sull’Alpe alta c’è sempre qualche voragine aperta a comodo degli avvocati difensori. La mia guida s’era trovata una volta, inerme, sotto il tiro di due doganieri e n’era scampata per miracolo. Un’altra volta aveva fatto smottare dall’alto, non visto, una frana di sassi addosso a due guardie che salivano la ripa e una di esse, scappando, aveva perduto la carabina. —Quella carabina che le ho mostrato,—aggiungeva Jacques, con un piglio trionfatore.—Ma che vitaccia! E il guadagno è poco, sa. E mi raccontava le traversate notturne, d’inverno, solo per le ghiacciaie mortali, carico come un mulo, le _tormente_ che lo assalivano, lo flagellavano a sangue, e lo tenevano immobile, rannicchiato sotto un antro di rupe, pauroso di soccombere al sonno traditore della montagna, il sonno gelido, invincibile avanguardia della morte. Oh egli li conosceva quei valichi, passo a passo, ne aveva contate tutte le roccie e aggirati tutti i seni e misurata la bocca di tutti i crepacci e tastata tutta la crosta nevosa che li scavalca in forma di ponte. Sapeva dove si può agganciare l’occhio della fune per calarsi lungo gli scoscendimenti levigati della rupe, e dove la sporgenza rocciosa basta al passo, e dove il monte, frantumato dai fulmini e roso dalle acque, cede al minimo peso e precipita in lavine micidiali. Nessuna guida poteva stargli a paro. A lui non occorrevano corde per traversare il ghiacciaio, nè bastone ferrato per reggervisi. Misurava i salti e li spiccava coll’occhio e il piede sicuri del camoscio. —E sa perchè ho voluto accompagnarlo? Se lei non mi ci voleva, ci salivo lo stesso, oggi, a questi piani. Oh non tema, che non faccio contrabbandi in sua compagnia, non lo metto a nessun rischio. Ma un mio parente, che s’industria con me allo stesso traffico, manca di casa da otto giorni. L’avevo lasciato a Zermatt, otto giorni or sono, e doveva tornare l’indomani. Io lo seppi solo ieri sera che non era tornato. Ciò m’inquieta. Di questi giorni nevicò due volte sulle vette, e d’estate chi dice neve dice burrasca. Bisogna bene che cerchi di lui; ma sono povero e ho molta famiglia, non posso perdere le mie giornate. Cerchiamo insieme: vuole, signore? Non posso dire quanta dolcezza supplichevole c’era in quelle parole: Vuole, signore? Sicuro che volevo, anche a costo di passarci due giornate volevo; al piccolo Cervino ci sarei salito un’altra volta, perchè sulle vette era inutile cercare. Sul ghiacciaio, che, valicato appena il Teodulo, sale verso il Breithorn, trovammo delle peste. —Sono le sue,—disse Jacques;—sono peste di cinque o sei giorni e di un uomo solo; combinano. Speravo che fosse rimasto a Zermatt; se è salito è morto. Seguitammo le peste per oltre un’ora, ma giunti al piano superiore, ne smarrimmo ogni traccia; era nevicato di fresco e la neve era tutta vergine e piana. Dopo avere aggirato senza frutto tutto quanto il ghiacciaio, verso l’imbrunire ci cascò l’animo e la forza. Giungemmo all’albergo del Fiery verso le undici di sera. La casa era tutta scura e silenziosa, ma l’oste doveva essere di sonno leggiero, perchè, appena la mia guida l’ebbe chiamato per nome, si affacciò ad una finestra e disse: —Sei tu, Jacques? —Sì, apri. L’oste senza muoversi replicò: —È là dietro la casa vicino al fienile; ora scendo. Jacques fu di un salto al luogo indicato, ed io lo seguii tastoni. Prima che l’oste giungesse, avevo acceso un cerino e vedemmo coricato su di un trave un sacco chiuso alla bocca, pieno, ma tutto gobbe e rilievi. Jacques capì, io indovinai al gesto ch’egli fece; in quella giunse l’oste. —L’hanno portato stassera, le guide di Gressoney lo trovarono ieri sul ghiacciaio d’Aventina; oggi salirono coi pastori a pigliarlo. Domani verrà il pretore per l’atto. Era seduto sulla neve, i piedi neri per la cancrena: la tormenta lo ha preso e fermato, il freddo gli ha dato la cancrena ai piedi, dovette sedere e si addormentò. Jacques aperse il sacco, lo rimboccò fino a scoprire la testa del morto, lo baciò sulla bocca gli fece un segno di croce col pollice, sulla fronte, poi richiuse il sacco e disse all’oste: —Dacci da cena, questo signore muore di fame. MISERERE _Memorie di viaggio._ Nel fondo di una valle ignota ai _touristes_, c’è un paesuccio di dieci o dodici case miserissime piantate una a ridosso dell’altra in salita, di modo che le finestre della seconda guardano sulla prima e così via. Il villaggio si allunga nel senso della valle e questa è così stretta che non dà spazio a due case di fronte; un torrentello rabbioso e grigio uscito pur ora dalla morena di un piccolo ghiacciaio, tiene col suo letto quanto spazio piano intercede fra le opposte montagne e rumoreggia incassato in una gola profonda e dirupata. L’unica via del paese e le case corrono sul fianco della montagna a sinistra del torrente; la montagna è erta e delle case, quello che è primo piano sulla facciata verso la via, di dietro è piano terreno. Nei mesi della state il sole scende talora in quel baratro e vi fa fumare le pozzanghere dei letamai, ma dura poco; i raggi non vi giungono che a perpendicolo, appena inclinati il monte li intercetta. Quei paesani non vedono mai l’ombra delle loro case, non conoscono i bei lembi oscuri di terreno contorniati da terreni luminosi, nè l’affievolirsi graduale dei raggi nelle ore del tramonto. Là il sole dardeggia o tace, vi piomba come un fulmine, arde un momento e scompare. L’inverno dura sei mesi, nei quali la vicenda delle ore non produce che un alternarsi di diverse oscurità; la mezza luce che regna costante impedisce i crepuscoli o almeno non li lascia avvertire, la notte ed il giorno si seguono rapidamente come per l’abbassarsi o il levarsi repentino di una cortina. I villani leggono per così dire il nome di ogni mese sulle alture delle montagne; in novembre il sole non giunge che a quel punto, in dicembre a quell’altro, gennaio lo attira più in basso, febbraio più basso ancora, finchè giugno lo reca in paese e settembre ne lo riporta via. Le nebbie vi sono frequenti e fitte, i muri delle case che se ne imbevvero mostrano qua e là sgretolati delle pietre lucide sudanti per l’umido. Quando l’aria è tranquilla il paese manda un odore eguale di stalla, di latte, di fieno, con qualche nota caprina acuta come un sibilo. Colla nebbia gli odori si condensano e penetrano nel vestimento. La via fu già e forse dura selciata tuttora, protetta com’è da uno spesso strato di melma, di letame e di pagliume che la fa meno sdrucciolevole ed assorda il rumore dei passi sicchè pare che la gente vi cammini in punta di piedi. D’altronde gli abitanti portano certe scarpe di panno colla suola di corda intrecciata che non fanno rumore; dalla via si vedono le donne salire su per le scale di legno e passare lungo i ballatoi senza rendere il menomo suono. Un forestiere che vi giungesse a sera, lo crederebbe un paese maledetto e disabitato. Siccome le stalle non guardano verso la via, non c’è lume a nessuna finestra; solo pei chiassuoli fra una casa e l’altra si vede talora un piccolo cerchio di luce pallida, incerta, una bianchezza nebbiosa diffusa per l’aria che mette in pensiero di nefandi sortilegi. Quella luce esce traverso i vetri unti, sudanti, rabescati di ragnatele, di una finestrucola bassa e stretta aperta a fior di terra. Di là, col poco raggio giungono suoni che non hanno nome, voci sommesse che sembrano provenire dalle viscere della terra, senza intervalli, simili a preghiere bisbigliate in una cripta intorno ad un sepolcro. Gli abitanti vestono di nero, le donne portano in capo una cuffia nera e gli uomini un berrettone dello stesso colore. Parlano poco, ridono poco, hanno l’aria sospettosa e dolente propria degli esseri che vivono isolati. Infatti, quel paese non vede forse dieci forestieri l’anno, e di quelli, cinque almeno sono fuggiaschi in cerca di valichi difficili ed ignorati; gente che giunge a notte, si rimpiatta sui fienili e parte prima che aggiorni. La chiesa è servita da un cappellano che quando non è un santo, è un prete iroso caduto in disgrazia del vescovo e messo lì per punizione. C’è anche un’osteria, ed è la casa più alta del paese, una casa grossa che pare e fu già un convento, bianca, fredda, piena di finestre chiuse e di camere vuote. Invece di serrarsi in due o tre stanze a terreno, la vecchia padrona disseminò i pochi mobili nei più vasti ambienti della casa, cosicchè dalla sala da pranzo, per chiamar gente non basta levare la voce, bisogna percorrere a tastoni un lungo andito, dove le assi fradicie cedono sotto i passi, affacciarsi alla scala e picchiare col bastone sugli scalini di legno che suonano a vuoto. Nella camera a dormire, sopra un cassettone zoppo da un piede, una campana di vetro racchiude il busto in cera di una vecchia vestita da signora, certo qualche parente morta della padrona. La faccia ha l’orribile perfezione dei ritratti calcati nella maschera tolta sul cadavere; la cera trasudata traverso la tinta di carminio ritorna al viso morto il colore invano falsificato ed una polvere finissima filtrata malgrado il panno che orla la bocca della campana, mette su quelle guancie dei rilievi terrosi e delle ombre che ricordano la spaventevole magrezza dei morti. Quel viso di pergamena è ornato da due lunghi ricci inanellati. Al peso dei passi il tavolato traballando fa zoppicare il cassettone ed i ricci dondolano gravemente, col piccolo fruscio asciutto delle foglie secche. Io giunsi al villaggio sul fare della notte; per strada, discorrendo col mulattiere, avevo appreso che la padrona della locanda era una vecchia zitellona sospetta di stregoneria tanto che nessuna ragazza per bisognosa che fosse, aveva potuto durare domestica nella sua casa. Non che fosse bisbetica o manesca, al contrario: amava di soccorrere le miserie dei compaesani e tutto il villaggio era indebitato con lei; ma il suo aspetto era così rigido e severo, e così asciutta la sua voce e così brusco l’accento e l’occhio così immobile a fissare lontano le cose che non si vedono! Di più nell’osteria c’era una camera dove non era mai entrata anima viva e dove tutte le sante notti dell’anno il lume durava acceso fino alla mattina. Gli anziani del paese raccontavano che anche quand’era giovane e bella da dipingere, _Mademoiselle_ aveva l’occhio vitreo e l’orecchio sempre teso ad ascoltare _le voci_. Della sua antica bellezza si dicevano prodigi ma non glie l’aveva certo sciupata l’amore, che anzi, quarant’anni addietro accusata di infanticidio e tradotta dinnanzi il tribunale, questo l’aveva assolta, essendo accorso tutto il paese a giurare che non le si conoscevano amanti e che nessuno mai l’aveva nè veduta nè tampoco sospettata incinta. L’accusa era fondata sulla testimonianza di un sergente doganiere il quale pretendeva di averla ravvisata una notte nell’atto che sotterrava un involto, aiutata da un omaccione alto e robusto del quale egli non sapeva dare altra notizia. Ma oltre che, come ebbe a dire in francese l’avvocato difensore, oltre che _la nuit tous les chats sont gris_, il sergente non aveva già denunziato il fatto appena seguito, bensì tre mesi dopo, quando cioè un caso fortuito ebbe rivelato il cadavere del neonato e durante quei tre mesi tutti lo sapevano, il sergente aveva cercato invano di sedurre la fanciulla, cosicchè nella sua deposizione appariva evidente un atto di vendetta. E bisogna dire che ella fosse veramente pulita come uno specchio se malgrado l’odore di fattucchiera che spandeva intorno, i paesani avevano deposto così unanimi in suo favore ed il cappellano istesso, un vecchio andato di poi diritto in paradiso, giurando sui sacri evangeli, l’aveva proclamata la più casta e pia e benefica vergine di questo mondo. Quando scesi all’osteria e la padrona mi corse incontro a festeggiarmi, poco mancò non tornassi indietro sul momento. Nessuna delle sue fattezze poteva dirsi particolarmente spiacente ma insieme componevano una figura indimenticabile a cagione del ribrezzo che ne derivava. Io domandai più tardi a me stesso se la sua somiglianza col busto di cera avesse contribuito a tale effetto. Lo somigliava infatti, se non che i suoi capelli erano neri e quelli del busto di una tinta dorata pallida come li hanno certe ragazze giovanissime che poi gli oscurano invecchiando. Ma dovetti riconoscere che ciò non era, perchè vidi la padrona assai prima che il busto e questo non accrebbe la sensazione disgustosa ricevuta dalla vista di quella, tanto essa aveva subito raggiunto la maggiore possibile intensità. Era una donna alta, asciutta, la fronte spaziosa nettamente incorniciata da due righe di capelli neri appiastrati e grassi per l’unto e scendente al resto del viso senza interruzione, poichè non recava altro segno delle sopracciglia che un leggiero arrossamento della pelle, evidente indizio di pelo biondo o rossastro ed in lei quindi, sicura denunzia di parrucca. Era pallida di un pallore muto e dissanguato che non si coloriva nemmeno sulle labbra e sul quale le rughe apparivano così violente da parere incise per entro tutto lo spessore della carne. Si reggeva imperiosa sul busto sottile di giovinetta e serbava nell’andatura quel vezzo contadinesco che consiste nell’irrigidire leggermente la gamba appena fatto il passo, locchè dà una scioltezza saltellante a tutta la persona. I suoi modi, l’atteggiarsi, le parole e sopratutto gli sguardi tradivano un proposito sempre presente di parere disinvolta, ed insieme una dolorosa e puerile timidità. Appena fissata chinava gli occhi con una espressione rapidissima di sbigottimento e li risollevava di scatto per piantarveli in viso, tesi e corrucciati dallo sforzo. In casa attendeva a tutte le faccende, non avendo domestica. Mentre cenava era un continuo salire e scendere dalla cucina alla camera da pranzo; le sue scarpe di panno non facevano scricchiolare pure un gradino della scala nè una tavola del corridoio, di modo che appariva improvvisa come un fantasma. In fin di cena avendo io avanzato mezzo il vino della bottiglia, essa, venuta a sedermisi accanto, ne versò due dita in un bicchiere e volle _toccare_ con me augurandomi (Dio che orribile sorriso!) l’amore fedele della mia donna. Come fui in letto ed ebbi spento il lume, dopo lo sbattere di qualche uscio e lo stridere di qualche chiavistello, tacque nella casa ogni rumore di esseri viventi; solo saliva dal basso un mormorìo sordo e continuo, che sulle prime attribuii al torrente vicino. Ma a mano a mano che tendevo l’orecchio per accertarmi della sua essenza mi persuadevo che non era rumore d’acqua. L’acqua dei torrenti montani non manda il suono eguale che sogliono i larghi fiumi delle pianure; a volte leva la voce, a volte l’affievolisce, di quando in quando sembra mutare di letto e precipitando per nuovi dirupi schiaffeggiare delle roccie non mai prima bagnate, poi torna al corso di poc’anzi se non che ad un tratto diresti che apra dei gorghi improvvisi e vi si sprofondi borbottando. Talora la sua voce è così fioca che pare silenzio; allora occorre un atto determinato della volontà per udirla e quando l’odi credi discernere nel grave suono i suoni minuti di ogni onda e di ogni goccia e l’illusione è così perfetta che ti domandi se non piove. Il mormorio che sentivo era invece senza fine eguale, non si allargava in ondate per l’aria, non mi giungeva pei vetri della finestra; saliva insidioso su per le muraglie della casa e usciva certo da un luogo chiuso e profondo. Che fastidio mi dava! Accesa dagli insoliti spettacoli di quella sera: la valle stretta e desolata, il paese deserto, le case mute, le finestrucole rischiarate da una luce bianca di fuoco fatuo, l’osteria fredda e vasta come un convento e il racconto dell’infanticidio e quella donna e quel viso di cera morto che mi aveva fatto spegnere il lume perchè non ne reggevo la vista; la mia fantasia creava immagini di una realtà spaventosa. Tutte le paure infantili, tutti gli orribili racconti di cui mi ero compiaciuto in passato, tutti gli errori vinti, tutti i terrori fantastici che torturano la mente in seguito a qualche lutto domestico, tutte le viltà dell’anima, tutte le infermità dell’intelletto, insorgevano confusamente, rabbiosamente contro i consigli della ragione e la debellavano. Non c’era verso che potessi durare per la via delle spiegazioni semplici ed ovvie, che anzi ragionavo il mio errore con una pacatezza sofistica della quale, pure avvertendola, non mi sapevo liberare. Messo in sospetto di fatti anormali, mi ripugnava, come cosa contraria alla mia dignità, riconoscere da cause ordinarie lo smarrimento in cui ero caduto; non mi domandavo già: Donde viene tale mormorio? ma bensì: Perchè tremo tutto e sudo freddo? e cercando di proporzionare i fatti alle sensazioni anzichè queste a quelli, aggravavo sempre di più lo stato morboso da cui intendevo levarmi. Nella febbre che mi agitava, credetti persino che il mormorìo provenisse dalla campana di vetro posata sul canterano, che fosse un filo di voce uscito dalle labbra cadaveriche di quel mostro che vi stava rinchiuso, che le pareti di vetro mi impedissero di discernere le parole e che queste turbinando nel poco spazio serrato perdessero accento e cadenza per convertirsi nel suono lugubre e confuso che mi atterriva. Accesi il lume. La stanza aveva due usci; uno metteva nel corritoio e l’altro in un camerone attiguo, vuoto. Mi levai, posai la candela nel vano di questo secondo uscio, mi precipitai al canterano, presi la campana col suo piede fra le braccia: i ricci biondi agitati ballarono sinistramente sul viso terroso, spolverandone i rilievi; la cuffia cannellata tremò tutta ed io portai correndo il mio grottesco fardello fino all’angolo più discosto della camera vuota. Con quante cautele lo deposi a terra! Se la campana, l’unico e fragile ostacolo che mi difendeva da quel cadavere mutilato, si fosse infranta, sarei morto di paura. Poi tornai rinculoni alla mia stanza, chiusi l’uscio a chiave e mi sentii sollevato. Ma il mormorìo seguitava. Apersi la finestra. La brezza gelida della notte mi rincorò; d’altronde il rumore _naturale_ dell’acqua corrente, tornò a parermi per un momento la sola causa delle mie paure. Ma quando il freddo m’ebbe fatto rinchiudere i vetri, ecco di nuovo salire, rasente i muri la nota bassa, grave, la nota _umana_ che mi atterriva. Allora mi vestii alla meglio ed uscii nel corritoio. Le tavole avvezze ai passi muti delle scarpe di panno, scricchiolavano e gemevano come nuove nel morto silenzio della casa. Infilai la scala. Le porte delle stanze al primo piano erano tutte spalancate e per la bocca rischiarata sugli orli mostravano profondità oscure piene d’insidie. Passando, la mia candela gettava sprazzi di luce sui mobili e improvvisava forme fantastiche. Di quando in quando sostavo per avvertire il mormorìo, a volte lo perdevo, ma fatti pochi passi tornava a colpirmi insistente, monotono come prima. Giunsi al piano terreno. Nella cucina biancheggiava un chiarore, smorto, diffuso, meno intenso che il riflesso delle nevi nelle notti serene d’inverno, immobile come le luci il cui centro è lontano. Il mormorìo invece era vicinissimo ma la sua causa durava misteriosa, anzi era accresciuta di mistero. Risoluto a scoprirla, spensi il lume a fine di guidarmi col chiarore che avevo offuscato. Esso proveniva da un immenso camino dalla larga cappa sporgente che teneva tutta la parete di fronte all’entrata. Sotto la cappa, nel muro di fianco si apriva un usciolo basso e stretto che metteva ad una di quelle camerette che in Piemonte chiamano _Peilo_. Là rischiarate da una lucerna ad olio appesa alla parete, stavano due persone: la padrona dell’osteria ed un vecchio di forme atletiche, questi abbandonato su di un inginocchiatoio in atto di grande sfinimento, quella ritta in piedi daccanto a lui, con un libro in mano che teneva levato all’altezza della lucerna per vederci. Tutti e due mi voltavano la schiena. La donna terminava allora di leggere l’ultimo mistero doloroso al quale seguiva la fila delle Ave Marie e dei Pater che essa recitava con voce chiara e con misurata lentezza, mentre il vecchio li masticava confusi, come avesse la lingua tarda e spessa e la bocca bavosa. Alla filza delle Ave Marie, seguirono il requiem e le litanie della Madonna che apparivano dedicate a qualche determinata persona, poichè il ritornello ribatteva sempre: _ora [pg!70] pro eo, ora pro eo_.—A volte, la voce del vecchio raggomitolato nell’inginocchiatoio accennando a spegnersi, la donna levava la sua, dandole non so quale accento autoritario, così imperioso che tosto l’altra si studiava di farle eco con docilità. Dopo l’ultimo Oremus, la vecchia senza rifiatare intonò il Miserere, ma l’uomo si levò in piedi barcollando e disse: —Ho sete. La donna gli pose una mano sulla spalla premendovi finchè non l’ebbe rimesso ginocchioni; ma oramai era sola a pregare; l’altro, briaco fradicio, pareva dovesse abbisciarsi e ruzzolare in terra ad ogni momento. La vecchia lo scoteva, lo sollevava, lo reggeva, lo stimolava con pugni e tornava sui versetti già recitati per farglieli ripetere parola per parola:—Voglio salvarti, voglio salvarti tuo malgrado, contro di te. E lo chiamava con parole di vituperio, lo guardava coll’occhio fosco, ardente, saettante uno sprezzo mortale ed una inesorabile fermezza. E il vecchio, dominato, quasi snebbiato da quegli sguardi, balbettava finchè questi lo tenevano soggiogato, balbettava parole latine informi e slabbrate, ed appena essa metteva gli occhi sul libro, si accasciava e taceva un’altra volta. A un punto parve volersi rivoltare, urlò un Cristo battendo un gran pugno sull’inginocchiatoio ma non si resse e ricadde. Un’altra volta allungò la mano verso una bottiglia (certo una bottiglia d’acquavite) posata lì presso su di un tavolino a mezza luna, ma la vecchia fu più lesta a ghermirla e gli disse: —Prega prima, dopo berrai. Egli le si rivolse supplichevole, giungendo a stento le mani colle mosse esagerate e violenti degli ubriachi ed essa senza badargli ripigliò l’inno, grave, immobile, lasciando piombare ogni parola come una minaccia e contentandosi oramai dell’assentire che l’altro faceva col capo e del grugnito che mandava frettoloso alla fine di ogni versetto, per non essere colto a tacere. Terminato il Miserere la donna gli versò mezzo bicchiere d’acquavite e glie lo porse: —A domani, ricordati, ce ne sarà dell’altra. Egli tracannò d’un getto tutto il liquore e disse beato: —Buono! Buono! Com’è buono! Poi la donna lo prese per un braccio, staccò la lucerna dalla muraglia e tutti e due mossero per uscire. Io mi gettai nell’angolo oscuro del focolare, li vidi traversare la cucina, sentii tirare il chiavistello della porta di fuori e una canzonaccia rauca e trascinata mi annunziò che il briaco era all’aperto nel gran silenzio notturno della via. La vecchia tornò indietro mi ripassò davanti una seconda volta senza vedermi, riappese la lucerna alla parete e si abbandonò sull’inginocchiatoio in atto di dolore mortale senza lacrime. Quando risalii nella mia stanza il mormorio era cessato, ma non potei chiudere palpebre in tutta la notte. Io mi sono fitto in mente che la padrona dell’osteria vada espiando così coll’antico amante e complice, l’antico dolce peccato e il delitto d’infanticidio di che il tribunale l’aveva assolta per difetto di prove; che essa attiri l’indurito briacone alla preghiera, colla promessa di abbondanti libazioni, che gli affretti la morte in questo mondo per assicurargli il perdono e la salvezza nell’altro.—Ma io sono un romantico impenitente e forse calunnio quella disgraziata. LA MINIERA DI COGNE In val di Cogne presso il Gran Paradiso, che è il maggior gruppo di montagne interamente italiano, c’è una delle più ricche miniere di ferro di tutta Italia. Delle più ricche, non delle più produttive, perchè mentre il minerale vi si trova quasi allo stato nativo, il suo giacimento è in posizione così elevata e così discosto dalle strade carreggiabili da renderne disagevole e costosissimo l’esercizio. Perciò, deluse più volte le speranze e stancata la costanza dei suoi cultori, abbandonata e ripresa secondo fioriscono o stagnano le altre industrie paesane, la miniera di Cogne, che sarà un giorno la prima ricchezza di quei luoghi, è ora il segno a cui riconoscerne gli alterni gradi di miseria, l’ultima disperata risorsa nelle annate cattive. Collocata pressochè in cima di una montagna chiamata _la Creia_, gli alpigiani vi salgono per un interminabile sentiero fra boschi e prati, e ne scendono, anzi ne precipitano i carri del minerale per una stradaccia spaventosa, simile ai canaloni che i grossi massi incidono rovinando per l’erta e squarciando il terreno. Il luogo ha l’austera bellezza dei bei luoghi alpini. Ai piedi, nella valle quieta e verde, la chiesa e gli sparsi casolari di Cogne: dirimpetto, la mole del Gran Paradiso e le ghiacciaie della _Tribolazione_, a sinistra la scogliera color di rame della Nouva, a destra la Grivola curva e tagliente come una scimitarra, e dove la valle di Cogne scende in quella d’Aosta, laggiù nel fondo lontano, irradiante splendori, la vetta sovrana del Monte Bianco. La miniera di Cogne non spinge gallerie nel monte e non vi affonda pozzi; non è oscura nè afosa. La vena essendo a fior di roccia questa è scavata a grotta colla bocca smisurata aperta al sole. Dal prato si vedono gli atteggiamenti e i movimenti dei minatori. Nella grotta spaziosa e chiara, ogni operaio attacca la roccia a capriccio dove le asperità e le screpolature prodotte dagli scoppi del giorno innanzi, danno più facile presa al piccone o agevolano l’azione dello scalpello, dove non batte il sole o cala il vento o sporgono scaglioni o non stagnano acque. A misura che la caverna va internandosi, allarga la bocca e inghiotte più aria e più raggi. La montagna assalita in poco spazio in varî punti, mostra tutte insieme le sue immani ferite, le pareti scabre gettano ombre e spezzano raggi, hanno faccie lucentissime di diamante e fenditure sottili come tagli di lama affilata. Gli assalitori, tutti in vista, danno per il numero l’idea di un accanimento rabbioso, di una smania di farla presto finita; mentre altrove la disciplina li assimila a macchine, qui la libera elezione del punto dove percotere fa apparire l’opera di ognuno quale essa è veramente, volente e cosciente: essi sanno dove la gran vittima inerte ha la fibra meno tenace, dove un sol colpo più squarcia e più ne morde le viscere e quivi infuriano a mazzate che li fanno gemere, che fendono l’aria sibilando, e ad ogni colpo, lo scalpello respinto dalla durezza del fondo erompe crocchiando dall’unta petrosa guaina. La mattina il sole vi giunge tardi.—La caverna puzza ancora di polvere per le mine scoppiate la sera innanzi: i guazzi stagnanti nel fondo hanno una crosta di ghiaccio anche nei giorni della canicola. I minatori smarriti nella penombra invernale si confondono colla roccia, sembrano macchie grigie sul fondo grigio; l’uniformità del colore attenua la violenza dei movimenti e li fa parere pigri come di persona intirizzita. A quell’ora il lavoro sa di pena, una pena lunga ed oscura che sconti qualche grave colpa tenebrosa. Martellano in silenzio: questi solitari a colpi di piccone, quelli appaiati reggendo uno colle due mani il ferro da mina e l’altro affondandolo a mazzate. A vederli dalla bocca della grotta, i loro movimenti hanno una rigidità automatica. A ogni colpo di mazza, quegli che regge il ferro, abbassa le palpebre e gira di fianco la testa come fanno i malinconici magot chinesi, e l’atto è così normale, e combina con tanta precisione col piombare della mazzata che par di sentire scricchiolare il congegno che lo produce. L’alba li raccoglie e l’aurora li trova al lavoro. E via per dell’ore, muti, instancabili, senza un minuto di posa, perchè il gelo non incolli loro alla pelle la camicia inzuppata di sudore. Intorno, la montagna è deserta. Le mandrie del vicino casolare cercarono i pascoli soleggiati e da quelli mandano ai reclusi lo scampanellare dell’accordo e i muggiti dati al cielo aperto e ai rinascenti tepori. Come tarda il sole! Sulla montagna di rimpetto, le cime le roccie, i nevati, le ghiacciaie, le foreste, ne ridono tutte e si scaldano e fumano di vapori mentre là nell’antro impigrisce il crepuscolo mattinale e i colpi delle mazze d’acciaio battono i minuti delle ore eterne. Gran cammino e grandi faccende deve fare il sole prima di giungere alla miniera! Deve scendere passo passo la costa orientale della montagna dirimpetto, calarsi per le ghiacciaie, filtrare nel fitto delle pinete, incidere le forre, inargentare i neri dirupi. Poi, come la valle lo attira, deve cercarne il fondo, accendere come un faro la punta del campanile, increspare i raggi sul tetto della chiesa tutto ondato di muschi, nelle case che gli protendono la facciata petrosa rigare di strisce dorate il buio afoso delle stanze e fare incandescente l’acqua del fiume che la notte lasciò grigio ed opaco e suscitare faville e colorire iridi nelle cascate. E poi ancora, inerpicarsi su per l’erta occidentale della Creia e toccarne la cima quando già da per tutto è vinta la mattutina temperanza di vapori. Allora, quando il primo filo luminoso orla il margine dell’altipiano dove giace la miniera e sembra una biscia lunghissima che lo fasci, i minatori smettono l’opera dopo cinque ore di fatica e lasciano la grotta per sdraiarsi sfiniti nella piena luce del sole. D’allora in poi la giornata è gaia e l’opera lieve. Col sole entrano nella caverna i canti, le risa, le chiacchiere che ingannano la fatica e la lena che la sostiene. E come un quotidiano rifiorire di primavera, e un quotidiano rinnovarsi di giovinezza. Gli operai ne hanno stenebrata la mente e rinvigoriti i muscoli. Allora il lavoro diventa verboso; l’aria intepidita concede le soste riposatrici; la luce, rilevando le asprezze della roccia, mostra quanta sia l’opera compiuta, scrive quasi sulle pareti il còmpito della giornata. E via a picconate sulle creste sporgenti; le scaglie volano per l’aria e vanno fuori ad uccidere qualche erba fiorita, i massi rotolano nelle pozze squagliate del fondo e spruzzano intorno i vicini. Tra un colpo e l’altro, vanno e vengono da un capo all’altro della grotta, come spola attraverso il telaio, le arguzie ed i motti salati; ogni atto, ogni gesto, la durezza della roccia, gli strumenti del lavoro diventano argomento di osservazioni grottesche ed oscene, termini di paragone che mettono capo agli erotici misteri della cronaca paesana. Trilla per l’aria qualche brandello di canzone riportata da lungi dal reggimento: cadenze di tarantelle napoletane che vanno a morire nelle gravi nenie di una _complainte_ valdostana. La mandria è tornata al pascolo vicino. Di quando in quando una mucca domestica viene a piantarsi sulla bocca dell’antro e guarda cogli occhioni giudiziosi la dura opera dei minatori. Guarda scodinzolando e medita seco stessa quale possa essere la ragione di quel grande affannarsi che vede e quando l’ha trovata, protende il muso e lancia ai barbari che struggono la montagna un muggito di rimprovero, come a dire: vergogna! vergogna!—Poi torna nella sua saviezza al pasto odoroso che non le costa fatica. Così passano le bianchezze meridiane, finchè il sole ripaga la grotta del suo tardo apparire. Adesso tocca alla montagna dirimpetto, il cruccio dell’ombra e l’invidiosa vista dell’altrui splendore. Sulla sua costa orientale le ghiacciaie allividirono; le navate della foresta videro acciecarsi i grandi occhi lucenti che le rischiaravano; le forre, colme di tenebre, si livellarono ai fianchi; i dirupi argentati ripresero la tinta nera e giù nella valle si spense il faro del campanile, e la chiesa, le case, il fiume rimpiccioliti si immersero nella notte. La Creia intanto dà la sua faccia gloriosa al sole e la grotta rosseggia di una luce infernale. Dal corpo dei minatori s’allungano sulle pareti e salgono fino a mezza la vôlta, grandi ombre mobili che hanno atteggiamenti e movimenti di gigante. Questa volta la montagna è alle prese coi ciclopi e la battaglia infierisce furibonda. Le ciarle tacquero di nuovo, e le risa e le canzoni; nessuno più guarda l’opera dei compagni nè medita la propria. Martellano accaniti, sicuri di ogni colpo, i muscoli tesi, raccogliendo nel braccio tutta la forza vitale, le guancie e gli occhi accesi di una collera cieca. Il lavoro non sa più di pena, la lotta inferocita è premio a se stessa. L’inerte nemica deve cadere stritolata; si spianerà il suo dorso, ostacolo al sole mattutino, verserà dalle piaghe le ferree viscere, darà alle officine della valle e da queste ai campi ed al mare i tesori che trafugò, avara, sulla vetta aspra e lontana. A un punto tutti fuggono a precipizio, come sbaragliati e riparano sbandandosi dietro i grossi massi sparsi per la costa. Segue un silenzio ansioso, grave di imminente rovina. Poi la caverna manda un ruggito spaventevole e vomita, come un cratere, vortici di fumo.—Gli operai accorrono contenti a considerare le squarciature della mina, e dal nuovo aspetto della grotta ricavano l’oroscopo di un agevole od ingrato còmpito per l’indomani. A sole caduto, la Creia è muta come un deserto. *** L’opera più grave e veramente terribile è quella di calare il minerale fino al basso della valle. Ne colmano certi cassoni quadrati che posano sulle sbarre di una slitta. Un peso enorme, ma la strada si avvalla così scoscesa, che a mettere la slitta al sommo del pendio, la gola aperta ne farebbe una boccata. Perciò altro non occorre che guidarla perchè non piombi e disperda il carico. Se la miniera fosse in continuo esercizio, correrebbero giù per la china i grossi tubi capaci d’inghiottire in un’ora il prodotto di ogni giornata; ma chi arrischia spese durevoli nell’alterna vicenda degli abbandoni e delle riprese? La strada non è che un gran solco lungo la costa. Seguendo il principio che la linea retta è la più breve che possa correre fra due punti, essa sdegna gli addolcimenti dei rigiri e si avventa a valle diritta come una frecciata. Se non che di quando in quando la costa rompe in precipizi smisurati e allora la strada che piombò a perpendicolo fino sul margine dell’abisso, fa una svoltata improvvisa ad angolo retto, orla il sommo del dirupo e risvolta verso il basso appena trova una pendenza che basti a starci ritto un uomo avvezzo alla montagna. Messo per quella china e spinto dalla slitta carica, un mulo ne avrebbe, al primo viaggio, rotte le gambe e fiaccato il filo delle reni; perciò vi attaccano uomini che per bestie da soma sono meno costosi. A ogni mulo morto, corrono marenghi, ad ogni uomo morto, basta una croce di legno e un De-profundis. Io non credo si possa immaginare, non dico un _lavoro_, chè la parola è troppo mite ed onesta, ma un _supplizio_ peggiore di quello che sopportano quei disgraziati. I grossi pesi macinarono il suolo sassoso, cosicchè vi si affonda fino al ginocchio in una polvere nera, finissima che soffoca, accieca e morde la pelle. I portatori si attaccano alla slitta appoggiando la schiena al cassone colmo di minerale: abbrancano solidamente le due sbarre, irrigidiscono le gambe e si slanciano nella voragine. Il loro corpo fa, precipitando, una linea quasi orizzontale, quasi parallela al terreno, tanto che, la palma del piede non tocca mai la terra; vi affondano invece il calcagno e menano le gambe rigide come stantufi.—A mano a mano che scendono, la corsa invelocisce; il peso gravissimo, che al piano non smoverebbero in quattro, li schiaccia e li travolge, l’abisso li attira: sentono nelle orecchie l’uragano delle corse sfrenate e ai polsi il martello del sangue sbattuto; hanno negli occhi la visione lampeggiante della vertigine e nelle fauci il picchiettare della polvere filtrata attraverso le labbra e i denti serrati. Vanno colla brutale inerzia della gravità, angosciosamente intenti alle croci di legno che segnano le svoltate. Ma quelle croci, non sorgono per indicare il cammino, bensì per consacrare il punto donde altri prima di loro piombò nell’abisso smisurato, donde essi piomberanno un giorno, forse oggi stesso, forse fra pochi istanti. Così la massa informe rovina a valle, e quando vi giunge, l’uomo par moribondo. Scaricato il minerale e ripreso fiato, eccolo un’altra volta su per l’erta, tirandosi dietro la slitta.—Fanno per lo più due corse al giorno, ma non durano un pezzo al mestiere. *** Io feci una volta con parecchi amici l’esperimento di quei veicoli. La salita fino alla miniera era durata quattro ore di buon cammino: ne scendemmo in venti minuti. Ma non ci tornerei, nè consiglio ad altri la prova. Pericolo vero non c’è (la slitta carica di quattro uomini, pareva un fuscello a quell’Ercole avvezzo a reggerla carica di ferro), ma c’è l’esagerata apparenza del pericolo, locchè, lì per lì, è la stessa cosa. Non mi riesce di ricordare nè l’aspetto delle montagne intorno, nè quello dei punti più paurosi, nè l’impressione ricevuta dalla velocità, nè di darmi giusto conto di questa. Rammento invece, per quanto fu lungo il tragitto, lo stato disgustoso dell’animo mio e l’immobilità e il silenzio di tutti. E rammento pure che giunti al fondo, avevamo tutti le mani, il viso, il collo, neri come carbone e grigio di polvere, malgrado le vestimenta, il resto del corpo, e che per tornarci al pristino colore, ci vollero tre giorni di frequenti ed abbondanti lavature. STORIA DI GUGLIELMO RHEDY Guglielmo Rhedy era nativo di Gressoney-la-Trinité, dove abitava una casa sulla sinistra del torrente Lys, poco più in basso del punto donde si dipartono le due strade del Col d’Ollen verso Alagna, e della Betta Forca verso la valle di Ajaz. Quella casa, come è l’uso del paese, era composta di due piccole casette in forma di padiglione, unite insieme sulla stessa fronte da un corpo di edifizio basso, nel quale di solito s’apre la porta di entrata, si sviluppa la scala di legno e corre ad ogni piano l’andito che mette alle diverse stanze. Per lo più delle due casette una è destinata al servizio, l’altra all’abitare. Da una parte la stalla, la cucina, il fienile, un’officina da falegname e le camere dei domestici; dall’altra le camere da letto ed un salone a terreno, dove il padrone l’estate riceve i conoscenti intorno ad una delle due tavole bislunghe che vi stanno disposte parallele come nelle osterie. La famiglia vive a terreno nella stalla o nel salone, secondo le stagioni, e diffatti questi due membri mostrano lo studio minutissimo che presiedette al loro ordinamento. Delle stalle quali noi le conosciamo alla piana, quelle di lassù non hanno che il dolce penetrante calore e la morbida atmosfera. Non vi si vede un palmo di muro; tutte le pareti e la strombatura della porta e delle finestre sono rivestite di tavole commesse in modo che i nodi e le venature delle assi combinino simmetricamente. Dei regolini sagomati a cornice scompartiscono le pareti ed il soffitto in larghi quadri eguali all’uso svizzero e danno alla stanza un’aria di agiatezza accurata. Tutto vi è pulito ed ordinato. Un assito, che non giunge al soffitto, taglia la stanza per il suo lungo, impedisce la vista delle vacche e permette che il calore del loro fiato s’allarghi attraverso il vano lasciato in alto. Bisogna vedere che mondezza di stalla; la più nervosa e schifiltosa signora delle città accetterebbe di dormirvi senza arricciare il naso. Nemmeno il sospetto di puzzo o di tanfo, anzi un buon odore di fieno e di latte caldo che fa allargare le narici per aspirarlo voluttuosamente. Un ruscello d’acqua limpidissimo spazza continuamente ogni lordura e la mena all’aperto in una larga fossa donde filtra concime nei prati che attorniano la casa. Quella gente industriosa e calma nella lunga stagione d’inverno lavora sempre a migliorarsi il nido con minutezza infantile. Ogni nuovo bisogno, ogni nuovo capriccio suggerisce nuovi artifizi sottilissimi che accusano un ingegno stretto, un amore sviscerato della casa, un bisogno continuo di operosità ed una grande ricchezza di tempo. Ogni inverno scava nelle pareti qualche nuovo ripostiglio, vi nasconde qualche tavola o piano che s’abbassa a volontà e si richiude senza più apparire, qualche braccio di legno che si allunga per sostenere matasse di filo, pezzuole, panni, lucerne, e si ripiega in se stesso e rientra nell’assito lasciandolo liscio come prima; ordisce qualche congegno misterioso ed intricato per aprir le finestre o per dar fieno alle vacche senza muoversi da sedere: aggiunte e migliorie che hanno l’aria di trastulli, e lo sono veramente, e formano l’orgoglio dei padroni e fanno sorridere i visitatori. Di fuori, le case povere sono costrutte in muratura fino al primo piano donde giungono al tetto per via di tronchi d’abete sovrapposti, mentre delle più agiate il muro tiene tutta l’altezza. Così le une come le altre non hanno mai più di due piani oltre il terreno, ogni piano apre sulla facciata quattro o sei finestre e nel mezzo una porta che mette ad un ballatoio di legno lungo quanto la casa. La casa di Guglielmo Rhedy era tutta in muratura. L’aveva fabbricata un tale Lysbak, birraio arricchitosi in Baviera, al quale, mentre attendeva a compirla internamente, erano capitati dei rovesci di fortuna che lo avevano fermato a mezz’opera. La casetta a destra verso il torrente ed il corpo di mezzo, cioè la scala, essendo ultimate, il Lysbak era venuto a dimorarvi colla moglie e la figliuola, lasciando l’altra casetta così com’era, le muraglie ritte, le finestre senza telai, sbarrate soltanto quelle a terreno. Cresciute le strettezze, il Lysbak aveva dopo due anni venduta quella parte di casa ed i prati in giro al padre di Guglielmo, il quale, raffazzonatala alla meglio, ci aveva installate le sue venticinque vacche, la sua grassa persona ed una gigantessa di domestica, vero serventone da fatica. Guglielmo era allora caporale di artiglieria a Pisa. Fra il Lysbak ed il padre Rhedy non si era però, malgrado la vicinanza, stretta nessuna sorta di amicizia. Tutt’altro. Il primo, sempre col pensiero alle speculazioni tentate per rifarsi e fallite, respingeva col silenzio le vanterie del secondo e non rideva mai delle sue grosse facezie; questi aveva finito per aversene a male e aveva smesso di parlargli tenendolo per superbo. Di più in paese chiamavano: _madama_ e _madamigella_ la moglie e la figlia del Lysbak, locchè urtava i nervi al Rhedy, che le sapeva senza risorse. La grossa fantesca da principio, per un senso di bontà, si era profferta di aiutare le due signore al disbrigo delle maggiori fatiche domestiche; ma queste, che non avrebbero potuto ricompensarla, ne avevano rifiutato i servigi. Ne era seguìto uno stato di ostilità muto e rabbioso, che si risolveva in mille piccole trafitture da una parte, in una paziente ed altera indifferenza dall’altra. Quel po’ di spazio piano davanti alla casa era stato diviso da uno steccato che segnava i confini delle due proprietà e ciascuno viveva dalla sua. Quando Guglielmo veniva in licenza, il padre e la domestica gli empivano la testa con sfoghi di vanità offesa, e Guglielmo, che non ne sapeva altro, dava retta e faceva muso anche lui. Il padre Lysbak ed il padre Rhedy morirono lo stesso mese. Guglielmo, ricco di un ventimila lire, finito il servizio militare aveva vendute le vacche, congedata la domestica, e si era dato al mestiere di falegname l’inverno, a quello di guida l’estate. Teresa, la figlia del Lysbak, aveva allora 22 anni. Alta, robusta, coi colori della salute sul viso, grave nei movimenti come tutte le montanare, aveva quell’aria di freschezza e saldezza selvatica che promette onesti costumi e buoni figlioli. Col suo vestito di panno rosso, pieno sui fianchi, col suo giubbettino di panno nero, pieno nel petto, passava lenta fra la gente che si apriva a guardarla. In casa attendeva a cucire, a spazzare, a lustrare i vetri, al poco orto ed al pollame, e trovava ancora tempo per leggere. Perchè Teresa era stata allevata in un educandato di Biella e sapeva parlare e scrivere quattro lingue: il tedesco che è la lingua di Gressoney, l’italiano, il francese e l’inglese. Malgrado questo grosso fardello di scienza, nessuno del piano l’avrebbe tolta per una signora. A Gressoney se ne incontrano molte: ragazze con cento mila lire di dote, istrutte come tante maestre, che menano in pastura le vacche, e sembrano villane ripulite. L’ingegno si piega ad imparare, ma il corpo è troppo solido per dirozzarsi dalla pesantezza nativa; d’altronde anche l’ingegno non raggiunge mai quella mobilità irrequieta che abbarbaglia. Quelle genti hanno durato troppi inverni, hanno veduto cadere troppa neve stando chiusi nelle stalle basse ed oscure, e rigirandosi in un cerchio ristrettissimo di pensieri, d’impressioni e d’immagini, perchè la loro mente possa farsi d’un tratto capace degli elastici rimbalzi che scotono gl’ingegni cittadini. Sanno, ma non rivolgono in se stessi il loro sapere, non s’interrogano, non deducono, non anelano a maggiori conoscenze. Lasciano le cognizioni faticosamente acquisite giacere inerti nella memoria immobile. Ho parlato dell’ingegno, non del sentimento. Questo è ingenuo e vivissimo. Si commovono facilmente, contemplano assai, hanno desiderî moderati e vicini, ma ardenti e tenacissimi, sono lenti a sperare, ma sperano intensamente, si chiudono in pochi affetti, ma in questi spiegano tenerezze infinite, si abbandonano a malinconie, a tristezze ombrose e senza ragione. Tutti, uomini e donne, sono romantici incorreggibili. *** Dunque Guglielmo si innamorò di Teresa. Morti i due padri, le ostilità erano cessate, e traverso lo steccato Guglielmo aveva cominciato a scambiare con Teresa e sua madre dei discorsi pratici e piani da buon vicino. Il Lysbak presso a morte aveva intavolate con un ricchissimo signore di Gressoney St-Jean delle trattative per vendergli quello che gli rimaneva della casa, a fine di lasciare alle due donne un gruzzolo che le facesse vivere meno a disagio. La vedova aveva chiuso il contratto e la casa era stata venduta con la clausola del riscatto a due anni di scadenza e con facoltà alle donne di rimanervi fino allo spirare della clausola. Un fratello del Lysbak, essendo in giro pel mondo, le poverette volevano così lasciare uno spiraglio aperto alla fortuna, caso mai egli tornasse in paese milionario. Il nuovo padrone sapeva benissimo che passati i due anni la casa gli sarebbe rimasta, e perchè era solida e posta in un luogo sicuro dalle valanche e deliziosissimo, faceva all’amore anche alla parte del Rhedy, della quale aveva già offerto a Guglielmo somme favolose. Guglielmo non aveva detto nè sì nè no, ma via, non pareva alieno dall’accettare. Lo steccato che spartiva l’aia era caduto; le due donne, non più padrone, pensavano non toccasse loro rialzarlo; il vero padrone trovava inutile levarne uno nuovo per poi riatterrarlo appena avveratasi la sua speranza ed a Guglielmo non pareva vero che rimanesse a terra, anzi, perchè era brutto a vedersi, una notte lo raccolse, lo fece in pezzi e portò i pezzi nel legnaio delle Lysbak. Così l’aia era spazzata e Guglielmo poteva, senza perdere tempo ad offrirli, prestare mille piccoli servigi alle vicine; servigi che offerti avrebbero forse incontrata una timorosa ripulsa, ma che, una volta prestati, ne autorizzavano, anzi ne chiamavano degli altri. E poi, superbe quelle due povere donne non lo erano più, se pure lo erano state mai. Guglielmo era un bel giovane aperto e gioviale, faceva ridere Teresa e raccontava maraviglie alla madre. L’estate quando andava a far la guida su pel Monte Rosa, affidava loro la chiave di casa, e tornando a pigliarla, bisognava bene dire dove era andato, ed i pericoli superati e descrivere le nuove pazzie degli alpinisti. Qualche volta Teresa faceva da interprete agli Inglesi, e passava presso di loro per moglie o sorella di Guglielmo. Finalmente questi s’era avveduto che a stare senza vacche non si poteva durare, e avendone comprate due, aveva pregato Teresa che ne assumesse la cura per spartirne il profitto. Il nuovo padrone, di quando in quando, tornava all’assalto di Rhedy per comprargli il suo pezzo di casa, e tenendolo questi a bada, aveva finito per ideare un piano d’assedio di infallibile riuscita. Cominciò a comprargli dei terreni all’intorno, e Guglielmo vendeva. Vendeva prima poche tavole, poi altre, alla spicciolata, rincarando sui prezzi correnti, ritraendosi al menomo calo di prezzo, protestando, ed era vero, che bisogno di vendere non ne aveva, che lo faceva per cortesia, perchè sapeva a che mirasse il compratore. E intascati i quattrini il giovane li impiegava in compera di legnami; in paese dicevano che voleva farsi negoziante, ed egli assentiva. *** Il giorno che vendette l’ultima pezza di prato Teresa stava nell’aia a guardare il padrone che se ne partiva soddisfatto. Era sul finire d’ottobre, una giornata serena e fredda, meno trista però che al piano, perchè gli abeti durano verdi tutto l’anno. Guglielmo s’accostò a Teresa che pareva di cattivo umore: —Che avete Teresa? —Guardo quell’uomo andarsene contento. Avete venduto, è vero, Rhedy? —Sì. L’ultimo prato. —Questa casa era proprio destinata ad un solo padrone. Mio padre fu costretto a mettercene due, ma vedo bene che non durerà. —Lo spero—rispose Guglielmo. —Lo sperate? Vi pesa star qui? —Spero che la casa tornerà ad un solo padrone. Ma resta a vedere chi sarà quel padrone. E perchè Teresa non rispondeva, il giovine aggiunse: —E se fossi io? —Voi? Volete comprarla voi? —Sì. —Per che farne, Rhedy? —Per sposarvi. Teresa. Teresa levò la testa e lo guardò seria. Guglielmo aveva negli occhi quella fissità contratta e risoluta, propria di chi compie un atto lungamente meditato e fermamente voluto. —Volete, Teresa? —Sì, Rhedy. Allora il giovane cominciò a dirle il suo amore, e che le voleva bene da un pezzo, che se n’era accorto quel dato giorno, in quelle date circostanze, e rammentava i luoghi, l’ora e il tempo che faceva, e mille piccoli fatti e mille parole. Parlava concitato, la guardava con una tenerezza dolce, di quando in quando sillabava deliziosamente qualche parola più calda, e poi la interrogava, se non avesse mai pensato di lui quello che egli ora le diceva, se non l’avesse sentito venire questo caro momento; ed essa rispondeva di sì, grave, commossa, con una semplicità serena, piena di grazia. Guglielmo l’aveva tirata a sedere su di un trave, sotto il ballatoio della casa; imbruniva, l’aria del ghiacciaio soffiava tagliente come una lama; la madre era in casa in faccende; la si sentiva scendere e salire, battendo il tacco degli zoccoli sugli scalini di legno, ma neanche per l’avvicinarsi de’ suoi passi i due non si muovevano. Il giovane aveva passato il braccio intorno la vita dell’amante e l’attirava a sè con una forza lenta e crescente; essa lasciava fare, sicura, sentiva il fiato caldo di lui passarle sulla faccia e la mano cedere alla violenza del suo respiro. Come fu quasi scuro, Teresa si levò tenendo per mano il Rhedy e lo condusse in casa dove disse ogni cosa alla madre. Pensiamo se questa ne fu contenta! Cenarono insieme e Guglielmo espose tutti i suoi propositi, il suo piano di vita. A Gressoney-la-Trinité mancava un albergo; quella casa posta sul luogo dove riuscivano due importanti valichi alpini, pareva fatta apposta a comodo dei _touristes_; egli aveva venduto i prati all’intorno per raggranellar quattrini, perchè la casa bisognava finirla a modo, ed anche al pezzo abitato dai Lysbak occorrevano ristauri. Ecco perchè egli comprava legname; voleva compire le stanze dalla sua parte; non c’era che da rivestire di tavole le pareti e da fare gli usci e le imposte; egli aveva già in serbo un buon numero di assi piallate, e contava nell’inverno imminente di finir l’opera colle sue proprie mani, e coll’aiuto di un cugino pure falegname, già al corrente della cosa. Venuta la primavera si sarebbero sposati, avrebbero aperto l’albergo, e scaduto il termine utile per il riscatto, egli avrebbe pagato e buona notte. La madre obbiettò che per tenere un albergo non basta la casa, ma ci vuole la pratica dell’esercizio; per questo occorreva che Teresa si allogasse quale donna di servizio in qualche grande albergo svizzero e là imparasse il mestiere. Colle cognizioni e colla salute di Teresa non era difficile trovare impiego; il meglio era partir subito. Ma l’idea di separarsi così, di durare tutto l’inverno, che è la stagione più intima, lontani, era insopportabile al Rhedy. E poi l’inverno gli alberghi svizzeri sono chiusi o fanno pochi affari; meglio partire in primavera e rimandare le nozze all’autunno seguente. Intanto erano fidanzati; che bella vita cominciava per loro! I montanari sanno aspettare, la vicinanza addolciva l’attesa e quasi le cresceva sapore. Breve, il giovane tanto ragionò che vinse. *** L’inverno anticipò la venuta. La valle era tutta bianca, gli abeti verdi, quasi neri, reggevano pesi enormi di neve. La cascata daccanto la casa era ghiaccio vivo: solo un filo d’acqua scorreva liscio, oleoso sotto la crosta cristallina, lo si vedeva, alla trasparenza del ghiaccio, aprirvi delle larghe bolle d’aria biancastre. Che silenzio intorno! Il villaggio dormiva accovacciato. La mattina all’_Ave Maria_ e la sera all’_Angelus_ qualche ombra nera passava silenziosa sulla neve dura, con una lucerna in mano e filava dritta alla chiesa, poi per tutta la giornata non andava intorno anima viva. Il cugino di Guglielmo giungeva la mattina di buon’ora, imbacuccato e rimpicciolito; sul limitare pestava forte i piedi in terra per staccarne la neve rappresa, Guglielmo gli apriva uno spiraglio d’uscio che entrasse in fretta e poi tutti e due accaniti piallavano, segavano, connettevano le tavole, senza posare un minuto. La sera il cugino scappava a dormire e Guglielmo seguitava il lavoro. Teresa e la madre vivevano tranquille dalla loro, lavorando anch’esse alla casa futura. Intaccando un po’ di capitale, la madre aveva comprato tela da lenzuoli e da tovaglie e percallo da tende; la mattina Teresa tagliava per il lavoro della giornata e poi insieme infilavano punti a cucire ed orlare. Guglielmo aveva messe le due vacche nella loro stalla, un gioiello di stalla, e ci faceva un caldo delizioso. Nel silenzio dell’opera femminile si sentivano ad ora ad ora, dietro l’assito, gli spintoni e le spallate che le vacche davano alla mangiatoia ed il grattare ruvido della loro catena contro gli orli del passante di legno. Ben altra allegria risuonava nell’officina di Guglielmo! Egli cantava tutto il giorno. Al reggimento aveva imparato certe canzoni napoletane dalle cadenze disinvolte, le quali passavano una dopo l’altra per quella gola avvezza alle raspanti parole del dialetto tedesco, senza perdere nulla della loro vispa snodatura. I versi un Napoletano non li avrebbe intesi, ma che importa? la parola amore tornava ad ogni ritornello e quella usciva chiara e netta dalle labbra del giovane innamorato. Ah! l’opera come procedeva! Che bel castello d’assi piallate, liscie come uno specchio, in fondo alla stanza! Una stufa di lavagna nera brontolava allegra, la colla cuocendo a bagno maria faceva delle bolle grosse come un ovo che rompevano in un sospiro, e Guglielmo si sbracciava e sudava. Poi egli e il cugino andavano a desinare nella stalla colle vicine e bisognava sentire che chiacchere festose, che risate schiette intorno alla polenta. Ma il maggior lavoro era il notturno. Dopo cena, partito il cugino, fatto un po’ l’amore a bassa voce colla fidanzata, Guglielmo dava la buona notte alle donne accusando un sonno da non si reggere. Le donne sapevano bene che andava a lavorare di nuovo, anzi una volta Teresa aveva osato qualche mezza parola in proposito; ma il Rhedy aveva negato come uno sfacciato e Teresa non aveva aggiunto verbo. Guglielmo stava cheto a contare i passi della fidanzata su per la scala, la sentiva entrare in camera, andare e venire via per il tavolato sonoro con quei cento rigiri che fanno le donne prima di coricarsi, gli passavano davanti agli occhi delle visioni piene di rapimenti, immaginava mille cose, seguiva colla mente tutti gli atti della bellissima persona. Qualche volta usciva di casa e stava cogli occhi fissi sulla finestra illuminata di Teresa, e gli sguardi erano così intensi che pareva dovessero forare i vetri e penetrare nella camera. Spenti il lume ed i rumori, Guglielmo tornava all’officina, vi accendeva una grossa lampada a petrolio appesa al soffitto, empiva la stufa e poi via per delle ore. Che bella luce dava quella lampada per tutta l’officina! Di fuori la neve in faccia alla finestra ne era illuminata per lunghissima tratta; pareva un fiume d’argento fuso che corresse fra sponde fredde e desolate; ma Guglielmo non guardava di fuori; solo nel gran sonno invernale e notturno stava curvo sul banco, maneggiava le assi come fuscelli, le fissava al granchio con una spinta da catapulta, e poi piallando ne faceva uscire dei trucioli eguali, spirali, crespi, che si ficcavano su per la buca della pialla e fioccavano a terra silenziosi e vi si ammonticchiavano. Ah! non cantava più allora, non cantava più, aveva ben altro che fare, e poi a udirlo cantare Teresa avrebbe potuto credere ch’egli volesse farsi sentire, ed al solo pensarci arrossiva come un fanciullo. Era sicuro che Teresa seguiva sveglia il suo lavoro; sapeva che ogni martellata rispondeva nel cuore dell’amante, ma voleva che le giungesse il solo rumore dell’opera; l’opera sola era necessaria e premeva, l’opera costruiva l’edifizio della loro felicità, del loro avvenire, il canto a quell’ora sarebbe stato una vanteria grossolana. *** A inverno finito la casa fu lesta. Guglielmo il giorno di Pasqua condusse le due donne a visitare il nuovo quartiere, tutto olezzante di resina. La sera invitò a desinare il sindaco, il parroco, il segretario e parecchi amici; la mensa fu allestita nel gran salone da pranzo del nuovo albergo, e si bevve agli sposi. Il domani Teresa partì per Zermatt. L’accompagnarono tutte le guide del paese, per far onore a Guglielmo. Presero per la più lunga, valicando la Betta-Forca, poi le Cime Bianche, poi il Colle del San Teodulo. Mai nessun lord d’Inghilterra ebbe, per traversare le ghiacciaie, più numeroso e valoroso corteo. Fu un viaggio di due giorni, e la sera del secondo si giunse a Zermatt. Là Teresa era aspettata per un impiego di guardarobiera. Il padrone prometteva inoltre di addestrarla alla direzione di un albergo, e, come l’ebbe veduta, assicurò che in sei mesi sarebbe riuscita al fatto di ogni cosa. E Guglielmo tornò a Gressoney colla tristezza nell’animo. Quante volte dalla sua casa rifatta guardava le vette del Mon Rosa con gli occhi pieni di lacrime. Quel cielo azzurro di là era il cielo della Svizzera, e pensava che al piano in poche ore avrebbe superata la distanza che lo separava da Zermatt; invece qui c’era di mezzo il gran gigante, coi suoi mari di ghiaccio, colle sue rupi precipitose, irto di pericoli, minaccioso di morte ad ogni momento. Ma il tempo correva, ed erano mille pensieri e mille faccende. Comprò i mobili, gli utensili di cucina, sempre aiutato e diretto dalla madre di Teresa. La povera vecchia non posava un minuto. Teresa scriveva delle lunghe lettere, piene d’affetto, sobrie e gravi com’era la sua indole. In principio d’agosto tutto fu all’ordine. Guglielmo una bella sera, annunziò alla vecchia che il domani sarebbe andato a Zermatt. La più corta era valicare il Lysjoch e scendere diritto per il ghiacciaio del Corner: un otto o dieci ore di cammino. Ma il passo è difficile, Guglielmo, solo, mettersi a rischi non voleva. Un’altra volta, in circostanze diverse, non ci avrebbe manco pensato, ma ora, così vicino alla felicità, non osava tentare la Provvidenza. E poi voleva rifare la strada fatta con Teresa, potersi dire ad ogni momento: eravamo qui, e là, e rammentare tutti gli allegri incidenti della via. Di là s’allungava del doppio, ma le memorie lo accompagnavano. La giornata era incantevole. Guglielmo, partito alle due della mattina, fu a Fiery in valle d’Ajaz, alle sette. Vi fece un boccone d’asciolvere, e si ripose in cammino per le Cime Bianche; alle undici era al lago, a mezz’ora dal colle. Di là, la strada solita, sale fino al colle, traversa il ghiacciaio del San Teodulo, dopo tre ore di cammino giunge alle capanne, donde in tre ore di discesa arriva a Zermatt. Altre sei ore e mezzo di strada. Guglielmo aveva camminato otto ore, ma chi ha fatto il mestiere di guida non conosce stanchezza. Se non che la meta vicina lo faceva impaziente. Il ghiacciaio del Teodulo si stende lungo il versante italiano; ancora tre ore e mezzo prima di giungere al culmine, prima di gettare lo sguardo ansioso giù per le chine della Svizzera, prima di vedere le acque che scendono a Zermatt. Che eternità! Ma dal lago dov’era, inerpicandosi su per le rupi a picco, i contrabbandieri ascendono al ghiacciaio dell’Aventina in meno di quaranta minuti; tutta la strada è accorciata di tre ore. Il passo fra le rupi è faticoso e difficile, il ghiacciaio in cima è spaccato in mille sensi da crepacci senza fondo, ma i contrabbandieri lo valicano, soli, di notte, con un peso di quattro o cinque miriagrammi sulle spalle. Guglielmo ristette un momento pensoso; se Teresa fosse stata là, certo gli avrebbe fatto pigliar la più lunga, ma le donne si sgomentano per nulla. D’altronde, quasi a tentarlo, in quel momento, un soffio gelato increspò quel poco d’acqua che durava sciolta nel lago. Guglielmo lo conosceva quel soffio; guardò in alto impensierito; dalle punte sottili delle Cime Bianche sventolavano delle vere banderuole di nuvole, strappi, cenci di nubi, da una parte strette alla roccia con una aderenza vischiosa, dall’altra lacerate a brandelli dal vento. Oh! oh! non c’era tempo da perdere, e la più corta via diventava subito la migliore, e spicciarsi senza più guardare il cielo. Eccolo per le rupi: vi s’arrampicava come un gatto, a quattro gambe, silenzioso e vigilante. Come saliva! Che abisso lo separava dal lago! Le pietre smosse vi precipitavano: dopo due o tre colpi secchi battuti sulle roccie, correvano cantando sul ghiaccio liscio, finchè sprofondavano senza rumore nell’acqua. Guglielmo fu sulla vetta in mezz’ora. Colava di sudore, il freddo gli ghiacciava i panni addosso. A’ suoi piedi, da quel versante svizzero tanto sospirato, saliva verso di lui un cielo tempestoso. Era la maggiore bufera che egli avesse mai veduta. Pareva che la forza di tutti i venti del mare e di tutti i vulcani ribollisse compressa da un immenso spessore di nembi; li agitava, li sollevava in cavalloni giganteschi, li squarciava in gorghi spaventosi, muggiva con un rombo incessante. Guglielmo dalla sua vetta serena vedeva sotto di sè guizzare i lampi, sentiva gli interminabili echi del tuono. E le nuvole salivano lente, come se le pareti eguali del ghiacciaio non dessero presa. Gli furono ai piedi, lo avvilupparono tutto, oscurandogli ogni cosa ed egli fu preso nella bufera. Muovere non poteva, lontano tre passi era buio fitto, un freddo umido ed intenso lo impigriva; di quando in quando la tempesta si acquietava in un silenzio mortale; le nuvole posavano gravemente sulla neve livida in una immobilità stagnante, ma ad un tratto il vento vi si impigliava un’altra volta, il freddo le addensava in grani di grandine durissima che rigiravano senza posa, la neve del ghiacciaio, secca come arena, entrava nelle spire del turbine, e Guglielmo sotto le frustate della grandine e della neve, cieco, sanguinolento, irrigidito dal freddo e dal terrore, disperato dello scampo, si sentiva morire. *** La bufera durò a lungo, poi svanì in un soffio e tornò il sole. Guglielmo, riavutosi dal mortale stupimento, volle riporsi in cammino. Era stato fino allora appoggiato a forza di braccia sul bastone ferrato, curvo per salvare il viso dalla tempesta. Ma sollevatosi appena, i piedi non lo ressero e cadde. Ogni sforzo per rialzarsi fu vano; riusciva a mettersi ginocchioni, ma i piedi erano inerti e rigidi. Si levò le scarpe e le grosse calze dure incrostate di ghiaccio, immerse i piedi nudi nella neve agitandoli con quanta forza gli durava. Bisognava bene che tornasse la vita! Li strofinò violentemente colle mani, si scaldava le mani al fiato e le portava ai piedi, si levò di dosso la giacca e ne li avvolse, li rivestì di neve e li espose al sole. Il sole scioglieva la neve, ma i piedi non sentivano nulla anche rammolliti: una cancrena rapidissima li aveva anneriti: erano morti. Allora si vide perduto. A due passi un crepaccio apriva la gola verde. Vi si strascinò, vi sedette, le gambe penzoloni nell’abisso, ed aspettò la morte. Ebbe un momento l’idea di affrettarla, precipitandosi nel crepaccio, ma la respinse; l’aria lavata dalla tempesta aveva una trasparenza mattinale e lo sguardo vedeva nettamente di là dal ghiacciaio i dorsi erbosi e le pinete che scendono a Zermatt. Guglielmo volle aver quella vista presente fino all’ultimo sospiro. Guardava laggiù, frugava per la oscurità vaporosa delle valli, si diceva che la sua Teresa era là buona e serena, intenta ai tranquilli lavori della casa. La vedeva scendere e salire colla veste di panno rosso, piena sui fianchi, col giubbettino di panno nero, pieno nel petto, sorridente e grave, ammirata da tutti. Essa certo pensava a lui e lo faceva a Gressoney nella casa che doveva accoglierli sposi; che dolore avrebbe provato all’annunzio della sua morte!—Dov’è Guglielmo? Perchè non iscrive più?—Ma è partito per Zermatt, apposta per andarti a trovare.—Partito! E non è giunto, e sono passati molti giorni. Ah! come l’avrebbero cercato via per le ghiacciaie! Tutte le guide di Gressoney e di Val Tournanche sarebbe saliti e Teresa con loro scarmigliata e disperata. Poi scrisse colla matita sul libretto da guida il suo testamento. Fu presto scritto: _Lascio tutto il mio a Teresa Lysbak, mia fidanzata_. Il giorno moriva, quando fu preso da un sonno invincibile. I bassi lembi del Mon Rosa erano già scuri, le pinete ed i prati che scendono a Zermatt si confondevano colla tinta azzurra delle montagne lontane, sui viventi delle valli e della pianura cadeva la grande ombra notturna ed intorno a quel morto rideva un ultimo raggio di sole rosato, dolcissimo. L’ESTATE Parlando della montagna, l’aggettivo che meglio combina col sostantivo _estate_ è quello di _sonora_. _Calda_ sulle Alpi l’estate non è da per tutto nè sempre, _verde_ nemmeno; la _grande_ estate dei classici non mi pare possa salire oltre i cinquecento metri d’altezza, nè convenire a luoghi angusti e nettamente limitati. _Arsa_ l’Alpe non è quasi mai e mai la valle. _Bionda_ non può essere una terra dove i pochi campi di biade sembrano piccole pezzuole stese al sole in un prato immenso; mentre invece dalle punte più ardue del Monte Bianco e del Monte Rosa fino all’ultima falda delle montagne (montagne, non colline), digradanti al piano, la stagione estiva canta, mormora, bisbiglia, echeggia, rimbomba, e tralascio l’infinita varietà dei suoni che mandano gli animali e i fragori delle meteore. Il suolo alpino, nell’estate è sonoro. Giù dagli estremi vertici rocciosi dove la ghiacciaia per troppo dirupo non regge, scroscia frequentissima la valanga di sassi la quale smotta serrata dapprima in qualche canaletto, poi s’allarga a ventaglio e moltiplica nella caduta i colpi ed i proiettili. Dalle creste affilate donde il ghiacciaio che si adagia sovra uno dei dorsi della montagna strapiomba sull’altro, formando quelle che gli alpinisti chiamano _cornici_, il sole stacca spesso enormi volumi di ghiaccio vivo e lì scaglia giù per abissi smisurati rendendo il rombo di una cannonata che gli echi trascinano, aggirano e rimenano più volte là donde è partito. Le ghiacciaie, spaccandosi in fenditure appena visibili, danno uno squillo metallico, acuto e potente come di una gran massa cristallina percossa con violenza. Nel seno dei crepacci aperti da più anni e scavati a grotte verdognole affascinanti, gronda talora dal sommo del ghiacciaio qualche rigagnoletto che battendo, sventolato dall’aria, diversi punti della parete, ne ricava armonie diverse, note dolci e trascinate, gemiti di lamento e singhiozzi e trilli di risate giovanili, che a sentirle di lontano sembrano un concerto col sordino di cui vada smarrito il motivo e solo si avverta l’accordo soavissimo dei suoni. Quando poi dalle regioni del ghiaccio scendete alle chine erbose trovate da per tutto il terreno pur ora ridato al sole e ancora spugnoso per la neve succhiata, espandere in ogni verso le acque frettolose e cantare e gorgogliare come allegro della superata prigionia. E quando dagli altipiani erbosi scendete ancora ai prati, alle foreste, alle forre ed alla valle, allora gli accordi vanno moltiplicandosi all’infinito, e un suono insegue l’altro o lo avvicenda o ne respinge le ondate e si confonde con esso, e ne scaturisce una sonorità larga e piena che innonda l’aria, così continua che a volte non l’avvertite; se non che al menomo soffio di vento che ne alteri l’armonia, ne avete subitamente l’orecchio rintronato come se usciste di scatto di sordità. Io credo che non ci sia fuori dell’Alpi, altro punto della terra dove la natura dei luoghi sia così continuamente presente all’uomo. Dovunque altrove voi potete chiudendo gli occhi immaginarvi trasportato di subito nelle più diverse regioni. Qui, la vista non è sola a darvi l’accorgimento della realtà. Cercate pure il più solitario rifugio, chiudetevi nella stanza più interna della casa e respingetene ogni filo di luce; una voce potente e persistente echeggiata da ostacoli vicini, verrà senza tregua a dirvi: tu sei qui, fra le mie balze, nella pace della mia solitudine, qui sotto poco cielo, nell’ombra delle montagne, ospite di una terra povera, ma dalla quale procede la varia fertilità della pianura. A questi della terra, aggiungete ora tutti i suoni diversi delle opere e degli animali, aggiungete il vento quasi continuo e i frequenti uragani e vedrete quale immenso concerto commuova l’estate l’aria delle montagne. Però al concerto manca uno strumento ed è la voce gaia e la canzone dell’uomo. L’uomo vi mette per lo più le grida, qualche urlo di raccapriccio o di angoscia, gemiti, lamenti, parole imperiose di comando o supplichevoli di preghiera, di quando in quando qualche trillo acuto che risuona lungo e lontano per le balze, ma rare volte l’allegro grappolo di note che forma la risata, rarissime volte la cadenza snella di una canzone. La regione montagnosa conosce ancora i canti campestri, e il rincasare dei prodotti vi è accompagnato da melodie spesso gravi come l’ora in cui si compie e pieni il ritmo e le parole di una dolcezza mansueta; ma i paesi delle valanghe non sono in quella regione. Nella regione alpestre od alpina si ode forse qualche strappo di canzone in quei rari seni della valle dove cresce la vite e matura l’uva, o su in alto nei pascoli, ma quelle poche note hanno l’aria stentata e intirizzita di una pianta esotica che si voglia far crescere in terreno non propizio. Il canzoniere alpino è tutto invernale ed è curioso, caratteristico, ricco di colore e di poesia. L’estate fra i monti ha troppe fatiche e troppi pericoli. Tutte le opere agresti vi sono tali da anticipare al colono una vecchiaia spesso acciaccosa. Chi possiede, ha per lo più quel poco avere sminuzzato in altrettanti poderetti lunghi e larghi talora come l’ombra che manda il corpo del padrone nell’ora del tramonto: ed è gente di bassa statura. Tali poderetti sono disseminati qua e là, rubati alle frane, al pruneto ed alla roccia e circondati spesso di luoghi incolti e deserti. Il contadino quindi va solo al lavoro e ne ritorna solo. Manca il ritorno dai campi a frotte, pieno di chiacchiere e di risate, dove i piccoli aiuti vicendevoli fanno germogliare le simpatie e imbastiscono i matrimoni, dove regna il ricambio delle notizie borghigiane: e man mano per strada la frotta s’ingrossa per nuovi giungenti che sbucano dai campi vicini, finchè quando s’affaccia al paese s’allinea in due righe per tutto il largo della strada e il bestiame fa l’avanguardia, e allora intona la cantata gioconda, premio alla giusta fatica, avviso lontano alle vecchie che allestiscono la cena. Sull’Alpe erbosa i pastori ingannano talora il lungo ozio con nenie che sanno di preghiera, e gli Alpinisti che vi passano per diporto giudicano la loro vita pigra e beata. A vedere quegli omaccioni vestiti di larghi e grossi panni che furono bianchi in origine e presero coll’uso la tinta grigiastra e l’unto dei formaggi slabbrati, a vederli durare delle ore immobili, sdraiati al sole o ritti sui promontorî, chi non la conosce crede che l’opera loro sia la più vana e accidiosa di questo mondo. Ma tornateci quando sbucano dalle gole dei valichi le folate di nebbia che recano di pieno meriggio una tenebra fitta dove stagnano soffocati i suoni e le voci, o quando il temporale che brontolò un pezzo nella valle vicina, scavalcata improvvisamente la giogaia, si scatena con furia mortale sui pascoli pur ora battuti dal sole. L’armento colto di sorpresa e smarrita nella caligine la traccia e l’odore della stalla o s’aggira inquieto o scorrazza atterrito per il terreno fatto di subito sdrucciolevole e dirupante qua e là in precipizî senza fondo. Allora il pastore deve aggirare tutto il campo paschivo, e, ficcando gli occhi per la nebbia colla _tormenta_ che lo accieca e gli flagella il viso, rintracciare e dar la rincorsa alle giumente o imbizzarrite o istupidite e se alcuna si avvia al precipizio, giungervi prima di essa e piantarsi magari sull’orlo e ricacciarnela. Spesso sono lotte a viva forza, l’uomo abbrancato alle corna della bestia e tempestandole di pugni il muso umido, finchè non l’ha sviata dal pericolo. Il peggior lavoro lo fanno i pastori di pecore e di capre. Il gregge non ha ovili. Tutta la montagna oltre i prati fin dove c’è un magro filo d’erba o qualche roccia muscosa gli appartiene: e quando scende la notte il cane ed il pastore lo rintracciano e lo raccolgono entro un recinto chiuso da una rete allacciata a piuoli che si chiama _parco_ e _imparcare il gregge_ l’operazione dell’assembrarlo. Le capre, nomadi per natura, si avventurano in luoghi dove è più agevole giungere che tornarne, sicchè una volta arrivate si guardano intorno dubbiose del salto. Se saltano, bene; ma se non s’arrischiano, allora conviene raggiungerle, ne vada anche della vita, e industriarsi a scamparle. Le Alpi ne hanno parecchie di croci che segnano il luogo dove è morto un pastore per zelo di custodia. Io intesi più volte raccontare di fanciulli o di giovinette raccolti a pezzi nel fondo di un burrato. Rammento una gita fatta da Gressoney al ghiacciaio del Lys. Eravamo giunti alla morena di fianco e ci stava ai piedi quella parte del ghiacciaio che i descrittori sogliono sempre paragonare ad un gran fiume procelloso subitamente rappreso, e il paragone è giustissimo. Di là sorgevano i fianchi nudi e giganteschi del Monte Rosa, rupi colore del rame in basso, poi scogliere brune emerse dai nevati e al sommo la corona candidissima delle ghiacciaie d’_Aventina_, dei _Gemelli_, del _Lyskamm_, e della _Vincent piramide_. Un luogo stupendo e grandioso, ma da non andarci solo, tanto ha l’aria morta e micidiale. Stavamo per scendere sul letto del ghiacciaio quando il rumore di pietre smottate e rovinanti per la morena di contro ce ne trattenne. Ristemmo per osservare la frana, e in quel posare dei discorsi, proprio dell’attesa, ci pervenne, sempre dalla morena di contro, il suono di un corno rauco da capraio. Era infatti un capraio, un ragazzo dai dodici ai quattordici anni, venuto colà da un casolare pastorizio distante le tre o quattro ore, per guardarvi una quindicina di capre le quali facevano, poverette, più esercizio di gambe che di mandibole e si pascevano certo più dell’illusione di mangiare che d’erba. D’erba proprio non ce n’era un filo, solo qua e là qualche lichene, tanto da strapparci la vita quindici capre affamate, per due giorni dell’anno. E per così misero prodotto, che non valeva tutto sommato la moneta di venti centesimi, quel ragazzo faceva pei due giorni dell’anno, sei o sette ore di cammino ogni giorno, mettendosi cento volte in rischio di morte. Un passo falso, una pietra smossa, un salto non ben misurato, un attimo d’inavvertenza, potevano piombarlo giù per scogliere mortali e affondarlo nella bocca spalancata di un crepaccio. Egli non sapeva il pericolo e in ciò forse era la sua salvezza. Il mandriano dell’Alpe è così domestico dei luoghi selvaggi che non ne avverte la selvatichezza. Per chi ha il passo sicuro, una sporgenza di pochi centimetri vale quanto il più largo stradale e all’occhio esercitato un abisso di cento metri non fa più senso che un muro di cinque. Ma se la sera il ragazzo non fosse rincasato, quelli che lo aspettavano al casolare non potevano immaginare altra cagione d’assenza che la morte. L’indomani lo avrebbero cercato; ma la montagna è grande, la gente poca, e gli armenti vogliono una vigilanza continua. La madre forse non salì all’Alpi, forse al casolare non ci sono che uomini, forse il ragazzo è un servitorello preso, a mantenerlo, per la sola stagione estiva. Una volta trovato il corpo, il pretore, il medico e il cancelliere saliranno da un villaggio lontano quindici o venti ore di cammino (quante ne occorrono per andare da Torino a Roma) e soccorrerà al morticino la tutela sociale che lo scordò da vivo. Ma a volte non lo si rintraccia più; la montagna serba il vispo suonatore di buccina. Il ghiacciaio stritola i macigni che lo fiancheggiano e li rovina a valle e se questa frana perenne s’imbatte nel cadavere Lo volta per le ripe e per lo fondo, Poi di sua preda lo ricopre e cinge. UN PRETE VALDOSTANO Un giorno che i cinque curati della vicaria desinavano nella canonica di X, dove li raccoglieva una delle consuete conferenze primaverili, il curato di X m’invitò a tener loro compagnia a pranzo. È difficile incontrare un prete che non somigli qualche altro prete: dei cinque miei commensali quattro mi ricordavano visi, portamenti, movenze ed accenti mille volte veduti ed uditi; ma uno differiva assolutamente da ogni tipo conosciuto per l’addietro. Era un gobbo, che mostrava nell’aria marziale una salute di ferro ed una forza fisica ragguardevole; le gambe lunghe e diritte ed il busto incurvato formavano una persona alta rimpicciolita, potrei dire un gigante nano. In complesso era piccolo ma spaccava passi lunghissimi ed avrebbe abbracciato un noce di vent’anni. Aveva i capelli grigi, quasi bianchi, la fronte spaziosa, gli occhi vivi ed accorti, il naso grosso e ai lati della bocca un solco lungo e profondo. La bocca esprimeva una bontà divina ed una giovialità continua e misurata. Insomma una testa nobile e virile la quale, meglio che correggere, faceva dimenticare la bruttezza del corpo. A capo di tavola sedette il vicario con me a destra ed il curato d’X a mancina; dopo di questi veniva un grosso prevosto che russava da sveglio e poi il gobbo che ho detto, cosicchè la tavola essendo rotonda, il gobbo mi sedeva quasi dirimpetto. Fu il solito pranzo di preti; il vino frizzante del paese sciolse ben presto l’imbarazzo cagionato dalla mia presenza e il latino degli aforismi gaudenti mise nei discorsi una malizia corpacciuta e sensuale. I motti si aggiravano intorno ad un tema unico: la vigilanza che spettava al vicario sugli altri quattro tonsurati. A sentirli, il vicario saliva sulla torre della chiesa vicarile donde dominava le quattro soggette parrocchie; ma quella torre ne vedeva delle belle! Il vecchio vicario glorificato per peccatacci ai quali era da gran tempo insufficiente, lusingava di rimbalzo con eloquenti reticenze la vanità erotica de’ suoi accusatori, ammiccando gli occhi ed ingrossandoli, allungando le labbra ad una smorfia incoraggiante di rimprovero esagerato. Poco alla volta i traslati erano diventati d’un ardimento pazzo. Le più pure ed immacolate parole toglievano uscendo da quelle bocche un senso vizioso, del quale molte volte chi le aveva profferite s’accorgeva al clamore degli applausi che suscitavano intorno. La torre della chiesa vicarile tornava in campo ogni momento; dicevano che per vederci meglio il vicario ci saliva in _buona compagnia_, e se la torre non era crollata finora, ne potevano venire dei terremoti. Oh lo sapevano tutti! Il vicario, per non essere distolto dalla sua vigilanza, giunto in cima, tirava a sè la scala a piuoli che mette all’ultimo ripiano, dove pendono sospese le campane, e al campanaro toccava spesso ritardare un’agonia a profitto dei sani. Una volta nominate le campane, fu affar finito e non se ne uscì più. Ogni parte di esse fu specificata, ogni loro funzione descritta a suono di enormi risate, a sentire le quali chi aveva parlato, ristava un momento, guardava in giro in atto di furba maraviglia, e poi diceva: Che cosa ho detto? e ripeteva la frase, e quando gli altri tornavano a sbellicarsi dalle risa, volgeva gli occhi al cielo con aria scandolezzata, giungeva le mani e sclamava: Che gente! Che gente! Così durò il pranzo, suonando ciascuno a distesa il grande inno della malizia sporca ed untuosa, finchè dopo tre ore tutti ci levammo e il grosso prevosto russante si tirò dietro incollata alla madida sottana la scranna coperta di tela incerata. Il gobbo aveva riso cogli altri, ma pareva più ridere del loro riso che dei loro discorsi. Qualche volta nelle pose della bufera bacchica, insinuava un frizzo salato corbellando le tardive effervescenze degli interlocutori, con frasi brevi, sugose, che andavano diritte alla mira. In mezzo alla volgarità trionfante di quei panciuti la satira sottile del gobbo mordeva con una eleganza tutta cittadina e starei per dire letteraria; ma quello che più mi colpiva di lui era la sincerità infantile del ridere, quando rideva davvero. Pareva un fanciullo, rideva tutto quanto, da capo a piedi, fino alle lacrime, senza sforzo, contento di ridere, tornando a scoppiare fresco come prima, non appena rivolgesse in mente il fatto o la parola che gli avevano dato l’aire. La giornata che il mattino prometteva bellissima, poco alla volta s’era oscurita. Quando ci levammo di tavola il vento cominciò a far ballare i vetri, quando ebbimo bevuto il caffè cominciò a nevischiare. S’era in fine d’aprile. Giù per i vigneti che scendono sino alla Dora sorgeva dal terreno ghiaioso e fra le catene brune dei vimini qualche albero sottile di mandorlo o di pesca, tutto fiorito e di là dalla Dora, nei prati, sull’erba arsa dall’inverno, vinceva il verde tenerissimo dei fili spuntati di fresco e si allargavano le foglie già spiegate delle malve e delle primavere. Povera campagna! La neve, asciutta e dura come grandine, rigava l’aria obbliquamente, portata dalla bufera e rendeva, percotendo i rami nudi e gli stecconi delle pergole, mille piccoli scricchiolii secchi come fa la carta da parato quando per vento si stacca dal muro. I mandorli fioriti, dei quali il candore muto della neve faceva risaltare la bianchezza carnosa piena di vita, e i peschi rosati si agitavano furiosamente, seminando le tenere foglioline che il vento aggirava, sollevandole in spire vorticose. Per certo, a vedere quel tempaccio, le serve dei curati rimaste in casa si partivano o mandavano il campanaro, coll’ombrello, all’incontro del padrone. Tanto valeva aspettarle all’asciutto. La stanza, benchè senza fuoco, era intiepidita dal fiato ben nutrito dei commensali che i morbidi odori di cibo contribuivano colla faticosa digestione ad impigrire. I vetri verdognoli mandavano una mezza luce quieta, affievolita ancora dal loggiato ad archi sul quale mettevano due finestre, mentre una terza che si apriva verso il vecchio camposanto, una delizia di cortiletto chiuso da alte muraglie, lasciava a mala pena entrare un barlume di giorno, un chiarore da chiostro, da sagrestia, o da stalla. Due dei curati, con una padronanza tutta pretina, ebbero ben presto sparecchiato e rimessa ogni cosa a suo posto, senza dir verbo. Poi stesero il tappeto sulla tavola, tolsero dal cassetto dello scrittoio, dove era chiuso col breviario, un mazzo di tarocchi ed uno di essi lo brandì in alto agitandolo, poi lo gittò sapientemente sulla tavola in modo che le carte vi si distesero in riga allineate, e gridò in tono di comando: _Pontificemus_. Il vicario dormiva in una larga sedia a braccioli, la testa rovesciata sul muro, coll’aria tranquilla di un santo. Il gobbo non volle essere del giuoco, ed io non conoscevo le carte. Gli altri tre preti si precipitarono sui tarocchi e la partita fu intavolata vigorosamente. Le carte grasse ed unte aderivano l’una all’altra così che per staccarle occorreva ai giuocatori inumidire il pollice al labbro inferiore, rovesciandolo fin sopra il mento. Nel silenzio della stanza si sentiva di quando in quando la nota da scacciapensieri che mandavano le dita attingendo umori e poi il fioccare misurato e piano delle carte sul tappeto. Il gobbo tamburellò un momento sui vetri, vi appoggiò la fronte come per rinfrescarla, poi prese il cappello ed il bastone e con un: _Buona sera_ risoluto, piantò la compagnia. Benchè a tavola e dopo non avessi scambiato con lui che poche parole, mi era nato un vivo desiderio di conoscerlo; gli tenni dietro senza altro, e lo inseguii per una stradicciuola fra i vigneti ch’egli aveva infilato frettolosamente. Al rumore de’ miei passi si voltò e vistomi, ristette sorridendo. —Viene anche lei dalle mie parti? Come gli ebbi detto che non potevo reggere oltre al tanfo della stanza chiusa e che gli chiedevo licenza di accompagnarlo, mi ringraziò e ci ponemmo in cammino, ma per un buon tratto di via non aperse bocca; lo sentii anzi più volte fissarmi sospettosamente con una certa durezza, tanto che, venuto in dubbio di riuscirgli importuno, rivolgevo meco stesso il migliore pretesto per congedarmi. Ad un tratto si fermò e mi disse: —Le assicuro che sono tutti buoni preti e buoni curati. Si era fatto rosso in viso e mi guardava negli occhi con una fissità risoluta, scrutandomi se gli prestavo fede: convien dire che le mie parole valsero a tranquillarlo, perchè lo vidi rasserenarsi e rifarsi tosto cordiale. Seguitava a rigirare per l’aria un nevischio rado ed asciutto a piccoli grani rabbiosi, che sembravano voler forare là dove picchiavano; uno di quei tempi ventosi dal cielo eguale e lontano che lasciano vedere le più alte cime allividite dalla falsa luce nebulosa. Il mio curato camminava spedito, sollevando sul davanti la vesta e reggendola sul braccio, locchè lasciava dietro uno strascico nero che spazzava la via. Nell’impaccio delle pieghe, le gambe, nettamente disegnate da una calza di grossa lana nera, avevano un disgustoso aspetto femminile come di donna gagliarda e sfrontata; tutta la persona dal tricorno fermamente calcato sulle tempia, contro il vento, alle grosse scarpe rattacconate, mostrava l’incuria propria dei solitari e dei pensatori. Io avevo cominciato a domandarlo della vita e dei costumi alpestri, ma non era che un rigiro per giungere a quello che più mi premeva e che da lui solo potevo conoscere, la sua propria vita, e come si acconciasse alla solitudine cui era costretto e come la riempisse. L’idea che mi ero fatto di lui era forse troppo alta e quel senso critico al quale pur troppo dobbiamo affinare le nostre sensazioni ed i nostri giudizi, mi stimolava a verificarne alla prova dei fatti la giustezza o l’errore. Certo nella compagnia dei colleghi egli primeggiava, ma poteva anche essere il monocolo nel regno dei ciechi, mentre io lo avevo sulle prime immaginato di acutissima vista. Già il vederlo così abbandonato e scorretto della persona me lo aveva fatto cadere dall’animo e provavo una orgogliosa compiacenza al pensiero che in poco l’avrei ridotto al suo essere vero di pretoccolo egoista e beato. E come dava a capofitto nelle mie grosse reti, come mi mostrava passivamente le poche faccie del suo ingegno; lo rigiravo senza fatica, lo stringevo senza metterlo in sospetto, rispondeva ad ogni mia domanda con proposizioni nette, precise, che lo mettevano tutto nelle mie mani. Non era sciocco, tutt’altro, ma era un uomo contento, una mente quieta e rassegnata. Conosceva assai bene dei paesani, la vita intima, i bisogni, le miserie, le poche gioie, i gravi dolori; ma la sua coscienza non si spigriva per questo, la sua mansueta acquiescenza ai fatti non era turbata. Avevo sperato un ribelle combattuto dalle brutali ingiustizie della vita e dalla tradizionale docilità del proprio ministero, avevo intravveduto una lotta drammatica fra il vescovo e la coscienza, fra il diritto umano e la credenza cieca, mi ero gettato nel mio errore colla gioia ardente del cercatore di miniere che scopre i filoni dell’oro, e vedevo il filone assottigliarsi al primo colpo di piccone e smarrirsi, e una pace scolorita regnare là dove cercavo lo scompiglio di una grande battaglia. Quello che più mi indispettiva era il vederlo abbandonarsi così senza resistenza e rivelarsi intero senza pur cadere in sospetto della mia crescente disistima; ne provavo l’irritante delusione del cacciatore che vede la selvaggina passargli sull’uscio di casa quando egli si disponeva ad inseguirla con gravi fatiche. Caduto dalle altezze del mio ideale, mi sarei volentieri acconciato ad una lotta di destrezza, avrei voluto vedermi contesa quella conoscenza alla quale intendevo, mettere la mia sottigliezza cittadina in confronto della sua selvatica furberia, insomma ripagarmi del non poterlo ammirar lui ammirando me stesso.—Due o tre volte fui sul punto di lasciarlo senz’altro, e di tornarmene solo e deluso, ma non mi venne mai fatto di girare il discorso ad una conclusione e troncarlo di netto mi pareva scortesia. D’altronde, apprendevo da lui molte nozioni determinate e sicure e, devo pure confessarlo, provavo una certa compiacenza artistica a sentirlo discorrere. Non che fosse eloquente, tutt’altro, ma parlava giusto, chiaro e sobrio; c’era poi nella limpidità del suo pensiero, nella scelta dei fatti narrati, nel giudizio che ne recava forse nelle parole istesse che adoperava, certo nel modo di pronunziarle, una bontà matura e tranquilla, che mi rasserenava l’animo. Calmata la prima curiosità, mi durava quella quiete confidente che infonde in noi la presenza di una persona buona ed intelligente. Oramai, conoscevo il mio compagno come per lunga dimestichezza. Era un uomo pratico, che si adagiava comodamente nella sua solitudine esercitando l’ufficio di curato con metodica coscienza. La molle posatezza di una vita consuetudinaria, aveva sedato in lui fin anche le irrequietezze proprie degli esseri sformati, la gobba non lo irritava, non gli dava quella stimolante sottigliezza, quella incontentabilità che acuisce pervertendole le facoltà mentali. Era forse mansuefatto dalle circostanze facili in cui viveva; non saliva al fanatismo nemmeno per la fede. Un passo dopo l’altro giungemmo alla sua canonica ed egli mi invitò ad entrare ommettendo i soliti discorsi: «vedrà che miseria, compatirà un povero prete», o che so io. La sua casa grigia gli pareva certo la più confortevole di questo mondo. Infatti la stanzetta dove entrammo, fuori del molle odore di prete pulito che sa di cera, d’incenso, di tabacco da naso e di vecchia pergamena, avrebbe invogliato a dimorarvi in solitudine il più ostinato fannullone cittadino. Le finestre guardavano a picco la gran valle silenziosa sotto la neve fresca, coi paesi bruni riparati a ridosso delle montagne e colla Dora nel mezzo, povera d’acque, lenta, limpidissima, fiancheggiata di pioppi alti e sottili. Una veduta raccolta e varia che saliva fino alle ghiacciaie lontane per una minore vallata aperta dirimpetto, tutta tinta di ruggine, dalle piante nude, fra le quali spiccavano in bianco le linee asciutte di due o tre campanili. Il curato mi domandò subito se avevo da fare quella sera giù nella valle, e come gli ebbi risposto che no e fu inteso che sarei rimasto a cena ed a dormire, scomparve per avvertirne scusandosene la vecchia domestica, della quale udivo nettamente nell’attigua cucina i passi, la voce asmatica ed il continuo affaccendarsi. Strano personaggio quella domestica! Benchè tenesse il primo posto in casa e tutto facesse capo a lei ed il prete si fosse creduto in obbligo di dirle il mio nome, il mio stato, donde venivo, dove mi aveva incontrato e perchè fossi con lui, non mi venne fatto di vederla pure un momento. A cena, una cenetta saporita, io ero così svogliato che al mio ospite toccava insistere per farmi prendere cibo, e ad ogni invito suo, veniva dall’uscio aperto della cucina una voce rauca e grave:—Chi è che non vuol mangiare? Quel signore? Già, bocche fine, bocche fine. Ehm ehm, bocche fine!—Ma il naso in camera da pranzo non ce lo mise mai e quando pregai il curato che me la facesse conoscere, mi rispose: la poveretta è mezza cieca e non vuole esser veduta da quelli che non può vedere. Dopo cena riappiccicammo il discorso intavolato per via, io interrogando e rispondendomi il prete colla solita docilità, se non che di quando in quando, certi rigiri di frase, un certo tono di voce, certe occhiate furbe ed indagatrici alle quali non avrei giurato che fosse estranea una punta di canzonatura, mi facevano sospettare che al mio interlocutore fossero questa volta ben chiare le mie intenzioni e l’irriverente concetto che mi ero formato dell’essere suo. Oltre a ciò, sentivo di non essere più padrone del discorso, di non poterlo più girare per il mio verso; mi pareva che le domande che gli rivolgevo, me le mettesse in bocca lui, serrando le sue risposte in modo da non poterne io uscire altrimenti che con una data domanda certo da lui preveduta. Che lavoro faticoso mi toccava di fare per non smarrire il filo della conversazione, intento com’ero a darmi ragione di quell’occulta volontà che mi pareva la dominasse! Che malessere ho provato a quella giostra. Se davvero egli mi leggeva nell’anima, la mia presunzione era ben giustamente punita, poichè egli conosceva me assai più e meglio che non io lui e quella parte passiva e condiscendente che gli era piaciuto di assumere, rendeva più gustosa la sua vittoria e più piccante e ridicola la burletta che mi faceva. Per levarmi di dubbio, gli domandai perchè egli a sua volta non cercasse di informarsi alquanto dei fatti miei. —Che profitto me ne verrebbe? e che conoscenza sarebbe la mia? Vedo bene come ci conoscono loro. Quando mi avviene di leggere un libro che tratti di noi, della condizione sociale, dei costumi, dei bisogni dei montanari, provo un senso di vero disgusto, tanto siamo ignorati da quelli stessi che presumono farci conoscere agli altri. —Ha cercato almeno di darsi ragione di questa mia curiosità? —Non ne avevo bisogno. Le sue domande me le aspettavo tutte quante dalla prima all’ultima e, me lo lasci dire, nella forma precisa in cui me le ha fatte. E non creda che me ne abbia avuto per male o che il suo modo di giudicarmi mi faccia maraviglia. Per conoscere, non occorre sempre interrogare, basta cercare in noi stessi la ragione delle domande che ci sono rivolte. A questo esercizio ho imparato in qual misero concetto siamo tenuti, non dico noi preti, ma noi solitari. Ma ho fatto di più. Ho seguito il procedere delle idee correnti, anzi ne ho rimontato il cammino. Le interrogazioni intorno alla mia vita, le quali vent’anni or sono erano informate ad un sentimento di simpatia, ad una sorta di ammirazione poetica, ad una curiosità indeterminata, sono ora diventate precise, rigide, hanno alle volte il piglio imperativo del giudice inquirente. Ne ho dedotto che gli uomini universali del piano hanno mutato follia, che una volta popolavano la nostra solitudine di idee poetiche e la credevano eletta da noi spontaneamente o per virtù di un ascetismo che si incontra di rado o in seguito a misteriosi disinganni, mentre ora la considerano quale uno stato imperfetto, e quel che è peggio, ce la imputano quasi a colpa come se con essa intendessimo di sottrarci agli obblighi sociali. Or bene, signor mio, essi avevano torto allora e lo hanno adesso. Noi non siamo nè poetici, nè ribelli; lavoriamo per vivere ad un lavoro che non è certo più disutile del loro ed accettiamo filosoficamente le dure condizioni della vita. Il saper poco di molte cose giova a chi vive fra gli uomini che si dicono colti, ai quali basta di potersi ingannare a vicenda colle apparenze; noi non conosciamo che le curiosità utili, quelle cioè che hanno una ragione determinata e che siamo in grado di soddisfare pienamente. Il giorno che gli umanitari della città avranno tempo e voglia di provvedere ai casi nostri e quindi bisogno di conoscerci, ci troveranno qui pronti a fornir loro quante nozioni saremo venuti via via e studiatamente raccogliendo. Avremo così spianata la strada all’opera loro perchè se il provvedere è dei molti il conoscere è di pochi o di un solo, ed al provvedere occorre anzitutto la conoscenza del bisogno. Parlava con accento vibrato, staccando una proposizione dall’altra con una virile sicurezza, con un sentimento d’orgoglio dignitoso e misurato, che mi faceva arrossire per la vergogna. Non gestiva. Era ritto in piedi coi due pugni chiusi sulla tavola, la testa alta ed il bel viso buono alquanto pallido. Com’ebbe finito si gettò a sedere e stemmo in silenzio un gran pezzo. Poi lo richiesi della sua storia e delle ragioni che lo avevano spinto al sacerdozio. —Oh, una storia singolare, signor mio. S’immagini che feci il cuoco durante parecchi anni. Sicuro. Mio padre era sguattero in un albergo d’Aosta ed io, allevato in cucina e messo al mestiere paterno, entrai appena seppi tenere il mestolo in mano, al servizio di quel vescovo, donde mi tolse la coscrizione. Allora non ero gobbo o così poco che non appariva, il pane di munizione non mi spiaceva, tanto che finita la ferma quando stava per aprirsi la campagna del 48, mi arruolai volontario, fui ferito a Goito e fatto prigioniero di guerra dai Tedeschi. La ferita guarì benissimo ma mi ingobbì per la vita, locchè mi rese inabile al servizio militare e mi strinse, una volta tornato a casa, a riprendere l’antico mestiere e per fortuna mia, l’antico padrone. Ora deve sapere che fino dalle prime scuole dove mi mandava mio padre e nella cucina dell’albergo ed al reggimento, io facevo dei versi, sissignore, dei versi nel gergo valdostano a ritmi semplici ed a rime uniformi, i quali in cucina ed al reggimento, mi avevano valso il nomignolo di _Torototella_. Però avevano sugo e forma ed erano schietti, e quello che più importa, fu smentita per me la sentenza: _carmina non dant panem_. Una mia canzonetta a ritornelli venne a conoscenza di Monsignore, il quale, gran giovialone, buono come il pane e santo uomo per giunta, mi fece chiamare mentre stava a tavola, mi pose un bicchiere in mano e mi pregò gliene dicessi delle altre, locchè feci ben volentieri. Alle corte, il vescovo mi propose di farmi studiare tanto da venire ammesso al seminario e si offerse di sostenermi per tutta la durata degli studi. Così dissi la prima messa in età di trentacinque anni e fui subito mandato qui vice-curato e poi curato alla morte del mio predecessore. Allora lo pregai mi dicesse de’ suoi versi. Corse tosto allo scrittoio, ne levò uno scartafaccio e venne a sedermisi di rimpetto. —Intende il gergo valdostano? —Sicuro. —Allora stia a sentire. Creda il lettore che non aggiungo nulla di mio, che quei versi li ho veramente intesi, che il prete gobbo me li lasciò alcuni giorni per le mani e che ne fui caldissimamente ammirato. Nessuno li avrebbe detti opera d’un prete; non v’erano nominati nè la religione, nè la fede, nè Dio, nè il demonio, nè i santi. Erano versi piani senza invocazioni, nè assalti alla sublimità; raccontavano, descrivevano, frugavano nei minuti episodi della vita quotidiana e ne sparnazzavano intorno mille piccoli fatti ignorati, giusti, di quelli che si sentono veri anche a non averli mai prima osservati. Una poesia raccontava la visita che un pastore faceva al suo vicino, lassù sull’alpe, ma non il pastore bellimbusto tutto nastri e bubbole, cogli scarpini lustri e la beata filosofia oziosa sulle labbra, ma un vero pastore sudicio, quadrato, che si tirava dietro le suole di legno un palmo di melma e d’altro, che discorreva poco e di cose usuali, un delizioso intaglio quel discorso, divagato e preciso, pieno di interiezioni e d’incisi, con dei _oue_ (oui) e degli _ah!_ fortemente sospirati, che facevano da basso accompagnamento continuo a tutte le parole. Un’altra raccontava una serata in una stalla, d’inverno. Chi si rammenta di certi quadri che ebbero gran voga alla fine del secolo passato ed al principio di questo, pieni di figurine diverse, raccolte in diversi gruppi, intento ogni gruppo a diverse faccende, senza curarsi uno dell’altro, chi ballando, chi cenando, chi facendo all’amore, chi lavorando e lo sciancato sul primo piano che domanda l’elemosina, e il cagnetto che fa la sua brava pisciatina sulla cuna di un bambino e in fondo la forca, gli sbirri e l’appiccato; il tutto festoso, vivacissimo, con un saporito accento di caricatura, distribuito qua e là a seconda della gaia filosofia corrente, che fa quasi il commento del quadro e tradisce le simpatie dell’artista? Or bene, quel poemetto in gergo valdostano aveva tutta la finezza arguta di simili tele, più uno studio di verità, una concisione sugosa e qualche tocco grave, pieno di pensiero. Cominciava all’ora dell’imbrunire e giungeva fino alla mezzanotte. Prima viene la vecchia a mungere il latte nella ciotola verde, dove il primo getto schiaffeggia la vernice ed il secondo e gli altri si ammorzano cadendo nella spuma, la quale giunta all’orlo tinge in bianco il pollice della mano che vi pesca dentro. Prima di mutar ciotola, la vecchia succhia dal pollice la panna grassa o la fa succhiare ai bambini che le stanno attorno ghiotti ed attenti, malgrado i calci e le scodinzolate di certe vacche stizzose. Poi viene la cena, poi i bambini vanno a letto nelle mangiatoie vuote e comincia la veglia e l’arcolaio comincia i suoi giri da trottola con un gemito ad ogni mezzo giro come fanno le ruote dei pozzi e certe tabacchiere a vite. Vengono i discorsi degli uomini, nascosti dietro il fumo acre della pipa catarrosa, e le ghignatine e i secretuzzi delle ragazze da marito; poi la porta si apre, la porta grondante sudore, ed entra un vento gelido ed un innamorato ardente che dà la buona sera a tutto il mondo e va dritto a serrarsi daccanto la sua bella. La stalla è grande e vi convengono i vicini poveri ed i vicini dei vicini; le ragazze da marito sono molte e l’uscio lascia entrare spesso il vento gelido e gli innamorati ardenti; ma una volta che li ha fatti sedere uno d’accosto all’altra e li ha avviati per i discorsetti a bassa voce, il prete non si cura altro di loro e solo li fa intervenire nella gran scena come figure di seconda mano, ne ricava degli incidenti comici o dei ritornelli maliziosi. Il poemetto si rigira seguendo il discorso generale, fa la storia di questo e di quello, raccoglie i motti salati e le arguzie paesane, salta di sbalzo nel dramma, accennando a disgrazie seguite o temute, ma non vi si dilunga volentieri, la sua commozione non è mai verbosa. Nella gioconda pace dell’insieme, quei tocchi gravi raddoppiano di valore e fanno rabbrividire. Di quando in quando, le cose anch’esse intervengono e prendono la loro parte d’azione. I rumori varî della stalla, si sentono tutti. Le vacche stropicciano la catena nell’anello che le assicura alla mangiatoia. A volta rompono il ruminare continuo con un sospirone che esce per le narici e pare venuto da qualche riflessione malinconica o dolorosa, sulla condizione sociale del gregge o sulla stagione ingrata che le condanna all’erba secca e dura. I bambini nelle mangiatoie dormendo russano e fischiano, le ragazze stimolate da pizzicotti ricevuti là dove non faranno mai vedere il segno, trillano dei gridolini allegri e rispondono con manrovesci arditi che irritano le petulanti impazienze dei giovani. Un soldato in congedo intona una canzonetta napoletana, ma essa non è fiore da quella serra, e le sue vispe cadenze degenerano presto nella lentezza piagnucolosa di una _complainte_ valdostana, la quale si strascina dormicchiando via per le bocche di tutti, copre i discorsi troppo intimi, agonizza e rinasce interminabile e lamentosa. Qua e là risalta un fare rablesiano efficacissimo, e brutale: corrono per tutta l’assemblea delle risate improvvise che fanno volger tutti gli occhi a qualche vecchia, la quale confessa ridendone anch’essa, l’istantaneo involontario peccatuzzo. Finalmente la fisarmonica invita a ballare e le coppie nel cerchio stretto, sulla terra battuta, sotto la luce della lucerna a due becchi, saltano senza muover di posto come i martelli meccanici dei ramai. Che larga vena comica da capo a fondo, che intuizione giusta del vero, che sapiente eliminazione degli elementi inutili e sovratutto che aria paesana in tutta la composizione. La poesia sincera non ha maestri, nè scuole; il mio gobbo non pensava certo di intonarsi con tanta giustezza col suo tempo e se qualcuno lo avesse lodato per la sua modernità ne avrebbe avuto in risposta una crollatina di spalle; egli non aveva forse mai letto un libro scritto di questo secolo. Ma egli non scriverà forse mai più un verso in vita sua, e non ne scrisse da parecchi anni. Stava correggendo gli ultimi quando seguì in paese un fatto terribile che è sempre presente alla sua memoria. Me lo raccontò e ve lo racconto. *** Poco lontano dalla canonica, in un piccolo seno chiuso fra la montagna ed un rialzo di terra che gli toglie la vista della valle, c’era una casa rustica di discreta apparenza. Il luogo freschissimo d’estate e riparato l’inverno dai venti gelidi, è una specie di vallata minuscola, dove corre una miseria di torrentello, poco più che un rigagnolo, il quale precipita dalle cime a furia di cascate e di sprazzi col piglio di un rodomonte che voglia recare al basso la desolazione e la rovina, e poi, incontrato il rialzo che ho detto, gli manca la forza di scavalcarlo, fa un gomito, si acquieta, muta colore, abbassa la voce, si contenta di poco letto e vi depone una sabbiuzza fina fina, tutta piena di riflessi diversi, come uno strato di gemme. Nelle maggiori piene l’acqua, benchè si tinga di un colore rossastro per darsi l’aria rabbiosa, arriva appena a lambire le tavole di un basso ponticello e non fa mai altro danno fuori che di bagnare le more dei rovi, lasciandovi sopra una leggierissima imbiancatura. La casa sorgeva giusto al punto del gomito nell’interno della curva che vi disegna il torrente; aveva un bel prato all’intorno ed il ponticello era destinato esclusivamente al suo servizio. Ne era padrone un tal Vincenzo Bionaz, il quale l’aveva comprata ed era venuto a dimorarvi colla moglie e due amori di bimbi, lo stesso anno che il nostro prete, da vice curato, era stato promosso a curato della parrocchia. Vincenzo, robusto ed intelligente operaio, lavorava in qualità di minatore ad una vicina miniera di ferro dove guadagnava tanto da tenere due vacche nella stalla e da poter comprare ogni anno qualche tavola di prato. Egli era un brav’uomo, allegro e casalingo; la moglie, nativa di Valchiusella, un paese dove le donne sono tutte belle da dipingere, lo adorava e ne era adorata, e vivevano tutti e due in pace, come si dice, con Dio e cogli uomini, lasciandosi andare ai facili progetti di futura prosperità in favore dei figliuoli. Bisogna conoscere i disgraziati paesi infestati dal cretinismo ed avervi vissuto per comprendere il sentimento d’orgoglio che danno ai parenti i bambini sani e belli. È una compiacenza continua che va fino alla gratitudine verso quelle creature, dalle quali la famiglia è sottratta alla vergogna comune e nobilitata. Tutte le facoltà dell’animo umano, anche le cattive, partecipano di tale compiacenza, tutti gli affetti della vita sono dominati dalla gioia immensa di possedere un così raro tesoro e la coscienza della propria felicità così piena ed eccezionale, ingenera in chi la prova una specie di sicurezza fatale di non doverla perdere mai. I due figli di Vincenzo morirono del crup in una stessa notte in poche ore. Il morbo li colse improvvisamente e li strozzò prima che padre e madre li credessero pure minacciati. L’indomani il padre andò alla miniera, la madre attese alla casa, senza lacrime e senza lamenti; solo Vincenzo tornandone, parve rifuggire dalla presenza della moglie e questa del marito. La donna era incinta di due mesi; il curato venuto a confortarli fu bene accolto da entrambi, ma non gli venne fatto di farli discorrere fra di loro. Passarono sette mesi durante i quali Vincenzo ed Anna vissero insieme nella stessa casa, mangiarono insieme alla tavola istessa, la domenica andarono insieme alla messa, dormirono insieme nello stesso letto, senza dirsi altre parole fuori di quelle poche e precise che richiedevano i bisogni della vita. Ma quando Anna fu sul punto di partorire, Vincenzo tornò ad un tratto alle prime tenerezze, l’assistette gravemente ed amorevolmente, accolse il bambino con lagrime di gioia, domandò perdono alla moglie delle durezze passate, insomma tornò ad essere l’uomo di una volta. Il bambino era bello e sano come i primi, e pensate con che religione padre e madre lo guardavano poppare, con che impazienza aspettavano che quegli occhi seguissero la luce, e poi si fissassero in loro, e cominciassero a riconoscere le loro sembianze, e significassero l’interno misterioso e rapido svegliarsi dell’intelletto. Ma quei segni non vennero, i suoni non facevano volgersi quella testolina e non ne rompevano il sonno, gli occhi fissavano gli oggetti senza guardarli, le labbra non sapevano imparare gli adorabili sorrisi, le mani non sapevano accennare alle cose. Fu un’attesa lunghissima, tenace, incoraggiata da ragionamenti cocciuti che volevano dar torto alle impazienze, tormentata dai dolorosi confronti che la memoria suggeriva, prolungata a termini che si stabilivano lontani e che una volta raggiunti si protraevano, sostenuta da illusioni, da inganni creati apposta, da menzogne che uno dei parenti faceva all’altro, a cui nessuno credeva, finchè venne il giorno dell’orribile certezza. Il nuovo nato era un cretino. Da quel giorno la famiglia fu distrutta. Padre e madre non osavano guardarsi in viso per paura di scoppiare in rimproveri e, peggio, in vituperi. Ognuno dei due provava un fiero, angoscioso accanimento contro dell’altro, e si sentiva il cuore gonfio di accuse pazze. Non litigavano, non tradivano quasi mai i ribollimenti dell’animo, tacevano come sgomentati, agivano colla regolare abitudinaria solerzia della gente che non pensa, vivevano in una pace morta e disperata. Il bambino cresceva adiposo e pallido, l’occhio vagamente inquieto, le labbra grosse piene di dolore e di bontà. Lo svegliarsi delle prime attività fisiche, parve qualche volta ai parenti accompagnato da segni di un tardo, ma vitale intelletto; allora erano giornate di un’aspettazione irritante, insostenibile: i due tornavano verbosi, si rappattumavano, formavano mille propositi di pazienza e di virtù, facevano voti a tutti i santi del paradiso, promettevano quadri e candele alla Madonna dell’Oropa, la Madonna Nera, il gran taumaturgo dei montanari. Ma simili inganni non duravano e rincrudivano cessando gli scoramenti e le amarezze. Al fanciullo avevano posto nome Gian-Paolo, raccogliendo i nomi dei due morti. Talvolta il padre, chiamandolo e vedendolo sordo, dava in una risata sgangherata e ripeteva quei due nomi per delle ore colla cadenza sonnolenta di una nenia; poi aveva finito per chiamarlo: _la bestia_, e il primo giorno che lo chiamò così, la madre furiosa l’aveva minacciato col tridente ed egli l’aveva battuta. Ma fu l’unica volta in sua vita. La sventura li aveva troppo intimiditi perchè potessero durare alla violenza o lasciarvisi condurre e benchè essa ruminasse talora di tornarsene sola alla sua valle nativa ed egli di andar girando pel mondo, magari fino in America, per togliersi da quell’inferno, non ebbero mai il coraggio di farlo. Una volta, dopo che s’ebbero pacatamente e freddamente manifestato il vicendevole proposito di separarsi, Vincenzo disse: Non saremo buoni da tanto; il cretino ci ha dato del suo. Quando il marito stava alla miniera, bisognava vedere che studio di tenerezze faceva la madre! Si prendeva fra le mani la grossa testa idiota del figliuolo, e lo fissava con occhi ardenti che pareva dovessero accendergli il fuoco nell’anima e divorarlo. Che tempeste di baci su quelle guancie floscie e sulla bocca bavosa. Il più era quando il bambino dormiva. Allora, l’errore diventato possibile, essa lo allargava per tutti i versi, perdendosi in una assoluta dimenticanza delle cose passate e delle future, creando a se stessa una certezza di felicità che le dava dei godimenti esaltati; era sicura che Gian-Paolo, addormentandosi, le aveva sorriso ed essa conosceva quel sorriso, per averlo veduto mille volte. Sapeva segnare sulla faccia del bambino il luogo preciso dove la pelle se ne increspava, dove faceva la deliziosa bucherella che tira i baci. E i due morti, quanto l’aiutavano a mettersi in tale visione! Come si levavano vivi e vispi dalla bara, per entrare nelle carni del fratellino dormente e confondere insieme le diverse sembianze! C’era però una sensazione che bastava da sola a rendere atroce la dolcezza di quello inganno, una sensazione sempre presente, sempre vivissima, che le lacerava il cuore, ed era la paura che il fanciullo si svegliasse. Giungeva fino a dimenticare il perchè di tale paura, ma non la paura istessa; a volte le pareva evidente e naturalissimo che al primo aprir gli occhi il figliuolo sarebbe morto, e lo cullava, lo cullava cantandogli ogni sorta di ritornelli lamentosi, tremando di una smorfia, accorandosi di un sospiro più forte degli altri. Sarebbe stata felice se il bambino fosse vissuto in un sonno senza fine. Le tenerezze del padre erano più rare e di più breve durata. Bastava un filo di luce ad impedirle o a soffocarle. Ma la sera qualche volta il pover’uomo spariva furtivamente dalla stalla. Saliva scalzo ed in punta di piedi la scaletta di legno che mette al primo piano, entrava nella stanza maritale dov’era coricato Gian-Paolo, e là, piangendo in silenzio se lo toglieva in braccio e lo serrava rabbiosamente bruciandolo di baci finchè lo sentiva strillare dei suoni grossi e gutturali. Allora lo riponeva con mal garbo nel lettuccio, ridiscendeva alla stalla e diceva alla moglie: Anna, sali, mi pare che urli. Anna saliva e, indovinato l’accaduto, provava pel marito una compassione rispettosa e si tormentava con rimorsi. Una volta, la domenica degli olivi, quando finita appena la messa, la chiesa era ancor piena di gente, essa si gettò ai piedi del marito piangendo e disperandosi a domandargli perdono. Fu una scena rapida e tragica: fra gli strilli delle donne intenerite e le ghignate di alcuni uomini, Vincenzo seccato dal chiasso, afferrò la moglie per un braccio, la levò di ginocchio e respingendola con uno sguardo nemico, la buttò là come un sacco. Anna andò a battere la faccia contro la pila dell’acqua benedetta e diede un grande urlo di dolore... S’era lacerato un labbro e rotti due denti, aveva la bocca piena di sangue e lo sputava guardandosi attorno pallida, con occhi stralunati, come se fosse per impazzire; finchè Vincenzo, pentito e rabbioso, la menò a casa in fretta. Quando furono nell’aia, il padre vide Gian-Paolo seduto in terra scaldarsi le piccole membra al sole in un’attitudine timidamente contenta e gli lanciò un’orribile occhiata piena di rancore. Quella fu l’ultima sfuriata dell’amore paterno offeso, e li lasciò tutti e due sfibrati come gente che esce di malattia e desiderosi di mutar vita come convalescenti. Poco alla volta entrarono in una quiete che non aveva nè le amarezze, nè le divine voluttà della rassegnazione, nè la sfinitezza svogliata dei dolori senza speranza. Come avviene di certi organi minori dei quali non avvertiamo l’esistenza se non per un dolore e la cui amputazione non sembra scemare in niun modo l’attività vitale, cosicchè ci domandiamo che facessero in noi; uscito loro dall’animo l’amore paterno, essi parvero tornati alla dolce capacità di vivere e di gioire. La casa prosperava; Vincenzo non aveva vizi ed Anna era economa ed industriosa; tolto il pensiero di accumulare per la discendenza, poterono concedersi cento piccoli agi che li facevano invidiare da tutti. Giunsero fino a prendere in casa una giovane domestica che attendeva ai più grossi lavori, diventarono insomma i borghesi del villaggio. Oh la povera infanzia intirizzita di Gian-Paolo. Nè carezze, nè rabbuffi, una libertà sconfinata e desolata intorno a sè. La domestica pensava a dargli il mangiare all’ora dei pasti, e a metterlo in letto. Di sette anni, egli andava lentamente a cercarsi al sole un po’ di spazio dove sedere; in primavera, il suo corpo grosso e deforme sembrava sporcare i prati dove stava sdraiato e donde fissava le cose senza smuoversene, con una tristezza incosciente. Pareva che il vuoto immenso del cervello gli desse una sensazione incessante di freddo: infatti quella era una ghignataccia al primo sorgere del sole! E che aria dolorosa al tramonto! Chi l’ha veduta, la sera, nella stagione estiva in un villaggio di montagna? Che ora grave ed allegra! Si direbbe che in tutto il mondo non ci sia e non ci sia stato mai un uomo cattivo, che non sia mai seguita, nè possa seguire un’azione malvagia. Le idee di sofferenza e di miseria sembrano sogni di mente malata. Non è vero che si muoia di fame e di dolore, che si viva all’odio ed all’invidia, non c’è il male, non c’è l’infermità, tutti gli uomini entrano ora per gioirvi nella placida ombra che gettano le montagne, la terra manda odori freschi ed esilaranti, il suono delle acque sembra il respiro della grande famiglia umana che riposa felice e benedetta in una serenità senza fine. Ma allo svoltare della viuzza, sorretto allo stecconato che cinge i prati, un essere informe e lento si strascina verso le case che fumano per la cena. Chi ha insultato l’uomo dando a costui delle membra che glie lo fanno quasi somigliante? Quell’essere non mi appartiene, è estraneo alla mia vita, via da me tale lugubre caricatura delle mie bellezze. Costui non parla, grugnisce, non ode, non discerne, trema al mio cospetto, si rannicchia sospettoso e impotente al mio avvicinarsi; se lo richiedessi d’aiuto, non farebbe un passo in mio sostegno; bisognoso, non potrebbe richiedere l’aiuto mio, il ricambio fraterno delle forze vitali non segue fra me e costui, la catena degli esseri è rotta fra di noi, il mio bambino, vedendolo alla luce del sole lo deriderebbe e qui, nella mezza oscurità, ne avrebbe paura. Io torno fra i miei simili che pensano ed agiscono, che conoscono i proprii bisogni e li soddisfano, che sono armati contro la natura e la vincono; costui è fuori dell’umanità, la mia compassione per lui sarebbe sterile, io non gli posso giovare in alcun modo; se la notte avesse mani da soffocarlo, e la terra si aprisse a seppellirlo, domani nessun vivente piangerebbe la sua sorte, non vi sarebbe nemmeno un dolore di più sulla terra, poichè egli non possiede nessuna delle due forme dell’utilità: non opera e non abbellisce. Fino dai primi anni di sacerdozio, il curato vagheggiava l’idea di studiare la grave infermità alpina, nella speranza non già di guarirla, chè sapeva non essere in suo potere, ma di alleviarne la miseria e di definirne gli effetti e la misura. Questo molti uomini dabbene si propongono in valle d’Aosta ma non riescono a mandare ad effetto a cagione delle impazienze, della soverchia pretesa e dei falsi metodi seguiti. A lui, prete, ignorante affatto di medicina, non pareva di potersi mettere per la via delle ricerche scientifiche, nè all’indagine delle cause del morbo. Diminuire le sofferenze, aggiungere qualche forza al disgraziato ponendolo in condizioni igieniche confortevoli, abbonire il malo animo dei parenti, vincere l’inerzia dei pregiudizi e, nel cervello immobile degli scemi, affinare l’istinto in difetto dell’ingegno, ciò gli pareva impresa possibile e così santa da poter formare la ragione ed il premio della propria vita. Ma in paese, quando egli ci venne, non v’era che uno scemo, un vecchio scimione di cretino così indurito nella propria bestialità da non poterne tirare nulla di buono. La posizione elevata del villaggio e la relativa agiatezza degli abitanti dovuta alla vicina miniera facevano che i casi di vero e proprio cretinismo vi erano rarissimi, tanto che il curato aveva agevolmente rinunziato ad ogni proposito rigeneratore, contento di non poterlo mandare ad effetto. La nascita di Gian-Paolo gli rimise il diavolo in corpo e la vista della disunione che ne era derivata fra i parenti lo infervorò all’impresa. La scena seguita in chiesa lo persuase essere venuto il tempo di provvedere e lo stesso giorno dopo vespro eccolo incamminarsi verso la casetta di Vincenzo per cominciare la cura. Sei mesi dopo Gian-Paolo aveva una certa aria lustra di cretino ripulito che lo faceva ricercato nel villaggio e nei dintorni come una curiosità da doversi vedere. In luogo del saccone color cioccolatte al quale lo avevano già sprezzantemente condannato gli incuranti genitori, egli portava i suoi bravi calzoni e la giubbetta, e perfino, cosa incredibile, una camicia che metteva fresca di bucato tutte le domeniche, locchè in un paese dove la gran miseria incute un riguardoso rispetto per la roba, aveva ottenuto che i monelli non lo zaffardassero più gittandogli addosso a manciate la mota dei fossi e lo sterco delle vacche che menavano in pastura. Egli stesso, contento di vedersi attillato, aveva smesso di rivoltarsi come un porco nella belletta attaccaticcia delle strade, appena spiovuto. Accolto nelle brigate domenicali, quale argomento di lazzi e sghignazzate, egli aveva finito per addomesticarsi e cercare la compagnia; dopo vespro, sotto la pergola della via maestra dove era il giuoco delle boccie, egli aveva il suo bravo posto consueto sul trave degli spettatori, un posto riconosciuto per suo, e dal quale se mai altri vi sedeva, si levava di botto con aria ridicolmente ossequiosa, non appena apparisse la sua obesa e gozzuta persona. I giovani lo chiamavano _le monsieur_ e a forza di gridargli quel nome nelle orecchie, avevano finito per farglielo ritenere in mente. Ogni forestiere che capitasse dai vicini villaggi, era sicuro di trovare apparecchiato il sollazzo del seguente discorso: _Qui es tu?_ domandava a Gian-Paolo, quello dei giovinotti che faceva gli onori di casa. Ed il cretino, spremendo fino a gonfiarsi le vene del gozzo, e masticando i suoni e l’abbondante saliva, veniva finalmente a capo di scilinguare: _Le mousieu_. Ed era un coro di risate schiette come per uno spasso mai prima goduto. Finalmente il giorno del Santo Patrono, quando la banda del capoluogo scatenava sul paese la burrasca delle marcie rauche e tonanti, era lui Gian-Paolo, che durante i silenzi teneva in mano la mazza della gran cassa, pronto a cederla al primo cenno del suonatore. Ma pulirlo ed addomesticarlo non basta, quel disgraziato, bisogna cercare dove sia rotto il congegno del cervello, e svitarne tutte le ruote per vedere di rimontarlo. Ahimè, altro che rotto! ne mancano delle ruote e le principali e quelle poche presenti sono sdentate, non s’impigliano una nell’altra, non propagano moto. I fatti esterni agiscono su quella mente, finchè dura la sensazione che li rivela, ma non vi s’imprimono, non lasciano memoria che possa commetterli con altri: appena se una lunghissima serie di essi genera qualche cosa che può somigliare l’abitudine. Ecco il solo filo a cui attaccarsi; occorre rinnovare a sazietà le sensazioni piacevoli e le ingrate, non soddisfare ai bisogni prima che siano diventati dolorosi, perchè il piacere del loro soddisfacimento si colleghi colla pena della privazione. È uno studio lento e continuo. Il canonico-vicario, al quale il nostro curato tenne qualche parola dell’ardua impresa a cui si è messo, pretende che la prima nozione da darsi al cretino, sia quella di Dio. Dal momento che gli risplende un barlume di ragione, egli è soggetto a peccare, e nostra prima cura dev’essere di salvarlo per l’eternità. Non domandate al grasso vicario, come vorrebbe pigliarsela; ciò non lo riguarda; egli andrà in paradiso, anche senza avere educato dei cretini, e ci andrà forse con più ragione che non il curato, perchè non è d’un animo religioso il ribellarsi ai decreti della Provvidenza. Anche il curato da giovane aveva vagheggiato il pensiero di creare un Dio a profitto di quegli esseri abbandonati, ma conobbe ben presto non bastare a tanto risultato le forze di un uomo. D’altronde del Dio benefico e datore di vita era troppo astratto il concetto. Come mostrare a quell’ingegno chiuso, che il sole, i prodotti della terra, la terra istessa e la vita universale sono benefizi continui della mente eterna? Rimaneva il Dio terribile dei tuoni e delle rovine, il Dio che smuove la valanca, che arma ed inferocisce la natura contro se stessa; ma dato pure gli venisse fatto di atterrire il fanciullo e di dare un nome ed una causa a quel terrore, questa, sarebbe stata un’opera buona? Non era egli abbastanza disgraziato ed inerme? Non gli era abbastanza avversa la vita, da dovergli mostrare un nemico di più? Gian-Paolo, non amava nè odiava i parenti, non s’accorgeva della loro indifferenza, non desiderava la loro sollecitudine, il prete dopo prove e riprove, s’era convinto che in essi l’amore paterno era morto afflitto e che non c’era via di poterlo risuscitare. Ma il fanciullo, non era viziato, poverino, e chissà che una volta svegliato in lui l’amore figliale, questo non riuscisse a scuotere l’apatia d’Anna e di Vincenzo. Eccolo dunque porre ogni studio perchè derivassero visibilmente da loro tutti i benefizi ch’egli faceva a Gian-Paolo. Non è più la domestica che gli dà il mangiare, o che lo mette a letto; il curato assiste a tutti i pasti della famiglia ed impone al padre ed alla madre, gente devota ed ossequiosa, di scodellare essi la minestra di Gian-Paolo. Gian-Paolo è ghiotto di confetti, ed il curato porta ogni domenica le ciambelle alla casa dei Bionaz, ma non se ne fa mai il visibile distributore. Certe volte induce i parenti a ritardare l’ora del pranzo, perchè si svegli nel cretino una fame stimolante e fino a che l’ora non sia venuta padre e madre non devono farsi vedere, ed apparire soltanto col cibo. La prima volta che il fanciullo sorrise al giungere di Vincenzo, il prete ne ebbe una contentezza infinita: quando lo vide avviarsi all’incontro del padre che tornava dalla miniera, e prenderlo per mano coll’aria confidente di chi s’appoggia ad un amico, credette di essere a mezzo dell’impresa. Poi vennero cento cognizioni elementari, tutte derivate e coordinate a sensazioni da cercarsi o da sfuggirsi. Gian-Paolo conobbe i pericoli e li sfuggì, chiuse gli usci contro il vento, riparò colla mano la fiammella della lucerna, sterrò il fossatello che cinge l’aia dopo i grossi acquazzoni, portò al sole il vaso dei garofani che Anna amava tenere nella stanza. *** Gian-Paolo aveva vent’anni. Una sera di maggio, il curato stava correggendo certi versi suoi, destinati ad un amico parroco in un paesello remoto dove non capita mai anima viva. Il giorno innanzi era piovuto a catinelle dodici ore filate, ma il cielo s’era rifatto di quel sereno che dura e non era seguita la menoma disgrazia. Verso le dieci di notte, nella pace del villaggio rintrona un frastuono improvviso ed immenso, come se rovinasse la montagna; tutto il paese è sugli usci; il fragore cresce, empie l’aria, batte ai monti di là dalla valle e ne ritorna rombo continuo, squarciato di momento in momento da tuoni improvvisi come cannonate di un esercito di giganti. I villani si chiamano per nome, rispondono esterrefatti, i più coraggiosi si avventurano fino alla chiesa, il campanaro suona a martello, mille voci disperate di bambini e di donne strillano, le vacche dalle stalle muggiscono lamentosamente, i cani abbaiano con rabbia feroce e giù nei paesetti che dormivano nella gran valle oscura si accendono lumi inquieti che girano per le vie, segno che lo scroscio minaccioso è giunto fino a loro. S’è rotto un sacco di montagna, il rigagnolo che rasenta la casa dei Bionaz è diventato torrente. La cosa segue a questo modo. Nel letto del torrentello, all’imbocco che serra uno dei soliti larghi stagnanti si forma per tronchi caduti e terra franata una chiusa, che impedisce il corso dell’acqua, fino a che questa col peso non l’abbia sfondata. Allora il grande volume raccolto precipita improvvisamente e ne seguono le più terribili rovine fra quante si conoscono in montagna. In mezz’ora la piena passa, ed il torrente torna rigagnolo. I Bionaz desti al frastuono e al tremito della casa sentirono l’acqua gorgogliare per le tavole dell’impiantito e sollevarle. Vincenzo, sfondata con un pugno la finestra ed affacciatosi, vide la morte. Il torrente rompeva alla casa come alla pila di un ponte e l’assaliva con travi e tronchi d’alberi a colpi d’ariete che la scotevano dalle fondamenta. —Sul tetto, presto, urlò Vincenzo atterrito. Anna teneva il lume, passarono correndo nel camerone tramezzato d’assi, dove dormivano Gian-Paolo e la fantesca; questa che già strillava aggirandosi per la tenebra, li seguì singhiozzando preghiere, salirono al fienile a prendervi la scala a piuoli, ritraversarono con questa le due camere, furono nel granaio donde poggiata la scala ad un abbaino, riuscirono sul tetto. Là si tennero per salvi. Prima di salirvi, l’acqua avrebbe scavalcato il monticello morenico che separava la casa dal villaggio e si sarebbe sfogata per la china. Anche contro l’urto dei massi e dei tronchi travolti, quello era il rifugio più sicuro; stavano sul lembo estremo del tetto dalla parte della valle; l’acqua si frangeva all’estremità opposta, verso il monte, e la casa era tramezzata da due muraglie maestre. Intanto erano accorsi il curato e mezzo il paese, e ne giungeva di continuo ma tutti erano impotenti ad aiuti: fra essi e la casa muggiva l’onda furiosa ed oscura. Videro rischiararsi le diverse finestre, e le ombre passare da una stanza all’altra, poi il lumicino sorgere sul tetto nero e la famiglia trascinarsi carponi su per le tegole fino a scavalcare il comignolo. Lassù il lume si spense. —Siete lì? Siete lì? Coraggio. L’acqua cala.—Tenetevi saldi. Non può durare.—Gettate una corda. Coraggio. Tutti gridavano smaniosi, non potendo altro, di recare ai pericolanti il conforto di voci amiche, ma di là non veniva parola, forse il muggito dell’acque, forse le voci istesse, coprivano la risposta.—Silenzio! tuonò il curato. E come la gente tacque, riprese gridando e facendosi portavoce delle mani: —Ci siete tutti? —Sì, rispose Vincenzo. —Tutti? ribattè il curato con accento severo di inquisitore. Anna si guardò attorno e disse piano al marito: —E Gian-Paolo? —È in basso. —Tutti? tutti? ripeteva il prete corrucciato e minaccioso. Vincenzo non ebbe core di rispondere. In quella si levò un grido: Al fuoco, al fuoco! Già da qualche minuto, ai tre scampati, pareva salisse dal tetto come un alito caldo e soffocante: veniva col vento dall’altro capo della casa, là dove rompevano le onde, strisciava lungo il comignolo, li mordeva in gola, recava alle loro nari l’acredine di un fumo denso che la tenebra rendeva invisibile. Vincenzo ebbe tosto sospetto del vero, ma non ardiva manifestarlo pauroso quasi di affrettarne colle parole l’evento. Le donne sbigottite non connettevano. A un tratto, la fiamma divampò immensa, rischiarando la scena mortale e centuplicandone l’orrore. Il fienile ardeva. Traversandolo in furia per cercarvi la scala, Anna vi aveva appiccato il fuoco. La gente dall’altra, correva esterrefatta sul poco monticello, si urtava, urgeva alle prominenze del terreno, levava in alto le braccia, le donne strillavano, gli uomini suggerivano ripari e difese impossibili, mentre dal tetto salivano per l’aria urli tremendi di fiera che vincevano il fragore dell’acque e il rombo ventoso della vampa. Poi la folla tacque, allibita. Fra gli archi del fienile, in mezzo alla fornace era apparsa la figura mostruosa di Gian-Paolo. Allora fu visto uno spettacolo prodigioso. Il cretino, ruggendo e mugghiando, la persona ed i gesti ingigantiti dalla luce rossa della fiammata, correndo qua e là, dove scoppiavano nuovi incendi, abbracciando mucchi enormi di fieno nero e facendosene riparo, lottava solo con una avvedutezza istintiva e disperata contro il fuoco che lo avvolgeva. Puntando a terra i piedi, sollevandosi, a salti, allungando le braccia, allargandosi per prendere più tese di fieno, spingendole col petto e colla fronte, acciecato dal fumo, scottato da mille lingue di fiamma che andavano a cercarlo rovesciandosi su di lui come serpi aizzate, egli precipitava nell’acqua monti d’incendio. Nel chiarore sanguigno, tra i vortici del fumo, la sua grossa testa aveva perduto quel poco di umano che le durava. Lampeggiata ed oscurita ad ogni momento, la sua persona sembrava centuplicarsi; e non era più solo, dieci mostri orribili al pari di lui, scorrazzavano per le fiamme, snodandosi in moti disordinati e convulsi. La nativa lentezza, il nativo impaccio delle membra, sembrava squagliarsi al fuoco, il sangue, bollendo in quel calore d’inferno, sembrava vendicare in un attimo, la tardità di tanti anni, sembrava che le forze mancategli fino allora quasi accumulate in attesa dell’evento, si sprigionassero ora, con una violenza invincibile. Dall’alto del tetto, la famiglia, guardava istupidita, le gran masse fiammanti piombare e spegnersi fischiando nel gorgo. Il silenzio subitaneo della folla e la sua attonitaggine le crescevano terrore. Certo qualche spettrale apparizione, qualche segno miracoloso tirava a sè gli animi e gli occhi della gente. Qualche fatto sovrumano seguiva, là sotto. Nessuno pensava al cretino. Vincenzo ed Anna, l’avevano riveduto un istante in mente, dianzi, alla voce severa del prete, ma la sua povera figura, allentata in loro ogni fibra paterna, s’era tosto dileguata. E Gian-Paolo seguitava il suo titanico cimento. Nessuno potè dire quanto durò la battaglia. Più volte, il curato e gli altri lo credettero morto e lo rividero più volte risollevarsi con più acceso accanimento, finchè fu sgombro il fienile e salvata la casa. Dopo due giorni, Gian-Paolo moriva per la febbre delle scottature. LA GUIDA La migliore industria estiva nei paesi alpini consiste nell’andare per _Guida_ cogli alpinisti. Nelle Alpi nostre ne campano un cento cinquanta persone. Quando non ci lasciano la pelle, o almeno non ce la lasciano tutta, fanno una _campagna_ di trecento alle quattrocento lire, e i più famosi, quelli raccomandati dai libri inglesi, arrivano fino alle cinquecento, fino alle seicento; ma bisognò proprio aver tentato la Provvidenza, e se a stagione finita appendono un cero, credete pure che il Santo se lo è meritato. Bel mestiere, del resto, e pulito, che sveglia l’ingegno e fortifica le membra; infatti sono quasi tutti fiori di gente, agili, robusti e temperanti. Quando capita, la morte se li piglia interi e gagliardi, e ruba loro cinquant’anni di salute. Se si mostra e minaccia, li trova lottatori imperterriti e prudenti; avvezzi a considerarla come un incerto del mestiere, essi la guardano in faccia, l’affrontano senza bravate e senza paura, ne misurano i colpi, li parano e spesso ne trionfano. Ma il più delle volte essa li coglie a tradimento e li stramazza fulminati: perciò molti sogliono fare il segno della croce prima di avventurarsi a nuove corse, e tutti parlano della montagna in tono grave che sa di svogliatezza ai novizi, ma nel quale gli esperti riconoscono la coscienza che hanno, virile e risoluta del proprio còmpito. Voi li domandate:—Si può salire quella vetta? —Si può tentare,—rispondono. —È cattiva? —Secondo le gambe. —C’è pericolo? —Bisogna vedere. —Ma il tempo promette? —Finora è bello. E non ne cavate altro. Smargiassate od anche semplici promesse non ne fanno mai o se ci cogliete qualcuno, dite pure che non è dei buoni. Non cercano mai di adescare gli inesperti alle gite rischiose, le sole che fruttino loro un guadagno considerevole. Al più, li invogliano, lodando la vista e attenuandone le fatiche, alla scalata di qualche picco di secondo o di terz’ordine, dove il peggior rischio è di farcisi tirare a braccia o di lasciarci un polmone, ma lo fanno senza importunare, ma raccolgono, non intavolano il discorso. Stimolano bensì alle grandi ascensioni gli alpinisti provetti, ma allora più che il pensiero della paga li muove una smania di avventure, una specie di amore per l’arte, tanto che ne conosco di quelli che ci si misero, e d’inverno, senza toccare un quattrino. Amano la montagna come tutti i montanari, ma mentre la tenerezza solita del montanaro proviene da certa sua indole timida e sospettosa e si chiude nella conca che lo vide nascere, la loro comprende tutta l’Alpe desolata ed inesplorata, anzi tutte le maggiori sommità della terra. Parecchie guide valdostane di Valtournanche, seguirono il Wimper nelle sue escursioni sulla Cordilliera delle Ande, e ve ne hanno oggidì sulle montagne dell’Africa centrale. L’Alpe domestica e agevole, non li alletta e non li contenta. Finchè durano le piante e l’erbe, essi sembrano patire l’afa e la noia estive, e camminare e respirare a disagio; il loro volto non si rischiara, il loro ingegno non s’apre. Amano l’alta montagna, per il suolo che va studiato, per l’aria che vi si respira, per gli spettacoli grandiosi e selvaggi che presenta, per le fatiche, le lotte, i rischi ed i trionfi; l’amano con impazienza di lottatore, con orgoglio di domatore; si compiacciono dell’omaggio che le recano da ogni parte del mondo uomini gagliardi e sapienti di gran stato e di gran nome e da quell’omaggio ricavano per lei un sentimento di rispetto, una smania grande di penetrarne i misteri e la confusa convinzione che ad essa mettano capo tutte le forze della terra. Forse sono presi inconsciamente da quella curiosità immaginosa dell’_al di là_ che danno tutti gli ostacoli che contrastano l’orizzonte. Inoltre la consuetudine con gente colta e dotata spesso di certe qualità artistiche, li ha educati ad esercitare la facoltà ammirativa ed a collocare degnamente la propria ammirazione che per virtù della nativa compostezza esprimono sempre con misura. Non hanno del Cicerone nè la verbosità spesso balorda, nè il frasario ammirativo mandato a memoria. E sopratutto non hanno la supina e stucchevole servilità. Questo se vogliamo è pregio di tutti i montanari, fra i quali ne troverete di tardi, di corti, d’ispidi, di sospettosi, litigiosi, permalosi, avari, ingordi talora, ma di servili mai, o pochissimi tornati inciviliti dalla pianura. La montagna grave e pensosa, li ha fatti gravi e pensosi, ha dato loro, non so se un sentimento di dignità, ma certo la coscienza della miseria umana comune a tutti gli uomini e con questa una filosofia incurante e quasi disperata. I movimenti tardi e grevi del corpo, non concedono loro la pieghevolezza servile: non sanno costringere alla loquacità ossequiosa l’indole taciturna. D’altronde l’uomo non si fa servile che in mezzo al fasto ed all’ozio, ed essi non conoscono nè l’una cosa nè l’altra. Il fasto dei gran signori non può salire ne spiegarsi in quei luoghi disagevoli e la vita dura che essi menano costa loro così caro che non arrivano a persuadersi ve ne siano di quelli che l’hanno piana e per nulla. Quando vedono gli alpinisti affrontare le improbe fatiche del cammino, essi cui il riposo è tanto arduo premio, non possono credere che quelli ne rifuggano per diporto e li sospettano di mire occulte. Il villano in cui v’imbattete per strada vi domanda se salite per radici o fiori medicinali o per rintracciare la miniera, la favolosa miniera dell’oro o dell’argento, tradizionale sogno di quelle menti. Vi attribuiscono un lavoro facile e proficuo in sommo grado, oggetto di loro invidia infinita, ma l’ozio assoluto eccede la nozione che essi hanno del benessere concesso all’uomo. Le guide poi non hanno col forestiero quel solo superficiale contatto che dura quanto la visita di un museo, nè sono in tale numero da disputarsi a furia di profferte il cliente, nè la paga che ne tirano è così sproporzionata al servizio da doversene mostrare riconoscenti. La forzata convivenza di più giorni crea fra la guida e l’alpinista una dimestichezza accresciuta dalle difficoltà e dai pericoli dell’impresa. Troppo spesso l’uomo vi è ricondotto a quello stato primitivo nel quale la suprema nobiltà consiste nella forza dei muscoli e nella accortezza dell’ingegno. Dacchè comincia l’escursione, è stabilita fra quanti vi partecipano una perfetta eguaglianza di fatiche, di ristoro e di pericoli, e può seguire che l’ultima goccia di _cognac_ rimasta, sospiro di tutta la comitiva, tocchi alla guida anzichè al Lord e Pari d’Inghilterra. La guida conscia di dover mettere, occorrendo, la vita per salvare quella del temporaneo compagno, sente che l’importanza dell’obbligo è tale da non doverne essere ripagato di sola moneta; locchè non scema, anzi accresce la sua premurosa sollecitudine, ma questa è rivolta ai bisogni essenziali ed ha un fare spontaneo come di larghezza gratuita. Nelle capanne di rifugio che la provvidenza del Club Alpino, o l’accortezza di qualche albergatore, costrusse in mezzo alle più selvaggie solitudini delle Alpi, essi apprestano non richiesti e tacitamente al viaggiatore quante maggiori comodità il luogo può fornire, non serbando a se stessi che il pretto necessario, cioè tanto spazio di roccia nuda che basti per starci al chiuso. Se la comitiva è numerosa e le guide non ci capiscono tutte, si danno il cambio per turno, mezze alla sosta e mezze all’aperto. Seduti sul limitare nella notte glaciale e solenne, discorrono fra di loro a bassa voce fumando e ridendo per arguzie piene di sapore paesano e quando, innanzi l’albeggiare, spira dalle vette nitide di verso levante la prima larga folata di vento mattinale, al cui soffio la neve si fa più dura e stagnano tutti fino al fondo i rigagnoletti, allora si martellano di pugni il petto e le coscie, perchè il sangue impigrito e la stanchezza non li abbandonino ad un sonno mortale. Buona e salda gente, che il domani di una tale notte si mostrano svegli e disposti alle più dure fatiche, senza che una parola crucciata, senza che una ruga del fronte tradiscano lo scontento del disagio sofferto. Se il forestiero ne li ringrazia, negano allegri disagio e fatica, se trova che gli dettero il suo e nulla più, sono disposti a convenirne sinceramente. Infatti non sono servizievoli per mera cortesia, ma anche per un sentimento profondo di giustizia e di equilibrio, e per saggezza. Sanno che al meno forte e meno agguerrito occorrono più riguardi, sanno che la montagna è tale che bisogna affrontarla con tutte vive le attività della mente e del corpo e sanno che una notte bianca non scema loro un’oncia di vigore mentre ne dimezzerebbe l’uomo disavvezzo, della pianura. Sono generosi come tutti i forti, perchè non sostengono la vista della debolezza. Ma se a suo tempo concedono, a suo tempo vogliono e sanno comandare. Una volta giunti nei luoghi dove il pericolo può essere continuamente imminente, prendono occorrendo un accento tronco ed imperativo di capitano. Ad essi la scelta della via, e l’ordine della brigata. Se giudicano sconveniente la salita, non c’è strepito di viaggiatore temerario che li faccia procedere. Qualche alpinista vanitoso e ignorante, intestardisce nel proposito e li minaccia nella paga, ma è fiato gettato e c’è da pigliarsi delle male parole, e da esser rimenato a forza. Qualcheduno riuscì a piegarli deridendoli per vigliacchi, ma allora l’escursione precipitò quasi sempre in tragedia e ci rimasero, di buon giusto, il viaggiatore e, a torto, la guida. Ricordo che una sera a Gressoney capitarono, scendendo dal Colle d’Ollen, dopo di aver valicato il Lysjoch, due alpinisti che io conoscevo. Avevano una guida caduno e fra queste il buono e famoso Maquignaz di Valtournanche. Appena giunti all’albergo, i due domandarono con grande inquietudine se quel giorno o la sera innanzi fosse arrivato un loro compagno con una guida. Alla nostra risposta negativa spacciarono sull’atto, accoratissimi, un pedone all’albergo dell’Ollen lontano cinque ore, a recarvi l’esito infruttuoso dell’inchiesta e ad ordinare una battuta esplorativa per i ghiacciai e le giogaie circostanti. Il Maquignaz lasciava dire, lasciava fare, e lasciò partire il messo senza mettere verbo, sorridendo nella barba e mostrando negli occhi una lontana compiacenza trionfatrice che ebbi, conoscendolo, per segno sicuro di buon augurio. —Morti non sono, lo giurerei, ma una gran pauraccia l’hanno avuta di certo e non hanno dormito sulle piume. E dopo un momento aggiunse a mezza voce, ammiccandomi: —Ci ho gusto. I due intesero e lo strapazzarono contenti di sfogare la smania che li travagliava, e lui calmo calmo a replicare: —Morti non sono, conosco i luoghi e quella guida, benchè non abbia pratica del Mon Rosa, è un buon montanaro e prudente. Morti non sono, ma ci ho gusto, ci ho gusto; non posso dire che non ci ho gusto. Il fatto era seguito così: Erano tre viaggiatori e tre guide. Il giorno innanzi, partiti dal Riffel sopra Zermatt e valicato il Lysjoch, volevano pernottare all’altissimo albergo del colle d’Ollen. Verso le quattro pomeridiane, superati i passi difficili della sommità, traversavano il ghiacciaio della _Vincent pyramide_ quando su Val di Sesia, salirono le solite nebbie. Maquignaz, che stava in capo alla comitiva, non aveva mai fatto quella strada, ma consultando una buona carta inglese, e interrogando l’indole dei luoghi, procedeva sicuro come per lunga consuetudine. A un punto il viaggiatore, ora smarrito, disse: A destra. Maquignaz si voltò, rilesse la carta, si guardò attorno e rispose: —Avanti, avanti, vengano con me. Le nubi s’ingrossavano e s’allargavano, occorreva far presto e risoluto. Dopo alcuni passi l’alpinista ripetè: «A destra», e Maquignaz: «Avanti». Ma l’altro si piantò fermo, agitato da una collera inquieta. Egli di là c’era passato un’altra volta e, solo della comitiva, sapeva la strada; non ch’era nè tempo nè agio di fare esperimenti, se Maquignaz voleva darsi il lusso di trovarne una nuova, padrone, ma egli, la sua guida e i suoi compagni volgevano a destra senza più esitare. I compagni, ben inteso, tacevano seccati ed inquieti del dubbio. Maquignaz non si scompose, nè incollerì, solo gli replicò essere egli sicuro del fatto suo, conoscere la montagna da troppo tempo per dubitarne, e lo pregò colle buone di fidarsi in lui, alla sua vecchia riputazione di guida oculata e prudente. L’altro smaniò, levò la voce e voltò di netto a mano diritta, tirandosi dietro i compagni. Allora la guida, pallido per volontà contenuta, gli disse: «Lei comanderà al piano, qui comando io. I suoi compagni sono con me, io ne devo rispondere e ne rispondo; so quello che mi faccio: la mia pelle mi è cara e non fui mai avventato. Andiamo!» Ma sì! La persuasione di vederci giusto s’era nell’alpinista invelenita per dispetto della resistenza, e la falsa dignità dell’uomo pagante lo mordeva acerbamente. Le nuvole tenevano già mezzo il cielo, le creste verso il colle d’Ollen fumavano per la _tormenta_, il sole impallidiva e passavano sul viso dei disputanti i primi veli leggieri e fuggenti di nebbia. Il viaggiatore cocciuto aveva una guida sua, un buon alpigiano di Val d’Orco, cacciatore di camosci, espertissimo delle regioni alpine, ma non vera e propria guida. Maquignaz ed un suo compaesano stavano cogli altri due. Un’occhiata li mise d’accordo, presero ognuno a braccetto il proprio cliente, e li strapparono mezzo sbalorditi alla vana giostra di ciancie. —Mi lasciate?—Badate a voi, urlò l’altro ai compagni. —Non sono essi che lo lasciano, sono io Maquignaz che li costringo a seguirmi. Lei se vuole seguirà le nostre peste, vedrà che sono le buone, ma lo avverto che se tarda ancora, proverà che sapore hanno le notti nuvolose sul ghiacciaio. Quello prese a diritta colla sua guida, invano scongiurato ed ammonito. I quattro giunsero all’albergo dell’Ollen sul far della sera, vi aspettarono in preda ad un’ansietà angosciosa i dissidenti, tutta la notte e il giorno seguente, indi scesero a Gressoney, sperando di trovarceli. Ne furono raggiunti il giorno di poi. I due disgraziati, mezz’ora dopo abbandonato il grosso della brigata, si avvidero di aver sbagliato cammino. La nebbia stagnava sorda e immobile sul ghiacciaio, e lo oscurava. Impossibile rintracciare le peste. Si aggiravano sbigottiti in luoghi per fortuna più paurosi che mortali; il cacciatore di Val d’Orco, sapeva più evitare i mali passi che uscirne. Tuttavia riuscirono a lasciare il ghiacciaio, ma la notte li colse per roccie scoscese, meno disagevoli, ma più pericolose che non fosse il gran letto nevoso. Buono che fu nebbia e non tempesta e che a quelle alture la notte dura meno che al piano. Arrivarono a Gressoney sfiniti ed affamati. Il buon Maquignaz non osò andarli ad incontrare per non parere vanitoso del trionfo, ma l’alpinista, chiamatolo a sè, lo volle abbracciare e il cacciatore ebbe dalla guida provetta una fiera strapazzata che io intesi, la quale terminò con questo consiglio: —Se i signori si vogliono perdere, noi dobbiamo salvarli loro malgrado. STORIA DI NATALE LYSBAK Non avevo mai incontrato fra le guide alpine un uomo di così nobile e maschia bellezza. Alto come un corazziere, asciutto ma non sottile, si atteggiava e muoveva con dignità naturale e disinvolta, era agile e sicuro, servizievole senza essere servile, parlava con proprietà, gestiva poco, non vantava ascensioni impossibili. Benchè non dovessimo affrontare pericoli, s’era tuttavia stabilita fra me e lui quella dimestichezza cordiale, che nasce dalla comunanza delle fatiche e della vita; da tre giorni egli mi accompagnava per rupi e ghiacciaie e ci rimanevano, prima di giungere a Gressoney, due giornate di cammino. Quando lo invitavo a sedere alla mia tavola per desinare insieme, accettava semplicemente senza aver l’aria di pretenderlo e nemmeno di ricevere una grazia; a tavola discorreva e mangiava volentieri, ma non beveva che acqua, ricusando con un cenno del capo l’offerta che gli facevo sempre di vino e di liquori. La penultima giornata del nostro viaggio si valicava il colle delle Cime Bianche, ancora coperto di neve, per giungere a Fiery in valle d’Ajaz, donde il domani, pel colle della Betta Forca, dovevamo scendere a Gressoney, termine delle mie escursioni. Siccome non ero mai stato a Gressoney, glie ne chiedevo per strada: —Il vostro nome, Lysbak, mi fa supporre che siate nativo di quel paese, perchè il torrente che vi corre si chiama appunto il Lys. —Sì signore, sono di Gressoney. —È una bella vallata? —La più bella di quante io conosca. —È naturale che voi la giudichiate a quel modo. —È vero, signore. È naturale. S’era oscurito in viso e non aggiunse parola tanto che, temendo di averlo offeso con mettere in dubbio la sincerità del suo giudizio, cercai di abbonirmelo con nuove domande. —Siete ammogliato, Lysbak? —Sì. —E avete famiglia? —Ho famiglia. Il tono asciutto delle sue risposte mi fece capire che quello non era luogo da discorsi, infatti affondavamo nella neve molle fino alle ginocchia ed un passo falso ci avrebbe mandati ruzzolone fino in basso del nevato e costretti a rifar da capo due ore di salita. La sera, all’albergo di Fiery, fu servito a cena un vinetto sottile e fratellevole. —Lysbak, domani ci lascieremo, dopo cinque giorni di convivenza. Sono contento di voi, porgetemi il bicchiere, tocchiamo insieme e bevetene un sorso. —Grazie signore, non bevo. —Che idea! Un uomo della vostra fatta! Vi spiace il vino? —Non ne bevo. —Per farmi piacere, Lysbak, un sorso. Il vino cementa l’amicizia. —Non sono vostro amico, signore; vi servo per paga. —Avete torto: la paga va per i servigi che mi rendete, non per la buona compagnia che mi avete fatto. Quando vi avrò pagato, mi rimarrà di voi una memoria migliore che non delle altre guide che ho conosciuto; voi siete diverso dagli altri: sempre quando mi date la mano per superare un passo difficile, mi viene fatto di ringraziarvi come un compagno disinteressato, un compagno d’elezione. Voi fate la guida con grazia signorile. —È inutile, non bevo, non voglio bere. Si levò turbato e andò diritto a dormire. La mattina del domani era di buon umore più che non fosse mai stato per l’addietro. Salendo la Betta Forca canterellava certe nenie nel tedesco corrotto di Gressoney, chiudendole con quei trilli che passano per tirolesi e sono di tutti i pastori dell’Alpi. Fra una canzone e l’altra era verboso e gaio, raccontava mille aneddoti salati e mille facezie grosse e grasse da stalla e se la rideva da sè, rivoltando fra i denti la cicca di tabacco che non gli avevo mai veduto prima d’allora. Ad ora ad ora pareva si compiacesse di attardarmi per strada, di raddoppiarmi il cammino, andava di qua e di là come un bracco, raccogliendo fiori e fragole che mi portava sorridendo; altre volte prendeva la corsa lasciandomi indietro di gran passi, poi mi aspettava e mi gridava dall’alto: coraggio, signore, coraggio, signore, fra un’ora saremo sui pascoli di Gressoney, in vista della mia cara vallata! Ah, ah, vedrete come è bella, come è tutta bella verde, colore di speranza. È l’ultima tappa che facciamo insieme, allegro signore! E terminava col solito trillo acutissimo, agitando al vento il cappello adorno di un bel fiocco di _Edelweis_. Aveva gli occhi lucenti, il viso animato, lo si vedeva grillire di piacere e d’impazienza, pareva un innamorato che corresse all’amante. —Vedete lassù quel seno, dove c’è un muro grigio di pietre? quello è il colle, signore. —Là, dove spuntano quelle lingue di nebbia? —Appunto. Ahi ahi, quelle lingue di nebbia annunziano tempesta: sono cattive lingue, signore, cattive lingue che salgono da Gressoney, dal mio paese, dal mio paese. Presto, presto, prima che arrivi la tormenta. In un batter d’occhio il cielo s’era oscurato: la nebbia invadeva invadeva, serrata, uniforme finchè andò a posarsi all’ingiro sui fianchi delle montagne, tagliandone con una riga diritta tutte le cime e livellandole. Il colle non si vedeva più; camminavamo allora in un ripiano erboso, il cielo sospeso a pochi palmi sopra di noi. Che tempaccio orribile! Non era la burrasca sfrenata che arresta i più coraggiosi, li costringe a cercare ricovero e fa confortevole ricovero qualunque cavo di roccia, tanto si scatena furiosa ed irresistibile; ma una sorta di bufera stagnante muta e fredda come la morte. Le nuvole lambivano i nostri cappelli e stavano immobili gravi di più giorni di pioggia e di neve: ancora pochi passi ed immergemmo in esse la testa e poi tutta la persona. Io mi godevo la dolcezza sottile di quel contatto come una carezza morbidissima e velenosa, e ripensando i versi di Dante, là dove incontrata l’ombra di Casella e fatto per abbracciarla: Tre volte dietro lei le mani avvinse E tante si tornò con esse al petto, brancolavo curioso in quella sostanza tangibile ed inafferrabile, della quale è impossibile discernere e concepire la forma, il volume ed il colore e che si manifesta contemporaneamente a tutti i sensi; al tatto, cui pure cede senza resistenza; all’olfatto ed al gusto, che non riescono a dar nome nè al suo odore, nè al suo sapore; all’udito, che in essa perde suoni vicinissimi e ne percepisce nettamente e capricciosamente dei lontani; ed alla vista, che vi riposa in una luce fievole e diffusa. Ma fu breve compiacenza; a poco a poco sentii i panni che mi vestivano diventar leggieri e mi parve di essere nudo nella tempesta. La mia guida mi incorava colla voce a salire; ma l’ascesa, divenuta più erta mi toglieva il respiro; poi venne un soffio di vento a scompigliare, senza diradarlo, l’enorme viluppo grigio che mi avvolgeva; un vento gelato che mi fece correre per il filo della schiena i grossi brividi della febbre e mi lasciai cadere sull’erba sfinito, senza voglie, in preda ad uno smarrimento simile a quello del sonno a lungo sospirato, di cui la coscienza assopita ma non sorda, avverte la venuta e pregusta la dolcezza. Allora Lysbak mi levò di peso e rimessomi sulle gambe e presomi a braccetto, si diede a salire correndo, trascinandomi dietro a forza; lo sentivo soffiare come un mantice e quando giunto sulla vetta sostò un momento per prendere fiato, lo vidi grondante e fumante di sudore. —Siamo sul colle; se non vi strapazzavo a quel modo, vi coglieva il male della montagna; il sonno gelido. Come vi sentite ora? Mi guardava con aria paterna, coll’aspetto rassicurante della forza buona. Era tornato l’uomo grave e premuroso dei giorni innanzi, nobilitato da una autorevolezza intelligente, di capitano. —Bisogna scendere subito, che il freddo non vi assideri un’altra volta; d’altronde con questa nebbia c’è pericolo di rigirare dell’ore sulle nostre peste senza avanzare di un palmo; e tenerci per mano, che non ci s’abbia a perdere; e giù di corsa. Scendevamo da venti minuti, quando si fermò d’un tratto: —Abbiamo sbagliato strada, siamo troppo a sinistra, indietro. Indietro!? Non ne potevo più; meglio scendere purchessia; una volta nella valle, ci saremmo raccapezzati; ma, a sentirlo, egli conosceva il luogo e a pochi passi da noi la china rompeva in un dirupo altissimo, precipitando a picco fino al torrente. Lo richiesi se non sapesse di qualche cascinale vicino dove riposare; la mia viltà gli fece passare negli occhi un lampo di collera e mi rispose brusco: —Non c’è cascinale, venite. In quel punto, a smentirlo udimmo lo scampanellare di molte vacche vicine e non dovevano essere sull’erba ma chiuse nella stalla, perchè il suono giungeva raccolto e confuso, come assordato dalle pareti. —Lo vedete, Lysbak, che ignorate dove siamo? Fece un gesto d’impazienza e mi disse: —Lo sapeva, ma non conviene trattenersi venite. Parlava vibrato, con collera mal contenuta ma la mia stanchezza ed il malessere erano troppo dolorosi perchè mi lasciassi sopraffare. Alle sue parole, ai suoi consigli, ai comandi, alle preghiere, rispondevo un no cocciuto e disperato. Volevo scaldarmi al soffio caldo delle vacche e riposare al chiuso; perchè mi torturava a quel modo? A Gressoney ci saremmo giunti il domani, gli avrei pagata una giornata di più, anche a doppio prezzo se lo voleva; e m’incollerivo anch’io e dimenticando gli affettuosi riguardi di poc’anzi, ribattevo sul pagare, era pagato, lo pagavo, doveva servire alle mie voglie, non ero io che dipendeva da lui, ma egli da me; che prepotenza era la sua! Al postutto, facesse a suo piacere, io cercavo della casa e vi entravo ad ogni costo. —Bene, signore. La casa è a mano destra, a venti passi, conosco il luogo, lasciatevi condurre. —Non m’ingannate, Lysbak, non me ne allontanate. Mi afferrò la mano e mi portò sull’uscio: —Io vi aspetto qui. —Perchè non entrate? —Vi aspetto. —Padrone. —Entrai solo. Era il solito cascinale pastorizio; dissotto, una lunga stalla; dissopra, due camere da abitare. Appena aperta la porta, sentii sul viso il tepore umido che saliva nella stanza per le tavole dell’impiantito. Delle due donne che sedevano accanto al fuoco, la più giovane mi venne incontro senza parlare e andò frettolosamente a serrar fuori la nebbia. Oh il confortevole aspetto di quella stanza! Calda, pulita, le pareti rivestite di tavole, un gran letto alto e largo, un bel fuoco fiammeggiante, e padrone di casa due donne vestite di panno scarlatto, belle tutte e due, certo madre e figliuola. Il loro vestire e gli arredi intorno accusavano una solida agiatezza; la più giovane calzava stivaletti cittadini allacciati sul collo del piede e colla punta inverniciata; l’altra portava anelli d’oro alle dita e polsini di lana finissima. Tutte e due si affaccendarono a servirmi. La madre andava e veniva dalla stanza vicina, stendeva la tovaglia sulla tavola e vi disponeva la scodella di maiolica bianca, la posata lucente che pareva d’oro, il bicchiere e la bottiglia del vino; la figliuola, china sul fuoco al mio fianco, soffiava gonfiando le gote perchè bollisse presto l’acqua del caffè. Mi sentivo rinascere, e nella pienezza del mio benessere avevo scordato affatto quel povero uomo che mi aspettava là fuori nella nebbia gelata: sua colpa, d’altronde; perchè intestarsi a non salire? La ragazza aveva raccolte e chiuse fra le ginocchia le pieghe della sottana, che non le giungesse il fuoco, cosicchè il panno teso disegnava una salda giustezza di forme. Ad ogni soffio, il seno coperto appena da una camicia di tela bianca di bucato, si gonfiava visibilmente e pareva volesse uscire dal busto aperto sul petto a forma di cuore. Le guancie arrossite dalla fiammata, prendevano uno splendore sanguigno stimolante, mentre essa mi lanciava di sottecchi delle occhiate furbe, sicura di far colpo. E quando le ebbi detto che era bella, mi rispose in modo da lasciare aperto l’adito al discorso anzi da avviarlo; certo la ragazza ci stava alla celia, se non mi fosse durato l’avvilimento per la giornataccia sofferta. Quando fui ristorato, mi prese un vivo desiderio dell’albergo, di una camera mia dove mutarmi d’abiti e dormire fino al domani senza pensiero d’altro cammino. E poi era appena il mezzogiorno, che fare lassù tante ore? E la mia guida? Pagai largamente il ristoro ricevuto e benchè le due donne mi invitassero a rimanere, uscii pieno di coraggio. Il tempo non era mutato; lo stesso fumo rassegato di poc’anzi: pareva il tardo crepuscolo di un giorno di gennaio. E Lysbak? Dov’è Lysbak? Guardandomi intorno intensamente mi parve di scorgerlo a pochi passi smarrito nella nebbia. Era là, solo, avvolto nel cielo mobile ed invernale, seduto sopra un sasso, i gomiti sulle ginocchia e la testa nelle mani, fissando la tempesta. Quando gli fui dappresso si levò in piedi: era livido, batteva i denti, aveva gli occhi stanchi come per la veglia di un mese, la grama giacchetta abbottonata stretta stretta alla persona, la barba stillante. Mi sorrise con tristezza, senza rancore e mi disse: —Siete riposato? Avevate ragione, è un gran tempaccio, fa bene un po’ di ricovero. Andiamo? Mi sentivo rimordere come di una cattiva azione. Mentre stavamo per muovere, la ragazza si fece sull’uscio di casa gridando: —Siete ancora lì, signore? Al mio sì, scese la scala e venne verso di noi. —È detta—mormorò Lysbak fra i denti, e si voltò tutto dall’altra parte. —Avete scordato il cannocchiale e ve lo riporto. —Grazie. La ragazza fece per tornarsene; Lysbak, rapidissimo le prese una mano, poi l’altra, la tenne ferma un istante dirimpetto a sè, la guardò fissamente negli occhi con una tenerezza piena di martirio e le disse: —Addio, figlia mia. —Siete voi, padre? Buon viaggio—rispose l’altra con un riso sfrontato e perverso, e via di corsa. Camminammo un buon tratto senza parlare, poi lo richiesi: —Le avete detto figlia, vi ha detto padre, come mai ciò? —È mia figlia, signore; quell’altra donna che avrete visto in casa è mia moglie, la casa è mia.—E dopo un gran silenzio:—Le poverette non possono vivere con me perchè io sono un briacone. Due ore dopo giungevamo a Gressoney la Trinité. *** La famiglia dei Lysbak, la più antica di Gressoney la Trinité, è imparentata con tutti i centoottanta abitanti del paese, i quali d’altronde maritandosi pressochè sempre fra di loro formano una tale aggrovigliata matassa di parentele da perderne la testa gli avvocati, i procuratori, i giudici ed i notari. Verso il 1830, quando Daniele Lysbak venne in possesso dell’eredità paterna, il suo avere era computato a cento mila lire, locchè a quelle alture dove la terra è carissima e frutta poco equivale a due mila lire di rendita. Con due mila lire l’anno lassù si vive da gran signore purchè le donne vadano, ben inteso, l’estate a menar le mandrie sulle alpi e attendano in persona alle cure della pastorizia e gli uomini l’inverno provvedano colle proprie mani a raccomodare la mobilia e le pareti delle stanze lavorando da falegname. A tal patto quella rendita permette di scaldare l’inverno la casa col fiato di quattro o cinque vacche e di raddoppiare il numero la state, di tenere un mulo od un cavallo per scendere a Ponte San Martino in Valle d’Aosta, di mangiare ogni giorno due piatti di carne, uno fresco e l’altro salato, di ber vino ad ogni pasto, di darne a bere agli amici e parenti, e nei giorni solenni di mettere sulla testa grave e serena della madre di famiglia una specie d’elmo in oro filigranato che fa la più brutta vista di questo mondo. Ma la casa Lysbak non attende ai lavori della campagna o lo fa per spasso; al più gli uomini tentano talora un po’ di contrabbando, perchè il contrabbando è una caccia più avventurosa e pericolosa di ogni altra. Daniele Lysbak è un signore, non ricco, ma largo e pieno di cuore tanto che non ha nulla di suo. La sua casa è sempre aperta e pronta la tavola; tutti in paese conoscono il suo vino di Carema; l’elmo d’oro di sua moglie è più pesante che non quello di Maria Lanther, la moglie del barone dieci volte milionario. L’ultima volta che egli fu in Svizzera a vendere le pecore, invece delle quattro giovenche che aveva in animo di comprarvi, ne riportò un bel cronometro d’oro, il primo che si vedesse in Gressoney e quel cronometro lo regalò l’anno appresso a Jose il capraro, allorchè questi con rischio della vita, trasse un bambino dal torrente ingrossato dai temporali. Quando la notte del 24 dicembre 1838, sua moglie si sgravò felicemente e Maria Craut la sarta del villaggio e levatrice a ore perdute gli annunziò che il nuovo venuto era un maschio, egli aperse l’uscio di casa e malgrado il freddo polare che soffiava dal Monte Rosa, vi rimase piantato una buona ora, finchè non ebbe sparato cento e un colpi dai due fucili da caccia e dalle pistole che ricaricò altrettante volte a rischio di farsele scoppiare fra le mani. Annunziato al paese con tale principesco fracasso, il piccolo Natale venne su proprio come un principe. Era bello, intelligente, buono e temerario, cosicchè tutti i cuginetti del villaggio lo seguivano e gli obbedivano; più tardi, sua madre avrebbe voluto mandarlo alle scuole d’Ivrea, e forse chissà? anche a Torino, ma Daniele non voleva saperne di separarsi dal figlio, e poi che farne di tante scuole per vivere a Gressoney colle rendite che aveva? Veramente le rendite erano un po’ calate e a fare i conti ne sarebbe risultato roso qua e là anche il capitale; ma Daniele i conti non li faceva e dalla vita che menava da signore, argomentava di esserlo in realtà. Bisogna dire che non fu vista mai più stretta amicizia fra padre e figlio; erano sempre insieme: la bontà infinita, paziente, quasi infantile e l’indole gaia e sollazzevole del padre colmavano la differenza dell’età. Non c’era luogo disastroso dove Natale, forte come un torello e svelto come un cavriolo, non seguisse Daniele a caccia di camosci e dopo le lunghe marcie il ragazzo si sdraiava sull’erba al sole e dormiva col capo sulle ginocchia del padre, che stava immobile, beato, finchè non si svegliasse, a guardarlo dormire ed a cacciargli le mosche dal viso. Natale aveva 12 anni quando un giorno il padre si partì per la Svizzera con un branco di pecore, che menava al mercato di Sion nel Vallese. Per il solito gusto spavaldo di frodare la dogana, egli contava di scostarsi dai sentieri battuti e di passare le ghiacciaie la notte. L’aveva fatto cento volte e sapeva i valichi a memoria. Natale lo accompagnò fino al limite dei primi nevati e poi se ne tornò solo a casa. Verso la mezzanotte, Daniele con un suo pastore traversava il ghiacciaio dell’Aventina quando gli mancò sotto la neve e cadde in un crepaccio, rimanendo però ritto ed incolume su di uno scaglione di ghiaccio a pochi metri dalla bocca. Senza smarrirsi, gridò da quel fondo al pastore che scendesse correndo al più vicino cascinale, a cinque o sei ore di cammino, dove dimorava un tale Frantz suo amico e che salissero insieme con quanta più corda avessero potuto trovare; egli aveva la fiaschetta dell’acquavite e una diecina d’ore le poteva durare. Ma quando i due tornarono e chiamarono Daniele, Daniele non rispose. Il sole alto batteva nelle pareti azzurre della gola ghiacciata, vuota e pulita come uno specchio. Certo assiderato dal gelo, Daniele era scivolato dallo scaglione o questo sotto i primi raggi del sole aveva ceduto al peso e s’era inabissato. Quando la notizia giunse a Gressoney, partirono in _battuta_ una ventina dei più gagliardi uomini del paese e con essi Natale. Erano muniti di corde, di graffi, di picche e di lanterne. Giunti sul luogo. Natale imperioso ed intollerante di consigli, voleva essere legato sotto le ascelle e sceso nel crepaccio, minacciando di gettarvisi a capo fitto se non gli obbedivano. Due uomini fecero per afferrarlo e costringerlo a starsene cheto, egli scappò loro di mano e si diede a correre solo per il ghiacciaio con grave pericolo di affondare alla sua volta: impossibile raggiungerlo. Si lasciava accostare a dieci passi e gridava: Volete? pronto sempre a riscappare, tanto che bisognò contentarlo. Sospeso nella fenditura senza fondo, una lanterna accesa da una mano, ed un’ascia dall’altra, il fanciullo chiamava: Padre, padre! colla sua dolce voce infantile; poi piantando l’ascia nel ghiaccio e reggendovisi, levava la testa e comandava a quelli di sopra, con voce ferma piena d’intrepidezza, che allentassero o tirassero. Dopo di lui scesero altri, il ghiacciaio fu tentato per ogni senso, ma tutto invano. Quella battuta costò alla famiglia un migliaio di lire, e Natale, tornato a casa, fu quindici giorni in punto di morte, durò malaticcio tutto l’inverno e non si riebbe del tutto che a tarda primavera. Allora cominciò una vita di grandi corse solitarie ed avventurose; la madre avvilita dalla morte del marito non osava contrastarlo; d’altronde le prime gite gli avevano ridato i colori della salute. Così Natale venne a conoscere palmo palmo le montagne vicine e le ghiacciaie dove era sepolto suo padre, temprando a quell’esercizio ed accrescendo la robustezza nativa. Quando dal Consiglio di leva dovettero rimandarlo a casa perchè figlio unico di vedova, gli ufficiali ebbero a dire che mai più bello e robusto soldato avrebbe servito il Re. Era forte come un leone. Una volta, che la valanca nel suo passaggio aveva schiacciato una casa, seppellendo la vecchia donna che vi dimorava, egli accorso con mezzo il paese e sentendo dei gemiti fra le macerie, sollevò solo sulle spalle il più grosso trave del tetto e lo tenne sospeso finchè non ne fu levata salva la donna: e i presenti al fatto giuravano che ad ogni altro il peso avrebbe fiaccato il filo delle reni. Poi raccolse la donna in casa propria perchè le mancavano i mezzi di rifarsi il tugurio. La vecchia aveva una figliuola andata domestica in Aosta, una bella ragazza sana come un pesce ed allegra. L’estate essa venne in paese a trovare la mamma e, di ragione, dimorò in casa dei Lysbak. Quando fu per partire. Natale le disse che le voleva bene e se la sposò così com’era senza un soldo di dote nè un cencio di corredo. Allora bisognò fare i conti, e il patrimonio si trovò ridotto ad una sessantina di mila lire, tanto da vivere discretamente, ma rigar diritto. Le donne del villaggio andavano blaterando che Natale aveva fatto bene a sposare una serva, che così a sua moglie non sarebbe venuto l’uzzolo di far la vistosa e di due braccia gratuite in casa ce n’era bisogno. Maria Maddalena ripetè piangendo queste chiacchiere al marito e vi aggiunse di suo: Dicono che tuo padre aveva le mani bucate, che ha consumato ogni cosa: se bisogna lavorare io sono pronta. —Dirai a quelle donne che mio padre sapeva quel che si faceva, che finora in saccoccia mia non ci hanno a vedere altri, che la moglie di Natale Lysbak può vestire come la moglie del barone, e che i lavori miei non li faranno i loro mariti. Al brav’uomo era durata una tale adorazione per la memoria paterna che guai toccargliela. Ridurre le spese ostensibili, rinserrarsi in una vita più modesta, confessare cioè che veramente il patrimonio era scemato, e che il morto là del ghiacciaio non era stato troppo previdente! Mai più! Maria Maddalena era povera? Ragione di più per non umiliarla; il più bel panno scarlatto che fiammeggi nei prati, sarà quello della sua veste, calzerà gli stivaletti inverniciati, avrà la collana d’oro e il fazzoletto di _foulard_ fatto venire apposta da Lione, e la domenica, a messa, un abito di seta e magari i guanti neri se occorre, i guanti neri come la baronessa. Oh, Maria Maddalena era una moglie docile che non contrastava ai capricci del marito; bisognava vederla come sosteneva gloriosamente colla sua bella persona l’onore dei Lysbak. E in casa, che nettezza! Lavava tutto colle sue mani, la scala di legno, le tavole dell’impiantito, i vetri, gli usci, e senza che nessuno le vedesse mai una macchia indosso. Era il suo gran lavoro, la pulizia. Natale istesso, quando tornava la sera sfinito dalla dura fatica agreste, nuova per lui, dopo avere falciato il fieno o fatto legna su nelle alte foreste o rinsolcato il campo delle patate, se appena avesse gli scarponi inzaccherati, quegli sguaiati scarponi che rigano le tavole, non doveva pensare a riposarsi o a far vaporare il sudore gelato alla fiamma del camino, se prima non s’era calzato di fresco e mutata la grossa giacca sudicia con una nuova che gli metteva freddo indosso. Maria Maddalena era vissuta più anni in Aosta presso un avvocato, e sapeva lei ciò che occorre al decoro di una casa. All’amico, al parente che viene a trovarvi, bisogna poter offrire una buona tazza di caffè o un bicchierino di liquore o anche un bicchiere di Barolo o di Caluso bianco; sono doveri di convenienza. E quando il caffè è nell’armadio bello e tostato, e la bottiglia del liquore sturata, se ai padroni nasce un po’ di svogliatezza al cibo o gravezza di stomaco, non sarebbe spilorceria ricusarsi quel poco ristoro? Già ormai colla lodevole abitudine presa dacchè essa è della famiglia, di attendere Natale ai lavori campestri, quattrini in paga di manovali non ne vanno più, locchè in fin d’anno fa un bel risparmio, sapete; peccato che la vecchia madre non curasse di tenere il libro delle spese (ma già una gran testa quella brava donna non l’ha mai avuta) che altrimenti si vedrebbe quanto costavano i manovali. *** Quando dopo due anni di matrimonio Maria Maddalena fu incinta, la vecchia madre prese un giorno Natale in disparte e gli tenne un lungo discorso grave e tenero parlandogli de’ suoi nuovi doveri, del bilancio della famiglia, del pericolo che c’è a lasciarsi andare per la china delle spese improduttive; raccomandandogli nel nome di quell’essere che doveva venire al mondo, che non toccasse il capitale per carità, che bastasse coi redditi anche a costo di sacrifizi. Era la prima volta che gli parlava di tali cose e perchè vedesse che non c’era malo animo in lei, gli regalò il suo bell’elmo d’oro, dono del povero Daniele il giorno delle nozze, che egli lo regalasse alla nuora; tanto alla sua età quei gingilli non convenivano più. Ma non dire a tua moglie quello che ti ho detto delle economie, che non avesse a credere che io disapprovo la sua condotta. E Natale promise. Ma Maria Maddalena li aveva visti passeggiare un’ora intera su e giù per il prato e la sera tanto adoperò che seppe ogni cosa. —Ha ragione tua madre, il capitale non va toccato, lo predico sempre anch’io. Otto giorni dopo era a cena dai Lysbak un cugino di Maria Maddalena tornato di fresco dalla Baviera dove s’era arricchito. La vecchia dormiva da più ore e i tre stavano discorrendo col bicchiere alla mano. Si parlava del nascituro e Natale rammentava i cento e un colpi che avevano annunziato la propria venuta in questo mondo. —Farò lo stesso per mio figlio. —E tua madre?—interruppe la moglie. —Mia madre? —Sì, il sermone che ti ha fatto l’altro giorno. —Oh, Maria! Mia madre andrebbe a piedi fino ad Ivrea a vendere l’anello per far festa al bambino. —No, credi a me: delle spese ne occorreranno di molte e gravi in questi giorni; teniamoci alle necessarie. Nessuna festa. Natale diventava rosso e la guardava aggrottato. —Nessuna festa. Maria, nessuna festa! Nessuna festa a mio figlio? —I danari è lei che li tiene, se gliene domanderai per sciuparli forse te li darà lo stesso ma ne avrà dispiacere. —E non sono qui io?—disse il cugino.—Se vi occorre nulla, disponete. —Piuttosto Natale, piuttosto, ma che non nascano guai.—E con cento lire fu accomodata ogni cosa. A suo tempo nacque una bella bambina che fu battezzata Maria Maddalena come la madre, ma che in casa chiamarono Lena. Natale si avvicinava alla culla e toccava la bambina come se fosse stata di vetro soffiato. Quando gliela davano in braccio, provava un senso di sgomento; gli pareva che tutta la forza virile che era ne’ suoi muscoli dovesse avventarsi su quel corpicino e soffocarlo. Si tagliò la barba per poterla baciare. La sua gran festa era di assistere alla toeletta di Lena; aveva imparato a fasciarla, e come le si sollevasse la testina reggendola sotto la nuca, ma non l’avrebbe fasciata per un impero. Stava fermo a guardarla poppare inghiottendo la saliva come se il latte scendesse in gola a lui e quando l’ingorda che era cercava il seno materno agitando le manine e dimenando con impazienza la testa, egli rideva, rideva, ammirato ed intenerito. Qualche volta, attristatosi al pensiero della prosperità perduta (prima non gli veniva mai quel pensiero), andava a sedere presso la culla e metteva le sue grosse mani da gigante daccanto il viso di Lena e si confortava pensando che finchè quelle gli fossero durate non sarebbe mancato nulla alla piccina. E come lavorava di voglia, come si era fatto abile al lavoro! Tuttavia, di quando in quando una piccola somma bisognava pur sempre richiederla al cugino, ma questi, Maria Maddalena lo sapeva di certo, così ricco com’era, non dava ad imprestito con interesse e d’altronde la vecchia s’era fatta avara. Maria Maddalena aveva le prove in mano che essa metteva in serbo dei quattrini, Maria Maddalena teneva i conti delle entrate e delle uscite e queste non combinavano mai; ne entrava sempre più che non si spendesse. La Lena a sette anni era un fiore rosso di melagrano, anzi un melagrano aperto; si tirava i baci delle comari colle sue arie leziose di signora e sopra tutti adorava suo padre il quale poveretto cominciava ad averne gran bisogno di quella adorazione. Infatti, avendo la vecchia tentato un’altra volta di metterlo in guardia contro le troppe spese ed avendone egli tenuto discorso colla moglie, questa gli si era apertamente rivoltata; era stanca infine delle sorde persecuzioni di quella vipera, sapeva bene che suo studio era di guastarla col marito, perchè non aveva portato dote in casa, ma ormai glie le avrebbe dette sul muso le sue ragioni che non era una vita questa. A Natale ci volle di tutto per ammansarla. —Abbi pazienza, hai ragione, vedo anch’io che hai ragione, ma non facciamo dispute, che non lo sappia il paese. E quando essa ebbe promesso di tacere: —Non basta, questi primi giorni non sapresti celarle il tuo rancore. Tu non fosti mai a Torino, io ho bisogno di un po’ di svago, andiamoci insieme e ci porteremo la Lena. —Ecco come sei tu. Così pensi alle economie! —Lascia, andrò poi a giornata se occorre, l’estate farò la guida cogli Inglesi, ma ora mi sento stanco, ho paura di ammalare; sono certo che un giretto mi risana. —Sei tu che lo vuoi, Natale; che si sappia bene che sei tu! —Sì, sì, non temere. La vecchia diede ottanta lire. Natale, che già ne aveva tolte dugento in prestito dal cugino, giurò che bastavano, anzi che ce n’era d’avanzo e fecero il viaggio. Ma nel fondo del cuore il brav’uomo sentiva che la vecchia ci vedeva giusto e le aspre parole della moglie lo avevano dolorosamente maravigliato. Gli parve di intravvedere i maneggi di Maria Maddalena, capì che egli faceva la zampa del gatto, ma riconobbe insieme con indicibile scoramento che la propria indole buona, affettuosa e larga gli avrebbe sempre impedito di contrastare alla corrente. Poi si mise a confutare se stesso: egli calunniava la moglie; che ragione aveva di giudicarla a quel modo? E metteva insieme tutti i piccoli fatti che potevano sollevarla nel suo giudizio e li ingrossava. —Ho torto, ho torto, fu un momento di viltà il mio; io stesso non sono così poltrone quale mi faccio, saprei pure all’occorrenza mostrarmi uomo, ma non è il caso per ora, non è il caso. E il grande bisogno che aveva di pace e di amore gli faceva respingere la dolorosa antiveggenza. D’altronde, non lavorava egli come un disperato? Che vizi aveva? Nemmeno quella poca fumata sull’uscio, non la faceva più. Era stato sempre buon figlio, era buon marito e buon padre, perchè farneticare di avversità? Andiamo! andiamo! Tuttavia tali battaglie interne lo avevano reso taciturno e la moglie non se ne dava pensiero e del suo non darsi pensiero egli si accorava. Ma i baci di Lena lo avrebbero consolato di ben altri dolori. *** Lena compiva quindici anni, quando la moglie del barone Lanther, che per caso quell’anno passava l’inverno a Gressoney, invitò mezzo il paese alla cena del ceppo, e dopo cena a fare i giovani, due salti al suono dell’organetto. Perchè le famiglie meno agiate non avessero a scomparire, fu inteso che le donne vestirebbero alla foggia del luogo, la veste di panno rosso col giubbino scuro. Otto giorni prima della festa Natale una sera domandò alla moglie ed alla figliuola come stessero a vestiti. Maria Maddalena aveva certo le sue buone ragioni per aspettar quella domanda, perchè senza nemmeno aprir bocca si levò, tolse due abiti da una panca lì nella stalla e li gettò sulla tavola. —Eccoli, io non parlo;—e lanciò un’occhiata al marito ed alla suocera. —Belli belli non sono,—disse timidamente Natale senza quasi guardarli. —Fatene dei nuovi,—suggerì la vecchia.—Con sessanta lire si compera a Pont San Martino tanto panno che basti per due. Gli abiti restano, se ne farà di meno quest’altr’anno. E Natale: —Sessanta lire non è gran spesa. Di più non direi, ma tre marenghi! —Oh, nonna! Sessanta lire! Tanto vale mettere questi. Tutti vedranno che sono usati e per usati passano, ma a farli nuovi questa lanaccia non serve; si avrebbe l’aria di volere e non potere. —Brava Lena, teniamo quelli, dà retta a tua madre. —No, no, che figura ci fareste? Vediamo, Lena, figlia mia, quanto ci vorrebbe a farti contenta? —Padre, lo scarlatto fino costa almeno un terzo di più. Poi ci vuole il giubbino che accompagni. Il doppio a dir poco. —È troppo,—affermò coraggiosamente Natale, e guardava la vecchia. Maria Maddalena prese gli abiti dalla tavola e li gettò risoluta sulla panca donde li aveva levati. Dopo un po’ di silenzio Natale riprese: —È vero che un’occasione simile non si ripresenta: se non fosse proprio il doppio, se cento lire bastassero... —Senza contare,—interruppe Maria Maddalena,—senza contare che a Pont San Martino lo scarlatto bello non si trova: bisogna mandare a Biella, locchè fa alla misera dieci lire di più. —Per questo il padre ci potrebbe andar lui. —È vero, figliuola. La vecchia fermò l’arcolaio e si volse alla nipote: —Oh, Lena, avresti tanto coraggio! d’inverno colla neve su per le scogliere della Mologna! —Il padre conosce la montagna e l’inverno. A Natale non pareva vero di uscirne a così buon mercato, cioè avendo l’aria di fare una economia di dieci lire, mentre in realtà ne spendeva quaranta più del convenuto. Perciò ribattè ridendo tutte le obbiezioni della vecchia; non era il passo del Lysjoch, in fin dei conti, la Mologna! Bella cosa! Dieci ore, al più dodici di cammino, e le prime e le ultime piane come la mano. Avrebbe portato con sè da mangiare per strada e in due giorni il giro era fatto. Partì la notte istessa verso le quattro della mattina. Quando giunse a mezza salita, la neve in terra era tanta che colmava i burroni. —Buono che è sereno, diceva Natale, e freddo se no questa volta ci resterei. Pensava alla sua Lena vestita di nuovo, bella come nessun’altra in paese. —Che aria contenta avrà al mio ritorno! Come mi guarderà dolcemente dicendomi: Grazie, padre! Perduta, per la fatica, la facoltà di seguire il filo di un pensiero, quelle parole: Grazie padre, si rivolgevano nella sua mente, battevano quasi la misura ad ogni suo passo. Poi si accorse che le diceva ad alta voce: Grazie, padre, grazie padre, e ne rise. Sulla vetta il sole si oscurò senza vento e l’aria parve addolcita: segno di neve. E la neve sopraggiunse, calma, larga, eguale, silenziosa, mortale livellatrice dei valli. Natale doveva ad ogni momento scuoterla dal cappello e dalle spalle dove si ammucchiava pesante; le scarpe ad ogni passo ne levavano degli strati larghi come una grossa focaccia e gli toccava staccarsela pestando a forza la terra. I fiocchi fitti, il sudore, l’arsura lo acciecavano, mentre egli precipitava a salti furibondo ed atterrito. A un punto dovè fermarsi e temette di non poterla durare; si pose a sedere sulla neve ansando come un moribondo. Allora gli venne un cattivo pensiero: —È la Lena che mi ha mandato a questa morte. Pure di levarsi un capriccio, la Lena non esitò un momento ad esporre la vita di suo padre! Oh che pensiero doloroso! Perchè gli era venuto? Non l’avrebbe cacciato mai più: lo sentiva mordergli il cervello ed il cuore, avrebbe dato la vita per poterlo respingere. Trasognato per la febbre, smarrita quasi la percezione delle cose esterne e la coscienza del proprio stato, seguiva con lucidezza tormentosa la disputa orrenda che gli lacerava l’anima. Erano due in lui, due avversari accaniti, uno a difendere con tenerezza lacrimosa la sua Lena, l’altro ad accusarla con logica inesorabile. Chi gli aveva messo quello inferno nel cuore? Quell’inferno lo salvò: frustato a sangue da tanto tormento, trovò la forza di risollevarsi, capì che doveva superare ogni ostacolo e vivere ad ogni costo, se non voleva morire maledicendo nel delirio dell’agonia la propria figliuola. Giunse a Biella sull’imbrunire, corse difilato a comprare il panno, poi riprese la strada dei monti per dormire al primo cascinale dove non pagare la nottata. Il ritorno fu agevole, il tempo essendosi rimesso, e l’indomani sera Natale riabbracciò la famiglia. La notte della festa seguì un incidente spiacevole. Intorno a Lena, che era la più bella, si affollavano tutti i giovani del paese, ma essa con sicurezza impertinente non degnava di ballare che coi più ricchi. Un suo primo cugino, bravo ragazzo, ma povero in canna, venne ad invitarla risoluto di rompere il cerchio delle preferenze. Essa rispose ridendo aver promesso a Necio il geometra e lo chiamò ad alta voce da un capo all’altro della sala. Lo sfregio era patente. Il cugino aspettò ritto in piedi che finisse il giro, poi si accostò a Necio e gli diede una forte spallata, dopo di che uscirono insieme nell’aia e si bastonarono di santa ragione, finchè il geometra ebbe mezza rotta la testa. Il ballo terminò in tumulto e tutti furono alle loro case. Per strada, rincasando, Natale non fece motto: precedeva le donne di pochi passi, tanto che al giungere di queste aveva già aperta la porta ed acceso il lume. Lena infilava lesta l’uscio della sua stanza, ma il padre la prese con dolcezza per le due mani, la tenne ferma dirimpetto a sè e le disse: —Lena, perchè hai fatto a quel modo? —Andiamo, andiamo, non è ora di scene, già lo vedevo per strada che masticavi amaro; mandatela a letto che casca dal sonno. —Tacete, Maria, e tu, Lena, rispondi. —Che rispondi? Che ha da dire? Perchè ha fatto a quel modo? Perchè ha fatto bene, ecco; mia figlia non balla cogli straccioni. Voi pensate ai fatti vostri; ad allevare la figliuola ci penso io. E afferrata la ragazza, la strappò dalle mani di Natale e si mosse per accompagnarla. Natale diventò un leone. D’un salto fu di contro le donne e le attanagliò colle mani di acciaio fino a farle urlare dal dolore. Era la prima volta che montava in collera ed apparve terribile. Scagliò sulla moglie tutto il sacco de’ suoi rancori, martellava a colpi di parole rapide ed incisive; la moglie e la figliuola tacevano sbigottite. Poi la grossa collera di quell’uomo forte cadde fiaccata dalla propria forza, per far luogo alla bontà infinita ed affettuosa, sorgente continua di ogni suo male. Fu quasi vergognoso della propria violenza, si intenerì al silenzio passivo di Lena, gli passò negli occhi la visione della figliuola piccina, carezzevole e sorridente, rivide nelle sue fattezze addolcita la cara faccia del padre morto e diede in uno scoppio di pianto: —Lena, Lena, sii buona, dimmi che sei pentita dello sgarbo che hai commesso. Era tuo parente, Lena; sua madre era sorella di mio padre. Perchè è povero tu lo respingi, ma lo siamo anche noi, anche noi! Maria Maddalena vide l’uomo disarmato. —Per ciò fece bene. Se vostro padre prima e voi dopo, non le sciupavate quel poco avere essa poteva ballare con tutti i mendicanti della valle, che un marito di conto lo trovava lo stesso; ma ridotta com’è, sposerà la fame e la sete se non si aiuta con quella poca dote che non le potete levare, che è la sua bellezza. —Lascia mamma, lascia, le parole non servono. Quello che voglio ha da essere lo stesso. —E che vuoi?—gridò Natale con paurosa sorpresa. —Non voglio fare la vitaccia che ha fatto mia madre. Natale sentì come una mazzata sulla testa, ma fu presente a se stesso e volle riaversi. Come pochi giorni innanzi, quando per strada lo aveva colto quello sfinimento, capì che guai durare inerte nell’idea dell’ingratitudine di sua figlia. —Oh, Lena, mi rispondi così! Ho veduto la morte sai, Lena? per saperti contenta. Là, sulla montagna, quando andavo a comprarti la veste per farti bella, mi ha colto la tormenta e ho creduto di essere alla mia ultima ora. E non te l’ho detto, tornando, non l’ho detto a nessuno per non guastarvi la festa. Lo sai, Lena? —Tutti i giorni passa gente sulla Mologna—esclamò Lena scrollando le spalle. Ed entrò nella sua stanza. *** Il giorno dopo Natale apparve l’uomo di prima; se non che dopo cena, invece di sedere come al solito nella stalla e farvi un po’ di lettura, uscì in silenzio e s’avviò lentamente verso la piazzetta della chiesa dov’era l’osteria; ma non vi giunse, rincasò in fretta e andò diritto a dormire. La sera appresso fece notte tarda discorrendo e bevendo alla bettola cogli amici e così seguitò di poi tutte le sere. Ma avvezzo alla sobrietà propria degli uomini attivi, il vino tracannato a quell’ora non gli dava gusto e lo ammalava senza ubriacarlo; perciò si volse ai liquori e una mattina fu trovato dormire sulla neve briaco fradicio. Svegliato e ricondotto a casa, si imbattè sull’uscio in Lena, levata di fresco, e gli parve riceverne uno sguardo così sprezzante che se lo sentì come una coltellata nel cuore. Allora smesse di bere, ma il male era fatto; la moglie era andata piagnucolando per tutto il paese a raccontare gli stravizi del marito e tutti dicevano: —Peccato! quel Natale Lysbak come si mette in rovina! In luglio di quell’anno stesso, Natale sperò per un momento di aver riconquistato la pace e l’affetto della famiglia. Quel tale Frantz che era salito per levar Daniele dal crepaccio, accompagnando un giorno due Inglesi attraverso il ghiacciaio dell’Aventina, vide lontano sulla neve, giusto nel punto dove era caduto Daniele, una macchia nera che non gli era mai apparsa gli anni addietro. Una roccia non poteva essere, in quel luogo il ghiacciaio era altissimo e compatto. —È Daniele—pensò. Le ghiacciaie respingono spesso i corpi inghiottiti; i crepacci, chiudendosi dal basso in alto, li fanno risalire fra le pareti liscie e li ripongono alla faccia del sole. Frantz aveva indovinato. Il corpo del povero Daniele stava disteso sulla neve, riconoscibile come se fosse morto poche ore innanzi; solo la guancia esposta al sole prendeva ad allividire, ma l’altra ed il resto della persona duravano intatti. Gli Inglesi acconsentirono volentieri di tornare indietro a recare la gran notizia alla famiglia; ed ecco tutta Gressoney in subbuglio e Natale risalire un’altra volta su quelle pianure mortali con quanti erano uomini validi in paese. L’incontro fu tragico e silenzioso. Al cospetto del padre, Natale durò un gran pezzo immobile, colle mani sul petto, a fissarlo senza lacrime nè singhiozzi. Quando lo scossero, perchè occorreva discendere, disse: —Povero padre, ti ho voluto bene, io! Fu la sua orazione funebre. Poi lo mise da sè nel sacco che legò alla bocca con mano ferma e non volle che altri portasse il doloroso carico al villaggio. Come furono in vista di Gressoney, le campane rintoccarono a morto; come vi giunsero, tutte le donne ed i pochi uomini rimasti fecero ala al corteo. La stagione estiva era appena in principio, non c’era forestieri nel villaggio; le vesti rosse risaltavano sole sulla tinta petrosa dei muriccioli e sullo smalto dei prati. La mandria non essendo anche salita alle alte montagne, suonava sull’erba l’accordo placido delle vacche pascolanti; la scena aveva una dolcissima intimità paesana e famigliare, si sentiva che tutti erano parenti, nati tutti sotto quel poco cielo, all’ombra grave di quei monti. La novità del caso metteva nell’animo di tutti una trepidanza sospettosa di miracoli: i vecchi vedevano passarsi dinanzi l’amico durato vegeto nella morte, ai giovani appariva sensibile e reale l’oggetto del più affascinante fra i racconti uditi negli anni infantili; quel morto ringiovaniva i viventi. Maria Maddalena e la figliuola stavano fra le donne in seconda fila, quella singhiozzando da rompersi il petto, questa pallidissima e gli occhi sbarrati. Natale ebbe appena veduta la figliuola che dovette cedere il carico ai vicini. Le gambe gli tremavano e fu per cadere; aperse le braccia, si tirò sul petto la fanciulla con impeto selvaggio di tenerezza come se quello solo potesse essere il suo sostegno e scoppiò, baciandola, in pianto dirotto. La sera dopo seppellito Daniele, la famiglia parve tornata ai giorni tranquilli, quando Lena era piccina. Natale, superstizioso, pensava che suo padre era riapparso sulla faccia del mondo per comporre gli animi discordi, e lo disse; e le donne a commuoversi e ad abbracciarlo. L’indomani scese ad Ivrea e vi ordinò una bella colonna di serpentino portante nel mezzo una lastra d’ottone con suvvi inciso il nome di Daniele Lysbak e reggente una croce. Risalito al paese, si mise tosto per guida agli alpinisti. Che buone giornate faceva! Ma che vitaccia rischiosa e faticosa! Su e giù per le ghiacciaie, tentando valichi inesplorati, incitando la vanità dei padroni di un giorno, servendoli con zelo ed intrepidezza ammirabili, sobrio, contegnoso, temerario e prudente, si acquistò il nome di guida insuperabile ed in fin di stagione ebbe raccolto un gruzzolo di cinquecento lire. —Questi andranno a fare pazientare tuo cugino, diceva una sera con sua moglie. Da qualche mese egli mi si fa brusco e vuol essere pagato. —C’è tempo, osservò questa. Al cugino ne darai per ora quattrocento, cento occorrono per la casa. —Da farne che, Maria? La Lena sospira da un pezzo una croce d’oro da portare al collo come l’altre ragazze; di più siamo tutte e due calzate di grosso che è una miseria. Natale, la prima volta in sua vita, tenne duro. S’era finalmente persuaso che lo scredito in cui era caduto presso la moglie e la figliuola, proveniva dalle troppo colpevoli condiscendenze. D’altronde quel denaro guadagnato in due mesi avendogli fatto intravvedere possibile un assetto del patrimonio, egli era fermamente risoluto a conseguirlo. Resistette persino alle preghiere di Lena la quale, bisogna dirlo, non parve impermalirsi del rifiuto. Il giorno che giunse da Ivrea la colonna mortuaria del povero Daniele, dopo che l’ebbe collocata a suo posto e arrotonditovi ai piedi un bel cuscino di zolle fitte. Natale andò in casa a pigliarvi le donne e le menò seco al camposanto. —Ci sta bene, è vero Lena? Non è vero che è bella? —Quanto costa?—domandò senz’altro la ragazza, come se avesse da un pezzo meditata la domanda. —Sessanta lire. —La mia croce l’avreste avuta a miglior mercato,—replicò questa con tono mordente. —Dovevo seppellirlo come un cane, Lena? —È durato ventiquattro anni nel ghiacciaio senza uno straccio di croce, poteva durarla anche qui. Se il Signore io voleva in Paradiso, ce l’ha chiamato lo stesso. Natale levò il pugno serrato, poi si contenne e scappò correndo. *** In principio d’inverno morì la vecchia madre e non lasciò pure un soldo. Quel poco di suo era venuta man mano mettendolo in casa per veder di scemare la lista dei debiti dei quali s’era avveduta. —La pitocca,—diceva Maria Maddalena colle comari,—la pitocca dovette aver vizi secreti perchè in casa rubacchiava a man salva. Ma già tutti i Lysbak sono sregolati; io m’aspetto ogni giorno che scoppi qualche grosso debitaccio di quel briccone di Natale. —All’osteria non lo si vede più. —Beve in casa, beve in casa e poi ci maltratta quante siamo. E il debitaccio scoppiò che era grosso davvero. Ventimila lire tra capitale e interessi, delle quali il cugino voleva essere pagato subito o avrebbe mandato l’usciere. Che strilli fece Maria Maddalena! Chi l’avrebbe immaginato! Venti mila lire! eccole sul lastrico tutte e due, essa e la figliuola! E piangeva e si dimenava e correva da una casa all’altra a raccontare le dissennatezze del marito. Poi volle si radunasse una specie di consiglio di famiglia, chiamandovi due vecchi parenti dei Lysbak. Fu una domenica nel pomeriggio. Di fuori nevicava da empire la valle; i due vecchi, Maria Maddalena e la figliuola sedevano intorno alla tavola come giudici, Natale passeggiava su e giù per la stanza, fermandosi di quando in quando ad attizzare il fuoco, in apparenza tranquillo. Maria Maddalena fece un lungo esordio compunto: essa aveva voluto che i due vecchi parenti intervenissero a consulta, perchè tanto essa quanto Natale riposavano nel loro senno. Bisognava pensare a mettere al sicuro quel poco che sarebbe rimasto a debito saldato, perchè quello era l’avere di Lena, di questa povera Lena così docile e riguardosa! Oh, se non avesse avuto quella figliola, essa avrebbe sostenuto senza pure un lamento, il rovescio; essa era avvezza alla miseria perchè, non arrossiva a confessarlo, era nata povera e cresciuta guadagnandosi il pane. Ed eccola raccontare la propria vita dal giorno che era entrata nella casa dei Lysbak. Chi era stato a levar Natale dall’ozio in cui viveva per metterlo al lavoro? Lo dicesse Natale lì presente, non era stata lei forse? E quando la vecchia, Dio abbia in pace l’anima sua, quando la vecchia predicava le economie, essa non le faceva eco forse? Non è vero Natale? Ma già alla scuola di quel brav’omo di Daniele che aveva le mani e le tasche e la borsa bucate, non poteva crescere un ragazzo assennato! Qui Natale, rimasto fino allora in silenzio misurando a gran passi la sala, si fermò a un tratto e disse, accennando la Lena: —Mandatela di là almeno quella figliuola! Questi discorsi non fanno per lei. —Non fanno per lei? O state a sentire! Di chi si tratta, del Lucio forse? Già non udirà cosa che non conosca per veduta, che anch’essa li ha lamentati più volte, scusandoli poverina, gli sperperi del padre. E via e via, ne passavano delle accuse, una aggravando l’altra, chiare, determinate! Ogni fatto aveva la sua brava data e il come e il dove. I festeggiamenti alla bambina appena venne al mondo, l’eleganza del piccolo corredo, lo scampanare a festa per il battesimo, e due torcie, una non bastava! Tutto questo, essa lo predicava sempre al vento. Non è vero. Natale? Poi la casa rifornita più del bisogno e il vino di Barolo e di Caluso e il viaggio a Torino, al quale il marito l’aveva costretta dandosi per malato. Anche il lusso delle malattie, miei cari, delle malattie che guariscono viaggiando. E quella pazzia di portarvi la piccina a rischio di ammalarla davvero! Che non aveva fatto e detto essa per svogliarlo da quel viaggio! Non è vero Natale? Mi smentisca, mi smentisca se può. No, Maria Maddalena, Natale non vi smentisce: Natale passeggia su e giù per la stanza, l’animo pieno di amarezza mortale, ma non vi smentisce. Oh! se Lena non fosse presente, non dico; ma fu buono avviso il vostro di farla rimanere. Voi lo accusate di prodigalità che non è tristo peccato; egli, Maria Maddalena, egli dovrebbe accusarvi di falsità e di tradimento, perchè eravate voi a metterlo sul passo delle spese, foste voi ad avviarlo ai debiti, voi solleticavate la sua vanità per la casata fino a farvi adornare come una madonna: ma Lena non abbisogna di altra scuola d’irriverenza! Al cospetto della figliuola, egli non osa gettarvele sulla faccia queste accuse, perchè Natale ha nell’anima una bontà eroica, una fierezza eroica, una eroica viltà. Oh! il pover’omo soffriva! Gli era venuto un tic nervoso ai lati della bocca che non si chetava. Era bianco come un cencio e andava asciugandosi il sudore. Compiva camminando cento piccoli atti abituali, riponeva a suo posto delle cose che incontrava spostate, attizzava il fuoco, metteva acqua nella scodella della stufa, levava di sulla stufa il porta fiammiferi, che questi non si accendessero al calore, grattava e sfregacciava le macchie del panciotto, faceva risonare i pochi soldi nella scarsella. E intanto nella sua misera testa si rincorrevano mille immagini vive e mordenti. Ogni fatto travisato dalla moglie, gli appariva quale veramente era seguito, con tutte le circostanze che lo avevano accompagnato, e riviveva così tutta la sua vita, vedeva sè gustare tutte le dolcezze gustate, mentre la coscienza inesorabile della realtà attuale, lo costringeva solo ed immobile nell’abisso del dolore senza misura. E Maria Maddalena, come il picchio selvatico che perfora i tronchi beccando sempre nel piccolo cerchio, seguitava a trapassargli il cuore a colpi di ingratitudine. Era venuta la volta di quella scena dopo il ballo dal Lanther, una scenaccia che Lena ne fu malata dallo spavento; e Natale taceva. Poi venne il vizio del bere, e quanto non ne disse di quello! E Natale taceva. Poi la grandigia di un monumento al padre, un monumento così sproporzionato ai loro mezzi di fortuna; e Natale taceva sempre, finchè si giunse a conchiudere, sulla proposta di Maria Maddalena, approvando i vecchi, e col muto e disperato assenso di Natale, che questi riconoscendosi inetto ad assestare le proprie faccende e volendo da quel buon padre che era provvedere all’avvenire della figliuola, avrebbe firmato un atto di procura generale alla moglie perchè questa pagasse i debiti e ristorasse il patrimonio. Tre giorni dopo la firma dell’atto, Maria Maddalena vendeva al cugino tutto il patrimonio dei Lysbak, valutato a sessanta mila lire, per le venti mila a cui sommava il debito. Fu ben inteso una finta vendita: il cugino s’impegnava secretamente di lasciare a Maria Maddalena ed alla figliuola la reale proprietà ed il possesso delle quaranta mila lire che avanzavano e Natale rimase così spoglio di ogni avere. Come la cosa fu saputa nel villaggio, si ridestò in favore del poveretto la pietà paesana e tutti lo consigliarono che impugnasse di lesione il contratto. Egli non ne volle sapere; si mise a giornata da questo e da quello a portar carichi di legna e a far commissioni. Il denaro che ne tirava lo metteva in casa e viveva in apparenza così tranquillo come per il passato. In giugno, Maria Maddalena e la figliuola salirono colle vacche al cascinale della Betta Forca. A Natale rimanevano alcuni lavoretti da sbrigare nella valle, sicchè le raggiunse più tardi. Il terzo giorno che stava con loro, la mattina mentre mangiava la polenta, Maria Maddalena gli disse netto che se credeva di rimanere lassù s’ingannava, che essa e la Lena vivevano della carità del cugino il quale consentiva per la sua bontà a lasciarle godere quei pochi stabili; ma che il cugino aveva espressamente dichiarato non voler fare a lui Natale nessuna sorta di carità. Natale la lasciò dire senza nemmeno maravigliarsi. La Lena seduta a due passi divorava tranquilla la sua scodella di polenta con latte guardando il padre con occhio indifferente. Egli si levò e scese piano piano al villaggio. Per strada, di quando in quando sostava come oppresso da stanchezza, guardava intorno i prati verdi, crollando la testa e mormorando: È finita! È finita! Poi prese a cantare una nenia tedesca dolce dolce con che addormiva la sua Lena piccina: _Guten Abend, gut’ Nacht_, ecc. Quella nenia gli giungeva all’orecchio come se un’altra persona l’andasse cantando ed egli ne accompagnava la cadenza col passo e col dimenare del capo. Giunto al villaggio, andò diritto ad un tugurio che la piena del torrente aveva pochi anni addietro mezzo rovinato e di cui rimanevano intatte ma abbandonate dai padroni, due misere stanzette. Vi entrò come in casa propria e seguitò a dimorarvi quieto e solitario, procacciandosi da vivere con far la guida l’estate e l’inverno il manuale. Io lo incontrai quell’anno istesso, un mese preciso dal giorno che sua moglie l’aveva cacciato di casa. *** L’anno appresso, risalito a Gressoney, cercai di Natale Lysbak e lo tolsi meco per guida volendo ascendere a parecchie punte del Monte Rosa; ma fin dal primo giorno di cammino dovetti rinunziare all’impresa. Natale era sempre robusto e premuroso come per lo innanzi, ma così distratto e rischioso da impaurire. Intesi di poi come altri alpinisti ben più arditi ed esperti che io non sia, avevano lasciato di servirsene in causa delle sue temerarie imprudenze. Ora, sono passati tre anni da che lo conobbi, ora Natale seguita a dimorare nel tugurio mezzo rovinato. I parenti, specialmente le donne, gli portano in casa da mangiare e lo riforniscono di vestiario. Egli non lavora più; gli alpinisti non cercano più di lui. L’inverno va da una stalla all’altra e vi si trattiene improvvisando ingegnosi giocattoli per i bambini coi quali è sempre sollazzevole e mansueto. Appena la valle è rinverdita, si mette a tracolla la corda ed il cannocchiale, si arma della picca e via per le montagne. Passa intere giornate sdraiato nell’erba, magari sull’orlo di un precipizio, dura delle ore a contemplare estatico la valle e le ghiacciaie, appunta qua e là il cannocchiale come vi cercasse cosa di grandissimo rilievo, raccoglie cappellate di fragole e mazzi di _Edelweis_. Ed ogni sera torna a casa col passo marziale di una guida che ha valicato Dio sa quali vette, e giunto sull’uscio si dà un’allegra fregatina alle mani, persuaso di aver fatto una buona giornata. *** La Lena sposò quest’anno Necio il geometra e si fece gran festa per le sue nozze. UN MINUETTO Mio padre era nativo di Celano, negli Abruzzi, donde era sceso in Roma giovanissimo nel seguito di monsignor Calafimi, quando Sua Santità il Papa Innocenzo III insignì questo pio prelato del titolo di Canonico Lateranense, e lo chiamò al servizio della propria persona. Il buon Monsignore teneva mio padre più in qualità di discepolo, che di famiglio, perchè, amante qual era della buona musica, aveva scoperto nel giovine suo compaesano un paziente desiderio di intraprenderne lo studio, ed una maravigliosa attitudine a profittarne. Perciò lo aveva allogato a bottega di mastro Lapo Sguinzo, famoso costruttore e suonatore d’organi, presso il quale in pochi anni mio padre divenne altrettanto buono artefice quanto eccellente musico, tanto che, avendo la Sua Santità inviato monsignor Calafimi in Aosta a comporvi non so quale dissidio fra quel Vescovo e l’abate di S. Bernardo, questi lo volle compagno nel viaggio, contando, com’egli diceva, sul mansueto influsso delle sacre armonie per disporre a conciliazione l’animo dei litiganti.—Benchè in altro modo che non quello sperato da Monsignore, tuttavia a mio padre fu dovuta la pace, perchè il Vescovo di Aosta, come l’ebbe inteso sugli organi, mise a patto della propria arrendevolezza che esso gli fosse ceduto, e rimanesse in Aosta organista della cattedrale; al che Monsignore, dopo molte dispute, a malincuore accondiscese e questa forse fu la cagione della sua morte. Fatto sta che partitosi d’Aosta, ammalò per via e dovutosi rifugiare in una cattiva locanda, senza altra assistenza che di servitori malpratici, vi morì in tre giorni, con gran crepacuore di mio padre che intesa la funesta notizia per poco non lo seguì nella tomba. La sua morte diede a mio padre argomento di quella composizione in _la minore_ che ancora usano di sonare in Aosta per il funerale dei Vescovi. I cittadini Augustani furono tutti ammirati del giovane maestro, ed essendo questi di naturale giocondo e sollazzevole, l’ammirazione divenne ben presto amicizia; un vecchio notaro che lo conobbe in quei tempi, mi raccontava come non si combinasse merenda o cena di cui egli non fosse, e dove non facessero lecito a lui quanto in ogni altro nessuno avrebbe saputo tollerare. Le donne specialmente ne impazzivano: era bello, vivacissimo e pronto a volgere in scherzo qualunque atto tentasse un po’ temerario. Ebbe anche delle laute proposte di matrimonio; fra le altre una nipote del Vescovo, damigella di venticinque anni, sana e padrona dispotica di tre buone montagne, gli fece scrivere una lettera, alla quale indugiando egli a rispondere, il Vescovo in persona gli domandò se la voleva sposare. Questo fu il principio dei suoi guai, perchè Monsignore, impermalitosi del rifiuto, cominciò a mostrarglisi meticoloso ed acerbo; ma mio padre era paziente e contava col tempo di riguadagnarne le buone grazie. Due anni dopo il suo arrivo in Aosta, fu richiesto dal curato di Gignod perchè salisse in Ollomont a stimarvi una spinetta che egli voleva comperare da una tale Marianna Lautou, proprietaria di miniere. Il giorno che giunse in Ollomont cadde un rovescio d’acqua impetuosissimo e ne franò in più luoghi la strada che mette in Aosta, cosicchè gli fu impedito il ritorno non solo per quella sera, ma pei due giorni seguenti. La padrona della spinetta era una bella vedova di ventidue anni e fate conto che mio padre sapeva toccare altri tasti che non d’organi e di gravicembali, insomma la spinetta non fu venduta e mio padre, dopo tre giorni, ridiscese in Aosta e andò diretto dal Vescovo a partecipargli il fermo proposito in cui era venuto di prender moglie. Una sfuriata se l’aspettava e violenta, e già per strada, rimuginando nel cervello, s’era armato d’una grande pazienza e disposto a tollerare ogni cosa, pure di non perdere l’impiego; ma il Vescovo, intesa la notizia, gli disse asciutto asciutto che non se ne maravigliava perchè la vedovella soleva dare la caparra del matrimonio a quanti capitavano in Ollomont. L’accusa era assurda, il vecchio Lautou essendo morto da un anno appena ed avendo la vedova passato quell’anno in Orsières nel Vallese presso una zia materna donde era tornata da soli quindici giorni per toccare il fitto della miniera; ma mio padre non ebbe cuore di trangugiarla in pace, levò la voce, rimbeccò a dovere la calunnia ed il calunniatore; breve, il Vescovo lo congedò chiamandolo affamato italiano ed intimandogli di non mettere più mai piede sull’organo, nè in cantoria. Le nozze seguirono otto giorni dopo ed eccomi al mondo. Della mia felicissima infanzia ho poco da raccontare. Mio padre, attendendo in persona alla miniera che dava buon reddito, la casa era bella ed agiata e la vita eguale. La sera, appena mi avevano coricato, il babbo sedeva al cembalo nel _peilo_ attiguo alla grande camera da dormire; per l’uscio spalancato io vedevo dal mio letto il tavolino dove lavorava la mamma, rischiarato da una lucerna a beccucci colle ventole verdi che oscuravano intorno l’ambiente, mentre la candela del cembalo mandava dalla persona del babbo un’ombra gigantesca che entrava per l’uscio e saliva sulla volta bianca della mia stanza fin sopra il mio capo. Rammento ancora certe frasi musicali intese fra sonno e veglia che mi infondevano nell’anima una sicurezza e una dolcezza deliziosa. Ma la memoria che mi dura più viva è quella dell’amore immenso che si portavano i miei parenti; un amore tenero e gioviale di giovinetti che non cambiò mai natura e non si sfreddò mai cogli anni. A mio padre prendevano spesso degli accessi di allegria fragorosa ed irrompente che empivano la casa di risate; amava di trastullarsi come un fanciullo, faceva a rimpiattino colla mamma, mutando nascondiglio, tenendo tutte le stanze, vispo, snello come uno scoiattolo, stancando alla corsa la poveretta che lo inseguiva divertita anch’essa del giuoco e che finiva per cadergli nelle braccia rossa rossa e senza fiato. E io giungevo saltellante e gridando vittoria e mi ficcavo frugolando fra di loro, mi arrampicavo lungo la persona del babbo e le loro teste e le loro labbra s’incontravano sulle mie guancie mettendo l’uno il bacio dove l’altra prima lo aveva messo. Altre volte avanti cena il babbo ci raccontava degli Abruzzi e di Roma, io a cavalluccio sulle sue ginocchia, la mamma seduta presso la finestra a godere quel poco barlume per le sue rimendature. A mezzo discorso il babbo cominciava a dire: smetti, Marianna, che ti cavi gli occhi, ed essa faceva il viso affaccendato, esagerando a parole il gran da fare che le davano quegli omaccioni (ero un omaccione anch’io) tanto per sentirsi ripetere l’invito. Ma il babbo dopo avermi ammiccato, fingeva di seguitare il discorso con me solo a bassa voce, bisbigliandomi dei suoni che parevano parole e scattando tutti e due in gran risate come se avesse detto chissà che lepidezza, finchè la mamma, dopo aver giurato e spergiurato che non la coglievamo, che avevamo buon tempo, che una povera astuzia era la nostra, si levava di scatto e veniva diretta a sedere su uno dei ginocchi del babbo ed io sull’altro. Quelli nella festa continua della mia vita erano i momenti nei quali avvertivo il piacere. Che spasso quando il babbo prendeva a lagnarsi del gran peso, a contorcersi come non potendone più, a distendere d’un tratto le gambe come per farci cadere, tenendoci saldi perchè non cadessimo. Poi mutava tono, la mamma ed io eravamo i suoi due figliuolini ed io entravo nella finzione rilevando mille analogie, recitando la mia parte di commedia per dare verosimiglianza alla cosa. E lasciato lo scherzo, il babbo ripigliava il racconto ma io non ne seguivo il filo perduto com’ero in mezzo all’ombra notturna, perduto negli occhi lucenti della mamma che fissava lo sposo con una languidezza d’amore infinita. I miei parenti conobbero più tardi il dolore e la miseria e morirono disperati; ma io sono certo che la vita diede loro quanta maggiore felicità è concessa all’uomo. Ricordo ancora il viso raggiante che aveva la mamma certi giorni e gli sguardi umidi e lunghi che la mattina quando il babbo s’incamminava per la miniera lo accompagnavano fino allo svolto del muricciolo e lo aspettavano verso l’imbrunire, quando tornava a casa. Tutte le volte che mi tornano in mente queste memorie provo quel religioso sentimento di rispetto che danno le cose assolute ed ho coscienza di aver provato un tale sentimento senza saperne la ragione fino da quando ero adolescente. Ho conosciuto l’amore negli occhi di mia madre e quando in seguito mi avvenne di trovarmi alla presenza di una donna innamorata, anche giovanissimo, anche inesperto, seppi sempre determinare la natura e misurare quasi l’intensità della sua passione. Avevo di poco oltrepassato i sedici anni, quando la fallita della casa fonditrice in Aosta ridusse mio padre alla estrema rovina; per onore della firma si dovette vendere la miniera, la poca terra e la casa stessa dove dimoravamo. Nessuno ebbe a patire del nostro rovescio, ma a noi non rimasero che le braccia ed il coraggio. Per fortuna io ero stato messo giovanissimo allo studio della musica e suonavo il mandolino ed il violino con gran dolcezza, leggendo a prima vista e superando felicemente ogni difficoltà. Mio padre era conosciuto in tutta la valle per eccellente maestro, cosicchè, coll’aiuto di Dio, pareva che la fame non si dovesse patire. Commosso dall’infortunio e dalla integrità di mio padre, e non potendo d’altronde tirarne altro partito, il nuovo padrone della casa aveva acconsentito di lasciarcela abitare mediante una modesta pigione da pagarsi in fin d’anno. Eravamo allora a primavera avanzata; le famiglie patrizie valdostane lasciavano i palazzi di Torino per risalire ai castelli lungo la grande vallata e cominciava in questi una stagione di visite, di festicciuole, di solennità religiose e domestiche celebrate con gran pompa ed alle quali la musica poteva tornare di gradito ornamento. Già due anni addietro la contessa di Challant, la quale conosceva mio padre fin da quando era organista in Aosta, gli aveva commesso di comporre un oratorio e di dirigerne l’esecuzione nella circostanza che si celebrava la festa di S. Giovanni, patrono della famiglia. Io avevo accompagnato mio padre, ero dimorato con lui otto giorni nel sontuoso maniero d’Issogne in qualità di secondo violino e m’era durata di quel soggiorno una memoria incancellabile, come di luogo incantato e di vita degna del paradiso. La contessa, donna di grande e fiera bellezza, giovanissima e festevole, si era molto compiaciuta della mia età quasi infantile, mi carezzava, m’inorgogliva con ogni maniera di elogi vantando di me il viso, il parlare, i modi e sopratutto il valore musicale del quale presagiva miracoli; cosicchè, mentre gli altri suonatori e mio padre istesso, intimoriti della grandezza del suo nome e dello stato e malgrado le sue maniere affabili, stavano alla sua presenza in contegno deferente e dimesso, io me le ero fatto dimestico e, tranne le ore date alle prove, passavo la intera giornata nella sua compagnia. Rammento anzi che il babbo, temendo la mia famigliarità non paresse irriverente, mi ammoniva ogni sera perchè me le facessi più riguardoso, ma oltrecchè le chicche ed i vezzi della contessa m’incoraggiavano a non mutare registro, mi sentivo naturalmente trascinato a mostrarmele confidente dall’espressione languida e appassionata che avevo più volte sorpreso nel suo sguardo, simile in tutto a quella che leggevo ogni giorno negli occhi di mia madre. Le contessa di Challant aveva fin d’allora richiesto al babbo se volesse dar lezione di gravicembalo in parecchie famiglie di villeggianti; ma il babbo, non potendo abbandonare la miniera, aveva rispettosamente respinta la proposta. Volendo ora rimettersi all’antica professione, veniva da sè che il primo aiuto dovesse richiederlo alla castellana d’Issogne. Eccoci dunque mio padre ed io per la gran strada che scende da Aosta al borgo di Verrez. Benchè sottile ed in aspetto di adolescente, avevo tuttavia, de’ miei sedici anni passati, la forza e la balda impazienza di usarne. La stagione, la bellezza incantevole dei luoghi, la novità dell’impresa, l’umore gaio di mio padre, al quale, col proposito di ridarsi all’arte sua prediletta, era tornata la fiducia nella sorte, l’orgogliosa coscienza che avevo di conferire al bene della famiglia in età condannata per lo più ad esserle di peso, tutto ciò combinava ad accorciarmi la via e a rendermi il cammino delizioso. Ma sopratutto mi accompagnava e cresceva ad ogni passo una trepidanza continua, che a volte mi stringeva il cuore e che avvertendola mi faceva arrossire e vergognarmi del mio rossore. Nei due anni passati avevo affatto scordata la contessa di Challant, ma ora, sul punto di ripresentarmele, sentivo nascere e rivolgersi confusamente dentro di me una folla di pensieri e di memorie che mettevano tutte alla sua immagine rizzatasi viva ed imperante nella mia mente. I miei sensi stessi sembravano assaliti da subitanei ricordi; a mezzo un discorso, quando mi pareva di essere lontanissimo dal pensiero di lei, i capelli delle tempia mi davano la sensazione morbida e snervante delle sue carezze e ne rabbrividivo. Vedevo di continuo quello sguardo morente ed appassionato che avevo più volte sorpreso ne’ suoi occhi, e cercavo di rifarmi la figura del conte, al quale certo quello sguardo era diretto, ma non c’era verso di venirne a capo. A un punto mio padre mi disse:—Ti rammenti della contessa?—Diventai di bragia fino alle orecchie, e risposi un—no—asciutto asciutto. Il babbo mi guardò fiso, poi sorrise con gran dolcezza e mi baciò sulla fronte. Fu il primo, fu il solo bacio di mio padre che mi tornò doloroso. Quando giungemmo ad Issogne la contessa era uscita a diporto. Fummo tosto condotti al conte il quale ci accolse cortesemente, con molte parole. Mentre discorreva, io non ristavo dal guardarlo e provavo del suo aspetto una maraviglia, un disinganno che mi sconvolgevano la mente. In luogo dell’uomo che non sovvenendomene avevo immaginato, nobile e vigoroso, capace e degno di accendere tanto fuoco negli occhi della contessa, mi stava dinnanzi un vecchietto infermiccio e volgare, mostrante negli atti e nelle parole una timidità sospettosa ed irrequieta, una compassionevole povertà di forze e d’intelletto. Era basso, magro, trasandato, le ciglia ed i capelli rossastri ed ispidi, il viso lentigginoso che pareva unto, le labbra sottili, la guardatura incerta e falsa. La sua persona, i modi, il parlare contrastavano talmente colla grandezza del nome e più coll’immagine che m’ero formata di lui, che io mi domandavo sconcertato se anche la fiera e fresca beltà della contessa non era un errore della mia mente, se la sua venuta non mi avrebbe mostrata la ridicolaggine puerile della emozione provata lungo la via. E parendomi di concedere assai alle mie memorie, già mi apparecchiavo alla vista di una donna matura, nella quale l’eleganza del vestire, la dignità dei modi, e forse, via, poichè di alcuna qualità speciale de’ suoi occhi mi sovvenivo, la dolcezza dello sguardo, al giudizio di un fanciullo attonito alle non più viste grandigie signoresche, potevano tener luogo di bellezza. L’arrivo della contessa dissipò tali dubbi. Era veramente giovane e bella, quale me la avevano rappresentata le sottili trepidanze sofferte; ma il suo aspetto, in luogo di scombuiarmi l’anima, me la tranquillò subitamente: da’ suoi grandi occhi sinceri e sereni usciva uno sguardo riposato e la persona e le movenze rivelavano una calma dolcezza. Mostrò d’impietosirsi al racconto delle nostre sciagure e con poche e gravi parole promise al babbo di aiutarlo a rifarsi uno stato. Fu inteso che saremmo rimasti ad Issogne finchè non giungesse risposta alle diverse lettere che ella si proponeva di scrivere quel giorno medesimo a’ suoi parenti ed amici valligiani. —Vedrete, caro maestro, che la vostra inesauribile miniera è nell’ingegno vostro... e nel violino del mio piccolo Giulio—aggiunse dopo un momento, carezzandomi famigliarmente la guancia, come se allora soltanto avesse avvertita la mia presenza. Quella carezza, quel _mio_ e quel _Giulio_ mi avrebbero insieme avvilito nella mia dignità virile e fatto squagliare per la voluttà, se nella contessa avessi ravvisato alcunchè della terribile donna che ero venuto vagheggiando e temendo lungo la strada; ma svanito l’errore intorno la caldezza del suo sguardo, si era d’un tratto composto il turbamento di tutto l’essere mio e fatta meno ombrosa e battagliera la mia pubertà; tanto che, quando quella sera stessa e i giorni seguenti mi avvidi di essere tenuto in conto di fanciullo, come due anni addietro, non solo non me n’ebbi per male ma mi abbandonai con una sorta di tenerezza scorata alla ripresa delle antiche famigliarità e delle antiche lusinghe. Tuttavia la sera, rientrato nella mia cameretta ed aspirandovi il profumo di che i miei abiti s’erano impregnati nelle stanze ed al contatto della contessa, rivedevo ne’ suoi occhi con tormentosa evidenza quello sguardo pieno d’amore e mi sentivo salire al viso una vampa che m’acciecava. Ma erano raffiche passeggiere; l’immagine reale dissipava ben presto la fantastica e questa non lasciava traccia. La mattina verso le dieci, veniva in persona a levarmi dallo studio cui attendevo col babbo e non mi lasciava più fino a tarda notte, mostrandomi sempre una premura materna così sollecita e carezzevole, così continuamente uguale da non lasciar luogo a sospetti intorno alla tranquillità dell’animo suo. Dopo cena, ridottosi il conte nel suo quarto, d’onde non sbucava che all’ora dei pasti, e mio padre in libreria a comporre o a copiare partiture, essa mi chiamava seco nella sua grande e profonda camera da letto, e là, lunga distesa sul canapè, stava ad ascoltare le lamentazioni singhiozzanti ed il chiacchierìo trillato del mio mandolino, cogli occhi chiusi, immobile, come se dormisse. La ventola della lampada, gettando intorno una penombra nella quale andava smarrita la forma reale di tutte le cose, faceva sorgere dalle tende, dai cortinaggi dell’alcova, dalle stoffe abbandonate qua e là sui mobili, dalla persona stessa della mia ascoltatrice, contorni mobilissimi che secondavano l’errore della mia mente già eccitata dalla dolcezza delle melodie e dal ripercuotersi che facevano nel mio petto le vibrazioni dello strumento. E allora, benchè non prestassi alla musica scritta che un’attenzione prettamente macchinale, all’agitazione repentina che m’assaliva ed a certe note, che, uscite quasi inconsciamente sotto le scosse della mia _penna_, mi tornavano all’orecchio eloquenti come parole, sentivo correre una misteriosa corrispondenza fra i suoni suscitati dalla mia mano e le forme create dalla mia mente, ed affinarsi e centuplicarsi il mio valore artistico, fino ad esprimere con maravigliosa evidenza i desiderii di voluttà che mi torturavano. Ma appena mi studiavo di fissare intensamente nell’ombra la contessa per sorprendere in lei alcun segno di interne commozioni, la sua immobilità quasi sonnolenta fiaccava d’un tratto l’impeto delle mie voglie, lasciandomi affranto come per lunga fatica; e se a volte, soffocato dal fiotto di sangue che mi tempestava le tempia, smettevo un istante di suonare, usciva da quell’ombra istessa una parola:—Avanti,—detta con voce così ferma e cristallina, così calma ed innocente, che mi mostravano non essere in chi la profferiva nè impazienze, nè rapimenti, ma bensì una contentezza molle e riposata. Oh quella non era donna da provocare e sostenere le precoci incontinenze di un adolescente. I tumulti dell’anima mia provenivano da me solo, da una immagine di donna eretta dentro di me, dissimile dalla contessa in tutto ciò che poteva sollevarli, somiglianti a lei in tutto ciò che poteva quetarli, perciò, mentre la visione signoreggiante i miei solitari accendimenti, attingeva realtà dalle sue fattezze, la sua presenza mi sedava i sensi, e diffondeva nell’animo mio una tenerezza infantile. Tale duplice influsso si esercitava man mano più sensibile. Ogni sera, dopo il tempo dato alla musica, essa soleva licenziarmi con due baci schietti sulle guancie, che nel momento di riceverli, mi facevano sovvenire di quelli che a casa ogni sera scambiavo colla mamma, ma giunto nella mia stanza, ma spento il lume, ma assalito e vinto malgrado i proponimenti di resistenza, dalle solite allucinazioni, sentivo quei baci bruciarmi senza tregua le gote come se le labbra della contessa si fossero infitte durevolmente nelle mie carni. Tuttavia, rifattomi padrone della mia volontà, perchè mi vergognavo di tali erramenti, o allentata per la consuetudine la tensione dei sensi, l’ottava sera attesi con più calma alle mie sonate e delle due donne che mi apparivano così diverse nella contessa non vidi più che la vera. Come infatti immaginarla altrimenti che calma e posata, dacchè tale la vedevo ormai da otto giorni ad ogni ora del giorno? Ogni suo atto, che non fosse di premurosa bontà, verso il babbo o verso di me, tradiva una indolente e gaia rinunzia ai piaceri del mondo; perfino il sole o la pioggia, che sono tanta parte della vita oziosa fra i monti, e dai quali si tingono inesorabilmente tutti i nostri pensieri, la lasciavano affatto indifferente, come se nulla di quanto è fuori di noi potesse mordere sul levigato e freddo cristallo del suo cuore. Giudicate dunque della mia sorpresa, quando una sera, la decima forse o la dodicesima dal nostro arrivo, come fui seco nella sua stanza, invece di allungarsi sul solito canapè, la vidi passeggiare, tenere una dopo l’altra tutte le sedie, tentare diverse letture e smetterle d’un colpo, avvicinarsi alla finestra e rimanervi gran tempo immobile, come per rinfrescarsi ai vetri la fronte. Io la guardavo stupito, e lasciavo di sonare per seguitarne gli atti ed i moti, ed essa, così sollecita le altre sere a farmi riprendere, se mai l’interrompevo, il filo delle note, o non avvertiva il mio silenzio, o mostrava di non curarlo. Che pena mi dava la sua irrequietezza! Un dolore sordo s’impadroniva delle ultime e più recondite facoltà dell’anima mia; provavo un senso di ansietà inesprimibile, una sorta di sbigottimento come se presagissi per la bellissima donna un seguito di sventure senza fine; ma insieme si svegliava e cresceva dentro di me una non so quale baldanza che mi annunziava prossimo il trionfo delle mie memorie e vendicavo le incertezze dei giorni trascorsi. Per meglio vederci e seguire i moti del viso, avevo, con insolito ardimento, levato la ventola della lampada, ed essa non aveva pure mostrato di avvedersene. Sulla fronte e negli occhi le passavano improvvisi corrugamenti e rasserenamenti improvvisi. E sempre tornava alla finestra con una curiosità ansiosa, guardando la notte placida nella gran valle dormiente. A un punto aprì gli sportelli. Il suono grave della Dora entrò nella stanza recandovi una freschezza umida e l’aroma dei boschi resinosi. Non un fiato di vento, non una tenda smossa, non piegata neppure la fiamma della lampada. Essa mi chiamò seco e mi domandò:—Vuol piovere, è vero?—Nella stretta strombatura il mio braccio sfiorava il suo e vi sentivo correre dei piccoli brividi come se il freddo la penetrasse, e ad ora ad ora un rabbrivido più violento, che veniva, quello, veniva diritto dal cuore. Dovevano pure essere basse e nere le nuvole, dacchè non si vedeva nè il cielo, nè le montagne, nè la valle, nè in questa la bianchezza luccicante del fiume. C’era nell’aria come un tanfo di chiuso dove stagnavano i forti olezzi della verdura. Essa protendeva la testa come per tuffarsi nella notte spalancata d’intorno, come per avvicinarsi alle cose invisibili e cogliere il menomo suono prima che venisse smarrito nelle tenebre. Ed io che indovinavo più che non vedessi la fissità del suo sguardo, acuivo il mio e quasi trattenevo il respiro, preso da un’ardente smania di secondarla, come se quell’ignoto avvenimento che essa attendeva con tanta ansietà dovesse colmarmi di una gioia infinita. Come la vidi mutata quando rientrò per un istante nella stanza! Aveva gli occhi asciutti, ardenti, oppressi da una stanchezza dolorosa. L’aria fredda della notte l’aveva fatta smorta e la pelle delle guancie raccapriccita improvvisava sul suo viso una magrezza come di fresca malattia. Tolse dall’armadio una mantiglia di pizzo bianco, un soffio di pizzo, così sottile che non avrebbe velato uno specchio; con una sola mossa della mano se la gittò sulle spalle e ne ebbe tutta ravvolta la persona, poi tornò alla finestra. Sulle foglie grasse dell’orto sottostante picchiolavano allora le prime goccie di piova, il fascio di luce che usciva dalla finestra appariva rigato da rade fila d’argento, dalla gola di Challant aperta dirimpetto al castello, scendeva ingrossandosi un rombo sordo e fra i pioppi in riva al fiume susurrava il vento. Poi il rovescio scrosciò improvviso e rovinoso martellando gli stecconi delle pergole ed i tetti delle case e muggendo per l’aria e sulla terra come un torrente infuriato. E il castello parve subitamente animarsi di una vita agitata e disordinata, come invaso da una folla furente. Chiusi la finestra; a quell’atto la contessa, come se allora soltanto avvertisse la mia presenza, trasalì sgomentata, ma senza che lo sgomento nulla scemasse della strana gioia che le sfavillava negli occhi. —Sei tu, piccino? Sei qui ancora? Vattene, vattene, è tardi, non senti che tempo? Vattene piccino, vattene, è tardi. Parlava dolce, sorridendo e ripetendo le stesse parole in cadenza indolente di ritornello, la mente e gli occhi smarriti in qualche visione lontana ed imminente; e già s’era scordata di me e ancora ripeteva:—Vattene, vattene.—A me pareva che un peso immenso mi saldasse alla terra. L’uragano crebbe, il castello risonò più forte di clamori e di fremiti, ed essa mi si piantò di contro imperiosa e mi comandò:—Va via. Uscii senza lume, e già famigliare della casa, m’indirizzai sicuro alla mia stanza. Chi era levato a quell’ora nel castello? Chi vi camminava? Chi saliva le scale? Tutti gli usci e le finestre erano ben chiusi, solendo il conte ogni sera prima di andare a letto fare il giro della casa in compagnia di due domestici ed assicurarsene paurosamente; eppure correvano per ogni piano e salivano da un piano all’altro rumori secchi e mormorii misteriosi; i soffitti traballavano come sotto il peso di passi e gli usci martellavano a rapidi colpi contro gli stipiti come se alcuno li tentasse. Negli intervalli di calma il vento cigolava negli spiragli delle bussole e alitando terra terra sugli impiantiti vi bisbigliava accenti sommessi e carezzevoli e andava a morire aggirandosi in piccoli turbini negli angoli. La bufera entrava nella casa come persona viva, o irrompente come un forte nemico, o cautelosa come un ladro. Certo se alcuno in quell’ora avesse veramente salite le scale e aperti gli usci e penetrate le stanze, nessuno dei famigli, nè il padrone, per vigilante che fosse, avrebbe sospettato della sua presenza, di tanti piccoli insidiosi rumori si componeva il fragore dell’uragano. Quest’idea mi venne mentre, traversando la sala degli arazzi, sentii rompersi, cadendo sulle tavole del pavimento, una goccia d’acqua, poi un’altra ed un’altra, quasi vi stillasse alcun panno inzuppato. Già entrandovi m’era parso di sentire un romore vivo, cessato di scatto, non al mio apparire poichè era buio fitto, ma al suono de’ miei passi. Ristetti un momento. Dovevo attraversare la sala per lunghezza ed uscire sulla scala dall’estremo opposto e benchè poco pauroso per indole, tuttavia quell’idea mi fece gelare il sangue; poi vinsi il ribrezzo e percorsi lo spazio nero camminando impettito e risoluto, ma provando sempre la raccapricciante sensazione di un corpo vivo, ritto nell’ombra e vicino. Come fui sulla scala, precipitai al piano disotto, e mi chiusi a chiave nella mia cella. L’indomani la contessa non si mostrò che all’ora del pranzo. A tavola, guardandola, mi maravigliavo di che il conte e mio padre non avvertissero il mutamento seguito nelle sue fattezze. Era trasfigurata; gli occhi illanguiditi le si volgevano nell’orbita con dolcissima e direi immateriale morbidezza, la pelle del viso sembrava più fresca e trasparente, colorirsi e vibrare, nutrita da un sangue più giovane e più sottile; le labbra sembravano fatte più carnose e più soave il suono della voce e più armoniose le parole. L’abbandono delle sue movenze, ond’era ammollita la nativa signoresca compostezza, certe fissità estatiche dello sguardo, certi subitanei sorrisi rammentatori e sopratutto, un non so quale trionfante orgoglio di felicità che la imbaldanziva mi raccontavano della notte passata quanto già ero venuto meco stesso immaginando. Essa amava e l’uomo del suo amore era stato da lei col favore della notte procellosa. D’onde era venuto? Dove s’era nascosto? Chi era? Perchè non appariva traccia di lui? Che non avrei fatto per vederlo in viso! Egli doveva esser bello e nobile come il sole! Non gli invidiavo la sua felicità e non ne ingelosivo, solo sentendomi fatto così interamente estraneo alla contessa, ne provavo un’amarezza infinita, un pungente desiderio di giovarle purchessia dal mio luogo umile, ignorato da lei, pure di essere in qualche modo compreso nell’orbita raggiante in cui si avvolgeva la sua vera vita. Come dovevano essere mortalmente dolci i suoi sguardi d’amore, se dopo tante ore, glie ne durava negli occhi tanta dolcezza! Verso la fine del pranzo entrò il maggiordomo ed avvertì il conte di una larga macchia di umido apparsa sul tavolato nella sala degli arazzi e proveniente certo da un grave guasto del tetto. —Del tetto?—osservò il conte.—Il vento piuttosto avrà aperto una finestra. —No, signor conte, le imposte sono tutte chiuse, la macchia è nel mezzo della sala e non c’è traccia di rigagnolo che la faccia derivare dalla finestra. —Ma, per scendere dal tetto, l’acqua dovrebbe trapassare due solai e lasciarvi la stessa macchia che osservaste sul tavolato. C’è traccia di quelle? —Non ho guardato, signor conte! —Somaro! Il domestico s’inchinò ed uscì. La contessa non aveva messo parola nè mostrato di ascoltare il discorso; ma io che la guardavo fiso, le vedevo irrigidirsi le righe della faccia. Il domestico tornò a riferire che il solaio non aveva traccia di umidità. —A che ora avete notato la macchia? —Stamane appena levato. Il signor conte sa che la sala degli arazzi la spazzo io. —Vuol dire che nessuno prima di voi era entrato là dentro. —Nessuno. Il viso del conte, di terreo che era per le lentiggini, s’infiammò di scatto e parve gonfio. Egli girò gli occhi intorno come per chiamarci in testimonio, poi li piantò crudelmente in quelli di sua moglie e disse con lentezza, quasi sillabando: —Siccome ieri sera la macchia non si vedeva, bisogna dire che qualcheduno stanotte sia entrato in quella sala,... l’anticamera degli appartamenti della signora contessa. La contessa sorrise sdegnosamente e si levò di tavola; il conte fu di un salto fra lei e l’uscio come per impedirle di uscire. Era imminente qualche violenza che prevedevo orribile. Senza esitare mi avvicinai al conte e gli dissi: —Sono stato io! —Tu? A che ora? —Tardi, dopo la mezzanotte. La signora contessa mi trattiene la sera a suonare il mandolino. —Lo so, ma uscendo dalle sue stanze..... —Non potevo stillare pioggia naturalmente, ma, nel più forte dell’uragano, alla signora contessa ed a me parve di udire un uscio sbattere al vento. La signora contessa voleva mandarmi ad avvertirne il signor conte. Preferii scendere io stesso ad accertare la cosa. Il vecchio mi scrutava immobile; io seguitai con intrepidezza: —Sotto l’atrio tutto era chiuso; allora traversai il cortile e l’orto fino all’uscio che mette all’androne dell’armi. —E quello? Come ho fatto ad indovinare l’insidia della domanda? Come ho fatto a misurarne con una rapidità fulminea tutta la portata? E a scegliere la risposta trionfante? Certo non indugiai di un minuto e rammento di aver pensato: Il conte gioisce sicuro di cogliermi in fallo. Egli aspetta da me la bugia verosimile; in quella è il tranello. L’uscio era normalmente chiuso, dunque... —Quello era aperto,—risposi. —Infatti!—mormorò involontariamente il vecchio. Seppi di poi che la sera innanzi il castaldo, nel voler dar due giri alla chiave, aveva rotto la serratura. Allora proseguii sicuro: —Ero risalito; la contessa m’aspettava nella sala degli arazzi, voleva farmi rientrare nelle sue stanze, avevo ricusato per non recarvi il rigagnolo che mi colava dagli abiti, avevo dato conto della mia ispezione stando ritto nel mezzo della sala: di qui la macchia. Una palmata carezzevole del conte premiò degnamente la trionfante menzogna. La contessa ruppe in una risata spasmodica invincibile e più il marito si adoperava a farsi perdonare il sospetto, più essa gli trillava sul viso l’oltraggio dei gorgheggi singhiozzanti che finirono per metterla in fuga, e dietrole il pover’uomo, preso anch’esso da quella irresistibile ilarità. Io rimasi, udii con un senso di pudibondo disgusto le risa salire su per la scala, finchè un uscio sbattuto con violenza mi disse che la contessa s’era chiusa nel suo quarto. Il conte respintone ridiscese. Lo stesso giorno il castello ebbe una visita: il cavaliere di Valesa, venuto a cavallo dalla sua terra di Montaldo presso Ivrea. Al primo vederlo, giovane sui ventotto anni, bello di viso, maschio ed asciutto di forme, elegantissimo, un secreto avvertimento mi disse: Eccolo. Ma sbagliavo: Il cavaliere, dimorato un pezzo a Parigi, era poco familiare colla nobiltà piemontese; la contessa lo conosceva appena; il conte dovette rammentarle fatti e circostanze per richiamarglielo alla memoria. Malgrado la presenza dell’ospite, mio padre ed io ebbimo l’onore di cenare coi padroni; io non ben persuaso, osservavo la contessa ridiventata oramai la marmorea donna dei giorni innanzi. Qualche volta gli occhi del cavaliere sembravano tradire occulte tenerezze e desiderii d’amore, ma essa ne sosteneva gli sguardi con verginale ignoranza. Dopo cena mi chiamò seco al solito nella sua camera, lasciando il cavaliere che doveva dormire in castello, col conte e con mio padre. Ed eccomi di nuovo al mandolino ed eccola di nuovo distesa sul canapè, gli occhi chiusi, attentissima. Io tremavo m’avesse a ringraziare della mia bugia locchè m’avrebbe messo in imbarazzo; ma non ne disse parola. Mi godevo l’orgoglio d’avere un secreto con lei, di sapermela tacitamente riconoscente. Ma, quando fui per andarmene: —Non hai tu sofferto?—mi disse. —Di che? —La notte passata, traversare il cortile con quel tempaccio! La guardai trasognato. Come poteva fingere a quel modo, con gli occhi tanto sinceri? Se veramente avessi compito l’impresa notturna, non m’avrebbe parlato altrimenti nè guardatomi con più limpidi occhi. Nel primo stupore pensai che ci avesse creduto ancor essa ma la favola implicava un suo intervento diretto e lo sapeva bene che avevo mentito. Ebbe il coraggio di aggiungere: —Un’altra volta, se anche te ne prego, non badare alle mie paure, ma non ti mettere a rischio di pigliarti un malanno. Uscii, il cuore grosso di rancore e in luogo di andare a letto, mi appostai nella stanza attigua, risoluto di smascherare questa volta la sua incredibile falsità. La notte passò tranquillissima; il cavaliere di Valesa partì sul fare dell’alba, insalutato ospite, e ricominciò, per non turbarsi più, la calma disperante dei primi giorni. Stemmo ad Issogne un’altra settimana, poi cominciò un giro di lezioni e concerti che non ci permise pure una visita alla mamma, sempre dietro a quel poco guadagno, che fu poco davvero e l’autunno ne inaridì la sorgente. Quando tornammo in Ollmont la mamma mi parve invecchiata di dieci anni. Era stata malaticcia tutto l’estate e più curante di non farcelo sapere che di guarirne. Dalla faccia stravolta del babbo, capii la gravità del male, dalla sua imprevidenza spendereccia l’imminenza del pericolo. Seguirono i giorni più tristi e più soavi della mia vita e li ripenserei quasi con dolcezza se l’agonia della poveretta non fosse durata oltre il nostro timore ed oltre, ahimè, le nostre risorse. Con queste mancò a mio padre la forza di simularsi allegro, e la morte trovò una casa e degli animi degni di lei. A segno che venne due volte in un mese. Mia madre morì la vigilia di Natale, mio padre il 18 gennaio. Eravamo scesi insieme in Aosta per suonare ad un ballo: appena terminata la festa alle sei della mattina c’eravamo incamminati a piedi verso Ollomont; a Porossan il babbo cominciò a battere la febbre, ma si trascinò fino a casa, dove morì l’indomani di polmonite. Come vissi quell’inverno non lo so dire; certo di carità, poichè mia madre e mio padre ebbero la sepoltura dei poveri; ma se dovessi nominare i miei benefattori non lo potrei, tanto quei primi mesi fui sbalordito dal colpo. Colla primavera mi tornò l’uso della mente e la voglia di vivere, ma i miei paesi mi serravano il cuore; provavo la nostalgia delle terre luminose e calde dove era nato mio padre e che io non avevo visto mai. D’altronde avevo aperta una sola via di guadagno, la musica, e per questa bisognava uscire dalla valle d’Aosta. Pensai di richiedere protezione alla contessa di Challant e sul principio di maggio me ne partii pedestre alla volta di Torino. Entrai in città con un temporale che mi accompagnava senza pioggia da due ore; lo scroscio mi colse nella via della Doragrossa; in un minuto ebbi i rigagnoli alla pelle e nel mezzo della via l’acqua spumeggiò a mulinelli come un torrente. Riparai sotto un portone affollato di popolo; la gente rideva di un povero cocchiere che accecato, fradicio, e appesantito dalla piova, dal cassetto di un carrozzone sudava a frenare due cavalli imbizzarriti, mentre dall’altra parte della via sulla soglia di una bottega di mercante, una donna superbamente vestita, badava a fargli cenno che traversasse per accostarsele; ma le bestie, spaventate dalla zanella gonfia, s’inalberavano e rinculavano. E la gente a ridere, e la dama a crucciarsi quasi disposta al guado, se non che il mercante con grandi premure ne la tratteneva. Pensate se giubilai riconoscendo la contessa di Challant. Mi slancio nel diluvio, la raggiungo la prendo in braccio, la depongo in carrozza, e vi salgo seco. —Presto, gridò la contessa al cocchiere. Io tacevo ansimante, ancora maravigliato del mio ardimento. Dopo alcuni minuti essa riavutasi, trasse la borsa e senza guardarmi, mi porse uno zecchino d’oro. —Non mi riconosce? —Chi siete? —Giulio, il figlio del musicante. —Tu? La carrozza si fermò improvvisamente e già la contessa aveva aperto lo sportello ed era scivolata in terra. —Aspettami.—Infilò una porticina e sparì nell’andito. Era spiovuto; una casa gialla dirimpetto luccicava al sole fino allo zoccolo; i cavalli tranquillati scodinzolavano. Era passata una compagnia di soldati colla musica; la marcia risonata un pezzo affievolendosi laggiù lontano s’era taciuta da un pezzo, e via carrozze e portantine quante non ne apparivano in un anno in valle d’Aosta, e gente affaccendata, e signori a diporto. La casa gialla era già ombrosa fino al primo piano, i cavalli insonniti alternavano l’appoggio da una gamba all’altra; una seconda compagnia colla musica era venuta appressandosi di là donde s’era dileguata la prima, e già tacevano le ultime ondate dei suoni.—Dov’è la contessa? Se questa fosse la sua casa mi ci avrebbe fatto salire. Perchè tanta impazienza di venirci? Io glieli conoscevo quegli occhi che mi aveva mostrato or ora; essi mi ricordavano un’altra bufera fra i monti, echeggiata dalle cime alte, la notte, nel castello d’Issogne enorme ed oscuro. Ed ecco sopita la coscienza de’ miei dolori e della miseria e rieccomi smarrito un’altra volta dietro gli sguardi d’amore della contessa. La quale giunse alfine, col viso raggiante e appena risalita in carrozza mi prese la testa fra le mani con tenerezza giuliva e mi diede due baci sulle guancie. —A noi, piccino, tu sei di buon augurio. Ignorava le mie disgrazie, ne pianse, mi rincorò, mi promise di farmi uno stato; il domani andava a Corte al castello di Stupinigi, dove avrebbe parlato dei fatti miei col Re in persona. Vi andò infatti di buon’ora, lasciandomi ospite nel suo palazzo. Verso le undici della mattina ecco arrivare una carrozza con un biglietto per me. Il biglietto diceva: _Vieni subito_. Quella sera c’era ballo a Corte; ammalatosi il primo violino, la contessa mi aveva proposto surrogante vantandomi per eccellentissimo; bisognava far le prove e improvvisarsi un vestimento. Dalle prove uscii trionfante; a vestirmi pensarono la mia protettrice e le sue cameriere sicchè all’ora del ballo ero lindo, attillato, imparruccato e galante come un signore. Quando entrai nella sala, fui per smarrirmi per la maraviglia. Quella luce, quella bianchezza raggiante, quei dipinti, la stupenda armonia degli archi e delle volte intrecciate e reggentisi l’una sull’altra, l’altezza che sapeva di tempio, gli ori, gli specchi, le lumiere, le statue, i fiori, tutto ciò mi dava una sorta di sgomento, una vertigine, mi rapiva a me stesso, mi toglieva la coscienza della realtà e la padronanza dei sensi. Rammento che accordando il violino, me ne sentii così fortemente echeggiate nel petto le note da averne tronco il respiro. Tremavo di non poter leggere la musica nè governare la mano. E ancora la sala era vuota. Che sarebbe stato di me quando fossero entrate le dame e la folla dei cortigiani e il Re e la Regina, mio sogno e mio terrore, e sopratutto la contessa colle braccia e le spalle ignude, quale mi s’era mostrata poc’anzi, nel vano di una porta, accomiatandomi e incoraggiandomi al grande cimento? Sentivo muggirmi nel cervello un vento di tempesta, e a chiudere gli occhi mi prendeva il capogiro. Perchè ero lì? Che ci facevo? Mi balenavano alla mente sprazzi di ricordi infantili dimenticati da anni, lasciandomi nell’anima uno strascico di armonie dolci, una purezza chiara e non so quale tristezza che sembrava rimorso. Dal mio posto vedevo tutto lo spazio destinato alle danze. Gli altri palchi che come il nostro, incorniciavano la sala fra le colonne a mezza altezza, erano già pieni di una folla ricca e grave, venuta senza che io l’avvertissi silenziosamente. Tutte le porte in basso, fuori di una sola, si spalancarono insieme e irruppe nel gran vano il popolo delle dame e dei cavalieri che si allineò silente in cerchio fissando, già pronto l’inchino, la porta chiusa. Il maestro levò la bacchetta. Puntai i piedi a terra, come in carrozza quando i cavalli infuriano per le chine... La sonata finita; ero ancora lì, non mi avevano scacciato, anzi il maestro mi aveva detto contento:—Che arcata, piccino mio!—La Corte era dunque entrata, mi erano dunque bastate le forze e la mente, potevo dunque oramai riposare sicuro. Ecco la contessa. Com’era bella! Non era il Re quel vecchio che le parlava sorridendo? Eppure i suoi occhi erravano intorno inquieti frugando la folla. Poi il viso le splendette di gioia. Mi riprendevano le smaniose curiosità provate ad Issogne. Oh questa volta, se avessi potuto seguire il suo sguardo, l’avrei scoperto l’uomo del suo cuore; egli era là certo, perduto nella folla varia e festante; ma già sentivo che la superba donna si sarebbe alfine tradita; troppo, troppo gli ardevano gli occhi d’amore. Il Re si volse a parlare con un’altra donna. Ora la contessa discorreva col cavaliere di Valesa; lo riconobbi e mi rinacquero i primi sospetti; ma ridevano insieme sinceramente senz’ombra di turbamento e fu il cavaliere a chiamarle attorno altri signori belli, giovani, gioviali, sfarzosi al pari di lui, ed era un giuoco allegro di motti, di cenni, di sguardi e di risate. Poi cominciarono le danze. La contessa pareva tutta data al corretto governo della sua persona. Mi sfuggiva, mi sfuggiva un’altra volta, già il viso le si era ricomposto, già aveva ripreso il dominio sicuro di sè; eppure il cuore mi diceva: saprai, saprai, lo proverai l’amaro trionfo della certezza, la vedrai rapita e morente squagliarsi per la voluttà e avrai cercato e provocato il tuo martirio e forse la tua rovina. Questa parola: _rovina_, mi echeggiava ancora nell’anima quando già m’ero rimesso a suonare e aveva finito per sposarsi da sè a certe cadenze musicali che, ricantandomela a sazietà, l’avevano quasi privata di senso. Ma perchè la sentii risonare più forte e minacciosa quando il maestro ci diede l’_attenti_ per il secondo minuetto? Eppure nulla di notevole era seguito nella sala; la contessa mi aveva guardato due o tre volte salutandomi cogli occhi, era sempre attorniata da un nuvolo di cicisbei, rideva e discorreva animatamente. Ricordo benissimo: era il minuetto di Boccherini, lo conoscevo a menadito, perchè dunque quello sgomento? Nel mormorio confuso che saliva dalla sala era impossibile distinguere una sola parola, eppure, _sapevo_, come se avessi inteso il loro discorso, _sapevo_ che la contessa avrebbe ballato quel minuetto col cavaliere di Valesa. Quando vidi lui inchinarla e porgerle la mano mi dissi: Ci sei questa volta! e la parola _rovina_ tornò a ronzarmi negli orecchi. —Non importa, ci sei, ci sei, ci sei! Stringevo l’arco con mano rabbiosa, come se dovessi con quello far segno al loro destino che li tradisse. Non so come nè perchè, mi pareva che in quel minuetto dovessi entrarci ancor io a fare il terzo fra di loro; mi dicevo: _a me!_ come se mi accingessi ad agire e intanto la coppia aveva preso il mezzo della sala e i primi accordi bisbigliavano pianissimo. Che c’era mai sulle corde del mio violino? Di che pece le avevo confricate? Forse le scintille che rendevano al tocco dell’arco non erano visibili alla gente ma io le sentivo avventarsi in me e saettarmi. I primi inchini furono lenti e strisciati come la musica, ma già i due si godevano l’isolamento della danza e si promettevano scambievoli delizie di sguardi e movenze, e a me tornava il sottile affinamento delle facoltà artistiche già provato nelle morbose sere d’Issogne. Durante la prima parte, quando i violini singhiozzano acuti e sembrano supplicare con grande umiltà alcuna grazia lungamente sospirata, la contessa parve irrigidirsi contro la lusinga dei sensi e delle note e trionfarne interamente durante la festosità chiacchierina della seconda. Ma fu breve vittoria; alla ripresa, la vidi concedersi per vinta. Allora mi salì alle tempia un soffio di follìa, e senza volerlo e senza che altri me lo impedisse mi trovai ritto in piedi. Non tremavo più, non dubitavo più di me stesso! Guardavo intorno esultante d’orgoglio, cosciente di toccare le più alte cime dell’arte, misurando con lucidezza tranquilla la tirannia che esercitavo inesorabilmente su quel popolo di re, principi, cortigiani e su quella donna mia salvezza e mio tormento. L’orchestra s’era tutta taciuta per la maraviglia del mio sonare, il maestro mi guardava dubitoso di miracolo e le note guizzavano, sgorgavano, rompevano dal mio violino, con voci umane di preghiera e di lamento, con grida umane di gioia, con bassi accenti umani di rimprovero e acuti di angoscia, esprimendo, compendiando, commentando le precoci torture della mia adolescenza, le mie caldezze d’amore e le ironie, e il trionfo della insperata vittoria. Oh non era più una danza quella! Tutti sentivano come io governassi ogni moto della coppia amante, come il mio arco reggesse le fila dei loro destini e come incrudelissi ad affinare loro la delizia di quel momento fino a volgerla in spasimo insostenibile. Dov’era la sapiente simulatrice d’Issogne? Ora, ora bisognava ricomporsi e mentire; rammentavo le sue pose immobili sul canapè, le sue arie innocenti e la storiella della macchia e la mercede che me n’era toccata; e ogni nuova imagine cresceva mollezza e lascivia ai miei suoni. Non era più una danza quella; i passi ed i moti erano voci e parole dichiaranti i più gelosi secreti dell’anima. Non erano riverenze, nè ondeggiamenti della persona non passi corretti di scuola, nè figure predisposte ad arte, ma non so quali genuflessioni adoranti e rovesciamenti come di giunco assalito dalla bufera e procaci profferte e dinieghi cupidi ed abbandoni d’amore. Nella sala stagnava il silenzio ansioso di un’imminente catastrofe. La pazzia che mi era salita alle tempia, soffiava anche su di _loro_ e li travolgeva, la musica dettava e rinnovava angoscie e rapimenti pure seguendo fedelissima le note scritte; il minuetto digradava in ridda, pure serbando la struttura della danza aulica, ma gli amanti, smarriti, incoscienti del luogo e della folla, attingendo scambievolmente uno dall’altro per gli occhi la vita che fuggiva, estatici, deliranti, impallidivano visibilmente come oppressi da una stanchezza mortale. A una nota strappata aspramente dalla quarta corda del mio violino, la contessa traballò come colta da vertigine e cadde inerte nelle braccia del cavaliere, ed io, toccato il parossismo della follia, scaraventai in aria il violino che piombò spezzandosi nel mezzo della sala e irruppi per fuggire fra i miei compagni che mi trattennero. Stetti per pazzo alcuni giorni all’infermeria. Guarito e rinsavito, quella scappata mi fruttò un posto stabile di primo violino nella Cappella Regia di Sua Maestà il Re di Sardegna. IL RE VITTORIO EMANUELE IN VALLE D’AOSTA Il Re Vittorio Emanuele piantava le tende per la caccia a pochi passi dalle ghiacciaie del Gran Paradiso. A Valsavaranche ed a Noaschetta l’accampamento sorgeva sovra un altissimo ripiano erboso oltre la regione degli alberi e dei cespugli; a Cogne era in mezzo alla valle in un luogo delizioso chiamato Vallontéj, un prato ingombro qua a là di enormi massi grigi rovinati dalle vette e fiancheggiato da una fitta foresta di abeti. Quando il Re dalla piana saliva al campo, tutta la valle era sulla strada maestra; la notizia della sua venuta si spandeva da per tutto come il rimbombo di una cannonata. Nei luoghi fissati per lo scambio dei cavalli, i pubblici ufficiali davano l’annua lustrata al cappello a staio e le famiglie borghesi levavano dall’armadio la bandiera del 48. Il Re chiamava per nome i sindaci, gli osti, gli stallieri, le guide ed i cacciatori, conosceva gesta e miracoli dei maggiori alpinisti, stringeva la mano al maestro, batteva la mano sulla spalla del mulattiere, dava uno scudo al mendicante storpiato da uno scoppio di mina. Lo scambio dei cavalli seguiva in dieci minuti, perchè il Re amava di non perdere tempo ed era impaziente di giungere ai luoghi freschi. A mano a mano che saliva, le conoscenze si facevano più frequenti e famigliari; a Cogne ed a Valsavaranche non c’era un viso nuovo per lui, egli era al fatto di tutte le minute vicende domestiche di questo e di quello, sapeva della lite fra Pietro ed Ambrogio, della vacca che Anselmo aveva perduto in un burrone un giorno di nebbia e del figliolo che Rosa aveva fatto a Tonio, il quale, briccone, stava ora _sui lavori_ in Francia, senza pensiero della poveretta. I contadini gli si facevano incontro semplicemente sorridendo e attaccavano discorso essi col voi, egli col tu, come vecchi amici. *** La Domenica, in val di Cogne, egli scendeva dal campo al villaggio per sentirvi la messa cantata nella chiesa parrocchiale. In quella circostanza amava di fare una piccola mostra di sovranità, per rendere il dovuto omaggio ad un Sovrano maggiore di lui: a Domine Iddio nel quale egli credeva. Poneva due carabinieri in gran tenuta, la spada sguainata ritta lungo il braccio rigido, ai due lati dell’altare ed egli stava sul limitare della chiesa, in piedi nel mezzo della porta spalancata, posato fieramente, una mano sullo schienale di una piccola scranna di legno che a volte in distrazione faceva girellare e l’altra nella tasca dei larghi calzoni di frustagno. Finita la messa, portava egli stesso la scranna in piazza, all’ombra e sedutovi cominciava la rassegna di tutto il villaggio che gli si affollava intorno. Discorreva in piemontese intercalandovi qualche sapida parola del gergo valdostano; e i sigari fioccavano in tal quantità che non pareva ne potessero tanti capire le sue saccoccie ed era chiaro che aveva pensato a provvedersene prima di lasciare il campo. Le ragazze più vistose avevano tutte un nomignolo di sua invenzione corrispondente o a qualità fisiche o ad accidenti biografici. E a questa lanciava un’arguzia, a quella un nome che lo chiariva al fatto dei di lei piccanti secreti, a quest’altra pizzicava le gote, e _honni soit qui mal y pense_. La risposta valeva la botta; poichè l’arguzia contadinesca non scompariva dirimpetto al frizzo regale, ma scoppiettava sincera ed allegra fra un coro di risate, senza che ne scapitasse la riverenza dovuta al Sovrano. Il Re scordava la sovranità ed i villani la sudditanza, egli scendeva dal trono senza derogare, essi, per non farlo scendere del tutto, mettevano un piede sul primo scalino, ma senz’ombra di arroganza. L’alpigiano possiede l’istinto della misura e non la soverchia mai, nè il Re Vittorio Emanuele era uomo da tollerare gli si mancasse di rispetto. Bensì sapeva proporzionare gli atti e le parole alla condizione delle persone ed attribuire ad ogni atto o parola altrui il suo giusto valore. Così, se mai, mentr’egli teneva il circolo piazzaiuolo, qualche villano più timoroso cercava di sgattaiolarsela non visto, egli lo chiamava per nome e lo riprendeva scherzosamente di che non lo venisse a salutare; ma una Domenica che una famiglia codina di nobili torinesi, alloggiata per villeggiarvi all’albergo di Cogne, uscì di chiesa mentre egli stava in piazza e non perdonandogli la reggia del Quirinale, passò fra la gente fingendo di non avvertire la sua presenza, egli che bene li conosceva, disse ad alta voce: «Chi sono quei villani che non salutano il Re?» E poi, contento della lezione, riprese la celia. *** Tutti sanno quale famoso cacciatore egli fosse e come non fallisse mai il suo colpo; quelli che lo avvicinarono, lo narrano gelosissimo della riputazione di buon tiratore e intollerante dell’altrui mediocrità. Se uno dei suoi sbagliava la mira, erano serî rabbuffi in principio e lunghe canzonature di poi, e se ne coglieva troppe o troppo bene, trapelava dalle sue parole una punta di gelosia che durava finchè con un colpo maestro non avesse assodata di bel nuovo la propria superiorità. Ciò avveniva colle persone del seguito, le quali d’altronde erano ben di rado ammesse all’onore di partecipare alla caccia, e rarissime volte poste a tiro dello stambecco. Lo stambecco era riserbato, per lo più, agli ospiti di riguardo e solo quando le condizioni della caccia erano tali da non correr rischio di perdere la preda. La quale andava in gran parte regalata qua e là, dove il Re sapeva di ufficiali superiori o di magistrati o di uomini politici alloggiati negli alberghi vicini. Chi la riceveva si affrettava a farla imbandire sulla mensa comune, con gran giubilo dei _touristes_ inglesi i quali notavano sul taccuino delle memorie la data del giorno e la provenienza della vivanda, e non mancavano mai di proporre, in fin di tavola, il _toast_ al coronato cacciatore. *** Il sussiego e l’etichetta non salirono mai oltre i mille metri sul livello del mare: il Re, accampato sopra i duemila, amava di vivervi da gran signore ospitale e magnifico, ma accostevole ed alla mano. Io non ebbi mai l’onore di parlare con lui, ma intesi raccontare fatterelli caratteristici, che tutti lo dipingono ad un modo. Un anno, fu nel 73 se non erro, l’anno che lo Scià di Persia venne in Italia, uno studente dell’Università di Torino, mezzo artista, era salito a Cogne e vi dimorava per certi suoi studi scientifici che alternava con ricreazioni artistiche da pittore. S’era combinato che nella seconda metà d’agosto saremmo andati a raggiungerlo, suo padre, parecchi amici artisti ed io, per tentare con lui alcune escursioni sulle ghiacciaie del Gran Paradiso. Un giorno degli ultimi di luglio, egli andò per diporto fino all’accampamento del Re a Vallontéj, e poichè il Re era alla caccia e si sapeva non sarebbe tornato prima di sera, pregò il generale Bertolè-Viale che gli lasciasse visitare l’accampamento e farvi alcuni disegni che intendeva mandare e mandò intatti, al _Graphic_ di Londra. Il generale accondiscese, e, a disegni finiti, avendo mostrato desiderio di averne uno per memoria, gli fu dato a scegliere quello che più gli tornava. Passano cinque o sei giorni, quando una bella mattina sul fare dell’alba, il nostro studente è svegliato bruscamente da più colpi battuti contro la finestra della sua bassa camera d’albergo. Stanco per qualche gran camminata del giorno innanzi, egli urla un: _Chi va là?_ stizzito che voleva dire: _non mi seccate_; ma i colpi rimartellano tanto che egli corre in camicia ad aprire la finestra per dare il fatto suo al notturno disturbatore. Pensate come rimase trovandosi di fronte a Sua Maestà il Re d’Italia, il quale da cavallo aveva picchiato ai suoi vetri e rideva ora della sua attonita confusione. —Prima di tutto si vesta, che a queste arie gelate c’è da pigliarsi un malanno e poi si riaffacci che le voglio parlare. Come fu vestito e tornato alla finestra, il Re gli disse: —Senta, ho veduto il disegno che lei ha fatto per Bertolè, e vorrei averne uno che raffiguri tutto il mio campo. Io vado ora a Torino a ricevere lo Scià di Persia; starò al caldo cinque o sei giorni, poi tornerò, non più a Cogne ma a Valsavaranche. La prego dunque di farmi quel disegno e di portarmelo colà fra una settimana. Ho dato ordine che non smontino il campo finchè lei non vi sia salito. È inteso? L’altro a scusarsi di non saper fare cosa degna del Re e il Re a lodargli il disegno che aveva veduto; breve: si rimase che il lunedì venturo lo studente sarebbe andato ospite della Maestà Sua a Valsavaranche. Vi andò, valicando in dieci ore il colle del Lauzon, uno dei più alti dell’Alpi e giunse al campo che imbruniva. Era l’ora del pranzo; il Re lo accolse con quell’affabilità bonaria che bandisce il sussiego e pareggia i gradi; era il signor Savoia che riceveva in casa propria il signor X, e lo trattava come si conviene ad un ospite; lo volle vicino di tavola e gliene fece gli onori mettendo il discorso su argomenti che lo potessero interessare, interrogandolo famigliarmente, e famigliarmente rispondendo alle di lui domande, raccontando aneddoti piccanti o avventure di caccia, passandogli i piatti perchè vi tornasse e mescendogli un Barolo squisito, che il giovine disavvezzo alle Corti, aveva fin dai primi sorsi lodato calorosamente. Il Re amava di vantare la propria robustezza. Venuto il discorso sulle caccie in montagna, prese celiando a canzonare quei signori del suo seguito sempre impensieriti del freddo. —Guardi, sono quasi tutti più giovani di me ed eccoli imbottiti di maglie e flanelle come se fossimo a caccia di foche nei mari polari, mentre io, guardi, e si sbottonava, una camicia di tela e ce n’è d’avanzo. Era infatti d’una robustezza a tutta prova; dormiva per lo più sotto una tenda soldatesca in un lettuccio dove si coricava bello e vestito. La mattina alle 3, cioè sul primo albeggiare, quando da quelle alture si vede fuggire verso Francia il cielo nero scintillante di stelle, e salire dai gioghi nostrani il chiaro cielo diurno, egli si levava e usciva a passeggiare fumando in mezzo al silenzio del campo e a trarre l’oroscopo della giornata dall’aria nitida sulle ghiacciaie bianchissime, o dai brandelli delle nuvole lacerate alle vette. Poi quell’uomo vissuto per agire, stava gran tempo lo sigaro in bocca, seduto su di uno sgabello pieghevole a guardare intorno sorgere e spiccare agli albori crescenti i dorsi e incidersi i seni della montagna, e il primo raggio del sole fulminare le pareti cristalline e sfolgoreggiare di poi tutti i vasti piani delle ghiacciaie. Lo Studente fu avvertito che non avesse a parlare di partenza. Aveva portato con sè i colori, e la giornata gli passava a far studi dal vero. Il secondo giorno, venutigli a mancare i cartoncini, ebbe da un domestico per dipingervi, il coperchio di una scatola di sigari d’Avana, e discorrendone a tavola capitò a dire come tali tavolette si prestino mirabilmente agli studi ad olio. Ed ecco l’indomani sera giungere al campo il mulattiere delle provviste, con un carico di scatole da sigari d’ogni forma e d’ogni dimensione; il Re aveva egli stesso telegrafato a Torino perchè gli fossero spedite, e la cosa era seguita con una sollecitudine veramente regale. Dopo pranzo Vittorio Emanuele soleva passeggiare collo studente nei pressi del campo richiedendogli il nome dei più vistosi fiori, o discorrendo dei grandi fenomeni alpini. Il giovane, incoraggito, lo interrogava alla sua volta intorno a questo o a quel Sovrano o personaggio della storia contemporanea e ne traeva notizie curiosissime e ritratti compendiati in pochi tocchi sagaci e pieni di colore. Finito il passeggio, buona notte signori: ognuno entrava nella sua tenda fino al domani. Lo studente era al campo da otto giorni, ed il nono la comitiva che ho detto di sopra, doveva giungere a Cogne, dove ci s’era data la posta. La sera dell’ottavo giorno il giovane avvertì il generale Bertolè che l’indomani gli bisognava partire e rivalicare il colle del Lauzon. —Badi—gli disse il generale—che gli ospiti di Sua Maestà non se ne vanno se non quando sono congedati. —Ma mio padre e gli amici miei non sapendomi qui e non trovandomi a Cogne, staranno in pensiero di qualche disgrazia... —Manderemo un espresso. —Abbiamo combinato delle escursioni sul Gran Paradiso. —Ebbene, stasera parlerò io col Re; lei domattina s’alzi all’ora che vorrebbe partire, troverà il Re in piedi, e sentirà da lui quello che gli conviene di fare. La mattina, come Vittorio Emanuele lo vide sbucare dalla tenda, gli disse: —Dunque lei ne ha abbastanza della mia compagnia? —Oh! ma... —Lo so, lo so, vada pure, è giusto. Suo padre l’aspetta. Dica a suo padre che oggi andrò ad ammazzare lo stambecco e che glielo manderò domani. Ho dato ordine che le sia preparata una cavalcatura. E mi venga a trovare quest’altr’anno; capiti qui quando saprà che ci sono e mi farà piacere. Il cavallo era sellato e aspettava. Il Re aggiunse in tono grave: —Venga qui—e lo prese per le due mani—lei è giovane e ha voglia di studiare. Seguiti sa, perchè il mondo è di chi se lo piglia, specialmente ai giorni nostri. E gli tenne un gran discorso paterno, buono e fortificante; poi, dopo una pausa: —Glielo dirà, non è vero, a suo padre che le ho parlato così? In quest’aggiunta c’è intero Vittorio Emanuele. Quella sera a Cogne, l’amico nostro ci raccontava ogni particolare del suo soggiorno nel campo del Re e l’indomani un sergente di caccia ci portò il promesso stambecco che divorammo allegramente. L’avventura andò poi a finire così: Per ringraziare la Sua Maestà del grazioso dono, la nostra brigata si raccolse a consiglio e deliberò di mandare al campo un gran foglio, illustrato a modo di pergamena gotica, dove il Teja disegnò il ritratto di ognuno di noi, e io postillai ogni ritratto con due versi dichiarativi. Il Re ne fu contentissimo e ci mandò ad invitare tutti a pranzo per il giovedì venturo, tempo permettendolo. Ma dopo due giorni cadde una tale nevicata che il colle del Lauzon divenne impraticabile. Tuttavia tre dei nostri vi si avventurarono: lo studente, il Teja ed il Pittara, i quali giunsero a Valsavaranche più morti che vivi. Il Teja raccontò questa sua visita nel _Pasquino_ ed il Pittara ne ricavò un grande e bellissimo quadro che credo sia ora nel Castello Reale di Monza. TRADIZIONI E LEGGENDE IN VALLE D’AOSTA Si crede generalmente che le valli alpine, e più quella d’Aosta, siano un semenzaio di leggende e di tradizioni popolari. Ve ne sono invece pochissime e scolorite. Il luogo sarebbe adatto ma non la gente, cui la facoltà immaginativa è pressochè isterilita dalle troppe e troppo gravi fatiche. Oramai le più schiette leggende sono quelle falsificate per intero; dell’altre, le vere, nel loro passar di mente in mente svaporò in gran parte la sostanza e sbiadirono e si ritinsero i colori. Finchè duravano nel popolo, le variazioni erano poche, ma divenute materia letteraria e argomento di libri stampati, furono inzeppate, ingentilite, ammodernate, moralizzate e tirate a forme simmetriche. Dal popolo passarono ai libri; da questi per via dei soldati in congedo e degli operai migranti, tornarono irriconoscibili alle veglie popolari. E non vi tornarono sole: ai _Reali di Francia_, al _Guerrino il Meschino_, alla _Bella Maghelona_ e loro discendenti, s’accompagnano e succedono il _Saint-Clair delle Isole_ e il _Conte di Montecristo_. Anche gli ingegni popolari perdono idealità; amano ancora il maraviglioso, ma lo vogliono spiegabile. Al demonio va scemando credito ogni giorno, l’inferno si spopola, la scienza elementare sopprime i miracoli, le notti diventano sicure, i crepuscoli non hanno stregoni, le strade non hanno malandrini, i cimiteri non hanno fantasmi, le antiche rovine non mandano gemiti e fragore di catene. Qualche vecchia comare parla ancora di _Dame_ o _nere_ o _bianche_ o _grigie_ o _rosse_, apparse la notte sull’alto delle torri, ma non ne tremano che i bimbi assonnati. Le ragazze ed i giovani menano le vacche a pascolare nei castelli diroccati, scovano le nidiate fra le merlature, si baciano nei vani delle finestre, si calano per buche oscure nei grandi androni stillanti, si attardano la sera fra le rovine discrete sui cuscini di musco senza ombra di paura o di sospetto. I padroni di alcuni castelli disabitati od inabitabili dovettero rifarne la porta e sbarrarla e acciecare le finestre a pian terreno, perchè a notte chiusa proprio nell’ora degli spettri, saliva gente del paese a far man bassa su quel pochissimo durato in piedi, a rubare i colonnini delle finestre e i gradini della scala. Io interrogai più volte le guide, se mai i ghiacciai e gli altri luoghi mortali dell’alta montagna avessero generato storie fantastiche di genî amici o avversi all’uomo; ma durai fatica a farmi intendere e passai, credo, per insensato. Nemmeno trovai indizio di pronostici, tranne i soliti e sperimentali riguardanti il tempo e questi espressi sempre con saviezza dubitativa. Di credenze in forze o virtù soprannaturali, dalle divine in fuori, non traccia. Non già che quelle genti abbiano un’abitudine di esame, un senso critico o pratico più affinato che altri. A chi raccontasse loro con garbo qualche storiaccia inverosimile darebbero forse, o almeno non negherebbero fede. Richiesti: Ci credete? risponderebbero: è possibile! Non si sa mai! Dacchè lei lo dice! e via su quel tono; ma lo farebbero sopratutto per incuria, come per cosa che non li riguarda e che non torna il conto di considerare. In sostanza, il montanaro è poco immaginoso. Parlo, ben inteso, del popolo: di quelle classi sulle quali non può, o pochissimo, l’educazione e l’artifizio letterario; le sole presso le quali trovandocela, la leggenda sarebbe genuina e saporita. Tuttavia, nei tanti anni dacchè mi aggiro per le montagne qualche embrione di tradizione o di leggenda mi venne fatto di trovarla: leggende e tradizioni inedite, ben inteso, perchè delle altre ce n’è a migliaia, ma oramai neanche a raccoglierle dalla fonte popolare non si trovano sincere e per tondarle e mondarle occorrerebbe un lunghissimo studio comparativo. Una volta stavo a Fenis in Val d’Aosta per cercare e copiare le scritture murali del castello. L’oste del paese discorreva volentieri e mostrava di saperla lunga. Lo domandai degli antichi signori. Mi rispose con molta sicurezza che il Castello era appartenuto al duca di Borgogna. Rimasi. La Valle d’Aosta appartenne realmente al primo ed al secondo reame di Borgogna, ma fino dal secolo XI passò ai Conti di Savoja nè più mutò padrone. Fenis poi, era feudo dei signori di Challant; il castello fu edificato da un Aimone di Challant verso il 1350, nè più uscì della famiglia finchè questa non andò estinta sul principio del secolo corrente. Tutta la vita castellana del castello di Fenis appartenne dunque alla Casa di Challant, spenta la quale, il castello decadde in cascinale ed il padrone, di signore in semplice proprietario. Come mai la remota dominazione borgognona aveva potuto far scordare la recente signoria dei Challant, e la perdurante sovranità Sabauda? Ma l’oste non conosceva nè il primo nè il secondo regno Burgundo, nè il casato dei Challant, nè del Sabauda altro che il nome del Re felicemente regnante; solo del suo duca di Borgogna aveva piena certezza, come se lo avesse conosciuto; e poteva provarne l’esistenza e la signoria mediante una storia, autentica, della quale non era in paese chi dubitasse. Ecco la storia. Non molti anni addietro, sulla strada che sale a Fenis di qua dal ponte, c’era un vecchio uomo che faceva giorno e notte la guardia ad un grosso serpe. Il serpe non dava fastidio ad anima viva, stava tutto il giorno a crogiolarsi al sole sul muricciolo che fiancheggia la strada e la notte si rannicchiava per la petraia. Un giorno, scostatosi il vecchio per certi suoi bisogni, passò un forestiero il quale ebbe ribrezzo del serpe e lo uccise con una cannata. In quella tornò il guardiano e, veduto il serpe morto, si cacciò disperatamente le mani nei capelli, gridando: _Ah! malheureux, qu’avez vous fait? Vous avez tuée Marguerite de France_. Di quale Margherita di Francia intendesse parlare, che relazione corresse fra questa e il duca di Borgogna, come quella favola bastasse ad infeudare il castello alla casa Borgognona, l’oste non mi seppe dire. Mi rifece la storia del serpe tre o quattro volte, sempre colle stesse parole e tirandola sempre alle stesse conclusioni. Il castello era stato dominio del duca di Borgogna perchè il serpe era Margherita di Francia; il serpe era Margherita di Francia, perchè il castello apparteneva al duca di Borgogna: la cosa era evidente, ed io che non capivo o avevo le mie ragioni per mostrare di non capire, o ero corto di cervello. Le serpi hanno una gran parte nei favolosi racconti valdostani. Un contadino e consigliere comunale d’Issogne mi assicurava e lo avrebbe giurato, che i capelli delle donne morte messi nell’acqua si mutano in biscie. Ma la biscia non vi è considerata per l’animale immondo delle sacre scritture. Già la storia di Margherita di Francia, la mostra oggetto di cura e per poco non di venerazione. Un’altra leggenda la consacra quasi al rispetto delle genti. Un giorno ero salito al villaggio d’Ussel dirimpetto a Châtillon, e visitata la rocca, sonnecchiavo nell’ora calda, sulla riva del torrentello che fiancheggia il paese. Capita una tribù di formiche rosse e mi assale. Alla prima puntura mi levo stizzito e stropicciando i piedi reco fra di loro lo scompiglio e la morte. —_Ah! Monsieur! vous faites da mal aux bêtes du bon Dieu; il vous arrivera malheur!_ Chi parlava era un vecchio capitatomi dietro senza ch’io lo avvertissi. L’accento era così convinto, l’aspetto così venerabile e così grave la voce, che ne rimasi colpito. Mi scusai alla meglio ed egli allora, sedutomi vicino, cominciò a ragionare degli animali, che bisogna rispettarli, che sono creature di Dio, che noi non sappiamo quali spiriti si nascondano in essi. Fiutai un’altra Margherita di Francia e lo feci discorrere. Allora egli mi additò sulla montagna che sovrasta Châtillon, alcuni archi mezzo rovinati di un acquedotto romano. Di tali acquedotti, miracoli di ardimento, ne rimangono molti in val d’Aosta. Da Châtillon o meglio da Ussel ne appaiono due egualmente maravigliosi, i quali tengono i due versanti della Val Tournanche: uno cinge la costa del monte verso Aosta; l’altro piega verso Ivrea. Il primo menava le acque a Nus, il secondo al villaggio di Saint-Vincent. —Vedete,—mi disse il vecchio—quel ruscello là in alto? (Chiamava _ruisseaux_ gli _acquedotti_ ed accennava a quello che volge verso Nus). Quel ruscello doveva portare l’acqua di una fonte saluberrima a molti paesi della vallata. Occorsero a costruirlo molte opere costose e difficili: bisognò in parecchi luoghi forare il monte, in altri appoggiare muraglie a pareti liscie e precipitose di macigno. Più volte gli operai scoraggiti furono per abbandonare l’impresa, ma li sostenne e li rincorò lo zelo di un buono uomo di Nus, il quale li stimolava con parole, li allettava con regali e promesse, si metteva primo nei rischi, assicurava primo le travi dei ponti e vi si avventurava, portava i maggiori pesi, durava le maggiori fatiche, non dava pace a nessuno, tanto aveva a cuore il compimento dell’opera. Erano già superati i maggiori pericoli e non rimaneva che poco e facile lavoro, quando il brav’uomo rovinò da un ponte e morì. Come tutto fu lesto e la fonte fu immessa nel nuovo letto, gli operai che ne seguivano il corso videro una biscia nera e sottile precedere l’acqua come a mostrarle il cammino. Un ragazzaccio la uccise e tosto l’acqua che già scorreva allegramente tornò indietro nè ci fu verso di farla scendere mai più. In quella biscia era l’anima del brav’uomo, e Dio ne vendicava così l’uccisione. Di questa favola, non è difficile rintracciare l’origine. Così in valle d’Aosta, come in altri paesi del Piemonte, i villani credono (non so se a torto od a ragione) che le anguille aiutino a tenere sgombre le vie occulte delle sorgenti. Appena scavato il pozzo, se l’acqua non vi pullula in abbondanza, vi gettano dentro un gruppo di anguille e vogliono che l’effetto sia sicuro. Dall’anguilla al serpe, presso i villani, poco ci corre, e non è a stupire se una volta attribuito il potere di rintracciare le scaturigini sotterranee, qualche savio uomo cercò di proteggerne per via di favolosi racconti l’esistenza. Un’altra leggenda riguarda l’acquedotto di Saint-Vincent. Mi fu narrata dallo stesso vecchio e dice così: Una volta quelli di Saint-Vincent, difettando d’acqua, deliberarono di derivarne un ruscello da Val Tournanche e gli uomini del paese si posero all’opera volonterosi. Ma viste le gravi fatiche ed i pericoli, già stavano per desistere, quando le donne proposero di volgere in messe a pro delle anime loro, tutto il filato dell’inverno. E fila, e fila, gli uomini tutto il giorno alla muratura, le donne tutta la notte alla rocca ed al fuso; finchè fu compito il ruscello e il filo venduto fruttò un bel gruzzolo. Il quale fu dato a custodire ad un savio e pio uomo, dei maggiori del paese. Ma costui era un birbo mascherato da santo. Come l’acqua fu messa nel ruscello, egli corse all’osteria con grosso seguito di briaconi e di sgualdrine, e la matassa delle messe fu dipanata dal demonio. Trincando, lo sciagurato cantava: _L’eau s’en va et moi je bois. L’eau s’en va et moi je bois_. Tanto che l’acqua tornò indietro e il ruscello rimase asciutto per sempre. La favola è meschina ed immorale, ma io spendo la moneta che trovo. Il vecchio che mi raccontò la storia dei due acquedotti era un bellissimo tipo di leggenda. Vissuto in città, i pittori accademici lo avrebbero tirato a mille esemplari di santi e patriarchi; lassù faceva lo spaccalegna, mestiere caro a molti riputati stregoni e negromanti. Era alto, ben fatto, portava una zazzera unta e liscia, un moncone di codino ed una barba tra il bianco e il giallo, lunghissima e scarmigliata. Le sopracciglia, tra bianche e gialle ancor esse, spiccavano folte, ad angolo retto da una fronte prominente che ombreggiava il viso fino alla bocca. Il viso, anzi il capo intero era tutto peli: ne scaturivano da ogni parte; pareva rimpinzito di crino perdere il soverchio per tutte le vie. Le narici e le orecchie ne avrebbero fornito da fare il pizzo ad uno studente e i baffi lunghi entravano in bocca e ne riuscivano così diritti come se derivassero di gola. La barba saliva sulle gote fin sotto le occhiaie e per il largo collo della camicia la si vedeva ripullulare sul petto. Sull’ultimo lembo carnoso dell’orecchio dov’era infitto l’anello di argento che i vecchi villani portano ancora, giaceva un vero cuscinetto di peli fitti ed ispidi che nascondeva mezzo l’orecchino. La sua figura mobilissima commentava e coloriva ogni parola, anzi il viso preparava quasi le parole e le annunziava; attore drammatico, quell’uomo avrebbe fatto ridere e piangere il pubblico senza profferir verbo, col solo _valore della maschera_ come lo chiamano i comici. Ai movimenti del viso, la barba faceva da indice ingrossatore; ad ogni impercettibile contrazione di muscoli, corrispondeva un agitarsi, un arruffarsi disordinato di peli, ognuno dei quali diventava un braccio di leva obbediente e sensibilissimo. Mentre raccontava le sue storie, correvano per quella foresta vivente, delle vere e proprie burrasche. A volte, in seguito a troppo rapidi mutamenti di fisonomia, le vibrazioni si intralciavano come fanno i cerchi dell’acqua per due pietre lanciate vicine, e ne seguiva uno scompiglio da non dirsi. Io non vidi mai una faccia più strana di quella, tanto che non ristavo di fissarla; ma egli era certo avvezzo a passare per fenomeno vivente, perchè la mia maraviglia non lo maravigliò punto, si lasciò guardare e riguardare senza averne imbarazzo, nè vergognoso nè superbo della propria singolarità. Parlava a sentenze, in tono misurato, ma che andava a mano a mano accendendosi. Aveva una voce bassa ma limpidissima e vibrante, e raccontava con molta evidenza, mettendo nei punti del maggiore interesse certe soste ansiose piene di mistero. Durante il racconto, vigilava cogli occhi, se gli prestavo fede. A un certo punto, bisogna dire che mi sia sfuggito un risolino involontario, perchè troncò il discorso, mi fissò corrugato e mi disse:—Non credete?—Accompagnò queste parole con un riso così sdegnoso, le profferì con accento di tale superiorità, mi guardò con tanta commiserazione, che mi affrettai a tranquillarlo più per pensiero della mia dignità che per cortesia. Non mi bisognarono molte parole. La verità del suo asserto gli pareva troppo evidente; i fatti che narrava gli risultavano forse da troppo sicura testimonianza, perchè potesse temere a lungo che altri ne dubitasse. Quando gli domandai come egli avesse apprese quelle storie, fece un viso misterioso e non rispose: solo dagli occhi traspariva una superba compiacenza di sè, che mi parve derivare dalla coscienza di un sapere negato al più degli uomini. Seguitando il discorso, mi disse aver egli ricevuto dal cielo il dono di conoscere le malattie e di guarirle, e la scienza umana dei medici non valere nulla appetto alla sua. Ora quel vecchio è morto da più anni, ed io penso alla memoria che ne dev’esser durata nel suo piccolo villaggio. Là certo in sua vita, le mamme lo additarono ai bambini per indocilirli e questi lo sognarono durante gli incubi delle indigestioni. Se è vero che la paura ingrossa gli oggetti, che lunghezza iperbolica dovette avere nei sogni, quella barba dogale! I bimbi che lo conobbero, non troveranno mai più per il mondo un essere vivente che lo somigli, perchè ne ricorderanno l’immagine fantastica in luogo della reale. Certo i suoi prodigi lasciarono traccia, certo sono vantati anche oggidì, la virtù delle sue erbe e de’ suoi sortilegi e lo sprezzo ch’egli faceva del sapere umano. Morti quelli che furono adulti e vecchi con lui, Dio sa quali miracoli gli saranno attribuiti, che potenza verrà via via acquistando il suo nome! A mano a mano che la sua lunga carcassa andrà disfacendosi sotterra, la sua memoria ingrosserà fra i viventi; egli vivrà una seconda vita, impensata, inattesa, piena di vicende strane, una vita a rovescio della reale, che si farà sempre più vigorosa invecchiando. Quel paese che forse non lo elesse nemmeno a consigliere comunale, tremerà di lui, invocherà nei supremi pericoli la sua memoria, lo collocherà a mezza altezza sulla scala degli esseri sovrumani, fra i santi ed il demonio. Egli che del demonio aveva tanta paura! Quando sul punto di lasciarlo, lo richiesi del suo nome per scriverlo sul taccuino, il povero uomo ebbe un sospetto mortale e ricusò di netto. —Ma perchè?—gli domandai. —Signore, io non conosco il vostro. —Ve lo dico subito. —Non ve lo domando. E seguitava a guardare me ed il taccuino, coll’aria di un uomo pentito d’avere attaccato discorso, nè mi valsero i ragionamenti coi quali volevo persuadergli che non ero nè un carabiniere travestito, nè un esattore, nè altro agente fiscale, come io credevo temesse. Ma non era questa la sua paura, e più insistevo ad abbonirmelo, più lo trovavo riluttante, finchè stretto dalla mia insistenza e fissando con occhi sempre più stralunati il taccuino e facendosi il segno della croce, balbettò già volto alla fuga: —_Vous pouvez être le diable_! E scappò via. Aveva temuto ch’io volessi segnare il suo nome nel registro dei dannati per l’eternità. Certo il vecchio, tornato in paese, raccontò d’essersi imbattuto in Bergniffe, perchè la paura muta in certezza ogni sospetto! E la vivacità del suo racconto e il suo visibile smarrimento, vinsero forse la miscredenza dei pochi spregiudicati. Che discorsi quella sera! Se il diavolo non fosse agli sgoccioli, la leggenda sarebbe creata. E chissà che non vada già formandosene il nucleo primitivo, che poi svanirà come una bolla, stretto dalla crescente incredulità. O forse il Demonio è più accorto che non si creda e muterà col tempo nome e forma, ma non sostanza ed argomenti. E forse del mio passare sulla terra, non rimarrà fra cent’anni altra vestigia, che la storia del vecchio spaccalegna e dello spirito maligno. I SOLITARI La neve sull’alta alpe è di ogni stagione. Ma l’estate, la terra tutta calda di vita germinativa la respinge; i fiocchi radi e leggieri svolazzano a lungo per l’aria aggirati dal vento e sfiorato appena il sommo delle erbe, si squagliano e svaniscono, come _le monachine quando vanno a letto_. Tuttavia la gente del luogo li guarda con tristezza temendo che un capriccio di stagione non li insaldi durevolmente alla terra. Quando il terreno dura bianco per lo spazio di due giorni c’è da temere che non imbruni più. Allora l’estate precipita di colpo nell’inverno che la neve precoce fa presagire rigidissimo. Lassù l’anno ha due sole stagioni: le estreme. Come in Giugno l’ultima crosta di neve cova l’erbe già vigorose e quasi fiorite, sicchè da un giorno all’altro dove prima era tutto bianco il terreno appare tutto screziato di colori vivi, così in Settembre e talora al finire d’Agosto, una sola notte trasfigura la terra e di giardino la rimuta in deserto. Mancano a quelle alture le cangianti trasparenze primaverili e i languori autunnali; la vicenda delle stagioni vi è aspra e violenta come la struttura dei luoghi. E colla vicenda delle stagioni, la vita animale che l’accompagna e ne consegue. Giugno in un sol giorno reca alle alture tutti gli abitatori estivi, apre i casolari, li riempie del popolo tranquillo e taciturno dei pastori e del gregge sonoro: Settembre in un sol giorno spazza via uomini ed animali, chiude le case e fa muti tutti gli echi delle montagne. La giornata della partenza è festosa. Il popolo migrante serpeggia a frotte per le chine, si nasconde nei seni, riappare sulle spianate, prima la mandria poi i mandriani. I mantelli macchiati o bruni delle vacche, l’argento dei sonagli, la sottana rossa o nera delle donne, la giubba biancastra dei pastori, e il fardello che portano, coperte fioreggiate, stoviglie e grossi paiuoli rubicanti al sole come scudi, fanno insieme una giostra abbarbagliante di colori, che contrasta e s’intona col verde ancora fresco e giovanile dei prati. Uno scampanellare continuo scaturisce da principio d’ogni parte della montagna, finchè vanno i diversi accordi ingrossando in uno solo a mano a mano che le frotte diverse si confondono calandosi nell’enorme imbuto della valle. Di lontano, quell’accordo rammenta le allegrie dei campanili il giorno di Pasqua. Lo ascoltano dall’alto i pochi valorosi che vi dimorano tutto l’anno e vi sentono l’estremo saluto che manda loro il consorzio umano da cui vivranno separati per otto eterni mesi. Separati e vicini. Ma li disgiunge tanto ostacolo di pericoli e disagi e così profonda diversità di clima e di consuetudini, da credersi essi confinati agli estremi limiti del mondo. Dal giorno che gli ospiti estivi lasciarono l’alpe, ai pochi rimasti è tolto il ricambio delle attività umane; cessa loro la norma del dare e dell’avere. Oramai della famiglia umana non vedranno più che le atroci miserie ignote alle genti e dell’uomo non potranno mostrare se non la parte divina: la pietà soccorritrice. Dal mondo altro più non aspettano che occasioni di sacrificio e di eroismo. Mentre nella valle e più al piano il sole è ancora torrido e le vendemmie cantano sui colli, mentre i laghi e le pendici formicolano di gente festosa e suona intorno per la campagna la dolce egloga autunnale, ad essi già pesa sul capo il basso cielo e sta nel cospetto la spettrale bianchezza dell’inverno. All’ospizio del Gran San Bernardo si contano in tutto l’anno dieci soli giorni interamente sereni; la media annua della temperatura vi è inferiore a quella del formidabile Capo Nord, vi sono frequenti gli inverni di nove mesi, durante i quali il termometro oltrepassa spesso i 30 gradi R. sotto lo zero. La neve non vi scende a falde fuorchè in estate; l’inverno è un tempestare furibondo di minutissimi cristalli ghiacciati che entrano col vento per ogni dove, si aggirano pulviscolo gelido nelle stanze, e non c’è porta o finestra che li respinga. Tuttavia, benchè quello del Gran San Bernardo sia riputato, e con ragione, il più disagevole e pericoloso fra gli ospizi, credo che ve ne hanno altri di più penoso soggiorno. Là almeno, una certa regola monacale inganna il tempo e fa meno amaro l’esilio. Vi sono parecchi padri e un discreto numero di novizi. La giornata è spezzata da occupazioni disparate: pratiche religiose, studio, scuola, osservazioni scientifiche, governo della casa, ispezione dei valichi. Nessuno, sia pur magro fatterello della giornata, passa inosservato a quei solitari. I piccoli rancori scambievoli, i piccoli sotterfugi, le congiure sorde per conseguire minuscoli intenti, ogni parola e l’accento di essa, ogni leggerissima infrazione alla regola, la durezza di un comando, la lentezza nell’ubbidire, diventano fieri avvenimenti che agitano quegli ingegni e quegli animi più che non facciano di noi le grosse vicende della politica o della borsa. Dove sono in quattro a tavola, si discorre. Quella gente che legge più libri e con più intensa attenzione che nessuno di noi, trova in ogni libro molte più cose che noi non sapremmo. Benchè remoto dai centri popolari, ogni uomo colto o produce o rinnova ogni giorno un certo numero di idee e nelle ore dei ritrovi queste, esposte nel crocchio, colpiscono le menti impazienti di moto, vi germogliano come in buon terreno, si allargano in corollari, sollevano dispute, nutriscono i discorsi. Le amicizie devono serrarsi e caldeggiarvi con impeti d’amore. La sera, nella grande e confortevole sala da pranzo, qualche novizio suona il cembalo o l’organo, doni di munifici visitatori. La grandezza degli spettacoli circostanti, la violenza dei fenomeni, quel sentirsi così lontani dagli uomini e dai dolci affetti umani, l’imminenza continua di orrende catastrofi, le frequenti preghiere, la coscienza di un grave ed austero dovere compiuto, provocano certo in quegli animi e vi mantengono una sorta di esaltazione poetica, che li fa vibranti ed echeggianti. Come devono risuonare in quel silenzio claustrale le armonie della musica sacra! Quanti ricordi infantili, quanti propositi di virtù, quanti impeti di tenerezza soffocati e rinascenti, quante piccole vipere tentatrici devono suscitare in quei cuori! I piccoli consorzi sono il compendio dei grandi; dove l’uomo trova un compagno in cui rispecchiare le proprie infermità, non può dirsi intieramente infelice. Ma vi sono ospizi dove tale compagno non esiste. Al Piccolo San Bernardo vive da trent’anni un uomo che la solitudine invernale divezza ogni anno dall’uso della parola, cosicchè al primo giungere dell’estate egli dura fatica a discorrere. Là non convento, non regola, non confratelli e non novizi. L’ospizio appartiene alla Religione dei Santi Maurizio e Lazzaro che lo mantiene in discreto assetto; ma perchè ivi è minore l’affluenza dei viandanti e meno pericoloso il valico, non vi dimora che un rettore con due servitori e due vecchie domestiche. L’abate Chanou, cavaliere e canonico, è un uomo colto, socievole, argutissimo, austero e gioviale, innamorato della montagna, curioso osservatore de’ suoi fenomeni, tutto fervente di zelo scientifico. Venne giovanissimo a reggere l’ospizio e non volle più dipartirsene, malgrado le vistose offerte che gli rinnova spesso il vescovo d’Aosta, di prebende o di canonicati.—Salì povero, e dura tuttavia. Al suo primo giungere fuori del messale sull’altare e del libro dei passeggeri, non c’era, in tutta la casa, traccia di carta stampata o manoscritta. Ora il suo studio ha le pareti raddoppiate di scaffali, dove stanno alla rinfusa le opere di San Tommaso e quelle di Herbert Spencer, e Marco Polo discorre con Livingstone e Stanley, e l’Imitazione di Cristo stupisce di trovarsi daccanto la Fisiologia del Claude Bernard, e Victor Hugo fiancheggia Bossuet e Fénelon. È abbonato alla _Revue politique et littéraire_, e _Revue scientifique_ uno dei più vivi periodici di Francia e ne possiede tutta la collezione fin da quando la si chiamava: _Revue des cours littéraires et scientifiques_ e stampava le lezioni professate all’Istituto di Francia ed alla Sorbona. Tutti libri raccolti coi quattrini del magrissimo stipendio, del quale non camperebbe a Roma lo spazzino di un ministero. Durante alcuni anni, salì l’inverno all’Ospizio uno strano tipo di vecchio cospiratore e vi rimase un mesetto a legarvi libri e giornali. Era un piemontese, già guardia doganale, poi nel 1831 congiurato repubblicano e come tale condannato a morte e costretto a fuggire di patria. In esilio, imparò l’arte del legatore, ma o difetto di metodo o di costanza, passò d’uno in altro mestiere, finchè dopo varie e fortunose vicende, finì spaccatore di ghiaia lungo le strade della Savoia francese e repubblicana. Il nostro prete andò a stanarlo in qualche buco di vallata dove l’inverno le strade hanno un metro di neve, e vistolo affamato e senza lavoro, pattuì con lui che ogni inverno sarebbe salito all’Ospizio per riprendervi lo strettoio e le correggiuole dell’antico pacifico mestiere. Quelli furono, nella vita dell’abate, gli anni buoni e ridenti. Il vecchio aveva visto mille cose coll’occhio savio del filosofo disperato e pare le raccontasse a tratti vigorosi ed efficaci. Il prete, troppo colto per compiacersi di conversare coi domestici, trovava in lui un interlocutore immaginoso e paziente. L’indole irrequieta del cospiratore, domata dagli anni e dalla miseria, si confaceva colla tranquilla e riposata indole del romito attivato dalla curiosità scientifica e letteraria. Entrambi amantissimi della lettura, un inverno divorarono insieme il romanzo postumo del Flaubert: _Bouvard et Pecuchet_, pubblicato nella _Revue politique_. Mai il verbo _divorare_ applicato alla lettura di un libro corrispose più giustamente all’azione. Noi sfioriamo la mensa intellettuale di un libro: quelli tornano dieci volte allo stesso piatto e non ne lasciano briciola. Quella lettura li lasciò caldamente ammirati. —È degno di stare coi libri del Walter-Scott, e coi poemi in prosa del Chateaubriand, mi diceva l’abate, cui nessuna meschineria critica soffocava la larga ed ingenua facoltà di ammirare. Un anno il legatore non salì. Come venne la bella stagione, l’abate domandò di lui nei paesi vicini, ma nessuno seppe dargliene notizia. L’ultima volta era partito dall’Ospizio malandato e povero in canna come sempre; ma di trattenervisi non si parlava nemmeno tanto gli durava la natura nomade e irrequieta. Al mestiere di spaccar ghiaia, non ci doveva più reggere; le mani gli tremavano ed erano più le martellate sulle dita che sui ciottoli. Povero vecchio! Sarà andato a morire in qualche stalla giù nelle valli Savoiarde, fra gente ignota, o forse sul margine stesso della strada al cadere di una notte invernale, indebolito dalla fame e dal freddo. E tornò al prete la dura solitudine: i domestici rifugiati nella stalla, egli in libreria. Se non che, qualche volta, preso dalla impazienza di una voce umana che parlasse, non il gergo valdostano, ma la lingua letteraria, conforto e sollievo del suo spirito, si recava, nelle giornate senza vento, ad un luogo vicinissimo donde sillabando ad alta voce di contro l’Ospizio, le pareti gli respingevano intera e netta ogni parola. L’eco era diventata il suo interlocutore. Una volta, ed era d’estate, lo intesi sfogare con quel docile dialogista certi suoi ardori patriottici d’italiano, offesi dalla impertinenza di alcuni ufficiali francesi passati quel giorno dall’Ospizio. Capitai all’improvviso, mentre scagliava contro l’innocente parete le sue invettive e ne risi; ma quando m’ebbe detto ridendo bonariamente che quell’eco era la sola buona compagnia che egli avesse per otto mesi d’inverno, mi sentii stringere il cuore per la pietà. Un animo così caldo, una mente così attiva e socievole, dalle membra così agili, seppelliti per tanto tempo in quella tomba nevosa! E certe volte, sono vitaccie da rischiarci la salute e la vita. Rammento una visita che feci all’Ospizio parecchi anni or sono. Arrivai che annottava. Alla seconda casa di rifugio mi aveva colto la neve e il cantoniere voleva persuadermi a passarvi come che sia la notte, minacciandomi se partivo, Dio sa che pericoli. Ma era l’undici di settembre, e non mi pareva che in così bella stagione dovesse la neve durare tanto da far paura. Ero solo e quindi non trattenuto da riguardi cortesi; in un’ora al più sapevo di poter giungere all’Ospizio e mi rimanevano due ore di giorno. Ma la nevata fu proprio delle buone, di quelle che in due ore, al piano, colmano i fossati ed annullano le siepi e lassù in alto addolciscono le chine troppo scoscese e le fanno traditrici. Dopo mezz’ora ero seriamente pentito, ma tardi; benchè non fossi che a un terzo di cammino (tanto la neve mi contrastava il passo); tornando, avrei dovuto tenermi indosso gli abiti inzuppati e induriti dal gelo, mentre all’Ospizio mi aspettava la mia valigia che vi avevo mandata la mattina da un carrettiere diretto alla Savoia. Dunque arrivai che annottava. L’abate, che la vigilia avevo avvisato della mia prossima venuta, era inquieto, benchè mi facesse più giudizioso di quello che sono e si studiasse di immaginarmi rifugiato al caldo ed al sicuro. Mi strapazzò come un cane, mi abbracciò come un amico e mi allestì una cena luculliana. Un fritto di patate, una scodellata di minestra al latte, un pasticcio di spinaci, una costola di capretto, e due bicchieri di vino dell’Inferno, di quello che fanno i vigneti di Liverogne e che procacciò forse a quel villaggio il nome rablesiano che non si merita. Dopo cena passammo nel suo studiolo e seduti tutti due a cavallo della stufa cominciammo a discorrere. Seguitava a nevicare serrato e dalle gole savoiarde soffiava un vento feroce che rompeva ululando alla casa e abburattava la neve nello spazio vuoto fra le doppie impannate. Un tempo perverso! Bisogna sentirle in Dicembre queste sinfonie, mi dice il prete; non c’è grido, urlo, fischio, lamento e singhiozzo di uomo o di belva, che non echeggi e muggisca nello spaventoso concerto delle bufere invernali. A volte si odono degli a-solo che fanno raccapricciare: sibili lunghi e trillati e gemiti che sembrano di moribondi s’innalzano sulla scompigliata onda dei suoni. Allora i cani dell’Ospizio ululano funestamente e si rannicchiano tremando, e nella stanza più riposta, malgrado le muraglie da fortezza e le doppie imposte e gli usci doppi e le bussole ed i coltroni, la fiammella della lampada, accesa tutto il giorno, sventola da averne le traveggole. Mentre discorreva, lo vedevo tendere l’orecchio come a suoni lontani, poi scattò in piedi e disse: —Che diavolo succede? Anch’io avevo inteso dei suoni, ma questi mi parevano tanto corrispondere al discorso intavolato che li attribuivo ad un errore della fantasia. Era un urlo gigantesco nel quale si distinguevano mille urli minori; sembrava la chiamata, il lamento supremo e disperato di un essere mostruosamente grande che si avvicinasse lentamente, a cui rispondeva un non so quale allegro accordo di suoni metallici che stringeva il cuore d’angoscia e di paura. Il prete chiamò i domestici e uscimmo sul ripiano della scaletta esterna che domina la strada. Dal versante italiano ci giungeva un coro di muggiti nettamente distinto e lo scampanellare di una sterminata mandra di bovine. —Ah, la fiera! la fiera! gridò il prete atterrito, vengono dalla fiera; hanno voluto passare a dispetto del tempo, quei muli di Savoiardi! Modesto, aprite le stalle e spalancate bene la porta che non s’ammazzino a cornate nella furia d’entrare; lumi, lumi, lumi all’uscio della stalla, e voi Giacomo al fieno, aspettate che ci vengo anch’io, e anche voi, mi disse, animo! qui bisogna darsi attorno; è una grande disgrazia, vedrete, una grande disgrazia! Dorotea, vino bollente e minestra, e scendete quanto si può degli abiti miei, anche quelli da prete, e presto presto. Poi traversammo la strada affondando fino al petto nella neve e fummo alle stalle ed al fienile, donde a grandi bracciate levammo quanto foraggio capivano le mangiatoie. Bisognava fornirle prima che capitasse la mandra che poi nella confusione non c’era verso, e spicciarsi a battersela, che le povere bestie spaventate ed affamate non ci cogliessero sul loro passaggio, che ne andava forse della vita. Dio sa come sarebbero entrate a precipizio là dentro! Oh, non entrarono a precipizio povere bestione moribonde. A dugento passi dalla casa, malgrado il vento ed il frastuono, le si sentivano soffiare per la immane fatica che facevano a rompere col petto la muraglia di neve che le contrastava. Perchè erano venute man mano affondandosi e le zampe toccavano il suolo duro, cosicchè ad ogni passo mettevano il muso sull’enorme scalino bianco, continuamente rinnovato. Vedendo quei lumi accesi e quella gente in aspetto, le prime si fermarono guardandoci coi grandi occhioni stupidi e levando il muso per muggire, ma il fiato rotto mozzava loro la voce; e intanto ne venivano, ne venivano serrate le une sulle altre, a cinque a sei di fronte, ammantellate di neve, grondanti acqua e sudore, pazienti, acciecate dal vento, non avvertendo nè il camminare nè il sostare, avanzandosi perchè spinte dalle giungenti, sostando perchè impedite dalle giunte. Le prime s’erano avviate alla stalla e già vi riposavano, ma la stalla poteva capirne una trentina, facciamo quaranta a pigiarle, e già era piena e riboccava che la mandra non pareva scemata d’un capo. Non se ne vedeva la fine; lontano lontano lassù presso la Colonna di Giove, era uno scampanellare serrato, e man mano che venivano, trovando la strada fatta, andavano mugolando e fiutavano il rifugio. Quante ve n’erano ferme innanzi l’Ospizio? Il prete diceva un dugento a dir poco e ne dovevano giungere almeno altrettante. Che farne? Dove metterle? Già cominciavano a tempestare; quelle che stavano vicino alla stalla e odoravano il fieno non volevano saperne di tirare innanzi, e l’onda crescente spingeva quelle di mezzo. Si sentiva lo scalpitìo disordinato che fanno le vacche quando si saltano addosso, e a certi larghi aperti improvvisamente nel rimescolìo oscuro, s’indovinavano le prepotenze delle corna più gagliarde. In quella fitta di corpi pesanti che si agitavano fra la neve, al lume incerto di poche lampade affievolite dal vento, c’era la minaccia di imminenti, inaudite battaglie e già le ultime vacche rifugiate al coperto erano assalite a colpi di cornate furiose e dalla stalla chiusa usciva un rombo sordo di muggiti, indizio di terribili massacri. E poi giunsero i negozianti, una quindicina d’omaccioni che si raccomandavano al Rettore come se ne aspettassero miracoli, parlando, strillando, piangendo, singhiozzando, tutti ad una volta con gesti larghi e rapidi che contrastavano colla pesantezza montanara. Ma il Rettore era impotente a soccorrerli, non c’era posto, non c’era posto, la volevano capire che non c’era posto a pagarlo tesori? E allora quei forsennati si facevano minacciosi: erano cinquecento capi di bestiame, cinquecento, ha inteso, Rettore, e s’avranno a perdere tutti, mentre l’Ospizio è vuoto? —Eh, fateli salire all’Ospizio se vi riesce, che io vi apro anche la mia camera. Allora quelli si misero ad un’impresa disperata, ma il Rettore li lasciava fare che non c’era altro verso di quetarli. Legata una giovine giovenca ad una grossa fune si diedero a tirarla ed a spingerla su per la scaletta che mette all’Ospizio. La povera bestia alle prime non oppose resistenza e lasciò più volte peli e sangue scivolando e stramazzando su’ lucidi scalini di pietra, ma poi infuriata dal dolore e dallo spavento, fu somma grazia lasciarla rotolare fino al basso, donde non si levò più. —Metteteci delle tavole che facciano un piano, suggerì il Rettore. Ma non giovò nemmeno questo: le tavole parevano insaponate e non vi reggevano nemmeno i piedi nudi degli uomini. Allora gli uomini si videro perduti. Era passata un’ora e il freddo diveniva insostenibile. Il prete li costrinse a rincasare e a rifocillarsi nel tinello; la stufa di pietra biancheggiava arroventata e fu scodellata la cena. Intanto la mandra abbandonata muggiva di sotto come un uragano e fra i muggiti salivano rantoli di moribondi e gemiti che parevano umani. Poi, frustata dal gelo, la turba oscura si ripose in cammino; tutta la notte giù per le balze dirupate che scendono alla Savoia s’intese lo scampanellare degli accordi e mugolii isolati di vacche smarrite. Io non so bene quante ne morirono o gelate o precipitando dai burroni, ma furono assai. Parecchie, guidate dall’istinto, andarono dopo sei o sette ore di cammino, a picchiare agli usci delle stalle savoiarde; altre giunte alle basse regioni dove non era neve, si fermarono nei pascoli in attesa. Dalla stalla dell’Ospizio due furono levate morte sformate e parecchie ferite, e l’indomani, partendo, i negozianti piangevano come fanciulli, mentre il sole improvvisava rigagnoli nella neve e nel cielo purissimo scintillava la vetta del Monte Bianco. Quello che dicevo or ora dell’eco mi richiama in mente un altro prete montanaro. Siamo in un paesucolo invisibile in capo della Val Chiusella. Invisibile, perchè le case sparse lungo la valle sono così discoste l’una dall’altra che a nessuno viene in mente di raccoglierle alla unità ideale di paesello. Una povera chiesa, una povera catapecchia parrocchiale, un pilone colla scritta: _Albo pretorio_, ecco il Comune. Ivi fu parroco per molti anni un brav’uomo, studioso e mite. Certe volte l’inverno, la messa domenicale non ha un solo ascoltatore, tanto è l’impedimento della neve; ed egli pontificava servito dalla domestica, una vecchia sorda e brontolona. Compagno unico delle sere invernali gli era un loquacissimo pappagallo. Le rare volte che capitava gente, il pappagallo strillava: Ai arrrme! (all’armi!) con piglio sergentesco. Poi discorreva col prete. Io intesi questo dialogo, mentre il brav’uomo stava preparandomi una tazza di caffè. —Provost que chi fè?—Fou ’l cafè.—Fè 'l cafè? (Prevosto che fate?—Fo il caffè.—Fate il caffè?) e terminava, in un Ah rauco di approvazione. La sera alle undici, mentre il prete stava immerso nello studio, il pappagallo, gli diceva imperiosamente:—Provost 'ndoma a deurme?—(Prevosto andiamo a dormire?) e il padrone obbediva, persuaso che quelle parole corrispondessero ad un pensiero scaturito nella mente dell’uccello, ed esprimessero una sollecitudine affettuosa. Errore, credo, volontario, perchè quello non era uomo da attribuire senno ai pappagalli. LA LEGGENDA DEL PICCOLO SAN BERNARDO Interrogato una volta dagli ufficiali dello Stato Maggiore Sardo, che nome avesse la giogaia che separa il Monte Bianco dalla Valle del Piccolo San Bernardo, il rettore dell’Ospizio rispose: —Si chiama: «_Miravidi_». Era il nome che egli nella caldezza del suo amore per quell’Alpe le aveva imposto, che aveva serbato fino allora per sè solo, godendosi la dimestichezza di fare a nomignoli colla montagna; ma venutogli il destro di registrarlo e di eternarlo forse sulle carte, egli lo aveva colto di volo colla prontezza accorta degli innamorati che hanno sempre sveglia la cura esaltatrice. Il nome di _Miravidi_ fu segnato, credo, su qualche carta e meriterebbe di essere su tutte. Quella costiera vide infatti e vede tuttavia mirabili cose, non mai viste altrove. Vede la gola stretta e scura che fu chiamata l’_Allée Blanche_ dalla doppia cintura di nevati che la fascia: vede l’azzurro lago di _Combal_, più cangiante che un cielo estivo in giorno tempestoso, nel quale il ghiacciaio della Brenva immerge i suoi procellosi cavalloni rassodati, e dove sorsero forse gli ultimi ripari del popolo dei Salassi, che vanta le ultime resistenze opposte in Europa alle Aquile Romane. Vede foreste fitte di quanti alberi poterono i secoli seminarvi, dove biancheggiano qua e là, cadaveri secolari, stranamente paurosi, i tronchi fulminati delle _Arolle_ e dei Larici. E vede levarsi dalla sua più bassa radice e quindi giganteggiare più che da ogni altra parte, la mole ossuta del Monte Bianco, che scende per dorsi e gradi in Savoia e piomba a picco in questa primissima valle d’Italia. Le cime che da Chamonix e più lungi da Ginevra appaiono ammorbidite dal cuscino delle ghiacciaie, mostrano alla giogaia di _Miravidi_ le coste taglienti e travagliate dai fulmini. Di là sono vette, di qua, creste; di là, il monte s’adagia e oscura il cielo col profilo bianchissimo dalle curve larghe e gravi, di qua s’erge e frastaglia l’orizzonte con una selva di torri, di pinnacoli, di antenne colore del rame. Nessun altro dei grandi gruppi Alpini, nè questo da altri versanti, spiega così intera la smisurata faccia de’ suoi fianchi. Le vallate per lo più procedono perpendicolari od oblique all’asse del monte che le sbarra, cosicchè di questo non appare a chi le risale se non lo spazio compreso fra le due chine che le fiancheggiano. Qui ai piedi del Monte Bianco corre un vallone parallelo al suo asse: dalle vette di _Miravidi_ l’occhio ne abbraccia tutta la distesa, misura tutta la base da gigante, vede scintillare tutte le acque che esso versa in Italia. Dalla parte di mezzodì si affaccia alla costiera di _Miravidi_, la verdissima valle del Piccolo San Bernardo; la più corta, la più varia, fra quante sono tributarie della Dora Baltea, dominata dalle ghiacciaie del Ruitor le cui acque formano in alto il lago di Santa Margherita e scendono poscia nella fertile conca della Thuille per via di stupende cascate fra i boschi. Donde viene quel nome di Ruitor? Di quale termine celtico o gaelico è derivato? Il linguaggio alpino è pieno di tali vocaboli, discesi coi secoli e vincitori delle lingue moderne, delle barbariche e ciò che più conta della latina: parole che sotto l’involucro delle nuove desinenze serbando il nocciolo antico, ci recano la voce e in parte rispecchiano l’animo dei primissimi stabili abitatori di queste regioni. Si direbbe che la robusta struttura delle terre durate senza mutamento al passaggio dei secoli, abbia irrobustito le parole primamente adoperate a significarne gli accidenti: e, come l’Alpe si chiama Graja dalla voce celtica _Grau_ (grigio biancastro) e la catena che vi s’allaccia verso Oriente, è detta Pennina, da _Penn_ che dal celtico significa: _sommità_ e Dora, proviene da _Dour_ (acqua) e moltissime altre ve ne hanno che io ignoro e sanno i filologi, e più ancora che sa il popolo ed i filologi non sanno. Già ai tempi di Roma si disputava intorno l’origine di tali nomi. Tito Livio al Libro XXI, Cap. 38, raccoglie e confuta l’opinione che la voce _Pennina_ derivasse da _Punica_ per essere Annibale passato in Italia traversando l’Alpe di quel nome, locchè certo non fece, e che il nome di _Alpe Graja_, dato all’attuale Piccolo San Bernardo provenisse da _Greca_ per esservi passato Ercole Tebano. Qui comincia la _leggenda_ del Piccolo San Bernardo: _leggenda_, non _storia_; in causa appunto di questo favoloso passaggio di Ercole. Plinio secondo ne discorre come di voce in gran credito, e al popolo dei Salassi che abitava queste regioni, vantano alcuni la discendenza da un Cordelus, figlio di Statielo, che si vuole fosse uno dei capi dell’esercito di Ercole, quando il semi-dio traversò l’Italia. Ercole valicò dunque il colle del Piccolo San Bernardo? Se mai, fu tornando dalle favolose colonne, dopo di avere congiunto insieme il Mediterraneo e l’Oceano. Vi andò seguendo la costiera Libica; ne sarà tornato per Spagna e Gallia, donde per l’Alpe Graja o per il Colle di Tenda sarà sceso in Italia. Ma il viaggio ed il valico sembrano piuttosto una mera favola dei Romani ellenizzanti; favola ispirata forse dalla maravigliosa asperità di queste regioni. Se è vero che ai tempi di Cesare, una strada carreggiabile valicasse il giogo del Piccolo San Bernardo (Alpis Graja) si capisce come i Romani affacciandosi la prima volta a questo robustissimo nodo alpino e vedendo già domata dall’uomo la selvatichezza dei luoghi, abbiano attribuito la stupenda opera ad Ercole. Prima di Cesare e prima di Annibale, superarono questo giogo torme armate di Galli chiomati ed erano frequenti i commerci fra gli abitanti della Tarantasia (Centroni) e quelli della Val d’Aosta (Salassi). Vi passò Annibale? Gli storici romani, non nominano i luoghi donde egli scese di Spagna per le Gallie in Italia, e perchè si contentano di descriverne l’aspetto e perchè le montagne, dal più al meno, si somigliano tutte; ogni valico alpino, da quello di Tenda al Gottardo, vanta quel passaggio ed in ognuno di essi i disputanti eruditi, trovano caratteri locali che, le elastiche interpretazioni aiutando, corrispondono ai testi. La disputa ferveva ai tempi di Seneca, nè è verosimile che sia mai definita, se qualche carcassa d’elefante o molti scheletri umani riconosciuti di razza etiopica, scavati un giorno a caso in qualche gola alpina, non faranno testimonianza del vero. La cosa non è assolutamente impossibile, nè improbabile, perchè il giorno prima di affrontare l’ultimo giogo, l’esercito cartaginese cadde e lo superò, in un agguato tesogli dalle popolazioni indigene, e vi lasciò morti uomini e bestie da soma. Comunque sia, in favore del Piccolo San Bernardo, oltre le solite corrispondenze, che è facile rintracciare dovunque, sta il fatto dell’agevole strada e la affermazione di L. Celio, il quale, a soli cinque anni dalla discesa di Annibale, scrive che questi passò per _Cremonis jugum_ nel quale Cremonis jugum si ravvisa il Monte Crammont, ultimo della catena di _Miravidi_, all’ombra del quale chi scende in Italia dal Piccolo San Bernardo, deve per forza passare. Ciò basti, se non alla storia, alla leggenda del Piccolo San Bernardo e scusi gli abitanti delle terre vicine, se chiamano: Cerchio d’Annibale, un cerchio druidico, tuttora visibile sulla spianata presso l’Ospizio. Il Monte Bianco, la cui testa, il _Penn_ gaelico, soverchia la costiera di _Miravidi_ e sta spiando oltre nella valle, avrebbe dunque veduto passare le schiere Puniche, i cavalieri Numidi e le nuove moli degli elefanti. E, ad Annibale, se vi passò, e a Cesare, il quale vi passò di certo, apparve da quelle cime la stessissima vista che noi vediamo, non mutata affatto nè di forme, nè di colori, nè di misure, nè di minutissimi particolari. Locchè con altrettanta esattezza non si può dire di altri luoghi, fuorchè del mare al largo donde non si scoprono terre, o ne appare solamente il profilo. Le costiere o presero o perdettero spazio, si aprirono porti o si chiusero, s’internarono alcune città litorali, e, delle rimaste, variò affatto l’aspetto ed il colore. Le pianure, o furono tosate di foreste o imboschirono e fruttificarono per diverse colture. Chissà se date le spalle ai monti della Sabina, Coriolano più riconoscerebbe la campagna romana? Dovunque entra come elemento del quadro, l’opera dell’uomo, il quadro è in tutto od in parte mutato e sulle Alpi stesse altri valichi somiglianti, causa l’indole diruta delle roccie, mostrano ora nuovi scoscendimenti e nuove rovine. Qui, grazie il loro dolce pendìo non è verosimile che le chine circostanti, abbiano addolcito o inasprito il primitivo profilo; nè mai su queste cime crebbero alberi, nè vi germogliò altro che l’erba fitta dei prati. I secoli vi passarono senza lasciare traccia, senza abbattere e senza edificare; il suolo ha una immobilità morta: nulla trasforma e nulla cancella. Sulla grande spianata della sommità, le pietre che segnavano il tempio druidico, emergono ora dalla terra come già emersero quando vi convenivano i Salassi preganti. Oramai è corso un secolo dall’anno che il mal guidato esercito piemontese invernò attendato su quelle alture, impotente difesa regia contro le schiere della prima repubblica francese; e il suolo serba ancora le traccie d’ogni tenda, sicchè si può contarne il numero e aggirarle tutte quante e discernere dalla diversa impronta le tende capitane dalle soldatesche. Le erbe di cento estati rinnovati, i venti e le nebbie di cento autunni e di cento primavere, le nevi di cento inverni, non valsero, non che a colmare, a far meno profondi i fossatelli incisi intorno quelle fragili dimore di tela. Fida terra che nella sua povertà ha tanta tenacia di memoria, terra amica della storia e degna di storia, dove l’uomo può segnare le sue gesta in un piccolissimo solco, più durevole che non furono altrove i portici, i fori, le terme, i circhi e gli altari! Di lassù si può dire, che la più chiara e sicura contezza che abbiamo di Cesare è questa: Cesare vide quanto noi qui vediamo. La _Mansione_ romana ora distrutta, non esisteva ancora ai tempi di Cesare. Fu eretta, credesi, da Augusto e anticipò al mondo i miracoli di carità per cui è santificato Bernardo da Mentone. A mille anni d’intervallo, la previdenza civile di Roma e la pietà religiosa di un monaco, riuscirono qui all’opera istessa: all’Ospizio dei viandanti. Vide Cesare la colonna che sorge tuttavia sulla vetta del colle? La tradizione lo afferma, lo negano gli eruditi. La leggenda vuole che la colonna fosse prima consacrata al _Dio Penn_ il Dio delle sommità, l’altissimo inaccessibile e che l’occhio del Dio vi sovrastasse in forma di gemma dotata di virtù taumaturgiche. Oggi ancora qualche pastore più credulo o più immaginoso dei compagni, va cercando per le petraie, se mai rinvenisse il divino occhio, che salverebbe dalla cecità il genere umano. Gli eruditi in quel masso di marmo cipollino, alto sette metri per un metro di circuito, ravvisano un’opera romana. La colonna non ha fregi nè ordini; è rude e salda. Qualche volta l’inverno, la neve, la seppellisce intera, poi la rende intatta al sole. Seguendo la leggenda, più Dei eterni le diedero nome e morirono. Dal culto di _Penn_ passò a quello di Giove e si chiamò da Giove tutta la montagna, poi resse la croce e fu segno del vicino ricovero ai viandanti assiderati e smarriti. Chissà a quali altri simboli è destinata, chissà in che diverse lingue sarà chiamata, nelle quali rintracceranno i curiosi gli elementi delle nostre, come noi nelle nostre, quelli delle galliche e della latina! Dopo Cesare, gli eserciti romani valicarono più volte il colle del Piccolo San Bernardo. Vi correva la grande strada militare, che da Milano, metteva a Vienna nel Delfinato. Vi passò Gondicaro a capo dei Burgundi; vi passò forse solo, povero ed esule, Adalberto, figlio virtuoso (se non gli fu attribuito a virtù il non essere salito al trono) del turbolento Berengario, marchese d’Ivrea e re d’Italia. Verso il mille, quando il terrore del finimondo, le frequenti pestilenze e le carestie, volsero in Europa gli animi e le opere alla pietà ed al fervore religioso, e furono veduti re ed imperatori aspirare e darsi al monacato, un santo savoiardo, sui ruderi forse della Mansione romana, edificò il nuovo Ospizio pei viandanti. Ospizio e fortezza forse ad un tempo, contro i Saraceni che infestavano le valli di Savoia e del Vallese. Dei Saraceni sull’Alpe Graja, non è memoria, ma Bernardo di Mentone sembra averli guerreggiati in quel luogo stesso dove innalzò il maggiore de’ suoi Ospizi; sul Monte Giove, che fu poi il Gran San Bernardo. Approdavano sulla costa Nizzarda, donde per la Provenza ed il Piemonte, erano saliti fino in Savoia, in Moriana, in Tarantasia e sul lago di Ginevra o nel Vallese. Così occuparono i maggiori valichi dell’Alpe marittima della Cozia e della Pennina: il Monte Ginevra, il Cenisio ed il Monte Giove. Padroni della Tarantasia e della Valle d’Aosta, dalla quale mosse a snidarli nel 942, re Ugo di Provenza, è certo che essi tennero il passo che congiungeva le due Provincie, e, se Bernardo da Mentone li combattè sul colle di Giove, è probabile che volendo liberarne la Valle d’Aosta, essendo egli arcidiacono in quella Cattedrale, li affrontasse pure sull’Alpe Graja. Chissà che il pacifico ricovero, non sia stato dapprincipio edificio prettamente belligero; locchè non contrasterebbe nè al suo carattere religioso, ne alla sua benefica destinazione. Siamo in tempi in cui la spada poteva essere insieme arme di guerra e segno di fede cristiana, ed è ovvio credere che fra i seguaci del santo combattessero quegli stessi, che, cacciati gl’infedeli, si assoggettarono di poi alla rigida disciplina monacale e si proposero come còmpito quotidiano, continui miracoli di abnegazione e di carità. Da quel tempo il Piccolo San Bernardo ebbe normali abitatori, se non che ne venne a poco a poco scemando il numero, sicchè la casa eretta per convento, finì in romitaggio. E seguitò nel corso dei secoli la tragica sfilata degli eserciti ai quali un tale valico dovette riuscire spesso più faticoso e micidiale che una battaglia. Durante due secoli, il XIII ed il XIV, in luogo dei soldati sfiniti e sbigottiti, l’Ospizio vide passare con norma consueta, le fastose e gioconde cavalcate dei Conti di Savoia che si recavano in gran pompa di Ciamberì in Aosta a tenervi le corti di giustizia. Ogni sette anni il Sovrano superava il colle e scendeva, con signoresca accompagnatura, nelle terre de’ suoi fedeli vassalli Valdostani. Quel valico consacrava la sua sovranità. Entrando in Val d’Aosta per il passo del Piccolo San Bernardo, il Conte di Savoia trovava sul confine tutta la nobiltà della valle, radunata a fargli omaggio. Se giungeva per altra via, non gli era dovuto alcun solenne ricevimento. Quella era la via sacra, la sola degna di passarvi principescamente il principe, di meritare al principe l’omaggio della sudditanza. Appena varcato il confine, ogni castello era rimesso nelle sue mani, non già con lustra esteriore, ma sibbene con propria ed efficace consegna, tanto che, ad ognuno di essi egli deputava speciali governatori, che lo occupavano nel suo nome finchè egli soggiornava nella vallata. Così, dinanzi la sua pacifica magistratura, i piccoli ed i grandi vassalli deponevano il potere e l’alterigia. Nè tale rinunzia era dei soli litiganti, ma di quanti sedevano col sovrano nella corte di giustizia; nè costituiva una prestazione feudalesca dovuta al Sovrano. Sovrano era il Conte di Savoia in Valle d’Aosta, sempre e per qualunque via vi accedesse, ma solo passando per il Piccolo San Bernardo, egli esercitava della sovranità, la più sacra prerogativa, la giudiziaria, e a quella sola i signori Valdostani concedevano la totale rinunzia delle proprie forze. Nel 1600, Carlo Emanuele I guidò per l’Alpe Graja 10,000 soldati, diretto alla terra di Mommegliano in Savoia, che trovò occupata dagli eserciti di re Enrico IV. Nel 1630 vi salì, di Savoia, il principe Tommaso di Carignano, perseguito dalle soverchianti forze del re Luigi VIII; valicato il colle, si accampò sulla montagna che fronteggia il villaggio della Thuille, dove appaiono ancora i resti dei suoi ridotti. Nel 1691, regnando Vittorio Amedeo II, un esercito francese comandato dal marchese De la Huguette, scese per quel valico in Valle d’Aosta, arse quanti villaggi trovò per strada, devastò e pose a sacco la città di Aosta, scorrazzò le terre e tornò con ostaggi in Savoia. Tornano i Francesi dopo tredici anni guidati dal La Feuillade, raggiungono a Bard il Vendome, occupano tutti i castelli, tengono per due anni la valle sotto il retto ma doloroso governo del marchese di Kercado, e finalmente ne sgombrano l’anno 1706, dopo la battaglia di Torino, riconducendo seco i nuovi reggimenti del marchese De Vibrave scesi pur ora dal colle. E qui per dieci anni segue un continuo valicare e rivalicare di soldatesche d’ogni gente e d’ogni maniera, non sempre nemiche ma sempre infeste. Al villaggio della Thuille, il primo che s’incontri scendendo dal Piccolo San Bernardo in Italia, durano anche oggi il terrore e la memoria di lontane stragi e rapine; io intesi ancora raccontare lungo la valle una grande vittoria che una mano di contadini riportò, ora sono assai più di cent’anni, su di un formidabile esercito francese. Si tratta credo della resistenza opposta l’anno 1708, nella stretta di Pierre-Taillée, al marchese di Mouroy ed ai suoi quattro o cinquemila soldati. I Francesi, occupata la Valdigne, cioè l’alto bacino che comprende i villaggi di Entrèves, Courmayeur, St-Didier, Morgex e La Salle, volgevano verso Aosta; alle chiuse di Pierre-Taillée, gli abitanti delle terre vicine e pochi soldati, sbarrarono loro il passo. Il luogo è tale da non potersi a forza superare senza grandissima strage; il Mouroy, fallitogli il primo impeto, abbandonò l’impresa, sgombrò la Valdigne, e il Piccolo San Bernardo lo vide tornarsene scornato in Savoia. Vera battaglia non vi fu; ma i difensori, benchè scarsissimi di numero, avrebbero avuto animo e campo da sostenerla e da trionfarne. Nessuno dei valligiani rammenta ora il nome del capitano nemico, nè la data dell’impresa, nè la cagione della guerra; ma il fatto smarrito in una incerta nebbia leggendaria, amplificato dagli anni, prende nelle loro menti una grandezza epica, e il luogo, già più aspro e solenne delle Termopili, diventa altrettanto glorioso. Nel 1742, Carlo Emmanuele III guadagna il Piccolo San Bernardo con un fiorito esercito e scaccia di Savoia gli Spagnuoli. Carlo Emmanuele conosceva il valico; vi era passato undici anni addietro, quasi solo, pensieroso e presago forse degli imminenti drammi domestici. Veniva di Ciamberì e affrettava verso Torino temendo non ve lo precedesse per il Moncenisio il padre Vittorio Amedeo, geloso di riprendere l’abdicato potere. Triste sorte che tale dissidio dovesse nascere fra tali sovrani, degni tutti e due del trono, ultimi gloriosi fra i rampolli del ramo diretto di Savoia. Dopo di essi fino al regno di Carlo Alberto lo Stato cadde in miserrimi principi. L’ultima, la più triste fra le notevoli memorie del Piccolo San Bernardo è documento della loro insipienza. Fino allora le torme armate affrettavano per l’ardua montagna, premurose di scansarne i pericoli, già terribili al solo passaggio: nessuno aveva mai osato attendare un esercito in tali luoghi e mantenernelo per l’invernata. Chi può dire i disagi, gli stenti, il freddo, le malattie, gli scoramenti patiti dalle milizie piemontesi durante l’inverno del 1793? In regioni, dove le spesse muraglie della casa, le doppie vetriate, le tavole che fasciano le pareti di ogni stanza, sono impotente difesa contro la violenza delle bufere, o lo stagnare delle gelide nebbie invernali; tende di tela o baracche di assi mal connesse, erano tetto e casa a soldati mal nutriti, mal vestiti e peggio guidati. Non li sosteneva nè la speranza di prossime vittorie, nè la fiducia nei capitani, nè l’esempio dei principi. Comandava un austriaco, salito agli alti gradi militari per perizia diplomatica, più curante di infeudare all’Austria il regno Sardo, che di combattere il comune avversario repubblicano. E mentre sulla spianata e sui fianchi del colle il vento divelleva le tende e la neve turbinando spegneva il fuoco dei bivacchi, mentre la canna gelida dei fucili spellava le mani ai soldati e le orribili malattie dei paesi nordici spopolavano il campo, il duca di Monferrato vi traeva seco un seguito di cinquanta domestici, due dei quali specialmente destinati a preparare il caffè della Sua Altezza Reale. Qui finisce la triste storia del Piccolo San Bernardo. Il frequente scorrazzare di eserciti nostrani e stranieri fu a questi monti più causa di danno che di gloria. Il loro valico non fu mai interamente conteso ai soldati che vi salivano da questa o da quella parte; le sorti delle guerre non si decidevano fra queste gole selvaggie: nessuno di questi luoghi ebbe il gramo compenso di dar nome a giornate famose. La loro oscurità non li salvò dalla rovina, la rovina infeconda non li additò alla gratitudine della storia. Calpestate, devastate, dissanguate, arse, queste terre, che diedero agli eserciti piemontesi i migliori soldati, non ne ebbero onori di lapidi e di monumenti; il detto: felici i popoli che non hanno storia, fu loro per più secoli bugiardo. Ora, da molti anni, la pace dell’Ospizio non è turbata; la casa ospitale esercita quietamente il suo sacro ministero. Le balze echeggiano l’estate per colpi di cannone, e sulle creste, dove parve temerario il camoscio, corrono ordinate e sicure le compagnie alpine; ma la loro presenza non è minacciosa, ma i villaggi le salutano con grida di gioia. Studiano nell’Alpe la grande fortezza italica, e forse, quando un nuovo esercito straniero salisse a tentarlo, il valico sarebbe ora, per la prima volta, difeso e conteso. Una battaglia su quelle alture sarebbe titanica, ma alla gloria di quell’Alpe non occorre sangue. La sua gloria è quella casa che per secoli combattè e disarmò la nemica natura. E già, anch’essa ha quasi compita l’opera sua. La scienza vinse la pietà: sotto il tunnel del Cenisio e del Gottardo, passa in un giorno più gente, che non ne pericolò in otto secoli sulle giogaie del Piccolo e del Grande San Bernardo. I PAESI DELLE VALANGHE Dalla vetta delle Alpi al mare Mediterraneo corrono poche centinaia di chilometri, mentre parecchie migliaia la separano dai mari del Nord. Questo fatto spiega la diversa struttura dei due versanti, dei quali il meridionale precipita per via di immani scoscendimenti nella valle del Po, e s’allunga, e si spiana e digrada negli ondulati altipiani della Svizzera il settentrionale. Ci sono tre diverse regioni alpine. La montagnosa al basso, l’alpestre nel mezzo, l’alpina propriamente detta in alto. Chi scende in Italia pei valichi delle Alpi Cozie, Graie o Pennine, avverte subito il limite ed il carattere di ogni regione. Appena lasciati i deserti nevosi, la regione alpina gli sorride con un tranquillo aspetto pastorale. La valle si rompe in più branche come una scala enorme, e fra l’una branca e l’altra è una pianura placidissima, una conca verde dove il torrente corre quieto come un ruscello e spesso dilagando alimenta le lussuriose vegetazioni. I villaggi vi sono lindi ed agiati, anzi non hanno di villaggio che il nome e il campanile, tanto le case si sparpagliano qua e là volte a quel poco sole di cui tutte vogliono la sua parte. Il centro, la parrocchia, raccoglie appena intorno a sè tre o quattro fuochi: quello del parroco, la casa comunale, la scuola, spesso un albergo, qualche volta il tabaccaio che smercia pane, droghe, fettuccie, carta, chiodi, olio di ricino e confetti. Il resto del villaggio è sminuzzato in tanti casali di due o tre fuochi, dove al solito dimorano i diversi rami di una stessa famiglia. Ogni casa ha, davanti, la sua pezza di prato, il suo orto glorioso di quattro o cinque girasoli e il tronco mozzato infitto nella terra che getta acqua per un tubetto di ferro. Qui la gente dimora tutta nel fondo della valle. Si vedono bensì su per le coste della montagna e fino rasente le ghiacciaie, dei casolari pastorizi (chiamati _Meire_, _Grangie_ o _Alpi_); ma a questi salgono per lo più i mandriani della pianura e non vi soggiornano che i tre mesi della state. L’inverno, quelli del paese o s’industriano trafficando intorno per il mondo o si tappano nelle stalle e vi impigriscono in minuterie tranquille, e pulite che sembrano trastulli. Per essi il lavoro invernale, meglio che di sostentare la vita, è un mezzo di ammazzare la giornata e più la sera. Si baloccano in piccoli ordigni per aprir l’uscio o la botola del fieno senza muover di posto, per abbassare dall’assito, ond’è rivestita la parete, un piano che faccia da tavolino e rialzarlo senza che ne appaia la mostra, si lambiccano il cervello a perfezionare le morsette di legno destinate ad assicurare contro il vento i panni sciorinati al sole, o a trovare un nuovo congegno per l’aspo o una nuova zangola per sbattervi il burro. I più utilitarii fanno mestole o cucchiai di legno, o riparano le minute avarìe della casa. Da ciò deriva alla casa un’aria agiata e patriarcale, che non inganna. L’alta montagna elesse i suoi abitanti. È avvenuta la naturale selezione darwiniana: chi non ebbe forza e sostanze da camparvi con agiatezza, o dovette soccombere o ne sloggiò. La miseria della quale vedremo tanti impensati esempi nel basso, non è compatibile colle asprezze del clima e cogli scarsi prodotti del suolo alpino. La frase pare paradossale, ma non è. La terra frutta così poco, che solamente i ricchi ne posseggono, e non essendovi traffichi nè industrie, chi non ha rendite o possedimenti, non trova la via di campare. Nei villaggi della regione alpina non vi hanno mendicanti o ve li attira nella buona stagione la ressa dei forestieri; non vi si incontrano quei visi sparuti di morente, quegli occhi febbrili pieni di timidità supplichevole, che attristano i grossi borghi della media vallata, nè i mostricciatoli rugosi, cenciosi, luridi e paurosi, obbrobrio e pietà della razza umana. La terra, le case, la gente, tutto è disposto e apparecchiato per la consueta guerra contro le stagioni. Del gran nemico alpino che è la valanga, tutti, lassù, sanno misurare il peso e l’impeto e prevedere le mosse e spiare i passi, tutti conoscono della valle i punti vulnerabili ed i sicuri. E perchè la giacitura della casa non è imposta nè da assoluta necessità di lavori agresti, nè da assoluta ristrettezza di spazio, la casa sorge sempre al riparo del noto ed atteso flagello. Dove il pericolo diventa consuetudinario, l’uomo industrioso ne scampa o se ne giova; il solco squarciato dalla valanga serve l’estate a guidare in basso le abbattute d’alberi. Ma questa placida zona che pare una Tempe ha poco spessore. A un tratto, la valle, in luogo di rompersi in branche e ripiani, rovina tutta verso la pianura. Sembra che ogni montagna cerchi invano un punto sicuro dove posare, sicchè tutte, una dopo l’altra affondino la base e la smarriscano in una voragine smisurata. Non più spazi piani di terreno in mezzo alla valle: le due chine opposte si avventano l’una sull’altra e incassano il torrente. In luogo dei declivi ammorbiditi da una foresta fitta d’abeti o dal bel cuscino dei prati, rovine di massi titanici fra i quali il monte lacerato mostra la sua ignea ossatura. Una vegetazione arborea bastarda, dove intisichiscono insieme gli ultimi pini e le prime querce e i primi noci. E via la valle precipita a rigiri rapidi e brevi, sempre serrata e sempre echeggiante per le acque sbattute, e via la strada si sviluppa, tagliata quasi sempre a mezza costa, dominante dall’alto il torrente, attraversante gruppi di case cui, d’estate la folta ombra dei castani, e d’inverno, la montagna di contro, rubano il pochissimo sole, sicchè anche quando è più secca la canicola, esce dai loro usci un tanfo umidiccio e lungo le loro muraglie un loto perenne vi si appiccica ai piedi. E quando dopo parecchie ore di cammino, la gora si apre al largo dove a mala pena capisce un borguccio tutto pigiato intorno la chiesa, vi pare di affacciarvi al gran padre Oceano e di respirarne i liberi venti. Questo segue ben inteso delle valli minori e la pittura sarebbe un po’ carica per le grandi vallate, le quali hanno spesso un letto largo e fertile. Ma anche in quelle i monti che le fiancheggiano precipitano per via di fenditure enormi, levigate come tavole di lavagna, le quali tolgono al paese l’aspetto mansueto che incontrammo più in alto e gli danno un carattere di violenza selvaggia e grandiosa. Mentre in alto il prato e la foresta attestano solamente la feracità del suolo e rammentano le beate leggende dell’Eden, qui le varie ardue colture accusano la fatica dell’uomo. E colla fatica, il bisogno e gli stenti. I grossi borghi tagliati in mezzo dalla via maestra, non sono più disseminati per le praterie, ma si aggruppano avari di spazio e respirano poca aria dalle viuzze strette e senza sole. Il terreno ha troppo valore perchè lo si getti in larghezze signorili. I frutti del suolo sono già molti e varii, sicchè la terra lavorata può bastare alla vita dell’uomo. Ma quale vita! E quale lavoro! Quel poco pane il villano deve cercarselo dove lo trova, contendendolo al sole, alla neve, alle frane, ai torrentelli divoratori, al vento gelido di tramontana, alle brinate primaverili. Di qui un lusso faticoso di muri e muriccioli, di trincee, di valli militareschi, di pilastrini d’ogni forma, e grandezza per reggere le pergole; opere di continua e solerte difesa contro i continui e solerti nemici, le quali richiedono una vigilanza quotidiana e vicina. Perciò le case agresti sorgono dove la dura necessità lo comanda. Dove la montagna, fra dirupi impraticabili, spiana un pratellino, ivi qualche eroe del bisogno improvvisa un’oasi che sa di miracolo. L’inverno ha già perduto la crudezza micidiale di poc’anzi. Anche miserrimo, qui l’uomo può durare in uno stato che somiglia la vita e questo basta a tanti infelici i quali arrischiano mille volte di morire, pure di trascinare l’agonia. I forestieri che attraversano quei paesi, diretti alle alture salutifere, la mente nutrita delle frasi letterarie di _fieri e robusti alpigiani_, di _tempre ferree_ e via discorrendo, stupiscono della realtà e calunniano la razza montanina, la quale è ancora in parte e fu tutta quanta fortissima in origine e dotata delle migliori attività umane, ma venne via via negli stenti e per la dimenticanza in cui fu lasciata, e più andrà in avvenire, logorando la fibra e intimidendo gli spiriti. Chi dalla valle maggiore sale i fianchi delle montagne o s’interna per le gole, vi scopre certi brandelli di paesucci, viluppi di tuguri, perduti in luoghi così inospiti che si credono disabitati. La chiesa valligiana serve per lo più a una ventina di villaggetti aggrappati a sporgenze rocciose quasi impercettibili, sospesi a mezza costa con un abisso sul capo ed uno ai piedi, terribilmente pittoreschi, dei quali l’estate nasconde il miserrimo aspetto e l’inverno rivela l’esistenza sempre pericolante. Se una valanga piombasse dall’alto della rupe che li _protegge_, li spazzerebbe di netto. Ma chi pensò, edificandoli, se la valanga li avrebbe un giorno colpiti? Ben altra cura li collocò dove stanno e ve li mantiene. Nella regione alpestre la valanga non ha il suo corso normale e prevedibile. Essa non è flagello di ogni anno, mentre la fame lo è di ogni giorno. Ciò spiega le vittime dell’inverno passato e ne fa temere di nuove ogni anno. LA NEVE Chi non ha visto la montagna nell’inverno del 1885, non conosce l’inverno alpino. Gli altri anni è un lembo della terra che tutti conosciamo; l’anno passato era un paese inverosimile, fuori della realtà, una scena di sogno fantastico, una visione argentea, smagliante, l’idea astratta del candore divenuta sensibile senza nulla perdere di larghezza e di purezza. Passeranno anni ed anni prima che una tale visione riappaia così perfetta ed immacolata. Parlo ben inteso dei luoghi agresti, fuori dell’abitato. Tutto ciò che attesta la vita umana era scomparso o si era trasformato, l’uomo sembrava così estraneo a quella terra verginale come agli squallidi paesi lunari. E coll’uomo tutto quanto vive e si muove. Era una immensa bianchezza immobile, folgorata dal sole, anzi immedesimata col sole, tanto ne rifletteva interi ed intensi tutti i raggi. È impossibile ridire la dolcezza profonda di quelle linee e di quel colore; anzi le parole _linea_ e _colore_ applicate a quello che io vidi e ripenso mi sembrano dure e povere: non era una linea quella che la montagna segnava sul cielo, perchè raggiando i contorni si scomponevano e il cielo partecipava del monte e questo di quello; e non era un colore quell’albore diffuso, eguale, misto di bianco, di rosa e di trasparenze azzurrine che saliva dalla terra e si diffondeva per l’aria. Ho tardato a scrivere le impressioni di quello spettacolo perchè proponendomi di rappresentarlo con verità, temetti me ne sviasse l’eccitazione dei sensi e dell’animo; è quasi passato un anno e richiamandolo in mente lo rivedo tal quale e ne riprovo la stessa maraviglia, mista a non so quale sgomento come di fatto soprannaturale. Era una bella giornata di Febbraio. Andavo da Pont Canavese a Ronco in Val Soana, dove mi avevano detto essere caduta la più colossale fra le colossali valanghe di quell’inverno. Per buona sorte sul suo passaggio non vi erano case e la ruina non ebbe vittime, ma la strada che da una borgatella vicina mette a quel capo-luogo ne era stata interrotta per qualche centinaio di metri e vi si era sovrapposta una vera montagna di neve insuperabile. Si parlava di scavarvi un tunnel ma era impresa di più settimane. Il villaggio lontano in realtà da Ronco una mezz’ora di cammino, se n’era improvvisamente scostato di quattro o cinque ore disagevoli e pericolose. Partii da Pont sul mezzogiorno, a piedi ben inteso, contando di giungere a Ronco verso le cinque e di pernottarvi. La Val Soana, da Pont dove la Soana si getta nell’Orco, corre fino a Ronco per una stretta profondissima e là si allarga diramandosi in due branche, detta una Val di Forzo e l’altra Val Prato. Da Pont fino quasi a Ronco, i fianchi ripidissimi delle montagne intercettano alla strada la vista delle punte scoscese dove la neve non regge. Tutto quanto cadeva sotto i miei occhi era bianco, di una bianchezza immacolata. La neve aveva colmato le forre, sotto la sferza meridiana non appariva pure uno di quegli enormi solchi oscuri che il sole estivo incide sui fianchi delle montagne. Nessuna traccia del torrente: il fondo della valle saliva come una via piena e larga, se non che ad ora ad ora qualche leggiera gibbosità tradiva i grandi massi travolti o accavallati nelle piene, e allora erano guanciali morbidissimi che sembravano dover cedere al minimo peso. La Soana così rumorosa e spumeggiante trascinava a stento sotto quella spessa crosta le acque invisibili e silenziose. La neve indurita a cristalli sfavillava al sole come un corpo metallico; pareva che tutti gli umori della terra si fossero essiccati, quel mare d’acqua assodata era asciutto come un deserto di sabbia e rendeva sotto i passi lo scricchiolio secco del vetro frantumato. La chiarezza uniforme sembrava allargare gli spazi, l’aspetto solito della montagna ne era così trasfigurato, che ogni idea di relazione e di confronto con altre valli diventava assurda. Quello pareva un luogo unico sulla terra, la continuità non interrotta delle linee e del colore faceva di quel tutto un corpo solo, una enorme conca d’argento che una macchina favolosa avrebbe potuto sollevare intera, tanto era soda e compatta. Ora il sentiero sfiorava la superficie della neve; dai rami degli alberi vicini giudicavo di quanto sovrastassi al suolo; ora correva sulla terra nuda fra due muri di neve alti come la mia persona e tanto stretti da costringermi spesso a passare di sghembo. Imbattutomi una volta in un uomo che scendeva, non mi fu possibile dargli passo; di inerpicarsi su per la parete liscia e ghiacciata non c’era verso, tentammo insieme di scavare un largo, ma la massa compatta avrebbe richiesto troppo lungo lavoro: si finì ch’egli si mise carponi ed io lo scavalcai. In certi luoghi i muri salivano d’un tratto fino a tre o quattro metri d’altezza e l’andito si oscurava sinistramente: il sentiero tagliava lo spessore di una valanga. Là mi era dato giudicare quanta fosse la potenza della enorme massa rovinante. Nel suo spaccato apparivano sezioni d’alberi che un uomo non avrebbe abbracciato. A volte la spaccatura cadeva nel punto preciso dove era seguito lo schianto, il tronco reciso quasi di netto mostrava la violenza del colpo; si capiva che la pianta secolare s’era spezzata senza resistenza, come un fuscello. La gran frana infatti non sradica, tronca, non le occorre assalire l’ostacolo là dove è più debole, ma spazza via quanto le contrasta come la palla da fucile che fora il vetro senza frantumarlo. Per lo più non si avverte il silenzio che al cessare di un suono. Là il silenzio era così assoluto da diventare uno dei caratteri positivi del luogo. Al suo paragone la più tacita delle nostre notti invernali, sarebbe parsa rumorosa come una fiera. Vi stavo da tre ore e l’avvertivo continuamente e me ne derivava un innalzamento inusato dell’intelletto, una attività fantastica straordinaria, tanto che mi domandavo se non siano i suoni un impedimento all’allargarsi delle idee. Avevo sopratutto centuplicata la facoltà imaginativa, creavo a me stesso visioni di una realtà ingannatrice, passavo d’una in altra rapidamente, m’internavo in ognuna di esse fino a discernervi minutissimi particolari. Mi pareva di afferrare un nesso logico evidente fra idee e fatti disparàti, di risalire alla ragione ultima delle cose, di scoprire leggi fisiche, di illuminare repentinamente certi abissi della mia coscienza, di affacciarmi alle ultime verità divine. E tutto ciò vertiginosamente, ma durandomi una chiara serenità d’animo. Certo le idee, cercando ora di ripensarle, mancavano di determinatezza, erano faccie di verità non verità intere ed afferrabili, erano lampeggiamenti dell’ingegno, che al momento rischiaravano forse qualche vero occulto, ma per ripiombarlo tosto nelle tenebre. Certo ero venuto in una sorta di ebrietà intellettuale e forse anche fisica, perchè sostenni improbe fatiche senza stanchezza. Ma quella esaltazione era deliziosa oltre ogni dire, e ancora mi godo a rammentarla benchè me ne sfuggano gli elementi: quasi tutta cessa Mia visïone ed ancor mi distilla Nel cor, lo dolce che nacque da essa. Rammento un gruppo di tuguri aggrappati alla falda del monte: piccoli, tozzi, lerci, puntellati, cadenti, decrepiti, inverosimili. Tre case in basso, tre case in alto e la strada nel mezzo. Il tetto delle case a valle copre due terzi della strada ed è a sua volta mezzo coperto dal tetto delle case a monte, sicchè la strada non vede mai il cielo. La luce vi scende obliquamente per il vano che corre fra l’altezza del primo tetto e quella del secondo. Quando piove, l’acqua precipita da un tetto all’altro e da questo sulla strada che serba tutto l’anno in riga le bucherelle delle grondaie. Quei tuguri abitati l’estate i soli giorni che durano i lavori ed i raccolti nelle terre circostanti, servono l’inverno a deposito di fieno, foglie, legnami ed attrezzi agricoli. La loro estrema bassezza li fa parere inginocchiati e l’oscurità della via li impicciolisce ancora, sicchè fanno pensare a gente rannicchiata che ci viva carponi. Sembrano balocchi di giganti o tane di pigmei, a nessuno viene in mente che siano destinati alla razza umana. Tale bassezza, già incredibile l’estate, è resa più mostruosa dall’inverno. Quando io vi giunsi, i tetti reggevano un metro di neve, e parevano schiacciati sotto il peso. Traverso la neve il giorno filtrava nella viuzza con una luce verdognola, fievolissima, una luce da cripta o da acquario. E nella viuzza dormente era un tepore di stalla, come vi soffiasse l’alito di un gregge invisibile. Uscito dalla lucentezza brunita e fredda della valle, quel luogo chiuso, ombroso e tepido mi parve animato. Entravo colla fantasia negli stambugi e li vedevo occupati da gente nana e silenziosa. Omuncoli da stare in boccetta, che mi guardavano dimenando la testa ed ammiccandosi, punto impauriti della mia corpulenza. Mi pareva di inoltrarmi circospetto per tema non me ne venisse qualcuno sotto i piedi. Erano in numero sterminato, bianchi bianchi come la neve, barbe lunghe e capelli lanosi. Erano i padroni del luogo, della valle, della stagione. La grave rovina invernale era opera loro. Essi si aggiravano turbinando per l’aria, piombavano sulle cime, e voltando la neve _per forza di poppa_ l’approdavano sull’orlo delle scogliere, donde la facevano smottare in valanga. Vedevo le braccia e le manine minuscole agitarsi per l’aria con segni di minaccia grotteschi e paurosi. E intanto mi sonava nel cervello non so qual musichetta col sordino che voleva esser gaia ed era di una tristezza mortale. Quanto tempo mi accompagnò quella musica! Avevo da un’ora oltrepassato i tuguri e non potevo levarmela dagli orecchi. Chi ha la mala abitudine di scrivere la notte, conosce certo a prova il supplizio dei suoni. O versi o prosa, quando egli smette di lavorare e cerca il sonno, sente la cadenza ritmica della strofa o del periodo, risonargli stucchevolmente nel cervello. Larve di strofe e di periodi, metri e frasi, senza parole e senza pensieri, contorni armoniosi vuoti di sostanza armonica, che ingombrano la mente e li spossano più che non faccia la cosciente attività del lavoro. Così mi ingombrava il cervello un inganno sonoro. E gli omuncoli di poc’anzi danzavano al ritmo di quelle note. Danzavano sulla neve piana, sui cornicioni ghiacciati minaccianti l’abisso, sui rami scheletriti degli alberi, sui ponti, sulle croci che sorgono lungo la via. E inchinavano danzando la testa e la piegavano in cadenza verso le spalle con un garbo infantile, con un sorriso infantile, che mi empivano l’anima di angoscia. Già ho torto, credo, di scrivere queste cose, sento di non bastare a rendere anche lontanamente l’effetto di quelle strane e continue allucinazioni. Chi non vide lo spettacolo di una grande nevicata alpina, non può comprendere l’esaltazione che ne deriva ai sensi ed all’intelletto. Gli scrittori Russi, il Tourguèneff sopra tutti, raccontano e commentano stupendamente simili errori del cervello. Ma forse l’immacolata e durevole bianchezza e il profondo silenzio invernale, rendono loro più facile avvertire non solo le lacrime ed i contorni, ma i sospiri e le fuggevoli ombre delle cose. E forse la grande pietà che è nelle opere loro è anch’essa dovuta alla lunga tristezza invernale dei loro paesi, la quale deve maravigliosamente disporre gli animi ad accogliere e sviluppare i sentimenti misericordiosi, la tenerezza e l’amore della sofferenza. Qui in Italia, fuori della valle del Po, chi conosce, chi immagina con giustezza lo squallore di certe invernate alpine? Le maggiori nevicate da Firenze in giù, anche a giudicarne dalle più iperboliche descrizioni, mi parvero sempre tenui e mansuete. Inverno da dilettanti o di parata, che viene per la mostra e che il primo scirocco o scioglie o mitiga in gran parte. La neve che ha tre, quattro, cinque metri di spessore, ha un aspetto ben diverso da quella che si misura a centimetri. La sua bianchezza è più immacolata, più lucente, più metallica, non c’è potenza germinativa che vinca e dissodi la sua compagine, traverso i suoi cristalli, nulla traspare della bruna faccia terrestre, il suolo ch’essa ricopre ne ha modificata la struttura; le linee, i profili non sono più quelli. E quella immensa pace bianca a chi conosce la montagna racconta un convulso disordine di cose. Sotto quei morbidissimi velluti, i fianchi del monte sono corrosi, lacerati, sparsi di enormi massi rovinanti, di case frantumate, talora di cadaveri umani. Tali violenti contrasti sorgono ad ogni passo. Quel dolce candore così radioso sotto il sole meridiano, così soavemente rosato al tramonto, se appena il cielo si appanna o cessano i raggi, diventa subitamente spettrale. Nell’attimo che il sole va sotto, voi passate di scatto dalle più splendide alle più funeree visioni. Prima sono tesori favolosi: smeraldi, topazi, rubini, zaffiri e quante altre gemme sfavillano sui diademi reali ed imperiali, o sul collo e sul petto delle miracolose madonne, o alla fantasia delle più ingorde cortigiane. Sale da ogni parte come un incenso di nebbiuzze opaline, la terra irradia luminosamente per l’aria la sua bianchezza, sembra sciogliersi in candori e vaporare e confondersi colla fulgente gloria del cielo. Ma quella gloria è un’agonia. Il manto gemmato si muta sull’attimo in lenzuolo sepolcrale e nell’aria passa la morte. Passa senza un soffio, senza un brivido, nella immobilità rigida delle cose. E allora il cielo, la valle, le montagne, la neve, vi diventano subitamente nemiche e vi sentite l’anima piccina, vi cadono le forze, vi prende lo sgomento della pochezza umana. Il mare più torbido, i più spaventevoli uragani danno un senso meno profondo di paura e di abbandono. Fra la collera degli elementi, la morte è più vicina, ma meno visibile. Nei grandi sconvolgimenti delle cose c’è un’esuberanza di vita. L’uomo è trascinato a combattere e soccombe lottando, il pericolo determinato attira a sè tutte le facoltà della mente; tutte le attività vitali sono intese a superarlo; non c’è tempo nè modo di abbandonarsi e di disperare. Qui, che cos’è che vi minaccia? Cercatevi attorno: gli elementi non infuriano e non vi assalgono, stanno inerti in attesa. Il nemico è in voi, nell’animo vostro sgominato dalla gran morte circostante. Ad ogni passo sentite di affondare nel nulla, vi pare che il mondo vitale vada sempre più allontanandosi e staccandosi da voi e vi assale uno stanco tedio della vita e un anelare incosciente a quella pace che vi circonda e vi atterrisce. Sopratutto provate lo sconforto dell’impotenza; vi sentite vili e disperate di mai più ricuperare l’energia delle membra e dell’animo. E mille dubbi minacciosi si affacciano ingrossandosi a vicenda. Se si aprisse il suolo, se smottasse il monte, se vi travolgesse la valanga, se vi assiderasse il freddo, se smarriste la strada, se, se, se, quanti ne può mettere la mente sviata, che fare? dove cercare aiuto? a che abbrancarsi? per chi urlare nella notte? E allora tutti i pericoli immaginari creano il pericolo reale dello scoramento e vi viene voglia di gettarvi per vinto sul gran letto bianco, di _darvi_ alle tenebre, all’inverno, alla morte. E sempre le visioni paurose trovano alimento nella bianchezza morta di ogni cosa. Vi pare che la notte fitta farebbe dileguare quei fantasmi. Come tarda a giungere la piena notte! il sole è sotto da gran tempo, a quest’ora già al piano è buio pesto, perchè non qui? La piena notte è già venuta, e di più non raffittisce, il cielo è nerissimo, ma sulla terra albeggia un chiarore di lampada funeraria. Oh! allora come vi assalgono i ricordi domestici e il miraggio delle stagioni ridenti. Allora avvertite con uno struggimento di tenerezza quanto siano vivi e parlanti i fili dell’erbe, i cespugli, le foglie e persino i sassi nudi della strada. E come sia carnosa la negra faccia della madre terra. Oh! affondare le mani nell’umido tepore dei solchi appena smossi, e baciare la terra e chiamarla protettrice e soccorritrice! Quanta compagnia fanno le cose, i colori ed i suoni! Cantano dunque veramente gli usignuoli nelle dolci notti di primavera? Ricordo che imbruniva quando giunsi in vista di Ronco; il villaggio mi appariva nero e fumante mezzo miglio lontano. Camminavo da cinque ore, e la mattina di quel giorno istesso avevo già fatto, pure a piedi, tre altre ore di strada per visitare in Val di Ribordone una borgatella seppellita intera dalla valanga. A Ronco c’è un albergo: ero sicuro di trovarci buon pranzo e discreto alloggio; ma appena il sole fu sotto, appena vidi smorire e allividire quella immensa bianchezza, sentii che non potevo più fare un passo in salita. Mi parve che una mano mi respingesse, pensai che se avessi passata una notte fra quella neve non ne sarei uscito mai più, provai un tale smarrimento, un tale senso di solitudine e di paura, che mi voltai indietro senza esitare e rifeci di notte tutta la lunga strada, pure di togliermi alfine da quella valle silenziosa e spettrale. Giunsi a Pont verso le nove di sera, presi tosto una carrozza e non ebbi pace finchè non ebbi veduto da Cuorgnè il cielo aperto e largo della pianura. ———— *DEL MEDESIMO AUTORE* *TEATRO IN VERSI:* _Una Partita a Scacchi_—_Il Trionfo d’Amore_. Un vol. in-18º con illustrazioni a capo d’ogni atto (9ª edizione), 1885, L. 4 — _Il Fratello d’Armi_. Dramma in 4 atti in versi. Un volume in-18º, 1878. L. 4 — _Il Conte Rosso_. Dramma storico in 3 atti in versi con prologo. 3ª edizione. Un vol. in-18º con illustrazioni a capo d’ogni atto, 1881, L. 4 — _Il Marito amante della Moglie_. Commedia in 3 atti in versi. Un vol. in-18º, con illustrazioni a capo d’ogni atto (2ª edizione), 1879, L. 4 — _Luisa_. Dramma in 3 atti in versi.—_Sorprese notturne_. Commedia in un atto in versi. Un vol. in-18º con illustrazioni a capo d’ogni atto, 1881, L. 4 — _La Sirena_.—_Intermezzi e Scene_. Un vol. in-18º. (Si pubblica in Marzo 1886), L. 3 — _Il Filo_. Scena filosofico-morale per Marionette (2ª edizione, con illustrazioni di _Edoardo Calandra_). Un volume in-12º impresso sopra carta di filo a mano, L. 2 — _Fiori e Frutta_. Discorso letto il 9 sett. 1882 in occasione del 2º Congresso degli Orticoltori e Floricoltori italiani. In-12º, L. 1 — _Di prossima pubblicazione:_ _I Castelli della Valle d’Aosta_ e del _Canavese_ Un vol. in-12º con disegni e fototipie. _Teatro in Prosa_.—Vol. I: _Al Pianoforte_—_Acquazzoni in montagna_—_Non dir quattro, se non l’hai nel sacco_—_Storia vecchia_. Un vol. in-12º. Vol. II: _Resa a discrezione_. Commedia in 4 atti. Vol. III: _L’onorevole Ercole Mallardi_. Commedia in 4 atti. ———— Libreria-Editrice F. CASANOVA—Torino Bibliothèque de la Maison de Savoie _Tomes_ I & II GESTEZ & CRONIQUES DE LA MAYSON DE SAVOYE PAR JEHAN SERVION _Publiées d’après le Manuscrit unique (1363) de la Bibliothèque nationale de Turin et enrichies d’un Glossaire_ _par_ _Frédéric-Emmanuel Bollati_ _de Saint-Pierre_ Avec des Fac-simile en chromolithographie et à l’eau-forte 2 vol. in-8º sur papier vergé à la forme—1879—40 fr. Reliès (_reliure d’amateur_) dos et coins chagrin, tranches dorées en tête—50 fr. _Tomes_ III & IV HUMBERT III LE SAINT AMÉ VII LE ROUGE CRONIQUES DE PERRINET DV PIN _Publiées d’après les autographes des archives d’État de Turin_ par F. E. Bollati de St-Pierre. Deux vol. in-8º, sur papier vergé à la forme, avec têtes des chapitres et culs-de-lampe, reproduits de médailles du temps (_Mars, 1886_), Prix 30 fr.—Reliès 40 fr. ———— *Libreria-Editrice F. CASANOVA—Torino* *Covino A.*—_Guida al Traforo del Cenisio_—_Da Torino a Chambéry_. (3ª ediz., coll’aggiunta del viaggio da Chambéry a Parigi, Lione e Ginevra). Un vol. in-12º, con 30 incisioni e 5 carte, L. 3 — Ed. francese, L. 3 50—Ed. tedesca, L. 6 50. *Faldella Giovanni.*—_Un viaggio a Roma senza vedere il Papa._ Un volume in-12º, 1880, L. 1 50 —_Verbanine_. Lettere di un commesso viaggiatore, trovate da _G. Faldella_, con disegni del pittore _Giuseppe Ricci_. Un vol. in-12º (in preparazione). *Gallo Carlo.*—_In Valsesia_. Note di taccuino. Un vol. in-12º, con 30 disegni ed una carta, 1884, L. 4 — *Garelli G.*—_La cura termale in Acqui_. Guida per i medici e per i balneanti. Un vol. in-18º con una carta geog., L. 2 — *Babajoli C.*—_Guida alle Terme di Vinadio_. Un volume in-18º con carta geog., 1877, L. 1 50 *Ratti C. e Casanova F.*—_Alcuni giorni in Torino e dintorni._ Guida descrittiva-storica-artistica illustrata. (_Pubblicata per commissione del Municipio_). Un vol. in-18º con 50 disegni, una carta dei dintorni e la pianta della Città, 1884, L. 1 — La stessa in francese L. 1. *Ratti Carlo.*—_Da Torino a Lanzo e per le Valli della Stura._ Guida descrittiva, storica e industriale. Un vol. in-12º di 190 pagine con 33 vedute ricavate da fotografie, 1883, L. 2 — *Santanera V.*—_Brevi cenni sulle acque minerali, ed in particolare sulle acque di Courmayeur e Pré-St-Didier._ Nuova Guida pratica. Un vol. in-18º, 1879, L. 3 — *Vaccarone e Nigra.*—_Guida-itinerario per le escursioni nelle Valli dell’Orco, di Soana e di Chiusella._ Un volume in-18º con carta corografica, 1878, L. 2 50 Nota del Trascrittore Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, così come le grafie alternative (mormorìo/mormorio, capo-luogo/capoluogo, precipizî/precipizi e simili), correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. Sono stati corretti i seguenti refusi [tra parentesi il testo originale]: 2 - fare eco al proprio [propio] nome 22 - spesso delle scene violente [violenti] 49 - che contrastava colle violente [violenti] parole 70 - voglio salvarti [sarvarti] tuo malgrado 127 - la sua mansueta [mansuesta] acquiescenza 223 - provvedere all’avvenire [avvevenire] 224 - valutato a sessanta mila [mile] lire 264 - mi rinacquero [rinaquero] i primi sospetti 293 - la mia maraviglia non lo maravigliò [marivigliò] *** End of this LibraryBlog Digital Book "Novelle e paesi valdostani" *** Copyright 2023 LibraryBlog. All rights reserved.