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Title: I rossi e i neri, vol. 1
Author: Barrili, Anton Giulio, 1836-1908
Language: Italian
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                       I ROSSI E I NERI

                              I.



  +------------------------------------------------------------------+
  |                   OPERE di A. G. BARRILI.                        |
  !                                                                  |
  |  _Capitan Dodéro_ (1865). 13.ª ediz.                    L.  1 -- |
  |  _Santa Cecilia_ (1866). 11.ª ediz.                         1 -- |
  |  _Il libro nero_ (1868). 4.ª ediz.                          2 -- |
  |  _I Rossi e i Neri_ (1870). 6.ª ediz. (2 vol)               2 -- |
  |  _Le confessioni di Fra Gualberto_ (1873). 13.ª ediz.       1 -- |
  |  _Val d'olivi_ (1873). 18.ª edizione                        1 -- |
  |  _Semiramide_, racconto babilonese (1873). 9.ª ediz.        1 -- |
  |  _La notte del commendatore_ (1875). 2.ª ediz.              4 -- |
  |  _Castel Gavone_ (1875). 10.ª ediz.                         1 -- |
  |  _Come un sogno_ (1875). 25.ª ediz.                         1 -- |
  |  _Cuor di ferro e cuor d'oro_ (1877). 18.ª ediz. (2 vol.).  2 -- |
  |  _Tizio Caio Sempronio_ (1877). 2.ª ediz.                   3 50 |
  |  _L'olmo e l'edera_ (1877). 20.ª ediz.                      1 -- |
  |  _Diana degli Embriaci_ (1877). 2.ª ediz.                   3 -- |
  |  _La conquista d'Alessandro_ (1879). 2.ª ediz.              4 -- |
  |  _Il tesoro di Golconda_ (1879). 12.ª ediz.                 1 -- |
  |  _Il merlo bianco_ (1879). 2.ª ediz.                        3 50 |
  |    -- Edizione illustrata (1890). 5.ª ediz.                 5 -- |
  |  _La donna di picche_ (1880). 6.ª ediz.                     1 -- |
  |  _L'undecimo comandamento_ (1881). 13.ª ediz.               1 -- |
  |  _Il ritratto del Diavolo_ (1882). 4.ª ediz.                1 -- |
  |  _Il biancospino_ (1882). 12.ª ediz.                        1 -- |
  |  _L'anello di Salomone_ (1883). 3.ª ediz.                   3 50 |
  |  _O tutto o nulla_ (1883). 2.ª ediz.                        3 50 |
  |  _Fior di Mughetto_ (1883). 4.ª ediz.                       3 50 |
  |  _Dalla Rupe_ (1884). 3.ª ediz.                             3 50 |
  |  _Il conte Rosso_ (1884). 3.ª ediz.                         3 50 |
  |  _Amori alla macchia_ (1884). 3.ª ediz.                     3 50 |
  |  _Monsù Tomè_ (1885). 3.ª ediz.                             3 50 |
  |  _Il lettore della principessa_ (1885). 3.ª ediz.           4 -- |
  |    -- Edizione illustrata (1891)                            5 -- |
  |  _Victor Hugo_, discorso (1886)                             2 50 |
  |  _Casa Polidori_ (1886). 2.ª ediz.                          4 -- |
  |  _La Montanara_ (1886). 8.ª ediz.                           2 -- |
  |    -- Edizione illustrata (1893)                            5 -- |
  |  _Uomini e bestie_ (1886). 2.ª ediz.                        3 50 |
  |  _Arrigo il Savio_ (1886). 3.ª ediz.                        1 -- |
  |  _La spada di fuoco_ (1887). 2.ª ediz.                      4 -- |
  |  _Il giudizio di Dio_ (1887)                                4 -- |
  |  _Il Dantino_ (1888). 3.ª ediz.                             3 50 |
  |  _La signora Àutari_ (1888). 3.ª ediz.                      3 50 |
  |  _La Sirena_ (1889) 5.ª ediz.                               1 -- |
  |  _Scudi e corone_ (1890). 2.ª ediz.                         4 -- |
  |  _Amori antichi_ (1890). 2.ª ediz.                          4 -- |
  |  _Rosa di Gerico_ (1891). 3.ª ediz.                         1 -- |
  |  _La bella Graziana_ (1892). 2.ª ediz.                      3 50 |
  |    -- Edizione illustrata (1893)                            3 50 |
  |  _Le due Beatrici_ (1892) 5.ª ediz.                         1 -- |
  |  _Terra Vergine_ (1892). 5.ª ediz.                          1 -- |
  |  _I figli del cielo_ (1893) 5.ª ediz.                       1 -- |
  |  _La Castellana_ (1894). 2.ª ediz.                          3 50 |
  |  _Fior d'oro_ (1895). 4.ª ediz.                             1 -- |
  |  _Il Prato Maledetto_ (1895)                                3 50 |
  |  _Galatea_ (1896). 7.ª ediz.                                1 -- |
  |  _Diamante nero_ (1897) 3.ª ediz.                           1 -- |
  |  _Sorrisi di gioventù_ (1898). 2.ª ediz.                    3 -- |
  |  _Raggio di Dio_ (1899). 2.ª ediz.                          1 -- |
  |  _Il Ponte del Paradiso_ (1904). 2.º migliaio               3 50 |
  |                                                                  |
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  |  _Lutezia_ (1878). 2.ª ediz.                                2 -- |
  |  _Con Garibaldi, alle porte di Roma_, ricordi (1895)        4 -- |
  |  _Zio Cesare_, commedia in cinque atti (1888)               1 20 |
  +------------------------------------------------------------------+



                         I ROSSI E I NERI

                             ROMANZO
                                DI
                       Anton Giulio Barrili

                        (_in due volumi_)


                           Volume primo


                          SESTA EDIZIONE
               _intieramente riveduta dall'autore_


                              MILANO
                     FRATELLI TREVES, EDITORI
                              1906.



                       PROPRIETÀ LETTERARIA

                   _Riservati tutti i diritti._


                      Tip. Fratelli Treves.



PARTE PRIMA.



I.

Nel quale si discorre del bel tempo e si fa la conoscenza di qualche
personaggio.


Era uno dei primi giorni di febbraio, nell'anno di grazia 1857, ed
era, a mal grado della stagione, una bella giornata. A Genova le belle
giornate, anco nel cuore dell'inverno, sono la cosa più naturale del
mondo. Il cielo è sereno; il sole non si contenta di mostrarsi in
tutta la sua splendidezza, ma vi scalda sovrammercato; l'aria è
tiepida, sarei per dire balsamica. E perchè no? In questa città i
fiori durano nei giardini come nelle stufe, solo che vi pigliate la
briga di ripararli dal vento. Quando fanno di queste giornate, i
genovesi escon dal chiuso e vanno a passeggio, benedicendo alla
provvidenza, che ai giorni di pioggia, di vento e di neve, alterna
qualche settimana di questi giorni, che di là dalle Alpi ne vede pochi
l'Europa nelle sue più famose primavere.

Per le strade e pei vicoli, non essendo giorno di festa, si vedeva il
solito viavai: ma un attento osservatore avrebbe facilmente notata
l'assenza dello zerbinotto e della signora elegante. Infatti, era un
lunedì, e il veglione del teatro Carlo Felice era finito alle sei del
mattino. Le belle dormivano; e l'ora dei belli, come la dicono a
Genova con frase molto gustosa, non era anche suonata. I belli
duravano ancora nel primo sonno, quantunque fossero le undici
all'orologio delle Vigne, le undici e un quarto a quel della Posta.
Notiamo di passata che gli orologi di Genova non sono punto dissimili
da quelli delle altre città. Tutto il mondo è paese.

Il sole (non si sgomentino i lettori, che qui non si fanno descrizioni
retoriche) il sole indorava i tetti di lavagna e faceva scintillare
co' suoi raggi i vetri delle finestre; s'intende di quelle che erano
chiuse, perchè dove c'erano finestre aperte i raggi entravano senza
chieder licenza. E noi che per il nostro ufficio di narratori non
dobbiamo chiederne mai, ci metteremo a cavalcioni sopra un raggio di
sole, come faceva il fantastico Oberon sui raggi di luna, ed entreremo
per una finestra, che in quel giorno, a quell'ora, si ritrovava
aperta, a ricevere i tiepidi saluti di un'aria ristoratrice.

La casa in cui dobbiamo far entrare il lettore insieme con noi, era
una vecchia casa di tre piani, posta in via Luccoli. Sebbene di
modesta apparenza, lasciava intendere com'ella fosse stata la dimora
di una di quelle famiglie consolari, la cui nobiltà risaliva più su
delle Crociate, descritta a caratteri di buone opere e generosi
sentimenti di virtù cittadina nel libro d'oro della storia. Più tardi
la lunga consuetudine del potere, il fasto, la magnificenza del
vivere, diedero origine a più orgogliosa forma di patriziato, e si
fabbricarono i sontuosi palazzi, con le ville principesche. Ma noi,
rispettando i palazzi che attestano lo splendido uso delle ricchezze,
e i vecchi nomi non indegnamente portati da tardi nepoti, corriamo più
volentieri con l'animo alle memorie di Genova popolana, anteponendo i
modesti ricordi d'Almèria, di Tolemaide, di Caffa, alle pompose
tradizioni del Consiglietto, con la flotta francese innanzi al Molo
vecchio, o con le soldatesche del Botta Adorno entro le mura di Genova
patrizia.

Le pietre nere riquadrate formavano la base e il primo piano della
casa accennata; e la cornice sotto il secondo piano, colla sua fila
d'archetti del vecchio stile lombardo, era anch'essa di pietra dello
stesso colore, venuta dalle cave di Promontorio. Anticamente la casa
aveva posseduti i suoi portici; ma da un pezzo il vano tra le colonne
si era rimpicciolito ad usci di botteghe, e le colonne bisognava
indovinarle sotto l'intonaco profano di secoli più recenti. Gli
eruditi diranno a chi fosse appartenuta quella casa, e per qual
filiera di vendite fosse caduta in balìa di un mastro Nicola Ceretti
di Molassana, antico muratore, fattosi ricco più tardi del suo
milioncino, e di un figlio unico, il quale, tranne il nome profumato
di Arturo e la naturale differenza d'età, era tutto suo padre.

Ma dei Ceretti non dobbiamo darci pensiero per ora. Siamo ai primi di
febbraio dell'anno 1857, ed entriamo con un raggio di sole per una
finestra al terzo piano della casa in discorso, la qual finestra ci
lascia vedere un mondo di cose nella cameretta a cui ella dà il
conforto della luce e dell'aria.

Anzitutto, nel fondo, un letticiuolo, appoggiato con una sponda alla
parete; al capezzale un comodino colla sua lastra di marmo ingombra
per metà da una catasta di libri, a cui faceva la guardia una candela
stearica mezzo consumata, su d'un candeliere che voleva parere di
bronzo lavorato. Lì presso un cassettone di noce, ma di quella forma
bizzarra, ricca di sporti e d'intagli, che consola i dilettanti
d'anticaglie, e anch'esso col suo ripiano ingombro per una parte di
libri. Poco distante dalla finestra, e collocato pel buon verso ad
avere da sinistra la luce, stava un tavolino, che s'atteggiava a
scrivania.

Non dimentichiamo uno specchio appiccato alla parete, presso il vano
della finestra, e sopra lo specchio un certo trofeo di spade e
sciabole in croce; più lungi, in un angolo, un fucile di guardia
nazionale, con la sua baionetta voltata all'ingiù, e con larghe
chiazze di ruggine, che attestavano i suoi scarsi servizi, lasciando
supporre che il suo padrone andasse più sovente ad onorare di sua
presenza la sala di disciplina nel vicolo dei Salvaghi, che non il
portone del palazzo municipale.

Non finiremo questa breve descrizione senza accennare due quadri a
olio, di mezzana grandezza, che presentavano le figure di un uomo e di
una donna. Questa era una signora sui quaranta, d'una appariscente e
serena bellezza di forme, quantunque il pittore coscienzioso avesse
dovuto correggerne lo splendore con qualche ruga alle tempie, un
cerchio turchiniccio intorno agli occhi malinconicamente affondati, e
molti capelli grigi tra i neri. Questo ritratto di donna aveva molta
somiglianza, nel complesso dei lineamenti, con l'unica persona viva,
di sesso mascolino, che veniva passeggiando per la camera.

L'altro ritratto era quello di un bel soldato, con le insegne di
colonnello; stupenda testa, con grandi baffi e pizzo tra il biondo e
il castagno, spaziosa la fronte, nobile lo sguardo e pieno di bontà.
Il pittore, per un tratto di bizzarria non insolito in questo genere
d'arte, aveva dipinti gli occhi del colonnello in guisa che parevano
sempre guardarvi, da qualunque lato vi foste messo a contemplarlo.

Infatti, il giovine Lorenzo Salvani passeggiava su e giù per la
camera, e gli occhi di suo padre erano sempre fissi su lui. L'amore di
Lorenzo per suo padre era stato immenso, e pareva a lui, anima di
poeta, di non averne perduto l'amore, se, alzando gli occhi al quadro,
vedeva sempre il suo buon padre sorridergli.

I lettori non saranno scontenti di noi, che senza tanti preamboli,
abbiamo messo loro dinanzi l'inquilino di quella camera, visitata __ex
abrupto__ e senza passare per l'uscio. Eglino sanno ora che costui si
chiamava Lorenzo Salvani, che era giovine, ed anche poeta.
Intendiamoci, per altro; era poeta, e scriveva di molto, ma la sua
musa vereconda non aveva ancora gittato una strofa, o una pagina di
prosa ai dispregi del pubblico.

Lorenzo aveva venticinque anni, e studiava leggi all'Università. Bene
avrebbe potuto strappare la laurea qualche anno prima, se i suoi
studi, ch'erano stati altrettanto sodi quanto precoci, non avessero
patito una troppo lunga interruzione, durante la quale egli si era
addottorato nella disciplina delle armi, alla difesa di Roma, del
1849.

Ritratto non ne faremo, perchè non si capisce mai niente in questa
descrizione di bocche e di nasi, che è il forte di certi romanzieri; o
piuttosto lo faremo a spizzico, quando ci venga in taglio di accennare
a questi particolari. Era di capel bruno, di statura giusta, pallido,
con due occhi affondati e grandi come quelli di sua madre. Aveva
sempre sulla fronte una grand'aria di malinconia, diradata a tratti da
pazzi impeti di allegrezza, così forti e così brevi, da non parere
schietta espressione d'una gaia natura. Andava molto volentieri
vestito di nero, e colle mani inguantate. Nel momento in cui lo
troviamo, nella sua camera e solo, passeggiava in maniche di camicia,
con le mani raccolte dietro le spalle, come usava Napoleone il grande,
e come doveva esser costume di Alessandro Macedone, se è vero che
tutti i grandi uomini si rassomigliano nelle piccole cose.

Uno zibaldone squadernato lo aspettava inutilmente sul tavolino che
sapete. Egli già da un'ora andava misurando i sei metri di lunghezza
della sua camera; e chi sa quanto avrebbe passeggiato ancora a quel
modo, se un leggero batter di nocche sull'uscio non gli avesse rotto
il filo delle meditazioni, e se, mentre egli alzava la fronte,
l'uscio, che era appena socchiuso, non si fosse aperto tanto da
lasciar passare nel vano la più bella testa che Iddio avesse mai posta
sugli òmeri di una donna; una di quelle belle teste genovesi, ritratte
con tanto amore dai pennelli del Vandyck, piene di vita e di
leggiadria, dagli occhi sereni, che promettevano di diventar languidi
un giorno, se già non erano a mezzo, per l'ombreggiamento delle lunghe
ciglia. Il collo era forse d'una linea troppo lungo, per un sottile
ricercatore del bello assoluto; ma il bello relativo ci aveva il conto
suo, per dare un ragionevol sostegno ad una abbondanza prodigiosa di
capelli neri e lucenti, che la fanciulla stentava ogni mattina a
chiudere nel minore spazio possibile.

--Lorenzo,--diss'ella con un bel suono di voce argentina,--cercano di
voi.

--Di me?--chiese il giovine, trasognato.--E chi mai?

Per intendere la maraviglia di Lorenzo bisognerà sapere ch'egli non
riceveva nessuno. Amici ne aveva pochissimi, piuttosto conoscenti che
amici; e se gli occorreva di accennare il numero del suo uscio di
strada, non era certamente con aria d'invito. Non usava dimestichezza
colla gente, e non ne lasciava prendere; a molti aveva reso servizio,
senza chiederne mai a sua volta. Però gli era venuta la fama di
carattere chiuso, solitario, ed anche un tantino ombroso; tranne i
saluti di necessità, e le fermate di convenienza, non s'indugiava egli
con la gente, nè la gente inclinava a trattenerlo per via.

Soltanto l'Assereto, un antico suo compagno di scuola, aveva il
privilegio di andare attorno con lui; e allora a vederli erano
passeggiate lunghissime, in città, e fuori le porte. Ma i due amici si
vedevano di rado. L'Assereto era un giovinotto così affaccendato nella
piazza de' Banchi; Lorenzo Salvani, dal canto suo, viveva così immerso
ne' suoi studi, che l'amicizia, l'intrinsichezza loro passava quasi
inosservata; e il nostro Salvani restava sempre, nel concetto dei
giovani, il solitario e l'ombroso di prima.

Lorenzo aveva chiesto adunque chi fosse il nuovo e inaspettato
visitatore.

--Un signore,--rispose la fanciulla,--che dice di essere vostro amico.
Michele non ha saputo ridirmene il nome; lo ha fatto passare nel
salottino, ed io sono venuta ad avvertirvene.

--Grazie, buona Maria!--E lo sguardo del giovine si fece tutto
amorevole, per accompagnare quelle tre parole. Così nella voce, come
negli occhi, era una espressione ineffabile di tenerezza quasi
paterna.

Mentre egli s'era voltato per indossare il soprabito, si sentì
sfiorare il volto da qualche cosa, che, descritta in aria la sua
curva, venne a cadergli da' piedi. Era un mazzolino di viole mammole,
ch'egli si chinò prontamente a raccogliere. Rivòltosi da capo verso
l'uscio, Lorenzo Salvani vide ancora la testa di Maria, che lo
guardava e rideva.

--Orso!--gli disse la fanciulla, temperando col sorriso il
rimprovero.--Non siete venuto neanche a dirmi buon giorno, questa
mattina, e non meritate che sia dato a voi in altra maniera.

--Voi sarete sempre migliore di me;--rispose Lorenzo, mentre riponeva
il mazzolino tra le risvolte della sottoveste. Sono un orso; è proprio
vero.

--Oh, come la pigliate voi? Non lo dico già perchè sia vero;--replicò
la fanciulla, mettendosi sul grave.--So bene, io, che lavorate tanto,
e pensate ancora di più.--

Quindi levati gli occhi al ritratto della madre di Lorenzo, le scoccò
un bacio colla punta delle dita, e disparve.

--Chi è mai quest'importuno?--chiese a sè stesso Lorenzo, imitando
senza avvedersene il conte Almaviva nella prima scena del __Barbiere
di Siviglia__.

E si mosse, per andare nel salottino.



II.

Nel quale si dimostra come da buona pianta abbia a venir sempre buon
frutto.


Il primo a dir ciò, sebbene con diversa immagine, è stato Orazio
Flacco, in uno di quei versi, che vincono il bronzo al paragone. Verrà
il giorno, pur troppo, che in Italia non si saprà più il latino; ma in
qualche altro paese non lo avranno dimenticato; i versi del nostro
amico Orazio si leggeranno ancora, e si citerà sempre il suo aureo
dettato: __fortes nascuntur fortibus et bonis__.

Questo ricordo classico avrà fatto intendere al lettore il nostro
proposito. In quella che Lorenzo Salvani va a ricever quell'altro, che
ancora ignoriamo chi sia, non sarà male che diciamo qualche cosa
intorno alla famiglia del nostro giovine amico.

Il colonnello Salvani, già da due anni dormente il gran sonno, era
stato a' suoi tempi uno di quegli uomini che ad una mente eletta e ad
un cuor di leone accoppiano una squisita delicatezza di sentire.
Grande sventura, essere cosiffattamente dotati dalla natura; perchè
queste splendide virtù, con le quali si potrebbe fare il mondo, se
fosse ancora da fare, e soprattutto se francasse la spesa di farlo,
non riescono in quella vece se non a cozzar le une con le altre, o a
renderci sventurati, in un mondo già fatto, anzi così mal fatto come
ognun vede. Rigo Salvani, andando molto diritto sulla via del dovere,
seguendo il bene e propugnandolo in ogni occasione, aveva avuto di
molte amarezze, perfino nella ristretta cerchia de' suoi amici e
compagni di lavoro. In politica il cuore è un viscere inutile, spesso
anche dannoso; ed egli era così venuto, per una lunga trafila di
disinganni, a disdegnare il genere umano, con tutta la migliore
intenzione che aveva di amarlo.

In assai giovine età Rigo Salvani aveva preso a congiurare, ed era uno
dei più animosi soldati di quella falange sacra, decimata prima dai
patiboli di tutti quanti i governi della penisola, poscia dai campi di
battaglia, e schernita più tardi da una generazione di sconoscenti, i
quali si figurano di aver fatta essi la patria, perchè hanno comperato
cartelle del debito pubblico molto sotto alla pari, o perchè hanno
messo mano in laute imprese industriali. Ai tempi di Rigo Salvani
l'amor di patria non fruttava nulla in quattrini; e neanche in onori,
salvo alle volte il cordone dell'ordine riverito di mastro Impicca.

Ma lasciamo da parte queste malinconie. A Bologna, in una di quelle
spedizioni di carbonaro, o giù di lì, Rigo Salvani si era invaghito di
una nobilissima donna, e l'aveva fatta sua, nè parve che quelle nozze
scemassero l'audacia e la costanza del congiurato. Profondamente
innamorata di lui, animosa e paziente, Luisa Salvani fu una forza
nuova, non già un ostacolo ai propositi dell'intrepido uomo.

Il primo processo lo trovò padre d'un figliuoletto, e la dolcezza
degli affetti domestici fu turbata poi dall'esilio. La sua Luisa
rimase sola, sposa e vedova ad un tempo, senz'altra consolazione che
quella creaturina, di cui ella doveva custodir l'esistenza, innanzi di
poterla educare ai nobili esempi paterni.

Così visse Lorenzo Salvani dal 1832 fino al '47, sempre accanto a sua
madre, e non vedendo suo padre se non rarissime volte, allorquando
l'esule interrompeva i suoi sconsolati viaggi per venire a salutar di
soppiatto la moglie e fuggirsene da capo innanzi che la polizia avesse
sentore della sua presenza: mesti ritorni e meste dipartite, che poi
risplendevano come altrettanti fari luminosi sul mare tenebroso della
sua vita raminga.

Nè più riposato per lui fu il tempo succeduto all'esilio; perchè,
ritornato del '47 in Italia, Rigo Salvani partecipò ai moti di Genova,
che dovevano finire con la promulgazione dello Statuto e con la
dichiarazione della guerra santa, come la chiamarono allora; nè valse
a mutarle il nome che il papa Pio IX, dopo aver benedetta l'Italia, la
maledicesse pentito.

Non è nostro intendimento raccontare quel che operasse allora il
Salvani. Uomini come lui non potevano stare inoperosi, o mancare,
dovunque fosse da menar le mani; e quando le fortune d'Italia si
trovarono ridotte allo stremo sulle sacre mura di Roma, minacciate dai
fratelli di Francia, il Salvani era maggiore, e contava le sue quattro
ferite.

Era la sera del 29 aprile del '49, e il maggiore occupava coi suoi
legionari la porta di San Pancrazio, quando gli venne annunziata la
presenza di un giovinetto, il quale chiedeva di lui. Rigo Salvani
stava in quel punto scrivendo; però, fatto entrare il visitatore, gli
chiese, senza alzar gli occhi dal foglio, chi fosse e che cosa
volesse.

L'adolescente, ch'era vestito di rosso, e ad onta della tenera età
portava molto fieramente il cappello di feltro a larghe falde con la
penna tricolore, salutò militarmente e rispose:

--Sono Lorenzo Salvani.--

Immagini il lettore che senso facesse sull'animo del maggiore quella
breve risposta. Rigo Salvani balzò dalla sedia, corse ad abbracciare
il figliuolo, e tirandolo con dolce violenza sotto il lume d'una
candela, gridò:

--È lui, proprio lui!--

Ma l'ebbrezza di quell'amplesso paterno non fu lunga; il maggiore,
lasciata la bruna testa del figlio, che teneva stretta nelle palme,
ripigliò con accento di rimprovero:

--E tua madre, disgraziato?

--Mia madre,--rispose l'adolescente,--mi ha data la sua benedizione,
trovando giusto che dov'era il padre potesse stare anche il figlio.--

Il maggiore stette un istante a guardare quel sedicenne che ci aveva
le risposte così pronte, e che stava lì ritto e rispettoso davanti a
lui nella posizione del soldato senz'armi; poscia borbottò tra i
denti:

--Infine, ha ragione, ci può stare anche lui.--Abbracciò allora una
seconda volta suo figlio, e dopo averselo fatto sedere vicino, e
chiestogli le nuove di casa, proseguì:

--E adesso, in che compagnia sei?

--In nessuna, signor maggiore. Desidero di servire sotto il vostro
comando, se non vi è discaro.

--Sta bene; e quando sei giunto?

--Oggi stesso; vengo da Civitavecchia, e precedo i signori Francesi,
dei quali ho veduto lo sbarco, liberamente operato.--

Dicendo queste ultime parole, l'adolescente batteva de' piedi sul
pavimento, in segno di dispetto.

--Chétati!--rispose sorridendo il maggiore.--Non entreranno così
liberamente di qua.

--Lo credo; qui ci siete voi, padre mio. E poi, penso che i cittadini
di questa repubblica ricorderanno gli esempi dell'antica. Furio
Camillo era ben nato da queste parti.--

Lorenzo, sebbene in quell'anno avesse cominciato a studiare filosofia,
non aveva già dimenticati i due di rettorica. Parlava volentieri dei
Fabii, dei Manlii, dei Quinzii, e d'altri somiglianti semenzai
d'uomini prodi. Ancor egli aveva cantato a squarciagola per le vie di
Genova:

    Fratelli d'Italia,
      L'Italia s'è desta;
      Dell'elmo di Scipio
      S'è cinta la testa.
      Ov'è la Vittoria?
      Le porga la chioma;
      Che schiava di Roma
      Iddio la creò.

Rigo Salvani era tutt'occhi a contemplare suo figlio; ne ammirava lo
sciolto linguaggio e il piglio marziale. Lorenzo era ancora un
ragazzo, ma già in lui si sentiva l'uomo. Le prime schioppettate
avevano da compiere la trasformazione, e da porvi il suggello.

--Tu, dunque, sei venuto a tempo;--gli disse il maggiore.--Credo che
domani i signori Francesi, ai quali mi sembra che tu porti già un
grande amore, saranno alle viste.

--__Hannibal ad portas__. Ma noi, babbo, non istaremo a piagnucolare
come la plebe romana dopo la rotta di Canne, e muoveremo loro
incontro.

--Se questo sarà il comando dei capi.

--S'intende, signor maggiore. Ma poichè oggi, entrando in Roma, ho già
imparato a cantare: __Anneremo in Campidojo--A saluta' er berretto__,
non mi spiacerebbe cambiar domattina di musica. A proposito, padre
mio, dicono che il primo fuoco fa paura....

--Secondo i casi, ragazzo mio;--rispose il maggiore, che se la
spassava ad ascoltare la gaia parlantina del figlio.--Ed anche dipende
molto dalla compagnia in cui uno si trova.

--Orbene, padre mio, se non vi spiace, starò vicino a voi, farò di non
tremare. Se mi vedrete una brutta cera, ditemelo subito; la vergogna
mi farà diventar rosso come questa camicia.

--Te lo darò io, il rimedio contro la commozione del primo
fuoco;--disse il maggiore.--Mettiti a cantare la Marsigliese, e ti
sentirai un cuor di leone.

--Avete ragione, padre mio; ma io non la canterò certamente in
francese.

--E perchè?

--Perchè non mi pare ben fatto cantarla nella stessa lingua di chi
viene ad assalirci. Voi avete detto ch'io porto amore ai Francesi, e,
sebbene celiando, avete colto nel segno. Io amo molto i Francesi,
perchè sono un gran popolo, ed hanno fatto di grandi cose nel mondo;
ma la lingua della patria innanzi tutto. Ed io, per far le
schioppettate con loro, come dobbiamo, essendo assaliti, vedrò di
scordare che hanno fatta la rivoluzione dell'89 e promulgati i diritti
dell'uomo.

--Ecco, tu parli come un uomo di Stato, mio buon Lorenzino;--disse
Rigo Salvani, accarezzando i neri capegli del figlio.--Ma perchè non
vorrai tu cantare la Marsigliese nella sua lingua nativa? È il canto
della libertà, e la libertà è patrimonio di tutte le nazioni. D'altra
parte, mi dicono che sia impossibile voltarlo in italiano, conservando
tutti quei tronchi che sono nell'indole della lingua francese.

--Oh!--rispose Lorenzo con la baldanza spensierata che è propria dei
giovani.--Se la difficoltà è tutta nei tronchi, non è cosa da
spaventarsene; e poichè l'essenziale è di poterla cantare, io ne sono
venuto a capo. Non ci sarà la forza dell'originale; ma la musica
supplisce al difetto. Sentite un po'.

E l'adolescente cominciò in questo modo a cantare:

    Prodi, orsù; per la terra natia
      Il bel dì della gloria spuntò.
      Contro noi la tirannide ria
      Lo stendardo sanguigno levò.
      Udite voi?--L'empie coorti
      Van ruggendo per l'arso terren;
      Vengono, vengono, sul vostro sen
      A sgozzarvi figliuoli e consorti.
          All'armi, cittadini
      Stretti a drappel moviam!
      Corriam, d'un sangue vil
      Que' solchi abbeveriam!

--Benissimo! va innanzi:--gridò il maggiore Salvani.--La musica ci si
adagia abbastanza bene, in questa tua strofa. Sentiamo l'altra.--

Lorenzo, incuorato dalla lode paterna, proseguì con accento più
concitato:

    Che vuol mai questa folla di schiavi,
      Questa lega di perfidi re?
      Per chi mai questi ceppi da ignavi?
      Quelle pronte catene perchè?
      Forse per noi?--Su, ti disfrena,
      O gran tempo represso furor!
      Siam noi che pensano nell'imo cor
      Di ridurre all'antica catena?
        All'armi, cittadin!
      Stretti a drappel moviam!
      Corriam, d'un sangue vil
      Que' solchi abbeveriam!

--Lascio stare le altre,--soggiunse l'adolescente, com'ebbe finito il
ritornello,--e vengo subito all'ultima, a quella che ogni buon
repubblicano usa cantare in ginocchio.

    Santo amor della patria, tu incita,
      Tu sostieni la vindice man;
      Libertà, libertade gradita,
      Co' tuoi figli combatti sul pian,
      E volga a noi--i passi suoi
      La Vittoria, al tuo forte chiamar;
      E i vili veggano, presso a spirar,
      La tua gloria e il trionfo de' tuoi.
        All'armi, cittadin!
      Stretti a drappel moviam!
      Corriam, d'un sangue vil
      Que' solchi abbeveriam!

--Bene!--gridò il maggiore, stringendo il giovinetto nelle sue
braccia.--Tu sei davvero sangue del mio sangue.

--Ah! questo bel legionario è vostro figlio? Me ne rallegro con voi,
maggiore Salvani.--

Queste parole erano proferite da un nuovo personaggio, entrato allora
allora nella camera. Portava egli pure la tunica rossa e il cappello
di feltro nero colla penna dei tre colori, e sebbene non contasse
ancora i ventidue anni, aveva già aspetto d'uomo maturo. Il pensiero è
quella certa lama, così spesso adoperata a raffronti poetici, che a
lungo andare logora la guaina. Il viso pallido, lo sguardo e
l'atteggiamento malinconico, la fronte prominente e spaziosa sotto
l'onda dei lunghi capelli biondi, mostravano a prima giunta il
pensatore; e il pensatore a quell'età non poteva essere se non un
poeta.

--Sei tu, amico?--disse il maggiore, muovendo incontro al nuovo
venuto.--Eccoti mio figlio, per l'appunto, Lorenzo Salvani: un tuo
concittadino, il quale, scommetto, sa tutti i tuoi canti a memoria.

--Bello, e animoso, in verità!--soggiunse quell'altro.--Ed è
probabilmente lui, che ha tradotta la Marsigliese.

--L'hai dunque udito?

--Sì, mentre salivo da te. Sentendo il canto famoso in parole
italiane, mi sono fermato sul pianerottolo, per non interrompere. È
molto difficile voltare quell'inno nella lingua nostra, senza mettersi
in guerra dichiarata colla musica. C'è sopra tutto la prosodia del
quinto verso e del settimo, che non si acconcia abbastanza al ritmo
italiano. Io però mi rallegro con voi, signor Lorenzo Salvani. E a
proposito, l'ultima strofa non ce l'avete mica fatta sentire. Sapete
bene che la Marsigliese ha un'ultima, ultimissima strofa, dove sono i
fanciulli che cantano, come negli inni di Tirteo; __Nous entrerons
dans la carrière__....

--Ah sì, dite benissimo;--replicò il giovinetto;--e questi sono i
versi che stanno meglio sulle labbra d'un ragazzo par mio. Infatti, ho
tradotto anche questi:

    Noi verremo secondi a riscossa,
      Che i maggior non saranno già più;
      Ma là sparse sarannovi l'ossa,
      Ad esempio d'antica virtù.
      A quelli eroi--sopravvivendo,
      O con essi caduti sul pian,
      --«Hanno voluto» tutti diran
      «Vendicarli, o seguirli morendo».
        All'armi, cittadini
      Stretti a drappel moviam!
      Corriam, d'un sangue vil
      Que' solchi abbeveriam!

--Voi non dimostrate di voler aspettare che noi siamo morti,--disse
l'altro, quando Lorenzo ebbe finito di cantare,--perchè venite animoso
a mettervi in riga con noi. Da bravo, imitate vostro padre; e così
possano somigliarvi coloro che ci dovranno vendicare, quando saremo
caduti.--

Parole che arieggiavano il pronostico! Un mese dopo, quel giovine
pensoso doveva cader ferito alla Villa Corsini, e non morire nemmeno
sul campo di battaglia, ma sul letto di un ospedale, tra gli spasimi
della gangrena, e le palle di cannone ch'entravano per le finestre a
turbar l'agonia del Tirteo genovese.

Quando il nostro adolescente seppe che il suo interlocutore era
Goffredo Mameli, l'autore dei __Fratelli d'Italia__ e di tanti altri
bei versi che giravano manoscritti per Genova, arrossì un poco della
sua sconciatura, e più del coraggio con cui s'era fatto a metterla in
mostra.

Per fortuna, un soldato venne ad annunziare l'arrivo del generale
Garibaldi, il quale, seguito da parecchi ufficiali, andava visitando
le mura. Rigo Salvani e il Mameli uscirono incontro a lui, e Lorenzo
si pose sull'orme del padre.

L'eroe di Sant'Antonio e di Rio Grande fece un gran senso nell'animo
del giovinetto. Tutto ciò ch'egli aveva udito e letto intorno a quel
maraviglioso soldato della libertà, riusciva minore a gran pezza della
riverenza che gl'inspirava la vista del grand'uomo dalla camicia
rossa, coperto il petto e le spalle dal __poncho__ americano, onde il
braccio non poteva uscir fuori del tutto senza un certo movimento
dell'òmero e un alzar della mano, che rimarranno caratteristici nella
tradizione, come le braccia incrociate sul petto di Napoleone I, o le
mani raccolte dietro le reni di Federico il Grande.

A quell'aspetto veramente olimpico, sereno e dolce nella calma,
terribile ad un solo aggrottare di sopracciglia, Lorenzo intese d'un
subito tutta la possanza di quell'uomo sulle moltitudini; comprese
allora soltanto come potessero essere al mondo uomini tali, al cui
cenno altri si precipitasse senza esitare dall'alto d'una torre,
siccome egli aveva letto del Vecchio della Montagna; con questo solo
divario tra i due, che questi adoperava la sua sterminata autorità ad
operare il male, laddove il fascino del viso, della voce, del gesto di
Garibaldi non doveva esser volto altrimenti che al bene.

Il generale strinse la mano al maggior Salvani e al poeta genovese;
indi, come gli fu presentato il volontario sedicenne, gli pose la
destra sulla spalla e gli disse con la sua poetica breviloquenza:

--Bravo! Quando tutti i giovani faranno come voi, non ci sarà più
dispotismo sulla terra.--

Queste parole non le dimenticò più, il giovinetto Salvani; e gli
suonavano così spiccatamente negli orecchi il giorno appresso, che non
ebbe neanche bisogno del rimedio di suo padre per vincere la paura
delle prime schioppettate. In quello scontro e negli altri che
seguirono, si era diportato da valoroso: usciva nel giugno dalle vinte
mura di Roma, sconfortato e pieno di amarezze, ma colla coscienza di
aver fatto il debito suo, e meritato i filetti da ufficiale, che gli
erano stati conferiti dopo la gloriosa giornata di Villa Panfili. Suo
padre, poi, entrato maggiore in Roma, ne usciva colonnello.

Tornarono a Genova; Rigo Salvani per ritrarsi tosto in un suo podere
presso Montobbio, grossa terra del nostro Appennino, dov'era già la
moglie ad attenderlo; Lorenzo per proseguire gli studi all'Università
genovese, dopo che egli pure fu andato a passare alcuni giorni tra le
carezze di sua madre.

Triste ritorno, davvero: e non bastarono a temperarne l'acerbità gli
amplessi della donna gentile, nè il riposo delle domestiche pareti.
Roma era caduta: il 30 di agosto il Radetzky entrava in Venezia:
l'Austria metteva presidio in Alessandria, dove le sue soldatesche
erano precedute dalla musica, che suonava a scherno il __Fratelli
d'Italia__; i Francesi intanto restauravano il poter temporale dei
papi: le ultime fiamme di quel grande incendio che aveva signoreggiata
la penisola si andavano spegnendo tacitamente qua e là: morta la prima
grande rivoluzione d'Italia, soldati d'ogni paese e strumenti d'ogni
tirannia ne vigilavano mal raffidati il sepolcro.

Lorenzo si pose con tutta l'anima allo studio. Lo sconforto che gli
occupava lo spirito gli nutrì quell'amore della solitudine che già
rispondeva alle sue fantasie di poeta. Era sempre colla fronte china
sui libri, e nelle vacanze, quante ne offriva l'anno scolastico,
volava difilato a Montobbio. Colà suo padre faceva una vita che si
sarebbe potuta dir lieta, se le miserande fortune della patria non gli
avessero avvelenato ogni gioia, e fatto quasi parere un nuovo esilio
la pace della famiglia. Scorato, come tanti altri generosi della sua
tempra, passava il tempo a leggere di storia; ma, nelle vacanze del
figlio, le sue letture si alternavano colle lezioni di scherma, nella
quale il colonnello Salvani, italiano del vecchio stampo, era fin
dalla sua prima giovinezza diventato maestro.

Egli soleva dire a Lorenzo:

--Impara a leggere ne' tuoi codici; impara a scrivere le tue prose e i
tuoi versi; ma impara anche a dare in tempo la botta diritta, e a
piantare di primo lancio una palla di pistola in un palo, a quaranta
passi discosto. Il coraggio l'hai; abbi ancora la destrezza, perchè
gli uomini in maggioranza son tristi, e dai tristi bisogna sapersi far
rispettare. Ama la patria, perchè essa, che ti ha dato i natali, è
schiava dello straniero, e perciò non devi patire questa vergogna, non
già per alcun bene che tu ti possa riprometter da lei. Così devi amare
il tuo simile, senza dolerti delle sue doppiezze e de' suoi
tradimenti. Se trovi una donna sincera, amala come io ho amato ed amo
tua madre. Se trovi un amico che sia schietto e generoso, stendigli la
mano. Se la donna o l'uomo non risponderanno alla fede che avevi
riposta in essi, non ti accorare oltre il bisogno; sarà tanto peggio
per loro; tu ara diritto, e non ti dar pensiero del resto.--

Questi insegnamenti, misti alle conversazioni politiche, ai ricordi
del campo, alla lettura di Plutarco e alle lezioni di scherma, avevano
fatto opera gagliarda nell'animo sensitivo di Lorenzo. A quarant'anni,
ammaestrato ad una simile scuola, sarebbe riuscito uno stoico; ma non
aveva ancora diciott'anni, e lo aspettavano certe battaglie, alle
quali si mostra inerme quel petto che era pur dianzi tetragono ad ogni
avversità della vita.

La madre di Lorenzo era una di quelle donne, non troppo rare, la Dio
mercè, presso noi, cresciute nel culto del bello, del buono e del
vero. Ella aveva molto sofferto per la lontananza del marito, che
fortemente amava, e al quale aveva consacrato quel ragionevole
ossequio che si merita la virtù presso gli animi virtuosi. Egli, poi,
la ricambiava di pari affetto, la sua nobilissima Luisa; per lei si
spianavano le rughe della sua fronte; e quando ella parlava. Rigo
Salvani trovava pure il modo di comporre ad un sorriso quelle sue
labbra chiuse. L'amor loro poteva assomigliarsi a que' fiumi, i quali
son tanto più profondi, quanto alla superficie vi appariscon più
calmi.

E nondimeno taluni si argomentavano di sapere che negli anni
dell'esilio il signor colonnello avesse fatte le sue. Ignoravano
costoro che per la donna amata Rigo Salvani era tornato di sovente a
casa, sotto mentite spoglie, arrisicando la libertà e la vita. Non
erano questi davvero i diportamenti di un uomo, che mettesse i suoi
affetti fuggevoli in paese straniero. Tuttavia, ed eccettuato quel
tanto che vuolsi ascrivere al bisogno naturale della maldicenza, ecco
da dove quelle ciarle avevano potuto prendere una mezza apparenza di
vero. Al suo palese ritorno, che fu nel '47, Rigo Salvani aveva
condotta con sè una bella fanciullina di forse otto anni, collocandola
in casa come una sua propria figliuola.

Ora, siccome i Salvani vivevano piuttosto appartati, non si poteva a
tutta prima capire che cosa significasse quella ascosaglia. Le poche
domande che in un lungo spazio di tempo si poterono fare da qualche
curioso, erano accortamente deluse. Ne seguì naturalmente che quanto
non si sapeva di certo, si affermasse audacemente per vero, attinto da
buonissima fonte, e che presto non ci fosse più alcuno, tra i
conoscenti e i vicini della famiglia, il quale non credesse esser
quella una figlia naturale di Rigo Salvani. La cosa era chiara; non
poteva essere altrimenti; e qui taluno, di fantasia più ferace,
rimpolpava di qualche particolare la chiacchiera, accennando,
coll'aria di chi sa più che non voglia dire, a certo amorazzo di
Spagna, e compiangendo sinceramente la povera signora Luisa, costretta
a tenersi in casa quel frutto degli illeciti amori del vagabondo
consorte.

Ma la povera signora Luisa non pareva dolersene, come tutta quella
brava gente avrebbe desiderato, per accattar fede ai suoi benevoli
sospetti. Essa amava teneramente la fanciulla; ed anche Lorenzo, di
sette anni maggiore in età, l'aveva in conto di sorella. Quante volte
ritornava a Genova in vacanze, ci aveva sempre il suo presente per la
cara Maria, che d'anno in anno cresceva in bellezza, affinandosi in
grazia, in gentilezza, in bontà, tutta amore e devozione per quella
che aveva preso a chiamare anche lei col dolce nome di madre.
Presentiva ella, tenendosi così stretta al fianco della pietosa
signora, che troppo breve spazio di tempo le sarebbe avanzato per
dimostrarle tutta la sua gratitudine?

Nel '55 la signora Luisa morì: il colonnello, d'allora in poi, fu più
taciturno, più chiuso del solito: Lorenzo per quell'anno lasciò le
Pandette e il Digesto da banda, e non si mosse da Montobbio, perchè,
oltre il suo proprio dolore che lo aveva abbattuto, c'era
l'accoramento del babbo, che gli faceva paura.

Tutte le mattine, sull'alba, Rigo Salvani era al camposanto a salutare
la tomba di sua moglie, quella tomba che racchiudeva la miglior parte
di sè, tutte le ricordanze profumate della sua giovinezza, gli amori,
le gioie, i patimenti in ugual misura divisi tra due nobili cuori. Nè
l'amore dei figli poteva più bastare a quell'anima sconsolata. I figli
nostri son nati per la vita del futuro, nè ci compensano della perdita
di chi ha vissuto con noi amorosamente il passato.

Un giorno. Rigo Salvani, andato secondo il costume al camposanto, non
ne fu più visto ritornare. Lo trovarono freddo irrigidito sulla tomba
della moglie. Le due parti d'una sola esistenza, che tali si potevano
dir veramente, divise per breve ora dalla morte, si erano nella morte
ricongiunte. L'orfano pianse a lungo i parenti, ed allorquando le
lagrime cessarono, il suo cuore era già largamente abbeverato di
quella amarezza, che è il viatico degli onesti nel mare procelloso
della vita. Dei cari estinti gli rimaneva pur qualche cosa; il culto
dei severi insegnamenti, il sacro debito di dar sesto alle non
prospere cose domestiche, e di essere a sua volta come un padre per la
giovine Maria.

Lasciò allora la campagna, e pose dimora in Genova, dove sperava di
cavare in qualche onesta maniera il vivere, pure attendendo a finire i
suoi studi. Delle sostanze paterne ben poco si potè sottrarre ai
creditori ed ai vampiri giudiziarii. Intanto due anni passarono, e
salvo l'esser giunto a conseguir la licenza in leggi, il povero
Lorenzo non era venuto a capo di nulla. E di sovente pensava al triste
futuro, alla sua vita senza indirizzo, senza speranze, con pensieri a
contrasto coi fatti, come con le necessità urgenti del giorno. Vero
figlio del suo secolo, si lagnava del padre suo che lo divorava, come
Saturno la prole.

Che cosa avrebbe egli fatto? L'avvocato? Era una bisogna troppo lunga,
nè egli aveva modo di aspettare un altr'anno per la laurea, poi due
per le pratiche, e dio sa quanti altri per sudarsi una clientela.
C'erano i pubblici uffizi; ma in questi si comincia sempre dal
lavorare per nulla, e a farsi avanti occorre poi sempre una legione di
santi intercessori, Darsi al commercio? Peggio che mai. Anche a
cominciar da scritturale, da commesso, da galoppino, gli sarebbe
bisognato rifar da capo tutta la sua educazione, e aver conoscenti che
sapessero e volessero raccomandarlo caldamente qua e là, dove e quando
il posticino si potesse trovare. Intanto, il bisogno di lavorare
incalzava. Lorenzo era giunto a quell'ultimo stadio dell'agiatezza,
allorquando dall'oggi al domani si casca nelle strette della
necessità, perchè si è vissuti con gli ultimi avanzi di una modesta
sostanza, e non si sa ancora che cosa sostituirvi.

Egli tuttavia non si era perduto d'animo, vagheggiando in buon punto
un modesto disegno. Apertosi schiettamente coll'amico Assereto, aveva
finalmente, nè senza fatica, trovato qualche cosa. L'Assereto era uomo
di partiti, e di facile entratura; amava anche molto Lorenzo Salvani,
col quale discorreva volentieri di letteratura. Il che non deve far
maraviglia ai lettori non genovesi. Essi hanno da sapere, infatti, che
da noi le Camene son tenute in conto più che a prima vista non sembri.
La necessità fa l'uomo industrioso, perciò il genovese, quando sia
giunto all'età di dover pensare ai casi suoi, si mette a lavorare con
tutte le sue forze; ma non dimentica le panche della scuola, e gli
studi geniali della adolescenza gli sorridono sempre, come l'immagine
dell'òasi al viaggiatore del deserto. S'ingegna tutto il giorno sulla
piazza de' Banchi e sulla popolosa calata del porto; ma si riposa alla
sera discorrendo d'arte, mettendo a confronto drammi e commedie,
teatri di prosa e teatri di musica, ed accettando la discussione su
tutti i rami dello scibile.

L'Assereto, voleva ad ogni costo trovar modo di aiutare l'amico
Salvani. A grossi guadagni non c'era da pensare, pur troppo; ma
occorreva procacciargli tanto da tirar avanti la barca, aspettando una
giornata di buon vento. Quel tanto, gli pareva di averlo trovato
presso un ricco bottegaio, il quale «sapeva poco di lettera», e aveva
bisogno di uno, che ogni sera gli mettesse a segno i suoi conti.

Non arriccino il naso certi lettori schizzinosi, al sapere che Lorenzo
Salvani, uno dei più ragguardevoli personaggi della nostra storia,
teneva i libri d'un bottegaio. Se hanno essi un'altra occupazione più
nobile da offrirgli, ci usino la cortesia di avvisarcene, e noi lo
accomoderemmo subito al loro servizio. Di meglio non s'era trovato
allora; ma era pur sempre il principio di qualche cosa. Ottanta lire
al mese, pagate in sedici scudi d'argento, non erano una spregevole
moneta, e Lorenzo Salvani la guadagnava con due orette di lavoro
notturno, che neppur l'aria aveva a risaperlo.

Quelle ottanta lire, messe insieme con qualche avanzo delle antiche
sostanze e con alcune gioie di famiglia, vendute alla spicciolata,
aiutavano tre persone a vivere. Lorenzo, la giovine Maria, ed il
vecchio Michele, veterano di Montevideo e di Roma, il quale, a sua
volta, si acconciava all'umile ma gradito ufficio di servitore. La
pigione di casa, al tempo in cui comincia il nostro racconto, era
pagata ancora per tre mesi.

E adesso, che abbiamo fatto intendere un poco lo stato delle cose
nella famiglia Salvani, non sarà male proseguire la narrazione
interrotta.



III.

Nel quale si racconta di un uomo di capelli rossigni, e di una
spasimata voglia che aveva di scendere in campo per la sua dama.


Abbiamo lasciato Lorenzo nel punto che egli era per entrare nel
salottino, chiedendo a sè stesso chi fosse mai l'importuno che veniva
a cercare di lui. L'importuno era un giovinotto sui trenta, lungo e
magro, con una testa volgare, capelli rossigni e ruvidi, corti e radi
i peli sul viso, la guardatura fosca. Non bello, adunque; ma non per
niente è stata inventata la moda, che anco d'un ceffo di cane può
farvi una faccia da figurino di Parigi.

I capelli rossigni del nuovo venuto erano dunque tagliati a spazzola
sulle tempia, con la divisa tirata ben diritta e bene impomatata sul
cranio. La barba rada, che traeva un pochettino al castagno, si
stendeva tra gli orecchi e gli zigomi in due ventole smilze. Il labbro
superiore e il mento accuratamente rasi, lasciavano risaltare una
bocca sottile, ornata di denti bianchissimi, ch'egli faceva spesso
vedere, con notevole compiacenza. La magrezza delle membra, coll'aiuto
d'un vestimento all'inglese, simulava sveltezza di forme. I guanti
perlati, coi tre cordoncini neri sul dorso, che era mezzo coperto dai
manichini insaldati, lo stivalino inverniciato, e l'occhialetto
cerchiato di tartaruga, davano il compimento a questo esemplare della
grazia posticcia d'allora, e di poi. C'era insomma tutta la parte
materiale della eleganza aristocratica; e l'aspetto dell'uomo, così
ridotto a forme di consuetudine, poteva riuscir tollerabile ai più, e,
crepi l'avarizia, parer grazioso a parecchi.

Lorenzo Salvani non seppe trattenere un atto di maraviglia, quando
vide costui nel suo salottino. L'inarcamento delle ciglia e la testa
tirata indietro significavano il più grosso dei punti ammirativi, e
una filza di puntini per giunta.

--Collini!--esclamò egli, senza muoversi ancora dal suo atteggiamento.

--Sì, Collini, per l'appunto;--rispose l'altro con un sorriso ch'egli
si studiava di rendere amabile.--Vi maraviglia forse?

--Forse; lo avete detto voi stesso;--ripigliò Lorenzo, con accento
malizioso, ma senza cattiveria.--Ma che buon vento vi sbalza quassù?

--Non troppo buono, per verità;--disse il Collini.--Comunque sia, non
vi dispiaccia che io sia venuto da voi per chiedervi un servizio da
amico.

--Non potevate farmi cosa più grata,--disse di rimando il
Salvani.--Son così lieto quando posso renderne uno, che ciò mi consola
della mia pochezza, e della mia povertà. Accomodatevi, prego, e
veniamo all'essenziale.

--Eccolo;--rispose il Collini, sedendosi sulla scranna che Lorenzo gli
offriva.--Questa notte, alla veglia del Ridotto, sono stato insultato.

--Oh diamine! e da chi?

--Dal marchesino di Montalto. Un tale che non ha il becco d'un
quattrino! Lo conoscerete; è quel coso biondo, tutto superbia, che va
sempre ritto impalato, nell'eterna compagnia del Pietrasanta.

--Voi sapete che io non ho dimestichezza con questi signori del
patriziato. Vivo così fuori del mondo!

--Ah, è vero; e forse è il meglio che si possa fare;--concesse con un
mezzo sospiro il Collini,--Ma a noi la professione comanda di viverci
dentro, e bisogna adattarsi. Io dunque vi dicevo che questa notte, al
ridotto del Carlo Felice, sono stato insultato dal signor Montalto, e
alla presenza di una signora, di una dama.

--Perdio! la cosa è grave. Ma dite.... in che modo?

--Oh, si andrebbe per le lunghe;--rispose il Collini, con aria
impacciata.

--Scusate;--si affrettò a dire Lorenzo.--Non domandavo del modo, se
non per misurare la gravità dell'offesa, e non pensavo affatto alla
persona che era presente. Le donne, in questi casi, van nominate il
men che si può. Ma bisognerà pure, se debbo darvi consiglio, bisognerà
pure ch'io sappia la frase, la parola di cui vi ritenete offeso.

--Avete ragione, Salvani; ed ecco qua tutto il necessario.
Accompagnavo la signora, che era mascherata. La signora bisbigliò
alcune parole, certamente di grazioso motteggio, come è l'uso, al
marchese di Montalto, il quale stava insieme col marchese Pietrasanta,
in un angolo della sala dove c'è il camino. Non udii le parole della
signora; ma quali si fossero, non dovevano meritare una dura risposta,
alla quale essa ribattè prontamente ch'egli non era cortese. Notate,
Salvani, che la signora è di buonissima nobiltà, e le smorfie del
Montalto, che non potrà poi far risalire la sua al tempo delle
Crociate, erano veramente fuori di posto, e un grazioso motteggio
della contessa.... Oh, perdonate, quasi mi lasciavo sfuggire il suo
nome.

--Non importa,--disse Lorenzo.--Io non soglio ricordarmi di ciò che
debbo dimenticare. Proseguite pure.

--Orbene,--soggiunse il Collini,--a quel piccolo rimprovero della
signora, il Montalto fece un inchino impertinente, accompagnato da un
sorrisetto sarcastico.

--E voi?

--Io non potei ritenermi dal fargli notare la sconvenienza del suo
ghigno. Ma egli allora, rialzando il capo e guardandomi in atto
sdegnoso, mi disse: «Voi badate ai fatti vostri». Volli replicare; ed
egli da capo: «Mi provocate voi forse?»--«Sì, perchè no?»--«Voi?»
ribattè egli, beffardo.--«Signore» dissi allora, «io non so di che
cosa possiate ridere, quando io vi parlo in questo modo; ma penso lo
direte a coloro che avrò l'onore di mandarvelo a chiedere».--«Saranno
i ben venuti» rispose; e ci separammo. Eccovi tutto l'accaduto. Che
cosa debbo fare?--

E il giovinotto dai capelli rossigni stette ansioso ad aspettar la
risposta.

--Perbacco!--esclamò Lorenzo Salvani.--Non trovo altro modo di
uscirne, se non mandando i padrini a questo marchese di Montalto. La
ragione del duello mi sembra assai lieve; ma probabilmente c'è sotto
qualche ruggine colla signora....

--Colla signora? Oh no;--rispose il Collini.--Ella mi disse di non
conoscere il Montalto altrimenti che di vista, e di non avergli detto
se non cose gentili, e molto innocenti.

--Allora ci sarà una ruggine del Montalto con voi.

--Eh, qui penso che abbiate ragione, Salvani. Egli deve volermi un mal
di morte, perchè gli ho lasciato sempre intendere di non stimarlo gran
che.

--Male!--esclamò Lorenzo.--Consentite a me, più giovine di voi, ma
vostro antico compagno alle medesime scuole, di sgridarvene un poco.
Gli uomini bisogna stimarli tutti, senza accarezzarne nessuno. Ora a
noi; in che cosa posso esservi utile?

--Già lo immaginate, poichè vi ho detto d'esser venuto chiedervi un
servizio. Fatemi da padrino.

--Sta bene;--disse Lorenzo, accennando del capo.--Siete pratico
d'armi?

--E di sciabola e di spada ho tre anni di scuola, da Licurgo Cavalli.

--Ce n'è d'avanzo. E di pistola?

--Mi son sempre esercitato.

--Ottimamente! Due grammi di coraggio, di cui non patirete certamente
difetto; due di sangue freddo, che è proprio dell'arte vostra, e siete
armato di tutto punto. Dove abita questo Montalto?

--In via Balbi.

--Palazzo?...

--Oh, non abita in un palazzo, il marchese di Montalto. La nobiltà ce
l'ha tutta in boria. Non ricordo più il numero dello stabile; ma non
vi sarà difficile trovarlo, prendendo lingua dai bottegai di là dal
palazzo Reale. Aspettate; ricordo che c'è un portinaio, e ch'egli
abita al secondo piano.

--Bene, bene, lo troveremo;--conchiuse Lorenzo.--Ma, a proposito del
mio plurale, non avete un compagno da darmi, per questa bellica
impresa?

--Non ne ho; non saprei....--disse impacciato il Collini.

--Come? E non siete voi sempre in fiorita compagnia, nella quale
potrete sempre trovar l'uomo che occorre?--chiese Lorenzo, che non
poteva più stare alle mosse.--I vostri antichi compagni li avete
sempre trascurati un tantino, per andare con altra gente, e di maggior
levatura. Non dico ciò per farvene un rimprovero. Dio guardi. Accenno
il fatto, e ripeto lagnanze di vecchi amici, che forse, confessatelo,
da un pezzo in qua non v'accorgevate nemmeno che fossero al mondo.

--È un'accusa che non merito;--gridò il Collini, arrossendo.--La mia
professione di medico, l'onesto desiderio di tirarmi innanzi, mi hanno
condotto a vivere più in un ceto che in un altro; ma io vi giuro....

--Oh, non giurate nulla;--interruppe Lorenzo.--Capisco tutto, e vi
ripeto che non parlavo per farvi rimprovero. Io, finalmente, debbo
riconoscere che nel momento del bisogno avete pur fatto capo alla mia
modesta persona. Sapete da quanto tempo non ci troviamo insieme? Da
due anni.

--Credete?--balbettò il Collini, arrossendo ancora.

--Se lo credo! ne son certo. Ma andiamo, via! Non avete tra i vostri
magnati l'uomo che vi possa servire? Lo cercherò io tra i miei fedeli
del buon tempo e del gramo. Pregherò l'Assereto di darmi man forte.

--L'Assereto? Mi par di conoscerlo.

--Certamente, lo conoscerete. Studiava filosofia con me,
all'Università, quando voi eravate ai primi anni di medicina. Ma noi
altri non ci siamo perduti di vista, sebbene egli abbia mutato strada.
Ordunque, ai fatti. Aspettatemi due minuti, e sono ai vostri
comandi.--

Come il lettore ha veduto, questo signor dottor Collini, che veniva a
chieder servizi di tanto rilievo, non si faceva notare per costanza
nelle sue amicizie. Inoltre, viveva in un ceto di persone, e andava a
cercare assistenza fraterna in un altro, in quello, per l'appunto, che
aveva abbandonato.

Il dottor Collini (lo diciamo ora, poichè ci viene in taglio) era un
ambizioso di tre cotte, e della modesta sostanza che aveva ereditata
dai suoi, si era giovato accortamente per frequentare i gran signori.
Esercitava la medicina, nella quale era versatissimo e già famoso per
qualche cura fortunata, sebbene ancor giovine: ma si diceva che quel
giovine medico s'aiutasse più con la sottigliezza dei raggiri che con
la bontà delle ricette. E taluno, anzi, più addentro in certi misteri
della vita cittadina, lo accusava d'imprestar denaro ai figli di
famiglia, ai troppo vivaci rampolli delle nobili casate con le quali
era entrato in relazione, per farselo poi restituire raddoppiato dai
frutti, o triplicato, o quadruplicato, col savio metodo delle
rinnovazioni. Ahi, la calunnia! Ma egli in questi negozi non entrò mai
per suo conto: parlava, faceva parlare da altri, e non domandava
nemmeno di essere ringraziato della sua cortese intromissione. Al più,
volendo malignare ad ogni costo, si sarebbe potuto dire che egli
sapesse collocar bene il suo denaro, essendo uno dei socii occulti del
banco Cardi Salati e C., del quale a suo tempo racconteremo vita e
miracoli. Brutta cosa, non è vero? Ma questa non si sapeva, e quanto a
certe chiacchiere di gente malevola, il Collini le poteva disprezzare.
Dotto e virtuoso per molti, non aveva agli occhi loro altro difetto
che l'ambizione, anzi la forma più tenue dell'ambizione, la vanità. E
se ne rideva un pochino, senza perdergli stima. Si sa bene, chi non ha
il suo difettuccio? La vanità è il piede di creta di tanti colossi! Ma
bisognava anche dire che la vanità del Collini, non che un piede,
fosse una gamba a dirittura.

Per avere un titolo di conte, il giovinotto avrebbe sacrificato Dio sa
che cosa, e, stiamo per dire, battuto moneta falsa. Però invidiava al
marchese di Montalto le sue pergamene, come gl'invidiava la bellezza
(un po' sciocca, la chiamava egli tuttavia) e i sospiri delle belle
signore. In teatro gli davan noia gli applausi prodigati ad un tenore,
come di cosa che gli levassero a lui: sulla pubblica piazza avrebbe
augurato il capitombolo ad un saltatore di corda, ad un mattaccino,
per tutte le prodezze che sapevano fare, e che tiravano troppo
l'attenzione della folla.

Lorenzo Salvani non sapeva niente di ciò. Nel Collini non vedeva altro
che un semplice vanerello, e, da buon filosofo com'era, gli perdonava
facilmente quel suo peccatuccio. Era d'altra parte contento che
nell'ora della necessità, in una di quelle occasioni che provano gli
amici, il Collini si fosse ricordato d'un vecchio compagno di scuola,
da gran tempo a mala pena salutato per via.

Così risoluto di rendergli servizio, si vestì in fretta, mise nel
taccuino alcuni biglietti di visita, e uscì di casa in compagnia del
Collini, suo Pilade improvvisato.

L'Assereto fu presto scovato tra piazza dei Banchi e il vicolo de'
Cartai, ragguagliato d'ogni cosa e persuaso a dare una mano. Due ore
più tardi, egli e il Salvani erano al caffè della Concordia, dove il
Collini stava aspettando l'esito della loro visita al marchese di
Montalto.

--Ebbene?--chiese egli ansioso.

--Tutto fatto;--rispose Lorenzo.

--Come, fatto?

--Eccovi tutto per filo e per segno. Abbiamo trovato il signor
marchese, assai garbato nei modi, quantunque ne trapelasse un poco
della sua alterigia. Saputo del nostro incarico, ci domandò se
sapevamo anche le condizioni dell'alterco tra lui e voi. Io, come
potete immaginare, risposi di no; che infatti siamo ancora adesso a
non saperne nulla. Parve meravigliato, e mormorò tra i denti: «Tanto
meglio; vorrei essermi ingannato». Gli chiesi allora che cosa
significassero quelle sue parole di colore oscuro. «Niente, niente che
vi possa dispiacere, nel vostro delicatissimo ufficio» si affrettò
egli ad aggiungere colla maggior compitezza. «Voi bene intenderete,
signori, che per andarmi a incontrare sul terreno col signor Collini
io non sono certamente costretto a pensare di lui come ne pensano i
suoi amici. La sua riserbatezza, del resto, gli fa molto onore, e voi
vedete che amo rendergli giustizia. I miei padrini sono il marchese
Pietrasanta e il conte Nelli di Rovereto, capitano nel settimo
reggimento di fanteria». Infatti, quei due signori erano in casa sua,
e ce li presentò. Sono due compitissimi cavalieri, e c'intendemmo
subito. Noi abbiamo lasciato loro, com'era giusto, secondo gli usi
nostri, la scelta dell'arma, ed essi hanno scelta la spada.--

Un sottile osservatore avrebbe potuto notare un lieve mutamento sul
volto del Collini, una cosa da niente, ma di quelle che bastano a far
sentenziare sommariamente di un uomo. Lorenzo tuttavia non si addiede
di nulla, e la faccia del Collini si ricompose prontamente. Che paura,
del resto? Una piccola scossa, a tutta prima, sentendo nominar l'arma
che si dovrà maneggiare. Ma le armi son tutte pari, davanti alla
fortuna che le guida.

--Domattina,--proseguiva Lorenzo,--alle ore cinque dobbiamo trovarci
in Albaro, presso la chiesuola diroccata di San Nazaro. È un ottimo
luogo. Le armi le porterò io, che sono di Toledo, col __Christi__
inciso sul forte della lama. Siete contento?

--Contentissimo:--rispose il Collini;--e vi ringrazio di cuore.

--Anch'io sono contento,--disse il Salvani.--Non già del duello. Ma
poichè bisognava farlo, preferisco la spada. È un'arma meno chiassosa,
e di antica nobiltà italiana.

--Così penso ancor io;--riprese il Collini.--Io dunque faccio
assegnamento su voi altri.

--State sicuro. Ma, a proposito, e il ritrovo? Verremo da voi alle
quattro, se vi conviene....

--No, no;--interruppe il Collini.--Non venite da me; ci ho le mie
buone ragioni; temo che s'indovini dove vado. Per una visita medica,
che fingerò di aver da fare, non è proprio necessario che si vedano
due gentiluomini al mio uscio di casa. Farò dunque in modo da non dar
sospetti in famiglia, e alle quattro e mezzo sarò io stesso a' piedi
della collina, sotto la villa del Paradiso.

--Vi aspetteremo dunque lassù. E adesso dove andrete?

--Dal Cavalli, a rifare la mano.

--Benissimo; a domattina.--

I due amici, salutato il Collini, andarono pei fatti loro. Ma come
furono giunti sulla piazza delle Fontane Amorose, l'Assereto si fermò
sui due piedi, guardando il compagno.

--Ebbene?--disse Lorenzo.--Che c'è?

--Sai una cosa?--disse di rimando quell'altro.--Questo Collini non mi
pare un uomo solido.

--Baie! e perchè?

--Perchè più volte ho cercato di guardarlo nel mezzo degli occhi, e
non ne sono mai venuto a capo.

--Sai che è una sua abitudine non guardar mai fissamente. E voi altri
lo tartassavate sempre per ciò, dandogli del gesuita a tutto pasto.

--Sì, quello che vuoi; ma la sua faccia mi persuade meno che mai.
Credo che sia pentito d'essersi messo in questo impiccio.

--E in questo noi non ci abbiamo da entrare;--rispose il Salvani.--È
venuto a chiederci un servizio; glielo abbiam fatto, e penso, mettendo
la modestia da banda, che non avrebbe potuto trovare altri due che lo
servissero meglio. Sul terreno farà il debito suo. Li conosco bene,
questi uomini: non hanno il coraggio impetuoso, ma il sentimento della
loro dignità li sostiene. E poi, questo non è il suo primo duello.

--Credi? Ebbene, si vedrà domattina. Addio; sarò da te questa sera.--

Così dicendo, l'Assereto se ne andò a casa sua, per la salita di Santa
Caterina, crollando il capo come l'Apostolo del dito; benedettissimo
uomo, che voleva vedere e toccare.

Lorenzo Salvani discese dai Ferri della Posta verso Luccoli, e
rientrando in casa ordinò al fido Michele che spiccasse le spade dal
trofeo, per dar loro una ripulita. Poi si mise da capo a tavolino,
ripigliando a scrivere nel suo zibaldone, con la voluttà dell'uomo
povero, che ha tutti i suoi feudi nel regno della fantasia.



IV.

Qui si mostra con la prova in mano come gli angeli non siano poi tutti
in paradiso.


Qualche lettore curioso vorrà sapere dell'altro intorno a quella
testolina di fanciulla, che insieme abbiam vista apparire dal vano di
un uscio, e di cui, con pochi e rapidi tocchi abbiamo anche abbozzato
una specie di ritratto. E noi vogliamo contentarlo, questo lettore
curioso, anche a costo di non far correre abbastanza spedito il
racconto.

Maria era bella, come si è detto, ma non di quella bellezza tutta
seste, misure e proporzioni, che piace nelle statue, ed è muta e
fredda com'esse; bensì di quella viva e calda e prepotente bellezza,
che è tutta espansione, accoppiando la soave euritmia delle forme al
raggio divino dell'anima, per modo che tutto parli in lei e commuova,
perchè tutto palpita e vive. Il carattere di quella bellezza faceva
senso, la grazia angelica de' suoi contorni soggiogava gli occhi e gli
spiriti. I capelli neri, che traevano all'azzurro intenso come la
classica ala del corvo, i neri occhi, le lunghe ciglia, il naso
profilato, la bocca vermiglia, il volto ovale, l'incarnatino delle
guance, i delicati contorni del collo, erano tanti ingredienti coi
quali uno scrittore esercitato avrebbe potuto comporvi una bellissima
testa, e che noi, non sapendo far meglio, vi mettiamo qui alla
rinfusa, perchè vogliate formarvela da voi, coll'aiuto della vostra
immaginazione.

Maria aveva di poco passati i suoi diciott'anni; ma il suo cuore,
castissimo sacrario di nobili affetti, ne aveva quindici appena. Però
gli occhi della fanciulla splendevano di una luce modesta, non
scintillavano ancora. Per lei tornava a mente il primo verso d'un
celebrato poema del Moore, nella amorosa versione del Maffei: «Sul
mattin della vita era il creato». La scienza del bene e del male non
aveva ancora profferto il suo fatale insegnamento a quella gentil
creatura.

Tra Lorenzo e Maria correva una certa somiglianza. Ambedue avevano
neri i capelli e spaziosa la fronte: ma il volto di Maria era bianco
incarnato, quello di Lorenzo era bianco pallido; se il giovane fosse
vissuto un tratto alla vampa del sole, quel volto sarebbe diventato
bruno, poichè c'era sangue marinaro nelle vene dei Salvani. Inoltre,
gli occhi di Maria erano d'un nero turchiniccio, dai riflessi
d'indaco; quei di Lorenzo d'un lionato carico, e li faceva parere neri
la profondità delle occhiaie, sotto la guardia delle sopracciglia
prominenti.

Più forte tra i due era la somiglianza del carattere, frutto evidente
di una parità di educazione, che può farsi in noi come una seconda
natura. Senonchè, le esterne sensazioni conducevano l'animo di Maria
alla dolce gaiezza, o alla malinconia rassegnata, quello di Lorenzo
alla pazza allegria, o alla tristezza profonda. Non c'era gradazione
di tinte, nello spirito di Lorenzo Salvani. Ambedue, del resto,
sentivano altamente di sè, anime dignitose e preparate ad ogni maniera
di sacrifizi. L'impresa dell'armellino: «__malo mori quam foedari__»
(anzi che macchiarmi morire) pareva fatto bella posta per quelle due
nobilissime creature.

Era nobile di natali Maria? Lorenzo, qualche volta, celiando, le dava
un certo nome! Ma i natali di quella che egli chiamava celiando «la
bella marchesina» erano rimasti un segreto fra il colonnello Salvani e
sua moglie. Lorenzo teneva in un ripostiglio del suo cassettone,
gelosamente nascosto e chiuso, uno scrignetto d'ebano, nel quale il
gran segreto aveva a trovarsi di certo: ma i parenti l'avevano dato in
custodia a Lorenzo, col patto che fosse il dono di nozze dei Salvani
alla cara fanciulla.

--Un giorno qualcheduno ti amerà,--aveva detto la signora Luisa,--di
un amore diverso da quello di mio marito e dal mio. Quell'uomo, se tu
lo ricambierai d'affetto sarà degno veramente di te; ed allora
meriterà di sapere da che sangue sei nata. Svelartelo ora sarebbe
impossibile; e dirti soltanto il nome di tuo padre, che fu onesto,
buono e generoso, potrebb'essere un grave pericolo, per te e per
altri. Egli ti confidò come un sacro deposito a Rigo Salvani, e noi
dobbiamo rispettare la sua volontà.

--E mia madre?--aveva chiesto Maria.

--Tua madre è felice. Quel giorno ch'essa chiederà di te, meriterà
davvero di esser tale. Per ora ti basti. Ne sei forse accorata?

--Oh, no! sarei un'ingrata. Finalmente, non siete voi la mia madre
vera, da cui tutto mi viene? Se mio padre, colui che mi amava è morto,
l'anima sua si è tutta trasfusa in voi altri, per farmi la più
fortunata tra le orfane.--

Queste parole esprimevano allora i veri sentimenti di Maria; ma non è
da credere che l'idea di quel segreto non gravasse talvolta sull'anima
sua con tutte le ansie di un dubbio doloroso. La povera fanciulla si
sentiva troppo sola al mondo, specie da quando la signora Luisa e il
colonnello Salvani erano andati a riposare, l'uno accanto all'altro,
nelle zolle del camposanto. Ella per giunta aveva inteso bene lo stato
critico di Lorenzo, poichè questi l'ebbe condotta a dimorare in
Genova, col veterano Michele. Per nessun'altra cosa al mondo il
giovane Salvani si sarebbe piegato a vendere la casa paterna, se non
fosse stato l'obbligo di proseguire l'opera pietosa dei parenti verso
di lei. Questo aveva inteso Maria, e gliene serbava nel cuore una
gratitudine infinita. I nuvoli della fronte di Lorenzo essa li
conosceva a puntino, come il marinaio le seccagne della sua rada
natale. Erano ben neri, quei nuvoli, e a grado a grado più frequenti e
durevoli. Che dolore per lei, che assisteva alla rovina quotidiana del
suo fratello d'adozione, senza che fosse in potere suo di recarvi un
rimedio efficace!

E non sapeva ancor tutto; ignorava lo spediente delle ottanta lire al
mese, che Lorenzo andava a guadagnarsi a tarda sera nel fondo di una
bottega. Sentiva nondimeno le angustie di lui; e non potendo molto,
aveva presto pensato di aiutare col poco. Si era indettata per ciò col
vecchio Michele. Di giorno, le ore che Lorenzo passava fuori, o nella
sua camera a scrivere, la magnanima giovinetta le spendeva a ricamare;
e parecchie della notte egualmente. Da quelle sue dita maestre
uscivano lavori delicatissimi, che il bravo Michele, per mezzo di
certe conoscenze, trovava modo di spacciare presso qualche merciaio; e
a volte, quando si trattasse d'opere più vistose e più fini, non
arrossiva di metterle in lotteria.

Per altro, intendiamoci; se non arrossiva di spacciar la roba a quel
modo, coll'obbligo di andare attorno e di sollecitare la gente, si
ricattava di quell'audacia mettendo le poste salate. E se taluno gli
diceva: «costa troppo», egli dava di piglio alla sua roba, e se ne
andava difilato, senza più accettare nemmeno quel prezzo ch'egli
stesso aveva chiesto da prima. Spregiare a quel modo un lavoro della
sua Minerva celata, era un peccato da non portare speranza di
assoluzione.

Quelle ore che Lorenzo passava in casa, erano ore di allegrezza e di
festa. Il povero giovane studiava di molto, e non si prendeva uno
svago a cui non partecipasse Maria. Ed era bello vederla, con la sua
lunga veste di seta nera, o di mussolina bianca (che d'altri colori
non usava adornarsi mai), col suo cappellino di paglia di Firenze
all'estate, e di velluto nero all'inverno, prigione troppo stretta al
volume della nerissima capigliatura, andar leggera leggera al braccio
del suo caro fratello.

Michele non aveva mai voluto andar fuori con essi. E sì che il povero
veterano delle __Tapera di Don Venanzio__ e di porta San Pancrazio ne
aveva una voglia spasimata! Ma anche Michele ci aveva il suo segreto,
che non aveva confidato nemmeno alla sua bella padroncina. Egli non
voleva che dalla sua compagnia nessuno argomentasse che quegli occhi
neri, i quali guardavano a mala pena la strada, e quelle dita
affusolate, chiuse in un guanto perlato, fossero quegli occhi e quelle
dita che si affaticavano su certi ricami, ch'egli andava attorno a
spacciare.

Quella bella e virtuosa famigliola viveva in un modesto quartierino
che abbiamo fatto conoscere fin da principio ai lettori, composto sul
davanti di due camere da letto, separato da una terza che faceva
uffizio di camera da lavoro e di sala da pranzo. La camera di Lorenzo
metteva nella sala d'entrata; quella di Maria in un corridoio, per
dove si andava alla cucina. Dalla cucina, poi, si saliva ad una
cameretta, ricavata nella impalcatura del tetto, nella quale dormiva
Michele; e da questa cameretta si usciva sul terrazzo, ch'era tutto
ornato di pianticelle, da giardino e da orto, cura particolare del
vecchio servitore ne' suoi ozii mattutini.

Dall'altra parte della sala d'ingresso non c'era altro che l'uscio del
salottino, malinconica stanza, che è sempre la stessa ed egualmente
arredata in tutte le case di modesta fortuna, col suo canapè barocco,
fasciato di lana a rabeschi, il tavolincino ovale poggiato su d'una
gamba sola davanti al canapè; il piccolo tappeto da piedi tra l'uno e
l'altro; quattro sedie a bracciuoli e una poltroncina; quattro
battaglie litografate del '48, con la cornice dorata da tanto al
palmo; le cortine di mussolina bianca traforata a fogliami, rialzate
da due borchie d'ottone sui lati; finalmente un albo con venticinque
ritratti, che il visitatore si crede in obbligo di sfogliare,
osservando i mezzo svaniti gruppi di famiglia, la sposina in piedi,
che posa una mano sulla spalla del marito comodamente seduto, i due
amici in maniche di camicia, che fanno le viste di trincare alla
salute della macchina fotografica, la balia con l'erede presuntivo
sulle braccia, e via discorrendo.

Nel salottino di Lorenzo Salvani il terribile albo non c'era, non
essendo ancora venuto l'uso della fotografia a buon mercato; e l'altra
costumanza dell'albo bianco, trappola di poeti e di pittori, era in
uno de' suoi intervalli di felicissimo riposo.

Maria, del resto (che in simili faccende gli uomini non contano mai),
anche se la costumanza dell'albo fosse stata viva e fiorente, non
l'avrebbe seguita di certo. La fanciulla aveva altro da pensare, e il
gusto di certi trastulli donneschi non lo sentiva affatto. Non amava,
per esempio, i fiori sul davanzale, nè i canerini in gabbia; amava
tutte le creature del buon Dio, ma senza far preferenze.

Nel giorno da cui prende cominciamento la nostra narrazione, Maria
aveva fatte le maraviglie della visita ricevuta da Lorenzo. Il giovine
non chiudeva la sua casa a nessuno, ma nessuno ci andava, perchè egli
non concedeva diritti di dimestichezza a nessuno. Sapevano tutti
ch'egli aveva una graziosa sorella; lo vedevano uscire con essa, ma
non c'era verso di potersi accompagnare. Eglino del resto andavano
sempre a diporto per istrane vie, a guisa di chi va per le sue
faccende. Le strade Nuove e l'Acquasola, ritrovo di gente
sollazzevole, non vedevano quella coppia fraterna se non molto di
rado, e sempre di passata.

Abbiam dunque detto che la visita del signore sconosciuto aveva fatto
maravigliar la fanciulla. Lorenzo, dopo quella visita, era uscito in
fretta, senza dirle nulla; ed era questa una grossa novità. Era
tornato due ore dopo, e si era seduto al suo tavolino, senza andare
neanco a salutarla. Che voleva dir ciò?

Non istette molto a saperlo. Un'ora dopo il ritorno del fratello (il
lettore ha già inteso perchè usiamo chiamarli alla breve fratello e
sorella), Maria si spiccò dal suo lavoro, per andare sul terrazzo a
respirare un po' d'aria; chè la giornata, come abbiamo già detto, era
bellissima, e tiepida, a malgrado della stagione.

Nel salire la scala, udì Michele, che era nella sua cameretta sotto il
tetto e canterellava una sua prediletta romanza spagnuola:

    Mis ojos te vieron
    Rosaura querida;
    Mortal fuè la herida
    De mi corazon.

Michele cantava sempre spagnuolo, con quel suo accento americano che
fa rabbrividire ogni buon cittadino della __Castilla vieja__. Ma egli
non si curava più che tanto della purezza dell'accento, e tirava
innanzi. Dopo la canzoncina di Rosaura, veniva quell'altra:

    Pescadorcita mia
      Desciende à la ribera,
      Y escucha placentera
      Mi cantico de amor;

    Sentado en su barquilla,
      Te canta su cuidado,
      Cual nunca enamorado
      Tu tierno pescador.

Il veterano di Montevideo ne aveva un centinaio, di queste canzoni, e
quando lavorava attorno a qualche cosa, le sciorinava tutte, una dopo
l'altra, con una costanza mirabile.

--Bravo, Michele!--gli disse la giovinetta, entrando nella camera.

--Oh, signorina! Domando mille perdoni. È una delle mie vecchie
cantilene, che non mi lasciano mai, come certi dolori aromatici che ho
buscati laggiù.--

Michele intendeva di parlare di dolori reumatici; ma la corretta
pronunzia di certi vocaboli non era il suo forte.

--Povero Michele!--soggiunse la giovinetta, non badando ai dolori
aromatici, ai quali era avvezza, come a tanti altri suoi __lapsus
linguae__.--Cantate, cantate; è una cosa che rallegra lo spirito. Ma
che cosa fate voi ora. Dio mio? Quelle spade!...--

--Oh nulla, signorina. È il signor Lorenzo che mi ha comandato di dar
loro una ripulitura. Sono belle armi, perdiana! Veda come si piegano!
Le ho vedute adoperare dal signor colonnello, e le so dir io che fu un
famoso scontro. Ho veduto allora una botta di terza, data così a
tempo, che non l'ho scordata mai più, e mi corre l'acquolina in bocca
al solo pensarvi.--

Così dicendo, il belligero servitore aveva smesso di pulire il ferro,
e andava giostrando in aria come un vecchio spadaccino che prova i
suoi colpi di riserbo.

A Maria tutti quei discorsi e quella mimica non dicevano nulla di ciò
che voleva sapere.

--Ma voi non mi dite il perchè di questa novità!--esclamò ella.--Mio
Dio! che cos'è egli avvenuto? Forse Lorenzo....--

E la povera fanciulla impallidì, e fu costretta ad appoggiarsi alla
parete, tanta era l'improvvisa commozione.

--Oh, la non si spaventi, signorina!--gridò Michele, deponendo la
spada e facendosi tutto sollecito accanto a lei.--Da quanto ho potuto
capire, egli è solamente padrino. E poi, fosse anco lui, il signor
Lorenzo sa pure tenerla in mano, una lama. Quello è un uomo che, non
fo per dire, darebbe dei punti a suo padre.--

La fanciulla non istette ad aspettar la fine del discorso di Michele.
Ridiscese la scala, corse alla camera di Lorenzo, e, trovato l'uscio
socchiuso, entrò deliberatamente da lui.

Lorenzo stava scrivendo; ma al fruscio della veste, alzò il capo e si
volse a guardare.

--Orbene, Maria?--disse egli, come per chiederle che cosa volesse.

La fanciulla era bianca in viso come un cencio lavato, e appoggiava la
mano alla spalliera del letticciuolo di Lorenzo, quasi fosse per cader
tramortita.

Allora il giovine fu pronto ad alzarsi e correrle incontro.

--Che cosa avete, mia buona Maria? Che cos'è egli avvenuto?--

La fanciulla non rispose alla dimanda di Lorenzo; e piantandogli
addosso due occhi scrutatori, gli chiese a sua volta:

--Voi andate a battervi?--

A quelle parole, Lorenzo capì la cagione dello smarrimento di Maria, e
si sovvenne dell'incarico dato a Michele, che aveva potuto far nascere
in lei il sospetto. Però, assunta l'aria più grave, postosi una mano
sul cuore e stendendo l'altra verso il ritratto di suo padre, rispose:

--Vi giuro, Maria, che non vado a battermi io. Sono padrino, insieme
coll'Assereto, di un certo dottor Collini che avete veduto venir qua
stamane, e al quale, come ad un antico compagno di scuola, non ho
potuto dire di no. Eccovi la pura verità; mi credete voi?

--Oh, vi credo, Lorenzo, vi credo. Voi non mentite mai.--E il volto
della fanciulla si rasserenò; le lagrime che stavano per isgorgarle
dagli occhi alla pressione dell'improvviso sgomento, furono in quella
vece spremute dalla gioia.

Avete veduto mai la campagna sorridere amorosamente ad un bel raggio
di sole, dopo la tempesta? Gli smorti colori si ravvivano, le foglie
abbattute si risollevano, e le gocce d'acqua che le avevano flagellate
pur dianzi, riposano tranquillamente nelle verdi cavità, scintillando
come altrettanti smeraldi.

Quanto affetto per Lorenzo! direte voi; e giustamente, nell'osservare
il fatto in sè, non già nel cercarne una causa riposta in altr'ordine
di pensieri. Maria amava Lorenzo di quell'unico amore che ella
sentisse, e che non poteva definire la mercè di accorti raffronti,
essendo l'unico che ella avesse mai conosciuto.

Lorenzo poi era un giovine eletto; amava Maria come una sorella, e per
essa avrebbe corso ogni risico più grave. Ma v'erano di certe cose
alle quali egli non avrebbe pure ardito pensare, temendo di commettere
un sacrilegio. A dirvela in breve, Maria era per lui un angelo, cioè
un essere di natura diversa dalla nostra, diafano, etereo, al quale
non si potesse accostarsi se non dopo aver lasciato in disparte il
pigro involucro della materia.

E Lorenzo non aveva il torto. Se egli è vero che gli angeli siano essi
di natura superiore alla nostra, se è vero che questi esseri siano
stati creati da messer Domineddio come suoi messaggeri e testimoni
della sua bontà infinita, intermediarli tra il cielo azzurro e la
creatura terrestre, Maria aveva tutti i requisiti per essere contata
nel numero. In fin de' conti ella poteva passare per un angelo, il
quale fosse toccato in sorte alla terra.

Non aveva le ali, ecco il guaio. Ma è forse necessario avere le ali,
per essere angeli? E non sarebbe per avventura un guaio più grosso?
come a dire una gran tentazione a volar via da questo mondo gramo?



V.

Come la vicinanza del Paradiso non togliesse a due amici di trovarsi
in Purgatorio.


La collina di Albaro è la più bella collina che Domineddio abbia posto
accanto ad una città, se pure non è meglio dire che Genova è l'unica
città la quale sia stata posta accanto ad una così bella collina.

Genova, come tutti sanno, è edificata sulla spiaggia del mare, nel
fondo di un golfo e alle falde di un contrafforte degli Appennini, che
agli occhi del riguardante offre sembianza di anfiteatro, ed è,
topograficamente parlando, un vasto triangolo inclinato, la base del
quale è addossata al mare, e i lati, costretti fra due vallate
naturali, salgono al vertice, che per una cresta si ricongiunge alle
montagne vicine, sproni, o contrafforti che vogliam dire,
dell'Appennino ligustico.

In quelle due vallate scorrono due torrenti, i quali non se l'avranno
a male se li accuseremo di portare assai meno acqua che non consenta
l'onorata ampiezza dei loro alvei la Polcevera a ponente, e il Bisagno
a levante. La collina di Albaro è di là dal Bisagno, che essa
accompagna in linea parallela fino alla foce.

Di che alberi era piantata nei tempi antichi la collina d'Albaro?
Grave questione, ma fortunatamente oziosa. Oggi è piantata di palazzi,
e un albero si paga tant'oro, a volerlo naturale. I pochissimi che vi
sono, stanno colà soltanto per fare uffizio di cornice ai palazzi
sullodati, tra i quali primeggia per bellezza il __Paradiso__, e per
memoria quell'altro che diede albergo all'autore di __Don Giovanni__,
della __Parisina__ e del __Lara__.

Un nostro faceto amico, in una sua storia inedita della collina
d'Albaro, deriva i tre nomi che la dividono, da tre fratelli che la
avevano avuta in retaggio da uno dei soliti Noè dell'antichità; i
quali tre fratelli si chiamavano Luca, Martino e Francesco. C'è
infatti un San Luca, un San Martino e un San Francesco d'Albaro.
Quest'ultimo è il più meridionale di tutti; laonde voi, quando abbiate
fatto dieci minuti di strada dopo il ponte della Pila, vi trovate alle
falde della collina incerto tra due strade, come l'asino di Buridano
tra due misure di fieno. La strada a sinistra risale dolcemente la
collina a San Martino, e di là scende a Sturla, a Quarto, a Quinto, a
Nervi, e giù, giù, fino in capo al mondo; quella a destra piega un
tratto verso mezzogiorno, poi sale faticosamente la collina a San
Francesco d'Albaro, per ridiscendere verso San Luca, e andarsi a
ricongiungere con la sua sorella di sinistra.

Noi, con licenza dei lettori, non baderemo che a San Francesco
d'Albaro, il quale, sempre topograficamente parlando, ci presenta
ancora tre viottole, le quali corrono da settentrione a mezzogiorno,
tutte perpendicolari alla via maggiore, che taglia la collina
precisamente accanto alla villa del Paradiso. La seconda di queste
viottole finisce come le altre ad un ciglione che sopraggiudica il
mare; ma su questo ciglione essa ci ha il particolare ornamento
dell'antica chiesuola di San Nazaro; chiesuola senza tetto e senza
lastrico, non più destinata ad altro che a qualche sacrificio cruento.
Ed anche questa destinazione arbitraria non doveva durare. Dopo il '60
la chiesuola è scomparsa, tramutandosi in una casa a parecchi
quartieri, per uso e dilettazione estiva di villeggianti. Poesia delle
rovine, addio; l'utilità ti soverchia. E infine, non ce ne addoloriamo
oltre misura; l'istesso San Nazaro, che insieme col suo buon collega
San Celso portò primo ai Genovesi il verbo dell'amore e della pace
fraterna, non doveva essere troppo contento dei riti sanguinosi a cui
le rovine della sua chiesuola erano state consacrate.

Il savio lettore ha già capito che questo era il luogo prefisso al
duello del dottor Collini col marchese di Montalto. La posta delle due
parti belligeranti era sul ripiano dinanzi alla chiesa; ma i padrini
del Collini dovevano, come è già noto, aspettare quest'ultimo,
mezz'ora prima, sotto la villa del Paradiso, per accompagnarlo poscia
sul terreno.

Appunto in quel luogo la strada di San Francesco d'Albaro fa gomito,
per dare agio ai carri e alle vetture d'inerpicarsi lassù. Epperò, sul
ciglio della collina, dove fa capo quel giro tortuoso della salita,
v'è una specie di terrazzo sporgente, il quale sopraggiudica la via
sottoposta; e accanto al terrazzo una scaletta ripida, per comodo dei
pedoni che vogliono prendere la scorciatoia.

Su questo terrazzo erano appostati alle quattro e mezzo del mattino
tre uomini, Lorenzo Salvani, l'Assereto e il servo Michele. La vettura
con la quale erano giunti, l'avevano mandata più innanzi.

Il cielo, ancora buio, stillava un po' di brina, od altro di
consimile: l'aria, non ricordandosi più de' tepori del giorno innanzi,
era gelida; e l'aspettare di quei tre sul terrazzo non poteva dirsi la
cosa più allegra del mondo.

Lorenzo appariva tranquillo; solo l'amico Assereto si faceva lecito di
scrollare il capo e di battere de' piedi sul terreno, in guisa da
lasciar trapelare che non il freddo soltanto gli recasse molestia.

Così la intese il Salvani, perchè, dopo alquante battute di quella
fatta, si voltò all'amico e gli disse:

--Diamine! che impazienza è la tua?...

--Di' piuttosto che disperazione;--soggiunse l'Assereto. Lorenzo non
rispose altrimenti a quelle parole dell'amico che con un dispettoso
crollar delle spalle.

--Sentimi, Lorenzo;--disse allora l'Assereto.--Io, già lo sai, ho
accettato questa seccatura per te, non per altro riguardo al mondo.
Ora ci ho in capo che questo signor Collini ce ne voglia fare una
delle sue.

--Suvvia!--interruppe Lorenzo.--Tu l'hai sempre con lui, e questo non
istà bene.

--Bravo! E tu vedi tutti gli uomini buoni, come un collegiale tutte le
donne belle. Figliuolo mio, non si dànno di questi appuntamenti alla
gente. Quando si è pronti a battersi, si dice ai padrini: venite a
casa mia a svegliarmi. Quando se n'ha una voglia deliberata, si dice
loro: dormite pure della grossa; io verrò a cercarvi a casa vostra. E
in questo caso ci si arriva un'ora prima. Qui invece, che cosa
avviene? Che si dà la posta a mezza strada, e si ritarda per giunta.

--Sia come tu vuoi;--rispose Lorenzo,--ma l'ora non è anche passata.
D'altra parte, in questo negozio, siamo andati un po' tutti col capo
nel sacco, senza consultare il lunario. Tu vedi che incomincia appena
ad albeggiare. Gli avversarii non sono giunti ancora.

--Oh, in quanto a quelli, guardali là in capo alla strada.

--E chi ti dice che non sia invece la carrozza del Collini?

--Vuoi scommettere?

--No, Assereto; non scommetto mai. Spero che quella sia la carrozza
del Collini, e non mi curo del rimanente.

--Ed io ti dico che sono gli altri.

--Vedremo.

--Sta bene, vedremo. Ma intanto, se egli non viene, che cosa si fa?

--E che cosa vorresti fare?--chiese Lorenzo.--Già, credilo, il Collini
non istarà molto a giungere, e quasi mi pare di fargli villania a
darti retta. Ma, dato e non concesso, come dici tu, con eleganza
curiale, che egli non venisse, la cosa è chiara come un'operazione
aritmetica. Si va sul terreno, e si fa testimonianza dell'accaduto.

--Profferendosi prima ai comandi della parte avversaria,--interruppe
l'Assereto.

--S'intende; ma è anche debito di gentiluomini rifiutare la generosa
offerta; e i poveri padrini di un vigliacco se le vanno a capo chino e
con la coda tra le gambe, come cani bastonati.

--Convieni che sarebbe una brutta cosa....

--È verissimo; ma che vorresti tu farci? A certi malanni che capitano
tra capo e collo non c'è rimedio che tenga. Ma ecco la carrozza che
gira il gomito della salita.

--Ahimè!--esclamò l'Assereto.--Siccome io sono certo che ella porta
nel suo grembo i nemici, come il famoso cavallo di Troia, ti propongo
di ritirarci nella scaletta, perchè non ci abbiano a vedere in questa
disgraziata postura.

--E che c'è di strano,--rispose Lorenzo,--che noi stiamo qui
aspettando il Collini? Noi non dobbiamo rendere ad essi altro conto
che di una assenza sul terreno, all'ora prefissa. Del resto, ci
avranno già veduti.--

Intanto che questo dialogo si proseguiva tra i due, la carrozza,
girato il gomito della strada, veniva al trotto verso il ciglio della
collina. I due amici si fecero per moto naturale a guardarla, e per la
portiera, che era aperta, videro il Montalto co' suoi padrini e il
chirurgo.

Quei della vettura e quei della strada si scambiarono il saluto con
molta freddezza. A Lorenzo il sorriso del marchese di Montalto parve
altiero anzi che no. Tuttavia non volle dirne nulla all'Assereto, di
cui temeva i commenti sarcastici. Ma all'Assereto non era sfuggito
quel sorriso, e siccome egli nella furia del suo malumore non
perdonava a nessuna cosa, si affrettò a dire:

--Hai veduto? Ci squadrano dal capo alle piante come bordaglia di
strada. Ma riderà bene....

--Chi riderà l'ultimo!--gridò Lorenzo, levando le parole di bocca al
compagno.--Hai ragione, Assereto. Ora usami questa cortesia, di
aspettare un poco in santa pace. Sono le quattro e quaranta minuti, e
il ritrovo davanti alla chiesa è fermo per le cinque. Il Collini non
vorrà tardare più molto. Forse ha perduto tempo a trovar la carrozza.
Aspettiamo dunque.... fino a tanto che si può.

--In questo caso, ottimo Lorenzo, tu sveglierai me, quando l'eroe sarà
giunto, o tu ti sarai stancato di attenderlo.--

Così parlò quella buona lana dell'Assereto, e ravvoltosi bene nel suo
mantello si sdraiò sul sedile di lavagna che correva intorno ai
murelli del terrazzo, cercando di pisolare un tantino.



VI.

Nel quale si dimostra che l'Enfisema non è un personaggio greco.


L'aspettare è la più brutta, la più fastidiosa delle occupazioni,
anche quando non si abbia altro da aspettare che un amico, per andar
di brigata a desinare in campagna; figuriamoci poi quando sia per un
così grave negozio, come quello per cui Lorenzo e l'Assereto
aspettavano il dottor Collini.

I preliminari di un duello e il tempo che scorre dalla disfida ai
colpi, sono la pietra di paragone del coraggio di due avversarii. Ai
tempi antichi, quando i gentiluomini portavano tutti la spada al
fianco, il combattimento si faceva di sovente appena avvenuta la
provocazione. Oggi, in cambio, manca l'uso dell'arma e manca per
conseguenza l'occasione di far subito. Bisogna anzitutto mettersi in
balìa di due padrini, i quali trattano, e qualche volta anco
bistrattano la faccenda. Poi si ha da dormirci su; poi bisogna
svegliarsi fuor d'ora, vestirsi, uscire e andar sul terreno, aspettare
che i padrini s'intendano su cento minuzie, scelgano il luogo,
misurino il campo, dividano, giuochino a sorte il lato migliore,
visitino il petto e le braccia, diano le armi, i segnali e via
discorrendo. Di questa guisa, un uomo di poco animo ci ha tempo a
pentirsi d'essere andato tanto oltre; un uomo di polso ci ha tempo a
sbadigliare di molto, come un povero viaggiatore sul disagiato sedile
di una carrozza. Ma il Collini non era un uomo di polso, e Lorenzo
Salvani lo aspettava inutilmente da un pezzo.

Guardò l'orologio per la ventesima volta; erano le quattro e cinquanta
minuti.

--Oh, insomma!--gridò egli allora,--Assereto, levati su!--

L'Assereto balzò in piedi tutto confuso, stropicciandosi gli occhi.

--Perchè svegliarmi?--esclamò egli.--Facevo un sogno così bello!
Figurati; sognavo che il tuo Collini era venuto, con un cuor da leone,
tutto armato di feroci propositi. Ma vedo bene che bisognerà notare di
falsità il detto di Omero.

--Qual detto?--chiese Lorenzo, in quella che ambedue, seguiti dal
taciturno Michele, si avviavano verso la viottola di San Nazaro.

--Non sai? nel primo libro dell'Iliade, dove Achille dice che «__da
Giove anco il sogno procede__». Ora il mio è stato un sogno inspirato
da Momo, il Dio dello scherno. Il Collini non è venuto; andiamo noi.

--__Tu dixisti__,--rispose il Salvani, imitando la burlesca gravità di
Giorgio Assereto.--Soltanto ti prego di studiare il passo, perchè la
viottola è lunga, e mancano appena otto minuti alle cinque.--

A mezza strada trovarono la loro vettura, svegliarono il loro medico,
che russava beatamente nel fondo; pigliarono le spade, e poi giù a
passo di corsa fino a San Nazaro.

Il sole non era anche spuntato dallo scoglio di Portofino, dove i
primi Genoati credevano che stesse a dormire; ma i primi colori
dell'aurora dipingevano timidamente il cielo e le digradanti costiere
ligustiche. Il rancio, il rosato e il verdognolo, magnifici colori che
l'alba tiene in serbo nella sua tavolozza d'estate e d'autunno,
cedevano qui il luogo ad una tinta pallida, tra turchiniccia e
cenerognola, unico segno della mattutina risurrezione del creato.

Sul ripiano davanti alla chiesuola stavano quattro persone aspettando.
Il marchese di Montalto, con un lungo pastrano nero abbottonato fino
al collo, stava con le mani in tasca appoggiato al muro. Il medico
guardava il mare, dando le spalle ai nuovi arrivati. Il marchese
Pietrasanta e il conte Nelli di Rovereto, colla sua divisa di capitano
e con la sua cappa cenericcia sulle spalle, guardavano verso lo sbocco
della viottola.

Lorenzo e l'Assereto si fecero innanzi, salutando con molto garbo, e
gli altri risposero del pari. Il Montalto non fece altro che metter la
mano al cappello, e stette nella medesima postura di prima.

--Signori,--disse Lorenzo,--io spero che non ci ascriveranno a colpa
lo averli fatti aspettare.

--Mai no;--rispose il Pietrasanta,--sono le cinque in punto.

--Questo so bene, signor marchese,--soggiunse il Salvani,--ma a noi
duole di essere giunti dopo le Signorie loro al ritrovo.--

Gli altri si strinsero nelle spalle, quasi volessero dire: che ci
abbiamo a far noi?

Lorenzo intese la mimica, ma finse di non addarsene.

--Signori,--soggiunse egli, con un sorriso malinconico, da cui
trapelava l'angustia dell'animo,--aspettavamo il signor Collini. Ma, a
quanto sembra, egli è stato trattenuto in città da altre faccende, che
avrà reputate più urgenti.--

Un altro sorriso, ma di ineffabile disdegno, fu quello che sfiorò le
labbra del marchese di Montalto. Gli altri si contentarono di tacere,
aspettando la fine del discorso. Infatti Lorenzo, per nulla turbato
proseguì:

--Siamo stati ad attenderlo fino all'ultimo. Egli ha mancato alla sua
fede, e noi siamo venuti qua, per significare alle Signorie loro tutto
il nostro rammarico.--

Il marchese di Montalto sorrise da capo. I suoi padrini si volsero a
lui per vedere che cosa dicesse; ed egli allora, levatosi con piglio
di noncuranza dalla sua prima postura, e cavandosi il cappello,
pronunziò queste poche parole:

--Francava la spesa di alzarsi così per tempo, per riuscire a
ciò!...--

Il sangue si rimescolò tutto nelle vene al Salvani, e una vampa di
fuoco gli corse alla fronte; tuttavia si contenne:

--Signori,--ripigliò a dire,--non avevo finito. Io ed il mio onorevole
collega Giorgio Assereto significavamo alle Signorie loro il nostro
rammarico, perchè questo era debito nostro. Siamo stati a recare un
cartello di sfida al marchese Aloise di Montalto da parte del signor
Ernesto Collini. Questi mancando al ritrovo, a noi correva obbligo di
far loro le nostre scuse. Dopo di che, io, come primo padrino del
signor Collini, mi metto a disposizione del marchese di Montalto.--

Il Pietrasanta e il Nelli, sebbene prevedessero questa fine, non
poterono rattenersi da un senso di meraviglia, cagionato forse
dall'accorto e cortese giro di frasi con cui il giovane Salvani
l'aveva preparata. Essi lo guardarono in viso; era pallido, ma non del
pallore della paura, poichè gli occhi suoi scintillavano per l'interno
corruccio che egli durava fatica a frenare. L'Assereto, a cui le
ultime parole del Montalto non avevano fatto minor senso, si era posto
accanto all'amico, con un cipiglio da vecchio __hidalgo__ spagnuolo.

Michele, fermo a distanza legale, sorrideva ad uno de' suoi baffi, che
andava tirando con molta compiacenza.

--Tanto meglio!--riprese il Montalto, rendendo con la superba
esclamazione impossibile ogni mezzo di onesto componimento; poi,
parlando a voce bassa coi padrini, soggiunse:--in verità, con questa
gente non avrei sperato mai più di finirla così.--

Lorenzo, che aveva un udito finissimo, non perdette una sillaba di
quel discorso fatto in disparte, ma stimò acconcio di tenerlo per sè.

Allora l'Assereto, il quale, per la deliberazione di Lorenzo Salvani,
diventava egli il ministro plenipotenziario, fece il muso anche più
arcigno di prima, ed invitò, con quella fredda cortesia che è l'arte
somma dei padrini, la parte avversaria a misurare il terreno e a
metter le condizioni.

Intanto Lorenzo era rimasto a guardare la marina, e si accendeva un
sigaro. Aloise di Montalto, poco discosto da lui, ragionava di cose
vane col suo medico.

Il terreno, dentro le mura della chiesuola fu in breve ora misurato e
diviso. A Lorenzo toccava in sorte di dare le spalle all'ingresso; di
guisa che, se il combattimento durava, egli avrebbe finito coll'avere
il sole in faccia. Le spade, tratte a sorte, eran quelle di Lorenzo.

Furono fatti entrare i due avversarii, i quali si erano già cavati il
pastrano, il soprabito e la sottoveste, rimanendo in maniche di
camicia. Il conte Nelli di Rovereto prese il suo posto da un lato, e
l'Assereto dall'altro, ambedue colla spada in mano. Mastro del
combattimento fu nominato il Nelli, senz'altra formalità, perocchè
Lorenzo aveva detto all'Assereto, che cedesse quell'ufficio, per
abbondanza di cortesia, senza rimetterlo alla sorte.

I medici ed il Pietrasanta, che rimaneva fuor di quistione, si
piantarono sulla porta. Michele aveva dovuto ritirarsi; ma, da
quell'uomo di partiti che egli era, girando attorno alle mura, aveva
trovato finalmente un buco, dal quale gli veniva fatto veder dentro a
suo bell'agio; e potete immaginarvi che vi si mettesse con molta
curiosità.

Come il Montalto e il Salvani si trovarono l'uno al cospetto
dell'altro, il conte Nelli di Rovereto prese a parlar loro in questo
modo:

--Signori, abbiamo deliberato che voi combattiate fino a tanto che uno
sia ferito per modo da non poter più tenere la spada. Io, mastro di
combattimento, vi darò il segnale di fermarvi quando mi paia che uno
di voi sia toccato dalla punta dell'avversario, e il signor Assereto,
dal canto suo, potrà fare lo stesso, quando si avveda di qualche
ferita, che io, stando da questo lato, non potessi vedere per bene.--

L'Assereto s'inchinò in atto di assentimento. Il Nelli proseguì:

--Quando uno di voi scivolasse sul terreno, che mi pare un po'
sdrucciolo per l'umidità del mattino, e si trovasse nel caso di dover
indietreggiare fino ad una di quelle due linee che abbiamo segnate da
una parte e dall'altra, sarà debito del suo avversario fermarsi al
nostro comando, ed ambedue smettere il combattimento, sotto pena di
essere notati di slealtà. Ma noi sappiamo che ciò non farete, essendo
gentiluomini. E adesso, signori, a voi!--

Dopo questa frase sacramentale, i due avversarii, salutati alla lesta
i padrini, incrociarono le spade.

Sulle prime non fu altro che un giuoco di finte. I due avversarii si
studiavano a vicenda, per vedere se l'accennar d'un colpo passasse
senza che fosse parato dall'altro. Lorenzo Salvani stette molto a
spiegare il suo giuoco; egli parava largo anzi che no, a guisa di
principiante. Senonchè egli fu presto costretto a stringere, perchè il
Montalto, stanco di quelle schermaglie, aveva ingaggiato un assalto,
con due botte diritte molto vigorose.

Lorenzo parò facilmente col forte della lama, e con la punta minacciò
gagliardamente a sua volta. A quel punto, ambedue si accorsero di
avere a stare attenti. Il Montalto era un esercitato schermidore,
ricco di partiti e di bella apparenza. Lorenzo era più sodo, e non
faceva di molte novità; ma un avversario accorto come il Montalto non
poteva negare che quello era un osso duro a rodere, assai più che non
facesse a prima giunta vedere.

Alla seconda botta del Montalto, Lorenzo aveva risposto con una
seconda legatura del ferro, minacciandolo così da vicino, che il
marchese dovette balzare indietro e battere la lama dell'avversario
con un colpo vigoroso di terza. Lorenzo sollecito avea dato innanzi di
un passo, e la lama del Montalto, non potendo andare più oltre a
cercargli il petto, gli offese con la punta il dosso della mano; e
siccome ambedue avevano voluto tirar senza guanto, si vide sulla mano
di Lorenzo qualche goccia di sangue.

Il mastro di combattimento fu sollecito a fermarli, ed egli
coll'Assereto e i due medici si fecero a guardar la ferita.

--Non è nulla;--disse Lorenzo, poichè ebbero guardato.--Non è nemmeno
una scalfittura.--

Si rimisero in guardia; e qui davvero cominciò il combattimento.
Lorenzo incalzava cosiffattamente, che il marchese di Montalto dovette
balzare indietro due volte. Ma questi, tornando all'assalto, si avvide
che il Salvani si studiava di non cedere d'un passo, e non abbandonava
mai il terreno guadagnato. Allora il duello fu continuato di pie
fermo, e i padrini dovettero poco dopo intromettersi, che già i due
avversarii stavano elsa ad elsa, guardandosi e sorridendo.

Ambedue i padrini ruppero in un grido di ammirazione.

--Bravi! bravi, perdio!--esclamò il conte Nelli, il quale, da buon
gentiluomo, non faceva più da padrino, ma da giudice imparziale.--Signori,
voi siete due valenti avversarii. Io, con licenza del signor Assereto, vi
prego a farla finita, e chi ardirà dire che non vi siete diportati da
prodi cavalieri avrà da aggiustarla con noi.

--Signor conte,--disse Lorenzo, voltando a terra la punta della sua
spada,--io di buon grado ascolterei i vostri consigli e la vostra
preghiera, che tanto onora il vostro carattere. Ma per quanto io senta
degno di stima il mio avversario, non posso dimenticare l'asciutta
accoglienza che è stata fatta testè alle nostre prime parole, quando
siamo venuti, con tanta nostra confusione, ad annunziare il brutto
tiro del signor Collini. Non posso dimenticar la frase del signor
marchese Aloise di Montalto, nè il suo riso sardonico, nè certe parole
che ho dovuto udire, sebbene pronunziate a mezza voce con voi. Ora, io
ho molta stima pel marchese Montalto, e non mi farei lecito mai di
pensare che egli potesse ritrattare nessuno de' suoi gesti, o nessuna
delle sue parole.

--Io vi ringrazio;--disse il Montalto, con molta cortesia di gesto e
di accento,--e queste vostre parole m'insegnano a stimarvi di più.

--Sicchè?...--dimandò il mastro di combattimento.

--Sicchè, mio caro Rovereto,--rispose il Montalto,--noi ci rimetteremo
in guardia, con vostra licenza.

--E Dio v'aiuti;--soggiunse il bravo capitano.--Signori a voi!--

Il duello ricominciò. Ma Aloise di Montalto fu questa volta assai più
guardingo e fece a studiar molto le parate. Il giovane cominciava a
sentire dentro di sè un tal poco di pentimento per certi suoi modi, e
da quel leal gentiluomo ch'egli era badò più a schermirsi che a ferire
l'avversario.

Ma Lorenzo Salvani non era uomo da accettare simiglianti cortesie, e
appena si fu avveduto che il Montalto tirava soltanto a difesa, spiccò
un salto indietro, e piegando la spada a terra, parlò in questa guisa:

--Signor marchese, o assalite voi pure, o ch'io mi metterò ad
imitarvi, e tireremo innanzi di questo passo fino al dì del giudizio
universale.

--Oppure a quello di San Bellino, che casca tre giorni
dopo;--soggiunse tra sè il vecchio Michele, che stava dal suo buco a
guardare la scena.

--Avete ragione!--esclamò Aloise di Montalto.--Volete vincermi di
cortesia, e ne avete il diritto. Ecco dunque, io vi contento.--

E così dicendo, si rifece al primo giuoco. Le spade giravano,
s'inseguivano, si legavano e si districavano con una rapidità
meravigliosa, senza dar tregua a quell'armonico soffregamento
dell'acciaio, che fa ribollire il sangue nelle vene ai più dolci di
tempera. Ma ogni bel giuoco dura poco; certe battute di terza e di
quarta, che erano il forte del marchese di Montalto, non furono più
così aggiustate come prima, e Lorenzo, che se ne avvide, incalzò.
Finse una botta al sommo del petto, appoggiandola con una forte
spaccata di gambe, e poi, girando il pugno, passò incontanente al
fianco. Il Montalto non fu in tempo a respingere l'assalto, e la
parata bassa che egli fece, giunse a mala pena a sviare un tratto la
lama dell'avversario, la quale, in cambio di andargli al petto, lo
colse in quella parte del costato, dove s'incurva verso le spalle.

Lorenzo, fatto il colpo, trasse la spada a sè, rimettendosi in
guardia. Ma fu inutile: il Montalto era caduto a terra, e il sangue
spicciava dalla ferita.

Allora tutti quanti accorsero per rialzare il caduto, e il dottor
Mattei, ottimo giovanotto che faremo conoscer meglio ai nostri lettori
quando ci venga a taglio, cortesemente aiutato dal suo collega in
Esculapio, si fece a visitar la ferita.

Egli alzò dapprima la camicia, e con una pezzuola inzuppata d'acqua
ripulì tutt'intorno alle labbra della ferita; per la qual cosa il
Montalto, che nella repentina commozione del fatto era quasi uscito di
sensi, si riebbe ed aperse gli occhi, sorridendo agli astanti.

Ma a costoro il sorriso del giovine non poteva bastare. Essi stavano
tutti muti, con tanto d'occhi, aspettando il responso, ed interrogando
gli sguardi del Mattei, che continuava la sua esplorazione.

--Penetrante?--gli chiese il collega, in quel gergo che i profani
intendono così poco.

--Probabilmente:--rispose il Mattei,--la ferita è tra la settima e
l'ottava costa, e dalla natura del colpo si può argomentare che vada
dal basso all'alto nella cavità toracica.

--E,--disse l'altro con esitanza,--non c'è lesione?...

--Questo vedremo ora,--soggiunse il Mattei, guardando attentamente il
collega e il ferito.--

Aloise intese la mimica, e fu pronto a mettere innanzi la sua parola.

--Parlate pure, mio caro Mattei;--disse egli,--con me potete dir tutto
liberamente.

--Non temete,--interruppe il chirurgo;--io non ho l'uso di tacere la
verità ai malati della vostra tempra. E poi, ancorchè il polmone fosse
tocco, non ci sarebbe quel gran male che il volgo crede, ogni qual
volta si tratta di simili lesioni. Aspettate, ora faccio un
esperimento.--

Così dicendo, il buon discepolo di Chirone cavò fuori un moccolo, lo
accese e lo accostò alle labbra della ferita.

--Vedete?--disse egli allora sorridendo con aria trionfale al
collega.--La fiamma non si muove, e questo è buon segno. Ora guardate
i tessuti circostanti alla ferita; essi non offrono alcuna traccia di
enfisema. La qual cosa significa,--proseguì egli voltandosi ai
profani,--che non c'è sfogo d'aria e che il polmone non ha ricevuto la
visita del ferro. E nemmeno è lesa l'arteria intercostale, come
possono vedere dalla pochezza del sangue spicciato dalla ferita.

--Non è dunque altro che una ferita leggiera?--chiese il Pietrasanta.

--Leggiera! Intendiamoci;--soggiunse il chirurgo;--per me non ci sono
ferite leggiere, tranne le scalfitture; ed anco queste ci hanno i loro
malanni, secondo i luoghi. Questa poi è una ferita bella e buona, e se
fosse consentito dalle regole d'arte esplorarla con uno specillo, mi
riprometterei di misurarvela profonda di sei centimetri o sette. Il
marchese di Montalto si metta in riposo, e lasci fare a me ed alla
natura, quella gran medichessa che ne sa dieci volte più di noi tutti.

--Potete immaginarvi, caro dottore,--disse Aloise,--che io seguirò i
vostri consigli. Io non ho nessuna voglia di morire, e sono molto
lieto di non avere in corpo quel tal personaggio greco di cui
parlavate poco anzi.

--Ah, volete dir l'__enfisema__? Certamente gli è un personaggio
fastidioso;--rispose il Mattei, che stava molto volentieri alla
celia,--ma se egli non è venuto ora, non vien più di certo.--

Le parole del medico e la buona cera di Aloise avevano rasserenato la
comitiva. Ma appunto allora, e in quella che i due medici stavano
intenti a riunire le labbra della ferita con alcune strisce di
sparadrappo ed una acconcia fasciatura, fu notata la presenza di due
personaggi, i quali assistevano in disparte alla scena.



VII.

Di un'alzata d'ingegno che fece l'uomo dai capelli rossigni, e di
quello che poscia ne avvenne.


Quella apparizione improvvisa scosse un tal po' la brigata; ma ebbero
da strabiliare addirittura quando videro chi fosse l'uno dei due nuovi
venuti.

Era il dottore Ernesto Collini, che stava sulla soglia con gli occhi
bassi e le braccia penzoloni. Accanto a lui era un ignoto personaggio,
vestito di nero dal capo alle piante, che non mostrava nemmeno i
solini della camicia. Con aria tra l'umile e lo sfrontato, se ne stava
là, a spalle un po' chine, ma con gli occhi fisi su quel crocchio di
giovani, senza punto scomporsi, e quasi senza addarsi del senso
d'ingrata meraviglia che la presenza del Collini e la sua avevano
destato negli astanti.

Il primo a rompere il silenzio fu Lorenzo Salvani, a cui come primo
padrino del Collini e per cagion sua costretto ad incrociare il ferro
col marchese di Montalto, si spettava più che ad altri il parlare.

--Voi qui?--diss'egli, con accento da cui trapelava tutto lo sdegno
dell'anima.--E che cosa venite a fare?--

Il Collini, di smorto che era nel viso, si fece livido senz'altro;
alzò la fronte verso Lorenzo, ed al fiero corruccio balenante dagli
occhi del giovine rispose con uno sguardo sottile e freddo che pareva
volesse passarlo fuor fuori; ma quello sguardo fu un lampo, e gli
occhi del Collini si levarono subito al cielo, con aria contrita, in
quella che la voce diceva, con accento da pulpito:

--Il mio dovere!

--Il vostro dovere? È già stato fatto;--gridò il Salvani.--Guardate;
per cagion vostra due galantuomini, i quali non avevano sdegno o
rancore di sorta l'uno contro l'altro, sono stati ad un pelo di
uccidersi.

--Il Cielo mi è testimone che io mi dolgo amaramente di quanto è
avvenuto testè,--disse il Collini, alzando gli occhi al cielo, come
per offrirgli il suo calice di amarezza;--credevo che tra il marchese
di Montalto e i miei padrini non dovesse accader nulla. Se manca uno
degli avversarii (e permettetemi di usare questa parola per farmi
intendere, sebbene non sia intesa più dal mio cuore), i suoi padrini,
dissi tra me, non hanno a far altro che dar atto della sua assenza,
comunque ella possa venir giudicata da animi preoccupati. Io dunque
sono condotto a credere che se, dopo un fatto simile, si è trovato il
modo di fare un duello, ciò debba ascriversi a feroce desiderio di
sparger sangue, e non ad altra cagione.--

Lorenzo era fuori di sè per lo sdegno; gli altri tutti erano
meravigliati, stupefatti da tanta audacia. Pure nessuno fiatò.

--E tuttavia,--proseguì il Collini col medesimo acuto e senza guardare
in volto nessuno degli astanti,--io me ne dolgo come se fosse un male
avvenuto per cagion mia. Ora, o signori, lasciatemi dire il perchè non
sono venuto al ritrovo, e poi mi giudicherete.

--Sono curioso davvero di saperlo;--borbottò il dottor Mattei,
daccanto ad Aloise di Montalto, il quale stava ancora seduto sul
terreno, aspettando il fine della fasciatura.

--Sapevo che il battermi era un male;--disse Ernesto Collini.--Son
cristiano, cattolico, e me ne vanto. Cedendo la provocazione del
marchese di Montalto, io ho obbedito ad un sentimento di vanità
mondana, che ora detesto. E notate, o signori; io m'ero talmente
ostinato in questo pericoloso sentimento, che fui per ricusare il
sacrifizio di me stesso, perfino alle strazianti preghiere di un
vecchio venerando....

--Che altra storiella ci racconta costui?--interruppe l'Assereto.

--Lasciatelo dire, signor Assereto;--soggiunse il capitano;--il suo
racconto mi diverte non poco.

--Vi diverta, o no,--ripiccò il Collini, voltandosi improvviso e
rizzando il capo come un serpe a cui sia stata calpestata la coda,--io
debbo andar fino all'ultimo. Sì, o signori, quel vecchio venerando mi
mandò iersera a chiamare, e mi chiese se fosse vero di quella sfida
che avevo mandata al marchese di Montalto, ed io non potei
nascondergli il vero, che egli del resto conosceva per filo e per
segno. Egli mi pregò, mi scongiurò allora, che mi ritenessi da quella
prova di sangue, e non gli valsero preghiere, nè scongiuri. La mia
ostinatezza giunse a tale da consentire che egli scendesse dal letto,
sul quale è inchiodato da più mesi, e trascinare sul pavimento la sua
onorata canizie. Egli tremava per il grave scandalo e per me, ma più
ancora per la vita del suo nipote....

--Ah! ah! mio nonno!--interruppe Aloise.--Non avrei pensato mai più
che egli ci avesse un cuor così tenero.

--Sì, o signor marchese di Montalto. Vostro nonno vi ama, checchè
possiate pensarne voi. Quel buon vecchio, al quale con le mie cure
assidue vo prolungando la vita, io sono stato al punto di ucciderlo
con la mia ostinazione vanitosa. E ci volle la intromissione di
parecchi savi personaggi, perchè io vedessi il danno che recavo a quel
povero vecchio, e l'offesa che facevo alla santità della morale.
Infine, signori che vi dirò? Ho raccolto il capo nelle palme, ho
pianto come un fanciullo, e in quelle lagrime tutta la mia superbia si
è stemperata. E allorquando ebbi rinunziato al duello, avreste dovuto,
com'io, vedere il suo giubilo. Figliuol mio, mi disse egli, io vi sarò
grato di questo sacrifizio fino a tanto che io viva, ed eccovi la
benedizione di un povero vecchio....

--Per ora;--interruppe da capo Aloise,--e più tardi potrà anco
lasciarvi il rimanente.

--Signor marchese, potreste supporre?...

--Tutto. Non vi ha egli chiamato suo figlio? Badate a me, e
consolatevi. I vecchi sono pozzi di verità.

--Insomma, signor di Montalto, comunque vogliate portar giudizio di me
(e debbo fare anche questo sacrifizio) credete pure che ci vuol più
coraggio a parlarvi come io vi ho parlato adesso, che ad incrociare
una spada col più valente schermidore del mondo.

--Avete ragione, messer Collini;--interruppe a sua volta Lorenzo, il
quale non poteva frenarsi più oltre,--e penso che ci voglia più
pazienza ad ascoltar voi per dieci minuti, che a marcire nel fondo di
una prigione. Colà, almeno, non si ode altro che lo strepito delle
proprie catene; non si vede altro che il viso arcigno, ma non
disonesto, di un carceriere. Insomma, voi siete un codardo; liberateci
dalla vostra presenza, e subito!

--Ben detto!--gridarono tutti ad una voce.--Levatevi di qua!--

E uno di loro, il Nelli, aggiunse con piglio marziale:--fronte
indietro, passo di carica, e __marche__!

Il Collini vibrò una bieca occhiata a Lorenzo, un'altra in giro a
tutti gli astanti, e stringendo i pugni, uscì dalla chiesuola,
accompagnato dal sozio vestito di nero.

Giunti che furono sul ripiano, in cambio di tirar oltre per la
viottola, dove avrebbero potuto esser còlti dalla brigata che ci aveva
le sue vetture ad aspettarla, voltarono a sinistra per una via
scoscesa, che, praticata sul lembo dello scoglio, va giù fino ad una
spiaggerella sul mare. Di là risalendo, potevano andare a passare per
un'altra viottola, e la mercè di certe scorciatoie assai note ai
genovesi che vanno colassù a villeggiare, riuscire a San Pietro della
Foce, da dove sarebbero tornati in città alquanto più tardi delle
vetture.

Era quella del resto la strada che il Collini aveva tenuta per andare
alla chiesuola. Senza essere veduti da alcuno, egli e il suo taciturno
compagno erano giunti fin sotto quella sporgenza del masso dove
accadeva il combattimento, ed avevano potuto cogliere il momento
opportuno di farsi innanzi, quando più non si udisse lo strepito delle
armi.

Ridiscesi adunque su quel tratto di spiaggia, dove erano affatto
celati alla vista di coloro che stavano in alto, sul ripiano della
chiesuola, i due sozii si fermarono.

Il dottor Collini aveva la schiuma alla bocca, e mulinava nel capo i
più feroci pensieri. La vergogna era stata grande per lui, e tutti i
sarcasmi di quei giovani animosi li aveva infitti, come strali
avvelenati, nel cuore. Imperocchè egli sentiva pure tutta la
vigliaccheria del suo atto; ma, siccome avviene a tutti i tristi della
sua fatta, che sono codardi e vanitosi ad un tempo, non sapeva patire
lo scherno, e covava nell'animo la vendetta.

Nessuna parola era stata anche scambiata fra i due. Ernesto Collini,
senza badar molto a quello che si facesse, si chinò sul greto a
raccogliere alcuni ciottoli, e si diede a scagliarli nel mare,
facendoli scivolare di rimbalzo sulle acque tranquille.

Duemila trecento e trentott'anni innanzi, un altro vanitoso crudele,
sebbene assai più possente di lui, se la prendeva col mare, facendolo
battere a colpi di verghe.

--Perdio!--ruppe finalmente a dire il Collini.--E non mi vendicherò di
costoro? E quel Salvani, il quale mi dice occorrere più pazienza a
udir me, che non a marcire nel fondo di una prigione!... Oh, ti ci
farò marcire ben io, se quello ch'io penso è vero.

--Benissimo, figliuol mio!--disse allora il compagno.--Questo si
chiama ragionare. Seguite l'esempio di chi ha vissuto più di voi. Io
mi sono vendicato di molti, e la buona causa se n'è avvantaggiata
parecchio.

--A voi sembra un negozio molto spiccio, padre mio. Ma come fare?

--Non dubitate; da cosa nasce cosa, e il tempo la governa. Costoro, se
voi siete prudente ed astuto, vi daranno tutti nel laccio da sè. Io li
conosco, questi cervelli stemperati, i quali ardiscono fare e dire
ogni cosa che loro talenti, alla luce del sole. La vendetta è un
peccato, figliuol mio, quando ella non giova ad altri che a noi,
quando non serve a Dio; ma la vendetta che giova alla sua causa, è
buona. Non si chiama egli il Dio delle vendette? Date tempo al tempo,
e vedrete come sapremo conciarli pel dì delle feste.

--Ma io ho bisogno di far presto!--rispose il Collini, digrignando i
denti.--Sentite, padre mio, come il cuore mi batte. Oh certo, se non
era pel vecchio Vitali, io non mi sarei lasciato persuadere a tanta
debolezza.

--Che! che!--interruppe quell'altro, accompagnando le sue parole con
un certo risolino sarcastico;--non vi sareste battuto neppure. Avete
colorito assai bene il vostro racconto, bisogna convenirne; ora finite
con aggiustargli fede voi stesso.

--Padre!...--esclamò il Collini, provandosi a guardare in viso il suo
interlocutore.

--Bando alle inutili parole, vi prego!--disse questi, senza tener
conto del piglio sdegnoso del Collini.--Sapete pure che se io per
avventura ammalassi, non manderei per voi, e non inghiottirei pur una
delle vostre pillole. Con me i vostri corrucci non faranno mai buona
prova. Siate dunque più schietto con me, poichè ci conosciamo così
bene! Io poi non vi ascrivo a colpa di non essere un Rodomonte. Altri
ha il coraggio di sfidare la punta di una spada, o la canna di una
pistola; noi abbiamo quello del serpente, che striscia nel buio, e dal
tronco di un albero agguata il leone e lo stritola. È questo, a mio
credere, il coraggio più sicuro e il più profittevole. Io vi confesso
schiettamente che sono contento di voi, e tutta la società, alla quale
dovete gloriarvi di appartenere, non si dipartirà da questo giudizio.
Al vecchio Vitali importava che voi gli uccideste il nipote, o che
foste ucciso da lui (la qual cosa era molto più probabile), come a me
importa di quel gabbiano laggiù, che va girando sui flutti per
buscarsi un pesce a fior d'acqua. È la salute dell'anima che gli
preme, a quel vecchio barattiere, e il mio consiglio soltanto gli
dettò quella preghiera che egli vi fece, senza punto discendere dal
letto e trascinare nel fango la sua onorata canizie, come voi dicevate
testè con tanta eloquenza, quella preghiera insomma alla quale voi vi
siete acconciato così di buon grado. Non è egli vero?

--È vero!--brontolò il Collini, chinando la testa.

--Il vecchio Vitali è un tristo;--riprese l'uomo vestito di nero;--le
sfondate ricchezze che egli ha, non sono sue. Non vi è ignoto com'esse
provengano da un nostro deposito, che egli non ha voluto restituire, e
di cui si ostina anzi a negare l'esistenza. Ora i suoi milioni sono il
frutto di quel deposito; son dunque nostri, e dobbiamo ad ogni costo
riaverli, sia che egli faccia voi suo erede, la qual cosa mi pare
molto difficile e fors'anco un tantino pericolosa, o che Aloise di
Montalto diventi uno dei nostri, e si rassegni a spartire con noi. Eh,
figliuol mio, non mi crollate il capo a quel modo! Se ne son vedute
tante, in questo mondo. In fin dei conti, è necessario che i milioni
del vecchio tornino a noi; questo è l'essenziale, e noi provvederemo
ai modi. Voi siate prudente, più zelante, e soprattutto più obbediente
che non foste pel passato.--

Il Collini si mordeva le labbra, e non rispondeva nulla a quel
discorso del savio compagno. Ma questi non aveva anche finito.

--Badate, signorino!--aggiunse egli.--Se voi siete fino ad un certo
punto utile a noi, per l'ufficio a cui v'abbiamo posto nella casa del
vecchio, noi siamo padroni assoluti e dispotici della vostra persona,
e, come avrete potuto già intendere da certe mie paroline, ci abbiamo
in mano il bandolo di molte matasse ingarbugliate, e della vostra fra
l'altre. Non ricalcitrate dunque, che potrebbe tornarvi a danno; in
quella che la fedeltà e l'obbedienza vostra potranno farvi ricco,
reputato e contento. State adunque di buon animo, ed accettate un
giogo, che è tanto lieve e soave. Farete in questa guisa il vostro
tornaconto, e vi vendicherete di tutti i vostri nemici.

--Avete ragione, padre mio! Io sono un pazzo, quest'oggi!

--Bravo! così mi piace vedervi. Suvvia, dimenticate quello che io vi
ho detto, se pure non vi parrà più acconcio chiudervelo bene in mente,
e andiamo in città.

--Andiamo,--rispose il Collini.--Pur che io mi vendichi!...--

E fatto questo discorso edificante si mossero verso la salita, donde
potevano recarsi a San Pietro della Foce.

Intanto che questa bieca conversazione si faceva sulla spiaggia del
mare, più in alto, sulla porta della chiesuola diroccata di San
Nazaro, Aloise stringeva affettuosamente la destra di Lorenzo.

--Amico vostro per tutta la vita, Salvani! Voi siete un gentiluomo, e
lo avervi conosciuto mi tempera il rammarico della ferita che ho
toccata da voi. Vogliate anzitutto scusare quel piglio d'alterigia e
qualche brutta frase che non v'è andata a sangue, e che a me importa
assaissimo di spiegarvi ora. Il Collini è un mascalzone, e a quest'ora
lo sapete anche voi. Dopo aver fatto il valoroso al cospetto di una
donna, egli cercò padrini, e nessuno gli volle servire. Io non
conoscevo voi, e potete argomentar di leggieri che il vedervi giungere
col signor Assereto, altra persona a cui profferisco la mia amicizia,
mi facesse cattivo senso. Infatti io ero certo che il Collini non si
sarebbe battuto. Un suo duello di due o tre anni fa, quantunque
l'avversario non fosse uomo di polso, finì Dio sa come, e ci volle
tutta la prudenza dei padrini per rabberciare la cosa e non farla
voltare allo scandalo. Ricordandomi delle sue prodezze, io dunque
pensai che volesse mettermi uno schermidore di rincontro; e tale di
fatto eravate, ma non a quel modo che io argomentavo. Eccovi la
ragione dei miei portamenti di questa mattina; ed ora che vi ho tutto
confessato, accettate voi il mio pentimento sincero?--

Lorenzo afferrò la mano che Aloise gli offriva, e lo abbracciò con
affetto.

--Vostro amico per la vita e per la morte, Aloise di Montalto. Il
caso, più assai che l'arte, dirige la punta di una spada; ma non è
certamente il caso quello che fa incontrare due uomini i quali debbano
essere amici, come noi saremo da oggi in poi.--

Aloise e Lorenzo, il nobile e il popolano di nome, ma ambedue
gentiluomini per altezza di mente e cortesia di modi, si abbracciarono
da capo.

Tante e così svariate commozioni avevano stancato il ferito, che
sostenuto da Lorenzo e dal dottore Mattei si recò fino alla sua
carrozza, la quale stava ad aspettarlo più al largo, a metà della
viottola.

Il duello di Aloise di Montalto fece chiasso, e se ne parlò per giorni
parecchi in ogni ritrovo, da via Balbi a porta d'Arco, dalla piazza
de' Banchi al famoso angolo della libreria Grondona; e questo per la
qualità delle persone che c'entravano, e che, salvo Lorenzo, erano
tutte conosciute in Genova, stiamo per dire, come Barabba a
Gerusalemme, nei tempi evangelici.

Come è costume da noi in simili occasioni, furono fatte di molte
ciarle su quello scontro e sulle sue conseguenze. Il Montalto era lì
lì per tirare le cuoia; il polmone era stato passato fuor fuori;
un'arteria era stata toccata; insomma non c'era più speranza di
salvarlo. Tutti avevano parlato col medico, e vi sapevano dire perfino
come il ferito avesse passato la notte. Ma più delle ciarle furono
discordi i pareri sulle ragioni del duello. C'era chi dava il torto al
marchese di Montalto, e chi a Lorenzo Salvani; e si trovò perfino chi
desse ragione al Collini, perchè (si diceva) era tempo oramai di farla
finita con quella barbara costumanza del duello.

E v'ebbe anche taluno, il quale, forse per meglio dimostrare la
barbarie del duello, affermò che se a lui fosse stata recata una
sfida, avrebbe risposto a pugni e mostaccioni: oppure avrebbe
accettato l'invito, ma con due pistole, l'una carica e l'altra vuota;
e magari con due pillole, diverse nella composizione e negli effetti;
il che nel caso del signor Collini sarebbe parso più naturale.

Ma torniamo a Lorenzo, del quale ci importa per ora più che di tutti
gli altri personaggi della nostra narrazione. Egli era tornato a casa,
dove il veterano Michele lo aveva preceduto, dando con tutta la forza
dei suoi polmoni nella tromba della fama, sebbene non ci avesse altri
uditori che la signorina Maria.

La giovinetta s'era fortemente turbata a quel racconto di Michele; ma
Lorenzo era giunto anche lui sano e salvo; laonde ella non seppe
dolersi dell'accaduto che riusciva ad onore del fratello, e tenne
bordone alle guerresche sfuriate di Michele con una frase che merita
d'essere qui riferita:

--Alla perfine, un uomo deve fare il debito suo, avvenga che può; ed
anco a me, se fossi un uomo, darebbe l'animo di fare lo stesso.--

Il giorno dopo, Lorenzo Salvani, tornando dalla via Balbi dove si era
recato a visitare Aloise di Montalto, passò all'uffizio delle Poste, e
trovò una lettera per lui, la quale veniva da Genova.

Chi mai poteva avergli scritto da Genova?

Era una letterina chiusa in una elegante sopraccarta inglese di forma
quadrata, col suggello di ceralacca azzurra e una corona comitale in
rilievo. Di conti, Lorenzo non conosceva altri, per allora, che il
Nelli di Rovereto; ma la lettera non poteva venire da lui, che egli
aveva veduto mezz'ora innanzi al capezzale di Aloise. D'altra parte la
soprascritta faceva mostra di certi graziosi uncinetti, che non
indicavano punto la mano di un uomo; e non veniva da un uomo
quell'essenza di violetta che profumava la lettera.

Lorenzo, dopo avere almanaccato un tratto, fece quello che avreste
fatto voi, o lettori, e che avremmo fatto anche noi, in un caso
simigliante. L'aperse, e lesse queste poche parole:

«La contessa Matilde Cisneri prega il signor Lorenzo Salvani, a voler
passare da lei, domani, per cosa urgente; e lo ringrazia in
anticipazione.»

Potete immaginarvi come egli rimanesse a quella lettura. Di stucco, è
forse un dir troppo. Ma che cosa voleva la contessa Cisneri da lui?
Lorenzo l'aveva udita nominare come una delle più belle signore di
Genova; ma, vivendo egli appartato dal mondo elegante, non aveva mai
avuto occasione di conoscere quella bellezza neanche per via. Ma egli
era uomo, finalmente; ed una lettera di donna doveva fargli quel senso
che fanno di consueto ad un uomo gli scarabocchi di una figlia di Eva.

--Domani!--andava egli dicendo tra sè.--Da oggi a domani ci sono
ventiquattr'ore da aspettare. Basta; purchè passino, vedremo.



VIII.

Dove si legge vita e miracoli della signora che aveva scritto la
lettera.


La contessa Matilde Cisneri, che ora è in Francia, abitava nel tempo
di questa narrazione una palazzina di là dall'Acquasola. Oggi la
cerchereste invano, questa palazzina, perchè ha da essere caduta nel
taglio di una tra le nuove strade aperte verso la montagna, se pure
non è rimasta sopraffatta tra due file di casamenti nuovi, che bene
non ci ricorda.

Era una donna celebre, la contessa Matilde; una delle dieci o dodici
apostolesse della moda, le quali si contendono, o si spartiscono il
dominio dei cuori; regine elette per suffragio universale, ma che
ripetono tuttavia il loro diritto divino dalla bellezza e dal censo;
le quali, se vanno a spasso, ci hanno il corteggio di parecchi
cavalieri, e in teatro vedono aprire e chiudere di continuo l'uscio
dei loro palchetti, per la ressa dei visitatori; talune buone e
talaltre cattive secondo la loro natura e quella di chi le attornia;
donne che tutti saettano dei loro sguardi e assediano dei loro
sospiri; delle quali ognuno vi racconta la vita, o si argomenta di
raccontarvela, perchè essendo esse più in mostra di tante altre, ogni
loro parola, ogni gesto, sono interpetrati per diritto e per rovescio,
epperò ad un terzo di vero si appiccicano molto agevolmente due terzi
di falso.

La contessa di cui parliamo, nata col titolo, avrebbe dovuto perderlo
andando sposa ad un ricco intraprenditore di opere pubbliche; ma
questi era morto, lasciando lei erede usufruttuaria. Non aveva
carrozza; ma a Genova la mancanza di una carrozza non è poi molto
grave. Per contro aveva un palchetto in prima fila al teatro Carlo
Felice, e ci andava con una sua vecchia amica, la quale, non sapendo
staccarsi dal mondo e dalle sue vanità, si appuntellava alla rinomata
bellezza di una giovine, per non uscirne del tutto, avendo poi l'aria
di tenere la vedovella in quasi materna custodia. Da qualche tempo la
contessa era infastidita dei suoi adoratori consueti. A Genova, come
in ogni altra città, v'è uno stuolo vagabondo di questi personaggi, i
quali fanno in una sola sera, e nel tempo di una sola rappresentazione
di teatro, più giri che uno sciame di pecchie. Altri direbbe
calabroni, ma noi ci atteniamo alla immagine più graziosa. Ora alla
contessa Matilde questo farfalleggiare non andava molto a genio, nè
più le garbava quello scambiare di futilissimi discorsi, o il dover
nutrire la conversazione di ciò che faceva l'Erminia, l'Amalia, la
Fanny, od altra delle dive, semidive e ninfe della giornata.

D'altra parte (e forse qui era da trovarsi la vera ragione) da qualche
tempo ella non risplendeva più nel «ligustico cielo» come una stella
di prima grandezza. Al suo entrare in teatro, ella non vedeva più,
come prima, voltarsi le teste di tutti gli Adoni, con quel piglio di
curiosa attenzione che sembra dimandarne altrettanta. Gli astronomi
del teatro guardavano qualche regina di più fresca consecrazione, o
qualche sposina, o qualche bella fuggitiva d'altra città, regina
forestiera, venuta a rivaleggiare di pompa e di leggiadria con le
padrone del campo.

Ella insomma non era più nel novero delle prime, sebbene il suo
specchio non avesse punto smesso dal dirle, e con ragione, che la
bellezza le fioriva sempre le guance. Vanità delle cose umane! Neppur
la bellezza bastava a combattere gli effetti della consuetudine; e
quel che era peggio, molte delle nuove venute erano più belle di lei,
nè i giovinetti, nè i vecchi che la pretendevano a giovinotti, quando
si recavano a farle la visita d'uso, rifinivano mai dal tenerle
discorso di questa o di quella delle sue fortunate rivali.

Il tedio della contessa Matilde era grande, anzi sterminato a
dirittura. Già due volte aveva parlato, così tra un nastro e un
ventaglio, di voler morire, perchè a questo mondo non si era compresi
mai, e faceva delle elegie alla luna, ma avendo tuttavia il buon gusto
di non metterle in versi. Anche qualche gita al camposanto non sarebbe
stata male; ma quella mancanza d'alberi per incorniciare le tombe
l'aveva subito distolta dal malinconico pellegrinaggio, e dai pensieri
che vi fanno capo. Anche laggiù regnava la menzogna, e, peggio assai
che detta a fior di labbro, scolpita nel marmo.

Gli amici di casa, vogliamo dire i più intimi, non la riconoscevano
più. Nessuna cosa poteva rallegrarle lo spirito. Era ella in uno di
que' tali momenti in cui si piglia un amante, se si riesce a trovarlo
autentico; uno di quelli amanti teneri e feroci ad un tempo, i quali
si fanno della donna amata una divinità ed una vittima, e mettono un
pizzico di pepe nelle sciocca monotonia della vita.

Aloise di Montalto, con la sua svelta persona, ed il viso improntato
di nobile alterezza, che ricordava il verso di Dante __Biondo era e
bello e di gentile aspetto__, sarebbe stato l'uomo adatto a temperarle
quella mestizia profonda, a farle parere ancor bella la vita, e
soprattutto a far crepare di rabbia tutte le rivali sullodate, e di
gelosia mista a rimorso tutti i pianeti che s'erano lasciati attrarre
nell'orbita di quelle nuove stelle, o comete che fossero.

Ma ella aveva fatto i conti senza Aloise. Il giovine Montalto amava, e
non era lei la donna che lo faceva sospirare. Ora, con tutto il suo
accorgimento femmineo, la contessa non aveva indovinato ciò; aveva
creduto che Aloise fosse un uomo come tutti gli altri, ai quali basta
una languida occhiata per farli girare, come le banderuole dei tetti,
al più lieve soffio di vento. Per sua maggiore disdetta, la prima
parola che ella aveva detto ad Aloise, nella veglia delle maschere al
teatro Carlo Felice, lo aveva punto sul vivo.

--Che cosa vai tu a fare ogni giorno sul belvedere dei Giardinetti,
accanto alla villa Di Negro?--gli aveva sussurrato ella all'orecchio,
ripetendo una frase udita da altri.

Aloise andava appunto colassù ogni giorno e ci passava le ore intiere;
ma c'era un grosso perchè, una viva debolezza del suo cuore. Egli
infatti non andava a nessun ritrovo di amore, su quel belvedere dei
Giardini pubblici, e non istava a guardar altro che un comignolo di
tetto.

Già da parecchi mesi egli faceva quel pellegrinaggio ogni giorno; ma
nessuno sapeva che cosa guardasse, perchè egli non se n'era aperto mai
con alcuno, nemmeno col Pietrasanta che gli era amicissimo. Laonde,
non è a dire come gli recasse molestia sentirsi toccare quel tasto da
una maschera che egli aveva facilmente conosciuta per la contessa
Matilde.

Tutti sanno che al tempo di questa narrazione, le veglie del teatro
Carlo Felice si tenevano soltanto nelle sale del Ridotto. Le signore
eleganti salivano in pompa magna a darvi una scorsa, o mettevano una
mascheretta al viso, e un domino di seta sulla loro abbigliatura da
teatro, onde era facile il riconoscerle, come se fossero andate a
fronte scoperta.

Aloise dunque aveva arrossito a quella dimanda pungente della contessa
Matilde, e tremando in cuor suo che ella avesse potuto indovinare un
segreto non confidato da lui ad anima viva, rispose asciutto alla
contessa Cisneri:

--Che cosa t'importa? Vo a studiare filosofia.

--Tu, filosofia! E su quale problema di grazia?

--Sulla curiosità di voi altre donne.

Allora venne la risposta della contessa: «non sei gentile» e tutto il
rimanente, di cui ebbe a scontar la pena il Collini, che accompagnava
la signora mascherata.

Il dialogo avvenuto fra i due era per la contessa il pizzico di pepe
che abbiamo accennato più sopra. Aloise era uno scortese superbo, di
cui avrebbe saputo vendicarsi in ogni occasione; il Collini, fino a
quel giorno non avvertito da lei, s'era ingrandito di schianto fino
alla misura di un eroe.

Ma quella era stata una meteora. Quarantott'ore dopo, ella sapeva
della viltà di Ernesto Collini, e di Aloise gravemente ferito per mano
di un cavaliere incognito (stile da romanzo storico) che il capitano
Nelli di Rovereto andava dipingendo alle signore, gentile come una
fanciulla e prode come Ettore Fieramosca.

La contessa Matilde non istette molto a pensare, e fattasi raccontare
ogni cosa a puntino dagli amici del Nelli e del Pietrasanta, formò
nella mente il più audace disegno che donna concepisse mai per vincere
il tedio della vita. Il giorno dopo, una letterina profumata era già
alla posta, coll'invito a Lorenzo Salvani di recarsi da lei, per cose
d'urgenza.

Lorenzo era dunque aspettato nella mattina del giovedì, e c'era avviso
ai servi che, entrato il signor Salvani, la contessa non era in casa
per altri.

Adesso il cortese lettore si prenda l'incomodo di venire con noi nella
palazzina Cisneri, e senza farci annunziare dal servitore in livrea di
panno nero coi bottoni dorati e la lettera C sormontata da una corona
comitale, passeremo per un androne lastricato a quadretti bianchi e
neri, saliremo una breve scala di marmo, ed entreremo senza chiedere
licenza in una spaziosa anticamera, tutta adorna di quadri a olio,
paesi e marine di dugent'anni fa, che si potevano guardare ed anco
trovar belli in una pinacoteca, ma che in quella sala non erano
guardati da nessuno, sopraffatti per giunta da quattro tele più
grandi, che rappresentavano gli antenati della contessa.

Uno di questi era un omaccione, grasso, rubicondo, con gli occhi
sgusciati a guisa delle tartarughe; ed era il bisavolo, come
ragionevolmente appariva dall'abito di velluto, tagliato alla foggia
del settecento e dalla parrucca incipriata con la coda a sacchetto.
L'altro era il trisavolo, magnifica arigusta avviluppata in un robone
di velluto cremisino che aveva dovuto sostenere importanti uffici, non
sappiamo dove, ma in qualche luogo di certo.

Mancava l'avolo, perchè (diceva la contessa) egli non aveva mai voluto
farsi fare il ritratto. Il conte Cesare era un benedetto uomo, pieno
di stravaganze, che non c'era verso di cavargliele dal capo. Aveva il
temperamento sanguigno, il conte Cesare! Del resto, gran soldato; e
Napoleone I, che s'intendeva d'uomini, avrebbe dato un occhio del capo
per averlo dalla sua; ma lui duro. Il conte Cesare, che non voleva
farsi fare il ritratto, era morto di un colpo apopletico. Bella morte,
per un gentiluomo!

Come ognuno vede, se mancava il ritratto a olio, suppliva il bozzetto
a voce. Il Cigàla, quel faceto giovinotto che molti dei nostri lettori
si ricorderanno di aver conosciuto, e che è morto da valoroso nella
giornata di Montebello, sospettava fortemente della autenticità di
quei ritratti, e sosteneva di averli veduti nel fondo di una bottega
da rigattiere. In quanto al conte Cesare, lo diceva un ritratto di
fantasia, per meglio colorire i due accennati.

Gli altri due erano ritratti di donne. Una era la moglie del conte
Cesare, la quale non partecipava punto alla ripugnanza del marito per
la pittura. L'altra era una gentildonna della famiglia, andata a
nozze, non si sapeva più bene se con un Pallavicino di Parma o con un
Visconti di Milano.

Il prete di casa le sapeva a menadito, tutte quelle storie; ma il
poveraccio era morto! La contessa Matilde ne aveva sentito parlare,
quand'era piccina, ma non le aveva tenute a mente. Della qual cosa non
è a dire quanto le dolesse; perchè le ricordanze di famiglia sono una
seconda religione, e bisogna tenersele care.

Il padre della contessa, l'unico ritratto di cui il faceto Cigàla non
avesse mai dubitato, era in miniatura, e si poteva vederlo nel salotto
verde, sopra la spalliera del gran canapè, sul quale la contessa era
usa sedersi, quando non le tornasse meglio sdraiarsi su d'un piccolo
sofà, accanto alla finestra, per leggiucchiare i giornali.

Faremo un breve ritratto dell'ultima discendente di tanti egregi
personaggi, dicendovi che era bionda, bianca nel viso come tutte le
bionde, ed amava portare i capelli tirati indietro, ma con una fila
ordinata di ricciolini minuti sulla fronte, come una dama francese del
Seicento. Ella poi, bionda com'era, reputava ottima la tappezzeria
verde, le cortine verdi, che facevano risaltare assai bene la sua
bianca figura.

Siamo dunque entrati nel salotto verde, e non ci ha neppur visti dal
vano di un uscio socchiuso, o dal buco di una toppa, la vispa
Cecchina, una cameriera che sa tutto, che vede tutto, vero ministro
degli affari interni in gonnella di lana, a scacchi rossi e neri, e
grembiale di seta.

Invisibili come un eroe di poema epico, a cui un Nume benigno ha
concesso l'accappatoio di una nuvola, possiamo guardare a nostro
bell'agio la bionda contessa, che è appunto sdraiata sul piccolo sofà
daccanto alla finestra, con un tavolincino di lacca giapponese posto
lì presso, che la mano della signora possa giungervi senza incomodo, a
scegliere tra una rivista francese, due giornali di mode, uno di
politica, e un volume del Leopardi.

Il qual volume, sia detto ad onor del vero, stava aperto sulla lastra
verniciata, parendo rimasto a bocca aperta per la meraviglia del
trovarsi in quella compagnia.

La contessa Matilde non leggeva. Appunto pochi momenti innanzi aveva
deposto il libro, aperto alla pagina di Consalvo, a cui consola la
triste agonia il primo bacio di Elvira. Col capo arrovesciato sulla
soffice spalliera tondeggiante del sofà, gli occhi socchiusi in atto
di meditazione profonda, una mano raccolta al seno e l'altra
mollemente abbandonata lungo le pieghe di una veste di color
pavonazzo, stretta alla vita e stretta al collo, dov'era terminata da
una gorgieretta a cannoncini insaldati, l'avreste detta una bella
figura del Vandyck, spiccatasi dalla sua tela, e diventata di carne,
d'ossa e di seta, per far grazia a voi, prelibati lettori.

Qual era l'argomento delle sue meditazioni? Ecco qua: la contessa
Matilde pensava che era prossimo il tocco, e che, seguendo la
consuetudine delle visite, l'ignoto ed affettato Lorenzo Salvani, non
avrebbe tardato molto a giungere.

E infatti, il tocco era passato di poco, che un giovanotto chiuso in
una specie di cappa che portava allora il nome di lord Raglan,
commetteva i suoi stivalini inverniciati su per la salita della
palazzina Cisneri. Giunto lassù, detto il suo nome, e gettato il
__raglan__ sulle braccia del domestico, salì nell'anticamera che il
lettore conosce. Lo stesso domestico, passatogli innanzi, e alzata la
portiera del salotto, annunziò alla contessa la venuta del signor
Lorenzo Salvani.

--Fatelo entrare!--disse ella con una voce che noi non chiameremo
argentina, a cagione dell'abuso che si è fatto ormai di simili
aggettivi.

A Lorenzo il cuore «balzava in petto» davvero, e non già per far
servizio alla rima come nei melodrammi, Il giovinotto era intrepido,
anzi audace ai pericoli, ma pur sempre timido come un adolescente, al
cospetto di una donna, e più d'una donna veduta per la prima volta. Ma
bisognava farsi innanzi, ed egli entrò nel salotto, a fronte alta, per
isforzo di volontà, impacciato nondimeno e confuso. Il verde di quel
salotto gli aveva ferito lo sguardo; il viso di quella bionda creatura
seduta lo aveva abbagliato.

La contessa era rimasta nella sua prima postura fino al comparire di
Lorenzo sulla soglia; ma, vedutolo appena, con sapiente magistero
aveva sollevata la testa e sporgeva la mano come per accennargli la
via che egli aveva a tenere per giungere a lei.

Il salotto di una bella signora che non si è mai veduta, a cui non si
è mai parlato, è infatti come una lunga strada, anzi come una distesa
di mare, su cui c'è grande bisogno della bussola: ed anche allorquando
si vede il porto, bisogna studiare il modo di giungervi, senza dar
nelle secche.

--Signore,--disse la contessa al giovine, come fu giunto vicino a
lei,--ho ardito chiamarvi da me come si usa con un vecchio amico. È
però giusto che, come ad un vecchio amico, vi stringa la mano, mentre
vi ringrazio della vostra sollecitudine.--

Che cosa rispose Lorenzo Salvani a quelle cortesie, a quella stretta
di mano e a quel lungo sorriso che accompagnava gli atti e le parole?
Qualche cosa egli balbettò di certo; ma nè ella l'intese, nè egli
avrebbe saputo ripetere. Questo avviene pur sempre nei primi incontri,
ed ognuno dei nostri lettori lo saprà per sua particolare esperienza.

Comunque sia, non è qui il caso di stare a cercare che cosa avesse
detto. Egli strinse, o piuttosto si lasciò stringere la mano dalla
contessa, arrossì un pochino e prese il posto che la signora gli
offriva su d'una sedia a bracciuoli, accanto al sofà. Quell'atmosfera
(se la donna è un corpo celeste, perchè non avrebb'ella pure la sua
atmosfera?) quell'atmosfera, pregna di tutti i profumi della bellezza,
lo aveva inebbriato.

Ahimè, povero uomo! Egli è sempre così che tu cominci i tuoi romanzi,
senza sapere dove ti condurrà la catastrofe!

Cionondimeno, se Lorenzo Salvani avesse vissuto un po' meno tra i
libri e alquanto più nel consorzio dei vivi, egli non sarebbe rimasto
sopraffatto a quel modo, e in quella atmosfera ci avrebbe trovato più
quintessenza di violette, che non arcano profumo di donna gentile. Ma
che farci oramai? Era quello di Lorenzo Salvani il primo segno, il
barlume de' suoi primi ardori per una donna vera. Egli non aveva fino
a quel punto messo il suo cuore fuor che in quelli amori di sedici
anni, così candidi, così vaporosi, per una donna di cui non s'è mai
udita la voce; che si vede soltanto per le vie a diporto, e nemmeno
tutti i giorni; della quale si vorrebbe essere casigliani, entrare in
dimestichezza coi parenti, e financo, Dio ci perdoni, col ciabattino
che le adorna il portone di casa; e alla quale nondimeno non si sente
la fiera bramosia di stringere la persona tra le braccia, per ricevere
la scossa elettrica di quel condensatore vivente.

Lorenzo non aveva ancora amato davvero. Non erano certo mancate le
follie della prima giovinezza; ma le ali del pensiero non v'erano
punto rimaste impaniate. Però quella entrata nel salotto della
contessa Matilde era come l'apparizione di un nuovo mondo per lui; era
il pianeta di Venere, nel quale egli si vedeva sbalzato, come per
effetto d'incantesimo. Era egli Astolfo nella Luna, o Rinaldo nella
dimora di Alcina, o Ruggero nei giardini d'Armida? Tutti questi eroi
avevano perduta in ugual modo la bussola; però il lettore può
scegliere.

A Lorenzo mille pensieri ed immagini di questa fatta passarono, come
un baleno, nella mente, e insieme un desiderio prepotente di essere
amato da quella graziosa donna dai capelli biondi e dalla lunga veste
di color pavonazzo, che gli stava mollemente seduta di rincontro.

Era quella forse la donna della veglia mascherata, alla quale il
marchese di Montalto aveva detto parole scortesi? Era quella la
signora di cui si parlava tanto, per le sue acconciature, per le sue
fogge di vestire, per la sua vita brillante? Era un angelo, o una
sirena? Poteva amarlo, lo amava di già, o non l'avrebbe amato mai?
Tutti questi pensieri erano e ad un tempo non erano nell'animo suo; si
aggirava in una regione fantastica, e gli mancava il tempo di
coglierne distintamente i contorni.

--Signor Salvani,--diss'ella,--voi dunque mi perdonate il fastidio che
ho dovuto recarvi?

--Che dite mai, signora contessa?--rispose Lorenzo.--Io ringrazio
anzitutto la buona ventura che mi ha fatto salire in questo
paradiso.--

Per un esordio di conversazione non c'era male. La contessa fece un
grazioso cenno del capo, e giovandosi dell'ultima parola di Lorenzo,
proseguì:

--Un paradiso, dite benissimo, quantunque non vi siano angeli, nè
santi.--

Lorenzo aveva già fatto il gesto di chi vuole rispondere qualche cosa;
ma la contessa non gliene diede il tempo.

--Oh, non mi state a dir altro in contrario!--soggiunse ella.--Io so
bene che voi, signori, non patite penuria di complimenti.

--Complimenti, signora contessa! È una brutta sentenza, e soprattutto
pronunziata senza ascoltare le parti, quella che voi infliggete ad un
uomo il quale non si disponeva a dir altro che la verità. A me infatti
sembra che gli angioli almeno ci siano.

--E questo,--ripiccò sorridendo la contessa Matilde,--non è forse un
complimento?--

Lorenzo stette un tratto silenzioso e raccolto in sè medesimo, a guisa
di chi vuole si ascolti attentamente quello che sta per dire; quindi
si fece a parlare in tal modo:

--Signora contessa, abbiatemi per iscusato, ve ne prego, se appunto la
prima volta che ho la fortuna di parlare con voi, comincio a disputare
come un accanito dialettico. Ma che cos'è infine un complimento?

--Voi saprete assai meglio di me la definizione del vocabolo, signor
Salvani; ma qualunque cosa esso sia, non potrete levargli il carattere
di una frase esagerata.

--E sia pure;--proseguì Lorenzo,--ma perchè si dice, questa frase
esagerata? Una cagione riposta ci ha pure da essere. E che cosa sono,
di grazia, le immagini e le metafore nello scrivere, se non modi
svariati ed efficaci a colorire meglio un pensiero? Certamente non si
potrà dir bella ad una brutta; ma si dicesse pure, non sarebbe
esorbitanza di frase, sibbene una bugia addirittura, e l'uomo che la
dicesse dovrebbe arrossire, temendo che fosse giustamente tolta in
mala parte. Ora ditemi, signora contessa, arrossisco io forse per
timore, nel dirvi, come faccio, che gli angioli ci sono, in questo
vostro paradiso?--

Qui cominciò tra quelle due persone che non si erano mai vedute, l'una
delle quali non sapeva ancora per qual ragione fosse chiamata al
cospetto dell'altra, una di quelle conversazioni, tessute a ghirigori
fantastici, nelle quali non si dice nulla, o quasi, e tuttavia si
lasciano intendere tante cose.

Matilde ragionò di molto con lui; della sua solitaria dimora, fino a
cui non giungeva il frastuono della città; del Leopardi, che ella
leggeva con affetto indicibile, e di cui ella intendeva i concetti
assai meglio che pel passato, quando l'animo suo non s'era anche
educato alla scuola dei patimenti; del vivere ristretto e fastidioso
di Genova; dei sereni piaceri della campagna, e di mille altre cose,
vere o false, ma dette sempre con molta grazia e con un'aria di
schietta semplicità da innamorare ognuno che fosse stato a sentirla.

Potete dunque argomentare quale prova facesse sull'animo di Lorenzo.
Assorto come era in una ebbrezza profonda, non le chiese, anzi
dimenticò affatto di chiederle la cagione per cui essa lo aveva
chiamato in casa sua, e si lasciava andare a discorrere di mille cose,
come il marinaio addormentato che sogna la sua innamorata si lascia
cullare nel suo burchiello, confidato alla cura delle onde tranquille.

La contessa poi sapeva toccar quelle corde che gli andassero più a
genio, e, come è virtù di molte donne, s'innalzava agevolmente al pari
di lui, faceva suoi i pensieri del giovine e li metteva fuori in tal
modo da far sembrare che ella non avesse mai pensato diverso.

Erano le quattro dopo il meriggio, e quella benedetta conversazione
non era anche finita. I quattro tocchi della campana si fecero udire
in mezzo ad una di quelle tali pause che si riscontrano nel dialogo
più vivo, come una radura che lascia veder l'orizzonte, nel fitto di
una boscaglia.

--Dio mio! le quattro!--esclamò la contessa.--Si dimentica il tempo in
vostra compagnia, signor Salvani; e veramente mi duole di non avervi
ancora parlato di quella tal faccenda per la quale vi avevo pregato di
venire da me. Oggi intanto non sarebbe più tempo. Venite domani?

--Se così vi aggrada,--rispose Lorenzo sollecito.

--E se così aggrada a voi,--soggiunse la contessa.

--Oh, di questo potete esser certa, signora. Non si parte da casa
vostra senza portar via qualche cosa....

--Qualche cosa?

--Eh, sicuro; il desiderio di ritornarvi.

--Se è così, tanto meglio; portatene via molto, signor Salvani; io non
me ne lagnerò certamente.--

Il nostro Lorenzo se ne tornò a casa col cervello scombussolato, senza
pensare, senza intendere cosa alcuna, ma leggiero, leggiero come un
uomo felice. I tristi pensieri lo assalsero dopo l'arco
dell'Acquasola, quando fu per discendere in città. Gli risovvenne
allora della sua vita senza speranza, della povertà che lo stringeva
ai lati, cose tutte che egli sentiva doppiamente acerbe, poichè egli
aveva veduto la donna da cui gli sarebbe stato dolce l'essere amato.



IX.

Come Ercole filasse alla conocchia di Onfale, e come tutti gli uomini
possono somigliare ad Ercole.


La dimane il giovine fu puntuale al ritrovo, come potete argomentar di
leggieri. Nella notte il suo letto solitario era stato visitato dagli
alati messaggeri di Morfeo, i quali erano tutti intenti a
raffigurargli una bionda, con la veste di color pavonazzo e la
gorgieretta di mussolina a cannoncini insaldati. Il più bizzarro
ricambio di pensieri, il più veloce viaggio nei giardini di Amatunta
era stato fatto dal dormente, in compagnia della bionda consolatrice
del suo sogno. Però non è a dire con quanta sollecitudine ansiosa egli
facesse, all'ora istessa del giorno innanzi, la salita della palazzina
Cisneri.

Allorquando egli entrò nel salotto verde, vide la contessa Matilde
seduta presso la finestra, con la matita tra le mani, che stava
disegnando un fiore sopra un foglio di carta. Ella non indossava più
la veste di color pavonazzo, ma un'altra di seta nera, con la vita
foggiata per modo da lasciar le spalle nude ed il sommo del petto, su
cui scendeva un camicino di mussolina ugualmente nera, lieve
impedimento agli occhi di un profano riguardante. Intorno al collo si
ravvolgeva, venendo ad incrociarsi sul petto, uno di que' tali arnesi
di pelo di martora che hanno pigliato presso le donne il nome pauroso
di un serpente, forse in omaggio a quella bestia che venne a capo di
infinocchiare la loro progenitrice degnissima.

La contessa poteva rimanere scollata, perchè il fuoco acceso nel
camino manteneva nel salotto una tiepida temperatura. Acconciata in
quel modo, aspettava la seconda visita di Lorenzo Salvani.

Appena egli comparve, la contessa alzò il capo, piegandolo
leggiadramente verso la spalla in modo da saettare il giovine con uno
sguardo ad occhi semichiusi, e, con la muta eloquenza del più cortese
sorriso, gli porse la mano.

Lorenzo corse a stringere quella mano, e non contento di stringerla,
chinò il capo a baciarla.

Ella non fece alcun atto di meraviglia. È così poca cosa, ed ha una
scusa così ragionevole nelle antiche consuetudini il baciare una mano,
che la contessa Matilde poteva lasciarlo fare a suo modo, senza
mestieri di simulare un atto di corruccio.

--Siete venuto!--diss'ella, così per cominciare il discorso.

--Potevate credere, signora contessa,--rispose Lorenzo,--che avessi
tardato pure di un minuto?

--Oh no! Voi siete un cortese cavaliere, e questo si sa. Pensavo
anzitutto che le vostre faccende avrebbero potuto forse trattenervi, e
quasi mi doleva di avervi costretto a regalarmi un'altra delle vostre
ore preziose.--

Un'ora! La contessa avrebbe potuto dir tre o quattro a dirittura, chè
tante ne aveva passato accanto a lei, il giorno innanzi, il nostro
Lorenzo. Ma questo era forse un modo di dire della contessa Matilde.

--Non v'è negozio che tenga,--rispose il giovine,--innanzi ad un
vostro invito, e mi pare di avervi già detto con che animo si parta da
casa vostra. Ma che cosa stavate voi facendo, signora?

--Oh, una cosa da nulla. Mio Dio! Temo che non m'abbiate a trovare un
po' troppo leggiera, con queste frivolezze.

--Che dite, signora? Per me non è nulla di frivolo in quello che fate,
sia pure un ricamo.

--Ed è appunto un disegno per ricamo;--disse la contessa.--L'ultimo
venuto da Parigi non mi garbava molto, e volevo farne uno di mio capo
per metterlo sul telaio. Sapete pure, signor Salvani, che lunghe ore
di tedio passiamo noi in casa, quando manchi l'argomento affettuoso
delle cure domestiche. Un ricamo, od altra cosa qualsiasi, che a prima
giunta pare, e considerata in se stessa è certamente assai frivola, ci
offre una occupazione materiale in cui riposare la mente, per farci
poi cavar più diletto da una bella lettura, o da una passeggiata
all'aperto.

--Non vi scusate, signora contessa!--soggiunse Lorenzo.--Voi disegnate
un fiore, e sta bene. Il fiore non è egli forse una delle più belle
opere di Dio? Anzi, per dimostrarvi che siffatte occupazioni si
addicono agli uomini come alle donne, con vostra licenza, voglio
metterci anch'io queste mani profane.

--Fate pure, signor Salvani, e il mio fiore riuscirà certamente più
bello.--

Lorenzo prese con fanciullesca sollecitudine, il posto della contessa
Matilde, e tolta in mano la matita, si diede con artistica gravità ad
abbozzare un elegante mazzolino di que' fiori che nascono soltanto
negli orti della fantasia cinese. Imperocchè l'uomo si è fitto in capo
di abbellir la natura, e dove non si mette a dirigere e ad educare gli
amori delle piante per mutarne le forme e temperarne a sua posta i
colori, inventa nuove fogge senz'altro; queste però sulla carta,
perchè la natura non è disposta a seguirlo in tutti i suoi capricciosi
vaneggiamenti.

Non faccia le meraviglie il lettore se Lorenzo Salvani, il giovine
severo, il soldato di Roma, s'è posto a disegnare un mazzolino di
fiori pel telaio della bionda contessa. Gli antichi, nostri maestri in
tante cose, non isdegnarono rappresentarci Ercole, il figlio di Giove
e il domatore dell'idra di Lerna, seduto presso ad Onfale, in quella
positura che finse più tardi lo Shakespeare per il suo Amleto a' piedi
di Ofelia (leggete a questo proposito il testo inglese), e intento a
trarre il filo dalla conocchia di lei. Ora tutti gli uomini sono figli
in cotesto del dio della Forza, che lo imitano a puntino nelle sue
debolezze.

Che faceva intanto la contessa Matilde? Con una mano poggiata sulla
spalliera della scranna, e la testa curva accanto a Lorenzo, ella
stava seguendo degli occhi i giri della matita che egli maneggiava con
facile sprezzatura. Le guance della donna erano presso alle sue, e i
segni della sua ammirazione, tradotti in parole, gli accarezzavano il
volto, chiamando il sangue in tutti i meati più sottili di quella
superficie, di consueto così pallida.

Lorenzo disegnava, ma il suo sangue ardeva; e in quella guisa che un
terreno arsiccio beve avidamente uno spruzzo d'acqua e ne fa sparire
in breve ogni traccia, il suo sangue si beveva quel soffio delicato, e
riardeva sempre più forte. Ma presto venne il punto che egli non potè
più durarla, e alzando il capo verso la contessa, ne disse una delle
sue, la più grossa che le avesse ancor detta.

--Oh perchè non posso io dar loro la vita, a questi poveri fiori, e
inspirar loro nelle aperte corolle quel dolce effluvio che si spande
dalla vostra persona!--

Non era questa la prima avvisaglia, ma certamente la più forte, e la
contessa non potè simulare di non averla notata. Risollevò il capo con
aria turbata, si volse indietro due passi e si lasciò cadere sul sofà,
dove stette silenziosa col viso nascosto nelle palme.

Era graziosa, molto graziosa in quella postura, la contessa Matilde.
Le sue mani sottili e delicate che il Bartolini, adoratore di belle
mani, avrebbe modellate assai volentieri, non giungevano a coprirle
tutto il viso; però la fronte e una parte delle guance lasciavano
scorgere quel leggiero incarnato che si dipinge così facilmente sul
volto delle donne, quando mette loro più conto.

Più turbato a gran pezza di lei, Lorenzo si alzò e si fece presso alla
contessa.

--Signora,--le disse egli con voce tremante,--che cosa ho detto io
mai, che abbia potuto spiacervi tanto? Io sarei il più tristo degli
uomini se avessi, con animo deliberato, a dirvi cosa che potesse
offendere la vostra dignità, o fallire al rispetto che meritate.

--Oh no, signor Salvani; non si tratta di tanto;--rispose la contessa
Matilde, in quella che si affrettava a stendergli la mano.--Voi
ricadete nella malattia dei complimenti, e ne avete fatto uno testè,
il quale, non mi offende già, mi addolora.--

Lorenzo non sapeva che rispondere. Che questa donna non m'intenda?
pensò egli tra sè. Che essa non si avveda di ciò che gli occhi miei le
dimostrano?

La mano della contessa era ancora nelle sue, e non dava segno di
volersi ritrarre. Non era dunque una donna sdegnata che gli aveva
parlato a quel modo; e questa considerazione gli diede animo a
rispondere, ma senza accorti rigiri, aperto come egli sentiva.

--Signora contessa, mi accusate forse di un lieve fallo, per delicato
intendimento di non avermi a rimproverare una colpa più grave, e non
farmene arrossire?

--No, vi dico quel che penso; perchè?

--Perchè se voi mi reputaste capace di avervi recato offesa, ve ne
recherei scusa e uscirei subito dalla vostra casa. Se in quella vece,
come cortesemente mi dite ora, mi accusate di far complimenti, di non
dirvi schietta la verità, io vi prego di concedermi libertà di parola,
per difendermi da un'accusa che so di non meritare.

--Che aria grave assumete voi, signor Salvani! Parlate pure; io so
bene che non potrete dir cosa mai, la quale mi offenda.

--Orbene, signora, vi parlerò schiettamente, checchè possa costarmi.
Sono un povero giovine, ma sono altresì un onest'uomo. Questo povero
giovine, che vedete dinanzi a voi, è rimasto inebriato dalla vostra
bellezza, dalle grazie del vostro spirito. E non istate a dirmi che
esco dai confini del vero. In un cuore come il mio l'affetto nasce e
germoglia sollecito, e voi siete fornita di così sottile accorgimento
da intendere come l'esser vicino a voi abbia potuto turbarmi. Questa è
la verità, o signora, e l'onest'uomo, che vedete del pari, sente il
debito di dirvela tutta quanta. Se anco questa vi spiace, il povero
giovine, l'onest'uomo, se ne andrà; sebbene combattuto dal più fiero
desiderio di rimanere, dal più acerbo dolore di non aver meritato una
migliore accoglienza, se ne andrà, ve lo giuro, se ne andrà.

--Dio mio!--esclamò la contessa, che era stata ad ascoltarlo in
atteggiamento di mestizia.--È egli dunque vero che un uomo ed una
donna non possano stare l'uno accanto dell'altra ed essere amici,
null'altro che amici?--

Qui la contessa raccolse di bel nuovo la sua bionda testa nelle palme,
e stette un tratto a pensare. Lorenzo non rispose, e ricadde sulla
scranna, con le mani sulle ginocchia e il capo chino.

--E perchè mai,--proseguì la contessa, come se ragionasse con se
medesima,--tutti gli uomini hanno a dire le stesse parole?--

Lorenzo allora sollevò la fronte, e dopo una breve pausa si fece a
rispondere:

--Le stesse parole, forse; ma non tutti a questo modo, signora, nè con
tanta verità di pensiero. Vi diranno di amarvi; ma nessuno ve lo dirà
così presto come io ve l'ho detto, la seconda volta che vi vedo,
pronto a soffrire quella pena che voi potreste infliggermi maggiore,
negandomi di poter ritornare da voi. Signora, non perdonerete voi
dunque a chi vi ha detta la verità?--

E così dicendo, Lorenzo Salvani si alzò, aspettando la sua sentenza.

La contessa alzò la fronte a guardarlo. Il giovane aveva pallido il
viso e impresso di una severa mestizia; nè ella seppe tener fermo,
senza un poco di turbamento, innanzi allo sguardo profondamente
pietoso, ma altero ad un tempo, di Lorenzo Salvani.

--Perdonarvi!--disse ella con voce fioca.--È cosa fatta. Una donna non
ha ragione a dolersi se un uomo pari vostro le parla di amore. Taluna
forse, più sofistica delle altre, noterebbe che simili parole, perchè
s'abbia a ritenerle in ogni loro parte sincere, son forse dette troppo
presto.

--Ma io vi ho già detto, o signora, come la penso in materia di amore.
Io non pratico, nè conosco la ipocrisia del cavaliere galante, il
quale vi s'insinua dolcemente nel cuore, vi signoreggia superbamente
quando sia giunto a persuadervi con la sua lunga umiltà. Con me,
signora contessa, voi siete padrona di voi medesima; io non aspetto a
cogliervi alla sprovveduta; vi amo, e ve lo dico schiettamente con le
labbra, poichè mi è dato parlarvi, in quella stessa guisa che ve lo
avrei detto e seguiterei a dirvelo con gli occhi, se non avessi altro
modo.

--Ma sapete, signor Lorenzo,--(la contessa Matilde disse proprio:
Lorenzo)--che queste vostre parole mi mettono in pensiero? Sedetevi
qui, accanto a me, e vediamo di poter discorrere tranquillamente. Ho
da dirvi anzitutto perchè io v'abbia pregato a venir qua.--

Lorenzo si assise. Il cuore del giovine s'era inondato di gioia,
all'udire che la contessa per la prima volta lo chiamava col suo nome
di battesimo.

--Parlate, parlate, signora!--esclamò Lorenzo.--Voi sapete pure la mia
vita esser vostra, e non essere cosa ai mondo la quale io non fossi
lieto di fare per obbedirvi.--

Una stretta di mano lo ricompensò di quelle parole, e se una mano
ardeva, l'altra non era fredda di certo.

--Voi siete un uomo d'onore;--incominciò a dire la contessa, con un
tal poco di solennità nello accento,--lo so; e appunto per questo ho
amato meglio volgermi dirittamente a voi. So che vi siete diportato da
prode gentiluomo in un duello, nel quale avevate a contendere con uno
dei più valenti schermidori della città, e me ne congratulo con voi,
non già in quel modo e per quella costumanza volgare di una persona
che s'incontra per via, ma con affetto sincero, ed anco, se non vi è
discaro saperlo, con gratitudine, perchè c'era di mezzo una dama, e
questa dama voi l'avete difesa, in vece del suo cavaliere che si
dimostrava un codardo.

--Come, signora? Voi sapete....

--Sì, so tutto, e non mi riterrò neppure dal dirvi che quella dama....
ero io.

--Voi, signora contessa!--

E così dicendo, Lorenzo Salvani la guardò trasognato, come per nuova
che giunga inaspettata, sebbene egli stesso, fin da principio, avesse
argomentato che l'invito della contessa Cisneri potesse avere qualche
addentellato col suo duello di San Nazaro.

--Non vi faccia stupore!--proseguì rapidamente la contessa
Matilde.--Se sapeste il fatto, non vi sarebbe difficile intendere
quanto poca parte ci avessi. Ero nel mio palchetto in teatro, sul
finire dello spettacolo, e mi aveva preso desiderio di salire nel
Ridotto a vedere le maschere. Il dottor Collini era nel palchetto,
come ci sono tanti altri,--(queste parole, in forma di parentesi,
furono accompagnate da un sospiro)--ed egli mi si profferse per
cavaliere. Detto, fatto; entrai mascherata nel ridotto, e fu allora
che mi avvenne di dire al marchese di Montalto quelle innocenti parole
che voi sapete....

--Io! non so nulla, signora contessa;--interruppe candidamente Lorenzo
Salvani.--Il nome della signora mascherata non fu pronunziato da
alcuno, ed io non chiesi nemmeno quali parole avessero dato appiglio
alla contesa tra il Collini e Aloise di Montalto.

--Oh, mi fate respirare!--soggiunse la contessa.--Appunto a voi,
cortese e leale come oggi vi conosco, ma come fin dall'altro giorno vi
avevano decantato i padrini del vostro avversario, volevo chiedere se
il mio nome fosse stato messo fuori. A voi, Salvani,--(la contessa qui
disse proprio Salvani, tralasciando il titolo di cerimonia)--a voi non
sarà ignoto che noi, povere donne, siamo come le nostre vesti di seta
o di raso; una macchiuzza, e che sarebbe invisibile sulla vostra
giubba di panno nero, le guasta per modo che non hanno più nessun
pregio. Ora il solo avermi nominata, sebbene io sappia di non aver
detto o fatto cosa biasimevole, l'esser posto il mio nome in mezzo ad
una contesa di quella fatta, che fu sciolta per giunta col sangue, mi
avrebbe cagionato un rammarico da non dirsi.--

Questo discorso fu fatto con piglio modesto dalla contessa, in quella
che i suoi occhi non si dipartivano dal volto di Lorenzo, quasi
interrogando i pensieri che gli passavano per la mente. Ed ebbe a
rallegrarsi della sua attenzione, perchè Lorenzo aveva seguito con
manifesta ansietà il racconto e si leggeva ne' suoi occhi come fosse
contento di sapere che il Collini era per lei un semplice conoscente,
e null'altro.

Quello di Lorenzo Salvani era un sentimento che tutti gli uomini
conosceranno a prova. La donna che noi incominciamo ad amare non ha da
essere sospettata, nè d'opere, nè di pensieri; non ha da aver fatto
mai l'occhiolino ad un altro, sotto pena di scomunica. Ed ecco in qual
modo si può diventar gelosi perfino del passato.

--Ora,--proseguì la contessa Matilde,--poichè ho cominciato, vi dirò
tutto. Non vi annoio, già?

--Signora,--esclamò Lorenzo, con aria di dolce rimprovero.

--Eh, gli è che questi discorsi non mi paiono tali da premervi molto.
Comunque sia, lasciatemi dire, e ci guadagnerete questo, che mi
conoscerete un po' meglio.--

Il giovane rispose a queste parole afferrando per la seconda volta la
mano della contessa, e stampandovi un bacio. Questo almeno era un modo
di parlare che non si poteva togliere per un complimento, e non
domandava nemmeno risposta. Matilde arrossì, sorrise malinconicamente,
e senza ritrarre la mano da quelle di Lorenzo che la tenevano
prigione, proseguì:

--Al marchese di Montalto, che conoscevo come tanti altri per averlo
veduto in qualche veglia, dissi poche e cortesi parole. Ma, che
volete? senza badarci, anzi senza saperlo, io debbo aver toccato un
tasto delicato, e me ne duole, poichè un cuore di donna intende come
pungano certi dolori; e sebbene egli non s'è mostrato molto cortese
nel rispondermi, io lo stimo come un giovine abbastanza diverso da
tanti e tanti altri.

--Avete ragione,--esclamò Lorenzo.--Aloise di Montalto è un vero
gentiluomo. Egli a quest'ora sarà dolentissimo di essersi mostrato
scortese con voi, quantunque io penso che non vi avesse conosciuta, e
soltanto la presenza del Collini gli avesse inasprite le parole. Ma io
lo conosco già tanto da potervi quasi affermare che, appena risanato,
egli mi seguirebbe fin qui, per iscusarsi con voi.

--No, no, Salvani! Non ve ne date pensiero;--interruppe la contessa,
ridendo.--Che importa a me, finalmente? Io stimo quel signore, ed oggi
anche più di prima, poichè vedo che lo stimate voi: ma in verità non
reputo necessario di conoscerlo più da vicino.--

Anche questo era un tocco maestro, e Lorenzo lo sentì, senza darsene
ragione.

Egli stette silenzioso, ed ella egualmente; ma egli, se taceva, non
rifiniva però dal guardarla con que' suoi occhi languidi.

--Or bene,--gli disse ella dopo un tratto,--che fate?

--Signora, adesso tocca a me. Il mio discorso era rimasto a mezzo;
lasciatemelo dunque finire. Mi crederete voi se vi dirò che vi amo? Mi
perdonerete voi se ardirò dirvelo?

--Signor Salvani!...--esclamò la contessa, adombrando nella sua
reticenza un timido rimprovero.

--Signora!--ripetè egli.--Poc'anzi avevate messa da parte questa
inutile parola.

--Davvero? Ah, mi avvedo che perdiamo il capo ambedue. Siatemi invece
cortese di finir l'opera vostra. Il mio disegno vi attende, perchè gli
diate l'ultima mano.

--Debbo finirlo? Vi preme tanto?

--O che, non mi avrebbe a premere? Qual conto fate di me? Suvvia, da
bravo, venite.--

Ciò detto, la contessa Matilde si alzò e condusse Lorenzo al tavolino.

--Ma non son buono a far nulla,--diss'egli, poichè si fu seduto
dinanzi al suo bozzetto,--se voi non vi mettete da capo ad ispirarmi.

--Intendiamoci, anzitutto!--rispose la contessa alzando l'indice con
gesto leggiadro;--voi non mi direte più nulla?

--Ve lo prometto, ma, ve ne prego, ripigliate il posto di prima.--

La bionda contessa sorrise, e posta la mano sulla spalliera della
scranna chinò il capo fin presso alla guancia del giovine, in atto di
guardare i segni che gli uscivano dalla matita.

E noi in questa positura li lasceremo ambedue, poichè ci stanno
benissimo, e non si annoieranno di certo.



X.

Di un ghiotto discorso che facevano insieme Aloise di Montalto e il
Pietrasanta, innanzi di mettersi in carrozza.


Il dottor Mattei aveva dato nel segno, commettendo la guarigione di
Aloise di Montalto a quella gran medichessa che è la natura. Quindici
giorni dopo il duello, Aloise era già fuori dal letto; e non solo
poteva uscir di casa, ma il savio discepolo di Esculapio glielo aveva
raccomandato, perchè rinfrescasse le forze all'aria aperta, usando
tuttavia la precauzione di andare per le prime volte in carrozza.

Quindici giorni in casa sono peggio che la morte, per un giovanotto;
ma il poter uscire, dopo quei quindici giorni, gli è come una
risurrezione.

Il ferito aveva ricevuto in quelle due settimane moltissime visite; ma
quel via vai di persone, le quali facevano tutte la stessa dimanda,
non aveva certamente potuto divertirlo molto. Soltanto il Pietrasanta,
co' suoi sproloquii di capo scarico, e Lorenzo Salvani, co' suoi modi
schiettamente amorevoli, consolavano all'ammalato taluna di quelle
lunghe ore che il tedio gli faceva centellare minuto per minuto.

Il Salvani gli era andato proprio a' versi, tra perchè era stato suo
avversario (la qual ragione parrà strana e non è) e perchè, così alla
gagliarda prova dei fatti come nel tranquillo ricambio di affettuosi
pensieri, ci aveva avuto agio di conoscerne i pregi. Egli pensava
spesso a quel baldo giovinotto, e quasi non sapeva capacitarsi che
fosse nato senza titoli di nobiltà.

Perchè, bisogna confessare un difetto di Aloise, e i lettori non
gliene facciano gran carico, essendo l'unico che avesse, e mal digesto
avanzo di educazione aristocratica, anzi che matura convinzione
dell'intelletto. Egli credeva ancora che i titoli natali dessero ogni
maniera di virtù, come quei tali sacramenti che imprimono carattere ai
buoni cattolici.

Qual è l'uomo tra noi, il quale non abbia una o due di queste fisime
in capo, mai discusse a mente tranquilla e sempre citate a guisa di
assiomi! E non è a dire che manchi lo ingegno per discernere l'errore;
ma gli è che certe cose, succhiate, stiamo per dire, col latte,
rimangono nel cervello, come fondo di bottega, e l'occhio, avvezzo a
vederle, non si ferma a discuterne il pregio.

Ora nessuno può fare ad Aloise il torto di credere che egli, con
quello ingegno che aveva, se si fosse posto a meditare un tratto su
quel dirizzone, non avrebbe durato fatica a scorgere le corna del
pregiudizio. Per giungere a ciò sarebbe bastato il guardarsi
d'attorno, nella gente del suo ceto, e considerare se tutti i suoi
pari avevano quella scienza infusa, o quella innata nobiltà di sentire
che gli pareva privilegio del nome patrizio.

Ma in fin dei conti, come si sarebbe potuto ragionevolmente domandare
che Aloise facesse queste considerazioni, se lo storto concetto
dell'universale non fa che aiutare a questa illusione? A Genova, come
in molti luoghi, si fa di cappello ai milioni, anche quando non
abbiano altre virtù che li rincalzino; ma a Genova, più che altrove,
si fa di cappello al titolo di marchese, e a tutti i privilegi della
nascita, non badando se siano posti su d'un uomo da nulla, come il
mantello o la giubba sulle smilze grucce d'un attaccapanni.

Maniere di adorazione storte ambedue; laonde si può dire che se in
altri luoghi il concetto della rivoluzione è stato volto a profitto
dei ricchi, della gente nuova e dei subiti guadagni (per dirla con
Dante), qui a Genova non ne è pur giunto un soffio, ed abbiamo
accettato due maniere di aristocrazia, in cambio d'una.

Noi ripeteremo una cosa detta fin dal principio di questo racconto:
amiamo i bei nomi quando sono ben portati, e null'altro. La nobiltà
che noi intendiamo, è privilegio sempre difficile ad ottenersi; ma si
ottiene per fermo con la mistura di questi tre ingredienti: onestà,
ingegno e generosità di propositi. Sia patrizio o plebeo l'uomo posto
in alto dalla riverenza dell'universale, se quelle virtù non
soccorrono, povero a lui! nè le ricchezze sfondate, nè il fasto della
cieca liberalità, possono farci dimenticare la sua pochezza
d'intelletto e di cuore. E allora la carrozza stemmata, la coppia di
leardi, o di sauri, superbamente attaccata, e la poveraglia più
superbamente tenuta ad ornamento del portone di casa, ci fanno
sorridere malinconicamente, come avviene per tant'altre miserie del
mondo.

Questi pensieri abbiamo voluto dirveli, perchè li mettiate insieme con
altri parecchi, e a noi si tolga il fastidio di doverci spiegare per
lungo e per largo, sì quando avremo aria di lodare la nobiltà e la
ricchezza, sì quando avremo aria di buttarle tra le ciarpe dei
ferravecchi.

Ora torniamo ad Aloise. Le ricchezze del giovine marchese di Montalto
erano più che modeste, e forse in questo senso il dottor Collini
intendeva la frase detta a Lorenzo: «un tale che non ha il becco di un
quattrino». Il fitto di alcune case poste in città gli dava un'entrata
di forse ottomila lire. Palazzo non ne aveva, essendo la dimora
cittadina de' suoi vecchi già da lunga pezza andata in mano d'altri, e
gli rimaneva soltanto, inutile arnese, il palazzotto campestre della
sua famiglia, posto in cima ad una di quelle tante gole di monti che
fiancheggiano la Polcevera.

Si possono fare di molte cose, con otto mila lire, in una città come
Genova. Si può, verbigrazia, avere una bella casetta, arredata con
elegante semplicità, tenere due persone di servizio ed anche la balia
in casa, se si è ammogliati e consolati di prole; ma in questo caso
non c'è da pensare a sciali, bisognando stare per molt'altre cose a
stecchetto. Ma si possono fare altresì poche cose con ottomila lire,
quando non si abbia il conforto e le modeste costumanze della vita
domestica. Abbiate un appartamento pulito in una delle vie principali;
contentatevi di un solo servitore; andate a desinare alla Concordia;
tenete uno scanno a teatro; fatevi vestire, o spogliare da un sarto di
grido; siate socio al Casino, anche senza far altro che una partita a
biliardo; rendete a tempo e luogo servizio ad un amico, e poi mi
saprete dire dove si arrivi con ottomila lire d'entrata. All'uscita,
non è vero? e senza troppo aspettare.

La casa di Aloise, in via Balbi, non era grande, ma bella e bene
arredata. Il buon gusto del giovine si faceva notare in ogni cosa, e
perfino nella disposizione delle suppellettili. Nella sala d'entrata
erano pochi gli arredi, ottenendovi lo spazio maggiore una pedana per
assalti di scherma, e tutti gli altri arnesi pertinenti a quell'uso.
Da un lato, fermata alla parete, vedevasi una lavagna quadrata ed
incorniciata, dove gli amici che venivano a cercar di Aloise e non lo
trovavano in casa, potessero scrivere il nome o quello che loro
piacesse meglio.

Da quella stanza si entrava in un salottino, vero esemplare di
eleganza, parato di seta azzurrognola, coi mobili tutti dorati. Sulla
spalliera del lettuccio da sedere e di tutte le seggiole, come
sull'alto della cornice di uno specchio inclinato, era intagliato lo
stemma dei Montalto, un leone coronato, rampante su d'uno scoglio, con
la breve leggenda «__Altius__», ossia, per dirla in volgare, «più
alto». Quegli arredi eleganti, e una Madonna attribuita al pennello
del Dolci, che si vedeva di rincontro allo specchio, decoravano un
tempo il salotto della madre di Aloise, e il giovinotto le serbava
gelosamente come preziose reliquie di un caro passato.

Nella sala da studio, a sinistra del salotto, gli occhi erano
abbarbagliati e rallegrati ad un tempo dal più pittoresco
guazzabuglio. Anzitutto avevate a cansare una gran tavola rotonda,
coperta con superba sprezzatura da un magnifico sciallo persiano,
sulla quale erano posti, apparentemente a rinfusa, libri dalle carte
dorate, sfere, mappamondi di porcellana, portasigari ed altri graziosi
nonnulla, in mezzo ai quali regnava un telescopio, il quale, posto
com'era, non aspettava altro che la notte e l'apertura della finestra,
per ispecolare le stelle.

Più oltre, dopo la tavola, un pianoforte verticale, che mostrava le
spalle al mezzo della camera e ad un divano turchesco, appoggiato alla
parete di rincontro. A sinistra dell'uscio, tra la tavola rotonda e il
divano, uno scrittoio, con tutto il bisognevole, e due statuette di
porcellana del Giappone, le quali sorridevano allo scrittore, e in
mancanza dello scrittore, alla seggiola sulla quale avrebbe potuto
sedersi. Tutt'intorno poi, incisioni, mensole che sostenevano
statuette di gesso, pipe con la canna di gelsomino, e via discorrendo.

Dall'altro lato del salotto, sollevando la portiera di seta, si vedeva
la camera da letto; ma in questa non metteremo piede, contentandoci di
restare, con maggior profitto per il nostro racconto, nella sala da
studio, a sentire che cosa dicesse Aloise col marchesino Pietrasanta,
aspettando che il servitore andasse a cercare una carrozza da nolo,
per condurli a diporto.

Su quel divano turchesco, che abbiamo accennato, era seduto, anzi
mezzo sdraiato il Pietrasanta, facendosi puntello del gomito alla
persona, e chiudendo beatamente gli occhi ad ogni boccata di fumo che
mandava fuori. Perchè, voi già l'avete indovinato, o lettori che
indovinate ogni cosa, egli fumava; e noi vi aggiungeremo che fumava i
due terzi del giorno, e un terzo delle seimila lire che gli dava il
marchese padre per le sue male spese. Il che è quanto dire che fumava
molto; non sigari di Avana, che si fabbricano a Malta, nè di Manilla,
che si fabbricano ad Amburgo, ma sigarette turche, ed autentiche.

Enrico Pietrasanta era un buon giovine; in fondo nè carne, nè pesce,
ma di ottima pasta. Non aveva mai fatto male ad alcuno; a parecchi
aveva anzi reso servigio; amava il suo cavallo e si lasciava amare da
una ballerina, aspettando che i suoi parenti gli scegliessero quella
donna che avrebbe dovuto amare per tutta la vita; andava spesso a
ragionare col sarto intorno alle nuove fogge della quindicina; non
s'impacciava di politica, ma non poteva patire la compagnia del prete
di casa e non parlava mai con irriverenza della rivoluzione, del
progresso e degli uomini più chiari per le opere della penna o della
spada a servizio della patria. Uomo insomma, che, con altro indirizzo,
avrebbe potuto diventar utile alla sua terra, ma che, stretto d'ogni
parte dalle consuetudini de' suoi pari, nè forte tanto da rompere il
freno, si rassegnava a vivere inoperoso.

Era però naturale che tra lui ed Aloise di Montalto corresse una
maggiore dimestichezza, sebbene non fosse pari la tempra dell'animo.
Nella cerchia de' suoi pari ognuno si legge quel compagno che gli
sembra più di suo gusto; Aloise aveva accettato, come suo Pilade, il
marchesino Pietrasanta, nobile come lui, sebbene a gran pezza più
ricco, generoso di sensi come lui, sebbene alquanto più fiacco.

Il Pietrasanta, che ci siamo studiati di far conoscere un poco, era
sdraiato sul divano, Aloise era seduto al pianoforte e per la prima
volta dopo la sua malattia stava suonando qualche melodia, così per
rifarsi la mano.

--Dunque tu dici,--esclamò egli, poichè fu giunto agli ultimi accordi
di una di quelle geniali romanze che andava appunto allora mettendo
fuori il Mariani,--che mi avevano già bello e spacciato, in casa
Pedralbes?

--Eh davvero! Non ti mancava più altro che il becchino per darti
quattro martellate sulla cassa. Figurati! In un momento di pazzia, o
di tedio andato in cancrena (che bene non si sapeva dire), tu avevi
voluto scendere dal letto. La ferita appena rimarginata si era aperta
da capo; d'onde il sangue a rigagnoli, lo svenimento, una febbre da
cani, il dottore Mattei con le mani nei capelli.... e tante altre
novelle di questa fatta.

--Ma chi le ha spacciate, queste frottole?--chiese Aloise, che non
poteva tenersi dalle risa.

--Credo il piccolo Riario, il quale a sua volta le aveva pescate sulla
piazza delle Fontane Amorose, nella fermata delle quattro. Insomma,
mio povero Aloise, tu eri morto, e in casa Pedralbes ti facevano
l'orazione funebre. C'era la Clelia, col marito, la Isabella, la
Clarice, e tutta la gente solita che t'ha imbalsamato di finissimi
unguenti come si usava nell'antico Egitto coi morti più illustri. E
sai? La signora Violante, quella stecchita padrona di casa che dice
una parola ogni mezz'ora, a guisa degli orologi da camera, si è
degnata di sentenziare che i Montalto erano una buona casata, e che le
doleva di vederla cadere a quel modo, per la tua fine immatura.

--E tu non hai risposto nulla?

--Io? bravo! e come vuoi che facessi, se non c'ero? Questa parte della
conversazione io l'ho dal Cigàla, che era presente, e sapeva benissimo
che quella era una frottola raccolta in piazza, ma voleva godersi la
scena, il manigoldo! Quando giunsi io, puoi immaginarti come tutti mi
si stringessero ai panni, per sapere se eri morto, o se ti disponevi a
morire da buon cristiano.--Non dubitate,--m'affrettai a
rispondere,--quello è un uomo che, messo al punto, non fallirà alla
fede de' suoi padri; ma fino ad ora, grazie a Dio, egli non è al punto
di tirare le cuoia. L'ho lasciato poc'anzi, vivo e fuori del letto,
con licenza del medico, e se non è morto per avventura dacchè sono
uscito di casa, io credo che egli terrà la promessa di venir domattina
a fare una gita in carrozza fino a Nervi.--

Qui il Pietrasanta buttò la sigaretta, che gli si era spenta nella
furia del discorso, ne prese un'altra, l'accese e continuò:

--Il piccolo Riario divenne rosso come una ciliegia, e dalle parole
che balbettò intesi che lo spacciatore di quella panzana era stato
lui. La signora Violante e tutte l'altre persone si rallegrarono, e fu
una festa da non dirsi a parole, come nel fine di tutte le favole che
mi raccontava la balia quand'ero piccino.

--Sei un bel pazzo!--soggiunse Aloise a mo' di commento.

--Ah, dimenticavo la più bella. Sai tu, Aloise, chi si cura molto di
te e della tua salute? Te la potrei dare alle cento, e non
l'indovineresti. Il taciturno tiranno di Quinto.--

All'udire quel nome, del quale daremo a suo luogo la spiegazione,
Aloise rizzò il capo, ed era lì lì per balzar dal sedile; ma si
contenne, pensando che l'amico avrebbe potuto farne le meraviglie e
cavarne appiglio a qualche arrisicata congettura.

--Il signor Antoniotto?--chiese egli allora con una cert'aria di
candore che pareva tolta a prestanza.

--Sì,--rispose il Pietrasanta,--il signor Antoniotto Torre Vivaldi,
tiranno di Quinto e dei paesi circostanti, schiuma di __paolotto__ e
assiduo ascoltatore di messe nella chiesa della Maddalena.

--Sta bene; ma che cosa ti ha detto egli?

--«Caro Pietrasanta, mi ha detto, non potete credere come mi prema di
quel giovine. Ho conosciuto molto suo padre, e ricordo __eziandio__
che ai tempi antichi i Montalto erano scritti nel nostro
albergo».--Avrebbe potuto dire nell'albergo di sua moglie, poichè da
lei prende il nome di Vivaldi; ma già tu sai che il marchese
Antoniotto si crede anco lui un discendente di quel navigatore....
aiutami tu a dire il nome, e la terra che avrà sicuramente scoperto.

--Voi dire Ugolino Vivaldi. E aggiungi il fratello Vadino. Ma anche in
due, non scopersero nulla, poveracci, e pare che naufragassero alle
coste della Guinea, dove un secolo e mezzo più tardi credette di
riconoscerne i discendenti un altro Antoniotto, del casato Usodimare.

--Vedi che combinazione! L'Antoniotto moderno se l'è proprio
dimenticata. Ma che i tuoi antenati fossero scritti nel suo albergo,
lo ha ben voluto ricordare. Ringrazialo della sua degnazione, come io
l'ho ringraziato in tuo nome della sua sollecitudine per te.

--Hai fatto benissimo;--rispose Aloise.--Ma come poteva trovarsi
iersera in casa Pedralbes, egli che non esce mai di casa senza.... sua
moglie?--

Queste ultime parole duravano fatica ad uscirgli di bocca; pure, gli
bisognava dirle, se voleva farsi intendere dal Pietrasanta.

--To',--rispose questi,--egli non ha mica il torto! Sua moglie è, per
tutti gli Dei, la più bella donna di Genova, e potrei aggiungere anco
di altri luoghi parecchi. Hai tu mai notato, Aloise, che grandi occhi
verdi?

--Verdi! Questa è nuova di zecca.

--Verdi, sì, verdi; e perchè no? Una volta mi erano parsi neri,
un'altra volta azzurri; e siccome io non amo vivere nel dubbio, ho
colto il destro di guardarli bene una mattina, alla luce del sole, e
ti asserisco che sono verdi, del più bel verde marino, come quelli di
Gulnara, la regina del mare, nelle __Mille e una notte__. Io son
venuto allora a capo d'intendere come il riflesso della luce o
dell'ombra, li possa far parere a volte azzurri, a volte neri. E che
magnifici capelli castagni! Tu sai, Aloise, che io non ho mai avuto
una gran tenerezza pei capelli castagni; ma quelli della marchesa
Ginevra, così fini, così abbondanti e lievemente increspati,
meriterebbero di essere posti nel firmamento, invece della chioma di
Berenice, se, a dir vero, non istessero meglio su quella testa
meravigliosa. E sono poi castagni? Chi lo sa? Sono neri.... sono
biondi....

--E dàlli con le stravaganze! Perchè non aggiungi che son bianchi?

--Eh, secondo il riflesso, perchè no?--rispose l'impertinente
sragionatore.--A me poi la marchesa Ginevra fa questo senso; che cosa
ne posso? E la persona! Come è svelta, senza dare nello scarno! Come è
piccino quel piede, e come è sottile quella mano! Io non so, Aloise,
se tu abbia mai considerato quel naso di purissima forma greca, le
grandi sopracciglia, e quei candidi denti e le labbra che paiono di
corallo tenero....--

Aloise, in quella che l'amico passava cosiffattamente in rassegna
tutte le bellezze della marchesa Ginevra, era rimasto assorto in certi
suoi pensieri; ma finalmente, veduto che il ritratto andava un po' per
le lunghe, disse al Pietrasanta:

--Ma tu non hai risposto alla dimanda che io ti avevo fatta.

--Ah, è vero, scusami. Ma tu potevi del resto argomentare che se c'era
il marchese Antoniotto, c'era anche la signora la quale era bella sai,
bella come se il marito fosse stato mille miglia lontano.

--Che altra novità è questa tua?

--Eh, lo sai pure! Un marito ai fianchi, è come una brutta veste od un
acconciatura disdicevole, che la più graziosa tra le donne ci scapita
a portarla.

--Pazzo!--esclamò un'altra volta Aloise, a cui gli sproloquii del
Pietrasanta avevano la virtù di rallegrar sempre lo spirito.--E come
accomodi tu tanta ammirazione per la marchesa Ginevra co' tuoi amori
da palco scenico?

--Ih, come corri! La mia ammirazione per lei è affetto legittimo del
senso artistico, e non altro. Che vuoi si faccia ella di me? Ed io in
fin dei conti che potrei farmene di lei? Io penso che sia la donna più
fredda del mondo. Già, non potrebbe essere diverso. Dio le fa belle, e
poi leva loro l'anima, perchè si conservino meglio, come gli uccelli
impagliati.

--Pietrasanta! Tu non sei giusto....

--Bravo, e che cosa ti ho da dire? A me fa questo senso. E poi.... e
poi....

--E poi, che cos'altro?

--E poi, mi paiono donne da lasciarle dove sono.

--Qui, forse, hai ragione;--disse, aggrottando le ciglia, Aloise.



XI.

Dove si viene in chiaro del segreto di Aloise.


In quel mentre, giunse il servo ad annunziare che la carrozza era
innanzi all'uscio di strada. La qual nuova, com'è agevole il credere,
interruppe il dialogo dei due amici; e il lettore, a cui ne dolesse,
non ce l'apponga a noi, sibbene al servitore, che è venuto in mal
punto.

Due minuti dopo, Aloise e Pietrasanta salivano in quella vettura di
rimessa, fatta venire dal servo, e i due cavalli che v'erano attaccati
partivano al trotto verso la Nunziata. Il Montalto era rimasto sovra
pensieri, e non badava nemmeno alla lunga e popolosa strada che
percorreva, la quale è l'arteria principale, l'arteria aorta di
Genova, e piglia tanti nomi diversi ad ogni suo gomito, da via Balbi
fino a piazza San Domenico, e di là fino alle porte della Pila.

Giunti all'aperto, il Pietrasanta cominciò uno dei soliti discorsi
bizzarri, ai quali Aloise stava attento, secondo l'umore, e rispondeva
o non rispondeva, secondo la voglia.

Il discorso importante, quello al quale Aloise di Montalto aveva a
stare più attento che mai, cominciò dopo il paese di Quarto,
allorquando al girare di una piccola lingua di terra che s'inoltra sul
mare, videro un palazzo di campagna, di forme magnifiche e di stile
severo, murato sul pendio di un colle, poco lontano dalla strada
maestra.

--Ecco là;--disse il Pietrasanta, accennando del dito,--quella è la
dimora estiva del tiranno di Quinto.

--È davvero un bel luogo di villeggiatura!--rispose Aloise.

--Che te ne pare, Aloise?--esclamò l'altro.--Oggi siamo proprio
perseguitati dai Torre Vivaldi.

--Oh bella! Se veniamo noi stessi a passare dinanzi a casa loro!...

--Orbene! La montagna che si muove verso Maometto; Maometto che si
muove verso la montagna; il miracolo non è sempre lo stesso? Vuoi che
andiamo a vederla, questa villa Vivaldi?

--E a Nervi?--chiese Aloise, così __pro forma__.

--A Nervi ci andremo poi per riposare i muscoli. E poi, che cosa
c'importa di vedere, colà? Abbiamo detto a Nervi, come avremmo detto
al Giappone, per fare una passeggiata, e siamo padroni di mutare
l'itinerario. E poi, sentimi, due passi a piedi ti faranno anche bene.

--Sei tu mai stato alla villa Vivaldi?

--Io no; ma che importa? Ci aprirà il giardiniere.

--Andiamo dunque.

--Andiamo. Ehi, cocchiere!--gridò il Pietrasanta.--Lasciate la strada
maestra e prendete quell'altra a sinistra. Vogliamo andare alla villa
Vivaldi, là da quel cancello verde che vedete.--

Il cocchiere obbedì e la carrozza fu in breve davanti al cancello di
ferro fuso, sormontato da uno stemma partito di rosso e d'argento, col
capo d'oro all'aquila nascente di nero, coronata e rostrata d'oro.

Due forti scampanellate chiamarono il giardiniere, il quale, veduti i
due signori, e indovinandoli d'alto bordo, si affrettò ad aprire, e a
riceverli col cappello in mano, dinanzi allo smontatoio della
carrozza.

--Amico,--disse il Pietrasanta,--vorremmo entrare, con vostra licenza,
a vedere un poco questa magnifica villa.

--Oh, sono padroni!--rispose l'altro con due inchini; e fattili
entrare davanti a sè, richiuse il cancello.

Il palazzo Vivaldi era superbamente piantato sul colmo d'un poggiuolo,
e vi si andava per un lungo e spazioso viale a dolcissimo pendio,
chiuso ai lati da due file di rosai e di tamerici. L'architettura
esterna era la consueta di quasi tutti i palazzi delle nostre
campagne: soltanto si notava che quattro finestre del piano nobile, le
ultime a manca, si allargavano a forma di loggia, custodita da grandi
vetrate che s'intelaiavano nei colonnati; e le ultime quattro a destra
cadevano entro le linee perpendicolari di una torre che usciva da
quella parte del palazzo, rompendo ad angolo due acque del tetto.

Il piazzale dinanzi al gran portone arcato era coperto di ghiaia; i
viali ai due lati andavano a dare in un muro che serviva di riparo a
due di quelle belle spalliere di aranci e di limoni, che hanno fatto
dire al Goethe il famoso verso: «Kennst du das Land wo die Citronen
blühen?» Alle spalle del palazzo correva una stradicciuola campestre;
laonde, per collegarlo col prato e col bosco della villa, scendeva dal
pian nobile dell'edifizio un cavalcavia, fatto a foggia di gradinata,
con le sue sontuose balaustrate di marmo.

Un gigantesco platano sorgeva a fianco della gradinata, ombreggiando
quella specie di terrazzo per cui si entrava nella gran sala del pian
nobile. In mezzo al prato, che era vastissimo, rallegrava gli occhi
del riguardante un laghetto di forma ovale, coi margini di marmo
bianco, entro il quale cresceva la ninféa, spandendo le sue larghe
foglie vellutate a fior d'acqua, e navigavano a loro posta due cigni.
L'orizzonte era precluso da ogni parte da filari di querci, sotto i
quali correvano a cerchio spaziosi ed ombreggiati sentieri.

Tutte queste cose, sul finir di febbraio, sebbene mancassero i colori
smaglianti della vegetazione primaverile, davano immagine di
magnificenza principesca, e lasciavano argomentare che paradiso
terrestre fosse la villa Vivaldi nei mesi di estate.

Il Pietrasanta, in quella che andavano girando per ogni luogo, aveva
fatto amicizia col giardiniere, e ragionava con lui di tutte le belle
cose che si presentavano alla loro ammirazione.

--Veda!--gli diceva il giardiniere, fermandosi presso una specie di
querce e facendone notare la corteccia cedevole ma tenace, questo è
l'albero del sughero, che è così raro dalle nostre parti.

--Buono per far turaccioli!--notò giudiziosamente il Pietrasanta.--E i
sedili, che gli adornano il tronco, accanto a questa gran tavola
rustica, che cosa significano?

--Ah!--rispose il giardiniere, con un piglio dottoresco,--questa è la
__Corte d'Amore__.

--La Corte d'Amore! Che diamine di Corte è ella?

--È il luogo dove la signora marchesa viene a sedersi. Tutte le
Vivaldi hanno sempre avuto il costume di venire a passare sotto
quest'albero le ore calde della giornata. I miei vecchi hanno sempre
veduto la medesima cosa; ed anche adesso, quando la signora marchesa è
in campagna, ci sta tre o quattr'ore ogni giorno.

--Scusatemi, Giacomino,--disse il Pietrasanta, che già sapeva il nome
del giardiniere,--ma non mi sembra poi una gran cosa da meritare un
nome così bello e una così nobile preferenza.

--Oh, perchè lo vede così nudo. Ma nella buona stagione c'è tutto il
verde dintorno; la signora marchesa poi fa rimettere a posto tanti
altri sedili di maiolica, stendere un gran tappeto su questa tavola di
lavagna, e una bella tenda fra gli alberi, per custodirsi meglio dai
raggi del sole. Io poi ci porto dei fiori; la cameriera ci porta dei
libri e il telaio da ricamo della marchesa; il servitore dei
rinfreschi per tutti i signori che vengono qui a far conversazione con
Sua Eccellenza.

--Ah! mi ricordo,--disse Pietrasanta, volgendosi ad Aloise,--che il
piccolo Riario mi parlava di un certo ritrovo, dove si faceva crocchio
intorno alla bella marchesa. La Corte di Amore! Il nome è bello, e
probabilmente la presenza della signora farà bello anche il luogo.

--Ora, se le loro Signorie vogliono vedere la grotta....

--La grotta! C'è una grotta? Sicuro che vogliamo vederla.

--Va pure;--disse Aloise,--io non ti seguo.

--Perchè? Sei forse stanco?

--Sì, un po'; ma non te ne dar pensiero. Ti aspetterò qui seduto
sull'erba, e tu mi porterai le novelle dell'antro muscoso.

--E delle stalattiti. Perchè,--soggiunse il Pietrasanta, volgendosi al
giardiniere,--ci saranno anche le stalattiti; non è egli vero,
Giacomino?

--L'ha da vedere, Vossignoria, che grotta!--rispose questi.--Non se ne
trova una così bella, anco a farsela naturale.

--E voi dovete esserne tanto più superbo,--disse il Pietrasanta,--in
quanto che nemmeno il Creatore, l'unico che se le possa far naturali,
potrà superarvela.--

Il giardiniere si accorse di averla detta grossa, ma non sapeva come
rimediarci. Però, tutto confuso, chiese perdono a Dio di quell'atto di
superbia, e precedette il Pietrasanta nel fitto delle piante, per dove
si andava alla grotta. Era un uomo dabbene e timorato di coscienza, il
giardiniere dei Torre Vivaldi, e pensava con raccapriccio a quello che
gli avrebbe potuto dire il padrone, se lo avesse inteso bestemmiare a
quel modo.

Intanto Aloise, appena i due furono scomparsi, in cambio di sedersi
sull'erba, siccome aveva detto di voler fare, andò a posarsi su d'uno
di que' sedili di sasso, e precisamente su quello che era a' pie'
dell'albero presso la tavola, piantando i gomiti sulla lavagna e
rimanendo col capo chino tra le palme.

Il giovine stette in quella postura un bel tratto, pensando e
sospirando; poi, come uomo che ha preso una deliberazione, si alzò ed
andò per ogni lato a cercare. Che cosa cercava? Un coccio di maiolica,
un mozzicone di lavagna, qualche arnese, insomma, da potergli servire
per iscrivere su quella superficie levigata della tavola.

Trovò finalmente il fatto suo, e si pose con fanciullesca gravità a
segnare un nome a lettere maiuscole, sulla lavagna. Il filo del coccio
si corrodeva nello sfregamento, ma Aloise calcava sempre più forte, e
tornava sulle lettere per modo da scavarle più profonde, sicchè non
potessero più cancellarsi.

Il nome che egli andava cosiffattamente incidendo (i lettori si
saranno già apposti) era quello di «Ginevra», della bella marchesa di
Torre Vivaldi.

Ecco dunque posto in chiaro il segreto di Aloise. Il giovine marchese
di Montalto amava quella gentildonna che nostri lettori non conoscono
ancora se non per la bizzarra dipintura che ce ne ha fatto quel capo
scarico del Pietrasanta.

Raccontiamo una cosa che parrà strana a molti, ma che è vera come
l'istessa verità, e che taluni conosceranno a prova. L'amore di Aloise
per la bella marchesa di Torre Vivaldi contava già sei anni di vita, e
l'innamorato non aveva detta anche una parola alla donna de' suoi
pensieri.

Appena sei anni innanzi Antoniotto Della Torre aveva tolto in moglie
la bella Ginevra, ultimo rampollo dell'antica casata dei Vivaldi.
Insieme con la mano della fanciulla, che era in un monastero a
compiere la sua educazione, c'erano cinque o sei milioni di sostanza,
e il patto che il marito assumesse il nome della famiglia, che si
sarebbe estinto colla persona di Ginevra.

La giovinetta andò sposa al Della Torre, senza pure averlo veduto; ma
lo aveva veduto il tutore, e bastava. Sono questi i matrimoni che da
noi si dicono di __convenienza__, parola che vorrebbe dissimulare il
tornaconto, e non ne viene a capo. Antoniotto era ricco; la Vivaldi
era ricchissima, nobilissima e bellissima per giunta; laonde non è a
dire se il tornaconto c'era, e perciò il matrimonio fu combinato alla
spiccia, e la fanciulla uscì dalla cella solitaria del monastero per
andar difilata alla stanza nuziale.

Per tutta Genova s'era fatto un gran ragionare di queste nozze,
Antoniotto Della Torre era uomo di mezza età, di umor cupo ed
ambizioso; ma in fin dei conti era nobile e ricco, e nessuno trovò a
ridire sulla deliberazione del tutore, il quale, a dirvela in
confidenza, in quella che concedeva la mano della sua pupilla ad uno
de' suoi consorti, acconciava le sue faccende particolari, e tra
l'altre, dando il capitale, non rendeva strettissimo conto dei frutti.
Dice l'adagio che una mano lava l'altra, e tuttedue lavano il viso.

E bisognava aver veduto che nozze! Canzoni e sonetti ne furono scritti
e stampati a dozzine. V'ebbe tra gli altri un poeta il quale,
pigliando l'inspirazione dagli stemmi delle due famiglie, scrisse che
un più ragionevole nodo non si sarebbe potuto stringere mai,
trattandosi di un'aquila che ne «impalmava» un'altra. Immaginate che
aquilotto avrebbe dovuto nascere da quelle __auspicatissime nozze__! E
tuttavia non era nato un bel nulla, e i voti del poeta erano rimasti
più sterili della sua fantasia, la quale almeno, se non de' suoi
parti, poteva insuperbire delle sue sconciature.

Appena celebrate le nozze, gli sposi erano partiti per un lungo
viaggio, siccome è debito di persone le quali intendono la dignità del
loro stato, e possono mettere la loro ambizione nell'appendere il nido
dei loro amori eterni all'alcova di un albergo parigino. Gran dolcezza
di ricordi vuol essere, pei giorni futuri! Ma infine, perchè no? Se
non dolci, saporiti di certo.--«Angelo mio, ti rammenti di quella
__sôle à la Normande__?»--«Sì, amico mio, era eccellente; e quella
__bisque aux crevettes__?»--«Adorabile, hai ragione, adorabile! Me ne
viene ancora l'acquolina alla bocca.»

Il ritorno dei Torre Vivaldi a Genova fu salutato come un fatto di
rilievo. La donna, vissuta nella solitudine del convento, era a mala
pena conosciuta di nome; però la sua sfolgorante bellezza, circondata
da tutti gli agi del suo grande stato, destò l'ammirazione universale,
nè più nè manco di una cometa sopraggiunta d'improvviso nel nostro
sistema planetario. Tutti fecero a gara per avvicinarsi alla bella
Giunone dell'Olimpo ligustico, e beati gli Dei e semidei, ai quali lo
stato loro, i titoli sonanti e la larghezza del censo, consentivano di
starle vicini ed entrare in dimestichezza col fortunato Giove. Il
quale lasciava ammirare, lasciava corrersi la gente dattorno;
accoglieva tutti, faceva buon viso ai giovani, come ai maturi. Più
tardi ci occorrerà il dire quel che egli fosse, quali i suoi pensieri
e i disegni. Basti per ora il sapere che egli, sempre un po' chiuso
nel segreto della propria ambizione, usava tener corte bandita e
regnare su tutta la gente che lo sfarzo del suo vivere e la superba
bellezza della moglie gli tiravano in casa.

Quando la marchesa Torre Vivaldi comparve per la prima volta nel
teatro Carlo Felice, fu una meraviglia universale. I re franchi non
furono mai levati sugli scudi con tanto entusiasmo, quanto ne fu posto
da quella curiosa e volubile assemblea a salutarla regina. Ella sì,
poteva dire come Cesare, «__veni, vidi, vici__»; perchè tutti gli
sguardi si volsero a lei, e non se ne distolsero per tutta la sera,
sebbene ci fossero, di là dai lumi della ribalta, una bella cantante
ed una ballerina fatta a pennello.

Aloise di Montalto era quella sera in teatro, e stava appunto in
platea, dando le spalle a quel palchetto di prima fila dov'era
comparsa la splendida gentildonna, con una veste scollata di stoffa
azzurrina, che lasciava scorgere i purissimi contorni del collo e
degli òmeri, e le braccia ignude. Una luna falcata le ornava i
capelli, pettinati alla foggia di Diana; il collo e i polsi
scintillavano lontano per una magnifica collana e per due braccialetti
di brillanti; ma gli occhi della marchesa, ombreggiati dall'arco
superbo delle ciglia, scintillavano d'una luce più vivida, e
l'alabastro delle carni abbacinava gli occhi dei riguardanti, assai
più dell'oro e dei brillanti, sebbene questi rifrangessero per tutte
le loro faccette e con tutti i bagliori colorati dell'iride, la luce
di cento doppieri.

--Come è bella!--dicevano tutti. Ma più delle labbra parlavano gli
occhi estatici, un mormorio di universale ammirazione e i cannocchiali
puntati a gara su quel palchetto di prima fila. Diana non guardava
nessuno; pareva quasi non avvedersi di tutte quelle lenti ustorie
rivolte sulla sua persona, e non distoglieva lo sguardo dalla scena se
non per ricambiare una parola col marito e coi tre o quattro amici che
si davano lo scambio nel palchetto, come i soldati in sentinella;
tutti ragguardevoli personaggi, ai quali si leggeva in volto la vanità
dello stare e del farsi vedere accanto a quella regina, eletta così
prontamente dal suffragio universale.

Un uomo solo contraffaceva co' suoi modi alla curiosità della folla,
ostinandosi a non guardare dove tutti guardavano; e la cosa riusciva
tanto più notevole in quanto che egli era pochi passi discosto dal
palchetto, e la sua bionda cuticagna faceva troppo forte contrasto con
gli occhi sbarrati di tutti i suoi vicini, verso la bella signora.

--Guarda, Aloise,--gli avevano detto alcuni amici,--guarda che
stupenda bellezza!

--Guardate voi altri, se vi garba,--aveva egli risposto;--io bado alla
scena.

--E perchè non vuoi dare un'occhiata di qua, dove c'è la bella
Vivaldi, tornata l'altro dì da Parigi?

--Oh bella! perchè non mi par necessario.

--È uno dei soliti capricci; lasciatelo fare!--aveva soggiunto il
Pietrasanta, che era nel crocchio.

--Un capriccio! Sarà;--disse di rimando Aloise,--ma io penso che sia
ragionevole come tante altre cose, alle quali si usa dar questo nome.
O che? Per la semplice ragione che una bella donna è venuta in teatro,
tutti dobbiamo voltarci per adorarla? È bella, voi dite; tanto
meglio.... per suo marito. Io, per me, sto attento alla musica, la
quale è fatta per tutti; e, poichè voi altri guardate altrove, penso
sia cantata e suonata soltanto per me.--

Aloise non aveva potuto risponder sempre di questa conformità alla
gente. Per quella sera si incaponì a non guardare; ma alcune sere
dopo, essendo egli in un palchetto a far visita ad una signora, sua
mezza parente, gli venne chiesto come gli paresse la marchesa Torre
Vivaldi.

--Dov'è,--soggiunse egli.--Io non l'ho anche veduta.

--Come?--disse allora la dama;--siete venuto qui sul davanti e non
avete veduto quella bella signora che è due numeri più indietro di
noi?

--Ah, sì, la vedo. È molto bella.--E non disse altro.

Senonchè, per uno di quei tali contrasti che occorrono così frequenti
nella umana natura, dopo essersi fitto in capo di non guardar mai
quella ottava meraviglia del mondo, si fece a guardarla fin troppo. Se
qualcuno gli avesse fatto notare quella sua contraddizione, egli non
avrebbe voluto capacitarsene; ma, anche senza addarsene, i suoi occhi
correvano spesso verso quella bella figura.

Quella sera la marchesa Ginevra era modestamente vestita di nero, con
la vita aggiustata alla persona, le spalle e il collo interamente
coperti, e nessun altro ornamento tranne certe frappe aperte sulle
maniche, alla foggia del cinquecento. I suo capelli castagni erano
tirati indietro, e la severità di quella acconciatura era temperata
soltanto da due riccioli lunghi, che le scendevan dietro alle
orecchie, andandosi a confondere col nero della veste.

Il giovine Montalto non avrebbe voluto guardarla tanto; ma che farci?
Il fascino era troppo forte, e tutti i più fermi proponimenti che egli
andava facendo in cuor suo, cedevano ad ogni tratto innanzi a quella
potenza di attrattiva che era negli occhi ed in ogni lineamento di
quel volto mirabile.

Temendo però che altri si avvedesse della sua debolezza, si alzò, e
congedatosi dalla signora, uscì da teatro. Fu quella un'impresa da
eroe, sebbene egli, per sentirsene l'ardimento, avesse avuto mestieri
del sopraggiungere d'un nuovo visitatore, al quale, o subito o poco
dopo, avrebbe dovuto cedere il posto.

Il povero giovane era entrato tranquillo in teatro, e ne usciva
profondamente turbato. Da quella sera la naturale mestizia del suo
animo si rabbuiò fino all'umor nero, e il giorno dopo incominciarono
le passeggiate solitarie ai Giardinetti dell'Acquasola, da dove si
scorgeva il tetto, nient'altro che il tetto, di un palazzo della
Strada Nuova, sontuosa dimora della marchesa Ginevra. Colassù almeno
egli poteva fermarsi, e contemplare a suo bell'agio quel tanto di
spazio murato in cui viveva la bellissima donna.

Queste cose s'intenderanno molto più agevolmente quando si pensi che
Aloise aveva diciott'anni, e che quello era il suo primo amore.

Timido com'era, egli non avrebbe ardito mai farsi presentare in quella
casa. La sua fantasia entrava liberamente dal tetto; ma le sue gambe
avrebbero ricusato di salirne le scale. Non già che una donna gli
facesse paura; la sua educazione gli aveva insegnato benissimo quella
scioltezza di modi con cui s'entra in casa altrui; e tante volte ne
aveva fatto sperimento! Ma quella non era una donna come tutte le
altre, poichè egli se ne era innamorato; epperò tremava al solo
pensiero di metter piede in sua casa, e di farsi leggere negli occhi
il segreto del cuore.

D'altra parte, perchè sarebbe andato ad accrescere la schiera dei
curiosi? Si sarebbe ella avveduta? avrebbe ella osservato un ragazzo
come lui? Il vero amore, in un giovinetto inesperto, riesce così
impacciato ne' suoi modi, che spesso dà nel ridicolo, e una donna
giovine, bella ed ammirata da tanti, è più facilmente disposta a farne
le grasse risa, che non a mostrarsene grata. Ed Aloise, il quale era
giovine d'anni, ma adulto di mente, le intendeva benissimo, tutte
queste cose, e non ne pigliava argomento a sperare.

Così scorse il tempo. La marchesa Ginevra, passato l'inverno, era
andata in campagna, dove incominciò da quell'anno a passare i sei mesi
della bella stagione. Inoltre, per due inverni consecutivi andò col
marito a Parigi, e il povero innamorato visse come gli venne fatto,
non cavando altro conforto che dalla sua giovinezza e dallo studio.

L'amor suo, seguendo l'esempio della natura, aveva i suoi periodi di
sopore, e soltanto la presenza dei Torre Vivaldi a Genova lo faceva
riavere, ma inasprendo sempre maggiormente la piaga. Intanto gli anni
correvano. Aloise di Montalto viveva solitario, immerso ne' suoi
studi, alternando le Pandette con la musica, l'economia politica colle
lettere. I soli passatempi della sua malinconica ma robusta
giovinezza, erano il cavalcare e la scherma. Di questo modo egli s'era
fatto da per sè un tal uomo che molti stimavano e tutti poi
rispettavano, sebbene pochi lo amassero, a cagione della sua
contegnosa alterezza.

Ma questa in fin de' conti vale assai più del fare sbracciato e
arrendevole, col quale vi studiate di piacere al volgo, e non ne
accattate il più delle volte che spregio. Aloise, anche asciutto nei
modi come era giudicato, non poteva negarsi che fosse un perfetto
cavaliere; e molte donne gli avevano posti gli occhi addosso per
cominciare il solito romanzo: molti uomini, poi, di quelli che la
sanno lunga, avrebbero voluto tirarlo dalla loro, come un ottimo
strumento alle comuni ambizioni. Ma egli si schermiva da quelle e
stava lontano da questi; e il riserbo, più ancora che le sue virtù, lo
faceva crescere dieci cotanti nella estimazione universale. La qual
cosa potrebbe addursi come una testimonianza a pro' di quell'adagio,
secondo il quale la potenza di un uomo sta per un terzo nell'essere e
per due nel parere.

Noi pensiamo ora di non aver altro da aggiungere al ritratto morale
del giovine, che s'era battuto con Lorenzo Salvani, che andava a
passeggiare sul belvedere dei Giardinetti e che incideva il nome di
Ginevra su d'una tavola di lavagna nella __Corte d'amore__ della villa
Vivaldi.

Quando il Pietrasanta e il giardiniere tornarono dalla grotta, Aloise
era già andato fuori del viale ad aspettarli in mezzo al prato,
affinchè essi, vedendolo da lontano sui margini del laghetto, intento
a guardare i cigni, non passassero più dinnanzi alla tavola, sulla
quale avrebbero potuto scorgere una pericolosa testimonianza de' fatti
suoi.

L'amico fece una lunga cicalata sulle oscure bellezze della grotta,
che noi tralasceremo per amore di brevità, e poco stante ambedue se ne
ripartirono, dando una larga mancia al giardiniere: il quale li aiutò
a salire in carrozza scusandosi con abbondanza di parole del non aver
fatto entrare il veicolo sul piazzale del palazzo, come sarebbe stato
dicevole con persone tanto ragguardevoli.

--Non ve ne date pensiero!--disse quel pazzo di Enrico
Pietrasanta.--Noi viaggiamo nel più stretto incognito, e non amiamo le
cerimonie.--

Il Pietrasanta, celiando, diceva la verità. Infatti, pochi minuti
prima quando il giardiniere aveva presentato loro l'albo dei
visitatori, Aloise di Montalto s'era fatto sollecito a pigliar la
matita, e dopo avere ammiccato al compagno, scriveva sull'albo due
nomi strani: __Goffredo Rudel e Percivalle Doria__.

--Che cosa t'è frullato in capo,--chiese Pietrasanta, quando furono
per istrada,--di mettere que' due nomi in cambio de' nostri?

--Bravo! E volevi far sapere ai padroni di casa che i nostri __noi__,
come tu hai il vezzo di dire, sono stati a visitare la loro villa?

--E che male ci sarebbe stato, che i nostri __noi__ lasciassero
risapere che ci sono venuti?

--Nessun male, Enrico mio; ma non c'è nessun utile a farlo risapere. E
poi, non l'hai detto tu stesso poc'anzi, che i nostri __noi__
viaggiano nel più stretto incognito?--

In questi ed altri ragionari della medesima risma, si giunse a Genova,
e il Pietrasanta accompagnò a casa l'amico.

Il servitore attendeva con impazienza il ritorno di Aloise, al quale
si affrettò a dire, appena fu entrato:

--C'è qui il maggiordomo del nonno di Vostra Eccellenza, il quale ha
gran premura di parlarle.--

In molte case nobili di Genova i servitori non hanno ancora perduto
l'uso di dare dell'Eccellenza al padrone. In altri luoghi d'Italia, in
cambio di smetterlo, si dà quel titolo a tutti, come il governo
darebbe una croce di cavaliere. La qual cosa non fa male a nessuno, e
un'usanza val l'altra.

--Mio nonno!--esclamò Aloise, volgendosi al Pietrasanta.--E che
diamine vuole mio nonno da me?

--Vorrà forse far testamento,--rispose l'amico.

--Oh, questo l'avrà già fatto, e penso che non abbia neppure molto
pensato al suo nipote. Ci ha certi figuri d'attorno!

--Basta, va a vedere che cosa vuole. È anche l'unico modo di saperlo.

--Tu parli come un savio della Grecia!--disse Aloise; ed entrò
difilato in un'altra camera dove il maggiordomo del vecchio banchiere
Vitali stava ad attenderlo.

Fu grande la meraviglia del marchese di Montalto quando seppe che suo
nonno, il quale era sempre a letto ammalato, lo scongiurava che
andasse da lui, ma non di giorno, sibbene in punto di mezzanotte, ora
prediletta degli innamorati, dei congiurati e delle fantasime.



XII.

Di un vecchio che voleva vivere e non voleva fare testamento.


Adesso il lettore ci usi la cortesia di seguirci in via di San Luca,
dove lo faremo entrare in uno di que' palazzi, che sarebbero
magnifici, se avessero un po' di spazio davanti, e che, stretti l'uno
sull'altro dalla ragione dei tempi andati, quando otto metri di
larghezza in una strada le facevano meritare il nome di stradone,
implorano quotidianamente un raggio di luce per consolare la tetra
malinconia che li opprime.

Saliremo ad un terzo piano, il quale, la mercè di una scala spaziosa,
non ci parrà troppo alto, ed entreremo in una camera da letto, vasta
come un dormitorio di collegio e fredda per conseguenza, quantunque vi
si noti larghezza di sontuosi arredi ed un soffice tappeto che copre
tutto il pavimento.

Questa vasta camera era a mala pena rischiarata da una lampada
modesta, ritta sul comodino accanto ad un letto coperto da un
padiglione di damasco rosso cupo, e quella lampada non faceva altro
che illuminare il viso pallido e scarno di un vecchio, che usciva
fuori dalla rimboccatura delle lenzuola.

Quel vecchio aveva i capegli radi e bianchissimi, la fronte spaziosa e
prominente, e sarebbe stato un bel vecchio, se non avesse avuto gli
occhi troppo piccini ed affondati nelle orbite, il naso troppo sottile
ed adunco, e le labbra asciutte, tirate orizzontalmente come un
semplice tratto di penna su d'un foglio bianco di carta.

Era egli il signor Vitali, l'onesto e reputato banchiere, grave dei
suoi settantaquattro anni e di tutti gli acciacchi che sogliono
accompagnare gli ultimi anni della vecchiaia, e inaugurare la
decrepitezza. I suoi malanni lo tormentavano fieramente, ed egli si
sentiva per giunta assai debole.

Pover'uomo! Tutta Genova si dava pensiero della sua preziosa salute,
poichè, come tutti i ricchi, egli era in voce di probo e benefico, e
si soleva dire di lui: «poveretto! egli appartiene alla schiera di
quei pochi, che sa male di vederli morire.»

L'ammalato non era tuttavia solo nella camera. Un uomo vestito di nero
dal capo alle piante stava seduto su d'un seggiolone presso la sponda
del letto, e appunto in atto di toccare il polso al vecchio Vitali,
con un piglio di amorevolezza particolare.

--Mi pare,--disse costui, dopo che ebbe finito,--che Ella stia un po'
meglio, questa sera.

--Sì, un po' meglio,--rispose con voce fioca l'ammalato,--ma mi sento
fiacco, assai fiacco.

--Eh me lo immagino!--soggiunse l'altro.--Ma vorrebbe Ella da un
giorno all'altro rimettersi in modo da potere alzarsi dal letto? La
natura vuole il suo tempo, come l'arte. Speri nella Provvidenza,
signor Giovanni! Iddio vede tutti, e non abbandona nessuno.

--Sì!--disse il vecchio, alzando gli occhi verso il padiglione del
letto e mettendo un lungo sospiro.--Io voglio vivere; ho bisogno di
vivere!

--Ed egli la farà vivere, egli che può tutto. Ma se ne' suoi fini
imperscrutabili....--

Pronunziando queste parole, l'uomo vestito di nero s'era fermato un
tratto, come per misurare l'effetto di quello che stava per dire. Nel
punto medesimo, gli occhi dell'ammalato scintillarono, e la sua faccia
si voltò sul guanciale a guardare colui che parlava, come per dirgli:
Or bene, proseguite!

L'uomo vestito di nero doveva essere avvezzo a quel muto linguaggio,
perchè fu sollecito a proseguire:

--Sì, certo; se ne' suoi fini imperscrutabili ci fosse di chiamarla a
sè. Ella avrebbe il torto a desiderare così fortemente la vita. Il
cielo è la speranza, anzi dirò di più, la sicurtà infallibile di chi
ha operato il bene.--

Il vecchio fece con le sue labbra sottili un certo gesto, che mostrava
chiaramente com'egli non fosse molto soddisfatto di quella chiusa.

--Ma via!--soggiunse l'altro.--Non di questo si tratta, e, tutti gli
amici di Vossignoria sperano che Ella risani prestissimo. Ha bevuto la
pozione?--

Il vecchio, che amava poco parlare, rispose di sì con un lieve cenno
del capo.

--Ma è ancora quasi tutta nel bicchiere;--disse l'altro,--beva il
rimanente; le farà bene.

--No!--rispose il Vitali con assai maggiore fermezza di accento che
non avesse a sperare da un ammalato suo pari,--non bevo più, per
questa sera.

--Eppure questa bevanda, signor Vitali, le concederebbe una notte più
calma.

--Sì; ma il giorno dopo io mi sento più fiacco di prima.

--Eh, certamente si sentirà fiacco; ma non ha il dolce chi non vuole
l'amaro. Se quella bevanda le concilia il sonno e le fa riposare lo
spirito, è segno che giova. Ella poi sa come siano insonni e dolorose
le sue notti, quando ricusa di bere.

--È vero!--disse l'ammalato.

--E che lugubri fantasie l'assalgono nei sogni....

--È vero, è vero!--ripetè il Vitali, crollando mestamente il capo.

--Ella vede allora tante cose spiacevoli; vede sua figlia moribonda;
vede l'ombra del padre Martelli....

--Non è vero! Non è vero! Sono invenzioni!--gridò spaventato il
vecchio.--Io non vedo l'ombra di nessuno, perchè non ho rimorso di
nessuna cosa al mondo.

--Meglio per lei, se non ha rimorsi;--soggiunse asciuttamente
quell'altro.--Intanto mandi giù quella bevanda mirabile, e ne avrà
giovamento. E poi, pensi anche un tantino a quella tal cosa che sa.
Veda, figliuol mio: qui tutti le vogliamo un gran bene, e non la
lasciamo un momento, poichè ci è cara la sanità del suo corpo, come la
salute dell'anima sua. Ella non ha nulla da confessare, nessun debito
da riconoscere. Per la vita, come per la morte (che tutti dobbiamo
aspettarci il peggio da un giorno all'altro) faccia il suo testamento,
in modo che se ne vantaggi, a maggior gloria di Dio, l'Ordine nostro
in Roma, e quella società che ne prosegue qui in Genova tanto
gloriosamente le tradizioni.

--Il testamento non sarebbe valido;--ripiccò l'ammalato, che si
appigliava a tutti i pretesti, per isfuggire dalle strette dell'uomo
vestito di nero.--La Compagnia di Gesù, come ente morale, è stata
abolita negli Stati Sardi, e, secondo il Codice, non ha più potestà di
succedere. La società di San Vincenzo, poi, non è legalmente
riconosciuta....

--Cavilli de' suoi avvocati, signor Vitali! E fanno torto alla sua
mente, che tutti credono volta a propugnare l'incremento della
religione. Quando si ha in animo di fare il bene, le strade si
trovano. Se Ella non può lasciare erede la Compagnia di Roma, nè la
società di Genova, perchè la legge non riconoscerebbe valido il
testamento, può testare bensì a pro' delle singole persone, le quali,
com'Ella di leggieri argomenta, si recheranno a scrupolo di volgere il
suo danaro a quel fine che Ella pietosamente avrà stabilito. Faccia
questo, signor Vitali, e vedrà che la sanità del corpo verrà a
rincalzare la purezza dell'anima. __Mens sana, in corpore sano__, fu
anche adagio dei gentili, sebbene non avessero il beneficio della luce
spirituale. Qui, poi, non si domanda la sua morte; si desidera anzi
che viva lungamente. Suvvia, signor Giovanni, siamo uomini,
mostriamoci consentanei nella nostra vecchiezza ai savi concetti di
tutta la nostra vita.--

Il vecchio stette un pezzo a pensare su quelle argomentazioni ad
hominem; poi levando gli occhi verso il suo interlocutore e vedendo
che lo guardava fiso, aspettando una sua risposta, balbettò:

--Quando fossi davvero in punto di morire.... farei....

--E la morte, signor Giovanni, non può bussare al suo uscio da un
momento all'altro?--gridò, con piglio oratorio, l'uomo vestito di
nero.

--Dite da senno?--soggiunse l'ammalato sbarrando gli occhi---È dunque
vero che potrei morire da un momento all'altro? Oh, non voglio, non
voglio morire!...

--Si cheti, si cheti!--si affrettò a dire quell'altro, che si accorse
di essere andato troppo oltre per quella volta. Vede, signor Giovanni?
Si scalda, il sangue, e le vien da capo la tosse. Suvvia, mandi giù
questa bevanda, che aiuterà a calmarla.--

E in questo dire gli accostò il cucchiaio alle labbra. Il vecchio
bevve, e la sua testa ricadde inerte sul guanciale. Frattanto la
pendola, che era di rincontro al letto, scoccò un tocco.

--È già l'una!--esclamò il Vitali.

--No, le undici e mezzo soltanto. Ella è stanco, signor Giovanni?....

--Sì, molto stanco. Se potessi dormire....

--Oh, dormirà, adesso che ha bevuto quel calmante. Io quindi me ne
anderò; Ella pensi al Signore; in lui è la speranza e la salvezza
nostra.--

E l'uomo vestito di nero, che i lettori avranno già riconosciuto per
quel tale compagno del dottor Collini alla chiesuola di San Nazzaro,
uscì dalla camera del banchiere Vitali.

Appena questi fu solo, parve respirare più tranquillamente, e dopo
pochi minuti stese il braccio verso il comodino, per afferrare un
campanello che scosse leggermente. A quel suono, comparve nella camera
il maggiordomo.

--Signor padrone, eccomi qui. Che cosa comanda?

--Padre Bonav.... cioè, il signor Bonaventura se ne è andato?

--Sì signore.

--Lo avete accompagnato fino al portone?

--Sì signore.

--E avete lasciato il portone aperto?

--Sì, l'ho lasciato. Il marchese suo nipote non starà molto a
giungere.--

A queste parole il volto dell'ammalato si rasserenò un poco.

--Sta bene;--diss'egli,--lo farete entrar subito da me, e poi potrete
andarvene a passar la notte a casa vostra. Stia il Paolo in anticamera
a vegliare. Voi fate il vostro comodo fino a mezzogiorno.

--Grazie, signor padrone.--

E Battista si ritirò, ma non senza fare i suoi commenti a quel saggio
poco frequente di larghezza. Erano infatti rarissime le volte che il
signor Vitali permetteva al suo maggiordomo di andare a passar la
notte con la sua famiglia.

--Ci ha da essere qualcosa di grosso in aria,--disse Battista tra
sè,--perchè il padrone sia diventato così largo di mano. Che voglia
rappattumarsi col nipote? Chi sa? Il diavolo, quando diventò vecchio,
si fece eremita.--

In punto di mezzanotte Aloise di Montalto entrava in casa del nonno, e
il maggiordomo gli schiudeva l'uscio della camera da letto.

Il giovine era pallido, e non poteva dissimulare il suo turbamento. Da
parecchi anni egli non aveva più posto piede nella casa di suo nonno,
cioè dalla morte di sua madre, che il vecchio banchiere non si era
neppur mosso per andare a vedere, e darle l'ultimo bacio innanzi che
ella morisse.

Aloise aveva amato fortemente sua madre, e ne venerava la memoria come
una cosa sacra; però alla chiamata del nonno era stato in forse di
rendergli pan per focaccia, ricusando di andare da lui. La nobiltà
dell'animo suo faceva sì che egli non pensasse neppure ai milioni del
vecchio, e quando taluno dei suoi amici glieli rammemorava, egli era
uso a rispondere che suo nonno era padrone di lasciarli a cui gli
piacesse meglio, e che egli non si sarebbe neppur mosso per piatire su
quella eredità. E questo che egli diceva, lo pensava davvero, essendo
uno di que' tali uomini che vogliono bastare a sè medesimi. Se fosse
nato senza il becco di un quattrino, avrebbe lavorato per vivere, in
quella stessa maniera che studiava per suo diletto, vivendo del suo e
non chiedendo nulla, non isperando nulla da altri.

Ma questo nonno, che lo mandava a chiamare, era infermo, e Aloise non
poteva dimenticare che quello era il padre della sua genitrice,
sebbene fosse stato nemico verso il suo sangue, come tanti altri padri
della sua risma. Queste ragioni gli consigliarono di andare; e andò,
per quanto poca voglia ne avesse.

Da quell'animo generoso ch'egli era, fece anzi di più del suo debito.
Entrato nella camera del banchiere Vitali, andò difilato ad
inginocchiarsi alla sponda del letto, e veduto quel viso scarno e quei
capelli bianchi, si intenerì e ruppe in grido di ambascia:

--Mio buon nonno!

--Ah, finalmente, sei tu, Luigi?--disse il vecchio con quella dolce
lentezza di parole che è una prerogativa degli infermi.--Lascia che ti
contempli un poco.--

E così dicendo tentava di sollevarsi un tratto sui gomiti, ma senza
venirne a capo.

--Aspettate, nonno; non vi affaticate senza pro'. Io stesso vi adagerò
come volete.--

E postegli le braccia intorno al petto, lo sollevò dolcemente e gli
ricompose per benino i guanciali sotto le spalle; dopo di che si fece
a dimandargli:

--Vi sentite meglio così?

--Sì, adesso che ti vedo, mi pare di star meglio. Come somigli a tua
madre!

--Mia madre! Ella vi ha sempre amato, buon nonno; credetelo pure. E se
voi non avete potuto venire al suo letto di morte, ella non ve l'ha
mica apposto a difetto di amorevolezza per lei. La vostra età
avanzata, i vostri negozi, non vi consentivano certamente di venire
fin lassù, alla Montalda.--

Così chiamavasi, per corruzione popolesca del nome della famiglia, il
castello dei Montalto in Polcevera.

Il vecchio, che era rimasto sovra pensiero al ricordo della figlia,
colse la scusa che gli aveva profferta nobilmente Aloise, e rispose:

--Sì, ero assai giù di salute, in quei giorni, e sono molto più
gravemente infermo ora. Avevo bisogno di vederti, sai qui sono
abbandonato, tradito da tutti; nessuno mi ama.

--Oh, buon nonno, perchè non mi avete fatto chiamar prima? Il vostro
Luigi sarebbe corso al vostro capezzale e vi avrebbe consolato nella
vostra malattia.--

La cortese arrendevolezza del giovine giungeva perfino a fargli mutare
il proprio nome. Il vecchio banchiere non aveva mai voluto acconciarsi
alla aristocratica forma del nome di Aloise, e soleva dire che era una
caricatura come tante altre; che Sant'Aloise non si riscontrava nel
calendario, sibbene San Luigi, e che questo doveva essere il vero nome
di suo nipote, senz'altre storpiature nobilesche.

Qualcheduno s'era provato a fargli notare che il nome di Luigi aveva
avuto più storpiature d'ogni altro, e tutte ugualmente ragionevoli
secondo i paesi; che il Clovis, il Clodoveo, il Lodovico, il Luigi,
l'Alvise, l'Aloise, e tanti altri, erano tutte varianti del vecchio
__Luduig__ teutonico. Ma il vecchio Vitali proseguiva a chiamarla una
caricatura, e ne toglieva argomento a celiare sul suo nobilissimo
genero e sulla sua nobilissima figlia, i quali, con tutta la loro
nobiltà, s'erano ridotti al verde.

Aloise sapeva ciò, e per contentarlo trasformava il proprio nome
secondo il capriccio bisbetico del vecchio.

--Qui siete in mano di gente prezzolata,--disse egli, di gente che vi
sta intorno per il vostro danaro.

--Sì, è vero,--esclamò con accento malinconico il banchiere,--e taluni
non desiderano altro che la mia morte.... Oh, non ne far le
maraviglie, io so quello che dico.

--È una brutta cosa, se ciò che dite è vero. Ma voi per buona ventura
non morrete; siete vegeto ancora e potete giungere ad una età molto
tarda.

--Dici da senno?--proruppe l'infermo, a cui scintillarono gli occhi
nelle loro orbite incavate.--Credi davvero che io possa vivere molto?

--Ma certo! Voi stesso potete persuadervene di leggieri; la malattia
non vi ha punto disfatto.

--Oh, se tu sapessi come mi hanno levate le forze! Mi hanno
dissanguato; e adesso mi affievoliscono sempre più coi loro beveraggi.
Io non ho più fede in nessuno.... ho bisogno di vivere.

--E vivrete. Ma il vostro medico che cosa ne pensa egli?

--Ah! il dottor Collini! Tu lo conoscerai....

--Sì, lo conosco come uomo anche troppo: ma come professore dell'arte
salutare ognuno l'ha in concetto di un uomo di vaglia. È il medico
delle più cospicue case di Genova! Io, nondimeno, senza voler qui
metter fuori il mio giusto sdegno contro costui, penso che molte volte
i più valenti professori prendono abbaglio sulle malattie, o le curano
con un metodo particolare che non è fatto per tutti i temperamenti.
Che cosa ha egli sentenziato che sia il vostro male? Con che rimedii
lo cura?

--Che cosa ne so io?--disse il banchiere, crollando il capo
mestamente.--Egli esce fuori con certi nomi!

--Orbene, mio buon nonno; volete che io conduca da voi un medico
provato?

--Sì, appunto di ciò volevo pregarti, nipote mio. Ho bisogno di un
medico, il quale mi tolga di dosso questa spossatezza che mi opprime,
e che anzitutto non mi dia più a bere di quella pozione, che mi
infiacchisce sempre di più. Io lo farò ricco, costui, se verrà a capo
di rimettermi in gambe.

--Oh, a questi patti non c'intenderemo mai. Lo pagherete per le sue
visite come un altro, e basterà. Egli poi ci verrà per amor mio, ed io
spero mi vorrete lasciare la soddisfazione di aver fatto qualcosa. A
domattina, dunque.

--No, non domattina!--gridò l'ammalato.--Egli potrebbe essere veduto
da qualcheduno. Venite di notte, sarà meglio.

--E noi verremo di notte, non dubitate. Ma intanto seguite il mio
consiglio, buon nonno; fino a tanto che il mio medico non vi abbia
veduto, non prendete nessuna di queste medicine che vi si dànno.

--Sì, hai ragione; e con l'aiuto vostro risanerò presto. Mio ottimo
Luigi! E dire che mi narravano tante brutte cose di te! che eri uno
scapestrato, uno scialacquatore!... A proposito, come te la passi ora?

--Io! Studio e vivo modestamente di quel poco che ho.

--E non hai bisogno di nulla?--soggiunse il vecchio, misurando le
parole.--Un giovine tuo pari, che ha da vivere con un certo sfarzo, ha
sempre bisogno di denaro....

--Oh no, caro nonno. Vi ringrazio, ma non ho proprio bisogno di nulla.
Non ho mai avuto l'uso di spendere più di quello che le mie entrate
consentissero, e vi dirò anzi che in questo mese m'è ancora rimasto un
po' di danaro dell'anno scorso.

--Bravo! così va bene; bisogna essere economi.--

Con queste parole, e senza pure addarsene, Aloise aveva soggiogato
l'animo sospettoso del vecchio Vitali. L'uomo che ricusava le
profferte del nonno, certo non s'era affrettato ad andarlo assistere
per la bramosia de' milioni. E quel vecchio egoista, il quale in tutta
la sua vita non aveva riverito, non aveva amato altro che l'oro,
trovava al suo capezzale una di quelle consolazioni che Dio non
dovrebbe mai concedere ad uomini siffatti, cioè quella di un angelo
consolatore, di un animo profondamente pietoso, che opera il bene
senza volerne mercede.

Però il Vitali si dimostrò più aperto, più confidente col nipote; gli
promise che avrebbe seguiti i suoi consigli, e lo supplicò che non
l'abbandonasse.

Lo sdegno di Aloise si era disciolto innanzi a quella sventura di un
uomo ricco, il quale non aveva potuto farsi amare da alcuno e se ne
moriva senza compianto, come senza difesa, in balìa di due tristi.
Però egli giurò al nonno che sarebbe tornato, e lo lasciò alquanto più
tranquillo, verso le due del mattino.

Il vecchio non istette molto a pigliar sonno, e dormì lungamente, per
la prima volta, senza brutti sogni e senza paurose visioni.

Aloise non dimenticò la promessa fatta, e la notte appresso egli
entrava col dottor Mattei nella camera dell'infermo.

Il vecchio Vitali era più spossato che mai, e solo a vederlo si
argomentava che nella giornata egli non avesse ardito ricusare la
consueta pozione, amministrata dal Collini. Però si sentiva fiacco, e
le poche parole che a tratti tentava di profferire, gli erano
interrotte da violenti assalti di tosse.

Il Mattei era un buon medico, lodatissimo per le sue cure e
segnatamente per l'avvedutezza con cui giudicava a prima giunta delle
malattie, per modo da non essere indotto quasi mai in errore. Aloise
lo sapeva bene, epperò assisteva con grande ansietà a tutte le
indagini ed esplorazioni che il suo amico andava facendo.

--Che cosa ve ne sembra?--chiese egli, poichè vide il Mattei stringere
le labbra in segno di malumore.

--Eh,--rispose questi, facendosi un poco in disparte,--un catarro
cronico polmonare, curato alla rovescia.

--Come sarebbe a dire?

--Non vedete? Questa boccia, che a voi stesso aveva destato qualche
sospetto, parla chiaro con la scritta del farmacista. Per corroborare
il vostro vecchio nonno e fargli vincere il male, gli dànno
dell'estratto di acònito, sciolto nella innocentissima emulsione
arabica del Franck.

--È un veleno?--chiese impallidendo il Montalto.

--No, ma è tutt'uno. L'infermo s'ha da rinvigorire, non già da
levargli le forze. Questo si può fare in certi casi con un uomo
giovine e robusto, quando si tratti di combattere il male nelle sue
radici; ma qui c'è un vecchio, con una vecchia malattia che lo ha
concio, sto per dire, fino al midollo, e ve lo curano coi deprimenti.
Io temo una cosa.... che non si siano fermati soltanto all'acònito....

--Che cosa vorreste dire, Mattei?

--È un mio sospetto, e fo conto di chiarirlo subito. Signor Vitali!--

Il vecchio, a cui il medico s'era appressato, aperse gli occhi che
teneva chiusi per la stanchezza.

--Voglia scusare la mia curiosità;--gli disse il Mattei,--le hanno
applicate mignatte?

--Oh, molte, molte!--rispose sospirando l'ammalato.

--Vedete?--soggiunse il medico, volgendosi ad Aloise;--io non m'ero
ingannato. Questi polsi frequenti, depressi e quasi filiformi, questa
prostrazione generale di forze, mi avevano aria di derivare da qualche
cagione più forte che non fosse il solo estratto di acònito. E
probabilmente lo avranno tenuto a dieta rigorosa....

--Molto, molto rigorosa!--soggiunse il Vitali, ch'era tutt'orecchi ad
ascoltarlo.

--Di bene in meglio!--ripigliò il Mattei.--Estratto di acònito,
mignatte e dieta! Ma che cosa vogliono, questi signori?

--Che cosa vogliono?--rispose Aloise.--Ve lo dirò io. Vogliono che mio
nonno faccia testamento.

--Ah! ah! testamento? Ed io vi prometto, Aloise, che se il signor
Vitali vuol fare a modo mio, li corbellerà tutti ben bene.--

A quelle parole il volto dell'infermo si colorò leggermente, e gli
balenarono gli occhi. Il Mattei, che le aveva pronunziate voltandosi a
lui, si fece al capezzale e gli strinse affettuosamente la mano.

--Anzitutto,--diss'egli,--qui bisogna mutar registro addirittura.

--Che debbo fare?--chiese il Vitali.

--Ha Ella qui in sua casa una persona fidata?

--Sì, il mio maggiordomo.

--Bisognerà ch'io gli parli.--

Il vecchio volse gli occhi al tavolino da notte, ed Aloise fu
sollecito a intendere il suo desiderio, poichè diede di piglio al
campanello per chiamare Battista, il quale accorse subito alla prima
scampanellata.

--State bene attento alle mie parole;--disse il Mattei a
Battista.--Amate il vostro padrone?

--Che cosa mi domanda Ella? Non v'è cosa al mondo che io non fossi
pronto a fare per lui.

--Sta bene; e il vostro ottimo padrone darà una giusta ricompensa ai
vostri servigi. Non mi fate le boccacce! È naturale che se voi fate il
vostro debito, il padrone si disponga a testimoniarvi la sua
gratitudine. Qui appunto non si tratta soltanto di servirlo con
fedeltà, ma ancora con amore ed avvedutezza. Nè debbo tacervi che,
caso mai non vi andasse a' versi, ci sarebbe il marchese di Montalto,
qui presente, per aggiustare i conti.

--In fine, che cosa mi comanda di fare?

--Io non comando; raccomando. Il signor Vitali ha fede in noi, e vuol
risanare. Io dunque ho pensato che per farlo risanare ci siano
parecchie cose da fare. Anzitutto buttar via quella pozione, ogni qual
volta ve la facciano comperare, e sostituirvi, nella medesima boccia,
sotto la medesima scritta, una semplice emulsione del Franck,
senz'altri ingredienti, della quale io vi scriverò qui la ricetta.

--Sarà fatto!--disse Battista.

--Benissimo! Il vostro padrone poi non deve stare alla dieta. Così,
senza aver bisogno di consigliarvi con alcuno, voi baderete a
nutrirlo, con cibi di agevole digestione, ma sugosi come sarebbero i
buoni brodi e qualche pezzo di carne arrostita. Gli darete inoltre a
bere del vino, con infusione di china; da principio un cucchiaio ogni
volta che mangerà, e poi anche due. Ma per ordinarvi questo, ci sarò
io. Quando poi, fuori d'ora, il signor Vitali chiedesse da bere, gli
darete del decotto di china, del quale vi lascerò la ricetta.

--Sarà fatto!--ripetè il maggiordomo, chinando il capo.

--Badate dunque; e che nessuno abbia a risaperlo. È l'unico modo di
restituire la sanità al vostro padrone.

--Oh! che dice Ella? Ci sarebbe forse pericolo?

--No, ma potrebbe sopraggiungere, se con quelle vostre bevande
consuete e col tenerlo a dieta, proseguiste a levargli le forze,
mentre, a voler vincere il male, ha bisogno piuttosto di raddoppiarle.

--Ah sì!--disse Battista,--ora capisco quello che vuol dire
Vossignoria. Bisogna che il padrone si faccia forte contro il male. È
quello che ho sempre detto io.

--Vedete dunque che non c'è bisogno di molto studio,--soggiunse
ridendo il Mattei,--e quasi si può far senza dei cinque anni
d'Università. Voi siete dunque avvisato; avete in mano la vostra
fortuna, o la vostra disgrazia.

Ciò detto, il Mattei si accostò ad un tavolino per iscrivere le sue
ricette, che consegnò al maggiordomo, ripetendogli per filo e per
segno tutte le sue raccomandazioni; dopo di che tolse commiato dal
vecchio Vitali con queste parole, che gli fecero balzare il cuore per
la contentezza:

--In quanto a Lei, signor Vitali riveritissimo, stia di buon animo e
segua i miei consigli. Io le prometto che con un mese di questa cura
ella potrà alzarsi e mandare i medici a quel paese, incominciando da
me.--



XIII.

Di una gita che fece il dottor Collini nel vicolo di Mezza Galera.


Conoscono i lettori il vicolo di Mezza Galera? È uno di due, che
salgono da piazza delle Erbe (detta dal popolino __Piazza Nuova da
basso__) fino al celeberrimo vicolo del Fico. Quei luoghi, tra
Sant'Andrea, Sarzano e San Donato sono ancora, insieme coll'altra
regione da Scurreria fino a Banchi, tra i più sudici e tetri della
vecchia Genova; e il vicolo di Mezza Galera, ai tempi del nostro
racconto, era degno più che mai del suo nome, poichè raccoglieva nel
bel numero de' suoi abitanti la famiglia Garasso, nella cui casa
dobbiamo oggi recarci.

Non ci sarà da turarci il naso, badate. Entreremo in una scala
abbastanza pulita, col vestibolo imbiancato di fresco, e certi scalini
di lavagna sui quali si sono già commessi piedini più riguardosi dei
nostri; i quali piedini salivano, al pari di noi, fino al secondo
piano, dov'era un uscio dipinto a nuovo tutti gli anni, con un
picchiotto di ferro, per farsi udire dalla gente di casa. Il
campanello sarebbe stato arnese di troppo sfoggio colà, e i monelli
del vicinato non avrebbero posto gran tempo a strapparne la corda, o a
tagliare la nappa.

L'appartamento di quel secondo piano è piccolo; ha tre camere, la
cucina e qualche bugigattolo dei soliti. Le masserizie sono vecchie e
malinconiche, segnatamente in una sala più grande, che ha l'aria
d'essere il salotto della casa, se si badi ad una tavola quadrata
posta nel mezzo e coperta di un grosso tappeto di lana rossa, con due
stoini da' piedi; ad un vecchio stipo intagliato, con suvvi una
scarabattola di cristallo, nella quale si vede un Gesù bambino vestito
di raso bianco, che tiene il mondo in mano; ad un sofà, con due
cuscini ritti a mo' di spalliera; finalmente ad un grosso armadio di
noce, a sportelli, sull'alto del quale fa bella mostra di sè una
civetta impagliata.

Un'altra civetta, ma non impagliata, è seduta presso la finestra, su
d'una larga sedia a bracciuoli. È la padrona di casa, a cui diamo quel
nome per una certa aria di parentela che il suo volto ci aveva con
quell'uccello di rapina, quantunque ella, a' suoi tempi, fosse stata
in voce di donna belloccia anzi che no, e coi suoi quarantacinque
suonati, con la esorbitanza adiposa delle forme, potesse ancora,
presso taluni di più facile contentatura, passare per un bel pezzo di
femmina. Era una femmina alta e di grosso calibro, come le vecchie
colubrine dei nostri antenati, e chiudeva la prepotenza smisurata
delle forme in una casacca di velluto nero, orlato di fettucce di seta
marezzata, e in un gonnellone di lana verde, partito a larghi quadri,
molto appariscente, sebbene un po' stazzonato dall'uso.

Quella donna aveva fatto di molte cose, nella sua gioventù; ma nel
tempo di cui si narra, aveva anche messo di costa qualche migliaio di
scudi, e da quattro anni si centellava le purissime gioie di un
matrimonio d'inclinazione.

In quel cuore, coperto a sette doppi come lo scudo di Aiace, era
dunque penetrato il dardo d'amore? Sissignori; la nostra signora
Momina (a chi nol sapesse diremo che Momina era un vezzeggiativo di
Geronima) aveva un cuore fatto a bella posta per amare, a malgrado di
tutte quelle cortine, rivellini e bastioni di carne, che vietavano gli
approcci della fortezza.

Fin da quando ella era a' servigi del signor Omobono, vecchio
calzettaio, il quale appunto da quattro anni aveva tirate le calze, la
signora Momina, che allora aveva titolo di donna di casa, ed ufficio
di serva padrona, aveva adocchiato un giovanotto dalla zazzera bionda
e dalla faccia rosea come le mele carle, il quale passava tutti i
giorni sotto le sue finestre.

Costui era stato garzone di bottega presso uno stipettaio; poi si era
accomodato da un fabbro; più tardi aveva mutato d'arte e di
principale, ma non imparando altro che a darsi bel tempo e suonare la
fisarmonica. Gli amici lo chiamavano il __Bello__, e tale pareva alla
signora Momina; la quale si reputò la più avventurata femmina del
quartiere, quando si fu avveduta che quel giovinotto era tutt'occhi
per lei, e che alla notte andava a farle la serenata col suo
malinconico strumento a manticino.

Tutte quelle cose le andarono cosiffattamente al cuore, che non
istette lunga pezza a farsi trovare sull'uscio di strada; e colà,
poichè la signora Momina non era donna da volerlo far sospirare e
struggersi, con troppo danno di quelle guance rosee, furono fermati i
primi patti della resa. D'allora in poi il Bello salì fino in casa;
dapprima raramente e con molti riguardi, poi tutti i giorni alla
libera. Il vecchio calzettaio era a letto e non aveva nulla a vedere
di quell'intruglio; di guisa che il Bello non ebbe più mai a piatire
in casa propria per desinare e cenare, come faceva senza portarci
quattrini.

Là, in casa del vecchio bietolone, egli ci aveva ogni cosa; i bocconi
prelibati, le vestimenta e i denari per le male spese. La provvidenza
gli s'era fatta incontro, sotto le spoglie della signora Momina, e
figuratevi che gran provvidenza l'avesse ad essere, una provvidenza
innamorata.

Il vecchio padrone morì, e quella sera se ne bevve un bicchiere di
più, per dargli l'estremo vale all'uso degli antichi. Gli eredi non
avevano potuto ritogliere alla signora Momina quel tanto che il
vecchio le aveva lasciato, in ricompensa delle sue cure assidue, nè
quel tanto che ella aveva saputo metter da parte, di roba e denaro.
Però, quando ella profferse la sua candida mano al biondino, egli non
se lo fece dire due volte; e due mesi dopo, il parroco delle Vigne
celebrava le nozze.

Il Bello la faceva contenta fra tutte le mogli. Di tanto in tanto
correva qualche manrovescio, ma le lividure erano sempre colorite d'un
tal poco di gelosia: onde la signora Momina, se per avventura le
dolevano le carni, aveva a ricattarsene largamente nella soddisfazione
della sua vanità femminile. E poi, era un così leggiadro garzone, e
sapeva chiedere così bene la pace, quando aveva bisogno di denaro! Chi
bene ama, soleva dire la signora Momina, chi bene ama, bene bastona.

Costei, come si è detto, ci aveva in serbo un bel gruzzolo di scudi;
ma guadagnava anche piuttosto largamente, facendo l'indovina coi mazzi
di carte, e in casa sua ci bazzicavano molte signore, senza contare le
gran dame che la mandavano spesso a chiamare. Questa di sapere il
futuro è sempre stata una manìa delle donne, e talvolta anche degli
uomini; laonde la nostra indovina del vico di Mezza Galera faceva
quattrini a bizzeffe ed aveva modo di mettere il naso in un visibilio
di pettegolezzi, i quali è fama andasse poi a rifischiare ad un certo
valentuomo che li pagava ad oro sonante.

Che cosa faceva intanto il Bello? Si occupava di cose politiche; era
un Verrina in sessantaquattresimo, un Bruto che avrebbe ucciso non uno
ma dieci tiranni, e che, mancandogli la buona occasione di trovarseli
sotto le mani, passava il tempo nelle ultime sale della bottega da
caffè del Gran Corso, giuocando grosse poste a biliardo e a picchetto.
Leggeva __l'Italia e Popolo__ e si vantava anzi di aver contribuito
coi suoi denari al sostentamento di quel democratico giornale, nè si
riteneva dal dire qualche volta (in un crocchio di amici profani alla
politica) come egli avesse stretto la mano a Giuseppe Mazzini.

Queste cose, già s'intende, non si arrisicava a dirle al cospetto di
Francesco Bartolomeo Savi, direttore di quel giornale, ed ottimo
cittadino di cui Genova rimpianse nel '64 la morte luttuosa, nè
d'altro dei capi del partito, ed amici del Mazzini; i quali, parte non
lo conoscevano neppure, parte lo avevano in conto di un semplice
gregario, e gli perdonavano l'ozioso vivere e la mania del giuoco, in
grazia del fervore che egli mostrava per la causa comune.

Parecchi di questi ottimi popolani sapevano bensì della vita oziosa
del Bello, e del bazzicar che faceva in certi luoghi; ma, buona gente
ed aliena dai cattivi giudizi, non ci guardavano tanto nel sottile.
Alla fin fine, spendeva del suo, e nessuno andava a grattare quella
superficie per vedere sotto l'intonaco. D'altra parte, egli era così
ardito nella affermazione de' suoi propositi, si mostrava così
bollente ne' suoi entusiasmi, che sarebbe stato proprio un fargli
villania, il non aggiustar fede alla saldezza ed alla onestà de' suoi
intendimenti.

Questo bel mobile era il marito della signora Momina, dottoressa in
cartomanzia. Adesso vedremo che cosa andasse a fare in casa loro quel
signore dai capelli rossigni, il quale, mentre noi eravamo intenti a
dipingervi quella coppia felice, saliva le scale e bussava all'uscio
del secondo piano.

--Serva umilissima, signor Magnifico!--esclamò la signora Momina,
aprendo l'uscio al dottor Collini; che era appunto egli il visitatore
della famiglia Garasso.

--Buon giorno, signora Momina; è in casa suo marito?

--Sissignore, è in casa; ma il poverino è ancora nel primo sonno.
Questa notte, per far servizio a Vossignoria, come mi ha detto, è
venuto a casa molto tardi. Ma non dubiti, corro a svegliarlo.

--Brava! gli dica che si spicci, perchè ho fretta.--

La signora Momina andò nella camera da letto a scuotere il marito, che
borbottò un poco e bestemmiò per giunta; ma quando ebbe udito che
c'era il magnifico dottor Collini ad aspettarlo, fu pronto a sedersi
sul letto e a stropicciarsi gli occhi.

--E così, signora Momina, come vanno le faccende?--chiese il Collini
alla femmina, quando ella tornò in sala a fargli compagnia.

--Oh, non c'è male; io non posso lagnarmi della fortuna. A proposito,
sono già stata questa mattina dal signor Bonaventura. Quello è un uomo
che si alza per tempo! Tra l'altre cose che ho potuto raccontargli ce
n'è una, la quale egli mi ha detto di riferirla a Vossignoria; e
sebbene io non sappia quanto le possa premere....

--Dite, dite! Di che si tratta?...

--Si tratta di una cameriera alla quale sono andata a far le carte
ieri mattina, di là dall'Acquasola. Costei ci ha un suo innamorato,
del quale voleva conoscere la fedeltà, e mentre stavamo nella sua
camera a fare il giuoco, è sopraggiunta la padrona, una gran dama, che
ha voluto fermarsi a vedere, e poi le è frullato in capo che
indovinassi qualcosa anche a lei.

--E come si chiama questa signora?--chiese il Collini.--Se il signor
Bonaventura vi ha detto di raccontarmi questa, gli è segno che mi sarà
necessario di conoscere i personaggi.

--È la contessa Cisneri;--disse la signora Momina,--una bionda....

--Ah, sì, la conosco, proseguite.

--Orbene, ho fatto il giuoco anche alla signora contessa, ed ho
scoperto un fante di fiori, il quale era cotto straccotto per la
regina di quadri: che essa non lo vedeva di mal occhio; che lo
aspettava e che egli era appunto per via.

--Benissimo, e poi?

--La signora contessa ha riso molto, ed ha voluto che continuassi il
giuoco, stando molto attenta a tutte le cose che io le narravo, segno
che le carte dicevano la verità. Poi mi ha congedato, dandomi due
scudi.

--È qui tutto?

--No. Quando la signora contessa se ne andò, la cameriera mi disse che
avevo indovinato tutto per bene; che il fante di fiori c'era da
parecchi giorni; un certo signor Sovani.... Silvani....

--Forse Salvani?--interruppe il Collini, a cui quelle storpiature
della signora Momina avevano fatto aguzzare gli orecchi.

--Sì, per l'appunto, Salvani; un signore bruno, che si è battuto in
duello. Così mi disse la cameriera, e infatti nelle carte, il duello
c'era sempre alle spalle del fante di fiori.

--Ah!--disse il Collini tra sè.--E come diamine lo ha conosciuto, la
Cisneri? Sta bene che per ora io non posso andare in sua casa, dopo
quel maledetto negozio.... Ma esserci andato subito egli.... Oh,
adesso più che mai è necessario che io mi vendichi di tutti costoro.--

Poi, volgendosi alla signora Momina, e simulando un'aria contenta, il
Collini le disse:

--Vi ringrazio della storia; ma in fede mia non capisco perchè il
signor Bonaventura vi abbia detto di raccontarmela. Conosco la
Cisneri; ma che abbia un fante di fiori o non l'abbia, non è cosa che
possa premere a me. Vedremo poi, se ci sarà una continuazione; e chi
sa che non n'abbia a nascere cosa che torni utile di sapere.

--Certo, signor Magnifico, ed io sarò sempre disposta a dirle ogni
cosa. Ma ecco mio marito.--

«Mio marito!» Per dire queste due parole, la signora Momina compose le
labbra ad un sorrisetto vanitoso che pareva dicesse: guardate che
bell'omino gli è mai!

Ma il Collini non ci badò più che tanto; e dopo aver, risposto ai
saluti del Bello, entrò con lui nella camera da letto, dove si sedette
e cominciò subito a parlare di cose importanti.

--Orbene?

--Ci siamo;--disse il Bello,--vogliono fare da senno.

--Ma egli, come c'entra?

--A capo fitto; è dei più caldi.

--Ma via, raccontatemi tutto. Dove si radunano? Quali sono i loro
mezzi? Che cosa intendono fare?--

Il Bello non rispose a questa furia di domande se non stringendo le
labbra più volte, abbassando gli occhi, e simulando l'esitanza di un
uomo che sente un po' di rimorso.

--Suvvia!--disse il Collini.--Che cosa vi ho mai rifiutato, io? Non
sono ricco, e mi levo, sto per dire, il pan di bocca per voi. Volete
di più? Fin dove la mia borsa consentirà che io giunga nello spendere,
giungerò. Eccovi intanto questi altri sul conto.--

E così dicendo, il Collini, posto mano al portamonete, ne cavò fuori
un biglietto rosso che diede al Bello, e che questi, non che
ricusarlo, si affrettò a mettere in tasca, accennando al Collini che
parlasse più sommesso, per non essere uditi da quella colomba di sua
moglie.

--Che cosa?--disse il Collini.--Vostra moglie non sa nulla....

--Nulla, signor dottore. Le ho detto che dovevo farle servizio in una
certa faccenda; ma ella non s'immagina che Vossignoria mi abbia a dare
la croce di un quattrino. Per dinci, se lo sapesse, sarebbe donna da
voler la sua parte.

--Mentre in cambio voi volete la vostra di quelli che essa guadagna.

--Eh, signor dottore, come fare? Perdo sempre, a quel maledetto
giuoco! E poi, alla mia età, bisogna bene che mi dia un po' di bel
tempo.

--Avete ragione; tristo chi non sa pigliare il mondo pel suo verso. Ma
veniamo al buono, e ditemi tutto quello che sapete.--

Il Bello faceva ancora lo schizzinoso, per non aver l'aria di cedere
così presto. C'è il pudore dei bricconi, come quello dei galantuomini.

--Ma gli è.... vede Vossignoria?... vi sono di certe cose!... Alla
stretta de' conti, si tratta d'amici, e non vorrei....

--To'! avete degli scrupoli di coscienza?

--Oh no, signor dottore. So pure che Ella è un uomo per la quale, e
non vorrà giovarsi di queste cose a fin di male. E poi, sono certi
segreti, che ognuno li conosce a menadito.

--Io, per esempio,--disse il Collini, che cominciava a stizzirsi di
tanti preamboli,--non ne so ancor nulla, ed e per questo che vi dò
dugento lire al mese.

--Via, non si scaldi!--rispose il Bello, arrossendo un poco;--le dirò
tutto quello che so. Gli è fino dell'anno scorso che se ne parla. È un
disegno nato nel cervello di parecchi popolani.

--E non vi sono capi?

--Cioè.... Non ho detto che non ce ne siano. Da principio quella gente
operava di suo capo; ma poi se ne apersero con Giuseppe Mazzini, il
quale è venuto a bella posta in Genova.

--Quando?

--Oh, alcuni mesi or sono, e adesso deve tornare.

--L'avete veduto, voi?

--Io no; ma lo seppi, quando c'era, e parecchi furono a vederlo. Il
disegno da prima non gli andava a' versi; ma quando gli fu detto degli
apprestamenti fatti, del gran numero di uomini sui quali si poteva
contare, se ne capacitò. Si tennero molte conferenze, e fu nominato,
sotto la sua direzione, un comitato misto di artigiani e di signori,
per dividersi il lavoro e provvedere a tutte le occorrenze.

--E il danaro? Senza danaro non c'è musica; lo saprete pure!

--Oh, del denaro ne hanno, e col denaro si è potuto avere delle armi a
carra.

--E ora cosa s'argomentano di fare?

--Non lo so. Probabilmente non lo sanno neppur essi.

--Badate, Garasso! Io voglio saper tutto; se no, smetto la musica.

--Sicuro!--rispose il Bello, ridendo sgangheratamente.--E la sua
musica, signor dottore, io non son uomo da disprezzarla. Ma veda,
quando io le dico che non lo sanno ancora neppur essi, gli è che non
lo sanno davvero, ed io non voglio mangiarle il pane a tradimento. Che
so io? Parlano di una spedizione nel regno di Napoli, nella quale
entrerebbero tutti questi emigrati che sono a Genova. Altri vorrebbe
tentare anche un colpo a Livorno. Altri dice che non si devono
spartire le forze; insomma non c'è ancora nulla di stabilito. Qui poi
si vorrebbe mettere il governo in angustie, perchè non mandasse a
monte il negozio; epperciò v'ha chi propone di impadronirsi dei forti
e della Darsena, come avvenne nel '49; altri pensa che quando s'è
presa una cosa, non bisogna lasciarsela fuggire di mano, e che si
potrebbe fare un governo provvisorio per aspettare l'esito certo della
rivoluzione a Napoli, e mettere in fiamme tutta la penisola. Ma finora
sono discorsi accademici, e bisogna aspettare una risposta di laggiù.

--Da dove?

--Da Napoli. Si dice che là sia già tutto preparato, le armi
distribuite, e gli animi disposti all'impresa, appena una mano di
patrioti giunga a sbarcare su quelle spiagge. Ma qui vogliono esserne
ben certi, e non dir quattro fino a tanto non sia nel sacco; epperciò
si è mandato qualcheduno a pigliar lingua, a vedere come stiano le
cose.

--Perdio!--esclamò il Collini.--E voi dicevate che non c'era anche
nulla di fatto? A me pare che ce ne sia d'avanzo. E il nostro bel
signorino, che fa in mezzo a costoro?

--È dei primi. Lo hanno anzi nominato membro del comitato, e lo
tengono in grandissima considerazione, sebbene in molte cose mostri di
non intenderla a modo loro.

--È dunque uno dei capi?

--Sì, certamente. Pare che egli non aggiusti gran fede a certi
disegni; ma nessuno lo crede uomo da ciurlare nel manico, il giorno
delle busse. La si figuri; si voleva menar le mani subito, e fu egli
che, con le sue storie, persuase gli altri a rimettere il colpo a
tempo opportuno.

--E che occasione si aspetta?

--Non ha inteso? Si aspetta la risposta di laggiù.

--E quanto credete che l'abbia a tardare?

--Non lo so. L'uomo è già partito, e non si aspetta altro che il suo
ritorno per pigliare una deliberazione.

--Lo avete voi veduto?

--Chi? l'uomo che è partito?

--No; vi parlo di lui, del nostro signorino.

--Oh sì, l'ho veduto parecchie volte alla Società degli Operai, dove
dà lezioni di storia, e tutti stanno ad udirlo con tanto d'orecchi.
Infatti parla molto bene, e vi racconta le cose in modo che tutti le
capiscono, e par quasi di toccarle con le mani.

--Questo m'importa poco, anzi nulla;--soggiunse il Collini.--E non
avete altro da dirmi?

--Le ho detto tutto quanto sapevo.

--Bene, bene! Badate a non nascondermi nulla, quando vi avvenga di
saper qualche cosa; e anzi tutto non perdete tempo. Sapete dove sto di
casa, e potete venirmi a cercare.

--Non dubiti, signor dottore; ma Ella mi promette....

--Che cosa?

--Che il mio nome non uscirà fuori per nessun modo. Se s'avesse a
risapere, io non potrei dirle altro. E poi....

--E poi, che cos'altro?

--Vorrei,--disse il Bello,--che i miei amici non ne avessero a patire.
Ella sa, signor dottore, che se dico queste cose a Lei, gli è perchè
la credo un galantuomo.

--E perchè vi pago profumatamente. Suvvia, non mi fate quel muso.
Patti chiari, amici cari, dice l'adagio, A voi mette conto il parlare,
a me il sapere; e una mano lava l'altra.

--Orbene,--soggiunse l'altro, crollando le spalle,--sia come Ella
vuole. Io del resto so che sono tutti pazzi da catena, e me ne lavo le
mani.

--Bravo! questo è parlare da savio. Lavatevene le mani. E intanto a
rivederci.--

Dopo queste ed altre parole di minor conto, il dottor Collini se ne
andò, non senza aver salutato la signora Momina, che lo accompagnò
fino sul pianerottolo della scala, come si conveniva ad una persona
tanto ragguardevole.

--Ve'! ve'!--disse il Bello, mentre infilava la giacca per uscire a
sua volta.--È un comodo mestiere, la politica, e ci si guadagna da
vivere, senza molta fatica. Chi sa che diamine vada mulinando nel suo
cervello, questo medico del malanno? Basta; vengan danari; al resto
pensi chi vuole, io no, certo.--

Che brava gente, quella famiglia Garasso! La moglie, con l'aiuto delle
carte, diceva la buona ventura e faceva la spia nelle case. Il marito,
pel vizio delle carte, vendeva i segreti degli amici. L'asso di
quadri, simbolo del danaro, lo avevano ambedue al posto del cuore.



XIV.


Nel quale si comincia a sapere chi fosse e che cosa facesse l'uomo
vestito di nero.

Il dottor Collini uscì dal vicolo di Mezza Galera molto contento de'
fatti suoi. Dal caso di San Nazaro in poi, era quella la prima volta
che il valentuomo si mostrava quasi ilare in volto e si stropicciava
le mani.

Quantunque la gente non gli avesse apposto a grave colpa l'essersi
malamente diportato in quella sua contesa col Montalto, il Collini non
aveva per fermo a lodarsi della figura fatta, e fra le cose che più
gli dolessero, c'era questa del non poter più andare dalla Cisneri, e
di dover troncare così il suo romanzetto al primo capitolo.

Ma più ancora venne a sapergli male che il suo padrino, l'uomo che si
era battuto in sua vece, fosse andato in casa della Cisneri, dove un
mazzo di carte e le parole di una cameriera dicevano troppo
chiaramente in qual conto egli fosse tenuto. Come aveva potuto
andarci, egli che non conosceva punto la contessa? E perchè c'era
andato? Il Collini non lo sapeva ancora; ma l'amarezza che ne sentiva
in cuore, gli faceva indovinare come i suoi proprii diportamenti
fossero la cagione di tutto, e com'egli ne avesse il danno e le beffe.

Povero Collini! Con tutto il suo ingegno e la sua avvedutezza, esser
riuscito a fare la parte del bietolone!--Oh! ma se ne avranno a
pentire!--pensava egli, stringendo i pugni nel segreto delle sue
tasche, mentre la signora Momina gli raccontava la sua gita in casa
della Cisneri. E allora gli tornavano in mente le acerbe parole di
Lorenzo Salvani nella chiesuola di San Nazaro, e sentiva odiarlo lui
più fieramente, più profondamente, che non odiasse il suo vero
avversario Aloise di Montalto.

Ma perchè, con tutta questa amarezza, nell'uscire dal vicolo di Mezza
Galera, egli si andava stropicciando le mani, a guisa di uomo
contento? Or ora lo sapremo, se i lettori vorranno seguirci.

Il dottor Collini se ne andò per la via dei Giustiniani: voltò a
destra verso la piazza di San Lorenzo, scese per Scurreria e Campetto,
donde risalì per un labirinto di vicoletti fino alle Strade Nuove, e
proprio rasente ad un gran palazzo, nel cui portone entrò con la
spigliata franchezza di un uomo, il quale avesse fatta quella strada
centinaia di volte.

Salì per un largo giro di scale fino al piano nobile; dov'era un
grand'uscio, a cui volse lo sguardo della volpe d'Esopo al famoso
grappolo d'uva, ed entrò per un andito in una scala più stretta, la
quale andava su per altri due piani. Giunto all'ultimo, suonò il
campanello, e poco stante l'uscio si aperse appena quel tanto che
consentiva il ritegno d'una catena tirata attraverso i due battenti,
lasciando scorgere il viso di una donna attempata, alla quale il naso
bitorzoluto e i peli del mento, la gonna di lana nera, la cuffia e il
grembiule di tela bianca, davano aria d'una portinaia di monache.

Costei, appena riconobbe il Collini, spiccò la catena dal gancio, e
dischiuse l'uscio per lasciar passare il noto visitatore.

--È in casa il signor Bonaventura?--chiese il Collini.

--Sissignore, è sul terrazzo, intorno ai suoi fiori. Aspetti, e corro
a chiamarlo.

--No, no, signora Marianna, non s'incomodi; andrò io stesso.--

E così dicendo, il Collini s'inoltrò per due o tre camere fino ad un
corridoio, che riusciva appunto sul terrazzo. La signora Marianna, che
vedeva quasi sempre ogni giorno il Collini, lo lasciò andare, e dopo
aver chiuso l'uscio e rimessa la catena, gli tenne dietro fino alla
camera dov'essa accudiva alle sue faccende domestiche.

Il terrazzo del signor Bonaventura, era come tutti gli altri dei
nostri palazzi genovesi, lastricato a quadri bianchi e neri, coi suoi
orticini dai lati, molti vasi bellamente posti in giro, nei quali
fruttificavano alcune piante di aranci e di limoni, una vasca di marmo
col delfino che gettava il suo zampillo d'acqua, e un pergolato di
rose gialle e di gelsomini.

Il signor Bonaventura, che noi chiameremo alla spiccia il padre
Bonaventura, a cagione della sua antica ascrizione alla compagnia di
Gesù, stava presso un orticino sarchiellando il terreno e nettandolo
dalle erbe selvatiche, per seminarvi lattuga ed altre ortaglie di
stagione.

Era vestito, come sempre, di nero, e in cambio del cappello, portava
in capo una berretta di velluto. Cosa strana per un giardiniere suo
pari, accanto al sarchiello ed all'innaffiatoio, e' ci aveva un grosso
cannocchiale da teatro.

Il padre Bonaventura andava pazzo per l'arte del giardiniere, e
l'educazione dei fiori, come di tutte le pianticelle degli orti, era
il suo passatempo prediletto.

Orticultura, fioricultura, sollazzi proprii delle anime innocenti! Ma
se il padre Bonaventura, che amava tanto i fiori, le lattughe e il
prezzemolo, non era un'anima innocente, non era neanche un tristo, nè
un furbo volgare; bensì qualche cosa di più grosso, un uomo d'ingegno,
nato per comandare a' suoi simili. Un tempo, il suo gran diletto era
stato quello di far discepoli. Era gesuita, maestro esercitato nelle
più astruse discipline, e i giovani posti nelle sue mani facevano
ottima prova; testimone il Collini, che era stato suo discepolo, e si
chiariva profondo nell'arte sua, com'era sottile in ogni maniera di
accorgimenti.

Non avendo più giovinetti da tirar su nello studio, il padre
Bonaventura educava i garofani e le camelie con lo stesso amore, con
la stessa perseveranza di assidue cure. A Genova dimorava per antica
consuetudine, e sebbene fin dal tempo della cacciata dei Gesuiti egli
avesse gittato l'abito, rimaneva in Genova ugualmente utile alla
Compagnia, per tutte quelle cose che verremo dicendo, e teneva
carteggio pressochè quotidiano col padre generale dell'Ordine.

Uomo di lui più destro ad ogni maniera di lavori non si sarebbe potuto
trovare. Egli però continuava ad essere come ministro plenipotenziario
in un luogo dove i suoi non erano più ufficialmente rappresentati, e
più utile assai di un vescovo nominato __in partibus infidelium__,
egli poteva dirsi un agente segreto, ma potentissimo, in una città
dove non avrebbe potuto stare, nè giovar molto, con aperta dignità di
padre provinciale. Era quello un posto difficile, epperò fatto a bella
posta per un uomo di fede provata e di accorgimento sopraffino, come
veramente appariva il padre Bonaventura; nè poco era il lavoro, nè
lieve la malleveria dell'ufficio.

A Genova, nel tempo di cui parliamo, la libertà aveva largamente
fruttificato. Quello spirito d'indipendenza che deriva dall'uso dei
traffichi, e dal continuo muoversi d'una popolazione marinara, la
lontananza dalla sede del governo, e le stesse ricordanze repubblicane
del paese, erano un potentissimo aiuto allo svolgimento dei concetti
liberali consacrati dalla rivoluzione del 1847 e dalle riforme
legislative che l'avevano accompagnata.

Ma se a Genova c'erano i più gran rompicolli di tutta Italia, se qui
era il centro più temuto e più sospettosamente vigilato della
rivoluzione, c'erano anche i più ostinati fautori dell'antico ordine
di cose, e forse la più operosa officina della reazione.

C'era anzi tutto il volgo ignorante degli uomini avvezzi a millantare
le più arrisicate dottrine, in quella che lasciavano le loro famiglie
pensare a operare in tutto altrimenti: spregiudicati a parole, liberi
pensatori senza sapere che cosa pensare, audacissimi mangiatori di
grasso in venerdì e sabato, ma fuori di casa, e destinati a diventare
la gente più divota e insieme la più codina della cristianità, nella
stagione dei malanni insanabili.

C'erano poi i ricchi patrizi, i quali, la più parte, astiavano il
governo piemontese e ricordavano il patrio Consiglietto: e tra essi la
gente più strettamente divota al Papa e all'Imperatore nella loro
significanza da medio evo; epperò tale, per larghezza di censo ed
autorità di nome, da doversi accarezzare e tenere in carreggiata, oggi
blandendola cogli onori e la reverenza alla grandezza dei titoli,
domani spaventandola col fantasma minaccioso delle plebi irruenti.

C'erano i titolati meno abbienti, anzi poveri addirittura; gente da
sostentare in ogni modo migliore, la mercè di Opere pie acconciamente
sfruttate, di antichi legati, di pubblici uffizi, e da scrivere
intanto nelle file della tenebrosa legione, nella quale avevano a
militare per vecchia tradizione e per nuovo debito di gratitudine.

C'erano i ricchi plebei, i villani rifatti da tirare, spinte o sponte,
nel girone superiore, per la naturale attrattiva del vivere sfoggiato,
per la cupidigia degli onori e di tutti gli altri amminicoli della
superbia mondana.

C'erano i liberali sinceri da combattere, da traccheggiare, da
molestare di continuo e in ogni ragione di cose, fossero poveri o
ricchi, nobili o plebei, sicchè avessero a guastarsi il sangue, a
perdere gli uni la costanza dei propositi, gli altri il loro buon nome
nelle angustie della necessità.

C'erano sopra tutto i giovani da domare, i vigorosi intelletti da
isterilire nel fiore della pubertà. Con quali armi? Anzitutto un
ordinamento meraviglioso, ragnatela finissima, le cui cento fila
mettevano capo in ogni ceto di persone, in ogni ragione di negozi. Il
beneficato e l'ambizioso, mutati di subito in acconci stromenti di
propagazione, erano tutti sfruttati secondo la misura delle forze
loro, dell'ingegno, delle particolari attitudini e delle aderenze
domestiche.

Però le opere pubbliche, le amministrazioni in mano loro, gli
instituti di carità e di beneficenza soggetti al loro indirizzo. La
reazione, sempre padrona delle coscienze nei tre sommi momenti della
vita, la nascita, il matrimonio e la morte, signoreggiava del pari le
moltitudini, la mercè di questa intromissione dei suoi creati in ogni
garbuglio mondano, in ogni gara di private ambizioni, in ogni dramma
domestico. Si esercitava la virtù come un mestiere, e si sfruttava il
peccato come una cartella del debito pubblico.

Il governo d'allora non avversava punto la setta, che anzi aveva a
tenersela cara, come quella che gli guerreggiava i partiti avversarii
e gl'indocili. Il popolo, svogliato, facile a mutar consiglio,
ateniese insomma fino al midollo, lasciava correr l'acqua al mulino e
una cosiffatta congrega girare a sua posta le chiavi nella toppa mal
custodita del santuario domestico. Che cosa potevano i pochi, i
rivoluzionari da caffè, contro tante forze riunite? Non mai il demonio
fu così degno del nome di __Legione__, come quando era incarnato nella
mente di padre Bonaventura. Era egli infatti che muoveva tutte quelle
fila svariate secondo il suo ordinato disegno.

E poi, oltre al disegno generale, il padre Bonaventura ci aveva altri
fini da conseguire, altre reti da tendere. Alla Compagnia doveva
andare quanto più si potesse di denaro, ma soprattutto le ricchezze
del banchiere Vitali, le quali erano frutto, diceva egli, di un grosso
deposito confidato dai gesuiti a quello specchio di probità, sebbene
non vi fosse modo di farglielo confessare o di metterne fuori le
testimonianze.

Il Vitali era stato fin dalla sua giovinezza uno dei più fidati
amministratori del denaro della Compagnia, e la sua fortuna, fatta
legalmente alle loro spalle e mercè il loro aiuto, s'era illegalmente
rimpinzata di quel grosso deposito. Ma il padre Martelli, che sapeva
di tutto quel negozio, era morto poco dopo la cacciata del sodalizio
da Genova, non avendo tempo a dir altro se non che il danaro lo aveva
il Vitali. E il Vitali negava.

Che cosa fare? Armato di tutto punto e forte di mille spedienti contro
un uomo giovine, il quale si combatte nel rigoglio di tutti i suoi
affetti, buoni o malvagi, l'astuto Bonaventura era impotente, o quasi,
contro un vecchio come il Vitali. Non c'era altro che una speranza,
poggiata sulla paura che il vecchio Vitali aveva grandissima della
morte, e sul terrore che gli metteva addosso il pensiero della
dannazione dell'anima. Senonchè, fino a tanto si sentiva in gambe, non
c'era verso di cavarne un costrutto, e le fiamme dell'inferno, che gli
davano molestia quand'era ammalato, gli sfioravano a pena la cute,
quando era sano ed aveva fatto una buona digestione.

Il signor Giovanni Vitali era stato nella sua giovinezza un libero
pensatore de' suoi tempi, che aveva letto il Voltaire e citava il
__Dizionario filosofico__ con tutte le sue celie da scomunicato. Ma
egli ci aveva pure una religione, quella dell'oro, che è maestra e
consigliera di tutte le altre. In Turchia, per far quattrini, non
avrebbe tardato a diventare un fervente seguace del Corano; da noi,
per la stessa ragione, si acconciò all'andazzo dei tempi e diventò una
creatura dei Gesuiti. Questa è una strada che molti hanno fatta,
antichi miscredenti, ai quali ha messo conto venire a patti e aprir
banco di mercatanti sulla gradinata del tempio.

Ora questo signor Vitali, che s'era ingrassato alle spalle della
Compagnia, non voleva restituire il mal tolto. Il padre Bonaventura,
che conosceva i suoi polli, aveva fatto il disegno di levargli le
forze, e (ci si condoni la frase, perchè qui viene a taglio davvero)
di accarezzargli una cronica malattia in cambio di combatterla,
affinchè, spossato e pauroso della morte, consentisse di buona voglia
a far testamento, a pagare con qualche milione la sua pace con Dio. Ed
è agevole il vedere come, con l'aiuto del discepolo Collini, il padre
Bonaventura avesse avviato per bene il negozio, che Aloise di Montalto
(caso non preveduto) gli cominciava a guastare.

C'era dunque assai più di un furbo volgare sotto quella giubba nera
che teneva apparenza mezzana tra il laico e il cherco. C'era infatti
il generale d'un corpo d'esercito, mallevadore di tutte le sue
operazioni, colla sua fama a repentaglio innanzi a que' giudici severi
della Compagnia di Gesù. La voluttà del combattere e l'agonia del
vincere, levavano il padre Bonaventura molto più su di tutti i suoi
compagni e di tutti quei miseri strumenti che egli educava al
proseguimento dell'opera comune e delle loro private ambizioni.

Il lettore non reputerà che noi ci siamo dilungati troppo in questa
sposizione, la quale vuol essere considerata come una di quelle chiavi
di ferro che sono necessarie a stringere insieme le parti di un
edifizio. E noi d'altra parte non potevamo farne senza, per le
necessità del nostro racconto.

--Oh! siete voi?--esclamò il padre Bonaventura, voltandosi al rumore
dei passi, e riconoscendo il Collini.

--Sì, padre mio, e vi porto molte novità.

--Davvero? Mettetele fuori!--

Così dicendo, il padre Bonaventura s'era rimesso a sarchiellare il suo
orticino.

--Tengo finalmente nel pugno il Salvani!--disse l'altro, cominciando
__ex abrupto__.

--Bene! ottima preda!--rispose il padre Bonaventura.--E in che modo?

--Sono padrone del suo segreto.

--Di bene in meglio! E qual è questo segreto?

--Egli si è gittato a capo fitto nelle imprese dei rompicolli. Costoro
vanno maturando una rivolta, e il Salvani è tra i primi.

--È tutto qui?--chiese il padre Bonaventura con quell'aria sbadata che
aveva assunta fin da principio.

--O che?--esclamò meravigliato il Collini.--Non vi pare che basti?

--Per che farne?--ribattè il padre Bonaventura, stringendosi nelle
spalle.

--Per che farne, voi dite? Per andare a Palazzo, avvisarne le
autorità, e quando costoro siano invischiati per bene, farli cogliere
e mettere in gattabuia.

--Benissimo, Collini! Aspettare che siano caduti in trappola.... che
non possano più dare indietro.... Sì certo, è un accorgimento di buon
conio; ma chi vi dice che le autorità non ne sappiano quanto voi?

--Oh, è impossibile che ne abbiano sentore. Fino ad ora non c'è nulla
di fatto; sono discorsi accademici, tra i caporioni, i quali non li
hanno certamente lasciati trapelare.

--Sì, lo so che non c'è nulla di fatto....--soggiunse il padre
Bonaventura.

--Lo sapete?

--Sicuramente; perchè farne le meraviglie? Voi pagate per sapere; io
so senza pagare.

--Come? da chi?

--Da quel tale che spaccia queste primizie a voi. Non forse per mezzo
mio avete conosciuto quel fior di donna della signora Momina, e quel
pendaglio da forca di suo marito? La signora, parlandomi di molte
cose, mi ha toccato anche delle vostre confabulazioni col Bello. Io le
ho detto che non se ne avesse a stupire; che si trattava di cose
innocentissime, per non guastarvi il negozio. Il Bello poi mi ha
parlato schiettamente, sebbene abbia negato di ricever denaro da voi.
Ma io conosco il galantuomo! Ditemi, Collini; quanto avete dato al
Garasso, per cavarne questi segreti?

--Dugento lire.

--È troppo salato, il vostro segreto. Io invece so tali cose del
Garasso, che egli viene da me come la biscia all'incanto, e mi
spiffera tutto, parendogli grazia che io voglia star zitto sui fatti
suoi.

--Ma io non sapevo nulla di ciò;--sì provò a dire il Collini,
mortificato.--Voi, padre mio, la sapete più lunga....

--Del diavolo, volevate dire? Sia pure. Il Garasso, tanto che lo
sappiate, ha dimestichezza con una certa combriccola di ladri, che la
Questura non è anche venuta a capo di scovare, e tiene il sacco a
costoro, nascondendo o facendo vendere alla cheta qua e là i frutti
della loro industria.

--Che cosa mi narrate voi mai, padre Bonaventura! E coi guadagni che
farà certamente in questo ramo di commercio, ha egli bisogno di
giuocare? Io so che il suo denaro egli lo manda a male a picchetto e a
biliardo.

--Lo sapete! Ve lo avrà detto egli. Io so invece, e l'ho di buon
luogo, che non è un giuocatore sfortunato. Il biliardo e qualche
partita a picchetto non sono poi la botte delle Danaidi. C'è anzi
qualche luogo riposto dove si giuoca alla carrettella e alla
__roulette__, e dove il Garasso ha trovato il filone di una miniera;
ma ci vuol altro a saziare le voglie della Violetta!

--Della Violetta? Chi è questa Violetta?

--Ah, non lo sapete? È una mala femmina, molto bella e molto
capricciosa. Si fa chiamare così, per scimiottare quella tal donna che
hanno messa sul teatro.

--La __Traviata__?

--Sì, che è una figlia naturale della __Signora delle Camelie__.

--E voi dite che il Bello....

--È innamorato fradicio di questa donna, e tutto il danaro che egli
ruba agli altri, passa per le mani della Violetta, come pel buco
dell'acquaio!

--E la signora Momina non ne sa nulla?

--Bravo! se lo sapesse, gli caverebbe gli occhi. Quella vecchia
peccatrice è pazza del marito, e gli dà anche una parte de' suoi
denari, perchè la sfoggi cogli amici e tiri innanzi a volerle bene.
Anche costei ci ha trovato la penitenza de' suoi peccati, in quel suo
bel maritino; e chi sa che un bel giorno egli non le faccia scontare
tutte le sue ladrerie!...--

Il padre Bonaventura faceva quel discorso edificante, in quella che
proseguiva a sarchiellare i suoi orticini e a mettervi le sementi di
lattuga. Era un uomo assennato, il padre Bonaventura, e soleva dire
che chi ha tempo non aspetti tempo.

Il dottor Collini era rimasto muto, e tutto vergognoso in cuor suo per
la soverchiante saviezza del maestro, il quale sapeva tante cose e
cavava profitto da tutte.

--Eccovi dunque, mio buon figliuolo,--proseguì il gesuita,--in che
modo io tenga stretto il Garasso, e perchè io abbia a così buon
mercato i segreti che voi pagate così cari. Ma non ve ne date pensiero
più del bisogno; tutti i giorni se ne impara una, ed io sono molto più
innanzi di voi nella vita. Soltanto io vi raccomanderò di studiare, di
non perdere una parola di tutto quello che udrete narrare da altri,
sebbene a prima giunta non v'abbia a parere di molto rilievo. Non v'è
nulla d'inutile a questo mondo, e presto o tardi ogni cosa viene in
taglio. Sapete la storia del ferro di cavallo?

--Io no; che storia è questa?

--È una storia dell'Evangelio: di uno degli Evangelii apocrifi,
intendiamoci bene; che non vorrei esser preso da voi per uno
spacciatore di frottole ed un cattivo cristiano. Ve la racconterò,
perchè mi pare che calzi mirabilmente al caso vostro.

--Raccontatela, padre mio, se è vero che io debba cavarne profitto.

--Una volta.... Come vedete, la storia incomincia al modo di tutte le
altre. Una volta, nostro Signore (e così dicendo il gesuita si cavò
umilmente la berretta di velluto) andava a diporto per un paesello,
che non so bene se fosse Emaus, o Cafarnao, e gli veniva ai panni
l'apostolo Pietro. Andando innanzi, quest'ultimo incespicò in un
piccolo arnese di ferro che stava per terra, e chinati gli occhi a
guardare, e veduto che era un ferro di cavallo, gli diede un calcio
per buttarlo sprezzatamente da un lato della strada. Nostro Signore,
che vedeva tutto, si volse e andò a raccogliere quel pezzo di ferro.
Pietro, il quale a que' tempi non era ancora il principe degli
Apostoli e quel valentuomo che divenne poi, crollò le spalle, come se
quella del maestro fosse stata una fanciullaggine. Ma il maestro non
disse nulla, e come furono giunti dinanzi alla bottega di un
maniscalco, vendette quel ferro di cavallo per due soldi, che gli
servirono poco stante per comperare una manata di ciliegie.

--È una graziosa storia!--esclamò il Collini, ridendo.

«--Statemi a sentire, che viene il buono: Pietro non aveva badato più
che tanto a quei traffichi, e quasi rideva sotto i baffi di quella
lezioncina del maestro, la quale non gli pareva poi molto rilevante.
Ma egli avvenne poco dopo che dovessero fare una lunga strada in un
luogo deserto, sotto il flagello del sollione. Pietro si lagnava
dell'arsura, e non si sentiva più gambe da tirare innanzi.--Se
trovassimo una fontana!--diceva egli tra sè. Ma la fontana non c'era,
e il povero apostolo moriva di sete. Ma vedete miracolo! Andando con
gli occhi bassi e la lingua penzoloni, alla guisa dei cani, vide a
terra una ciliegia; la colse e se la mangiò con un gusto da non dirsi
a parole. Più oltre gli avvenne di trovarne una seconda, poi una
terza, una quarta e via discorrendo, le quali andavano tutte a
rinfrescar l'ugola arsiccia dell'apostolo. Sapete il proverbio,
Collini?

--Una ciliegia tira l'altra;--rispose il discepolo;--è questo il
proverbio al quale accennate?

--Sì, per l'appunto. Una ciliegia tirava l'altra, perchè la tasca di
nostro Signore era bucata, e le ciliegie cadevano sempre, senza che
egli avesse aria di addarsene. Quando non vi furono più ciliegie,
erano giunti al loro destino: Pietro non pativa più la sete, e sebbene
non ardisse parlare, ringraziava in cuor suo la previdenza del
Maestro. Questo allora sorridendo si volse e gli disse:--O Pietro,
uomo di poca fede, crederai tu ora che non c'è nulla di inutile a
questo mondo, e che anco un ferro di cavallo, trovato in mezzo alla
strada, può giovare a qualcosa?

--L'apologo è bello,--disse il Collini, chinando il capo, ed io voglio
farne il mio pro'. Ma intanto, facessi male, o no, a pagare così
profumatamente il Garasso, questo Salvani è in nostro potere.

--Non lo nego. Io già ve lo avevo detto là sulla spiaggia di San
Nazaro: tutti costoro daranno nella pania da per sè. Sono scapati,
pieni di fumo e di vento, e noi potremo, quando ci paia, farli ballare
sulla croce di un quattrino. Ma credete voi ora non ci sia nulla,
proprio nulla di meglio da fare?

--E che cosa?--esclamò trasognato il Collini.

--Prendete questo cannocchiale.

--Per che farne?

--Ora vedrete. Aggiustate le lenti alla vostra veduta a guardate
laggiù, su quel tetto aguzzo, che cade appunto nella visuale del Molo
vecchio.

--Vicino al porto?--chiese il Collini, guardando.

--No, molto più vicino a noi. Quando vi dico che casca nella visuale
del Molo vecchio, gli è per farvi intendere la direzione. Vedete su
quel tetto aguzzo un terrazzo con quattro pali verdi sugli angoli?

--Ah sì, presso il campanile delle Vigne.

--No, più a sinistra. C'è anco in un cantuccio una pianta stecchita,
che a guardarla così senza cannocchiale sembra un gran ramo secco, ed
è in quella vece un pèsco od un mandorlo, come potrete vedere dai
fiori che ha messo.

--Sì, sì, vedo; c'è anche una donna su quel terrazzo.

--Molto bella, non è vero?

--Sì, molto bella. E chi è?

--Non capite. Quella è la casa di Lorenzo Salvani.

--Ah!--disse Collini.--Sua sorella....

--Sua sorella!--esclamò con piglio ironico il padre Bonaventura.--Lo
dicono; ma non è sua sorella.

--Oh oh! Un altro segreto?--soggiunse il dottore, levando il
cannocchiale dagli occhi e guardando il maestro.

--Perchè no?--rispose questi.--Ce n'ho di molti, io, e vi so dire che
escono tutti a suo tempo dal bossolo.

--Voi dunque dicevate che non è sorella del Salvani?

--No, certo; ma il dirlo non basta, e bisogna averne in mano le prove.
Quella bella fanciulla che vedete lassù, intenta a gettar le briciole
di pane ai colombi del vicinato, fu condotta dal padre Lorenzo Salvani
in casa della moglie, che poteva avere otto anni, o in quel torno.
Taluni credettero che fosse il frutto di un amorazzo del colonnello
rivoluzionario; ma questa era un'invenzione delle male lingue, ed io
so che la fanciulla non è in nessun modo consanguinea del vostro
signor Lorenzo.

--Il mio!--borbottò il Collini tra i denti.--Così diceste il vero!...

--Sarà, sarà, non dubitate, uomo di poca fede! Ma pensiamo ai modi. È
una buona e savia giovinetta, quella che vedete, ed io so ancora di
certi misteri domestici che le tornano ad onore grandissimo. Insomma è
l'angelo di quella casa, e occorre levarla di là, combattere
l'avversario nel suo campo.

--E come fare?--chiese il Collini che stava con tanto l'occhi a
guardare il maestro.

--Eh! bisognerà scoprire anzitutto il segreto di quella nascita. C'è
in casa Salvani un certo cofanetto d'ebano nel quale potremmo trovare
il fatto nostro; ma quel cofanetto è molto ben custodito; e per averlo
in mano....

--Qui sta il busilli!

--Sicuro, il busilli sta qui; ma è già un gran che averne scoperta
l'esistenza.

--Certo, padre mio; ma in che modo avete potuto trapelare tutto ciò?

--Questo, poi,--disse il padre Bonaventura inarcando le ciglia e
stringendo le labbra con aria di sussiego,--è il mio segreto. Io ve ne
ho già detti tanti in mezz'ora, che non ve l'avrete a male se vi
tacerò questo.

--Avete ragione, vogliate perdonare. Ma non sapete altro finora, di
questa fanciulla? Non avete sospetto di nulla intorno all'esser suo?

--Eh, in quanto ai sospetti, sì certamente ci ho i miei! E se fossero
fondati sul sodo, io metterei pegno di poter toglier la ragazza da
quella casa. Ma per esserne certo, occorre mettere il naso in quel
benedetto cofano.

--E questi sospetti si potrebbero sapere? Sarebbe questo per avventura
un altro dei vostri segreti, padre mio?

--Vi siete apposto; è un altro de' miei segreti, e ve ne starete a
becco asciutto per ora.

--Oh! non mi preme punto di sapere il vostro segreto;--rispose il
Collini.--Purchè io mi vendichi, non ho altro da chiedere. Voi non
sapete, padre mio, quanto mi crucci questo pensiero, e che inferno mi
sia diventata la vita, aspettando il giorno che mi vengano sotto le
mani costoro!...

--Adagio, Biagio!--interruppe il padre Bonaventura.--Non vi scaldate
così per tempo. Una cosa non può stare senza l'altra, e la vostra
vendetta non può scompagnarsi, per correre più spedita, dallo
adempimento del debito vostro.

--E l'ho forse dimenticato, il mio debito?

--No, figliol mio, non lo avete dimenticato; ma si può dire che lo
trascuriate un tantino. Avete veduto il Vitali?

--Sì, l'ho veduto ieri. Perchè mi fate questa dimanda?

--Non avete notato,--proseguì il padre Bonaventura, senza aver l'aria
di rispondere alla inchiesta del discepolo,--come il vecchio sia
indurito nel peccato.... e nella sanità di corpo?

--Eh, certamente l'ho notato; ma che farci? Quel vecchio ha una
complessione più salda che non paresse da prima. La dieta rigorosa e
l'estratto di acònito stentano ad infiacchirlo.

--Ah! ah! Voi dunque portate opinione che la sua resistenza al male e
ai rimedii sia proprio l'effetto della sua complessione robusta?

--Sì, lo credo; e che cosa volete che sia?

--Buon uomo! tre volte buono!--esclamò il gesuita.--E poi dicono che
siete un gran medico!...

--Padre!--rispose il Collini, rizzando il capo con aria di corruccio.

--Suvvia, non andate in collera! Voi altri medici sapete sempre in un
modo o nell'altro tirar l'acqua al vostro mulino, e capacitarvi anche
di tutto quello che ha minore apparenza di ragionevole. Ma io, vedete!
io, che non so un iota di ricette, vi so dire che gatta ci cova, e che
il vecchio ci sfugge di mano, se non ci mettiamo tutta quanta la
nostra avvedutezza.--

A quelle parole del padre Bonaventura, il Collini diede uno sbalzo
indietro.

--Che dite mai?--gridò egli.--E come potrebbe avvenir ciò? Donde
cavate questa vostra congettura?

--Da certe mie considerazioni, le quali giudicherete da per voi.
Ascoltatemi. Sono oramai parecchi giorni che il Vitali sta più
contegnoso del solito, e, cosa strana, non si fa più pregar tanto,
quando si tratta di mandar giù qualche cucchiaiata della vostra
emulsione. Anzi, per dirvela schietta, ogni qual volta io gli
consiglio di bere, si affretta a prendere, non una, ma due dosi
(scusate se non vi so parlare con le frasi dell'arte) e di sovente me
ne domanda una terza. Ora, questo fare mi ha dato nel naso, e ier
l'altro appunto ho voluto indagarne la cagione, se mi fosse dato
trovarla. Avevo l'aria di uno sbadato, e guardavo, dondolando la
testa, gli affreschi del soffitto; ma con la coda degli occhi stavo
attento all'infermo. Vorreste crederlo? Quel manigoldo mi guatava con
que' suoi occhietti di cinghiale, e pareva farsi le beffe del fatto
mio. Oh, qui c'è del buio,--dissi tra me,--e bisognerà vederci dentro.

--Ma perchè non dirmi nulla?--soggiunse il Collini.

--Perchè? Perchè non volevo dir quattro, fin che il pan non era in
sacco. Anzitutto mi bisognava chiarire il sospetto. Sapete già,
figliuol mio, che io sono l'uomo dei sospetti. Che diamine! Il mio
buon Collini lo ha ridotto allo stremo con le mignatte, l'estratto di
acònito e la fame, e il catarro cronico, in cambio di durare, vuol
mentire al suo nome? E l'ammalato sta saldo e se la ride per giunta?
perciò mi sono messo a studiare....

--E che cosa avete scoperto?

--Nulla, allora; ma ieri sera qualche cosa. Erano forse le undici, ed
uscivo dalla casa del vecchio. In cambio di volgere per la via della
Maddalena e ridurmi a casa, tirai innanzi dalle parti di Fossatello,
per un mio negozio, anzi appunto per la faccenda di quella ragazza che
vedete là sul terrazzo. Spesi forse un'ora; e al ritorno, mentre ero
per risalire nella via di San Luca, vidi uscire dal portone di casa
Vitali due persone, le quali vennero incontro a me con passo spedito.
Io mi feci da un lato, e siccome nulla è inutile a sapersi, li guardai
un po' nel mostaccio. Ora indovinate chi fossero! Aloise di Montalto,
e quel tal mediconzolo che lo accompagnava nella gita di San Nazaro.

--Chi? Il Mattei?

--Sì, appunto il Mattei. Figuratevi come rimanessi di stucco! Essi non
mi riconobbero, anzi non guardarono neanche dalla mia parte. Ah,
questi signorini sono pure scapati! S'argomentano di far la guerra, e
non ne sanno i primi rudimenti. Hanno letto le storie moderne
dell'America e dell'India, e non ricordano gli accorgimenti sottili
delle __Pelli rosse e dei Thugs__, pei quali un ciottolo smosso, un
filo d'erba piegato, sono indizio del passaggio di un nemico. Perchè
vivono in un paese civile, costoro non pensano che ci sia da studiare
il terreno, e da guardare, verbigrazia, ogni volto di persona in cui
s'avvengono di nottetempo. Povera gente! Perciò sono sconfitti, e la
loro baldanza va in fumo.

--Ma come mai,--disse il Collini,--come mai il Montalto e il Mattei
avevano da trovarsi colà? Non è nemico del nipote, il vecchio Vitali?

--Anch'io dissi tra me; come mai?--proseguì il padre Bonaventura.--Ma
a questo mondo bisogna aspettarsene di tutti i colori. Qui, pensai
tosto, qui s'ha da trovar la chiave del segreto. Il vecchio che sta
saldo e se la ride alle mie spalle; Aloise che esce di notte dalla
casa del nonno, dove è certamente entrato alla cheta, appena ne sono
uscito io, e che si fa accompagnare da un medico.... Qui giace nocco!
Ora non è da cercare perchè fu fatta la pace; piuttosto è da sapersi
in che modo.

--Sicuro!--interruppe il Collini.--È da sapersi in che modo.

--E come ve la cavereste voi, figliuol mio? Sentiamo un po' il vostro
consiglio.

--Il vecchio,--soggiunse il Collini,--non può' muoversi dal letto, e
di questo non possiamo dubitare. Egli ha dunque avuto bisogno di un
intermediario.

--Benissimo!--esclamò il padre Bonaventura, accennando del capo.

--E bisogna trovare questo intermediario;--aggiunse il Collini.

--Arcibenissimo! Voi volete andar molto innanzi, col vostro ingegno.
Ma chi potrà essere questo intermediario del malanno?

--Un servitore, di certo.

--__Optime__! E questo servitore qual è? Il vecchio Vitali ne ha tre,
senza contare la governante.

--Ah! qui, padre mio....

--Qui vi casca l'asino, non è vero? Io invece vi dirò che ha da essere
il servo prediletto, quello di cui si fida maggiormente, e quello che
gli ruba di più.

--Ma se v'ingannaste?...--disse con esitanza il Collini.

--Oh, non abbiate paura. Tra i servitori c'è sempre quello a cui mette
più conto accattarsi la benevolenza del padrone, e qui non si sgarra.
Per fortuna anche noi ci abbiamo il nostro tornaconto a invigilare i
servitori come i padroni, e messer Battista vedrà com'io so
aggiustarlo pel dì delle feste, se per avventura si mette a farmi
l'indiano.

--Ah! il Battista!...

--Certo, il Battista; e chi altri volete che sia?

--Avete ragione, padre mio; andiamo dunque; non c'è tempo da perdere.
E quel figuro del Mattei, che mi vien sulla mano? Non è un trattar da
collega, il suo, e bisognerà che io gli renda pan per focaccia.

--Sì, come vorrete;--rispose il gesuita.--Intanto c'è da parare il
colpo di questi signori, e questo, appena io abbia dette due paroline
al Battista, sarà compito vostro. Siete un valente medico, e non
dovete fallire al vostro buon nome.

--Oh, in quanto a ciò, se voi avete il modo di guastare il tranello di
que' signori, abbiatelo per cosa fatta.

--Ed io vi prometto che vi darò tanto in mano da vendicarvi dei vostri
nemici; parola di Bonaventura Gallegos. Andiamo dunque.--

E così dicendo, il padre Bonaventura, degno concittadino di
Torquemada, come i lettori hanno già indovinato dal suo cognome, andò
a lavarsi le mani sotto lo zampillo di acqua che mandava per le nari
il delfino della vasca; poi prese il suo cannocchiale e precedette
nelle sue stanze il discepolo.



XV.

Qui si racconta come il padre Bonaventura sapesse sfruttare le
ribalderie de' suoi simili.


Intanto il vecchio Vitali, la mercè degli accorgimenti del medico
Mattei, andava risanando ad occhi veggenti. Egli aveva l'aspetto più
florido, e la tosse cominciava a recargli meno molestia; per le quali
cose è agevole argomentare che l'animo, fedele termometro della sanità
del corpo, gli si era sollevato di molto.

Battista, il maggiordomo, era poi entrato cosiffattamente nelle grazie
del padrone, che questi gli aveva già fatto un bel regalo, e gli aveva
promesso di largheggiare di più, appena si fosse alzato dal letto.

Aloise andava tutte le notti a casa del nonno, per accompagnare il
Mattei. A quest'ultimo era doluto un poco di dover andare così di
soppiatto a visitare il banchiere, sapendo egli benissimo che la
consuetudine comandava un certo riguardo tra colleghi, e non
permetteva che uno vogasse all'altro sul remo. Ma qui, più che
altrove, era necessario opporre astuzia ad astuzia, e non si trattava
punto di uno dei soliti casi, nei quali il timore di offendere un
pregiato collega debba legar le braccia di un medico e vietargli l'uso
del suo nobile ministero.

E poi, Aloise lo aveva tanto pregato! Il Mattei era uno spirito
generoso, il quale già si mostrava degnissimo di quella fede
universale che gli è venuta di poi, e di quella fama scientifica che
egli ha di presente grandissima, in Genova e fuori. Però, alla guisa
di tutti i nobili intelletti, egli cedeva al fascino di quell'animo
gentile che era Aloise di Montalto; laonde per lui, più che medico,
era amico, e il corso di questa narrazione lo dimostrerà anche più
largamente ai lettori.

L'infermo era contento, e gli si leggeva negli occhi come gli andasse
a' versi la cura del suo notturno Esculapio. Egli s'inteneriva perfino
col nipote, e quasi piangeva al ricordo di Eugenia, la sua poco amata
figliuola, la nobilissima madre di Aloise, mostrandosi pentito di non
essere andato a darle l'ultimo bacio sul suo letto di morte.

E vedete un po' come entrasse la gratitudine nel cuore di un egoista!
Egli era tornato, in un suo discorso con Aloise, sull'argomento dei
quattrini, esortando il nipote ad accettare qualche regaluccio.

--Tu avrai bisogno di un bel cavallo;--gli aveva egli detto.--Alla tua
età e col nome che porti, non s'ha da guardar tanto nel sottile. S'ha
da spendere con riserbo, ma non s'ha per contro da dimenticare la
dignità del casato.

--No, caro nonno,--aveva risposto il giovine;--vi ho già detto che non
voglio nulla, perchè non ho bisogno di nulla. In quanto a cavalli, ci
ho __Antar__, il mio sauro, balzano di tre, che non cambierei con
nessun altro di maggior prezzo.--

E Aloise tenne fermo sul niego. Era una buona azione quella che egli
faceva in casa del nonno, e la sua buona azione doveva esser pura
d'ogni speranza, e perfino d'ogni sospetto di ricompensa.

Il dottor Mattei non voleva nulla neppur egli, ed aveva detto al
banchiere, il quale avrebbe voluto almeno pagargli le visite:--No,
signor Vitali. Se io fossi il suo medico, piglierei cinque lire per
visita come un altro, e non un quattrino di meno. Ma sono in cambio un
medico di straforo, e qui non fatico nemmeno per la gloria.--

Non c'era verso di far mutar pensiero a quei due. Il vecchio banchiere
si trovava così di sbalzo in mezzo a due galantuomini, e gli pareva di
sognare.

Ma gli altri non dovevano star molto a tornare alla riscossa. Lo
stesso giorno che avveniva il dialogo tra il Collini e il padre
Bonaventura, sul terrazzo di quest'ultimo, ambedue si recarono in casa
Vitali.

Il vecchio li accolse asciuttamente, siccome da parecchi giorni aveva
uso di fare. Ascoltò i ragionamenti e le raccomandazioni del medico,
le chiacchiere del Gallegos, e respirò soltanto appena vide che si
congedavano.

Bonaventura vedeva tutto, notava tutto, epperò aveva notati anche i
modi asciutti del vecchio banchiere; ma fece le viste di non badarvi,
contento di saperne la cagione e di poter rimediare con un colpo
maestro. Giunto nell'anticamera, pigliò il maggiordomo in disparte, e
scambiò con lui queste parole:

--Battista, vi aspetto a casa mia, e subito.

--Per far che?

--Ho da parlarvi di cose gravi.--

Battista era uomo che capiva il latino; però, sebbene intendesse dove
l'altro voleva andare a battere, stette saldo e rispose:

--O perchè non può Ella dirmele qui? Io ho da assistere il padrone, e
non posso venire da Lei.

--Non potete?--disse ironicamente il padre Bonaventura, aggrottando le
sopracciglia.

--Non posso,--ripetè Battista, rizzando il capo e facendo il muso
lungo una spanna.

--Ah non volete venire? Badate, messer Battista! Ho da informarvi di
certe cartelle di rendita che sono state vendute per venticinque mila
lire; le quali venticinque mila lire sono state affidate, perchè
fruttino, al banco Cardi Salati e compagni. O che? Non mi fate più
cipiglio? La superbia è svampata tutta quanta?--

Altro che superbia svampata, come diceva padre Bonaventura! La faccia
di Battista, a quelle parole, era diventata di tutti a colori, o
temperanza di colori, dal bianco al pavonazzo. Egli balbettò alcune
parole scomposte, e si lasciò cadere su d'una sedia.

--Non temete, Battista!--gli disse il padre Bonaventura con accento
più rimesso e mettendogli una mano sulla spalla.--Se voi obbedirete,
io sarò muto come una tomba. Venite dunque, io vado ad attendervi.--

Mezz'ora dopo. Battista, pallido e reggendosi a mala pena sulle gambe,
entrava nello studio del padre Bonaventura, camera malinconica,
coperta tutta intorno di scansie zeppe di libri, e senz'altro
ornamento tranne un gran crocifisso che stava a piombo sulla scranna
del gesuita, e che noi portiamo opinione avrebbe fatto assai meglio a
cascargli addosso, in cambio di starsene appiccato alla parete.

--Battista,--gli disse il padre Bonaventura, alzando il capo dalla
scrivania, e assumendo un'aria tra inquisitoria e patema,--io sono
molto scontento dei fatti vostri.

--Signore!...--balbettò il maggiordomo.

--Voi tradite il vostro padrone:--proseguì il gesuita.--Sì, voi; non
istate a farmi quelli occhiacci stralunati. Io lo so di buon luogo.
Voi date il vostro padrone in balìa dei suoi nemici.

--E quali nemici può avere il mio padrone?--si provò a chiedere il
maggiordomo.

--Meno chiacchiere! Voi lo sapete meglio di me. Il marchesino di
Montalto è tornato in casa di suo nonno, e voi lo avete aiutato a ciò.
E ditemi ora: quanto v'ha egli promesso di farvi lasciare, sul
testamento del vecchio?

--Signor Bonaventura,--rispose Battista, appigliandosi a queste ultime
parole,--io non so che cosa Ella voglia dire....

--Badate, badate! Io so che ricevete tutte le notti il Montalto; e
quando ve lo dico io....

--Non sa nulla del medico!--pensò in cuor suo il maggiordomo;--costui
tira ad indovinare, ed io non sarò così bietolone da lasciarmele
cavare di bocca.--

Fatta questa preparazione mentale, Battista si sentì più animo a
rispondere:

--Non è vero!--

Ma il padre Bonaventura aveva meditata la sua progressione oratoria, e
la dimenticanza del nome del medico non era che un artifizio retorico.

--Ah, non è vero? E come va dunque che egli ci si trova, e lo
accompagna sempre il medico Mattei? Come va che voi andate a comprare
altri medicamenti, secondo le ricette del vostro medico clandestino?
Sareste per avventura sonnambulo, da non ricordarvi più di giorno
quello che fate di notte tempo?--

Il maggiordomo non seppe più oltre schermirsi, e rimase muto, in
quella che Bonaventura proseguiva la sua perorazione in questo modo:

--Voi siete su d'una mala strada, Battista. Vi mettete a tenere il
sacco all'erede, prima che sia morto il nonno; al quale frattanto si
abbrevia la vita con quelle medicine che non ardiscono mostrarsi alla
luce del sole. Se fossero tali da risanare l'infermo, il vostro
Montalto e il suo complice non si nasconderebbero nelle ombre della
notte, e voi non vi fareste a mentire, a negar quello che io so, senza
bisogno che lo confermiate voi.

--Orbene,--disse il maggiordomo, che non vedeva più scampo,--poichè
Vossignoria lo sa, non c'è più ragione che io m'ostini a negarlo. Ma
posso giurarle che io mi sono piegato per obbedienza al signor Vitali,
e con idea di far bene. Il signor Aloise è un gentiluomo; il dottor
Mattei è un medico molto stimato, ed io non posso credere che abbiano
perversi disegni. Essi alla perfine non vorranno andar mica in
galera!...

--Ah! ci andrete voi, messer Battista, se a me salterà il grillo di
parlare delle vostre prodezze. Ricordatevi quello che io v'ho
accennato testè nell'anticamera del signor Vitali, e che v'ha tirato
qui tutto mogio e tremante. Dove avete rubato il denaro che sta a
frutto per voi nel banco Cardi Salati?...

--Sono i miei risparmi;--rispose il maggiordomo turbato, che non si
studiava nemmeno più di negare i fatti, tanta appariva la certezza del
suo inquisitore.

--Ah, i vostri risparmi! E quando mai, in venti anni di servizio, con
moglie e figli alle costole, si possono risparmiare venticinquemila
lire? Voi avete quarantasei anni; siete maggiordomo da otto anni, e
prima eravate un semplice valletto. Dove l'avete guadagnato quel
gruzzolo? Probabilmente lo scrigno di casa Anselmi, donde vi hanno
scacciato, senza farvi peggio (che l'avrebbero largamente potuto), ne
saprà qualche cosa. Anche certa argenteria, mancata quindici anni or
sono in casa Priamar, se potesse parlare ne direbbe di belle sul conto
vostro; e finalmente uno studio accurato sui conti di casa del signor
Vitali, che andate derubando a man salva da otto anni, metterebbe il
suggello alla vostra probità esemplare. Orbene, messer Battista, osate
dire ancora che sono i vostri risparmi?--

Ad ogni nuova ribalderia appostagli da quel giudice severo del padre
Bonaventura, il disgraziato impallidiva sempre più; perchè le erano
tutte autentiche, e meritavano di essere bollate davvero. Ma donde
aveva potuto risaperle, il padre Bonaventura, tutte queste prodezze,
che egli, il reo, credeva morte e sepolte da un pezzo? Certo egli era
un negromante, che se la intendeva con gli spiriti maligni. Però la
testa gli girava come un arcolaio; sentiva alle tempie il sangue
picchiar nelle arterie; la camera gli si allungava stranamente davanti
agli occhi; la persona del suo inquisitore si rimpiccioliva, in quella
che la voce di lui gli suonava cupa e minacciosa come rombo di
temporale in lontananza.

L'interrogazione beffarda, con cui il padre Bonaventura chiuse il
discorso, comandava una risposta sollecita, e Battista dovette alzare
il capo, mostrando una faccia così livida che mai la somigliante non
fu veduta davanti ad una Corte d'Assise. Lo sciagurato cadde
ginocchioni e, giungendo le mani in atto supplichevole, gridò:

--Signore, ho moglie e quattro figli! Per carità non mi rovini!...

--Sì,--continuò l'altro, per dargli il colpo di grazia,--avete una
moglie che va attorno, vestita di seta e di velluto. In casa vostra si
fa scialo d'ogni ben di Dio. Vostra figlia, la maggiore, ne fa di
tutti i colori, sotto quello di trovare un marito. Ecco i vostri guai,
le vostre disgrazie! E per sovramercato, ci avete venticinque mila
lire da mettere al dodici per cento, presso gli usurai che ne cavano
il cinquanta. Una entrata sicura di tremila lire all'anno.... eh, non
c'è male! Senza contare quello che guadagnate onestamente, e quello
che pensate di arraffare ancora.... Perchè voi, signor Battista, non
siete uomo da volervi fermare a mezza strada; non è egli vero?

--Signor Bonaventura, per carità.... per tutto quello che ha di più
sacro in questo mondo, non mi rovini! Sono padre di famiglia.... Le
dirò tutto.... Le racconterò tutto quello che desidera sapere da
me....

--Che cosa volete narrarmi che io non sappia a menadito?--ribattè il
padre Bonaventura.--Ma via, raccontate pure; dalla vostra schiettezza
argomenterò se meritate che io vi usi misericordia.

--Oh, non dubiti, Vossignoria!--gridò il maggiordomo.--Non
dimenticherò una parola. Il signor Vitali fu quegli che mi mandò a
cercare il nipote, ed io l'ho obbedito. Saranno adesso venti giorni da
quella notte che il marchese di Montalto è venuto in casa, e s'è
rappattumato col nonno. La notte appresso tornò, insieme col medico
Mattei, il quale ha esaminato l'infermo e la cura del signor Collini.
Il signor Giovanni, non so perchè, non aveva più fede in quest'ultimo.

--Ah, ah!--esclamò il padre Bonaventura.--E che cosa gli hanno detto
quei bravi signorini?

--Che la cura era sbagliata. Anzi, a dirla schietta, il signor Aloise
pareva che sospettasse della onestà del medico Collini, come ho potuto
argomentare da certe sue parole. Insomma, che le dirò? hanno ordinato,
lì su due piedi, una cura diversa.

--Lo so, lo so. Ma come hanno potuto venirne a capo, se l'infermo
continuava a bere della solita pozione?

--Oh, questo si fece per darla ad intendere. Il medico Mattei ha
levato l'acònito dalla emulsione del Frank. Io seguitavo a comperarne,
giusta la ricetta del signor Collini, ma la gettavo via subito,
mettendo nella boccia quell'altra più semplice, o più innocente, come
la chiamava il dottor Mattei che l'aveva ordinata. Questo, come le ho
detto, era un artifizio perchè durasse l'inganno.

--Ma qui non è tutto, certamente!--esclamò il padre Bonaventura,
piantando gli occhi addosso alla sua vittima, come se volesse
divorarsela.

--Sì, c'è il rimanente. Hanno levato il signor Giovanni dalla dieta,
raccomandando che fosse nutrito di cibi succosi, dandogli anche a bere
del vino con infusione di china. Ed ecco in qual modo lo hanno
sollevato dalla sua fiacchezza.

--Volete dire che lo hanno tirato più presso alla
sepoltura,--interruppe il gesuita.

--Questo poi non lo so; non avrei mai potuto immaginarlo;--rispose il
maggiordomo, facendosi incontro alla ipocrisia del padre
Bonaventura.--Anch'io me ne stavo all'apparenza.

--E l'apparenza inganna!--soggiunse il gesuita.--Voi per esempio,
messer Battista, ne siete la prova lampante. Chi al vedervi, non vi
direbbe un onest'uomo?--

Battista chinò il capo e non rispose nulla.

--Ma via, a tutto c'è rimedio. Avete confessato il mal fatto; ed io
voglio usarvi misericordia, se mi promettete di attenervi ai miei
comandi.

--Son pronto a tutto!--rispose umilmente Battista.

--Orbene, aspettatemi un po'.--E così dicendo il padre Bonaventura si
alzò, e corso all'uscio, disparve, lasciando il povero maggiordomo
pauroso ed incerto in mezzo alla stanza.

Il dottor Collini stava in quell'altra camera dove il padre
Bonaventura era andato a cercarlo, e tenendosi presso all'uscio aveva
origliato tutto quel dialogo. Però egli non ebbe mestieri di molte
spiegazioni del maestro, per dirgli con accento di sicurezza:

--Non dubitate, padre mio; ho già rimediato a tutto, purchè quest'uomo
voglia servirci.

--In quanto a ciò, ve ne sto io mallevadore. Venite dunque.--

Ed ambedue entrarono nello studio, dove ebbero col maggiordomo del
signor Vitali una conversazione edificante, la quale i nostri lettori
avranno soltanto ad indovinare, da quello che ne avvenne di poi.



XVI.

Dove si chiariscono gli effetti della contromina.


--Padre, mi sento assai male.

--Eh, lo vedo, lo vedo pur troppo dagli effetti. Ma che cosa si sente?

--Un grave ingombro allo stomaco; non posso più digerire. La tosse mi
molesta da capo....

--E che cosa ne dice il suo medico? Egli sarà certamente uomo di sua
confidenza.--

Il vecchio Vitali a queste parole mandò un lungo sospiro, che gli fu
interrotto da un assalto violento di tosse; laonde il padre
Bonaventura si alzò per andargli a mettere con piglio affettuoso una
mano sulla fronte.

Dodici giorni erano passati dal dialogo avvenuto tra il gesuita e il
maggiordomo del Vitali; dodici giorni assai bene spesi, poichè, mentre
il padre Bonaventura e il Collini, simulando lo sdegno, non s'erano
più lasciati vedere in casa del vecchio banchiere, la sua salute, in
cambio di seguire quel miglioramento che s'era avverato da principio,
andava peggiorando rapidamente.

Il Mattei ed Aloise di Montalto non sapevano indovinare le cagioni di
quel mutamento. Pensarono un tratto che il diavolo, per opera de' suoi
bravi sergenti, il padre Bonaventura e il Collini, ci avesse messo la
coda; ma in che modo? Questo era il difficile. Ambedue s'erano
licenziati dalla casa del Vitali, facendo dire al vecchio che gli
aveva offesi, col mostrare di non aver più fede in essi, e il
maggiordomo Battista si lagnava forte di essere stato maltrattato da
ambedue, come la prima cagione di tutto quel guaio. Ora, come poteva
il Mattei, come poteva Aloise indovinare che il Battista fosse di
balla con quei due, egli che appunto aveva largamente aiutato i nostri
giovani nella loro opera di misericordia?

Però il Mattei andava da parecchi giorni almanaccando di guasti
organici e d'altri malanni inerenti alla natura del vecchio banchiere;
vigilava egli stesso i rimedii, e raccomandava al Battista di
attenersi fedelmente a' suoi comandi, così nel ministrar le pozioni,
come nella misura del cibo; e aspettava intanto che tutti quei nuovi
sintomi gli dessero il bandolo della matassa.

L'infermo frattanto, condotto alla peggio dai celati maneggi del
Collini, ai quali aiutava il maggiordomo, fedele esecutore di tutti i
suoi iniqui comandi, inasprito contro il suo nuovo medico dalla
ostinatezza e dall'accrescimento del male, insospettito per giunta di
certe smorfie di malaugurio che Battista faceva, ogniqualvolta era
solo con lui e gli occorreva di nominare il Mattei, cominciava a
pentirsi d'aver sospettato del suo primo medico, e si lagnava di
tutti.

Il momento era buono, e il padre Bonaventura ne approfittò, incalzando
cosiffattamente per opera del suo fidato, che l'infermo mandasse a
chiamar lui e il Collini, per iscusarsi con loro e scongiurarli della
loro assistenza.

I lettori sanno già le prime parole scambiate tra il vecchio banchiere
e il padre Bonaventura, in quella medesima camera dove li abbiamo
un'altra volta introdotti.

--Signor Giovanni,--proseguì il gesuita, poichè fu cessato
quell'assalto di tosse,--io non so proprio che dirle. Ella mi ha
mandato a chiamare. Son qua. Che cosa dimanda Ella dai suoi nemici?

--Miei nemici?--chiese l'infermo con un gesto di meraviglia.--E può
credere che io....

--Sì, credo che qualcheduno l'abbia data ad intendere a Lei. Ma io non
me ne offendo, qualunque cosa Ella abbia potuto pensare di me. La
religione m'insegna a perdonare le ingiurie, e come Ella vede, signor
Giovanni, eccomi al suo capezzale quell'istesso di prima.

--Grazie!--mormorò tutto confuso il vecchio.--E il medico Collini?

--Il signor Collini non metterà molto a giungere; egli mi ha promesso
di correr qua appena si sarà sbrigato di alcune faccende della sua
professione. Ma, intendiamoci bene, egli verrà a vederla come amico,
non già come medico.

--Perchè?

--Perchè? E me lo dimanda, signor Giovanni? Ella sa benissimo che il
nostro ottimo amico, allorquando si fu avveduto che il signor Vitali
non aveva più fede nel suo ingegno, nella sua perizia, e, diciamolo
pure, nel suo cuore, che il signor Vitali aveva mandato a cercare un
altro medico, dal quale si faceva visitar di soppiatto, ne fu molto
addolorato e giustamente offeso.--

Il padre Bonaventura lasciava cadere queste parole con quella dolce
lentezza che ognuno sa quanta forza accresca ai rimproveri; e il
Vitali, così nominato ironicamente in terza persona, gli dava certe
occhiate supplichevoli, con le quali aveva aria di confessare tutte le
sue colpe.

--Mi perdonino!--esclamò egli finalmente.--Ero così fiacco! Non sapevo
proprio che cosa facessi.

--E ora, di grazia,--proseguì il padre Bonaventura,--come si sente?

--Oh, peggio che mai! Dio mio, chi mi risanerà? Sono abbandonato da
tutti!

--Tutti! Per carità, signor Giovanni, non sia così ingiusto verso gli
uomini. E lo abbandonassero pure tutti quanti, forse che Dio non
rimane? Dio non abbandona nessuno di coloro i quali si volgono a lui
con purità d'intendimenti e intensità di desiderio. Provveda a' casi
suoi, mio buon amico. È Dio, lo riconosca ora, è Dio, il quale si
giova delle male arti dei tristi per darle un insegnamento efficace.

--Ah, padre! Ella dice benissimo. Ma come potrò risanare, se il signor
Collini non mi perdona?

--Intendiamoci!--rispose il padre Bonaventura;--il signor Collini le
ha già perdonato. Egli sulle prime aveva giurato di non metter più
piede in sua casa; ma io l'ho tanto pregato, segnatamente oggi, dopo
che Ella ha mandato a chieder di noi, che egli si è finalmente
piegato; e verrà appunto per salutarla, affinchè Ella non lo reputi
uomo da tener astio nel cuore. Ora non crede Ella giusto che il signor
Collini ricusi di occuparsi più oltre della cura? Vi sono consuetudini
nell'arte medica, alle quali non si può contraffare, senza meritarsi
il biasimo universale de' colleghi. Però, quantunque il dottor Mattei
non si sia diportato molto cortesemente con lui, il nostro amico non
vuole guastargli le sue faccende e lo lascia solo a curarla. Il dottor
Mattei è un gran medico, a quanto dicono, e speriamo che la
guarisca.--

Qui il solito piglio sarcastico mutava il senso delle parole; e
l'infermo che si sentiva così giù dell'animo e del corpo, poteva
intendere tutta la forza dell'ironia.

--Oh, non mi abbandonate!--diss'egli.--Io voglio, io desidero essere
curato dal signor Collini.

--E allora non ha che una cosa a fare; liberarsi anzitutto dal medico
Mattei.

--È vero; ma come fare?--rispose il vecchio, alzando gli occhi
angosciosamente verso il cielo.--Mio nipote....

--Suo nipote! E che ha Ella a temere di suo nipote?--gridò il padre
Bonaventura.--Signor Giovanni, quando vorrà Ella intendere che i
nostri parenti sono i nostri peggiori nemici? È una trista verità,
dolorosissima a dirsi, e il nostro cuore d'uomini e di cristiani
ricusa di acconciarvisi; lo so. Pure, è così. Costoro si accostano al
nostro letto, non come amici, ma come eredi: sono iene che odorano il
cadavere.

--Mio nipote,--rispose l'infermo,--non ha mai voluto un soldo da me.

--Artifizi, signor Giovanni. E che altro avrebbe ad essere? Egli alla
perfine sa di essere suo nipote e di aver diritto alla sua eredità. Oh
uomini, uomini! Ma noi, per quale tornaconto nostro ci siamo fatti ad
assisterla? Le nostre ragioni sono note: di personali non ce n'è
punto; si fa tutto per il trionfo della religione, e a questo
sacrificheremmo ogni cosa, anche la nostra amicizia per Lei. Ella è
convenientemente ricco, signor Giovanni, ed è pure delle sue ricchezze
che io mi occupo, come di ogni altra cosa sua. Dio non le ha dato di
ammassarle perchè vadano poi in mano di scostumati libertini. Ecco
perchè Le raccomandavo di fare il suo testamento, quando Ella non era
in pericolo di vita; ed ecco perchè la consiglierei ancora adesso a
far ciò, se non reputassi debito mio operare diverso....--

A queste parole il vecchio banchiere aguzzò gli orecchi, e fece tanto
d'occhi per guardare il suo interlocutore. Questi proseguì sulla
medesima solfa, tra il dolce e l'amaro:

--Debito mio! Non lo so. Fors'anche m'inganno, e fo peggio. Ma Iddio
mi è testimone della onestà dei propositi, e mi perdonerà se io
commetto errore, non insistendo più oltre presso di Lei. Sì, signor
Giovanni, ho pensato di non chiederle più nulla. Speravo che Iddio le
avrebbe restituita la sanità in ricompensa delle sue buone opere; oggi
in cambio lo supplico di concederle la grazia, senza che queste opere
siano venute a far fede della sua pietà cristiana. Egli è grande e
misericordioso, e la sua infinita bontà di sovente si compiace nello
spargersi sui più ostinati peccatori.--

Il Vitali non rispose nulla a quella intemerata. Le parole erano
amare, ma la sostanza era dolce. Il padre Bonaventura non gli chiedeva
più che facesse testamento, e questo era il busilli.

Tuttavia, se non rispose al discorso di lui, fu sollecito a ricondurre
la conversazione su ciò che più gli premeva.

--Padre,--disse egli,--mi consigli Lei. Come posso fare a mandar via
quell'altro?

--Eh, se non vuol altro, la servo subito. Battista.--

E così dicendo il padre Bonaventura andò fino all'uscio della camera,
per chiamare il maggiordomo. Battista fu pronto a rispondere, e come
fu presso il letto del padrone, gli chiese che cosa volesse da lui.

--Quando verranno quei signori,--ammonì il padre Bonaventura,--direte
loro che il signor Vitali non li può ricevere. Se vi chiederanno il
perchè, risponderete essere desiderio del vostro padrone, avendolo
espressamente raccomandato il dottor Collini, nel quale egli ha la
massima fiducia.

--Sì, va benissimo;--soggiunse l'infermo, suggellando in tal modo la
pensata del padre Bonaventura.--

In questo modo veniva fatto al gesuita di sgominare i disegni di
Aloise e del suo amico Mattei. Costoro, entrati nella rocca minacciata
del vecchio banchiere, avevano scavata con finissimo accorgimento la
mina che doveva guastare il negozio agli assedianti. Senonchè il padre
Bonaventura se n'era accorto in tempo, e aveva risposto con una
contromina, tanto più efficace in quanto che era scavata all'ombra del
maggiordomo confidente dei due amici, e loro unico aiuto in quella
guerra di astuzie.

Poco dopo i comandi dati al Battista, giunse il medico Collini, e fu
un ricambio di tenerezze tra lui e l'infermo. Nè mancarono le lagrime,
sebbene il Vitali, giusta la natura dei vecchi, non ci avesse molta
virtù nelle glandole lagrimatorie, e il Collini per contro avesse da
lunga pezza inaridita la fonte degli affetti. Ma che volete? a pianger
lagrime vere si suda; laddove ad infingerle, basta far greppo alla
guisa dei bambini stizzosi, e spuntano tosto che la è una meraviglia.

Dopo le tenerezze dell'amico, vennero le dimande del medico. Il
Collini, simulando di non saper nulla, chiese minutamente quali
fossero e in che modo amministrati i rimedi del Mattei, e dopo aver
dimenate a dritta ed a manca le labbra ad ogni risposta dell'infermo,
aggiunse a mo' di conclusione:

--Sarà una buona scuola, non lo nego. Ci sono parecchi medici odierni,
i quali stanno per la teorica del rinvigorire l'infermo. Ma, anche
ammettendola, bisogna guardare se l'infermo può essere curato con quel
metodo energico. Vedete, padre Bonaventura; qui, con tutte le loro
novità, hanno complicato la malattia con un principio di gastrite.--

Era agevole al Collini lo inventare a sua posta, poichè i rimedi del
Mattei erano stati da lui, complice il Battista, raddoppiati o guasti
con nuovi ingredienti.

Il Vitali non perdeva una sillaba di quel dotto discorso, ed aspettava
che, finita la diagnosi, il medico pronunciasse la sentenza. Nè il
Collini la fece aspettar molto, e un raggio di contentezza rasserenò
la faccia dell'infermo, quando udì che i mali effetti della cura
sarebbero stati combattuti e che il Collini stava mallevadore del suo
risanamento.

Erano tutti e tre in quei ragionari, allorquando entrò nella camera il
maggiordomo con aria turbata.

--Che c'è di nuovo?--chiese sollecito il padre Bonaventura.

--Il dottor Mattei, che domanda di entrare,--rispose Battista.

--E non gli avete detto che il signor Giovanni non può riceverlo?

--Sì certo gliel ho detto. Egli è venuto in compagnia del marchese di
Montalto, il quale, appena io gli ebbi risposto, si fece pallido in
viso e volle andarsene. Ma il signor Mattei gli ha detto andasse pure,
che in quanto a sè non voleva uscire senza prima parlare col padrone.

--E che cosa vuole?--ripigliò il padre Bonaventura, voltando in parola
il gesto di meraviglia e di malcontento del vecchio Vitali.

--Non lo so;--rispose Battista.--Egli è qui in anticamera che
aspetta.--

Il padre Bonaventura e il Collini si guardarono in volto, come per
chiedersi a vicenda consiglio. Ma l'incertezza fu breve; imperocchè il
gesuita, avvezzo a simiglianti battaglie, aveva già meditate tutte le
conseguenze del fatto.

--Ditegli che entri;--soggiunse egli.

Poscia, voltandosi all'infermo, e presagli la mano, gli disse:

--Signor Giovanni, non abbia timore. Siamo qui noi ad assisterla. Se
il medico Mattei s'argomenta di venir qui a farle rammarico, la
sbaglia di grosso.--

Il medico Mattei entrò nella camera. Egli era pallido, ma composto nei
modi e in apparenza tranquillo, sebbene i suoi occhi mandassero lampi
di malaugurio per i due signori che stavano presso il Vitali.

Entrò con la fronte alta e con passo sicuro; girò gli occhi intorno,
con piglio di alterezza, e accostatosi a' piedi del letto, col suo
cappello in mano, incominciò a parlare in questa guisa:

--Signor Vitali, non si disturbi per questa visita che io le faccio
contro il suo espresso divieto. Ho poche parole a dirle, e so molto
bene come si debba parlare a persone rispettabili per la loro età e
pel loro stato di salute. Nella accoglienza che mi è stata fatta testè
sul suo uscio di casa, ho notato un tal po' di mistero, e nimico
giurato qual sono del segretume, ho voluto chiarirlo, perchè non
s'abbia a dire che sono stato discacciato da casa sua.

--Oh, non è stata questa la mia intenzione!--borbottò il Vitali.--La
creda....

--Sta bene, sta bene!--interruppe il Mattei.--Ella sa che se io ho
consentito a venir qui, fu perchè Ella stessa mandò a chieder di me, e
mi supplicò di tornare ogni giorno, poichè le pareva di ritrar
giovamento dalle mie cure. Forse lo aver accettato, mentre mi era noto
che Ella era in mano di un altro medico, potrà dare appiglio a
sospetti: ma di ciò non m'importa, ed io sarei lieto di renderne conto
al signor Collini, se pure gli desse l'animo di domandarmelo. A
quest'uopo saprei invocare il giudizio di onesti colleghi (che, la Dio
mercè, abbondano nell'arte nostra), e non sarei io certamente colui
che dovesse arrossire. Ora, ripeto, la mia cura avea fatto buona
prova, ed Ella, signor Vitali, ebbe a ringraziarmene più volte. Tutto
ad un tratto si mutano le cose; il signor Vitali, che andava risanando
ad occhi veggenti, peggiora.... Che vuol dir ciò? Non mi curo di
saperlo. Vedo questi due signori tornati in sua casa, e non mette
conto che io cerchi altro. A Lei in cambio, signor Vitali, io debbo
chiedere una schietta dichiarazione....

--Che cosa vorrebbe?--gridò il Collini, che si struggeva dalla rabbia.

--Non parlo con Lei, signore!--rispose Mattei con un'aria di spregio
che fece chinar gli occhi a quell'altro.--Parlo col signor Vitali.

--Il signor Giovanni è molto fiacco,--soggiunse il padre
Bonaventura,--e non mi sembra opportuno che Ella venga ora a turbarlo.

--È tuttavia opportuno,--disse di rimando il Mattei,--che le loro
Signorie si trovino qui a conciliabolo. Ora io ho soltanto poche
parole da chiedere al signor Vitali, e faccio assegnamento sulla sua
onestà perchè egli dica alle Signorie loro quanto mi abbia pagate le
visite.

--Oh, nulla! nulla!--si affrettò a dire l'infermo, che era sulle
spine.

--Orbene,--aggiunse con pari fretta il Collini,--il signor Giovanni sa
il debito suo e sarà pronto a soddisfarla.--

Il Mattei fu ad un pelo di avventarsi al Collini e stampargli le
cinque dita sul viso. Ma lui soccorse la prudenza, come Achille la dea
Minerva, nel primo canto dell'Iliade. Tuttavia se egli, pensando al
luogo dov'era, contenne la mano, non volle per fermo tacersi.

--Signor Collini,--diss'egli,--non mi pigliate per a pari vostro, vi
prego; o ch'io sarò costretto a mostrarvi che non tratto soltanto la
lancetta.--

Poi, volgendosi da capo al letto dell'infermo, proseguì:

--Non chiedo certamente di essere pagato per l'opera mia. Poichè, come
ho già avuto l'onore di dirle, si ha l'aria di scacciarmi da questa
casa, desidero si ponga in chiaro che io non ci venni per alcun
pensiero di guadagno. Ed ora, signor Vitali, la riverisco e le auguro
un sollecito risanamento.... se questi bravi signori glielo vorranno
permettere.--

E buttate queste parole come una ceffata sul viso dei due, il dottor
Mattei se ne andò di quel passo con cui era venuto.

Il padre Bonaventura e il Collini erano rimasti mutoli, fortemente
turbati per quella sfuriata del Mattei. Anche l'infermo era rimasto di
sasso; non sapeva più a chi dovesse credere, e nascondeva il suo
turbamento in un assalto di tosse.

--Signor Giovanni, si calmi, per carità!--gli disse finalmente il
padre Bonaventura.--Non badi alle parole di quello screanzato.--

Contuttociò, il dialogo rimase freddo. Quella scena aveva tolte le
parole a tutti; e poichè ebbero dato da bere al Vitali, il Collini e
il Gallegos si accomiatarono da lui, promettendo che sarebbero tornati
nella sera.

Uscirono taciturni, come già una volta dalla chiesuola di San Nazzaro.
Ma fatte due scale, il padre Bonaventura si fermò, mettendo una mano
sul braccio del discepolo, e gli disse:

--Abbiamo vinto a mezzo. Ora bisogna che il vecchio risani a volo.

--Sta bene; ma perchè?

--Perchè oramai questo Mattei ci terrà d'occhio. Abbiamo svegliato i
mastini, e ci vorrà cautela. Anche il vecchio sta all'erta....

--È vero!--borbottò il Collini.

--Bisognerà dunque rinunziare per ora al testamento. Il Vitali deve
aver piena fede in noi, e la otterremo facendogli ricuperare la
salute. Io intanto provvederò ad altri spedienti; e anzitutto torremo
di mezzo i mastini.

--Ah sì! questo è il più rilevante per ora. Ed io mi potrò vendicare
finalmente?...

--Sì, certo, figliuol mio. So i segreti di Lorenzo Salvani; saprò
quelli di Aloise da Montalto; bisognerà indovinar quelli della ragazza
di casa Salvani.... Lasciate fare a me. Chi s'aiuta il ciel l'aiuta; e
noi ci aiuteremo con mani e piedi, se occorre.--



XVII.

Di un Don Giovanni da dozzina e delle pretensioni che aveva.


Dal bel principio di questo racconto si è fatto cenno di un Arturo
Ceretti, figlio del padrone di casa del signor Lorenzo Salvani,
notando che il giovinotto, salvo il nome attillato e profumato di
Arturo, era tutto suo padre, il vecchio Nicola Ceretti di Molassana,
antico muratore e capomastro arricchito. Aggiungeremo adesso che era
bianco e roseo; che aveva il naso un po' stiacciato e gli occhi
scerpellini, ma che i suoi capegli biondi erano sempre arricciati e
lisciati; che era lungo, allampanato e discretamente ciuco; la qual
cosa non si argomentava soltanto da due lunghi orecchioni che gli
uscivano di riga ai due lati del volto.

Ora che l'abbiamo messo fuori, calziamolo e vestiamolo della roba sua;
calzoni stretti di color grigio perlato, con le sue liste nere sulle
costure; un abitino tra la giubba e il farsetto, di color caffè, i cui
petti si abbottonavano a stento sull'alto del torace; un panciotto di
velluto lavorato a scacchi rossi e neri, ed una cravatta di non
sappiamo quanti colori. Una catenella d'oro a quattro file gli usciva
da un occhiello del panciotto, la quale sosteneva parecchi ciondoli,
gingilli ed altri picchiapetti, scendendo con una gran curva ad
affondarsi nel taschino, dove era raccomandata all'anello di un
orologio che il nostro Arturo faceva spesso vedere, col pretesto di
guardar l'ora.

Nè vanno dimenticati gli anelli, che erano in buon dato, e se il
nostro personaggio non ne portava ad ogni dito, come gli Assiri, ne
aveva per contro due o tre ad un dito solo, tanto per non esser troppo
da meno di quei popoli. Il nodo della cravatta era inoltre fermato da
una grossa spilla ornata di brillanti. Il cappello era di feltro nero,
come quello di tutti gli altri mortali; ma noi mettiam pegno che se il
giovine Arturo Ceretti avesse potuto spiccare dal chiodo uno di que'
cappelli d'oro che stanno per insegna sulle botteghe di certi
cappellai, lo avrebbe volentieri portato.

Con tanto sfarzo, e con tanto sforzo di eleganza, il signor Arturo
Ceretti non ci aveva altro di eletto che il nome. Voleva parere un
damerino, e riusciva una figura grottesca; copiando dai re della moda
non era mai vestito a modo. Il suo sarto s'era già parecchie volte
sentito tenero di dirgli: per carità, la non confidi a nessuno che
sono io che la vesto!

Ma adesso, dallo sfoggio degli abiti nessuno argomenti che il nostro
Arturo fosse uno scialacquatore come tanti altri. Era anzi misurato in
ogni cosa; non giuocava a nessun giuoco, e segnava sul taccuino le
buone e le male spese, per tirar la somma alla fine del trimestre. Il
trimestre era il concetto fondamentale della sua testa. Gli averi di
mastro Nicola, suo rispettabile genitore, consistevano in otto o dieci
case, le quali davano il frutto di un'ottantina di appartamenti; e lo
davano, perbacco! I Ceretti, padre e figlio, non usavano concedere
proroghe a' loro pigionali, nè condonare il fitto alla povera gente.
Il trimestre era il perno di una ruota che girava di continuo, e i
denti dovevano incontrarsi nelle pigioni anticipate; se no, la mercè
dei soliti congegni, saltava fuori la citazione dal giudice.

Ora, siccome mastro Nicola sapeva leggere poco, e scrivere anche meno,
il nostro Arturo teneva i conti, faceva egli stesso le scritte meglio
di un notaro, e non gli sapeva male; che anzi ci aveva gusto. La
protuberanza dell'abbaco doveva essere molto rilevata nel suo cranio,
e, posta accanto a quella dell'egoismo, doveva formargli una specie di
Parnaso, montagna poetica, la quale, se ben ci ricorda, aveva due
cime.

E il fonte Castalio? diranno i lettori. Se il Parnaso c'era, il fonte
non doveva mancare. Il fonte era degnamente rappresentato da una vena
amorosa che spicciava sempre, sebbene non iscaturisse dal cuore. Ma
che volete? Sotto l'abbaco e l'egoismo, vette nevose del suo Parnaso,
quell'amorosa fontana non poteva dare acque limpide e salutari. Potete
dunque argomentar di leggieri che amorazzi fossero i suoi. Correva
dietro ad ogni femmina in cui si abbattesse per via; Don Giovanni di
razza bastarda, passava il tempo a caccia di dubbie virtù, di bellezze
da tanto alla giornata.... e condonateci la parola, che potremmo dir
peggio.

Bisognerà tuttavia esser giusti. Arturo Ceretti era dolente di non
aver tra mani selvaggina migliore, e si struggeva dal desiderio di
esser prescelto da qualche gran dama. Piantato sull'angolo di una
strada, in un crocchio di amici, vedeva passare le più lodate per
bellezza, e le più tartassate per tutto il rimanente; ma per lui non
c'era un bel nulla; doveva restringersi a contar le fortune degli
altri. Teneva il suo scanno a teatro; e là, negli intermezzi del
melodramma, ritto in piedi, con le risvolte dell'abito aperte, si
atteggiava da conquistatore; ma ohimè! nessuna delle sospirate
bellezze rispondeva da un palchetto alle guardate supplichevoli del
suo cannocchiale, sebbene fosse incrostato di madreperla.

Ora indovinate a chi facesse l'occhiolino, costui! Alla fanciulla di
casa Salvani. Come vedete, ci aveva buon naso. Qualcheduno gli aveva
detto un giorno che la sua pigionale dell'ultimo piano era un fior di
ragazza, e che egli certamente, da quel gran cacciatore che era, aveva
dovuto porle gli occhi addosso, sapendo bene che non era sorella di
quello spiantato del Salvani. Non era vero che egli le avesse posto
gli occhi addosso; ma, con quel dargli la soia, gli amici lo avevano
messo al punto. Da quel giorno il Ceretti si ficcò in capo che avrebbe
potuto dar corpo alle celie dei compagni.

Maria non era sorella di Lorenzo; tutti lo dicevano. Che cosa era
dunque, se non una amica? E se era un'amica, perchè non avrebbe egli
potuto farsi innanzi? I quattrini, diceva Arturo Ceretti, son tutto;
ed io ne ho, dei quattrini! Ora vedremo un po' se non si ha da venirne
a capo.

Certa gente ha il privilegio dei mali pensieri. Chi mal fa, mal pensa,
dice il proverbio. E il nostro Don Giovanni da dozzina aveva fatto un
conto, come sanno farne i suoi pari.

Egli dunque faceva l'occhiolino alla ragazza, con quella sicurtà che è
propria di certi figuri, e che cresce anzi in ragione diretta delle
loro sconfitte. Ora immaginate come dovesse il nostro Ceretti essere
sicuro del fatto suo! Non c'era verso che la fanciulla di casa Salvani
lo guardasse in viso, sebbene le cento volte, come suo casigliano,
egli si fosse messo in mostra, o nelle scale, o alla finestra del
cortile, dove, la mercè di un gomito che facevano gli appartamenti,
egli poteva vederla e farsi vedere di sbieco.

Questo giuoco durava da un pezzo, allorquando l'occasione si offerse
al giovine Arturo di metter piede in casa della sua bella pigionale.
Il giorno del trimestre anticipato era venuto, ma il dente della ruota
non aveva nulla in cui potesse incastrarsi; il che, vuol dire che
Lorenzo Salvani non aveva pagato.

Era quello il caso di mandare la citazione; ma per quella volta il
meccanismo dei Ceretti si dipartì dalle sue astiose consuetudini. In
cambio dell'usciere, andò il giovine Arturo, vestito con quella
eleganza che i lettori conoscono, carico d'oro, di profumi e di
smancerie.

E già s'intende che egli, per andare in casa Salvani, aspettò che
Lorenzo non ci fosse; di guisa che gli venne fatto avere un primo
colloquio con la bella Maria. E dopo il primo venne il secondo, il
terzo e via discorrendo, perchè Lorenzo Salvani aspettava una certa
somma di denaro, la quale non giungeva mai. Arturo dal canto suo non
incalzava, contentandosi di spesseggiar colle visite. Maria non poteva
lagnarsi dei modi riguardosi del padrone di casa, e in quanto alle
occhiate, fingeva di non addarsene punto.

Il trimestre, che s'aveva a pagare anticipato, cominciava dal primo di
aprile; ma tra questi indugi s'era giunti alla fine di maggio; laonde,
se si aspettava ancora un po', c'era l'altro trimestre da mettergli
accanto.

Lorenzo vedeva benissimo tutto l'orrore del suo stato; ma che farci?
Egli era al lumicino. Aspettava certi denari da un tale che era
debitore di suo padre, ma che faceva orecchi da mercante. Per colmo di
sventura, da due mesi gli si era inaridita quella scarsa vena di
guadagno che egli ritraeva dal bottegaio, a cui teneva i libri. Una
sera, andando dal suo Creso per la consueta bisogna, il povero giovine
aveva ricevuto il suo congedo.

--Perchè? non siete voi contento di me?--aveva egli chiesto al paffuto
salsamentario.

--Dio guardi!--aveva risposto costui.--Mio nipote, che sa
l'aritmetica, ha detto che va tutto a puntino, ed io poi non ho a
lagnarmi di Lei. Ma che vuole? Mia sorella è vedova con tre ragazzi, e
non ha chi le dia da vivere. Ella mi ha tanto pregato di pigliarmi il
suo primogenito in bottega, che io non ho potuto dirle di no. Il
sangue non è acqua! Il ragazzo è di buon'indole; sa il fatto suo, come
ho detto, ed io, tenendolo qui in bottega, faccio, come suol dirsi, un
viaggio e due servizi.--

Non era punto vero quello che il paffuto salsamentario diceva a
Lorenzo con tanto candore, e il nostro giovinetto non poteva
indovinare che sotto quel melato discorso ci fosse un tiro dell'uomo
vestito di nero, dell'amico di Ernesto Collini. Giunto a trapelare la
faccenda di quella tenuta di libri, lo scaltro Bonaventura aveva fatto
dire al bottegaio non esser dicevole che egli tenesse a fargli i conti
quel giovane, il quale aveva mano in certi garbugli politici, con
quella gente che voleva rovesciare il governo, arruffare la cosa
pubblica e dar di piglio nella roba altrui; però badasse egli alle
cose sue e non si ostinasse a tenerlo presso di sè, che gliene sarebbe
potuto derivare gran danno.

Questo discorso, dettato dal padre Bonaventura, era fatto al paffuto
salsamentario da un suo vecchio compare, il quale gli aveva sempre
voluto un gran bene, e col quale il bottegaio poteva aprirsi
liberamente.

--Che diamine mi narrate voi mai!--esclamò il salsamentario, facendo
gli occhiacci.--Io non sapevo che il signor Lorenzo fosse un briccone
di questa fatta, e l'ho sempre avuto in conto di un giovine dabbene.
Ma ora, come potrei farne senza? Mi tiene i conti così pulitamente!
Bisogna vedere che fior di scrittura!...

--Oh! se non è altro che questo,--rispose il compare,--io ci ho
proprio quello che fa al caso vostro.

--Davvero?

--Sì, un giovane che mi è raccomandato dal reverendo Bonaventura.

--Bonaventura!... Mi par di conoscere questo nome.

--Eh, certo lo conoscerete. È quella degna persona che abita in casa
Torre Vivaldi. Il signor Antoniotto lo ha in tale concetto, che ha
voluto dargli un quartierino nel suo palazzo.

--Ah sì, mi ricordo,--disse il salsamentario,--è proprio un sant'uomo.
E poi, casa Vivaldi si serve da me; e non fo per dire, è molto
contenta della mia bottega.

--Orbene, una ragione di più per accettare il giovine raccomandato dal
reverendo Bonaventura. Vedete, compare; que' signori la sanno più
lunga di noi, e se vi dicono che bisogna levarsi di bottega
quell'arnesaccio, credete pure che ci avranno delle buone ragioni.

--Dite benissimo. Fate venire questo giovine. In quanto all'altro,
metterò insieme quattro chiacchiere per mandarlo a spasso.--

In questo modo era stato congedato Lorenzo. Egli non sapeva nulla di
ciò; nè, come dicemmo, poteva indovinare che quel tegolo venutogli sul
capo, gli fosse stato accoccato da qualche mano nimica. Gli pareva
opera del caso; epperò aggiustando fede al racconto piagnoloso del
bottegaio, ebbe anzi a lodarlo della sua carità di consanguineo, e se
ne andò con l'amarezza nell'anima.

Erano ottanta lire al mese che egli perdeva in un tratto. Ora, come
avrebbe egli potuto, non che pagar la pigione, provvedere ai bisogni
quotidiani di casa?

Lorenzo era pronto nelle sue deliberazioni, e appena tornato a casa,
aveva dato a Michele il suo orologio e la catena d'oro, perchè li
portasse al Monte di Pietà. Ma le cento lire che ne aveva ricavato non
approdavano a nulla. In casa non c'era più altro che il puro
bisognevole; di guisa che, spese quelle cento lire, non c'era più da
fare assegnamento su d'una capocchia di spillo.

Son questi i misteri dolorosi; e sono particolarmente i misteri di
quel ceto, in apparenza agiato, ma a gran pezza più povero e più
compassionevole del ceto dei braccianti. L'artigiano non ha a
studiarsi di parere, non ha obbligo di tenere la dignità conveniente
di uno stato, dal quale il mondo giudica un uomo, e senza il quale
quest'uomo è perduto senz'altro nella estimazione universale, e gli
vengono meno quelle attinenze che lo aiutavano a reggersi.

Infatti, gli usi del vivere, una certa larghezza nelle spese che
paiono superflue, il modo di vestire, tengono un uomo a galla nel
__mare magnum__ della società. Si sa che non è ricco, ma si sa pure
che vive senza chiedere la limosina ad alcuno. Può aver bisogno di voi
per un verso, e voi potete aver bisogno di lui per un altro. E
frattanto le costumanze sociali, la gente con cui bazzica, e tante
altre piccolissime cose, formano intorno alla sua modesta persona
quella ragionevole accolta di forze che lo tengono ritto. Ma se una di
queste vien meno, le altre le rovinano addietro, e a rivederci
coll'equilibrio! Nessuno aveva regalato mai nulla a quell'uomo, ed
egli cavava profitto dall'attinenza di tutti. Però, se egli cade, non
c'è un cane che lo rialzi. Se qualcheduno per avventura si accosta,
fiuta un tratto.... e basta così.

Grande miseria, quella del signore povero, quando non ha più modo di
tenere la faticosa dignità del suo stato! Se è un onest'uomo, tra per
la disdetta sua e pei mille raffronti, che gli vengono spontanei,
delle sue spregiate tribolazioni coll'onorata larghezza di certi
felici bricconi, cola rassegnato a fondo, e talvolta anche s'aiuta a
sommergersi, per affrettar l'agonia. Se non è di tempera così forte da
cansare il mal esempio, s'aggrappa ad ogni cosa che galleggi, e così
di ruffa in raffa s'industria, che, pur navigando sulla strada della
galera, qualche volta la sfugge, e diventa un uomo per la quale,
magari un pezzo grosso.

Ma basti di ciò, per non dar noia al lettore, che dobbiamo condurre in
casa di Lorenzo Salvani, povero vergognoso della specie onesta,
siccome è già noto.



XVIII.

Una corona di spine.


Era uno degli ultimi giorni di maggio, il mese delle piogge frequenti
e dei frequenti saluti del sole: piogge che rallegrano i campi e le
colline, e tutta la bella famiglia delle erbe e delle piante; raggi
che scaldano e rinvigoriscono la vegetazione ne' suoi primi germogli.

La natura si risveglia alla nuova vita, e il suo mattino è bello di
casta allegrezza. Il vento ardisce appena stormire nelle prime fronde,
mutato in auretta leggiera e tiepida; la burrasca sua comare gli tien
bordone, e tranquillamente s'assottiglia in un pioviscolo fecondatore;
il sole, antico padre di tutti, s'intromette di tanto in tanto in
quella festa di famiglia, ed accarezza la natura bambina. L'aria,
rinfrescata dalla pioggia, riscaldata dal sole, si conforta di tutte
quelle essenze odorate che svaporano di continuo dal calice dei fiori
selvatici, e si fa messaggera dei loro primi e fecondi baci d'amore.
Per tutte le colline c'è sorriso di luce, di verde e d'aria purissima.
Le strade della città, gaie pei raggi di sole e per la frequenza dei
viandanti, mostrano anch'esse la loro primavera.

Ma all'ultimo piano della casa Ceretti, nel quartierino abitato da
Lorenzo Salvani, erano gli ultimi giorni d'autunno; le foglie della
speranza ingiallite cadevano dai rami, e vi soffiava per entro il
vento gelato della tristezza.

Lorenzo da parecchi giorni era cupo, irrequieto, come uomo assalito ad
un tratto da molesti pensieri. E peggio che molesti pensieri, erano
sventure che incalzavano d'ogni parte. La povertà picchiava all'uscio
di casa con tutto il suo corteggio di vergogne e di tribolazioni. Nè
si doleva egli tanto per sè, quanto per la bella Maria; per la
fanciulla commessa alle sue cure, alla sua vigilanza paterna; per
Maria, povero fiore condannato forse a perire, mentre la sua bellezza
lo faceva degno di risplendere all'aperto e innamorare un nobile
intelletto. Era questo il pensiero che struggeva Lorenzo; ed egli si
doleva amaramente con sè medesimo di non aver saputo provvedere in
tempo alle cose sue, per proseguire l'opera santissima de' suoi
genitori.

Se dal pensiero di Maria, correva a meditare sulle proprie sventure,
Lorenzo non vedeva altro che buio. Anzitutto la sua generosa
ambizione, il natural desiderio di operare qualche cosa a gloria del
suo nome, a conforto del suo ingegno, gli erano inceppati, e forse per
sempre, dall'avversa fortuna. Nè più contento era il suo cuore. Egli
amava Matilde con tutto l'ardore della sua giovinezza: ma
l'intelletto, già a gran pezza più maturo del cuore, indovinava di
qual tempra fosse l'animo della contessa, e presagiva le amarezze che
ne sarebbero a lui derivate.

Matilde era vana e leggiera, e Lorenzo era geloso, e tanto più geloso
in quanto che era povero. Le sue strettezze gli riuscivano tanto più
acerbe, pensando che la contessa avrebbe potuto trapelarle; ed era uno
studio, un tormento continuo il suo, perchè la sua povertà non
s'avesse a scorgere da altri.

Più vecchio di alcuni anni e più rotto ai fastidii della vita, Lorenzo
Salvani avrebbe tenuto un diverso metro. E prima d'ogni altra cosa
avrebbe posto a sè medesimo questo dilemma: «o ella mi ama per quello
che sono, o per quello che sembro», ed operato di quella conformità;
pronto a patirne le conseguenze, anzi disposto ad affrontarle.

Ma, giovine com'era, e per la prima volta innamorato, Lorenzo Salvani
non la intendeva così. S'era dato in balìa di quell'amore subitaneo,
prepotente, ma da uomo schietto e leale, senza secondi fini, senza
badare ai pericoli, senza prevedere disinganni, senza premunirsi dalla
ingratitudine. Ed ora temeva; ogni cosa lo insospettiva; i subiti
mutamenti, i grilli della bionda contessa, quel suo rifarsi da capo a
tutte le antiche consuetudini, dismesse per lui nei primi e più lieti
giorni dell'amor suo, erano tristi presagi per quell'anima altera.

E intanto, pensava egli, intanto esser povero, non poter svolgere
tutti i partiti che dànno la misura della forza di un uomo! Sentirsi
forte e doversi arrabattare in mezzo a pigmei che vi tengono prigione
con catene di refe! Che serve essere statua, se manca il piedistallo,
per soggiogare dalla sua conveniente altezza il difforme e l'abbietto?

Queste erano le tribolazioni. Ma quali i conforti? Dicono che Iddio
misericordioso non mandi afflizione alle sue creature senza metterci
accanto la speranza di un mutamento, speranza che aiuta gli
infastiditi a vivere, i tribolati a patire. Anche Lorenzo doveva aver
dunque una speranza che gli sorridesse da lontano, come una impromessa
di giorni migliori, e che gli sedesse accanto come una compagnia, se
non molto efficace, diletta almeno, ne' suoi patimenti. E questa
speranza c'era; talvolta sorridente come una promessa nelle ore più
riposate, tal altra compagna pietosa nell'amarezza; e gli veniva
dall'ingegno che egli sapeva di avere, e che pensava di adoperare in
qualche modo per sovvenire alle urgenti necessità.

Lorenzo passava molte ore fuori di casa; ma non perdeva il suo tempo,
perchè lo consacrava a Matilde e a' suoi ritrovi politici. In Italia,
a que' giorni, l'amore non andava mai senza la patria. Era quasi una
malattia del tempo, a cui poscia si è trovato rimedio. E innanzi le
battaglie dell'unità, la patria era per gli uni nella preparazione
delle forze, senza un formato concetto di quanto si avesse a fare; per
gli altri nella congiura; elementi diversi e spesso ridotti a
combattersi, ma che pel tirare dell'uno e pel cedere dell'altro, sono
pur venuti a capo di qualche cosa.

Ma di questo a suo luogo. Lorenzo da lunga pezza usava star molte ore
allo scrittoio, scrivendo per sua naturale vaghezza versi d'ogni metro
e prose d'ogni forma, che pochi amici leggevano e che poscia andavano
a stipare i cassetti del suo canterano.

Senonchè, cresciuti i malanni, egli doveva pensare a trarre un utile,
anche modesto, dagli sgorbi della sua penna capricciosa. L'Assereto,
il confidente de' suoi disegni letterarii e delle sue malinconie, fu
il primo ad entrargliene.

--Hai scritto tanto per tuo passatempo,--gli disse l'amico,--che
potresti oramai pensare a cavar qualche profitto dalle opere
dell'ingegno.

--Sì,--rispose Lorenzo,--scrivere, per non trovare uno stampatore che
ci metta l'inchiostro e la carta del suo! Stampare, poi, per non
trovare un cane che ti voglia leggere.

--Vero, verissimo,--soggiunse l'Assereto,--se tu parli soltanto di
quelle opere che si mettono in mostra dal libraio. Ma non potresti
cominciare a scrivere un dramma.... una tragedia?

--Mi guardi il cielo dalle tragedie!--gridò Lorenzo.--In quanto al
dramma, ci ho pensato anch'io; ma tu intenderai benissimo che il mio
lavoro abbia a ritrarre un po' troppo delle amarezze dell'animo.

--E che importa? Sei mesto? Scrivi cose meste, e ci avranno, se non
altro, il suggello della verità. E poi, senti un'altra cosa. Ancorchè
lo scrivere non t'avesse a fruttar altro che il poter dar noia ai
malevoli, scrivi e manda fuori l'opera tua.--

Da questo assennatissimo discorso dell'amico Assereto, fu incalzato
Lorenzo a proseguire il suo dramma. Ci s'era messo attorno di lena. Ne
aveva cavate le ragioni filosofiche dal profondo dell'anima, e lo
andava scrivendo, stiamo per dire, con le sue lagrime.

Un capo comico suo conoscente, al quale egli si era aperto del suo
disegno, lo aveva confortato a tirare innanzi, promettendogli che se
il lavoro gli fosse andato a' versi, della qual cosa non era a dubitar
punto, egli lo avrebbe pagato secondo il poter suo.

Per farla breve, il dramma di Lorenzo in due settimane fu condotto a
termine, e soltanto gli mancavano alcune ripuliture qua e là.

L'Assereto aveva letto ed ammirato, ed era anche contento del titolo:
__Una corona di spine__.

Ma non era altrimenti contento l'autore; o, per meglio dire, a volte
partecipava al giudizio dell'amico, a volte pensava di aver fatto una
sconciatura.

Allora ridiventava cupo ed uggioso; e l'ombra mortifera del suo umor
nero intristiva tutt'intorno i germogli della speranza. Allora la
gloria, l'amore, e tutto ciò che abbellisce la vita, gli si offeriva
sotto le più tristi immagini, e lo assaliva come un arcano desiderio
che quella rivolta preparata dagli amici suoi, della quale egli non si
riprometteva nulla di bene, si facesse presto, affinchè una buona
schioppettata lo mandasse là, dove tutto finisce, dove non si è
seguitati da fastidiosi pensieri.

Lorenzo era in uno di que' momenti di sconforto, mentre, dopo aver
dato l'ultima mano al suo dramma, si disponeva a mandare il
manoscritto al capocomico.

Lo aveva suggellato in fretta, quasi per non averselo a vedere più
oltre davanti agli occhi, e ci scriveva il ricapito sulla sopraccarta,
per ispedirlo al banco delle Messaggerie.

--Perchè non lo date ad una compagnia che lo reciti qui in
Genova?--gli chiese Maria, che lo aveva aiutato a legare e suggellare
l'involto.--Mi avete pur detto che ce n'è una delle buone.

--Sì, ma non conosco affatto il capocomico. E poi, vedete, se il
lavoro piacerà fuori, sarà meglio.

--Ah già! __Nemo propheta in patria__.

--Per l'appunto, ed io non voglio farne su me l'esperienza. Il
Bonaldi, col quale ho una certa dimestichezza, mi ha scritto che se il
dramma gli va a' versi, lo paga; e questo è l'essenziale. A Genova
egli verrà sul finir dell'autunno, e allora lo udranno anche qui, se
avrà meritato di stare nel __repertorio__.

--Oh ci starà, non dubitate!--disse Maria, rispondendo anzichè alle
parole di Lorenzo, all'aria sfiduciata con cui le aveva
proferite.--Avete un bel dire, voi, che al mondo non c'è più
gentilezza di affetto. Io già non v'ho mai creduto, e dopo aver letto
il vostro dramma vi credo anche meno. Però io sono sicura che piacerà,
e farà piangere.

--Come v'ingannate. Maria!--esclamò Lorenzo, sorridendo amaramente.

--E perchè?

--Perchè, mi dite? Si vede, mia buona Maria, che non andate a teatro.
In teatro non si piange.

--Suvvia!...

--Ve lo assicuro. Da prima lo credevo anch'io, che si piangesse, o,
per dir meglio, che si potesse, che non fosse vietato dalle
consuetudini. Ma ho dovuto persuadermi dell'opposto con questi occhi e
con questi orecchi medesimi. Voglio raccontarvela. Ero l'altra sera al
teatro Doria, a udire l'__Amleto__.

--Ed è là, a quella recitazione, che non avete veduto piangere?...

--Lasciatemi proseguire. Io non vi parlerò dei signori uomini, i quali
sono troppo sovente distratti, e che voltavano i cannocchiali ora
sulle bellezze non abbastanza custodite di Ofelia, ora sulle dame dei
palchetti. Vi parlerò in cambio di queste ultime; vi parlerò delle
donne, le quali hanno fama di esser tenere per eccellenza.

--Ah sì,--disse Maria, facendo niffolo, con grazia
fanciullesca,--qualche cattiveria sulle donne!...

--No, la verità, la pura verità! Io ero in un palchetto, e stavo attento
alla scena di Ofelia impazzita, che porta i fiori nelle falde della
veste. La signora che mi era dappresso, guardava invece tutto intorno, e
notava le svariate acconciature delle altre signore.--«Guardate, Salvani,
mi disse ella, guardate quella signora là dirimpetto, che nastro giallo
ardisce di portare intorno al collo!» __Vraiment__!--esclamò il conte
Alerami, un tale che mastica un po' di tutte le lingue,--__mais c'est du
dernier mauvais goût__!--Io allora guardai quella donna dal nastro
giallo. Era una signora vestita con molta semplicità; e doveva esser
bella, ma non sapeva far risaltare la sua bellezza. Figuratevi! Indossava
una veste di seta nera, e i suoi capegli, che aveva copiosi, le
scendevano modestamente in due liscie staffe intorno alle tempie,
nascondendo a mezzo una bellissima fronte. Costei forse era quella sera
in teatro per farmi ricordare che mia madre era donna, ed anche voi, mia
buona sorella. Essa piangeva, e più volte ebbe a recarsi il fazzoletto
agli occhi per asciugarsi le lagrime.

--Oh, finalmente!--gridò Maria;--e ci voleva tanto per dimostrare che
avevate torto?

--Sì; ma udite il rimanente. Non ho mica finito! Il nastro giallo
aveva attirato gli sguardi della signora che mi era da presso. Il
fazzoletto sugli occhi le fece dire queste due parole che io vi
ripeterò, perchè ci meditiate su: «una provinciale!» Capite? Quella
signora piangeva in teatro; ella dunque non poteva essere altro che
una provinciale.--

Questa, che raccontava Lorenzo, era la storia di Matilde. Come i
lettori vedono, si era presto guarita del suo sentimentalismo, la
bionda contessa! Fedele al vecchio dettato, non aveva potuto durar
molto nel tedio delle sue antiche consuetudini. Certo l'amore era una
bellissima cosa, ma non le andava più a' versi la gelosia, nè quel
soverchio di affetto che vuol essere ricambiato a misura di carbone,
idolo cieco che dimanda continue offerte di rapimenti e di lagrime, e
sacrifizi quotidiani di ogni altro affetto minore.

Per dirvela in prosa volgare, la contessa amava ripigliarsi la sua
libertà. Le piaceva andare a teatro; e andando a teatro le piaceva
essere veduta, ammirata e corteggiata, come pel passato, anche a patto
di vedere le sue farfalle svolazzare qua e là, e cangiar fiore ad ogni
intermezzo dello spettacolo.

--E poi, che male c'è, se vanno girelloni da un palchetto
all'altro?--pensava tra sè la contessa.--È ragionevole che paghino un
tributo a tutte le loro aderenze. A conti fatti, poi, sono come i
nostri messaggeri, apportatori di novelle, procaccini di epigrammi e
di bei motti, che giovano a tenerci informate. Il loro numero inoltre
è una specie di lusso, e si contano i visitatori di una dama, come le
sue vesti e le sue acconciature. Bella cosa, un uomo il quale si ferma
soltanto in un luogo, come suol fare Lorenzo! Con tutte le belle cose
che s'ha a dire tra due, il sacco si vuota pur sempre, e giunge il
momento in cui si ha l'aria di marito e moglie!--

Che diremo delle conversazioni e delle feste? Non rispondere ad un
invito di quella fatta le sarebbe parso un peccato mortale. Anche il
Leopardi, sbandeggiato dal tavolino, era tornato sullo scaffale.
L'esilio fu invero raddolcito al poeta da una legatura di pelle con
fregi d'oro; ma era pur sempre un esilio. Insomma, la crisalide voleva
uscire dal bozzolo che ella stessa s'era fabbricato. La sua prima
natura, non che tornare, pigliava il sopravvento.

Povero Lorenzo! Dove diamine era andato a porre il suo cuore! Per
altro, intendiamoci; ammesso il carattere della contessa Matilde,
anch'egli ci aveva il suo torto. La donna bisogna saperla conoscere,
guardare anzitutto di che piede ella zoppichi. Ora Lorenzo non aveva
badato al piede, non aveva capito che quella donna era vana, e che per
averla fedele non bastava l'essere, ma gli bisognava il parere. Egli
non era in mostra, come avrebbe potuto; non aveva cavato alcun
profitto dal suo duello col marchese di Montalto; non andava in nessun
luogo. Ora la lode e l'attenzione del mondo non s'aspetta di piè
fermo; bisogna andarle incontro deliberati. E Lorenzo, che stava
rincantucciato al suo posto, era presto dimenticato. Che cosa aveva a
farsi la contessa Matilde di lui, il quale si dilettava dell'oscurità,
e voleva tirarci anche gli altri?



XIX.

Nel quale si fa la spiegazione del proverbio "chi cerca trova".


Maria non aveva risposto nulla a quel discorso di Lorenzo, rimanendo
un tratto impensierita, con le mani in mano, in quella che Lorenzo
s'era messo a passeggiare su e giù per la camera, a passi concitati,
come era sua consuetudine quando i tristi pensieri gli giravano per la
fantasia.

Era quella la prima volta che Lorenzo parlava a Maria di un'altra
donna, e le dava in qualche modo contezza di ciò che egli faceva fuori
di casa.

Chi era la signora del palchetto, accanto alla quale stava seduto
Lorenzo? Che dimestichezza era quella, di cui Lorenzo non le aveva mai
fatto parola? E perchè, poi, ricordando quella signora, egli metteva
fuori tanta amarezza di accento? Questi erano i pensieri della
giovinetta, e il cipiglio di Lorenzo non era certamente fatto per
discacciarli.

Che cosa, infine, doveva importarne a lei? Essa non lo sapeva, non si
fermava a indagarne le ragioni; ma intanto il racconto del giovane
l'aveva ferita nel cuore, destandovi arcani dolori non mai sentiti
dapprima. Ahimè! proprio dal dolore ci accorgiamo di vivere.

Lorenzo non s'era addato di nulla; passeggiando su e giù per la
camera, egli andava in quella vece dicendo a sè stesso:

--Buona fanciulla! Ella s'illude sempre di liete fantasie! E perchè
dovrei io beffarmi delle sue illusioni? Forse non ne ho avute io pure
di grandissime, l'ambizione, l'amore?... Oh, chi mi terrà conto di
quello che soffro, di quello che rispingo a fatica e seppellisco nel
profondo del cuore? Ella non si strugge de' miei desiderii smodati e
fatali; ella non ama nessuno. Beata lei! L'amore è la suprema
dannazione degli sciagurati. Non basta a questa vilissima creta aver
fame, pugnare con tutte le necessità quotidiane della vita; bisogna
pure che essa ami! L'amore! Che cos'è l'amore? La poesia dei sensi!
Arnese di gala! Ma s'ha a farla finita; s'ha a mettervi rimedio,
perdio!...

--Lorenzo!--disse finalmente Maria, con piglio amorevole;--che fate
voi ora? Non vi perdete di animo in questo modo! Il vostro dramma sarà
applaudito....

--Applaudito! Sì, sta bene;--rispose Lorenzo, ricondotto al suo primo
pensiero;--ma oro ci vuole! Qui, dinanzi al mio tavolino, avevo
bisogno di fede e di speranza, perchè si trasfondessero nell'opera mia
e vi soffiassero dentro l'alito della vita. Ora il mio manoscritto è
finito e suggellato, e mi occorre ben altro. Ma perchè sto io qui a
rattristarvi colle mie malinconie? Me ne andrò, perdonatemi, buona
sorella!...

--Sì, andate, Lorenzo. Un po' d'aria vi leverà dal capo tanti brutti
pensieri. Andate a salutare l'Assereto; ieri è venuto a cercarvi, e si
lagna di non avervi più veduto da tre giorni.

--È vero; sono proprio un orso, come voi mi chiamate qualche volta.
Andrò a cercarlo a' Banchi. Povero amico! Anch'egli ci ha le sue, di
molestie, e trova sempre il buon umore per consolare i compagni.--

Poco stante, Lorenzo usci, e dopo Lorenzo uscì Michele, per andare col
manoscritto al banco delle Messaggerie. Nè l'uno, nè l'altro,
scendendo le scale, badarono all'uscio del secondo piano, che era
socchiuso, e a due occhi che li avevano spiati da quella breve
apertura. Erano gli occhi scerpellini del nostro Don Giovanni da
dozzina, del biondo Arturo Ceretti, il quale stava aspettando la
partenza del Salvani, per correr su dalla bella Maria.

Quel giorno poi gli cascava addirittura il cacio sui maccheroni.
Lorenzo usciva, e gli teneva dietro il servitore. La fanciulla era
dunque sola, solissima, e il nostro Arturo poteva spiattellarle
l'animo suo.

Corse allo specchio; si ravviò i capegli, si affilettò i baffi, si
acconciò per bene le pieghe della cravatta, e, sicuro del fatto suo,
infilò speditamente le quattro scale che c'erano tra i suoi penati ed
il quartierino dell'ultimo piano. Giunto lassù, tirò discretamente la
corda del campanello. La fanciulla venne ad aprir l'uscio, e vedendo
il padrone della casa, fece un gesto d'ingrata meraviglia, che a lui
non doveva riuscir nuovo, poichè non ebbe aria di addarsene.

--Signora Maria!--balbettò egli.--Domando mille perdoni....

--Entri, signore;--disse Maria; e richiuso l'uscio, precedette il
Ceretti verso il salottino.

--No, no;--soggiunse il biondo Arturo,--andiamo pure nella sua camera
da lavoro; non s'incomodi per cagion mia.--

Maria non tenne l'invito, ed entrò risoluta nel salottino, dove, come
al solito, gli additò il canapè, ponendosi ella a sedere su d'una
scranna lì presso. Ciò fatto, la giovinetta incominciò arditamente il
discorso:

--Ella è venuta per la pigione?...

--Sì.... no....--rispose il Ceretti, perdendo la tramontana.--Sono
venuto anzitutto per riverirla. A dir vero, il signor Salvani si
dimentica un poco di noi, e mio padre da un pezzo aveva ordinato al
nostro procuratore di far le pratiche pel pignoramento. Oh, ma non
dubiti, io mi sono opposto, e fino a tanto ch'io non tolga il divieto
non si farà nulla di nulla.

--Grazie, signor Ceretti, della cortesia che ci usa!--disse Maria,
stendendogli la mano.--Ella ha un cuore ben fatto.

--Oh, le pare? Farei ben altro per ottenere la sua benevolenza. Se
ardissi dirle....

--Che cosa?

--Che Ella è molto bella, signora Maria, troppo bella, e mi fa dar
volta al cervello.--

Come avrebbe dovuto diportarsi la fanciulla a quelle parole? Il
piangere, il venir meno, e tutti gli altri accorgimenti della donna
impacciata, non erano nelle consuetudini di quella nobilissima
giovinetta. Colta così alla sprovveduta, amò meglio simulare una
grande serenità di mente: epperò fu pronta a rispondergli, tra adirata
e gioconda:

--Eh via, signor Ceretti! Ella vuole pigliarsi spasso de' fatti miei.
Per carità, non si faccia beffe di me! Io le son grata della cortesia
che Ella pone ad aspettarci ancora un tratto per la pigione. Che vuole
di più? Non guasti il benefizio con le sue celie.

--Non parlo per celia;--gridò il biondo Arturo, senza voler capire che
l'accorta giovinetta gli aveva con quelle generose parole offerta
un'uscita onorevole;--non ischerzo, in fede mia! Son cotto fradicio di
Lei, e per andarle a genio, son pronto ad ogni sacrifizio.

--Non avrà a farne di molti;--interruppe Maria con accento
turbato.--Io parlerò oggi al signor Lorenzo, perchè non tardi più
oltre a pagare il suo debito.

--Sì, gliene parli pure a quel mobile! O dove l'ha a prendere il
denaro, quello spiantato?

--Signor Ceretti!...--esclamò Maria.

--Oh, mi lasci proseguire, poichè ho cominciato. Il bel signorino le
fa patire carestia d'ogni cosa. Io so che Ella lavora dì e notte per
sostentare la famiglia, e il suo servitore va a vendere i suoi bei
ricami qua e là. Le pare strano che io sappia questi segreti? Le
voglio un gran bene; perciò ho tenuto dietro al servitore.
Probabilmente gli altri non se ne daranno un pensiero al mondo, di
queste cose; intenti come sono a fare da cavalier servente e da
paladino alle signore d'alto affare.--

Il colpo di messer Arturo andava diritto; senonchè. Maria era d'indole
altiera e non voleva lasciar trapelare d'esser toccata sul vivo.

--Orbene?--soggiunse ella, increspando le sopracciglia.--Che male c'è?
Il signor Lorenzo fa quello che gli aggrada. Poichè Ella sa che non è
mio fratello, consenta che io le aggiunga che egli è libero de' fatti
suoi.

--Sì, sì!--incalzò il Don Giovanni,--ma intanto lascia lei nelle
angustie. L'altro giorno, probabilmente perchè Ella non aveva ricami
da mandare a vendere, in casa non s'è mangiato altro che pane. Oh, io
so tutto; sto attento a tutto; dò un colpo al cerchio e l'altro alla
botte. E infatti so che, mentre Ella si affinava la vista sul telaio,
mettendo punti su punti, e lagrime su lagrime, egli era là dalle parti
dell'Acquasola, con una bella signora bionda.... bella, cioè,
intendiamoci! La dicono bella, e non è. Certo io non mi muoverei di
qui per andarla a cercare, anche sapendo che dovesse cascarmi poi
nelle braccia.--

Arrossì la povera Maria al vedere come quell'uomo sapesse ogni cosa, e
rimase a capo chino, pensando a quella dama di cui udiva accennare già
due volte nello spazio di un'ora. Certo la signora di cui parlava
Arturo Ceretti era quella medesima ricordata pur dianzi nel suo
discorso da Lorenzo. Il cuore di rado s'inganna ne' suoi
presentimenti. E Maria, stando seduta, col capo chino, in gran tumulto
di pensieri, non si avvide neppure che il Don Giovanni le afferrava la
mano, recandosela alle labbra con molta dimestichezza. E come non si
avvide della mano, non udì nemmeno il cominciamento del nuovo discorso
che le faceva il Ceretti.

--Veda, signora Maria. I suoi begli occhi non sono fatti per piangere,
nè per guastarsi sul telaio. Non rovini la sua gioventù per un uomo
come quello, che la nutre di malinconia, e che fra pochi giorni, solo
che io voglia, sarà senza tetto e senza letto. Io non lo odio se non
per il male che egli le fa; del resto son pronto anche a condonargli
il fitto di casa. Faccia a modo mio; lo mandi a quel paese! Io sono
giovane come lui, e non fo per dire, ma ci ho le mie quattrocento mila
lire al sole, e v'ha chi afferma, non senza ragione, che ce ne siano
altrettante all'ombra, nei forzieri di mio padre, di cui sono io
l'unico erede. Che cosa ne dice?

--Di che cosa?--domandò la fanciulla, rientrando in sè medesima.

--Della mia proposta. Non le pare uno zucchero, al paragone della vita
che fa con quel figuro? Andremo a viaggiare; ci daremo bel tempo....

--Signor Ceretti!--esclamò Maria, strappando la mano dalle strette del
Don Giovanni e balzando in piedi con aria di sdegno.--Io non la
intendo....--

E gli stette dinanzi, guardandolo, smorta nel viso, ma con gli occhi
che mandavano lampi.

Il biondo Arturo rimase un tratto dubbioso, ma non sbigottito da quel
piglio. Quella era una donna, finalmente, e nessun altri era in casa.

--Dunque non accetta?--chiese egli sogghignando.--vuol farmi la
  schizzinosa, signora Maria!

--Esca di qui!--gridò la fanciulla.--E benedica la sua fortuna di aver
trovato qui solamente una donna.

--Sì, sì!--rispose l'altro, sempre con la stessa aria, ma con la
schiuma alle labbra.--E nemmeno una santa innocentina, in fede
mia....--

Disse proprio: in fede mia? Non metterei pegno che egli pronunciasse
la frase intiera; perchè mentre parlava ed era per avvicinarsi a lei,
si sentì una mano ferrea pesar sulle spalle, un'altra agguantarlo alla
nuca, senza alcuna misericordia pei solini insaldati che gli
adornavano il collo.

Il giovine Ceretti, colto in quel modo alla tagliuola, si diede, come
gli consentiva la stretta dell'ignoto, a gridare:

--Tradimento! tradimento!--

E mentre gridava, si faceva pavonazzo nel volto: gli occhi pareano
volergli schizzare dalle orbite sanguigne, e le braccia gli si
dimenavano pazzamente in aria come quelle di un antico telegrafo.

--Lasciatemi andare!--disse allora con voce più
supplichevole.--Lasciatemi andare!--

Ma quella mano stringeva sempre, e gli dava per giunta certi scrolli a
dritta e a mancina, che gli facevano scricchiolare tutte le giunture.
Ci fu un momento in cui il mal capitato Don Giovanni non vide più
altro che bagliori rossastri, e pensò che la fosse finita per lui.
Infatti era ad un pelo di morir soffocato, allorquando intese la voce
di Maria che gridava:

--Lasciatelo stare! Non vedete com'è diventato?...--La preghiera di
Maria fu esaudita, ma soltanto a mezzo.

Il biondo Arturo sentì allentarsi un tratto quelle morse di ferro, e
gli parve di tornare da morte a vita. Ma ad un tentativo che egli fece
per disvincolarsi del tutto, si accorse che il padrone del suo collo
non era punto disposto a lasciarlo andare. Infatti, come a
confermazione della stretta, il prigioniero udì queste parole:

--No, padroncina! Non le sappia male se la disobbedisco. Questo
pendaglio da forca si ha da buttar ginocchioni a' suoi piedi per
dimandarle scusa dell'ingiuria che ha fatto alla più virtuosa delle
donne. In ginocchio in ginocchio!

--No!--rispose furibondo il Ceretti, che aveva riconosciuta la voce di
Michele.--Voi mi avete còlto a tradimento, è una vigliaccheria!...

--Ah! così tu parli?--gridò Michele, dandogli superbamente del
tu.--Va! Eccoti libero!--

E con una spinta gagliarda lo sbalestrò contro la parete. Poi,
incrociando le braccia sul petto, ripetè:

--In ginocchio, mascalzone! In ginocchio!

--Io?--gridò il Ceretti, a cui la recuperata libertà e la rabbia
profonda facevano credere che avrebbe potuto lottare con
quell'uomo.--Io inginocchiarmi?...--

E inarcando le spalle come una tigre, si scagliò contro il suo
avversario.

Ma Michele sapeva il fatto suo. Un veterano di America, marinaio e
soldato, non aveva a lasciarsi sopraffare da quel bellimbusto del
Ceretti. Innanzi che questi si fosse avventato, una improvvisa e
maestra pedata lo colse a mezzo lo stomaco; di guisa che, dopo aver
barcollato un tratto, andò a ruzzolare da capo sul pavimento.

Michele era sempre ritto al suo posto, con le braccia incrociate sul
petto, come Napoleone il grande.

Il Ceretti quella volta non tornò all'assalto. Aveva avuto il suo
resto; tutto indolenzito e pesto com'era, non aveva più forza di
muoversi.

--Michele!--disse allora la fanciulla con aria di rimprovero al
domestico,--avete fatto assai male.

--Male, io, padroncina? La non m'entra. Ho dunque a sentirle dire
delle impertinenze e star cheto? Delle impertinenze alla signorina
Maria! Ah cane! ah briccone! ah villano rifatto!...--

E giù una dozzina di questi epiteti. Come ebbe snocciolato la sua
coroncina, proseguì, volgendo il discorso a Maria:

--Quando si dice il destino! Tornavo di là, dove mi ha mandato il
signor Lorenzo, ed ecco m'imbatto in un vecchio compagnone, il quale
m'invita ad andare insieme con lui per centellarne un bicchierino di
quello che pizzica. Il diascolo mi tentava; ma mi ricordo che per non
recarle molestia avevo preso la chiave di casa, e che Ella avrebbe
potuto accorgersi che la non c'era più nella toppa. Dico di no, e
corro difilato a casa. Entro appena in sala, odo parlare nel
salottino, e mi pare di riconoscere la voce di questo signore. Non per
ispiare, veh! ma perchè, tant'è, non l'ho mai avuto in buon concetto,
mi avvicino all'uscio, e per l'anima di.... non lo sento a dirle
villania?... In ginocchio, triste furfante! Insultare una santa!...

--Michele!

--Sì, mi lasci dire, padroncina; una santa! E costui ha l'ardimento di
dire.... di credere.... che.... Insomma, o ch'io non mi chiamo più per
nome Michele, o ch'io l'ho a fare a pezzetti, come uno spezzatino di
vitello!--

Ed era per far venire i fatti dopo le parole, quando Maria
s'intromesse, e accennando con la mano al fiero Michele che stesse
cheto, disse con accento deliberato al Ceretti:

--Se ne vada di qua!

--Sì, me ne vado;--rispose il biondo Arturo, mentre cercava di
racconciarsi alla meglio le vestimenta sgualcite,--me ne vado.... Ma
costerà salata! Se quest'oggi non entra in casa la pigione, andranno
presto a dormire su d'una strada. Ah, signori miei, sanno il
proverbio: chi cerca trova.

--Sicuro;--disse di rimando Michele.--Chi cerca trova.... e qualche
volta anche quello che non aveva cercato! Intanto La cerchi il suo
cappello, che è rotolato sotto la sedia.--

Il Don Giovanni, turbato com'era, si chinò a raccattare il cappello, e
col capo basso, i pugni chiusi, e i denti stretti, passò in mezzo a
quei due. Se gli antichi Romani non fossero gente da rispettarsi,
anche nella sconfitta, diremmo che egli pareva un Romano il quale
passasse sotto le forche Caudine.

Appena fu giunto all'uscio, si volse e con un gesto di minaccia
ripetè:

--Vi costerà salata!

--Sì, sì! Aspetta a me!--gridò Michele, in atto di scagliarsi sul
fuggente. Ma la fanciulla lo trattenne da capo.

--Michele, per amor mio, fermatevi! Ora bisognerà fare avvisato d'ogni
cosa Lorenzo.

--No, padroncina! Ci pensi due volte, innanzi di farlo. Egli è così
latino delle mani....

--E voi!--interruppe Maria.

--Io? Gli è un altro paio di maniche. Io posso dar liberamente due
golini a quel figuro, senza che alcuno ci trovi a ridire. Il signor
Lorenzo non potrebbe cavarsene il ruzzo, senza aver pagato prima la
pigione. La gente potrebbe dire che egli mena le mani per pagare i
debiti. Io me ne intendo un poco, delle leggi della cavallerizza!--

Michele voleva dire cavalleria; ma è già noto ai nostri lettori che
Michele, in materia di lingua, pigliava spesso dei granchi.

--Sta bene,--disse sorridendo la fanciulla,--ma appunto per questo
negozio della pigione bisognerà parlargliene.

--No, no, padroncina! Lasci fare a me!

--E che cosa potreste far voi, mio povero Michele?

--Io? La non mi conosce ancora. Ci ho un disegno in capo, e chi sa che
non n'abbia a venir fuori un costrutto! Ella mi prometta di non dir
nulla fino a domattina....

--Ve lo prometto, e il cielo vi assista!



XX.

All'insegna degli Amici, buon vino.... e grama compagnia.


Il nostro Michele aveva dunque il suo disegno in capo, e voleva pagar
egli la pigione, senza dar molestia a Lorenzo. La pensata era buona e
degna dell'ottimo cuore di Michele: ma i nostri lettori, i quali non
hanno un grande concetto della sua testa, vorranno sapere in che modo
egli s'argomentasse di mandarla ad effetto.

I lettori vengano con noi e lo sapranno. Li condurremo a quest'uopo in
una delle tante bettolacce ond'erano ornati, al tempo del nostro
racconto, i pressi della via Carlo Felice, bettolacce che si facevano
chiamare trattorie.

Erano stamberghe, buie di giorno, a mala pena rischiarate di notte; ma
se la luce mancava, c'erano avventori in buon dato e d'ogni risma, i
quali si stipavano tra quelle pareti umidicce, su certe pancacce
levigate, rilucenti per l'uso continuo, davanti a certe tovaglie
largamente chiazzate di vino e d'untume, sulle quali i più schizzinosi
facevano stendere un tovagliuolo fresco di bucato.

Là dentro, grossi odori di vivande che si crogiuolavano nelle
casseruole, e d'altre che forse da due giorni aspettavano il dente di
un meno schifiltoso ghiottone; il tavoleggiante che comandava ad alta
voce la pietanza richiesta e lo sguattero che dal fondo della cucina
rispondeva il solito «va»; l'ubbriaco che sragionava a tu per tu in un
angolo colla sua bottiglia di vino, scambiata per un amico
contradditore; i tre o quattro compari già alticci che si
accapigliavano per una bazzecola, e la moglie di uno dei tanti che
s'industriava a rappattumarli; due spanne più alta su questo
guazzabuglio, la padrona carnacciuta che sorrideva agli uni, dava
sulla voce agli altri, e rifaceva il resto ad ognuno.

Era un gaio spettacolo, segnatamente dopo l'ora del teatro, quando si
fosse fatto il naso a quella mescolanza di odori grossolani e gli
orecchi a quel cicaleccio svariato e confuso, nel quale tratto tratto
soverchiava una brutta parolaccia, che faceva arrossire sulla sua
sedia curule, e in mezzo a' suoi trofei di mandorle e fichi secchi, la
pudibonda padrona.

La più pudibonda di tutte, sebbene la sua taverna ci avesse gli
avventori più sboccati di tutti i dintorni, epperò la ci avesse dovuto
riuscir manco tenera delle altre, era la Piccina, padrona dell'osteria
__degli Amici__. Perchè si chiamasse la Piccina non sappiamo; certo
quel nome non le era venuto dalla persona, che due uomini avrebbero
durato fatica ad abbracciare, se pure si può argomentar che ci fossero
due uomini al quali potesse venir quell'estro bizzarro.

Regnava la Piccina su d'una stanzaccia, due bugigattoli e una cucina,
che erano al piano della strada, ma non aggiustati al medesimo piano
tra loro. Dov'era la sala più grande, anticamente doveva essere stato
il vestibolo di una casa, e la colonna maestra del primo giro di scale
traspariva ancora dallo spessore di una parete, che si ragguagliava
alle altre circostanti. La camera più vicina, cavata com'era da un
sottoscala, non aveva finestre, e pigliava aria dall'uscio della sala
maggiore e da quello della cucina. Immagini il lettore che aria!

In questa cameretta, dove capiva a mala pena una tavola, sulle undici
di sera, veniva a dar fondo una coppia di amici. Uno dei due era il
nostro bravo Michele; l'altro, indovinate mo'! era il Garasso, il
marito della signora Momina, dottoressa in cartomanzia, vestito con
quella attillatura popolesca che arieggia il vestire della gente
signorile, senza farsi lecito nè il cappello a staio, nè il soprabito
di taglio più lungo, nè i panni di colore più fosco.

La grossa padrona fece da lontano un grazioso cenno del capo al
Garasso; ed anche il tavoleggiante lo salutò, come si usa con le buone
pratiche.

--Che cosa comanda!--chiese il giovinotto.--Ho da apparecchiare per
due?

--Sicuramente, per due. Anzitutto del buon vino, e bada che non abbia
ricevuto ancora il battesimo!

--La non dubiti;--rispose l'altro, mentre col lembo del suo
tovagliuolo ripuliva il desco di tutte le briciole di pane e d'altri
minuti rilievi che testimoniavano l'uso recente della tovaglia.--Ce ne
abbiamo del Monferrato, venuto ieri, che risusciterebbe i morti.

--Pur che non sia da avvelenare i vivi, portalo subito!--soggiunse
Michele, andandosi ad impancare nell'angolo, con le spalle al muro.

--E che cosa vogliono mangiare?--chiese il tavoleggiante.

--Il meglio della mostra,--rispose il Bello,--se pure c'è qualche cosa
che non sia dell'altra settimana.

--Oh, qui c'è tutto buono, signor Garasso; e tutto fresco di giornata.

--Sentiamo;--disse Michele,--leggici la Gazzetta dello stomaco.--

Michele chiamava con questo nome la lista dei cibi. Il tavoleggiante,
che stava alla celia come i suoi pari, sciorinò i nomi di tutte le
pietanze che c'erano, ed anche di quelle che già erano state smaltite.

--Basta, basta!--gridò il Bello,--finisci quella tua cantafèra,
Bernardo. Io, se l'amico ci sta, ho già posto gli occhi su di un pollo
arrosto e su d'un guazzetto di tartufi, tanto per aiutare a bere. Al
resto penseremo poi. Che ve ne pare, amico Michele, parlo bene?

--Come un libro. La cena riuscirà un po' troppo copiosa; ma, alla più
trista, è meglio cenar molto che non cenare affatto. Chi va a letto
senza cena tutta notte si dimena.

--E non basta;--soggiunse, ridendo sgangheratamente, il Bello,--quando
s'è ben dimenato, e' si ricorda che non ha cenato.

--Non la sapevo, quest'altra metà dell'__avverbio__!--rispose Michele,
che incominciava a dirne delle sue.

--Sentiamo un po' questo vino!--disse il Bello, accostando il
bicchiere alle labbra.

Il vino era buono, poichè, dopo averne mandato giù un centellino, egli
fe' scoppiettare parecchie volte la lingua contro il palato; segno non
dubbio del suo gradimento. Allora, percuotendo il suo bicchiere contro
quello di Michele, disse con voce sommessa:

--Alla salute degli amici, e possa andar tutto bene!

--Bravo! alla salute degli amici!--ripetè Michele, e tracannò tutto
d'un fiato.

--Mio caro Michele! Come sono contento di vedervi e di passare
un'oretta con voi!

--Ed io? che vi pare?--rispose Michele.--Mi sembrava mille anni,
sebbene ci siamo veduti stamane.

--Oh, così di passata!--si affrettò a dire il Garasso.--Ma che negozio
era il vostro, da non lasciarvi venire a berne un bicchierino?

--Di mattina! che diamine?--rispose Michele.--Bisogna stare in gambe.
Se il signor Lorenzo sapesse che comincio così per tempo a bere, mi
manderebbe a quel paese; e ne avrebbe ragione, perbacco!

--Ma voi non siete mica un servitore!

--Oh, questo poi è verissimo. Sono un amico, anzi il cane di casa, e
non c'è allegria nella quale il vecchio Michele non ci abbia la sua
parte. Vecchio, del resto, così per dire; poichè Michele è appena sui
quarantotto, e vuole aver mano ancora in molti negozi, prima di farsi
mettere a riposo.

--E non istaremo già molto a menar le mani!--aggiunse il
Bello.--Suvvia, Michele, il pollo è trinciato; assaggiate quest'ala.
Il signor Salvani, del resto, è un ottimo giovanotto e merita che
tutti gli vogliano bene come voi. Iersera si parlava appunto di lui,
là dagli amici, e si diceva che se ce ne fosse una ventina di pari
suoi a capitanarci, le cose andrebbero assai più spedite. Ci abbiamo
in cambio certi sputatondo, i quali non vedono altro che malanni e si
spaventano delle prime difficoltà. Costoro vorrebbero i pani a picce e
le viti legate con le salsicce.

--Come nel paese di Cuccagna, non è vero?--gridò Michele.--Ma il
signor Lorenzo non è di quella pasta; egli ci ha il sangue di suo
padre nelle vene, e va innanzi badando agli ostacoli come io a questo
bicchier di vino. Ma a proposito del signor Lorenzo, sapete che son
venuto a chiedervi un servizio?

--Per il signor Salvani e per voi sono pronto a buttarmi nel fuoco. O
siamo amici o non siamo. Voi pure saprete quel che vi ho detto una
volta....

--Sì, mi avete detto che tra noi la era un'amicizia da Oreste, e....
aiutatemi a dire!

--Da Oreste e Pilade, ve lo ripeto, e sono sempre ai vostri comandi.

--Orbene, vi confido una cosa; ma, intendiamoci, veh!

--Acqua in bocca, non dubitate. Son segreto come la torre del palazzo
Ducale.

--Lo credo, e appunto per ciò m'è venuto in mente di aprirmene con
voi. Si tratta dei miei padroni, i quali tuttavia non sanno nulla di
ciò che vorrei fare per essi. Hanno fatto tanto bene a me, che se
potessi farne a loro, mi parrebbe di restar sempre da meno. Insomma,
per farvela breve, da due mesi si è debitori della pigione al padrone
di casa.

--Oh povero signor Salvani!--disse il Bello, facendosi innanzi coi
gomiti sulla tavola, in atto di affettuosa sollecitudine.--E il
padrone sarà un cane dei soliti....

--Peggio di un cane!--soggiunse Michele.--Costui, figuratevi, s'è
fitto in capo un suo sconcio disegno.... Ma per l'anima di.... l'ho a
conciar io come va, quel villano rifatto!

--Ma che c'è? Io non v'intendo.

--Eh, non avete capito? La padroncina, che, a dirvela di passata, è
bella come la madre nostra, l'Italia, gli ha fatto gola. Egli ha
saputo che la signorina Maria non è altrimenti sorella del signor
Lorenzo; e siccome chi mal fa peggio pensa, s'è posto a molestarla con
le sue smancerie e con le sue proposte da chiasso.

--Che cosa mi dite voi mai?--esclamò il Garasso, che non perdeva una
sillaba di quel discorso, e andava mescendo di tratto in tratto a
Michele, per farlo cantare.--Gli è proprio un mascalzone, costui!

--Ah, Garasso! c'è della gran brutta gente a questo mondo! Il
signorino con la scusa della pigione, s'è introdotto in casa. Da
principio era più riguardoso; ma questa mane, credendosi solo con la
signorina, ha lentate le redini. Gli aveva fatto i conti senza
Michele, il poveretto! Io son capitato sul buono, e con queste dita
che vedete l'ho afferrato pel collo e gli ho dato certe picchiate che
se ne vorrà ricordare per un pezzo.

--Bravo Michele! Questo si chiama ragionare. Io bevo alla vostra
salute.

--Ed io alla vostra. Datemi da bere. Non so, ma a parlare di quel
marrano, mi si rimescola il sangue, e mi s'inaridisce la gola.

--Segno che si ha da bere!--disse con aria grave il Garasso.--E poi,
come l'è andata?

--L'è andata che il signorino è montato in bestia, e se domani non ha
il suo denaro, manderà l'usciere e la carta bollata. Io non ne ho
potuto dir nulla al signor Lorenzo, perchè lo conosco; è uomo che si
riscalda facilmente, e, non avendo la pecunia gli rincrescerebbe
troppo.... mi capite?

--Sì, di non avere il denaro per poterglielo dare sul grugno.

--Bravo, così appunto volevo dir io. Ed ecco perchè ho pensato a voi.
Il mio amico Garasso, ho detto tra me, è uomo a cui non fa nulla un
dugento lire di più o di meno, e poichè conosce il signor Lorenzo, e
sa che questi non istarebbe molto a restituirgliele, potrà metterle
fuori per amor suo e mio; non è vero?--

A queste parole il Bello fece il muso lungo, e dopo essersi dato un
colpo della mano sulla fronte, così parlò con aria malinconica:

--Ah, Michele, Michele! Perchè non dirmelo ieri?...

--Oh bella!--rispose l'altro trepidante;--perchè ieri non eravamo al
punto che vi ho detto. Stamane soltanto siamo venuti alle strette.

--Avete ragione; non ci pensavo più. Ma vedete, il vostro guaio mi fa
perdere il capo. Ieri, figuratevi, ho giuocato.... Maledetto vizio! Ma
vi assicuro che è stata l'ultima volta, e non mi ci colgono più.
Intanto mi sono squattrinato, e salvo quel poco danaro delle male
spese, non ho più nulla, più nulla.--

S'immagini il lettore come rimanesse Michele a quel racconto del
Bello. Gli cascarono le braccia, e non ebbe più la forza di accostarsi
alle labbra una infilzata di fette di tartufi che aveva con tanta cura
accomodate sui rebbi della forchetta.

--Ma non vi perdete d'animo!--si affrettò a soggiungere il Bello,
avvedendosi del cattivo senso che le sue parole avevano fatto sul
compagno;--tranne alla morte, c'è rimedio a tutto. Ho ancora degli
amici, e domattina vedremo di accomodarvi.--

Michele respirò, e respirò lungamente. Questo gli era tanto più
necessario, in quanto che egli aveva tenuto il fiato fin da quel punto
che il Bello gli aveva data la brutta notizia.

--Anzitutto,--proseguì quest'ultimo,--di che somma si tratta?

--Ve l'ho detto: di dugento lire.

--Di Genova?

--No: di Piemonte.

--Tra poco,--soggiunse il Bello, a mo' di parentesi,--diremo lire
italiane, se ci vien fatto il colpo.

--Sicuramente!--rispose Michele, non molto confortato da quella
considerazione.--Ma di Piemonte o d'Italia, quando le si hanno a
snocciolare, son come zuppa e pan molle.

--Le caveremo fuori, non dubitate. Io intanto vi ringrazio di aver
fatto capo a me. Siete un buon amico; qua la mano!--

Michele fu sollecito a stringere la mano del Bello, di quell'ottimo
giovanotto a cui egli chiedeva danaro a prestanza e che lo ringraziava
per giunta.

--Ma come farete voi?--gli disse egli, dopo la stretta di mano.

--Non ve ne date pensiero. Andrò da un amico, il quale non vorrà
negarmi il servizio. I denari degli amici sono nostri. Che cosa
sarebbe l'amicizia, se non fosse così? Beviamo intanto, e vada in
malora la malinconia. A proposito, questo padrone di casa, come si
chiama?

--È un certo Ceretti, Ceretti figlio, per dirvi tutto, ma fa le veci
del padre, ed è egli che s'incarica di molestare la gente.

--Lasciate dunque fare a me;--disse il Bello.--Se l'amico ha il
denaro, come io credo, potremo metterlo subito a segno, questo signor
Ceretti, e fargli passar la voglia di amoreggiare colle sue pigionali.

--__Amen__!--rispose tra due bocconi il nostro Michele, a cui le buone
promesse dell'altro avevano fatto tornare l'appetito.

Il Bello si fermò un tratto, in atto di bere, ma guardando fiso
Michele tra l'arco delle sopracciglia e l'orlo del bicchiere. L'aria
di tranquillità e di contentezza che sedeva in volto al servitore di
Lorenzo Salvani, dovette rassicurarlo senz'altro, perchè si provò a
mettere il dito su d'un tasto più delicato, il quale egli non ardiva
toccare, se non quando il suo cembalo, che era Michele, fosse
inzuppato di vino.

--E quella povera signorina non sa ancor nulla de' suoi parenti?

--E che volete che sappia? Non vi ho già detto?...

--Sì, m'avete detto che il segreto non si potrà conoscere fino a tanto
che la ragazza non vada a marito. Ma questo mi pareva più un consiglio
che un comando del colonnello Salvani; e per me, caro Michele, se
fossi nei panni del signor Lorenzo, vorrei sapere che cosa c'è nella
cassettina d'ebano.

--Oh!--interruppe Michele.--I vecchi hanno raccomandato che non si
aprisse, e ci avranno avute le loro buone ragioni. Che cosa importa in
fin dei conti che la signorina Maria sappia da chi nasce, se lo stato
suo non ha da averne miglioramento? Quando la dovesse andare a marito,
non dico di no! Bisogna pure che un uomo sappia con chi si
ammoglia....

--Avete ragione;--incalzò il Bello;--ma, tant'è, la non m'entra. Il
signor Lorenzo potrebbe, se non per dirlo alla signorina, almeno per
suo governo, ficcar gli occhi là dentro, in cambio di tenere quella
cassettina chiusa nella scrivania.

--Nel cassettone, nel cassettone!--disse Michele.--E sta bene dov'è.
Il signor Lorenzo venera la memoria di suo padre, e non sarà mai per
contraffare a' suoi ultimi desiderii. Onora il padre e la madre! dice
il primo comandamento del __Catalogo__.--

Il Bello sapeva quello che gli premeva di sapere, che la cassettina
d'ebano non era stata aperta, e che era sempre chiusa nel cassettone
in camera di Lorenzo Salvani; però fece mostra di convenire nella
sentenza di Michele.

--Non voglio contraddirvi. Quello che dite è sacrosanto, e mi pare che
il fatto torni a maggior lode del nostro signor Salvani.

--E in che modo?

--In quella cassettina,--soggiunse il Bello,--qualunque cosa ci sia,
egli potrebbe pur sempre trovare un principio di fortuna. I segreti
valgono tant'oro, e talvolta anche più dell'oro. Ora, se il signor
Salvani credesse utile pel bene della sua sorella adottiva di aprire
la cassettina, a chi farebbe egli danno? Che male ci sarebbe?

--Nessuno certamente!--disse Michele.

--Orbene, egli intanto non pensa a cavar profitto dal segreto, e si
contenta, poveretto, di vivere onoratamente alla sera....

--Ahimè!--interruppe il servitore,--voi non sapete che non guadagna
più nulla?

--Io no; ma come la è andata?

--Oh, gli è proprio il destino, che ha fisso il chiodo di tormentarlo.
Figuratevi che quindici giorni or sono, anzi, se non piglio errore,
pochi giorni dopo che io vi avevo parlato di quel poco guadagno che il
signor Lorenzo faceva, il bottegaio, senza dirgli nè can nè gatto, lo
ha mandato con Dio.--

Il Bello, mentre Michele parlava, si messe a centellare il fondigliolo
del bicchiere, spiando con gli occhi il volto del compagno. Il candore
di Michele lo rassicurò.--Che diamine?--pensò egli.--Se il bighellone
sospettasse di me, non si lascerebbe più cogliere col vino in corpo, e
non aprirebbe più becco.--

Fatto questo discorso tra sè, il Bello depose il bicchiere, dicendo
con aria di compassione:

--Oh povero signor Salvani. E adesso fame e sete?...

--Sì, certo, fame e sete! Si sta in piedi per quella santa della
signorina Maria! Se vedeste come lavora dì e notte, con quei ditini,
per aiutar la casa! Vedete, quando ci penso, non mi dà più l'animo di
mangiare nè di bere....

--Ottimo Michele! Ma consolatevi; tutti questi malanni debbono finire.
Il signor Lorenzo, sebbene non paia, è nato vestito. Dov'è l'uomo che
non ci abbia avute mai le sue burrasche? Il sereno presto o tardi
ritorna; fateci assegnamento. E poi, se non vi dispiace, a queste
necessità del signor Lorenzo ci ho da pensare un tantino ancor io.

--Davvero? Farete questo?

--E perchè no? Uno per tutti e tutti per uno, a questo mondo. Alla
salute del signor Lorenzo e della signorina Maria!--

E così dicendo il Bello versò da bere per Michele e per sè.

--Sono brindisi ai quali non mi vedrete mancar mai;--gridò
Michele;--ma prima che io beva quest'altro, che sarà forse il
ventesimo....

--Eh via! Stiamo a vedere che avrete bevuto tutto voi.

--So quello che dico. E prima che io perda a dirittura la bussola,
voglio dirvene una, col cuore in mano. Ma sapete, Garasso, che voi
siete un vero amico? Quando dicevano che di voi non c'era da
fidarsene!--

Il Bello si turbò fortemente a quelle parole; ma Michele, già alticcio
com'era, sebbene non avesse bevuto i venti bicchieri che diceva, non
si addiede punto del senso che le sue parole avevano fatto sul
compagno.

--Chi ha detto ciò?--proruppe il Bello, aggrottando le ciglia.

--Non date retta;--si affrettò a dire Michele, battendo amorevolmente
della mano sul braccio del Bello;--non date retta! sono i soliti
invidiosi; perchè vi vedono scialarla nella bucolica e andar vestito
come un signore.--

Il Bello respirò, e tanto più largamente, quanto più forte ed
improvviso era stato il timore che alcuna delle sue malizie fosse
trapelata.

--A dirvela schietta. Michele,--rispose egli allora,--io non giudico
gli uomini dai cenci che hanno dattorno, come è costume dei cani.
Sotto le vecchie ciarpe c'è quasi sempre un uomo dabbene....

--Certo!--interruppe Michele.--Bandiera vecchia fa buon brodo....
Cioè, piglio un granchio a secco; volevo dire gallina vecchia onor di
capitano.

--Che guazzabuglio fate voi ora?

--No, non volevo dire nemmeno cotesto. Ma dove diamine ho il capo?
Insomma, dicevamo che i cenci....

--Sono rispettabili, Michele mio;--ripigliò il Bello,--ma i cenci
vanno a finire a Voltri nelle cartiere; e quando si può farne senza,
non intendo il perchè non s'abbia a vestir pulito ed avere i buoni
bocconi in quel concetto che si meritano. Spendo forse qualcosa
d'altri? Oh, Michele, guardate un po'! La vita politica è piena di
amarezze. Coloro che vi gridano la croce addosso saranno poi certuni
per i quali vi sarete cavato, sto per dire, la camicia!...

--Può darsi anche questo!--rispose Michele.--Costoro vi pettinavano
con le unghie, ed aggiungevano ancora, come un grosso delitto, che
andavate a giuocare nelle bische. Ma io v'ho difeso, veh! Ce ne va
tanti a sdanaiarsi in que' luoghi, senza che s'abbia a dirne corna! È
un guaio, lo so; ma alla stretta de' conti non è la morte Domini.

--E poi, giuoco così poco!--soggiunse il Bello,--Non si sa che fare,
in queste lunghe serate. I compagni vi tirano, e voi sapete che in
compagnia anco il prete prende moglie. Ma vi so dir io che non mi ci
colgono più, dopo che m'hanno strinato in modo da non poter più fare
servizio a un amico come voi!

--Garasso, sentite una cosa!--disse Michele.--Oramai vi ho conosciuto;
e chi ardirà sfringuellare sui fatti vostri l'avrà a fare con me.
Michele, il veterano, il legionario d'America, si sente ancora in
gambe, come a venticinque anni, e giurammio?...

--Proviamole dunque un tantino, le vostre gambe!--soggiunse il Bello,
levandosi da sedere.--È ora di andarcene.

--E perchè mo'?

--Non vedete? Si chiude la bettola. È già il tocco dopo la mezzanotte,
e se passano i sergenti della Questura, pigliano l'ostessa in
contravvenzione ai regolamenti.

--Peccato!--rispose Michele, senza muoversi ancora.--Si stava così
bene! Maledetti regolamenti! Ma che cosa ha da farsene la Questura,
che la gente ne beva un gotto di più? La si occupi dei ladri, lei, e
lasci stare i galantuomini a far la digestione!

--I sergenti della Questura,--disse il Bello,--vogliono andarsene a
dormire, e bisogna pure contentarli.

--Ah, quando è così, non parlo più. Un ultimo bicchiere almeno, alla
salute di Oreste e Come diamine si chiama quell'altro?

--Pilade.

--Sì, alla salute di Oreste e Pilade. Benedetto vino! L'ultima goccia
è sempre migliore della prima. Basta, leviamo la seduta; ed ora vi
farò vedere come vado ritto al banco della padrona.--

Ciò detto, il nostro Michele si mosse; ma per quanto si studiasse di
tenersi ritto, le gambe, che forse si erano avvedute di un peso
soverchio, lo portavano a sghimbescio contro la parete.

--Ah! Michele! Giuochiamo forse a mosca cieca? Badate al muro.

--Avete ragione; le gambe mi fanno fico. Per fortuna la testa è salda.

--Venite qua a braccetto; Oreste e Pilade non usavano fare diverso in
simili casi.

--Credete? Allora son qua. E a proposito abbiamo pagato il conto?

--Non ve ne date pensiero; qui faccio a credenza.

E così, tolto Michele a braccetto, il Bello lo condusse all'aria
aperta; nè ebbe a sudar poco per metterlo all'uscio di casa.

--Bravo Garasso! ottimo amico!--andava balbettando Michele.--Non so
che diamine io ci abbia nelle gambe, che non vogliono star ritte. Ma
tant'è, vi voglio bene. Siamo Oreste e.... aiutatemi a direi Questo
benedetto nome non vuole mai venirmi in mente. Oreste e.... Oreste
e....

--E pilastro!--soggiunse ridendo il Bello.--Eccovi infatti a casa
vostra.

--Sì, è proprio casa mia! Cioè.... di mastro Ceretti. Se fosse mia,
l'avrei già venduta.... per pagar la pigione.... Ma, a proposito, e
quella faccenda?... Mi avete promesso.... Sapete pure!...

--Non dubitate. Domattina andrò dall'amico. Alle due vi aspetto sotto
i portici del teatro Carlo Felice, per darvi la risposta. Andate
dunque, da bravo!

--Sotto i portici?... Sta bene;--proseguì Michele con quella
cascaggine di discorso e di gesti che è propria degli ubbriachi.--Vi
aspetterò sotto i portici, accanto al primo pilastro. Pilastro! A
proposito. Oreste e Pilastro, non è egli vero? Pilastro, sicuro; amici
come Oreste e Pilastro. Bravo Garasso! Vi voglio un gran bene.--

Al Bello ci volle di molto per liberarsi dalle strette di Michele; e
certo, se non era il ricordo di tutte le cose che gli aveva cavate di
bocca e la speranza di cavargliene ancora, quello squassaforche
avrebbe perduto la pazienza e avrebbe mandato il suo Pilade a quel
paese.

--Andate, suvvia, andate, e soprattutto badate a non dar del naso per
le scale. Tenetevi al muro!

--Oh, non dubitate. Non sono mica ubbriaco, io. Ho le gambe un pochino
impacciate.... ma la testa è salda, la testa! Bravo Garasso! Amicone!
Buona notte, e il cielo vi guardi dalle cattive disgrazie.

--Sì, state sano; buona notte!--

E così dicendo, il Garasso, per non aver più tempo a perdere con
Michele, se ne andò via difilato verso Soziglia.

Michele si provò a dargli ancora la buona notte; ma, non udendo
risposta, si inerpicò al buio fino all'ultimo piano; viaggio che durò
una buona mezz'ora, con tutte le fermate, con tutte le peripezie dei
viaggi, e con un monologo scucito per giunta alla derrata.

Come fu all'ultimo piano, il nostro Michele trovò faccia di Legno.
Stette un po' come smemorato, ora tastando l'uscio per cercare la
corda del campanello, che pure ci aveva ad essere, ora le tasche della
giubba, per cercare la chiave, che non c'era per fermo; finalmente,
traendo una giustissima conseguenza da due premesse ignote, uscì in
queste parole:

--Non c'è che dire; sono un po' brillo.--

Dalla confessione alla penitenza non c'era altro che un passo. E
Michele, per fare la penitenza, si lasciò andare sul pavimento, si
accoccolò alla meglio col capo sulla soglia di casa, e non passarono
cinque minuti che egli aveva già legato l'asino a buona caviglia.



XXI.

La dimani d'una brutta giornata.


Ognuno s'immagina come avesse a stare delle membra e dell'animo il
nostro Michele la mattina vegnente.

Soltanto il cane, quando ne ha fatto qualcheduna delle sue e nella sua
testolina da bestia più ragionevole di tante altre accorgendosi di
aver meritate le busse, mette la coda fra le gambe e non trova un
angolo abbastanza buio per nascondersi, soltanto il cane, diciamo,
potrebbe darci un'immagine di quello che fu il povero veterano
d'America, quando i primi raggi del sole furono venuti a svegliarlo.

Intirizzito dal freddo, indolenzito per tutte le giunture, si alzò sui
gomiti e, guardatosi dattorno, si avvide di aver dormito sul
pianerottolo di casa. Sulle prime non voleva aggiustar fede a' suoi
occhi; però, credendo di sognare, se li stropicciò più e più volte con
le ruvide dita. Ma non c'era verso che lo spettacolo mutasse: egli era
proprio sul pianerottolo, e lì presso al suo capo era l'uscio di casa.

--Che diamine!...--esclamò egli allora, cercando di richiamare i suoi
pensieri a capitolo, come tanti canonici.

E i pensieri vennero, e il nostro Michele allora si risovvenne di
tutto, e perfino della corda del campanello ch'egli aveva inutilmente
cercata.

Corda del malanno! Essa era là, pendente dalla girella, con le sue
fila di lana intrecciata, colla sua nappa in fondo, grazioso lavoro
della signorina Maria, e pareva beffarsi del povero Michele.

Egli la guardò un pezzo, come trasognato, e stropicciandosi gli occhi
da capo, disse tra sè, ma a voce alta e con piglio malinconico:

--Dovevo esser proprio ubbriaco fradicio, per non ritrovarla!--

Michele era di buon conto a stomaco digiuno, e chiamava le cose pel
loro nome, senza rigiri o dimezzature. La sera innanzi ammetteva di
essere un po' brillo; ma la mattina dopo diceva apertamente: ubbriaco,
mettendoci anche di costa l'epiteto.

--E adesso come si fa ad entrare?--seguitò egli a dire.

--Che cosa penseranno de' fatti miei?--

La vergogna di Michele era grande; e fu più grande ancora, quando gli
risovvenne di tutti i discorsi fatti col Bello nell'osteria __degli
Amici__.

Le sue ciarle e le faccende domestiche spiattellate al Garasso, non
gli parevano la cosa più bella del mondo. Egli non sapeva perchè, ma
in fondo al cuore gli doleva di aver detto tanto, e, come dicono a
Genova, gli prudeva la coscienza.

--Alle strette,--disse egli, dopo aver meditato un pezzo,--ho parlato
a fin di bene. Il Bello è dei nostri, sta come pane e cacio con tutti
gli amici, e pel signor Lorenzo si butterebbe nel fuoco. Che male c'è
a dirgli come stanno le cose? Oggi intanto avrò i denari della
pigione. To', se non avessi cantato, i fringuelli non sarebbero
calati.--

I fringuelli di Michele erano quelle dugento lire che aspettava dal
Bello. Questo pensiero gli rimesse il sangue nelle vene; ond'egli si
fece animo a tirare, sebbene dolcemente, la corda del campanello.

Poco stante un leggiero mutar di passi e il fruscìo di una gonna lo
avvisarono dell'avvicinarsi della signorina Maria. La chiave girò
adagino, adagino nella toppa e, apertosi l'uscio, comparve la
giovinetta che teneva un dito sulle labbra, per fargli cenno che non
parlasse troppo forte.

--Siete voi, Michele?--bisbigliò la fanciulla.

--Oh, signorina!--rispose egli, arrossendo.

--Zitto, zitto, per carità, che Lorenzo non v'abbia a sentire!--

Così dicendo. Maria fece entrare il servitore e richiuse l'uscio con
le stesse precauzioni: poi precedette Michele, camminando sulla punta
dei piedi, fino all'andito della cucina.

--Orbene, Michele,--disse ella, come furono giunti,--dove siete andato
stanotte?

--Oh, signorina!--rispose tutto turbato il nostro Michele.--La mi
perdoni.... Anzi no, la mi bastoni, che lo merito. Un amico....

--Vi ha fatto passar la notte fuori,--soggiunse la fanciulla, per
compire la frase.

--Oh no, la notte fuori. Ho dormito sul pianerottolo.

--Bravo! E perchè non avete suonato?

--Non ho ardito.... anzi, a dirla schietta, non ho potuto. Ho cercato
un pezzo la corda del campanello, e non ne sono venuto a capo. Ero un
po'.... mi capisce?

--Sì, vi capisco. Andatevene a letto, povero Michele. Lorenzo non si è
avveduto di nulla.

--Andate a letto? No, certo, padroncina. Ho da andare per la spesa.

--Che! avete tempo più tardi, e busserò io all'uscio per risvegliarvi
tra un paio d'ore. Andate, Michele, da bravo! Avete gli occhi così
gonfi!--

Michele, tra spinte e sponte, se ne andò su per la scaletta fino al
soppalco del tetto, dov'era la sua cameruccia, e si pose a letto. Ma
non gli venne fatto di prender sonno. Il rammarico di avere alzato un
po' troppo il gomito, il rimorso di aver chiacchierato e l'ansietà di
andare al convegno del Bello per le dugento lire, non gli lasciarono
chiuder occhio.

Però egli udì Lorenzo alzarsi dal letto, e più tardi uscire di casa.
Suonavano appunto le dieci all'orologio delle Vigne. Allora egli, che,
se non aveva dormito, s'era almeno levato il freddo dalle ossa, balzò
dal letto a sua volta, e volle uscire per la spesa consueta.

La padroncina era più contenta quando egli discese, e si fece anzi a
dargli cortesemente la baia per la sua scappatella notturna; la qual
cosa gli parve di buon augurio e gli fece andar fuori del capo tutta
la malinconia.

--Rida, rida, la mia buona padroncina!--diceva egli in cuor suo.--Ella
sarà due volte più allegra quando tornerò a casa coi denari della
pigione, e li snocciolerò sulla tavola. Ma che dico sulla tavola? O
non sarebbe meglio portarli a dirittura giù a quel brutto muso del
padrone di casa? Gli ha già sentito il peso delle mie dieci dita, e
non sarà forse male che io gli metta fuori un marenghino per dito, a
mo' di consolazione. Sì, certo, farò così; se non gli garba, mi
rincari il fitto, che intanto non s'ha voglia di rimanerci molto,
nella sua casa!--

Questi pensieri lo tennero in aria fino alle due dopo il mezzodì. Era
quella, se i lettori rammentano, l'ora del ritrovo col Bello; e il
nostro Michele, per non far aspettare l'amico, s'era andato ad
appostare mezz'ora prima sotto i portici del teatro Carlo Felice.

Ma aspetta, aspetta, il Bello non veniva. Michele ad ogni tratto si
affacciava alla invetriata della bottega da caffè del Teatro per
misurare sull'orologio, che era presso il banco della padrona, il
cammino del vecchio alato che ha la falce e la clessidra in mano. Il
tempo passava; erano già le due e un quarto, e l'amico non si vedeva
spuntare da nessun lato.

Aspettare e non venire è una cosa da morire; così dice il proverbio.
Ora, se Michele non moriva, certo era in agonia, e se non mandava pel
prete, si votava per contro a tutti i diavoli dell'inferno. Vennero le
due e mezzo, ed egli era ancora a recitare sotto i portici il
paternostro della bertuccia. Ma allora andò fuori dei gangheri, e dopo
aver dubitato dell'amicizia in genere e perfino di quella
esemplarissima di Oreste e.... e aiutatelo a dire, si mosse per
tornarsene a casa. Se egli avesse saputo dove stava di casa il Bello,
sarebbe andato a cercarlo; ma non sapendone nulla, pensava di
ricattarsi la sera in qualche sala da biliardo, o in qualche osteria,
dove bazzicava l'amico.

Il nostro Michele non si sarebbe doluto tanto di non vedere il Bello,
se avesse saputo perchè la sua padroncina era contenta, quando egli
s'era alzato da letto.

Abbiamo narrato nel capitolo precedente che Lorenzo Salvani, uscendo
di casa, era andato a' Banchi per salutare l'Assereto. Quello non era
un amico dei soliti, un amico del buon tempo, e Lorenzo poteva dire di
lui come Beatrice di Dante: «__l'amico mio e non della ventura__».
L'Assereto aveva notata la tristezza di Lorenzo, e lo aveva tanto
incalzato di affettuose domande, che questi gliene aveva detta
finalmente la cagione.

L'amico non era ricco; ci correva anzi di molto! Sudava le intiere
giornate per tirarla innanzi onestamente, e non aveva i gruzzoli di
monete, da far comodo altrui. Ma egli era, come i lettori sanno, un
ottimo giovanotto ed aveva molti e schietti amici, in quella classe
dove abbondano gli onest'uomini, i cuori larghi tanto, sebbene il nome
di mercatanti, di gente da traffichi, sia quasi tolto in mala parte
dagli ignari delle costumanze del mondo.

Ad uno di questi amici pensò l'Assereto di chiedere a prestanza il
denaro che poteva occorrere a Lorenzo, e frattanto lo confortò a star
di buon animo, che la mattina vegnente egli avrebbe accomodato ogni
cosa.

E tenne la promessa. Aveva avute nella sera trecento lire, e quando
Lorenzo tornò a' Banchi nella mattina, il buon Assereto si procacciò
la consolazione di far da banchiere all'amico.

Le cose narrate spiegano il perchè Maria apparisse tanto gaia a
Michele, quando egli scese dalla sua cameretta. Lorenzo, prima di
uscire di casa per andare a prendere il danaro, aveva narrato alla
sorella del cortese aiuto proffertogli dall'Assereto; e la buona Maria
s'era dimenticata di tutti i suoi dolori, per partecipare alla
contentezza del giovine. Essa non gli aveva detto nulla dell'insolenza
del Ceretti e de' suoi ardimenti ingiuriosi. Però il Salvani, appena
fu tornato dalla piazza de' Banchi, salì tranquillamente al primo
piano, in casa Ceretti.

Il biondo Arturo era seduto alla sua scrivania, in mezzo a fasci di
carte bollate e non bollate, scritte di locazione, atti di citazione,
conti di capomastri e va dicendo. Impallidì, come vide Lorenzo entrar
nella camera, e pensò che fosse venuto a chiedergli ragione della
scena del giorno innanzi; laonde stette con l'animo sospeso,
aspettando che parlasse.

--Signor Ceretti,--disse Lorenzo,--vengo a pagarle la pigione. Ella
vorrà tenermi per iscusato, se l'ho fatto aspettare.--

Il biondo Arturo rispose con un cenno del capo che pareva significasse
una cortese condiscendenza, e non era altro che effetto del suo
turbamento.

--Che egli non sappia nulla?--chiese tra sè, cominciando a ricogliere
il fiato.

--Ecco dunque le dugento lire; che a tanto ascende il mio debito, se
non m'inganno.

--Sta bene!--rispose il Ceretti, e si fece a contare il denaro, che
Lorenzo gli aveva posto dinanzi.

Ma lo contava con le dita, e la sua mente non vigilava il conto. Egli
infatti temeva che, saldato il debito, Lorenzo Salvani uscisse fuori
con qualche sfuriata, e a questo pensiero i polsi gli davano le
battute doppie.

La commozione non gli impedì tuttavia di notare che Lorenzo Salvani,
quello spiantato, com'egli lo chiamava, ci aveva le sue brave monete
d'oro (usavano ancora, a que' tempi!) e dopo aver date a lui le dieci
che entravano nel conto della pigione, gliene rimanevano ancora
parecchie nel cavo della mano. Ora notar questa cosa e sapergli male
fu tutt'uno.

Ma gliene sapesse male, o no, il denaro della pigione era lì sulla
scrivania, e il biondo Arturo non potea farci un bel nulla, salvo la
ricevuta, che infatti egli scrisse e diede a Lorenzo senza aggiunger
parola.

Egli s'aspettava sempre che dopo il pagamento venisse la sfuriata. Ma
Lorenzo, messa in tasca la ricevuta, si congedò dal Ceretti, dopo
avergli stesa la mano, che questi si affrettò a stringere, più turbato
che mai.

--Non ne sa nulla!--disse il Don Giovanni tra sè, appena Lorenzo fu
uscito.--Tanto meglio. È stato un brutto quarto d'ora. Per buona sorte
l'innocentina non ha parlato. Ma, tant'è, mi debbo vendicare di
costoro.--

Vendicarsi! Era presto detto; ma in che modo? Qui stava il busilli.
Così pensando, Arturo s'era alzato dal banco e passeggiava per la
camera, con le mani raccolte dietro le spalle e contando con gli occhi
i quadrelli del pavimento. Ma i quadrelli non gli insegnavano nulla.
Lo spediente di mettere quello spiantato fuori di casa gli era parso
il più acconcio; ma era anche l'unico al quale egli avesse potuto
appigliarsi. Intanto quello spiantato era venuto fuori col denaro; la
pigione era pagata fino all'ultimo giorno di giugno, e non c'era
neanche da fare assegnamento sulla disdetta, perchè il contratto di
locazione andava fino all'ultimo di settembre.

Mentre egli stava, o, per dir meglio, andava ruminando a quel modo,
senza poter cavare un costrutto da' suoi proponimenti feroci, udì un
timido picchiar di nocche nella invetriata che gli teneva luogo
d'uscio nelle ore di giorno.

--Avanti!--diss'egli, non senza un po' di dispetto per quella
improvvisa seccatura.

L'invetriata si aperse, e gli si parò davanti un giovinotto biondo,
che i lettori conoscono.

--È qui il signor Ceretti?--chiese costui.

--Per l'appunto. Ceretti padre e figlio. Chi cerca dei due?

--Il figlio. E sarà Vossignoria....

--Sì, sono io. In che cosa posso servirvi?

--Ho da dirle due parole a quattr'occhi. Posso parlarle?

--Parli pure; qui non c'è altri. Ma chi è Lei?

--Oh!--rispose il nuovo venuto;--il mio nome importa poco. Vengo da
parte del signor Bonaventura Gallegos.

--Io non conosco questo signore!--soggiunse il Ceretti.

--Lo so,--si affrettò a dire quell'altro,--e appunto per ciò il signor
Bonaventura mi ha incaricato di dirle queste due paroline
all'orecchio.--

E si accostò al biondo Arturo, il quale, incerto com'era, lo lasciò
fare. Ma appena quelle paroline gli furono bisbigliate, il Ceretti
rizzò il capo, e arrossendo esclamò:

--Ma chi è questo signore? Come sa egli?...

--È un signore che sa molte cose,--rispose l'altro,--e che può
aiutarla ne' suoi disegni. Egli dimora in via Nuova, palazzo Torre
Vivaldi, ultimo piano, e l'aspetta in casa fino alle otto.

--Sta bene, ci andrò.--

Ciò detto, Arturo si diede da capo a passeggiare. L'altro se ne andò
via, dopo avergli fatto un inchino.

--Che cosa vorrà da me questo signore? Il nome mi sa di forestiero.
Sarà forse qualche usuraio, il quale avrà delle cambiali del Salvani,
e penserà di appiopparmele! Ma in che modo ha egli da sapere i fatti
miei? __Vendicarvi del Salvani__! Sono parole magiche, e cascano
proprio in taglio. Andiamo dunque, e vedremo di che si tratta.--

Intanto che il biondo Arturo si disponeva ad andare in casa del padre
Bonaventura, il messaggero scendeva le scale sollecito. Pareva non
vedesse l'ora di esserne fuori.

Ma eccoti, in quella che era per mettere il piede dalla soglia sulla
strada, s'imbattè nel nostro Michele, che aveva già alzato il suo
dalla strada alla soglia.

--Michele!--esclamò il primo, con aria d'ingrata meraviglia.

--Garasso!--esclamò l'altro.--Ed io che vi ho aspettato finora sotto i
portici del Teatro!--

Per andare dal Ceretti a far l'ambasciata del padre Bonaventura, il
Bello aveva scelto appunto quell'ora ch'egli aveva stabilita pel suo
ritrovo con Michele, sotto i portici del Teatro. Egli era sicuro per
tal modo che Michele non lo avrebbe incontrato.

Infatti Michele, che stava ad aspettarlo, non lo aveva veduto entrare:
e il Bello era per farla netta, quando nell'uscire dal portone di
casa, s'imbattè nell'unico uomo che avrebbe voluto non trovarsi tra'
piedi.

Se Michele odorava la trappola, il Bello potea dire per fermo d'aver
rotte l'ova in sull'uscio. Ma Michele non poteva aver sospetto di
nulla, e l'amico non era uomo da affogare in un bicchier d'acqua.

Egli però, correggendo il suo primo atto d'uomo colto sul fatto, si
fece ad esclamare:

--To'! cercavo appunto di voi.

--O come?--rispose Michele, fresco ancora della sua aspettazione e de'
suoi paternostri.

--Sì; che volete?--soggiunse il Bello.--Ero un po' in cimberli,
iersera, e questa mane non son venuto a capo di ricordarmi dove
diamine vi avessi dato appuntamento.

--Anche voi?--disse Michele.--Dovevate esser proprio più fradicio di
me, poichè io non ho dimenticato nè le due dopo il mezzodì, nè il
primo pilastro dei portici del Teatro.

--Ah, per Diana! L'avrei giurato io, che s'aveva a vederci sotto i
portici; ma quel maledetto Monferrato m'aveva messo il cervello a
soqquadro.

--Ed ora,--ripigliò Michele,--venivate a cercarmi?

--Sì, ma giunto all'ultimo piano, e mentre stavo lì per dare una
strappata al campanello, ho pensato che non era prudente farmi
scorgere dai vostri padroni. Il signor Lorenzo poteva vedermi, e voler
forse sapere che negozi io ci abbia con voi.

--E non avete suonato?

--No. Garasso, dissi tra me, non facciamo sciocchezze! Scendiamo in
istrada, ed aspettiamo Michele. È un uomo casalingo; se è fuori per
cercare di noi, non istarà molto a ritornare.--

Michele non poteva trovar nulla a ridire nel discorso del suo Oreste.
Egli trovava il Bello nella sua scala, e questo era segno che l'amico
non lo aveva punto dimenticato. Il vino gli aveva fatto uscir di mente
il luogo del ritrovo: ma che perciò? Quel liquido malaugurato aveva
pure impedito a lui di trovare la corda del campanello!

--Avete ragione;--diss'egli adunque.--Ritorno infatti dal luogo che mi
diceste ier sera. Perdonatemi ora, se ho pensato un po' male di voi.

--Oh, Michele!--esclamò l'altro, con aria dolente.--potevate voi
  credere che dimenticassi l'amico?

--L'ho creduto, ho fatto male, e vi prego di perdonarmi. Ma veniamo al
buono; i cum quibus?...

--Ho fatto l'impossibile per averli e portarveli; ma la m'è andata
male. Giornata infame, caro Michele, giornata maledetta! Già, dicano
pure che è una superstizione; ma in martedì non s'avrebbe mai da far
nulla, perchè tutto va alla peggio.

--Ahi! ahi!--disse Michele, facendo il muso più lungo della
quaresima.--Siamo fritti, dunque?

--No, no; quello che non s'è fatto oggi può farsi domani. C'è un tale
a cui ho fatto capo, il quale mi ha detto che tornassi domani, e
m'avrebbe dato la risposta. In quanto all'altro, sul quale facevo
assegnamento, m'ha girato nel manico. Oh, Michele! che mondo! Come son
fatti gli uomini! Tutti per sè, tutti fradici d'egoismo.

--Piove sul bagnato!--rispose Michele, il quale era filosofo in certi
casi.--Sono storie che io so a menadito. Ma se domani gira nel manico
anche l'altro?...

--Oh, non voglio crederlo! E poi, c'industrieremo tanto, che troveremo
quel che vi occorre. La vedremo, perdio! Vedremo se due galantuomini
come voi ed io, hanno a limosinare dugento lire e non trovarle da
nessuna banda. Io (vedete, Michele?) fo già conto di averle in
saccoccia.

--Amen!--conchiuse Michele.--A domani, dunque. E dove ci vedremo?

--Nello stesso luogo. Oggi son sano, e non lo dimenticherò certamente.
Ma, a proposito, non andiamo a bere un bicchierino?

--Acquavite? No!--rispose Michele, aggrottando le ciglia.--Nè
acquavite, nè altro. Ho deliberato di non ber più altro che acqua di
pozzo, fino a tanto non sia condotto a fine questo negozio.

--Michele, badate! L'acqua rovina i ponti. Per buona sorte il vostro
voto non ha da durare se non ventiquattr'ore.

--Diceste il vero! Ed io vi prometto per domani di far con voi a chi
beve di più.

--E birba chi manca!--rispose il Bello, stringendogli la mano.--

Poco dopo questo dialogo di Michele col Garasso, Arturo Ceretti andava
dal padre Bonaventura.

Costoro s'intesero per bene, quantunque il primo non sapesse le
ragioni del secondo. Il padre Bonaventura non era uomo da lasciarsi
leggere nell'animo; e il Collini medesimo, tanto più addentro di ogni
altro nelle segrete cose, era a mala pena al frontispizio.

Arturo, del resto, non cercava d'indovinar nulla. Aveva capito che
c'era uno, il quale voleva male al Salvani, e non gli premeva punto di
sapere il perchè, sebbene quest'uno sapesse il suo. Di questo modo si
accordarono presto.

Il padre Bonaventura, messo al chiaro di ogni cosa dai racconti
solleciti del Bello, aveva veduto d'un subito il gran profitto che si
poteva cavare da un Don Giovanni scornato e picchiato, desideroso di
vendetta e corto d'ingegno per giunta. Poi che lo ebbe giudicato di
veduta, si raffermò nel proposito, e in quella che l'altro si lasciava
andare a lui come la biscia all'incanto, nacque in mente al padre
Bonaventura quel disegno infernale che vedremo uscir fuori tra breve.

In quanto ai denari che Michele chiedeva a prestanza dal Bello, questi
avrebbe pure voluto darglieli subito. Ma il padre Bonaventura, anco
ammettendo, giusta il parere del Bello, che quell'imprestito gli
avrebbe reso Michele più maneggevole, aveva saviamente notato che i
denari potevano migliorare lo stato di casa Salvani, e che anzitutto
occorreva abboccarsi col Ceretti. Aspettasse dunque, e facesse aver
pazienza a Michele.

Ma dopo aver parlato col biondo Arturo, entrava anche meno nei disegni
del gesuita di metter fuori le dugento lire. La pigione era stata
pagata; nè Arturo, ne il padre Bonaventura, per quanto si stillassero
il cervello, potevano indovinare donde fosse caduta a Lorenzo Salvani
quella pioggia di Danae.



XXII.

Degli apparecchi che fece la contessa Cisneri per andare ad una festa
da ballo.


Le necessità del nostro racconto ci conducono da capo in casa della
contessa Matilde Cisneri.

Era lo stesso giorno in cui Lorenzo aveva pagato il suo debito al
padrone di casa, e sebbene fossero già scoccate le nove di sera, la
contessa Matilde era nel suo spogliatoio; santuario della bellezza,
dove non era penetrato altri che il gran sacerdote, o vogliam dire il
parrucchiere. Ma già il gran sacerdote era partito, dopo aver
acconciato mirabilmente i biondi capegli della diva, e sottentrava la
sacerdotessa, anzi diciamo la cameriera Cecchina, che disponeva in
bell'ordine le sottane insaldate, il crinolino, una magnifica gonna di
seta azzurra, ed altri arnesi, i quali aspettavano d'essere stretti
intorno alla persona della bella contessa.

Matilde intanto, coperte le spalle da un bianco accappatoio, stava di
profilo dinanzi ad uno specchio a bilico, ma guardando di sbieco in
una piccola spera che aveva tra mani, la quale, come il lettore ha già
indovinato, le faceva vedere tutta l'acconciatura del capo, già
riflessa una volta dallo specchio più grande. Così, guardandosi per
tutti i versi, la bionda contessa sorrideva; segno che era molto
contenta della sua testolina.

Ma perchè e per chi la contessa Matilde si faceva così bella, alle
nove di sera? Il sullodato lettore ha già indovinato anche questo. La
contessa Matilde si metteva in assetto di guerra per una festa da
ballo, alla quale era stata invitata, in casa Torre Vivaldi.

Con quella gran festa i Torre Vivaldi chiudevano la loro stagione di
città, pochi giorni innanzi di andare in campagna. Ora, siccome il
lettore avrà ad udir molto di quella famiglia, che è già comparsa una
volta nel nostro racconto, non sarà inutile che ci fermiamo un tratto
a parlarne.

La famiglia Vivaldi, o, per meglio dire, quel ramo della famiglia, di
cui la bella marchesa Ginevra era l'ultimo rampollo, non si dipartiva
mai dalle sue consuetudini. Da parecchie generazioni era costumanza di
tutti gli anni andar presto in villeggiatura e tornare tardissimo.

E i Vivaldi non avevano il torto ad osservarla fedelmente; perchè nel
palazzo di Quinto era un magnifico stare, quasi meglio che nel palazzo
di Genova, dove gli affreschi, le dorature, le sculture e le tele di
valenti pittori d'ogni scuola, facevano sempre un viavai di
forestieri, che era una molestia da non dirsi a parole, quantunque
tornasse a maggior lustro della casa.

La villa di Quinto era un luogo incantato, una dimora di Alcina, con
questo di meglio che la fata regina si chiamava Ginevra, e le grazie
della sua persona non erano effimere come quelle della vecchia strega
immaginata dal divino Ariosto. Colà era il palazzo, edificato coi
disegni di Galeazzo Alessi; il giardino stupendo, piantato con gusto
italiano innanzi che i forestieri ci rimpastassero e ci imbandissero
come nuova la nostra invenzione; i viali ombrosi, i prati
verdeggianti, il laghetto, la __Corte di amore__, e finalmente il
teatro, acconcio alla recitazione di drammi pastorali e commedie
villerecce, fatto con erbosi rialzi di terra, siepi di bosso e
__quinte__ di alloro. Colà gli opulenti abitatori non avevano certo da
rimpiangere la città, e la presenza degli amici consolava della
mancanza di tutti quei visitatori, spesso molesti, che tira ai fianchi
la consuetudine del vivere cittadino.

Un'altra usanza, stabilita in casa Vivaldi dalla marchesa Tullia,
bisavola di Ginevra, e famosa nelle memorie nostrane per la sua
stupenda bellezza e per l'ingegno che ebbe grandissimo su tutte le
donne ed anco su molti uomini colti del suo tempo, era quella delle
due feste da ballo.

Le sale di casa Vivaldi erano aperte ai visitatori consueti in tutte
le sere di martedì; ma la gran sala, la sala massima, era illuminata
soltanto due volte all'anno, la prima sul cominciare del carnevale, la
seconda in primavera, e in quelle due occasioni si facevano inviti
formali.

Erano quelle feste come il primo saluto e l'addio, l'__ave__ e il
__vale__ della famiglia agli amici suoi e a tutte le sue aderenze
cittadine. E in quella guisa che erano solenni, così attiravano tutta
la nobiltà mascolina e femminile, e l'alta borghesia mascolina della
città. Le signore della borghesia non erano invitate, salvo il caso
che fossero nate nobili, o avessero trentasei quarti di bellezza e
ricchezza, che possono ben tener luogo di stemma gentilizio.

Delle due feste da ballo di casa Vivaldi si usava parlare per tutta
Genova molte settimane innanzi. Erano solennità a cui bisognava
prepararsi, i mariti con un esame di borsa, le mogli con una
conferenza dalla sarta. In quelle sere poi che si ballava in casa
Vivaldi, i palchetti del teatro Carlo Felice erano quasi tutti deserti
delle solite deità femminili. Le signore che andavano al ballo
dovevano acconciarsi; quelle che non ci andavano, dovevano far credere
che ci andassero. Le feste di casa Vivaldi erano eventi strepitosi; nè
una gran dama, nè un giovanotto elegante, nè altra persona per la
quale, potevano ignorarne impunemente i più minuti particolari.

Il marchese Antoniotto della Torre, marito della Ginevra, aveva
rispettata la consuetudine della famiglia, e la considerava come un
canone appiccicato a quella grossa eredità che era venuta in sue mani.
Però faceva le cose da gran signore, sicchè molti vecchi dimenticavano
il fasto dell'ultimo marchese Vivaldi, che pure, in quelle due
solennità dell'anno, era splendido al pari de' suoi antenati.

Ora noi chiediamo a tutti quei lettori che si ricordano delle feste di
casa Vivaldi: poteva la contessa Matilde Cisneri, poichè aveva la
fortuna invidiabile di essere stata invitata, resistere a quella gran
tentazione? Tutti, e prime le nostre lettrici, grideranno di no.

Infatti, come si è già veduto, ella si disponeva ad andare, ed era
impaziente di giungervi. Quanto mutata, in breve spazio di tempo!
Quanto mutata da quella Matilde che sentiva profondo il tedio della
vita di conversazione, dei teatri, delle feste, e loro annessi e
connessi! O dove era andato quel santo orrore delle vanità mondane,
quell'amore della solitudine, e quel divoto rifarsi alla solitudine
dell'amore? Era svanito, andato in dileguo, come la nuvola di fumo,
sua sorella germana.

Povero Lorenzo! dirà taluno. Ma anche a questo vanno fatte le debite
restrizioni. Anch'egli non ci aveva il suo tanto di colpa? Non era
egli l'artefice del suo disinganno? Lorenzo Salvani, con tutto il suo
ingegno, con tutta la sua gravità e l'esperienza delle sventure, era
ancora un fanciullo. Non volle, e non seppe fermarsi un tratto a
considerare l'argomento della sua passione; epperciò non gli venne in
mente che certe donne, sebbene mostrino di desiderarli, a lungo andare
non patiscono gli amori profondi, gelosi, prepotenti delle anime
forti.

E poi, è legge dell'amore, che esso vada sempre dal basso all'alto. Ed
anco se vedete un uomo ed una donna ricambiarsi in giusta misura, dite
pure che quella legge è osservata a puntino; perchè la donna per un
verso, l'uomo per l'altro, si riconoscono scambievolmente tali
perfezioni, da far sì che uno dei due creda sempre essere da meno
dell'altro. Ora Lorenzo, il quale era sembrato molto alto da principio
alla contessa Matilde, non le sembrava più tale. Fu un ragguardevole
uomo allorquando ebbe dato una botta nel fianco ad Aloise di Montalto;
ma poi non seppe cavar profitto dalle sue gesta, acciuffar l'occasione
e pigliarsi un buon posto innanzi alla gente.

Matilde non istette molto ad accorgersi di avere ai fianchi un
semplice innamorato; e d'innamorati una donna bella ne trova ad ogni
uscio, se pure ella non li trova tutti affollati al suo. Era ricco
d'ingegno, e avrebbe potuto salire a grande rinomanza; ma la contessa
non era donna da indovinare il futuro, o, quando anche l'avesse
indovinato, da legarsi ad un uomo per quella celebrità e per quella
potenza che era di là da venire.

Pensava in cambio che Lorenzo era un ignoto. Andasse dalla Clelia,
dalla Fanny, dalla Caterina (le dame d'alto affare si chiamano col
loro nome di battesimo, come per stabilire una differenza tra esse e
il volgo di tutte le altre), ella non udiva mai parlare di Lorenzo
Salvani. Si lodava il cavallo di un giovanotto, si chiacchierava degli
amori di palcoscenico di un altro, e tutti quanti erano, per una cosa
o per l'altra, passati in rassegna. Di Lorenzo mai una parola. Per
tutta quella gente che, stando un po', in alto, finisce col reputarsi
ogni cosa, Lorenzo Salvani era un nulla e non metteva conto
discorrerne.

E qui parliamo di coloro che lo conoscevano, e sapevano anche degli
amori della Matilde con lui. Il parlare di tanti altri e raccontarne
vita e miracoli, era come un rimprovero a lei che era andata a
cercarsi un amante fuori di quella cerchia appariscente dove nascono
belli e fatti, che non c'è da desiderare più altro.

Lorenzo dal canto suo, oltre che non aveva cavato profitto dalle sue
imprese, andava ogni giorno scemando di pregio, come le cartelle del
debito pubblico in tempi burrascosi. Da lunga pezza il suo vestire era
trasandato anzi che no. Il suo eterno vestito nero, che di sera poteva
passare, in grazia dell'adagio: di notte ogni gatto è bigio, mostrava
maluccio alla luce del sole, essendo già un po' spelacchiato sulle
costure. Ora una donna, sia che ne tragga argomento di onore o di
vergogna, si accorge sempre di questi nonnulla.

Per dirla in poche parole, l'amore di un uomo come il nostro povero
amico Lorenzo, non era uno di que' romanzetti che una dama galante
potesse mettere in mostra e farsene bella al cospetto della gente. Ed
oltre tutto ciò, l'umor geloso del giovine stava per vietarle ogni
maniera di passatempi; della qual cosa ella avrebbe avuto a dolersi
tanto più, in quanto che non amava più abbastanza.

La contessa era dunque ad uno di que' punti, nei quali si sta per
prendere una forte deliberazione. Ella non voleva incatenarsi e
pensava a protestare col fatto, innanzi che la piaga si facesse più
fonda.

Tutte queste cose contrastano invero coi lieti cominciamenti che il
lettore conosce. Ma noi non inventiamo nulla, e Iddio ci guardi così
dalla stolta pretensione di mutare il cuore umano, come dalla
pericolosa manìa di dipingerlo a nostro talento.

Metteremo fine a queste considerazioni con un aforisma che non ci
ricorda di aver mai letto in nessun trattato sull'amore e che però
daremo nuovo di zecca ai lettori. «Quando una donna non ama più un
uomo, o ne sopporta l'amore come una grande molestia, il che torna lo
stesso, si può giurare che ci abbia già un altro all'uscio del cuore.»

Ora, chi era l'altro della contessa Cisneri? Per non tener a bada
oltre il bisogno i lettori, diciamo che da un mese appena le era stato
presentato Edmondo Alerami, conte palatino; un bel giovinotto sui
trentadue, il quale aveva due occhi assai belli, sebbene dintornati da
certe grinze che accennavano una vita scapigliata anzi che no, naso
aquilino, baffi folti che gli scendevano sugli angoli delle labbra per
rialzarsi superbamente in due punte attorcigliate, e un'ariona da
principe indiano, a cui dava maggior risalto il suo viso abbronzato.

Questo signor Alerami non si sapeva donde venisse. Il suo titolo di
conte palatino non chiariva nulla, perchè poteva averlo ereditato da'
suoi maggiori, oppure ottenuto egli stesso, poniamo, dal Papa. Egli si
diceva nato fuori, di parenti italiani; parlava tutte le lingue, ed
era stato dappertutto, ma nell'India più a lungo che altrove.

Che cosa avesse fatto in India non diceva. Da' suoi discorsi si poteva
qualche volta trapelare che avesse guerreggiato contro gli Indiani, o
che avesse passato il suo tempo alla caccia delle tigri e degli
elefanti, od ancora che avesse sfruttato una miniera di diamanti. Il
conte Alerami parlava molto; ma, con tutte le sue chiacchiere, stava
sempre chiuso come un nocciolo di pesca.

Questo signore s'era messo ai fianchi della bionda contessa; era
sempre in sua casa, e la accompagnava sovente a teatro e a passeggio
per le vie della città. La qual cosa non è a dire come tornasse
molesta a Lorenzo Salvani.

Il nostro Lorenzo aveva avuto la poca accortezza di dolersene; di modo
che la contessa potè rispondergli di trionfo come a lei fosse
impossibile disfarsi del conte Alerami; il mondo aver le sue leggi, le
quali nessuno poteva impunemente violare, e una donna assai meno di un
uomo; la gelosia essere poi una brutta bestiaccia che bisognava
soffocare nel suo covo innanzi che crescesse, tanto da divorarvi; alla
perfine doversi aver fede nella donna amata, e va dicendo.

Dopo questi discorsi, Lorenzo non seppe più che cosa rispondere, e
passò ancora per un uomo di poca fede, come l'apostolo Pietro sul lago
di Nazaret; per un orso, per un nemico giurato delle costumanze
civili; per un ribelle alle leggi della convenienza, e peggio. La
contessa Matilde, quando scendeva a ragionare, non ci si metteva per
poco, e voleva, come suol dirsi, vederne l'acqua chiara.

E fin qui non sarebbe stato gran male, se il cuore della contessa
avesse durato nell'antico affetto. Ma il peggio si fu che le gelose
smanie del povero Lorenzo non fruttarono altro che qualche sorriso di
più al conte palatino.

Costui l'aveva ammaliata col suo sfarzo, co' suoi diamanti, colle sue
nuvole indiane, col suo parlare alla spiccia di tutte le parti del
mondo, col suo usar dimesticamente con tutti i gran signori
forestieri. Non c'era infatti milordo inglese, o principe russo, o
barone tedesco, il quale venisse a Genova e non fosse, un giorno dopo
il suo arrivo, il fido Acate del conte Alerami. Tutti parlavano di
lui, dei suoi modi eletti, de' suoi diamanti che venivano direttamente
da Golconda, del suo cavallo arabo che era dono del pascià d'Egitto,
ed era della razza medesima del cavallo di Maometto. Egli sapeva dir
cose gentili alle signore; perdeva allegramente il suo denaro ad una
tavola di __whist__ o d'altro giuoco signorile; nessuna meraviglia
adunque che fosse lodato e accarezzato da tutti. Che più? Era stato
ammesso nelle case più ragguardevoli, dopo che la vecchia marchesa
Jolanda Pedralbes, detta più comunemente Violante, la quale nasceva
dai __Monrion de Saint-Hubert__, prima nobiltà francese, e che era
schizzinosa anzi che no nel fatto delle sue attinenze, gli era andata
a braccetto nella prima festa invernale in casa Torre Vivaldi, e lo
accoglieva nella ristretta cerchia de' suoi visitatori, tutta gente la
cui nobiltà scendeva in linea non interrotta dai superstiti del
diluvio universale.

Il bel cavaliere che tutti di qua e di là si strappavano, non aveva
occhi se non per la contessa Cisneri, e la corteggiava con tutte le
formalità prescritte dal codice della galanteria. Ciò solleticava
l'amor proprio della signora, ed era per lei una rivincita su tutte le
nuove bellezze che erano venute a sopraffarla, inspirandole quel tedio
della vita che i nostri lettori hanno veduto a suo luogo, e che ella
aveva combattuto coll'amore del giovine Salvani.

Ma il tedio era sparito, dopo le prime visite del conte Alerami. La
contessa Cisneri moriva dal desiderio di farsi scorgere in trionfo,
bella della sua nuova conquista, e l'unico tedio che ancora sentisse
era quello del povero giovine, il quale era innamorato più che mai, nè
voleva capire che il suo regno era finito.

Le cose erano dunque a questo segno. L'amante di casa, o per dir
meglio il tiranno, era tuttavia Lorenzo Salvani. L'amante di fuori, il
cavalier servente, quello per cui si indossava una nuova veste, per
cui si meditava una notte sul colore più acconcio di un cappellino,
era già il conte Alerami; il conte Alerami che quella sera doveva
venirla a cercare, per accompagnarla alla festa da ballo, in casa
Torre Vivaldi.

Adesso riuscirà agevole intendere perchè la bionda contessa stesse
così a lungo ritta di profilo contro lo specchio a bilico, guardandosi
doppiamente riflessa, in quello e nella piccola spera che aveva tra
mani.

Era la sua grande serata, la festa trionfale che aveva sospirata così
lungamente, e la contessa, bella naturalmente della persona, bella
della sua contentezza, voleva essere inappuntabile nella terza
bellezza della sua acconciatura. Donde si vede che Matilde si atteneva
fedelmente al vecchio dettato: __omne trinum est perfectum__.

In quella che essa così amorosamente si guardava per tutti i versi,
udì suonare il campanello all'uscio di casa. Quella scampanellata la
scosse assai più che non paresse dicevole per un suono così naturale,
e voltandosi alla cameriera, disse con molta speditezza queste parole:

--Cecchina, andate voi stessa ad aprire. Se è il conte, fatelo entrare
nel salotto, e ditegli che mi aspetti. Se è l'altro, ditegli che sto
per vestirmi, che debbo andar fuori e che non posso riceverlo.--

L'altro, per chi non l'intendesse, era il nostro amico Lorenzo.

--Vado;--rispose Cecchina, muovendosi verso l'uscio.

--Accomiatatelo, in ogni modo. Ditegli che domani sto in casa, e che
lo aspetto;--aggiunse la contessa, con un sospiro che somigliava
maledettamente ad uno sbadiglio.

La vispa Cecchina corse, per ubbidir la signora; ma il servitore aveva
già aperto l'uscio, ed ella non aveva anche posto il piede fuori del
salotto verde, che si trovò dinanzi Lorenzo Salvani.

Il giovine era molto scombuiato nel viso, e gli si leggevano negli
occhi tutti i tristi presagi del cuore. Cecchina, che lo aveva nel suo
calendario assai più del conte Alerami, quantunque da lunga pezza il
giovine non le facesse più sdrucciolare gli scudi nella tasca del
grembiale, si sentì stringere il suo cuoricino da cameriera, e rimase
turbata innanzi a lui, senza trovare una parola da dirgli.

--È in casa la contessa?--chiese Salvani.

--No.... sì.... cioè....--rispose impacciata la cameriera.--La signora
contessa è nel suo spogliatoio, e si prepara ad uscire.

--E dove va ella?

--Alla festa da ballo in casa Torre Vivaldi;--rispose Cecchina.

Lorenzo stette un tratto sovra pensiero; poi, scuotendo il capo, come
se volesse discacciare una immagine molesta, soggiunse:

--Sta bene; l'aspetterò.--

Ciò detto, andò a sedersi sul canapè, pigliando sbadatamente in mano
un giornale parigino ch'era posato sulla tavola.

Cecchina, ritta in mezzo al salotto, non sapeva che dire per farlo
andare via, e non le dava l'animo di congedarlo con quelle asciutte
parole che le aveva detto la signora.

--Signor Salvani!--si provò finalmente a dire la buona ragazza.

--Orbene?--disse egli.--Andate pure dalla vostra signora che avrà
bisogno di voi. Io rimango ad aspettarla.

--Oh, l'andrà per le lunghe!--soggiunse la cameriera.

--Non importa; ditele che faccia pure il comodo suo. Io ho tempo da
aspettarla finchè non abbia finito.

--Ma....--ripigliò Cecchina, che non sapeva più cosa dire.--Ella ha da
sapere che la signora, appena vestita, dovrà uscire in compagnia del
conte Alerami.

--Ah! il conte Alerami!--esclamò Lorenzo, deponendo giornale e
balzando in piedi.--Cecchina, io debbo parlare a Matilde.

--Oh, non vada in collera, signor Salvani!--disse Cecchina,
indietreggiando dinanzi al giovine, che le si era avvicinato
impetuoso.--La signora non può dispensarsi dall'andare a questa festa,
e mi ha raccomandato di avvertirla che domani rimarrà in casa ad
aspettarla. Veda che testa! avevo già dimenticato di dirlo.--

Cecchina nel suo turbamento aveva dimenticato le parole della
contessa; ma, come i lettori vedono, correggeva la dimenticanza dei
primi momenti, ripetendole con quella buona grazia che la contessa non
avea posto a proferirle.

--Domani!--esclamò con accento di amarezza Lorenzo.--C'è qualcuno di
là. La signora è già vestita per uscire, e il conte Alerami è già
venuto. Ecco perchè mi dite di andarmene.

--Oh, signor Salvani! Le giuro che la s'inganna.

--Orbene, andrò io stesso a sincerarmene.

--No, no, si cheti!--si affrettò a dire la cameriera.

--E che cosa, direbbe la signora contessa, se io lasciassi entrar Lei,
mentre essa sta per vestirsi?

--Avete ragione, ed io sono un pazzo. Buona Cecchina, andate dalla
vostra signora,--ripigliò il giovine con voce più tranquilla, ma con
evidente fermezza di propositi,--andate, e ditele che non mi muovo di
qui. Se ella non vuole per nessun conto che io la veda, è segno che in
quella camera c'è qualcheduno. Andate, aspetto la risposta.--

Non c'era più nulla da opporre a quelle parole; e Cecchina, chinando
il capo, rientrò nelle stanze della signora.

Frattanto Lorenzo si pose a passeggiare, poco cortesemente invero, ma
molto umanamente, su e giù pel salotto della contessa. In quel momento
egli aveva la mente ad altri pensieri che a quello delle buone
creanze. Anche la sua sfuriata innanzi alla cameriera troverà scusa,
speriamo, presso le signore, se porranno mente che la cameriera sapeva
ogni cosa per filo e per segno, e che Lorenzo era fuori di sè.

--Donne! donne!--diceva egli, ripetendo le eterne considerazioni di
tutti gli uomini scottati dall'amore.--Ben disse Francesco Primo:
__Donna non tien mai fede, e matto è chi ci crede__. Esse non hanno
gradazioni nei loro affetti. Là miti ed austere come la mia buona
sorella Maria; qui vanitose e volubili come Matilde. Ed io l'ho amata,
costei! E l'amo ancora, questa donna che si getta nelle braccia di
quell'avventuriero del conte Alerami, che ama e disama ad un tempo,
che ha il cuore.... Dove lo ha, il cuore? Oh, perchè mi sono lasciato
prendere il mio da costei? E quell'altro bellimbusto che mi si mette
tra' piedi, e ci ha ancora l'aria di proteggermi!... Già, un omaccione
pari suo, che ha girato mezzo mondo, che è stato come pane e cacio coi
sovrani, che ha già freddato i suoi quattro uomini coll'aggiustatezza
de' suoi colpi.... Che diamine, aver paura di me? Certo, egli ha da
essere molto addentro nelle grazie della signora, per assumere quel
piglio da barba Giove! E' vogliono farmi andare fuori dei gangheri,
costoro! Il conte Alerami non accetterà la disfida.... La sua perizia
conosciuta.... e da chi? e poi la generosa sollecitudine pel buon nome
della contessa.... il timore di farla correre su tutte le bocche, gli
daranno ragioni da vendere. E sarò io il tristo, l'ingrato; io il
nemico di Matilde; egli il grand'uomo, il suo salvatore. A te Lorenzo!
A te, cialtrone! In questo modo tu sarai messo di punto in bianco
fuori dell'uscio.--

Il giovine Salvani ragionava dirittamente. Non era quella la prima
volta che l'ira, contro il consueto aiutasse a indovinare la verità.

Egli era a quel punto delle sue considerazioni, quando l'uscio per cui
era scomparsa Cecchina, si riaperse, e la cameriera si affacciò al
salotto, dicendo:

--Entri pure, signor Salvani.--

La collera di Lorenzo svaporò a quell'invito, o per dir meglio sbollì;
e il giovine non si ricordò più di que' tristi pensieri che essa gli
aveva destato nell'animo. Un solo concetto rimase, e fu l'amore;
quell'amore che consiglia tante e poi tante corbellerie ai miseri
mortali.

Lorenzo si gettò sulle orme della cameriera, ed entrò nelle camere
della contessa, fino allo spogliatoio, dove la trovò ancora vestita in
quel modo che i lettori sanno, ma seduta dinanzi allo specchio.



XXIII.

Nel quale si racconta come una gentildonna congedasse un innamorato
che l'aveva seccata.


Appena Lorenzo fu entrato, Cecchina si allontanò. La contessa avrebbe
potuto tenerla presso di sè, col pretesto assai naturale della sua
acconciatura, e cansare in tal modo il pericolo di una spiegazione a
quattr'occhi. Ma, a quanto sembra, ella voleva finirla, e indovinando
col suo accorgimento donnesco che quello sarebbe stato un dialogo
critico, dal quale ella avrebbe potuto cavar profitto, aveva accennato
ella stessa a Cecchina che uscisse.

Rimasero soli; ma per un tratto fu scena muta. Lorenzo era come
inchiodato presso l'uscio, e sopraffatto da una commozione fortissima.
Allora la contessa si volse, ed accennandogli con la mano un piccolo
sofà che era daccanto a lei, incominciò ella stessa il discorso.

--Orbene?... Non debbono esser di molto rilievo le cose che avete a
dirmi, se, giunto qui, non mi dite una parola.

--Matilde!--ruppe finalmente a dire Lorenzo, con accento di
rimprovero.--Perchè mi parlate voi così? Sapete pure che ho da
parlarvi, e se ho resistito al vostro desiderio di non essere
disturbata nella vostra acconciatura è segno che ho da ragionare di
cose gravissime.

--Gravissime? Udiamo dunque; ma, ve ne prego, spicciatevi,--disse la
bionda contessa, levandosi dallo specchio, e andando a sedersi su
d'una poltrona dirimpetto a Lorenzo,--poichè non ho tempo, stasera.--

Salvani aveva il cuore gonfio di amarezza. Non erano poche, nè lievi,
le accuse che gli facevano tumulto nell'animo; e tuttavia stette
dubbioso, pensando al modo più acconcio di cominciare. Sentiva dentro
di sè tutte le furie d'Averno, come dicono i classici; ma quella donna
era così bella, ed egli l'amava tanto, ch'egli non ardiva prorompere,
e tremava come un colpevole, egli, l'accusatore!

--Avete tanta fretta?--disse egli, col medesimo accento malinconico.

--Sì,--rispose la contessa, facendosi deliberatamente incontro al
pericoloso argomento di quella conversazione.--A momenti sarà qui il
conte Alerami, e non sono anche vestita.--

Lorenzo si pose una mano sotto la giubba, quasi volesse andare a
cercare il cuore e soffocarlo nella stretta. Poi, mettendo ogni sua
possa a frenarsi, guardò pietosamente la contessa e temprò la voce più
dolcemente che gli venisse fatto, per dirle:

--Matilde, mi amate voi sempre?

--Stiamo a vedere che gli è tutto qui quello che avete a dirmi di
grave. Perchè questa domanda, di grazia?--

E così dicendo, la contessa, con un moto grazioso delle membra si
strinse nel suo accappatoio e si rannicchiò nella poltrona, sorridendo
a Lorenzo. Nel cuore, tuttavia, si struggeva dal dispetto.

Lorenzo non vedeva, non indovinava nulla.

--Mi amate voi sempre, Matilde?--ripetè egli incalzando con aria
supplichevole.

--Ma sì; lo sapete pure!--rispose la contessa.--Ma perchè, vi ripeto,
perchè questa domanda?

--Per avere il diritto....--soggiunse esitando il Salvani,--per avere
il diritto....

--Di che cosa!

--Di volgervi una preghiera.

--Udiamola, questa preghiera.

--Matilde! per l'amor di mio, per l'amor vostro, che non avete
rinnegato, non è egli vero?... non andate a quella festa!--

La contessa finse di cader dalle nuvole a quella conclusione di
Lorenzo, che ella pur si aspettava. Giunse le palme in atto di
maraviglia, e dopo avere alzato gli occhi al soffitto, esclamò:

--Ma davvero siete un fanciullo! E perchè?

--Perchè.... Ve ne prego, ve ne supplico, non andate!

--Ma, di grazia,--ripetè spazientita la contessa,--sappiamone prima la
ragione. Non è mica una cosa da nulla usare una siffatta scortesia ai
Torre Vivaldi; e perchè io mi disponessi ad usarla, bisognerebbe pure
ci avessi una ragione.... e che ragione!--

Lorenzo Salvani stava per essere sconfitto dalla logica della
contessa. Se la ragione suprema dell'amore non bastava più a
persuadere Matilde, tutte le altre erano contro di lui, ed egli non
poteva distruggerle.

Però non rispose all'argomentazione della contessa, e con accento di
profonda malinconia, si fece a dirle:

--Matilde! Come siete bella, stasera!

--Davvero?--rispose la contessa, guardandosi le dita che scherzavano
coi nastri del suo accappatoio.

--Oh sì! Siete troppo bella!

--Stiamo a vedere che vi dispiace anche questo!--proseguì ella, con la
stessa aria sbadata.

--No,--rispose Lorenzo, riscaldandosi;--ma voi sarete tale per molti.
Molti vi ammireranno, colà dove andate. Sapete pure Matilde; una donna
che ama, non deve parer bella a tanti. I desiderii del volgo sono come
una profanazione della sua bellezza e dell'amor suo.

--Ah, ah!--esclamò la contessa, dopo una brevissima sosta--siamo nella
metafisica, a quel che sembra. Ma anco a voler stare sulle nuvole con
voi, signor poeta, io penso che vi si possa rispondere di trionfo.--

Lorenzo fece un cenno del capo che voleva dirle: non credo.

--Sì certo! Quanto più io potessi parer bella a molti, il che non è
punto vero,--soggiunse ella con quell'accento d'ipocrisia che sanno
metter fuori le donne quando abbiano a parlare della loro
bellezza,--tanto maggiore dovrebbe essere l'orgoglio di chi mi ama.

--Oh, lasciate queste gioie meschine al conte Alerami, che per lui
saranno forse il colmo della felicità!--interruppe Lorenzo.--Io v'amo
ben diversamente, v'amo assai più, o Matilde!--

La bomba era caduta, la gran parola di quel dialogo era detta: e la
contessa, punto turbata, si fece arditamente ad affrontare il
pericolo.

--Ma se lo dicevo io, che siete un fanciullo! Adesso salta in ballo il
conte Alerami.

--Egli vi ama!--proruppe Lorenzo.

--E questo vi spiace? Vi piacerebbe forse di più che egli mi odiasse?

--Forse. Ma perchè stiamo noi qui a schermir le parole?--disse
Lorenzo, armandosi di coraggio.--Appunto del conte Alerami io volevo
parlarvi.... e chiedervi un sacrifizio....--

La contessa rizzò il capo, e guardandolo con un piglio, in cui non si
sarebbe potuto dire se fosse maggiore il disdegno o la compassione, lo
fulminò con queste parole:

--Signor Lorenzo! siete voi così dappoco?

--Perdonatemi, Matilde,--gridò egli allora, gettandosi ai piedi della
contessa ed afferrando la sua mano che non istette molto a bagnare di
lagrime;--ma io soffro, vedete?... Io penso che questa sera andrete a
quella festa appoggiata al braccio del conte Alerami, che egli vi farà
ridere con le sue arguzie, che il vostro petto palpiterà sopra il suo,
nell'ardore della danza. Non vedete voi queste lagrime, Matilde? Il
mio cuore si strugge, a questo pensiero maledetto!...

--Perchè pensare a queste fanciullaggini?--chiese la contessa,
guardando in aria.

--Perchè sono geloso, Matilde, geloso di chiunque vi parla, geloso
perfino della vostra ombra. Non ve ne siete anche avveduta?

--Rifaremo dunque la vecchia storia di Otello?--ripigliò la contessa,
cercando di sciogliere la mano dalle strette di Lorenzo.

--Oh Matilde! Voi non volete capirmi!--esclamò il povero
innamorato.--Quando vi vedo, quando sono daccanto a voi che mi
sorridete, poco m'importa di tutte quelle farfalle che vi aleggiano
dintorno. Ma, lontano da voi, penso che esse ebbero la virtù di
abbagliare i vostri occhi, e che il povero Lorenzo è dimenticato da
voi. Sono geloso, Matilde, sono geloso, perchè sento che voi mi
sfuggite di mano, che ogni giorno che scorre, mi allontana dal vostro
cuore.--

Un affetto vero e profondo ha questo di efficace, che commove, poniamo
pure per un momento, il cuore della donna più fredda. Non è egli vero,
o lettrici? In mezzo alla noia che v'inspira l'assidua presenza e il
piangere di un uomo che non amate e il pensiero di un altro che vi
soggioga, s'infiltra pur sempre uno zinzino di compassione per lo
sventurato che è a' vostri piedi e vi esprime con tanto ardore di
parole la grandezza de' suoi patimenti.

La contessa non seppe resistere a quell'onda di passione disperata;
epperò rispose a Lorenzo:

--E chi vi dice che io non v'ami più?

--Oh grazie!--esclamò il giovine, a cui balenò negli occhi il primo
lampo di gioia;--grazie di questa cortese parola che vi è piaciuto
lasciarvi sfuggirei Ma compite la vostra bell'opera; non andate a
quella festa; rimanete in casa, stasera. Fate questo grande sacrifizio
al povero Lorenzo, che vi ama come un dissennato. Vedete? Noi
rimarremo qui seduti, a parlare del nostro amore, de' miei disegni pel
futuro. Faremo un bel castello in aria, di quei tali che vi piacevano
tanto, e che ci facevano star le ore intiere dimentichi del mondo,
inebbriati di amore. Vi ricordate, bionda Matilde? Non c'era cosa
bella nel creato, che le anime nostre non si facessero sollecite a
spiccare dal suo luogo, per abbellirne il nostro sogno, e le più
graziose pensate non erano certamente le mie....

--Sì, Lorenzo, ma è impossibile adesso che io vi contenti. Che volete?
Sono pure disgraziata! Ho promesso al conte Alerami.... ho accettato
ch'egli venisse ad accompagnarmi dai Torre Vivaldi; e senza mettere in
conto che io fallirei alle buone creanze verso la Ginevra, il rimanere
a casa sarebbe una vera scortesia, usata, senza una ragione al mondo,
a quel povero conte.

--Quel povero conte! E perchè non dite invece questo povero Lorenzo
che soffre? Oh, maledetto quest'uomo che si pone tra me e la mia
felicità!...--

Matilde, giunta a quel segno, doveva farla finita. Ella s'era alzata
un tratto, per virtù della rimembranza, sulle ali di Lorenzo; ma
l'altezza sterminata del volo la spaventava. Vide da lungi sulla terra
il conte Alerami, bello, guardato e vagheggiato da tutte le donne,
sfolgoreggiante di diamanti, caracollare superbamente sul suo cavallo
arabo, e non seppe tenersi dal sospirare. Si guardò dattorno, e non
vide altro che lo spazio muto e freddo; nè valeva a custodirla
Lorenzo, che la teneva fra le braccia, Lorenzo, il povero giovine
senza speranze, brutto della sua gelosia, e male in arnese per giunta.
Sì, fu questo il pensiero che venne in mente alla bionda contessa:
male in arnese! Matilde ebbe paura di trovarsi lassù, e fece come una
delicata signora che salita in barca rabbrividisce al primo ondeggiare
del legno e grida di voler scendere a terra.

--Ed eccovi da capo con le frasi sonanti!--rispose ella, cogliendo la
palla al balzo.--Il conte Alerami è un cavaliere garbato, e voi
avreste il torto a credere che io....

--Voi lo difendete!--interruppe Lorenzo.--Ma lo costringerò ben io a
cedermi il passo, e se egli si ostinerà ai vostri fianchi, tanto
peggio per lui; lo ucciderò.

--Signor Lorenzo, finiamola! Voi non sapete quello che vi diciate,
ora. Perchè dovrei io chiudergli l'uscio di casa mia? Per fargli
capire ch'egli è un uomo pericoloso, e che voi lo temete? In quanto ad
ucciderlo, sarà un'altra faccenda non troppo facile. Voi siete
animoso; ed egli non meno. È schermidore valente, e tutti vi diranno
che con un colpo di pistola coglierebbe in aria una moneta.

--E qualcheduno potrà aggiungere,--rispose Lorenzo rattenendosi a
stento,--che egli si schermisce anche meglio dal pericolo di un
duello....

--Oh, questo, poi!

--Oh, questo, poi, lo so di buon luogo. Egli è vile quanto spavaldo.
Ma a me non fanno senso quei suoi modi da gradasso, e la mano son
certo gli tremerà quando abbia a scendere sul terreno.

--Ma non avete voi detto dianzi,--interruppe la contessa sorridendo
ironicamente,--che egli si schermisce da cosiffatti pericoli?

--Sì,--rispose Lorenzo, senza badare al piglio sarcastico della
contessa,--quando abbia da fare co' dolci di sale, e possa dar loro a
credere ch'egli è un uomo generoso; ma io lo trascinerò pe' capegli,
il conte Alerami, e gli dirò la gran parola che lo metta a segno per
sempre.... Avventuriere!--

La contessa Cisneri si alzò dalla poltrona, e guardando Lorenzo dal
capo alle piante, gli disse con voce sottile ma ferma:

--Voi insultate un uomo che io accolgo in casa mia!--Se la nostra
lingua italiana consentisse l'uso di certe metafore, diremmo che
quella voce sottile ma ferma della contessa Cisneri poteva
rassomigliarsi ad una lama di pugnale, che appare così fine, e va
diritta nelle carni; che fa un buco da nulla, e tuttavia vi s'immerge
nel cuore.

Intanto per Lorenzo Salvani le parole di Matilde furono come una
trafittura, e il primo atto del giovine fu quello di recarsi una mano
sul cuore, come se appunto colà fosse andato a ferire il dispregio
della bionda signora, che stava ritta in piedi dinanzi a lui,
guardandolo con piglio sdegnoso.

Egli tuttavia non disse parola. L'assalto era stato così repentino e
violento, che egli non seppe che cosa rispondere. A volte anco il
silenzio è sublime, e Lorenzo fu sublime tacendo, in quella che
guardava la contessa con aria di doloroso stupore.

--Signor Salvani,--proseguì la contessa,--siete voi dunque disceso
così in basso, da calunniare i gentiluomini che vi danno molestia?--

Lorenzo impallidì a quella seconda percossa; quindi per naturale
contrasto, gli divampò il volto, all'improvviso rifluire del sangue
alle tempia. Si cacciò una mano ne' capelli, e strinse così forte,
come se volesse strapparseli.

--Calunniare! calunniare!--ripetè egli con una terribile progressione
di accento.--Oh, voi lo amate, signora.... Voi lo amate! Adesso vi
porreste invano a negarlo.--

Matilde rispose crollando le spalle, e stringendo le labbra; quindi si
mosse per andare allo specchio.

Era quello uno stato di cose difficilissimo per ambedue. Lorenzo aveva
già posto mano al cappello per andarsene, quando si udì il fruscio
d'una veste, e subito dopo un batter di nocche sull'uscio.

--Avanti!--disse la contessa, rivolgendosi da quel lato. L'uscio si
aperse, ed entrò la cameriera ad annunziare l'arrivo del conte Alerami
col marchese De' Carli.

--Ah! lo sapeva che non sarebbero stati molto a giungere!--esclamò la
contessa.--Signore, eccovi dunque contento! Il marchese De' Carli è la
lingua più lunga di tutta Genova, e si piglierà certamente una satolla
de' fatti miei.

--Signora,--rispose Lorenzo, facendo ogni sua possa per
rattenersi,--perdonatemi! Me ne andrò.

--Sì, ve ne andrete adesso, perchè vi vedano uscire, e tutti abbiano a
risapere che eravate qui solo nel mio spogliatoio.--

Il giovine Salvani chinò gli occhi, e si morse le labbra, per non
rispondere altro.

--Che cosa avete detto a que' signori?--chiese la contessa a Cecchina.

--Ho detto che la contessa non aveva anche potuto por mano a vestirsi.

--Sta bene. Andate, e fateli entrar qui. E voi intanto, signore,
sedetevi e ricomponetevi.

--Non temete, signora!--rispose Lorenzo con piglio modestamente
contegnoso;--i miei occhi si sono rasciugati, e spero non avrete ad
arrossire più oltre per cagion mia.

--Tanto meglio!--soggiunse la contessa, e andò per sedersi allo
specchio; ma poi, pensando che quella positura avrebbe potuto parere
studiata, corse al sofà dov'era già seduto Lorenzo, col suo cappello
in mano, e gli si pose daccanto, in atto di chi prosegue un discorso.

In quel punto entrarono i due signori annunziati da Cecchina, l'uno il
conte Alerami, che i lettori conoscono per quel tanto che ne abbiamo
già detto, l'altro il marchese De' Carli, un vecchio sui sessanta, o
in quel torno, tutt'e due in falda e coi guanti paglierini.

--Ah! ah!--esclamò il marchese, che rideva sgangheratamente ad ogni
tratto, e tartagliava per giunta;--entriamo dunque nel santuario?

--Sì, per l'appunto; entrate, Onofrio,--gridò allegramente la
contessa,--e non vi spaventate, per carità, se troverete la dea
vestita ancora da casa. Stavo qui domandando il parere del signor
Salvani sull'abbigliatura che debbo indossare; ma egli non ha voluto
dirmi nulla; di guisa che pregavo il cielo che mi mandasse qualche
buon consigliere. Ed ecco, capitate voi, che siete il buon gusto
incarnato.--

La scaltrita contessa voleva con tutti que' vezzi accattarsi la
benevolenza del vecchio marchese, e la sua perorazione era tale da
farlo andare in brodo di succiole.

Era un ridevole personaggio, quel marchese Onofrio De' Carli, o
marchese Tartaglia, come gli si diceva alle spalle da certi burloni.
Da giovine aveva fatto il vagheggino, e perseverava ancora, come se
gli anni non fossero venuti. Si tingeva baffi e capegli, avendone
l'aria di un vecchio Cupido rimpennato e ritinto. Quando parlava, era
necessario tenersi alla larga; se no, con la sua lingua impacciata, vi
schizzava addosso le bollicine di saliva. Sapeva la storia di tutti, e
faceva il gazzettiere nei salotti, dettando anche sonetti e madrigali
per ogni occasione, come un vecchio Arcade. Le signore lo mandavano
ogni tanto a cercare, e tra perchè temevano la sua linguaccia e perchè
si pigliavano spasso de' fatti suoi, non potevano stare un giorno
senza di lui. Questo sapevano tutti, epperò si faceva a chi gli desse
più argutamente la baia intorno alle sue avventure galanti; ed egli a
gongolare, a ridere più sgangheratamente che mai, ed aspergervi della
sua eterna rugiada.

--Il signor Salvani ed io,--disse egli, andando a sedersi nella
poltrona accanto a Matilde,--possiamo darvi ottimi consigli, ma il
vostro specchio ve li darà migliori. Sarete la regina della festa, o
ce ne saranno due. Quella pettinatura, poi, vi sta a meraviglia. A
cavalcioni su que' biondi cernecchi se ne stanno gli amori, saettando
vicini e lontani....

--Basta, basta, Onofrio! Siete un vero diluvio.

--Nel quale la vostra bellezza va incolume come l'Arca.--

E detta quest'arguzia, il marchese Onofrio arrovesciò il capo sulla
spalliera della poltrona, ridendo a crepapelle e sfrombolando l'aria
co' suoi eterni sbruffi.

Lorenzo non aveva ancora aperto bocca. Egli stava rannuvolato
guardando il conte palatino, il quale, dopo aver baciato la mano alla
contessa, si era fatto in disparte, e taceva, come un innamorato in
ufficio.

--Suvvia, non ci perdiamo in chiacchiere!--disse Matilde.--Sarà tardi,
io credo.

--Sono le dieci!--soggiunse l'Alerami, cavando dalla tasca del
panciotto il suo orologio contornato di brillanti.

--Orbene,--proseguì la contessa,--poichè mi avete detto il vostro
parere, andatevene nel salotto, ch'io mi vestirò in fretta.

--Oh, non istate a darvi tanta premura,--disse il marchese.--Purchè
andiamo alle undici, giungerete sempre in tempo, anzi comparirete sul
più bello, come una dea di Omero nel più forte della mischia.

--Benissimo; lasciatemi dunque indossar l'armatura. Se volete
giuocare, aspettandomi....

--Vi obbediremo, contessa;--disse il conte Alerami.--Signor Salvani,
vuole Ella fare una partita?

--Non giuoco, signore.

--Giuocheremo una partita innocente. Appena una piccola posta, tanto
per tener vivo il giuoco.

--Tanto meglio per Lei, signore;--ripigliò Lorenzo con asciutta
cortesia;--la sua borsa non ne patirà danni troppo gravi, nel caso che
il marchese De' Carli fosse il fortunato.--

Matilde, avvedutasi della brutta piega che stava per prendere la
conversazione, si affrettò a soggiungere in quella che volgeva
un'occhiata severa a Lorenzo:

--Il proverbio dice: chi ha fortuna in amor non giuochi a carte.--

Il marchese Onofrio fece un inchino e una risata, per ringraziar la
contessa. Lorenzo, dal canto suo, stette saldo, aspettando che il
conte palatino gli dicesse qualche altra impertinenza. Egli, in fin
de' conti, non aveva fatto altro che respingere, con modi cortesi,
sebbene asciutti, un assalto del suo fortunato rivale.

Ma questi, che si sentiva punto sul vivo dall'accento sarcastico di
Lorenzo, volle aver la rivincita, e rispose con aria burbanzosa:

--A me non fa caso il perdere.

--E nemmeno a me,--disse di rimando Salvani,--fa gran caso sapere se
il giuoco sia innocente, o no. Ogniqualvolta potrò aver la ventura di
giuocare con Lei, non sarà certo la posta che mi metterà in pensiero.

--Ella parla come un Creso, signor Salvani!--rispose l'Alerami,
impaniandosi sempre più.

--Non c'è bisogno d'essere un Creso per parlare come io faccio, e
tutti i tesori del famoso re di Lidia non varrebbero la posta che il
più meschino degli uomini potrebbe giuocare. Ella che è stato in
India, signore--(Lorenzo non diceva mai signor conte)--conoscerà
certamente la posta che mettono talvolta gli Indiani su d'una partita
a scacchi.

--Non la conosco, in fede mia!

--Orbene, la servirò io: si giuocano gli occhi.

--Diamine!--esclamò il marchese Onofrio, che non capiva un'acca di
tutto quel battibecco.

Matilde, pallida, sbigottita, si era accasciata sul sofà, aspettando
la fine di quel dialogo ch'ella s'era inutilmente industriata a
sviare.

--Sicuro, gli occhi!--proseguì Lorenzo, guardando sempre fissò
l'Alerami.--Ad ogni partita che un giuocatore vince, cava un ferruzzo
leggerissimo, e fa con gran maestria saltare un occhio all'avversario.
Ella capirà benissimo che non si possa far più di tre partite, a
questo bel giuoco; e l'ultimo occhio che rimane incolume all'uno dei
due, gli serve per andarsene pe' fatti suoi, dopo avere accompagnato
il perdente fino all'uscio di casa. Ella è dunque avvertita; io soglio
giuocar grosse poste, e quando le piaccia, sarò sempre ai suoi
riveriti comandi.

--Eh! chi sa che non me ne venga la voglia!--disse il conte Alerami,
che la rabbia aveva fatto diventar bianco come un cencio lavato.

--Si accomodi, signore! E adesso,--conchiuse Lorenzo volgendosi con un
grazioso sorriso ai muti spettatori di quella scena,--signora
contessa, signor marchese, loro servo divoto!--

Con queste parole si accomiatò, lasciandoli tutti sbalorditi.

Grama vittoria, nondimeno! Il povero Lorenzo si sentiva schiantare il
cuore, uscendo da quella casa, che era stata la culla ed era la tomba
dell'amor suo.



XXIV.

Nel quale si parla di molte stelle del cielo ligustico.


Quella sera il palazzo Vivaldi era magnificamente illuminato. I grandi
finestroni sfolgoreggianti facevano impallidire le scarse fiammelle
del gasse negli scarsi fanali della via Nuova, e gli sfaccendati, i
musoni, stavano a contemplare quello spettacolo, senza sapere il
perchè. I curiosi si stringevano intorno agli sfaccendati; e i
viandanti, rattenuti da quell'ostacolo, intorno ai curiosi; di guisa
che al vedere tutta quella calca di gente, si sarebbe potuto credere
che fosse avvenuto in quel luogo un fatto grave, un alterco, una
rissa, un'uccisione, uno insomma di que' fatti che il giorno appresso
dànno agli strilloni il diritto di assordare le genti.

--Che è? che non è?--Non sapete?--È la gran festa da ballo in casa
Torre Vivaldi.

--Quella sì, è gente per la quale! Guardate che sfoggio di dorature!
Come splendono, attraverso i vetri delle finestre!

--Hanno illuminato tutto il palazzo. Vedete? Anche dalle finestre che
dànno sui vicoli c'è la medesima luce.

--Eh! le cose si fanno, o non si fanno. Ci saranno forse quattrocento
invitati!

--Che quattrocento? Dite pur mille. Io conosco lo scritturale di casa,
e so che le lettere d'invito salgono oltre al migliaio.

--Ve l'avrà data a bere, lo scritturale. O come volete che ci
capiscano mille persone là entro?

--Che sfarzo da principi! Già, costoro vogliono andare a finir male
con tanto lusso....

--Finir male! Siete pazzo? O non sapete che ci hanno dai dodici ai
quattordici milioni, senza contare i quadri, e quei due leoni di marmo
nella scala, che non hanno voluto vendere a un Inglese per cinquecento
mila lire?

--Ah! ah? bella, la storia dell'Inglese!

--O che? non lo credete?

--Sì, credo tutto, ma so ancora che a Genova, dovunque c'è un
capolavoro, c'è pure la sua brava leggenda dell'Inglese che voleva
comprarlo a peso d'oro.

--Sia come vi garba; intanto è sicuro che ci hanno molti milioni.

--Oh, non lo nego. Ma poichè sono ricchi sfondati, dovrebbero pensare
anche un tantino ai poveri.

--Ai poveri? Oh, non aspettano consigli, per pensarci, e si conta che
facciano per centomila lire di limosine all'anno, oltre le opere pie
nelle quali hanno mano.

--Davvero?

--Certo; sono gran signori, e amici della povera gente. Avrebbero ad
essere otto o dieci di quella fatta, in Genova, e la vedreste cambiare
dal nero al bianco.

--O dal bianco al nero!--soggiungeva un altro.

--E perchè dice questo, Lei? Non le par forse che io dica la verità?

--Dio me ne guardi! Ma chi le distribuisce, tutte queste limosine?

--Oh, fior di galantuomini; ottimi ecclesiastici, ed altre religiose
persone.

--Sta bene; ma sono accorte egualmente?

--Come sarebbe a dire?

--Che la limosina fatta alla cieca, non è altro che uno sfoggio
superbo, epperò avvilisce l'uomo, senza migliorarne lo stato. Oltre di
che, mentre se la spartiscono i raccomandati, la vedova muore di fame
con la sua figliuola, dopo avere inutilmente bussato all'uscio
signorile, e l'onesto bracciante è cacciato dalla casupola perchè non
ha pagato la pigione, e non ha lisciato acconciamente il fattore di
Sua Eccellenza.

--Sarà; ma intanto dove mi trova Ella un uomo che spenda centomila
lire in elemosine, come il marchese Antoniotto?

--Eh, non dico già questo per levargli il merito. Alla stretta dei
conti son sempre uomini commendevoli, e degni, d'esser fatti
consiglieri e sindaci della città.

--Ahi questa che Ella dice è una gran verità! Costoro almeno
amministrerebbero a dovere il danaro del comune, e non ci sarebbe
risico....

--Certo!--soggiungeva un altro.--Non ci sarebbe risico che rubassero
essi, ma che lasciassero rubare gli altri. A costoro basterebbe di
poter fare i prepotenti.

--Ohi ecco un'altra carrozza. Chi è quella signora che scende?

--È la marchesa Pellegrina Bracelli. Bella donna a' suoi tempi! Adesso
sua figlia è più bella di lei.

--Che novità! E probabilmente tra cento anni saranno morte ambedue.

--L'ha da essere una festa, ma di quelle!--diceva un altro.--Questa
gente si ricorda d'essere sangue di dogi.

--Ci sono stati dei dogi nella casata Vivaldi?

--Nella casata Vivaldi, e anche in quella dei Torre.

--Peccato che non ne nascono più, dei dogi!

--Ma! è davvero un peccato. Essi valevano assai più dei vostri
__governatori e intendenti__ moderni.

--Oh, qui poi ci avete ragioni da vendere. Quando non ci fosse altro,
basterebbe notare che erano animali domestici.

Erano questi i discorsi che la gente faceva sulla via.

Il popolo genovese è pieno di questi capi ameni, i quali si dànno
pensiero d'ogni cosa, pel solo ed unico gusto di disputare; ciceroni
da dozzina e curiosi di ogni risma, i quali sanno tutte le minuzie del
passato, frugano tutte quelle del presente e vorrebbero anche
indovinar quelle del futuro; la più parte avventori costanti del
__caffè della Liguria__, in via Luccoli, o del __caffè di Napoli__ in
Soziglia; filosofi peripatetici dei portici del Teatro; speculatori
del bel tempo sulle mura delle Grazie; uditori attentissimi alla Corte
d'Assise, e alle parlate del Consiglio comunale.

Intanto giungevano le carrozze stemmate, e, mandando un po' indietro
la calca dei curiosi, si fermavano dinanzi al portone. Lo staffiere
saltava giù da cassetto, apriva lo sportello, e, col cappello
gallonato in mano, distendeva i gradini ripiegati dello smontatoio. Il
cavaliere scendeva sollecito, e porgeva la mano alla dama, che, tutta
ravvolta nella sua mantellina, non lasciava veder altro che
l'acconciatura del capo e la noce del piede.

Era già molto pei riguardanti, se il viso era bello, sottile il
piedino e ben tornito il fùsolo.

--È la tale!--No, è la tal altra!--E lì commenti, aneddoti, vita e
miracoli della signora che passava.

La carrozza della nobile Ottavia Scotti, vedova Belmosti, si fermò a
sua volta, e ne scese la vecchia dama, con Matilde Cisneri, il
marchese De' Carli e il conte Alerami.

Il lettore ricorderà che nei primi cenni intorno alla bionda contessa,
abbiamo parlato d'una sua vecchia amica, la quale, non sapendo
staccarsi dal mondo e dalle sue vanità, si appuntellava alla rinomata
bellezza di una giovine, per non uscirne del tutto. Era costei la
Belmosti, ottima donna in fin dei conti, la quale con la sua
nobilissima compagnia dava assai più che non ricevesse da altri. E la
Cisneri lo sapeva benissimo, che, la mercè della sua vecchia amica,
cugina del marchese Antoniotto dal lato materno, era stata invitata
alla festa dai Torre Vivaldi.

Il nostro conte palatino si affrettò, con savio accorgimento, ad
offrire il braccio alla nobile Ottavia. Il marchese Tartaglia si
dinoccolò per offrire il suo alla Matilde, e tutti e quattro, gloriosi
e trionfanti, salirono le scale.

Lorenzo Salvani, nascosto nella folla, ebbe agio di vedere tutta la
scena e udire per giunta le chiacchiere degli sfaccendati, che
tagliavano i panni addosso a quelle nobili persone.

Colla falda del cappello aggrondata sugli occhi, il colletto del
pastrano alzato fino all'orecchio, egli era andato ad appostarsi colà,
per vedere anche una volta la bella Matilde. Ultimo guizzo d'una
lucerna che si spegne, ultima ubbìa d'un povero amante lasciato in
asso!

Il cuore gli si strinse, quando vide Matilde, saltar leggiera e
contenta dallo smontatoio sulla soglia del portico; gli occhi
mandarono lampi, quando scorse l'Alerami.

--Domani;--borbottò egli tra sè.--Domani, se non siete un
codardo....--

Matilde era sparita col marchese De' Carli, e Lorenzo vide ancora la
vecchia gentildonna che le teneva dietro, appoggiata al braccio del
conte palatino.

Su per le scale marmoree del palazzo Vivaldi era una luce vivissima.
Numerosi servi in livrea e guanti bianchi stavano nella sala
d'ingresso, che era pittorescamente ornata di fiori e piante
tropicali, come le stufe dei nostri giardini.

Di là s'entrava in una fila di sale stupende, le quali giravano tutto
intorno il piano nobile del palazzo, ricche delle tele, degli
affreschi e degli ornati dei più famosi artisti.

Quelle sale, giusta l'antico costume dei signori italiani, portavano
il nome delle divinità pagane che la fantasia del pittore aveva
effigiate nella volta. Epperò in quella sontuosa dimora dei Vivaldi si
notava il salotto di Cerere, dell'Aurora, di Diana, delle Muse e di
Flora; divinità tutte rappresentate in altrettanti medaglioni a buon
fresco, e accompagnate dai loro emblemi; storie particolari e scene
simboliche negli altri scompartimenti e lunetti della sala.

Per tal modo gl'intendenti di cose artistiche potevano ammirare le
opere del Semino, del Carlone, del Tavarone e d'altri buoni frescanti
della scuola genovese, le quadrature dell'Adrovandini, le prospettive
degli Haffner, e gli ornati recenti condotti con finissimo gusto e
accortamente disposati alle antiche dipinture dal nostro valoroso
Michele Canzio.

Che diremo noi delle tele d'ogni misura, le quali arricchivano quelle
magnifiche sale? Erano dipinti del Caracci, dell'Albano e del Rubens,
battaglie del Bourguignon e di Salvator Rosa, madonne del Dolci,
ritratti di Tiziano, di Paris Bordone e del Vandyck. In un salottino,
che era il pensatoio della marchesa Ginevra (diciamo italianamente
pensatoio il francese __boudoir__, che ha una etimologia meno cortese)
regnava solitaria ma splendida una Danae di Guido Reni, la quale
aspettava la pioggia d'oro, e faceva sospirare tutti coloro che non si
sentivano da tanto di contenderla a Giove. Alla luce dei doppieri i
capegli d'oro e gli occhi desiosi della bella prigioniera
sfavillavano; il molleggiare delle carni dava immagine di donna viva,
e quella bianca cortina che di consueto nascondeva il quadro, tirata
discretamente sui lati, faceva credere al riguardante che egli fosse
davvero il furtivo testimone dei voluttuosi segreti di un'alcova
pagana.

Le modanature d'oro, gli affreschi, gli ornati, le tele, gli arazzi
antichi, insuperbivano le sale del palazzo Vivaldi, e tanto più
degnamente in quanto che la luce, in ogni parte profusa, faceva
risplendere ogni cosa in apparenza di freschezza e di novità. Le
grandi masserizie mirabilmente intagliate e indorate con recente
accuratezza, le tavole incrostate di marmi preziosi, i velluti di
Utrecht orlati di frange e nappe d'oro, i damaschi azzurrini, rossi e
gialli, i tappeti storiati, le larghe cortine rabescate, tutto
attestava l'opera dei secoli più largamente magnifici; e tutto del
pari era fresco, rilucente, sfolgoreggiante, come se tutti gli
artefici che avevano arricchito il palazzo Vivaldi delle opere loro,
avessero dato l'ultima mano ad ogni cosa il giorno innanzi la festa.

Mirabile su tutti gli altri era il salone di Flora, dove si facevano
le danze. Quel salone che, se i lettori rammentano, non si illuminava
se non nelle grandi occasioni, risplendeva per le opere di Pierin del
Vaga, discepolo di Raffaello, che vi aveva fatto prova del suo
mirabile ingegno, lavorando la volta con la vivezza de' suoi colori e
adornando in tal guisa le pareti, da sbandire anticipatamente i
profani arazzi di seta e di carta felpata, i quali fanno testimonianza
del lusso gretto e piccino dei tempi nostri.

Erano poi notevoli nei quattro angoli del salone quattro fauni del
Montorsoli, stupende statue sul fare michelangiolesco, che sostenevano
canestri di fiori e candelabri. Su questi erano piantati in gran
numero i torchietti di cera che aggiungevano la loro luce a quella di
un grande lampadario sospeso nel mezzo, e scintillavano, non sappiamo
bene quante volte, nei molteplici riflessi de' grandi specchi che
pendevano dalle pareti. I canestri poi erano colmi di fiori freschi,
che parevano raccolti alla rinfusa ed erano in quella vece le più
accorte mescolanze immaginate dalla più sapiente tra tutte le
sacerdotesse di Flora che mai profumasse della sua variopinta merce un
portone della via Nuova o della via Carlo Felice.

Ma a gran pezza più splendide dei doppieri, e più belle dei fiori,
erano le gentildonne genovesi, che portano il vanto della bellezza su
tutte le donne del mondo (ogni scrittore o cortigiano d'altro paese
potrà dire lo stesso di casa sua, che noi non ce ne recheremo più che
tanto) e che, vestite in gala, ornate di perle, luccicanti di gemme e
diamanti, apparivano stelle di prima e di seconda grandezza
nell'azzurro del cielo, o Dee dell'Olimpo, che torna lo stesso per
chiunque ricordi l'origine astronomica di tante umane idolatrie.

Mollemente adagiata su d'un ampio sofà, coperto di velluto verde
scuro, stava la bella Usodimare, il cui nome non si usava mai
scompagnare dall'epiteto, per modo che quest'ultimo era diventato
necessario a far capire che si parlava di lei. Sebbene la marchesa
Giovanna Usodimare avesse già contate le sue trentasei primavere,
appariva pur sempre giovane, e non cedeva la palma ad altre parecchie
di più recente splendidezza. Il naso, superbamente fermato senza
incavatura al basso della fronte, la faceva rassomigliare alla Venere
di Milo, della quale ci aveva pure la bocca disdegnosa e i capelli
increspati: ma un diadema di conchiglie mezzo nascosto nelle ciocche
rivoltate alla foggia greca verso le tempia, e un vezzo di perle che
rompeva i magnifici contorni delle spalle ignude, ricordavano più
agevolmente Anfitrite, la regina del mare. Perciò voi potete giurare,
o lettori, che il marchese Onofrio De' Carli, da quell'ostinato
cultore del madrigale ch'egli era, non tralasciasse l'occasione di
bisticciare tra la dea del mare e il casato della marchesa, e di
paragonare i cavalieri che la ci aveva dintorno ad altrettanti
Tritoni, sebbene non facessero tanto sprazzo di schiuma com'egli,
quando gonfiava le gote.

Nè meno risplendeva per eleganza di forme la sua parente Erminia
Lercari, sebbene la bellezza di costei derivasse da un tipo al tutto
diverso. Era una svelta ed aggraziata persona, con una testolina che
avrebbe potuto servir di modello al Canova, tanto ne erano fini e
delicati i lineamenti. Ma se il Canova era morto, viveva il Dupré, che
nel busto della marchesa Erminia aveva saputo dar vita ad un vero
capolavoro, quantunque il marmo non avesse potuto ritrarre tutta la
profonda virtù di quegli occhi, che parevano metter scintille. Certe
movenze del capo e della mano asciutta e sottile, accennavano una
donna d'animo forte, nata per comandare altrui. Ma quanto più robusta
era la tempera, tanto più era fine; e perchè il gusto era eletto,
cortese il pensamento, il comando riusciva dolcissimo, come quello che
si volgeva sempre alle cose buone e gentili. La Lercari era colta e
studiosa, e cotesto appariva facilmente, senza che ella pure il
volesse, in una società come la nostra, dove le donne di consueto sono
così poco addestrate nelle severe discipline, e gli uomini (diciamolo
a nostra vergogna) anche meno. Però si sarebbe potuta paragonare a
Minerva, come cento e dugento anni innanzi una di quelle mogli di dogi
e senatori, le quali dettavano versi e prose, disputavano coi dotti,
ed erano del pari ottime madri di famiglia, savie e cortesi matrone,
che con la schietta bontà dei modi temperavano l'alterezza dei loro
accigliati mariti.

Chi di noi vorrebbe oggi tornare a quei tempi in cui il popolo era
servo, o poco meno, di quelli ottimati, e la repubblica stessa altro
non era che un cadavere coperto di seta? E tuttavia que' tempi si
ricordano con affetto, la mercè di quelle belle e colte marchesane che
il pennello del Vandyck ha tramandate alla nostra ammirazione, buone e
pietose, con tutta la durezza che conferiva ai loro volti la
gorgieretta insaldata a cannoncini e il taglio delle vesti spagnuole.
Non altrimenti le Corti di amore, i colori della dama valorosamente
portati in Palestina e l'ambito premio del torneo, ci rappattumano
colle feroci memorie del Medio Evo. __Quid foemina possit....__

Ma torniamo alle nostre gentildonne in casa Torre Vivaldi. La signora
Maddalena Torralba era anche essa degna di ammirazione, per quei suoi
grandi occhi azzurrognoli, per le carni del color del latte, per la
soavità del volto. Era una di quelle donne che si dicono molto
acconciamente impastate di bontà, tutta dolci pensieri significati con
dolci parole da una voce melodiosa, sebbene un tal po' gutturale. Un
cercatore di contrasti, ne avrebbe trovato uno bello e fatto,
considerando la Torralba, seduta accanto all'amica sua, la Fulvia
Cassana, che era la marchesa più bruna di Genova, che aveva gli occhi
e le sopracciglia di un'Andalusa, e le fattezze e il portamento di
un'antica Romana.

Un viso di Erigone, poichè siamo a capo fitto nei paragoni, era quello
della marchesa Giulia Monterosso, dalle labbra tumide e coralline,
dalle guance vivide come le pesche duràcine (lettori, per carità, non
vi salti il grillo di mordere!) e dagli sguardi accesi che avrebbero
rimescolato il sangue nelle vene al più tranquillo anacoreta della
Tebaide.

--Tutte marchesane? null'altro che marchesane?--Sissignori; non è
colpa nostra, se nella festa da ballo dei Torre Vivaldi ce n'erano
tante, le quali portassero il pregio di un tocco in penna. E si noti
che ne lasciamo nel dimenticatoio parecchie, le quali ci vorranno un
mal di morte, perchè non abbiamo tessuto loro uno zinzino di
panegirico.

Ma v'erano anche le signore senza corona, quelle tali che, come
abbiamo detto, portavano alteramente i loro trentasei quarti di
bellezza, e non li avrebbero barattati con altrettanti di nobiltà.

Tra queste era allora donna e madonna la Enrichetta Corani, il cui
sguardo derivava tanta efficacia da certi occhi d'indaco, mezzo
nascosti da lunghe ciglia. Era alta della persona, e non fu mai più
acconcio il dire __collo di cigno__, che pel collo svelto e morbido
della signora Enrichetta. Il colorito non aveva nè bianco, nè rosso,
nè pallido, sibbene opalino, se ci è consentito di foggiare ad epiteto
il colore bianco azzurrognolo latteo senza lucentezza di quella pietra
che chiamano opale; colorito che sanno indovinare i grandi pittori, e
per cui sovente i grami non fanno altro che impiastrare inutilmente la
tela.

Era la signora Enrichetta che teneva in onore le cascate, o ricci a
lunghe spire, che sbucavano da dietro gli orecchi e pendevano intorno
al collo, per dar maggiore risalto alle carni. La chiamavano a Genova
la signora dei tulipani, per una ghirlanda di questi fiori che ella
s'era posta un giorno nella nerissima capigliatura. Tulipani
simbolici! Molti erano gli innamorati che stavano intorno alla
bellissima donna; ma neppur uno di que' tulipani era voluto cascare a
terra, per farsi raccogliere, come una tacita promessa d'amore.

Tra tante graziose dame, la bionda Cisneri non poteva esser dunque
regina, come le aveva pronosticato tra due sbruffi il lezioso marchese
De' Carli. Ella poteva forse forse comparire come una stella di
seconda grandezza in quel firmamento femminile; e soltanto la sua
vedovanza, insieme con una maggiore libertà, le attraeva dintorno una
maggior copia di adoratori.

Certo, se Lorenzo Salvani fosse stato in quelle sale, Matilde non gli
sarebbe più sembrata la regina delle donne: poichè, senza pur mettere
in conto che talune di quelle dame erano più appariscenti di lei, la
bellezza raffigurata in tanti volti e persone diverse, adorna di tutte
le incantevoli malìe che procaccia la ricchezza (anche Venere derivò
la sua maggior possanza dal cinto miracoloso), è tal cosa che innebria
come la copia molteplice dei vini.

Egli, verbigrazia, non avrebbe durato fatica a notare che il tipo di
Matilde era un nulla al raffronto della Corani o della Usodimare, e
che tra le donne a lui note, soltanto Maria, la sua sorella adottiva
vestita da gran dama, avrebbe conteso il pomo della bellezza a tutte
quante, e perfino alla regina della festa, alla Ginevra dagli occhi
verdi.

Ci siam giunti, alla perfine, a questo gran nome!--dirà il lettore,
che ha una voglia spasimata di conoscere la regina della festa. E la
sua impazienza è ragionevole, dappoichè egli ha inteso che la bella
Ginevra ha da essere gran parte di questa storia che gli andiamo
narrando, e, come avviene in cosifatte letture, egli vorrà vedere se
la gentildonna rassomigli a quel tipo di perfezione ch'egli ha
immaginato, e se la ci abbia tutta quella virtù, quell'incognito
indistinto di soavi fragranze, che sogliono tramandare le eroine da
romanzo.

E noi, i quali l'abbiamo fatta sospirar tanto al cortese lettore,
siamo impacciati a dipingerla, temendo forte che la grande
aspettazione da noi prodotta non faccia torto ai grami colori della
nostra tavolozza e alla imperizia del nostro pennello.



XXV.

La bella Ginevra dagli occhi verdi.


Le danze erano già incominciate e i piedini delle signore scivolavano
agilmente su d'un tavolato di legni preziosi vagamente intarsiati,
superficie levigata e lucente, che era con molto buon gusto surrogata
alla consueta tela giallognola stirata sul tappeto e fermata negli
orli al pavimento.

I Torre Vivaldi facevano splendidamente ogni cosa, e tra l'altre belle
novità della festa si notava quella della musica, parte composta di
suonatori e parte di coristi, i quali alternavano i canti e i suoni,
siccome si usa in certe eleganti feste da ballo d'altri paesi. Un
__Waltzer__ di Strauss, così suonato a vicenda e cantato, faceva
ricorrer la mente alla strofe, all'antistrofe e all'epodo dell'inno
greco, producendo effetti mirabili di voluttuosa dolcezza e di
gagliardia turbinosa.

La marchesa Ginevra non aveva ancora danzato. Già parecchi nomi erano
scritti sul taccuino dalle carte gemmate, che raffiguravano le ali
d'una farfalla, e che aprendosi lasciavano scorgere i fogli sottili di
avorio, disposti a ventaglio dintorno al lepidòttero, la cui
testolina, formata da uno smeraldo, era la capocchia di una elegante
matita.

Ma ad ogni nuovo nome scritto, il taccuino ricadeva penzoloni dalla
sua catenella, e la marchesa Ginevra non si muoveva ancora dal primo
salotto, accanto alla sala d'ingresso, dov'ella stava a ricevere i
suoi invitati, da vera padrona di casa che sa il debito suo.

Qualche dama meno vogliosa di ballare stava a tenerle compagnia, e non
mancavano i satelliti del genere maschile, tra i quali ci par degno di
una menzione particolare un vecchio mastodonte, il nobile signor
Demetrio Salvi o De' Salvi, siccome egli si faceva chiamare.

Chi non ha conosciuto il De' Salvi, quello stecchito personaggio, il
quale visitava almeno trenta palchetti ogni sera al teatro Carlo
Felice? la cui voce di basso profondo infreddato si faceva udire e
zittire dalla platea, allorquando infastidiva le povere signore,
raccontando a questa e a quella la cronaca quotidiana di tutte le
altre, gazzetta ambulante scritta a caratteri gotici su di una vecchia
cartapecora?

Costui aveva tenuto un ufficio importante nella Intendenza (oggi
bisogna dir Prefettura); ma da alcuni anni era messo a riposo; laonde
ci aveva tempo da spendere, e con le sue visite eterne non lasciava
riposare nessuno. I capi ameni gli davano settant'anni suonati, ma
egli non voleva dimostrarne neppure cinquanta, e prestava con mirabile
assiduità i suoi servigi alla milizia cittadina, lasciando di tratto
in tratto trapelare un po' di amarezza contro il Consiglio di
ricognizione, che non voleva farlo cancellare dall'albo dei militi.

Credeva di avere la scienza infusa, e parlava a diritto e a rovescio
d'arti liberali, di politica, di araldica, e d'ogni altra cosa che
venisse in discorso. Diceva roba da chiodi della musica moderna, e
sospirava i tempi beati del suo amico Paulucci, che sapeva mettere a
segno i rompicolli. Tra tutte le sue ubbíe, la più grave era
certamente quella di credersi un gran maestro di cerimonie, di guisa
che taluni gli avevano imposto il soprannome di gran ciamberlano, e
parecchie famiglie, pigliando la sua scienza sul sodo, lo consultavano
sulle formalità del cerimoniale domestico e su cento altre minuzie di
quella fatta.

Il nobile De' Salvi era stato a' suoi tempi uno dei cavalieri serventi
della madre di Ginevra, e pareva ne avesse derivato il privilegio di
dar molestia alla figlia, standole sempre a' fianchi, e offrendole
consigli, che essa non chiedeva punto e accoglieva sorridendo.

--Vedete,--le diceva egli,--bisogna diportarsi in questo modo. La
Clelia non è venuta a vedervi da un pezzo; ma avete fatto bene ad
invitarla, perchè io so che la poverina è stata giù di salute. Ha
voluto allattare il suo bambino, e le sue forze non erano da tanto.
Sta benissimo che non vi diate pensiero dell'Amalia. Suo marito s'è
posto su d'una mala via, e tra tutti e due non badano punto al decoro
della famiglia, accogliendo in casa loro ogni maniera di gente. Vi so
dir io che in quella casa non ci si può stare....--

Ed era verissimo. In quella casa non ci poteva star egli, poichè tutti
que' capi ameni in mezzo ai quali si trovava, volendo fare lo
sputatondo, avevano l'aria di metterlo in canzone.

Nè va dimenticato com'egli fosse tenero del buon costume, fino a segno
di volere che le ballerine portassero le brache lunghe fin sotto il
ginocchio. Forse per questa sua tenerezza il nostro Solone, al
cominciar del ballo, correva sempre nel palchetto della deputazione
comunale, seguace in codesto della massima che certi mali molto gravi
bisogna studiarli da vicino.

E poi piombava in casa delle signore quando meno avrebbero voluto
vederlo; e se notava due o tre volte la presenza di qualche
giovanotto, egli subito con bel garbo ne toccava al marito. Non già
per metter male, nè per vederne dove non ce n'era punto, chè la
signora era una Lucrezia e il giovanotto un Giuseppe; ma perchè il
mondo era tristo, chiacchierone, pronto a giudicare: insomma, diceva
tanto e tanto, che bisognava fare a modo suo, e la signora comprarsi
la sua pace domestica usando una scortesia a quel tale che non piaceva
al nobile De' Salvi.

--Adesso,--diceva costui alla marchesa Ginevra,--potete andar
liberamente a ballare. È già un'ora che state qui, e quelle che sanno
il debito loro sono già venute. Le altre che si fanno aspettare oltre
il bisogno, debbono a loro volta aspettare che voi le salutiate. Se
non conoscono le buone creanze, tanto peggio per loro.--

Poi, di tratto in tratto, andava nel salone di Flora a vedere il
ballo; si accostava con un piglio di affettata dimestichezza a questa
e a quella, dicendo all'una che non ballasse troppo, a cagione del suo
stato (sapeva perfino queste cose, il nobile De' Salvi!), all'altra
che non ballasse il __waltzer__, perchè le faceva girare il capo, e
via discorrendo. Era insomma una molestia da non dirsi a parole.

In quanto alla Ginevra, che egli voleva ad ogni costo mandare a
ballare, ella non gli dava retta, e non si muoveva dal suo posto. Ciò
dispiaceva fortemente al gran ciamberlano. Perchè? Per la stessa
ragione che consigliava all'Emma o alla Clarice di non ballare; perchè
non voleva lasciare in pace nessuno. D'uomini cosiffattamente
stucchevoli è abbondanza nel mondo, e noi ne conosciamo parecchi,
senza punto saperci capacitare del perchè si sopportino.

Ora intanto che la marchesa Ginevra aspetta, e graziosamente accoglie
i nuovi venuti, alzandosi per le donne e porgendo loro la mano,
lasciando giungere gli uomini e dicendo cortesi parole ai noti amici
che fanno atto di sudditanza e ai nuovi che le presenta il marchese
Antoniotto; intanto che procaccia qualche conoscenza alle dame
forestiere, o raccomanda questa o quella ai cavalieri più compiacenti
che si butterebbero nel fuoco per obbedirla; andando a venendo insomma
con una grazia da regina, noi ci proveremo a farvi questa benedetta
dipintura della bellissima donna.

Enrico Pietrasanta aveva ragione: i capegli della marchesa Ginevra
erano castagni, fini ed abbondanti, e, rischiarati in diverse guise
dai riflessi della luce, componevano quasi un'aureola intorno ad un
bel viso bianco perlato, alle carni stupende, senz'ombra di rosso o di
giallo, senza soverchio di grassezza, che vincevano al raffronto la
celebrata carnagione della Enrichetta Corani.

Si poteva dir quasi che di quelle chiome copiose ella non sapesse che
farne, dacchè era costretta a serrarle in lunghe trecce, le quali,
tuttochè ravvolte in giri molteplici, le scendevano pur sempre sul
collo più giù che non comportasse la moda.

Ma questo non era poi un difetto, e ognuno, al vedere quell'ampio
volume di capegli, avrebbe potuto argomentar di leggeri che se
Domineddio ne avesse fatto copia ad Eva, la madre del genere umano non
sarebbe andata a limosinare le foglie di un albero per coprirne la sua
nudità vergognata. Si aggiungeva che quella necessaria acconciatura
faceva portare alla marchesa Ginevra il capo mollemente chino: il
quale atteggiamento, tra per l'alta statura e per la sciolta eleganza
del collo, le conferiva maggior leggiadria.

Le ciocche al sommo del capo, lievemente increspate, si stendevano
sulle tempia e si ripiegavano in due lisce staffe un po' sopra gli
orecchi, senza coprire gran parte della fronte, dove spaziava l'arco
maraviglioso delle sopracciglia, ombreggiando gli occhi verdi, grandi
e dolcemente allungati, i quali, dando anche essi ragione al
Pietrasanta, assumevano tutti i riflessi. Il naso, sottile senza dar
nello smilzo, diritto e giustamente riciso, lasciava al tutto scoperto
il labbro superiore, voluttuosamente rilevato, il quale sorridendo
infossava leggiadramente le guance e faceva apparire per quel breve
spiraglio due file di bianchissimi denti, che si potevano più
acconciamente paragonare al candore della madreperla che a quello
dell'avorio. Il mento ovale, severamente scolpito, significava
saldezza di propositi, in rispondenza col diritto profilo della
fronte.

Da quel mento e dagli orecchi, piccini ed aggraziati che parevano una
miniatura, nè avevano voluto essere forati nè profanati dalla
selvaggia costumanza dei ciondoli, scendiamo al collo svelto e
tondeggiante, che portava tutto intorno disegnata quella ruga sottile,
simbolico cinto della bellezza, di cui le nostri Veneri insuperbiscono
più assai che di un vezzo di gemme. Gli omeri, non molto rilevati,
scendevano dalle radici del collo con una curva delicata che dava alla
persona un'aria di somma dolcezza, in contrasto col mento reciso e
colla fronte diritta. Ma appunto da simili contrasti scaturisce
l'armonia di una bellezza suprema.

Così il seno, che un poeta classico avrebbe battezzato acerbo, non
dimenticando il solito paragone con le fragranti mele appie, era un
miracolo di casti contorni, e la sua bianchezza non appariva punto
sopraffatta da una collana di perle a cinque filze, dall'ultima delle
quali pendevano altre perle più grosse, allungate a forma di gocciola,
dai bei colori iridescenti.

Quel viso e quelli ornamenti, le carni, le labbra, gli occhi, la
collana, tutto era una perlagione, tutto si disposava armonicamente,
tutto concorreva a produrre un effetto profondo, a far pensare e
sospirare il riguardante. A compiere l'acconciatura di quella testa
perfettamente ovale, si aggiunga una corona di fiori di lilla, bianchi
e violacei, lavoro della Nattier, quella parigina che, in materia di
fiori, poteva dare dei punti alla madre natura. Parecchi diamanti
alternati con amatiste si attorcigliavano a quella corona di fiori, e
tremolando scintillavano, mettevano baleni intorno alla testa divina.

I fiori di lilla bianchi e violacei, i diamanti e le amatiste, erano
in rispondenza coi due colori del vestimento della marchesa Ginevra.
La bellissima donna indossava un'ampia veste di raso color di lilla
tenero, e una sopravveste di merletto finissimo, sopravveste da
duchessa, se pure è vero che le duchesse vestano più sfarzosamente
delle altre donne.

A' dì nostri, infatti, tutte le signore, a marcio dispetto della legge
suntuaria che temperava il lusso delle dame romane, fanno uno sfoggio
di abbigliature, che costano un occhio del capo ai mariti, e per
mostrarsi attillate agli occhi degli altri, farebbero, stiamo per
dire, carte false. Affrettiamoci tuttavia a soggiungere che non tutte,
anco se avessero potuto fare carte false, e spacciarne, sarebbero
venute a capo di portare una sopravveste come quella della marchesa
Ginevra. Era di merletto, ma di quel tal merletto antico che chiamano
punto di Venezia, lavorato sottilmente a rilievi di fiori a rabeschi,
con lo stemma dei Vivaldi ripetuto più volte sui lembi; la qual cosa
significava che quella veste, a cui si poteva dare il prezzo di forse
dugentomila lire, era stata trapunta a bella posta per una dama di
quella casata.

Rialzata un tratto in due punti sul dinanzi, quella sopravveste faceva
uno sgonfio, fermato sugli angoli da mazzolini di fiori di lilla
bianchi e violacei, con una rosetta di diamanti nel mezzo. Un
mazzolino somigliante, acconciamente posto su d'un cappio di merletto,
ornava le due attaccature della vita al sommo delle braccia, donde si
dipartivano larghe striscie dello stesso merletto, correndo intorno
alle spalle e giungendo poi sul dinanzi a chiudersi sotto un largo
fermaglio, o pettorina di filo d'oro, reticolato a rabeschi, che si
adattava al garbo del seno e dei fianchi. Abbiamo detto filo d'oro, ma
il filo non si vedeva, non essendo altro che la nascosta armatura di
un fitto di diamanti d'ogni misura, disposti in modo da raffigurar
rose e foglie, che amorosamente s'inerpicassero intorno al petto della
signora. Questa immagine ci pare a gran pezza più acconcia di
quell'altra che mise fuori il marchese De' Carli, allorquando, veduto
il fermaglio della Ginevra, lo disse una corazza adamantina. Ma forse
potranno stare ambedue. Quello che non può stare per nessun modo si è
il conto fatto da un banchiere, il quale, noverati così alla grossa
gli ornamenti della marchesa, scese a dire ch'ella poteva sottosopra
valere un milione e mezzo.

Quello era forse il prezzo de' suoi diamanti, delle sue perle e de'
suoi merletti di Venezia; ma la Ginevra dagli occhi verdi non aveva
prezzo. Tutti i tesori di Golconda e dell'arcipelago indiano non
valevano quel miracolo di natura che era la sua persona; nè tutti quei
giri di perle che le stringevano i polsi, valevano un dito mignolo di
quelle mani sottili, dalle venature trasparenti, che solo Fidia
avrebbe saputo modellare, ma senza infonder loro la vita.

La marchesa, come le nostre lettrici hanno veduto, era magnificamente
vestita, e mettiam pegno che taluna di esse si è già mattamente
inuzzolita di uno sfarzo così strabocchevole. Ma se questa lettrice
avesse veduto la Ginevra in persona, avrebbe più facilmente invidiato
la grazia eletta con cui erano portate tutte quelle dovizie femminili.
In fatti, a vederla, ella era molto più semplice di quello che non
appaia da una dipintura necessariamente frondosa, quantunque pur
sempre manchevole. Ogni cosa era a suo posto, ogni ornamento
rispondeva per modo da non potercisi vedere una stonatura, e quel che
più monta, il bianco splendore delle carni non ne era punto
sopraffatto.

Un ventaglio con le stecche di madreperla e una scena di amorini che
ruzzolavano festosamente sul prato, dipinta su d'una sottil pergamena
dal Rubens, non era il meno prezioso di tutti quelli ornamenti,
sebbene il banchiere anzidetto avesse dimenticato di metterlo nel
conto.

Ora, sarebbe quasi inutile il dire che parecchie altre di quelle
gentildonne invitate alla festa facevano pompa di tesori consimili. Le
grandi famiglie genovesi avranno poderi e palazzi che fruttano a mala
pena il due per cento; capolavori d'arte che non fruttano nulla; ma
vedrete pur sempre le signore sfolgoreggianti di gemme come
altrettante regine. E questo s'intenderà di leggieri, chi consideri
che le gentildonne della festa erano le discendenti di quelle antiche
dame, le quali tutte alla loro volta avevano portato diadema di
dogaressa, nello spazio di quasi cinquecento anni, da Simon Boccanegra
a Gerolamo Durazzo.

O bellezza! o forma sensibile della divinità, come risplendi tu mai,
circondata dai tesori della natura e dell'arte! Omero, il nostro gran
padre, non ha saputo altrimenti dipingerci la regina dei Numi,
Giunone, che vestendola di tutto punto come una dama de' suoi tempi.
Secondo lui, la diva dalle bianche braccia, doveva adornarsi con
sottil magistero di elette vesti e pietre preziose, farsi bella,
insomma, per innamorare il suo augusto marito. Ricordate con che arte
ella si acconciasse, innanzi di andarlo a cercare sul monte Ida,
dov'egli stava a bearsi lo sguardo delle busse che i Trojani davano ai
Greci? È forse l'unico esempio di apprestamenti leggiadri che mai
donna facesse per piacere al marito, dopo alcuni anni di matrimonio.

«La diva si avviò al regale suo talamo, a lei fabbricato dal figlio
Vulcano con salde porte e una tal serratura segreta che nessun Dio
sarebbe venuto a capo di aprire. Ella vi entrò, e chiusosi l'uscio
dietro a doppia mandata, si terse dapprima l'amabil corpo d'ambrosia,
e lo irrigò di una certa essenza oleosa, che, agitata nel cielo,
riempiva l'universo di inneffabili fragranze.

«Poi commise al pettine le chiome bellissime, e di sua mano le compose
in vaghi ricciolini ondeggianti intorno al capo immortale. Quindi,
toltosi l'accappatoio (Omero non lo dice, ma s'intende di leggieri),
indossò il peplo divino, tessuto da Minerva, e lo assicurò al petto
con un fermaglio d'oro. Si cinse i bei fianchi d'un cintiglio a molte
frange, e sospese agli orecchi ì suoi ciondoli gemmati a tre gocce.

«Si ravvolse intorno alla fronte una fulgida benda, e legatisi al
piede i bei coturni, uscì pomposa dalla celeste dimora, dopo aversi
posto in seno il cinto di Venere, sua figliastra, ben trapunto cinto
nel quale erano raccolte tutte le lusinghe, la voluttà dell'amore, il
desiderio segreto e la dolce favella degli innamorati.»

E sapete che facesse Giove, appena l'ebbe veduta? Non le diede neanco
il tempo di infilzar quattro parole, e senza dir nè due nè quattro, le
pose le braccia al seno e lasciò che i Greci, i prediletti di Giunone,
suonassero a loro posta i guerrieri di Troia.

Questo faceva Giove, il re dei celesti. Ora quale dei mortali non
avrebbe dimenticato ogni cosa per un sorriso della bella Ginevra, per
uno sguardo solo di quelli occhi marini? E quale di loro non avrebbe
affrontato di grande animo la morte, per respirare un solo momento la
divina ambrosia, o per parlare più umanamente, l'eletta fragranza di
quella regina delle donne?

Eppure, cosa incomprensibile ma vera, tutte queste dolcezze si possono
avere a straccia mercato, nel secolo in cui viviamo. Solo che siate un
uomo da poter essere presentato in un geniale ritrovo, vi è dato
sovente di respirare per due o tre ore quell'aria che un povero amante
pagherebbe con dieci anni di vita, e mettere una mano profana intorno
alla vita di quella donna, e bere, stiamo per dire, il suo alito, in
un giro di __waltzer__ o di __mazurka__.

Non ci faremo più oltre a dipingervi la marchesa Ginevra, nè a dirvi
partitamente delle sue bellezze. Vorremmo aggiungere che aveva un
piedino bello come la mano; ma voi sareste tali da voler sapere di che
tessuto fosse la calza, di che colore il legaccio, a noi da volervelo
dire. Lascieremo dunque alla vostra mente immaginosa l'ufficio di
finire la descrizione, e tanto più volentieri, in quanto che con tutte
le nostre parole non ci è venuto fatto di darvi ad intendere con quali
giuste proporzioni rispondessero l'una all'altra tutte le parti di
quel corpo bellissimo.

E la mente? Oh, questa era bella del pari. La marchesa Ginevra aveva
un ingegno vivissimo e colto sopra tutte le altre. Trattava con garbo
la matita, e il cembalo con agile maestria. Parlava con una voce
melodiosa quasi tutte le lingue d'Europa, l'italiana e la francese, la
spagnuola, l'inglese e la tedesca, di guisa che poteva leggere nel
loro testo, il Petrarca, il Byron, il Goethe, l'Hugo e Garcilasso de
la Vega. Il dialetto genovese che tanti trovano aspro, bisognava
sentire che musica fosse diventato sulle labbra coralline della
marchesa Ginevra!

E il cuore? Ahimè! Al tempo del nostro racconto il cuore della
marchesa non aveva anche dato segno di vita. Molti le stavano attorno,
sospirando, dicendo le più tenere cose; ed ella li stava ad udire, ma
senza rispondere mai in quella chiave. Però il Cigàla, il più ameno
filosofo che mai calzasse guanti paglierini, la metteva nel novero di
quelle belle meditabonde, le quali nelle soavi parole e nei rapimenti
di un uomo che le ama, stanno libando l'arcana dolcezza delle parole
che potrebbe dir loro un altro che amano esse.

Ma, anco ammettendo la massima del nostro povero amico Cigàla, che è
andato a seppellire la sua filosofia sui campi gloriosi di Montebello,
noi dobbiamo aggiustar fede alle nostre notizie particolari, giusta le
quali la marchesa Ginevra non amava nessuno. Era, a dir vero, una
donna della quale non si capiva un bel nulla. Vi agitava le tempeste
nel cuore, e non le calmava; vi sorrideva leggiadramente e vi guardava
a volte con certi occhi che parevano promettervi il paradiso; ma che?
Ella non pensava punto a voi. Era in lei natura il farvi udire la
musica de' suoi sorrisi e delle sue cortesi parole, ma non vi
consentiva niente di più, e vi teneva pur sempre lontani. In questa
guisa dicono gli astronomi che i pianeti del nostro sistema sono
attratti verso il sole e respinti ad un tempo, per modo che non
possano nè avvicinarsi nè dilungarsi, oltre l'orbita che l'astro
maggiore consente ad essi di descrivere. Ma tutto questo che ognuno
avrebbe inteso di leggieri trattandosi del sole, non s'intendeva
ugualmente trattandosi di una donna nel fiore della bellezza e della
gioventù, maritata ad un uomo cupo, freddo, ambizioso, sempre
circondato di parrucconi, assiduo lettore di Giuseppe De Maistre, come
il marchese Antoniotto.

Che volete? Pareva quasi che la Ginevra ritraesse molto del marito.
Ella infatti era assidua com'egli alle prediche, e andava ogni
domenica ad udir messa nella chiesa della Maddalena. Due volte alla
settimana la vedevate correre, col suo servo in livrea alle calcagna,
fino al convento di San Silvestro, dalle monache di Santa Chiara,
dov'era una Vivaldi, sua zia, e dove ella soleva passare due o tre ore
alla fila. O come si riscontrava cotesto co' suoi modi in apparenza
facili, coll'amore delle feste, delle conversazioni, del teatro, e di
tutte le pagane consuetudini del viver signorile? Contrasto
incomprensibile! O era forse la marchesa Ginevra una di quelle donne
dal cuore muto d'ogni sentimento, su cui le lusinghiere immagini
passano, senza lasciarvi orma di sè, come su d'un cristallo opaco? O
forse Dio aveva fatta così bella la statua, senza soffiarle per entro
il soffio della vita?

I lettori rammenteranno che Enrico Pietrasanta, parlando di lei con
Aloise, aveva detto:

--Dio le fa belle, e poi leva loro l'anima, perchè si conservino
meglio, come gli uccelli impagliati.--

Questo che il Pietrasanta aveva detto della Ginevra, a volte pareva
verissimo, a volte no. Ma siccome l'esser fredda non è per una donna
una colpa al cospetto del volgo, e siccome la marchesa era così
stupendamente bella che a molti pareva quasi impossibile avesse potuto
mai discendere ad amar qualcheduno, tutti l'avevano facilmente posta
tra le eccezioni. Così, mentre delle altre si narrava sempre alcun
che, di lei si taceva, non si metteva nemmeno in controversia se
potesse o non potesse sentire il mal d'amore come tutte le altre.

Soltanto di tratto in tratto si sarebbe potuto notare che alcune dame,
parlando così alla sfuggiasca della marchesa Ginevra, la dicevano una
bellezza sciocca, una testa tronfia de' suoi titoli, delle sue
ricchezze e delle sue ubbíe forestiere. Gli uomini, a dir vero, non la
pensavano così; ma già si sa Che, dalla volpe di Esopo in poi, è
costume di chiamare acerba quell'uva che è troppo in alto sul tralcio.
Epperò i signori uomini, sebbene in cuor loro riconoscessero i pregi
della Ginevra, e sebbene l'assiduità delle loro occhiate dicesse
tutt'altro che sciocca la bellezza di lei, a parole poi tenevano
bordone alle aspre sentenze delle dame sullodate. Ma lasciamo da banda
quello che potessero dire certe dame e certi cavalieri, e ripigliamo
il nostro racconto, che preme assai più, scusate la modestia.

Stiamo ora per raccontarvi una cosa strana, e quasi incredibile, una
cosa che i lettori non indovinerebbero, se pure la dessimo loro alle
mille. Aloise di Montalto saliva le scale del palazzo Vivaldi, in
compagnia di Enrico Pietrasanta.

O come mai Aloise, l'uomo che amava da sei anni la bella Ginevra senza
avere ardito mai accostarsele, che s'era anzi sbandito da ogni geniale
ritrovo per cansare il pericolo d'incontrare la donna de' suoi
pensieri, s'era così di punto in bianco mutato, da mettere il piede
nel suo palazzo, da andare alla sua festa da ballo?

E questo è ancor nulla, in raffronto a quello che non sapete ancora.
Il marchese Antoniotto, il cupo tiranno di Quinto, l'orgoglioso
gentiluomo per cui il non essere milionarii era come una fede di
povertà, stava anche egli da un'ora nel primo salotto dov'era la
moglie, e teneva d'occhio la sala d'ingresso, aspettando l'arrivo di
quel nobile senza il becco di un quattrino, come lo diceva il Collini,
di quel giovanotto senza importanza, come lo riputavano gli uomini
della risma del gran ciamberlano De' Salvi; insomma, avete capito, di
Aloise di Montalto.



XXVI.

Come Aloise di Montalto ai avvicinasse per la prima volta alla bella
Ginevra.


Appena Aloise comparve sulla soglia, insieme col suo Pilade, il
marchese Antoniotto compose il volto al più lieto sorriso che mai
padrone di casa consacrasse all'accoglienza di un ospite
ragguardevole, e si affrettò a muovergli incontro e a prenderlo per
mano con affettuosa sollecitudine.

--Vi ringrazio, Aloise;--diss'egli,--e permettetemi anzitutto che alla
mia età, ed avendo conosciuto il vostro ottimo padre, io vi tratti
così alla buona; vi ringrazio dell'essere venuto.

--Signor Antoniotto,--rispose egli, stringendo la mano che gli era
offerta,--voi fate troppo onore ad un giovane che non è nulla e non
val nulla, se non per l'onorata memoria de' suoi genitori.

--Siete troppo modesto, Aloise. Suvvia! I giovani come voi valgono
molti vecchi a mazzo, e dei migliori, perchè hanno la potenza della
volontà e il vasto campo del futuro per metterla in opera. Vi ho
veduto bambino nelle braccia della marchesa Eugenia, di quella
angelica donna che tutti i buoni rimpiangono, e mi doleva di non
vedervi in mia casa. Siete un uomo prezioso, voi, e quantunque abbiate
ragione a star sulla vostra, io spero che il figlio di Lodovico
Montalto sarà amico mio, come era suo padre. Ma anzitutto lasciate che
vi presenti alla mia signora.--

Aloise non seppe risponder nulla a quella furia di cortesi parole, che
facevano rimaner di stucco il Pietrasanta.--Che novità è
questa--pensava egli,--che il tiranno di Quinto mette fuori tanta ed
insolita parlantina per la bella faccia del mio amico Aloise?--

Ginevra intanto era seduta su d'un canapè di legno dorato, coperto di
raso azzurrognolo, e parecchi cavalieri le stavano intorno, tra i
quali il gran ciamberlano, che voleva ad ogni costo mandarla a
ballare.

Quel capo ameno del Cigàla dava cortesemente la baia al nobile De'
Salvi, dicendo che quella sua ostinatezza a farla muovere di là veniva
dal desiderio che aveva di ballare con lei; ma che si desse pace, non
essendo egli scritto pel primo sulle ali d'avorio della farfalla.

La marchesa rispondeva ora al Cigàla, ora al De' Salvi, ora ad altri,
e trastullandosi col suo ventaglio, guardava il marito colla coda
dell'occhio, senza perdere sillaba della sua conversazione con Aloise.

Un sottile osservatore avrebbe potuto notare che la Ginevra s'era
fatta rossa in viso, quando il giovine era comparso sulla soglia. Ma
questo sottile osservatore non c'era; e quand'anche ci fosse stato,
avrebbe dovuto essere molto addentro nei segreti di quella dama, per
indagare se fosse il caldo od altra ragione che le colorasse le
guance.

--Chi giunge, in compagnia del Pietrasanta?--chiese col solito stento
di scilinguagnolo il marchese Onofrio De' Carli, che aveva già
lasciato la Cisneri, per mettersi ai fianchi della padrona di casa.

--Non lo conoscete?--rispose il Cigàla.--È Aloise di Montalto.

--Sì;--soggiunse il piccolo Riario, facendo una di quelle mezze
giravolte che sono tanto in uso presso certi pigmei forse a cagione
degli altissimi tacchi che portano,--gli è il famoso duellista.

--Come, il duellista?--chiese Ginevra.--Non ha altro merito per farsi
conoscere?

--Oh, marchesa, egli ne ha altri parecchi;--fu sollecito a rispondere
il Cigàla.--È un perfetto cavaliere, ricco d'ingegno e di alto
sentire.--

Il piccolo Riario non ardì rifiatare. Egli non poteva patire il
Montalto; ma temeva forte la lingua pronta e sarcastica del Cigàla.

--Ha da esser vero, se lo dite voi;--soggiunse la marchesa.--Voi non
mi sembrate uomo di facile contentatura.

--Avete ragione, marchesa, a dirmi ciò; ma ci avreste un gran torto,
se voleste farmene una colpa. Amo dire quello che penso, io; ma sono
tanto più lieto di poter dire la verità, quando essa è lusinghiera
come un complimento. Ora questo, se volete degnarvi di rammentarlo, mi
avviene assai di frequente, quando parlo con voi.--

La bella Ginevra volse al Cigàla un'occhiata graziosa, un'occhiata che
gli avrebbe fatto dar di volta al cervello, se il Cigàla non avesse
saputo che gli sguardi cortesi della bella Ginevra erano la cosa più
naturale del mondo, come i raggi sono il naturale accompagnamento del
sole, e non significavano mai nulla di particolare.

--Se andiamo di questo passo, signor Cigàla,--disse
Ginevra,--diventerete un ottimista.

--Oh, non temete che ciò avvenga!--diss'egli di rimando;--alla più
trista chiuderò gli occhi quando sarò vicino a voi, e vedrò tutto
nero.--

Intanto che si dicevano questi nonnulla, il Pietrasanta era venuto ad
ossequiare la marchesa, e dietro a lui veniva il marchese Antoniotto,
tenendo il braccio di Aloise di Montalto.

Al nostro giovinotto tremavano un poco le gambe. Avvicinarsi alla
donna che aveva amata fino a quel giorno da lontano, e chiusa nella
sua nube diafana come una dea pagana, esserle poi presentato dal
marito, erano in verità due cose così gravi da turbarlo
maledettamente.

Egli già, fin da quando aveva ricevuto l'invito dei Torre Vivaldi, era
rimasto colpito di stupore. Che vuole, aveva egli chiesto a sè
medesimo, che vuole da me il marchese Antoniotto? E poi, quando il
marchese Antoniotto gli si era fatto incontro con tanta sollecitudine,
la prima domanda si era mutata in quest'altra: perchè tutta questa
tenerezza da un uomo che mi conosce a mala pena, ed è in ogni cosa
tanto diverso da me?

Un capo scarico avrebbe creduto di trovare l'incognita di quella
equazione, correndo a fantasticare che la dama avesse avuto mano
nell'invito e nella cortese accoglienza del consorte. Ma Aloise non
era uno di que' presuntuosi i quali pigliano per buona moneta ogni
invenzione che lusinghi la loro vanagloria; per giunta egli era certo
che la bella Ginevra non poteva addarsi di un amore così celato e
lontano come il suo, che nemmeno il telescopio (così egli pensava) lo
avrebbe potuto scoprire.

Aloise era stato lunga pezza in forse, se andasse o no; ma il
Pietrasanta gli aveva detto che sarebbe stata una scortesia
grandissima la sua, se non avesse risposto pel suo verso all'invito
del Torre Vivaldi.

--Di che diamine hai tu paura? Vivi solo, come un feroce anacoreta
della Tebaide, e al cortese desiderio di chi ti si accosta, vorresti
anche rispondere col rintanarti sempre più? Tu non intendi perchè il
cupo tiranno di Quinto t'abbia posto nel suo calendario, e sta bene;
ma non verrai certo a capo di saperlo, ricusando di venire alla sua
festa da ballo. E poi, ti ho pur raccontato che una sera, in casa
della Pedralbes, quando eri ferito, si parlò molto di te, e il
valentuomo si degnò di ricordare che i Montalto erano ascritti
all'albergo dei Vivaldi! Ora, se non ti viene altro in mente, poni che
egli sia innamorato di te, ed abbia voluto invitarti alla festa per
darti una testimonianza di stima particolare, come s'adopera con le
persone di rilievo. Suvvia, Aloise, qui non c'è verso di schermirti;
bisogna venire di gamba sana; se no, ti rifacciamo lo stemma di casa,
e in cambio del leone che va in alto, ci metteremo un orso, e nemmeno
di quelli inciviliti, che hanno imparato a ballare.--

Enrico Pietrasanta incalzava cosiffattamente Aloise, perchè lo amava
molto, e metteva un po' di ambizione, scusabile invero, a farsi
scorgere insieme con lui.

Aloise, senza volerlo, e senza nemmeno addarsene, era il capitano
naturale di tutta quella gioventù aristocratica. Vestiva con molta
semplicità, e cionondimeno, anzi appunto per ciò, più leggiadramente
di ogni altro. Cavalcava mirabilmente; era destro schermidore, siccome
è già noto, e parecchi duelli che aveva arditamente sostenuti, lo
avevano fatto un mastro di cavalleria, un araldo d'armi, del quale si
impetrava l'aiuto o il consiglio in ogni quistione tra' pari suoi. Era
poi d'ingegno ornato, e dettava versi che pochi amici avevano potuto
leggere, e ne facevano le maraviglie. Per giunta non cercava nessuno;
salutava tutti, ma non usava aver dimestichezza che con due o tre, e
non andava mai ad accrescere il codazzo della Clarice, della Fanny,
della Clelia, o d'altra delle più ragguardevoli dame, allorquando sul
tardi uscivano a passeggio. Nè si curava di sapere che cosa si
pensasse de' fatti suoi; ignorava perfino che nei ritrovi domestici di
tutte quelle gentildonne si parlava sovente della sua ritrosia, e si
mettevano fuori di molti sospetti. A proposito dei quali, bisognerà
soggiungere che i cavalieri di quelle dame, anco se poco amici del
Montalto, col dirne di tutti i colori sul conto suo, non facevano
altro che rincarare la merce.

Non è dunque a dire se il Pietrasanta ci si mettesse attorno con le
mani e coi piedi, e se credesse di fare un miracolo tirando l'amico a
seguirlo. Egli infatti non sapeva che Aloise, con tutte le sue
perplessità, ci avesse dentro una gran voglia di accettare l'invito.
Il giovine era stanco della sua volontaria ritirata sull'Aventino, e
quasi sdegnato contro di sè per quella ritrosia che gli era piaciuta
da prima, e che ora gli vietava di avvicinarsi a Ginevra, di guisa che
egli era giunto perfino a maledire i suoi diportamenti passati, che
gli impacciavano il presente.

Vien sempre il giorno in cui l'uomo si duole di un suo dirizzone,
tolto dapprima ed accarezzato come norme del vivere. Quante volte san
Simeone Stilita non ebbe a struggersi di quella sua matta
deliberazione che lo aveva fatto andare a vivere sull'alto di una
colonna?

--Ginevra,--disse il marchese Antoniotto, avvicinandosi alla moglie e
tenendo il suo Simeone disceso dalla colonna per mano;--vi presento
Aloise di Montalto, mio amico.--

Mio amico! capite, o lettori? Il marchese Antoniotto aveva fatta una
lunga appoggiatura su queste due parole; le quali fecero sì che il
piccolo Riario inarcasse le ciglia, e il gran ciamberlano De' Salvi,
dall'altezza della sua nobiltà, si facesse amichevolmente a sorridere
al nuovo venuto.

La marchesa Ginevra dal canto suo si fece un po' rossa in viso, e con
un grazioso cenno del capo disse ad Aloise:

--Il marchese di Montalto è il benvenuto da noi; ed io lo ringrazio
dell'onore che egli ci fa.--

Dell'onore che egli ci fai Diamine! queste erano parole che pochi
s'erano sentite dire dalla marchesa Vivaldi; epperò gli astanti
sullodati, i quali non potevano certo indovinare che la Ginevra le
avesse profferite per dare una cortese lezioncella ad un colpevole di
lesa maestà femminile, rimasero stupefatti.

--Marchesa....--rispose Aloise, e un profondo inchino fece intendere
quello che egli non volle o non seppe soggiungere.

Per la qual cosa ognuno di leggieri argomenta come quella scena
riuscisse diplomaticamente contegnosa e fredda.

La bella Ginevra, costretta a proseguire ella stessa la conversazione,
si levò prontamente d'impaccio, entrando a parlare del recente duello
di Aloise.

--E come state ora, signor marchese, della vostra ferita! Tutti noi,
anche senza conoscervi da vicino, ci siamo impensieriti della vostra
salute.

--Grazie, marchesa: oramai sono risanato del tutto.--

E non disse altro. Lettrici, che ve ne pare? Era freddino anzi che no,
il nostro innamorato.

--È una barbara costumanza questa del duello,--sentenziò il De' Salvi,
senza por mente che spacciava una delle solite rifritture,--ed è da
condannarsi tanto più, quando espone un gentiluomo a misurarsi con
ogni sorta di gente.

--Non debbo contradirvi, signore;--rispose il giovine Montalto,
salutando il De' Salvi,--ma in quanto al fatto mio, posso ed amo
mettere in sodo che ho avuto a fare con un perfetto cavaliere.

--Questa dichiarazione fa fede della vostra lealtà,--disse la bella
Ginevra.--Ma a proposito di cavalieri perfetti, volete essere il mio,
signor di Montalto?--

E così dicendo si alzò per andar finalmente nella sala da ballo.

Il nobile De' Salvi che aspettava d'esser lui, come mastro di
cerimonie volontario, il cavaliere della marchesa, allungò tanto di
muso, e gli altri suoi degni colleghi del pari. Già tutti aspettavano
per sè quella grazia prelibata che la marchesa avrebbe pur dovuto fare
a qualcheduno, entrando con lui nel salone di Flora. Epperò,
quantunque fosse la cosa più naturale del mondo che questa grazia
cadesse su d'un nuovo venuto, il gran ciamberlano non poteva mandarla
giù, nè il marchese Tartaglia, nè il piccolo Riario, il quale ci aveva
egli pure le sue pretensioni.

Il Cigàla che aveva seguito da capo a fondo tutta quella scena muta,
ma eloquente, di aspettazione, se la rideva sotto i baffi. Il
Pietrasanta, che era giunto più tardi, fu il solo che non ponesse
mente a tutte quelle speranze deluse, e si rallegrò in cuor suo che
l'amico Aloise comparisse nella sala da ballo a fianco della bella
Ginevra. Era il gaudio dell'artefice quello che gli splendeva sul
volto, poichè gli pareva d'essere stato egli l'operatore di quel
miracolo che conduceva Aloise in mezzo alla gente.

In quanto al nostro eroe, egli non parve molto contento di quell'atto
di preferenza notevole. Lo era tanto e poi tanto nel profondo del
cuore, che rimase impacciato, non seppe cavare una parola, e si mostrò
quasi distratto.

--Marchesa,--disse il Cigàla a Ginevra, come furono giunti nel salone
di Flora,--ricordatevi del vostro debito.

--E quale, di grazia?

--Il mio __walzer__. Lo attaccano per l'appunto, ed io sono il primo
inscritto nel vostro taccuino.

--Davvero?--rispose ella con aria astratta.

--Sì, marchesa, e quantunque mi dolga di rubarvi subito al mio ottimo
amico Aloise.... il quale tuttavia....

--Tuttavia!... Stiamo a vedere, signor Cigàla, che voi diventate tanto
clemente da offerire al marchese di Montalto quello che egli non vi ha
nemmeno chiesto.

--No, marchesa; volevo dire che egli avrebbe potuto dimandarmelo, ma
che io, con tutta l'amicizia che ho per lui, non avrei potuto
accordarglielo.--

Aloise era turbato. Si accorgeva di aver fatto male a non chieder
subito, e si pentiva di non esser più in tempo.

--Marchesa,--disse egli allora,--io non ardivo certamente chiedere una
grazia somigliante al mio amico Cigàla; ma se c'è sul vostro taccuino
una pagina bianca....

--O che, mio buon Aloise, vorresti riempirla tutta?

--No, certo; non chieggo tanto; ma se vi rimane un po' di posto pel
mio nome....

--Orbene, vedremo di contentarti;--rispose il Cigàla, con una comica
gravità che fece ridere la bella Ginevra.--Marchesa, il vostro
libriccino?

--Eccolo; volete far da segretario?

--Sì; non voglio che il mio ottimo amico m'abbia in concetto d'un
tiranno, perchè sto per rapirgli la dama al primo giro di
__walzer__.--

E presa dalle mani della marchesa quella magnifica farfalla tempestata
di gemme, che i lettori conoscono, l'aperse e scrisse il nome del
marchese di Montalto per una __mazurca__.

Aloise s'inchinò per ringraziare la bella Ginevra.

--E adesso, marchesa, udite? Gli è tempo di venire con me.

--Con che aria me lo dite, Cigàla! Lo spirito del male non parlerebbe
diverso ad un'anima che avesse sottoscritto un patto col sangue.--

Ciò detto, la bella Ginevra si alzò da sedere, e poco dopo Aloise la
vedeva aggirarsi con elegante compostezza in braccio al Cigàla nel
turbine della danza.

Ritto in piedi, contro lo spigolo della strombatura di un finestrone
che era accanto alla porta, egli era rimasto a contemplare la dama,
pensando. A che cosa?

Dapprima cercò di ordinare tutti i suoi concetti, cosiffattamente
ingarbugliati e tumultuati nell'anima. Pensò che aveva veduto Ginevra,
udito il suono della sua voce, bevuto i raggi che sprizzavano que'
grandi e profondi occhi verdi, che aveva respirata la sua aria, che
era penetrato insomma e s'era inebbriato in quell'aureola di luce
tiepida e di arcani effluvii che circonda una donna gentile. Ma egli
non era contento di sè medesimo, e ricordava di essere stato
taciturno, impacciato, poco manieroso.

E poi, che cosa gli avevano detto quelle labbra di corallo? Parole
cortesi, ma nulla di particolare, nulla che gli dimostrasse aver ella
sentito la presenza di un amore profondo, veemente. Strana logica
degli innamorati! Dopo essersi chiarito scontento di sè, riusciva
scontento di lei. Avrebbe voluto che ella avesse indovinato su due
piedi l'amor suo; ma in che modo? S'era egli mai fatto innanzi? O
poteva ella vederlo sul belvedere dell'Acquasola, quando egli stava le
ore intiere amorosamente speculando i comignoli del palazzo Vivaldi? O
poteva in teatro avvedersi dell'affetto di un uomo, il quale non la
guardava mai? E poteva intendere che quel suo continuo girar degli
occhi, in aria di sbadataggine, era un sottile accorgimento adoperato
per veder lei? E in quella sera stessa, vedendolo e parlandogli per la
prima volta, che poteva dirgli di più, se egli era rimasto così senza
parole? Che cosa concedergli, se egli non aveva chiesto nulla? Quel
poco che aveva ottenuto, egli non l'aveva neppur guadagnato con la sua
fatica; ne era debitore all'amicizia, al fare spigliato e gaio
dell'ottimo Cigàla.

Mentre tutte queste cose gli tornavano in mente e si schieravano lì
dinanzi a lui, armate di quelle minacciose falci che sono i punti
interrogativi, egli sentiva la sua logica tapina a disagio; ma tant'è,
non sapeva gettar via quella sua arma spuntata e darsi vinto; correva
pur sempre a pensare che una donna ha da capire, da indovinare ogni
cosa. E poi, a che approdavano tutte quelle buone ragioni, se egli si
sentiva stringere il cuore?

Com'era bella ed elegante! Quanto più elegante e più bella in quel
punto, e da vicino, che non per lo innanzi, quando gli era dato
appena, e raramente, vederla da lontano! Nel contemplarla che faceva,
attratta dal braccio del Cigàla in que' giri vorticosi del __walzer__,
egli pensava alla ebbrezza che lo avrebbe sopraffatto, quando la sua
mano avesse stretta la mano di Ginevra, il suo braccio ricinto quella
vita svelta ed aggraziata; e così pensando, tremava. Come sarebbe
rimasto sulle gambe? I piedi non gli sarebbero rimasti inchiodati sul
tavolato?

Ognuno di noi, una volta almeno in sua vita, ha provate queste
dubbiezze. Ognuno di noi ha dovuto raccogliersi in quel modo,
microcosmo solitario di gioie e di dolori, di rapimenti e di angosce,
di desiderii e di timori, frammezzo al turbine di una danza, alle
bellezze sfavillanti, ai mille riflessi della luce, alle fragranze dei
fiori.

In quel tumulto di pensieri, Aloise era rimasto là ritto, in atto di
smemorato. Era solo; il Pietrasanta, l'amico suo, che con qualche
celia delle solite avrebbe potuto scuoterlo, mutar l'indirizzo
malinconico della sua mente, aveva già trovato il bandolo in quel
laberinto di splendide tentazioni, e ballava allegramente con quella
magnifica baccante della marchesa Giulia Monterosso.

--Enrico almeno è contento!--pensò Aloise, vedendo l'amico
affaccendato intorno alla marchesa Giulia.--Egli ha forse ragione a
non lasciarsi cogliere da quella brutta malattia. Dio le fa belle, e
poi leva loro l'anima, perchè.... Ma via che bestemmie son queste?--

In quella che Aloise così parlava tra sè, una mano gli posò sulla
spalla, e una voce gli disse:

--Orbene, mio bel filosofo, e come va che non ballate?--Aloise si
volse, e si vide innanzi il marchese Antoniotto che lo guardava con
aria sorridente. I lettori, che conoscono appena questo gentiluomo pel
nome di tiranno postogli dal Pietrasanta, si meraviglieranno un poco
di tutti questi sorrisi coi quali egli si presenta alla loro
attenzione; ma noi non sappiamo che farci. Quella sera il marchese
Antoniotto era proprio un zucchero.

--Oh, signor marchese....--disse il giovine, còlto così alla
sprovveduta.

--Che marchese! Qui siamo in due, di questa fatta. Chiamatemi pel mio
nome, come io faccio con voi. E ora ditemi un po', come va che non vi
vedo al fianco di qualche bella signora?

--Signor Antoniotto,--rispose il giovane, sorridendo dolcemente,--è
cosa facile ad intendersi. Io non sono un gran ballerino, e poi,
vivendomene quasi sempre solo, non ho molta dimestichezza con tutte
queste graziose dame.

--E state qui meditabondo. Aloise, Aloise, voi covate qualche alto
disegno nel profondo dell'anima.

--Io?...

--Sì, voi; ma non ve ne faccio un delitto;--proseguì con voce quasi
melata il Torre Vivaldi, in quella che metteva dimesticamente il suo
braccio sotto quello di Aloise, e lo tirava fuori dalla strombatura
della finestra per condurlo in giro nelle altre sale.--Voi non siete
come tutti gli altri della vostra età; io già me n'ero avveduto da un
pezzo. Voi avete capito che la vita di un uomo pari vostro ha uno
scopo più grave di quello che non si pensi dalla comune dei nostri
giovanotti, e ve ne lodo. Ma di ciò parleremo a lungo, perchè avete da
essere amico mio, non è vero?

--Signor Antoniotto....

--Bene, bene siamo intesi. Frattanto bisogna che facciate qualche
cosa, che danziate, e vi mettiate a conversare con qualcheduna delle
nostre signore. Voi saprete meglio di me che le donne non sono
disposte a patire l'autorità degli uomini, se questi in alcune cose
non si adattano alle loro frivolezze. Volete che vi presenti alla
Torralba, che è là seduta?--



XXVII.

Come la bella Ginevra non avesse ad essere molto contenta dei fatti di
Aloise di Montalto.


Aloise avrebbe voluto ringraziare il marchese Antoniotto della sue
cortese profferta, e rispondergli destramente come non gli andasse
punto a' versi essere presentato alla marchesa Torralba. Ma non era
più tempo. Il marchese Antoniotto, senza aspettare la sua risposta, lo
aveva già condotto così dirittamente verso quella signora, che non
c'era più modo di dare indietro.

I lettori conoscono già per un breve cenno la marchesa Torralba,
quella gentildonna dalle carni del color del latte e dai lineamenti
soavi, tutta impastata di bontà, tutta dolci pensieri significati con
dolci parole da una voce melodiosa, sebbene un po' gutturale. Per
rammentar loro quel tipo, non facciamo altro che copiare a un di
presso le nostre parole.

La marchesa Maddalena accolse benissimo il nostro Aloise, che si
presentava a lei sotto gli auspicii del grave marito della Ginevra, e
il vecchio cavaliere, Cupido scadente, dai capegli brizzolati e dalla
faccia grinzosa, che le faceva compagnia, approfittò della loro venuta
per svignarsela e correre attorno.

Un giovine, a dir vero, non si sarebbe diportato in quel modo. Ma i
giovani non sono vecchi, e questo nessuno vorrà mettere in dubbio. Ora
è noto che i vecchi Ganimedi, pigliando per buona moneta quelle
cortesie profumate che ad essi usano le signore, perchè sono
utilissimi e fanno le veci di mariti custodi, senza essere mariti e
senza usare una vigilanza del pari sospettosa, montano in gran
superbia, e farfalleggiano quinci e quindi, come se avessero venti o
trent'anni di meno; si affrettano a cogliere il fiore di questa pianta
e di quella, come api le quali non abbiano tempo da perdere: danno
guizzi sfavillanti, come la lucerna che è presso a spegnersi per
mancanza d'alimento.

Aloise, non sapendo come meglio incominciare, pregò la marchesa
Maddalena d'un giro di __valzer__. Ma ella ricusò, dicendogli
schiettamente come fosse quello l'unico ballo che non le piaceva,
perchè le dava il capogiro, e come già avesse dovuto rispondere con un
rifiuto ad altri parecchi.

Era naturale che Aloise la richiedesse di un altro ballo, e appunto
egli fece. Ma anche qui c'erano parecchie difficoltà; che la
__mazurka__ era promessa al Riario, la __polka__ al Pietrasanta
(briccone d'un Pietrasanta! egli non era stato con le mani alla
cintola!) la __scotish__ poi ad un altro, di cui essa gli fe' leggere
il nome sul suo libriccino di avorio.

--Sono pur disgraziato!--disse Aloise, poichè ebbe veduta quella filza
di nomi.--E la quadriglia?

--Per questa,--rispose la marchesa Maddalena,--mi sembra che non ci
sia proprio nessuno.

--Orbene, signora, vogliate concedermi questa.--

La Torralba acconsentì di buon grado, e Aloise scrisse il suo nome nel
libriccino; quindi fece atto di accomiatarsi. Ma aveva fatto i suoi
conti senza il marchese Antoniotto, il quale era già andato più oltre,
lasciandoli soli.

--Signor Montalto,--disse la Torralba, ridendo dello stupore di
Aloise,--vi hanno lasciato solo.

--Accanto a voi, signora; il che vuol dire molto bene accompagnato.
Voi in cambio non potrete pensare lo stesso.

--Volete un complimento?

--No, in fede mia, signora marchesa. Ho detto quello che pensavo, e
nulla più.--

Di questo modo incominciò tra la bianca signora Maddalena e il nostro
Aloise una conversazione, rotta dapprima, poi facile e tranquilla, qua
e là condita di motti graziosi, ma in ogni parte affabile e
misuratamente sdolcinata, come sempre occorre tra un uomo e una donna,
anco se la donna e l'uomo siano lontani le mille miglia da quel paese
del __Tenero__ che fu così acconciamente scoperto e misurato a palmi
da madamigella di Scudéry.

La signora Maddalena non era una di quelle donne di pronto e sottile
ingegno, nate per offrire ad un romanziere novellino il tipo delle sue
perfette eroine. Ella era tuttavia un'ottima pasta di donna, e la
bontà dell'animo, la dolcezza dei modi, in quella che richiamavano
alla mente l'immagine della colomba, facevano dimenticare ch'ella non
era un'aquila.

Timida appunto come quel leggiadro animaletto domestico, la nobiltà
del cui ufficio risale ai tempi del diluvio, modesta come la mammola,
la signora Maddalena non era fatta certamente per risplendere su tutte
le altre sue pari, e avrebbe avuto il gran torto chiunque l'avesse
posta a raffronto della Ginevra, della Erminia, o della Usodimare. Era
dolce, era pietosa, ed appariva tanto più dolce, tanto più pietosa, in
quanto che dolcezza e pietà erano le sue virtù culminanti.

Però la conversazione della signora Maddalena, se non era splendida,
riusciva sommamente gradevole, con tutte le debolezze, con tutte le
storte opinioni che le erano derivate da quella gretta educazione che
si dà di presente alle donne, e dal consorzio continuo di donne e
d'uomini la più parte educati alle medesime frivolezze.

Aloise, come già avranno notato i lettori, era molto più sciolto nel
conversare con la Torralba, che non fosse stato con la bella Ginevra.
E in ciò non era nulla di strano, essendo egli posto così di punto in
bianco nella necessità di parlare, e l'amore non facendogli nodo alla
lingua. Laonde potè mostrarsi disinvolto, com'era veramente, e
ragionare con assai garbo di cento nonnulla.

La signora Maddalena lo ascoltò volentieri. Egli non era quell'orso di
cui gli amici caritatevoli le avevano fatta una così fosca dipintura.
Però in dieci minuti di conversazione, lo spirito della bianca
gentildonna aveva già fatte cento miglia, e già pensava che nessuno di
que' giovinotti, i quali portavano il vanto della cortesia e
dell'arguzia, potesse mettersi in paragone con Aloise di Montalto.

Il quale dal canto suo rendeva larga giustizia alla signora Maddalena,
notando la delicatezza de' pensieri e la grazia de' modi, che
rispondevano perfettamente alla soavità del suo viso. Ma fermiamoci
qui, non corriamo a dare uno storto giudizio del cuore di Aloise, che
pure s'avrebbe oramai a conoscere un tantino.

S'erano fatti dapprima a parlare della festa, poi di musica, e dalla
musica erano saltati a ragionar di pittura. Egli era un dialogo che
andava da sè, piano, scorrevole, come avrebbe potuto farsi fra due
uomini, anzi no, tra un uomo e una donna; imperocchè nel dialogo di
due uomini si ficca pur sempre lo spirito aspro della controversia, e
tra Aloise e la signora Maddalena il ragionamento correva limpido e
cheto come.... come.... Cercatelo voi, un paragone che calzi.

Il __valzer__ finì, ed Aloise si profferse ai servigi della marchesa
per accompagnarla alla credenza. Segno questo, per ogni osservatore di
buon conto, che egli non pensava punto al bel viso della signora. Il
cuore che comincia a intenerirsi non profana le sue gioie delicate
colla immagine di una donna che mangia.

Così dicono i fisiologi dell'amore, intendiamoci bene. In quanto a
noi, non rifuggiamo punto dalla immagine della donna che mangia; pure,
non ci faremmo mai lecito di invitarla a mangiare, quando fossimo
seduti accanto a lei, ragionando di cose più spirituali.

Sebbene la signora Maddalena non avesse ballato, e però mancasse la
ragion sufficiente dell'andare alla credenza, ella nondimeno accettò
l'invito di Aloise, ma forse più per il desiderio di muoversi un
tratto, che non per centellinare una chicchera di __tè__.

Nella credenza era una folla di dame e di cavalieri che avevano finito
di ballare, e andavano a rinfrescarsi l'ugola o a rafforzarsi lo
stomaco. Tra gli altri, Aloise notò l'amico Pietrasanta, il quale
stava discutendo colla marchesa Giulia se fosse meglio un poco di
__tè__ o un poco di __lei__, e cavalcava il bisticcio così agevolmente
come il suo leardo moscato pei viali dell'Acquasola.

E v'era anche il Cigàla con la marchesa Ginevra. Aloise tremò per
tutte le membra, appena la vide. Fino a quel punto egli non aveva
pensato a quel che si facesse; era andato ad occhi chiusi: ma al
cospetto di Ginevra, i suoi atti innocentissimi gli apparvero pieni di
colpa. E infatti, dopo forse venti minuti che l'aveva lasciata,
mostrandosi così freddo e contegnoso verso di lei, farsi scorgere con
un'altra dama al braccio, lasciar argomentare il desiderio di un'altra
presentazione e il naturalissimo accompagnamento di molte
sdolcinature, era certamente tal cosa da dare alla marchesa Ginevra un
gramo concetto de' fatti suoi, da farle credere, alla men trista, che
egli non fosse innamorato di lei.

Ora, quantunque ella non dovesse saper nulla dell'amor suo, questo
pensiero appariva orribile ad Aloise. Mentire in una sera a sei anni
continui di affetto, farsi stimare tal uomo che potesse vicino a lei
innamorarsi di un'altra, ecco il rischio a cui correva incontro il
nostro giovine amico. E il pensare a questo risico gli ingarbugliò il
cervello per modo, che non seppe rispondere nulla al Pietrasanta, il
quale allegramente lo chiamava giudice nella sua controversia.

Uggioso, impaziente nell'animo, ma misurato nei modi, anzi stecchito
con la tesa del suo __gibus__ appoggiata alla coscia, egli rimase là,
rispondendo a spizzico e stentatamente alle cortesi domande della
marchesa Maddalena.

In quel mentre la bella Ginevra si accostò alla Maddalena, e le chiese
con piglio amorevole:

--Orbene, hai ballato?

--No, mia buona amica;--rispose la signora Maddalena,--tu sai che il
__valzer__ mi dà il capogiro. A te ha fatto bene; guardati nello
specchio, come sei bella.

--Ah, Maddalena! E che cosa diranno questi signori, ai quali si ruba
la parte?--

Aloise, a cui la Ginevra si era rivolta, dicendo quelle parole, stette
muto; ma il Cigàla colse la palla al balzo, e fece una stupenda
volata.

--Diremo,--rispose egli,--che fate benissimo a dirvi tra voi delle
cose gentili, ma che, con tutto il vostro ingegno, non giungerete mai
a dirvene tante, quante ne pensiamo noi. Non è il tuo parere, Aloise?

--Sì, certo,--rispose il giovine, che si studiava di correggere, con
qualche frase a modo, il cattivo senso de' suoi diportamenti,--noi
pensiamo di molte cose; pensiamo tra l'altre che la bellezza è la
bontà del corpo, e la bontà è la bellezza dell'anima, e l'una si
specchia nell'altra. Avventurose quelle donne che possiedono il
talismano di questa doppia bellezza e di questa doppia bontà.

--Bravo, signor di Montalto!--esclamò Ginevra, con un sorriso che
rallegrò il cuore ad Aloise.--Non si potrebbe, io penso, dir meglio
una bella verità; ed io, con vostra licenza, la farò mia, per
ripeterla alla gentil Maddalena. Eccoti vinta, Maddalena, arrenditi a
discrezione!--

La marchesa Torralba arrossì, non seppe che altro rispondere, e
ringraziò timidamente degli occhi Ginevra ed Aloise.

Ma questi, che già s'era fortemente turbato in udire quel discorso
della bella Ginevra, non fu molto grato alla signora Maddalena del suo
ringraziamento. Che diamine ho detto mai (pensava egli tra sè) che la
marchesa Vivaldi abbia potuto voltarlo a lode della Torralba? Non
certamente per questa m'ero fatto a parlare.

Con quest'altra spina nel cuore, il povero Aloise divenne più
inquieto, più uggioso che mai.

La credenza intanto s'era spopolata delle dame, e il Montalto
ricondusse fuori la marchesa Maddalena. Si stava per cominciare la
__mazurka__, che ella aveva promessa al piccolo Riario. Ma il nostro
vagheggino non si vedeva, e la __mazurka__ cominciò senza ch'egli
fosse venuto a cercare d'ella signora.

Che ne era avvenuto? La marchesa lo seppe dal Pietrasanta, il quale
raccontò gravemente come, sul più bello del __valzer__, il piccolo
Riario, volendo fare il giro a rovescio, fosse caduto disteso,
trascinando la dama sul tavolato. Era uno di quegli episodii che sono
così frequenti nelle feste da ballo, e mettono un po' d'allegria in
quelle contegnose brigate. Il Pietrasanta, raccontandolo con molta
gravità, faceva ridere due tanti di più. La marchesa Maddalena, che,
d'indole pietosissima qual era, non aveva aperto bocca, non seppe più
tenersi le risa, allorquando il Pietrasanta, venendo a dire di quella
gran caduta, uscì fuori con queste parole:

--Vogliono alcuni che ciò sia avvenuto per l'altezza forse soverchia
dai tacchi del nostro ottimo Riario, e desumono questa loro opinione
dal fatto, che io riferirò col massimo riserbo, non volendo
menomamente __intaccare__ la fama del calzolaio, di uno di questi
tacchi male attaccati, che fu, dicesi, rinvenuto staccato sul
pavimento.--

Era vera questa storia del tacco, o non era che un'arguta giunterella
del Pietrasanta? Non abbiamo mai potuto sincerarcene: ma il fatto si è
che al piccolo Riario fu da quella sera in poi appiccicato il
soprannome di __senza tacchi__, che ognuno seguita a dargli, sebbene
ne abbia un paio di molto ragguardevoli.

Per dire soltanto di quella sera, fu un continuo ripetersi dei
bisticci del Pietrasanta, sui tacchi, perchè male attaccati, e via
dicendo. Il disgraziato eroe di quella scena era scomparso, o, se vi
garba di più, aveva battuto il tacco; e fuvvi un bell'umore il quale
asserì di aver veduto nella sala d'ingresso un signorino che se la
svignava zoppiconi, tirandosi il cappello sugli occhi, dinanzi alla
mazza d'argento del guardaportone.

La conseguenza inaspettata del ridicolo episodio fu questa, che Aloise
si profferse alla marchesa Torralba per ballare con lei la __mazurka__
in vece del piccolo Riario, e che la signora Maddalena accettò.

Per tal modo Aloise era più affondato che mai, senza speranza di
cavarsene. E intanto la marchesa Ginevra, che aveva ballato il
__valzer__ col Cigàla, ballava una __mazurka__ con un altro amico
d'Aloise, il Nelli di Rovereto, che i lettori hanno veduto nella
chiesuola diroccata di San Nazaro.

La bella Ginevra vide il Montalto giungere nel salone con la signora
Maddalena, e parve ad Aloise di scorgere in quelli occhi verdi un tal
po' di maraviglia de' fatti suoi, Cotesto, che non sappiamo se fosse
vero, lo turbò di bel nuovo, e cosiffattamente, che egli perdette
addirittura la bussola. Vedendolo astratto e non sapendo che dirgli in
uno di quelli intermezzi che occorrono frequenti dove son molto
numerose le coppie dei danzatori, la marchesa Maddalena incominciò un
discorso intorno alla conversazione fatta pur dianzi.

--Che angelica creatura è la Ginevra!--disse ella con molto candore,
pensando davvero quel che diceva.

Aloise non rispose. Il nome di Ginevra, messo fuori così
repentinamente, gli fece dare una scossa al capo, che alla signora
Maddalena parve un mero segno di risveglio naturalissimo in chi è
sovra pensieri e si sente richiamato in carreggiata.

--È buona,--proseguì la Torralba,--buona e cortese quanto è bella, e
volere o non volere bisogna ammirarla ed amarla.--

V'è egli mai avvenuto, o lettori, di udire a parlare di cosa o di
persona, che vi premesse moltissimo, e non potervi tenere che non
diceste l'animo vostro, contro tutte le norme della prudenza? Orbene,
ciò avvenne ad Aloise di Montalto.

--Sì,--esclamò egli, stringendo inavvertitamente il braccio della
marchesa, come se fosse stato quello della bella Ginevra,--ella è
buona, cortese, bellissima; e l'uomo che, vedutala una volta, non
l'amasse con tutte le forze dell'anima, meriterebbe di perdere gli
occhi.--

Egli disse ciò con un piglio così concitato, e strinse così forte il
braccio della dama, che ella volse rapidamente il capo, guardando in
volto Aloise, come trasognata. Lo stupore della signora Maddalena era
tale, che ella non badò neppure alla scortesia, del resto
involontaria, di quella pazza sfuriata del suo cavaliere.

La signora Maddalena era donna, e le parole di Aloise erano così
chiare, che l'uomo più corto d'ingegno le avrebbe capite. Però ella
non durò fatica ad intendere il segreto del giovine, e fu come un velo
che si squarciasse d'improvviso davanti a lei.

Aloise amava la bella Ginevra, e tanto più fortemente, tanto più
profondamente, in quanto che egli appariva un uomo di tempra vigorosa
e di pensamenti severi. Quella era dunque la riposta cagione della sua
astrattezza, de' suoi modi impacciati. E allora le tornarono a mente
quelle poche parole dette dal marchese di Montalto in risposta al
Cigàla. Ella capì che erano state dette per Ginevra, sebben costei le
avesse voltate ad elogio dell'amica. Ma perchè la Ginevra aveva
mostrato di non accettarle per sè? V'era egli forse una segreta
ruggine tra lei e il Montalto? Ginevra aveva forse voluto
punzecchiarlo?

La signora Maddalena non poteva adattarsi a questa opinione. Ginevra
era nobilissima d'animo, ed ella non si ricordava d'averla udita mai
usare scortesia ad alcuno, o dir parola che sapesse d'amaro. Ella poi
non poteva indovinare fino a che punto fossero inoltrate le cose.
Rammentava d'aver udito poc'anzi che il marchese di Montalto metteva
il piede quella sera per la prima volta in casa Torre Vivaldi; ora
come si poteva credere che tra la Ginevra e lui ci fosse alcun che? E
d'altra parte, perchè mai Aloise era turbato a quel modo? Insomma, la
signora Maddalena si stillava il cervello senza indovinare la verità.
Ma una cosa era certa, e le ultime parole del giovine l'avevano posta
in chiaro. Aloise amava Ginevra; Aloise era fuori di sè.

Simiglianti scoperte riescono sempre argomento di riso o di rammarico,
secondo l'indole di chi ne è venuto a capo. Però il primo pensiero di
quella affettuosa gentildonna fu di pietà. Aloise le apparve come un
povero ferito, che ella avesse raccolto sul campo di battaglia. E
nondimeno dover tacere, non potergli dire che lo aveva inteso e che
s'impietosiva a' suoi patimenti! Fu questo un nuovo rammarico per la
marchesa Torralba, la quale poteva dire come Bidone: __Non ignara
mali, miseris succurrere disco__.

Intanto com'era ben custodito il segreto di Aloise! Francava la spesa
di tenerlo sei anni, sei lunghi anni celato, se in una sera di
vicinanza egli doveva spiattellarlo a quel modo! Ma purtroppo l'amor
fa come le selci, che, fino a tanto le si tengano divise, vi appaiono
mute ed inerti come debbono esser i sassi; ma fate tanto di
percuoterle l'una sull'altra, e subito vi sprigionano scintille.

Con questi cominciamenti, pensate voi che allegra __mazurka__! Aloise
era sdegnato con sè medesimo per quelle sue sconsiderate parole, e non
ardiva aggiungerne altre. Alla marchesa Maddalena poi, quella scoperta
era cosiffattamente feconda di molesti pensieri, ch'ella non aveva
tempo a dir nulla. Ella inoltre con quel fine accorgimento che è della
donna, notava che il suo malinconico cavaliere, ogni qual volta i giri
del ballo lo riconducessero presso Ginevra, si faceva rosso in viso, e
il cuore gli dava le battute doppie.

Come a Dio piacque e all'orchestra, la __mazurka__ ebbe fine. Aloise
accompagnò, sempre muto e contegnoso la signora Maddalena a posto, e
poco di poi, cogliendo il momento opportuno, si allontanò, andando
difilato nella sala più remota del palazzo, dove si buttò su d'un
seggiolone, e vi rimase corrucciato, facendo a pezzi i suoi guanti
paglierini, che non ci avevano colpa.

--Che fo io qui? Il mio cuore è pieno di amarezza. Amo quella donna
come un dissennato, e non so mettere insieme quattro parole da dirle,
sicchè ella m'avrà in conto di uomo noncurante, o scemo come tanti
altri. E suo marito che viene a mettermi tra l'uscio e il muro,
presentandomi alla marchesa Torralba! Ed io che non so cavarmi
d'impiccio! Ma come fare? Era debito di cortesia lo stare accanto a
quella donna gentile.... E intanto, chi sa? con tutta la mia
sollecitudine intorno a lei, avrò forse dato molestia ad un povero
diavolo che rama. Ed ella stessa a prima giunta avrà creduto.... sì
certo; ma adesso non avrà a temer nulla; sebbene avrei potuto tenere
una strada diversa, e non esser villano per mostrarmi sincero. Ora,
quel che è peggio, ho lasciato trapelare il mio segreto. La signora
Maddalena saprà che amo Ginevra, e Ginevra non ne sa ancor nulla; io
non mi sono certamente diportato in modo che ella potesse avvedersene.
Qual concetto si sarà fatto di me? Le sue parole non mi hanno fatto
scorgere ch'ella mi crede invaghito della Toralba? Oh, in fede mia,
che è stato un bel cominciamento! Ella almeno s'è ingannata; mentre io
ho veduto che a lei non ne importa un bel nulla. Ma che donna è
costei? Che pensieri girano per quella testa? E che so io? È bella,
stupendamente bella, ed io darei dieci anni di vita per poterle
parlare con quella disinvoltura che avevo accanto a quell'altra.
Suvvia, Aloise....--

Così dicendo si alzò, mettendosi a passeggiare per quella sala, dove
la luce dei doppieri era più mite e dove giungeva più fiocco il rumore
della festa.

--Suvvia, Aloise! Bisogna superare questa ritrosia bambinesca, farsi
animo, ed essere con lei quello stesso che sono con altre. Che dirà
ella, alla perfine, vedendomi sempre così asciutto e freddo come un
giorno di febbraio?--

L'immagine del giorno di febbraio lo fece sorridere, sebbene
mestamente, e la sua fantasia proseguì su quel metro.

--Sì, bisogna ch'io mi scaldi, e scaldi a mia volta la statua di
ghiaccio. Ella non ama nessuno, e questo mi è noto. Per bellezza di
forme e nobiltà di pensieri ella appare troppo alta ad ognuno di
questi adoratori pedestri, ed è giusto. L'amore soltanto, l'amore
sconfinato, può levarsi all'altezza di quella donna. E per questo,
Ginevra, voi non istarete molto a saperlo, non c'è chi mi vinca.--

In quella che Aloise dallo sconforto correva alla fede, e cavando di
tasca un altro paio di guanti si rifaceva verso la porta della sala
deserta, udì nella camera attigua alcune voci di uomini e donne che
dicevano:--La quadriglia! suonano la quadriglia.--

E allora gli sovvenne della quadriglia che doveva ballare colla
marchesa Maddalena. Giungeva proprio in mal punto, quel ballo
cerimonioso!

Quando Aloise fu presso alla marchesa Torralba, vide accanto a lei
Enrichetta Corani e il Nelli di Rovereto, suo cavaliere per la
quadriglia, il quale chiedeva alla marchesa se ella avesse già scelto
una coppia di riscontro.

--Io no;--rispose la signora Maddalena.--Chiedetelo al mio cavaliere,
che giunge a proposito.

--Che c'è?--disse Aloise al capitano.

--Chiedevo alla marchesa se non avesse coppia di riscontro per la
quadriglia, ed ella si rimette a te. Perciò ti prego.... ed anzitutto
ti presento alla mia dama.--

Aloise fece un profondo inchino alla Corani, e fu stabilito il
riscontro fra le due coppie, che andarono nel salone di Flora a
mettersi in figura.

La Ginevra non era tra quelle coppie di danzatori; di guisa che il
giovine Montalto apparve più tranquillo, e non perdette la tramontana,
come sarebbe certamente avvenuto se la marchesa dagli occhi verdi
fosse stata colà. Ma se Ginevra non c'era, il suo nome fu ricordato.
La signora Maddalena, che sapeva il segreto di Aloise, ed era una
pietosa creatura, gli parlò sempre della bella Vivaldi, narrandogli
per filo e per segno, negli intermezzi del ballo, come fossero amiche,
e come fossero state in educazione nello stesso convento. Al qual
proposito la signora Maddalena non si peritò di raccontare al suo
cavaliere com'ella uscite dal convento poco dopo l'entrata di Ginevra;
dond'era agevole argomentare una differenza di parecchi anni d'età, e
tutta a scapito della gentil narratrice.

Il giovine rimase intento ad ascoltarla, e chiunque li avesse veduti,
senza udire una parola dei loro discorsi, avrebbe creduto Aloise di
Montalto innamorato cotto della marchesa Maddalena, e in atto di libar
la dolcezza delle parole che le uscivano di bocca. «Vedi giudizio uman
come spesso erra!» Di ben altra donna il povero innamorato si dava
pensiero; e la signora Maddalena, vedendolo così attento, tornava
sempre a dirgliene; laonde, tra tutti e due, nel parlar che facevano
della bella Vivaldi, furono errate più volte le figure della
quadriglia, proprio come sarebbe avvenuto tra due innamorati.

Ottima signora Maddalena! Ella godeva in cuor suo della consolazione
che recava altrui, e ad Aloise parve assai breve quella quadriglia che
egli s'era fatto così di mala voglia a ballare.

Ma zitti! La quadriglia è finita, e già si è ballato un altro
__valzer__, durante il quale Aloise di Montalto andò di bel nuovo a
ragionare con sè medesimo nella sala remota. Siamo giunti alla
__mazurka__, a quella tal __mazurka__ che il nostro giovine ha da
ballare con la marchesa Ginevra, e per la quale ha scritto il suo nome
sulle ali della farfalla gemmata.

Ad Aloise tremarono le gambe, allorquando fu per entrare nel salotto
dov'era seduta la marchesa Ginevra, centro d'un circolo, o, per dir
meglio, fuoco di un elisse, sulla curva del quale si notavano i soliti
corpi opachi, come il nobile De' Salvi, il marchese Tartaglia ed altri
di quella risma.

--Marchesa,--le disse egli, accostandosi, con quella scioltezza che
gli venne fatta maggiore,--rammentate di essermi debitrice d'una
__mazurka__?--

La marchesa Ginevra sorrise, ed alzandosi per andargli a fianco,
rispose:

--Signor di Montalto, io non dimentico mai i miei debiti.--

La frase parve un po' asciutta ad Aloise, e noi non sapremmo dargli
torto.

--Come?--si provò egli a dire, vincendo la natural timidezza;--non è
altro che un debito?--

A quelle parole, dette con accento di mestizia, la Ginevra rizzò il
capo, guardando fiso il suo malinconico cavaliere. In quelli occhi
verdi parve ad Aloise di scorgere un po' di stupore; e infatti, dopo
averlo guardato, la marchesa gli chiese di rimando:

--Che vuol dire questa dimanda, signor di Montalto? Sarebbe egli in
quella vece un debito per voi? Veramente, dovrebbe pesarvi, che avete
ballato già molto.--

Era un rimprovero? Certo le parole ignude potevano averne l'aria, ma
il piglio sorridente e l'accento scherzevole della marchesa Ginevra
davano a quelle parole il colore di una di quelle frasi di nessun
conto, che si mettono fuori tanto per barattar parole. E così dovette
intenderla Aloise, sebbene a prima giunta gli fosse sembrato che la
bella Ginevra volesse dargli una trafittura.

--Io, marchesa?--rispos'egli, con aria di candore, a guisa d'innocente
che stupisca d'essere accusato;--ho fatto un giro di __mazurka__ e una
quadriglia; tutto il rimanente del tempo l'ho passato nella galleria,
a vedere i vostri magnifici quadri.--

Stando seduto in quella sala, Aloise aveva notato alla sfuggita che
c'erano dei quadri; ma, turbato com'era, non aveva nemmanco pensato a
guardarli. Era dunque una bugia innocente, e necessaria d'altra parte
a colorire la sua lunga fermata. Doveva egli forse raccontare alla
marchesa che era stato un'ora laggiù a ruminare i suoi dolori, dopo
aver fatto a pezzi un paio di guanti?

--E così,--soggiunse Ginevra,--i morti vi hanno fatto dimenticare i
vivi?

--Lo credete voi, signora?

--No, certo! Io non potrei pensare sul serio che voi, cavaliere
perfetto, aveste usato una simile scortesia alle belle dame che
adornano la mia festa. Che ne dite della Maddalena Torralba? Non vi
par ella una delle più belle signore di Genova?

--Signora marchesa, io non so.... Sono un cattivo giudice.

--Come? E chi ha da sentenziare in materia di bellezza, se non un
giovine come voi, signor di Montalto? Io non ho tanti dubbi, e penso
che la mia amica Maddalena ne superi molte delle più decantate.--

Aloise si provò ad interromperla; ma ella indovinò quello che gli
stava per dirle.

--Badate!--fu sollecita a soggiungere;--ho detto questo perchè lo
penso, e voi non avete a rispondermi con un complimento. Non siete del
resto un cattivo giudice?--

Aloise chinò il capo senza dir altro. Che cosa avrebbe egli potuto
rispondere? Che la signora Maddalena era brutta e gli era in uggia?
Avrebbe detto due grosse bugie, e la Ginevra non l'avrebbe creduto.
Poteva dire in quella vece come non gl'importasse punto che fosse
bella o brutta; ma non gli venne fatto di raccappezzare una frase meno
sgraziata, per dirlo.

Per buona sorte l'orchestra venne a levarlo d'impaccio. Senonchè,
levata di mezzo la necessità del parlare, sopraggiungeva quella del
ballare a modo; e qui fu davvero un cascar di male in peggio. Aloise,
come potete argomentar di leggieri, era turbato, e la terra gli
traballava sotto i piedi. Non si stringe impunemente per la prima
volta fra le braccia la donna che si ama, e il povero giovine aveva a
sperimentarlo in quel punto. E mai ballo fu più contegnoso, più
freddo, tra una bella dama e un bel cavaliere che a vederli, parevano
fatti l'uno per l'altro.

A dirvela schietta, non c'era unità in quella coppia; Aloise andava
spesso fuor di tempo, epperò erano costretti a fermarsi ad ogni
tratto. Finalmente la marchesa Ginevra, o fosse stanca di quel
martirio, o mossa a pietà delle angustie del suo cavaliere, mise un
eloquente sospiro.

--Siete stanca, signora!--le chiese il giovine, rosso in volto e
tremante.

--Sì, un poco. Non so.... forse il valzer di poco fa....

--Venite a riposarvi, signora.--

E così dicendo, la condusse a sedere in quel medesimo salotto dov'era
andato pur dianzi a cercarla.



XXVIII.

Nel quale si conosce il buon onore di Enrico Pietrasanta, e della
marchesa Maddalena.


Giova alla nostra vanità di narratori sperare che il cortese lettore
non s'infastidisca di tutte queste minute scavazioni psicologiche. Son
cose verissime, e noi, giusta il consueto, vogliamo narrarle per filo
e per segno, come le abbiamo notate, rammentando le più sottili e
riposte cagioni d'ogni atto, e facendo, stiamo per dire, la diagnosi
di quella malattia che s'era appiccicata al cuore del nostro amico
Aloise.

Lasciata la marchesa Ginevra nel salotto, dove le si era rifatto
intorno un crocchio di cortigiani, Aloise si allontanò, per ritornare
nella galleria che aveva già accolto i suoi malinconici soliloqui. Ma
in quella che stava per uscire dal salotto, s'abbattè nel Pietrasanta,
il quale gli pose una mano sul petto, come avrebbe fatto un solerte
carabiniere al malandrino, del quale fosse per l'appunto andato in
traccia.

--Orbene, Aloise, che c'è? che cos'hai?--

La domanda non era inopportuna, dappoichè il giovane appariva cupo e
con gli occhi stravolti.

--Ho....--rispose egli,--ho tal cosa che ti prego a non chiedermi qual
sia.

--Così parli ad un amico, Aloise? Tu hai un dispiacere, ed io devo
saperlo.

--E quando lo sapessi?

--Diamine! Lo terrei in corpo, e cercherei intanto di darti un buon
consiglio. Suvvia, Aloise, non stiamo qui ad armeggiare di sentenze,
come due personaggi da tragedia. Sei tutto scombuiato nel viso, ed io
voglio saperne il perchè.

--Ma che cosa credi ch'io abbia?--disse Aloise, schernendosi.

--Vieni laggiù in quella galleria, dove io t'ho veduto già entrare due
volte, e ti dirò quello che penso de' fatti tuoi.--

Aloise lo seguì, sebbene a malincuore. Come furono giunti (e non fu
cosa agevole pel Pietrasanta, il quale ebbe a fare il viso ilare per
due, correndo in mezzo alle brigate colla mano dell'amico sotto il
braccio), il dialogo ricominciò.

--Eccoti dunque quello che penso. Sei innamorato.

--Io?--esclamò Aloise, scuotendo il capo in atto d'impazienza.

--Sì, tu, innamorato! E non mi crollar le spalle, come se io fossi le
mille miglia discosto dal vero. Hai ballato colla Ginevra in modo da
farla cadere almeno una dozzina di volte.

--Orbene, e che inferisci da ciò?

--La più naturale delle conseguenze. Vedi, Aloise; io ho ragionato di
questa conformità: Il mio amico non è un bambino a cui occorrano le
dande e il carruccio per star ritto in piedi, e il suo maestro di
ballo non gli ha rubato i denari. Basti sapere che dianzi colla
Maddalena Torralba s'è fatto il nome di ballerino esercitato e
valente: pregio che, a dirla di passata, conduce molto innanzi nelle
buone grazie del sesso debole. Anche la Ginevra balla a modo, e sto
per dire meglio della Torralba, la quale in fin de' conti tira sempre
in ballo il suo capogiro, quando si tratti di ballare il __valzer__. O
come mai Aloise, che era così destro colla Maddalena, mi diventa colla
Ginevra un pulcino nella stoppia? Perchè, sappilo, Aloise, tu non
andavi nemmeno in tempo; e per questo ti posi gli occhi addosso. Avevi
il viso smorto come un moribondo, le membra aggranchiate.... Insomma
mi avevi aria di un collegiale, e il parer tale soltanto allora, mi ha
dimostrato che fiamma t'avesse accesa nel cuore la marchesa Ginevra.
Ed ora che cosa fai? Il tuo atteggiamento non mi dice egli forse che
ho colto nel segno?--

Aloise, durante il discorso dell'amico, non aveva detto parola, nè
fatto un gesto che accennasse a diniego. Era in quella vece andato a
sedersi, o, per dir meglio, era caduto sopra un divano, rimanendo
mezzo arrovesciato, come una nave che mostri il fianco scoperto, con
un braccio penzoloni, il capo chino e gli occhi sbarrati che
guardavano il pavimento.

--Orbene,--proseguì il Pietrasanta, sedendosi a fianco dell'amico e
pigliandolo amorevolmente per mano,--orbene, Aloise, io ti compiango.
È una sirena, costei, che ne ha già adescati di molti, quantunque
senza volerlo, e soprattutto senza curarsene più che tanto. Non è una
lusinghiera, e guai a chi togliesse i suoi sorrisi, le sue cortesi
parole, per una dolce promessa, o per un invito a farsi avanti. Ella è
più facilmente da paragonarsi ad una di quelle fortezze, cinte
tutt'intorno di verzura, che ti sembra di poter salire dolcemente fino
alle cannoniere; ma non è che un errore di prospettiva, e giunto sul
ciglione dello spaldo, trovi quaranta metri di fosso, a dir poco. Però
mi duole di te, Aloise, mi duole di te, che, vedutala appena, hai
perduto il cervello.

--No, Enrico; t'inganni!--rispose finalmente, con accento malinconico,
Aloise di Montalto;--non è stato un errore di prospettiva, come tu
dici, nè fresco di questa sera, il mio! Già da lunga pezza ero preso.

--E da quando, ch'io non ne ho saputo mai nulla?

--Da sei anni.--

Aloise non poteva più nascondere cosa alcuna al Pietrasanta, poichè
questi aveva indovinata la cagione del suo dolore. Nè il Pietrasanta
era di quei tali amici da dozzina, i quali non sono degni che si
confidi loro un segreto. Innocente segreto, alla perfine, quello di
Aloise, che amava Ginevra da sei anni, e le si avvicinava quella sera
per la prima volta.

--Da sei anni? e come mai?--esclamò stupefatto il
Pietrasanta.--Appunto da sei anni è maritata.

--Sì;--rispose Aloise;--e il tuo povero amico è da quel tempo
innamorato. L'ho amata fin dal primo giorno che l'ho veduta. Destino!
Vederla e sentir la ferita nel cuore, fu un punto solo. Da quel giorno
ho imparato a tacere, a tener segreti i miei patimenti. Credi tu
forse, Enrico, che non mi avesse a dolere di nasconderli a te, al
migliore de' miei amici? Dapprima sperai che fosse una cosa da nulla,
una passioncella fugace, come tante altre che ti colgono a
diciott'anni, e, dopo aver chiuso gli occhi piangendo, ti svegli un
bel mattino risanato del tutto. Ma che? era in quella vece un amore
sterminato, che vinceva il tempo e la lontananza, e, tacente per lunga
pezza nel profondo del cuore, si rifaceva più forte al ricomparire di
quella divina bellezza; un amore, insomma, che io, pauroso, ho tentato
di spegnere nella solitudine, che tuttavia si è nutrito di sè
medesimo, ed è cresciuto tanto da soggiogarmi.

--Ed ella?

--Ella non si è mai avveduta di nulla. Tu sai che ha sempre fuggite le
occasioni di venire in questi ritrovi di gente, a tal segno che tu
spesso m'hai accusato di umor nero, di misantropia e che so io. Ora tu
intendi il perchè. Era come un'avversione, una riluttanza ad
imbattermi in quella donna, che stava in cima a tutti i miei pensieri.
Perchè, dicevo tra me, perchè andrei ad accrescere la schiera de' suoi
corteggiatori? Che cosa posso io sperare, io, scarso di que' pregi che
fanno risaltare un uomo al cospetto della donna amata? O non si
prenderà giuoco costei di un amore che, quanto più è forte, riesce
altrettanto più impacciato e ridicolo? Infine, che ti dirò di più? Mi
rattenevano tante altre ragioni, che io medesimo non ho indagate in
tutti i loro rigiri, in tutte le loro sottigliezze. Tu stesso, Enrico,
rammenterai che mi ero ostinato a non volerla guardare, quando ella
comparve per la prima volta in teatro, e tutto il pubblico della
platea s'era rivolta a contemplarla.

--Sì, perdio, mi ricordo! Non si vedeva altro che la tua bionda
cuticagna superbamente voltata contro il palchetto della bella
Ginevra. Mi pare di vederti, ritto e duro come un piuolo, poco lontano
dal palchetto, senza voler mai piegare d'un punto a destra o a manca,
in quella che tutti, intorno a te, davano le spalle alla scena, e gli
amici non rifinivano dal dirti: ma guarda Aloise, che viso stupendo!
guarda che occhi splendidi, e che spalle meravigliose! E tu, duro,
peggio di sant'Antonio.... quello delle tentazioni, s'intende. Oh
Aloise! Come fingevi!...

--Sì; vedi come so fingere adesso!--

Il Pietrasanta non disse verbo, rispettando il dolore di Aloise.
Questi, intanto, la cui mente proseguiva a fantasticare, ripigliò
spontaneamente il discorso, rispondendo a un rimprovero che il
Pietrasanta non gli aveva neppur fatto, ma che egli sentiva in cuor
suo di aver meritato.

--Scusami,--disse dunque Aloise,--io non credo che l'amore sia una
canzoncina, come nelle opere in musica, da doverla schiccherare ad una
moltitudine di spettatori, attenti e disattenti. È uomo dappoco chi
non sa tenersi in corpo la sua malinconia. Senonchè, giunti una volta
alle strette, non è più dato nascondere i propri mali ad un amico
provato....

--Sei dunque contento che io t'abbia letto nel cuore?

--Sì, perchè tu non vorrai rider di me.

--Figurati se ne ho voglia! Ma che cosa intendi ora di fare?

--Lo so io, forse?--esclamò il Montalto, levandosi da sedere.--Amo
fieramente questa donna; e, vedi maledizione, sono impacciato accanto
a lei, contegnoso, freddo come un pezzo di marmo. Come se ciò non
bastasse, debbo per cortesia stare mezz'ora accanto alla Torralba,
ballar due volte di fila con lei, quasi che io fossi venuto per la
marchesa Maddalena. E questo, se pure s'è curata un tratto de' fatti
miei, questo avrà potuto pensare la marchesa Ginevra.

--A dirti il vero, Aloise, sulle prime l'ho pensato ancor io. Mi
pareva una corte __in formis et modis__.

--To', vedi? Pure non c'era ombra di vero. Ma che cosa avrà ella
creduto di me, che, avvicinandomi a lei per la prima volta, non so
dirle quattro parole, e non ho disinvoltura, nè grazia, fuorchè
accanto ad un'altra?

--Sì, questi sono pur troppo i contrassegni dell'amore; sebbene io
penso che la natura avrebbe fatto meglio a darcelo senza tanti
fastidii. E il peggio è che la donna, quando ci abbia il cuore
tranquillo, non bada alla eloquenza delle nostre contraddizioni. Dico
nostre, così per dire, che in quanto a me, soglio amare con
parsimonia, tanto da non perder mai la tramontana.

--Il che vuol dire non amar punto;--interruppe Aloise.

--Come ti garba, ma essere amati di più. Vedi tu il bel guadagno che
hai fatto a perderti d'animo. E nota che a correr diritto ci avevi
proprio trovata la strada fatta!

--O come? che vuoi dir tu?

--Che eri stato cercato e pregato. Il marchese Antoniotto che
t'invita, e mi raccomanda di farti venire ad ogni costo, perchè t'ha
in grandissima stima ed è stato amico stretto di tuo padre, lo
dimentichi tu? Sulle prime io non ci avevo badato, a questa novità del
tiranno di Quinto; ma poi mi è tornata a mente quando l'ho veduto
usarti tante cortesie e farti tanti salamelecchi sull'uscio. Eri nato
vestito, Aloise, e non hai saputo agguantar la fortuna.--

Aloise non rispondeva nulla, e si poteva credere che non ascoltasse
già più le parole del Pietrasanta.

--Ma vedi,--proseguì,--che sto qui a farti il predicozzo, come se
dovesse giovare a qualcosa! Ora è fatta; sei innamorato cotto, e non
c'è verso di uscirne. Mio povero Aloise, che farai tu?

--Che fare? Non lo so. Mettendo l'animo ad una cosa, non ho mai badato
al bene o al male che me ne potesse derivare, nè pensato quello che
avrei fatto il giorno appresso.

Una sola cosa io so, che quella donna ha da sapere che l'amo, anche se
debba poi riderne. E poi.... e poi.... c'è sempre un modo onorato di
uscire di pena.--

Questa volta era il Pietrasanta che andava a cascar sul divano.

--Aloise, Aloise! Questo non si chiama ragionare; e c'è di peggio, che
non approda a nulla.

--Orbene, sentiamo!--proruppe Aloise, piantandosi dinanzi
all'amico.--Che cosa faresti tu nel caso mio?

--Io.... farei.... Insomma, non tremerei tanto; parlerei come sapessi
meglio.... e farei istessamente un buco nell'acqua. Credimi, Aloise;
quella è una stupenda camelia. Donna senza amore, e camelia senza
odore.--

Aloise si strinse nelle spalle.

--Credi di no? Orbene, vedremo. Io t'ho detto l'animo mio, da amico
schietto, che ti conosce impetuoso e magnanimo, e non vorrebbe vederti
troppo impegnato. Ma poichè hai deliberato di non dare indietro, io
non ti lascerò. Un amico è sempre buono a qualche cosa. E per dar
principio, balli più con lei questa sera?

--No.

--Perchè?

--Perchè non le ho chiesto altro che quella malaugurata __mazurka__.
Vorresti forse che fossi andato a chiederne un'altra?

--Ora sarebbe tardi; ma c'è il __cotillon__. Non avevi pensato ad
invitarla pel __cotillon__? Or bene, sappi che l'ho invitata io, e per
me. Ti parrà strano, ma è proprio così. Ero andato a pregare la
Monterosso, che, a dirtela schietta, mi va a genio; ma ero stato
precorso da un altro, fin da ieri mattina. Allora mi volsi alla
marchesa Ginevra, la quale non aveva data la sua fede a nessuno; ed
eccomi il cavaliere di quella bellissima dama. Per me, che non cerco
fragranze arcane, la camelia è già molto, e son certo che parecchi mi
vorranno un mal di morte, per averla levata loro di mano. Ora vedi se
io sia o no un buon amico! Ti offro la metà della mia preda.

--Enrico!--esclamò Aloise, piantando gli occhi addosso al
Pietrasanta.--Enrico, se tu fai tanto per me....

--Sì certo, che lo farò; ma prima di tutto ci vorrà l'assenso della
dama, che andremo poi a chiedere in compagnia, e non lo negherà,
voglio sperare. Suvvia, animo, e non morirmi di tenerezza prima del
tempo.

--Grazie, Enrico! tu sei il migliore degli amici!

--Benissimo; intanto,--soggiunse il Pietrasanta,--segui il migliore
de' tuoi amici fuori di questo deserto.--

E si mossero per uscire dalla galleria, come coloro che non avevano
più niente da fare là dentro.

--Ma, che diamine? il deserto si popola!--soggiunse di subito il
Pietrasanta, facendosi rispettosamente da un lato per lasciar passare
la marchesa Ginevra e la marchesa Maddalena, le quali entravano nella
galleria tenendosi per mano.

Le due dame non s'aspettavano di certo quell'incontro, e, colte alla
sprovveduta nel loro andare, misero un grido sottile, effetto di
quella nervosa sensibilità che è naturalissima nelle donne. È tuttavia
necessario soggiungere che il grido si mutò in una bella risata, non
sì tosto le dame riconobbero i due amici; e la marchesa Ginevra, da
padrona di casa, stimò conveniente aggiungere due paroline cortesi.

--Il signor di Montalto,--disse ella,--mi aveva narrato di esser
rimasto a lungo in questa galleria contemplando i quadri. Debbono in
verità essergli andati molto a genio, poichè ci è tornato.--

Aloise s'inchinò arrossendo, senza risponder nulla; ma per lui rispose
il Pietrasanta, che poteva a ragione vantarsi di non perdere mai la
tramontana.

--E che quadri miracolosi, signore mie, dappoichè si spiccano dalla
cornice per muoverci incontro!

--Ah, ah, Pietrasanta! Siamo po' poi tanto stecchite, da parervi due
quadri?

--No, certamente;--rispose il Pietrasanta, cavando accortamente
profitto dall'impaccio in cui l'aveva posto quell'arguta
considerazione della marchesa Ginevra.--Ma vogliate condonar qualche
cosa al nostro turbamento. Eravamo venuti qui.... per saldare un
debito di gratitudine....

--Che dite mai?

--Sì, davvero; ci correva obbligo di ringraziare la signora Tullia,
quella bella gentildonna che ci guarda dall'alto di quella parete, di
aver stabilita in casa Vivaldi la costumanza di queste splendide
feste, alle quali voi ci convitate con tanta gentilezza. Nè certo,
venendo qui a pagar questo tributo all'antica regina, pensavamo che ci
fosse dato di ringraziare ad un tempo la nuova. La regina Tullia è
morta; viva Ginevra prima ed unica!

--Questo,--rispose Ginevra,--è un complimento più bello, e meritereste
che Ginevra prima ed unica, come voi dite, vi desse da baciare la sua
regia mano.

--Fatelo, signora; io m'inginocchio.

--No, no, più tardi; quando avrò la corona.--

E con un sorriso, con quel sorriso che i lettori conoscono, la bella
Ginevra si congedò dai due amici, seguita dalla marchesa Maddalena.

Aloise stette a guardarla, mentre ella correva leggiera verso il fondo
della galleria, e sospirò profondamente quando l'ebbe veduta sparire
dietro una portiera di velluto cremisi gallonato d'oro.

--Animo, Aloise! Non mi fare il bambino, che in questo modo non si
rimedia a nulla!

--Hai ragione; andiamo!--

Ora noi non terremo dietro ai due giovani, i quali non hanno più a
dire niente di nuovo per noi; e seguiremo le due dame, che hanno
abbandonata la festa, avendo sicuramente gran cose da dirsi.

Passarono esse per una fuga di stanze, fino al pensatoio della
marchesa Ginevra, dov'era quella tal Danae di Guido Reni, che ha già
turbata la fantasia a parecchi dei nostri lettori. Colà giunte, e
poste a sedere, Ginevra entrò __ex abrupto__ in materia.

--Suvvia, Maddalena, sentiamo che cos'hai da dirmi.--La Torralba
stette un poco sovra pensiero, come se cercasse le parole con cui dar
principio alla sua narrazione.

--Ginevra,--diss'ella finalmente,--tu sai pure se ti amo....

--Sì, Maddalena; siamo amiche fin dal monastero, e queste amicizie
durano.

--Oh, ti ricordi di quel tempo? Io ero più grandicella di te; ma ti ho
subito amata, come se fossimo entrate nel medesimo giorno. E quando ho
dovuto partire, come ho pianto!

--Cara Maddalena, abbracciami! Tu sei sempre stata un'angelica
creatura. La madre Scolastica (ti rammenti?) che per dir la verità, ci
ha un poco guastate con le sue carezze, ti chiamava il suo pan di
zucchero; e non avea mica torto.

--Dolci memorie!--esclamò la Torralba.--Ma veniamo al buono.

--Sì, veniamo al buono. Sono curiosa di sapere che cosa tu abbia a
dirmi.

--Oh, non correre tanto con la fantasia. Si tratta di una cosa che
saprai già da un pezzo.

--Come? che cosa?

--Ginevra,--disse la Torralba, accostandosi all'amica e parlando a
mezza voce,--c'è qui un uomo che t'ama.--

A questa improvvisa uscita, la bella Ginevra si scosse, non sapendo
ancora se avesse a ridere o a corrucciarsene, guardò trasognata la
Torralba.

--Maddalena! che significa ciò?

--Sì, lasciami dire, poichè m'ha dato l'animo di cominciare; c'è qui
un uomo che ti ama fortemente, e che s'è lasciato sfuggire il suo
segreto di bocca.

--Tu non parli da senno, mia buona Maddalena;--disse di rimando
Ginevra, in quella che pur si studiava di sorridere.--Se quello che mi
vai fantasticando fosse vero, se quest'uomo esistesse, non metterebbe
neppur conto parlarne. Un uomo così dappoco che si lascia sfuggir di
bocca i suoi segreti.... che il cielo ne scampi te e me!

--Oh, se tu sapessi in che modo!...--soggiunse Maddalena, non badando
al piglio di infinita gaiezza che la Ginevra aveva assunto, per non
aversi a mettere in contegno.

--Suvvia, poichè si celia, udiamo in che modo!

--Ginevra,--proseguì la pietosa Torralba,--io non parlo per secondi
fini, puoi crederlo: ho notato un dolore, e vengo a dirtelo perchè ti
riguarda.

--Ma insomma, di chi si tratta?

--Di Aloise di Montalto!--

E pronunziando questo nome, la signora Maddalena si fece tutta rossa,
pensando alla impressione che avrebbe fatto sull'animo dell'amica. Ma
non fu nulla.

--Ah, ah! lasciami ridere!--esclamò Ginevra, ridendo infatti, e di
cuore;--e tu credi proprio....

--Io? ne son certa. Ma come? tu non sai....

--Nulla.

--Nulla?--ripetè meravigliata la signora Maddalena.

--Nulla! proprio nulla. E questo s'intende da parte mia. Per ciò che
riguarda il Montalto--penso che tu ti sia ingannata egualmente.

--Oh, qui poi, no!

--Oh, qui poi, sì, mia gentil Maddalena! Come vuoi tu che il signor
Montalto abbia a darsi pensiero di me, se oggi mi ha parlato per la
prima volta, e non certo con aria di molta sollecitudine, te lo giuro!

--Mi fai stupire, Ginevra! E tuttavia....

--E tuttavia, che cosa?--

Facendo questa dimanda con un piglio tra beffardo ed Amorevole,
Ginevra dimostrava chiaramente di volersi tenere sulla sua, aspettando
la fine di quella conversazione che l'aveva molto turbata. Ma di
questo turbamento non ne traspariva pur ombra sul viso. Le sue labbra
vermiglie sorridevano; i suoi grandi occhi verdi brillavano, guardando
argutamente la signora Maddalena, povera colomba smarrita, la quale
aveva stimato debito suo di parlare di un fatto che la risguardava, e,
dopo aver cominciato, non si sentiva più l'animo di proseguire.

--E tuttavia....--soggiunse ella, ripigliando le parole di Ginevra,
come Ginevra aveva ripigliate le sue,--e tuttavia avrei giurato che tu
sapessi ogni cosa. Ma ora ti credo, Ginevra; sebbene gli atti del
signor di Montalto mi riescano due volte più strani.

--Udiamo, dunque; che cosa ha fatto il signor di Montalto?

--Sì, poichè ho incominciato, e quantunque non debba premerti punto,
ti narrerò tutto quello che ho notato.--

Qui, confortata da un amplesso della sua bellissima amica, la Torralba
le raccontò divisatamente ogni cosa. Parlò dei modi eletti e
disinvolti di Aloise, quando le fu presentato dal marchese Antoniotto;
del suo improvviso mutamento appena fu entrato nella credenza, dov'era
Ginevra; della sua trepidanza, dell'arrossire, del balbettare, e di
tutti gli altri segni d'angustia morale, di cui le parve indovinar la
cagione, quando il discorso cadde sui pregi della Ginevra, ed egli
uscì in quelle parole infiammate che i lettori già sanno; della muta e
svogliata quadriglia; dell'attenzione con cui il giovane si era fatto
ad ascoltarla quando ella ritornava a parlare dell'amica sua e infine
di cento altre minuzie che a lei erano sembrate altrettanti argomenti
di un amore profondo.

--Se tu avessi veduto, Ginevra, com'egli arrossiva, quando mi usciva
di bocca il tuo nome! Se tu avessi sentito come la mano gli tremava,
quando nei giri della __mazurka__ noi ci avvicinavamo a te! Una volta
le nostre mani sfiorarono il tuo braccio, ed egli a turbarsi, a
tremare, a perdere i tempi, per modo che io levai gli occhi, stupita,
osservandolo. Si avvide del mio stupore, arrossì, e fu costretto a
fermarsi. E poi, bisognava vederlo, con che occhi amorevoli e pieni di
gratitudine egli mi guardasse quando io parlavo di te! In fine, che
dirti di più? Mi parve che patisse del mal d'amore, e del più forte
che si possa immaginare. Però, non sapendo.... scusami, sai!...
temendo di qualche malinteso.... di qualche lieve screzio, nel quale
potesse tornar utile una parola amichevole, sono venuta a chiederti un
colloquio.

--E t'eri ingannata, mia gentil Maddalena!--disse la Vivaldi, che era
stata ad ascoltarla con molto maggiore attenzione, che non occorresse
per cosa che non le premeva punto, com'ella diceva;--t'eri ingannata,
perchè io ho parlato oggi per la prima volta col signor di Montalto.

--Sì, ma intanto egli ti ama!--soggiunse la pietosa Torralba, seguendo
il filo della sua logica femminile.

--Eh via!--interruppe Ginevra, stringendosi nelle spalle.

--Tutto quello che tu hai veduto, o creduto di vedere, non prova un
bel nulla. Alla fin fine, che il signor di Montalto sia o non sia
innamorato di me, non ha da premermi punto. E se fosse tale
davvero,--conchiuse,--che cosa ci potrei far io?

La marchesa Maddalena non rispose nulla. Quella soave creatura era
rimasta sovra pensiero.

--Ma no,--riprese Ginevra,--è impossibile. Vedi, Maddalena; notando io
pure alcuni atti del signor di Montalto e riscontrandoli con la sua
assiduità presso di te, ero anzi giunta ad una conseguenza opposta.
Pensaci, Maddalena; egli è innamorato di te.

--Di me?--esclamò trasognata la Torralba.

--Sì, certo, di te. E che ci sarebbe di strano? A me pare una cosa
naturalissima.

--Ginevra!--disse la signora Maddalena con accento di dolce
rimprovero.--Non sarebbe più naturale che fosse innamorato di te?
Povero giovane! Era così malinconico!...

--Tu sei la pietà fatta donna, mia gentil Maddalena. Or dimmi, che
faresti tu? Senza parlare di tant'altre cose, che pur vanno messe in
conto, ameresti tu un uomo, per la sola ragione che egli è invaghito
de' tuoi begli occhi?

--Io....--balbettò Maddalena, grandemente impacciata, poichè non s'era
proposta una questione di quella fatta, e non aveva considerato il
caso sotto quel nuovo aspetto;--che dimanda mi fai? A voler stare sui
generali, no certo; ma ci sono dei casi.... Io penso insomma che una
donna ha cento modi di mostrarsi grata ad un uomo dell'affetto che
egli nutre per lei, se questo affetto è grande e lo mette davvero in
gran pena. Una cortese pietà....

--Oh, lasciamola stare, la cortese pietà! È come un burchiello a due
remi, che fa conto di non discostarsi molto dalla spiaggia, e la
corrente lo porta Dio sa dove.

--È vero, Ginevra, è vero!--disse la Torralba, sospirando e chinando
malinconicamente lo sguardo a terra.--Io m'avvedo che non si possono
dar consigli ragionevoli, in queste faccende, e che il dolore del
signor di Montalto mi ha fatto correre troppo oltre. Poverino! Due o
tre volte sono stata sul punto di dirgli: signor di Montalto, non vi
pigliate il fastidio di proseguire a ballare; e se non era il timore
che egli l'avesse per una scortesia, certamente glielo avrei detto....

--Orbene,--interruppe Ginevra,--anch'io ho veduto che stava a disagio
ballando con me, e mi è venuto lo stesso pensiero, ma non mi sono
fermata a mezza strada.

--Come hai fatto, dunque?

--Non gli ho già detto dì smettere, ma ho fatto le mostre d'essere
stanca, e a lui non parve neppur vero di farla finita. Mi condusse a
posto, e se ne andò.

--Sì, ma tu hai pure veduto testè,--disse di rimando la signora
Maddalena, a cui la bontà del cuore inspirava la logica,--che egli non
aveva colto il destro di quella tua infinita stanchezza per correre
presso un'altra. Egli era nella galleria, solo col Pietrasanta, che
credo sia il suo unico amico.

--Non ci sarebbe mancato altro,--rispose Ginevra,--per essere buttato
a mazzo con tutti questi vagheggini che ci stanno attorno per loro
capriccio, e che noi faremmo assai bene tutte quante a trattare
secondo i meriti loro.

--Ah, noti dunque un divario tra lui e tutti gli altri?

--Sì, a primo aspetto mi è sembrato migliore di molti e molti che
conosciamo. Ma chi sa che vedendolo più da vicino, e indagando meglio
i suoi portamenti, non mostri come tutti gli altri il suo lato
maschile?...

--Il lato maschile? Che cosa vuoi dire?...

--Non l'hai tu mai notato, Maddalena? Non t'è mai occorso di stimar
molto un uomo, e di aver poi a ravvisarlo per qualche verso
manchevole? Quel nuovo lato che tu vedevi allora, e che ti guastava il
buon concetto di prima, era il lato maschile. E tutti l'hanno, sai?
L'uno è bello e cortese di modi, ma vanaglorioso; l'altro è
affettuoso, ma fiacco; altri è di forte ingegno, ma ambizioso ed
egoista; altri è sdolcinato, ma vile, invidioso e malvagio; tutti poi
cercano al nostro fianco il piacere, l'appagamento della loro vanità,
l'aiuto ai loro disegni di autorità e di potenza futura, e nulla dànno
in ricambio. Che vuoi? Ci considerano come cose utili ai loro disegni,
bellissime cose, amabilissime cose, ma sempre cose, nient'altro che
cose. Però quando abbiano preso in queste cose tutto quello che ad
essi giova, quando si siano fatti abbastanza invidiare per la loro
assidua presenza accanto a noi, non li vedi più, sono altrove. E di
noi dice la gente, quando ci vede passare: o come? Il tal di tale non
c'è più? E' non sapete? N'era stufo. Sì, certo, la più bella cosa a
lungo andare.... e via di questo piede. Mia gentil Maddalena, tu l'hai
pur voluto, il mio sermone sugli uomini! Io non voglio già che le
altre la pensino a modo mio, ma sono contenta della mia opinione;
stimarli tutti ragionevolmente, essere cortese co' miei amici, non
rinunziare alla mia qualità di donna, ma altresì non perdere la mia
pace per alcuno.

--Hai ragione, Ginevra!--disse la signora Maddalena;--l'esperienza
dovrebbe portarci tutte a questa conclusione.

--Non correre tanto, Maddalena!--gridò la bella Ginevra, ridendo.--Non
credere che tutte queste belle cose me l'abbia insegnate l'esperienza.
Ho pensato molto, ho raffrontati molti casi, e molti ne ho indovinati.
Ma vedi dove ci ha condotto questo signor Aloise di Montalto! Certo
gli fischiano gli orecchi, per questo lungo discorso che s'è fatto di
lui.

--Poveraccio! Ed è proprio quello che a parer mio dovrebbe sbugiardare
la tua cattiva opinione sugli uomini.

--Coll'esempio di una eccezione? Tanto meglio per lui, se sarà una
eccezione. Ma via, abbiamo già troppo chiacchierato di lui, e gli
altri tutti, che non ci vedono da un pezzo, avranno ragione a
protestare.

--Andiamo!--disse malinconicamente la signora Maddalena, a cui pareva
che Aloise di Montalto meritasse un po' più di compassione.

Quando le due amiche tornarono nel salone di Flora, la prima parte
delle danze era finita, e Ginevra, prendendo il braccio del più
ragguardevole tra tutti i suoi convitati, diede il segno di entrare
nella credenza, dov'era imbandita la cena.

È un assai brutto momento, quel della cena, in una festa da ballo. E
sebbene molti non converranno in questa sentenza, a noi non mette
conto mutarla, poichè ella piacerà di sicuro a quanti non pensano col
ventre.

Brutta cosa, perbacco, il vedere tutte quelle dame graziose, che erano
pur dianzi così leggiere, e stiamo per dir così diafane nel vortice
della danza, sedute a mensa, che mangiano come uno sciame di
cavallette! I Greci di Omero, i quali pur brancicavano con le mani i
quarti di vitello arrostiti sullo schidione, immaginavano il nettare e
l'ambrosia, per non guastare colla grossolana copia del cibo il degno
concetto che avevano degli Dei d'Olimpo. Ora le nostre Giunoni non si
peritano di farsi scorgere con un'ala di fagiano ai denti; le Ciprigne
sbocconcellano alla lesta i pasticcini e li inaffiano col vin di
Bordò. E gli uomini? Appaiono forse meno sgraziati? Guardateli, que'
teneri Adoni, che testè saettavano le languide occhiate e si
struggevano in lunghi sospiri. Costoro si appigliano alle bottiglie,
fanno man bassa su d'ogni cosa, brodo ristretto, selvaggina, salse,
savori, tartufi, ostriche, canditi, e va dicendo; non la perdonano nè
a prime mense, nè a seconde, nè a tornagusti d'antipasto, nè ad
intramessi di pospasto; pregiano egualmente la bottiglia di Bordò
ritta sulla base e la bottiglia di Borgogna sdraiata sul tovagliuolo;
tuffano i baffi nella spuma dello Sciampagna e nei liquidi topazii del
vecchio Reno.

Non venga in mente ad alcuno di coglierci in contraddizione manifesta
con quello che abbiamo detto più su, che non rifuggiamo punto
dall'immagine della donna che mangia, e con quello che si può
sottintendere rispetto all'uomo. Ha da essere pioggia e non gragnuola;
ed anco a voler stare nella pioggia, c'è spruzzo ed acquazzone. Epperò
noi, se in una festa da ballo non riputiamo grave offesa al senso
poetico, all'aureola divina della bellezza, un sorso di tè o qualche
dolciume, non possiamo egualmente menar buono il mangiare e il bere,
nella loro più grossolana apparenza. Che la cena ci sia, sta bene; se
prelibata e suntuosa, prova la liberalità dell'Anfitrione. Ma una
bella dama seduta a tavola in atto di sgranocchiarsi un petto di
pollo, fosse pur coi tartufi, che orrore!

Quella che si poteva guardare senza tema di guastarci il sangue era la
marchesa Ginevra. Ella faceva mostra di mangiare, assaggiando, ed ogni
sua cura si rivolgeva al ragguardevole personaggio che le sedeva
daccanto. Costui del resto non aveva bisogno di esortazioni; macinava
a due palmenti, e trovava buona ogni cosa. Le altre dame, sedute
tutt'intorno alla tavola, oltre l'aiuto de' servi, accettavano i grati
uffici dei loro cavalieri, i quali s'inchinavano sulla spalliera delle
seggiole, pascendo loro gli orecchi di dolcissimi nonnulla, mentre
esse confortavano lo stomaco di cibi più sostanziosi. Di questa guisa,
altro non si udì per un pezzo che l'acciottolìo de' piatti, il cozzar
de' bicchieri, lo zampillare delle bottiglie, e il dimenar delle
mascelle.

Aloise non c'era; neanche il Pietrasanta; neanche il Cigàla. Il primo
aveva altri pensieri in capo; il secondo voleva tener compagnia
all'amico, ed aveva perfino lasciato che un altro gli rapisse la
marchesa Giulia. Non si creda tuttavia che fosse un grave sacrifizio
sull'ara dell'amicizia, il suo; poichè il rapitore era il vecchio De'
Salvi.

In quanto al Cigàla, egli avrebbe potuto andare a cena come tutti gli
altri; ma quell'arguto chiacchierone era schiavo di una sua arguzia,
s'era messo in trappola con le sue mani. La signora Enrichetta Corani
gli aveva chiesto se non andava a cena; ed egli, vedendo che la ci
aveva già un altro cavaliere ai fianchi, anzi due addirittura, s'era
lasciato andare a risponderle:

--No, signora Enrichetta. Un Cigàla ha da tener fede alla cara
bestiuola di cui porta il ricordo nel nome e l'effigie nello stemma.

--E non si pascerà d'altro che di rugiada!--aveva soggiunto la signora
Enrichetta.

--Certo; così ha sentenziato Anacreonte.--

Ed ecco per che modo il Cigàla era rimasto insieme col Pietrasanta e
con Aloise. Ma se non era andato a dimenare i denti, si ricattava
esercitando la lingua.

Mollemente adagiato su d'un canapè accanto ad Aloise, ragionava di
cento cose col Pietrasanta, che s'era sdraiato su d'una poltrona, e a
voler ripetere tutto quello che dissero tra due (poichè Aloise stava
silenzioso ad udirli, ora sorridendo, ora accennando del capo, e non
andando mai più oltre del monosillabo), ci sarebbe da fare un altro
capitolo, laddove noi non pensiamo ad altro che a finir questo, il
quale è ormai troppo lungo.

Basti sapere che il Cigàla ne disse di tutti i colori, e tra l'altre
cose, passando in rassegna alcune delle dame, si fe' lecita una glossa
lunga anzi che no sui nuovi amori della bionda Cisneri, e sulla
nobiltà del conte Alerami, che era a cena accanto a lei, e che gli era
parso molto turbato.

--Non avrà forse ricevuto le sue rimesse dalle Indie;--diceva egli.

--Ma dimmi, e il Salvani?...--chiedeva il Pietrasanta.

--Il Salvani ha durato poco. È la storia delle belle cose.

--È davvero un ottimo giovane!--interruppe Aloise.--Mi duole di non
averlo veduto quasi più, e soprattutto che non mi abbia creduto così
degno della sua intimità da confidarmi le cose sue. Io gli avrei
aperto gli occhi in tempo.

--Baie! E che male c'è? Ha amato; è stato piantato in asso; ma alla
fin fine non è egli che ci ha avuto da perdere.

--È facile a te, Cigàla, il parlare così; poichè tu prendi.... come
diamine è il tuo proverbio?

--Vuoi forse dire che prendo gli uomini come sono, le donne come
vengono, e gli scudi a cinque lire? Sì certo, e me ne vanto contro
ogni maniera di disinganni.--

Questi erano i ragionamenti della triade, e durarono fino a tanto che
durò la cena. Ma quando al Pietrasanta parve udire che i convitati si
alzavano da tavola, si mosse per andare in traccia della marchesa
Ginevra.

--Marchesa,--diss'egli, appena ebbe modo di rimaner solo con
lei,--chiedo una grazia.

--Parlate, di che si tratta?

--Una grazia.... cioè, dovrei dire una disgrazia.

--Una disgrazia, Pietrasanta? E la chiedete a me?

--Sì, pur troppo! Ma che non si farebbe egli mai per
l'amicizia?--soggiunse Enrico sospirando.

--Per l'amicizia? Non vi capisco. Suvvia, parlate chiaro.

--Ecco qua.... Aloise di Montalto voleva offrirsi per vostro cavaliere
nel __cotillon__....

--Ah, capisco finalmente!--esclamò ridendo la bella Ginevra.--E voi
venite a rassegnarmi la vostra rinunzia.

--No, mi guardi il cielo dal perdere il capo a questo modo. Se avessi
per caso da impazzire, vorrei andar diritto allo spedale, che nessuno
mi vedesse farne di così gravi, come questa che voi pensate di me.

--Ma che volete voi dunque? Qual altra.... disgrazia chiedete?

--Di poter tagliare l'errore a mezzo; di contentare il mio migliore
amico, senza scontentar me; di essere in due, dove avrei voluto esser
solo.--

In quella che Enrico Pietrasanta faceva questo allegro sproloquio per
aiutare il suo Oreste, la marchesa Ginevra pensava:

--Ma che cos'hanno in mente tutti costoro? La Maddalena, Montalto; il
Pietrasanta, Montalto; perfino quel pazzo di Cigàla, Montalto, non sa
parlarmi d'altro che di Montalto!.... Che siano tutti pazzi, o che
costui li abbia tutti stregati?...

--Orbene, marchesa,--disse Enrico,--pronunziate la dolorosa sentenza?

--Sì, se pur la volete tale.

--Se la voglio!... Ve la chiedo con rammarico profondo, ma l'aspetto
da voi.

--Ed io,--rispose la Ginevra, imitando la comica mestizia del
Pietrasanta,--con profondo rammarico vi condanno.... ad avere un
compagno di catena.--

Una doppia risata, ma di cuore, pose fine ai dialogo della Ginevra col
suo cavaliere.

Il marchese Tartaglia si avvicinò, chiedendo di che cosa ridessero; ma
innanzi ch'egli avesse articolata e sputata la sua dimanda, il
Pietrasanta era già fuori del tiro; tanto gli premeva di recare ad
Aloise la buona novella.



XXIX.

Nel quale si comincia a conoscere che uomo fosse il marchese
Antoniotto.


Uno dei personaggi più importanti della nostra storia, sebbene altro
non abbia fatto ancora che una breve comparsa in queste pagine, è
senza dubbio il marchese Antoniotto Torre-Vivaldi.

Intanto che i suoi convitati ballano, cenano, passeggiano e dicono che
le sue feste sono le più belle e le più suntuose di Genova, intanto
che i forestieri, ammessi in grazia dei loro titoli in casa Vivaldi,
si fanno un ottimo concetto, se non al tutto vero, dell'umor socievole
delle grandi famiglie genovesi, teniamo un po' d'occhio il padrone.

Quando egli ebbe fatto tutto quello sfoggio di cortesie, che i lettori
sanno, con Aloise di Montalto, e ricambiate alcune parole colle
persone più ragguardevoli dei due sessi, il marchese Antoniotto
chetamente disparve. Ma noi che abbiamo in mano il filo di quel
labirinto, gli terremo dietro, e se il lettore vorrà lasciare in pace
per un tratto la bella Ginevra, la bianca Maddalena, Aloise, e tutti i
suoi simpatici personaggi, non avrà a pentirsi d'essere venuto con
noi.

Il marchese Antoniotto, coll'aria sbadata di chi va a zonzo, ora
conversando con questi ed ora con quelli, giunse fino al pensatoio
della sua signora, che era in quel momento deserto. L'uscio che
metteva nella stanze di Ginevra era chiuso: ma il marchese Antoniotto
non se ne diede pensiero.

Andando ad un'altra parete, premè col pollice un nascosto congegno, e
una porticina che era dissimulata dai fregi continuati della
tappezzeria, si aperse per dargli il passo nello spogliatoio della
marchesa, e di là fino al suo quartierino particolare. Colà giunto,
salì il piano di sopra, dov'erano le camere dei servi.

Ma lassù non era anche finito il viaggio del marchese Antoniotto, il
quale, infilata un'altra scala più stretta della prima, salì fino ad
un pianerottolo cieco, dov'era agevole immaginare che un tramezzo
vietasse di andare più oltre. Egli, nondimeno, a cui l'oscurità non
faceva impedimento, trovò il catenaccio di una porta ferrata, e lo
fece scorrere sugli anelli; quindi bussò due o tre volte con le nocche
delle dita.

Un rumore di passi si udì poco dopo dall'altro lato dell'uscio; un
altro catenaccio scorse sugli anelli, e l'uscio si aperse. Era il
padre Bonaventura in persona, che si faceva ad accogliere il suo
ospite.

I lettori non avranno certamente dimenticato che, per essere più
vicino al padre Bonaventura, il marchese Antoniotto lo aveva allogato
in un comodo quartierino, all'ultimo piano del suo palazzo; e vedono
ora che per maggior comodità di ambedue, era stato rispettato l'uscio
di comunicazione, sebbene raffermato da una parte e dall'altra con due
catenacci. Di questa guisa, ognuno se ne stava tranquillo in casa sua,
mentre riusciva agevole ai due amici il vedersi e lo stare a
colloquio, senz'altra molestia che quella di rimuovere que' due
impedimenti.

I sullodati lettori vorranno adesso sapere il perchè di tanta
intrinsichezza, e noi vediamo giunta l'occasione di dirlo. Era
un'intrinsichezza fondata sulla comunanza dei propositi, e sul
profitto che ognuno dei due cavava dall'autorità e dall'aiuto
dell'altro.

È noto per che modo il marchese Antoniotto Della Torre fosse venuto a
nozze con la bella marchesa Vivaldi. La giovinetta, rimasta orfana in
piccola età, sotto la tutela di un suo parente materno, era uscita dal
monastero del Sacro Cuore di Parigi, per diventar moglie del marchese
Antoniotto. La Ginevra, unico avanzo dei Vivaldi del ramo di Valcalda,
portava, insieme con un bel nome ed una stupenda bellezza, dieci
milioni di patrimonio, e l'accorto tutore, tra le molte famiglie che
lo chiedevano di quel parentado, aveva prescelto i Della Torre.
Antoniotto era uno dei più operosi e dei più benemeriti caporioni del
partito clericale; era ricco egli pure, e per giunta uomo da non star
sul tirato nella faccenda dei conti, uomo da contentarsi del capitale,
senza lesinare troppo sui frutti; epperò, detto fatto, si stabilirono
le nozze. Non c'era altro che una piccola difficoltà per mandarle ad
effetto; che l'Antoniotto era un po' consanguineo della Ginevra; ma
quella provvidenza della Curia di Roma non istette molto a venire in
aiuto con una brava dispensa, e il Della Torre diventò facilmente il
Torre-Vivaldi, a maggior gloria di Dio, o, per dire più esattamente,
della setta gesuitica.

Era egli mai stato giovane, il marchese Antoniotto? Quei generosi
concetti, que' baldi rapimenti, che provano il bollore del sangue e il
rigoglio della gioventù, non avevano mai persuasa la mente di
quell'asciutto gentiluomo? Certo, a voler stare sui generali appare
difficile e quasi impossibile che un uomo, poniamo anche il più freddo
del mondo, non abbia percorso le sue fasi di ardore e di tiepidezza.
Il medesimo Napoleone, che fu tipo straordinario della moderna
tirannide, e a cui non mancò altro che il sangue regio per essere
salutato gran mastro della reazione europea, ne' suoi primi anni era
stato un poeta, un sognatore, un rivoluzionario; insomma, era stato
giovine.

Non così il marchese Antoniotto. Egli era nato vecchio, e tutti i suoi
coetanei rammentavano di averlo sempre veduto lo stesso, fin da quando
proseguiva lo studio delle leggi nella Università genovese. Già da
quel tempo appariva contegnoso e severo, chiuso dell'animo, e nimico
d'ogni cosa che sapesse di novità; di guisa che, tra per l'autorità
del nome, e per l'inflessibilità de' propositi, facilmente capitanava
quella generazione di vecchi bimbi, detti allora i giovani sodi, che
facevano contrapposto a quella coorte di giovani ingegni, forse
soverchiamente innamorati delle teoriche forestiere, ma vogliosi di
cose nuove, devoti al culto della patria e della libertà, i quali
prendevano indirizzo dal loro condiscepolo Giuseppe Mazzini.

Il marchese Della Torre si vantava d'essere classico in letteratura, e
condannava con Vincenzo Monti __l'audace scuola boreale__; ma nel
fatto non poteva patire i poeti di nessuna scuola. Il suo classicismo
non era altro che un arnese di guerra, nel campo della politica; e ciò
trapelava anche dalla compiacenza con cui il giovine sodo si faceva a
notare come i signori liberali, gli scapigliati, offendessero la
purezza della lingua e delle tradizioni letterarie, non meno che della
filosofia italiana.

Egli poi s'era chiuso nello studio delle cose economiche e di tutti i
rami dell'arte di governo; si andava armando di tutto punto per
comandare altrui, quando l'occasione gli si fosse offerta. Càrdini
della sua politica erano i libri __Du Pape e Les soirées de
Saint-Petersbourg__, che Giuseppe De Maistre, il gran propugnatore
della teocrazia e della autocrazia, il panegirista del carnefice,
aveva gettati come una protesta e una minaccia del passato moribondo,
contro la rivoluzione rinnovatrice. L'umor severo, la ricchezza e la
nobiltà dei natali avevano posto in rilievo questo discepolo dei
Gesuiti, che avrebbe potuto giunger davvero al governo della cosa
pubblica, se l'apostolato continuo e gagliardo del suo avversario
coetaneo, conducendo dal martirio al trionfo il concetto dell'unità
italiana, non avesse spinto il Piemonte ad afferrar la bandiera
tricolore, e guasti i disegni, sgominate le fila della reazione.

In que' tempi che tutti gli animi cominciavano a risvegliarsi e si
preparavano alle prime battaglie, il marchese Antoniotto si era posto
deliberatamente a capo dei nemici d'ogni novità. Però era stato dei
primi a biasimare i grilli liberaleschi di Pio IX, e ora struggendosi
per le vittorie dei rivoluzionari, ora rallegrandosi delle loro
sconfitte, era giunto finalmente a vedere il trionfo della sua causa.
Allora corse giubilante ad ossequiare al Vaticano quel pontefice che
dapprima lo aveva fatto tanto tremare; allora accettò d'essere
nominato senatore da quel governo a cui aveva augurate le busse
austriache per farlo rinsavire.

Certo, restava ancor molto a fare, innanzi di mettere a segno i
rompicolli; nella cenere covavano ancora di molte faville; il governo
non faceva prova di bastevole energia contro i ribelli, e peggio
ancora, ne' suoi diportamenti verso i degni ministri della chiesa, non
si mostrava troppo tenero della santa causa. Ma a questo avrebbe
portato rimedio il tempo; le ire sarebbero sbollite; uomini di buona
tempera andando man mano in alto, avrebbero rimutato l'indirizzo della
cosa pubblica. Intanto le file del partito si ristringessero, non
perdonando a fatiche, non dispregiando nessun argomento, anco il più
modesto e lontano dallo intento comune, che desse modo di operare. Si
facessero vivi, insomma, e sapessero usare di una certa larghezza
d'animo, per raccattare que' fuorviati della parte loro, capi scarichi
i quali s'erano un bel giorno scaldati per le riforme e per la
indipendenza italiana, e dopo aver scritto inni a Carlo Alberto,
arringato il popolo plaudente e messo un tratto il berretto frigio
sulla parrucca incipriata, s'erano spauriti del loro ardimento, doluti
delle loro pazzie, a guisa di chi si svegli in quaresima, e si
vergogni della baldoria fatta in carnevale. Queste pecore matte erano
in buon numero, e ogni giorno facevano un passo verso l'ovile.
Bisognava non disprezzarle, accoglierle anzi a braccia aperte, non
tanto per il pregio delle persone, ch'era nulla, quanto per la
opportunità dell'esempio.

Erano questi i consigli del marchese Antoniotto, e ognuno intende di
leggieri che fossero ascoltati, sebbene taluni più irosi e più
ostinati tra' suoi colleghi non avessero voluto dapprima acconciarsi
alle sue ragioni sottili. Nè questo era il solo lato per cui il Della
Torre si mostrava accortamente più largo degli altri suoi pari.

Figlio ad uno di que' parrucconi della oligarchia del Consiglietto,
egli aveva dovuto da principio partecipare un tal poco a quella
dispettosa opposizione, non già d'opere, ma di parole, che il
patriziato di Genova faceva al governo piemontese, al quale la sua
città, il teatro delle sue pompe senatorie, era stata regalata dal
Congresso di Vienna. Ma il marchese Antoniotto non era uomo da inutili
rancori. Ricco di ambizione e di volontà, sentiva che i suoi milioni e
la sua corona di marchese erano due armi potentissime a farlo giungere
in alto, e che dovevano restarsi inoperose, pel magro diletto di fare
il broncio al re di Sardegna, il quale po' poi era in quella parte
della penisola il rappresentante della teocrazia di Roma e della
autocrazia di Germania, il gran vassallo del papa e dell'imperatore,
que' due càrdini della società, quelle due dighe opposte dalla
Provvidenza ai malvagi disegni della rivoluzione.

In cotesto adunque egli era già più innanzi di molti altri; ma saldo
com'era ne' suoi propositi, non correva neppure alla cieca, non si
lasciava accalappiare dalle lusinghe del governo, i cui atti, diceva
egli, non davano ancora quella sicurtà che potesse persuadere un
gentiluomo a prestargli l'opera sua. Voleva insomma che il suo partito
soverchiasse; e in quella stessa guisa che nel suo partito gli pareva
di non dover essere secondo a nessuno, così non poteva immaginar
possibile un governo apertamente reazionario, senza esserne a capo
egli stesso.

Ed era proprio un uomo fatto per comandare altrui, il marchese Della
Torre. Il nome, le ricchezze, le aderenze, l'ingegno, erano un nulla
al raffronto del carattere, di solito asciutto e severo, ma che sapeva
convenevolmente piegarsi, assumere quella grazia di modi che venuta
dall'alto è sempre una lusinga pericolosa per chi sta in basso, e
signoreggia di sovente gli animi più generosi.

Larghe testimonianze del suo ingegno sempre volto al comando, offriva
il vasto podere di Quinto, dove egli passava i sei mesi caldi
dell'anno, e dove ogni cosa procedeva ordinatamente giusta il suo
concetto. Colà il marchese Antoniotto aveva tentato con frutto
parecchi esperimenti di riforme agrarie, nella quale materia era
versatissimo, di guisa che, alla più trista, egli avrebbe potuto
riuscire al governo della cosa pubblica per la scorciatoia di un
portafoglio di agricoltura e commercio. Ognuno ricorda che parecchi
degli odierni uomini di Stato entrarono per questa viottola nei
consigli della Corona.

Nelle letterarie discipline era valente del pari, sebbene dispettasse
i poeti. Conosceva il latino e lo scriveva con quella eleganza che
potevano ai suoi tempi insegnare i Gesuiti o gli Scolopii. Un suo
volgarizzamento di Sallustio aveva fatto andare in brodo di succiole
Tommaso Vallauri, e il teologo Margotti non aveva potuto beccarvi per
entro nessun farfallone; della qual cosa aveva fatto un gran parlare
sull'__Armonia__. Un suo trattatello __Degli elementi dell'arte di
governo__ lo aveva fatto salir in gran rinomanza presso i parrucconi
di tutta Italia, e i legittimisti di Francia citavano «le marquis
Torre Vivaldi» come uno «des hommes politiques les plus éminents de
son temps, qui réunissait un esprit éclairé à un sentiment profond des
droits du pouvoir légitime, en dehors duquel il n'y a point de
garantie pour la vraie liberté et pour la civilisation du monde».

Tutti costoro, poi, quando per alcun loro negozio avessero a passar da
Genova, erano gli ospiti del marchese Antoniotto, il quale, nelle
lusinghe di una splendida accoglienza diventava due volte più
ragguardevole al cospetto dei forestieri, e, non si muovendo da
Genova, otteneva facilmente una fama europea.

Ma torniamo alla villa di Quinto. Colà Ginevra dagli occhi verdi
accoglieva il fiore della civil compagnia, e colle grazie della sua
persona e del suo conversare aiutava inconsapevolmente e mirabilmente
ai disegni ambiziosi del marito. Intorno alla vezzosa gentildonna
spirava come un'aura di medio evo, nella sua parte più bella, che
allettava i più schivi. Si radunavano colà i discendenti di quelle
grandi famiglie che avevano operato tante cose cinquecento anni
innanzi; e all'udir conversare di belle imprese, o recitar versi, al
veder corti d'amore, giostre di schermidori, corse di bei palafreni,
gite sul mare ed altri simili passatempi, al sentirsi ad ogni tratto
ferir l'orecchio da que' nomi che avevano risuonato in Soria, alla
Meloria, a Curzola, chi non avrebbe creduto ad un miracolo, il quale,
sconvolgendo gli ordini del tempo, l'avesse ricondotto parecchi secoli
indietro?

Gli uomini, veramente, apparivano vestiti secondo le brutte fogge dei
nostri tempi. Non si potevano notare nè le calze divisate, nè il
farsetto, nè la cappa, nè il lucco, nè la berretta di velluto; ma chi
avrebbe badato più che tanto al vestimento degli uomini, pur sempre
ingentilito dalle fogge campestri, dov'era una dama come Ginevra?
Costei era bella come una di quelle superbe castellane che talvolta, a
vederle dipinte, ci fanno desiderare di esser vissuti a' tempi loro,
anco a patto d'esser morti e sepolti da secoli e secoli. Si consideri
inoltre che il vestir delle donne non è stato mutato così da non
consentir l'illusione, e che la marchesa Ginevra non la guastava
davvero con le rigonfiature soverchie, essa che, alta della persona e
fatta a pennello, poteva romper guerra al crinolino e meritarne lode
dagli intendenti.

Riviveva adunque il medio evo, intorno alla bella Ginevra. Il marchese
Antoniotto, poi, da vero marito della castellana, faceva in ogni cosa
il suo talento, esercitando, stiamo per dire, alta e bassa giustizia
nelle sue terre. E basti questo fatto ad esempio. Egli aveva fatto
chiudere in una camera sotterranea del suo palazzo un servo, figlio di
uno dei suoi fittaiuoli, perchè esso gli aveva data una mala risposta,
e in quella camera umida e buia lo aveva fatto rimanere quattro dì,
senz'altro cibo che pane e acqua.

Come? griderà il lettore stupefatto. Questo egli ardiva di fare, a
mezzo il secolo decimonono, sotto un reggimento di libertà? Sicuro, lo
aveva osato, e non se n'era neanche pentito, poichè gli pareva la cosa
più naturale del mondo. Nè il povero servo si era lagnato di
quell'arbitrio padronale; e si fosse anco lagnato, chi gli avrebbe
dato ascolto? Le leggi sono state molto acconciamente paragonate alle
ragnatele, nelle quali le mosche incappano, ma che i mosconi strappano
colle ali, passando pel rotto. E poi non vi sono esempi d'altri gran
signori, che hanno fatto anche peggio?

Il povero Menico (che così si chiamava il servitore malcapitato) non
aveva a lagnarsi molto della prigione, se altrove ad altri era toccato
un carico di busse che li avea fatti andare allo spedale, o un colpo
di pistola che li aveva freddati. Il marchese Antoniotto non era
manesco; pregiava abbastanza le sue mani, da non insudiciarle sul viso
o sul groppone della bordaglia, e si contentava di mettere in
prigione.

Quella sua prepotenza del resto gli era passata liscia. Il marchese
Antoniotto era padrone del paese, a cui recava tanto profitto colla
sua villa, colla gente che vi attirava di continuo, colle limosine,
coi donativi ond'era liberalissimo alla chiesa, al comune, e simili. I
pochi che giunsero a risaperlo, non ne rifiatarono, e per certuni
della sua pasta egli ebbe anzi fama d'uomo che voleva e sapeva farsi
rispettare in casa sua, come fuori. Solo i giovani come il Pietrasanta
e il Cigàla notarono che quello era un brutto arbitrio; ma essi per
fermo non potevano farsi vendicatori della libertà offesa, e si
contentarono di appioppare al marchese Antoniotto il soprannome di
__tiranno di Quinto__.

In casa, tuttavia, quell'atto da medio evo non era stato compiuto
senza un po' di contrasto. La marchesa chiedendo grazia pel Menico,
era giunta perfino a rammentare che la terra di Quinto era patrimonio
dei Vivaldi, da lei portato al marito. Ma egli tenne fermo; rispose
alla signora che un esempio era necessario, che la bordaglia bisognava
farla stare a segno, e cento altre cose di quella fatta, dette con
aria di molta deferenza alle preghiere di lei, ma che pure mostravano
com'egli non volesse lasciarsi smuovere. Quando poi ne ebbe
abbastanza, fece restituire il Menico in libertà, ma a patto andasse a
ringraziar la marchesa, che aveva intercesso per lui.

E il pover uomo andò; rese grazie con le lagrime agli occhi; e il
marchese Antoniotto, che era stato a vedere, gli disse con piglio
amorevole:

--Andate, Menico, e non vi avvenga più mai di alzare la voce. Per
quest'oggi intanto la marchesa vi concede di andarvene dai vostri
parenti, ai quali ella v'incarica di dire che condona loro la pigione
di quest'anno.--

Si trattava di un migliaio di lire e qualcos'altro; ma il marchese
Antoniotto era largo signore, come tutti i despoti, e dopo averle
negata la grazia di Menico, amava usare quella galanteria alla
castellana di Quinto. Galanteria tanto più fine, in quanto che il
perdono e il regalo erano concessi per modo che paressero venuti da
lei.

Lasciamo argomentare a voi se il Menico fosse contento, e se corresse
di buone gambe a casa per annunziare quella benedizione. Gli parve
anzi che il castigo fosse stato troppo lieve, e segnatamente meritato;
laonde egli fu più ligio ai Torre-Vivaldi, più obbediente che mai.
Natura umana!

Il marchese Antoniotto aveva inteso per bene che profittevole alleanza
fosse per lui quella del padre Bonaventura. Era costui l'anima del
partito; per domare tutte le ambizioni, per contentare tutte le
vanità, per vincere tutte le riluttanze, per chetare tutte le
diffidenze, non c'era spediente migliore di quello. Il gesuita
sfratato, che curava in Genova le faccende della Compagnia, gli
guarentiva l'aiuto di quel potente sodalizio; il gran capitano della
reazione in Genova lavorava a pro' della sua ambizione, proprio come
un generale a pro' di un re, o di un pretendente in esilio.

Ma se il padre Bonaventura rendeva di passata questo servizio al
marchese Torre-Vivaldi, a ben più alto segno mirava l'opera sua.
L'Antoniotto non era per lui che un ottimo strumento, un magnifico
arnese di guerra, a cui molto volentieri concedeva la parte più bella
del suo sistema. La frase costituzionale del re che regna e non
governa, significava a puntino quello che il marchese Antoniotto
doveva essere nei disegni del padre Bonaventura. Il quale teneva tutte
le fila del governo in sua mano, nobili e ignobili, dorate e sozze. A
quella mano facevano capo i tristi, i vanitosi, e gli stolti di tutte
le classi sociali; usurai che volevano arricchire; ladri e furfanti
che non volevano andare a marcire in prigione; avvocati senza clienti,
medici senza ammalati, maestri senza discepoli, che volevano annaspare
qualcosa; giovani che andavano a caccia di grasse doti e d'illustri
parentadi; uomini da nulla che volevano parere d'assai; cervelli di
gatto che s'industriavano a parer di leone; già s'intende, per averne
la parte proverbiale nella spartizione delle prede.

Broglioni d'ogni fatta e d'ogni misura, lombrichi viventi nel limo,
scorpioni allogati nelle sfaldature dei vecchi palazzi, Archimedi del
malanno a cui non mancava altro che il braccio di leva per muovere e
inabissare la loro parte di mondo, tutti, qual più, qual meno, per un
verso o per l'altro, avevano bisogno del padre Bonaventura. Gli uni
celati, gli altri palesi, secondo quel tanto di oneste apparenze che
avevano i loro raggiri, davano mano all'opera del gesuita, e il
lettore già ne conosce parecchi, contando dall'umile Garasso fino
all'eccelso Torre-Vivaldi.

Abbiamo lasciato quest'ultimo sull'uscio, la qual cosa non parrà segno
di cortesia. Ma si chetino i lettori cerimoniosi; il padre Bonaventura
gli ha fatto accoglienze convenevoli, e non ha aspettato noi per farlo
entrare nel suo studio.

--Signor marchese, è davvero un sommo onore per me, ch'Ella abbia
lasciato la sua splendida festa per venirmi a visitare.

--Eh via, padre Bonaventura! Lasci la modestia in un angolo, come io
ho lasciato le noie della mia festa sull'uscio. I miei convitati si
dànno bel tempo, com'Ella ode di qui. Che farci? anche queste cose ci
vogliono.

--Sì, certo, signor marchese. Gli uomini come Lei, che sono rari pur
troppo, debbono serbare il decoro del loro illustre casato, e non
disavvezzare la gente da quelle larghezze che tengono vivo il culto
delle grandi memorie. Ella sa il proverbio francese: __noblesse
oblige__. Il volgo poi ha bisogno di queste pompe esterne, in quella
che gli uomini colti hanno in gran pregio il suo ingegno e la fortezza
dell'animo.

--E che faceva Ella, mio ottimo padre?--chiese il Torre-Vivaldi, dopo
essersi inchinato per ringraziarlo di quella incensata.

--Io? Me ne stavo là sul terrazzo ad ascoltare quella buona musica che
si suona in casa sua, e non pensavo certamente ch'Ella fosse per
venire quassù a rallegrare la mia solitudine.

--Gli amici come lei, padre Bonaventura, valgono assai più di tutte le
feste del mondo, senza mettere in conto che queste non mi fanno nè
caldo nè freddo. E che cosa abbiamo di nuovo?

--Nelle cose nostre nulla che Ella non sappia, signor marchese. Ah, mi
dimenticavo.... Ho ricevuto lettere del visconte di Roche Huart, il
quale m'incarica di salutarla tanto e poi tanto.

--Grazie, e che cosa fa quell'ottimo visconte?

--Non si è mosso da Parigi. Egli si lagna della gotta, che incomincia
a dargli molestia.

--Pover'uomo! In così fresca età!... E da Torino non ha avuto notizie?

--Sì, ma di nessun rilievo. Ella saprà meglio di me che domani in
Senato avrà fine la discussione sulla libertà dell'interesse.

--Dica in cambio della libertà dell'usura. A me è doluto grandemente
che questa festa di consuetudine in casa mia mi vietasse di andare in
Senato, dove avrei pur voluto correre una lancia contro quest'altra
invenzione del mugnaio di Collegno.--

Il mugnaio di Collegno, come tutti rammentano, era il conte Camillo
Cavour. A quel tempo l'audace ministro torinese non aveva anche
operato nulla che gli amicasse la parte liberale; ma i partigiani del
regresso aveva già fiutato l'uomo che si scioglieva dai loro
abbracciamenti per correre al lato opposto e mettersi come
addentellato tra la rivoluzione italiana e la monarchia piemontese.

Però incominciavano a dirne roba da chiodi, e facevano lor pro' di
tutti i più satirici soprannomi che la sospettosa vigilanza dei
democratici gli andava di giorno in giorno appioppando, secondo
l'opportunità degli assalti.

--C'è ben altro da fare,--rispose il padre Bonaventura,--che andare al
Senato per tenere un discorso contro la libertà dell'usura.
L'indirizzo dei nostri è buono, ma non mi sembra che sia proseguito
molto efficacemente finora.

--Ella ha ragione pur troppo, padre Bonaventura. In verità, io non
intendo tutte queste lentezze. Il tornaconto della monarchia è di
ripulire i gradini del trono da tanti grami senatori che la
tradiscono, che ne accarezzano le ambizioni per condurla a mal
partito. Non vi sarà mai pace nè sicurezza per lo Stato, fino a tanto
che tutti questi arruffoni di emigrati ci stanno a loro bell'agio; e
quel cencio di bandiera tolta ad imprestito dalle società segrete....

--Che vuole, signor marchese?--interruppe ghignando il
gesuita.--Dicono che sia necessaria come uno sfiatatoio.

--Oh, se ne avvedranno,--gridò il marchese Antoniotto, mettendo fuori
le sue frasi dogmatiche,--se ne avvedranno! L'eccletismo dà così gramo
frutto in politica, come nelle discipline filosofiche. Non pare a Lei?

--Lo dico io pure, signor marchese, e il mal frutto non vuol farsi
aspettar molto. Esso intanto matura qui in Genova....

--Come? Che altro malanno c'è in aria?

--La congiura.... Non sa?

--La congiura! Siamo già a questo segno? Ed Ella mi diceva poc'anzi
che non c'era nulla di nuovo....

--Mi pareva di averle già toccato....

--Sì, me ne ricordo, ma in aria, e senza scendere a particolari. Ma
davvero si vuol venire ai ferri corti?

--Sicuro, e so ancora quando pensano di smascherare le batterie.
Volevano far subito, nel qual caso ci avrebbero còlti alla
sprovveduta, o quasi; ma poi ha prevalso il consiglio di pigliar
tempo. Insomma, l'ha da scoppiare verso gli ultimi giorni di giugno.

--Ma stiamo per entrarci, nel mese di giugno!--esclamò turbato il
marchese Antoniotto.--E il governo che fa?

--Non sa nulla.

--Possibile?

--Certo! Costoro hanno lavorato di fine, e il governo è ancora al buio
di tutto.

--Ed Ella.... come ha potuto?...

--Io? Ella non ignora, signor marchese, che il padre Bonaventura dorme
poco, e quando dorme non chiude mai tutti e due gli occhi.

--È verissimo, e bisogna darlene lode; ma per iscoprire tutto ciò che
Ella mi dice, il vigilare non basta. Ella, sicuramente, non è stata
nei conciliaboli della setta mazziniana....

--No, certo; ma altri c'era per me, il quale sa tutto a menadito, e
viene a darmene ragguaglio.

--Davvero? Ella è un uomo prezioso, padre Bonaventura.

--Eh, fo quel che posso. Ma torniamo ai nostri polli. Costoro hanno
lavorato alla cheta; hanno tirato armi in quantità dentro le mura; si
sono ordinati a drappelli, con incarichi particolari: preparano una
spedizione sul Napoletano e in Toscana....

--E la Questura?

--E la Questura non sa nulla, proprio nulla.

--Bisogna avvertirla subito.

--Sì,--rispose il padre Bonaventura col suo risolino consueto,--perchè
si faccia bella della scoperta e guasti le uova nel paniere! Io, con
sua licenza, signor marchese, non penso che s'abbia a far ciò.

--Che altro, dunque?

--Tal cosa che salvi la società dai criminosi disegni dei
rivoluzionarii, e torni nel medesimo tempo profittevole alla parte
nostra. Però m'è venuto in mente di mandar la nuova al governo di
Francia, il quale già comanda a Torino come in casa sua. L'imperatore
sarà grato ai cattolici dell'avvertimento che essi gli dànno, e il
governo di Torino, avvertito da Parigi delle congiure che si tramano
sotto i suoi occhi, si chiarirà ancora una volta impotente a frenare i
rivoltosi, poichè non si mette nelle nostre mani. Ella ha detto una
profonda verità, signor marchese, dando a questo governo il nome di
eccletico. Ora crede Ella che il suo eccletismo possa durare più a
lungo, dopo che vengano in chiaro questi maneggi dei mazziniani?
L'Europa minacciata da queste macchinazioni continue, chiederà a
questo governo una miglior guarentigia pel futuro, ed esso non potrà
darla se non mutando il registro. Allora, signor marchese, verrà il
nostro giorno, o, per ragionare più dirittamente, verrà il suo;
perocchè Ella non è uomo da tenersi in disparte, dove occorra una mano
di ferro al timone dello Stato.--

L'incensata, questa volta, giungeva troppo diritta; ma non era
altrimenti sgradita. Certuni pensano che debba riuscire molesto ad un
valentuomo il vedersi rompere quasi il turibolo sul naso; ma costoro,
a nostro credere, non pongono mente che l'incenso è sempre incenso,
comunque si dimeni il turibolo, e che non v'ha uomo così ottuso di
nari che non senta nel fumo il profumo.

Qui poi non era il caso di un incensatore da dozzina. Però il marchese
Antoniotto si pigliò quelle cortesi parole come roba sua, e tirò
innanzi.

--Ma, di grazia, su che gente fanno assegnamento costoro?

--Oh, non è la gente che manchi; ce ne hanno d'ogni risma. Ella
incominci a metter nel conto tutti gli emigrati.

--Maledetti emigrati!--esclamò il marchese Antoniotto.--E il governo
vuol sempre tenersi in casa tutti quegli avanzi di galera! E poi?...

--E poi gli artigiani di Genova.

--Ah, anche costoro?

--Sì, certo, e sono il grosso dell'esercito. Ella non ignora, signor
marchese, che tutta questa bordaglia è salita sul trèspolo, come se il
mondo fosse fatto per loro. Hanno inventato una nuova maniera di
blasone, colle squadre, i compassi, le mani strette, il berretto
frigio, e la nuova impresa della __eguaglianza__ e d'altre simili
parole che accennano a socialismo pretto. È il diritto di
associazione, che ha portato questi bei frutti! Ora il tumulto che
stanno maturando, mira a mandar sossopra ogni cosa.

--Vogliono dunque regalarci un altro Novantatrè?

--Per l'appunto. Io so che nelle loro conventicole si va dicendo che
il popolo ha diritto a goder la sua parte come i signori; che ne'
passati rivolgimenti non s'è dato unto che bastasse alle macchine, e
che s'ha da rinnovare anche ora, in casa nostra, la mareggiata di
sangue.

--È il solito ragionamento dei rivoltosi. Ma qui ci bisognerà pigliare
provvedimenti solleciti....

--Non tema, signor marchese. Veglia Bonaventura, che li metterà tutti
a segno. Ho gente fidata che li vigila, e taluno fra gli altri che ci
ha le sue brave rivincite da prendere.

--Rivincite! E chi mai?

--Il dottor Collini. Quello è un uomo che si metterà all'opera colle
mani e coi piedi.--

All'udir quel nome, il marchese Antoniotto fece un tal verso colle
labbra che voleva dire: non mi parlate di costui.

--Ella non vede di buon occhio il Collini?--chiese il padre
Bonaventura, che si era avveduto dell'atto.

--Io no, lo confesso schiettamente;--rispose il Torre-Vivaldi.--Sarà
un mio dirizzone, un pregiudizio, e quanto Ella vorrà di peggio; ma,
tant'è, io non posso mandarlo giù. I miei maggiori furono gentiluomini
e prodi soldati, che non temettero di offendere la fede dei loro padri
sguainando la spada per difendere l'onore, quando credettero che fosse
in pericolo.--

E così dicendo il marchese Antoniotto, alla baldanza dello sguardo e
dell'accento, mostrava chiaramente che un po' di buon sangue lo aveva
pure nelle vene.

--Nè io potrei darlene biasimo,--soggiunse il padre Bonaventura, la
cui religione si piegava facilmente a tutti i rispetti umani, a tutte
le debolezze, come a tutte le tirannidi;--ma che vuole? Chiedere forse
la prodezza dell'animo a chi non l'ha ereditata col sangue? Il Collini
non è un leone; ma per contro è accorto, operoso e fedele....

--Sì, perchè si strugge d'ambizione; perchè vuole arricchire a ogni
costo.

--Questo poi è verissimo; ma noi dobbiamo pigliare gli uomini come
sono, e contentarcene, purchè giovino all'intento comune.

--Ma non stimarli punto!--interruppe il gentiluomo.--Ed ora mi dica su
chi ha da pigliarsi la sua rivincita costui.

--O come, non l'ha indovinato? Sul giovine Salvani, quel tale che è
sceso a combattere invece del Collini col marchese di Montalto. Costui
è uno dei capi, come in altri tempi suo padre. Già, chi di gallina
nasce convien che razzoli.

--Ah, ah, capisco;--disse con piglio ironico il marchese
Antoniotto.--Il dottor Collini non può menargli buono di essersi
mostrato più animoso di lui. Benissimo. Queste cose del resto non mi
riguardano punto; ognuno la pensa a suo modo, e noi finalmente caviamo
il bene dal male.

--È una gran massima, signor marchese! Ma, a proposito del Montalto,
lo ha veduto Ella?

--L'ho veduto; egli è in casa mia, mentre parliamo. Un giovine
garbato, in fede mia, quantunque assai malinconico! Dalle poche parole
che abbiamo barattate, mi è sembrato che debba avere molto ingegno ed
altrettanta alterezza di mente.

--Lo credo; è di buona schiatta. Ed Ella, signor marchese, gli avrà
fatto buon viso....

--L'ho accolto come il più ragguardevole de' miei convitati.

--Benissimo! Questo giovanotto ci riuscirà di molto giovamento. Senza
mettere in conto che i milioni del Vitali....

--Altro briccone!--esclamò il Torre-Vivaldi.

--Sì, Ella ha ragioni da vendere; altro briccone. Senza mettere in
conto che i milioni di costui appartengono alla Compagnia di Gesù e,
spinte o sponte, bisognerà che li snoccioli, il giovane Aloise sarà un
buon acquisto per noi. Egli è animoso, colto e nobilmente ambizioso
per giunta.

--Lo crede Ella?

--Lo so, e penso d'aver trovato il modo di stimolarlo.

--Quale?

--È un mio segreto, perdoni!--rispose, ridendo del suo noto risolino a
fior di labbra, il gesuita.--E poi, il giovanotto è probo e magnanimo.
Basterà narrargli il furto di suo nonno, perchè egli s'impegni a
restituire il mal tolto.

--E le prove?

--Le prove? Le troverò;--rispose il padre Bonaventura con quello
istesso piglio con cui avrebbe detto: le fabbricherò.

Ma il marchese Antoniotto non si avvide di quella sottigliezza. Quel
negozio non lo risguardava punto, ed egli non poteva già indovinare
che pensieri girassero in capo al gesuita.

--Sta bene;--diss'egli.--Io pure fo grande assegnamento sul Montalto.
La nostra gioventù è un po' fiacca e generalmente inetta. Si direbbe
che questi vagheggini non siano neppure i nostri figli. Non hanno
nerbo di volontà, sibbene arroganza inutile; non ambizione
stimolatrice, ma vanità contenta di sè medesima. Soltanto quell'Aloise
mi pare abbia ad essere uno del vecchio stampo, e tutto sta a tirarlo
dei nostri, perchè diventi un ottimo arnese di guerra. Crede Ella,
padre Bonaventura, che pieghi già da qualche altro lato?

--No, no, è impossibile!--rispose il gesuita.--Egli è libero d'ogni
vincolo, e la sua alterezza lo ha tenuto discosto fino ad ora da ogni
commercio di pensieri e di propositi con altri. Non so se le ho detto
che egli si tiene grandemente del suo nome e della sua nobiltà. È
questo il suo lato debole, ma fortunatamente è dalla parte nostra; noi
soli possiamo cavarne profitto.

--È vero; lasci dunque fare a me. Il Montalto sarà con noi, ed io sono
veramente superbo di tentare l'impresa.--

Bonaventura a queste parole del marchese Antoniotto non potè rattenere
un sorriso. Ma i sorrisi del padre Bonaventura erano come i suoi
pensamenti, e non uscivano fuori se non quando a lui paresse dicevole.
È dunque da credere che quel sorriso di compiacimento, misto a un tal
po' d'ironia, non gli increspasse neanche le labbra. Quanto al
marchese Antoniotto, egli non si addiede neppure di quest'altra
parentesi mentale del suo degno collega.

--Ora,--proseguì il marchese,--per quanto risguarda la congiura....

--Sarà sventata a tempo,--disse il gesuita,--e per modo che torni
profittevole ai nostri fini. Io del resto la terrò ragguagliata d'ogni
cosa, a mano a mano che ne verrò in chiaro.

--Glie ne sarò grato, mio ottimo padre, e non dimenticherò mai di
quanto utile alla buona causa torni l'opera sua avveduta e la sua
dimora preziosa tra noi. Adesso, poi, ritorno ai miei ospiti, per
lasciarla dormire; perchè, dopo una così lunga veglia. Ella avrà pur
bisogno di riposo.--

Con queste ed altre parole di cerimonia, il marchese si accomiatò,
accompagnato fino all'uscio di comunicazione dal padre Bonaventura,
che tirò il catenaccio innanzi di tornarsene alle sue stanze.

Ma il gesuita non andò già a dormire, siccome il suo ospite credeva.
Egli entrò nel suo studio, dove fece due o tre giri, stropicciandosi
le mani in segno di molta soddisfazione; poi andò ad un armadio che
era scavato nella parete; lo aperse e ne trasse fuori uno dei
ventiquattro libroni che vi stavano entro disposti.

Erano le opere di Sant'Agostino: così diceva la scritta d'inchiostro
nero sul dorso della cartapecora di cui erano coperti quegli smisurati
volumi. Il padre Bonaventura recò il suo librone sullo scrittoio, e
dopo averlo sfogliato un tratto per cercare la pagina, intinse la
penna nel calamaio e al lume della sua lampada, si mise a scrivere.

Sulle opere di Sant'Agostino? Sicuro. Il volume era interfogliato; il
che vuol dire, per coloro che non sono pratici del negozio, che tra i
fogli stampati erano cuciti altrettanti fogli bianchi, siccome si usa
in certi libri importanti, ad uso di scrivervi giunte, annotazioni, ed
altre simili cose.

Che diamine scriveva egli, il padre Bonaventura, a quell'ora inoltrata
della notte? Annotava forse le opere del gran vescovo di Ippona? No
certo, e il lettore, anco se volessimo dargliela a bere, non la
manderebbe giù, e ci vorrebbe un mal di morte della canzonatura.

Diciamogli dunque ogni cosa, per non tenere a bada chi è stato tanto
cortese da seguirci fin qua. Ma anzitutto finiamo questo capitolo, che
è ormai troppo lungo.



XXX.

Della relazione che c'era tra le opere di Sant'Agostino e la "Società
del Parafulmine".


Egli fu nell'anno di grazia 1834, che ebbe principio in Genova la
__Società del Parafulmine__, fiorentissima società anonima, la quale,
sebbene non avesse avuta la sanzione del governo, tirava innanzi senza
paura, come il cavaliere Baiardo, ma non già senza macchia.

Che cos'era questa società, e a che razza di negozi s'applicava? Non
era una società politica, quantunque fosse segreta; coloro che ci
avevano mano non congiuravano contro alcuno dei poteri costituiti, e
il signor Governatore non li teneva d'occhio. Non era una società di
buontemponi, quantunque tutti amassero mangiar bene e ber meglio, e
convenissero di sovente a geniale convito. Che diamine di società era
dunque cotesta del Parafulmine? Una brutta società, veramente; diciamo
anzi bruttissima.

Ecco in che modo essa ebbe principio, e nome, e tutto quello che
bisogna per la fondazione di una società.

Una notte di carnevale, una brigata di giovanotti, usciti dalla veglia
delle maschere, s'erano radunati a cena in una sala remota di una
delle migliori trattorie che ci fossero allora tra porta Pila e porta
San Tommaso. Scorreva il Bordò e lo Sciampagna, perchè i giovanotti
erano ricchi e potevano spendere; ma non scorreva neppure un filo di
vera gaiezza, perchè quei dodici (chè tanti erano colà convenuti) non
avevano nessuna avventura galante da raccontare, ed erano, qual più,
qual meno, tutti adirati colle signore donne, che non s'erano punto
curate dei fatti loro.

La qual cosa si chiariva dai loro discorsi; i quali avrebbero potuto
essere raccolti e messi alle stampe come il più fiero trattato contro
il bel sesso. Ma se non furono stampati i discorsi, altra cosa ne
venne fuori, e di molto rilievo, che siamo per raccontare.

I ragionamenti del nuovo cenacolo volgevano su questo punto: le donne
esser più facili ad amare gli scemi che non gli uomini di vaglia;
concetto adulatorio che rispondeva alla vanità offesa dei dodici
commensali, e sul quale ognuno di loro si faceva a ricamare ogni sorta
di ghirigori, secondo i consigli della propria esperienza.

Costoro certamente sragionavano; chè pur troppo le signore donne son
condotte ad amar uomini d'ogni risma, e fortuna vuole che più
facilmente abbiano a dolersi poi degli uomini di vaglia anzi che degli
scemi. Gli uni e gli altri arrecano disinganni; ma gli ultimi hanno
questo di meno cattivo, che non lasciano eredità di rimpianti.

Un tale, per cavar qualche costrutto dalla discussione, aveva proposto
che si dovesse trovare uno spediente per domare quelle creature
ribelli. Costui era stato più sventurato di tutti, poichè giungeva
sempre tardi all'assedio, quando altri aveva già condotte le parallele
fino agli spaldi della rocca.

--Lo spediente!--gli risposero.--Si fa presto a dirlo; ma come
trovarlo, che giovi a tutti i casi? La tattica è una sola, ma pur
troppo bisogna temperarla, rimutarla, secondo le forze e gli
accorgimenti del nemico.--

Queste considerazioni erano giustissime, e la discussione risicava di
non approdare a nulla, se non era uno dei colleghi, il quale aveva
parlato poco fino a quel punto, e che, percuotendosi la fronte colla
palma della mano, si alzò e disse con piglio d'oratore inspirato:

--Signori, ho un'idea, la quale provvede a tutti i casi, e non ha
mestieri di mutarsi mai. Quelle armi, di cui patiamo difetto, le
avremo; saremo potenti, e le ribelli ci cascheranno ai piedi,
implorando misericordia.

--Ottimamente! Le armi! Mostraci le armi!--gridarono, quasi ad una
voce, undici curiosi.

--Anzitutto, signori, mettiamo le fondamenta; cominciamo dal
principio. Siamo tutti giovani, agiati, non brutti, nè stolidi; e
tuttavia abbiamo tutti cagione di lagnarci del bel sesso. Perchè? Qui
bisogna cercar le ragioni del male. Io, con vostra licenza, le trovo
nella educazione troppo gretta e difettosa delle donne. A Genova, lo
sapete, trionfano ancora il provinciale cugino, il cavaliere servente,
__il patito__; animali pazienti che non si scuorano dei dinieghi, che
mandano giù i sarcasmi e i rimbrotti, che aspettano le occasioni, e
approfittano dei momenti di noia, dei dissapori domestici, di ogni
cosa che li aiuti a inoltrarsi d'un passo. A costoro non paiono gli
anni più lunghi che a noi le settimane; la loro servitù diventa come
un'appendice del matrimonio, e riesce del pari beatamente noiosa, o
noiosamente beata, come vi torna meglio. Nè vuolsi dimenticare che la
più parte delle donne sono oche....

--Oh diamine!

--Sì, che c'è da ridere? Belle, bianche, fatte a pennello, ma oche.
Però queste lungaggini non le disamorano; tutto ciò che diventa
consuetudine di anni non le turba, non le spaventa. E di questa guisa,
senza sale nè pepe, in un guazzetto d'olio, si condisce e galleggia la
più insipida delle passioni.

--È vero! è vero!--gridarono gli ascoltatori, battendo delle mani.--Ma
come vincere queste oche? Come entrare in Campidoglio?

--Attenti!--proseguì l'oratore.--L'esordio e l'esposizione sono
finiti; ora vengo al buono. Avete voi mai pensato, o signori,
all'utile che si può cavare dai segreti del prossimo?--

A questa improvvisa dimanda, gli undici rimasero silenziosi e turbati.
Dopo una breve pausa, uno di loro che era il più giovine, si provò a
dire che l'approfittarsi de' segreti altrui non era la più bella cosa
del mondo.

--Verissimo,--ripigliò l'oratore, senza turbarsi punto,--ma
intendiamoci bene, o signori; qui si tratta di segreti donneschi.

--Oh, la cosa cangia d'aspetto!--

E in questa sentenza del giovine convennero tutti gli altri. Si
trattava di segreti donneschi, cose da nulla, come vede, graziosi
peccati, e non c'era più nessun male a scrutarli; la moralità era
largamente custodita. Però tutti quanti respirarono, come uomini che
si fossero levati un peso dallo stomaco, e non badarono più ad altro
fuorchè allo svolgimento della nuova teorica.

--__In primis et ante omnia__,--disse l'oratore,--e considerando che
qui non si tratta di politica nè d'altri importanti negozi, voi
potrete ammettere con me che il fine giustifica i mezzi.

--Lo ammettiamo....

--E poi, è certo ugualmente che non si vuol far male a nessuno. Noi
non miriamo ad altro che a domare le creature ribelli, a diventar
terribili, e metter fuori di sella gli scemi.

--Sì certo! Ma come?

--Aspettate; ho appena cominciato. Ognuno di voi saprà che il
conoscere il segreto di taluno vi rende in certo qual modo padrone di
lui.

--Sì,--gridarono tutti,--è cosa nota.

--Adagio, signori! La massima è vera, ma non riesce sempre sicura
nella pratica. Molte volte, anzi il più delle volte, questa padronanza
non è intiera, epperò non torna efficace. Perchè? Ve lo dirò io.
Perchè di questo tale non conoscete interamente il segreto. Vi pare di
averlo colto, e non ne scorgete che un lato. Il segreto, o signori, è
come un poliedro, figura geometrica, che offre molti lati allo
sguardo, e ogni riguardante ne vede uno, o due, o tre, ma non tutti
veramente se non andandogli in giro; la qual cosa non tutti possono, o
non credono utile di fare. Ora questa utilità nel caso nostro è
provata, e per evitare il pericolo del non potere, bisogna che ciò che
molti vedono e sanno dei segreti di una tale, sia messo in comune. Uno
per tutti e tutti per uno, è l'impresa del progresso in ogni cosa. Se
ognuno di noi avesse a farsi le sue camicie, i suoi stivali, i suoi
vestiti, e anzitutto farsi la tela per le camicie sullodate, conciar
la pelle per gli stivali, tessere il panno pei vestiti, e via di
questo passo fino alle prime preparazioni della materia, io penso che
andremmo tutti nudi come all'uscita del paradiso terrestre. Uniamoci,
o signori; facciamo un potente sodalizio a nostro vantaggio
particolare.--

Gli ascoltatori tutti erano rimasti ammirati per tanta saviezza
dell'oratore, e in cuor loro già lo avevano nominato presidente della
nuova società, di cui metteva così profondamente le basi.

--Avete dunque capito;--proseguì egli, pigliando ansa a ragionare
della impressione che il suo discorso faceva,--qui bisogna lavorar
tutti per modo che i segreti delle belle, delle loro famiglie, dei
loro aderenti, siano studiati, vagliati, e notati sul libro mastro
della società, e ogni giorno la mèsse delle nostre scoperte si
accresca, formando come un vasto granaio pei tempi di carestia.

--La pensata è buona,--interruppe uno degli undici,--ma vedo molto
difficile il mandarla ad effetto. Per giungere a quello che tu dici,
in una sola città, ci vorrebbero centinaia di compari, e allora dove
n'andrebbero gli utili, divisi e suddivisi tra mille?

--Tu hai bevuto troppo, e non capisci nulla!--disse a lui di rimando
l'oratore.--Qui bastiamo in dodici, e uno di più guasterebbe il
negozio. Ognuno di noi conosce un lato dei segreti di cento e più
donne. Vi par troppo? Pensateci un tratto; ricordatevi; frugate nei
ripostigli della vostra memoria! Talvolta, in un crocchio di amici,
non avete udito dire chi fosse l'amante della tale, e della tal altra?
Un piccolo scandalo avvenuto, e commentato per cinque o sei giorni
dall'universale, non vi ha egli messo sulla traccia di molte cosette
ignorate? O non avete, passeggiando per una via fuori mano, veduto una
coppia d'innamorati? A teatro, mentre il tenore stuonava una
dichiarazione d'amore, non avete colto uno sguardo tra un palchetto e
un punto della platea? Di questi fatterelli ognuno di noi ha
certamente udito e veduto le migliaia. Ma pur troppo il difetto di
unità nelle osservazioni, la sbadataggine, la noncuranza per una cosa
che direttamente non ci risguarda, fanno sì che tanti preziosi
aneddoti, tante ghiotte considerazioni non approdano a nulla, poi si
dimenticano, e quando verrebbero a taglio non si sa più cavarne un
costrutto.

--È vero! verissimo!--gridarono gli altri in coro.--Tu parli come un
savio della Grecia.

--Grazie tante! Ma andiamo innanzi. Pensate un poco voi altri, di
quanta efficacia sarebbe il mettere tutto questo contingente di
appunti quotidiani a pro' del nostro consorzio, e scriverlo sul gran
libro per ordine alfabetico. Non passa un anno, e la storia di una
bella signora si trova là dentro, scritta da cima a fondo, come se ci
avesse posto mano Plutarco. E adesso veniamo all'utilità del negozio.
Uno dei colleghi è innamorato della tale; s'è posto a corteggiarla, e
non sa come venirne a capo; risica, per poca conoscenza del suo umore,
di fallire la strada, di pigliar la più lunga, o di pigliarne una che
lo conduca in un ronco. Che fa egli, essendo dei nostri? Apre il libro
mastro a quella tal lettera dell'alfabeto; legge e rilegge il capitolo
che narra la vita e i miracoli della dama; vede che cosa ella abbia
fatto in suo vivente; quali affetti l'abbiano consolata o desolata;
quali argomenti di tristezza ella abbia avuti, o abbia tuttavia in
casa; in quali aneddoti, in quali storielle sia stata protagonista; di
quali persone si fidi, e di quali no; che piccoli fatti ci siano che
ella crede ignoti al mondo, e che la vigilanza assidua di taluno ha
scoperti e la malevolenza propalati. Vestito, anzi catafratto di
questa armatura, il Don Giovanni scende in campo, combatte e vince,
poichè conosce il lato debole della sua bella nemica.--

Un applauso universale soverchiò le ultime parole del discorso, e un
brindisi proposto al valente oratore fu accolto da tutti con una
sollecitudine degna di miglior causa.

--Bello! sublime!--gridavano.--È un profondo concetto, e merita che ti
s'innalzi un monumento.

--Ha da essere più duraturo del bronzo;--gridò il più giovine, quel
degli scrupoli,--Orazio lo insegna. Il monumento degno dell'amico sarà
dunque nel mandar prontamente ad effetto la sua buona pensata.
Cominciamo subito dal poco, e andremo facilmente al molto. Il
presidente lo abbiamo; io mi profferisco come segretario per la
compilazione delle note, e domani potremo tenere una prima seduta.

--Dove?

--In casa mia. Per domani dunque, e ognuno prepari la sua parte di
note.

--Sì, sì,--gridarono tutti,--per domani!--

Era un ignobile spettacolo, in verità! Quei giovanotti avevano sulle
prime arrossito un tantino al pensiero di cavar profitto dai segreti
del prossimo; ma udito poscia che si trattava soltanto di donne, la
loro coscienza non aveva più sentito un rimorso. E tutti avevano
madre, sorelle, ed un sacrario di affetti domestici, gelosamente
custoditi!

Ma così allora si educavano i giovani spensierati. In tal guisa
cresceva una generazione di malveggenti, i quali, come in gioventù si
disponevano a commettere bricconate amorose, si preparavano per l'età
matura a commetterne in ogni ragione di cose, e sempre in apparenza di
galantuomini.

La società, come è agevole argomentare, fu fatta, e s'intitolò del
__parafulmine__, per guardarsi dai tradimenti, o dalle malizie
femminili. Poverini! Erano essi che si guardavano.

Nel giro di pochi mesi, il libro della società del Parafulmine divenne
doppiamente nero, e certo il più nero non fu l'inchiostro col quale
erano scritte tutte quelle prelibate notizie. I dodici compilatori
cavavano profitto da ogni cosa; scandali grossi e piccoli, segreti
gelosi, induzioni, raffronti, tutto andava a rimpinzare la loro
raccolta.

E venne giorno che, maravigliati dell'opera loro, se ne accesero a tal
segno da lavorare pel solo piacere di lavorare, la qual cosa nel campo
letterario fu significata col famoso precetto: __l'arte per l'arte__.

L'incentivo era grande; perchè infatti lo scandalo risponde assai bene
ai gusti dell'uomo, e tale che si addormenta se vi fate a svolgere un
teorema filosofico, sta poi ad udirvi con tanto d'orecchi se gli
narrate del più veniale tra tutti i peccati di una graziosa donnina.
Ora i soci del Parafulmine mettevano in quel loro negozio tutte le
forze dell'ingegno, facendo a chi recasse maggior copia di note. Non
c'era storia che rimanesse dimezzata o manchevole, poichè non usavano
porsi attorno ad una donna, senza piluccarne ogni minuzia, e in breve
ora gli appunti dell'uno confortavano e supplivano nelle lacune gli
appunti dell'altro.

Intanto, cosa che parrà strana, non ci fu alcuno di loro che violasse
il segreto della combriccola. I messeri del Parafulmine erano
vincolati della comunanza della vergogna, in quella istessa guisa che
i galeotti sono appaiati dalla catena. Ma per essi, in famiglia, non
c'era vergogna; e ci fosse anco stata, l'utile che ne derivava ad
ognuno l'avrebbe fatta tacere. Perchè infatti, come già i lettori
avranno argomentato, le note biografiche della società non si tenevano
più nei ristretti confini delle avventure galanti. Le indagini
erotiche avevano posto i nostri cacciatori sulle tracce di miglior
selvaggina, e v'ebbero uffizi parecchi ed onori che ripetevano la loro
origine da quelle note acconciamente sfruttate.

Nel 1844, cioè dieci anni dopo l'instituzione della confraternita, i
socii s'erano ridotti a cinque. Qualcheduno, ammogliato, aveva preso
un nuovo indirizzo; qualchedun altro era andato in America; due erano
morti. Ma intanto il libro era cresciuto a dismisura per notizie
d'ogni fatta, nelle quali tutta la società più o meno elegante era
passata in rassegna; sicchè poteva dirsi una vera enciclopedia dei
sette peccati capitali, ad uso dei compilatori superstiti.

Ma ohimè, ogni bel giuoco dura poco; e anche la società del
Parafulmine doveva morire. Egli avvenne che il segretario della
confraternita ammalò gravemente, e bisognò mandare pel medico, il
quale a sua volta mandò pel confessore. Il più saldo sostegno del
Parafulmine non istette saldo egualmente contro la morte, e il
pensiero della vita eterna lo assalse, lo soverchiò, con tutte le sue
immagini paurose. La confessione fu ampia, e grande il pentimento; ma
l'assoluzione costò salata, perchè il confessore, saputo del libro,
orribile fattura di dodici scapestrati, volle fosse dato alle fiamme
innanzi che l'infermo ricevesse il conforto della manna celeste.

Ma come fare per darlo alle fiamme? Il buon confessore si tolse egli
quel grave incarico, ed anzitutto portò via i dodici volumi, i quali
(così egli diceva) davano odore di zolfo.

E tuttavia quel cattivo odore non tolse che il reverendo personaggio
rimanesse grandemente ammirato per la novità e il pregio dell'opera.
Egli era un uomo di senno, il confessore, e si chiamava padre
Bonaventura Gallegos, __de Societate Jesu__.

Da quel giorno ne passarono quaranta; e il buon padre Bonaventura non
uscì quasi mai dalla sua camera, dove aveva riposto il suo bottino,
senza darsi pensiero dell'odore di zolfo, che avrebbe potuto mettere
in sospetto i suoi santi colleghi. Egli forse aveva pensato che
bastasse non dirne parola ad alcuno, tenendo il libro sotto chiave,
quando per qualche negozio fosse costretto ad uscire. In quanto alle
lunghe ore che passava nel silenzio e nella solitudine, c'era una
buona ragione da chiuder la bocca ai curiosi. Il padre Bonaventura
meditava un commento alle opere di Sant'Agostino; perciò non doveva
sapere di strano ch'egli rimanesse volentieri nella sua camera,
assorto nello studio dell'autore suo prediletto.

E per studiare con maggior profitto, mandò le __Opera omnia__ del
vescovo d'Ippona al legatore, perchè le rilegasse a nuovo,
inframmettendovi i fogli di carta bianca consacrati alle sue dotte
annotazioni teologiche; le quali in buona sostanza non erano altro che
gli appunti biografici della società del Parafulmine. Sant'Agostino fu
per tal guisa rilegato in ventiquattro tomi, che parevano fatti a
bella posta per dare alloggio alle ventiquattro lettere dell'alfabeto;
e l'arguto lettore intenderà il rimanente; come, ad esempio, l'erede
universale del Parafulmine, da quel savio uomo ch'egli era, facesse
fruttare e crescere il patrimonio ad interessi composti. Da dodici
anni scriveva, scriveva sempre, conducendo a perfezione il suo
commento; sicchè, giunto al 1857, cominciava a pensare che la carta
bianca gli sarebbe indi a non molto mancata. Però gli era venuto in
mente di lasciare Sant'Agostino, per commentare gli scritti di
Tertulliano, già acconciamente interfogliati in anticipazione.

È noto adunque che cosa scrivesse il padre Bonaventura, a che studi
profondi si desse, in cambio di andarsene a dormire, dopo la partenza
del marchese Antoniotto. Egli aveva squadernato sullo scrittoio il
volume decimonono di Sant'Agostino, o, se più vi garba, la lettera T
della sua preziosa enciclopedia, e stava facendo qualche giunterella
alla biografia dei Torre Vivaldi.

Là entro potevate leggere vita e miracoli del marchese Antoniotto,
della madre di lui, del padre e d'altri aderenti alla famiglia. Veniva
quindi la storia della bella Ginevra dagli occhi verdi, a gran pezza
più lunga di quella del marito. E non era già perchè ci fosse molto a
dire della bella marchesa, ma perchè, rispetto alle donne, il padre
Bonaventura diventava più facilmente prolisso. Degli uomini notava i
fatti, stringendoli in brevi parole; delle donne poi o, per dir
meglio, di certe donne, notava le opere, i pensieri e perfino le
ommissioni. Egli a ragione pensava, la vita delle donne essere una
trama così sottile e delicata di nonnulla, da non doversi dimenticare
la più piccola cosa. Se la bilancia degli imponderabili non fosse
stata trovata dai fisici, certo il padre Bonaventura l'avrebbe
scoperta egli, per adoperarla in quelle biografie femminili.

Ora, se il tempo non stringesse, e le fila del dramma, fatte più
numerose, non ci persuadessero della necessità di badare anzitutto a
raccoglierle, vorremmo esporre ai lettori ciò che ha spigolato il
padre Bonaventura intorno alla vita ed ai più riposti pensieri della
bella Ginevra. La quale, a dir vero, quantunque sia tra le più
spiccate figure del quadro, non ci ha ancora lasciato scorgere una
parte del suo cuore, rimanendo per tutti enigmatica come la sfinge
egiziana.

Ma questo si rechino in pace i lettori, condonando la passeggera
molestia alle ineluttabili necessità del racconto. Una cosa già sanno;
che l'entrata di Aloise dai Torre Vivaldi era un accorgimento del
padre Bonaventura. Un'altra ne diremo loro: che il gesuita, aperto il
volume decimonono delle Opere di Sant'Agostino, si pose diligentemente
a notarvi il ricevimento del giovine, come gli era stato narrato dal
marchese Antoniotto, aspettando che una lettera di Ginevra, alla
viscontessa della Roche-Huart di Parigi, venisse a chiarirgli tutti i
minuti particolari del felicissimo evento, ingrossando così la
biografia dei Torre Vivaldi. Molt'altre ce n'erano già, debitamente
trascritte, che la bella Ginevra andava scrivendo da sei anni alla sua
amica di collegio, e che una mano misteriosa andava a sua volta
ricopiando e rimandando a Genova, in quel medesimo palazzo dond'erano
uscite.

Ginevra adunque, quell'anima chiusa, commetteva i suoi pensieri alla
carta traditora? Sì veramente, questo era il punto debole di una
armatura per tanti rispetti fortissima. Fin dai primi giorni del suo
matrimonio, la bella vittima delle consuetudini aristocratiche e delle
arti gesuitiche collegate, aveva per costume di svelare, di raccontar
sè medesima alla compagna d'infanzia. Il cuore della gentildonna,
stretto dalle leggi della fredda cerimonia, gelato dalle catene, a
gran pezza più fredde, del talamo, si schiudeva alle ricordanze
dell'amicizia lontana, prolungava nella vita adulta le libere e dolci
confessioni della spensierata adolescenza. Ed erano lettere minuziose,
delibazioni d'ogni cosa udita o veduta, scavazioni d'ogni più lieve
affetto sentito, giudizi intorno alle costumanze della civil
compagnia, donne ed uomini passati in rassegna; infine che vi diremo?
debolezze umane considerate dall'alto, e considerate da un angelo; ma
da un angelo il quale non si peritava di rasentarle col sommo delle
piume e intingervisi un pochettino. Poichè, se la donna è un angelo, e
tuttavia rimane in terra, bisogna dire che sia un angelo a cui qualche
peccatuzzo faccia tarde le ali e impedisca il ritorno a casa.

E adesso, per farvela breve, lettori umanissimi, vi diremo che in quel
carteggio della bella Ginevra si leggeva un nome, che, per essere
quello di un uomo non mai avvicinatosi a lei, appariva troppo spesso
ripetuto; il nome di Aloise Montalto.

Come ci fosse scritto, e perchè, sarà detto più oltre.



XXXI.

Nel quale si racconta dell'uomo vestito di nero e degli apprestamenti
che fece per una giornata campale.


La mattina del 28 giugno, chi avesse potuto vedere il padre
Bonaventura nel segreto della sua camera da studio, avrebbe durato
fatica a riconoscerlo. Era vestito di nero, come sempre; mostrava le
guance e il mento accuratamente rasi di quel giorno medesimo; non era
insomma nè più bello, nè più brutto di quello che i nostri lettori
sanno; ma ne' suoi occhi sfavillanti si leggeva qualcosa d'insolito,
come la gioia di una vittoria ottenuta, o la speranza di riportarla
tra poco. Il che, per gli uomini avvezzi a' grandi disegni, è
tutt'uno.

Inoltre, il padre Bonaventura (cosa strana a vedersi, quando era nel
suo studio) non leggeva, nè scriveva. Le opere di sant'Agostino non
erano squadernate sullo scrittoio; la penna, povera vittima della sua
feroce alacrità, si riposava un tratto nel calamaio, e forse andava
col suo compagno di sventura facendo le meraviglie di questo non mai
sperato giubileo che loro concedeva il padrone.

Questi, intanto, passeggiava concitato dall'una all'altra parete, o,
per dire più veramente, dall'una all'altra scansìa, come un uomo a cui
dolgano i nervi. Ad ogni tanto andava stropicciandosi forte le mani,
poi le tornava a raccogliere dietro le spalle, senza punto smettere
del suo passo breve e spedito, che lo costringeva a frequenti
giravolte sui tacchi.

Finalmente si fermò un istante; e fu per guardare una ventesima volta
il suo orologio.

--Ancora pochi minuti!--borbottò egli tra i denti.--Sia lodato il
cielo! Signora Marianna!...--

E siccome non gli parve che la chiamata fosse efficace, fatti altri
due giri, andò verso l'uscio e tornò a gridare:

--Signora Marianna! signora Marianna!

--Vengo, Padre, vengo,--rispose una voce dall'anticamera.

E poco stante comparve sull'uscio quella vecchia governante che i
lettori conoscono, col naso bitorzoluto e il mento fiorito di peli,
tutta chiusa nella sua gonnella di lana nera, nella sua cuffia e nel
suo grembiale di pannolino.

--Non è ancora venuto nessuno?--chiese Bonaventura.

--Padre, no.

--Appena verrà qualcheduno, faccia entrare.

--Padre, sì.--

E la signora Marianna fece per andarsene e richiuder l'uscio, in
quella che Bonaventura ripigliava la sua passeggiata.

--Signora Marianna,--diss'egli ad un tratto, come un uomo che si
risovvenga di qualche cosa,--e il caffè?

--Domine!--esclamò ella voltandosi, e giungendo le palme in atto di
maraviglia.--O non l'ha anche bevuto?

--E come vuole che io l'abbia bevuto, se non l'ha ancora portato?

--Ma sì, ma sì, Padre! Eccolo appunto, là, sulla scrivania. Sono venti
minuti che l'ho portato, ma Lei pensava, e m'ha fatto cenno di
lasciarlo là e di andarmene.

--È vero, è vero; l'avevo dimenticato. Grazie tante!--rispose in
fretta Bonaventura, andando verso la scrivania.

--Ma sarà freddo, ora;--proseguì la signora Marianna.--E Lei che lo
ama caldo....

--Non importa, non importa!--ribattè Bonaventura; e fosse per
castigarsi della sua smemoratezza o per farla finita colle
considerazioni della governante, mandò giù d'un tratto il caffè,
rimettendo tra le mani di lei il vassoio e la chicchera.

La signora Marianna non disse altro; ma recandosi in mano il vassoio,
notò la zuccheriera che non era stata neanche scoperchiata; segno che
padre Bonaventura aveva trangugiato il suo caffè amaro (egli che lo
amava inzuccherato per bene) e non se ne era accorto neppure.

--Quest'oggi è molto astratto;--disse ella tra sè.--Il sant'uomo
lavora troppo, e non vuol sentirselo a dire. E sì, ch'egli non è più
di primo pelo, e non fo per dire, ci ha tre anni più di me.--

Con questi pensieri, la governante dalle cinquanta primavere uscì
dallo studio. Bonaventura frattanto avea ricominciato a passeggiare, a
stropicciarsi le mani, a raccoglierle dietro le spalle, a guardar
l'orologio. Pari al Cerbero dantesco, egli «non avea membro che
tenesse fermo».

Una scampanellata si udì finalmente, dieci minuti più tardi, all'uscio
di casa, e Bonaventura tese l'orecchio. La signora Marianna era lenta
di soverchio nello andare ad aprire. Benedetta donna, sempre a tu per
tu coi paternostri! O non aveva tempo la sera, a mettersi in grazia
con Domineddio? Quasi quasi andava egli in persona, a far da
portinaio! Ma, lode al cielo, la signora Marianna s'era mossa; si
udiva il suo passo da sergente invalido nella sala d'entrata. A Dio
piacendo, ella giungeva all'uscio; lo schiudeva un tantino per vedere
chi fosse di fuori; finalmente, raffidata dalla sua ispezione, faceva
uscir la catena dal gancio, e un passo mascolino suonava sul
pavimento. Pochi secondi dopo, la signora Marianna apriva l'uscio
dello studio, e si tirava da un lato, per lasciar entrare il nuovo
venuto.

--Alla perfine!--non potè trattenersi dal dire Bonaventura, quando
ebbe visto dinanzi a sè la faccia scialba del Bello.

Era per l'appunto il Bello, che padre Bonaventura aspettava; il Bello,
che quel giorno mal rispondeva al suo nomignolo; colla zazzera bionda,
ma un po' scarmigliata; le guance rosee come le mele cotogne, ma come
cotogne avvizzite. La cascaggine delle membra, gli occhi rossi,
cerchiati di giallo e male avvezzi ancora alla luce, dicevano chiaro
che il Garasso aveva passata la notte fuori di casa, con grande
rammarico della signora Momina. Del resto, sempre vestito colla sua
popolesca attillatura; una giacca di panno del colore di fava secca;
un fazzoletto di seta rossa sprezzatamente annodato al collo; i
calzoni a quadrelli, anticamente del color del latte, ma ingialliti
dall'uso; insomma, quell'Adone da quadrivio che i lettori rammentano.

--Signor mio,--disse egli, per rispondere alla esclamazione
dell'altro,--sono appena suonate le dieci....

--Sì, sì, sta bene; non dicevo per questo;--ripigliò Bonaventura.--Mi
sapeva mill'anni di vedervi a giungere, perchè il tempo stringe.
Veniamo a noi; che cosa avete fatto?

--Non tutto; il Guercio non l'ho veduto.

--Dovevate trovarlo ad ogni costo;--rispose asciutto il
gesuita.--Garasso, badate; ne va la vostra riputazione....--

Pareva che celiasse, il padre Bonaventura, con quella sua frase. Ma
così non parve al Bello, che conosceva con chi avesse da fare, epperò
sudava già freddo.

--Perdoni, illustrissimo,--diss'egli,--io non potevo fare il miracolo
di.... non potevo essere in dieci luoghi ad un tempo. Vossignoria sa
benissimo che iersera dovevo andare nella combriccola.... per pigliar
lingua.... e penso che trattandosi d'una faccenda, la quale ha da
esser finita domani a sera....

--Sì, sì, domani a sera;--interruppe Bonaventura;--ma intanto, se non
m'industriassi io, non ci sarebbe mai nulla di fatto. Siete stato dal
Ceretti?

--Illustrissimo, sì. Le sei divise son pronte in casa sua. Mastro
Nicola se n'è andato ieri a Molassana; così il suo figliuolo,
rimanendo solo in casa, avrà le mani più libere. Del resto, come ho
già detto a Vossignoria, il Guercio è contentissimo, e non gli par
vero di dover fare quella stupenda figura.

--Lo credo io!--sclamò Bonaventura.--Si piglia anche una bella moneta,
per farla. E ditemi, la cassettina d'ebano?

--Sempre a posto, illustrissimo. Iersera ho veduto Michele, che ha
trincato con me, e l'ho mandato cotto fradicio a casa.

--Vi rimarrà egli, domani a sera?

--Ah, credo di sì, perchè il Salvani non vorrà lasciar sola, in così
grande trambusto, la sua sorella adottiva.

--Bisognerà farlo uscire con qualche pretesto;--notò Bonaventura.

--Sarà difficile, illustrissimo; tanto più che io dovrò essere al mio
posto.

--Ah, ah!--disse Bonaventura.--Al vostro posto! voi? E dove sarà il
vostro posto, di grazia?

--Sulla piazza della Nunziata. Il quartier generale è laggiù.--

Qui il padre Bonaventura si atteggiò dentro di sè ad uno di que'
sorrisi invisibili che erano la sua consolazione, sorrisi dei quali
c'è già occorso notarne parecchi nei suoi dialoghi col dottor Collini
e col marchese Antoniotto, sorrisi somiglianti alla parentesi dei
personaggi da tragedia, che l'interlocutore può indovinare, se è
accorto, ma che non ode nè vede.

--Garasso,--diss'egli,--bisognerà che per domani il quartier generale
rimanga senza di voi. Uno di meno nel gran numero non farà sconcio,
voglio sperare, e non ci si baderà più che tanto.

--Oh, non è per questo;--rispose timidamente il Bello, che ben vedeva
come il gesuita lo canzonasse, mostrando di pigliarlo sul serio;--è
pel timore di quello che potranno dirmi poi, se non m'avranno veduto
in compagnia.

--Ma dunque,--esclamò spazientito Bonaventura, piantando in viso al
Bello i suoi occhi grifagni,--avevate proprio fermo in mente di andare
a farvi accoppare anche voi? Bravo, Garasso, me ne congratulo colla
vostra prodezza. Ma andiamo per la più breve, che in queste ciarle non
si guadagna nulla, nemmeno il gusto di trovar chi le creda. Voglio
darvi un consiglio da padre. Voi non siete mai stato alla guerra....
Neppur io, ma ve ne parlo d'udita. Fate domani a sera come tanti e
tanti usano fare alla guerra. Statevene rannicchiato in qualche buco,
fino a tanto che tuona il cannone e fischiano le palle. Poi uscite
fuori e vi fate scorgere qua e là nei crocchi, dove ognuno ci ha da
raccontare la sua. Qui tenete bordone a chi le sballa più grosse. Egli
vi piglierà tosto per testimonio, e farà a sua volta testimonianza
onorevole per voi. Una mano lava l'altra e tuttedue lavano il viso.

--Ella ci ha sempre la sua celia per tutti, illustrissimo!--disse il
Bello, ridendo.

--Perchè conosco un tantino gli uomini, Garasso, e conosco voi come
tutti gli altri;--rispose Bonaventura.--Ora torniamo al fatto vostro;
voi rimarrete domani a sera dal Ceretti, per invigilare il negozio, e
al momento opportuno trarrete fuori di casa il Michele, con qualche
frottola di vostra fattura. A voi queste alzate d'ingegno non
mancano....

--Ha altro da comunicarmi?--chiese il Bello, inchinandosi a quella
lode meritata.

--Sì, che troviate il Guercio, per dargli l'appuntamento ed esser
sicuro di lui e de' suoi compari. Fino a domani, poi, cercherete di
stargli a' fianchi, perchè non vi giri nel manico. Perciò vi
consiglio, per questa sera, a lasciare in disparte anche la Violetta.

--O come!--esclamò il Bello, trasognato.--Ella sa?...

--So tutto, io. So che passate troppo di frequente la notte fuori di
casa, e alla signora Momina, a quella santa donna--(Bonaventura disse
proprio: santa donna)--fate veder lucciole per lanterne: che gli amici
vi hanno trattenuto, che avete dovuto adoperarvi per me, eccetera,
eccetera; e a me, poi, tocca rappezzare le vostre bugie presso quella
megera innamorata. Basta, questa notte vi voglio veder di ritorno, a
ragguagliarmi d'ogni cosa. Le due mila lire pei vostri compari le
avrete a colpo fatto. E badate a non lasciarvi fuggire di bocca il
nome di chicchessia; se no, metto fuoco alle polveri.... m'intendete?

--Oh, la non dubiti!--si affrettò a dire il Bello.--Ci ho troppi
debiti con Vossignoria.... E poi, so bene come s'abbiano a maneggiare
queste faccende.

--Benissimo, ora andate con Dio, e a rivederci stanotte.--Con queste
parole il gesuita accomiatò il suo aiutante, e se ne tornò a
passeggiare per la camera, stropicciandosi le mani.

--Ah, la vedremo!--andava mentalmente dicendo.--Domani a sera
tenteranno la grande impresa per la liberazione d'Italia....
L'avranno, sì, l'avranno, l'Italia! L'avranno a Genova, a Livorno, a
Napoli, e dovunque salterà loro il grillo di muoversi. E dire che se
Bonaventura non era, se non li teneva d'occhio uno di questi poveri
frati che i messeri del governo, per far cortesia alla plebaglia
ubbriaca, hanno cacciato fuori come tanti lebbrosi, domani, sì
davvero, sarebbero stati colti all'impensata! Che cime d'uomini! Ma
vegliano per essi i lebbrosi, i reietti, e la Dio mercè comandano e
comanderanno ancora un bel pezzo, a marcio dispetto dei
libertini....--

Il monologo fu interrotto in questo punto da un altro de' sorrisi
invisibili di padre Bonaventura. Il sarcastico uomo, non sapendo con
chi pigliarsela, scherniva sè stesso.

--Adagio, Biagio! Tu vai mulinando una predica, come se si trattasse
ancora di parlare ai fedeli nella chiesa di Sant'Ambrogio, o di tener
bordone ai colleghi Curci e Bresciani sulla __Civiltà Cattolica__.
Quegli arruffapopoli hanno la loro parte di ragione.... cioè
intendiamoci, l'avrebbero, se venissero a capo de' loro disegni.
__Post factum lauda__. Ora comandiamo noi ed abbiamo ragione noi;
questo è il punto. Branco di pecore matte, che non s'avvedono del
lupo! E più matti quei giovani presuntuosi che s'attentano di tenere
il campo contro di noi. Il Salvani, il colonnello in erba, l'avrà
domani, la sua, e più salata che forse non pensa. Quanto all'altro....
Oh ecco! questi ha da essere proprio il Collini; sono infatti le
undici.--

Era una nuova scampanellata (i lettori già l'indovinano), che
interrompeva ancora l'allegro monologo del gesuita.

Il dottor Collini, che infatti era egli, entrò nello studio del suo
antico maestro.

--Oh, buon giorno; capitate proprio a tempo;--gli disse Bonaventura.

--Mi avevate detto di esser da voi a quest'ora, e sono
puntuale;--soggiunse il Collini;--la puntualità è la cortesia dei
principi, e dei medici.

--E qui poi, dove non c'è nè un suddito nè un ammalato,--ripigliò il
gesuita,--bisognerà darvene lode due volte. Sedete e ragioniamo.

--Domani a sera, dunque,--incominciò il Collini ex
abrupto,--metteranno il fuoco....

--Lo so.

--Il Mazzini è in Genova da parecchi giorni, e....

--Lo so.

--Il Salvani s'è riserbata l'impresa della Darsena....

--Lo so.--

Il dottor Collini, interrotto da tutti questi monosillabi, ammutolì.

--Orbene, non dite altro?

--Che ho più da dir io, se ad ogni capoverso delle mie notizie
rispondete: lo so?

--E sta bene; so per l'appunto tutte le cose che volevate accennarmi;
ma non c'è proprio altro, e di più rilevante, che pure avevate da
dirmi?

--Non v'intendo, padre mio.

--Ah, vedo che bisognerà rinfrescarvi la memoria. Il negozio del
vostro banco.... Come si chiama il vostro banco? Cardi e....

--Cardi Salati e compagni.

--Benedetto nome! Cardi Salati e compagni; me lo dimentico sempre. Or
dunque, vi siete già intesi?

--Ma.... non ancora. Credevo che fosse un negozio poco urgente, da
parlarne poi, a bell'agio e a mente riposata.

--No, no, v'ingannate, figliuol mio. È urgentissimo, anzi, e mi sta a
cuore.

--Vi sta a cuore!--notò a denti stretti il Collini.--Io del resto ne
ero già entrato, ma così alla grossa, e senza conchiuder nulla. Sapete
che siamo cinque socii, che anzitutto a trovarci tutti insieme, e poi
a persuaderci scambievolmente.... D'altra parte, si tratta di una
somma ragguardevole, e di questi giorni non credo ci sia tanto danaro
in cassa da poterne cavare tutto questo in una volta.

--Pretesti! ragazzate!--sentenziò Bonaventura. Queste cose s'hanno a
poter fare in mezz'ora. Quanto al danaro, ne entrerà tutti i giorni. E
poi, perchè lo tenete, se non per darlo a prestito e guadagnarvi su?
Ora, questo negozio è d'oro, e così buone occasioni non capitano mica
ogni giorno!--

Il Collini non rispose nulla a queste considerazioni; ma, con accento
da cui trapelava un tal po' d'amarezza, ne fece egli un'altra al
maestro.

--Avete una gran voglia di aiutarlo, questo nobile spiantato!

--Sì, non lo nego, gli ho posto amore;--rispose Bonaventura, facendo
ballar tra le dita la stecca che aveva tolta dallo scrittoio; segno
che incominciava a perder la pazienza.

--E perchè, in tal caso.... Scusate, padre, se vi parlo alla
libera....

--Sì, dite, dite; c'è sempre qualcosa da imparare, a sentirvi.--

Il Collini fece una smorfia; ma proseguì:

--Perchè, in tal caso, non gliele date voi ad imprestito, le
trentamila lire?

--Io non le ho.

--Potete fargliele imprestare dal suo nonno, che ha tanti conti da
saldare!--incalzò il Collini.

--Ragazzo!

--Ragazzo! Me lo avete già detto troppe volte.

--Perchè siete tale, e non volete mutarvi mai. Uomini nati ieri, che
v'impancate coi vecchi, e non sapete ancora l'abbiccì della vita!
Sentite, Collini; siete stato mio scolaro, e non avete fatto mala
prova. La gente vi ha stima, come medico, lo concedo. Ma voi dovreste
pur ricordare che tutto ciò che siete ora, non è merito del vostro
ingegno, sibbene di chi ha preso a proteggervi.

--E l'ho io mai negato?--chiese il giovine, non giungendo ancora ad
intendere dove volesse andare il gesuita.

--No,--soggiunse questi,--ma col fatto mostrate di volervi ribellare a
quando a quando. E ciò non va bene. Lasciamo stare la gratitudine,
santa che non è sul vostro calendario; lasciamo stare anche il vostro
tornaconto, che io serberò per le frutte; parliamo da amici, da gente
che si conosce, e che ha da stare insieme come pane e cacio. Queste
vostre ribellioni mi seccano. Siete fidato ed operoso ma nella vostra
fedeltà e nella operosità vostra recate troppi difetti. E i vostri
difetti, figliol mio, se durano, leveranno il pregio ai vostri
servizi.

--Difetti....--si provò a dire il Collini.

--Sì, e non lievi. È il vostro vecchio maestro che ve lo dice, e che
vuol darvi un insegnamento. Sarà l'ultimo. Volete che io vi dica quel
che siete? Un cervello piccino. Ecco, voi eravate nulla, e da
fanciullo, in collegio, portavate invidia ai più ricchi, ai più
svegliati, ai più belli di voi. Una penna dorata, un calamaio, un
astuccio di matite, messo in mostra da uno de' vostri fortunati
compagni, vi facevano stare in broncio per intiere giornate. Non
eravate ricco di biancheria, nè di quei gingilli con cui si adorna la
gioventù, ed eravate lì sempre a tirarvi i manichini, a rassettarvi
allo specchio. Sono inezie, scusate, ma dalle inezie del fanciullo
fanno capolino i vizi dell'uomo fatto. Vi ricordate la scena col
Pedralbes? Amore della nettezza, direte voi, e sarà; ma intanto,
quando il Pedralbes, vostro vicino allo studio, nella camerata, ebbe a
farvi schizzare per caso una macchiolina d'inchiostro sulla vostra
camicia di lino, gli metteste rabbioso i pugni sotto il naso, e
minacciaste di richiamarvene al rettore, se egli non vi dava in cambio
una delle sue belle camicie di tela battista, che guardavate da un
pezzo con tanta malinconia di desiderio.

--Ma Padre, queste piccolezze....

--Abbiate pazienza; ora vengo al buono. All'università non vi siete
mostrato punto dissimile da quello che eravate in collegio. Eravate
assiduo alle lezioni, sempre a capo della prima panca, perchè i
professori vi vedessero pigliar note di continuo, far tesoro dei loro
insegnamenti. Ed anzi, per non averne a perdere un ette, imparaste
anche la stenografia, e notaste ogni cosa, perfino gli spropositi. I
vostri compagni vi chiamavano lo sgobbone; ma voi non ve ne davate per
inteso, e tiravate innanzi a studiare. Ciò tornava ad elogio vostro,
sicuro; non già il ricusar che facevate i vostri quaderni ai compagni,
quando all'avvicinarsi degli esami, taluno di essi faceva capo a voi,
perchè gli dèste una mano. Ricordate il Cosmelli, che tenuto a bada
dalle vostre mezze promesse, non ebbe poi i quaderni, e fu coperto di
palle nere all'esame?

--Voi vi ricordate di molte cose,--entrò a dire il Collini, che
s'andava contorcendo sotto i colpi del sarcastico aguzzino,--ma io
ricordo altresì che allora voi stesso mi deste ragione, perchè il
Cosmelli era figlio d'un liberale.

--Non si tratta di me, ma di voi;--disse Bonaventura di
rimando.--Proseguiamo intanto. Più tardi venne il tempo di raccogliere
ciò che avevate seminato; venne il tempo degli onori, dei guadagni e
degli amori. La vostra passione suprema, l'invidia, si manifestò sotto
tutte le forme. Volevate esser ricco, per andar di pari passo coi
ricchi; del dotto invidiavate i ciondoli, dell'elegante la sciocca
attillatura, del giovinotto più in voga le avventure galanti. Credo
che se un giorno passando per via aveste veduto far ressa intorno ad
un pagliaccio e ammirarne le capriole, avreste invidiato la gloria del
pagliaccio. E le donne, come piacevano a voi? Perchè piacevano ad
altri. E quali vi piacevano di più? Quelle che notavate più riverite,
più decantate dal pubblico. Corteggiavate la Cisneri perchè attorniata
di spasimanti; v'impuntaste ad ottener le sue grazie per soddisfare
una smisurata vanità, e ci guadagnaste una briga con Aloise di
Montalto. Volevate atteggiarvi da cavaliere, da spadaccino, per non
parere, anche in questo, da meno dei più celebrati Don Giovanni; e ne
avete riportato il danno le beffe. Nè vi basta; c'è ancora il
desiderio di mettere il vostro cuore a' piedi della Torre Vivaldi.
Crescono gli anni, la superbia del pari. Che diamine? la più
ragguardevole dama, la più bella di Genova; e non ci saremmo un
tantino anche noi, inginocchiati sul tappeto? C'è Aloise di Montalto,
e noi no? Egli cercato, desiderato, voluto in casa dal marito, e noi
no? Egli entrarci di primo acchito, laddove noi da due anni andiamo
inutilmente implorando l'onore....

--E voi, padre, da due anni me lo contendete!--interruppe sdegnoso il
Collini.

--Io non vi ho conteso nulla,--rispose Bonaventura, con la sua
pacatezza crudele.--In queste cose io non c'entro. Il marchese
Antoniotto non può chiamarvi presso di sè come medico, dacchè ci ha il
suo, del quale non ha ragione a lagnarsi. Come amico, non vi conosce:
non siete della sua sfera, e non può nè deve sapere che voi
desideriate tanto di entrare in casa sua. Aloise di Montalto è in
quella vece un gentiluomo....

--Senza il becco d'un quattrino.

--Più o meno; certo non è ricco, ma gentiluomo.

--Or bene, se vuol quattrini, li pigli a prestito dai gentiluomini.

--Lasciatemi finire, e glieli darete voi.

--Sì,--gridò amaramente il Collini,--perchè possa pagare il
__phaeton__ testè comperato a Milano; perchè si possa cavare il ruzzo
di avere i due cavalli inglesi del principe Sobinski, e di sfoggiarla
da gran signore sulla strada di Quinto....

--Sicuro, per tutte queste belle cose. Vedete, Collini, qui le vostre
solite malinconie vi disaiutano, come sempre, e vi acciecano, come
tante altre volte. Se foste un uomo avveduto, come vi dànno vanto di
essere, avreste già capito che questo giovanotto manda le cose sue a
rifascio; che con sette od ottomila lire di entrata, necessarie a
vivere, non si possono far debiti senza mangiarsi il capitale. O che?
vedete un giovine sodo, assennato fino al presente, il quale
incomincia ad operare da pazzo, e non capite che le pazzie degli
uomini sodi sono le più gravi e menano più rapidamente in malora? Per
una vostra invidiuzza, per la soddisfazione di un momento, rinunziate
ad una contentezza di tutta la vita? Venite qua, e consideriamo la
questione da ambedue i lati. Entrate voi in casa Torre Vivaldi? No. Ed
anco entrandoci, che fate? Nulla. Ve lo trovate di fronte, lui, sempre
lui. Vi dà l'animo di romperla? Nemmeno. Ed anco se il cuor vi
bastasse, vincereste il cuore di una donna come la Ginevra? Neppure.
Egli ha gioventù, nome, bellezza, e non le ha baciato il sommo delle
dita. Che otterreste voi, che non potete entrare in paragone con lui,
e che al cospetto di quella avreste il gran torto di farle ricordare
l'accaduto di San Nazaro? Ma guardate da quest'altra parte, la
vendetta vera, la vendetta piena, la vendetta sicura. Tra un anno,
Aloise è sul lastrico....

--Ah!--interruppe il Collini.--Così diceste il vero!

--È in vostra balìa che ciò avvenga. Non vi lasciate sviare dalla
piccola invidia e della piccola vendetta; proseguite la grande. Ci
guadagnerete voi, e non ci perderanno gli altri, che voi impacciate
coi vostri rancori e le vostre imprese piccine. E qui torno al mio
primo concetto, dal quale ho dovuto dilungarmi per voi. Obbedite senza
disputare. La Compagnia, voi lo sapete meglio di tutti, non ha mai
dimenticato i suoi fedeli. Essa ha il suo tornaconto a farvi salire,
perchè altro è il servigio reso dal basso, altro il servigio reso
dall'alto. Non mi parlavate voi d'un matrimonio? Orbene, io posso
farvi contento, quando avremo dipanata tutta questa matassa.

--Ma....--disse il discepolo a cui gli occhi sfavillarono
subitamente,--quel nobilume accetterà d'imparentarsi con me?

--Perchè no, se noi lo vorremo? La fanciulla non ha volontà. Il
consiglio di famiglia è tutto cosa nostra. Quanto alla nobiltà, siete
un uomo per la quale; da due anni cavaliere; tra pochi giorni potrete
essere uffiziale, e commendatore al tempo del matrimonio. Vi si farà
eleggere deputato, se occorre. Farete una professione di fede
costituzionale. Insomma, salirete, e i vostri nemici saranno nel
fango.--

Abbacinato da tutte quelle grandezze che il maestro gli sciorinava
sugli occhi, il Collini rimase un tratto sovra pensiero; quindi
alzando la fronte e scuotendo il capo come uomo che ha pensato il pro
ed il contro, rispose:

--Orvia, capisco che bisognerà fare a modo vostro. Il Montalto avrà
domani le trentamila lire.

--Ah, così vi voglio!--soggiunse Bonaventura, alzandosi da sedere.--Ma
badate; lettere di cambio! lettere di cambio! È vanaglorioso e vorrà
pagare alla scadenza; perciò si voterà anco al diavolo, e in cinque
giorni venderà per trenta ciò che vale sessanta. Voi mi capite.

--Oh, non dubitate. Padre mio; gli costeranno salate, quelle
trentamila lire. Scadenza a tre mesi!

--__Optime, fili mi__; e lasciatevi vedere domani, che oggi s'è
lavorato abbastanza.--



XXXII.

Nel quale i lettori non genovesi impareranno chi fossero Barudda e
Pippía.


Noi lasceremo adesso il padre Bonaventura alle sue cure, e terremo
dietro al Bello; il quale, dopo aver fatto una lunga sosta nella sala
da giuoco della bottega da caffè del Gran Corso, dopo aver salutata la
Violetta e chinata pazientemente la testa a tutti i suoi mattutini
capricci, dopo essersi bisticciato a tavola colla sua cara metà e aver
misurato una mezza serqua di ceffate alle sue guance carnacciute, se
n'è uscito zufolando dal tetto maritale, per andarsene a fumare un
mezzo sigaro fuori di Porta Pila, tanto per far giungere l'ora di
andare dai Servi, dove avrebbe potuto, all'imbrunire, far l'ambasciata
di padre Bonaventura.

Gli stava a cuore di render servizio al gesuita. I lettori che ci
hanno seguitato fin qui, sanno che legami corressero tra i due.
Bonaventura conosceva tutte le marachelle del Bello, e lo teneva come
la biscia all'incanto. Talvolta, poi, quantunque non volesse
confessarlo al Collini, gli lasciava cadere di bei contanti tra le
mani, in premio de' suoi servigi, e segnatamente per quest'ultimo gli
aveva promesso un largo beveraggio. Su questo faceva assegnamento il
Bello, ed anche sulla metà di quelle duemila lire che il gesuita gli
aveva a snocciolare per la magna impresa del Guercio.

I denari non duravano molto nelle tasche del Garasso. Contrariamente a
quella tal borsa della favola, dove tanti ne toglieva il felice
padrone, altrettanti ne germogliavano dal fondo, quella del nostro
Adone, più egli ce ne metteva, più sempre era vuota. Laonde, si
sarebbe potuto paragonarla a que' terreni sabbiosi che appaiono
asciutti e screpolati mezz'ora dopo il temporale, a cagione del sole
che, dardeggiando assiduo dall'alto, li va prosciugando di continuo. E
il sole del Bello era la Violetta, quella Violetta che l'aveva
stregato, per la quale si metteva sotto i piedi le gioie sacramentali,
e torceva gli occhi dalle bellezze stantìe dell'amorosa consorte.

La Violetta era una di quelle donne che non si sa donde siano venute,
nè dove vadano a finire; talvolta condotte al male dalla turpe
miseria, più spesso dal lusinghevole esempio del lusso delle loro
sorelle in Eva; fuorviate qualche volta da Alcibiadi spiantati, presso
cui riempiono gl'intervalli (ahi troppo lunghi!) di più superbi amori;
più spesso da logori Cresi, che esse consolano della freddezza o del
tedio domestico; che poscia, avvezze al mercimonio, passano di mano in
mano senza arrossire, come le cartelle del debito pubblico, e,
ragguagliate da principio a cento, valgono ottanta da capo, oscillano
insomma, oscillano sempre tra il più e il meno, tra il meno e il più,
secondo i capricci del caso e la credulità della gente.

Costei ci aveva i suoi trenta suonati; però lasciamo argomentare a voi
se non avesse oscillato. Aveva già dato il pretesto ad una separazione
di coniugi; mandato due cassieri in Isvizzera ed un mercantuzzo in
prigione per bancarotta fraudolenta; spennacchiati cinque o sei figli
di famiglia, e messo un tutore al punto di non poter rendere i conti
ai pupilli. Il resto si omette per brevità.

Vi basti sapere che da qualche tempo era scaduta un tantino, e
aspettava la rivincita dal mondo ingrato, vivendo in un quartierino
modesto, che si apriva a pochissimi; andando di rado per le vie, ma
sempre contegnosa come una vedovella che non vuol sentir parlare di
Cupido se non è accompagnato dal suo collega Imeneo: mostrandosi nei
teatri a tutte le prime rappresentazioni, e non accettando, da quei
pochissimi che abbiam detto, altro che fiori e cartocci di zuccherini;
segno che li teneva a stecchetto. Nessuno sapeva dond'ella cavasse i
danari, per menar quella vita; si facevano chiacchiere di molte, e
senza dare nel segno. Era ciò che ella voleva; il resto sarebbe venuto
da sè.

Questa cartella che s'industriava a crescer di prezzo, in un mondo il
quale non cura che il valsente, al cospetto di uomini i quali stimano
e ragguagliano tutto a lire e centesimi, virtù, vizio, dolore e
piacere, era posseduta segretamente, o, per dir meglio, era lei che
possedeva il Garasso. Egli, corto ingegno ed uomo volgare, non sarebbe
mai venuto a capo d'indovinare i fini riposti di quella donna, che lo
chiamava __biondino__ e lo comandava a bacchetta. Essa lo accoglieva e
lo rimandava quando le mettesse conto; gli teneva il broncio, e col
broncio la porta chiusa, per intiere settimane; poi lo racconsolava
con mezze carezze. Ed egli durava quella vita, metteva fuori
quattrini, e gli pareva ancor grazia. Quella fragranza, anche viziata,
di donna elegante, era una certa novità che egli non aveva sentito
mai, egli stropicciatosi per tutta la sua gioventù con gente da
taverna e da bisca. In quella casa si sentiva odor di giaggiolo; colà
passeggiava su d'un tappeto di lana, in mezzo a pareti coperte di
carta felpata, e sedeva su d'un canapè foderato di velluto, mezzo seta
e mezzo cotone.

Qualche volta (e questo era avvenuto per l'appunto in carnevale) la
Violetta non aveva reputato disdicevole alla sua dignità di indossare
le umili vesti della popolana, e imbacuccata nel mèzzaro far le
notturne scappate con lui, gongolante e pomposo, nelle festicciuole
della bordaglia. Quella era una degnazione! Se la signora Momina
l'avesse veduta, e avesse potuto sollevare la maschera di quella
femmina che posava audacemente il suo braccio su quello del suo
maritino, certo sarebbe morta d'apoplessia. Ma egli era così felice a
sentirlo sotto il suo, quel braccio delicatamente tornito! Quella
bocca mezzo nascosta dal pizzo della maschera, sapeva bere con tanta
grazia lo sciampagna apocrifo delle trattorie! E quando aveva bevuto,
sapeva dirgli tante tenerissime cose! __In vino veritas__, avevano
sentenziato gli antichi, e gli antichi la sapevano lunga. Dunque essa
lo amava, non amava altri che il suo biondino, essa, corteggiata,
desiderata da tanti pezzi grossi, che le recavano inutilmente i fiori
e i cartocci di zuccherini!

Da parecchi giorni la maliarda ci aveva delle voglie pazze. Il suo
salottino non le andava più a' versi, e bisognava metterlo a nuovo,
sacrificando il vecchio velluto rosso ad un fresco ed elegantissimo
tessuto verde a cordelloni. Abbiamo dimenticato di dirvi che la
Violetta era bionda, epperò il verde le andava a capello.

Il biondino non diceva mica di no; ma in quel mese egli aveva già
speso molto per lei, e la vena del giuoco, da cui cavava una parte de'
suoi guadagni, dava uno scarso zampillo, a cagione dell'estate che
sparpagliava i merlotti fuori del nido. Ora non è a dire se i denari
del gesuita venissero a taglio, e se per guadagnarli egli ci andasse
di buone gambe.

Con questi pensieri in capo, come gli parve ora da ciò, rifece la sua
strada, e giunto ai quattro canti di Portoria tirò da mancina per la
piazza di Ponticello e pel borgo de' Lanajuoli fino alla via dei
Servi, dove andò ad infilare un buio portone, il quale era sormontato
da una nicchia, con entro una Madonna di gesso, tinta di giallo, e
onorata di una lanterna dalla pietà del vicinato. Un'altra lanterna
splendeva nell'androne, tanto per lasciar leggere, sulla tela
trasparente che le stava tesa sul maggior lato, la scritta seguente:
«__Teatro del Forte in gamba.--Questa sera si recita.--Entrata: dieci
centesimi__».

Il Bello si affrettò per una scala umidiccia e logora dal lungo uso,
col passo spedito di un uomo assai pratico del luogo. Al primo
pianerottolo una lucerna a riverbero, appiccicata al muro, rischiarava
il cartellone dello spettacolo, che diceva così:

            DON GIOVANNI BASTARDO D'AUSTRIA
    _con Barudda padre guardiano e Pippía converso_
            _nel monastero di San Giusto._

Il teatro era al primo piano, e ci s'entrava sollevando una cortina
unta e bisunta, proprio di rincontro alla lucerna e al cartellone che
v'abbiam detto. Figuratevi un camerone, una stamberga dalle pareti
ruvide, disuguali, il cui intonaco, nelle sue frequenti sfaldature,
mostrava sei o sette mani di bianco datevi su da altrettante
generazioni, con uno zelo degno di miglior causa. Lo zelo dell'ultimo
padrone si chiariva altresì da certe strisce di carta tinte di terra
rossa, che la pretendevano a simulacri di colonne, e da certi sgorbi
d'ogni colore che volevano parer fregi, festoni, fioroni, ed altri
consimili ornamenti. Dalle nere travature del soffitto pendeva una
specie di lampadario spento, che sembrava piuttosto un arnese da
pigliar mosche, e che si accendeva solo nelle grandi occasioni,
vogliam dire allorquando la sala diventava una festa da ballo, e il
palco del teatrino si tramutava in orchestra. La luce fioca che
stenebrava il camerone, si spandeva per consueto dai fungosi lucignoli
di due lumi a stella, le cui spere di latta pendevano dalle pareti,
l'una di rincontro all'altra, e non venivano a capo di confondere i
loro riverberi nel mezzo della sala.

Nè vanno dimenticati due cartellini, scritti a stampatello, l'uno de'
quali accennava alla vendita di birra e gassosa, e l'altro significava
il divieto di certi servizi che avrebbero potuto danneggiare
l'intonaco. I lettori discreti intenderanno la perifrasi. Il pavimento
era di mattoni, che, stropicciati un tal poco, svolgevano in aria una
finissima polvere rossigna; ma il Forte in gamba li risciacquava
diligentemente ogni giorno, per non levare addirittura il respiro al
colto pubblico che veniva ogni sera a sedersi e a far baccano sulle
dieci panche zoppe e sconnesse della platea.

Il Forte in gamba, così detto per ironia, e contento del suo battesimo
per modo che egli stesso s'era pigliato quel nome e messolo per
insegna del suo teatro, era un uomo sui quarantacinque, o in quel
torno, dal viso buffonescamente arcigno, dal mento sporgente, dai
capegli rabbuffati che gli uscivano per tutti i versi da un vecchio
berretto della guardia nazionale. E non dimentichiamo, ad onore del
suo soprannome, che aveva le gambe fuori di sesta. Era egli il primo
attore della sua compagnia di fantocci; suo figlio l'aiutante; sua
moglie, od altro che fosse, faceva le parti di donna; in tre parlavano
per dieci. Qualche volta l'uditorio strepitava; la ragazzaglia
scontenta scagliava sul palcoscenico i turaccioli delle bottiglie
stappate e le bucce delle melarance mangiate. Ma allora, bisognava
vedere! Il dramma s'interrompeva; la prima donna restava lì, colle
braccia in aria; il primo amoroso in ginocchio davanti a lei, ma collo
smalto degli occhi verso gli spettatori; e da una cortina di fianco
alla scena sbucava il berretto di guardia nazionale colla zazzera
scompigliata dell'impresario, e una voce sgarbata tuonava
all'assemblea.

--Furfanti! canaglia! Or ora vi accomodo io....

--Forte in gamba! Forte in gamba!--gridavano i ragazzi.--Badate che
non vi si rompano gli __esse__.--

Gli __esse__ erano le gambe del nostro primo attore, e non è a dire
come gli cuocesse lo scherno.

--Ah, sì, pendagli da forca? Gli esse? Ora ve li do io in quel
servizio, gli esse! E tu che ridi, e mi fai le fiche, figlio di....
aspetta a me!

--Non son io. Forte in gamba, non son io che ho tirato!--urlava il
ragazzo mal capitato, a cui l'impresario, uscito dalla sua tana,
ministrava una correzione esemplare.--È quell'altro.... il figlio
della Rossa.

--Sì? il figlio della Rossa? Orbene, tu pagherai per lui e per te!--

E lì una gragnuola di busse, un baccano, un diavoleto. Il Forte in
gamba, che era arrogante come tutti i segnati da Dio, l'avrebbe fatta
a tu per tu con Sansone, e soleva dire che non aveva paura nemmeno di
cento. Bisognava sentirlo, quando, invece di ragazzi, erano uomini
fatti che gli davano la baia!

--Malandrini! tagliaborse! Andate in chiesa a fare il vostro mestiere,
a guadagnarvi la protezione di Sant'Andrea, che vi farà rivedere il
sole a scacchi. Zitto là, mascalzone! È questa la scuola che t'hanno
data in Oneglia? Voglion ridere de' fatti tuoi i mùggini della
Siberia, quando ballerai la monferrina sul Molo vecchio! Tacete, voi,
stradina, giubilata del Laberinto, buona a nulla, nemmeno a far la
pappa al diavolo, nella cucina delle streghe!--

Queste gentilezze (delle quali i lettori non genovesi potranno
intendere qualcosa, quando sappiano che a Sant'Andrea erano le
carceri, sul Molo vecchio le forche, a Oneglia il penitenziario, e al
Laberinto, sulle mura delle Grazie, l'infimo ritrovo di.... tutto quel
che vorrete) queste gentilezze, diciamo, ed altre simiglianti, non
avevano mai conseguenza di busse. Si rideva, si sghignazzava, si
faceva rimando d'ingiurie, fino a tanto che il Forte in gamba,
sentendosi stracco di lingua, non reputasse miglior partito rientrar
nelle quinte co' suoi fantocci e ripigliar lo spettacolo al punto in
cui lo aveva lasciato.

E adesso che avete potuto congetturare, dai battibecchi
dell'impresario coll'udienza, che razza di gente bazzicasse in quella
stamberga, non sarà male che diciamo alcun che delle rappresentazioni.
Il teatro del Forte in gamba era celebre, come il suo padrone, in
tutto il popoloso quartiere dei Servi, e in altri circostanti, che gli
mandavano ogni sera il loro contingente di spettatori. Colà si
recitavano drammi stupendi, come il __Guerrin meschino, i Reali di
Francia, la Bella Maghelona, Ginevra di Brabante__, ossia il __Trionfo
della virtù__, e commedie da sbellicarsi dalle risa, come i __Tre
gobbi__, il __Flauto magico__, la __Serva padrona__, ed altre
imitazioni di commedie e d'opere buffe dei maggiori teatri, ma sempre,
nelle commedie e nei drammi, introducendo per amore o per forza i due
personaggi di Barudda e Pippía, senza i quali il dramma non sarebbe
stato un dramma, e la commedia non sarebbe stata una commedia, pei
frequentatori del teatro. Il Forte in gamba s'era qualche volta
arrisicato a calzare il coturno, cioè, intendiamoci, a calzarne i suoi
fantocci, rappresentando qualche tragedia, come l'__Oreste__
dell'Alfieri; ma in questo caso Oreste era Barudda, e Pilade, l'amato
Pilade, assumeva il nome e le spoglie del collega Pippía.

Chi erano questi personaggi? Oramai s'è indovinato; erano maschere del
teatro popolesco di Genova. Ma quello che molti non sapranno ancora, e
che bisognerà dire, si è che queste erano, e sono pur tuttavia
ignobili maschere, e da non potersi dicevolmente raccomandare ad ogni
ragion di lettori.

Barudda, il più notevole dei due, parla continuamente furbesco, e vi
accompagna sempre le parole, anzi le sillabe, con suoni sconvenevoli.
Gli è un tipo di screanzato. Ha un viso tozzo, avvinato, bitorzoluto,
e va quasi sempre in maniche di camicia. Pippía non è altro che un suo
scolaro degnissimo; mingherlino, pallido (come il __morticino__ dei
vecchi fiorentini) col viso tirato a costa di spatola; va sulle pedate
del sozio, quanto a morale, ma in genere non gli contende il
privilegio dei suoni anzidetti; del resto parla furbescamente come
lui, ma con un vizio di pronunzia che gli fa mettere la lettera Ve
dappertutto. Egli, verbigrazia, vi dirà ova in cambio di ora, e per
dirvi __vengo__ vi dipanerà un __vvvv....engo__, da non finirla più.

E questi due personaggi senza legge nè fede, quantunque chiusi nella
ristretta cerchia d'un quartiere di Genova, hanno tre o quattro
stamberghe per sè, dove attirano quella udienza che abbiam detto, e
tutti i curiosi più arrisicati di altre classi, i quali volendo
guadagnarsi il titolo di «Ligure istrutto nella sua patria» non si
peritano di portare in quei luoghi il loro cappello a staio, che non
sempre ne esce sano. Il lettore conosce certamente di fama alcuni di
questi teatri; quello del Forte in gamba, celebre ai tempi di cui
raccontiamo, è chiuso da un pezzo, nè sappiamo il perchè. __Habent sua
fata Baruddae__.

La rappresentazione del __Don Giovanni, bastardo d'Austria__ era
cominciata da un pezzo, quando il Bello entrò nello stanzone. Le prime
panche erano stipate di gente: ma tra perchè tutti erano intenti allo
spettacolo e non mostravano altro che la collottola, e perchè una
fitta nube di polvere e di fumo ingombrava la sala, il nostro eroe non
venne a capo di distinguere alcuno degli spettatori.

Egli era andato verso la parete, dove era vuoto il sommo d'una panca.
Colà, messosi a cavalcioni, colle spalle al muro, aspettò che la
nuvola si diradasse, o che i suoi occhi, avvezzati alla mezza luce
della stamberga, gli facessero servizio migliore.

Una femmina, che stava seduta in un angolo, si alzò come lo vide e
mosse alla volta di lui. Costei, che non doveva essere stata brutta
alcuni anni addietro, ma che le consuetudini di una mala vita avevano
sciupata anzi tempo, male in arnese, discinta, con le trecce rossigne
scompigliate dagli atti maneschi della pubblica benevolenza, era la
tavoleggiante del luogo, e veniva a chiedergli, con aria di vecchia
conoscenza, se volesse da bere.

--Sì,--disse il Garasso, dandole un pizzicotto sulle guance
avvizzite,--portami una mezza bottiglia di birra, ma che faccia spuma.

--Non dubitate. Bello,--rispose la femmina, schermendosi destramente
dalle sue carezze,--è birra __numero uno__.

--Come il tuo primo amante, che Dio l'abbia in gloria?

--Che? lo fate già morto?

--E seppellito da vent'anni, Maddalena.

--Eh, lo so pur troppo, di non esser più bella, nè giovine! Ma un
tempo c'è stato che non parlavate così neppur voi.

--Sì,--soggiunse il Bello,--quando non avevo ancor fatto gli occhi.
Ma, a proposito d'occhi, dov'è il tuo innamorato, ch'io non lo vedo?

--Se li avete ora, cercatevelo! Io non l'ho mica in tasca.--Tra queste
chiacchiere, Maddalena aveva presentato al Bello il vassoio di ottone,
con suvvi il bicchiere e la mezza bottiglia di birra. Allo scoppio del
turacciolo che saltò in aria, parecchi spettatori si volsero, ma tra
quelle facce patibolari, il nostro eroe non riconobbe quella del
Guercio che andava cercando.

--Che non ci fosse!--diss'egli tra sè.--Per solito egli non manca mai.
Ho fatto male a dar la baia a Maddalena.--

Con questo pensiero in capo egli si volse alla femmina, porgendole il
bicchiere con atto di popolesca cortesia.

--Maddalena, bevete.

--Non ho sete, io.

--Bevete, via, non mi tenete il broncio.

--Io non l'ho con nessuno.

--Oh sì, l'avete con me, con un vecchio amico....

--Tutti amici ad un modo, quando mi pagano.

--Orbene, io vi pagherò la mezza per intiera, purchè facciamo la pace.
Suvvia, Maddalena; non vedete che ho fatto per celia? Ditemi, quando
sentiremo le denunzie nella chiesa dei Servi? Il Guercio vi ha pure
promesso di darvi presto l'anello!

--Oh, siete tutti d'una pasta, voi altri uomini! Così non avessi mai
dato retta ad alcuno! Non avrei logorata la mia giovinezza, e sarei
rispettata un pochino di più.

--Non pensate a queste sciocchezze, Maddalena; il Guercio vi vuol
bene. L'altro giorno ancora me lo diceva; se faccio tanto di
guadagnare certi quattrini, vo' metter su casa e sposarmi la Rossa.

--Non li guadagnerà mai,--rispose Maddalena rabbonita,--e non metterà
su casa, e non troverà mai il giorno nè l'ora di mantener le promesse.

--Voi vedete tutto nero; e se egli sapesse che voi ci avete così poca
fede....

--Ohè, da poppa!--tuonò improvvisamente una voce stentorea dalle prime
panche.--Fate silenzio!--

Una risata universale tenne dietro al comando. Maddalena confusa volse
le spalle, e andò a rincantucciarsi sollecita. Il Bello stette fermo,
come se non avessero detto a lui, e poichè non gli era dato saper
nulla di ciò che voleva, si fece a guardare la scena.

L'uditorio quella sera non era contento del Forte in gamba, perchè già
si era al secondo atto, e Barudda e Pippía non avevano ancora mostrato
il grugno. Questi erano tiri non infrequenti dell'accorto impresario,
il quale non amava spendere ogni sera i pregi singolari di quella
artistica coppia, e di tanto in tanto metteva fuori certi drammi, nei
quali Barudda e Pippía non avevano che una particina da nulla. Ma
allora l'uditorio, desideroso più che mai di sentirli, faceva baccano,
e per la sera seguente si era certi di averli in scena dal principio
alla fine del dramma.

Il Bello, come dicemmo, si fece a guardare la scena, dove Filippo II,
vestito con quello sfarzo che i lettori potranno argomentare, stava
dichiarando l'amor suo alla prima donna. La quale, non volendo saperne
di lui, e messa alle strette dalle troppo vivaci espressioni della sua
regia benevolenza, gli diceva:--scostatevi, sire; io sono un'ebrea.

--Un'ebrea!--gridava il re, che odorava il Sant'Uffizio. E non potendo
impallidire, poichè non glielo avrebbe consentito il colore ad olio,
nè la sovrapposta vernice, balzava indietro come uomo che si avveda di
aver posto il piede sulla coda d'un serpe.

Ma l'udienza, che non partecipava agli scrupoli nè alle paure del re,
gli dette apertamente dell'asino.

--E di che diamine avete paura, signor re?--gridava uno degli
spettatori.

--Ve' come gli è sbollita, a quel re!--soggiungeva un altro.

--Ce ne vorrebbe uno che conosco io; e vedere se si tirerebbe indietro
come lui!--

Questi ed altri consimili erano i discorsi; ma quinci e quindi
uscivano, al ricapito del povero Filippo II, altri suoni, che Dante si
sarebbe provato a descrivere con qualche vigorosa terzina, ma che noi
non ardiremo neanche accennare in un periodo di umilissima prosa.

Il monarca di quello Stato su cui non tramontava mai il sole (come fu
detto nello stile cortigiano del suo tempo) faceva intanto la più
trista figura del mondo. Voleva parlare, e le sue parole erano
soffocate dal tumulto popolare. Anche la prima donna era sgomentata, e
agitava le braccia verso la platea, quasi chiedendo, in nome del
rispetto dovuto al bel sesso, un po' di silenzio. Ma sì, altro che
silenzio; la burrasca ingrossava.

--Vada via il re, e venga Barudda!

--Sì, Barudda e Pippía!

--Signori, mi avete già rotte le scatole,--rispose dai cieli del
palcoscenico la voce dell'impresario.

--Le romperemo a te. Forte in gamba,--ribattè dalle prime panche della
platea un'altra voce, che fece rizzar la testa al Bello;--le romperemo
a te, se non ci dai Barudda e Pippía. Quelli sono amici che si può
starli a sentire, perchè non hanno tante fisime, come il tuo re, che
il diavolo lo porti.

--Guercio, un po' di pazienza!--disse il Forte in gamba, senza uscire
dal suo nascondiglio.

--La pazienza l'hanno i frati!

--Bravo! e Barudda, che è frate nel monastero di San Giusto, ha la
pazienza che manca a voi altri. Aspettate che la scena sia nel
convento, e lo vedrete.

--Fatecelo vedere fin d'ora,--interruppe dal suo posto il
Bello,--tanto da assicurarci che non l'avete messo in pegno per pagar
le tasse.

--Sì, benissimo detto, fatecelo vedere!--

Come i lettori intenderanno, l'attenzione dei tumultuanti s'era un
tratto rivolta al nuovo interlocutore. Era ciò ch'egli voleva, poichè
in quella occasione gli occhi, o, per dire più veramente, l'occhio
buono del Guercio si volse a lui e riconobbe l'amico. E l'amico gli
fece un cenno che voleva dire: son qua e mi occorre parlarvi.

Frattanto, a chetare il tumulto comparve Barudda al proscenio, e senza
riguardo alcuno per Filippo II e per la prima donna, salutò l'udienza
con uno dei soliti suoni, per vibrare i quali egli non aveva neppur
bisogno di farsi arco alle labbra col pollice e coll'indice tesi.

Quello era il __quos ego__ di Nettuno ai venti scatenati, e bastò a
ricomporre ogni cosa. Un applauso universale accolse il prediletto
personaggio, che si affacciava alla ribalta in tonaca da frate; poi fu
un silenzio, universale del pari, per starlo ad udire.

Noi non abbiamo la sciocca presunzione di metter qui la predica di
Barudda in tutta la sua nativa energia; che a far tanto ci vorrebbero
molte cose; verbigrazia la facoltà di scrivere in vernacolo, con tutti
i traslati, con tutte le licenze del gergo, con tutte le esorbitanti
libertà del trivio, e la potestà di condire ogni frase coi larghi
partiti dell'armonia imitativa, che è propria alla maschera di
Barudda. I lettori discreti si contentino di un pallido compendio.

--Mascalzoni! screanzati! feccia di furfanti! Non rispettate dunque
più nulla? nemmeno il __Sire__, che si è scomodato pei vostri grugni?
Badate a voi, __buone voglie__, pendagli da forca! Se la va
nell'orecchio all'assessore, vi manda tutti in galera senza processo.
Belle cose, bravissimi! Io me ne stavo tranquillo a dire il
breviario....

--In cantina,--interruppe una voce dalla platea.

--Ah! mangiate la foglia, birbe matricolate? Orbene, sì, stavo a berne
un __nitro__ in cantina, e mi avete fatto perdere il filo del salmo.

--E Pippía?--domandò un altro.

--Pippía sta in cucina, presso i fornelli, a picchiarsi il petto e a
pregare per la dannazione delle anime vostre. Il cuoco ha fatto una
salsa nella quale vorrei cuocervi tutti, quanti siete, figli di
galeotti, nipoti di impiccati, che mastro Nicola abbia presto a darvi
la pedata anche a voi! Mi avete visto, ora? mi avete sentito? Andate
in vostra malora; quando verrà il mio giro, mi vedrete da capo.
__Sire__, Lei continui a dire le sue, e se fanno un'altra volta
baccano, faccia calare il sipario. Addio, dunque, mascalzoni! Vi
voglio bene. Amo meglio i morti che i vivi.

--__Ovvva__!--sclamò una voce dalle quinte, che fu tosto riconosciuto
esser quella del socio Pippía.

Barudda diè fine alla predica con un altro e più romoroso de' suoi
amabili suoni, al quale uno spettatore rispose per tutti: «buon pro'
vi faccia!» e se ne andò pe' fatti suoi.

Così ebbe fine l'episodio, o, come dicono in Parlamento, __fu chiuso
l'incidente__. Intanto il Guercio aveva saltato le panche, ed era
venuto di costa al Garasso, che lo aspettava.

--Oh, eccovi qui, buona lana!--disse il Bello.

--Presente!--rispose l'altro.--Volete che andiamo a bagnarci il becco?

--S'intende. Ho da parlarvi a lungo.

--E anch'io, perdinci!

--Che ve ne pare?--disse il Bello.--Andiamo dalla Piccina? Laggiù ci
si sta come papi.

--No, non ho tempo da perdere. Andremo qui presso, a dare una scorsa
all'Acquasola. Tanto, per me la è tutta strada. E poi, lassù non
avremo cattivi vicini. Che cosa ne dite?--

Il Bello, sulle prime, aveva arricciato il naso a quella proposta del
Guercio. Ma egli aveva anche posto la mano sulla tasca, come per
tastare qualcosa che v'era dentro, e il buon esito della sua ispezione
lo aveva raffidato; però rispose al compagno:

--Come vorrete, amicone. Andiamo all'Acquasola.--Sull'uscio della
stamberga trovarono Maddalena, a cui il Guercio, passando rasente,
diede con garbo popolesco un colpo di spalla.

--Socia, vi saluto.

--Ed io vi contraccambio;--rispose asciutto la femmina.

--Che cosa avete, stasera?--chiese il Guercio, fermandosi sui due
piedi.

--Andate là, che siete un bell'arnese!--disse Maddalena.--Mi avevate
promesso di venire a casa, e andate già coi compagni.

--Nena, vi ho promesso, ma l'uomo propone e il diavolo dispone. Ho una
faccenda per le mani, che mi preme.... e il Bello vi dirà.....

--Sì, sì, il vostro compare bugiardo.... Voi altri uomini vi sapete
spalleggiare come va. Una mano lava l'altra....

--E tuttedue lavano il viso;--soggiunse il Bello ridendo.--State di
buon animo, Maddalena; quando avremo dato sesto alle cose nostre, il
Bastiano vi sposerà, ed io verrò alle nozze.--

Bastiano era il nome del Guercio. Maddalena non rispose altrimenti che
con una crollata di spalle, la quale voleva dire: «se dessi retta a
voi altri, dovrei credere che adesso è giorno chiaro».

I due compari non istettero più oltre a disputare con lei, ed
infilarono le scale. Noi terremo dietro a costoro, poichè da Barudda e
Pippía abbiamo spremuto quel tanto che si poteva, e colla ganza del
Guercio non abbiamo nulla a strigare.



XXXIII.

Nel quale è dimostrato che una ne pensa il ghiotto e un'altra il
tavernaio.


Il Guercio era un coso smilzo smilzo, che parea fatto a posta per
uscir da ogni fesso, a guisa delle lucertole. Aveva la faccia scura e
di poca apparenza, come un fico d'inverno, i capegli neri, ruvidi e
corti, come le poche setole che gli ombreggiavano le labbra sottili.
Il segreto della sua età era custodito dalle membra segaligne assai
meglio che non lo custodiscano alle signore donne i cosmetici, le
polveri e tutte le altre diavolerie che si mettono addosso. Lo
chiamavano il Guercio, perchè nel dialetto genovese dicendosi guercio
non già a chi ha gli occhi torti, ma a chi vede da un solo, egli per
l'appunto ci vedeva solamente dall'occhio destro, e l'altro, il
sinistro, era imperlato d'una maglia bianchiccia, la quale pur troppo
non gli aggiungeva in bellezza quello che gli toglieva in potenza
visiva. Cionondimeno, bisognerà soggiungere che il fratello superstite
gli facesse un doppio servizio, perchè dov'egli adocchiava, le mani
correvano spedite e sicure.

Era questi il peggiore ribaldo che si potesse immaginare. Adolescente,
aveva bazzicato più assai nell'ergastolo che non nelle scuole; per
contro, sapeva leggere, scrivere, e far d'abbaco, poi, come un
provetto ragioniere. Nei ritagli di tempo che gli avanzavano dalle sue
faccende, il Guercio leggeva volentieri, e mai di politica. I suoi
libri prediletti erano i melodrammi del Metastasio, l'__Aristodemo__
del Monti, le favole del Pignotti, e tutti i romanzi pastorali e
cavallereschi che si vendono sui muricciuoli. Tanto per darsi aria di
guadagnare onestamente il suo pane, aveva un mestiere visibile,
innocentissimo, diremo anzi bucolico; faceva il pollaiuolo. Il vino
non gli dispiaceva punto; ma sapeva esser sobrio, come tutti gli
uomini che hanno un alto disegno da proseguire, un gran concetto da
far trionfare sulla terra.

Ma siccome non c'è niente di perfetto in questo basso mondo, così
neanche il Guercio era perfetto, e ci aveva egli pure il suo lato
debole come tutti i figli d'Adamo. Ora il lato debole del Guercio era
il cuore; il cuore che si sentiva palpitare in seno, ogniqualvolta
pensasse (e ciò gli occorreva sovente) ad una modesta casetta sui
Gioghi, dove sarebbero bastati al suo bisogno i più famosi alimenti
bucolici, mele, ballotte e latte rappreso; una casetta, insomma, un
poderetto, nel quale avrebbe potuto ridursi a finire i suoi giorni con
Maddalena; con Maddalena, avvizzita, scaduta, ma che lo aveva amato,
lui Guercio, per la sua smilza persona, non già per i suoi quattrini,
come tante altre; con Maddalena che non chiedeva nulla; con Maddalena
che egli percuoteva talvolta, ma che s'era assuefatto a vedere e ad
amare. Frattanto, aspettando il giorno che l'avrebbe tirata a stare
con sè, stava tranquillamente con lei. La qual cosa non parrà che
faccia un gran divario dall'altra; ma noi raccontiamo le cose come
sono, senza togliere nè aggiungere un ette.

Nel suo mestiere nascosto (del visibile non rileva parlarne) non aveva
ancora fatto roba abbastanza. Da giovine era stato disgraziato, come
abbiam detto, e aveva salutato frequentemente il sole a quadrelli;
oltre di che, non aveva saputo tener conto del fatto suo, se pure è
lecito di chiamar fatto suo il frutto della rapina. Ora egli
s'industriava a guadagnare il tempo perduto, ed aspettava molto da un
certo colpo che a lui e a cinque compagni avesse dato modo di
acciuffar la fortuna.

Ma non ci perdiamo in chiacchiere. I nostri eroi sono giunti presso le
porte degli Archi, e barattando alcune parole di nessun conto, sono
saliti, per l'erta di Santo Stefano, alla spianata dell'Acquasola,
dove non hanno altri testimoni che i radi lampioni a gas confusi tra i
filari delle robinie e dei platani, e non sono turbati da altro rumore
che quello della vasca, il cui largo zampillo canta assiduamente nel
mezzo.

--Eccoci giunti, Garasso!--esclamò il Guercio fermandosi prudentemente
presso la siepe della vasca anzidetta, dove il frastuono dell'acqua
spegneva la sonorità della voce.--Che cosa avete a dirmi di nuovo?

--Di nuovo, nulla; abbiamo da intenderci chiaramente su quello che
sapete. Il colpo è per domani, alle dieci di sera, e bisogna che io
possa contare su voi.

--Non dubitate; il Bastiano è puntuale come il banco Parodi. A
proposito, e voi, come state a memoria?

--Che cosa volete dire? Ho io dimenticato qualcosa?

--Ma.... mi par bene. __I cum quibus__.

--__I cum quibus__ ci sono.

--Sta bene, ma quanti? Io li amo molto, i __cum quibus__!

--Anch'io;--rispose il Bello, ridendo.

--Appunto perchè so che li amate voi pure,--soggiunse il
Guercio,--vorrei vederli e contarli, prima di fare il colpo.

--Non vi fidate di me?--chiese il Bello.

--Sì e no;--rispose Bastiano.--E non credo già di farvi torto. Vedete,
io non mi fido neanche delle mie mani, perchè le conosco, e sto per
dire che se potessero, le ingrate, ruberebbero perfino a chi le
mantiene da trentacinque anni.... salvo errore.

--Quand'è così,--ripigliò il Bello,--non dico altro. Ma vi ho già
raccontato l'altro giorno che l'amico non dà fuori i quattrini se non
a colpo fatto.--

Il Guercio crollò il capo, a queste parole, e messe le labbra in moto
per masticarsi la saliva.

--Che diamine, Bastiano? Voi non ragionate più, ora!--soggiunse il
Garasso.

--Intendiamoci;--rispose l'altro, dopo un po' di silenzio.--Io ci ho
gusto a quel giuoco, e già ve l'ho detto. Indossar l'onorata divisa,
figuratevi! questa fortuna non capiterà mica ogni giorno....

--E notate che non c'è risico;--interruppe il Bello.--Avrete da
vestirvi nella casa medesima, al primo piano, di guisa che non ci sarà
da uscire per via, nè da esser veduti da alcuno. Là, in casa, non
avrete da fare con altri che colla ragazza e col servitore, se pure ci
sarà. E per questa fatica di salire e di scendere, vi buscate mille
lire....

--Ma....--entrò a dire quell'altro, dandogli sulla voce,--e chi mi
guarentisce che il danaro verrà?

--Oh bella! vi guarentirà la cassettina che vi ho detto e che dovrete
portar via dal cassettone. Da una mano sporgerete la cassettina,
dall'altra riceverete le mille lire. E notate che il cofanetto,
sebbene non contenga nessuna cosa di prezzo per voi, potrebbe
inuzzolirvi; ma noi non abbiamo tante paure, ci fidiamo di voi.

--Grazie!--rispose il Guercio ironicamente.--Dunque, dicevamo, duemila
lire?'

--Che duemila? Volevate dir mille....

--Scusate, avevo inteso duemila. E siccome sono un po' duro di
comprendonio, così, quando una cosa m'è entrata in testa, non c'è più
verso a cavarnela. Ora io ho inteso duemila, e, duro come sono, non mi
voglio dar torto.

--Lo avete, Bastiano;--ripigliò il Bello.--Queste cose bisognava
dirmele subito, quando mi sono aperto con voi. Ho combinato per mille,
e come volete che torniamo da capo?

--Siamo sei, Garasso, non lo dimenticate. Inoltre, perdiamo una
giornata di lavoro....

--O che? Sareste uomo da voler fare le parti giuste?

--Come voi, Garasso, come voi!--ribattè il Guercio, ghignando.

--Sentite, Bastiano;--disse il Bello, facendo le mostre di non averlo
udito.--Facciamo un po' d'abbaco.

--È il mio passatempo! facciamo d'abbaco.

--Mille lire,--proseguì il Bello,--divise per sei, quanto danno?

--Ho già fatto questo conto più volte,--rispose il Guercio
gravemente,--e mi torna sempre centosessantasei lire, sessantasei
centesimi, e il resto divisibile all'infinito.

--Male, male! e dove avete lasciato le regole della nuova divisione?

--Della nuova?

--Cioè, nuova no, ma diversa! parlo di quella d'Arlecchino.

--E come divideva Arlecchino?

--Eccovi qui; faceva tanti mucchietti, l'uno daccanto all'altro e
contava: questo a me--questo a te--questo a me. Poi si fermava e
tornava a contare: questo a me--questo a te--questo a me; poi....

--Basta, basta, ho capito. Ma anche col vostro conto, io non piglierei
più di cinquecento lire. Ora nella mia aritmetica c'è scritto che io
debba intascare mille lire, innanzi di mettere le altre mille in
divisione. Voi vedete che Arlecchino a petto mio, può mettersi la sua
aritmetica in tasca. Volete che vi parli da avvocato? Qui c'è un
contratto bilaterale; voi vi servite di me, io mi servo di voi.
Ragioniamo dunque di duemila lire; la base più larga fa l'edifizio più
saldo.

--Non si può;--disse il Bello, che difendeva la sua preda coll'unghie
e coi denti;--ho sempre parlato di mille lire, e su mille siamo
rimasti. Che cosa direbbe l'amico de' fatti miei, se gli barattassi le
carte in tavola?

--Oh, se non c'è che questo di rotto, mio buon Garasso, ve l'accomodo
io!--rispose il Guercio.--Ci ho tutto quello che fa al caso vostro.

--Che cosa?--domandò il Bello, tremando. Gli spedienti del Guercio lo
facevano sudar freddo.

--Fatemi parlare col principale, e lo capacito io. Eccellenza, gli
dico, il Bello non ci ha colpa; sono io, io, il furfante, che dimando
le duemila lire. Non mi ero legato nè per mille, nè per cento; mi dia
quello che mi occorre, e la servo da buon compare. Sono un galantuomo:
il Bello potrà farne testimonianza, e dirle che quando il Guercio ha
promesso di fare una cosa, venisse anco il Padre eterno a
scongiurarlo, a caricarlo d'oro, sta fermo come un muro maestro. Fede
per fede, e qua le duemila lire! Che ve ne pare, collega? non sarebbe
un parlar bene?

--Voi capirete che non si può,--disse il Bello, nicchiando;--il
principale ha le sue buone ragioni per non darsi a riconoscere.

--Ed altri,--disse il Guercio di rimando,--ci ha le sue per non darmi
che la metà.

--Guercio!

--Ohe!

--Voi non ricordate più che io ci ho tanto da farvi andare in galera.

--Accompagnandomi, s'intende!--soggiunse prontamente il briccone.--Ah!
il micio mette fuori le unghie? Bravo! questa è l'amicizia? alla
larga! Ma voi dovreste sapere, Garasso, che io vi conosco, e a me non
l'appioppate di certo. E conoscendovi, ho fatto tra me questo
discorso: egli mi offre, per conto d'altri, una lasagna bianca, mille
lire. Quant'altre ne sgraffia? Altrettante. Vedete che sono modesto
nei calcoli, e forse, chi sa? vi faccio anche onore a credervi meno
ladro di quello che sarete. Io sono un galantuomo; potrei sincerarmi
del fatto, che forse avrete già il metallo in saccoccia; ma non lo
voglio.--

In questo dire il Guercio fece balenare la lama di un coltellaccio che
aveva cavato fuori pian piano.

--V'ingannereste, Guercio,--rispose il Bello, balzando rapidamente un
passo indietro,--io non ho in tasca altro metallo che questo.... a
doppio scatto.--

E trasse fuori, appuntandone le sei canne giranti di acciaio al petto
del Guercio, una di quelle rivoltine inglesi che paiono fatte per
capire nel pugno.

Il Guercio non si mosse, ne altrimenti mostrò di esser turbato, o
maravigliato, da quella novità. Sorrise, in cambio, e disse
placidamente al Garasso:

--Ah, ah! la carezzavate tanto, venendo quassù, che finalmente non
avete potuto tenervi dal mostrarla agli amici! È belloccia, in fede
mia, ma troppo chiassosa. Credete a me; voi non siete altro che un
principiante. Arma bianca, arma buona; non fa strepito, ma buco.

--Sarà,--notò il Bello, senza riporre l'arnese,--ma confessate che
questa fa buon servizio, quando s'è disposti a risicare ogni cosa.

--Perchè risicare?--proseguì l'altro.--Io, per esempio, senza risicar
nulla, con un po' di nero sul bianco, vi mando il negozio in malora.

--Che cosa intendete di dire?

--Intendami chi può, che m'intend'io.

--Siete un furfante di tre cotte.

--Come voi, Garasso, come voi, e non per niente ho imparato a
scrivere. Buona notte, dunque, e chi avrà miglior filo farà miglior
tela.

--Ve n'andate?--chiese il Bello confuso.

--Oh bella! se m'interrompete quando parlo.... Orvia, capisco che qui
s'ha da fare la pace. Ripigliamo il discorso dove l'avevamo lasciato.
Noi dunque dicevamo due mila lire.--

Il Bello mise un lungo sospiro, che fu un ultimo vale a quella lasagna
bianca (stile del Guercio) che voleva mettersi in tasca.

--Bisognerà passare per dove volete voi!--soggiunse egli.--Non siete
un amico.

--Anche gli innocenti vanno alla forca!--rispose il Guercio con aria
di compunzione.--Io non sono vostro amico? E quando mi avete voi mai
veduto mancare alle promesse? Non vi buscate la miglior parte nei
guadagni che faccio? Mi servo io d'altri, per rivendere quel che ho
comprato.... coi miei sudori? Andate là, siete un ingrato, e
meritereste che non vi volessi più bene.

--Sì, datemi per giunta la baia! Io frattanto dovrò far come l'asino,
che porta il vino e beve l'acqua.

--Oh, questo non sarà detto mai, fino a tanto che ci sarò
io;--ripigliò il Guercio sul medesimo metro.--Andiamo subito a bere, e
sia del migliore che ci ha la Piccina.

--No, grazie, ora non bevo più. A domani, dunque?

--Alle nove sarò coi colleghi al ritrovo; e voi colle due lasagne....

--A colpo fatto.

--Sta bene; se no, vi ammanettiamo come un cane, e vi portiamo in
caserma.--

Con queste ed altre ciarle di minor conto, i due compari si
accomiatarono scambievolmente. Il Bello rifece i suoi passi verso
Santo Stefano, bestemmiando in cuor suo il destino che gli guastava
tutti i suoi conti, e lo faceva rimanere colle sole cinquecento lire a
lui promesse, come suo beveraggio, dal padre Bonaventura. Ma egli
aveva peccato di ghiottoneria, e ben gli stava doverla pagar cara.
Già, il proverbio l'ha posto in sodo: una ne pensa il ghiotto e
l'altra il tavernaio.

Il Guercio se ne andò dal canto suo, zufolando, verso la Villetta Di
Negro. La notte buia, a cagione delle nuvole addensate nell'aria, le
quali impedivano alla luna di mostrar le corna, come pure avrebbe
dovuto, essendo ella allora ai cominciamenti del primo suo quarto. Ma
di ciò non si dava pensiero il Guercio, che conosceva la strada, e che
ci vedeva da un occhio, al buio, come gli altri, al chiaro, con tutti
e due.

Quello che non vedeva, nè sapeva, era l'ora; imperocchè, tra per lo
svago del teatro e il lungo conversare fatto col Bello, egli non
veniva più a capo di misurare il tempo perduto.

--Che ora sarà?--andava egli pensando, in quella che infilava il ponte
davanti al Teatro Diurno, per salire verso i Cappuccini.--Non ho
nemmeno la __cipolla__ in tasca. Se passa qualcheduno, vo' pigliarne
una ad imprestito.--

Cipolla (i lettori l'avranno già argomentato) nella lingua furbesca, è
sinonimo di orologio.

Giunto colà, dove il bastione della Villetta svolta sulla salita delle
Battistine, il nostro eroe udì un mutar frettoloso di passi che
venivano in su, e insieme coi passi, alcuni sbrendoli d'una romanza da
teatro.

--To'--disse il Guercio,--il cacio sui maccheroni! E come canta col
tremolo, il signorino!--

Il viandante, che era già a mezza salita, cantava per modo da lasciare
intendere com'egli avesse bisogno di compagnia. Veniva su, a passi
brevi ma veloci, belando in falsetto una melodia del __Trovatore__.

    --Ah.... che la mor....te o....gnor
    È.... tar....da nel ve....nir....--

Intanto il Guercio non era stato tardo a scendere e a mettersi in
agguato a piè del bastione. E il viandante, già vicino al luogo
dov'egli era nascosto nell'ombra, continuava:

    --A.... chi de....sia
    A chi de....sia mo....o....rir
    Leono....ra add....io add....i....o.

--Che bel tremolo!--disse il Guercio in cuor suo.--Se ti sente
l'impresario Sanguineti, hai fatta la tua fortuna!--

E come il viandante gli fu giunto a pari, il nostro eroe si spiccò dal
muro.

L'altro vide quell'ombra nera e trasaltò; fu per voltar le calcagna,
ma il sangue gli si era gelato nelle vene, e le gambe gli ricusarono
il loro ufficio.

--Niente paura, signor tenore!--disse il Guercio.--Sono un povero
diavolo....

--Che cosa volete?--dimandò l'altro, più morto che vivo.

--Scusi, lustrissimo; vorrei sapere che ora è.

--Io non so.... saranno le undici.... cioè, le dieci.... a un
dipresso....

--Vo' saper l'ora precisa, io, perchè ho da mettere l'orologio a
segno. Via, non si scomodi, farò io.--

Così dicendo, gli aveva già posto le mani al panciotto; e quelle mani,
sicure del fatto loro, non pure avevano cavato fuori l'orologio dal
taschino, ma spiccata ancora la catenella dall'occhiello.

--Ah, vedo che bisognerà aprirlo, perchè ci ha il coperchio d'oro.
Basta, non ho tempo; vedrò poi,--proseguì il furfante, riponendo in
una tasca dei suoi calzoni orologio e catenella.--Trecento lire
dell'orologio, e forse cencinquanta del resto; sono dunque
quattrocento cinquanta lire che io metto in salvo per Lei. O come
porta di questi arnesi addosso, dovendo star fuori di notte?

--Ma voi....--si provò a dire il derubato.

Silenzio, se no ti faccio freddo!--interruppe il Guercio, mostrandogli,
uscito a mezzo fuor della manica, il suo coltellaccio.--Tu non hai cura
del tuo metallo, e il primo mascalzone che passa potrebbe rubartelo.
Dammi il portamonete, il borsellino, o quel diavolo che sarà. Te lo
custodirò io.

--E accompagnando gli atti colle parole, mezzo si fe' dare mezzo si
pigliò colle sue mani, il portamonete del malcapitato.

--Benone! E adesso, ara diritto, senza voltarti indietro.--

Quell'altro non se lo fece dire due volte, e pigliò l'abbrivo,
parendogli d'uscirne a buon patto. Ma, per quanto si fosse affrettato
ad obbedire, non si mosse tanto presto che non gli giungesse ancora un
vigoroso calcio del ladro, a raddoppiargli la forza d'impulsione.

Al domani, la cronaca cittadina di un giornale recava, e gli altri
colleghi copiavano con poche varianti la narrazione seguente, che noi
riferiremo con tutti i suoi fioretti di lingua:

«Un'audace aggressione è stata perpetrata iersera, verso le dieci,
nella salita delle Battistine. L'egregio dottor cavaliere Ernesto
Collini, mentre si recava, per ragioni del suo ministero, in una casa
di quei pressi, venne fermato da un tale che gli domandò bruscamente
la borsa o la vita. Per nulla intimorito, il giovine dottore cavò una
pistola per difendersi, e certo avrebbe data una severa lezione al
malandrino, se altri compagni di quest'ultimo, sbucati non si sa
donde, non lo avessero sopraffatto, impedendogli l'uso delle braccia.
Per tal modo, egli fu alleggerito dell'orologio, del portamonete e
(quasi sarebbe inutile il dirlo) dell'arma che aveva impugnata per
propria difesa, e malmenato per giunta, con accompagnamento di
orribili imprecazioni. Egli non potè riconoscere i suoi aggressori,
che portavano il cappello tirato sugli occhi; però dall'accento, ebbe
a formarsi la persuasione che fossero gente estranea alla nostra
città. La qual cosa dimostra in quali deplorevoli condizioni sia
caduta la sicurezza già proverbiale di Genova, per l'affluenza di
tanti ceffi proibiti, ecc., ecc.»

Per alcuni giorni il Collini fu l'eroe delle conversazioni private,
dei capannelli di piazza, delle librerie, delle farmacie, delle
botteghe da caffè. Il caso suo del 28 giugno diede argomento di
chiacchiere, come i casi del 29 giugno, e quasi altrettanto, ad ogni
ragione di scioperati e di curiosi. Ci fu anzi chi volle scorgere una
certa colleganza tra l'aggressione delle Battistine e il tentativo
repubblicano occorso ventiquattr'ore dopo. Infatti, i malandrini non
parlavano genovese; erano dunque lombardi, romagnoli, emigrati,
insomma, di quelli che volevano mettere a sacco e in fiamme la
tranquillissima Genova; e l'audace aggressione patita dal Collini
altro non era che un prodromo, una pregustazione di quello che sarebbe
capitato a tutti gli abbienti, a tutti i ben pensanti della città, se
i rivoltosi fossero venuti a capo della loro scellerata congiura. Don
Basilio non avrebbe argomentato diverso.

Il prode ma sfortunato Collini, ricevette un subisso di cartelline da
visita, e condoglianze e strette di mano a centinaia. Questo, comunque
gratissimo, non era che fumo; ma ci fu anche l'arrosto, perchè il
cliente alla cui casa si avviava in quella malaugurata sera il
Collini, dolente che il brutto caso gli fosse avvenuto per cagion sua,
si recò a debito di mandargli uno stupendo orologio inglese, col suo
nome e colla data del 28 giugno incisa nella faccia interna del
coperchio, a testimonianza durevole della sua gratitudine. __Sic itur
ad astra__.



XXXIV.

Dove si fa un brutto viaggio, ma parecchio istruttivo.


Ora seguitiamo le pedate del Guercio, il quale, contento del fatto
bottino, non pensa davvero di aver dato argomento a tanto chiasso
futuro.

Il destro furfante, poi ch'ebbe veduto il suo uomo correre in su, come
se avesse l'ali alle calcagna, se ne discese con passo misurato al
crocicchio del Portello, donde si avviò per via Caffaro. La strada era
pressochè deserta, e oltrepassato il teatro Paganini era deserta del
tutto. I Genovesi sanno che nell'anno di grazia 1857 la via Caffaro
non giungeva ancora molto più in là dal teatro anzidetto, e la valle
non appariva anche allargata, come ora si vede, per dare ospitalità
convenevole a due file di casamenti e alle loro intercapedini
rispettive.

Si notavano in quelle vece le vigne sterpate, i camperelli distrutti,
le falde della collina sconvolte dalle mine, fondamenta a mala pena
gettate di case future, fossi di calce, monti di rena, sterramenti,
cataste di pietre da costruzione; insomma un caos, che aspettava
ancora il __fiat__ degli architetti e dei mastri muratori.

In mezzo a questo laberinto il Guercio si aggirò destramente, come se
fosse giorno chiaro, o come se avesse il filo d'Arianna tra le mani.
Per tal modo egli potè giungere in un luogo dove il suolo fangoso
mostrava una gran buca, una specie di voragine, e gli addentellati
ancora scoperti di un vôlto recente accennavano che là era il
cominciamento della chiavica maggiore sottoposta alla via.

Il Guercio diede un'occhiata in giro, e sinceratosi che non ci fosse
anima nata in quelle vicinanze, si curvò sulla buca, ne abbrancò gli
orli e si calò dentro colla fidanza di un uomo, che già aveva misurato
l'altezza del salto. E qui lettori umanissimi,

    Qui ci convien lasciare ogni sospetto,
    Ogni viltà convien che qui sia morta;

perchè, noi dietro al Guercio, e voi altri con noi, dobbiamo scendere
nella buca, e dare una corsa per Genova sotterranea.

Anzitutto, a raffidarvi contro il timore di dover camminare nel buio,
vi diremo che il furfante, dopo esser corso un cinquanta passi,
seguendo il muro a tentoni, si fermò, diè mano ai cerini e poco stante
il lucignolo acceso d'una lanterna cieca rischiarò dinanzi a lui uno
spazioso androne, alto forse tre metri, che correva tra due ruvide
pareti, su d'un piano inclinato di forma concava, seguendo sotterra
l'asse medesimo della via sovrapposta.

Genova sotterranea, che noi sappiamo, non è stata mai particolarmente
studiata nè descritta, e mi dicono che fino ad ora il Municipio non ne
abbia neppure la pianta. Noi che ci siamo avventurati là dentro una
volta, faremo di dirne qualcosa, aiutando i nostri ricordi con alcuni
particolari più esatti e minuti che la cortesia d'un vecchio
architetto ci ha posti in grado di aggiungere. Come li conosceva bene,
il nostro compianto Pedevilla, tutti quegli oscuri meandri! E che
Cicerone meraviglioso fu egli, per farne gli onori alla nostra curiosa
giovinezza!

I nostri benevoli hanno prima di tutto a notare che noi non li terremo
soverchiamente sotterra; che non seguiremo, verbigrazia, l'esempio di
tanti famosi romanzieri che hanno fatto vivere i loro lettori, per una
infilzata di capitoli, quattro o sei metri sotto la superficie del
suolo. Oltre che noi non abbiamo tanto ingegno, nè tanta dovizia di
partiti da tenerli a bada, va ricordato che le chiaviche di Genova non
possono entrare in paragone coi monumenti sotterranei di Parigi; nè
colle catacombe di Roma, nè colle immani cisterne di Bisanzio, nè
colle vie dischiuse sotto l'Eufrate dagli antichi re di Babilonia.
Genova, edificata a più riprese, secondo le crescenti necessità della
sua popolazione, su d'un terreno malagevole, altro non riuscì che un
lavoro di aggiunte e di rappezzamenti faticosi, così sopra come sotto,
e privo, ahimè, di un concetto ordinatore. Laonde i grandi canali,
invisibili seguaci delle grandi arterie cittadine, son pochi; tutti
segnati in anticipazione dai letti de' rigagnoli, che separano le une
dalle altre le colline digradanti dell'anfiteatro di Genova. Altri
canali minori a centinaia, pochissimi de' quali son praticabili,
inesplorati tutti, seguono i capricciosi meandri delle vie, viuzze e
vicoletti della Superba, e ognun d'essi mette, giusta la sua pendenza,
a taluno degli anzidetti canali maggiori.

Questi gran dignitarii della dea Mefite son cinque, i quali scendono,
come dicemmo, a piano inclinato dalle alture; ma giunti al centro
della città si stendono in linea orizzontale, e qui i topi medesimi,
loro abitatori naturali, non ci vanno altrimenti che a guazzo. Se vi
pigliasse il desiderio di visitarli, accettate il nostro consiglio di
farvi portare in collo dai serventi addetti a que' sotterranei lavori,
ed anche d'indossar vestimenta le quali non abbiano più da servirvi
sulla faccia della terra.

Il primo di tutti (non già per ordine gerarchico, ma per ordine
topografico) ha origine dal fossato di Sant'Ugo, là dalle parti
dell'Arsenale di terra, e correndo sotto la piazza dell'Acquaverde e
la Commenda di San Giovanni di Prè, attraversa la via Carlo Alberto,
per metter foce in mare nel seno di Santa Limbania, di quella santa
che ha comune coll'ottimo San Torpete la cittadinanza genovese, e la
vergogna di non trovare anima nata che voglia portare il suo nome.
Qual è, nella città dei __Baciccia__ e delle __Marinin__, la donna che
si chiami Limbania, e l'uomo che si chiami Torpete? I due poveri santi
non hanno divoti; ma in forma di compenso, e diremmo quasi di
elemosina, San Torpete ebbe una chiesuola e Santa Limbania un seno;
seno di mare, s'intende, sulla sponda occidentale del porto.

Il secondo canale nasce alle spalle dell'albergo dei Poveri in
Carbonara, e passandogli tra le fondamenta, scende sotto la piazza
dell'Annunziata, sotto quella delle Fontane, sotto la porta dei Vacca
e va a scaricarsi in mare sotto il magazzino dei Salumi.

Il terzo, nel quale siamo ora avventurati noi, sulle orme del Guercio,
dall'alto di via Gambaro, all'ingresso di via Nuova; di là per le
viscere di piazza del Ferro, dei Macelli, di Soziglia, di via degli
Orefici, di piazza de' Banchi (tutti luoghi ne' quali non raccoglie
oro per fermo) va a sgabellare la sua mercanzia sotto il palazzo della
Dogana.

Il quarto e il quinto, a dir vero, non la durano a lungo divisi.
Scendono da via Assarotti e da via Palestro; si vedono, s'amano e si
maritano clandestinamente sotto gli archi dell'Acquasola. Di qui,
rasentando le case di via San Giuseppe (più conosciuta sotto il
vernacolo nome di __Crosa del Diavolo__) la felicissima coppia scorre
sotto il braccio sporgente dell'ospedale di Pammatone, e difilata per
Portoria, Rivo torbido, i Lanaiuoli, i Servi e la piazza della Marina,
va a nutrire con paterna cura i suoi figli adottivi, che sono (il
lettor genovese l'ha già indovinato) i mùggini punto schifiltosi del
cosiddetto Seno di Giano: un seno accecato, pur troppo, dal bisogno di
una strada a mare, che ha pur sottratto all'amore dei Genovesi
l'indimenticabile scoglio Campana.

Genova sotterranea possiede anche la sua storia, se non chiara per
avventura come quella della sua sovrastante sorella, certo meno oscura
di quello che si potrebbe argomentare dai suoi foschi rigiri. Negli
annali di questa storia tenebrosa un'impresa che andava tentando il
Guercio con parecchi suoi degnissimi aiuti, non era nuova nè strana, e
gli scrittori delle cose nostre ricordano le scoverte fatte, nei
secoli scorsi, di audaci furfanti, i quali per lavorare più
sicuramente avevano messo dimora nelle chiaviche, e taluni, allogati
per l'appunto sotto la piazza della Nunziata, dormivano alla guisa dei
marinai su ranci sospesi alla vôlta. Inoltre i contrabbandieri, i
frodatori delle gabelle, ebbero sempre per le chiaviche una tenerezza
particolare. Parecchi dei loro anditi furono chiusi ai tempi dei
nostri vecchi; quello, ad esempio, che di sotto alla piazza di Sarzano
metteva al monastero di San Silvestro. E non è molto che un altro (e
non certamente l'ultimo) ne fu scoperto ed asserragliato, il quale da
un certo luogo della città andava a far capo nel Portofranco.

Se poi da questa geldra c'innalziamo allo stuolo degli illustri
orditori di congiure, troviamo più nobili ragioni di celebrità per
queste vie nascoste di Genova. Per una di esse il Raggi intese a
penetrare dalle sue case nel palazzo Ducale, volendo mutar con ardito
tentativo il reggimento della cosa pubblica. Per un'altra, ancora in
parte conservata, il conte di Lavagna introdusse il nerbo dei suoi
partigiani in città, ai danni del fortunato Andrea Doria. Infine, che
diremo di più? Genova sotterranea aspetta tuttavia un cronista
volenteroso; la mèsse è abbondante ed intatta.

E intatta e abbondante era quella che il Guercio si riprometteva da
certi suoi scavi sotto la via degli Orefici. La sua pensata era
questa: sforacchiare il terreno sotto una delle case che fiancheggiano
la via, e, la mercè di un buco verticale nel pavimento, penetrare in
una ricca bottega d'orefice: quindi in una notte, senza tema dei
vigili, al coperto dalle sentinelle (__excubiarum securus__), far
repulisti nella custodia e nelle bacheche del mercatante.

I suoi manovali erano da parecchi giorni all'opera, sotto la vigilanza
dell'Architetto; che così era chiamato per celia il compare che aveva
misurate le distanze e disegnato il luogo dove occorreva aprire la
breccia. E quel luogo era appunto al confluente di un cunicolo
laterale colla chiavica maggiore. Il cunicolo, che era stretto e quasi
impraticabile, rispondeva ad un vicolo sovrastante, e rasentava le
fondamenta della insidiata bottega. Ci si lavorava a disagio, e
bisognava darsi il cambio; ma il lavoro andava innanzi pur sempre, e
in capo a cinque o sei giorni l'impresa poteva essere condotta a buon
fine.

Il Guercio, che abbiamo lasciato sul primo tratto del sotterraneo,
giunse facilmente sotto la latitudine dei Macelli di Soziglia. Qui,
occorrendo la parte piana della città, egli incominciò a diguazzare
nel pantano; ma vuolsi notare che, pratico dei luoghi, egli aveva
avuta la precauzione di cavarsi le scarpe e i calzoni, per guadare lo
Stige. Qua e là per le ruvide pareti scorrazzavano topi dalle lunghe
basette e dalle lunghissime code, parecchi dei quali, mal potendo
aggrapparsi alle scabrezze dei muri, davano tonfi romorosi nella
poltiglia, facendogli schizzare larghe e frequenti pillacchere sul
viso. Buio aveva dinanzi a sè, e buio alle spalle; la luce della sua
lanterna rischiarava un breve tratto dintorno, e le ragnatele,
pendenti dalla bassa volta in larghi festoni, non davano comodità dì
riverbero. Egli pareva un punto luminoso, un fuoco fatuo, che errasse
frammezzo alle tenebre.

Come fu giunto sotto Soziglia, dove il canale si piega leggermente
verso gli Orefici, si fermò, trasse fuori uno zufolo e mise un fischio
sottile, ripetuto tre volte. Tre fischi gli risposero tosto; uditi i
quali, il Guercio si rimise la via tra le gambe. Due minuti dopo, egli
era dinanzi, alla luce d'un falò, la cui fiamma lambiva ed affumicava
la volta umidiccia, e intorno a cui stavano accoccolati i suoi cinque
compagni, veri ceffi da galera che non istaremo a descrivervi.

--Finalmente!--gridò uno di costoro.--Noi ti facevamo già in catorbia.

--E perchè mo'?--chiese il Guercio, in quella che spegneva la lanterna
e se la riponeva in tasca.--In catorbia ci vanno i ladri, e non la
brava gente come noi.

--Capisco;--soggiunse l'altro,--ma quei del pennacchio fanno errore
così spesso!

--La prima causa dell'errore sono quei tali che hanno fatta la
legge;--sentenziò il Guercio, sedendosi accanto ai compagni e levando
la pipa di bocca al più vicino per mettersela tra i denti egli
stesso.--Quando comanderò io, farò un codice nuovo che dica: sono
ladri tutti quelli che hanno quattrini. Infatti, io ragiono così: se
hanno denari, in qualche luogo li hanno presi: ora chi prende ruba;
dunque....

--Benone!--interruppe un altro.--Tu parli come il mio avvocato, che,
se gli davano retta i signori del berrettone, non andavo a passar tre
anni nel collegio di Oneglia. Ma già, quei signori non badano mai a
quello che dice un galantuomo, e legano sempre l'asino dove vuole il
Fisco.

--O non lo sai, imbecille, che lupo non mangia lupo? Ma basta!
tornando al discorso che non avevo ancora incominciato, domani a sera
si fa il colpo.

--Impossibile!--gridò l'Architetto, o, per dir meglio, quel che i
compagni chiamavano con quel nome.--In quella maledetta buca non ci si
può lavorare più di due per volta, i vorranno almeno sei giorni....

--E chi ti parla della buca?--ripigliò il Guercio.--Parlo dell'altro
colpo, di quello che v'ho detto una settimana fa, pel quale, da ladri
che sembriamo, diventeremo carabinieri.

--Ah sì, ottimamente!--esclamò uno dei cinque.--E in cambio di
lasciarci ammanettare, ammanetteremo.

--No, Bellavista, non ci saranno manette da mettere.

--E che diamine ci sarà dunque da fare?--dimandò il Bellavista.--Io
non so che facciano altro, quei del pennacchio.

--Perchè tu li conosci soltanto da quello che hanno fatto a
te;--rispose il Guercio tra le risa della brigata;--ma essi, te lo so
dir io, fanno altro ed altro, che ti bisognerà imparare, prima di
metterti all'opera.

--Sentiamo dunque!--disse il Bellavista.

--Incomincio. Domani a sera, verso le nove, si va (alla spicciolata,
s'intende) in casa Ceretti, qui presso a via Luccoli. Il Ceretti tu
devi conoscerlo, tu Architetto, che sei stato muratore.

--Se lo conosco! È mastro Nicola, di Molassana, quegli che ha trovato
due pentole di genovine in un ripostiglio di muro che stava rompendo,
e non ne ha detto nulla al principale....

--Sì, lui, per l'appunto.

--Ci ha da esser denari a palate, in casa sua!--proseguì il
Bellavista.

--Certo;--disse il Guercio,--ma per questa volta bisognerà sputarne la
voglia. In casa del Ceretti ci si va per la mascherata, e nient'altro.

--O come?--dimandò l'Architetto.--Mastro Nicola ci tiene il sacco!

--Non egli, che è in villa, ma il suo figliuolo. Io non so nulla e non
ho cercato di saper nulla; ma mi sembra di avere indovinato che questo
giovanotto l'abbia a morte con un suo pigionale, certo Salvini,
Salvetti o che so io, e lo voglia colle nostre mani, __vestire da
angelo__.... mi capite? fargliene una da coltellate. Domani a sera
scoppia la rivoluzione....

--Parli sul serio?--interruppe il Bellavista, mentre gli altri
inarcavano le ciglia.

--Sicuro; ma questo non risguarda noi altri. In questi pasticci non
c'è nulla da guadagnare. Ora questo Salvetti, Salvini, od altro che
sia, è un uomo che pesca nel torbido, e domani a sera sta fuori di
casa. Noi, col pennacchio in testa e la divisa a coda di rondine,
andiamo in casa, dove c'è una ragazza sola con un servitore, ci
spacciamo per carabinieri mandati a fare una perquisizione, rovistiamo
nella camera del nostro uomo, e portiamo via certi documenti che
devono trovarsi in una cassettina d'ebano; la qual cassettina è in un
cassettone a destra entrando, nella seconda cassetta, in un angolo a
sinistra. Vedete che conosco il fatto mio. La Giustizia è bene
ragguagliata, non fo per dire. Ci becchiamo la cassettina: salutiamo
la signora chiedendole scusa del disturbo, scendiamo al primo piano,
ci vestiamo da capo dei nostri panni, e ce ne andiamo pe' fatti
nostri. Il colpo non è male architettato. Che ne dici tu, Architetto?

--Io dico,--rispose l'Architetto,--che a questa fabbrica mancano le
chiavi.

--O come?

--Mancano, ti dico, e te lo provo. Noi, stando a quel che ci hai posto
in chiaro, lavoriamo per la gloria.

--Ah, capisco!--disse il Guercio ridendo.--Io avevo dimenticato
l'essenziale. Accanto alla gloria c'è una lasagna bianca, di quelle
che si fabbricano in via San Lorenzo.

--Mille lire?

--Sì, certo, mille lire; e notate,--soggiunse il Guercio, volgendosi
alla brigata,--che le guadagniamo senza risico, a mo' di passatempo,
in mezz'ora di mascherata.

--Sta bene, sta bene;--ripigliò l'Architetto.--Ma quando la si vede,
questa lasagna bianca?

--Nell'atto di consegnare la cassettina; non sei contento?

--Ah, meno male, questo si chiama ragionare. E adesso facciamo un
pochino di divisione. Tu, come capo....

--Mi contenterò di cinquecento lire;--disse il Guercio. L'esorbitanza
delle sue pretensioni gli fece buon servizio, perchè gli altri diedero
tutti nella pania.

--Ah, Guercio!--gridarono in coro.--Tu non sei ragionevole!

--Orbene, quattrocento, e crepi l'avarizia! Io sono un buon diavolo, e
voglio farvi vedere che non tengo al danaro.

--No, no!--ripigliarono parecchi.--È troppo.

--Sta bene,--soggiunse il Bellavista,--che tu sia il manipolatore del
negozio; ma quattrocento lire....

--No, no;--incalzarono gli altri,--tu vuoi troppo per la tua porzione.
Perchè non dire recisamente: voglio tenermi la somma intiera?

--Ma io....--si provò a dire candidamente il Guercio. Non sono il
capo, io?

--Zitto, là!--gridò l'Architetto, dando sulla voce a lui e agli altri
che volevano rimbeccarlo.--Lasciate che io pure metta fuori la mia. Se
parlate tutti in una volta non riusciremo mai ad intenderci.

--Sì, parla tu! parli l'Architetto!

--Benone!--ripigliò questi, contento del trionfo ottenuto. Ditemi ora,
non par giusto a voi che il Guercio, come capo e come manipolatore del
negozio, abbia qualcosa di più?

--Certamente!--entrò a dire il Bellavista.--E mi pare che
centocinquanta lire....

--No; facciamo la somma rotonda; mettiamo dugento.

--E vada anche per dugento!--disse il Guercio, coll'aria di un uomo
che fa un grande sacrifizio.--Io non voglio romper l'amicizia per
questa miseria. Dugento lire a me, e centocinquanta al maresciallo!

--Che maresciallo? chi è questo maresciallo?--chiesero i compagni
stupefatti.

--Oh bella! non capite che un drappello di carabinieri ha da averci il
suo comandante? O come andremmo noi a fare una perquisizione, senza
maresciallo?

--Ha ragione, perdiana!--dissero gli altri, guardandosi in faccia.

--Ha ragione, sicuro!--aggiunse il Bellavista.--Ma chi sarà il
maresciallo?

--Non io certamente, col mio occhio traditore; nè tu Bellavista, che
sei mingherlino come una lucertola.

--Mettiamo dunque l'Architetto!--gridò uno della brigata.--Mettiamolo
lui, che sembra il figliuolo della Madonna del Gazzo.

--Sì, sì, l'Architetto!--risposero tutti, ridendo a crepapelle.

--Sarò io, chetatevi, sarò io!--disse gravemente l'eletto.

--Ma badate! il maresciallo vuol doppia razione. Datemi dunque dugento
lire; se no, cedo l'onore ad altri. Io sono stanco di gloria, e se non
viene la paga doppia, mi contento del grado di semplice carabiniere.

--Il diavolo si porti l'Architetto! Vuol quello che vuole.

--Ma.... io non vi cerco! Siete voi altri che volete innalzarmi, non
io. Mi volete grande e grosso? Pagatemi. Non vi par che io ragioni a
modo?

--Come un libro stracciato;--soggiunse il Bellavista.

--Abbiti dunque le dugento lire; seicento che rimangono salve dalle
vostre unghie, le spartiremo tra noi quattro.

--E lagnati ancora, manigoldo! Vi buscate centocinquanta lire a testa,
e non siete contenti? Che cosa vorreste ancora? Se io le avessi ogni
giorno, e lavorando un'ora sola, mi parrebbe d'esser più ricco dei
Parodi, e vorrei che passando da' Banchi tutti mi facessero largo e si
cavassero il cappello, come quando passa qualche ladro dei grossi....

--Hai ragione! hai ragione! finiscila dunque!--interruppero i
colleghi.

--E adesso che ci siamo intesi,--soggiunse il Bellavista,--beviamone
un bicchiere alla salute del maresciallo.--

La proposta fu accolta all'unanimità. Uno della brigata diè di piglio
alla damigiana che stava lì presso, e versò il vino nei bicchieri, che
corsero in giro parecchie volte, tra gli evviva più sperticati e più
strani al collega Architetto.

Il Guercio se la rideva sotto i baffi, perchè, non mettendo in conto
l'orologio e la catenella del suo tenore col tremolo, quella sera
guadagnava milleduecento lire senza molta fatica.

L'Architetto, dal canto suo, se si faceva pagare per due, sapeva bere
all'occorrenza per quattro. E così fece quella sera; se pure non è più
giusto il dire che bevve per sei. Tanto per quella sera il lavoro era
interrotto, e non si doveva ripigliare se non la mattina, allorquando
il frastuono della via soprastante avrebbe soffocato il rumore
monotono e traditore dei loro picconi. E il nostro Architetto, reso
eloquente dal vino, raccontò candidamente ai colleghi che il sogno
della sua vita era stato mai sempre di essere carabiniere, anzi
carabiniere a cavallo. E d'essere carabiniere e di trottare in
__corrispondenza__ da una stazione all'altra, sognò veramente un'ora
dopo, quando il vino, facendo il suo effetto, lo ebbe dato per morto
in braccio a Morfeo.

Forse in quell'ora medesima, un vero carabiniere, disteso nel suo
letticciuolo, sognava di aver vinto una quaderna al lotto, e di non
portar più il pennacchio rosso e cilestro.

Ahimè! Nessuno è contento del suo stato, in questa valle di lagrime!



XXXV.

Come un gladiatore moderno si disponesse all'ultima pugna.


Memori sempre di tutti i personaggi della nostra storia, non abbiamo
dimenticato Lorenzo Salvani, il povero giovine che abbiamo lasciato in
via Nuova, sotto le finestre dei Torre Vivaldi, a guardare un'ultima
volta Matilde che saliva alla festa, leggiera e felice come persona
che si sia liberata di un grave peso, ed abbia fatto un'opera buona.
Fu l'ultimo sguardo che egli volse a costei, ma non ardiremmo dire che
fosse l'ultimo pensiero.

Chi penetra negli ultimi recessi di un cuore trafitto? Chi sa dire
quante volte, anche inconsciamente, un'anima aspreggiata dalle
ineffabili angosce di un morto affetto, accolga nel suo segreto una
perfida immagine, e la vagheggi e la maledica, e frema a quella
vicinanza come la carne al contatto di un ferro rovente, innanzi di
affogarla nel suo immenso disprezzo e di poterla contemplare
impunemente e sorridere?

Il forte animo di Lorenzo s'era chiuso in quella medesima notte; ma la
tempesta ruggiva dentro, nè potremmo dirvi quando e per che modo si
chetasse. Forse le avvenne di consumarsi da sè; forse ardeva tuttavia,
ma il cuore, divenuto insensibile per soverchio di pena, non tradiva
il suo signore nei moti del volto o negli atti. Laonde, mutato
apparve, non turbato, alla gente; e se lo spirito afflitto maturava un
feroce proposito, niente lasciava trasparire agli occhi del volgo
profano.

Ferito da una donna amata in ogni cosa più cara, nella sua adorazione
per lei, nel suo divino inganno di poeta, nella sua dignità d'uomo,
egli, dopo quel giorno, non la cercò, nè la fuggì; non la vide. Gli
era ella passata daccanto per via? Non lo sapeva neppure. Ella era e
non era per lui. Questo non significava ancora il disprezzo, ma più
non significava l'amore; sibbene, e assiduamente, l'angoscia, il
disdegno, lo scontento di sè.

Aveva la morte nel cuore, e lo stato suo era tanto più grave in quanto
che egli non aveva potuto ottener sollievo da un'ora di vendetta. Quel
conte palatino, ma così poco paladino, dell'Alerami, egli non aveva
potuto trovarselo a faccia a faccia sul terreno. Ciò ch'egli aveva
detto nel suo ultimo colloquio con Matilde, intorno a quel vile
spavaldo, era pure avvenuto.

I lettori rammentano che innanzi di uscire dalla casa della Cisneri,
Lorenzo aveva detto all'avventuriero, conchiudendo il suo sarcastico
discorso sul giuoco: «Ella è dunque avvertita; io soglio giuocar
grosse poste, e quando le piaccia, sarò sempre a' suoi riveriti
comandi». Alle quali parole avea risposto l'Alerami, facendosi bianco
in viso come un cencio lavato: «Eh! chi sa che non me ne venga la
voglia?» E Lorenzo aveva soggiunto: «S'accomodi!».

Ora questa voglia non era venuta al conte palatino, che s'era
accomodato assai meglio non rispondendo all'invito. Non già che ne'
suoi colloqui colla contessa egli non avesse simulato di voler tenere
la giostra; che anzi aveva strepitato, e di molto. Ma egli aveva fatto
come que' tali rodomonti da quadrivio, i quali sogliono finire i loro
alterchi colla frase proverbiale, «tenetemi, se no l'ammazzo!». E la
contessa, sgomentita, lo aveva tenuto; ed egli s'era chetato, per non
mettere (diceva lui) a repentaglio l'onore di una dama, in una contesa
con tal uomo (soggiungeva lei) che non ne francava la spesa, che non
era della civil compagnia e che non c'era nè gusto ne gloria a
sforacchiargli la pelle.

Così erano sbollite le ire d'Achille; così l'Alerami ebbe al cospetto
della bionda contessa un pregio di più. Ma così va il mondo; si passa
a buon mercato per valorosi e per gentiluomini. E il vero gentiluomo,
il valoroso, passava, agli occhi di certo volgo eccellentissimo, per
un dappoco, per uno screanzato, che non francava la spesa d'un colpo
di pistola, o di spada.

Ma così non la pensavano tutti; chè per buona sorte il volgo
eccellentissimo, se spesso promulga, non sempre fa accettar le sue
leggi. Ventiquattr'ore dopo quel suo battibecco in casa Cisneri, il
nostro Lorenzo, maravigliato di non avere anche veduto i padrini
dell'Alerami, era andato su tutte le furie, e s'era aperto
coll'Assereto e col Montalto, perchè volessero andargli a chiedere se
egli, conte palatino, avesse gl'insulti per celie. Ma Giorgio Assereto
avea crollato le spalle, chiedendogli se egli, Lorenzo Salvani, avesse
dato il cervello a pigione; e Aloise di Montalto, fior di gentiluomo
se altri fu mai, gli aveva soggiunto:

--Se quel conte apocrifo mandasse una disfida a voi, ed io avessi la
fortuna di essere vostro padrino, comincerei da non averlo per degno
avversario, e sfiderei per conto mio quei due gentiluomini che
avessero ardito presentarsi come suoi mandatarii.--

E un'altra volta, a giugno inoltrato, nella affettuosa dimestichezza
d'un fraterno colloquio, gli aveva parlato in tal guisa:

--Lorenzo, voi sapete come io vi apprezzi e vi ami. Non so d'uomini i
quali possano starvi a paragone, e certo non ce ne sono, ai quali
volessi chiedere consiglio od aiuto, siccome a voi. Questa confessione
mi darà, spero, il diritto di dirvi una schietta parola, come la direi
ad un fratello, come saprei dirla a me stesso.

--Oh parlate, Aloise!--aveva risposto Lorenzo.--Vi ascolto come si
ascolta un fratello, come si ascolterebbe la voce della propria
coscienza.

--Orbene, Lorenzo, io avevo saputo del vostro amore fin da' primi
giorni ch'esso era nato, e fin da que' giorni mi dolse che foste
caduto ne' lacci di una donna guasta dalle consuetudini d'una vita
frivola e vana. Amavate, credevate, ed io tacqui. Che cosa avrebbe
potuto allora la voce di un amico, e, quel che è peggio, di un amico
recente? Ora voi stesso vi siete ricreduto; quella donna non amava
voi, in quella medesima guisa che non ha amato e non amerà mai
nessuno, salvo il piacere. Se costei non fosse ricca e gentildonna,
qual nome e quale stato le si converrebbe? Ditelo voi. Or dunque,
perchè vi accorate? Rimpiangete forse ch'ella medesima, generosa senza
saperlo, vi abbia aperto gli occhi alla luce del vero?

--No, Aloise, v'ingannate; io non rimpiango l'amore di quella donna.
Soffro.... ecco tutto! Soffro di esser caduto così stoltamente in
errore, di aver commesso altrui così ciecamente il mio cuore. Torno
ora in balìa di me stesso; ma basta egli forse? Voi non sapete quanti
bei sogni si proseguono, amando; che castelli in aria si edificano;
che dolci consuetudini si vagheggiano, e come l'animo confidente,
quasi ringiovanito, si schiude agli aliti della nuova vita, e come
paion nulla le molestie, le difficoltà d'ogni maniera, e come nasce,
come si rinvigorisce il desiderio di adoperarsi in questa battaglia
dell'esistenza. L'amore è un liquor generoso che ridesta e centuplica
tutte le virtù dormenti o prostrate dell'uomo. E un bel dì, tutto
crolla, tutto svanisce! Ma voi, rimanete, pur troppo, voi rimanete,
logoro, impossente, disperato, in presenza del nulla. Credetemi,
Aloise; da gran tempo infelice, ho imparato a leggere nel mio cuore.
Non è l'amore di quella donna che io rimpiango ora; è il mio povero
edifizio crollato, la mia speranza morta, la mia vita disutile.--

A render più doloroso lo stato di Lorenzo si aggiungeva che tutto era
buio d'intorno a lui, che ogni via era chiusa alla sua operosità, che
il turpe bisogno batteva alla porta. I lettori rammentano com'egli
ponesse la sua ultima speranza nel dramma «__Una corona di spine__»
scritto, stiamo per dire, col suo sangue, e come il Bonaldi gli avesse
promesso, se gli andava a' versi, di pagarlo. Ecco ora la lettera che
il Bonaldi gli scriveva da Brescia, venti giorni dopo l'invio del
manoscritto:

    «_Egregio signore_,

«Il dramma di V. S. m'è piaciuto assaissimo, laonde non ho a dirle se
mi paia meritevole d'un pubblico sperimento. Soltanto mi duole di
dover soggiungere che non potrei rimeritarla della sua letteraria
fatica in contanti. La condizione del capocomico è dura oltremodo in
Italia. Ogni cosa m'è andata a rifascio nei teatri di Roma e di
Trieste; causa la malattia della prima donna, che come non sarà ignoto
a V. S. ha dovuto smettere per qualche tempo, ed io sono stato
costretto a presentare in sua vece una prima amorosa, buonina sì, ma
al suo posto, non già nelle parti di forza.

«Ma lasciando da banda tutti questi particolari, che io le ho
accennati soltanto per chiarirle lo stato delle cose mie. Ella è, mio
egregio signore, tuttavia sconosciuto nell'arringo drammatico, non
appartenente ad alcuna consorteria letteraria. Questo è suo merito, lo
so; ma l'universale non ragiona sempre colla testa, e quantunque a
volte si ribelli contro certe chiesuole (vera dannazione di noi poveri
artisti!), non si affolla, poi, in teatro, se non ci ha l'esca dei
nomi conosciuti. Oltre che, sebbene il dramma di V. S. ci abbia di
molti pregi, e quello anzitutto dello stile che io non mi periterò di
chiamare classico addirittura, Ella converrà meco che possa piacere e
dispiacere. L'argomento è delicatissimo e del novero di quelli che
vanno trattati, come suol dirsi, coi guanti.

«Comunque sia, se Ella si sente di affrontare il giudizio del
pubblico, ai magri patti che io posso per ora proporle, tenteremo la
prova, e mi è grato sperare che riesca favorevole al suo stupendo
lavoro, e mi dia agio ad offrirle, per un nuovo dramma, qualcosa di
meglio del decimo dell'entrata, detratte le spese serali. Aspetto
dunque una sua riverita lettera, la quale mi dica si o no, e
dolentissimo di non potere più efficacemente dimostrarle quanto
apprezzo il suo nobile ingegno, me le profferisco devotissimo

                                «RAFFAELLO BONALDI»

Questa lettera era caduta come un fulmine in casa Salvani, a turbare
l'ultimo sogno di Lorenzo, a distruggere l'ultima speranza che egli
vagheggiasse in cuor suo, di tornare in qualche modo di sollievo alla
sua povera sorella adottiva.--«Piove sul bagnato!»--aveva sentenziato
con spartana breviloquenza Michele, allorquando il suo padrone,
sorridendo amaramente, gli aveva annunziato il colpo di misericordia
vibratogli dall'avversa fortuna.

Un ultimo lampo d'orgoglio guizzò nell'animo di Lorenzo Salvani.
Scrisse al capo comico ringraziandolo di aver letto il suo dramma, che
non era poca cortesia; distribuisse pure le parti e lo facesse
recitare; non si desse pensiero di pagamento, nè di decimo netto, o
lordo, nè d'altro, perchè a lui queste inezie non importavano punto. E
scritta quella lettera, volle mandarla affrancata. «È l'ultima spina
della mia __Corona__;--disse a Maria,--non ci pensiamo più!»

E non ci pensò più, davvero. __La Corona di spine__, entrando nel
repertorio del Bonaldi, usciva per sempre dall'animo dell'autore.
L'ultima tavola di salvezza.... diciamo male, il suo gorgo vorace,
__l'onorevole uscita__ (come egli stesso usava chiamarla) gli si
apriva tuttavia dinanzi allo sguardo. Nemico del suicidio immediato,
violento, che un uomo si procaccia colle sue mani in un momento di
delirio, egli ne vedeva, ne vagheggiava un altro, che gli appariva
certo del pari, ma che non avrebbe offerto ad alcuno argomento di
biasimo e di scherno. Era questo il tentativo di rivoluzione che si
maturava in Genova; tentativo che egli non aveva caldeggiato mai, ma
al quale aveva promesso l'opera sua, in rispondenza alla sua fede
politica, e che ora egli affrettava coi voti, come quello che gli
avrebbe dato il modo di farla finita, presto e bene, col tedio
dell'esistenza. Egli insomma s'industriava a disfarsi, a buttarsi via,
come tanti altri a campare, a procacciarsi uno stato.

Così pensava Lorenzo, e sotto questo aspetto considerava i prossimi
eventi. Egli non s'era mai pasciuta la mente di vane speranze, e
reputava certissima la sconfitta. Era stato soldato, e ben sapeva
quante cose ci vogliono a fare un soldato; era italiano, e non
ignorava come difetti nelle moltitudini italiane la tenace concordia
dei propositi, l'obbedienza al comando di un solo; era avvezzo alla
vita pubblica, e gli erano note le difficoltà d'ogni maniera che
avrebbero, anco nel caso più felice d'una vittoria parziale, mandato a
male un rivolgimento, il cui trionfo dipendeva dalla simultaneità
dello scoppio in parecchie regioni della penisola. Questo ed altro
sapeva; nè, sulle prime, lo aveva taciuto. Ma altri consigli avevano
vinto; il concetto era generoso, e Lorenzo Salvani, pronto alle opere
com'era dubitoso ai consigli, aveva chiesto per sè una delle parti più
rilevanti. Morremo, pensava egli, morremo; che importa? __Exoriare
aliquis nostris ex ossibus ultor__....

E la mattina del 29 giugno era giunta. L'ora del gran tentativo, che
già doveva essere per una parte iniziato in alto mare a bordo del
__Cagliari__, sarebbe suonata in quella sera per Genova. Saldo nel suo
proposito, Lorenzo Salvani guardava con occhio sereno l'imminente
pericolo. Sotto le spoglie del suicida si era ridestato il veterano di
Roma.

Che facesse egli quella mattina, può argomentarlo chiunque è stato al
punto di doversi appigliare ad un grave partito che egli facesse
sentire la necessità di non lasciare dietro di sè, morto, o lontano,
nessuno di quei nonnulla, i quali dessero appiglio alla indiscreta
curiosità o allo scherno della gente, non tanto a suo danno, quanto
d'altrui. Chiuso nella sua camera, il giovine Lorenzo metteva sesto
nelle sue carte, quali ordinatamente riponendo, quali stracciando,
quali altre bruciando a dirittura.

Ce n'erano d'ogni forma e ragione; lettere di minor conto che bastava
fare in quattro pezzi e buttar nel cestino; scritture fuggevoli,
noterelle, capricci letterarii, abbozzi, versi non finiti, pensieri
scombiccherati sulla carta, in attesa di tempo migliore; cose tutte
dalle quali un uomo, che abbia avuto addosso la febbre dello scrivere,
mal volentieri si separa, perchè ognuno di quei fogli rammenta un bel
giorno, un pensiero felice, una speranza, una illusione, e la mente,
guidata dal tenue filo nel laberinto degli anni trascorsi, corre tra
desiosa e malinconica indietro, ripensando mille casi abbelliti dalla
lontananza, per fermarsi poscia in questa considerazione tristissima:
ohimè, tutto passa, tutto muore, in questo povero mondo!

E chi non ricorda poi quell'altra ricchezza del cassetto più geloso
della scrivania, fatto custode delle lettere e dei piccoli doni
d'amore? Perchè ognuno di noi ci ha pure avuto i suoi romanzetti
giovanili; tal volta non finiti per difetto di occasioni, di audacia
nostra o di buona volontà della gentil collaboratrice; tal altra male
conchiusi dalla ferrea rigidezza degli eventi, o interrotti o guastati
dai capricciosi trapassi della volubile giovinezza; tutti vani,
transitorii come i nembi di maggio, e per dirla umoristicamente, falsi
allarmi di un cuore che non ha sostenuto ancora la vera sconfitta che
lo riduca in servitù duratura.

Di simili romanzetti facevano fede quelle lettere, così gelosamente
custodite, legate in principio da un nastro verde, azzurro o rosato,
il cui nodo era soventi volte disfatto per leggere e rileggere que'
dolci messaggi e veder di cogliere nuovi punti e nuove virgole che
dicessero: t'amo! E la preziosa mèsse era riposta in un elegante
scatolino, nel quale andavano a riposarle in compagnia i fiorellini
furtivamente dati da lei in un giro di mazurca, i guanti felicissimi
che l'avevano toccata, le foglie secche della robinia sotto la quale
essa era stata un giorno seduta; un tesoro, a farvela breve, un tesoro
che non avreste barattato con tutte le ricchezze dei Rotschild. Questo
va inteso per que' tempi; che, veramente, più tardi la divozione
andava scemando per gradi; più raramente il nodo era disfatto; più
raramente aperto lo scatolino elegante; poi dimenticato del tutto in
un angolo del conscio cassetto, dove talvolta rovistando per altre
ragioni, appariva improvviso ai vostri occhi; e allora vi facesse
sospirare, o sorridere, vi tornava giovani un tratto, e.... e.... che
serve tacerlo? non ardivate darlo alle fiamme.

Il caso di Lorenzo era diverso, come abbiam detto più sopra. Egli
aveva a distruggere inesorabilmente ogni ricordo del passato, che
potesse lasciare i superstiti, e quel ch'era peggio, i messeri del
Fisco, in balìa di segreti, non tutti, nè interamente suoi. Forse egli
aveva già di soverchio aspettato, e se ci era biasimo a dargli,
risguardava appunto l'indugio ch'egli aveva posto alla esecuzione del
suo __auto da fè__.

Già, le carte più rilevanti erano state arse nella notte alla
fiammella del candeliere. Altre andavano a mano a mano seguendo la
sorte delle prime. Ma la più parte erano fatte a minuzzoli, per tema
che l'odore di bruciaticcio, invadendo la camera, non avesse a dar
sospetto in casa.

Ed ormai non restava più altro d'intatto fuorchè la cassettina
d'ebano, già più volte accennata nel corso del nostro racconto.
Lorenzo Salvani, dando sesto a tutte le cose sue, ben sapeva di
doverci giungere, a quella __incognita__ del suo cassettone; epperò
quasi senza formarne il disegno in mente, aveva lasciato ultimo tra le
sue cure il pauroso problema.



XXXVI.

Nel quale una cassettina d'ebano dischiude alla perfine i suoi
ventenni segreti.


--Eppure.... bisognerà aprirla!--diss'egli tra sè, in quella che, a
riposarsi dalla sua lunga fatica, si lasciava cadere su d'una
scranna,--Maria rimarrà sola, domani. La poverina ha imparato a cavare
il vivere dalla stentata opera delle sue mani, e il buon Michele non
verrà meno alla usata fedeltà. Io, poi, non le tornavo più utile in
alcun modo; e forse morto le gioverò più che vivo. L'Assereto potrà
farle avere una piccola somma dalla vendita de' miei libri, e dove
ella voglia ristringersi in un più modesto quartiere, egli potrà anche
farle vendere una parte delle masserizie. Tutto ciò, aggiunto a' suoi
guadagni, le assicurerà un anno di vita non al tutto disagiata. Ma chi
la custodirà. Dio santo? chi le terrà luogo di fratello, di madre?
L'Assereto è un cuor d'oro, e veglierà certo a' suoi bisogni; ma altro
non potrebbe fare per lei, senza dar esca ai sospetti, alle ciarle
assassine del volgo umano. Povera Maria! povera sorella!... Ma via! io
non posso abbandonarla, prima di aver letto là dentro. Chi sa? forse
in quelle carte è il suo destino, e certamente, dopo aver conosciuto
ogni cosa, potrò lasciarle un consiglio che la indirizzi su questa
terra, dove si troverà tutta sola. Che ha detto mio padre? Le sue
restrizioni intorno a quel segreto domestico, non erano forse derivate
dalla tema di recare un pericoloso turbamento nella pace di qualche
famiglia? E la turbo io, leggendo? E posso io non leggere, al punto in
cui sono, di dover lasciare un addentellato tra la volontà di lui e la
sorte di questa povera fanciulla?--

Lorenzo stette forse una mezz'ora in queste considerazioni, le quali
finalmente ebbero forza di farlo andare verso il cassettone, a cavar
fuori dal suo ripostiglio la cassettina d'ebano.

Era una graziosa cassettina, sulla foggia di que' cofanetti tanto in
uso nei secoli scorsi presso le dame, che solevano riporvi i loro
preziosi gingilli ed ogni nonnulla che loro piacesse di avere più
agevolmente alla mano. Il coperchio, rilevato come un tetto a quattro
acque, portava al sommo una maniglia di bronzo dorato, e tutt'intorno
bei fregi d'intarsiatura, ai quali ne rispondevano altri sui quattro
lati della cassa.

Lorenzo, poi ch'ebbe cavato fuori il cofanetto e messolo in mostra
sulla scrivania, andò a cercare in un altro ripostiglio la chiave. Il
cuore gli tremò, quando egli ne pose l'ingegno nella toppa; la vista
gli si offuscò, quando, levati due giri di serratura, una molla
interna fece scattare il coperchio. Egli aveva dinanzi il segreto dei
natali di Maria; due vite, a lui sconosciute, spente già forse, si
affacciavano da quel vano, mettendo in balìa dell'estraneo gli arcani
ventenni di un amor sciagurato.

Sciolto il nodo che legava un primo involtino di carte a sinistra,
Lorenzo incominciò a leggere. E qui, un foglietto dopo l'altro, senza
alcuna sosta, passarono molte lettere sotto gli occhi di lui.

Due ore di tempo non furono troppe a quella fatica. Noi non ne faremo
perder tanto ai nostri benevoli, e daremo appena un compendio di ciò
ch'egli lesse.

Era quello un carteggio abbastanza continuato dal 1833 al 1835: quindi
ripigliava dal 1839 al 1843, dove cessava affatto. La scrittura, fine
e allungata, indicava alla bella prima la mano di una donna. E non
mancava il nome della scrittrice, in molte lettere espresso nella
forma di Lilla, in altre, specie delle più recenti, allungato in
Camilla, essendo sempre una la mano di scritto, e quasi tutte quelle
lettere, poi, recando sulla soprascritta il nome di Paris Montalto.

Paris Montalto! Era costui della famiglia d'Aloise? Sì certo;
raccogliendo i suoi pensieri, Lorenzo si ricordava che questo nome era
stato proferito una volta da Aloise, come quello d'un suo zio paterno.
L'amico, volendo chiarire a Lorenzo che nella sua aristocratica
famiglia l'amore della patria non era merce sconosciuta, gli aveva
accennato di Paris Montalto, fratello di suo padre, emigrato la prima
volta nel 1833, e morto, durante un nuovo esilio, nel 1846, in
Ispagna.

Ma Lilla? chi era Lilla?

Il carteggio, come abbiam detto, incominciava dal 1833: ma le prime
lettere lasciavano argomentare un affetto di due anni innanzi, affetto
tenuto a disagio dalle troppo rare occasioni di vicinanza che erano
offerte ai due innamorati dalle veglie e dalle feste da ballo del
patriziato genovese. Paris non andava in casa di lei, e non ardiva
chiederne la mano, poichè non era tanto ricco da sperare che i parenti
della fanciulla gliela avrebbero concessa. E l'amava frattanto, e si
struggeva dalla rabbia e dalla gelosia. In quelle sue lettere,
schiette espansioni di un cuor giovanile. Lilla si doleva della
congiura che le avevano ordita dintorno i parenti e i congiunti tutti,
per farla sposa ad un altro; ma giurava a Paris che, innanzi di
consentire alle nozze, si sarebbe chiusa in un monastero. Il
pretendente era stato introdotto in casa! ma Lilla non lo poteva in
nessun modo patire; nè di lui nè d'altri al mondo avesse ad ingelosire
il suo Paris, nemmeno di quello Spagnuolo che gli spiaceva tanto per
le sue leziosaggini intorno a lei, e che a lei pure tornava molesto,
più molesto dell'altro, del pretendente, se pure fosse stato
possibile.

Queste prime lettere non avevano bollo postale, e in una di essa era
accennato come giungessero tra le mani di Paris. La notte egli andava
ad appostarsi in una viottola, dietro al palazzo dov'ella dimorava; un
filo pietoso scendeva colla lettera di Lilla, e per quel filo un'altra
lettera di Paris saliva fino alle mani di lei. Ingegnosi trovati
dell'amore! Ma un giorno Paris aveva dovuto fuggire. Le lettere dalla
fine del 1833 al cominciamento del 1835 erano scarse, e recavano sulla
soprascritta, insieme con un finto nome, il bollo delle regie poste.
Il Montalto, giovinotto bollente, s'era legato d'amicizia con taluni
più in voce di volere e di promuovere novità; si erano rifischiate
parole sue, che lo accusavano audace cospiratore ai danni dello Stato;
laonde, pel suo meglio, aveva dovuto uscire da Genova e rifugiarsi a
Parigi. Le prime lettere di questo secondo periodo erano un
rammarichio continuo; Lilla non poteva sopportare l'amarezza di quella
lontananza, ma i pericoli d'un ritorno di Paris la spaventavano; ella
era infelice, dannata all'avversa fortuna, ma almeno lo sapeva in
salvo e ne rendeva grazie al cielo. Talvolta si doleva di lui, che
aveva sacrificato l'amor d'una donna all'amore di patria; tal altra
andava superba dell'amore di un uomo tanto dissimile da tutti que'
neghittosi e codardi che si vedeva dattorno; ora si dava in balìa
della disperazione, ora si beava ne' sogni di una felicità senza pari.
Sublimi contraddizioni dell'affetto, chi non vi ha sentite una volta
in cuor suo?

Ma le lettere della giovinetta andavano a mano a mano facendosi più
rare; tutto il giorno, e perfino la notte, ella era vigilata dalla
sospettosa cura de' suoi, che non sapevano intendere la cagione de'
suoi ostinati rifiuti; una lettera incominciata era caduta nelle mani
di sua madre; la cameriera, che portava di soppiatto le sue lettere
alla posta, era stata congedata sui due piedi; finalmente, mancando
gli spedienti, fors'anco soppravvenendo la stanchezza, Lilla non aveva
più scritto. Un ultimo suo biglietto, vergato nel gennaio del 1835,
lasciava trapelare com'ella dovesse inchinarsi alla ferrea volontà dei
parenti. L'ultima frase diceva: «Paris, per pietà, dimenticatemi! Dio
era contro di noi!»

Accanto a queste lettere di Lilla ce n'era un'altra, ma non scritta da
lei. Era un amicissimo di Paris Montalto, che gli dava ragguaglio del
matrimonio della sua «antica fiamma», ragionandone con quella libertà
di modi che si deriva dal non entrar punto nella faccenda di cui si
tratta, dal non averne, come suol dirsi, nè caldo nè freddo.

«__Te Deum laudamus__!--scriveva l'amico.--Finalmente la Lilla s'è
smossa dal no, e s'è degnata di far felice il cugino. Vuol essere un
bel matrimonio! Lei giovine, bella e punto contenta; egli in
visibilio, ma logoro e scemo. Già i Priamar, da tre o quattro
generazioni, sono tutti così. Per me, credo che egli, se non fosse uno
scemo, non si sarebbe tanto incocciato ad averla. E nota che, per
giungere a questo sì, ha dovuto passare sotto le forche caudine; far
casa nuova, pigliar palchetto al Carlo Felice, in seconda fila,
vicinissimo alla Corona; fare insomma tali novità, che in casa Priamar
non si sono vedute mai. Non ti dirò le chiacchiere che se ne fanno
dappertutto; tanto gli è stato un caso impensato, strano, inaudito, un
vero fulmine a ciel sereno. E lo Spagnuolo, poverino, che le faceva
una corte spietata, ha dovuto appender la voglia all'arpione. La
vigilia del matrimonio, egli è scomparso da Genova. Dicono che sia
tornato a Madrid, col proposito di farsi frate. Buon pro' gli faccia.
Io non sarei così pazzo. Le donne sono graziosi animaletti, da
pigliarne sollazzo un giorno o due: ma guastarcisi il sangue
attorno.... il cielo ne scampi ogni fedel cristiano!»

A questa lettera succedeva una lacuna di quattro anni, che Lorenzo non
poteva colmare, digiuno com'era della cronaca genovese di que' tempi.
Aloise, soltanto, colle sue memorie di casa alla mano, avrebbe potuto
dirgli che un anno di poi il giovine Montalto aveva ottenuto, mercè le
poderose attinenze del fratello a Torino, di tornare senza pericolo
nei felicissimi Stati del re di Sardegna, e che nell'autunno del 1836
era in Genova, stanco, malinconico, infastidito, rifuggente da ogni
compagnia, sebbene da molti desiderato, segnatamente dalle donne, alle
quali era argomento di curiosità non poca.

Apriamo, noi che lo possiamo ad ogni ora, le opere di Sant'Agostino
alla lettera P, nel dodicesimo volume, e troveremo il nome della
marchesa Lilla di Priamar che vi era citata come una delle più
ragguardevoli dame del suo tempo. Bella, arguta, assai corteggiata,
questo dicono le note della società del Parafulmine: le quali tuttavia
non possono trovar niente a ridire intorno ai fatti suoi, e ne dànno
cagione alla freddezza del suo carattere. Abbondano in quella vece le
considerazioni intorno al rammarico della famiglia, perchè la casa
Priamar non è rallegrata di prole, e lo scemo, logoro e podagroso
marchese vi è pettinato a dovere. Ma ecco, segue alcun che di più
ghiotto. Paris di Montalto, il politicante, l'esule rimpatriato, il
giovanotto più grave di Genova, del quale si notano le apparizioni in
teatro, o nei geniali ritrovi, come uno stranissimo evento, Paris di
Montalto è andato in casa Priamar, e sembra che guardi la marchesa con
occhi più desiosi che non faccia colle altre. La cosa è tanto più
credibile, in quanto che parecchi anni prima, la marchesa nubile
ancora, gli andava a genio maledettamente, Ma ohimè, il romanzetto non
andava più oltre; la Lilla era severa, asciutta con lui più ancora che
cogli altri, e ricusava l'omaggio che tante altre, più cortesi di lei,
si sarebbero recate ad onore grandissimo. Già, non era da farne le
meraviglie; la Priamar era fredda come un marmo, anzi come uno
scoglio. E qui veniva un bisticcio genovese sulla pietra e sul mare,
che accennava alla etimologia del casato di Priamar.

In questo giudizio della compagnia del Parafulmine non c'era nulla di
vero, salvo le apparenze che l'avevano tratta in inganno. Il
compilatore di quella notizia, che pure apparteneva al ceto nobilesco,
aveva pigliato un granchio a secco. Era giovine, e, comunque
volenteroso annotatore, non era anche fatto ad intendere certi arcani
del cuore. Ma le cose notate da lui, insieme con parecchie altre
avvenute di poi, avevano in quella vece ad insospettire un certo
Spagnuolo, a cui gli atti del Parafulmine dovevano cadere più tardi
tra mani. Il savio lettore ha già capito di chi intendiamo parlare.

Ma proseguiamo il racconto. Dalle carte dell'anonimo appariva che
Paris Montalto, dopo poche visite, non avesse più messo piede in
quella casa. La fama della marchesa di Priamar seguitava a correre
illibata, sotto l'usbergo di quella sua petrosa freddezza. Di casa sua
si continuava a scrivere, per tante altre ragioni secondarie; ma di
lei, particolarmente, non era più fatta menzione, fuorchè sullo
scorcio del 1838, per raccontare d'una sua malattia di languore, che
la costringeva ad un lungo viaggio. Questo era il Consiglio del
medico, che si riprometteva moltissimo da un mutamento di clima, e
proponeva una gita in Isvizzera.

Il marito, inchiodato a letto da' suoi continui malori, non aveva
potuto muoversi da Genova; però la marchesa Lilla aveva dovuto andar
sola in compagnia del medico. Ma su questo capitolo non c'era nulla a
dire; il cronista notava candidamente che il sacerdote d'Esculapio,
dottissimo, onestissimo e ben voluto da tutte le più spettabili
famiglie, aveva i suoi settanta suonati. L'assenza della marchesa durò
mesi parecchi, in capo ai quali tornò, ma non risanata. L'aria
dell'Oberland non le aveva giovato, come sperava; laonde, trovandosi a
disagio in città, era andata a chiedere la salute restìa all'aure di
un suo podere di là da Sestri Levante, dove rimase forse due anni, non
tanto per sè, quanto per una malattia del consorte, che, ancora in
verde età, era giù di salute, pieno di acciacchi, come un gaudente
sessagenario. Quando ella si ridusse da capo a vivere in Genova, era
mutata del tutto nelle sue consuetudini. In casa sua non più feste, nè
ritrovi di allegra gioventù, ma severe conversazioni, o piuttosto
conferenze, ordinariamente tenute in mercoledì, alle quali convenivano
tutta gente posata, magistrati sputasentenze, dame contegnose, nobili
parrucconi, e simiglianti. Per qual ragione ciò fosse avvenuto di una
donna che di poco avea varcata la trentina, come la marchesa Lilla,
non si giungeva ad intendere. L'annotatore del Parafulmine, leggero
oltremodo, ne dava cagione, secondo il solito, alla proverbiale
freddezza della signora di Priamar.

In tal guisa i teatri, le veglie eleganti, perdevano un prezioso
ornamento; per contro, i più riputati oratori di chiesa guadagnavano
una assidua ascoltatrice. Era sempre a gironzare per le chiese, la
marchesa Lilla; la sua testa era un taccuino ambulante delle
__quarant'ore__, delle __indulgenze plenarie__, de' __tridui__ e, a
farla breve, di tutte le solennità divote. Ciò che tutte le donne, le
quali hanno molto amato aspettano a fare quando abbiano cinquant'anni
almeno, la marchesa Lilla anticipava di venti. Perchè? L'annotatore
non sapeva dirlo; si rifaceva sempre al suo ritornello, che i lettori
conoscono.

Basta; per non dirne altro, al tempo in cui l'anonimo cronista
deponeva la penna, la marchesa Lilla di Priamar non era più annoverata
tra le signore di cui mettesse conto indagare la vita e celebrare i
miracoli. Ella era citata in quella vece come una dama di specchiata
pietà, come una patrona d'istituti di carità, dama di Misericordia,
visitatrice di infermi, di carcerati, e via discorrendo.

Più fortunati di Lorenzo Salvani, il quale non aveva altro sott'occhi
che il carteggio rinchiuso nella cassettina d'ebano, noi sappiamo
dagli atti della società del Parafulmine chi fosse la marchesa Lilla.
E poichè abbiamo colmata con queste notizie la lacuna dal 1835 al
1839, ripigliamo il compendio delle lettere che ella scriveva al
Montalto.

Si chiariva da queste lettere che Paris aveva lasciato Genova alcuni
mesi prima di lei. L'aria della terra natale non era abbastanza
respirabile per un uomo segnato, com'egli, sui libri del palazzo
Ducale. Troppo spesso egli era stato chiamato ad __audiendum verbum__
dall'eccellentissimo governatore, e soltanto i suoi titoli, le sue
attinenze, lo avevano fino allora scampato da molestie più gravi. Per
farla finita co' sospetti continui dell'autorità, Paris Montalto aveva
dovuto andarsene un'altra volta in esilio, e si aggiungeva che a ciò
fosse stato consigliato da persone, le quali avevano paglia in becco,
ed amavano fargli cansare qualche mese di villeggiatura a Fenestrelle,
o in altro orrevole castello di pertinenza dello Stato.

Questo non era vero del tutto, o solamente era una parte del vero;
poichè la partenza del Montalto, se forse fu affrettata da ragioni di
salvezza personale, era anche consigliata da un negozio più delicato.
Ma nessuno ebbe a trapelarlo in quei tempi: la ragion politica lo
coperse col suo manto pietoso. Il dispotico reggimento d'allora poteva
portare benissimo la malleveria di questo e d'altri più gravi peccati.

Comunque fosse, Paris Montalto era di là dai confini tre o quattro
mesi innanzi che la marchesa Lilla ne uscisse per ragion di salute; e
come nessuno aveva sospettato per lui, così nessuno ebbe a sospettare
per essa. E quando ella tornò, per andarsi a chiudere nel suo podere
di Sestri Levante, non ci fu alcuno che più pensasse agli amori
giovanili, nè ai rinnovati ardori di Paris Montalto; nè alcuno, per
conseguenza, che immaginasse come certe lettere, messe alla posta di
Sestri Levante, col ricapito di Enrico La Vega, a Barcellona, fossero
lettere di Lilla di Priamar al marchese di Paris Montalto.

Or da queste lettere s'intendeva come il viaggio di Sestri non fosse
che uno spediente adatto a colorire meglio, a rafforzar le ragioni del
viaggio fatto dianzi in Isvizzera. Durante il quale, Lilla e Paris si
erano' veduti; e lo accennava chiaramente il carteggio. In una di
queste lettere, così scriveva la povera solitaria:


«....Abbiamo errato, Paris, ed io ne sconto la pena. Iddio non mi
aveva concesso che io ritraessi dalle infauste mie nozze un frutto; ed
ecco, l'ho avuto dalla colpa, ma triste ed amaro, come tutti i frutti
della colpa. E non poterlo confessare! e dover contraddire alle mie
viscere di madre!... Oh amico, ditemi, ve ne prego, come sta Maria, la
mia bella Maria? Mi sento più raffidata, poichè essa è nelle vostre
mani, e voi l'amerete anche molto per la sua povera madre. Uomo
fatale, perchè vi ho io conosciuto?.... Ma voi l'amerete, non è egli
vero? Voi avete un nobilissimo cuore; quando l'ho confidata a voi, mi
è parso di non separarmi tutta quanta da lei.

«Paris, mio ottimo amico, io sono inferma davvero, quantunque non sia
da principio venuta a seppellirmi in quest'angolo di terra se non per
isviare la curiosità sospettosa della gente; inferma di membra come di
spirito. V'hanno giorni che non sento la forza di uscire dalla mia
camera; sto in casa quasi sempre; non vedo, nè amo vedere persona. Il
mondo m'è in uggia; la natura non ha colori, il cielo non ha luce per
me.

«Ditemi, Paris, ma siate sincero, ve ne supplico; è bella Maria? A chi
somiglia, il mio povero angioletto? Oh Dio! e pensare che io non potrò
abbracciarla; che ella non porterà il mio nome; che non la vedrò
cresciuta negli anni, fiorente di bellezza, passeggiare al mio fianco,
quasi un'altra me stessa!... Almeno ella sia più felice di sua madre!
Non conosca le angosce, gli spasimi, e soprattutto i rimorsi di un
amore come il mio! Se il cielo è giusto, ho fede che darà a lei quello
che ha negato alla povera Lilla.»


Un'altra lettera, scritta sullo scorcio del 1841, diceva:


«.... Gran conforto è la preghiera agli afflitti. Io non l'ho mai
sentito così profondamente come ora. Io prego, ottimo amico, io prego
per essa e per voi. In tal guisa mi sembra di poter pensare ad ambedue
senza peccato, ed anche (se il cielo vorrà consentirmelo) di espiare
il passato. Ditemi Paris, non vivete voi nell'errore? Non siete voi
sempre in aperta ribellione contro le leggi umane e divine?
Ravvedetevi; non date ascolto alla superbia della ragione, che è così
trista consigliera; fidatevi al cuor vostro, che io conosco
buonissimo. Se sapeste come è bello il credere; e come l'animo si
sente, se non per avventura più felice (chè la felicità non è di
questo mondo), certo più riposato e sereno! Porgete orecchio a chi ha
molto patito; il mondo è vanità; noi siamo poveri pellegrini sulla
terra; dalle nostre passioni, fumo della materia, non abbiamo altro
che rammarico e danno, laddove la nostra patria è in cielo, ed ogni
qualvolta i nostri occhi si affisano lassù, interrogando con potenza
di affetto gli spazii azzurri, i nostri pensieri medesimi si
purificano, e lo spirito turbato prova una calma che non si era mai
conosciuta, che non si era mai derivata dalle cure della vita
quotidiana.

«Desidero che Maria diventi una buona cristiana. Voi forse, ottimo
amico, non potrete darvene pensiero; ma vi sarà facile trovare una
buona maestra, donna di poca dottrina, ma di molta pietà, che val
meglio assai; una di quelle povere vedove derelitte, come ce ne son
tante al mondo, per la quale voi sarete, inconsapevolmente, la mano
della provvidenza, e il premio che questa avrà mandato a' suoi
patimenti. Fatelo, Paris; ve ne prego, ve ne supplico, per Maria, per
me, per quello ch'io sono stata un giorno ai vostri occhi....»


Come aveva potuto una donna, ornata ancora di tutte le conscie
lusinghe della bellezza e della gioventù, commossa ancora da tutti i
prepotenti ardori del sangue, trionfare cosiffattamente di sè
medesima, soffocare, annientare la sua volontà, consumarsi, e
diventare un'altra, tanto da poter scrivere sinceramente in quel modo
all'uomo amato, al padre di Maria? I patimenti l'avevano sopraffatta;
il cuore aveva ceduto agli spasimi dell'assidua tortura; Lilla non era
più Lilla.

Non senza contrasto, per altro. Qualche volta la materia si ribellava
alle mortificazioni dello spirito. Anche nella piaga più profondamente
visitata dal ferro e dal fuoco, rimane qualche cosa, che a volte
ripullula. Inoltrata negli anni, Lilla si sarebbe chetata del tutto:
giovine ancora, ella durava acerbi patimenti: e l'ardore male spento
dagli anni si faceva a sviare con irrequietezza febbrile, spandendolo,
consumandolo in sempre nuovi tentativi, larve di operosità più
affannosa che efficace.


«.... Mi sono rinchiusa in questa dimora campestre, e nelle sue umili
consuetudini, più facilmente che non sperassi da prima.»--Così ella
scriveva nel febbraio del 1842.--«Un tempo davo troppa parte di me
alle vanità del mondo, e furono quelle che mi hanno perduta. Ora
battono all'uscio, ma invano. Mi compiaccio di vestire dimesso, come
una povera monaca. A volte amerei di fare qualche passeggiata
all'aperto, e di respirar l'aria pura dei monti che torreggiano alle
spalle del nostro palazzo; ma di lassù si scorge troppo distesa
d'orizzonte, e lo spirito va in balìa di sogni pericolosi; laonde,
ammonita dalla esperienza di un giorno speso in tal modo, ogni qual
volta mi venga il desiderio di andare, mi costringo a non uscir
nemmeno in giardino.

«Faccio male a scrivervi queste cose, mio ottimo amico; forse è male
che di tanto in tanto io prenda in mano la penna. Perdonatemi:
accogliete questi scritti come un'umile confessione de' miei falli, ed
assolvetemi, come mi assolve il sant'uomo, ai piedi del quale io
depongo ogni settimana questi ultimi atti di debolezza femminile. Egli
è pietoso ed umile, questo curato, come un vero seguace di Cristo; non
ho avuto segreti per lui, ed egli versa sulle piaghe del mio cuore il
balsamo delle sue benedizioni. Ora egli mi aiuta in un'opera di gran
sollievo per me. I bambini di questo paesello, lasciati in balìa di sè
stessi dalle loro madri, non facevano altro che correre qua e là pei
campi o sulla riva del mare, scalzi, sudici, alla rinfusa, a giuocare
o ad accapigliarsi, come è costume della loro età. Noi li abbiamo
raccolti dalla strada; ripuliti e coperti da me, vanno ogni giorno in
chiesa, dove il curato insegna loro la dottrina cristiana, e chi più
impara riceve in premio da me qualche bella immagine, o qualche
libriccino di divozione, ed ha la speranza di venire a pranzo dalla
__signora__. Poveri bambini! care creature innocenti!...

«Mio marito è buono; conoscendolo meglio, ho incominciato ad amarlo
come una sorella, dirò anzi come una madre. E dire che un tempo io non
potevo stargli vicina!... che i suoi mali mi facevano dare in atti
d'impazienza!... Egli non esce quasi mai; i suoi dolori reumatici lo
hanno tenuto quasi tutto l'inverno nella sua camera. Io mi sono posta
intorno a lui come una suora di carità; ho vegliato intiere notti
questo bambino di cinquant'anni. Quand'egli è meno infastidito dal
male, mi dimostra con poche ma affettuose parole la sua gratitudine.
Egli! gratitudine a me!... Ma Iddio mi ha ricompensata oltre i miei
meriti, concedendomi di vederlo assai migliorato. Il ritorno della
bella stagione fa miracoli. Se si potesse star sempre qui! Ma pur
troppo bisognerà tornare in Genova, per dar sesto a molte faccende
domestiche....»


Qui sarebbe stata gran ventura a poter leggere le risposte di Paris
Montalto, e più grande a vedergli nel cuore, quando il povero esule
andava leggendo quelle pagine spietate. Generoso qual era, certo egli
doveva intendere ed anco perdonare quei manifesti mutamenti del cuore
di lei. Le anime grandi sentono dolore, non isdegno; non odiano, nè
sprezzano; dimenticano, o ne fanno le mostre.

Paris non dimenticava; amava sempre, a malgrado d'ogni cosa. E amando
con tutte le virtù dell'anima sua, ebbe certamente a scrivere nel 1843
una lettera, da cui traboccasse una grande amarezza, perchè la
risposta di Lilla (ultimo foglio di quel mesto carteggio) mostrava
aperto che l'antica fiamma era spenta, e sopravviveva la fredda
alterezza della gentildonna offesa. L'abbiano per fede gl'innamorati;
quando un lagno strappato al cuor loro dagli spasimi di un affetto
profondo non fa più vibrare la corda più tenera, la donna non ama già
più, e in tal caso, che giova il proseguire, e dare ad un idolo muto,
o schernitore, l'incenso spregiato delle nostre lagrime? Ora questo
era il caso di Paris Montalto; ai suoi lagni, allo sfogo della sua
amarezza. Lilla avea rizzato alteramente il capo, e rispondeva come
una donna la quale non aveva più nulla di comune con esso lui, salvo
la odiata ricordanza di un fallo.


«Finalmente (ella scriveva) ho avuto notizie vostre, e ve ne so grado.
La piccola Maria che mi annunziate essere già presso di voi, e farvi
compagnia, aiuterà a calmarvi lo spirito e a togliervi una volta di
mente quella vostra eterna politica. Amate quella bambina, e
soprattutto serbatevi per lei, perchè ella non avrà, dopo voi, alcun
protettore sulla terra. Vi parlo, come vedete, il linguaggio della
saviezza e dell'amicizia; che volete di più? Le nostre pazzie di
gioventù furono grandi; industriamoci ad espiarle. A questo io, povera
donna, vo lavorando ogni giorno.

«Avete torto a dolervi di me. Ciò ch'io sono, è opera vostra. Se il
passato non mi costringesse ad arrossire, sarei certamente diversa, e
potrei forse pensare senza rimorso ai lontani. Errammo; ma gli errori
non debbono essere eterni. Così potessi io distruggerli,
dimenticandoli; che di nulla nella mia vita avrei a pentirmi più
oltre.

«Questo è un dirvi chiaramente che i vostri sospetti non giungono fino
a me, e che io non potrei condonarli a chi pure dovrebbe conoscermi,
se non pensassi che le tempeste della vita inaspriscono i cuori, e
offuscano gl'intelletti. Quegli che voi chiamate lo Spagnuolo, è in
Genova; sì certamente, ma che importa a me? Egli è qui venuto, ma
colla tonaca nera della Compagnia di Gesù, ch'egli ha indossata da
ott'anni. Ho avuto occasione di parlargli una volta. Egli non è più
l'uomo di prima, nè credo che ricordi il passato; ma se ciò pur
fosse?... Lilla non l'ha amato mai, lo sapete; ed ora ambedue non
amiamo, non adoriamo altro che Dio. Questo è, io credo, il primo e
l'unico punto di contatto che possono avere le anime nostre.

«In una cosa soltanto ho errato, e me ne accuso. Sappiatela, poichè
essa è, insieme con questa lettera, l'ultimo atto di debolezza di
quella donna che avete così mal giudicata. Or fanno due mesi, mio
marito era in fin di vita. In una di quelle lunghe veglie durate al
suo capezzale, mentre i medici già disperavano di lui, ho accolto
nella mente un malvagio pensiero.--Non è, pensai, non è per cagion mia
ch'egli muore; la natura, il cielo, lo avranno voluto; or bene.... se
io rimanessi sola.... padrona di me....--E in questo pensiero mi
fermai un istante; vagheggiai una vita nuova. Uno spirito perverso mi
sussurrava arcane parole all'orecchio, mi additava in lontananza una
distesa di sereno orizzonte.... Un lamento dell'infermo richiamò la
figlia d'Eva al suo debito di moglie, e sgombrò dalla sua mente le
larve di un sogno colpevole; Lilla tornò in sè medesima. Ma di quel
sogno, di quell'istante d'aberrazione involontaria, inconsapevole.
Iddio l'ha punita, acerbamente punita, facendole giungere nella
lettera di Paris Montalto una testimonianza di oltraggiosi sospetti.

«Vi perdono, poichè è debito mio di donna e di cristiana, vi perdono;
ma per l'oltraggio medesimo e per tutto ciò che l'alterezza dell'animo
mio ha dovuto patire, o mutate costume, o ritenetevi dallo scrivere
più oltre ad una donna la quale ha fallito una volta e solamente per
voi, come solamente per voi deve arrossire di sè stessa, ma che ora
non ha più nulla a rimproverarsi, se non forse la colpa di aver
segreti per l'uomo a cui è legata da un sacro giuramento; e ciò per
voi, solamente per voi.»



XXXVII.

Come Lorenzo andasse in traccia di Niso e dovesse far capo ad Eurialo.


Leggendo la sua parte di quel dramma intimo, che i lettori conoscono
oramai per intero, Lorenzo Salvani rimase fortemente turbato.
Nell'animo suo, lo sapete, era un certo che di femmineo; però egli,
senza trascorrere a pronti ed acerbi giudizi, intendeva tutti i
dolorosi rivolgimenti, per cui, come in altrettante filiere, aveva
dovuto trascorrere, assottigliarsi, l'affetto di Lilla, giovinetta
innamorata senza ardimento, donna amante senza saldezza di propositi;
non abbastanza generosa per darsi tutta quanta; d'indole buona, ma di
consuetudini guasta; una di quelle donne, in fine, le quali son nate
per sacrificare la vita a chi le inganna, o per uccidere chi le ama
davvero; povere figlie d'Eva, sì veramente, alle quali la logica
diritta del cuore è offuscata da false sembianze di vero, non
abbastanza notate da prima, e troppo notate e troppo ingrandite di
poi.

L'orgoglio era il peccato capitale di Lilla. Dalle lettere scritte
nella sua solitaria dimora campestre ella appariva soltanto una donna
infelice; la puntigliosa morale che governa il mondo, o crede di
governarlo, poteva condannarla; ma la logica del cuore, che non sa
d'impedimenti umani, nè di patti giurati, notando nel fatto di quella
donna, non già un pervertimento di sensi, sibbene l'impulso di un amor
prepotente, l'assolveva, la rendeva degna di compianto. Senonchè
l'anima debole era trascorsa all'eccesso dei nuovi consigli; si
rifaceva al debito antico, ma rinnegando ogni senso di tenerezza
umana; s'argomentava di far sentire la schietta voce della virtù
sospettata, ed altro non parlava in lei che l'orgoglio offeso. La
superbia aveva vinto l'amore, triste istoria, solito epilogo di tanti
romanzi!

Lorenzo mise l'ultima lettera accanto alle altre nel cofanetto, lo
chiuse e di bel nuovo lo depose nel cassettone. Egli conosceva
finalmente l'arcano dei natali di Maria; ma che farne? come trarne
giovamento per lei?

Innanzi di metter mano su quel carteggio, egli aveva fatto il disegno
di raccomandare la sua sorella adottiva alle cure del generoso
Assereto. Ma dopo aver letto que' fogli che in così strana e
inaspettata maniera gli mostravano Maria figliuola d'un Montalto, e
congiunta di sangue ad Aloise, il primo consiglio più non gli parve il
migliore. Aloise, era al pari dell'Assereto uno schietto amico, un
gentiluomo, un vero uomo; per giunta si chiariva esser egli l'unico
protettore naturale, autorevole, della fanciulla; a lui dunque si
spettava la custodia dell'arcano.

Le quali cose meditate, e diremo quasi librate sulla bilancia, Lorenzo
Salvani diè di piglio alla penna, per scrivere una lettera ad Aloise
di Montalto. Ma egli aveva a mala pena incominciato, che ancora mutò
consiglio, parendogli meglio fatto di andare egli stesso a cercar
dell'amico. Molte cose si dicono agevolmente a voce, che sulla carta
richiedono eterni rigiri di frasi, e poi si teme di non averle dette
per modo che altri le intenda a puntino. Suonavano in quel mentre le
nove del mattino; certo, Aloise era in casa; lo andar da lui tornava
più agevole e più spedito dello scrivere.

Rassettandosi in fretta per andar fuori, aperse l'uscio della camera;
ma nella sala d'entrata s'imbattè in Maria che appunto veniva a
chieder di lui.

--E la vostra colazione?--diss'ella, notando come Lorenzo si fosse
avviato all'uscio.

--Non ne ho voglia, stamane;--rispose il giovine.--Del resto, non
starò fuori più di un'ora.--

Ma in quella che Lorenzo parlava, la giovinetta aveva potuto scorgere
com'egli fosse pallido in viso e turbato.

--Che avete, Lorenzo? Voi siete ammalato....

--No, buona sorella, non ho nulla; ho letto molto e ho bisogno d'aria.
Addio; tra un'ora e mezzo alla più lunga, sarò di ritorno.--

E senza aspettar altro, si volse all'uscio, lo aperse e partì. Dieci
minuti dopo, era in via Balbi e scampanellava all'uscio del marchese
di Montalto.

Ma Aloise, per dirla nello stile di Lucullo, non era dormito quella
notte in casa di Aloise, e il servo non seppe dire a Lorenzo nè dove
fosse, nè quando sarebbe ritornato; soltanto sapeva e diceva che da
due giorni il suo padrone era fuori.

Che fare? A Lorenzo venne in mente il Pietrasanta, l'amico fedele del
Montalto, come quegli che certo avrebbe saputo dirgli se fosse
possibile, e quando, di abboccarsi con lui. E difilato si mosse per
andarlo a cercare, ben sapendo ove stesse di casa. Per fortuna non
doveva andare lontano, poichè il palazzo dei Pietrasanta era sulla
piazza della Nunziata.

Giunto al portone e saputo che il marchesino non era uscito, Lorenzo
salì al secondo piano e scampanellò all'uscio di casa. Un servo in
mezza livrea venne ad aprirgli, per rispondergli asciuttamente, poi
ch'ebbe udita la sua domanda, che Sua Eccellenza era a letto, e quando
era a letto non si poteva scomodarla.

--Dategli questo;--soggiunse Lorenzo, sporgendogli un suo biglietto da
visita,--e v'accorgerete di non aver fallito a svegliarlo, od
altrimenti a disturbarlo. Io aspetterò qui.--

Il servo sì strinse nelle spalle, e lasciatolo solo nella vasta
anticamera, andò, sebbene di male gambe, a far l'imbasciata. Dopo tre
o quattro minuti, che Lorenzo spese a contemplare un Noè del
Grechetto, che entrava nell'arca con ogni generazione d'animali,
ricomparve il servitore, ma stavolta tutto inchini e sorrisi, per
dirgli:--Entri, signor avocato; il mio padrone l'aspetta.--

Percorse due o tre sale sontuosamente arredate, nelle quali se ne
stavano contegnosi e muti una dozzina di antenati d'ambo i sessi;
sulla tela, s'intende. Lorenzo Salvani fu guidato alla camera
dell'amico, più che dagli atti ossequiosi del servitore, dalla voce
medesima del Pietrasanta, il quale gridava dalla sua cuccia:

--Siate il benvenuto, amico Salvani! Venite con me a deliziarvi nello
spettacolo dell'alba!

--Dell'alba?--chiese Lorenzo, accompagnando le parole col suo placido
sorriso, in quella che entrava nella camera del Pietrasanta:--volete
dire quella de' tafani?

--Non ne conosco altre, io; sebbene pel fatto di San Nazaro, dovrei
dire il contrario. Ma un fiore non fa primavera; la mia alba,
eccola.... __Bell'alba è questa__!--

E usando di quella dimestichezza che era tra lui e Lorenzo, il
Pietrasanta si sollevò quasi in piedi sul letto, col lenzuolo
ravviluppato intorno alla persona, per dare immagine dell'alfieresco
personaggio a cui rubava il suo famoso emistichio.

--Ma lasciamo la tragedia in disparte;--proseguì l'allegro giovanotto,
ricadendo col gomito sul guanciale.--lo vi ho fatto entrar qui, perchè
non aveste ad aspettar troppo il mio scendere __dalle molli piume__.
Licenziatemi quest'altra frase, vi prego, poichè stamane sono nel
classico, e appunto quando giungevate voi stavo pensando a due
personaggi dell'Eneide.

--Oh diamine! E chi sono, costoro?

--Ve lo dico subito. Ma, prima di tutto, sedetevi. Guardate, là,
presso a voi, c'è un mazzo di spagnolette. I fiammiferi sono qui, sul
tavolino. Io fumo come il Vesuvio, reggia di Vulcano, o come l'Etna,
quando Encelado si fa lecito di respirare.

--Ma davvero siete classico, stamane!--disse Lorenzo, mentre, per
contentare l'ospite amico, accendeva una spagnoletta.

--A proposito di fumo, Teodoro!--proseguì il Pietrasanta, chiamando il
servitore, che fu sollecito a comparir sulla soglia.--Apri quella
finestra, ma lascia chiusa la persiana, «perchè la brezza mattutina un
varco--trovi, e il raggio del dì non ci percuota.--Vanne!» Ed eccovi
ora, in disadorna prosa, a che stavo pensando, mio caro Salvani,
innanzi che veniste voi. Pensavo a que' due amici inseparabili che
Virgilio ha dipinti, Niso ed Eurialo. Ho tradotto dieci anni or sono
quell'episodio sulle panche di retorica, e m'è rimasto impresso. Che
bella cosa! dicevo tra me; che bella cosa, era l'amicizia ne' tempi
andati! Niso ed Eurialo nel Lazio, Damone e Pizia a Siracusa, Oreste e
Pilade in Grecia, Castore e Polluce in cielo.... Mitologia, tempi
eroici, bellissime cose! Ma di presente tutto è mutato!--

Lorenzo Salvani sorrideva sempre. Il sorriso era stampato, Siam per
dire, sulle sue labbra, a dissimulare l'interno affanno, come
dissimula il volto una maschera di carnevale.

--Ma che vuol dire tutto questo sfoggio di erudizione?--dimandò egli.

--Vuol dire che a' tempi nostri non ci sono più amici. Non mi dite di
no; non parlo per voi, Salvani, che vedo così di rado, e non ne so
veramente il perchè; parlo pel signor Aloise di Montalto, giovine
biondo e infido, Niso che s'infischia d'Eurialo, Damone che manda
Pizia a quel paese, Oreste che.... Non ridete Salvani! Sono venti
giorni, senza mettere in conto questo, incominciato appena, che Aloise
non viene da me, e quando io vado da lui, non lo trovo in casa.

--Diamine! E così, sono venti giorni che non lo vedete?

--Oh, non dico già questo. Qualche volta lo vedo, ma è una fortuna che
io debbo guadagnarmela con gravi stenti, con lunghi pellegrinaggi,
come a' tempi delle crociate.

--Ah, capisco,--disse Lorenzo;--c'è qualche donna di mezzo.

--Sicuro, una donna. Oh le donne, le donne! __Gens inimica mihi
tyrrhenum navigat aequor__!--gridò il Pietrasanta, con più enfasi di
Giunone nel suo abboccamento con Eolo.--Ma scusatemi, Salvani; per
raccontarvi i miei mali, dimentico che siete probabilmente venuto per
parlarmi d'altro.

--No, appunto venivo da Eurialo perchè non avevo trovato Niso in casa.

--Ah, vedete? Ci ho gusto che vi sia toccato quello che tocca a me. Ma
ditemi, può fare Eurialo quello che avrebbe fatto Niso, e con tanto
piacere, per voi? Son tutto vostro, Salvani.

--Grazie;--rispose Lorenzo.--Desideravo parlargli; ma poichè non lo
trovo, gli scriverò una lettera, e voi vi darete la briga....

--Di fargliela avere?--interruppe il Pietrasanta.--Sicuramente. Se
oggi non viene, domani lo scoverò io.--

Un moto delle labbra di Lorenzo dimostrò ad Enrico Pietrasanta che non
bastava ancora.

--Si tratta di cosa grave?--dimandò egli, mettendo la sua gaiezza
mattutina in disparte.

--Gravissima; almeno per me.

--Diamine! e perchè non dirmelo subito? Ed io che stavo a
ciaramellare, a ridere.... Scusatemi, Lorenzo!...

--Vi pare?--interruppe Salvani, stringendo affettuosamente la mano che
gli stendeva l'amico.--Voi siete un'anima nobile, Pietrasanta.
Rendetemi un servizio e dimostratemi, contro la vostra opinione di
quest'oggi, che l'amicizia non è un nome vano. Aloise ha da avere,
oggi medesimo, una mia lettera, e da venire, da correre a Genova,
appena l'avrà letta.--

Enrico stette un tratto sovra pensieri, come se misurasse in cuor suo
tutte le probabilità del negozio; quindi rispose con breviloquenza
cesarea:

--L'avrà, la leggerà, verrà. Teodoro!... Ehi, dico, Teodoro!...

--Eccellenza!--esclamò il servitore, ritornando come un automa in
sull'uscio.

--Fa attaccare il mio __brougham__.... no, anzi il mio __landau__, per
le undici in punto.

--Eccellenza, le undici son già suonate.

--Non importa; fa attaccare prima che ribattano.

--Corro subito.

--Avete già scritta la lettera?--chiese Enrico a Lorenzo.

--No, ma se permettete....

--Teodoro!

--Eccellenza!

--Condurrai il signor Salvani nel mio studio. Là troverete ogni
cosa,--soggiunse il Pietrasanta, volgendosi a Lorenzo;--io intanto
salto giù e mi vesto in.... fretta. E bada tu, Teodoro, quando il
signor Salvani avesse a venire altre volte, fallo entrare, e subito, a
qualunque ora, come l'altro mio amico Aloise.

--Non ne dubiti. Eccellenza; ora che lo so....--Lorenzo sorrise
mestamente, come volesse dire: sarà inutile, oramai! E seguì Teodoro
che lo condusse nello studio, elegantissimo stanzino dove il
Pietrasanta non istava di certo lunghe ore assorto, sebbene ci avesse
una piccola libreria e due trionfi di pipe turche colle canne di
gelsomino.

Rimasto solo là dentro, Lorenzo andò alla scrivania. Sullo scannello
stavano preparati a ricevere il battesimo dell'inchiostro due o tre
quinterni di finissima carta a filone, che portava la lettera E,
sormontata da una corona marchionale, stampata d'inchiostro azzurro,
sul margine dei fogli. Il primo di questi, su cui caddero gli occhi di
Lorenzo, oltre quel segno stampato, recava un cominciamento di
epistola, e la frase vocativa: «__Ma bien-aimée__» dinotava due cose:
che Enrico Pietrasanta teneva carteggio colle donne (__gens inimica
sibi__), e che non usava sempre finir le sue lettere.

--Egli è felice!--esclamò Lorenzo, leggendo involontariamente quelle
due paroline. Indi, messo da banda quel foglio, incominciò a scrivere
la sua lettera ad Aloise. Ma era un lavoro difficile. Scrisse,
cancellò, riscrisse, e finalmente, dopo avere inchiostrati tre fogli,
che andarono a pezzi nel cestino, gli venne fatto di metter insieme
questi paragrafi:

    «_Amico_,

«Forza di eventi che tornerebbe inutile ora di starvi a chiarire, mi
costringe a lasciar sola, senza aiuto, senza consiglio, la mia buona e
santa sorella adottiva. Io la confido alle cure di Giorgio Assereto e
alle vostre, ma più assai alle vostre, per quelle ragioni che
intenderete agevolmente, quando avrete letto un antico carteggio che
sta chiuso in una cassettina d'ebano, segreto di famiglia che ho
dovuto leggere anch'io, questa mattina medesima. Mostrate questa
lettera a Maria di Montalto (ella può portare questo nome, se non
forse al cospetto del mondo, certo agli occhi di un gentiluomo come
suo cugino Aloise) ed ella vi dirà dove si trovi la cassettina.

«Voi e il mio vecchio compagno Assereto sarete per quella infelice due
fratelli, in cambio di uno che ella perderà; sarete l'anima di Lorenzo
Salvani in due; il suo consiglio di famiglia, a gran pezza migliore
d'ogni altro che potrebbe darle la legge; perchè a voi non occorrono
articoli di codice, e l'amicizia, l'onore, sono i più sicuri canoni di
giurisprudenza del mondo.

«Addio, Aloise, mio avversario di un'ora, e mio amico di tutta la
vita; e se non avessimo a vederci più, dite alla gentile Maria che mi
perdoni questa diserzione della custodia che m'aveva affidato mio
padre; ed ella, e voi, e l'Assereto, amate un pochino la memoria del
vostro, infelice ma non immemore,

                                                «LORENZO SALVANI.»

Ciò scritto, rasciugò due lagrime che erano venute fuori ad
offuscargli la vista; chiuse il foglio nella sopraccarta, e vi scrisse
sopra:

            «_Al marchese Aloise di Montalto. Sue mani._»

In quel mentre, capitava sull'uscio dello studio il Pietrasanta, già
vestito a mezzo, anzi per due terzi, poichè aveva già fatto il nodo
della cravatta, opera capitale nella acconciatura d'uno zerbinotto par
suo.

--Così presto?--chiese Lorenzo.

--O che, credete ch'io non sappia fare alla svelta, quando occorre?
Son venuto in maniche di camicia, temendo che aveste già finito da un
pezzo e vi annoiaste ad attendermi.

--No; appunto ora ho finito di scrivere.

--Tanto meglio. Venite dunque; metto la corazza, il sorcotto, e il
cimiero, e sono ai vostri comandi.--

La corazza era il panciotto, come i lettori avranno già indovinato; il
sorcotto era una attillata giacca di velluto; il cimiero un cappellino
di paglia, fasciato d'una larga fettuccia nera, i cui capi pendevano
svolazzanti fuor della tesa, ma non tanto da nascondere la
discriminatura delle chiome, che scendeva diritta e sottile fino al
basso della nuca.

Come si fu vestito di tutto punto, prese dalle mani del servitore la
sua mazzetta di giunco indiano, col pomo d'argento, e il fazzoletto
imbevuto d'acque odorose; quindi dalle mani dell'amico la lettera, che
ripose accuratamente nel portafoglio, ed ambedue uscirono sulle scale.

Giù nel portico era già la carrozza ad attendere, col suo cocchiere
gallonato a cassetta, collo staffiere allo smontatoio, e una coppia di
cavalli rovani che scalpitavano, aspettando il segnale del loro
automedonte.

--A rivederci, dunque, se non venite anche voi per un tratto di strada
con me.

--No, debbo scendere verso Banchi; a rivederci, e grazie!

--Che! che! faccio un po' di moto. A stasera, Salvani.

--Stasera!--ripetè macchinalmente Lorenzo. E fatto un ultimo saluto
all'amico, se ne andò pedestre verso una delle strade inferiori della
città.

--Eccellenza, dove si va?--chiese lo staffiere che era salito a
cassetta, daccanto al cocchiere.

--Veh che bestia! Io, s'intende, non tu! A Quinto, villa Vivaldi; e di
buon trotto!--



XXXVIII.

"Amor che a nullo amato amar perdona".


Fornita quella importantissima bisogna, Lorenzo Salvani aveva da
tornare a casa, sebbene per pochi minuti. Quel giorno egli fingeva di
dover contentare l'amico Assereto, facendo una scampagnata con lui, e
non gli rimaneva più altro a fare che accennar la cosa a Maria, perchè
non avesse da attenderlo per desinare.

Il pensiero della fanciulla era l'unico rimorso che avesse in cuore
Lorenzo. Quando l'angelico sembiante di Maria gli si parava dinanzi
agli occhi della mente, egli bene intendeva che il suo disegno, in
apparenza così generoso e tale da meritargli lode e rimpianto presso
l'universale, era un delitto bello e buono al cospetto della sua
coscienza, ch'egli non poteva ingannare. Ed erano allora combattimenti
feroci nell'anima sua travagliata.--Ma, infine, dovrò io vivere a
questo modo? Sarò io incatenato, come Prometeo, alla rupe
dell'esistenza, col rostro dell'avvoltoio nel cuore, e senza il
conforto di tornar utile in alcuna maniera ad anima nata?--

Quella mattina, un poco di calma gli era pur derivato, non sapremmo se
più dalla istessa vicinanza della catastrofe, o dal pensiero di aver
provveduto, come si poteva meglio, al futuro.

--Vivo,--pensava egli, in quella che uscito dal palazzo Pietrasanta si
avviava al basso della città,--non tornavo di alcun giovamento a lei.
Morto io, conosciuto l'arcano de' suoi nascimenti, un nobil parente,
se non forse sua madre medesima, oggi vedova, ricca e padrona di sè,
avrà cura di lei, tergerà facilmente le lagrime che la perdita di un
fratello d'adozione potrà farle versare. Animo, dunque; ciò che
importa oggi, è di vederla un'ultima volta, senza balenare; di poter
uscire da capo, senza che ella s'insospettisca di nulla.--

Sicuro; andar tranquillamente a casa, annunziare a Maria che quel
giorno egli desinava fuori, star dieci minuti a ragionar di cose da
nulla, uscire da capo e buona notte; questo era il disegno, facile a
concepirsi, facile a mandarsi ad effetto, tranne i casi imprevisti, od
una di quelle cose da nulla, che conducono i casi a farne qualcuna
delle loro, come spesso interviene.

Le cose da nulla c'erano, e attendevano in casa sua l'inconscio
Salvani.

I nostri lettori non ignorano che il servo Michele era nel segreto
della congiura, e rammentano certamente il suo dialogo col Bello
nell'osteria della Piccina, nel qual dialogo s'eran fatte allusioni
parecchie all'impresa, e alla parte che ci aveva da prendere Lorenzo.
Queste cose. Michele non le sapeva soltanto dal Bello, ma dal suo
padrone medesimo, il quale non avrebbe onestamente potuto tacerne a
quel vecchio commilitone di suo padre, legionario d'America e veterano
di Roma. Michele, sebbene in umilissimo stato, era quel che oggi si
direbbe un uomo politico; e Lorenzo Salvani, se non era andato
tant'oltre da lasciargli intendere che cosa aspettasse per sè dallo
scoppio della congiura, aveva pur dovuto chiarire al suo fidato,
com'egli ci fosse a capo fitto, per riuscire a raccomandargli di star
zitto in casa, ed altresì a persuaderlo che volesse tenersi quella
sera in disparte, per custodire la signorina Maria.

A questo non s'era piegato agevolmente il vecchio servitore, Le mani
gli pizzicavano anche a lui, e un po' di governo provvisorio fatto con
quelle sue mani, gli sarebbe parso doppiamente gustoso. Ma Lorenzo gli
aveva dipinto con tanto vivi colori il pericolo di lasciar sola in
casa Maria, e lo sgomento naturalissimo della fanciulla quando ella
avesse udito far le schioppettate per le vie, che Michele, il quale
amava la signorina quanto il signorino, anzi quanto l'Italia e la
repubblica insieme, s'era finalmente rassegnato; e dopo aver promesso
di starsene colle mani in tasca, aveva anche giurato di tenersi la
lingua tra i denti, per non spaventare innanzi tempo la sua
padroncina.

Aveva giurato, diciamo; ma serbava il giuramento a modo suo, sebbene
colle migliori intenzioni del mondo, e col più saldo proponimento di
non mettere la fanciulla in sospetto. Figuratevi che da parecchi
giorni, in casa, mentre accudiva alle sue faccende, non faceva altro
che canticchiare le canzoncine spagnuole. Ora, per Maria era segno di
guerra, quando Michele cantava spagnuolo, e segno di guerra grossa,
imminente, quando erano canzoni di genere gaio e soave. Michele
somigliava in ciò a quel gran capitano che soleva dissimulare la
gravità dei suoi disegni con qualche facile cantilena mormorata tra'
denti. E più Michele era internamente agitato, più dava nell'arcadico;
più era grave il sopraccapo, più gaia la canzone.

Già due o tre volte nei giorni precedenti la giovinetta aveva chiesto
a Michele che cosa volessero dire quelle sue insolite riprese di canto
spagnuolo.

--Nulla, nulla!--aveva risposto il servitore con aria
impacciata.--Canto per distrarmi un tantino, la non ci abbadi!--

E poi, gli uscivano dette, tra una strofa e l'altra, certe frasi di
colore oscuro, le quali non aveano nulla a strigare colle canzoni, nè
con ciò ch'egli andava facendo. Ed ella ad interrogarlo da capo, ma
senza cavarne un costrutto.

--È tempo di finirla!--aveva gridato Michele, proprio la sera innanzi,
in quella che stava in cucina a rigovernare il vasellame da tavola, e
non s'era addato della presenza della padroncina che passava lì
presso.

--Che cosa?--aveva chiesto Maria, fermandosi sull'uscio.

--Nulla, signorina. Parlavo da solo come fanno i matti.

--Non avete detto che è tempo di finirla?

--Ah sì, certo, gli è tempo. Se comandassi io...

--Da bravo, Michele! Sempre colla politica?

--Che vuole, signorina? Il dente batte.... cioè, la lingua duole....
insomma, dico che se comandassi io, la finirei senza tanti
discorsi.... Ma già, un giorno o l'altro, l'ha da venire, la resa dei
conti; e certi stancapopoli.... Ma basta, acqua in bocca; se no, esco
fuori dei gangheri.--

Questi discorsi non erano fatti, come i lettori argomentano, per
raffidare Maria; Maria che aveva notato la crescente tristezza di
Lorenzo; Maria che lo vedeva taciturno, chiuso in sè stesso, non
d'altro sollecito che di sviare il discorso quando ella si faceva a
chiedergli la cagione di quel suo umore malinconico; Maria infine che
talvolta pregava Michele a volerla aiutare per vincere quella ritrosia
di Lorenzo, e non otteneva altro da lui che diplomatici stringimenti
di labbra.

Però, argomentate come fosse grande il turbamento della giovinetta,
nella mattina del 29 giugno, allorquando Lorenzo fu uscito ed ella
passando rasente l'uscio della camera di lui, sentì odore di
bruciaticcio, ed entrata prontamente, vide ogni cosa sossopra,
minuzzoli di carta ammonticchiati nel cestino, rimasugli di lettere
arse in un angolo, le cassette del canterano mezzo aperte e quasi
vuote, le poche carte rimaste incolumi accuratamente raccolte e
legate, tutti i segni, infine, d'un lungo e paziente riordinamento,
che, per la sua novità, non le presagiva nulla di buono.

Il cuore della poverina batteva, batteva forte, come se fosse ad ogni
tratto per rompersi. Ella non giungeva a intendere le ragioni di
quella lunga e molesta fatica; ma indovinava che una assai grave
necessità l'avesse consigliata a Lorenzo.

Credete nei presentimenti? Noi sì, e abbiamo dalla nostra intelletti
fortissimi; tanto è vero che al mondo c'è di molte cose oscure
tuttavia, e non sempre la nuda ragione è norma ragionevole all'animale
che pensa. Ora la povera Maria, alla vista di tutti quegli
apprestamenti malinconici, sentì una stretta al cuore, che le diceva
esser quel giorno uno dei più gravi, forse il più grave, il più
triste, di tutta la sua vita!

Corse difilata da Michele; il quale, come la vide giungere con quel
piglio risoluto, fece atto di non aver occhi se non per le sue
faccende.

--Non mentite, Michele;--disse ella, guardandolo in faccia e
costringendolo a guardarla del pari,--voi sapete qualcosa.

--Io nulla, signorina, proprio nulla.

--Nulla! di che?

--Ma.... di quello che vorrà dir Lei;--ripigliò impacciato Michele.

--Guardatemi bene in viso, se potete!--soggiunse Maria.--Troppo presto
vi siete provato a negare. Stamane c'è qualcosa.

--Stamane? Oh no! che vuole Ella ci abbia ad essere stamane? Di
mattina fa un bel dormire per molti, e chi dorme non piglia pesci.

--Suvvia, Michele, non istate a celiare sulle parole. Oggi c'è
qualcosa di grave, e Lorenzo ci ha mano. Non mi dite di no; io so
tutto.

--O come?--esclamò il servitore, spalancando gli occhi le
braccia.--Egli le ha detto?...

--Ah! ci siete caduto?

--Come una bestia!--aggiunse mentalmente Michele.--Maledetta lingua!
Ma veda, signorina, io non so niente.... cioè.... qualcosa ci ha da
essere, ma ragazzate, cose da nulla; il signor Lorenzo c'entra come
c'entro io, che non c'entro affatto; gliene hanno parlato, ed egli ne
ha parlato con me.... Ma già, poi, non ne faranno niente....--

E voleva tirare innanzi su questa solfa; ma la signorina era diventata
pallida, si sentiva venir meno, e cadeva su d'una scranna, in quella
che colla mano tesa gli accennava di smettere quelle sue invenzioni.
Qui il povero servitore perde veramente la bussola.

--Si faccia animo, padroncina! Se il signor Lorenzo giunge a risapere
che mi son lasciato cavare il segreto di bocca, povero a me! Sono una
talpa; anzi peggio; una talpa si sarebbe avveduta di qualche cosa.
Animo, padroncina; non mi faccia quegli occhi!... La cosa non è grave
come Ella immagina; neanco il diavolo è così brutto come si
dipinge....

--Ditemi tutto, Michele!--gridò la fanciulla, afferrando le mani
callose del veterano.--Ditemi tutto, se non volete vedermi morire
d'angoscia!

--Oh, per l'anima di.... Morir lei! Ecco, le dirò ogni cosa; tanto ho
cominciato, e chi ha fatto il male faccia la penitenza.

Così preso l'aire, il buon Michele ci andò proprio di punta,
raccontando ogni cosa per filo e per segno a lei che stava ansiosa ad
udirlo; come per quella sera medesima tutti i volenterosi avessero
giurato di menar le mani, per metter Genova a tumulto, e così riuscir
d'aiuto efficace a Livorno, a Napoli e ad altre regioni della
penisola, le quali avevano da sollevarsi tutte, per farne una sola e
libera famiglia; come una parte dei congiurati dovessero muovere
all'assalto dei forti, altri impadronirsi del palazzo Ducale,
costringendo le poche soldatesche del presidio ad uscir fuori le mura
della città, altri piombar sulla Darsena, e ghermiti i legni da guerra
che erano in porto, dar opera sollecita ad una spedizione navale per
altre provincie italiane; e il resto in conseguenza. Ma Lorenzo?
chiedeva Maria. Lorenzo doveva capitanare un centinaio d'uomini pronti
ad ogni sbaraglio, quelli appunto che dovevano tentare il colpo dalla
parte del mare, a mala pena i forti principali fossero caduti in mano
del popolo; la qual cosa doveva accadere di prima sera, ed essere
annunziata da un colpo di cannone dall'alto del forte Sperone,
quindi....--

Quindi il discorso di Michele fu interrotto sul più bello da una
scampanellata all'uscio di casa.

--Poveri a noi!--gridò il servitore, balzando al suono
improvviso.--Questi è il signor Lorenzo. Se egli sa ch'io non ho
tenuta la lingua a segno, sono un uomo spacciato. Padroncina, mi
raccomando....--

La giovinetta lo raffidò con un gesto, e in quella ch'egli andava ad
aprir l'uscio, ella si ridusse nella sua camera da lavoro. Giunta
colà, si assise al suo deschetto, nel vano della finestra, e tolse tra
mani il suo ricamo; ma la poverina, era cosiffattamente fuori di sè,
che non potè mettere un punto, e rimase colla mussolina tra le dita,
le braccia prosciolte sulle ginocchia, gli occhi sbarrati, immobile
come una statua.

Pochi minuti dopo, Lorenzo entrava nella camera della fanciulla, colle
labbra composte a sorriso. Maria non si addiede di quel sorriso, tanto
era turbata; ma ben s'avvide Lorenzo del turbamento di lei, e il
sorriso col quale s'era studiato d'ingannarla, scomparve d'un subito,
cedendo il luogo alla consueta mestizia.

--Maria,--diss'egli avvicinandosi,--oggi sono a pranzo fuori....--

Voleva aggiungere: con l'Assereto; ma non ardì. Al primo vederla,
aveva rapidamente, quasi istintivamente, capito che quello non era
tempo da mendicar pretesti, sibbene da disporsi a gravi ragionamenti,
con schiette ed aperte parole.

--Lo so;--aveva risposto la giovinetta, crollando lievemente il capo e
senza alzar gli occhi verso Lorenzo.

--Come?... sapevate....

--So tutto, io.

--Ah! Michele ha parlato....

--No, non accusate il povero Michele. Ho indovinato, la mercè di
questo (e accennava il cuore) che non mi ha ingannata mai. Ditemi ora,
Lorenzo, quali sono le vostre speranze? che cosa pensate di fare?--

Il giovine, andato a sedersi su d'una scranna di rincontro alla
parete, rimase taciturno guardando il pavimento. La fanciulla non
udendo risposta alla sua domanda, incalzò:

--Voi non siete uso a mentire, Lorenzo, fratello mio; vi ho udito
sempre a dire la verità, anche se dovesse tornarvi a danno. Parlate
dunque; sperate di esser utile alla patria vostra, con ciò che
tentate?

--No!--rispose asciuttamente, dopo una breve pausa, il giovine
Salvani, senza alzar gli occhi da terra.

--No, voi dite? E allora, perchè tentate?--L'interrogazione della
fanciulla, ricisa, diritta, sibilò come uno strale all'orecchio di
Lorenzo. Tremò egli, ma non rispose parola, disponendosi a sviare il
discorso.

--Non parliamo di me!--disse poscia,--parliamo di voi. Stamane,
rassettando le mie carte, ho dovuto aprire la cassettina d'ebano, e
leggere il segreto de' vostri natali. Nè avrei dovuto ragionarvene io,
sibbene un altro, stasera o dimani; cioè a dire Aloise di Montalto....
vostro cugino.

--Che dite voi mai?--proruppe Maria, lasciando cadere il ricamo che
aveva tra le mani sospeso.

--Sì, vostro padre era un Montalto. Vostra madre, povera donna, ha
molto patito, o Maria. Ella vive; è libera, ora, e padrona di sè;
quando conoscerà la sua figliuola da tanti anni perduta, l'amerà,
l'amerà!--

La sospensione che s'era fatta nell'animo di Maria alle prime parole
di Lorenzo, cessò tutto ad un tratto. Un altro pensiero, più grave,
più urgente, le ingombrava lo spirito.

--E perchè avete aperta la cassettina?--dimandò ella, piantando gli
occhi in viso a Lorenzo.

--Perchè.... perchè non potevo lasciarvi, o Maria, senza prima aver
provveduto ai casi vostri.

--Ai casi miei! è presto provveduto,--soggiunse ella, con accento di
profonda intenzione.--La mia sorte non si dipartirà dalla vostra.
Senza voi, senza la casa vostra, che sarebb'egli avvenuto della povera
bambina?... Ricordo,--proseguì con tono solenne,--ricordo i primi anni
della mia infanzia, e un uomo dai capegli neri, dal viso pallido e
severo, che mi teneva sulle sue ginocchia, e mi baciava e piangeva, ed
io, aggrappandomi a lui, gli gridavo: «babbo, non piangere!» Vedete,
Lorenzo, questo ricordo d'infanzia era il mio segreto, il mio unico
segreto, che ho custodito gelosamente dentro di me, senza mai farne
parola ad alcuno; un ricordo che spesso mi assaliva, e che, fatta più
grandicella, mi stemperava in lagrime, nella solitudine della mia
cameretta. Ricordo altresì che fui posta un giorno, non so il come nè
il quando, in compagnia d'una vecchia dama, e che io dimandavo del
babbo e piangevo. Ella mi rispose che mio padre era in cielo, e
m'insegnò a giungere le mani, e a pregare per lui. Io non so molte
orazioni; ma questa preghiera non l'ho mai dimenticata. Da quel tempo,
ogni mattina, ogni sera, ho giunte le mani ed ho pensato a mio padre,
la cui faccia pallida, severa, lagrimosa, mi stava davanti agli occhi.
Poi, venne un signore che sulle prime mi parve mio padre, e rammento
che corsi ad abbracciargli le ginocchia, chiamandolo babbo.--Sì,
bambina, chiamami con questo nome!--mi disse egli con una voce soave,
che voi conoscete, o Lorenzo;--d'ora innanzi io sarò veramente tuo
padre.--E andai con lui di buon grado, come se lo avessi conosciuto ed
amato da un pezzo. Ed egli mi fu padre davvero, e mi diede anche una
madre; la vostra; quell'angelica donna, sulla tomba della quale egli è
andato a morire, amante disperato; accanto alla quale egli riposa, da
due anni, nel camposanto di Montobbio. Perdonatemi, Lorenzo, se io
turbo l'anima vostra con queste dolorose ricordanze. Esse sono, come
per voi, sacrosante per me; ho vissuta la vostra medesima vita; sono
cosa vostra, io, e i vostri son miei. Così ha voluto il cielo; così
voglio pur io. Il passato non si distrugge, Lorenzo; esso è la catena
che ci lega al futuro. Una nuova famiglia! Una madre che mi amerà!...
Ma io l'ho avuta, una madre; ed era Luisa Salvani. La nuova, di cui mi
parlate, mi darà essa un fratello? Mi darà essa colui che correva gaio
al mio fianco? colui che bambina mi baloccava colle sue arti
fanciullesche? colui che più tardi ha patito per me e con me? colui
che fu la mia guida, la mia salvezza, la mia vita? Andate, Lorenzo;
fate ciò che vi consiglia il cuor vostro; ma non chiedete a Maria di
strapparsi il cuore dal petto, e di vivere, quando tutto il passato,
tutto il suo dolce passato, dintorno a lei fosse morto!--

E pronunziate queste ultime parole, la povera fanciulla diede in uno
scoppio di pianto. Lorenzo Salvani pallido, ansante, non aveva potuto
interromperla; non sapeva che risponderle. L'animo suo durava una
guerra la quale ai lettori sarà più facile argomentare, che non a noi
raccontare.

--Maria! Maria!--gridò egli perduto.--voi mi straziate l'anima con
queste parole. Abbiate pietà di me, ve ne supplico. Lorenzo, il vostro
povero fratello, non è più buono a nulla su questa terra. Non vedete?
Il destino mi perseguita, m'incalza; la mia vita è senza luce di
allegrezza presente, senza un barlume di speranza lontana. Ella è buia
buia, paurosa, come un sogno d'infermo, trabalzato senza posa di
dolore in dolore, di sgomento in sgomento. Siate pietosa, o Maria, a
un uomo il quale non ha più coscienza di sè; lasciate che il mio fato
si compia!

--Quanto dolore. Dio santo!--proruppe Maria in un impeto di angoscia
prepotente, suprema, che le tolse ogni misura, ogni rispetto di
sè:--quanto dolore, per una donna che non vi ama! Ma che ho fatto io a
quella donna, perchè ella abbia da uccidermi in tal guisa?--

Sussultò Lorenzo a quelle parole, che il soverchio dell'amarezza
dettava a Maria; ma egli era tuttavia lontano dallo intenderne il
perchè.

--V'ingannate, sorella;--rispose con accento sicuro;--io non amo
quella donna che voi dite: non la ricordo nemmeno.

--Giuratelo!

--Per tutto quanto ho di più sacro al mondo; per la memoria venerata
dei miei parenti, che voi avete invocata testè, per voi medesima, lo
giuro; quella donna mi ha fatto del male, ma da gran tempo io la ho
dimenticata, e dimenticati i dolori che mi vennero da lei; ella ora è
per me come non fosse vissuta mai.

--E perchè dunque volete morire? Perchè,--soggiunse con piglio
deliberato la fanciulla,--io vi ho inteso, Lorenzo. Voi avete dato
sesto a tutte le cose vostre, come un uomo che si dispone ad uscire di
vita. Perchè dunque volete morire?

--Perchè? Ve l'ho detto. Perchè la vita m'è in uggia, non potendo io
quind'innanzi esser utile ad alcuno; perchè v'hanno nella vita gradi
di decadenza, sotto i quali non c'è più altro che l'abbiettezza;
momenti in cui il soffrire pazienti, il volere aggrapparsi
all'esistenza, sarebbe viltà senza pari. Voi siete giovine, bella,
soave; voi dovete essere felice, se Dio è giusto con anima nata.
Perduto me, non rimarrete già sola; che anzi, rotto il legame di una
oscura e turpe miseria, il segreto svelato dei vostri natali vi
condurrà ad un'altra e più lieta, quanto più vera famiglia; dove sarà
altissimo conforto alla mia tomba se ricorderete con memore affetto i
Salvani, e penserete che valevano assai più del loro miserando
destino; dove, povera colomba raccolta finalmente sotto l'ala materna,
riposerete le membra e lo spirito affaticato dal turbine che vi aveva
divelta dal nido. Ora sapete tutto, Maria; lasciate che il vostro
fratello di adozione se ne vada con Dio, a cercare egli pure, ma in
una mareggiata di sangue, il riposo che non ha avuto e che non
potrebbe trovare sulla terra.--

In quella che Lorenzo parlava, il volto della giovinetta si andava
facendo cupo sotto l'impressione d'un fiero disegno, come il mare
s'infosca sotto il riflesso di un temporale che si addensi nell'aria.

--Andate, Lorenzo;--diss'ella con voce lenta ma risoluta, mentre si
alzava dalla scranna, quasi volesse rendere le sue parole più solenni
col gesto;--andate a cercar quella morte che vi è tanto cara. Io
pregherò per voi, quando uscirete di qui: vi aspetterò fino a domani,
e poi, ve lo giuro innanzi a Dio che ci ascolta, vi seguirò nella
morte.

--Ma voi....--soggiunse titubante Lorenzo:--voi avete una madre....

--Che importa,--gridò la fanciulla (e così parlando apparve come
trasfigurata agli occhi di lui)--se non avrò più voi sulla terra, voi,
Lorenzo, mio sole, mia luce, mia vita?

--Maria!... Maria!...--esclamò il giovine, balzando in piedi a sua
volta, e guardandola in viso trasognato, come uomo che non sa se debba
aggiustar fede a' suoi sensi medesimi.

La fanciulla sostenne animosa lo sguardo, quasi volesse dirgli ch'egli
si apponeva al vero, e, quantunque il volto fosse tutto una fiamma,
proseguì con sublime ardimento:

--Orbene, morite adesso, se vi dà l'animo di farlo, e uccidete me
pure. Io v'ho detto ogni cosa.--

Fatta questa confessione, si mosse dignitosa come una regina, per
uscir dalla camera.

Lorenzo rimaneva tuttavia al suo posto, incerto, quasi istupidito, a
guardarla; ma come la vide già presso l'uscio, mosso da uno di que'
pensieri che, ratti a guisa d'un lampo, illuminano d'un guizzo i più
oscuri recessi dell'anima umana, non corse, precipitò a' suoi piedi,
le afferrò la mano e la baciò.

--Vi amo. Maria, vi amo!--

Qual foste allora, o divina fanciulla, e che arcano struggimento fu
quello del vostro nobilissimo cuore, quando udì, diciam male, quando
bevve la confessione dell'uomo diletto? Come v'hanno parole che
tolgono, così ve n'hanno altre che dànno la vita.

Pallida in quel momento quanto s'era fatta rossa dapprima, ansante,
tremebonda, chinò gli occhi a guardarlo. Nuovo, insolito, era lo stato
dell'animo, com'era insolito e nuovo quello stato di cose tra essi,
vissuti fino a quel giorno nella inesplorata tranquillità di un
affetto fraterno. La faccia del giovine era rivolta a lei, e lo
sguardo fiso, fiammante, le diceva, le ripeteva «vi amo» dimostrandole
che un amore profondo, immenso, era balzato fuori, aveva rotta ed
invasa quella calma superficie della tenerezza fraterna, in quella
medesima guisa che dagli occhi e dalle parole di lei, in un momento di
angoscia suprema, erasi sprigionato il suo, con tutto l'impeto di un
vergine cuore. E il capo di Maria si chinò allora sul capo di Lorenzo,
e le sue labbra attratte da un'arcana virtù, sfiorarono i capegli
dell'amato.

--E adesso andrete, Lorenzo, poichè avete promesso....

--Andrò.... andrò.... ma non ho più nessuna voglia di morire.--


              FINE DEL PRIMO VOLUME.



  INDICE DEL PRIMO VOLUME.


  I. Nel quale si discorre del bel tempo e si fa la
  conoscenza di qualche personaggio                           Pag. 3

  II. Nel quale si dimostra come da buona pianta abbia
  a venir sempre buon frutto                                   »   8

  III. Nel quale si racconta di un uomo di capelli rossigni,
  e di una spasimata voglia che aveva di
  scendere in campo per la sua dama                            »  21

  IV. Qui si mostra con la prova in mano come gli angeli
  non siano poi tutti in paradiso                              »  28

  V. Come la vicinanza del Paradiso non togliesse a
  due amici di trovarsi in Purgatorio                          »  36

  VI. Nel quale si dimostra che l'Enfisema non è un
  personaggio greco                                            »  40

  VII. Di un'alzata d'ingegno che fece l'uomo dai capelli
  rossigni, e di quello che poscia ne avvenne.                 »  48

  VIII. Dove si legge vita e miracoli della signora che
  aveva scritto la lettera                                     »  57

  IX. Come Ercole filasse alla conocchia di Onfale, e come
  tutti gli uomini possono somigliare ad Ercole.               »  67

  X. Di un ghiotto discorso che facevano insieme Aloise
  di Montalto e il Pietrasanta, innanzi di mettersi
  in carrozza                                                  »  75

  XI. Dove si viene in chiaro del segreto di Aloise.           »  83

  XII. Di un vecchio che voleva vivere e non voleva fare
  testamento                                                   »  94

  XIII. Di una gita che fece il dottor Collini nel vicolo
  di Mezza Galera                                              » 105

  XIV. Nel quale si comincia a sapere chi fosse e che
  cosa facesse l'uomo vestito di nero                          » 115

  XV. Qui si racconta come il padre Bonaventura sapesse
  sfruttare le ribalderie de' suoi simili                      » 130

  XVI. Dove si chiariscono gli effetti della contromina.       » 136

  XVII. Di un Don Giovanni da dozzina e delle pretensioni
  che aveva                                                    » 145

  XVIII. Una corona di spine                                   » 151

  XIX. Nel quale si fa la spiegazione del proverbio "chi
  cerca trova"                                                 » 157

  XX. All'insegna degli Amici, buon vino.... e grama
  compagnia                                                    » 165

  XXI. La dimani d'una brutta giornata                         » 176

  XXII. Degli apparecchi che fece la contessa Cisneri
  per andare ad una festa da ballo                             » 185

  XXIII. Nel quale si racconta come una gentildonna
  congedasse un innamorato che l'aveva seccata                 » 195

  XXIV. Nel quale si parla di molte stelle del cielo
  ligustico                                                    » 205

  XXV. La bella Ginevra dagli occhi verdi                      » 213

  XXVI. Come Aloise di Montalto si avvicinasse per la
  prima volta alla bella Ginevra                               » 228

  XXVII. Come la bella Ginevra non avesse ad essere
  molto contenta dei fatti di Aloise di Montalto               » 232

  XXVIII. Nel quale si conosce il buon cuore di Enrico
  Pietrasanta, e della marchesa Maddalena                      » 245

  XXIX. Nel quale si comincia a conoscere che uomo
  fosse il marchese Antoniotto                                 » 261

  XXX. Della relazione che c'era tra le opere di Sant'Agostino
  e la "Società del Parafulmine"                               » 277

  XXXI. Nel quale si racconta dell'uomo vestito di nero
  e degli apprestamenti che fece per una giornata
  campale                                                      » 286

  XXXII. Nel quale i lettori non genovesi impareranno
  chi fossero Barudda e Pippía                                 » 297

  XXXIII. Nel quale è dimostrato che una ne pensa il
  ghiotto e un'altra il tavernaio                              » 309

  XXXIV. Dove si fa un brutto viaggio, ma parecchio
  istruttivo                                                   » 318

  XXXV. Come un gladiatore moderno si disponesse all'ultima
  pugna                                                        » 327

  XXXVI. Nel quale una cassettina d'ebano dischiude alla
  perfine i suoi ventenni segreti                              » 334

  XXXVII. Come Lorenzo andasse in traccia di Niso e dovesse
  far capo ad Eurialo                                          » 346

  XXXVIII. "Amor che a nullo amato amar perdona"               » 354



NOTA DEL TRASCRITTORE:


Con __il doppio sottolineato__ si rappresenta lo  s p a z i a t o.

Con il _sottolineato_ si rappresenta il corsivo.

Numerosi refusi sono stati corretti.





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