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Title: Terra vergine Author: Barrili, Anton Giulio, 1836-1908 Language: Italian As this book started as an ASCII text book there are no pictures available. *** Start of this LibraryBlog Digital Book "Terra vergine" *** Internet Archive. _Terra Vergine_ ROMANZO COLOMBIANO di Anton Giulio Barrili MILANO FRATELLI TREVES, EDITORI 1903 *Quinto migliaio.* PROPRIETÀ LETTERARIA _I diritti di riproduzione e di traduzione sono riservati per tutti i paesi, non escluso il regno di Svezia e Norvegia._ A evitare confusioni di bibliografi e di librai, si avverte che questo nuovo romanzo Colombiano, che fa seguito a _Le due Beatrici_, è lo stesso che sotto il titolo di _Cosma e Damiano_ ebbe una prima pubblicazione nelle appendici del _Caffaro_ di Genova. Tip. Fratelli Treves. ———— INDICE · I. In alto mare. · II. Getta l’àncora e spera in Dio. · III. Di una bella sconosciuta che mandò a Cristoforo Colombo un ramo di spino fiorito. · IV. Le maraviglie della terra promessa. · V. Il sogno di Damiano. · VI. Il primo sigaro fumato nel nuovo mondo da un abitante del vecchio. · VII. Si cerca Babeque, si smarrisce la Pinta, e si ritrova Haiti. · VIII. Nel quale si ripete su per giù la medesima storia. · IX. Come Damiano si persuase di non avere amato mai, prima d’allora. · X. Chi piange e chi ride. · XI. Come una debolezza di Damiano andasse a finire in una fortezza. · XII. Una nave che va, e l’altra che viene. · XIII. Come andò che Cosma si risolvesse ad imparare la lingua di Haiti. · XIV. In che salsa vanno accomodati gli amici quando ci guastano le uova nel paniere. · XV. Come fu inaugurata e presidiata la fortezza del Natale. · XVI. Dove può condur le ragazze brune il soverchio amore del biondo. · XVII. Come la vista delle Sirene svegliasse l’ingegno di Ulisse. · XVIII. In fretta e in furia. · XIX. Il commiato. TERRA VERGINE _Capitolo Primo._ In alto mare. Quelli de’ nostri lettori che mettono il venerdì tra i giorni nefasti, sono pregati a non citare tra gli esempi a conforto della loro opinione il giorno scelto, o accettato da messer Cristoforo Colombo, per dar principio al suo primo viaggio di scoperta. Diciamo la loro opinione, e non la loro superstizione; primieramente perchè non vogliamo essere scortesi con nessuno, e in secondo luogo perchè non crediamo a questa facile asseveranza moderna che gabella per superstizioni le idee di cui non può darsi una ragione. Se dunque i nostri lettori hanno di queste idee, ed amano tenersele, non saremo noi che ci proveremo a combatterle. Uomini insigni con idee di tal fatta ce ne sono stati parecchi, e ce ne saranno ancora, se Dio vuole. Il savio, che vede assumer forma di verità e grado di certezza tante cose che ieri ancora sapevano di bugia, d’invenzione, d’illusione e via discorrendo, non bolla di nomi derisorii le cose che non intende, o che gli paiono escire dalla cerchia delle verità riconosciute: per contro, diffida di queste ultime, non s’impegna a sostenere che saranno verità domani, come sembrano oggi. Così ragionando, si può ammettere benissimo che ci siano dei giorni nefasti, o per tutti o per qualcheduno. Ma è permesso di credere che il venerdì, tanto calunniato, non sia tra quei giorni. Io, se debbo interrogare la mia particolare esperienza in proposito, ho il venerdì per un giorno buono. E per buono doveva averlo messer Cristoforo Colombo, che la mattina del 3 agosto 1492, essendo un venerdì, si avviava da Palos per il suo viaggio di scoperta, con tre caravelle, quasi con tre gusci di noce, e centoventi uomini d’equipaggio, tra marinai, soldati, ufficiali di bordo e sopraccarichi. Voi non ignorate che si chiamano sopraccarichi, in una nave, tutti i personaggi che ci sono imbarcati, senza avere un uffizio particolare, di comando o d’ubbidienza, nella nave anzidetta. Ben altri pensieri, ben altri dubbi e timori occupavano lo spirito del navigatore Genovese, che il terrore della partenza in venerdì. Due di quei gusci di noce erano stati presi ed allestiti per ordine regio, come a dire per forza. E per forza erano stati imbarcati in gran parte i suoi marinai. Un primo esempio di sorda resistenza gli aveva dimostrato come egli potesse far poco assegnamento su quella marinaresca, allorquando era stato male aggiustato alla _Pinta_ il timone, per modo che al primo colpo di mare dovesse spiccarsi dalla poppa, mettendo la caravella in istato di non più governare. Oramai si era in acqua, e bisognava navigare. Ma non poteva ancora il mal talento studiarne qualchedun’altra, per far ritornare indietro le navi? La paura è tanto ingegnosa! E l’almirante del mare Oceano ricordava a proposito che un’altra caravella mandata celatamente dai Portoghesi sulla rotta indicata da lui, per rubargli la gloria della scoperta, non era tornata a Lisbona per poca voglia che avesse il suo comandante di andare innanzi, ma per deliberato proposito della ciurma ribelle. Una cosa era necessaria, perchè niente di simile accadesse a Cristoforo Colombo: che tra la sua piccola squadra navale e le famose colonne d’Ercole corressero leghe marine a parecchie centinaia. Ma come sperare che quei marinai, costretti a navigare per forza, si adattassero a fare, senza un tentativo di ribellione, parecchie centinaia di leghe? E se la ribellione ci fosse stata, e se le navi avessero dovuto dar volta, che vergogna per lui! quale impossibilità di tentare in altra occasione e con altre forze navali il viaggio! Egli, a buon conto, per non lasciare troppe armi alla resistenza della sua gente, aveva subito immaginato di non segnare sul libro di stima il numero esatto delle leghe percorse, tenendo il computo vero per sè. Ma quanti altri argomenti di rivolta alla sua autorità non avrebbe offerti la paura a quegli uomini rozzi, ignoranti, che egli aveva raccolti a furia, non scelti diligentemente tra i migliori della classe marinara? Queste cose pensava Cristoforo Colombo; e queste cose non lo facevano lieto, non gli lasciavano gustare pienamente, come avrebbe potuto e dovuto, il gaudio onesto della sua sudata vittoria su tante contrarietà, su tanta guerra d’uomini e cose. Nè i suoi sospetti erano vani. La mattina del 6 agosto, un lunedì, terzo giorno del viaggio, la _Pinta_ fece il segnale di non poter proseguire il cammino, avendo spezzato il timone; proprio quel timone che sulla spiaggia di Palos era stato così male aggiustato alla poppa. Gomez Rascon e Cristoval Quintero, padroni della nave, che era senza fallo la migliore delle tre, tornavano dunque alla riscossa con le loro alzate d’ingegno? Del malvagio proposito non dubitava l’almirante, mentre governava verso la _Pinta_ per recarle soccorso. Ma il vento soffiava gagliardo, il mare ruggiva, e con quel tempo era più facile investire la _Pinta_ che accostarsi al suo bordo. Per fortuna, il comandante della nave era Martino Alonzo Pinzon, e questi non era della opinione dei padroni, in materia di parziali avarie. —Almirante!—gridò egli dal capo di banda,—non temete di nulla. Leverò io la voglia a tutti di guastare un’altra volta il timone, dandone la barra sulla testa al primo che parlerà di ritornarsene indietro. Per ora il timone sarà accomodato con quattro giri di gomena; e poi si vedrà. Magari zoppicando, seguiteremo la capitana. Ma io consiglierei, salvo il parer vostro, di appoggiare alle Canarie, per provvedere un po’ meglio a questa rottura.— Non era intenzione dell’almirante di far sosta alle Canarie, come a nessun’altra isola o costa di quei paraggi. Ma bisognava chinar la testa al destino, e seguitare i consigli della prudenza. Il giorno appresso, non era più questione di prudenza, ma di assoluta necessità. La _Pinta_, di sicuro, era stata male raddobbata, e per il fasciame sconnesso incominciava a far acqua. La legatura del timone si era anche rallentata, e la caravella governava male da capo. La _Santa Maria_ e la _Nina_ dovettero diminuire la tela, per serrar meno vento, e andar di conserva con la povera zoppa. E l’almirante, non che risolversi di far sosta alle Canarie, pensò che gli sarebbe convenuto cercare laggiù un’altra caravella, per liberarsi da quella nave, che incominciava a parergli un vero castigo di Dio. Ma perchè andare alle Canarie? Quelle isole erano ancora molto lontane. Non era meglio ritornare indietro, coi due legni che ancora reggevano al mare, e sui quali si sarebbe potuto trasbordare tutta la gente e il carico della _Pinta_, perchè questa seguitasse come poteva, magari presa a rimorchio? Era questo il pensiero dei marinai, confortato dalla opinione dei piloti. Alcuni di essi, come Pedro Alonzo Nino e Sancio Ruiz della _Nina_, stimavano sicuramente di essere molto distanti dalle Canarie. Forse meno sincero, perchè più desideroso del ritorno, era Bartolomeo Roldan, altro pilota della _Nina_. Ma niente affatto sincero, e più caldo sostenitore della grande distanza, era Perez Matteo Hernèa, pilota della _Santa Maria_. Costui incominciava ben presto a far prova del suo mal animo contro il comandante supremo, che egli non si peritava di giudicare, sebbene ancor sotto voce, un ambizioso impostore. Ma il comandante della _Pinta_, della nave zoppa, aveva manifestato egli stesso il proposito di appoggiare alle Canarie, e per conseguenza di proseguire il cammino fin là. Con Martino Alonzo Pinzon, marinaio esperto e ben veduto dall’equipaggio, non si poteva lottare; specie quando minacciava di ricorrere agli argomenti _ad hominem_. Più calmo, ma più sicuro nella sua nautica dottrina, Cristoforo Colombo aveva detto:—V’ingannate, nella vostra stima; le isole sono anzi vicinissime. Tra domani o doman l’altro, le avvisteremo di certo.— Il fatto seguì com’egli aveva annunziato. Sull’alba del giorno nove, si scorgevano le vette della Gran Canaria. Disgraziatamente, ora per troppo vento, ora per troppo poco, non era possibile l’approdo. Si stette due giorni in attesa di una propizia occasione, ma invano; e l’almirante, non volendo perder tempo a bordeggiare in quelle acque, si lasciò addietro la _Pinta_, ordinando a Martino Alonzo Pinzon di approdare quando potesse, e di cercare un’altra nave, per dare il cambio alla sua. Egli intanto andava con le altre due caravelle alla Gomera, per il medesimo intento. E giunse alla Gomera nel pomeriggio del 12 agosto udendovi con sua grande consolazione che s’aspettava di giorno in giorno una buona nave, andata per l’appunto alla Gran Canaria. —Aspettiamo dunque con fiducia;—aveva detto l’almirante.—Se la buona nave è a quell’ancoraggio, Martino Alonzo l’ha trovata, l’ha presa, e viene con essa a raggiungermi.— Ma lo aspettò invano. E stanco di aspettare, partì il 23 per andare incontro al compagno. Giunse il 25 alla Gran Canaria. Martino Alonzo Pinzon non v’era giunto che il giorno prima, e stentatamente; udendo da quegli abitanti che la nave c’era stata, ma che da parecchi giorni ne era partita, nè si sapeva per dove. Bisognava rinunziare ad ogni speranza di barattare la nave, e lì per lì provvedere invece a rimettere in sesto la _Pinta_. Martino Alonzo Pinzon mandò a terra i mastri d’ascia per cercare il legname adatto e tagliare alla svelta un altro timone. Frattanto, poichè la sua caravella faceva acqua, i marinai si mutarono in calafati, e si diedero a fabbricare con vecchi cavi disfatti le stoppe catramate, che con scalpelli e mazzuoli dovevano poi ficcare nei comenti del fasciame, nelle ossature, nei nodi del legname, intorno ai cavicchi, e dovunque bisognasse, ricoprendo poi ogni cosa di pece. La _Nina_ approfittò di tutto quel tempo per cambiar velatura. Le sue vele latine si mutarono in quadre, e alle antenne, per conseguenza, furono sostituiti i pennoni. Per tal guisa, di caravella che era, e somigliante ad uno sciabecco, si trasformò in una specie di brigantino a palo. Quanto alla velatura, s’intende; non già quanto alla alberatura. Le caravelle portavano bensì tre alberi, il trinchetto, l’albero di maestra e l’albero di mezzana, ma quest’ultimo era assai più avanzato sulla poppa e più corto che non sia nei brigantini a palo d’oggidì; d’onde la conseguenza che non fosse molto larga la vela, artimone o mezzana che vi piaccia chiamarla, nella sua forma triangolare e latina, oppure randa di poppa, nella sua forma quadra. Quando la _Nina_ spiegò al vento la sua velatura nuova, dovette affrontare i giudizi delle altre navi, che l’aspettavano per muovere di conserva con lei. Il marinaio è criticatore per eccellenza; figuratevi se poteva essere risparmiata la _Nina_, il giorno che si presentò in riga così trasformata. La critica alle sue vele fu come un sorriso, il primo, in mezzo a tanti giorni di nera malinconia. —Sarà bella,—diceva uno,—ma mi pare un po’ goffa. —Già,—soggiungeva un altro,—come un contadino di Biscaglia, quando mette un abito nuovo. —E guardate,—entrava a dire un terzo,—tra i pennoni e gli alberi, che stonatura di tinte! —Si capisce; i pennoni son nuovi, e gli alberi son vecchi. —Albero vecchio.... fa buon fuoco. —E quelle trozze! dovrebbero stringere un po’ meglio. —Aspettate che bevano, e stringeranno, stringeranno anche troppo.— Insomma, ognuno voleva dire la sua. E l’almirante, passeggiando gravemente sul ponte della _Santa Maria_, poteva, come suol dirsi, sentir suonare tutte le campane, ad una ad una, e magari tutte insieme. Su tante, egli ne sentì una che lo colpì, facendolo voltare di soprassalto. Due marinai stavano appoggiati al capo di banda, un po’ in disparte dai loro compagni, e ragionavano di cose vane, non tali da destare l’attenzione dell’almirante. Ma il tono è quello che fa la musica; e quei due cantavano in un tono che doveva far senso a messer Cristoforo Colombo. Parlavano, a farvela breve, in vernacolo genovese. Come mai due genovesi a bordo? Ed egli non ne sapeva nulla? L’equipaggio delle tre caravelle non lo aveva scelto lui. Quella gente era stata presa per forza, nella maggior parte; e il resto era stato tirato dall’esempio dei fratelli Pinzon. A Palos, ad Huelva, a Moguer, erano tutti valenti marinai; si potevano prender tutti ad occhi chiusi. E un po’ per una ragione, un po’ per l’altra, l’almirante non aveva presieduto alla formazione della sua marinaresca. Quanto al nome di tutti, alla patria e alle altre particolarità di quella gente, erano cose che egli avrebbe conosciute via via, durante il viaggio, senza bisogno di leggere il registro, che era tenuto dal suo primo pilota. Immaginate dunque la dolce commozione che messer Cristoforo Colombo provò in quel giorno e in quell’ora. La parlata della madre patria è sempre la più soave all’orecchio dell’uomo, quando egli si ritrova fuori paese. Egli accorre al suono conosciuto, come ad una festa dell’anima; ascolta giubilante, vorrebbe subito barattar parole anche lui, come se volesse provare a sè stesso che quell’idioma, che è senza dubbio il più bello del mondo, egli non lo ha dimenticato. E parlandolo, dopo tanti anni, in una regione lontana, egli sente in quell’idioma, in quel vernacolo natìo, un gusto, un sapore di novità, che gli è fonte di gioie inattese, rivelazione di arcane bellezze. Ma per allora non era il caso di fermarsi a discorrere. La dignità del comando voleva che l’almirante tirasse di lungo; e il momento, poi, non era da chiacchiere. Le caravelle erano in riga, bisognava partire. La _Santa Maria_ si mosse per la prima dall’ancoraggio della Gran Canaria, dirigendosi alla Gomera, dove aveva lasciato a terra una squadra d’uomini per far provvista di viveri. Era una domenica, il 2 di settembre, un mese dopo la partenza da Palos. Per andare alla Gomera, si passava davanti a Teneriffa, che è l’isola centrale del gruppo delle Canarie. Il gran picco di Teneriffa era proprio allora in piena eruzione vulcanica; maraviglioso spettacolo, che per la maggior parte dei marinai di Cristoforo Colombo poteva dirsi anche nuovo. Udendo i boati della montagna, e i tuoni frequenti che facevano tremar l’aria tutto intorno, vedendo la immensa colonna di fumo che usciva a fiotti dall’alto cratere, le fiamme che guizzavano in mezzo a quel fumo, i torrenti di lava che scendevano rosseggianti nella notte lunghesso i fianchi del cono, quei poveri marinai del secolo decimoquinto provarono gli stessi timori che cinque secoli prima dell’Era volgare avevano fatto dare indietro i compagni di Annone Cartaginese. Quella eruzione spaventosa di Teneriffa era una ammonizione ai mal capitati. Così, per terremoti e per vulcani, si era inabissata una gran terra, laggiù, di cui narravano oscure leggende; quell’istesso mare che l’aveva inghiottita, non poteva divorare da un momento all’altro anche loro? L’arrivo alla Gomera fu occasione di altri timori, non più per i marinai, ma per il comandante supremo. Da poco erano entrati in rada, quando sopraggiunse una caravella, anch’essa spagnuola, che faceva servizio tra quelle isole. Veniva dall’isola del Ferro, la più occidentale delle Canarie, e recava notizie di una straordinaria crociera. Tre navi portoghesi avevano toccato all’isola del Ferro; dai discorsi dei marinai, dalle domande degli uffiziali, si era potuto capire che il re Giovanni II di Portogallo mandava quelle tre navi ad aspettare al varco una spedizione di scoperta, per farne prigioniero il comandante. Cristoforo Colombo, non durò fatica ad intendere chi fosse l’aspettato. Sette anni addietro egli era fuggito dal Portogallo, non isperando più nulla da quel re, che sempre lo aveva tenuto a bada con buone parole. Richiamato da lui, che certamente si era pentito e temeva di veder la Spagna far buon viso ai disegni del navigatore Genovese, non aveva voluto a nessun patto ritornare a Lisbona. Ciò che il Portoghese temeva, era accaduto; tardi, veramente, ma in tempo per nuocere alla fortuna del Portogallo, i reali di Castiglia avevano dato a Cristoforo Colombo le navi e gli uomini per tentare l’impresa dell’Oceano. Nuove isole, fors’anche continenti, sarebbero stati dunque scoperti a profitto di Spagna. Ma non erano del Portogallo tutte le nuove terre di là dai confini d’Abila e Calpe? Già troppo era che Castiglia vantasse diritti sulle Canarie, e di tanto in tanto, dopo l’impresa del Bethencourt, vi facesse atti di padronanza. Niente altro doveva sperare, nient’altro ambire la corona di Castiglia in un campo oramai devoluto alla operosità portoghese. Aiutavano questa pretensione, la fortificavano certamente nell’animo del re Giovanni, le scarse cognizioni geografiche e cosmografiche del tempo. Dove andava infine il navigatore Genovese? di là dalle Azzorre? di là da Madera? di là dalle isole del Capo Verde? Tutte conquiste portoghesi eran quelle; e portoghese doveva essere egualmente tutto ciò che poteva ritrovarsi più in là. Ma se una grande scoperta fosse fatta per conto della Spagna, difficilmente si sarebbe potuto contenderne alla Spagna il possesso. Con la presa di Granata e lo sterminio completo della potenza moresca, i reali di Castiglia e d’Aragona si ritrovavano forti e liberi come non erano stati mai; la riunione di tutte le Provincie spagnuole sotto un solo scettro segnava la decadenza del Portogallo. Una conquista oltre i mari, sui confini dell’Asia, di quell’Asia a cui miravano allora tutti gli sforzi della Corte di Lisbona, avrebbe dato il tracollo alla potenza portoghese. Donde la necessità urgente di mettere ostacolo all’impresa di Cristoforo Colombo, e ad ogni costo impadronirsi di lui. E perchè, dopo tutto, non si poteva tentare con forze portoghesi la medesima impresa? Tre navi allestite per catturarlo, potevano anche proseguire il viaggio di scoperta, giovandosi dei suoi disegni e della sua direzione. Comandante con le braccia legate, avrebbe ad ogni modo raggiunto il suo fine e guadagnata la sua gloria. E forse, chi sa? era meglio andar prigioniero, ma rispettato, a scoprire un nuovo mondo, in un primo viaggio, che ritornare incatenato ed umiliato dal terzo, dopo aver fatta e assicurata la conquista di quel nuovo mondo ad un monarca sconoscente ed ingrato. Ma non è dato agli uomini di prevedere il futuro. Se anche Cristoforo Colombo avesse preveduto il suo destino, possiamo star certi che avrebbe fatto egualmente quello che fece, appena udite le notizie della crociera portoghese. Ordinò prontamente che si smettesse di far provvigioni, richiamò tutti gli uomini a bordo, e fece spiegare le vele. Le tre caravelle lasciarono l’ancoraggio il giovedì 6 settembre, due ore innanzi l’alba. Allontanandosi un buon tratto verso ostro, l’almirante sperava di uscir dalla vista del nemico, caso mai questi avesse lasciati i paraggi dell’isola del Ferro per muovergli incontro. Un vento fresco che era sorto nella notte, gli dava buona speranza di riuscire nell’intento. Ma quella brezza d’improvviso cessò; e le tre caravelle dovettero restarsene tutto quel giovedì, ed anche il venerdì, con le vele penzoloni. Per fortuna, l’almirante aveva guadagnato tre ore di cammino, e non era probabile che il vento delle isole giovasse tanto alle navi portoghesi, da spingerle sulla sua strada. Neanche era probabile che esse si fossero spiccate da ponente dell’isola del Ferro, dove potevano egualmente vigilare a destra e a sinistra di quell’arcipelago. Piuttosto era da temere che toccassero alla Gomera, sapessero del passaggio di lui e muovessero a dargli caccia, appena il vento si fosse levato. Ed egli spiava ansiosamente quel vento, che si levò soltanto sul mattino del sabato. Ma non era un buon vento; spirava da ostro, e spingeva le caravelle sull’isola del Ferro. Ore terribili furono quelle per lui. Ma anche per le navi portoghesi quel vento soffiava contrario. Non era dunque perduta ogni speranza per lui. Sull’alba della domenica, quel vento malaugurato cambiò finalmente, e le caravelle lo ebbero in fil di ruota. Allora l’almirante rese grazie a Dio della buona ispirazione che gli aveva mandata, di far mettere le vele quadre alla _Nina_, che con le vele latine non avrebbe potuto camminare di conserva con le altre, nè per conseguenza sottrarsi con esse al pericolo. Messa tutta la sua tela al vento, la piccola squadra di Cristoforo Colombo, in un giorno e nella notte che seguì, si allontanò quarantadue leghe dalla isola del Ferro. E naturalmente perdette di vista quell’ultima terra occidentale del mondo antico. Che gioia, per Cristoforo Colombo, non veder più che acqua dintorno a sè, quanto andasse attorno la vista! Ma era scritto lassù che quando egli era lieto non lo fossero egualmente i suoi marinai. Essi avevano veduto con terrore il picco di Teneriffa vomitar fumo e fiamme. Con altrettanto terrore videro quella immensa distesa d’acque, forse la prima che navigatori vedessero, senza certezza di un lido. E un lido non si aspettavano di ritrovare laggiù, sebbene l’almirante assicurasse di doverlo ritrovare a settecento leghe oltre lo stretto di Gibilterra; s’aspettavano invece di veder sorgere dagli abissi i mostri marini che avrebbero capovolte le navi e castigati i temerarii violatori dei segreti dell’Oceano. Quante volte non fu costretto Cristoforo Colombo a chetarli, a fare il suo sermoncino cosmografico a quei rozzi marinai, tentando di persuaderli della vanità delle loro paure! Lo stavano a sentire; lì per lì sembravano persuasi, pieni d’insolito ardimento; poi ricascavano nella loro viltà, tremavano, e si lagnavano peggio di prima. Altra cagione di sgomento fu il giorno 11 di settembre, a cento cinquanta leghe dall’isola del Ferro, quando videro galleggiare sulle acque un pezzo d’albero di gabbia. Così ad occhio e croce si poteva giudicarlo appartenuto ad un naviglio di cento venti tonnellate. Ma il naviglio, dov’era? Sicuramente sprofondato negli abissi dell’Oceano. Ugual sorte non era riserbata anche a loro? Lo sgomento si mutò in alto terrore, quando osservarono la bussola, sei giorni dopo aver trovato l’avanzo della barca naufragata. L’ago magnetico, scambio di volger la punta alla stella polare, piegava di cinque o sei gradi verso maestro. Che voleva dir ciò? Entravano essi in una regione del mondo ove le leggi di natura non valevano più? E lo sviamento dell’ago, ogni giorno osservato con ansia, si vedeva ogni giorno aumentato. Da parecchi giorni l’almirante aveva notato il fenomeno, e temeva che lo notassero altri. Quando il guaio fu avvenuto, egli dovette inventare una spiegazione plausibile del fatto. —Che credete? che la calamita volga la punta alla stella polare? La volge invece ad un punto fisso ed immobile. La stella polare, come ogni altro corpo celeste, fa i suoi mutamenti nello spazio, girando bensì intorno a quel punto invisibile. Ed ecco perchè qualche volta vedrete la calamita scostarsi dalla direzione della stella polare. Nel fatto è la stella polare che si scosta.— Si persuasero i piloti, che avevano una grande opinione della dottrina astronomica di Cristoforo Colombo. Persuasi loro, si persuasero anche i marinai, che non guardavano tanto nel sottile. Ed era tempo che una spiegazione fosse trovata, anche falsa; perchè già tra i marinai si andava ricordando la storia di un luogo lontano sul mare, dove i chiodi ed ogni altro genere di ferramenta si spiccavano dai navigli, per volarsene ad un certo promontorio incantato, lasciando che i legni si sfasciassero e colassero a fondo con le povere ciurme. Di sicuro quel promontorio esisteva, era una montagna di ferro, o d’altra diavoleria che tirasse a sè ogni specie di metalli; e quella montagna non doveva essere lontana. Già infatti l’ago calamitato della bussola si volgeva da quella parte; ancora una cinquantina di leghe, un centinaio al più, e le tre caravelle sarebbero state attirate verso quella montagna metallica, per far la fine di tante e tante altre. I marinai narravano, senza saperlo, una favola orientale, fatta correre dai novellieri arabi, per tutte le popolazioni marinaresche del Mediterraneo. Cristoforo Colombo non si era apposto al vero, immaginando la sua famosa dichiarazione dello strano fenomeno. Ma lì per lì quella dichiarazione faceva buon giuoco; ed anche, nello stato delle cognizioni fisiche ed astronomiche del tempo suo, poteva passare per una divinazione. Oggi, con tante ipotesi sui poli magnetici, sul loro numero e sulla loro distribuzione, non ne sappiamo più di lui. Conosciamo le deviazioni dell’ago calamitato in tutte le regioni del globo, ne abbiamo anche delineate esattissime tavole; ma la causa del fenomeno costantemente ci sfugge. Per possedere il segreto di tutti i congegni che fanno muovere due sottili lancette sopra un quadrante di porcellana, un fanciullo non dubiterebbe di disfare l’orologio. Ma noi non siamo più fanciulli, pur troppo! _Capitolo II_ Getta l’àncora e spera in Dio. La calma ritornava negli animi sbigottiti. Ma era la calma tenue del soldato, che tra una battaglia e l’altra gode il riposo dell’avamposto, mettendo a guadagno tutte le ore di quiete, pure avendo sempre nello spirito una vaga inquietudine, che gli leva la voglia di pensare alle cose lontane nello spazio o nel tempo. Certamente, regna la quiete intorno a lui, ma è quiete che precede la tempesta. Il sentiero è sgombro, davanti a lui, ma l’insidia è vicina; la morte può stare in agguato dietro quel canto di strada che verdeggia là in fondo. E verso quel fondo: si guarda mal volentieri, anche dai più coraggiosi. Chi è di servizio, ci pensi. Anche laggiù, sull’Oceano, erano calme le vie. Il sole splendeva, senza arrostire i cervelli; l’aria era dolce, mitissima; un aprile di Andalusia, per usare una frase dell’Almirante, un aprile d’Andalusia, a cui non mancava che il canto del rosignuolo, per far l’illusione compiuta. Cristoforo Colombo ebbe sempre una gran tenerezza per il canto del rosignuolo. Il ricordo del cantore dei boschi ritornava spesso nelle sue relazioni di viaggio e nel suo giornale di bordo. Ma se per allora mancava il rosignuolo, una rondinella di mare e una cingallegra erano venute a svolazzare intorno alle caravelle. Passi per la rondinella di mare; è suo uffizio di volare sulle acque. Ma la presenza di una cingallegra non s’intendeva egualmente laggiù, se non immaginando molto vicina la terra. E terra vicina immaginavano i marinai, argomentando dalla presenza di quel grazioso uccello silvano in una così lontana latitudine marina. Ma non tutti la pensavano a quel modo; particolarmente i nostri due genovesi. —Ahimè, povera _parissòla_,—diceva uno di essi al suo fedele compagno.—Bisognerebbe conoscere per quali traversie abbia dovuto sperdersi da queste parti, e che raffiche indiavolate l’abbiano gittata in alto mare. Da principio si sarà rifugiata sulla gabbia di qualche naviglio. Poi, seguitando questo vento di levante.... —Avrà perduta la tramontana;—interruppe l’altro, che era anche il più faceto dei due.—E un bel giorno, veduto questo gran verde, l’avrà scambiato per una prateria. Ci starà grassa, ci starà! —Così noi, sperduti per il mondo!—mormorò l’altro, sospirando. Ma al compagno non garbavano questi sospiri. —Ohè, Cosma!—esclamò.—Vogliamo intenerirci un pochino? Bada che il tuo Damiano da quest’orecchio non ci sente, e come è vero Dio ti pianta sulla palmara.— Voleva dire: ti pianta in asso. Palmara, dicono i genovesi quel cavo che lega i battelli alla spiaggia. —E piantami!—rispose Cosma, sforzandosi di sorridere.—Tanto, so bene che andresti poco lontano. —Ah bravo!—replicò Damiano.—Ho piacere che tu te ne ricordi, che siamo tutt’e due nello stesso guscio di noce. Per la vita e per la morte non abbiamo giurato di stare insieme? Tu piangi, io rido; e tra buon vento e cattivo la barca va. Tu vorresti il mondo rifatto a modo tuo, caro amico; io lo accetto com’è; per intanto andiamo tutt’e due a cercarne un altro. Ci sarà? e se c’è, sarà migliore del vecchio? —Mistero! —Con che aria lo dici? A me non fa nè caldo nè freddo. Mi par di giuocarla a croce e grifo; quel che sarà sarà. E spero,—soggiunse Damiano,—che tu ammirerai la mia filosofia, molto adatta per un viaggio di scoperta come questo. —Perchè? —Perchè si piglia il nuovo mondo come viene. —Matto!—esclamò Cosma.—E così, tu non hai neanche bisogno di fede, per conservare il tuo buon umore! —Chi te lo dice? Ho la mia fede ancor io; incomincio ad averne molta nell’almirante. Ed è naturale. Io vado a mano a mano raccattando quella che pèrdono gli altri. Non ti nascondo che questo nostro concittadino mi piace. Ed è nato lanaiuolo! Dunque fuori di porta Soprana, nella strada che mette al ponticello di Rivo Torbido. I lanaiuoli abitano tutti da quelle parti. E lanaiuolo com’è di origine, e marinaio di professione, ci ha un’aria di gentiluomo che consola. —Non dei nostri, per altro. —Ah sì, di un’altra stirpe, davvero. Ma vedi.... Cosma? Io mi son fatto un giudizio tutto mio, in questa faccenda. L’uomo fa l’aspetto secondo le passioni che lo muovono. Metti per dieci, venti, cinquanta e cent’anni una famiglia contro l’altra, tutte disposte a mangiarsi il naso, e vedrai che facce ti vengon fuori. È certamente per questo che gli Adorni e i Fregosi, da un pezzo in qua, son tutte facce proibite. Anche i Fieschi, sai, anche i Fieschi;—soggiunse Damiano, ridendo.—E frattanto, che avviene? Che le facce serene e piacevoli, da veri gentiluomini, bisogna cercarsele altrove. —Tra i lanaiuoli, allora? —Sicuramente; e tra quelli, più facilmente che nelle altre professioni. Quelli, a buon conto, devono esser nati nel soffice.— Il colloquio dei due marinai genovesi fu interrotto dal suono della campana, che dal castello di poppa chiamava l’equipaggio alla preghiera serale. Era quell’ora che il nostro maggior poeta ha cantata con versi tanto soavemente malinconici nelle celebri terzine del Purgatorio: Era già l’ora che volge ’l desio A’ naviganti e ’ntenerisce il core Lo dì ch’han detto ai dolci amici addio; E che lo novo peregrin d’amore Punge, se ode squilla di lontano Che paia ’l giorno pianger che si more. Tutti inginocchiati in coperta, e fattosi umilmente il segno della croce, i marinai della _Santa Maria_ mormoravano con l’Almirante, che la proferiva ad alta voce, la preghiera dell’_Angelus Domini_, istituita nell’anno 1095 da papa Urbano II, al concilio di Clermont, pei crociati che andavano in Palestina, e rimessa in vigore un secolo dopo, da Gregorio IX, per tutto l’orbe cattolico. Mai, fino a quel giorno, squilla vespertina e preghiera di cristiani s’erano udite più lontano nell’aria. Le navi di Cristoforo Colombo erano allora a trecento leghe di là dai confini d’Europa. La preghiera dell’_Angelus_ era finita da poco, e tutti i marinai che non erano di guardia alle vele, in vedetta sulla gabbia, o al timone, si disponevano a scendere nei ranci sotto coperta, quando una strana luce apparì davanti a loro, quattro o cinque leghe, lontana sul mare. Una striscia luminosa e rossastra si dipingeva nel cielo, solcandolo ad arco, e facendo sentire un alto fragore, come di artiglierie sparate in distanza. Pareva di vedere una palla di ferro rovente, o parecchie, vomitate da un mortaio; le quali scoppiassero per via, andando a sprofondarsi nel mare, e lasciando dietro di sè un gran solco di fuoco. La straordinaria grossezza di quel globo luminoso non permetteva di pensare alle stelle cadenti, fenomeno abbastanza comune nelle calde regioni e in certi mesi dell’anno. Nè la più parte di quei marinai avevano veduto mai bòlidi; nessuno ne aveva mai veduto uno così fuor di misura; e del resto, ad ogni fenomeno naturale di cui non si conosce la causa, è più facile sgomentarsi che rinfrancare gli spiriti. Che cosa significava quel razzo? era esso il principio del finimondo? non prenunziava forse tutta una sequela di scoppi e di rovine? Ma niente avvenne, di ciò che incominciavano a temere. Del solco luminoso non rimaneva più traccia nel cielo. La pace regnò quella notte e i giorni seguenti. Spirava da levante una brezza viva e costante, che teneva in continuo esercizio le vele, senza dar travaglio all’alberatura e al sartiame. Tutto andava dunque a seconda; favorevoli i segni del cielo, più favorevoli ancora i segni del mare. Infatti, sentite: s’incominciava a vedere sulla superficie delle acque un grazioso spettacolo. Qua e là galleggianti sui flutti, o, per dir più veramente, sulla liquida lastra del mare, lievemente increspata dalla brezza, si scorgevano piccoli strati, come chiazze di verde. Entrandoci le navi per mezzo, si vedevano quegli strati esser fatti di erbe verdi, tanto verdi che parevano strappate di fresco dalle zolle natali. E le chiazze si facevano a mano a mano più larghe, più frequenti, più fitte. Fu a tutta prima una festa degli occhi, e per conseguenza una allegrezza dei cuori. L’assenza del verde è la malattia del marinaio. Il verde è il gradito colore della terra. Dicono gli astronomi che a guardarlo dall’osservatorio degli altri pianeti, il nostro globo tramandi una luce di smeraldo, a cagione delle sue terre e della vegetazione che le ricopre. Peccato non esser là, su Marte, o su Giove, a vedere la bella figura di pietra preziosa che dobbiamo far noi, nella immensità dello spazio! —Le isole sono vicine!—gridavano i marinai.—Vedete come son fresche, queste erbe. Sembrano staccate ieri dal suolo. —Effetto dello stare in acqua;—notava qualcuno. —E sia, diciamo due giorni, tre, cinque. Ma a lungo andare, marcirebbero. E poichè queste sono così fresche, siano di un giorno o di cinque, la terra dev’essere vicina. —Mettiamo di sei, e crepi l’avarizia. Io mi contenterei di toccar terra fra sette.— Così ridevano e scherzavano, dimenticando le recenti paure. Un marinaio si buttò in acqua per cogliere una manata di quelle erbe, e portò a bordo un granchio vivo, che fu subito presentato all’Almirante. Quel povero crostaceo dell’Oceano non differiva punto punto dagli altri congeneri suoi delle coste d’Europa. Ma dalla sua presenza in quelle latitudini si poteva, a sentire i marinai di Moguer, grandi pescatori nel cospetto di Dio, cavare un eccellente pronostico di spiagge vicine. Essi infatti sostenevano che di granchi, a ottanta leghe da terra, non se ne ritrovano più. —Distanza giusta per metterci casa;—bisbigliò Damiano all’orecchio di Cosma.—Non c’è più pericolo di pescarne.— Poco dopo il granchio, indizio sicuro di terra entro le ottanta leghe di distanza, si vide uno sciame di tonni che vennero a guizzare nella scia delle navi. E poco dopo i tonni che scherzavano in acqua, venne un’altra cingallegra a svolazzare tra l’albero di maestra e il trinchetto della _Santa Maria_. Fors’anche era la cingallegra dei giorni scorsi, povera cingallegra sperduta, che aveva intenerito il cuore di Cosma. Ma comunque fosse, cingallegra e tonni erano altri indizi di terre vicine. Anche l’onda marina, assaggiata dal pescatore del granchio, e poi via via da altri curiosi, era meno salata in quei paraggi che non fosse nelle acque delle Canarie. E quello, per bacco, era indizio di terre vastissime, di un continente a dirittura, donde si scaricassero nell’Oceano le acque dolci di grandissimi fiumi. E il mare sempre tranquillo; e il vento sempre favorevole. Laggiù da settentrione l’atmosfera un tantino più fosca; altro indizio di terra. E poi un fitto sciame d’uccelli che passavano alti, volgendo a ponente; nuovo e prezioso indizio che da ponente o da tramontana, ma sempre là, davanti a loro, fosse vicina la meta. La _Pinta_, grande veliera della squadra, si accostò al bordo della _Santa Maria_, chiedendo all’almirante la licenza di muovere innanzi liberamente, per iscoprire quella terra benedetta. Martino Alonzo Pinzon si struggeva d’impazienza; sicuro del fatto suo, avrebbe desiderato esser primo a dare la buona notizia. Ma l’almirante non diede la chiesta licenza. Si doveva andar tutti di conserva, per non aversi a smarrire. Ed egli, dai suoi computi, non argomentava vicina la terra. Che ostinazione era la sua? I segni crescevano ad ogni giorno, quasi ad ogni lega di cammino che le navi facevano. Due pellicani non erano proprio allora passati in aria, venendo da ponente? Ora i pellicani non sogliono andar mai lontani oltre venticinque leghe dal lido. Questo non lo dicevano i soli pescatori di Moguer; lo asserivano tutti. E quei grossi nebbioni che si levavano all’orizzonte, senza mestieri di vento, che cos’altro volevano dire se non questo, che il viaggio di scoperta toccava al suo termine? Bene operava Cristoforo Colombo, resistendo alle domande di Martino Alonzo Pinzon. I suoi computi potevano essere errati; sicuramente lo erano, ma non in guisa da giustificare le speranze precoci della sua gente, poichè la distanza tra l’Europa e il Nuovo Mondo dovea riscontrarsi anche maggiore delle settecento leghe immaginate da lui. Per intanto egli manteneva la sua autorità; e per il giorno dei disinganni non sarebbe apparso incerto nella sua dottrina, facile ad infiammarsi per ogni nonnulla, come i suoi compagni di viaggio, vagante a caso sui mari, come un avventuriere od un pazzo. —Stiamo tutti in riga, Martino Alonzo;—gridò egli al comandante della _Pinta_;—ci sarà gloria per tutti. Gli indizi che osserviamo sono certamente notevoli. Forse ci dimostrano l’esistenza di qualche isola sulla nostra diritta. Ma non mette conto per ora di cercar piccole cose. Vedremo al ritorno. Approfittiamo ora di questo buon vento, e facciamoci avanti verso ponente. Desidero di toccar terra al pari di voi; ma penso che ne siamo ancora distanti un bel tratto.— E si apponeva al vero. La spedizione era appena a metà strada. Ma non aveva arcipelaghi sulla diritta, nè sulla manca; e i pellicani, le cingallegre, i granchi, i tonni, l’acqua meno salata, i nebbioni, il mare erboso, non significavano niente di ciò che gli altri speravano. E andavano, frattanto, procedevano fidenti tra quelle chiazze di verde vivo. Ma a grado a grado quelle chiazze crescevano, si allargavano, e presto non si vide che una chiazza sola; tutto il mare, intorno alle navi, era verde per quello strato di erbe, come è verde un palude, un serbatoio di acque stagnanti. E ad un certo punto, quello strato d’erbe era così fitto da impedire il corso alle caravelle, obbligando i marinai a spenzolarsi dalla prora coi lunghi aldighieri in pugno, per rompere e allontanare l’ostacolo. Era la prima volta che i marinai della vecchia Europa vedevano quelle praterie galleggianti. Ignoravano perciò che il mar di Sargasso, come fu chiamato di poi dalle alghe di cui è formato, occupa nel mezzo dell’Atlantico uno spazio otto volte più vasto della penisola Iberica. La formazione di quello strato verde non è più un mistero per la scienza, dopo la scoperta del _gulf stream_, ossia della corrente del golfo, il gran fiume oceanico che si parte dal polo antartico rimontando fino all’artico, ma partendosi a mezzo il suo corso in due correnti, una delle quali costeggia l’Africa e l’altra va a far gomito nel golfo del Messico, lasciando nel centro un vasto campo di mare più tranquillo e più freddo, nel cui fondo vanno a finire tutti i tronchi di alberi, carcami di navigli, ed ogni materia pesante travolta dalle acque, mentre alla sua superficie si raccolgono e galleggiano tranquille come in uno stagno tutte le erbe marine, strappate dagli abissi dell’Oceano. I marinai si erano rallegrati da principio alla vista del verde. Avevano anche riso, vedendosi costretti a far piazza pulita con gli aldighieri. Ma non si può rider sempre; e dopo aver riso, incominciarono a seccarsi; dopo essersi seccati, tornarono a sgomentarsi da capo. Quegli strati d’erbe non si sarebbero fatti a mano a mano più profondi, tanto da imprigionare a dirittura le navi? Non era possibile che i mostri temuti fossero per l’appunto in agguato dietro a quei monti di viscida verzura? E se non erano mostri, non potevano essere bassi fondi, secche e frangenti, in cui dovessero incagliare le caravelle? Dei mostri non temeva l’almirante; ma bene incominciò a temere anch’egli delle secche. A lui, memore di tutti i testi delle antiche scritture, ritornava in mente l’Atlantide di Platone, quell’Atlantide inabissata, i cui resti potevano benissimo essere rimasti a fior d’acqua, o alti tanto sott’acqua da cagionar gravi danni alle carene delle navi. Ma questi timori erano presto dissipati dallo scandaglio, che fu gittato più volte e non trovò mai fondo, neanche con dugento braccia di sagola. —Animo, dunque!—diss’egli, dopo parecchie di quelle prove convincenti.—Abbiamo varcati oramai gli strati più fitti, e il pericolo dei frangenti e delle secche è passato, se pure c’è stato mai. Vedete poi come è costantemente favorevole il vento. —Sì, ben dite, signore, costantemente!—rispose per tutti il pilota Perez Matheo Hernèa.—Soffia sempre da levante, questo vento benedetto! —Non sempre;—disse l’almirante.—Qualche volta è caduto; e abbiamo avuto un po’ di brezza da ponente. Rara, se vogliamo; ma basta a dimostrarci che anche qui comanda la legge della varietà. —Con questo particolare, per altro;—replicò il pilota;—che quando soffia il vento da levante si fa molto cammino, e quando soffia da ponente non ha nemmeno la forza di sbatacchiar le vele contro gli alberi. —Orbene, che volete voi dir con ciò, Perez Hernèa? —Che per andare all’incerto, il vento aiuta; ma che, se dovessimo dar volta, per ritornarcene a casa, il vento non ci aiuterebbe più. Ecco, signore, con vostra licenza, e col debito rispetto, quello che voglio dir io.— L’almirante aggrottò le ciglia, alle parole dell’Hernèa. Ma si contenne, e, per non averlo a riprendere prima del tempo, si provò perfino a scherzare. —Bravo il mio pilota!—diss’egli.—Uomo di provato coraggio com’è, penserebbe egli a ritornare? proprio ora, che siamo tanto vicini alla meta? —Eh, vicini!... vicini!...—brontolò il pilota.—Qui non si capisce più nulla. Ma la vostra esperienza, signore, che cosa può dirmi, intorno a questo vento di ponente che non ha forza di muovere una vela? —Che cosa posso dirvene io, Perez Hernèa? Sa il marinaio perchè il vento spiri tanti giorni da un lato, e poi d’improvviso si volti? Verrà giorno, io spero, che questo ed altri segreti dell’ordine naturale saranno conosciuti. Per ora governiamoci con la pratica nostra. Ci sono venti di mare e di terra, di golfi e di canali, ed alti e bassi, e forti e deboli. Per prevederne l’andamento bisognerebbe conoscere i paraggi. Voi conoscete benissimo ogni particolarità dei venti che soffiano nel canale del Rio Tinto, e in quello dell’Odiel; non è vero? —Certamente. Poveri a noi, se non avessimo pratica dei brontoloni di casa nostra. —Ebbene, qui sono altri brontoloni;—replicò l’almirante.—E siamo in casa d’altri, e non li conosciamo ancora. Ma non sarà sempre così. Quando ci avremo fatta la mano, sapremo come governarci con loro. Per ora, osserviamo e studiamo. A me intanto par di capire una cosa: che qui, come altrove, certi venti sono proprii di certe stagioni. Qui, ora, è la stagione in cui regna il levante; approfittiamone. Verrà la stagione in cui soffierà il suo contrario, e un po’ più forte che non abbia fatto finora. Anche debole, lo abbiamo sentito; ne conosciamo dunque l’esistenza. E forse ci ha dato questo indizio di sè, per levare ogni dubbio a voi, sospettoso uomo. A me dice ancora che una terra è laggiù, donde egli viene a battaglia, ma finora con poca forza di resistenza. Ed è meglio così, per la nostra navigazione; non pare anche a voi?— Perez Hernèa si acquetò, per allora. L’almirante aveva ragioni per tutti i dubbi, per tutti gli argomenti in contrario. Ma egli non era da per tutto, e non poteva vincere ugualmente tutti i pregiudizi di una gente ignorante e ostinata. Quella lunga navigazione dove gli indizi favorevoli non conducevano a nulla, quel verde che non finiva mai, quel vento sopra tutto, quel vento che soffiava costantemente da una parte, come per portarli ferocemente a capitar male dall’altra, mettevano tutti in apprensione; e urtava i nervi la inflessibilità dell’almirante, di quello straniero che voleva condurre tanti poveri figliuoli d’Andalusia alla morte, per un suo puntiglio, per una sua stravaganza. Molti erano stati incerti fino allora se egli fosse un impostore od un pazzo. Incominciavano a creder tutti che gli avesse dato volta il cervello. Queste fissazioni, che mostrano tanta imperturbabile serenità, son veramente proprie dei pazzi. E non si chiedeva più nulla a lui. Si obbediva ai suoi ordini, materialmente, macchinalmente, senza metterci punto di quell’ardore, di quella buona volontà che fa della obbedienza una cooperazione intelligente. Per contro, incominciavano da prora i crocchi, i capannelli, quei borbottamenti, quelle mormorazioni, che non sono ancora il principio della rivolta, ma ne accennano l’intenzione. Le povere caravelle malconce; i viveri scarsi; l’acqua fradicia; i venti contrari al ritorno; di coste all’orizzonte neppur l’ombra; mare, sempre mare, nient’altro che mare; quella era la prospettiva. E quanto sarebbe durata? Indizi di terre ne erano venuti.... Sì, anche troppi, ed era il caso di richiamarsene, come della famosa sua grazia a sant’Antonio di Lisbona. Quei pellicani, quelle cingallegre, tutti quelli uccelli di passo che erano trascorsi a squadre, a sciami, a nembi, sul capo dei naviganti, ora venendo da prora via, ora da poppavia, non indicavano essi, nella capricciosa direzione del volo, che qualche spirito maligno si prendeva giuoco di loro? E qui taluni notavano che quei negri volatori, passando sulle caravelle, avevano fatto sentire un acuto stridìo. Sì, certamente, era uno scherno di potenze invisibili; le quali infondevano con vane immagini le speranze nei cuori, e si beffavano ancora dei troppo creduli marinai. E quegli uccelli, quei tonni, quelle nebbie basse all’orizzonte, non erano che apparizioni diaboliche. I mostri non sorgevano ancora dalle acque, dond’erano aspettati; si mostravano invece all’orizzonte, brulicavano in aria. Questa spiegazione degli indizi ingannatori apparve così chiara, che fu creduta a breve andare da tutti. No, non più avanti, per contentare il capriccio dell’avventuriere, del pazzo. Quell’uomo voleva trovar terra a ponente, o morire; proposito da disperati! Ma egli poteva farlo, egli che non aveva famiglia; non potevano essi, che a Palos, a Huelva, a Moguer, lasciavano occhi per piangerli. Bisognava dunque ricusargli obbedienza, forzarlo a ritornare indietro. Chi li avrebbe biasimati? chi li avrebbe accusati di viltà? Si erano spinti quattrocento e più leghe sull’Oceano, sul mare tenebroso, spavento di tutti i naviganti del mondo. Che si voleva di più? che morissero tutti di fame, errando inutilmente sopra un mare senza sponde? o che nei gorghi di quel mare trovassero il sepolcro? Le coscienze più timorate si davano pensiero di ciò che avrebbero detto i sovrani, vedendo ritornare le caravelle in Europa. Ma che cosa potevano dire i sovrani? Essi medesimi non si erano risoluti di concedere al marinaio genovese gli uomini e le navi, se non per levarsi d’attorno quel molesto supplicante, e a loro malgrado, come in troppe occasioni era stato dimostrato. Vedendo ritornare uomini e navi, la regina, forse, si sarebbe addolorata, poichè il Genovese aveva saputo ammaliarla col suoi racconti del Cataio e di Ofir; ma poi avrebbe capito che quel cercare il levante a ponente era una stravaganza, una pazzia; e buona com’era avrebbe finito con rallegrarsi di veder salve tante vite di bravi spagnuoli. Quanto al re Ferdinando, egli aveva detto di sì per contentare la moglie; ma che fosse contrario nel profondo dell’anima alla impresa di Cristoforo Colombo non era mai stato un mistero per nessuno. Il ritorno della spedizione, senza aver nulla ritrovato della terra promessa, neanche uno scoglio fuor d’acqua, sarebbe stato un vero trionfo per lui. Sì, dunque, ritornare indietro, ricusando obbedienza all’almirante, obbligandolo ad accettare la legge da loro. Ma se non avesse voluto persuadersi con le buone, era egli conveniente di passare alle cattive? Non sarebbe sempre rimasto a carico loro il fatto della disobbedienza e delle conseguenti offese alla sua persona? Da senno, o da burla, era almirante, era vicerè, era governatore; e tutto ciò per decreto reale. Il modo di superare quella piccola difficoltà alcuni dei più audaci lo avevano trovato, e ne avevano già discorso lungamente tra loro. Ma non se ne aprivano ancora liberamente nei crocchi più numerosi; stavano a bocca chiusa, o parlavano a monosillabi, a interiezioni, quando erano presenti marinai di altre nazioni; specie quando c’erano i due genovesi. E i due genovesi avevano capito; e si erano lungamente consultati tra di loro, per venire ad una risoluzione che di giorno in giorno si faceva più urgente. Finalmente uno di quei capiscarichi che quando è stato lor confidato un segreto, credono di averlo colto a volo, non istanno più nella pelle se non lo consegnano altrui, si lasciò sfuggire qualche parola coi due. —Ah sì? il vostro Genovese non vuol saperne di tornare indietro?—aveva egli detto.—Ebbene, ci resti lui, a naufragare per tutti. Un’ondata che spazzi la coperta, e si prenda quel matto ostinato, non è poi tanto difficile a trovare. —Trovare.... sinonimo d’inventare, non è vero?—aveva risposto Damiano. —Eh sicuramente! Capirete bene, voi altri, che quando la pazienza scappa.... E il vostro Genovese la farebbe perdere ai santi.— Damiano non volle sentirne più altro. Quella sera dormì male. A mezzanotte doveva andar egli di guardia alla vela, e Cosma gli teneva compagnia. Era l’uso, tra loro, di non separarsi mai; tanto che i piloti avevano finito col mandarli sempre insieme a far le quattro ore di guardia. —Senti;—disse Damiano al compagno, quando furono soli sul ponte;—io, per me, non ho più pace, fino a tanto che non ho detto ogni cosa all’almirante. E tu, che cosa ne pensi? —Io penso,—rispose Cosma,—che avremmo fatto bene a parlare anche prima. Finalmente, qui non si tratta di riferire i discorsi della gente; si tratta d’impedire un delitto. L’almirante dev’essere posto in grado di custodirsi da un colpo di mano. —Giustissimo!—ripigliò Damiano.—Eccolo là, per esempio, che esce dal gavone di poppa, come fa tutte le notti, per invigilare la guardia. Egli infatti non dorme che da un occhio. Ma per la sua persona egli non ha nessuna vigilanza. Due uomini risoluti potrebbero gittarglisi addosso, afferrarlo per la vita, levarlo di peso, e una, due, tre, buttarmelo a mare come un sacco di cenci. —Che infamia! e sarebbero capaci di farlo. —Dunque, si dice tutto? —Si dica.— Mentre i due si confortavano scambievolmente a parlare, l’almirante veniva a passo lento da poppa, per vigilare le guardie, che non si lasciassero prendere dal sonno. —Buona notte, signor almirante;—disse Cosma, appena quell’altro gli fu vicino.—Iddio vi guardi. —Ed anche voi, ragazzi;—rispose a bassa voce Cristoforo Colombo.—Buona guardia. —E san Giorgio valente vi conceda vittoria sui vostri nemici;—disse Damiano, parlando nel vernacolo della sua città natale. —Ah!—esclamò l’almirante, fermandosi.—I miei genovesi? —Sì, messere, e desiderosi di parlarvi. Se non era questa occasione, avremmo chiesto domattina di essere ammessi alla vostra presenza. —Cose gravi, dunque? e da non potersi confidare al pilota? —Gravissime, e vorremmo che non le sapesse neanche l’aria. Guardatevi, messere! C’è del torbido, a bordo. —Lo so, ragazzi, lo so. Da più giorni ho dovuto avvedermene. Gente ignorante ed ingrata! che ci volete fare? Un giorno i più lievi segni del mare e del cielo, segni che non persuadono me, offrono a loro una certezza maravigliosa di approdo imminente. Un altro giorno una cosa da nulla, mettete anche la costanza del buon tempo, me li sbigottisce come i bambini un racconto della balia, quando non ardiscono più spiccarsi dalle sue ginocchia per andare nel fondo della stanza. In verità, figliuoli miei, non avrei mai creduto così debole la fibra umana. E voi, come fate a non seguire l’esempio degli altri? —Noi? noi.... è un’altra cosa!—rispose Damiano.—Noi abbiamo fede nel nostro Genovese. —Abbiatela in Dio;—rispose l’almirante.—Da lui vengono le grandi idee alla mente; da lui i forti propositi al cuore dell’uomo. —E dal demonio i cattivi, signor almirante;—rispose Cosma.—Si guardi, Vostra Eccellenza. Da certe parole che abbiamo colte per aria, alcuni tristi avrebbero intenzione.... —Di che cosa? —Veramente....—balbettò Cosma.—È così nero, il disegno!... —Di uccidermi, non è vero? —No, mio signore.... o piuttosto, sì, perchè infatti, uccidere e far sparire è tutt’uno. —Già!—soggiunse Damiano, venendo in aiuto al compagno.—Si comincia a parlare di un’ondata furiosa, che spazzi opportunamente la coperta, trascinando con sè fuori del capo di banda il comandante supremo.— L’almirante rimase alquanto sovra pensiero. —Si pensa a questo?—diss’egli poscia.—Per fortuna non c’è l’occasione. Il mare è così costantemente tranquillo! —Certo, ed è ciò che li annoia. Questi marinai son venuti a desiderar le burrasche, e mi fanno ricordare quel che si dice dei nostri villani del Bisagno e della Polcevera, che si scorticano i polpacci con le calze di seta. Ma Vostra Eccellenza capirà che non c’è bisogno di un temporale, per fare un colpo di mano. L’essenziale è d’inventarne la notizia, per quando si sarà ritornati in Ispagna, e bisognerà render conto della vostra sparizione al governo. —È un disegno infernale!—esclamò l’almirante, più inorridito che spaventato dall’annunzio.—E siete certi che abbiano pensato di giungere a tanto? —Oh, per questo, non dubiti Vostra Eccellenza; coi nostri orecchi medesimi abbiamo sentito il discorso. —Pazienza!—replicò l’almirante.—Sebbene questo non dovessi aspettarmi, vedrò di fare buona guardia. —E la faremo anche noi;—disse Cosma.—Così conoscessimo i buoni, quelli in cui confidate di più, per metterci d’accordo, e vegliar tutti sulla vostra preziosa persona! —Amici miei,—rispose Cristoforo Colombo, traendo un sospiro,—conosco voi.... da pochi momenti. Quanto agli altri, non so nulla di loro. Eravate a Palos; potete ricordare in che modo si è formato il nostro equipaggio. —Pur troppo, mio signore! Metà per forza, l’altra metà per caso; tutta gente raccogliticcia. I buoni ci saranno di sicuro, e si vedranno alla prova. Per intanto.... —Per intanto, è buio pesto;—conchiuse Damiano.—Ma Vostra Eccellenza potrà confidarsi di queste cose co’ suoi ufficiali. —Sì, sì, figliuoli, lo farò;—rispose l’almirante.—Ma non è questo, che importa. La mia speranza è altrove. Siete voi marinai? —Noi? sì, come vede Vostra Eccellenza. —Infatti, la vostra condizione è tale, per ora. Ma dal primo momento che ho dovuto guardarvi in faccia, mi è parso.... che non ne aveste l’aria. —Le nostre mani, signore.... —Sì, capisco, le vostre mani saranno tinte di pece. Ma non è la pece che fa il marinaio, come non è l’abito che fa il monaco. Le mani del marinaio possono essere anche pulite, ma si riconoscono egualmente; specie nella palma, che par foderata con pelle di squalo. Ora, le vostre mani, che sono lieto di stringere.... —Si faranno ruvide quanto è necessario;—rispose Cosma, inorgoglito da quella dimostrazione di benevolenza, ma anche un pochettino turbato. —Sta bene;—disse l’almirante, sorridendo.—Quantunque, io non domandi ciò come una qualità necessaria.... a mani di cavalieri. —Messere....—mormorò quell’altro, più turbato che mai. —Oh, non temete, non voglio andare più in là,—rispose l’almirante.—I vostri nomi, se ben ricordo, sono.... —Cosma e Damiano;—si affrettò a rispondere Cosma. —E Cosma è lui, e Damiano son io;—soggiunse Damiano. —Benissimo. Due nomi di fratelli! —Noi non siamo che amici; ma come fratelli ci amiamo. —E perciò avete preso il nome da due santi fratelli, che erano anche colleghi di professione;—replicò l’almirante.—Erano infatti due medici, e del primo di loro mi pare di aver letto in un certo libro, che si conservi ancora una ricetta. —Sono anche i santi protettori dei pellegrini;—disse Cosma, che pareva poco desideroso di stare sull’argomento della medicina. —Siano dei pellegrini o dei medici, son sempre due benefattori;—conchiuse l’almirante.—E voi certamente avete assunti i lor nomi per adempimento di un voto. —Vostra Eccellenza legge nei cuori come nei libri;—disse Damiano.—Siamo infatti legati da un voto. —Per il quale, probabilmente, avrete lasciati gli agi della vita, venendo partecipi alle fatiche, ai pericoli di questo viaggio: non è così?— I due marinai non risposero parola. Ma per essi rispondeva la sapienza dei popoli, stillata in proverbi: chi tace acconsente. —Non voglio chiedervi ciò che non potete dirmi;—riprese Cristoforo Colombo.—Siete genovesi, e basta ciò, perchè io v’abbia in conto di fratelli. Ricordate soltanto che bisogna amarla, amarla molto, la terra dove si è nati; amarla tanto più, quanto essa è più sventurata. Sapete quanto abbiano fatta dolente la nostra povera patria, le discordie maledette dei suoi figliuoli!... —Voi dite bene, messere,—rispose Cosma.—E noi lo abbiamo ricordato già molte volte, pensando a voi. —A me? —Certamente. Ecco un uomo insigne, dicevamo tra noi, un uomo che ha fatto un disegno sublime, e potrebbe e vorrebbe darne la gloria e il profitto alla patria; ma perchè la patria non è in condizione d’intenderlo, egli deve rivolgersi ad altre nazioni, dando ad altri il profitto e la gloria delle opere sue. —Ah!—gridò l’almirante.—Lo intendete anche voi che dolore sia questo? e come profondo? Io non lo dico a nessuno, perchè nessuno lo intenderebbe. Pazienza, miei giovani amici! E lasciamo questo argomento tristissimo. Intanto, le vostre parole mi han detto assai più che non dicessero le vostre mani. Vorrei fare qualche cosa per voi; chiamarvi almeno tra i miei ufficiali. Ma quante invidie si desterebbero! Non per ora, adunque. Il giorno che avremo toccata la terra promessa, io sarò davvero vicerè e governatore; e quel giorno, vedremo. —Guardatevi intanto, messere. Noi non abbiamo mestieri che di una cosa: di vedervi incolume, trionfante su tutti i vostri nemici. Laggiù avete avuto da lottare coll’invidia; qui avete da lottare coll’ignoranza. —E sempre con la malvagità;—conchiuse Cristoforo Colombo.—Ma le vostre parole mi fanno ricordare ciò che volevo dire poc’anzi. Vi chiedevo se eravate marinai, per raccontarvi del primo capitano con cui ho imparata l’arte del navigare. Eravamo nelle acque dell’antica Cartagine, atterrati, con un vento che non si potrebbe immaginare di peggio. Non si poteva reggere al mare, bisognava ormeggiarsi e tener fermo ad ogni costo. Ma le áncore aravano, per la forza della corrente, e si temeva di andare da un momento all’altro a battere negli scogli. —Un guaio; dei grossi—esclamò Damiano. —Certamente;—rispose Cristoforo Colombo—e non c’era tempo da perdere. Il comandante ordinò di mettere mano all’áncora della speranza. «Credete—diss’io—che ci farà buon servizio?» Domandavo troppo, più ch’egli non potesse sapere. Ma ad ogni modo, me la trovò lui, la risposta: «Getta l’áncora e spera in Dio!» E così, come mi fu consigliato nella mia prima navigazione, ho fatto io in tutte le altre che seguirono. —Confidiamo nel suo alto volere;—disse Cosma, inchinandosi. —Ma pensiamo ancora,—soggiunse Damiano,—che chi s’aiuta Iddio l’aiuta. —Oh, sicuramente!—rispose Cristoforo Colombo, non potendo trattenersi dal ridere, alla pratica ammonizione.—Vi ho già detto che farò buona guardia alla mia vita, se occorrerà; non aspetterò che mi assalgano; andrò io contro ai loro disegni. Non si compiace di sfidare i bassi pericoli, chi ha cuor d’affrontare i maggiori. Ma se è necessario di entrare in lizza coi rivoltosi, anche questo farò. Voi, frattanto abbiate per certa una cosa: che presto, con l’aiuto di Dio, saluteremo la terra. —Con questa fede siamo venuti;—disse Cosma. —E ci sia pure da navigare altrettanto, non ci lagneremo, noi altri;—soggiunse Damiano.—Voi dite, messere, che si serve a Dio, con questo viaggio. —È la mia opinione. —E bisogna dunque servirlo allegramente. Lo raccomanda perfino il Salmista.— L’almirante sorrise e battè amorevolmente della destra sulla spalla di Damiano. —Ottimamente, giovanotto!—esclamò.—E che Iddio vi guardi ambedue. Ma domandiamogli ancora una grazia;—soggiunse.—A persuadere questa gente che ha il furore della paura, un buon vento gagliardo, e da ponente, farebbe meglio di tutti i nostri discorsi.— _Capitolo III._ Di una bella sconosciuta che mandò a Cristoforo Colombo un ramo di spino fiorito. Cristoforo Colombo era stimato un gran dotto in materia geografica, cosmografica ed astronomica, quando non era stimato un impostore, od un pazzo. Per lui, si sa, erano stranamente mutevoli i giudizi del volgo, nobile o plebeo che si fosse; e saltavano da un estremo all’altro, come qualche volta usano saltare i venti, dal primo al terzo, o dal secondo al quarto quadrante. Si può dire, dopo aver letto attentamente la storia della sua vita fortunosa, che gli storti giudizi, i sospetti, le animosità contro di lui non posassero mai intieramente finchè egli visse, da prima volendo regalare per forza un nuovo mondo alla Spagna, poi disputando ai suoi grandi una corona di vicerè nelle terre scoperte, e da ultimo combattendo virilmente per la propria fama, per il proprio onore, per il proprio decoro, contro le invidie e le ingratitudini congiurate. Ma ci furono anche nella sua vita, e frequenti, i giorni della lode e della reverenza universale. Ci furono anche i giorni in cui egli era tenuto per un gran mago, padrone di alti segreti naturali, e capace di comandare agli elementi coll’autorità di misteriose parole. E per un negromante, di sicuro, lo avrebbero tenuto i marinai della _Santa Maria_, il giorno 22 settembre del 1492, se dieci o dodici ore prima, cioè nel cuor della notte che fu sopra a quel giorno, lo avessero udito domandare al cielo un vento gagliardo di ponente. Quel vento si levò per l’appunto nella giornata, fortissimo, teso, dritto da prora; tanto che fu necessario serrare i velacci e le basse vele, prendendo i terzaruoli alle gabbie ed anche alla mezzana, per mettersi alla cappa serrata. Non si navigava più, con quel vento indiavolato al traverso; ma ne avevano anche una patente mentita le sciocche paure dei marinai. —Ed ora direte ancora che in questi paraggi il vento fresco soffia soltanto da levante!—esclamò l’almirante, volgendosi a Perez Matteo Hernea, suo pilota. —Non lo dirò più, ve lo giuro;—rispose umiliato l’Hernea. Il giorno seguente, le cose mutarono. Pareva proprio che quel vento da ponente si fosse levato solamente per dar ragione a Cristoforo Colombo, contro il suo equipaggio, e che, dopo aver fatto quella buona testimonianza per lui, non avesse più motivo di soffiare. Cadde, infatti, e il 23 ripigliò la brezza di levante, con cui si poteva andare a gonfie vele per la rotta stabilita. La _Santa Maria_ aveva dato gloriosamente tutta la sua tela al vento. Ma non durò a lungo con quella velatura di buon tempo. L’almirante, a un certo punto della giornata, comandò di serrar fiocchi, velacci, vela di maestra e mezzana, contentandosi di navigare con la gabbia, il trinchetto e la trinchettina. Certi punti neri all’orizzonte, diventati presto nuvoloni, l’aria più fresca, un color di piombo sulle acque, gli avevano annunziato imminente un temporale. Non si era ingannato. Il temporale si avanzò minaccioso, oscurando il cielo e sollevando il mare a tempesta. Le navi balenarono un poco, indi presero a menar la ridda sui flutti, ora balzando sulle creste spumanti che il vento incalzava, ora ascondendosi a mezzo nei profondi intervalli, per cui pareva che volesse ad ogni tratto scoprirsi il fondo degli abissi. La tela al vento era ancor troppa; e l’almirante comandò di prendere i terzaruoli alle gabbie. Poi, rinforzando il vento, le fece serrare a dirittura, ed egualmente il trinchetto, di guisa che la nave prese a correre con la sola trinchettina. —Che mare, Santa Vergine!—disse Damiano al compagno, mentre scendevano da serrare le gabbie.—Par quello che ha inghiottiti gli Egiziani, quando volevano dar la caccia agli Ebrei. —E quello fu per miracolo;—rispose l’almirante, davanti a cui passavano i suoi due Genovesi.—Così credo che sia anche questo. Ci vogliono dei miracoli, per ischiodare il cervello a questa gente. Del resto,—soggiunse,—le ondate propizie al gran salto son qua; e i miei nemici hanno già troppo da fare per sè, aggrappandosi al capo di banda, o alle sartie.— La burrasca non si chetò che verso il mattino del 24. Col sole ritornò la calma sul mare. Le caravelle, così duramente travagliate da quella collera d’elementi, ripresero la loro velatura ordinaria, e col vento più maneggevole si fecero a navigare di conserva. La _Pinta_, anzi, venne accostandosi quanto più poteva alla _Santa Maria_. —Ecco Martino Alonzo che ha qualche cosa da dirmi;—pensò l’almirante. Difatti il comandante della _Pinta_ voleva parlare a Cristoforo Colombo. Questi, alcuni giorni prima, gli aveva fatta passare la carta nautica, a lui mandata da Paolo Toscanelli: una carta sulla quale era segnata la famosa isola di Cipango, ad una distanza che oramai doveva essere stata oltrepassata da loro. E di questo dubbio, che glie ne era venuto, voleva intrattenersi Martino Alonzo Pinzon coll’almirante. —Pare anche a me, che abbiamo fatto un cammino più lungo;—gridò Cristoforo Colombo al Pinzon.—Ma forse il Toscanelli ha fallato il punto, collocando la grande isola sulla carta, o noi, ingannati dalle correnti che ci han fatto derivare, abbiamo fallata la stima. —Potrebbe anche darsi,—ripigliò il Pinzon,—che noi ci fossimo tenuti troppo a ponente. Non credete opportuno di appoggiare un poco a garbino? —Non credo;—disse l’almirante.—Del resto, fatemi passare la carta, e osserverò meglio ancor io. Intanto non cangiate di rombo; mi raccomando.— La carta arrotolata e raccomandata ad una sagola fu scagliata a bordo della _Santa Maria_. Cristoforo Colombo la portò allora nella sua cameretta, la spiegò sul deschetto, e si fece ad osservare, insieme coi più sperimentati dei suoi ufficiali, quale potesse per allora essere la posizione delle navi. Il lettore si maraviglierà che Cristoforo Colombo volesse rilevare il punto di stima sopra una carta fatta di suo capo da un fisico fiorentino, e nella quale era segnata l’isola di Cipango ad una distanza immaginaria. Ma pensi il lettore che quella carta, fatta avanti la scoperta delle così dette Indie occidentali, era tuttavia condotta secondo due norme, che parevano sicure a que’ tempi: la divisione della circonferenza del globo terrestre in ventiquattro zone, di quindici gradi ciascuna, che formavano in tutto trecentosessanta gradi, e il passo biblico di Esdra, ov’era detto che, diviso il nostro globo in sette parti, sei sono terra, e la settima è ricoperta dalle acque. Messe a riscontro queste due nozioni, aggiunta la notizia delle parti della terra già scoperte al tempo di Tolomeo, aggiunto finalmente tutto quel tratto che Marco Polo aveva visitato ad oriente, e i Genovesi scoperto ad occidente, non era difficile tracciare lo spazio di mare che doveva intercedere fra le Azzorre, estremità occidentale di Europa, e Cipango, estremità orientale dell’Asia. Il difficile sarebbe ora di credere a quella sistematica fabbricazione di carte nautiche; ma non era difficile allora. E ad ogni modo si può considerare con benevolenza un errore, il quale, rasentando la verità, condusse un uomo ardito e intelligente a scoprirla. Lo studio di Cristoforo Colombo e de’ suoi piloti fu repentinamente interrotto da un grido d’allegrezza. Quel grido, ripetuto e rinforzato da molte voci, veniva dalla _Pinta_. L’almirante uscì tosto in coperta, e vide Martino Alonzo Pinzon, ritto sul castello di poppa della sua caravella, che alzava le mani al cielo, in atto di giubilo, gridando a squarciagola: terra! terra! —Che è ciò che voi dite, Martino Alonzo?—gridò l’almirante a sua volta. —Terra, terra!—ripetè il Pinzon.—Signor almirante, io chieggo la mia ricompensa.— Martino Alonzo Pinzon alludeva al premio che i reali di Castiglia avevano stabilito per colui che primo scoprisse la terra. Il premio consisteva in una rendita di trenta corone, un poco più di seicento lire della nostra moneta d’oggidì. E con la mano distesa, il comandante della _Pinta_ accennava verso garbino, o libeccio, se meglio vi piace, dove infatti appariva una lingua di terra all’orizzonte, forse venticinque leghe distante dalle navi. I marinai della _Pinta_ si erano lanciati come scoiattoli su per le sartie; così fecero i marinai della _Santa Maria_ e quelli della _Nina_; tutti vedevano la terra, tutti confermavano con liete grida l’annuncio di Martino Alonzo Pinzon. Cristoforo Colombo non era intimamente persuaso; ma lo scuoteva la sicurezza universale. Commosso, si buttò ginocchioni, rendendo grazie a Dio. Martino Alonzo Pinzon fece di più: intuonò ad alta voce il _Gloria in excelsis_, a cui tosto risposero gli equipaggi delle tre caravelle. La terra si vedeva così chiaramente, e così vivo era l’entusiasmo di tutti, che l’almirante stimò necessario di lasciare il suo rombo, che era stato sempre il ponente, governando per tutta la notte a garbino. Ma giunse l’aurora gran dissipatrice di sogni; e dissipò anche le speranze di ricompensa che Martino Alonzo Pinzon aveva così facilmente nutrite. La terra che avevano creduto di veder tutti con lui, non era che nebbia vespertina; i primi chiarori del giorno avevano disperso il fantasma. Alla speranza, alla fede, doveva tener dietro lo scoramento. E avevano creduto di vedere la terra! E quella immagine di terra altro non era che un inganno degli occhi, un miraggio, una fata Morgana, il solito scherno delle potenze invisibili. Costernati, abbattuti, gli equipaggi obbedirono tacitamente al comando dell’almirante, che ordinava di riprender la via di ponente; quella via ch’egli non avrebbe mai abbandonata, senza i lor chiassi importuni. Per molti giorni si procedette al solito, con buon vento, mare tranquillo, cielo sereno e dolce temperatura. Le acque erano così chete, che parevano di lago, e i marinai, riavutisi alquanto delle loro malinconie, si pigliavano spasso a nuotare intorno al bordo. Nuovi indizi di terra si offrivano, aiutando a calmare le loro segrete inquietudini; incominciavano a mostrarsi a sciami i delfini; i pesci volanti, scagliandosi in aria sulle pinne spiegate, ricadevano a bordo delle navi. Si giunse così fino al primo di ottobre. Quel giorno, secondo la stima di Perez Matteo Hernea, la spedizione navale del mare Oceano doveva aver compiute le sue cinquecento ottanta leghe di navigazione, a ponente dalle isole Canarie. Ma questa era la stima fatta secondo i computi apparenti di Cristoforo Colombo. L’almirante faceva una stima tutta sua, tenuta gelosamente segreta: e questa ascendeva a settecento sette leghe. Nel fatto, adunque, s’era oltrepassata di molto la distanza assegnata dal fisico Toscanelli a quella benedetta isola di Cipango. Le mormorazioni erano ricominciate tra i marinai; e con le mormorazioni le congiure. Sarebbero trascorse un giorno o l’altro ad aperta ribellione, se di tanto in tanto qualche nuovo inganno degli occhi non avesse fatto intravvedere la terra all’orizzonte. Ma anche queste vane visioni, salutate da grida di giubilo, e seguite sempre da imprecazioni di gente disperata, annoiavano l’almirante. Il quale risolutamente dichiarò, e fece bandire su tutte le navi a suon di tromba, che chiunque gridasse terra, senza che questa si scoprisse nei tre giorni susseguenti, dovesse perdere ogni diritto di ricompensa, quand’anche un’altra volta scoprisse terra per davvero. E terra non gridò più Martino Alonzo Pinzon. Il comandante della _Pinta_ non credeva più alla esistenza della terra, nel rombo seguito da Cristoforo Colombo. Questa sua sfiducia crebbe tanto, che nella sera del 6 ottobre, Martino Alonzo Pinzon si fece ardito a proporre di piegare risolutamente a sinistra, cercando terra verso mezzogiorno. Inutile il dire che l’almirante non reputò conveniente di appagare il desiderio di Martino Alonzo Pinzon. La mattina del 7 ottobre, allo spuntar del sole, molti marinai della _Santa Maria_ credettero di veder terra a ponente. Ma temevano anche d’ingannarsi, e non dissero parola, per non avere a perdere la speranza del premio. Non furono così prudenti sulla _Nina_, che quel giorno veleggiava innanzi alle altre caravelle. Credette Vincenzo Yanez di veder terra, e gli parve di vederla così chiaramente, da non consentire alcun dubbio. Perciò fece innalzare lo stendardo sull’albero di maestra, e sparare un colpo di cannone. Erano quelli i segnali stabiliti, per chi primo scoprisse il lido sospirato. Fu grande la gioia su tutte le navi; ma fu anche breve. La nuova lingua di terra, comparsa all’orizzonte, svanì come quella dei giorni andati; e ripreso l’abbattimento, ricominciarono i lagni. Per altro, i buoni indizi non facevano difetto. Numerosi stormi di passeri campagnuoli trascorrevano alti sopra le navi, spiegando il volo verso libeccio. Era dunque di là che bisognava cercare il nuovo continente? Cristoforo Colombo incominciò a dubitare di aver commesso qualche errore di latitudine; e perciò, nella sera del 7, si risolse di piegare alquanto verso la parte a cui aveva veduto avviarsi i passeri campagnuoli. Tre giorni di seguito veleggiò verso libeccio, e crescevano sempre gl’indizi di terra. Sciami di uccelli di svariati colori svolazzavano intorno alle navi; i tonni scherzavano numerosi a fior d’acqua; passarono a breve distanza un airone, un pellicano ed un’anitra; erbe fresche e verdi galleggiavano intorno alla _Santa Maria_, che parevano staccate quel giorno istesso dal lido. Ma quante volte non si erano già veduti questi segni ingannatori? Le ciurme non potevano più pascersi di quelle illusioni. Domandarono ad alta voce di ritornare indietro. Proprio allora? C’era da perdere il lume degli occhi. Cristoforo Colombo affrontò quel giorno risolutamente la sua marinaresca. Lo facessero pure a pezzi, ma egli avrebbe resistito fino all’ultimo. La spedizione era destinata dal re e dalla regina alla scoperta delle Indie; qualunque cosa accadesse, egli, non nato Castigliano, avrebbe serbato obbedienza ai reali di Castiglia; sarebbe andato avanti nella sua intrapresa, fino a che, per grazia di Dio, non giungesse a compirla. Cosma e Damiano si erano piantati in prima fila, non per tener bordone ai rivoltosi, intendiamoci, ma per consentire con le parole e con gli atti ad ogni frase dell’almirante, e preparati, caso mai, a menar le mani in sua difesa. Ma per allora non fu mestieri; i rivoltosi non erano andati più avanti; la fermezza di Cristoforo Colombo da un lato, l’accenno alla lealtà castigliana dall’altro, fors’anche il dubbio di non esser tutti d’accordo nel proposito di ribellarsi alla volontà dell’almirante, li rimandò indietro come un’onda di mar lungo; che si ritragga spumeggiando e brontolando da un ostacolo che non ha potuto rovesciare. Nondimeno, la condizione di Cristoforo Colombo si faceva sempre più difficile e pericolosa. Si poteva egli durare in quello stato di contrasto, non più sordo, ma palese e a volte clamoroso, tra lui e la sua marinaresca? Per fortuna, il giorno dopo quella scena di rivolta, si fecero più frequenti e più notevoli gli indizi della terra vicina. Oltre una quantità di erbe fresche, e di quelle che nascono lungo le rive dei fiumi (e c’erano persino dei giunchi), fu colto un pesce verdognolo, di quelli che vivono solamente tra gli scogli. Su quella erba, su quei giunchi, sul pesce verdognolo, stavano almanaccando i marinai, quando ad uno dei due genovesi, a Cosma, che stava guardando sul mare, venne veduto qualche cosa, che lo persuase a spogliarsi in fretta e a tuffarsi nell’acqua. Damiano aveva fatto voto di non spiccarsi mai dal fianco di Cosma. Si spogliò in fretta anche lui, e tenne dietro al compagno. —Dove andate, voi altri?—chiese l’almirante, maravigliato di tanta, fretta dei due genovesi. —Ma!... Io non lo so;—rispose Damiano nell’atto di tuffarsi a sua volta.—Cosma va in acqua, ed io lo seguo. Egli ha un occhio di lince e l’altro di falco; due animali che vedono molto lontano. Ma io ho due braccia e due gambe che vanno più svelte delle sue.— Cosma, per altro, aveva otto o dieci bracciate di vantaggio sull’amico, e Damiano lo raggiunse quando egli aveva già afferrato l’oggetto per cui si era tuffato nell’acqua. —Oh bello!—gridò Damiano, vedendo la preda che Cosma teneva sollevata fuor d’acqua.—E per me nulla? —Vedi? C’è dell’altro laggiù;—rispose Cosma.—Mi pare una canna. —Ah, si! ed anche qualcos’altro di più nero,—disse Damiano, nuotando verso il punto che gli era stato indicato da Cosma. Questi, frattanto, ritornava verso il bordo della _Santa Maria_, nuotando sul fianco destro, per poter tenere in alto, agitandola davanti agli occhi dell’equipaggio, la sua bellissima preda. —Non è alga, per bacco!—gridò, come fu sotto al capo di banda.—Non è neanche erba, che si possa scambiare per alga. Gettatemi un cavo, da poter tirarmi a bordo, senza guastare questo raro presente. È destinato al signor almirante. —E a me, perdiana! un cavo anche a me;—gridò Damiano, a cinque o sei braccia più indietro,—non vengo neppur io con le mani vuote.— Il cavo era stato gittato, Cosma vi si era aggrappato, anzi attorcigliato con tutta la persona, ed era stato issato a bordo. Con la stessa manovra, fu pronto a seguirlo Damiano. —Ebbene, che cos’è?—disse Cristoforo Colombo, verso di cui s’inoltrava Cosma, tutto grondante d’acqua salata. —Signor almirante,—gridò Cosma, levando nel pugno un bel ramo di spino fiorito,—questo è il presente che manda a voi una bella sconosciuta.— Cristoforo Colombo prese il ramo di spino fiorito dalle mani di Cosma, ammirò i bei fiori del color dell’oro che ne adornavano le vette, e sorridendo rispose: —Conosco la bella dama, quantunque non abbia ancora avuto l’onore di vederla. —Ma ella, signor almirante,—replicò prontamente Cosma,—vi dice con questo ramo fiorito che voi la scoprirete fra poco. Fregiatevi intanto dei colori di lei, come suo cavaliere. —Così farò;—rispose Cristoforo Colombo.—Ma ecco dell’altro;—soggiunse, vedendo Damiano, che si avanzava anch’egli col suo donativo.—Questo non è un presente della dama. Potrebb’essere del marito, figliuoli miei, ed ammonir tutti noi a guardarci ben bene.— Damiano, infatti, oltre una canna verde, offriva un lungo bastone di legno, di colore tra il rosso e il nero, tutto tagliato a rozzi disegni geometrici. Cristoforo Colombo osservò lungamente anche questo, e poi lo concesse alla curiosità de’ suoi ufficiali di bordo. —La terra è vicina, signori;—diss’egli poscia.—Con un ramo di spino ella si annunzia; ma con questi altri segni ci ammonisce che dove ella è, possono anche trovarsi i frangenti. Non ci stanchiamo di gettar lo scandaglio, per conoscere quando saremo finalmente atterrati; ma sopra tutto raddoppiamo di vigilanza nella notte.— Piloti e gentiluomini di poppa risposero con vivi segni di approvazione; i marinai, grandemente mutati da quelli dei giorni innanzi, batterono le mani. L’almirante si ritirò nella sua cameretta; e là, deposto il ramo di spino fiorito a piè d’una immagine di Maria Vergine, che pendeva dell’assito, stette lungamente raccolto nella muta preghiera dell’anima. Quella sera, in coperta, dopo che fu recitata la _Salve Regina_, l’almirante fece il gesto di voler parlare, e trattenne tutta la sua marinaresca davanti al castello di poppa. Fecero cerchio intorno a lui, religiosamente silenziosi ed intenti, tutti quegli uomini che pochi giorni addietro avevano fatto il proposito di buttarlo a mare, e ancora un giorno prima s’erano levati contro di lui a tumulto. Ma egli non ricordava più quelle brutte scene, e generoso le aveva perdonate. Parlò con semplice dignità, come uomo di alti spiriti, che non ha nulla a temere dagli altri uomini, neanche la loro invidia, nulla a sperare, neanche il loro amore, tutto avendo il suo conforto in sè stesso ed aspettando il suo giudizio da ben altro giudice che non sia la moltitudine sciocca. Notò, incominciando, come la bontà divina, scortandoli con dolci e propizi venti sovra il mare tenebroso, da lei fatto limpido e cheto, avesse ad ogni tratto con nuovi indizi ravvivato il loro coraggio, moltiplicando quei segni in proporzione dei folli terrori da cui erano così spesso agitati, e conducendoli quasi per mano in una nuova terra promessa. Rammentò l’ordine da lui dato alle navi, prima di salpare dalle Canarie, di mettere in panna alla notte, dopo che avessero fatto il cammino di settecento leghe a ponente. Le recenti apparenze comandavano di attenersi oramai a quella precauzione, essendo probabile che in quella notte medesima si ritrovassero in vista di quella terra sospirata. Conchiudeva raccomandando di stare attentamente alle vedette sull’alto del gavone di prora, promettendo a chiunque scoprisse primo la terra, non solo la pensione assicurata dai Reali di Castiglia, ma ancora una cappa di velluto, ch’egli avrebbe pagata del suo. Il vento aveva soffiato abbastanza fresco per tutto quel giorno. Anche il mare si vedeva più mosso. Le caravelle fendevano i flutti con una rapidità meravigliosa, veleggiando al gran largo, e precedendo al solito la _Pinta_, miglior veliera di tutte. Regnava a bordo della _Santa Maria_ una animazione straordinaria: nessuno chiuse occhio per tutta la notte; ognuno aspettando di vedere la terra. Verso le dieci di sera, Cristoforo Colombo stava sul cassero di poppa, esplorando ancora con gli occhi fissi il buio orizzonte. Tutto ad un tratto, gli parve di vedere in lontananza risplendere un lume. Era piccino e tremolante, come il lumicino della favola; e l’almirante credette a tutta prima di aver traveduto. —Gutierrez!—gridò egli, volgendosi a quello dei gentiluomini di poppa, che era rimasto ultimo a vegliare con lui. Pedro Gutierrez, gentiluomo di camera del re, e ragionier generale della spedizione, si avvicinò prontamente. —Signor almirante, son qua;—rispose egli, facendosi al fianco di lui.—Che cosa volete da me? —Dite, Gutierrez; non vedete voi laggiù, sulla nostra sinistra, un lumicino che sembra danzare sulle acque?— Pedro Gutierrez si fece a guardare laggiù, dove l’almirante accennava; stette un poco in silenzio, aguzzando gli occhi nel buio, per rintracciare quel lume; finalmente esclamò, con accento di convinzione profonda: —Ah, sì, eccolo là. Avete ragione, mio signore. E si muove, difatti. Pare il lume di una barca peschereccia. —O una fiaccola di viandanti, lungo la costiera d’un monte;—rispose l’almirante.—Ma vi prego, don Pedro, chiamate qualchedun altro. Non vorrei che c’ingannassimo in due. —Chiamo don Rodrigo Sanchez?—domandò Pedro Gutierrez.—Poc’anzi, per l’appunto, egli passeggiava con me; non può essersi già addormentato. —Sì, chiamate don Rodrigo;—rispose Cristoforo Colombo.—È il nostro ispettore d’armamento, uomo di buon giudizio, e non facile a travedere.— Pedro Gutierrez discese dal cassero ed entrò nel gavone di poppa. Cristoforo Colombo rimase solo al suo posto, non potendo spiccar gli occhi dalla fiamma lontana, che brillava veramente a guisa di fiaccola, agitata da persona che corresse. Ma tutto ad un tratto la fiamma disparve, e il mare e l’orizzonte non furono più che tenebre fitte davanti agli occhi di lui. Rodrigo Sanchez di Segovia, capitano generale d’armamento della spedizione Oceanica, giungeva allora sul cassero, insieme con Pedro Gutierrez. —Troppo tardi, ahimè!—disse l’almirante, con accento di tristezza.—Il nostro bel lume è sparito. —Sparito!—esclamò Pedro Gutierrez.—Ma io spero che ricomparirà, e don Rodrigo potrà goderne anche lui. —Voglia il cielo!—disse Cristoforo Colombo.—Ma noi certamente lo abbiamo veduto; non è vero, Gutierrez? —Sul mio onore;—rispose Gutierrez.—E non mi sono neanche fidato dalla prima apparenza; ho voluto distinguerlo bene, averlo bene negli occhi. Ma pensate, signore, che quel lume, se è d’una barca peschereccia, può esserci nascosto ora da un cambiamento momentaneo di direzione della barca. Se poi è una fiaccola a terra, può esserci nascosta la fiamma da qualche fitto di piante; ricomparirà alla prima radura del bosco.— Pedro Gutierrez non aveva ancor finito di parlare, che il lume ricomparve difatti. —Ah, eccolo nuovamente!—gridò l’almirante, che non aveva perduto di vista quel punto dello spazio donde gli era apparso la prima volta il lume. —Guardate, don Rodrigo, laggiù, sulla nostra sinistra; per ritrovarlo, non avete che da calare una linea perpendicolare dalla cima del pennone di maestra. Ci siete? —Sì, sì, ho veduto;—disse Rodrigo Sanchez.—Lo distinguo benissimo. E non è un fuoco fatuo, per sant’Jago, quantunque saltelli la sua parte anche lui. Ma è vivissimo, veramente di fiaccola, come di legno resinoso, o d’altra materia combustibile di quella specie. —Magari d’olio d’oliva, non è vero?—disse ridendo il Gutierrez. —Eh, che cosa ne so io?—rispose il Sanchez.—Per essere olio d’oliva veramente, domanderebbe un lucignolo enorme, a giustificare una luce così viva. Sia quel che vuol essere, voi siete fortunato, signor almirante. Oggi la bella sconosciuta vi manda il ramo di spino fiorito; questa notte vi mette il lumicino sul davanzale. Bisogna andare, da buon cavaliere; anzi, bisogna correre, come un paggio innamorato. —E si corre, come vedete;—disse l’almirante.—Le vele portano tutte maravigliosamente. Incomincio a temere che siamo già troppo vicini alla meta.— Il lume frattanto era sparito da capo, e per non ricomparir più nel corso della notte. Dopo qualche altra celia sul fare di quelle che abbiamo udite, don Rodrigo Sanchez se ne ritornò nel suo covo; e poco stante gli tenne dietro il Gutierrez. Ma non si mosse Cristoforo Colombo dal suo osservatorio. Vegliava sempre, nella notte, e quasi quasi non si sapeva dire, a bordo, quando trovasse l’ora per chiudere un occhio: ma quella volta doveva vegliar più che mai. Immaginate, del resto, con quale ansia egli aspettasse il mattino. Ma erano a mala pena le undici di sera, e l’alba doveva farsi aspettare un bel pezzo. L’almirante passeggiava convulso in quel piccolo spazio del cassero di poppa; ma ad ogni tanto si fermava, aguzzando lo sguardo verso l’orizzonte, immerso tuttavia nelle tenebre. Intanto la _Santa Maria_ procedeva gloriosa, fendendo i flutti, col vento in fil di ruota, e al fioco lume delle stelle baluginavano nell’ombra tutte le sue vele gonfiate. Veniva di conserva la _Nina_, che le sue vele quadre, sostituite alle latine nel forzato soggiorno alle Canarie, avevano resa più svelta. Precedeva di buon tratto la _Pinta_, la gran veliera della spedizione, a cui questa sua qualità e l’umore del suo comandante Martino Alonzo Pinzon avevano fatto dare i soprannomi d’impaziente e di smaniosa. «Sì, dite, dite quel che vi pare» rispondeva Martino Alonzo Pinzon, quando sentiva celiare sulla andatura frettolosa della sua caravella. «Se la _Pinta_ mangia più leghe di voi altri, ogni giorno, è segno che ci ha buono lo stomaco. E senza bere; notate, senza bere! quantunque il suo nome gliene darebbe quasi il diritto.» Erano le due dopo la mezzanotte, e Cristoforo Colombo passeggiava ancora sul cassero, quando da prora via gli venne un lampo negli occhi, e dopo il lampo negli occhi uno scoppio rumoroso, uno schianto agli orecchi. Era la _Pinta_, la precorritrice della squadra, che traeva un colpo di cannone, il lieto segnale della terra veduta. Un’altra volta la _Pinta_ aveva fatto quel colpo di cannone, e di testa. Se n’era pentita, e non c’era più ricascata. Se questa volta si arrisicava a sparare, doveva averlo fatto con buon fondamento. Tutta la marinaresca della _Santa Maria_, tutti gli ufficiali di poppa, saltarono dai ranci e furono tosto in coperta. I marinai di guardia alle vele avevano già data la voce, da prora e dalle gabbie. Era la _Pinta_ che aveva sparato; la _Pinta_ che aveva scoperta la terra. Infatti, dopo quel colpo di cannone, imbrogliava le vele, rallentava il suo corso. Così almeno pareva di vedere, nella penombra della notte stellata. La _Santa Maria_ proseguiva intanto il suo cammino. Raggiunse la _Pinta_, mentre questa compieva la manovra per mettersi in panna. —Terra! terra!—gridò Martino Alonzo Pinzon, appena vide accostarsi la _Santa Maria_,—La terra, signor almirante, la terra!— E tutti, dal bordo della _Pinta_, ripetevano il grido. Tutti lo ripetevano con eco formidabile, dalla _Santa Maria_ e dalla _Nina_, che si avanzava a gonfie vele pur essa. Cristoforo Colombo aspettò che si chetasse il clamore; poi ad alta voce domandò: —Chi è stato che l’ha scoperta? —Un marinaio di guardia, Rodrigo di Triana. —A che ora? —Un’ora fa; subito abbiamo sparato il cannone, per darvene l’avviso. —Anche il signor almirante l’ha scoperta, e quattro ore prima;—gridò a sua volta Pedro Gutierrez.—Erano le dieci di sera, quando egli ha veduto un lume che brillava alla spiaggia.— Così ricambiate le notizie tra le due caravelle, tutti si diedero ad osservare la lingua di terra, che incominciava a vedersi distintamente, come una massa nera, sulla superficie del mare, a due leghe di distanza. —Lesti a serrar le vele;—gridò l’almirante. Le vele furono prontamente serrate, sulla _Santa Maria_. La _Nina_ non fu lenta a seguitare l’esempio. Bisognava mettersi tutti in panna, per evitare il pericolo, dato che ci fossero frangenti, o bassi fondi, in prossimità della riva. Per muoversi da capo, per accostarsi all’approdo, si aspettava il sorger dell’alba. Cristoforo Colombo era profondamente agitato. Avrebbe voluto pregare, ma non poteva; il turbamento dello spirito, oppresso da mille pensieri affollati, il tremito di tutte le fibre convulse, gli negavano, oltre l’uso della parola, l’ordinata connessione delle idee. Temendo di dare spettacolo della sua commozione, discese dal cassero; discese a stento, sentendo che male lo reggevano le gambe; rientrò nella sua cameretta, e là finalmente, gittatosi con le braccia in croce sulla sponda del suo giaciglio, davanti allo spino fiorito e all’immagine di Maria, non pregò, non ringraziò, diede in uno scoppio di pianto. E furono molte le lagrime, prima che si sciogliesse il nodo che i singhiozzi gli facevano alla gola, come i pensieri alla mente. Tutti gli affanni sostenuti, gli stenti fisici, i patimenti morali, i dubbi, le delusioni, le paure di tanti anni infelici, si sfogavano in quella abbondanza di lagrime, che occhio umano non doveva vedere. Che sollievo, quel pianto! e quante cose diceva, che la lingua non avrebbe mai saputo ripetere! che elevazione di spirito, in quella prostrazione di nervi! che effusione riconoscente di un cuore onesto, che amava confessare la sua pochezza, ripetendo intieramente dal cielo quella fortunata virtù, per cui egli, oscuro marinaio, deriso e disprezzato, era fatto ministro di una grande opera, della più grande a cui creatura umana potesse raccomandare il suo nome nel tempo! Piangeva, e piangendo si addormentò. Sono dei più robusti organismi, queste debolezze improvvise. Essi hanno vegliato tanto nello spasimo del desiderio, nella agonia dell’aspettazione, che alfine, come corda di arco troppo teso, si rallentano le fibre. E dormendo, egli sognò di fantastici regni che offriva ai sovrani di Castiglia; sognò di luminose regioni, a lui additate da una donna d’insigne bellezza, che teneva in mano, accostandolo al seno palpitante, un ramo di spino fiorito. Ma quella donna non era la sconosciuta dei mari. Egli aveva già veduto quel volto, dai delicati e nobili contorni; non gli erano nuove quelle ciglia lunghe, che ombreggiavano, senza nasconderle, due pupille scintillanti di vivissima luce; nè il bianco incarnato delle guance fiorenti, nè i bei capegli neri, nè l’alterezza della elegante e flessuosa persona. La vide egli, e mormorò nel sogno il suo nome: Beatrice di Bovadilla. Era per lei, protettrice generosa e costante, era per lei il ramo di spino fiorito. Ma anch’essa non lo aveva accettato in presente, che per farne omaggio alla Vergine, alla madre di tutti i dolori, ed anche di tutte le consolazioni. E deponeva l’offerta, ma ancora la tratteneva, come per dimostrare a lui di non avere sgradito il dono. Frattanto, volgeva a lui uno sguardo, lampeggiante di passione, illanguidito nella espressione dell’annientamento supremo; con lo sguardo un sorriso, un palpito, un bacio, mandato lentamente col sommo delle dita; e spariva. L’angiolo dei casti pensieri, che tutti abbiamo immaginato e intravveduto, amoroso custode dell’uomo, di questo inesperto Tobiolo del viaggio terrestre, non aveva a turbarsi di quel bacio, che la visione del sogno offriva al povero almirante del mare Oceano. Era un bacio, poi? o non piuttosto un pensiero compassionevole, un saluto, un addio? Si destò finalmente. Quanto era durato il suo sonno? Era balzato in piedi, ritornando alla coscienza di sè medesimo. Non aveva sicuramente dormito molto, perchè nella cameretta era buio ancora. E poi, egli sentiva le guance ancor molli di pianto. Rasciugò le sue lagrime, si scosse, ed uscì nuovamente in coperta. L’alba non era spuntata ancora; ma già, all’orizzonte, si distingueva meglio quella lingua di terra, isola, o promontorio di continente avanzato sul mare. Per quella volta, non era più da temere una delusione mattutina; i contorni non erano di nube, nereggiavano come dorsi di colline sull’azzurro cupo del cielo. Ed era la terra desiderata; finalmente, era quella. Come si sarebbe mostrata ai suoi occhi? Somigliante, nella vegetazione, alle terre d’Europa? Da qual gente abitata? Ultimo confine del mal conosciuto Cattaio? Isola solitaria sul mare, e lontana ancora di molto dalla ricca Cipango? Quali domande, a quell’ora! Il giorno era imminente, i dubbi si sarebbero chiariti, le curiosità pienamente appagate. Per intanto, era la terra. A questa conclusione erano venuti più facilmente i marinai, che non sentivano il bisogno di saper tante cose, e ballavano la ridda sulla coperta, accompagnando i salti e le capriole con liete canzoni paesane. L’alba sospirata imbiancò l’orizzonte, diffondendosi via via per la volta del cielo. Col suo mite chiarore, un fremito gaio corse sull’acque. La terra nereggiava ancora; ma a grado a grado si fece turchina, azzurra, violetta, e da ultimo, spuntando dal lontano orizzonte marino i primi raggi rossastri del sole, mostrò le sue vette dorate, mentre le coste si andavano tingendo di verde. La bella sconosciuta del mar tenebroso, la donatrice del ramo di spino fiorito, era dunque là, manifesta allo sguardo di tutti. E tutti la divoravano con gli occhi. Fu necessario che l’almirante ripetesse l’ordine un paio di volte, perchè i piloti lasciassero di contemplarla, e attendessero alla manovra delle vele, che volevano essere nuovamente distese. Si procedeva, sempre aiutando il buon vento di levante, che aveva assistite le caravelle per quasi tutto il viaggio. E l’isola, scambio di essere accostata dalle navi, pareva venir loro incontro sulle acque d’argento. Perchè era un’isola veramente: l’occhio esperto del marinaio non aveva durato fatica a riconoscerla per tale. S’indovinava estesa di molte leghe; si vedeva tutta sparsa d’alberi come un giardino, ed era, come un giardino, tutta fresca e ridente, sebbene non offrisse allo sguardo che le silvestri bellezze di una incolta natura. —A te, Cosma!—disse Damiano al compagno.—A te che hai un occhio di lince e l’altro di falco, spetta di farti onore, questa mattina. Vedi tu case? palazzi? tugurii? e cittadini che aspettino sulla calata del porto? —Finiscila, matto!—rispose Cosma.—Io non vedo tugurii, nè palazzi, nè case. Ma qualche cosa vedo brulicare alla riva, e sbucare fra i tronchi degli alberi. Dovrebbero essere creature umane, poco vestite, assai poco vestite. —Ho capito;—disse Damiano;—tutta gente svegliata di soprassalto; molto curiosa per giunta; e non avranno avuto tempo a vestirsi.— Damiano interruppe a questo punto la sua chiacchiera, sentendo una mano che dimesticamente si posava sulle sue spalle. Si volse, e vide l’almirante; lui, proprio, il signor almirante del mare Oceano, ilare in volto, radioso nello sguardo, nobilmente vestito di una cappa scarlatta. —I miei Genovesi sono di buon umore, stamane?—diss’egli amorevole. —Io, sì, mio signore;—rispose Damiano.—Il mio compagno, invece, non tanto. Vedremo se le bellezze di.... come si chiamerà poi quella benedetta città, che non si vede?... Vedremo, dico, se riusciranno a scaldarmelo un poco.— Cristoforo Colombo sorrise, e passò. Ai due concittadini aveva rivolto il discorso nel vernacolo genovese. Quella mattina, felice com’era, trovò modo di parlare con tutti i marinai della _Santa Maria_ nella lingua di ciascheduno: in castigliano ai Castigliani, che formavano per la massima parte il suo equipaggio; in portoghese ai due Portoghesi, che v’erano associati, quasi per ragione di buon vicinato; in inglese e in irlandese all’unico Inglese e all’unico Irlandese, che c’erano come sperduti. Per costoro furono poche frasi, le sue, delle più comuni, di quelle che ogni marinaio intelligente può subito imparare in un porto straniero, come per prendere il verso della nuova lingua, e stabilire le sue prime relazioni, nei più urgenti bisogni della vita. Ed anche avrebbe potuto parlare islandese, se avesse avuto un Islandese a bordo; poichè, nella sua vita di marinaio, aveva anche approdato in Islanda, nell’_ultima Thule_ degli antichi. _Capitolo IV._ Le maraviglie della terra promessa. In un venerdì, che fu il 3 agosto del 1492, Cristoforo Colombo era partito dall’isolotto di Saltes, sulla costa occidentale d’Europa, per muovere alla ricerca del Nuovo Mondo. In un venerdì, che fu il 12 ottobre del medesimo anno, doveva egli approdare alla prima terra scoperta di là dall’Atlantico, dal terribile mar tenebroso. Ed ora seguitate a dir male del venerdì, gabellandolo sempre per un giorno nefasto, se ne avete il coraggio. Il disco del sole era già intieramente fuori delle acque, allorquando il signor almirante del mare Oceano diede il comando di gettare le áncore e di mettere in mare i palischermi. Il doppio lavoro fu compiuto alla svelta, da una marinaresca giubilante. Nella barca, come più capace, Cristoforo Colombo volle compagni i primari ufficiali della spedizione, Diego di Arana, grande _alguazil_, o capo di giustizia, Pietro Gutierrez, gentiluomo di camera, anzi cantiniere del re, diventato ragionier generale della squadra, Rodrigo Sanchez, ispettore d’armamento e revisore dei conti, Rodrigo d’Escovedo, regio notaio, Bernardino di Tapia, istoriografo, e Luigi de Torres, ebreo convertito ed interpetre per le lingue orientali, che si supponevano parlate laggiù. Seguivano i piloti, o luogotenenti di bordo, Pedro Alonzo Nino, Bartolomeo Roldan, Sancio Ruiz, Giovanni di Cosa. Il quinto, Perez Matteo Hernea, restava di guardia a bordo. Il ringhioso uomo non aveva creduto alla terra; lo puniva la sorte, non lasciandogli toccare fra i primi la terra. Nel bargio, che era il palischermo minore, l’almirante fece discendere i tre scudieri, addetti alla sua persona: Diego Mendez, il fedelissimo, Francisco Ximenes Roldan, il futuro ingrato, e Diego di Salcedo. Con essi, tra i marinai, diede posto a Cosma e a Damiano; segno di particolare cortesia per i suoi due genovesi. E non vorrete mica imputarlo di parzialità, per aver egli pensato in quella occasione ai suoi concittadini. Erano stati due marinai esemplari per tutto il viaggio; l’obbedienza, la prontezza al lavoro, meritavano un premio. Egli, del resto, quantunque li sospettasse di condizione superiore a quella che dalla loro scelta appariva, non mostrava di distinguerli dagli altri marinai, poichè li chiamava appunto tra i rematori. Ed egli, nella barca, ritto sulla poppa, dirigendo la voga, torreggiava su tutti i suoi ufficiali. Stringeva nel pugno l’asta dello stendardo; lo stendardo della capitana, quello che portava il gran crocifisso in campo bianco; mentre gli altri comandanti, Martino Alonzo Pinzon, della _Pinta_, e Vincenzo Yanez, della _Nina_, discesi anch’essi nei loro palischermi, impugnavano gli stendardi delle loro navi; di bianco, alla gran croce di verde, accostata dalle iniziali del re Ferdinando e della regina Isabella, sormontate dalla corona reale. I sei palischermi mossero a voga arrancata verso la riva, andando primo fra tutti quello che portava l’almirante. Questi e i compagni suoi erano presi d’ammirazione alla vista delle ampie foreste che vestivano le basse colline dell’isola, e dei frutti di specie sconosciute, che pendevano dagli alberi, fin sopra alle sponde. Il cielo era puro, le acque trasparenti come cristallo, l’aria tiepida e fragrante di profumi silvestri; tutto ciò che vedevano, tutto ciò che sentivano, era un incantesimo lieto. In prossimità del lido i vogatori presero a sciare coi remi, facendo girar destramente sul proprio asse la barca, affinchè presentasse la poppa alla spiaggia. Cristoforo Colombo fu il primo a balzar sulla rena, e i suoi ufficiali lo seguirono, ma a rispettosa distanza, reverenti e commossi, vedendo com’egli, toccato a mala pena il lido, cadesse ginocchioni, baciando tre volte la terra. In questo atto di omaggio a Dio lo imitarono tutti; ma forse nessuno versò le calde lagrime che un vivo sentimento di profonda gratitudine gli strappava dagli occhi. Alzatosi poscia da quella adorazione, Cristoforo Colombo sguainò la spada, dispiegò lo stendardo reale, e chiamati al suo fianco i comandanti della _Pinta_ e della _Nina_, mentre facevano ala tutti gli altri ufficiali, recitò la preghiera latina che egli stesso aveva composta in viaggio, per quella circostanza: —Signore Iddio eterno ed onnipotente, che col sacro tuo verbo creasti il cielo, la terra ed il mare; sia benedetto e glorificato il tuo nome, sia lodata la tua maestà, che si è degnata di fare, per opera di questo umile servo, che il tuo sacro nome sia conosciuto e predicato in quest’altra parte del mondo¹. ¹ In latino (e merita di essere riferito testualmente, poichè è composizione di Cristoforo Colombo): «_Domine Deus æterne et omnipotens, qui sacro tuo verbo cœlum et terram et mare creasti; benedicatur et glorificetur nomen tuum, laudetur tua majestas quæ dignata est per humilem servum tuum efficere ut ejus sacrum nomen agnoscatur et prædicetur in hoc altera mundi parte._» La preghiera di Cristoforo Colombo, per ordine dei reali di Castiglia, fu usata in simili circostanze dagli altri scopritori spagnuoli, come Bilbao, Cortes e Pizzarro. —_Amen!_—risposero divotamente gli astanti. Finita la preghiera, l’almirante piantò lo stendardo, levò la spada, e battendone la punta sul terreno, prese solenne possesso dell’isola in nome del re e della regina di Castiglia, imponendole il nome di San Salvatore. Rodrigo di Escovedo, regio notaio, mise mano alla carta e stese l’atto, che Cristoforo Colombo firmò, e dopo di lui gli altri ufficiali. In quella occasione egli assumeva, firmando, i titoli di almirante, vicerè e governatore. E gli ufficiali, innanzi di firmare a lor volta, gli giurarono tutti obbedienza. Le cerimonie erano finalmente adempiute. Ufficiali e marinai potevano abbandonarsi alla gioia di quelle ore stupende, indimenticabili, che seguivano a tanti giorni, a tante settimane di stenti e di terrori. A tutti gli equipaggi fu data licenza di scendere a terra; armati, per altro, e con ordine di non allontanarsi dalla spiaggia, dove potevano preparare il loro pasto quotidiano. L’arrivo di quei marinai a terra fu la scena più graziosa, nel suo gaio disordine, che si potesse immaginare. Barcollavano tutti, come ubbriachi, un po’ perchè disusati da tanto tempo al saldo terreno, un po’ perchè la commozione era forte, e si reggevano male. Nell’eccesso della loro allegrezza, preferivano saltare. Giunti alla presenza dell’almirante, che ritto a’ piè di un albero li stava contemplando, gli si strinsero attorno, quale baciandogli le mani, quale abbracciandogli le ginocchia, e tutti gridando i più sperticati evviva al grand’uomo, al protettore, al dio della gente di mare. Ed erano gli uomini che una settimana prima volevano disfarsi di lui, buttandolo a mare! E frattanto, le creature umane poco vestite, anzi punto vestite, a cui aveva accennato Cosma, dov’erano? Sulla riva, affollate, al primo apparir delle navi, di quei mostri ignoti, che fendevano coi negri corpi le onde marine, spiegando in aria lunghissime ali di cigno. Ma ben presto avevano veduto ripiegarsi quelle ali, i mostri fermarsi a mezzo il loro cammino, cavandosi dal seno due mostricini per ciascheduno, e quei mostricini affrettarsi alla spiaggia. Tanto era bastato perchè quelle povere creature umane si allontanassero in fretta dalla spiaggia, andando a nascondersi nelle vicine boscaglie. Da principio non avevano ardito neanche di ricogliere il fiato, tanta era la furia del correre in salvo; poi, dalla vetta di un palmizio su cui qualcheduno dei più audaci si era arrampicato, giungeva l’annunzio che i piccoli mostri toccavano terra, balzandone fuori uomini stranamente fatti, coperti di vivi colori, e taluni di essi con la persona vestita di squamma lucente alla guisa dei pesci. Quegli uomini strani si erano fermati, non mostravano intenzione d’inseguire i poveri abitanti dell’isola. I piccoli mostri si erano allontanati dalla riva, per ritornarsene là, d’onde erano venuti, presso i mostri maggiori; e ai più savi uomini della tribù non era stato troppo difficile argomentare che si trattasse di piroghe, ma più grandi e più capaci delle loro, tanto sottili e così poco sicure, scavate com’erano grossamente nei tronchi degli alberi. Che cosa facevano quegli esseri maravigliosi, rimasti soli sul lido? che riti compievano, agitando quelle aste, da cui pendevano quei pezzi di tela? Perchè si buttavano alle ginocchia di uno tra loro, notevole per la statura elevata e per quello splendore di rosso scarlatto? Perchè alzavano le mani al cielo? Invocavano in quella maniera i loro spiriti tutelari? Ma quell’uomo alto, dai lunghi capelli d’oro, non era egli stesso uno spirito buono, disceso per essi, o con essi, dal cielo? La curiosità aveva vinto il timore. I più giovani ed animosi incominciarono a farsi avanti tra gli alberi, venendo fino al limite estremo del bosco. Gli esseri strani avevano l’aria di non avvedersi neanche della loro presenza; se pure accadeva che volgessero gli occhi da quella parte, non si trattenevano mai a guardare, e tranquilli attendevano ai loro discorsi. Taluni, anzi, andando attorno per la spiaggia, raccoglievano stipa e rami secchi, che portavano a certi focolari improvvisati, per accendervi il fuoco e preparare il pasto all’aperto. Non avevano dunque cattive intenzioni; erano esseri buoni, discesi a quella spiaggia per riposarsi, non per nuocere ai tranquilli abitanti dell’isola. E allora i selvaggi osservatori prendevano animo, si facevano sempre più avanti; qualcuno di essi era già uscito dalla macchia, e, mettendo piccole grida, cercava di destar l’attenzione dei nuovi venuti. I quali, finalmente, incominciavano a voltarsi, a guardare, e, senza muoversi dal posto che s’erano scelto sulla riva, invitavano coi gesti la timida gente ad accostarsi. Ma ancora non si fidavano, i naturali del luogo; stavano là sospesi, continuando a mettere le loro piccole grida, quasi volessero invitare quegli esseri strani a far sentire anch’essi il suono della lor voce, che ancora non avevano udita. Cristoforo Colombo si era avanzato lentamente di pochi passi verso la macchia. Col gesto cortese, e col tono di voce più soave che seppe, chiamò quella gente a sè, esortandola a non aver paura degli stranieri. Egli bene intendeva che le sue parole non sarebbero state capite; ma parlava ad ogni modo, perchè le frasi giustificassero il gesto. Una donna era in quella piccola schiera di selvaggi. Fu essa la prima a farsi più avanti, rassicurata dagli atti amorevoli, e dal nobile aspetto dell’uomo dai capelli d’oro. Poveri capelli d’oro, in mezzo a cui erano già tanti i fili d’argento! La donna, a mala pena coperta d’una fascia di stoia raccomandata sul fianco, aveva due bambini con sè, due putti a cui non toglieva grazia il color di rame della carnagione. E parlava loro, incitandoli con gli atti; e uno di loro finalmente si mosse, facendo alcuni passi verso l’almirante, che ne aveva fatti altrettanti verso di lui, mandandogli un sorriso e un gesto di carezza. Così, a poco a poco, vinto il sospetto e la ritrosia dei bambini, l’almirante si ritrovò tanto vicino ad essi, da poter porre la mano sulle lor brune testine; poi, tratti fuori due sonagliuzzi di metallo, li fece tintinnare al loro orecchio, destando in essi un senso di curiosità e di grata maraviglia. —Prendete,—diss’egli allora,—son vostri.— E col gesto dichiarando le parole, diede i due sonagliuzzi ai bambini. La donna si avanzò per abbracciare i figliuoli, fors’anche per incuorarli a dir grazie. Ed ella pure ebbe un dono dal nobile uomo dei capelli d’oro: un sottil vezzo di perline di vetro. Il gesto dell’almirante, nell’offrirle quel dono, significava, che ella poteva adornarsene, mettendolo al collo. Donna e bambini ritornarono verso la macchia, saltellando e gridando in segno di allegrezza. E il vezzo di perline e i piccoli sonagli furono argomenti di ammirazione per tutti quei selvaggi affollati. Il ghiaccio era rotto. Anche gli uomini, poichè ebbero ammirati i donativi, si avanzarono verso il donatore, lo attorniarono, riguardosi da prima, quindi a mano a mano più familiari, cedendo agli impulsi della loro curiosità. Maravigliavano della sua vantaggiosa statura, fors’anche del suo nobile aspetto; contemplavano le sue mani bianche, paragonandole subito con le loro, del color di rame. Fu quello il primo gesto parlante, il primo scambio d’idee tra i naturali dell’isola e l’essere sovrumano sbarcato sulla loro spiaggia tranquilla. Il secondo gesto fu ancora il paragone. Contemplavano i fili d’oro che ornavano le guance e il mento dello straniero (immaginate, di fatti, che egli da più settimane non avesse pensato nè a radere nè a scorciare la barba) e dopo aver toccato quei fili d’oro, toccavano le loro facce che n’erano prive. Cristoforo Colombo sostenne placidamente l’esame; sorridendo sempre, lasciò toccare la barba, i capegli, le mani, le ricche stoffe di cui era vestito, e gli elsi della spada che gli pendeva dal fianco. Cessarono finalmente di toccare, e, fatto un po’ di cerchio intorno a lui, gli chiesero nella loro lingua qualche cosa, aiutandosi anch’essi col gesto. Intese che gli domandavano donde venisse. E rispose con le parole e col gesto che veniva dalla parte di levante. Ma essi non parvero aggiustargli fede; indicavano il cielo come patria di lui, e, additando le navi ancorate alla costa, imitavano con le braccia il batter delle ali, con cui egli sicuramente era calato tra loro. Sicuramente per ali avevano scambiate le vele. Anch’essi erano molto osservati, non solo dall’almirante, ma da tutti gli uomini della spedizione, che a manipoli via via si erano avvicinati. Damiano, che era capitato dei primi, potè riconoscere che il suo amico e fratello Cosma non aveva traveduto. I naturali dell’isola erano poco, anzi punto vestiti; non potendo passare per abiti i segni di rosso, di nero e di giallo, onde avevano rigata e picchiettata la pelle di rame. Non tutti, per altro, erano così dipinti con l’ocra, sulle braccia e sul petto; ma tutti avevano segnata di rosso la punta del naso, e di rosso avevano cerchiate le occhiaie. —Strano modo di farsi belli!—diceva Damiano.—E quella donna là, che mi pare abbastanza belloccia, gradirà così impiastricciato il naso del suo dolce marito? Ma già, paese che vai, usanza che trovi. E siccome egli si tingerà a quel modo per piacere a lei, è da credere che essa gliene serbi riconoscenza.— Altra particolarità degna di nota erano i capelli di quei naturali; capelli di colore tra il fulvo e il nero, ma corti, non riccioluti, lisciati all’ingiù, fatti untuosi e lucenti con l’olio di qualche frutto del luogo. Se non fossero stati quei cerchi alle occhiaie, che in molti di loro guastavano, si sarebbe potuto dire che tutti avessero gli occhi assai belli ed espressivi. E avevano alta la fronte, regolari i lineamenti, ben proporzionate le membra, non alta la statura, ma neanche sotto il mediocre. A quella latitudine, che egli giustamente immaginava esser quella dell’Africa, e sotto il capo Bojador, Cristoforo Colombo pensava di trovare un tipo diverso, quello dei negri, per esempio; e non fu poca la sua maraviglia, vedendo una specie così nuova. Il lettore si riconduca col pensiero ai tempi del grande navigatore. Le carnagioni color di rame si vedevano allora per la primissima volta. L’almirante aveva osservate le persone; osservò anche le armi di quel popolo nuovo. E potè farlo, perchè qualcheduno dei naturali era venuto armato alla spiaggia. Povere armi, in verità! archi con le corde di liana, e frecce di canna, con la punta di osso di pesce; lance, o, a dir più veramente, lunghi e sottili bastoni di legno, la cui punta era indurita al fuoco, oppure formata di una cuspide di selce, o d’un dente, o di un osso acuminato di squalo. Quella povertà d’armi offensive, il difetto di armi difensive, dicevano chiaramente la semplicità dei costumi e la mitezza d’indole dei pacifici abitanti dell’isola. Che vivessero allegri lo diceva abbastanza l’umor gaio di cui avevano fatto prova recente: che non avessero da stentare la vita, era dimostrato dalla ricchezza vegetale del terreno e dalla varietà, dalla abbondanza dei frutti: che godessero anche di un certo ozio quotidiano, si poteva riconoscere dal fatto che molti di essi erano venuti alla spiaggia tenendo sul pugno pappagalli addomesticati, brave bestie chiacchierine, le quali andavano ripetendo a perdifiato intiere frasi della lingua dei loro padroni; una lingua per cui messer Luigi De Torres, interpetre della spedizione, era venuto invano; così poco ella somigliava a quelle del ceppo Arameo, che dovevano essere il suo forte! Il pasto era imbandito, e l’almirante ne offerse ai naturali, specie ai vecchi e ai bambini. Non si è detto ancora, ma facilmente s’indovina che tutti gli abitanti del villaggio stessero a godersi la novità della scena, seduti sulle calcagna, secondo il costume di tutti i selvaggi. Qualcheduno dei vecchi accettò, per atto evidentissimo di cortesia; qualcun altro per curiosità, non riuscendo per altro a maneggiare convenientemente cucchiai e forchette; ma subito smessero, o fosse perchè non volevano mostrarsi ghiottoni, o perchè non gradivano la cucina dei figli del cielo. Ma quando, per una delle solite disgrazie di tavola, che addolorano profondamente ogni buona massaia, cadde ad un cuoco e si ruppe in molti pezzi un gran piatto di maiolica, tutti quegli spettatori del primo ordine, giovani e vecchi, si buttarono avanti, per dividersi la preda. Era lucente la vernice di quei cocci, e chi poteva abbrancarne uno si stimava felice. La giornata passò in quel dolce riposo. I naturali volevano condurre i figli del cielo a visitare i loro modesti tugurî; e qualche visita, alle capanne più vicine, fu consentita dall’almirante, a cui premeva di conoscere come vivessero, quali fossero i loro utensili domestici, e sopra tutto a che grado fosse giunta la loro agricoltura. Del resto, egli aveva già capito che non c’era da aspettare grandi cose. I regni di Cipango, del Cattaio, del prete Janni, erano ancora molto distanti; quell’isola non era forse che il più lontano avamposto delle Indie sospirate e sognate. Sull’ora del tramonto, fu risoluto il ritorno alle navi. I naturali stettero estatici sulla rena a vedere i loro ospiti che montavano nei palischermi; ed anche aiutarono con le loro braccia a spingere in mare quelle massiccie piroghe. Ma quando videro allontanarsi l’uomo dai capelli d’oro, il padre, il dio di tutti quegli esseri sovrumani che erano scesi a visitarli, gettarono altissime strida, si sciolsero in pianti e lamentazioni senza fine. —Ritorneremo, buona gente, non piangete, ritorneremo domattina;—andava gridando Damiano. E col gesto li esortava ad avere un po’ di pazienza. Poi, additando il sole, che tramontava da una parte, lo indicava rinascente dall’altra. Alcuni lo capirono, perchè si messero a ridere, battendo allegramente le palme. La mattina seguente, come aveva promesso Damiano, i figli del cielo dovevano ridiscendere a terra. Ma assai prima che i marinai pensassero a calumarsi nei palischermi, il lido echeggiava di grida festose; molti naturali nuotavano allegramente intorno alle navi; e le lunghe piroghe, scavate nei tronchi degli alberi, guizzavano agilmente da poppa e da prora, portando fino a cinquanta selvaggi. Erano lunghe e sottili, le piroghe di quegli isolani; ma la loro snellezza era tutta a danno dell’equilibrio. Spesso accadeva che per un’ondata più forte delle altre, o per un tracollo improvviso, andasse capovolta la barca. Ma non si spaventavano per così poco, i naturali dell’isola; dato quel tuffo, erano subito a galla, e con certe zucche lunghe, tagliate di sbieco e usate a mo’ di gottazze, svuotavano prontamente le loro saettìe d’un sol pezzo. Coloro che avevano assaggiata il giorno innanzi la sbroscia dei marinai e provato il dente nel loro biscotto, portavano in iscambio le loro provvigioni di frutta e di pane. Avevano infatti una specie di pane, detto cassava, tratto dalle radici di una jucca, coltivata a bella posta nei campi, come da noi il frumento. La radice era fatta in minutissimi pezzi, tritata e ridotta in focacce, che disseccavano al sole; e poi, quando volevano mangiarne, la mettevano in molle. Quell’alimento era insipido parecchio, ma sano e nutritivo. Non mancavano altri donativi: il cotone, ad esempio, di cui davano fino a venticinque libbre in cambio d’un pugno di perline di vetro. Alcuni, poi, avevano le nari bucate, e a quel forellino portavano appeso un pezzetto d’oro nativo. Barattavano volentieri quell’ornamento con un sonagliuzzo di bronzo. Ma di quei baratti si fece subito arbitro l’almirante, perchè l’oro doveva appartenere alla corona di Castiglia, e non dovevano farne incetta i marinai. Egli domandava ai naturali donde provenisse quell’oro; ed essi accennavano ad un luogo lontano sul mare, dalla parte di ponente, e frattanto rispondevano: Cibào. Cibào! Non forse Cipango? E il pensiero di Cristoforo Colombo naturalmente correva alle ricchezze di quell’isola, che Marco Polo aveva descritta con sì vivi colori. Ed egli seguitava a segnare laggiù da ponente, dopo aver mostrato ad essi quell’oro; e proferiva il nome di Cipango; ma sempre i naturali seguitavano a rispondere Cibào. Cibào era dunque una corruzione di Cipango; facile corruzione, ad una distanza di due secoli. Cibào, dunque, laggiù. E l’isola in cui vivevano? Guanahani, rispondevano essi, Guanahani. Che cosa volesse poi dire Guanahani, era difficile sapere, essendo difficile il domandarlo. Ma questo importava assai meno. L’isola, visitata alla svelta, non aveva tracce di metalli preziosi. I suoi abitanti, poveri e semplici, vivevano di agricoltura e di pesca; poche ed infrequenti erano le loro relazioni coi naturali delle isole vicine, talune delle quali si scorgevano distintamente sull’orizzonte, a destra e a manca di Guanahani. La giornata del 13 era trascorsa in queste visite, in questi scambi, in questi discorsi. La mattina del 14, l’almirante partì coi palischermi, per fare il giro dell’isola, tutta sparsa di lieta verzura, con qualche poco di terra coltivata, e capanne qua e là, presso le rive. La voce dell’arrivo degli ospiti celesti a Guanahani era corsa tutta intorno, anche nelle isolette vicine; e da ogni lido, al passaggio dei palischermi, erano frotte di naturali che innalzavano grida di festa e d’invito. Molti si gittavano a nuoto; erano tirati a bordo, regalati di perline di vetro, e rimandati contenti. Ma niente era che trattenesse più oltre il signor almirante nelle acque di Guanahani. Gli si offrivano allo sguardo molte isole verdeggianti, che tutte parevano invitarlo. Scelse a occhio la più grande, che sembrava cinque leghe distante, e a quella drizzò il corso della sua squadra, nella mattina del 15; ma non potè, a cagione delle correnti contrarie, approdarvi che al tramonto del sole. Aveva intitolata la prima isola al Santo Salvatore; intitolò la seconda a Santa Maria della Concezione. V’ebbe, nella mattina del 16, le stesse accoglienze di Guanahani; ci ritrovò gli stessi costumi, la stessa nudità, la stessa età dell’oro in azione, ma senza alcuna abbondanza di quel prezioso metallo. A Guanahani aveva preso sette naturali, che gli erano parsi di più svegliato ingegno, e più pronti a formarsi un vocabolario spagnuolo per i primi usi della conversazione. E i sette naturali erano andati contenti fino all’isola vicina. Quando videro che l’almirante non voleva trattenercisi, ma salpava nello stesso giorno per andare più oltre, verso ponente, donde appariva un’altra isola più ragguardevole, incominciarono a dolersi, come tanti Melibei, di dover lasciare «il confin della patria e i dolci campi». Uno di essi, che era imbarcato sulla _Nina_, non stette lungamente a piangere; si tuffò in mare e a nuoto raggiunse una piroga di suoi connaturali, che passava da quelle parti. Fu l’unico episodio spiacevole di quei primi giorni vissuti tra le isole. Alla terza di queste Cristoforo Colombo impose il nome di Fernandina, in onore del re di Castiglia, disegnando in cuor suo di chiamare la quarta col nome della sua regal protettrice, Isabella. Gli abitanti dell’isola Fernandina somigliavano in tutto a quelli delle prime due isole; ma parevano più ingegnosi e più scaltri. Alcune tra le donne avevano dei piccoli grembiali di cotone; alcune altre giungevano al lusso d’una specie di mantello. Le abitazioni, costrutte di rami, di canne, di foglie di palmizio, avevano forma di padiglioni; grande pulizia e decenza ci regnava per entro; i letti erano stoie di cotone, sospese, chiamate dai naturali col nome di _hamac_. E il nome e la cosa dovevano incontrar favore in Europa. Nella quarta isola, che fu chiamata Isabella, Cristoforo Colombo trovò bei laghi d’acqua dolce, e frutti svariatissimi, e sciami di pappagalli «che oscuravano il sole»; molte lucertole, dei cani che non abbaiavano, niente spezierie, niente oro, ma molti indizi di una grande isola verso mezzogiorno, che i naturali dicevano ricca di ogni ben di Dio. S’intende che i naturali parlavano agli interpetri, e questi riferivano, servendosi di quel numero ancora troppo ristretto di parole castigliane, delle quali avevano inteso, e fors’anche frainteso il vero significato. Una grande isola! e ricca! Era dunque Cipango? Bisognava lasciare al più presto quell’arcipelago di isolette, così belle, ma povere, e andare alla scoperta della terra maravigliosa. Venti contrarii, bonacce, piogge frequenti, impedirono per molti giorni la partenza, o ritardarono il corso. Finalmente la squadra salpò alla mezzanotte sopra il 24 di ottobre, e costeggiate alcune isolette a cui l’almirante impose il nome di _Islas de Arena_, giunse la mattina del 28 all’approdo di una grande isola, le cui alte montagne gli ricordarono quelle a lui note della Sicilia. Posto piede a terra, ne prese possesso nelle forme consuete, imponendo a quell’isola il nome di Giovanna, in onore del principe Giovanni, il piccolo Infante di Castiglia. Era destino che tutti quei nomi dovessero perire. San Salvatore diventò l’isola del Gatto; Fernandina, l’Esuma; Isabella, l’Esumeta; le isole _de Arena_, Mucaras; Giovanna riprese il nome che aveva dai suoi naturali, il nome di Cuba. Un fiumicello metteva pure nel golfo a cui approdava Cristoforo Colombo. Quel fiumicello prese e ritenne il nome di San Salvatore. Entrandovi col palischermo, per iscandagliarne la profondità, gli Spagnuoli posero in fuga due piroghe, le quali si erano poc’anzi staccate dalla riva. Ed anche posero in fuga gli abitanti della costa, nelle cui capanne non erano che stoie, tessute di filamenti di palma, uncini, fiocine d’osso, ed altri arnesi da pesca. Si incominciava male, per ritrovare i tesori di Cipango. Rimontato in nave, l’almirante si accinse a scorrer la costa verso ponente, e in quella esplorazione scese parecchie volte a terra, visitando villaggi, donde gli abitanti costantemente fuggivano ai boschi. Le case erano meglio fabbricate, la pulitezza notevole; non mancavano indizi d’una civiltà più inoltrata; ad esempio, certe statue d’idoli, rozzamente intagliati, ma con certa vivezza di espressione, nel legno. Sicuramente, le maraviglie descritte da Marco Polo non avrebbero indugiato a mostrarsi. E questa non era solamente la speranza di Cristoforo Colombo, ma anche quella di Martino Alonzo Pinzon. Tre naturali di Guanahani, imbarcati sulla _Pinta_, dicevano che dietro ad un promontorio, poc’anzi denominato delle Palme, era un grosso fiume, rimontando il quale, si poteva andare in quattro giorni a Cubanacan! —Cubanacan!—ripeteva Martino Alonzo.—Cubanacan! Non è corruzione, questa, del regno di Kublai-kan? Siamo sull’orma, signor almirante, siamo sull’orma. —Vediamo di non far confusioni;—rispondeva l’almirante.—Se questa è l’isola di Cipango, come potrebb’essere il regno di Kublai-kan, che Marco Polo ha collocato in terraferma? Notate, Martino Alonzo, che questa è un’isola; ce l’hanno annunziata per tale gl’interpetri, indicandola a noi, verso mezzogiorno, quando eravamo all’áncora nelle acque dell’Isabella. —Avremo capito male,—replicava Martino Alonzo Pinzon.—Per intanto, i miei tre selvaggi dicono che questa non è un’isola. E la chiamano Cuba, e dicono che Cubanacan si ritrova a quattro giornate dentro terra; soggiungono che c’è oro in abbondanza; che cosa si vuole di più? —La scoperta del gran fiume, donde si avrebbero a prender le mosse;—rispose placidamente Cristoforo Colombo.—Cerchiamo dunque il gran fiume.— Ma girato il capo delle Palme, non si trovò punto il gran fiume. Altri promontorii furono veduti e girati via via; ma senza ritrovare, non che il gran fiume, un sorgitore in cui gettar l’áncora. Il vento soffiava al traverso; l’infoscarsi del cielo faceva prevedere un grosso temporale. L’almirante pensò giustamente che fosse atto di prudenza ritornare indietro, per ormeggiarsi alla foce di un altro fiume, già veduto tre giorni prima; al quale, per l’ampiezza della sua foce, aveva imposto il nome di _Rio de los mares_. Così erano giunti all’ultimo giorno di ottobre. La mattina seguente, al primo spuntar del sole, l’almirante mandò i palischermi alla riva, perchè un drappello dei suoi marinai visitasse un villaggio, le cui capanne si vedevano biancheggiare tra gli alberi. Andarono i marinai e scesero a terra; ma al loro apparire, gli abitanti spaventati presero la via dei boschi, nè ci fu verso, con parole o con segni, di farli ritornare alla spiaggia. _Capitolo V._ Il sogno di Damiano. È lecito di sorridere delle illusioni di Cristoforo Colombo, partecipate ed accresciute da Martino Alonzo Pinzon; ma non è altrimenti lecito di riderne. Il sorriso è sempre benevolo: significa qualche volta la condiscendenza; qualche altra è un giudizio pietoso che facciamo di noi medesimi, stimandoci pienamente capaci, nelle stesse condizioni, di cadere negli stessi errori. Ridere, per contro, è da orgogliosi che si credono infallibili ed impeccabili; significa l’ironia, il sarcasmo, lo scherno; abbonda di solito nella bocca degli sciocchi, e in quella degli ignoranti, loro amici e compari. Vogliate, di grazia, considerare una cosa, anzi due. Prima di tutto, bene aveva potuto Cristoforo Colombo argomentare l’esistenza di un continente di là dall’Atlantico, avendo egli presupposta la sfericità della terra. Ma posta la fede sua, come quella di tutto il mondo cristiano, nella autorità scientifica delle Sacre Carte, che quasi gli misuravano a palmi la superficie del globo; e ammessa la veracità delle relazioni di Marco Polo e di Ser Giovanni Maundeville intorno alle regioni estreme dell’Asia; di che avrebbe colmato il poco spazio che gli rimaneva ignoto a ponente, se non delle zone ultimissime dell’Asia, che il Veneziano e l’Inglese non avevano intieramente visitate? La vera trovata del navigatore Genovese, quello che si chiamerebbe oggi il lampo del genio, consisteva nel cercare quei confini orientali dell’Asia per la via di ponente. In tutto il resto, lo stringevano d’ogni parte le autorità, lo incatenavano i pregiudizi del volgo. E poi, e poi, contemporanei dell’anima mia, che avete a buon mercato i manuali e gli atlanti, le carte murali sotto gli occhi e il maestrino in cattedra, pensate che pericoli, che stenti e sopra tutto che costanza c’è voluta, per imbandire a noi un così lauto pasto di dottrina. Possiamo sorridere, non abbiamo il diritto di ridere. Del resto, si è riso tanto a Salamanca, da tutti quei sapientoni, che ben possiamo astenercene noi altri. Ammettiamo invece, sorridendo, come e perchè i racconti di Marco Polo comandassero allo spirito del grande navigatore Genovese. Lo vediamo ora, alla foce del _Rio de los mares_, risoluto di trovare quel benedetto Cubanacan, in cui Martino Alonzo, il comandante della _Pinta_, vedeva una semplice corruzione di Kublai-kan. Ignoravano ambedue una cosa risaputa più tardi: che i naturali di quei luoghi dicevano _nacan_ come noi diciamo il «mezzo»; donde la conseguenza che Cubanacan significasse il mezzo, il centro di Cuba. Il Pinzon, che ci vedeva una corruzione di Kublai-kan, avrebbe potuto con ugual fondamento vederci un Cipang, che era il nome riferito da Marco Polo per il regno insulare del Giappone. Del resto, il desiderio di associare le nuove scoperte ai vecchi nomi, era proprio nel sangue. Cuba, quando si perdette ogni speranza di farne tutt’uno con l’isola di Cipango, fu ascritta all’arcipelago delle Antille; un nome opportunamente svecchiato dalla famosa Antilla di Aristotele, cavata ad orecchio dalla non meno famosa Atlantide di Solone, e del suo pronipote Platone. Ma è tempo che ritorniamo al racconto. Fuggiti dalla riva i selvaggi al primo entrare dei palischermi nella foce del _Rio de los mares_, l’almirante lasciò riposare qualche ora la sua marinaresca, volendo anche persuadere a quei sospettosi naturali che egli non aveva alcuna intenzione ostile. Nel pomeriggio mandò solo, nel bargio, uno dei suoi interpetri di Guanahani. Gli abitanti del villaggio erano ritornati alle loro capanne; ma stavano sempre all’erta, pronti a fuggire da capo. Videro accostarsi il bargio, ravvisarono nel vogatore un selvaggio della loro specie, e stettero ad aspettarlo. L’interpetre, come fu giunto in vicinanza del lido, tanto da poter essere udito da terra, si rizzò sulla prora della piccola barca, e rivolse il discorso a quei popoli, dipingendo loro gli stranieri come esseri sovrumani, venuti dal cielo, bianchi nel volto, amici degli uomini rossi, ai quali facevano molti bei donativi, simili a quello che egli agitava a braccio teso davanti a loro, facendolo risuonare piacevolmente agli orecchi. Finito il suo discorsetto, l’indiano si buttò in acqua risoluto e volse nuotando alla spiaggia. Era solo; fu accolto senza sospetto. La sua parlata, veramente, era un pochino diversa da quella di Cuba; ma come può essere diversa tra popoli del medesimo sangue, vissuti a lungo divisi. Stentarono alquanto a capirlo, ma lo capirono finalmente, e si persuasero che gli stranieri erano venuti da amici. E poi quel sonaglio che il messaggiero faceva tintinnire al loro orecchio, che musica! Subito fecero scivolare dalla spiaggia le loro svelte piroghe; ci posero dentro cotone, frutti e cassava; con quei presenti mossero incontro alle navi degli uomini bianchi. L’almirante li accolse con dimostrazioni di giubilo; gradì i presenti, e li ricambiò, al solito, con piccoli campanelli di bronzo e perline di vetro. Quei naturali non portavano pezzi d’oro nativo sospesi alle nari; ma pezzi d’argento. Metallo anche questo, e di maggior valore che non dovesse averne venti o trent’anni più tardi, quando da Cuba, per l’appunto, e da tutte le altre terre scoperte, se ne rovesciò tanta abbondanza in Europa. Anche l’argento aveva dunque il suo pregio, e la sua apparizione fu salutata con gioia. Ma più lieta suonò all’orecchio degli uomini bianchi la notizia (così almeno parve loro d’intendere) che nell’interno dell’isola, a quattro giornate di cammino, era il soggiorno di un re potente e ricchissimo. I naturali della costa gli avevano già mandati messaggeri, per avvertirlo dell’arrivo di quelle tre smisurate piroghe con le ali. Se gli uomini bianchi restavano ancora sei giorni, li avrebbero visti ritornare, e molto probabilmente con messaggeri del re. Cristoforo Colombo poteva aspettare sei giorni, ed anche di più; ma voleva esser sicuro di entrare in relazione con quel re, in cui era lecito di immaginare il gran Cane. Perciò, scambio di aspettare i messaggeri del re, risolse di mandare i suoi nell’interno dell’isola, chiamando per tale Ufficio Rodrigo di Xeres e Luigi di Torres. Ah, finalmente il grande interpetre avrebbe potuto sfoderare la sua dottrina poliglotta? Egli conosceva e parlava l’ebraico, il caldaico, il siriaco, e cincischiava anche l’arabo. O l’una o l’altra di quelle lingue avrebbe intesa il gran Cane. Ma se non ne avesse intesa nessuna fra tante? Ad ogni buon fine Cristoforo Colombo mandò compagni all’interpetre poliglotta due naturali, uno di Guanahani, il quale già conosceva quel po’ di spagnuolo che si è detto, e un altro della medesima spiaggia di Cuba, il quale, trattandosi di non uscire dall’isola materna, volentieri accettò. Ma non dovevano andar soli quei quattro. Non lo voleva quello spirito bizzarro di Damiano. Indettatosi brevemente col suo compagno Cosma, si presentò all’almirante per dirgli: —E due genovesi, per caso, non potrebbero andare a Cubanacan? —Per che fare? domandò l’almirante. —Ma che so io! quello che faranno Rodrigo Xeres e Luigi di Torres. Questo bravo Giudeo venuto alla fede, sa la sua lingua madre, la caldaica, la siriaca, e un pochettino anche l’araba; ma poi.... —Orbene? che cosa vorreste voi dire? —Vorrei dire che non sa il genovese, che è lingua madre, assai più dell’ebraico.— Sorrise l’almirante, e notò con accento di arguta bontà: —Voi due, Cosma e Damiano, mi sembrate uomini da conoscere ben altro che la sola lingua madre dei Liguri. —Metta pure Vostra Eccellenza che conosciamo il latino;—replicò arditamente Damiano.—Se si dovesse incontrare sulla strada il Prete Janni, ci vorrebbe qualcheduno che potesse parlargli in latino, io m’immagino. Come prete, infatti, leggerà il suo breviario ogni giorno.— A quella trovata del bizzarro Genovese non si poteva che ridere. E ridendo, Cristoforo Colombo diede licenzia ai due concittadini di seguire la spedizione entro terra. Damiano saltò dalla gioia, e subito corse ad avvisare il compagno. —Si parte, sai? L’almirante manda anche noi a riverire il gran Cane. Mi sa mill’anni di vederlo. —Chi?—disse Cosma. —Il gran Cane, perbacco. Mi preme di sapere se è muto anche lui, come tutti i cani che abbiamo trovati finora.— La mattina seguente, ai primi chiarori del giorno, si pose l’ambasceria in cammino. Apriva la marcia il naturale di Cuba, che aveva pratica dei luoghi; seguiva Rodrigo di Xeres, accompagnato da Luigi di Torres. Chiudevano la marcia i due Genovesi. Il naturale di Guanahani andava un po’ avanti, un po’ indietro, per servire, nella sua qualità d’interpetre, al bisogno di tutti, quando volevano intendere i discorsi del condottiero, o farsi intendere da lui. Ma molto più spesso era al fianco di Damiano, che diceva di volergli insegnare il genovese, ma nel fatto cercava d’imparare quanto più poteva della lingua selvaggia. Si erano avviati per un’erta verdeggiante, dove non appariva traccia di sentiero. Felicità dei selvaggi e dei cacciatori, di non conoscere le strade battute. E giunti al colmo dell’erta, penetrarono in una macchia che pareva di lentischi; donde, per vallette e colline alternate, entrarono in una valle più grande, fuor dalla vista del mare. Passarono accanto a certi laghetti d’acqua dolce, i cui margini erano vestiti di borraccina, e su cui gittavano ombre amiche certi grandi alberi di specie ignote, dal largo fogliame, quali vestiti di fiori, quali carichi di frutti, quali ancora di fiori e di frutti ad un tempo: primavera ed autunno associati in una sola verzura. Tutto rideva, in quel paradiso, e tutto anche cinguettava, poichè c’erano gli uccelli a migliaia, svolazzanti di fiore in fiore come i piccolissimi còlibri, rampicanti di ramo in ramo come i pappagalli, trasvolanti da un albero all’altro come le gazze, variopinte e loquaci non meno dei loro parenti rampichini. La varietà dei frutti, la bellezza dei lor colori, e la stranezza delle loro forme, destavano la curiosità e l’ammirazione degli ambasciatori. E di molti assaggiarono, senza verun timore di avvelenarsi, poichè ne mangiavano ghiottamente gli uccelli, questi primi conoscitori della gastronomia vegetale. Del resto, anche i due naturali intendevano il fatto loro, e andavano essi medesimi a spiccar dai rami i frutti più squisiti, scegliendoli al punto loro di maturità, che gli Europei non avrebbero potuto a tutta prima conoscere. Era la festa del verde e dell’azzurro; del verde che splendeva con cento gradazioni diverse intorno ai viandanti ammirati, dell’azzurro che si stendeva, profondamente sereno, sulle vette degli alberi giganteschi. Tra il verde e l’azzurro correva un’aria fresca e purissima, aggraziata dall’effluvio di mille fiori, ravvivata dal predominio delle fragranze resinose, che giungevano gradite alle nari, dando un senso di salute alle fibre del cervello, e di vigore alle facoltà dello spirito. Per far l’illusione compiuta, per lasciar credere che fosse quello un altro paradiso terrestre, la creatura umana era assente da quei luoghi. C’erano bensì i viaggiatori; ma è dell’animo nostro, davanti ai grandi spettacoli della natura, il fare astrazione da noi medesimi, non vedendo e non considerando che quelli. Nella gran solitudine erano voce unica i contrasti della luce e dell’ombra; unica varietà i colori del quadro; mancava la nota umana, così spesso stridente, che reca qualche volta l’immagine e il senso della vita, ma guasta sempre la calma e riconduce alla terra il vagabondo pensiero. Ad un certo momento, davanti ad una radura della foresta, dove ad un lago seguiva una lunga e vasta prateria, i nostri messaggeri avevano veduto bensì in lontananza un drappello allineato di uomini, sicuramente guerrieri, immobili al posto loro, e custoditi sul fianco dalle loro sentinelle, pronte a dare il sognale di ogni imminente pericolo. Strana cosa, in terra di uomini ignudi: quei guerrieri apparivano tutti vestiti di rosso. Ma la visione non era durata che il tempo di avvicinarla ad un tiro di balestra. Le sentinelle avevano dato un grido; e guerrieri e sentinelle avevano allargati i rossi mantelli, spiccando il volo verso più lontane regioni. Erano i rossi fenicotteri, allora così numerosi nell’isola di Cuba. Un altro spettacolo incantevole era la notte; la notte, sempre così bella sotto i tropici, rischiarata dal lume delle stelle scintillanti dalla volta del cielo, mentre al mite chiaror della luna le cose tutte sembrano avvicinarsi a voi nella trasparenza dell’aria, e le stesse ombre della foresta, rotte dal balenio continuo di maravigliosi insetti, simulanti la luce del rubino, dello zaffiro, del diamante, si lasciano penetrare dallo sguardo, recandovi la immagine, quasi la sensazione, di un letto morbido e dolce, su cui, più del dormire, è certo e promettente il sognare. Non pensò tutte queste cose il nostro Damiano, la prima notte del viaggio a Cubanacan. Gli davano noia, forse, o turbavano la sua dottrina in materia di storia naturale, gli uccelli dell’isola, che seguitavano a cinguettare, a trillare, a gorgheggiare, come se fosse di giorno. —Ma che hanno questi diavoli?—esclamò.—Non dormono, dunque? —Sognano;—rispose Cosma, che qualche volta si adattava a parlare. —Ah sì; e non hanno mica il torto!—riprese Damiano.—In quest’isola benedetta, potrebb’essere un sogno continuo. Io, per me, ti voglio dire quel che ne penso: ci vivrei volentieri per tutto il resto dei miei giorni. —Tu?—disse Cosma. —Certamente, io. E nota che il più l’ho da vivere ancora, se la Parca mi fila giustamente la mia parte di lino. —Ma che faresti tu qui? Dormiresti sempre? —Oh questo poi no. Vorrei anzi vegliare, vegliar molto, al fianco d’una bella castellana.... —Che non hai pensato a condurre con te. —Nella speranza di trovarla sulla faccia del luogo;—rispose Damiano.—Che pensi? che ci siano donne solamente nel vecchio mondo? —Io non pretendo questo. —Ah, volevo dire! Mi potresti invece osservare, e con più ragione, che non c’è da sperar castellane, in questi luoghi, perchè non ci sono castelli. Ma un castello me lo fabbrico io tutte le volte che mi pare, e una volta sempre meglio dell’altra. Del resto, dove andiamo noi, di questo passo? Cioè, mi spiego, dove ripiglieremo ad andare, quando spunterà l’alba dai lidi Eòi.... che per noi sono le acque dell’Oceano? Alla corte del gran Cane, io m’immagino. Il gran Cane, per far che faccia, non sarà così cane da ricusarmi la mano di sua figlia. Mi dirai che potremmo dar del capo alla corte del Prete Janni: la qual cosa mi piacerebbe meno, perchè i preti non fanno famiglia. Ma egli, per bacco, vorrà avere un ministro, dei gran signori, dei principi assistenti al soglio. Vedrai, Cosma; figlia di re, o figlia di principe, la prima bellezza che mi capita tra i piedi paga il tributo del Nuovo Mondo al tuo amico Damiano. —Uomo volubile!—esclamò Cosma. —Caro mio,—rispose Damiano,—sai che non voglio morir di crepacuore, io? Se la bella Ca.... —Zitto, Bar....—interruppe Cosma. —E zitto tu, ora!—interruppe a sua volta Damiano.—Vedo che commettiamo un’imprudenza per uno. Fortuna che qui nessuno capisce la lingua madre; altrimenti, il segreto sarebbe custodito per benino!— La chiacchiera allegra di Damiano durò ancora un bel pezzo. Ma Cosma, che la inframmezzava di poche parole, diradò anche quelle poche, lasciando tutto il carico della conversazione all’amico. —Ho capito;—disse ad un certo punto Damiano.—La notte è alta, _suadentque cadentia sidera sonnos_. Vediamo dunque di dormire.— E sdraiatosi sul fianco, si tirò sugli occhi il cappuccio della sua veste catalana. Pochi minuti dopo, era profondamente addormentato. —Felice amico!—mormorò Cosma, che stava ancora appoggiato al gomito, contemplando le stelle.—Egli ha lasciato i tristi pensieri di là dall’Oceano; e i miei frattanto....— E i suoi frattanto li lasceremo lavorare a lor posta, nel silenzio della notte serena. La gente malinconica, si sa, è amante del proprio dolore, e non vuol essere molestata. Del resto, anche Cosma si addormentò, un’ora dopo i suoi compagni di viaggio. Per compenso (diciamo così) fu anche il primo a svegliarsi, e balzò in piedi senza farsi pregare, al primo cenno delle guide, che annunziavano il sorger dell’alba. La comitiva si rimise in cammino; attraversò nuove valli e nuove colline, salutò nuovi orizzonti, ammirò nuove scene pittoresche, e ricevette il saluto di nuovi sciami d’insetti, di nuovi stormi di pappagalli. Finalmente, poco dopo il meriggio, appena fornite dodici leghe di cammino da che aveva lasciata la costa, vide aprirsi davanti a’ suoi occhi una gran valle, e nel centro di quella valle apparire una lunga lista di terreni coltivati. —Cubanacan?—domandò Damiano al selvaggio della costa. —Cubanacan;—rispose quell’altro. —Ma le case? dove sono le case?— A questa domanda, fatta in lingua spagnuola, non poteva rispondere il selvaggio della costa. Per rispondere, gli sarebbe bisognato capir la domanda. Rispose invece, o parve rispondere per lui, il selvaggio di Guanahani. —_Bohio_;—diss’egli, accennando verso il fondo della valle;—_Bohio!_ —E _Bohio_ sia;—rispose Damiano.—Io speravo che fossimo giunti alla capitale del gran Cane; invece, a quanto pare, non c’è neanche il sobborgo.— Per altro, seguitando a guardare, incominciò a distinguere qualche cosa. Si vedevano dei tetti di paglia, d’una forma conica, come quelli che già avevano veduti nelle isole dianzi scoperte. E dopo una mezz’ora di cammino, alla svolta di un poggio, si vide un intiero villaggio; non più di cinquanta capanne, ma tutte assai grandi, fatte di legno, esagone, ottagone, tondeggianti, a forma di padiglioni. Non era la capitale del gran Cane, no certo; non risplendeva di metalli preziosi; ma era sempre un villaggio abbastanza pittoresco, ed era dopo tutto il primo centro popoloso un po’ fitto, che fosse dato di scoprire, in quelle isole, dal 12 ottobre al 2 novembre dell’anno di grazia 1492. —Bohio?—domandò Damiano al selvaggio della costa. —Bohio;—rispose gravemente quell’altro. —Ed ora, caro mio,—ripigliò Damiano,—ne so come prima. Amo per altro illudermi colla opinione che sia il nome di quella città minuscola, che apparterrà benissimo al gran Cane, ma donde non esce un cane per venirci a ricevere.— Anche qui Damiano s’ingannava, per soverchio di fretta. Aveva appena finito di lagnarsi, che dalla strada principale di Bohio (diciamo Bohio anche noi, per dare un nome al villaggio) si vide apparire una schiera, una processione di naturali. Cosma, che aveva un occhio di lince e l’altro di falco, avrebbe potuto riconoscere a quella distanza che i cittadini di Bohio non erano niente più vestiti dei pescatori di Guanahani. E tutta quella gente muoveva incontro agli ambasciatori. Sicuramente, li avevano veduti da lungi, mentre giravano il poggio, ed era facile scoprirli su quell’altura solitaria, dove il terreno era sgombro di piante, e il verde del prato dava riflessi giallicci, sotto la gran luce meridiana del sole. Ancora pochi passi, e si potevano sentire le voci degli abitanti di Bohio. Erano voci festose, grida di giubilo, a cui facevano eloquentissimo commento le braccia levate, i salti e le capriole della turba accorrente. Non vi maravigliate della poca gravità con cui gli abitanti di Bohio, forse i più ragguardevoli di quella terra, accoglievano i loro visitatori. Queste dimostrazioni allegre sono sempre state di tutti i popoli giovani; e pare che non disdicessero nemmeno ai re, se David potè ballare in mezzo ad una strada provinciale, davanti ai buoi che tiravano l’arca del Dio degli eserciti. —Ecco un popolo molto cortese, a cui bisogna render giustizia;—osservò Damiano.—Non è quello di Quinsay, ma ci si accosta.— E si accostavano nel fatto gli abitanti del villaggio; poco vestiti gli uni, che parevano i più vecchi, e portavano un pezzo di stoffa di cotone legata intorno alle reni; ignudi gli altri del tutto. Come furono vicini agli stranieri, i naturali di Bohio, si fermarono; ed uno di loro, che doveva essere un pezzo grosso nella tribù, forse il re in persona, accompagnato da due giovani selvaggi, che in segno di grande rispetto mostravano di sostenerlo sotto le ascelle, rivolse il discorso ai nuovi venuti. Don Luigi de Torres si lasciò sfuggire quel giorno una stupenda occasione, che è sempre stata da fini diplomatici: quella di tacere in più lingue. Volle in quella vece parlare in tutte quelle che sapeva, e sventuratamente senza riescire a farsi intendere, nè dal suo interlocutore, che lo guardava trasognato, nè dagli interpetri della spedizione, che si guardavano tra loro, e avevano l’aria di dirsi a vicenda: «come parla bene! non si capisce una saetta.» —Sentite, collega;—disse finalmente Rodrigo di Xeres;—sarà meglio che lasciamo parlare questi selvaggi. —Sì, sarà meglio;—ripetè Luigi de Torres.—Per altro, non è stato male, fare una prova con tutte le lingue d’Oriente. Siamo sicuri, per conseguenza, di non essere sul territorio del gran Cane. —Non dico che abbiate fatto male;—replicò Rodrigo di Xeres.—Vi approvo, anzi, e vi lodo del vostro accorgimento. Sappiamo oramai che cosa pensare di questa gente. A te, Caonec,—diss’egli, rivolgendosi al naturale di Guanahani,—parla! —_Quien?_—domandò Caonec. —Quel che ti pare, purchè tu parli. —_Castilla muy grande? Castillano muy fuerte?_ —Sì, tutto quello che vorrai, ti ho detto,—replicò don Rodrigo spazientito.—Non vedi che i tuoi connaturali stanno aspettando a bocca aperta le tue parole, come gli antenati del mio collega aspettavano la manna nel deserto?— Caonec non intese tutte quelle finezze di ragionamento; ma aveva capito di dover parlare, magnificando la potenza e la bontà degli stranieri. Non gli era difficile di dirne assai bene; anch’egli, come tutti i suoi connaturali, credeva che fossero figli del cielo. E parlò lungamente, con grande scioltezza di scilinguagnolo, in quel suo strano idioma, così ricco di dittonghi e di suoni gutturali; parlò lungamente, facendo inarcare le ciglia del re di Bohio, che di tanto in tanto si volgeva a guardare gli stranieri, chinando la fronte e levando le palme, in atto di adorazione. Come l’interpetre ebbe finito il suo discorso, il re di Bohio rispose brevemente, s’inchinò da capo, poi disse qualche parola ai suoi sudditi; otto dei quali si avanzarono tosto, s’inginocchiarono a coppie, ogni coppia davanti ad uno degli stranieri, offrendogli per sedile un intreccio di mani e di braccia. —Seggiolina d’oro!—esclamò Damiano ridendo.—Seggiolina d’oro! Come da noi! Ma sai, Cosma, che son molto civili, questi signori selvaggi?— Levati di peso i figli del cielo, le coppie umane presero tosto il portante. Anche il re, o capo degli anziani che fosse, non credeva disdicevole alla sua dignità di correre come gli altri. Correva anzi un pochino di più, perchè andava sempre a capo della sua gente, facendo di tanto in tanto qualche allegro scambietto. In verità, il re David, buon’anima sua, poteva andarsi a riporre. —Guarda, guarda!—continuava Damiano, sentendosi dondolare così piacevolmente a mezz’aria.—È cento volte meglio che in lettiga. E si gode la vista del paese, e non si guasta la digestione. Io ti giuro, Cosma, che sono contento come una pasqua. Incomincio a credere che questi naturali di Bohio siano uomini civili, i quali si sono fatti selvaggi unicamente per non pagare il conto al sartore. A momenti vedremo la loro capitale. Spero bene che ci saranno donne. Altrimenti, come farebbero questi selvaggi a propagare la loro amabilissima specie? —Metti,—rispose Cosma,—che ci abbiano le Amazzoni in un’isola vicina. Noi siamo cascati in un’isola tutta abitata da uomini. —Dio sperda il tuo augurio, o Cosma! Vuoi tu guastarmi la gioia di questo ingresso trionfale in città? —Eccola davanti ai tuoi occhi, la città di Bohio;—ripigliò Cosma, sorridendo.—Guarda il popolo che si affolla sugli usci delle capanne. Vedi tu una donna? —No, per Giano bifronte, tuo santo patrono!—esclamò Damiano.—Non la vedo. E incomincio a credere che i tuoi scongiuri, o nemico delle donne, abbiano operato il prodigio. Ma bada, Cosma! io non ti perdonerò mai questa azionaccia. Che tu non le ami, sta bene; ma io.... io, passando l’acqua, ho cambiato di complessione.— Erano giunti finalmente, come si è potuto anche capire dalla conversazione dei due amici; erano giunti, in mezzo alle grida, alle canzoni, ai salti, alle capriole, di tutto un popolo in festa. Tra uomini e ragazzi, quei naturali potevano essere un migliaio. Le case, in verità, non erano più di una cinquantina; ma tutte per capanne, assai vaste, ed ognuna bastava, come i nostri ambasciatori seppero di poi, per una numerosa famiglia, e magari per due. Scortati dal re, accompagnati da quelle grida e da quei salti, gli ambasciatori furono calati di seggiolina, davanti ad una casa più vasta delle altre. Colà, il capo della comitiva li invitò molto gentilmente ad entrare in una sala nobilmente arredata di scudi, d’archi e d’altre armi selvagge. Sicuramente era la sala del consiglio, perchè tutto intorno si vedevano dei sedili di legno, tutti d’un pezzo, evidentemente tagliati in un tronco d’albero, e in quel punto del tronco dove questo incomincia a spartirsi in rami. Quei sedili erano di forma stranissima, che indicava un principio d’arte imitativa, raffigurando essi un animale di corte gambe, con la coda rialzata in guisa da formare una spalliera. La testa non lasciava indovinare a qual genere appartenesse la bestia. Forse l’artista aveva voluto creare un animale fantastico; ma certamente era riuscito a farlo prezioso, poichè gli aveva incastonati due pezzi d’oro nelle occhiaie, e d’oro gli aveva fatte le orecchie. —Noi siamo,—conchiuse Damiano, dopo avere osservate quelle orecchie d’oro,—noi siamo alla corte di Mida.— Un gesto del re invitò gli ambasciatori a sedere su quegli scanni. Luigi di Torres e Rodrigo di Xeres presero posto nel mezzo, Cosma e Damiano sui lati. Il re stette in piedi, gli altri naturali si accoccolarono sul pavimento. E così fecero fuori dell’uscio tutti coloro che non avevano potuto penetrare nella sala. —Ed ora, che pesci si pigliano?—disse Damiano tra sè.—Sta a vedere che ci contemplano come rarità, e non si ricordano che abbiamo uno stomaco.— Damiano, nella sua impazienza, era sempre ingiusto. A buon conto, i naturali di Bohio non li contemplavano soltanto come rarità; li veneravano come figli del cielo. E per tali dimostrarono di averli, poichè il re si avanzò, si gittò bocconi a terra, e baciò a tutti quattro i piedi e le mani. L’atto del re fu imitato con molta compunzione e regolarità da tutti gli astanti: i quali uscirono ad uno ad uno per lasciare il posto a quelli di fuori. —Non c’è male, non c’è male;—borbottava Damiano;—ma qualche cosa per lo stomaco sarebbe a quest’ora anche meglio.— Era scritto lassù che tutti i desiderii di Damiano fossero prontamente appagati. Finito il bacio dei piedi, entrarono parecchi naturali, portando su certi piatti larghi, in cui era facile riconoscere dei fondi di zucche, radici arrostite, grani dorati arrostiti del pari, focacce di cassava, frutta di specie diverse, orciuoli di terra con acqua dentro, e piccole zucche dal collo allungato, in cui erano bevande fermentate. I figli del cielo assaggiarono un po’ di tutto, e a certi piatti ritornarono, senza far cerimonie. Il viaggio aveva aguzzato l’appetito, e quelle radici arrostite in ispecie erano molto gustose. Damiano, per altro, rendendo giustizia ad ogni cosa, diede la palma al dolce liquore spiritoso che era contenuto nelle piccole zucche, e che gli era versato in certi mezzi gusci di durissimo legno, che egli vedeva per la prima volta, e non sapeva per ciò a qual frutto appartenessero. Lo seppe più tardi, quando ebbe veduti i gusci intieri, e ne assaggiò la polpa bianca di latte, che aveva sapore di mandorle. —Cocco;—gli disse Caonec, vedendolo contemplare con grande attenzione il frutto maraviglioso. —Cocco? sta bene;—rispose Damiano.—È delizioso. Ma bisogna maritarci ancora un sorso di quella bevanda, anche più deliziosa del cocco.— Il pasto non era finito ancora, quando, ad un cenno del re, i naturali si allontanarono tutti dalla sala del convito. Una strana musica, come di nacchere e di tamburi, si sentiva di fuori. —Che è ciò? dell’altre novità?—disse Damiano.—Io incomincerei a sentire il desiderio di sdraiarmi sull’erba, all’ombra amica di un palmizio. E poichè siamo destinati a non vedere il gentil sesso di Bohio....— Ma ve l’ho detto poc’anzi; ogni voto di Damiano doveva essere esaudito, come nelle favole orientali, per opera di un genio benefico. I naturali del sesso forte erano tutti partiti. E al suono di quella musica strana, apparve sull’uscio uno stuolo di donne. Era una cortese attenzione del re, ed anche una bella improvvisata. I figli del cielo poterono ammirare a lor posta le grazie delle figlie degli uomini, coperte a mezzo da grembialini di cotone, e da mantelli girati graziosamente a tracolla. Ma dei figli del cielo, due erano Castigliani di nascita; gli altri due lo erano di elezione. E tutti quattro si levarono prontamente in piedi, offrendo i loro sedili alle dame. Non accettarono esse l’offerta. Volevano buttarsi a’ piedi dei figli del cielo, per imitare l’atto di adorazione dei loro uomini. E qui, naturalmente, fu una gara scambievole: delle donne, per baciare i piedi degli ospiti; degli ospiti, per ricusare quell’atto di umiliazione. —Caonec!—disse Damiano al naturale di Guanahani.—Dirai a queste Veneri di Bohio che da noi non è costume che le dame bacino i piedi agli uomini; ma piuttosto, quando le dame li han belli, si usa di baciarli noi alle dame.— Se Caonec intendesse a puntino il discorso, non saprei dirvi io. Certo è che l’interpetre parlò lungamente alle Veneri di Bohio; dopo di che esse si contentarono di baciare le mani ai figli del Cielo. E dopo averle baciate, vollero anche lavarle. Andarono infatti a prendere gli orciuoli dell’acqua, e ne versarono sulle mani degli ospiti. Dopo averle bagnate, era mestieri asciugarle, e le strofinarono diligentemente con batuffoli d’erbe aromatiche. —Ma questa è civiltà sopraffina;—disse Rodrigo di Xeres.—Che ve ne sembra, signori? —Si capisce, per altro;—rispose Luigi di Torres, con la sua asseveranza dottorale.—Il lavar le mani è qui una conseguenza naturalissima del mangiar con le dita. —Popolo senza forchetta, volete dire?—ripigliò Rodrigo di Xeres.—E l’uso dell’erba per rasciugar le mani si spiegherebbe ugualmente, in un popolo senza salvietta. Ma osservate, don Luigi, che sono erbe aromatiche. —Dare essenze odorose alle mani degli ospiti è costume dell’estremo Oriente;—replicò Luigi di Torres, imperturbato.—Nell’India pastinaca, se crediamo a Beniamino di Tudela.... —Ah sì! nell’India pastinaca;—interruppe Rodrigo di Xeres, che non voleva conoscere le opinioni di Beniamino di Tudela.—Ma qui dobbiamo esserne molto lontani, perchè il vostro siriaco non lo capisce nessuno, don Luigi mio caro.— Don Luigi si degnò di sorridere, e si strinse nelle spalle, quasi in atto di rispondere:—«Se questi ignoranti non mi capiscono, che cosa ci posso far io?» Damiano, frattanto, in mezzo a quello stuolo di donne, aveva adocchiata la sua. Dico la sua, perchè ogni uomo crede di doverla trovare, nel numero. E qualche volta, per tema d’ingannarsi, ne prende più d’una. Affrettiamoci a dire, per onor di Damiano, ch’egli ne prese una sola; anzi meglio, non la prese per mano, la scelse a occhio, rivolgendo a lei tutta la sua attenzione. —Son collocato;—diss’egli a Cosma.—Quella brunettina là si è impadronita del mio cuore. Non mi dir nulla. So già quel che vorresti dirmi. Tutti discorsi al popolo! Quella donna è il mio sogno; lasciami sognare.— _Capitolo VI._ Il primo sigaro fumato nel nuovo mondo da un abitante del vecchio. Rendiamo quest’altra giustizia a Damiano. Se le giovani donne di Bohio erano Veneri, quella che egli aveva scelta in un impeto subitaneo d’affetto, era l’Anadiomene. E non vi paia che si sprechi il nome di Venere, con donne che avevano la pelle color di rame. Ogni professore di fisica vi dirà che i colori per sè stessi non esistono. Ogni fisiologo vi soggiungerà che i gusti sono diversi, e i capricci egualmente. Io vi ricorderò che se noi associamo il color bianco alla immagine di Venere, la colpa è tutta del marmo Pario e del Pentelico, in cui l’abbiamo sempre vista scolpita. Nel fatto, per piacere a Marte, a Vulcano, ad Anchise e ad altri personaggi dell’antichità, Venere sarà stata di buon colore come ogni altra femmina o dea, e magari più d’ogni altra. Il colore del rame è un incarnato un po’ carico; questione di più o di meno. Aggiungete che la bella selvaggia non era neanche tanto bruna, o era bruna con riflessi luminosi, come di rosa pavonazza. Era poi fatta a pennello; aveva le labbra tinte nel succo della melagrana; aveva gli occhi umidi e languidi sotto l’arco delle ciglia lunghe, e quegli occhi nereggiavano come due more salvatiche entro due coppe d’indaco stemperato. Che occhi, Dio creatore! E dicevano un visibilio di cose; tutte quelle, almeno, che ameremmo farci dir noi, vedendo due occhi di quella fatta. Damiano aveva trovato modo di farsi lavare e strofinar le mani da lei. E poi, afferrato a sua volta il batuffolo delle erbe aromatiche, aveva voluto strofinar la sua parte anche lui. Con la eloquenza del gesto, le aveva dimostrato che il bisogno c’era. In fatti, la bella Anadiomene, versando dall’orciuolo si era rovesciata l’acqua sulle mani, e le aveva inumidite anche lei. Bisognava dunque rasciugarle. Ed egli si mise a strofinare con molta coscienza, ma perdendo altrettanta erba per via. Non ne aveva più un filo tra le dita, che strofinava ancora. La bella Anadiomene lasciava fare, guardandolo coi suoi grandi occhi d’indaco stemperato. Ma infine, vedendo che il suo servente non accennava a finire, si mise a ridere, mettendo in mostra due file di denti che erano tante perline. —Come vi chiamate, signora?—le disse con languido accento Damiano. Ella non rispose, e lo guardò con aria trasognata. —Che bestia!—proseguì egli allora, ma rivolgendo la parola a sè stesso.—Ella non capisce lo spagnuolo. Se le parlassi genovese! Ma no, questo bisogna serbarlo per i casi estremi.— Fatto questo ragionamento, chiamò a sè l’interpetre di Guanahani. —Caonec! domanda a questa bella bambina come si chiama, e trova anche il modo di farle sapere che il mio nome è Damiano.— L’interpetre parlò; e Damiano, sentendo profferire nel discorso il suo nome, capì che la commissione era fatta. —Si chiama Samana;—disse l’interpetre, come ebbe finito il suo breve dialogo con la bella selvaggia. —Samana! oh dolce nome, Samana! Già, capisco, è sempre dolce, il nome che piace.... fosse pur Cunegonda. E che cosa vuol dire Samana? —Sama....—disse Caonec. E dopo aver proferita quella prima parte del nome, accostò l’indice alla bocca aperta, e subito lo allontanò, in atto di cavarne fuori qualche cosa. —Soffio?—disse Damiano, facendo l’atto di respirare. Caonec rispose con un atto di diniego. —Voce?—riprese Damiano. E per dare un esempio di ciò che diceva, mandò fuori le cinque vocali, coi loro dittonghi rispettivi. Caonec sorrise, e fece un atto affermativo. —Ah, sia lodato il cielo. E poi? —Ana....—riprese Caonec. —Sicuro, Ana; sentiamo che cosa vuol dire Ana;—rispose Damiano. Caonec prese una piastrella d’oro che Damiano portava al collo, e accennandola rispose: —Ana.... Oro! —Ah, bene,—gridò Damiano.—Samana, contrazione di Samaana; voce d’oro! È un bel nome. Su per giù, è come il nostro Boccadoro, che noi, per altro, non abbiamo mai usato per le donne. E questo non ci fa onore, sia detto di passata. Tu sei bella, o Voce d’oro, o Grisostoma. A proposito.... Caonec! Dille a mio nome che è bella. Come si dice bella, in questi paesi? —Taorib;—rispose l’interpetre. —Diciamo dunque Samana Taorib;—gridò Damiano, volgendosi alla giovane selvaggia, che rideva a più non posso;—Samana Taorib, ah! se tu volessi trovare _taorib_ anche me, come sarebbe _taorib_! Vedete, amici? Io sono l’uomo più felice di tutte le isole del mar Oceano. Mi fermo qui, col permesso del signor almirante; non mi muovo più dal fianco di Samana Taorib, e la domando in isposa. —Con che rito?—disse Rodrigo di Xeres. —Con quello dei suoi paesi; e non ci vedo modo di fare altrimenti;—rispose Damiano.—Se per altro vuol esser sposata là col nostro rito, venga con noi, la sposerò davanti al Prete Janni.— Cosma si era avvicinato all’amico, e gli bisbigliava all’orecchio: —Non dir sciocchezze, ti prego. E non ne fare, mi raccomando. —Sciocchezze!—esclamò Damiano, ribellandosi alle voci dell’amicizia.—E perchè, di grazia? Sciocchezza per te, se mai, non per me. Tu odii le donne. Io sono più giusto. Perchè una.... Ma già, non mi fare gli occhiacci! Volevo dire che se fossi nel vecchio mondo, potrei forse pensare come te. Ma qui siamo nel nuovo, mi capisci? nel nuovo. Avessi anche giurato di non amar più, siamo agli antipodi; agli antipodi il giuramento non regge, casca nel vuoto. Non è vero, Samana Taorib, che voi siete la più bella creatura dell’universo mondo?— Samana rideva, rideva sempre, come ridono, sotto ogni latitudine, le donne che sanno di non perder grazia a quel giuoco. Quel fiume di parole aveva tirata su Damiano l’attenzione di tutta la brigata. Le donne di Bohio, sentendo quel visibilio di _taorib_, prodigati a Samana, avevano fatto cerchio, come ad uno spettacolo di piazza. Sentivano invidia e gelosia, le donne di Bohio? A vederle così allegre, ci sarebbe stato da scommettere che le sullodate furie non fossero penetrate ancora nelle isole del nuovo mondo. Ma forse, chi sa? le donne sanno padroneggiarsi così bene! Comunque sia, non cerchiamo di approfondire certi misteri. Molti fatti sono rimasti oscuri, molti particolari inesplorati, nei primi viaggi di scoperta di là dall’Atlantico. Ai giorni nostri, se si dovesse scoprire una sesta parte del globo, andrebbero botanici, zoologi, fisiologi, psicologi, medici, speziali, perfino giornalisti, e si saprebbe ogni cosa appuntino. Ma allora, niente di ciò; e troppe cose son rimaste nell’ombra. Samana aveva dette, sulla spalla di Damiano, alcune parole al naturale di Guanahani. Se ne avvide Damiano, e, sospettoso come un europeo, chiese tosto a Caonec: —Che cosa ti domanda il mio sole? —Domanda,—rispose Caonec,—se quel giovane che ti ha parlato poc’anzi è tuo fratello. —No, non è mio fratello. —E gliel ho detto. —Ma dille ancora che Cosma mi è più che fratello, amico del cuore. Capisci? del cuore.— Caonec aggiunse qualche parola alla sua risposta, per contentare Damiano. Frattanto, per invito delle donne di Bohio, si usciva dalla sala del convito in giardino, a prendere una boccata d’aria. Damiano offerse galantemente il braccio a Samana Taorib. La fanciulla non capiva che cosa significasse quell’atto, per cui l’uomo si accosta così gentilmente alla forma di un’anfora col manico. Ma ella vide che Rodrigo di Xeres e Luigi di Torres facevano lo stesso, pigliando a braccetto due altre donne di Bohio, e si adattò subito ad imitar le compagne. Si voltò, per altro, a guardare che cosa facesse il quarto figlio del cielo, e vide che il quarto non faceva manico d’anfora a nessuna tra le figlie degli uomini. —Cosma....—mormorò ella. E proseguì la frase, ma nella sua lingua; donde avvenne che il suo cavaliere non capisse altro che il nome dell’amico, un nome da lei imparato poc’anzi. Damiano si volse per notizie all’interpetre. —Che cosa dice la mia sultana?—gli chiese. —Vuol sapere,—rispose Caonec,—perchè il tuo amico non fa come gli altri. —Ah sì, è vero;—disse Damiano.—Cosma fa sempre tutto alla rovescia degli altri. Dille che Cosma non ama le donne.— Cosma udì le parole dell’amico, e alzò sdegnosamente le spalle. —Mi raccomando,—diss’egli poscia, in vernacolo genovese,—non far sciocchezze; non ne dire, almeno. Credo in verità che quel liquore maledetto ti abbia dato al cervello.— Damiano voleva rispondergli. Ma quell’altro si era già allontanato. Erano andati a sedersi, come desiderava Damiano, sull’erba del prato, all’ombra dei palmizi e dei cocchi. Le donne di Bohio si erano sedute accanto ai figli del cielo. I colibri svolazzavano di fiore in fiore: i pappagalli facevano un casaldiavolo sui rami degli alberi giganteschi; l’idillio e l’egloga intenerivano i cuori della comitiva satolla. Poco stante, capitarono anche gli uomini della tribù. E chiesero, con l’aiuto degli interpetri, se i figli del cielo fossero rimasti contenti; pregarono che volessero rimanere molti giorni con loro, nella pace pastorale di Bohio, per riposarsi dei loro viaggi nell’aria e sul mare. Ma no, era impossibile, facevano rispondere i capi dell’ambasciata. Erano venuti per conoscere il paese, per chiedere come fosse grande quell’isola, quanti fossero i villaggi, e quanti i re; da chi dipendessero; se su quell’isola, o in altra terra vicina, imperasse il gran Cane, o il Prete Janni, od altro monarca; dopo di che, era necessario che ritornassero alla costa, per dar ragguaglio di tutto al loro grande almirante, signore dei mari, ma soggetto egli stesso al più grande monarca del mondo. Era necessario che partissero: sarebbero rimasti a Bohio solamente quella notte. Ma perchè il re di Bohio non sarebbe andato ad accompagnarli fino alla costa, per conoscere l’almirante, signore dei mari, che lo avrebbe accolto come un fratello, e gli avrebbe fatti dei ricchi presenti, per lui e per i principali uomini di Bohio? Erano in questi discorsi, quando venne un selvaggio, probabilmente un servo del re, portando una cesta intessuta di vimini colorati. In quella cesta si vedeva una quantità di piccoli arnesi, di color lionato carico, in forma di fusi. Ma non erano fusi di legno; parevano di carta, o piuttosto di foglie disseccate. —Che roba è?—disse Luigi di Torres. —Come?—esclamò Rodrigo di Xeres.—Non lo sapete? Nell’estremo Oriente, nell’India pastinaca, non c’è nulla di simile? E non vi dà lume di niente il vostro Beniamino di Tudela? —Voi scherzate, don Rodrigo! —Eh, Dio buono, a quest’ora, dovrebb’essere permesso. Non avete voi pranzato di buon appetito?— Frattanto avevano presi fra le dita quei fusi, li palpavano, li guardavano, li fiutavano. L’aspetto non era brutto; la sostanza cedeva al tatto, come un composto di foglie secche; l’odore era buono, ma di un aroma sconosciuto. Il re, forse per dare il buon esempio ai suoi ospiti, prese uno di quei fusi, ne introdusse una estremità fra le labbra, e accostò l’altra ad un tizzone acceso che gli porgeva un famiglio. Appiccato il fuoco a un capo del fuso, il re si mise a tirare il fiato dall’altro, e incominciò a render fumo dalla bocca. —Oh, _taorib!_—esclamò Damiano, che aveva seguita con occhio curioso l’operazione regale. L’interpetre di Guanahani spiegò a Damiano e alla compagnia che quello non era _taorib_, ma si diceva _kohiba_. —Siamo lì!—disse Damiano.—E a che serve quel succhiar foglie accese e dar fumo dalla bocca? L’interpetre stentava a capire. La frase di Damiano accoglieva troppi vocaboli nuovi per lui. —Ti domando,—riprese Damiano,—che cosa è questa _kohiba_. —Un’erba,—rispose allora l’interpetre,—un’erba che scaccia gli spiriti della sera. —Spiriti?... che sono in corpo?—domandò Damiano, aiutando le parole col gesto. Caonec rispose affermativamente. Ma forse intendeva di spiriti che possono entrare in corpo. Nondimeno, si trattava sempre di spiriti, e della utilità grande di mandarli a quel paese. —Ah!—disse Damiano.—Credo di averne bisogno ancor io. Vuoi tu accendermi questa _kohiba_, dolce Samana Taorib?— La fanciulla non capì le parole, ma il gesto era eloquente; ed ella appagò il desiderio del suo cavaliere. Prese il fuso, lo accostò alle labbra, lo accese al tizzone, e poi lo porse graziosamente a Damiano. Questi incominciò a guardare devotamente la traccia umida che le labbra di Samana avevano lasciata sulla estremità del fuso. E più divotamente accostò le sue labbra a quella traccia; poi diede la stura agli inni, rubando frasi ed immagini al Cantico dei Cantici. —_Taorib! Taorib!_ Sono dolci i tuoi amori, e il succo delle tue labbra è migliore del miele. Non parlo del vino, come termine di confronto, perchè il vino della _Santa Maria_ non è altro oramai che un cattivissimo aceto, un aceto con sapore di muffa, neanche buono a condire il cappone in galera. _Taorib! Taorib!_ i tuoi occhi sono due pezzi di lapislazzuli, in mezzo a cui l’orafo divino ha incastonati due diamanti purissimi. Il tuo collo è come la torre di Sion, a cui Davide appendeva le targhe dei prodi, ed io appenderei una collana di baci. I tuoi orecchi sono come capriuoli... cioè, no, veramente non sono i tuoi orecchi; ma, sono capriuoli egualmente, sebbene non si levino tra i gigli. Ed io mi levo... mi levo su, leggero leggero, enfiato come una vela maestra, dal soffio di una legione di amori.— Non era più un discorso, quello di Damiano; era un mormorio; un bisbiglio all’orecchio di Samana, mentre intorno a loro erano parecchie conversazioni avviate. Samana Taorib stava a sentire la filastrocca, come trasognata, cadente dalle nuvole, mentre egli, sentendosi più leggero che mai, andava con la fantasia più alto che non dicesse a parole. —_Taorib! Taorib!_—seguitava egli, balbettando.—Vuoi tu seguirmi lassù? Ti porto in cielo. Strappo un par di raggi alla prima stella che passa, e te ne faccio un diadema; qualche goccia di rugiada alle nubi, e te ne faccio una collana di perle. _Taorib!_ Samana _Taorib!_...— Samana Taorib, più confusa che mai da quella monotonia di suoni deprecativi, volgeva intorno i suoi grandi occhi d’indaco. —Caonec!—diss’ella, vedendo l’interpetre seduto sulle calcagna, a pochi passi da lei.—Cosma _kohiba nericama?_— Damiano incominciava a sentirsi impacciata la lingua; ma aveva ancor sano l’orecchio. —Caonec!—diss’egli a sua volta.—Che dice, la mia bella sovrana? —Domanda,—rispose Caonec,—perchè il tuo amico non ha voluto fumare _kohiba_. —Dille che Cosma odia la _kohiba_ come odia le donne;—rispose Damiano.—Cosma è uno sciocco. —Cosma _taorib!_—mormorò Samana. Un’opinione così recisamente espressa, non poteva piacere a Damiano, che si voltò scorrucciato alla sua bella vicina. —Ecco, signora;—diss’egli.—Bisogna distinguere. Cosma sarà _taorib_ finchè vorrai, ed anche di più. Ma ti prego di credere che nel mio paese, agli occhi di una donna, non è _taorib_ che un uomo solo. Non mi capisci, Samana? Ora te lo faccio spiegare da Caonec. O piuttosto, no!...—soggiunse egli, ravvedendosi.—Non leviamo il velo dell’innocenza a questa divina creatura. Ella vede che Cosma è mio amico, e crede farmi un piacer matto, decorandolo dell’epiteto di _taorib_. Certo, il mio compagno non è... non è... come si dice il contrario di taorib? A te, Caonec! Come si dice brutto nella tua lingua? —_Uruab;_—rispose prontamente l’interpetre. —Ah sì? _Uruab?_ Dovevo immaginarmelo. Dicevo dunque a questa cara fanciulla che Cosma non è _uruab_. Tutt’altro! Anzi, la signora Nina lo trovava _taorib_.... molto _taorib_.... la qual cosa non tolse che un bel giorno.... Ma già, c’è sempre nel mondo un _taorib_ che è più _taorib_ di noi, o sembra tale, e viene a vogarci sul remo. Ebbene, che cosa dicevo? Samana Taorib... tu mi guardi?... Cioè, non mi guardi affatto. Ma il tuo fumo di _kohiba_ mi dà maledettamente alla testa. Caonec! Caonec! dell’acqua... un sorso d’acqua, ti prego....— Caonec corse nella capanna a prendere l’orciuolo, e ritornò prontamente, per accostarne l’orlo alla bocca del fumatore giacente. —Oh bene, grazie, Caonec. È buona, l’acqua; e noi siamo qualche volta ingiusti con essa. Ancora un sorso... e un altro.... È tanto buona, che la tracannerei tutta d’un fiato. Ma dov’è Samana Taorib, che non la vedo più al mio fianco? Partita! perchè?... Dell’acqua ancora! E ti prego, raccogline un poco nel cavo della mano, e spruzzami il viso.... Mi arde la testa, e mi vengono i sudori freddi alle tempie. Che diavol è? Pigliami tra le braccia, Caonec; tirami su, a sedere... così! Ma no, tirami su, del tutto, in piedi... e sorreggimi. Sento che mi si rovescia lo stomaco. Vorrei passeggiare, Caonec. Là, dietro a quegli alberi, ci dev’essere più aria.— Caonec, intelligente selvaggio, obbediva a tutti i cenni di quel figlio del cielo. Presolo sotto le ascelle, lo condusse barcollante verso la macchia. —Che c’è!—domandò Rodrigo di Xeres, vedendo la scena. —Niente, don Rodrigo;—balbettò Damiano, tenendosi lo stomaco, e stralunando gli occhi.—Vado a prendere un po’ d’aria. —Infatti, siete assai pallido. —Sfido io... con quella _kohiba!_ Ma l’aria fresca mi farà bene. So un poco di medicina, don Rodrigo, e penso che potrò liberarmi... da questa oppressura. Vapori, capite? vapori dello stomaco. Ippocrate dà dei consigli, in proposito; Galeno raccomanda; e Celso non contraddice.— Così dicendo, Damiano si allontanò, appoggiandosi al braccio di Caonec. Le gambe lo reggevano male, ma il braccio del suo compagno era saldo. Così avesse egli avuto saldo lo stomaco! In quella vece, o Dio liberatore!... Ma è giusto che certe cose avvengano, per salutare esempio, se non per edificazione dei popoli. Mezz’ora dopo, respirata l’aria fresca della macchia, risciacquata la bocca e la fronte allo zampillo di una sorgente vicina, con lo stomaco debole e il cervello intronato, Damiano ritornò verso la comitiva. Il sole era tramontato, e la notte si avvicinava a gran passi. Nell’ombra della sera, e attraverso le nebbie dei suoi occhi, Damiano vide Cosma che stava presso l’uscio della capanna. La fanciulla dagli occhi d’indaco era vicina a lui, e pareva guardarlo con molta attenzione. —Samana!—disse Damiano.—Che fai tu qui, in così stretto colloquio con l’amico mio? —Cosma...—rispose l’ingenua selvaggia, non arrossendo neanche, sotto la sua pelle di rame,—Cosma _taorib!_— Damiano si morse le labbra. Ma aveva lo stomaco tanto debole, e il cervello ancora tanto annebbiato, che non si provò neanche a gridare. —Ho capito;—mormorò.—Buona fortuna, Cosma taorib! Io vado a letto. Come si dice letto, nella lingua di questo popolo agreste? Ah, mi ricordo, amac. Io dunque vado nell’_amac_... e senza _taorib_.— Samana, tutta intenta a guardar Cosma, non diede neanche retta a Damiano; lo lasciò andare senza dirgli crepa. —Ingratitudine delle _taorib!_—borbottò Damiano, entrando nella capanna.—Ma non diciamo male delle _taorib_, dopo tutto. Sono così anche le lepri. Un cacciatore le scopre; un altro le prende.— Damiano cullava ancora la sua filosofia nel pensile tessuto di un’amaca, quando venne Cosma a raggiungerlo. —Ah sei qua, tu?—gli disse Damiano—Troppo buono, in verità! —Te lo avevo pur detto!—rispose Cosma.—Non ne ber tanto, di quel liquore. È non ti sei contentato di bere; hai voluto anche aspirare il fumo di quell’erba. —Caro mio, per discacciare gli spiriti della sera. Avevo un diavolo in corpo. E come sai, un diavolo scaccia l’altro. —Quando non restano in corpo tutt’e due. —No, sai? uno... è andato fuori di certo. Del resto, cose nuove; e bisogna farci lo stomaco. Ma tu, caro amico, hai fatto un’opera di carità, venendo a vedermi. Ed anche un sacrifizio, mi pare. —Perchè? —Perchè hai piantata sull’uscio la mia... no, la tua... infine la nostra Samana Taorib. —Ma che mia? che nostra? che Taorib? —Come? e non era poc’anzi con te? —Eh, sfido! volevi che la scacciassi? —Non pretendevo questo. Ho detto di averla veduta con te. E ti chiamava Cosma _Taorib_, la perfida! Sentiamo, che cos’altro ti ha detto? —Caro mio, lo vorrei, ma non lo posso. Non l’ho capita. —E non hai preso interpetre? —No. —Uomo raro! uomo singolare! giuralo. —Te lo giuro;—disse Cosma, ridendo a suo malgrado della necessità di un giuramento solenne.—Ma che, per caso, mi avresti tu preso in iscambio, credendomi un altro te? —Caro mio, che cosa vuoi che ti dica? L’uomo è un animale così irragionevole! —Parla per te, Damiano. —È giusto, parlerò per me. Anzi, non parlerò più affatto. Con tua licenza proverò a dormire. —È il meglio che tu possa fare;—concluse Cosma,—E poichè vedo lì un’altra amaca, ne prendo possesso, e ti fo compagnia.— Così dicendo, Cosma pose le mani sull’orlo di una amaca, librò la persona sulle braccia tese, e con una abilissima giravolta si gittò di lancio in quel letto pensile, dove pochi minuti dopo dormiva saporitamente, con molta invidia del compagno Damiano, a cui i dolori del capo, l’arsura delle fauci e i vapori dello stomaco non lasciavano prender sonno. Ma tutto ha fine quaggiù, anche il mal di capo e il mal di stomaco. Dormendo interrottamente, sudando freddo, voltandosi un po’ sul fianco destro, un po’ sul mancino, Damiano trovò finalmente il modo di riposare, aspettando una domani che era così lenta a venire. A giorno chiaro si svegliò del tutto, e balzò dall’amaca, al rumore che gli altri facevano dintorno a lui, essendo alzati già tutti. Damiano aveva la bocca amara e le ossa peste, come dopo una febbre quartana. Ma infine, se paragonava il suo stato d’allora con quello della sera innanzi, poteva stimarsi abbastanza contento. Lo stomaco era sempre dubbioso, ma non gli doleva più. Uscì all’aperto, per prendere davvero una boccata d’aria; passeggiò un poco sotto i palmizi, e andò a salutare la fontana, in fondo a quel prato nascosto, dove aveva corso il risico di rendere l’anima a Dio, come tant’altre cose alla terra di Bohio. Al vivo zampillo della fontana si lavò le mani e la faccia; questa, poi, lungamente, una mezza dozzina di volte. Avrebbe fatto anche un bagno, se non avesse pensato che ci voleva troppo tempo a spogliarsi, mentre Luigi di Torres e Rodrigo di Xeres parlavano già di rimettersi in cammino, per ritornare alla costa. Quando ricomparve nella brigata, era già l’ora della refezione. —Mangiate qualche cosa;—gli disse Rodrigo di Xeres.—Niente, è più utile d’un cibo moderato, a rianimare lo stomaco indebolito da un stravizio.... e dalle sue conseguenze. —A chi lo dite?—esclamò Damiano.—Sono anche un po’ medico. E assaggerò di questa farinata gialla, che mi pare di ceci. —Maiz;—disse Caonec—Qui mangiare, là nascere.— Indicava, così dicendo, certe pannocchie dorate di quello che si chiamò poi grano turco; le quali pannocchie pendevano dalle pareti della capanna. Insieme con altre sementi di civaie, che gli ambasciatori avevano raccolte, per portarle alla costa. Il pasto fu leggero, ed anche breve; Damiano non innaffiò la sua farinata di maiz che con sorsate di acqua pura. Finalmente, gli ambasciatori si alzarono, per prendere congedo dai loro ospiti di Bohio. In due grandi ceste di vimini, ricambiate con le solite perline di vetro colorato e sonagliuzzi di rame, avevano fatti riporre i saggi della agricoltura di Bohio; e i naturali del luogo vi aggiunsero una discreta quantità di bambagia, che traevano da un fiore, non coltivato nei campi, ma facile a trovarsi dovunque nello stato salvatico. Era, come immaginate, il cotone. E i naturali dell’isola conoscevano l’arte di filarlo, per tesserne le loro amache non solo, ma ancora i manti di cui le donne più ragguardevoli si adornavano le spalle, e le _pernague_, o pannicelli, che tutte si giravano intorno ai fianchi. Insieme con le ceste di vimini, che erano confidate alle cure dei due interpetri, gli ambasciatori dell’almirante portavano un carico meno pesante, ma egualmente voluminoso, di utili notizie, raccolte a fatica, e forse non tutte dirittamente intese, sulle condizioni dei luoghi. Sapevano, per esempio, che in quell’isola, detta di Cuba, erano molti i villaggi, ognuno col suo re, detto _cacìco;_ potevano riferire con certezza all’almirante che quei villaggi erano tutti, dal più al meno, come quello di Bohio, e che non era a sperare di trovarci il gran Cane, nè il Prete Janni, nè altri segni di dominio orientale, nè perle, nè oro, nè spezierie. Queste ricchezze, per altro, dovevano ritrovarsi a staia, molto più lungi di là, verso ponente, in un’isola, o terra, che i naturali di Bohio chiamavano col nome di Babeque. O Babeque, o isola fantastica come quella di San Brandano, cercata inutilmente come quella di Cipango, voi avete fatto perdere un tempo prezioso al signor almirante del mare Oceano. E siete rientrata nel gran limbo delle cose vane, senza che i posteri siano mai venuti a capo di sapere che diavolo intendessero di accennare, pronunziando il vostro riverito nome, i naturali di Cuba. —Ed ora, amici, in cammino!—aveva detto Rodrigo di Xeres.—Bisognerebbe esser domani alla costa, per non tenere in ansietà il nostro signor almirante.— Il cacìco e i principali della tribù accompagnarono l’ambasciata per un buon tratto di strada. Le donne, affollate all’ingresso del villaggio, piangevano sulla partenza dei figli del cielo. Damiano vide tra quelle donne, e in prima fila, quella perfida Samana, che lo aveva lasciato solo a combattere coi fumi della _kohiba_, andando a chiamare _taorib_ il suo amico e fratello Cosma. Stette saldo, vedendola, e guardò davanti a sè, fingendo di non averla veduta. Le donne si accalcavano intorno agli ambasciatori, baciando loro le mani. Samana approfittò di quella confusione per accostarsi a Damiano. —Damiana!—gli disse, guardandolo con aria compunta. —Damiana!—ripetè egli, sardonico.—Cambiami ancora il sesso, satirica donna, che me lo son meritato. —Damiana.... _taorib!_—ripigliò Samana con voce carezzevole. —Troppo tardi, fanciulla!—rispose egli inflessibile.—Ma se _taorib_ vuol dire imbecille, tu hai sicuramente ragione.— Così dicendo, Damiano levò il braccio, come se volesse darle la sua benedizione, o mandarla a farsi benedire altrove; e proseguì la sua strada. _Capitolo VII._ Si cerca Babeque, si smarrisce la Pinta, e si ritrova Haiti. L’almirante aveva spesi utilmente quei giorni di aspettazione, facendo tirare a terra e spalmare la _Santa Maria_, che incominciava a sentire il bisogno di essere racconciata. L’opera dei calafati era a mala pena finita, e la caravella in pronto per navigare, quando ritornarono i messaggeri alla costa, e riferirono al comandante supremo tutto ciò che avevano veduto nel loro viaggio entro terra. Era quel giorno il 5 novembre. E perchè la freschezza delle notti faceva preveder vicino l’inverno, l’almirante deliberò di non avanzarsi troppo verso settentrione, e di non fermarsi più a lungo in così povere contrade. Per altro, innanzi di salpare le áncore dal _Rio de los Mares_, comandò che si prendesse qualche naturale dell’isola di Cuba, avendo in animo di condurre d’ogni isola visitata qualche abitante in Castiglia. Furono presi così dodici naturali, tra uomini, donne e fanciulli. Le navi erano già alla vela, quando si accostò in una piroga un selvaggio, chiedendo di essere preso a bordo egli pure. Marito di una delle donne prese dagli Spagnuoli, padre di due fanciulli che con la madre erano stati condotti alla nave, il poveraccio non vedeva che cosa avrebbe potuto far egli a terra, lontano dalla sua famigliuola. L’almirante lo accolse festosamente, e comandò che fosse trattato, egli e i suoi, con ogni cortesia. Così contenti tutti, si uscì dalla foce del fiume, nella giornata del 12, muovendo verso levante, alla ricerca dell’isola di Babeque. Fu un grave danno per lui, quella illusione di Babeque. Se avesse volta la prora a ponente, e seguitato il suo consueto cammino, avrebbe toccate le coste della Florida; od anche, seguitando a costeggiare l’isola di Cuba, nel rombo di libeccio, avrebbe incontrate le sponde opposte dell’Yucatan, così facendo nel suo primo viaggio la scoperta del Messico, cioè della più ricca e della più incivilita contrada del nuovo mondo. Ma per allora, seguendo le indicazioni dei naturali di Bohio, egli andò a cercare Babeque, la irreperibile Babeque. Le navi avevano appena pigliato il largo, che incominciò a soffiare il vento di tramontana, e così fresco, da consigliare una poggiata verso l’isola di Cuba. La spedizione entrò allora fra alcune isolette, le quali sorgevano in vicinanza di un gran porto, a cui Cristoforo Colombo impose il nome di porto del Principe. Egli spese qualche giorno a visitare coi suoi palischermi il grazioso arcipelago, a cui diè nome di Giardino del Re. Erano quelle isole così fitte e vicine, che dall’una all’altra non era più d’un quarto di lega; e tanto erano profondi i canali, le rive così adorne di alberi e di erbe così verdi, che niente si sarebbe potuto immaginare di più bello. Tutte quelle isole erano vuote di abitanti; eppure ci si vedevano tracce di molti fuochi di pescatori. Sicuramente, a quelle isole andavano i naturali di Cuba, per attendere alla pesca; la qual cosa si seppe poi con certezza, insieme con altre particolarità, che importano poco al nostro racconto, e che per amore di brevità si ommettono. Ce ne sappia grado il lettore. Il 19 dicembre, che fu un lunedì, l’almirante salpò nuovamente dal porto del Principe, ripigliando il suo cammino verso la fantastica Babeque. E seguitava a cercarla il 21, quando Martino Alonzo Pinzon, seccato di cercare Babeque in compagnia dell’almirante, si mosse per suo conto alla ricerca di una isola nuova, che i naturali a bordo della _Pinta_ chiamavano Bohio, come i villaggi dell’interno di Cuba. Evidentemente, con quel nome di Bohio indicavano la casa, o un ceppo di case; un luogo abitato, insomma. Vedendo la _Pinta_ allontanarsi verso levante, Cristoforo Colombo la richiamò coi segnali d’uso. Ma la _Pinta_ non fece caso dei richiami, e andò innanzi per tutto il resto della giornata. Sopraggiunta la notte, l’almirante fece serrare alcune vele, e appiccar lanterne all’albero di maestra, pensando ancora che la _Pinta_, ottima veliera, lo avrebbe raggiunto; ma invano. La _Pinta_ non ritornò; allo spuntar del giorno si era dileguata del tutto. Che voleva dir ciò? Noi sappiamo che i racconti di un selvaggio, accennando ad una ricchissima regione, avevano abbagliato il Pinzon. Ma senza sapere di ciò, l’almirante pensava dirittamente dell’altro; pensava ad esempio che Martino Alonzo non era il più obbediente degli uomini e sopportava con impazienza l’autorità del comandante supremo. E sospettava, per conseguenza, di qualche brutto disegno. Il Pinzon voleva, arrogandosi un comando separato, procurare a sè vantaggi separati; oppure egli faceva conto di ritornarsene in Ispagna, per usurpare al comandante supremo l’onore delle fatte scoperte. La lentezza della _Santa Maria_ non permetteva d’inseguire la _Pinta_. Cristoforo Colombo, che già tante contrarietà aveva dovuto sopportare e tanti affronti mandar giù, ricacciò il suo giusto sdegno nel fondo dell’animo; e seguitò a veleggiare lungo la costa di Cuba. Gli occorse anzi di ritrovare un bel porto, e di ancorarvisi, per fornirsi d’acqua e di legna. In quel porto, che egli chiamò di Santa Caterina, vide alla foce d’un fiume alcune pietre che avevan mostre d’oro; e le montagne tutto intorno erano vestite di pini così alti, che se ne potevano far alberi per grosse navi. Ma non era tempo d’indugiarsi. La tarda _Santa Maria_ e la tardissima _Nina_ ripigliarono il viaggio: toccarono un altro porto, che fu chiamato porto Santo, e di là volsero alla punta orientale di Cuba, che prese il nome di Alfa ed Omega. Laggiù, mentre correva bordeggiando, incerto della via da prendere, l’almirante scoprì a scirocco una nuova terra: e questa a grado a grado si mostrava più chiaramente, innalzandosi le sue alte montagne a foggia di piramidi, sulla linea dell’orizzonte, ed annunziando un’isola di grande estensione. I naturali di Guanahani e di Cuba, che erano a bordo della _Santa Maria_, vedendo quell’isola in lontananza gridarono: Bohio! Quando videro che l’almirante faceva drizzar la prora a quella volta, diedero segni di gran terrore, e lo supplicarono di mutar cammino, assicurandolo che gli abitanti erano feroci e crudeli. Parve anzi di capire dai discorsi dell’interpetre che fossero antropofagi e che avessero un occhio solo nel mezzo della fronte. Davvero, in quel maraviglioso viaggio del navigator genovese, un po’ d’Odissea non guastava, e Polifemo ci ritrovava il suo posto. Il vento si era voltato contrario; nè osando far vela nella notte per quei mari sconosciuti, l’almirante spese due giorni intieri per arrivare alla temuta isola di Bohio. Ma egli potè lungamente ammirarla, in mezzo alla trasparente atmosfera dei tropici. Le sue montagne erano più alte e rocciose di quante egli ne avesse vedute in quell’isole; per contro, sorgevano dal verde cupo di fitte boscaglie le ridenti colline; e le verdeggianti praterie che la circondavano, i segni di coltura che offrivano le pianure, i fuochi innumerevoli che si vedevano brillare nella notte, le colonne di fumo che di giorno s’innalzavano al cielo, davano indizio di un popolo numeroso e felice. Tale si offerse Bohio, o per chiamarla col suo vero nome, Haiti, agli occhi dell’almirante e del suo equipaggio. Egli era partito dal capo Alfa ed Omega la mattina del cinque di dicembre. Non toccò la punta occidentale della nuova isola che nella sera del sei. Approdò ad un porto, a cui diede il nome del santo di quel giorno, san Nicolò; nome che i posteri hanno conservato a quel sorgitore, spazioso e profondo, attorniato di alberi d’alto fusto, molti dei quali erano carichi di frutti. Verso il fondo del porto si stendeva una vasta pianura, irrigata da un’acqua limpidissima. Nel porto si vedevano cinque piroghe, grosse come fuste spagnuole, di quindici banchi ciascuna. Sicuramente erano villaggi in vicinanza; ma i naturali, alla vista delle navi straniere, erano tosto fuggiti alla macchia. Non potendo aver pratica con quella gente, l’almirante fece rimettere alla vela, seguendo la costa verso tramontana, finchè giunse ad un altro porto, da lui chiamato della Concezione. Anche in quel porto metteva foce un piccolo fiume. La costa abbondava di pesci, molti dei quali saltavano perfino nei palischermi. E perchè la più parte di quei pesci somigliavano a quelli delle coste di Spagna, e perchè parve di udir dai boschi vicini il gorgheggio del solito rosignuolo di Andalusia, e perchè l’aspetto dei monti e delle colline ricordava anch’esso la terra dond’erano partiti i navigatori animosi, l’isola ebbe il nome nuovo di Spagnuola, innanzi che fosse conosciuto il suo vero nome di Haiti. Erano nel dintorni del porto le tracce d’una grossolana coltura; ma non si vedevano abitanti, perchè tutti erano fuggiti all’arrivo degli stranieri. Quattro o cinque ne furono veduti in una radura del bosco, che stavano spiando i nuovi venuti; si diede loro la caccia, ma non fu possibile raggiungerli. Desiderando l’almirante di entrare ad ogni modo in relazione coi naturali dell’isola, mandò sei uomini bene armati in esplorazione. Trovarono essi dei campi coltivati, delle tracce di sentieri, delle eminenze con avanzi dì carbone e di cenere; ma gli abitanti impauriti si erano sempre tenuti lontani da loro. Non era molto, ma bastava a convincere l’almirante che la popolazione dell’isola fosse abbastanza numerosa. Quei fuochi che egli aveva veduti risplendere la notte innanzi, e di cui erano state ritrovate le vestigie, ricordavano ciò che si sapeva per tradizione in Ispagna, dei fuochi accesi nelle montagne dal popolo cristiano, al tempo della invasione degli Arabi, per avvertire gli abitanti del piano di fuggire quanto più potessero lontani dal lido minacciato. Era il 12 dicembre, quando Cristoforo Colombo piantò solennemente una croce, sopra un poggio all’ingresso del porto, per dinotare che ne aveva preso possesso. Cosma e Damiano, che passeggiavano allora in quelle vicinanze, scopersero sul confine di una macchia vicina un gran numero di naturali. Data la voce ad alcuni compagni, e tosto seguiti da essi, corsero sulle tracce di quella gente, che si era data, come potete immaginarvi, alla fuga. Non impediti da drappi, nè da falde, quei naturali guadagnarono facilmente terreno, e non furono potuti raggiungere. Ma la fortuna arrise a Damiano, che era più innanzi dei compagni, e potè metter la mano sopra una giovane donna, rimasta ultima dello stuolo fuggitivo. Confessiamo, per amore di verità, che Damiano da principio non pensò al sesso della sua preda. L’aveva abbrancata e la teneva forte. Ma alle strida di lei, riconobbe di aver sotto l’unghie una donna. E senza lasciarla tuttavia, la strinse un po’ meno, cercando in quella vece di chetarla, con quel po’ di lingua selvaggia che aveva imparata. Quel poco, per altro, era pochissimo; una sola parola. —_Taorib!_—le disse.—_Taorib!_— La donna seguitava a divincolarsi, ma inutilmente. Del resto, sopraggiungevano i compagni di Damiano, a prestargli man forte. —Per caso,—disse Cosma all’amico,—avresti ritrovata Samana? —Eh, qualche cosa di simile;—rispose Damiano.—Ma il diavolo mi porti, se ricasco nelle sue tentazioni.— Pure la donna era giovane e graziosa. Era nuda affatto, il che augurava male del grado di civiltà dell’isola Spagnuola. Ma essa portava sospesa alle narici una piastrella d’oro, e questo faceva sperare che il prezioso metallo fosse comune in quell’isola. Una miniera d’oro valeva bene uno stato di civiltà. Così almeno si ragionava allora, e il narratore non ci mette del suo nè sal nè pepe. La bella conquista fu portata in trionfo a piè della croce. Colà il suo spavento fu presto calmato dagli interpetri, e più dal benigno aspetto e dagli umanissimi gesti dell’almirante; il quale tosto ordinò che la bella sbigottita fosse coperta d’un manto, le diede anelli di rame da mettersi alle dita, una collana di perline di vetro e dei piccoli sonagli da mettersi al collo. Eva fu prontamente tranquillata. L’avevano ornata di bei presenti; la rimandavano libera: l’avevano chiamata _taorib_. —_Taorib!_ si, _taorib!_—le andava ripetendo Damiano, mentre ella si allontanava. Ed ella si allontanava lentamente; o fosse, come credette Damiano, perchè non le dispiacesse quel complimento, o perchè al suo cuore riconoscente piacesse meglio mostrare con la lentezza del ritorno che era grata delle buone accoglienze ricevute. —Accompagnatela;—disse l’almirante agli interpetri.—Forse troverete modo di parlare agli uomini della tribù.— Tre degli interpetri obbedirono al comando. —Signore,—disse Damiano,—volete che l’accompagni qualcun altro di noi? —Fatelo, se vi pare. Io non pensavo di darne incarico a voi, immaginandovi stanchi della corsa già fatta.— Damiano volse un’occhiata a Cosma, invitandolo. —Io verrei;—gli disse Cosma, muovendosi;—ma non mi farai tu assistere a qualche altra follia? —Uomo di poca fede,—rispose Damiano,—ti ho detto che non ricascherò in tentazione. E voglio averti per testimonio della mia maravigliosa virtù. In questo momento, poi, mi ricordo di Scipione in Ispagna.— La donna, vedendosi seguire da tanti, incominciava a pentirsi di essere andata troppo lenta. Ma gl’interpetri furono solleciti a chetare i suoi timori; ed ella si mostrò contenta di ritornare al suo villaggio così bene scortata, con quel manto da regina sulle spalle. Damiano, in quella spedizione, mantenne la parola che aveva data al compagno. Non fece gli occhi teneri alla bella selvaggia; si contentò di chiamarla un centinaio di volte _taorib_. —Parole,—diceva egli a Cosma,—parole che si dicono, e il vento se le porta. È sempre bene dire ad una donna che ella è _taorib_, anche se una piastrella d’oro sospesa alle nari le sforma un pochettino la faccia. Ella ritorna a casa sua, vede le amiche, s’intrattiene di cento cose con loro, e trova sempre modo di ricordar loro quel gentil cavaliere che le ha detto tante belle cose, magari dicendogliene sempre una sola. —Ah, furfante di tre cotte!—esclamò Cosma, ridendo.—Così ti disponi tu a non ricadere in tentazione? preparandoti il terreno in guisa che tutta una popolazione femminile s’innamori di te? Vuoi dunque conquistare tutti i teneri cuori del nuovo mondo? —Sì, dammi la soia!—rispose Damiano.—Sei tu, Cosma _taorib_, che puoi parlarmi così? tu, che appena saremo al villaggio, mi vogherai bravamente sul remo?— Con grande soddisfazione di Damiano, che era fresco di malattia e non voleva far ricadute, non fu il caso che l’amico gli vogasse, anche involontariamente, sul remo. Sopraggiunse la sera, senza che avessero ritrovato il villaggio. Non volendo avventurarsi in piccol numero, e di notte in quei luoghi sconosciuti, pensarono di ritornare alla costa. La selvaggia, del resto, aveva veduto compagni sulle balze vicine; poteva ritornarsene insieme con loro al villaggio. Fu salutata, ossequiata, pose le mani sulla testa di tutti, in segno di riverenza e di fede, si sentì chiamare un’altra volta _taorib_, e mezzo sorridente, mezzo piangente, si separò dai suoi cavalieri. L’almirante vide a tarda sera ritornare i suoi uomini. E facendo assegnamento sul buon effetto che avrebbe dovuto produrre sui naturali il racconto della donna così prontamente rimandata libera e tanto onorata da tutti, pensò di mandar gente nell’interno dell’isola. Nella mattina seguente egli scelse adunque nove uomini, comandò che si armassero a dovere, e li spedì per la via di cui già avevano fatta una parte, a rintracciare il villaggio. Damiano, si capisce, era del numero; e Cosma non poteva non accompagnare Damiano. Un naturale di Cuba fu aggiunto al drappello, per servire da interpetre. Il villaggio fu ritrovato, a quattro leghe e mezzo dalla costa, e sulle sponde di un gran fiume. Conteneva un migliaio di capanne; ma tutte deserte, essendone fuggiti gli abitanti al primo apparire degli Spagnuoli. Per altro, non erano andati molto lontano; parecchi ne furono veduti ronzare tra gli alberi, in prossimità del villaggio, e come in vedetta, per dare avviso d’ogni novità ai loro compagni. Ad essi, per consiglio di Cosma, che capitanava il drappello, andò solo soletto l’interpetre. Trattenendoli coi gesti e con la voce amica, li raggiunse, parlò, e riuscì a persuaderli, discorrendo a lungo della bontà dei figli del cielo, che viaggiavano il mondo, facendo ricchi donativi a tutti, e male a nessuno. Si erano affollati in cento a sentirlo; crebbero a mille, mentre egli parlava; In duemila lo seguirono al villaggio, circondando i nove Spagnuoli, ma rispettosamente, sapendoli figli del cielo, e immaginando forse che quegli esseri soprannaturali, scesi dalla patria della folgore, potessero sprigionare da un momento all’altro scintille ed atterrarli a diecine. A poco a poco, vedendoli così buoni, che si lasciavano ammirare, e rivolgevano loro occhiate amorevoli, si addomesticarono del tutto. I più vecchi giunsero perfino all’atto di metter le mani sulla testa degli uomini bianchi; il che, come sapete, era segno di onore grandissimo, come di confidente amicizia per gli stranieri, e di buon augurio per sè. Quindi, sparpagliatisi per le case e pei campi, ritornarono in piazza con frutti, radici e pane di cassava. Vollero ancora che visitassero le loro capanne, portandoci la benedizione del cielo, e li pregavano di rimanere a lungo loro ospiti. Udito dall’interpetre che amavano i pappagalli, ne recarono molti addomesticati. Non oro, ahimè, non oro, che i figli del cielo anteponevano ai pappagalli. Salvo quelle piastrelle che taluni di essi, specie le donne, portavano sospese alle nari, non avevano in casa altro saggio del prezioso metallo. Ma lasciavano intendere che la terra dove si raccoglieva l’oro, giaceva più oltre a levante. Era un’altra parte dell’isola? era un’altra isola a dirittura, o un continente lontano? Era povero ancora il vocabolario, più povera la sintassi dell’interpetre; e quel punto difficile non fu potuto chiarire lì per lì, come avrebbero desiderato i figli del cielo. Gl’indigeni di quel villaggio erano dei più belli, per regolarità di fattezze e proporzione di membra, che i cristiani avessero veduti fino allora nelle isole scoperte. Avevano pure la pelle più bianca degli altri. Apparivano anche singolarmente felici, poichè la terra ferace produceva quasi senza coltivazione la maggior parte dei loro alimenti; i fiumi e le rive del mare davano pesce in gran copia. Tutto avevano comune, la terra del pari che l’acqua ed il sole; i loro frutteti, come i lor boschi, non si vedevano circondati da fossi, nè divisi da stecconate, nè protetti da muri. Vivevano senza leggi, senza giudici, senza uscieri e senza gendarmi, riguardando siccome malvagio chi si compiacesse di far male altrui, nè avendo altra cura fuor quella di vigilare la riproduzione delle radici di jucca, donde ritraevano il pane. Non era sconosciuta ad essi la poligamia, poichè assegnavano venti donne al capo della tribù; ma ognuno di loro pareva contentarsi di una. E non difettavano d’idee filosofiche, nè di credenze religiose. Stimavano esser l’anima immortale, e pensavano che, dopo la morte del corpo, ella andasse per boschi e montagne, vivendo eternamente collegata alla sua patria terrena, nel fondo delle caverne. Queste, perciò, avevano un culto, essendo riguardate con superstiziosa venerazione. E quelle voci che rispondono alla nostra nei luoghi solitarî, dalla cavità delle grotte, dalle pareti dei massi, erano, secondo loro, le anime dei trapassati. Vita bucolica, religione poetica, come vedete. Mentre i nove Spagnuoli stavano ragionando coi naturali del villaggio (per intromissione dell’interpetre, quasi non sarebbe mestieri di dirlo), videro avvicinarsi un numeroso stuolo d’indigeni, che portavano una donna sulle loro spalle, come in trionfo. —La regina!—disse Damiano. —Sì, piglia fuoco, bombarda!—fu pronto a ribattergli Cosma. —Eh, se sarà degna dei nostri omaggi, perchè no? Ne ho pensato una, sai? L’altra volta, caro mio, mi hai sconfitto facilmente, avendo io bevuto troppo di quel maledetto liquore, e sorbito quell’altro veleno nel fumo dell’erba magica, o che altro diavolo fosse. Ma questa volta, per tua regola, non berrò che acqua, non accosterò _kohiba_ alle labbra, e ce la vedremo, mio caro!— Cosma ascoltava e sorrideva, di quel suo sorriso malinconico che non iscopriva i segreti dell’animo, ma li lasciava intravvedere, e faceva di lui un personaggio singolare in mezzo a quella numerosa famiglia di poveri naviganti. Il drappello si era avvicinato, e i due amici riconobbero nella creduta regina la giovane donna che avevano fatta prigioniera il giorno innanzi e poi ricondotta a mezza strada verso il villaggio. Coperte le spalle del suo manto dai vistosi colori, cinta il collo dei sonagli e delle perline di vetro che le aveva donato l’almirante, ella veniva tutta sorridente e felice su quel suo cocchio improvvisato. Il marito di lei precedeva il drappello, e fu molto contento di aver lì pronto un interpetre, per fare un lungo discorso, in cui esprimeva la sua profonda riconoscenza per la bontà che i figli del cielo avevano dimostrata verso sua moglie. Una buona parola non è mai sprecata. Damiano ebbe il premio di quella che aveva detta tante volte alla giovane selvaggia; lo ebbe sentendosi da lei chiamare per nome. Era il nome con cui essa lo aveva sentito chiamare dagli amici, e non lo aveva dimenticato. —Damiano!—gli disse;—Damiano!— E pareva contenta di rammentarlo; più contenta di dimostrargli che lo aveva ritenuto. —Ah! sia lodato il cielo!—mormorò Damiano. —Questa, almeno, non mi cambia il sesso. Buon giorno, _taorib_!—soggiunse ad alta voce, facendole con la mano un grazioso saluto. —Ella sa il tuo nome;—gli disse Cosma all’orecchio.—Chiedile almeno il suo. —A qual pro?—disse Damiano. —Ma, che so io? Per ricordartene. —E domandiamo il suo nome:—riprese Damiano.—Cusqueia!— Il naturale di Cuba, che si chiamava così per lo appunto, si volse. —Come si chiama quella _taorib_? Domandalo.— L’interpetre contentò subito il desiderio di Damiano; poi ripetè il nome che gli aveva detto la donna: —Caritaba. —Onore a Caritaba!—disse allora Damiano. E levatasi una rossa fascia di lana che portava in cintura, la porse a lei in presente. Caritaba ringraziò, battendo le palme e saltando. Era giunta l’ora di lasciare il villaggio. I marinai volevano essere prima di notte alla costa. Saputo della loro risoluzione, tutta la tribù si diede a gemere, a guaiolare, come se fosse accaduta una grande sventura. Ma poco valevano i pianti. Il destino era quello. _Fata trahunt_, avrebbe potuto dir loro Damiano, che sapeva di latino. Ma a qual pro’, se i naturali di Cuba non capivano il latino? Il drappello si pose in cammino, accompagnato dal saluti, dai gemiti, dalle acclamazioni di tutta la tribù. Era un tumulto assordante, aggravato ancora, se pur ce ne fosse stato bisogno, dalle grida dei pappagalli, che gli Spagnuoli dovevano portare con sè, per non aver aria di sgradire i donativi di quell’ottima gente. —E tacete, che il diavolo vi porti, animali molesti, nemici dell’uomo!—gridava Damiano.—Se almeno si capisse il vostro linguaggio! —Tu non hai pazienza;—gli diceva Cosma. —Ne ho, perdincibacco, ne ho quanto occorre;—rispondeva Damiano.—Ma queste bestie maledette, la farebbero perdere a Giobbe. —Ah sì! bell’esempio che tu porti! un uomo che si lagnava dalla mattina alla sera, e dalla sera alla mattina. —E credi che non ne avesse ragione? Vorrei vederti, con quel po’ po’ di disgrazie e di guidaleschi addosso! e con quella razza di amici! e con quella donna, poi! Felice te, Cosma, che non hai preso moglie!...— Il viso di Cosma si rabbuiò, a quel discorso di Damiano. —Scusami, sai;—ripigliò Damiano, vedendo, o piuttosto indovinando l’effetto delle sue parole.—Volevo dire: felice te, che di amici chiacchieroni non ne hai alle costole che uno. —E lo amo, e son lieto di avercelo;—disse Cosma, stendendogli la mano. Si erano fermati un istante, alla svolta del sentiero, per mandare un ultimo saluto alla tribù, che era tutta quanta affollata all’ingresso del villaggio, in atto di contemplare i figli del cielo. —Che è?—disse Cosma.—Uno dei naturali viene verso di noi, correndo come una lepre. —Che cosa vorrà?—disse Damiano.—E che diavolo porta egli in mano? Qualche cosa di verde. Una foglia di palma, forse? A te, che hai un occhio di lince, e l’altro di falco; vedi un po’ tu. —Povero Damiano!—esclamò Cosma, non potendo trattenere un sorriso.—Sta a vedere che quella palma è per te! Infine, non hai tu trionfato? e non la meriti? Ma pur troppo, amico mio, non è una foglia di palma. Tura gli orecchi, Damiano; è un pappagallo. —Che il diavolo si porti anche quello;—gridò Damiano.—Ma perchè poi dovrebbe essere destinato a me? Non sei tu il capo della spedizione? I donativi vanno al comandante, mi pare.— Il naturale si avvicinava. Quella sua pelle color di rame non permetteva agli Europei di riconoscerlo. Ma bene lo distinse l’interpetre. —Marito a Caritaba;—diss’egli. —Che cosa ti dicevo io?—mormorò Cosma all’orecchio di Damiano.—È il marito della bella: ti porterà un ultimo saluto di lei.— Era infatti il marito dell’indiana, a cui erano state fatte tante buone accoglienze il giorno innanzi, e tanta festa un’ora prima. Veniva egli con un pappagallo nel pugno; e giunto alla presenza degli Spagnuoli, guardò un poco nel crocchio, per cercare il suo uomo; lo ritrovò, diede un grido, e gli offerse il pappagallo, dicendo con breviloquenza spartana: —Caritaba.... Damiano. —Cari....—balbettò Damiano, confuso. —Caritaba;—gli rispose una voce. Ma non era la voce dell’indiano; era la voce del pappagallo. —Diciamo dunque Caritaba;—conchiuse Damiano, rassegnandosi.—E tu, Cusqueia, sapientissimo tra gli araldi, chiedi a questo ottimo naturale per qual ragione abbia portato a me un così maraviglioso presente.— L’interpetre capì ad un bel circa il pensiero di Damiano. E parlò al marito di Caritaba; ne ebbe la risposta, e la riferì prontamente a Damiano. —Caritaba,—diss’egli,—contenta dono Damiano. Figli del cielo amare bestie parlanti. Caritaba mandar bestia parlante Damiano. —Grazie!—rispose Damiano, commosso, ma non fino alle lagrime.—Dica quell’ottimo naturale alla sua dolce metà che io terrò questo pappagallo sul mio cuore, finchè mi duri la vita.— L’interpetre capì quel che potè, disse quel che gli parve meglio, e fece saltare quell’altro dalla gioia. —È contento vedi? è contento;—rispose Damiano.—Ma già, quell’ottimo naturale ha il suo segreto in corpo. Egli ha letto Plutarco, e sa il motto di Temistocle: a nemico che fugge, ponte d’oro.— Il marito della bella indiana levò le mani, salutando; fece una giravolta da ballerino, e prese il volo verso il villaggio. —Guarda,—disse Cosma,—guarda come è bene arnesato. —Arnesato, di che? Mi par nudo. —Non vedi? Ha la tua fascia rossa alle reni.— Damiano guardò, e riconobbe la fascia che egli aveva donata un’ora innanzi alla bella Caritaba. —Ah figlio di cane! e cane egli stesso!—gridò.—Ma quell’altra.... quell’altra, che gli ha ceduto il mio regalo! —Caro mio, non accusare quella povera donna. Non avrà potuto rifiutarlo ad una domanda del suo signore e padrone. Quella fascia, del resto, era arnese da uomini; doveva andare ad un uomo. Egli ha veduto che tu la portavi in cintura; l’ha voluta, e l’ha messa anche lui in cintura. —O giù di lì!—disse Damiano. —Ma di che ti lagni, uomo incontentabile?—riprese Cosma.—È venuto ancora a portarti il cambio del tuo presente; il pappagallo, la bestia parlante.... —Cosma!—brontolò Damiano.—Giobbe aveva parecchi amici; tre, se io ricordo bene la Sacra Scrittura. Ma io ne ho uno, che fa per trenta. —Mi rinchiudo nel mio guscio,—rispose Cosma,—e non ti dico più nulla.— Damiano se ne ritornò verso la costa, tenendo sul pugno il suo pappagallo, che di tanto in tanto gli veniva ripetendo: —Caritaba! —Sì, Caritaba! e aggiungi anche _taorib_, bestia malnata!—borbottava Damiano.—Io dunque ti porterò in Europa, perchè tu m’introni sempre gli orecchi, con quel tuo Caritaba? —Senti,—si provò a dirgli Cosma,—ora tu sei maravigliosamente ingiusto. Vorresti dunque che egli ti dicesse.... Samana? —Ah sì, non ci mancherebbe più altro;—rispose Damiano.—Ma infine, tu mi ci fai pensare: qui non è tutto male. Caritaba val meglio di Samana; alla Spagnuola è scongiurata la mala sorte di Bohio. Mi dirai che mi contento di poco. Ebbene, che fa? Uno sguardo, una parola, un pensiero, un ricordo; ecco l’amore. —Caritaba!—gracchiò il pappagallo.—Caritaba! —O senti, tu! non potresti cambiarmela, una volta tanto, la musica?—gridò Damiano, seccato.—Dirmi, per esempio, Caratiba? Carabita? Catariba? Ah sì, perbacco, Catariba. È quasi come dir Catarina; non è vero, Cosma?— Cosma non rispose più sillaba. Si era per davvero rinchiuso nel suo guscio. Quella sera, udita la relazione de’ suoi messaggeri, Cristoforo Colombo depose la speranza, o l’illusione, di essere pervenuto ai confini orientali del Cattaio, e di dover mai, per quel viaggio almeno, usare della scienza poliglotta di don Luigi de Torres. Selvaggi, selvaggi, ancora, selvaggi sempre. Terra vergine, adunque: e non era la realtà più bella del sogno? _Capitolo VIII._ Nel quale si ripete su per giù la medesima storia. Dobbiamo noi raccontare partitamente ogni cosa? riferire ogni particolarità del viaggio di Cristoforo Colombo? Badate, lettori umanissimi; si ruberebbe il mestiere al buon Las Casas, vescovo di Chiapa, il quale ha narrato tutto per filo e per segno; oppure a quell’altro scrittore, che corre il mondo sotto il nome di Fernando Colombo, figliuolo dell’almirante e di donna Beatrice Enriquez, fingendo di narrare la vita del suo genitore immortale, e non facendo altro che copiare il Las Casas. Del resto, intorno ad Haiti, come intorno a Cuba, come intorno a tutte le isole scoperte nel primo viaggio di messer Cristoforo, troppe cose, nel seguirsi che fanno, si rassomigliano; e voi fareste colpa al narratore di una monotonia, ch’egli, per amor vostro, vorrebbe ad ogni costo evitare.. Ecco qua, per esempio. La mattina del 14 dicembre, persuaso di non essere in vicinanza del Cattaio, l’almirante si muove con le due caravelle per andare un’altra volta in traccia della favolosa Babeque. I venti contrarii glielo impediscono, ed egli si contenta di visitare un’isola che si vede all’orizzonte, di rimpetto ad Haiti. Ci arriva, e dall’abbondanza di tartarughe marine che ritrova in quelle acque, dà all’isola nuova il nome di _Tortugas_. Anche là i naturali scappano dal lido, alla vista degli stranieri; anche là il paese è amenissimo; una valle stupenda riceve il nome di Paradiso; un bel fiumicello è battezzato (della sua propria acqua, m’immagino) col nome di Guadalquivir. Dopo di che, nel giorno 16 dicembre, l’almirante rimette alla vela, e, se ne ritorna ad Haiti, o alla Spagnuola, se meglio vi piace. In una rada, che porta oggi ancora il nome di _puerto de Paz_, l’almirante fece a mala sorte buon viso; approfittò della inerzia a cui lo obbligavano i venti contrari, per stringere più intime relazioni coi naturali dell’isola. E là ricevette la visita di un giovane cacico, che pareva aver fatti i suoi studi in Europa. Era venuto alla spiaggia in lettiga, portato da quattro uomini, e scortato da dugento. Quando egli giunse a bordo della _Santa Maria_, l’almirante era a tavola, co’ suoi ufficiali. Voleva alzarsi, per ricevere l’augusto visitatore; ma l’augusto visitatore non lo permise, e nella sua lingua, che tosto tradusse un interpetre, lo pregò di non far cerimonie. Egli aveva lasciati i suoi uomini, parte a terra, e parte nelle piroghe; due soli lo accompagnavano alla mensa dell’almirante, due vecchi, forse due ministri, forse due consiglieri aulici. Cristoforo Colombo gli offerse di prender parte al suo modesto desinare; e il cacico si degnò di assaggiare, forse per mostrargli di aver gradita la cortesia, ma subito passando il cibo ai suoi consiglieri. I quali stavano attenti a guardarlo, spiando ogni moto delle sue labbra, come se volessero coglierne a volo le idee, prima che fossero compiute le frasi. Tutte cose, come vedete, che somigliano a quelle d’ogni tempo in Europa. Ma già, è noto all’universo mondo che noi non abbiamo inventato nulla; neanche la polvere da cannone. E non mi stupirebbe, a questo proposito, se un giorno o l’altro si venisse a sapere che i Cinesi, duemil’anni fa, avevano già inventata la polvere senza fumo. Nel qual caso, a noi non resterebbe altra gloria che di avere inventato il fumo senza arrosto, che è, come a dire, la polvere negli occhi. Il giovane cacico offerse all’almirante una cintura di grazioso lavoro, e due piastrelle di quel prezioso metallo che ad ogni approdo gli Spagnuoli vedevano in troppo piccola quantità, sentendosi dir sempre che le miniere, o i depositi naturali, o i tesori pubblici, si ritrovavano più in là, verso levante, o più su verso settentrione; ora a Bohio, ora a Babeque, ora a Cibao. Che diavolo intendessero dire i selvaggi delle Lucaie, o delle Antille, con certi nomi di luoghi lontani, è rimasto un arcano nella storia. Cristoforo Colombo ricambiò nobilmente i donativi del giovane cacico. In primo luogo gli diede un pezzo di stoffa colorata, che molto gli piacque, e di cui certamente egli si fece fare, dal sarto di Corte, un mantello regale; poi una coroncina di chicchi d’ambra, perchè dicesse le sue preghiere, quando fosse diventato cristiano; quindi un paio di scarpe di cordovano, che gli avranno procacciate le prime delizie della Venere.... Callipigia; da ultimo una boccetta d’acqua di fior d’arancio. E ci si venga poi a sostenere che i maggiori dell’immortale Genovese non erano di Quinto! Qui si scherza un pochino per rallegrar la materia; ma non ignorando neppure che ogni bel giuoco dura poco. L’almirante mostrò al giovane cacico alcune monete d’oro, all’effigie di Ferdinando e di Isabella, tentando, con l’aiuto degli interpetri, di fargli capire che quelle due immagini esprimevano i volti di due potenti sovrani, dalle cui terre egli era venuto, attraverso l’Oceano. Il cacico ammirò, ma non volle intender altro che questo: che gli stranieri in mezzo a cui si ritrovava, erano venuti dal cielo. Poveri naturali del nuovo mondo! e poveri, sopra tutti gli altri, i naturali di Haiti! Mai fu presa da creature umane una cantonata più solenne di questa. Il ricevimento era finito, e il giovane cacico fu ricondotto a terra nei bargio dell’almirante. Mentre egli approdava, si sparavano in suo onore i cannoni della _Santa Maria_ e della _Nina_. Egli rimontò in lettiga, i portatori si rimisero in moto, e la processione dei suoi sudditi si distribuì nell’ordine con cui era venuta. Non c’era altro di nuovo che i presenti dell’almirante, portati in gran pompa da due naturali, che camminavano davanti al lettighieri. Pareva un trionfo romano in miniatura. In quei giorni, Cristoforo Colombo seguitò a costeggiar l’isola di Haiti, piantando croci qua e là, per far atto di possesso, e dando nomi a nuovi porti, a nuove rade che andava visitando. Quando fu nel porto di San Tommaso, nella moderna baia di Azul, ebbe la visita di altri cacichi a bordo, tutti amici, tutti confidenti ad un modo, e desiderosi d’una visita ai loro distretti. Ma non si potevano contentar tutti; si rimandavano consolati a mezzo con le buone accoglienze e coi soliti donativi, in ricambio delle solite piastrelle d’oro. Una visita di maggiore importanza fu ricevuta il 22 dicembre, essendo le navi in prossimità della Punta Santa; un nome attenuato dai moderni nell’altro di Punta onorata. Si avvicinò al bordo della nave capitana una grande piroga, piena di naturali, inviati da un potente cacico, chiamato Guacanagari, che governava tutta quella parte dell’isola. Il principale di quegli inviati portava in dono all’almirante una larga cintura, ingegnosamente fatta di osso e di chicchi colorati, ed una maschera di legno, i cui occhi, il naso e la lingua, erano d’oro. Recava inoltre una imbasciata a nome del suo signore, il quale pregava che si conducessero le due caravelle rimpetto alla sua residenza, situata sul promontorio a cui l’almirante aveva imposto il nome di Punta Santa, ricordato poc’anzi. Il vento, che soffiava al traverso, non permetteva di contentare il desiderio di Guacanagari. L’almirante pensò di restituire per intanto la visita, e nella medesima forma che aveva usata il cacico. —Rodrigo di Escobar,—diss’egli allo scrivano della piccola armata,—voi siete regio notaio; a voi si pertiene di rappresentarmi in questa circostanza, presso questo cacico Guacanagari, che dicono essere il principe più ragguardevole di quest’isola. Volete andar voi a portargli i miei ringraziamenti, e i miei donativi? —Io farò in tutto secondo i comandamenti di Vostra Eccellenza;—rispose il degno tabellione. —E voi altri, già si capisce,—soggiunse l’almirante, volgendosi ai due Genovesi,—come pratici di queste spedizioni, accompagnerete don Rodrigo. —Ai vostri ordini, messere;—rispose Cosma, per sè e per l’amico Damiano. Damiano, del resto, aveva già risposto per conto suo, dandosi una stropicciata di mani. —Senti,—diss’egli sottovoce a Cosma,—questa volta rifiuto i pappagalli.— Si erano messi in cammino, Rodrigo di Escobar, due Spagnuoli, i due Genovesi, e Cusqueia, il naturale di Cuba. I primi tre andarono insieme; l’ultimo per dar ragione alla massima evangelica, andava innanzi a tutti; i due Genovesi chiudevano la marcia. —Mi sai dire, Damiano,—incominciò Cosma, quando si fu avviato il drappello,—perchè tu sei sempre così....— E non sapeva risolversi di finire la frase. —Così.... come sarebbe a dire?—chiese Damiano. —Così.... dedito agli amori;—soggiunse Cosma.—Tu non pensi più altro, oramai. —Non mi pare, Cosma, non mi pare. Cita dei fatti, se n’hai. —Dei fatti, no, veramente; ma i tentativi, le intenzioni, non si contano più. Tu pigli fuoco peggio dell’esca. —Meglio, se mai!—disse Damiano.—Ti raccomando la proprietà della lingua. —E meglio sia;—disse Cosma.—Tu dunque lo ammetti, di essere diventato troppo tenero? E ti capisco, sai? ti capisco. —Ah sì, sentiamo che cosa capisci. —Che tu cerchi di passarla, di obliare, di affogare i tuoi dolori nelle pazze avventure, come un altro li affogherebbe nel vino.— Damiano stette un poco in silenzio; tanto che l’altro immaginò di essersi apposto al vero. —È così,—riprese Cosma,—non puoi negarlo. —Senti,—rispose pacatamente Damiano,—t’inganni. Ma già, è il tuo costume. Tu hai preso sempre lucciole per lanterne, mio buon amico. Ti ricordi, a Pavia, di quella bella dama che vedevamo là, dalla Torre del pizzo in giù? Una volta ebbe a dirtelo chiaro e tondo: Messer Gi.... oh scusami! volevo dire: messer Cosma.... dove avete la testa? E a me la divina signora Eleonora soggiungeva in disparte: «il vostro amico non è mai presente a quel che dice, nè a quello che fa; perchè studia la medicina? non potrebbe studiare l’astrologia, o la cabala?» —Tira via!—disse Cosma.—È storia antica. —E di tutti i giorni, per te. Le alte cagioni che la signora Eleonora non sapeva, persistono. Tu sei l’uomo dell’unico amore, ed io non te ne faccio le mie congratulazioni; no, perchè tu sei un malato cronico. E vuoi che tutti siano malati come te. No, caro; io son risanato. Che cosa t’ho a dire? avevo il petto sano, io. Sicuramente, ho sofferto ancor io la mia parte; ma poi ho fatto un ragionamento.... Hai tu mai osservato, Cosma, che la filosofia è la pietra di paragone dello spirito? Quando un uomo può filosofare, è forte; quando non può più filosofare, è fritto. —E tu hai sempre filosofato! —No, pur troppo, non sempre. Fritto, per verità, non sono stato mai; ma ad un bel punto di cottura, sì, quella volta sono stato, come tanti e tanti altri. Ma poi, ho capito, ed ho riconquistata la mia freschezza di mente. _Mens sana in corpore sano_. Infine, a qual pro’ tutte queste pene d’amore? Un pochettino di febbre, non dico di no, tanto per ravvivar gli occhi e dar colore alle guance. Specie quando la gioventù incomincia a mancare. Ah, la gioventù, caro amico! quella è una gran cosa. Fino a tanto c’è quella, non muor la speranza. —Speranza!—disse Cosma.—Di che? —Di passare qualche giorno allegro, che diamine! di aver l’illusione e il gusto superficiale di tutte le cose che ad approfondirle troppo ti dànno invece il dolore. E qui, perbacco, nel nuovo Mondo, io voglio tante allegrezze quanti dolori mi ha cagionati il vecchio. Mi dirai che non per questo siamo venuti di laggiù, a raggiungere il nostro concittadino, per trovar nuova terra o affogare con lui. Ma al disegno per cui siamo venuti, siamo stati fedeli; non ti pare? Quanto a me, se ho adempiuta per questa parte la mia promessa, posso anche darmi bel tempo, non vedere che il mio capriccio, non seguire che quello. Vedere, conoscere, saper tutto quello che si può, ed abbracciare altrettanto, ecco la vita del savio. —Sopra tutto abbracciare!—disse Cosma. —Eh, forse;—rispose Damiano.—Ma capisco che un uomo non basterebbe. Ah, se tutte le donne del mondo avessero una testa sola! —Bravo! e se in quella testa ci fossero due occhi che non ti vedessero volentieri!... —Taci! incomincio a credere che sia così.... anche al nuovo Mondo. E mi pare di averne trovata la ragione, sai? L’altro giorno, vedendomi in quel coccio di spera che ci è rimasto per guardarci le macchie sul viso, ho notato che i miei capelli son neri. E tu sei biondo, Cosma, sei biondo a quel dio! Ma che cosa vuol dire, che quando una donna si vede davanti due uomini, un bruno ed un biondo, ella è molto cortese col bruno, e molto tenera col biondo?— Cosma rispose alla domanda con una alzata di spalle. —Ubbie!—esclamò. —Eh, niente ubbie, verità sacrosante. Non ti parlerò della vecchia Europa, che m’annoia, solamente a pensarci. Ma ecco qua delle donne nuove, degli occhi innocenti, dei vergini cuori. Che cosa fanno? Sorridono al bruno, ma scelgono il biondo. Cosma _taorib_! E sai perchè ti trovano _taorib_? —Non dir sciocchezze, via! Per una che ha preso questa cantonata, c’è da fare un trattato? Samana ha commesso l’errore; Caritaba lo ha riparato. —Ah sì, parliamo di Caritaba! Che cosa n’ho avuto? Un pappagallo; un pappagallo che, bontà sua, mi ha levato l’incomodo la mattina seguente, rivolando alla spiaggia. —E dovevi tenerlo per tutta la vita sul cuore! —Già, per farmi beccare il costato, come un altro Prometeo! Non più pappagalli, mio caro, nè avvoltoi, nè altre bestie che ti rodano il cuore. Ce n’ho già abbastanza della gelosia che m’inspirano i biondi. Tu mi guardi, Cosma? Ebbene, sì, questa è la verità; non ero geloso di te, in Europa, e mi pare di avertelo dimostrato, da galantuomo; sono geloso qui, dei tuoi capelli biondi e della tua aria da serafino. Anzi, senti, volevo dirtelo l’altro giorno, e poi mi sono pentito; facciamo ancora una prova, ho detto tra me.... Se la prova mi viene come a Bohio, ti pregherò, caro amico.... quando ci siano spedizioni da fare, ti pregherò con molto garbo, a discendere a terra tu solo, o di lasciare che scenda solo io, per correre la mia ventura da solo. —Matto!—disse Cosma, sorridendo. —Ah sì, matto mi chiami? Così tu potessi chiamarmi biondino! —Pure,—ripigliò Cosma,—la tua tesi non regge. Giulio Cesare, di cui vorresti augurarti le fortune, aveva neri i capelli. —Non mi parlar di Cesare; quello era calvo come un ginocchio; tanto che gli permisero di metter corona d’alloro. —Augusto, allora. —Lascialo stare; doveva esser calvo anche lui. Non ti ricordi che portava sempre il cappello in testa, perfino quando era nelle sue camere, per paura d’infreddarsi? Lo racconta Svetonio. Parlami dei biondi, Cosma; parlami d’Apollo. —Apollo.... è il sole. Rammenta la sua bella statua di bronzo dorata, che ammiravamo a Pavia. —Il Regisole, sicuramente. E vorrei avere i suoi capelli d’oro, e durar come lui. Ti vorrei vincere, allora! ti vorrei sopraffare!— Cosma sorrideva dei pazzi discorsi di Damiano. Intanto, con quei discorsi, non si era veduta la strada. Ma di questa si davano pensiero i tre Spagnuoli e l’interpetre. —Signori,—disse Rodrigo Escobar, rivolgendosi indietro,—voi siete molto allegri, quest’oggi! —E come no, don Rodrigo?—disse di rimando Damiano.—Si va alla corte di Guacanagari, un re potente e ricco, che vorrà, speriamo, accoglierci degnamente. —E voi vi preparate all’udienza,—ripigliò l’Escobar,—parlando tra voi una lingua.... una lingua.... —Indiavolata, volete dire? Badate, don Rodrigo: è lingua genovese, e molto somiglia alla catalana. —Non mi pare. Del catalano qualche cosa capisco; del vostro genovese non capisco niente. —Quanto avete guadagnato, don Rodrigo!—esclamò Damiano.—E quanto abbiamo guadagnato noi!—soggiunse egli mentalmente. Intanto erano giunti sull’erta, alla vista dell’abitato. La città di Guacanagari sorgeva per l’appunto sovra un ripiano, il cui lembo estremo pendeva sul dirupo a cui Cristoforo Colombo, vedendolo da lungi, aveva imposto il nome di Punta Santa. Le case erano molte, e regolarmente spartite, almeno sulle vie principali; ed erano case di legno, sì, ma edificate con un certo garbo artistico, e con qualche idea di disegno, specie per il modo in cui erano disposti i tronchi di pino, che tenevano luogo di mura maestre. È stato detto (da un matematico, sicuramente) che Iddio, in cielo, geometrizza; e gli uomini, aggiungo io, gli uomini, fatti a similitudine sua, geometrizzano in terra. Il quadrilatero, l’esagono, l’ottagono, il circolo, il cono, son forme geometriche familiari al selvaggio; e queste forme egli esprime naturalmente nella casa, quando incomincia a fabbricarsene una. Il circolo e il globo sono ancora le sue forme predilette, quando ha da foggiare il primo calice e il primo vaso di terra. Su quella stoviglia, poi, egli imprimerà i primi segni della sua arte bambina, in poche linee regolari, geometriche per conseguenza; spezzate, s’intende, ma ripetute con uniformità matematica. Una cosa sola non saprà farvi, nè seguitare, fino a che non abbia inventate le seste: dico la linea diritta. Ma l’uomo non è nato perfetto. E poi, anche dopo l’invenzione delle seste.... non so se mi spiego. Le case dunque erano fatte con garbo, ed anche disposte in bell’ordine, ognuna d’esse col suo giardino intorno: cose da selvaggi, che gli uomini civili non si sono più curati d’imitare. Ed erano belle a vedersi da lungi, coi loro tetti acuminati, intessuti di foglie di palma, per modo che la pioggia vi potesse scorrer sopra, senza far visite a domicilio. Ed erano anche belle a vedersi da vicino, con le loro finestre sotto la gronda del tetto; talune con un terrazzino all’ingiro, talaltre coi loro porticati a pian terreno, facilmente, anzi naturalmente ottenuti dalla disposizione delle antenne, dei tronchi d’albero che sostenevano l’edifizio, non avendo nel mezzo altro ingombro che una scala di bambù, per la quale si ascendeva alle stanze, e che probabilmente all’ora del riposo si tirava su in casa, per maggior sicurezza. Ma forse questa è una mia supposizione, che fa onta ai costumi di quell’ottima gente. Animali feroci, giaguari o gatti salvatici, non ce n’erano, nell’isola di Haiti; nè l’idea di nuocere all’uomo era ancor penetrata nello spirito dell’uomo; donde è facile indurre che quelle scale di bambù restassero anche di nottetempo al posto loro. In qualche luogo le antenne, o pali che vogliam dire, sparivano sotto una gaia veste di verde; grazioso lavoro di piante rampicanti, che mandavano la pompa delle foglie di smeraldo e i lor grappoli di fiori odorosi a rallegrare il terrazzino soprastante. Le vie del paese erano larghe, come dovevano essere in un luogo dove il bisogno non misurava lo spazio: e la piazza maggiore, poi, non aveva nulla da invidiare ai villaggi d’Europa. Questa era, veduta esternamente, la capitale di Guacanagari. Le case, vedute di dentro, avrebbero fatto morir d’invidia, non pure le massaie di tanti nostri villaggi, ma delle istesse città. Il popolo, nell’ora in cui giunsero i messaggeri delle navi, era tutto fuori dell’abitato ad accoglierli. In quella folla color di rame erano spruzzate le gaie note del bianco e del rosso, indizio primo e sicuro d’un principio di vestimenta. Le donne, infatti, portavano quasi tutte certi guarnelletti di cotone, che si stringevano alla vita e non giungevano al ginocchio, lasciando scorgere tutta la eleganza del busto e le gambe fini e nervose. Meno coperti erano gli uomini, contenti della lor fascia alle reni; ma essi mettevano tutta la cura dell’adornamento mascolino nelle loro capigliature, legate a ciuffo sull’alto della testa, un po’ verso la nuca, donde usciva a mo’ di cresta di pavone un piccolo fascio di penne, verdi, rosse, gialle ed azzurre. Uomini e donne avevano la carnagione d’un bel colore metallico; di rosso cupo, come la terra di Napoli, con una velatura di lacca carminata; il color di rame, insomma, quando lo esalta e lo rallegra la viva luce del sole. A questo color di carnagione bisogna farci l’occhio, lo capisco ancor io; ma domandate a Damiano, che ci si era avvezzato, e sarà capace di rispondervi: facce pallide, guance smorte, cere d’ospedale, voi siete i frutti d’una civiltà di stufa; venite alla Spagnuola, e vedrete di che tinta abbia creato Domineddio il primo uomo, del quale io veramente non so che farmi, e la sua dolce compagna, che mi preme assai più. Diavolo d’uomo, quel Damiano! Ma sapete voi che prima d’entrare in paese egli aveva fatti i suoi apparecchi di civetteria? In primo luogo si era diligentemente ravviati i capelli; poi s’era arroncigliati i baffi in forma di due rubacuori; da ultimo aveva fermate un po’ meglio nella rivolta della berretta alcune penne di pappagallo, che il giorno innanzi aveva ritrovate nei boschi. Sicuramente, il nostro allegro Genovese voleva far colpo sulle belle suddite di Guacanagari. Ah, se per colmo di fortuna fosse stato anche biondo! Furono accolti, come al solito, da grida festose. Tutto quel popolo acclamante si era precipitato incontro a loro, e si accalcava ai lor fianchi, ma con rispettosa foga, se mi è lecito di accoppiare due concetti come questi, che a tutta prima sembrano escludersi l’un l’altro. Voglio dire, del resto, che la calca festante non si buttava in mezzo alle persone che voleva onorare, non cercava di romperne le file, di travolgerne, di sballottarne, di soffocarne le parti disgiunte, come farebbe in simili casi ogni folla civile d’Europa. Sentite, i selvaggi hanno del buono assai; quasi quasi vo sulle tracce di Damiano, mi fo selvaggio ancor io. Guacanagari, il cacìco della regione, sedeva nel mezzo della gran piazza centrale, circondato da tutta la sua casa, figliuoli, donne, guerrieri e servitori. Lo spettacolo non era senza maestà. Le lance e gli scudi, senza alcuna traccia di metallo, non scintillavano al sole; ma nella regolarità della loro disposizione contentavano l’occhio, mentre lo rallegravano i vivi colori dei guarnelletti, dei mantelli, delle fasce di cotone, che spiccavano per entro a quella massa di rame. L’aggruppamento delle persone, poi, dava un aspetto sommamente pittoresco alla cerimonia che stava per cominciare. Alla vista di quell’apparecchio solenne, i messaggeri si fecero più gravi nel volto e più composti negli atti. Rodrigo di Escobar, tutto compreso della sua dignità di ambasciatore, come lo era sempre della sua dignità di regio notaio, si fece avanti di due passi sulla prima fila dei suoi colleghi. Da un lato, e in disparte, conscio dell’ufficio a cui era destinato dalla sua parlantina, si avanzava il naturale di Cuba, come nelle ordinanze militari il guidone a sinistra. All’avvicinarsi dei messaggeri, e vedendo quello che veniva tutto solo con tanta nobiltà di contegno, Guacanagari si alzò dal suo alto seggio di bambù, e mise in atto di amicizia una mano sul cuore. —Sei tu,—diss’egli,—il capo del figli del cielo?— La domanda fu subito raccolta e tradotta da Cusqueia, che s’incaricò di tradurre la risposta di Rodrigo d’Escobar: —Non son io. Il capo dei figli del cielo deve invigilare i suoi uomini e le sue grandi piroghe, a cui il vento contrario non permette di avvicinarsi fino alla vista della tua sede reale. Egli manda un suo ministro a salutarti, e a portarti il pegno di amicizia degli uomini bianchi. —Siano essi i ben venuti;—replicò nobilmente Guacanagari;—siano essi gli amici miei, e di tutto il mio popolo.— _Capitolo IX._ Come Damiano si persuase di non avere amato mai, prima d’allora. Noi non istaremo a sentire tutti i discorsi che si fecero su quel tono, il cacìco Guacanagari e il regio notaio Rodrigo di Escobar, essendo intermediario il naturale di Cuba. Sono lunghi, troppo lunghi, i discorsi che hanno bisogno d’interpetre; e per solito non sono neanche piacevoli. Del resto, i due personaggi duravano già molta fatica a farsi intendere dal loro intermediario, per il frastuono che si faceva intorno a loro da una intiera tribù d’uomini, donne e fanciulli. La curiosità di veder da vicino i figli del cielo era grande; tutti volevano avvicinarsi, tutti volevano guardare e toccare. Sicuro, anche toccare. Forse annettevano a quella tastatina la stessa virtù preservativa che noi annettiamo, al toccare una santa reliquia. E per avvicinarsi tutti, dovevano pigiarsi; per toccare, dovevano cacciarsi l’un l’altro; quei che riuscivano ad avvicinarsi, a toccare, non si sarebbero più mossi di là; donde gli spintoni, le grida, il tumulto, il baccano indiavolato, che confondeva, a pochi passi di distanza, il cacico Guacanagari, il notaio Rodrigo di Escobar, e l’interpetre Cusqueia. Finalmente, il cacìco si alzò da sedere, volgendo da prima un gesto autorevole, poi la parola alle turbe. Che cosa disse? Le turbe si ritrassero umiliate: ma parecchi restarono al posto, battendo le palme in segno di allegrezza; e subito, spartiti in manipoli, s’impadronirono dei quattro compagni di Rodrigo di Escobar, mentre di lui s’impadroniva il cacico in persona. —Che cosa si vuole da noi?—gridò Damiano all’interpetre.—Che diavolo ha detto il cacico? —Figli del cielo, bisogna mangiare e poi riposare;—rispose Cusqueia.—Amici consiglieri di Guacanagari condurre nelle case figli del cielo. —Ospitalità?—disse Damiano.—E niente banchetto nella casa reale? Tanto meglio. E la fortuna assista ognuno di noi. Cosma mio bello, salute!— Cosma era già nelle mani di tre o quattro persone, che lo portavano, più che non lo conducessero, verso il lato sinistro della piazza. Damiano si lasciò trascinare verso il lato destro. E non era neanche scontento di quella dolce violenza; neanche scontento di vedersi per un po’ di tempo lontano dalla eterna compagnia dei figli del cielo, suoi fratelli amatissimi. L’amicizia è una bella cosa; ma qualche volta è pesante; specie quando il cuore vi dice che essa non basta alla vostra felicità, e che una.... Ma c’è egli bisogno di mettere i puntini sugli i? Damiano era stato preso per le braccia da un vecchio, il quale gli faceva un discorso e dei gesti vivaci. Egli non capì una parola del discorso, ma indovinò dai gesti che la casa in cui lo avrebbero accolto non era molto lontana. Anzi, tutt’altro, era in fondo alla piazza, e molto vicina alla casa del re. —Sono coi pezzi grossi;—pensò.—Cusqueia, del resto, lo ha detto: amici e consiglieri di Guacanagari. Attento Damiano! qui bisognerà star bene in gambe, e non far onta alla nostra eccelsa Repubblica.— Col vecchio venivano due giovanotti, forse figliuoli, forse nipoti, fors’anche generi del personaggio eminente. Generi!... Damiano pensò naturalmente alle figlie. Infatti, dove son generi, son sempre figliuole. Per contro, dove sono figliuole, non è ancor detto che i generi abbondino. Damiano si lasciava condurre, sorridendo alle frasi del vecchio, sorridendo alle frasi dei giovani, sorridendo a tutti e a tutto. Si sarebbe arrivati finalmente in qualche luogo, dov’egli potesse continuare a sorridere, e con più gusto che allora. E si arrivò davanti ad una capanna, la cui grandezza e l’architettura esteriore promettevano assai. Le antenne, che salivano a sostenere il gran tetto di palme, erano tutte vestite di gaio fogliame e di fiori, bell’indizio di altri fiori ch’egli avrebbe ritrovati nell’interno. La porta aveva stipiti di legno, intagliati rozzamente, ma di bella apparenza, perchè l’intaglio era screziato di vivaci colori. In alto, dove i grandi d’Europa mettono lo stemma e la corona, si vedeva un bianco teschio d’animale, in mezzo ad un trofeo di frecce, spiedi, mazze ed altre armi selvagge. —Questo,—disse Damiano tra sè, poi ch’ebbe veduti quei simboli,—è certamente il savio che presiede alle cose della guerra. Mi sia propizia Minerva! Ma io, confesso il mio peccato, preferirei un’altra divinità.— In quel mentre, una famiglia numerosa si affollava all’ingresso. E più innanzi di tutti veniva una donna, vestita del suo guarnello bianco e di un piccolo drappo girato ad armacollo dal fianco alle spalle. —Che sia questa, Minerva?—pensò Damiano.—O non piuttosto la Giunone di questo Giove sbarbato?— Era infatti Giunone, la moglie del padrone di casa, la madre di famiglia, che stese la mano per toccar l’ospite sulla fronte, secondo il rito del paese, e gli diede il benvenuto con una frase ch’egli non doveva capire. Damiano rispose con un inchino. Ma subito gli venne un’idea luminosa. —Qui,—disse tra sè,—onorano l’ospite a modo loro; l’ospite deve onorare a modo suo i padroni.... e le padrone di casa.— E fermatosi di botto sull’uscio, si volse al vecchio, lo guardò e gli stese la mano, per dargli una stretta famosa. Poi, voltosi alla moglie dell’ospite, prese la mano di lei, e s’inchinò, come per imprimervi un bacio. Fece l’atto, s’intende, ma non andò fino a toccar con le labbra. Non tutte le mani si baciano; e una bella cerimonia, uguale per tutte, vi consente di aggiustarla come vi pare. L’uomo era rimasto lì, in atto di osservare, studiando; si era lasciata prender la mano, e stringere a quel modo che ho detto; e subito aveva fatto un cenno del capo e data un’occhiata ai suoi, che pareva volesse dire: capite? questa è l’usanza degli uomini bianchi. La donna, a sua volta, aveva lasciato fare, notata la diversità dell’atto, e sorriso al marito, come per dirgli: i figli del cielo fanno così, per dimostrare l’amicizia e il rispetto. E tutti e due, guardandosi ancora, e ammiccando, parevano accordarsi a conchiudere che il loro ospite faceva le cerimonie secondo l’uso della sua terra; che queste cerimonie si facevano sull’uscio, come da loro; che erano di due forme, per gli uomini e per le donne, e volevano dire su per giù: sono l’amico del padrone, sono il servo della padrona di casa. Da uomo savio ed accorto, il nostro Damiano non prese altre mani, nè per stringere, nè per baciare. Ce n’erano troppe, del resto, e di belle e di brutte, di delicate e di ruvide. Ad un certo punto, guardandosi intorno.... altro che mani, buon Dio! Tra vecchie e giovani, stavano a contemplarlo due dozzine di femmine. E si capiva che la più parte fossero ancelle della padrona, o del padrone di casa. Ma cinque o sei, che erano in prima fila, più giovani, e meglio adornate, si capiva ancora che fossero figliuole dei padroni di casa, o spose dei loro figliuoli. Tra persone che non parlano la medesima lingua, non è da far cerimonie. Anche i naturali di Haiti intendevano questa verità elementare. E subito condussero Damiano nella stanza più vasta, quella del focolare, che è la più intima, e che, presso tutti i popoli primitivi, del nuovo mondo come del vecchio, è quella in cui si ricevono gli ospiti, nella dolce intimità del convito. Colà, su piccoli deschetti di canne, era imbandito il pasto. Ciotole e vasi d’argilla erano disposti davanti ai commensali; ma la parte maggiore del vasellame di tavola si componeva di zucche, d’ogni forma, d’ogni misura, e in vari modi tagliate, per servire a tutti gli usi, del mangiare e del bere. Innanzi di prender posto, Damiano aveva guardato attentamente in giro. E adocchiate le giovani donne, subito ne aveva distinta una, su cui doveva ritornare più frequentemente il suo sguardo. Si sbagli o no, a qualcheduna bisogna pur dare la palma, e a lei volgere la muta adorazione, la giaculatoria degli occhi. L’attenzione di Damiano si era fermata sopra una bellezza nascente, dal color di rame assai chiaro, traente al roseo. Come forma, era fatta a pennello, anzi meglio, a scalpello, se non da Fidia o da Prassitele, certo da uno dei loro più valenti discepoli. Mi chiederete come potessero artisti greci aver passato l’Atlantico, per modellare quella bella creatura; ed io correggerò la mia frase dicendo che non un discepolo di Fidia o di Prassitele, ma lo stesso maestro dei greci maestri aveva plasmata quella creta e spiratole in fronte il soffio della vita. L’opera ci guadagnerà, in questo cambio d’artefice, e il narratore si sarà accostato alle fonti del vero. Quanto ad attingervi direttamente, si sa, è un altro paio di maniche. Debbo io dirvi della fronte breve, mezzo nascosta dai ciuffi indocili della sua negra capigliatura? Amerei meglio parlarvi della grazia birichina con cui portava una ghirlanda di vitalba, o d’altro fiore consimile, al sommo della testa. E più ancora amerei parlarvi (ma bisognerebbe farlo bene) delle sue guance floride, lucenti e morbide come le pesche mature; guance aperte e sporgenti, a cui davano spicco due grandi occhioni neri, maravigliosamente frangiati di ciglia e di sopracciglia nerissime. Erano quelli i veri occhi parlanti, e dicevano, quando ella arrovesciava un pochino la testa, per guardarvi dall’alto, un visibilio di cose, consigliandovi naturalmente un visibilio di pazzie. E quelle labbra tumidette, coralline, rugiadose! E quei denti piccolini, luminosi nella loro candidezza lattea! Oh, infine, non voglio che perdiate la testa, come il nostro amico Damiano. Vi dirò brevemente che era dal capo alle piante un miracolo di bellezza, di salute, di gioventù; che si vedevano e si sentivano in lei tutte le native eleganze che si sogliono immaginare oggidì nella creola americana, e che del resto non mancano neppure in Europa, sebbene qui un altro tipo prevalga. Damiano era rimasto sbalordito. Ma voi sapete che questi sbalordimenti non mettono un uomo per terra, anzi gli addoppiano le forze, ravvivando, stimolando, aguzzando tutte le sue facoltà. Egli parlava a tutti e a tutte, dicendo quelle frasi corte con cui si suole accompagnare il gesto, quando si sa che solamente da questo e per questo possiamo esser capiti. E di qua e di là si volgeva, parlando e gesticolando con quanta più grazia poteva; ma si volgeva alla guisa degli innamorati, che, dopo aver ben girato con gli occhi, cascano sempre a guardare in un punto, e pare che non abbiano guardato altrove, se non per descrivere il mezzo cerchio, e ricascare a quel punto. La bellissima creatura aveva capito tutto quel sapiente artifizio di occhiate. E quando gli sguardi dell’ospite, dopo aver ben girato di qua e di là, venivano a fermarsi, a raccogliersi amorosamente su lei, si confondeva, abbassando le ciglia. E allora le due frange nere pendevano come lembi di velo, ad ombreggiare il sommo delle guance. Ma tosto si rialzavano, e di sotto a quei lembi balenava un doppio raggio bianco azzurrino, che andava diritto agli occhi dell’ospite, e dagli occhi al cuore, per accendergli il sangue. Quello era un linguaggio tra i due, che non aveva mestieri d’interpetre. E se nella vita si potesse parlare sempre quello, confessiamo sinceramente che nessuno di noi vorrebbe imparar lingue straniere, nè perdere il tempo su quel congegno legnoso, tormentoso e sciocco, che è la grammatica. Che cosa diedero quel giorno da mangiare a Damiano? Egli non se ne avvide; mandò giù, senza badarci più che tanto. Del resto, egli mangiò pochissimo. Che cosa gli diedero da bere? Doveva essere uno di quei soliti liquori, che mordono la lingua, bruciano il palato, e mandano i fumi al cervello. Ma egli ne assaggiò a mala pena. Il padrone di casa si avvide sicuramente che il suo ospite non gradiva le bevande fermentate di Haiti, perchè ad un certo punto, fatta appressare una gran zucca, gli versò dell’acqua nella ciotola. E allora Damiano tracannò tutta quell’acqua, che era fresca e gustosa, chiedendone tosto dell’altra. E bevve, da quel momento in poi, bevve largo e frequente. Gl’innamorati, si sa, bevono sempre molt’acqua. Non hanno bisogno di bevande eccitanti, perbacco; piuttosto di refrigeranti, che estinguano, insieme con la sete, i soverchi ardori del sangue. Egli era dunque rimasto preso ai vezzi della giovane indiana? Già ve l’ho detto. Si era messo in testa di doversi innamorare, e innamorare a buono, di una pelle rossa. E manteneva la sua promessa, correva la sua ventura, soggiaceva al suo fato. Strano capriccio di fortuna! Avevano messa accanto a lui quella bella creatura. Ma era poi da vederci un capriccio della fortuna, o non piuttosto una scelta, più o meno giudiziosa, ma sempre meditata, dei padroni di casa? Poteva essere una delicatezza di costume, non rara tra selvaggi, di collocare al fianco dell’ospite la più bella donna della casa, come d’imbandirgli la più preziosa vivanda sul desco. Fors’anche era un rito, che la più giovane donna fosse data per compagna al forestiero, fino a tanto egli dimorasse sotto il tetto ospitale. Insomma, potevano essere tante cose e tante altre; e Damiano non poteva immaginarsele tutte, nè provarsi a cercarle. Se anche gli fossero balenate tutte alla mente, egli, nello stato d’animo in cui era, e nella assoluta ignoranza degli usi selvaggi, non avrebbe saputo cavarne un costrutto. Ora, delle cose che non si sanno, una scienza mediocre insegna a non cercare il come e il perchè. Egli, dopo tutto, non era uomo da stillarsi il cervello. Aveva quella vezzosa creatura daccanto, e approfittava volentieri della vicinanza per volgersi a lei, ora con un pretesto, ora con un altro, per guardarla molto negli occhi. E le parlava ancora, offrendole cortesemente i pezzi migliori delle vivande che gli erano poste sul tagliere, o sulla focaccia di cassava che faceva uffizio di tagliere, di piatto, di tutto quello che vi parrà meglio. Ma parlandole con tanto maggior libertà, quanto era più sicuro di non esser capito, si guardava bene dal dirle la sola parola della lingua di lei, che egli sapeva a memoria. _Taorib_, vi ricordate? Ma questa la serbava per un discorso a quattr’occhi. In quella numerosa brigata il suo _taorib_ sarebbe stato sentito da tutti. L’amore ha la sua verecondia, la sua ritenutezza. E quella volta Damiano era innamorato per davvero; anzi, diceva a sè stesso di non avere amato mai, prima d’allora. La bella creatura lo stava a sentire, senza capirlo mai, ma certamente indovinandolo spesso. Forse dico male; forse ella indovinava sempre le chiacchiere di Damiano, intendendo ch’egli parlasse a caso, e non per altro che per poterla guardare negli occhi. Ed ella rideva, ad ogni frase di lui, mostrandogli tra le due labbra di corallo tenero i bei denti piccini, luminosi nella loro candidezza; e arrovesciando la testa, con quel suo gesto consueto, lo guardava di sotto alle palpebre socchiuse, di sotto a quei veli frangiati che sapete, e che, sollevati a mezzo, come lembi di tende misteriose, parevano dirgli: qui non penetra raggio importuno di sole, nè occhio geloso di rivale; vieni. E quelle guance morbide, quella gola tenera, quel collo soave!... Damiano guardava, e pensava; e il suo pensiero si potrebbe esprimere a un dipresso così: Buon signore Iddio! che mirabile cosa avete voi fatta, nell’ultimo giorno delle vostre creazioni! Si capisce che per farla così bella, ve la siate serbata per l’ultima. Per noi, vedete, buon signore Iddio? per noi, è la prima, senza contrasto la prima. Ah, poveri noi, frattanto! Ma pensate, misericordioso come siete, che, se perdiamo la testa, è ancora e sempre per ammirazione delle opere vostre; e non vogliate farcene un capo d’accusa, _in novissima die_. Il banchetto era giunto a quell’ora in cui tutti i convitati sciolgono Giordano. Dovrebb’essere un cane; ma è invece lo scilinguagnolo. In quell’ora ognuno incomincia a dire quel che gli pare, immaginando che tutti lo ascoltino; e nessuno ascolta, o, se ascolta, non capisce un bel nulla. Damiano incominciava a parlare; ed essendo egli l’ospite, l’uomo bianco, il figlio del cielo, i commensali non si fecero dar sulla voce dal padrone di casa, per prestare un’attenzione benevola al parlatore. Ma questi, che aveva bevuto soltanto acqua, non s’ingannava, come a quell’ora si sarebbe ingannato ogni altro parlatore. Sapeva benissimo che nessuno lo avrebbe inteso; ma non gliene importava affatto. Parlava, per bisogno di parlare, di farsi udire da quella cara bambina che sedeva alla sua destra. Neanche lei lo avrebbe capito: ma che importava ciò, per allora? La cara bambina avrebbe sentito il suono della sua voce, e indovinato da certi segni, da certi indizi frequenti, che il discorso era tutto per lei. —Vedete, cari selvaggi?—diceva Damiano.—Voi siete brava gente, ed io vi amo. Non già per le vostre facce, oh no. Voi m’inspirate un modico affetto. Siete mio prossimo? Non lo so. Per averne un barlume, dovrei almeno sapere che discendete da Cam, da Sem, o da Jafet. Perchè, io non ve lo nascondo, il prossimo nostro si racchiude tutto in questa biblica terna, moltiplicata per cinquanta secoli e più, secondo la regola antica ed accetta. Ma siete brava gente, vi ripeto, e non voglio farvi torto, mettendovi al bando della umana famiglia. Come potrei farlo, del resto? Avete tra voi una bella creatura, che non mi sarà prossimo, ma mi è prossima, e nondimeno mi pare ancora troppo lontana. Dove l’avete pescata? Dove e come vi è nato questo fiore maraviglioso, che si chiama.... Come ti chiami, adorata vicina? Io lo ignoro. E mi duole che non sia qui, per domandartelo, il savio interpetre Cusqueia. —Cusqueia!—gridò uno dei commensali, udendo la prima parola di cui potere capire qualche cosa. —Cusqueia: Cusqueia!—ripeterono parecchi. E tutti risero, ripetendo quel nome. Damiano, lì per lì, ne rimase sconcertato. —Capisco,—diss’egli, dopo un istante di pausa,—il nome del naturale di Cuba significherà qualche cosa ridicola, come avviene di tanti nomi nel vecchio mondo. Ebbene, non importa, tiriamo avanti. Non vorremo mica guastarci il sangue per un nome di selvaggio. Ritornerò alla bella creatura che mi sta al lato destro, ed occupa già tutto il mio lato sinistro. Una bella donnina in una società, è la mano di Dio. Niente vale una bella donnina; nè ricchezze, nè onori, nè gioventù, nè salute. Nel vecchio mondo, per una donna bella, due popoli si sono bisticciati dieci anni, insanguinando largamente due palmi di terra; e il primo poeta della Grecia ne ha cantato assai lungamente, alla maniera degli orbi. Onore a lui, che non fu orbo per la bellezza di Elena! C’è nella donna bella il gran _quid_ dell’esistenza. Perchè si vive, infine? perchè si studia? perchè si cerca tutti di comparire, meglio che si può, a costo di cento sacrifizî, e di mille? Fino a che siamo giovani, e gli occhi scintillano, e le guance rosseggiano, e i capelli.... nereggiano (alcuni uomini li hanno biondi, ma, credete a me, i capelli biondi non valgono un fico secco), amiamo con fiducia, sicuri di essere amati, o giù di lì. Poi.... perchè c’è un poi, l’ambizione ci si appiccica al cuore; vogliamo avere gli onori, conquistar le ricchezze. Ma perchè? Per comparire ancora, per comparir sempre, per essere amati, se ci riesce. Non c’è altro che questo, nel mondo, o, se c’è altro, non vale. Voi, per esempio, selvaggi dell’anima mia, valete pochino. Io pagherei non so che cosa, perchè tu, vecchio consigliere di Guacanagari, ministro, anziano, o che altro tu sia, te ne andassi di qua: e con te tutta la tua gente, meno questa cara bambina, che mi fa girare la testa, come se avessi bevuti i vostri liquori. Ma già, vicino a queste bellezze, anche l’acqua ubbriaca.— Gesticolava parlando. E stavano tutti a sentire quel discorso in lingua sconosciuta, guardandosi ad ogni tanto l’un l’altro, e ridendo stupidamente, come sempre avviene, quando si ride senza sapere di che. Ma qualcheduno si provò a parlare, rispondendogli; naturalmente fuori di tono. E risero anche di più, ma almeno sapendo di che cosa ridevano. A breve andare parlarono tutti, alternamente da prima, e poi tutti insieme, facendo un passeraio. —Sì, bravi, parlate un poco voi altri;—diceva Damiano.—Io non ne potevo già più. Parlate molto, fino a schiattarne. E non date retta a me, sopra tutto. Lasciatemi discorrere con questa graziosa vicina, che mi arrovescia la testa, con tanta languidezza di gesto, e mi guarda di sotto a quelle frange nere. Che cosa vuoi dirmi con quegli occhioni, selvaggia dell’anima mia, che io mi sorbirei tanto volentieri, come un ovo fresco? Mi dirai che non è cortese, in un ospite, dopo aver desinato, accogliere pensieri e desiderî da stomaco digiuno. Ma che ci posso far io, se tu sei tanto bella? e se devi, come sei bella, esser buona? Ah, infine, ve ne andate, voi altri? Volete lasciarmi con questa dolce _taorib_.— Aveva in Haiti il _taorib_ la stessa potenza magica del Sesamo nella novella orientale di Alì Baba? Probabilmente non si trattò che di una coincidenza fortuita. Ma intanto, i commensali di Damiano incominciarono ad uscir dalla sala; pochi minuti dopo, non c’erano neanche più i due padroni di casa. Questi, per altro, non si ritirarono alla guisa degli altri; si volsero indietro parecchie volte, guardando Damiano, poi ammiccandosi l’un l’altro, quasi volessero dirsi, a mo’ di un babbo e di una mamma d’Europa; poveri ragazzi! lasciamoli discorrere; avranno tante cose da dirsi! —_Taorib!_—mormorò Damiano, piegandosi sulla vita, verso la bella selvaggia.—_Taorib!_—ripigliò, mettendo nella parola tutta la intensità soave e profonda di cui erano capaci le sue corde vocali. —_Mara Taorib;_—rispose ella, tentennando la testa.—_Ada turey taorib._ —_Mara!_—esclamò Damiano.—Che roba è questa? Ma vediamo. Le ho detto bella, ed ella mi risponde.... Che cosa mi risponderebbe in simili casi una forosetta della vecchia Europa? Ah, mi par di capire. _Mara taorib_, come a dire: niente bella. Ma che cosa vorrà poi dire _Ada turey_, che è per giunta _taorib_? Dimmi, bambina;—soggiunse egli, facendo il viso dell’uomo impacciato;—che cosa vuol dire _Ada turey_?— La bella selvaggia rise delle angustie in cui era il suo povero interlocutore. Poi, levato il braccio, e descrivendo coll’indice un mezzo, cerchio in aria, più alto che potè gli disse: _turey_. —Il cielo?—domandò egli. E per farsi meglio intendere, dopo aver descritta con ambe le mani la volta del firmamento, fece l’atto, di curvarsi, pregando. La bella selvaggia battendo le palme, ripetè ancora due volte: _turey_. —Dio voglia che io abbia capita la prima parte del tuo discorso, come mi par di capire la seconda. Infatti, che cosa ci ha da fare qui il cielo... che è bello? Non vuoi tu forse dirmi: io non son bella, ma è bello il figlio del cielo? E perciò, divina creatura, io sono il _taorib_? io, il _taorib_, non è vero?— E ripetendo la parola, Damiano si recava ripetutamente l’indice al petto. La bella selvaggia fece prontamente un cenno affermativo. —_Ada turey taorib;_—soggiunse, confermando il cenno con un gesto della mano, che rivolgeva al suo interlocutore. Qui, poi, fu Damiano che battè palma a palma, rallegrandosi di quella prima vittoria. —Grazie!—diss’egli.—Ma questa lingua è facilissima. Io farò miracoli, fin dalla prima, lezione. Ora, o _taorib_, poichè siamo così bene avviati, vorrei sapere il tuo nome.— Questo era il guaio. Come farsi, capire? Ma il nostro Damiano si era riscaldato al giuoco, e niente doveva parerai difficile oramai. —Vediamo un poco;—diss’egli tra sè. Poi, accennatole col gesto, di essere in procinto di fare uno sforzo supremo, chiese ed ottenne facilmente tutta l’attenzione della bella selvaggia. —Io,—le disse, volgendo l’indice al petto,—io _taorib_ Damiano. Damiano!—ribadì, segnando ripetutamente sè stesso.—E tu?—proseguì, volgendo rapidamente l’indice a lei.—E tu?— Ma la bella selvaggia non capiva quel monosillabo. E mostrò di non capirlo, guardando lungamente Damiano con le ciglia inarcate. —Ho messo il carro avanti ai buoi;—disse Damiano tra sè....—Studiamone un’altra.— Allora, indicando con la mano fuori della capanna, disse alla sua vicina: —Guacanagari!— Ella capì; e non era difficile che capisse alla prima, poichè egli proferiva il nome del cacìco della tribù. E rispose, accennando del capo: —Guacanagari.— Damiano, allora, accostandosi la mano alla guancia e facendola scorrere in atto di carezza fin sotto al mento, ripigliò: —_Cacique Guacanagari.... taorib?_ La bella selvaggia si mise a ridere, e gli rispose: —_Nala u nala._ —Dovrebb’essere: così così!—pensò Damiano.—Già, non avevo neanche bisogno di domandarglielo; perchè io l’ho veduto, il cacìco, e non m’è parso niente di prelibato.— Poi, sempre accennando fuori della capanna, nella direzione della piazza, ripetè: —Guacanagari.— E subito rivolgendo l’indice a sè, soggiunse: —Damiano; io Damiano, io.— Qui, come il lettore intenderà di leggeri, l’indice batteva ripetutamente il petto. La bella selvaggia stava a guardarlo con tanto d’occhi. E si capisce ch’ella aveva un gran desiderio d’intendere. Damiano ripigliò il suo doppio lavoro, di gesto e di voce, indicando il lontano col nome del cacìco, e sè stesso col nome suo proprio, aggiungendogli ancora l’epiteto. —Damiano,—diceva egli,—Damiano _taorib_.— Un lampo di allegrezza, balenato dalle pupille di quella vezzosa creatura, disse al nostro Damiano che egli era stato finalmente inteso. E glielo dissero ancora due parole di lei: —_Taorib_.... Damiana.— Ma questo non piaceva troppo a lui. —Damiana!—borbottò egli.—_Mara_ Damiana! Damiano! Damiano!—ripetè, battendo sulla finale.—Non mi cambiare il sesso anche tu, creatura assassina! —Damiano;—ripetè la selvaggia, con accento dimesso. —Ah bene!—ripigliò egli allora.—Vedete che testina! Questa selvaggia impara le cose a volo.— Ma non bastava ancora ch’ella sapesse il nome di lui. Occorreva ch’egli sapesse il nome di lei. E perciò il nostro Damiano fece da capo il gesto solenne che invitava all’attenzione; poi disse, aiutandosi sempre col gesto dell’indice: —Io _taorib_ Damiano; e tu, _taorib_.... _taorib_....— Ma ella non intendeva. E Damiano incominciava a disperarsi, quando gli venne alla mente un’idea luminosa. —Vediamo,—diss’egli a sè stesso,—se una scorribanda nel calendario selvaggio mi potesse aiutare. Nel vecchio mondo, chi domandasse ad una donna il suo nome pronunziando quello di un’altra, si farebbe schiaffeggiare, a dir poco. Ma qui bisogna escire da un passo difficile. Corriamo il rischio, per bacco.— E ripigliò la sua frase, accompagnandola ancora col gesto dell’indice: —Io _taorib_ Damiano; e tu?... _taorib_ Samana? taorib Caritaba? —_Mara_ Samana;—rispose la selvaggia.—_Mara_ Caritaba. Abarima! —Abarima!—gridò Damiano.—Abarima, tu? è il tuo nome, Abarima? _Taorib_ Abarima! Tu sei di tutti i miei pensieri in cima. Fino a’ tuoi piedi questo cuor s’adima. Lascia che il labbro un caldo bacio imprima.... sovra quegli, occhi tuoi d’indaco, prima.... ch’ei ti esalti sua donna in prosa e in rima. Abarima! o dolcissima Abarima!— Non ardì per altro di accostar le labbra all’indaco che aveva accennato. Si contentò di prendere la mano di lei, e di baciarle con cavalleresco riserbo il sommo delle dita. —Vedi, Abarima?—le disse, commentando il suo atto.—Nei nostri paesi si comincia di qui; ordinariamente dal dito mignolo; poi su su, lentamente, o alla svelta, secondo i casi, si procede al dorso della mano. Ci sono anche dei sapientissimi uomini che con una dolce violenza ti rivoltano una bella mano, dal dorso alla palma; così vedi, così....— Abarima rideva; ma intanto ritirava la sua mano dal giuoco, e gliene assestava un colpettino sul volto; quasi a punirlo, ma non troppo gravemente, della sua impertinenza. —Come nel vecchio mondo!—esclamò Damiano, ripigliando la destra di Abarima.—Oh Dio! non siamo della medesima stirpe? piuttosto, non lo siete voi donne, tutte figliuole d’Eva ad un modo? E così, da un buffetto, da una ceffata, prendete occasione di far conoscenza col nostro mostaccio. Abarima! Io ti adoro. Te lo lascierai dire, che hai gli occhi d’indaco? e le guance morbide, profumate, come le pesche di settembre? Vorrai tu venire in Europa? Io te lo giuro, ti sposerò davanti a tutti i parroci della cristianità.— Chiacchierava, chiacchierava, bene intendendo che ella non lo avrebbe capito. Ma le parole gli davano animo a guardarla ben da vicino negli occhi e a carezzarle la mano. Ella aveva incominciato a ridere: e aveva riso ancora, dandogli quella lieve ceffata. Ma ormai non rideva più. Guardava timidamente, si confondeva, abbassava le frange nere sulle guance, fremeva e taceva. Nessuno, intanto, capitava là dentro. —Capisco;—pensò Damiano, che aveva notata la cosa;—è costume di questi paesi. L’ospite è padrone; il meglio della casa è per lui. Dicono che sia così anche in certe regioni dell’Asia.... e nell’India pastinaca di Luigi de Torres. E non mi dispiace, il costume di qui. Nel nostro vecchio mondo, a quest’ora, sarebbero già venuti i servi a sparecchiare. Oppure, vedendoci star bene a quattr’occhi, sarebbero capitati in venti curiosi ad osservarci. Vecchio mondo, io ti abomino, ti esecro e ti maledico. Abarima! dolce Abarima! senti, vorrei dirti un mio pensiero all’orecchio.— Abarima capì il gesto, e porse ingenua l’orecchio. —Ti amo;—le bisbigliò Damiano.—Ti amo. —Ti.... a.... mo;—ripetè la selvaggia, ammirata di poter proferire le parole del figlio del cielo. Egli, allora, aiutandosi con tutti gli artifizi della mimica, le spiegò il pronome ed il verbo. Per il pronome, veramente, bastava indicare la sua graziosa vicina. Ma il verbo.... il verbo, come sapete, è il gran mistero di tutte le lingue. E i misteri si capiscono a volo, si sentono, si afferrano di schianto con tutte le virtù dell’intelletto, ma non si spiegano per indicazioni, per segni approssimativi. Nondimeno, trattandosi del verbo per eccellenza, e del suo modo indicativo, e del suo tempo presente, e della prima persona, Damiano ci si provò con coraggio. Additando lei parecchie volte, si carezzò il viso, storcendo gli occhi in atto di spasimo; additò lei parecchie altre volte, come per riferire a lei la carezza che aveva regalata a sè stesso; finalmente si recò le mani al cuore, e dal cuore le stese verso di lei in atto di preghiera, di desiderio, di tutto quello che segue e che per amor di brevità si ommette; da ultimo, e continuando i gesti appassionati, le ripetè dolcemente, teneramente, languidamente: —Ti amo.— Ella era stata ad osservare con molta attenzione tutto quel lavorio faticoso, ma chiaro nella sua intensità. Diede in una risata argentina, mosse la testa come per dirgli: ho capito, e tradusse la frase nella sua lingua: —_Lessinitli_ —E vada per _lessinitli_;—rispose Damiano.—Ti dirò allora la mia frase completa: _Damiano lessinitli Abarima taorib._ Abarima chiuse le palpebre e tentennò la testa in atto d’incredula. Poi, a mezza voce, gli disse: —_Mara nala kini sindekì?_ Damiano rimase male, a quella domanda, scoccata così a bruciapelo. Un povero diavolo che crede di sapere il tedesco perchè ha fatti i primi due esercizi dell’Ollendorf, e si sente domandare per via da un pronipote di Arminio a che ora parte il primo treno diretto, non rimane più sconcertato di quello che rimase Damiano davanti a quella selvaggia, tanto bella e tanto birichina per giunta. —_Mara....?_—diss’egli, tanto per dire. —_Mara nala kini sindekì?_—ripetè ella, ridendo. —Cara mia,—disse Damiano, avvilito,—questo è arabo, turco, egiziano, per il tuo umilissimo servo. Così, credo io, parlavano i mastri muratori della torre di Babele, quando incominciarono a non capirsi l’un l’altro. Dove vai? diceva l’uno; e l’altro rispondeva: le son cipolle. Dolce bambina, pensaci bene; io ti ho detto: _Damiano lessinitli Abarima taorib;_ e tu mi rispondi.... —_Mara nala_....—replicava la bella selvaggia. —Si, ho inteso, basta!—gridò Damiano.—Per mara, non ci vedo difficoltà; è il vostro modo per dir di no. _Nala_, ora che ci penso, l’hai detto poc’anzi, nella frase: _nala u nala_, che io ho interpetrato: così così. Ma il tuo _kini sindekì_ mi allega i denti, bambina bella. «Non così....» Che frase può incominciare con queste due parole, e con accento interrogativo, come hai fatto tu? «Non così....» Oh, senti, io ne faccio una, _Abarima taorib_. Tu vuoi burlarti di me; io non ti ricaccerò le tue parole in gola, che sarebbe atto scortese, con una donna; mi contenterò di suggellartele in bocca.— E si accostava, come aveva già fatto una volta; ma non accennava al desiderio di parlarle all’orecchio. Un braccio alzato e un’occhiata espressiva interruppero a mezzo il gesto di Damiano. Il braccio alzato, per verità, avrebbe fatto poca difesa. L’occhiata espressiva gli diceva troppo chiaramente: fermatevi, c’è qualcheduno che vede. Damiano si volse di soprassalto, e intravvide qualcheduno che era apparso allora sulla soglia. Il padre di Abarima, forse? o un altro della famiglia? No, un compagno di Damiano, e il più fedele, Cosma! La testa di Medusa non avrebbe.... Ma no, lasciamo lì i paragoni classici. Questo, poi, non reggerebbe neanche. Damiano non rimase di sasso; al più si potrebbe dire che egli, a guisa di un mattone, cavato lì per lì dalla forma, e tenuto un pezzo al sole, rimase abbastanza.... seccato. —Cosma!—esclamò. —Son io, perdonami;—disse Cosma, inoltrandosi di qualche passo.—Do noia, forse? —No, caro; giungi un pochino a contrattempo; ecco tutto. E se tu fossi rimasto dov’eri, ti saresti sicuramente meno annoiato. Perchè qui, vedi, si studia. Ero tutto occupato a prender lezione di lingua Haitiana. Non puoi immaginarti come ne siano difficili i principii. Ma con un po’ di buona volontà, sudandoci naturalmente.... —È somigliantissima a quella di Cuba;—disse Cosma. —No, sai? questa è più dolce; oh, molto più dolce. —Questione di più e di meno, allora;—riprese Cosma;—e il nostro Cusqueia potrebbe bastare. —È vero, sì; ma Cusqueia, vedi, non ha metodo. Ti rammenti che cosa diceva il nostro maestro, commentando Aristotele? Senza il metodo, uomo non isperi di profittare in nessun ramo dello scibile. Ma io ti faccio dei discorsi inutili, caro; e tu sei venuto per parlarmi di cose gravi, m’immagino. —Sfido io!—rispose Cosma.—Son venuto per dirti che è tempo di partire. Son tutti sulla piazza, incominciando dal regio notaio, e non si aspetta che te per metterci in cammino. —Si va via!... e perchè? —Per ritornare alle navi, che diamine! Dove hai la testa? ai grilli? —Eh! almeno a quelli del focolare;—rispose Damiano. E si volse con aria dolente a guardare la sua bella interlocutrice, che era rimasta là, mezzo incantata a guardare i due figli del cielo. —_Abarima taorib_,—disse Damiano,—vedi? questi è un mio amico, ma un amico crudele. Egli mi rapisce a te, soavissima fra tutte le pelli rosse. Ti prego, Cosma;—soggiunse egli, parlando all’amico, ma senza voltarsi a lui;—non mi fare il bello, ora, col pretesto d’esser biondo. —Ma che? sei matto? —Perchè, vedi,—riprese Damiano,—questa volta sono innamorato a buono. Addio, _Abarima taorib. Ada turey_ deve partire,— Così dicendo, faceva il gesto dell’andare. —_Azatlan_?—disse Abarima. —Eh cara, non so che paese sia; ma il comando è di andare. Che fretta è mai quella del regio notaio? Va, te ne prego, Cosma, digli che vi raggiungo subito. —Ma non perdiamo tempo, mi raccomando. —No, no; un addio, l’ultimo addio, e ti corro sull’orma. Va.— Cosma sorrise, fece una giravolta sulla persona, e si avviò verso l’uscio. _Capitolo X._ Chi piange e chi ride. Rodrigo di Escobar, regio notaio di un’armata ridotta a due navi, anzi a due caravelle, aveva adempiuta la sua commissione. Disceso coi suoi compagni alla spiaggia, dove lo aspettava il palischermo della _Santa Maria_, si ridusse quella medesima sera al bordo della capitana. Portava egli a Cristoforo Colombo i saluti del cacìco Guacanagari, molti pappagalli e una certa quantità di piastrelle d’oro in presente. I pappagalli incominciavano ad ingombrare, dopo tanti che se n’erano raccolti, da Guanahani e da Cuba. Per fortuna, parecchi se ne erano volati via, come quello di Caritaba. All’almirante piacevano assai più le piastrelle d’oro, che dovevano far fede ai reali di Castiglia della importanza delle fatte scoperte. Insieme coi presenti del cacìco, Rodrigo di Escobar portava qualche notizia. L’isola si diceva assai ricca, non pure di frutti, di biade, di legname e di spezierie, ma ancora di metalli preziosi. Questi, a dir vero, non abbondavano nella regione su cui comandava il cacìco Guacanagari; ma nell’interno, e dalla parte di levante, era il paese di Cibao, dove ogni ben di Dio si sarebbe ritrovato. Figurarsi che il cacìco di Cibao nuotava nell’oro, tanto che aveva fatte di quel metallo perfino le bandiere del suo piccolo esercito. Così almeno dicevano i naturali della costa; o così aveva capito, e così riferito l’interpetre. L’almirante non istette più in forse. Bisognava restare alla Spagnuola, esplorandone le parti interne e riconoscendone tutta quanta la costa. Per intanto, cortesia voleva che al primo soffio di buon vento si andasse ad ancorare di là dalla Punta Santa, alla vista della residenza di quel Guacanagari, che si mostrava tanto cortese con gli uomini bianchi e poteva riuscire un amico prezioso per essi. Era il giorno 24 dicembre, avanti l’alba, quando Cristoforo Colombo lasciò il porto da lui denominato della Concezione, per muovere verso la Punta Santa. Il vento spirava da terra, ma scarso, e le due caravelle facevano poco cammino. Ne fecero così poco, che alle undici della sera la Punta Santa era ancora una lega e mezzo lontana. —Per essere il giorno dell’Avvento,—diceva Damiano a Cosma,—si arriva pochino, anzi niente!— E gli doleva, al nostro Damiano; gli doleva molto di questo indugio che lo teneva lontano dalla capitale di Guacanagari; da quella capitale che egli aveva abbandonata con tanto rammarico, e dove un ottimo pensiero dell’almirante lo riconduceva, per dargli modo di proseguire il suo idilio selvaggio. Questo, veramente, non era stato l’intendimento del principale; ma il garzone, si sa, vede sempre l’utile proprio, ed è seconda natura nell’uomo di tirar l’acqua al suo mulino. Tutto quel giorno l’almirante era stato in piedi. La stanchezza lo aveva vinto; egli sentiva il bisogno di riposarsi un paio d’ore. Non usava dormire, quando si costeggiavano terre, volendo veder coi suoi occhi ogni cosa. Ma quella sera il mare era cheto e tranquillo come l’acqua in una scodella. Il pilota che aveva accompagnata il giorno innanzi la spedizione del notaio fin sotto alla Punta Santa, assicurava di avere diligentemente osservate le acque all’andata e al ritorno. —Non dubiti Vostra Eccellenza;—diceva.—C’è da dormire tra due guanciali. —Ed anche con nessuno, prenderò un’ora di sonno;—rispose l’almirante.—State dunque voi al timone, Sancio Ruiz, mi raccomando.— Era la mezzanotte, e l’almirante si era coricato nel suo letticciuolo. Il mare era in calma morta, e Sancio Ruiz pensò che se dormiva, l’almirante, poteva chiudere un occhio il pilota. —Infine,—diss’egli tra sè,—ieri ho veduto queste acque per tre leghe di cammino. La Santa Maria, che entra nei fiumi senza toccar fondo, non ha da temere di nulla in questi paraggi.— Fatto questo ragionamento, Sancio Ruiz allungò una pedata amorevole ad un batuffolo di cenci che stava mezzo nascosto sul cassero di poppa, presso il capo di banda, e gridò: —Olà, _pereza_!— Il batuffolo di cenci si rivoltò in soprassalto. Era un ragazzo, come avete capito, un mozzo di bordo; il quale si mise a sedere, stropicciandosi gli occhi. —Signor pilota!—diss’egli, riconoscendo Sancio Ruiz, e saltando subito in piedi, per non ricevere altre carezze.—Dormivo così bene! —Ti credo, mio caro, ti credo. Ma chi dorme non piglia pesci. Vien qua, e stammi al timone, che vo’ schiacciare un sonnellino ancor io. —Non piglierete pesci neanche voi;—mormorò il mozzo, vedendo che il pilota era di umor maneggevole. —Ci vorrà pazienza, ragazzo. Non si può cantare e portar la croce. Animo, al timone; e fai bene attenzione. Il tuo rombo è quello: devi aver sempre quella punta a sinistra, due palmi di là dal pennone di maestra;—hai capito? —Ho capito, signor pilota; buona notte!— Sancio Ruiz si ravvoltolò nella sua gabbanella, e si sdraiò, in coperta, presso il capo di banda. Ma non ci dormiva così bene come il ragazzo; perciò, dopo essersi voltato e rivoltato parecchie volte, si alzò brontolando, e andò sotto coperta a trovare il suo rancio. Quello che Sancio Ruiz commetteva era un grave mancamento. L’almirante aveva severamente: vietato che quando uno era alla guardia del timone, se ne allontanasse per alcuna ragione, lasciando ad altri l’uffizio. E più severamente aveva vietato che quell’uffizio fosse lasciato ai ragazzi, la cui poca esperienza era pari alla poca robustezza di braccio. Dai canto loro, i marinai di guardia alla vela avevano detto: —L’almirante è andato a dormire; lui, che non dorme mai, ha lasciato ad altri l’incarico di vegliare. Segno che non c’è niente da temere, stanotte. E difatti, il mare è cheto come l’olio. Questo po’ di vento che soffia, stenta a far increspare le vele. Ecco là Sancio Ruiz che se ne va a dormire anche lui. Buona notte a tutti.— E chinato il mento in seno, si appisolarono anch’essi. Pochi minuti dopo, non dormivano neanche più seduti; si accovacciavano a dirittura in coperta. Solo il mozzo vegliava, sulla _Santa Maria_, nella grande tranquillità della notte. E pensava, pensava alla sua casa di Huelva, ai piccoli compagni che aveva lasciati laggiù, ai giuochi in piazza, alle corse nei boschi, alle sassaiuole sui greti, alle torte della nonna, e a tante altre cosette egualmente piacevoli. Che cosa aveva da fare, povero figliuolo, per ammazzare il tempo, mentre intorno a lui e davanti non c’era pericolo di nulla? Guardava di tanto in tanto il promontorio; lo teneva sempre sulla sua sinistra; quando gli pareva che con tutta la sua attenzione quel promontorio gli sparisse dietro la velatura, poggiava forte sulla barra e si rimetteva alla via. Ma egli non aveva veduto una cosa, o non aveva ragionato sopra un’altra. Non aveva veduto che la nave era lentamente tirata verso la costa; non aveva ragionato sul fatto che ad ogni tanto gli bisognava cercar l’orizzonte libero, davanti alla Punta Santa; segno che una forza superiore alla sua vigilanza operava sulla caravella. Era un ragazzo, non aveva esperienza, ed è qui la sua scusa. Ad un certo punto gli parve di sentire sulla sua sinistra un rumore. Era sordo da prima, quasi di onde lontane. Ma a grado a grado cresceva, era diventato un fragore, uno strepito di marosi, che andassero l’un dopo l’altro a colpire in un ostacolo. Si atterrì, pensando che qualche scoglio dovesse apparirgli sulla sinistra. Guardò attentamente e non vide scogli; ma qualche minuto dopo vide biancheggiare le spume e il flutto far cresta poco lungi da lui. —Jesus Maria!—gridò egli, atterrito.—I frangenti!— Aveva a mala pena gridato, che sentì arare il timone. Non gridò più, il povero mozzo; gittò un urlo senz’altro. —Al soccorso, in coperta! al soccorso!—gridò il povero mozzo, con quanto fiato aveva in corpo.—Ara il timone; al soccorso!— I marinai di guardia alla vela si erano appena svegliati, che già appariva l’almirante sul cassero di poppa. —Come? tu qui, ragazzo?—esclamò, vedendo al timone il fanciullo.—E Sancio Ruiz? Ma che cosa è egli avvenuto? —Signor Almirante....—balbettò il povero mozzo, più morto che vivo.—Sancio Ruiz era andato a dormire.... Io qui.... ma non è colpa mia.... Tutto ad un tratto ho sentito arare il timone....— Cristoforo Colombo non lo ascoltava già più. Aveva guardato sulla sua sinistra, e veduto nell’ombra della notte biancheggiare le spume; aveva udito il mugghiar furibondo del mare, e aveva riconosciuta la secca su cui frangevano con tanta rabbia i marosi. Certamente la caravella, passando troppo da vicino all’ostacolo, aveva toccato nel bassofondo che accompagnava il frangente. Ed egli pensò subito un’altra cosa: che una forte corrente dominasse in quei paraggi, e che questa per l’appunto avesse tratto alla deriva il naviglio. Non c’era tempo da perdere; bisognava tentare ad ogni costo di liberarsi. I marinai, svegliati dalle grida del mozzo, erano già tutti in coperta, confusi, sbigottiti e nella prima commozione facendosi ancora più grave il pericolo. —Lesti ad armare il palischermo!—gridò, l’almirante.—Prendete un’áncora, e andate a gittarla venti braccia in fuori. —Credete che basterà?—disse Sancio Ruiz con un filo di voce. —Se non basterà a levarci di qui, impedirà che c’incagliamo dell’altro;—rispose l’almirante.—Obbedite, e non mi fate il saccente. Meglio sarebbe aver vegliato prima, com’era il debito vostro, che dar sentenze dopo.— Sancio Ruiz non fiatò più, e corse al palischermo, che i marinai lanciavano in mare. L’áncora fu calumata nella barca, e i marinai che restavano a bordo delta caravella le filavano la gomena. Ma il fragore dei flutti che infuriavano sui frangenti della costa, il crocchiare dello scafo della _Santa Maria_, che pareva ad ogni istante volesse andare alla banda sullo scoglio, il buio della notte che ingrandiva il pericolo, fecero perdere le testa ai marinai del palischermo. —A che servirà quest’áncora?—dicevano.—Ci vuol altro che un’áncora. Fra dieci minuti la nave è perduta. Bisogna pensare ai nostri fratelli, e andare per soccorso alla _Nina_.— L’idea parve ottima, quasi una ispirazione del cielo. Gettar l’áncora inutilmente, sarebbe stato un buttarla via. Slegarono invece l’anello, e a gran forza di remi corsero verso la _Nina_, che navigava mezza lega discosto. Quei della _Santa Maria_ sentirono molleggiare la gomena, e capirono che il nodo si era disfatto a bordo del palischermo, o che la gomena si era strappata. Non potevano infatti pensare che gli uomini del palischermo disobbedissero ai comandi dell’almirante, rinunziando a gettar l’áncora, per andare dove non erano stati comandati. Ma così era; il palischermo si allontanava: sempre più. Ben presto non si sentì più il rumore della voga. —Signor almirante!—gridarono i marinai.—La gomena molleggia.... viene a noi. —Forse l’áncora non agguanta;—disse l’almirante. —Oh c’è ben altro; l’áncora, non c’è più. Vedete quante bracciate di gomena si prendono. Il palischermo è fuggito. —Hanno paura!—mormorò Cristoforo Colombo.—E lasciano noi alla balìa dei frangenti.— La forza del mare incalzava sempre più il fianco della caravella, spingendola contro lo scoglio. Scricchiolavano ad ogni ondata gli staminali; c’era pericolo da un momento all’altro che la chiglia si rompesse nel vivo sasso, e si sfondassero i fianchi della nave. Cristoforo Colombo sospirò, e diede ordine ai marinai di metter mano alle scuri. Bisognava abbattere l’albero di maestra, per tentare in quel modo di alleggerire la _Santa Maria_. L’albero fu in breve ora abbattuto, andando a spezzarsi, rimbalzando, sulla scogliera. Ma non bastava ancora; la nave era sempre incagliata. Mentre così lavoravano a furia sulla _Santa Maria_, ma disperati oramai di rimettere a galla il naviglio, gli uomini del palischermo andavano a voga arrancata verso la _Nina_. L’accostarono finalmente, e diedero notizia di ciò che era accaduto, chiedendo di essere issati in coperta. Vincenzo Yanez Pinzon, valoroso uomo, devoto a Cristoforo Colombo quanto il suo fratello maggiore Martino Alonzo gli si era mostrato avverso e disubbidiente, rimproverò con acerbe parole i fuggiaschi, ricusando di riceverli a bordo. —Se tentate di accostarvi—disse loro dall’alto del capo di banda,—vi faccio andar sotto, come è vero Iddio. Ritornate alla _Santa Maria_, e date una mano ai vostri fratelli, che ne avranno bisogno.— Rimandati i pusillanimi, il bravo Vincenzo Yanez fece armar subito il suo palischermo, ed egli stesso a gran forza di remi andò verso la _Santa Maria_. Umiliati, gli uomini dell’altro palischermo lo seguirono colà dove la violenza della corrente aveva spinta la povera nave capitana. Quando Vincenzo Yanez giunse in aiuto dell’almirante, l’albero di maestra era stato troncato; ma il naviglio non galleggiava altrimenti; peggio ancora, si era mezzo sfasciato sul fianco; poco dopo, era andato alla banda. Per fortuna dell’equipaggio, il tempo era buono. Con vento fresco e mare più mosso, la caravella si sarebbe sfracellata, e tutta la gente sarebbe perita nei frangenti, prima di poter afferrare a nuoto la riva. Cristoforo Colombo e i suoi compagni della _Santa Maria_ ebbero il tempo di scendere nei palischermi, e di ricoverarsi a bordo della _Nina_. Intanto era spuntato il giorno, e si conobbe che non era troppo lontana la costa. Qua e là si vedeva ribollire il mare intorno alle secche, o rompere il flutto a certi scogli che venivano quasi a fior d’acqua. La _Nina_ si tenne prudentemente in fuori, governando contro la corrente traditora. Frattanto l’almirante, poichè ebbe meditato alquanto sulla triste condizione in cui era posto dalla scomparsa della _Pinta_ e dal naufragio della _Santa Maria_, pensò di mandare a terra il palischermo, con Diego di Arana, capitano di giustizia dell’armata, e Pedro Gutierrez, credenziere del re, suo ragioniere generale. Essi erano incaricati di riferire al cacìco Guacanagari quello che era accaduto: come l’almirante, volendo mantener la promessa di andare a visitare nel suo porto il cacìco, avesse perduta la nave dirimpetto alla sua residenza, dando in una secca, una lega e mezzo discosto dal lido. Spirava da terra una brezza leggiera. E temendo l’ammiraglio che non vi fosse in vicinanza qualche scoglio o banco di rena nascosto, rimase in panna fino a giorno ben chiaro. Diego di Arana e Pietro Gutierrez, con due scudieri, un interpetre e sei marinai, andavano intanto verso la spiaggia. Apparivano tutti assai tristi; anche taluno che non aveva ragione di esserlo nello interno del cuore, lo era abbastanza nel volto. E il savio lettore intenderà facilmente di chi vogliamo parlare. Smontati a terra, e lasciati quattro uomini alla guardia del palischermo, partirono gli altri sette per salire alla residenza del cacìco. Il villaggio di Guacanagari non si vedeva di laggiù; afferrato il colmo del poggio, i nostri ambasciatori lo scopersero, poco meno d’un miglio lontano. Non era un gran tratto di strada; ma bastò perchè fossero veduti dal villaggio, annunziati al cacìco, il quale si mosse ad incontrarli fuori dell’abitato. Guacanagari, infatti, s’immaginava che tra quei viaggiatori fosse l’almirante in persona. Come il cacìco ebbe saputo dalla bocca dell’interpetre ciò che era accaduto sulla costa, molto si addolorò, e gliene vennero anzi le lagrime agli occhi. —E sono io la cagione di questa grave sciagura!—esclamò.—Dite al capo degli uomini bianchi che io non saprò mai consolarmene.— Ma i pianti e le querele non aggiustavano nulla; ben altro occorreva, e Pietro Gutierrez lo fece dire al cacìco dall’interpetre Cusqueia. —Amico degli uomini bianchi, le tue parole piacciono agli spiriti del cielo. Ma tu devi mostrare la tua amicizia, dando aiuto coi tuoi uomini e con le tue piroghe, affinchè tutto quanto si trova nella gran nave abbattuta, sia messo in salvo alla spiaggia.— Così parlava l’interpetre, riferendo la domanda di Pietro Gutierrez. E il buon Guacanagari si mostrò sollecito a contentare gli uomini bianchi. Non piangeva più; gli occhi suoi mandarono lampi di allegrezza, al pensiero che egli avrebbe potuto in qualche modo esser utile ai navigatori stranieri, che per amor suo avevano patito un danno così grande. Tutto il suo popolo fu prontamente convocato, e a drappelli avviato verso la costa. Circondato dai suoi fratelli e parenti, seguiva egli stesso la folla. Dal bordo della _Nina_, Cristoforo Colombo vide discendere quelle lunghe file di naturali alla riva, ed egli stesso, entrato nel palischermo, andò a stringer la mano di quel piccolo re selvaggio del nuovo mondo, che avrebbe potuto dar lezioni di umanità e di cortesia a molti potenti del vecchio. I discorsi furono brevi, essendo urgente di operare. E tosto messe in acqua Le loro piroghe, i naturali di Haiti si unirono ai marinai dei palischermi, per discaricare la _Santa Maria_. In breve spazio di tempo la coperta fu tutta sgomberata. A vedere quella folla di burchielli che si aggiravano intorno alla scafo della nave abbattuta, con uomini che andavano e ritornavano senza posa, dalla nave ai burchielli, ricorreva naturalmente al pensiero un popolo di formiche, affaccendate intorno ad una mollica di pane, che in breve ora riescono a sgretolarla, a tritarla, a portarne via le briciole, facendo piazza pulita. Quanto era in coperta e sotto coperta fu portato alla spiaggia. E il cacìco in persona, coi suoi fratelli e parenti, usava ogni diligenza, così nella nave come in terra, perchè il tutto fosse ben governato e custodito. E di tempo in tempo, mandava qualcuno de’ suoi all’almirante, che era rimasto sullo scafo della _Santa Maria_, per pregarlo di non prendersi fastidio dell’accaduto, che egli volentieri gli avrebbe donato in compenso tutto ciò che possedeva. Così passò per Cristoforo Colombo la mattina del Natale. Intorno al meriggio ogni cosa era al lido; e dal lido, a braccia d’uomini, era portata al villaggio. Non si poteva infatti lasciare tanta roba allo scoperto, esposta alle intemperie. Quanto ad altri pericoli che potesse correre, non era neanche da pensarci; cose grosse e minute erano in buone mani; nessuno di quei naturali pensò di appropriarsi nulla. Cristoforo Colombo potè dire, ammirato, e scrivere nel suo giornale di bordo, che delle cosa salvate dalla _Santa Maria_, non mancò neppure una stringa. Giunti i preziosi fardelli al villaggio, Guacanagari li fece riporre nella sua casa medesima, che ne fu tutta ingombrata. E li tenne là dentro, fino a tanto non furono vuotate tre case, che aveva destinate per una più lunga custodia. Agli usci di quelle case, e tutto intorno, furono messi a guardia uomini armati, che dovessero starci di giorno e di notte. Così adempieva agli obblighi della ospitalità il cacìco Guacanagari, amico agli uomini bianchi, e preso di grande affetto per il loro comandante supremo. Quella sera, discendendo coi suoi uomini alla spiaggia, per ritornare a bordo della _Nina_, l’almirante non sapeva ristarsi dal lodare Guacanagari e il suo popolo. —Che gente amorevole!—esclamava.—È trattabile, e mansueta, che io credo non ci sia la migliore sulla faccia della terra. Amano il loro prossimo come sè stessi; hanno un ragionane dolce, umano, sempre accompagnato dal riso. Quel loro re, poi! È servito con molta divozione da tutti, e con altrettanta dignità riconosce i loro servizi. Ha buon contegno e mi pare anche fornito di molta intelligenza. Avete notato come tutto osserva, e di tutto vuol sapere il principio ed il fine, e la causa e l’effetto? —Crederai tu che abbiamo messe le mani sopra un re filosofo?—disse Damiano sotto voce a Cosma.—Mi piacerebbe moltissimo. —E perchè, di grazia? —Perchè si potrà discorrere, argomentare, disputare in famiglia, nelle lunghe serate d’inverno. —Vuoi tu dunque trattenerti alla sua Corte, matto insanabile che sei? T’ha egli offerto un posto di ministro? —Eh, sarà il meno ch’egli potrà fare per me, quando mi riconoscerà per nipote. —Nipote!—esclamò Cosma.—Eccone un’altra. Hai dunque già posto gli occhi sopra una nuova bellezza? —No, caro; sono fedele ad Abarima. L’ho riveduta oggi, e mi ha fatto una festa da non dirsi. E per me e per lei la _Santa Maria_ ha fatto egregiamente, a dare in secco. Non mi guardare con quegli occhi. So bene ancor io che è una disgrazia; ma infine, poichè il male è fatto, possiamo ben dire che esso non vien tutto per nuocere. E come è bella, Abarima! Mi è venuta incontro battendo le palme, dopo aver gettato un grido, che mi è penetrato qui, nel fondo del cuore. Anche il suo vecchio padre mi ha accolto benissimo; mi ha perfino abbracciato. O son io che ho abbracciato lui?... Non saprei dirti, ora; ma una cosa è certa, che siamo stati un par di minuti l’uno nelle braccia dell’altro. La parentela, capisci? la parentela imminente. Perchè io la sposo, quella bella creatura; com’è vero Dio, la sposo. —Secondo comandamento del Decalogo;—disse Cosma;—non proferire il nome di Dio invano. —E non fo conto di averlo proferito invano;—rispose l’altro con gran sicurezza.—Non giudicare.... da quelle altre. Laggiù erano capricci, morti appena nati; nuvolette formate all’orizzonte, e dissipate dalla prima brezza del mattino. Qui è un’altra cosa. Sono innamorato come un gatto. No, il paragone è brutto; saresti capace di dirmi che ora io ti miagolo la mia canzon d’amore. Diciamo dunque come un piccione. E sai a proposito di canzoni, che ho fatto cantare l’interpetre? —Che c’entra l’interpetre? —C’entra per parecchie notizie che io non potevo avere da me, direttamente, da bocca a bocca. Perchè in materia di lingua Haitiana io sono ancora ai primi esercizi. Orbene, oggi ho domandato all’interpetre di sapermi dire chi fosse il vecchio naturale nella cui casa sono stato ospitato. Cusqueia si è informato, e sai che cosa ha saputo? Sai chi è il mio ospite, il padre di Abarima! Nientedimeno che il fratello di Guacanagari, il fratello del ca.... No, non voglio dire cacìco! il fratello del re; mi capisci? del re. —Capisco;—rispose Cosma, sforzandosi di sorridere.—Per questo accennavi alla tua qualità di futuro nipote. —E futuro prossimo, perchè qui bisogna stringere,—riprese Damiano.—L’almirante non vorrà mica restare troppo a lungo in queste acque. Siamo a Natale; bisognerebbe far le nozze per la Befana....— Cosma diede di sbieco una guardata al compagno, come per accertarsi se parlasse da senno. Per matto lo conosceva oramai; ma non sapeva acconciarsi all’idea che lo fosse diventato a tal segno. Ed era quello il cavaliere che con lui, una volta.... Ma insomma, a che filosofar tanto sul cuore e sulla testa dell’animale irragionevole? Non c’è che l’uomo, per adattarsi alle condizioni di tempo e di luogo. Ma queste cose non le aveva insegnate a Cosma la filosofia d’Aristotile, nè quella del suo maestro che gli commentava Aristotile nella università di Pavia. —Sta bene;—diss’egli al compagno.—Auguro fortuna ai tuoi novelli amori.— E lasciò cadere una conversazione che fino allora, come in tant’altre occasioni consimili, aveva tenuta viva per far piacere all’amico. Il silenzio era una consuetudine, in lui. Spesso restava intiere giornate senza aprir bocca. Nessuno tra i marinai della _Santa Maria_ era più attento di lui ai comandi dei piloti, nè più diligente al servizio. Da principio, quel suo fare un po’ contegnoso era parso superbo; ed avevano preso a motteggiarlo. Non ne aveva fatto caso, finchè la cosa era rimasta in certi confini, tanto da lasciargli parere che non dicessero a lui. Ma la prima volta che lo stuzzicarono davvero, ed egli non poteva più far mostra di non avvedersi, entrò risolutamente nel mezzo e parlò animosamente ai compagni. —Sentite,—diss’egli,—ogni bel giuoco dura poco. Una volta e due si può credere che chi ci ha dato uno spintone non l’abbia fatto a posta. Alla terza, bisogna parlarci chiaro. Io voglio parlar chiaro con voi, poichè siamo obbligati a vivere insieme, finchè duri questo viaggio. Ho buone braccia come voi, e un buon coltello catalano per difendermi. Se avete voglia di leticare con me, ditelo liberamente, e ce la faremo senza tanti discorsi, sopra tutto senza tanti motteggi. Volete essere amici? rimetto il coltello in cintura, e qua la mano. Dunque, siamo intesi; scegliete.— I patti chiari fanno gli amici cari. I compagni di Cosma scelsero prontamente il partito migliore. Alla fin fine, non era egli un buon figliuolo? Non dava mai noia a nessuno, e quando c’era qualche cosa da fare, lavorava sempre per due. Troppo contegnoso in verità; ma questo dipendeva dal suo carattere. Era un taciturno. Gli avevano affibbiato un nome: il cavaliere. E non sapevano, chiamandolo così, di aver dato nel segno. Del resto, quando gli si diceva qualche cosa, rispondeva sempre con garbo. Gli si domandava un parere, e lo dava sempre con molto giudizio. Era un po’ chiuso; ma niente affatto orgoglioso; e questo bastava. Si avvezzarono alla sua indole severa; presero a rispettarlo come un superiore, sapendo ch’egli non si teneva per tale; lo scelsero volentieri giudice ed arbitro nei loro litigi, sperimentandolo giusto ed umano in ogni occasione. Dov’era lui, regnava la disciplina; quello che sopportava lui, sopportavano tutti senza farsi pregare, nè minacciare. Gran virtù dell’esempio! Per contro, quando il cavaliere si degnava di sorridere, gli altri ridevano e saltavano. Ma questo non era un guaio; ed egli, frattanto, aveva conquistato il diritto di chiudersi nelle sue meditazioni. A sua volta, Cosma era tutt’orecchi quando parlava il signor almirante. Cristoforo Colombo aveva una grande autorità sull’animo del cavaliere. Questi raccoglieva religiosamente ogni parola del suo grande concittadino; e sospirava spesso, pensando alla sua bontà di cuore, alla sua dirittezza di mente. —Venti di questi uomini a Genova,—diceva allora in cuor suo,—e ci sarebbe da comandare al mondo. Invece.... Ah, povera patria, che le discordie dei suoi figliuoli hanno resa l’ultima delle terre italiane!— _Capitolo XI._ Come una debolezza di Damiano andasse a finire in una fortezza. Il 26 dicembre, che era un mercoledì, venne il cacìco Guacanagari in visita solenne alla caravella dell’almirante. L’ottimo re selvaggio mostrava gran tristezza e dolore, vedendo lo scafo della _Santa Maria_ mezzo rovesciato alla spiaggia, e nuovamente profferiva agli uomini bianchi tutto ciò ch’egli possedeva, per ricompensarli dei danni patiti. Mentre egli stava ragionando con l’almirante sul cassero della _Nina_, si accostò alla caravella una piroga di naturali di un’isola vicina, i quali portavano piastre e lamine d’oro, per barattarle con sonagliuzzi di bronzo. Niente piaceva di più, a quella gente, dei piccoli strumenti sonori che gli Spagnuoli avevano portati al nuovo mondo, opportunamente imitando un costume dei Portoghesi nei loro viaggi di scoperta lungo la costa Africana. Amavano la danza, e saltavano spesso, cantando certe loro canzoni, che accompagnavano col suono d’una specie di tamburo, fatto d’un tronco d’albero scavato, su cui era una pelle distesa. Il suono del tamburo non era sicuramente così piacevole all’orecchio dei danzatori, come il tintinnio di quei piccoli sonagli di rame. Anche i marinai della nave naufragata, che ritornavano a bordo della _Nina_, riferirono all’almirante di altri naturali dell’interno di Haiti, i quali accorrevano di tratto in tratto alla spiaggia offrendo pezzetti d’oro in cambio di ogni nonnulla; e più ne avrebbero portato, anche piastre più grosse, ove fosse gradito il baratto coi sonagliuzzi di rame e con le perline di vetro colorato. Guacanagari, sempre attento ai discorsi degli uomini bianchi, come erano tradotti dagli interpetri, e non meno agli atti, ai gesti, ai moti del viso, osservò che quelle notizie facevano scintillar d’allegrezza gli occhi dell’almirante. E noi possiamo intendere più facilmente di Guacanagari come e perchè fosse lieto Cristoforo Colombo. Egli aveva promesso di trovare per la via di ponente l’isola di Cipango e le regioni estreme dell’Asia, famose per infinite ricchezze. In quella vece, aveva trovato delle isole abitate da selvaggi, ignudi la più parte come Adamo ed Eva innanzi il peccato. Guanahani, Cuba, Haiti e via discorrendo, potevano esser considerate altrettante aiuole del Paradiso terrestre. Ma questo ai re Cattolici di Spagna sarebbe parso troppo poco guadagno, in compenso al grandissimo sforzo che avevano fatto, di concedere tre gusci di noce per mandare a scoprire il Cattaio, e far vassallo di Castiglia il gran Cane dei Tartari! Perciò l’almirante del mare Oceano giustamente pensava che nulla avrebbe operato sull’animo de’ suoi signori, meglio della vista dell’oro. Che importava più del gran Cane e del suo Cattaio, se si metteva la mano sulle miniere di Ofir? Isole ricche d’oro nativo, meglio trovarle selvagge, che abitate da popoli numerosi, governati da re potenti, forse disposti a trafficare, ma niente affatto a ricevere un nuovo padrone. Conosciuto per tal modo il desiderio del suo ospite, Guacanagari fu molto lieto di potergli dire che a poca distanza dalle sue terre, nella regione più montuosa dell’isola, il metallo dal colore del sole era tanto facile a ritrovare, che gli abitanti non ne facevano stima veruna. Il luogo, soggiungeva egli, si chiamava Cibao. Non forse Cipango? pensò tosto l’almirante. Ma fosse Cipango, o non fosse, egli aveva finalmente trovato Cibao, la misteriosa regione aurifera, di cui gli avevano già detto nome i naturali di Guanahani e di Cuba. Guacanagari pranzò quel giorno con l’almirante, a bordo della _Nina_; e quindi lo invitò alla sua residenza, dove gli avrebbe fatto vedere come fossero tutte le cose di lui gelosamente custodite. La refezione, imbandita quel giorno nella casa di Guacanagari, era copiosa e scelta, per quanto permetteva ad Haiti la semplicità del costume. I piatti forti erano di utia, che è una specie di coniglio, e di pesci; le intramesse di radici, che erano di varii generi e in varii modi preparate; delle frutte non si parla nemmeno, che abbondavano nell’isola, e con la varietà degli aspetti rallegravano gli occhi, come con quella dei sapori stuzzicavano i palati degli uomini bianchi. Sempre maravigliosa la bontà d’animo dei cacìco, e delicatissime le premure amichevoli, con cui cercava di consolare il suo ospite della disgrazia sofferta. Ed era strano per i suoi convitati spagnuoli il vedere com’egli fosse garbato nel modi. Il civilissimo tra gli Europei non avrebbe recato con maggior dignità e pulitezza il cibo alla bocca. Ad ogni portata Guacanagari si lavava le mani, e le strofinava con erbe odorose. Era servito con molto rispetto dai suoi sudditi, e li ricambiava con atti di graziosa maestà. Che dirvi di più? Bisognerebbe ripetere il già detto, di questo selvaggio portentoso, che oggi ancora si potrebbe proporre ad esempio presso tutti i popoli civili del mondo. Intorno a lui, Damiano aveva compendiato il suo giudizio in queste poche parole: Guacanagari, non ce n’è guari. E contemplava il suo futuro zio con una tenerezza ineffabile. Ma ci pensava egli davvero, a fare il nido in Haiti? Pare di sì. Damiano era uno spirito bizzarro, pronto ad infiammarsi, e sincero nei suoi innamoramenti, qualunque ne fosse l’oggetto. Abarima gli era piaciuta a quel dio; egli era piaciuto a lei; non c’era nessuna ragione perchè ella non fosse sua moglie, o con un rito o con l’altro, dei tanti che servono a fermare in modo indissolubile il bel capriccio di un giorno, in quella guisa che una spilla nera, un cartellino scritto con due parole latine, e una lastra di cristallo in cornice, vi fissano un bel _Priamus_, una bella _Vanessa_, dalle ali fatte di polvere d’oro, nella vetrina d’un museo di storia naturale. E di questo suo disegno era tanto invasato Damiano, che egli si era perfino rallegrato della perdita d’un naviglio. Egoismo d’amore, che dalla sua stessa ferocia è innalzato al sublime! Il naufragio della _Santa Maria_ riduceva Cristoforo Colombo e la sua gente a vivere sulla più piccola delle tre caravelle, e sulla meno adatta a sostenere la forza del mare. Forse era per tutti la impossibilità di ritornare in patria. Si sarebbero perduti laggiù, come Ugolino Vivaldi sulla costa di Africa, senza che più si avessero nuove di loro. Ebbene? che importava ciò? Si rassegnava a tutto, Damiano; anche a non rivedere l’Europa. —Vecchia Europa!—diceva egli, in una di quelle apostrofi che gli erano familiari.—Infine, che cosa sei tu, per un uomo del tempo presente? Un giorno, sei piaciuta a Giove, che per te non dubitò di cangiarsi in toro, e tu lo incoronasti di fiori, come una vittima. Per altro, da quel giorno, ne sono passati, degli anni! Vecchia megera, se io potessi aver la sorte di non rivederti mai più! Spero bene, ora che ti abbiamo scoperto una sorella di parecchie migliaia d’anni più giovane, spero che un giorno molti dei tuoi cavalieri passino il mare, uscendo dal tuo vilissimo stretto di Gibilterra, per venirsene qua, a dimenticare in questa vergine bellezza i tuoi vezzi cascanti, il tuo belletto, i tuoi capelli tinti, i tuoi denti posticci. Per rifarti la pelle, vecchia incartapecorita, non ci sarebbe che un espediente, ma eroico, anzi più che eroico, divino. Sarebbe infatti mestieri che la mano di Domineddio si aggravasse gentilmente su te; con un dito sui Pirenei, un altro sulle Alpi, un altro sugli Urali, un altro sul Caucaso, un altro sui Carpazi, un altro.... Ma no, ne ho contato già cinque, e cinque basterebbero, purchè premessero, premessero bene, giù giù, fino a metterti un venti braccia, sott’acqua, per venti minuti! E allora, crepi l’avarizia, ti si potrebbe far ritornare a galla, per lasciarti respirare. Che bella faccia pulita, mia vecchia Europa! e che bel bagno di gioventù!— Sincero anche in questi suoi voti, il nostro Damiano! Vi pare di dovergli dare il torto, per aver egli detto ad alta voce ciò che tanti avranno pensato, ai suoi tempi, ed ai vostri? A buon conto, non glielo voglio dar io. Con questo modo suo di ragionare, figuratevi se non volesse restare ad Haiti. Ci pensava tanto, che si risolse d’imparare alla svelta la lingua del paese. Maestri ce n’erano parecchi: gl’interpetri di Guanahani e di Cuba. Egli sapeva già parecchi vocaboli; ne imparò in due o tre giorni parecchie centinaia, che scriveva sopra pezzetti di carta, di contro ai corrispondenti vocaboli italiani. Con quel principio di glossario si poteva fare molto cammino, e non desiderarsi la vicinanza di un terzo incomodo, quando aveva da far conversazione con la leggiadra Abarima. Il vecchio babbo, quantunque fratello di re, vedeva di buon occhio quel semplice marinaio. Ma questo s’intenderà facilmente: il semplice marinaio era un uomo bianco, un figlio del cielo. Del resto, il capo degli uomini bianchi era molto amico di quel semplice marinaio, gli rivolgeva spesso la parola, intrattenendosi con lui in una lingua che essi soli parevano intendere. E questa familiarità di Damiano con l’almirante rialzava molto il marinaio agli occhi del vecchio Tolteomec. Quel giorno, per l’appunto, Damiano aveva accompagnato l’almirante alla residenza di Guacanagari. Sedeva anch’egli alla mensa del re; ultimo nell’ordine gerarchico, è vero, ma forse per sua elezione, volendo esser vicino alla dolce Abarima. Nelle numerose comitive e nelle grandi riunioni, il miglior posto è sempre quello degli ultimi, che hanno sempre la libertà della scelta. Il personaggio maggiore s’annoia a capo di tavola, e manda occhiate di desiderio ai felici che se la spassano nel fondo, facendo il comodo loro e ridendo come matti. Levate le mense, Guacanagari aveva condotto il suo ospite negli ameni boschetti che circondavano la sua casa. Migliaia di naturali aspettavano la nobile comitiva; e a mala pena Cristoforo Colombo si fu seduto con Guacanagari al rezzo d’un palmizio, quella turba poco vestita si mise a cantare e a saltare, accompagnando la voce ed il passo col suono dei suoi tamburi, a cui si aggiungeva per grande novità il tintinnìo dei sonagli di bronzo. La danza era il passatempo prediletto dei naturali di Haiti. Se a quel tempo fosse stato comune sulla faccia del globo l’uso delle carte da giuoco, sicuramente quei buoni selvaggi avrebbero fatto carte false, pur di ballare dalla mattina alla sera. Damiano, contemplando le loro giravolte e i loro salti, aveva facilmente imparata la coreografla, del resto assai scarsa, dei suoi futuri concittadini. Un ballo, tra gli altri, gli era sembrato molto somigliante al trescone, che si ballava in Europa. Preso da un capriccio subitaneo, chiese ad Abarima se ella avrebbe consentito a ballare con lui. Abarima non aveva detto di no. Animo dunque, e nel mezzo del prato, facendo fermare stupefatti tutti i ballerini della tribù. Damiano provava un gusto matto a ballare con quel fior di selvaggia; ma altrettanto ne provava la graziosa fanciulla a ballare con lui. E non erano meno contenti i naturali di Haiti, vedendo un figlio del cielo che non isdegnava di saltabellare in cadenza con una figlia degli uomini. I tamburi battevano via via più affrettata la misura; e più rapido girava Damiano, più forte stringendo nelle braccia nervose la leggiadra Abarima. Essa era snella, egli robusto; durarono un pezzo alla prova. Ma egli non vedeva già più il prato, nè gli alberi, nè gli spettatori circostanti, quando la sua dama gli fece la grazia di arrendersi, cadendogli ansante, quasi svenuta dal piacere, sul braccio, e abbandonandogli la bruna testa inghirlandata di fiori sul petto. Ma bisognava dare a Guacanagari altra idea che di avergli portato ballerini, dalle regioni del cielo. L’almirante aveva mandato a prendere a bordo della _Nina_ un arco moresco, col suo turcasso di frecce. Era nel suo seguito un Castigliano, che aveva fatta la guerra contro i Mori ed era stato all’assedio di Granata. A lui, destro arcadore, toccava di far vedere la sua prodezza, con l’arco alla mano. Una foglia di palmizio fu collocata in fondo alla prateria, sulla vetta di una canna. E il Castigliano la prese di mira, piantando nel suo verde tessuto, una dopo l’altra, tutte le frecce del suo turcasso, tra le grida di ammirazione e gli applausi della intiera tribù. Guacanagari chiamò con un nobilissimo gesto l’interpetre Cusqueia, e gli dettò le parole che questi doveva riferire all’almirante: —Potente signore, colpiscono diritto nel segno i tuoi guerrieri. Questo è certamente un dono del cielo, donde siete venuti. Con l’arco e la freccia non colpiscono così giusto i Caribi, nostri mortali nemici. Vengono essi sulle lunghe piroghe, dalle isole vicine, verso mezzogiorno, e fanno prigioni i miei uomini, che conducono nelle loro terre a servirli, quando non ne bevono il sangue e non si cibano di essi, fino al midollo delle loro ossa. Ahimè! i figli di Haiti nulla possono contro quegli amici della strage, e non sempre i nostri buoni spiriti li tengono lontani da noi.— Udì l’almirante la querela di Guacanagari, e prontamente rispose: —Ben altre armi abbiamo contro i nemici del nostro ospite e fratello. Or ora tu le vedrai, e ti sarà facile intendere che niente vale contro gli uomini bianchi, che ti hanno giurato amicizia.— E lasciato di parlare all’interpetre, si volse a Damiano: —Prendete gli uomini che vi bisognano,—gli disse,—e andate nelle case che Guacanagari ha assegnate per la custodia delle cose nostre. Prenderete un archibugio, con un po’ di munizione, e farete anche rotolare fin qua un cannone lombardo della _Santa Maria_.— Damiano prese con sè i marinai che erano venuti ad accompagnare l’almirante, e con essi e con qualche selvaggio di buona voglia andò ad eseguire i comandi dell’almirante. Archibugio e cannone lombardo furono poco stante sul prato, davanti al cacìco Guacanagari. —Or ora,—disse Cristoforo Colombo al suo ospite,—tu vedrai un colpo ben più veloce e più micidiale che non possa farne una freccia.— E fatto caricare l’archibugio, ordinò a Damiano di prender la mira contro un albero che sorgeva nel fondo del prato. Damiano si piantò saldamente sul terreno, calò il moschetto, aggiustò la canna contro il bersaglio, e accostata la miccia allo scodellino, diede fuoco alla polvere. Partì il colpo, e il lampo che uscì dardeggiando dalla canna, comprese di stupore i selvaggi; ma più li fece maravigliare lo strappo che videro in pari tempo esser fatto nella corteccia d’albero, e il buco in cui si era conficcata la palla: quella palla che essi avevano veduta poc’anzi cacciar dentro la canna, ma che non avevano veduta altrimenti uscir fuori. Venne la volta del cannone. Damiano e uno dei marinai lo avevano caricato con molta ostentazione, affinchè i naturali vedessero bene come fosse quella fattucchieria. Poscia puntarono lo stesso albero contro cui era stato scaricato il colpo dell’archibugio. La miccia fu accostata; il forellino diede una piccola vampata, e tosto dalla gran canna di ferro escì un globo di fumo, per entro a cui lampeggiava una grossa lingua di fuoco. Non fu un rumore secco, accompagnato da un sibilo, come era stato quello dell’archibugio; fu un rombo, uno schianto, che intronò gli orecchi di tutti gli astanti, a cui parve di avere udito il fragore del fulmine. E in pari tempo l’albero preso di mira si spezzava nel mezzo; e si abbatteva la parte superiore del tronco, non restando che per poche fibre appiccicata alla parte inferiore. La palla intanto proseguiva la sua via nel bosco, sforacchiando in più luoghi la frappa. Al fragore inatteso, molti naturali erano caduti per terra. Lo stesso Guacanagari, che sempre cercava di padroneggiare i moti dell’animo, non potè trattenersi dallo afferrare il braccio dell’almirante, come per cercare istintivamente un appoggio. —Sono queste le nostre armi;—disse Cristoforo Colombo.—I sovrani di Spagna, nostri potenti signori, hanno di queste armi a migliaia; con queste combattono i loro nemici; per esse sono rispettati da tutto il mondo. —Con esse ci difendano dai Caribi, invasori della nostra terra, oppressori dei nostri figli, rubatori delle nostre figliuole;—disse Guacanagari all’interpetre. Non aveva mestieri di parlar per interpetre la leggiadra Abarima. Fattasi accanto a Damiano, che essa aveva ammirato nei due saggi della sua maravigliosa prodezza, così gli parlò dolcemente nella sua lingua, ridotta per la circostanza alle forme più brevi: —Damiano vivere casa nostra in Haiti, fianco Abarima; difendere Tolteomec contro nemici Caribi. —Fianco Abarima dolce cosa;—rispose Damiano, con quel po’ di glossario che aveva messo da parte.—Damiano restare Haiti, amar sempre Abarima, baciare suoi occhi. —Difendere contro Caribi;—ripetè ella, a cui pareva che il suo innamorato saltasse troppo volentieri di palo in frasca. —Una cosa non esclude l’altra, che diamine!—esclamò Damiano, nel suo vernacolo nativo.—Ma questo, come fartelo capire, in lingua Haitiana?— Questo, per altro, glielo disse col gesto affermativo, ripetuto parecchie volte, e con un lampo degli occhi, che non brillava meno di quello del cannone lombardo. Quella sera, tornando la comitiva alla spiaggia, Damiano faceva all’almirante un discorso che aveva a lungo meditato. —Messere,—incominciò timidamente;—vorrei dirvi una cosa.... intrattenervi di un pensiero che mi è venuto quest’oggi alla mente. —Sentiamo il vostro pensiero, Damiano,—rispose l’almirante. —Vi parrà poi una sciocchezza, messere. Ma infine, potrebbe anche non esserlo. —E non lo sarà. Dite ad ogni modo; tanto si fa cammino, e le ciarle aiutano. —Voi siete buono, messere, e date animo a chi non l’ha. Pensavo adunque che noi eravamo imbarcati in sessantasei sulla _Santa Maria_. —Sessantasei, difatti, tra ufficiali e marinai;—rispose l’almirante. —E ventiquattro erano imbarcati sulla _Nina_;—ripigliò Damiano.—Ora, sessantasei e ventiquattro.... —Fanno novanta;—conchiuse l’almirante.—Un bel numero! —Esorbitante per la più piccola delle tre caravelle con cui siamo partiti da Palos;—replicò Damiano.—Non pare a voi, messere, che ci si stia pigiati, sulla _Nina_? —Molto pigiati, troppo pigiati;—rispose l’almirante;—lo vediamo e lo sentiamo fin d’ora, che per una ragione o per l’altra qualcheduno dei nostri uomini passa la notte alla spiaggia. —Ah, lo dicevo bene, io!—esclamò Damiano.—E peggio sarà quando dovremo ritornare su quel guscio di noce in Europa. —Certamente, mio caro, certamente. Quello che voi dite ora, l’ho già pensato più volte ancor io. —E non avete pensato, messere, al rimedio? —Ci ho pensato;—rispose l’almirante, sospirando;—ma forse sarebbe un rimedio peggiore del male. Chi vorrebbe adattarcisi? —Ognuno che vi ami, messere. Perchè io l’ho già indovinato, il rimedio; e sarebbe.... di lasciar qui gli uomini di buona volontà. —Che sarebbero naturalmente assai pochi, mio caro Damiano! —Non lo credete, messere. Io ne conosco parecchi, che sarebbero contenti di restare. Non già per sempre, si capisce; ma cinque, sei mesi, magari un anno, quanto vi bisognasse per andare e ritornare. Soldati in sentinella, resterebbero fino a che il comandante non venisse a mutare la guardia.— —Dite voi da senno, Damiano? —Tanto, che io stesso mi proporrei di restare. —Voi?—esclamò l’almirante.—E il vostro compagno, naturalmente con voi? perchè l’uno non può stare senza l’altro, siccome ho veduto. Ed anzi, quella d’oggi mi pare una novità, e così strana, da doverla segnare col carbon bianco. —Cosma aveva l’umor nero, quest’oggi;—rispose Damiano, impacciato.—Del resto, io credo che egli non rimarrebbe, per sua elezione, in questa parte del mondo, salvo il caso di obbedire ad un vostro comando. —Nè io sarò mai per dare di questi comandi a nessuno;—ripigliò l’almirante.—Ma voi, piuttosto.... come vi adattereste voi a restare, senza l’amico? —Messere, la vita è varia, e varii sono i capricci degli uomini. A me quest’isola piace moltissimo. Ed anche ad altri, che hanno perduta la casa, e non si raccapezzano nella casa altrui. I marinai della _Santa Maria_ si sentono ospiti, a bordo della _Nina_ La conoscono poco, non ci hanno fatta la mano, nè l’occhio. —È giusto, ciò che voi dite. Il marinaio si fa casa volentieri della sua nave. Ma dunque, voi esponete, oltre il desiderio vostro, quello di molti compagni? —Si, messere; è un desiderio nato molto spontaneamente, come il mio. Il paese è bello, si è detto; gli abitanti son pasta di zucchero. A fabbricarceli con le nostre mani, come ha fatto Domineddio per il capo della specie umana, non si potrebbe inventar niente di meglio. La vita è facile, qui, poichè la terra produce tutto il necessario, senza che l’uomo abbia da innaffiarla col sudore della sua fronte. E poi c’è l’oro, che si raccoglie con facilità negli scambi, senza bisogno di andare a cercarlo nelle miniere, almeno per ora. —Ma voi non pensate al pericolo di dover combattere coi Caribi, gente feroce delle isole di mezzogiorno. —Gente feroce che fa paura a Guacanagari, e al suo popolo pacifico;—rispose Damiano.—Contro i Caribi, se sono quei terribili pirati che ci ha descritti il cacìco, avremmo sempre gli archibugi e i cannoni della _Santa Maria_, che voi potreste lasciarci per nostra difesa. —Sicuramente, e con munizioni sufficienti. Ma tutto ciò richiede un luogo adatto per la difesa. —L’isola è vasta; il luogo si può trovare; le eminenze non mancano. —Ci vorranno dei ripari. —Si faranno. Abbiamo qui la caravella naufragata; si può fabbricarne una fortezza. Della chiglia, degli staminali e del bagli si può fare l’ossatura di una torre. Col fasciame si possono fare le pareti. E poi, dentro o fuori, si può aggiungere un impasto di argilla e di paglia, come fanno i nostri contadini, nelle gole dell’Apennino. Con uno scavo di pochi giorni si fa un argine ed un fosso, che giri tutto intorno alla fortezza. Quando il lavoro sia fatto, ci si starà dentro a meraviglia, e sicuri come in chiesa. Non lo credete, messere? —Voi rispondete a tutte le obiezioni, Damiano. L’idea non mi dispiace; voglio pensarci. E quanti sareste, desiderosi di restare? —Non saprei dirlo, ora. Ma così a occhio e croce, argomentando dai discorsi che ho sentiti, potete far conto sui due terzi della _Santa Maria_. Poi ci sarà da domandare a quelli della _Nina_, che non vorranno perder tutti la buona occasione di passare qualche mese a terra. —Vedete un po’!—disse Cristoforo Colombo, ridendo.—Ed io che non osavo neanche vagheggiarlo nella mente, un disegno come questo! —Vagheggiatelo, messere. Anzi, fate meglio, mandatelo tosto ad effetto. Non già per darvi consigli, che a voi non occorrono, ma per dirvi sinceramente quello che io penso, se fossi nei panni, vostri, metterei mano all’opera fin da domani mattina.— L’almirante non si potè trattenere dal ridere, a tanta furia del suo concittadino. E pensò in quel momento ad un proverbio di casa: la furia dei genovesi dura tre giorni. La qual cosa poteva anche esser vera, ma certamente non era intieramente creduta dagli altri Italiani, che a questo proposito solevano dire: genovese aguzzo, piglialo caldo. —Avete ragione;—rispose l’almirante.—Ma bisogna pensare ad un’altra necessità. Intenderete benissimo che per questa piccola colonia non potrei lasciare soltanto marinai. Qualche ufficiale sarà necessario; e non potrei, almirante di Castiglia, avendo quasi tutti Castigliani nella mia gente, dare il comando della colonia che ad uomini di questa nazione. Degli ufficiali che sono imbarcati con me dovrò dunque sentire l’opinione, per vedere chi volesse restare ed assumere il comando della fortezza. Se dovessi ascoltare il mio cuore, darei il comando ad uomini come voi, o come il vostro compagno. —Non pensate a noi, messere; noi siamo marinai. —Infatti, come marinai siete venuti a me. Ma io non vi ho mai avuto per tali. Anche parlando il nostro vernacolo, non vi nascondete abbastanza; si sente che non siete di Maccagnana, nè della Marina; la batte da San Lorenzo a San Luca, miei cari. —Messere....—balbettò Damiano, confuso. —Ebbene, ditemi che non è vero; che non ho colto nel segno. —Eh, non saprei;—rispose Damiano.—Ci sarebbero altre chiese, da mettere in riga; San Siro, per esempio, o Santa Maria di Castello, San Domenico o Santa Maria delle Vigne. Ma io non potrei fermarmi su questo tema, se non per ringraziarvi d’una curiosità che è figlia di benevolenza, e per dirvi subito i nostri nomi, come sono scritti laggiù. Disgraziatamente, ho promesso a Cosma.... di chiamarmi Damiano. Quando egli non vorrà essere più Cosma, credetelo, messere, sarò felicissimo di restituire il mio nome di guerra al santo da cui l’ho tolto ad imprestito. —Nè io vi chiedo di rinunziarci per curiosità che io abbia di sapere i vostri nomi veri ed autentici;—disse l’almirante.—Ho accennato alla vostra condizione per significarvi il mio rammarico di non potervi dare un uffizio più conveniente, e di vedere in pari tempo che voi, amico Damiano, poichè Damiano volete essere, vi disporrete ad un sacrifizio come quello di restare parecchi mesi, forse un anno, in questi lidi lontani. —Oh, non vi date pensiero di ciò!—disse Damiano.—Ho in uggia l’Europa. —Capisco;—mormorò l’almirante.—Dolori? —Che! Se ci avessi lasciato dei dolori, chi sa! L’uomo è un animale così irragionevole! sarei capace di correr laggiù, per rinfrescarmeli tutti. Il fatto è che non ci ho lasciato dolori, e non ne ho portati con me. Forse li avevo nel fardello; ma devono essermi sdrucciolati nelle acque dell’Odiel, sul punto di mettermi in barca. —Avrete perdonato;—disse l’almirante.—E questo è segno di animo buono. —Ahimè! neanche questo, messere. Io non so perdonare; il dimenticare mi sembra più savio. Fors’anche è più sbrigativo. In ciò non sono d’accordo col mio amico. Dove Cosma sospira, io alzo le spalle; dove Cosma piange, io sorrido. Ma in una cosa ci siamo affiatati come due pive: nell’amar voi, signor almirante, nel riverirvi, nello intendere la grandezza dell’impresa che avete ideata e compiuta. Pensiamo qualche volta a ciò che diranno laggiù, in Europa, quando vi vedranno ricomparire, scopritore di un mondo ignoto, e allora.... —E allora,—interruppe Cristoforo Colombo,—dovreste anche immaginare che mi faranno colpa di non avere scoperto il Cattaio. Quattro isole popolate da selvaggi, gran cosa! S’intende che se un altro giungerà prima di me alle coste di Spagna.... —Martino Alonzo Pinzon, non è vero? —Sicuro;—ripigliò l’almirante.—Se il disertore giungerà primo alla sua patria, sarà egli lo scopritore, avrà egli il merito e l’onore di tutto. —Signor almirante, debbo dirvi intiero l’animo mio?—replicò Damiano,—Dall’Europa ci si può aspettare di tutto.... anche un atto di giustizia. È una terra tanto curiosa! Io metto pegno che quando voi giungerete, nessuno crederà più a Martino Alonzo Pinzon. Del resto, voi avrete sempre la testimonianze di due equipaggi, quasi intieramente di Castigliani, in mezzo a cui è un fratello di Martino Alonzo, e qualche altro suo consanguineo.— L’almirante fece un cenno del capo e un moto delle labbra: due gesti che dicevano e non dicevano, ma che, ad ogni modo, in quell’ora tarda di sera, non potevano essere notati dal nostro Damiano. Per altro, era eloquente anche il silenzio, e significava abbastanza i dubbi che amareggiavano il cuore dell’almirante. —E bisognerà quindi affrettare la partenza;—soggiunse questi, proseguendo ad alta voce un ragionamento che aveva fatto dentro di sè.—Ho osservato una certa regolarità nei venti che soffiano su questi mari. Quando siamo venuti, li avevamo favorevoli, da levante a ponente. Ora mi pare che incomincino a voltarsi da ponente a levante. Bisognerà approfittarne; se no, risicheremmo di stare in panna per molto tempo, avanti di far cammino per le coste di Spagna. —Ebbene, messere;—rispose Damiano.—Si prende una risoluzione sollecita. Disfacciamo la caravella, prima che se ne piglino l’incarico i marosi, e facciamo la fortezza. È questione di giorni. —Sì, dite bene, è questione di giorni, quando ci sia la buona volontà;—conchiuse l’almirante.—Domattina ne parleremo.— Il giorno seguente, Cristoforo Colombo chiamò a consiglio gli ufficiali della spedizione e i piloti delle due marinaresche, della _Santa Maria_ naufragata, e della _Nina_ superstite. Espose la condizione di un equipaggio raddoppiato, sulla più piccola caravella e sulla meno maneggevole, rimasta l’unica per ritornare in Europa, ed accennò al disegno di fondare una colonia ad Haiti, lasciandovi un certo numero di marinai, con quegli ufficiali che volessero restare al comando. Gli avanzi della _Santa Maria_ avrebbero fornita la materia per la costruzione di una fortezza, che i suoi cannoni potevano difendere, e in cui si sarebbero lasciati viveri per il sostentamento del presidio, nello spazio di un anno. Tanto non credeva egli che la colonia avrebbe dovuto aspettare il ritorno di una nuova spedizione dalla Spagna; ma era meglio provvedere per un anno, che per sei mesi soltanto; le precauzioni in simili casi non essendo mai troppe. Del resto, in quello spazio di tempo, i nuovi coloni avrebbero avuto agio di visitare, con le debite cautele, tutte le parti dell’isola, di cercare le miniere e tutte l’altre sorgenti di ricchezza. Inoltre, col cambio di tanta minutaglia che ancora si ritrovava a bordo della _Nina_ e nel carico sbarcato dalla _Santa Maria_, avrebbero potuto accumulare dell’oro in gran copia. Imparando la lingua dei naturali, si sarebbero avvezzati ai loro costumi, alle loro abitudini, in guisa da poter prestare utilissimi servigi nelle spedizioni susseguenti. Alle quali, appena ritornato in Ispagna, avrebbe pensato e provveduto l’almirante, con quel pronto animo e con quell’ardore di desiderio che tutti riconoscevano in lui, e che oramai dovevano intendersi piuttosto accresciuti che diminuiti. Piacque la proposta a tutti, assai più che l’almirante non isperasse. Ma forse il pensiero di liberare la _Nina_ da un soverchio di gente, faceva tutti più facili ad accettare un partito, sul quale, in ogni altra occasione, avrebbero trovato molto a ridire. Damiano aveva dunque ragione, pronosticando che l’idea sarebbe stata accolta con giubilo. Ed oltre all’aver ragione, Damiano vinceva il suo punto. _Capitolo XII._ Una nave che va, e l’altra che viene. Quel medesimo giorno, che fu il 27 dicembre, era annunziato agli equipaggi della _Nina_ e della _Santa Maria_, morta ma non ancora sepolta, il disegno del signor almirante del mare Oceano e vicerè delle isole scoperte nelle Indie Occidentali. Il disegno era già in embrione nella mente di molti; fu accolto da tutti con grida festose. E bisognava sentire i discorsi che si facevano a bordo, nell’ora della colazione. —Ah, io resto nell’isola. E tu? —Ancor io, certamente. Fossi pazzo, a chiudermi per due o tre mesi nella stiva della _Nina_, per morirci soffocato dalla mancanza d’aria.... e dall’odore del prossimo! —Ancor io, sai? ancor io ci rimango, nell’isola. Vuol essere una vita d’oro, la nostra, senza staffilate di vento, e senza schiaffi d’acqua salata. —Se la va di questo passo, figliuoli, si resta tutti a terra, e il signor almirante se ne ritorna da solo in Ispagna. —Ma già! Non ci avete pensato, a questo guaio? Se si vuol restar tutti, l’ammirante dovrà sceglier lui quelli che lascerà e quelli che porterà. —Deciderà la sorte, m’immagino. —Ebbene, se decide la sorte, io, che son nato in un cattivo giorno, dovrò restare a bordo. Ma badate, sono il primo a fare una proposta, e intendo di averne assicurato il benefizio. —Sentiamo la proposta di Ruiz. —Eccola qua: mi profferisco per cambio a chi, essendo designato dalla sorte per restare colono, volesse invece ritornare in Europa. —Nella decrepita Europa!—borbottò Damiano tra i denti. —Non mi dimenticate, adunque, nel caso che non mi avesse favorito la sorte. Io voglio restare ad Haiti. Paese buono, donne belle, lavorar poco, spassarcela assai; che cosa si vuole di più? —Bravo! Così intendi tu una colonia? —E come l’avrei da intendere, io? Son marinaio; sarei soldato. Non avrei da partecipare ai profitti, o solo in troppo piccola parte, coll’aiuto di queste cinque dita, che non sono neanche troppo lunghe, nè troppo esercitate alla pratica di un perfetto tesoriere. Il mio guadagno sicuro sarà di darmi bel tempo. Questo è il paradiso terrestre; voglio godermelo. —Facendo la parte del serpente, non è vero?—Si rideva, si sghignazzava, si fantasticava a tutto spiano. Damiano, attento ai discorsi, ma non mettendoci bocca, godeva della sua bella trovata. Egli sapeva bene quali sarebbero stati i profitti suoi, nella nuova colonia. L’almirante, di sicuro, gli avrebbe assegnato un uffizio. Magari, separandosi da Cosma, egli si sarebbe risoluto di lasciare il suo nome di guerra, per riprendere il suo nome vero ed autentico. E con quello, per bacco, e con le qualità che lo accompagnavano, l’uffizio non gli poteva mancare; nessuno, poi, ci avrebbe trovato a ridire. Che momento, quando si fosse sentito leggere un ordine di questa fatta: «Noi ecc. ecc. nominiamo il nobile uomo ecc. ecc. dei conti ecc. ecc. alla carica di ecc. ecc.»! L’uffizio a cui l’almirante poteva destinarlo, egli, per verità, non lo sapeva ancora, non aveva ancora osato immaginarselo. Ma se non era il primo, nè il secondo, non sarebbe neanche stato il quarto, per bacco baccone. —Ma poi, perchè non sarebbe il secondo?—chiedeva Damiano a sè stesso.—Ragioniamo un poco, e vediamo.— Qui l’amico Damiano faceva i suoi conti: —Un Castigliano al comando supremo, si capisce; l’ha detto anche l’almirante. È un onore dovuto alla nazione per cui si è fatta l’impresa. Si dovesse cercarlo col lumicino, trattenerlo qui con la forza, un Castigliano ci vuole. Ma il secondo posto, vivaddio, dovrebbe esser libero. Resteranno volentieri i marinai; vita per vita, preferiranno sempre sei mesi, un anno di presidio a terra, anzi che le noie d’un viaggio, fosse pure di ritorno In patria. Figurarsi il bordo della _Nina_, che cosa sarà per due o tre mesi! Solo per andare a dormire, bisognerà dividersi almeno in tre squadre, e darsi la muta nei ranci. E se ne pregheranno, a vicenda!... se ne pregheranno di quei secchi, o di quegli altri fatti a ferraiuolo, così quelli che vorranno andarsene a schiacciare un sonnellino, come quelli che non vorranno smettere il loro. Mi par già di sentirli. Per gli ufficiali, è un altro paio di maniche. Il loro rancio, buono o mediocre, gli ufficiali lo hanno. Sicuri per questo lato, non avranno nessuna ragione per voler rimanere a terra; e il secondo posto dovrebbe toccare a me, per qualche onesta ragione, oltre la benevolenza del signor almirante. Con un uffizio simile, sarei bene collocato, agli occhi della dolce Abarima e dei suoi. Comandante supremo, lo so, potrei domandare la figlia del re. Secondo di grado, potrò sempre aspirare ad una nipote di re; senza contare che Guacanagari non ha figliuole da marito. Veramente, m’annoia un poco quello che ho udito delle leggi di successione in questo paese. Morendo un cacìco senza figliuoli, gli succede, a preferenza del figlio del fratello, il figlio della sorella, perchè c’è più sicurezza che questo sia del medesimo sangue, dirò così, cacicale. E si capisce: i figli creduti d’un fratello potrebbero alle volte non aver nessuna consanguineità con lo zio; laddove i figli della sorella sono necessariamente i figli della madre loro. Vedete che cervelli sottili, questi selvaggi di Haiti! e sanno dove il diavolo tenga la coda.— Damiano, come vedete, pensava molte cose, facendosi già in tasca il contratto di nozze. Era un sogno in tutte le regole, il suo; egli se lo ingrandiva, descrivendolo a sè stesso, ed era un po’ come colui che s’ubbriaca delle proprie parole. Alle chiacchiere di bordo seguì presto il lavoro, un lavoro animato ed allegro di tutto il doppio equipaggio. Bisognava disfare pezzo per pezzo la _Santa Maria_. Calafati e marangoni, con martelli, tanaglie, scuri, e ogni altra maniera di ferri, schiodavano, strappavano, segavano, facevano leva; ed assi, tavole, bagli, staminali, tutto saltava in acqua, donde i naturali di Haiti, volontarii aiutanti, nuotando intorno alla secca, spingevano al lido ogni cosa. Mentre così lavoravano gli equipaggi, Cristoforo Colombo risaliva ancora una volta alla residenza del cacìco, per informare l’amico Guacanagari della sua nuova intenzione. Egli voleva lasciare una parte della sua gente, per difender quell’isola dalle scorrerie dei Caribi; con più gente sarebbe ritornato al secondo viaggio, ed anche con maggior copia di preziosi donativi per il suo ospite, come di merci da barattare con l’oro. Piacque a Guacanagari il disegno; l’idea di ritener seco una parte di quegli esseri straordinarii, di quei figli del cielo, e il pensiero di vedere un giorno ritornare alla spiaggia di Haiti il signore degli uomini bianchi, con grandi piroghe cariche di sonagli di bronzo, di braccialetti e bei monili di perle di vetro colorato, fece andare in visibilio la tribù tutta quanta. Immaginate le grida, i salti, le capriuole di quel popolo semplice, mentre Cristoforo Colombo, accompagnato dal cacìco e dai grandi della sua casa, andava attorno per ritrovare un luogo adatto, su cui edificare la sua fortezza di legno. Il sole non era anche sparito dall’orizzonte, e già la maggior parte del legname della _Santa Maria_ era trasportata dalla costa alla eminenza che Cristoforo Colombo aveva scelta, non molto lontano dal villaggio di Guacanagari. Lungo la salita si vedevano andare e venire i naturali di Haiti in doppia catena: quei che ascendevano la costiera portando fasci di tavole, o travi, e quei che discendevano a mani vuote, per andarsi a rifare un buon carico. Intanto che il lavoro procedeva, alcuni naturali di un’altra parte dell’isola erano venuti ad annunziare che una grande piroga, con le ali bianche, come quelle della _Nina_, aveva gettata l’áncora in un fiume, alla estremità orientale dell’isola. Cristoforo Colombo diede una rifiatata di contentezza. Quella grande piroga non poteva essere che la _Pinta_, la _Pinta_ ch’egli oramai credeva già in cammino per l’Europa, la _Pinta_, che di sicuro si era allontanata dalla squadra per obbedire alla indisciplinata ambizione di Martino Alonzo Pinzon, insofferente di comandi, avido di scoprire e di raggranellare per sè. Comunque fosse, la _Pinta_ era là, ancora sotto la mano dell’almirante. Disubbidiente o no, era una nave di più per il ritorno; e la sua presenza, raffidando un pochino gli animi di tutti, consentiva di dividere un po’ meglio l’equipaggio della _Santa Maria_, che altrimenti sarebbe stato costretto a pigiarsi tutto sulla _Nina_, o a lasciare un numero troppo grande d’uomini nella fortezza incominciata. Per questa, niente era mutato nel disegni dell’almirante. Il suo naufragio, in una calma perfetta, senza vento e senza mareggiata, era per lui un segno manifesto di una volontà suprema. Sembrava una disgrazia; ma senza quella disgrazia, egli non si sarebbe fermato tanto tempo ad Haiti, da scoprirne le ricchezze nascoste. La decisione di fermarsi e di fabbricare la fortezza era presa; non si doveva, non si poteva più revocare. Con tutti questi pensieri che gli ribollivano nell’anima, Cristoforo Colombo ai era affrettato a chiedere al cacìco una delle sue piroghe più veloci, con quanti più rematori del paese potessero starci alla voga. Uno spagnuolo andava con essi, portando al Pinzon una lettera dell’almirante. In quella lettera, che aveva scritta lì per lì, Cristoforo Colombo, senza muover rimprovero alcuno all’indisciplinato comandante della _Pinta_, lo invitava a raggiungere immantinente la squadra. La piroga ritornò in capo a tre giorni. Aveva costeggiata l’isola per lo spazio di quaranta miglia, senza vedere la _Pinta_ e senza neppure udirne novella dai naturali di quelle marine. Venivano intanto all’almirante altri annunzi dello stesso genere, ma da altre parti dell’isola; di qua, di là molti avevano veduta la gran piroga con le ali di cigno; ma Cristoforo Colombo pensò che avessero tutti sognato, nè più volle distoglier gente dal lavoro, per rintracciare quella nave fantastica. Ed era triste per lui non avere altro legno che la _Nina_, per ritornare in Europa. Se la _Pinta_ era fuggita, e giungeva prima di lui alle coste di Spagna, gli usurpava l’onore delle fatte scoperte, o, con calunniose imputazioni preoccupando gli spiriti, guastava a lui ogni disegno di spedizioni future. Se la _Pinta_ era perduta, la condizione di lui era anche peggiore; poichè di tre caravelle che gli erano state affidate, una sola ne restava, inferiore di troppo alle altre nel veleggiare, e l’esito della sua grande intrapresa dipendeva dall’incerto ritorno di un fragile schifo, attraverso la immensità dell’oceano. Periva egli nei flutti? e con lui si chiudeva nell’abisso il grande segreto del mare tenebroso. Il pericolo era grande; ogni indugio, poi, non faceva che aumentarlo; necessario dunque di lavorare con alacrità sempre maggiore alla costruzione della fortezza. Della _Pinta_, se proprio si aggirava in quelle acque non sarebbero mancate più sicure notizie, in quei giorni ch’egli avrebbe dovuto pur troppo rimanere colà. Damiano aveva seguite con una certa ansietà le peripezie di quel dramma che si svolgeva nella mente del suo grande concittadino. A tutta prima, udendo che la _Pinta_ era stata ritrovata, e vedendo l’almirante così sollecito a mandar gente sulla traccia del Pinzon, gli era entrato nell’animo il sospetto che della colonia d’Haiti non si dovesse fare più nulla. —Ahimè!—diceva egli quel giorno a Cosma.—Il mio bel sogno svanisce. —Che sogno?—esclamò Cosma. —Come?—riprese Damiano, con aria di stupore.—Non sai?... Ma tu dunque vivi proprio nel mondo della luna? —Mio caro, non so se sia il mondo della luna;—rispose placidamente Cosma;—so bene che è il mondo dell’anima mia; ed è tutto qua dentro. —Il mio, invece, è il mondo del mio cuore;—disse Damiano.—Ed è qui presso, in Haiti. —In Haiti! —In Haiti, sì; o nella Spagnuola, per usare la denominazione del signor almirante; o, per essere più precisi, nella Corte di Guacanagari. —Ah, sì, ora ci sono;—disse Cosma, che proprio aveva l’aria di scendere allora dalle nuvole.—Hai dunque e davvero in mente quella selvaggia? —Una selvaggia, mio caro, che val più di molte dame della civilissima Europa. —Questione di gusti! —E d’occhi, ti prego di aggiungere, e d’occhi che sappiano discernere. So bene che non tutti vedono ad un modo. Ci sono i presbiti, e ci sono i miopi, per esempio. Ma tu, Cosma, che hai un occhio di falco e l’altro di lince, dovresti riconoscere che la figliuola di Tolteomec non è una selvaggia come le altre. Che stupenda creatura! E non ti è mai venuto in testa di raffigurartela vestita come una dama d’Europa? —No, veramente. Ti dirò anzi che non l’ho neanche guardata. —Male!—esclamò Damiano.—Cioè, mi correggo: potresti aver fatto anche bene. —Che discorsi son questi? —Discorsi d’uomo savio.... e stagionato. Diciamo dunque: meglio così; meglio che tu non ti sia fermato a guardarla. Non si sa mai. Or dunque, io, che l’ho guardata moltissimo, e fo conto di non saziarmene mai, me la son figurata in tutte le fogge possibili. Da principio nella foggia di Diana cacciatrice. Con quel suo guarnelletto ai fianchi, con quel manto, o stola che tu voglia dire, gittata con tanta grazia sull’òmero destro e rigirata sul fianco sinistro, mi è parsa veramente la dea delle selve. Ieri ancora glielo dicevo. —E t’ha capito? —Eh, così così. Sai che faccio profitto, nella lingua d’Haiti. È più facile che non credessi a tutta prima. O forse, son questi i miracoli della necessità, quando amore l’aiuta. Abarima mi appariva lassù, da quella macchia che confina col prato, dietro la casa di Tolteomec... Ma tu non conosci abbastanza i luoghi, mio caro. Non importa, del resto; una macchia è sempre una macchia. Abarima usciva dalla macchia, quando io attraversavo il prato, per andarla a cercare. Orbene, lo crederai, o non lo crederai, l’illusione era perfetta; mi parve di vedere Diana, uscente dal limitare della selva, alla ammirazione, alla adorazione dei pastori. —O dei lupi rapaci;—disse Cosma, sorridendo. —Lascia stare i lupi, poveracci! Io, del resto, non sono quella bestia feroce che tu credi. Ti ho detto che amerei quella donna vestita da dama europea. E me la sono raffigurata anche con una gran veste di velluto, o di ormisino, gallonata d’oro, col suo gran vertugadino ai fianchi, per tener larghe le pieghe, una ricca mantiglia sul capo, accomodata sopra una trecciera di perle.... Come dovrebbe star bene! Che portento di gioventù, di bellezza e di grazia, da far morir d’invidia cento donne d’Europa al giorno! —Ci sarà sempre la carnagione,—disse Cosma,—su cui le donne d’Europa potranno ricattarsi. —Che carnagione!—gridò Damiano, facendo una spallucciata.—Quella di Abarima è più chiara, in Haiti, al paragone delle altre. In Europa sarebbe un tantino più carica, darebbe un po’ più nel rosso, ecco tutto. E ti pare un difetto, quello? Il bianco, caro mio, ha un altro difetto, e molto più grave: ti gira troppo spesso nel pallido, nello smorto, nel giallo. Qui non ci sarebbe pericolo. Dunque, dico io, tanto di guadagnato, ad innamorarsi di una pelle rossa. E poi, pensa alle pèsche, alle belle pèsche duràcine della nostra dolce Liguria. È sempre piacevole il pensarci.... fuori di stagione; ti corre l’acquolina alla bocca, e dal palato ti sale alle nari una fragranza soavemente acuta, o acutamente soave, che ti fa raggrinzare il collo e stralunar gli occhi dall’eccesso del piacere. E queste, caro mio, sono le sensazioni che prova il tuo servo umilissimo, quando pensa alla figlia di Tolteomec, alla dolce, alla gustosa Abarima, alla pèsca di Haiti. —Pèsca salvatica, Damiano, pèsca salvatica! —Eh no, Cosma! Questi, se mai, sono selvaggi di un’indole strana. Hai veduto il gran logorare che fanno di erbe aromatiche? Ad ogni momento se ne strofinano le mani. Con certe erbucce fragranti, Abarima si rifà spesso anche la bocca, che non ne avrebbe bisogno. E fa inoltre il suo bagno, sai, quella Diana cacciatrice. Là, nella macchia, è una fontana, una vera conca di smeraldo, e in quell’acqua ella si tuffa ogni giorno. Me lo ha confessato ieri, quando usciva dalla macchia. Ed io ho pensato alla fontana di Valchiusa; ed ho ripetuti a me stesso quei bellissimi versi: Chiare, fresche e dolci acque, Ove le belle membra Pose colei che sola a me par donna! —Povera madonna Laura!—gridò Cosma, rabbrividendo.—Se lo spirito di messer Francesco ti sente, povero a te! —Vorrai dire che mi manderà a graffiare dalla sua gatta? Io invece scommetterei che s’egli vivesse ancora e vedesse la figliuola di Tolteomec, si dimenticherebbe a volo della moglie di Ugo di Sade. Del resto,—soggiunse Damiano,—il valentuomo se n’era dimenticato più volte, quando era vivo. Ci sono delle storie, intorno a quel platonico amatore!... —Senti!—interruppe Cosma.—Non mi guastare la immagine del Petrarca, neanche ad Haiti. La posterità vuol figure tutte d’un pezzo; e il simulacro non deve mostrare la saldatura nè la rappezzatura dell’artefice mal pratico. Sappiamo tutti che ogni metallo ha le sue scorie. Io, per esempio, studiando te, vedo bene dov’è la tua. E un giorno ti credevo più fedele a certe idee!... —Delle quali, se mai, non avevo a star molto allegro!—esclamò Damiano, seccato. —E neppur io;—disse Cosma.—Nondimeno, l’uomo ha da essere tutto d’un pezzo, come la statua di bronzo. —Per che? per chi?—domandò Damiano.—Per la posterità, forse? —No, caro, e risparmia l’epigramma;—replicò l’altro,—Nè tu, nè io, possiamo aspettarci l’ammirazione dei posteri. Ci vorrà pazienza. Ogni uomo, per altro, ogni uomo che pensi ed intenda, ha i suoi giudici.... dentro di sè. Qualunque sia il suo stato e la sua condizione, egli deve poter esser contento, quando rientra in sè stesso ed osserva i suoi atti. —Cavalleria antica!—disse Damiano.—E sebbene incominci a dar giù, è pur sempre una bella cosa; commovente, poi, commovente a quel Dio! Ma io non credo neanche di far contro alla vecchia cavalleria, amando una donna, dopo averne amata.... qualche altra. Una va, e l’altra viene, come le nostre caravelle. La _Santa Maria_ va in pezzi? la _Pinta_ viene al nostro ancoraggio; almeno, così ci si fa sperare, dalle notizie che sono arrivate di lei. Io m’attacco alla _Pinta_.— Cosma stette un pochino in silenzio, guardando il suo amico e concittadino nel bianco degli occhi. —Ma parli proprio da senno?—gli disse finalmente.—Sei veramente innamorato? —Innamoratissimo. —E non per chiasso, come hai fatto.... nelle altre isole? —Oh, credi che questa volta è la buona. _Ultima necat_, come è scritto anche sulle meridiane. Ho ricevuto il colpo qui, al costato sinistro. Son morto; mi seppellisco qui.... e faccio stirpe di re. —Re d’Haiti! —Eh, non posso mica farne una di re di Spagna Nota, mio caro, che qui ce n’è proprio il bisogno. Guacanagari non ha figli. Ma per fortuna non ha figli maschi neanche la sua unica sorella. —Che c’entra questo? —C’entra, per quella benedetta legge di successione al trono, che hanno qui in vigore; una legge che esclude dal trono i figliuoli dei fratelli, perchè, dicono, non ci sarebbe tutta la sicurezza della consanguineità. Ma qui abbiamo un caso speciale. Tra una figlia della sorella di Guacanagari, e una figlia del fratello, spero bene che per una volta tanto si darà la preferenza a quest’ultima, se quest’ultima ha trovato un partito di prima qualità, un _ada Turey_, un figlio del cielo. —Ecco un titolo che tu ti largisci con molta liberalità! —Ce lo dànno;—rispose Damiano.—Accettiamolo, e mostriamo di gradirlo, vestendocene subito. con pompa e solennità. Ritornando al fatto, o al da fare, non ti sembra che io debba operare come ragiono? —Non mi sembra affatto;—disse Cosma.—Ragioni male, e ti proibisco di operare in conformità. —Tu?—esclamò Damiano, stupito —Io, sì, io. —E perchè, se è lecito saperlo? —Perchè non mi piace. —Non ti piace! non ti piace!—balbettò Damiano.—Questione di gusti, mi dirai. Ma questa, caro mio, non è una mela, non è una sorba, non è una susina; e voglio sperare che tu, uomo savio, dei gusti tuoi.... a proposito dei fatti miei.... mi vorrai dir la ragione. —La ragione!—ripetè Cosma.—Potevi dire le ragioni, perchè infatti ce ne sono parecchie. Ma incominciamo dalla prima. Hai sempre sostenuto con me, laggiù, in Europa, che un cavaliere ha da essere costante in amore. —Ti potrei rispondere,—ribattè Damiano,—che di laggiù a venir qua si è passata molt’acqua. E, se Dio vuole, siamo anche agli antipodi. Ma, per tua norma e regola, io non ho mutato opinione: credo alla bellezza, alla bontà, alla necessità morale di essere costanti in amore, quando l’uomo è ricambiato. Il mio non è stato ricambiato; fattelo giudicare da quella corte d’amore che vuoi, da tutti i tribunali di cavalleria che ti parrà di convocare; nessuna corte, nessun tribunale giudicherà che si debba esser fedeli ad una dama, la quale ha lasciato l’uno per l’altro, e tutt’e due per un terzo. Se a te non pare d’imitarmi in questo sentimento di libertà, serviti pure; ma non accusar me di mancamento alla legge.— Cosma rimase muto per un buon tratto; forse cercando argomenti contro la logica del compagno, e non trovandone di buoni, o almeno di tali che si potessero dire, senza offendere l’amico Damiano. Comunque fosse, egli mutò discorso, passando ad un’altra forma di argomentazione. —Dato e non concesso....—diss’egli, dopo quella lunga pausa,—vediamo il caso tuo di qua dall’Oceano. Ci sei venuto libero di cuore, senza i vincoli che avevi l’aria d’imporre a te stesso. Non ischerzi più, non t’innamori per chiasso, come hai fatto nelle altre isole; sei innamorato a buono, di questa principessa Abarima. Vedi? te la fo principessa di schianto. —Lo è, senza la tua liberalità, mio dolcissimo Cosma. —E sia, non letichiamo per queste piccolezze. Mettiamo invece che questa principessa Abarima non volesse saperne di te.... —Sei pazzo? Mi ama. —Te lo ha detto? —Sì, come si possono dire queste cose: ascoltando molto, sorridendo altrettanto, arrossendo spesso, come ad una innocente creatura si addice. —E ad una pelle rossa, non è vero? —Oh senti,—gridò Damiano, stizzito,—se tu credi di farmi un epigramma, ti avverto che questo t’è riuscito senza punta. Anche le pelli rosse arrossiscono, e un attento esame te ne persuaderebbe, come ha persuaso me. Del resto, lasciamo stare il rossore; ci ho anche delle frasi sue, belle e buone, che mi dànno il diritto di credere che sono riamato. Se non ti piace, rincarami il fitto. —Sei dunque felice?—disse Cosma. —Sì....—rispose Damiano.—O quasi. —È già un bell’avviamento;—riprese Cosma, assentendo cortesemente del capo,—Ma se la tua principessa non durasse nell’amore che incomincia a sentire per te?... Queste cose avvengono, lo sai.... anche di qua dall’Oceano. —Non me ne parlare!—gridò Damiano.—Sarebbe una maledizione. —Mi basta che sia una cosa possibile;—disse Cosma.—E se questa cosa si avverasse per te, tu, caro amico, rimasto tra i coloni, tra gli abitatori della fortezza, non potresti più curare il tuo male, partendo. Saresti confinato per sei mesi, per un anno, ad Haiti, bestemmiando la tua risoluzione troppo sollecita, per la quale, a voler dire ogni cosa, avresti anche mancato ad un’altra fedeltà, ad un’altra costanza: voglio dire la fedeltà e la costanza nell’amicizia. Pensaci, Damiano;—soggiunse Cosma, con accento di tenerezza solenne;—noi ci siamo conosciuti in brutti momenti, lo sai. Due altri uomini si sarebbero odiati. Anche noi, da principio, ci eravamo messi su quella via; ma eravamo due cavalieri, e non abbiamo potuto, non abbiamo voluto durarci. E da quel giorno che ci siamo strette le mani, quante ragioni non abbiamo avute noi per amarci! Tutt’e due liberi dalle passioni malvagie di casa nostra, ci siamo trovati d’accordo a compiangerle. C’era una gran cosa da fare, una grande occasione da cogliere, che ai nostri concittadini era parsa una follìa. Ci siamo guardati negli occhi, e abbiamo detto: vogliamo partire noi due? vogliamo almeno partecipar noi ai pericoli e alla gloria d’una impresa che i nostri concittadini ricusano? E la risposta è stata una sola, che uscì da due bocche; partiamo; sempre uniti, nella vita e nella morte, si segua quell’oscuro popolano, il cui animo è così grande, sopra tutti i maggiori della sua terra, ai quali sarà gloria, se la fortuna lo assiste, di potersi dire della sua medesima patria.— Damiano asciugò una lagrima che gli era venuta sugli occhi. —È vero, sì,—rispose egli, commosso,—abbiamo fatto quello che avevamo promesso. Genova, la prima esploratrice del mare tenebroso, Genova che aveva scoperte le Azzorre, Madera, le Canarie e le isole del Capo Verde, le doveva scoprir lei, le nuove terre intravvedute dall’ingegno di un suo valoroso figliuolo! Ma se ella non ha potuto, per le sue eterne discordie, por mente ai disegni di Cristoforo Colombo, non sono vivaddio mancati all’impresa due dei suoi cittadini.... oso dire il fiore dei suoi cittadini. Tanto, non c’è qui nessuno che ci senta.... —I vicini sono in villa!—disse Cosma. —Sicuramente,—rispose Damiano.—Aggiungi che il capo della spedizione, l’uomo che l’ha ideata e così fortemente voluta, è genovese come noi. Siamo in tre, perbacco; _omne trinum est perfectum_; tanto che, vedi, un quarto Genovese guasterebbe. L’onore è salvo; è pensiero Ligure, qui; è fatica di Liguri. —Ah, bene!—gridò Cosma.—T’infiammi? —Si, metto le ali ancor io. Ma tu sei Dedalo, ed io non sono che Icaro. Il volo è fatto; si è fuori del labirinto, lontani da Creta quanto basta. Icaro perde le penne, e dà il suo nome al mare in cui cade. Io dò un tuffo ad Haiti, e mi fermo. L’impresa per cui siamo partiti è compiuta. La nostra società, la nostra _maona_, ha dati i suoi frutti. Tu ritorni, io resto. Perdio! al guerriero che ha combattuto, si concede il riposo. Io riposerò sugli allori. —È la tua risoluzione?—domandò Cosma, accigliato. —Sì, caro; è la mia risoluzione;—riprese Damiano. —Orbene;—ripigliò Cosma;—non è la mia. Damiano si strinse nelle spalle e inarcò le sopracciglia, in atto di dirgli: che importa? Ma l’altro finse di non vedere il gesto canzonatorio, o di non intenderne il significato. —Non voglio,—soggiunse,—che tu rimanga in Haiti. Per il tuo onore, per la tua pace, non voglio. —Ma sai, Cosma, che è una pretensione strana, la tua! Non voglio! non voglio! Tu parli come se tu fossi il soldano d’Egitto, ed io il tuo umile schiavo. —Come ti parrà meglio;—rispose Cosma, inflessibile;—ma io non voglio. —E che diresti se io mi ribellassi? —Mi dorrebbe all’anima, perchè dovrei.... usare la forza. —La forza!—gridò Damiano.—La forza! Tu? con me? Vorrei veder questa!— E si era piantato, così dicendo, davanti a Cosma, con le braccia al petto e i pugni chiusi, come un atleta conscio della virtù de’ suoi muscoli, e pronto a farla sentire. Cosma stette un istante a guardarlo; poi disse: —Vedetelo, l’uomo antico, che scatta fuori dal nuovo. Mi hai provocato, Damiano; ho dovuto parlarti sinceramente. Che cosa sono queste tue smargiassate? questi atteggiamenti da lottatore? Perchè un giorno potevi uccidermi, e non lo hai fatto, credi tu di farmi l’uomo addosso, opponendo braccia a ragioni?— Ma Damiano non lo ascoltava già più. Le prime parole di Cosma lo avevano colpito abbastanza. —Che parli tu dell’uomo antico? che parli tu del passato?—proruppe.—È stata la forza delle cose; è stata la fortuna del momento. A quei giorni, a quelle miserie, io non ci penso neanche. —Ma provi a ribellarti;—rispose Cosma.—E mi sfidi a fare il poter mio per ricondurti in Europa.... —Questo sì;—replicò Damiano—Forza materiale, o forza morale che sia, ti sfido ad usarne. Qui non c’è uomo antico che tenga. Anzi, guarda, facciamo una cosa: immaginiamo di non esserci conosciuti mai, prima di vederci a bordo della _Santa Maria_. Siamo amici, e con pari diritti. Tu fai quel che ti pare, dal canto tuo; ed io dal mio. —Sta bene, ed accetto il partito;—rispose Cosma, chinando la testa. Ma quella chiusa fredda e repentina non piacque troppo a Damiano, che restava al buio di tutto. —Ti ringrazio;—diss’egli, cercando di riappiccare il discorso.—Ma che cosa farai? —Quel che farò non debbo dirlo a te. —Capisco.... parlerai all’almirante. —Non debbo dirlo a te, ti ripeto. Se vorrò parlare all’almirante, non sarai tu che potrai impedirmelo.— Damiano gli diede una guardata in cagnesco; alzò dispettosamente le spalle; fece una giravolta sui tacchi, e si allontanò borbottando. Cosma rimase pensieroso al suo posto. Come lo vide voltato e in atto di andarsene, tentennò malinconicamente la testa, e mormorò: —Che peccato! un cuore così buono, e un cervello tanto balzano! Ma ti aggiusterò io, bambino, vedrai. E tu credi pure che io parlerò all’almirante— _Capitolo XIII._ Come andò che Cosma si risolvesse ad imparare la lingua di Haiti. Damiano si era allontanato dal castello di prora, dove aveva avuto quella lunga ed aspra conversazione col suo concittadino ed amico. Ed anzi, veduto che l’almirante era sceso poc’anzi a terra, non volle rimanere a bordo neppur lui. Chiamata una delle tante piroghe di naturali, che si aggiravano sempre intorno alla caravella, ci saltò dentro e si fece trasportare alla riva. Quelli erano giorni di gran libertà! fuori delle ore di servizio, ognuno faceva il comodo suo. Damiano, del resto, era tra quelli che più particolarmente si occupavano di provvedere a tutto il bisognevole per la costruzione della fortezza. Niente, adunque, era più naturale del vederlo ritornare alla riva. —Vedete che follia!—andava egli borbottando tra sè, mentre gl’Indiani vogavano lesti con le loro pagaie.—Vuol parlare all’almirante! Ah, gli parlerò io prima di te, all’almirante. Ma perchè questo capriccio di farmi ritornare laggiù? Se ci vuole andar lui, buon padrone; io non vedo la necessità d’imitarlo. È un fatto, sì, che io m’infiammo facilmente. Devo averci dello zolfo, nelle vene. Ma finalmente, si vive una volta sola: e quando si ritrova la donna che piace più dell’altre, sia pure in un’isola dell’Oceano, come in una gola dei patrii monti, perchè non ci si fermerebbe, come ci si ferma alla prima frasca, che promette di darvi il migliore della cantina? L’amicizia! L’amicizia! una gran parola, ma vuota!— Damiano tossì, come se non potesse mandarla giù, si rivoltò sul sedile di poppa, e ripigliò il suo monologo: —Non dico che non abbia potuto essere in altri tempi una bella cosa. Fors’anche era più utile, allora. Due amici erano due forze alleate, contro il nemico. E in tempi barbari, di guerra continua, un aiuto scambievole s’intendeva benissimo. Uno teneva ritto lo scudo; l’altro tendeva l’arco e aggiustava la mira. Si veniva ai ferri corti? Quello che aveva spacciato prima il suo nemico, si voltava con un manrovescio addosso al nemico del suo compagno. Una mano lavava l’altra, e tutt’e due il viso. Ma ora?... Ora si combatte in ordine serrato: l’amico è quello di destra, è quello di sinistra, e l’uno e l’altro ci son dati dal caso. Tutti si combatte per la bandiera, e quando la bombarda ha mandato il suo lampo e il suo fumo dalla bocca, tu non puoi col tuo scudo riparare l’amico da una nespola tanto fatta, che manda in pezzi ogni cosa che incontra. L’amicizia è ancora un buon sentimento, di stima, di cortesia, che ci prende, a ragione o a torto, per una persona anzi che per un’altra. Questione di piacerti più o meno una figura, un atto, una parola. Ma perchè questo sentimento nasce facilmente in noi, facilmente si spegne. O se non si spegne, non è neanche troppo forte e profondo. Se è un sentimento forte, diventa esclusivo, e allora addio roba! è la padronanza di un uomo sull’altro. Ed io, perbacco, non sarò mai lo schiavo di nessuno. Amici, sì, per una buona stretta di mano, per darci aiuto all’occasione, per raccontarci, i nostri amori, i nostri sogni, le nostre malinconie; ma fermi lì, con le pretensioni bislacche, i voglio e i non voglio che fanno salire la mosca al naso!— Il monologo finì, come potete immaginarvi, con l’arrivo della piroga alla spiaggia. Damiano balzò dalla piroga sul greto, e si avviò per la costiera al villaggio. Arrivato sulla gran piazza, non poteva trattenersi dal volgere un’occhiata ad una certa casa sulla sua sinistra; un’occhiata di saluto, di adorazione e di desiderio. Le mura che accolgono la donna amata sono sempre il centro dell’universo per noi. Questa è il cardine inconcusso d’ogni scienza, geografica, cosmografica, astronomica. I dotti che la pensano diversamente, sono pregati di andarsi a riporre. —Dolce donna!—mormorò Damiano, attraversando la piazza.—Se tu sapessi quello che io soffro per te! Vogliono portarmi via, capisci? portarmi via, strapparmi da quest’isola di Citèra, dove io ho risoluto di finire i miei giorni.— Mentre così parlava, e teneva gli occhi fissi sulla casa di Tolteomec, una figura di donna apparve sulla loggia, in mezzo al verde intreccio delle piante rampicanti. La riconobbe subito, quantunque egli non avesse gli occhi del suo concittadino Cosma; era Abarima, la pèsca di Haiti, più appariscente che mai, più che mai deliziosa. Anch’essa aveva riconosciuto Damiano, poichè, affacciatasi al parapetto di legno, stendeva il braccio verso di lui, facendogli cenno con la mano, e invitandolo ad accostarsi. Damiano non si fece pregare. Andò, corse sotto alla loggia. Abarima gli sorrideva; Abarima gli rendeva col sommo delle dita il bacio che egli le aveva scoccato in quella medesima forma. E appena egli fu abbastanza vicino, gli gittò queste parole: —Damiano, laggiù, nel bosco; vengo subito a te.— Il nostro Damiano sapeva già tanto di lingua Haitiana per capire quelle parole, e delle altre ancora. Se anche non le avesse capite, il gesto gliele avrebbe spiegate a puntino. Rasentò la casa, riuscì sulla prateria, e in quattro salti fu nella macchia. La fontana era il luogo del ritrovo. Colà egli aveva veduta al bagno quella Diana del Nuovo Mondo, e la bella dea non gli aveva fatta subire la metamorfosi nè la catastrofe di Atteone. Abarima fu pronta a seguirlo nel verde. Venne a lui leggera e sorridente, mise un grido di giubilo e gli cadde nelle braccia. —Dolce donna!—esclamò Damiano, intenerito.—Ed io dovrei abbandonarti? spiccarmi da te? sacrificarti al Moloch dell’amicizia? —Che dice il mio signore?—domandò la bella selvaggia, fissando in lui i suoi grandi occhi d’indaco. —Nulla, nulla, Abarima _taorib_. Parlavo da me, nella lingua del mio paese. Nella tua lingua ti domanderò invece una cosa. Dimmi, _taorib_ fra tutte le _taorib_; mi ami tu?— Abarima chinò la guancia sul petto di Damiano, alzò le ciglia per mandargli di sbieco un’occhiata assassina, e gli disse sottovoce: —Ti amo. —Mi amerai sempre?—riprese Damiano. —Oh sempre, sempre!—rispose Abarima.—E tu? —Io, cara, fino alla morte. Son fatto così, sai; sono stato creato per l’amore costante, eterno, immobile come la vôlta del cielo. Finchè sarà il sole lassù, il mio cuore ti amerà.... Cioè, non diciamo sciocchezze. Io non vivrò quanto il sole. Volevo dirti che ti amerò finchè i miei occhi vedranno il sole, o la luna e le stelle. Bambina dolce, tu sai che il grande Spirito ci ha creati per l’amore. Senza l’amore si vive male; anzi, non si vive affatto. Si è stanchi, fiacchi, svogliati.... —Che dice il mio signore?—domandò ancora Abarima. —Ah sì!—rispose Damiano.—Capisco che vada nel difficile, e non riesco più a farmi capire. Maledette lingue straniere! Se fossi nei panni, anzi no, nella pelle di quello stupido Cusqueia, potrei dirti tante belle cose! Pazienza, vediamo di girare la difficoltà che non si può superare. Abarima _taorib_!—soggiunse Damiano, ritornando alla lingua d’Haiti.—Uomini soli, senza donne, essere stanchi, non desiderare nulla, essere ammalati. Ma quando apparire bella donna, come Abarima, uomini subito ridere, saltare, ballare, come avere buon liquore in corpo. Ah, donne, donne! Sapere voi vostro potere sopra uomo! E ridere, ridere volentieri. Ridere bene, quando avere bella bocca come questa.— Abarima commentava il discorso tripolino del suo innamorato, ridendo veramente di gusto. —Hai capito, ora, birichina?—ripigliò Damiano, nella sua lingua nativa.—Vediamo un po’ se capisci quest’altra. È la lingua universale.... e si parla da labbro a labbro.— Un colpettino leggero, ma pronto, come una zaffata di micio, colse Damiano sulla bocca protesa. Era uno scherzo, non prometteva più aspre difese, e Damiano lo ricevette con buona grazia da quella dolce manina. —Senti,—diss’egli, prendendo quella manina sotto il braccio e mettendosi in atto di passeggiare,—vorrei dirti una cosa importante. Tu sarai mia, non è vero? Tolteomec darà Abarima in moglie a Damiano? —Damiano _ada turey_:—rispose Abarima. —Si sottintende;—rispose Damiano;—ed è una condizione invidiabile, quella di figlio del cielo, a patto che mi faccia ottenere la figlia di Tolteomec. Sappi dunque, Abarima _taorib_.... Vogliono mandarmi in Europa, laggiù, laggiù, dall’altra parte del mare.— Il gesto spiegava le parole che non erano riuscite abbastanza chiare alla bella selvaggia. —_Azatlan_!—esclamò ella, turbata. —Eh! diciamo pure _Azatlan_. Ma non è per me come una casa del diavolo? Io dunque ti dicevo, Abarima, che i figli del cielo ritorneranno laggiù.... nel brutto paese! E vogliono, che Damiano li segua nel brutto paese. —No, no!—diss’ella, stringendosi a lui; sbigottita.—Damiano restare in Haiti, casa Tolteomec. —E sposo ad Abarima, non è vero? —Damiano,—rispose ella,—Damiano è _ada turey_. —E dàlli!—esclamò Damiano, seccato dalla ripetizione.—Non vorrei esser debitore dell’amor tuo a questa condizione privilegiata di figlio del cielo, che ho comune, del resto, con tante birbe matricolate. —Che dice il mio signore! —Niente, niente, Abarima taorib. Dico che tu sei una cara donnina, e che.... Ma senti! Vien qualcheduno.— Si udiva infatti un fruscìo di rami nel bosco. Abarima levò la fronte e tese l’orecchio. —Forse Tolteomec che ritorna da vedere i suoi campi di maiz;—diss’ella. —Ebbene, io ti lascio con lui;—rispose Damiano. —Temi tu di vederlo?—disse Abarima. —No, cara. Lo vedrò volentieri più tardi, nella giornata, quando potrò fargli una certa domanda. Ora, e appunto per te, appunto per quella domanda, vorrei vedere il signor almirante, il capo dei figli del cielo, che il diavolo se li porti.... fatte, s’intende, le debite eccezioni. —Che dice.... —Sì, ho capito «Che dice il mio signore?» Vorrei esserlo già, Abarima _taorib_, il tuo signore, genero di Tolteomec, nipote di Guacanagari, erede del trono di Haiti, e non più condannato a ritornare in quella desolazione dell’abominazione, che si chiama la vecchia, la decrepita Europa. Ora addio, cara; vado e ritorno.— Così dicendo, Damiano si mosse per andare verso il prato. Giunto al limitare della macchia, si volse ancora, gittò il cenno di un bacio alla bella selvaggia, e senza attraversare il prato prese una scorciatoia tra i campi. Gli premeva di giungere alla fortezza e di trovare l’almirante, prima che questi ritornasse alla spiaggia. —Se non lo combino lassù,—diceva egli tra sè—lo vede Cosma prima di me, e mi guasta ogni cosa, con le sue alzate d’ingegno.— Per fortuna sua, l’almirante non era ancora partito dal poggio, su cui già era scavato il fosso e alzato l’argine della fortezza. —Siete qui, voi?—disse l’almirante a Damiano, come lo vide apparire sul ciglio della collina. —Sì, messere, e molto desideroso di parlarvi, da solo a solo, se potete concedermi qualche minuto di tempo. —Tutto il tempo che vorrete, mio caro. Portate notizie di laggiù? —No, si tratta di me. —Sarò felicissimo di ascoltarvi;—disse l’almirante, sorridendo benignamente al suo concittadino. E presolo per un braccio, lo condusse un po’ più in là, dove non potessero i loro discorsi essere uditi dagli uomini che lavoravano all’argine. —Sentiamo che cosa avete a dirmi;—incominciò, per dargli coraggio. —Signore,—disse Damiano,—vi chiedo una grazia, che l’altro giorno mi avevate concessa. —Se io ve l’ho concessa, perchè me la chiedete ancora? Sarà piuttosto il caso di rammentarmela, se mai l’avessi dimenticata. —È giusto, perdonate. Ma sono tanto confuso! ed è così forte in me il desiderio di restare alla Spagnuola! —Ah sì.... ricordo;—disse l’almirante;—nel presidio della fortezza, in questo principio di colonia cristiana. Ma siete voi proprio risoluto? Non è un capriccio passeggero? Son cose gravi, e bisogna pensarci due volte. —Ci ho pensato, mio signore. —Ed anche avete pensato che voi potreste restare lungamente senza alcuna novella di noi? Rimanere alla Spagnuola, ritornare in Ispagna, sono due partiti egualmente pericolosi. Se noi non potessimo recar nuove della nostra scoperta in Europa, che sarebbe di questa colonia? Certo, varrà sempre meglio,—disse l’almirante,—esser vivi e sani in quest’isola, che sepolti negli abissi dell’Atlantico. Ma un troppo lungo soggiorno qui, senza novelle di casa, e nella incertezza dolorosa di non averne mai, potrebbe anche farvi pentire di una risoluzione come questa che voi mi accennate. —Signore, voi giungerete al lido di Castiglia e avrete il premio delle vostre fatiche. Iddio non vi ha condotto fin qua perchè sia vana l’impresa maravigliosa a cui vi aveva destinato. E non solo la Spagna, ma tutto il mondo cristiano saprà che voi avete lasciata qui una parte dei vostri. —Vi ascolti il cielo;—rispose l’almirante.—La vostra risoluzione è dunque irrevocabile? —Con vostra licenza, mio signore, sì;—disse Damiano. —E siate contento;—ripigliò l’almirante.—Poichè una colonia si fonda in quest’isola, è bene che ci sia qualcheduno di cui io possa maggiormente fidarmi. E di chi mi fiderei io veramente, se non di voi, o del vostro amico? Restate dunque, messer Damiano. Ma quale uffizio vi daremo noi qui? —Qualunque esso sia, lo accetterò di buon grado. —Bene; vi metteremo dunque per aiuto a Diego di Arana. Sappiate che il nostro capo di giustizia rimane volentieri. Egli stesso si è offerto, e la proposta sua mi ha levato da un grave impiccio. Lo Spagnuolo, per comandare a Spagnuoli, è dunque trovato. Così voi, messer Damiano, potrete rimanere suo primo uffiziale, senza dar gelosie. —Io vi ripeto, signore,—disse Damiano, gongolante di gioia,—qualunque uffizio, anche il più umile, mi basterebbe. Ma vedrò di tener degnamente quello che voi mi avete conferito. Ho dunque la vostra parola, che io resterò nella colonia? —L’avete;—rispose Cristoforo Colombo.—Ma perchè dubitate? —Perchè.... vedete.... a voi non voglio tacer nulla.... Cosma, l’amico mio, si è messo in testa che io ritorni in Europa. —L’amicizia ha i suoi diritti, o le sue pretensioni;—disse l’almirante.—Potete cedere, potete resistere; ma dovete sempre intendere le ragioni che muovono un amico a consigliare in un modo, anzi che in un altro. —Le intendo, sì; ma gli è come se non le intendessi. Io amo restare a terra, per ora. Debbo io dirvi tutto, mio signore? Dopo aver corsa tant’acqua, non me la sento di correrne altrettanta. Quantunque Genovese, sono un marinaio.... d’acqua dolce. —Eh via! non vi calunniate;—disse Cristoforo Colombo, sorridendo.—Vi ho veduto alla prova, ed eravate invece dei buoni. Certo,e questo io l’avevo subito indovinato, voi non siete uomo d’albero; ma per gentiluomo di poppa, o d’arrembata, andreste benissimo. Dio sa quanti dei vostri vecchi, messer Damiano, han comandato galere!— A questo accenno non credette opportuno di rispondere quell’altro. —Voi dunque intendete la ragionevolezza del mio desiderio;—diss’egli.—Ed ancora ammetterete che qualche persona di garbo, capace di stringere buone relazioni con questi naturali, possa giovare. —Questo, poi, non solamente lo ammetto, ma lo desidero e lo spero. Una colonia come la nostra non potrebbe prosperare che a questi patti. Siamo venuti tra gente buona, degna di trovare amici e protettori, non padroni ed oppressori. Voi parlate secondo il mio pensiero, messer Damiano; ed io, non che concedervi di recare, mi rallegro che me lo abbiate domandato. È grazia che voi fate a me, non io a voi.— Damiano non capiva in sè dalla gioia. Se non fece un salto davanti al suo grande concittadino, mettete pure che gliene mancasse il coraggio, perchè la voglia c’era tutta, e vivissima. —Ed ora,—diss’egli dentro di sè,—mio caro Cosma, farai quel che ti pare; io non ho più paura di niente; sono ormeggiato in barba di micio.— Quella notte, per cansare le occasioni di discorrere con l’amico, Damiano si fermò con la squadra degli uomini che dormivano a terra. S’intende che andò a dare nella sera una capatina alla casa di Tolteomec. Il vecchio fratello di Guacanagari era seduto accanto all’uscio, in atto di prendere una boccata d’aria vespertina; ma nel fatto ne prendeva parecchie di fumo da una foglia aromatica che teneva arrotolata ed accesa fra i denti: la foglia che sapete, e per cui si era rivoltato, a Cuba, lo stomaco del nostro Damiano. Salutato il suo futuro suocero, e accolto da lui con paterna amorevolezza, Damiano ricusò il tabacco di Tolteomec, ma accettò qualche goccia di un liquore che per ordine del vecchio gli era ministrato dalla leggiadra Abarima. E lì, seduto anch’egli sul limitare della casa, stette a prendere il fresco; da prima beandosi negli occhi d’indaco della fanciulla, poi, essendo sopraggiunta la notte, contentandosi di ammirare i contorni della sua graziosa persona. La scena era patriarcale; ma appunto perchè c’era il patriarca, e non accennava mai di andarsene, Damiano non fu contento della sua serata com’era stato contento della sua mattinata. Ed anche Abarima doveva sentire la differenza dal giorno chiaro alla sera, dalla fontana alla piazza, perchè era taciturna, ed appariva anche impacciata. Parlava il vecchio, e per lei e per Damiano. E tra le molte cose che disse, ci fu l’invito al figlio del cielo di passar la notte nella sua casa. —Una stoia non manca mai per il forestiero.—diss’egli. Damiano accettò con giubilo. In fin dei conti, il patriarca era un buon diavolo. —Sii dunque il ben venuto;—soggiunse Tolteomec.—Noi faremo in modo che i tuoi sonni non siano molestati. Nella mia stessa camera ti sarà apprestata la stoia.— A mala sorte buon viso, dice un proverbio. E Damiano, un po’ seccato dalla troppa bontà dei patriarchi, doveva meditare quel proverbio per tutta la notte. Il vecchio Tolteomec sarebbe stato un buon compagno di camera per un ammalato, ed anche per uno che soffrisse di nervi. Non russava, nè alto, nè basso, nè squillante, nè sordo; aveva il sonno leggero come i bambini lattanti. Ad ogni voltarsi di Damiano sulla stoia, si sentiva la sua voce sommessa che domandava dall’altro canto della stanza: «Che hai, figlio del cielo? Non puoi dormire? Vuoi tu qualche cosa? La mia casa è tua. Sia con te il grande Spirito; allontani il mal occhio da te» ed altre cosette ugualmente graziose, ugualmente piacevoli. Damiano mandò con tutta l’anima il suo ospite in un’altra casa, che non era neppur quella del grande Spirito. Ma questi voti del cuore, si sa, non sono mai esauditi dalle potenze invisibili. Damiano si adattò a non muoversi più, e risolse di dormire. Rabbia impossente, stanchezza fisica, gioventù e sanità di corpo, fecero presto il miracolo. Damiano si addormentò per uno, e russò ferocemente per due. La mattina seguente si destò forse un po’ più tardi dell’usato. E si capisce; non aveva intorno i compagni a far rumore, a guastargli il sonnellino d’oro. Regnava nella casa di Tolteomec un religioso silenzio; era ospite il figlio del cielo, e il figlio del cielo dormiva; bisognava dunque andar tutti in punta di piedi, parlare a bassa voce, per non disturbare i sonni del figlio del cielo. E non bastava ancora. Quando il nostro Damiano si alzò a sedere sulla stoia, e si fu strofinati gli occhi col dorso della mano, vide nella stanza, vigile custode, pronto ai suoi desiderii, il vecchio Tolteomec, il patriarca, il fratello del re. In verità, Damiano era trattato da principe; avrebbe avuto il torto, a dolersi; avrebbe dato prova di cattivo carattere. E questo, egli lo capì tanto, che si trattenne fra i denti una preghiera mattutina già pronta a scattar fuori; anzi, mutò quella preghiera in un sorriso, tra il pallido e il verdognolo, ma pur sempre un sorriso. Damiano uscì dalla camera, e Tolteomec lo accompagnò fino al limitare della casa. Damiano andò verso il prato, e Tolteomec lo seguì. Damiano si pose a sedere sotto un palmizio, e Tolteomec si assise a due passi da lui, guardandolo negli occhi, come è dovere del padrone di casa, quando ha da interpetrare, da cogliere a volo i desiderii del suo ospite. —Ma non ha dunque nulla da fare, questo.... fratello di re?—domandò Damiano a sè stesso.—Non c’è uno straccio di consiglio di stato, a cui egli debba assistere, come uno della famiglia?— Chi domanda una cosa a sè stesso non la domanda a nessuno. Damiano si provò ad interrogare il padrone di casa. —Tolteomec, lume dei savi,—gli disse,—tu ti prendi molta cura di me. Il mio cuore te ne ringrazia. Ma oggi, per cagion mia, tu non sei andato nella casa reale, per assistere alla levata del gran sole di Haiti. —È vero;—rispose Tolteomec.—Ma il gran sole è buono. Egli non mi avrebbe veduto volentieri in sua casa, sapendo che io avevo ospite nella casa mia un figlio del cielo. —Ah sì, capisco;—disse Damiano.—Gli hai mandato a dire che io ero tuo ospite. —Così ho fatto,—rispose il vecchio, ridendo, come l’uomo che gode in cuor suo della propria intelligenza,—e Guacanagari se n’è mostrato contentissimo. —Grazie anche a lui!—conchiuse Damiano.—Voi siete i migliori tra gli uomini.— Damiano frattanto volgeva gli occhi intorno, cercando qualche cosa, ma senza farsi scorgere troppo. Egli temeva infatti che quell’intelligentissimo vecchio gli facesse qualche altra domanda. E perchè Tolteomec, sempre seduto accanto a lui, non accennava a spiccarsi di là, Damiano fece un altro ragionamento tra sè: —Certamente questo figlio della terra si è insospettito, ha indovinato le mie intenzioni. Ma esse, in fin dei conti, sono purissime. Voglio diventare suo genero, per bacco. Ma questa mattina egli è stato tanto noioso, che non gliene voglio dir nulla. No, sarebbe una debolezza, una viltà, comperare la pace di un’ora con una confessione di questa fatta. E poi, la sua vigilanza non cesserebbe mica per questo. Nei nostri paesi, quando uno ha chiesta la mano di una ragazza, o i parenti gliel’hanno accordata, proprio allora incominciano a guardarla con maggiore attenzione, a tener d’occhio il fidanzato, a far muso arcigno per ogni parola che dica, per ogni atto che accenni di fare. Son tutti selvaggi, nel mondo. E fanno bene, bisogna riconoscerlo, fanno bene. Con certi cacciatori nella macchia, non si è mai selvaggi abbastanza.— Egli aveva appena finito di dar ragione a quel lume dei savi, a quella perla dei padri, che un servo apparve nel prato, con una gran foglia di palma disseccata e foggiata ad ombrello. Tolteomec lo vide e si alzò. —Devo partire;—diss’egli.—Il sole è già alto e sarà necessario ch’io vada. —Vai via?—chiese Damiano, con la ipocrisia naturale di simili occasioni. —Sì,—rispose Tolteomec,—un buon padre deve invigilare la terra che dà il sostentamento alla famiglia; l’occhio del padrone fa prosperare il suo campo. —Ah, bene! e ti lodo;—disse allora Damiano, facilmente persuaso da quelle savie massime di economia domestica. —Andiamo dunque;—ripigliò Tolteomec.—Mi duole di lasciarti, figlio del cielo; Abarima ti terrà compagnia, fino a tanto ti piacerà di restare. Ma capisco che anche tu avrai da lavorare. Dobbiamo tutti lavorare, finchè il grande Spirito ci mantiene in vita. —Già!—disse Damiano.—Anch’io dovrò andare.... fra poco. —Ma dov’è quella cara figliuola?—soggiunse il patriarca.—Abarima! Abarima! Sarà alla fontana, m’immagino. —Lasciala stare; aspetterò, per salutarla —No, ella deve esser qua. Abarima!— La fanciulla era andata per l’appunto alla fontana. La voce del padre la richiamò tosto verso la casa; e Damiano e Tolteomec la videro apparire sul limitare della macchia. Saltellante, graziosa nelle movenze come una gazzella, accorse ella, stringendosi i capi della sua breve mantellina intorno alla vita, e venne a ricevere sulla fronte il bacio di suo padre. —Mia dolce figliuola!—mormorò il vecchio.—Amore di Tolteomec! —E di tutti coloro che la vedono;—soggiunse Damiano, parendogli che in quel punto non disdicesse una frase galante. —Sì, bella e buona;—rispose il vecchio.—Ora io vi lascio. Tu, Abarima, offrirai il pane di cassava al nostro ospite, e i frutti più saporiti. Egli partirà, perchè il suo lavoro lo chiama alla gran casa dei figli del cielo; ma se vorrà ritornare per il pasto della famiglia, sarò felice di vederlo alla mia tavola.— Damiano era felice. Incominciava a veder volentieri quell’Argo, quell’Acrisio selvaggio, ed anche a capire che tanta vigilanza su quella Danae dalla pelle rossa non era cosa pensata, ma effetto casuale della sua sollecitudine eccessiva per l’ospite. Rimasto solo con la bella Haitiana, il nostro Damiano si disponeva a far vendetta allegra di tutte le ore che aveva dovuto passare senza vederla. —Vieni,—diss’ella,—il pane di cassava ti attende. —Non ho fame;—rispose Damiano. —È caldo di questa mane, vieni;—ripetè la fanciulla. —Non ho fame, Abarima;—replicò Damiano.—Bene ho desiderio di guardarti negli occhi. Sai che non ti ho più veduta da ier sera? Vieni, _taorib_ Abarima; andiamo lassù alla fontana. Ci dev’essere una così grata frescura! —No,—disse Abarima,—ne son venuta or ora, e l’aria è troppo fredda, nel bosco. Restiamo qua, se non vuoi rientrare nella casa di Tolteomec. Il sole mi fa bene. —Il sole ti bacia;—disse Damiano, accostandosi, e involgendola tutta d’una sua languida occhiata. —Bacia tutti, il sole;—rispose Abarima, crollando il capo, come se non gradisse, o non intendesse la galanteria di Damiano. —Ho capito;—pensò egli, stizzito.—Oggi non è come ieri. La dolce Abarima non ha dormito bene, stanotte; fors’anche ha sognato uno scorpione, od altra bestia di mal augurio.— Poi, rivolgendosi alla fanciulla, le disse: —Sai, Abarima, la grande notizia? Io rimango in Haiti. La cosa è stata risoluta ieri. Resterò con la nostra gente, che difenderà questo popolo dalle incursioni dei feroci Caribi.— La fanciulla sgranò tanto d’occhi, sorrise e battè palma a palma, con atto di gioia infantile. —Vero?—diss’ella. —Verissimo; non posso più dubitarne, poichè il capo dei figli del cielo mi ha data la sua promessa solenne, mettendo la sua mano nella mia.... così, come io faccio con te, Abarima _taorib_. —Lascia! tu stringi troppo forte;—disse Abarima, ridendo.—E le tue mani sono troppo ardenti. —Mani d’innamorato, mia cara. —Va,—disse Abarima,—va là in fondo al prato, e coglimi di quei fiori. Voglio farne una ghirlanda. —Non vuoi altro?—rispose Damiano.—Ti servo subito.— E spiccato un salto, andò in fondo al prato, dove incominciò a cogliere, a strappare quanti rami fioriti gli vennero alle mani. —Non tanti! non tanti!—gridò Abarima.—Basta così.— Damiano ritornò a lei con una bracciata di fiori e di foglie. —Per una ghirlanda son troppi;—disse la bella Haitiana, ricevendo il presente. —Butterai quelli che non ti serviranno;—rispose Damiano.—Purchè tu non butti via il mio cuore!— La capricciosa fanciulla finse di non aver udite le ultime parole del suo innamorato; e con molta gravità si diede a scegliere i tralci d’una specie di vitalba, con cui voleva fare la trama della sua ghirlanda, per innestarvi i fiori più belli. Damiano, seduto accanto a lei, contemplava, e contemplando aspettava. —Dunque,—disse Abarima, mentre seguitava il suo lavoro;—tu resti in Haiti. E chi sarà il capo dei figli del cielo? —Diego di Arana, il giudice... quello che fa giustizia, quando alcuno trasgredisce le leggi. —Non lo conosco;—disse Abarima. —Egli non è mai venuto nella casa di Tolteomec;—rispose Damiano.—È stato ospite di Guacanagari. È un uomo magro, lungo, con una barba nera nera. —Non sarai dunque tu, il capo?—ripigliò la fanciulla. —No, io sono.... troppo giovane;—disse Damiano.—Ma sarò il suo primo ufficiale; comanderò io, dopo di lui.— Non c’era male, per la sua età; ed Abarima mostrò di capire che Damiano diventava un personaggio importante nella colonia, anche restando al secondo posto. —Sarò tra gli uomini bianchi,—soggiungeva Damiano,—come Tolteomec fra gli abitanti di Haiti. Dopo Guacanagari, il gran sole, è Tolteomec, lume dei savi, il più ragguardevole capo di questa terra.— Abarima lo stava a sentire, continuando a tessere la sua ghirlanda. —E il tuo amico,—diss’ella,—che posto avrà? il terzo o il quarto? —Il mio amico!—ripetè Damiano.—Chi sarebbe egli? —Cosma;—rispose Abarima. —Cosma!... lo conosci tu? —Mi pare. Non è quello che è venuto a cercarti nella casa di Tolteomec, quando per la prima volta sedevi alla nostra tavola? —È vero, sì, hai ragione;—disse Damiano.—Guardate che buona memoria, in questa bella testina! Ella ha ritenuto anche il nome del mio compagno. No,—soggiunse egli allora,—Cosma non resta in Haiti; Cosma ritornerà in Azatlan. —Male!—esclamò la fanciulla.—Gli amici buoni devono restare sempre uniti.— Il ragionamento di Abarima parve a Damiano la voce della sua propria coscienza. E gli risuonò nel profondo dell’anima, e gli diede noia come tutti i suoni repentini, specie quando sono anche squillanti. —Lo so,—diss’egli, contorcendosi un poco,—ma che ci vuoi fare, mia bella? Egli non ha per restare le stesse ragioni che ho io. —E quali sono le tue? —Veramente,—soggiunse Damiano,—si restringono ad una. Ti amo, e voglio averti mia. Consentirai tu al mio desiderio, Abarima _taorib_? —Tolteomec comanda;—rispose Abarima, chinando la fronte. —È giusto;—disse Damiano.—Parlerò quest’oggi a Tolteomec. —Non oggi, non oggi;—gridò prontamente Abarima. Damiano rimase un po’ sconcertato, guardandola. —Non oggi?—ripetè.—Sia dunque domani. —No, non domani, non subito;—rispose Abarima sollecita.—Per dare la sua figlia ad un uomo, Tolteomec deve invocare il grande Spirito. —Ah!—disse Damiano.—È il grande Spirito che fa i matrimonii, nell’isola di Haiti? —Sì,—rispose Abarima.—Il grande Spirito sa tutto. Il grande Spirito solo può dire se l’unione di due creature deve essere felice. —È naturale, se egli sa tutto;—conchiuse Damiano, un pochettino umiliato.—E capisco che dovrò farmi divoto del grande Spirito, per ottenere il suo responso favorevole. Ha egli i suoi ministri in terra, ai quali si possa parlare?— Abarima non intese la domanda. Parecchie cose non intendeva, nei discorsi di Damiano. E ciò accadeva molto facilmente, perchè non sempre Damiano aveva pronta la parola in lingua Haitiana, o perchè, avendo pronta la parola, non gli veniva egualmente giusta la frase. —Basta,—diss’egli, conchiudendo,—vedremo ad ogni modo Tolteomec. Sono impegnato al giuoco, e intendo di guadagnar la partita.— Poco dopo, vedendo che la bella Abarima non si muoveva dalle vicinanze della casa, e pensando che la sua presenza poteva essere desiderata altrove, si alzò e prese commiato. —Che dirò a Tolteomec?—domandò la fanciulla.—Che tu ritornerai per il pasto? —Se potrò.... se ti farà piacere che io torni....—balbettò Damiano. —Tolteomec sarà contentissimo;—rispose Abarima. —Ebbene, farò questo piacere.... a Tolteomec;—conchiuse Damiano.—Abarima, Abarima! tu non sei oggi come ieri. Ma già—soggiunse egli, nel suo vernacolo,—son pazzo io a volere che una donna sia due giorni alla fila dello stesso pensiero. Questa qua aspetta che il grande Spirito abbia dato il responso. Sente il marito in aria, e si tiene in riserbo.— Uscito sulla piazza del villaggio, Damiano si abbattè in Cusqueia. Il naturale di Cuba andava impettito e superbo, argomento di ammirazione a tutti i sudditi di Guacanagari, per una camicia bianca che aveva indossata. Damiano non aveva mai veduto Cusqueia in quell’arnese. Non sapeva, non avrebbe immaginato mai, che l’interpetre di Cuba possedesse una camicia. —Ma bene, Cusqueia!—gli disse, rispondendo al suo saluto.—Chi ti ha vestito così nobilmente? —È stato Cosma;—rispose Cusqueia, facendosi bello. —Cosma!—esclamò Damiano, inarcando le ciglia.—Cosma, che ha due sole camicie nel suo fardello, come tutti noi, del resto.... Cosma ne ha data una a te? —Cosma buono!—rispose Cusqueia. —Eh, non dico di no; ma quale servizio gli hai reso, per meritarti la sua camicia..... di rispetto?— L’interpetre, naturalmente, non capì il «rispetto» con cui i marinai genovesi intendevano ed intendono ancora di dire «ricambio». Ma intese sempre ad occhio e croce il pensiero di Damiano, e ingenuamente rispose: —Cosma impara lingua di Haiti. Ieri, appena ritornato dalla fortezza, Cosma cercò amico Cusqueia, dicendogli: voglio imparare tua lingua. —Ieri!—esclamò Damiano.—Ieri Cosma è disceso a terra? —Sì, Cosma disceso; Cosma salito al _bohio_ di Guacanagari; poi venuto cercare Cusqueia, per imparare lingua di Haiti. —Strano!—mormorò Damiano.—Ed io non l’ho veduto. È vero che io sono andato alla fortezza un po’ tardi. Ma egli poteva andare prima di me dall’almirante; e non c’è andato. Se ci fosse andato, me ne sarei avveduto dai discorsi del nostro grande concittadino.— Tutti questi ragionamenti interiori non cavavano un ragno da un buco. Damiano rinunziò a capir la ragione della gita di Cosma. —E tu?—diss’egli allora a Cusqueia.—Che cosa hai fatto? —Io ho insegnato a Cosma: tante parole, come a te. Cosma le ha scritte, coma hai fatto tu. —Ah, bene!—borbottò Damiano;—Cosma vuol fare un gran profitto in breve ora.— Ma che altra novità era quella, che Cosma volesse imparare la lingua di Haiti? Scendere a terra, senza averne accennato pur l’intenzione, non era ancor nulla a petto dello studio d’una lingua, per cui non aveva mostrata mai nessuna propensione. L’idea di muoversi da bordo poteva essergli venuta lì per lì, forse per seguire e per vigilare l’amico, o per andargli a fare un cattivo servizio presso l’almirante. Questo, anzi, egli lo aveva lasciato capire abbastanza. Sceso a terra, si era pentito; non aveva spiato Damiano, non aveva cercato di parlare all’almirante; e questo vero o falso che fosse, si poteva argomentare dal fatto. Ma imparare la lingua di quei selvaggi, e proprio sugli ultimi giorni di dimora in quell’arcipelago, era un negozio molto più difficile ad intendersi. Damiano non poteva aver pace, fino a tanto non ne vedesse l’acqua chiara. Ritornò a bordo. Cosma era là, occupato a lavare il cassero di poppa; e pareva che esercitasse il comando, tanta era la dignità con cui adempieva l’uffizio. —Buon giorno;—gli disse Damiano. Cosma alzò gli occhi, e guardò in faccia l’amico. —Buon giorno;—gli rispose poi, adattandosi a quell’eccesso di cortesia, che veniva sei ore dopo la diana. —Che cos’è che mi ha detto Cusqueia?—riprese Damiano.—Tu impari la lingua di Haiti? —La imparo;—rispose Cosma, con breviloquenza spartana. —E perchè.... se è lecito saperlo? —Per due ragioni;—disse Cosma.—In primo luogo per legittimo desiderio d’istruirmi. E poi.... te l’ho a dire? —Dillo, in nome di Dio. —E poi, perchè ho cambiato opinione. L’Europa dà noia anche a me. —Ah! —Sicuro; e ancor io voglio restare in Haiti.— _Capitolo XIV._ In che salsa vanno accomodati gli amici quando ci guastano le uova nel paniere. Damiano si aspettava di tutto, fuorchè quella notizia, ricevuta così a bruciapelo dal suo dilettissimo Cosma. O, per dire più veramente, se anche un vago sospetto di quella novità gli era venuto allo spirito, egli si aspettava di tutto, fuorchè di sentirselo confessare con tanta tranquillità. Ma perchè gli tornava così ostico che Cosma avesse deliberato di restare? Non restava ancor egli? E non era naturale che, vedendo lui tanto fermo nel suo proposito, Cosma avesse finito con adattarsi alla medesima fine? Tutto considerato, si poteva ricostituire benissimo la serie di argomentazioni per cui era passato l’amico. Da principio aveva tentato di persuadere Damiano a ritornare in Europa; poi si era stizzito vedendo la sua ostinazione, e aveva lasciato trapelare il disegno di ricorrere all’autorità dell’almirante. Di lì la risoluzione di scendere a terra anche lui, e di salire alla fortezza, dove l’almirante era andato. Ma per via si era pentito, o perchè gli paresse che le sue ragioni non sarebbero bastate a muovere l’almirante, o perchè temesse di render ridicolo il suo compagno, con la esposizione di quelle ragioni. E allora, non sapendo più a qual santo rivolgersi, era avvenuto a Cosma un quissimile del caso del profeta Balaam, che, andato per maledire, si era voltato di schianto a benedire. Damiano voleva restare ad ogni costo? Ebbene, non bisognava lasciarlo solo in quella terra lontana; anche Cosma, il vecchio amico, sarebbe rimasto laggiù; e la sua risoluzione avrebbe fatto arrossire di vergogna l’ingrato Damiano, per cui Cosma si disponeva ad un sacrifizio così grande. Questa risoluzione tornava sicuramente a grande onore dell’amicizia. Si era detto, nei tempi antichi, Damone e Pizia, Niso ed Eurialo, Oreste e Pilade; si sarebbe detto, nei tempi moderni, Cosma e Damiano. È sempre bene che certi tipi, belli ma antiquati, si rinnovino, in quella stessa guisa che si rinfrescano i vecchi dipinti. Eppure, no, la ricostituzione delle fasi psicologiche per cui poteva esser passato Cosma, non finiva di persuadere Damiano. Egli sentiva Cosma, da parecchio tempo, come uno che gli vogasse sul remo. Senza volerlo, sì, forse; ma infine, non è necessario che uno sia innocente dell’averci pestato un piede, se ci dà noia e dolore pestandolo; e tutti abbiamo in uggia il nostro compagno di passeggiata, che, senza farlo a posta, solo per vizio d’abitudine, ci dà l’eterno colpettino sul braccio. Damiano, adunque, sentiva da qualche tempo riuscir molesto l’amico. La noia che Cosma gli aveva data in altre isole non poteva dargliela pure in Haiti? E qui certe idee vaghe, ma dolorose, passavano per la mente di Damiano. Abarima che sapeva il nome di Cosma.... E perchè ciò? Come poteva ella ricordarlo, avendo veduto una volta sola, e alla sfuggita, l’amico di Damiano, mentre questi non ricordava di averne proferito il nome, vedendolo apparire nella sala del convito? E poi, quel desiderio, manifestato da lei, che Cosma restasse! Gli amici dovrebbero star sempre uniti; bella ragione! Ma deve passare per la mente di una donna, che ami l’uno dei due? L’opposto dovrebbe essere, precisamente l’opposto. E finalmente, quella discesa di Cosma a terra, subito dopo di lui, ma senza lasciarsi vedere da lui!... Abarima diventata ad un tratto così capricciosa, che non pareva più quella del giorno innanzi!... Il rumore venuto dal bosco, dove ella non aveva voluto più ritornare con Damiano!... Ah, per tutti i diavoli!... Lettori, vi è mai avvenuto di almanaccare su certi fatti che vi riguardassero, e di cui non sapeste darvi ragione? Voi mettevate in fila tutte le ipotesi più ragionevoli, facevate le deduzioni più logiche, ricavandone una spiegazione naturalissima del problema che vi affaticava lo spirito. Un matematico se ne sarebbe contentato; voi no. Voi andavate a cercare un fatto da nulla, quasi un fuscellino dimenticato per via, e su quello fondavate un altro ragionamento, più leggero, più sottile, più vano. Ed era quello che vi contentava di più. Perchè ciò? perchè un vago sospetto, un presentimento sordo, come la voce dell’istinto, vi diceva: la traccia è quella; tutto il resto è.... logica; e la logica, in questa materia, non serve. —Ah, per tutti i diavoli!—aveva detto Damiano, tra sè, mentre uno sprazzo di luce ideale gli balenava alla mente.—Se è così come io vedo, ti aggiusto io, bell’amico.— Quell’altro, stando sempre a capo chino, rovesciava acqua a secchie sul tavolato del cassero, e subito dopo ripigliava a lavorare di strofinaccio. La posizione non si poteva tenere, col pericolo continuo di essere innaffiati come gambi di cavolo. Damiano colse l’occasione d’uno spruzzo che gli era venuto più vicino; e borbottando ridiscese dal cassero di poppa nella corsìa. Ivi si trattenne un pezzo a far le volte del leone, seguitando a svolgere la sua coroncina. Non erano avemmarie nè paternostri, come vi potete immaginare. —Ah sì, eh? Mi guasti le uova nel paniere? Vedrai, vedrai in che salsa ti accomodo. Perchè, non c’è dubbio, egli ha veduta Abarima.... Questa volta, per altro, è arrivato un po’ più tardi del solito. Sono meglio avviato, qui, che non fossi a Cuba. Ma qui mi preme assai più di vincere il giuoco. Fossi pazzo!... Ho detto di voler diventare l’Infante di Haiti, il principe ereditario..... e vivaddio, lo sarò, in barba a tutti i biondi dell’universo. Purchè quell’altra non sia rimasta stregata dai suoi capelli d’oro!... Strano, del resto, questo capriccio delle donne, al Nuovo Mondo! Hanno l’oro a bizzeffe, lo dànno in cambio del vetro e del bronzo, e rimangono incantate davanti a quattro fili di quel colore. Ma non corriamo tanto coi sospetti, via! Abarima non ha ancor lasciato trapelare di avere di questi gusti sciocchi. Comunque sia, qui bisogna lavorare di fine, mio caro Damiano; «qui si parrà la tua nobilitate.», come ha detto il poeta.— Così mulinava Damiano dentro di sè, quando vide Cosma che scendeva dal cassero di poppa. Non volle più rimanere, e si affacciò al capo di banda, per chiamare una piroga delle solite, che si aggiravano intorno alla _Nina_. Cosma si fermò presso di lui, in atto di voler appiccare discorso. Ma egli non aveva nessuna voglia di tenergli bordone. —Ti saluto;—gli disse. —Te ne vai? —Sì, vado a terra. —Bravo! e dàtti bel tempo. —Che credi?—brontolò Damiano, seccato di quella licenza.—Che ci sia solamente da sollazzarsi, a terra? Ho il mio da fare, lassù. Non debbo anche prepararti l’alloggio? —A me?—disse Cosma. —Certamente. Non mi hai annunziato poc’anzi che hai mutato opinione, e che vuoi restare alla Spagnuola anche tu? —Ah sì, è vero;—rispose Cosma, che aveva l’aria di risovvenirsi in quel punto.—Ma tu parlavi di un alloggio per me; ed io mi contento di poco! —Sei camere ti bastano? —Anche dodici. —Benissimo; le avrai.... E la tredicesima, per il buon peso.— Ciò detto per metà ad alta voce, e trattenendo il resto nella chiostra dei denti, Damiano scavalcò il capo di banda e saltò nella piroga. —Ora, facciamo giudizio;—mormorò egli mentre lo schifo scivolava leggero sull’acqua.—Prima di tutto, niente a quella capricciosa principessa, che possa metterla in sospetto. Già, col poco che so della lingua di Haiti, potrei fare poco lungo discorso; non potrei di sicuro addentrarmi nelle sottigliezze di una conversazione agrodolce.— Prima ch’egli giungesse al _bohio_ di Guacanagari, Damiano aveva stabilito il suo disegno di battaglia. Per verità, egli si disponeva ad usare di tutte armi, e la coscienza gli rimordeva un pochino. —Oh, infine!—esclamò, dando una scrollata di spalle.—La mia è difesa legittima. Un uomo mi vuol mettere il piede addosso, ed io non devo mandarlo a gambe levate? S’intende che io metterò mano agli estremi spedienti solo nel caso che egli abbia veduta Abarima. Se l’ha veduta, il suo intento di nuocermi è chiaro, ed io non debbo più usare riguardi.— Si, tutto bene; ma come sapere se Cosma avesse veduto Abarima? Sospettarlo non bastava; era necessario di averne certezza. Ora, con una donna, sia pure selvaggia, non c’è mai verso di sapere quel che vi preme. Le accennate in coppe, vi risponde bastoni. Poco sicuro del modo in cui avrebbe condotte le prime avvisaglie, Damiano salì al villaggio di Guacanagari; e come fu sulla piazza, si volse alla casa di Tolteomec. I servi stavano certamente in vedetta, perchè due naturali, che si stavano soleggiando all’aperto, entrarono subito in casa, e poco stante apparve il vecchio sull’uscio. —Mandavo a cercare di te,—disse Tolteomec.—È l’ora di metterci a tavola. —Ah si? molto bene!—rispose Damiano, affrettando il passo. L’accoglienza festosa del vecchio gli parve di buon augurio. Entrò più allegro nella casa ospitale. —Purchè tu non mi stia sempre alle costole, benedetto patriarca!—diss’egli tra sè, muovendo verso la sala del banchetto, che era già tutta preparata come pochi giorni addietro. Abarima comparve, più bella che mai e con un’altra ghirlanda di fiori sulle chiome nerissime. Sorrise all’ospite, parve anche guardarlo con attenzione, tra curiosa e benevola, come le donne usano, che non si sa mai quale sentimento sia il vero. Damiano, per altro, non ci badò tanto nel sottile. Era in presenza della donna amata, la vedeva sorridere e dimenticava volentieri una parte delle sue inquietudini. Aggiungete che a tavola trovava il medesimo posto al fianco di Abarima, e immaginate che egli fosse molto disposto a dimenticare anche l’altra metà. Un pranzo non si racconta, se non quando sia da trarne occasione per descrivere le sensazioni gastronomiche dei personaggi. Del resto, il pranzo è sempre eccellente, fosse pur quello di un avaro, quando l’ospite è innamorato, e siede accanto a lui la donna ch’egli ama. Se a Damiano avessero servito in tavola un coccodrillo arrosto, metto pegno che il nostro eroe non ci avrebbe badato. Se poi gli avessero domandato come lo trovasse, di sicuro avrebbe risposto: squisito! Un pranzo è come il tempo, che si tinge sempre del colore dell’anima nostra. Il cielo è sempre azzurro, quando siamo al fianco di una cara creatura. Or dunque, poichè torna inutile raccontarlo, finiamola con questo pranzo di Tolteomec. Abarima si è alzata, e Damiano la segue all’aperto. Ella prende un canestro di vimini, in cui sono parecchi manipoli di filamenti erbacei, disseccati e tutti di variati colori; snoda due o tre manipoli, prende alcune fila tra le dita, e si mette ad intrecciarle. È quello il suo ricamo. Damiano vuole imparar l’arte, o dice di volerla imparare, e prende occasione da questo suo desiderio, per aver sempre la faccia china sul braccio della bella selvaggia. Tolteomec stette un pochettino a vedere. Ma egli non ci aveva le stesse ragioni, per imparare a tessere una stoia. Perciò si mosse di là, e andò in casa a prendere alcune foglie secche, arrotolate in forma di fusi. —Ne vuoi?—diss’egli, ritornando, e offrendo uno di quegli arnesi a Damiano. Damiano fece un gesto di orrore. —No, grazie;—rispose.—non mi piace. —Molto buono!—disse Tolteomec.—Questo discaccia dalla casa gli spiriti della sera. —Per cacciare i miei ci vuol altro!—rispose Damiano. Ma egli aveva parlato nel suo vernacolo genovese. Col gesto, intanto, ringraziava, ricusando l’offerta. Tolteomec si fece portare dei carboni ardenti dal focolare domestico, accese la sua foglia, e poscia si allontanò. Aveva sulla piazza i notabili del villaggio, e se ne andava volentieri a barattare due chiacchiere con loro. I vecchi, si sa, hanno poco a mettere del proprio nei discorsi dei giovani. Così restarono soli sul prato Abarima e Damiano. —Voglio imparare a tessere le stoie;—aveva detto Damiano, stringendosi più presso alla fanciulla. —È facile;—rispose Abarima.—Vedi, come si fa? —Vedo, ma bisognerebbe avere le tue mani. Con la tua sveltezza, del resto, e con la tua grazia, credo che non lavori nessun’altra donna.— Abarima crollò il capo, e sorrise. Damiano incominciò a pensare di essere corso troppo innanzi coi sospetti. E si accostava via via. Ma si accostò forse un po’ troppo, ed ella incominciò a trarre indietro la spalla ignuda, su cui veniva a morire l’alito caldo della belva umana. Egli finse di non avvedersi dell’atto, e si avvicinò tanto, quanto ella si era tirata indietro. Abarima non poteva ritirarsi dell’altro, senza rimuovere il sedile. Perciò si volse a lui e gli disse: —Per imparare a tessere le stoie, puoi stare anche più in là. —Dove?—chiese Damiano. —A questa distanza.... così.— E fattolo alzare, lo mise a posto lei, due spanne più in là dal suo braccio. —Troppo lontano!—mormorò egli, con voce piagnolosa. —Oh, basta così! Sei vicino anche troppo.— Così dicendo, la bella Abarima sorrideva ancora. Anzi, diciamo più veramente, sorrideva senz’altro. Donna che ride è di buon umore, ha detto il savio. E con una donna di buon umore si può fare a fidanza. Damiano prese animo ad entrarle in discorso dei suoi disegni nuziali. —Oggi dunque,—diss’egli,—parlerò a Tolteomec. —Di che cosa? —Del nostro matrimonio, mia cara. —No; non ancora, ti ho detto. —Ma perchè?—diss’egli,—Perchè questi ritardi? Ed è male, sai? Vedi tu e giudica se non devo aver fretta, anche dopo la ragione principale dell’amor mio per te, Abarima _taorib_. Fra pochi giorni la nostra fortezza è finita, e il capo degli uomini bianchi fa stender le ali alla sua grande piroga per ritornarsene.... in _Azatlan_. Prima che l’almirante se ne vada, io vorrei potergli dare una buona novella. Gli farei tanto piacere, a dirgli che sono il tuo sposo.— Abarima volse la faccia sulla spalla, a guardare il suo interlocutore. —E perchè tutto questo piacere?—domandò. —Perchè egli mi ama, e la mia felicità deve esser la sua. Aggiungi che egli dovrebbe assistere alle nostre nozze. —Come te le fai vicine!—esclamò la fanciulla, con un risolino asciutto e sarcastico. —Ma....—disse Damiano.—Se tuo padre è contento.... mi pare.... —Ed anche se fosse contento mio padre, credi tu che le nozze, da noi, si facciano così presto? Prima di tutto, bisognerebbe aspettare la luna piena: poi la risposta del grande Spirito; poi.... —Oh diavolo?—esclamò Damiano, interrompendo la filastrocca.—C’è ancora più difficoltà qui che in Europa, per metter la corda al collo di un galantuomo! —Che cosa hai detto? —Niente, non badare; sono sbruffi di lingua patria, e vengono così naturalmente alle labbra! Ma parliamo chiaro, e nella lingua di Haiti. Vuoi, o non vuoi?— La fanciulla rimase un istante sovra pensiero; poi brevemente rispose: —Tolteomec comanda.— Damiano, a sua volta, ristette un poco, masticando la sua stizza; poi, col medesimo accento, ripigliò: —Ma tu? che ne pensi? —Quello che Tolteomec vuole;—rispose Abarima. E doveva essere stizzita un pochino anche lei, perchè aveva smesso d’intrecciar le sue fila di sparto, e guardava davanti a sè, verso la macchia, non mostrando a Damiano che la sua guancia in isbieco. —Perchè sfuggi il mio sguardo, Abarima?—diss’egli. —Perchè guardo di là. —Di là! c’è la macchia, di là; ed oltre la macchia, c’è la fontana. —Ebbene? Ebbene,—rispose Damiano, che perdeva la pazienza;—la fontana, presso la quale tu hai veduto.... ier l’altro.... un altr’uomo.— Abarima diede un sobbalzo, e si volse turbata a guardare Damiano. —Sicuramente,—ribadì egli,—un altr’uomo; il mio compagno Cosma... il cui nome ti è noto. —Come lo sai?—diss’ella, fissandolo negli occhi, con un’aria di stupore. —Il come importerebbe poco;—rispose Damiano, gustando, in mancanza di meglio, la feroce voluttà di avere indovinato il secreto.—Ma tu immagina pure che io lo abbia saputo dal grande Spirito. Cioè, dico male, dal piccolo spirito. Voi altri interrogate il grande, quando la luna è piena; noi abbiamo il piccolo, che vive con noi, e ci avverte, ad ogni quarto di luna.— Abarima era rimasta lì, come trasognata. —Di tutto?—chiese ella. —Di tutto, e d’altro ancora. Io dunque so che Cosma è venuto qua, dalla macchia; che ti ha veduta, che ti ha parlato, e ti ha detto.... tante belle cose, che tu non hai capite, perchè egli non ha potuto parlarti nella tua lingua.— Abarima si era a grado a grado riavuta dal suo alto stupore. E Damiano, per apparirle tanto bene informato dal suo genio tutelare, incominciava a parlare un po’ troppo. —Il tuo piccolo spirito si è ingannato!—gridò ella, ridendo.—Il tuo piccolo spirito ha occhi, ma non ha orecchi. —Come sarebbe a dire? —Che non ha orecchi, e non sa riferire quello che è stato detto,—rispose Abarima, seguitando a ridere di gusto. —Lascia stare gli orecchi del mio piccolo spirito;—disse Damiano, pentito di essersi cacciato troppo avanti sulla via delle scoperte.—Sono migliori che tu non creda. Fermiamoci agli occhi, che hanno veduto giusto. Puoi tu negare di aver parlato a Cosma? —No;—rispose Abarima. —E sentiamo;—soggiunse Damiano, dopo essersi morse un pochino le labbra;—che cosa ti è sembrato.... della sua faccia? —_Taorib_. —Non è vero, che è _taorib_, il mio caro amico Cosma? Sono proprio contento che tu abbia su questo particolare la mia stessa opinione. E quei capelli, poi.... —_Turey_. —Eh, dovevo immaginarmelo, che li avresti giudicati _turey_. È una maledizione, oramai. Tutte queste figliuole del nuovo mondo amano i capegli d’oro. E quelle del vecchio, niente?... Ah, se ritorno in Europa, com’è vero Dio, mi faccio radere come una pelle di capretto, e mi compero una parrucca, per fare la mia bella figura tra le genti. Vedrete allora, mie belle capricciose, che capelli d’oro filato saranno i miei! Febo Apollo, con la sua raggiera, potrà andarsi a nascondere. Ma ci vorrà del tempo, ad esser laggiù; e qui bisogna vederne l’acqua chiara. Senti, Abarima, parliamoci schietto. Io sono un buon figliuolo, e non voglio dar noia a nessuno. Sono anche capace di un atto eroico. Tutto sta a prendermi per il mio verso, a non carezzarmi di contrappelo. Dimmi dunque una cosa, ma sinceramente, come la diresti al sacerdote del grande Spirito, quando vai a fare le tue divozioni. Lo ami tu? —Io non t’intendo;—rispose Abarima, che era stata fin allora a sentirlo con gli occhi tesi, ma non venendo a capo di nulla. —Ti domando se ami Cosma. —Cosma è bello;—rispose Abarima. —E viva la tua faccia!—gridò Damiano.—Tu almeno, figlia delle isole dell’Oceano.... Ma no, che dico io? Anche in Europa si dànno, questi esempi d’audacia. Non creder dunque che la sincerità sia privilegio dei tuoi paesi. —Che dici?—chiese Abarima, che ritornava a non intendere. —Niente, niente; i soliti sbruffi di lingua patria. Tu dunque lo ami. E se egli chiedesse di sposarti?...— Abarima mise un piccolo grido, abbassò le ciglia e rannicchiò il collo tra le spalle. —Brava!—esclamò Damiano.—Io aspettavo che tu mi rispondessi: Tolteomec comanda.... quello che Tolteomec vuole.... il grande Spirito.... la luna piena.... Brava la mia principessa selvaggia! Ma io ho il dolore di doverti dire una cosa, Abarima taorib.... una cosa che ti raffredderà un pochettino il sangue nelle vene. Il mio amico Cosma non può amare la figliuola di Tolteomec.— Abarima si scosse, e diede un’occhiata curiosa a Damiano. —Come lo sai?—gli disse. —Eh lo so;—rispose Damiano.—Lo so bene, perchè Cosma è mio amico da tanti anni.... come fratello. L’esser venuto a vedere la bella del suo amico, te ne faccia fede solenne. È il nostro uso, in _Azatlan_, di vogarci sul remo, ed è prova di un affetto, di una cortesia, di una lealtà, veramente ammirabili. Incominci a non capire? Hai ragione; ritorno alla lingua di Haiti. Vuoi tu sapere, Abarima, perchè Cosma non ti può amare? Vuoi tu sapere la storia della sua gioventù? —Racconta;—disse Abarima. Damiano si raccolse un istante, pensando. —Vengo meno alla data parola. Ma in fine, perchè mi guasta egli le uova nel paniere? Io sono guarito di questa passione.... sicuramente, sono guarito.... lo voglio essere.... ho un diavolo per occhio, e non patirò mai che mi si pestino i piedi. Animo dunque, e non usiamo riguardi. —Racconta;—ripeteva Abarima. —Sì, racconterò, non dubitare. Cosma, per tua regola, è innamorato di un’altra donna; di un’altra donna, capisci?... di un’altra donna, che ha i capelli biondi come l’oro.... anzi, più che l’oro, biondi come il sole, quando è nel segno del Leone. Ah, che bei capelli di sole ha la donna amata dal mio caro compagno, dal mio fratello Cosma! —Ci sono donne con capelli d’oro, in _Azatlan_?—chiese Abarima, con aria di stupore. —Eh, sicuramente, mia bella. In Azatlan, oramai, non c’è altro che capegli d’oro. E si dànno via, come le perline di vetro, come i sonagli di bronzo. Ami una donna, in Azatlan! Glielo dici, ed ella subito si taglia una ciocca dei suoi capelli d’oro, e te ne fa un presente. Domanda a Cosma che ti faccia vedere quella ciocca di capelli d’oro, che porta sempre sul cuore, entro una borsa di cuoio. Vedrai che bellezza! Ma già, capisco che tu vorrai sapere la storia di Cosma, la storia dei suoi amori, non è vero?— Abarima stava con tanto d’occhi a guardarlo, come se volesse cavargli le parole di bocca. E ne capiva così poche! Damiano s’ingegnava come poteva, a farsi intendere; ma su cento parole ne diceva ottanta in tutt’altro idioma da quello di Haiti. —Incomincio,—riprese Damiano,—Il mio buon Cosma è nato a Genova. Non sai che cosa sia Genova? È un _bohio_, come questo, ma venti, trenta volte più grande. In quel _bohio_, che si chiama Genova, lo zio di Cosma è doge. Sai che cosa è il doge? È il cacìco di Genova. Ci sei? —Racconta;—disse Abarima. —Ecco, dunque. Cosma, appena fu giunto all’età di vent’anni, volle studiar medicina. Sai che cos’è la medicina? È l’arte di guarir le malattie del corpo, o di lasciarle durare, aspettando che il grande Spirito le guarisca lui. Il medico è quello che conosce la virtù delle erbe.... —E dice le parole magiche;—soggiunse Abarima;—t’intendo. —Oh, benedetta ragazza! Tu sei dotata di una intelligenza rara. Torniamo dunque a Cosma. Egli partì da Genova, per andare a Pavia, dove poteva studiare la medicina. Andare allo studio di Pavia è una vecchia abitudine per noi naturali di Genova, fin dal tempo che il re Liutprando ci portò via i resti mortali di sant’Agostino.... Ma tu non capisci queste cose, Abarima; nè io trovo le parole per fartele capire. Oltre di che, ci vorrebbe un corso di storia.... Bene, capisci quello che puoi, e lascia stare il rimanente. Anch’io ero a Pavia; c’ero prima di Cosma, e soltanto in quella città ebbi modo di conoscerlo. Eravamo naturali dello stesso _bohio_; ci legammo subito in amicizia; studiavamo insieme, o fingevamo di studiare, che finalmente è tutt’uno. L’arte è lunga, si sa; ma quando si hanno i vent’anni, pare anche lunga la vita.— Abarima non capiva più, e non si studiava neanche di capire. A Damiano parve anzi di vedere che ella reprimesse uno sbadiglio. —Questi particolari ti annoiano, non è vero? E tu vorresti sbadigliare, deliziosa selvaggia? Sbadiglia pure liberamente, e consentimi soltanto di bere quello sbadiglio sulle tue labbra di cinabro.— Abarima non represse solamente lo sbadiglio, ma anche un atto di Damiano, che veramente meritava il garofano di cinque foglie. —Buon segno!—pensò Damiano.—La mano di una bella donna è come la lancia di Achille; ferisce, ma può risanare le piaghe che ha fatte. E siccome è una lancia intelligente, non ne farà, voglio sperare, senza avere in animo di risanarle.— Abarima non gradiva il silenzio di Damiano. Era una selvaggia, ma era donna, e sapeva che quando l’uomo sta zitto, c’è sempre pericolo che pensi. Ora, il pensiero che non ci si manifesta con parole, è come le armi insidiose, come le pistole di corta misura, che il nostro vicino può avere in tasca, e trarle da un momento all’altro, per farci un brutto partito. —Racconta;—gli disse Abarima, dopo la lunga pausa che era seguita al suo amabilissimo ceffone. —Racconterò;—rispose Damiano.—Ti ho detto che eravamo a Pavia, per lo studio della medicina. Naturali del medesimo _bohio_, ci riconoscemmo per tali e ci legammo subito di grande amicizia, sebbene le nostre famiglie a Genova si vedessero di mal occhio. Avevamo preso a vivere insieme, eravamo inseparabili, come quei vostri piccoli pappagalli che stanno sempre a coppie, e non c’è’ caso che uno si discosti un passo dall’altro. Ma l’uomo non è fatto per l’uomo, e l’amicizia non gli basta: Cosma s’innamorò di una bellissima donna, della bionda che ti ho detto poc’anzi. —Come si chiamava quella donna?—chiese Abarima. —Oh, non dubitare; non voglio defraudarti del nome. Si chiamava Catarina.... Catarina Bescapè. Vecchia ed illustre famiglia, la sua, come la tua in Haiti. Donna Catarina abitava sulla piazza del Regisole. Hai capito? No certamente. Ma queste sono minuzie, che non importano affatto. Importa invece moltissimo il dire che donna Catarina era bellissima, quantunque avesse i capelli d’oro. —Non ami i capelli d’oro, tu? —Ohibò, che roba!—gridò Damiano, facendo un gesto di orrore.—Eccoli, i capelli che amo. —Lascia stare, e racconta. —È già un’ora che racconto, e capirai che qualche riposo ci vuole. Ma ritorniamo a Catarina. Un grande amico di Cosma se ne era innamorato.... e prima di Cosma. L’amico poteva sperare di essere riamato dalla bellissima donna; anzi, ti dirò che poteva esserne certo.... come si può esser certi di queste cose, specie avendo da fare con la più cruda metà del genere umano. Ma un giorno l’amico si avvide che Cosma andava troppo volentieri anche lui nella piazza del Regisole; s’insospettì, stette in agguato, disdisse la sua amicizia al rivale. Incominciarono a guardarsi in cagnesco, erano già per venire alle brutte, quando Cosma capitò d’improvviso nella casa dell’amico, gli si gittò fra le braccia, e gli pianse sul petto tutte le lagrime dei suoi occhi. Cosma non poteva più vivere, se non gli si lasciava amare la bella Catarina; Cosma si sarebbe buttato nel fiume Ticino, dove è più profondo, se l’amico non lo lasciava libero di far la corte alla sua dama. Allora io.... —Tu?.... sei tu l’amico?—interruppe Abarima. —No, cara; non ti ho già detto che io non amo il turey nei capelli? Volevo dire: allora io mi misi in mezzo ai due contendenti: e tanto dissi, che persuasi l’amico di Cosma a ritirarsi dal giuoco, a lasciare che Cosma facesse liberamente l’occhio languido a donna Catarina Bescapè. —L’amico si è contentato? Amava dunque assai poco. —Oh cara, come t’inganni! Egli amava moltissimo. Ma era un’anima grande. Se fosse nato due mil’anni prima, sarebbe stato un eroe Romano, o Greco, o giù di lì, e Plutarco ne avrebbe scritta la vita, mettendolo in parallelo con qualche Scipione. Tutte cose che non capisci, lo so; fa conto che io non te ne abbia parlato. Del resto, l’amico non si chetò mica alle prime. Egli fece a Cosma questo ragionamento: «Senti, bambino, queste cessioni non si possono fare; bensì è la donna che deve scegliere. Io posso credere che ella veda me di buon occhio: ma posso anche ingannarmi. E tu, dal canto tuo, che cosa puoi dire?» Cosma non poteva dir nulla; pure, sentendo che l’amico si sarebbe inchinato alla scelta della dama, Cosma si rallegrò; si buttò un’altra volta nelle braccia del rivale, s’inginocchiò, gli abbracciò le ginocchia, fece un visibilio di pazzie. «Caro il mio Tolomeo!» gli disse: «Io sono un uomo morto, se quella donna non mi ama. Che perdi tu ad esplorare l’animo di lei? a lasciare che i fati si compiano?» Insomma, tanto pregò, tanto pianse, che io.... consigliai all’amico rivale di andare da madonna Catarina e di parlarle chiaramente. Povero amico, tanto generoso, e tanto.... come chiamarlo? Di nome si chiamava Bartolomeo; gli amici, per abbreviazione gli dicevano: Tolomeo; altri più sbrigativamente Tomèo. Di cognome, poi.... Ma lasciamo il cognome, che non importa al racconto. —E Catarina, seppe tutto? —Aspettami, impaziente creatura. Tolomeo andò dalla bella Catarina e le disse: «Io amo Cosma come un fratello. Le nostre famiglie, a Genova, sono nemiche, appartengono a due fazioni diverse. Ma qui, siamo fuori di casa nostra, lontani dalle ire cittadine, avvicinati dal medesimo studio. Per altro, è strano che dobbiamo innamorarci della medesima donna. Sapete, Catarina? Egli è pazzamente innamorato di voi.» —Tolomeo ha parlato così? —Sì, cara; egli è stato tanto.... Tolomeo. Ma chi avrebbe mai preveduto?... Basta, quel ch’è fatto è fatto. L’amico Tolomeo parlava da uomo leale, senza immaginare che madonna Catarina lo piantasse lì per quell’altro. —Catarina ha fatto bene;—disse Abarima, sentenziando alla svelta, come una dama di Provenza in una corte d’amore. —Diciamo pure che Catarina ha fatto bene;—rispose Damiano.—Ma Tolomeo ha fatto male. Non credi? —Chi sa?—rispose Abarima.—E Catarina, che cosa disse a Tolomeo? —Due sole parole: «povero giovane!» Ma se tu avessi sentito con che accento! —Tu c’eri? —Si capisce. Io ero un po’ da per tutto. E come io capii il senso di quella esclamazione, così l’amico fu pronto a capirlo. Si chiuse la sua rabbia nel cuore, e andato da Cosma gli parlò in questa guisa: «Senti, Cosma, tu mi hai tradito. La tua è un’azione da coltello. Tu sei più avanti nelle grazie della Bescapè di quello che io potessi immaginarmi. Ella mi ha tutto confessato. Tu la segui quando io non sono con te, ed ella ti guarda con benevolenza. Perchè non dirmi tutto? Mi avresti risparmiata la figura.... dell’uomo che fa ridere.» —Ah, ah!—gridò Abarima, ridendo la parte sua. —Capisco,—riprese Damiano,—che è lo stesso anche in Haiti, e che le donne, sotto ogni cielo, ridono saporitamente.... dei poveri Tolomei. Ma non importa. Ritorniamo a Cosma. Egli non rideva; egli ricavava maggior profitto dal piangere. «Perdonami, Tolomeo!» diss’egli all’amico. «Io non so nulla di quello che tu mi racconti. Che confessioni può averti fatte madonna Catarina? L’amo, ecco tutto. Se n’è ella avveduta? È possibile. Io credo che tutti abbiano dovuto avvedersene, come te n’eri avveduto anche tu.»—«Bella forza!» scappò detto all’amico. —E poi?—disse Abarima. —E poi, avvenne tutto ciò che avviene in simili casi. Tolomeo amava anch’egli davvero. Ma non si può stare per forza nel cuore di una donna, ne convieni? Tolomeo non ci stette; e disse a Cosma: «fai la tua strada, e crepi l’avarizia! se quella donna ti ama, sia tua.» —E Cosma la sposò? —Ecco....—disse Damiano.—C’era una piccola difficoltà. Madonna Catarina non era libera. C’era di mezzo.... un Bescapè. —Non capisco;—disse Abarima. —Oh cara! è meglio che tu non capisca. È sempre bene che ti rimanga qualche cosa di oscuro. Altrimenti, che cosa ci avresti più da studiare, nei costumi di Azatlan? Per ora, Abarima _taorib_, ti basti di sapere che Cosma non sposò madonna Catarina. Ma egli l’amava, e ne fu riamato. Fu allora che la bella donna gli regalò una ciocca dei suoi capelli d’oro, quella ciocca di capelli che egli porta sempre sul cuore, entro una borsa di cuoio. —E Tolomeo? —Tolomeo.... era l’uomo più infelice della cristianità. Non sai che cosa sia la cristianità? Ebbene, non te ne dolere; è un’ignoranza felice, la tua. Se tu sapessi infatti che bestie feroci son mai, a comporla! Quanto a Tolomeo, egli aveva finito il suo studio di medicina. Sarebbe rimasto ancora, sarebbe rimasto per sempre, se Catarina lo avesse amato. Ma ella non lo amava; ella rideva di lui, vedendolo passare per via. Che vergogna! che rabbia! In quei momenti, vedi? io.... essendo in compagnia di Tolomeo, arrossivo per lui. Lasciai Pavia, in quell’anno; e Tolomeo mi seguì. Ce ne ritornammo verso il mare, nel nostro _bohio_ di Genova. Laggiù si viveva sempre in guerra gli uni con gli altri, e noi, da buoni naturali di Genova, partecipammo alle civili discordie. —Che è ciò? —Ecco.... è un po’ difficile a dirsi. Ma figurati che Genova sia come Haiti, e che da quattrocento anni i Caribi siano entrati a far parte di questa popolazione. Per un po’, secondo la fortuna, comandano i Caribi, per un po’ gli Haitiani, e una volta il cacìco è Caribo, un’altra volta è Haitiano. Ti capacita? —Se è l’uso di cambiare così.... —No, non è l’uso; è la forza, o l’inganno, che comanda. E quando il cacìco di Genova è un Haitiano, i Caribi sono abbattuti, dispersi, cacciati dal _bohio_. Quando il cacìco è un Caribo, gli Haitiani hanno la peggio. Ora veniamo a noi. Tolomeo era, come tutti quelli della sua famiglia, amico degli Adorni, i Caribi del paese. Perciò era nemico dei Fregosi, che erano gli Haitiani, e che in quel mentre erano al governo, essendo un Fregoso il cacìco di Genova. Divampò la guerra in città, per ragioni che è inutile di dirti. Tolomeo si trovò un giorno con le armi alla mano, con quelli della sua gente, contro quelli della parte contraria. Era con gli Adorni, ti ho detto; diede addosso ai Fregosi. Tutte ire che, essendo fuori di Genova egli aveva dimenticate, ma che gli tornarono vive nel cuore appena ebbe respirate le dolci e fraterne aure della patria! Nel fitto della mischia fu un punto di vittoria per lui: poteva uccidere il capo della squadra nemica; già aveva alzata la scure su lui, quando riconobbe il nemico che aveva sotto il ginocchio. Quel nemico era Cosma. —Ah, povero Cosma!—gridò Abarima sbigottita. —Sì, povero Cosma, che da un mese appena era ritornato in patria, e anch’egli aveva riprese tutte le care abitudini del _bohio_! Ma io ti ho detto, Abarima, che Tolomeo aveva un’anima grande. Tolomeo, alla vista del fortunato rivale, sentì tutte le sue ire ribollenti nel sangue; calò la scure.... ma senza colpire; e perdonò al suo nemico. —Bravo Tolomeo!—gridò Abarima.—Lo amo. —Amami, deliziosa selvaggia; perchè Tolomeo.... sono io. —Ah!—esclamò Abarima, ridendo.—Lo avevo immaginato; e l’ho detto a bella posta.... per farti parlare. —Assassina!—gridò Damiano.—Ebbene, tanto fa. Potevo uccidere Cosma, e non l’ho ucciso. Anzi, l’ho tratto in salvo, l’ho ricoverato nelle nostre case. Era ferito; io l’ho curato; e quantunque fossi medico, l’ho guarito. Che te ne pare? Non sono io un uomo di Plutarco?— Abarima lasciò cadere l’accenno classico, e per una buona ragione, che non è mestieri di dirvi. —E Catarina?—diss’ella. —Ecco: madonna Catarina si era lasciata amare da Cosma. L’amico aveva i capelli d’oro, i capelli di sole, di cielo, di tutto l’altro che dite voi in Haiti. Ma pare che una provvida legge di natura non permetta alle bionde di amar lungamente i biondi. Venne un giorno che le due capigliature d’oro non andarono più d’accordo. Madonna Catarina incominciò a seccarsi di Cosma. E allora si lasciò amare da un altro, che non aveva i capelli biondi, che non gli aveva neanche più neri. Quell’uomo, per altro, era un gran professore. —Professore! che cos’è? —Come fartelo intendere? Voi altri, in Haiti, non avete professori. Già, molte razze d’animali vi mancano. Figurati dunque una bestia rara; uno che insegna agli altri tutto quello che sa lui, ed anche quello che non sa; uno che ti sa dire come devi parlare, e come devi tacere, se devi ber fresco o caldo, sputar tondo o quadrato. Quello è un professore, mia cara. Tu sai che Catarina era moglie di un Bescapè. Il Bescapè, per certe sue ragioni di possesso, aveva bisogno del parere del professore, che era un gran conoscitore delle leggi, e i suoi pareri se li faceva pagare a peso d’oro, in tutti i _bohio_ dell’Italia dove era stato. Oh, un gran professore, quel Giasone del Maino! Quando doveva parlar lui nella scuola, c’era tanta folla, che non c’entrava più neanche una mosca, o se c’entrava, non ardiva più di farsi sentire. —Ma lei?... Catarina?... —Ci vengo. Catarina conobbe il professore. Giason del Maino andò nella casa di lei, sulla piazza del Regisole. Madonna Catarina andò nella casa di lui, alla Torre del pizzo in giù. Questo è un particolare che non occorre spiegarti. Qui non ci sono torri, nè campanili, e l’idea di una torre il cui tetto a campanile sia voltato all’ingiù e posi sopra una grossa colonna, sullo spigolo della casa, non la potresti comprendere. Ti basti sapere che madonna Catarina andò nella casa del grande legista, e che, dopo esserci andata, ci ritornò. Cosma ne aveva avuto un sospetto; Cosma si appostò, conobbe che era vero, fece il geloso, e fu mandato gentilmente.... a quel paese. Da noi, cara, è l’uso costante. Quando una persona ci è venuta a noia, la mandiamo a quel paese; un paese sconosciuto, di cui nessuno sa darci notizia, e quando c’è andato non può portarcela di sicuro. —E Cosma? —Cosma non andò a quel paese; ritornò in patria, al suo _bohio_ di Genova. Ma egli era sempre più innamorato che mai. Non ha più potuto levarsi Catarina dal cuore. L’ama ancora, l’amerà sempre. È fatto così, quel povero ragazzo. Io sono guarito, egli no. E tu capirai, dolce Abarima, che egli, seguitando ad amare Catarina Bescapè, non può amare la figlia di Tolteomec.— Abarima fece un gesto di compassione. Ma non era di compassione per il triste amore di Cosma, bensì per lo storto ragionamento di Damiano, o, se vi piace, meglio, di Tolomeo. —Capisco, sì, capisco;—diss’ella.—È un sortilegio. —Come, un sortilegio? —Sì, Catarina ha detto una parola magica, perchè Cosma sia sempre innamorato di lei;—rispose Abarima, con accento di grande sicurezza.—E quella parola magica l’ha pronunziata sopra qualche cosa che Cosma porta sempre indosso. Sì, ora ci sono; su quella ciocca di capelli d’oro che Cosma ha fatto male a non gettar via. —Mettiamo pure che sia così;—disse Damiano.—Che ci vuoi fare? Cosma non rinunzierebbe a quella ciocca di capelli per tutto l’oro del mondo. —Effetto del sortilegio;—rispose Abarima.—Devi rubargli la borsa di cuoio, mentre egli dorme. —Io? sei pazza? me ne guarderei bene. —Non hai coraggio; lo farò io;—disse Abarima. —Tu? e come? —Verrà nella casa di Tolteomec, ci dormirà, ed io strapperò il sortilegio. Io guarirò Cosma, povero Cosma! ed io allora sarò amata da Cosma. —Ah briccona!—esclamò Damiano.—Ma guardate che Tolomeo sono stato io! Valeva proprio la pena di tradire il segreto dell’amico, per giungere a questo bel resultato!— Dopo questi ed altri ragionamenti interiori, Damiano si volse ad Abarima, dicendole: —Ed io, Abarima _taorib_! ed io che ti amo? —Tu....—rispose la capricciosa selvaggia,—vai a quel paese.— Damiano ammirò la prontezza d’ingegno di quella figlia d’Haiti, che imparava così presto le usanze della civile Europa. E dopo avere ammirato, voleva andarsene di là, per ismaltire la sua rabbia. Immaginate quanta ne avesse in corpo, mista alla vergogna della sconfitta patita. Gli era parso di avere così buone armi, per mettersi in guerra, e quelle armi gli si erano spuntate nel primo assalto; peggio ancora, egli se l’era sentite crocchiare nel pugno. Ma a proposito d’armi, non è la gelosia un’arma a due tagli? Andate a dire ad una donna: «il tal di tale non può amar voi, perchè egli è innamorato di un’altra» e sentirete che cosa ella sarà capace di rispondervi. «Ah si! di un’altra? Volete vedere che cosa ne faccio io, di quell’altra?» Il frutto proibito non sarà che una mela; la butteremo via, magari dopo averla manimessa; fors’anche la passeremo al vicino; ma per intanto, e perchè si tratta d’un frutto proibito, un morso glielo vogliamo dare ad ogni costo. E così faceva Abarima, dando a modo suo, e senza pure saperlo, una prova della unità di origine delle stirpi umane. Ma lasciamo queste sottigliezze. Damiano era sul punto di andarsene; Abarima lo trattenne, e non già, voglio sperare, per prendersi giuoco dei tormenti di lui. Queste raffinatezze di crudeltà non dovevano essere in lei. Unità di origine, sta bene, fin che si vuole; ma la civiltà è di molti gradi, e quella figliuola di Haiti doveva essere ai primi scalini. —Raccontami ancora;—diss’ella.—Come si è deciso Cosma ad andare così lontano da questa Catarina sciocca? —Ah, debbo narrarti di lui vita e miracoli? E sia, parliamo ancora di questo amatissimo Cosma;—rispose Damiano.—Ti ho detto che io lo avevo raccolto ferito, e lo avevo ricoverato e guarito. Di ritornare presso madonna Catarina non era più il caso. Saremmo andati ad ornare della nostra presenza il trionfo di messer Giasone del Maino. Del resto, noi siamo fatti così;—soggiunse Damiano, con un tal piglio aspretto che non era senza grazia;—quando una donna ci tratta male, possiamo amarla ancora, come fa Cosma, o dimenticarla, come ho fatto io, ma la rispettiamo sempre e non ci ostiniamo a darle noia. Restammo dunque nel _bohio_ di Genova. E fu allora, nei nostri colloqui amichevoli, che io seppi da Cosma tutta la serie delle sue disgrazie amorose. Quel giorno, vedi la grandezza dell’animo mio!... quel giorno, gli perdonai tutto quello che egli mi aveva fatto soffrire. —Soffriva anche lui!—esclamò maliziosamente Abarima. —Ah, bene! lo avete anche in Haiti, il proverbio: mal comune è mezzo gaudio? Ne ho piacere, perchè vi vedo già ben preparati per godere i frutti della nostra civiltà. Quel giorno, adunque, ci giurammo un’amicizia eterna, molto più forte di prima. E stavamo sempre insieme, non uscivamo a diporto che insieme, con grande maraviglia di tutti i naturali di Genova. —E perchè questa maraviglia? —Oh bella! perchè si era tutti in guerra, gli uni contro gli altri; e noi soli, di diverso partito, uno Caribo e l’altro Haitiano, eravamo in pace. —Si, è vero; ti capisco, ora. —Sia lodato il cielo! E non volevano capire, i nostri concittadini. Gli Haitiani dicevano a Cosma: perchè vai tu a braccetto con quel Caribo? E i Caribi dicevano a me: perchè vai tu a braccetto con quell’Haitiano? E gli uni e gli altri, con questi discorsi, non ci lasciavano aver pace. A sentirli loro, non si poteva essere buoni uomini, se non si sposavano tutte le ire della propria fazione. Così ad ambedue era venuta in uggia la patria. Triste quel _bohio_, dove non si può essere amici per elezione di cuore, dove si è condannati dalle collere accumulate di cinque o sei generazioni di matti, o d’imbecilli, a vivere in guerra con le persone che piacciono, a far lega con altre che si manderebbero volentieri.... —A quel paese!—soggiunse Abarima. —Si, cara. La frase ti è rimasta impressa nell’anima? Ricordati almeno che te l’ho insegnata io, e non ne usare contro di me, ferocissima donna. Io ritorno al racconto. Seccati di quelle discordie, pensammo di andarcene. Ma dove? La sorte decida, fu detto tra noi. E allora si mise mano alle sorti Virgiliane. —Sorti?...—ripetè la selvaggia. —Virgiliane;—rispose Damiano.—Vediamo di farti capire questo bel giuoco. Si piglia un libro.... Ma sapete voi altri che cosa sia un libro, gente felice? Si piglia qualche cosa dove ci sono molti segni, molte parole dipinte.... E le parole su cui cadono gli occhi, sono il responso del grande Spirito. Noi dunque prendemmo un libro.... mucchio di parole dipinte da un gran mago, chiamato Virgilio, e leggemmo, aprendo a caso, queste parole: _Nos patriae fines, nos dulcia linquimus arva._ Tu non lo capisci? è latino; e significa: noi ce ne andiamo da casa nostra. Il grande Spirito, adunque, ci faceva sapere in tal modo che aveva capito il nostro desiderio. Ma il suo consenso? e l’indirizzo che noi chiedevamo? Voltammo i fogli, e gli occhi ci caddero su quest’altro verso: _Bella cient primâque vetant consistere terra._ Il che significa, mia cara; qui c’è guerra, e non ci si può rimanere. Ma dove andare? dove? Altra consultazione allora, con parecchie voltate di fogli; e gli occhi ci cascarono su quest’altre parole: _Qualia multa mari nautae patiuntur in alto._ In mare, adunque, in alto mare, a far vita di marinai, e cercar ventura.—«E sia» disse Cosma. «Non abbiamo noi sentito per l’appunto discorrere di un nostro concittadino, chiamato Cristoforo Colombo, che ha formato il disegno di cercar nuove terre di là dai mari d’Occidente? Egli è andato alla presenza del grande cacìco di Spagna, e gli ha detto: dammi tre grandi piroghe con uomini volenterosi, ed io ti scoprirò un nuovo mondo? Il grande cacìco di Spagna ha risposto a Cristoforo Colombo: sia; ti darò gli uomini volenterosi, e le grandi piroghe; va e trova le isole di là dai mari, per onor tuo e della Spagna.» —Colombo!—esclamò Abarima.—Il capo degli uomini bianchi! Come sapeva egli che dopo il mare avrebbe trovate queste isole? —Non saprei dirtelo;—rispose Damiano.—Ma si può credere che glielo avesse detto il suo piccolo Spirito, a lui mandato dal grande. —Capisco;—disse Abarima. —Ah, bene! tu capisci tutto, Abarima _taorib_. Capisci dunque ancora come arda il mio cuore per te; mentre quello di Cosma è freddo.... come la notte in un bosco. Vorrei dir neve, o ghiaccio;—soggiunse mentalmente Damiano.—Ma bisognerebbe saper la parola. Chi sa se conoscono la cosa, in questo tiepido clima! —Continua;—disse Abarima.—Voi due, allora, avete voluto raggiungere il capo degli uomini bianchi. —Sicuramente, dopo aver consultato ancora una volta le sorti. Il libro dalle parole magiche fu riaperto a caso, e diede quest’altra risposta: _Fata viam invenient_.... Che cosa si voleva di più chiaro! So bene che non è ugualmente chiaro per te. Ma tu potrai intendere approssimativamente che la volontà del grande Spirito avrebbe fatto ritrovar la via delle isole lontane. Allora noi siamo corsi a cercare il capo degli uomini bianchi; siamo saliti sulle grandi piroghe con lui, e siamo arrivati qua, dove io mi sono innamorato della figliuola di Tolteomec, della dolce Abarima. Vorrai tu concedere la tua mano a Damiano, che t’ama? Vorrai tu ricusargliela, per tener dietro a Cosma, che è innamorato di un’altra donna, laggiù.... in Azatlan?— Abarima stette un istante sovra pensiero, come se volesse nella sua mente pesare il pro ed il contro; poi sentenziò: —Damiano buono; Cosma.... _taorib_. Il buon Damiano si morse le labbra. —È la tua ultima parola?—diss’egli. —Cosma _taorib_;—ripetè la capricciosa selvaggia. —Sta bene;—conchiuse Damiano.—Ti saluto.— E si alzò dal sedile, che ormai gli pareva fatto di carboni ardenti. —Parti?—diss’ella.—E dove vai, ora? —Vado.... a quel paese, dove tu mi hai gentilmente mandato;—rispose Damiano. L’ingenua selvaggia ebbe la crudeltà di ridere. Ma in verità, ella non poteva fare altrimenti. Era così buffo, il dolore di Damiano! —So bene che tu ritorni alla grande piroga;—riprese Abarima, rimettendosi al grave.—Sia dolce il tuo sonno, Damiano. E salutami il tuo fratello Cosma, e digli che venga domani nella casa di Tolteomec.— Qui il nostro Damiano, che già stava male in sella, perdette a dirittura le staffe. —Oh, per questo, stai grassa, se lo speri,—gridò egli, stizzito.—Non sai tu che un uomo, per buono che sia, non cede ad un altro la donna ch’egli ama? —E Catarina....—domandò la selvaggia.—Non hai tu ceduto Catarina, al tuo fratello Cosma? —Che paragoni son questi?—replicò Damiano.—Per tua norma, io non ho ceduto nulla. Se Catarina mi avesse detto: «Tolomeo, andatemi a cercar Cosma, e mandatemelo qua», le avrei risposto.... mandandola a quel paese. —Brutto!—gridò Abarima, facendogli il viso arcigno. —Cara,—rispose Damiano,—se non ti piace, sputala! Oh, per tutti i diavoli!—soggiunse mentalmente.—Le ho detto una cosa che non è da cavaliere. Fortuna, che non può averla capita.— Infatti, lo sapete, Damiano mescolava spesso, a quel po’ d’haitiano che conosceva, lo spagnuolo, l’italiano, e il suo vernacolo genovese. Con tutti questi ingredienti, egli impastava la frase; e la sua interlocutrice non riusciva sempre ad intenderlo. Rassicurato per quel verso, Damiano fece una bella riverenza alla dolce Abarima, e subito dopo una giravolta sui tacchi. —Non ci vedremo più, cara!—borbottava egli tra i denti, muovendo verso la casa e infilando l’uscio per cui doveva andare alla sua liberazione.—Ho fatto un marrone, ma di quelli!... Ci vuol pazienza.... sicuro, ci vuol pazienza. E per ritrovarla, questa pazienza benedetta, dovrò bestemmiarci un giorno e una notte, peggio d’un turco. Ma per l’anima.... delle radici, da questo giorno in avanti, mi capiti pure una donna tra’ piedi; se prima non mi casca in ginocchio....— Damiano esciva in quel momento sulla piazza. Tolteomec era là. Veduto Damiano, lo fermò al varco, per dirgli qualche cosa. Damiano non intese sillaba di quello che diceva il suo suocero fallito. Ma le buone creanze volevano che egli rispondesse qualche parola. E Damiano rispose, facendo bocca da ridere, con gesti cortesi, con inchini ossequiosi, ma tutti in lingua.... d’Azatlan. —Oh, caro amico, che il diavolo ti porti! Vecchio cane. Lestrigone, antropofago! Perchè tu lo sei di sicuro, un antropofago. Qui dovete esserlo un po’ tutti, sebbene non vogliate averne l’aria, con noi. E mentre voi stritolate gli ossicini coi denti, le vostre donne bevono il sangue del prossimo. Cara gente! ed io avrei dovuto imparentarmi con voi? Alla larga! Ma che idea pazza mi era venuta alla mente? È stata un’ubbriacatura, come a Cuba; senza liquore, senza kohiba, e nondimeno un po’ più lunga di quell’altra. Ora, vedi, caro antropofago, dalla faccia incartapecorita, io mi sento risanato, e ti mando gentilmente al diavolo, senza eufemismi, senza complimenti, senza bugie d’uomo civile.— Tolteomec rideva e ringraziava, senza intendere per qual ragione o capriccio il suo ospite ed amico Damiano gli facesse quel giorno i suoi convenevoli nella lingua del cielo, anzi che in quella dei miseri mortali d’Haiti. —Chi sa? forse il grande Spirito gli ha intenebrata la testa;—diss’egli tra sè, poi che Damiano si fu allontanato. Damiano frattanto infilava la discesa, per ritornarsene a bordo della _Nina_. Cosma era laggiù, seduto sul cassero di prora, accanto all’interpetre Cusqueia. Un’occhiata corse tra i due, e dopo l’occhiata un cenno di saluto, breve breve, secondo l’uso di quegli ultimi giorni. Ma se in Cosma un certo riserbo era abituale, non doveva parere egualmente naturale l’arcigna taciturnità di Damiano, che era sempre tanto espansivo, non solamente nell’allegria, ma ancora nella tristezza. Cosma, per altro, non mostrò di far caso della taciturnità di Damiano. E questi, vedendolo accanto all’interpetre, disse stizzosamente tra sè: —Studia, bambino! studia l’haitiano, e fatti onore. Ci starai tu, nell’isola, e magari la imbiondirai. Quanto a me, non vedo l’ora di scioglier le vele.— Quella sera, il nostro Damiano si buttò nel suo rancio prima del solito. Non voleva pensare a nulla, e mezz’ora dopo russava come un mantice. Ma i molesti pensieri che non aveva voluto accogliere desto, lo visitarono addormentato. Damiano sognò che Abarima si attaccava ai panni di Cosma, e che Cosma era stato obbligato a sposarla, per alta ragione di governo. Infatti, dipendeva da quel matrimonio la quiete della piccola colonia spagnuola nell’isola di Haiti. Le nozze si celebravano in chiesa. In una chiesa che non c’era ancora; ma si sa, il sogno non bada a queste piccolezze, e quello che non c’è, se lo fabbrica. Gli sposi erano dunque in chiesa, davanti all’altare, e Cosma stava mettendo l’anello rituale al dito di Abarima, quando si udì una sonora risata, che fece voltare tutti gli astanti. Catarina Bescapè compariva da una navata laterale, e, seguitando a ridere, si avvicinava agli sposi; faceva a Cosma un inchino canzonatorio, poi si accostava alla figliuola di Tolteomec, la guardava ironicamente, la fiutava sopra una spalla, e poi torceva il viso, dicendo: «Che olio usate, ragazza mia? che olio usate, per farvi la pelle lucida?» E il cavaliere di madonna Catarina, il vecchio e sofistico legista Giasone del Maino, aggiungeva del suo, rivolgendosi a Cosma: «Ragazzo mio, perchè non aspettare che madonna Catarina si fosse annoiata di me? Ella è vedova; potevate sposarla voi. Quanto a me, lo sapete, io voglio restar celibe, aspettando che il papa mi mandi il cappello di cardinale.» A farvela breve, Damiano sognò un visibilio di sciocchezze, sul far di queste, che vi ho fedelmente riferite. La mattina seguente, si svegliò con la testa pesante, ma felice di essersi liberato da tutte quelle immagini sciocche. Balzato dal suo rancio e uscito in coperta, trovò l’almirante che si disponeva a scendere nel palischermo. —Signore,—gli disse,—voi andate alla fortezza? —Sì, messer Damiano,—rispose Cristoforo Colombo.—Volete forse accompagnarmi? —Un tratto di strada, se permettete; fin lassù ed oltre, se è per vostro comando. —Eh, senza comandarvelo, desidero che veniate. Oramai il lavoro è finito, e non sarà male che ci intendiamo per la distribuzione delle parti. —Ah, sì, le parti.... sicuramente, bisognerà distribuirle;—disse Damiano, seguendo sul palischermo il suo grande concittadino.—Ma appunto per questo, signor almirante.... —Che cosa? —Appunto per questo, se non vi paresse offesa un cambiamento di opinione da parte mia.... —Non istate a mendicar le parole, messer Damiano;—interruppe Cristoforo Colombo, ridendo.—Voi non volete più rimanere alla Spagnuola? —No, non ho detto, non intendevo dir questo;—rispose Damiano.—Alludevo al posto che la vostra bontà mi vorrebbe affidare. Esso è troppo alto per me; io non mi sento da tanto. —Modestia!—esclamò l’almirante. —Eh, signore, così fosse! che avrei merito di una bella virtù. Ma ho fatto il mio esame di coscienza, e mi son ritrovato dappoco; ho riconosciute le mie forze.... _quid valeant humeri quid ferre recusent_.... —Messer Damiano, la vostra non è più modestia; è canzonatura del prossimo;—rispose l’almirante.—Un uomo che parla latino, e mi cita Orazio, pretenderà dunque di essere gabellato per semplice marinaio e per semplice soldato? —Come tale son pur venuto;—replicò Damiano, schermendosi.—Soffrite che tale io rimanga. —Ma che strano pensiero è il vostro? E come v’è saltato in mente? Spero bene che vorrete dirmelo. Per intanto, saltiamo a terra, mio caro.— Così dicendo, poichè il palischermo era giunto alla riva, l’almirante balzò sulla rena colla grazia agile e pronta del marinaio. E Damiano lo seguì, per ripigliare il suo discorso. —Il pensiero, signor almirante, mi è venuto così. Non credeva da principio che Cosma, il mio buon amico e concittadino, volesse restare nell’isola. Ieri finalmente, ho saputo che il suo desiderio sarebbe di rimanere. E in questo caso mi pare che il posto di aiutante spetterebbe a lui, piuttosto che a me. Cosma ha ben altre doti, che io so di non possedere. Perchè io mi conosco, signore. Non ho ragioni per essere modesto; ne ho invece per essere sincero. Ho l’umor gaio e mattacchione, io: quando mi saltano i grilli in capo, addio gravità! Cosma è grave, anche quando dorme; ha l’indole e l’aspetto più confacenti a chi deve esercitare un comando. Io dunque vi prego, messere, vogliate metter Cosma in mio luogo, come aiutante di don Diego di Arana.— Cristoforo Colombo era stato a sentirlo con molta attenzione, senza mai interromperlo. Quando vide che aveva finita la sua perorazione, gli disse: —Ma sapete, messer Damiano, che voi siete la perla degli amici? —Voi mi date la baia, signor almirante!—rispose Damiano, abbassando la fronte, in atto di grande umiltà.—La perla degli amici è Cosma, ed io troppe prove n’ho avute. Per una volta tanto, vorrei pagarlo delle sue cortesie. —Se volete ad ogni costo....—disse Cristoforo Colombo.—Se così siete intesi tra voi.... —No, nessuna intesa è corsa tra noi;—rispose Damiano.—So che Cosma rimarrebbe volentieri; tanto che da due giorni non fa altro che studiare la lingua di questi naturali, insieme coll’interpetre Cusqueia. Vorrei che fosse contento: vorrei che restando avesse un ufficio degno di lui. E se voi, messere, mi amate.... —Certamente, vi amo. Siete mio concittadino; siete un gentiluomo, quantunque il vostro nome mi sia sconosciuto; siete stato anche un buono e intelligente compagno di fatica per noi; debbo dunque amarvi e pregiarvi grandemente. Mi duole che ricusiate un ufficio che vi avevo offerto, stimandovene degno; ed oggi ancora ve l’offro. —Ed io ve ne ringrazio, signore, e torno a pregarvi di conferire l’ufficio a Cosma. Egli, badate, non sa che voi avete offerto un tal comando a me; voi, messere, non ne avevate ancora parlato a nessuno.... —A nessuno,—rispose l’almirante. —Ebbene, gli verrà dunque offerto da voi come cosa nuova; l’avrà come una primizia, ed io sarò, doppiamente felice se il mio buon amico e fratello Cosma ignorerà che l’onore gli è fatto per mia intercessione. —Voi dunque, messer Damiano, volete proprio così? Sarete contento. —E già contento mi vedete fin d’ora, signor almirante, e pieno di gratitudine per voi. Posso dunque dire a Cosma che voi volete vederlo alla fortezza? —Che fretta è la vostra?—esclamò l’almirante. —Signore, non dicevate voi dianzi che sarà utile vedere fin d’oggi, con gli ufficiali, come possano essere distribuite le parti lassù? —È vero, è vero, e voi avete buona memoria. Sia dunque chiamato il vostro amico. Manderemo indietro qualcuno. —Vado io, se permettete. Tanto, poichè non ho da comandare, non è necessario che io venga a studiare i particolari del servizio. —È giusto; andate dunque, messer Damiano,—conchiuse Cristoforo Colombo.—E sia fatta la volontà di un uomo, che vuole ad ogni costo.... obbedire.— Damiano non istette a ribattere la celia del signor almirante; fatto un profondo inchino, si allontanò sollecitamente, ritornando verso la spiaggia. Il palischermo non era ancora partito, ed egli ebbe tempo di rimontarvi su, per farsi condurre a bordo della caravella. —Ah, caro il mio Cosma!—mormorava egli, avvicinandosi alla _Nina_.—Uomini di Plutarco come me, non ne troverai ad ogni canto di strada. Tu volevi rubarmi il posto nella casa di Tolteomec, ed io te lo lascio. Un po’ per forza, è vero; ma qual è l’atto di virtù che non costi uno sforzo? Aggiungi che un altro posto ti lascio, e questo era mio, destinato a me dalla espressa immutabile volontà del signor almirante. Io ho filato, e son nudo; tu non hai filato, ed hai due camicie. Ti compensino esse di quella che hai regalata all’interpetre. Caro il mio Cosma, che facevi l’inconsolabile! il messer Francesco Petrarca, senza lo sfogo del Canzoniere! Ma già, anche del Petrarca e del suo costante amore, sappiamo che cosa si debba pensare.— Damiano sorrise a se stesso, contento com’era del suo ragionamento. —Vediamo,—proseguì, dopo essersi padroneggiato;—che cosa faccio io? Mi vendico, forse?... Eh sì, un pochettino. Il mio caro ed amato Cosma resterà preso al suo laccio. Egli non era invaghito di Abarima; dovrà giulebbarsela, e si seccherà.... oh, si seccherà, molto prima che non avrei fatto io. Perchè certamente io mi sarei seccato, con quella pelle rossa. Che idea è stata la mia? Ma già, con le donne, si pigliano certe ubbriacature! Un po’ la galanteria, che è sempre viva nell’uomo, un po’ il sangue, che non è acqua, un po’ il puntiglio, che è sempre appiattato nel fondo dell’anima, in compagnia dell’orgoglio suo padre, e addio roba! Lì per lì, sembra di toccare il cielo col dito; e poi.... oh vile umanità!...— L’arrivo del palischermo contro il bordo della _Nina_ interruppe un trattato di filosofia pratica, che avrebbe potuto durare dell’altro, magari dalle acque di Haiti fino alle coste di Spagna. Cosma, che aveva veduto partire Damiano mezz’ora prima, fu maravigliato di vederlo ritornare; e più maravigliato di vederselo venire incontro, con aria risoluta ed allegra, come se nessun dissapore fosse mai stato tra loro. Ma se di ciò poteva maravigliarsi Cosma, non si maraviglierà certamente il lettore. Damiano poteva star grosso con l’amico, fino a tanto che l’amico gli dava noia, contrariando i suoi disegni. I disegni di Damiano erano per allora tutt’altri, e l’animo suo si era mutato del pari. Egli poteva andare incontro a Cosma, ridendo e canterellando, come andò incontro ai ladri il viandante della favola, poichè fu alleggerito della borsa. —Tu sei di buon umore;—disse Cosma, dopo avergli fatto un cenno di saluto. —Sì, caro, come sempre, quando le cose vanno a modo mio. —Ah, me ne congratulo. —Grazie, non t’incomodare; avremo tempo, se resti in Haiti, come mi hai annunziato. —Certamente;—rispose Cosma, guardandolo negli occhi.—Ma perchè non sei lassù, nelle tue solite occupazioni? —Comando dell’almirante;—disse Damiano.—Ha dimenticato certe faccende, che son tornato io a sbrigare per lui. Sai che domani egli parte, dopo aver messa a posto la colonia? —Domani? —Sicuramente; tutto è all’ordine, lassù. Non resta che di destinarvi il presidio. Anzi, tra le cose che dovevo fare, c’è questa, di avvisar te che il signor almirante ti vuole a terra, e subito. —Vuol me? per che fare?—esclamò Cosma, stupito. —Non so; mentre ero sul punto di ritornare, mi ha detto: a proposito, avvertite il vostro amico messer Cosma, che lo aspetto alla fortezza; devo parlargli. Così mi ha detto, nè più nè meno.— Cosma stette un pochino sovra pensiero, cercando dentro di sè che cosa potesse volere l’almirante da lui. Ma non trovò nulla di nulla; perciò si strinse nelle spalle, e si alzò, per andare alla scaletta di bordo. —Debbo aspettarti?—diss’egli a Damiano, prima di giungere al capo di banda. —No, io non potrò sbrigarmi così presto;—rispose Damiano.—Ho da cercare qualche cosa fra le carte del signor almirante. Poi ho da far raccogliere e portare a terra certe minuterie per gli scambi, che a lui non bisognano più e che serviranno meglio a noi altri. Addio, dunque, e a rivederci più tardi.— Cosma, ingannato dalla calma apparente, e più dalla parlantina dell’amico, scese nel palischermo e si fece condurre alla spiaggia. Damiano lo guardava intanto con la coda dell’occhio. —E dire,—pensava egli,—e dire che mi rincrescerà di piantarti, all’ultim’ora!... Perchè, infine, si era amici per la vita e per la morte. E se non era questa selvaggia capricciosa, la nostra amicizia sarebbe durata fino alla morte. Aveva già superate tante prove! E perchè non dovrebbe superare quest’altra?... No, per tutti i diavoli, no;—soggiunse Damiano, cacciandosi la destra sotto il corpetto di lana e comprimendosi il cuore.—No, viscere infame, stai zitto! La mia vendetta, per questa volta deve passare avanti tutto. Una gran vendetta, poi! Vi faccio un regalo, miei cari sposini. Vivete felici, crescete, moltiplicate, e ch’io non senta più parlare di voi.— _Capitolo XV._ Come fu inaugurata e presidiata la fortezza del Natale. Era il secondo giorno dell’anno 1493, quando si potè dire che la fortezza fosse finita di tutto punto, da otto giorni che era stata incominciata. S’intende che non era una gran fabbrica; non bastioni, non mura, ma fossi, argini e terrapieni, sul fare delle moderne fortificazioni passeggere, o piuttosto degli antichi accampamenti romani, poichè, alla guisa loro, l’argine interno era difeso da una palizzata che correva tutto in giro. Nel mezzo del terrapieno sorgeva un grosso torrione di legno, entro il quale stavano al coperto le munizioni da bocca e da fuoco, che Cristoforo Colombo aveva fatte estrarre dalla _Santa Maria_ naufragata. Il provvido almirante aveva aggiunto alle provvigioni della fortezza tutto ciò che non era strettamente necessario alla _Nina_; poichè questa doveva ritornare senz’altre esplorazioni in Ispagna. La fortezza così costruita ebbe nome dal Natale, essendo nella notte sopra quel giorno naufragata la _Santa Maria_. E come il legname della nave naufragata era servito a formare l’ossatura del torrione, così i suoi cannoni servivano alla difesa della nuova costruzione. Quelle due bombarde e quei quattro falconetti erano più che bastanti a tenere in rispetto non solamente un popolo ignudo e quasi inerme, come quello di Haiti, ma gli stessi Caribi, se mai avessero ardito far nuove incursioni sulla costa, perchè essi d’altro non andavano armati che di archi, con frecce di canna, chiaverine di legno, e piccole accette di selce. Del resto, diceva l’almirante, più che dal timore così facilmente ispirato nei naturali dell’isola, i nuovi coloni dovevano trarre argomento di sicurezza dalla loro disciplina e dalla bontà paterna con cui avrebbero trattate quelle pacifiche tribù, avvezze oramai a venerare gli stranieri navigatori come figli del cielo. La mattina del 2 gennaio, adunque, vestito in pompa magna e seguito dai suoi scudieri tutti coperti d’acciaio brunito, il grande almirante del mare Oceano scese nel suo palischermo alla spiaggia. Erano là ad aspettarlo gli ufficiali ed i marinai delle due caravelle, che tosto lo seguirono per il noto sentiero fino al villaggio di Guacanagari, e di là alla fortezza del Natale. Innanzi di scendere nel palischermo, Cristoforo Colombo aveva scambiate alcune parole con messer Damiano. —Come?—gli aveva detto.—Voi non venite a terra? —Signore,—aveva risposto Damiano,—è ben necessario che qualcheduno stia alla custodia della _Nina_, lasciata per un giorno così sola. E dopo ciò che la vostra bontà mi ha consentito questa mattina.... —Sì, sta bene;—rispose Cristoforo Colombo, ridendo.—Ma non sarebbe una buona ragione perchè voi rimaneste a bordo, senza pur dare un abbraccio agli amici. Dubitate già della vostra fortezza d’animo? e temete di mutare ancora una volta di opinione?.... —Signore,—disse Damiano, umiliato,—avete ragione a rider di me. —Celiando, non è vero?—soggiunse l’almirante, battendogli amorevolmente la mano sulla spalla.—L’amicizia consente lo scherzo, purchè non ecceda. Restate dunque, se così vi pare. —No, messere;—rispose Damiano.—Poichè tutto è inteso oramai, e per dimostrarvi che questo cambiamento è stato l’ultimo.... se mi permettete, verrò.— Così, anche Damiano aveva seguito l’almirante. Del resto, a bordo della _Nina_ restava un pilota, e parecchi uomini di guardia con lui. La presenza di messer Damiano non era dunque necessaria. Sulla piazza del villaggio, Guacanagari era venuto incontro al capo degli uomini bianchi. Offriva a tutti una refezione, il buon cacìco di Haiti; ma Cristoforo Colombo non poteva accettarla che due ore più tardi, quando fosse compiuta la cerimonia della inaugurazione del forte Natale e del giuramento dei nuovi coloni che dovevano esserne il presidio. Il cacìco fu anzi invitato a quella solennità militare, e con lui i più notabili tra i naturali del luogo. Preceduto dal suo trombettiere e dall’alfiere che portava la bandiera di Castiglia, l’almirante entrò dal ponte levatoio nel forte. I due equipaggi, armati di archibugi e di scuri, lo seguirono, andando a schierarsi contro le palizzate. Cristoforo Colombo, avendo Guacanagari al suo fianco, e i suoi ufficiali d’intorno, prese posto in mezzo al quadrato. Era uno spettacolo solenne per sè stesso; ma più solenne lo rendeva la figura maestosa di Cristoforo Colombo, la cui fronte alta e bianca, illuminata da un raggio di sole, e lo sguardo azzurro, che volentieri spaziava nei mondi lontani, avevano un certo che di sacerdotale, effondendo tutt’intorno un senso di cose sacre ed arcane. Impugnata l’asta della bandiera che l’alflere gli aveva presentata, Cristoforo Colombo fece un passo avanti e parlò alla sua gente. —Compagni ed amici,—diss’egli,—trentanove di voi rimarranno a formare la prima colonia castigliana del nuovo mondo. Questo è un grande onore, ed altresì una grande malleveria. Confido che essi saranno degni dell’uno e dell’altra, ricordando di esser qui nel nome di don Ferdinando e di donna Isabella, re e regina di Castiglia e Leone. Rodrigo di Escobedo, vogliate leggere, anzi tutto, i nomi dei marinai destinati a rimanere nell’isola di Spagnuola. E a mano a mano che i nomi saranno letti, escano gli uomini dalle ordinanze, e vadano a destra, per allinearsi sotto gli ordini di Pedro Gutierrez.— Rodrigo di Escobedo, regio notaio, cavò dal giustacuore un rotolo di carta, lo dispiegò, e lesse ad alta voce trenta nomi di marinai; e questi, ad uno ad uno, usciti dalle ordinanze, andarono a mettersi in fila, a pari con Pedro Gutierrez, primo pilota della _Santa Maria_. —Compagni ed amici,—ripigliò Cristoforo Colombo, dopo che l’ultimo chiamato ebbe preso il suo posto,—ho pensato che alla nuova colonia bisognino uomini esperti di alcuni particolari uffizi: un bombardiere, un calafato, un legnaiuolo, un bottaio, un sarto, un cerusico. Rodrigo di Escobedo, leggete i nomi degli uomini che io destino a questi servizi.— Rodrigo di Escobedo spiegò da capo il suo rotolo di carta, e lesse i sei nomi; ad ognuno dei quali un uomo si mosse ed andò a collocarsi a destra, presso i trenta uomini allineati. Ultimo dei nuovi chiamati era il cerusico. Ma non è da credere che fosse un dottor fisico, un medico, od altro di somigliante. Cerusico, nelle antiche marinaresche, era un marinaio che faceva il barbiere. A quei tempi, ed anche nei tre secoli che seguirono, il marinaio che maneggiava il rasoio sulla faccia dei compagni, sapeva all’uopo trattar la lancetta. Ed anche faceva dei discepoli, senza essere professore d’università, poichè insegnava la doppia arte del radere e del cavar sangue, dello sfregiare i volti e del medicare le piaghe, ad un suo giovane alunno, che assumeva il nome di barbierotto. Trentasei uomini erano ordinati in disparte. Allora Cristoforo Colombo riprese a parlare. —Voi, Pedro Gutierrez, pilota della _Santa Maria_, e voi Rodrigo di Escobedo, regio notaio, mettetevi a capo di questi uomini, riconoscendo per vostro comandante il nostro capitano di giustizia don Diego di Arana, che in virtù dei poteri vicereali a me conferiti dalle Loro Altezze io destino al comando del forte Natale e della colonia castigliana nell’isola Spagnuola.— Qui il nostro Damiano incominciò a dar di gomito al suo buon amico Cosma, che gli stava da lato. —Ed ora a te, mio caro;—diss’egli sottovoce.—Mi duole, sai, di non restare con te; ma poichè il signor almirante ha voluto così.... —Sciocco!—mormorò Cosma, tirando indietro il suo braccio. —Come sarebbe a dire?—esclamò Damiano. —Sciocco, ti ripeto;—tornò a dirgli Cosma.—E accoppami poi, se ti piace. Ma ora sta zitto; il signor almirante ci vede.— Il signor almirante riprese il suo discorso. —A voi, don Diego di Arana! prendete questo vessillo, fatelo sventolare sull’alto della torre, e adoperate in guisa che sia riverito e temuto. Dovunque è la nostra bandiera, ivi è la patria nostra. Voi, ora, che siete destinati al presidio del forte, alla difesa di questa bandiera, nel nome della Santa Trinità, per l’onore di Ferdinando e d’Isabella, per la gloria della Spagna, giurate fedeltà ed obbedienza al vostro comandante don Diego di Arana. —Giuriamo!—gridarono tutti, da Pedro Gutierrez fino all’ultimo dei soldati. Allora Diego di Arana si avanzò alla sua volta, prese la bandiera dalla mano dell’almirante, snudò la sua spada, e abbassandone la punta verso di lui, così ad alta voce parlò: —Ringrazio Vostra Eccellenza della fede che in me riponete, e farò di mostrarmene degno per l’onore dei nostri sovrani e per la gloria della patria, che saranno i miei pensieri costanti. Ed ora, secondo il vostro comandamento, signor vicerè, almirante e governatore generale, isserò la bandiera che mi avete affidata, sulla torre del forte Natale.— Ciò detto, salutò con la punta della spada, e si avviò, seguito dai suoi trentotto uomini, verso il ponte levatoio della torre. Pochi momenti dopo, raccomandato ad una sagola corrente, il vessillo di Castiglia e Leone saliva in vetta al brandale della torre di legno. E la gloriosa ascensione dei colori di Spagna nel sereno del cielo fu salutata dal rimbombo delle artiglierie; un rimbombo inatteso, che fece tremare il cacìco Guacanagari, e cadere i notabili della sua corte sulle braccia del loro vicini spagnuoli. Cristoforo Colombo si volse cortesemente a rassicurare il suo buon amico Guacanagari. Quelle terribili macchine che vomitavano fuoco non erano destinate ad offendere i pacifici abitanti dell’isola, bensì a proteggerli contro i loro nemici Caribi. La cosa era già stata detta più volte; non era male ripeterla ancora a quei semplici uomini; i quali, vinto il primo ed involontario moto di paura, si abbandonavano volentieri alle più pazze dimostrazioni di allegrezza. Lasciata una guardia sufficiente nella torre, Diego di Arana ritornò sulla spianata, col grosso dei suoi. —Abbracciate i vostri amici che restano;—disse Cristoforo Colombo ai suoi marinai.—Avete tutti due ore di libertà; poi ritorneremo alla nostra caravella, per salpare le áncore.— Damiano era rimasto un po’ sconcertato. —O come?—diss’egli a Cosma.—E tu non hai avuta la tua destinazione? —Ci sarà tempo;—rispose Cosma, alzando le spalle. —Tempo? Non troppo. L’almirante ha detto che fra due ore si mette alla vela. E per intanto bisognerà accettare la refezione che ci offre il capo dei Lestrigoni. —Che Lestrigoni? che ci hanno a far qui le tue reminiscenze classiche? Non siamo già in paese di antropofagi. —Oh, non badare. Dicevo così per dire. Sono anzi carissima gente. Peccato che io non possa restarci! —Come? e tu hai cambiato opinione? —Sì, caro, cioè.... non io, veramente, ma il signor almirante, che ha preferito di godere della mia compagnia fino alle coste di Spagna. —Ma bravo! e quando è stato questo cambiamento? —Questa mattina.... poche ore fa.... mentre si veniva alla fortezza. —Oh guarda, guarda!—esclamò Cosma, con l’aria di uno che cascasse dalle nuvole. —Sai?—ripigliò Damiano, felice di essersi levato quel peso dallo stomaco.—Io lo dicevo poc’anzi, che mi doleva della nostra separazione; e tu, senza starmi a sentire, mi hai detto sciocco. —Ebbene? non ho io forse ragione? —Non mi pare;—rispose Damiano.—Si può esser modesti, e non credere di meritare un titolo così alto. —Capisco che bisognerà trovartene un altro più umile;—riprese Cosma, ridendo.—Ma allora, di modesto che volevi essere, mi diventerai orgoglioso. —Senti,—conchiuse Damiano,—fa una cosa equa e ragionevole; non mi dare nessun titolo. —Il nome solo, adunque? —Sicuramente; Damiano, nient’altro che Damiano.— Così dicendo, Damiano pensava: —O non ha l’aria, questo caro ed amato Cosma, di volermi chiamare.... Tolomeo?— Cristoforo Colombo si mosse, per ritornare al villaggio. Damiano a sua volta si scosse, e in compagnia di Cosma seguì la brigata. Guacanagari aveva convitati quel giorno tutti i suoi amici Spagnuoli nella residenza reale. La casa, sicuramente, per quanto fosse spaziosa, non sarebbe bastata ad accoglierli tutti; ma il savio cacìco aveva fatte disporre le mense in giardino, e là c’era posto per dugento, magari per cinquecento persone. L’almirante e i suoi ufficiali notarono con grata maraviglia che il loro ospite aveva copiate le usanze d’Europa, da lui osservate a bordo della _Nina_, facendo stendere sulle tavole dei pezzi di cotone tessuto, a guisa di tovaglia. Quanto ai sedili, non aveva avuto da copiar nulla, poichè i sedili c’erano, in Haiti, e più belli e più ricchi a gran pezza di quelli che aveva l’almirante nel suo castello di poppa. S’intende che al banchetto di Guacanagari i sedili non erano tutti intagliati e ornati d’oro, come i due che si vedevano destinati al cacìco e al suo ospite. Tutte le case dei notabili avevano data la parte loro di sedili, per modo che ogni invitato potè trovare il suo posto, e aspettare comodamente le imbandigioni della cucina Haitiana. Alla tavola, o, per dire più veramente, alle tavole di Guacanagari non sedevano donne. E questo fece piacere a Damiano; quel piacere agro dolce con cui si usa di assaporare la mancanza di una noia alla quale eravamo già predisposti, credendola inevitabile. Ci sono dei dolori che vegliano, e dei dolori che dormono. Lascio i primi, e mi fermo ai secondi, per dire che essi stanno in noi, e non si fanno sentire, se non quando è toccata e tormentata la parte del corpo in cui hanno posto dimora. Così era un certo dolore di Damiano. A patto di non vedersi davanti agli occhi Abarima, la capricciosa selvaggia, egli si sentiva abbastanza tranquillo. Una pena in apparenza più forte era per lui in quel momento l’idea di doversi separare tra poche ore da Cosma. Erano concittadini, erano amici, si erano ritrovati per tanto tempo a vivere insieme, a pensare insieme, ed anche, pur troppo, ad amare insieme. Son cose, queste, che imprimono carattere, e diventano in noi come una seconda natura. Senza quel tormento di Cosma ai fianchi, come si sarebbe sentito solo! Pari di condizione, avevano fatti i medesimi studi; da sei o sette anni non si erano lasciati per un giorno intiero. Non andavano sempre d’accordo, oh no! se ne dicevano qualche volta di crude e di cotte; ma infine, a questo trattamento scambievole si erano anche avvezzati. Tutto ciò, da un momento all’altro, sarebbe finito.... E perchè? perchè a lui, Damiano, era piaciuto di restare in Haiti e di sposare una pelle rossa; perchè a Cosma era saltato in mente di restare anche lui, e di guastargli le uova nel paniere. Ed egli, Damiano, si era seccato, aveva risoluto di andarsene, lasciando l’amico nella trappola che questi aveva immaginato di tendere a lui. Il tiro, perbacco, era da furbo; ma non era, perdiana, da amico. Damiano incominciava a sentirsi nel fondo dell’anima la puntura di un piccolo rimorso, e immaginava che il giorno seguente, a bordo della _Nina_, quella puntura gli sarebbe diventata una piaga. Povera amicizia, che i poeti hanno cantata come un amore senz’ali! Fate che una donna si metta di mezzo, e vedrete dove va l’amicizia. Il che, forse, prova che l’amicizia è un sentimento superficiale, incompiuto, artificiale in gran parte. Certo, non è un sentimento originale, connaturato nella specie umana. Se lo fosse, Domeneddio avrebbe disposte diversamente le cose; prima di fare quel grande miracolo che sapete, avrebbe creati e messi a discorrere insieme due uomini. Non vi pare? Questi ed altri pensieri consimili chetarono lì per lì i rimorsi del nostro Damiano. Del resto, l’allegria d’un banchetto non è fatta per lasciar pensare a lungo; e molte tristezze ad una cert’ora vanno affogate nella varietà dei discorsi che escono di cento bocche, e delle bevande che entrano in cento stomachi assetati. Per quel giorno Damiano faceva a fidanza coi liquori del Nuovo Mondo; dal liquore del cocco fermentato, a quello del palmizio distillato, li accettò tutti ad occhi chiusi. Intorno a lui, così facevano tutti. Lo stesso almirante, che aveva capito dove si andasse a parare con una refezione finale in casa di Guacanagari, aveva annunziata la partenza per quel giorno, ma solamente per potere ad una cert’ora far suonare a raccolta; nell’animo suo era già fermo il proposito di lasciar dormire quella sera la sua gente nei ranci, rimandando la partenza al mattino seguente. Ignoravano questa concessione i marinai; ma si erano governati come se ci contassero sopra; e bevevano, e ridevano; e qualcheduno, più tenero, incominciava a piangere la lagrimetta affettuosa dell’amicizia inumidita, anzi diciamo pure inzuppata. E proprio allora, Dio misericordioso, dovevano capitare le dame? Spettatrici lontane, sì, appostate fra gli alberi, ma pur sempre spettatrici. Damiano intravvide tra quelle graziose ma inopportune creature, la sua bella e crudele Abarima. —Che vuole costei?—borbottò egli tra i denti.—È venuta a farsi beffe di me? Mi vedrai ridere, cara, mi vedrai ridere di gusto, come non ho riso mai, dacchè sono cascato in questa valle di lagrime. Caro il mio Sancio Ruiz,—diss’egli, al suo vicino di destra,—versami da quella amabile zucca una goccia di liquore, ma che non sia una goccia da avaro. Sento che mi rinfresca il palato. Va giù come l’acqua. Ottima è l’acqua; lo ha detto Pindaro. Non conosci Pindaro, amico Sancio? È un poeta greco, che ha detto molte cose, ma tutte assai meno chiare di questa.— E ciarlava, il buon Damiano, cercando di svagarsi. E beveva ancora, tenendo bordone a tutti i discorsi, rimbeccando tutti i motti che si volgevano a lui. Così bevendo e ciarlando, capirete che si svagò quanto occorreva, ed anche un tantino di più. Sancio Ruiz, non era più Sancio Ruiz; diventava Rodrigo di Triana, poi un altro, e ancora un altro, fino a diventar Cosma, Tolteomec, Diego di Arana e Cusqueia. A quell’ora non c’erano più razze, non c’erano più gradi; tutti amici, tutti fratelli, e viva l’allegria. —Tolteomec, io t’amo;—diceva Damiano.—Ci dobbiamo lasciare; ma non importa, io t’amo. Perchè non ti risolvi di venire con noi in Azatlan? Capisco; tu vuoi restar qua, perchè sei innamorato di Caritaba.... no, dico male, di Abitaba.... cioè, no, di Carabima. Oh, infine, si chiami come le pare. Quando un nome non vuol venire, si lascia stare. E bisogna anche lasciar stare le donne. Usane con parsimonia, amico. La scuola di Salerno lo raccomanda; lo raccomandano a gara Celso, Galeno e.... quell’altro.... chi è più quell’altro? Aiutami a dire, per bacco! —Sei ubbriaco, mio caro;—gli disse Sancio Ruiz all’orecchio. —Io ubbriaco! Sei matto? non so chi tu sia, caro amico, perchè un po’ mi sembri uno, un po’ mi sembri un altro. Ma questo è effetto di strabismo. Del resto, che cosa fa il nome, quando c’è la persona? Il nome, quello, è un ritrovato dell’uomo. —Che diavolo annaspi tu ora? —Sì, ripeto, un ritrovato dell’uomo; che cosa ci trovi di strano? L’uomo dice: io mi chiamerò così e cosà.... Cioè, no, non lo dice lui, ma un altro per lui.... il prete che lo battezza.... Se, per esempio, il prete avesse battezzato quest’acqua di cocco, dicendole: tu ti chiamerai vino di Cadice.... Che cosa volevo dire? Ah, ecco, che tu ti chiami Gutierrez, e che oggi si sta allegri a quel Dio! Viva l’almirante, e crepi chi gli vuol male.— Si era rimasti abbastanza a tavola. Il signor almirante si alzò, e il cacìco Guacanagari con lui. Quali di buona voglia, e quali a malincorpo, ad uno per volta si alzarono tutti i commensali. Damiano si alzò, perchè si alzava Pedro Gutierrez, ossia Sancio Ruiz, o, se vi piace meglio, Rodrigo di Triana. Il nome, del resto, non fa e non conta; che cosa è il nome, quando c’è la persona? Damiano, adunque, si alzò da sedere, perchè si era alzato il suo vicino di destra, quello che gli versava da bere. Ma appena fu in piedi, sentì di non essere in gambe, e di aver bisogno del braccio di Tolteomec; cioè, no, di Cusqueia; anzi, no, di Diego di Arana; o meglio, del primo venuto, purchè lo sostenesse bene. Frattanto, nel vasto giardino di Guacanagari, i crocchi, i capannelli, si andavano facendo e disfacendo senza posa. Erano anche in gran numero gli abbracci, i baci, le tenerezze. Chi rideva e chi piangeva. Certuni, come Damiano, piangevano tutt’insieme e ridevano. —Buona notte, amici!—balbettava Damiano.—Voi restate, io parto. E poichè parto, aspettate, vi faccio un discorso. Bisogna andare. Il comando è quello; e quando c’è il comando, l’uomo, sia marinaio o soldato, deve obbedire. Tutti obbediscono, all’uomo, alla donna, al destino, alla legge di natura. Si va, si va, e qualche volta si arriva. Noi arriveremo. Addio, dunque, miei vecchi amici. Oh, sei qua, tu, Cosma? Ti saluto e ti abbraccio. Ti prego di abbrac.... no, abbracciare, no! Ti prego di salutarmi tanto e poi tanto Caritaba, quella divina selvaggia.... quella selvaggia fera, come direbbe un petrarchista. Addio, caro biondino! Ma che vedo? a proposito di colore.... che cos’è? ci hai già la pelle rossa anche tu?— Cosma (perchè era lui, quella volta, e Damiano, per miracolo, non si era ingannato chiamandolo a nome) Cosma prese l’amico sotto il braccio, e lo condusse fuori, col resto della comitiva. —Caro amico! son proprio contento di sentire il tuo braccio sotto il mio.... o il mio sotto il tuo.... Fa lo stesso, non è vero? Son proprio contento. Tu non lo sarai ugualmente, già me lo immagino. Te l’ho fatta! ma devi perdonarmela, vedi, devi perdonarmela. Perchè infine, capirai, certi tiri agli amici non si fanno. Ero già il re di Haiti, o stavo per diventarlo. E tu non l’hai voluto; tu sei venuto a vogarmi sul remo. Confessalo, è stata un’azionaccia. E non per me, finalmente. Un regno! che cos’è un regno?... Ma intanto, ecco un povero paese che sarà per tua colpa infelice. Se pure non hai fatto giuramento di renderlo felice tu stesso!... Ma già, non riescirai, te lo pronostico io. Tu sei troppo grave, troppo accigliato, troppo malinconico, mio caro; non sei l’uomo, per questo popolo, lasciatelo dire, non sei l’uomo. Vuoi che te lo canti in musica? Non sei l’uomo. Io, io, ero l’uomo per questa gente; li avrei fatti stare allegri dalla mattina alla sera, e dalla sera alla mattina. Sire, il popolo soffre! Soffre? Ebbene, balli, e beva, sopratutto, beva molto. Chi beve balla; e se non balla lui, gli balla la terra sotto i piedi, come a me in questo punto. Perchè io sono felice, mio caro. Scusami, sai, perdonami la mia felicità. Io non ne posso nulla; è stato il desiderio dell’almirante; e credi pure che mi strappa le lagrime. Ahimè, Cosma! ti vedrò io più, su questa buccia di limone? Parto, ti lascio, addio, voglimi bene e non se ne parli più. Vado in Ispagna; ma non fo conto di trattenermi molto. Andrò in Italia, e laggiù.... laggiù, voglio accasarmi ancor io. Bisogna farla tutti, prima di morire, la gran corbelleria. Sposerò anch’io.... chi sposerò?... Se è vedova, guarda, la sposo lei.... Se non è vedova lei, sposo Giasone del Maino.— Cosma non diceva parola. Era profondamente seccato di quella parlantina dell’amico e temeva ad ogni istante di sentirlo dar fuori. Alle ultime frasi, poi, gli diede una stratta poderosa, tentando di ricondurlo in carreggiata. Ma quell’altro non era in grado di capirlo. —Ti dispiace?—ripigliò.—Forse hai ragione. Il cane non deve ritornare dove fu bastonato. Quanto al legista, capirai che dicevo per ridere. E mi fa ridere, quel Giasone del Maino. Con quella faccia di cartapecora! Ma come ha potuto madonna Ca....— Damiano non potè finir la parola. Cosma non gli aveva più dato una stretta, ma un pizzicotto. —Che c’è?—gridò Damiano.—Mi hai forse preso per lei? Oso dirti che se ella fosse nei miei panni, avrebbe strillato peggio delle oche del Campidoglio, quando Manlio Torquato andò.... Cioè, dico male, non era Manlio Torquato.... Ebbene, sia chi vuol essere, io non voglio impicciarmi di storia, a quest’ora. —A quest’ora, dovresti star zitto;—gli brontolò Cosma all’orecchio. —Eh, potrebb’essere un buon consiglio;—rispose Damiano.—Ma se io tacessi, vedi, mi addormenterei. E chi dorme non piglia pesci. —Non hai bisogno di prenderne; hai bisogno di trovarti nel tuo rancio, e di smaltire la tua.... come chiamarla? —Chiamala come vuoi, ma aggiungi che è solenne. —Ah, te ne avvedi? —Sì, per bacco baccone! Credi che io non ci veda, dentro di me? Ho studiato filosofia, e l’uomo interiore l’ho tutto qua, sulla palma della mano. —Ebbene,—disse Cosma,—studia l’uomo interiore, e lascia che io e Sancio Ruiz, se vuole essermi cortese del suo aiuto, portiamo sulle braccia l’uomo esteriore. —Dite bene, amico;—rispose Sancio Ruiz.—Levando di peso questo caro Damiano, andremo più svelti. Siamo rimasti gli ultimi, e troppo indietro di tutta la brigata. Ci siete? Una.... due.... —E tre!—disse Damiano, sentendosi balzato in aria.—In seggiolina d’oro, perbacco! Non sono il re di Haiti, ma poco ci manca. A buon conto, il cacìco Guacanagari non ha due gentiluomini come voi a portarlo sulle braccia. Vi prego, amici, lasciate che io vi abbracci. Non è solamente per ringraziarvi, ma ancora per sostenermi un po’ meglio. Mi sento sballottare.... mi sento sciabottare, come un fiasco mezzo vuoto. —Strana illusione!—esclamò Sancio Ruiz.—Voi siete pieno fino all’orlo. —E non mi fate spandere, allora.— Furono, per quel giorno, le ultime parole di Damiano. Quell’andatura dei portatori e quel dondolio regolare gli conciliavano il sonno. Balbettò ancora poche sillabe sconnesse, reclinò la testa sulla spalla di Cosma, e si addormentò di un sonno profondo, che non dovevano romperlo neanche le cannonate con cui mezz’ora dopo la _Nina_ salutava la partenza di Guacanagari dalla spiaggia. Il cacìco aveva accompagnato fin là il suo amico Cristoforo Colombo. La scena del commiato fu tenera e commovente per tutti. Cosma e Sancio Ruiz avevano approfittato dell’affollarsi che facevano gli astanti intorno all’almirante e al cacìco di Haiti, per portare Damiano in uno dei palischermi che stavano aspettando alla riva. Come lo ebbero coricato là dentro, misero mano ai remi e presero il largo. Giunti sotto la caravella, issarono il dormente a bordo, come avrebbero issata una botte d’acqua. Cinque minuti dopo, mentre l’almirante e il grosso della sua gente erano ancora a terra, Damiano era steso nel suo rancio, e dormiva il sonno del giusto. _Capitolo XVI._ Dove può condur le ragazze brune il soverchio amore del biondo. Dirvi che la mattina seguente Damiano si svegliò con la bocca amara, la lingua impacciata e una sete da cani, è un dirvi ciò che avrete immaginato, sapendo in che condizione fosse andato, o, meglio, fosse stato portato a dormire. Questa è la storia di tutte le.... come chiamarle?... quando sono state solenni. Ma al nostro Damiano, svegliandosi, parve ancora di essere nella sera antecedente; poichè, aprendo gli occhi alla luce, si vide Cosma da lato. «Sogno, o son desto?» avrebbe egli potuto domandare a sè stesso, come un personaggio da tragedia. Ma le tragedie, bontà loro, non erano nate ancora (parlo delle italiane), poichè la _Sofonisba_ di Galeotto del Carretto doveva aspettare ancora dieci anni, e quella di Gian Giorgio Trissino ventidue. —Come?—diss’egli, invece.—Ancora qui? —Ancora, e sempre;—rispose Cosma. —Sempre? A terra ti aspetteranno. —Lasciali aspettare. —E, quanto a me....—disse Damiano, sbadigliando e stiracchiandosi le membra,—possono far questo ed altro; ma forse non si deve partire, prima di notte? —Spero bene;—rispose l’amico;—ma di qui a notte, c’è tutta la giornata. —Che cosa vuoi tu dire? —Che non è più ieri; che hai dormito saporitamente dodici ore, e che siamo all’alba del 3 di gennaio. —Il signor almirante ha dunque ritardata la partenza? —Sembra;—disse Cosma;—forse per dare a molti dei nostri compagni un riposo di cui il banchetto di Guacanagari faceva sentire il bisogno. —Ho capito;—rispose Damiano, sorridendo;—tutti cotti come monne?... —E come te, dolce amico. —Non me ne parlare! devo essere stato assai brutto. —Bello non eri di certo; ma consolati, ne ho veduti dei più brutti. —Tu metti un balsamo pietoso sulla mia ferita,—disse Damiano.—Te ne ringrazio dal profondo dell’anima. Ora, dovremo separarci, non è vero? —Matto!—mormorò Cosma. —Perchè?—rispose Damiano.—Non devi tu restare in Haiti? —Matto!—replicò l’amico, con accento tra canzonatorio e compassionevole. —Matto!—esclamò Damiano.—Ieri, se mi rammento bene, tu mi hai detto sciocco. Oggi mi dai del matto. Non potresti scegliere? —Non c’è da scegliere;—rispose quell’altro.—Matto e sciocco ad un tempo. O che? credevi tu che io fossi capace di lasciar te, come tu eri capace di lasciar me? —Io....—balbettò Damiano.—Io ero in un caso diverso. —Si, difatti,—rispose Cosma,—tu avevi preso una ubbriacatura più che solenne, e non di bevanda. Ma ti saresti svegliato anche da quella, mio povero Damiano; e un po’ peggio che non ti svegli oggi da questa. Comunque sia, e per ciò che riguarda il mio restare in Haiti, pensa di aver sognato; e svegliati, e non se ne parli più. —È presto detto: non se ne parli più! L’almirante.... non ti aveva parlato? —Mi ha parlato, sì, offrendomi.... quello che tu devi sapere. Ed io ho ricusata l’offerta. —Egli non me ne ha detto nulla! —Lo credo, io stesso l’avevo pregato di non dirti nulla. Per contro,—soggiunse Cosma,—gli ho detto tutto, io, dall’_a_ fino alla _zeta_. Povero grand’uomo! egli ride tanto raramente! Ma ieri l’altro ha riso veramente di cuore. —Alle mie spalle!—mormorò Damiano. —Volevi che ridesse alle mie?—ribattè Cosma.—Io non ho fatto nulla. —Eh via, non esser tanto modesto! Hai fatto il tuo madrigale alla bella selvaggia. —Madrigali! io? Sai che non so far versi. —Mettiamo che non fosse un madrigale in versi; l’avrai fatto in prosa. E sarai stato gradito egualmente. Con quei capelli biondi, che strappano i cuori! —E dàlli, coi miei capelli biondi!—balbettò Cosma.—Vuoi tu che me li faccia tagliare? Ti servo subito. —Sì bravo!—replicò Damiano.—Perchè se ne faccia una costellazione, come della chioma di Berenice!— Mentre i due amici si stavano bezzicando così, in istile agro dolce, all’ombra del gavone di prora, un rumore di voci giungeva dalla coperta. Non erano le solite voci dei marinai, intenti a qualche manovra di bordo; era un gridìo confuso, che in certo punto pareva un alterco. —Che è ciò?—disse Cosma, tendendo l’orecchio.—Selvaggi? Mi par di riconoscere delle voci Haitiane. Che cosa vengono a fare, proprio sul punto che si devono salpare le áncore? —Verranno per darci l’addio;—rispose Damiano.—Cioè, intendiamoci, per darlo a qualcuno dei più desiderati. A te, per esempio. Se tu resti a bordo, è naturale che Abarima venga a darti un ultimo amplesso. —Finiscila!—gridò Cosma, alzando le spalle.—Sarebbe il primo, se mai. —Giuralo. —Te lo giuro, per tutti i santi che vuoi. Io non le ho detto una parola. —Che? come? non le hai neanche parlato? —No davvero. —Non l’hai veduta? —Sì, l’ho veduta.... e nient’altro. —Ho capito,—disse Damiano;—s’è innamorata a volo. —O stando ferma al suo posto,—rispose Cosma, ridendo,—come io ero fermo al mio. Ma che ti salta in mente di credere? Io ho inventata la risoluzione di restare in Haiti, vedendo che ci volevi restar tu, per fare una sciocchezza; e l’ho inventata, nella speranza di farti mutare opinione. —E l’ho mutata, ma non per la tua invenzione;—rispose Damiano.—L’ho mutata perchè quella capricciosa pelle rossa, dopo tanta tenerezza per me, mi venne fuori coi capricci, parlandomi di Cosma, non sapendo più parlare che di Cosma.... e di Cosma _taorib_. Mi capisci? di Cosma _taorib_. Spero bene che tu conoscerai il significato di questo maledetto aggettivo. —Mio caro,—disse Cosma, arrossendo come una fanciulla,—che cosa ti posso dir io? Contro ogni merito mio, contro ogni ragione, le sarò sembrato.... _taorib_. Ma una cosa è certa, e tu la puoi credere: che io non le ho detto una parola.— In quel punto capitò sull’uscio del gavone di prora Bartolomeo Roldan, terzo pilota della _Nina_. —Cosma e Damiano!—diss’egli. —Siamo qua;—rispose Cosma.—Che cosa comandate? —Il signor almirante vi domanda. —Tutti e due?—disse Cosma. —Tutti e due, subito, a poppa;—rispose il pilota. Ciò detto, si allontanò, e per lasciarli passare, ed anche per andarsene alle sue faccende. —Che cosa vorrà il signor almirante da noi due?—disse Damiano.—Se non chiamasse che me, capirei; vorrebb’essere una ramanzina, per quella cotta di ieri. Ma tutti e due!... —Per saperlo,—disse Cosma,—sarà meglio che andiamo. —È giusto, e tu parli come un libro;—rispose Damiano, saltando dal suo rancio, dove fino allora ora rimasto seduto. Escirono i due amici dal gavone di prora; Cosma con passo sicuro, e Damiano barcollando un pochino. Non aveva nulla; ma si sentiva un po’ vuota la testa, e ad onta di ciò, un pochettino più pesante del solito. L’equilibrio delle parti era per conseguenza turbato. Ma l’aria aperta lo rinfrancò, e più la necessità di star saldo, alla presenza del signor almirante. Cristoforo Colombo era seduto nella sua cameretta, entro il castello di poppa. Là dentro c’era posto solamente per lui e per un tavolino, su cui l’almirante teneva le sue carte nautiche spiegate e il suo giornale di bordo. Quella volta c’era un personaggio di più; non fu senza meraviglia che Cosma e Damiano riconobbero in quel personaggio il fratello di Guacanagari, il padre di Abarima, Tolteomec, insomma, il vecchio Tolteomec, che piangeva, come un vitello giovane, strappato dalla poppa materna. L’almirante non pareva di buon umore. I due marinai fiutarono subito il vento della burrasca, e non osarono neanche domandargli che cosa volesse egli da loro. —Messeri,—incominciò l’almirante,—una fanciulla del villaggio di Guacanagari è stata rapita questa notte. Da voi, forse? —Da noi, signor almirante?—gridò Cosma, levando la fronte.—Noi non abbiamo più lasciata la caravella dal pomeriggio di ieri. E ci siamo imbarcati prima di voi. —È vero, questo; vi avevo ben veduti;—rispose Cristoforo Colombo. Quindi, volgendosi al fratello di Guacanagari, che stava lì mezzo ingrognato e mezzo piangente, gli disse: —Ti eri ingannato, Tolteomec. Io avevo ben veduto salire a bordo questi uomini che tu accusi; ma ho voluto che essi medesimi ti dicessero quello che io già sapevo di loro. —Mia figlia?—gridò Tolteomec.—Voglio mia figlia. —Quando è sparita dalla tua casa?—chiese Damiano, dopo avere col gesto domandata licenza all’almirante. —Questa notte;—rispose Tolteomec. —Se è venuta questa notte da noi,—ripigliò Damiano,—qualche piroga l’avrà portata. Non ne hai chiesto a nessuno dei tuoi?— Tolteomec non seppe rispondere. Egli non aveva pensato a fare una simile inchiesta. Gli era mancata la figliuola; era corso subito a bordo. —Se ella è qui, come tu hai sospettato, bisogna cercarla qui;—riprese Damiano. —E non sarà difficile ritrovarla, se c’è;—soggiunse l’almirante.—Messer Damiano, chiamatemi Vincenzo Yanez Pinzon.— Il comandante della caravella era sulla corsìa, in attesa di ordini per salpare le áncore. Chiamato da Damiano, giunse subito alla presenza dell’almirante. —Vincenzo Yanez,—gli disse Cristoforo Colombo,—fate radunare tutti gli uomini, ufficiali e marinai, in coperta.— Il comando dell’almirante fu subito eseguito. Allora Cristoforo uscì dalla sua camera, seguito da Tolteomec e dai due genovesi. —Sono tutti fuori?—domandò egli a Pinzon. —Signore, ci son tutti;—rispose il capitano. Cristoforo Colombo passò sulla fronte della sua marinaresca, andando verso il gavone di prora. —I nostri naturali son laggiù, non è vero? —Sì, mio signore. —Bene, venite con noi, e veda questo povero padre che noi non gli abbiamo rubata la sua figliuola.— Entrarono allora nel gavone di prora. Là dentro stavano accovacciati i naturali di Guanahani, di Cuba e delle altre isole visitate dalla spedizione, prima di toccare ad Haiti. —Vedi, Tolteomec;—disse l’almirante.—Qui sono tutti i tuoi confratelli, che vengono per loro elezione, spontaneamente, con noi. Guarda bene, fruga dovunque; se tra essi è la tua figliuola, prenditela e riconducila a terra.— Tra i naturali era Cusqueia, il più intelligente e il più utile degli interpetri. Egli, in quel momento, tremava a verga a verga, e volgeva di qua e di là i suoi occhietti smarriti. —Signor almirante,—disse Damiano, che aveva notato il turbamento dell’interpetre,—chiedete a Cusqueia perchè egli tremi a quel modo. —Padrone!...—balbettò il selvaggio, buttandosi ginocchioni.—Cusqueia innocente. —Ah! davvero!—disse l’almirante.—Tu ti scusi innanzi di essere, accusato! Dimmi dunque dove hai nascosta la figlia di Tolteomec. —Cusqueia innocente! Cusqueia non rubato. Figlia di Tolteomec voluto venire con lui. —Di bene in meglio;—riprese l’almirante.—E dov’è ora, la figlia di Tolteomec, che non la vedo in mezzo a queste donne?— Cusqueia non rispondeva, ma i suoi occhietti bianchi ammiccavano verso certe casse di marinai che erano collocate l’una sull’altra, contro gli staminali della nave. —Se tu non ce lo vuoi dire, daremo noi un’occhiata tutto intorno;—ripigliò l’almirante.—Vincenzo Yanez, volete incominciare di là?— Il Pinzon, che aveva ben veduto dove ammiccasse Cusqueia, andò difilato verso quella catasta di casse, diede una guardata dietro all’ingombro, stese un braccio, e lo tirò a sè, traendo fuori un involto di cenci. Tale infatti appariva in principio, e nella mezza oscurità del luogo; ma ben presto da quel grigio involucro balzò fuori, quantunque riluttante, una figura di donna. Tolteomec riconobbe sua figlia, e corse avanti, prendendola fra le sue braccia. —Abarima! mia dolce figliuola!—gridava egli, ma a stento, con voce soffocata dalla gioia.—Ti ho ritrovata.... ti ho salvata, mia povera bambina! Se non me ne avvedevo subito.... Se non venivo subito dagli uomini bianchi.... ti avrei perduta per sempre!... Ma chi è.... dimmi, chi è l’uomo che ti ha rubata a tuo padre?... Il capo degli uomini bianchi è buono per noi, terribile per tutti i cattivi.... Egli punirà i cattivi, che rubano le creature ai padri loro. —Nessuno....—rispose Abarima, singhiozzando.—Sono stata io. —Tu? come? non è possibile. —Io, io sola... sono fuggita dalla tua casa.... venuta io. Il capo degli uomini bianchi non punisca nessuno.— Tolteomec era rimasto atterrato da quella confessione della sua dolce figliuola. —Vedi?—gli disse l’almirante.—Nessuno è colpevole qui. —Ah!—esclamò Tolteomec.—Un nero spirito ha turbata la mente della mia creatura.— Qui il nostro Damiano non potè trattenersi dal volgere un’occhiata al suo vicino Cosma. —O nero, o biondo,—diss’egli tra sè,—un turbatore c’è stato. —Non ti affannare, amico;—diceva frattanto l’almirante.—Ella finalmente ti è resa, e tu puoi ricondurla a terra. Vincenzo Yanez, non è che un piccolo ritardo nella nostra partenza; fate armare il palischermo. —No, no!—gridò tosto Abarima, che aveva ben capito l’ordine dell’almirante, quantunque fosse dato in lingua castigliana.—Non uscirò dalla grande piroga. Voglio andare.... con gli uomini bianchi.... in Azatlan! —Questa ci voleva!—scappò detto a Damiano. Non aveva parlato ad alta voce; pure l’almirante lo udì. —E chi ne è stato la prima cagione, mi faccia il piacere di star zitto;—diss’egli, in dialetto genovese, volgendosi dalla parte di Damiano, ma senza guardarlo in viso. Damiano si tirò indietro e si fece più piccino che potè; arte insegnata all’uomo dalla lumaca e dal riccio. Tolteomec frattanto aveva presa la sua figliuola per un braccio, facendo prova di tirarla fuori. Ma ella si mise a piangere, ad urlare, a strillare che non si sarebbe mossa di là. Voleva andare in Azatlan, lei, voleva andare con gli uomini bianchi, coi figli del cielo; e volgeva a Cosma delle occhiate supplichevoli, che Cosma non vedeva, poichè guardava ostinatamente il tavolato. Le vedeva bensì l’amico Damiano, per cui erano tante trafitture ai precordii. —Senti, bambina....—disse Cristoforo Colombo.—Sii buona, obbedisci a tuo padre. Diglielo tu, interpetre,—soggiunse, volgendosi a Cusqueia,—diglielo tu, che una buona ragazza deve obbedire a suo padre; altrimenti il grande Spirito la punirà.— Cusqueia si provò a tradurre l’ammonizione. Ma la capricciosa selvaggia non aveva mestieri di traduzioni; intendeva il testo, leggendo negli occhi alla gente. —Obbedirò;—diss’ella.—Mi portino via; ma questo sarà segno che si vuole la mia morte. —Che cos’è che tu dici, Abarima?—gridò Tolteomec.—Pensi tu ciò di tuo padre? —Io penso,—rispose Abarima,—che voglio andare in Azatlan. Volete che io ritorni in Haiti? Ritornerò; ma di lassù, da quella rupe che pende sul mare, mi getterò nel profondo, mi sfracellerò la testa, come la figlia di Niguana.— Tolteomec cacciò un urlo, inorridendo. Egli rammentava troppo il fatto doloroso, che un anno prima aveva commosso di raccapriccio e di pietà il villaggio di Guacanagari. Anche la figlia di Niguana si era uccisa per amore. —Tu vuoi dunque far morire tuo padre?—diss’egli piangente. —No, padre mio;—rispose Abarima.—Voglio andare in Azatlan.— Tolteomec rimase un istante perplesso; poi, scuotendo la testa, come un uomo che abbia presa una risoluzione, le disse: —Sia fatta la tua volontà.— Abarima diede un sobbalzo, a quelle parole di suo padre, e sgranò tanto d’occhi, per guardarlo nel viso. —Che vuoi tu fare?—chiese a Tolteomec l’almirante. —Il grande Spirito lo vuole;—rispose Tolteomec, sospirando.—Seguirò mia figlia. Tutti questi altri abitatori delle isole vengono con te in Azatlan, mio signore? —Si;—rispose l’almirante. —E tu li fai prigionieri? —No, essi vengono liberamente, come ti ho detto. Vedranno il re e la regina di Spagna, della terra ricca e felice donde noi siamo partiti; vedranno le nostre città, siederanno alla nostra tavola come fratelli, adoreranno il nostro Iddio nella sua casa d’oro, e poi, nobilmente vestiti, ritorneranno con noi a queste isole. —Dici tu il vero, mio signore? —Io non ho mai detto menzogna. Per il mio Dio ti giuro che i nostri amici delle isole ritorneranno alle loro case. —Ti credo;—disse Tolteomec.—Tu sei un padre per noi, e l’amore di un padre brilla nei tuoi occhi del color del cielo. Sii buono coi tuoi figli delle isole, che confidano in te.— Abarima si avvinghiò al collo del vecchio e coperse il suo volto di baci. —Rimani mio ospite;—disse l’almirante.—Certo è Dio che lo vuole, perchè la sua fede sia radicata più presto per il tuo nobile esempio in questa terra da noi dischiusa al suo culto.— Ciò detto, e più per sè che per il suo nuovo ospite, che non era in grado d’intenderlo, Cristoforo Colombo uscì dal gavone di prora. —Messeri,—diss’egli a Cosma e a Damiano, che lo avevano seguito in coperta,—perdonate se ho avuto l’aria di dubitare della vostra lealtà. Ma anche voi converrete, io spero, che uno di voi è cagione di questo aumento di passeggieri a bordo. —Cagione involontaria;—soggiunse Damiano. —Ne siete ben sicuro?—rispose l’almirante.—Non eravate voi, che volevate restare in quell’isola? —È vero;—disse Damiano.—Ma il voler restare nell’isola è tutt’altra cosa dal portarne via gli abitanti. Perdonate, signor almirante, se io mi difendo. E forse mi difenderò male. Ma una cosa dovrebbe esser certa: che la figliuola di Tolteomec non viene in Ispagna per i miei capelli neri. —I neri avranno incominciato; i biondi hanno finito di far perdere la testa a quella povera ragazza; dunque, lasciamola li;—conchiuse l’almirante, con accento benevolo.—Io in fondo non sono scontento che due naturali di nobile famiglia vengano con gli altri alla corte di Spagna. Istruiti nella nostra religione, potranno far molto, al ritorno. Piuttosto, prima di salpare le áncore, bisognerà chiamare qualcuno di questi naturali che girano sempre intorno alla caravella, perchè si rechi da Guacanagari, ad avvertirlo della risoluzione di Tolteomec. Cusqueia!— Cusqueia si avanzò, per ricevere gli ordini del signor almirante. Frattanto, Damiano e Cosma si tiravano rispettosamente in disparte. —Ed ora, come te la cavi?—disse Damiano all’amico.—Rispondimi. —Parli a me?—disse Cosma di rimando. —A te, sì. A chi vuoi che parli? a Kublai kan, che non c’è? al prete Janni, che non abbiamo ritrovato? Ti domando che pesci vuoi pigliare, in questo tragitto. Se la principessa è venuta per te, cortesia vuole che tu la sposi. —Io? Sei matto. —Sì, lo so, matto o sciocco; anzi l’una cosa e l’altra ad un tempo. È una storia vecchia, e non mi dà lume di nulla. Amore con amor si paga, dice il proverbio. Ed anche Dante, nel quinto canto dell’_Inferno_.... —Oh vacci un po’ tu!—proruppe Cosma, seccato. Ma quell’altro non si sgomentò del passaporto che aveva ricevuto. —Neanche questo è rispondere;—diss’egli.—Io andrò all’inferno, se mai, col grande Achille, con Paris, Tristano, ed altre mille ombre che amore ha fatte uscire di vita; tu nel purgatorio della gente ammogliata.— Cosma gli fece una delle sue solite spallucciate. Poi, mutando registro, gli si accostò, prendendolo per il braccio. —Non mi fare il ragazzo, e ragioniamo;—gli disse.—Ti ho detto e ti ripeto che non ho nessuna colpa di ciò che avviene. Questo è un gran guaio; e mi dà anche molta noia, perchè mi rende ridicolo. —Non lo dire! Può esser ridicolo un uomo amato a quel modo? e biondo per giunta? —Finiscila, ti prego. Qui bisognerà studiare qualche cosa. —Io ho bell’e studiato;—disse Damiano. —Sentiamo dunque. Che cosa faresti tu, nei miei panni? —Quello che farei ugualmente, stando nei miei. —E sarebbe? —Di non darmene pensiero. —È possibile? qui, su queste quattro tavole, dove c’incontreremo ad ogni piè sospinto? —Oh Dei!—esclamò Damiano.—Su queste quattro tavole ci passeggiano cento persone. Gli è come essere in una folla. Del resto, potresti andartene lassù, a vivere sulla gabbia, come san Simone Stilita sulla colonna. Non andare in collera; sai bene che si scherza. Guai a noi, se non sapessimo più ridere. Infine, sai anche tu un po’ di Haitiano. Parlale, quando ti viene alle costole; dille che non è possibile, ciò ch’ella si è messo in testa. Dille che tu ami un’altra, madonna Ca.... —Taci!—gridò Cosma, tentando di mozzargli la parola in bocca. —....tarina;—aveva intanto proseguito Damiano.—L’ho detta. Ma non ti confondere, mio dolce amico. Non le diresti nulla di nuovo. —Perchè? —Perchè io le ho spifferato ogni cosa. Che vuoi? Avevo un diavolo per occhio, e non ci vedevo più lume. Speravo di sviarla da te, raccontandole che eri innamorato di un’altra donna, e che non avresti potuto mai levartela dal cuore. Sai che cosa m’ha risposto? Che certamente la Bes.... quell’altra, insomma, ti aveva gettato un sortilegio, e che bisognava scongiurarlo. Di questo, anzi, ella stessa si sarebbe presa la cura. Capisci, a che rischio eri? Chi te ne ha fatto fuori è stato l’almirante, con la sua risoluzione di partire. Se no, Dio sa quali pentolini metteva al fuoco, questa cara selvaggia! e Dio sa quali succhi di erbe magiche sarebbero stati filtrati! Almeno ci fosse stata speranza di guarirti!... —Non è possibile,—disse Cosma, sospirando. —T’intendo; sei l’Oraziano _tribus Anticyris insanabile caput_. —Smettila, col tuo latino;—brontolò Cosma.—E lasciami in pace, se non hai altro che chiacchiere da offrirmi in rimedio.— Ciò detto, si allontano dal capo di banda, dove era stata tenuta quella piccola conversazione. —Vedete che pretese!—disse Damiano tra sè.—Viene a mettersi tra me e la figliuola di Tolteomec; fa succedere tutto questo tramestìo, e vuole che io gli trovi il bandolo per uscirne. Quanto a me, sono come l’uomo che ha cenato; prendo il fresco e me ne vado a letto.— Damiano parlava per figura; nel fatto, non era l’ora di andare a letto, sebbene fosse quella di prendere il fresco. Le áncore erano state salpate; gli uomini d’albero avevano spiegate le vele, e la _Nina_ incominciava a sentire l’impulso del vento. Si faceva rotta per levante, andando verso un alto promontorio, coperto di verzura, in forma di padiglione; il quale, per essere unito alla Spagnuola da una stretta e bassa lingua di terra soltanto, rassomigliava da lontano ad un’isola piramidale. Cristoforo Colombo, ricordando l’arcipelago del Tirreno, diede a quel promontorio, che pareva un’isola, il nome di Montecristo; un nome che gli è rimasto, crediamo noi, per miracolo. Infatti, di tanti altri nomi che il grande scopritore impose ad isole e coste del Nuovo Mondo, la più parte sono stati mutati. «Tanto fa!», può dir egli, dal luogo di pace in cui vive il suo spirito. «Non han dato il nome di un altro a tutta quella parte di mondo che ho scoperta io, contro la ignoranza prepotente e la invida malevolenza degli uomini?» Il vento, che era scarso da principio, ma pareva favorevole, si voltò ben presto contrario. La _Nina_ fu costretta a temporeggiare due giorni in una vasta baia a ponente di Montecristo. La mattina del 6 incominciò a spirare un fil di vento da terra, e l’almirante si rimise in cammino. Ma quel po’ di vento cadde quasi subito, e Cristoforo Colombo pensò che per quel giorno il meglio fosse di restare in attesa. Noiose giornate, quando il marinaio aspetta il vento; noiosissime, quando il vento, dopo essersi fatto aspettare, si mette a soffiare una mezz’ora e vi pianta lì sul più bello! I marinai dell’antichità ci avevano almeno la consolazione di attaccare quattro moccoli all’indirizzo di Eolo; ai moderni questa consolazione è mancata. È vero, per altro, che hanno trovato dei succedanei. A bordo della _Nina_ fu presto dimenticata quella piccola contrarietà meteorologica. Un marinaio, che stava in vedetta sull’albero maestro per iscoprire le secche, gridò che scorgeva in lontananza una vela. Corsero tutti a proravia; alcuni s’inerpicarono sulle sartie; tutti guardavano all’orizzonte, dove il marinaio di vedetta aveva indicato. Non c’era alcun dubbio; si vedeva laggiù da levante una caravella, e quella caravella era la _Pinta_, la scomparsa, la irreperibile _Pinta_. Immaginate la consolazione di Cristoforo Colombo, e il giubilo, il tripudio dei suoi marinai. Tra questi, meno tripudianti, ma più profondamente lieti, erano Cosma e Damiano, —Caro mio;—diceva Damiano all’orecchio di Cosma;—questo è il rimedio che tu volevi da me. Te lo porta Martino Alonzo Pinzon. Qui, sulla _Nina_, siamo troppo pigiati; qualcheduno dovrà trasbordare. O i principi selvaggi, o noi.... è naturale.— La _Pinta_ aveva il vento a seconda, e veniva a golfo lanciato verso la _Nina_. Cristoforo Colombo l’aspettò un’ora, quanto occorreva per farsi bene avvistare, poi fece virare di bordo per ritornare al sorgitore che aveva abbandonato quella mattina. La _Pinta_ capì che egli faceva ciò, non potendo lottare col vento contrario, che a lei serviva così bene, e lo seguitò nella rada. Due ore dopo, i due legni erano accostati, e Martino Alonzo Pinzon saliva a bordo della nave capitana. Fu allora uno strano dialogo tra lui e l’almirante; un dialogo in cui l’uno faceva discorsi a perdifiato, e l’altro rispondeva a monosillabi. Martino Alonzo sapeva bene di doversi giustificare della sua diserzione; e affastellava ragioni su ragioni, per dimostrarla involontaria; parlava di grandi cose che aveva fatte, non potendo ritrovare l’almirante, di regioni ricchissime che aveva visitate; si scusava, e aveva l’aria di aspettare un premio, se non per il merito suo, per la fortuna che lo aveva assistito. L’almirante lo lasciava dire; frenava lo sdegno, e accettava in silenzio le scuse; a tutto l’altro rispondeva con brevi cenni del capo. Alcune particolarità del racconto di Martino Alonzo confermavano l’opinione che egli avesse volontariamente disertato, mosso com’era da un sentimento di cupidigia. Separandosi dalla _Nina_, egli aveva fatto vela verso levante, cercando un’isola immaginaria di cui i selvaggi imbarcati sulla _Pinta_ gli andavano magnificando i tesori. Dopo aver perduto un po’ di tempo in mezzo ad un gruppo d’isolette (forse le Caiche) era stato condotto alla costa di Haiti, dove si era fermato tre settimane, trafficando in più luoghi coi naturali, e più particolarmente in un fiume quindici leghe distante dal sorgitore in cui era rimasto l’almirante, dopo il naufragio della _Santa Maria_. Martino Alonzo aveva ammassato oro in gran copia, serbandone la metà come capitano, distribuendone l’altra ai suoi uomini, di cui per tal modo intendeva assicurarsi la fedeltà e la discretezza. Fatto un bottino ragguardevole, abbandonava il fiume, traendo seco quattro naturali e due giovani donne da lui prese a forza, con intenzione di venderle in Ispagna. Sosteneva di non avere avuto alcun cenno della presenza di una nave nelle acque di Haiti; e protestava di essersi mosso per l’appunto alla ricerca dell’almirante, quando (vedete combinazione fortunatissima!) lo aveva avvistato nelle acque di Montecristo. Cristoforo Colombo non gli disse di credere e neppure di non credere alle sue scuse. Perduta ogni confidenza nel Pinzon, risolse di ritornare in Ispagna, senza spendere il tempo in altre scoperte. E per disporsi al viaggio, mandò a fare provvigione di legna e d’acqua sulle rive di un fiume che metteva foce nella rada. Era il fiume Jaco, secondo il nome che aveva dai naturali; Cristoforo Colombo lo chiamò rio dell’Oro, per le pagliuzze di marcassita che abbondavano nelle sue sabbie, e che ben simulavano il prezioso metallo. Oggi si chiama il Santiago. _Capitolo XVII._ Come la vista delle Sirene svegliasse l’ingegno di Ulisse. Il vecchio Tolteomec aveva preso per amore della figliuola una risoluzione troppo forte, e l’animo suo la sopportava male. Seduto di continuo sul castello di prora, per concessione del signor almirante, che voleva distinguerlo dagli altri naturali di minor conto, egli non faceva altro, durante il giorno, che guardare la terra da cui si allontanava. Fino a tanto la _Nina_, tra l’andar poco e il non andare affatto, restava a ponente dalla penisola di Montecristo, il fratello di Guacanagari aveva nel suo stesso dolore un conforto; la terra da cui si allontanava, egli l’aveva ancora davanti agli occhi. Ma sul mattino del 9 gennaio, essendosi svegliato da capo il vento di terra, la caravella spiegò nuovamente le vele e si mosse per andar oltre. Voltato il promontorio di Montecristo, egli non vedeva più quel lembo di paese a lui caro, non vedeva più i poggi, le colline, i gioghi risalenti via via dalla spiaggia del mare fino ai monti di Cibao, che torreggiavano dal centro della sua isola natale. Abarima era quasi sempre accanto a lui, per consolare quel mesto dolore. Ma ella non sentiva il mal del paese, e non intendeva lo strazio del cuore che suo padre nascondeva sotto quel malinconico aspetto di simulacro antico. Assai più volentieri che verso terra, ella guardava nell’interno della caravella, sperando sempre il momento di veder Cosma, l’impacciatissimo Cosma, il quale fingeva sempre di aver faccende gravi alle mani, e cansava quanto più poteva le occasioni di ritrovarsi vicino alla figliuola di Tolteomec. Pure, su quelle quattro tavole, e contro l’opinione di Damiano, evitarsi era difficile. A buon conto era impossibile di non essere continuamente gli uni sotto gli occhi degli altri. Fin dal primo giorno, Cosma dovette passare una volta daccanto alla bella selvaggia. Di sicuro ella credette che il biondo marinaio fosse andato a prora per accostarsi a lei; e stette aspettando il suo saluto, e lo guardava intanto fissamente coi suoi grandi occhi d’indaco. —Cosma!—bisbigliò essa, mentre egli le passava daccanto, per andare all’albero di trinchetto. Cosma si voltò in soprassalto, la vide, o, per dire più veramente, non potè più fingere di non averla veduta, atteggiò le labbra ad un sorriso, fece un modesto cenno del capo, e passò. Doveva andare in alto, a sbrogliare una vela; non poteva dunque trattenersi da lei. Abarima lo seguì attentamente cogli occhi, per tutto il tempo ch’egli stette lassù; lo vide discendere; sperò che passasse un’altra volta daccanto a lei; ma fu una vana speranza, la sua. Cosma aveva avuto tempo di fingere un’altra necessità di servizio. Che cosa guardava egli dall’altra parte della prora? Forse una scotta era troppo lenta, e voleva esser meglio legata. Cosma lavorò con religiosa cura intorno ad una caviglia; poi scese da quella parte in coperta, andando verso la poppa, donde più non gli avvenne di muoversi, finchè ella rimase con suo padre sul castello di prora. Abarima non aveva ragione di dolersi. Cosma non le aveva parlato mai; restando lontano da lei, non faceva niente d’insolito. E di nessuno poteva essa dolersi, a bordo della caravella; tutti erano in particolar modo riguardosi con lei e col vecchio Tolteomec, riconoscendo in loro due persone di quella famiglia reale dell’isola Spagnuola, da cui tutti avevano avute le più liete accoglienze. Del resto, il signor almirante trattava i suoi ospiti con somma cortesia; di tanto in tanto, quando le cure del comando glielo permettevano, si fermava a scambiare qualche parola con essi, dimostrando loro di tenerli in gran conto. Ma tutte le cortesie dell’almirante, se potevano temperare il rammarico del vecchio principe di Haiti, non bastavano a fargli dimenticare per un istante ciò ch’egli perdeva. Tolteomec sospirava, e i suoi occhi erano spesso bagnati di lagrime. In quei momenti, per altro, egli si voltava da un lato, perchè sua figlia non si avvedesse di nulla. Ma ciò ch’egli tentava di nascondere agli occhi, era facile d’indovinare dal gesto. —Padre mio!—gli disse Abarima, il secondo giorno del loro imbarco sulla grande piroga degli uomini bianchi.—Tu piangi, e non ami più la tua creatura. —No, bambina, t’inganni;—rispose il vecchio.—Se non ti amassi, non saremmo qui. Ma io penso che il grande Spirito è sdegnato con noi, che abbandoniamo la terra dei padri nostri, la terra dove dorme tua madre.— Abarima chinò la testa e non soggiunse parola. Sentiva anch’essa un po’ di rimorso? o riconosceva che suo padre si doleva a ragione di quel capriccio infantile, per cui essa aveva voluto seguire gli uomini bianchi in Azatlan? Forse il suo pensiero non era giunto fin là; ma certamente ella incominciava a pensare di aver fatto un bel sogno, a cui non rispondeva punto la verità delle cose. Ed era quello il suo Cosma? era quello il maraviglioso figlio del cielo che le era apparso un giorno dalla macchia, restando là, fra i tronchi degli alberi, in atto di ammirazione per lei? Egli non le aveva parlato; non si era neanche accostato, come ella avrebbe voluto; ma infine, è egli sempre necessario che la mano stringa la mano, e la immagine dell’uno si veda riflessa negli occhi dell’altro? Anche stando lassù, venti passi distante da lei, Cosma, l’amico di Damiano, aveva guardato lei, le aveva pagato il tributo che l’uomo paga sempre alla bellezza, e che la bellezza è sempre disposta a gradire. Poi, messo l’indice sulle labbra, egli si era allontanato, ritornando per la via da cui era venuto. Che cosa significava quel gesto? Poteva essere l’accenno di un bacio scoccato da lontano; poteva essere un invito al silenzio; comunque fosse, era un segreto tra loro, un dolce segreto che alcune confidenze di Cusqueia le avevano spiegato ben presto, «Cosma ha detto che tu sei bella.» Queste erano state le parole dell’interpetre; poche parole, ma chiare. E Abarima aveva sognato di essere amata dall’uomo dei capelli d’oro; per lui aveva disprezzato Damiano; povera creatura, non ancor temperata agli usi civili, che insegnano di non lasciar l’uno innanzi di esser sicuri dell’altro! La schiettezza agreste della sua indole si era liberamente manifestata; il povero Damiano, credendosi saldo in arcioni, si era trovato di sbalzo in un fosso. Anche per lui era stato un brutto risveglio; anche per lui la verità delle cose appariva troppo diversa dalla splendidezza del sogno. Ma Iddio misura il freddo all’agnello tosato. E come rideva il nostro Damiano, dopo aver masticato male quel tradimento della capricciosa Abarima! Mentre il suo compagno Cosma si studiava di star lontano dalla figliuola di Tolteomec, pagando assai caro un piccolo stratagemma di guerra, Damiano passava e ripassava di continuo accanto ai suoi buoni amici di Haiti, distribuendo sorrisi e strette di mano. Forse egli appariva più allegro del vero. Ma coloro che dovevano giudicare la sincerità della sua allegrezza erano selvaggi, gente non usata ai sapienti artifizi con cui, in Azatlan, si sogliono nascondere le rughe del volto e quelle del cuore. Tolteomec, a buon conto, non aveva da approfondir nulla; doveva attenersi a ciò che mostrava l’aspetto. —Tu sei felice,—diceva egli a Damiano,—tu sei felice, di ritornare alle tue terre. —Ma sì! molto felice;—rispondeva Damiano.—Al mio _bohio_ mi vogliono fare gran festa, quand’io ci arriverò. Il cacìco e gli anziani di Genova mi verranno incontro, mi ammireranno come una bestia rara. E per averne l’aria, mi legherò i capelli sulla nuca, piantandoci dentro delle penne di pappagallo, che ho portate per l’appunto con me.— Damiano rideva, e Tolteomec sospirava. —Di che cosa ti rammarichi, mio vecchio amico? Vedrai la nostra terra d’Europa; sarai accolto dal re e dalla regina di Spagna; conoscerai gli usi e i costumi degli uomini bianchi; quando ritornerai carico di esperienza al tuo _bohio_ di Haiti, ognuno dovrà riconoscere in te un pozzo di sapienza; tutti penderanno dalle tue labbra. E i giovani di Haiti, quando vedranno Abarima vestita di seta e di velluto.... Tu non hai idea, deliziosa creatura, della seta e del velluto! Figùrati il tuo mantello di cotone, ma che sia più morbido, più lucido, più.... non saprei, e che ti faccia delle belle pieghe dal fianco fino al piede, mentre ti disegnerà il busto fino alla radice del collo; donde usciranno certi merletti sopraffini.... Tu non conosci i merletti, Abarima _taorib_? Vedrai che fior di roba! Le figlie di Azatlan vanno pazze per i merletti. Credo che li metterebbero perfino nell’insalata. Ci son quelli di Venezia, e quelli di Fiandra, che dànno il capogiro, solamente a vederli. Per otto braccia di quei merletti, da ornarsene la veste, le figlie di Azatlan darebbero l’anima agli spiriti neri, e il resto sopra mercato.— La chiacchiera di Damiano era stata interrotta da un grido, che veniva dall’alto dell’albero di maestra. Il marinaio di vedetta sicuramente aveva veduto qualche cosa. Pensarono tutti alla bella prima che avesse veduta una secca. In quelle acque, il caso era abbastanza frequente. Ma no, non era una secca; il marinaio aveva veduto dell’altro, a fior d’acqua; tre nuotatori, tre rarità, a quella distanza dalla costa; donde il sospetto che fossero tre poveri naufraghi. Tutta la marinaresca della _Nina_ era corsa al capo di banda, sulle sartie, sui castelli di poppa e di prora, per vedere ciò che aveva indicato il marinaio di vedetta. Anche l’almirante era uscito dalla sua camera, per salire sul castello di poppa. Laggiù, sulla distesa del mare, a forse un tiro d’archibugio, si vedevano infatti tre corpi che avevano aspetto umano. Si distinguevano le teste, erette sull’acqua; e ben presto, appressandosi quei corpi al naviglio, si distinsero i capelli neri, spioventi sulla nuca e sulle tempie. I volti erano di tinta scura, e non parevano di naturali delle isole. Del resto, non era più possibile di pensare a selvaggi di quelle parti che si salvassero a nuoto, essendo andata sommersa la loro piroga. In primo luogo, non nuotavano come gente perduta che cercasse di mettersi in salvo; nuotavano come gente balda ed allegra che si trastullasse sulle acque. Spesso saltavano fuori dei flutti, mostrando intiero il torso, fino alle reni; ed anche alzavano le braccia, mettendo fuori certe estremità che non somigliavano punto alle mani della specie di Adamo, bensì alle pinne dei pesci. —Le Sirene!—gridò un marinaio.—Le Sirene, signor almirante. —Oh diavolo!—esclamò Damiano.—Ecco delle persone mitologiche, di cui non speravo fare la conoscenza. —Voi dite, Pablo?—domandò l’almirante, volgendosi al marinaio che aveva parlato poc’anzi. —Dico, signor almirante, che sono le Sirene. Io le conosco, per averle già vedute, un’altra volta, sulla costa d’Africa. Osservate le mani, come finiscono in alette di pesce. Se poi saltassero fuori dell’acqua, si vedrebbe la coda. —E sono tre, come le antiche;—disse Damiano, che si era avanzato anche lui al capo di banda, come uno spettatore ai primi posti.—Non una di più, e non una di meno. Ma in che modo possono trovarsi qui, tanto lontane dai loro classici paraggi? —Saranno altre, e non quelle;—gli rispose Cosma, che si era avanzato al suo fianco. E poi,—disse Pablo,—credete voi che siano così poche, le Sirene? Si vedono di rado; ma ce ne sono per tutti i mari. —Scusate, Pablo;—rispose Damiano.—Io non conoscevo che quelle a cui Ulisse non volle usare la cortesia di starle a sentire, mentre cantavano. —Questo Ulisse dev’essere stato un uomo di giudizio,—rispose Pablo, tentennando la testa. —Eh, infatti, questa è la fama che corre di lui;—soggiunse Damiano.—Egli è stato l’uomo più furbo dell’antichità. Ma perchè dite voi che fece prova di buon giudizio, voi che non avete letto Omero? —Non so chi sia questo Omero;—disse Pablo.—So che le Sirene non appariscono mai che per cantar burrasche e naufragii. —Oh diavolo, diavolo! Questo non è un procedere garbato, da parte delle Sirene.— Cristoforo Colombo aveva chiamato Pablo sul cassero di poppa, e Damiano era corso dietro a Pablo. —Che cosa dicevate voi?—chiese l’almirante al marinaio.—Ne avete già vedute? —Si, signor almirante; sulla costa d’Africa, dieci anni fa, e abbiamo avuto un tempaccio, che me ne ricorderò fino a tanto che io viva. —Se non è altro che cattivo tempo,—osservò l’almirante,—possiamo adattarci al pronostico. A me, che non ho mai veduto Sirene, questo è uno spettacolo strano. Vedete, signori, che agilità di movenze. Sembrano davvero ninfe marine che scherzino sui flutti. —Oh per la grazia, ce n’hanno d’avanzo!—disse Pablo.—Ma son cattive e traditore a maraviglia. —Non vorranno mentire al loro sesso;—mormorò Damiano, che pensava ai casi suoi, spesso e volentieri. Un altro marinaio si avanzò, l’inglese. Anch’egli aveva le sue storie intorno alle Sirene. Nei suoi mari era conosciuta la _Mermaid_, donna di mare. Ed egli narrava che sessanta o settant’anni addietro, in un villaggio della Finlandia occidentale, alcune fanciulle avevano trovata una _Mermaid_ impigliata nel fango, e dopo averla presa e vestita di abiti loro, le avevano anche insegnato a filare. Mangiava come loro, ma non parlava; era vissuta due o tre anni, e tutte le volte che passava davanti alla chiesa si faceva il segno della croce molto divotamente. Sentito il marinaio inglese, era il caso di sentir l’irlandese, poichè nella marinaresca di Cristoforo Colombo c’era anche un concittadino di san Patrizio. Ed anche l’irlandese ci aveva la sua storia d’una sirena di Correvrekin, la quale seduceva i giovani, per trarli con sè nell’abisso; non dissimile in ciò dalle Sirene della costa Tirrena, conosciute e celebrate da Omero. Nel complesso, tutte le notizie si accordavano in ciò, che la presenza delle Sirene non era di buon augurio per chi le vedeva. E i marinai di Cristoforo Colombo, data la sua parte alla curiosità, non furono punto lieti dello spettacolo che si offriva ai loro occhi. —Suvvia, buoni amici, non diciamo sciocchezze!—mormorò l’almirante.—Guardiamo attentamente queste creature strane che ci mostra l’Oceano, perchè tutte le maraviglie del mondo debbono essere osservate, quando l’occasione se ne offre. Ma non ci mettiamo in testa delle ubbìe, delle vane paure; perchè il buon tempo e il cattivo, la fortuna e la sventura, non dipendono da esseri secondarii, bensì solamente dal creatore ed arbitro di tutto ciò che esiste; in una parola, da Dio. Vediamo piuttosto, poichè queste Sirene non si allontanano da noi, di prenderne una. Pronti ad armare il palischermo, ragazzi! —Ah perbacco, questo mi piace!—disse Damiano.—Ci vado ancor io.— Cosma, che gli era venuto vicino, lo afferrò per un braccio. —Per caso,—gli bisbigliò all’orecchio,—vorresti sposare una Sirena? —Ah sì, è vero!—rispose Damiano, ridendo.—Son tanto infiammabile, io! Non andrò; sei contento? Tanto più presto mi persuado di non andare,—soggiunse egli tosto,—che la Sirena potrebbe piantare il bruno, per rivolgersi al biondo. E tu non la vorresti sposare; e bisognerebbe rimandarla nel suo elemento. Ah, perbacco, un’idea!... —Che cosa? —Niente, niente, un’idea pazza; non badare;—disse Damiano. Frattanto, le tre Sirene seguitavano a folleggiare davanti alla caravella, di tanto in tanto balzando a mezzo il petto fuori dell’acqua, e ammiccando alla marinaresca, come allegre ragazze d’un porto di mare. Ma appena videro il palischermo lanciato in acqua, parve capissero il tiro, perchè subito si allontanarono; poi si tuffarono intieramente nell’acqua, nè più ricomparvero che assai lungi di là, per tuffarsi da capo e sparire. Il palischermo fu issato nuovamente a bordo; gli spettatori ritornarono alle loro faccende quotidiane, non senza intrattenersi in racconti e congetture su quegli esseri strani che avevano dato due ore di svago alla marinaresca della _Nina_. Lo spettacolo, in verità, era stato grazioso. Peccato che quel palischermo lanciato in acqua avesse interrotto il divertimento! Se non era il timore di vedersi pescate, chi sa? forse le tre Sirene si sarebbero avvicinate ancora di più, e magari avrebbero cantato, come quelle di cui raccontava Damiano. Questi, frattanto, ragionava con Pablo; il quale seguitava a tentennare la testa, mormorando: —Brutto segno, queste Sirene! brutto segno! L’almirante non vuole che si dica. Ma noi, in costa d’Africa, siamo andati a rompere negli scogli, per le maledette Sirene. —E noi, Pablo, non ci abbiamo dato, negli scogli, anche prima di vederle?—rispondeva Damiano.—State di buon animo; il guaio è avvenuto in anticipazione, e questo, se la scienza augurale non falla, è uno scongiuro più che bastante. —Sì, sì, avrete ragione;—borbottava quell’altro;—ma in costa d’Africa abbiamo fatto naufragio, ed io non mi sono salvato che per un miracolo di sant’Iago. —Gli dovete un pellegrinaggio;—rispose Damiano. —E gliel ho fatto, non dubitate, gliel ho fatto;—replicò il marinaio brontolone. Damiano se ne ritornava frattanto verso il cassero di prora. —Che cosa dicono?—gli domandò Tolteomec.—Mi sembrano spaventati, i tuoi compagni. —Caro amico,—rispose Damiano, atteggiando il volto ad una espressione di tristezza,—c’è da spaventarsi davvero. Non le hai vedute anche tu, le Sirene? —Quegli animali nei flutti? —Sì, quegli animali;—ripetè Damiano.—E non ti sei spaventato anche tu, Tolteomec? Non ti sei spaventata anche tu, Abarima _taorib_? —No,—disse Abarima.—E perchè avrei dovuto spaventarmi? —Perchè? mi domandi il perchè? Sappi, fanciulla, che quegli animali son donne, ma donne di una specie particolare, sommamente pericolosa. Tutti i pesci hanno lische, mia cara; ma ci sono dei pesci che ne hanno troppe. E questo è il caso delle Sirene; son donne.... tutte lische. Vivono nel mare, nuotano come i pesci, e come i pesci hanno la coda. Chi le incontra a fior d’acqua, come le abbiamo incontrate noi poco fa, finisce male, non vuol morire nel suo letto. —Dici tu il vero?—esclamò Abarima, rabbrividendo. —Sì, cara; e così non fosse! Sono spiriti maligni, o invenzioni degli spiriti maligni, che torna lo stesso. Abitano ordinariamente in certe grotte, nei più profondi abissi dell’Oceano. Vengono fuori di rado; ma quando ci vengono, è segno di temporale. E sai perchè vengono a fior d’acqua? Per invitare i marinai ad andare di sotto. —Ma non ci si può vivere, sott’acqua;—disse Abarima. —La tua osservazione è piena di buon giudizio;—rispose Damiano.—E non ci si vive, infatti; ci si muore. Questo è per l’appunto il fine a cui mirano le Sirene. Esse pigliano i morti nelle loro braccia, li adagiano gentilmente sull’erba verde che tappezza il fondo del mare, ci mettono sopra una pietra, e non se ne parla più. —Brutta cosa!—gridò la fanciulla. —Oh, bruttissima;—riprese Damiano.—E questa fu la morte che rischiò di fare il re Ulisse. Non sai tu che cosa sia accaduto ad Ulisse? —No, ignoro chi sia questo Ulisse. —Ah, è vero, tu non sai le storie di Azatlan. Buon per te, Abarima, poichè esse son tante, che ti ci confonderesti il cervello. Sappi dunque che Ulisse era il potente cacìco d’Itaca. Itaca, un’isola; su per giù un’isola come Haiti, ma alquanto più piccola. Egli era partito sulle sue piroghe per andare a far guerra al cacìco di Troia. Ritornando vittorioso, era impaziente di abbracciare sua moglie, la bella e virtuosa Penelope, che non vedeva da dieci anni. Capisci? da dieci anni. —Triste cosa!—disse Abarima. —Oh, tristissima! E tu immagina come desiderasse di arrivare al suo _bohio_. Ma che vuoi? a mezza strada, il povero Ulisse incontra un paio di Sirene che si mettono a cantare, invitandolo nelle loro grotte. Ulisse era furbo; per non sentire, si mise della cera negli orecchi. Ma le aveva vedute, ad ogni modo, e il solo vederle era già molto pericoloso per lui. —E così andò in fondo al mare? —No, non ci andò, perchè il grande Spirito gli voleva bene e aveva giurato di farlo arrivare alla sua casa. Ma intanto, quell’incontro delle Sirene fu cagione che Ulisse con la sua piroga fossero sbalestrati per dieci anni sui mari, prima di giungere in porto. —Ancora dieci anni?—esclamò Abarima. —Sicuro;—rispose Damiano.—Dieci e dieci son venti. Aveva lasciata la sua sposa giovane di venti, e molto _taorib_; la ritrovò di quaranta. —Vecchia molto!—disse Abarima, che era forte ed orgogliosa delle sue quindici primavere. —Vecchia.... no, non esageriamo. Anche a quarant’anni, era un boccone da principi. Di fatti, ci aveva in casa parecchie diecine di innamorati, che le mangiavano allegramente la sua cassava e le bevevano il suo liquore di cocco, tutti i giorni cantandole la stessa canzone. —E lei? —E lei tesseva una tela, dicendo: cercherò un marito, quando avrò finito di tessere. —Tela lunga!—osservò la fanciulla. —Infatti, in Azatlan si dice «tela di Penelope» un lavoro che non finisce mai. Ma per fortuna Ulisse ritornò. Altrimenti la sua Penelope avrebbe dovuto prendersi un altro marito. —Questo Ulisse,—notò Abarima,—è stato ancora favorito dal grande Spirito, perchè non è andato al fondo del mare. —Ma è stato l’unico. La storia non parla che di uno, che abbia vedute le Sirene senza morire annegato. —E i tuoi compagni... lo sanno? —Lo sanno, e perciò si spaventano. Ma via, perdonatemi, amici; sento la campana che mi chiama. C’è la distribuzione dei viveri, ed oggi tocca a me di aiutare il cuoco per fare le parti.— Così dicendo, Damiano lasciò i suoi amici di Haiti, felicissimo di essere stato interrotto dalla campana del cuoco. Qual cuoco, ohimè, un cuoco di bordo, e nelle navi d’allora! Ma se i cuochi delle caravelle e delle altre navi a vela non erano da paragonarsi a quei di Lucullo e di Apicio, gli stomachi erano quelli di tutti i tempi, e l’appetito serviva ai marinai del buon tempo passato, come a quelli dei tempi moderni. —Goccia d’olio,—andava dicendo Damiano tra sè, mentre si allontanava dal cassero di prora,—io ti ho versata in buon punto; allargati, goccia d’olio, e penetra il tessuto, come è dell’indole tua. Passerò domani a vederti; e ne riparleremo, per bacco.— Quel giorno, seguitando favorevole il vento, le caravelle avevano fatto buon cammino. Del temporale, a cui accennava Damiano, non si era veduta pur l’ombra nel lontano orizzonte. Ma non era mica detto che le Sirene annunziassero le burrasche da un’ora per l’altra. Del resto, se il temporale non era nell’aria, bene era sulla fronte e negli occhi di Tolteomec; il quale era rimasto impensierito, e guardava la sua figliuola e seguitava a sospirare. Abarima si era sbigottita, ai discorsi di Damiano; ma il fermarsi sui neri pronostici di lui, il farne soggetto di lunghi ragionamenti interiori, non era della sua età giovanile. Ella pensava troppo più spesso a Cosma, lo scorgeva ostinatamente lontano dal castello di prora, e di questo si crucciava profondamente, vedendo volgere i fatti così contrarii alle speranze ch’ella aveva formate e vagheggiate nella sua mente. E si sentiva sola, abbandonata, la giovane principessa di Haiti. Anche senza potersi decorare di quel titolo, che in Azatlan riempiva la bocca a tante sue pari, Abarima non ignorava di essere a casa sua una fanciulla superiore a tutte le altre; e là, su quella nave degli uomini bianchi, ella non era più nulla. Tutti quegli uomini affaccendati che andavano e venivamo da poppa a prora, da destra a sinistra, da un albero all’altro, pensavano tutti ai fatti loro, non occupandosi punto di quei poveri ospiti dalla pelle rossa, o forse considerandoli come impedimenti, ingombri e seccature, alla pari con quegli stormi di pappagalli che erano stati portati a bordo, e che, dopo aver dato un’ora di passatempo ai marinai, riuscivano molesti in sommo grado, coi loro garriti continui, facendosi maledire in parecchie lingue europee, per tutte le altre undici ore del giorno. Le guardate malinconiche e i sospiri profondi del padre erano altrettante trafitture al cuore della fanciulla; e quel cuore dolorava già tanto per sè! —Padre mio,—diss’ella ad un tratto, stringendosi amorosamente al petto del vecchio,—tu sospiri; e perchè? —Figliuola mia, non hai udito Damiano? Morire inabissati in questo mare, è orribile. Ti rammenti dell’uragano che l’anno scorso ha imperversato in Haiti? Quanti alberi schiantati! quante case abbattute! Pareva che la furia del vento volesse strappare la nostra isola dal fondo della terra. E noi, non abbastanza sicuri nella nostra casa, abbiamo dovuto cercar rifugio nelle grotte. Qui, sopra un fragilissimo legno, dove troveremo noi il rifugio, quando l’uragano comincierà a soffiare? —Tu mi sgomenti, padre!—disse Abarima.—Poveri a noi! qual fine sarà la nostra? —Ed io non mi sgomento per me;—disse Tolteomec.—L’arco delle mie stagioni è sul discendere; sia prima la caduta, sia dopo, importa poco. Sicuramente, io morirei più contento, se potessi dormire nella caverna dove sono andati a riposare i miei vecchi. Ma più per te mi addoloro, più per te, figliuola mia dolce. —Padre, non è troppo il tuo timore?—disse Abarima.—Gli uomini bianchi sono come noi su questo fragilissimo legno; corrono anch’essi il nostro pericolo. —Sì, sì,—rispose Tolteomec.—Ma è questa la loro vita: correr sempre sul mare, e sfidarne le collere. Essi, poi, sanno raccogliersi nelle loro piroghe, più capaci e più salde delle nostre; e ce ne hanno quante bisognano, per entrarci tutti. Penseranno a noi.... penseranno a te, Abarima, quando sia l’ora di metterci in salvo, poichè l’uragano avrà spezzata la nave?— Abarima rabbrividì, e si strinse ancor più al seno di suo padre, come una colombella sbigottita al suo nido. Mentre il fratello di Guacanagari teneva questi discorsi con la sua bella figliuola, e più si sgomentava quanto più si raffigurava imminente il pericolo, la _Nina_, preceduta dalla _Pinta_, entrava in una rada, nella quale metteva foce un bel fiume. Era quello il fiume in cui, durante la sua diserzione, Martino Alonzo Pinzon aveva trafficato coi naturali. Cristoforo Colombo aveva manifestato il desiderio di visitare quella parte della costa; e non senza una ragione più forte, che non fosse la curiosità dello scopritore. Egli voleva sapere con quali modi Martino Alonzo avesse trattati gli abitanti del luogo, parendogli di poter sospettare, dalla cattura di sei naturali, che le cose non fossero andate com’egli aveva sempre raccomandato ai suoi compagni di scoperta. E veramente in quel fiume ebbe egli la prova della doppiezza del Pinzon; il quale aveva detto e fatto dire dai suoi marinai che in quel fiume la _Pinta_ era stata a mala pena sei giorni, mentre egli poi giungeva a scoprire che c’era stata sedici giorni, e che fin là era pervenuta al Pinzon la notizia del naufragio della _Santa Maria_; della quale sventura egli si era dato assai poco pensiero, indugiandosi a salpare di là, per muovere al soccorso del suo almirante, perchè assai più gli premeva di procurarsi oro in gran copia. Cristoforo Colombo raccolse tutte quelle notizie, e diligentemente le consegnò nel suo giornale di bordo. Ma col Pinzon non mosse lamento, non fece rimprovero. Il suo silenzio, per altro, diceva a Martino Alonzo assai più d’ogni più lungo discorso. Due soli atti d’autorità fece l’almirante in quel luogo. Il primo fu di chiamare Rio de Gracia il fiume, a cui il comandante della _Pinta_ aveva imposto orgogliosamente il suo nome. —Perchè dovrebbe chiamarsi _Martino Alonzo_?—disse l’almirante al Pinzon.—Son troppo povera cosa i nostri nomi, e non vanno dati alle scoperte che andiamo facendo per assistenza di Dio e dei santi, e con le navi fornite a noi dalla munificenza dei sovrani di Castiglia. Da Dio, dai santi, dal re, dalla regina e dai principi nostri signori, dobbiamo noi intitolare queste isole e i luoghi che andiamo visitando. La compagnia dei nostri nomi, oltre che sarebbe prova di superbia in noi, suonerebbe offesa ai nostri padroni, come alle potenze celesti.— A questo ragionamento, che era religiosamente e politicamente ortodosso, non seppe che cosa rispondere Martino Alonzo Pinzon. E l’autorità dell’almirante fu per questo verso ristabilita senza contrasto. Tornò più difficile far ingoiare al Pinzon l’altra pillola del restituire i sei naturali fatti prigionieri da lui. Ma il signor almirante si mostrò su questo punto inflessibile. Unica concessione che egli fece fu quella d’indugiarsi a dire le ragioni per cui gli pareva necessario di rimandare liberi i quattro uomini e le due donne dell’isola. —Sola scusa per voi,—diss’egli a Martino Alonzo,—sarebbe stato il non sapere che noi lasciavamo una quarantina di Spagnuoli all’isola di Haiti. Ora lo sapete, e non potete negare che un atto di giustizia come questo potrà rendere i naturali di qui più amici agli uomini bianchi. A Guanahani, a Cuba, e in quest’isola medesima, abbiamo preso dei naturali, ma come interpetri, non come schiavi; e se essi ci accompagnano in Europa, lo fanno come liberi uomini, per loro elezione, e non per nostro volere.— Quest’altro ragionamento dell’almirante era inoppugnabile, come il primo. Si poteva immaginare che i sei catturati fossero contenti della loro sorte, e di andare pur essi in Ispagna, liberamente, in quella guisa che Martino Alonzo aveva voluto condurli per forza. E di questo era facile accertarsi, esplorando la loro volontà. Ma questo non voleva l’almirante che si facesse a bordo della _Pinta_; perciò diede il comando che i sei naturali fossero condotti alla sua presenza, sulla nave capitana. Mentre così ordinava l’almirante, Tolteomec si presentava a domandargli un’udienza. —Che desideri tu?—gli chiese Cristoforo Colombo. —Potente signore degli uomini bianchi,—disse Tolteomec,—la mia figliuola non è più desiderosa di lasciare la terra dei nostri padri. Oggi abbiamo toccata nuovamente la riva. Domani tu riprenderai l’alto mare, e Haiti sfuggirà dai nostri occhi.... forse per sempre. —Tu sei pentito, non è vero?—domandò l’almirante.—Non vuoi più venire in Azatlan, a vedere il re e la regina di Castiglia? —Mio signore....—balbettò il vecchio Haitiano,—il mare è perfido.... le Sirene hanno dato l’annunzio della morte.... —E tu credi a queste sciocche paure? —Anche Damiano lo ha detto;—replicò Tolteomec.—Le Sirene annunziano l’uragano.... l’uragano che sommerge le grandi piroghe. —Oh povera scienza!—esclamò Cristoforo Colombo.—E chi vi ha messe queste ubbie nella testa? messer Damiano?—Cusqueia,—soggiunse egli all’interpetre, che aveva accompagnato il fratello di Guacanagari all’udienza;—chiamami Damiano.— Damiano fu pronto ad accorrere, ed ugualmente pronto a capire che la sua macchia d’olio si era allargata, penetrando anche molto bene il tessuto. —Perdonate, messere,—diss’egli all’almirante, parlando nel vernacolo genovese, che Cusqueia non poteva capire.—Mi pare necessario di levarci questi due selvaggi dai piedi. La ragazza è venuta per capriccio, ed ora incomincia a pentirsi della sua risoluzione. Cosma è seccato; io più di lui.... —E per far piacere a Cosma e a Damiano.... Ho capito;—disse l’almirante, ridendo.—Mi ritrovate per l’appunto in via di rimandare alle case loro i sei naturali di Martino Alonzo Pinzon. —Dove vanno sei, possono andar otto;—soggiunse Damiano. —E magari tutti;—conchiuse l’almirante.—Voi aggiustate ogni cosa a comodo vostro, messer Damiano carissimo. Se non foste Genovese, meritereste di esserlo.— Mentre così parlava il signor almirante, giungevano a bordo della _Nina_ i sei naturali del Rio di Grazia. Cristoforo Colombo li richiese, per mezzo dell’interpetre, se volessero andare in Azatlan. Essi stettero muti, non sapendo se dal rispondere dovessero aver danno o profitto. Ma quando seppero da Cusqueia che erano liberi di andare o di restare, si sciolse loro la loquela; e tutti, uomini e donne, gridarono di voler scendere a terra. —Cusqueia,—disse l’almirante all’interpetre,—fate sapere a questi naturali che io concedo loro libertà di ritornarsene al loro villaggio, ma ad un patto: che essi vogliano scortare e mandar sicuri di ogni rischio, fino al _bohio_ di Guacanagari, il vecchio Tolteomec e la sua figliuola. Sono anch’essi Haitiani, e debbono trovare assistenza presso i loro fratelli.— I sei prigionieri di Martino Alonzo Pinzon udirono da Cusqueia i patti che poneva il capo degli uomini bianchi alla loro liberazione. E lieti promisero che avrebbero fatto ogni cosa secondo il desiderio dell’almirante. Uno di essi, per dar più forza alla promessa, si levò una collana di nicchi marini dal collo, e la consegnò all’almirante. Quella era la cintura di Vampun. Che cosa intendessero per Vampun i naturali di Haiti non è chiaro. Forse era il nome d’un loro Dio? Forse significava amicizia? Certo, era un pegno d’alleanza, quella cintura, e dinotava amicizia per la vita e per la morte. Tolteomec e la sua bella figliuola furono calati nel palischermo. Abarima, prima di scendere, volse in giro i grandi occhi d’indaco, bagnati di lagrime. —Addio, cara!—le disse Damiano.—Tu cerchi qualcheduno. Ma che vuoi? I biondi hanno paura del sole.— Tolteomec baciò la mano a Cristoforo Colombo, come aveva veduto fare per atto d’ossequio da alcuni marinai. —Il grande Spirito sia con te, gran capo degli uomini bianchi;—gli disse. —E con te, buon amico;—rispose l’almirante.—Dirai a Guacanagari che io confido in lui, perchè i miei uomini non abbiano a mancare di nulla, nella fortezza del Natale.— Abarima seguitava a piangere. L’almirante le fece portare nel palischermo una collana di perle di vetro a tre filze, e un pezzo di stoffa moresca dai vivaci colori. Con quel donativo egli chetò la bella selvaggia, che seguitò a piangere, ma incominciò anche a sorridere. Così avviene anche al cielo, quando finisce l’acquazzone e ritorna il sereno, che il sole si mostra fra mezzo alle nuvole rotte e i suoi raggi d’oro si rifrangono nelle ultime gocce di pioggia. Cosma era stato tutto quel tempo nascosto nel suo rancio, sotto coperta. Damiano andò a lui, appena vide il palischermo allontanarsi dal fianco della nave. —Ebbene?—domandò Cosma, levando gli occhi. —Partita;—rispose Damiano. —Ah, finalmente, respiro. —Sì, respira, fortunato briccone! Ma ti ho dovuto salvar io, da questa noia. Io, capisci? E se tu non mi fai erigere una statua, dirò che non sei capace di gratitudine.— Cosma balzò dal suo rancio, e gittò le braccia al collo del suo amico Damiano. —Tu salvi me da una seccatura che non avevo meritata, ma che mi rendeva abbastanza ridicolo;—diss’egli a Damiano.—Ma io ho salvato te da una sciocchezza, che poteva costarti la vita. —La vita! —Sì, la vita. Che cosa ne sai tu che possa avvenire di gente perduta tra i selvaggi, lontana dall’occhio vigile ed accorto del signor almirante? Io non ispero niente della fortezza del Natale, e di quei trentanove uomini lasciati laggiù. C’è voluta tutta a portarli fin qua, tanti rozzi, indisciplinati e prepotenti marinai. Mi figuro quella parte di loro che rimane, abbandonata a sè stessa, e a tutti i suoi pessimi istinti! —Profeta di sciagura!—esclamò Damiano.—Vuoi tu dunque imitarmi? —In che cosa?—disse Cosma, che lì per lì non riusciva ad intenderlo. —Eh sì, dolce amico!—rispose Damiano.—Me ne hai fatte dire anche tu, delle sciocchezze! Povere Sirene, che ho dovuto calunniare per farti servizio! E nota che di queste Sirene se ne trovano anche nei nostri mari, e non hanno la cattiva riputazione che io ho fatta loro, nell’animo del mio suocero fallito. Io stesso ne ho vedute due, nelle acque di Corsica; e si chiamavano.... vitelli marini.— _Capitolo XVIII._ In fretta e in furia. La _Nina_ era uscita dal Rio di Grazia, salutata dalle grida dei selvaggi, riconoscenti a Cristoforo Colombo per la liberazione di quei loro compagni che aveva catturati Martino Alonzo Pinzon. Seguitando il suo viaggio lungo la costa, l’almirante vide un bel promontorio, a cui, per ricordo della figliuola di Tolteomec, impose il nome della Innamorata. Ma il _cabo de l’Enamorada_ non seppe conservare il suo poetico nome; si chiama oggi assai volgarmente il capo Cabron. Proseguendo il cammino, si entrò in una vasta baia, le cui rive erano abitate da una forte tribù, armata di lunghi archi, e spade di legno di palma, dure, pesanti come il ferro, e tanto affilate da poter tagliare il cuoio delle corazze, e perfino la lamiera degli elmi, come se fossero state d’acciaio. Quei selvaggi erano fieri ed intrepidi; ma non diedero molestia agli uomini bianchi; ai quali anzi vendettero due archi, che essi desideravano portare come esemplari in Ispagna. Cristoforo Colombo immaginò che fossero quelli i Caribi, tanto temuti da Guacanagari. E ne domandò a quei naturali; ma essi risposero che i Caribi erano in un’isola verso greco, chiamata per l’appunto da loro. E soggiunsero (se pure gl’interpetri riferivano giustamente le parole) che di rincontro all’isola dei Caribi ne era un’altra, chiamata Mantinino, abitata solamente da donne; le quali accoglievano una volta all’anno i loro vicini, affinchè non si estinguesse la stirpe. Tutti i fanciulli maschi nati da quelle nozze si consegnavano ai padri; le figlie dimoravano con le madri loro. Insomma, la storia delle Amazzoni ripetuta di là dall’Oceano. Che c’era egli di vero in quella chiacchiera? La tribù dei Siguaiani, tra cui si trovava allora Cristoforo Colombo, parlava un dialetto poco intelligibile agli interpetri della forza di Cusqueia. Qualche frase male intesa, tirata ad un senso nuovo dal desiderio di vedere da per tutto confermati i racconti di Marco Polo, poteva bene indurre Cristoforo Colombo nella credenza di essere capitato in vicinanza delle due isole che Marco Polo aveva descritte, collocandole presso la costa orientale dell’Asia, abitate spartitamente da donne e da uomini. Ed anche messer Marco Polo, così veridico narratore di ciò ch’egli aveva veduto, che cantonate non aveva prese, quando si fidava ai racconti degli altri! L’isola delle Amazzoni avrebbe dovuto tentare la curiosità degli uomini bianchi. Ma la stanchezza si era impadronita degli spiriti. Lo stesso Damiano, richiesto dall’amico se gli sorridesse l’impresa, rispose che oramai di donne del nuovo mondo ne aveva fin sopra i capelli. Se questi li avesse avuti biondi, chi sa?... Ma erano neri, ed egli faceva conto di portarli alle donne di Scandinavia o d’altre terre settentrionali, molto settentrionali d’Europa, dove sarebbero stati apprezzati un po’ meglio. Anche l’almirante si era risoluto di dar volta. Dopo un altro giorno di esplorazione in quel golfo, che egli chiamò delle Frecce, e dove accadde a sette dei suoi uomini di far baruffa con una cinquantina di Siguaiani, ferendone due, e mettendoli nel debito rispetto verso gli uomini bianchi, Cristoforo Colombo pensò che fosse venuto il tempo di ritornare in Europa. Un bel vento gagliardo si era levato da ponente, e invitava a far vela. E più che il vento lo persuadevano parecchie altre ragioni: il cattivo stato delle sue caravelle, la poca fedeltà della sua marinaresca, e la slealtà di Martino Alonzo Pinzon, da cui non poteva aspettarsi che il peggio. —Mettiamo le fatte scoperte al sicuro dai colpi di fortuna;—diss’egli.—Un’altra volta, e con migliori auspicî, ritenteremo la prova.— Fu un mercoledì, 16 gennaio del 1493, che l’almirante lasciò il golfo delle Frecce, detto ora di Samana, per navigare alla volta di Castiglia. Seguitando il cammino con tempo buono, le due caravelle corsero tanto, che il 10 di febbraio, al parere dei piloti, dovevano ritrovarsi al mezzodì delle isole Azzorre. Ma l’almirante, avendo osservato attentamente nel ritorno i limiti estremi del mar di sargasso che attentamente aveva osservati all’andata, conchiuse che si fosse un quaranta leghe più indietro. Ed egli ragionava dirittamente, come poi si vedrà. Il 12 di febbraio già speravano di veder terra da un momento all’altro, quand’ecco il vento incominciò a soffiare con violenza, e il mare a gonfiarsi. Il giorno dopo, fu anche peggio; incominciò a balenare da greco, e tosto si scatenò un temporale dei più grossi che mai si fossero veduti. Quei deboli navigli, sprovveduti di ponte, non erano troppo in istato di resistere ai fortunali dell’Atlantico. Bisognò per tutta la notte andare con le vele imbrogliate, abbandonandosi alla discrezione del vento e del mare. Un po’ di calma seguì nella mattina del 14; ma fu di breve durata. Un vento impetuoso si era levato da ostro, durando tutto quel giorno e la notte seguente. Le povere caravelle andavano palleggiate sui flutti come gusci di noce, non avendo più modo di sostenere quella furia degli elementi, e rinunziando quasi del tutto a governare. Il buio della notte non permettendo di vedere la _Pinta_, l’almirante fece sospendere il fanale all’albero di maestra, come per significare alla _Pinta_ di imitarlo, affinchè potessero le due navi andare di conserva. Ma la _Pinta_ aveva poco saldo il trinchetto, e non potendo tener testa al vento, fu costretta a riceverlo in fil di ruota, correndo verso tramontana, mentre la _Nina_ si sforzava di governare per greco. La _Pinta_ parve rispondere per qualche tempo al segnale dell’almirante; ma il suo lume a grado a grado si allontanava; nel cuor della notte era sparito del tutto. Cristoforo Colombo aveva l’anima oppressa da funesti presagi sul destino della _Pinta_ e della stessa sua nave. Alla punta del giorno, il mare gli offerse un pauroso spettacolo. Non si vedevano tutto intorno che cavalloni inferociti e ruggenti. Della caravella di Martino Alonzo Pinzon non appariva più traccia sull’orizzonte. La _Nina_ spiegò alcune vele per tenersi di prora al mare, e non andarne sommersa. Si levò il sole, e con esso crebbero il vento e le ondate; per tutto il corso di una terribile giornata la _Nina_, non più in grado di resistere, fu trascinata, sbalestrata per ogni dove dal furore dell’uragano. Vedendosi perduti oramai d’ogni soccorso terrestre, i marinai della _Nina_ si volsero al cielo; ed estrassero a sorte il nome di quello tra loro che dovesse andare in pellegrinaggio per tutti alla Madonna di Guadalupa, portandole un cero del peso di cinque libbre. La sorte designò lo stesso almirante. Un altro pellegrino fu sortito per andare alla Madonna di Loreto, e fu designato un marinaio, a nome Pedro de Villa, a cui l’almirante promise di rifar le spese del viaggio. Indi fu gittata la sorte d’un terzo pellegrino, il quale andasse a vegliare una notte a Santa Chiara di Moguer; e la sorte designò un’altra volta l’almirante. Ma crescendo tuttavia il fortunale, tutti quelli della caravella fecero voto di andar scalzi e in camicia al santuario della Vergine, nella prima terra a cui fossero approdati. Il cielo non di meno si mostrava sordo ai lor voti; la burrasca si faceva sempre più spaventosa, e non fu alcuno che non si stimasse perduto. La mancanza di zavorra rendeva più difficile la condizione della nave, avendola alleggerita il consumo delle vettovaglie. L’almirante immaginò di far riempir d’acqua salsa le botti vuote; e questo fu di qualche aiuto, operando in guisa che meglio si potesse sostentare il naviglio, senza così grande pericolo di travolgersi. Cristoforo Colombo si sarebbe rassegnato di buon animo alla morte, che già tante altre volte s’era veduta innanzi agli occhi, se fosse stata in rischio la sua persona soltanto. Ma gli era di pena e di dolore infinito il pensare che con la morte sua si perdeva il frutto e la gloria di tante fatiche. E lo crucciava ancora il vedersi attorniato da gente, che egli aveva trascinata a forza in quella impresa, e che, presa da terrore, malediceva il giorno in cui si era imbarcata, e l’autorità di lui che l’aveva costretta a proseguire il viaggio, quando tutti si erano ammutinati, e potevano obbligarlo al ritorno. Già, sopra una pergamena, egli aveva scritta una concisa relazione del suo viaggio e delle sue scoperte, indirizzando lo scritto al re e alla regina di Castiglia. Su quella pergamena, piegata e suggellata, scrisse che chiunque la consegnasse alla sua destinazione senza aprirla avrebbe dalle Loro Altezze mille ducati di premio. Poi, ravvolto il plico in una fascia di tela cerata, e chiusolo in un pane di cera, pose l’involto in un barlozzo che gittò subito in mare, lasciando i suoi marinai nella credenza che egli sciogliesse in tal guisa un voto di religione. E un’altra copia del memoriale, suggellata e custodita nel medesimo modo, collocò sulla poppa del naviglio, con la speranza che il barlozzo potesse galleggiare, ed essere spinto a qualche spiaggia, nel caso che la caravella andasse travolta negli abissi del mare. Queste precauzioni calmarono alquanto il suo spirito. E nuovo conforto gli arrecò il vedere sull’alba il cielo meno fosco ad occidente: indizio di vento che si sarebbe levato da quella parte. Infatti, poco dopo incominciò a soffiare il ponente. Le onde, per altro, erano sempre così alte e ribollenti, che nella notte si potè camminare con poche vele soltanto. La mattina del 15, allo spuntar del giorno, Ruy Garcia, un marinaio della Santogna, dall’alto dell’albero di maestra dove stava in vedetta, gittò il grido di terra. La gioia manifestata dall’equipaggio nel rivedere l’antico Mondo, eguagliò quella che esso aveva manifestata alla vista del nuovo. Appariva la terra a greco levante, argomento di subita controversia fra i piloti: uno di essi sostenendo che quella era l’isola di Madera; un altro che era la rocca di Cintra sulla costa del Portogallo; un altro ancora qualche punto della costa di Spagna. L’almirante, forte de’ suoi computi e delle sue osservazioni, giudicò essere una delle isole Azzorre. Era infatti l’isola di Santa Maria, la più meridionale di quel gruppo. Per due giorni, a cagione del vento contrario e del mare agitato, non fu possibile l’approdo. La sera del 17 si stava per gittar l’áncora, quando si spezzò il canape, e da capo fu necessario avventurarsi in alto mare. Finalmente, la mattina del 18, fu possibile alla _Nina_ di ancorarsi dalla parte settentrionale dell’isola. Gli abitanti della Santa Maria si maravigliarono molto di due cose: che quel fragile schifo avesse potuto sostenere tanta furia di mare, e che un Nuovo Mondo fosse stato scoperto. Del dire chi fossero e donde tornassero, male incolse ai reduci dalla memorabile impresa. Discesa a terra una parte dell’equipaggio per sciogliere il suo voto ad un santuario della Vergine, che si vedeva a mezza costa, furono presi prigioni dal capitano dell’isola e catturato il palischermo sul quale erano venuti a terra. Quel capitano, certo Castaneda, avrebbe volentieri pigliato anche Cristoforo Colombo, che era rimasto a bordo con l’altra parte della sua gente, aspettando che la prima squadra ritornasse. Furono molti, per quattro giorni alla fila, i discorsi e le tergiversazioni del signor capitano; il quale, finalmente, la sera del 22 mandò una barca con due preti e un notaio, che domandassero in nome suo di vedere le carte di Cristoforo Colombo, assicurandolo esser egli disposto a prestargli ogni servizio dipendente da lui, purchè fosse davvero almirante dei reali di Spagna. Cristoforo Colombo intese esser quello un raggiro del Castaneda, per dissimulare una ritirata e abbandonare con un po’ di decoro il contegno ostile che aveva assunto prima. Represse allora il suo sdegno; rispose ringraziando delle cortesi profferte, e riconoscendo che la loro domanda, rispetto alla commissione regale a lui affidata, era secondo l’uso e la ragione del mare; perciò si fece a mostrare la lettera generale di raccomandazione dei Re Cattolici, indirizzata a tutti i loro sudditi e agli altri principi; e parimente la commissione che gli avevano data di imprendere il suo viaggio di scoperta oltre l’Atlantico. Il che veduto dai tre inviati, questi se ne ritornarono a terra soddisfatti, e rimandarono il palischermo, coi marinai sostenuti fin allora in prigione. L’almirante non vide altrimenti il Castaneda, nè approfittò delle sue tarde profferte di servizi. Il 24 di febbraio, partì dall’inospite lido della Santa Maria, facendo vela per levante. Ma non erano ancor finite le peripezie del ritorno. Il 3 di marzo, la povera _Nina_ dovette sostenere un altro temporale, donde riportò le vele squarciate. La furia del vento e quella del mare erano tali, che l’equipaggio si stimò un’altra volta in gravissimo pericolo. Un altro voto fu fatto, di mandare un altro pellegrinaggio al Santuario di Santa Maria della Centa, presso di Huelva; e la sorte ancora una volta designò l’almirante. Nella orribile notte che seguì, fu veduta al chiarore dei lampi la terra. Ma quella vista non fu salutata con giubilo, temendo tutti che la caravella non fosse sbalestrata contro gli scogli. Dov’erano andati a parare? Se ne avvidero la mattina del 4 marzo, riconoscendo la rocca di Cintra e la foce del Tago. L’almirante diffidava delle disposizioni dei Portoghesi verso di lui. Ma la burrasca, che sempre più infuriava, non gli dava modo di scegliere un altro rifugio. Entrò nel Tago, andando a gettar l’áncora dirimpetto a Rastello, bene accolto dagli abitanti, che tutta la mattina avevano osservata da lungi la povera caravella in continuo pericolo. Un corriere fu subito spedito dall’almirante ai reali di Castiglia, per dar nuova del suo ritorno e delle fatte scoperte. Un’altra lettera al re di Portogallo, che si trovava allora a Val Paraiso, chiedeva licenza di avanzare la sua nave fino a Lisbona, dove sarebbe stata maggiormente al sicuro. Per dissipare intanto ogni dubbio nella mente del re, Cristoforo Colombo soggiungeva di non essere stato sulle coste di Guinea, nè in nessun’altra delle colonie portoghesi, ma di essere venuto dalla estremità orientale delle Indie. Innanzi di muovere per Lisbona, l’almirante del mar Oceano ricevette la visita solenne di don Alvaro di Acuna, capitano della nave grossa che stava a guardia del porto di Rastello. Seguirono le visite d’una moltitudine di barche e di burchielli, con gente venuta perfin da Lisbona, dove la notizia del maraviglioso viaggio era corsa. Uomini d’alto affare, grandi ufficiali della corona, gentiluomini, ed ogni sorte di curiosi, tutti si affollavano intorno alla caravella che ritornava dalla scoperta di un Mondo; nè fu poca la tristezza di coloro che vedevano assicurata quella strepitosa conquista alla Spagna, mentre il Portogallo era stato il primo a cui Cristoforo Colombo aveva offerto di tentare l’impresa. Ma tardi si pente chi ultimo arriva. Don Martino di Norogna, gentiluomo della Corte portoghese, giunse il giorno 8 con una lettera del re Giovanni, che invitava il fortunato scopritore alla sua residenza. Partì Cristoforo Colombo quella medesima sera; giunse a Val Paraiso, ricevuto da una grande cavalcata, ed ebbe dal re accoglienze cortesi. Non mancarono per altro le allusioni ai diritti del Portogallo, che potevano essere stati offesi da quel viaggio di scoperta, e l’almirante dovette penar molto a persuadere il re Giovanni e i suoi consiglieri che le conquiste portoghesi non erano punto in questione. Quelle, del resto, erano faccende da potersi trattare direttamente fra la Corte di Portogallo e la Corte di Spagna. Dopo parecchi giorni di dimora a Val Paraiso, ebbe Cristoforo Colombo licenza di ritornarsene alla sua caravella. E giunto a bordo, come Dio volle, il mercoledì 13 marzo, a due ore di giorno, fece vela per andare alla Corte di Spagna. Il venerdì seguente, sull’ora del meriggio, girava la punta dell’isoletta di Saltes, donde, addentrandosi nel fiume, venne a dar fondo nel piccolo porto di Palos. Da quel porto era egli uscito il 3 di agosto dell’anno antecedente 1492, cioè sette mesi e undici giorni prima. Quivi fu ricevuto da tutto il popolo in processione, e con una festa, con un giubilo così alto e chiassoso, che parve piuttosto un delirio. La prima visita dell’almirante e dei suoi marinai fu alla chiesa principale della città. Il grande navigatore passò per le vie in mezzo ad una calca acclamante e plaudente; quella stessa calca che lo aveva maledetto un anno prima, come un avventuriere, per il cui pazzo orgoglio erano condannati a morte sicura tanti valorosi marinai di Castiglia. Cristoforo Colombo non pensò neanche alle contrarietà, agli ostacoli, alle esecrazioni dell’anno antecedente. Pensò piuttosto al giorno in cui, oscuro e povero, col suo figliuoletto Diego per mano, era giunto a Palos, e di là, non trovandoci modo di vivere, si era avviato per l’erta della collina sovrastante, fino al convento dei francescani di Santa Maria della Rabida. Lassù aveva egli trovato il sorso d’acqua e il tozzo di pane, da cui era dipesa la sua vita, e la scoperta di un mondo. Ma mentre egli pensava con gratitudine alla Rabida, don Juan Perez di Marcena scendeva dal colle ad incontrare l’amico. E con lui veniva il medico don Francisco Garcia. L’incontro dei tre amici fu commovente. Corsero abbracci e baci senza fine; ed anche si piansero molte di quelle buone lacrime, che provano all’uomo la bontà sua, e perfino la bontà della esistenza; almeno in qualche momento solenne. Echeggiava ancora la piccola città di Palos delle acclamazioni al grande almirante del mare Oceano, quando nel suo porto entrava un’altra caravella, la _Pinta_. Nessuno badava alla nuova arrivata; nessuno, del resto, poteva badarci, poichè le calate erano deserte, e sulle navi ormeggiate nel porto non apparivano marinai. Un palischermo si staccò dalla _Pinta_, venendo alla calata, e ne smontò il comandante della caravella, Martino Alonzo Pinzon, molto maravigliato di quel silenzio, di quella solitudine. Solo un pescatore, un povero storpio, stava seduto là presso, con le gambe penzoloni sull’orlo della calata, in atto di innescare la sua lenza. —Che cos’è, Sancio?—gli chiese il Pinzon, riconoscendolo.—Son tutti morti, a Palos? —Al contrario, più vivi e più allegri che mai;—rispose il pescatore.—Ma sono tutti fuori; hanno accompagnato il grand’uomo sulla collina, al santuario della Rabida. —Il grand’uomo!—esclamò Martino Alonzo Pinzon.—Chi è questo grand’uomo? —L’almirante, don Cristoval Colon, che ha scoperte le nuove isole. Non lo sapete? Non eravate con lui? —Sì, sì;—borbottò il Pinzon.—Ma quando è egli arrivato? —Questa mattina. E si è fatta una gran festa, in paese. Ma dove eravate voi, Martino Alonzo? rimasto indietro, non è vero? —Sì, rimasto indietro;—replicò il Pinzon;—quantunque io per il primo abbia toccata la costa di Spagna. Ma io ho avuto la disgrazia d’essere spinto dal fortunale nel golfo di Biscaglia. Perciò arrivo tardi.... e chi tardi arriva, male alloggia, a quel che vedo. —Beato voi che per alloggiare avete una bella casa, Martino Alonzo;—disse il pescatore.—Ma voi andrete ora incontro al signor almirante, m’immagino. Egli sarà ben contento di vedervi. —Non andrò;—rispose il Pinzon.—Ci sarà tempo domattina. E tu bada, Sancio, non dire di avermi veduto. Voglio andarmene a riposare nella mia bella casa, amico Sancio; nella mia bella casa, dove non isperavo di dormire. —Eh, certo! dopo tanti mesi di fatiche, il vostro letto vi piacerà. Ma sarete l’unico a dormire, questa notte; tanta è l’allegrezza del nostro paese. —Dove io sono accolto come un cane;—brontolò Martino Alonzo.—E come un cane me ne andrò ora alla cuccia. Ti ripeto, non dire a nessuno di avermi veduto; altrimenti....— E accentuò la sospensione della frase con un gesto di minaccia. —Non dubitate, Martino Alonzo;—rispose lo storpio.—Sarete obbedito.— Il comandante della _Pinta_ si allontanò dalla calata, andando verso la casa sua, dove non era aspettato. E giunse nella sua casa senza avere incontrato nessuno per via; e nella sua casa si chiuse, col suo mal talento nell’anima. Che cos’era avvenuto, per renderlo tanto scontroso quel giorno? Sicuramente, era triste il giungere a quel modo in patria, non veduto, non salutato da alcuno. Ma questo era un caso naturalissimo, di cui Sancio gli aveva data la spiegazione. Ed anche si capiva che nell’animo di Martino Alonzo Pinzon ci fosse molta amarezza, per la disgrazia d’esser giunto troppo tardi, e di non avere avuta la sua giusta parte nelle accoglienze di Palos ai suoi marinai reduci dalla spedizione portentosa dell’Atlantico. Ma era questa una buona ragione perchè Martino Alonzo Pinzon corresse a nascondersi in casa? Diciamo subito, senza tenere i lettori alla corda, quali fossero le ragioni della tristezza e della rabbia di Martino Alonzo Pinzon. La sua caravella, separata dalla capitana per la violenza dell’uragano, era stata spinta in un’altra direzione, verso il golfo di Biscaglia, ove, non senza stento, aveva approdato a Baiona. Ignorando se Cristoforo Colombo fosse sfuggito a quella fortuna di mare, impaziente di precorrerla ad ogni costo, preoccupando a suo favore il giudizio della corte e del popolo di Castiglia, Martino Alonzo aveva scritto subito al re e alla regina, informandoli delle fatte scoperte. Ma il linguaggio suo, in quella lettera, non era di un ufficiale subalterno, che riferisse al suo comandante la gloria dell’impresa; era quello di un millantatore, che volesse attribuirne a sè tutto il merito. Di Cristoforo Colombo egli non faceva parola; forse aspettando dal tempo la certezza di un naufragio che gli pareva molta probabile, si disponeva a non parlare che di sè, dimenticando il comandante supremo. E frattanto, chiudeva la sua lettera domandando licenza di recarsi alla Corte, per esporre alle Loro Altezze la peripezie del suo viaggio e l’ordine e la importanza delle scoperte, che aveva fatte di là dall’Oceano. Il tempo, frattanto, si era abbastanza rabbonito; e Martino Alonzo Pinzon aveva spiegate nuovamente le vele, per muovere verso la spiaggia di Palos, dove si faceva sicuro di essere accolto in trionfo. Quanto alla nave capitana, egli avrebbe potuto assicurarsi in quel tragitto di ciò che poteva esserne avvenuto. Se egli non ne aveva notizia da Baiona a Palos, certamente la _Nina_ si era inabissata; l’Oceano aveva sepolta per sempre la gloria del navigatore straniero; e trionfava due volte il Pinzon. Martino Alonzo aveva fatti male i suoi conti. La _Nina_, non che perdersi, era giunta prima di lui; e quella tal lettera ch’egli si era affrettato a mandare da Baiona ai reali di Castiglia, correva rischio di essere interpetrata e giudicata molto severamente, così per le millanterie del suo autore, come per il silenzio serbato intorno al comandante della spedizione, al vero scopritore delle nuove terre di là dall’Atlantico. E con tante orgogliose speranze nel cuore si era egli appressato all’isolotto di Saltes! Con tanta baldanzosa fiducia aveva rimontato il corso del suo fiume natale! Povero orgoglio! povera baldanza! Finivano ambedue nella vergogna; e in una vergogna tanto più grande, in quanto che essa gli capitava nella sua patria, in quel porto di Palos, dove fino allora egli era stato riverito come il primo fra i primi navigatori di Castiglia. E come fu grande la vergogna, così fu grande il rimorso. Martino Alonzo pensò all’arroganza, alla insofferenza d’ogni freno e d’ogni autorità, di cui aveva fatto prova in tante occasioni, durante il viaggio; ed anche all’atto di vera disobbedienza a cui si era lasciato trascorrere, abbandonando il suo almirante nelle acque di Cuba, così rendendo impossibile al grande navigatore di proseguire le sue scoperte. Ricordando queste cose, era naturale che non osasse mostrarsi per le vie, fino a tanto che l’almirante era ospite di Palos. Aspettò dunque che fossero finite le feste, e che Cristoforo Colombo fosse partito di là. Il fatto seguì assai prima che egli non isperasse. L’almirante aveva mandato un corriere alla Corte, che si ritrovava di quei giorni a Barcellona; il giorno seguente, disceso dal convento della Rabida, dove aveva passata la notte, Cristoforo Colombo si avviò, per via di terra, alla volta di Barcellona. E allora anche Martino Alonzo Pinzon uscì dal suo nascondiglio. Un buon pretesto per quel suo rimanersi sotto la tenda, lo aveva; e se anche non fosse stato buono, egli non doveva render conto degli atti suoi a nessuno. Era giunto tardi, perchè il temporale lo aveva mandato a parare in Biscaglia; giunto tardi, non aveva voluto disturbare le feste fatte al suo comandante; era stanco morto; più che esser portato in trionfo gli premeva di riposarsi qualche ora. Si era riposato, era uscito; qual colpa era la sua, se non aveva veduto l’almirante? Per tanti mesi di seguito si erano veduti ogni giorno. E anch’egli, uno di quei giorni, si sarebbe messo in viaggio per raggiungerlo a Barcellona. Intanto, egli approfittava di quel riposo a Palos, per mettere in sesto le cose sue, che ne avevano bisogno. Questa era la gloria vera del lavoratore; lavorar sempre, o in una cosa o nell’altra, senza un giorno di tregua. Con questi ragionamenti, fatti a pezzi e bocconi, quando l’occasione si offriva, Martino Alonzo Pinzon credette di giustificare la sua dimora prolungata a Palos. Ma intanto ch’egli si consumava di rimorsi e di rabbia, gli giungeva una lettera dalla Corte. I sovrani non tenevano verun conto delle sue millanterie; lo rimproveravano in quella vece della sua disobbedienza all’almirante, e finivano dispensandolo da una visita che sarebbe stata penosa per tutti. Martino Alonzo Pinzon non rèsse a quel colpo. Già poco ci voleva per abbattere quella rovina d’uomo. Vittima dell’invidia sua, dei rimorsi, della vergogna ond’era stato oppresso così duramente, il comandante della _Pinta_ in capo a pochi giorni fu trovato morto nel suo letto. Gli stenti del fortunoso viaggio, un vizio del cuore, un insulto apoplettico, diedero ragione sufficiente di quella morte improvvisa. La storia non sarà disumana con Martino Alonzo Pinzon. Essa, obbligata ad essere la più umana di tutte le scienze, poichè ha per sua materia gli uomini e le opere loro, ha certamente il diritto di ridurre a più giusta misura gli eroi, fabbricati o ingranditi da vecchi narratori sulla traccia dei grandi eventi a cui ritrovarono il loro nome associato. Ma essa può e deve essere compassionevole, senza tralasciare di esser giusta, con quei modesti cooperatori delle grandi imprese, i quali ebbero il torto di voler parere più alti del vero. Quanti eroi della leggenda, ed abbastanza rispettati dalla critica, non si mostrano da meno di quel povero Martino Alonzo Pinzon! Intrepido marinaio, ma di poca coltura, in un tempo che ai suoi pari non se ne richiedeva nessuna, egli cedette in un cattivo momento ai demoni della superbia e della cupidigia. In lui erano potentissimi gl’istinti, e non dominati dalla ragione. Ma la storia non dimenticherà che Martino Alonzo Pinzon, in un felice momento, udì le voci del suo buon genio, che lo chiamava ad una nobile impresa, avversata dagli invidiosi, non approvata dai dotti. Fu egli il primo marinaio di Spagna che si persuase della verità e della grandezza delle idee di Cristoforo Colombo. Se egli non era, il povero Martino Alonzo, se egli non si persuadeva, se egli non dava l’esempio di avventurare la sua vita col navigatore Genovese, nessun marinaio di Palos, di Huelva, di Moguer, avrebbe osato prendere il mare per quella nobile impresa, ed ogni ordinanza reale sarebbe rimasta lettera morta. Quell’atto redime molti falli, e può farne dimenticare molti altri. E noi deponiamo un fiore sulla tomba del povero Martino Alonzo Pinzon. _Capitolo XIX._ Il commiato. Cristoforo Colombo avrebbe voluto recarsi a Barcellona con la sua caravella. E sarebbe stato, agli occhi della Corte di Spagna, un bel contrasto fra la importanza della scoperta e la povertà dei mezzi con cui la scoperta era stata fatta da lui. Ma la povera _Nina_ imbarcava acqua da tutte le commessure, e bisognò rinunziare al disegno. L’almirante si recò dunque per terra a Siviglia, per aspettare colà gli ordini del re Ferdinando e della regina Isabella. A Siviglia lo accompagnarono sette dei dieci naturali che egli aveva condotti da Guanahani e da Cuba. Uno era morto in viaggio; due erano infermi, e furono lasciati a Palos, affidati alle cure amorevoli di don Francisco Garcia. Ma l’almirante volle con sè tutti i suoi ufficiali e tutti i marinai che avevano partecipato ai rischi e alla gloria dell’impresa, così quelli della _Pinta_ e della distrutta _Santa Maria_, come quelli della _Nina_, diventata la nave capitana. Dei marinai che lo seguivano, due mutarono spoglie, appena giunti a Siviglia. Erano i due genovesi, Cosma e Damiano, che apparvero alla presenza del signor almirante in veste da gentiluomini. La cosa non doveva parer strana a nessuno. Tutta la marinaresca sapeva da un pezzo che quei due erano marinai per celia; sebbene, lavorando e faticando come gli altri, non avessero fatto niente per celia. L’almirante era da pochi giorni nella capitale dell’Andalusia, quando ricevette la lettera dei sovrani, che lo pregavano di dare immediatamente, a Siviglia, o dove gli piacesse meglio, gli ordini necessari ad affrettare la sua partenza per un nuovo viaggio, informandoli a volta di corriere di ciò che avessero a fare dal canto loro, per agevolare gli apparecchi. S’intende che lo invitarono anche a recarsi alla Corte, in Barcellona; ma questo era il meno. E certamente a Cristoforo Colombo doveva piacere, assai più del cortese invito, la fretta con cui Ferdinando e Isabella miravano ad assicurarsi la conquista di un nuovo impero di là dall’Atlantico; una conquista che per tanti anni si erano peritati d’intraprendere. Il ricapito della lettera regia era questo: «A Don Cristoval Colon, nostro almirante sul mare Oceano, vicerè e governatore delle isole scoperte nelle Indie». Anche questi titoli, come erano stati lesinati, un anno addietro! Per la insistenza di Cristoforo Colombo a domandarli, era pericolata all’ultimo momento la spedizione. Tempi mutati! Ma il marinaio genovese non serbava rancori nell’anima, e ad altro non pensò che ad eseguire i comandi delle Loro Altezze, inviando a volta di corriere, come chiedevano, una minuta descrizione delle navi, degli uomini e delle munizioni necessarie al suo secondo viaggio. Dopo di che, si pose in cammino per andare a Barcellona. La via non era lunga; ma dovevano renderla lunghissima le numerose fermate, di cui egli non poteva passarsi, essendo costretto a traversare molte delle più belle e popolose città della Spagna. Il suo viaggio parve la marcia trionfale di un conquistatore. Ovunque egli passava vedeva affollarsi la gente dei luoghi circonvicini, che fiancheggiava le strade maestre ed ingombrava borghi e villaggi. Nelle grandi città, le vie, le finestre, i terrazzini, i tetti, brulicavano di spettatori curiosi che facevano suonar l’aria dei più lieti clamori. Ad ogni tratto era fermato dalla calca, che voleva veder lui da vicino, per imprimersi bene i suoi lineamenti negli occhi. Con molta maraviglia erano anche osservati gl’Indiani, che veramente erano facce dell’altro mondo, e parevano piovuti in terra da qualche pianeta. Così trattenuto ad ogni punto, obbligato a passare un giorno nei luoghi più importanti, a passare almeno qualche ora nei luoghi più piccoli, affinchè fosse appagata la curiosità di tutti, l’almirante non giunse a Barcellona che il 14 di aprile. Colà tutti gli apparecchi erano fatti per accoglierlo con solennità e magnificenza. Ad una certa distanza dalla città, gli mosse incontro una splendida cavalcata di gentiluomini, con gran moltitudine di popolo, per fargli onoranza. Il suo ingresso nella nobile capitale della Catalogna fu paragonato al trionfo che solevano concedere gli antichi Romani ai loro consoli vittoriosi. Andavano primi gli Indiani dipinti d’ocra a vari colori, secondo la foggia del loro paese, adorni di armille alle braccia, di piastrelle e di cerchietti d’oro alle nari. Dopo di questi, che camminavano portando i loro archi, le loro frecce e le loro zagaglie, venivano i marinai, portatori dei pappagalli vivi, dalle molte varietà e dai più lieti colori, delle piante rare, e sopratutto dell’oro in polvere, o in masse più o meno vistose. Giungeva ultimo l’almirante a cavallo, accompagnato dai suoi ufficiali, e seguito da quella splendida cavalcata di gentiluomini, che era venuta ad incontrarlo. La calca era così fitta, che spesso era impossibile di farsi largo per via. Le dame sventolavano i fazzoletti dalle finestre e dai terrazzini; dai tetti al basso della strada era un agitarsi di teste, un levarsi di grida festose. Sembrava che il popolo non potesse saziarsi di contemplare i trofei di un Nuovo Mondo, e l’uomo maraviglioso che aveva saputo indovinarlo, che aveva potuto scoprirlo. Per accoglierlo con maggior pompa, Ferdinando e Isabella avevano ordinato che il loro trono fosse incalzato in una gran loggia aperta, accessibile al maggior numero di persone, sotto un ricco baldacchino di broccato d’oro. Ivi il re e la regina attendevano l’arrivo dell’eroe; vicino ad essi stava il principe Giovanni; tutto intorno gli uffiziali della corona e la prima nobiltà di Castiglia, di Valenza, di Catalogna e d’Aragona. Cristoforo Colombo entrò nella sala, accompagnato dai suoi ufficiali, in mezzo ai quali si distingueva egli per l’alta statura, la nobiltà del portamento e il raggio di viva allegrezza che gli sfavillava dagli occhi. Superbo non era, in quell’ora; e avrebbe potuto esserlo, vedendosi davanti la più parte di coloro che più fieramente avevano avversati i suoi disegni, negata la sua dottrina, disprezzata la sua persona e calunniate le sue intenzioni! Non era superbo; ma poteva farlo apparir tale la solennità del momento, e quel suo ritorno di trionfatore, da una impresa che era seguita punto per punto quale egli l’aveva immaginata e proposta. Del resto, il legittimo orgoglio che poteva dipingersi nel suo viso radiante d’allegrezza, era ancora un giusto omaggio a coloro che in lui avevano creduto, a coloro che lo avevano consolato e confortato nei più tristi momenti della sua vita, nei giorni troppo lunghi e troppo frequenti delle sue amarezze. Certo, non vedeva di mal occhio quell’aria di onesta alterezza la regina Isabella, che tanto si era adoperata per appagare i voti del navigatore Genovese; di quella alterezza doveva compiacersi, come di propria vittoria, quella nobile dama che stava in piedi accanto allo scanno della regina, la marchesa di Moya, Beatrice di Bovadilla. Qual turbamento, e come dolce, in quel cuore di donna! Ci sono le gioie che opprimono, tanto sono violente; pure, chi vorrebbe rinunziarci? A buon conto, non voleva rinunziarci la nobile signora, che aveva aspettato quel giorno e quel turbamento profondo, come il premio di tutte le sue fatiche, come il compenso di tutte le sue ansietà, di tutti i suoi terrori, di tutti i suoi scoramenti. Comprimendo a stento i battiti del suo cuore, Beatrice di Bovadilla guardava davanti a sè. Non aveva da muoversi, non aveva da voltare la faccia; l’argomento di tutte le sue cure doveva giunger là, in quel breve spazio, rimasto vuoto per lui. E quell’uomo era giunto, quello spazio era finalmente ripieno, della persona, della luce, della gloria di lui. In mezzo a quella gran folla di dame e di cavalieri, nessuno badava a lei, in quel punto; neanche don Francisco di Bovadilla, il suo scontroso e sdegnoso fratello; neanche don Fernando Talavera, il burbanzoso ed ignorante vescovo di Granata; neanche don Giovanni Cabrera, marchese di Moya, suo signore e padrone. Tutti gli sguardi, come tutti i pensieri, erano rivolti al trionfatore; la curiosità, la commozione, e tutti gli ardori che può comunicare in certi momenti una moltitudine giubilante al cuor più ribelle, usurpavano il campo ad ogni altro sentimento. I vigilatori sospettosi di Beatrice Bovadilla, perfino i suoi molestissimi innamorati, le davano tregua per quell’ora di animazione straordinaria, di commozione solenne. Ella era dimenticata, come perduta, in quella folla che aspettava un uomo, che lo sentiva avvicinare, che lo vedeva presente. Qual gioia, poterlo guardare liberamente anche lei! poter cercare con avida cura su quel volto la traccia dei pericoli corsi, degli stenti patiti, e in quegli occhi la visione dei grandi segreti strappati all’Oceano! Perchè egli era partito con tre navi, ed era ritornato con una, con la minore delle tre, portando sovr’essa la sua fortuna, la sua gloria. Egli trionfava, finalmente; ma era anche un po’ lei la vincitrice di quella guerra, e sentiva di trionfare con lui. Nessuno guardava Beatrice di Bovadilla, di tanti gentiluomini che si affollavano intorno ai gradini del trono. Ma quell’uomo, su cui si fissavano gli occhi di tutti, dove volgeva egli i suoi? Si era avanzato fino ai gradini del trono; il re e la regina si erano alzati per riceverlo; ed egli, prendendo rispettosamente le destre di Ferdinando e d’Isabella, si era inginocchiato per baciar quelle destre. Lo avevano amorevolmente rialzato, pregandolo di voler sedere davanti a loro, sopra uno scanno che due valletti si erano affrettati a mettere innanzi. Ma egli, prima di sedere, aveva fatto il gesto di chi vuol guardare intorno, come per raccapezzarsi, in una compagnia che veda la prima volta. Pure, non aveva girato molto con gli occhi; il suo sguardo era andato diritto al fianco della regina, si era incontrato nello sguardo di Beatrice Bovadilla, e sul volto di lui era corsa una vampa. Ah, bene facevano tutti, non guardando che lui; meglio aveva fatto egli, non cercando altro sguardo che quello di lei. —Don Cristoval, nostro amico, voi state bene? Vi siete rimesso di tante fatiche?—diceva la regina Isabella.—Abbiamo palpitato di profonda ansietà, leggendo nella vostra lettera il racconto di ciò che avete sofferto nel ritorno dal vostro maraviglioso viaggio. Ma ora siete con noi, e ci sentiamo più tranquilli. Vorrete voi raccontarci di tutte le grandi cose che avete operate? —Con l’aiuto di Dio e sotto il padronato delle Vostre Altezze,—rispose Cristoforo Colombo,—l’impresa non poteva sortire un esito migliora. Umile istrumento della provvidenza celeste, io la ringrazio ogni giorno di avere inspirato ai Sovrani di Castiglia tanta benevolenza per me.— Benevolenza un po’ tarda, non è vero? e sopra tutto, ben misera negli effetti! Ma il navigatore Genovese era sincero, ringraziando i reali di Castiglia di quanto avevano fatto per lui. Chi pensa alle difficoltà, agli indugi, ai contrasti, quando l’impresa è compiuta e il trionfo l’ha coronata? Cristoforo Colombo, per obbedire al desiderio della regina, incominciò a raccontare il suo viaggio. Era facondo, come sappiamo, ed anche spesso eloquente, di una eloquenza che toccava in certi punti il sublime, nella sua stessa semplicità. Quella volta, poi, doveva riuscire più eloquente d’Iperide, usando a più nobile fine un famoso argomento dell’oratore ateniese. Egli, infatti, poteva presentare i documenti della sua gloria, in quelle sette creature umane, tanto diverse da ogni specie conosciuta, alle quali, oltre il rosso colore della pelle, dava tant’aria di novità lo strano costume di tingersi il corpo, segnandolo di svariate figure, e quell’altro, non meno strano, di portare al sommo della nuca quei ciuffi di penne dai vivaci colori. E non era men bello vedere quei selvaggi sgranar tanto d’occhi, per contemplare quella società europea, tutta coperta di seta, di broccato e di trine. I cortigiani di Castiglia godevano, senza darsene ragione, di quel naturale contrasto fra due razze, una delle quali, ignota fino a quei giorni, e padrona di sè, doveva cadere in servitù dell’altra, e a mala pena conosciuta, e a mala pena assoggettata, sparire dalla faccia della terra. Poveri selvaggi del Nuovo Mondo! Ignorando la loro sorte, contemplavano attoniti la grandezza, la maestà dei reali di Spagna, offrendo loro nei canestri di vimini, intessuti con la loro arte bambina, la polvere d’oro che doveva destare tante cupidigie, ed esser cagione di tanti delitti all’uomo civile. Della attenzione con cui tutta la Corte era stata ad udire il racconto, non occorre parlare. Erano così nuove le cose che diceva l’almirante del mare Oceano; e ciò che tutti vedevano riusciva a così vivo commento delle parole sue, che due ore trascorsero senza che alcuno di tanti ascoltatori se ne fosse avveduto. Pure, egli non aveva raccontato che sommariamente. Ma tutti si ripromettevano di udirlo ancora, e di avere da lui in tutti i più minuti particolari ciò che per sommi capi era stato esposto, quasi a sfiorare il tema, ad acquetare la prima sete, ma senza spegnerla ancora. Com’ebbe finito di raccontare, Cristoforo Colombo presentò ad uno ad uno i suoi compagni di viaggio. Isabella e Ferdinando ebbero una cortese parola per tutti. Quando venne la volta dei due amici, che sappiamo, Cristoforo Colombo non potè dire, naturalmente, che due nomi di battesimo, e per giunta non i veri ed autentici. —Cosma e Damiano,—diss’egli,—miei concittadini; due nobili genovesi, che hanno voluto venire con me, nell’umil veste di semplici marinai.— Ferdinando salutò graziosamente con un cenno del capo e con un sorriso i due marinai gentiluomini. —Nobili uomini,—rispose egli,—e più nobili cuori! Qui troveranno in buon punto due loro illustri concittadini, a noi inviati per ambasciatori della eccelsa Repubblica di Genova. Signori,—soggiunse, volgendosi a due gravi personaggi che erano sulla sua destra,—vogliate riconoscere ad abbracciare i vostri concittadini, che si son fatti compagni di fatiche, di pericoli e di gloria del nostro grande almirante e vicerè, don Cristoval Colon.— I due personaggi uscirono dalle prime file. Erano essi messer Francesco Marchesio, legista, e Giovanni Antonio Grimaldo, ambasciatori mandati da Genova alla Corte di Castiglia, per negoziare un trattato di pace e di alleanza fra i due Governi. Il Grimaldo riconobbe Cosma alla bella prima, e già aveva incominciato a dirgli: —Siete voi, messer Gia....— Ma un’occhiata di Cosma gli mozzò in bocca il nome che egli stava per proferire. —Siamo Cosma e Damiano, qui;—soggiunse Cosma, a guisa di commento, e parlando il vernacolo di casa;—due amici, due fratelli, come i santi di cui abbiamo assunti i nomi. Le nostre famiglie non sono d’accordo laggiù; ma voi non vi maravigliate, messer Giovanni Antonio, se noi due ci ritroviamo amicissimi qui. Siamo fuori di casa; e fuori di casa possiamo anche incontrarci volentieri con gli ambasciatori del doge Adorno. —Una bella gloria per voi, messeri, di aver partecipato a questo miracoloso viaggio!—disse Francesco Marchesio, cercando di sviare il discorso dalle cose di Stato. —E per il nostro insigne concittadino Colombo d’averlo ideato e compiuto;—aggiunse Damiano.—Vedete intanto, messeri? Gli hanno già smozzicato il cognome. E questo mi pare il primo rimprovero alle nostre discordie, le quali non hanno consentita la gloria di scoprire il Nuovo Mondo ai figli di quei Genovesi che avevano pure scoperte le isole Canarie, quelle degli Astori, del Legname e del Capo Verde. —Di chi la colpa?—mormorò Giovanni Antonio Grimaldo. —Non vostra, messere, nè del vostro onorando compagno; nè la nostra, a buon conto;—replicò Damiano.—Ad un per uno, siamo tutti innocenti; ma posti a mazzo.... —È vero; non dite di più!—interruppe il Grimaldo.—Ma qui, fuori di casa, tutti amici, non è vero messer Bar.... —Damiano, per ora, e felicissimo al pari di Cosma, di aver salutati due valentuomini della nostra cara Genova.— Le presentazioni erano finite, e il re Ferdinando aveva fatto un cenno. A quel cenno risposero dall’alto i gravi accordi di un organo. La regina, il re, le dame e i gentiluomini della Corte s’inginocchiarono. I cantori della cappella reale intuonarono il _Tedeum_, e ad essi fecero eco le voci di tutta quella gente adunata. Il maraviglioso inno Ambrosiano, vera elevazione delle anime a Dio creatore, a Dio consolatore, a Dio datore d’ogni bene, non fu mai cantato con tanta pienezza di gratitudine, con tanta commozione di cuore. Le lagrime corsero più volte agli occhi della regina; di lagrime, per tutto il tempo che durò la modulata preghiera, si mostrarono rigate le guance del navigatore Genovese. Finito il canto si levarono tutti, e incominciò la sfilata. Accompagnati dal vicerè delle isole scoperte, dal grande almirante del mare Oceano, Ferdinando ed Isabella si avviarono al palazzo reale, in mezzo ad una moltitudine acclamante. In più ristretti colloqui il grand’uomo raccontò partitamente ai reali di Castiglia la fatte scoperte. E allora gli toccò di ricevere le congratulazioni, le lodi, le strette di mano di tutti i più eminenti personaggi. Molto egli gradì l’abbraccio di don Pedro di Mendoza, cardinale e primate di Spagna, che era stato il più autorevole dei suoi difensori al tempo del consiglio di Salamanca. Ma egli non potè reprimere un atto di stupore, vedendosi prendere tanto amorevolmente per tutt’e due le mani da don Fernando Talavera, vescovo di Granata, confessore della regina, e già presidente di quel famoso consiglio in cui l’ignoranza aveva fatta una delle sue più solenni comparse. —Figliuol mio!—gli diceva il Talavera, con una voce chioccia che voleva parer soffocata dalle lagrime della consolazione.—Figliuol mio dilettissimo, è una grande contentezza per me, di potervi abbracciare! Che uomo, signori!—soggiungeva, voltandosi a guardare intorno; e non lasciando tuttavia sfuggire le mani del figliuolo suo dilettissimo.—Che uomo! Lo avevo sempre detto, io, che un grande onore ci sarebbe venuto da lui. _Lumen veniet e coelo et hoc lumine implebitur terra_. Che uomo! che uomo! Don Cristoval, voi dovete andar superbo dell’opera, vostra. E noi dobbiamo andar superbi di avervi conosciuto, di avervi indovinato. —Questo io non dimenticherò mai,—disse Cristoforo Colombo, inchinandosi. E liberatosi finalmente dalle strette del vescovo di Granata, si volse a don Alonzo Quintanilla e a don Luigi Santangel, che aspettavano la volta loro. Questi, poi, li abbracciò, e li baciò con effusione di cuore. —A voi, consolatori, a voi confortatori miei nei tristi giorni d’abbattimento, io ho pensato ogni giorno, come a don Juan Perez Marcena, il degno guardiano della Rabida, e al fisico Francisco Garcia;—disse l’almirante, non curandosi più del Talavera, che ancora non si era allontanato di là,—Siete stati voi, buoni amici, i miei quattro punti cardinali; da ognuno di voi, se è lecita a cuori allegri una celia,—soggiunse egli ridendo,—vorrei intitolata una delle quattro parti del mondo. —Ma per opera vostra, don Cristoval, son diventate cinque;—rispose il Santangel.—Mi è parso di capire dal vostro racconto che le isole occidentali son molte, e che non sia il caso di regalarle all’Asia. —È un dubbio, questo, che altri viaggi risolveranno;—replicò l’almirante.—Ma se una quinta parte sarà, non dubitate, troveremo da cui intitolarla. —Saranno tanti oramai quelli che vi hanno protetto!—esclamò il Quintanilla,—che vi troverete molto impacciato a ringraziarli tutti.— Così dicendo, l’ottimo don Alonzo non potè trattenersi dal volgere un’occhiata al vescovo di Granata; il quale, scuotendo la testa nella sua pappagorgia, rotando gli occhietti astuti e succhiandosi le labbra, si tirò gravemente in disparte. Più dignitoso a gran pezza si mostrò don Francisco di Bovadilla, il fiero commendatore di Calatrava. Non isfuggì il suo nemico, non negò il saluto riverente al fortunato uomo, che i suoi sovrani festeggiavano, che tutta la sua nazione acclamava; ma altro non fece, non mentì con le labbra una allegrezza, una amicizia, che non aveva nel cuore. Fu molto cortese don Giovanni Cabrera, il marchese di Moya. Il vecchio cavaliere, dopo tutto, non aveva che da inchinarsi in quella stessa guisa che tutti gli altri avevano fatto al nuovo astro sorgente; da buon cortigiano, non aveva che da seguire l’esempio dei suoi eccelsi padroni. Aggiungete che la nube occorsa tra lui e don Cristoval, o piuttosto tra lui e la sua nobile compagna, era stata così lieve! Si poteva dir quasi che niente fosse avvenuto. Se poi era avvenuto qualche cosa, quel poco era stato facilmente dimenticato. Per tanto, non fu difficile a don Cristoval di vedere la marchesa di Moya, in privato colloquio. Quel colloquio, nessuno dei due poteva cercarlo, nessuno dei due poteva fuggirlo: era naturale che se ne offrisse l’occasione; era naturale che ambedue l’accettassero. Pure, non era il colloquio più naturale del mondo. Chi ci ha seguiti nella prima parte di queste istorie, facilmente lo immagina. Donna Beatrice aveva veduto giungere quel momento solenne; non aveva fatto nulla per affrettarlo; e là, davanti a quell’uomo, era rimasta come inchiodata al pavimento, guardandolo senza vederlo, rispondendo al suo inchino con un cenno del capo, e con un moto delle labbra, a cui non rispondeva alcun suono di voce. Gli sorrideva, intanto, gli sorrideva placidamente, come a persona amica, da cui si fosse separata a mala pena il giorno prima. E tanto tempo era passato! tante cose erano avvenute, dopo il loro ultimo colloquio! e del dramma dei loro cuori così poca parte era stata confidata alle labbra! Don Cristoval doveva fare tutta la strada che intercedeva fra lui e Beatrice di Bovadilla. L’obbligo era tutto del cavaliere; e da buon cavaliere, don Cristoval si avvicinò alla bella marchesa di Moya. —Signora....—incominciò, ma senza andare più oltre. Era, lo sapete, tutto ciò ch’egli sapesse dire, rivolgendo il discorso a donna Beatrice; tanto che un giorno la bella dama spazientita gli aveva risposto: «non sapete voi dirmi altro, don Cristoval?» Ma per quella volta la bella dama non gli disse così; anzi, non gli disse nulla di nulla. Gli porse in quella vece la mano. E don Cristoval prese quella mano; la tenne a lungo tra le sue; poi, chinatosi divotamente, v’impresse un bacio anche più lungo della stretta. Quello era il suo premio, e il buon cavaliere lo gustava intiero. Ed era anche il tributo della riconoscenza e dell’amor rispettoso per lei. Nè ella ritirò la sua mano, sebbene la sentisse ardere come per febbre violenta. Ma quella scena muta non poteva durare eterna. Don Cristoval, facendo uno sforzo, aveva levata la fronte, guardando la sua protettrice. Davanti a quegli occhi aperti che la fissavano, Bovadilla socchiuse i suoi, e timidamente gli chiese: —Avete pensato a me, qualche volta? —Oh!—disse il buon cavaliere.—Più di qualche volta; ogni giorno; tutte le volte che m’era dato di rientrare col pensiero in me stesso. Ed anche, ve lo confesserò, mi accadeva di adirarmi con me, di ritrovarmi assai debole, di scacciare l’immagine.... —Importuna?—soggiunse Bovadilla. —Non importuna, pericolosa:—rispose don Cristoval.—Voi foste il mio buon angelo, donna Beatrice, quando io disperavo di raggiungere l’intento. Là, sull’Oceano, eravate ancora la mia forza interiore. Ma voi lo intenderete; c’erano i momenti in cui la viltà degli uomini o la collera degli elementi richiedeva ogni mia cura; ed io allora dovevo temere che quella immagine, troppo.... presente al mio spirito, non mi facesse dimentico degli obblighi miei. Perdonate, signora, voi che intendete sicuramente più che io non dica. Ma a voi pensavo, quando mi venne sui flutti il primo saluto delle terre sconosciute.... un ramoscello di spino fiorito; e nel mio pensiero io l’ho dedicato a voi, come l’omaggio dovuto a colei che mi difese a viso aperto, alla nobile donna per il cui patrocinio costante fu possibile a me di tentare l’impresa. Eccolo, signora;—soggiunse don Cristoval, traendo da un piccolo astuccio di cordovano il ramoscello di spino;—era fiorito, quando io lo destinavo a voi. Oggi, il poveretto non ha più che le punte. Io spero tuttavia che non ferisca la nostra amicizia. —Esso invece la suggellerà;—disse Bovadilla. Così dicendo, Bovadilla accostò prontamente il ramoscello alla bocca. Si punse le labbra, come vi sarà facile immaginare; ma fu pronta anche a premervi su col suo fazzoletto di seta. E quel fazzoletto, tinto di alcune piccole gocce di sangue, porse tosto a don Cristoval. —Prendete,—gli disse,—sia questo il pegno d’amicizia eterna fra noi.— Seguì un lungo silenzio; l’ineffabile silenzio che accompagna le grandi gioie, come i grandi dolori. Noi lo rispetteremo, ben sapendo che ogni parola, comunque studiata e riguardosa, guasterebbe. Quando il vicerè delle isole dell’Oceano partì dalle stanze della marchesa di Moya, egli aveva gli occhi ancor bagnati di lagrime. Quel giorno, ritirandosi nel suo appartamento, Cristoforo Colombo ebbe una pena, a cui del resto era già preparato. Cosma e Damiano, i suoi concittadini, i suoi compagni di stenti e di pericoli, venivano a prendere commiato da lui. —Messere,—gli disse Damiano,—avete comandi da darci per Genova? —Come? voi volete già andarvene? —Sì, oggi stesso, se non vi dispiace. L’occasione è qui, l’afferriamo per il classico ciuffo. In altre parole,—soggiunse Damiano,—salpa di qui, nella notte, la _Bella Maghellona_, una galeotta genovese; io la sposo, e Cosma mi accompagnerà nel viaggio di nozze. —Beato voi! sempre di buon umore;—disse l’almirante. —Ma sì! perchè mi guasterei il sangue con le malinconie?—rispose Damiano.—Ho studiato tanto di medicina da intendere che non me lo aggiusterebbe più nessuna ricetta. —E non ci rivedremo più, miei signori? —Chi sa?—disse Cosma.—Non verrete voi mai a salutare la patria? —La patria!—esclamò sospirando il navigatore Genovese.—Ora, la patria mia è quello spazio di mare che va dalla foce del Guadalquivir al porto del Natale. Lo scopritore è incatenato alle sue scoperte, come il Titano alla sua rupe. —Con la giunta dell’avvoltoio; la grazia!—rispose Damiano.—E tuttavia, messere.... Cosma vi ha detto: chi sa? Io vi rispondo: sicuramente. Ci rivedremo, messere. Vado a Genova e torno. —Ah, bene! Faccio assegnamento su voi. Ma non saprò io per intanto chi siete voi due? —È giusto;—disse Cosma.—Nell’atto di ringraziarvi, il meno che possiamo fare è di dirvelo. Giano di Campo Fregoso è il mio nome. —E il mio, Bartolomeo Fiesco;—disse Damiano. —Due nemici, una volta, e due rivali;—riprese Giano Fregoso;—ora due fratelli nella vostra gloria, a cui siamo orgogliosi di essere stati compagni. —Bravi! e siate fratelli sempre;—rispose Cristoforo Colombo, dopo averli abbracciati.—E ciò sia per conforto di quella povera patria, a cui vi prego di portare il mio reverente saluto. Vedevo ieri gli ambasciatori di Genova non lieti, e mi pareva d’intenderne la cagione. Essi certamente pensavano che la bella impresa da cui eravamo tornati noi, si sarebbe potuta compiere con forze genovesi, se ai grifi di Genova non avessero tarpate le ali le sue maledette discordie. Ma io pensavo in pari tempo un’altra cosa, e più grave. A danno delle repubbliche Italiane i grandi Stati si vanno formando e fortificando in Europa. Oggi, neanche la nostra concordia basterebbe più a scongiurare quel danno. La nostra Repubblica non ha terra, alle spalle, e va perdendo l’imperio dei mari; intanto i suoi cittadini non pensano neanche a prepararle un glorioso tramonto. Questo, per Genova, è peggio del non aver favoriti essa i disegni di un suo figlio devoto. Come ci rialzeremo noi, Italiani, da questa miseria? e quando? Non è dato a noi di prevedere il tempo e le vie; perciò siamo tristi. Ma voi, amici, voi gentiluomini, non fate nulla che aggravi le tristezze e accresca i danni alla madre comune. Tristi morrete anche voi, ma senza rimorsi. Andate ora, nel nome di Dio, ricordate ed amate.— _Fine_. ———— _Il terzo romanzo colombiano che fa seguito a «Le due Beatrici» e a «Terra Vergine» porterà per titolo_: *I figli del Cielo.* ———— OPERE di A. G. BARRILI. _Capitan Dodéro_ (1865). 12.ª ediz. L. 1 — _Santa Cecilia_ (1866). 10.ª ediz. 1 — _Il libro nero_ (1868). 4.ª ediz. 2 — _I Rossi e i Neri_ (1870). 5.ª ediz. (2 vol.) 2 — _Le confessioni di Fra Gualberto_ (1873). 13.ª ediz. 1 — _Val d’olivi_ (1873). 18.ª edizione 1 — _Semiramide_, racconto babilonese (1873). 8.ª ediz. 1 — _La notte del commendatore_ (1875). 2.ª ediz. 4 — _Castel Gavone_ (1875). 10.ª ediz. 1 — _Come un sogno_ (1875). 23.ª ediz. 1 — _Cuor di ferro e cuor d’oro_ (1877). 18.ª ediz. (2 vol.) 2 — _Tizio Caio Sempronio_ (1877). 2.ª ediz. 3 50 _L’olmo e l’edera_ (1877). 18.ª ediz. 1 — _Diana degli Embriaci_ (1877). 2.ª ediz. 3 — _La conquista d’Alessandro_ (1879). 2.ª ediz. 4 — _Il tesoro di Golconda_ (1879). 12.ª ediz. 1 — _Il merlo bianco_ (1879). 2.ª ediz. 3 50 — Edizione illustrata (1890). 5.ª ediz. 5 — _La donna di picche_ (1880). 6.ª ediz. 1 — _L’undecimo comandamento_ (1881). 10ª ediz. 1 — _Il ritratto del Diavolo_ (1882). 3.ª ediz. 3 — _Il biancospino_ (1882). 9.ª ediz. 1 — _L’anello di Salomone_ (1883). 3.ª ediz. 3 50 _O tutto o nulla_ (1883). 2.ª ediz. 3 50 _Fior di Mughetto_ (1883). 4.ª ediz. 3 50 _Dalla Rupe_ (1884). 5.ª ediz. 3 50 _Il conte Rosso_ (1884). 3.ª ediz. 3 50 _Amori alla macchia_ (1884). 3.ª ediz. 3 50 _Monsù Tomè_ (1885). 3.ª ediz. 3 50 _Il lettore della principessa_ (1885). 3.ª ediz. 4 — — Edizione illustrata (1891). 5 — _Victor Hugo_, discorso (1885). 2 50 _Casa Polidori_ (1886). 2.ª ediz. 4 — _La Montanara_ (1886). 7.ª ediz. 2 — — Edizione illustrata (1893). 5 — _Uomini e bestie_ (1886). 2.ª ediz. 3 50 _Arrigo il Savio_ (1886). 2.ª ediz. 3 50 _La spada di fuoco_ (1887). 2.ª ediz. 4 — _Il giudizio di Dio_ (1887). 4 — _Il Dantino_ (1888). 3.ª ediz. 3 50 _La signora Àutari_ (1888). 3.ª ediz. 3 50 _La Sirena_ (1889). 5.ª ediz. 1 — _Scudi e corone_ (1890). 2.ª ediz. 4 — _Amori antichi_ (1890). 2.ª ediz. 4 — _Rosa di Gerico_ (1891). 3.ª ediz. 1 — _La bella Graziana_ (1892). 2.ª ediz. 3 50 — Edizione illustrata (1893). 3 50 _Le due Beatrici_ (1892). 5.ª ediz. 1 — _Terra Vergine_ (1892). 5.ª ediz. 1 — _I figli del cielo_ (1893). 6.ª ediz. 1 — _La Castellana_ (1894). 2.ª ediz. 3 50 _Fior d’oro_ (1895). 4.ª ediz. 1 — _Il Prato Maledetto_ (1895). 3 50 _Galatea_ (1896). 3.ª ediz. 1 — _Diamante nero_ (1897). 3.ª ediz. 1 — _Sorrisi di gioventù_ (1898). 2.ª ediz. 3 — _Raggio di Dio_ (1899). 2.ª ediz. 1 — _Lutezia_ (1878). 2.ª ediz. 2 — _Con Garibaldi, alle porte di Roma_, ricordi (1895). 4 — _Zio Cesare_, commedia in cinque atti (1888). 20 Nota del Trascrittore Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, così come le grafie alternative (cacico-cacìco, Cibao-Cibào, colibri-còlibri, desideri-desiderî e simili) correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. *** End of this LibraryBlog Digital Book "Terra vergine" *** Copyright 2023 LibraryBlog. 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