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Title: Cara Speranza
Author: Colombi, marchesa, 1840-1920
Language: Italian
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  La Marchesa Colombi


  Cara Speranza



  MILANO

  CASA EDITRICE
  DI C. CHIESA · F.lli OMODEI · ZORINI e F. GUINDANI

  _Galleria Vittorio Emanuele, N. 17-80_

  1896


DIRITTI DI PROPRIETÀ RISERVATA.

Milano, Tip. Bernardoni di C. Rebeschini e C.



CARA SPERANZA.


Si chiamava Amalia. Però, malgrado quel nome gentile, era una fra le più
rozze campagnuole delle risaie, quando si presentò in casa nostra ad
offrirsi come serva.

S'era messe le scarpe per la solennità della circostanza, ma, appena
vide il pavimento lucido del nostro gabinetto, rimase sbigottita e si
curvò come per levarsele. Ci volle di molto a persuaderla d'entrare
calzata com'era.

Tuttavia non era timida nè selvatica, come sono, per lo più, le
contadine; le pareva soltanto una mancanza di rispetto il mettere sul
nostro pavimento le scarpe che aveva strascinate, per una lunga
camminata, nella polvere della strada maestra da Momo a Novara. Ignorava
ogni elemento di civiltà, e, nella sua cortesia istintiva da persona
buona, inventava una civiltà a suo modo, che riesciva grottesca,
sebbene, a conti fatti valesse forse quanto la nostra. Infatti nella
China si tolgono le scarpe prima di entrare nelle case. È questione di
usanze.

In tutta la persona dell'Amalia si vedevano le traccie della vita e dei
lavori delle risaie. Aveva ventisette anni ma ne dimostrava quaranta. Il
volto era pieno di rughe, i capelli, folti sulla fronte, erano tanto
radi sul cranio, che frammezzo alle ciocche, tirate nella legatura, si
vedeva la pelle bianca sollevarsi.

Portava la pettinatura del nostro contado, e come tutte le contadine,
che quel peso enorme sul capo rende calve prima del tempo, suppliva alla
capigliatura mancante con due grosse treccie di cotone, girate intorno
ad un cerchietto di filo di ferro coperto di tela; ed in quelle puntava
i grossi spilloni di falso argento. Sui capelli scarsi, quell'edificio
non trovava appoggio sufficiente, e le ballonzolava dietro il capo. Le
mancavano vari denti, e, traverso quei vuoti, le _esse_ uscivano
sibilanti.

Ma di questi particolari della sua figura l'Amalia non si dava il menomo
pensiero. Era forte e sana, sapeva d'aver ventisette anni. Cosa le
importava di dimostrarne di più?

Le domandammo se sapesse cucinare.

Rispose:

--No. So appena fare la minestra alla nostra maniera da contadini, e
friggere le patate ed i fagiuoli; ma ho buona volontà; imparerò presto.

--E sai stirare?

--Neppure. Noi non usiamo stirar nulla... Ma anche questo potrò
impararlo. Non abbiano paura: la _cognizione_ non mi manca; capisco
subito quello che mi insegnano.

Mio padre domandò:

--E per le informazioni, a chi debbo rivolgermi?

--Se vuol andare a Momo, e domandare alla cascina Pometta, dove sono
stata a servire per tredici anni... Ma per la fedeltà può mettermi
nell'oro, guardi, che un quattrino, che è un quattrino, non lo
toccherei.

Le facemmo altre domande, alle quali rispose con sicurezza, e senza
vantarsi mai. Ci piacque molto, e le proponemmo di venire con noi per un
mese a titolo d'esperimento. Accettò, ma non colla prontezza e lo
slancio che le sue risposte precedenti e le sue maniere espansive ci
avevano fatto aspettare.

Le domandai:

--Non sei contenta?

--Oh, per contenta lo sono di certo... Ed esitava sempre.

Io soggiunsi per incoraggiarla:

--Siamo soltanto due da servire: il babbo ed io.

--Fossero anche dodici, la fatica non mi fa paura.

Stette ancora titubante, poi soggiunse in fretta come per afferrare la
risoluzione prima che le sfuggisse:

--Ecco; è meglio che glielo dica addirittura. Io sono una figliola
onesta, non cerco d'andare a spasso, non mi _perdo via_ coi giovanotti,
tiro dritto per la mia strada; ma però; cosa serve nasconderlo? Ho un
bersagliere.

Aveva pronunciato _bresagliere_, poi aveva messo fuori un gran
sospirone, come per dire: «È fatta!»

Questo bersagliere abbuiò subito, coll'ombra delle sue piume, la fronte
di mio padre, che disse crollando il capo:

--Uhm. Ho paura che non facciamo nulla. Ogni volta che andrete fuori
avrete il bersagliere intorno...

L'Amalia sospirò melanconicamente:

--Oh! questo non è possibile. Il Re l'ha mandato in _Cicilia_.

Mio padre che era un vecchio Piemontese devoto alla monarchia ed alla
casa Savoia, approvò vivamente quella disposizione del Re. E l'Amalia,
vedendolo sorridere, riprese fiduciosamente.

--Serviva anche lui alla Pometta, ma allora non era bersagliere. Abbiamo
cominciato a parlarci, dalla finestra della cucina che guardava
nell'orto, perchè lui era ortolano. E che bel giovine! Se vedesse signor
padrone, alto come lei, e più diritto di lei, perchè quello è giovine, e
lei no, pover'uomo! Però noi si sapeva che doveva andare soldato e ci
promettemmo di aspettarci finchè lui avesse _finito il suo tempo_. Sono
quattro anni che gira per la Cicilia, ed io intanto servo, per mettere
un po' di quattrini da parte; poi, dopo tre anni ancora, tornerà col suo
congedo _risoluto_ e mi sposerà.

Dacchè il bersagliere era messo al sicuro di là dal mare, mio padre
ammise l'Amalia ad un mese di prova, dopo il quale ella tirò via a
servire senza che nessuno sollevasse la menoma obbiezione.

Era una donna attiva, intelligente, pulita, e sempre allegra. Diceva
_casa nostra _, diceva _noi_, nominando collettivamente se stessa ed i
padroni, faceva un mondo d'accoglienze ai visitatori che venivano, e
s'informava della loro salute come se fossero suoi amici; ma, in una
famiglia alla buona come la nostra, queste dimestichezze si potevano
perdonare. Imparava ogni cosa con molta facilità, e trovava tempo per la
cucina, per stirare, per tenere in ordine la casa, ed anche per correre
ogni giorno alla posta a domandare se c'erano lettere del bersagliere.

Ne parlava continuamente. Tutti i vicini di casa, padroni e servitori, i
nostri conoscenti, i portinai, i bottegai della contrada, sapevano che
l'Amalia aveva un innamorato bersagliere; ed appena la vedevano le
domandavano ridendo:

--E così, Amalia? ha scritto il bersagliere?

Il pollaiolo le regalava dei mazzi di penne di cappone, che lei metteva
da parte giubilando per «_mandarle in Cicilia alla prima occasione_».
Provava ad inalberarle da un lato del suo capo calvo, e, diceva:

--Come staranno bene sul cappello del bersagliere!

Per se stessa non comperava mai nulla. Riceveva col salario i vestiti e
le scarpe, come si usa in provincia, ed il denaro delle sue mesate lo
metteva tutto da parte per quando avrebbe sposato il bersagliere. S'era
fatta lei stessa, col suo filato, varie pezze di tela che serbava
preziosamente nel baule, e non ne avrebbe staccato da farsi una camicia
per nulla al mondo. I doni che le si facevano lungo l'anno, le strenne
di Natale, tutto riponeva per quel giorno desiderato e lontano.

Ma aveva l'amore gaio; non la si udiva mai rimpiangere la lontananza
dell'innamorato. Era sicura di quell'amore come di respirare e di
vivere; il più lieve dubbio non era mai sorto nel suo cuore onesto; e
quel pensiero del bersagliere la colmava di gioia.

S'egli tardava a scriverle, la sola supposizione che l'Amalia faceva era
che fosse malato; e allora s'impensieriva e moltiplicava le corse alla
posta. Se incontrava il portalettere, erano sempre delle scene. Voleva
che esaminasse ad una ad una le soprascritte, fin all'ultima; poi le
domandava se era ben sicuro di non avere altre lettere in tasca, o di
averne perduta qualcuna per via.

Appena la lettera aspettata giungeva poi, era un delirio di giubilo. Non
sapeva leggerla, ma cominciava fin dalla posta a dire agli impiegati:

--È del bersagliere! Viene nientemeno che dalla Cicilia, e c'è su _Cara
speranza_! E rideva, rideva, finchè le cadevano le lacrime.

Poi correva verso casa, ed in capo alla contrada alzava la lettera, la
faceva sventolare gridando:

--C'è la lettera del bersagliere! C'è la lettera del bersagliere!

Era sempre qualche bottegaio che gliela leggeva. E l'Amalia si piantava
in faccia a lui, ridendo anticipatamente di gioia e guardandolo bene in
viso, come se fosse il bersagliere stesso che parlasse, e lei volesse
vederne il senso delle parole nell'espressione del volto. E, prima che
si cominciasse a leggere, domandava tutta gongolante.

--C'è «_Cara speranza_» in cima?

«_Cara speranza_» c'era sempre; e le lettere si somigliavano tutte; ma
l'Amalia esultava, si torceva le mani durante la lettura per comprimere
le grida di piacere. Poi pigliava il foglio e saltava in mezzo al gruppo
d'amici che si erano stretti intorno, e si agitava tanto, che l'aureola
degli spilloni minacciava di strapparle, nella violenza dei rimbalzi,
quei pochi capelli che la reggevano. E baciava la lettera, e rideva,
rideva da perderne il fiato, e per parecchi giorni tutto il casamento
era assordato dalla canzone favorita dall'Amalia:

    O mamma famm el lett,
    Che mi faroo la cuna,
    L'amor del bersaglier
    L'è sta la mia fortuna.

Tutti compativano la schietta affezione della povera giovane;
quell'amore gioviale faceva piacere; e poi si sapeva che era onesto. Col
mare in mezzo, i due innamorati miravano al buon fine. Senza questo in
provincia non avrebbero tollerato tanto.

Quella passione immensa arrivò una volta a dare alla contadina una
specie di divinazione. Era qualche tempo che il bersagliere non
scriveva. Quando giunse la lettera, nell'aprirla se ne vide cader fuori
un centesimo. Si fecero molti commenti nel vicinato:

--Cosa vorrà dire?

--Una moneta è un simbolo d'amore.

--Ma non così intera; si deve tagliarla in mezzo, e portarne al collo
metà per ciascuno.

--Ma che! È perchè possiate giocare a croce e lettera per vedere se vi
vuol bene.

Ed il pollaiolo, che era il più istruito, e non credeva nè a talismani,
nè ad oroscopi, e rideva delle sentimentalità amorose, diceva con
sussiego:

--Non istate ad almanaccar tanto: non è altro che uno scherzo. I soldati
sono uomini di mondo; amano ridere...

Ma l'Amalia rise meno del solito, e baciò la lettera più amorosamente;
ed il domani, quando venne a ricevere gli ordini per la cucina, mi
domandò come si potesse fare per mandare cinque lire fino in Sicilia.
Poi disse:

--Il bersagliere ha messo un centesimo nella lettera, poveretto. Vuol
dire che ha bisogno di quattrini.--E spedì a Catania un vaglia di cinque
lire.

Infatti voleva dire così; il suo cuore amoroso aveva indovinato.

Appunto per quella sua rustichezza affettuosa e bonacciona, l'Amalia
dava nel genio a tutti i nostri parenti ed amici, che coglievano
volentieri l'occasione di farle qualche regaluccio, di darle delle
mancie o delle strenne. In tre anni le riuscì di raggranellare parecchie
centinaia di lire ed un baule di roba.

Il denaro l'aveva alla Cassa di risparmio, e tratto tratto veniva da me
col libretto, perchè facessi il conto, a che somma era salito il suo
capitale coll'aumento dei frutti. Bastava che potesse contare una lira
più della volta precedente, per essere contentissima. Diceva:

--È la dote del bersagliere. È il tesoro del bersagliere. Tutto quello
che ho è per lui.

E scoteva il capo con un'affermazione così energica che la pettinatura
le batteva il cranio come il mantice d'una timonella sgangherata.

Quei tre anni, durante i quali era stata bene alloggiata e ben nutrita,
non avevano quasi punto invecchiata l'Amalia; ma non erano neppur
riusciti ad abbellirla. Pareva la stessa del primo giorno che l'avevamo
veduta.

Soltanto, a misura che s'avvicinava il ritorno del bersagliere, la gioia
che le traspariva dagli occhi, dal ridere beato, da tutta la persona, la
rendeva quasi bella.

Non mancavano che quindici giorni all'arrivo del bersagliere quando io
mi ammalai d'una febbre intermittente e dovetti stare a letto. Mio padre
che, sebbene fosse molto burbero, mi voleva bene, chiamò subito il
medico, e mi curò come se si fosse trattato di una malattia grave. La
povera Amalia, che m'aveva preso tanto affetto, era spaventata all'idea
che dovessi ancora stare in letto quando sarebbe tornato il bersagliere.
Domandava dava ansiosamente al medico:

--Potrà alzarsi per il giorno quindici?

Il quindici di novembre era il gran giorno che lei aspettava da sette
anni.

La mattina del dieci si alzò lei con una guancia enormemente gonfia. Ma
diceva di non soffrire affatto, era semplicemente una flussione.

--Purchè il bersagliere non mi trovi col viso storto!

Era la sola cosa di cui si desse pensiero. Poi soggiungeva:

--Gli farebbe troppo dispiacere di trovare ammalata la sua: «_Cara
speranza_.»

Non era la vanità che le stava in mente, era il desiderio che nulla
turbasse la gioia del suo fidanzato. Quando venne il medico, e l'Amalia
andò ad aprirgli sfigurata a quel modo, egli la interrogò sul suo male,
le tastò il polso, poi la mandò a letto, ed entrò da me tutto serio ed
accigliato.

--Quella donna, mi disse, non istà punto, punto bene. Or ora la
visiterò...

Infatti andò a vederla a letto, e disse che, oltre alla risipola che le
gonfiava il volto, c'era pericolo che le si sviluppasse il tifo. Proibì
assolutamente ogni comunicazione con me, e fece chiudere tutti gli usci,
perchè le nostre camere erano separate soltanto da un corridoio stretto.

La sera l'Amalia aveva realmente il tifo, e la mattina dopo, colla scusa
che la sua camera non aveva aria bastante, che l'ammalata infettava la
casa, che agitava me colle sue grida deliranti, il medico indusse mio
padre a farla portare in una camera particolare dell'ospedale.

Avrei voluto vederla prima che se ne andasse, ma assolutamente non
permisero nè che mi alzassi, nè che la portassero nella mia stanza.
Mentre attraversava il corridoio udii che diceva colla sua voce giuliva:

--Andiamo incontro al bersagliere! Tutta la roba mia è pel bersagliere.
Cara Speranza! Ed intonava la solita canzone:

    O mamma famm el lett
    Che mi faroo la cuna...

Domandai al medico impaurita:

--Guarirà?

--Può darsi. Vedremo come passa la prima settimana.

Non poteva togliermela dal cuore un minuto. Avevo dei presentimenti
tetri. E d'altra parte pensavo:

--Ma finora non ha fatto che lavorare, senza distrazioni, senza
affezioni di famiglia (perchè i suoi l'avevano mandata a servire a
dodici anni e non se ne erano curati più), senza benessere, senza
soddisfazioni di vanità; ha vissuto per una speranza, s'è appagata d'una
promessa e non ha invidiato nessuno. Bisognerebbe dire che non c'è
giustizia se quella promessa non le fosse mantenuta...

Infatti non le fu mantenuta. La sera del giorno quattordici morì. Ma
morì in un'estasi di gioia credendosi nelle braccia del suo bersagliere;
ed il suo cadavere rimase sorridente colle labbra aperte sui poveri
denti spezzati e radi.

Poche ore dopo, giunsero i suoi fratelli, che mio padre aveva fatti
chiamare.

Io sapeva che la povera donna aveva sempre destinato quanto possedeva al
bersagliere; tutti lo sapevano; ma non c'era nulla di scritto; non aveva
neppure potuto dirlo formalmente a voce prima di morire, perchè era
delirante. E quei parenti, due villani, lenti, freddi ed avidi, che non
avevano fatto mai nulla per lei, si portarono via il frutto delle sue
fatiche e privazioni, la dote del bersagliere, il tesoro d'amore, che la
poveretta aveva impiegato tredici anni a raccogliere.

Il giorno quindici arrivò il bersagliere e venne direttamente da noi.
Era in viaggio da parecchi giorni, e non sapeva nulla della malattia
dell'Amalia. Mio padre era all'ospedale presso la morta; dovetti far
entrare il soldato nella mia camera, e quasi ne ebbi piacere per
potergli dare la nuova dolorosa colla maggior dolcezza possibile, e
dirgli qualche parola di conforto.

Era appunto quello che i contadini chiamano un bel giovine; oramai però
era uomo fatto, una grande e grossa persona massiccia, col collo corto,
i capelli fitti e duri come setole, e ritti sopra la fronte stretta, gli
occhi piccoli, il naso corto, il viso largo, e stupido; ecco quel
personaggio adorato.

Cominciai a dirgli che l'Amalia s'era ammalata, ed egli rimase
impassibile. Aggiunsi che s'era ammalata gravemente, molto gravemente,
che l'avevano portata all'ospedale.

E lui, duro come un muro, ed egualmente freddo.

Forse era soggezione, forse quello stupido amor proprio della gente
rozza, di non lasciar scorgere la commozione che considerano come una
debolezza.

Allora presi coraggio e gli annunciai tutta la disgrazia.

Si fece rosso rosso, girò nervosamente fra le mani il cappello piumato,
ma non disse nulla.

Lo esortai ad esser forte, a rassegnarsi, aggiunsi che era una grande
sventura; che tutti la sentivamo, e che fin all'ultima ora la poveretta,
anche delirando, aveva pensato a lui... E gli stesi la mano in atto di
amichevole conforto.

Egli la vide, ma non si mosse, non la prese, e disse soltanto facendosi
anche più rosso:

--Si può andare a vederla?

Gli risposi di sì, gli diedi un biglietto per mio padre che era laggiù a
disporre i funerali, e gli indicai la strada. Egli ascoltò tutto in
silenzio senza guardarmi, poi fece goffamente il saluto militare, e,
sempre muto, se ne andò.

All'ospedale non domandò di mio padre nè diede il biglietto; però il
babbo era presente quando entrò nella camera della morta.

Stavano per metterla nella cassa; le avevano tolti gli spilloni, il capo
era scoperto, e la bocca sdentata sorrideva ancora del suo buon sorriso.

Il bersagliere s'accostò adagio adagio al cadavere, coll'aria
impacciata, senza osare di guardar nessuno; poi, vedendo dall'altro lato
del letto il fratello della morta, che altre volte aveva conosciuto, lo
salutò con un cenno del capo serio, e disse:

--Accidenti! com'era vecchia!

Ma non c'era nessuna perfidia in quella parola. Era un'impressione che
riceveva, e la esprimeva in tutta sincerità. Se l'Amalia fosse stata
viva l'avrebbe espressa ugualmente a lei, senza per questo cessare di
chiamarla, nel linguaggio artifizioso delle lettere _Cara Speranza_.

Infatti, quando stesero la morta nella bara, egli si fece il segno della
croce rapidamente e come di soppiatto, ma arrossì molto, e gli
luccicarono gli occhi. Poi uscì ed andò ad aspettare il corteggio
funebre a cinquanta passi dall'ospedale, fingendo di leggere un affisso.
Lasciò sfilare il funerale modesto, poi si mise a seguirlo di fianco
come se camminasse da quella parte per pura combinazione, e con quel
mortorio non avesse nulla a che fare. Però giunto al cimitero entrò
dietro gli altri, e rimase un po' in disparte col capo chino finchè fu
coperta la fossa.

Nel ritorno l'altro fratello della morta gli si accostò, e senza saluti
nè parole di benvenuto, gli disse guardandosi la punta degli scarponi:

--Sicchè la povera Amalia se n'è andata...

Egli crollò il capo, scosse le spalle, come per cacciarsi un gruppo
dalla gola, poi rispose:

--Ma!

E gli voltò la schiena.

Mio padre raggiunse il soldato, e gli spiegò come a lui non fosse
toccato nulla della piccola eredità, in causa dei fratelli. Ma che, per
riguardo a quella povera anima, noi avevamo ritenute le lettere di lui,
e che poteva venirle a prendere.

--Oh! sono sciocchezze!

E diede una grande scrollata di spalle. E, per quanto mio padre lo
interrogasse, non ci fu verso di fargli dire se voleva riaverle, o se
s'avevano da bruciare.

E le bruciammo noi, mio padre ed io, nel fuoco del caminetto tutte le
_care speranze_ che avevano consolata quella vita povera, laboriosa ed
onesta.



IL «CURARE»

RACCONTO DI NATALE


Si finiva di pranzare in casa del professor Navaro; un pranzo di soli
uomini ed un pranzo di Natale.

Il nostro ospite ci aveva fatto assaggiare parecchi de' suoi vini di
Sicilia; eravamo tutti di buon umore. Il professore ci spiegava come
serbasse una specie di venerazione per quella festa, perchè era stata da
tempo immemorabile oggetto di culto nella sua famiglia.

Ci narrava di un suo nonno, che aveva accolto, in un Natale remoto, un
nemico della sua casa, semplicemente per non respingere chi bussava alla
sua porta in quel giorno solenne; ci narrava di elemosine rovinose, che
i suoi vecchi avevano fatte con gran danno dei loro interessi, nella
stessa solennità e per le stesse ragioni; e descriveva la pompa che
metteva sua madre nell'addobbo della casa, che ornava tutta di piante
verdi e di fiori, nello scambio dei doni, nel pranzo di Natale, al quale
voleva che tutti i membri della famiglia assistessero, qualunque fosse
la distanza che dovevano percorrere per arrivarci.

Dovevamo appunto a quel culto tradizionale per una consuetudine di
famiglia, il piacere di trovarci là riuniti; perchè ogni anno il
professor Navaro si informava degli studenti che non andavano a far
Natale alle loro case, e li invitava a passarlo con lui e coi suoi
colleghi che, come lui, non avevano famiglia. L'idea che qualcuno
pranzasse solo il giorno di Natale lo commoveva come una disgrazia.

Mentre prendevamo il caffè, entrò il servitore ad annunciare che una
persona, la quale non aveva voluto dare il suo nome, domandava di
parlare al professore. Questi uscì per raggiungere nel salotto il suo
visitatore, e lo vedemmo ricomparire dopo pochi minuti.

Però si sarebbe detto che in quel breve tempo fosse stato, non in una
camera ben chiusa e calda, ma all'aria rigida di quella serata di
dicembre, sotto la neve che fioccava fitta, tanto s'era fatto pallido.

Si rimise a sedere e vedemmo che rabbrividiva tutto.

Bevve due bicchierini di _cognac_ uno sull'altro, come per riscaldarsi,
ci domandò cosa si stava dicendo, ma non diede retta alla risposta e non
prese parte al discorso.

Era distratto. Stava muto e pensoso e guardava fissa la brage del
caminetto, con uno sguardo di ribrezzo, come se fosse stata qualche cosa
d'orribile.

Subivamo tutti l'influenza di quell'improvviso cambiamento d'umore, e,
dopo aver rallentata la conversazione, abbassata la voce, finimmo per
star zitti anche noi, non osando parlare, ed imbarazzati del nostro
silenzio.

Ad un tratto il professore ci guardò cogli occhi ancora stralunati, e
disse:

--Scusate; vi ho fatti ammutolire colla mia aria tragica. Ho ricevuto
dianzi una forte scossa morale. Ho visto un individuo che mi ha
ricordato un caso atroce della mia vita.

Quella scusa non era fatta per rimetterci in allegria, e rimanemmo
ugualmente impacciati e muti. Egli versò dell'altro _cognac_ in giro, ne
bevve appena un sorso, poi si alzò con impeto, e disse risolutamente:

--Volete che vi narri quella storia? Ora ne ho la testa così piena che
non saprei parlar d'altro.

Figurarsi se volevamo! il professor Navaro era il più benvoluto ed il
più ammirato dei nostri insegnanti. Il racconto d'un fatto della sua
vita c'interessava tutti vivamente. E per giunta egli narrava bene, con
facilità di parola da vero Siciliano. Ci stringemmo tutti intorno a lui,
ardenti di curiosità, ed egli cominciò a parlare coll'accento vibrato e
gli occhi luccicanti come se fosse già entrato nel vivo del racconto...

«Nel 1853 studiavo all'università di Messina, ed ero innamorato della
padrona del solo caffè che la polizia borbonica tollerasse. Eravamo in
tre a disputarci le sue grazie, tutti e tre studenti di medicina.

«Uno de' miei rivali era un certo Turiddu, figlio d'un emigrato, al
quale il Governo aveva permesso da poco tempo di rimpatriare, e che,
durante l'esilio, aveva cominciati gli studi universitarî a Parigi.

«Era un buon giovine, di modi aperti, leale, buon patriota; ma quando
entrava a parlare dei grandi scienziati francesi, dei loro studi, delle
loro scoperte, non la finiva più. Nominava Velpéau, Nélaton, Ricord,
come fossero stati suoi colleghi. Aveva frequentate le lezioni di Claude
Bernard, e lo considerava, come era realmente del resto, un luminare
della scienza. Tutto questo però, e neppure la rivalità in amore, non
c'impediva d'essere buoni amici.

«La mia avversione la serbavo tutta per l'altro rivale, Rosario Angherà,
che era, non so bene se figlio o nipote, d'un pezzo grosso, e
frequentava la casa del vescovo. Aveva lo sguardo falso e la parola
melata; non s'abbandonava mai ad impeti di furia nè a sfoghi di
passione. Era insinuante, conciliante, gesuiticamente dolce. Non lo
potevo soffrire.

«Una sera, alla presenza della bella caffettiera, gli misurai un ceffone
che lo sbattè contro il muro. Si fece pallido di rabbia, ma non reagì.
Raccolse il cappello che gli era caduto, e borbottando sommessamente,
uscì dal caffè dove non si fece più vedere.»


Il professor Navaro fece una pausa, durante la quale noi esprimemmo il
nostro biasimo per la condotta di quel gesuita di Rosario, poi riprese:

«Avevamo per professore di patologia un pover'uomo, il quale suppliva
alla scienza che gli mancava, colle ciarle, col tuono dottorale ed
enfatico, e con una gran fede in sè stesso. Lo chiamavamo il dottor
Dulcamara. Però, se i suoi colleghi ed anche gli studenti lo conoscevano
per quel che valeva, in città era riescito a farsi la riputazione d'uno
scienziato. Si dava sempre l'aria d'un uomo assorto in profondi studi,
ne parlava con grande sfoggio di parole tecniche ascoltandole rimbombare
con compiacenza, ed i profani dicevano: Quanto sa quel professore!

«Un giorno lo vedemmo venire in iscuola con un'aria più sibillina e
tronfia del solito.

«Una fortunata occasione, cominciò, una di quelle occasioni che si
offrono soltanto all'uomo che vigila sempre per impadronirsi di ogni
nuova scoperta che possa interessare la scienza, mi permette
d'intrattenervi oggi d'un veleno rarissimo, e di mostrarvene
sperimentalmente gli effetti. È questa certo la prima volta che in
un'università del Regno, e cioè, con carattere scientifico, si presenta
questo preparato, del quale credo che tutti voi ignoriate ancora il
nome. Si chiama il _curare_ ed a me è serbato l'onore di rivelarvene,
pel primo, l'esistenza e le proprietà meravigliose.

«Non so se i miei compagni fossero nello stesso caso, ma per conto mio
era infatti quella la prima volta che sentivo nominare il _curare_ che,
a quei tempi, era ancora una novità in Europa.

«Egli girò lo sguardo intorno lentamente per godere della stupefazione
che era certo d'aver suscitata in noi, poi, pavoneggiandosi nella sua
eloquenza, cominciò a divagare sui selvaggi dell'America del Sud, sulle
loro freccie, _che traversano l'etra a volo_, e vanno a colpire _il
pennuto volante presso le nubi, il fiero bisonte nei labirinti della
foresta, e lo piombano fulminato al suolo_. Poi, chiudendo l'inevitabile
esordio che precedeva sempre le sue trattazioni, concluse:

«--Quelle freccie sono avvelenate col _curare_.

«L'esordio e la perorazione erano la farina del suo sacco; poi recitava
pagine e pagine, più o meno opportunamente scelte, di qualche trattato o
giornale scientifico, e quella era la sostanza della lezione.

«Quel giorno la sostanza prometteva d'essere interessante, e ci faceva
sopportar con pazienza i fronzoli rettorici di cui l'ornava il professor
Dulcamara. Cominciò dal fare una descrizione pomposa della «_fiesta de
las juvias_» (festa del veleno) nella quale si raccolgono le liane
necessarie alla preparazione del _curare_. Narrò le varie ipotesi su
quel preparato, che alcuni credono puramente vegetale, altri suppongono
misto con veleni di formiche e serpenti, e che è tuttora misterioso,
perchè il segreto della composizione ne è serbato ai medici, o piuttosto
agli stregoni delle tribù. Poi si dilungò nella relazione degli effetti
del _curare_, il quale, ingoiato riesce inoffensivo, mentre invece
introdotto nel sangue, sia per iniezione sia per ferita d'arma
avvelenata, è un veleno istantaneo e micidiale.

«--_Ma, araldo mite della fiera e scheletrita mandataria, il curare
riveste la tetra morte colle apparenze soavi del sonno..._ esclamò il
professor Dulcamara esordendo alla parte pratica della lezione; e passò
ad esporre i sintomi particolari di quella morte, che poco dopo potemmo
osservare noi stessi.

«Era il punto culminante della lezione.

«Il professore cavò di tasca una busta, l'aperse solennemente, e ci fece
vedere due freccie colla punta avvelenata, che aveva ricevute in dono da
un viaggiatore reduce dall'America.

«Era trionfante.

«Ordinò al bidello di portargli un coniglio che aveva fatto tener pronto
per lo sperimento, e lo punse leggermente sulla schiena, senza che
l'animale cessasse di guardar in giro co' suoi occhi d'oro fiammante, e
di agitare febbrilmente il nasino roseo in segno di timido sgomento.

«Ma pochi minuti dopo se ne andò cheto cheto in un angolo dell'aula, si
rannicchiò contro il muro, ed abbassò gli orecchi sul dorso come se si
disponesse a dormire. Rimase perfettamente tranquillo, ed a poco a poco
s'accasciò; prima le gambe cedettero, e gli si piegò il capo; poi tutto
il corpo cadde sul fianco completamente paralizzato. Sei minuti dopo
essere stato ferito, il coniglio era morto, senza gridi, nè rantoli, nè
convulsioni che indicassero la menoma sofferenza o una lotta tra la vita
e la morte.

«Durante l'esperimento il professore ci aveva narrati vari esempi,
citando le fonti a cui li aveva attinti, i quali tutti provavano che la
morte per avvelenamento col _curare_, riesce tranquilla e quasi dolce.
Più di tutti ci aveva interessati la relazione della morte di un uomo,
ch'egli aveva letta in una notizia di Watterton sul _curare_, riportata
probabilmente da un giornale. Due Indiani erano a caccia nella foresta;
uno tese l'arco, e scagliò una freccia avvelenata contro una scimmia
rossa che s'era arrampicata ad un albero. Il colpo era quasi
perpendicolare. Là freccia non colpì la scimmia, e nel ricadere ferì
l'Indiano al braccio un po' al disopra del gomito. Egli fu convinto che
tutto era finito per lui. Disse al compagno colla voce commossa e
guardando il suo arco: «Non lo tenderò mai più.» Poi si tolse la scatola
di bambù col veleno, che portava ad armacollo, la pose in terra
coll'arco e le freccie, ci si sdraiò accanto, disse addio all'amico, e
cessò di parlare per sempre.

«Ci eravamo tutti serrati intorno alla tavola del professore sulla quale
era stato trasportato il coniglio morto, e, per combinazione, mi trovavo
accanto al mio rivale Rosario Angherà. Quando me ne avvidi, feci un atto
di ribrezzo e mi restrinsi come per evitare il suo contatto. Ma egli era
intento ad esaminare la seconda freccia avvelenata rimasta nell'astuccio
del professore, mentre questi finiva il racconto del cacciatore, e
citava le parole stesse del Watterton: «Sarà un conforto per le anime
pietose il sapere che la vittima non ha sofferto, perchè il _wourali_, o
_curare_, distrugge dolcemente la vita.»


A questo punto della sua narrazione il nostro ospite pareva stanco: gli
tremava la voce, strascicava lentamente le parole come se gl'increscesse
di pronunciarle, ed era evidente che avrebbe voluto sospendere quel
racconto cominciato con tanto impeto, e che ora gli faceva ribrezzo. Ma
noi lo ascoltavamo tanto avidamente i nostri occhi erano fissi su di lui
con tanta ansietà, rimanevamo così ostinatamente muti quand'egli faceva
una pausa, per timore di distrarlo dall'argomento, che comprese
d'essersi impegnato troppo per retrocedere. Si asciugò il sudore che gli
faceva luccicare il viso, bevve un po' di _cognac_, poi ripigliò:

«La curiosità mi fece vincere l'avversione, e mi avvicinai a Rosario.
Fremevo d'impazienza che egli deponesse quella freccia, per
impadronirmene alla mia volta; e gli stavo sopra per fargli capire che
si sbrigasse. Ma, vedendo che indugiava sempre, gli dissi stizzosamente:

«--Quando avrete finito...

«Egli non si mostrò offeso: mi guardò un minuto, poi torse subito gli
occhi, e, con quella sua falsa mellifluità, mi rispose porgendo la
freccia:

«--Se volete osservarla voi, prendetela pure...

«Ma mentre sporgevo la mano per pigliarla, fece un movimento così
rapido, che la punta mi si conficcò nel palmo.

«Un grido generale, disperato, s'alzò da tutti i petti; tutti gli
sguardi, tutte le braccia si tesero verso di me: esclamazioni d'orrore,
di spavento, di rimprovero, di minaccia, si incrociarono; tutti
parlavano, tutti gesticolavano senza intendersi, mentre il professore
più frenetico di tutti, picchiava disperatamente i pugni sulla tavola
urlando:

«--Disgraziato! l'avete ucciso! l'avete ucciso!«


Sebbene il professor Navaro ci stesse lì dinanzi vegeto e sano a narrare
lo stranissimo caso, noi pure eravamo agitati, come gli studenti di
Messina. Alcuni s'erano alzati ed avvicinati a lui, e gli stavano
intorno appoggiati alle spalliere delle sedie vuote, altri alzavano i
pugni rabbiosi contro l'avvelenatore. Uno studente fece per movere una
domanda, ma parecchie voci l'interruppero:

--Stia zitto; stiamo a sentire.

Superato il ribrezzo che gli inspirava il ricordo dell'atto codardo del
suo nemico, il professor Navaro aveva ripreso il suo accento vivo, e
tirò via a narrare, come se risentisse ancora quelle impressioni, e
vedesse quelle scene.

«Alla prima non avevo capito; la puntura era stata così lieve, che non
avevo pensato alla gravità del caso. Subito però, vedendo il terrore di
tutti, l'idea orrenda della morte m'invase, e, reagendo con tutta la
forza della mia giovine vita, mi posi a gridare:

«--L'amputazione! Bisogna amputare la mano!

«Ma la confusione, l'urlìo, il trambusto erano tali, che non potei
essere udito, e dovetti ripetere più volte:

«--Sentite! sentite! Dacchè non soffro nulla, è segno che il veleno è
localizzato. Amputando la mano si può forse salvarmi.

«Tutto questo era accaduto rapidissimamente; non eran passati due minuti
dacchè ero stato ferito. Eppure, dovendo parlar forte per esser inteso,
sentii di dover fare una certa fatica; ed ancora, la mia voce non suonò
alta in proporzione dello sforzo fatto: l'udirono appena i più vicini, e
furono loro che lo dissero agli altri, e subito si ripetè da tutte le
parti:

«--L'amputazione! L'amputazione! È inutile! Ma chissà? Si può tentare!

«--Un chirurgo! Nella scuola di chirurgia!...

«Parecchi studenti si precipitarono fuori in cerca del chirurgo.
Intanto si continuava a darmi del _rhum_ ed a domandarmi:

«--Che cosa sentite? Soffrite molto?

«No. Non soffrivo punto; ma avevo una gran pena a dirlo. Pareva che la
sede della mia voce fosse scesa in fondo in fondo al petto; l'azione
della gola era insufficiente per attingerla. Risposi una volta o due con
accento fioco, poi la voce non venne più. Movevo le labbra ma non usciva
nessun suono. Intorno dicevano:

«--Oh Dio! Oh Dio! perde la parola; non parla più; il veleno ha già
fatto il suo effetto; non siamo più in tempo per l'amputazione.

«Immaginate l'angoscia che provai a quella sentenza; volevo dire di no;
che provassero ad ogni modo; che s'affrettassero... E non potevo dir
nulla. La mia voce era morta. Intanto sentii una grande spossatezza
invadermi le membra, mi mancarono sotto le gambe, e, se non m'avessero
sorretto, sarei caduto. Mi trascinarono fino alla poltrona del
professore, dove mi adagiarono dicendo:

«--Ha perduti i sensi; è svenuto.

«Io non ero svenuto: feci un altro sforzo per dirlo, ma fu impossibile.
Cercai di accennare colla mano, ma, con infinito terrore, sentii che la
mano rimaneva immobile come di piombo; volli scuotere il capo, ma anche
il congegno del collo non giocava più; avevo perduto la facoltà di
muovermi!

«Atterrito, cercai di dare allo sguardo l'espressione della mia
inenarrabile angoscia, ma lo sguardo non può fare lunghi discorsi, e,
per quanto immenso fosse l'interesse con cui mi osservavano, i miei
compagni, dicevano soltanto:

«--Pare che veda ancora, ma non ci riconosce.

«E mi chiamavano.

«Ah! Ah! nessuno potrà mai dire lo sforzo straordinario di volontà ch'io
facevo per dare un'espressione a' miei occhi. Ma lo spavento interno, la
disperazione non si traducevano neppure nello sguardo.»


Nel ricordare quell'atroce suplizio, il professor Navaro fremeva tutto.
Non poteva più star fermo; passeggiava per la stanza, agitato, nervoso,
asciugandosi il sudore, e gesticolando rabbiosamente. Pareva che
lottasse ancora contro quell'orribile impotenza. Noi gli tenevamo dietro
ansiosamente cogli sguardi interrogatori, smaniosi d'udire la fine di
quel caso meraviglioso e tremendo. Egli respirò due o tre volte forte,
s'appoggiò alle spalle d'un suo collega come per sentire qualche cosa di
caldo e di vivo accanto a sè, e ripigliò quella storia di morte:

«Ad un tratto una parola orrenda mi suonò all'orecchio.

«--L'occhio s'è fatto vitreo. Non vede più.

«Il professore mi prese una mano e ne pizzicò le carni così forte, che
sentii un gran dolore, ma nessun muscolo si contrasse a quella
sofferenza, ed egli, lasciando ricadere il mio braccio, disse:

«--Non sente più nulla.

«Allora mi fecero soffrire delle piccole torture, sempre nella speranza
di risvegliare la mia sensibilità; mi strinsero i lobi degli orecchi
fino allo spasimo, mi strapparono dei capelli, dei peli della barba, mi
bruciarono, mi punsero; io sentivo quei dolori acuti, che aggiunti alla
tortura che provavo, mi irritavano fino alla pazzia, poi udivo ripetere:

«--No; non sente più nulla.

«Il professore mi applicò l'orecchio al petto e disse:

«--Pare che ci sia ancora una lieve pulsazione; ma presto il cuore avrà
cessato di battere; fra pochi minuti sarà morto. Povero giovine! Povero
giovine!

«Nessuna mente umana ha mai immaginato nulla di tanto crudele. Non
potevo nemmeno girare gli occhi, nemmeno chiuderli! Le mie membra erano
impietrite; ero imprigionato vivo in un corpo morto. Se mi si fossero
rizzati i capelli sulla fronte, come si dice che avvenga per senso di
raccappriccio! Se fossero incanutiti! Si sarebbe capito almeno che
qualche cosa viveva in me; che viveva lo spavento; uno spavento
angoscioso, febbrile, furibondo!

«Ma nessun segno esterno tradiva la vita del mio cervello, della mia
volontà, la tortura del mio spirito. Rimanevo impassibile e freddo come
una mummia nelle sue bende secolari.

«Mi sollevarono di peso, e con un immenso mormorio di compassione, mi
portarono, cadavere animato e sensibile, nel gabinetto anatomico, dove
mi stesero sulla tavola.

«Vidi alcuni de' miei compagni che piangevano; altri, allevati
devotamente, si fecero il segno della croce, poi lo ripeterono su di me.

«Un vecchio bidello bisbigliava tutto compunto:

«--_Requiem æterna dona eis, Domine._

«Vidi il povero prof. Dulcamara che si mordeva i pugni ed esclamava con
una convinzione, che in quel momento non mi parve neppur comica:

«--Maledetta la mia scienza!

«Poi vidi una cosa atroce, mostruosa. Una di quelle infamie che
farebbero fremere d'indignazione tutto un popolo, contro le quali
l'umanità si solleva indignata; e non potei fremere nè sollevarmi!

«Rosario Angherà, pallido, piangente, mi venne accanto sospirando:

«--Oh che disgrazia! povero me, che fatalità!

«Si pose in ginocchio accanto al mio cadavere, e, giungendo le mani come
se pregasse perdono, mi susurrò all'orecchio:

«--So che tu vivi, che vedi e che senti: ma non lo dirò. M'hai
schiaffeggiato e m'hai chiamato vile; i vili non salvano i coraggiosi,
ma si vendicano.

«Poi si alzò, e col volto fra le mani, come accasciato dal dolore, uscì,
e tutti lo seguirono.

«Tutte le furie dell'inferno avevano invaso il mio cuore; l'odiavo come
non s'è forse mai odiato sulla terra; smaniavo d'avventarmi contro di
lui, di stringere fra le mie mani il suo collo torto, di strangolarlo,
di sfracellargli coi miei piedi quella testa falsa, ipocrita, malvagia.
E non avevo la potenza neppur di dire:

«--È un omicida.

«Mi sentivo stretto in una guaina di bronzo.

«Rimasi solo in quella cella buia, su quella fredda tavola di marmo
sulla quale erano stati sparati tanti cadaveri.

«M'abbandonavano. Mi credevano morto.

«Allora mi si affacciò alla mente un pensiero pauroso:

«--Se fossi realmente morto? Se la morte fosse così? Che cosa ne
sappiamo noi? Se lo spirito umano non si spegnesse contemporaneamente al
corpo? Se dovesse stargli unito ancora, chissà per quanto tempo, forse
per sempre, assistere alla putrefazione, alla dissoluzione delle
membra?... E poi?...

«A quell'idea, provavo quell'estrema disperazione che ci fa urlare come
belve, dilaniare le carni, che ci trascina al delitto, al suicidio. Mi
ricordai un tetro caso d'una giovine, che, dopo esser stata sepolta come
morta, s'era risvegliata nella fossa; ma a lei almeno erano tornate le
forze per urlare, per dibattersi, e fu trovata col capo sfracellato
contro le pareti della bara; mentre io non potevo nulla per abbreviare
il mio supplizio; mi bruciavo internamente di furore, mi sentivo
impazzire a quelle supposizioni spaventose, e rimanevo tranquillo nella
mia solenne immobilità da idolo.

«Accanto a me, sulla tavola c'era un coltello anatomico. Avevo il capo
rivolto da quella parte e lo vedevo. Mi sarebbe bastato di sporgere una
mano per afferrarlo.

«Con che ardore desiderai quel coltello!

«Pensavo che, forse, una ferita al cervello o al cuore, in una parte
essenzialmente vitale, avrebbe spenta la mia anima viva nel mio corpo
morto. Ma poi chissà? Ad ogni modo non avrei potuto ferire che il corpo,
e quello era già cadavere irrigidito.

«In tutta la mia vita spensierata e giovine, non avevo mai pensato con
tanto solenne spavento alla dualità possibile dell'essere umano; mai
l'idea consolante dell'immortalità dell'anima, s'era presentata ad una
mente d'uomo sotto un aspetto tanto minaccioso e spaventevole.»


A misura che il professore Navaro procedeva nel suo racconto, la sua
eccitazione si comunicava a tutti noi. Senza quasi avvedercene, ci
eravamo rizzati in piedi, e gli stavamo raggruppati intorno dinanzi al
fuoco, che nessuno pensava più a ravvivare.

A momenti ci guardavamo l'un l'altro sbalorditi e dubbiosi, sospettando
che, portata al sommo grado la nostra curiosità, il narratore dovesse
cavarsela collo scioglimento comune a molte novelle fantastiche:

--A questo punto mi svegliai; avevo sognato.

Ma poi uno scoppio di voce appassionata, un sospiro affannoso, un
brivido di raccapriccio del professore, ci attestavano la verità del
fatto, ed accrescevano il nostro interessamento. Il professore continuò:


«Avevo serbate tutte le mie facoltà intellettuali, ma la misura esatta
del tempo mi sfuggiva. L'impazienza angosciosa allungava enormemente i
minuti.

«Mi pareva d'essere rimasto lungamente in quella camera squallida,
quando udii distintamente dei passi che s'avvicinavano rapidissimi, e la
voce di Turiddu che gridava:

«--Lo so di certo. Me l'ha spiegato Claude Bernard. Se fossi stato in
iscuola avrei impedito la circolazione del veleno nel sangue. Ma anche
ora siamo in tempo a salvarlo; non è passato un quarto di ora...

«Un quarto d'ora! M'era parso lungo per lo meno tre ore! Turiddu spinse
l'uscio, ed ansimante, col viso stravolto, corse a me guardandomi con
infinita pietà. Lo seguivano il professore Dulcamara, parecchi studenti,
ed il professore di chirurgia, che erano riesciti a trovare. Questi
disse:

«--Se si fosse potuto amputarlo in tempo...

«--Che! rispose Dulcamara. La morte è venuta istantanea; fu l'affare di
sette minuti.

«--Ma che morte! ribattè Turiddu. Vi giuro che questo giovine è vivo. In
questo corpo immobile, dietro quest'occhio vitreo, con tutte le
apparenze della morte, la sensibilità e l'intelligenza persistono
intere; egli ci vede e ci sente...

«Oh la gioia, la gioia infinita che mi invase in quel momento! Mi parve
che quell'incanto malefico fosse vinto; che in quell'eccesso di giubilo
potessi stendere le braccia al mio salvatore.

«Ma no; nulla. Il piacere, come il dolore mi lasciavano impassibile e
freddo. Intanto il professore tratteneva per le braccia Turiddo, che
dava delle istruzioni ad un compagno, e gli gridava:

«--Cosa dite! cosa dite, figlio mio! Non vedete che è rigido? Che gli
abbiamo punte le carni, gli abbiamo strappati i capelli e non ha dato
segno di dolore?

«--Perchè non può dar segni; ma il dolore lo sente. Il _curare_ non
colpisce che i nervi motori; Navaro è morto parzialmente; i nervi motori
sono morti...

«--Questo è un delirio, tornava a dire il professore.

«E l'altro più affannato che mai:

«--È una verità, professore. Io lo sapevo fin da Parigi. Ne ho parlato
anche a Rosario Angherà. Come mai non se n'è ricordato? Si vede che la
disgrazia l'ha sbalordito. Ma non c'è un minuto da perdere. Ora Navaro è
vivo in un corpo paralizzato. Però in meno di mezz'ora saranno
paralizzati anche i polmoni e morirà asfissiato.

«Queste parole mi spiegarono una sensazione nuova di soffocamento, che
cominciavo a sentire. Era l'asfissia! La morte che avevo invocata prima,
veniva ora che stavano per soccorrermi. Veniva pur troppo, veniva
rapida; e non potevo gridare:

«--Ma presto; affrettatevi.

«Turiddo andò all'uscio, e disse:

«--E non tornano coll'apparecchio per la respirazione artificiale! È il
solo mezzo di salvarlo.

«Aveva già mandato a prendere l'apparecchio! Ebbi ancora un filo di
speranza. Ma soffocavo. Intanto il professore si opponeva energicamente
a quella prova. Era pura testardaggine? Era la vanità di non voler
vedere smentita la sua sentenza? Tornò ad ascoltarmi il petto, poi
disse:

«--Via, sentite. Anche il cuore cessa di battere. Quando mai un uomo può
vivere senza che gli batta il cuore? Ma che scienza può insegnarvi
questo, figlio mio?

«--Vi assicuro, professore, che Claude Bernard...

«--Ma che Bernard! Sono francesate! Gl'Indiani muoiono da centinaia
d'anni col _curare_ come questo mio povero discepolo, e non sono mai
risuscitati.

«--No, no, professore. State a sentire, insisteva Turiddo parlando con
una rapidità febbrile, mentre gli altri studenti erano usciti per
sollecitare a far portare l'apparecchio domandato. State a sentire.
L'elemento nervoso sensitivo, l'elemento nervoso motore, e l'elemento
muscolare, hanno ciascuno la sua autonomia. Uno solo può morire, mentre
gli altri vivono. Navaro non può parlare nè muoversi, ma la sua
sensitività ed i suoi muscoli sono vivi; l'elemento nervoso motore, che
trasmette ai muscoli le manifestazioni della sensitività, è il solo
avvelenato; e per mancanza di quel tramite le manifestazioni sono
impossibili.

«Il prof. Dulcamara alzava le braccia in alto, giungeva le mani,
crollava il capo co' suoi grandi gesti da meridionale, ed esclamava
fuori di sè, andando su e giù per la stanza:

«--Cosa mi tocca sentire! Cosa mi tocca sentire!

«Furono le ultime parole che udii. L'apparecchio per la respirazione
artificiale entrava appunto, quando cessai di vedere, udii ronzarmi
negli orecchi dei suoni confusi, e m'avvidi, disperato, che morivo al
momento in cui stavo per esser richiamato alla vita.»


Conchiudendo queste parole, il professor Navaro respinse noi tutti, che
lo stringevamo davvicino, e s'accostò alla tavola per versarsi un
bicchierino di _cognac_. Ma noi lo seguimmo domandando:

--Ma poi? Non è morto, professore, dacchè è qui a narrarlo. Dica, come
finì?

--Si può figurarselo, riprese con maggior calma, dopo aver bevuto. Dopo
non so quanto tempo, apersi gli occhi, e mi vidi solo con Turiddo, che
mi faceva respirare artificialmente. A quel primo segno di vita egli
mise un grido di gioia e staccò il soffietto... Io ricaddi svenuto.
Allora ricominciò, e dopo più d'un'ora potei muovermi e parlare. La sera
stessa ero completamente guarito, e dopo alcuni giorni stavo anche
meglio di prima.

--Ma, caro Navaro, esclamò un professore di filosofia: io non capisco
nulla. È uno scherzo, un racconto di fantasia alla Poe che ci ha fatto?
Come mai! Avvelenato, morto a mezzodì, e sano la sera?

--Morto, no; lo sarei stato fra pochi minuti, e nessuno avrebbe
sospettato mai che avevo vissuto fin allora: perchè il _curare_
paralizza la circolazione come paralizza tutti i movimenti, perchè, come
s'è detto, agisce sui nervi motori. Ma se colla respirazione artificiale
si riesce in tempo a ravvivare la circolazione ed a mantenerla per un
tempo sufficiente, il _curare_ si elimina per le vie ordinarie e
l'ammalato guarisce. L'importante degli esperimenti di Claude Bernard,
fatti su molti animali e riferiti nel suo libro _La science
experimentale_, sta appunto in questo, d'aver accertato che, per un dato
periodo, prima che la paralisi dei polmoni non abbia prodotta
l'asfissia, quell'essere, che presenta tutti i sintomi della morte, vive
e può essere salvato. Ma io credo d'essere il solo uomo che ha provato
su sè stesso gli effetti di quello strano veleno senza esserne morto.
Più volte mi venne l'idea di pubblicare una memoria su quel caso; ma mi
ripugna di occuparmene.

--E Rosario! quel gesuita di Rosario, domandammo noi, frementi
d'indignazione. Non l'ha ucciso, professore? Non l'ha denunciato?

--Sporsi querela contro di lui per omicidio. Ci fu un principio
d'istruzione. Turiddo dichiarò d'avergli tenuto un lungo discorso sugli
effetti del _curare_, e sulla possibilità di salvare chi ne fosse
avvelenato; io deposi le parole che aveva dette a me quando giacevo come
morto; ma egli negò tutto. Ho già detto che aveva delle alte protezioni.
D'altra parte il professor Dulcamara, che era rimasto molto umiliato dal
trionfo di Turiddo sulla sua scienza, finì col persuadersi che quella
era stata una commedia combinata fra Turiddo e me, e continuò a negare
che un uomo veramente avvelenato col _curare_ potesse riaversi.
Conclusione: Non si fece luogo a procedere, e, circa un mese dopo,
Turiddu ed io fummo invitati dalla polizia borbonica a lasciare la
Sicilia, dove eravamo mal notati all'università di Messina, come
imbevuti di idee liberali, e perturbatori dell'ordine.

«Fu allora che venni in Piemonte, dove terminai gli studi a questa
università di Torino, e, dopo varie vicende, finii, per tornarci col
titolo di professore.

--Ah! è un'infamia che Rosario sia rimasto impunito! disse qualcuno. E
non ne seppe più nulla, professore? Non lo rivide più?

--Lo rividi, rispose il professore un po' turbato. Lo rividi una volta
sola... poco fa. Era la persona che mi domandava in salotto.

A quella rivelazione sorse un grido d'orrore. Tutti ci alzammo, alcuni
cercarono di correre all'uscio, come per far giustizia di quell'uomo. Ma
il professore trattenendoli riprese:

--Ora è molto lontano. Dacchè le cose sono mutate in Sicilia, è mutata
anche la sua fortuna. È venuto qui povero, umile, malandato, a
domandarmi cento lire per pagare il viaggio e tornare in paese.

--E gliele ha date, professore? No?

--Sì, gliele ho date. Ho fatto come i miei vecchi; non ho respinto
neppure il mio assassino il giorno di Natale.

Poi con un sorriso che rimaneva sempre buono, soggiunse, come per
iscusare la sua buona azione.

--Dacchè ho ereditato il loro patrimonio, ed i loro nervi eccitabili,
dovevo pure accettare anche i loro pregiudizi. E la parte passiva
dell'eredità.



SUOR MARIA

RACCONTO DI NATALE


I.

Erano quattro anni che vivevano insieme il vecchio ed il fanciullo. La
madre di Carlo era morta nel giorno stesso della sua nascita. Tre anni
dopo, il padre, che lavorava da muratore, era caduto da un ponte e s'era
ucciso. Il bimbo era rimasto col nonno paterno, il solo parente che
avesse.

Abitava una camera terrena fuori di porta Garibaldi.

Andrea era nato contadino, e non sapeva adattarsi a vivere in città, ad
un piano alto, in una stanza chiusa; aveva bisogno del pian terreno che
aprisse sul cortile, con qualche albero in vista, e l'aria aperta.

La mattina uscivano assieme, e, dopo un breve tratto, si separavano.
Carlo andava alla scuola; Andrea entrava in città e si recava
all'officina.

Non si rivedevano più fino alla sera.

La giornata del nonno finiva assai più tardi della scuola, e Carlo era
sempre il primo a tornare.

Era un fanciullo un po' viziato dall'amore esclusivo del nonno, e non si
trovava bene che con lui; cogli altri era selvatico; non entrava mai
nelle case dei vicini, i quali, del resto, erano gente occupata e
povera, che non badava a lui.

Quelle ore d'aspettativa dopo la scuola le passava solo, in casa o nel
cortile, baloccandosi come poteva.

Poi giungeva il nonno col passo lento d'una persona stanca.

Poteva aver sessant'anni al più; ma, passati al fuoco della fucina,
maneggiando un martello che, ad ogni colpo, strappa un ruggito dal petto
dell'operaio, sessant'anni contano molto, e sono quasi l'estremo limite
della vecchiezza.

Fin allora però Andrea resisteva bene alla fatica, e quando Carlo gli
correva incontro nel cortile, e lo accompagnava in casa saltellandogli
intorno e dicendogli che aveva fame, si rallegrava tutto, e non sentiva
più la stanchezza.

Preparava la minestra lentamente per lasciare al bambino l'illusione di
aiutarlo colle sue manine inesperte; poi sedeva sullo scalino del
focolare, si prendeva il bimbo fra le ginocchia, e, con un cucchiaio
ciascuno, mangiavano nella medesima scodella.

Era il momento più bello della loro giornata. Facevano a chi prendeva
più cucchiaiate, ed il ragazzo rideva tanto di quel gioco, che
s'imbrodolava tutto e comunicava al vecchio la sua ilarità.

Carlo raccontava gloriosamente i progressi che faceva alla scuola.

--Studio l'abaco. Sai quanto fanno due per due? E tre per tre?

Poi faceva dei disegni per l'avvenire:

--Farò il soldato di cavalleria, e ti condurrò a spasso a cavallo.

Il nonno ascoltava quelle ciarle con compiacenza d'amore, senza badare
al tempo che passava.

Sovente il bambino gli si addormentava tra le braccia chiacchierando.

Allora il vecchio operaio lo portava sul letto, lo svestiva pian piano
con una delicatezza da donna per non risvegliarlo, poi fumava la sua
pipa in silenzio, e si coricava senza più uscir di casa.

Dacchè gli era toccata quell'eredità d'affetto, non aveva più messo
piede in un'osteria; non aveva più fatto una partita alla morra. Si era
isolato completamente nell'adorazione del suo figliolo. Vivevano l'uno
per l'altro, si bastavano, si rendevano felici a vicenda.

Sovente, nelle ore solitarie della sera, Andrea pensava all'avvenire, ai
suoi sessant'anni vicini, all'infanzia acerba di quel fanciullo che gli
dormiva accanto; e tremava, calcolando il poco tempo che gli rimaneva
ancora da lavorare, e forse da vivere.

E poi?

Ma si sentiva forte, ed aveva un gran desiderio di resistere finchè il
bimbo potesse aiutarsi da sè; e finiva sempre col dire: «Sarà quel che
Dio vorrà.» E tirava innanzi, felice di quel grande affetto che gli
ringiovaniva il cuore.


II.

Verso la metà di dicembre Carlo cominciò a non parlar più d'altro che
del Natale. Andrea, tornando dal lavoro, lo vedeva far capolino
dall'uscio socchiuso, col visino roseo pel freddo, cogli occhi lucenti
dalla gioia.

Aspettava il nonno, ansioso di parlare, e gli si precipitava incontro,
cominciando a discorrere tutto ansimante prima d'essere a portata della
voce.

--I ragazzi della scuola mettono la scarpa sotto il focolare la notte di
Natale, ed il Bambino scende giù dal camino tutto vestito d'oro, con un
gran paniere d'oro pieno di strenne. Metteremo anche noi, nevvero, le
scarpe sotto il focolare? Ma soltanto le mie, perchè ai nonni il Bambino
non porta nulla.

Da qualche giorno Andrea aveva tutte le membra infreddolite, e tossiva.
Ma, alla vista del bimbo tutto vispo e contento, si rianimava, parlava
anche lui della strenna di ceppo, per informarsi dei desiderii di Carlo
ed appagarli poi; almeno nel limite del possibile, perchè
l'immaginazione del fanciullo faceva certi voli da mettere in pensiero
anche un nonno milionario.

Sognava una carozzona con due cavalli vivi; una barca grande, da poterla
metterla sul Naviglio ed andarci dentro...

Però, quando il nonno, per condurlo ad idee più pratiche, gli parlava di
cavallini di legno, di soldatini di piombo, il bimbo si esaltava
ugualmente per quelle inezie come pei suoi grandiosi castelli in aria.

Organizzavano il programma della loro festa di Natale, ed il pranzo, che
il fanciullo doveva combinare, per metterci tutte le cose che gli
piacevano meglio. Ogni giorno pensava una nuova lista di piatti
insensati, che il nonno approvava sempre.

Ma l'infreddatura d'Andrea, invece di guarire, andava peggiorando, gli
toglieva l'appetito ed il sonno, lo prostrava. Carlo non capiva gran
cosa, ma soffriva di vedere il suo vecchio a quel modo, e di mangiar
solo.

Una sera era tornato dalla scuola eccitatissimo per le belle cose che
aveva vedute nelle botteghe dei pasticcieri e dei salumai; era più
chiacchierino del solito, e redigeva un _menu_ di pranzo per Natale, in
cui entravano un gran maiale intero con dei fiocchi rossi sul muso e
sulla coda, un pasticcio fatto come il Duomo, e tutte le sontuosità che
i bottegai mettono in mostra per tentare i ricchi.

Andrea si dava da fare intorno alla pentola per nascondere le lacrime
copiose che gli piovevano dagli occhi.

Quel giorno appunto, aveva cominciato a sentire al fianco destro un
dolore pungente, che era andato aumentando d'ora in ora.

Si contorceva, si mordeva le labbra per non gridare; ma lo spasimo era
tale che lo faceva piangere.

Vi sono azioni eroiche, scritte nelle storie, che non hanno costate le
sofferenze inaudite, i prodigi di coraggio, che costò ad Andrea la
cucinatura di quella minestra.

Sperava di resistere finchè il bambino si fosse addormentato. Ma quando
si accostò alla tavola per versare il riso nella scodella, quello sforzo
lieve gli strappò un grido di dolore.

Carlo era già meravigliato del suo silenzio, fu sbalordito addirittura
da quel grido, e sopratutto dalle lacrime che gonfiavano gli occhi del
vecchio.

Non aveva mai visto piangere un adulto, rimase impaurito.

Il nonno gli appariva così differente dal solito, ed il dolore ha sempre
in sè qualche cosa di tanto solenne, che il fanciullo si sentì preso da
una soggezione tutta nuova. Non osava parlare: guardava timidamente il
suo vecchio compagno, e non gli reggeva l'anima di mettersi a mangiare.

Finalmente il male si fece così violento che il pover'uomo si buttò
attraverso il letto, gemendo:

--Ah, non ne posso più. Chiama qualcuno.

Carlo uscì tutto tremante ed andò a bussare all'uscio della stanza
vicina. Fece un grande sforzo, per rivolgere la parola a quella gente
che gli metteva soggezione.

--Il nonno sta male; piange.

--Che cos'ha? domandò la Margherita.

Ma Carlo era già scomparso.

Ella corse nella stanza d'Andrea, gli rivolse due o tre domande, a cui
il vecchio potè rispondere soltanto con un gemito, poi ordinò a suo
marito d'andare in cerca del medico.

Era una buona donna, ma ciarlona, e molto rozza. Mentre applicava dei
pannicelli caldi alla parte indolorita dell'infermo, borbottava:

--È in causa di quel ragazzo che vi siete maltrattato così. Vi logorate
la vita per fargli fare il signore.

E volgendosi a Carlo gli gridava:

--Vedi? È per colpa tua che il nonno è malato. Purchè tu abbia da
mangiare e da bere, eh? E che il povero vecchio s'ammazzi al lavoro, non
importa...

Carlo si stizziva dell'ingiustizia di quei rimproveri. Non capiva che
colpa avesse lui di quella malattia del vecchio. Ne era invece molto
crucciato, e non aveva fatto nulla di cui il nonno avesse dovuto
rimproverarlo. Cercava di connettere l'idea del suo mangiare e bere,
coll'ammazzarsi dell'altro al lavoro; ma non gli riusciva. Guardò la sua
minestra intatta, e disse come per giustificarsi:

--Non ho neppure mangiato io.

--Ecco, i ragazzi non pensano che a mangiare; ma c'è altro a fare ora,
che dar da mangiare a te; ribattè la Margherita, prendendo quella scusa
per una insinuazione.

E tirò via a dire, che i bambini sono tutti egoisti: «e poi,
che costrutto si cava dai sacrifici che si fanno per loro?
Dell'ingratitudine; appena mettono i primi peli al mento si guardano
intorno a cercar moglie, ed i poveri vecchi...

Era il caso d'un suo figliolo, che le aveva tolte le illusioni materne,
ed essa lo rimproverava a tutti i ragazzi, ne faceva una regola
sconsolante, per sfogare la sua pena in qualche modo.

Il medico trovò che il male era grave; si trattava d'una pleurite acuta,
ed era urgente di trasportare il malato all'ospedale la sera stessa.

Quando Carlo vide sollevare di peso il suo nonno, e metterlo nella
portantina, dopo quanto aveva detto la Margherita pensò che fosse una
risoluzione sua di allontanare il vecchio da lui, e la accusò
d'ingiustizia e di crudeltà.

Quella notte, solo nel letto in cui aveva sempre dormito col suo vecchio
parente, ebbe dei sogni agitati. I vicini, dalla stanza accanto, lo
udirono singhiozzare nel sonno, e la Margherita dichiarò che bisognava
dargli sulla voce, perchè non avesse a far scene che finirebbero per
farlo ammalare anche lui.

Ed il mattino entrò presto a pigliarlo, lo tirò per forza in casa sua,
mezzo vestito e mezzo da vestire, e lo buttò a sedere dinanzi ad una
scodella di polenta.

L'intenzione era benevola; ma Carlo era troppo bimbo per poterla
indovinare sotto l'asprezza dei modi.

Il nonno l'aveva abituato ad esser trattato con amore, ad essere
considerato come un amico. Qualunque cosa egli avesse detta, era sempre
ascoltata con deferenza.

La noncuranza apparente della Margherita, la privazione di ogni carezza
gli riescivano dolorose come un maltrattamento; ed aggiunte al rancore
profondo che le serbava per avergli portato via il nonno, gli rendevano
uggiosa la compagnia di quella donna, ed insopportabile la vita presso
di lei.

Cominciavano appunto quel giorno le vacanze di Natale: non poteva
neppure andar a scuola; non sapeva dove stare. Usciva dalla sua stanza
nel cortile, poi rientrava e tornava ad uscire, muto, imbronciato,
intrattabile.

Ogni tanto piagnucolava:

--Voglio andare dal nonno.

--Ci si andrà domenica, gli rispose finalmente la Margherita, e profittò
di quel discorso avviato, per tirar via a dirgli: che il nonno avrebbe
dovuto viziarlo meno, ed insegnargli ad esser un po' più riconoscente
verso i vicini di casa che gli facevano del bene...

--Quand'è domenica? tornò a domandare il bimbo senza darle retta.

--Doman l'altro.

Carlo non aveva idea esatta del tempo; il giorno dopo appena svegliato
disse:

--È domenica?

--No; t'ho detto doman l'altro. Se fosse stato oggi, avrei detto domani,
rispose la Margherita con tuono cattedratico.

--Quand'è doman l'altro? insistè Carlo.

--Domani.

Carlo passò un'altra giornata, triste, malcontento, capriccioso. Mangiò
in silenzio, si lasciò sgridare senza rispondere, piagnucolò senza
motivo; e la mattina seguente, prima che la Margherita entrasse nella
sua camera, ne uscì vestito alla peggio, abbottonato a sghembo, e disse
colla fronte accigliata:

--Oggi è doman l'altro: voglio andare dal nonno.

Per tutta la strada camminò innanzi, voltandosi appena ad ogni cantonata
come per domandare da che parte dovesse dirigersi, poi tirando via
daccapo frettoloso e muto.

Voleva essere il primo a rivedere il nonno; gli dava noia che la
Margherita entrasse con lui; gli tardava di parlargli da solo, di
sedergli sulle ginocchia, di dirgli tutto quello che aveva sul cuore.

Si figurava di trovarlo in una bella stanza, sano ed allegro com'era
stato sempre. Gli avevano detto che all'ospedale lo farebbero guarire,
ed egli lo aveva creduto. Non s'era rassegnato che a quella condizione.

Invece entrando, vide una corsia lunga lunga, con un altare in fondo
come una chiesa, ed una sfilata di letti, quasi tutti occupati da figure
macilente con un berretto bianco; vide le monache con quella vestitura
stravagante, che passavano, come ombre, di letto in letto, parlando
piano, e fermandosi appena; udì quel rumore triste di tossi, di rantoli,
di scodelle urtate, di lamenti, ripercosso dalle vôlte immense; ed ebbe
paura.

Si voltò severamente alla Margherita e le domandò: «Dov'è il nonno?»
coll'accento che deve aver avuto il signore domandando a Caino: «Dov'è
Abele?»

--Numero trentanove, rispose tranquillamente la donna; ed accennò ai
numeri sovrapposti ai letti.

--È in letto? domandò Carlo stupito.

--Sicuro; dove vuoi che sia?

--Allora non l'hanno fatto guarire, avete detto la bugia, ribattè il
bimbo più severo che mai.

E, vinto il primo sgomento, s'affrettò innanzi solo per trovare il nonno
da sè.


III.

Fu invece Andrea che vide lui, e pregò una suora, che aveva accanto, di
chiamare il fanciullo.

--Vieni; disse suor Maria facendosi incontro a Carlo, il tuo nonno è là.
E gli porse la mano. Egli prese il giro un po' largo per iscansarla, e
corse al letto indicato.

Il vecchio fissava con passione su lui i suoi occhi tristi da moribondo,
e susurrava:--Oh, Carlo! Oh, povero Carletto!

Carlo, ammutolito da quella scena di dolore inaspettata, cercò
d'aggrapparsi alle coperte per alzarsi un poco verso il nonno, ma non
potè riescirvi. Guardò la suora che gli era venuta dietro. Era una donna
matura, delicata ed invecchiata anzi tempo.

Carlo era avvezzo alle rughe. La vecchiaia d'Andrea era stata la sua
protettrice, la sua compagna; s'era piegata alle sue voglie, aveva
giocato con lui, l'aveva amato e reso felice. Ed egli amava i volti
vecchi; gl'inspiravano confidenza.

Diede una strappatina all'abito della monaca e le disse accennando al
malato:

--Non ci arrivo; è alto.

Suor Maria lo sollevò tra le braccia, e si pose e sedere accanto al
letto, tenendosi il fanciullo inginocchiato in grembo. Così Carlo si
trovò volto a volto col vecchio, che sporse la mano scarna e gli
accarezzò la guancia ed i capelli ripetendo:

--Povero Carlo! Che il Signore abbia pietà di te povero figliolo!

Carlo guardava cogli occhi sbarrati senza trovar nulla da dire.

Gli entrava nel cuore un sentimento nuovo pel suo nonno. Gli pareva di
dover fare il segno della croce davanti a lui, e parlare sommesso come
in chiesa. Lo invadeva il primo senso di dolore, e gli dava un'aria
smarrita.

Stettero un pezzo in silenzio, uno accanto all'altro; poi la monaca,
vedendo che non dicevano nulla e soffrivano, e che le ciarle della
Margherita, a cui nessuno dava retta, stordivano il malato, volle
abbreviare quella vista e disse a Carlo.

--Via, dai un bacio al nonno, e poi vai a casa a pregare per lui, che
possa guarir presto.

Il vecchio sporse avidamente la faccia per ricevere quel bacio, ed il
fanciullo se gli strinse accanto, nascose il volto sulla spalla di lui,
e sfogò in un pianto convulso la passione dolorosa ed ignota che gli
gonfiava il cuore.

Suor Maria lo tolse di là, e tenendolo per mano, lo ricondusse fin in
fondo alla corsia dicendogli delle parole carezzevoli e consolanti:

--Il nonno sarebbe presto tornato a casa; Gesù Bambino l'avrebbe fatto
guarire, per fargli passare un bel Natale col suo nipotino...

Poi alla porta, mentre aspettava la Margherita, a cui il malato aveva
accennato di voler parlare, si accoccolò, si strinse il bimbo tra le
braccia, e lo baciò sulle due guancie.

Erano i primi baci di donna su quel volto di fanciullo. Due ore prima,
nella sua timidezza selvatica, egli se ne sarebbe scansato rozzamente.
Ma, in quella disposizione d'animo penosa, nell'abbandono che lo
impauriva, sentiva il bisogno di attaccarsi a qualcheduno, ed apprezzò
tutta la dolcezza di quell'atto.

Lungo la strada del ritorno, e nella lenta giornata solitaria, rammentò
spesso quella monaca buona e desiderò d'averla accanto invece della
Margherita.

Questa descriveva diffusamente agli altri vicini del casamento la
magrezza del povero Andrea, gli occhi infossati nell'orbita, il naso
assottigliato, che, secondo lei, era un segno di malaugurio; e Carlo, al
cui sguardo inesperto quei particolari erano sfuggiti, se ne risentiva
internamente contro quella donna come se li cagionasse lei.

E, tra per questo, tra pel confronto che faceva tra lei e suor Maria,
sentiva farsi più forte l'antipatia che aveva risentita dapprincipio per
la vicina. Tratto tratto domandava:

--Quanti giorni mancano al Natale?

Non era più la strenna, nè il pranzo, nè la festa che sospirava; era il
ritorno del nonno che la monaca gli aveva promesso, era il termine di
quella esistenza che gli diveniva ogni giorno più uggiosa.

Quando gli dissero: «mancano soltanto due giorni» provò una grande
gioia.

Gli pareva d'essere stato tanto a lungo solo in casa della Margherita, e
quel tempo che si esprimeva con quelle brevi parole, _due giorni_,
doveva essere così poco al paragone...

Ma suor Maria gli aveva raccomandato di pregare pel nonno; e, con quel
malumore che lo invadeva, egli non aveva pregato punto.

Bisognava pensare a riparare quella mancanza che gli rimordeva la
giovine coscienza.

Quella notte sognò la chiesa, l'altare illuminato, i canti alti della
benedizione; e la mattina i vicini non lo trovarono più nel suo letto;
la camera era deserta.

--È un piccolo vagabondo, disse la Margherita. Sarà andato a giocare coi
monelli. Quando avrà fame tornerà.

In fondo ne era dispiacente ed inquieta: soltanto, invece di dimostrarlo
con rimpianti, il suo carattere aspro si sfogava con rimproveri e male
grazie.

Passò l'ora della colazione, poi quella del pranzo; si fece buio, ed il
fanciullo non si rivide.

La Margherita e suo marito lo ricercarono per tutto il casamento, lungo
la contrada; ne domandarono a tutti, lo aspettarono fino a tarda sera,
poi lasciarono l'uscio della sua stanza aperto tutta la notte, ed un
lume acceso, perchè potesse rientrare senza aver paura.

Ma Carlo non rientrò.


IV.

La vigilia del Natale verso il mezzodì una carrozza si fermò
all'ingresso del cortile.

--È quel vagabondo di Carlo, disse la Margherita correndo fuori con
premura.

Ma tosto soggiunse, come per nascondere il sentimento buono che le
faceva provare una vera consolazione pel ritorno del fanciullo:

--Ecco, me lo riconducono. Il mal seme non si perde mai. E si compose un
viso arcigno mentre si affrettava verso la carrozza.

Ma ne discese soltanto una suora di carità.

Invece di ricondurre il bimbo veniva a cercarlo.

Andrea era in fin di vita, e desiderava vederlo prima di morire.

La Margherita si senti mancar il cuore a quella notizia; e, nel
malcontento della delusione provata, disse brutalmente:

--A quest'ora, pensa al suo nonno come alle prime scarpette che ha
portate. È fuggito ieri per andare a far il chiasso fuori, e non è più
tornato nè per mangiare nè per dormire.

E ricominciò a battere i dintorni in cerca del fanciullo, mentre la
carrozza s'allontanava.


Suor Maria s'era fatta monaca a ventisette anni nello scoraggiamento
d'un disinganno d'amore, che aveva troncati dei disegni d'avvenire
lungamente vagheggiati.

Oltre al dolore della delusione sofferta, aveva contribuito molto a
farle prendere quella risoluzione, l'idea di sfuggire ai commenti della
gente, a cui s'era presentata per molti anni come fidanzata; e
fors'anche una speranza segreta di commuovere l'amante infedele.

Non per nulla aveva scelto l'ordine delle Suore di carità, dove i voti
sono annuali.

Ma quando, dopo meno d'un anno, ammogliandosi prosaicamente con una
vedova ricca, quell'uomo tolse alla povera giovine l'ultima illusione,
che mettendo un po' di poesia nel sacrifizio, l'aiutava a sopportarlo,
ella ne sentì tutto il peso, e rimpianse amaramente le gioie dell'amore
e della maternità alle quali aveva rinunciato.

Era troppo dignitosa per uscire dal convento, _in cerca d'un altro
sposo_, come non avrebbero mancato di dire i malevoli.

Ma vi rimase senza passione e senza convinzione.

Il bene, che faceva per vero sentimento di carità, avrebbe preferito
farlo senza quella messa in iscena di regolamenti e di costume, e
sopratutto senza quella privazione d'ogni affetto durevole, che la
isolava e le assiderava il cuore.

La sua anima appassionata prendeva a ben volere tutti gli infermi, tutti
i trovatelli abbandonati.

Poi, gli infermi che la morte risparmiava, se ne andavano, e non li
rivedeva più.

I trovatelli venivano reclamati dai parenti, da una nutrice, da un primo
venuto, che ne aveva bisogno per farsi servire, ed essi pure se ne
andavano, e non li rivedeva più. Tutti i suoi affetti erano troncati, e
la monaca rimaneva sempre sola.

Intanto gli anni passavano, ed a misura che cresceva in età, suor Maria
trovava più gravosa quella vita di soggezione; anche la sua salute s'era
alterata in quella reclusione continua, nell'aria malsana degli
ospedali.

Più volte i medici l'avevano consigliata a svestire l'abito religioso
per tornare ad un'esistenza più confacente alla sua salute delicata.

Suo padre, morendo, le aveva lasciata una rendita sufficiente pe' suoi
bisogni. Allora era già lontano il tempo in cui si sarebbe potuto
supporre che uscisse dal convento _per la smania di pigliar marito_. Non
era più giovine, ed il mondo non si curava più di lei.

Eppure d'anno in anno differiva quella risoluzione.

Era una di quelle anime amorose, che hanno bisogno di vivere per
qualcheduno, di sacrificarsi. Vivere per sè stessa, le sembrava l'ultima
espressione dell'egoismo, e, malgrado le esigenze della sua salute, se
ne sarebbe vergognata.

--Qui almeno sono utile a qualcheduno, pensava. Se proprio mi sentirò
incapace di resistere, uscirò dal convento; ma finchè posso...

Ed a forza di tirare innanzi, di girar gli ospedali, se n'era fatta
un'abitudine, quasi una necessità; e sebbene non avesse rinunciato al
disegno di rifarsi laica, nessuno ci credeva più; era piuttosto un'idea
vaga, un sogno destinato a rimaner sempre sogno, per consolarla
dell'aridità della sua vita reale.

Aveva quarantacinque anni quando Carlo l'aveva conosciuta quella
domenica. La mattina il medico le aveva detto:

--Il numero trentanove va male; ne avrà per un paio di giorni al più.

La monaca era corsa presso Andrea, e s'era commossa profondamente della
desolazione che turbava le ultime ore di quel vecchio, al pensiero
dell'abbandono in cui lasciava un bambino.

Lei pure aveva aspettato con ansietà il fanciullo, e mentre l'aveva
tenuto sulle ginocchia, e ne aveva sentito scotere le fragili membra
nella convulsione del pianto, aveva pensato come il vecchio:

--Cosa sarà di lui?

Più tardi tornò, sola e pensosa, al letto del moribondo e gli susurrò
dolcemente:

--Quel bimbo è vostro nipote?

Il vecchio chinò più volte il capo in atto di sconforto, come per dire:

--Pur troppo!

--Non ha nessun parente? domandò ancora la monaca.

--Solo al mondo! sospirò l'infermo con accento disperato; ed i suoi
poveri occhi spenti si velarono di lagrime.

Quel giorno Suor Maria fu impensierita e distratta.

Più volte traversò la corsia senza scopo, e, nell'oratorio, invece di
recitare le solite preghiere, rimase assorta in riflessioni profonde, e
tratto tratto fu udita sospirare:

--Sono quasi vecchia... Ma! Ma! Cosa fare?...

Pensava al mondo cui aveva desiderato di tornare, e le pareva che fosse
un deserto.

Si hanno dei parenti, degli amici; ma col tempo i vecchi muoiono, i
giovani si disperdono.

Uno che tornasse dopo tanti anni sarebbe isolato...

Guardava i pochi mobili della sua cella, il letto, il crocifisso,
l'inginocchiatoio, e si sentiva presa da una profonda tenerezza per
quegli oggetti rozzi e logori.

Un medico, attribuendo quell'eccitamento al suo malessere, la fermò
mentre traversava la corsia, e le disse, toccando leggermente la sua
larga cuffia insaldata:

--Dovete risolvervi a lasciar la _cornetta_, Suor Maria, se volete star
bene.

--Oh se fosse per me sola, a questa ora non ci penserei più, sospirò la
suora. Ma, cosa fare?

Quando Andrea la fece chiamare, per pregarla di condurgli ancora una
volta il bambino prima che morisse, Suor Maria rimase un pezzo immobile
a guardare il moribondo, come combattuta fra due pensieri; poi si avviò
lentamente senza rispondere.

Ma dopo pochi passi si fermò, tornò risolutamente indietro, e disse:

--Mettete l'anima in pace, pover'uomo; al vostro bimbo ci penserò io;
uscirò dal convento, e lo terrò con me; siete contento?

Andrea strinse le mani congiunte, come in atto di adorazione; poi,
nell'impeto della riconoscenza, riuscì a piegare il capo verso la sponda
del letto, dove la monaca posava una mano, e la baciò, lasciandola
bagnata di lagrime.

Suor Maria uscì subito in carrozza per condurre il fanciullo al suo
vecchio parente; ma Carlo era fuggito, e quando la suora tornò
all'ospedale con quella nuova disperante, Andrea era morto.

--Meglio così! sospirò la monaca. Dio gli ha risparmiato l'ultimo
dolore.

Poi chiuse pietosamente gli occhi del morto, e gli coprì il volto col
lenzuolo, pensando a quel bambino che errava abbandonato, con un gran
cruccio sul cuore.


V.

Quella mattina che era uscito solo dalla sua casa, Carlo, dopo aver
dette e ripetute nella chiesa parrocchiale tutte le preghiere che
sapeva, s'avviò per la strada di Circonvallazione, ruminando i suoi
rancori contro la Margherita.

Se avesse potuto non tornar più in casa se non quando ci tornerebbe il
nonno!

Gli avevano detto la sera innanzi che mancavano due giorni a Natale. Si
studiava di calcolare quanto poteva esserci di meno dopo quella notte
trascorsa. Ad ogni modo poteva esser poco; e pensava:

--Appena sarà Natale andrò all'ospedale a prendere il nonno. La monaca
ha detto che il Bambino lo farà guarire. Torneremo a casa insieme,
faremo il nostro pranzo, e saremo contenti come prima.

Ma intanto cominciava ad aver fame, e, malgrado la sua ostilità contro
la Margherita, la buona scodella di polenta che doveva esserci sulla
tavola a quell'ora, lo consigliava a tornare verso casa.

Era appunto in quella perplessità, quando si sentì urtare, e riconobbe
un suo compagno, che aveva frequentata la scuola in novembre, e poi era
scomparso.

--Perchè non vieni più a scuola? domandò Carlo.

--Siamo andati ad abitare fuori di Porta Romana, e vado alle scuole di
laggiù.

Carlo gli narrò i casi suoi, ed il suo desiderio di non restituirsi a
domicilio prima di Natale, per aspettare il nonno.

--Non so dove stare intanto, concluse un po' scoraggiato.

--Vieni a casa mia, propose ospitalmente il compagno. Mio padre lavora
fuori di Milano, e torna a casa soltanto la sera del sabato. Domani sera
verrà perchè è la vigilia di Natale; ma oggi non c'è.

--E la tua mamma? domandò Carlo, a cui la Margherita aveva destato in
cuore una grande paura delle massaie.

--La mia mamma va a servire in città, e sta fuori anche lei tutto il
giorno.

--Ma io ho fame; osservò il piccolo fuggiasco impensierito.

--Quando saremo a casa ti darò metà della mia colazione: poi giocheremo
tutto il giorno, e vedremo passare il _tram_, e andremo alla Certosa di
Chiaravalle, dove si sale sul campanile per una scaletta in aria, che fa
paura, ed è facile cader giù...

Carlo seguì il compagno, sedotto da quella prospettiva; ed i fanciulli
passarono delle buone ore insieme.

Ma quando cominciò a farsi buio, si trovarono imbarazzati. La mamma
stava per tornare, e pare che non fosse molto indulgente, perchè il suo
figliolo si metteva in grave pensiero.

--Se ti vede qui mi sgrida; diceva.

D'altra parte Carlo, dopo essere stato assente tutta la giornata, si
sentiva meno disposto che mai a riaffrontare solo la Margherita: e le
strade buie gli mettevano paura.

A lungo pensare, il suo ospite trovò un ripiego: in fondo al casamento
c'era un piccolo fienile.

--Dormirai nel fieno, disse a Carlo. È bello, sai! Ora ti rimpiatti
lassù; ed appena avrò la mia minestra, salirò anch'io e mangeremo
insieme. La mamma non s'accorgerà di nulla.

La cosa andò benissimo. Carlo s'addormentò, o quasi, prima che il suo
compagno lo lasciasse, e tirò via a dormire fino al mattino. L'altro,
che si divertiva di quella novità d'aver un ospite, e che desiderava di
farlo sgattaiolare prima che il padrone del fienile potesse scoprirlo e
denunciarlo alla sua mamma, era già accanto all'amico quando questi si
destò.

Lo fece scendere subito, e traverso i campi, lo ricondusse sulla strada,
dividendo con lui un pezzo di polenta fredda ed una cipolla, che sua
madre gli aveva dato per colazione. Prima di lasciar Carlo, gli disse:

--Vai sempre dritto: poi volta a destra e troverai l'ospedale. Oggi è la
vigilia di Natale, ti lasceranno entrare. Dacchè il tuo nonno deve
uscire domani, è segno che sta bene, e potrà anche venire con te questa
sera.

Carlo approvò quel facile accomodamento, e s'avviò col cuore leggero.
Ma, appena ebbe passato il dazio, ricominciarono le difficoltà. Quando
doveva voltare a destra? Alla prima contrada? Alla seconda?

Per non sbagliare, voltò alla prima; prese i bastioni, ed arrivò fino a
Porta Venezia. Ma non s'imbattè in nessuna costruzione che gli
ricordasse l'ospedale. Allora entrò in città, e si diede a camminare di
su, di giù, distraendosi a guardare le botteghe, poi ripigliando la sua
strada, poi fermandosi di nuovo.

Forse in quei lunghi giri e rigiri passò anche dinanzi all'ospedale; ma
non lo riconobbe.

Avrebbe voluto domandare a qualcuno dov'era, ma non osava, e camminava
sempre, pensando che finirebbe per arrivarci.

Nelle prime ore del pomeriggio si trovò in piazza Cavour, all'ingresso
dei giardini pubblici. Andò fino al laghetto a vedere le anatre, poi più
in giù alla grande gabbia degli uccelli, poi tornò indietro, e si fermò
allo steccato, in cui s'aggiravano melanconicamente due cervi
freddolosi.

Addossati alle sbarre, parecchi bambini eleganti ben ravvoltolati nelle
pelliccie, porgevano delle chicche ai cervi, mentre le bambinaie
discorrevano coi loro conoscenti.

Un bambinello tutto vestito di bianco, che si reggeva appena, non
riesciva, per quanto allungasse il braccino minuscolo, ad attirare
l'attenzione d'un cervo sul suo pezzo di chicca. Carlo aveva fame, prese
pian piano dalla manina del bimbo quel dono trascurato dall'animale, e
si pose a mangiarlo.

L'infante rimase stupefatto a guardarlo coi ditini stesi nel suo guanto
bianco; aperse la bocca come per piangere; poi gli venne un'idea più
amena. Prese il resto della chicca che aveva nell'altra mano, e cominciò
a mangiare anche lui, sorridendo a Carlo con aria d'intelligenza.

Più tardi cominciò a cadere un nevischio gelido; scese la nebbia. Carlo
aveva ripreso ad errare per le contrade, ma il freddo gli penetrava
nelle ossa.

Avvezzo dal nonno a tutte le agiatezze, quell'umidità che gli gelava i
panni addosso, gli dava noia.

Si trovava in piazza del Duomo. Pensò che quel giorno non aveva pregato,
e che per questo non gli riusciva di trovar l'ospedale.

Entrò in chiesa.

Era un po' assonnato; non si rendeva ben conto di quanto farebbe dopo.

S'andò a rannicchiare in un angolo buio, nell'ultima cappella a sinistra
che era in riparazione. C'erano ponti da tutti i lati, travi, tele
distese, materiali da lavoro. Ma in quell'ora i lavori erano sospesi, ed
il fanciullo si trovò isolato nella massima tranquillità.

L'atmosfera interna era tepida; regnava una penombra scura, ma, lungo le
navate, un rumore incessante di passi, faceva sentire che c'era molta
gente in chiesa, e rassicurava il bambino. Da lontano, nel coro, s'udiva
un salmeggiare monotono che conciliava il sonno.

Carlo, stanco, assiderato, non potè sostenere a lungo l'attenzione alla
preghiera; chinò il capo verso la parete, e s'addormentò.

Fu risvegliato molte ore dopo, da una molestia allo stomaco. Non era un
dolore. Era uno stiramento, una nausea. Aveva fame.

Chiamò due o tre volte il nonno; era il nome che gli veniva alle labbra
ogni giorno al primo destarsi, dacchè sapeva parlare. Ma non udì la
buona voce del vecchio, e si ricordò vagamente la sua storia dolorosa.

Stese le braccia, e sentì che non era in letto. Si rizzò ingranchito,
confuso; fece alcuni passi, ed urtò negli attrezzi degli operai che
ingombravano la cappella. Non sapeva più dove fosse.

Si pose a camminare a tentoni nell'oscurità, urtando ad ogni tratto,
scansando un intoppo, impigliandosi in un altro; tremava tutto;
piagnucolava, ancora istupidito dal sonno. Finalmente non incontrò più
ostacoli, non trovò più appoggio da nessun lato, si sentì solo,
smarrito, nelle tenebre infinite, nel silenzio pauroso.

Atterrito cominciò a chiamare strillando; e le vôlte immense ripeterono
le sue grida con un suono cavernoso, che veniva da lontano, si
ripercoteva, si frangeva, si prolungava, e moriva lentamente nel buio e
nel silenzio di tomba. Allora la paura invase la mente del fanciullo
come un delirio. Egli si pose a correre nell'oscurità, urlando,
strillando, disperato, pazzo di terrore.


VI.

Suor Maria vegliava la notte di Natale al letto d'una donna malata.

Nascondeva il volto fra le braccia incrociate, e piangeva sul suo abito
grigio, pensando il Natale delle famiglie, le madri puerilmente occupate
del segreto delle strenne, i bimbi giulivi intorno alle mense festive.

Lei pure, dopo aver lottato contro la inerzia delle abitudini, ed aver
vinto, aveva sognato un momento il sorriso d'un fanciulletto, e la sua
prima strenna di ceppo. E quella speranza era nata nel suo cuore in un
impeto di carità per un vecchio moribondo.

Ma pareva che una maledizione ingiusta la condannasse a vivere solitaria
e senza affetti; anche la buona azione era rimasta infeconda, per non
procurarle una gioia. Ed il vecchio era morto solo; ed il bimbo errava
solo nelle gelide notti d'inverno; e la suora generosa e buona, era sola
fra due letti d'ospedale.

Fu tolta a quelle meditazioni da una infermiera che veniva a chiamarla.
Si asciugò gli occhi, ricompose le pieghe rigide del suo grembiule da
monaca e s'affrettò dietro la donna.

Una brigata di giovinotti entrando in Duomo per la messa della
mezzanotte, avevano trovato un bambino svenuto e lo avevano trasportato
all'ospedale.

Per la prima volta, nella sua lunga pratica d'infermiera, suor Maria
dimenticò la malata affidata alle sue cure, e la notte passò senza
ch'ella ricomparisse nella corsia.

La mattina di Natale, traverso l'uscio della sua cella, s'udiva uno
strano rumore come il ruzzolare di carrozzelle di legno sul pavimento,
ed il cinguettìo d'una voce infantile.

Più tardi, all'ora del pranzo, la monaca non scese in refettorio; e la
suora conversa che le recava i piatti dalla cucina, la trovò seduta ad
una piccola mensa allegramente ornata di chicche e di arance, ed
apparecchiata per due.

Carlo sedeva in faccia a suor Maria, rispondendo amichevolmente alle sue
domande, ingrossando la voce per narrarle il terribile fatto della sua
reclusione in Duomo, interrogando a sua volta circa una certa casetta
bianca con un giardinetto verde, dove la monaca gli diceva che dovevano
recarsi presto, ad abitare insieme.

Tratto tratto la campana dell'ospedale riprendeva a sonare a morto, e la
suora rabbrividiva.

Poi s'udì lontan lontano il fischio acuto della locomotiva sibilare fra
i rintocchi lenti della campana.

Il bambino alzò il dito, come per accennare quel suono ben noto, che gli
richiamava tante storie e promesse serene di viaggi, e susurrò cogli
occhi scintillanti e la bocchina aperta al sorriso.

--È il nonno che torna!

--No; è il nonno che parte: rispose gravemente la suora che conosceva la
campana.

--Va in quel sito lontano dove lo fanno guarire? disse un po' meno lieto
il fanciullo.

--Sì; in quel sito lontano dove starà sempre bene.

--Quando tornerà? domandò Carlo.

--Non tornerà: andremo noi a raggiungerlo.

Il bambino contento di quella promessa, stese le braccia verso la suora
che lo prese in grembo; poi ricominciò le sue chiacchierine
sconclusionate, con certe note acute, certe risate argentine, che
echeggiavano stranamente fra le muraglie nude della cella. E suor Maria,
abbracciandolo stretto, benediva il cielo che, per una vita di carità,
le aveva concesso un amore; e pensando all'avvenire non si sentiva più
sola.



SILENZI D'AMORE.


Lui si chiamava Fausto; aveva poco più di trentacinque anni, ed era
artista di canto; tenore.

Lei era una di quelle signore eleganti di cui si dice sempre il casato
ed il titolo, e si possono frequentare un mese senza saperne il nome.

Non si conoscevano. Fausto era stato a Pegli, dove un'altra dama di
Milano gli aveva dato una lettera di presentazione per la contessa
Floralio di Santigliano, che doveva trovare a Recoaro.

--Una donnina elegante, spiritosa, simpatica; una giovine vedova.

Fausto aveva incontrati a Recoaro molti conoscenti: aveva domandato
della contessa:

--Aveva realmente le attrattive che gli avevano detto?

--Sì; Ma aveva delle timidezze da provinciale. Non osava stare
all'albergo. Aveva preso alloggio da una famiglia ammodo; una mamma
grassa e tre giovinette magre che si tirava sempre dietro come
un'aureola di onestà.

Fausto rimise nel portafogli la lettera di presentazione.

Colla sua bella e florida gioventù, col suo carattere leale, il suo
spirito sereno, il suo gran nome, e la fortuna che gli sorrideva, non
aveva che a presentarsi per incontrare delle simpatie, non gli
occorrevano lettere.

Da due, tre, dieci persone, la contessa s'intese dire che era arrivato
Fausto, il più celebre dei tenori viventi, che cantava una sola stagione
dell'anno al Covent-Garden o a Pietroburgo, ed in due mesi di trionfi e
di gloria, si faceva una rendita da principe. Tutta Recoaro era agitata
dalla speranza di udirlo.

--Canterebbe?

In società no. Era noto che non lo faceva mai. Ma se si fosse combinato
il solito concerto a beneficio?...

Poi l'amica di Milano scrisse alla contessa:

«Come aveva trovato il suo raccomandato? Simpatico vero? Si vedevano
spesso? Le faceva la corte?»

La contessa si meravigliò che non fosse comparso: se ne meravigliò al
casino, se ne meravigliò alla fonte:

--Ma questo signore è un orso!

Fausto lo seppe, e, martire della cortesia, si mise i guanti e fece la
visita.

Fu introdotto in uno di quei salotti borghesi che stanno sempre chiusi
perchè il sole non abbia a sciupare i mobili, e di cui la serva apre le
imposte quando ha fatto entrare un visitatore, lo abbaglia col riflesso
del sollione che batte sul muro bianco di facciata, poi si volta, vede
che si copre gli occhi colle mani, torna a chiudere un po' più, un po'
meno, e lo fa assistere ad una serie d'effetti di luce, pittorici forse,
ma punto comodi.

Fausto si guardò intorno, e fece una smorfia. Era un salotto freddo ed
inospitale, senza il posto della signora, il suo angolo, la sua nicchia
dove un amico può sederle accanto, presso il suo tavolino, e i suoi
lavori, i suoi libri, i suoi giornali, i suoi albums e discorrere
intimamente, sfogliando di quà, guardando di là, sgomitolando un filo di
seta, disegnando un profilo colla matita, leggicchiando un'epigrafe,
commentando, saltando di palo in frasca, mentre la signora continua a
stare al suo posto a fare quello che stava facendo, senza aver l'aria
d'essere là per riceverlo, di perdere il suo tempo per lui.

Era il salotto pretenzioso ed ingenuo delle famiglie che ricevono poco,
e, per conseguenza, non sanno ricevere.

Un divano contro una parete, le poltrone in giro ed una tavola in mezzo
su cui la vanità del proprietario mette in mostra tutti quegli oggetti,
che la sua modestia considera troppo belli per farli servire al loro
scopo.

Tazze in cui nessuno ha mai bevuto; servizi da thè e da caffè vergini
d'ogni contatto colle bibite suddette; calamai che non conoscono neppur
di vista l'inchiostro; e poi, fiori artificiali, uccelli imbalsamati ed
i ricami più o meno scoloriti delle signorine di casa; e su tutte le
spalliere dei mobili quadrati e dischi all'uncinetto per difendere la
stoffa dal contatto dei visitatori.

La contessa entrò, salutò in piedi, sedette a disagio sul divano, colle
mani in mano, impacciata di trovarsi là fuor di posto, con quell'aria di
ricevimento che sembra misurare il tempo alle visite.

Fausto, che era avvezzo ad essere ricevuto fra gli intimi delle belle
signore, rimase stonato anche lui.

Fecero i discorsi di circostanza:

--È da parecchio, che è giunto a Recoaro?

Poi un'occhiatina alla data della lettera che lo presentava, ed un
sorriso dissimulato con ostentazione, ma senza osare di parlarne.

--E le acque le fanno bene? Io ne bevo tanti bicchieri, e lei? È poco. È
troppo. Quanto tempo si aspetta alla fonte!...

Una conversazione da far dormire in piedi. La contessa cercò di metterci
qua e là qualche parola spiritosa. Ma non si sentiva a suo agio, ed a
Fausto fecero l'effetto d'una guarnizione di tartufi e d'un bicchiere di
bordeaux introdotti improvvisamente nel _menu_ di un pranzo casalingo.
Non erano in armonia con tutto il resto, stonavano.

Uscì col fermo proposito di non ripetere la visita che alla vigilia
della partenza, nutrendo speranza di non trovare in casa la signora, e
di potersela cavare col laconico _p. p. c._, in margine di una carta da
visita.

Ma, per quanto la speranza sia economica a nutrirsi, quella di Fausto
non potè vivere a lungo.

Il giorno seguente incontrò la contessa alla fonte.

Era appoggiata colle spalle ad un albero, aspettando il suo turno per
andare a bere.

Aveva intorno le solite signorine magre ed alcuni uomini.

Là in piedi, con quell'albero per tutto mobiglio, si trovava assai meno
a disagio che nel salotto borghese.

Appena Fausto le si fece incontro, gli stese la mano mettendo un «Buon
giorno» tra due virgole del discorso, e continuò a parlare:

--Senza dubbio, ha sapore d'inchiostro, ma mi ci sono avvezza. Non fosse
altro, a forza di dirlo; è la quarta volta che lo ripeto stamane.

--Lo ripeta anche a me, disse Fausto.

--Parlava dell'acqua?...

--Sfido! Dell'acqua, del sapore d'inchiostro, della maggiore o minore
ripugnanza che ci si ha... Qui si parla a rime obbligate.

--Ma le signore di spirito sapranno introdurvi qualche variante, ribattè
Fausto coll'intenzione di fare un complimento.

--È una rima obbligata anche il fare dei madrigali alle signore, disse
la contessa.

--Ed il presentarli anche quando non sono riesciti nevvero? soggiunse
tutto umiliato il povero Fausto, che avrebbe voluto ritirare il suo.

--Come vede... rispose la contessa accennando a lui.

Ma lo disse ridendo per togliere l'amarezza a quell'ironia. Poi troncò
lì quel discorso, presentò Fausto alle signorine Asting, agli altri
conoscenti, e s'avviò per cercare il suo bicchiere.

Era davvero elegante, ben fatta; vestita bene; era giovine, allegra,
cordialissima, entrava subito in confidenza. Era una di quelle signore,
colle quali gli uomini stanno volentieri in compagnia, perchè sanno
discorrere, tolgono di mezzo la soggezione senza mai perdere la loro
dignità di contegno, e non annoiano mai; una di quelle donne di cui le
altre dicono:

--Non si capisce che cosa ci trovino gli uomini di attraente. Non è
bella.

--Non era al casino ieri sera? domandò Fausto.

E vedendo che la contessa lo guardava ridendo, soggiunse:

--È anche questa una rima obbligata?

--Ed anche questa è la quarta volta che si ripete, perchè lei è il
quarto conoscente che incontro. No, al casino non c'ero. La signora
Asting non ci andava, e non mi trova abbastanza vecchia per affidarmi le
sue figlie. Non potevo andarci sola.

--Se potessi offrirmi di venire a prenderla io... disse Fausto.

--Sarebbe proprio il caso di dire: _meglio sola che male accompagnata_.

--Lei almeno non ci pensa affatto a fare dei madrigali.

--Ma li faccio senza pensarci.

--Dicendomi che con me sarebbe male accompagnata?...

--Se fosse vecchio e brutto, non glielo direi.

--Allora vorrei essere vecchio e brutto.

La Contessa lo guardò ridendo, ma non rispose. Si vedeva però che aveva
qualche cosa da dire, e Fausto glielo domandò:

--Perchè ride? Pensa qualche cosa di male sul conto mio?

--Sì. Penso che è un po' volubile.

--Può darsi, rispose Fausto.

Poi accorgendosi che aveva detto una fatuità, soggiunse:

--Non voglio contraddirla. Ma da che lo argomenta?

--Fino a ieri s'è tenuto in tasca una lettera a maturar la data, per
evitare di vedermi; ed oggi vorrebbe essere vecchio e brutto per
accompagnarmi.

--Fino a ieri non la conoscevo.

Fausto sarebbe andato lontano su quella via, ma lei si limitò ad
inchinarsi ridendo al suo complimento, e parlò di altro.

Non insisteva mai sui discorsi, quando cominciavano a prendere una piega
galante; li lasciava cadere, salvo ad intavolarne altri che seguiva fino
allo stesso punto, per piantarli lì daccapo. È un gioco che piace molto
alle belle donnine; un gioco pericoloso. È come quella mezza ebbrezza
che procura l'oppio, quell'esaltamento lieve che si attinge in un
bicchiere di Sciampagna, un'ebbrezza, un esaltamento innocenti, ma
terribilmente arrischiati. Un altro bicchiere di Sciampagna, un grano
d'oppio di più, possono trascinare all'ubbriachezza e magari alla morte.
Vi sono tante esistenze oneste che pericolano a questo gioco.

La sera, Fausto e la Contessa si rividero al passeggio, l'indomani alla
fonte, e così via, come accade sempre alle acque ed ai bagni. Si fa vita
insieme e si è presto amici.

Erano sempre contenti di ritrovarsi, si mettevano subito in allegria. Ma
non erano mai soli. La Contessa giungeva inevitabilmente accompagnata
dalle signorine Asting, e la conversazione era generale.

Fausto s'andava ogni giorno innamorando un po' di più della Contessa, e
lei sentiva crescere in modo inquietante la sua simpatia per lui.

Ma non si conoscevano abbastanza per abbandonarsi ad una fiducia che
poteva essere ingannevole. Stavano in guardia tutti e due.

Fausto insinuava, quando poteva farlo, qualche parola tra scherzosa e
seria, che turbava la Contessa: qualche volta era lei che la provocava
ed era lui che si turbava.

Ma ogni volta che stava per affermare a sè stesso: «Sì, è innamorata di
me» si ricordava le notizie che gli avevano date della Contessa al suo
arrivo a Recoaro:--«gentile, cordiale con tutti socievolissima,
brillante, ma buona madre di famiglia ed onesta.»

Quanto a lei, vedeva quelle esitazioni, capiva che la sua onestà lo
scoraggiava, e ci aveva rabbia.

Avrebbe voluto che fosse stato certo alla prima che non c'era nessuna
speranza clandestina da fondare su di lei ma che l'amasse ugualmente.
Non era libera? Non erano liberi tutti e due? L'idea che quel sentimento
che l'agitava tutta non trovasse altro riscontro nel cuore di lui
fuorchè la speranza ignobile d'un'avventura galante, l'offendeva.

Qualche volta si mostrava scettica per strappargli ogni illusione, e
pensava:

«Meglio che disperi e non mi ami, che amarmi a quel modo.»

Un giorno che le signorine Asting parlavano di due innamorati da _fatto
diverso_, disse:

--Se avessero preso del chinino, questa catastrofe non sarebbe accaduta.
Il chinino è un calmante eccellente pei nervi; e l'amore non è che una
malattia nervosa.

Pare che lei ne faccia uso del chinino, disse Fausto. Ne ha studiato
molto gli effetti.

Glielo disse a mezza voce perchè gli altri non udissero, irritato da
quella negazione fredda che lo scoraggiava.

Ma a lei quella parola sommessa, sussurrata come una confidenza fece
l'effetto d'una carezza, malgrado l'insolenza che racchiudeva.
S'indispettiva di non risentirsi di quell'insolenza, ma non si
risentiva.

Tutto il giorno, tutta la sera, ripensò quella voce bassa, quella frase
mormorata per lei sola, quell'atto intimo di parlarle piano. Le pareva
che l'indomani e tutti i giorni dovesse sempre parlarle così.

Scrisse una lunga lettera a' suoi due figli; una lettera di madre
appassionata:

«Non aveva sulla terra altri affetti che loro due, s'era votata ad una
vedovanza perpetua per non defraudarli d'una parte della sua tenerezza.

«Era impaziente di vedere la fine di quel mese, per andarli a prendere
al collegio, e portarli con sè in villa, e vivere tutto l'autunno in
famiglia. Le era penoso starsene sola a quel modo. Alle acque
s'annoiava... s'annoiava...»

Voleva persuaderlo a sè stessa; ma invece alle acque ci aveva un
interessamento troppo vivo. Aspettava con impazienza il mattino per
andare alla fonte, e se per caso ne tornava senza una parola che
l'avesse agitata, era triste.

E le accadeva sovente. Fausto s'annoiava di quella tutela che lei aveva
sempre intorno. Gli pareva un'ostentazione di diffidenza, e si metteva
in diffidenza anche lui.

La contessa invece avrebbe voluto svincolarsi da quelle soggezioni, ma
era timida, non osava più.

Prima era andata parecchie volte alla fonte sola: ma, dacchè conosceva
Fausto, le sarebbe sembrato di andare a cercarlo; si sarebbe vergognata
di lui più che degli altri; e si circondava più che mai.

Avevano tutti e due uno strano modo di parlare fissandosi gli occhi
negli occhi con un'intensità che pareva fatta per accompagnare dei
discorsi appassionati. Invece sovente dicevano:

«Guardi quel cappellino. Sa chi è quella signora? Oggi le signore Asting
sono più eleganti del solito» e simili sciocchezze.

E poi, in mancanza di parole affettuose da ricordare, ricordavano gli
sguardi; quell'occhio largo, intento, profondo, ritornava con insistenza
alla loro mente nelle ore solitarie e lente della lontananza, esaltava
la fantasia innamorata, che ne riscaldava, coll'intensità del desiderio,
la muta eloquenza.

Un giorno qualcuno propose una gita sui somarelli; Fausto mise un grande
impegno nel combinarla, se ne entusiasmò addirittura. Gli pareva che la
campagna, l'allegria della circostanza, gli avrebbero fornita
l'occasione di isolarsi colla contessa un po' a lungo, di parlare con
calma, senza soggezione.

Non aveva il proposito di precipitarsi a' suoi piedi come faceva nei
melodrammi nella sua qualità di tenore. Anzi, appunto perchè era un
cantante, s'impuntiva a non far nulla di melodrammatico, e per evitare
ogni atteggiamento teatrale, si mostrava prosaico fino all'affettazione.
Ma nella sua anima d'artista sentiva potentemente la poesia della vita.

Quella donna vedova, indipendente che vedeva ogni giorno senza poter mai
svincolarla dalle soggezioni da giovinetta di cui s'era circondata, quei
discorsi nervosi in cui apparivano lampi di passione, e che, subito
dopo, una nota di scetticismo o di puritanismo smentiva, gli avevano
messa la febbre nel cuore.

Era risoluto a parlare, ad uscire da quell'incertezza ad ogni costo, a
costo di fare una dichiarazione d'amore sul dorso di un asino.

Appunto in quel giorno il seguito della Contessa era al gran completo.

Oltre alla signora Asting, le figlie, i conoscenti soliti, c'era un
giovine di Milano arrivato allora, che le portava una grande provvista
di novità, e le faceva la corte anche lui.

Fausto non era geloso, e la Contessa neppure. Avevano troppo spirito per
questo. Ma tutti i terzi che s'intromettevano fra loro li irritavano;
d'altra parte, avevano abbastanza pratica di società per saper pigliare
le cose con disinvoltura, e nascondere il loro malcontento.

Ma nascondendolo agli altri, se lo nascondevano anche a vicenda, e
ciascuno interpretava come indifferenza la rassegnazione dell'altro, e
si scoraggiava, e ci metteva della dignità a dissimulare ed a vincere un
sentimento che non credeva più corrisposto.

Così non cercarono più di isolarsi.

Lui andò a far la corte alle altre signore, e lei si lasciò far la corte
dagli altri giovinotti.

Soltanto tratto tratto si mandavano una parola al volo, si guardavano da
lontano, ed erano sempre quelle occhiate profonde, intime, amorose che
suscitavano una tempesta nel cuore di tutti e due.

Mentre mangiavano seduti in un prato, Fausto udì la Contessa discorrere
col giovine milanese di una sua idea paradossale di andare in Terra
Santa colla società della _Propaganda Fide_.

Era smaniosa di vedere quei luoghi pittoreschi tutti idealizzati dalla
poesia del cristianesimo...

«--E non c'era obbligo di far propaganda, nè di associarsi a tutte le
preghiere ed ai digiuni.» Ciascuno era libero di agire come gli
consigliava la sua coscienza; onestamente, ben inteso. Si pagavano mille
lire e si era provveduti di tutto per sei mesi; viaggio, carovane, guide
per essere accompagnati nei luoghi pericolosi; era anche un'economia...

--Quando partiamo? disse Fausto.

--Ma che! Lei crede di trovare sul Golgota codeste fette di
_roast-beef_? rispose la Contessa.

Aveva sentita una scossa al cuore a quella parola, colla quale pareva
che Fausto volesse dirle che si credeva unito a lei, che le apparteneva
già tanto, da associarsi ad ogni suo disegno stravagante ed
ineffettuabile, e voleva nascondere la sua commozione.

Lui dovette scusarsi del suo appetito; s'irritò di quella risposta
prosaica.

Se l'avesse amato, se avesse desiderato di sapersi amata da lui, avrebbe
potuto rispondergli:--Con che diritto, perchè vuol venire con me?

E lui le avrebbe sussurrato: «--Perchè l'amo.»

Invece l'aveva evitata quella parola: non voleva udirla. E più tardi,
sola nella sua camera, anche la Contessa rimpiangeva la stessa cosa. Se
avesse osato domandargli perchè si associava a quel suo disegno, egli le
avrebbe risposto:

«--Perchè l'amo.»

Risentiva nel silenzio della notte quella parola sussurrata da quella
voce; ne provava un fremito, una soavità infinita. Sperava che gliela
direbbe il domani, e fantasticava la poesia dolce d'una confessione
d'amore.

Ma i domani si succedevano tutti ugualmente delusori.

Sempre le stesse soggezioni da cui non osava svincolarsi; sempre la
stessa timidezza, le stesse diffidenze; la stessa conversazione, a
frizzi, scherzosa, paradossale, di cui avevano presa l'abitudine, e che
toglieva ogni valore anche alle espressioni più amorose ed ardite.

Fausto ebbe ancora una speranza, una sera che la Contessa lo invitò a
prendere il tè.

Si figurò uno di quei tè intimi, una cuccuma piccina piccina, due sole
tazze, due mani che si sfiorano tremando nell'accendere un fiammifero e
nel dar fuoco allo spirito, due cuori che battono forte forte, mentre
stesi in due poltroncine, col capo abbandonato indietro e la tazza fra
le mani, i due amici, uomo e donna, si mandano traverso il fumo del tè
delle frasi brevi, un po' nervose, colla voce convulsa, collo sguardo
largo e fisso.

Poi posano le tazze, lui prende quell'occasione per alzarsi, per
accostarsi a lei, le va dietro pian piano, si appoggia alla spalliera
della poltrona, e col capo sul capo di lei, colle labbra che le sfiorano
l'orecchio, coll'alito ardente che le brucia il collo le dice:

«--Lo sapete, Maria--lo sapete, Bianca--lo sapete, Teresa, che vi voglio
bene?»

Fra le altre miserie Fausto non conosceva il nome della Contessa. Doveva
mettere dei puntolini al posto del nome, nel suo sogno d'amore. Ma
pazienza; purchè quel sogno si avverasse era anche disposto a chiamarla
Contessa per l'ultima volta.

Aspettò quella sera commosso, felice, impaziente. Ci andò troppo presto;
ma doveva essere un altro disinganno.

La Contessa era seduta sul divano colla signora Asting e la signorina
maggiore. Le altre sorelle sonavano un pezzo a quattro mani!!!!

Se intanto avesse potuto sedere accanto alla Contessa, benedetto il
pezzo a quattro mani che gli avrebbe permesso di parlarle piano. Ma i
posti erano occupati a destra ed a sinistra. Bisognò sentire,
assaporare, lodare il «tremulo» perfettamente eseguito con tanta
agilità, tanta forza, un pezzo così difficile...

Poi vennero i discorsi musicali. La Contessa era nervosa; voleva che le
opere si musicassero su libretti in prosa. La poesia era una puerilità.
Perchè misurare il pensiero sopra un metro, contarci le parole, fissarci
le cadenze? Questo era ufficio della musica. Ed anche essa doveva essere
semplice, naturale, senz'artificio; un lungo recitativo, filato,
drammatico. Lì sui due piedi, ridusse in prosa da parodia, la CELESTE
AIDA ed il CIEL O MAR! della Gioconda, e volle che Fausto cantasse le
sue arie così.

Lei aveva fatto la sua parte bene, però; e lui fece bene la sua, come
faceva bene tutto. Aveva quel dono prezioso. Ci mise dell'umorismo.

Poi la Contessa gli strinse la mano per ringraziarlo, e quella stretta
di mano lunga, espressiva, lo fece tremare di gioia.

--Ed ora basta, nevvero, di bandire la poesia? le disse. Ora torniamo
poeti.

--Ma no. La poesia è una convulsione dei nervi, insistè la Contessa, che
li aveva lei i nervi in convulsione, perchè era malcontenta dalla sua
serata.

--Come l'amore allora? disse Fausto.

--Come l'amore.

--E si guarisce anche col chinino?

--Perchè lo domanda? È poeta lei?

--No, sono innamorato, rispose Fausto. Ma lo disse stizzito. Quella
scherma di frasi artifiziose, di paradossi, lo irritava.

Tuttavia la Contessa provò un sussulto al cuore a quella confessione. Ma
le signorine Asting si mordevano le labbra come per reprimere una voglia
di ridere che non avevano, e lei rispose:

--Ah! allora la compiango.

--Perchè? domandò Fausto.

--Perchè è capitato qui dove siamo tutta gente prosaica.

--Non credono all'amore?

--Sì; ci crediamo, come alla febbre; e consigliamo il chinino.

--Io se conoscessi una donna innamorata, le consiglierei le acque di
Recoaro, disse Fausto stizzito.

--Per averla vicina?

--No. Non l'avrei vicina perchè parto domani. Per guarirla dell'amore
come lei.

--La prego di credere che io non ho avuto bisogno di guarire. Non ne ero
malata.

--Mai?

--Mai. Poi ripigliò: Forse, quando mi sono maritata...--Era un modo di
troncare il discorso. L'annuncio di quella partenza l'aveva scossa
tutta. Perchè partiva?

Quella sera si separarono amareggiati, irritati; si strinsero la mano
convulsamente. E nelle lunghe ore d'una notte insonne, la Contessa si
tormentò con pensieri sconfortanti:

«Dunque non l'amava, non l'aveva amata mai dacchè se ne andava così,
senza rivederla, come un estraneo. Era venuto dopo di lei. Non aveva
scritture che lo chiamassero altrove. Se ne andava per andarsene; perchè
ne aveva assai, di Recoaro. La sua presenza non contava per nulla, non
aveva influenza per trattenerlo. O Dio! E lei che s'era montata la
testa!...»

La mattina si alzò dal letto scoraggiata, disillusa, ma calma come una
donna ragionevole. Le faceva male di rinunciare a quell'ultima
illusione. Era l'ultima. Aveva già creduto di non poter averne più. Poi
sul suo orizzonte grigio di madre, di vedova, era apparsa quell'ultima
striscia rosea di crepuscolo, quell'ultimo bagliore di luce,
quell'ultimo saluto di sole.

S'era sentita ravvivare la fantasia, riscaldare il cuore. Ed ora
bisognava rinunciarvi, ritornare al grigio, ritornare alla solitudine
fredda, e alla sua età era per sempre!

Voleva pensare ad altro. A' suoi figli; ad Alfredo che aveva bisogno dei
bagni di mare: ed al suo villino sul lago di Como a cui si dovevano fare
delle riparazioni importanti e costose. Come tutrice de' suoi figli,
queste dovevano essere le sue cure. Ed intanto le tornavano insistenti
al pensiero due versi d'una romanza moderna che aveva cantata tutto
l'inverno senza badarci.

          La vita è solitudine
    Senz'amor, senza sogni e senza Dei.

Si vestì coll'abito da mattina tutto bianco, che la faceva svelta e
sottile. Poi andò al balcone irritata dalla penombra grigia che
l'avvolgeva, assetata di luce, assetata d'azzurro, e spalancò le gelosie
con un impeto nervoso, mormorando sempre

          La vita è solitudine
    Senz'amor, senza sogni e senza Dei.

Ma rimase là, colle braccia alzate, colla frase interrotta, paralizzata,
immobile, bianca sul fondo scuro del balcone aperto, come una statua in
una nicchia. Aveva ritrovata la poesia rimpianta, aveva ritrovato il suo
amore, il suo sogno, la sua fede.

Giù nella via, appoggiato al muro di contro al balcone, aveva veduto
Fausto, colla faccia alzata verso di lei, che l'aveva aspettata, che la
guardava fissa co' suoi grandi occhi innamorati.

Quella dichiarazione tanto aspettata, tanto invocata, che nessuna parola
aveva potuto esprimere, che nessuna dimostrazione era valsa ad
affermare, ora era detta, chiara, appassionata, irrevocabile. In quel
momento ogni dubbio scomparve. Tutta la storia del loro cuore si
rivelava in quello sguardo muto. Non si salutarono. Anche il saluto è
una convenzione e loro erano fuori di tutte le convenzioni, di tutte le
regole. Tra un grande artista e una gran dama, quell'amore dal balcone
alla maniera degli studenti, per non essere ridicolo doveva essere
solenne e grande come una vera passione.

Da parte di Fausto era un atto disperato.

Irritato con sè stesso di non poter dire quello che aveva nel cuore,
irritato colla Contessa che non voleva comprenderlo, irritato più che
mai con tutti i terzi e con tutte le soggezioni che si frapponevano tra
loro, in un momento di dispetto si era lasciato sfuggire quella parola:
«Parto domani.» Non era un proposito, non ci aveva pensato, non aveva
risoluto nulla. Ma omai l'aveva detto, e doveva partire per non
suscitare commenti pettegoli. E tuttavia non voleva partire con quella
spina nel cuore; non poteva tollerare quell'incertezza.

Un momento gli era venuta l'idea di scrivere alla Contessa; ma quando
era stato lì per scrivere l'indirizzo di quella signora, di cui non
conosceva neppur il nome, aveva esitato.

E se non l'avesse amato? Se fosse stata un'illusione la sua, e lei
dovesse ridere di lui e della sua lettera? Se realmente non avesse
creduto all'amore come diceva? E ad ogni modo, qualunque emozione le
avesse suscitata nell'animo quella confessione scritta, se s'era
proposta serbare il suo segreto, la lettera non avrebbe giovato a
strapparglielo. E due ore dopo, Fausto l'avrebbe riveduta col solito
sorriso sulle labbra, e se c'era stata una tempesta, non ne avrebbe
saputo nulla. Ed egli voleva saperlo, voleva sorprenderla quella
tempesta che rispondeva in un altro cuore alla tempesta del suo.

Quando mi vedrà, all'alba, fermo in istrada a contemplare la sua
finestra, come un innamorato da romanzo, come un pazzo, non potrà
pigliarlo per un complimento. Dovrà comprendere che l'amo, e confessare
che lo comprende.

E la Contessa non esitò a confessarlo. Rimase affascinata, col cuore
palpitante, cogli occhi fissi negli occhi di lui, bevendo a larghi sorsi
la felicità, in quel lungo silenzio d'amore. Rimase senza misurare il
tempo, senza contare le ore. Dopo la luce rosea dell'alba, venne un
soffione che le ardeva il capo, che la avvolgeva tutta in un'aureola
d'oro, che le infiammava il volto, che strappava raggi e scintille da'
suoi cappelli biondi. E Fausto dimenticava il tempo, la strada, la
gente, non vedeva che lei in quella gloria di luce e d'amore.

E quando dovettero ritirarsi, riportarono nel cuore la gioia intensa
dalla passione corrisposta. Non diffidavano più: erano certi l'uno
dell'altra. La società abusa di tutto, toglie il valore ad ogni cosa. Le
più calde proteste sono complimenti; una stretta di mano forte, lunga,
amorosa, è un saluto; le assiduità più insistenti, sono cortesie. Ma
quella corrispondenza muta di due sguardi, l'eloquente poesia di quel
silenzio, non era registrata fra gli atti regolari della vita, non si
poteva giustificare con un nome profano.

Era il linguaggio della passione.

Più tardi, quando s'incontrarono alla fonte, la Contessa non era più
timida e peritante; colla sicurezza della felicità, si lasciò dietro un
tratto la sua inevitabile tutela, e, per la prima volta, lei e Fausto,
si trovarono liberi di parlarsi senza testimoni. Ma si erano detto tutto
in quel lungo silenzio d'amore, si sentivano d'accordo. Si strinsero la
mano; poi Fausto le offerse il braccio, e si avviarono lentamente
inebbriati e felici, appoggiati l'una all'altro, come dovevano esserlo
per tutta la vita.



UNA VOCAZIONE.


--Cosa volete? È una necessità... disse il signor Cantinelli avviandosi
verso l'uscio, con un sorriso un po' forzato, sul viso giallastro. Il
Signore m'ha tolta troppo presto la vostra povera mamma... Cosa fare?
Cosa fare?

Le due ragazze erano sedute una in faccia all'altra, nel vano della
finestra, ai due lati d'un gran telaio sul quale era stesa una stoffa di
seta bianca, destinata a diventare, quando il ricamo fosse finito, uno
stendardo da portare in processione per la festa della Madonna del
rosario.

Non alzarono gli occhi dal lavoro, e non risposero.

Il signor Cantinelli stette un momento esitante tra il parlare ancora e
l'andarsene. Aveva detto quanto doveva dire; la nuova ufficiale del suo
secondo matrimonio. Ma quel silenzio, quella freddezza delle sue
figliole, lo lasciavano scontento. Era buono; avrebbe voluto vedere
tutti soddisfatti. E d'altra parte, non poteva nè voleva rinunciare alle
seconde nozze. Cercò di strappare una parola d'approvazione alle ragazze
dicendo:

--Il Signore ha stabilito così, e sia fatta la sua volontà, nevvero
figliuole?

--Tu sai quel che fai babbo... rispose la Bianca in fretta, senza
guardarlo.

La Paola non rispose affatto.

Allora il signor Cantinelli insinuò la sua persona piccola, ossuta e
magra, traverso l'uscio socchiuso, e, sempre con quel risolino compunto
sul largo viso incorniciato dai capelli e dalle basette biondiccie,
richiuse l'uscio pian piano, e senza rumore.

Quando fu scomparso, le ragazze affrettarono i punti al ricamo,
vergognose di quell'idea che stava fra loro, sentendosi offese nel loro
pudore delicato di giovinette, e non osando parlarne.

--Dammi il filo d'oro, disse dopo un tratto la Bianca, questo contorno
deve riuscire bellissimo.

E guardava attentamente il ricamo, come se da un pezzo non avesse
pensato ad altro, ed il discorso di suo padre non l'avesse menomamente
distratta da quel pensiero.

--Il filo d'oro è nell'armadio, della nostra camera, rispose la Paola.

Poi, tirando l'ago in fretta e senza guardare sua sorella soggiunse:

--La nostra povera camera che dobbiamo abbandonare.

Le tremava la voce ed era tutta convulsa.

La Bianca arrossì vivamente, ma non rispose, e non si mosse per andare a
prendere il filo d'oro. L'aveva domandato per dir qualche cosa, ma non
le occorreva.

Intanto la Paola diventava più agitata. Le tremava la mano, ed il
respiro le si faceva corto ed affannoso. Sentiva il bisogno di sfogare
l'amarezza che le si accumulava in cuore di minuto in minuto.

Quella nuova inaspettata, impreveduta affatto, l'aveva ferita aspramente
nel suo amor proprio di donna di casa, e più che tutto, nel suo pudore
verginale.

--È crudele, disse fremendo, essere scacciate dalla nostra camera. E
perchè? Da tre anni che dirigo io la casa, ho sempre bastato a tutto, e
non _ha_ mai dovuto farmi rimproveri, mi pare.

Parlava di suo padre, ma in quel momento non voleva nominarlo.

--Dobbiamo rassegnarci, rispose la Bianca in tono conciliante, e sempre
cogli occhi bassi. Dacchè non c'è un'altra camera abbastanza vasta...

--Ma che bisogno c'era della camera vasta... e del resto? esclamò con
impeto la Paola, rizzandosi tutta nervosa, ed andando a parlare ai vetri
della finestra. Non si stava bene tra noi? Che bisogno c'era?...

--Forse al babbo riesciva d'imbarazzo l'accompagnarci, il vegliare su
noi... Bisogna aver pazienza... suggerì la Bianca, che, sebbene più
giovine di sua sorella, era più positiva, e meno facile ad eccitarsi.

--Ma che! Ma che! Io ho ventidue anni, mi so custodire da me, e tu pure;
ed usciamo così poco che non può dargli fastidio l'accompagnarci; in
casa non vien mai nessuno ...

--Sentiva troppo la perdita della povera mamma, ritornò a dire la
Bianca. Aveva bisogno d'una compagna anche lui...

--Stai zitta! Stai zitta! gridò la Paola febbrilmente, turandosi le
orecchie. Certe cose mi fanno vergogna. La sua compagna l'ha avuta. Dio
gliel'ha tolta; è una disgrazia; ma non ha diritto lui di trovarsene
un'altra. L'amore il matrimonio, devono legare per sempre, per questa
vita e per l'altra.

--Sai; ciascuno ha il suo modo di sentire... Ora il babbo ha un'altra
affezione...

--Oh! alla sua età! Un padre di famiglia... pensa!

E la Paola si pose a ravviare con una fretta convulsa le sete sparse sul
telaio; poi se lo caricò sulle spalle per andarlo a riporre borbottando:

--Ah! povera mamma! povera mamma! Chi muor muore, e chi vive si fa core!

La Bianca le andò dietro nella famosa camera che dovevano abbandonare, e
quando il telaio fu appeso al chiodo in fondo ad un grande armadio,
abbracciò, per di dietro, le spalle della sua sorella maggiore, e
posandole la guancia sulle treccie per non incontrare il suo sguardo
durante quel discorso imbarazzante, le susurrò:

--Cerchiamo di prendere la cosa in buona parte, Paola. È il nostro
babbo, ed è buono; non tocca a noi di giudicarlo.

--Io non posso a meno di soffrire; farò male, me ne confesserò; non so
che farci; c'è qualche cosa dentro di me che s'offende, mi vergogno;...
Non so... Al solo pensarci mi vengono le fiamme al viso.

E con un gesto di ripugnanza esclamò:

--Oh! alla loro età!

--Ma via! Sei un'esagerata! Una sensitiva! Lei ha dieci o dodici anni
più di te; non è vecchia. Non sarà una matrigna. Saremo tre sorelle
invece di due...

--Che! tre sorelle! ribattè la Paola crollando le spalle. Prima di
tutto, non è già più giovane se ha dodici anni più di me. E poi...
poi... Tu non pensi alle conseguenze...

E non osò dir altro. Arrossirono tutte e due senza guardarsi, come
avrebbero fatto dinanzi ad un'immagine troppo nuda.

                              *
                             * *

Il signor Cantinelli era molto devoto; frequentava la chiesa ed i
sacramenti, mangiava di magro il venerdì ed il sabato, non lavorava mai
la domenica nè le altre feste comandate, a costo di morir di noia, ed
era in buona fede.

Aveva ereditato da suo padre un patrimonio meschino, ed un'intelligenza,
ancor più meschina del patrimonio.

Aveva tentato di studiare per ottenere un grado accademico, ma non era
riuscito. S'era voluto avviarlo al commercio; ma aveva manifestato, alle
prime prove, un'assoluta incapacità.

S'era dunque accontentato d'un impiego modesto in una banca, dove la sua
grande onestà gli faceva perdonare di non avere altri meriti.

Da buon cristiano però egli s'appagava del suo stato; era umile, non
aveva ambizioni. Era stato buon marito, ed era buon padre, affettuoso,
carezzevole, perfino sdolcinato; incapace del menomo atto violento, e
neppure d'alzare la voce.

Badava a fare il suo dovere, come l'intendeva lui, _da galantuomo e da
buon cristiano_, ed era sempre contento.

Non desiderava la roba d'altri, e, finchè aveva avuto la moglie, e
finchè gli era durato il dolore d'averla perduta, non aveva mai
desiderata neppure la donna d'altri.

Appena rimasto vedovo aveva ritirate le sue figliole dal convento, aveva
ceduto a loro la camera nuziale coi due lettini gemelli, ed era andato a
dormire nella cameretta, dove stavano le fanciulle quand'erano piccine.

La Paola aveva assunto il governo della casa che disimpegnava benissimo,
mettendo in ogni cosa la raffinatezza, l'eleganza, l'idealismo che erano
nella sua natura.

E, tra il lavoro, le preghiere, le pratiche religiose e le carezze che
prodigava alle figliole, quel buon uomo, tutto tenerume, credeva di
poter durare tutta la vita.

Ma aveva poco più di cinquant'anni; era vegeto, tranquillo; ed un bel
giorno s'avvide che il desiderio peccaminoso della donna d'altri, o
almeno della donna non sua, cominciava a spuntargli nel cuore.

Se fosse stato prete o frate, nella sua grande onestà avrebbe ricorso ai
cilici, alle macerazioni, magari alla disciplina, e, di certo non
avrebbe trasgredito il suo dovere.

Ma, dacchè non aveva fatto dei voti, e gli era possibile di conciliare i
suoi desideri col suo dovere, di farsi anzi un dovere di quanto ora lo
turbava come una tentazione, non gli parve vero di mettersi d'accordo
colla santa madre chiesa e con sè stesso, aggiungendo un nuovo piacere
alla sua vita da cuor contento.

Sicuro della santità delle sue idee, si mise ad adocchiare le donne che
incontrava, specialmente all'uscire dalla chiesa, per esser certo
d'imbattersi in una sposa timorata di Dio; e non tardò ad accorgersi che
una donnetta, belloccia, piccolina e grassa, faceva accelerare le
pulsazioni del suo cuore, ogni volta che lo sfiorava col vestito
passando, o che fermava a caso gli occhi chiari da bionda, nei suoi.

Le tenne dietro; seppe chi era, e dove abitava, e che era vedova, senza
prole. Le espose nei termini più onesti la sua domanda, che venne
accettata; e, colla coscienza tranquilla ed il cuore giubilante, andò ad
annunciare alle sue figliole la nuova de' suoi serotini amori.

Aveva cominciato la confidenza abbracciandole, accarezzandole,
vezzeggiandole, com'era sua abitudine. Ma il rossore, la confusione di
loro a quella rivelazione, lo avevano imbarazzato; e se ne era andato
via un po' impensierito, non potendo capire come mai un fatto legittimo
e santo, come il settimo sacramento, potesse offendere chicchessia.

Non erano coniugi sant'Anna e san Gioachino, san Giuseppe e la
Madonna...?

                              *
                             * *

Anche la prima moglie del signor Cantinelli era stata allevata
religiosamente, e, vivendo con quel divoto convinto, era diventata
divota, ed aveva inculcati gli stessi sentimenti alle sue figliole.

Queste non avevano un vero fervore religioso. Avevano accolti sentimenti
e credenze, senza discuterli, e come cose indiscutibili. Non provavano
gran dolcezza nelle preghiere, nè estasi nella meditazione; non si
commovevano alla confessione nè alla comunione; ma avrebbero creduto di
commettere un'enormità trascurando quei sacramenti, o perdendo la messa
una domenica.

La Bianca, di carattere sereno e calmo come suo padre, di mente
ristretta, punto fantastica, metteva d'accordo le pratiche religiose e
la vita di famiglia, pensava che un giorno o l'altro la domanderebbero
in moglie, si mariterebbe, avrebbe dei figlioli da allevare; ed
aspettava tranquillamente quell'avvenire che le sorrideva.

La Paola, invece, aveva un ideale poetico, mezzo uomo e mezzo angelo;
pensava all'amore come ad una musica serafica, ad un vincolo misterioso,
solenne ed eterno; il matrimonio se lo figurava «il traversare la vita
tenendosi per mano». Era per lei il colmo della poesia, un quadro di
bellezza, di gioventù, di luce e d'azzurro.

Nessuno le mostrava mai la parte vera e positiva dell'esistenza nel
matrimonio. Sua sorella, meno idealista, la vedeva da sè. Ma lei avrebbe
avuto bisogno di un correttivo alla mente troppo immaginosa ed alla sua
sensibilità eccessiva.

E questo correttivo non lo trovava di certo nell'ambiente in cui viveva.
Il riserbo della vita monastica, nel convento, aveva anzi aumentata la
sua suscettibilità. La menoma parola meno che pura, o che lei credesse
tale, la faceva arrossire. Se stava cucendo una camicia, quando entrava
qualcuno, la nascondeva in fretta come una cosa indecente, e per quanto
poteva, evitava persino di nominarla.

In casa loro non c'erano quadri nè statue profane. Nell'entrata c'era
una nicchia con una statua della Madonna dinanzi alla quale ardeva
sempre un lumicino. Nella camera delle ragazze c'era un'altra madonnina
di gesso. Un bambino Gesù di cera, che riposava da anni ed anni sotto
una campana di vetro nel salotto, era stato pudicamente vestito di una
tunichina di seta bianca, che il tempo aveva ingiallita; e le ragazze
l'avevano veduto sempre così.

Non erano mai state in una pinacoteca, nè ad una esposizione artistica;
e, persino in istrada, il signor Cantinelli studiava dei giri viziosi
per non farle passare dinanzi ai monumenti, dove avrebbero potuto vedere
qualche figura di donna col petto scoperto o qualche puttino nudo.

Avevano letti i romanzi della contessa di Segur, della signora Fleuriot,
del padre Bresciani, ed altri dello stesso genere. Ma questi appunto
avevano fomentate le aspirazioni idealiste della Paola, che, nelle
coppie di sposi, voleva vedere soltanto dei Malek Hadel e delle Matilde.

In tanta purezza d'azzurro, quel matrimonio d'un uomo vecchio con una
donna matura, quel discorso del cambiamento di camera per cedere a loro
la camera comune coi due letti gemelli, suscitò tutte le ripugnanze
della poetica Paola.

L'amore vecchio, che s'adagiava senza riserbo dov'era passato un altro
amore giovine e pieno delle ingenuità e dei rossori dei primi
sentimenti, offendeva la sua delicatezza di fanciulla, la metteva
nell'imbarazzo, come se avesse commessa lei un'azione sconveniente.

Il signor Cantinelli presentò le sue figlie alla sposa in una visita di
cerimonia, nella quale si contenne con un grande riserbo; e poi affrettò
le nozze per uscire da quella situazione difficile.

Fece colla sposa un brevissimo viaggio di nozze, perchè i suoi mezzi e
l'impiego non gli permettevano di prolungarlo e perchè, come padre
affettuoso e compreso del suo dovere, non voleva lasciar lungamente due
giovinette sole.

E dopo otto giorni tornò a custodirle, offrendo agli occhi modesti delle
due fanciulle, pei quali s'era messa una camicia al bambino Gesù, lo
spettacolo della sua luna di miele; certi baci e certe occhiate da fare
arrossire la Vergine di gesso nella sua nicchia.

Faceva il suo dovere di sposo cristiano amando la sposa che Dio gli
aveva concessa; e, del resto, era carezzevole per natura, baciucchiava
la moglie come baciucchiava le figlie; di atti scandalosi non sarebbe
stato capace di commetterne; e la sua coscienza non gli rimproverava
nulla.

Infatti la Bianca non ci vedeva alcun male.

Quando sua sorella usciva dal salotto tutta rossa ed indignata,
spingendosi indietro l'uscio, per isfuggire la vista di quelle carezze,
lei la seguiva e le diceva:

--Ma perchè ti agiti a questo modo, Paola? Non vuoi che il babbo voglia
bene alla sua sposa? È la religione stessa che comanda agli sposi
d'amarsi.

La Paola non rispondeva, come non aveva parlato neppur prima. Non si
rendeva ragione della ripugnanza che provava. Non faceva un torto a suo
padre della sua tenerezza. Ma sentiva che ognuna di quelle carezze
distruggeva una sua illusione; le faceva vedere vecchio, brutto,
materiale, l'amore che lei aveva collocato in alto, sulle nuvole, puro e
bello come una visione di cielo; profanava il suo idolo.

La Bianca la capiva in parte, ma non poteva ragionarla molto. Era un
argomento troppo scabroso per loro. Tutt'al più le diceva:

--Tu hai troppa poesia in testa. Ti figuri che tutti abbiamo le tue
delicatezze. Invece il mondo è differente; e bisogna pigliarlo com'è. Se
vorrai maritarti, mia cara, ti ci dovrai avvezzare.

--No, è impossibile, diceva la Paola, se il matrimonio è così non ne
voglio sapere.

--Ma come vuoi che sia? insisteva la Bianca, vincendo un poco l'usato
riserbo del loro parlare, per dare un poco d'ilarità alla sorella troppo
ideale. Vuoi che due sposi stiano a guardarsi da lontano come due papi
di gesso? Se si fanno qualche carezza, non ci vedo nulla di male.

La Paola crollava le spalle e stava zitta. Infatti non avrebbe potuto
dire che ci vedesse del male neppur lei.

Ma non trovava più bello il matrimonio, dacchè lo vedeva così, e si
sentiva profondamente delusa, e soffriva della sua delusione, e non
sapeva più cosa desiderare nè cosa sperare, dacchè il suo sogno era
svanito.

A forza di isolarla in un ambiente di purezza ideale, di parlarle col
frasario convenzionale inventato per le ingenue, di accarezzare il suo
pudore esagerato e ritroso da sensitiva, l'avevano lasciato esaltare
fino alla mania.

Co' suoi ventidue anni e la sua intelligenza, non poteva serbare
l'indifferenza e la fede d'un'ingenua; capiva che fin allora s'era
ingannata; si sentiva fuori dalla normalità; ma non poteva vincere le
sue impressioni, la sua delicatezza nervosa, e soffriva, piangeva, si
eccitava.

                              *
                             * *

Dopo alcuni mesi la sposa cominciò ad abbandonarsi sulle poltrone in
abito discinto, e lo sposo, più tenero verso di lei, parlava tutto
ringalluzzito, di «quello che verrà,» della culla, dell'allattamento.

Erano discorsi nuovi in quella casa, dove era molto se, arrossendo e
chinando gli occhi, si diceva che «una tale signora aveva comperato un
figliolo».

La Paola aveva finito per isolarsi quanto era possibile, nella sua
cameretta.

Lavorava e pregava in silenzio, teneva sempre gli occhi bassi, ed a poco
a poco, la sua ritrosia sempre allarmata, le aveva dato un aspetto
rigido.

Un giorno il signor Cantinelli la prese a parte e le disse:

--Sai, figliola mia, che t'avvicini ai ventitre anni? Non è per dire che
invecchi, gioia mia, ma perchè è tempo di darti marito. Sono certo che
lo desideri.

--No, no, no! esclamò arrossendo la Paola.

--Via! tutte le ragazze dicono così. Ma quando lo trovano sono
contentone. E tu l'hai trovato.

--Non m'importa: Non lo voglio...

--Ma, no, bimba mia. Non far la ritrosa. Credi che io non abbia capito
che tu ci pativi a veder me e la Rosa che ci vogliamo bene? Ho visto che
avevi spesso gli occhi rossi, specialmente dacchè abbiamo delle
speranze... Si sa, una ragazza alla tua età, desidera d'andare a posto
anche lei, e la vista della felicità degli altri aumenta la sua
impazienza...

--Babbo. Ti giuro che non desidero di maritarmi. Voglio farmi monaca...
esclamò la Paola tutta nervosa.

--Non hai mai manifestata questa vocazione, Paola cara. È mio dovere di
esortarti a pensarci seriamente. Darsi al Signore è una buona, una santa
cosa; ma bisogna averne la vocazione; ed io credo d'aver osservato che
tu hai delle altre aspirazioni...

--Nessun'aspirazione. Hai osservato male, interruppe aspramente la
Paola. Voglio farmi monaca. È un pezzo che ci penso...

--Ma senti, almeno, quanto volevo dirti. È il nostro fabbriciere della
parrocchia che m'ha parlato d'un buon partito per te...

--Oh Dio! No no! Com'è possibile sposare uno che non si conosce? No.
Voglio farmi monaca. Digli di no. Nè lui, nè nessuno. Odio questi
matrimoni...

--Ebbene, insistè il padre, aspetta ancora. Ne troverai uno ti tuo
gusto. Ma intanto questo dovresti vederlo. È un'ottima persona, timorata
di Dio, ed un bell'uomo. Un po' maturo, ma ancora vegeto...

Queste ultime parole misero addirittura in convulsione la povera
sensitiva, che si nascose il volto gridando di no, che non voleva
saperne, che aveva una assoluta ripugnanza pel matrimonio, che si
sentiva una gran vocazione per la vita monastica, che voleva cominciare
il noviziato, subito, subito...

In un'altra famiglia quella vocazione senza fervore religioso,
improvvisa e tenace, avrebbe inspirato delle diffidenze, e spinto il
padre ad indagarne il movente.

Ma in casa Cantinelli, si diceva con convinzione che «darsi al Signore è
una santa cosa quando si ha la vocazione»; e, dacchè la fanciulla
affermava d'averla, il padre devoto avrebbe creduto d'andar contro il
volere di Dio, ostinandosi a contrariarla.

Una volta presa quella risoluzione, la Paola affrettò le cose, e riesci
ad entrare in convento prima che la sua matrigna partorisse.

L'idea di trovarsi in casa in quel momento le dava i brividi.

La Bianca non poteva consolarsi della lontananza di sua sorella. Tanto
più che la Paola, a misura che s'era abbandonata a' suoi scrupoli, s'era
andata separando moralmente da lei, come se le facesse un torto
d'accettare quello stato di cose che le pareva scandaloso.

Nel suo isolamento la povera Bianca sentiva il bisogno di qualcuno da
amare e da proteggere, come aveva fatto colla sua sorella maggiore.

A poco a poco si venne affezionando alla matrigna, che era buona e che
aveva bisogno d'assistenza. E quando, due mesi dopo, la sposa la fece
chiamare nella sua camera una mattina, e le presentò un visino violaceo
di bimbo, tutto contornato di fasce e di trine, con due piccoli pugni
stretti che si agitavano inconscientemente fuori dalle fascie, si sentì
tutta intenerita, e pianse di commozione baciando quel nuovo fratello.

Il giorno stesso scrisse alla Paola:

«Rinuncia all'idea di abbandonarci per sempre. Torna fra noi. Dio ci ha
mandato un fratellino, piccino e bello come il bambino Gesù. Me lo
lasciano tenere a battesimo da me. Ma se tu vieni ti cederò questa
gioia, e lo chiameremo Paolo, e sarà il tuo fratellino. Quando il
Signore ne manderà un altro quello sarà il mio...»

La rigida novizia strappò la lettera, e rispose che era più ferma che
mai nel suo proposito di farsi monaca.

Infatti, otto mesi dopo pronunciò i voti.


Col volto pallido, gli occhi sempre bassi, l'aspetto rigido, suora Paola
Immacolata è ora la monaca più fredda e severa del convento.

Le educande tremano dinanzi a lei, che aspra, nervosa, eccitabile,
aggrava tutte le mancanze e le punisce con un rigore eccessivo ed
inesorabile.

Quando il signor Cantinelli va a farle una visita traverso la grata del
parlatorio, e la trova gelida, indifferente, completamente staccata da
lui, dalla Bianca, e che non parla mai dei nuovi fratellini che non vide
neppure, torna a casa dicendo:

--Era una vera vocazione. Il suo cuore era tutto per Dio e per la
religione. Non ha altri amori. Era una vera vocazione.

La Bianca è la sola che, nella sua semplice bontà, vede qualche cosa di
anormale che non capisce, ma sente, nell'anima di sua sorella; e dice
crollando il capo:

--Chissà! Forse se fosse stata allevata diversamente...



RACCONTO ALLA VECCHIA MANIERA.


La Carmela aveva conosciuto il suo fidanzato alla Sagra di Galliate.
C'era andata con una sorella del parroco, e s'era trovata tutta confusa
quando arrivando, aveva veduto nel cortile, una folla nera di preti. Non
aveva ancora sedici anni, ed era naturale che fosse molto timida. Aveva
detto alla sua compagna:

--Ma non ti pare che si dovrà stare in una gran suggezione, noi due sole
fra tanti preti?

La compagna, che era maggiore di lei di parecchi anni, le aveva
risposto:

--Se avessi creduto di non veder altri che preti non sarei partita da
Novara, e non t'avrei invitata, poverina.

Poi aveva soggiunto con un luccicchio giulivo negli occhi:

--Verrà Giusto, e verrà mio fratello Gaudenzio.

Giusto era il suo fidanzato, un giovine medico, che aspettava d'essere
nominato medico condotto di Oleggio per isposarla. Ed il fratello
Gaudenzio era uno studente che faceva il quarto anno di legge
all'università di Torino, e che l'Amalia vagheggiava di vedere
innamorato e fidanzato della sua amica.

Infatti poco dopo arrivarono Giusto e Gaudenzio, con una frotta d'amici,
tutti studenti che erano a Novara in vacanza, fra i quali Mario
Pedrazzi, che aveva ventidue anni, e stava per prendere la laurea da
ingegnere.

Era bello, biondo, coi capelli ondulati e rigonfi, cogli occhi d'un
grigio chiaro, grandi, un po' infossati, pieni di languidezza e di
mistero.

Quegli occhi meravigliosi s'erano subito fissati negli occhioni neri
della Carmela, come per magnetizzarla. E l'avevano magnetizzata.

Prima del pranzo c'era stata la presentazione; a pranzo, seduti accanto,
avevano fatto conoscenza; dopo pranzo, passeggiando in giardino dietro
gli altri due già fidanzati, Mario aveva detto delle cose molto
sentimentali, e la Carmela s'era sentito rimescolare il sangue e
sussultare il cuore; ai vespri avevano sempre tenuti gli occhi fissi
l'uno nell'altro, lasciando che quelle occhiate lunghe e languide
dicessero tutto quanto volevano dire; e la sera, andando alla stazione
per ripartire, lungo la strada buia, Mario, che dava il braccio alla
Carmela, le aveva presa la mano che si appoggiava sulla manica della sua
giacchetta, e le aveva sussurrato:

--Cara... cara...

La Carmela non aveva risposto, e lui non aveva aggiunto altro. Ma
avevano continuato a camminare colle mani unite, col braccio di lei
stretto fortemente fra il petto ed il braccio di lui, ed avevano
scambiato ogni sorta di confessioni, di proteste, di promesse in quel
lungo silenzio d'amore.

Poi, a Novara, quando lei gli aveva stesa la mano alla stazione, prima
d'andarsene col suo babbo che stava ad aspettarla, Mario aveva
sussurrato:

--Per sempre...?

E lei aveva chinato il capo con un sì molto sommesso, ma molto chiaro e
risoluto.

Ma da quel momento non c'erano più stati ravvicinamenti simili fra loro.

L'Amalia, risentita che la sua amica avesse scelto per l'appunto un
altro invece di suo fratello, s'era messa a trattarla con freddezza, a
stare a distanza, e poco dopo s'era sposata, ed era partita col marito
per Oleggio.

Intanto Mario era partito di nuovo per Torino a compiere gli studi.

Ma appena tornato a Novara colla laurea, s'era messo a passare parecchie
volte al giorno sotto le finestre della Carmela, a seguirla in istrada,
da lontano, perchè, naturalmente, lei non usciva sola, a fissarla col
canocchiale tutta la sera, quando gli accadeva di vederla in teatro.

Parecchie volte s'erano incontrati a qualche festa da ballo di famiglia,
ed allora lui aveva ballato quasi esclusivamente con lei, e le aveva
detto delle cose molto significative, per lei che, grazie al precedente
di Galliate, era in grado di interpretarle: «Che lui aveva sempre avuto
una gran preferenza per le donne brune. Che i dintorni di Novara non
erano poi tanto privi di bellezze pittoresche come si diceva. Lui
trovava che Galliate era un luogo pieno di poesia. Lui vagheggiava un
ideale modesto: avviarsi bene nella sua carriera, associare alla sua
esistenza una dolce compagna, bruna, e passare la vita tra lo studio e
lei, in una bella Casina elegante e piccola...»

Erano i suoi disegni d'avvenire che le comunicava a quel modo; e la
Carmela ne era felice.

Due volte il suo babbo le aveva fatte delle proposte di matrimonio. Ma
lei, fedele al fidanzato del suo cuore, aveva rifiutato con un pretesto,
per non tradire il suo segreto.

Intanto erano passati tre anni. La Carmela ne aveva dicianove. Mario
aveva messo uno studio, e faceva buoni affari. Era tempo di chiudere
quel romanzo di amore, che tutta la città conosceva, ed al quale ogni
mala lingua faceva un'aggiunta, e molti commenti.

La Carmela in quei tre anni s'era cucito tutto il corredo, s'era
preparati molti ricami in colore, per le poltrone del suo futuro
salotto, aveva imparato a fare delle conserve, a riporre le frutta per
l'inverno, a preparare dei liquori casalinghi, per essere una massaia
modello.

Ed aspettava fiduciosa e serena d'essere chiamata a mettere in pratica
quelle cognizioni preziose, quando ad un tratto, in una casa terza, in
un giorno di visita, in mezzo ad un circolo di signore, si sentì gettare
brutalmente in faccia la nuova tremenda, che distruggeva tutto il suo
avvenire:

«L'ingegnere Pedrazzi è sposo.»

Non svenne, come succede nei romanzi, e non abbreviò neppure la sua
visita per non farsi scorgere. E stette a sentire le doti e la dote
della sposa; una bella dote, perchè Pedrazzi aveva sempre aspirato a
fare un ricco matrimonio; era un giovine serio, badava al sodo, era
certo che farebbe una bella carriera...

Appena tornata a casa, la Carmela si rinchiuse nella sua camera, e
pianse finchè ebbe lacrime negli occhi.

Dovette fare uno sforzo per andare a tavola; ma aveva il viso stravolto,
e non mangiò nulla. Se ci fosse stata una mamma, una parente in casa, si
sarebbe avveduta che c'era un guaio. Ma la Carmela viveva sola col suo
babbo, vedovo, il quale badava più agli affari che a lei. E potè
abbandonarsi alla sua desolazione senza essere interrogata.

Passò la notte intera a ripensarci.

Certo non avrebbe più osato ricomparire in città dopo una simile
mortificazione. Avrebbe preferito morire. Ma non si muore quando si
vuole.

La Carmela aveva una sorella molto maggiore di lei, maritata già da
cinque anni con un ricco possidente di un villaggio presso Santhià.

S'era sposata quando la sorella più giovine era in collegio, e si
vedevano una volta all'anno a San Gaudenzio, quando la signora De
Lorenzi andava a Novara a passare quel giorno solenne nella casa
paterna.

Era naturale che la Carmela pensasse d'andare in quella circostanza da
sua sorella.

Ne parlò a suo padre, il quale consentì facilmente, e telegrafò per
annunciare la sua partenza. Ma ricevette un telegramma che le diceva di
non moversi, ed in seguito una lettera, che spiegava il telegramma.

Nel paese infieriva la difterite, e la signora De Lorenzi assisteva i
suoi coloni ammalati, prima per sentimento di carità, poi per conservare
la popolarità del marito, che era sindaco, e non disperava di diventare
deputato alle prime elezioni.

Ma questo non iscoraggiò la Carmela. La morte, nello stato d'animo in
cui si trovava, non le faceva paura. E ad ogni modo non voleva rimanere
a Novara a nessun costo.

Disse a suo padre: che lei non aveva più pace al pensiero che sua
sorella era sola, esposta al pericolo d'un contagio, che voleva andare
ad aiutarla, a dividere la sua sorte, ad assisterla, in caso che si
ammalasse, a morire con lei...

E si mostrò, o parve, nel suo eccitamento, animata da tanto affetto
fraterno e da tanto sentimento di carità, che suo padre le concesse di
partire.

Soltanto, lui non poteva accompagnarla. Era professore in un liceo
privato, ed, in coscienza, non poteva correre il rischio di portare il
contagio ai suoi allievi.

Fors'anche non gli garbava di pigliarlo neppure per sè. Però conosceva
un possidente di Tronzano, presso Santhià, che, di solito, era sempre a
Novara, nei giorni di mercato, e disse:

--Vedrò. Se Beltrami è qui, domattina lo pregherò d'accompagnarti.

Beltrami c'era. Accettò cordialmente l'incarico, prese la valigia della
Carmela e fece entrare la signorina in un vagone di prima classe, dove
rimasero soli.

Era un vecchio signore grasso coi capelli grigi.

La Carmela si rincantucciò in un angolo del vagone, e, col viso contro
il vetro del finestrino, stette a guardare i prati verdi ed umidi, le
risaie gialle allagate da un'acqua sudicia, tutta quella campagna
monotona, il cui piano liscio, sterminato, era appena interrotto da
qualche filare di gelsi, da pochi ciriegi selvatici sui quali
s'arrampicavano le viti, dalle case coloniche isolate, rozze, povere.

E pensava:

--Ecco; la mia vita omai scorrerà triste, monotona come questa pianura.
Arriverò a cinquant'anni, come sono oggi; più vecchia, più brutta, ma
senza gioie, dacchè non ho più amore nè speranza... Preferirei pigliare
la difterite e morire... sarebbe finita!

Sbirciò un'occhiata al vecchio signore, e vedendo che aveva spiegata la
_Perseveranza_, e leggeva attentamente il bollettino della borsa, ne
profittò per piangere liberamente.

Ma il suo compagno non era tanto assorto nel bollettino della borsa da
non udire i piccoli singhiozzi che le sfuggivano.

Si volse stupito, stette un tratto a considerarla, poi lasciando la
_Perseveranza_ abbandonata sul sedile, le si fece accosto e le disse:

--Come! Piange? Un'eroina?

La Carmela stava in un momento d'eccitazione. Aveva bisogno di sfogo, ed
in un impeto di sincerità esclamò:

--No, non dica... Io non sono un'eroina!

--Ma se va a sfidare la morte per curare i contadini difterici...

Il signor Beltrami diceva questo con un'ombra d'ironia. Non amava gli
atteggiamenti drammatici, e le ostentazioni d'eroismo inutile.

La Carmela intuì quella disapprovazione per quanto celata, e ne fu
punta. Quel vecchio signore aveva un'aria buona ed intelligente nel
volto florido, negli occhi scintillanti come quelli d'un giovinotto. Le
inspirava fiducia, ed avrebbe voluto che la stimasse; e senza
rifletterci molto, tornò a dire:

--Ma io non vado a sfidare la morte. Vado a cercarla, o vado a
nascondermi perchè ho un gran dispiacere, e non ho il coraggio di
sopportarlo. Ecco che eroina sono!

E ricacciando il volto nella pezzuola, che era già tutta bagnata,
riprese a piangere, senza ritegno, un po' sollevata da quella
confidenza.

Il vecchio signore lasciò che si sfogasse un poco, ed intanto la guardò
fisso con occhio di profonda pietà; poi le disse:

--Via, ora smetta di piangere. Le fa male, e si fa gli occhi gonfi che è
un peccato. Mi confidi il suo gran dispiacere. Faccia conto ch'io sia il
suo babbo... Ma non tanto severo come lui; un babbo indulgente, pieno di
compatimento pei dispiaceri della gioventù, e disposto a ricevere le sue
confidenze con cuore da amico... Dica, via. Vuole che siamo amici? Vuol
dirmi perchè è afflitta, perchè piange?

Era appunto quanto aveva bisogno quel povero cuore crucciato ed oppresso
dal suo cruccio segreto. Un amico a cui confidarlo. Rispose senza
scoprirsi il volto, perchè si vergognava:

--Piango perchè il mio amante mi ha abbandonata.

Il vecchio signore fece un balzo sul sedile, ed esclamò meravigliato:

--Il suo amante? Lei aveva un amante? Ma quanti anni ha?

--Ne ho diciannove. Erano già tre anni che ci si voleva bene...

--Ma il suo babbo, che è tanto severo, le permetteva questa relazione?

--Non la sapeva.

--Non avrà saputo in che rapporti erano; ma infine, che lei conosceva
quel giovinotto, che veniva in casa sua, doveva pure saperlo...

--Ma no. Non veniva in casa mia...

Il vecchio signore stette un tratto confuso, poi riprese un po'
esitante, e colla voce un po' meno dolce:

--Allora era lei... Dove lo vedeva, insomma?

--Lo vedevo dal balcone.

--Ah! esclamò il signor Beltrami; ed i suoi occhi brillarono più che
mai, ed il suo volto tornò sereno. Riprese l'interrogatorio
coll'indulgenza di prima.

--E, si scrivevano?

--No...

--Ma come avevano fatto per sapere di volersi bene? Avevano pure dovuto
dirselo, o scriverlo...

La Carmela era tutta mortificata. Infatti non se l'erano detto nè
scritto. Volle narrare la storia di Galliate, ma quel vecchio signore,
alla sua età, aveva perduto di vista gli amori giovanili, e rispose
quasi ridendo:

--Se non c'è altro, figliola mia, non è un amante che ha perduto, è un
sogno che s'è dileguato.

Le prese tutte e due le mani in una delle sue che era grossa e forte, le
pose l'altra sulla fronte, e rispingendole il capo indietro per
guardarla negli occhi, le disse:

--Lei non sa cosa sia l'amore.

In quella lo sportello fu aperto con impeto, ed i guarda freni passarono
gridando:

--Vercelli! Vercelli! Chi scende? Dodici minuti di fermata...
Vercelli!...

Il vecchio signore scese, ed andò al caffè a bere una tazza di birra.

La Carmela un po' stupita dal discorso che avevano fatto, dal vuoto che
aveva dovuto riconoscere nel suo passato, tenne dietro collo sguardo a
quell'uomo attempato, che le aveva inspirata tanta fiducia.

Non era punto grasso, come le era parso alla prima. Era robusto. Teneva
il cappello in mano facendosi aria, ed i suoi capelli grigi, ritti sul
capo, foltissimi, facevano una bella cornice al volto fresco. Aveva le
sopraciglia ed i baffi castani, appena brizzolati di qualche filo
d'argento. E camminava leggero, svelto. Da lontano le accennò se volesse
bere, ed i suoi occhi neri brillarono come due fiamme.

La Carmela nel suo profondo abbandono, provò un'ombra di gioia al vedere
che quel vecchio amico, non le aveva perduta la considerazione, e
sembrava volerle bene anche dopo la sua confidenza. Ed era stupefatta
d'avergliela fatta quella confidenza, così, subito, conoscendolo appena.
Ma le pareva di conoscerlo da un pezzo. Era così ardito, insinuante, ed
aveva una voce così calda, e guardava così direttamente negli occhi. Non
si poteva mentire con lui.

Del resto cosa le importava? Non lo sapeva tutta Novara il suo segreto?

Il vecchio signore risalì, tornò a sedere al suo posto, e riprese la
_Perseveranza_ senza parlare. I guarda freni chiusero i vagoni, il
convoglio si mosse, ed i due amici rimasero ancora soli.

Ad un tratto il vecchio signore si alzò, andò a sedere accanto alla
Carmela, le prese la mano che lei teneva abbandonata in grembo e le
disse, come se continuasse il discorso di poco prima:

--L'amore, figliola mia, il buono, il vero, non si accontenta di quelle
lunghe separazioni mute, senza una manifestazione, senza uno sfogo.
L'amore non bada alla laurea dell'uomo, alla dote della donna, a nessuna
considerazione d'interesse. Un uomo che ama arde tutto, freme, desidera
con forza, con passione; va direttamente al suo scopo, e domanda
francamente, impaziente alla donna che ama:

«--Vuoi esser mia?»

Nell'enfasi di quel discorso, il vecchio signore aveva attirata a sè la
mano che stringeva, e guardava la Carmela negli occhi tanto davvicino,
che il suo alito le sfiorava la bocca.

Non era più vecchio. Era un uomo forte, appassionato e bello.

Quelle parole entravano acute, pungenti nel cuore della Carmela, e le
faceva sentire amaramente che, infatti, non era stata amata mai, che
s'era illusa. Eppure doveva essere una dolce cosa sentirsi amata così.
Una dolce cosa, che lei non proverebbe mai...

Ma mentre pensava questo, invasa da una gran voglia di piangere, di
piangere, sul petto di quell'amico di un'ora, che le parlava con tanto
calore, sentì un braccio forte e tremante stringersi intorno alla sua
vita, e quella voce dolce e profonda ripetere:

--Di' vuoi? Voi essere mia moglie, mia compagna nel bene come nel male?
Vedi, io ti conosco da un'ora, ti amo da un'ora, forse da meno, ma non
aspetto domani a dirtelo.

Poi soggiunse colla disinvoltura d'un uomo avvezzo alle tempeste della
vita:

--È vero che ho trent'otto anni, e non ho molto tempo d'aspettare.

E vedendo che la Carmela non parlava, ma tremava tutta e non cercava di
sciogliersi dal braccio che la stringeva, riprese:

--Non temere, bambina... So chi sei, e non dimentico che t'hanno
affidata a me. Non ti domando che una parola. Di' non ti spaventano i
miei capelli grigi?

La Carmela abbandonò il capo sulla spalla di lui, susurrando:

--Oh no! no!

Scendendo alla stazione di Santhià, il vecchio signore si fece incontro
alla sorella della Carmela dicendole:

--Le presento la mia sposa. Glie l'affido soltanto per poche ore, e la
riconduco subito a Novara, perchè ha una gran paura della difterite.

La signora De Lorenzi osservò:

--T'avevo pur detto, di non venire, Carmela.

E la Carmela, dando uno sguardo al suo compagno, rispose:

--Allora non avevo paura di morire.


FINE.



  INDICE


  Cara Speranza                 _pag._  1
  Il «Curare». Racconto di Natale   »  29
  Suor Maria. Racconto di Natale    »  73
  Silenzi d'Amore                   » 125
  Una Vocazione                     » 165
  Racconto alla vecchia maniera     » 197



  Nota del Trascrittore

  Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
  senza annotazione minimi errori tipografici. I numeri di pagina
  indicati nell'Indice, anche se errati, sono stati conservati. Sono
  stati corretti i seguenti refusi (tra parentesi il testo originale):

  Pag. 20 - era spaventata [spaventa] all'idea
       92 - abbottonato a sghembo [sgembo]
      124 - s'udiva uno strano rumore [rumure]
      130 - Aveva realmente le attrattive [attrative]
      147 - se ne entusiasmò [entusiastò]
      180 - gli era possibile di conciliare [concigliare]
      181 - gli occhi chiari da bionda [bionde]

  Grafie alternative mantenute:

  Turiddu / Turiddo
  qua / quà





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