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Title: Isaotta Guttadàuro ed altre poesie
Author: D'Annunzio, Gabriele, 1863-1938
Language: Italian
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       *       *       *       *       *

NOTA DEL TRASCRITTORE:

L'uso degli accenti non è uniforme nel testo.
Minimi errori tipografici di punteggiatura sono
stati corretti senza annotazione.

       *       *       *       *       *



  DELLO STESSO AUTORE


PRIMO VERE--Prima edizione, 1878. (Esaurita).

PRIMO VERE--Edizione ampliata, 1879. (Esaurita).

IN MEMORIAM--(100 esemplari), 1879. (Esauriti).

TERRA VERGINE--Sesta edizione, 1881. (Esaurita).

CANTO NOVO--Sesta edizione, 1881. (Esaurita).

INTERMEZZO DI RIME--Ottava edizione, 1883. (Esaurita).

IL LIBRO DELLE VERGINI--Seconda edizione, 1884. (Esaurita).

SAN PANTALEONE--G. Barbèra, editore, 1886--Prezzo L. 4.


  _Prezzo del presente volume_: LIRE QUINDICI.



  ISAOTTA GUTTADÀURO



    Il biondo Astíoco e Brisenna reína....

        BALLATA D'ASTÍOCO E DI BRISENNA.


        Disegno di G. A. SARTORIO.

  [Illustrazione: _Fototipia Danesi Roma_]



          GABRIELE D'ANNUNZIO



           ISAOTTA GUTTADÀURO

            ED ALTRE POESIE


              CON DISEGNI

                   DI

  VINCENZO CABIANCA--ONORATO CARLANDI--GIUSEPPE CELLINI
     ENRICO COLEMAN--MARIO DE MARIA--CESARE FORMILLI
    ALESSANDRO MORANI--ALFREDO RICCI--G. A. SARTORIO


                  ROMA

      NEL DÌ NATALE DEL MDCCCLXXXVI


           Editrice LA TRIBUNA.


           PROPRIETÀ LETTERARIA



PROLOGO


    Mentre Lucrezia Borgia, in nuziale
    pompa, venìa con piano
    incedere (la veste lilïale
    risplendea di lontano)

    tra i cardinali principi in vermiglia
    cappa, che con ambigui
    sorrisi riguardavano la figlia
    de 'l papa,--ne' contigui

    atrj i coppieri, adolescenti flavi
    che rispondeano a un nome
    sonoro ed arrossian come soavi
    fanciulle ed avean chiome

    lunghe, i coppieri d'Alessandro sesto
    tenean coppe d'argento
    entro la man levata, e con un gesto
    d'umiltà grave e lento

    offeriano a le molte inclite dame
    le rose ed i rinfreschi.
    Allettati correan pieni di brame
    i veltri barbareschi

    traendo fra le zampe il guinzal d'oro
    che mal ressero i paggi.
    Gioivano le dame inclite in coro
    ai gran salti selvaggi,

    e disperdendo in copia su 'l lucente
    musaico a piene mani
    cibi e rose, blandían trepidamente
    i belli atroci cani.

    Allor Giulia Farnese, un suo lascivo
    balen da li occhi fuora
    mettendo (a 'l riso il corpo agile e vivo
    fremea come sonora

    cetra), il sen nudo porse; e in tra le poppe
    bianche rotonde e dure
    un fante a lei da le papali coppe
    versò le confetture.

    Or non così, mie belle, o voi che tanto
    amai e celebrai
    e incoronai del mio lucido canto
    ne' boschi e ne' rosai,

    or non così venite al mio festino
    ove l'Amor v'aduna?
    I vostri baci, più dolci de 'l vino,
    a 'l sole ed a la luna

    io colsi un tempo; e, come entro una rara
    coppa di fin lavoro,
    mentre i nuovi desii cercanvi a gara
    --veltri da 'l guinzal d'oro,--

    la profonda dolcezza entro la rima
    sottilemente infusa
    io vi rendo. Gioite voi. Ma, prima,
    Isaotta, la Musa,

    quella ch'io più cantai, con un baleno
    tra i cigli e con protese
    le bellissime braccia, offre il suo seno,
    come Giulia Farnese.



IL LIBRO D'ISAOTTA



    Ella apparve.--Buon dì, messer cantore!--
    disse ridendo con gentile volto.

        IL DOLCE GRAPPOLO, II.


        Disegno di ALFREDO RICCI.

  [Illustrazione: _Fototipia Danesi Roma_]



SONETTO LIMINARE


    PALAGIO D'ORO, nobile magione
    de la Speme, de 'l Riso e de' Piaceri,
    ove sotto i belli archi alti e leggeri
    danzano i Sogni cinti di corone;

    SELVA D'ORO ove Amor, nudo garzone,
    con i Desiri, cupidi sparvieri,
    con i Peccati, veltri agili e neri,
    attende a la sua dolce cacciagione;

    FONTE D'ORO ove candidi e tranquilli
    vanno i cigni di Venere per torme
    facendo a 'l dorso calice de l'ale;

    O MIO LIBRO, convien che più sfavilli
    sonante il verso e più ridan le forme
    quando Isaotta Guttadàuro sale.



I.

IL DOLCE GRAPPOLO


I.

    --O madonna Isaotta, il sole è nato
    vermiglio in cima a 'l bel colle d'Orlando:
    ei su' vostri balconi ha ravvivato
    le rose che morìan trascolorando.
    Sorga da l'ampio letto di broccato
    or la vostra beltà lume raggiando.
    O madonna Isaotta, il sol che v'ama
    con un lucido cantico vi chiama;
    e gridano i paoni a quando a quando.

    Udite voi salir nostre preghiere
    o ancor vi tiene il Sonno in tra le braccia?
    Dolce sarebbe a' nostri occhi vedere
    i primi raggi su la vostra faccia
    ove il trapunto lin de l'origliere
    ne la notte lasciò sua rosea traccia.
    Palpita il vostro sen con più veloce
    ansia a' richiami de la nostra voce,
    mentre la fante il busto alto v'allaccia?

    «Levasi a lo mattin la donna mia
    ch'è vie più chiara che l'alba del giorno,
    e vestesi di seta Caturìa,
    la qual fu lavorata in gran soggiorno
    a la nobile guisa di Surìa»,
    canta l'Antico nel poema adorno.
    «Il su' colore è fior di fina grana,
    ed è ornato a la guisa indiana;
    tinsesi per un mastro in Romanìa».

    Levasi da 'l gran letto in su l'aurora
    la mia donna; e la sua forma ninfale
    tra le diffuse chiome a l'aria odora
    e a 'l sol risplende più bianca del sale.
    Tutta di gocce tremule s'irrora
    ne 'l lavacro di marmo orientale.
    Miran le statue a torno quella pura
    forma e tessuta ad arte in su le mura
    ride la greca favola d'Onfale.

    Ridono i fatti di Venere dia
    su 'l cofano di cedro, alto lavoro
    d'artefici maestri di tarsìa,
    che sta ne 'l mezzo d'un bacile d'oro;
    ove con signorile atto la mia
    donna gitta incurante il suo tesoro
    di smeraldi, rubini e perle buone
    che piovon come per incantagione
    sovra il metallo nitido e sonoro.

    Ella, composta in vago atteggiamento,
    a mezzo de la rara conca emerge;
    e la fante con anfore d'argento
    pianamente d'ambrate acque l'asperge.
    Al diletto ella freme, e con un lento
    gesto la chioma rorida si terge.
    Come tondi i ginocchi e come bianchi!
    Han dal respiro un dolce moto i fianchi
    e il petto ad ogni brivido s'aderge.

    O madonna Isaotta, è dura cosa
    ir le beltà non viste imaginando.
    A voi conviene omai d'esser pietosa
    poi che da tempo in van prego e dimando.
    La bocca picciolella ed aulorosa,
    la gola fresca e bianca in fine quando
    concederete al bacio disiato?
    O madonna Isaotta, il sole è nato
    vermiglio in cima a 'l bel colle d'Orlando.--


II.

    Così chiamai l'amata in nona rima,
    sotto il grande balcon di tiburtino
    ov'han lo scudo i Guttadàuro-Alima
    con gocce d'oro in campo oltremarino.
    Dormìa la villa ne 'l silenzio: in cima
    a li aranci de 'l nobile giardino
    aprivano i paoni le gemmanti
    piume verso la luce, e de' lor canti
    striduli salutavano il mattino.

    Ella apparve.--Buon dì, messer cantore!--
    disse ridendo con gentile volto.
    --Non questo è il tempo gaio de 'l pascore,
    ma voi siete di ver loquace molto.
    Or seguite a trovar rime d'amore,
    chè con benigno orecchio, ecco, v'ascolto.--
    Io le dissi:--Madonna, io son già fioco.
    Or voi di sì salutevole loco
    scendete a me che son di pene avvolto!--

    Ella tacque; ed il capo inchinò mite:
    ne li occhi le ridea novo pensiere.
    Tutta quanta di porpora una vite
    saliva da l'inferïor verziere,
    e le bacchiche foglie colorite
    mesceansi con le rose a le ringhiere.
    Avean piegato un dì li aspri sermenti
    a la copia de' grappoli rubenti
    che il padre Autunno infranse nel bicchiere.

    Ella disse ridendo:--Io pongo un patto,
    vago sire, a la mia dedizïone.
    --Il vago sire--io dissi--accoglie al tratto
    quel ch'Isaotta Guttadàuro pone.
    Ed ella:--Quando un sol grappolo intatto
    ne' vigneti che bagna il Latamone
    lungh'esso il chiaro colle solatìo
    troveremo, io sarò pronta al disìo
    vostro e sarete voi di me padrone.--


III.

    Ella discese allora: un giuramento
    fece sicuro il gran patto d'amore.
    E prendemmo la china. Senza vento
    era l'aria; ne 'l placido candore
    erano i campi senza ondeggiamento,
    brevi selve di canne erano in fiore.
    Quasi una gratitudine beata
    al sole offrìa la terra bene amata:
    era novembre, il tempo de 'l sopore.

    D'innanzi, il Latamon, fiume regale,
    lambiva in suo lunante arco i vigneti
    ove l'ebro clamor vendemmiale
    ed i carmi de' rustici poeti
    salutato avean già l'almo natale
    de 'l vino autor di gioia, ora quieti.
    Disse Madonna:--Siate accorto e saggio:
    quivi incomincia il pio pellegrinaggio.--
    D'in torno s'inchinarono i canneti.

    Io dissi:--Non mi giova la fortuna,
    o madonna Isaotta, ne 'l trovare.--
    Ed ella a me:--Non ha virtude alcuna
    il fino Amore per v'illuminare?
    Il grappolo tardìo dove s'aduna
    da lungo tempo, come in alveare,
    la dolcezza del miele a 'l lento foco
    de 'l sole, aspetta noi per qualche loco.--
    Io dissi:--Non mi stanco di cercare.--

    Noi camminammo giù per la vermiglia
    china che discendeva all'acque d'oro.
    Da lungi a quando a quando una famiglia
    di villici sorgendo da 'l lavoro
    ci guardava con alta maraviglia;
    e le fanciulle interrompeano il coro.
    Venendo innanzi con giulivo ardire
    una gridò:--Che mai cerchi, o bel sire?--
    Ed io risposi a lei:--Cerco un tesoro.--

    Noi così camminammo: ella men lesta,
    poi che non concedeami anco la mano.
    In guardare tenea china la testa,
    bella come la bella Blanzesmano
    allor che cavalcò per la foresta
    a fianco a 'l suo Lancialotto sovrano.
    Le fronde sotto i pie' stridevan forte;
    ma a quelle viti ignude aspre e contorte
    li occhi chiedevan la dolce esca in vano.

    Disse Madonna:--Riposiamo al fine.--
    Era lungi un trar d'arco il bel rivaggio.
    L'alta erba mareggiava in su 'l confine
    placidamente, come biada a maggio;
    or sì or no giungea da le colline
    di citisi e di timi odor selvaggio.
    Pareva il sol d'autunno per le chiare
    vie de 'l cielo un novello orbe lunare:
    i vapori facean mite il suo raggio.

    Ella disse. Non mai le sue parole
    ebber soavità così profonda:
    cadevan come languide viole
    da l'arco de la sua bocca rotonda.
    E quel sorriso fievole de 'l sole
    ancor la testa le facea più bionda.
    Era, d'intorno, un grande incantamento.
    Era il diletto mio qual d'uom che, lento,
    in giaciglio di fiori ampio s'affonda.

    Tacque. Uno stuol d'augelli, d'improvviso,
    attraversò con ilari saluti.
    Noi trasalimmo, come ad un avviso
    misterioso de la terra; e, muti,
    impallidendo ci guardammo in viso.
    Poi prendemmo sentieri sconosciuti.
    I pioppi nudi e senza movimento
    parevan candelabri alti d'argento;
    ed i lauri fremean come leuti.


IV.

    Oh ne la valle concava d'Orlando
    inaspettata vista del tesoro!
    Giacea la bella vigna fiammeggiando
    con tralci di rubino e foglie d'oro;
    e uno stuolo d'augelli roteando
    facea ne 'l mezzo de la vigna un coro,
    --O madonna Isaotta, ecco la vita!--
    io le gridai, con l'anima rapita.
    Ed in alto gridò lo stuol canoro.

    Io la trassi a quel loco: ella più lesta
    venìa, chè forte io la tenea per mano.
    Tutta rosea volgea da me la testa,
    bella come la bella Blanzesmano
    allor che la baciò per la foresta
    l'amato suo Lancialotto sovrano.
    E le dissi:--O Madonna, io tengo il patto.
    Per voi colgo il fatal grappolo intatto.--
    Ella mi diede il bacio sovrumano.



II.

BALLATA D'ASTÍOCO E DI BRISENNA


    Amor, quando fiorìan ne 'l bel paese
    il biondo Astíoco e Brisenna reina,
    da 'l colle a 'l pian, da 'l fiume a la marina
    sonavan alto le tue chiare imprese.

    La terra di Brolangia era un verziere,
    in figura d'un sistro, ismisurante.
    Il verde paradiso due riviere
    cingeano, come braccia d'un amante.
    Il suol crescea meravigliose piante,
    nudrito da le pingui alluvïoni.
    Quivi tennero lieti eptameroni
    il dotto Astíoco e Brisenna cortese.

    La bontà che venìa da' lor costumi
    era sì dolce, o Amore, e sì profonda
    che il suolo si coprìa di rose e i fiumi
    volgean oro smeraldi ambra ne l'onda;
    e, come ne la Tavola Ritonda,
    ragionavano i tronchi e le fontane,
    potea la Luna su le menti umane,
    munían gl'incanti ai prodi elmo e pavese.

    Su la cima del bel colle d'Orlando
    sorgevano i palagi, aperti a 'l giorno.
    Diecimila colonne scintillando
    ricorrevan per l'alte moli a torno.
    Vi saliva una scala, in doppio corno,
    ampia, coperta di fanti e d'arcieri,
    di messi, di valletti e di levrieri,
    di dame e di donzelle in ricco arnese.

    Convenivan le donne de' poeti
    ivi, in un luogo detto Galaora;
    e sedeano in su' fulgidi tappeti,
    ove li amor di Cefalo e d'Aurora,
    illustri opere d'ago, uscieno fuora
    qua e là di tra le vesti ricoprenti.
    Sedean le donne, in bei componimenti
    di grazia, ad ascoltar la serventese.

    Oh fontana d'Elai, per molti getti
    ricadente ne 'l vaso di porfíro,
    che dieci ninfe e dieci satiretti
    reggean, piegati ad una danza, in giro!
    Immergeavi una coppa di zaffiro
    Brisenna, e la porgeva a 'l rimatore.
    Celava l'acqua in sè virtù d'amore
    che in cor mortale si facea palese.

    Ma le belle traevansi in disparte.
    Venivan quindi per eguali torme
    di sette; e digradando in lungo ad arte
    imitare volean l'ímpari forme
    de 'l flauto che il dio Pan seguendo l'orme
    di Siringa construsse in su 'l Ladone.
    Come le canne, l'agili persone
    tutte vibravano, a la danza intese.

    Ogni torma correa verso l'eletto.
    Ad una ad una le bocche fragranti,
    le bocche dolci più che miel d'Imetto,
    egli baciava, splendido in sembianti.
    Fuggia la torma, ed ecco l'altra avanti.
    E svolgeasi così, lungo i roseti,
    la danza; mentre li èmuli poeti
    a tal vista fremean nuove contese.

    Oh fontana d'Elai, dove son l'acque
    che un dì fluiron per sì larga vena?
    Dov'è il murmure tuo che tanto piacque
    a 'l mite Astíoco e a Brisenna serena?
    Cadde una notte ne 'l tuo sen la piena
    Luna, divelta per forza di carmi.
    S'infransero a 'l tremore orrido i marmi,
    e fumaron stridendo l'acque incese.



III.

ISAOTTA NEL BOSCO



    «Eranmi schiavi li astri in lunghe torme;
    «e in tal regno le feste ho celebrate
    «de' suoni de' colori e de le forme.»

        BALLATA VI.


        Disegno di G. A. SARTORIO.

  [Illustrazione]



BALLATA I.

    Pur jeri (uscían da la recente piova
    i cieli, tersi più che vetri schietti)
    andavam co' ginnetti
    pe' boschi de la valle cavalcando.

    Ella, dritta in arcioni, agile e franca,
    reggea ne 'l pugno i freni
    e moveali con varia maestría.
    Piegava ad arco il ginnetto la bianca
    chioma e fervea con leni
    giochi, sommesso a quella tirannía;
    e la sua leggiadría
    e la beltà d'Isotta e il bosco intento
    e li albori sereni,
    che di velari penduli d'argento
    adornavano il bosco in tutti i seni,
    facean così gentil componimento
    ch'io mi chiesi:--Non forse in lor balía
    hannomi i Sogni?--E stetti dubitando.


BALLATA II.

    Non m'avevano i Sogni in lor balía;
    chè mi disse la Bella, ad un radore:
    --Senti soave odore
    di viole, che giunge a quando a quando!--

    Su' freschi venti odore di viole
    giungea, soave e forte;
    trepidavano li alberi novelli,
    in torno; e aprivan loro gemme a 'l sole
    le rame ésili e torte;
    e verzicavan fitti li arboscelli,
    come verdi capelli
    ondeggiando ne l'aria ad ogni fiato.
    E parevan le morte
    ninfe rivivere, e parea rinato
    Pane al mondo, ed alfin parean risorte
    tutte le deità del tempo andato,
    ma quali un dì le vide il Botticelli
    in su' poggi di Fiesole vagando.


BALLATA III.

    Ella disse:--Cerchiamo le viole
    tra l'erbe, chè non son lungi nascoste.--
    (O fiori, che a me foste
    cagion di gaudio, vostro pregio io spando.)

    Balzai a terra; ed ella, anche d'un salto,
    vennemi sovra il petto,
    ridendo. Propagaronsi per l'òra
    le freschissime risa, in mezzo a l'alto
    silenzio; ed il ginnetto
    anitrì ver la dolce sua signora.
    Noi ci mettemmo allora
    su l'odorosa traccia a ricercare
    ne 'l bosco giovinetto.
    Chini su 'l suol pratío, senza parlare,
    noi eravamo intesi a quel diletto.
    S'udivano i cavalli pascolare
    da presso e impazienti ad ora ad ora
    scuoter li arcioni, forte respirando.


BALLATA IV.

    Piovea su 'l verde il sol di marzo, infranto,
    però che avea co' rami allegra lotta.
    E le man d'Isaotta
    sparivano in tra 'l verde, a quando a quando.

    Oh mani belle, oh mani bianche e pure
    come ostie in sacramento,
    dolci a li afflitti, prodighe, regali
    meglio che a' tempi gai de l'avventure!
    Oh mani che il cruento
    cuor nostro ignavo e le piaghe mortali
    e tutti i nostri mali
    con infinita carità guariste,
    ed a 'l nostro tormento
    le porte d'oro de' bei sogni apriste,
    e a 'l nostro ardore cieco e vïolento
    in coppa d'oro un vin sereno offriste!
    Oh bianche mani, oh gigli spiritali
    tra le viole, ne 'l chiarore blando!


BALLATA V.

    Riprendemmo la via, con i ginnetti
    ch'eran più vivi e più giocondi. Al corso
    anelavano; e il morso
    tingean di calda bava, scalpitando.

    Ora la selva, innanzi a li occhi nostri,
    misteriosa e grave,
    ergeva i tronchi e i rami a 'l ciel maggiori;
    e, lunga componendo ala di chiostri,
    volgeasi in ampia nave,
    qual dòmo, o spaziava in alti fòri.
    Avea cupi romori.
    Ella disse:--Non dunque tal sentiere
    mena a 'l loco soave
    u' la Bella, aspettando il Cavaliere,
    dorme sepolta in tra le chiome flave
    che crebbero per mille primavere?--
    Ond'io sorrisi. Ed ella:--Or quali amori
    sogna colei ne l'animo, aspettando?--


BALLATA VI.

    --Non sogna--io dissi. Ed ella:--Io so che un giorno
    venne il sire a fugar da que' cari occhi
    l'incanto, ed a ginocchi
    baciò la rara mano, supplicando.

    Ei parlò di tesori e di castella,
    di terre ismisurate,
    d'omaggi e di diletti senza nome.
    Lucidamente arrisegli la Bella,
    dicendo: «Voi mi fate
    «onor grande, o mio sire. Ma pur, come
    «sorga l'alba, le some
    «voi leverete, a ritrovare l'orme.
    «Altre plaghe ho regnate!
    «Eranmi schiavi li astri in lunghe torme;
    «e in tal regno le feste ho celebrate
    «de' suoni de' colori e de le forme.»
    Disse; e di nuovo arrise, ne le chiome
    ampie, come in un gorgo, profondando.--


BALLATA VII.

    Il mister favoloso in cui la selva
    era sommersa, e quella voce umana
    che dava ad una vana
    ombra la vita, e quel chiarore blando,

    il senso mi cingean di tal malía
    ch'io mi credeva udire
    suono di corni in lontananza ròco
    e veder cervi a mezzo de la via,
    grandi e candidi, escire
    con in fronte una croce alta di fuoco.
    Strano li alberi gioco
    facean di luci. L'un parea, tra' rai,
    smeraldi partorire;
    l'altro balzar da li orridi prunai
    come serpente, in mal attorte spire.
    Disse Madonna:--Si convenne Elai
    un tempo con Astíoco in questo loco,
    il qual re meriggiava poetando.


BALLATA VIII.

    Meriggiava quel re, sotto il pomario
    che splendeva a' suoi dì come un tesoro.
    Cadeano i frutti d'oro
    gravi su 'l suolo in torno, a quando a quando.

    Rendean per l'aria in torno una fragranza
    di miel, così gioconda
    che al cuor giungeva quale un vin di rose.
    E il buono Astíoco, in mezzo a l'abondanza
    de' frutti, di profonda
    dolcezza pieno l'anima, si pose
    a laudare le ascose
    virtuti de la terra in un poema.
    Giunto era a la seconda
    canzone quando, senz'alcuna tema,
    ei scorse Elai. Qual re di Trebisonda,
    il capo cinto avea d'un dïadema
    ed il petto di pietre preziose
    che vincevano il dì riscintillando.


BALLATA IX.

    Chiesegli Elai: «Vuoi tu, sir di Brolangia,
    «sopra tutta la terra alzar tuo soglio?»
    Ed il sir: «Ben io voglio!
    «Or tu dammi, che 'l segua, il tuo comando.»

    «Sorgi dunque da l'ombra e t'incammina
    «pe 'l sentier ch'io t'addito,
    «fin che tu giunga in riva de 'l ruscello,
    «ove un giorno la fata Vigorina
    «adagiò ne 'l fiorito
    «letto de l'erbe il corpo agile e bello;
    «ed il magico anello
    «che fiammeggiava più che foco vivo
    «mise, come in un dito,
    «ne 'l verde stel d'un giglio ancor captivo;
    «e sognò, me' che in letto di sciamito,
    «a 'l murmure de l'acque fuggitivo.
    «Or trarre ti convien da 'l gambo snello
    «il fin tesoro, là dov'io ti mando.»


BALLATA X.

    Surse pronto il re musico; ed il lesto
    piè mosse in cerca de 'l beato giglio.
    E a l'antico giaciglio
    di Vigorina giunse trepidando.

    Vide lo stelo e vide anche l'anello;
    e lo stel ne 'l cerchietto
    pareva il dito fragile e mortale
    d'una ninfa cangiata in arboscello.
    Ma il sire, a tal conspetto,
    non osò porre la sua man regale
    su l'anello fatale;
    poichè, da quando l'erbe a Vigorina
    furon fiorito letto,
    il giglio erasi aperto a la divina
    luce, non più da 'l calice constretto;
    e Astíoco, in tòr la pietra alabandina,
    infranto avrebbe il giglio verginale
    che a 'l sol ridea, sì dolce palpitando.--


BALLATA XI.

    Questo narrò la mia favolatrice.
    Ed a me parve che un incantamento
    fluisse da quel lento
    eloquio, tutti i boschi affascinando.

    Com'ella tacque, il fremito de 'l suono
    mi tremolò sì viva--
    mente a' precordi ch'io rimasi assorto
    nel mio diletto ripensando a 'l buono
    Astíoco.--E se a la riva
    d'oro il giglio d'Elai non anche è morto?
    E se ancora a diporto
    la fata Vigorina è pe' sentieri?--
    ella chiese, chè udiva
    non lungi mormorii rochi e leggeri
    d'acque, correnti giù per la nativa
    ombra, e vedeva crescere i misteri
    entro i seni de 'l valico ritorto.
    Onde spronammo, innanzi trapassando.


BALLATA XII.

    Era la fonte in una lene altura
    coronata d'opachi elci e di mirti.
    Rompevano li spirti
    de la fonte tra' sassi palpitando.

    Non mai dolce suonò bistonia lira
    come le fronde a 'l vento
    su la natività de le bell'acque;
    nè fu sì chiaro il talamo d'Argira
    e nè pur l'arïento
    u' con la ninfa, poi che a Giove piacque,
    Ermafrodito giacque.
    Partìasi l'onda in rìvoli tra' massi
    de 'l clivo, in più di cento
    rìvoli che brillavano, pe' sassi
    fini e politi, con varïamento
    di carbonchi topazi e crisoprassi.
    Attoniti mirammo; ed in noi nacque
    desìo di bere...--O fonte, io t'inghirlando!


BALLATA XIII.

    Io t'inghirlando, o fonte ove quel giorno
    parvemi bere in coppa jacintea
    il sangue d'una dea,
    che a 'l cuore mi fluì letificando!--

    Scendemmo il piano margine; e commise
    in sì dolce atto Isotta
    il fior de la sua bocca ad una vena
    e sì fresco e vermiglio e vivo rise
    quel fiore in tra la rotta
    onda e s'aperse, ch'io ritenni a pena
    un grido e in su la piena
    bocca più baci e più, cupido, impressi.
    Ella rideva... Oh lotta
    di baci che cadean sonanti e spessi
    e mescevansi a l'acque! Oh ne la grotta
    ampia e ninfale mormorii sommessi
    d'acque e le risa de la mia serèna!
    Bevemmo e ci baciammo, ivi indugiando.


BALLATA XIV.

    Or quale io bevvi ignoto filtro, inconscio?
    Era ne la sua bocca, era ne l'acque
    la virtù cui soggiacque
    ogni mio senso, amor rilampeggiando?

    Non so. Ma come uscimmo da la chiostra
    in su' paschi feudali
    ove il bel fiume suoi tesori aduna,
    parvemi cavalcare ad una giostra,
    e che da que' fatali
    occhi mi sorridesse la fortuna
    e fusser ne la luna
    in urna d'adamante custodite
    le mie sorti regali.
    Onde, felici, a 'l Sol candido e mite
    e a l'ardor de' cavalli ed ai natali
    venti ci abbandonammo; e le due vite
    nostre mescemmo e rinnovammo in una
    vita più forte, che s'aprì raggiando.



IV.

SONETTO D'APRILE



    .... a 'l cuor giunge il freddo del serpente.

        MELUSINA.


        Disegno di GIUSEPPE CELLINI.

  [Illustrazione: _Fototipia Danesi Roma_]



    Aprile, il giovinetto uccellatore,
    a cui nitido il fiore
    de le chiome pe' belli omeri cade,
    ne 'l cavo de la man, come un pastore,
    in su le prime aurore
    ha bevuto le gelide rugiade.

    Aprile, il giovinetto trovadore,
    su le canne sonore
    dice l'augurio a le nascenti biade:
    i solchi irrigui fuman ne 'l tepore,
    un non so che tremore
    le verdi cime de la messe invade.

    Ecco la Bella! Ecco Isotta la blonda!
    China, de la sua porta a 'l limitare,
    ella stringe il calzare
    a 'l piè che sanno i boschi. E il dì la inonda.

    Toccan la terra, a l'atto de 'l piegare,
    i suoi capelli, in copia d'or profonda.
    Oh, la faccia gioconda
    che a pena da quel dolce oro traspare!



V.

BALLATA DELLE DONNE SUL FIUME



    A torme a torme candidi paoni,
    lenti, silenti come neve in aria,
    discendono su l'agili ringhiere.

        ELIANA.


        Disegno di MARIO DE MARIA.

  [Illustrazione]



    I nitidi mercanti alessandrini,
    profumati di cìnnamo e d'issopo,
    bevean su la riviera di Canopo
    ne' calici de 'l loto i rosei vini.

    Noi lungo il fiume, ove sì dolci istanti
    indugiammo cercando per la via
    il grappolo tardivo,
    navighiamo a diletto, in compagnia
    di musici che il lido empion di canti.
    Tutto s'accende il lido fuggitivo
    a lo splendor vermiglio.
    Tu, ridendo, co 'l calice d'un giglio
    attingi le bell'acque scintillanti.
    La man tua lieve crea schietti rubini.

    Le gentildonne, che fan gaia corte
    a te con gran sollazzo, in su' minori
    legni, rapidamente
    seguon l'esempio e con i bianchi fiori
    attingon l'acque d'or, ridendo forte.
    Tutte, in un tempo, bevono a 'l lucente
    vespero, inebriate,
    quasi Bacco le linfe abbia cangiate
    in vin di Scìo, da' regni de la morte.
    Suonano a torno i lieti ribechini.

    Così tu vai, piacente Primavera,
    navigando ne 'l vespero, per l'almo
    fiume onde Amore sorse;
    e i gigli tratti dietro il paliscalmo
    vestono forme, ne la dubbia sera.
    Non calano da' rotti argini forse
    le ninfe a 'l Latamone?
    Questa, piena di donne e di canzone,
    non è l'isola bella di Citera?
    Non sei tu dunque iddia ne' tuoi domíni?

    Questa è l'isola bella: non la tiene
    però Venere. Isotta ha signoria,
    Isotta Biancamano,
    su la verde Brolangia solatìa
    ove reìne clementi e serene
    vissero a lungo, in tempo assai lontano,
    e amaron poetare.
    Qui non s'ode Bacchilide cantare,
    non Saffo, non Alceo di Mitilene.
    Ma s'odono i leuti fiorentini.

    O musici, toccate li strumenti
    con più dolcezza, poi che a' lauri in cima
    è la luna novella.
    Cantate, o gentildonne, a cui la rima
    fiorisce in amorosi allettamenti
    a sommo de la bocca picciolella.
    Sicchè di su l'altura
    udendo suoni e canti a la ventura,
    veggendo faci, dicano le genti:
    --Torna forse Brisenna a' suoi festini?



VI.

BALLATA E SESTINA DI COMMIATO



                .... su da la tenebra
    crescea per l'arti de la maga tessala,
    porgendo la man nivea.

        DIANA INERME.


        Disegno di GIUSEPPE CELLINI.

  [Illustrazione]



BALLATA.

    Ora è muto il selvaggio paradiso
    già costumato a la tua signoria.
    Dov'è la voce onde l'anima mia
    e la selva tremavan d'improvviso?

    Pavidi, in tra la selva umida e fresca,
    correano a quella voce i cavriuoli.
    Splendean miti ed umani
    li occhi a l'ombra in guardarti; ed i figliuoli,
    alti e biondetti, sen venìano a l'esca
    de 'l cibo, come a 'l pan giovini cani.
    Forte ridevi tu quando a le mani
    i lor teneri denti
    ti mordevan con piani incitamenti.
    Tra la fronda eran queti li usignuoli
    ed i frassini intenti
    ascoltavan salire il dolce riso.


SESTINA.

    Quando più ne' profondi orti le rose
    aulivano per l'aria de la sera
    e mesceasi a quel lor tepido fiato
    sapor di miele da' pomari d'oro,
    venne Isaotta un tempo a le mie braccia,
    candida e mite quale a maggio luna.

    Non sì dolce chinò li occhi la Luna
    su 'l suo vago sopito in tra le rose
    Endimïon, tendendo ambo le braccia,
    (splendeva il Latmo a la vermiglia sera,
    cui bagnano i ruscelli in vene d'oro:
    sol de' veltri s'udia l'ansante fiato)

    com'ella sovra me. Caldo il suo fiato
    io sentìa su 'l mio volto, ed a la luna
    vedea brillare la cesarie d'oro
    cui cingevano i miei sogni e le rose.
    Fulgida aurora a me parve la sera,
    ne 'l cerchio de le sue morbide braccia.

    Dolce cosa languir tra le sue braccia!
    Dolce, languendo, bevere il suo fiato!
    Voci correan d'amor per l'alta sera;
    e bramire s'udian cervi a la luna
    da' chiusi, e Agosto a l'ombra de le rose
    cantar soletto in su la tibia d'oro,

    e a quando a quando, come in vaso d'oro
    pioggia di perle, da le verdi braccia
    de li alberi che misti eran di rose
    le odorifere gomme ad ogni fiato
    d'aura cader su' fonti ove la luna
    piovea gl'incanti de l'estiva sera.

    O donna ch'anzi vespro a me fai sera,
    cui Laura è suora ne le rime d'oro,
    deh foss'io, come il vago de la Luna,
    addormentato, e alfin tra le tue braccia
    mi risvegliassi e bevere il tuo fiato
    potessi ancora, in letto alto di rose!

    Tu la Bella vedrai diman da sera
    e a lei ricingerai le chiome d'oro,
    canzon, nata di notte senza luna.


  QUI FINISCE IL LIBRO D'ISAOTTA.



SONETTI DELLE FATE



    E su tal corda l'anima sospira.

        GRASINDA.


        Disegno di GIUSEPPE CELLINI.

  [Illustrazione]



A GIUSEPPE CELLINI

    Lino ai boschi de l'isola di Creta
    udía le ninfe correre tra i rami
    e Teocrito udía lunge i richiami
    di Lyda a riva e i canti di Dameta.

    Tu ne li orti d'Italia odi, o poeta,
    rider le fate come in lor reami.
    Ti chiede Urganda:--O mio sire, tu m'ami?--
    e ti trae ne la sua reggia segreta.

    Agile, ardente quale fiamma, Urganda
    t'intesse a torno con rapidi voli
    una danza di perfida virtù.

    Ma non anche tu dormi in Broceglianda
    tra i mirti intonsi, a' lai de' rosignoli,
    poi ch'io suono il fatal corno d'Artù.



ELIANA


    Dorme a notte il palagio d'Elïana,
    simile a un dòmo gotico d'argento.
    Or, ne la luce senza mutamento,
    pare un fragile incanto di Morgana.

    Armoniosa come uno stromento
    apresi a torno l'alta ombra silvana;
    ed a piè de la scala una fontana
    singhiozza in ritmo ne 'l silenzio intento.

    A torme a torme candidi paoni,
    lenti, silenti come neve in aria,
    discendono su l'agili ringhiere.

    Sono le spose morte di piacere,
    che tentan la dimora solitaria.
    E il bosco è pieno d'implorazïoni.



MIRINDA


    Mirinda e il fido, ne l'occulta stanza,
    adagiati su' troni orientali,
    dilettansi a gittar lucidi strali
    sotto i piè d'un fanciul nudo che danza.

    Un grande e bianco augello, a passi eguali,
    carico d'otri, sparge in abondanza
    acque d'ambra d'insolita fragranza
    su i marmi che dan lume ai penetrali.

    --Vedrem fiori, com'ampie urne, fiorire;
    berremo un vin ne' puri alvi de' frutti;
    e guarderemo entro smeraldi il sole.--

    Dice Mirinda. E il tremulo nitrire
    de' liocorni e il murmure de' flutti
    si mescono a le sue lente parole.



MELUSINA


    Guarda, assisa, la vaga Melusina,
    tenendo il capo tra le ceree mani,
    la Luna in arco da' boschi lontani
    salir vermiglia il ciel di Palestina.

    Da l'alto de la torre saracina,
    ella sogna il destin de' Lusignani;
    e innanzi a 'l tristo rosseggiar de' piani,
    sente de 'l suo finir l'ora vicina.

    Già già, viscida e lunga, ella le braccia
    vede coprirsi di pallida squama,
    le braccia che fiorían sì dolcemente.

    Scintilla inrigidita la sua faccia
    e bilingue la sua bocca in van chiama
    poi che a 'l cuor giunge il freddo de 'l serpente.



GRASINDA


    Dorme Grasinda in mezzo a' suoi tesori,
    ove l'incanto un sonno alto le impose.
    E l'intima dolcezza de le cose
    ver lei migra in assai vaghi romori.

    Fremono a torno li alberi canori,
    da la grande armonía piovendo rose
    quasi che per virtù misteriose
    si rispandano i suoni in rari fiori.

    Lento il corpo ne 'l sonno a 'l ritmo cede:
    compongonsi le membra agili in arco
    e prendon forma di lunata lira.

    Si tendono le chiome argute al piede
    facendo strano a' due pollici incarco;
    e su tal corda l'anima sospira.



MORGANA


    Or tremule, su i mari e su le arene,
    crescon ne la lunare alba le imagi:
    materïati d'oro alti palagi
    e torri ingenti assai più che Pirene.

    Salgono scale in luminose ambagi
    con inteste di fior lunghe catene.
    Come navi in balía de le sirene,
    ondeggiano le pendule compagi;

    poi che Morgana, in dolce atto giacente
    ne 'l letto de la nube solitaria,
    quasi ebra di quel suo divin lavoro,

    ama, seguendo un carme ne la mente,
    cullare de le man languide a l'aria
    la città da le mille scale d'oro.



ORIANA


    Orïana tenea l'incantamento.
    Giacean, ebri d'assai dolci veleni,
    ne l'antro i prodi; e larga di sereni
    sogni la Luna era a l'umano armento.

    Pascean su 'l limitare i palafreni
    meravigliosi, li émuli de 'l vento:
    battean la lunga coda in moto lento
    a la coscia, e nitrían per li alti fieni.

    Giunse Amadigi a l'antro solitario,
    tutto de l'armi splendide vestito;
    e tre volte suonò, ne 'l muto orrore.

    Quindi, rompendo il magico velario
    che l'edera tessea, con quell'ardito
    gesto egli prese ad Orïana il cuore.



ORIANA INFEDELE


    Quando Amadigi con l'eterna amante
    giunse a l'isola Ferma (auree ne 'l giorno
    lucean le mura ed i verzieri in torno
    aulívano), le porte d'adamante

    s'apriron mute e gravi, a 'l suon de 'l corno;
    ma, lasciando Orïana a Floridante,
    il Donzello del mare, almo e raggiante,
    penetrò solo ne 'l divin soggiorno.

    Disse a la donna il bel sir di Castiglia:
    --Ahi che troppo di te m'arse il desio!
    Or tu m'odi!--E la trasse ai labirinti.

    Mago ne l'aria odore di jacinti
    vinse Orïana de 'l soave oblio.
    Ridea Lurchetto in sua faccia vermiglia.



SONETTI D'EBE



    .... Morgana, in dolce atto giacente
    ne 'l letto de la nube solitaria....

        MORGANA.


        Disegno di VINCENZO CABIANCA.

  [Illustrazione]



IL CAVALIERE DELLA MORTE


    In un'antica stampa de 'l Durero
    va contro maghi e draghi a la battaglia
    tutto chiuso ne l'arme un Cavaliero
    su 'l gran cavallo coperto di scaglia:

    a 'l fianco l'accompagna da scudiero
    la Morte senza piastra e senza maglia,
    dietro gli segue da valletto il nero
    Peccato; e fosca innanzi è la boscaglia.

    Io così, nuovamente, a la conquista
    de l'Arte e de l'Amor, salgo la vita;
    ma il mio bieco scudier non mi rattrista,

    ma il valletto ridendo alto m'incita
    ed incanto non v'ha che mi resista,
    poi che già in groppa, o Bella, io t'ho rapita.



IL FIUME


I.

    Quando lungo il selvaggio
    fiume la mia signora
    navigava, a l'aurora,
    con pomposo equipaggio,

    si faceva canora
    la riva a 'l suo passaggio
    e li uccelli di maggio
    volavan su la prora.

    Scendevano i tappeti,
    di color rosso e giallo,
    ne l'acqua di turchese.

    E i galanti roseti
    salutavano il gallo
    dipinto su 'l palvese.


II.

    Per virtù de' miei canti
    emergevan da l'onda
    amorosa e feconda
    mille fiori odoranti;

    e la signora bionda
    da' grandi occhi stellanti
    arrideva alli incanti,
    con voluttà profonda.

    Prendeano singolare
    forma ne 'l dubbio lume
    alti i pioppi d'argento

    e parean s'abbracciare
    giù ne 'l letto de 'l fiume,
    co 'l favore de 'l vento.


III.

    Sorgean quindi, nutrite
    da 'l padre fiume, vive
    selve lungo le rive
    e s'aprian ne 'l ciel mite.

    Da le sedi native
    le ninfe sbigottite
    correvano inseguite,
    candide fuggitive.

    E pe' i recessi impervi
    de i divini soggiorni,
    ne 'l silenzio divino,

    bramivan come cervi
    li egìpani, bicorni
    iddii da 'l piè caprino.


IV.

    La bianca dama il ciglio
    con la man, dolcemente,
    schermìa da la nascente
    forza de 'l sol vermiglio

    e l'altra man pendente,
    simile a un molle giglio,
    tenea fuor de 'l naviglio
    entro l'acqua corrente.

    E nulla era più bello
    e leggiadro de l'atto
    ch'ella facea, tra i raggi,

    cogliendo un ramoscello
    o un gran fiore scarlatto
    da li argini selvaggi.


V.

    Quando a terra posava
    ella il suo piè ducale,
    la selva fluviale
    tutta in fiore cantava.

    Saliva il nuziale
    inno a l'ospite flava;
    e a 'l tuono era la cava
    selva una catedrale.

    Io, piegando i ginocchi,
    dicea:--Bionda signora,
    un servo, ecco, si prostra.

    Ella chinava li occhi,
    bella come l'aurora,
    e dicea:--Sono vostra.



IL CANTO


    Un giorno ella cantò, su la galea,
    ad alleggiar la mia grave fatica.
    E il mare a noi, spirante ancor l'antica
    divinità, propizio sorridea.

    Al riso innumerevole, l'aprica
    riva non lungi in breve arco splendea,
    polita e bianca, qual ne l'Odissea
    la riva de la dolce Näusìca.

    Or così, mentre io ripensava Ulisse,
    guardando pe 'l seren grembo de l'acque
    palpitar l'ombra de l'amata chioma,

    parvemi, Omero, il dáttilo fiorisse
    in sommo de 'l gentil labbro, che nacque
    a favellar ne 'l tuo puro idïoma.



SIMILITUDINE


    Pascono in ozio su le mura erbose
    i cavalli asïatici d'Erode,
    mirabili cavalli; e tra le rose
    il fluttuare de le lunghe code

    mollemente si perde. Accidiose
    dormon le palme a torno in su le prode,
    e or sì or no ne 'l sonno de le cose
    il vivente de 'l mar fremito s'ode.

    Ma se Jacìm con rauco grido appare,
    balza correndo a lui lo stuol disperso,
    a lui guardando da li occhi inquieti.

    Amo così, mia bella, io figurare
    i desideri miei per te ne 'l verso,
    cavalli pascolati in tra i roseti.



SOGNO D'UNA NOTTE DI PRIMAVERA


    Tu discendi con pompa orientale
    giù pe' i lucidi gradi; ed una schiera
    di femmine ti segue, per la nera
    scala raggiando la beltà nivale.

    Verso la terra, in atto di preghiera,
    tu protendi le braccia; ed a 'l segnale
    da le bocche mulièbri agile sale
    il cantico a la nuova primavera.

    Si muovono con lento ondeggiamento
    le teste a 'l ritmo, e su per l'aria aperta
    in lontananza il pio cantico spira.

    Odesi, poi che il gran clamore è spento,
    la lunga scala d'ebano, coperta
    di femmine, vibrar come una lira.



L'ADORAZIONE


    Pallidi ne li azzurri jacintèi
    stan li oleandri lungo il mar giocondo,
    quali Tádema, il dolce pittor biondo,
    già vide ne li idilli di Pompei.

    Biancheggiano in quadrùplo ordine a tondo
    su le insigni colonne i propilei;
    e da l'ombra felice ove tu sei,
    Ebe, ne l'aria sale odor profondo.

    L'aroma de 'l divin fiore, che intatto
    ne 'l tuo misterioso essere chiudi,
    per una lenta ebrïetà m'attira.

    De le trepide braccia, umile in atto,
    io ricingo i tuoi piè candidi e nudi.
    Suona l'anima mia, come una lira.



RURALI



    Siede una donna, bianca e taciturna,
    tenendo l'arpa da le molte chiavi,
    su 'l solio, ne la sacra ora notturna.

        VAS SPIRITUALE.


        Disegno di G. A. SARTORIO.

  [Illustrazione: _Fototipia Danesi Roma_]



VIA SACRA


    Io te porto su 'l plaustro alto, Maraja,
    istorïato d'angeli e di santi,
    su 'l plaustro di trionfo a quattro paja
    di bovi da le corna erte e lunanti.

    Ondeggia in ritmo ai passi ogni giogaja
    bianca splendendo; il can fulvo davanti
    gioiosamente a i gravi passi abbaja;
    e a 'l salïente amor s'alzano i canti.

    Oh per il colle olivi in rare file
    sopiti, in un pallor dubbio di argento
    su 'l dolce azzurro pomeridiano!

    Oh tra li olivi il coro feminile
    svolgentesi ne l'aria senza vento,
    come un ampio cantar gregoriano!



PER LA MESSE


I.

    Quando il tuo corpo d'Ebe, alto, ridente
    ancor d'infanzia e già schiuso nel fiore
    de la prima bellezza adolescente,
    sorse avanti improvviso (era l'odore

    pe' i ricolti sereno), la vivente
    ubertà de' capelli a 'l fulvo ardore
    de le spighe così naturalmente
    si giunse e così vergine il candore

    del sol ne l'innocenza del mattino
    arrise, ch'io tremai. Non forse tu,
    risorta da la terra genitrice,

    eri un'iddia de 'l buon tempo latino?
    E non venivi ai popoli datrice
    d'una nuova più forte gioventù?


II.

    Sia con l'uomo la pace e la giustizia.
    Tace, inerte nel sonno, la pianura
    sazia di luce e pingue di dovizia
    oppressa da l'immensa genitura.

    Argentëi de' venti a la blandizia
    li olivi custodiscon la matura
    copia. Fáusto il ciel brilla; e un coro inizia
    i gravi offici de l'agricultura.

    E si svolge così, ne la profonda
    serenità de la tua luna estiva,
    l'inno del pane, o madre terra esperia;

    come quando per Cerere feconda
    il mite canto arvalico saliva,
    regnando Numa con la ninfa Egeria.


III.

    Or falcian diecimila braccia umane
    la messe del frumento. Come antiche
    are sacrate a deità pagane,
    su i rasi campi sorgono le biche;

    e lietamente l'uomo a le fatiche
    piega la forza de le membra sane,
    però che ride in cima de le spiche
    a l'uom l'augurio de 'l futuro pane.

    Guarda da l'alto su la rusticale
    opera il Sole, dio benigno e grande
    a cui sacro è ne' solchi ogni covone.

    E ne la pia letizia cereale
    per me la tua geòrgica si spande,
    o Publïo Vergilïo Marone.



LA MADRE


    Vigile, all'alba, sta su 'l limitare
    della casa la Madre ottagenaria,
    da poi che alla fatica frumentaria
    i molti figli attendono. E cantare

    ode la Madre i figli alto nell'aria
    concordemente l'inno salutare
    che prega il Sole di beneficare
    la santità dell'opra alimentaria.

    Alla dolcezza del compatimento
    materno in cuor de' figli la nativa
    pazienza risorge. Or, tra i sudori

    e la sete e la polvere ed il vento,
    la pazienza è il lene olio d'oliva
    che conforta le membra ai lottatori.



I SEMINATORI


    Van per il campo i validi garzoni
    guidando i buoi da la pacata faccia;
    e, dietro quelli, fumiga la traccia
    del ferro aperta alle seminagioni.

    Poi, con un largo gesto delle braccia,
    spargon li adulti la semenza; e i buoni
    vecchi, levando al ciel le orazïoni,
    pensan frutti opulenti, se a Dio piaccia.

    Quasi una pia riconoscenza umana
    oggi onora la terra. Nel modesto
    lume del sole, al vespero, il nivale

    tempio de' monti inalzasi: una piana
    canzon levano li uomini, e nel gesto
    hanno una maestà sacerdotale.



IL POMO


    Pendono i frutti, maturati a 'l roseo
    calor de 'l sole, e tremano:
    intatti ancora, poi che ad Ebe l'intima
    dolcezza lor consacrano.

    Vermigli sono e de 'l lor peso aggravano
    i rami e de 'l lor numero;
    e tale effluvio spargono aulentissimo
    onde mi ride l'anima

    tutta e ne 'l capo assai giocondi nasconmi
    pensieri e vaghe imagini
    di amore sì che in vero tutta ridemi,
    come ne 'l vino, l'anima.

    Sopraggiunge ne li orti Ebe, con subita
    gioia; e ridendo gridami:
    --O tu, o tu che siedi sotto l'albero
    de 'l pomo, un frutto coglimi!--

    --Non io te 'l coglierò, ma te medesima
    leverò, fino a giugnere
    il ramo, su le mie braccia, o dolcissima
    Ebe.--Ed ella:--Or tu lévami

    su le tue braccia.--Ed io la levo, a giugnere
    il buon frutto che penzola
    ed alletta, sì come ne la favola
    antica del re Tantalo.

    Ergesi il corpo d'Ebe, quale un'anfora,
    da la mia stretta; e l'avide
    mani ella tende a 'l ramo, in attitudine
    bellissima; ed ai cúbiti

    nudati le sorridono due rosei
    cavi, due nidi rosei,
    ove, meglio che a 'l frutto, io vorrei mordere,
    me' che a l'inarrivabile

    frutto.--Ancora!--ella grida--Ancora! Un ultimo
    sforzo, ed ha vinto Tantalo!--
    Ond'io più l'alzo; e più ne 'l desiderio
    ardo, sentendo il palpito

    de le sue membra. Grida ella:--Vittoria!--
    E, d'un salto, si libera
    da le mie braccia e fugge, abbandonandomi.
    --Vittoria!--li orti echeggiano.

    Poi ella torna, perocchè ne l'animo
    sia pïetosa. Offrendomi
    la cara bocca, ancora tutta rorida
    de 'l succo, d'onde l'alito

    esce fragrante come su da 'l calice
    d'un fiore, dice:--Baciami!--
    Ed a lungo io la bacio; e tutti fremono,
    parmi, d'invidia li alberi.



LA VENDEMMIA


    Prema co 'l pié gagliardo un giovinetto,
    entro il tino di quercia, le capaci
    sacca ricolme d'uva succulenta;
    ed all'urto gli scorra il mosto in rivi.

    Poggiato ad una verde asta silvana,
    ei moderi co 'l suo canto l'alterno
    salto de' piedi; e sia composto, quale
    è Dïonigi nel buon marmo acheo.

    Gli ridano le membra, temperate
    di grazia e di vigore, agili in ritmo.
    Appariscano a fior del suo torace
    adolescente i fieri archi dell'ossa,

    come a studio segnati da preclaro
    artefice; e le braccia al busto inserte
    nitidamente sieno e nerborose
    come d'atleta al disco esercitato;

    e le gambe in lor moti abbian la maschia
    venustà della forma e la lunghezza
    quasi fluente, che alli Antichi nostri
    in tele e in marmi assai furono care.

    Vengan d'in torno le fanciulle al tino
    da le prossime vigne, con canestri
    di grappoli in su 'l capo; e faccian coro,
    quali un dì le canéfore in Atene.

    Fluiscano, di sotto alle calcagna
    imporporate del vendemmiatore,
    larghi rivi di mosto; e liberale
    sia di gioia a l'umana opera il Sole.



LA NEVE


    Scende la neve su la Terra madre,
    placidamente. E lei bianca riceve
    la Terra ne' suoi giusti ozi, da poi
    che all'uom copia di frutti ha partorito.

    Guarda il bifolco splendere a' sudati
    campi la neve, mentre siede al desco;
    e a lui dal cuor la speme e dal bicchiere
    sorride la primizïa del vino.

    --Scendi con pace, o neve; e le radici
    difendi e i germi, che daranno ancora
    erba molta alli armenti, all'uomo il pane.

    Scendi con pace; sì che al novel tempo
    da te nudriti, lungo il pian ridesto,
    corran qual greggia obedïenti i fiumi.



BOOZ ADDORMENTATO



    Ella cavalca, lungo il reo padule;
    e dietro; a paro, su due bianche mule
    seguon due vecchi, gravi e taciturni.

        L'ALUNNA.


        Disegno di MARIO DE MARIA.

  [Illustrazione: _Fototipia Danesi Roma_]



                    DA VICTOR HUGO.


I.

    Ora Booz giaceva, stanco le braccia e il petto,
    però che faticato avea molto su l'aja.
    Ed or giaceva alfine Booz, presso le staia
    ricolme di fromento, ne 'l consueto letto.

    Possedea grandi il vecchio campi d'orzo e di grano
    al sole; e prosperavano i suoi campi in dovizia.
    Se ben dovizioso, era mite ed umano
    il vecchio; e incline avea l'animo a la giustizia.

    Quando a sera tornavano da le agresti fatiche
    carichi di manipoli i mietitori a torme,
    ei, vedendo una femmina china cercar ne l'orme,
    dicea:--Lasciate, o uomini probi, cader le spiche.

    Così, candidamente, lungi da oblique strade,
    di probità vestito e di lino, incedeva.
    Parean publiche fonti le sue sacca di biade,
    però che vi attingeano quanti la fame urgeva.

    D'argento era la barba, come rivo d'aprile.
    Le femmine guardavano, più che l'ésili e blande
    forme di un uomo giovine, quella forma senile;
    però che l'uomo giovine bello è, ma il vecchio è grande.

    Il vecchio, risagliente a le origini prime,
    entra nelli anni eterni, esce dai dì malcerti.
    Al giovine una fiamma brilla ne li occhi aperti,
    ma ne li occhi de 'l vecchio è una luce sublime.


II.

    Ora Booz dormiva ne la notte tra i suoi.
    Presso le mole simili ne l'ombra a monumenti,
    i mietitori stavano distesi, come armenti
    stanchi. E questo era in tempi lontanissimi a noi.

    Le tribù d'Israello avean per capo un saggio.
    La terra, esercitata da una gente errabonda
    che ignote orme giganti scoprìa ne 'l suo passaggio,
    tutta era molle ed umida pe 'l diluvio e feconda.


III.

    Come Jacob e Judith, con le pálpebre chiuse
    Booz giacea ne 'l grave sonno patriarcale.
    Or la porta de 'l cielo su 'l suo capo si schiuse
    e ne discese un sogno. Ed il sogno fu tale:

    Booz vide una quercia fuor de 'l suo ventre in piena
    vita sorgere e lenta giugner l'ultimo lume.
    Una stirpe di umani vi s'ergea, qual catena:
    un re cantava a 'l piede, moriva in alto un nume.

    E mormorava Booz, sotto le verdi foglie:
    --Come può mai, Signore, questo dunque accadere?
    Su 'l mio capo fiorirono ottanta primavere:
    ed io non ho figliuoli, ed io non ho più moglie.

    Da gran tempo colei che meco ebbi giacente
    ha lasciato il mio letto pe 'l tuo letto, Signore;
    e noi siam l'una all'altro ancor misti d'amore,
    ella pur semiviva ed io quasi morente.

    Una progenie nuova da me sorgere a gloria?
    Or come posso io dunque aver prole, o Signore?
    La prima giovinezza ha trionfanti aurore:
    esce il dì da la notte come da una vittoria;

    ma la vecchiezza è tremula, quale ai venti alberello.
    Io son vedovo, solo, ne 'l vespero, su 'l monte;
    come un bove assetato piega all'acqua la fronte,
    io l'anima reclino, mio Dio, verso l'avello.--

    Così Booz parlava, ne la misteriosa
    notte, e a Dio volgea l'occhio inerte; però che
    l'alto cedro non sente a 'l suo piede una rosa
    e non sentiva Booz una donna a 'l suo piè.


IV.

    Mentre Booz dormiva, Ruth, una moabita,
    s'era distesa ai piedi de 'l vecchio, nuda il seno,
    sperando un qualche ignoto raggio o ignoto baleno
    se venìa co 'l risveglio la luce de la vita.

    Ora Booz inconscio dormiva sotto i cieli;
    Ruth inconscia attendea, con pia serenità.
    Una fresca fragranza salìa da li asfodeli,
    e i soffi de la notte languìan su Galgalà.

    Era l'ombra solenne, augusta e nuziale.
    Volavan forse, innanzi a li occhi stupefatti
    de li umani, erranti angeli; però che in alto a tratti
    apparivano azzurri lembi simili ad ale.

    Il largo respirare di Booz dormïente
    mesceasi de' ruscelli a 'l romor roco e grave.
    Era nel tempo quando la natura è soave:
    i colli avevano gigli su la cima fiorente.

    Ruth pensava; dormiva Booz. L'erbe alte e nere
    ondeggiavano; in pace respiravan li armenti;
    una immensa dolcezza scendea da i firmamenti.
    Era l'ora in cui placidi vanno i leoni a bere.

    Ogni cosa taceva in Ur e in Jerimàde.
    Li astri riscintillavano su pe 'l cielo profondo;
    il mite arco lunare, tra il giardino giocondo
    de' fiori de la luce, risplendea su le biade;

    e Ruth, immota, li occhi socchiudendo tra i veli,
    chiedea:--Qual mietitore dio de l'eterna estate,
    poi che le sue stellanti ariste ebbe tagliate,
    gittò la falce d'oro ne 'l gran campo dei cieli?



IDILLII



    .... i cervi, a cui ne li occhi il fascino
    sta de le solitudini
    natie, sazî de 'l pascolo, su 'l limite
    scendono in torme a bevere.

        DIANA INERME.


        Disegno di ALESSANDRO MORANI.

  [Illustrazione: _Fototipia Danesi Roma_]



L'ANDRÒGINE


    Ermafrodito, il semidio procace,
          sta ne la fonte immerso
    come in un letto d'oro; ed il ben terso
    corpo dona a l'abbraccio di Salmace.

    Tremano i fiori su la calda linfa
          i calici schiudendo,
    mentre si compie l'imeneo stupendo
    de 'l figliuol di Mercurio con la ninfa.

    A la marina, a 'l bosco, a 'l piano, a 'l monte
          una immensa letizia
    muove da 'l padre Sole: arde propizia
    la voluttà su l'amorosa fonte.

    E sal con deità di giovinezza
          ne 'l favore di Giove
    il gentil mostro che le forme nuove
    ha temprate di forza e di bellezza.



L'ESPERIMENTO


    Ne la stanza regale, ampia e rotonda,
    ove brillano scritti a le pareti
    i versetti de' saggi e de' poeti
    in bei carbonchi di Palesimonda,
    il Re si chiude in suoi pensier segreti:
    la barba il petto eröico gl'inonda.

    Lo sguardo ei tien su 'l cofanetto assiro
    che in dieci lune l'orafo compose.
    Giunge da li orti il soffio de le rose,
    quasi con metro egual, come un respiro.
    Il veltro de le cacce avventurose
    dorme, composto il lungo dorso in giro.

    Sta ritto in piè con tutta la figura
    l'unico Erede, figlio di Ieéna.
    Ei tace. Una lanugin fulva a pena
    gli ombra la faccia imperiosa e dura.
    Bella è la bocca; e l'occhio gli balena
    di desiderj enormi d'avventura.

    Troppo il padre ha regnato, ei pensa. E, piano,
    scegliendo ne la cintola uno stile
    cui di recente un suo velen sottile
    ha fatto azzurro, avanza; e con la mano,
    già invitta nel frenar l'impeto ostile,
    punge le nari a 'l veltro persiano.



«HYLA! HYLA!»


    De la placida selva entro li abissi,
    ove s'odon li egìpani bramire,
    Ila di Misia, il giovinetto sire
    a cui cingon la fronte i bei narcissi,

    prono su la cerulëa sorgente
    tutte le membra, in atto di ristoro,
    v'immerge una sua grande anfora d'oro
    con tardo gesto, dilettosamente.

    Piegano a 'l peso de 'l metallo cavo
    i calici de 'l loto; e treman l'acque
    poi che l'efébo, ignudo come nacque,
    in chinarsi v'intinge il suo crin flavo.

    Ma da la man ch'è presa di languore
    sfugge l'anfora e lenta si sprofonda:
    ne 'l glauco vel la sua forma rotonda
    appare qual meraviglioso fiore.

    L'Asïatico già tende le braccia
    trepidamente verso l'imo ignoto:
    attonito, fra i calici de 'l loto
    ei vede arguta ridere una faccia.

    Insidiose, in lunghi allacciamenti,
    ondeggiano le najadi lascive:
    balenano di riso ne le vive
    bocche le chiostre nivëe dei denti.

    Sogguardan elle con languida brama
    Ila, si torcon elle in fra le piante.
    --O figliuolo del re Teodamante,
    non così dolce mai Ercole t'ama!--

    --O tu, de li Argonäuti diletto,
    a cui cingon la fronte i bei narcissi!--
    Discopron elle in tra' capei prolissi,
    ridendo a sommo, il ventre bianco e il petto.

    Or, prono a la soave riva, il lene
    Ila sente vanir sua conoscenza,
    quasi di bocca la divina essenza
    d'un frutto gli si strugga per le vene.

    E le najadi in lunga teorìa
    sorgon, gli avvincon de le braccia il collo.
    --Ila chiomato, oh simile ad Apollo!--
    Ei beve, ei beve; e il caro Ercole oblìa.



VAS SPIRITUALE


    Siede una donna, bianca e taciturna,
    tenendo l'arpa da le molte chiavi,
    su 'l solio, ne la sacra ora notturna.

    Angeli immensi reggon li architravi;
    e fra simboli oscuri, in su gl'incisi
    cuoj, regine con mitra ésili e gravi
    stanno cogliendo rossi fiordalisi.

    Raggian come pianeti i bronzei dischi
    su le porte di cedro; e ne li adorni
    velari i liofanti e i liocorni
    mesconsi a le giraffe e ai basilischi.

    Ella, rigida e pura entro la stola,
    pensa una verità teologale.
    Chiari i segni de 'l ciel zodiacale
    a lei giran la chioma di viola.

    Li smeraldi e le piume de li uccelli
    brillano su 'l suo largo vestimento
    onde le mani cariche di anelli
    si riposano lungo l'istrumento.

    E a piè de 'l solio il vescovo latino
    move in ritmo un turibolo d'argento
    ov'arde con la mirra il belzuino.



L'ALUNNA


    Sotto i propizïati albor notturni
    ella cavalca, lungo il reo padule;
    e dietro, a paro, su due bianche mule
    seguon due vecchi, gravi e taciturni.

    In fondo all'acque cupe di tristizia
    si muovono talor vaghe figure.
    Ella rafforza contro le paure
    il cavallo, con placida blandizia.

    Il suo corpo, che intriso fu lung'ora
    nel lago d'olio all'isola Junonia,
    dolce come le pelli d'Issedonia
    a 'l tatto e fresco assai più che l'Aurora,

    or chiuso in armatura di gioielli
    molto riluce. È bionda come il miele;
    e, come li occhi de la fata Urgele,
    li occhi suoi brillan verdi in tra' capelli.

    Sale dubbio vapor su da li stagni,
    che in alto a l'aria forme truci assume;
    a fior de l'acque bollono le schiume;
    or sì or no da 'l limo escono lagni.

    Ma balzan, di desir tutte vermiglie,
    le rose in tra le zampe a 'l palafreno
    e baciano a la bella dama il seno
    o la mano che tien salda le briglie.

    E la Luna talor, nuda le spalle,
    a l'aereo veron d'oro s'affaccia
    e graziosa a lei mostra la traccia
    segnando cerchi magici su 'l calle.

    Ella cavalca. E, poi ch'è giunta a 'l loco,
    lascia d'un salto il ben gemmato arcione.
    A lei li arnesi de l'incantagione
    porgono i vecchi. Ell'è trepida un poco.

    Or prima, i quattro venti a richiamare,
    battendo ad arte con le lunghe dita
    sovra una spera concava e polita,
    fa la rossa mandrágora cantare.

    Quindi, girando in ritmo agile a danza
    tre volte su 'l sinistro piè leggiere,
    coglie al fine, con risa di piacere,
    l'unico fior de la dimenticanza,

    che, misto a 'l succo de' giusquìami bianchi,
    rende a le donne la beltà nativa
    e alli uomini il già freddo cuor ravviva
    e cinge di valore inclito i fianchi.



DIANA INERME


    Quando a 'l mattino il Sol gode tra li alberi
    con aurea bocca attingere
    il fior de l'acque, ridono i miracoli
    de la luce ne 'l mobile

    specchio. Ed i cervi, a cui ne li occhi il fascino
    sta de le solitudini
    natie, sazi de 'l pascolo, su 'l limite
    scendono in torme a bevere.

    Or le cervine imagini e le arboree
    tremano a 'l fondo in pendula
    corona: s'ode ne la pace il crépito
    de le lingue che lambono.

    E, poi che lievi l'aure sopra giungono,
    i mammiferi timidi
    ergono il muso ne l'inquietudine,
    grondanti da le fauci.

    Passano lievi per la selva l'aure.
    Sospiran come cetere
    li alberi a torno, e ne 'l divin silenzio
    più gran dolcezza piovono.

    Oh de le antiche iddie presente spirito!
    Non quivi un giorno, in libero
    d'erbe e di fior profondo letto, giacquero
    donne possenti e amarono?

    Biancheggia entro le chete acque una statua,
    sommersa; le marmoree
    forme de 'l petto resupino, simili
    a chiusi fiori, emergono.

    È Diana: così dorme da secoli.
    Ma pur, quando a le tiepide
    lunazïoni estive i boschi odorano,
    si sveglia ella; ed il lucido

    corpo piegando in arco alzasi. Tremano
    l'acque raggiate; e, attoniti
    in conspetto di tal forma, su' margini
    non han li alberi fremito.

    Alzasi lenta; e cresce come nuvola,
    come su da la tenebra
    crescea per l'arti de la maga tessala,
    porgendo la man nivea.

    Da quel divino gesto attratti, vengono
    i cervi a lei con docile
    bramire, ed una siepe alta compongono.
    Gioisce a lo spettacolo

    di tanta preda il cuore de la vergine
    cacciatrice.--Oh lietissime
    stragi sonanti lungo i fiumi patrii!--
    ripensa ella; e sommergesi.



INTERMEZZO MELICO


            TITANIA:

    _Music, ho! music; such as charmeth sleep._

        A MIDSUMMER-NIGHT'S DREAM AC. II. SC. II.



    Ne la man con gesto lieve
    da i virgulti accoglie l'onda.

        ROMANZA.


        Disegno di ALESSANDRO MORANI.

  [Illustrazione]



ROMANZA


    Quale un dio lieto che gode
    in sua via sparger viole
    e salire ode la lode
    da la sua terrena prole,

    su la selva alta, che tace,
    dolcemente guarda il Sole.
    Roco il vento, ne la pace,
    mette sue rare parole.

    Stanno li alberi aspettando,
    con monili di rugiade.
    Sopra l'erbe a quando a quando
    una gemmea stilla cade.

    Hanno li alberi stupore
    de la forza che li invade;
    ma non anche vive un fiore
    su le braccia lunghe e rade.

    Pianamente viene l'Ora.
    Ella, come l'Ebe, è bionda;
    e de' baci de l'Aurora
    ella ancora è rubiconda.

    Ne la man con gesto lieve
    da i virgulti accoglie l'onda.
    Guarda e ride. Quindi beve,
    con felicità profonda.

    E la selva a poco a poco
    cede al fascino de 'l Sole.
    Ne la pace, il vento roco
    mette sue dolci parole.



ROMANZA


    Ondeggiano i letti di rose
    ne li orti specchiati da 'l mare.
    In coro le spose con lento cantare
    ne 'l talamo d'oro sopiscono il sir.

    Da l'alto scintillan profonde
    le stelle su 'l capo immortale;
    ne 'l vento si effonde quel cantico e sale
    pe 'l gran firmamento che incurvasi a udir.

    Ignudo, le nobili forme
    consparso d'un olio d'aroma,
    l'amato s'addorme: la sua dolce chioma
    par tutta di neri giacinti fiorir.

    Discende da' cieli stellanti
    un fiume soave d'oblio.
    Le spose, pieganti su 'l bel semidio,
    ne bevon con lungo piacere il respir.



ROMANZA


    Sotto l'acqua diffuse
    verdeggiano le piante;
    e in rigido adamante
    paion constrette e chiuse.

    Le coppe ampie de 'l loto
    splendono ivi, non tocche:
    su 'l loro stelo immoto
    paiono aperte bocche.

    Ancora il vaso d'oro
    che a l'acqua Ila protese,
    la vasta urna cretese
    da 'l bel fianco sonoro,

    fa co 'l suo grave pondo
    le foglie ancor piegare.
    Ma non s'odono a 'l fondo
    le najadi cantare.

    Le najadi procaci,
    che il giovinetto sire
    ad Ercole rapire
    osarono co' baci,

    giacciono a 'l fondo estinte
    da gran tempo ne 'l gelo;
    e le lor membra avvinte
    che splendean senza velo,

    quelle membra ove i lievi
    fiori de 'l sangue allora
    uscían brillando fuora
    come rose tra nevi,

    e li occhi ove saette
    avea certe il disío,
    e le bocche perfette
    ove più d'un bel dio

    trapassando per Colco
    piacquesi a lungo bere,
    e le chiome leggere
    che segnavan d'un solco

    aureo l'acque ne 'l nuoto
    involgendo e portando
    i calici de 'l loto
    con un murmure blando,

    or tutto è inerte e informe
    ne l'ime sedi algenti.
    In biechi atteggiamenti
    di morte, il coro dorme.

    Dorme per sempre il coro
    de le ninfe sommerse;
    ma brilla il vaso d'oro
    ch'Ila ne 'l fonte immerse.



ROMANZA


    Lungo il bel fiume, taciti
    muovono i cigni a schiera.
    Nobili e puri, splendono
    quali forme di luce.

    Un desío, ne la torbida
    notte di primavera,
    li aduna; e li conduce
    a lidi più lontani.

    Desío d'amori umani
    forse li accende ancora.
    A 'l lor remeggio s'aprono
    l'acque in raggianti anelli,

    e fan soave crepito
    come innanzi a una prora;
    cui rispondon con lento
    murmure li arboscelli,

    cui talvolta rispondono
    ne 'l gran silenzio intento
    con iterati suoni,
    come d'un riso, li echi.

    Ai lidi i cigni muovono,
    dove in profondi spechi
    donne misteriose
    da gran tempo prigioni

    vivono, inconsce d'ogni
    diletto de l'amore.
    Come Leda Tindaride
    a 'l dio Giove soppose

    il bellissimo fiore
    di sue membra (e ne' sogni
    de' poeti, miracolo
    di gioia, Elena sorse),

    così le occulte najadi,
    ch'entro l'adamantino
    gelo de l'acque il Sole
    non mai baciò nè scorse,

    offriranno il lor vergine
    seno. Ed un'alma prole
    nascerà da' connubii,
    poi che il cigno è divino.



ROMANZA


    Prono, su 'l mar natale
    cui nasconde la duna,
    ride il sole autunnale,
    dolce come la luna.

    S'ode il mare pe 'l lido
    gemere, lento e grave.
    S'ode talora il grido
    fievole d'una nave

    che faticosa in vano
    lotta co 'l vento avverso,
    o il richiamo lontano
    d'un uccello disperso,

    o l'improvviso tuono
    d'un'onda più gagliarda.
    Ride il sole, già prono,
    e dolcemente guarda.



ROMANZA


    Il porto ampio s'addorme,
    stanco d'uman lavoro:
    chiude un molle tesoro
    entro il suo seno enorme.

    Par che ne l'aria salga
    un suo possente fiato:
    è caldo e profumato
    come di frutti e d'alga.

    Arde qualche fanale,
    raro tra la nebbietta:
    il chiaror torbo getta
    lunghe e péndule scale.

    Ad ora ad or si leva
    un flutto, e su le prore
    fa trepido romore
    qual d'un gregge che beva.

    Come crescono i vènti
    de la terra, più gravi
    li odori e più soavi
    e più sottili e ardenti

    salgon da' vasti legni
    carchi di spezie rare.
    E ne l'alba lunare
    a noi s'aprono i regni

    meravigliosi, i liti
    cari a 'l Sole, ove amando
    vivono e poetando
    uomini forti e miti.

    Da 'l soffio a l'aria effusi
    per lunghe onde i profumi,
    come celesti fiumi
    in un solo confusi,

    ondeggian su la bruna
    congerie de le antenne.
    Ed ecco, ne 'l solenne
    silenzio de la luna,

    alzasi un lento coro
    da quella selva informe.
    Il porto ampio s'addorme,
    stanco d'uman lavoro.



ROMANZA


    Ne la coppa elegante
    ove il sole ha fulgori
    tremuli e gai colori
    come in un diamante,

    non anche dà un sospiro
    il giglio morituro.
    Piega, mistico e puro,
    in suo dolce martíro.

    Cade, su l'acqua accolta
    ne la carcere breve,
    mite come la neve
    qualche foglia disciolta;

    e li stami che ardenti
    quali raggi da un serto
    rompeano da l'aperto
    seno a tentare i vènti,

    i vivi agili stami
    cui d'un volo sonoro
    cingean gl'insetti d'oro
    laboriosi a sciami,

    entro il calice infranto
    paiono irrigiditi
    verso Dio, come i diti
    lunghi e scarni d'un Santo.

    Un odore assai fioco,
    odor quasi d'incenso
    che per un tempio immenso
    vanisca a poco a poco,

    da 'l giglio umile sale
    divotamente a 'l cielo.
    Trema il languido stelo.
    _O Vas spirituale!_



ROMANZA


    Ne le sue nubi avvolta
    la Luna si riposa,
    come in profondo letto.
    Ridendo, a volta a volta,
    sorge come una sposa
    ignuda a mezzo il petto.

    Ancor su l'acqua splende
    trepidamente in arco
    il solco de 'l naviglio;
    e lungi si protende
    la fresca ombra de 'l parco
    entro il chiaror vermiglio.

    Ne l'aria de la notte
    il fior d'arancio effonde
    odor più dolce e pieno,
    misto a 'l fior d'oleandro.

    Su la scala, ove rotte
    hanno gemiti l'onde,
    Rosalinda vien meno
    tra le braccia a Silvandro.



RONDÒ PASTORALE


    A 'l gran Maggio i vènti aulenti
    per le selve hanno lamenti
    vaghi e assai lontani cori;
    e, recando ampi tesori
    d'acque, suonan le correnti.

    Oh bei colli, sorridenti
    ne' rosati albeggiamenti,
    d'onde salgon mille odori
                a' l gran Maggio!

    Siede in mezzo i bianchi armenti
    Gallo e trae novi concenti
    da' l suo flauto a sette fori;
    e i richiami ode Licori
    da le siepi rifiorenti
                a' l gran Maggio.



    Su la scala, ove rotte
    hanno gemiti l'onde,
    Rosalinda vien meno
    tra le braccia a Silvandro.

        ROMANZA.


        Disegno di VINCENZO CABIANCA.

  [Illustrazione]



RONDÒ


    Come sorga la luna
    da le cime selvose
    e grave su le cose
    sia l'oblio de la luna,

    amica, tu verrai
    furtiva ne 'l verziere.
    Hanno i consci rosai
    ombre profonde e nere.

    O amica, senz'alcuna
    tema verrai: le rose
    avran latébre ascose
    per lor sorella bruna,
    come sorga la luna.



ROMANZA


    Ella tremando venne
    alfine, ove a me piacque.
    Che mai dicevan l'acque
    ne 'l silenzio solenne?

    Palpitavan le stelle
    ne la conca profonda;
    come fiori, più belle
    splendeano in tra la fronda.

    Parevano i roseti
    ne l'ombra alte compagi
    di neve: in loro ambagi
    avean cari segreti.

    Ella con le due braccia
    il mio collo ricinse,
    e mi porse la faccia,
    e tutta a me s'avvinse.

    Con sì lungo piacere
    io la baciai d'amore
    che parvemi ne 'l cuore
    tutte le rose avere.

    Ben or, se l'aulorose
    labbra onde il miel trabocca
    bacio, sapor di rose
    mi si diffonde in bocca.



RONDÒ


    Entro i boschi alti e soli
    (era la luna piena)
    fluiva in larga vena
    canto di rosignoli.

    Da 'l triste inno corale
    pendeva ella, in ascolto.
    Chino su 'l davanzale,
    io pendea da 'l suo volto.

    Non i miei lunghi duoli,
    non de 'l suo cor la pena
    a la notte serena
    diceano i rosignoli
    entro i boschi alti e soli?



RONDÒ


    Lungi i boschi alti e sonori
    dove l'Austro avea gran lite
    e da mille verdi vite
    salían canti a' nostri amori!

    Eran tristi i bei cantori
    a le nostre dipartite.
    Ma pur oggi, o amica, dite:
    non udite i nuovi cori?

    Ne' religïosi albori
    sorge Roma, augusta e mite;
    e le sue cupole ardite
    prende il sole e i vasti fòri,
    augurando a' nostri amori.



ROMANZA


    Dolcemente muor Febbraio
    in un biondo suo colore.
    Tutta a 'l sol, come un rosaio,
    la gran piazza aulisce in fiore.

    Dai novelli fochi accesa,
    tutta a 'l sol, la Trinità
    su la tripla scala ride
    ne la pia serenità.

    L'obelisco pur fiorito
    pare, quale un roseo stelo;
    in sue vene di granito
    ei gioisce, a mezzo il cielo.

    Ode a piè de l'alta scala
    la fontana mormorar,
    vede a 'l sol l'acque croscianti
    ne la barca scintillar.

    In sua gloria la Madonna
    sorridendo benedice
    di su l'agile colonna
    lo spettacolo felice.

    Cresce il sole per la piazza
    dilagando in copia d'or.
    È passata la mia bella
    e con ella va il mio cuor.



RONDÒ


    Quante volte, in su' mattini
    chiari e tiepidi, io l'aspetto!
    Ella ancora ne 'l suo letto
    ride ai sogni matutini.

    Su la piazza Barberini
    s'apre il ciel, zaffiro schietto.
    Il Tritone de 'l Bernini
    leva il candido suo getto.

    I nudi olmi a' Cappuccini
    metton già qualche rametto:
    senton giugnere il diletto
    de' meriggi marzolini.
    Come il cuor balzami in petto
    se colei vedo, che aspetto,
    in su' tiepidi mattini!



ROMANZA


    Vi sovviene? Fu il convegno
    sotto l'Arco dei Pantani.
    Voi, saltando giù da 'l legno,
    mi porgeste ambo le mani.

    Ridean l'agili colonne,
    tutte argento buono, a 'l sol;
    ed i passeri loquaci
    le cingean d'allegro vol.

    Sotto l'Arco il cavalcante
    attendea con i due bai.
    Con sì pronto atto elegante
    voi balzaste, ch'io pensai:

    --Quante volte ne' selvaggi
    parchi il cervo ella inseguì?
    Dolce cosa al fianco suo
    galoppar tra gli allalì!--

    Voi chiedeste, con un riso
    ne' belli occhi:--Dunque andiamo!--
    Era bianco il vostro viso,
    bianco assai. Risposi:--Andiamo.--

    Ma facean altre parole
    gran tumulti in fondo a me.
    Le contenni: il cuor ne 'l petto
    con che furia mi battè!

    Era il fòro taciturno
    da una grave ombra occupato.
    Sopra il tempio di Saturno
    indugiava il dì, pacato.

    Un non so che senso augusto
    si spargea, di deità,
    su da quella morta pietra
    ne la gran vacuità.

    Un istante voi fermaste
    il cavallo in su 'l confine.
    Ne l'eguale ombra più vaste
    digradavan le ruine.

    Ma s'apría più vasto ancora
    e profondo il mio desir.
    Io sentìa l'impeto forte
    a la mia bocca salir.

    Voi diceste:--Or dunque il vostro
    bel San Giorgio? È ancor lontano?--
    In silenzio alto di chiostro
    era il fòro. Con che strano

    sentimento di tristezza
    ne 'l silenzio risonò
    quella voce, e ne 'l mio cuore
    la speranza ravvivò!

    A San Giorgio io vi guidai,
    a la chiesa erma e gentile
    che fiorito a' novi rai
    leva il roseo campanile.

    Da la prossima Cloaca,
    che de 'l maggio a la virtù
    pur fioría, di femminette
    gran cantar veniva su.

    I mattoni bisantini
    rilucean vermigli a 'l sole,
    come fosser pietre fini,
    carboncelli o cornïole.

    Oh San Giorgio benedetto!
    Ivi alfin l'amor s'aprì.
    Dolci cose io vi parlai.
    Piano, voi diceste sì.



ROMANZA


    Dolce ne la memoria
    quella vista si leva.
    Su l'Aventino ardeva
    lento il giorno: una gloria

    come di bianche rose
    versava il ciel su 'l colle
    e copría de la molle
    neve tutte le cose.

    A 'l pian nebbie leggere
    si spandeano da 'l fiume:
    parean, ne 'l dubbio lume,
    volubili riviere

    traenti in loro ambagi
    favolosi navigli.
    Dietro, grandi e vermigli
    tra i cipressi i palagi

    su 'l colle imperiale
    parean arsi da chiusi
    fochi. In un sol confusi
    romor profondo eguale,

    suoni d'opere umane
    salían da la vicina
    ripa; a Santa Sabina
    squillavan le campane.

    Una pace serena,
    la pia pace che amavi
    ne' tuoi cieli soavi,
    o Claudio di Lorena,

    si spandea ne l'occaso,
    piovea su' cuori oblío.
    Vinto l'essere mio
    da quel fascino e invaso,

    tutto de la recente
    voluttà pieno ancora
    (come, o dolce signora,
    la tua bocca era ardente!),

    all'alto all'alto, anélo,
    tendea, spenta ogni guerra.
    E parea che la terra
    illuminasse il cielo.



OUTA OCCIDENTALE


        Guarda la Luna
    tra li alberi fioriti;
        e par che inviti
    ad amar sotto i miti
    incanti ch'ella aduna.

        Veggo da i lidi
    selvagge gru passare
        con lunghi gridi
    in vol triangolare
    su 'l grande occhio lunare.

        Veggo pe 'l lume
    le donne entro i burchielli:
        vanno su 'l fiume,
    date all'acqua i capelli,
    tra i gridi delli uccelli.

        Tende ogni amante
    all'amante le braccia
        e a sè l'allaccia
    entro la bianca traccia
    de l'astro radiante.

        Passan li uccelli.
    Oh chiome feminili,
        chiome gentili,
    lunghe reti sottili
    tratte dietro i burchielli!

        Oh di roseti
    profondi laberinti
        ove i poeti
    in giacigli segreti
    stanno alle belle avvinti!

       La nostra nave,
    cui non pinse Ki-Tsora,
       va con soave
    andare; e su la prora
    tu ti stendi, o signora.

        I tuoi capelli
    sciolti hanno il fresco odore
        dei ramoscelli
    che ondeggian lenti, in fiore,
    con sommesso romore.

        La tua man breve,
    passando, i fiori coglie:
        par tra le foglie,
    tra i calici di neve
    una farfalla, lieve.

        Ma, come pieno
    è il grembo, ti riposi:
        palpita il seno,
    bevono il gran sereno
    li occhi meravigliosi;

        e dolcemente
    stan su i fiori adagiate
        le mani.--Oh fate,
    belle mani adorate,
    il gesto che consente!



LAI


    La Luna diffonde
    pe' cieli suo latte:
    a lei, chiuse e intatte,
    sospiran le selve,
                profonde.

    Un murmure, lento,
    si spande ne 'l piano;
    e giunge un lontano
    di cervi bramire
                su 'l vento.

    Discende ne l'ode
    la dea che m'è dolce;
    e a me i suoni molce
    de 'l verso. Ma l'altra
                non ode.

    Ma quella ch'io amo
    non ode. I roseti
    ancora han quieti
    misteri e fan lungi
                richiamo;

    e ancor ne' giacigli
    rimangono l'orme
    recenti e le forme
    recenti tra i fiori
                vermigli.

    Ma quella ch'io bramo
    non meco vi giace...
    O cuor senza pace,
    ed occhi miei lassi,
                moriamo.



RONDÒ


    Com'api armoniose
    uscenti a 'l novo sole
    per le felici aiuole
    de' gigli e de le rose,

    queste che Amor compose
    delicate parole,
    com'api armoniose
    uscenti a 'l novo sole,

    su le chiome odorose
    che Amor cingere suole
    di sogni e di viole
    spìrino dolci cose,
    com'api armoniose.



DONNE



    Per l'antico viale de l'Aurora....

        NYMPHA LUDOVISIA.


        Disegno di ONORATO CARLANDI.

  [Illustrazione: _Fototipia Danesi Roma_]



NYMPHA LUDOVISIA


    Per l'antico viale de l'Aurora,
    mentre i cipressi dormono al mattino,
    o nova principessa di Piombino,
    tu passi; e a te d'intorno il vento odora.

    Vive d'intorno a te la grande flora
    ludovisia crescendo a 'l sol latino,
    bionda Napea di Rafael d'Urbino,
    ne la beatitudine de l'ora.

    E le fontane vivono; e l'intensa
    voluttà de la vita, a 'l tuo passare,
    urge fino i cipressi alti e quieti;

    e te brama ed a te canta l'immensa
    anima de la villa secolare,
    o diletta ne' sogni dei poeti.



VIVIANA


    O Vivïana May de Penuele,
    gelida virgo prerafaelita,
    o voi che compariste un dì, vestita
    di fino argento, a Dante Gabriele,
    tenendo un giglio ne le ceree dita,

    Vivïana, non più forse a la mente
    il ricordo di me vi torna omai.
    E pure allora, quando io vi parlai,
    mi sorrideste a lungo e dolcemente.
    Fiorían, Villa Farnese, i tuoi rosai

    ne 'l mattino di maggio e su le antiche
    mura il sole una veste aurea mettea:
    tra le liete ghirlande si svolgea
    la bellissima favola di Psiche;
    navigava in trionfo Galatea.

    O Vivïana May de Penuele,
    or vi sovviene de 'l lontan mattino?
    Voi sceglieste le rose ne 'l giardino
    ove un tempo convenne Rafaele,
    muta, con lento gesto, a capo chino.

    Non vidi allor la Primavera iddia?
    Disser la vostra lode a me li uccelli;
    fiori parvero nascer da' capelli,
    come ne la divina Allegoria
    cui pinse in terra Sandro Botticelli.

    Poi su l'accolta de le vive rose
    reclinando la testa agile e bionda,
    avidamente, come sitibonda,
    tutte beveste l'anime odorose
    --oh voluttate mistica e profonda!

    Poi, smarrita in un sogno, alta levaste
    la faccia ove le azzurre ésili vene
    languíano, e mi volgeste (or vi sovviene?)
    le pupille ne 'l sogno umide e caste.
    Non così pura in cielo è mai Selene.

    Io sol dissi a la notte alma e felice,
    solo dissi a le stelle il novo amore.
    Secreto in me de' vostri occhi il fulgore
    io custodii, beata Beatrice.
    Tale un raggio di luna il silfo ha in cuore.

    Or cantarti m'è dolce, o Vivïana.
    Splendimi ne la chiara ode, vestita
    de la tunica verde e redimita
    d'argentei fiori, in calma sovrumana
    tenendo un giglio tra le ceree dita!



GORGON



    L'Asïatico già tende le braccia
    trepidamente verso l'imo ignoto:
    attonito, fra i calici de 'l loto
    ei vede arguta ridere una faccia.

        HYLA! HYLA!


        Disegno di CESARE FORMILLI.

  [Illustrazione: _Fototipia Danesi Roma_]



I.

    Ella avea diffuso in volto
    quel pallor cupo che adoro.
    Le splendea l'alma ne li occhi
    quale in chiare acque un tesoro.

    Ne la bocca era il sorriso
    fulgidissimo e crudele
    che il divino Leonardo
    perseguì ne le sue tele.

    Quel sorriso tristamente
    combattea con la dolcezza
    de' lunghi occhi e dava un fascino
    sovrumano a la bellezza

    de le teste feminili
    che il gran Vinci amava. Un fiore
    doloroso era la bocca,
    e un misterioso odore

    esalava ne 'l respiro.
    I capelli aridi in onde
    s'accoglieano su le tempie,
    su la nuca, di profonde

    voluttà larghi a l'amante
    che scioglieali ne l'alcova,
    forse; e avean talor riflessi
    di viola, come a prova

    de la fiamma il puro acciaio.


II.

    Questa nobil donna un giorno
    io conobbi. Era l'estate
    ampia; e dolce il mare intorno

    diffondevasi nel sole,
    come un drappo suntuoso.
    Templi, portici, obelischi
    partoria l'imaginoso

    vespro; e a fior de 'l mare pénsili
    le sottili architetture
    si moveano lentamente:
    emergean lunghe figure

    fra li intercolonni, a un tratto,
    mostri umani o bestiali;
    s'immergeano li edifizi
    ne le fredde acque natali.

    Ella, sola, su la loggia,
    tutta involta da i prestigi
    de 'l tramonto, in attitudine
    d'indolenza, li occhi grigi

    tenea quasi semichiusi.
    Quando Alberto Delle Some,
    conducendomi cortese
    presso a lei, disse il mio nome,

    ella volse il capo e li occhi
    grandi aprì su la mia faccia.
    Poi mi porse ambo le mani
    sorridendo. Avea le braccia

    sino al gomito scoperte,
    bianche, pure, di squisite
    forme; a' bei polsi rotondi
    eran finamente unite,

    come a stel fiori, le mani.
    Oh divine mani, oh bianche
    mani ch'io non ho baciate!
    Si posavan, come stanche,

    su 'l marmoreo davanzale;
    e le lunghe ésili dita
    risplendevano di anelli.
    Io sentia dolce la vita

    mia fluire ed i capelli
    divenir gelidi, quasi
    per un'ideal carezza,
    da sottil fremito invasi.


III.

    Ella, semplice, parlava,
    con la sua voce sonora,
    lievemente roca a tratti.
    Una preziosa flora

    nascea lenta ora da 'l mare,
    a' nostri occhi. Li edifizi
    giacean spenti in fondo a l'acque.
    Pe' i mirabili artifizi

    de la luce ora sorgevano,
    come calici di gigli,
    alte trombe, e si spandevano;
    e nutrite dai vermigli

    fumi in cielo prendean tutte
    forma d'alberi. Viole
    d'improvviso da le arboree
    forme piovvero, e ne 'l sole

    tutto il mare allora parve
    brulicante di meduse.
    Ella tacque. Io la guardava.
    In quell'attimo confuse

    le nostre anime rimasero.
    Io non seppi dirle:--V'amo.
    Ella, forse paventando
    l'ora, disse:--Rientriamo;

    è già tardi. Io vi saluto.--
    E, tendendo la sicura
    man, sorrise un'altra volta.
    Quindi uscì.


IV.

              La sua figura

    ondeggiava alta ne 'l passo,
    con un ritmo affascinante.
    Un pensier dolce mi venne:
    --Io sarò forse l'amante;

    io felice le mie notti
    dormirò sopra il suo cuore!--
    Ah, perchè voi mi fuggiste?
    Ebro, come d'un liquore

    troppo forte, ebro di voi,
    de 'l ricordo di voi, sento
    da quel giorno in tutti i baci,
    sento in ogni blandimento

    feminile, sento in ogni
    voluttà più desiata,
    o signora, voi, voi sola;
    voi che tanto avrei amata!



ATHENAIS MEDICA



    Nobili e puri, splendono
    quali forme di luce.

        ROMANZA.


        Disegno di VINCENZO CABIANCA.

  [Illustrazione]



I.

    Poichè su la campagna salutare
    era venuta la dolce stagione
    e un gran disío di vivere e d'amare
    in me tornava con la guarigione,
    ella talvolta a le mattine chiare
    tutta ridente apriva il mio balcone.
    Il suo riso e la luce in un sol getto
    m'inondavan di gioia: álacre in petto
    balzava il cuore. Oh mie memorie buone!

    Vedea composti in fila li alberelli
    su 'l cielo azzurro come il fior de 'l lino,
    dritti, con rare foglie, e lunghi e snelli,
    quali eran cari a Pietro Perugino;
    e a quando a quando udia di tra' ramelli
    gittar suoi trilli dotti un lucherino.
    Mi veniva ne 'l cuor sì gran diletto
    da quella vista, ch'io m'ergea su 'l letto
    alquanto, a riguardar più da vicino.

    Ben ella avea que' miei palpiti istessi.
    Talvolta io mi sentia li occhi velare.
    Le lacrime facean sì ch'io vedessi
    tutte le forme a l'aria tremolare
    confusamente, simili a riflessi
    vani di cose in fondo a un roseo mare.
    Ella, ne le sue man présomi stretto
    il capo, susurrava:--Oh mio diletto!
    Amor mio dolce!--Io mi credea mancare.


II.

1.

    Io ricordo, Atenái. Lungo il sentiere
    de' pioppi bianchi e de le tamerici,
    maga possente contro i maleficj,
    guida voi foste a 'l debil cavaliere.

    Ilare, accanto a voi, senza temere,
    io respirava l'aure innovatrici:
    mi battean ratte ne le cicatrici
    l'onde de 'l sangue tiepide e leggere.

    Or co 'l vento giungean quasi a riviere
    i profumi da l'ultime pendici;
    e, sentendosi il vento a le narici,
    i cavalli fremevan di piacere.

    Su l'argine de i fossi aride e nere,
    fuor de la terra uscendo, le radici
    si distendean con lotte ed artificj
    meravigliosi a l'ime acque per bere.

    Ma salivan ne' tronchi e ne le intiere
    membra correvan l'acque avvivatrici;
    contendeva il germoglio i beneficj
    de la luce, bramando di godere;

    e, in alto, a 'l Sole un coro di preghiere
    mormoravano li alberi felici,
    espandendo le chiome ai vènti amici,
    crescendo a le future primavere.

2.

    Io ricordo, Atenai. Voi, con un mite
    sorriso di bontà su le fiorenti
    labbra, i miei gesti e i vari atteggiamenti
    de 'l mio cavallo seguivate.--Oh dite,

    maga Atenai, voi che le mie ferite
    curaste di sì dolci lenimenti;
    voi che le mani tenere ed aulenti
    posaste ne le mie piaghe inasprite;

    voi che le insonni mie notti infinite,
    piene di mille acuti patimenti,
    confortaste d'amor co' pazienti
    balsami de la voce umile, dite,

    adorata sorella, oh dite, dite
    la gran soavità di quei momenti,
    allor che li occhi in lacrime ridenti
    vi baciai con le labbra impallidite!

3.

    Noi, muti, a lungo cavalcammo ancora
    quella terra benigna ove fioriva
    la pace tra le umane opre. E s'udiva
    de' cavalli la lenta orma sonora.

    Poi, ne la grave santità de l'ora,
    sorse un cantico lungi da la riva
    de 'l Mar, subitamente. E il sol moriva.
    Ma quel tramonto a noi parve un'aurora.

    Io ricordo. Infinito, da le chiare
    comunïoni de le cose, a 'l giorno
    emanava non so qual senso umano

    di dolcezza e di oblìo. Proni d'intorno
    stavano i poggi e risplendea lontano,
    non anche sazio de la luce, il Mare.



DONNA FRANCESCA



    Dorme, poggiata il capo a 'l davanzale
          de 'l balcon fiorentino,
    la Titania di Shakspeare;....

        DONNA FRANCESCA, IV.


        Disegno di GIUSEPPE CELLINI.

  [Illustrazione]



I.

    Se dentro i favolosi orti vermigli
    adunava la Luna i suoi misteri
    (per lei presi d'amore, alti e leggeri
    tremolavano in doppio ordine i Gigli),

    il capo ergeano su da li origlieri
    le Belle, a tesser rai: lungo i giacigli
    di rose, propagavansi i bisbigli
    richiamanti a l'agguato i Cavalieri.

    In quelle notti, o Bella, de 'l lunare
    argento una fatal rete voi forse
    tesseste con le vostre dolci dita?

    Sentendomi da voi tutto legare,
    questo ne 'l mio pensier dùbito sorse;
    e ancor ne trema l'anima smarrita.


II.

    Odor di rose, forse da i giardini
    chiusi del Re, venìa confusamente;
    e splendea ne la fredda ora, imminente,
    la Luna su 'l palazzo Barberini.

    Mormoravan con voci roche e lente
    le fontane invisibili tra i pini:
    or sì or no li stocchi adamantini
    oltre i rami balzavan di repente.

    Noi, chinati da l'alta loggia, soli,
    (ella rabbrividìa) de le fontane
    ascoltavamo i languidi racconti.

    Non così dolce cantan li usignuoli!
    Vago ne l'alba suono di campane
    giungeva da la Trinità de' Monti.


III.

    Più chiara su 'l palazzo Lorenzana
    la Luna risplendea, Donna Francesca,
    quella vostra beltà raffaellesca
    guardando con dolcezza quasi umana.

    La fontana di Giacomo, a la fresca
    serenità, con voce roca e piana
    mettea parole, come una fontana
    magica de l'età cavalleresca.

    Scintillavano l'acque; le figure
    prendean vive attitudini, a l'albore
    danzando in tondo con rapide fughe.

    Per tale ausilio, al fin le vostre pure
    labbra io baciai; così vinsevi amore...
    Oh fontanella de le Tartarughe!


IV.

    Dorme, poggiata il capo a 'l davanzale
            de 'l balcon fiorentino,
      la Titania di Shakspeare; e un divino
      sogno da 'l cuor lunatico le sale.

    Una rete d'argento siderale
            i suoi capelli accoglie,
      e luminose fasciano le spoglie,
      dei colùbri la sua forma ideale.

    Per lei tramano i ragni, su l'opale
            de l'aria, le sottili
      opere in tra li stipiti; ed i fili
      aurei tremano a l'alito immortale.

    Così, Donna Francesca, entro il natale
            albore di Selene,
      ora dormite; e, in torno a le serene
      bellezze, io vo tramando il madrigale,

    mentre spiran le rose l'aromale
            anima ne' roseti
      e li usignuoli i fiumi ed i poeti
      cantan la notte augusta e nuziale.


V.

    Una notte, com'io l'alta portiera
    sollevai piano co' la man tremante,
    presso il gran letto la mia dolce amante
    scorsi a ginocchi in atto di preghiera.

    Ricorrean ne la stanza ampia e severa,
    intessute con rara arte, le sante
    Allegoríe che l'anima pregante
    traevan forse a più gioconda sfera.

    Muto io ristetti, come a 'l limitare
    d'un tempio; ma il disío tutto s'immerse,
    stridendo, in quel misterioso aroma.

    Ben, quando (oh notte!) la divina chioma
    io le disciolsi e vinta ella m'aperse
    le braccia, il letto parvemi un altare.


VI.

    Entra l'albore gelido, pe' i vetri,
    ne l'ombra di quel letto ov'ella dorme
    stanca di voluttà con semichiuse
    le dolci labbra in cui trema il sorriso.

    Or la Luna, ferendo ne l'aperto
    cofano i bei gioielli, gloriate
    opere di sottili orafi, illustra
    diamanti, camei, perle e smeraldi.

    Splendono le collane, come spire
    d'un favoloso rettile sopito;
    e paiono viventi occhi i rubini.

    Langue, da presso, entro la coppa un giglio
    in sua verginità, nobile e puro
    quale un vaso liturgico d'argento.


VII.

    O amica dolce, non sapeste mai
    la verace dottrina che ne 'l mondo
    il figliuol di Gesù, bello e giocondo
    adolescente, a l'ombra de 'l Sinái,

    predicava, nel nome d'Adonai,
    a le spose ed alli uomini ascoltanti
    ed ai compagni efébi, in tra' rosai,
    mentre scendean dal monte i greggi erranti.

    Ei, come Ciro figlio di Cambise,
    destro era e forte, generoso e parco,
    non superato in trarre lancia od arco;
    e molte fiere la sua mano uccise,

    la sua man degna d'un regale sire,
    ben usa a profumar la chioma bionda
    di rare essenze che facean languire
    le femmine in soavità profonda.

    Divino era il suo nome: Eleabani.
    Ed era come un olio di viola,
    sereno, che ne 'l suon de la parola
    si spandesse a lenire i petti umani.

    In fondo a l'occhio suo puro e crudele
    eran segrete fascinazïoni.
    Come il santo profeta Danïele,
    avrebbe ei vinti a 'l suo giogo i leoni;

    e con la voce, cantico di lire,
    mansuefatti avrebbe aspidi in guerra.
    Or prima, a soggiogar l'anime in terra,
    trasse i cuor de le donne a 'l suo desire.

    Tutte, da' bei palagi ove risplende
    l'oro, e da' templi ove la pace dorme,
    e da l'umili case, e da le tende
    nomadi, e da' tuguri, a torme a torme,

    venivano a 'l figliuol de 'l Nazareno,
    al bene amato eroe de la fortuna.
    Lui proseguìano a 'l sole ed a la luna;
    lui chiedeano, in morir de 'l suo veleno;

    lui, ne l'alba, torcendosi le braccia,
    invocavan su 'l tepido origliere,
    o sognavano, pallide la faccia
    tra l'ampia chioma, sfatte da 'l piacere.

    Per l'orrore de' portici silenti
    a la fonte, assetata, una Maria,
    come il cervo simbolico, venìa
    e ne l'acqua immergea le mani ardenti.

    Quindi, protesa le stillanti mani,
    e il ventre, bianco qual coppa d'avòro,
    nudata, mormorava:--Eleabani!
    Eleabani da la chioma d'oro,

    o tu per le cui nembra i rai de 'l sole
    una veste han tessuta, Eleabani,
    o tu cui ne la bocca come grani
    di puro incenso odoran le parole,

    o tu che de 'l tuo corpo hai fatto vase
    a' balsami celesti ed a' profani,
    o tu che scendi ne le nostre case
    qual ne' campi rugiada, Eleabani,

    m'odi: li astri de 'l ciel com'aurei pomi
    tremano in tra le foglie a' melograni;
    io son ebra e languisco, Eleabani,
    come la damma a 'l colle de li aromi.

    Come al vento tra le árbori la damma,
    io trasalgo e sobbalzo ai romor vani.
    Ad ora ad ora, in ciel vedo una fiamma.
    Non tu sei che lampeggi, Eleabani?

    Ed egli, avendo ereditato il Verbo,
    amò, come Gesù, peregrinare.
    Le parabole sue, rapide e chiare,
    pungean le menti con lor senso acerbo.

    Predilesse i conviti, poi che aperto
    ne la fraternità convivïale
    è l'animo de li uomini ed un serto
    di chiarissima luce il vin spirtale

    cinge a le fronti; e predilesse i petti
    feminei, de' lunati omeri il giro,
    a segnar come in nitido papiro
    evangelicamente i suoi versetti.

    Quale un fiume, cui gonfia d'acque il maggio,
    da le sedi natali alto discende
    e più cresce in sua gioia e con selvaggio
    fremito ride e a 'l sol pieno s'accende:

    odono i boschi giugner la ruina,
    vasti su le pacifiche pendici;
    in van lottano; e, presi a le radici,
    piomban ne 'l gorgo: tal la sua dottrina

    volgea, passando, le credenze e i culti
    e risplendea di libertà ne 'l sole.
    Come il fiume in sua via reca virgulti,
    pur recava d'amor nuove parole.

    Egli ammoniva: «O giusto, è breve l'ora.
    «Ne la tua servitù sii paziente.
    «La pazienza è l'immortal nepente
    «che afforza i nervi e l'anima ristora.

    «Come in un tempio, ne 'l tuo cor ricevi
    «l'alto Ideale che de l'uomo è figlio.
    «E sappi in quel che mangi e in quel che bevi
    «trovar l'ambrosia e il nettare vermiglio.»

    Ed ammoniva: «O donna, o Vaso insigne
    «de la dolcezza ed Arca de l'oblìo,
    «versa a li uomini il vin che già il Desío
    «cantando ricogliea ne le tue vigne.

    «Fa che soave il tuo spirito ceda
    «a l'alitare d'ogni passïone,
    «come la tibia d'oro ove un'auleda
    «prova a diletto sua lene canzone.

    «Ama il tuo sposo ed ama il tuo figliuolo
    «ma fa che il beneficio tuo si spanda
    «pur su colui che in carità dimanda
    «una stilla d'amore, umile e solo.

    «E tutto diverrà per t'onorare
    «Mirra, Olibano, Incenso e Belzuino;
    «e saliranno come ad un altare
    «i cuori a te, con giubilo divino.

    «La carne è santa. È l'immortale rosa
    «che palpita di suo sangue vermiglia.
    «È la madre de l'uomo ed è la figlia.
    «Ed è quella che sta sopra ogni cosa.

    «Ella racchiude, come un'urna aromi,
    «tutte le voluttà, tutti i dolori.
    «Ha l'ardente opulenza ella de' pomi,
    «ha la soavità casta de' fiori.

    «Quale a notte in un tempio una fontana
    «mormora ascosa e dà voci di lire,
    «fa il sangue in lei pe 'l ritmico fluire
    «una musica assai dolce e lontana.

    «La carne è santa. Guai a chi non piega
    «l'anima innanzi a lei; però che tristo
    «egli l'essere suo nega, e rinnega
    «il suo divin maestro Gesù Cristo:

    «Gesù che, fatto carne, in su la croce
    «morì ne la montagna solitaria,
    «Gesù che, fatto carne, ebbe in Samaria
    «verso la donna così mite voce,

    «Gesù che, fatto carne, arse d'amore
    «vedendo un giorno in su la via fiorita
    «la Magdalena, e lei pregò d'amore
    «e me condusse a questa dolce vita!»

    Tali cose ammonia, tra la comune
    giocondità de 'l vino, in su la chiara
    mensa. E le perle de la sua tiara
    splendeano vagamente come lune.

    Il cenacolo avea forma di lira.
    Quattro colombe d'or con ali tese,
    in alto, tra le frange di Palmira,
    a invisibili fili eran sospese.

    Due dromedari, avendo in su la schiena,
    otri forati ed una campanella
    di fino argento sotto la mascella,
    spargean su' marmi essenza di verbena.

    In torno, i domitori-di-cavalli
    efebi, sollevando in tra le mani
    vasi che rendean suon come timballi,
    beveano salutando Eleabani.

    Bevean, coperti di carbonchi, in torno
    satrapi enormi da la barba d'oro
    il chalibon, rarissimo tesoro,
    in un corno sottil di liocorno.

    I dottori, i grammatici, i salmisti,
    ed i leviti, i giudici, li scribi,
    e i mercatanti, e i musici, commisti,
    disperdean su la mensa i rari cibi.

    Le vestimenta lor, tinte di fuchi
    preziosi, brillavan di lontano.
    Alcuni, taciturni, aveano strano
    aspetto di carnefici o d'eunuchi.

    Ma le femmine cinte di ghirlande,
    con denti bianchi come il gelsomino,
    rideano tra 'l vapor de le vivande,
    suggean da coppe di smeraldo il vino.

    Il lor nitido riso giungea grato
    ai cuori, come un verso numeroso.
    Stendean le braccia, con un grazioso
    gesto, a mostrare il cùbito rosato;

    e prendean su la mensa i cedri, i fichi,
    e le mandorle, i datteri, le olive.
    Ne 'l bacio offrian, con belli atti impudichi,
    la molle polpa su le lor gencive.

    --Or mangiate e bevete, e di piacere
    inebriate il vostro cuor mortale;
    chè da l'ebrezza a Dio l'inno risale,
    grato, come l'odor da l'incensiere--

    diceva Eleabani. Ed era immune
    il cuor suo da l'ebrezza ed era chiara
    la sua voce; e splendeano come lune
    ferme le perle de la sua tiara.


VIII.

    --Francesca, o amica, o trepida colomba,
    perchè piegate voi su 'l sen la testa,
    pallida udendo il tuon de la tempesta,
    che improvviso ne l'anima rimbomba?

    Perchè torcete ne 'l dolor le mani,
    le care mani, i fior gracili e snelli,
    che pur ieri sapevan, con sì piani
    blandimenti, solcare i miei capelli?

    Francesca, o amica mia, perchè piangete?
    Le vostre membra treman così forte,
    e così roca su le labbra smorte
    vi muor la voce, ch'io non ho quiete.--

    Ed ella:--Io guardo nel cuor mio; che, ardente
    come una lampa, è tutto avviluppato
    da una spoglia di serpe, transparente,
    su cui l'orrido Inferno è figurato.


IX.

    Come a notte in un tempio una fontana
    mormora ascosa e dà voci di lire,
    fa il sangue in noi pe 'l ritmico fluire
    una musica assai dolce e lontana.

    Veramente io non so quali parole
    il buon sangue ne 'l capo mi favelli
    volgendo sue misteriose ambagi;
    ma ben io so che mai gighe o viuole
    ornaron di più vaghi ritornelli
    serenate d'amor sotto i palagi.
    Canta, o buon sangue! Ed i pensier malvagi,
    tutti, qual vin, da l'anima discaccia.
    Nel mezzo del mio cor ride una faccia,
    guardando la vendemmia allegra e sana.


X.

    Se pure il verso mio, Francesca, è reo
    d'aver la vostra natural piacenza
    ritratta intiera, in un lavacro, senza
    la casta zona e senza il conopeo,

    fu tempo già che Fra Bartolomeo,
    pingendo i Protettori di Fiorenza,
    la Nostra Donna in sua gentil movenza
    ritrasse ignuda in mezzo a 'l gran corteo.

    Or dunque se il buon frate di San Marco,
    il quale è assunto ne l'eterne stelle,
    ebbe per l'opra sua cotale ardire,

    non io potrò ne 'l verso mio scoprire
    de 'l vostro sen le due beltà gemelle
    e de le late spalle il candid'arco?


XI.

    Quando su per le scale ampie d'argento
    la Reina salìa verso l'altare,
    levata li umidi occhi a 'l Sacramento,
    pallida e fredda, se volea pregare,

    dava il bianco metallo un vibramento
    sonoro in ritmo a li urti de 'l calzare:
    tutte le scale come uno stromento
    si mettevano in gloria a risonare.

    O Francesca, così la vostra bionda
    bellezza da 'l disìo chiamata ascende
    or de' miei versi il mistico edifizio.

    Fremono a i vostri piedi, con un'onda
    di suoni, i versi; e a 'l culmine vi attende
    tra i profumi de l'urne il sacrifizio.


XII.

    Aveva un tempo il cardinal Grimani
    ne 'l breviale suo, fino tesoro,
    un'image ove molti angeli in coro,
    ceruli e biondi, da' bei volti umani,

    su li omeri o su le agili ale d'oro
    o su l'èsili palme de le mani
    offrìan cinte de' nimbi cristiani
    l'anime de li Eletti al Signor loro.

    Ignude erano l'anime: più bella
    tra l'altre una figura feminina,
    ne la sua dolce nudità, salìa.

    Amo io così raffigurarti, o pia
    Sposa, lungo l'azzurra erta divina,
    su l'ali d'una candida angelella.

                O del Signore ancella,
    soffuso di pudore il vivo giglio
    de le tue membra apparirà vermiglio

                e per tutte le anella
    fiammeggerà la celebrata chioma
    simile ad una gran face d'aroma.



DONNA CLARA



                .... il biondo
    capo sorride da l'origliere.

        DONNA CLARA, I.


        Disegno di ALFREDO RICCI.

  [Illustrazione: _Fototipia Danesi Roma_]



I.

    Sta Donna Clara (ne 'l mio pensiere)
    su 'l damascato letto ampio e profondo:
    splende la nudità ne l'ombra, e il biondo
    capo sorride da l'origliere.

    Erto su l'ésili zampe il levriere
    blandisce il pié divino a l'Atalanta;
    e freme, a la blandizia, tutta quanta
    l'ignuda forma strano piacere.

    Salgono miti su da 'l verziere
    a 'l balcone i leandri in rosei fiocchi;
    un gran paone sta co' suoi cent'occhi
    vigile in alto da le ringhiere.

    E mentre il cane, quasi per bere,
    vibra in ritmo la lingua umida a 'l fiore
    de 'l niveo pié, gli corron su 'l nitore
    de 'l dorso lunghe onde leggere,

    e i fianchi scarni pulsano, e in fiere
    di serpe anella torcesi la coda,
    e tremano le zampe in su la proda
    de l'ampio letto, lucide e nere.


II.

    Con il fior de la bocca umida a bere
    ella attinge il cristallo. Io lentamente
    le verso a stille il vin dolce ed ardente
    entro quel rosso fiore de 'l piacere;

    e chinato su lei, muto coppiere,
    guardo le forme dilettosamente:
    la sua testa d'Ermète adolescente
    e la sagliente spira de 'l bicchiere.

    Or, poi che le pupille a l'amorosa
    concordia de le due forme stupende
    io solo, io solo, io solo ho dilettate,

    godo infranger la coppa preziosa;
    e improvviso un desìo vano mi prende
    d'infrangere le membra bene amate.


III.

    Splendidi in tra' vapori aurei de 'l vino
    per lei, come pe' i belli iddii pagani
    ne la serenità de 'l ciel latino,
    sorgono li atrj d'Alessandro Albani.

    In mezzo, un vivo stel dïamantino
    balza ne 'l sole: tra i fuggenti vani
    de le colonne adorano il divino
    Sole i cedri, li aranci e i melograni.

    Ella posa ne l'ombra, in signorile
    atto: si stende a 'l niveo piè d'avanti
    la pelle d'una gran tigre di Giava.

    Dormono a presso i veltri da 'l sottile
    muso di luccio, candidi, eleganti,
    snelli, che Paol Veronese amava.


IV.

    Vive anco, immersa ne 'l natale aroma,
    lungo il mare una gran selva d'aranci,
    ove lento il paone apre ne l'ombra
    la pompa de le sue fulgide piume?

    Un tempo, allor che in chiari ozi taceva
    il golfo ed era il sole alto ne' cieli,
    (sempre dolce il ricordo a me) giacere
    noi amavamo ne la selva d'oro.

    Udivam, ne 'l silenzio, a quando a quando
    cader su l'acqua i frutti, ed i paoni
    schiamazzare tra i rami a noi su 'l capo;

    fin che vinceane il Sonno. E de 'l profumo
    agreste come de 'l calor d'un vino
    si nutrivano i sogni dilettosi.


V.

    Un dì, come il silenzio alto ne' campi
    regnava, a mezzo il giorno, e tra le messi
    cantavano i servili uomini un inno
    a l'abondanza de 'l rinato pane,

    ella solea discender le marmoree
    scale de 'l suo palagio; ed i levrieri
    d'Africa in torno a lei con prodigiosi
    balzi urgevan chiedendo d'inseguire.

    Sorrideami, guardando, ella. Secura,
    sopra l'ultimo grado, indi blandiva
    i bei levrieri dalla rosea gola

    candidi cacciatori, insofferenti
    d'ozio, che in torno a lei con prodigiosi
    balzi urgevan chiedendo d'inseguire.


VI.

    Ne 'l cortile marmorëo, tra l'alte
    colonne a cui s'abbracciano le piante
    con amorosi vincoli di fiori,
    tace la Bella Fonte, inanimata?

    Nè più Bacco fanciullo, in su li opimi
    grappoli assiso, ride da la tonda
    faccia e vendemmia, candido tra l'acque
    riscintillanti a 'l sole ed a la luna?

    Scendevano i suoi bianchi cani a l'alba
    latrando; ed ella li seguìa ne 'l corso
    tenendo entro il gentil pugno i guinzali.

    E conduceali a dissetarsi. Oh dolce
    cosa vedere lei presso la fonte,
    simile a Delia, tra i beventi cani!



INVITO ALLA CACCIA



    Pascean su 'l limitare i palafreni
    meravigliosi, li émuli de 'l vento....

        ORIANA.


        Disegno di ENRICO COLEMAN.


  [Illustrazione]



    Poi che un vel di fino argento
    copre i cieli a l'albor primo,
    (ne 'l mattin trepido, cento
    volpi corrono fra il timo)

    o voi, Clara, che dormite
    ne 'l gran letto di damasco;
    (odor d'erbe inumidite
    sale su da 'l verde pasco)

    Clara, alfin da li origlieri
    sollevando il capo d'oro,
    (ne 'l canil basso i levrieri
    gran tumulti hanno fra loro)

    ascoltate il suon de' corni
    che voi chiamano a la caccia;
    (per li ombrosi alti soggiorni
    lascia il cervo la sua traccia)

    e, ne l'abito maschile
    chiuso il dolce fior de 'l petto,
    (vibran lieti pe 'l cortile
    i nitriti de 'l ginnetto)

    o voi, Donna Clara, alfine
    discendete... Urrà, mia bella!
    (Rossa in cima a le colline
    sta l'aurora). In sella! In sella!



EPILOGO



    Sale dubbio vapor su da li stagni,
    che in alto a l'aria forme truci assume...

        L'ALUNNA.


        Disegno di MARIO DE MARIA.

  [Illustrazione: _Fototipia Danesi Roma_]



A F. P. MICHETTI


    O Francesco, le ninfe de 'l Guercino
    seminude accorrenti ne la caccia
    ove Diana da le nivee braccia
    tende a la strage il grande arco divino;

    e la fatale donna de 'l Vecelli,
    pallida, a cui ne le perfette mani
    risplendono le gemme de li anelli
    arcanamente, come talismani;

    e il bel vïolinista Rafaele
    a cui si piega sovra il collo puro,
    quale un nobile giglio morituro,
    esangue il capo d'angelo infedele,

    o Francesco, per che virtù profonda
    hanno l'anima tua rinnovellata?
    Sorge l'anima tua, da la gioconda
    communïone, fulgida ed alata

    a l'Ideale che non ha tramonti,
    a la Bellezza che non sa dolori?
    Quando grida una voce:--In alto i cuori!--
    raggiano de' poeti erte le fronti.

    Oh pomeriggi chiari e dilettosi
    in cui fiorì la tua nova fatica
    e dentro i versi miei laboriosi
    tremò il disìo de la bellezza antica!

    Mentre ne l'ampia sala gentilizia
    su i quadrati di marmo il sol fluiva
    simile ad una lene acqua sorgiva
    dilagando con placida letizia,

    tu ne la tela, senza alcuna lotta,
    l'oro fulvo rapivi a Tizïano,
    io derivava in gloria d'Isaotta
    i larghi modi de 'l Polizïano.

    Una serenità lucida, eguale,
    noi tenea. Da la tela a quando a quando,
    me d'un fraterno riso illuminando,
    tu levavi la faccia giovïale;

    o, lento, senza volgere lo sguardo
    da l'opra, amavi un tuo pensier felice
    ornare, tu che come Leonardo
    hai la dolce facondia allettatrice.

    Io, ben uso a 'l gentil freno de l'arte,
    come un orafo mastro di Fiorenza,
    eleggea con acuta pazienza
    le gemmate parole in su le carte;

    ma, se de 'l mio pacato sofferire
    il termine supremo era vicino,
    a 'l cuor sentìa l'ebrïetà salire
    quasi io bevessi un calice di vino.

    Fluiva su 'l marmoreo pavimento
    un lume biondo come l'idromele;
    e il bel vïolinista Rafaele
    parea toccar le corde a 'l suo stromento.

    O Francesco, m'è grato il rammentare!
    Or n'andremo a la patria, ove più molle
    per la falcata riva ondeggia il mare
    e più mite è l'olivo in cima a 'l colle.

    Ne la tua vasta casa, ad ogni stanza
    penderanno li arazzi medicéi
    e, come ne' bianchi atrj di Pompei,
    discenderà la luce in abondanza.

    Tu, signor del pennello, io de la rima,
    fingeremo beltà meravigliose.
    E riderà de' miei pensieri in cima
    quella che il suo d'amor giogo m'impose.

    Su 'l vespro converranno a una tenzone,
    ne l'orto pien di fonti e di roseti,
    donne, scultori, musici, poeti,
    principi, come in un decamerone.

    E ne 'l convito calici e bicchieri
    farà vermigli il dio vin de 'l paese:
    andranno in torno i cani ed i coppieri
    che amò ne le sue Cene il Veronese;

    e i servi porgeranno in vasellami
    d'argento frutti il cui vital sapore
    da la bocca parrà giungere a 'l cuore
    dando piacere per ignoti rami.

    Poi sarà dolce insieme ragionare,
    lungo i roseti, ne la notte bella;
    o dormire su l'erbe; o pur vegliare
    cantando in coro qualche ballatella.



EPODO



    Amo io così raffigurarti, o pia
    Sposa, lungo l'azzurra erta divina....

        DONNA FRANCESCA, XII.


        Disegno di GIUSEPPE CELLINI.

  [Illustrazione]



A GIUSEPPE CELLINI


I.

    Cellini, erami assai duro ed ingrato
    il tempo, quando in cieca ira venìa
    a 'l grand'assedio de la vita mia
    Amore con suo dardo avvelenato.

    Ben ora a più gioconda signoría
    una donna il mio senso ha costumato,
    risuscitando ne 'l mio cor placato
    uno spirto amoroso che dormía.

    Con che mitezza accenna la sua faccia,
    tra 'l diffuso fiorir de' ricci biondi,
    in un colore angelico di perla!

    Ride l'anima mia, solo a vederla;
    tal serena bontà fuor de' profondi
    occhi le sgorga, che tutto m'abbraccia.


II.

    Amico, le mie tristi passïoni
    or s'inchinano a lei, non più ribelli;
    e volan alto, come lieti augelli,
    per gran cieli d'amor le mie canzoni.

    Vennero a lei le Grazie, in lor guarnelli
    semplici a lei portando i rari doni,
    come un tempo a Giovanna Tornabuoni
    ne 'l bel _fresco_ de 'l nostro Botticelli.

    Vennero a lei le Grazie; ed ella, come
    Giovanna, porse in atto di piacenza
    il grembialetto a le visitatrici.

    Ed esse la chiamarono per nome.
    E ancora, parmi, de la lor presenza
    risplendono le mie stanze felici.


III.

    Quando ne la mia casa, ospite caro,
    io t'avrò, se non sien duri li eventi,
    in questi di settembre allettamenti
    che indugiano pe 'l cielo umido e chiaro,

    tesser vorrem di be' ragionamenti,
    lungo le vigne camminando a paro,
    o, ne l'ombra, Tibullo e Fiacco e Maro
    ornar di sottilissimi comenti.

    Ampia in torno sarà pace rurale.
    Ma i nostri orecchi udranno ad ogni poco
    da la pergola escir suoni di lira.

    E il sol cadrà su' monti; e il mar natale
    da lungi arriderà tra 'l roseo foco,
    sospirando Tibullo da Corcira.



RILEGGENDO OMERO

          A GIULIO SALVADORI


I.

    Son paghi i voti miei. Divin custode
    ondeggia innanzi a la mia porta il mare.
    Canta, grave e soave: il suo cantare
    ha un'ignota virtù su l'uom che l'ode.

    Qual gregge, con un lento digradare
    scendon li olivi a le ricurve prode;
    in su 'l meriggio la pia selva gode
    le chiome ne la queta onda specchiare.

    Son paghi, o amico, i voti miei. Conviene
    Omero ne' giocondi ozi: non cede
    pur la sua voce a 'l grande equoreo coro.

    Quale il Sole per l'alte aure serene,
    fulgido, lungo i liti Achille incede
    ne la lorica tutta quanta d'oro.


II.

    In vano, in van tra le colonne parie
    de 'l mio sogno di lusso e di piacere
    le bellissime forme statuarie
    ridon pur sempre.--O sacre primavere

    de l'arte antica, o grandi e solitarie
    selve di carmi ove raggianti a schiere
    passan li eroi, ne l'arida barbarie
    de l'evo or chiedo splendami a 'l pensiere

    la vostra luce!--Troppo in un malsano
    artifizio di suoni io perseguii
    a lungo de l'amor le larve infide.

    Ora un lucido senso alto ed umano
    me invade, poi che novamente udii
    cozzar ne 'l verso l'armi de 'l Pelide.



NOTE



    .... beata Beatrice.

        VIVIANA.


        Disegno di G. A. SARTORIO.

  [Illustrazione:

    Era venuta nella mente mia
      La gentil donna, che per suo valore
      Fu posta dall'altissimo Signore
      Nel ciel dell'umiltade ov'è Maria

  _Fototipia Danesi Roma_]



RONDÒ PASTORALE, _pagina 168_.

Questo rondò è composto, metricamente, sopra un esemplare di Clemente
Marot. Li altri quattro sono composti a similitudine di quelli (più
propriamente _Rondels_) attribuiti a Francesco Villon, che son meno
esatti. L'ultimo segue la regola di Carlo d'Orléans.


OUTA OCCIDENTALE, _pagina 186_.

Leggendo l'elegantissima traduzione che ultimamente Judith Gautier ha
fatta di talune poesie giapponesi, tentai di riprodurre in italiano la
struttura di una _outa_; ed aggiunsi le rime.

I Giapponesi, pure ammirando i versi chinesi e talvolta imitandoli, si
attengono di preferenza alla poesía nazionale che chiamasi _outa_.
Due specie di _outa_ vi sono: _l'outayé-outa_, da cantarsi con compagnía
di stromenti o senza; e la _yomi-outa_, da leggersi. La prima è più
lunga, spesso lasciva ed oscena; la seconda è più corta, si compone di
pochissime linee senza rima e senza ritmo, ma d'un determinato numero di
sillabe seguentisi in un ordine stabilito.

La più elementar forma di poesía giapponese è la strofa di cinque versi,
di cui il primo è di cinque piedi, il secondo di sette, il terzo di
cinque, e di sette li altri due. In complesso, trentun piedi.

Per esempio, ecco una _outa_ della principessa Issé:

      _Harou goto ni
    Nagarourou Kawa o
      Hanato mité
    Orarénou mizou ni
    Sodé ya Norénamou._

La quale _outa_ vuol dire: «Per cogliere i fiori di prugno, i cui colori
agita l'acqua, io mi son chinata verso l'acqua; ma, ahimè!, io non ho
colto i fiori e la mia manica è tutta bagnata.»

Nella mia _occidentale_ la frequenza della rima e il ritmo troppo
accentuato tolgono alla strofa gran parte del suo carattere primitivo.


DONNA FRANCESCA, VIII, _pagina 241_.

Alcune particolarità descrittive di questa poesía sono tratte dal
_Tentation de Saint Antoine_ di Gustavo Flaubert. E la poesía in sè non
ha nemmen l'ombra d'una intenzione antireligiosa; ma è una semplice e
pura ed anche, se si vuole, oziosa esercitazione di stile e di metrica.


DONNA FRANCESCA, X, _pagina 243_.

Fra Bartolomeo Della Porta, domenicano di San Marco, uno dei più
singolari artefici del Rinascimento fiorentino, soleva, prima di cercar
le pieghe delle vesti per le sue figure sacre, disegnare i corpi nudi
dal vero. La pittura di cui si parla è una tavola che gli fu allogata da
Piero Soderini per la sala del Consiglio, «nella quale sono tutti e'
protettori della città di Fiorenza, e que' Santi che nel giorno loro la
città ha aute le sue vittorie», come porta il Vasari.

La Galleria delli Uffici possiede alcuni bellissimi disegni che il Frate
fece per la detta tavola. Uno di quei disegni (n. 1204), eseguito a
penna, rappresenta nude le figure comprese nella parte inferiore della
composizione; e tra le figure è la Vergine assisa con su le ginocchia il
bambino Gesù.


DONNA FRANCESCA, XII, _pagina 245_.

La miniatura del _Breviario_ del cardinal Grimani, attribuita al
Memling, rappresenta li angeli che offrono a Dio l'anime de' nuovi
eletti. È del quattrocento; e si trova a Venezia, nella Biblioteca di
San Marco.


A GIUSEPPE CELLINI, II, _pagina 277_.

Il _fresco_ di Sandro Botticelli, raffigurante Giovanna Tornabuoni e
le tre Grazie, si trova ora nel Museo del Louvre, guasto in più parti.
È, come quasi tutte le opere di quel meraviglioso pittore, d'una
straordinaria bellezza.



  INDICE


  PROLOGO                            pag.   9


  IL LIBRO D'ISAOTTA

    Sonetto liminare                  »    19

    Il dolce grappolo                 »    21

    Ballata d'Astíoco e di Brisenna   »    33

    Isaotta nel bosco                 »    39

    Sonetto d'aprile                  »    57

    Ballata delle donne sul fiume     »    63

    Ballata e sestina di commiato     »    71


  SONETTI DELLE FATE

    A Giuseppe Cellini                »    83

    Eliana                            »    84

    Mirinda                           »    85

    Melusina                          »    86

    Grasinda                          »    87

    Morgana                           »    88

    Oriana                            »    89

    Oriana infedele                   »    90


  SONETTI D'EBE

    Il cavaliere della morte          »    95

    Il fiume                          »    96

    Il canto                          »   101

    Similitudine                      »   102

    Sogno d'una notte di primavera    »   103

    L'adorazione                      »   104


  RURALI

    Via Sacra                         »   109

    Per la messe                      »   110

    La madre                          »   113

    I seminatori                      »   114

    Il pomo                           »   115

    La vendemmia                      »   118

    La neve                           »   120


  BOOZ ADDORMENTATO                   »   121


  IDILLII

    L'andrógine                       »   135

    L'esperimento                     »   136

    «Hyla! Hyla!»                     »   138

    Vas spirituale                    »   140

    L'alunna                          »   142

    Diana inerme                      »   145


  INTERMEZZO MELICO

    Romanza                           »   153

    Romanza                           »   155

    Romanza                           »   156

    Romanza                           »   159

    Romanza                           »   161

    Romanza                           »   162

    Romanza                           »   164

    Romanza                           »   166

    Rondò pastorale                   »   168

    Rondò                             »   173

    Romanza                           »   174

    Rondò                             »   176

    Rondò                             »   177

    Romanza                           »   178

    Rondò                             »   180

    Romanza                           »   181

    Romanza                           »   184

    Outa occidentale                  »   186

    Lai                               »   189

    Rondò                             »   191


  DONNE

    Nympha ludovisia                  »   197

    Viviana                           »   198

    Gorgon                            »   201

    Athenais Medica                   »   211

    Donna Francesca                   »   221

    Donna Clara                       »   247

    Invito alla caccia                »   259


  EPILOGO

    A F. P. Michetti                  »   269


  EPODO

    A Giuseppe Cellini                »   277

    Rileggendo Omero                  »   280


  NOTE                                »   283


  Compiuto il 23 dicembre 1886,
  nello Stabilimento tipografico del giornale _LA TRIBUNA_,
  in edizione di 1500 esemplari numerati a mano.





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