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Title: Dal molino di Cerbaia a Cala Martina - Notizie inedite sulla vita di Giuseppe Garibaldi
Author: Guelfi, Guelfo
Language: Italian
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             DAL
      MOLINO DI CERBAIA
              A
         CALA MARTINA


        NOTIZIE INEDITE
          SULLA VITA
     DI GIUSEPPE GARIBALDI

         2ª EDIZIONE


            FIRENZE
  PEI TIPI DI SALVADORE LANDI
    4--Via delle Seggiole--4
             1889



  _Vendesi a benefizio del
  monumento da erigersi a_
  =Cala Martina.=



AL LETTORE

(Prefazione premessa alla 1ª edizione)


Il Comitato costituito in Scarlino collo scopo di erigere un Monumento a
Cala Martina mi incaricava di riunire e coordinare i dati storici del
salvamento di Giuseppe Garibaldi compiuto dai patriotti toscani nel
1849.--Ho fatto quanto le mie forze permettevano, non risparmiando
ricerche onde raggiungere la più scrupolosa verità.--Ora presento
l'opera mia accompagnata da un desiderio, e da una speranza; il
desiderio è che altri raccolga pazientemente tutte le particolarità del
trafugamento da Cesenatico all'appennino toscano, e così si completi il
racconto dello scampo miracoloso,--la speranza è che gli Italiani
facciano buon viso a questo piccolo lavoro non per il merito suo, ma per
lo scopo patriottico al quale è destinato.

  Scarlino, 2 settembre 1885.

                                          Dott. GUELFO GUELFI.



Si additano alla riconoscenza del popolo italiano coloro che nel 1849
sulle terre toscane scientemente cooperarono al salvamento dell'Eroe, e
sono i seguenti:

  =Sequi= ing. =Enrico= di Castelfranco di Sopra.
  =Bardazzi Carlo= di Vaiano.
  =Bardazzi Vincenzo= di Vaiano.
  =Barbagli Giuseppe= di Arezzo.
  =Martini Antonio= di Prato.
  =Franceschini= dott. =Francesco= di Prato.
  =Fontani Tommaso= di Prato.
  =Burresi= prof. =Pietro= di Poggibonsi.
  =Martini Girolamo= di Castelnuovo Val di Cecina (nato a Prato).
  =Serafini= cav. =Cammillo= di San Dalmazio.
  =Guelfi Angiolo= di Scarlino.
  =Lapini Giulio= di Massa Marittima.
  =Lapini Riccardo= di Massa Marittima.
  =Verzera Domenico= di Massa Marittima.
  =Serri Biagio= di Massa Marittima.
  =Pina Olivo= di Scarlino.
  =Ornani Giuseppe= di Scarlino.
  =Fontani Oreste= di Scarlino.
  =Carmagnini Leopoldo= di Scarlino.
  =Gaggioli Pietro= di Follonica.
  =Azzarrini Paolo= di Rio Marina (nato a S. Arenzo).

                                                   IL COMITATO



INTRODUZIONE

                       «Com'ero fiero d'esser nato in Italia!»
                         GARIBALDI, _Memorie autobiografiche_.


Sulla fine dell'agosto 1849 il futuro Capitano dei Mille si aggirava
profugo e senza guida per l'Appennino toscano. Era uscito da Roma la
sera del 2 luglio, seguìto da 3000 dei suoi, cui aveva promesso per
ricompensa _fame, sete, marcie, battaglie e morte_. Voleva ultimo
ripiegare la gloriosa bandiera, e sperava che la presenza delle sue armi
rinfocolasse nei popoli toscani i sensi di libertà testè compressi
dall'invasione straniera. E seppe colla sua maravigliosa abilità di
condottiero uscire dalle strette di quattro eserciti che lo inseguivano,
confonderli tutti colle sue mosse ardite, colle sue contromosse
inopinate, trovarsi una via di uscita di mezzo a quel cerchio di ferro.
Ma non ebbe dai popoli l'appoggio sperato, e si ridusse sul territorio
di San Marino, dove, ripugnante di patteggiare collo straniero, sciolta
prima la sua colonna, eludeva anche una volta la caccia spietata, e
fuggiva di mano ai suoi persecutori per comparire la sera stessa del 1º
agosto a Cesenatico con 200 dei più fidi che non vollero a nessun costo
lasciarlo, e con essi impadronitosi di tredici barche peschereccie,
salpava per Venezia, ultimo propugnacolo della vita italiana.

Ma la fortuna non arrise propizia a questo sforzo supremo. Sopraggiunte
da incrociatori austriaci le sue barche, guidate da marinai presi a
forza o improvvisati, si sbandarono, e Garibaldi con pochi compagni fu
costretto a riprendere terra sulle coste di Magnavacca. Un bando feroce
dell'austriaco generale Gorzkowscki lo poneva fuori della legge come un
predone, e comminava la fucilazione a chi gli dasse soccorso. Pochi per
difendersi, troppi per potersi nascondere, non era dunque possibile che
quei gloriosi avanzi di Roma repubblicana si tenessero uniti su quella
spiaggia scoperta, e si sparpagliarono a caso per diverse vie.

Garibaldi restò solo colla sua Anita e col capitano Leggero. Ma in quale
condizione era ridotta la misera donna! Incinta da sei mesi non aveva
mai voluto lasciare il marito suo nella ritirata disastrosa, ed ora
febbricitante, lacera, sprovvista di tutto, era perfino incapace di
reggersi in piedi. La prese Garibaldi sulle sue braccia, e si diresse
col compagno verso una capanna deserta, ove giunto, gli comparve,
soccorso insperato, Giovacchino Bonnet di Comacchio. Ebbe per mezzo di
lui il Generale ricovero più sicuro, e un letto per la povera inferma,
prima presso un amico, poi nella fattoria Guiccioli detta _Le
Mandriole_; ma erano ivi appena arrivati che l'infelice Anita spirava.
Ed ora un altro supremo dolore; anche il conforto di dare alla salma
della cara compagna sepoltura onorata era vietato allo Eroe. Gli
Austriaci comparivano in vista della casa quando Anita cessava di
vivere, onde non potè il Generale che deporre un bacio su quella gelida
fronte, raccomandare colle lacrime agli occhi alla famiglia del fattore
Ravaglia che si dasse a quel caro corpo una sepoltura onorata, e,
incalzato dal pericolo, volgere le spalle alle Mandriole.

Raccolto da patriotti di Sant'Alberto e di Ravenna fu per la via di
Forlì diretto a Modigliana, e affidato a Don Giovanni Verità, sacerdote
onesto e patriotta, presso il quale restò nascosto per otto giorni, e
che fornì i due profughi di una guida per condurli lungo il crinale
dell'Appennino nei monti di San Marcello, da dove pel Modenese sarebbero
di poi passati in Piemonte. Ma la guida servì loro di scorta fino al
valico di Montepiano, e, forse errando la via, li fece divergere verso
Toscana, prendendo il contrafforte appenninico delle Galvano, ove
durante un temporale, e in mezzo ad una folta nebbia, fu perduta di
vista dai due proscritti, che rimasero anche privi di alcuni
oggetti--affidati al loro conduttore. Chiamata e ricercata inutilmente
la guida, nè sapendo per dove incamminarsi, stretti dalla necessità, si
risolsero a discendere il monte, e a cercare una via di salvezza
attraverso ai luoghi abitati. Questo lo stato del grande Nizzardo sulla
fine del 1849, questi i suoi dolori nei due mesi trascorsi. La patria
ricaduta nella schiavitù, la sua Anita morta di stento fra le sue
braccia, e abbandonata la salma di lei all'altrui carità, esso stesso
seguìto da un solo compagno, incerto del dove muovere il piede, privo di
appoggi, cercato a morte come una belva feroce, e nonostante ciò sempre
sicuro di sè, col suo indomito coraggio, colla sua fede nell'avvenire,
l'Eroe non ha piegato, e non piegherà sotto il peso dell'avversa
fortuna. Tanto disprezza il pericolo, che neppure ha voluto fare
sacrifizio dei suoi capelli inanellati, e della sua barba bionda,
ornamento bello ma troppo singolare della sua testa caratteristica. È
tranquillo e sereno, come se la condanna di morte non pesasse su lui[1].



I

DAL MOLINO DI CERBAIA A PRATO


La mattina del 26 agosto 1849, giorno di domenica, due sconosciuti, poco
dopo il sorgere del sole, guidati da persona del paese, scendevano a
piedi il monte delle Calvane per la pendice che conduce alla valle del
Bisenzio. Si erano presentati a Montecuccoli ad ora inoltrata della sera
innanzi, ed avevano chiesto ed ottenuto ricovero per quelle poche ore in
casa Ciampi, da dove erano ripartiti senza dare a conoscere l'essere
loro, e dopo avere fatta ricerca di chi li dirigesse verso Pistoia. Un
tale Ferdinando Marcelli detto Fiorino si era offerto di condurli al
Molino di Cerbaia, da dove il mugnaio, che aveva nome di ospitaliero e
servizievole, avrebbe pensato al modo di fare loro continuare la via.
Una qualche straordinaria circostanza aveva certamente balzati quei due
per luoghi così alpestri ed inusitati; non avevano toscana la pronunzia;
era il loro vestiario decente, ma non portavano seco qualsiasi oggetto
di viaggio; erano pervenuti a Montecuccoli sboccando dalle boscaglie che
ricuoprono i monti dell'Appennino. Nè questo solo avrebbe attirata sui
due viandanti l'attenzione altrui, che anche dalle loro persone
traspariva un qualche cosa di veramente singolare; l'uno di essi, di
mezzana statura, dalle membra bene proporzionate, dalla barba bionda,
dai capelli lunghi e ricciuti che gli scendevano per le spalle, dalla
fisonomia bella, fiera, ma velata da un intimo senso di mestizia,
procedeva pel primo, e faceva trasparire da tutti i suoi atti una tale
sicurezza di sè, da doverlo a forza riverire ed ammirare. L'altro, bruno
di carnagione e di capelli, adusto della persona, zoppicante da un
piede, seguiva il compagno coll'obbedienza del soldato verso il suo
capo, coll'amore previdente del figlio verso il suo genitore.
Camminavano spediti, per quanto il bruno non potesse fare a meno di
mostrarsi qualche volta sofferente del suo piede, e, mentre passavano al
di sotto del poggio a cui sovrastano i grandiosi avanzi dell'antica
rocca di Cerbaia, il viaggiatore biondo non potè fare a meno di
soffermarsi a rimirare le grandezze dei tempi che furono. I suoi belli
occhi celesti si saranno velati ancora più di mestizia, e forse
l'istoria intera dell'umanità passò come un lampo per la mente di
lui--la forza che si impone al diritto--si asside sovrana--e cacciata a
sua volta da forza maggiore, lascia a vestigia di sè le proprie rovine.

Procederono oltre fino al Molino di Cerbaia, cui girarono attorno per
andare a trovare l'ingresso situato dalla parte opposta a quella per la
quale erano discesi. Il mugnaio Luigi Biagioli, conosciuto col
soprannome di Pispola, che veramente era servizievole, ricevè i due
viandanti con ogni maniera di cortesia, come era nel suo costume di
fare. Chiesero i nuovi venuti ristoro di riposo e di cibo, o il modo di
procedere oltre per la via più breve fino a Pistoia, e su favorevole
risposta del mugnaio licenziarono la guida, remunerandola del servizio
prestato. Intanto Pispola fece porre a mensa i due viaggiatori, e si
disponeva ad insellare due cavalli, coi quali avrebbe fatto guidare gli
ospiti a Pistoia da alcuno dei suoi figli.

Ma la fortuna d'Italia preparava ad due sconosciuti una via più sicura.
Enrico Sequi, giovane ingegnere preposto alla direzione di alcuni lavori
stradali che si compievano in vicinanza di Vaiano, vicino villaggio
posto sulla destra del Bisenzio, si incamminava verso il monte
cacciando. Pervenne così al Molino di Cerbaia, a quattro chilometri dal
paese, ed erano circa le ore 8 di mattina. Pispola col fare ciarliero
del campagnuolo semplice e rozzo gli raccontò che un'ora avanti si erano
presentati al Molino due forestieri, i quali avevano chiesto di
rinfrancarsi, e di proseguire la strada per Pistoia; intanto erano a
tavola, e venivano preparati i cavalli secondo il desiderio loro;
concluse invitando il Sequi a fare compagnia agli ospiti. Questi,
sorpreso dalla novità del caso, corse col pensiero ai tanti patriotti
sbandati delle Romagne, che traversavano allora quei monti in cerca di
salvezza, e col desiderio di giovare ai supposti fuggiaschi accettò
l'invito, ed entrò nella stanza in cui stavano gli sconosciuti. Entrando
salutò il Sequi i due che sedevano a mensa improvvisata, e che,
restituito il saluto al cacciatore, offersero a lui, ciascuno a loro
volta, da bevere. Intanto il Sequi, parlando ora di una cosa ora
dell'altra, e specialmente dirigendosi al mugnaio, e proponendogli una
cacciata da farsi insieme nella futura settimana, potè bellamente fare
intendere agli stranieri l'essere suo. Il mugnaio aveva aderito alla
proposta caccia, e si era poi ritirato per accudire alle sue faccende.
Restato solo coi due, venne fatto al giovane ingegnere di portarsi la
mano ad una delle tasche per estrarre il porta-sigari, e insieme a
questo estrasse involontariamente un giornale, che tosto veduto gli fu
da uno dei due cortesemente richiesto. Ottenutolo lo scorse questi con
una rapida occhiata, fino a che fermatosi ad un punto, atteggiò le
labbra ad un sorriso di sdegnosa compiacenza, e fatto cenno al compagno
gli accennò sul giornale quello che aveva fermata la sua attenzione. La
indicazione non sfuggì agli occhi del Sequi, e cadeva sulla notizia
della cattura di Garibaldi operata dagli Austriaci nelle acque di
Venezia. Proruppe il compagno in un accesso d'ilarità, dal che fattosi
ardito domandò l'ingegnere, se provenissero essi dagli Stati romani, e
se avessero potuto dare qualche sicuro ragguaglio degli ultimi fatti di
Roma, mentre i giornali non riferivano che notizie contradittorie ed
incerte. Rispose il più giovane che tutto era finito, e che i pochi
superstiti erravano fuggiaschi per le Legazioni: «_E il nostro Garibaldi
ove trovasi?_» esclamò il Sequi per impulso subitaneo, con accento
commosso ed animato.

Nè è da meravigliarsi che la domanda improvvisa uscisse così vivace
dalle labbra del bravo ingegnere. Garibaldi stava allora nella mente di
tutti i liberali d'Italia.--Non era ancora il Duce della leggendaria
spedizione dei Mille--non era ancora il liberatore di Sicilia e di
Napoli--ma il popolo italiano aveva già divinato di quanto sarebbe
capace quell'uomo singolare--non lo avevano compreso gli uomini di Stato
nostri di qualunque parte si fossero, e fu questa causa non ultima delle
sciagure nazionali del 1849.--Allora e poi Garibaldi non era per gli
uomini di Stato che un abile condottiero di guerriglie.--Sarà il popolo
che lo chiamerà Generale--sarà la storia che lo chiamerà eccelso
capitano--ma intanto l'umanità non godrà il frutto dei trionfi di quel
genio di guerra, e forse acquisterà stentatamente in un secolo quanto
poteva dare a lei il Duce glorioso in due delle sue miracoloso campagne.

Piuttosto è da meravigliarsi che l'onesto Sequi nello strano incontro,
nella fisionomia speciale, nei capelli lunghi ed inanellati, nella barba
bionda, e più che tutto nel fascino singolare che sapevano destare
l'accento e lo sguardo di lui, non sospettasse il profugo illustre nel
modesto ospite del mugnaio. Forse ne dubitò in modo confuso, e da ciò fu
mosso alla passionata domanda.

Si scossero i due incogniti a quella esclamazione di affettuosa premura,
e il più attempato di loro, alzatosi in piedi, fissò i suoi occhi negli
occhi del Sequi, e dopo un lampo di esitazione si slanciò a braccia
aperte verso di lui dicendo: «_Amico, Garibaldi è nelle vostre
braccia._»

Quale effetto producesse la generosa confidenza nel giovane ingegnere
non è da dirsi. Pensò all'ardua impresa che la fortuna gli offriva, alle
soldatesche austriache che occupavano ogni città, ogni paese di Toscana,
agli amici che perseguitati essi pure non avrebbero potuto prestare
l'opera loro, alle poche conoscenze di cui poteva disporre come quasi
nuovo del luogo, e pensò anche alla difficile riuscita del salvamento,
che, se sortiva esito fausto, era tale da meritarne eterna lode, se
avverso, avrebbe portato sul di lui capo la persecuzione dei tristi e
forse l'esecrazione dei buoni. Restò muto un momento, che non fu di
esitazione, ma di sorpresa, e tornato alla realtà delle cose, raccomandò
ai profughi illustri che non rendessero palese in quella casa l'essere
loro. Disse dal mugnaio, sebbene tutt'altro che patriotta, esservi poco
a temere, mentre era esso un uomo di cuore, e oltre ogni dire ospitale,
ma la casa essere pericolosa come quella nella quale si riducevano
spesso a gozzoviglia gli sgherri sguinzagliati alla caccia dei poveri
sbandati di Roma, che per quei monti cercavano una via di salvezza. Pure
non seppe per il momento quale altro migliore consiglio dare se non
quello di differire la già stabilita partenza fino alla sera; egli
intanto farebbe del suo meglio per trovare ai profughi una via di
scampo. Accettò il Generale la proposta del suo nuovo amico, e lo
ringraziò con effusione di quanto farebbe per lui e pel suo compagno ivi
presente, che gli disse essere uno dei suoi più fidi, il capitano
Leggero[2], avanzo della legione di Montevideo, e che, quantunque
sofferente per recenti ferite, non lo aveva mai voluto abbandonare,
anche quando sulla costa di Magnavacca lo stesso Generale per il bene di
tutti aveva dato l'ordine di sbandarsi. Narrò poi all'amico le loro
avventure degli ultimi giorni, le sofferenze mentre senza guida e senza
tetto si aggiravano pei monti vicini, poi chiamato il mugnaio gli disse
che dopo l'incontro favorevole dell'ingegnere aveva pensato di ritardare
la partenza fino alla sera, nella quale sarebbe tornato il Sequi a
riprenderlo per dirigerlo a Pistoia per vie più comode che non fossero
quelle traverso ai monti, come insieme al mugnaio avevano divisato di
fare; intanto gli chiedeva ospitalità per quel giorno, al che il buon
uomo condiscese di gran cuore, ponendo a disposizione degli ospiti una
camera ove potessero riposare.

Partiva il Sequi dal Molino alle ore 9 e mezzo, e si dirigeva a Vaiano
sopraffatto dall'inopinato incontro, dalla difficoltà della riuscita, e
da mille altri pensieri tanto diversi da quelli che gli passavano per la
mente quando due ore avanti faceva la stessa via cacciando, e preceduto
dal suo fedele Tamigi. Il primo ostacolo che gli si presentava era la
mancanza di aderenti in quei luoghi, nei quali si trovava precariamente,
per causa dei lavori stradali affidati alla sua direzione. Si ridusse
alla casa Bardazzi, luogo di sua residenza in Vaiano, e poichè conviveva
con quella famiglia, contrastato come era da opposti pensieri, si
ridusse alle 12, ora del pranzo, senza avere presa una definitiva
decisione. Si pose a tavola colla famiglia Bardazzi, composta dei
fratelli Carlo e Vincenzo, e delle sorelle Clementina ed Anna, e dopo
avere nella mente agitato il sì e il no della rivelazione che era per
fare, stretto dalla necessità del momento, di trovare cioè una via per
venire in aiuto dei due profughi, si risolse finalmente a raccontare
quanto gli era avvenuto al Molino di Cerbaia.

Ed ora si vedrà la propizia fortuna non abbandonare più il Generale fino
al suo felice imbarco sulla costa toscana. Era Carlo Bardazzi, il
maggiore della famiglia, uomo di cuore italiano, e soffriva ai dolori
sotto cui gemeva in quei giorni la misera patria. Tostochè sentì dal
Sequi il racconto del prodigioso incontro, non solo non si perdè di
animo, ma offertosi esso insieme al fratello di venire in aiuto del suo
ospite, lo incoraggiò nell'impresa, gli offrì la sua casa, e lo munì di
una lettera per il dottor Francesco Franceschini di Prato, egregio
patriotta col quale avrebbe potuto stabilire la via da seguirsi. E
poichè il bisogno stringeva, ed era possibile che il Franceschini per
ragioni di professione si trovasse assente da Prato, non trascurò di
dare al Sequi altra lettera per Leopoldo Bertini, onesta persona anche
esso, e che il Bardazzi giudicava adatto a rimpiazzare il Franceschini,
dato che questi fosse pel momento lontano.

Partì subito il Sequi prendendo a prestito il cavallo del dottor Nardi
medico condotto di Vaiano, e arrivato a Prato, dopo aver prima saputo
dal Bertini che il dottor Franceschini non era assente, si diresse alla
casa di quest'ultimo, che era vicina alla Porta del Serraglio fuori di
città, e ve lo trovò, ma in letto sofferente per febbre reumatica. Carlo
Bardazzi aveva fatto grande assegnamento sulla cooperazione dell'egregio
dottore, e non a torto, che appena ebbe esso sentita dalla bocca del
Sequi l'importanza della cosa per la quale l'amico di Vaiano gli aveva
diretto il giovane ingegnere, dimentico di ogni malore, abbandonò il
letto, e vestitosi in fretta si diè tutto alla salvezza del Generale.
Condusse tosto il Sequi da Antonio Martini, vecchio e provato patriotta,
come quello che poteva soccorrere di consiglio in questa emergenza, ed
essere di aiuto colle aderenze sue. Bene si apponeva il Franceschini,
che udito dal Sequi non senza meraviglia il racconto di quanto gli era
avvenuto la mattina al Molino di Cerbaia, non che lo stato precario in
cui si trovavano i due esuli, Antonio Martini si pose senza altro a
cercare insieme agli amici un piano di salvamento, e impossibile essendo
per mancanza di guida il transito dei monti fino al Genovesato, e
urgente il togliere i profughi da luoghi così popolosi e tanto guardati,
si stabilì per la migliore di dirigerli verso la Maremma toscana. E
varie furono le cause che fecero fermare i tre patriotti in questa
risoluzione.--Aveva il Sequi un amico fidatissimo nel dottor Pietro
Burresi medico-condotto di Poggibonsi, prima e necessaria sosta del non
breve viaggio, e a lui potevano dirigersi i viaggiatori per il ricambio
della vettura.--Era ministro dei Lamotte al Bagno a Morbo Girolamo
Martini, parente di Antonio, e quanto lui buono e coraggioso
patriotta.--Erano note ad Antonio le aderenze di Girolamo coi liberali
maremmani, e la minore sorveglianza poliziesca di quei luoghi, non per
manco di accanimento negli sgherri granducali, ma per la vastità della
provincia, per la sua poca popolazione, e per la malaria.--Al di là
provvederebbe la fortuna.--E così fu stabilito per il viaggio, ma
intanto occorreva trovare un luogo vicino alla città, non esposto
all'occhio e alla persecuzione della polizia, dove il Generale ed il suo
compagno potessero riparare quella notte, e aspettarvi l'ora della
partenza. E qui sovvenne ai tre patriotti l'egregio Tommaso Fontani
capo-stazione a Prato, amico del Martini, che da lui interpellato
accettò di gran cuore di ospitare i profughi nell'interno della
Stazione, ove sarebbero stati condotti dopo la mezzanotte di quel giorno
per riposarvi, ed aspettare il momento di intraprendere lo stabilito
viaggio. Convenuto fra il Martini e il Sequi che il loro punto di
ritrovo sarebbe stato alla mezzanotte nell'_Albereta del Leonetti_
presso la Madonna della Tosse, il primo si assunse di provvedere le
vetture per la partenza da Prato, mentre il secondo prendeva spedito la
via di Vaiano con animo più quieto pei concerti presi.

Arrivò il Sequi a casa Bardazzi, e raccontò ai due fratelli, che lo
stavano aspettando con impazienza, come la sua gita avesse avuto esito
favorevole, e come fosse ormai assicurato l'appoggio dei patriotti di
Prato.--Ne esultarono i Bardazzi, e fu stabilito che il maggiore farebbe
preparare una modesta refezione per gli ospiti illustri, i quali si
sarebbero fermati in casa sua nel passare da Vaiano, e che il minore,
come per età più adatto ai disagi, sarebbe a disposizione dell'impresa
per tutto quello che potesse occorrere.

Essendo così tutto prestabilito, il Sequi, trattenutosi ancora qualche
tempo, sull'imbrunire prese seco l'amico suo Giuseppe Barbagli, e armati
ambedue di fucili e pistole si avviarono al Molino di Cerbaia. Era
sorpreso non poco il Barbagli della richiesta fattagli in quel modo, e
in quell'ora, e seguendo la via domandava che cosa significasse una tale
gita misteriosa. Si spiegò in parte il Sequi dicendogli esser per
accingersi ad impresa arrischiata onde salvare la vita preziosa di
tali, in confronto di che poco costava la loro--avere fatto assegnamento
sulla devozione del compagno alla causa nazionale--ma se non sentisse il
coraggio di arrischiarvisi si ritraesse pure, che in ogni caso si fidava
sulla di lui discretezza; al che, con risposta semplice, spontanea, e
altamente onorevole, replicava il Barbagli: «_Se tu ed essi vi salvate,
sarò salvo anch'io; e se dovremo incontrare male non mi lagnerò per
questo con te_,» e tirarono innanzi.

Strada facendo giunsero alla casa di un loro conoscente, Michelangelo
Barni, e richiestolo del suo baroccino si diressero al Molino di
Pispola. A misura che il Sequi si avvicinava al Molino si ingigantivano
nella sua mente i pericoli cui erano stati esposti per tutta la giornata
i due profughi tanto accanitamente ricercati dalla sbirraglia della
reazione, e non fu senza un'ansia tremenda che si presentò sul limitare
della casa. Entrò e vide il coraggioso capitano e il suo compagno seduti
a mensa in mezzo alla famiglia del mugnaio, colla tranquillità e
sicurezza di persone che non avessero nulla da temere.

Si sollevò a tale vista il cuore del Sequi, balzarono in piedi i due
profughi, e ridottisi col bravo ingegnere in una cameretta del Molino,
lo abbracciarono come un fratello, mentre esso raccontava le vicende
della giornata, le pratiche fatte, e la buona speranza di trarli da
quelle strette mercè l'aiuto dei liberali di Vaiano e di Prato. Allora
il Generale, chiamato il mugnaio, lo ringraziava dell'ospitalità
ricevuta, lo pregava di fare accompagnare la comitiva col suo baroccio,
e si disponeva a ricompensare quella buona famiglia recandosi in mano
una borsa, dalle cui maglie trasparivano poche monete d'oro, una dello
quali estrasse per darla al mugnaio; ma fosse per il fascino che il
Generale sapeva destare sopra tutti coloro che lo accostavano, o fosse
per l'espansione d'animo acquistata dal buon uomo mercè le copiose
libazioni fatte a cena in onore dei suoi commensali, il fatto è che
Pispola, per quanto fosse pregato, ricusò di ricevere il denaro, e dopo
fatto approntare al figlio Ranieri il barroccio richiesto, salutò gli
ospiti alla partenza con ogni maniera d'augurii per il loro felice
viaggio.

Salirono nella vettura data dal Barni il Generale ed il Sequi, e sul
barroccio il figlio del mugnaio col Barbagli ed il Capitano Leggero, e
si avviarono verso Vaiano. Sapeva Garibaldi di essere aspettato a casa
Bardazzi, e fece volentieri quella breve sosta per potere esternare
all'ottima famiglia, e massime al capo della medesima Carlo Bardazzi,
tutta la sua gratitudine per le cure prodigate in quel giorno a lui
profugo; non vi prese cibo, ma in segno di aggradimento di quanto era
stato preparato per lui e pel compagno accettò di bere. Fu stabilito di
lasciare la vettura del Barni coll'incarico di restituirla al suo
proprietario; i Bardazzi offrirono il loro baroccino, ma il Generale
preferì un baroccio ugualmente di proprietà della famiglia, come tale da
dare minore sospetto in qualsiasi incontro lungo la via. Così il
Garibaldi ed il Sequi presero posto nel baroccio di Pispola, mentre il
capitano Leggero ed il Barbagli erano sull'altro baroccio condotto dal
giovane Bardazzi Vincenzo. Partirono da Vaiano dopo le 10 di notte, e
seguitarono i due barocci fino al luogo detto _Cammino di Spazzavento_,
dove fermate le vetture, il Sequi per ordine del Generale disse che in
così bella serata si preferiva di continuare a piedi fino a Prato, ma in
realtà fu così fatto per nascondere la vera meta del viaggio, cioè la
_Madonna della Tosse_, luogo di convegno con Antonio Martini.
Retrocederono le due vetture condotte da Vincenzo Bardazzi, e da Ranieri
figlio di Pispola, e continuarono la via i due profughi insieme ad
Enrico Sequi e a Giuseppe Barbagli, che conosceva ormai il nome illustre
dei viandanti notturni pei quali aveva tanto faticato, pronto ora a fare
di più se occorresse. Arrivarono dopo le undici al luogo convenuto, e
tosto uscì dall'Albereta detta del Leonetti la vettura condotta da
Gaetano Vannucchi, amico del Martini, da lui pregato di prestarsi a
favore dei due profughi, di cui però non disse il nome, quantunque
liberamente lo potesse, attesi gli onesti o liberali principi del
giovane. Era nella vettura lo stesso Martini che per un atto di
squisita delicatezza, e per sorvegliare esso medesimo l'impresa, era
venuto ad incontrare i due proscritti.--Dista la Madonna della Tosse da
Prato circa 5 chilometri, e vi si addita oggi il sasso dove Garibaldi si
assise per pochi momenti.--Salirono tutti nella vettura, e seguitarono
così fino presso la città, e quindi discesi, e dividendosi dal
Vannucchi, entrarono nei campi, e per la sponda destra del Bisenzio
raggiunsero la via ferrata che traversarono per introdursi nella
Stazione. Stava quivi ad aspettare l'egregio capo-stazione Fontani, che
per mezzo di una scala a piuoli fece salire i due profughi in una stanza
remota.--Tutto questo succedeva a pochi passi dalla sentinella austriaca
che stava di guardia dalla parte opposta del fabbricato.--Così è;
l'amore di patria, la devozione, il coraggio di quattro patriotti
convertiva la fazione del soldato invasore in guardia d'onore del
Generale.--Questo avveniva dopo la mezzanotte del 26 al 27 Agosto.

Intanto correva il Martini, sempre a tutto previdente, ad accertarsi che
il vetturino Vincenzo Cantini da lui noleggiato fosse per l'ora
convenuta al luogo stabilito, ed il Sequi, disceso anch'esso insieme al
Barbagli per la parte da dove erano venuti, entrò in città per la Porta
al Serraglio, dicendo al custode suo conoscente essere in cerca di altro
ingegnere, che però ben sapeva essere assente da Prato. Fece ciò allo
scopo di eludere le future ricerche della polizia, che anzi andò fino
alla casa dell'ingegnere, ove, come già sapeva, gli fu risposto essere a
Firenze, e presa una vettura finse tornare a Vaiano, ma invece con un
lungo giro fece capo di nuovo agli amici nella Stazione.

Tornò il Martini ad annunziare che tutto era in ordine per la partenza,
e alle due antimeridiane lasciavano la Stazione il Generale e Leggero
guidati dal Martini e dal Sequi, e raggiungevano la vettura che li
aspettava presso la stanza mortuaria dietro le mura della città, e
distante circa 100 metri dalla porta e dalla Stazione. Prima della
partenza furono consegnate al Generale due lettere, di cui una
dell'ingegnere Sequi per il dottor Pietro Burresi a Poggibonsi, l'altra
di Antonio Martini per il suo parente Girolamo ministro al Bagno a
Morbo. Nell'una e nell'altra si pregava ad assistere con ogni maniera
d'aiuto i due profughi senza però declinare i loro nomi.

Pieni di affetto e di riverenza dall'una, di affetto e riconoscenza
dall'altra parte furono gli addii. Prima di separarsi, dai suoi amici di
Prato Garibaldi li abbracciò, li baciò con effusione, e disse loro
queste testuali parole: «_Arrivederci a tempi migliori._» Ringraziava e
baciava il Leggero con eguale effusione, poi salirono nella vettura che
tosto parti.

Ebbe la polizia sentore del fatto dopo qualche giorno, o fece arrestare,
prima tutta la famiglia di Pispola, che come inconsapevole fu
rilasciata, quindi l'ingegnere Enrico Sequi, sostenuto in carcere per
qualche giorno, e liberato per mancanza di prove, tanto seppero i bravi
patriotti accoppiare la prudenza all'ardire.

Nè è da trascurarsi un episodio relativo all'anello nuziale della povera
Anita. Prima di separarsi dal Sequi volle il Generale mostrargli quale
e quanta si fosse la sua gratitudine per lui, e toltosi dal dito un
anello d'oro glielo consegnava dicendogli: «_Questo è l'oggetto che io
abbia più sacro al mando, poichè è l'anello nuziale della mia perduta
Anita. A voi lo consegno, come pegno della mia gratitudine ed
amicizia._» E il Sequi rispondeva commosso: esser troppo il dono per il
poco fatto da lui; conserverebbe religiosamente il prezioso ricordo, per
restituirlo al Generale quando la patria fosse redenta dalla
schiavitù.--E il capitano Leggero volle lasciargli per sua memoria un
pugnale americano da lui messo in opera nella difesa di Roma. Dopo 10
anni l'Italia era restituita a nazione.--Garibaldi colla leggendaria
spedizione de' Mille aveva unita mezza Italia alla patria comune, e due
anni dopo giaceva ferito al piede dalla palla d'Aspromonte.--Era in Pisa
dopo la prigionia del Varignano, e il dottor Franceschini ed il Sequi si
recarono a visitarlo; sennonchè i medici avevano inibita qualunque
visita all'infermo.--Troppo doleva ai due amici il tornarsene senza aver
veduto il Generale, onde il Sequi, toltosi dal dito l'anello di Anita,
pregò l'ufficiale col quale aveva parlato di portarlo a Garibaldi
insieme ad una sua carta da visita.--Condiscese l'ufficiale con
indifferenza e forse peggio e dopo entrato nella camera del ferito, fu
sentita la voce del Generale che diceva: «_Fate che passi_,» cui
replicava l'ufficiale rammentando l'ordine assoluto dei medici, ma
tacque alla replica tuonante: «_Fate che passi, per Dio!_» E l'ufficiale
aprì senz'altro la porta, e così il Sequi e il Franceschini si trovarono
in faccia all'Eroe, che memore del beneficio tendeva le braccia al
Sequi, e gli diceva: «_Venite, amico._» Il dottor Franceschini commosso
piangeva dirottamente, e all'ufficiale che attonito restava immobile nel
vedere quella scena inaspettata, si rivolse Garibaldi e gli disse: «_Voi
non volevate introdurre da me questo mio amico; questo è il mio
salvatore, al quale diedi in ricordo l'anello di Anita, che voi mi avete
rimesso, e che io gli restituisco._» Volle il Generale che gli fosse
raccontato dalla bocca del Sequi il salvamento nella valle di Bisenzio,
e fece accettare a lui ed al Franceschini una refezione nella stessa
sua camera, e quando furono congedati con mille attestati di
gratitudine, passando per l'anticamera si trovarono circondati da un
gruppo di giovani garibaldini, che corsi alla notizia dell'accaduto,
acclamarono nel modo più entusiastico ai due liberatori del loro amato
Generale[3].



II

DA PRATO AL BAGNO A MORBO


La vettura noleggiata per i profughi dall'egregio Martini era a quattro
ruote e ad un cavallo, adatta cioè alle vie pianeggianti che esistono
fra Prato e Poggibonsi, e non tale da richiamare l'attenzione di
chicchessia. La conduceva Vincenzo Cantini, garzone di Angiolo Franchi
tenutario di vetture pubbliche, e credeva di condurre verso la Maremma
due mercanti di bestiame, che colà si portavano per fare acquisti. A
tutto aveva pensato il previdentissimo patriotta pratese.

Per la via d'Empoli e per la valle dell'Elsa giunsero i due viaggiatori
senza incontro sinistro presso Poggibonsi alle ore 8 di mattina, e si
fermarono fuori dell'abitato alla casetta detta _Bonfante_, distante dal
paese forse duecento metri.

Non era cosa nuova che ivi facesse sosta qualche vettura a riposare i
cavalli, e ancora qualcuno vi se ne ferma oggi, quantunque non siavi
locanda.--E fu buona l'idea, perocchè oltre a non mettersi in evidenza
della sbirraglia reazionaria, sfuggivano i profughi la vista dei soliti
Austriaci che erano di passaggio da Poggibonsi.--Un bambino, figlio
della Giuseppa Bonfanti[4] vide fermarsi il legno davanti alla sua
abitazione, e scenderne i due, uno dei quali, biondo e più attempato,
gli domandò con modo cortese se era permesso il riposarsi un poco nella
casa. Riferì il bambino la domanda alla madre, e questa che era oltre
ogni dire ospitale, scese ad incontrare i due viaggiatori, garbatamente
li accolse, e li fece salire nella cucina, mentre il vetturino,
ricoverato il cavallo nella stalla della Bonfanti, veniva mandato al
paese onde consegnare al dottore Burresi la lettera del Sequi, con
preghiera di provvedere un mezzo di trasporto per la prosecuzione del
viaggio fino al Bagno al Morbo. Chiese di poi il Generale se si poteva
avere una qualche cosa da ristorarsi, e la buona donna assentiva
premurosa, e voleva andare a far provvista in paese, ma non volle esso
dicendo che se nella casa vi fossero uova, sarebbero state cibo bastante
per loro.--E questa disposizione del Generale nasceva non tanto dal
desiderio di non propalare la loro presenza, quanto dalla sobrietà sua
abituale.--Si piegò la Bonfanti all'esplicito desiderio e si mise
attorno alla cottura delle uova.--Stava frattanto Garibaldi seduto
insieme a Leggero nella cucina, e una bambina di forse tre anni, figlia
della Bonfanti, attirata dalla fisonomia simpatica, e dai modi benevoli
dello straniero, gli andò festevolmente fra le ginocchia, e Garibaldi la
carezzava con fare paterno.--Se ne avvide la donna, e dava mano ad
allontanarla con quel modo proprio delle madri, che pare burbero, ed è
carezzevole, dicendole: «_si levasse da dare noia a quei signori_;» se
non che Garibaldi si oppose, e presa in collo la bambina la baciò e
ribaciò teneramente, e le fece mille carezze.--Aveva sentito la donna,
sempre buona con tutti, una speciale simpatia pei due mercanti (così si
dicevano) massime pel biondo, e l'attiravano a lui le cortesi maniere,
il fare franco e leale, e la sua bella fisonomia fiera a un tempo e
gentile.--Ora poi che vi si aggiungeva l'orgoglio materno soddisfatto
nel vedere così carezzata la sua bambina da quel signore tanto amorevole
e buono, di quanto si aumentasse quel sentimento di simpatia misto a
rispetto, solo chi è madre lo dica.--La Bonfanti semplice e casalinga
subiva il fascino a cui nessuno si è sottratto nell'avvicinare
l'Eroe.--Forse non aveva mai sentito parlare di Garibaldi, forse la
strana voce della plebaglia reazionaria aizzata dal prete le
rappresentava come un bandito assetato di sangue e di rapine quell'uomo
singolare che parlava così bene, che si mostrava a lei tanto cortese,
che era pieno d'amore per la sua fanciullina.--Quando più tardi seppe
qual nome portasse il modesto viaggiatore biondo, fu tale e sì devota la
sua ammirazione per lui, che conservò come una santa reliquia la
stoviglia ove furono cotte le uova, e il bicchiere a cui bevve il
Generale; e quando nel 1867 Garibaldi, non mai dimentico dei benefizii
ricevuti, passando da Poggibonsi volle rivedere la casa ospitale, la
donna non si saziava di riguardare estatica l'Eroe.--E Garibaldi, che si
rammentava delle circostanze più minute, domandò della bambina che aveva
tenuta sulle braccia nelle poche ore in cui aveva trovato riposo in
quella casa modesta, e gli fu presentata una giovane di oltre venti
anni, sulla cui fronte depose un bacio paterno, memoria dei baci
stampati dal profugo sul suo visino di fanciulla, grato ricordo
dell'accoglienza amorevole che in tempi così diversi aveva ricevuta
nella casa della Giuseppa Bonfanti.

Allestite le uova, e tornato il Cantini da Poggibonsi coll'assicurazione
che quanto prima tutto sarebbe in ordine per la partenza, volle la buona
donna nell'attiguo salotto apprestare la mensa, cui si assisero
Garibaldi, il capitan Leggero e il vetturino di Prato. Poco avanti il
mezzogiorno venne il vetturino di Poggibonsi, e Garibaldi, ringraziata
la Bonfanti di tutto quello che aveva ricevuto da lei, volle ad ogni
costo soddisfarla dei prestati servigi, ad onta che essa facesse del suo
possibile per rifiutare la moneta, e lasciando al Cantini i suoi saluti
per gli amici di Prato, e accomiatandosi dalla famiglia Bonfanti come un
vecchio amico, partì insieme al compagno pel Bagno a Morbo.

Abbiamo con ogni accuratezza procurato di rintracciare se il dottore
Pietro Burresi, allora medico-condotto di Poggibonsi, poi Clinico esimio
degli Studi Superiori di Firenze, avesse avuto un colloquio col
Generale alla casa Bonfanti, non essendo possibile l'incontro in altro
luogo, mentre nelle poche ore di sosta siamo certi che i profughi non si
mossero di là; ma tutto ci fa credere, e ce lo affermano concordi i
testimoni viventi, che il Burresi non accostasse i due viaggiatori, ed è
ciò anche naturale se si riflette che la lettera dell'ingegnere Sequi
parlando di profughi senza rammentare chi fossero, e raccomandando di
fornire ad essi i mezzi per continuare il viaggio, l'egregio professore,
dopo avere adempiuto a quanto lo pregava l'amico, non si sarà occupato
più in là, non potendo neppure sospettare il nome illustre che portava
uno degli esuli a lui diretti da Prato. È certo però che il Burresi non
poteva fare migliore scelta nel vetturino. Era questi Niccola Montereggi
giovane popolano di principii liberali, e testè uscito dalle carceri per
causa politica. Nonostante ciò gli era stato detto che conduceva due
mercanti di bestiame in Maremma.

Partiti dalla casa Bonfanti percorsero la strada che fiancheggia il
paese ingombra di salmerie e soldati austriaci, e con qual cuore
vedesse il Generale così da vicino questa nuova miseria della patria non
è da dire. Arrivarono a Colle in giorno di straordinaria affluenza di
popolo, e il Montereggi, per assicurare l'esito del viaggio, che sapeva
lungo e faticoso, pensò di cambiare il suo cavallo con una cavalla di
migliore lena colla quale un suo fratello aveva portati la mattina
stessa alcuni passeggeri a Colle[5]. Il Montereggi rammenta con
espansione anche oggidì la sua _Chioccia_ (è il nome della cavalla) e
dice che poche bestie sarebbero state buone di fare quanto fu da lei
fatto in quella giornata. Per il ricambio del cavallo si fermarono nella
via principale di Colle ad una locanda ove il vetturino sapeva di
trovare il fratello[6]. Era la strada per la straordinaria occorrenza di
festa ingombra di popolo, e vi si aggiravano spessi i gendarmi del
Governo granducale. Durante il cambio dei cavalli scesero i due
viaggiatori dalla vettura, e col modo di persone che non hanno nulla da
temere, stavano in mezzo a tanta gente paesana, e sbirraglia lorenese,
quasi fosse per essi la cosa più naturale. Ripartirono subito da Colle,
e passando per il Castelletto di San Gemignano, pervennero circa alle 3
pomeridiane al di sotto di Volterra senza entrare in città, al luogo
detto _i Monumenti_. La strada fino allora percorsa è malagevole e
montuosa, e il Generale scendeva spesso a terra con agilità mirabile nei
luoghi più faticosi, e si dava a cogliere sulle siepi more selvatiche,
che mangiava con avidità. Ai Monumenti havvi un quadrivio che pose in
imbarazzo il vetturino sulla via da seguire, come quegli che non era
pratico dei luoghi. Vi fa capo la via Colligiana per la quale erano
venuti i viaggiatori, e vi se ne staccano altre tre, di cui due per
parti diverse conducono alla città, e una terza procede alla china, e
dopo poco tratto biforcandosi, per una parte volge alla Val d'Era, e per
l'altra alle Saline.

Era quest'ultima la via da prendersi, ma il vetturino aveva bisogno
d'indicazione, e si fermò per aspettare qualche viandante cui dirigere
la domanda. Intanto Garibaldi scese dalla vettura, e si assise
cogitabondo all'ombra di un roveto che allora esisteva in un lembo di
terreno abbandonato fra la via che conduce alla città, e la Via di Val
d'Era e delle Saline.--Sull'erta--al davanti di lui--si alzavano le mura
della cittadella, tristamente celebre sotto il nome di _Maschio_ come
antica prigione di Stato, poi ridotta a carcere cellulare, e nella quale
scontavano allora tanti patriotti il delitto di avere amata l'Italia, e
per lei sperati migliori destini.--Di fianco, e sulla via, si ergevano i
cosiddetti Monumenti, attestato marmoreo di adulazione servile, coi
quali si magnifica la liberalità di un principe austriaco che si degnò
di far costruire una strada ruotabile per Volterra a spese del pubblico
erario.--In faccia a tanta abiezione e a tanta miseria saranno stati
molto tristi i pensieri del Campione perseguitato della libertà!--Fu
breve la sosta, e avuta l'indicazione della via da seguirsi, fu
continuato il viaggio fino alle Saline. Ivi, sul piazzale della fabbrica
governativa del sale, pel quale doveva passare la vettura, erano alcune
guardie di finanza, e Garibaldi, sorpreso di trovare soldati in luogo di
quasi aperta campagna, ordinò al vetturino di continuare per la valle
della Cecina, anzichè volgere per le Saline. Ma chiarito l'equivoco dal
vetturino stesso, dopo fatto un breve tratto di strada, fu ripreso il
primitivo cammino per Pomarance, e passato il Ponte di Ferro sulla
Cecina, cominciarono la salita. Se non che la povera _Chioccia_ correva
da 5 ore senza riposo, aveva percorsa una lunga strada montuosa, e
quantunque dovesse trarsi dietro un leggero baroccino a due ruote, aveva
il carico di tre persone, ed era stata bastantemente sollecitata per
via. Ora dava segni di stanchezza, vi era una lunga salita da fare, e fu
necessità fermarsi a _Prugnano_, podere che è sulla mano destra di chi
sale a Pomarance, e circa alla metà della salita. In questo tempo prese
il Generale un uovo cotto nella cenere, e rinfrancata la cavalla, dopo
il riposo di un'ora, fu continuato il cammino. Ma la Chioccia era
sfinita di forze, per cui il Montereggi arrivato alla _Burraia_ locanda
presso Pomarance, fu costretto, sebbene a malincuore, a dichiarare ai
suoi viaggiatori che non poteva condurli fino alla meta
stabilita.--Scesero alla Burraia, e il Montereggi ebbe incarico dal
Generale di trovare altro vetturino che li accompagnasse al Bagno a
Morbo. Andò il Montereggi a Pomarance e tornò con Vittore Landi detto
Zizzo, vetturino di professione, che si incaricò di portare egli i due
mercanti di bestiami al Bagno a Morbo.--Mentre si preparava la vettura,
il Garibaldi e il Leggero si riposarono in una camera del piano
superiore, e prima di partire mangiarono insieme al Montereggi ciò che
era stato per loro preparato dall'oste.--Venne Zizzo col suo barroccino,
e i profughi ripresero la via dopo due ore di sosta, ed arrivarono al
Bagno a Morbo alle ore 11 di sera.--Vi erano così pervenuti in un solo
giorno da Prato, traversando buon tratto della Toscana, e riposando
appena qualche ora pel cambio delle vetture[7]. Certamente era d'assai
migliorata, la condizione loro.--Se non altro l'esoso straniero non era
penetrato in quelle regioni.--Quantunque non fossero ancora nella
Maremma, la popolazione scarsa faceva sì che più facilmente potessero
restare inosservati in casa di amici.--Ma quanti ostacoli ancora da
superare!--Quante difficoltà da vincere!--Buon tratto di cammino li
separa tuttora dal mare, unico scampo per essi--e sul mare occorre una
barca che si ponga al cimento per portarli in luogo di salvezza.--Ma la
fortuna d'Italia li accompagna--toccheranno il lido tanto
desiderato--vi sarà la barca che insieme coll'Eroe porterà in salvo il
futuro Dittatore di Sicilia, e di Napoli, _tanta parte del riscatto
italiano_--e a conclusione del fortunato evento, potrà poi dettare ai
posteri l'eccelso Scrittore Livornese[8]: «_Quindi impari chi legge a
non disperar mai della patria_»[9].



III

DAL BAGNO A MORBO A SAN DALMAZIO


Il Morbo è stazione balnearia alla quale concorrono in tempo d'estate i
malfermi in salute dei vicini paesi, e della Maremma massetana. Fu
quindi cosa al di fuori delle consuetudini ordinarie della casa il
presentarsi di due stranieri alle 11 di sera. Zizzo si era fermato colla
sua vettura al principio della piccola salita che vi è dalla parte del
giardino, ed i viaggiatori avevano battuto alla porta che fu aperta
dallo stesso ministro del Bagno. «_Parlo al signor Martini?_» chiese il
Generale; e sulla risposta affermativa si trasse di tasca una lettera,
e gliela consegnò. Introdotti i due stranieri nel salotto terreno, e
pregati di sedersi, chiedeva Girolamo Martini il permesso, com'è d'uso,
di leggere la lettera ricevuta, e ne aveva scorsi i primi versi, quando
uno dei due, alzatosi in piedi di un tratto, e con tuono sicuro e
confidente di chi parlasse ad un vecchio amico, lo interruppe dicendo:
«_Signor Martini, in due parole vi dirò il contenuto della lettera;
sappiate che io sono il Generale Garibaldi, e questo mio compagno il
Capitano Leggero._» Attonito guardò il Martini i suoi due ospiti, gli
passarono per la mente le gesta gloriose del Generale, la fortuna
avversa presente, il bisogno di soccorso immediato, e tutte queste cose
ed altre assai si tradussero nella risposta che gli usciva dal cuore:
«_Coraggio, Generale, tutto si rimedia._» E pronto davvero al rimedio,
col senso pratico che gli era abituale, pensò anzitutto di coonestare la
venuta dei due stranieri ad ora così insolita al Morbo, e di fare
insieme sparire le traccie loro presso al vetturino che li aveva
condotti. Saputo dal Garibaldi come Zizzo fosse nella credenza di avere
portati due mercanti di bestiame, si fece sulla porta di casa, e
rivolgendosi a lui con voce alta lo rimproverò di avergli condotti i due
mercanti coi quali non aveva nulla che fare, mentre essi erano diretti a
comprare cavalli a Bruciano, e lo invitò a continuare senz'altro il
viaggio, se voleva esser pagato colla pattuita mercede. Ma Zizzo, come
era naturale, rispondeva: essersi impegnato col vetturino di Poggibonsi
di portare i due passeggeri al Bagno, e questo avere fatto, quindi
essere fuori dell'obbligo suo, e non volere andare a Bruciano in
quell'ora per tutto l'oro del mondo; avere esso già impegno di portare
oggetti alla fiera del Ponte di Ferro nel giorno successivo, ed essergli
perciò necessario l'immediato ritorno a Pomarance. Ben si aspettava una
tale risposta Girolamo Martini, quindi di rimando: «_Sta bene, sta bene;
vedo che colla tua brenna non saresti buono a condurceli, questi tuoi
viaggiatori, cosicchè ce li farò condurre col mio legno appena si
saranno un poco riposati._» Ciò detto scendeva il breve tratto di via
che lo separava dal vetturino, e gli poneva in mano una moneta d'oro da
venti lire a nome dei due mercanti.--Come restasse Zizzo a così lauta
ricompensa si può immaginare.--Coll'ingordigia insaziabile del suo
mestiere pensò che se i 10 chilometri dalla Burraia al Morbo gli avevano
fruttato un marengo, la prosecuzione del viaggio a Bruciano ne avrebbe
fruttato un altro almeno con persone così correnti allo spendere, e
anche oggi dopo 35 anni rammenta con dispiacere il malaugurato
rifiuto.--E noi che si considera ora le cose con piena calma si troverà
invero la larghezza del Martini essere da risparmiarsi, come quella che,
uscendo dalle consuetudini naturali, poteva generare sospetto circa ai
due mercanti che pagavano con tal profusione; ma bisogna pensare altresì
a quanto inopinatamente avveniva al Martini, allo stato dell'animo suo
non atto in quel momento a ponderare con sangue freddo le cose più
piccole, ed anzi loderemo la sagacia ammirevole del ripiego di Bruciano,
col quale si giovava alla posizione degli esuli tanto rispetto al
vetturino, quanto rispetto ai bagnanti.

Ma rimediato ad uno, ecco che si presenta un altro malanno. Era stato
chiamato il cameriere della casa, che era già coricato, e gli era stato
ordinato di servire i due nuovi venuti. Veduti esso i due profughi, che
erano tuttora nel salotto terreno insieme col Martini, uscì subito dalla
stanza, e chiamato quest'ultimo in luogo appartato, con modi di chi è
trasognato dalla sorpresa, gli disse: «_Ma, signor ministro, sa lei chi
sono quei forestieri?_»--E il Martini: «Chi sono dunque?»--«Uno dei due,
quello dalla barba bionda, è Garibaldi.»--«_Ma voi siete matto_, replicò
col suo sangue freddo il Martini, _quei due sono mercanti di bestiame
che vanno a fare acquisti di cavalli a Bruciano, e sono stati portati
qui per errore._»--«_E io, gli dico che sono due profughi, e uno di essi
è Garibaldi; lo conosco bene, stia sicuro, l'ho servito a tavola a
Nizza._»--Bisognò cessare dall'inutile negativa, e dire al cameriere che
non si era ingannato, i due esser lì di passaggio per pochi momenti, ma
guai a lui se avesse parlato, e il cameriere promise e mantenne.

Tutto questo avveniva in breve lasso di tempo. Ma la posizione dei
profughi era precaria, e occorreva pensare a far qualcosa pel loro
salvamento. Trovavasi per caso al Bagno un tale che godeva fama onesta,
ed era creduto dal Martini assai liberale. A lui si rivolse il buon
ministro confidandogli il nome degli ospiti illustri, e richiedendolo di
consiglio. Era il creduto liberale onesto sì, ma pusillanime, e
trasecolando nel sentire che in quella stessa casa si trovava Garibaldi,
consigliò per il suo meglio il Martini a sbarazzarsi, e subito, di
persone così pericolose, e questi a riparare la mal fatta confidenza,
sempre d'animo pronto ai ripieghi gli replicava: «_Già, già.... avevo io
pure pensato così, e metterò subito in pratica il suo consiglio col
farli accompagnare a Bruciano, appena si saranno riposati._» E chiamato
il vetturino di casa, in presenza del timoroso signore gli ordinò di
tenersi pronto per condurre a Bruciano i due viaggiatori; in segreto poi
gli ingiungeva di partire al tocco dopo la mezzanotte, fermarsi al
_Campo Murato_, località prossima a Bruciano, fino a giorno avanzato,
tornare al Bagno facendo in modo di essere veduto, e dire a tutti di
avere accompagnati i due mercanti di bestiame arrivati al Bagno nella
sera antecedente. E così fece il vetturino che era fidatissimo, ma
inconsapevole del perchè dal ministro gli fosse ordinata tale cosa, e il
suo ritorno da solo tranquillizzò il pusillanime consigliatore, ingannò
l'astuto cameriere, e fece persuasi i bagnanti che i mercanti di
bestiame giunti ad ora tanto insolita, erano anche ripartiti con
sollecitudine per la loro destinazione.

Frattanto il Martini aveva fatti passare i suoi ospiti nella parte più
riposta della casa, e li aveva alloggiati al piano superiore nella
camera sovrapposta alla sala di ricevimento. Nella notte non chiuse
occhio, pensando e ripensando al dove trovare un asilo sicuro per essi,
chè tale non era quello prescelto per necessità. E come uomo di cuore
non si preoccupava soltanto del domani, ma anche e molto più di trovare
una via per la quale far giungere i profughi in luogo di salvezza.
Finalmente risolse di dirigersi a Michele Bicocchi, ricco proprietario
della vicina fattoria di Sant'Ippolito, come a colui che poteva dare
asilo, aiuto e consiglio. Si recò da lui la mattina prestissimo, e gli
raccontò gli eventi della sera, gli disse il nome illustre che portava
uno dei suoi ospiti, la necessità di ricovero più sicuro, il dovere che
sentiva fortissimo di non abbandonare il proscritto.

Dètte il Bicocchi consiglio buono, profferta grande di aiuti, ma rifiuto
circa all'asilo. Coonestò la repulsa col dire la fattoria di
Sant'Ippolito spesso frequentata dagli agenti del governo restaurato--ma
questo era quanto succedeva allora per tutte le case di campagna, e in
ogni caso era sempre stanza più sicura per gli esuli che non fosse il
Morbo in tempo di bagnatura.--La ragione vera si era che il Bicocchi,
per pochezza d'animo non volle correre il rischio delle pene comminate
per chi ricettasse Garibaldi. Ma qui si ferma il lato cattivo, che poi,
sempre a patto di non avere in casa sua un così pericoloso proscritto,
si diè di tutta lena ad aiutare il Martini, d'onde ne venne il consiglio
buono, e la profferta d'aiuti.--Propose Cammillo Serafini di San
Dalmazio, e Angiolo Guelfi di Scarlino, come quelli che avrebbero
accettata di gran cuore l'impresa del salvamento, e sarebbero stati da
tanto di portarla a termine con esito fortunato, e l'uno fornirebbe
sicuro asilo in San Dalmazio, mentre l'altro provvederebbe una via di
salvezza per la Maremma.--Consigliò spedire un espresso al Serafini, e
si profferse di parlarne egli medesimo ad Angiolo Guelfi, che sapeva
doversi trovare quel giorno stesso alla fiera del Ponte di
Ferro.--Quanto ad aiuti non misurò la promessa, che anzi dichiarò essere
la sua pecunia a disposizione dell'impresa, ed essere pronto a spendere
qualunque somma purchè riuscisse a bene.--Offrì uomini e cavalli per
trasporti ed espressi, e certamente avrebbe tutto mantenuto, ma non ve
ne fu il bisogno. Insomma il Bicocchi tutto poneva a disposizione,
eccetto la sua personale sicurezza, e in quei momenti di egoistica
abiezione, non era poca cosa. E se si aggiunge il modo tepido anzichè
no con cui aveva sempre proceduto il Bicocchi nei partiti politici, e la
sua vita appartata, vi è piuttosto da lodare che da biasimare. Questo è
certo che passato il panico della reazione, il Bicocchi si è doluto più
volte con alcuno dei coadiuvatori di non aver presa parte più attiva
nell'impresa onoranda.

Così stabilito il da farsi, mandò il Martini un espresso a San Dalmazio,
e partì il Bicocchi per la fiera del Ponte di Ferro alla quale sapeva
d'incontrare il Guelfi. Ma l'espresso del Martini trovò che il Serafini
era già partito per la fiera, cosicchè il Bicocchi potè ivi parlare con
ambedue.

La fiera di bestiame, che si fa ora nella terra di Pomarance, si teneva
allora sulla sponda sinistra del fiume Cecina presso il Ponte di Ferro
nella adiacente pianura percorsa dalla via di Pomarance, e Garibaldi era
passato appunto di là il giorno innanzi per andare al Morbo, cosicchè
facendosi la riunione sui due lati della strada, la sua vettura nel
giorno dipoi avrebbe dovuto passare in mezzo a tanto popolo adunato, e
fu fortuna che questo incontro venisse a caso schivato.--Era in quel
giorno il Serafini alla fiera come deputato del Comune di Pomarance, e
il Guelfi vi si trovava per suo diporto.--Li prese il Bicocchi ambedue
in segreto, e riferì loro _essere necessario che si portassero subito al
Morbo, essendovi_, come disse, _due personaggi colà rifugiati da
salvare_. Nè l'uno nè l'altro avevano di bisogno che una tal cosa fosse
loro detta due volte, quindi lasciata il Serafini la deputazione, e il
Guelfi gli amici, si posero in via per provvedere al soccorso di que'
due proscritti di cui ignoravano il nome, nè questa era cosa nuova per
essi che si erano affaccendati in quei tristi tempi a salvare
dall'ergastolo e dalla morte quanti più patriotti esuli avevano
potuto.--Ora si aspettavano di soccorrere tutt'altri che il più grande
campione della libertà italiana.--Sapevano il Garibaldi scomparso dalla
scena politica da circa un mese, e tutto faceva credere che dalle rive
dell'Adriatico, ove era succeduta l'ultima catastrofe della sua schiera,
egli avesse già trovata una via di salvezza per l'America, e in ogni
caso mai pensavano che potesse essere in quei paraggi.--Stabilirono
strada facendo che mentre il Serafini sarebbe corso ove si trovavano i
profughi, il Guelfi anderebbe ad aspettare a San Dalmazio, ed ivi
insieme, a seconda del bisogno, avrebbero concertate le misure
necessarie al salvamento. E così fecero, per cui il Serafini correva
difilato al Morbo, vi arrivava circa le due pomeridiane, ricevuto dal
Martini come angiolo liberatore, ed introdotto presso i due profughi, a
differenza degli altri che avevano fin qui soccorso l'Eroe, lo
riconosceva a prima vista per averlo veduto a Livorno nel suo sbarco
dell'Ottobre antecedente, e dopo vinta la sorpresa tanto naturale per
così inopinato incontro, con voce franca e slancio patriottico disse:
«_Generale, disponete di me._» Ed il Generale intese dalle poche parole
e dagli atti come potesse aver piena fiducia di chi gli offriva i suoi
servigi, onde, abbracciandolo come un vecchio amico, rispose:
«_Portateci al mare e presto, e saremo salvi._» E, come sempre, non
s'ingannava nè sulla via da seguirsi, nè sulla sollecitudine di
tentarla. Sapeva guardate a vista tutte le vie di terra, e praticata una
crociera attivissima dai legni austriaci sulla spiaggia adriatica; se
nella sua lunga traversata dall'Appennino al Morbo avesse lasciato
sentore di sè, non sarebbe mancata un'altra crociera sulla spiaggia
tirrena per chiudere l'ultima via di scampo all'Esule temuto, che si
voleva avere ad ogni costo nelle mani.--E la crociera fu posta infatti,
ma troppo tardi.--Garibaldi era già in salvo da tre giorni quando la
costa fu sorvegliata.--Egli non s'ingannava neppure nel supposto di
lasciare dietro a sè sentore del passaggio; trovò ovunque amici fidi che
si posero ad ogni rischio per lui, ma erano troppi per conservare tutti
il segreto, ed è certo che in ogni luogo pel quale passò Garibaldi, se
ne propagò la notizia poco dopo la partenza.--Il suo nome era troppo
grande e popolare perchè potesse restare segreto.

Brevi furono gli accordi, e Serafini propose come temporario asilo la
sua casa di San Dalmazio intanto che si fosse potuto provvedere allo
scampo per la via di Maremma, e accennava alla presenza del Guelfi
tutto disposto a prestare l'opera sua. In poche parole fu concertato che
sull'imbrunire sarebbe tornato il Serafini per trasportare i due
profughi a San Dalmazio.

Restarono il Garibaldi ed il Leggero per alcune altre ore nella loro
camera appartata del Morbo. Quali fossero in questo tempo le cure da cui
erano circondati per parte del Martini, è inutile il dire; basti solo
riflettere quanti ostacoli avrà dovuto superare il buon uomo per poter
ritenere nascostamente nella casa due individui, e provvedere ai loro
bisogni di vitto, in mezzo a tante persone alcune delle quali già al
corrente del segreto arrivo del Generale. Ma tanta fu la prudenza e
l'assennatezza sua, congiunta a quel mirabile sangue freddo di cui lo
abbiamo già veduto capace, che tutto seppe eludere, e si arrivò alla
sera senza che nessuno della casa pensasse di coabitare coll'Esule
temuto.

Venne alle 9 di sera il Serafini.--Entusiasta di Garibaldi e di amor
patrio, non avrebbe ceduto il suo incarico pericoloso per cosa al
mondo.--Subito arrivato a San Dalmazio aveva colle più animate parole
posto Angiolo Guelfi al corrente della grave missione che la fortuna
offriva loro. Aveva Angiolo Guelfi sortito da natura, insieme a fervido
amore di libertà, carattere fermo e riflessivo, onde abbracciò
l'importanza dell'impresa che gli si poneva dinanzi, ed aspettando la
venuta degli ospiti volse nell'animo suo i diversi modi pei quali si
poteva giungere al salvamento del Grande che il caso affidava alle loro
mani.--Intanto il Serafini aveva prese nella sua casa le più minute
precauzioni tanto per l'alloggio de' suoi ospiti, quanto perchè il loro
arrivo passasse inavvertito agli abitanti del paese, e a coloro stessi
che frequentavano la sua casa.--Uscirono i profughi inosservati dal
Bagno, e accompagnati dal Martini raggiunsero il baroccino che era a
breve distanza dalla casa sulla via pubblica, nel luogo ove da questa si
stacca il piccolo braccio stradale del Morbo.--Armati dal Serafini,
sempre previdente, di fucili da caccia, salirono i due nel baroccino
insieme a lui, che colla sua abituale velocità fece in breve tempo i
pochi chilometri di strada provinciale, e si fermò al luogo detto
_Croce del Bulera_. Quivi cessava in quei tempi la strada ruotabile per
chi fosse andato a San Dalmazio, e quivi il Serafini lasciò il suo legno
presso i suoi parenti, come ne era solito, non credendo prudente il
richiamare l'attenzione altrui sul passaggio inusitato di un veicolo a
quell'ora, e per luoghi così malagevoli. Continuarono a piedi fino al
paese i forse tre chilometri che restavano da fare, e alle dieci e mezzo
di sera vi giunsero.--La strada principale, e si può dire unica, del
paesello era deserta, e così poterono arrivare inosservati alla casa
Serafini. Si fermarono gli ospiti al riparo di un angolo di caseggiato
che si trova in faccia all'ingresso principale, mentre il proprietario
per altra porta entrava nella casa, e li introduceva esso stesso nel suo
salotto[10].



IV

DA SAN DALMAZIO ALLA CASA GUELFI


Per chi conosce i sensi gentili di ospitalità che sono pregio abituale
di Cammillo Serafini, sarà facile cosa l'immaginare le cure da cui
vennero circondati i due esuli in quella casa. Fu la splendida
accoglienza che sa fare l'uomo cui la fortuna accordò largo censo, e la
natura cuore più largo. Ma di ciò basti. Diremo piuttosto come appena
installati i suoi ospiti nel salotto cui fa capo la breve scala di
accesso, corresse il Serafini dal Guelfi per dargli la notizia
dell'arrivo. Stava questi nella cucina della casa parlando coi
familiari, in apparenza calmo, ma col cuore in ansia per l'aspettativa.
Toltosi di là insieme al Serafini, fu da esso condotto nella stanza
dov'erano i suoi ospiti illustri e presentato al Generale. Questi appena
vide Angiolo Guelfi senz'altre parole gli gettò le braccia al collo, e
gli disse: «_Vengo con voi._» Nè il moto subitaneo proveniva dal
desiderio di cercare uno scampo come che si fosse, bensì da sentimento
di simpatia nel vedersi dinanzi quel patriotta dalla barba grigia, folta
e prolissa, dalla fisonomia bella e severa, e dallo sguardo franco e
leale, tale insomma da attirare a sè chiunque lo vedesse per la prima
volta. Ma il Guelfi, pur corrispondendo all'effusione d'animo del
Generale, gli faceva intendere che una traversata, per quanto breve,
onde raggiungere la Maremma, sarebbe stata pericolosissima in quei
momenti nei quali esso così conosciuto era tenuto d'occhio dalla polizia
lorenese.

Strettisi a consiglio i due profughi insieme a Serafini e Guelfi, tutti
convennero che scopo precipuo della ricerca dovesse essere una barca
atta a trasportare gli esuli sulla riviera ligure, e che di ciò avrebbe
dovuto occuparsi il Guelfi partendo senza dilazione per la Maremma.
Espose esso le sue intenzioni circa alle persone a cui rivolgersi, ed
ebbe in tutto l'approvazione del Serafini conoscitore esatto esso pure
degli uomini e dello stato della Maremma. Parlò il Guelfi della sua casa
nel piano di Scarlino da servire per luogo di sosta, come quella che,
situata in pianura disabitata, aveva di frequente dato ricetto ad esuli
politici, ma perciò appunto proponeva di non servirsene come asilo che
in caso estremo, essendo ormai sospetta, sia per i profughi che
l'avevano frequentata, sia pel nome inviso del proprietario. Tutto ciò
veniva approvato dal Serafini; e fu stabilita la partenza del Guelfi per
le prime ore del mattino successivo, onde evitare sospetti di una gita
notturna. Fu preveduto anche il caso che il Guelfi dovesse trattenersi
in Maremma, e che vi fosse bisogno di corrispondenza fra esso e San
Dalmazio. A tale effetto fu stabilito che se avesse dovuto dare notizie
di sè, le avrebbe fatte pervenire per mezzo del Martini dirigendo
lettere al Morbo con nome convenzionale, e se si fosse dovuto di qualche
cosa avvertirlo, si sarebbe usato l'indirizzo fittizio «_Antonio
Piesce_» che Angiolo Guelfi scrisse di suo pugno sopra di un quarto di
foglio, e che il Serafini poi conservò e conserva tuttora insieme agli
altri documenti di quella data memoranda.

Così fra gli accordi e la mensa ospitale fatta imbandire dal Serafini si
era arrivati a notte avanzata, e il Guelfi volle passare le poche ore
che lo separavano dalla partenza nel conversare col Grande che così
inopinatamente gli era stato avvicinato dalla fortuna. Furono queste
alcune ore di amichevole colloquio che Angiolo Guelfi non dimenticò
finchè visse. L'animo suo fiero, leale, entusiasta di libertà si beava
nell'anima grande del Garibaldi, e soleva dire di poi che vi erano in
quell'anima connesse la natura del guerriero indomito, a quella della
delicata fanciulla. Parlarono di tante cose, ma più che tutto delle
presenti miserie della patria, e delle speranze future. Una volta cadde
il discorso sulla possibile eventualità che il piano ideato pel
salvamento fosse scoperto, il Guelfi arrestato; e il Generale traendosi
da tergo un pugnale glielo mostrò sorridendo e gli disse: «_Vedete,
Capitano, che non mi prenderanno mai vivo._» E lo chiamava con modo
familiare così, sapendolo capitano della Guardia Nazionale di
Scarlino.--Vi erano nella camera in cui si erano ritirati il Garibaldi
ed il Guelfi alcuni giornali provveduti dal Serafini, che riflettendo
l'indirizzo reazionario del Governo Granducale non mancavano d'ingiurie
e di calunnie ai caduti. Garibaldi lesse fra le altre la stolta notizia
avere esso rapito e portato seco il tesoro della Repubblica Romana in
dieci milioni, e dopo avere estratto dalla tasca lo stesso borsellino
col quale voleva pagare il mugnaio Pispola, lo mostrava al Guelfi, e gli
diceva ridendo: «_Capitano, ecco i miei milioni._» Ma poco dopo seguiva
nel giornale un'infame calunnia: «Il famigerato bandito Garibaldi ha
ucciso colle sue mani la propria moglie, perchè gli era d'inciampo nella
fuga.» Allora le guancie dell'Eroe furono solcate dalle lacrime, e
disse fiere parole all'indirizzo dei suoi vili detrattori.--Intanto i
modi franchi, e i liberi sensi del Guelfi si erano fatta sempre più
strada nell'animo del Generale. Quando venne l'ora della partenza del
suo nuovo amico, il Garibaldi, cedendo ancora ad un moto subitaneo
proprio della sua natura ferrea insieme ed entusiasta, tornò a
gettarglisi al collo, e gli disse: «_Voglio venire con voi._» Ma il
Guelfi, più conoscitore delle cose locali di quello che lo fosse l'esule
proscritto, gli rispondeva: «_No, Generale, non si provvederebbe in tal
modo alla vostra salvezza. I miei passi sono spiati; Voi insieme a me
sareste riconosciuto, e si cadrebbe ambedue nelle mani de' nostri
nemici. La sicurezza vostra mi costringerà ad altra cosa anche più
dolorosa, quella di rinunziare all'onore di ricevervi io stesso nella
mia casa, se, come spero, tutto potrà andare a seconda de' desideri
nostri. Io starò sempre in questi giorni in un luogo diverso dal vostro,
e mi porrò in evidenza; così vogliono le triste esigenze dei tempi, e la
salute vostra che è salute futura della patria._» Si arrese il Generale
alle prudenti ragioni del bravo maremmano, che poco dopo partì per Massa
Marittima, prendendo a pretesto di esservi richiamato da urgenti affari
privati. Quanto poi saggiamente operasse Angiolo Guelfi nel così fare,
lo diremo a suo tempo.

Diremo intanto delle misure di precauzione prese dal Serafini a tutela
de' suoi ospiti illustri. Il paesello di San Dalmazio dista 12
chilometri dal Morbo, ed è fabbricato sull'erta pendice meridionale del
poggio, che ha sulla sua vetta la vecchia e diruta Rocca Silana.
Segregato allora dal movimento commerciale per la mancanza di vie
ruotabili, colla sua piccola popolazione intenta ai lavori agricoli,
sembrava il più sicuro asilo pei due proscritti, eppure la lebbra
reazionaria era entrata fin là, e le precauzioni prese dall'egregio
Serafini non potevano dirsi mai troppe. La sua casa, posta quasi alla
cima del paese, ha l'ingresso principale nella via di mezzo, e due altre
uscite secondarie, di cui una al di sopra del paese in aperta campagna,
e l'altra posteriore in una vallata deserta e quasi selvaggia. Della
disposizione eccellente della casa intendeva servirsi il Serafini in
caso di sorpresa, e mentre aveva provveduto con abbondanza d'armi alla
momentanea resistenza, aveva indicata ai suoi ospiti la via che
dovrebbero seguire per le diverse uscite, e i punti diversi di ritrovo,
se, come esso diceva, sarebbe rimasto vivo nella lotta.--Aveva aperto da
sè stesso la porta della casa al Generale e a Leggero, e mai nei quattro
giorni della loro permanenza li fece vedere a' suoi familiari, ai quali
con minaccia della vita aveva ingiunto il più rigoroso silenzio sulla
presenza di stranieri nella casa, dichiarandoli due suoi consanguinei
implicati nelle ultime vicende politiche, e che voleva ad ogni costo
salvare.--Insomma una volta nelle mani del Serafini, Garibaldi non era
più il proscritto in balìa della sorte, e la sua cattura non sarebbe
stata più un facile colpo di mano.--Quivi il perseguitato potè godere i
primi momenti di quiete dopo la morte di Anita.

Ma non era quieto il Serafini. Di carattere ardente e passionato,
misurava gli indugi alla stregua del desiderio che sentiva vivissimo di
vedere in salvo i suoi ospiti cari e rispettati. Seguiva colla mente il
Guelfi nella sua gita in Maremma, ne misurava tutti i pericoli, ne
esagerava anche la difficoltà di riuscita. E lo mise in maggiori
angustie la lettera che ricevè per espresso nelle ore pomeridiane del
giorno 28 spedita dal Martini. Era questa senza firma, ma scritta coi
caratteri di Angiolo Guelfi, notissimi al Serafini. Diretta con finto
nome ed indirizzo: «_Al signor Dario Ascani--Colle_,» diceva così:

  «_C. Amico_

  «_Arrivato qua non ho trovato la persona per fare il noto
  affare. Dunque vi rimando il baroccino._

  «_Io parto nel momento per la Maremma bassa, quando avrò fatto i
  miei affari ritornerò a trovarvi._

  «_Non state in pensiero se mi tratterrò qualche giorno, giacchè
  l'aria è assai buona._

  «_State bene e sano._»

Seguiva un'aggiunta scritta dalla mano di Girolamo Martini nei termini
che seguono:

  «_Se crede di volere cambiare venga da me nella giornata, che si
  combinerà tutto. Gradisca i miei ossequi, e li faccia gradire._»

La solita imperturbabile tranquillità del bravo Martini in faccia agli
ostacoli traspariva dalle poche righe aggiunte alla lettera tanto
significante di Angiolo Guelfi. Questi aveva trovato un ostacolo
nell'esecuzione dei suoi disegni, e ne dava avviso col ritorno del
baroccino, avvertendo in pari tempo che la sua lontananza sarebbe più
lunga di quanto si era proposto. Il Serafini, trepidante per il buon
esito dell'impresa, ne parlò al Generale, domandandogli il suo volere in
faccia a questo inopinato ritardo. E il Generale calmo e sorridente
rispondeva alle premure dell'ottimo Serafini: «_Dolergli e molto dei
gravi rischi che i suoi bravi amici andavano ad incontrare per lui;
quanto a sè non si dassero pensiero;_» e come erano sulla loggia della
casa posta ad altezza non indifferente dalla sottoposta vallata gli
diceva: «_Vedete, tanto lo scalare questa vostra loggia, quanto lo
scenderne, è per noi due cosa facile._» Opinò infine il Generale doversi
aspettare l'esito delle pratiche, fiducioso di quanto andava facendo il
Guelfi in Maremma, quindi fu deciso di nulla innovare.

Passò così il 29, e la mattina del 30 il Serafini, insofferente della
mancanza di notizie del Guelfi, che a lui pareva prolungata, ed era
naturalissima, mandò un espresso al Bagno per sapere qualche nuova dal
Martini. Ma il Martini ne sapeva quanto lui, e gli rispondeva sempre
calmo, sempre prudente con la seguente lettera senza data, senza firma,
senza indirizzo:

  «_Pregiatissimo_,

  «_Non essendo qua l'amico non posso dirgli niente, ma subito che
  tornerà che spero sarà in questa mattina, spedirò persona costà
  e lo renderò inteso di tutto; mi creda._

                                                      «_Suo_.»

E il ritorno tanto desiderato del Guelfi avvenne infatti la mattina del
30, come col suo animo calmo lo avea previsto il Martini.

Diremo ora della gita di Angiolo Guelfi in Maremma, ma a spiegazione dei
timori del Serafini, e del rifiuto del Guelfi a portare seco i due
profughi, accenneremo come pochi giorni avanti, mentre attendeva esso
nel piano di Scarlino alla direzione della sua azienda, venne a trovarlo
Olivo Pina, quello stesso che vedremo poi accompagnare Garibaldi al
mare, e gli disse come essendo andato per affari suoi a Massa Marittima,
aveva incontrato Giovanni Fabbri e Giuseppe Lapini ambedue autorevoli ed
onesti cittadini, ma non malevisi dal restaurato governo lorenese, i
quali, come amici di Angiolo Guelfi, cercavano appunto occasione segreta
e sicura per fargli sapere che non si presentasse nè a Massa nè a
Scarlino, perchè era a loro certa cognizione, avere le autorità locali
ordine di procedere in tal caso al di lui arresto. All'annunzio di
questa nuova persecuzione aveva il Guelfi domandato fra il serio ed il
faceto, dove dovesse dunque andare, poi facendo di necessità virtù, si
ritirò nelle vicinanze del Morbo, un poco riparandosi presso gli amici
suoi Bruscolini di Castelnuovo, un poco presso l'amico e parente
Cammillo Serafini a San Dalmazio, e così si conduceva, incerto sempre
del domani, tantochè credè bene stare lontano anche dalla famiglia che
teneva allora a Laiatico, per risparmiare il possibile dolore di un suo
arresto sotto gli occhi dei suoi cari. Era insomma il Guelfi un
perseguitato, che si era assunto di aiutare altri più perseguitati di
lui. Nè poteva delegare ad alcuno la missione sua, perchè difficile
sarebbe stato il trovare chi al pari di lui avesse autorità e fiducia
insieme sui patriotti di Massa, di Scarlino e di Follonica, tutti
indispensabili col concorso loro alla buona riuscita dell'impresa. Ora
per organizzare il passaggio e il salvamento per la via di mare, era
necessario non solo aggirarsi pei due luoghi proibiti, Massa e Scarlino,
ma occorreva altresì in quei tempi di sospetti e di arbitrii, avere
rapporti coi più caldi repubblicani, che erano a lor volta i più
perseguitati e i più sorvegliati. Ecco dunque perchè il Serafini, che
bene sapeva lo stato del Guelfi, temeva tanto del buon esito
dell'impresa; ecco perchè il Guelfi stesso rifiutò con dolore la
richiesta del Generale di averlo a compagno, ecco perchè lo troveremo
sempre in luogo diverso dal Generale.

È stato in varii modi e da varii scrittori toccato questo periodo della
vita avventurosa del Garibaldi, ma nessuno ha conosciuto e svelato la
posizione difficile nella quale dovè preparare, e portare a termine
l'impresa un pugno di patriotti, perseguitati essi stessi, e costretti
spesso a pensare alla loro salvezza, se volevano avere libero il domani,
per spenderlo, non a proprio vantaggio, ma in prò della salute del
Generale.

Partì dunque Angiolo Guelfi dal Morbo nelle prime ore del 29, ed arrivò
a Massa circa alle 8. Fece subito ricerca dei due fratelli Giulio e
Riccardo Lapini, e di Pietro Gaggioli detto Giccamo. Trovò i Lapini,
giovani animosi e caldi patriotti, pronti ad assumere la parte loro, di
scortare cioè i profughi a traverso il territorio di Massa fino alla
Casa Guelfi, ma non potè trovare il Gaggioli, sceso a Follonica per
affari suoi. Era intenzione del Guelfi, quando partì dal Morbo, di
prendere gli accordi opportuni coi Lapini e col Gaggioli, e ritornare
poi subito donde era venuto, sempre per non destare colla sua presenza
sospetti nei luoghi pei quali doveva passare Garibaldi. Ma la inopinata
mancanza di Giccamo gli fece fare di necessità quello che voleva
schivare, e si risolvè ad andarlo a trovare a Follonica. Fu allora che
scrisse la lettera all'indirizzo convenzionale di «_Dario Ascani,
Colle_» e la fece recapitare al Martini col ritorno del baroccino che lo
aveva accompagnato a Massa. In essa annunziava velatamente, come si è
sentito, la mancanza del Gaggioli, faceva intendere la sua gita in cerca
di lui, e coll'animo pieno di fiducia nel buon esito dell'impresa
pericolosa che si era assunta, mandava un saluto ed un conforto agli
amici colle parole: «_Non state in pensiero se mi tratterrò qualche
giorno, giacchè l'aria è assai buona._»

E non poteva fare altrimenti. La salvezza del Generale e del compagno
suo dipendeva dal trovare chi si assumesse l'incarico di traversare coi
due profughi il mare dalla spiaggia tirrena alla ligure, e questo non
poteva trovarsi che da Giccamo per la sua professione sempre in rapporto
con uomini di mare. Era Pietro Gaggioli, detto Giccamo, onesto
commerciante e buon patriotta di Follonica, e per di più deferentissimo
ad Angiolo Guelfi per antica amicizia. Necessario quindi che il Guelfi
parlasse in persona al Gaggioli, il quale si sarebbe piegato a fare per
lui quello che non avrebbe fatto per altri. Partì infatti il Guelfi per
Follonica la mattina stessa del 29, ed ebbe la fortuna d'incontrare
Giccamo per via al _Ponte della Pecora_ di ritorno a Massa insieme a suo
figlio. Restò lietamente sorpreso il buon Giccamo dell'incontro
inopinato di Angiolo Guelfi che non soleva mai tornare in quei luoghi
prima del Novembre, e scesi ambedue dai loro baroccini si strinsero a
colloquio sul margine della via. Espose il Guelfi la causa della sua
gita in Maremma, e pregò l'amico quanto più caldamente potè a non
tralasciare una circostanza così inattesa di giovare alla causa della
libertà, e a contentare insieme un vecchio amico. Misurò il Gaggioli
tutte le difficoltà ed i pericoli di quanto si sarebbe andato facendo,
poi, patriotta ed amico, cedeva alle ragioni ed alle preghiere del
Guelfi patriotta vecchio ed amico suo, e tornando indietro
dall'intrapreso cammino, rifaceva la via per Follonica, mettendosi con
tutta lena a porre in esecuzione quanto aveva promesso. Il Guelfi, poi,
resa inutile la gita di Follonica, volgeva per Scarlino, suo paese
nativo, onde prendere gli opportuni accordi pel ricevimento degli esuli,
e per la loro scorta fino al mare. Giunse a Scarlino, sempre nelle ore
della mattina, e fece ricerca tosto di Olivo Pina che conosceva
audacissimo, ed era altresì legato seco lui da stretta familiarità, e
postolo al corrente di tutto, lo richiese di ricevere esso per lui
assente gli ospiti illustri nella sua casa del piano di Scarlino, e di
trovare altri giovani di buona volontà e risolutezza che gli si
associassero per servire di scorta ai profughi durante il loro
soggiorno alla Casa Guelfi, e nella traversata fino al mare. Il trovare
compagni non era per Olivo Pina cosa difficile, attesochè nella Maremma
tutta, e specialmente in Massa e Scarlino, si era dichiarato il popolo
caldo difensore delle idee democratiche, e lo aveva mostrato coll'invio
di numero grande di volontari, che erano testè stati rimandati alle loro
case pieni di malcontento dal governo lorenese restaurato. Che se si
aggiunge trattarsi di difendere la vita del più popolare campione della
libertà, vogliamo dire Giuseppe Garibaldi, vi era da trovare uomini
volenterosi oltre il bisogno. In tutti quei luoghi poi era Angiolo
Guelfi potente per aderenze ed amicizie, massime in Scarlino, ove
possedeva censo, oltre a reputazione non piccola. In pochi momenti
Guelfi e Pina s'intesero che nel giorno ed ora designate da Gaggioli e
dai Lapini sarebbero andati in quattro alla casa Guelfi, cioè Olivo
Pina, Giuseppe Ornani, Leopoldo Carmagnini, e Oreste Fontani, tutti
sotto-ufficiali della disciolta Guardia Nazionale di Scarlino, di cui
già il Guelfi era il ben amato Capitano, e che una volta ricevuti i due
esuli sarebbero stati difesi fino alla morte. Stabilito tutto ciò,
Angiolo Guelfi insieme ad Olivo Pina tornava a Follonica, ivi prendeva
gli accordi ultimi con Giccamo circa a trasmissione di notizie, si
divideva da Olivo Pina, risaliva a Massa, dava ai fratelli Lapini le
buone nuove delle pratiche iniziate, e conveniva con essi che avvertiti
da Gaggioli, avvertirebbero a lor volta Olivo Pina, e per mezzo di
espresso terrebbero informato il Guelfi stesso che si ritirava al Bagno,
e dopo ciò la mattina del 30 tornava al Morbo come si è visto di sopra.

Si mise il Guelfi a fare in apparenza la parte del tranquillo bagnante
al Morbo, ma dentro a sè tormentato dal dubbio circa la riuscita del suo
piano, e pronto a tentare altra via se quello andasse fallito; e il
Martini pensava intanto a trasmettere a San Dalmazio la lieta nuova del
felice ritorno, e delle pratiche bene avviate dal Guelfi.

Per tutto il tempo che il Generale si trattenne a San Dalmazio
traspariva dai suoi atti una tale sicurezza, come se i pericoli non
esistessero intorno a lui. Si alzava alle 6 della mattina, dormiva
tranquillamente, mangiava, come al suo solito, parcamente, era calmo,
spesso sorridente col suo ospite che procurava con ogni modo di
mostrargli il suo rispetto e il suo amore. Prediligeva trattenersi nella
terrazza attigua al salotto, e che guarda la vallata deserta. Ivi stava
fumando e leggendo per molte ore i libri messi a sua disposizione dal
Serafini, e più degli altri la vita di Vittorio Alfieri. Così passava
tutto il tempo che non si intratteneva a parlare coll'ospite suo. Il
capitano Leggero poi si aggirava continuamente per tutte le stanze della
casa, escluse quelle praticate dai domestici del Serafini, quasi fosse
insofferente di quella prigionia, e accorreva pronto ad ogni minimo
desiderio dal suo Generale. Nei ragionamenti che faceva il Garibaldi col
Serafini entravano spesso le speranze sulla liberazione della patria, ed
anzi riconoscendo nel suo interlocutore un entusiasta partigiano di
libertà, gli lasciò scritti di sua mano i nomi di coloro coi quali
poteva intendersi per una futura riscossa, ma per non compromettere
l'amico scriveva così:

  «_Nominativi per un tentativo mineralogico._

  «_Il sacerdote Verità Giovanni parroco di Modigliana._
  «_Montanari tenente-colonnello della caduta Guardia Nazionale di
  Ravenna._
  «_Bonnet N. capitano della G. N. a Comacchio presso Ravenna._
  «_Caldesi Vincenzo ex-Deputato a Roma, di Faenza._
  «_Capaccini ex-capitano del reggimento l'Unione a Forlì._

  «_Il 1º Settembre 1849_

  «_In Ancona, Giannini N. dedicato al commercio._
  «_Elia Antonio padrone di bastimenti._
  «_Casale Raffaello di Foligno._
  «_Vincenzini Pietro ex-maggiore della G. N. di Rieti._»

Così l'autografo religiosamente conservato dal Serafini insieme a molti
altri del Generale, e l'esule che non aveva terra che lo sostenesse,
pensava non a sè ma al bene futuro della sua patria. È sempre il
prigioniero di Gualeguay che intuona alla patria schiava i versi pieni
di amore selvaggio:

    Io la vorrei deserta
    E i suoi palagi infranti
    ..........
    Pria che vederla trepida
    Sotto il baston del Vandalo!

Spesso ancora si mostrava preoccupato il Serafini dell'esito incerto
circa alle pratiche iniziate da Angiolo Guelfi per l'evasione dalla
parte del mare, tantochè il Generale, colla sua solita serenità, gli
diceva: «_Non vi date pensiero di me, dirigetemi al mare, e là un solo
trave basta per noi due._» E siccome un uomo tale non conosceva cosa
fosse millanteria, bisogna ben dire che il coraggio in lui non aveva
confini.

Una volta il Serafini, che cercava in ogni modo di render meno sgradita
ai suoi ospiti la loro reclusione, volle dare ad essi lo spettacolo
gradito di una cacciata quasi sotto i loro occhi, e avvisatone il
Generale che assisteva dalla terrazza, presi seco cani e fucile, da
eccellente cacciatore qual'era, uccise in poco tempo una lepre e due
pernici, che presentò subito al suo ospite amato quanto rispettato, e
questi, sensibile alla nuova manifestazione di riguardo, qualificò con
effusione come una _grata sorpresa_, il pensiero del Serafini. E qui
cade in acconcio raccontare un aneddoto, che mostra la serenità d'animo
del Generale nelle circostanze più difficili della sua vita avventurosa,
e insieme la perenne memoria che conservava poi beneficî ricevuti.--Era
la sera del 2 Ottobre 1860, e per tutto quel giorno memorando aveva
Garibaldi perigliato sul campo di battaglia di Santa Maria di Capua; più
volte si era veduto sfuggire la vittoria, e più volte aveva saputo
riafferrarla co' suoi lampi di genio, coll'entusiasmo che faceva
risorgere la sua presenza fra i volontari. Affaticato dai disagi della
giornata, e dall'incertezza di quella pugna che per lui valeva più di un
regno--valeva l'unità della patria--si era gettato su di un
letticciuolo, e stava fumando modestamente il solito suo mezzo sigaro,
quando chiese di vederlo Cammillo Serafini. Non si erano più incontrati
dal 1849, e fu subito fatto passare nella camera per ordine del
Generale. Eravi Bixio assiso su di una seggiola al capo del letto ove
Garibaldi si era gettato. Quali cortesi accoglienze si avesse il
Serafini dal Dittatore, è inutile il dire. Basti il sapere che rivoltosi
a Bixio gli raccontò questo periodo del suo trafugamento, e rammentò le
gentilezze avute dal Serafini, e con compiacenza narrò al suo compagno
d'armi la grata sorpresa di una cacciata fatta sotto i suoi occhi dal
cortese suo ospite. Così era quest'uomo straordinario, e in mezzo ai
gloriosi fatti svolti poche ore fa, il suo animo aveva sempre un ricordo
gentile per quanto aveva ricevuto nei giorni di sventura.

E per provare che la serenità dell'animo non lo abbandonasse anche nei
momenti più difficili, basti il dire che in casa Serafini trovava tanta
quiete da permettergli di accingersi alla narrazione dei fatti
gloriosamente compiuti a difesa della Repubblica Romana. La sera del 1º
Settembre aveva cominciato il suo scritto così:

«_Fatti di Roma_»

  «_Giunto da Rieti negli ultimi d'aprile a Roma, colla 1ª Legione
  Italiana--io fui destinato a guarnire le mura, da Porta S.
  Pancrazio a Porta Portese--il 30 dello stesso mese essendoci
  notizie che i francesi si avanzavano per attaccarci--io mandai
  un distaccamento...._»

Era lo scritto a questo punto quando si sentì un colpo alla porta, e la
voce maschia e ben conosciuta di Angiolo Guelfi, che pronunziava la
parola _Venezia_. Noi la sentiremo ripetere questa parola, e passerà per
la bocca di tutti i patriotti, che di qui in avanti fino a Cala Martina
prenderanno parte alla impresa onoranda. La scelse il Generale, e la
portò Angiolo Guelfi come parola di riconoscimento e di consegna a tutti
coloro per le cui mani dovevano passare gli esuli illustri. Era un
tributo di amore alla infelice città, che fino allora assalita dalla
peste, dalla fame, e dalle armi straniere, aveva saputo ultima mantenere
alto il vessillo nazionale, e lo aveva ora ripiegato con onore.

Così restò troncata questa pagina di storia che scriveva l'autore stesso
dei fatti gloriosi; il manoscritto fu conservato dall'egregio patriotta
Cammillo Serafini, e insieme ad altri documenti riguardanti questo
periodo della vita di Garibaldi, fu da lui tenuto nascosto sotterra per
i dieci anni nei quali rimase in piedi la dominazione lorenese[11].

Spieghiamo ora la venuta di Angiolo Guelfi a dare in persona l'avviso
della partenza.

Stava esso, come abbiamo detto, al Morbo, in apparenza come bagnante,
in fatto per riprendere all'occorrenza le pratiche del trafugamento per
la via del Tirreno, se per una qualche disgrazia non si fosse potuto
effettuare il piano ideato. Si era imposto di non accostare il Generale
che in caso di assoluta necessità, ma la sera del 1º settembre aveva
ricevuto un espresso dei fratelli Lapini diretto a Girolamo Martini, col
quale si diceva che tutto era pronto, e che nella notte stessa sarebbero
impostati lungo la via i mezzi di trasporto, e non aveva potuto reggere
al desiderio ardentissimo di rivedere per l'ultima volta i due profughi,
e portare loro da sè stesso la lieta novella. Ma non aveva dimenticato
di dire ad arte che, richiamato a Pisa da urgenti affari, andava la sera
a San Dalmazio, per farvisi condurre dai cavalli dell'amico Serafini. E
così fece di fatti, che il giorno successivo, mentre Garibaldi imbarcava
felicemente a Cala Martina, il Guelfi si faceva vedere in Pisa[12].

Con quanta gioia fosse ricevuta dal Serafini e dagli esuli la lieta
novella si può immaginare. Angiolo Guelfi, che aveva così bene condotta
la cosa, fu fatto segno per parte di Garibaldi e di Leggero alle più
entusiastiche dimostrazioni di amicizia e di ringraziamento. Nei pochi
momenti che precederono la partenza volle il Generale restare a solo col
Guelfi nella sua camera. Lo ringraziò con effusione di quanto aveva da
lui ricevuto, lo abbracciò e baciò caramente, lo chiamò suo amico, poi
volendogli dare un attestato della sua riconoscenza si levò da tergo un
pugnale americano, che lo aveva sempre accompagnato nelle guerre al di
là dell'Atlantico, e nella difesa di Roma, e porgendolo al Guelfi gli
disse: _Non ho altro oggetto a me caro da potervi dare per mio
ricordo.--Prendete, capitano, questo stile che mi rammenta tante cose,
ed io mi auguro che in tempi per la patria migliori mi possa essere
riportato dal vostro figlio, al quale mostrerò di essere sempre memore
dell'aiuto ricevuto da voi, e dai valorosi maremmani._--

E il pugnale non è stato mai più presentato al Generale, perchè Angiolo
Guelfi non era uomo da mettersi in mostra.--Aveva compiuto un dovere, nè
voleva di più.--Però Garibaldi trovò il modo di dimostrare la sua
gratitudine.--Nel 1859 venne a prendere a Modena il comando delle truppe
toscane. In esse era volontario Guelfo, l'unico figlio di Angiolo
Guelfi, che secondo le istruzioni del padre non si presentava al
Generale.--Lo seppe però questi una sera per circostanza fortuita, e
ordinò che si andasse tosto a chiamare il figlio del suo amico, come
esso diceva.--Non fu possibile trovarlo la sera, per cui fu avvisato di
portarsi la mattina successiva al Quartier Generale.--Vi andò, e
modestamente si atteggiò, quando entrato nell'anticamera la trovò piena
di ufficiali superiori toscani ivi riuniti per il rapporto
giornaliero.--Salutò militarmente i suoi superiori, poi, non sapendo che
fare di meglio, si ritirò nel vano di una finestra. E quivi stava,
guardato con occhio sprezzante da tutti quegli ufficiali gallonati, che
avevano servito la casa di Lorena, ed ora servivano il popolo
toscano.--Passò un sotto-tenente di Stato Maggiore, volontario anch'esso
e amico del Guelfi figlio, e a questi si diresse il giovane maremmano
per pregarlo di dire al Generale che esso era là ad aspettare i suoi
ordini.--Entrò il sotto-tenente nella stanza dove Garibaldi riceveva ad
uno ad uno gli ufficiali superiori, e subito dopo se ne aperse la porta,
e ne uscì un colonnello, l'ufficiale di Stato Maggiore con cui aveva
parlato il Guelfi, e lo stesso Generale.--E giacchè siamo entrati in
così minute particolarità, vogliamo dire qualcosa del vestiario di
questo uomo, nella cui anticamera stavano ufficiali così superbi pei
loro colletti dorati, pei loro bottoni lucenti.--Aveva i calzoni da
generale piemontese con striscia dorata, il berretto ugualmente da
generale, una giacca cittadina di lana sottile, e non altro.--Licenziò
il colonnello, poi precedendo sempre di qualche passo il suo ufficiale,
si avanzò sorridente traversando l'ampia sala, e non curando i saluti
compassati dei presenti, diceva: «_Dov'è, dov'è?_»--E sull'indicazione
dell'ufficiale che lo seguiva, si diresse fino al vano della finestra
ove si era ritirato il giovane Guelfi, lontano le mille miglia dal
pensare che tutto questo movimento si facesse per lui, cosicchè si
trovò preso per la mano dal Generale che lo guardava con fare paterno, e
lo condusse nella sua stanza, ove chiusa da sè stesso la porta, lo fece
assidere al suo fianco, e rimproverandolo dolcemente del perchè non era
venuto a vedere un vecchio amico di suo padre, gli disse più volte: «_Io
gli devo la vita al tuo babbo, e mi rammenterò sempre di quanto ha fatto
per me._» E con mille modi familiari lo licenziò dopo avergli domandato
notizie del padre e contezze dell'essere suo, e dopo avergli detto
sorridendo: «_Voi giovani avete spesso bisogno di denaro; rammentati che
hai qua un amico._»--Traversò il giovane l'anticamera estatico delle
maniere affascinanti, del fare semplice e modesto dell'Eroe, e questa
volta non vide neppure le inappuntabili uniformi, che ingombravano
ancora la sala, e solamente scendendo le scale col cuore gonfio
dall'emozione provata, pensava a quel Generale che riceveva i suoi
ufficiali in tenuta così lontana da quella d'ordinanza, e che
interrompeva senza riguardi un rapporto per andare a prendere per la
mano un semplice volontario, l'unico merito del quale consisteva
nell'essere figlio di chi gli aveva salvata la vita, quando il governo
di quei signori gallonati lo aveva cercato a morte.--Triste e singolare
mutabilità delle cose umane!

Angiolo Guelfi poi non rivide il Generale che nel 1862 a Pisa, ed anche
perchè da lui stesso ricercato per mezzo di Girolamo Martini.--Ebbe le
stesse difficoltà del Sequi per essere introdotto, che cessarono però
quando al figlio Menotti disse con voce grave «_non allignare in uomo
dei suoi anni curiosità puerile, bensì essere ivi per obbedire ad un
ordine del Generale_;» ebbe anch'esso liete accoglienze e dimostrazioni
infinite di gratitudine, e fu dallo stesso Garibaldi presentato come suo
liberatore al figlio Menotti, che lo abbracciò con trasporto quando si
sentì dire: «_Vedi, a questo amico tu devi la vita di tuo padre._» E
certamente deve avere narrato lo stesso ad un signore inglese ivi
presente, poichè questi, dopo avere ascoltato attentamente Garibaldi che
parlava nella di lui lingua nativa, corse a stringere e squassare ad
Angiolo Guelfi la mano con vivacità mista alla consueta compassatezza
britannica, parlandogli con calore in inglese, lingua che il Guelfi non
conosceva, e a cui rispondeva con monosillabi tronchi, e colla sua
solita grave indipendenza di fare; contrasto singolare di cui rise lo
stesso Generale, che nell'accomiatarsi dal Guelfi gli strinse la mano, e
gli consegnò un suo ritratto fotografico, sotto al quale aveva scritto
di sua mano queste parole: «_Al mio carissimo amico Guelfi Angiolo.
Ricordo di gratitudine. G. Garibaldi._» Ma di ciò basti e riprendiamo il
filo della storia interrotto[13].

Cammillo Serafini poneva mano ai preparativi per la partenza, e ordinava
subito che fossero sellati tre dei suoi cavalli, e per un lungo giro al
di sopra del paese fossero impostati a meno di mezzo chilometro da San
Dalmazio, in luogo detto «_La Croce della Pieve_» sull'incontro delle
due vie a sterro che conducevano da Rocca Silana a Castelnuovo, e da San
Dalmazio a Montecastelli. Disse ai suoi uomini che aspettava alcuni
amici cacciatori provenienti dalla parte di Rocca Silana, che
prendessero detta via coi cavalli bardati, e se non li incontrassero,
andassero a legare i cavalli al luogo indicato, e venissero ad
avvertirlo. I suoi uomini, assuefatti ad obbedire spesso a simili
ordini, essendo il padrone tanto ospitale e cortese, adempiuto a quanto
era stato loro comandato, poichè non incontrarono per via i pretesi
cacciatori, tornarono a San Dalmazio ad annunziare al Serafini che i tre
cavalli erano stati impostati alla Croce della Pieve. Tuttociò aveva
fatto il Serafini per simulare un arrivo, e sviare così le menti dalla
partenza imminente dei profughi. Ai suoi subalterni poi mostrò sorpresa
che non avessero incontrato alcuno, e disse che i cacciatori da lui
aspettati forse avevano sbagliata strada, e voleva da sè stesso andare
ad incontrarli; si occupassero essi intanto di alcune faccende in casa.
Ciò fatto corse dagli ospiti suoi, e dette il segnale della partenza.--E
qui giova notare a vero onore del Serafini, come sia cosa più facile ad
immaginarsi che ad eseguirsi il tenere nascoste due persone a
chicchessia per quattro giorni e quattro notti in un paesello di
campagna. Eppure, tante e tanto grandi furono le cautele prese dal bravo
Serafini, che nessuno in San Dalmazio sospettò della presenza di due
esuli in casa sua, in quei tempi nei quali l'occhio vigile della
polizia, reso più acuto ancora dal vigliacco sussidio del partito
reazionario, scrutava per tutto, e dappertutto vedeva nemici.

Erano poco più delle 9 di sera, e Garibaldi, Leggero, Guelfi e Serafini
scesero la breve scala che conduce per mezzo delle stanze terrene alla
porta segreta che si apre nella vallata deserta. Quivi Angiolo Guelfi si
separò dai cari esuli con addio breve, ma pieno di dimostrazioni
d'affetto dall'una e dall'altra parte; ciò fatto, richiuso l'uscio
esterno, tornava nel piano superiore della casa Serafini, studiando di
mostrarsi tranquillo, mentre col pensiero angosciato precorreva i
pericoli cui quella notte decisiva andavano incontro gli illustri
proscritti.--Uscirono i tre silenziosi, e armati di tutto punto, nella
vallata.--Precedeva il Serafini, seguiva Garibaldi, veniva ultimo il
Leggero, e percorrendo lungo le mura del castelletto per sentiero
dirupato, sboccarono sulla via che era in que' tempi sterrata, o come
suol dirsi, a bastina, e volgendo a sinistra si avviarono alla Croce
della Pieve.--Pochi passi avanti di giungervi, il Serafini col suo
solito zelo, pregò i compagni di ritirarsi per un poco nel bosco che ivi
fiancheggia la via, ed esso volle andare a speculare il luogo, e vedere
da sè stesso se i cavalli erano al posto da lui designato.--Trovò tutto
nell'ordine voluto, li sciolse, ne aggiustò le redini, e li pose tutti
tre in fila, ove stettero, essendo in tal guisa ammaestrati. Chiamò
allora i profughi, e posti in sella prima Garibaldi, poi Leggero, salì
esso sul terzo, e a trotto serrato e uniforme presero la strada di
Castelnuovo, essendo già stabilito che al di là di questo paese
avrebbero trovato un baroccino impostatovi da Girolamo Martini.--Di che
grado si fossero buoni cavalieri quei tre si giudichi nel pensare come i
due esuli fossero usi a cavalcare i poledri delle libere pianure di
America, e come il Serafini fosse, e sia tuttora conosciuto per
addestrare cavalli, e correre con essi a precipizio per le vie
malagevoli dei suoi paesi.--Andavano l'uno accanto all'altro, quasi
toccandosi il ginocchio quando lo permetteva la larghezza della via, e
quando questa si ristringeva, andava innanzi il Serafini, poi il
Garibaldi, ultimo il capitano Leggero.--Così procederono fin presso
Castelnuovo, ove, incontrata via più facile, fu il trotto dei cavalli
anche più spedito.--Questa corsa precipitosa era un vero sollievo pel
Generale, che veniva così richiamato alle sue abitudini
predilette.--Traversarono Castelnuovo, chè non si poteva fare
altrimenti, serrati l'uno all'altro, e di trotto così accelerato e
uniforme, che pareva sentire lo scalpitare di un solo cavallo. Chi
avesse visto quei tre correre così armati a quell'ora, chi sa cosa
avrebbe pensato; ma nessuno li vide, e passarono il paese senza incontro
per raggiungere il punto stabilito che era presso al Molino di Bruciano,
luogo sicuro perchè distante dall'abitato.--Quivi era già ad aspettarli
Girolamo Martini, che era partito solo in calesse dal Bagno alle ore 9
con due fucili a due canne, dicendo di andare in Maremma alla caccia
delle quaglie.--Scesero di sella i tre cavalieri, e Garibaldi, vedendo
il Martini in persona, e giudicando per lui, piuttosto avanzato in età,
troppo grave il disagio di quel viaggio notturno, gli disse in tuono di
dolce rimprovero: «_Come, voi stesso, signor Martini, volete
accompagnarci?_»--«_Io stesso_»--rispose il buon Ministro, che non
voleva affidare a mani mercenarie il prezioso incarico.

Quivi il Serafini, ritirando i fucili da caccia come armi troppo
appariscenti, volle fare accettare al Generale un suo stile dalla lama
triangolare, poi il Garibaldi e il Leggero si accomiatarono da lui
esternandogli i loro più vivi ringraziamenti per l'ospitalità cordiale,
e per la sua valida cooperazione al loro salvamento. Si scambiarono
augurî per sè e per la patria, e si divisero abbracciandosi e
baciandosi.--Quanto il Generale tenesse in conto l'operato di Cammillo
Serafini, e qual memoria ne abbia sempre conservato, lo mostrano
l'accoglienza fattagli la sera del 2 Ottobre 1860, al quartiere generale
di Caserta, subito dopo la vittoria di quel giorno, cosa della quale
abbiamo già parlato, e lo mostrano altresì le molte lettere direttegli
in tempi diversi, ma specialmente la seguente che qui riproduciamo,
colla quale, sotto colore di fare domanda relativa ad un caso
d'idrofobia, fa sapere al Serafini e agli amici di essere arrivato in
salvo, e di conservare memoria degli aiuti che ebbe in Toscana. Ecco la
lettera scritta poco dopo i fatti narrati:

                                 _Maddalena, 20 Ottobre 1849._

  «_Stimatissimo signor Cammillo._

  «_Abbenchè io non abbia l'onore di conoscervi personalmente--la
  fama vostra chiarissima ovunque--di gentilezza, e somma perizia
  nell'arte medica--mi fanno ardito a chiedervi un consiglio. Una
  persona per cui m'interesso molto--è stata morsa da un cane, e
  si teme una conseguenza idrofobica--essa non potrebbe recarsi
  presso di voi--per imponenti motivi, e desidero caldamente un
  consiglio vostro sopra il processo da effettuarsi in tal caso.
  Ditemi pure se i bagni sulfurei potrebbero essere in tal caso di
  giovamento._--

  «_Vi anticipo, Stimabilissimo Signore, tutta la mia
  riconoscenza--compiacetevi, vi prego, di un riscontro--e
  comandate in ogni caso il vostro_

                                               «G. GARIBALDI.»

  _Dottore Cammillo De Serafini_
      _in San Dalmazio_
              _Maremma Toscana._

Fatti salire i due profughi l'uno a sinistra, l'altro a destra nel
baroccino, il Martini consegnò a ciascuno di essi un fucile, e montato
in mezzo a loro, prese a guidare il cavallo e partirono per la via di
Massa.--Erano circa le 10 quando si mossero dal Molino di Bruciano, e
circa alle 12 erano arrivati senza incidenti al punto dove li
aspettavano i fratelli Lapini.--Si erano essi partiti da Massa nel modo
seguente: Riccardo Lapini e un suo familiare fidatissimo Biagio Serri
andarono a ricevere il Generale e il compagno, mentre Giulio Lapini e
Domenico Verzera tenutario di vetture si andavano ad appostare
dall'altro lato della città nel piano di _Schiantapetto_.--E qui
sembrerà imprudenza il vedere partire i due esuli da Castelnuovo
scortati dal solo Martini, ed essere ricevuti sotto Massa da due soli
patriotti.--Ma si rifletta che la riuscita dell'impresa non dipendeva
dalle forze che si sarebbero potute spiegare, ma dalla celerità e
segretezza nel condurla.--Era il Martini eccellente cacciatore dotato di
non comune coraggio, e di quel sangue freddo che gli abbiamo visto
mettere in opera, e che giova più del numero nell'eseguire operazioni
siffatte.--Era poi Riccardo Lapini, testè reduce volontario del governo
democratico di Guerrazzi, parco di parole, pronto a venire alle mani per
ogni nobile causa, e tale da perdere generosamente la vita, per salvare
quella dei due che andava ad incontrare.--Nè meno risoluto era Biagio
Serri sebbene più maturo d'età, quindi più riflessivo, ma ugualmente
infiammato di amore par le idee democratiche.--Quanto a Domenico
Verzera basti dire che il buon patriotta fu messo dai bravi fratelli
Lapini a parte del segreto per procacciarsi le vetture occorrenti, e fu
fatta tanto bene la scelta, che quando si parlò di pagare l'opera sua,
il buon uomo del popolo pianse come un fanciullo trovandosi umiliato
della offerta mercede, e disse di essere povero, non avere che i suoi
cavalli per mantenere la sua famiglia, ma essere stato pronto, fino da
quando fu richiesto dell'opera sua, a dare cavalli, vita, e quanto
avesse di più caro per salvare l'Eroe di Roma.--Così dicevano, e
ponevano in opera, così dicono e farebbero all'uopo i popolani della
Maremma Toscana.--E si rammenti infine che i due da scortarsi valevano
da sè soli un esercito, e che tutti erano provvisti di armi, e sapevano
all'occorrenza adoprarle.--Fu discusso dai fratelli Lapini insieme al
Guelfi il progetto di andare ad incontrare Garibaldi con numero tale di
giovani da renderlo sicuro da un colpo di mano del Governo Granducale,
ed era facile riunire questo numero tanto a Massa, quanto a Scarlino,
che avevano dato buon nerbo di volontari al Governo Democratico.--Ma fu
subito abbandonata l'idea, che se era buona a condurre in salvo
Garibaldi fino al mare, e se più si adattava alla natura di quei fieri
maremmani, avrebbe poi impedito all'Eroe di andare più in là.--Ecco
perchè pochi e risoluti ebbero l'onore di prendere parte all'impresa. Un
numero maggiore non era tale da mantenere il segreto; tanto è ciò vero
che per imprudenza di uno di coloro che ne erano a parte il 2 Settembre,
cioè il giorno di poi, la polizia di Massa era informata del passaggio
di Garibaldi avvenuto la notte stessa, e all'ottimo dottor Ricciardi,
autore dell'opuscolo citato, diceva il Vicario (che per la sua
bigotteria gesuitica era chiamato a Massa _suor Caterina_) di aver prese
tutte le sue misure, e questa volta il bandito non potergli
sfuggire[14].--E quando il bigotto Vicario così parlava l'opera dei
patriotti toscani era felicemente compiuta.--La modesta vela di una
navicella portava con sè il predestinato, che dopo 10 anni doveva colle
sue gesta gloriose rendere possibile al popolo italiano il costituirsi
in nazione, e spazzare da sè per sempre quei tirannelli, di uno dei
quali il furibondo suor Caterina era servitore abietto e zelante.

Intanto Riccardo Lapini e Biagio Serri armati di fucile si erano
appostati in un piccolo boschetto vicino alla casa poderale detta _Le
Malenotti_, e quivi aspettavano da poco tempo, quando ad un tratto
sentirono rotto il cupo silenzio della notte dallo scalpitar di due
cavalli che si avvicinavano dalla parte di Massa Marittima, e poco dopo
videro passare a poca distanza dal bosco nel quale erano appiattati, due
gendarmi a cavallo in perlustrazione.--L'inaspettato incontro turbò i
due patriotti, e non pensando che allo scopo pel quale si trovavano
colà, cioè la salvezza del Generale, alzarono i cani dei loro fucili, ed
erano per esplodere sui malcapitati gendarmi, quando un barlume di
riflessione li trattenne, e seguirono silenziosi e guardinghi i due
soldati fiancheggiando la via fino alla biforcazione della strada di
Volterra da dove aspettavano Garibaldi, e pronti a fare fuoco se i due
gendarmi avessero preso per quella parte; ma essi continuarono la via di
Siena, e se avessero saputo il pericolo che sfuggivano, si potevano dire
fortunati davvero, chè sarebbero stati due vittime, sotto i colpi
aggiustati e sicuri dei due massetani, e quando anche per un caso
insperabile fossero fuggiti da quello, avrebbero trovato poco dopo altro
pericolo anche più serio nel baroccino del Martini.--E questo buon
vecchio ha assicurato di poi, che se avesse avuto l'incontro dei
gendarmi, avrebbe per il primo, e subito, fatto fuoco colle pistole di
cui era armato, e il come sarebbe andata a finire non è dubbio, se si
pensa che i compagni del Martini si chiamavano Garibaldi e Leggero.

Lapini e Serri si posero più tranquilli ad aspettare, dal momento che
videro dalla direzione presa dai gendarmi come il Governo non avesse
alcun sospetto sulla venuta dei profughi, e infatti poco dopo sentirono
un lontano romore di ruote, che sempre più si avvicinava, ed essendo
quasi certi che era il baroccino desiderato, si misero in evidenza sulla
via.--Si fermò il legno a non breve distanza, e si udì la voce chiara e
tranquilla del Martini, che gridò: «_Venezia_,» e fu risposto
«_Venezia_,» e gli uni e gli altri si corsero incontro, mentre il bravo
Martini diceva al Generale: «_Siamo nelle braccia agli amici_» e scesi
tutti a terra, e scambiati i saluti coi patriotti di Massa, il piccolo
drappello si diresse a piedi fin presso _le Malenotti_, ove il Martini
accomiatandosi con un saluto dai massetani, e con auguri ed
abbracciamenti dai cari esuli, riprese col suo legno la via del
Morbo.--Garibaldi dimostrò a Girolamo la sua gratitudine colle stesse
parole pronunziate a Prato ad Antonio Martini: «_A rivederci a tempi
migliori._»--E Girolamo Martini rivide due volte il Generale, ma non
sappiamo se in tempi migliori; lo rivide a Pisa nel 1862, e a Salò nel
1866--a Pisa ferito al piede dalla palla d'Aspromonte--a Salò ferito al
cuore per aver dovuto abbandonare il frutto delle sue vittorie
conquistato a prezzo di tanto sangue generoso.--Alla ferita d'Aspromonte
aveva risposto gridando: «_Non fate fuoco._» All'ordine di ritirarsi
dal Trentino, aveva risposto: «_Obbedisco._» Oh, doppio martirio
dell'anima grande! La patria deve più al suo Eroe per quei due
sacrifizi, che per le sue cento vittorie.--Che il Martini avesse ambedue
le volte oneste accoglienze è inutile il dire. Gli domandò il Generale
con amore notizie di tutti i patriotti che avevano coadiuvato al suo
salvamento del 1849, e fu per suo mezzo che invitò e pregò Angiolo
Guelfi di andarlo a trovare a Pisa.--

Intanto Garibaldi e Leggero insieme ai due massetani si mossero a passo
più che concitato, e per la strada maestra giunsero al podere denominato
_Casetta del Marcio_ presso l'antico _padule della Ghirlanda_. Allora,
abbandonata la via ruotabile, presero una strada a sterro sulla destra
che conduce alla _Fonte di Bufalona_, ove, prima di arrivarvi presero un
viottolo parimente a destra, percorrendo il quale per lungo tratto,
girarono alla lontana la città, e giunsero al piano di _Schiantapetto_
al termine della scesa di tal nome.--Colà si trovavano Giulio Lapini e
Domenico Verzera con due baroccini impostati.--Si riconobbero a
distanza alla convenuta parola, e subito nel primo legno, guidato da
Domenico Verzera, salivano Garibaldi e Leggero, e sul secondo, guidato
da Giulio, stavano i due fratelli Lapini bene armati, che servivano di
scorta.--Si mossero rapidamente e di conserva i due legni, e
percorrevano la via maestra, quando prima di arrivare al luogo detto _la
Cura_, raggiunsero due gendarmi a piedi, i quali conoscendo bene i
fratelli Lapini, salutarono la comitiva credendoli tutti cacciatori che
andassero a diporto alle quaglie nella vicina pianura.--I due baroccini
giunti _alla Cura_, presero la via, allora a sterro, del _Vado
all'Arancio_ come più breve e più sicura, e sboccando per essa nella via
Emilia, dopo un chilometro raggiunsero senza altri incontri la casa
Guelfi nel piano di Scarlino.--Erano ivi riuniti in gruppo, secondo il
convenuto, davanti alla Casa, i quattro scarlinesi Olivo Pina, Giuseppe
Ornani, Oreste Fontani e Leopoldo Carmagnini, e per tutti rispose un
festoso: «_Venezia_,» Olivo Pina, alla parola di segnale che da lontano
aveva gridata Giulio Lapini.--Il Generale era cogitabondo, ed entrò
silenzioso nella casa dopo avere detto: «_Buongiorno, amici._»--Erano le
ore 1 e mezzo antimeridiane del 2 Settembre.

Nel tempo che avvenivano tutte queste cose, Cammillo Serafini e Angiolo
Guelfi stavano a San Dalmazio trepidanti sul buon esito
dell'impresa.--Appena fu giorno spedirono un espresso al Morbo per
sapere qualche cosa dal Martini, che doveva essere di ritorno, e con
loro consolazione riceverono la seguente lettera scritta da Girolamo
Martini, ma senza data, e senza indirizzo:

  C. Signore,

  «_Dall'espresso ho ricevuto il suo biglietto al quale rispondo
  con piacere, e gli dico che dopo quattro ore che mi fu
  consegnato i due oggetti, io non mancai di consegnarli a quattro
  oggetti simili a que' due che non si poteva trovare di meglio e
  sono sicuro che ora, nel momento che scrivo, sarà fatta l'ultima
  consegna con il meglio esito che si possa desiderare, e con il
  piacere di presto poterlo vedere per fargli i più distinti
  ossequi ancora per parte degli amici. Potrà venire al Bagno con
  il suo parente che mi farà un regalo. In fretta mi creda_

  «_Suo devotiss. servitore_

                                                «G.O MARTINI.»

Appena ricevuta questa lettera, e ormai quasi sicuro del fatto suo,
partiva subito il Guelfi per Pisa, quantunque ne fosse dovuto fuggire
con la famiglia pochi mesi avanti, e col pericolo di essere ivi
arrestato andava a sviare colla sua presenza l'attenzione dalla sua casa
di Scarlino, presa di mira come il proprietario, e andava anche a
preparare una difesa per sè e per gli altri, nel caso non improbabile di
un futuro processo.--E il processo fu iniziato subito dal Vicario di
Massa, ma quantunque più volte ripreso, andò sempre a vuoto per mancanza
di prove e di fatti, e soprattutto per la presenza accertata di Angiolo
Guelfi a Pisa nei giorni in cui si voleva imputargli di avere dato
ricovero a Garibaldi nel piano di Scarlino[15].



V

DALLA CASA GUELFI A CALA MARTINA


La casa Guelfi, detta anche «_La Pecora_» dal nome del prossimo fiume, è
un fabbricato a tre piani, di forma quadrata, di mediocre proporzione,
situato lungo la Via Emilia fra Follonica e Scarlino. Costruita ad altro
scopo, servì di poi ad uso agricolo, e nel tempo in cui vi si fermò il
Generale non aveva altre case all'intorno, eccetto un capannone che
serviva ad uso di stalla e fienile. Posta nella bassa pianura di
Scarlino, vicina al padule, era nei mesi d'estate un luogo non
frequentato, quantunque così prossimo alla via maestra. Entrò il
Generale preceduto da Giulio Lapini ed Olivo Pina, e fu condotto nel
salotto del piano di mezzo, ove gli fu preparato un caffè che accettò
volentieri. Giunsero subito dopo in baroccino Pietro Gaggioli e Paolo
Azzarrini per prendere gli ultimi accordi circa all'imbarco, onde avanti
di procedere oltre è necessario spiegare quanto fu fatto su tal
proposito da Pietro Gaggioli che col provvedere l'imbarco ha avuta una
parte così interessante nel salvamento di Garibaldi.

Abbiamo trovato il bravo Giccamo sulla via da Follonica a Massa, che
cedendo alle ragioni e alle preghiere di Angiolo Guelfi abbandona i
proprii affari, e torna difilato a Follonica.--Da quel momento, Giccamo
non ha preso più un minuto di riposo.--Parte la sera del 29 agosto in
baroccino insieme a suo figlio per Piombino; approfitta della
circostanza di essere il fornitore della brace dei penitenziarii di
Portolongone e Portoferraio, e prende la via dell'Elba senza essere
provvisto del foglio di via allora prescritto; per fare ciò è naturale
che non può servirsi della Posta, e si dirige a un tale Pietro Del Santo
detto Bacco barcaiuolo, il quale allega il solito ostacolo del foglio di
via per sè e per Giccamo, e i di cui scrupoli sono vinti dalla lauta
mercede di sei francesconi; si fa sbarcare di contrabbando alla _Punta
al Cavo_ fra Marina di Rio e Portoferraio; di là va a piedi a
Portolongone in cerca di Paolo Azzarrini padrone di barca peschereccia,
suo intrinseco amico, e che spera potere tirare all'esecuzione dei suoi
disegni; vince la naturale renitenza dell'Azzarrini, che vede in quanto
è per fare compromesso l'avvenire della sua famiglia, ma che cede poi
alla parola amica e patriottica di Pietro Gaggioli. Portate le cose a
questo punto, l'Azzarrini si munisce di patente regolare per sè e
quattro marinari con destinazione a Follonica, imbarca di contrabbando
l'amico Giccamo, arriva nella notte del 31 agosto alla spiaggia di
Follonica, ne sbarca sempre di contrabbando il Gaggioli, e la mattina
del 1º Settembre fa vidimare regolarmente la sua patente in arrivo, e
per non generare sospetti, si pone a contrattare una partita di
acciughe.--E Giccamo assennato ed infaticabile aveva raggiunto il suo
scopo.--Era andato all'Elba, e ne era tornato senza lasciare traccia di
sè, non aveva generato sospetto nel barcaiuolo di Piombino, perchè si
sapeva da tutti avere esso continui interessi nell'isola; aveva
provveduta la barca, culmine del desiderio suo e degli amici.--Ma appena
sceso a terra non si riposa. Sale in baroccino, e va da sè stesso a
portare la lieta novella a Giulio Lapini, il quale, secondo il
convenuto, fissa la partenza dei profughi da San Dalmazio nelle prime
ore della sera, avvisa dei luoghi nei quali saranno appostati i
patriotti da servire di guida e di scorta, e finalmente invita Olivo
Pina a mezzo di espresso ad essere insieme ai compagni dalle 12 in là
della notte fra il 1º e il 2 settembre al posto stabilito alla casa
Guelfi.--Giccamo poi torna a Follonica, e lo vediamo all'ora fissata
giungere alla casa Guelfi insieme all'Azzarrini per prendere gli ultimi
accordi[16]. E tutto questo lavorìo condotto in tempi e circostanze così
difficili affidato per l'esecuzione a tante e sì diverse persone, e in
luoghi così diversi, doveva compiersi, e si compiè con esattezza
ammirabile in una notte per il futuro bene d'Italia. Si dia larga parte
d'onore ai bravi che concorsero all'impresa, ma si dia la sua parte
anche alla costante e propizia fortuna del Generale.

Brevi furono gli accordi presi fra il Generale, l'Azzarrini, Giccamo e
Olivo Pina.--L'Azzarrini sarebbe fra le 9 e le 10 in vista di Cala
Martina, riconosciuta come luogo più adatto all'imbarco.--Giccamo
ricondurrebbe l'Azzarrini a Follonica, e anderebbe a raggiungere in
luogo detto «_Meleta_» il drappello che si muoverebbe dalla casa Guelfi
per raggiungere Cala Martina.--Olivo Pina scorterebbe insieme ai
compagni i due profughi attraverso il piano di Scarlino per un
itinerario tracciato fino a raggiungere a Meleta le boscaglie che allora
vi esistevano, e a traverso a queste farebbe raggiungere il punto
stabilito. Dopo di ciò fu pregato il Generale di prendere qualche
momento di riposo, ed esso accettando, domandò quale era la camera del
Capitano, volendo con ciò attestare la sua gratitudine ad Angiolo Guelfi
assente, che tanto aveva fatto per condurre lui e il compagno in luogo
di salvezza. Indicatagli la camera, che è quella corrispondente
all'angolo nord-ovest della casa, si adagiò sul letto così vestito come
era, e il Leggero si gettò su di un letticciuolo nella camera stessa.

Nel breve tempo che gli ospiti prendevano riposo, fu preparato un
qualche cibo per ristorarli, come lo permetteva il luogo e la precarietà
delle circostanze. Abitava il piano più alto della casa la famiglia del
colono, e fu incaricata la sua moglie di preparare una zuppa pel
Generale e pel compagno. Intesero bene quei buoni lavoratori che vi
erano nella casa proscritti politici, ma non li videro nè seppero i nomi
loro, e quanto al ricovero che ivi trovavano i perseguitati, era per
essi cosa abituale, alla quale erano stati ormai assuefatti dal
proprietario, a cui erano legati per verace affezione. I quattro
Scarlinesi facevano intanto vigile guardia, e uno di essi stava
constantemente nel piazzale ove si apre l'unica porta d'ingresso della
casa. Alle ore 4, dopo un'ora e mezzo di riposo, Olivo Pina andò a
battere alla porta della camera in cui era il Generale, ed avvertì che
si ponessero in ordine per la partenza. Fu subito pronto il Generale, ma
inavvertito, dopo Olivo Pina, si presentò sull'uscio di camera un
giovane ungherese disertato dall'esercito austriaco sotto le mura di
Livorno. Aveva anch'esso trovato ricetto ospitale da più mesi in quelle
lande maremmane, e si era per tutto quel tempo ricoverato alla casa
Guelfi, e alla Fonte al Bugno, vicino podere diretto allora da Olivo
Pina. Non si sa come, ma certamente doveva avere avuta notizia della
presenza di Garibaldi, poichè affannandosi in segni di rispetto, parlava
animato al Generale in lingua ungherese, e sulle sue labbra veniva
spesso il nome venerato di Kossuth. Lo stava ascoltando Garibaldi,
quantunque non lo intendesse, e domandò a Giulio Lapini ed Olivo Pina
chi fosse quel giovane, e cosa volesse. Gli fu spiegata in poche parole
la causa per cui l'ungherese si trovava in quei luoghi, e Garibaldi
sempre compassionevole per tutti, mostrò desiderio di condurre seco il
disertore, ma si opposero il Lapini e il Pina dicendogli avere essi
preso impegno cogli amici di provvedere alla salvezza della sua vita
preziosa, e non potere mai permettere di farla esporre a maggiori
pericoli per l'ungherese, al quale si sarebbe pensato a tempo migliore;
e siccome il Generale mostrava di non cedere a quelle ragioni, fecero
allora intendere il rifiuto del capitano Azzarrini di portare un
individuo più del convenuto sulla sua fragile barca, e a questo
argomento cedè, sebbene a malincuore, Garibaldi. L'ungherese poi fu
fatto ritornare alla Fonte al Bugno, con ingiunzione per parte di Olivo
Pina di non allontanarsene fino al suo ritorno.

Presero una zuppa i due esuli, e avanti di partire cambiarono il loro
vestito coi fratelli Lapini, cioè Garibaldi con Giulio, e Leggero con
Riccardo, e disse il Leggero che così avevano fatto diverse volte
durante il loro trafugamento, unica misura di sicurezza che era stato
possibile far prendere al Generale. Erano le 5, ora stabilita per la
partenza, ed essendo riuniti nel salotto della casa Guelfi gli esuli, i
fratelli Lapini, e i quattro Scarlinesi, Giulio si rivolse al Garibaldi,
e gli disse come buon augurio: «_Sapete, Generale; oggi abbiamo letto
nei giornali a Massa che eravate a Venezia in compagnia di Manin e del
generale Pepe, e ne abbiamo riso di cuore, perchè nessuno vi sospetta
qui._» Poi gli accennò ai quattro Scarlinesi come giovani a tutta prova,
dicendogli: «_E ora vi consegno in mano di amici tali quali avete
incontrato fin qui._» Garibaldi e Leggero abbracciarono e baciarono i
fratelli Lapini, e li pregarono di ringraziare a loro nome Angiolo
Guelfi per l'ospitalità ricevuta nella sua casa, e più ancora per quanto
aveva esso operato. Quindi si divisero, restando i Lapini alla casa
Guelfi, e partendo i due profughi scortati dai quattro Scarlinesi alla
volta del mare.

Partì il drappello dei sei, armati tutti di fucili a due canne.
Precedeva Olivo Pina, seguiva il Generale, poi gli altri.--Camminavano
silenziosi poichè Garibaldi era cupo e cogitabondo.--Cosa pensava egli,
scampato da tanti pericoli, e quasi in salvo?--Forse pensava alla sua
diletta Anita, che mercè l'opera dei bravi patriotti occorsigli sarebbe
ora seco se non gliela avesse rapita la morte; forse pensava alle
risorse che avrebbe trovate in mezzo alla popolazione maremmana, se
avesse diretta la sua ritirata per quelle parti anzichè per l'Umbria, e
qualche cosa ne disse, come vedremo di poi; e forse subiva quel
sentimento vago d'inquietudine, che provano anche le anime grandi quando
stanno per accingersi ad un passo decisivo e finale.--Passarono davanti
alla casa della _Fonte al Bugno_, presero l'argine destro del fosso
_Allacciante_ fino al passo detto _Pedata di Caserma_, e qui
traversarono il fosso, che in quella stagione è asciutto, continuando
per l'argine sinistro.

Narro ora un triste episodio. Nella lunga peregrinazione di Garibaldi
dall'Adriatico al Tirreno, è qui soltanto che ebbe esso ad incontrare
persona disposta a nuocergli per animo deliberato. Era questi un tale
Antonio Cardini ex-gendarme dei Lorenesi, che fu incontrato sull'argine
destro mentre guardava maiali di proprietà di Domenico Fontani, fratello
ad Oreste, uno dei quattro Scarlinesi che scortavano Garibaldi. Il
Cardini riconobbe il Generale per averlo riveduto in altri luoghi, e lo
esternò a Giuseppe Ornani, che in quel momento era l'ultimo della
comitiva. Negò come era naturale l'Ornani, e aggiunse che sbagliava
d'assai se sognava Garibaldi in quei luoghi, mentre il da lui supposto
proscritto non era che un cacciatore, col quale andavano essi Scarlinesi
in padule, e credè averlo convinto, e fu bene pel tristo, perchè i
quattro giovani non erano tali da lasciarsi dietro una spia. Passò oltre
la piccola brigata, e il Cardini col cuore ormai deturpato dal suo
vecchio mestiere, tornando la sera al paese, ripetè di avere veduto il
giorno stesso Garibaldi traversare il piano di Scarlino, e disse ciò al
suo padrone noto e zelantissimo reazionario, il quale però sapendo
contemporaneamente come fra i componenti la brigata sospetta vi fosse
suo fratello Oreste, non ne fece nessun caso. L'ex-gendarme però era
invasato dal turpe desiderio di un lauto guadagno, e voleva andare a
denunziare il fatto ai gendarmi di Follonica, ma pensò bene di non farlo
quando fu prima sconsigliato, poi minacciato della vita da Giorgio
Fontani altro fratello ad Oreste; e sapeva bene il vigliacco delatore
che la faceva con uomini capaci di mantenere la promessa.

E qui vogliamo dire cosa che se non aggiunge gloria alla meritata fama
di disinteresse del Capitano del Popolo, torna di onore immenso a quei
generosi che erano disposti a far sacrifizio della vita e degli averi
per condurlo in salvamento. Il capitano Leggero camminava spesso di
coppia con Giuseppe Ornani, e presso a poco nel luogo detto di sopra,
ragionando fra loro, gli disse come tutto il denaro di cui disponesse il
Generale consisteva in dieci monete (forse voleva dire pezzi da 20
lire), ma che il Serafini colla sua squisita gentilezza aveva messa a
disposizione di Garibaldi una qualche somma, depositandola su di un
mobile della camera da lui abitata.--E questo avveniva quando i sicarii
della penna cercavano con ogni maniera di calunnie insozzare la bella
fama del Generale.--Quanto poi alla nobile offerta del Serafini, noi
crediamo sia la più bella lode il narrarla, aggiungendo come esso non ne
abbia mai fatta parola ad alcuno nè prima nè poi.

Continuarono la via in sembianza di cacciatori sull'argine sinistro
dell'_Allacciante_, fino all'imbocco in questo del fosso minore detto
_Fontino_. Quivi è un ponte di legno per uso dei guardiani, gettato
sulla foce del fosso stesso. Passarono il ponte, e invece di continuare
a discendere verso il padule, presero l'argine sinistro del Fontino
risalendolo, e così si trovarono sulla «_Via Dogana_,» largo stradone a
sterro che da Scarlino conduce al Puntone. Fatti pochi passi sulla Via
Dogana, le grosse campane di Scarlino cominciarono a suonare per una
qualche funzione religiosa. Il paese era vicino, lì sul prossimo poggio,
il vento favorevole, il suono bello e maestoso, e tutto ciò, e la
giacitura del paese, veduto da quella parte, così fabbricato per lungo
sul crinale del poggio, faceva credere Scarlino molto più grande di
quello che fosse.

Si fermò sorpreso il Garibaldi, e domandò: «_Che paese è quello?_--_È
Scarlino, il paese nostro e del Capitano_,» gli rispondeva Olivo Pina, e
sapeva di fargli cosa grata chiamando in tal modo Angiolo Guelfi, poi
alludendo al suono delle campane che aveva attirata la sua attenzione,
continuò con tuono deciso: «_E se ordinate, Generale, gli si fa cambiare
suono._» A queste parole il capitano Leggero, che era fra gli ultimi, si
fece avanti premuroso, e domandò quanti abitanti vi erano nel paese, e
di quanti giovani si poteva disporre.--Risposero: «_Il paese ha mille
abitanti, e si può contare su tutti i giovani, ma venti almeno ci
seguono, chè altrettanti sono tornati da poco, ed erano volontarî del
governo di Guerrazzi._» Allora il Capitano si avvicinò a Garibaldi, e
gli disse con fuoco: «_Generale, ricominciamo di qui?_»--E i quattro
Scarlinesi stavano pronti ad aspettare gli ordini.--Ma il Generale
guardò prima in faccia i suoi compagni, un lampo di gioia rasserenò la
sua fronte, vedendosi circondato da uomini così risoluti, poi
rifacendosi cupo, rispose: «_Si porterebbero ad inutile carneficina;
piuttosto i padri penseranno ad educare i loro figli per il giorno della
riscossa._»--E fu continuato il cammino.

Percorsero sulla Via Dogana per forse duecento metri, poi deviarono a
sinistra per una stradella, entrando nel bosco delle «_Piane di
Meleta_,» e si fermarono a riposarsi all'ombra di una quercia. Era
questo il luogo nel quale aveva dato convegno Pietro Gaggioli. E infatti
l'infaticabile Giccamo era al suo posto. Si chiama la località «_Fonte
al Leccio_,» ma di fonte non vi è che il nome, tantochè sentendosi il
Generale preso da sete, sia per il cammino accelerato, sia a causa del
calore estivo che principiava a sentirsi coll'alzare del sole, bisognò
ricorrere alla prossima casa poderale di Meleta; vi andò Giuseppe
Ornani, e ritornò insieme a tale Giovanni Lorenzi che vi risiedeva, e al
quale aveva richiesta un poca d'acqua per dissetare una brigata di
cacciatori. Venne il Lorenzi con una fiasca di vimini, e bevvero tutti
l'acqua mista a rhum, del quale Giccamo aveva pensato di provvedersi. Il
Lorenzi vide tutte quelle persone distese all'ombra della quercia, e
così tutti armati di fucili a due canne li credè cacciatori, e continuò
a crederlo per lungo tempo. Sul partire di là l'Ornani domandò al Pina
qual via fosse meglio seguire, se cioè per «_Val Citerna_» e «_Val
Lunga_» faticosissima e attraverso alla macchia, ovvero per la «_Via
delle Costiere_» viuzza assai ben tenuta, perchè serviva allora al
continuo passaggio da una torre all'altra dei Cavalleggieri di Costa.
Proponeva l'Ornani di prescegliere quest'ultima come più breve e più
agevole, onde non affaticare di soverchio il Generale.--Insisteva il
Pina per la parte di Val Citerna e Val Lunga come più sicura, dovendosi
passare in vista della _Torre di Portiglioni_ se si volesse battere la
Via delle Costiere. Il capitano Leggero domandò allora quanti uomini
custodissero questa Torre di Portiglioni, ed essendogli stato risposto
che vi risiedevano sei Cannonieri di Costa, saltò su a dire: «_Passiamo
pure di là, non ce ne tocca neppure uno per uno_» e infatti erano sette
compreso Giccamo che li aveva testè raggiunti; ma Garibaldi riprese,
gravemente: «_Non per noi che si parte, ma per coloro che rimangono,
occorre usar prudenza._» E prescelse la via del bosco.

Sempre per sentieri traversarono Val Citerna, e giunti sulla cima si
trovarono nella via ruotabile delle _Collacchie_. Il Generale non si
aspettava di trovare una strada simile in mezzo a quelle boscaglie, e in
luoghi così disabitati, onde si fermò sorpreso, e domandò: «_Dove
conduce questa strada?_» E il Pina rispose: «_Da una parte a Follonica,
e quindi a Livorno, e dall'altra a Grosseto, poi a Roma._--_Vi sarà il
caso d'incontri?_--_Il pericolo è ben lontano, tanto più che noi la
traversiamo soltanto, ma se si presentasse il caso di esser sorpresi,
state sicuro che non vi lasceremo mai in mano dei nostri nemici._»--A
queste parole il Generale si rivolse commosso a Leggero, egli disse:
«_Vedi quali uomini fanno in questa Maremma! Se avessimo conosciuta la
strada e la popolazione, era questa la via da seguire._» Voleva
alludere alla ritirata da Roma; e quando lì presso vide vacche vaganti,
si battè la fronte ed aggiunse: «_Se avessi saputo di trovare anche il
cibo per i bravi soldati, sarebbe stata questa la via!_»

Traversarono in obliquo la strada, e rientrarono subito nella macchia, e
quando dopo pochi passi vi si furono internati, Olivo Pina che precedeva
si rivolse al Generale, e col fare sicuro di chi dice cosa ormai certa,
e con frase tutta toscana, gli disse: «_E ora, Generale, chi ci ha
visto, ci ha visto_»--volendo fare intendere che non incontrerebbero più
alcuno, e se lo incontrassero guai a lui.--Intese Garibaldi, e
sorridendo dette uno sguardo a Leggero, e stava in quello sguardo la più
bella lode pei coraggiosi Scarlinesi.

Così percorsero Val Lunga, e giunsero sulla _Collacchia_, o crine del
poggio, che per l'altro declive termina con Cala Martina. Fino ad ora il
drappello aveva percorsi sentieri malagevoli, ma pervii, e tali da
permettere il passaggio di un uomo; ma qui finiva ogni traccia di
strada, e Olivo Pina si soffermò e disse: «_Ora bisogna abbandonare la
viottola, e traversare la macchia_,» e accennò a destra. Il Generale si
voltò alla parte indicata, e con sorpresa vide al di sotto il mare;--di
mesta e cupa che era fino ad ora la sua fisonomia si rasserenò--la vista
del mare che gli è stata sempre gradita, gli doveva essere anche più
gradita ora, dacchè era per lui la tanto cercata via di salvezza. Aveva
detto al Serafini: «_Sul mare, una trave basta per noi due_,» e queste
parole che in bocca di Garibaldi non erano vana iattanza, mostravano
quanta fiducia dovesse sentirsi alla vista dell'elemento suo prediletto.

Entrò pel primo Olivo nel folto del bosco, poi Garibaldi, che rompeva la
macchia col petto come un vecchio cacciatore maremmano, e tutti gli
altri li seguirono per la ripida discesa; così pervennero alla _Via
delle Costiere_, in quel tratto che soprastà a Cala Martina, e
traversatala, per un sentiero più ripido ancora, ma un poco più aperto,
toccarono la spiaggia del mare, sboccando nella parte di mezzogiorno, ad
un terzo dell'arco descritto dal piccolo seno, e percorrendone tutta la
massima curva, andarono a fermarsi all'altro terzo d'arco della parte
opposta, cioè di settentrione, e quivi si fermarono giudicando il luogo
più riparato, e insieme più adatto all'imbarco.--Finalmente Garibaldi
poteva toccare l'elemento desiderato[17].



VI

L'imbarco


Il lido toscano fra Follonica e Castiglione della Pescaia è formato da
una serie di cale o piccoli seni, divisi fra loro da altrettanti piccoli
promontorî o punte, che vanno a terminare nel mare. E quivi, ma molto
più prossima a Follonica che a Castiglione, trovasi _Cala Martina_[18]
formata dall'insenarsi del mare, e dal protendersi in esso di Punta
Martina a mezzogiorno, e di Punta Sentinella a settentrione. La
sorveglianza doganale, sanitaria, ed anche politica delle coste toscane
si faceva allora mercè una serie di stazioni o torri poste in modo che
dall'una si vedessero i segnali che si facevano dall'altra. Stavano a
custodia di ciascuna torre e del lido, cinque o sei cannonieri, che per
non demeritare tal nome avevano in custodia un cannone rivolto colla sua
bocca innocente verso la marina. La stazione prolungata in quei luoghi
disabitati, il servizio poco militare loro affidato, e più di tutto
l'azione pestifera della malaria, rendevano questi soldati tanto poco
temibili, che certamente la riunione dei guardacoste di quattro torri
non sarebbe bastata a stare a fronte del nostro ardito drappello,
composto di uomini vigorosi, pratici della località, e capaci tutti di
una sicurezza di tiro più unica che rara. Oltre i cannonieri, che dal
popolo maremmano venivano chiamati in spregio «_Picchiotti_,» eravi un
altro corpo di militi a cavallo, e si dicevano _Cavalleggeri
Guardacoste_, i quali disimpegnavano il servizio di corrispondenza fra
l'una e l'altra torre, per cui erano queste riunite fra loro da una
viuzza a sterro assai ben tenuta, e che chiamavasi _Via delle Costiere_.
Questa via è più o meno lontana dal mare a seconda dei luoghi, e nel
massimo d'insenatura di Cala Martina è distante pochi metri dalla
scogliera. Chi si volge in quel punto verso la Cala ha sulla destra
Punta Sentinella, sulla sinistra Punta Martina.--Punta Sentinella,
prolungamento e fine del monte omonimo, più breve, più bassa, più
pianeggiante nel suo dorso--Punta Martina più allungata nel mare, più
alta, più acuminata.--I fianchi della prima sono tagliati a picco sul
mare--quelli della seconda vanno degradando per una pendice ripida e
ricoperta di folto bosco. Sulla vetta di Punta Martina eravi allora una
stazione o torre di cannonieri, ma di lassù non si vedeva la Cala,
almeno nel luogo ove doveva avvenire l'imbarco, e Punta Sentinella,
disabitata, la ricuopriva dalla vista della torre di Portiglioni. Chi
scendesse poi nella Cala si troverebbe come in un anfiteatro
perfettamente semicircolare, con una bocca di forse quattrocento metri,
e le cui pareti da ogni parte ripide sono nude dalla parte di Punta
Sentinella, rivestite a bosco dalle altre. La spiaggia è breve, in
alcuni punti quasi nulla, e formata di ciottoli con poca rena ed alghe,
poi vengono gli scogli di natura arenaria, che sono talora scoperti,
talora sommersi dalle onde marine, a seconda dello stato di quiete, o
del dominarvi dei venti.

Era il drappello disceso al mare dalla parte di Punta Martina, e
percorrendo la spiaggia in curva, andò a fermarsi a riparo di Punta
Sentinella. Per quanto si poteva scorgere non vi erano barche alla
vista. Allora fu il primo pensiero di Olivo Pina il mandare a speculare
da luogo ove si scoprisse più largo orizzonte, e intanto provvedere alla
sicurezza della brigata. Ordinò all'Ornani di percorrere il lido dalla
parte di Punta Martina, e giungere allo scavalco da dove si scorge vasto
tratto di mare verso Castiglione, ma di camminare sempre per la macchia
facendo in modo di non essere veduto dai cannonieri di Punta
Martina.--Appostò il Carmagnini nel bosco presso la Via delle Costiere,
colla ingiunzione che se passasse il cavalleggere e non vedesse quanto
si andava facendo alla Cala, lo lasciasse andare oltre, ma se succedesse
altrimenti, facesse fuoco su lui.--E il Carmagnini si appostò tranquillo
al suo posto, pronto ad eseguire l'ordine ricevuto.--L'Ornani poi
percorse sempre per il bosco il tragitto indicato, ma arrivato allo
scavalco di Punta Martina speculò l'uno e l'altro braccio di mare senza
vedere la barca, e tornò a darne avviso ad Olivo Pina, da cui ricevè
l'ordine di andare per la parte opposta onde vedere se l'Azzarrini fosse
per venire di là. Pietro Gaggioli, che stanco dalle fatiche sostenute in
quei giorni si era disteso accanto al Carmagnini senza scendere alla
Cala, seguì l'Ornani nella corsa verso Follonica. In questo tempo il
Generale stava estatico a riguardare il mare. Appena arrivato a Cala
Martina aveva voluto bagnarsi i piedi nell'onda prediletta, e si era
dato a slacciarsi la calzatura. Corse Olivo Pina ad aiutarlo, ma esso
rifiutava, e cedè solamente all'insistenza sua, accettandone l'aiuto, e
si lavò i piedi nell'acqua marina, contento, come diceva, di poter fare
ciò dopo tanto tempo. Di poi insieme a Leggero, Fontani e Pina si
trattenne sulla spiaggia ad aspettare.

Comparve poco dopo la barca, che veniva dalla parte di Follonica, senza
essere stata veduta dall'Ornani e da Giccamo perchè aveva bordeggiato
lungo la costiera in sembianza di barca peschereccia. Ed era infatti una
semplice barca peschereccia, guidata da soli quattro uomini, cioè il
padrone Azzarrini e tre marinai, e avendo camminato quasi rasente alla
spiaggia, non poteva averla scorta l'Ornani che guardava ad una certa
distanza, impedito a vedere vicino dal lido tagliato a picco, e coperto
di folto bosco.

Appena la barca fu in vista, vennero dalla Cala fatti segnali collo
sventolare di un fazzoletto, e la barca, veduti i segnali, si accostò
subito alla spiaggia.--Era il momento solenne.--Il Carmagnini aveva
abbandonato il suo posto di guardia, dal momento che la barca si era
accostata.--Garibaldi in tutta la sua fierezza guardava al mare.--Pareva
un leone imprigionato a cui fosse stata aperta la gabbia ferrata.--Si
rivolse commosso ai tre Scarlinesi che lo stavano ammirando, e disse
loro: «_Non vi è nulla che possa ricompensare ciò che ho ricevuto da
voi, ma spero di ritrovarvi a tempi migliori._»--Rispose Olivo Pina,
commosso egli pure, e a nome di tutti: «_Un pizzo della vostra pezzuola
basta a ciascuno di noi--lo lasceremo come ricordo ai nostri
figliuoli;--avevamo per unico scopo salvarvi e conservarvi all'Italia, e
volentieri veniamo con voi fino a Genova, se lo volete._»--Assentirono
gli altri due, e il Carmagnini insisteva sulla proposta di
accompagnarlo, ma il Generale riprese: «_No, nel mare non temo alcuno:
ci rivedremo._»--Potenza singolare di quell'uomo che, se lo avesse
voluto, avrebbe fatto quattro marinari di quei giovani incontrati poche
ore fa, e che non avevano mai veduto il mare se non dalla costa.

Prima di partire volle dare un suo ricordo a ciascuno; a Olivo Pina un
fischio d'argento colle due lettere incise CL (forse Cogliuoli Luigi);
al Carmagnini un piccolo stile che si levò dal di dietro della cintura;
al Fontani un piccolo portafogli da appunti, e da questo staccò un
foglio ove fece la sua firma col lapis, e la consegnò ad Olivo Pina
perchè lo dasse a suo nome all'Ornani tuttora assente. Poi li abbracciò,
li baciò, li incaricò dei suoi saluti a Girolamo Martini, Cammillo
Serafini e Angiolo Guelfi, e montò nella barca. Lo stesso fece il
capitano Leggero salutando ed abbracciando gli amici, e la barca si
mosse.--Allora il Generale, quando era ancora pochi metri lontano dalla
spiaggia, mandò agli Scarlinesi, come ultimo saluto, il grido maschio e
vibrato: «_Viva l'Italia!_»--Era sfida alla tirannide che lasciava
padrona del campo--vaticinio di destini migliori--saluto ai patriotti
che nel nome della patria derelitta avevano spregiati i pericoli per
dare a lui salvamento.--Erano le ore 10 antimeridiane del 2 Settembre
1849.--

In questo tempo l'Ornani tornava dalla sua escursione senza aver veduta
la barca; aveva percorsi tre chilometri insieme al Gaggioli attraverso
alla macchia foltissima della scogliera, e arrivati alla fonte detta di
_San Supero_, trafelati dalla stanchezza, e dal sole cocente, si erano
dissetati, poi il Gaggioli, rifinito dalla fatica, sentì di non potere
rifare il cammino, e incaricato l'Ornani dei suoi saluti al Generale e
al compagno, aveva ripresa la via di Follonica. Si affacciò l'Ornani al
lido di Cala Martina, e vide la barca che già si allontanava, e il
Generale in piedi che guardava la riva. Salutò dall'alto vivamente col
fazzoletto, e gli fu corrisposto il saluto da Garibaldi e da Leggero,
che continuarono così fino a quando non furono perduti di vista. Allora
l'Ornani entusiasta del buon esito dell'impresa, voleva che in segno di
gioia si scaricassero tutte le armi, ma si oppose il Pina più calmo, per
non destare attenzione sul fatto che si era compiuto.

Ed anche questo voglio dire quantunque fosse pazzia, ma di quelle che
muovono da impeti magnanimi, e tale da mostrare a quali uomini era
affidato Garibaldi. Passarono i quattro Scarlinesi, per tornare alle
case loro, dalla Torre di Partiglioni, e visto lì presso l'innocente
cannone, utensile obbligato delle torri di costa, volevano in segno di
festa a ludibrio dei cannonieri e del loro governo, gettarlo in mare.--E
l'avrebbero fatto, chè quei quattro valevano per quaranta picchiotti (e
Olivo Pina, certo ormai che il Generale era in salvo, si univa agli
altri nell'esultanza del fatto), se per fortuna non fossero stati ivi
incontrati e dissuasi da Giccamo, che tornava da riprendere il suo
barroccino a Meleta, per andare a Follonica.

Due giorni dopo, il 4 settembre, era la fiera al _Palazzo_ presso
Travale, e Olivo Pina vi andò per accordi presi col Guelfi, a riportare
a voce le diverse particolarità dell'imbarco. Vi erano Cammillo Serafini
ed Angiolo Guelfi, reduce quest'ultimo la sera avanti da Pisa, ove era
andato a mettersi in mostra per deviare gli occhi della polizia dal
teatro vero del fatto. Raccontò Olivo Pina i più minuti particolari,
portò i saluti di Garibaldi e di Leggero lasciati da essi nell'atto
stesso della partenza, e tuttociò riempì di giubbilo l'animo dei due
patriotti, a segno che Cammillo Serafini chiamò Olivo Pina fratello di
fortuna, e tale lo ha sempre chiamato di poi, volendo alludere alla
fortuna da essi avuta di potere salvare la vita del Grande Capitano.

La traversata sulla barca dell'Azzarrini fu felice, e senza casi
notevoli. Partiti dalla spiaggia toscana si diressero alla Punta al
Cavo, ove l'Azzarrini sbarcò il padre ed un altro marinaio di
Capoliveri, e così si mise in ordine col numero degli uomini descritti
nella patente, poi tanto pregò il tenente-castellano di Rio Marina, che
questi gli firmò abusivamente la patente per l'estero, quantunque
volesse la legge vigente che per fare ciò si fosse munito del visto
delle Autorità di Portoferraio. Tornò a costeggiare la spiaggia tirrena,
e il giorno di poi sbarcò felicemente a Porto Venere il Grande Italiano.
L'Azzarrini stesso, richiesto da Giovanni Gaggioli figlio del tanto
benemerito Giccamo, scrive da sè stesso la storia della traversata colla
lettera seguente:

«Di buon mattino imbarcai l'eroico generale Garibaldi e il capitano
Leggero, e mi diressi all'isola dell'Elba. A Capo Castello sbarcai mio
padre, e un marinaro di Capoliveri perchè vi fosse sempre il numero. Il
Deputato di Sanità mi firmò abusivamente la patente, e la sera feci vela
per il Golfo della Spezia. All'indomani a mezzogiorno si era giunti in
vista di Livorno, ove si vedevano passeggiare le sentinelle tedesche, e
il giorno dopo giunsi felicemente a Porto Venere. Colà sbarcai l'eroico
Garibaldi con Leggero. Garibaldi mi diede per ricompensa un piccolo
scritto di sua propria mano, che conservo come la pupilla dei miei
occhi; esso era così concepito:

  «_Il padrone Paolo Azzarrini che la fortuna mi fece incontrare
  in terra italiana dominata dai Tedeschi, mi ha trasportato su
  questo luogo di asilo e di salvamento, trattandomi egregiamente,
  e senza interesse._

                                               «G. GARIBALDI.»

Era meritato questo attestato di benemerenza, poichè Paolo Azzarrini
ebbe troncati i suoi interessi per la parte presa nel salvamento di
Garibaldi. Impossibilitato a ritornare nell'Elba, ove lo avrebbero
aspettato persecuzioni poliziesche, per avere sottratto l'Esule illustre
alla caccia spietata, dovè condannarsi all'esilio per i 10 anni nei
quali perdurò la dominazione lorenese, e solamente in contrabbando si
avvicinò una volta a Capoliveri per imbarcare il vecchio padre e il
resto della sua famiglia, che dovè trasportare sul suolo ospitale della
Liguria.--E in mezzo a tanta pioggia di pensioni e di croci per gli eroi
del domani, nessuna ricompensa è stata data a Paolo Azzarrini, che perdè
anche gli arnesi del suo mestiere per salvare all'Italia il suo
Eroe[19].



                                   *
                                  * *


E qui termina l'assunto mio.--Una mano di patriotti disseminati da
Vaiano alla spiaggia di Follonica, di cui alcuni incogniti l'uno
all'altro, perseguitati e costretti a pensare alla loro salvezza, in 7
giorni, senza accordi precedenti, in onta alla polizia lorenese e
all'occupazione straniera, alla reazione toscana e al bando feroce di
Gorzhowscki, seppe trafugare il Generale del Popolo, fargli percorrere
centinaia di chilometri e provvedergli una barca per metterlo in luogo
di salvezza. Al Molino di Cerbaia--alla Casa Bardazzi a Vaiano--alla
Madonna della Tosse--alla Stazione della ferrovia di Prato--alla Casa
Bonfanti a Poggibonsi--al quadrivio di Volterra--alla Locanda della
Burraia--alla Casa Serafini a San Dalmazio--alla Casa Comunale di
Castelnuovo--al vetusto Palazzo Municipale di Massa--sulla piazza
principale di Follonica--e alla Casa Guelfi nel piano di Scarlino--in
tutti questi luoghi una lapide, un ricordo rammenta l'opera di
salvamento compiuta dai patriotti toscani nel 1849.--Solo a Cala Martina
neppure una pietra ricorda che quel luogo riunì in sè e tradusse in
fatto quanto era stato compiuto da Cerbaia alla spiaggia Tirrena.--Solo
Cala Martina aspetta una memoria e l'avrà--perocchè, lo pensino gli
Italiani, se li umili scogli di Cala Martina non erano, la storia non
avrebbe registrato nei suoi fasti lo scoglio glorioso di Quarto.


NOTE:

[1] Le notizie contenute in questa introduzione sono attinte dall'opera
del prof. GIUSEPPE GUERZONI, _Giuseppe Garibaldi_, edito dal Barbèra,
Firenze, 1882. La serie dei fatti che si svolsero dal 26 agosto al 2
settembre 1849, restati sepolti nel silenzio per i dieci anni della
dominazione lorenese, e raccolti ora dopo 35 anni, quando molti degli
attori di essi non sono più; reclamava circospezione massima, e
diligenza nelle ricerche, per non passare dalla storia alla leggenda. Le
diverse Vite di Garibaldi o sorvolano, o travisano quanto avvenne in
questo periodo, alcuna poi è piena d'inesattezze anche sulla posizione
geografica dei luoghi, cosicchè vi si designa avvenuto l'imbarco, ora a
Talamone, ora a Follonica, e perfino a Massa Marittima, città di poggio,
e distante parecchi chilometri dal mare. Due soli opuscoli hanno parlato
con molta esattezza di questo periodo avventuroso del Generale, e
portano per titolo, il primo: «_Da Prato a Porto Venere_,» del dottore
RICCIARDO RICCIARDI, Grosseto, Tipografia Barbarulli, 1873, e l'altro:
«_In Val di Bisenzio. Episodio del 26 agosto 1849_,» per ENRICO SEQUI
Firenze, Stamperia Righi, 1862; ma il primo svolge più specialmente i
fatti avvenuti dal Morbo fino al mare, il secondo si occupa
esclusivamente di quanto avvenne in Val di Bisenzio. Dopo avere tenuto
conto delle cose narrate nei due opuscoli, mi sono rivolto a tutti i
superstiti fra quelli che ebbero parte diretta nell'impresa, e così
raccolsi interessanti notizie dal testè defunto signor Antonio Martini
di Prato, dall'egregio signor Cammillo Serafini di San Dalmazio, dai
quattro Scarlinesi Pina, Ornani, Fontani e Carmagnini che scortarono
Garibaldi dalla casa Guelfi a Cala Martina; poi mi rivolsi a coloro che,
legati da intimi rapporti con alcuno degli estinti patriotti, potevano
fornire notizie di circostanze e fatti, e così al signor Odoardo Pellini
genero del defunto Girolamo Martini, e alla signora Ester vedova Martini
pei fatti del Morbo, e al signor Vincenzo Magherini farmacista a Vaiano
per quanto avvenne in quel paese. Mi sono dato ad interrogare anche
alcuni che, quantunque inconsapevoli, presero una parte nel salvamento,
e cioè il Montereggi vetturino di Poggibonsi, Zizzo vetturino di
Pomarance, e Tommaso Pucci, figlio della Giuseppa Bonfanti. Mi sono
stati di aiuto tre atti pubblici, o come diconsi di notorietà, relativi
a circostanze diverse, di cui uno sottoscritto: «Ranieri Biagioli di
Vaiano,» un altro «Vincenzo Bardazzi di Vaiano,» e un terzo «Pina,
Ornani, Fontani e Carmagnini di Scarlino.» E finalmente mi hanno giovato
i ricordi di famiglia, essendo stato Angiolo Guelfi parte non ultima del
fortunato salvamento. Le notizie raccolte, poste in confronto le une
colle altre, e più di tutto colle date certe che si avevano cioè--26
agosto per Vaiano e Prato--27 agosto per il Morbo--28 agosto per la
fiera di Pomarance sulla Cecina--e 2 settembre per Cala Martina, mi
hanno guidato nello stabilire con piena certezza, i fatti nel loro
ordine cronologico, e nella loro storica precisione.

[2] Il compagno di Garibaldi conosciuto generalmente col nome di
Capitano Leggero si chiamava Leggero Cogliuoli, cosa che ho potuto
accertare in diversi modi, ma specialmente per dichiarazione fattami dal
signor Cammillo Serafini che possedeva il suo nome scritto in più luoghi
sui libri letti dai profughi nella sua casa di San Dalmazio.

[3] L'opuscolo dell'ingegnere Enrico Sequi «_In Val di Bisenzio_ ecc.,»
mi è servito principalmente di guida in questo capitolo, e di là ho
tolta la maggior parte delle notizie. La narrazione del Sequi è stata
parzialmente modificata dalle dichiarazioni contenute nei due Atti
pubblici sopra citati, cioè: «Atto pubblico di dichiarazione di Biagioli
Ranieri fu Luigi, rogato a Cerbaia il 25 maggio 1884 dal notaro G. B.
Nistri, e registrato a Prato il 26 maggio 1884;» «Atto pubblico di
dichiarazione di Bardazzi Vincenzo fu Leonardo rogato a Vaiano il 25
maggio 1881 dal notaro G. B. Nistri, e registrato a Prato il 26 Maggio
1884.» Il racconto è altresì completato da alcune notizie fornite per
lettera dall'ora compianto patriotta Antonio Martini di Prato, e dal
signor Vincenzo Magherini farmacista a Vaiano.

[4] La donna che ospitò Garibaldi era bensì nata Bonfanti, ma unitasi in
matrimonio con tale Serafino Pucci ne portava allora il cognome. F. D.
Guerrazzi dettò una epigrafe che a cura di alcuni patriotti di
Poggibonsi fu posta all'esterno della casa, e anche in essa la donna è
chiamata Giuseppa Bonfanti, e così continueremo noi pure a chiamarla,
essendo con questo nome ormai conosciuta.

[5] Il vetturino Niccola Montereggi assicura che in quel giorno vi era a
Colle fiera o mercato. Abbiamo rintracciato ciò, e abbiamo saputo con
certezza come la fiera annuale vi si tiene da tempo immemorabile il 17
Agosto, e il mercato si è sempre fatto in giorno di Venerdì, ma il
giorno del passaggio da Colle fu invece il 27 Agosto, giorno di Lunedì,
quindi non resta che a supporre lo spostamento in quell'anno della
fiera, o del mercato per una qualsiasi causa eccezionale, ovvero che
l'affluenza straordinaria di popolo asserita con sicurezza dal vetturino
provenisse da qualche festa religiosa o reazionaria.

[6] Abbiamo voluto rintracciare con precisione il luogo ove avvenne a
Colle il cambio del cavallo, e accurate informazioni ci fanno sapere
essere stato ciò alla locanda di Moneta, condotta allora da Luigi
Papini, la quale locanda esisteva nella casa Buccianti in via S. Jacopo,
che poi si chiamò via Stefano Masson. Però i viaggiatori non entrarono
nella locanda, e si trattennero nel mezzo della strada tutto il tempo
che occorse al cambio del cavallo.

[7] Era necessario, per l'esattezza storica del racconto, rintracciare
l'itinerario seguito nei giorni 26 e 27 Agosto 1849 dai due proscritti,
tanto più che ora appunto su questo viaggio così rapido attraverso alla
Toscana che potevano nascere i maggiori dubbi. È per questo che come
riassunto delle ricerche più minuziose fatte in proposito, pongo qui
l'intiero itinerario del Generale da Cerbaia al Bagno a Morbo colle ore
approssimative dei diversi fatti.

26 Agosto. Ore 7 ant. Arrivo di Garibaldi al Molino di Cerbaia.

  --Ore 8 ant. Incontro coll'ingegnere Enrico Sequi.
  --Ore 9 pom. Partenza dal Molino di Cerbaia.
  --Ore 10 pom. Arrivo alla Casa Bardazzi a Vaiano.
  --Ore 11-1/2 pom. Arrivo alla Madonna della Tosse.
  --Ore 12 pom. Arrivo alla Stazione di Prato.

27 Agosto. Ore 2 ant. Partenza da Prato.

  --Ore 8 ant. Arrivo a Poggibonsi.
  --Ore 12 merid. Partenza da Poggibonsi.
  --Ore 3 pom. Al quadrivio di Volterra.
  --Ore 5 pom. Arrivo al podere di Prugnano.
  --Ore 6 pom. Partenza dal podere di Prugnano.
  --Ore 7 pom. Arrivo alla Burraia.
  --Ore 9 pom. Partenza dalla Burraia.
  --Ore 11 pom. Arrivo al Bagno a Morbo.

[8] Angiolo Guelfi nel Decembre 1862 faceva apporre nella camera ove
riposò Garibaldi nel piano di Scarlino la seguente epigrafe dettata
dall'illustre F. D. Guerrazzi, e che qui trascrivo per l'altissimo suo
valore letterario, e per lo stupendo concetto che in essa è svolto, e di
cui ho riportata una parte come sintesi e chiusura del presento
capitolo.

                 BANDITO COME BELVA DA ROMA
                        IL DESTINATO
             A TANTA PARTE DEL RISCATTO ITALIANO
                      GIUSEPPE GARIBALDI
   QUI LA NOTTE DAL 1º AL 2 SETTEMBRE 1849 POCHE ORE POSÒ
                       LA NOTTE STESSA
           PEDESTRE E SCORTO DA UN COMPAGNO SOLO
              TRAVERSATO IL PIANO DI SCARLINO
              ATTINSE LA CALA DI PUNTA MARTINA
                   DOVE SU DI UN BURCHIELLO
                SÈ COMMISE IN BALÌA DEI VENTI
                             DIO
              COMPASSIONANDO ALLE MISERIE NOSTRE
                     LO SALVÒ LO PROTESSE
  QUINDI IMPARI CHI LEGGE A NON DISPERARE MAI DELLA PATRIA
                        ANGIOLO GUELFI
                        IN LAUDE DI DIO
                        ONORE ALLO EROE
                           Q. M. P.
    IL GIORNO VENTESIMO QUINTO DEL MESE DI DECEMBRE 1862


[9] I fatti accennati nel presente Capitolo sono stati i più difficili a
rintracciarsi, perchè avvolti più profondamente nell'oblio, come lo
mostrano le notizie incerte, che quasi per incidenza si trovano su di
essi nei due opuscoli Sequi e Ricciardi. Eppure dopo l'imbarco è questo
il momento più importante della traversata. Dalle 2 della mattina alle
11 della sera il Generale, facendo il cambio di tre vetture, e prendendo
brevi riposi, si trasferì da Prato al Bagno, passando incolume per le
terre popolose della Valle dell'Elsa, e rasentando Volterra e Pomarance.
Mi fu cortese di tutte le informazioni fino all'arrivo a Poggibonsi
l'ora defunto patriotta Antonio Martini, ed ebbi la fortuna di
rintracciare i due vetturini tuttora viventi Niccola Montereggi a
Poggibonsi, e Vittore Landi detto Zizzo a Pomarance. Parlai altresì con
Tommaso Pucci figlio della Giuseppa Bonfanti, dal quale ebbi sicuri
particolari circa alla fermata degli esuli nella sua casa.

[10] L'opuscolo del dottor Ricciardo Ricciardi espone le principali
circostanze narrate in questo capitolo. Io poi potei completarle mercè
le più particolari informazioni fornitemi dal signor Odoardo Pellini, e
dalla signora Ester Martini, il primo genero, e la seconda vedova del fu
Girolamo Martini. In questa parte mi sono altresì venute in aiuto le
reminiscenze di giovinezza, per quanto aveva io stesso sentito narrare
dal padre mio Angiolo Guelfi. Era esso alieno dall'entrare in
particolari del fatto, ma rammento sempre la sera stessa del suo ritorno
a Laiatico ai primi di Settembre 1849, quando, nell'atto di coricarsi
nella medesima camera, raccontò con entusiasmo a me, allora dodicenne,
il salvamento compiuto da pochi giorni, e i particolari dei colloqui
avuti col Generale, e massimamente il dono dello stile coll'invito di
farglielo presentare dall'unico figlio se fossero vòlti per la patria
destini migliori.--Da quella circostanza in fuori gliene ho sentito
parlare raramente, come da chi avesse inteso compiere un dovere e nulla
più.--Tanto è ciò vero che le altre informazioni relative alla parte
presa da Angiolo Guelfi nella fortunata impresa le ho dovute raccogliere
dall'egregio amico, signor Cammillo Serafini, e dai quattro Scarlinesi,
segnatamente dal Pina e dall'Ornani, come più degli altri familiari di
Angiolo Guelfi.

[11] L'illustre patriotta signor Cammillo Serafini, entusiasta
dell'esito felice dell'impresa di cui era stato tanta parte, non curando
il pericolo, conservò per i dieci anni della dominazione lorenese i
preziosi documenti citati nel corso di questa storia. In una mia visita
all'egregio ed onorando amico ho veduto questi documenti ingialliti dal
tempo, macchiati dall'umidità, essendo essi stati per dieci anni chiusi
in un tubo di latta, e sotterrati nelle grotte della Pieve presso San
Dalmazio, e sono i seguenti:

1º La lettera di Angiolo Guelfi senza data, ma evidentemente scritta da
Massa Marittima la mattina stessa del suo arrivo, cioè il 29 agosto, cui
fa seguito una aggiunta fattavi dal signor Girolamo Martini.

2º Un piccolo pezzo di carta in cui Angiolo Guelfi di suo carattere
scrisse le sole parole «_Antonio Piesce_» recapito fittizio per potere
scrivere a lui in Maremma, dato il caso che se ne fosse presentata
l'urgenza.

3º La lettera di Girolamo Martini, ugualmente senza data e senza firma,
scritta la mattina del 30 agosto, nella quale dichiara di essere esso
stesso all'oscuro di quanto succedeva in Maremma al Guelfi, e accennava
alla speranza del suo prossimo ritorno.

4º Un autografo del Generale, che sotto il titolo di «_Tentativo
mineralogico_» dava l'indicazione dei patriotti della Romagna ai quali
poteva dirigersi il Serafini per una futura riscossa.

5º Il principio della narrazione dei fatti di Roma, scritto ugualmente
di carattere del Garibaldi, e rimasto interrotto dalla venuta di Angiolo
Guelfi a San Dalmazio per dare l'avviso della partenza.

6º Una lettera di Girolamo Martini senza data e senza indirizzo, colla
quale rendeva noto al Serafini ed al Guelfi il buon esito del viaggio
fino a Massa, e la consegna degli esuli nelle mani dei patriotti
massetani.

7º La lettera di Garibaldi scritta dalla Maddalena il 20 ottobre 1849,
diretta al signor Serafini, nella quale sotto colore di fare domanda
circa ad un caso d'idrofobia, per la cura preventiva della quale
malattia si rivolgono al signor Serafini da tutte la parti della
Toscana, faceva sapere le sue nuove, e ringraziava gli amici dell'aiuto
ricevuto in Toscana.

Devo alla squisita gentilezza dell'amico signor Cammillo Serafini il
dono del primo di questi documenti, cioè della lettera scritta da
Angiolo Guelfi al suo arrivo a Massa, quando non trovò ivi Giccamo come
aveva sperato. È questo per me un preziosissimo autografo, e che mi è
doppiamente caro, come quello che da un lato è prova della parte non
ultima presa dal padre mio nell'impresa onoranda, e dall'altro mostra
l'amicizia di cui mi onora il signor Cammillo Serafini, che con
gentilezza d'animo senza pari volle donare al figlio un documento così
importante scritto dal padre suo 35 anni avanti, in quali condizioni
ognuno può pensarlo. Ed io ne rendo qui all'egregio donatore pubbliche e
meritate grazie.

[12] Seguendo il sistema di documentare quanto più è possibile questo
tratto di storia fino a qui imperfettamente conosciuta, credo bene
annotare, per la sua importanza storica, l'itinerario di Angiolo Guelfi
dal 28 agosto al 4 settembre, tale quale ho potuto ricostituire con
certezza dalle deposizioni dei superstiti poste in confronto coi fatti
che si andavano svolgendo, ed è il seguente: 28 agosto. Nelle ore del
mattino si trovava alla fiera del Ponte di Ferro sul fiume Cecina, da
dove partì improvvisamente per San Dalmazio, tostochè fu avvertito della
presenza di due proscritti politici.

--Nelle ore della sera parlò col Generale in casa Serafini.

29 agosto. Partì nelle prime ore del mattino per Massa Marittima, e non
trovandovi Giccamo continuò per Follonica; sennonchè lo incontrò alle 10
antimeridiane circa sulla via di Massa, e continuò per Scarlino, ove
arrivò alle ore 12 circa. Ripartì la sera per Follonica e continuò per
Massa.

30 agosto. Nelle ore della mattina tornò al Morbo.

31 agosto. Si trattenne al Morbo.

1 settembre. Ebbe avviso nella sera che tutto era pronto, e partì per
San Dalmazio a portarne la notizia.

2 settembre. Dopo la notizia dell'arrivo di Garibaldi alla Pecora partì
per Pisa.

3 settembre. Tornò da Pisa a San Dalmazio.

4 settembre. Andò col Serafini alla fiera del Palazzo a Travale, ove
doveva incontrarsi con Olivo Pina.

[13] F. D. GUERRAZZI nella sua opera _Lo Assedio di Roma_ accenna al
salvamento di Garibaldi compiuto dai patriotti toscani nel 1849, e nella
prima edizione così si esprime: «Di Garibaldi note le fortune, la
costanza, l'ardire, i pericoli, e i casi dolorosi. Episodi pieni di
amarezza infinita della Odissea pietosissima sono le morti del Brunetti
e dei suoi figliuoli, di Ugo Bassi, e della valorosa sua donna Anita, le
fughe, le insidie, la ferina caccia, e l'eroico aiuto dei buoni, e per
ultimo lo scampo miracoloso per virtù del Guelfi maremmano nostro, bella
gloria toscana.» Livorno, 1864, pag. 876. Nelle successive edizioni,
dopo le parole: «_per virtù del Guelfi maremmano nostro_,» aggiunge: «_e
di una donna, Giuseppa Bonfanti_ ecc.» L'eccelso scrittore fu tratto in
inganno da informazioni prima incomplete, poi erronee. Non già il solo
Guelfi, che pure vi ebbe splendida parte, bensì una mano di patriotti da
Vaiano a Scarlino compierono il salvamento dell'Eroe, e in quanto alla
Giuseppa Bonfanti di Poggibonsi, buona donna, ma inconsapevole di chi
riceveva nella sua casa, essa non fece che il compito di onesta e
ospitale massaia.--Questo dico al solo scopo di ristabilire i fatti
nella loro storica verità.

[14] Vedi opuscolo RICCIARDI.

[15] Le particolarità del soggiorno di Garibaldi a San Dalmazio, quelle
della sua partenza e del cammino fatto fino al Molino di Bruciano, non
che la copia degli importanti documenti finora inediti che sono
riportati in questa parte di racconto, tutto questo mi è stato fornito
dal prelodato signor Cammillo Serafini. Mi sono poi venute in aiuto le
informazioni del signor Odoardo Pellini per il viaggio notturno degli
esuli fino a Massa, e per tutto ciò, ma più specialmente per la parte
presa nel salvamento dai patriotti di Massa Marittima, mi ha guidato il
già citato opuscolo del dottor Ricciardo Ricciardi, il quale,
coscenzioso sempre, è in questa parte esattissimo per aver potuto
raccogliere le più minute informazioni dalla bocca degli ora defunti
Giulio e Riccardo Lapini. Le particolarità del viaggio di Angiolo Guelfi
nella Maremma mi sono state date specialmente da Olivo Pina.

[16] Per le ragioni altra volta esposte del riscontro storico delle date
riassumo l'itinerario di Pietro Gaggioli detto Giccamo, il quale ebbe
parte così importante nel trovare la barca che condusse in salvo i due
esuli:

29 agosto. Parlò a ore 10 ant., con Angiolo Guelfi per la via di
Follonica a Massa, e nelle ore di sera dello stesso giorno partì per
Piombino.

30 agosto. Nelle prime ore del mattino partì in contrabbando per l'Elba
sulla barca di Pietro del Santo detto Bacco, e sbarcato alla Punta al
Cavo, andò a piedi a Portolongone a trovare l'amico suo Azzarrini, col
quale combinò il trasporto degli esuli.

31 agosto. Partì dall'Elba sulla barca dell'Azzarrini, e la notte del 31
tornò di contrabbando a Follonica.

1 settembre. Nella mattina andò a Massa a dare notizia ai Lapini
dell'arrivo della barca; nella notte dal 1º al 2 andò alla Pecora
coll'Azzarrini per prendere gli ultimi accordi.

2 settembre. Tornò a Follonica coll'Azzarrini nelle prime ore del
giorno. All'ora fissata, per la via del Puntone tornò a Meleta, ove
incontrò Garibaldi e gli Scarlinesi, e con essi arrivò fino a Cala
Martina.

[17] Tutte quante le notizie che riguardano il viaggio di Giccamo mi
sono state fornite dal di lui figlio, ed amico mio Giovanni Gaggioli. I
diversi episodi avvenuti alla Pecora, e nella traversata del piano di
Scarlino, e l'itinerario seguito, mi sono stati concordemente narrati
dai quattro Scarlinesi Olivo Pina, Giuseppe Ornani, Leopoldo Carmagnini
e Oreste Fontani, come resulta altresì dall'Atto Pubblico di Notorietà
da essi sottoscritto nel dì 19 agosto 1883, rogato a Scarlino dal Notaro
Biageschi, e registrato a Massa Marittima. Detto Atto, che ha per scopo
precipuo la identificazione e descrizione dello stile americano donato
da Garibaldi ad Angiolo Guelfi, riassume altresì i principali fatti del
salvamento dal Morbo fino al mare.

[18] La carta militare italiana, ed anche la pianta topografica della
tenuta demaniale di Follonica, danno nomi diversi da noi alle località
nelle quali avvenne un fatto storico che andiamo svolgendo. In ambedue
viene indicato col nome di Cala Martina il seno di mare che sta al sud
di Punta Martina dalla parte di Castiglione della Pescaia, e vi si
chiama Poggio degli Olivastrelli quello che noi chiamiamo Poggio
Sentinella, mentre non si dà nome alcuno al seno di mare da noi
conosciuto per Cala Martina. Saputa questa differenza di nomi, ci siamo
dati pensiero di interrogare i più vecchi pratici dei luoghi, e così
abbiamo potuto accertare che da essi si chiama Cala Martina il luogo ove
avvenne l'imbarco, limitato dalla parte di Castiglione della Pescaia da
Punta Martina, e dalla parte di Follonica dal Poggio Sentinella, o
Poggio degli Olivastrelli che dire si voglia. In ogni caso è
indiscutibile che l'imbarco del Generale nel 1849 avvenne nella piccola
cala che noi descriviamo, e questo ci risulta per reiterate visite fatte
sul luogo insieme agli Scarlinesi che servirono di scorta ai profughi, e
così ci venne indicato anche il punto preciso della costa da dove mosse
il Garibaldi per incontrare la barca.

[19] L'imbarco con tutte le sue particolarità mi fu narrato in modo
uniforme dai quattro Scarlinesi che vi erano presenti, ed è convalidato
dal già citato atto di notorietà. La lettera dell'Azzarrini, e
l'attestato rilasciatogli dal Generale sono tolti dal più volte citato
opuscolo dell'amico dottor RICCIARDI.



  INDICE


  AL LETTORE                                                 Pag. V
  Nomi di coloro che cooperarono al salvamento di Garibaldi     VII
  INTRODUZIONE                                                   IX
    I Dal Molino di Cerbaia a Prato                               1
   II Da Prato al Bagno a Morbo                                  27
  III Dal Bagno a Morbo a San Dalmazio                           43
   IV Da San Dalmazio alla Casa Guelfi                           61
    V Dalla Casa Guelfi a Cala Martina                          117
   VI L'Imbarco                                                 139



_Prezzo: UNA LIRA_



  Nota del Trascrittore

  Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
  senza annotazione minimi errori tipografici. Sono stati corretti i
  seguenti refusi:

  P. viii--Azzarrini [Azzarini] Paolo di Rio Marina
  P.  xii--pel Modenese [Modanese] sarebbero di poi passati
  P.   14--urgente il togliere i profughi [prfughi] da luoghi
  P.   57--perchè il loro arrivo passasse inavvertito [invvertito]
  P.   69--«_State bene e sano [sono]._»
  P.   93--Aveva i calzoni da generale [genenerale]
  P.  143--mare verso Castiglione [Castiglioni]
  P.  143--il Carmagnini [Carmignini] si appostò tranquillo
  P.  148--che si era compiuto [campiuto].

  Grafie alternative mantenute:

  augurii / augurî
  cavalleggeri / cavalleggieri
  Gorzhowscki / Gorzkowscki
  seguìto / seguito
  volontarî / volontari





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