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Title: La serpicina
Author: Guerrazzi, Francesco Domenico, 1804-1873
Language: Italian
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*** Start of this LibraryBlog Digital Book "La serpicina" ***


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                          SCRITTI

                             DI

                      F.-D. GUERRAZZI.



                       LA SERPICINA.

                         RACCONTO.



                          FIRENZE.
                     FELICE LE MONNIER.

                           1847.



                       LA SERPICINA.


                          Quæ ipse vidi .... et magna pars fui.
                                                      ÆNEID.


Era l'ultimo giorno di carnevale, ed io me ne stava sopra un monte
altissimo, dove non saprei dire quante, ma da ore ben molte cadeva in
fiocca neve fredda e copiosa quanto..... quanto un discorso
accademico, o poco meno.--Ora come io segaligno e freddoloso
lassù?--Noi altre povere creature, a guisa di pagliuzze in balía della
procella balestrano i fati, adesso in cima ad un campanile, adesso in
fondo di una cantina, senza conoscerne sovente, epperò senza poterne
dire, la cagione. Per quanto aveva durato lungo quel giorno benedetto,
io era andato leggendo gli Apoftegmi dei re e capitani famosi esposti
dal Plutarco, sicchè gli occhi mi frizzavano forte, e la mia testa mi
pareva ripiena di cotone; per la qual cosa, chiuso il libro, mi
ripiegai sopra me stesso, e pensai,--commentai,--ampliai, e restrinsi
quello che aveva letto, e quindi, dopo tanto vagare di cervello,
d'induzione in induzione mi condussi a conchiudere: _andiamo
all'osteria!_

Per li Dei immortali! ma non occorreva egli modo di passare più
decentemente la serata? Oh non vi erano gentiluomini, non vi era clero
lassù? Vi erano;--vi erano. Avrei potuto ridurmi a casa di certo
canonico, uomo dabbene e amicissimo mio; ma, a vero dire, egli non
rifiniva mai da mettere discorsi di benefizii, appuntature, prebende
_et reliqua_, cosicchè me n'era venuta al cuore una grandissima
sazietà.--Poteva ridurmi eziandio a visitare il vicario (che per
vicario era fatto bene); ma quivi pure tanto io aveva udito favellare
continuo di promozioni, pensioni, gratificazioni e simili, che me
n'era venuta al cuore una grandissima sazietà.--Poteva infine avviarmi
da qualche gentiluomo del paese, buona anch'essa e cappata gente, come
direbbe messere Carlo Botta, ma quei dabbene gentiluomini mi
riuscivano gravi più dei pesi che si pongono sopra la stadera
dell'Elba, di cui la prima tacca è sul mille, e per di più così
uniformi tra loro, che ritti uno accanto dell'altro mi parevano
mattoni stesi su l'aia del fornaciaio. Di balli anche costassù non si
pativa penuria, ma i balli si addicono ai felici;--quando il sangue
giovanile concitato dai lumi, dalle musiche e dai giri violenti
picchia forte nelle arterie, allora lo apparire e lo scomparire
tramezzo cotesta agitazione di un capo biondo o di un capo nero, di
due occhi protervamente scintillanti, o di due occhi mestamente
languidi, rassembra una commozione di onde per entro un mare di
voluttà;--allora lungo la mano che sente palpitare le membra della
donna amata scorre una vampa elettrica che fa tremare l'anima, e i
labbri anelanti prorompono fiati di fuoco; e se mai avvenga che in
cotesto turbinío le guance si tocchino, corruscano faville... Oh
godete, giovanetti, i vostri balli! Il tempo e la morte battono la
misura di coteste vostre danze, e voi non ve ne accorgete: meglio
così; e meglio ancora sarebbe se potendovene accorgere non ve ne
importasse. Benedicavi la Fortuna coll'acqua lustrale dell'oblio.
Appunto perchè la vita fugge, amate e godete. Io era giovane allora,
ma felice non fui giammai: la felicità suona al mio pensiero come una
terra sconosciuta che non avrà il suo Colombo; e poichè un senso
arcano mi disse essere gentilezza astenerci dalle gioie che non
possiamo partecipare, imperciocchè la sembianza trista in mezzo della
lieta brigata, a modo di una stilla di latte di euforbie dentro un
bicchiere di acqua, la guasta tutta, così da cotesti tripudi mi
astenni sempre, e mi astengo.

All'osteria! Ma notate bene, pura e vera osteria; dacchè degli altri
ritrovi di moderna invenzione non sia da farne caso, e non vi s'impari
nulla. All'osteria tutto si presenta svariato, cominciando dalle
vesti, perchè vesti del popolo. Queste vesti raccontano sempre la
storia del tempo passato, di rado del presente, talora del futuro,
avvegnadio nulla nascendo nuovo sotto il sole, e tornando ad essere
quello che fu, le fogge degli abiti si trovino a godere più delle
altre cose di privilegio siffatto. Idee, argomenti, favella, modi,
tutto insomma singolare possiedono i poveri:--essi non conoscono
educazione che li tosi, rispetto che li limi, riguardo che li scorci,
convenienza che li curvi, finchè resi tutti di una misura e di un
garbo, impiastrati della vernice di bugiarderia, vadano sciolti fra
gli uomini, come le mummie di Egitto. Io non conosco per ora cosa più
sincera, nel mondo, della povertà, se non fosse la miseria.

E poi l'osteria di questo paese non è mica fatta come l'osteria degli
altri paesi; mai no. Qui gli artefici principali convengono; qui il
dottore fisico, e qui il cerusico; qui il dottore legale, e qui il
notaio, che di faccia alla legge equivale al cerusico di faccia alla
medicina; qui il nobile uomo, e qui talora io vidi far capolino anche
il prete;--perchè oltre al vino, in questa osteria danno a bere una
cotale acqua tinta in nero, che per amichevole convenzione tra
venditore e compratori è stabilito che non abbia a chiamarsi
inchiostro, ma caffè;--e le menti nate a speculare in politica vi
trovano la _Gazzetta di Firenze_, e qualche volta il _Giornale_ _di
Foligno_ di un mese, o tutto al più di quindici giorni indietro, per
non istarcene male informati sopra le vicende del mondo.--E neppure
l'oste è fatto come l'oste degli altri paesi: in lui la etimologia del
suo nome si trova in fallo: oste, dicono derivare dalla parola latina
_hostis_, però che l'oste si comporti come da nemico contro i suoi
avventori; ma questo mio oste, in primo luogo, non mescola mai acqua
nel vino; in secondo luogo, non con voce, ma con lo esempio anima gli
avventori a bere; primo all'assalto, ultimo alla ritirata, a modo dei
re di Sparta, spesso ei si giace vittima del nobile ardimento, onde i
conti si fanno il giorno di poi, e gli avventori gli danno ragione del
bevuto, e pagano con probità religiosa. Biagio si onora essere
cattolico, apostolico e romano, e dice che reputa miracoli tutti i
miracoli, ma accerta quello di convertire l'acqua in vino alle nozze
di Cana in Galilea doversi reputare miracolo miracoloso; e quando io
gli narrai avere veduto nella cattedrale di Pisa un quadro di buon
pennello rappresentante San Ranieri, il quale versatosi in grembo
della veste il vino annacquato fece colarne il vino e restarvi l'acqua
onde chiarire il tradimento dell'oste, e intanto il Diavolo in forma
di gatto se ne stava sopra una botte; egli, pensato alquanto sopra
quel caso, gravemente osservò: "Non poteva fare a meno, perchè costui
era il Giuda degli osti, e la sua anima era diventata proprio cosa del
Diavolo, che, se la guardava, e' faceva bene."

Biagio (ed io ti prego, amico lettore, ad essermi cortese di perdono
se troppo vado per le lunghe) amano, reveriscono tutti, e tengono
meritamente in pregio: lui persone di ogni maniera consultano, ed egli
serio ascolta, e serio risponde; e il gentiluomo, il vicario e il
canonico, quando ei ragiona, sorridono, e gli porgono la scatola, dove
egli tuffa disperatamente le dita, perchè bisogna dire come sia grave
vizio di Biagio questa _rabies_ di tabacco; ed egli ha tentato più
volte di guarirsene, ma, povero uomo! non ci è potuto proprio
riuscire, perchè il naso forma una provincia a parte, e ribellata,
starei per dire, come gli Stati-Uniti dalla Madre Patria, e per colpa
sua egli ebbe a toccare delle sconce mortificazioni, di cui basti
referire solo una.

Certo giorno un fattore dal contado di Perugia venne alla fiera del
paese, e trasse di tasca la scatola piena stivata di tabacco, detto di
Chiaravalle, sottilissimo e grato, offerendone a Biagio. Biagio, che
già la guardava con occhio feroce, non se lo fece dire due volte: ed
ecco avventa le dita come artiglio di aquila; ma tanto si presentava
compressa la polvere, che appena gli veniva fatto sfiorarne la
superficie. Allora per acquistare tempo e far lavoro, il subdolo
Biagio prese a interrogare il fattore come stesse la moglie, e se i
figli fossero costumati, e i bovi grassi,--e poi come si chiamasse suo
padre, e se vivesse, e quanti anni correvano che il dabbene uomo aveva
detto addio ai campi;--e intanto minava la scatola. Il fattore, come
colui che di Biagio non era punto meno arguto, con un tal suo garbo
romanesco gli disse:--"Compare, o che volete vedere s'io lo abbia
sotterrato qui dentro?"--Biagio diventò rosso fino alla radice dei
capelli, e tanta vergogna lo prese, che fece voto starsene tutta la
sua vita senza tabacco:--e l'osservò per due ore.--Povero Biagio!

Ma che io vi abbia detto dell'oste è poca cosa, però che adesso mi
faccia mestieri tenervi discorso di Lazzaro il tintore. Lazzaro è
segaligno; e sembra composto di stinchi: porta calze turchine,
turchini i calzoni; la veste, la sottoveste, la camicia turchine;
turchine le mani, ed anche la faccia turchina: anzi dentro le
crepature della pelle così tenace vi prese dominio per diritto di
prescrizione il turchino, che sarebbe opera perduta e illegale
volernelo spossessare, e credo che ei non lo tenti nemmeno. Insomma un
droghiere potrebbe appiccare Lazzaro allo sporto della sua bottega per
mostra d'indaco. Veramente la sua faccia qua e là comparisce chiazzata
di vermiglio; ma siccome anche l'indaco presenta in parte rossa la sua
superficie, così il paragone piuttosto che venire meno, rinforza. Io
mi ricordo come se fosse adesso, che incontrando talora Lazzaro per la
via, sul fare del vespro, imbacuccato fino agli occhi, col solo naso
infuocato e cremesino fuori la pistagna del pastrano, io tra me e me
pensava che tale aveva ad essere la spada fiammeggiante del Cherubino
posto a guardia del paradiso terrestre.

In cotesto paese bevono tutti largamente,--lungamente,--e lealmente. E
sembra ancora che la Provvidenza abbia decretato così, perchè da una
parte gli ha donato il migliore vino che le viti piangano nel mondo, e
dall'altra gli negò le fontane, onde è forza usare le acque di
cisterna, a cagione del suolo o per altro accidente, di sapore amare.
Ho detto poi che bevono lealmente, avvegnadio gli antichi Statuti di
questo Comune difendano tenere consiglio _post prandium_ e se ne
adduce il perchè senza mistero, con quel candore che distingue i
galantuomini veri: _propter vinum_.[1]

Lazzaro è di eloquenza naturale un fiume: egli ha tinto e bevuto
moltissimo, ma ha letto anche molto: però le sue parole stanno in lite
perpetua con le sue azioni. Rimase vedovo, e dice sempre: per la
grazia di Dio;--e poi tutte le sere nell'ora dei morti egli va in
chiesa a recitare il _De profundis_ per l'anima della sua povera
defunta; nè mai gli avviene di sentire rammentare Lucrezia sua moglie
senza che gli occhi gli si empiano di lacrime. Lazzaro ha due nepoti,
uno maschio e una femmina, a cui vuole più bene che a se stesso, e li
raccolse orfani, con supremo amore tenne loro le veci di padre, e con
esquisita delicatezza quasi ancora le veci di madre, ma non vuole
sentirne parlare. Secondo lui, era meglio farne concio: se gli
ammirano la vigoria dei giovani, ed ei burbero:--"la mala erba cresce
presto."--Se lui per la egregia indole dei ragazzi predicano beato,
egli esclama:--"Li tolsi per bastoni della vecchiaia; se mi staranno
in mano o mi cadranno sopra le spalle, vedremo poi."--Insomma egli è
un cervello balzano, ha il capo pieno di girandole, abbaca sempre co'
suoi ghiribizzi, e parla per via di parabole con motti arguti, e
mordente che fa proprio gusto a sentirlo.

Quando entrai nella osteria si strinsero su la panca, ed io mi vi posi
a sedere davanti al fuoco, e reiterate le oneste accoglienze, Lazzaro
a cui la mia comparsa aveva tronco il filo del ragionamento, continuò
in queste parole:

--"... dunque non fare mai bene se non vuoi avere del male: e questo è
detto antico; ma, come sapete tutti, la verità ha i capelli bianchi e
lunghi, perchè gli uomini la maltrattano per modo che la poveretta non
si trova mai tanto da pagare il barbiere che glieli tagli."

"Ma voi non parlate la verità," riprese Biagio: "io, per me, mi sento
rinascere quando mi trovo secondo le mie forze ad avere fatto un
pocolino di bene."

"Perchè voi siete un presuntuoso," soggiunse Lazzaro; "e quando avrete
dato un soldo, o due rosicchi di pane avanzato da tre giorni, vi sarà
parso di mettere i consoli in palazzo: non vi pare egli un bel che
proteggere a così buon mercato? Non vi empite di vento a farla da
Mecenate? Oh ella è pure la bella cosa comprare un padrone lustrissimo
con due rosicchi di pane? La vanità contratta con l'avvilimento, e la
miseria e l'avarizia fanno da mezzane.--Non lo prendete a male,
Biagio; ma voi quando date un soldo compiacete a voi stesso, e non vi
muove la carità del prossimo."

"Io per me non ho mai pensato a cotesto."

"Non importa. Sapete perchè non ci avete pensato? perchè noi nasciamo
così tristi, che ci riesce essere cattivi senza pure pensarci. E voi
mi potete credere, che io l'ho letto nel magno dottore di santa madre
Chiesa, Santo Agostino, là dove racconta che andava da ragazzo a
rubare le pere, non già per mangiarle, ma per vaghezza di fare del
male.[2] Il diluvio venne una volta, e adesso non verrà più, non mica
perchè noi siamo diventati buoni, ma perchè fu detto: tanto vale
lavare la testa al moro;--e la immaginativa dell'uomo è volta alla
cattiveria fino _ab inizio_. Volete voi sentire una novella in
proposito? Io ve la racconterò così come so e posso: _alias_ mi
tacerò, e sarà meglio; tanto fiato risparmiato."

Lascio considerare a chi legge se noi potevamo ricusare una novella in
una serata d'inverno quando la neve fiocca, standoci seduti al canto
del fuoco?

Allora Lazzaro incominciò così:--Un montanino verso questi mesi scese
per certe sue faccende in Maremma. Baciata e ribaciata la famiglia,
mette un pane in sacca, chè dell'acqua da ogni parte se ne trova, e
vassi con Dio. Giunto come sarebbe a mezza strada, ecco una vocina
fioca percuoterlo all'improvviso, che in doloroso guaio
diceva:--"Eccellenza! oh Eccellenza! per quanto amore porta ai suoi
figliuoli, guardi di non pestarmi."--Il montanino giusto in quel punto
pensava ai suoi figliuoli, onde tutto sentendosi rimescolare dentro,
rispose tosto:--"Chi mi chiama? Che cosa volete da me?"--E la vocina
fioca continua:--"Deh Eccellenza! abbassi gli occhi, e consideri una
povera serpicina a qual misero stato si trova ridotta!"--E il
montanaro dechinato lo sguardo vede una serpicina intirizzita dal
freddo, che tirava l'anima co' denti e non aveva balía di
muoversi.--"In carità," riprende la bestia," la mi prenda per la códa
e mi getti nella fossa lungo la via, chè qui corro pericolo ad ogni
momento di trovarmi dimezzata dai piedi dei villani che passano: io
gliene farei supplica in carta bollata, ma in queste parti rozze, dove
non si sa che cosa civiltà sia, non ci è chi la venda; e poi non
essendo mai andata all'asilo infantile, non so leggere nè scrivere,
onde la mi tenga per iscusata; però, Eccellenza, attesto il cielo
della mia eterna gratitudine..."--"Eh! tu mi hai concio con questa
Eccellenza; qui non fa mestieri suppliche,"--interrompe il montanaro;
e detto fatto, prende la serpe per la coda. Allora la serpicina
soggiunge:--"Di grazia, poichè si tolse tanto incomodo, mi vorrebbe
ella mettere dentro il buco che si trova in quel masso là a destra
della strada?"--"Eccoti nel buco. Vuoi tu altro da me?"--"Deh! non le
sia per comando, e San Giuliano[3] lo conduca a salvamento: vorrebbe
porre il colmo alla sua cortesia gittandomi addosso una manciatina di
fieno per ripararmi da questo freddo crudele?"--E il dabbene uomo
fascia la serpicina di fieno, e le domanda:--"Adesso stai tu
bene?"--"Io sto d'incanto; gran mercè, e Dio vi mandi il buon giorno e
il buono anno."--"Felice permanenza."--E il montanino si rimette la
via per le gambe.--Arrivato in Maremma assestava le sue bisogne; e
poichè vi rinvenne l'aria migliorata di assai, prese la terzana
solamente, e poi deliberò tornarsene a casa.

Essendo capitato sopra la faccia del luogo dove trovò prima la
serpicina, un grido minaccioso gli comanda:--"Olà! fermati, villano."--E
il montanino subito pensò tra se: quando in questo luogo udii altra
volta chiamarmi Eccellenza, potevo dubitare che dicessero a me; ma ora
poi mi accorgo che vogliono proprio me; ond'egli fermatosi, gira attorno
sbigottito lo sguardo, quando ecco sollevarsi dal masso una testa
immanissima di serpe, la quale comecchè cresciuta fuori di misura, dalla
fisonomia riconobbe tosto per la serpicina.--"Ohe, buona pasqua, comare!
Che Dio vi salvi; come vi siete fatta fiera!"--disse il buono uomo,
sforzandosi mostrare buon viso, quantunque dentro il cuore gli tremasse
come foglia.--"Chi sei? chi ti conosce? quali dimestichezze sono elleno
queste?"--"Diacine! sareste diventata signora? avete messo carrozza, per
essere salita in tanta superbia? Peggio per voi...!"--E la serpe
sbucando intera fuori dal nascondiglio, arricciate le creste, stralunati
gli occhi, avventando in molto terribile maniera la lingua biforcuta,
gli attraversa la via e fischia queste parole:--"Fa l'atto di
contrizione, che io voglio mangiarti vivo."--"Mangiarmi vivo! Pensateci
due volte, che io sono più di tre bocconi senza contare gli ossi:
paionvi queste cose da serpenti garbati? Non vi si rizzano i capelli sul
capo a favellarne soltanto?"--"Io non ho capelli."--"Non vi spaventa il
bargello?"--"Le leggi non si occupano di serpenti."--"E l'inferno?"--"È
casa mia..."--"Ma insomma in questi paesi non costuma mangiare gli
uomini vivi:--tosarli un po', strizzarli,--pazienza! ma divorarli
poi..."--"La metterò io questa usanza."--"Ma non ricordi come io ti
campassi la vita? come intirizzita dal mezzo della strada ti ritraessi,
nel buco ti accomodassi, di fieno ti ricuoprissi?..."--"Appunto perchè
io me ne rammento bisogna che ti mangi vivo."--"Questa è una atrocità!
questa è una ingiustizia!"--"Atrocità può darsi; ingiustizia no: e se tu
fossi andato a studio, i dottori ti avrebbero insegnato come somma
giustizia corrisponda a somma ingiuria."--"Ed io protesto
d'ingiustizia."--"Ed io controprotesto che sbagli; e poichè sono
una serpe onorata e gentildonna che scendo in linea retta da
Cadmo, e i soprusi non mi piacciono, così mi offro pronta a farla
giudicare."--"Ebbene sia: ma chi chiameremo noi per giudice?"--"Per me
tanto io confido nella bontà della mia causa che te ne lascio la
scelta."--"Andiamo oltre, che qualcheduno ci si parerà dinanzi capace a
giudicare la lite."--"Andiamo, e _Deus provvidebit_, come disse Abramo
ad Isacco."

Cammina, cammina, ecco farsi incontra a loro un cane che veniva via a
scavezzacollo per quanto lo potevano portare tre gambe, che la quarta
teneva attratta, come se storpio e' si fosse. Come venne più vicino,
conobbero essere privo di un occhio, e tanto guasto dalla tigna da
disgradarne San Lazzero.--"Fermati, cane, gli dissero, e vieni a
sentire il nostro piato."--Il cane non li badava, e con la coda e gli
orecchi bassi continuava la corsa, senonchè sentendosi un'altra volta
chiamare, volse alcun poco il muso con sospetto, e sbirciandoli
coll'occhio sano, rispose:--"Lasciatemi andare pei fatti miei; io non
do fastidio a nessuno."--"No, sosta; noi non vogliamo farti male;
vogliamo che tu decida una nostra lite."--"Voi mi date la baia: da
quando in qua ci sono giudici cani?"--"Anche di fico si fecero i
Numi;[4] perchè da un cane non può ricavarsene un giudice? Or su via,
ad ogni modo tu hai da sedere giudice tra noi."--"O signore, come
volete voi che io vi giudichi, se la fame mi toglie il vedere?"--"Noi
ti pagheremo la sportula, e tu ti sazierai."--"Allora dite, e presto."

Qui l'uomo, esposta sua ragione con discorso brevissimo, concludeva:
la serpe dalla sua istanza si rigettasse, e come litigante temeraria
nelle spese giudiciali e stragiudiciali si condannasse.

La serpe, replicando, diceva: avere il montanaro esposto il punto di
fatto con ammirabile lucidità; la sua ragione non abbisognare di
troppi argomenti; essere d'_intuitiva evidenza_ l'uomo nella sua
qualità di uomo meritarsi la morte; _per questo perchè_ avendo questa
creatura proclamato il diritto di potere mangiare tutti, ognun sentiva
che i divorandi nei _congrui casi di ragione_ avevano diritto a
mangiare lui; _in altri termini_, deve o no applicarglisi la pena del
taglione? Dubitarne sarebbe assurdo, sarebbe un fare oltraggio a tutti
i sillogismi _in barbara_ che si costumano nel Foro. Qualunque altra
condanna _non raggiungerebbe lo scopo_: quindi insistere _a che_ la
sua istanza si accogliesse, e l'uomo nelle spese del giudizio si
condannasse, _redazione_, spedizione e notificazione della sentenza
non comprese.

Il cane di posta cominciò ad abbaiare:--Deliberò deliberando: "In
sequela della domanda presentata dalla serpe, condanno l'uomo ad essere
mangiato vivo,--con sentenza eseguibile provvisoriamente,--previa
cauzione,--e lo condanno nelle spese, che tasso e liquido in tutte le
sue ossa, le quali mi aggiudico a rosicare per mia sportula ed
onorario."

Il montanino non giacque morto e non rimase vivo; e risensato
alquanto, in suono di lamento richiede:--"I motivi! i motivi!"

--"I motivi! ah i motivi!"--riprese il cane;--"presumi forse che io mi
trovi imbarazzato a farteli: tieni, prendi i motivi.--Quando io m'era
fanciullino, un animale della tua razza venne, e trovatemi le orecchie
lunghe e il pelo fino, mi svelse dalle poppe materne. Qual fosse il
dolor mio ditelo voi tutti, o cani sensibili, così a forza allontanati
dalle dolci sembianze e dalle carezze di una madre!--Però l'uomo ebbe
di me diligentissima cura; la credei affetto, ed era interesse; ma
nella mia ingenuità non me ne accorsi allora; quindi gli posi amore, e
se io m'ingegnassi piacergli, Dio te lo dica per me. Condotto a
caccia, non incontravo fratta o siepe ove io anche con pericolo di
restarne graffiato non mettessi il muso per farne sbucare lepre o
pernice; nel cuore del verno animoso io mi tuffai per laghi e per
riviere in traccia di germani o di arzavole; senza temere pollini mi
avventurava su paduli per inseguire le folaghe; mi precipitai contro
il cignale, e con offesa spesso, con pericolo sempre, io lo trattenni
ai facili colpi del padrone: tornato poi a casa mi facevano entrare
nella ruota a girare l'arrosto; finalmente accucciato sotto la tavola
io mi recava a ventura rodere gli ossi degli animali vinti dal mio
coraggio o dalla mia sagacità. Non basta: la notte io vigilava intorno
casa, dove studiando piacere così al padrone come alla padrona,
metteva in pratica lo insegnamento di quel mio confratello più di me
fortunato:

  Latrai ai ladri ed agli amanti tacqui:
  Così al padrone e alla padrona piacqui.

Certo giorno dal vicino villaggio mossero grida
disperate:--Accorruomo! accorruomo!--E siccome gli uomini chiamati
scappavano via, accorsi io, cane, non chiamato, e vidi un grossissimo
lupo, il quale ghermito un fanciullo stava per isbranarlo. Mi accosto
cauto, mi slancio con impeto, e come volle fortuna giungo ad azzannare
il lupo dietro la nuca, lui strangolando e liberando il fanciullo.
Potevo fare di più io, povero cane, per meritarmi la benevolenza di
voi altri uomini? Or bene, ascolta adesso."--E il cane si atteggiava
come l'araldo delle tragedie greche quando si accinge a raccontare la
catastrofe.--"Il mio padrone scaricando una volta con troppa fretta lo
schioppo, invece di ammazzare la lepre ferì me nel capo, e mi levò un
occhio. Da quel punto in poi il crudele uomo prese ad abborrirmi come
testimonianza vivente della sua incapacità: l'odio crebbe a dismisura
vedendo come la gente prendesse dalla mia disgrazia materia a
dileggiarlo; meditò farmi portare la pena della offesa che mi aveva
recato: e voi uomini, dite, avete troppo spesso per nuocere altra
ragione che quella di avere nociuto altra volta? Che più, lo dico o lo
taccio? lo dirò per dimostrare la mia ragione, quantunque io me ne
vergogni per voi, pensando che voi pure appartenete alla famiglia
degli animali.--Un giorno io scorsi di traverso nel fitto del bosco lo
efferato padrone prendermi la mira addosso per uccidermi da traditore
alle spalle, e se non consumò il nequissimo fatto, e' fu perchè gli
mancò fino il triste coraggio del delitto. Tornato, con un calcio mi
rotolò in cantina, e mi vi chiuse dentro: colà l'aria umida e grave,
il nutrimento guasto e sottile, ma soprattutto la passione (perocchè
se voi sapeste, o uomini, qual cuore si abbiano i cani, preghereste
Dio da mattina a sera di potere camminare con quattro gambe), mi
cagionarono la schifosa malattia della quale mi trovo infermo.--Alla
signora poi oggimai importava poco che i cani abbaiassero o
tacessero:--alle visite tarde e notturne aveva assuefatto il
marito.... quindi nè anche da lei ottenni un sospiro o una memoria.
Avendo osservato un giorno socchiusa la porta della cantina, esclamai
come Scipione:--ingrata casa, tu non avrai le mie ossa!--e con le
zampe e col muso l'apersi intera, e fuggii; ma percorso un tratto di
via mi volsi indietro a guardare le pareti inospitali, eppure a me
care, per tante gioie godute,--ed anche, poichè così piacque al cielo,
per tanti dolori sofferti, e tale me ne venne al cuore angosciosa
stretta, che, tratto fuori un sospiro lunghissimo, per poco non tornai
indietro a morire quivi di affanno... Ma risovvenendomi del villaggio
ove io aveva salvata la vita al fanciullo, e la sicurezza in cui mi
stava che mi avrebbero usato costà oneste e liete accoglienze, mi
persuasero a proseguire. Arrivo, e mi affaccio appena alla piazza, che
ecco levarsi un trambusto di urla e di fischi, e poco dopo un nuvolo
di sassi. Vedi tu questa ferita nella gamba? Sai tu da qual mano mi
venne? Tu fremi...?--Odilo, e fremi bene altramente poi... Ella mi
venne da quel fanciullo stesso a cui aveva salvato la vita.--Ora
dunque a che più indugi, o serpe? Quali dubbi accogliesti, e perchè
dubitasti? Mangia vivo costui, e così tu potessi divorare insieme con
esso tutta la perfida stirpe alla quale appartiene."

"Su via, presto, acconciati dell'anima facendo l'atto di contrizione,"
riprese la serpe: "il meno che meriti è divorarti vivo."

"Chi è che si acqueti alla sentenza di un cane, e per di più affamato?
Non sentisti tu che per fame ei non vedeva lume? Io mi sento leso, e
mi appello..."

"Appellati a bell'agio, ma intanto voglio eseguire la sentenza, dacchè
porta esecuzione provvisoria..."

"Previa cauzione:--assicurami dunque che se hai torto in seconda
istanza mi resusciterai; e poi mangiami vivo...."

"Il cane ha sbagliato... Ma via, per sentenza di cane con uno
sproposito solo io mi contento:--appellati se vuoi, e' saranno passi
perduti."

E cammina, cammina, eccoti un cavallo che pareva quello
dell'Apocalisse, pieno di guidaleschi, con le saliere sopra gli occhi,
arrembato, i fianchi sporgenti in guisa da potervi appiccare il
mantello: dal ciglio di una fossa protendeva il collo lungo e magro, a
modo di cicogna, verso le punte di una siepe ch'ei s'ingegnava
addentare, e questa, male cedendo e spesso sfuggita alla pressione,
ritornando diritta gli trafiggeva il muso, ond'ei si trovava costretto
ad abbandonare la infelice pastura.

"O cavallo, dà retta:--vien qua a decidere un piato che verte tra
noi."

Il cavallo li guardò in faccia, e poi si messe a ridere...--Ne
dubitate voi? I cavalli di Achille non piansero, come ci racconta
Omero? Ora se piansero quelli, perchè non potrò fare ridere il mio? Io
ho letto perfino che il sole certa volta si messe a ridere.[5] Insomma
io vi affermo che ei rise, e voi ci potete giurare.

Il cavallo, quantunque repugnante, pur mosso dalle premurose istanze,
favellò: "Basta; contenti voi, contenti tutti: esponete la ragione."
La espongono; e appena hanno chiuso le labbra che il cavallo
annitrisce: "Su l'anima di cavallo di garbo, serpe, tu puoi divorarti
l'uomo senza un rimorso al mondo."

"Possibile!" esclamò angosciosamente il montanino; "ma che diavolo ti
hanno fatto gli uomini, onde tu gli odii tanto?"

"Che cosa mi hanno fatto?" tuonò ferocemente il cavallo. "Guarda, e
vedi se vi ha dolore uguale al dolor mio? Spallato, piagato; e tutto
questo per cui? Tempo già fu, snello e leggiadro io volava per le
campagne aperte sfidando al corso i venti, empiendo le nari dell'aere
vivissimo, pascendo erbe stillanti di rugiada, e prorompendo dal collo
un potente nitrito scuoteva i campi e il cielo, ed esultava nel
sentirmi riportati dai quattro venti della terra gli echi commossi
dalla mia voce. All'improvviso mi si accosta un traditore, mi getta un
laccio, mi stramazza prima, e poi mi salta addosso... Se io mi
rimanessi o no stupito, lascio considerarlo a voi! Or come se la
natura dava a questo traditore due gambe per fare i fatti suoi, quale
strana pretensione è la sua di volersi giovare delle mie? E la
conclusione di questo mio ragionamento fu un così gagliardo scrollo di
groppa, che mandò il traditore a ruzzolare ben venti passi sul prato.
Un turbine di nerbate per la testa, per le spalle, per tutta insomma
la persona mi persuasero che il mio sillogismo doveva in qualche parte
peccare, ond'io mi rassegnai portare l'uomo con buona grazia.
Dimenticai da generoso la prima ingiuria, renunziai di buona fede alla
libertà che è si cara, amai il mio tiranno! Mi spinsi giù per burroni,
mi erpicai per pendici, valicai fiumi ov'egli non avrebbe osato
avventurarsi giammai; lui trepidante trasportai in mezzo alle
battaglie, e lo resi, suo malgrado, glorioso; in pace lo condussi per
terre e per castelli; per me comparve orrevole, e ottenne grazia sotto
il balcone della sua dama; per me di vermigli palii ebbe ornate le
stanze; gli generai animosi poledri, non curai geli, soffersi ardori,
fame e sete io patii: alla fine m'indebolirono gli anni, e certo
giorno in cui me repugnante cacciava per un calle dirotto senza
porgermi il debito sostegno, inciampai, e caddi in un fascio insieme
col mio padrone. Io tacerò lo strazio bestiale di pedate, di bastonate
e perfino di morsi che soffersi; bastivi questo che da un punto
all'altro io mi trovai attaccato alla carretta del concio... Quell'io!
quel desso che aveva veduto sorgere il sole di Osterlizza, e sentito
le centomila cannonate che lo Imperatore sparò a Vagria! E' v'era da
darsi la testa nel muri! La mia dignità offesa non seppe sopportare la
suprema ingiuria: mi ribellai, ruppi la carretta, ferii il
carrettiere: allora il pio padrone mandò per lo scortichino, e pose
ogni industria per ricavarne uno scudo, mezzo scudo; e quando lo
scortichino si ebbe abbottonato tutte le tasche, e risposto alla
perorazione del mio signore che io non valeva la pena di essere
scorticato, con un eroico calcio nella pancia cacciò me misero fuori
di stalla, dicendo:--Va a guadagnarti il pane!--Oh cuore di ferro, io
te lo avevo guadagnato il pane..."--E qui i singhiozzi interruppero il
cavallo, e più non potè dire.

"Adattati, via," concluse la serpe volgendosi al montanaro.

E l'uomo smanioso esclamava: "Oh Dio! così non può essere! Cassazione!
Cassazione!"

"Qui non usa la Cassazione."

"Se non usa, userà. Basta che sia in Francia, perchè tra poco venga
anche tra noi. In questa terra ormai di proprio non sappiamo fare
altro che sbadigli. Di Francia ci viene tutto bello e fatto: stivali
per camminare, leggi per governare, parrucche per non infreddare,
raziocinii per ragionare, e ogni cosa a buon prezzo. In Cassazione!"

"Potrei oppormi, e non voglio," rispose la serpe; "e questo per
convincerti come voi altri uomini abbiate calunniato sempre la mia
famiglia, da Eva in poi, quando rovesciò la sua colpa sul mio
bisnonno:--come se la donna per perdersi e per perdere avesse di altra
cosa bisogno che della vanità la quale le scorre le vene insieme col
sangue. Ebbene, tenta se ti piace anche questo esperimento estremo."

E si rimettono in via; nè andarono gran tratto, quando parve loro
vedere, e videro certo, qualche cosa che si agitava sopra un albero.
Guardano una volta,.... due,... era una scimmia, che scendeva e saliva
con la irrequietezza propria a questi animali, scegliendo i frutti
maturi, e facendoli sparire in bocca, come il giuocoliere costuma con
le sue pallottole.

"O scimmia!"

E quella..... dura.

"O scimmia!"

Ed ella: "Lasciatemi pensare." E preso un fico annebbiato lo tira
diritto nel naso al montanaro.--Mal principio era questo; pure il
povero uomo con voce sbaldanzita espone il piato, e la supplica a
decidere, terminando questa volta, siccome il cuore gli detta, con un
poco di perorazione ove toccava della moglie e dei figliuoli che lo
aspettano a casa, e che del lungo aspettare si disperano, e si fanno
di tratto in tratto a capo della strada per vedere s'ei giunga: cose
tutte che mossero la serpe ad un grosso sbadiglio, e poi, come sicura
del fatto suo, esclamò: "Aspetteranno un pezzo!"

La scimmia, poichè ebbe porto ascolto a ogni cosa, meditò alquanto, e
poi colse un fico, e poi un altro,--e un altro ancora, sicchè la serpe
corrucciata la riprese: "Oh insomma, che cosa armeggi? Decidi o non
decidi?"

E la scimmia di rimando: "Taci là! credi che io non sappia
esercitare il mio ufficio? Pensi tu essere cosa insolita la
magistratura in casa mia? Se tu avessi letto il nostro Esopo, tu
sapresti come la scimmia giudicasse la gran lite tra la volpe e il
lupo, ove dette torto a tutti e due. Qui bisogna meditarvi sopra:" e
mangiò un fico:--"conciossiacosachè ci abbia insegnato Loysel: _bien
juge qui tard juge_;--_et de fol juge briève sentence_;--_et qui
veut bien juger écoute partie_."--Onde prima di sentenziare in
merito, parmi bene che ci abbiamo a condurre sopra la faccia del
luogo per vedere appuntino come la bisogna cammini.

La serpe si oppone, allegando la indagine del fatto essere estranea
all'ufficio della Cassazione; ma la scimmia insiste con queste parole:

"Distinguo: nella specie la quistione di fatto è _assorbente_ quella
del diritto, _per questo perchè_ il fatto è _pedissequo_ del diritto,
e il diritto è _pedissequo_ del fatto; e _intanto_ nel concreto caso
bisogna conoscere il fatto _inquantochè_ altrimenti non si potrebbe
applicare il diritto; o, _in altri termini_, il diritto sta
_dirimpetto_ al fatto come il fatto sta _dirimpetto_ al diritto. Per
questi motivi, i quali d'altronde trovano appoggio in tutta l'antica e
la moderna giurisprudenza e negli scrittori più schiariti alla
materia, è di evidenza intuitiva, come due e due fanno quindici, che
in Cassazione possono e devono effettuarsi verificazioni di fatto
_tuttavoltachè_ appariscano collegate, vincolate e strettamente
_pedisseque_ al diritto: e quindi facendo ragione alla domanda del
montanaro, dobbiamo ordinare, conforme ordiniamo, l'accesso sopra i
luoghi."

La scimmia scende dal fico, e insieme uniti si riducono al punto ove
il caso avvenne. Allora la scimmia favellando piacevolmente alla
serpe, la interroga:

"Carina mia, or dunque dimmi: quando il montanino ti rinvenne
intirizzita, stavi proprio qui?"

"Qui traverso."

"Bene; ed egli ti prese per la coda, e ti portò quaggiù?"

"Precisamente."

"E qui gli ordinavi ti mettesse nel buco?"

"Qui appunto."

"O dove si trova egli questo benedetto buco?"

"Eccolo."

"E come ti riusciva a ripiegartici dentro? Vediamo un po', via."

"Adesso i' non ci capisco."

"Provati, carina."

"Mi sforzerò..." E la serpe assottigliandosi poco per volta, comecchè
a stento, vi si ficca dentro, e sopra a lei la scimmia getta allora
copia di fieno, interrogando con modi ingenui:

"E così ti ricoperse schermendoti dal freddo?"

"Così."

Allora la scimmia, svelta e leggiera, presa una grossa pietra la
sovrappone all'orlo del buco, e grida: "Ora che ci sei, stacci; e a
rivederci a quaresima."

Poi voltasi all'uomo, tra beffarda e severa gli disse queste parole:
"Non è già che il cane e il cavallo difettassero di ragione: la tua
razza malvagia meriterebbe essere cancellata dalla vita: _homo sortitus
est anima mala_. Quale animale senza necessità di fame o di difesa
uccide le creature di Dio? Nessuno tranne l'uomo, che per vaghezza o per
ozio fa strage delle anime viventi, e dalle voglie omicide ricava
argomento di trionfo. Quale animale come l'uomo ha fatto della
distruzione un mestiere? Sopra ogni studio, per cui diventa simile a Dio
la vostra mente, voi avete nobilitato questo mestiere, e col soccorso
delle scienze più sublimi vi siete ingegnati sciogliere il problema di
sterminare la maggiore quantità possibile dei proprii simili nel minor
tempo possibile. Fu cane o gatto l'inventore della polvere, delle
artiglierie, dei razzi alla Congrève, delle mine e simili? Sono eglino
bovi e cavalli Paixhans e gli altri che trovarono il modo di distruggere
in minuti un vascello, e la polvere-cotone? Chi può come voi adoperare
il riso per dissimulare il pianto, e il pianto per dissimulare il riso?
Chi di noi seppe tradire il suo Maestro con un bacio? Chi di noi si
avvisò nella espansione dell'amore adattare un laccio al collo alla
femmina già amata, e strangolarla? La parola vi tiene luogo di arnese
per dare ad intendere il contrario di quello che il cuor vostro pensa.
La vostra ragione come un faro infame vi precipita tra lo errore e il
delitto. Così poco costumate amarvi e beneficarvi, che al più leggiero
benefizio ecco accendete le luminarie e i falò, suonate le campane a
distesa, date fiato alle trombe da scoppiarne le gote, sudano i torchii,
se ne appiccano i cedoloni su pei muri.--Noi altri di una stessa razza
non ci facciamo mai male:--noi non conosciamo quella tanto onorevole
accompagnatura dei sette peccati mortali...--Omero, Virgilio e gli altri
vostri poeti antichi assomigliano qualche uomo micidiale a tigre, a
lione, a pantera e simili: ben per loro che sono morti, altrimenti
capiterebbero male; e se i poeti romantici hanno smesso questo mal
vezzo, nol fecero già perchè queste similitudini sembrassero loro o
troppo classiche o troppo viete, ma per avere saputo che questi miei
fratelli di bestialità, perduta alfine la pazienza, si erano risoluti ad
accusarli criminalmente d'ingiurie. La ferocia umana non trova ferocia
che la superi e nemmeno che la uguagli. Come i Romani dicevano di
Cartagine, la umanità _delenda est_. Non date il Santo ai cani;--e ogni
albero che non fruttifica o fruttifica male va reciso e gettato sul
fuoco;--colui che soccorre ai tristi sperpera la sostanza dei buoni, e
quando il bisogno li stringe, manca in coloro che li dovrebbero giovare
la volontà o la facoltà per levarli di pena.--Nè questo è tutto: il
malvagio che invece di vedersi vilipeso e punito si vede tenuto in
pregio e premiato, indura nella nequizia e raduna forze per continuare
nella flagellazione delle creature dabbene. _Le serpi non si raccolgono,
ma si calpestano_.--Però siccome conosco a prova amore di figli che cosa
sia, e mi sento viscere di carità, mi trovai commossa al pensiero del
lutto della tua famiglia in sapendoti divorato vivo; e poi il tuo
sembiante mi parve di uomo giusto diverso affatto da quello dei tuoi
fratelli, ed ho voluto salvarti. Vatti dunque con Dio, e continua a
camminare nella via della carità, perchè quantunque tu possa incontrare
qualche cosa che ti riesca molesta, all'ultimo ne avrai rimerito dagli
altri, e in ogni caso dalla tua coscienza, suprema premiatrice dei
buoni; e forse a rivederci nell'altro mondo, perocchè il sapientissimo
re Salomone che cosa abbia detto:--Chi sa se lo spirito delle bestie
vada in su od in giù?[6]--Questo noi vedremo dopo..."

Ciò detto, la scimmia con salti smisurati fece ritorno alle amate
fronde e più agli amati frutti del fico.

E l'oste, che non poteva capire nella pelle al fine delle sue parole,
esclamò: "Oh Lazzaro, cervel balzano da tutti i quattro piè; tu hai
voluto provare una cosa e ti è riuscito concludere con un'altra: co'
fatti sempre ti contradici e co' detti. Perchè nel passato anno,
quando la neve seppellì le case, tu primo andasti a spararla e a
sovvenire i poverelli di Dio?"

"Per darmi moto..."

"E perchè rivestisti la matta? E tutti giorni le dai pane e fuoco?"

"Perchè se muore non mi farà più ridere."

"E il tuo nipote?"

"Se quel becca-l'aglio del Villebiforce, invece di perseguitare la
tratta dei neri, si fosse, come doveva, sbracciato a favorire la
tratta dei bianchi, a questa ora, vedi... per me lo avrei venduto per
venti lire."

"Or dunque via, Lazzaro, da bravo: poichè cotesta tua creatura ti pesa
tanto; la mia ragazza ed egli si vogliono bene: io lo riparerò qui in
casa mia, lo terrò in parte di figliuolo, e tu non ne avrai più
molestia..."

"Come? come?" interruppe Lazzaro con voce tremante. "I miei nipoti
hanno a stare con me. O che ti pensi, Biagio, che in casa mia per la
tua ragazza non ci sia luogo?--Avrà la sua cameretta linda e polita, e
il capoletto con gli specchi e la coperta di cataluffo giallo... che
fu già della mia povera defunta...--Senti, Biagio, e sentimi da
senno:" e Lazzaro alzandosi mi parve allora sublime: "in tutta la mia
vita io ho badato ad una cosa sola, a morir bene. Nell'ora del viaggio
eterno io ho contato di avere le mie nelle mani dei nepoti, e un
crocifisso sul petto, e andarmene in pace... Ah! ora tu vorresti che
stringessi l'aria? Tu vuoi rubarmi il nepote... bermi il sangue...
farmi morire di dolore?"

In questa ecco aprirsi la porta della osteria, ed entrare un
bellissimo garzone con una lanterna di carta unta in mano. Alle
sembianze, ma più assai al colore dello indaco di cui portava tinte e
mani e volto, mi si fece manifesto per nepote di Lazzaro. E Lazzaro
mutato in sembianza, con parola acerba lo interrogava:

"Donde vieni? Che cosa vuoi? Chi cerchi? Me no certo?"

E il nepote senza punto peritarsi, mostrando come quelle asprezze non
gli tornassero paurose, rispose speditamente:

"Anzi voi: la Caterina ha apparecchiato da un'ora, e non vi vedendo
arrivare ha detto:--Marco, fa una cosa; la neve cade come Dio la
manda, la notte è buia, scoscesa la strada; prendi la lanterna, e va
per lo zio, chè non gli accada la malaventura..."

"La cara citta! Ma tu non sei venuto per me? lo giureresti? Va, falso,
tristo e bugiardo, tu se' venuto per la ragazza di Biagio."

"A dire la verità, quando prima mossi da casa pensava a voi solo, mio
buono zio, a voi solo, e niente a Rosa: a mezza strada ho cominciato a
pensare anche un poco alla ragazza; nello entrare qui mi parve pensare
tanto alla ragazza quanto a voi a parti uguali... E a voi, zio, io
credo che penserò sempre anche quando avrò figliuoli..."

"Davvero?"

E il giovane portando aperta la sua mano sul petto, e comprimendovela
forte dalla parte del cuore, con voce ferma e religiosa soggiunse:

"Davvero..."

"Sii benedetto nei tuoi figliuoli..." mormorò Lazzaro fra i denti; e
poi riprese in suono più distinto piegandosi verso l'oste:--"Or via,
Biagio,... dunque ti pare che questi ragazzi si vogliano proprio
bene?"--E senza attendere risposta continuava: "Fa una cosa; chiama la
tua figliuola, e vieni a cena meco, chè vedremo di aggiustare la
faccenda per dopo quaresima."

"Con tutto il cuore, Lazzaro... Avviati, chè io ti tengo dietro."

E Lazzaro gettandosi il pastrano sopra le spalle favellò:--"Anche
questa è fatta,--disse colui che infornò la moglie mentre si asciugava
il sudore.--Buona notte, compari..."

Ed io tornandomene a casa pensava tra me come avessi imparato più e
meglio all'osteria che leggendo gli apoftegmi di Plutarco, e senza che
gli occhi mi frizzassero, e il cranio mi paresse pieno di cotone sodo.



NOTE.


_Pag._ 76.--(1) È verità storica. Lo statuto, scritto in latino, vieta
mettere a partito le proposizioni dopo pranzo nel Consiglio dei
Priori, _propter vinum_.

_Pag._ 78.--(2) Singolarissima cosa! Santo Agostino concorda in questo
con Hobbes. Ambedue dichiarano nascere l'uomo inclinato al male; e il
Santo non dubita affermare che l'uomo persevererebbe perdutamente in
quello, dove gl'insegnamenti della religione, la virtù delle
preghiere, lo esercizio delle opere pietose, e sopra tutto poi la
grazia divina, non lo ritraessero dal sentiero della iniquità
avviandolo sul cammino del Paradiso. Ma sentiamo favellare il
Santo:--«Io rubava varie sorte di cose di casa e dalla mensa paterna,
o per soddisfare la intemperanza dei miei appetiti, o per comprare dai
giovanetti il sollazzo di giuocare con loro. E sovente giuocando
adoperava l'astuzia e la frode per uscirne vincitore, tanto mi
talentava la vanità di superarli. Ed all'opposto quando essi si
avvisavano ingannare me, davo in escandescenze e li vituperava con
ogni maniera d'ingiurie. Ed è questa la pretesa innocenza dei
fanciulli? Essi non ne hanno, o Signore: essi non ne hanno, mio Dio.
Questa prima corruzione dell'anima contamina la rimanente lor vita.
Ciò che furono contro i precettori e i maestri, diventano poi contro i
re e i magistrati: dopo avere commesso lievi ingiustizie per
acquistare noci o palle, o uccellini, ne commettono molto maggiori per
accumulare tesoro, possedere case, mantenere numerosa famiglia di
fanti e servitori. Così, mio Dio e mio re, allorquando nello Evangelio
diceste appartenere il regno dei cieli a coloro che si assomigliano ai
fanciulli, voi non proponeste già per modello di virtù la innocenza
del loro spirito, ma soltanto la piccolezza dei loro corpi come
immagine di umiltà.--_Confessioni_, l. I, cap. 19.

E con parole ed esempii più singolari nel l. II, cap. 4,--5 e 6:--«Voi
Signore, condannate il furto........, e nonostante, Signore, io ho
voluto commettere un furto, e lo commessi non mica per necessità, ma
per puro spreto di giustizia, per eccesso e colmo d'iniquità, avendo
involato cose di cui non pativo diffatta, anzi pure ne possedevo in
copia e migliori di quelle che io rubava. Rubai, niente altro cercando
nel furto tranne il furto stesso, e compiacendomi saziarmi nella
laidezza del vizio piuttosto che nel frutto dell'azione viziosa. Era
un pero presso la vigna paterna che produceva pere nè belle alla vista
nè piacevoli al gusto. Noi fanciulli dopo avere giuocato fin presso a
mezzanotte, andammo in frotta a scuotere l'albero e spogliarlo di
tutti i suoi frutti, e ritornammo carichi di pere, non per mangiarle,
ma solo per rapirle e gittarle ai porci, contenti nel piacere di fare
quello che ci era vietato.»--E dopo questo racconto il Santo di
raziocinio in raziocinio non dubita paragonare il furto delle pere con
i misfatti di Catilina, ed anzi a quegli stessi misfatti anteporlo,
imperciocchè a fine di conto Catilina amasse gli omicidii non come
omicidii, ma come mezzi di pervenire ai suoi fini, mentre egli
trucidasse coteste pere senza scopo, se togli quello di fare del male.
Citando Catilina in proposito di pere, mi sembra che Santo Agostino si
accosti all'avvocato di Marziale, che difendendo l'abigeato di tre
capre, prese a rammentare la guerra Cimbrica ed altri malanni della
Repubblica Romana; e poi la esagerazione dei paragoni scredita o la
sincerità del pentimento o la rettitudine del giudizio. Come a
Rousseau, avveniva a Santo Agostino: la veemenza della immaginazione
superava in cotesti uomini il sentimento.

_Pag._ 79.--(3) San Giuliano era e forse ancora è il Santo protettore
dei viaggiatori. «Poche orazioni ho per le mani, come colui che mi
vivo all'antica e lascio correre due soldi ventiquattro danari; ma
nondimeno ho sempre avuto in costume, camminando, di dire la mattina
quando esco dall'albergo un paternostro ed un'avemaria per l'anima del
padre e della madre di San Giuliano, dopo il quale io priego Iddio e
lui che la seguente notte mi deano buono albergo. Boccaccio,
_Decamerone_, Giornata II, Nov. 2.

_Pag._ 81.--(4)

   _Olim truncus eram ficulnus, inutile lignum:
    Quum faber incertus scamnum faceretne Priapum,
    Maluit esse Deum: Deus inde ego...._
                                    HORAT., _Sat._ 8.

Pag. 86.--(5) Io domandai al Sole s'egli era maschio o femmina, e mi
guardò e si messe a ridere. _Le Compère Mathieu_, T. 2.

Pag. 93.--(6) Quis novit si spiritus filiorum Adam ascendat sursum, et
si spiritus jumentorum descendat deorsum. _Ecclesias_., cap. 3, v. 22.





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