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Title: Mastr'Impicca
Author: Imbriani, Vittorio
Language: Italian
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Libraries)



   VITTORIO IMBRIANI


     MASTR'IMPICCA


         Fiaba



         NAPOLI

  VITO MORANO, EDITORE
      Via Roma, 40
          1905



F. DI GENNARO & A. MORANO--NAPOLI



AVVERTENZA


Vittorio Imbriani, nato a Napoli nel 1840 e morto nel 1885, erudito,
critico, demopsicologo, estetico, compose anche, di tanto in tanto,
novelle e versi, espressioni di una bizzarra fantasia grottesca e
satirica. Tra le novelle è questo _Mastr'Impicca_, edito nel 1874 nel
giornale _Il Calabro_, ed in un opuscolo estratto, che è diventato, come
la più parte degli scritti dell'Imbriani, rarissimo. Noi crediamo di
fare, col ristamparlo, cosa grata ai lettori, che gusteranno questa non
fredda derivazione dal genere fiabesco di Giambattista Basile. Del quale
l'Imbriani, per certa conformità d'indole, ripiglia il metodo; ma
l'adopera in modo affatto proprio, e rispondente alle differenze che
corrono tra uno scrittore dei primi anni del secolo XVII e uno degli
ultimi del secolo XIX.

B. C.



C'era una volta un Re di Scaricabarili, vedovo e padre di figliuola
unigenita, bella quanto il sole. E, dicendo _bella quanto il sole_, par
che si dica quel più che può dirsi. La Rosmunda, ereda presunta del
trono scaricabarilese, portava due grandi occhi bruni in fronte, che
innamoravano; ed in capo una chioma lunga e folta tanto, che avrebbe
potuto vestirsene. La voce di lei sembrava una musica, ammaliava.
Sebbene andasse appena pe' sedici anni, le sue movenze eran tutta grazia
e disinvoltura, non aveva il solito fare impacciato delle giovanette. Nè
poteva rinvergarsi od immaginarsi la più colta ed assennata
principessina in tutto l'universo mondo. E buona e caritatevole era:
dovunque accadesse una sventura, si era sicuri di vederla giungere,
recando consolazioni, distribuendo elemosine e sussidii e quelle parole
di conforto, spesso più giovevoli di maggiori ajuti materiali, le quali
sole hanno virtù di rasciugar le lacrime, di rasserenar gli animi.
Figuriamoci come il popolo intero dovevano tener cara questa donna
Rosmunda! Non si sarebbe trovato nel Regno uno, che le volesse male! I
sudditi travedevano per lei. Ed ella, conscia di tanto amore, era
tuttogiorno in giro senza compagnia, senza scorta, senza corteggio,
senza seccature, certa di non incontrare se non reverenza ed ossequii.

Frattanto il padre s'apparecchiava a darle marito.--«Io mi son vecchio;»
pensava Maestà.--«Più che vecchi non si campa: oggi o domani mi toccherà
a tirar l'aiuolo. Una volta ch'io sia andato a rincalzar cavoli, che ne
accadrà di questa ragazzaccia? Posso lasciare senza scrupolo il Regno ad
una fanciulla inesperta? Quando regnan le donne, i sediziosi si
accrescono degl'innamorati. La Rosmunda è savia: pur che la duri! La
Rosmunda è buona: ma non si governa con la volontà d'animo; non si
reprimono o scongiurano le insurrezioni con un bel par d'occhi; non si
rintuzzano e sconfiggono gli eserciti nemici, sciogliendo all'aura i
capei d'oro. Con questi vicini, con questo popolo, con questo
Parlamento, con questi uomini politici, e' ci vuole la mente ed il polso
d'un uomo. Provvediamoci a tempo: senza fretta precipitosa; ma... chi ha
tempo non aspetti tempo».

Parlò del suo divisamento alla figliuola, che veramente non aveva ancora
pensato al matrimonio, ned altro ambiva se non rimanersene eternamente
libera e felice, com'allora.--«Ci ho voi di amare e mi basta, babbo.
Tanta fretta avete di sbrigarvi di me? E che bisogno c'è d'un marito?
L'Elisabetta d'Inghilterra non se l'è cavata male, eppure seppe farne
senza. E gli scaricabarilesi sono concordi nell'amarmi».--Pure,
assennata come era, la Rosmunda finì per arrendersi ai voleri paterni;
ed ammettere in principio, ch'era espediente ed urgente il munirsi d'un
consorte.

Ma chi scegliere? Veramente, di proci non si penuriava. Tutti i Re da
corona o spodestati, tutti i Principi reali del mondo, sarebbero stati
prontissimi ad impalmare una donnina bella quanto il sole, la quale
recava in dote il Reame di Scaricabarili, con seicencinquantaquattromila
e trecenventun miglio quadrato di superficie e cenventitrè milioni
quattrocencinquantaseimila, settecentottantanove abitanti (secondo
l'ultimo censimento ufficiale). E i sovrani dei tre Regni confinanti: il
monarca d'Introibo, il despota di Exibo e l'autocrate d'Antibo, avevano
già richiesta officiosamente, ciascuno per conto proprio, la mano di
Donna Rosmunda, dichiarandosi innamorati cotti per fama e per ritratto
della perla scaricabarilese (così la Principessa veniva chiamata da'
poeti aulici). Ma (c'era un ma) il guaio era che la perla
scaricabarilese non si sentiva nient'affatto proclive ad innamorarsi
della fama o del ritratto di alcuno di quei tre proci. La ragione n'è
facile ad assegnarsi: il monarca d'Introibo era gobbo, il despota di
Exibo era zoppo, l'autocrate di Antibo era guercio; questo riguardo al
corpo, al fisico, come suol dirsi. Il monarca d'Introibo aveva fama di
sciocco, il despota d'Exibo veniva reputato vigliacco, l'autocrate
d'Antibo era in voce di crudelissimo; questo riguardo agli animi, al
cosiddetto morale. La Rosmunda, potendo senza irragionevolezza
attendersi a trovar meglio, avrebbe scartati tutt'e tre senza molto
riflettere: ma ciascun d'essi era un Re possente, ciascun d'essi
assoldava un esercito poderoso ed aveva lasciato chiaramente
sottintendere che farebbe un _casus belli_ del rifiuto. Come regolarsi?
Tutti e tre, già, la Principessa non poteva sposarli. Preferirne uno, il
men cattivo, equivaleva a sacrificarsi barbaramente, dando un pessimo
signore al paese ed appiccando guerra con gli altri due. Dar le pere a
tutti e tre, significava averli tutti e tre sulle braccia, ed esporre il
Regno di Scaricabarili agli orrori ed a' pericoli d'un conflitto
micidiale contro una coalizione fortissima. La povera della Rosmunda
impetrò dal padre un pò di respitto per ben ponderare prima di
risolversi. E questo tempo passava piangendo, crucciandosi, disperando e
non sapendo a qual partito appigliarsi.

Un giorno, mentre stanca di piangere passeggiava sola sola nel più opaco
boschetto ed appartato del giardino reale, vide sopra un sedile rustico
una figura di vecchierella da muovere a compassione ed a raccapriccio
chiunque. Era una nanerottola scrignuta, con le grucce; curva che il
mento quasi toccava le ginocchia; tutta grinze, crespe e rughe; con gli
occhi scerpellati e cisposi; senza sopracciglia; con la zucca tignosa e
calva; con la pelle chiazzata e piena di croste purulente; scarna e nera
come una mummia; mal coperta da cenci lerci, che brulicavano d'insetti.
Questo mostricino stese la mano e la Rosmunda subito, senza dimostrar
punta nausea, si frugò nelle tasche e le porse quanti spiccioli vi
trovò. La vecchierella, preso il denaro, e ringraziato con voce stridula
e tremante, soggiunse: «Grazie di quest'elemosina, è carità fiorita. Ma
l'Altezza Vostra potrebbe beneficarmi viemaggiormente se volesse!».

--«Dite pure, buona donna; ormai non mi riprometto altro al mondo che di
procacciar qualche piacere altrui».

--«Io sono decrepita; ed ho tanti malanni addosso che basterebbero a
sotterrare una giovane: tiro il fiato co' denti. Tra pochi giorni non ci
sarò più. Ma morrei contenta se mi toccasse una consolazione prima di
andare a Patrasso. Oh se l'Altezza Vostra volesse!..»

--«Cosa ch'io possa!»

--«Può, può; basta che voglia».

--«Allora... Di che si tratta?»

--«Vegga l'Altezza Vostra: io, ho novantanove anni, ed ho sempre
stentato al mondo o sofferto e servito: sempre sono stata maltrattata e
schernita. La vita mia è sempre appunto il contrario della vostra, di
voi che siete accarezzata ed ossequiata da tutti, che non avete mai
sperimentato cosa sia bisogno e penuria, che innanzi di aver finito di
esprimere un desiderio lo vedete già adempito. Prima d'esser buttata nel
carnaio vorrei scialarla un giorno solo; ed in quel giorno assaporar
tutti i comodi della vita; e che l'Altezza Vostra stessa m'accudisse,
attendesse a servirmi per quella giornata lì».

La domanda indiscreta della vecchiarda fece dapprima quasi ribrezzo alla
Principessa. Una richiesta siffatta ne offendeva l'orgoglio legittimo ed
i sensi delicati. La figliuola d'un Re di corona, l'ultima discendente
di cinquanta sovrani, l'erede del Regno di Scaricabarili, la futura
dominatrice di 654,321 miglio quadrato di territorio e 123,456,789
sudditi (secondo l'ultimo censimento ufficiale), educata come a nobil
principessa s'appartiene, abbassarsi a prestar cure servili ad
un'accattona, alla più umil persona dell'infima plebe! Come, lei, donna
Rosmunda, sempre linda e schifiltosa, sempre profumata d'acque nanfe,
toccar quelle caccole, quelle croste, quelle gromme, quella tigna,
quella scabbia, que' cenci sordidi e puzzolenti!, esporsi a prender
quelle malattie schifose!, sentir trasmigrare nella propria biancheria,
sul proprio corpo, nella bella capigliatura, i pidocchiacci, i
cimicioni, le pulci, gli àcari, tutte le generazioni di insetti che
formicolavano sopra e sotto la cute della vecchiarda! Brrrrr!, c'era di
che svenire al solo pensiero! E la Rosmunda stava per rispondere
sdegnosamente alla mendicante ch'ella era matta, che si facesse in là,
che non ardisse toccarla, che chiamerebbe gente per espellerla dal
giardino e condurla al manicomio..., ma poi, riguardando quell'avanzo
del tempo e della miseria, si sentì rintenerire. Vide una tale agonia,
una tale intensità di brama espressa in quegli occhi, in quel volto che
ebbe a impietosirsene. Cominciò a pensare:--«Poveretta! costei ha
tribolato novantanov'anni continui, miserrima, scontraffatta,
malaticcia, zimbello di tutti, litigando con la fame, senza gustare una
dolcezza, senza impetrar mai soddisfatto un voto suo, per quanto onesto
e discreto. E sta in me di appagartene uno, tanto naturale! Ma come si
fa a vincere la ripugnanza che provo, ch'è somma? Se almeno fosse più
pulita! Se non avesse quella rogna e quella tigna e quel brulichio
addosso... Allora non avrei tanto schifo.... Ed allora che merito ci
sarebbe? A voler fare atto gentile, questa repugnanza appunto vuole
esser vinta, e vinta senza ch'ella pur lo sospetti. Mostrata, torrebbe
ogni pregio all'opera umana. Sono o non sono cristiana? E dubito di fare
una buona azione, di contentare un poverello di Cristo? Io, che malgrado
la minaccia di nozze abborrite ho ancora consolazioni e speranze, che il
padre comune ha trattato da figliuola prediletta, sento l'obbligo di
procacciare una consolazione a questa meschina, di realizzarne una
speranza. Non è mia suddita? O non è dovere pe' Principi il curare il
bene e la felicità dei sudditi? Povera vecchiarella, mi fa compassione
proprio.... Quand'anche, dopo, dovessi radermi i capelli o trovarmi
mischiato qualche malore, non ho il cuore di negarle quel che desidera».

Risolvendosi adunque, invitò con benigno volto la vecchiarda sciancata a
seguirla; e, non potendo questa camminare agevolmente, le offerse il
braccio. La mendicante vi si aggrappò rozzamente, e, passo innanzi
passo, più arrembatamente delle tartarughe, più lentamente delle
lumache, confortandola sempre la Principessa con buone parole, mentre
ella ad ogni pedata traeva un gemito, giunsero al palazzo.

La Rosmunda fece preparare un bagno caldo profumato e rimandò le
cameriste e spogliò con le proprie mani quella pezzente e se la tolse in
collo e l'adagiò essa stessa nella vasca di giallo antico; la soffregò
col sapone e poi la rasciugò con lenzuola ed asciugamani tepidi; la pulì
tutta, la pettinò, la medicò con unguenti prescritti dal protomedico di
Corte, la rivestì di buone vesti. Quindi la presentò al padre.--«Come un
ospite»--diceva lei--«che mi ha recata una commendatizia di Colui, ch'è
giudice de' Re della terra. Come! se il più abjetto principe e dappoco
ci manda un qualunque ambasciadore, un misero ministro plenipotenziario,
un aborto d'incaricato d'affari, uno spione salariato, lo si accoglie
con pompa, gli si smalta il petto di _crascià_ smaglianti, gli si danno
simposii e balli e rappresentazioni di gala. E trascureremmo poi i
miserelli, quando i miserelli appunto sono i messi dì Gesù!»--Il padre,
che trovava sempre ottimamente fatto quantunque la Rosmunda facesse,
sebbene non consentisse in cuor suo a questa teorica, che, largamente
praticata, avrebbe trasformata la Corte in un ricovero di mendicità,
pure accolse con benignità la vecchia e degnò chiacchierar seco. E fu
stupito egli stesso e fu stupita la Rosmunda e tutta la Corte fu
stupita, che un'accattona avesse tante cognizioni e sapesse parlar tanto
per benino.

Dopo il pranzo la vecchierella affermò d'aver proprio bisogno di
schiacciare un sonnerello. La Principessa la condusse nella camera
propria e la vestì lei stessa come si veste un bambino, ed introdottola
nel letto e chiusi i cortinaggi, sedette poco discosto in una poltrona,
e cominciò a leggere un libricciuolo al lume di una lampada a petrolio,
posta sul tavolino da lavoro. Di tempo in tempo, interrompeva la
lettura, posava il libro sul tavolinetto, si alzava e si approssimava
alla dormiente, per assicurarsi che riposasse tranquilla. E quando
riboccava le lenzuola, e quando rincalzava il letto, e quando
sprimacciava la coltrice, e quando rassestava i guanciali, e quando le
tergeva il madore dalla fronte; insomma le prodigava quelle cure
pietose, che le buone infermiere tributano agli ammalati affidati loro.
E la guardava con affetto, perchè le anime gentili si affezionano
appunto beneficando; e pensava:--«Domattina, avrò cuore di rimandar
costei? Mi basterà l'animo a permetter, che mi lasci? Per opera mia
questa meschinella avrà gustato, delibato un po' di bene, acciò le
appaia quind'innanzi più squallida la miseria? Un giorno di vita comoda
la farà tribolar peggio ne' dì vegnenti! Bella carità! O non sarebbe
stato più umano il respingere senz'altro, ricisamente la sua preghiera?
Esaudendola, ho contratto in certo modo l'obbligo morale di provveder
per sempre a lei. No, la mia vecchierella non se ne andrà nè domani, nè
mai; non mi abbandonerà più, più. Io già non le do licenza di partire,
dovesse anco costarmi maggiori e peggiori ripugnanze l'assisterla. Dio
mio, ispiratele di non opporsi alle intenzioni mie ed allungatele la
vita, acciò non le incresca di esser nata, e non commetta il peccato di
mormorare contro la provvidenza vostra!».

Così pensando, aveva posato il libro sulle ginocchia e congiunte le
mani; e guardava verso il letto. Vide agitarsene le cortine, e stava per
accorrere a' servigi dell'ospite. Qual non fu mai la sorpresa, anzi lo
spavento di lei, quando le tende del parato si aprirono, e ne uscì una
donna vaghissima, tutta velluti e trine e gemme, la quale diffondeva
intorno una luce vivida tanto, da rischiarare splendidamente la zambra e
da fare impallidire il lume a petrolio. Contemporaneamente tutta la
Reggia fu scossa come da un tremuoto e s'udì come lo schianto di un
tuono. La Principessa balzò in piedi esterrefatta; il libro ruzzolò per
le terre; ed ella aprì la bocca per gridare _accorruomo_: ma lo spavento
e la meraviglia le avevan tolta la voce. E quella donna vaghissima le
mosse incontro, sorridendo amorevolmente; ed aprendole le braccia,
disse:--«Non gridare! non temer nulla! Chi credi tu, ch'io mi sia? Ho
faccia di cattiva, io? Ti sembra, ch'io possa voler far del male a te o
a chicchessia?»

--«Signora... Io.... Lei.... Come qui?»--rispose la Rosmunda, non ancor
del tutto rassicurata, ma vergognandosi d'avere avuto paura. La paura
non era nelle abitudini de' membri di quella dinastia.

--«Son la tua santola, sai! sono la fata Scarabocchiona; quella, che ti
ha tenuta sul fonte battesimale....»

--«E la vecchierella?»

--«La vecchierella era io. Volli sperimentare il buon cuore della mia
figlioccia: ecco perchè avevo assunto quella forma esosa di vecchia
scrignuta, cisposa, claudicante, tignosuzza, che faceva stomaco, nausea,
vomito, recere ed arcoreggiare. Io ti leggeva nella mente ogni pensiero:
ho scorto quali ripugnanze t'è stato mestieri di vincere. E le
ripugnanze vinte appunto dànno pregio all'operato tuo. Vien qua,
abbracciami!».

--«Volentierissimo! O cara la mia santola, quanto godo anch'io di pur
vedervi! Me l'avevan ben detto le mille volte, che ci avevo avuto una
fata per commare; ma quasi la ritenevo una chiacchiera: chè non vi siete
mai ricordata della figlioccia vostra, chè non vi siete mai fatta
vedere, nè mi avete in alcun modo date le vostre nuove».

--«Ingrataccia!»--ripigliò sorridente la fata Scarabocchiona,--«ed a
chi, se non a me, ed a che, se non alle mie fatagioni, devi tutte le
belle parti che ti adornano, tutta la felicità che hai goduta sin qui?»

--«Oh sì, la felicità! Non ci può essere donna più infelice, più misera,
più cruciata, più dolente, più disperata di me, cara santola! Voi non
sapete....»

--«So tutto, so tutto, signorina. E perchè so tutto, mi vedi qua. Gli
amici si riconoscono nel bisogno, alla pruova. Tuo padre ti vuol dar
marito in tutti i modi?»

--"Sì, cara fata Scarabocchiona, mi vuol proprio affogare, mi vuole!"

--«I pretendenti sinora son tre?»

--«Appunto, santola mia, appunto!»

--«Vedi, s'io so tutto. C'è la Maestà di Baldassarre V, monarca
d'Introibo?»

--«Già, ch'è vecchio, gobbo e sciocco: il Ciel me ne scampi!»

--«E poi, c'è Don Melchiorre XVII, desposta d'Exibo?»

--«Ch'è un omaccio di mezza età, zoppo e vigliacco: Iddio me ne liberi!»

--«E finalmente l'autocrate d'Antibo, Guasparre I?»

--«Quel che più temo: un ragazzaccio imberbe, guercio e crudele. Oh, se
la Madonna mi salva da lui, regalerò una lampada d'argento alla
Cattedrale!»

--«Insomma, tu se' incontentabile! Non vorresti nessuno de' tre?»

--«Proprio nessuno, io. Ma ciascun d'essi minaccia guerra, s'io lo
rifiuto. Oh, son de' prepotentoni che non potete farvene un'idea. Come
ho da regolarmi, fata Scarabocchiona mia? Consigliatemi voi, che siete
la protettrice mia naturale, che avete spontaneamente assunto di supplir
mia madre! Se rifiuto tutti e singoli, ci piombano addosso coalizzati,
ed i poveri regnicoli dovranno scontarla. Se mi sacrifico e ne accetto
uno, avremo sempre guerra con gli altri due, e mi toccherà un marito o
gobbo o zoppo o guercio, e do agli Scaricabarilesi un Re o sciocco o
vigliacco o crudele. Ditemi adesso: non sono io la più infelice
principessa che sia mai stata al mondo? Quali alternative! Talvolta mi
viene in mente di farmi tagliare in tre parti e mandarne una a ciascun
proco, e toglier così di mezzo il pomo della discordia ed uscir da tante
pene!»

--«Non pianger così, figliuola mia, che mi squarci l'animo. T'insegnerò
io, come hai da fare per isfuggire a queste tre belve. Non temere: a
tutto c'è rimedio fuor che alla morte. Ottieni da tuo padre, che apra un
concorso fra quanti aspirano alle tue nozze, di qualsivoglia grado e
condizione. Con questo patto, che ciascun concorrente prometta di non
risentirsi menomamente, in modo alcuno, caso non venga prescelto. I
proci dovranno presentarsi a Corte e dimorare un anno intiero nel Regno.
Quegli, che in un anno sarà pervenuto a cattivarsi l'animo della
cittadinanza, in modo che il popolo lo porti in trionfo e manifesti in
ogni altra possibil guisa di essergli devoto, quegli sia tuo sposo. Ti
sto mallevadrice io, che nè Baldassarre V, nè Melchiorre XVII, nè
Guasparre I, la spunterà così; sebbene ognun d'essi debba illudersi di
spuntarla agevolissimamente. A te, poi, dono questa legaccia, con la
quale terrai sempre allacciata la calza destra. Quando mi vorrai
parlare, quando stimerai di aver bisogno dell'aiuto o del consiglio mio,
càvatela ed avvolgila intorno al polso sinistro e baciala. Io apparirò
subito».

Dette queste cose, la buona fata abbracciò nuovamente la Rosmunda. Poi
si scosse, e d'ogni intorno le piovvero per terra un'infinità di
gioielli: vezzi, collane, monili, smaniglie, anella, spilloni,
medaglioni, frontali, orecchini, buccole, rosette, pendagli, fioccagli,
bottoni gemelli, catenelle, oriuoli brillantati, fibbie, pennacchietti
di gemme, picchiapetti. E la Reggia venne scossa come da un tremuoto e
s'udì lo schianto di un tuono e la fata sparve. La principessa rimase
trasognata; e, se quelle preziosità, che ingombravano il pavimento, e la
legaccia, che teneva in mano, non le avessero fatto fede del miracolo,
avrebbe fermamente creduto d'essersi allucinata. Riavutasi, s'allacciò
il legaccio alla gamba destra, raccolse e rinserrò gli ori e le gemme;
e, tutta rasserenata e giuliva, corse difilato dal padre.

Maestà presedeva il Consiglio de' Ministri: ma nessun usciere,
ciambellano, ufficial d'ordinanza od aiutante di campo s'arrischiò a
costringere la erede presuntiva del trono a fare anticamera. Uno anzi
corse a spalancar la bussola e l'Infanta apparve sulla soglia, mentre si
discuteva sul rinnovamento del privilegio a non so che Banca. Giusto,
uno de' Consiglieri della Corona, al quale certi banchieri avversarii
della Banca promettevano una lauta mancia, si sforzava di dimostrare,
che il privilegio non era da rinnovarsi: e frattanto un altro, seduto
presso il Re, cercava di attirar destramente l'attenzione di costui su
d'una riservatissima de' principali azionisti della Banca, i quali
gergonando si offrivan pronti a pagare tutti i debiti presenti di Casa
Reale, purchè il privilegio venisse rinnovato. La Rosmunda apparve, come
un buon genio, proprio a tempo per distrarre il padre, che non desse
un'occhiata all'onesta profferta; e, gettandosegli d'un balzo al collo,
mentre i Ministri rispettosamente stavan su:

--«Babbo,»--disse,--«babbino mio caro, ho fatta una bella pensata!....»

--«Quando lo assicuri te!... Ma vediamo un po', che pensata è questa e
di qual momento, che ti fa interrompere il mio Consiglio?»--disse Re
Zuccone, che idolatrava la figliuola e non sapeva tenerle mai il broncio
per nulla.

--«Le idee di Sua Altezza sono sempre giustissime!»--sclamò il
Guardasigilli.

--«L'Infanta possiede una immaginazione fertile, industriosa,
ricchissima!»--soggiunse il Ministro d'Agricoltura, Industria e
Commercio.

--«Donna Rosmunda dispone di un esercito di buoni pensieri»--echeggiò il
Ministro della Guerra.

--«La perla scaricabarilese ha più senno in quella testolina
ricciuta, che tutti i professori delle mie Università nelle loro
cocuzze!»--balbutì il Ministro della Pubblica Istruzione.

--«L'erede del trono è un vero tesoro!»--mormorò il Ministro delle
Finanze.

--«La Principessa veleggia sempre alla scoperta di be'
concetti!»--borbottò il Ministro della Marina.

--«La figliuola del nostro Re batte un via, per la quale non può fallire
a glorioso porto!»--brontolò il Ministro de' Lavori Pubblici.

--«La futura nostra sovrana non ha la sua pari in tutto il
Regno!»--declamò il Ministro degl'Interni, presidente del Consiglio.

--«Nè fuori Regno ha pari lo illustre rampollo della nostra
dinastia!»--conchiuse il Ministro degli Esteri.

--«Godo infinitamente»--disse Re Zuccone, quando ebbero terminato--«che
vojaltri abbiate tutti in così buon concetto la mia figliuola carissima;
ma, se cicalate così, non potremo appurar mai la buona idea, che levate
a cielo, prima ch'ella abbia potuto dichiararcela».

Subito gli Esteri sclamarono:--«Ammutolisco!».

Gl'Interni:--«Taccio!».

I Lavori Pubblici:--«Fo silenzio!».

La Marina:--«Sto a bocca chiusa».

Le Finanze:--«Rimarrò cheto come olio».

L'Istruzione Pubblica:--«Terrò la lingua a cintola».

La Guerra:--«Fate conto che io l'abbia lasciata al beccaio».

L'Agricoltura, Industria e Commercio:--«Non fiato più».

La Grazia e Giustizia e Culti:--«Eccomi imbavagliato».

--«Oh insomma, insomma»--ruggì sdegnato il sovrano,--questa mutolaggine
vostra è d'una loquacia!.. questa taciturnità vostra ha una
parlantina!.. questo silenzio è d'una verbosità!.. Parla tu,
Rosmunduccia mia, giacchè questi signori hanno la bontà somma di
concederti la parola. Dicci la tua bella pensata. Ma prima dà un bacio
al babbo tuo!».

Allora la Principessa espone al padre ed al Consiglio il ripiego
escogitato, acciò (poichè doveva a forza tôr marito e dar così un Re
agli Scaricabarilesi) potesse almeno esser certa di non iscegliere un
uomo sgradito a' sudditi ed indegno affatto del trono ed immeritevole
degli affetti di lei, che pur ci entrava per qualcosa in tutto questo
affare; evitando contemporaneamente di mortificare con un rifiuto
qualsivoglia de' proci, ed eliminando ogni pericolo di guerra con
qualunque dei regnanti limitrofi. I Ministri, che ascoltavano a bocca
aperta, fiutarono subito in questo concorso matrimoniale una occasione
propizia per rimpannucciarsi, un campo favorevole agli intrighi ed alle
cabale. Le Eccellenze della Guerra e degli Interni, che parteggiavano
per l'autocrate d'Antibo, applaudirono e disser:--«Brava!».--Le
Eccellenze degli Esteri e della Grazia e Giustizia, che tenevano pel
monarca d'Introibo, sclamarono:--«Evviva!».--Gli Eccellentissimi delle
Finanze e dei Lavori pubblici, fautori del despota d'Exibo,
soggiunsero:--«Ottimamente!».--Ed i capi de' Dicasteri dell'Istruzion
Pubblica, di Agricoltura, e Commercio e della Marina, i quali non si
erano addetti ancor definitivamente ad alcun proco, riserbandosi la
parte più lucrosa dell'arbitro, conchiusero:--«A meraviglia!».

Il Re, sorpresissimo di trovare per la prima volta tutti i consiglieri
d'accordo (non gli parea vero!), contentone del ripiego, abbracciò la
figliuola:--«Sei un angelo! sei proprio un diavolo! Faremo come proponi,
il mio sennino. Presto, si rediga analogo progetto di legge e si
presenti quanto prima alle Camere: a cura sua, signor Ministro degli
Interni. Ella poi degli Esteri diramerà una circolare a' nostri
incaricati d'affari, Ministri plenipotenziari, Inviati straordinari ed
Ambasciatori, acciocchè tutte le Corti ed i Gabinetti siano a giorno
delle prelodate risoluzioni prese a proposta di mia figlia stessa
(marcherete ben questo nella Nota), e con le quali si tronca ogni germe
di conflitti che potevano risultare dalla preferenza accordata
ingiustificatamente all'uno o all'altro de' concorrenti. Ella, che ha le
chiavi dell'Erario, pensi un po' a domandare alle Camere un credito
straordinario per le spese che incontreremo festeggiando ed ospitando
tanti Principi regii. A Lei, raccomando la manutenzione delle strade che
conducono alla frontiera. A Lei, la scelta delle guardie d'onore. A Lei,
che l'opera ed il ballo sian buoni.--Signori, si è fatta mezzanotte; la
seduta del Consiglio è sciolta. Vo a letto».

Detto fatto, venne presentato alla Camera dei Deputati scaricabarilesi
il seguente schema di legge:


ZUCCONE XIV

_per grazia di Dio e volontà nazionale Re di Scaricabarili_.

«Art. 1. Dal 1º maggio del corrente anno al 30 aprile del venturo, è
aperto un concorso per ottenere la mano della principessa Rosmunda,
erede presuntiva del trono.

«Art. 2. I proci dovranno soggiornar tutta l'annata sul territorio
scaricabarilese e studiarsi di meritare l'affetto del popolo.

«Quegli, che le acclamazioni popolari ed un voto del Parlamento
dichiareranno pel Beniamino della nazione, avrà la Principessa per
moglie ed il titolo di Principe Ereditario di Scaricabarili.

«Art. 3. È aperto al Governo del Re un credito straordinario di 41
milione, quattordicimila settecentotto lire e quarantaquattro centesimi
(41,014,708,44) ripartito sul bilancio dell'anno presente e del venturo
e da pagarsi alla Lista Civile in rate mensili di tre milioni
quattrocendiciasettemila, ottocentonovantadue lire e centesimi
trentasette (3,417,892,37) per sopperire alle spese di ospizio de'
concorrenti e del seguito.

«Questo credito sarà iscritto nella parte straordinaria del bilancio
delle Finanze, in apposito paragrafo 7 _bis_, sotto la rubrica: _Spese
per ospitare e festeggiare i proci della Principessa ereditaria_.

«Art. 4. Non potranno concorrere i minorenni, gli ebrei, i negri, i
rognosi, i tignosi e generalmente chiunque è affetto da malattia della
pelle.

«Art. 5. Lo sposo della Principessa dovrà passare almeno otto mesi
dell'anno nel Regno; e non potrà condurre fuori la moglie. Caso fosse
una testa coronata, l'unione dei due Reami dovrà essere puramente
personale, ed il soggiorno abituale nel territorio scaricabarilese.»

Questa legge non passò mica per acclamazione: anzi incontrò molte
difficoltà, sofferse emendamenti, e stette lì lì per pericolare.
L'opposizione voleva modificare l'art. quinto; e pretendeva che il
marito della Principessa, se Re altrove, dovesse abdicare. Il Ministero
pose la quistione ministeriale, e vinse. Anche all'articolo quarto,
quello delle esclusioni, ci fu tempesta. I partigiani del monarca
d'Introibo avrebber voluto annoverare fra le cause d'esclusiva la
claudicazione e lo strabismo; i fautori del despota d'Exibo la
scrignutaggine e gli occhi torti; e gli aderenti dell'autocrate d'Antibo
la gibbosità e la zoppaggine. Ma fu fatto osservare, che la Camera si
metteva su d'una mala strada; e che, se s'avevan da scartare tutti i
difettuzzi corporali, probabilmente nessun principe sarebbe in grado di
pretendere alle nozze della Rosmunda, e bisognerebbe ricorrere ai
facchini, ai bazzarioti, ai camalli, ai bastagi, nei quali soli si trova
la perfezione statuaria del corpo. Dopo lungo discutere l'articolo venne
votato in questa forma: «Sono esclusi dal concorso i minorenni, gli
acattolici, i negri, gli epilettici, i mutilati, i ciechi, i sordomuti,
i gozzuti, i rognosi, i tignosi, e generalmente chiunque è affetto da
malattie dermatiche. Sarà considerato maggiore chiunque è tale per le
leggi del proprio paese».

Ma la burrasca tremenda fu all'articolo terzo, che venne rimandato e
discusso per ultimo. Chi sosteneva eccessiva, esorbitante, la somma
stanziata; e paragonava invidiosamente i banchetti ed i palagi offerti
a' proci della Principessa col pan di cruschello e co' tuguri affumicati
del povero popolo, dal quale dovevano spremersi le lire quarantun
milione, quattordicimila settecentotto ed i centesimi trentasette. Altri
invece affermava, che la somma domandata riuscirebbe scarsa all'uopo ed
insufficiente, meglio aumentarla allora, che esporsi alla presentazione
di crediti suppletori. Finalmente, dietro mozione di un partigiano delle
economie sino all'osso, la somma totale venne ridotta a quarantun
milione, diecimila trecenventinove lire e settantasei centesimi; ossia
ridotta di quattromila trecensettantotto lire e centesimi sessantotto,
cioè di trecensessantaquattro lire ed ottantanove centesimi al mese,
come può verificarsi da chiunque ha poco abbaco. La _Società tutelatrice
dei diritti del popolo_ votò un indirizzo ed una medaglia d'oro
all'animoso deputato, che aveva saputo procacciare un tanto disgravio ai
contribuenti, incoraggiandolo a proseguire nel difficile cammino: _Sic
itur ad astra_. Il dritto della medaglia doveva rappresentare esso
deputato in figura di Ercole, che strappava un'offa ad un Cerbero col
motto: _Pochi compagni avrai per l'alta via_. Il rovescio conteneva le
parole: _Economia di quattromila trecensettanta lire e centesimi
sessantotto. La Società tutelatrice dei diritti del popolo al deputato
Lesina._ L'indirizzo venne subito presentato: della medaglia i
sottoscrittori ed il deputato Lesina stesso aspettano ancora le notizie.
E stando, che la Camera, per avere impiegati sette giorni alla
discussione di questo articolo e tredici a quello delle esclusive, si
trovava stanca ed i Deputati avevan fretta di tornarsene alle case loro
a celebrarvi la Santa Pasqua; la legge pel rinnovamento del privilegio
alla Banca fu votata in quindici minuti alla svelta, e si sbrigarono due
o tre bilanci in una seduta sola.

Il primo maggio fu la presentazione e l'accettazione dei concorrenti.
Principali erano: il monarca d'Introibo, il despota di Exibo e
l'autocrate d'Antibo. Poi ci fu un vecchio general di esercito o
maresciallo che dir si voglia, di non so che lontano paese, di
Fanfaronia, credo; due poeti; cinque o sei nobilicchi spiantati; un
dipintoruzzo di sorici; un maestro di pianoforte; ed un tenore. Insomma,
tutti i cenci vollero entrare in bucato. Un banchiere ricchissimo,
millionario, nella cui anima plutocratica era, non si sa come,
germogliata una più degna ambizione, venne scartato a termini
dell'articolo quarto perchè afflitto da un orzaiuolo.

In questa schiera di corteggiatori, certo, non ve n'era alcuno che
potesse non dispiacere alla bella Rosmunda; ed il denaro pubblico
sarebbe stato meglio sprecato, mantenendo un serraglio di fiere, un
giardino zoologico. La presunzione e l'albagìa degli avvocati la
stomacava: sapevan tutto, parlavan di tutto, discutevan di tutto,
sofisticavan su tutto, securamente, imperturbatamente, arrogantemente.
Figurarsi! quegli avvocati, obbligati dalla professione ad immischiarsi
di tutto, finanze, agricoltura, commercio, industria, religione, guerra
e persino giurisprudenza, erano onniscienti, onnipotenti; o, per meglio
dire, solo una cosa ignoravano: la coscienza, sola una cosa non
potevano: esser galantuomini. La facondia loro volgare; gli artifizi
rettorici triviali; i sofismi plebei; le frasi ad effetto plateali;
offendevano il buon gusto della Principessa. La quale non sapeva
comprendere, come que' farabutti potessero tanto nelle assemblee e nelle
adunanze popolari. Ma noi possiamo comprendere il perchè: le assemblee
ed i comizi non sono composti in maggioranza da persone ammodo, colte ed
intelligenti quanto la Principessa Rosmunda!

Raffaello Granata, il Cimadibue dalla lunga zazzera e dalla berretta di
velluto, era almeno soltanto noioso. S'aveva imparate non so che frasi
sul pittore universale e faceva di tutto: lui frescante, lui
acquarellista, lui pittore ad olio, a guazzo, con l'encaustico; lui
pittore di genere e di storia; lui ornatista, fiorista, figurista,
paesista, prospettista, ritrattista, internista, animalista, scenografo.
Persuaso, che l'arte, per la quale si credeva nato ed alla quale tutti
il giudicavano negato, fosse quanto v'ha di più grande al mondo, degna
di ogni corona e d'ogni esaltazione, voleva rinnovare il miracolo di
Borgo Allegro. Pretendeva, che la Rosmunda gli stesse a mossa per una
Madonna grande al vero, ch'egli avrebbe poi regalata alla Metropolitana
di Scaricabarilopoli. Con quel modello e con la sua valentìa come non
fare un capolavoro? Ma il premio sperato da questo impiastratore, da
questo pittor da sgabelli, da boccali, da fantocci, da candele, da
chiocciole, da taverne, da colombaie, da marzocchi, era ben altro da
quello ottenuto da Cimabue. Gli Scaricabarilopolitani, entusiasmati al
paro de' Fiorentini del Dugento, lo avrebber portato in trionfo e la
Principessa sarebbe stata sua.

La presunzione del pianista era più fatua. Quel tartassator di tasti
dalle spiovute chiome, ragionava così:--«Il Parlamento ungherese ha
votato una spada di onore a Francesco Liszt, per qual merito? per una
grande agilità negli arpeggi e per aver composto sonate, che intronano
gli orecchi. Darò io dei concerti, io, che assorderanno, altro che
intronare! farò vedere io, cosa sia lo spadroneggiar sul pianoforte, sul
cembalo. E se questo Parlamento non mi decerne la Principessa, vuol dire
che son tutti barbari, che nulla comprendono dell'arte, nulla!».

Il tenore guardava dall'alto in basso il musico. Egli era un pezzo
d'omo, con certe spallacce, con un petto! e pettoruto! Le marchese e lo
banchieresse di tutta le città, nelle quali s'era prodotto, lo avevano
sempre distinto. I palchi, le platee, i lobbioni gli avevan prodigati
gli applausi ed i battimani; gli erano stati offerti gioielli per
sottoscrizione pubblica; i Municipii gli avevano data la cittadinanza
onoraria; il popolo gli aveva staccati i cavalli dalla carrozza e ci
erano stati degl'imbecilli, che vi si erano attaccati per istrascinarla.
Del resto, salvo queste virtù amatorie e canore, nulla: ignorava la
grammatica e le creanze. Ma stimava facile di piacere alla Principessa,
e di destare negli Scaricabaripolitani lo stesso fanatismo suscitato
presso non men colti pubblici e non meno inclite guarnigioni.

Parliamo un po' de' poetonzoli, entrambo compenetrati dalla missione
dell'arte; entrambo convinti il poeta essere superiore a tutti ed a
tutto (persino alle regole di sintassi e di prosodia) ed il genere umano
doversi stare in ammirazione innanzi ad esso e rispettarne e secondarne
i capricci ed aspettarne la parola, il verbo, la luce, la rivelazione.
Perchè la parola è rivelazione; e la rivelazione è luce; e la luce è
verbo; ed il verbo è dio, ed il poeta è vate, ed il vate è profeta.
Nell'animo cristallino del cantore ispirato si ripercote tutto il mondo
umano e divino; esso animo è il vero centro del mondo. Infelice il
secolo, che disprezza e lapida e crocefigge e schernisce e frantende il
poeta-messia! Misera quella donna, che potrebbe intrecciar le rose agli
allori ed invece circonda di spine le teste radianti ed ispirate! Ma un
verso, una parola del poeta vindice reca loro il meritato castigo e li
mette alla berlina per l'eternità. Sentir tutto il giorno questa litania
non è uno spasso.

--«O Dio!»--pensava la Rosmunda, «quanti vituperii diran costoro di
Scaricabarili e di me! Eppure preferisco qualunque ingiuria loro alle
lodi, di cui m'infastidiscono adesso!»

Quanto al general Fabrizio Tremolowski, gli era uno di quegli
avventurieri, che portano la loro spada dovunque si combatte per la
libertà, per una causa giusta e santa! che ogni Governo provvisorio
promuove di uno o due gradi, ed i quali hanno arraffata riputazione di
prodi senza aver mai preso parte ad una battaglia affrontata o di
strategici per una resa. Sono eroi delle quattro parti del mondo,
perseguitati da tutte le Polizie, ed alimentati da tutte le
sottoscrizioni patriottiche. Ostentano sempre alcun solenne di
sberleffe... ricevuto in qualche bisca ed un naso rosso a peperone.
Talvolta le rivoluzioni gli impongono anche ai Governi ammodo: allora
perdono in tutta fretta una battaglia e poi si pappano per una ventina
d'anni la pensione di ritiro.

Ma insomma tutti costoro avevan pure o s'illudevan pure di avere qualche
merito: parte vantava nobili studii; parte o giusta o ingiustamente
aveva ottenuta o scroccata celebrità o popolarità. Tenore, maestro di
musica, poetucolo, pittorello, condottiero, cavalocchi, erano qualcosa.
Ma la nullità piena, la più stucchevole oltracotanza, il grado massimo
di fatuità si rattrovava nei nobiluzzi spiantati, ne' gentiluomini
squattrinati. Nel Regno di Scaricabarili, aboliti feudi e fidecommessi e
maggioraschi, i cosiddetti nobili, sprovveduti di qualsiasi privilegio o
prerogativa, erano ormai semplicemente de' titolati: e la vanità del
titolo faceva sì che non istudiassero e lavorassero; che attendessero
soltanto alle femmine, al giuoco, a' cavalli, a futilità. E nondimeno si
reputavano dappiù, si figuravano d'essere l'eletta della nazione,
chiamavano _altavita_ le occupazioni, che non erano neppure una _vita_!
La Rosmunda, avvezza a conversazioni meno sguaiate, non sapeva
rassegnarsi ad ascoltarne i pettegolezzi; ed avrebbe preferito persino
il tenore ad uno di siffatti duchi o marchesi.

Tali erano i candidati da burla: privi d'ogni probabilità, non si erano
potuti escludere a _priori_ dal concorso, essendosi il partito
democratico assolutamente opposto ad ammettervi i soli rampolli di
famiglie reali, di dinastie. I candidati serii erano pur sempre
Baldassare V d'Introibo, Melchiorre XVII d'Exibo, e Guasparre I
d'Antibo, triade scontraffatta.

Il vecchio Baldassare, rimbambito e melenso, supponeva _bona fide_
d'essere un uomo di spirito; e, se non fosse stato monarca, avrebbe
fatto stampare la raccolta delle freddure dette e delle melonaggini
stampate. Vecchio squarquoio e cascatoio, cascante di vezzi, si pose a
fare il cascamorto con la Rosmunda. Brutto gobbo! e' non s'accorgeva
nemmanco, che le sue scene, la sua svenevolezza provocava solo i
cachinni e gli sghignazzamenti della intera Corte. Componeva e declamava
certe anacreontiche, da disgradarne quelle dello Ingarrica; e diceva le
più belle corbellerie del mondo con faccia cornea. Un giorno, la
Principessa intervenne ad un pranzo di gala con una collana di cammei. E
lui:--«Che bel collare porta vilipeso al collo donna Rosmunda!».--Si
doveva andare al teatro: la Principessa chiese che musica si dèsse; e
lui pronto:--«Il Saffo!».--Per quanto garbata, la Principessa non
potè dissimulare affatto un risolino; e lui:--«Lo so, lo so,
signora letterata; lo so, ch'è una _s_ impura, lo Saffo, lo
Saffo».--Passeggiavano in giardino: la Rosmunda notò, ch'egli
stropicciava il piede in terra:--«Che c'è, Maestà?»--«Nulla,
ammazzavo uno scarabocchio».--In un gran ballo, mentre la Rosmunda
ballava, egli esclamò ad alta voce:--«La Principessa balla come una
Stinfalide!».

Per acquistarsi poi l'affetto del popolo, era divenuto la vera
caricatura di que' sovrani alla Giuseppe II, celebri per la
famigliarità, con la quale permisero a' sudditi d'intrattenerli:
frequentava i caffè, i bigliardi, le birrerie, le fiaschetterie, le
osterie, le bettole, i liquoristi, i balli pubblici, ogni luogo di
ritrovo, e persino quelli che la gente per bene schiva, dimostrandosi
affabile, alla buona, alla mano. Ma la famigliarità è pericolosa:
mostrarsi nudo e senza prestigio non fa mai conto. Gli stessi
grand'uomini non son mai tali pe' loro camerieri; e scapitano sempre
nell'estimazione di chi li avvicina con dimestichezza. Figuriamoci poi
uno sciocco! Ben presto il monarca d'Introibo divenne il buffone, il
zimbello degli Scaricabarilopolitani. Tutti ne facevano strazio. I
bell'ingegni del volgo il caricatureggiavano, il mettevano in novelle ed
in canzone. Gli si affibbiavano più corbellerie, più balordaggini
ancora, ch'egli non facesse o dicesse, e s'era trovato verso e modo di
calunniarlo. Gli appiccicavano _appigionasi_ dietro le spalle; i monelli
gli facevan ressa intorno e gli si accalcavano alle spalle con battimani
e tripudio e grida ironiche. Insomma la plebaglia godeva di vilipendere
e schernire in lui la Maestà Regia; ed egli s'immaginava d'esser davvero
amatissimo ed accettissimo all'universale, e che quelle beffe fossero le
acclamazioni trionfali, mercè delle quali avrebbe ottenuta la Rosmunda.

Il despota d'Exibo era un tipo d'altro genere. Mischiarsi nella folla,
lui, Don Melchiorre XVII, lui, persona inviolabile e sacra? E se lo
avessero aggredito? E se qualche gaglioffo avesse osato por le mani
addosso all'unto del Signore? E se quelle maledette gambacce disuguali,
spaiate, fossero state motteggiate da qualche temulento o temerario?
Esporsi a pericoli, al ridicolo! Oh no, no, mai! per nulla al mondo! Ma
gli Scaricabarilopolitani son gente urbana, ossequiosa: e poi, chi
avrebbe dovuto avercela con esso lui? Eh non si sa mai! Nel dubbio,
astienti! Eccesso di prudenza non nocque mai. Per amicarsi la plebaglia
e propiziarsela, quando usciva in carrozza, preceduto dal battistrada e
da un picchetto d'onore, con gentiluomini a cavallo a' due sportelli e
seguìto da un plotone di cavalleria, gettava denari di qua e di là. Ne
gettava talvolta anche dalle finestre del palazzo, allibendo e
tappandosi poi dentro, tutto spaurito, quando i mascalzoni accalcati per
raccattarlo s'abbarruffavano od anche solo applaudivano tumultuosamente.
Una volta, in una festa a Corte, svenne al bel meglio, perchè alcuni
razzi del fuoco d'artificio presero fuoco inaspettatamente prima del
tempo. Lui n'ebbe a morir dalla paura: chi sa cosa immaginava che fosse.
Notò un'ombra d'uomo, che traversava il cortile verso mezzanotte: subito
mandò a chiamar la Polizia, fece circondare e rovistare tutto il
palazzo, e, quando fu dimostro, l'ombra esser un guattero, che si recava
a far visite notturne alla moglie del portinaio, scrollò il capo con
aria incredula, volle raddoppiate le guardie, si lagnò con Re Zuccone
della Polizia inetta o complice di non so che regicidio fantastico, e
fece cantare un _Tedeum_ in ringraziamento all'Altissimo, per averlo
scampato da tanto pericolo. I suoi agenti avevan però continui
abboccamenti con persone influenti, con membri del Parlamento; e,
profondendo tesori, cercavano di assicurargli buon successo.

Ma, se questi duo proci venivan disprezzati e dal popolo e dalla
Principessa, l'autocrate d'Antibo seppe farsi abominare; ed avrebbe
appreso ad esecrare il nome di Re alla più monarchica nazione. I modi
alteri e facchineschi; le violenze continue; il fasto scompagnato da
ogni caritatevolezza; la ferocia dimostrata perfino verso i cani delle
sue mute ed i cavalli de' suoi equipaggi: il fecero detestare da
tutti... Ma, poich'egli ebbe preso un paio di volte a _cravasciate_ i
borghesi, che nol salutavano abbastanza reverenti, tutti gli sciocchi, i
quali accorrevano in folla per ammirare lo sfarzo del suo corteo, gli si
scappellavano e lo inchinavano. Egli pensava:--«Tiberio avea ragione:!
tutto sta a farsi temere. Quelle quattro scudisciate han fatta una
impressione tale sugli animi degli Scaricabarilopolitani, anzi di tutti
gli Scaricabarilesi, che non c'è dimostrazion d'ossequio, ch'io non
possa ottenerne. Sceglieranno me, per paura del castigo, che verrei loro
ad infliggere, se osassero antepormi altri. Hanno visto, che meco non si
celia. Non sono mica un Re fantoccio alla moderna io, un di questi
Reucci costituzionali, o di questi Regoli illuminati: no, sono di quei
veri autocrati all'antica, che camminavan sempre con a lato sargenti
pronti ad eseguirne ogni comando; ed i quali non isdegnavano, quando
mancasse il sargente, maneggiar con le proprie anguste mani il
mazzafrusto o la bipenne, cattera!».

Nè Guasparre smargiassava, fanfaroneggiava, millantando vizii che non
avesse. Sentite questa. Aveva condotto seco, dal Regno d'Antibo,
grandissimo numero di cortigiani, famigliari, domestici e creati; fra
gli altri un coppiere, giovanetto imberbe ancora ed al quale diceva di
volere un bene grandissimo. Lo aveva soprannominato Coppa d'oro; nè
soffriva, ch'altri il servisse di coppa: ed il giovane riconoscente
sforzavasi di servirlo di coppa e di coltello. Pure, un giorno, gli
venne porto all'autocrate un calice di vino ammoscato; intendi: nel
quale stava in infusione il cadaveruccio d'una mosca. Chi descriverebbe
i furori di Re Guasparre, allorchè vide la bevanda moschifera? Fece
amministrar venticinque buone nerbate al Coppa di oro; e gli dichiarò
che, in caso di recidiva, gli avrebbe fatta esalar l'anima sotto le
verghe. S'era nell'agosto; ed in Iscaricabarilopoli, città moscosissima,
nessuno rimembrava di aver mai visto negli agosti precedenti tanta copia
di mosche, tal quantità di mosconi, tanti stuoli di moscerini, tali
turbe di mosconcini, tal novero di mosconacci, tal moltitudine di
mosconcelli, tanta folla di moschette, tanta adunanza di moscini, tanto
popolo di moschettine, tanta frequenza di moscherelli, tanto spesseggiar
di moscherini, tanto concorso di moschini, tanto esercito di mosciolini
e tanta folla di moscioni. Scaricabarilopoli era tutta un moscaio. I
signori salariavano persone apposta per moscare con gli scacciamosche,
le ventole, le roste, i ventagli, i paramosche: per ogni stanza si
tenevan tre o quattro piattelli con carta moschicida, cinque o sei
acchiappamosche prussiani; ed il suolo era bruno per gl'innumerevoli
cadaveri moscherecci. Ma non pareva, che quello sterminio le diminuisse:
e le moscaiuole ed i guardavivande non bastavano a riparare i cibi e le
provviste. La povera gente pappavano mosche in ogni pietanza. Anzi, il
dottissimo Dummkopf, professore a Gottinga, nella _Filosofia e Storia
comparata della culinaria e della gastronomia_ volume quarto, capitolo
sessagesimoquinto, pagina seicentonovantotto della settima edizione,
annotata dall'egregio Zeitverlust, racconta, che, abituandovisi, le
trovarono finalmente gustose; e che s'inventarono alcuni intingoli
speciali per condirle; e che gli Scaricabarilesi son tuttora moschivori
ed educano ed ingrassano apposta in certi loro moschili sciami, o gregge
di insetti. Cosa, della quale non può dubitarsi, vedendola affermata da
due tali rappresentanti della scienza tedesca!

Pensate come stesse attento il pocillatore di Re Guasparre! Pure, il
diavolo ci mise la coda; ed una volta, in quella appunto che porgeva un
bicchiere di barbèra spumante alla Maestà Sua, ecco una moscuzza scapata
e ghiotta casca nel vino. L'autocrate comincia a bere ed avverte un cosa
fra lo labbra. Gli salta la mosca al naso, prende la cosa con l'indice e
il medio della sinistra, guarda e riconosce la bestiuola semiviva.
Chiama Coppa d'oro e gliela mostra sul tondo di porcellana bianca, senza
profferir verbo, ma con una guerciata terribile.

Il fante di coppe allibì. Volentieri avrebbe fatto il passo della mosca;
ma come svignarsela? Cadde ai piedi del padrone, sclamando:--«Maestà,
non faccia d'una mosca un elefante!»

--«Ho giurato»,--rispose l'autocrate, che era uomo di parola.--«Vedrai
se so levarmi i moscherini dal naso!». E chiamò gli aiutanti:--«Prendete
costui, prendetelo; menatelo nel cortile e fategli esalar l'anima sotto
le verghe».

Così fu fatto. Le strida del vergheggiato andavano al cielo; ma quel Re
crudele non se ne lasciò impietosire; le strida s'affievolirono,
divennero gemiti; e l'autocrate chiamato un altro servo gli disse;--«Mi
farai tu da coppiere in seguito! Fa, che l'esempio di Coppa d'oro ti
valga!».

I gemiti cessarono e gli aiutanti tornaron di sopra, fecero reverenza e
riferirono, che la Maestà Sua era stata obbedita. Maestà, che non aveva
interrotto il pranzo, non aveva, nè perduto un boccone; sogghignò, e
dopo aver sorbillato un bicchierin di Malaga, soggiunse:--«Benone! ma
gli è inutile di divulgare il fatto: spero, che saprete tener tutti il
cocomero all'erta? Insomma, mosca di quel, ch'è accaduto!».

Ma come occultar certe cose? Quella insigne ferocia fu ben presto di
ragion pubblica, e tutta la città sossopra. Cominciarono a farsi
capannelli, che poi divennero attruppamenti: la folla sdegnata
profferiva minacce contro l'autocrate d'Antibo, contro gli altri
pretendenti della Principessa e vociferava di manometterli. Bisognò
batter la generale e far circondare dalla forza le residenze di
Guasparre, Melchiorre e Baldassarre. Quest'ultimo provò a mischiarsi
alla folla, bestemmiando anche lui contro l'iniquità del collega; ma non
era momento da scherzare con l'ira popolare, e ci volle il bello ed il
buono per ricondurlo salvo in casa. Don Melchiorre tentò di fuggire; e
poi, tremando come una vetrice, andò ad appiattarsi fra le materasse,
dove il soprappresero dolori colici. Nè dell'esercito stesso era molto
da fidarsi per la difesa dell'autocrate di Antibo. Il capitano
Sennacheribbo dei dragoni, uno degli uffiziali più stimati, fregiato
della medaglia d'oro al valor militare, rispose al colonnello che gli
ordinava di recarsi a difesa del Re Guasparre:--«Do piuttosto le
dimissioni, che espormi a torcere un capello a chicchessia in difesa di
quel mostro».--Fu mandato agli arresti di rigore. Frattanto cominciò
fortunatamente un acquazzone dirotto, che disperse la folla senza
spargimento di sangue.

Il Procurator generale avrebbe voluto procedere. Ma l'autocrate
d'Antibo, alle prime rimostranze fattegli fare officiosamente da Re
Zuccone, rispose:--«Essere Re, non esser sindacabile se non da Dio, per
la propria condotta verso alcun suo suddito. Non potersi sottoporre
ad alcun Tribunale scaricabarilese in virtù del principio
d'estraterritoralità. Aver esercitata la propria giurisdizione e compìto
un atto di giustizia sopra un suo subordinato. Il caso suo essere
identico a quello di Cristina di Svezia, quando fece mettere a morte il
Monaldeschi nella Galleria de' Cervi del palazzo di Fontanabellacqua, il
dieci dicembre milleseicencinquantasette. Il Re di Francia avere allora
riconosciuto il dritto di Cristina ed ammessa la propria incompetenza ad
esaminarne la condotta. E lui, Gasparre, esser di più Re effettivo, non
abdicatario, eccetera, eccetera».--Diplomaticamente parlando, secondo il
Diritto internazionale (che è spesso cosa stortissima) Gasparrino aveva
ragione pur troppo, come riconobbero i legisti della Corona. Si lasciò
cader la faccenda. Il professore di Diritto internazionale presso
l'Università di Scaricabarili ebbe diecimila lire dall'autocrate
d'Antibo per iscrivere alcune argutissime _Considerazioni sulla
giurisdizione, che gli autocrati conservano all'Estero su' loro sudditi
e specialmente sulle persone del seguito_: nessuno lesse lo scritto,
tutti il decantarono per un capolavoro; dopo dieci giorni quasi nessuno
pensava più alla morte del povero Coppa d'oro.

Ma come raffigurarvi l'orrore, che la Rosmunda provava per questa tigre
in volto umano? e 'l suo sgomento, riflettendo, che forse appunto pel
terrore incusso dall'autocrate e per cansare una guerra, ch'egli avrebbe
inumanissimamente condotta, popolo e Parlamento potevano lasciarsi
indurre, rassegnarsi ad acclamarlo Re, a darglielo per isposo? Diventar
moglie di uno capace di far morire un favorito sotto le verghe, perchè
ha trovato una mosca nel bicchiere! Uh, povera principessina!

Ella slacciava il legacciolo donato dalla fata Scarabocchiona, se ne
cingeva il polso sinistro, il baciava... e subito, immantinente, la
terra veniva scossa come da un tremuoto, s'udiva come un rombo d'un
tuono, ed appariva quella bellissima donna, tutta velluti e trine e
gemme, la quale diffondeva intorno una luce vivida tanto da rischiarare
splendidamente la stanza e da fare impallidire qualunque lume
artificiale o naturale. La Rosmunda si buttava in braccia alla santola,
e si querelava e rammaricava. Quella buona fata ad abbonirla, a
confortarla:--«Abbi fiducia! spera! Ti par egli, ch'io ti possa aver
porto un consiglio insidioso? che la tua comare ti voglia
ingannevolmente precipitare, affogare? Ti par egli? Sta pur certa, che
avrai uno sposo degno, un marito stimabile, un consorte conveniente, un
coniuge quale il desideri. Ma sai, che dovrei offendermi della tua
diffidenza?».--E proseguiva a garrir così per un pezzo. E la figlioccia
si rassicurava al quanto ancor essa. Ma poi, ripartita, rivolata via,
riscomparsa la madrina, la Rosmunda ricascava nelle perplessità
precedenti. Considerando come fra tutti i proci non vi fosse una persona
stimabile od amabile, un individuo, al quale potesse rappresentarsi
senza raccapriccio di vedersi indissolubilmente legata, ridisperava.

La triade de' concorrenti scettrati, per boriosa che fosse e piena di sè
e di poca levatura, capiva arcibenone di essere cordialmente esosa ed
abominevole alla reda del trono di Scaricabarili. Malgrado i riguardi
cerimoniosi ed il contegno affabile, che venivano imposti e suggeriti
alla Rosmunda dalla etichetta di Corte, dalla gentilezza naturale, dalla
buona educazione, dalla posizione difficile, in cui si trovava, e dalle
raccomandazioni paterne e da' consigli della santola, la poverina non
riusciva a dissimular l'avversione per quelle tre caricature mostruose.
Essa pensava:--«Qualunque di cotesti concorrenti venga prescelto, ed uno
di costoro dev'essere scelto pur troppo, checchè dica la fata per
confortarmi; perduta che abbia ogni speranza di redenzione e di salute;
quando si tratterà di firmare l'atto di matrimonio innanzi al Presidente
del Senato, che tiene i registri di Stato Civile della famiglia reale;
io..... sorbirò qualche gentil veleno, il quale mi sottragga
all'avvenire miserando, che mi si appresta».--Risoluzioni di tal fatta
(ed irremovibili) ben possono occultarsi: ma come nasconder
l'aborrimento per coloro, che ce le ispirano? nasconderlo in tutto?
Vederci costretti a desiderare ed apprestarci la morte, a
diciassett'anni, e quando potevamo ragionevolmente imprometterci una
vita felice, è crudele strazio: altera la salute ed il carattere.

Dunque, i tre Regnanti si sapevano in abominio alla Principessa: e
d'altronde cominciavano ad accorgersi, che, malgrado l'imbecherare ed il
subornare, malgrado i raggiri e lo cabale, difficilmente avrebbero
ottenuta la popolarità e le acclamazioni richieste dalla legge sul
concorso. L'autocrate d'Antibo, che aveva un po' più di giudizio, di
mitidio, di comprendonio, di sale in zucca degli altri due, pensò bene
di convocare il despota d'Exibo ed il monarca d'Introibo ad un concilio
privato. S'adunarono _inter pocula_, loro tre soli. Rimandata la livrea,
votate alcune bottiglie di un poderoso vino e squisito, atto ad infonder
coraggio persino a Don Melchiorre; il convitatore tenne a' convitati il
seguente discorsetto:

«Care Maestà, siamo competitori. Verissimo. Nondimeno abbiamo un
visibilio d'interessi comuni. Ciascun di noi brama per sè la bella
Rosmunda, e quel, che importa vieppiù, la corona di Scaricabarili.
Seicento cinquantaquattromila trecento ventun miglio quadrato di
superficie con centoventitrè milioni, quattrocentocinquantaseimila
settecentottantanove abitanti, non sono una bagattella. C'è un guaio
però: la Rosmunda non digerisce nessuno di noi, e la Nazione, che per
mezzo delle Camere mette sempre il becco in molle in tutto, ci ama
press'a poco quanto l'epizoozia, anzi l'epidemia. Oh quanto ci sarebbe
da riformare, in questo maledetto paese! se giungo ad insignorirmene, do
lo sfratto a tutti i chiacchieroni, e... Dunque io credo, che
Principessa e Parlamento, piuttosto che qualunque di noi accetterebbero
per marito e sovrano quel musico sfiatato, o lo scassinator di cembali,
o l'imbratta tele, o quel tagliacantoni del general Tremarella, od uno
di que' pennaiuoli, od uno di quei cavalocchi od uno di que' nobilicchi.
Io potrei rassegnarmi a vedermi anteporre uno di voialtri, che siete
teste coronate e ch'io riconosco per eguali miei; non un cialtrone.
Quindi mi parrebbe da escogitare un modo, che assicuri ad uno di noi tre
queste nozze. Io ritengo, che non abbiate neppur voi la debolezza di
credervi vincolati dal giuramento prestato il primo maggio? No, n'è
vero? Dunque il modo è bell'ed escogitato. Diamo una gran caccia, alla
quale inviteremo la Principessa. Noi, vi si andrà accompagnati da tutto
il nostro seguito; la Rosmunda verrà senza sospetto e con pochi seguaci
e senza scorta militare. Nel meglio della caccia, c'impossesseremo di
lei, ci sbrigheremo in un modo o nell'altro dei seguaci; e via, a
briglia sciolta verso la frontiera. Quando saremo in una piazza forte o
vostra o mia, decideremo a chi debba appartenere la preda».

--«Decidiamo ora,»--disse il monarca d'Introibo, ch'era sciocco sì, ma
fino ad un certo punto.--«Siamo tutti galantuomini, ma mia nonna diceva:
_fidarsi è bene, non fidarsi è meglio_. Patti chiari e amici cari!».

--«Ma»--rispose Guasparre--«se fissiamo prima colui, che deve godersi il
frutto della rapina e del ratto, gli altri due potrebbero credere di non
aver interesse ad assisterlo».

--«Bah!»--replicò Baldassarre.--«Facciamo così. Per cansare ogni
attrito, ogni gelosia, giochiamocela a' dadi, appena passata la
frontiera».

--«Felicissima idea! Ce la dadeggeremo! Che ne dice la Maestà del
despota d'Exibo?».

Don Melchiorre trovava dal canto suo infelicissima l'idea, perchè aveva
una paura sordida. Ma i colleghi, deliberati a fare il colpo, che lo
minacciavano caso non volesse cooperarvi, gli facevan paura anch'essi.
Fra' due pericoli scelse per minor male il più remoto; e si obbligò ad
esser complice dell'attentato.

Si apparecchiò la caccia nella macchia di Valquerciame, bosco famoso, a
non molti chilometri da Scaricabarili. Re Zuccone, vecchio e podagroso,
non seguiva più le cacce da qualche lustro ed aveva preferito sempre una
buona mensa a questi divertimenti faticosi, e la selvaggina e la
cacciagione in tavola alle fiere nelle selve. La Principessa invitata,
avrebbe voluto, ma non ardì scusarsi; e promise di trovarsi al convegno,
con pochi gentiluomini ed alquante gentildonne di Corte. Il monarca
d'Introibo, il despota di Exibo e l'autocrate d'Antibo partirono
nottetempo dalla città per giungere a punto di giorno al ritrovo. Ma
Baldassarre aveva nei giorni precedenti, sotto colore di disporre tutto
per la caccia, mandati i loro seguaci spicciolatamente a scaglionarsi
con cavalcature fresche lungo la consolare, che conduceva alla
frontiera, la quale non era lontanissima. Alle sei del mattino, la
Rosmunda giunse a cavallo co' suoi nel luogo fermato; e la caccia
cominciò lietamente.

Secondo il pattuito, la intera comitiva doveva ritrovarsi a cena, verso
le nove pomeridiane, nella Reggia di Scaricabarilopoli. E che cena, che
cena avevano preparata i maestri di bocca, i cuochi, i cucinatori, i
guatteri, i pasticcieri, i sorbettieri di Corte! che vivande! che
intingoli! che savori! che vini poi! quanta grazia di Dio! C'era di che
soddisfare la fame rabida del cacciatore e da solleticare il palato d'un
gastronomo sazio! Tutti aspettavano: ma si fanno le nove, e non giunge
nessuno; suonano le dieci, nessuno; siamo alle undici, nessuno; scocca
la mezzanotte, nessuno; canta il gallo, nessuno; albeggia, nessuno;
spunta il sole, nessuno. E quel ch'è peggio, non un messo, un corriero,
che recasse notizie. Cosa mai poteva essere accaduto alla principessa
Rosmunda, ed alla intera comitiva? Il povero padre, che non aveva chiuso
occhio tutta la nottata, e solo verso mezzanotte, per non venir meno, si
aveva mangiato un cestello di frutta di mare, (ostriche, angine,
fasolari, cannolicchi), un consumato, un pasticcio di fegato d'oca, una
fetta di timpale, del pesce in bianco, quattro costolette di cervo coi
piselli, dei petti di pollo ai tartufi, un ponce alla romana ed un po'
di cinghiale arrosto, il povero padre, dico, stava sulle spine. Manda
corrieri, spedisce aiutanti: non tornano. Finalmente, disperato, chiama
il capitano, che in quel giorno comandava la guardia a Palazzo e gli
dice:--«Figliol mio, qua dev'essere accaduto una gran disgrazia certo.
Fammi il piacere: raduna il tuo squadrone. Non importa che la Reggia
rimanga sguernita; basta la guardia nazionale. Corri alla macchia di
Valquerciame; frugala tutta, percorrila in ogni senso, per ogni verso,
informami d' ogni scoperta con qualche ordinanza e non tornare senza la
Principessa. Ha' tu inteso?»

--«La Maestà vostra sarà obbedita. Comanda altro?»

--«Va figliuol mio, che Dio ti benedica. Come ti chiami?»

--«Maestà, sono un trovatello educato per carità da una buona vecchia.
Mi han posto nome Sennacheribbo Esposito. M'arrolai volontario; servo da
undici anni; mi han conferita una medaglia d'oro per una bandiera presa
al nemico; son capitano di cavalleria di seconda classe con
dugentoventitrè lire e trenta centesimi al mese e due razioni di
foraggio».

--«Va, Sennacheribbo;»--disse Maestà, chiamandol gentilmente pel nome e
non pel cognome, quasi ingiurioso, come quello, che gli doveva
rammentare d'esser _filius nullius_,--«Va, Sennacheribbo mio, non perder
tempo. E se mi riporti o riconduci sana e salva la figliuola mia, ti
giuro che nessuno sarà quind'innanzi al di sopra di te nel mio Regno».

--«Il servire la Maestà Vostra è premio a sè stesso».

E senz'altro dire, fatta riverenza al Re, Sennacheribbo scese, al corpo
di guardia, chiamò il trombetta e fece sonare a raccolta. Venti minuti
dopo, lo squadrone partiva, galoppando per alla volta di Valquerciame.
Lasciamolo galoppare e vediamo di appurar più pel minuto la storia di
Sennacheribbo Esposito, capitano di seconda classe nel quinto reggimento
Dragoni della Maestà del Re di Scaricabarili.

Lo Esposito non aveva detta cosa al Re Zuccone, che non fosse vangelo.
Egli era un trovatello, raccattato un bel mattino per istrada da una
donnicciola, che un altro poco il calpestava nell'uscir di casa.
Rinvoltato in poveri cenci e sudici, vagiva lamentevolmente. La vecchia
sel recò a casa, il fece allattare da una capra e sel tirò su ed il fece
andare a scuola e lo amò proprio come figliuolo. Sperava farne un buon
operaio, che fosse il bastone della vecchiezza sua, perchè già,
l'affetto de' genitori più o meno, ha sempre della speculazione.
Sennacheribbo ascoltava a bocca aperta i racconti, che si facevano nelle
veglie; e sognava di figliuole di Re incantate, che dovevano esser
liberate dal suo valore. Quando a scuola gli cominciarono a spiegare le
prodezze di Ercole e degli altri Semidei, non pensava ad altro; e
piangeva di essere ancor bambino e di non poter girare pel mondo,
emulando i grandi esempli di valore antico. Quando fu più grandetto e
capì passati irrevocabilmente i tempi eroici, fu per lui un disinganno
amaro. Aborriva dall'ozio, ma il lavoro servile dell'operaio gli
ripugnava: aveva bisogno di faticare per guadagnarsi un tozzo di pane e
fretta di cessare di essere a carico della sua benefattrice; sentiva
profondamente la mortificazione di essere un projetto (Re Baldassarre
d'Introibo avrebbe detto, un _projettile_) d'essere un projetto,
allevato per carità, e non meno profondamente la riconoscenza verso
colei, che aveva supplito a' genitori suoi. Frattanto scoppiò una
guerra; egli poteva aver da quindici in sedici anni, ma era alto e
forte, come se non ne avesse contati meno d'una ventina. Vedendo i be'
reggimenti, che sfilavano al suono delle bande e delle fanfare e si
recavano al campo; vedendo tanti giovani arrolarsi allegramente; egli si
crucciava. Abbandonar secretamente la madre adottiva non osava;
manifestarle il desiderio di marciare nemmanco: e, per non affliggerla,
si macerava. La buona donna però, preoccupandosi della tristezza di
Sennacheribbo, che dimagrava, dimagrava e perdeva ogni freschezza di
carnagione e l'appetito, ed amorosamente osservando e notando, giunse a
discoprire qual baco il rodesse. Era poverella e vecchierella e d'umil
condizione, ma non di sensi volgari: sapeva amare con disinteresse e
devozione, sapeva. Aveva accolto ed educato quel fanciullo, sperando
farne il bastone della sua vecchiaia; ma seppe sacrificare senza
esitazioni la sua speranza, i suoi disegni, al bene di lui, alla
contentezza di lui. Raggranellò alcuni suoi piccoli risparmii, chiamò il
giovane e gli disse:--«Ho scoperto il tuo desiderio. Grazie di averlo
combattuto per amor mio. Segui il tuo genio. Non ti dico di
risparmiarti, perchè non sarebbe consiglio da darsi ad un soldato. Se
t'incoglierà qualche male, sta certo che la mamma tua non ti
sopravviverà. Torna, torna presto; torna illeso e glorioso; e non
dimenticar mai la povera vecchia, che non ha altra gioia che te».

Sennacheribbo abbracciò la madre, piangendo e giubilando; rifiutò i
quattrini; corse ad arrolarsi; e partì la sera stessa pel campo. Mandò
una prima lettera, che la povera donna rilesse cento volte; e poi,
affaticato dalla istruzione prima, e quindi dal servizio, smise di
scrivere, non riflettendo ai palpiti, che doveva provar la sua
benefattrice. Succedettero scaramucce e fatti d'armi, ai quali prese
parte, e finalmente una battaglia campale sanguinosissima, dove rimasero
molte e molte migliaia di combattenti, ma che fu vinta dagli
Scaricabarilesi. Parecchie vicine della madre adottiva di Sennacheribbo,
le quali avevano figliuoli o mariti o fratelli sotto le armi, avevano
ricevute le nuove de' loro ed erano uscite d'ambascia: ella sola non
sapeva nulla del suo diletto, se fosse superstite o soggiaciuto. Il
Generalissimo spedì, per presentare a Re Zuccone le bandiere conquistate
sul nemico, una deputazione, il cui ingresso in Iscaricabarilopoli fu
una vera festa nazionale. Tutta la popolazione le corse incontro per
vedere que' trofei; per consolarsi, con la vista di quei trofei, de'
lutti e del sangue, che costavano. Ma la povera mamma di Sennacheribbo,
dubbia ancora del fato del figliuolo, stimando pure di non potere se non
augurar male di un silenzio troppo protratto, stette tappata in casa,
piangendo e disperandosi, e quasi imprecando alla gioia universale che
esacerbava le sue lagrime. Cominciava ad annottare, quand'ecco sente
bussare indiavolatamente all'uscio.--«Chi sarà mai?»--s'alza, chè stava
filando presso una lucerna fumosa, guarda da una piccola grata e vede
sul pianerottolo un ufficiale di cavalleria, col braccio fasciato ad
armacollo, che batteva impazientemente la solfa con gli stivali
speronati.--«Oh! pover'a me! sarà qualche seccatura di alloggio e non
alloggio».--Apre e l'ufficiale le salta al collo e l'abbraccia stretta.
Essa lascia cader la rocca, tenta di svincolarsi e grida _accorr'uomo!_
Per tutta la scalinata si spalancano gli usci, accorrono vicini, e che
trovano? Trovano Sennacheribbo, che stringeva la madre al petto e le
diceva dolcemente:--«Come, non riconoscete più il figliuol vostro non
riconoscete, mamma? Non mi volete dar manco un bacio? Oh così va bene.
Ma piano per carità, piano, che ho questo braccio qua ferito. Oh che
buona mamma mia!».

Era proprio lui, Sennacheribbo, lui proprio, quel desso! Ferito sì, ma
con una medaglia d'oro sul petto ed uffiziale. Bagattelle! Altro che
risparmiarsi! S'era precipitato come un demonio tra le file nemiche,
conquistando una delle bandiere, che il Generalissimo lo aveva mandato a
presentare al Re, insieme con parecchi altri gloriosamente feriti. Ora
la madre sicuro che il riconosceva! e, mezzo impazzita dalla gran
consolazione, non rifiniva mai dal carezzarlo, dal vezzeggiarlo, dal
dirgli tante belle cose. Ed i vicini e le vicine a fargli corona e festa
e plauso; ad ammirare ed interrogare, a curiosare ed importunare.

--«Senti, mamma; era venuto a chiederti da dormire: sono quattro mesi,
che non ho provato un letto ammodo».

--«C'è il tuo lettino. Vi metterò le lenzuola di bucato, profumate di
spiganardo».

--«Ma chi va a letto senza cena, tutta la notte si dimena. I miei
compagni sono andati al banchetto del quale il Sindaco si fa onore alle
spese dei contribuenti; io no: ho voluto venir qua da te. Che mi dai?».

--«Oh poveretta me! Non ho se non un po' di pane stantìo e del cacio di
pecora. E come si fa? Tutte le botteghe son chiuse!».

--«Porta qua, che ci ho un appetito militare. E condito da questa salsa
ed in tua compagnia, il pan raffermo ed il formaggio mi sapranno meglio
d'ogni manicaretto».

--«Ma perchè non mi hai scritto? Avresti trovato qualcosa di caldo
almeno!»--dice la povera donna. E non osò soggiungere per non
mortificare Sennacheribbo,--«e mi avresti risparmiate tante angosce!».

--«Oh sì, scrivere! scrivere io! se tu sapessi, mamma, quanto pesa la
penna alle mani avvezze a trattar la sciabola. Preferisco dar la scalata
ad una piazza, anzichè scrivere due righi».

Ho voluto riferirvi questa scenetta particolareggiatamente, acciò vi
persuadeste, che Sennacheribbo, in fondo, era un buon figliuolo ed un
bravo soldato. Ed ottimo soldato si era dimostro sempre in prosieguo e
bravissimo figliuolo. Da sottotenente passò luogotenente, da
luogotenente capitano, amato dai compagni, stimato dai superiori,
modello proprio dell'ufficiale zelante. Ma, da qualche tempo, aveva
perduta l'ilarità naturale; era divenuto pensieroso e malinconico; non
professava più l'usato disprezzo pei libri, anzi leggeva di continuo e
recitava versi; fuggiva i compagni, e si dilettava nel passeggiar
solitario al chiaro di luna. Lo dicevano innamorato. Ma di chi? Vattel'a
pesca! Il fecero spiare, il tenner d'occhio; ma nessuno potette mai
scoprire la signora del cuor suo. Non un indizio, nonchè un principio di
prova, fu possibil di raccorre. A chi tentò di barzellettar seco
sull'argomento, fece quasi paura, tanto andò bestialmente in collera;
sicchè nessuno osò mai più ritoccar quel tasto. L'umor tetro di lui era
raddoppiato, dopo il bandimento del concorso matrimoniale per la
Principessa. Scansava di ragionarne e solo emetteva qualche tronca
bestemmia, quand'altri toglieva a discorrere, ed aveva più volte
dichiarato, che, espletato il concorso, quando avesse a rendere omaggio
com'a Re ad uno qualunque di quei proci, darebbe le dimissioni. Abbiamo
già riferite le parole profferite da lui nel giorno del tumulto contro
l'autocrate d'Antibo, parole, che, per la benignità del colonnello, gli
fruttarono solo un mese di arresti di rigore. Era appunto la prima
volta, che montava la guardia, dopo scontato quel mese di arresti,
quando venne chiamato da Re Zuccone e mandato in cerca della Principessa
smarrita.

Galoppa galoppa, senza mai far alto, lo squadrone giunse in una tratta
alla macchia di Valquerciame e precisamente al punto, ch'era stato il
luogo del convegno dei cacciatori. Lì Sennacheribbo te lo spartisce in
tante pattuglie, in tanti pelottoncini, per battere la selva in ogni
direzione. Imboscano con le debite cautele, come se eseguissero una
ricognizione. Cammina, cammina, ecco, dopo lungo andare, nel più folto
della macchia sentono rammaricarsi, un gemere compresso. Seguono la
direzione, onde venivano i lamenti, e veggono e trovano, che mai uomini
e donne legati agli alberi con salde ritorte ed imbavagliati. Erano i
gentiluomini e lo gentildonne di Corte, venuti alla caccia in compagnia
della Rosmunda, per farle seguito codazzo, corteo, scorta. La triade
regio-brigantesca li aveva fatti imbavagliare, legare ed abbandonar lì:
perchè, a condurli via, sarebbe stato un impiccio; ed ammazzarli, una
crudeltà supervacanea; ed a lasciarli liberi, avrebbero divulgato troppo
presto la notizia del ratto. I maligni dicono, che parecchi tra
gentiluomini ed i maggiorduomini... sbaglio, s'ha a dire maggiordomi e
maggiorduomini sarebbe troppo contrario al vero, che parecchi tra
costoro furono dolentissimi di non essere stati invitati a cooperare
all'attentato, e parecchio delle gentildonne scandolezzatissime di non
avere ispirato ancor esse idee di ratto. E stavan lì da meglio che
ventiquattr'ore, ed avevan passata la notte intiera intiera, battendo i
denti in nota di cicogna, crepando di fame, scoppiando di sete,
schiattando di paura. Il capitano li fece sciogliere, rifocillare alla
meglio e procedette ad uno interrogatorio. Dal quale, sebbene le
risposte di quella gente, poco svelta per natura, e più immelensita che
mai dal sonno e dallo spavento, fossero confusissime, risultò, che, una
ora all'incirca dopo cominciata la caccia, erano stati aggrediti e
sopraffatti da' satelliti de' tre sovrani stranieri, malmenati, affunati
ed abbandonati in quel modo con le sbarre in bocca. E la Principessa?
Anche lei era stata sacrilegamente manomessa: presa e tentando di
svincolarsi e difendersi con la coltella da caccia, aveva leggermente
vulnerato l'autocrate di Antibo. Ma, insomma, aveva dovuto cedere al
numero ed alla violenza: l'avevano legata in sella e portata via,
correndo a spron battuto verso Occidente, in direzione della frontiera,
insomma.

Sennacheribbo corso allo spiazzo, là dove gl'indicavano avvenuta la
lotta; e vi trovò di fatti l'erba calpesta, tracce di sangue, qualche
panno cruentato e qualche scampolo di fune. Vide brillare un
oggettucolo: corse a raccoglierlo. Era una legaccio con fibbia
d'acciaio, che evidentemente aveva dovuto staccarsi nel contrasto dalla
gamba o dalla coscia della Principessa; perchè veramente ignoro, se la
Rosmunda solesse allacciarsela al disopra o al disotto del ginocchio:
alcuni degli scrittori alemanni, che narrano le storie scaricabarilesi,
affermano l'una ipotesi, altri l'altra; ed io nel dubbio, son di parer
contrario. Sennacheribbo raccolse ed intascò quella reliquia della
rapita con maggior devozione certo, che Odoardo III d'Inghilterra non
provasse nel raccattar la giarrettiera della contessa di Salisbury; e la
lontananza della Principessa preveniva ogni pericolo che egli potesse
imitare la disadattaggine del Re ed essere costretto a rimediare con un
_Honny soit qui mal y pense_ ad un'alzata di sipario involontaria. Poi
pensò al da fare, e s'attenne al primo disegno, che gli si affacciò alla
mente e che stimò buono. Vale a dire d'inseguire i rapitori; lasciare,
che cavalli e cavalieri si riposassero per un quattro o cinque ore; e
poi, mettersi nella pesta dei tre Re, requisire cavalli di cambio per
via; sconfinare occorrendo; raggiungere i ladroni nelle loro tane; ma
non tornare indietro, se non ricuperata la Principessa, come il Re gli
aveva imposto. Era un giuoco difficile e rischioso: i plagiarii
avrebbero avuto circa trentasei ore di vantaggio, e dovevano aver prese
mille precauzioni per assicurare sè e la preda. Ma Sennacheribbo
calcolava appunto sulla sicurezza in cui dovevano essere, riposando su
questo vantaggio e queste precauzioni. Prese un soldato intelligente e
lo spedì alla Maestà del Re, latore d'un breve dispaccio ed incaricato
d'una lunga imbasciata. Ai gentiluomini ed alle gentildonne diede per
guida un taglialegna che li accompagnasse fuori della macchia. Ordinò ai
suoi uomini di inferraiolarsi e sdraiarsi per le terre e di riposare
alquanto, mentre alcuni comandati preparavano il rancio con la
cacciagione abbandonata da' tre Re.

Lui, Sennacheribbo, inferraiolato anche lui, si sdraiò anche lui per le
terre in disparte ed avrebbe voluto sonnecchiare e ristorarsi: ma che?
Non gli riusciva di chiuder occhio. Il sangue bollente gli scorreva
impetuosamente nelle vene, come metallo fuso ne' canaletti, pe' quali si
dirama nel gettarsi una statua. Le arterie delle tempie gli pulsavano
audibilmente al pensiero, che donna Rosmunda, per iniquo tradimento,
trovavasi in balìa, in potestà di tre malandrini senza coscienza. E, nel
silenzio di quella selva notturna, gli divenne chiaro per la prima
volta, confessò per la prima volta a sè stesso di essere innamorato
della Principessa. Non gli date del pazzo!; egli medesimo, stringendosi
sulla fronte il freddo fodero metallico della sciabola, chiedeva, se
avesse dato di volta? se un ramo occulto di follia si dichiarasse? Un
povero capitanellozzo di seconda classe, spiantato, orfano, esposito,
innamorarsi, ma quel che si dice innamorarsi perdutamente, della erede
di un Regno di seicencinquantaquattromila trecentoventun miglio quadrato
di superficie e con centoventitrè milioni, quattrocencinquantaseimila
settecentottantanove abitanti! Perchè non s'era presentato al concorso
matrimoniale? Appunto perchè non pazzo, appunto perchè consapevole della
distanza che il separava dalla sua donna. Amava disperatamente. Aveva
voluto negare a sè stesso quella passione aveva chiamato orgoglio
nazionale, zelo per la cosa pubblica, devozione alla dinastia, fervore
per l'onore di Casa Reale, cura per la felicità della figliuola de' suoi
Re, l'odio concepito contro i ridicoli proci ed abominevoli. Ma ora non
poteva dissimularselo: era gelosia bell'e buona. Le passioni conculcate
e contrastate divampano con veemenza maggiore: era gelosia frenetica.
Nello agitarsi, sentì in tasca un fagottino, che, stretto fra il suolo
ed il femore, gli dava noia. Era il legaccio della Principessa. Cacciò
fuori quel gingillo, che aveva toccate le belle membra della sua donna:
e si propose di non manifestare ad alcuno quel ritrovaticcio; di
custodirlo segretamente come l'avaro che fa del tesoro; di portarlo sul
petto in quella impresa avventurosa, che, secondo ogni probabilità,
doveva riuscirgli funesta, come un talismano. Lo guardò, lo considerò;
vi piovve sopra alcune lagrime virili; se l'avvolse al collo; se
l'avvolse intorno al polso destro, intorno al sinistro; e, senza saper
quel che si facesse, lo baciò.

Non appena l'ebbe tocco con le labbra, ecco scuotersi la terra ecco il
barbaglio d'un lampo, ecco brontolare il tuono. Una folata di vento
stormì di improvviso per la foresta. Ed il giovane sorpreso, nell'alzar
gli occhi si vide dappresso una donna leggiadrissima, tutta velluti e
trine e gemme, la quale diffondeva intorno una luce vividissima, tanto
da rischiarare splendidamente il bosco e da fare impallidire la luna che
spuntava roggia ed immensa. Sennacheribbo la squadrò dapprima attonito;
ma vinta la prima impressione di stupore, da quel cortese ufficiale che
egli era, balzò in piedi, si cavò il cimiero, le fece un inchino
umilissimo e chiese in che potesse servirla, alla bella incognita.

--«Veramente, io dovrei far io questa domanda»--gli fu risposto.--«Non
mi hai tu chiamata?».

--«Chiamata? io? come? quando? e perchè avrei dovuto chiamarla, se da
poi ch'io l'ho data a balia, non l'ho più vista? se ignoro persino il
suo riverito nome?»--replicò Sennacheribbo, impermalito un po' di quel
_tu_ famigliare.

--«O non ti sei tu cinto quel legaccio intorno al polso sinistro e non
l'hai baciato?».

Il povero capitano si fece _ponzò_, come un ladruncolo catacolto in
flagranti. Divenne burbero:--«Scusi, madama, chi le dà il dritto
d'immischiarsi nelle mie faccende, di spiare i fatti miei? Sacristia!
cosa importa a lei quel ch'io fo e quel ch'io non fo? Questo affare a
lei punto non appartiene. O per Bacco, forse che io la interrogo sul
perchè va gironzoni a quest'ora sola soletta nella macchia? faccia il
comodo suo; ed io e gli altri fare il proprio, cattera! E il tu, lo
serbi per i suoi domestici, sa ella? O guarda un po' cosa capita..».

La formosissima sconosciuta sorrise:--«Ma, capitano, signor capitano, è
Vossignoria che mi viene a disturbare. Io sono la fata Scarabocchiona:
della quale avrà senza dubbio inteso parlare, santola della Principessa
Rosmunda. E le fate non parlano in terza persona a nessuno, anzi in
seconda singolare a tutti, persino a Dermogorgone, ch'è il Re loro. Quel
legacciuolo è incantato di tal sorta, che, legandolo al polso sinistro e
baciandolo, mi si costringe ad apparire; mi trovassi lontana centomila
miglia, fossi occupata a... (stavo per dire una corbelleria) mi è forza
di apparire immediatamente. Lo avevo regalato alla mia figlioccia; e
strasecolo, nel ritrovarlo al polso di un capitano di cavalleria con
tanto di baffi. Che malgrado le mie fatazioni la Rosmunda m'abbia a
riuscire una scapatella?».

--«Ah, signora fata»--sclamò Sennacheribbo raumiliato,--«scusatemi
tanto! Avrei dovuto riconoscervi subito dalla bellezza e dalla maestà
vostra sovrumana. Perdonatemi! mi vedete turbatissimo, fuori di me. E
poi non sapevo nulla nulla della fatazione della legaccia».

La fata era donna: Sennacheribbo le apponeva carne di lodola; n'era
ghiotta, come tutte, e sorrise compiaciuta:--«Ma chi ti ha data la
legaccia?».

--«L'ho rinvenuta qui per le terre»--disse il giovane, e le narrò ogni
cosa: la caccia; il ratto della Rosmunda; e l'intenzione sua di
racquistarla o morire. E disse in modo, che palesava quanto gli stesse a
cuore la Principessa e quale altro affetto, e più potente che devozion
di suddito, lo stimolasse a quell'ardimento. Ah non sempre riesce il
dissimulare!

La fata Scarabocchiona ascoltò tutto attentamente e comprese quel, che
il signor capitano taceva. Cavò di tasca un suo libretto di marocchino a
fermagli d'oro e legato alla cintura con una catenella d'oro a grandi
anella, lo aperse, lo percosse con la sua verga criselefantina di
squisito lavoro, lo scartabellò, mormorando sempre:

    Per questa verga magica,
      Pel nome del Re nostro,
      Libro degli incantesimi,
      Dal tuo sincero inchiostro
      Dove que' prenci fuggano
      Tosto mi sia dimostro.

E poi lesse alcune pagine sotto voce. Rivolgendosi quindi al
capitano:--«Come farai per raggiungere que' rapitori, prima che siano in
salvo nel girone di qualche fortezza antiboina, exiboina od introiboina?
Sai quanti chilometri di vantaggio hanno?».

--«Circa trentasei ore; farò sferzare e sforzare i cavalli; li farò
cambiare per amore o per forza, con le buone o con le brutte, durante la
corsa; giungerò con dieci uomini, giungerò solo; ma giungerò, voglio
sperare, se non per liberare la mia Principessa, per ammazzare almeno
uno de' tre monarchi e per esser trucidato sotto gli occhi di lei».

--«Sai la strada battuta da' tre Re?».

--«Ne ritroveremo le orme, le vestigia; prenderemo lingua,
c'informeremo, cammin facendo. Non si tratta mica d'una brigatella, che
possa passare inavvertita affatto».

--«Que' ladroni galoppavano verso i confini d'Antibo. Per quanto
isferzassi ed isforzassi i cavalli, per quanto li cambiassi, non
potresti raggiungerli mai, tanto sono montati meglio di te e de' tuoi, e
tanto è il vantaggio, che han preso. E poi, scusami, morire senza
ottener l'intento e sapendo, che non può ottenersi per quella via,
sarebbe ragazzata».

--«Sua Maestà mi ha imposto di non tornare senza la nostra Principessa».

--«Ed io ti giuro, che, se non fossi qua io per assisterti, non tornare
potresti bene; ma tornare con esso lei non ti riuscirebbe. Ma io
toccherò dragoni e cavalli con questa mia verghetta criselefantina e ne
ventiquattruplerò le forze. Va, chiama il tromba, fa che lo squadrone si
raduni e salga in arcioni, e precipitati a galoppo sfrenato dietro il
fuoco fatuo, ch'io ti darò per guida.» E, così dicendo, percosse il
suolo con la magica bacchetta criselefantina, mormorando:

    Da le profonde viscere
      Di acquitrinoso suolo,
      Levati, o fuoco fatuo,
      Splendido e ratto a volo.

Immediatamente un bel fuoco fatuo, dalla fiamma azzurrina, ristette fra
le piante della macchia ad una ventina di passi da' due: tremolava,
oscillava, dondolava, s'incurvava, balzellava lievissimamente, come la
fiamma di una candela in mano di fanciulla che cammini pian piano,
guardinga. La fata proseguì:

    Dove quei cani prencipi
      Traggon la mia diletta
      Questo drappello vindice
      Pronto a guidar t'affretta;
      Fa che agli empi sollecita
      Incolga aspra vendetta.

Poi, rivolta a Sennacheribbo:--«Attergati a questa fiammella, senza
alcun sospetto, con la stessa fede cieca con cui ti si attergherà il tuo
squadrone. Quando la vedrai fermarsi e sparire, sappi che hai raggiunti
i rapitori della Rosmunda. Dipenderà dal tuo valore, dalla tua prudenza,
il liberare allora la Principessa. Io posso consigliar gli uomini ed
agevolar loro le imprese difficili e renderle possibili; non compierle
in vece loro io. A rivederci. Se hai bisogno di me, trovandoti
negl'impicci, sai pure come chiamarmi. Ma non farlo alla
leggiera».--Così detto disparve.

Sennacheribbo si rimase estatico, trasognato, strasecolato,
strabiliando, irresoluto, infraddue, non sapendo che si fare, a che
risolversi, a qual partito appigliarsi, che pensare di quell'avventura e
di quell'apparizione. Ed avrebbe stimato tutto immaginazione, sogno,
visione, illusione, allucinazione, fantasmagoria, se non si fosse veduto
a venti passi quel fuoco fatuo irrequieto, che andava e veniva su e giù,
che tremolava, oscillava, dondolava, s'incurvava, s'assaettava,
balzellava, come impaziente d'incamminarsi. Fidare in un fuoco fatuo,
sceglier per guida una meteora, non sembrava al capitano veramente il
più savio dei consigli, anzi vi ripugnava, come da cosa affatto
contraria a tutte le consuetudini delle truppe in marcia. E poi, come
applicare il Regolamento? come porgli allato due cavalieri con ordine
d'ammazzarlo al primo sospetto di tradimento, alla prima velleità di
fuga? E trascurando le precauzioni imposte da' regolamenti, non
incorreva forse nelle pene comminate dal Codice militare? non assumeva
una tremenda responsabilità? Poteva avvalersi degli spionaggi della fata
Scarabocchiona? E chi gli assicurava che fosse proprio lei quella donna?
Ci son tanti che negan persin l'esistenza delle fate! D'altronde il
desiderio di pur salvare la Principessa, cosa affatto impossibile (dovea
convenire) co' suoi mezzi naturali a sua disposizione; la tema di
passare per pauroso agli occhi di quella sedicente fata e del fuoco
fatuo istesso; la brama di adempiere e di obbedire alle raccomandazioni
di Re Zuccone; sopratutto poi l'amore e la gelosia, lo stimolavano a
profittare della scorta e dell'aiuto soprannaturale.--«Per mal che la
vada cosa può accadermi, eh? Che questo fiammazzurro mi conduca a
scavezzarmi il collo in qualche dirupo? Vada per lo scavezzacollo! Che
mi conduca ad affogar con l'intero squadrone nella mota d'un qualche
pantano? Vada per lo affogamento! Più che una volta non si muore.
Tromba, ehi tromba!».

--«Capitano!».

--«Suona la sveglia! suona a raccolta! Svelti, figliuoli! A cavallo e
seguitemi! Viva la Principessa donna Rosmunda!».

Ufficiali e bassaforza, furon tutti desti e pronti in un batter
d'occhio. Cattera, la fata Scarabocchiona li aveva tocchi con la verga
d'oro e d'avorio, ventiquattruplandone il vigore, il valore, la
disciplina, l'ardire, sicchè si sentivano da più di loro, più che
uomini. I destrieri vergheggiati anch'essi alla criselefantina,
nitrivano, innivano, scalpitavano, scodinzolavano, scuotevan le giubbe,
drizzavan le orecchie, tutti brio. Anch'essi valevan ventiquattro volte
più di prima. Era una bella notte serena, stellata: i cani uggiolavano,
gli allocchi bubbolavano, gli assiuoli chiurlavano, le civette
squittivano, i cuculi cuculiavano, i gufi gufeggiavano, le rane
gracidavano, i grilli grillavano, altri insetti stridevano e gli
usignuoli gorgheggiavano; mille diverse fragranze balsamiche ed
aromatiche, mille odori, mille profumi, mille olezzi impregnavano
l'aria; le stelle scintillavano, la luna rischiarava, i fuochi del
bivacco divampavano, le lanterne dello squadrone splendevano, ed il
fuoco fatuo brillava con dolce luce ed azzurrognola, tremolando,
oscillando, dondolandosi, incurvandosi, assottigliandosi, ballonzolando,
dimostrando con tutti i modi che madre natura ha concessi a' fuochi
fatui, l'impazienza di prender l'abbrivo. Finito l'appello, messi gli
uomini per due, Sennacheribbo gli si rivolse e disse:

    O splendida meteora,
      Eccoci pronti! Orsù,
      Dacci il segnale, muòviti
      Non indugiam di più.
      Per vie battute e impèrvie
      Selve, di su, di giù,
      Donna Rosmunda guidaci
      A trar d'affanno tu!

Il fuoco fatuo si mosse, con velocità iniziale poco minore di quella
d'una palla scagliata dal cannone liscio di ventiquattro, e dietro tutto
lo squadrone, come se caricasse. I cavalli spiccavan salti di
ventiquattro metri l'uno, anzi salti della distanza, che separa due pali
del telegrafo. Sarebbe stato uno spavento il vedere ed udire questa
massa nera, preceduta da una fiammella azzurrina, che passava con
l'impeto della tempesta, con lo scroscio del tuono, come una tromba
fragorosa e gravida di folgori: ma era notte fitta, ed i campagnuoli, i
contadini, i villani, gli agricoltori, i zappaterra, russavan tutti nei
tugurii. Galoppa, galoppa, galoppa; vola, vola e vola; divorarono le
tante miglia che conducevano alla frontiera del Regno. Frontiera, che il
monarca d'Introibo, il despota d'Exibo e l'autocrate d'Antibo avevan
frattanto già varcata con la bella prigione.

Rosmunda! Aveva tentato di difendersi, di svincolarsi e persino
vulnerato con la coltella da caccia Re Guasparre; aveva poi tentato di
fuggire; ma tutto indarno! l'avevano inbavagliata, ammanettata,
impastoiata, incapestrata, e gittata, e legata per la cintura,
trasversalmente sulla sella: con le braccia dietro, come un sacco di
grano e via! I cavalli eran lanciati al gran galoppo, e venivan mutati
ad ognuna di quelle stazioni, che il prudente autocrate aveva
scaglionate lungo la consolare. I tre, giunti sul territorio antiboino e
stimandosi ormai al sicuro da ogni inseguimento e sentendosi
stanchissimi da quella cavalcata a rompicollo, risolvettero di fare un
alto, anzi di far tappa e di riposarsi alla prima osteria. Di fatti
entrarono AL GALLO D'ORO, BUON VINO E BUON RISTORO, ALLOGGIO E
STALLATICO; che aveva per insegna un gran galletto giallo scarabocchiato
sul muro, accanto alla frasca canonica, col motto:

    Quando questo canterà
      Credito si farà,
      Oggi no, domani sì;
      Patti chiari, amici cari.

Il GALLO D'ORO era una tavernaccia isolata, di fama dubbia, che aveva
per clientela i trainanti, i cavallanti ed il contrabbandierume dei
dintorni; non offriva dunque comodi maggiori di quelli, che tal gente
richiede e paga. Il buon vino era una mistura d'acqua di fonte,
acquavite di patate, e non so che sostanze coloranti; il buon ristoro,
pane stantìo, formaggio pecorino, salame di asino, carne di capretto e
qualche volta un po' di caccia o qualche uova od un par di pippioni, o
qualche pesce pescato nel fiume regale, che scorreva poco lontano. Ma si
sa, in viaggio, bisogna sapersi contentare: i tre Re morivano di fame,
di sete e di stanchezza; quindi smontarono, ordinarono da pranzo e
deliberarono di aspettare in quel luogo il ritorno d'un corriere, che
Guasparre spedì al comandante d'una piazza forte vicina, acciò gli
venisse incontro con due o tre Reggimenti e carrozze ed ogni ben
d'Iddio.

Mentre l'oste e l'ostessa tagliavano il collo a galline e piccioni e
scendevano in cantina a prender del migliore, ancora tutt'assonnati,
come quelli, che eran stati desti in sul meglio del dormire, e
trasognati, come quelli, che per la prima volta albergavano de' Re,
l'autocrate d'Antibo disse a' compagni d'iniquità:--«Signori, io son
galantuomo. Abbiamo fatta una preda, un bottino, una presa, una caccia,
chiamatela come volete, in comune, in società, in accomandita, _viribus
unitis_, cooperando: ed in società dovremo incontrare le conseguenze del
nostro operato».

--«Pur troppo!»--sospirò Don Melchiorre, che aveva paura, ma paura!

--«Bah! tutto finirà per _arrangiarsi_,»--sghignazzò Baldassarre V, il
quale non aveva ancor ben compresa, m'immagino, la gravità dell'atto
perpetrato.

--«Patti chiari, amicizia lunga. Abbiamo fermato di dadeggiar questa
femmina, subito dopo varcata la frontiera scaricabarilese. Presto,
mentre ci apparecchiano un po' di colezione, qua i dadi e sbrighiamoci.
Chi ha tempo non aspetti tempo».

--«Giochiamocela piuttosto all'oca, dilettevole per chi gioca e chi non
gioca,»--propose il monarca d'Introibo.

--«Un emendamento, Maestà mie. Teniamola piuttosto in comune, finchè
ogni guaio non sia terminato: allora, sorteggeremo,»--suggerì Don
Melchiorre XVII.

--«Nossignori, nommaestà,»--replicò l'autocrate.--S'è detto di
dadeggiarla, dadeggiata dev'essere; s'è detto, subito dopo varcata la
frontiera, dunque adesso, subito, immantinente, senza frapporre indugio,
senz'altra tardanza. Bisogna stare alla convenzione, al pattuito. I
dadi! In tre colpi! Chi tira il punto maggiore, se l'abbia pure. La
proposta di Don Melchiorre è inaccettabile. Vel confesso: dopo che la
nostra prigione mi ha naverato nella macchia di Valquerciame, ogni
amore, ogni desiderio, ogni misericordia è morta in me. I riguardi
dovuti a voialtri, il rispetto de' trattati, ed anche la speranza d'una
vendetta più squisita e prolungata, mi han solo trattenuto dal segarle
la gola lì per lì, dallo sgozzarla issofatto, dallo scannarla su due
piedi. Ch'io sia il vincipremio, non la farò mica mia. Anzi la farò
appendere per li capelli ad una forca di cinquanta cubiti e ve la farò
morire di fame e di strazio».

--«Io,»--disse il despota d'Exibo,--«se m'ha da toccare a me, la riterrò
come ostaggio. Così, per amor di lei, perchè non venga bistrattata o
sacrificata, Re Zuccone dovrà astenersi da ogni atto ostile. Mi servirà
da parafulmine: se la vogliono illesa, mi hanno da lasciar tranquillo
guà!».

--«Ed io»--soggiunse Re Baldassarre--«ritengo che nè la Principessa; ned
il padre; ned il popolo scaricabarilese quando il monarca d'Introibo
l'impalmasse, potrebbe fare altro se non ringraziarmi e ringraziar
Domineddio dello stratagemma, dell'astuzia, del ripesco, della malizia,
alla quale ci siamo appigliati per abbreviar la faccenda ed evitare un
giudizio di plebe o di assemblea sul nostro merito».

--«Benone!»--ripigliò Guasparre--«ognuno si regolerà come giudica
meglio. Su, aiutanti, procacciateci dei dadi ed un cornetto»--proseguì
poi aprendo la bussola e rivolgendosi agli ufficiali, che stavano nella
stanza antecedente,--«e fate condur qui da noi la prigioniera».

--«Sciolta, Maestà?».

--«Sciolta un corno: chi ci assicurerebbe dai suoi unghioni? e se
l'avete sbavagliata, rimbavagliatela ammodo: che non vogliamo esser
disturbati dalle grida di quella pettegola, mentre si gioca».

Quell'uomo lì veniva sempre obbedito a vapore. Due minuti dopo, erano
sulla tavola un cornetto e due dadi, i quali avevano spesso servito a
contrabbandieri e ladruncoli per disputarsi i loro lucri o per
dissanguare qualche zugo: ora dovevan servire a tre Maestà per
disputarsi l'erede di un reame di seicencinquantaquattromila
trecentoventun miglio quadrato di superficie con cenventitrè milioni,
quattrocencinquantaseimila settecentottantanove abitatori. Poi la
Principessa sempre affunata ed imbavagliata _ut supra_, fu portata
dentro avvincigliata su d'una seggiola sconnessa. L'autocrate d'Antibo
le spiegò sghignazzando, ingiuriandola e dandole del tu, ch'ella era la
posta del giuoco.

Fecero alla morra chi dovesse cominciare:--«Questo è giuoco da facchini,
bifolchi e guardaporci»,--dice Giordano Bruno. Toccò a gettare i dadi
per primo a Don Melchiorre, in secondo luogo a Re Baldassarre, in terzo
all'autocrate d'Antibo.

Il timido zoppo agitò per un bel pezzo i dadi nel cornetto, e finalmente
li rovesciò pian pianino sul tavolo: fece tre e due.

--«Tua non sarà di certo»,--disse gongolando il gobbo rimbambito; e,
toltogli il cornetto dalla mano, e rimessivi i dadi dentro e fattili
ballonzolar più volte prima con la destra, poi con la sinistra, tirò
cinque e sei.--«È mia! mia! mia!»,--esclamò tripudiando com'un fauno.

--«Non ancora, fratelmo!»--disse il guercio.--«Per buono, il punto è
buono. Ma chi sa, fratelmo, chi sa!».--Prende convulsamente il cornetto,
che Baldassarre aveva gittato sul desco rincludendovi i dadi e li butta
senza nemmanco agitarli.

--«Sei e sei!»--gridarono gli altri due.--«Il punto di Venere!».

--«Quindi innanzi punto di Nemesi!»--corresse Guasparre:--«Signori,
questa donna, ch'è indiscutibilmente nostra per dritto di rapina,
poss'io quindi innanzi dirla esclusivamente mia, di loro pieno
consenso?».

--«Senza dubbio alcuno!».

--«Posso farne quanto m'aggrada?».

--«Si accomodi pure!».

--«Quest'affare a noi punto non appartiene».

--«Sia lodato il cielo! Senti qua, Rosmunda: io ti amava; mi piacevi. Tu
mi hai ricolmo di mortificazioni. Invece di antepormi e preferirmi
subito e senz'altro a tutti, mi hai dati un subisso di concorrenti,
tutti da meno di me, nessuno dei quali ti era meno accetto di me. M'è
stato riferito, che mi hai dileggiato, perchè non ho gli occhi come i
tuoi, che mi hai maledetto perchè non ho un animo effeminato.... Or
bene, ci ho però visto tanto da raggiungerti; e della mia crudeltà farai
esperimento tu stessa. Appena aggiornato, appena giunti que' tre
Reggimenti che ho mandato a chiamare, sai cosa? Farò rizzar dai
guastatori le forche su quella collina, onde si scorge il Regno di tuo
padre ed il corso del fiume regale che passa per la tua città nativa. E
ti farò appendere pei capelli alle forche. Ignuda in faccia a tanti
soldati, sora schifiltosa. E morrai di fame e di strazio lassù. E ti
farò sbavagliare per deliziarmi delle tue querimonie, de' tuoi lamenti,
delle tue grida, de' tuoi rantoli, brutta segrennaccia, pettegola! E
vedremo poi cosa potranno per vendicarti quel zuccone di tuo padre e
quelli, che ti avrebber dovuto essere sudditi; giacchè per salvarti
oramai non può più nulla nessuno, nessuno, nessunissimo!».

Ed alzava la mano per lasciarle andare una guanciata, quando una voce
stentorea, che gridava:--«Sbagli!»--gli fece trattenere il colpo e
volgere il capo. Sulla soglia della stanza, con la sciabola evaginata in
pugno, stava ritto Sennacheribbo; e dietro a lui si accavalcavano i più
dei suoi dragoni. Sogghignavano amaramente; ed il capitano a
ripetere:--«Sbagli messere! Signori, avete fatto i conti senza l'oste».

La destra dell'autocrate cercò istintivamente l'impugnatura di una
spada: ma era inerme. Gridò:--«Tradimento! a me! Antiboini, al Re
vostro!»--e corse alla finestra unitamente ai due _córrei_. Ma i loro
compagni stavano affunati a coppie e distesi per terra in un cantuccio
del cortile, ed i dragoni scaricabarilesi, posti in sentinella dovunque,
spianando i moschettoni, li costrinsero a rientrare nella stanza. In un
battibaleno vennero afferrati, ammanettati alla lor volta e trasferiti
ed incatenacciati in un bugigattolo oscuro, sebbene protestassero
arrogantemente contro questa violazione sacrilega della Maestà Regia,
del dritto delle genti, de' confini. O parlassero antiboino od exiboino
od introiboino o scaricabarilese, i soldati non davan loro retta, anzi
facevan le viste di non intenderli neppure. Ed il capitano Sennacheribbo
aveva altro in capo, e s'affaccendava intorno alla principessa, alla sua
Rosmunda, a sbavagliarla, a scioglierne, a spezzarne, a troncarne le
legature, ed impartire ordini, perchè le preparassero qualche cordiale,
un letticciuolo, una camera. Appena sciolta, ella balzò in piedi, come
per fuggire, con gli occhi stralunati; ma, soprappresa da tremiti
nervosi e con le membra intorpidite, potè solo profferire un: _ohimè_! e
cadde svenuta fra le braccia del giovane.

Non gl'invidiate l'incarico soave! Non vide mai persona più impacciata
del nostro Sennacheribbo. Il sorreggere una donna in deliquio è sempre
grave, per quanto cara la si possa avere, per quanto innamorati se ne
sia, giacchè pesa. _Leggiera come un uccello_ è una metafora tanto falsa
ed esagerata che rasenta lo eufemismo.

Moralmente potrà ben dirsi:

    Quid levius pluma? pulvis! Quid pulvere? Ventus!
    Quid vento? Mulier! Quid muliere? Nihil!

Ma, _fisicamente_, è un altro par di maniche.

Le donne pesano sempre; e svenute, sempre come insegna la fisica, pesan
di più. Ma quando poi la svenuta è la nostra sovrana, l'erede del trono,
la futura Regina di seicencinquantaquattromila trecenventun
miglio quadrato di territorio e di cenventitrè milioni,
quattrocencinquantaseimila settecentottantanove sudditi; e che noi, che
la sorreggiamo, non siamo se non un povero capitanucolo de' dragoni, un
trovatello spiantato.... mamma mia, che imbarazzo allora! oh che
impiccio! che impaccio! che briga! che soggezione! che paura di violar
qualche canone di etichetta! Chi sa quali regole prescrive l'etichetta
delle Corti ne' casi analoghi? Chi sa quali siano le disposizioni del
cerimoniale? E come apprestarle soccorso? come farla rinvenire?
Recarsela in seno e portarla di peso su qualche letto ed adagiarvela?
Misericordia! che familiarità indebite! Spruzzarla d'acqua? Che
irreverenza! Slacciarle il busto e la gonna? Che orrore! E non esserci
una camerista per accudirla! L'albergatrice? Ohibò! donna equivoca,
schifosa, ed antiboina per giunta: come mai commetterle la cura e la
salute della Principessa? E contate per nulla lo spavento? E se la
tramortita morisse? Che responsabilità terribile! Morire forse per
mancanza di assistenza, per trascuraggine, per pusillanimità del
protettore! Il povero capitano stava fuori di sè. Per buona ventura, gli
sovvenne del legaccio incantato. Senza lasciar di stringersi timidamente
al petto la Rosmunda che sarebbe sennò stramazzata per le terre,
sbottonò la tunica, trasse quel gingillo, che portava sul cuore, lo
ravvolse intorno al pugno sinistro e v'imprese un bacio.

Non appena l'ebbe sfiorato con le labbra, ecco vacillar la terra come
tremuoto; ecco divampare come un baleno; ecco un rombo come di tuono;
ecco un vento impetuoso fischiare per gli anditi della casupola; e
restare innanzi al capitano una donna avvenentissima, tutta velluti e
trine e gemme, la quale spargeva intorno una luce vivida tanto da
rischiarare splendidamente la stanza e da oscurare, ecclissare i torchi
accesi ed il lume della alba che incominciava a penetrare dalle finestre
spalancate.

--«Cara fata Scarabocchiona»--disse l'ufficiale,--«eccovi la vostra
figlioccia, sana e salva, com'io credo, ma svenuta. Qui non ci son donne
ed i miei dragoni sarebber bravi ad ammazzar giganti, ma non sanno
trattar una creaturina come questa. L'affido a voi, dunque. Curatela
voi; fate voi che rinvenga».

--«Povera figliuola mia!»--sclamò la fata, e sedutasi sur uno sgabello
prese in grembo e coperse di baci la giovane sempre in deliquio.

--«Fata benedetta mia, se, come ogni fata d'un certo grado, possedete
anche voi un carro alato o tirato da draghi e da ippogrifi, ve ne
scongiuro, riconducete voi, al più presto, la Principessa nella Reggia
di Scaricabarilopoli dal padre. Frattanto io corro a sbrigare ed
aggiustare un certo conto coi rapitori; e bramerei non aver impicci di
donne qua presenti».

--«Non temere; la ragazza rimane nella mia custodia. Bravo
Sennacheribbo, corri pure a far quel che occorre. Penserò io a rintegrar
la Rosmunda nel dominio paterno. Vai, vai pure,»--disse la
Scarabocchiona, ed alzando la verga criselefantina mormorò certi
versetti:

    O rosei draghialigeri
      Che il plaustro mio traete;
      Da' vostri eterei pascoli
      Qui qui presto accorrete!

Ed ecco un elegantissimo plaustro di madreperla apparire e ristare
innanzi alla finestra come un cocchio innanzi all'incarrozzatoio, come
un treno innanzi al marciapiedi della stazione: lo trascinavano per aria
otto be' draghetti alati, dal mantello roseo, picchiettato di violetto e
con le creste e le crinier rosse, scarlatte. La riportò dentro sulle sue
braccia la Rosmunda il cui svenimento aveva mutato in benefico sopore.
Incarrozzata o meglio implaustrata che fu, mormorò questo scongiuro:

    Là, dove afflitto un popolo
      Piange la sua signora;
      Là dove un padre (misero!)
      La sua diletta plora:
      Dove Reggia e tugurio
      Sol per costei s'accora:
      Volate, o draghi aligeri,
      In men d'un quarto d'ora!

E salutò con la mano l'ufficiale; e gli disse:--«Arrivederci»,--e
sparve.

Sennacheribbo seguì con lo sguardo quel plaustro che segnava come una
striscia luminosa per lo ciel sereno, e si riscosse al suono d'un
sospirone che gli sfuggiva dal petto. Corse con la mano agli occhi e li
trovò molli di lacrime, che rasciugò col dorso di quella, sgridandosi,
riprendendosi, increpandosi, biasimandosi di tanta fiacchezza in quel
momento:--«Su, su! Non c'è tempo da perdere! Altro che sospiretti e
lacrimette. Occorre sbrigar qui un'opera di sangue, che serva per
esempio memorando ai popoli ed ai Re. Il sole che sta per sorgere deve
vedere quanto nessun sole ha mai visto».

Scese al pianterreno, chiamò il luogotenente e gli commise di comandare
un distaccamento, di requisire le scale a piuoli, le corde dei pozzi e
sapone e travi e zappe e badili, e di recarsi sopra quell'altura là,
poco discosta, onde si scorgeva il Reame di Scaricabarili ed il corso
del fiume regale che passava poi per Iscaricabarilopoli, e di rizzarvi
prontamente tre forche. Il luogotenente salutò senza fiatare, e
s'avviottolò subito con un picchetto. Quindi il capitano si fece
condurre dinanzi le tre Maestà di Baldassarre V, Melchiorre XVII e
Gasparre I, tutt'e tre saldamente affunate. L'autocrate d'Antibo, che
non era facile a smarrirsi, lo sbirciò guerciamente e gli chiese con che
ardire, con quale autorità osasse por le mani sacrileghe sugli unti del
Signore? sconfinare e perpetrare scorrerie e ricatti in paese amico, in
piena pace? violare i trattati? calpestare il diritto delle genti? Ma
Sennacheribbo, che lo squadrava con un cotal riso di sdegno, non lo
lasciò perorare.

--«Zitto là! Mi meraviglierei della impudenza vostra, se non conoscessi
per prova la vostra sfacciataggine dalla discolpa dell'assassinio di
Coppa di oro. Non vi considero come Re, anzi come rei: ed avete rotta la
pace voi, senza dichiarazion precedente di guerra. Siete briganti,
banditi, masnadieri, grassatori, ricattatori, plagiari, i quali accolti
e trattati come ospiti cari da noi, con tradimento inaudito, senza un
pretesto al mondo, avete osato rapire una fanciulla minorenne, una
principessa reale, la figliuola unica dell'ospite, rapirla
inconsenziente e trascinarla fuori Regno per poi sforzarla a nozze
aborrite, anzi per farne crudelissimo scempio. Avete trasgredito ogni
legge umana e divina: come invocarne alcuna in difesa o scampo vostro?
Da lunga pezza siete esosi a' soggetti, aduggiate il mondo. Quest'ultima
enormità colma la misura e trabocca la bilancia».

--«Ho Dio solo per giudice delle azioni mie, io»--rispose il
guercio.--«Sono Re sovrano ed indipendente. Un vassallo, uno stipendiato
di altro Re non può sindacarmi, ned offendermi. Subisco le violenze di
un matto da catena... ma il primo assennato in cui m'imbatterò nel Regno
del vostro padrone...»

--«Risbagliate i calcoli. Riconducendovi prigionieri a
Scaricabarilopoli, metterei in imbarazzo grandissimo il Governo e
finireste per iscapolarla impuniti e per muoverci una guerra di
sterminio. Lasciarvi liberi, dopo avervi offesi, sarebbe ragazzata.... e
mi crederei colpevole di quanto male fareste in avvenire. Ho pensato
meglio. Stanno rizzando tre forche su quel poggio appunto onde si scorge
il Regno, ch'è dote della nostra Principessa ed il fiume regale che
passa per la città natìa di donna Rosmunda, la quale tu, autocrate
d'Antibo, volevi appender lì per la capigliatura lunghissima, acciò vi
morisse di fame e di strazio. E lì, sarete appiccati per la gola e
strangolati tutti e tre prima che passi un'altr'ora. Così l'uman genere,
sarà libero da questa pestilenza che lo ammorba».

--«Capitano,»--disse tremando il despota d'Exibo,--«signor capitano mio!
Ella scherza! Badi a quel che fa! Un attentato simile, inaudito, non più
visto, troppo caro le costerebbe».

--«Caro? Mi costerà solo la vita. Mel so. Vivo certissimo di morir dopo
ignominiosamente. Mi sacrificheranno. Mi consegneranno a' vostri
successori, perchè mi strazino e tormentino e torturino e supplizino.
Sia. Mi piace. Non mi duole pagare con un tal prezzo la soddisfazione
che mi procaccio. E se le mie carni verranno attanagliate, abbrustolate,
sforacchiate, dilacerate, dilaniate; la fama mia rimarrà fra gli uomini
eterna come il ricordo degli eroi che hanno sgombrata dai mostri la
terra. E _sufficit_. Più non vi dico e più non vi rispondo. Tromba,
suona a raccolta; tenente fate prender costoro in mezzo: se rifiutano di
camminare, piattonate! Si va su quella montagnuola, lì dirimpetto, dove
s'è recato il luogotenente col distaccamento».

Chi potrebbe esser da tanto di descrivere, benchè approssimativamente,
benchè in parte, lo sbigottimento, lo spavento, il terrore, la sordida
pauraccia di Don Melchiorre, con tutti i fenomeni che produce, con tutte
le sue manifestazioni? Non v'ha preghiere umili, anzi abiette ch'egli
non profferisse; non vi ha scongiuri codardi ch'egli non pronunziasse;
non vi ha promesse ricche, delle quali non largheggiasse; supplicazioni,
lagrime, esortazioni, dalle quali si astenesse per tentar d'impietosire
o il signor capitano o uno de' signori luogotenenti o il sottotenente o
il foriere, o un sergente o un caporale o un soldato. Sennacheribbo era
irremovibile, i subalterni e la bassaforza incorruttibili e devoti al
capitano per modo che lo avrebber seguìto contro il Re loro stesso,
contro Domineddio medesimo. E poi la fedeltà loro e la ferocia erano
ventiquattruplicati dal tocco della verga di fata Scarabocchiona. Il
povero zoppo, stanco dalla cavalcata, si sarebbe buttato per terra,
nella polvere, nel fango; ma le piattonate dei cavalieri lo stimolavano
e lo sospingevano innanzi.

Il monarca d'Introibo, lui, rideva e camminava allegramente. Rideva
dalla gran paura del collega e camminava allegramente, perchè tutto
questo non gli pareva cosa seria, anzi uno scherzo, una facezia, troppo
spinta, se volete, di pessimo gusto, sì, ma fecezia di quel cervello
balzano del capitano. Afforcar tre re? Ma vi par'egli? Chi sarebbe tanto
gonzo da credersela? Tre Re, tutti insieme, in una volta, come se nulla
fosse? Non se n'è mai appiccato uno, neppure Re di contrabbando ed
usurpatore, nonchè dagli altri Principi, ma da' popoli in rivoluzione.
Ed un capitanucolo de' dragoni oserebbe mandarne in Piccardia una
triade, improvvisamente?--«Chêh! chêh! Può darsi che voglia fare un
ricatto, che tanto sia capitano dei dragoni scaricabarilesi lui, quanto
io imperator della China. E parla così di patibolo, per ammorbidirci e
cavarci una taglia maggiore. Bisogna dunque stare sul tirato, s'è un
capobanda. Ma vedrete, appiè del gibetto si scappellerà, ci farà degli
inchini profondissimi, ci domanderà umilissimamente perdono della
licenza poetica; si metterà a' nostri ordini; anzi probabilmente
troveremo imbandito uno splendido _digiunè_, che serviranno egli e gli
uffiziali!».--Così pensava quel gobbetto o diceva ai compagni di
delitto.

Ma l'autocrate d'Antibo aveva capito, lui, che i propositi di
Sennacheribbo eran di quelli che non possono scollarsi comechessia:
_nunquam dimoveas_. Interrogava, con inquietitudine dissimulata
l'orizzonte, tendeva l'orecchio e rallentava il passo e cercava di
guadagnar tempo, sperando che sopraggiungessero finalmente i tre
Reggimenti mandati a chiamare; quei tre Reggimenti che potevano
arrivare, liberarlo e sopraffare ed impiegar tutto lo quadrone
scaricabarile.--«Oh giungessero, giungessero! Oh ne comparisse
l'avanguardia!».--Oh qual terribile vendetta prenderebbe delle parole di
rimprovero che aveva dovuto soffrire, delle angosce spaventose che stava
provando. Morire? ed in qual modo? Muoion tanti, ma lui! Muoion tanti,
anche giovani se volete e ricchi, ma infermi, ma in battaglia. Ed anche
sul letto a tre colonne, sì: ma non sono autocrati, con tutti i mezzi
per soddisfar le passioni! Lui era nato per mandar gli altri ad
impiccare, era contro natura che il caso suo nella fine fosse un
dondolo! Oh se avesse avuto modo di far conoscere ai suoi lo sue
distrette? di stimolarne il passo! Bestie di colonnelli che non sanno
comprendere, indovinare il bisogno urgente che si ha di loro! Ma
Gasparre non aveva un legaccio incantato per chiamare in aiuto alcuna
fata! e qual fata buona avrebbe voluto adoperarsi per salvar quei
mostri? Demogorgone l'avrebbe poi flagellata con mazzafrusti di colubri
e l'avrebbe incantata chi sa in qual barbaro modo per un secolo almeno.

Il corteo si fermò sul monticello, dove il luogotenente avea fatto
acciabbattamente piantar le forche; che non eran certo costruite secondo
tutte le regole dell'arte impiccatoria, ma via, per una volta tanto
potevano servire. Già, il luogotenente non era un carnefice, ned i
soldati tirapiedi; facevano alla meglio. Tre belle corde co' cappi
insaponati si dondolavano alla brezza mattutina, che l'aurora cominciava
ad inaranciar l'oriente. Accorse un dragone al galoppo e riferì al
capitano che si vedevano in lontananza avanzare delle forze
nemiche considerevoli. Un lampo brillò negli occhi guerci
dell'autocrate antiboino; mentre il monarca d'Introibo continuava a
ridere scioccamente ed il despota d'Exibo a frignare, a piagnucolare,
a singhiozzare. Sennacheribbo senza scomporsi o titubare disse a'
suoi:--«Sbrigatevi».--Fu appoggiata una scala a ciascun colonnino; un
soldato si appollaiò su ciascuna traversa; due altri preso di peso
ciascun Re, lo tirarono di piuolo in piuolo, finchè il primo potesse
assicurargli il capestro al collo: poi attaccarono loro delle pietre
pesantissime ai piedi legati e scesero. Sennacheribbo, che stava fumando
a cavallo, tranquillamente, come estraneo alla cosa e noncurante, si
cavò la spagnoletta di bocca, sputò e disse:--«Giù!».--Le scale furono
sottratte ai tre meschini, i quali travolsero stranamente il volto per
la rottura delle vertebre cervicali nelle estreme convulsioni
dell'agonia. In quell'istante comparve il sole sull'orizzonte e percosse
coi primi raggi le facce livide dei tre regnatori, i quali traevan calci
al rovaio.

--«Suonate a raccolta;»--vociò il capitano, quando fu tutto compìto,
rompendo il silenzio prodotto dall'orrore che ingombrava gli animi de'
soldati non assueti ad assistere a tali giustizie e molto meno ad aver
parte in esse. E certo se non ci fosse stato quel ventiquattruplicamento
di ferocia, di ardimento e di disciplina cagionato dalla vergata della
fata Scarabocchiona, non avrebbero avuto animo di obbedire al capo loro,
per quanto caro l'avessero. Lo squadrone si riformò in ordine di marcia,
discese dalla montagnuola e ripassò felicemente la frontiera mezz'ora
prima che i tre Reggimenti antiboini giungessero sul luogo del
supplizio, ed esterrefatti e raccapricciando riconoscessero e
disimpiccassero i tre cadaveri regi che facevano il penzolo. Non
sapevano spiegarsi la cosa; cominciarono a capirla dopo interrogati i
cortigiani legati ed asserragliati nella bettola del Gallo d'oro: ma
capacitarsene proprio, non sapevano! Intanto i dragoni scaricabarilesi
corsero a spron battuto fino alla prima piazza forte della patria loro.
Lì giunto, il capitano Sennacheribbo si presentò al comandante e si
costituì prigioniero dopo avergli narrato minutamente e
particolareggiatamente l'impresa condotta a termine. Il povero
comandante strabiliò, spaventato delle conseguenze che il triplice
regicidio porterebbe e pel capitano e pel paese; suggerì dapprima a
questo di fuggire.--«Fingerò di non averla visto! si salvi dove e come
può».--Ma, rifiutando Sennacheribbo di sottrarsi alla responsabilità
degli atti suoi, lo fece tradurre in castello e spedì subito per
istaffetta un rapporto al Ministero domandando istruzioni.

In que' due giorni Scaricabarilopoli era stata sottosopra. Ogni ora si
divulgava qualche notizia strana e terribile, e con una progressione, un
crescendo rapidissimo si giunse all'inverosimile, all'assurdo. Prima la
disparizione della Principessa! poi la notizia del ratto. Un deputato
interpellò il Ministero sulle voci che correvano intorno alla reda del
trono, voci che giustamente turbavano ogni cittadino devoto alla sua
patria ed alla dinastia. Il Presidente del Consiglio sciorinò una lunga
pappolata, in cui dovette confessare che la Principessa era stata furata
da' tre Re proci, con procedere indegno, violando l'ospitalità concessa
loro, violando il giuramento d'ammissione al concorso, violando ogni
regola d'onestà. Chi non si sarebbe fidato? Quindi il Ministero non era
da incolparsi d'imprevidenza. Annunziò nel contempo di aver mandato
ordine agli incaricati d'affari di Sua Maestà presso le Corti d'Antibo,
d'Exibo e d'Introibo di protestare contro l'eccesso inaudito e di
_reclamare_ l'immediata riconsegna della Principessa. Aspettare
risposte: dopo le quali proporrebbe importanti risoluzioni alla Camera.
Ma la quistione stare pel momento nel periodo delle trattative
diplomatiche e quindi non doverglisi chiedere altro. Fu proposto un voto
biasimo, e di mettere in istato di accusa il Ministero, perchè aveva
fatto mancare alla Principessa una scorta sufficiente e tale da poterla
salvare da un colpo di mano e tutelarla; perchè aveva lasciato sfuggire
i rapitori, i quali pure avevano da fare un lungo viaggio per toccar la
frontiera; e perchè conveniva di non aver saputo prendere alcun
provvedimento adatto a ricuperar la rapita. Bisognò fare evacuar le
tribune pubbliche, sospender più volte la seduta. Ma finalmente l'ordine
del giorno di censura fu votato alla unanimità dei Deputati presenti e
votanti: e la messa in accusa dei Consiglieri della Corona ad una
maggioranza imponente. Ed al povero Re Zuccone, che straziato dal dolore
aveva quasi perduto l'appetito, convenne ancora occuparsi della
composizione di un Ministero nuovo, vedere uomini politici,
mercanteggiar con essi. I primi atti del nuovo Gabinetto furono un
proclama al popolo, un discorso programma alla Camera, una Nota a tutte
le Potenze amiche, un _ultimatum_ all'autocrate d'Antibo, al monarca
d'Introibo ed al despota d'Exibo; ed il fare imprigionar (a richiesta
loro) i Ministri precedenti per sottrarli al furor popolare. Giacchè il
popolo, il quale, come sappiamo, travedeva per la Rosmunda, ingombrava
minacciosamente le strade della città ed aspettava che i Ministri
uscissero dalla sala del Parlamento per istrascinarli a coda di cavallo,
impeciarli e appiccar loro il fuoco. Nè, sebbene fosse tarda notte,
alcuno pensava a rincasarsi. Quanto ad adoperar l'esercito contro un
popolo che tumultuava per devozione alla dinastia, non era da pensarci,
ecco!

Poche ore dopo, allo spuntar del sole, si diffonde la nuova del ritorno
della Principessa, ricondotta nella Reggia della fata Scarabocchiona sua
santola in un plaustro di madreperla, tirato da quattro mute di
draghetti volucri, color di rosa, picchiettati di violaceo, con cresta,
bargigli, giubbe, e coda del più acceso scarlatto! Tutta
Scaricabarilopoli si radunò sotto le finestre del palazzo reale. E
quando finalmente la Principessa pallida, convulsa, ma sorridente,
comparve col padre sulla balconata per salutar la folla, fu un plaudire,
un acclamare, un tripudiare da frenetici; fu un piangere universale; fu
un ruggito che domandava vendetta contro gli offensori della bella
creatura. La Principessa fè cenno con la mano di chieder silenzio e di
voler parlare. Tutti tacquero. Con voce timida e tremante ringraziò di
tanto affetto, pregò i buoni Scaricabarilopolitani di calmarsi, di aver
fiducia nel Governo e.... di lasciarla riposare. La folla rispose con
un'ultimo evviva e quindi sgombrò dal piazzale silenziosamente.

Poi si seppe che era stato il capitano dei dragoni Sennacheribbo,
trovatello educato per carità da una povera vecchia dimorante nel vicolo
Scassacocchi, arrolato volontario undici anni prima e promosso uffiziale
e decorato della medaglia d'oro al valor militare per aver presa una
bandiera in battaglia al nemico, quello che alla testa del suo squadrone
aveva miracolosamente raggiunti i rapitori varcando la frontiera e
riacquistata la Rosmunda. De' fogli volanti davano una biografia
fantastica e cerebrina del capitano. Le mure furono ben presto
imbrattate dovunque di _Viva Sennacheribbo! Viva il salvatore della
Principessa!_ I fotografi cavaron fuori tutte le negative che
rappresentavano ufficiali dei dragoni, e spacciarono a prezzi
esorbitanti de' ritratti apocrifi del prode. Il popolo si recò al vicolo
Scassacocchi e s'impossessò della madre adottiva del capitano e la portò
in trionfo, processionalmente. Venne aperta una sottoscrizione per
offrirgli un dono nazionale. La sera tutta la città era illuminata
spontaneamente: non c'era povera finestruccola, misero abbaino dove non
si scorgesse un lucernino, un tegame con grasso e lucignolo acceso, una
candela circondata di carta almeno.

La dimane si riseppero finalmente molti particolari della spedizione; e
che Sennacheribbo aveva pensato bene di far giustizia sommaria e che
Guasparre I, Melchiorre XVII e Baldassare V avevan fatto un ballo in
campo azzurro, e che il capitano si era costituito prigioniero in una
delle fortezze dello Stato. Era di venerdì e tutta Scaricabarilopoli
giocò il terno uno, cinque e diciassette, _i numeri del capitano_, come
dicevano. Bisognò mettere questurini e sentinelle alle prenditorie,
tanta era la calca di popolo che si affollava per giocare; i botteghini
rimasero aperti tutta la notte, senza svacantarsi mai: uno usciva e
dieci entravano. Il sabato poi convenne ritardare l'estrazione fino alle
cinque per cansare disturbi. Veramente, per fortuna delle Finanze
scaricabarilesi, l'uno, il cinque e il diciassette non uscirono: anzi i
cinque numeri estratti furono: il tre, il trentanove, il ventuno, il
sessantadue ed il cinquanta.

Tre, cioè i tre Re; trentanove, cioè impiccati; e ventuno vuol dir
Baldassarre, sessantadue Guasparre e sessanta Melchiorre, come insegna
la _Smorfia o Libro dei sogni_: quindi nessuno osò mormorare contro
Sennacheribbo, ed il popolo sovrano confessò di aver mancato d'acume e
di senno e di non aver saputo interpretare i fatti e cavarne i numeri
buoni.

Frattanto il Governo teneva sicura la guerra co' tre Reami circostanti e
finitimi; immancabile. Si spingevano gli armamenti con alacrità somma.
Al Ministero della Guerra, ne' magazzini militari, ne' polverifici,
negli arsenali si lavorava giorno e notte. Si allestiva l'armata, si
richiamavano i contingenti sotto le bandiere; si mettevano in assetto le
fortezze; si chiedevano denari alla Camera, che votò un credito
illimitato al nuovo Ministero e con un ordine del giorno gli commise di
mantenere intatto il decoro del paese. Un secondo proclama del Re
Zuccone al popolo espone gli avvenimenti e la situazione. La violazione
d'ogni fede perpetrata da' tre Re veniva stigmatizzata. Il Governo ed il
Capo dello Stato ripudiavano ogni partecipazione, ogni responsabilità
nella terribile rappresaglia eseguita _motu proprio_ dal capitano
Sennacheribbo, il quale, incaricato soltanto d'imprendere minute
indagini sulla sorte della principessa Rosmunda, aveva preso poi su di
sè d'inseguirne i rapitori, di sconfinare inseguendoli e di vendicare
l'oltraggio fatto al paese ed alla dinastia in un modo che e quello e
questa dovevano disconfessare. Il capitano sarebbe giudicato dal Senato
costituito in Alta Corte di giustizia per attentato alla sicurezza dello
Stato, a norma dell'articolo trigesimosesto dello Statuto, come quegli
che esponeva la nazione al pericolo di guerra. La quale quando
scoppiasse, sebbene non voluta dal Governo scaricabarilese, non
provocata, non desiderata, il popolo avrebbe pure incontrata sicuramente
e sostenuta vigorosamente. Così diceva press'a poco il manifesto di Re
Zuccone.

Ben presto giunsero ambasciatori straordinari da' nuovi Governi de' tre
Reami finitimi. In Antibo, non essendovi eredi al trono, s'era
costituito un Triumvirato militare; due generali di esercito ed un
ammiraglio avevano ridotto nelle loro mani la cosa pubblica, s'erano
costituiti in Governo provvisorio e convocato una Costituente eletta con
le urne custodite dai pretoriani. In Exibo era succeduto a Don
Melchiorre un cugino in quarto grado, uomo giusto ed integro, sano di
corpo e di mente. In Introibo l'erede presuntivo era stato ucciso a
furor di popolo, tutti i principi erano fuggiti e s'era proclamata una
Repubblica posticcia. Cotesti ambasciatori non venivano nè per dichiarar
guerra, nè per chieder soddisfazioni tanto inaccettabili che il
richiederle equivalesse ad una dichiarazione di guerra. Anzi, ognun
d'essi aveva istruzioni secrete conciliativissime. Nessuno dei tre nuovi
Governi pretendeva che il Reame di Scaricabarili fosse responsabile
delle gesta del capitano Sennacheribbo; tutti deploravano e
qualificavano severamente il tentato ratto della Rosmunda, e domandavan
solo una riparazione d'onore alle rispettive bandiere ed il castigo del
capitano. Secretamente il Triumvirato Antiboino ed il governo
provvisorio Introiboino significavano d'esser disposti anche a
transigere su questi due punti, pur che venissero riconosciuti dal
Governo di Re Zuccone: ed il nuovo despota d'Exibo aveva incaricato
specialmente il suo messo di un autografo di scusa e di rimpianto
particolare per l'accaduto, da rimettersi all'Infanta. Il vero è che
nessuno de' tre afforcati era rimpianto; che ne' loro paesi
ognuno diceva:--Ci abbiamo gusto! Grazie sien rese al capitan
Sennacheribbo.--Sarebbe difficilissimo di muover guerra al Re di
Scaricabarili, quando l'opinione pubblica di Antibo, Exibo, ed Introibo
v'era assolutamente, recisamente contraria. Inoltre e gli erarii e gli
eserciti di quegli Stati erano disorganizzati per modo dallo sgoverno e
dalle dilapidazioni e dalla inettezza di Guasparre, Melchiorre e
Baldassarre, che la guerra non avrebbe potuta esser mossa con alcuna
probabilità di vittoria. Quindi i tre ambasciatori si mostrarono
arrendevolissimi; l'Infanta rispose anch'ella con un chirografo alla
lettera del successor di Melchiorre XVII; Re Zuccone riconobbe il
Triumvirato militare Antiboino ed il Governo provvisorio Introiboino; le
bandiere de' tre Stati finitimi furono issate solennemente innanzi alla
Reggia di Scaricabarili e salutate ciascuna da centun colpo di cannone;
la Corte prese il lutto e fece celebrar delle messe pel riposo delle
anime e del monarca e del despota e dell'autocrate. Quanto al capitano,
gli ambasciatori presero atto delle dichiarazioni contenute nel
manifesto e nelle note di Re Zuccone, si dichiararono pieni di fiducia
nella imparzialità del Senato scaricabarilese e protestarono di
aspettarne il verdetto, nel quale anticipatamente si acquetavano.

Ed il Senato del Regno venne convocato in Alta Corte di giustizia per
giudicare il capitano dei dragoni di seconda classe cavalier
Sennacheribbo Esposito, imputato di attentato alla sicurezza dello Stato
e di indisciplina, per aver senza alcun ordine sconfinato ed impiccati
tre Re, esponendo il paese al pericolo di una guerra esterna. L'imputato
poi venne tradotto dalla fortezza, in cui veniva custodito, nelle
carceri giudiziarie della Capitale. Vi era appena da un paio d'ore,
quando lo invitarono a scendere in parlatorio. C'era l'azafatta della
Principessa, accompagnata da un ufficiale d'ordinanza di Sua Maestà, il
quale stava discretamente in disparte nel vano di una finestra,
guardando nel cortile. L'azafatta, approssimativamente a Sennacheribbo,
gli disse a bassa voce:--«Signor capitano, io vengo incaricato
dall'Altezza della principessa Rosmunda di ripetere da Lei un oggetto di
pertinenza della prefata e sullodata Altezza che Ella presentemente ha
in custodia. La esorto dunque a consegnarmi l'oggetto stesso in un plico
suggellato, acciò ch'io possa recarlo nelle mani dell'augusta Infanta,
sua, mia padrona (Dio guardi!) senza nè vederlo nè conoscerlo. Faccia
dunque il plico su quel tavolino e lo suggelli e mel consegni, acciò
ciascuno di noi per parte sua adempia scrupolosamente i voleri della
riverita nostra Principessa!».

Ed indugiando Sennacheribbo, senza rispondere ad obbedire, l'azafatta
cavò dalla taschetta di velluto che le pendeva allato una busta, la
baciò devotamente e ne trasse un foglio che mostrò al capitano; il quale
vi lesse:--«La latrice del presente sarà creduta ed obbedita da chiunque
m'ama. Rosmunda; _manu propria_».--Il giovane nulla disse: s'accostò
allo scrittoio si tolse dal seno la giarrettiera che vi occultava: e gli
parve di strapparsi il cuore dal petto. La chiuse in una scatolettina di
cartone che involse in un gran foglio bianco e legò con lo spago e
suggellò più volte con l'anello che portava in dito; e consegnò
l'involtino all'azafatta. La quale con un lieve inchino
soggiunse:--«Riferirò all'Altezza Sua la prontezza, con la quale Ella
ha obbediti gli ordini».--E si allontanò con l'ufficiale di ordinanza.
Sennacheribbo, che non aveva aperte le labbra, venne ricondotto nella
sua cella.

Appena vi fu rinchiuso e si vide solo, andò a buttarsi col capo in giù
sul letto, e, premendo la bocca sul guanciale e mordendolo per soffocare
e smorzare almeno i singhiozzi, cominciò a piangere disperatamente,
proruppe in un pianto dirottissimo. Gli pareva d'aver tutto perduto,
perdendo quell'arnese della donna amata, che apprezzava non per
l'incanto, anzi perchè portato da quella: difatti, non gli era mai
venuto in mente di adoprarlo, d'evocar la fata Scarabocchiona, di
domandare aiuto a costei: nè gli sarebbe mai venuto un tal pensiero, che
avrebbe preferito di morir di morte ignominiosa sul patibolo al dovere
la propria salvezza ad una femmina, ancorchè fata, ancorchè
dea.--«Gratitudine principesca!»--pensava egli.--«Ho servito. Mi buttan
via come un limone spremuto! L'ho salvata, l'ho vendicata, sapendo che
potrebbe costarmi la vita; e neppure un mezzo ringraziamento. Se questo
cencio d'un legaccio, ch'io serbavo più gelosamente che il credulo
devoto non custodisca una reliquia di Santo, mi vien ritolto senza una
parola amica, benigna! Ed il Re! lui mi aveva promesso!... Ma non mi
meraviglio di quello lì, forse costretto a tiranneggiarmi da riguardi e
considerazioni politiche... Lei però, lei che senza di me a questa ora
sarebbe morta vituperata fra gli strazî, lei che sa quel che ho
sofferto, mostrarmi un po' di benevolenza poteva, un di riconoscenza, un
po' di memoria! Nossignore! E questo popolaccio che comincia dal
celebrarmi e dall'applaudirmi e poi, mutato il vento!... Basta! l'ho
amata! ho potuto documentare questo amore col più ardito fatto e feroce
che registrino le nostre istorie; ho potuto camparla: l'ho sorretta un
istante svenuta con queste braccia... o non sono premiato abbastanza? E,
checchè faccian di me, gli uomini non potranno dimenticarmi: ho cambiato
l'indirizzo della storia di più popoli; sono comparso come _deus ex
machina_ ed ho fatto prendere un altro corso agli eventi; ho fatto
impallidire le fame de' classici liberatori di popoli, de' Bruti e degli
Armodî. Eppure.... Ah! pensiamo piuttosto alla povera mamma mia, che
deve soffrir tanto adesso che morrà di certo nel vedermi tradurre al
patibolo od al luogo della fucilazione e che ho tanto mal ricompensata
delle cure dell'amor suo gentile».

Venne il giorno del giudizio. Non un membro del Senato chi mancasse. Le
tribune pubbliche erano stivate: giornalisti e corrispondenti d'ogni
paese eran venuti ad assistere al memorando processo, ad estenderne il
resoconto, a notare impressioni. Una folla sterminata si accalcava
intorno al palazzo senatoriale. La truppa era stata consegnata.

Il Commissario del Governo lesse l'atto d'accusa: sarà inutile il
riferirlo, perchè ognuno può figurarsi cosa deve essere quel monumento
dell'eloquenza scaricabarilese. I colori erano caricati, Sennacheribbo,
uomo profondamente crudele, avventuriero sorto dal nulla, non aveva
operato per zelo dell'onor dinastico e nazionale, anzi per isfogare odii
e rancori personali verso i tre Re, e per manomettere in loro la dignità
regia. Tutti i Principi esser solidali; una monarchia non dover mai
permettere che de' monarchi vengano manomessi.--«L'accusato asserisce di
essere stato coadiuvato da una fata, che sarebbe santola della nostra
augusta Principessa. Signori Senatori, i registri battesimali, i
registri dello Stato Civile della dinastia tenuti dal Presidente appunto
di questo augusto Consesso, non mentovano in modo alcuno questo
intervento soprannaturale. Chi è che ignori lo fate essere una finzione,
con la quale si trastullano i ragazzi e che la pedagogia condanna? Fate
non ce n'è; non c'è alcuno Scaricabarilese vivente che possa affermare
con sacramento di averne vista una, e la ragione dimostra che non
possono esserci. Certo vi è qualcosa di straordinario negli avvenimenti
onde ci occupiamo, che non può spiegarsi con l'andamento solito degli
eventi umani. Ma, Signori, tutte le facoltà di teologia delle nostre
Università v'insegnano che se fate non ce ne sono, c'è però il diavolo.
E col grande arcidiavolo dello 'nferno mi giova credere che il capitano
Sennacheribbo Esposito, vergogna eterna della uniforme de' dragoni
scaricabarilesi, abbia stretto un patto sacrilego. Balzebù gli ha fatto
fornire in poche ore di notte quella corsa prodigiosa dalla macchia di
Valquerciame alla osteria del _Gallo d'oro_. A Satanasso egli ha
affidato l'augusta erede del trono, perchè dall'osteria del _Gallo
d'oro_ venisse restituita nella Reggia paterna! Ad Astarotte e Belfegor
sicuro, qualunque sia la forma che hanno assunta. E da Calcabrina e
Draghignazzo aspetta per fermo aiuto, che vengano a liberarlo dalle mani
della giustizia. Ma voi farete stare a dovere lui e tutti i trentamila
diavoli infernali».

Dopo l'orazione stupenda del Commissario regio, si procedette allo
interrogatorio dell'imputato. Sennacheribbo raccontò le cose molto
semplicemente, tacendo solo del modo in cui gli era apparsa la fata, non
parendogli opportuno divulgare il secreto del legacciolo, ch'egli
immaginava la Rosmunda desiderare che rimanesse occulto. Richiesto
perchè avesse mandato a Fuligno i tre Re, o per ordine o per
suggerimento di chi, rispose:--«Da me, per ordine e suggerimento della
coscienza mia. Feci giustizia di tre persone eslegi, che sarebbero
andate impunite senza l'ardimento mio, per vendicar l'onore del nostro
paese, offeso nella principessa, e per liberare l'uman genere da tre
mostri».

Richiesto se avesse avuto piena coscienza del fatto e ne avesse
prevedute le conseguenze:--«Tutte,»--rispose.--«Sapeva che sconterei col
capo quell'opera meritoria. E ho persino annunziato a que' tre, presenti
buon numero dei miei soldati, che potranno testimoniarne».

Interrogato se avesse motivi di rancore personale contro una o tutte le
sue vittime ed invitato a dare spiegazioni intorno alle parole
profferite nel giorno del tumulto popolare contro l'autocrate d'Antibo,
parole che per l'indulgenza eccessiva del colonnello gli avevan fruttato
un solo mese di arresti di rigore, rispose:--«Pronunziai quelle parole
perchè indegnato dall'assassinio del povero Coppa di oro. Non poteva
certo premeditare allora la impiccazione de' tre Re, come non poteva
prevedere in alcuna guisa che rapirebbero la Principessa e ch'io avrei
la fortuna di raggiungerli e il modo di castigarli. Un sol motivo di
odio aveva contro di loro, e questo è comune a tutti gli
Scaricabarilesi: tutti, credo, erano sdegnati che tre deformi d'animo e
di corpo osassero pretendere alle nozze della figliuola del Re nostro ed
alla signoria del nostro paese».

Interrogato sulla partecipazione dei subordinati negli impiccamenti,
rispose, assumendone tutta la responsabilità:--«I miei soldati non
discutono, obbediscono. Al comando mio avrebbero fatto qualunque cosa,
appunto come domani, ne giuro e ne scommetto, saranno pronti a fucilarmi
sull'ordine del nuovo capitano loro».

Venne quindi proceduto all'audizione dei testimoni, che raccontarono
particolareggiatamente tutti i fatti da noi narrati e confermarono in
ogni punto la narrazione di Sennacheribbo. Della fata potevano dir
nulla, nessuno avendola vista: ma affermarono d'essersi sentito
raddoppiare a mille doppi il vigore del corpo e dell'animo, e di aver
avuto per guida nella portentosa galoppata il fuoco fatuo. Quando
interrogarono il luogotenente, che comandava interinalmente la
compagnia, Sennacheribbo chiese di potergli rivolgere una
domanda:--«Tenente, se domani Ella fosse comandato con un pelottone per
fucilarmi, disubbidirebb'Ella? Cred'Ella che alcun uomo dello squadrone
rifiuterebbe l'obbedienza?».

--«Capitano,»--rispose il luogotenente,--«Ella è stato per me padre e
fratello; e non per me solo, anzi per tutti noi. Ella ci ha educati e
rotti alla disciplina, all'obbedienza passiva. Noi seguimmo sempre le
sue norme i suoi dettami: persevereremo nelle abitudini ch'Ella ci ha
imposte e che son per noi una seconda natura. Se domani fossimo
comandati, La fucileremmo senza mormorare. Ma, se toccasse a me d'esser
comandato, mi farei saltar lo cervella appena tornato in caserma; e
così, metto pegno, farebbe ogni altro ufficiale, graduato o milite dello
squadrone».--Era esaurita la lista dei testimoni, quando il Presidente
dell'Alta Corte di giustizia, ricevuto un piego da un usciere, e,
lettolo, alzandosi in piedi disse ai colleghi:--«Osservandissimi ed
onorandissimi colleghi; La Altezza reale della principessa Rosmunda
chiede con la presente lettera del suo primo gentiluomo di camera, di
essere ammessa a dare degli schiarimenti, che assicura importantissimi
per la causa sottoposta al profondo vostro senno ed allo imparzial
giudizio; e mi fa annunziare di essere nelle sale di aspetto del Senato.
In virtù dei poteri discrezionali del Presidente, io penso opportuno di
udire le dichiarazioni dell'Altezza Sua, e nominerò una deputazione che
vada ad incontrarla e la introduca nell'aula».

Sennacheribbo divenne pallido come un cadavere, e corse con la mano al
petto per frenare alquanto i battiti del cuore. Tutti i Senatori, tutti
gli astanti si alzarono in piedi e la principessa Rosmunda, pallida
anch'essa, fece ingresso nell'aula accompagnata dall'azafatta e dalla
deputazione del Senato, e appoggiata al braccio d'uno de'
vice-presidenti. Pallida sì, co' grandi occhi bruni un po' smorti, ma
onestamente baldanzosa. Il Presidente le fece un'arringa complimentosa,
discretamente sgrammaticata, e le disse che l'Alta Corte era pronta ad
ascoltare con attenzione religiosa le importanti comunicazioni che Sua
Altezza aveva annunciate. La Principessa ringraziò cortesemente, senza
sgrammaticare: pregò tutti di sedere, e poi narrò per disteso la sua
avventura e quanto avea sofferto; e la violenza e gl'insulti e il ratto
e l'affannamento e la corsa sfrenata e la partita a dadi e le minacce
dell'autocrate d'Antibo, alla imbavagliata e la mano alzata per
ricaderle sulla guancia... Tutti fremevano. Narrò il sopraggiungere del
capitano Sennacheribbo e lo incantesimo del legacciolo donatole dalla
santola, la quale era fata. E per avvalorar la sua testimonianza, acciò
messer lo Commissario regio e gli altri scettici dell'adunanza non
s'incocciassero nel negare, la si chinò modestamente, con tutta
modestia, e sollevando un lembo appena della veste prolissa e tanto
lievemente che a stento venne scorta la punta delle scarpette ricamate,
sciolse la giarrettiera; e se la ravvolse intorno al polso sinistro e
v'impresse un bacio.

Non appena l'ebbe tocca con le labbra, ecco scuotersi la terra come pel
tremoliccio, ecco sfolgorare un lampo, ecco il rombo d'un tuono. Un
soffio di vento sibilò sotto le ampie vôlte dell'aula e fece tintinnar
le invetriate, ed agitarsi le tappezzerie, i cortinaggi, le tende, i
fiocchi. E gli astanti fra sorpresi ed esterrefatti videro comparire un
plaustro di madreperla tirato da quattro paia di dragoncini, leucotteri
color di rosa, moschettati di viola con le criniere e le creste e le ali
di fiamma. E nel plaustro sedeva una donna avvenentissima, tutta velluti
e trine e gemme, dalla quale si diffondeva come una luce che rischiarò
splendidamente l'aula e fece impallidire i raggi del sole meridiano. Il
plaustro ristette ai piedi del seggio del Presidente; la fata smontò ed
appressandosi alla figliuola ed abbracciandola, le disse:--«Che vuoi
Rosmunduccia?»--e le diè un bacio proprio di cuore.

Un mormorio di ammirazione, di meraviglia, di stupore, di curiosità ed
anche di spavento superstizioso, guizzò (scusate l'espressione
impropria), serpeggiò per la folla. Difatti, pensate un po',
all'esistenza delle fate ci crediamo su per giù tutti, come
all'esistenza degl'ippogrifi, degli ippotragelafi, degl'ircocervi, ma,
se ho a dirla schietta, _il ver convien pur dir quand'e' bisogna_, un
ircocervo, un ippotragelafo, un ippogrifo, una fata, son cose che non ho
mai viste al mondo mio: e mi venissero a dire che al Pincio c'è una
carrozza tirata da ircocervi, che la Compagnia equestre all'Argentina ci
ha degl'ippogrifi, che nelle stalle del Quirinale c'è un ippotragelafo,
che nell'aula del Senato del Regno c'è una fata con la sua brava verga
criselefantina ed un plaustro tratto da otto draghettini rosei, io non
saprei resistere alla tentazione per quanto incurioso io mi sia. E
benchè il frequentare il Pincio sia il più insulso degli spassi, il
frequenterei; e benchè l'assistere alle rappresentazioni equestri sia
gusto plebeo, prenderei un biglietto per questa sera stessa; e benchè le
sedute del Senato non sogliano essere divertentissime, farei a pugni per
entrare nelle tribune. Anche in Iscaricabarilopoli, sebben si parlasse
molto di fate ai bimbi, nessuno ne aveva mai viste, e molti dubitavano
dell'esistenza loro ed accampavan cavilli ed arzigogoli per dimostrar
che non ce ne puol essere. Ed insomma era la prima volta in tutta la
_Storia Universale_ che una fata compariva innanzi ad un Senato
costituito in Alta Corte di giustizia; caso che molto probabilmente non
si rinnoverà mai più, mai più. Dunque tutti gli spettatori si
pressavano, si pigiavano, si accalcavano, si alzavano sulla punta dei
piedi, si spingevano, si appioppavan gomitate; tutti volevan vedere la
fata Scarabocchiona ed il plaustro di madreperla ed i quattro
dragoncelli. E se li mostravano a dito e stupivano e strasecolavano.

Disse la Rosmunda:--«Cara santola, scusate l'incomodo: ma, ve ne prego,
raccontate anche voi a questi Signori qui, come sono andate veramente le
cose, e qual parte ci avete avuto voi, acciò si sperda ogni dubbio dagli
animi loro».

E la fata leggiadrissima, compiacendo la figliozza, narrò del consiglio
dato alla Rosmunda; averglielo dato perchè prevedeva e sapeva, perchè il
suo libretto magico le aveva dimostro che in tal modo sarebbe accaduto
quel ch'era poi accaduto di fatti: lo scombinamento degli assurdi
matrimoni e la morte delle tre belve scettrate. Narrò in qual modo
Sennacheribbo avesse raccolto il legaccio incantato e l'avesse baciato
senza sospettarne la virtù magica, anzi come reliquia della Principessa,
che celatamente, timidamente, ma potentissimamente amava. Povero
Sennacheribbo, udendo così spiattellare _coram populo_ ciò, che egli si
apponeva a delitto ed avrebbe voluto nascondere a sè stesso e stimava
ignorarsi da tutti, si fece scarlatto e chinò il capo come un reo
convinto, si coprì la faccia con le palme ed avrebbe voluto essere a
cento palmi sotterra.

Oh che mortificazione! oh come tutti lo dileggerebbero! oh che amaro
sogghigno di sprezzo avrebbe scoperto sulle labbra della Principessa se
avesse osato guardarla! oh che fischiate gli toccherebbero! oh come gli
sarebbe rinfacciata la nascita ignota e la povertà! Così pensava:
ma..... la Principessa stava tutta composta a capo chino presso la
madrina, e l'uditorio s'inteneriva e s'interessava per lui.

La fata proseguì, dicendo come avesse ventiquattruplicato col tocco
della verga eburnea ed aurea il vigore dei cavalli e de' cavalieri;
rendendo ferocissimi i miti d'animo, zelantissimi i più timidi, e
freneticamente zelante, feroce, geloso ed appassionato Sennacheribbo che
già da sè era superlativo in tutto. Questa vigoria ventiquattrupla aver
fatto raggiungere i rapitori; a questa esagerazione ed esaltazione
soprannaturale del carattere e della passione in Sennacheribbo doversi
attribuir soprattutto, principalmente, il pensiero del triplice
regicidio, del monarchicidio di Baldassarre Quinto il gobbo, del
despoticidio di Melchiorre Decimosettimo il zoppo, dell'autocraticidio
di Gasparre Primo il guercio; non altra essere stata la ragione
persuasiva di quello sterminio, di quell'eccidio, di quella carneficina
di regnatori. La vera colpevole, in fondo, la vera ammazzaprincipi ed
afforcasovrani esser forse lei che parlava; ma, come fata, non esser
sindacabile, giudicabile nè punibile che da Demogorgone: ed avere
motivi, aver buono in mano per credere che Demogorgone, lunge dal
punirla, l'encomierebbe dell'opra santa provocata, che non eccedeva del
resto i suoi poteri, no davvero.

Qui riprese la parola la Principessa, e fattasi coraggio, imporporandosi
tutta d'un bel rossore, disse:--«Signori, può darsi che politicamente e
militarmente il capitano Sennacheribbo Esposito abbia mal fatto ed
ecceduto; e che, come il Ministero ha stimato opportuno di accusarlo,
voi stimiate utile il condannarlo. Sebbene, vel confesso, non comprenda
come possano scindersi due parti del medesimo atto ed approvar la mia
liberazione e condannar la vendetta. Nè so se sarebbe stata miglior
politica lasciar la vostra Infanta morire fra gli strazî o lasciarne
impuniti i rapitori delusi che avrebber mossa immantinente guerra feroce
a noi impreparati. Ad ogni modo è anche buono che voi sappiate quel
ch'io penso e sento di quest'uomo; io, beneficata da lui e salva per
opera sua dalla vergogna e dalla morte, e vendicata. Non ho riputazione
di esser crudele, io, credo; e certo non v'ha persona nel Reame che
spaventi la prospettiva di avermi per sovrana. Ignoravo affatto cosa
fosse il desiderar male altrui, e l'ira e lo sdegno, e la voluttà del
mal talento appagato. Eppure la vostra futura Regina ha sofferto tanto e
tanto in quella notte del rapimento, che, vel giuro, ogni più efferata
crudeltà in quei mostri le sarebbe sembrata pena inadeguata alla colpa
loro. Ella s'è rallegrata del castigo inflitto a coloro che non
offendevano in lei, lei sola, anzi tutta la nazione. Capitano
Sennacheribbo, io vi ringrazio; capitano, io vi lodo ed approvo; ed
intendo che tutti stimino e ritengano aver voi operato per espresso
comando mio. La gratitudine mia non ha limite alcuno, oso confessar qui
arditamente che mi stimola e consiglia e induce e persuade a
contraccambiar l'affetto onde mi avete date prove così grandi ed
efficaci e che mi avete manifestato con questi atti, non altrimenti,
mai. Se io potessi ciò che volessi, invece di sedere al presente su
quello sgabello, mi sedereste al fianco accanto al trono. Se le
preghiere mie, se queste lacrime mie non valgono a commuovere gli animi
e le menti di questi Signori, io mi trascinerò nella polvere a' piedi di
mio padre, acciò vi renda giustizia sotto nome di grazia; e vi mantenga
la promessa profferita nello spedirvi in cerca della figliuola alla
macchia di Valquerciame: _Non tornare senza la Principessa, e se mi
riconduci sana e salva la figliuola, ti giuro che nessuno sarà
quind'innanzi al di sopra di te nel mio Regno_. Se tutto tornasse
indarno, se non ottenessi per voi giustizia e guiderdone, quel
guiderdone che meritate, io vi giuro che mi reciderò le chiome, che
prenderò il lutto; che non perdonerò mai ad alcuno di quanti avranno
contribuito alla vostra rovina. La tua sovrana porterà la gramaglia per
te, finchè viva; la tua amante non si piegherà mai ad altre nozze. E
ch'io non dica così per dire, per rettorica, e che intenda impegnarmi
solennemente sarà chiaro a te ed a tutti. Sono stata già una volta nelle
tue braccia all'osteria del _Gallo d'oro_, ma incosciente; ho
abbandonato una volta il capo sul tuo petto, ma svenuta,
involontariamente. Ebbene, ora, qui, nell'aula del Senato del Regno,
costituito in Alta Corte di giustizia, io, Principessa ereditaria, vi
chieggo questa grazia, di lasciar ch'io liberamente vi butti le braccia
al collo e di concedermi un bacio, un bacio d'amore e di fede».

Chi potrebbe descrivere l'effetto di questo discorso; le lagrime, i
pianti, i plausi, gli evviva, i battimani che gli tenner dietro; ed il
giubilo popolare, quando si vide la bella donna Rosmunda pendere dalla
cervice del capitano ch'era sorto in piedi, smorto, tremante, convulso,
fuori di sè? Ella spossata, come dopo una crisi nervosa, caduta la
esaltazione, singhiozzava disperatamente: ma negli occhi di lui v'era lo
splendor sereno dell'orgoglio soddisfatto e contento, dell'uomo che ha
avuto dalla vita quanto e più di quanto bramava, e cui nessuno può
spogliare di tanta ricchezza. La fata Scarabocchiona s'appropinquò al
gruppo, riprese, come là nella bettola del _Gallo d'oro_, la figlioccia
dalle braccia di Sennacheribbo e la portò sul plaustro, che i
dragoncelli rosei, dall'ali bianche e dalle creste scarlatte involarono
in men di quella agli occhi dell'adunanza stupefatta. Le invetriate si
aprirono e richiusero da per loro, onde passasse. Frattanto il
Commissario del Re ed i Senatori riflettevano: nessuno sentiva la benchè
minima velleità d'incorrere nell'ira e nell'animosità della Principessa
ereditaria, la quale, a breve andare, secondo l'ordine natural delle
cose, avrebbe dovuto succedere al padre decrepito. Anche l'amor di
patria raffigurava loro i guai di una Regina zittellona che avesse poi a
morire senza prole.

Calmato alquanto il subbuglio, il tumulto, la perturbazione che seguì la
partita della fata e della Rosmunda, il Commissario governativo alzatosi
in piedi ed impetrata la parola dal Presidente, dichiarò di ritirar
l'accusa contro Sennacheribbo:--«Dal momento che ci abbiamo un ordine
verbale di Sua Maestà, del quale sinora s'era taciuto e che investiva il
capitano di poteri eccezionali e discrezionali; dal momento che un
essere soprannaturale e non sottoposto alla giurisdizione dell'Alta
Corte, riconosce di aver posto il capitano in condizioni totalmente
diverse dalle ordinarie, sicchè questi può benissimo considerarsi come
operante senza coscienza, od almeno in uno stato espresso
d'irresponsabilità; io non posso insister più a lungo nell'accusa; prego
dunque l'Alta Corte di ordinare che l'accusato venga posto in libertà,
se non è trattenuto per altro motivo».

Il Senato si ritirò per deliberare. Dopo mezz'ora tutti i Senatori
rioccuparono i loro posti ed il Presidente fral silenzio altissimo degli
astanti pronunziò queste parole:--«Capitano Sennacheribbo, si alzi. Il
Senato, costituito in Alta Corte di giustizia, la dichiara prosciolto
d'ogni accusa alla unanimità. Ed alla unanimità stessa la dichiara
benemerito della patria e della dinastia, e la ringrazia di quanto ha
operato per l'una e per l'altra, salvando l'augusta Principessa, erede
del trono».--Veramente questa seconda parte della sentenza senatoriale
era incostituzionale, giacchè arieggiava un voto politico; ed il Senato,
quando è costituito in Alta Corte, non può legalmente farne. Ma i
signori Senatori volevano ingraziarsi con la Principessa e propiziarsi
Sennacheribbo.

Se l'aula del Senato non crollò per lo fragore delle salve di applausi,
del tripudio festoso e delle urla di gioia; se il povero Sennacheribbo
non fu dilaniato e soffocato almeno dagli abbracciari, dagli spintoni e
dalle strette di mano d'amici e d'ignoti, che volevan vederlo,
accarezzarlo, onorarlo; ascrivo la cosa a miracolo. Tutti gli erano
addosso, tutti gli si ricordavano. Il Commissario governativo gli fece
scuse umilissime, allegando gli ordini dei superiori, le necessità
dell'uffizio suo, eccetera. I Senatori si congratulavano. Il popolo poi,
facendo irruzione nelle sale del Senato, s'impossessarono del capitano,
lo sollevarono in alto sopra un tavolino, come nel Medio Evo si
innalzavano gli eroi sui pavesi, e checchè il poverino dicesse,
cominciarono a portarlo trionfante verso la Camera de' Deputati. La
notizia dell'assoluzione v'era giunta già da un pezzo; ed un membro
dell'Assemblea lì su due piedi propose un ordine del giorno di
ringraziamento e d'encomio per Sennacheribbo e di decretargli il
soprannome di _Vindice_. Il Ministero si oppose: il Ministro degli
Esteri protestò che lo si metteva in condizione impossibile di faccia
alle Potenze; il Ministro della Guerra che era un corromper la
disciplina; il Presidente del Consiglio pose la questione di
gabinetto;.... ma l'ordine del giorno fu votato ad una immensa
maggioranza. Allora i Ministri si ritirarono, dichiarando che
presenterebbero le dimissioni al Re e pregarono la Camera di chiuder la
seduta. Così accadde; ed i Deputati che uscivano dal palazzo,
frammischiandosi alla folla, vi sparsero la notizia de' nuovi onori di
Sennacheribbo.

Ma la più dolce ricompensa, il premio più soave aspettavano costui alla
Reggia, sulla gran balconata dalla quale stavano Sua Maestà Zuccone XIV,
e l'Altezza Reale della Infanta Rosmunda e la fata Scarabocchiona, che
applaudivano anch'essi e sventolavano i fazzoletti. La compagnia de'
dragoni di Sennacheribbo, comandata dal luogotenente, giunse finalmente
a riconquistar sulla folla il proprio capitano, che rimontato a cavallo
per la prima volta dopo quel memorando giorno, entrò nella Reggia al
suon dell'inno reale. Il primo ed il secondo aiutante del Re lo
aspettavano ai piedi della scalinata per complirlo in nome della Maestà
Sua che gli mosse incontro fin sul pianerottolo dell'appartamento, e lo
abbracciò e lo condusse sulla balconata dov'era la figliuola alla quale
lo presentò, dicendo:--«Rosmunda ecco il tuo sposo!».

Il resto può immaginarsi. I soldati semplici della compagnia liberatrice
furon creati tutti sottotenenti; i soldati scelti, luogotenenti: i
caporali furon fatti capitani; i sergenti, maggiori; il foriere, tenente
colonnello; il sottotenente fu promosso a colonnello; ed i due
luogotenenti a maggior generali. E, strano a dirsi, questi ascensi
favolosi, spagnoleschi, non produssero malcontento nell'esercito.
Vennero inoltre tutti fregiati di un'apposita medaglia commemorativa: da
un lato l'effigie della Principessa col motto: _Ch'io non credetti
ritornarci mai_; dall'altro un dragone a cavallo che galoppava con la
spada evaginata, e la scritta: _La Principessa ereditaria Rosmunda alla
IV Compagnia del V Reggimento Dragoni, riconoscente. Notte del XXVII
aprile_. La medaglia doveva portarsi appesa ad una fettuccia a quattro
liste: bianca, rosea, violetta e scarlatta in memoria delle ali, del
mantello, della picchiettatura nonchè della coda, della criniera e delle
creste degli otto draghi del plaustro della fata Scarabocchiona.

Il Ministero offerse le dimissioni che vennero accettate; e succedendo
al potere uomini energici e risoluti e che non avevan paura, gli Stati
vicini si contentarono di qualche osservazione fatta in via diplomatica
e della risposta che il Reame di Scaricabarili voleva vivere in pace con
tutti, ma che non tollererebbe che alcuno s'immischiasse nelle sue
faccende interne. E quando si parla così con un esercito corrispondente
ad una popolazione di centoventitrè milioni, quattrocencinquantaseimila
settecentottantanove abitanti, tutti vi lasciano in pace. Le relazioni
diplomatiche furono alquanto fredde per un po' col Reame d'Exibo, ma il
tempo fece miracoli, ed attutì tale rancore.

Sennacheribbo, cui non dispiacque di esser salvo per opera di quella
donna, al quale le Camere decretarono il titolo di _Vindice_; ma che il
popolo soprannominò _Mastr'Impicca_ e nella storia è noto più col
secondo, che col primo epiteto, sposò la Rosmunda. E la fata
Scarabocchiona volle sottoscrivere con un suo scarabocchio il contratto
nuziale, acciò non potessero in avvenire i Pubblici Ministeri negare il
suo intervento, anzi negarne l'esistenza. La madre adottiva di
Sennacheribbo venne a vivere col figliuolo, amata e riverita non men che
da lui, dalla Rosmunda, la quale, succedendo al padre del Regno, volle
prima associato il marito al poter regio e poi gliel rinunziò tutto,
dicendo che una donna deve pensare alla casa ed a' figliuoli unicamente.
E figliuoli ne ebber di molti i due sposi, ed egregi d'indole; e se la
vissero e se la godettero ed in pace sempre stettero ed a me nulla mi
dettero.

    Stretta la foglia e larga la via,
    Dite la vostra che ho detto la mia.



  Nota del Trascrittore

  Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute,
  correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. Sono stati
  corretti i seguenti refusi [tra parentesi il testo originale]:


  Pag.   6 - recava in dote [doto] il Reame
         9 - la rivestì di buone [buoni] vesti
        12 - Sì [Si], cara fata Scarabocchiona
        16 - definitivamente [definivamente] ad alcun
        16 - erede presuntiva [presnutiva] del trono
        21 - diran costoro di Scaricabarili [Scaribarili]
        22 - le sue scene [scede], la sua svenevolezza
        27 - che la Rosmunda [Rosmanda] provava
        29 - press'a poco quanto [quando] l'epizoozia
        38 - e con centoventitrè [ventitrè] milioni
        41 - dietro il fuoco fatuo [fatto]
        43 - il despota [desposta] d'Exibo
        47 - di loro pieno consenso [concenso]?
        50 - rintegrar la Rosmunda [Romunda]
        50 - in benefico sopore [sapore]
        51 - Zitto là [la]!
        53 - uno scherzo, una facezia [fecezia]
        55 - delle vertebre cervicali [cerviali]
        59 - s'era costituito [costuito] un Triumvirato
        61 - tolse [tolsa] dal seno la giarrettiera
        61 - La chiuse [chinse] in una scatolettina
        66 - rischiarò splendidamente [spendidamente] l'aula
        68 - Capitano Sennacheribbo [Sencheribbo]
        72 - ed attutì [attuì] tale rancore





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