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Title: Tempeste Author: Negri, Ada Language: Italian As this book started as an ASCII text book there are no pictures available. *** Start of this LibraryBlog Digital Book "Tempeste" *** Internet Archive ADA NEGRI ———— TEMPESTE _Sesto migliaio_ MILANO FRATELLI TREVES, EDITORI 1896 PROPRIETÀ LETTERARIA. _Riservati tutti i diritti_ Tip. Fratelli Treves. Indice · A TE, MAMMA .................................................... 1 · SGOMBERO FORZATO ............................................... 7 · L’INCENDIO DELLA MINIERA ....................................... 11 · LETTERA ........................................................ 21 · TERRA .......................................................... 27 · I SACRIFICI .................................................... 33 · TEMPIO ANTICO .................................................. 41 · LA «FIGLIA DELL’ARIA» .......................................... 47 · DISOCCUPATO .................................................... 53 · ISTINTO MATERNO ................................................ 59 · IL FIGLIO ...................................................... 63 · ARRIVO ......................................................... 67 · A L’OSPEDALE MAGGIORE .......................................... 73 · PICCOLA MANO ................................................... 79 · «TU PUR VERRAI» ................................................ 83 · UN ANNO DOPO ................................................... 89 · IMMORTALE ...................................................... 93 · RISVEGLIO ...................................................... 99 · SCIOPERO ....................................................... 103 · FINE DI SCIOPERO ............................................... 109 · PER LA BARA .................................................... 113 · NATIVITÀ ....................................................... 119 · VIOLA DEL PENSIERO ............................................. 123 · L’ORA .......................................................... 127 · È MALATO ....................................................... 131 · TI VIDI IN SOGNO ............................................... 135 · NON TORNARE .................................................... 139 · EGO SUM ........................................................ 143 · CANTO NOTTURNO ................................................. 149 · FANCIULLO ...................................................... 153 · RISVEGLIO FRA I MONTI .......................................... 161 · VECCHI LIBRI ................................................... 165 · AMOR NOVO ...................................................... 171 · ALL’ASILO NOTTURNO ............................................. 177 · SULLA VIA ...................................................... 183 · GLI ULTIMI SARANNO I PRIMI ..................................... 187 · ORA DI CALMA ................................................... 193 · BACIO MORTO .................................................... 197 · L’ULTIMO DUCA .................................................. 201 · L’EREDE ........................................................ 207 · SORRISI ........................................................ 215 · NOTA DI CRONACA ................................................ 221 · FRATERNITÀ ..................................................... 225 · CASETTE BIANCHE ................................................ 229 · INVANO ......................................................... 235 · PAX ............................................................ 241 · EPPUR TI TRADIRÒ.... ........................................... 247 · IL PASSAGGIO DEI FERETRI. ...................................... 253 · SULLA FOSSA DI GIUSEPPE GRANDI ................................. 261 · MATTINATA INVERNALE ............................................ 267 · LA VEDOVA ...................................................... 271 · IL SOGNO ....................................................... 277 · OPERAIO ........................................................ 281 · ETERNO IDILLIO ................................................. 287 · SENZA RITMO. ................................................... 291 · SCONFORTO ...................................................... 297 · ADDIO .......................................................... 301 · I GRANDI ....................................................... 305 · LA FIUMANA ..................................................... 311 A TE, MAMMA È ver, son forte.—Per la via sassosa Lasciai brandelli d’anima e di fede; Pur con superbo piede Salgo ancor verso l’alba luminosa. Offersi il petto a tutte le ferite, I più foschi e implacati odii sfidai; E ai torturanti guai Opposi l’energia di cento vite. Dolorando non mossi un sol lamento Nulla piega il mio fronte e il mio pensiero. Io sono forte, è vero, Io son la quercia che non crolla al vento E una legge d’amor rinnovatrice D’uomini e cose ne’ miei canti freme, Eterna, come il seme, Come il bacio del Sol fecondatrice. .... Benedicimi, o Madre.—È per te sola Che combatto, che spero e che resisto. Quando, col sangue misto, Il pianto mi fa strozza ne la gola, Quando sento fra orrende, avide spire Nel tenebror dibattersi la mente, E la virtù possente Che m’infiamma le vene è per morire, Ti guardo, o Madre.—E così fiera e grande M’appari, ne l’eretta e statuaria Fronte di solitaria Cinta di bianche ciocche venerande; Così pura mi sembri, ne la calma Intemerata de’ tuoi anni estremi, Tu che i mali supremi Provasti un giorno, e l’agonie de l’alma; Tanta luce ti splende ne le chiare Pupille e tanta dignità nel viso, Nel gesto e nel sorriso, Ch’io mi sento per te rinnovellare: Carne de la tua carne io ridivento, Forza de la tua forza, o Santa, o Vera: Rivive in me l’altera Quercia selvaggia che non crolla al vento.— SGOMBERO FORZATO Miseria.—La pigion non fu pagata.— A rifascio, nel mezzo de la via, La scarsa roba squallida è gettata. Quello sgombero sembra un’agonia. La tenebrosa pioggia insulta e bagna Il carro, i cenci, i mobili corrosi Dal tarlo, denudati, vergognosi. V’è un’anima là dentro che si lagna; E il letto pensa al disgraziato amore Ch’egli protesse, e che le membra grame Di due fanciulli procreò a la fame, O del tugurio maledetto amore!... E scricchiola fra i brividi: Chi il dritto Diede a la donna schiava e mal nudrita Di crear per un bacio un’altra vita D’angosce?... amor pei poveri è delitto.— Sotto la pioggia il carro stride.—Dietro, Un operaio scarno, a fronte bassa, Segue la sua rovina.—Ei muto passa, Ombroso il guardo, e non si volge indietro: E a lui presso è la donna, la piangente Lacera donna, con due figli.—E vanno Senza riposo, e dove essi nol sanno, E la pioggia gli sferza orrendamente: Un austero dolor che par minaccia Per entro ai cenci ammonticchiati freme, Freme nel carro che cigola e geme. Nei quattro erranti da l’emunta faccia: Quella guasta mobilia denudata Che in mezzo al fango a l’avvenir s’avvia. Quella miseria che ingombra la via Sembra il principio d’una barricata. L’INCENDIO DELLA MINIERA La profonda caverna è a mille metri Sotto la terra. Nei pozzi e fra gli scavi, erranti spetri, Vanno per la prigion che li rinserra I minatori. Son cinquecento: han lampade e picconi, Corde e martelli. D’aspre fatiche indomiti campioni Son cinquecento, muscolosi e belli Come guerrieri: Niuno di lor varcò i trent’anni ancora, E spose e figli Li attendon là, dove nel sol s’infiora, Dagli abissi lontano e dai perigli, Il verde eterno. E via scavando con gigante lena Van dentro il masso È la forza plebea che si scatena Contro la fredda maestà del sasso Selvaggiamente: E rode, sventra, abbatte, invola, strazia, Vandalo atroce, Piovra succhiante che mai non si sazia; Ma spian gli abissi l’attimo feroce De la vendetta; E l’attimo suonò.—Scoppia una lampa Risponde un tuono. La gran corrente del _grisou_ divampa Con guizzo orrendo e formidabil suono Tutto è perduto. Per l’âtre forre e le crollanti vôlte Fumosa e rossa, Fra gli urli de le vittime stravolte. Qual serpe che si snoda in una fossa, La fiamma sale. * Sale e distrugge; e sotto l’immane vampa edace La profonda caverna diventa una fornace. Morti e morenti ammucchiansi; si sfasciano le travi; Son ruggiti di belva giù in fondo ai ciechi scavi, Son castelli di fiamme, son rimbombi di frane, È l’inferno che s’apre su quelle teste umane. Ma soccomber non vogliono i vivi ancora!... avvinto È il lor corpo a la vita con delirio d’istinto. E corrono per gli antri, disfatti, scamiciati, Come dèmoni erranti per abissi infocati, Con le bluse a brandelli, con l’orbite schizzanti: S’arrampicano ai muri, convulsi, sanguinanti, Volendo l’aria, l’aria!... la gaiezza del sole, La libertà dei venti, il verde delle aiuole, Dei magnifici azzurri la purezza infinita, Tutto ciò che è respiro, che è vita, vita, vita!... Oh, quella vita schiava trascinata nell’ombra, Trascinata nei pozzi che fumo o polve ingombra, Quella vita inumana, senza raggio nè fiore, Quella vita di cieco, quella vita d’orrore, Essi adesso la vogliono, la vogliono!... E le mani S’aggrappano a le rocce con movimenti insani Le bocche cercan aria ed ingoiano fumo: La terra nera è fatta di sangue e polve un grumo: Tutto cade e si sfascia, tutto è morte e maceria Dovunque è la terribile follia de la materia: La fiamma scende e sale, e folleggia e gavazza, E sul carnaio infame divampando sghignazza. D’odio omicida è fatta: e stride a le ruine Con rabbia insazïata di vincitrice: fine. * .... Tutto passò.—Domani, a cento a cento, Saran portati al sole, informi e muti, Con tumulti d’angoscia e di spavento I resti dei caduti: Su le membra staccate e fumiganti Imprimeran lo stigma del dolore Mille bocche febbrili e singhiozzanti, Mille bocche d’amore. Poi, gettata sui carri a la rinfusa, Fra spiegate bandiere e veli bruni, La turba funeral sarà rinchiusa Ne le fosse comuni: Poi, su le fosse, calerà l’oblìo. Splendide rose e pallidi giacinti Sorgeran come al bacio d’un Iddio Dai corpi degli estinti; E steli e spiche di robuste messi D’umani succhi turgide e superbe; E nel verde dei mirti e dei cipressi, Ne l’umidor dell’erbe, Ne l’innocente palpitar dell’ale. Ne l’ampia folla libera e serena L’onda rifluirà calda e vitale De la gioia terrena. .... Ma i figliuoli dei morti, oh, triste, inane Gente!... cresciuti a stenti ed a squallori, Diventeranno per un soldo e un pane Anch’essi minatori. E ad uno ad uno scenderan nell’ombra: E forse un giorno, dentro i negri scavi Ne la caverna smisurata e ingombra. Al suon di colpi gravi, Inciamperan ne l’ossa d’un parente. Al subito tremor d’intima guerra Si curveran le fronti, e sordamente Cadran le picche a terra. .... O razza, o razza conculcata e ignava; Cui nulla giova l’esser bella e forte, Se null’altro sai far che darti schiava. Meglio per te la morte!... Viva l’incendio che bruciando annienta Le tue lacere vesti e la tua fame, Viva l’incendio che all’ignoto avventa Le tue viscere grame; Che, per un’ora almen, su te raccende La sterile pietà di chi non soffre, Che fatica e dolor, tutto ti prende, E pace e sonno t’offre!... Viva l’incendio che al felice, assiso Di fronte al sole, urlando va: Ti desta: De’ tuoi sogni d’amor lascia il sorriso, Lascia le sale in festa: Scopriti il capo: al suolo, al suol reclina Le tremanti ginocchia e il volto smorto: Sul lavor, tra le fiamme e la ruina, Il tuo fratello è morto!... LETTERA Lettera bianca con suggello nero Venuta da lontano, Le cittadi attraversa e l’Oceàno. Fatta d’ali così, come il pensiero. Le bisbigliano i flutti ampii del mare «Forse a un amor distrutto È velo e tomba il tuo suggel di lutto?» .... Ella tace e prosegue il muto errare. Le ripeton le voci alte dei venti: «Rechi gioia o sconforto, Bacio di vivo o tetro odor di morto?...» Ella risa non ha, non ha lamenti. E via e via, per monte e per pianura, Vïaggia notte e giorno, Fatato augel che non avrà ritorno, Brano d’alma lanciato a la ventura: Ma niun le invola il suo mister profondo. Chi sa?... forse è l’orrore D’un addio: l’affannoso urlo d’un core, Il soave pallor d’un riccio biondo: Goccia di sangue giovane, stillato Da una ferita aperta: Pianto o preghiera d’anima diserta Che soffre e sconta senza aver peccato. .... E va, e va, e giunge.—Ne la bruma, Col freddo, su la sera, Giunge in silenzio a la stanzetta austera D’una donna che amor tutta consuma. Brilla il guardo: un rossor la fronte accende: Batte a schiantarsi il core: La cerea mano convulsa d’amore Esitando a la busta, ecco, si stende.... .... No.—Cerea mano piccola e tremante. E minacciosa l’ora. Un sol minuto, un sol minuto ancora, Avida mano piccola e tremante. TERRA A Donna Emilia Peruzzi Dammi una zappa, un erpice o un rastrello A me non cale che l’estate avvampi. Sotto il bacio del sol vivido e bello Vo’ lavorar ne’ campi. Così, discinta, con le braccia nude Le vesti rialzate a la cintura! La campestre fatica umile e rude Lo sai?... non m’impaura. E voglio qui le stanche, le pallenti Gracili dame da la man di cera. Fronde di salcio abbandonate ai venti Steli fioriti a sera. Gli ammalati di sogno e di nevrosi, I parassiti inutili e belanti, Gialli d’ozio, di _spleen_ e di clorosi, Fantasmi in tuba e guanti. Giù cravatte e gioielli!... al foco il vano Busto ove il petto sta qual fior di serra!... Chiediam la luce e il solco, e l’aer sano: Alla terra!... alla terra!... Qual pienezza di vita entro la bruna Zolla che s’apre de la vanga al morso, E insetti e semi e caldi amori aduna!... Come in eterno corso Van le linfe gioiose, risucchiate Con eterno desìo da la radice, Dai tronchi e da le foglie al vento alate, Qual latte di nutrice!... È il baccanal del verde e del frumento, Del buon frumento da le spighe d’oro, Maturanti in silenzio a cento a cento Nel Sol di Messidoro: Lieti fiori di porpora fra il grano Respiran largo, trionfanti e belli. Il riso slancia da l’acquoso piano Gli steli verdi e snelli, Sorgon bianche ninfee da le paludi, Variopinte corolle in mezzo ai prati, Ovunque i soffii ravvivanti e crudi Son dei fieni falciati; Un’alma vive in ogni filo d’erba. Un’alma vive in ogni atomo errante. Tutto, con franca voluttà superba, Si bacia al sol fiammante. Alla terra!... alla terra!... Laceriamo Il seno e i fianchi de la Madre antica: Il tesoro dei frutti a lei strappiamo E de la gonfia spica: Vogliam nembi di rose e vogliam pane E dolci vini dal sorriso biondo!... Libera scorra la dovizia immane A rotoli pel mondo, E ovunque arrida: a la soffitta oscura, Al palagio sorgente in mezzo ai fiori: Tutti figli siam noi de la Natura, Tutti lavoratori. Qui, sotto i cieli, nella luce.—Avanti, Con macchine e forconi e vanghe e scuri, Noi sacerdoti de la forza e amanti Del Sol, noi, belli e puri!... Già il petto, ecco, s’allarga e rifiorisce: Già le vene s’inturgidan, bollenti: Nova fiumana al cerebro fluisce D’alate idee fulgenti: Più tristezza non v’ha, non v’ha più noia: Più miseria non v’ha, non v’ha più guerra: Tutto è moto, è salute, è speme, è gioia.... Alla terra!... alla terra!... I SACRIFICI I La Maestra È una maestra.—Ha ne lo sguardo buono La rassegnata calma pazïente Di chi sa il vuoto, il pianto ed il perdono. Con lungo amore, faticosamente, I figli d’altri a l’avvenir prepara; Insegna con austere voci e lente. Ne la sua stanza fredda come bara Ove mai riscaldò fiamma d’ebbrezza La sconosciuta povertade amara, Ove non fulse mai la giovinezza D’un lieto sogno, morrà un giorno, sola, Composta il volto a stanca tenerezza; E su l’algide labbra di vïola E nel vago stupor de gli occhi spenti Morrà con essa l’ultima parola Del suo delirio: «O bimbi, o bimbi.... attenti....» II La Madre Vedova, lavorò senza riposo Per la bambina sua, per quel suo bene Unico, da lo sguardo luminoso; Per essa sopportò tutte le pene, Per darle il pan si logorò la vita, Per darle il sangue si vuotò le vene.— La bimba crebbe, come una fiorita Di rose a Maggio, come una sovrana, Da la dolce materna alma blandita; E così piacque a un uom quella sultana Beltà, che al suo desìo la volle avvinta, E sposa e amante la portò lontana!... .... Batte or la pioggia dal rovaio spinta Ai vetri de la stanza solitaria Ove la madre sta, tacita, vinta: Schiude essa i labbri, quasi in cerca d’aria; Ma pensa: la Diletta ora è felice....— E, bianca al par di statua funeraria, Quella sparita forma benedice. III La Fidanzata Egli le disse: «I monti e l’oceàno Frapporre io devo fra il tuo bacio e il mio; Oh, pensami, mentr’io sarò lontano. Oh, attendimi!... Giammai sonno d’oblìo Col tempo graverà sul nostro amore: Serberà la distanza alto il desìo.» .... Ed ella attese.—Ed i minuti e l’ore E i mesi e gli anni, i lunghi anni glaciali, Passaron senza un raggio e senza un fiore Su quei densi capelli verginali; E quando cadder dal suo volto smorto Le primavere e dal suo passo l’ali, E una ruga ghignò sovra quel morto Fascino (lenta pioggia il marmo scava) Ei rïapparve alfin, come risorto. Ma non confuser l’infocata lava De’ baci; non l’ebbrezze desïate; Ella il padrone, egli guardò la schiava, Per ritrovar le forme un giorno amate. Per ritrovarle....—e poi stettero, fisso Lo sguardo al suolo, querce fulminate; E fra di lor si risquarciò l’abisso. TEMPIO ANTICO (Chiesa di San Francesco, in Lodi.) Antico tempio maestoso e nero Ov’io, pensosa adolescente, orai, Te grave d’anni e d’ombra e di mistero Antico tempio, io non iscordo mai. Sorridean le Madonne del trecento Miti ed ingenue, sui giallastri muri. Qualche prete sbucava a passo lento Come una larva, dagli sfondi oscuri. V’era come un odor di vecchie rose, Un odore di mammole appassite; V’era il silenzio de le antiche cose Nel tramonto dei secoli sopite. V’era una lampa giorno e notte accesa Come un triste desìo, sopra un altar, E a me là giù, sul bianco marmo stesa, Parea dolce il pregare ed il sognar. * Ore inspirate, quando a me fanciulla L’organo ripetea sacra un’istoria, E m’assopiva come in una culla Un’ebbrezza fatidica di gloria; Ore inspirate, quando in me, bollente, Spumeggiò l’onda de le strofe prime, E mi travolse appassionatamente La vertigine azzurra del sublime; Ore perdute fra le nebbie d’oro Di quel che non ritorna aulente Maggio, Come di rondinelle agili un coro Sciolto a volo pel ciel fra raggio e raggio; Ore di sogno e d’ideale incanto, Io vi ricordo, io vi ricordo ancor; E mi strazia per voi sordo il rimpianto Di chi rimembra un soffocato amor. * Avanti, avanti.—Il tempo mi sospinse senza riposo, sul cammino incolto: Una rete di fili aspri m’avvinse, Ma lo sguardo a l’azzurro è ancor rivolto. Avanti....—ma al passato un dolce, intenso Desìo la torturata alma rimena. .... O profumi di gigli e vecchio incenso, Nel grave tempio ov’io pregai serena!... O ceri, o arcate, o pace di convento, O larve erranti negli sfondi oscuri, O gracili Madonne del trecento Che impallidite sui giallastri muri; Tutto il mal ch’io commisi e ch’io soffersi Fra voi, fra voi vorrei dimenticar; Fra voi, sui marmi benedetti e tersi, Le preci dei sereni anni cantar. LA «FIGLIA DELL’ARIA» Il circo tace.—Ogni sorriso muore, È pallida ogni faccia, Mozzo ogni fiato; e un gel d’ansia e d’orrore La chiusa folla agghiaccia. Come candida nube o cosa alata, Da l’alto Ella s’avanza: Su i trapezii lucenti, aerea fata, Ride, volteggia, danza, Si slancia e si contorce flessüosa A spire di serpente, Scioglie i veli ed il crin, lancia una rosa A la turba silente, Scherza col vuoto, provoca l’abisso De le pupille assorte Col nero guardo ammalïante e fisso Vince periglio e morte. Non forse par che la sua chioma avvampi, E che nel fulvo ardore Tutti chiuda in un fascio i raggi, i lampi De le tropiche aurore?... Sotto la breve tunica stellata In guizzi sapïenti Snodasi l’esil forma delicata, Che dai primi dolenti Anni, fra i salti e gli urli de’ buffoni, Fra i lazzi osceni e i rôchi Accenti de le bacchiche canzoni, Nuda s’offerse ai giochi Perigliosi, a le danze agili, ai voli: È bella, è ancor bambina Quasi, e par che ne l’aria ella s’involi, Soffio e luce divina!... .... O bimba, o vecchia bimba, a cui fu muta L’infanzia di dolcezza; O vecchia bimba al pubblico venduta, Che la feroce ebbrezza Di vederti scherzar con l’agonia Paga, e al tuo corpo ha dritto, Che l’acre gioia di chiamarti «Iddia» Paga, e paga un delitto; O vecchia bimba già prostituita, Danza, danza nel vuoto: A gli spirti de l’aria offri la vita. Duella con l’ignoto, Getta a la folla che guatando trema Baci, sorrisi, fiori: Poi concedi un’orrenda orgia suprema. L’ultima, a’ tuoi signori: Dal sommo ove folleggi, ebbra, tradita Da una superba mossa, Vittima ne le bianche ali ferita, Cadi—e schiàntati l’ossa. DISOCCUPATO Alto, lacero, bruno, scamiciato, Con un erculeo torso Di facchino, di fabbro o di soldato Egli aperse la porta impallidendo Era un disoccupato. Disse: Chiedo lavor, son forte e sano Resisto a la fatica, Ho due braccia di ferro.—Da lontano Vengo: e, son già due mesi, ad ogni porta Batto, pregando invano!...— Chi gli rispose allora, io non rammento Fu un _no_ secco e reciso. Gli contrasse la faccia uno sgomento Cupo: dal petto uscì rauca la voce Come un singhiozzo lento. E disse: Per l’amor dei vostri estinti, Non mi lasciate andare. È una cosa tremenda esser respinti Quando si ha fame.—Oh, per pietà, nel nome Dei vostri cari estinti!...— E disse ancora: Se credete in Dio, Non mi lasciate andare. Sacro diritto a la fatica ho anch’io: È una bestemmia abbandonar chi cade. Quando si crede in Dio!...— Chi gli rispose allora, io non rammento: Fu un _no_ timido e fioco. Parve ch’ei barcollasse in quel momento: Poi partì, senza un motto, a capo chino, Trascinandosi a stento. Affascinata, io lo seguii col guardo; E allontanarsi il vidi Lungo la via sassosa, a passo tardo. Su la testa il colpìa del Sol di giugno L’arroventato dardo. Sparì—ma, come in sogno, il disperato Corso seguir lo vidi, Inutil forza, braccio dispregiato: E avanti, avanti, sudicio, ramingo, Febbril, dilanïato, Per città, per villaggi, per cascine, Mendicante superbo, Mostrando invan le stimmate e le spine Di sua miseria!... e poi cadere, affranto. Invocando la fine!... E, curvo il capo, smorta di dolore, Mormorando: perdono,— Sentii di tutti i secoli l’errore E il rimorso del mondo e la vergogna Pesar sovra il mio cuore. ISTINTO MATERNO Non un bimbo da me!...—l’appassionata Mia giovinezza si dilegua sola: E d’un trepido olezzo di vïola Profuma l’erba non ancor falciata. O baci de la culla!... o immensurata Gioia che d’ogni lutto il cor consola, O prima soavissima parola A una boccuccia d’angelo insegnata! Io questa invoco dignità feconda Che dal mister de l’anima sprigiona Larga d’affetto inestinguibil onda: Questa rosa divina al Sol fiorita, Questo schianto di viscere che dona Tutta la vita nostra a un’altra vita. IL FIGLIO I E penso: Egli verrà.—Da le sorgenti De la mia balda e vincitrice essenza, Dal fluttüar de le mie linfe ardenti, Egli i germi trarrà de l’esistenza. Tutto mi prenderà, l’ansie irrompenti, La sanguigna del cerebro potenza, Il pugnace desìo de’ sommi eventi, De l’infinito amor la coscïenza. E sarà grande come io mi giurai D’essere, e non divenni; e quelle eccelse Vette soggiogherà, ch’io non toccai; E felice io vedrò lo spirto mio, Vedrò le forze ch’ei da me divelse Rinnovellarsi in lui, come in un Dio. II Ah!... troppo t’amerei.—Come un’immensa Nube carca d’elettriche scintille Sarebbe l’amor mio; con mille e mille Forme di vita impetüosa e densa. O tu che dormi ne la notte fonda De l’increato e nel mister del sogno, Per questo ben che sovra gli altri agogno, Per questa mia di te sete profonda, Svèlati!—al bacio e al frutto anela il fiore Quando a la terra Primavera scende, In un’ansia di te l’alma s’accende Gridando ai fati: amore, amore, amore. ARRIVO Batto: l’ampia Città schiude le porte. —Chi t’ha cresciuta?...—Il campo e la radura.— —Chi ti condusse?...—L’ala della sorte E un vento d’uragano. De le mie selve i canti e la frescura Ti porto da lontano. Vissi tra i verdi muschi e i pruni incolti, Tra le spire dell’èdere tenaci, Fra il nereggiar dei pini agili e folti. Del pieno aer conosco Le rabbie tempestose e i dolci baci: Fui zingara del bosco. La libertà, la libertà sfrenata Fu mia, fu mia!... Se tu sapessi come È bello irromper sola e scapigliata Tra le foreste e i campi; Senza rigidi lacci e senza nome, Pieno l’occhio di lampi! Se tu sapessi che ridente cosa Esser nato da un bacio de la terra: Esser l’erba sottil, la pampinosa Vite, la spica bionda, Il fior che un seme di dovizia serra Il Dio che lo feconda!... Giunse a me da le vèrtebre del suolo Dai bisbigli de’ germi a primavera, Da le nozze de i pòllini, dal volo Magnifico de i venti, Da la fumida corsa battagliera De’ cavalli nitrenti, Un rigoglio di vita, un soffio, un’onda Di vigore, una febbre di vittoria, Come di fiume che abbatta la sponda, E sul domato piano Si dilaghi rombando, in una gloria Torbida d’oceàno!... .... Ora a te vengo, o Fulgida, o Vetusta, Marra e zappa lasciando a le pendici Patrie.—Mi vuoi?... son giovane e robusta: Da l’umide risaie Vengo al sordo clamor de gli opifici E a le case operaie. Lancio un raggio di sol negli angiporti, Reco il vivo color de la salute Ai volti de’ tuoi bimbi esili e smorti; Un profumo di fieno, Un cinguettìo di rondini sperdute Nel meriggio sereno. E a la folla che intorno mi respira, In giacchetta, in gonnella, in cenci, in guanti, Che m’urta, che m’assorda, che m’attira, Che passa e non mi guarda, Che si rinnova per le vie sonanti, Affannosa, gagliarda, Grido il saluto libero e fraterno, L’inno augural che avvince cuore a cuore, Inno di speme e di giustizia: eterno Come i mari e i deserti, Come i germi de’ solchi e lo splendore De’ glauchi cieli aperti. A L’OSPEDALE MAGGIORE A Donna Emilia Peruzzi. Corsia di San Giuseppe, a destra, in fondo, Numero venti.—Il letto è vuoto, adesso.— Or son tant’anni, sul guanciale istesso, Mio padre moribondo Giacque, e spirò.—Gracile bimba in culla Ero; e di lui, di lui che m’adorava, Che, per me lacrimando, agonizzava, Nulla ricordo—nulla.— O padre mio ch’io non conobbi, senti La mia voce ora tu?... La creatura Che abbandonasti ai geli, a la sciagura, A gli schiaffi dei venti E cresciuta, ha sofferto, ha lavorato, Ti piange: su le punte dei coltelli Passò, ma nei pensosi occhi ribelli Rise un sogno inspirato, Rise il fulgor d’una possente fede: Ed ella vinse; ed or, fiera qual giglio, Armata in campo, intrepida al periglio, Ama, combatte, crede.— Mentr’io ti parlo, in una queta stanza La dolce madre, sorridendo, posa: A lei dintorno, come aulir di rosa, Ondeggia una speranza: Nel lacerato cor che vinse il male, Che sfidò per vent’anni ombra e tempeste, Un’altra gioventù quasi celeste Batte le fulgid’ale. Ma tu non sai. Tu i detti miei non senti Forse!... per ritrovarti io son venuta, Ma la pallida coltre è diaccia e muta A le lacrime ardenti!... Tu qui spirasti, e mia madre non v’era: Tu qui spirasti, desolato, solo: Su te una suora arrovesciò il lenzuolo E disse una preghiera: Poscia, a notte, giacesti su le pietre De la _brugna_¹, gelata acqua stillanti: E quelle gocce a te parvero i pianti De’ figliuoli: e, le tetre Paventando solenni ombre, qualcuno Chiamasti, che de’ folli, ultimi baci Ti coprisse e de l’ultime, tenaci, Avide strette....—ah!... niuno.— .... O care ossa disperse, o mite volto, O viscere pulsanti, o largo cuore, O polve di mio padre, o sacro amore In atomi dissolto!... Qui, dal tragico orror de l’ospedale, Nel nome vostro un voto al mondo io grido: Quanti ha figli la terra abbiano un nido Pieno di canti e d’ale: Quanti ha figli la terra benedire Possan la dolce casa ove son nati, E in essa, calmi sorridendo ai fati, Di fronte al Sol morire. ¹ _Brugna._ Nome popolare di quella stanza de l’Ospedale Maggiore di Milano, ove si pongono i cadaveri prima dell’autopsia o del funerale. PICCOLA MANO Piccola mano bianca ed affilata, Piccola mano gracile e nervosa Che un dì la giovanil penna infocata Reggesti senza tema e senza posa, Essa—ricordi?...—ne le ardenti sere Battagliando correa fra le tue dita; Tinte in rosso, le strofe alte e sincere Involavano a me brani di vita. Ma in quel tempo ero sola.—Ora qualcuno Che vide e vinse, presso m’è venuto: Quand’ei m’affisa col suo sguardo bruno Batte il core a schiantarsi, e il labbro è muto. Per lui, per lui ne l’anima inspirata Or palpitan gli alati inni supremi.... E tu intanto, manina innamorata, Entro le sue timidamente tremi. «TU PUR VERRAI» Tu mi dicesti: O smorta innamorata Che a me ti stringi e taci, Perchè su la tua bocca appassionata Sembran singhiozzi i baci? I tuoi sguardi profondi come notte Inseguono nel vuoto Dei fantasmi fuggevoli le frotte Che sorgon dall’ignoto. Del nostro fido amor la gioia istessa In te stride e non canta; Nel tuo cor v’è una lacrima repressa, Geme una corda infranta. Presso il mio petto qual folle paura Il grande occhio t’accende?... Qual lontano spavento di sventura L’anima ti sorprende?...— Io ti risposi: Quando, a te vicina, Tutta pallida in faccia, Sento il mio gracil corpo di bambina Svenir fra le tue braccia, Cupe larve di donna a me davanti Passan ne la penombra. Son larve di fanciulle in voti e in pianti Consumate nell’ombra: Ed eran belle, e avean del Sol l’ardore Ne l’auree trecce folte; E non ebbero baci, e senz’amore Fûr ne l’oblìo sepolte. Sono donne che, presso il capezzale De lo sposo o del figlio, Vider lenta calar l’ora mortale De l’ultimo periglio: E davanti a lo spirto che salìa Con maestoso volo, Si contorser ne l’orrida agonia Del cor rimasto solo: E il sogno ormai di non terreno loco Han ne lo sguardo assorto: Le avvelena in silenzio, a poco a poco, La nostalgia d’un morto. Arse di desiderio insazïato, Distrutte da la tisi, Singhiozzanti sul feretro velato Dei loro affetti uccisi, Passano, curve, barcollanti, stanche. Tragiche ne l’aspetto, Con veli neri su le carni bianche, Con un teschio sul petto: E mi guardano.—È allor, sai, che m’assale, Che m’agghiaccia il terrore, E dentro il petto, sino a farmi male, Batte a martello il core: È allor che ne le mie strette tenaci Senti uno spasmo occulto, E ne l’acuta, strana ansia dei baci La scossa d’un singulto.... Il bieco occhio geloso in me fisando Passan fra sterpi e guai Esse, un’orrenda profezia lanciando: «Tu pur, tu pur verrai.» UN ANNO DOPO Quando, ne l’ora oscura, Penso che sei da me così lontano, E mi striscia ne l’anima Il sinistro timor ch’io t’amo invano, E questo amor mi porterà sciagura; Quando in petto mi trema Il pensiero che tu non tornerai Forse, e che tutto ha un termine, E che t’ho amato per non esser mai Tua, credi, allora una pietà suprema Di me, di te m’aggrava: Sento il bisogno di tornar bambina Per ripeter l’ingenua Preghiera che in soffitta, a me vicina, La mia pallida madre m’insegnava: E, in ginocchio fra i veli Del letto freddo come vuoto nido, Singhiozzo nelle tenebre, Perdutamente a Dio gettando il grido; «O Padre nostro, che siete nei cieli!...» IMMORTALE Io voglio, io voglio vivere, e aver sempre vent’anni, Sfiorar tutti gli spazii col vol di tutti i vanni, Rider, gioire, amar; Vo’ inebbriar di raggi la gioventù superba, Lieve siccome un’ala, fresca qual filo d’erba, Limpida come il mar!... Io ti ripudio, o Morte.—Amo la fiamma e l’onda, Amo la terra sana che ai baci si feconda Del Sole ammaliator; Titanica fucina ove i magli giganti S’abbatton senza posa d’innumeri braccianti Con epico fragor! Pel labbro mio che beve le dolci aure serene, Pel vigoroso sangue che m’arde ne le vene, Pel bacio e pel desir, Pel folle riso ingenuo che scopre i bianchi denti, Per quest’intima forza che m’anima ai possenti Sogni de l’avvenir, Per tutto ciò che nasce, per tutto ciò che spera, Che fra le nubi e l’alme solleva una bandiera, Che ride a un ideal, Che su la terra come foco d’incendio splende, Che pugna e che trionfa, si spegne e si raccende, Fato, mi vo’ immortal! Alla salute, ai muscoli, ai sensi, a l’opre umane, Ai cerebri assetati di verità sovrane, Ai più felici amor, A le madri che allattano, ai padri affaticati, A le cittadi, ai monti, ai boschi, ai solchi, ai prati, Al buon frumento d’ôr, Ai sacrifici occulti e ai magnifici errori, A l’energie del genio e ai palpiti de’ cuori, Al moto, al suono, al vol, Io sciolgo, io sciolgo un inno irrefrenato, indomo; Semplice come spica, robusto come l’uomo, Eterno come il Sol!... Soffrir?... soffrire è vivere: è la vertigin muta, La voluttà tremenda, cieca de la caduta. Giù, sino al fondo, giù: Udir del precipizio la soffocata voce, Dissetarsi di fiele, piegar sotto la croce, Singhiozzare: mai più....— Poi scorgere ad un tratto nel buio un tenue raggio. Rinascere a la speme, a la luce, al coraggio, All’amore, a la fè: Aggrapparsi a una corda, sentir nel corpo esangue Scorrere a fiotti, a gorghi un rinnovato sangue, E rïalzarsi re! Per chi teme la lotta, si spalanchi un Taigete; I deboli travolga la gialla onda di Lete, Fredda come un avel: Maledetto chi trema e si rivolge indietro, Chi sta qual ombra nera di fluttüante spetro Stesa fra l’uomo e il ciel! Io salgo.—Dei fidenti, dei liberi, dei forti Su pei dirupi alpestri mi seguon le coorti Sacrate a l’avvenir; E del meriggio innanzi a la dorata gloria Io l’orifiamma sventolo e canto la vittoria Di chi non può morir!... RISVEGLIO Talor m’avvolge il cerebro profondo Nebbia pesante, accidïosa oscura. Come vinta da sonno o da paura L’anima tace de l’abisso in fondo. Nulla vive: non palpito, non grido, Non sogno o lotta.—Triste e indifferente Io mi smarrisco tra la folta gente, E vo’ come l’augel che non ha nido. E vo’ senza battaglia e senza gloria, E più non mi sorride il Dio d’un giorno: Dentro è gelo e infinita ombra dintorno, E sopita dei cieli è la memoria. Ad un tratto, da l’imo, in un minuto Di risveglio, di gioia o di pazzia, S’agita e vibra ne l’essenza mia Un’altra anima, un’altra.... e tosto il muto Cerebro scoppia in magiche parole, Germinando qual zolla a primavera, Alto assurgendo, da la notte nera, A la divina maestà del Sole; E mentre la raggiante visïone Sfolgora a me dal nudo del sereno, Mi scote e m’apre trionfando il seno Il ruggito selvaggio del leone. SCIOPERO Non più, sotto il gran Sol che scalda e alluma Le sue grigiastre forme L’opificio respira e romba e fuma. Alto è il meriggio, e l’opificio dorme. Stagna dovunque la tristezza morta Del lavoro spezzato. Non voci, non tumulti il giorno porta: V’è un silenzio sinistro e disperato. Qual mai, qual mai fatidica bandiera Sventola al Sol?...—Cencioso Sciopero, benvenuto.—Osa!...—La nera Fabbrica, nel terribile riposo Ruina pare; e un vel di polve giace Sovra i telai deserti; E s’abbarbica ai muri un motto audace: —O più giusto compenso, o braccia inerti.— Osa e spera!...—Ogni macchina è sopita; Ma i ben limati denti Che forse stritolâr più d’una vita, Digrignan gl’ingranaggi rilucenti. Immobili le cinghie, un giorno sciolte Ad incessante giro, Cupamente ristanno, al par di scòlte In vedetta, così, senza respiro. Tutto è spento: cilindri e morse e spole: Non fuoco a la fucina. Non acqua a le caldaie.—E splende il Sole Con baleno irrisor, su l’officina; Ma per gli androni bui, sotto le vôlte Striscian fantasmi oscuri. Strisciano larve di minaccia avvolte Lungo il viscido e freddo orror de’ muri: E s’anima ad un tratto, ecco, ogni cosa, E umana forma prende, E sobbalza, gigante e maestosa: Viva una fiamma qua e là s’accende: Ogni macchina assume il divo aspetto Di vindice profeta: Rugge de la motrice il vasto petto, Ogni sbarra si fa gladio d’atleta: E tutto grida: O luminosa aurora, Non sei, non sei lontana. Per te chi or sotto sferza empia lavora Potenza avrà di creatura umana: Per te giustizia, non pietà, nel mondo; Tutti per te gli sguardi Volti a un novo ideal santo e giocondo: Per te gioie sui bimbi e sui vegliardi!... O fiumana d’amor, scendi, schiumante! E un popol di risorti Ne la tua benedetta onda scrosciante Le labbra dolorose, arse, conforti!... Già splende a l’orïente il sogno d’oro De l’avvenire: il maggio Dei redenti e del libero lavoro, Lembo di cielo, sfavillio di raggio: Maggio d’ali e di sol, maggio di fiori, Di baci, di canzoni: Che vinti non avrà nè vincitori, Che non avrà nè servi nè padroni. FINE DI SCIOPERO Si fissarono in volto, emunti, lividi Per insonnia, per fame e per dolore, Stanchi di lotta.—E l’uno disse, torbido: —A che scopo?... si muore.— E un altro disse: I miei bambini languono Di stenti.—E un altro: Inferma a l’ospedale È la mia donna.—Su le teste un brivido Passò, nero, glaciale. Bracia e favilla il guardo, irruppe un Ercole Di vent’anni: No: mai!—Tutti dobbiamo Sino all’ultimo dì, tutti, resistere.... Non bruti, uomini siamo!...— .... Si fissarono in volto, emunti, lividi Per insonnia, per fame e per dolore. Un pensiero tremò nel gran silenzio: —A che scopo?... si muore.— E, maestosi ne le vesti lacere, Singhiozzi di vergogna in cor frenando, Severe e desolate ombre, tornarono A l’opre.—Fino a quando? PER LA BARA A tramonto salìa Breve schiera di femmine pallenti, Chino lo sguardo, a passi gravi e lenti, Su per montana via. Tornavan da la valle. Ombrate il volto da una triste idea: E ciascuna una lunga asse tenea Sopra le curve spalle. Io chiesi: «Che portate, Donne, al paese vostro, e qual pensiero Vi cruccia, che pel brullo, erto sentiero Fra pianti e preci andate?...»— Ed elle, a voce bassa: «Del curato è doman la sepoltura. Poi che mancan, rechiam da la pianura I legni per la cassa. Egli era buono.—Oh, quanta, Quanta dolcezza ne le sue parole!... Quasi parea fiorissero vïole Da quella bocca santa: Per ogni afflitto cuore, Per ogni piaga un balsamo egli avea, E compatire e perdonar sapea, Ed insegnò l’amore!...» .... Dissero: e, miti orando, Le gentili sparir dietro gli abeti, De la montagna pei recessi queti Funèbri echi destando. «_De profundis clamavi...._» .... Pace a l’anima tua, pace, o vegliardo, Che Dio portasti nel clemente sguardo E nei detti soavi Che ai solitari, ai mesti, Ai deboli, ai fanciulli eri sostegno Che, molto amando, lo spregiato regno De gli umili scegliesti!... «_De profundis..._» Le cime L’ultimo sole illuminò di rosa. Palpitò nel silenzio d’ogni cosa Una pietà sublime; E tutto in alto parve Raccogliersi in un pio senso di morte: Poi da le cime inesplorate, assorte Luce e pensiero sparve. NATIVITÀ Egli aperse l’azzurro occhio innocente Ne l’ospedal d’un carcere.—Le mura D’una casa d’infamia e di sventura Udiron prime il suo vagir dolente. Dibattè, dibattè le membra stente Il bimbo, come avesse onta o paura: Forse comprese.—E abbrividì l’impura Beffarda ombra su lui, sinistramente; Ma a sè lo strinse con gelose braccia La madre: labbro a labbro, core a core Stettero, ne la notte algida e muta. Quando il giorno spuntò, la macra faccia Di lei, chinata sul dormente amore, Parve di santa e non d’una perduta. VIOLA DEL PENSIERO Da l’agile coppa ove i petali Di giallo velluto carnoso Dischiude in silenzio, una pallida Vïola mi fissa con guardo pensoso. Io vidi altre volte due supplici Cari occhi guardarmi così: Quegli occhi per sempre si chiusero, Con essi un amore nel vuoto sparì. Se è vero che i morti risorgono Dei tronchi nei vividi umori, Nei fili dell’erba, nei pòllini. Nei calici freschi, ridenti dei fiori, Vïola che triste mi affascini Col supplice sguardo ch’io so, In te vive un brano dell’anima Di chi nel lontano passato mi amò!... L’ORA Cala qual nembo sul mio cor di vergine L’ora sacrata de la passïone: È notte e ne la tenebra Cova un incanto di perdizione: È notte e tu non sai, Tu che dormi da me così lontano, Ch’io, bianca in volto e con le mani in croce, Chiedo il tuo bacio in vano. Mai più, mai più ne’ miei grand’occhi il raggio Di questa prorompente giovinezza Sorriderà sì fulgido, E le mie labbra avran questa dolcezza: Mai più l’acceso spirto A te verrà con vïolento grido, Come augel che trillando ai boschi, ai cieli, Ebbro si slancia al nido. Il desiderio mio ne l’ombre tacite, Rogo e martirio, lampeggiando avvampa: Ma l’ora passa—e spegnesi, A poco a poco, la solinga vampa. L’alba, triste nei veli, In un pallore di sudario spunta: Perduta è l’ora de la nostra ebbrezza: Essa morì consunta. È MALATO È malato, è malato, e a sè mi chiama Forse, laggiù, su l’inclemente suolo. Il tetro annuncio il mar passò di volo, E mi s’infisse in cor come una lama. Ne le notti di febbre insonni e lente Forse ei mi cerca presso il capezzale, E grida fra gli spasimi del male Il mio nome, il mio nome, infantilmente. Oh, s’io potessi corrergli d’accanto; S’io gli posassi la mia pura mano Un sol minuto, su la fronte, piano, Guarirebbe, lo so!... come d’incanto. E pur qui resto, fiacca, immota, inerte: Non ho coraggio di lasciar la mia Casa, la madre veneranda e pia, Per affrontar le strade erme ed incerte, Il procelloso mare e le mugghianti Città, folle, sublime, a l’avventura, Fra nove razze, per monte e radura, Su treni scatenati e sibilanti, Fino al letto ov’ei giace!...—E il pianto ingoio Perchè la madre mia dal suo riposo Non si desti, il tumulto angoscïoso Degli urli miei, de’ miei singhiozzi ingoio. E, il corpo su la terra arida prono, Giunte le mani sul petto fremente, A lui mormoro, a lui che non mi sente, Che non vedrò più mai, forse: Perdono.— TI VIDI IN SOGNO In sogno ti vidi.—La plaga Ov’io t’incontrai m’era ignota: Gravavan su l’aria silente ed immota Le nubi d’un rosso di piaga. Un’ansia mortale, un mortale Dolore pei cieli passava. Un’eco di squilla lontana oscillava, Qual fioco lamento spettrale. A me tu venivi.—Volea Io moverti incontro, ma invano: Un peso insoffribile, un incubo strano Avvincermi al suolo parea. E dirti io voleva: Tornato Qui presso il mio cor, finalmente, Sei tu dal solingo vïaggio dolente?...— Ma il labbro rimase serrato. Tu m’eri lontano e vicino A un tempo.—Te quasi toccavo; E pure, stendendo le braccia, tremavo Di stringere un’ombra.—Il divino, Dolcissimo sogno nudrito Tant’anni, tant’anni nel core, Svaniva in un senso di vago terrore, Svania ne l’affanno infinito. E tu di baciarmi tentasti; Ma sopra la squallida plaga Le nubi d’un rosso di labbro e di piaga S’avvolsero in nembi nefasti: Parea che un divieto solenne Partisse dai campi infecondi, Da l’algida angoscia dei cieli e dei mondi.... E il bacio, il tuo bacio, ah!...—non venne.— NON TORNARE Non ritornar mai più.—Resta oltre i mari, Resta oltre i monti.—Il nostro amor, l’ho ucciso.— Troppo mi torturava.—-E l’ho calpesto, L’ho sfigurato in viso, L’ho morso, l’ho ridotto in cento brani, L’ho ucciso, ecco!—Ora tace, finalmente.— Tace.—Più lento per le vene scorre Il sangue prepotente: Posso dormir, la notte; e più non piango. Te chiamando, affannosa.—Oh, quanta calma!... Ne la penombra senza fine, senza Moto, riposa l’alma; E tesse, tesse le oblïose fila D’un sogno di rinuncia.—Non tornare.— Io, cieca e fredda, voglio odiarti, come Ti seppi un giorno amare: Odiarti pe’ miei freschi anni fiorenti Che immolai, dolorando, a te lontano; Povera gioventù senza carezze, Sacrificata invano!... Ma nell’odio si soffre; ma si piange Nell’odio.... ed io t’avrei sempre davanti Anche imprecando a te.—Non ho più forza Di lotta o di rimpianti; Voglio silenzio—un gran silenzio!...—Fate Tacer quel fioco gemito, là in fondo.— C’è qualcuno che lagnasi, un nemico, Un malato, là in fondo: Qualcuno oppresso da un immenso male, Da un peso immenso a cui non può sfuggire; Qualcuno che agonizza e chiede aiuto. E non vuole morire. EGO SUM Perduta?... no.—Sorgendo come Iddia Su la gioia sepolta, La mia superbia e la potenza mia Io voglio dirti.—Ascolta: Io voglio dirti come s’abbandoni L’alma al santo peccato, E pianga, invochi, spasimi, perdoni, E in crollo disperato Si sfasci, così, guarda, a brano a brano, Miserabile, vinta: E poi risorga, da un desìo sovrano Di luce ancor sospinta. Io voglio dirti che nel cor giammai Havvi sconfitta intera; Che, pur gridando al bacio e al Sol: più mai,— Inconsci, ancor si spera; Che, quando tutto fugge e si disperde, Pur resta in noi qualcosa Di fido e vivo, un sogno, un filo verde, Una foglia di rosa, Un germe che s’allarga e si feconda Entro l’anima oscura, Nova promessa de la gloria bionda D’una messe futura. Io voglio dirti che si può cadere Con la mota alla gola, E non aver più amici, e non avere Più una sola, una sola Creatura che in noi creda, o qualcuno Che ci aiuti la croce A portare: esser nudo, ed esser uno Davanti a la feroce Ignoranza dei tempi e de le genti, A lo scherno dei vili, A lo spietato insulto dei potenti, Degl’invidi agli stili Avvelenati: e pur sentirci in core, Sentirci nel profondo Cerebro lo splendor di mille aurore, L’idea che muta un mondo, La fede che trasporta e che rischiara; E vivere; e qual tuono Ruggire al gregge de la folla ignara O scellerata: Io sono.— CANTO NOTTURNO Palpita una canzone in lontananza: Voce è di donna, calda, appassionata: A me giunge un po’ fioca, un po’ velata —Tra i melagrani in fior—da la distanza. Come sacri turiboli d’incenso Olezzan gli orti ove il tuo canto va, O sconosciuta sotto il cielo immenso, O cor che parli ne l’oscurità!... Chi sei dunque? hai tu errato?... hai tu sofferto?... Hai tu pianto giammai presso un morente?... Su le macerie de le gioie spente Non t’infiammò la sete del deserto?... E quale a te mi lega arcano senso Di fraterna dolcezza e di pietà, O sconosciuta sotto il cielo immenso, O cor che parli ne l’oscurità?... FANCIULLO A Sofia Bisi. Irrequïeto, scarno, adolescente: Nato da un fabbro e da una tessitrice: Fior di plebe cresciuto a la severa Ombra d’una motrice: Scalzo, in blusa stracciata e collo ignudo Era bello nei fieri occhi selvaggi. Irrideva col fischio del monello Ai lucidi ingranaggi: Genio infantil perduto in un inferno, Correa fra casse e sbarre audacemente, E ogni cinghia parea che l’afferrasse Qual spira di serpente; Ed ogni morsa lacerar parea Volesse le sue carni a brano a brano, Ed ogni uncino conficcar la punta In quell’esile mano. Pur, tra il buio, il periglio e la minaccia, Vittorïoso e bello egli passava: Fra le turpi bestemmie e l’ignominia, Innocente, passava. Quando, a tramonto, una pesante calma Il lanificio torbido invadea, E una stanchezza senza nome i petti De le donne opprimea, Quando, lividi in viso, i tessitori Finivan l’opre senza una parola, Trillava fra le macchine pulsanti Una voce, una sola: Egli cantava!... del severo loco Egli, alato ed indomito folletto, Colle mani a la spola, un inno in bocca, E la tisi nel petto. .... A poco a poco indebolì.—Funesta È pei fanciulli l’aria greve e scarsa Che corrotti miasmi e polve infiltra Ne la gola riarsa. .... A poco a poco s’accasciò.—Funesta È pei fanciulli la fatica:—irosa Preme sui corpi e ne risucchia il sangue Senza pietà nè posa. Ai piè de la motrice che ruggìa Da disperata, ei cadde un dì, svenuto Lo portarono via due forti braccia, Oh, così inerte e muto!... E la motrice continuò, nel buio, Il suo rombo terribile ed alterno— Pareva stanca.—In quel fragor tremava Un singhiozzo materno. * .... In fondo alla corsia v’è un letto bianco: Vi posa un volto dolce di pallore. Il folletto gentil de l’officina In quel lettuccio muore. Muore di tisi—gli dilania il petto Tosse implacata, e il corpo è già spettrale. Crebbe nel chiuso orror d’un opificio: Finisce a l’ospedale. .... Datemi sole dunque, un po’ di sole Per questo bimbo che nol vide mai, Che mai non bevve il gaudio de la vita Ne’ suoi torridi rai!... Datemi libertà: l’allegra, sana, Garrula libertà de la foresta, Per questo bimbo che non seppe giochi, Che non conobbe festa!... Datemi l’aria, l’aria!... avean bisogno D’aria questi polmoni egri e corrosi! Chi gli negò la luce, i campi verdi, I sogni luminosi, I fiori, i nidi, le corse a l’aperto, De l’aurea fanciullezza il folle riso?... Chi l’uom temprato a le titanie lotte In questo bimbo ha ucciso?... .... Silenzio.—Passa il brivido dell’ombra Per la crociera.—Nel lettuccio bianco Giaccion le membra immobili, tranquille. Silenzio....—egli è sì stanco!... Geme: trasale.—Sogna forse i rombi Sinistri de le macchine: i rotanti Cilindri: il volo rapido e gagliardo De le cinghie giganti: E, spaventate, l’ossa moribonde Ricordan l’opra antica e dolorosa. Fanciullo, non temer—troppo hai sofferto, Or finisti.—Riposa.— RISVEGLIO FRA I MONTI De l’alba al mite brivido Il paesello s’è destato or ora. Il sol non fulge ancora Di sopra a le montagne alte e sognanti. Di sopra a le montagne alte e sognanti Nel ciel si perde e sfuma L’ultima trasparenza de la bruma: Anime e cose salgono. * De le casette rustiche Disperse a gruppi sul montano fianco Narra il profilo bianco Tutto un passato di squisita pace: Tutto un presente di squisita pace L’acqua d’una fontana Gorgogliando laggiù, garrula e piana, Nel silenzio, bisbiglia. * Io sogno una biondissima Rosea fanciulla che dal monte scende, Mentre le vette accende La prima luce.—Ella è serena e canta. Ella è serena e al dì che sorge canta: L’acqua de la fontana Le risponde quaggiù, garrula e piana, E i tersi cieli arridono. VECCHI LIBRI Ho freddo, ho freddo in mezzo a voi, severi Libri che antiche pugne a me narrate! Che m’importa di ciò?...—fossili austeri, Il Sol di maggio batte a le vetrate. Gonfaloni, castelli, glorïose Follie di prenci e papi e imperador, Io vo’ l’olezzo de le nuove rose, Io vo’ tuffarmi nel meriggio d’or!... O pali, o mummie, o blocchi di granito, Il fragor de la via non vi ridesta?... Titanico fragor che par muggito, Fischio di vento, rombo di tempesta?... Larve d’anni e di secoli travolti, Vizze foglie del tempo che fiorì, Filosofi, tiranni, eroi sepolti, L’eco non giunse a voi de’ nostri dì?... Viveste un giorno, o scheletri: morgana Fata arridente al cupido pensiero, Voi pur tradì la multiforme e vana Illusïon che l’uomo appella il Vero. Pace ai morti!... ma l’attimo fuggente È troppo breve pel nostro gioir: A che arrestarci su le vite spente, Quando il fato ne incalza a l’avvenir?... Oh, lasciatemi andar dove la nova Scïenza sboccia come al Sole il fiore: Dove brilla, spumeggia e si rinnova L’onda rossa del gaudio e de l’amore. Ch’io fugga tra i braccianti infaticati, Tra colpi d’ascia e colpi di martel, Ch’io m’involi su i treni scatenati, Sibili e fumo vomitanti al ciel! Oh, lasciatemi andar per le boscaglie, Fra i sorrisi de l’alte erbe e del grano: Il sangue sparso, o innumeri battaglie, Gioiosamente ora feconda il piano. E mi chiama la zolla che riverde, E mi chiamano l’ali aperte al vol.... .... Fossili, addio!... Mi salvo in mezzo al verde, Con fiori nei capelli e in faccia il Sol!... AMOR NOVO Se m’ami, guarda: mi balena in fronte L’intima vïolenza del pensiero. Giunsi in alto per ripido sentiero, E grigio ancor sul capo ho l’orizzonte. So dei roveti le mordenti spine, So l’arida tristezza dai deserti: Non rispecchio il seren dei cieli aperti, Ma porto il lutto nel guardo e nel crine. Linatori sbucanti da la terra, Vittime scarne e intrepidi ribelli Dal labbro audace e dai grand’occhi belli Ove raggia un desìo di santa guerra, Come a quest’ora tu mi gridi: Io t’amo, Dissero un giorno a me: Pietà di noi! Dissero tutti, martiri ed eroi: —«O fanciulla, sei nostra e ti vogliamo Ne le viscere tue passi e riviva Ogni duolo, ogni spasmo, ogni singulto Tutto il dolor che ci dilania occulto Trabocchi in te, perchè di noi tu viva: Perchè da l’alma tua scossa e sconvolta Prorompa il canto che sia _noi!_... Cammina Per sassosa e dirupata china De la giustizia, o solitaria scôlta: Inciampa, cadi e ti raddrizza ancora Sovra il corpo d’un morto o d’un morente, Con infinite lacrime piangente Per l’ansia e la pietà che ti divora: E quando, arse le vene e stanche l’ossa, La tua vita ai fratelli avrai donato, E su tutte le piaghe avrà tuonato La profetica tua voce commossa, Fra noi, per noi ne l’ultima tempesta, Musa del novo amor, cadrai!...»—L’immensa Turba così parlò.—Guardami e pensa!... Fino a la tomba la mia strada è questa. * Per ciò forse tu m’ami?... Oh, vieni allora, Vieni con me nel nome del dolore, Serbo per te voluttüoso un fiore Sorto di notte da selvaggia flora. Vieni, vieni con me!... La nostra eletta Casa sarà dovunque un vinto gema: Ove l’infanzia abbandonata trema, Ove fermenta la miseria infetta. De gl’infelici i miseri giacigli Saranno il nostro letto nuziale; Gl’innominati e gli orfani, cui l’ale Tarpò il dolor, saranno i nostri figli. La mia bocca di vergine ti serba Teneri baci, noti a lei soltanto. Sono i baci che sbocciano dal pianto Come anèmoni tristi in mezzo a l’erba; Baci che sanno il torbido mistero Aleggiante sul capo ai moribondi, Baci che sanno i palpiti fecondi De gl’istanti di lotta e di pensiero; Del precipizio la vertigin muta, Del sacrificio l’agonia sublime, Il desìo degli abissi e de le cime, La dolcezza del cor che non si muta. Vieni, vieni con me!... Ti benedico Perciò che in nome del mio amor farai, Pel sangue tuo che non per me darai Fratello d’ideal, ti benedico. Vieni, vieni con me!... Soccomberemo, Forse, prima d’aver tutto compito. Che importa?... nel fulgor de l’infinito In un raggio di sol risorgeremo: E il nostro amplesso arriderà sovrano Su le gioie de ’l mondo rinnovato: Fiorirà sotto a noi, giglio invocato, Quell’avvenir che non sognammo invano. ALL’ASILO NOTTURNO Attraverso la nebbia e il tenebrore, Stringendo a l’ammalato Petto, con senso di mortal timore, Il bimbo assiderato, Tutta ravvolta ne lo scialle stinto, Dolorosa di fame, Giunse al Notturno Asil, bruto sospinto Da l’ansia d’uno strame: E per la carità di quella notte, Curva tremando, come Colpevole alla gogna, a voci rotte Disse la patria, il nome, La strazïante istoria del passato, De l’improvviso lutto, Lo schianto de lo sgombero forzato, L’urto nel fango, tutto: E sol quand’ebbe, vergognando, messo A nudo il rimordente Cancro de la sua vita, a lei concesso Fu un letto....—finalmente.— * Ella dorme d’un sonno alto, oblïoso. Col suo bambino a lato. Su lei, su l’altre che a l’asil pietoso Scaraventò il selciato, Casta raccoglie le grand’ali bianche La breve ora di pace; Nei franti cuori, ne le membra stanche Ogni spasimo tace. .... Ella sogna.—S’allarga sul guanciale Il denso crine attorto, E sembra la coperta glacïale D’una cassa da morto. Ella sognando va ch’ora e per sempre È suo quel caldo letto. .... O riposo, o dolcezza!... ora e per sempre È suo quel caldo letto!... E la tranquilla visïon le arride D’una stanza ove cuce Essa cantando, mentre il bimbo ride Del foco a l’area luce: Imbianca i vetri l’ultima carezza Del giorno in agonia, E al nido porta l’alitante brezza Le voci de la via.... * .... Stride una squilla: al dormitorio austero S’affaccia e ghigna l’alba. Balza la Triste dal letto straniero Ne la penombra scialba: Rimette cenci su la carne ignuda: Torna col figlio al noto Orror de l’abbandono, a l’aria cruda, Ai perigli, a l’ignoto, A la caccia del pane!... Avida mira L’ampia città che fuma, Che da le ansanti fabbriche respira E fischia tra la bruma, A la forza inneggiando e a la fatica Con tumulto canoro.... .... Avida mira, come una nemica: Essa non ha lavoro. SULLA VIA La via s’allunga, tacita, deserta, Sotto gli occhi dei fieri astri immortali. Infinito è il silenzio.—Dei fanali Le fiamme rosse come rosse piaghe Sembrano austere sentinelle a l’erta. Sfiora lieve il selciato una figura Di donna.—Senza posa, lentamente, S’aggira per la via che vede e sente: E l’ombra sua, riflessa ne le zone Di luce, ondeggia come biscia impura. Il corpo così bianco sotto il nero Vestito, è terra senza spirito.—Tutto, Fuor che la cieca fame è in lei distrutto: Niuna miseria è più cinica e ignava Di quella forma che non ha pensiero. Chi mai la coscïenza le divelse?... Che lungo dramma la gettò sul vuoto Lastrico, a notte, in caccia d’un ignoto?... Un’occulta pietà trema e s’effonde Su su dei cieli per le vôlte eccelse. Pietà!... La notte tragica s’imbruna Più e più, senza luna e senza vento, D’angosciosa tristezza e di sgomento Piena.—E sotto la gogna dei fanali Passa e ripassa la figura bruna.... GLI ULTIMI SARANNO I PRIMI Egli lo disse.—Giù verso ponente Il magnifico ciel di Palestina In sangue si tingea: Corruscava di faccia al sol morente Un ammasso di nubi—e la ruina Di turrite cittadi arse parea. Nel solenne tramonto anche la veste E il peplo candidissimo del Dio Parean di fiamme cinti: Sul deserto, sul mar, su le foreste, Sui pargoli curvati in atto pio, Sui ceppi e sulle lacrime dei vinti, La Sua voce tuonò. (Silenzio intorno, Vasto silenzio) «Chi ne l’ombra visse Luce domani avrà: Schiuderà il cieco le pupille al giorno; Chi fu solo, chi pianse e maledisse Domani esulterà!... Chi di freddo tremò nè fu scaldato, Chi di fame languì nè fu soccorso, Chi ebbe sete d’amor, E d’amor si consunse e non fu amato, Chi, vergine di colpe, al crudo morso Giacque del disonor, Domani coglierà mirti e vïole Per le boscose vie piene d’incanti, Ove messe è il desir: Ebbro di libertade, ebbro di sole, Tra gli ulivi movendo a le raggianti Porte de l’avvenir!... In alto, in alto i miseri, gli schiavi: In alto, in alto gli umili, i reietti: L’ora sacrata è là. Sorgi in nome di Dio, popol d’ignavi, Fa del nome di Dio scudo a’ tuoi petti, Vinci, perdona, e va!...»— * Questo Egli disse.—I popoli ed i cieli E le immobili palme e i campi e l’onde Ascoltavan.—Le meste Donne ravvolte in fluttüanti veli Seguian con le pupille umide e fonde Il sogno d’un doman senza tempeste. Sotto la terra, in grembo al mar sonante, Trasalivan dei secoli futuri I germi, a quella voce. Sciogliendo a l’aure il divo inno squillante L’universo abbracciava Egli coi puri Sguardi....—e, ne l’ombra, l’attendea la Croce. ORA DI CALMA Questa notte dal ciel scendono baci Come fiocchi di neve calmi e lenti; Scendon baci dolcissimi Dai tersi cieli aperti e sorridenti. Piovon sugli occhi che nel buio inseguono Larve d’amore non raggiunte mai, Supplici, dolorosi occhi, ove accendesi Una speranza non distrutta ancor; Piovon sui corpi che l’amplesso attendono Del Diletto che Iddio non manda mai. Fragili corpi, solitarie lampade, Gigli morenti di strano languor. Piovon sui cuori palpitanti d’ansia, Che ne la febbre non guarita mai, Nel desiderio dei negati gaudii Singhiozzano all’ignoto: Amore, amor!... * Questa notte dal ciel scendono baci: Silenzïosi, benedetti, lenti. Calman sospiri ed incubi: Succhian le vane lagrime cocenti. BACIO MORTO Fra l’erba, in una triste primavera, Una precoce mammola fiorì. Fredda era l’aria.—Prima ancor di vivere, L’esile fior morì. Su la mia bocca, in una triste sera, Un bacio dal mio cor per te fiorì.— Volgesti il capo....—prima ancor di vivere, Il bacio mio morì.— L’ULTIMO DUCA Fra i veli nivei De la sua culla Il bimbo posa. I sogni sfiorano La delicata Fronte di rosa. Niuno lo vigila: Sua madre è al ballo, Suo padre al gioco. Nessuno palpita Al suo respiro Soave e fioco. Erran per l’aere Lievi, invisibili Battiti d’ale, Soffii, bisbigli.... Passano larve Presso il guanciale. —Da un molle bacio Dentro un’alcòva Venuto al mondo, Di’, che t’aspetta, Figlio di duca, Pargolo biondo?... Bollori ed impeti Non ha il tuo sangue Smorto e languente: Ultima goccia D’una superba Razza morente. Che avrai?... Le splendide Feste e i conforti Di laute cene: Spumanti calici Che gettan fiamme Dentro le vene: Tumulti d’orgie, Notti di baci Bassi e sapienti: Lunghe ore d’ozio, Corse di fieri Cavalli ardenti: Di fibra e d’anima Il raffinato Delirio intenso: Labbra d’etèrie, Larve d’amore, Spasmo di senso. Non tue le fervide De la scïenza Lotte severe: Non per te i palpiti, Non per te i sogni Di fedi austere: Non per te l’utili Opre del braccio.... Ma, solo, fiacco, Sfibrato, inutile, Pel nulla nato, Del nulla stracco, L’ultimo soffio De la tua vita Sterile e vana Darai a un gelido, Venale amplesso Di cortigiana. L’EREDE (dal quadro di T. Pattini). Di fuori è tènebra: Dentro il tugurio Freddo e deserto Trema il lucignolo D’una candela Con guizzo incerto. A terra è il rigido Corpo d’un morto.— Non sa, non sente; Riposa.—Il copre Nero un sudario: Sembra un dormente. La salma squallida È d’un robusto Lavoratore, Strappato al vomero, Strappato al suolo Fecondatore; Ai campi fertili, A l’auree vigne, Ai fieni aulenti; A le boscaglie Folli di sole, Nel sol fiorenti. Prona in un angolo Giace una donna Muta nel duolo. Più lunge, un roseo Fanciullo gioca Sul nudo suolo. Non sa di triboli, Non sa d’orrori, Non sa di morte. Ei gioca, ingenuo, Biondo, ridente, Tranquillo e forte. Su lui la tènebra Tutta s’affisa Con occhio strano. Ha voci e brividi, Pensieri e pianti L’intento vano. —Da un rozzo bacio Dentro una stalla Venuto al mondo, Di’, che t’aspetta. Figlio di plebe. Pargolo biondo?... La zappa ruvida Corrusca al sole: L’aratro lento: Meriggi torridi, Furia di piogge, Furia di vento: De la malaria, De la risaia La febbre impura: Fatiche innumeri, Pan bruno e scarso, Stamberga oscura. Chi sarai?... Debole Corpo impossente Di mal nudrito, In buia, torpida, Rude ignoranza Inebetito?... Chi sarai?... Libera Alma selvaggia Di lottatore, De l’imo popolo, Del solco vergine Sôrto dal cuore?... Tu giochi, ingenuo; Ma l’aria e l’ombra San di tempesta. Su l’ala rapida Te invola il tempo Che non s’arresta: Te, forse milite D’aspri e bollenti Conflitti umani: Forse una vittima, Forse un ribelle De l’indomani. SORRISI Te divina di forme, un dì vedea Bianca qual giglio e bionda come Dea Egli, la prima volta: Avevi un fior di prato a la cintura, E parevi, così ridente e pura, Tutta di sole avvolta. E s’accese ne l’alma il sognatore, E ti serrò nel laccio d’un amore Geloso e vïolento: Tu lietamente lo seguisti sposa, Come la nube va tinta di rosa Ove la porta il vento. E poi ti nacque un bimbo.—Oh, la profonda Gioia d’accarezzar la testa bionda D’un bimbo tuo; la sola Gioia che al mondo sia senza rimpianti; Viver de’ baci suoi, dei dolci canti, De l’incerta parola!... Ride tra il verde la tua giovin casa Da gaie torme di trastulli invasa Dispersi sui tappeti: I tuoi balconi sono aperti al sole, E vi penètran sogni di vïole, Effluvii di roseti: Il bimbo corre per le chiare stanze, Tu il miri e tessi de le tue speranze Gli azzurri e tenui fili: L’anima esulta, si dilata e sale Come salgon danzanti atomi ed ale Nel ciel dei freschi aprili. Ridi....—sei così semplice e secura!... Un inganno, uno schianto, una sciagura Ti spezzerebbe.—Oh, ridi.— Son così pochi al mondo i fortunati!... Io, te guardando, penso ai baci alati De le allodole, ai nidi; Ai nidi fatti di musco e di amore, Palpitanti tra i folti alberi in fiore, Pieni di trilli, pieni D’infanzia e d’innocenza;—a le scorrenti Acque dei fiumi; a l’albe trasparenti, Ai meriggi sereni; A le pianure fertili di grano Sacro e dorato; al verdeggiar lontano Dei pascoli in pendìo, Ove l’alma a sorsate ampie respira Con l’acre essenza che da l’erbe spira L’ebbrezza de l’oblìo. NOTA DI CRONACA Lessi: La plebe intera e ammutinata: Fiera e compatta ingombra piazze e strade: Gli urli «Pane e lavor» son le sue spade, Di mille petti a sè fa barricata. Lessi: Caffè, palagi han vetri infranti: Chiusi i balconi e chiuse son le porte: Passan per la cittade armate scôrte, Lutti s’apprestan per le donne e pianti. Un battaglion di pallidi soldati O miseria!... sparò contro i ribelli: E questi cadder, minacciosi e belli: Morser la polve, e niun li ha vendicati. Avean fame: avean figli: intimo istinto Di giustizia gli spinse a la sommossa: Caddero.... .... Sorsi, in mezzo al cor percossa, Da un orrore improvviso il sangue vinto. —Di chi la colpa?...—con gran voce dissi. E in nome degli insorti e dei venduti, Dei fratricidi in nome e dei caduti Qualche cosa ne l’ombra io maledissi. FRATERNITÀ Mendicante che vai sotto la pioggia E mi stendi la man, Con lungo sguardo e con lamento supplice Chiedendo un soldo e un pan, Ingiusta al pari de la tua miseria È la miseria mia: Mi trascina con te l’Ineluttabile A una stessa agonia: Sol tu, cui fame insazïata strazia, Lo gridi, il tuo dolor: Io, pianti e febbri soffocando, muoio Per nostalgia d’amor!... CASETTE BIANCHE Casette bianche sfavillanti al sole Con le finestre aperte e ai piedi il verde, Come lento su voi l’occhio si perde, Casette bianche sfavillanti al sole!... Passando innanzi a voi (non lo sapete?) Chiusa in dolce pensier, guardo e sorrido: La vostra pace garrula di nido Oh, narratela a me, casette liete. Entro le stanze tiepide e raccolte, Nel cristal de le coppe trasparenti, Appassiscono gigli e thee morenti, E lievi gruppi di cardenie sciolte? V’è un bizzarro cestello da lavoro, Ove, tra gli aghi e tra le matassine, Un biglietto si celi intimo e fine, Un nastro azzurro, un braccialetto d’oro?... Vi son ninnoli e libri civettuoli, Fantastici pastelli a le pareti, Bambole e carrettini sui tappeti, Cinguettii di fanciulli e d’usignoli? V’è una placida nonna cogli occhiali, Che, seduta in antica, ampia poltrona, Con la sua voce di vecchietta buona Narri d’un rosso demone dall’ali Fiammanti i casi orrendi e battaglieri A una turba di bimbi estasïata?... V’è una snella mammina affaccendata, V’è un babbo serio dai gran baffi neri?... .... Dite, ditelo a me!... Stretta s’allaccia L’edera appassionata ai vostri muri: Traversa i cieli radïosi e puri Un’allodola, ed io tendo le braccia; Tendo le braccia al sole e a la gaiezza: M’entra ne l’imo cor la nostalgia D’un volto amato, d’una mano pia Che mi sfiori con trepida carezza: D’un profumo svanente di vïole, D’un nido ove s’effonda alta quïete: La nostalgia di voi, casette liete, Casette bianche sfavillanti al sole. INVANO Ne l’abituro ove morì stanotte Il vecchio pellagroso, Veglia sul freddo, altissimo riposo La vanga sola, viva ne la notte: Guatando il letto che somiglia un trono, In suo linguaggio prega. E prece è questa che singhiozza e nega: Che di fede non è—non di perdono. E dice: Vecchio, hai lavorato indarno: Indarno il sangue hai dato: E piangesti e non fosti consolato, E dolcezze non ebbe il corpo scarno. E dice: L’implacabil malattia Che infesta la risaia, Che nei tugurî senza sol si sdraia, Mista d’odio, di fame e di pazzia, L’implacabile e scialba malattia Ti prese, ebete, nudo, Affranto; e nel rigor d’un verno crudo Ti condusse a la morte.—Così sia.— Spiran con te, dovunque, a mille a mille, I tuoi compagni.—Intanto Commove l’aria, da lontano, un canto Di guerra, e squarcian l’ombre auree faville: È un grido a l’avvenir d’appassionate Coscïenze in tumulto, È un affannoso accorrere, un singulto Fierissimo d’elette alme inspirate: A colpi d’ascia ogni menzogna è spenta: Splenderà il Sol domane Sovra le gioie e le grandezze umane, Sovra la terra da l’amor redenta!... .... Ma tu, vecchio, non odi.—È la tua salma Rigida come pietra: Fra i cenci e l’abbandono, ignuda, tetra, S’agghiaccia in atto di sdegnosa calma. Niun può ridar lo spento soffio a questa Materia tua!... la bella Di giustizia e d’amore opra novella Che le infamie del secolo calpesta, Che i brandi spezza e infrange le catene, Del sangue tuo succhiato Goccia a goccia dal solco derubato Non renderà una stilla a le tue vene; Non una sola ai venerandi e forti Compagni tuoi, traditi Da la terra e sotterra seppelliti. Ora e in eterno.—Chi risveglia i morti?... PAX Io vidi in sogno, come vanni d’aquila Belle, giganti e fiere, Elevarsi del Sol fra i lampi torridi Più di mille bandiere. Mai non arrise ai verdi campi e a l’aure Più luminosa aurora: Cielo e mare avvolgean fiamme d’incendio Nel delirio de l’ora: Salia dai boschi e da le zolle un palpito Di forza germinale, E largo il vento, come il sogno a l’anima, Dava a le fronde l’ale E i lucenti vessilli in alto ascendere Come trofei di gloria Io vidi, e ognun parea cantare a l’aura D’un popolo l’istoria. Crivellati di palle erano, e laceri, Con l’aste mutilate, Come trafitti da pugnali innumeri In mischie disperate; Chiazze nere e vermiglie e fumo e polvere Ne copriano i colori: Polve di schioppo o di mitraglia, e giovane Sangue di gladiatori; E molti d’essi, a l’orïente roseo Assurgendo giganti, Nel maestoso volo avean terribili Suoni di ceppi infranti. Ad un tratto (era sogno) da un magnetico Soffio d’amor sospinti, Dimentichi de l’epiche battaglie, Dimentichi dei vinti, Tutti si strinser quei vessilli in crocco, In universo abbraccio, E fu di pianti, di memorie, d’anime, Di spemi e forze un laccio; E non rimase ne gli azzurri spazii, Vivido al par di fiamma, Sciolto a le brezze come velo d’angelo, Che un unico orifiamma; E a lui, balzando da gli antichi ruderi, Da le pianure intrise Di sangue, da l’orror dei morti secoli, L’umanità sorrise. EPPUR TI TRADIRÒ.... Eppur ti tradirò.—Verrà ne l’ora Che di mistero avvolge e terra e mar, Un demone dal vasto occhio di fiamma La mia fronte a baciar. Ed io, tutta vibrante e tutta bianca, Tremando scenderò da l’origlier; E seguirò ne l’ombra il maestoso Passo di quell’altier. Egli susurrerà sul labbro mio Cose sublimi che l’ignoto sa.— E dal mio petto e dal mio cor, dinanzi A l’âtra immensità, Liberamente sgorgheranno i canti Di quel dèmone al soffio avvivator: I canti che singhiozzan ne la morte, Che ridon ne l’amor: Che sul tumulto dei dolori umani Parlano di speranza e di pietà, Schiudendo l’invocata e folgorante Porta dell’_al di là_; Che san tutte le colpe e tutti i sogni, Che squarcian d’ogni frode il bieco vel: Che son fatti dei gorghi d’ogni abisso, Degli astri d’ogni ciel!... Oh, non esser geloso.—Oh, non strapparmi A quell’ora d’ardente voluttà: A quell’ora di gioia e di follìa Che solo il genio dà!... Come prima, sommessa e innamorata A le tue braccia mi vedrai tornar: Smorta nel velo dei capelli sciolti Il tuo bacio implorar. E la mia fronte candida, che solo Sfiorò de l’estro il labbro vincitor, Come timida fronte di bambina Ti dormirà sul cor!... IL PASSAGGIO DEI FERETRI. Commemorazione delle Cinque Giornate, avvenuta in Milano il 18 marzo 1895. Folla e tumulto.—Spingesi E s’accavalla al par d’onda sovr’onda, Torrente irrefrenabile Che abbatte con gigante urto la sponda: Mare in tempesta, unanime Fiorir di sogni e battere di cuori Affratellati: bacio Di cruente memorie e di dolori In una sola, trepida Gioia che accende i petti e le pupille; Che lancia ai glauchi spazii Risa, speranze, cantici, faville; Che va fra cielo e popolo Su l’ali di magnetiche parole: Che sfolgora per l’aere Coi fulvi raggi del novello Sole. .... Silenzio.... è l’ora.—Scindesi La folla in due compatte ali frementi: Serpe nei cori un brivido: Tra il solenne sfilar dei reggimenti, Tra l’ondeggiar dei candidi Vessilli ai venti radïosi e puri, Tra il suon degl’inni e l’epico Clangor dei bronzi e il rullo dei tamburi, —O Eroi di Marzo, o fumida Ancor di sangue patria visïone!...— Lento un corteo di feretri S’avanza su gli affusti di cannone. E in un con le reliquie Da la notte di lunghi anni redente, Alta ne la memoria, Viva nel cuore de le turbe intente, Passa l’Iddia terribile, L’Iddia vermiglia de le barricate, Che, inerme ed indomabile, Per vie ruggenti e piazze disselciate, Al lampo degli incendii, Ebbra di sangue e polve e fumo e schianti, D’un avvilito popolo Fece ad un tratto un popol di giganti; E il quinto giorno un magico Grido innalzò di gioia e di vittoria: —Qui comincia l’Italia!... E un’ampia le rispose eco di gloria! .... Silenzio.—I morti sognano: Ne le bare che passan lentamente Un riso erra, dolcissimo, E culla e bacia quelle forme spente. —Per Essi ora la patria A l’aulente suo crin tesse ghirlande: Per Essi da’ suoi fertili Giardini al mondo arride, onusta e grande: Per Essi, per le lacrime Degli occhi loro, pel sangue che i forti Lor petti a rivi sparsero. Per quell’immenso amor!...—Sognate, o morti.— * La patria è grande.—Imperano Sovra l’umido pian di Lombardia, Furie dal negro artiglio, La fame, la pellagra e l’anemia. Da le brumose e fetide Maremme, da l’incolto Agro Romano, Da le ruine càlabre Prorompe, disperato, un pianto umano. A cento a cento, i siculi Schiavi, nei pozzi de la zolfatara, Trovan fra le venefiche Aure il pane, l’ergastolo e la bara. Mentre, fidando, partono Da le materne vacillanti braccia Baldi e robusti militi Di novi servi e d’afri allori in traccia, Là fra le accese sabbie Dei deserti, a dar morte ed a morire, Là su le terre sterili Il vessillo a piantar de l’avvenire, Languono ovunque l’itale Plebi, ed ovunque la miseria piange: «Pane, pane» singhiozzano Donne e bimbi; ma a scoglio erto si frange Come spuma d’Oceano Che rimbalzando su di sè ripiomba, La strazïata e supplice Prece dei vinti, ed a sè stessa è tomba. In basso e in alto sfasciansi Le fedi e van le coscïenze infrante: Taccion nei fiacchi spiriti I santi affetti e le collere sante Ma, come invitta quercia, Libera Italia sta!...—Non vi svegliate, O Morti.—Ora e nei secoli Il vostro sogno trïonfal sognate, Che ne la rossa mischia A voi mordenti il fango de la via, In canto di letizia Il rantolo mutò de l’agonia. SULLA FOSSA DI GIUSEPPE GRANDI _in Val Ganna_ Senza gloria di marmi e senza croce, Qui ove giunge al tuo cor, lieve su i venti, De l’alpine freschissime sorgenti L’eterna voce; Qui fra i macigni ruïnosi e foschi Guatanti dal silenzio de le alture I vellutati pascoli e le oscure Linee de’ boschi; Qui, solingo, sdegnoso, abbandonato, Dormi in eccelso oblìo presso le stelle, Ferreo Titano de l’idea, ribelle Come sei nato!... Errar ti vider queste vette e queste Boscaglie, un giorno: quando a le tue nude Tempie battea lo spirto audace e rude De le tempeste; E il sangue acceso fumido ondeggiante In larghe ondate al cerebro fluiva, Pòlline sacro a fecondar la diva Idea balzante. A l’opra, in lotta con l’informe creta, Ti vider questi cieli e queste valli, Del marmo e degli ignivomi metalli Sire e poeta; E gli aquiloni che da l’erme creste E dai vergini ghiacci immoti e soli Piomban, rotando in procellosi voli Per le foreste, Mugghiando a fascio ne la valle e intorno A la povera casa orribilmente, Salutarono, o Grande, il tuo fuggente Ultimo giorno. Qui dunque resta, o Grande, ora e per sempre Lungi da i molli rètori bugiardi. Larvàti in fronte e nel ferir codardi!... Ora e per sempre Sotto i baci dell’èriche il profondo Tumulo giaccia senza cippo o nome!... Tutta Val Ganna il glorïoso nome Singhiozza al mondo. Passino sul tuo capo albe e tramonti, I sogni e gli astri de le calme sere, E le battaglie de le nubi nere In groppa ai monti; Passin gli spirti de le rocce, i canti De la luce, i letarghi de le nevi, I rimbombi de l’alte acque e de’ grevi Massi frananti: Assorba, assorba il tuo vigor d’Iddio, E in raggio lo trasmuti, in tronco e in fiore Questa che t’arse d’indomato amore Terra d’oblìo. ———— Val Ganna, settembre 1893. MATTINATA INVERNALE Ricordo.—Era il Dicembre: La campagna apparìa smorta di neve, Irta di ghiacci.—L’alba tersa e lieve Animava il silenzio. A l’orïente gelido Il sol rifulse: e allor, trasfigurata, La neve palpitò come baciata, E si fè tutta rosea: Sovra le rame squallide, Su l’erbe vive ancor, su le brughiere Palpitò di dolcezza e di piacere Nel mattino purissimo. LA VEDOVA Io la vidi.—Sul volto estenüato L’insonnia tormentosa Un sudario di tomba avea calato. Era scalza, disfatta.—Sui ginocchi Tenea l’ultimo nato. I suoi capelli, un dì sì neri e folti, M’apparver tutti grigi. Cadeano a ciocche, ruvidi, disciolti, Irritati.—Nessuno ella guardava Coi folli occhi stravolti; Nemmeno i figli.—Intorno, a bassa voce, Si parlava del morto. Inghiottito l’avea, presso la foce Del tristo fiume, a l’improvviso, un gorgo.... Dio! che agonia feroce!... Bello: trent’anni: i muscoli possenti, Come sculti nel bronzo. L’avean cresciuto i balsami tepenti De le patrie boscaglie, i nembi, il sole, I lieti inni de’ venti!... Ed or?...—Certo ei, sott’acqua, avea lottato Con furore d’istinto, Palmo per palmo, oncia per oncia.—E urlato Certo avea, con demente urlo d’angoscia.... Poi più nulla.—Annegato.— .... Ella non ascoltava.—Un fisso, acuto Pensier la rimordea: Per sè, pei figli il queto pan perduto, Il forte braccio inerte, il focolare Spento ed il letto muto; E la miseria, la miseria!...—Ai campi Dunque, gracile donna, O fischi il vento o sia che l’aura avvampi, Alla zappa, alla vanga.—Ora sei sola, Niuno v’ha che ti scampi!... Alla risaia dunque, alla risaia, Ove il capo percote Il sol piombante come una mannaia, Ed il mïasmo fetido s’infiltra: Penoso non ti paia Il sacrificio.—La fatica immane Tu sempre sosterrai, Dal rodente pensier de la dimane Spinta—pei figli, per la rozza casa, Per un tozzo di pane!... * Già la sera calava a poco a poco: E le donne pensose Accosciate per terra e intorno al foco, Pïamente intonarono il rosario Con un bisbiglio rôco. Ella tacque—distratta e come stanca Spogliò l’ultimo nato. Mormoravan le donne a destra, a manca, «Ave....» e lei cadde, rigida, a ginocchi, Presso la culla bianca. IL SOGNO E d’inseguirti io non mi stanco mai, O sogno ammaliator de la mia vita: Tutto già mi prendesti e tutto avrai, La giovinezza ardita, I tumulti del sangue e i desiderî, L’ansie, le veglie, le preci, le lotte, Il battagliar dei vividi pensieri Che riddan ne la notte. Tutto ciò che sorride e che non mente, Tutto ciò che s’eleva e non dispera, E de l’ingegno mio triste e fremente La luce e la bufera. E tu lasci ch’io levi a te la faccia, Ma distogli i raggianti occhi fatali: E tu lasci ch’io stenda a te le braccia, Ma non raccogli l’ali: E, attirandomi, fuggi.... e forse, quando, Bellissima di gioia e di desìo, T’afferrerò, da l’imo cor sclamando: —Ho vinto e tu sei mio,— Sazie le brame, tisica la fede, Spenta l’illusïon, rotto l’incanto. Cadrai, rovina inutile, al mio piede, Come un balocco infranto. OPERAIO A me dintorno la città sorgea, Desta a la prima aurora. La gran città che nutre e che lavora Nel sole a le giganti opre movea. Era un gridìo di chiare voci ignote, Un fluttuar di suoni, Un aprirsi di porte e di balconi, Fischi di treni, turbinar di rôte: Era l’accorrer gaio e vïolento Di mille forze umane Verso il lavor che dà salute e pane E innumeri vessilli affida al vento. Tutto avea luce, palpiti, sorrisi Di festa mattinale, Ogni cosa parca sciogliesse l’ale, Speme e gioia ridean su tutti i visi, Quand’io lo scôrsi.—Era possente.—Il volto Pallido di pensiero Nobilmente s’ergea con atto fiero Sul bronzeo collo da ogni fren disciolto: Collo di tauro, petto di selvaggio, Guardo e parola ardita: In quelle vene un rifluir di vita, Vampe d’amore e vampe di coraggio!... Sonante il passo, come un vincitore, S’avanzò, nella luce. E a me disse il mio cor: Non forse è un duce?... Non forse, in mezzo a l’infernal clamore D’un’officina, splendido nel saio, Egli soggioga i mostri Ch’ebber dal genio umano artigli e rostri, Alma di fuoco e muscoli d’acciaio?... Non forse in lui la fonte d’energia Zampilla, prepotente, Che riviver farà questa languente Êra, gialla di vizio e d’anemia?... Oh, dolce, dolce esser la sua diletta.... Attenderlo, la sera, Presso il desco frugal, con la sincera Ansia gentile di chi amando aspetta: Dolce coglier da lui, siccome il giglio Bianco da l’ape d’oro, Il bacio di chi sa lotta e lavoro. Esser tutto il suo bene, e dargli un figlio: E in questo figlio bello ed innocente Che la virtù paterna Possegga, un voto, una speranza eterna Riporre, e i gaudii de l’età cadente: E sognare per lui continüata. Ne i secoli venturi La razza degli indòmiti, dei puri, A luminosi dì predestinata La schietta razza dei redenti schiavi Che mieterà fra i canti Messi di libertà nate da i pianti, Dal sangue e dalle viscere de gli avi. ETERNO IDILLIO Mentre del Sol di giugno i raggi effusi Con infrenata voluttà d’amore Baciano i fiori largamente schiusi; Mentre da l’aure in fiamme e dal fulgore Dei sommi cieli a le campagne piove Di giovinezza un trionfal vigore, Il contadin ne la sua terra smove L’ardue zolle col nitido strumento, E a pacata canzone il labbro move; E va de la canzone il ritmo lento Col pispiglio dei passeri e l’olezzo Dei fieni, su l’errante ala del vento. Di fianco a l’uscio de la casa, al rezzo, La tranquilla compagna offre il bel seno Al suo lattante, con materno vezzo: Sgorga, fonte purissima, dal pieno Petto, la vita: succhia avidamente Il fanciullo: fiorisce al ciel sereno, Nel meriggio, dinanzi a l’innocente Letizia de le cose e a la vittrice Opra dell’Uomo, il gruppo, santamente: Ride Natura intorno, e benedice. SENZA RITMO. A Nice Turri. _Clair de Lune_ _di Beethoven. _ Passa pel chiuso salotto il brivido cupo dell’ombra: i tasti animati singhiozzano sotto le dita tue bianche, o Nice, e tu sei vestita di bianco come un fantasma.—Suona.— * O Pallida, o Pallida, io so che ben presto morrai, che quando la tosse t’affanna ritiri dal labbro la tela macchiata di rosa. Tu non mi parli, suoni: non vedo il tuo volto, non vedo gli occhi sognanti ove langue un desìo di carezze ove par che una lagrima tremi sempre: vedo l’abito bianco, vedo i lunghi capelli di seta, e sento l’anima, l’anima, l’anima tua, Nice!... vibrar ne le note. * È Beethoven.—Quand’egli creava la solenne armonia, tu non vivevi, Nice, io non vivevo: ma ciò che l’artista crea tutto il mondo lo beve, lo fa sua carne e suo sangue: ed ora, più di qualunque parola, questa musica dice ciò che tu senti, ciò che io sento.—Suona. * Narran gli accordi gravi l’occulta rovina del corpo tuo così bello, minato dal male: narran la tua gioventù che non vuole morire, narran che tu sei sposa, narran che tu sei madre, che il bimbo tuo balbetta le prime vezzose parole, e che per lui, per lui t’aggrappi alla vita!... * Narran gli accordi gravi che mentre tu passi lasciando nel mondo l’amore io vivrò disamata. O Nice, ancora vent’anni, ancora trent’anni dovrò trascinare nel mondo, sola!... Poi che amore ti chiama vivi, e lascia ch’io, non rimpianta, muoia!... * Tu non volgi la testa: non vedo il tuo volto, non vedo i tuoi occhi sognanti ove langue un desìo di carezze, ove par che una lacrima tremi sempre.— A terra mi prostro e bacio l’abito bianco io umana a te divina, a te che domani morrai. E dicon gli accordi gravi: Tu che resti nel mondo, tu che invochi l’amore, non perder tempo, non perder tempo, ama: ama chi soffre e non spera: tu debole e sola pei deboli e i soli diventa robusta e possente: fa che la gelida morte dischiuda al tuo corpo la fossa quando l’anima divisa in frementi brandelli, sciolta in milioni d’atomi luminosi, abbia già baciate le dolci anime sole, piangenti su la terra: ama, l’amore è infinito poi che infinito è il dolore. SCONFORTO S’io potessi per sempre soffocare Questa voce che sorge dal profondo, E piange, piange senza mai cessare: Oh, s’io potessi soffocar nel fondo De la coscienza e non udir più mai Questa voce che sorge dal profondo!... Però ch’essa mi dice: No, giammai: Non vedi che cammini ne la notte?... Chi ti schiara la via?... Bada, cadrai: Sei sola, sola ed hai le membra rotte, E niuno ha fede in te: non vincerai, Non vedi che cammini ne la notte?...— ADDIO Va dunque, o libro austero, Di rogo eterno luminosa fiamma, Ch’io m’illusi, in un sogno battagliero, Di regger alto come un orifiamma!... Va.—Tu mi porti via L’anima a brani.—Ora che tu sei nato, Sento il peso glacial de l’agonia Sul cerebro e sul cor.—Vissi—ho creato.— È la fine del dramma, È il vuoto, è la rinuncia ultima, oscura. O libro nero a lettere di fiamma Un suggello sei tu di sepoltura. I GRANDI Ammiro i Forti che, baciati in fronte Da bocca sovrumana, Anelanti a più fulgido orizzonte, A un’altezza sovrana, I sorrisi del genio, i lampi, i canti Ebbero e le follìe, E sepper tutti i voli e tutti i pianti E tutte le armonie; E lanciaron dal culmine a l’intento Mondo sacre parole; E moriron fra un sogno ed un concento Circonfusi di sole. Amo i Ribelli che, morsi nel cuore Da un’angoscia suprema, Avvinti da un divin laccio d’amore A chi piange, a chi trema, Ai maledetti che Gesù redense E i fratelli han tradito, Per terra e mare fra le turbe immense Nova legge han bandito; E disser l’inno delle età venture, Sublimi nel delirio De l’ideale; e, ceppi o corda o scure, Sorrisero al martirio.... ... Ma piango il sangue del mio cor sui Grandi De la tenèbra.—Sono Gli Affamati, gli Oppressi, i Venerandi, Che tregua nè perdono Ebber da la natura empia e nemica, E pur non hanno odiato: Che per altri fiorir vider la spica, E non hanno rubato: Che bevver fiele e lacrime, vilmente Frustati in pieno viso Da l’ingiustizia cieca e prepotente, E pur non hanno ucciso: Che passaron fra i geli e le tempeste, In basso, ne l’oblìo, Senza sol, senza pane, senza veste, Ed han creduto in Dio: Che uno strato di paglia per dormire Infetto e miserando Ebbero, e un ospedale ove morire, E sono morti amando.— LA FIUMANA .... E sale, e sale.—Con sinistro rombo S’accavalla nel buio onda sovr’onda: Qual torrente d’inchiostro urge a la sponda, E trema l’aria, pavida, al rimbombo. È la fiumana dei pezzenti.—E sale,— Son cenci e piaghe, son facce scarnate, Braccia senza lavor, bocche affamate, Cuori gonfi d’angoscia.—E sale, e sale, E con sè porta un greve tanfo umano, Il tanfo dei tuguri umidi, infetti; E un grido erompe dai dolenti petti: «Dateci il nostro pane quotidiano.»— Ma ognuno a la gran voce è sordo e cieco.— L’immota calma che precede i lampi Del tonante uragan pesa su i campi, E il fiume ingrossa, il fiume avanza, bieco: I granitici, immensi argini atterra, Lordo di sangue, livido di pianto: Domani, in nome d’un diritto santo, Mugghiando allagherà tutta la terra.... .... Ah!... l’ora è sacra.—Una virtù d’amore Infinita, immortal come il Creato, O forti, può guarir quel disperato Cumulo di miserie e di dolore: Basterebbe che incontro a le diserte Anime singhiozzanti i vincitori Movessero fra siepi alte di fiori, Benedicendo con le braccia aperte. _Fine_ Nota dei trascrittori I seguenti refusi sono stati corretti (tra parentesi il testo originale): 11 Per l’âtre [atre] forre e le crollanti vòlte 11 È [E] l’inferno che s’apre su quelle teste umane 11 È [E] il lor corpo a la vita con delirio d’istinto 153 Ai piè de la motrice che ruggìa [ruggia] 165 È [E] troppo breve pel nostro gioir 225 È [E] la miseria mia *** End of this LibraryBlog Digital Book "Tempeste" *** Copyright 2023 LibraryBlog. All rights reserved.