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Title: Il re dei re - Convoglio diretto nell'XI secolo (vol. 1)
Author: Petruccelli della Gattina, Ferdinando, 1816-1890
Language: Italian
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*** Start of this LibraryBlog Digital Book "Il re dei re - Convoglio diretto nell'XI secolo (vol. 1)" ***


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                 BIBLIOTECA NUOVA

             PUBBLICATA DA G. DAELLI



                   IL RE DEI RE



  Stabil. tip. già Boniotti, diretto da F. Gareffi.



                        IL

                    RE DEI RE

                CONVOGLIO DIRETTO
                  NELL'XI SECOLO

                       PER

           F. PETRUCCELLI DELLA GATTINA


                     VOL. I.



                      MILANO
             G. Daelli e C. Editori.

                      1864.



LIBRO PRIMO

IL PLACITO.



  _Per chi ama la storia sbadiglio, come quella
  del Guicciardini e del Botta, questo libro è
  romanzo._

  _Per chi ama il romanzo, come quello di Paul
  de Kock, di Paul Feval o di Soulié, questo
  libro è storia._

  _A chi si delizia della storia-dramma di
  Michelet, della storia in azione di Balzac, di
  Vittor Hugo, di Dumas, queste pagine sono
  leggere._

  _Esse sono dei freschi di un secolo di giganti._



I.

                Ben m'accorsi ch'egli era del ciel messo,
                  E volsimi al maestro, e quei fe' segno
                  Ch'io stessi cheto ed inchinassi ad esso.
                Ah! quanto mi parea pien di disdegno!
                  Giunse alla porta e con una verghetta
                  L'aperse, chè non v'ebbe alcun ritegno.
                O cacciata dal ciel gente dispetta,
                  Cominciò egli in sull'orribil soglia,
                  Ond'esta tracotanza in voi s'alletta?
                                  INF., _canto IX_.


La mattina 26 giugno 1070 nella badia di Montecasino era affaccendato
movimento. Frati che ivano e redivano pei chiostri colonnati recando
vasi sacri e ricchi panni di chiesa, scudieri che lustravano usberghi
e giacchi di maglia, palafrenieri attenti al governo di numerosi
cavalli, damigelli che dalle cucine servivano succulenti asciolvere ai
padroni negli assegnati appartamenti, oltre numero molto di vassalli
intenti a servigi diversi dell'abadia, e grossa folla di chierici che
accompagnavano i vescovi. Tutti trovavano alcuna cosa a dire, alcun
comento a fare sulla povertà santa dei frati, ricevendo e comunicando
ordini, ghignazzando, motteggiando. Erano nell'abadia quarantatrè
vescovi, e dieci arcivescovi, Sergio duca di Napoli, Gisulfo II
principe di Salerno e i suoi fratelli, Sergio duca di Sorrento,
Riccardo principe di Capua con Giordano suo figlio e Rainulfo suo
fratello, Landolfo principe di Benevento, i conti di Marsi, e
moltissimi tra baroni normanni e longobardi di minor conto, e
valvassori, ed uomini liberi. Infine vi era papa Alessandro II con
codazzo pomposo di laici ed ecclesiastici. L'abate Desiderio aveva
ristaurata la chiesa, ed invitato il papa a consacrarla. Ed onde al
pontefice fosse resa maggiore onoranza, tutt'i sopra detti signori
vennero sollecitati di preghiere molte a recarsi al monistero. Così
che corte splendida al di là dei desiderii si ragunava intorno ad
Alessandro, di queste vanità mondane ghiotto; superbo nei modi;
svogliato nel condurre gli affari.

Nè per vero bisogna ingollarsi che papa Alessandro si togliesse al suo
dolce far niente di Roma solamente per compiacere l'abate. Aveva
sibbene riposto pensiero che in lui tutt'i dì teneva desto il suo
cancelliero e consigliere. Al quale pensiero non avrebbe mai potuto
dare altrimenti vigore, e forse vita, se non in occasione tanto
solenne. Che perciò, nell'accettare l'invito, destramente all'abate
insinuò di raccogliere a Montecasino quanto più di vescovi e baroni,
onde i semi della supremazia ecclesiastica sulla laicale, che tre
pontefici avevano di già principiato a spargere, si propagassero
ancora. Non perchè allora si tenessero malcontenti dei progressi di
questa idea, che per tre secoli formò base di dritto pubblico, ma
perchè ogni Assuero ha il suo Mardocheo, il quale toglie il sonno alle
vigili pupille, e la veneranza d'altrui neutralizza. Per modo che,
compiute le cerimonie, diversamente la somma delle cose del
mezzogiorno d'Italia il Papa, o il suo cancelliere, disegnava avviare,
e rinsaldire i legami d'investitura per violenza da papa Niccolò II
stabiliti. Aveva quindi benignamente accolto l'invito di Desiderio, e
lasciate le mollezze di Roma.

A Costantinopoli l'abate aveva fatto fondere le porte di bronzo
storiate, che ancora adesso sono alla chiesa; di Costantinopoli erano
venuti i fabbricatori di musaici, che bellissimi di fiori e figure
ornavano l'abside. I quali artefici, oltre dell'opere, istruirono
altresì taluni dei frati i quali fecero poscia vivere quest'arte in
Italia. Nè altri uomini periti nell'operare l'oro, l'argento, il
ferro, il bronzo, l'avorio, il vetro, il legno, il talco, ed il marmo
trasandò convocare di Francia, come altresì di Lamagna, d'Italia tutta
e di Grecia, onde bellissima, e riccamente ornata tornare quella
basilica. Alla cui splendidezza concorsero con donativi di oro e di
ricchi drappi molti principi oltremontani, e quasi tutti i baroni del
regno. Non mica già perchè d'uopo ne avesse l'abadia, potente e
doviziosa a pari delle migliori di Europa, ma perchè quel di
Montecasino era pellegrinaggio in voga a quei tempi, ed i nobili
palmieri giammai tornavano alle patrie loro senza largamente pagare il
perdono delle peccata. Sicchè maravigliosa a vedere quella mattina
poteva dirsi la chiesa, non solamente perchè sfolgorava di lampade
moltissime d'oro e d'argento e delle stoffe più sontuose che, tessendo
sete per colori diversi e lamine d'oro e ricami di pietre preziose,
allora si usassero; ma perchè il corteggio che formavano al papa tanti
vescovi e signori abbarbagliava. Ed abbarbagliava nel pieno senso
della parola, dappoichè i lumi bellamente risplendevano sugli
ghiazzerini lustrati d'acciaio e di argento, e nei pomposi rocchetti
di trine d'oro che adoperavano i vescovi. Il sole poi, che penetrava
per le finestre a vetri colorati, tappezzava le mura ed il lastrico di
marmo d'un profluvio d'iride quasi che tutto fosse incrostato di
pietre preziose. Mazzi di fiori in guastade d'oro ingombravano gli
altari ed impregnavano l'aria di un profumo indefinibile. Gli organi
mandavano fiotti di armonia.

In mezzo a quell'opulenza soavissima di colori, di luce e di odori, in
mezzo a quella calca rifulgente, però v'era bene un uomo vestito di
nero, il più schietto, il più modesto in apparenza, che da tutti gli
altri si distingueva, e che sembrava, fra tanto sfoggio di ricchezze e
di potenza, come il famoso schiavo che ricordava al trionfatore il _te
hominem esse memento_. Un'apparizione lugubre quell'uomo era quivi, un
essere freddo e severo da cui tutti dovevansi allontanare, che tutti
avevano a tenere in uggia; e pur nullameno l'abate veniva dimenticato,
venivano trascurati principi e duchi, negletto lo stesso Alessandro
II, e gli occhi pendevano da quel semplice frate per istudiarne la
cera abbassata, per leggere un'idea sola nel raro levar di quello
sguardo, per interpretare una sola di quelle rughe che la calva fronte
gli solcavano. Quell'uomo era il cancelliero del papa.

Verso l'ora di sesta la funzione cominciò. Nel silenzio più profondo,
nell'ordine meglio serbato, assistevano i circostanti, preparandosi
alla comunione ed al riconciliamento coi nemici. Ed e' veramente
pentiti allora, come disposti a rincrudelire negli odii e nelle avanie
il dì dopo, rallegravano l'animo del pontefice, il quale la sottile
sua politica vedeva profittare. Egli celebrava la messa; gran coro di
damigelli francesi e di eunuchi romani cantavano, accompagnati dal
suono dei tricordi e degli organi, cui toccavano maestri alemanni, i
più periti allora in quest'arte. Così tirossi innanzi fino
all'evangelo, cantato dall'arcivescovo di Bari. Allora il papa si
assise sopra ricco trono per dar cominciamento al baciamano; perocchè
allora la mano solamente al papa si baciava non il piede, come per la
prima volta vilmente praticò Lottario II, il 4 giugno 1133. Sicchè
dunque Alessandro fra l'arcivescovo di Bari e quello di Napoli, con in
testa il berretto frigio sormontato dalla corona, che papa Osmida pel
primo usò, ed in dosso magnifica cappa rossa, si prestava a quell'atto
primamente agli arcivescovi poi ai vescovi ed agli abati, per indi
ricevere i secolari.

Ma sino a costoro la cerimonia non giunge. Da poichè nel mentre
l'abate di Bansi scendeva i due gradini del soglio, ed il principe di
Benevento si appressava per profferire a sua volta quel segno di
divozione al sommo pontefice, un rumore si ode nell'atrio della
chiesa, e ben presto si vede entrare un cavaliere coperto tutto di
acciaro, col morione in testa a buffa calata che, aprendosi ardito
varco fra mezzo a tanti, passa i balaustri, ascende il soglio, e
giunto innanzi ad Alessandro II, sguaina il pugnale cui punta sul
destro cosciale come scettro, e la visiera si alza.

Stordito all'atto ardimentoso ognuno gli leva sopra lo sguardo. Ed
ebbero a vedere un giovane di poco meno di venti anni, le labbra
appena ombrate da biondi baffi, gli occhi turchini fieri e
scintillanti come quelli di un rettile, la bianca carnagione infoscata
dal sole, accese le gote. In quell'atteggiamento maestoso ed impavido
sembrava l'arcangelo che guarda il soglio di Dio. Egli si compiace un
istante a scorrere lentamente lo sguardo su quell'adunata, poi fissa
con piglio severo il pontefice e dice:

--Sire papa, tu sei il più codardo uomo di cristianità.

Il volto di Alessandro, da bianco addivenuto per paura, arroventa. Nel
tempo stesso cento destre cadono sui manichi dei pugnali, chè le spade
avean tutti lasciate fuori la porta, ed il principe di Benevento fa
qualche passo onde istrappare quel temerario di quel sito, e gittarlo
lontano. Ma lo sguardo altero del giovane l'arresta, e, dopo averlo
considerato un istante con aria di freddo disprezzo, si rivolta
novellamente ad Alessandro e soggiunge a voce forte e tranquilla:

--Sì, sire papa, tu sei lo più vigliacco uomo di cristianità. E voi,
baroni, non vi mostrereste per avventura meno dappochi, se segno
alcuno di veneranza veniste a fare a costui.

--Se non si tratta che di ciò! si udì una voce partir dal gruppo dei
baroni. Il cavaliere si volse da quel lato aspettando il seguito, ma
non udendo più che un fremito indistinto in mezzo all'assemblea,
continuò:

--Dio aveva chiamato il papa ad esser capo dei cristiani: in età più
avventurosa e' ne fu sempre la voce, il sostegno e l'esempio; ora e'
si fa oltraggiare dai più imbelli, si fa schernire dai suoi vassalli.
Papa Alessandro II è il trastullo di Roberto Guiscardo e del priore
Guiberto di Lacedonia.

Tutti aspettavansi grande esplosione dal pontefice, superbo e
puntiglioso uomo, contro colui che gli gittava sul volto così mortali
parole; pur nullameno diversamente avvenne. Dappoichè, se Alessandro
II avesse voluto imaginare mezzo più efficace che al suo intento lo
conducesse, meglio non avrebbe saputo. Anzi guardò in volto il suo
cancelliero, pensando non fosse stato per consiglio di lui che quella
scena quivi avvenisse. Ma vedendo che alfine anche costui radiava di
gioia amara, si rivolge al giovane e calmamente favella:

--Bene dite, cavaliere, che noi siamo vigliacchi, e che non lo sono
meno questi baroni, i quali, la nostra persona venerando, ci lasciano
insultare da altrui. Essi per vero dimenticarono che Iddio noi
rappresentiamo quaggiù e che ogni vituperio diretto al pontefice Iddio
colpisce sull'eterno suo soglio di zaffiro.

--Essi non dimenticarono nulla, ser papa « lo interruppe il giovane
» tratto il nobile giuramento che profferirono prendendo il cingolo di
milizia. La religione non si difende più: la donna vilipesa, l'orfano
spogliato non trova più braccio generoso che per essi si levi. E sta
bene, baroni; la paura di Guiscardo vi ha infiacchiti nell'anima. Ma
quelle offese, che per altrui oggi non vendicate, da un dì all'altro
sopra di voi ancora cadranno, sopra di voi sicuri in boria indolente.

--Ma, col vostro permesso, santo padre, chi fia codesto temerario che
ci viene a vilipendere di modi così villani? » dimanda il principe di
Salerno, traendosi innanzi sino al soglio del papa.

Il giovane stava per rispondere, Alessandro gli fa cenno della mano e
dice:

--Chi, messer principe? un inviato del Signore sicuramente. Egli ci ha
chiamati vili perchè lasciamo conculcare la santa dignità, di cui noi,
servo dei servi di Dio, fummo investiti. Egli si è apposto. Noi
abbiamo scagliati gli anatemi contro codesto ribelle priore e contro
codesto Guiscardo; abbiamo pianto su i mali della Chiesa ed invocata
la forza laicale. I vigliacchi dunque siete voi, o baroni, che ci
vedete spogliare, ci vedete offendere, e non curate delle nostre
preghiere. Sa Iddio se questa amara parola di codardi noi vi avremmo
mai fatta udire; ma poichè dessa uscì di bocca ad un generoso, se la
tolga cui spetta, che noi la nostra missione compimmo fin dove la
carità ci consigliava.

--Morte al priore, morte a Guiscardo « scoppiarono allora unanimi
quanti erano nella chiesa, infiammati » vendetta, vendetta!

--Ah! « sclama il giovane sogghignando e rimettendo il pugnale nella
vagina » levate pure la voce, levatela forte, messeri, chè Roberto è
lontano, assai lontano per udirvi, il priore troppo immerso fra i
bagordi delle sue concubine. Ma guardatevi bene, baroni, studiate
attentamente di non inchinarli abbastanza umilmente quando essi vi
saranno da presso, chè le incaute parole di questa mattina sono
sentenza di morte per vassalli i quali ai loro padroni forfanno.

--Se questo ragazzo ha il braccio libero come ha lo scilinguagnolo,
eh! eh!--mormora di nuovo una voce dal gruppo dei baroni.

--Noi non siamo vassalli di chicchessia, arrogante baccelliere « grida
a sua volta il principe di Capua » nè di alcuno temiamo dopo il
Signore. Il duca Roberto Guiscardo, il valvassore di Lacedonia, non ci
oltraggiarono mai direttamente perchè noi, con l'aiuto di Dio,
sappiamo bene come le offese si vendicano, e speriamo nell'arcangelo
del Gargano ed in questo barone s. Benedetto di mostrarlo un poco
anche a voi, se pur siete cavaliere. Il solo torto che abbiamo a
rimproverarci d'innanzi a Dio gli è di non aver prestato mano al santo
pontefice nelle sue querele con questi due baroni. Ebbene, per quelle
sante reliquie dunque giuriamo che non saranno passati sei mesi...

--Col vostro beneplacito, principe « s'interpone Gisulfo » arrestatevi:
non profferite giuramento che forse un giorno vorreste non aver fatto.
Io non difendo il duca Roberto perchè mi viene cognato, nè il priore
di Lacedonia perchè mi è amico. Ma le nostre leggi ordinano di non
condannare alcuno, che prima non fosse stato citato e giudicato. Io
quindi mi appello a voi, santo padre, di aprire un _placito_, dove le
accuse contro costoro fossero più formalmente profferte e da loro pari
discusse. Poi, se la sentenza che profferiranno li condannerà, io che
adesso per loro campione mi constituisco, io il primo mi adopererò
onde eseguirla. Ho detto, e la parola di un principe valga per voi più
di quella di codestui, che se non è matto, è bene insolente e merita
castigo.

--Uhm! meritare l'è uno, darglielo è un altro; ci badi messere,
susurra taluno di mezzo all'adunanza.

--Ben diceste, nostro amato figliuolo « alquanto acerbo risponde il
pontefice » prudente consiglio fu quello di vostra mercede, e per
avventura assai cauto. Noi dunque apriamo questo placito qui. Lo
presederà per noi il nostro cancelliero; i giudici saranno questi
baroni; gli accusatori, gli offesi non pochi che qui si trovano per
farci riverenza. La giustizia favelli nei vostri cuori, vi illumini
Iddio. Ricordatevi però che i torti degli uomini si possono obliare e
perdonare talvolta, ma quelli della Chiesa non mai, perchè contro di
lei _portæ inferi non prevalebunt_. A domani.

--A domani « replica il principe di Capua ritirandosi » e riposate pure
tranquillo, santo padre, chè il vostro dolore ci si scolpisce nel
cuore. Ricominciate le cerimonie.

--Aspettate « interrompe il giovane facendo cenno al papa di sedere » Il
principe Gisulfo da uomo prudente si dichiarò campione del marito di
sua sorella e dell'audace priore: il principe Riccardo, da bravo
cristiano, si arrestò in mezzo ad uno spavaldo di giuramento, che in
cuore suo sapeva non poter compire giammai: i duchi di Sorrento e di
Napoli, assorti nelle beate visioni dei loro feudi incantati, pensano
a tutelarvisi dentro come le lumache nel guscio: il principe di
Benevento medita la morte di languore, in cui, unitamente al suo
Stato, si consuma: vescovi ed arcivescovi ardono di ritornare agli
ozii voluttuosi dei loro castelli ed ordinare cacce e processioni onde
viver lieti e tranquilli. Ma voi, ser papa, uditemi bene, voi direte
al vostro monsignor Gesù Cristo, che fra qualche minuto chiamerete
nell'ostia, voi gli direte che avete udito giurare a Baccelardo, duca
di Puglia, spogliato dei suoi Stati dal suo zio Roberto Guiscardo, che
allora e' perdonerà a costui, quando quelle sante reliquie di Macario
e di Benedetto prenderanno di nuovo forma umana, e diranno: Dio non è!
Dio non è! Voi, sire papa e baroni, siatemi testimoni del giuramento
che ho fatto.

E sì dicendo il giovane proscritto scendeva dal soglio del pontefice,
attraversava la chiesa con la medesima maestà con cui era entrato,
montava a cavallo e partiva dal monistero. E quei signori, lungi dal
fare onta alcuna al diseredato, lo compiansero e molti gli giurarono
protezione. Il cancelliero di Alessandro dal suo primo apparire gli
aveva fissato addosso l'immobile sguardo, quasi avesse voluto ben bene
comprenderlo; poi aveva abbassato il capo, nè più fatto atto che il
suo pensamento rivelasse, nè detto motto.



II

                MAF. Madame, je suis Maffio Orsini frère du
                    Duc de Gravina que vos sbires ont étranglé
                    la nuit pendant qu'il dormait.

                IEP. Madame, je suis Ieppo Liveretto neveu de
                    Liverotto Vitelli, que vous avez fait poignarder
                    dans les caves du Vatican.

                OLOF. Madame, je m'appelle Oloferno Vitellozzo
                    neveu de Iago d'Appiani, que vous avez
                    empoisonné dans une fête après lui avoir
                    traîtreusement derobé sa bonne citadelle
                    seigneurial de Piombino.

                DON APOS. Madame, vous avez mis à mort sur
                    l'échafaud Don Francisco Gazzella.......
                    Je suis Don Apostolo Gazzella.

                            Hugo. _Lucrèce Borgia_.


Il domattina, all'ora di terza, nella vasta sala dove si ragunavano i
monaci a capitolo, tutto era apparecchiato per l'augusto _mallo_, che
il papa, come capo della cristianità, si lusingava poter tenere
egualmente che l'imperatore d'occidente. Tre disposizioni preliminari
il principe Gisulfo aveva creduto provocare dal cancellier-presidente
onde meglio si fosse sicuri della giustizia che nel _placito_ si
sarebbe serbata.

Primamente, che oltre le dignità ecclesiastiche fino a quella di
priore, ed alle laicali fino a quella di castellano o valvassore, non
si permetteva a chicchessia intervenire all'adunata se non fosse per
particolarmente far atto di accusa o di difesa contro i due
giudicabili; da poichè gli uomini della condizione di Roberto
Guiscardo e del priore barone di Lacedonia dovevano aspettarsi di
essere giudicati da loro pari.

Secondo, che i membri del _placito_ vi si potessero recare a
piacimento scoverti o imbacuccati nei loro cappucci; onde, sia che
accusassero, sia che difendessero, niuna ragione d'interesse
individuale per odio o benevolenza, e nessun pungolo di tema o di
gloria, l'inspirassero; le quali accuse e difese potevano profferire o
con la voce con le scritte.

Infine, che ciascheduno metterebbe in un'urna il suo voto, designando
con dado bianco l'assoluzione, con dado nero la condanna, giusta il
codice longobardo in voga anche presso i Normanni.

Posti questi tre articoli, il giudizio si dispose. Giudizio arbitrario
ed illegale, perchè gli _sculdaschi_, ossia i giudici, giudicavano ed
accusavano nel tempo stesso, ed i rei niuno aveva chiamati alla
difesa. Ma perchè il principe Gisulfo se ne era costituito campione,
avvegnachè il principe non potesse dirsi assai istruito dei fatti, nè
vigoroso del pari nell'intelletto come nel braccio; il papa si
credette autorizzato ad aprir questo _placito_. Egli operava così
perchè Roberto Guiscardo, ricevuta investitura dei suoi Stati da
Niccolò II si era dichiarato vassallo della Chiesa, in egual modo che
il priore lo era per lo spirituale; perchè egli usava del diritto di
difendere gli oppressi contro i potenti, e come capo dei cristiani
chiamare alla ragione i feudatari, che a niuno potere inchinavansi
quando gl'imperatori tanto distavano dalle loro provincie; perchè la
grande idea di sottrarre non solo gli ecclesiastici al dominio
laicale, ma questo sottomettere a quello, faceva un passo di più,
giudicando così possenti baroni; perchè infine a tal punto lo aveva
tirato dei capelli il suo cancelliere, ed un simulacro di giustizia
appariva nel loro comportarsi. Cosichè non stettero a pensarci sopra
neppur tanto, ed il _placito_ s'intimò.

A terza dunque, come si è detto, tutti trovavansi pronti nella grande
sala del capitolo. Le porte del monistero si chiusero, onde niuno di
fuori venisse a sturbarli. Innanzi ad un grande tavolo di legno di
quercia sedeva il cancelliero di papa Alessandro, con la testa
scoverta, severo e sereno. Presso di lui stava un'urna per raccogliere
le tessere, il codice longobardo, ed il calamaio con pergamene. A
fianco di lui il principe Gisulfo, scoverto del pari, con una manopola
di ferro innanzi. Negli stalli del capitolo ed in altri seggi
appositamente quivi allogati sedevano gli ecclesiastici ed i baroni.
Alcuni ravviluppati in grandi cappe co' becchetti tirati infino agli
occhi, altri con celate in testa e visiere calate; tal che per sola
congettura alcun di loro si poteva ravvisare. Il lume delle finestre
(a vetro colorato, _et gypso_, talco, come dice Leone Ostiense,
bellamente lavorate), era stato temperato con tendine di seta. Tutto
inspirava solennità luttuosa.

Quando furono accolti, le porte serraronsi e vi si apposero a guardia
quattro labardieri. Il cancelliere allora si ginocchiò per invocare
lumi di giustizia dallo Spirito Santo. Gli altri baroni ne seguirono
l'esempio. Ciascuno pregò in segreto per un istante, poi tutti
silenziosi si riassisero ed il cancelliero volgendosi verso uno degli
stalli della destra, con maestà disse:

--Campione della Chiesa, la parola è a voi.

E lento lento da uno di que' stalli si alza come un'ombra un uomo
strettamente involto nel mantello e tirasi in mezzo alla sala.
Qualcuno pensò che colui fosse l'abate Desiderio in persona, altri il
celebre Amato. Noi propendiamo pel primo. Egli dunque stava per
favellare, allorchè gli sorge da canto un cavaliere chiuso nell'elmo e
parla:

--Con la vostra sopportazione, bel sere, ancora un momento. Le querele
del papa giungeranno a migliore proposito dopo ciò che io dirò.

Il campione della Chiesa fa con la testa cenno di assentire, e si
ritragge a sedere. L'altro si alza la vantaglia, sì che ognuno ravvisa
Baccelardo, e comincia:

--Io accenno a cose, baroni, che le vostre signorie già conoscono. Gli
è però bene che abbiano la cortesia di rammentarsele. Nel cominciar di
questo secolo, quaranta pellegrini sopra galee amalfitane, tornando di
Terra Santa, approdavano a Salerno nel momento proprio che una
flottiglia di Saraceni appariva nella rada e si cacciava nel porto,
chiedendo forte riscatto. Il principe, per farli desistere dalle
avanie, promette, ed i suoi vassalli comincia a tribolare per
raccogliere la somma. I quaranta palmieri, maravigliati di tanta
obbrobriosa condotta, dimandano armi e cavalli; e nel bel delle
crapole e dell'orgie, in che guazzavano i Saraceni, vi dan dentro e ne
fanno poderoso macello. Il rimanente ottiene appena in ventura risalir
sulle navi e fuggire. Quei palmieri erano normanni. Guaimaro li colma
di doni e di grazie, e li solletica con promesse di onoranze perchè
restassero nella sua corte. Coloro però, caldi di riveder la patria
loro, gli rispondono: « che non potevano rimanere avendo da molti anni
peregrinato, che speravano visitare ancora i santuari di monte Gargano
e di Montecasino, e risalutare i tetti paterni, promettengli l'invio
di altri loro compagni. »

Il principe, confortato di tali promesse, li accomiata carichi di
molti e bei regali. Quei Normanni giungono alla patria. I concittadini
loro stupefatti de' ricchi presenti, spronati dal racconto de'
splendori del cielo d'Italia, si pongono sotto la condotta di Osmondo
Drengotto, ed uniti fra fratelli e nipoti, in pressochè cento, vengono
in Italia.

Io non ricorderò a voi testimoni, parte, vittime dei Normanni, i loro
fatti, le loro conquiste, coma e quando venissero i primi figli di
Tancredi d'Altavilla, Guglielmo Braccio-di-ferro, Drogone ed Umfredo,
nè quali servigi e' rendessero ai principi longobardi e quali
ricompense ne togliessero, nè come infine, dopo largo pugnare,
occupassero vasto paese, e Guglielmo Braccio-di-ferro fosse scelto a
Matera capo dei Normanni e nominato conte di Puglia....

--Sta bene, sta bene, sclama il principe Gisulfo, sappiamo ciò, ser
cavaliere; siateci cortese di venire ai vostri propositi.

--Ci siamo, monsignore, continua Baccelardo. I soldati longobardi
adunque, i Normanni, gl'Italiani, i loro capi, il popolo, la
maestranza, tutti si uniscono, e a suono di timpani e di oricalchi,
levato Guglielmo sopra uno scudo, gli affidano il gonfalone della loro
nuova terra, gli danno l'elmo sormontato da cerchio d'oro e la rotella
insignita della divisa medesima in campo di argento, e lo proclamano
conte di Puglia--riconoscendolo per loro primo condottiero e signore.
Indi recandosi tutti ai dieta a Melfi, si dividono il conquisto. Non
stette guari però e Guglielmo muore a Venosa.

--Da scomunicato.

--Da cristiano e da guerriero, senza rimorsi e senza paura, grida
Baccelardo. Poi continua:

--I Normanni, accoltisi di nuovo a dieta, eleggono conte suo fratello
Drogone. In quel tomo di tempo vennero gli altri figliuoli di Tancredi
d'Altavilla. Umfredo padre mio, e maggiore tra i figli del secondo
letto di Tancredi, fu creato conte. Roberto, che poscia per sua
scaltrezza e perfidia addimandarono Guiscardo, fu mandato a sostenersi
nella fortezza di San Marco in Calabria.

--E di chi era quel paese, ser cavaliere, se Dio vi aiuta? domanda una
voce con accento commosso.

--Di Dio e di chi lo prendeva, riprende Baccelardo, perochè erano
terre occupate da vili, ed i vili non meritano una patria.

« Enrico III intanto scendeva in Italia tra per assicurarsi la
dipendenza dei Normanni, che conquistavano paese nelle provincie
dell'impero, tra per mettere freno alle ribalderie dei romani
pontefici che tre in una volta regnavano dentro Roma. Composte le cose
dei papi, eleggendone un quarto, Enrico cavalca sopra Capua. Drogone
conte di Puglia e Rainulfo conte di Aversa gli fanno quivi riverenza,
e lo donano di cavalli e danari. In ricambio hanno investitura del
paese conquistato sulle terre imperiali.

--Quella del papa non bastava dunque loro, domanda balbettando un
membro dell'assemblea.

--Esse avevan tutte lo stesso valore, risponde Baccelardo. La
investitura vera la tenevano dalle loro spade. Infrattanto i Pugliesi
ribellati uccidevano molti Normanni a tradimento e facevano
assassinare l'istesso conte Drogone dal suo compare Riso, mentre
entrava nella chiesa di Montoglio ad udir messa. Il conte Umfredo,
succeduto a Drogone, assedia e prende Montoglio e fa morire gli
assassini di suo fratello quivi rifugiati.

--Adesso, ser cavaliere « l'interrompe il campione della Chiesa
» abbiate la cortesia di cedere a me la parola. Questo punto del
racconto vostro gli è bene che fosse rammentato da me.

--Vi ascolto « risponde Baccelardo e piegando le braccia si asside al
seggio da cui il campione della Chiesa erasi levato. E quegli dice:

--L'ordine di Umfredo di governare i Pugliesi come roba da rubello fu
troppo appuntino seguito. I beni della Chiesa, da costoro non
rispettati; ed i santuarii violati e messi a ruba, i sacri arredi
addicendo ad usi profani; le persone dei sacerdoti taglieggiate, le
sante reliquie rubate e vendute come buoi tolti ad aldiani; i vassalli
angariati nelle robe e nella vita, augumentati _foderi_ e _livelli_;
gli uomini di condizione libera manomessi; le donne vituperate fino
nei santi asili dei chiostri; in una parola la più pesante mano che la
guerra potesse aggravare sugl'infedeli, i Normanni calcavano sui
cristiani di Puglia. Onde avvenne che di tante crudeltà le città e le
chiese si mandassero a dolere col papa perchè, mercè sua, fussero
sollevate.

--Avrebbero meglio fatto di sollevarsi, sclamava una voce; chiamare un
aiuto gli era chiamare un nuovo padrone.

--Il papa è padre più che padrone, continua il campione della Chiesa.
Infatti Leone IX, da quel santo che egli era....

--Calate, calate, interrompe una voce, santi di quel conio non vanno
agli altari.

--Da quel santo che era, insiste il campione, Leone tenne qualche
motto ai principi longobardi. Ma conoscendo questi baroni come i
Normanni fossero ostinati nel proposito, e tenaci nelle loro
risoluzioni, persuasero il papa che senza niente affatto avvilirsi a
pregarli di carità verso i vinti, si volgesse all'imperatore Enrico.

--Il consiglio era eccellente, dice un membro dell'assemblea, perchè
l'imperatore, mal doveva tollerare che nei suoi Stati si andasse
levando gigantesca una dominazione novella, di uomini non mai sazi di
guerre nè mai pieghevoli.

--Proprio così, ser cavaliere, soggiunse il campione. Ond'è che Leone
si recò in Germania, ed Iddio fe' trovar varco alle sue parole nel
cuore di Enrico _il nero_, il quale con settecento gendarmi alemanni
lo rimandò in Italia.

--Così, li avesse mandati all'inferno! mormorava taluno; quei
saccomanni vennero a desolare l'Italia.

--E non furono i soli, replica Baccelardo perchè in Italia Leone fece
altre cerne di truppa ed accozzò esercito numeroso, alla cui testa si
mise egli in persona da condottiero.

--Sì; Leone si mise alla loro testa per addolcire i mali della guerra,
continua il campione. Però, udendo i Normanni di quella tolta di laici
e chierici che il papa loro voltava contro, gli mandano ambasciadori,
simulando pentimento e voglia di soddisfarlo all'intutto. Ma gli
oratori normanni non sanno di tanto mascherarsi da accecare Leone.
Talchè il sant'uomo, inasprito dall'insolenza di quei venturieri, che
piccoli della persona e segaligni si davano in volta boriosi per
conquistare il mondo, cavalca su quel di Civitade in Capitanata il 18
giugno 1053. I Normanni ridotti allo stremo di viveri e disperati per
la troppa disuguaglianza di forze, si trovano costretti accettare
l'abbattimento.

« Sire Iddio » sclama allora un cavaliere « giuro ammazzarti di mia mano
dugento Saraceni, se ci dai di mandare al diavolo questi bricconi di
papalini ».

--E l'uomo che così giurava, soggiunge Baccelardo, era Roberto
Guiscardo. E gli altri a loro volta giurarono:

« Regina Maria di Lacedonia, facciamo voto di darti tante messe nel tuo
priorato, quanti di questi mariuoli del papa ognuno di noi ucciderà ».

--Gli è proprio così, ser cavaliere, » disse, continuando, il campione
della Chiesa. « Il conte Umfredo comandava i Normanni. Papa Leone
celebra la messa nel mezzo dei suoi alloggiamenti, dà una grossa
benedizione alla sua truppa, e la schiera nella pianura, separata dai
Normanni per non difficile colle. Questi lo accolgono primi. Ed a vero
dire forse la pugna si sarebbe risoluta per quei della Chiesa, se quel
dannato di Guiscardo non avesse fatto suonare le trombe, e non si
fosse precipitato sugli Svevi con truppa fresca e disperata.
Lungamente si martellano di colpi, intrepidi gli uni, feroci gli
altri. Infine gli Alemanni cominciano a piegare, sono rotti e si
volgono alla fuga. Roberto gavazzando nel sangue come tigre, li segue
tagliandoli ai garretti, li uccide tutti finchè uno solo non ne resta.
A quello spettacolo terribile Leone IX inorridito si dà a fuggire
ancor egli, e cerca asilo nella fortezza di Civitade. I Normanni ve lo
assediano ed ai cittadini propongono o la resa o andar tagliati a
pezzi.

--Sì, dice Baccelardo interrompendo, e chi questo supplizio loro
minacciava era Guiscardo. Che perciò quei poltroni spaventati
cacciarono il papa fuori le mura della fortezza. Un cavaliere allora
si accostò, e prendendo le redini della sua bianca mula:

« Ser papa » gli disse sorridendo « siete prigione ».

--Quel cavaliere era ancora Roberto.

--Era Roberto, » continua il campione della Chiesa; « proprio lui, egli
sempre. I Normanni, in apparenza rispettosi, punsero il pontefice di
amari motteggi. Gli occhi pregni di lagrime, pallidissima la faccia,
Leone venia tirato dalla briglia da Guiscardo ed attraversava i ranghi
dei soldati, i quali ebri di tanta bella ed inaspettata vittoria, gli
si ginocchiavano schernevolmente sul passaggio per riceverne la
benedizione.

--Ed avrebbero meglio ricevuti dei bisanti, dei fiaschi di Orvieto e
delle lacche di maiale! interrompe una voce chioccia dal fondo della
sala.

--Può ciò essere ancora, continua il campione: eran tanto scomunicati!
Il conte Umfredo però prese il santo padre sotto la sua custodia: nè
il lasciò a libertà se non carpiti accordi che pienamente lo
soddisfacessero. Il papa ridotto a tanto stremo mal volente o
volentieri condiscese a tutto, tornò libero e poco stante morì a Roma
di cordoglio per gli oltraggi ricevuti. E l'uomo che tanta sventura
alla cristianità cagionava era sempre Roberto.

--Sventura poi non era tanta, mormorò un cavaliere dell'adunanza: quel
Leone fu una mala ventura.

--La parola è a me adesso « l'interruppe il principe Gisulfo alzandosi ».

--Con vostra licenza, monsignore, ancora due motti « pregò Baccelardo
» indi giustificherete a vostro piacimento, se potrete, la condotta di
vostro cognato.

Gisulfo si riassise, e quegli continuò:

--Leone IX, così vinto, investì il conte Umfredo padre mio delle terre
di Puglia, di Calabria e di quanto mai avesse saputo acquistare sui
Saraceni di Sicilia. Ed i Greci perdettero ancora Trani, Venosa,
Acerenza, Otranto e Troia.

--Piano « l'interruppe il campione della Chiesa » Troia era stata donata
al pontefice da Enrico II. Papa Niccolò II si lamentò di questa
occupazione dei beni della Chiesa, e Roberto promise ritornarla. Troia
non è stata restituita più alla santa sede. Continuate.

--Ridotta la Puglia « proseguì il cavaliero » tutto l'animo del conte
Umfredo si rivolge alle Calabrie. Vi manda Roberto con molta mano di
truppa e di scorte. Cosenza, Bisignano, Malvito, Gerace e Martorano
sono prese. Poco di poi, in Puglia il conte Umfredo muore. Dal suo
letto supremo chiama Roberto, facendo cenno della mano ad un frate,
che apprestavagli la comunione, di attendere ancora un istante.

« Fratello caro » a Roberto egli parlò « quanto amore io ti abbia posto
tu lo sai. Io di Normandia ti chiamai in questo paese, io sempre ti
tenni il più prode dei miei guerrieri, il più saggio nei miei
consigli; e le missioni più perigliose affidai sempre a te. Ora muoio
qui, lontano dalla nostra patria, in questa patria novella che mi ha
conquistata la spada. Il libero volere dei conti normanni mi elesse a
loro duce, proclamandomi conte di Puglia: l'imperatore Enrico III mi
investì del paese da noi conquistato: il papa rese santi i nostri
acquisti dichiarandoli tutelati dalla Chiesa, dandomene anch'esso
investitura. Tu sai che Drogone succedette a Guglielmo, perchè senza
prole, ed io a Drogone, perchè senza figli ancor esso. Ora io ho
figliuoli. Per le nostre patrie costituzioni tu sai ancora che gli
Stati del padre eredita il figlio. Ti raccomando dunque il mio
figliuolo Baccelardo. Giurami, Roberto, giura al tuo fratel moribondo
che tu sarai il padre di Baccelardo, che gli conserverai i conquisti
di che i Normanni mi fecero capo, che lo addestrerai al governo,
giuramelo sui piedi di questo Cristo che abbraccio, su quest'ostia che
deve comunicarmi ».

E Roberto, stendendo una mano sull'ostia e prendendo dall'altra il
crocifisso, fra molte lagrime, cadendo ai piedi del letto del
fratello, gridò:

« Giuro su questa santa ostia e su questo Cristo che il tuo volere sarà
fatto, fratel mio caro ».

» Umfredo radiò di gioia negli occhi, assunse l'ostia, e morì.

» Ora, baroni, Roberto non ha mantenuto il giuramento, e Baccelardo, il
figliuolo del caro fratello suo, va ramingando di terra in terra,
sprovvisto di ogni cosa, spogliato dei suoi Stati, perseguitato come
il lupo, dannato a terribile morte da suo zio. Cotesto zio è Roberto
Guiscardo. Giudicatelo.

--Uhm! giudicatelo! mormora l'abbate di Farfa dal fondo del suo
cappuccio: e chi si incarica di eseguire la sentenza?

--Se altri manca, Dio! sclama il cancelliero del papa rizzandosi sul
suo seggio.

--Proseguite le vostre accuse, signori « torvo e pensoso dice a sua
volta Gisulfo » io parlerò per ultimo.

Allora dal fondo della gran sala sorge un altro cavaliere che
tirandosi fino innanzi della tavola del cancelliero favella:

--Ed io accuso Roberto Guiscardo come spergiuro di altra promessa.

--Egli ha promesso di non tenerne mai una! mormora una voce stridula
dal fondo della sala.

--Pare che la sia proprio così, soggiunge il cavaliero che aveva
cominciato a parlare. Infatti udite questa. Sotto la fortezza di
Malvito i Normanni avevano consumato lungo tempo in assedio, senza
niuna speranza di prenderla. Una mattina un araldo d'armi, preceduto
da banderaio con bianco pennoncello e due trombettieri, si presenta
avanti alle porte e dimanda esser introdotto. I sergenti vanno a
prender l'ordine, e non passa guari, si apre una porta di soccorso per
fare entrare l'araldo. Il sire di Malvito, in piedi nel vestibulo del
suo castello, lo aspetta, tutto pronto a ricevere i patti della tolta
dell'assedio. L'araldo invece gli dice:

« Messer Asclettino, il mio nobile signore Roberto Guiscardo conte di
Puglia vi manda salute e prosperità. Nel tempo medesimo prega la
cortesia vostra che vogliate concedere sepoltura nella vostra chiesa
al suo compare Brado, morto la notte scorsa di ferita al ventre, onde
come scomunicato non venga sotterrato in rasa campagna. Che perciò
egli in nome di Dio promette che domani toglierà il campo dalle mura e
sulle reliquie dei santi ve ne fa sacramento.

« Bene sta, risponde Asclettino; il sire di Malvito che non teme i
Normanni vivi non avrà paura degli estinti, nè incrudelirà verso i
morti. Torna dunque al conte Roberto e digli: che noi gli diamo parola
di cavaliere, col favore di Gesù Cristo, di non aprir mai le porte
nostre ai soldati normanni finchè ci resteranno polpe alle braccia e
cuoi a' calzari; ma che non le chiuderemo giammai ai loro
cadaveri--dovessero pure cercarvi ricovero tutti quanti sono.

« Mille mercè, sire di Malvito, riprende l'araldo, ed Iddio
misericordioso non ascolti le vostre parole.

La sera infatti il medesimo araldo si presentava alle porte per
dimandare passo al funebre corteggio di compar Brado, giusta la
permissione del sire di Malvito. Sotto una bara coverta da ampio
drappo giaceva il cadavere: quattro cavalieri, armati solamente delle
spade, ne sostenevano i lembi, quattro frati se la recavano sul dorso
ed altri sei frati con ceri accesi venivano dietro cantando _misereri_
e _Deprofundis_.

--Che lusso di frati! Ne avevano dunque delle caneve nel campo? grida
l'uno.

--Più che di maiali per disfamarsene al desco--replica un altro.

--Voi credete, cavalieri? riprende il primo interlocutore. Ascoltate
allora. Questo manipolo di frati tirò dritto alla chiesa.
Fervorosamente tutti pregarono agli altari, poi supplicarono voler
passare la notte in preghiere per l'anima del defunto, chè al domani
gli avrebbero cantato messa, l'avrebbero sepolto, e sarebbero tornati
al campo per dimandare a Roberto di mantenere la sua parola, avendo
quel di Malvito mantenuta la sua. Asclettino, che era uomo di cuore,
non rifiutò la preghiera, e nel sagrato fece loro recare molti bei
fiaschi di vino e pasticci e camangiari che avevan proprio a farci uno
stravizzo.

--E null'altro che questo? Capperi! i frati di Malvito si danno bene
altre leccornie con le fanciulle del contado--sclama un capperuccio
del sinedrio.

--Non dico mica no, continua il primo interlocutore: ma colà si
trattava di mortorio, credeva il sire di Malvito. Se non che, nel
cuore della notte, quando i cittadini dormivano tutti, i Normanni
scoperchiarono la bara e misero fuori compare Brado vegeto e fresco
come i canonici di Cosenza, e tolsero dal fondo della cassa molte
belle armi, perchè di sotto le cappe e' già vestivano cotte di maglia.

--Oh birbi, birbi, birbi! sclama qualcuno.

--Spogliansi perciò degli abiti da frati, continua il primo, danno di
piglio ad azze, spade e picozze, e queti queti se ne vengono alle
porte. Quivi si gittano su gli arcadori di guardia e gridando: viva
Guiscardo e s. Gotifrido! li scannano tutti. Indi aprono le porte a
quei e fuori già in pronto, e mentre coloro della fortezza si levavano
a tumulto, sapendo dentro il nemico, già i Normanni occupavano i posti
delle mura, e s'impadronivano del sire di Malvito.

« Voi siete uno spergiuro, grida costui a Roberto quando gli fu menato
d'innanzi, siete un disleal cavaliero.

« Mai no, risponde Guiscardo; sire di Malvito, vi giurai che dimani
avrei tolto il campo dalle mura, vi ho mantenuta la parola questa
notte; trasferito l'ho qui dentro.

Ora, baroni, giudicate voi se Roberto non spergiurò.

--Io non me 'l credo, mormorò una cocolla, che ben poteva essere
l'abate di Farfa, che i monaci addimandavano il santo, i vassalli il
maledetto.

--Vi è ancora qualcuno che ha querele da produrre? dimandò il principe
Gisulfo volgendosi all'adunanza.

Ed un altro cavaliero traendosi ancora innanzi favellò:

--Io. Io che vengo ad accusare Guiscardo pel più villano ed infame di
quanti mai abbian preso cingolo di milizia; avvegnachè le mie parole,
monsignore, dovessero toccarvi più dappresso nel cuore.

--Messere, grida Gisulfo, rammentatevi che l'insolenza delle parole
sconviene a cavaliere, se pure cavaliere voi siete, e che noi non
sapremo perdonare tale inverecondia come non la sopportiamo.

--Sta bene, risponde l'altro; uditemi adesso, poi se vi piacerà
regolar meco i vostri conti, non isdegnerò sollevare una maschera che
per decoro non per paura mi tengo sul viso.

--Proseguite.

--Lode a Dio! Sappiate dunque che fra coloro i quali seguirono Roberto
all'invasione di Calabria era un tal Giselberto Squassapostierle.
Cavaliere senza macchia, aveva sposata una nipote di Tancredi
d'Altavilla. Egli era primo alle scalate, ultimo nelle ritratte,
avveduto nei consigli, disinteressato nel partaggio delle spoglie, ed
amato e venerato dai soldati, i quali, alla presa di Gerace, gli
dettero sopranome di Squassapostierle, perchè di un colpo di mazza
sgangherò una porta di soccorso. Questo vecchio ed onorando cavaliero
aveva una figliuola, una perla di figliuola, cui la madre mise a luce
e morì. Il padre se l'aveva allevata sul Pavese e l'amava quanto non
si può dire. Quella creatura era bella sovranamente e di una soavità
di carattere che ammaliava ogni cuore. Sicchè il padre se la recava
ognora da presso, custodita sotto il pennoncello della sua lancia, e
della sua rotella. Ed era venuta su di quattordici anni quando si
occupò Cariati. Roberto investì barone di quella piazza Giselberto, e
gli dimandò la mano di Alberada, per la quale da più di un anno
bruciava di fiamma forte e vereconda. Nè per vero dire ad Alberada
tornava spiacevole Roberto, il quale nelle rare veglie della sera
l'affascinava del suo sguardo ceruleo, e del rispettoso profferirle di
ossequi. E poi i suoi fatti da prode facevano balzare il cuore d'ogni
dama. Giselberto, che si sentiva invecchiare e forte piacevasi della
caccia, gli dimandò ancora sei mesi di tempo da sperimentar libero il
volere della figliuola; perocchè egli avrebbesi tolto piuttosto
nemicarsi lui che contradire la volontà di Alberada. Roberto vi si
acquetò malvolentieri, tardandogli godere della gioia di sì avvenente
e cortese sposa; ma il barone Giselberto fu irremovibile. Si attesero
dunque i sei mesi, a capo dei quali il barone si chiamò la figliuola
nella sua stanza e le disse:

« Alberada, amor mio, oggi tu devi passare a marito e separarti da tuo
padre, che alle tue nozze non sopravivrà di otto giorni. Parlami
dunque schietto, proprio come parlassi a tua madre o alla madonna, ami
tu Roberto Guiscardo? Perchè se per nulla e' ti riuscisse malgradito,
giuro pel santo sepolcro, che non ho avuta la sorte di visitare, che
toglierò la mia parola a Guiscardo e ti farò sposa di colui che più
ami--fosse pure il chierico di San Nicodemo.

E la fanciulla cogli occhi velati di lagrime:

« Sì, padre mio, io l'amo.

« Bene sta dunque, figliuola, risponde il barone, torna alle stanze
tue, chè fra poco mi vedrai.

E facendosi venire innanzi Roberto, Giselberto gli dice:

« Senti, Roberto, se tu mi avessi chiesta l'anima mia, io avrei voltate
le spalle al mio angelo custode e te l'avrei data senza patti: ma tu
mi hai domandata Alberada, gli è bene dunque che mi stii attento ad
ascoltare. Roberto si assise incrociando le braccia sul petto, l'altro
continuò:

In tante battaglie ho sparso il sangue per te, messer conte, e quando
quel sangue se ne andava al diavolo giù per le vene io zuffolava
un'aria di caccia. Ora tu mi vieni a dimandare più che il mio sangue,
più che la mia vita, tu mi vieni a dimandare la gioia mia, il mio
conforto, la mia preghiera, la mia speranza; l'angelo mio, la mia
madonna--tutto insomma, tutto quanto può rendere deliziosa la vita di
quaggiù, lieta quella del paradiso, e tutto questo per me è Alberada.
Bene dunque, figliuolo mio, poggiati la mano sul cuore ed interrogalo.
Se quello ti dice che malvagia cosa ell'è torre tanta beatitudine ad
un vecchio e deserto cavaliere senza punto di amore per colei che lo
bea, e tu metti la tua nella mia mano, e dimmi: Giselberto, tienti la
figlia tua, io non sono quel tanto che tu puoi sperare per lei. Ma se
codesto cuore ti dice che l'ami, e che l'amerai sempre, e che la
saprai far felice, allora prenditela pure e lasciami morire come i
vecchi cani, dimenticati, ma paghi di aver ben servito il loro
padrone; perchè, pel santo giorno di Dio, io ti giuro che morirò
contento.

E Roberto a lui:

« Giselberto, padre mio caro, io l'amo la tua Alberada e la farò lieta,
la soave creatura.

« Dici tu vero, Roberto? gli dimanda di nuovo il barone pieno d'ansia,
combattuto dalla gioia e dalla disperazione.

« Vero, risponde colui, e ti giuro per quell'ostia che deve comunicarmi
al punto di morte, che io amerò sempre e terrò felice Alberada.

« Dio ci vede e ci ascolta, sclama il vecchio; Alberada sia tua.

Sapete voi, baroni, come Guiscardo ha mantenuto tanto solenne
giuramento?

--Non fu colpa sua se non lo mantenne, grida Gisulfo.

--La colpa fu sua, ed io che l'accuso, l'attesto, continua l'altro.
Del resto giudichi il _placito_. Dopo tre anni Alberada è stata
ripudiata. E nel pieno delle gioie, madre di un figliuolo, col sorriso
d'amore sulla labra, lusingata di lunga felicità, lussureggiante di
speranze, è stata ripudiata Alberada, per isposarsi ad un demonio--a
vostra sorella Sigelgaita, principe Gisulfo, per alimentare ambizioni
e fatali desideri.

--Ciò non è vero, interrompe di nuovo Gisulfo.

--Io l'attesto, io lo giuro, grida l'altro. Le lagrime di Alberada,
baroni, chiedono vendetta; voi lo farete.

--Sì, voi la farete, grida Baccelardo anch'esso in un impeto
irresistibile, perchè suo padre non è più--dopo otto giorni dalla
partita della figliuola moriva di languore nel castello di Cariati che
gli avevano dato a guardare.

--Vi è ancora qualcuno che debba produrre sue accuse? dimanda il
principe Gisulfo con l'accento soffogato dalla rabbia.

--Ancora un altro, monsignore, risponde una voce dal fondo della sala.

Ed a lentissimo passo, sorreggendosi ad un bordone, accompagnato da un
cane, perchè cieco, avanza un vecchio. La sua testa era scoverta,
pallidissima avea la faccia, lunga, scomposta la bianca barba, nuda e
rugosa la fronte, livido tutto nella persona pel gelo della vecchiezza
e della malattia che gli serpeva per le vene, incurvato, tremulo e
lacero nei panni. La sua voce barcollava come quella di chi agonizza.
Egli si trasse innanzi a stento, soffermandosi ad ogni passo. E come
fu adagiato sur un seggio, che il campione della Chiesa sollecito gli
appresta, il cane gli mette la testa sulle ginocchia e gli fissa gli
occhi nel volto quasi avesse voluto leggerne i pensieri. Il vecchio
gli stende la mano sulla testa, e parla:

--Nella fatale invasione dei Normanni il principato di Capua, fino al
1055, fu rispettato. Nel 1055, Riccardo conte di Aversa si sentì ben
fermo nei suoi Stati, ed assai forte per non restarsene con le mani
alla cintola, mentre i figliuoli di Tancredi di Altavilla facevano
conquisto tanto opulento di paese. Riccardo dimanda a Roberto
Guiscardo volere anch'egli fornir truppe e partire le città che nelle
Puglie e nelle Calabrie si sarebbero occupate. Questo messaggio torna
malgradito a Guiscardo, che perciò, unitisi il dì di Pentecoste 1054
ad Otranto, consigliò a Riccardo accrescere i suoi Stati dal lato del
principato di Capua, perchè, invece, egli avrebbe fornito lui di
scorte e di truppe per invaderlo. Il consiglio piace a Riccardo ed
accetta. Nella prima domenica dell'avvento del 1055, Riccardo con
esercito poderoso si reca infatti sotto le mura di Capua, e vi pone
assedio. Allora, baroni, come sapete reggeva Capua Pandolfo V. Egli
avrebbe potuto respingere il nemico con la forza; ama meglio calare ad
accordi, ed ottiene che Riccardo sgomberi il campo mediante dodicimila
bizantini. Una pace tanto vigliaccamente comprata durò poco. Morto
Pandolfo nel 1057, Riccardo comparve di nuovo sotto le mura di Capua e
le cinge di stretto assedio. Landolfo V, che era succeduto a suo
padre, fa sonare a stormo le campane, e convocati i cittadini alla
chiesa, dice loro:

« Capuani, qui si tratta di onore e di vita; oggi è tempo di
riscattarveli. Raccomandatevi ai vostri santi, vestite le vostre armi,
e dal ragazzo che sente poter lanciare una pietra al vecchio che ha
forza di sostenere una spada, seguitemi tutti.

Le parole di Landolfo non piacciono ai Capuani. Gridano quindi tutti
ad una volta: un riscatto, un riscatto: e scegliendo a loro araldo
l'arcivescovo Gualdemaro, lo mandano a Riccardo per offrirgli
dodicimila scudi d'oro.

« Noi non venimmo qui a mercanteggiare con codardi, risponde il
fratello di Guiscardo; vogliamo la città a discrezione, perchè poi
d'oro sappiamo noi dove trovarne.

Nè a quest'aspra risposta i Capuani si risentono. Landolfo fa inutili
sforzi per menarli a battaglia; coloro tolgono piuttosto morirsi di
fame che pugnare. E forse a tanto danno si sarebbe giunti, perchè il
principe Landolfo ostinato era e deciso a non rendersi se non tutti
morti; quando una notte prevale altro infame consiglio. Alcuni
gialdonieri si uniscono a sinedrio nella piazza, e, dopo avere
alquanto consultato, decidono capitolare per rendersi. Aprono perciò
una porta di soccorso delle mura e spiccano un araldo d'armi al conte
Riccardo, il quale per tutta risposta manda loro a dire: cacciate
dalla città il principe Landolfo V, e mettetevi a discrezione. Così
fecero. La mattina, tutte le campane di Capua suonano a festa come al
giorno di Pasqua. Un drappello di giovani capuani si reca al palagio
del principe, e balzatolo dal suo seggio, coi calci dell'asta sel
menano innanzi fino fuori le mura della città. Allora le porte si
aprono e quei di Riccardo si cacciano dentro per rompersi ad ogni
maniera di libidine, di furti e di violenze.

--Gli è vero! sclama taluno; io vi ero.

--Baroni, quell'infelice principe Landolfo V sono io, soggiunse con
voce articolata appena il vecchio, tremando in tutte le membra.

A questa rivelazione tutti i baroni del _placito_ si alzano in segno
di riverenza per l'infortunio, pel caduto. Ma Landulfo che nulla vede,
continua:

--Baroni, per tredici anni ho condotta vita la più miserabile che
fosse mai capitata a tapino. Ho veduto morire di freddo mia moglie, in
una notte di gennaio, sulle scale di un monistero, arricchito da noi,
e che ci rifiutò ricovero per paura di Roberto Guiscardo. Ho veduto
morire di fame due figliuoli respinti da un vescovo, creato ed
arricchito da noi, per paura di Roberto Guiscardo. Ho veduto trucidato
mio nipote da un valvassore, che noi avevamo donato del feudo, e
violate le figlie mie morir per mano di soldati che il nostro pane
avevano mangiato, per tornar graditi a Roberto Guiscardo. Ho veduto in
fine scomparirmi d'innanzi un ultimo figliuolo senza che mai novella
me ne fosse arrivata. Solo questo cane è rimasto al principe di una
dinastia che 509 anni dominò in Italia, 481 su queste contrada; ed io
mi muoio. Muoio con non altro cordoglio, che le sventure mai
provocate, accumulate su di me da questi Normanni ladroni, non saranno
pagate da alcuno; muoio, non rimpiangendo altri, non considerando
altri fra le creature di Dio che questo povero cane, il quale mi ha
guidato nelle tenebre, mi ha riscaldato col fiato nelle gelide notti,
ha meco diviso la crosta che con noi partì il povero vassallo. Baroni,
io metto le mie vendette nelle vostre mani: voi ne sarete giudici. Ma
ricordatevi, che sarete misurati della stessa misura che altrui
misurerete come dice l'Evangelo, e che Iddio pesa il vostro giudizio.

E sì dicendo il vecchio si sforza di alzarsi e partire; ma fatto
appena un passo cade al suolo come tronco abbattuto, e resta. Il cane
gli si accosta tosto alle labbra per fiutargli il respiro, poi gitta
forte un guaito e cade anch'esso. Precipitosi alcuni di quella sala
corrono a sollevare l'infelice Landolfo V; era morto.--



III.

                PR. ENR. Abbominevole è quel Falstaff, un corruttore
                      della giovinezza è quel vecchio Satana dalla
                      barba grigia.

                FALS. Vattene mariuolo! Terminate la vostra parte,
                      molte cose mi rimangono a dire in favore di quel
                      Falstaff.

                      SHAKESPEARE--_Enrico IV, Parte I_.


Il principe Gisulfo, dopo che ebbero menati via i cadaveri di Landolfo
e del suo cane, si studiò pigliar la parola e difendere Roberto, ma la
voce gli mancò essendo anch'egli vivamente commosso. Imperocchè in
quella del principe Landolfo, più che la morte di un uomo, egli
egualmente che tutti considerava la morte di una forte ed annosa
dominazione. Ed una dominazione che passa senza fasto e senza rumore,
è tutta una storia di delitti, di grandezze, di ardimenti che si perde
nella tomba, così come la memoria del vassallo che per inedia morì.

Il cancelliere del papa, il quale solo in quella adunanza non sembrava
tocco per nulla, e che durante i diversi favellari, severo ed
impassibile si era mostrato, attese ancora qualche istante perchè
altri s'avanzasse a profferire accuse. Poscia vedendo che nè il
principe di Salerno la difesa del primo suo accusato prendeva, nè
alcuno presentavasi, accigliato, ma gelidamente, alza la fronte e
dice:

--Proseguite, baroni, chè il tempo non è degli uomini ma di Dio.

Quindi il campione della Chiesa si tragge innanzi novellamente e
favella:

--Nobili cavalieri, io accuso il priore Guiberto, barone di Lacedonia,
come complice, esecutore e consigliero di quante scelleratezze mai
contro gli uomini e contro la santità di Dio e della Chiesa, il duca
Guiscardo commettesse. Lo accuso inoltre come nicolaita, come
simoniaco, come sacrilego, come concubinario, ed ateo profanatore
delle sacre cose.

--Accusare non basta, sclama Baccelardo dal suo seggio, bisogna
provare.

--Gli è ciò che mi accingo a fare, ser cavaliere, ripiglia il campione
della Chiesa, se ella mi sarà cortese di udirmi. Il priore di
Lacedonia dunque il dì de' SS. apostoli Pietro e Paolo predicò dal
pergamo, che se Salomone, re di un guscio di paese, poteva senza
offendere Iddio ed il mondo tener seco settecento mogli e trecento
concubine, e medesimamente donne idolatre, di cui Iddio aveva
comandato: _non ingredimini ad eas; neque de illis ingredientur ad
vestras, certissime_ _enim avertent corda vestra ut sequamini deos
eorum_; egli, signore di ricco e vasto priorato e barone di grosso
contado, poteva bene avere una moglie e dieci concubine senza
oltraggiare chicchessia. Ed una moglie e dieci concubine ha infatti
nelle stesse sante mura del chiostro, egualmente che tutti gli altri
frati.

--Il vescovo di Molfetta ha tre mogli e cinquanta concubine, eppure
gli è amico di papa Alessandro, sclama Baccelardo.

Il campione della Chiesa non risponde all'interruttore e continua:

--Il priore di Lacedonia trascura i santi uffizi della Chiesa ed
impazzisce fra crapule ed orgie. Egli il giorno di Pasqua ha fatto
danzare nella chiesa i suoi frati con le loro donne, dicendo che stava
scritto che Davide, per onorare Iddio, danzò innanzi l'arca: e la
domenica delle palme li ha fatti entrare in chiesa a bisdosso di
somari, perchè così Gesù Cristo entrò in Gerusalemme.

--Non si debbe dunque imitare Davide e nostro Signore? dimanda
Baccelardo con impazienza.

Il cancelliero del papa solleva la testa e fulmina di uno sguardo il
giovane cavaliere, senza però profferir verbo. Il campione della
Chiesa, lo guarda anch'esso di modo uggioso e continua:

--Il priore di Lacedonia uffizia nelle chiese del suo priorato,
avvegnachè il papa l'avesse interdetto, e fosse sotto i gravami degli
anatemi. Egli invase le possessioni della badia di Grotta Minarda; ed
avendo quella badessa mandato quattro giovani suore a portargliene
gentile lamento, l'infame fe' recidere tutta la parte anteriore
dell'abito alle ambasciatrici, dal petto in giù, e così sconce, con
drappello di scostumati soldati, di nuovo le fece accompagnare
all'abadia. Egli nella festa del _Corpus Domini_ del 1063 benedisse il
popolo accorso alla chiesa con inchiostro invece di acqua lustrale,
profanando le sacre funzioni, tramutando la messa in giulleria con un
popolo così laidamente imbrattato. Egli battezzò suo figlio col vino;
ed avendo la madrina fatte osservazioni su tale sacrilegio, il priore
le dà forte dell'aspersorio nella fronte sì che la stramazza, ed il
figliuol suo, urtando delle tempie al pavimento, ne muore. Egli avendo
ricevuti due messi di papa Alessandro II, il quale lo chiamava al
ravvedimento, castra atrocemente i due diaconi, e così vituperati li
rimanda al pontefice.

--Infame, infame! sclama senza quasi avvedersene il cancelliero, e
senza alzar la testa poggiata sul petto.

--Un santo padre della Chiesa s'era bene castrato da sè per essere più
uomo di Dio! mormora un cappuccio dell'adunanza.

Il campione della Chiesa continua:

--In tutte le guerre, in tutte le avvisaglie, in tutte le cacce, in
tutte le corti bandite, accompagnato da istrioni e cantatrici, da
chierici e da soldati, si trova il priore Guiberto, e nel più folto
sempre delle mischie, nel più osceno de' bagordi. Egli ha rapita la
moglie al sire di castel la Baronia che si recava alla caccia. Egli ha
spogliato ed incendiato il monistero di Carbonaro, mutilandone i
frati. Egli si condusse nella chiesa di Villanova, al momento che quei
canonici cantavano mattutino, ed avendo loro tronche le teste, li
lasciò negli stalli coi breviari sulle mani. Egli, e cinquanta
compagni vestiti da demoni, una notte nel 1065 penetrò nel monistero
di Accadia, ed avendo contaminate quelle sante sorelle di Cristo le
fece frustare pei chiostri, cantando: chè di chicchesia d'allora in
poi e' si sarebbe burlato, perocchè aveva a cognato Gesù. Egli insomma
si è bruttato di tutte le infamie, di tutti i delitti; ha maltrattati
gli ecclesiastici, ha oltraggiato il papa--è un empio furibondo e
matto di cui la terra non ne sostiene peggiore.

--Chi attesta tutto ciò? sclama Baccelardo. Quando si danno di tali
accuse, gli è mestieri che una fronte si scopra per sostenerle.

--Io levo la mia, risponde solennemente il cancelliero del papa,
alzandosi in piedi. Vi è chi dubiti di mia parola?

Nessuno fa motto. Il campione della Chiesa allora soggiunge:

--Finora i laici hanno rispettato codesto malvagio priore perchè egli
giammai offese nè le loro persone nè le loro possessioni--anzi e' ne'
bisogni e nelle guerre di ciascuno si prestò sempre volentieri e
disinteressatamente. Lo hanno temuto, perchè stretto di alleanza con
Roberto Guiscardo, l'uno spalleggia l'altro, l'uno dà all'altro mano
forte negli attentati, e si consigliano, e di qualsiasi potere ridono.
Ma voi, baroni, voi non potrete adesso con cuor freddo udire i lamenti
del Santo Padre, e saprete non solo giudicarlo debitamente, ma mandare
a compimento la sentenza.

Com'ebbe detto ciò, il campione della Chiesa ritornò al suo posto e si
assise. Allora dal centro dell'adunanza si leva un altro, camuffato da
frate, col capperuccio tirato giù giù, ed avanzandosi fino al tavolo
del cancelliere, toglie la penna e scrive affrettatamente sotto una
pergamena alcune righe. Indi tornando fra gli stalli dei baroni
consegna quella pergamena all'abate di Cluny, che scoverto e numerando
i rosoni scolpiti nel soffitto di rovere si teneva cogli occhi levati
al cielo, e gli dice:

--Padre riverendo, leggete.

L'abate mezzo assorto, mezzo alienato, si riscuote come svegliato
improvviso dal sonno, e si trova fra le dita la carta. Si passa la
mano sulla fronte, quasi volesse sgombrarla dalla pesantezza del
sonno, e dimanda:

--Che debbo dunque fare di questo negozio?

--Leggete, leggete, ser abate, sclamano alcune voci dalla sala. Ed
egli levandosi da sedere legge:

« Guiberto, per volere di Dio e di Enrico III imperatore, priore nel
monistero di Lacedonia e barone, ad Alessandro II antipapa, salute e
pace se la desidera ».

« Avendo inteso, monsignore, che voi di pieno arbitrio, provocato da
sfortunato cavaliere, dal vostro cancelliere prevaricato, avevate
intimato un _placito_ in cui i medesimi baroni ed ecclesiastici
dovevansi fare accusatori e giudici di me, priore e barone, e del duca
Roberto Guiscardo, ed indi metter forse ancora esecuzione alla
sentenza, la quale per istigazione di voi e del vostro leal
cancelliero non mancherà tornarci contraria; ho creduto rispondere di
per me ad alquante accuse fattemi pure altre volte, qualunque si fosse
l'autorità di codesti giudici, e meglio per giustificarmi innanzi di
loro, come cavaliere con cavalieri, anzi che reo con _sculdaschi_;
ricordandovi inoltre cose a voi o mal conte, o mal gradite, o non
volute rammentare. Bene inteso però, che, di voi parlando, monsignore,
voglio sempre significare il vostro cancelliero, con me tanto
grazioso, ed innanzi al mondo tanto santo.

« Paggio della contessa Beatrice di Toscana, di cui nacqui suddito,
piacque alla reale memoria di Enrico III _il nero_, per lieve servigio
resogli, di togliermi in grazia, e propormi la guerresca sua corte di
Germania, dove avessi voluto istruirmi in altro, che nel mestiero
della lancia e della daga. Come, per vero, avendo un dì dovuto
risolvermi ad accettare le imperiali munificenze, dalla santa memoria
di quell'imperatore fui accomandato a quel medesimo sir Adalberto
arcivescovo di Brema, il quale dipoi il suo proprio figliuolo Enrico
IV ebbe l'onore di consigliare. E quando quel possente imperatore mi
credette in grado di prodigarmi favori, mi donò del priorato di
Nostradonna di Lacedonia, e mandommi in Italia con commessa al duca
Roberto Guiscardo d'investirmi l'annessovi feudo. I voleri del
generoso principe, che ora è santo nella corte del cielo, furono
compiuti. Per modo che io questa baronia e questo priorato per
largizione imperiale tenni, tengo, e sempre al legittimo signore di
esso i debiti censi, di due rose bianche ed un mazzolino di viole, nel
dì di Pasqua, soddisfeci.

« Essendo quindi padrone del feudo l'imperatore di Lamagna, gli è a
lui, o a messi suoi, che io debbo render conto dell'opere mie;
perocchè, come sapete, o per meglio dire il vostro cancelliero sa,
senza pecca di fellonia ad altrui nol potrei. Questo per quanto
riguarda la competenza dei membri di codesto _placito_. In quanto alle
accuse dichiaro: indebitamente querelarsi il papa degl'insultati suoi
oratori contro la ragione delle genti, perchè e' mi accusarono di
simonia per fatti che non sono se non dritti di feudalità che io come
livelli esigo: mi accusarono di intrattener donne fra mogli e
concubine non so quante, mentre ogni altro vescovo, cardinale, abate,
e fino diaconi e chierici di questo secolo le tengono, le tennero
quelli dei secoli passati, di cui io non sono nè mi vanto più santo:
mi ordinarono lasciar via queste donne incontanente, a vituperio del
Signore che solennemente fece precetto nelle sue sante Scritture:
_abbandona padre e madre, ma la tua donna non abbandonare_; perchè e'
mi vilipesero quando, non essendo messi imperiali, comando così
oltraggiante per parte di altrui mi davano; perchè infine avendo i
messi ecceduti gli ordini, forse pietosi del loro padrone, covrendomi
d'insulti inauditi finora, con parole obbrobriose, io, per dritto di
difesa, parimenti li oltraggiai. Così che indoverosi, per non dir
petulanti, i lamenti vostri mi giunsero, messer lo papa, e mi
giungeranno mai sempre, fino a che dritto l'imperatore non ve ne dia,
mica canoniche censure.

--Costui bestemmia nefandamente, grida divampando il cancelliero;
strappate, ser priore, strappate quell'infame scritta.

--No, no, leggete, continuate, gridano i baroni da tutti i punti della
sala.

Ed il priore, senza punto avvedersi dei gridi dell'uno e
dell'ingiunzione degli altri, riprende fiato e così prosegue leggendo:

« In quanto ai delitti per ultimo che il vostro cancelliero non manca
tutti i giorni di appormi, io formalmente dichiaro, monsignore, sia a
voi, sia ai nobili castellani che compongono il _placito_, sia agli
uomini come ai miei santi avvocati ed a Dio, che egli ha mentito
peggio di un giudeo, e mente; che egli è mio particolare nemico da
lunghi anni, e studia di qual maniera per altrui mezzo di me
vendicarsi; infine che le accuse, oltre dell'essere indegne di
cavaliere, non debbono prodursi che al mio legittimo padrone.

« Queste sono le ragioni, monsignore, che per l'estrema volta io
discendo ad addurvi, e che mi dispenserebbero da qualsiasi
soddisfazione si potesse per avventura richiedere da me. Non pertanto,
sentendomi io puro delle colpe aggiustatemi con tanta poca carità
dalla frataglia mia nemica, in testa a' quali si leva il vostro santo
cancelliero, e non volendo lasciare nell'animo vostro, di codesti
nobili baroni, e del mio alleato duca Roberto Guiscardo, neppur
l'ombra di sospetti sull'onor mio, accetto di scendere in lizza chiusa
col vostro cancelliero e con prova, per giudizio di Dio,
giustificarmi. Dopo ciò vi dimando la benedizione, se me ne stimate
degno, e salutando codesti valorosi baroni, prego Iddio che
v'illumini, e tra me ed il vostro cancelliero decida.

« Aggiungo, che la maggior parte delle accuse del campione della Chiesa
sono false ».

    Datum Lacedoniae triduo ante Kalendas Augusti 1070
        GUBERTUS LACEDONIAE gratia Dei, Prior et Baro.

Quando l'abate di Cluny ebbe letto ciò si strinse nelle spalle ed a
passo lento si approssimò al tavolo del cancelliero, e gli pose avanti
la carta. E questi, piegandosi, vide che la postilla diverso carattere
aveva scritta. Dimandò perciò il pugnale al principe Gisulfo e sulla
punta di quello prendendo la pergamena la gittò per terra, e sopra vi
calcò il piede sclamando:

--Le cose degli scomunicati non lordino i vassalli di Dio.

Colui che aveva presentata la protesta di Guiberto, all'atto codardo
si alza come preso da impeto generoso; ma poi, percotendosi di ambo le
pugna la fronte, si asside di nuovo senza dir motto. Però il principe
Gisulfo, che uomo generoso era, trovando la parola rampogna:

--Ser cancelliero, il vostro non è condursi da cristiano. Cristo
rimproverò i discepoli che d'intorno gli scacciavano la Maddalena, e
duolmi che, io laico, ve lo debba rammentare. Ma questi baroni hanno
udite le accuse e le difese di Guiberto, e basta. In quanto a mio
cognato Guiscardo poi rispondo--nè mi curo giustificar altrimenti le
mie parole fuor della spada--che non mai egli rapì gli Stati a
Baccelardo, perchè Roberto succedeva al conte Umfredo, come il conte
Umfredo era succeduto al conte Drogone, e questi a Guglielmo
Bracciodiferro: che se fece prigioniero papa Leone IX, si servì dei
diriti di vincitore, e da cristiano fedele e leal cavaliere lo trattò:
che non mai ripudiò Alberada per ambizione o per mutato amore, sibbene
perchè scovrì Alberada riuscirgli parente: se prese Malvito con
inganno, adoperò stratagemma di guerra e quindi commendabile a
capitano: infine se lo sfortunato principe Landolfo V di Capua fu
scacciato dalla casa dei padri suoi, vuolsene addebitare più il
principe Riccardo, che stette sodo alle codarde condizioni dei
Capuani, anzi che i consigli di Guiscardo, il quale pugnava allora
nelle Calabrie. Al silenzio dunque le sciocche calunnie che ci avete
fatte udire, e pensate da uomini e da cavalieri, non da stupidi servi
da gleba. Queste sono le ragioni che io, principe Gisulfo II di
Salerno, seppi addurvi. Se poi vi ha qualcuno che le creda deboli o
non vere, ecco qui la manopola di un uomo, il quale da cavaliere saprà
sostenere che costui ha mentito come un infedele. Ho detto. Ai voti.

--Ai voti, ai voti! gridarono molte voci dalla sala; e tutti si
alzavano per andare a mettere le tessere nell'urna; allorchè
triplicata squilla di tromba fuori le porte dell'abadia risuonò.



IV.

                Derobe-les à l'oeil de leurs persécuteurs,
                Je fuis, le jour m'epie, et s'il me voit je meurs!
                                LAMARTINE, _La Chute d'un Ange_.


I baroni restarono fissi ai loro posti, da poichè il cancelliero aveva
dato ordine ad un araldo, che faceva da mazziere alle porte della
sala, di riferire a quell'adunanza chi fosse e che significasse quella
chiamata di tubatore. E non passò guari e l'araldo venne ad
annunziargli che egli precedeva un oratore cui Roberto Guiscardo
mandava al pontefice, e che questi ai baroni rimandava per dargli
udienza. Infatti e' finiva di così parlare, allorchè i battenti della
sculpita porta si schiudono e comparisce il vescovo di Bovino.

Il suo passo era maestoso come a personaggio di tanto cuore e di tanto
rilievo convenivasi. Vestiva corsaletto di lamine di acciaio a
rabeschi d'oro, sopra di cui gittato un manto soppannato di pelli
preziose, e fermato da scheggiale di gemme. Egli venne in mezzo al
salone, e dopo aver salutati i baroni da prima con grazioso piegare di
testa, e con maggiore sussiego il cancelliero, che immobile gli aveva
fermo l'occhio addosso, fece ancora un passo verso il principe di
Salerno e parlò:

--Messer principe, la nostra missione, sebbene per avventura
riguardasse voi più direttamente, si diresse a papa Alessandro, onde
le nostre preghiere vi tornassero meno sgradevoli.

Gisulfo si rizza sulla persona quasi un punteruolo dell'armadura
l'avesse offeso, ed accigliato domanda:

--E quali sono codeste preghiere che ci abbiano a tornar mal gradite!

--I cittadini d'Amalfi, messer principe, continua il vescovo con
calma, i cittadini di Amalfi hanno mandato il priore di Lacedonia ad
oratore a duca Guiscardo perchè a pro di loro intercedesse da vostra
grandezza una tregua alle angarie ed ai soprusi, che, insopportabili,
di vostro comando si praticano loro incessantemente. Le taglie imposte
superano d'assai i prodotti delle loro terre: il commercio che quando
Amalfi si reggeva a repubblica esercitava su tutte le città di Europa,
per le vostre vessazioni è stato annullato: gli _aldi_, gli
_arimanni_, le maestranze, e tutte le altre condizioni di uomini,
liberi negli altri paesi, sono tornati schiavi in questa povera
contrada. In una parola, monsignore, la vostra mano esorbitante pesa
su quegl'infelici che a Roberto Guiscardo si volsero per supplicarvi
di grazia.

--Mai no! per la santa messa di Pasqua che ci deve comunicare, mai no,
sclama irritato il principe di Salerno, il quale, a misura che
l'oratore parlava, si andava corrucciando nel volto e digrignava dei
denti ferocemente. Hanno forse dimenticato quei traditori che
assassinarono nostro padre sulla spiaggia deserta del mare come un
miserabile pirata?

--Non l'hanno dimenticato, monsignore: ma forse appunto perchè troppo
lo ricordano, vi si accomandano di non ridurli a disperazione.

--Ah! monsignor di Bovino, sogghignando sclama Gisulfo, e' ci
minacciano dunque ancora, non è vero? ed il nostro grazioso cognato li
spalleggia? Non è questo che siete venuto qui ad annunziarci,
monsignore?

--Messer principe, il duca Roberto è incapace delle fellonie che voi
sospettate. Egli ha mandato noi a papa Alessandro perchè lo
pregassimo, onde con la sua autorità e benevolenza ottenere dal vostro
valore pietà per li disgraziati. Questa e non altra è stata la nostra
ambasciata. Quindi aspettiamo da voi risposta, perchè il pontefice si
avvisò meglio dirigerci a voi stesso come ad uomo generoso e gentile.

--Sta bene, monsignor di Bovino, risoluto risponde Gisulfo, e la
nostra risposta fia questa: agli Amalfitani saranno duplicati censi,
livelli, foderi e decime, che di anno in anno troveremo ancora modo di
augumentare; e' saranno spogliati della marineria, e tutti ridotti a
servi di gleba. A Roberto Guiscardo poi direte, che Areco e Santa
Eufemia, da lui usurpate, da questo momento rientrano nel nostro
dominio, e che la costa, da Salerno a Fico, appartiene a noi. Inoltre,
che noi rifiutiamo con disprezzo l'alleanza di un uomo che si fa
intercessore di assassini; che verremo in persona a dimandargli
ragione dell'affronto che con tal suo messaggio ci ha fatto. Al priore
di Lacedonia per ultimo direte, che gli daremo l'opulenta mercede
dalla sua traditrice pietà meritata.

Il vescovo di Bovino stette un istante silenzioso a riflettere,
guardando in volto ben bene Gisulfo, girando lo sguardo intorno
sull'adunanza poi riprende:

--Messer principe, veggo che voi siete sotto il dominio del demone
dell'iracondia; acquetatevi, ed acconsento di aspettare fino a domani
che ritragghiate la vostra risposta.

--Arrogante prelato, scoppia allora Gisulfo; se voi non foste un uomo
di chiesa, vi avremmo di già insegnato con usura per qual modo un
cavaliere ritratta le sue parole. Aggiungiamo dunque di più; che noi
intendiamo gittare sul volto di lui, duca Roberto Guiscardo, questo
guanto di ferro, così come sul tuo volto lo gittiamo, vescovo di
Bovino.

--Alto là in nome di Cristo, sclama il cancelliero del papa,
rattenendo il braccio del principe di Salerno, il quale abbrancava la
manopola per percuoterne il viso del vescovo. Principe Gisulfo,
ricordatevi che costui, comunque malvagio, è pastore della Chiesa; non
trascendete. I servitori di Dio non son soggetti che a Dio.

Il vescovo di Bovino, che era rimasto immobile ad udire, atteggiò il
volto a lieve sorriso di scherno verso i due che tanto brutalmente
l'insultavano, poi disse:

--Sia fatto il vostro volere, principe di Salerno. Noi recheremo le
parole vostre, così scortesi che ce le avete volute dire; ed innanzi a
questa nobile assemblea di baroni, prendendo a testimoni Cristo, la
Madonna di Lacedonia ed il barone san Tomaso di Bovino, facciamo
sacramento, che, a contare da oggi a sei mesi, vi avremo dimandato
conto dell'oltraggio, sotto la vostra medesima città di Salerno.

--Amen, spavalduccio prelato, acerbamente ghignando risponde Gisulfo.
E perchè in qualche modo potessimo pure mostrarvi come ci tornano
graditi i vostri giuramenti, osiamo offrirvi il dono di questa catena
di oro e di gemme, che ci ha servito di monile nel dì delle nozze del
vostro padrone con la sfortunata nostra sorella Sigelgaita.

--Mille mercè monsignore, soggiunge fieramente il vescovo. Non ci
occorrono doni perchè ci ricordassimo di voi. Noi quindi non
accettiamo da voi cosa alcuna, sibbene vi dimandiamo ciò che senza
macchia di vigliacco non potreste rifiutarci, perchè ci appartiene--la
vostra manopola.

--Ah! ah! per farne che uso, monsignor di Bovino?

--Per attaccarcela all'elmo, ser principe, e constringervi a venircela
a dimandare la prima volta che sotto le mura di Salerno ci
incontreremo.

--Per il santo sepolcro! monsignore, voi ci tornate ben singolare,
scoppia Gisulfo. Ma sia fatto il vostro piacere. Non sarà mai detto
che noi ci fossimo mostrati taccagni ad alcuno che di morire per
nostra mano dimandò. Vi raccomandiamo però, monsignore, di farvi una
bella confessione delle vostre peccata quel dì che avrete la sventura
d'incontrarvi con noi.

--Va bene, messere: la morte e la vita sono in mano di Dio.

E sì dicendo toglieva il guanto di mano al principe di Salerno, ed
usciva con non minore solennità di quella con che era entrato nella
sala del Capitolo. Allora il cancelliero si volge ai baroni e dice:

--Ai voti, baroni, e ricordatevi bene, che Iddio giudica il vostro
giudizio.

--Ai voti sia pure, esclama il principe di Salerno, mettendo pel primo
a vista di tutti la sua tessera nera nell'urna ». Però, venga qual
vuolsi il vostro giudizio, baroni, noi abbiamo dichiarata la guerra a
questo pirata normanno ed a questo assassino priore, e speriamo, col
soccorso di Dio e di s. Michele Arcangelo del Gargano, vendicare la
Chiesa e gli sfortunati tutti che al pari di noi furono oltraggiati da
costoro.

I baroni intanto l'un dopo l'altro si accostavano all'urna, situata
d'innanzi al cancelliero, per gittarvi il loro parere. Allora, quello
stesso che aveva recata la pergamena a leggere all'abate di Cluny,
avvicinandosi al tavolo, e mettendo nell'urna bianco dado, susurra
all'orecchio del cancelliero:

--Ildebrando, salvali!

A queste parole, al suon di quella voce, all'accento commosso, alla
mano tremante come un serpente se gli si fosse avventato al sembiante,
il cancelliero dà un salto sul suo seggio e si alza gridando:

--Sacrilegio, baroni, sacrilegio: una donna è in mezzo di noi.

E nel tempo stesso, strappando, senza nulla considerare, il cappuccio
che ascondeva la testa del frate, scovre giovane donna, cui
somigliante niun pittore aveva saputo mai fino allora idear una
madonna. I baroni, che intorno a lei avevano fatto cerchio, al vedere
così angelica creatura stupefatti traggono indietro, e l'abate di
Cluny sclama maravigliato:

--Alberada! la ripudiata consorte di Guiscardo!

Ildebrando, che con le pupille spalancate ed immobili era restato a
guardarla, quasi avesse voluto in quello sguardo racchiuderla,
serrarla come la mano del catalettico serra piccolo disco, divorarla
con avidità di belva concitata, incenerirla, alla parola di _consorte_
si cangia in un istante, e con la mutabilità d'istrione, assidendosi,
con un sorriso mefistofelico e ghiacciato soggiunge:

--La concubina del priore di Lacedonia, baroni, la concubina.

Alberada a quell'insulto si raddrizza a sua volta sulla persona,
percuote il suolo del piede, e saettandolo di uno sguardo pieno di
collera e di disprezzo, alteramente risponde:

--La moglie, messer cancelliero, la moglie.



LIBRO SECONDO

L'INCAMICIATA



I.

                Nil mihi de fatis thalami. Superisque relictum est,
                  Magne, queri nostros non rumpit funus amores.
                                        LUCANI, lib. V.


Due cavalieri, sul cadere di una sera di estate, cavalcavano lungo la
difficile spiaggia di Salerno, e propriamente per quel dirupato sito
che la divide dalle montagne di Amalfi e di Sorrento. Onde godere del
piacevole fresco del mare, avevano appesi alla sella gli elmi, e la
testa coprivano di quei berretti che allora si dicevano _mortai_.
Vestivano giacchi di maglia, serravano al fianco la spada ed il
pugnale. E' sembravano intesi a premuroso favellare, da poichè di
tanto in tanto il cavaliere che precedeva nella angusta callaia faceva
sostare il cavallo, e volgendo la faccia all'altro restava ad udire.
Spesso però si fermavano entrambi per dar ordini alle scolte, che
vigilavano alla custodia degli alloggiamenti militari, stesi a foggia
di semicerchio intorno Salerno, o a guardare il naviglio dalla
bandiera amalfitana che ancorava nella perigliosa rada. Di tal che il
loro andare era lento anzi che no, tra perchè favellavano e
speculavano il campo, tra perchè la stradicciuola, praticata per
mantenere la comunicazione tra le truppe sul dorso della brulla
montagna che domina Salerno, era aspra ed ingombra di ciottoli. Da su
quei gioghi però bello era contemplare questa città, la quale, a
cavaliero di una cima di roccia dirupata, quasi nido d'aquila, aveva
castello di gotica architettura, sul cui merlato scintillavano i ferri
delle lance delle sentinelle, e tutti ricinti di mura merlate erano
anche que' gioghi, popolati da soldati che a lento e misurato passo vi
passeggiavano. Dalla città non partiva rumore nè fumo. Non si
distingueva alcuno per quelle case aggruppate le une alle altre come
alveoli di arnia, triste, nericce, squallide. Sembrava grande
sepolcreto. Ben altrimenti intanto poteva giudicarsi di coloro, che
novella città di tende le avevano rizzata intorno, scintillanti di
vivi colori--le tende appunto che appartenute avevano, non era guari,
ai Saracini di Sicilia. Quel popolo di soldati brioso si recava da un
padiglione ad un altro, e dai padiglioni alle galee che si cullavano
voluttuosamente sul mare tranquillo. Canzoni guerresche, rumori di
armadure, nitriti di cavalli, un movimento, una vita, una gioia, quasi
quivi non fossero convenuti per osteggiare la città e quindi dare e
ricevere la morte, ma per tornar bello un corteggio di principessa che
andava a marito. Questo insomma era il campo di Roberto Guiscardo, il
quale assediava il principe Gisulfo II, suo cognato, constretto a
ricoverarsi tra le mura della città. I due cavalieri cavalcavano
adagio, considerando, nel tempo stesso che discorrevano, da qual punto
si potesse assaltare la piazza, quale fosse il lato meno difeso;
avendo per fermo che, a lungo andare, non fosse stato che della fame,
la pazienza dei cittadini si sarebbe stancata--posto ancora che agli
urti replicati e testardi degli assalitori avessero saputo resistere.
Per lo che esaminavano le baliste; i mangani da rovinare la città con
un diluvio di pietre, le torri mobili per avvicinarsi alle mura e
pugnare di fronte a fronte: comandavano vigilanza e coraggio a quei
prodi normanni, i quali non sentivano meno il pungolo della gloria che
quello della preda doviziosa loro promessa dal sacco di Salerno. Si
apparecchiava pel domani novello assalto.

La sera era splendida. Il tramonto cangiava il sottile vapore, che
impregnava l'aria, in una polvere di oro. Le montagne di Amalfi si
disegnavano a sinistra, a tinte violette e frangiavano l'orizzonte. Il
mare che si confondeva con l'infinito del cielo era calmo e voluttoso,
come il seno di una fanciulla che non abbia ancora palpitato di amore.
Non uno spiro di vento. Non uno di quei susurri arcani della natura
vergine. Le ultime allodole che fendevano il cielo si ritiravano. La
campagna di Salerno si dileguava, grigia più che verde, sotto il
progressivo invadere delle ombre. Le prime stelle nel cielo, le prime
lucciole sulla terra cominciavano a corruscare. Solo un ronzio
d'insetti invisibili animava gli ultimi aneliti della vita del dì.
Soave, irresistibile languore s'insinuava nel corpo; l'anima
s'innalzava nel vago, negli spazi illimitati di Dio. Un cristiano
avrebbe creduto, un poeta vaneggiato, una donna avrebbe soccombuto a
qualunque parola di amore, un uomo avrebbe perdonato.... I due
viaggiatori non si accorgevano di nulla.

--Tutto va bene, diceva uno dei cavalieri; vedremo se questi marrani
di Longobardi sapranno sostenere ancora le picchiate di domani, chè in
fede mia, Guiberto, ti prometto io, vorranno riuscire belle e sonore.
Già quei di dentro sono disperati, ed il martello della fame li
travaglia, così che faranno i diavoli e peggio. Questi nostri, che
sono inaspriti dalla lunga resistenza e spasimano cacciare le unghie
nei tesori del nostro bel cognato, non si terranno le mani alla
cintola, e la chirintana vorrà tornar graziosa. Staremo a vedere, per
ora non posso dichiararmi scontento.

--Ma! non dirà altrettanto madonna Sigelgaita, messer duca, rispondeva
l'altro cavaliere. Alla fin fine, il principe Gisulfo le è fratello, e
questi disgraziati di Longobardi sono della sua nazione.

--Bah! tutto sta che Sigelgaita senta i primi squilli delle chiarine,
e veda che si cominciano a menare le mani davvero con la grazia di
Dio; chè poi il suo demonio tutelare s'incarica del resto. Se l'avessi
veduta, Guiberto, alla presa di Palermo! Giuro pel santo sepolcro che
saresti dato in dietro della paura. Sicuro che uccise di sua mano
meglio di cento Saracini.

--Qual differenza da quell'altra! sclama fra sè Guiberto, quasi
meditasse le parole del duca Guiscardo, perocchè desso appunto era il
cavaliere che precedeva. Alberada non reggeva alla vista del sangue.
Eppure l'avevano allevata dentro il pavese di suo padre, in mezzo ai
soldati.

--A proposito, ser priore, dimanda Roberto; si ha novella alcuna di
lei? Te l'han dunque menata via compiutamente?

--Voi mi toccate una piaga cruenta, monsignore.

--Sai che più ci penso e più mi persuado che quel mastro Ildebrando
debb'essere un birbante bello e pulito!

--E ben altro ancora, monsignore. Quell'uomo lo conosco sol io--e voi
pure, Roberto, se vorreste un po' rammentare perchè motivo ripudiaste
Alberada, potreste congetturarne alcuna cosa.

--Non andiamo rimuginando nel passato, priore. Ti basti avermi tolto
in pace che la fosse stata accolta da te, una donna cui io aveva
discacciata, e non te ne dimandassi ragione di maniera qualunque.

--Con la vostra sopportazione, messer duca, avreste avuto gran torto.
Dopo la fatale storia di quello sventato dell'abate di Cluny, voi
mandaste via Alberada, pizzicato da gelosia. Vi apponeste, Roberto.
Gli è vero che nell'anima mia io aveva amata Alberada; ma Iddio
stesso, neppure Iddio sapeva di quel segreto. Alberada aveva l'anima
immacolata di tutt'altro affetto che non fosse stato il vostro. Per
modo che, monsignore, voi potreste giurare che giammai donna vi ha
amato, e vi amerà più fortemente e con verecondia maggiore di quella
giovane. Se l'aveste udita a singhiozzare....

--Baie! piangeva di dispetto.

--Mai no, monsignore, piangeva d'amore; chè, la Dio mercè, io so bene
distinguere il grano dalla saggina. Se non vi avesse amato, l'avreste
udita prorompere in lamenti ed ingiurie, quando a mensa, in presenza
della sua rivale, le furono gittate sul volto le vostre seconde nozze
con sì poco garbo e carità che n'ebbe a stringere a tutti il cuore del
dolore e della sorpresa. Ed ella non disse altro motto, che: Iddio vi
perdoni, messer duca! Poi baciò sulla fronte il figliuolo Boemondo, il
quale svenuto le cadde ai piedi, e lasciò il castello sul fatto, senza
togliere una pezzuola, senza fermarsi un momento.

--L'è vero! sclama Roberto abbuiato.

--E vi ricorderete, continuò Guiberto, con qual rassegnato contegno,
uscendo dal castello di Melfi, rifiutasse le profferte di vendetta che
il suo paggio Baccelardo le presentò. A piedi, digiuna, per notte
orribile, in mezzo a fitto uragano, attraversò gioghi e campi, e
giacque sfinita di stento e di paura innanzi la porta di tristo
abituro; perocchè tutti, a timore di voi, monsignore, le rifiutavano
asilo, quasi fosse stata tocca dal gavocciolo.

--Tutti--meno che voi, pietoso priore.

--Vi domando mercè, monsignore. Ella si riparò fra le mura del
chiostro di Grotta Minarda. E solamente là, come sapete, io la rividi
quando saccheggiai la badia, ed usai alle monache il giuoco di farle
sorprendere dai diavoli. La strappai dalle grinfe dei soldati che
l'avevano adunghiata, e come la più vezzosa se la disputavano a colpi
di daga. La posi sulla groppa del mio cavallo, e la condussi al
priorato di Lacedonia. Quivi la sposai in tutta regola. Ma non saprei
dirvi quanto mi avessi da penare per indurla a nozze novelle, e quale
resistenza la mi opponesse. Mi penso perciò, monsignore, che non vi
debba dolere di alcun modo se me l'abbia tolta a moglie. Niuno
oltraggio soffrì mai la donna che sposa fu prima di voi. Poi, se io
non sono mica duca non sono neppure un paltoniere.

--Sta bene, te ne rendo anzi mercè, sclama Roberto pensoso, se vero
gli è pure che quella donna mi abbia amato mai. Non veggo però che tu
ne abbia fatto assai buon governo, e che molto ti stesse a cuore il
decoro di una donna che era, è d'uopo lo confessi, anche a me stata
carissima, e forse....

Roberto Guiscardo gittò un sospiro e si arrestò a mezza frase.
Guiberto soggiunse:

--Ed anche in questo, col vostro permesso, monsignore, voi prendete
fallo. Come ebbi inteso della venuta di Alessandro e del suo
cancelliero a Montecasino, compresi di leggeri che tanto contro di voi
come contro di me non si sarebbe mancato portare solenni accuse.

--Non occorreva essere Isaia per profetarlo.

--Nè santo per affliggersene. Ma se io, a vero dire, non dormo meno
tranquillamente sotto le censure della Chiesa, i miei vassalli non la
pensano come i vostri, Roberto. Così che mi misi alquanto in angustie,
e confessai ad Alberada le mie dubbiezze. Ella, che voi sapete quanto
sia generosa, si offerse rappattumar tutto col papa, meglio col suo
cancelliero Ildebrando. Dell'animo di costui ella aveva capito alcun
poco là a Cariati, in quella trista nostra dimora. E forse non solo me
ella pensava in quel suo proponimento, monsignore, ma altresì voi, voi
che parimenti avevate brighe col pontefice.

--Bah! sclama Roberto levando le spalle. Si direbbe, glorioso priore,
che tu vorresti regalarmi dei rimorsi.

--Eh! perchè no? i rimorsi sono anch'essi una voluttà per le anime
malate e angosciate.

--Allora conservali per uso tuo, susurra Roberto sforzandosi a
comporre il viso a gaiezza.

Il priore continua:

--Partimmo dunque divisati da frati. Ella era risoluta dimandare un
abboccamento ad Ildebrando fuori del chiostro, sapendo quanto e' fosse
sollecito delle regolarità claustrali. Quel disgraziato di Baccelardo
aveva guastato tutto. Ildebrando, onde destare dal torpore il pigro
Alessandro II, aveva indotto il giovane andarlo a vilipendere di
vigliaccheria proprio nel baciamano, e trascinarlo a mezzi di violenza
contro di entrambi noi.

--Costui l'avrò dunque sempre tra i piedi, sclama torvo Guiscardo,
digrignando i denti, quasi parlasse fra sè.

Guiberto continuò senza far vista di porgli mente:

--Nè messer Ildebrando fece i conti falliti, come sapete. Io che
appostava a San Germano seppi di quello sproposito di _placito_, e
scrissi la mia difesa. Del fatto vostro voi già stavate sicuro, sia
che non tanto mastro Ildebrando vi aveva sul liuto come me, sia che vi
difendeva il principe Gisulfo. Alberada quindi ebbe a presentarsi al
_placito_ e far leggere il foglio da me diretto al pontefice.

--Chi le avrebbe creduto tant'animo! mormora Roberto, sempre sopra
pensiero.

--L'è vero. Però, voi sapete che succedesse colà, e come sotto
pretesto di avere violate le leggi del chiostro ella fosse menata a
Roma da Ildebrando per essere giudicata.

--Prete sciagurato!

--Chi sa se solamente sciagurato! riprende Guiberto sospirando. Ma la
vendetta mi sta scritta nel cuore, monsignore; e voglia Iddio
condannarmi a finire i miei giorni in un lebbrosaio, se non la torrò
tale che se ne abbia a menar rumore per tutta Italia. Aspetto solo che
ci sbarazziamo da questi ostinati di Longobardi, che poi andrò io a
Roma, e in un modo qualunque farò visita a mastro Ildebrando.

--E niuna novella ve n'è arrivata da poi? dimanda Roberto dopo essere
restato alcun tempo concentrato. Spero in Dio che non le abbiano fatto
vitupero; dappoichè se così fosse, Guiberto, ti giuro per la mia santa
corona di duca....

--Che sperate tramutare in quella di re.

--Taci. Ebbene, ti giuro in somma, che neppur io me ne starei
indifferente, e l'insulto di una donna normanna sarebbe pagato a peso
di sangue.

--Io non so, monsignore, se l'abbiano ingiuriata; solamente vengo
assicurato di fermo da quello scimione di Laidulfo, non ha guari
tornato di Roma, di avere inteso dire che l'avevan messa a languire
nelle prigioni di qualche castello o monistero di là.

--Cosa è quell'aggrupparsi di soldati che corono, lì, verso borea?

--Qualche torneatrice che balla sulla corda, o qualche frate che
predica il giudizio finale.

--No, non mi pare. Si affollano di troppa pressa, e tornano addietro
troppo malvogliosi. Andate a vedete, Guiberto, e venitemi a
raggiungere alle tende dove mi reco.

--Non è d'uopo che vada io, perocchè già un centurione trae alla
nostra volta. E veggo...

--Due frati in un bel gruppo di lancieri con le picche calate. Che mai
sarà?

--Io l'indovino, dice Guiberto, quei di dentro han cominciato a sentir
troppo caldo dalla nostra vicinanza ed han dimandato soccorso.

--Eh! non può darsi. Io conosco la tempra ostinata di Gisulfo, e
quanto superbo ei sia. Ho per sicuro che alcun altro vorrà venirci a
guastare il giuoco ed a cacciare il suo cucchiaio nella nostra
pentola, come fecero le dannate memorie di Nicolò II e Leone IX per le
faccende di Puglia. Sta a vedere se la cosa non sia così. Qui ci
menano due frati.

--Ebbene, centurione? dimanda Guiberto al soldato che loro si
approssimava.

E quegli facendo cenno di saluto ai due cavalieri, si volge a Roberto
Guiscardo e risponde:

--Monsignore, papa Gregorio VII manda due legati che dimandano tosto
essere ammessi alla vostra presenza. Che dobbiamo fare di costoro?

--Frustateli, mormora il priore alzando le spalle e spingendo il
cavallo per ritornare alle tende del duca.

Ma Roberto resta un tratto a pensare, poi ordina:

--Guidateli al nostro maestro di palazzo, monsignor di Bovino, che
egli li provveda di alloggiamento per questa notte, e che dimani sieno
presentati al nostro padiglione.

Ciò detto sprona il cavallo e raggiunge il priore che di male umore
era partito.



II.

                MAN.                 Dunque i nemici
                    Braman la pace?

                PUB.  A Regolo han commesso
                    D'ottenerla da voi. Se nulla ottiene,
                    A pagar col suo sangue
                    Il rifiuto di Roma egli a Cartago
                    È costretto tornar. Giurollo.
                                        METASTASIO.


Trasportiamoci ora per un momento a Roma.

L'abate di Cluny, preceduto dal castellano e seguito da un uomo
ravviluppato in bianco mantello, attraversarono parecchie sale della
Tomba di Adriano, o Castel Sant'Angelo, come dal XII secolo si
addimandò, fino a che non giunsero ad un appartamento all'angolo
settentrionale di esso. Quivi, innanzi ad una porta centinata, il
castellano si volge all'abate e dice:

--Ella è qui.

--Sta bene, risponde l'abate; aprite, ed attendete di fuori.

Il castellano obbedisce. Allora l'uomo avvolto nel mantello passa
innanzi, entra, e si richiude l'uscio alle spalle.

Il castellano, che era restato a guardare, gitta un sospiro ed
esclama:

--Senza neppure confessarla!

--Non paventate, bravo vecchio, risponde l'abate, se avrà giudizio non
le sarà fatto alcun male, io credo; perchè negli occhi vi ha una
mutazione _secundum esse_ spirituale, come dice quel santo padre di
Aristotile, e gli occhi di lei...

--Spero in Dio che così avvenga, lo interrompe il castellano; mi ci
era affezionato, e mi porti il diavolo se non l'amava come figliuola.
La si mostrava sì buona, sì dolce che neppure i martiri, Dio mi
perdoni! io penso fossero stati più rassegnati.

L'abate non risponde e resta del capo appoggiato al muro a
meditare.... Sa il cielo cosa meditasse l'abate di Cluny, perchè da
tutti allora veniva riputato mago, a causa della indefinibile sua
sapienza nei misteri dalla filosofia greca e dei rabini ebrei. Eppure
oggi l'abate di Cluny è uno dei santi meglio constituiti del cielo!
Come la sapevan lunga quegli uomini dei tempi di mezzo!

L'altro intanto, appena ebbe chiusa la porta, si svolse dal mantello e
penetrò nelle stanze riposte.

Quel piccolo appartamento era addobbato col maggior lusso che allora
si conoscesse. Vi era un salotto, col soppalco a legno intagliato e le
mura coperte di cordovano a rosoni d'oro. Vi era un tavolo di frassino
incrostato di avorio e di laminuzze di argento niellato, e grossi
sgabelli di noce intagliati a sfingi, girigori e lacci aggroppati. Vi
erano infine guastade di fiori ed una giga. Fra queste ed altre
minuterie femminili però dominavano, appesi a' zoccoli e su pei
tavoli, ogni maniera di attrezzi da guerra, lucenti, ricchi, ed in
parecchi luoghi rintuzzati, sì che attestavano non avere appartenuto a
poltrone. Più dentro poi, un letto coverto di un cielo di dommaschi
paglini con grosse nappe che ne fermavano le bandinelle alle colonne
attortigliate di noce brunito, un inginochiatoio con un libro di ore
brutalmente alluminato, aperto, ed uno stipo capriccioso di forma,
intarsiato di tasso a figure mostruose e fiori, su di cui una lamina
di ossidiana forbita onde servire da specchio, e pettini, e
calamistri, e vai, e fiori, ed un pugnaletto sottile come grosso
spillo, e delle fiale che potevano contenere forse della nanfa, più
probabilmente veleni. Presso ad una finestra infine sedeva giovane
donna, neglettamente e semplicemente vestita tutta di bruno, ed
assorta a contemplare il cielo così profondamente, che non si avvide
dell'uomo penetrato di sì poca cerimonia nel suo santuario. Il qual
santuario era, bello e buono, l'appartamento del castellano a lei per
cortese affetto o per compassione ceduto. Il nuovo venuto gira
lentissimamente intorno lo sguardo, poi aggronda e dice:

--Quante morbidezze!

A quella voce la donna si volge, gitta forte un grido, e retrocedendo
fino al davanzale e tutta rannicchiandosi nella persona, convulsa e
tremante sclama:

--Ildebrando!

All'esclamazione di entrambi succede un momento di silenzio.
Finalmente l'uomo soggiunse:

--Per lo appunto, Ildebrando. Vi fo forse paura, Alberada?

--Paura no, mormora colei levandosi ritta, riprendendo con uno sforzo
di volontà tutta la sua dignità e spezzando il fascino, donde in sulle
prime il rossigno sguardo di quell'uomo l'aveva avvinta. Paura no,
ribrezzo.

--Ah! e per qual ragione, madonna? Imperocchè, da quanto io mi sappia,
giammai scortesia avete ricevuto da me.

--Sarà vero, messere, rispose ingenuamente colei, ma io veggo nella
vostra persona qualche cosa di sinistro, ed ogni qual volta mi sono
abbattuta in voi, sempre sventura novella mi colpì. Voi siete il
demonio attaccato ai passi miei.

--Ah! siete dunque anche eretica, Alberada, per credere l'uomo
subordinato a due geni come i Manichei. Male, male, figliuola mia.

--Insomma, messere, usatemi la cortesia di dirmi cosa cercate da me.
Voi, per fermo, non venite che per annunziarmi la morte. V'incontrai
nel castello di mio padre a Cariati, e scene di sangue lo funestarono.
V'incontrai nel castello di mio marito a Melfi, e da lui fui
ripudiata. V'incontrai a Montecasino, ed ecco che mi avete rilegata in
una tomba, disgiunta dall'universo, priva di libertà. Sollecitatevi,
profferite la sentenza che avete fatta decretare da Alessandro II; a
me sarà sollievo maggiore la morte anzi che questa spasmodica
prigionia.

--Tanto presto volete morire, Alberada? susurra Ildebrando con accento
tristo e sospirando. Se la vita è un tribolo per voi, ricordatevi che
ogni tribolo ha pure le sue rose, ogni notte le sue stelle. Ma
mettiamo da banda ciò, e statemi bene ad udire, chè d'uopo ne avete
assai.

--Sia. Tenetevi dunque lontano da me, e favellate.

--Io vi fo raccapriccio, Alberada? Ebbene ascoltatemi. Io voglio
sollevare per un istante un velo che solo un uomo sollevò altra volta
sotto suggello di confessione. Ma queste sono le ultime parole che
l'uomo vecchio rivelano in me, sono gli ultimi aneliti che ricordano
Ildebrando, la pagina estrema di un racconto che dovrà essere
dimenticato, che i posteri dovranno ignorare. Qui finisce la storia
dell'uomo, per cominciare quella del santo. Non resistermi, Alberada.
Questo è l'ultimo tentativo di ravvivare una fiaccola già estinta.

--Vi ascolto, signore, mormora Alberada con voce tremante, vi ascolto
bene, ma non v'intendo. Solamente mi accorgo che voi, per solito avaro
di parole e cupo più delle prigioni di questa Tomba, siete dominato da
delirio.

--Chi beve il vino s'inebria, chi si caccia nel fuoco si brucia.
Questo delirio desta in me la vostra presenza. Voi mi fate rivivere a
memorie, che il dì 25 marzo 1073 seppellii con Ildebrando. Sappi
dunque, Alberada, che io ti ho amata, come giammai donna in terra si
potè amare di veemenza maggiore.

--Oh! non mi era dunque ingannata io!

--Che? mi avevi forse penetrato tu? Avevi tu forse letto nell'anima
mia una passione colpevole, un sacrilegio che tante notti insonni mi
ha fatto trascorrere combattuto dalla volontà e dall'istinto? Dì,
favella per amore di Dio, dimmi se nulla mai ne palesasti ad altro
uomo, se il tuo sospetto fu anche sospetto d'altrui, se v'ha sulla
terra altro essere umano, fuori del mio confessore e di te, che sia
consapevole di tanta mia debolezza? Parla dunque, hai rivelato mai a
vivente che Ildebrando ti abbia amato?

--No, perchè io mi credetti insozzata di codesto vostro amore, io,
fidanzata di Roberto Guiscardo e figlia dei barone Giselberto
Squassapostierle. Quella sera che, sul merlato delle torri di Cariati,
credevate favellarmi dei perigli delle passioni inavvedute, quella
sera, nel caldo del discorrere, il delirio vi dominò come adesso, e mi
svelaste che mi amavate.

--E tu? tu rivelasti a... a quel demonio di mio fratello il segreto
fatale?

--No, messere, perchè io non favello delle cose che mi tornano ad
onta.

--Dio sia lodato! la mia debolezza morrà qui, sclama Ildebrando
gittando un sospiro e lasciandosi cadere sur una sedia.

--Morrà qui con me! Non è questo che volevate dirmi, Ildebrando?

--Ah! mormora costui meditando la trista interpretazione che Alberada
aveva data alle sue parole. Con te, dici? Ebbene, sì: può avvenire
anche ciò, Alberada, e puoi anche essere libera, se alla mia volontà
sarai pieghevole. Perocchè io ho fatto sacramento innanzi la persona
di Cristo, che, da oggi in poi, non vi sarà altra volontà sulla terra
che la mia.

--Audace giuramento, interrompe Alberada.

--Che sarà audacemente mantenuto, continua Ildebrando. Sì, Alberada,
io ti ho amata, e quanta sciagura da questa passione mi fosse tornata,
io dirti non potrei senza farti tutta raccapricciare novellamente. Io
non aveva amato alcuno. Io non aveva conosciuta mia madre, che
pochissimo, mio padre poco ancora ed aspro. Io insomma, mi era veduto
isolato nei chiostri fanciullo. Io aveva udito predicarmi tutto dì,
sotto pena di peccato, di segregarmi dal mondo e dalle sue passioni;
avevo dovuto interdirmi ogni affetto tenero, ogni moto di sensibilità.
Io avevo dovuto in ogni essere a me somigliante considerare un nemico
che studiava trascinarmi all'inferno, in ogni desiderio un peccato.
Sulla terra io non doveva vedere che me, e fuori di me Iddio. Ora, a
Dio la fantasia indocile ed irritata dalle meditazioni cercava dare
un'esistenza, una forma--e sempre gli dava quella di una donna! Così,
una figura svelta, bianca, diafana, l'occhio azzurro soavissimo, la
persona gentile, aereggiante in un velo di pudore e di candidezza, una
forma come era la tua, Alberada, come eri tu nel castello del padre
tuo. Ah! che la effigie più degna di rappresentare Iddio è quella
della donna!

--E voi siete prete e cardinale?

--Io sono uomo, Alberada; Dio mi fe' uomo. E questa imagine ostinata
della donna mi veniva sempre avanti nelle meditazioni, m'isprava nelle
preghiere, mi apriva il cielo, m'indorava di luce la vita, mi
travagliava nei sogni. Questa figura trovai in te; e ti amai, e mi
lasciai trascinare interiormente a quel precipizio come chi è preso
dalla vertigine. Seppi però dominarmi, o almeno il credetti, poichè tu
mi dici che il segreto periglioso mi scappò pure dalle labbra. Ora non
se ne parli più. Fu un momento d'aberrazione che con molte lagrime ho
pianto poi; fu una colpa che di pena terribile ho pagata. Non se ne
parli più, e guai, Alberada, guai a te, guai a colui cui questo tristo
segreto fosse svelato. Io vivo oramai nell'avvenire: il passato mi fa
orrore.

--Se gli è questo tutto quel che richiedete da me, messere, la vostra
volontà sarà fatta. Codesta vostra passione non uscì mai dalla mia
bocca, nè uscirà, perciocchè, certo, io non ho di che vantarmene.

--Forse che sì, forse troppo, riprende Ildebrando sollevando
fieramente la testa ed alzandosi. Ma io credo di essermi spiegato
abbastanza. Qui si snebbi dunque la frenesia che la tua vista ha in me
rinnovellata, e parliamo di altro.

--Meglio così.

--Sai tu, perchè mi rivedi in questo castello?

--Se non è per venirvi a sollazzare delle sofferenze della vittima, o
a venirle ad intimare il supplizio, io non saprei perchè altro.

--Per salvarti.

Alberada si stringe nelle spalle, volge la testa verso il cielo che le
mandava un raggio di sole dall'abbaino, e non risponde. Ildebrando
continua.

--Per rimandarti libera al priore di Lacedonia come messaggiera di
pace.

--Mio Dio!

--L'ami tu dunque colui?

--È mio marito, checchè voi ne pensiate in contrario.

--Taci, non dirlo, grida Ildebrando di voce convulsa digridando. Per
Gesù, codeste tue parole mi fanno male al cuore, ed io non so se
giungo a dominarmi. Ascoltami bene, Alberada, e rammenta che il papa
con una mano rimesta in cielo, con l'altra stringe la terra nel pugno,
e può scuoterla, riempirla di sangue, desolarla dove al suo volere non
pieghi, e che chi il papa tradisce, muore della morte dei traditori
dentro l'anno.

» Orbene, continua Ildebrando, tu dunque devi recarti al priore di
Lacedonia. Se Ildebrando l'odiava, il papa gli ha perdonato e seco
vuole riconciliarsi. Egli ti aveva mandata a me a Montecasino,
confidando nella tua mediazione, perchè lo salvassi. Mal non si
appose, perchè io col tuo mezzo, e col tuo mezzo solamente, voglio e
posso salvarlo. Che fiducioso torni a me. Non chiedo neppure che mi
domandi perdono dappoichè già, per volere di Dio, lo perdonai. Egli
non avrà limite nel mio amore. È priore di Lacedonia per dono di
Enrico imperatore; per volere del papa sarà arcivescovo di Ravenna,
che adesso appunto quel bravo prelato è morto.

--Ma il vescovado di Ravenna provvede pure l'imperatore.

--Donna, figgiti bene nella mente che sulla terra non v'ha più oggimai
che un potere, e questo è quello del pontefice; che sulla terra non
v'ha più che un nome, e questo è quello del papa. Un altro ordine di
cose è cominciato. I vescovadi, i troni non esistono che nel pugno del
papa. Egli li dà, egli li toglie. Dirai adunque a quel priore che
lasci la scellerata vita che ha condotta finora, che abbandoni le
bandiere dell'Amalacita Guiscardo, e torni a me.

--Ma.... interrompe Alberada.

--Ascolta, continua Ildebrando. Ti manderò in oratore a Salerno con
l'abate di Cluny. Colà troverai destro abboccarti con Guiberto, perchè
metterò ordine al principe Gisulfo comprare la pace a qualsiasi
condizione, così Guiberto non mancherà neppure ai patti del duca di
Puglia e di Calabria. Io non voglio che sia disonorato colui cui penso
fare mio ornamento. Tu dunque spiegherai tutte le seduzioni, tutto il
potere che egli in te riconosce e sente fatalmente, perchè Guiberto
ritorni a me. Con lui riederai anche tu, cui non preparo minori
dovizie di grandezze e di glorie. Io insomma non segno limite alle
vostre ambizioni, se nella mia carità e nella mia affezione riporrete
fiducia....

--E se si verificasse il contrario?

--Ah! se si verificasse il contrario? mormora Ildebrando pensieroso.
Innanzi tutto, vuoi tu incaricarti della missione?

--Innanzi tutto giuratemi, Ildebrando, che male alcuno non verrà a
Guiberto se aggiusterà fede alle mie parole.

--Donna incredula! non ti basta la mia parola?

--No, voglio il vostro giuramento. E, se debbo confessare il vero,
neppure su questo ho piena credenza. Dappoichè voi che avete facoltà
di mandare la gente all'inferno ed al paradiso secondo vi torna,
sapete come sciogliervi di un giuramento, se vi piacesse non
attenerlo.

--Tu sei un'empia assolutamente. Le parole di Guiberto hanno
fruttificato in te. Ma, come tu vuoi, giuro che a Guiberto non verrà
male.

--Giuro, giuro... di grazia, messere, per cui giurate voi?

--Per i santi, per Gesù, per la Vergine, per tutto il paradiso.

Alberada conserva il silenzio come aspettasse altro e fissa gli occhi
su Ildebrando quasi col suo limpido sguardo cercasse penetrarlo
nell'anima. Ildebrando resta calmo e mutulo. Ed Alberada soggiunge:

--Sta bene, adesso vi dico che assumo l'impresa, e che metterò ogni
mia sollecitudine perchè Guiberto si concili con voi e con la Chiesa.

--Ciò non mi basta, riprende Ildebrando, mi è d'uopo che tu giuri
altresì sull'ostia consacrata il giorno di Pasqua, chiusa in questa
reliquia, che se Guiberto non ascolta le tue parole o non crede alle
mie promesse, tu tornerai a me; che se egli vorrà per forza ritenerti
tu gli sfuggirai; e che se non avrai mezzo a sfuggirgli, eleggerai
piuttosto darti morte, che mancare al giuramento di qui rivenire.

Alberada rimane perplessa un momento, pensando la terribile promessa
che a lei si richiedeva, poi dimanda:

--E tornando che cosa mi si riserba, messere?

Ildebrando ristà un istante e risponde:

--La morte.

--Bene sta, sclama Alberada, purchè sia una morte sollecita, una morte
senza infamia e vereconda, io giuro.

--Una morte sollecita, senza infamia, senza oltraggio.

--Io giuro dunque, continua Alberada cadendo in ginocchio, giuro su
questa sant'ostia che chiude il corpo di Nostro Signore, giuro di
adoperarmi tutta per indurre la conciliazione tra voi ed il priore di
Lacedonia, o di ritornare qui se la mia commissione, per qualsiasi
evento, non riesca, o di non toccar cibo per trenta giorni, fuori
della comunione, se vorrà ritenermi per forza. E se spergiuro, possano
i demoni impossessarsi di me e menarmi senza posa pei quattro venti
della terra, come Malco che diede lo schiaffo al signor nostro Gesù
Cristo.

--Amen, risponde Ildebrando tutto radiante di gioia, seguimi adesso.

E sì dicendo si avvia, apre l'uscio senza curare di ravvilupparsi nel
mantello, ed esce.

Il castellano, che stava fuori a guardare la porta, al vederlo
retrocede di un passo, ed abbassa gli occhi. Ildebrando gli ordina:

--Al compiuto imbrunirsi della notte voi stesso, uomo misericordioso,
guiderete a palazzo questa donna avvolta in cappa di frate
benedettino. Imparate però ad interpretar meglio i nostri ordini per
l'avvenire, ed a compierli giusta la nostra intenzione.

--Santo padre, _benedicite_; e mi porti il diavo.... perdono.... sarà
fatto il vostro volere.

--Santo padre!! sclama Alberada sbalordita, e resta fisa ed immobile a
guardare Ildebrando, che seguíto dall'abate di Cluny si allontanava.

Ildebrando era divenuto Gregorio VII.



III.

ARISTOD. Or che n'è tempo
        Assicuriamci e ragioniam di pace.

LIS. E l'accettarla e il ricusarla a tutta
        Tua scelta l'abbandono.

ARIS. Udirne i patti
        Pria d'ogni altro conviensi.

LIS. Eccoli e brevi.
                                            MONTI.


I legati dunque che papa Gregorio mandava a Roberto Guiscardo ed al
principe di Salerno erano Alberada, camuffata della cocolla di frate,
sì che pareva giovanissimo novizio, e l'abate Ugone di Cluny, entrambi
incaricati di missione diversa. Conciossiachè se Alberada ebbe quella
delicata di ricondurre il priore sotto le leggi della Chiesa ed a
riconciliamento con Ildebrando, Ugone una più difficile doveva
compierne, e nel tempo stesso segreta, per modo che la politica del
pontefice doveva sentirsi, non dichiararsi di qual si voglia maniera.
E per vero forse il solo abate di Cluny poteva condurre al fine
sperato quella bisogna non trovandosi alcuno meglio adatto di lui a
tal genere di pratiche nella corte del papa. Tuttavia questa e' si
aveva tolta a malincuore. Poichè aveva compreso bene l'animo ed i
disegni di Gregorio, avvegnachè questi non si fosse con lui aperto, e
non gli avesse ingiunti i suoi severi ordini che in laconici ed oscuri
detti, come soleva.

Ugone abate di Cluny, poteva dirsi la più eccellente pasta d'uomo
quando arrivava a perder di vista le dottrine di Aristotile. Nei
filosofemi di costui egli aveva cercato addentrarsi, con una
perseveranza e con una pazienza da fare spavento, oggi che la più
astrusa sapienza si succhia da vasi _sparsi di soavi liquori_.
Compagnevole poi, motteggiatore, ilare, amico dei piaceri, si faceva
amare dalle donne, desiderare nelle brigate, dove con venustà
d'ingegno soleva raccontare aneddoti, miracoli, leggende di santi,
storie di paladini e di fate, ed avventure occorsegli pei molti suoi
viaggi. La sola macchia che poteva forse apporglisi era quel suo
pizzicare un tantino di gioliva comare, quel piccarsi di sapere per
minuto i fatti altrui. Ma tal difetto gli si menava buono volentieri,
quando e' ne contava delle così saporite a proposito dei pontefici e
dei principi che allora conducevano Europa. Ugone sapeva vivere bene
fra tutte le classi; trovava sempre alcuna cosa di piacevole a dire a
chiunque bazzicava con lui, passava volentieri sui peccatuzzi e sulle
debolezze di chicchesia, desideroso che alle sue scappatuccie si desse
pure passata. Non borioso della dignità di abate, nella quale
eguagliavasi ai più grossi baroni ed infeudava castelli e terre: coi
superiori lusingatore non servile, cogl'inferiori caritatevole e
blando. In una parola Ugone coglieva il buono ed il piacevole dei suoi
tempi difficili; alle tristizie non s'inchinava, ma non si ribellava
neppure, come quel severo uomo di Gregorio VII praticò. La regola
della condotta di lui chiudevasi in due parole: fare a suo modo, con
l'orpello dell'onore e del dovere: altrui tollerare.

Questi era Ugone abate di Cluny, quando, uomo come gli altri uomini,
alla vita terrena intendeva ed alle bisogne di questo mondo. Ma una
volta sollevato nei bui circoli della metafisica di Aristotile, una
volta preso ed impaniato in quel sistema--e qualcuno osava
medesimamente dire che talora l'abate lo facesse a disegno per
sottrarsi a cose a lui poco grate--una volta tolto in visione allo
empireo dello Stagirita, Ugone si astraeva per segno che nè le
miserie, nè le gioie della terra lo toccavano più, addiventava apata,
inurbano, disadatto, perdeva ogni avvenenza di maniere, ogni
attitudine a maneggiare affari, ogni sentimento di cristiano e di
uomo.

Fortunatamente questi parossismi di alienazione in lui non erano nè
lunghi, nè spessi. Egli aveva coscienza di quella malattia, chè
malattia bella e buona poteva addimandarsi tal feroce meditazione. Che
perciò ogni mezzo metteva in opera onde distorre la mente da
lucubrazioni scientifiche. Ed ecco perchè amava i piaceri, i più
delicati ed i più grossolani; usava le corti; accettava ambascerie;
cercava la compagnia delle dame; banchettava lautamente; impazziva
dietro a cacce ed a giullari; correva ai passi d'armi ed ai giudizi di
Dio, dotto mastro in decidere di colpi di daghe e di levate di falchi;
nutriva grossa corte di alani, smerigli, cantarini e destrieri. La
solerzia però che avvedutamente piaggiatrice e delicata adoperava
negli affari, faceva sì che poco e' si potesse ridurre al beato
soggiorno di Cluny, cui lo stizzoso s. Pier Damiano, in una sua
pistola (lib. VI, 4) chiama _orto di delizie fecondo di grazie diverse
in gigli e rose, compiuto campo del Signore, ubi velut acervus est
coelestium_. I principi ed i pontefici appellavano Ugone a compositore
dei loro negozi, lo spiccavano ad oratore per gl'interessi dei loro
Stati. Ed e' volentieri toglievasi dal sollazzevole soggiorno, e
viaggi sosteneva e disagi per rendere altrui servigio. Perocchè la
carità non ebbe ultima fra le molte sue virtù.

Così che, come il vescovo di Bovino si condusse alla tenda dei legati
per guidarli al padiglione del duca Roberto, Ugone si volse ad
Alberada e le disse sotto voce:

--Figliuola, noi abbiamo avuti dal santo pontefice ordini diversi; voi
quello di ricondurre al bene il priore Guiberto, io quello di metter
la pace fra i due principi. Pensate quindi a compiere la vostra parte,
chè io farò di sdebitarmi della mia.

--Dio ci secondi, risponde Alberada. E l'abate uscì.

Roberto Guiscardo già lo attendeva. Sotto magnifico padiglione di seta
di Persia e tela d'India, tolto all'emiro saracino nella conquista di
Sicilia, aveva fatto rizzare un trono coperto di velluto di Venezia
colore azzurro riccamente ornato. Su quel trono egli sedeva, vestito
del suo manto ducale, robone di colori diversi, lungo fino ai piedi,
soppannato di ermellino; in testa il berrettino traversalmente cinto
da zona d'oro, senza raggi, ornata di gemme--che era appunto la corona
di duca; l'anello al dito; la spada al fianco. Parte dei suoi dodici
conti, e dei suoi capitani, rifulgenti d'armi e la testa scoverta,
stavano in piedi nella tenda. A fianco al duca, sovra sgabello più
basso, sedeva Sigelgaita, cui nessuno distintivo di femmina avrebbe
contrassegnata, se non fosse stato dal bel giacco di maglia, intessuto
di anelletti di oro e di argento, che là, sul petto, le si arrotondava
di graziosa maniera, e dalle chiome inanellate che nudriva più lunghe
degli altri--quantunque le donne longobarde vergini usassero portare
intere le chiome e le tagliassero maritate. Ai piedi della sedia
ducale stava un paggetto di forse dodici anni, nei cui turchini
sguardi ben leggevasi quella scaltrezza prudente e vigorosa che in
tanta fama lo tornò poi, e tanto alto le levò. Questi era Boemondo,
più tardi principe d'Antiochia, figlio di Alberada e di Roberto.

All'avvicinarsi dell'abate, Roberto gli fece grazioso saluto e lo
invitò a sedere. Ugone si recò a baciare la mano della duchessa, e
s'inchinò prima al duca poi ai baroni che così pomposa corte gli
componevano. Indi presentò la lettera del papa. E Roberto la prese
dalle mani di lui e la passò al vescovo di Bovino, il quale lesse a
voce alta e sonora:

« Gregorio VII, Pontefice massimo, _servus servorum Dei_, a Roberto
Guiscardo duca di Puglia, Calabria e Sicilia salute ed apostolica
benedizione, se vorrà meritarsela.

« Sappiate, signore e figliuolo, che abbiamo date nostre lettere
credenziali ad Ugone abate di Cluny, il quale ve le presenterà: e lo
abbiamo altresì investito di poteri quanti bastano perchè voi possiate
con lui trattare sovra tutte le cose che egli esporrà. E con ciò siate
sicuro che noi ci obblighiamo a tener per buono e valevole
qualsivoglia accordo verrà fatto tra voi, e che ci compiaceremo molto
se ai nostri consigli darete fede e compimento. Vi mandiamo intanto la
nostra apostolica benedizione, e vi esortiamo a rendervene sempre più
degno per l'avvenire ».

  Datum Romæ, sub annulo piscatoris, Postridie nonas iunii anni MLXXV.

--Bene sta, ser abate, disse Roberto, vi riconosciamo per legato del
pontefice, ed investito di tutte facoltà di trattar con noi. Ma, se
Dio vi guarda, messere, noi non sappiamo di che cosa voi venghiate ad
interessarci per parte del santo pontefice.

--Sono bene per dirvelo, messer duca, risponde Ugone, dove vogliate
usarmi la cortesia di ascoltare.

--Favellate dunque, riprende Roberto, staremo attenti ad udirvi.

--Eccomi, continua l'abbate. L'animo del pontefice è vivamente
commosso delle dissenzioni che spingono l'un contro l'altro il
principe Gisulfo II vostro cognato e vostra magnificenza.

--Ah! gli è questo giusto il tribolo che molesta il santo padre? Me lo
aveva figurato di già. Tirate avanti.

--Questo per lo appunto, messer duca, perchè Gregorio VII, come padre
e capo della cristianità, deve acerbamente soffrire che i figliuoli
della sua famiglia si accapiglino con sì poca carità e si uccidano
senza misericordia.

--Ma il santo pontefice dovrebbe pure sapere.......

--Con la vostra sopportazione, monsignore, egli sa tutto. Sa di quale
brutale maniera il principe Gisulfo accogliesse le vostre pratiche di
mediazione a pro degli Amalfitani a Montecassino; quale invereconda
risposta vi mandasse; come foste provocato alle ostilità senza motivo.
Il beato padre sa come voi con blandi modi più volte sollecitaste la
pace ed intelaste primo gli accordi onde calmare Gisulfo. Sa come
questi accogliesse male le mediazioni di pace dell'abate Desiderio di
Montecassino e del principe di Capua; come borioso facesse ingiuria
alla vostra persona con parole, e disprezzasse la vostra amicizia.
Insomma il pontefice sa tutto.....

--Tutto ciò che voi avreste dovuto restarvi dal dire, l'interrompe
superbamente Sigelgaita, ricordando, ser abate, che favellavate avanti
di noi--di noi sorella del principe Gisulfo II di Salerno.

--Le domando mercè, madonna, se commisi la sbadataggine di
dispiacerle, peritoso risponde l'abate inchinando la duchessa,
perocchè la sensazione, giusta le dottrine dell'apostolo Aristotile, è
una potenza passiva cangiata dagli oggetti esterni; ed io aveva
perduto di vista che ella è sorella del principe. Ma non voglia però,
bella duchessa, punirmene col negarsi di afforzare le mie parole di
pace tra monsignore suo marito ed il principe; da poichè vado sicuro
che entrambi non saprebbero resistere ai voleri della più bella e
valorosa dama di cristianità.

La duchessa pianta fitti gli occhi addosso all'abate per comprendere
netto il valore di quello scipito complimento, e tace. Roberto
risponde:

--Giacchè dunque il santo padre conosce come noi fossimo stati tirati
pei capelli a questa guerra, perchè piuttosto a noi si dirige che al
principe?

--Si dirige innanzi a voi, messer duca, sapendovi tanto meglio
inchinevole agli accomodamenti quanto mal volentieri vi recaste a
queste ostilità: ed inoltre, perchè da voi debbonsi cominciare le
pratiche con accordare tre giorni o quattro di tregua, a principiare
da domani, onde noi potessimo penetrare nella città e dar iniziamento
ai negoziati. Infine, perchè voi pel primo dovete dettare a quali
condizioni consentite togliere l'assedio dalla città e ristabilire la
pace.

--Avete ragione, messer abate. Il papa ha calcolato da accorto uomo
mandandovi a noi primamente. Bene sta. Noi dunque accordiamo la tregua
dimandata; quantunque tutto avessimo disposto onde tormentare di tale
assalto le omai poco solide mura, che non sapremmo se avessero ancora
potuto reggere all'aspro travaglio. I patti poi della tolta
dell'assedio saranno i seguenti--Monsignor di Bovino, soggiunge
Guiscardo volgendosi a costui, datevi la pena di scriverli, perchè
sbaglio non cada nè sulla validità di essi, nè sulle nostre
intenzioni, che per nulla mai verranno mutate.

Ed il vescovo di Bovino essendosi messo sul punto di scrivere ad un
bel tavolo di larice intarsiato di avorio che occupava il mezzo del
padiglione, Roberto a voce ferma ed alta dettò:

1. La città di Salerno sarà messa a nostra discrezione unitamente alla
sua rocca, senza che i cittadini ne tolgano cosa, e demoliscano
pietra.

2. I cittadini consegneranno tutte le loro armi offensive, dal
verrettone alla lancia, dal pugnale alla spada, sotto pena di essere
condannato alla gleba chiunque alcuna di queste armi nascondesse.

3. Tutte le terre del principato di Salerno con borgate e castella
passeranno sotto il dominio normanno, ai cui signori saranno pagati
censi e livelli qual si trovano stabiliti dai padroni longobardi,
salvo i mutamenti da farci.

4. Il principe Gisulfo II abdicherà in favore di Roberto Guiscardo il
principato di Salerno, e, spoglio di ogni divisa, nelle mani di lui si
andrà a collocare in piena dedizione, unitamente a tutti gli altri
membri di sua famiglia e di sua corte, dei magistrati della città e
dell'arcivescovo.

5. Infine....

--Ma, messer duca, lo interrompe Sigelgaita, cosa mai di peggiore
potrebbe toccare al fratel mio se la sua sorte commettesse alla
fortuna delle armi?

--Cosa potrebbe toccargli? Uditeci bene, madonna, e voi altresì Ugone
abate di Cluny; perchè gli è bisognevole che voi sappiate la nostra
volontà pienamente. Se la città ed il principe di Salerno si ostinano
a tenerci occupati a questo assedio, noi facciamo sacramento che di
qui non muoveremo se non quando non ci resterà più una mazza d'armi
per percuotere le mura, un pugnale per uccidere i nostri nemici. E
quando, col favore di monsignor Gesù Cristo e del santo barone del
Gargano--cui facciam voto di offrire due candellieri d'oro del peso di
venti libre--quando abbiamo presa la città, questa sarà data prima per
otto giorni a saccheggiare ai soldati, poi bruciata tutta, ed il suo
suolo arato e seminato di sale. I cittadini verranno lasciati alla
taglia ed alla libidine dei soldati in loro piena discrezione di
ucciderli o farli schiavi, di tenerli seco o venderli ai corsari di
Africa. Il principe Gisulfo infine, e coloro della sua corte e della
sua famiglia, a noi arrendendosi, saranno mandati a purgare le loro
peccata in qualche chiostro; togliendo noi la città di assalto,
verranno tutti sgozzati come animali immondi, ed appesi dai piedi ai
residui merli delle mura. Questo è il pensamento che noi facciamo
sulla città di Salerno, sui suoi abitanti, e sul suo principe,
madonna.

--Della città e dei cittadini farete come vi aggrada, sclama
superbamente Sigelgaita: il suo principe poi, messer duca, sa bene
come i principi disgraziati debbano morire per non cadere in mano dei
loro nemici. Se egli l'obliasse, io provvederei; e voi, monsignore,
voi non potreste che insultare il suo cadavere--se io non fossi.

--Tanto meglio per lui e per la sua fama « risponde Roberto
trascuratamente. » L'ultimo articolo infine che aggiungerete, monsignor
di Bovino, gli è che, innanzi tratto, affinchè non fossero di modo
alcuno trafugati o nascosti, vogliamo a noi consegnati gli oggetti di
oro e di argento ed ogni maniera di pietre preziose che nella città si
trovano, onde compensare gl'interessi degli Amalfitani nostri alleati,
pagare delle spese della guerra il principe di Capua ed il priore di
Lacedonia, ed i soldati soddisfare. Questa è la volontà assoluta ed
irrevocabile di Roberto, duca di Puglia, di Calabria e di Sicilia.

--Monsignore, mormora dimessamente l'abate di Cluny, io non saprei con
questi patti quali accordi potessi ottenere.

--Peggio per voi, messere. Non pigliate equivoco però sulle parole,
perchè noi non diamo, nè dimandiamo accomodamenti, ma leggi--e leggi
quali più umane possono dettare i vincitori ai vinti.

--A questo stremo non è ancor giunto mio fratello, messer duca, ripete
disdegnosa Sigelgaita.

--Se non vi è giunto vi giungerà, risponde Roberto pieno di calma. Gli
è per questo che vorreste dormire meno placidamente le vostre notti,
madonna, e lasciare ad arrugginire la vostra spada nel fodero?

La duchessa tacque, ma i suoi sguardi scintillavano come quelli della
tigre.

Rispose l'abate di Cluny:

--Ci siamo intesi, monsignore. Io mi reco nella città e spero condurre
le cose a quel termine che debba soddisfare tutti. Solamente prego
vostra grandezza di accordarmi di poi un momento di colloquio segreto,
di cui forse abbisognerò, per favori di che io, abate di Cluny, debbo
particolarmente supplicarvi.

--Il vostro volere si farà.

E sì dicendo il duca si alzava, e il parlamento finiva.



IV.

                Tebani, ei grida in suon tremendo, Argivi,
                Dal reo furor cessate. Armati in campo
                Prodighi a nostro pro del sangue vostro
                Scendeste voi: fine alla pugna ingiusta
                Porrem noi stessi, in faccia vostra, in questo
                Campo di morte.
                                        Alfieri--_Polinice_.


Io non saprei propriamente dire di quale piglio l'iracondo e superbo
principe Gisulfo accogliesse le dure proposizioni del duca Roberto.
Basti sapere che mancò poco i legati, perocchè Alberada aveva seguìto
l'abate, non avessero a patire di quei crudeli sgarbi che il priore di
Lacedonia, a barba del dritto delle genti, usava fare ad oratori
impertinenti e malaccetti. Fu loro salvaguardia la lettera che papa
Gregorio a Gisulfo mandava, onde comandargli che ad accordi qualsiansi
discendesse; da poichè egli dava sua parola che tutto avrebbe regolato
in seguito con equità e prudenza, se allora gli era forza piegare alle
circostanze. E se Gisulfo non trascese, e' fu altresì perchè egli
aveva spiccati oratori al pontefice a fin d'indurlo a intramezzarsi
con Roberto per la pace o a soccorrerlo di modo qualunque. Acerbamente
non per tanto rispose, ed ogni proposta rigettò come infame. Ugone non
si scorò ai primi urti che terribili anch'egli aveva preveduti da un
carattere focoso e fiero. Cominciò quindi per dargli ragione, per
piaggiarlo; finì con ridurlo ad una considerazione chiara sullo stato
della città, spoverita di viveri e di coraggio, e su quello dei suoi
soldati, mancanti d'armi e pochi di numero. E Gisulfo convenia sopra
tutto. Però quando gli accennava di rendersi, e' si ribellava ad ogni
ragione, ogni patto, anche modesto ed onorevole, rifiutava. In guisa
che l'abate disgustato stava quasi per desistere dall'impresa,
allorchè un mezzo gli sovvenne, decoroso e non fabbro di ruine.

--E non vorreste voi dunque, monsignore, disse l'abate, non
condiscendereste voi che questa lite si decidesse per giudizio di Dio?

--Vale a dire? dimanda Gisulfo.

--Vale a dire che, in lizza chiusa, uno o più campioni longobardi
contro uno o più campioni normanni definissero la bisogna. Se i
Normanni avessero la fortuna di vincere, la città sarebbe loro
consegnata, senza più armeggiare, nella maniera stessa che se
l'avessero levata di assalto: se vincessero i Longobardi, come io ho
fiducia nella misericordia dei santi, l'assedio sarebbe tolto e tutto
restituito alla calma prima che tra la grandezza vostra ed il duca
Roberto esisteva. E con tal fatto gran numero di vite sarebbe
risparmiato, la città non manomessa, e forse tutto alla meglio
aggiustato.

--Il consiglio è più da cristiano che da guerriero. Mi piace però,
sebbene nessun riguardo dovrei usare a cittadini vigliacchi, i quali
le loro sostanze e le loro vite non sanno tutelare. Pure non sono
alieno dall'assentirvi. Cosa dunque ne pensate voi miei baroni?

Ed un giovane, uscendo dal gruppo dei cortigiani e capitani di
Gisulfo, parlò:

--Monsignore, con la permissione vostra e dei bravi signori che mi
ascoltano, io porto avviso che e' sarebbe meglio domandar prima come
di tal proposta intenda Roberto Guiscardo.

--Bene detto, principe Baccelardo, risponde Gisulfo. Ritornate dunque
al campo del Guiscardo, messer abate, e se mai consente che la guerra
termini per un duello, mandi qui qualche suo cavaliere a distendere
protocollo dei patti. Il qual cavaliere sarà da lui approvigionato di
poteri pieni per tutto regolare senza ulteriormente consultarlo.

--Parto al momento, monsignore, risponde l'abate.

Infatti, lasciata Alberada nella corte di Gisulfo, al campo ritorna
immediatamente.

Roberto Guiscardo stette in sulle prime dubbioso alla proposta. Non
perchè fiducia di vittoria non avesse, come che gli fosse noto bella
copia di valorosi guerrieri trovarsi pure tra i Longobardi; ma perchè
egli serrava in pugno la vittoria in massa con una città quasi alla
vigilia della resa. Per una tenzone in campo steccato invece egli
poteva andar soggetto a cento di quelle fortune avverse, le quali
solevano capitare anche ai più prodi, sia per un piede messo in fallo
dal cavallo, sia per un colpo d'occhio non pronto, sia per una
considerazione importuna che si ficca nella mente, giusto all'ora di
maggiore confidenza, energia ed oblianza del mondo esterno, sia in
fine per effetto di qualche talismano sulla persona o sul corridore
del cavaliere, distrutto dalla benedizione del sacerdote, non tolto
dal giuramento del campione. Ma infine, perchè rifiutare il duello e'
sarebbe valso la confessione che nel suo campo non pugnavano cavalieri
da stare propriamente a fronte ai cavalieri longobardi, Roberto
accettò--nel suo pensiero risoluto di battersi egli in persona, come
colui che della cosa più vivamente interessava. Chiamò perciò a
consiglio i suoi conti ed i suoi baroni, i quali unitamente a lui
avevano dritto a deliberare sulle cose della nazione, si fe' venire il
priore Guiberto, e dopo aver seco lui lungamente favellato in segreto,
lo fornì per iscritto di piena potenza nelle convenzioni pel duello,
ed al principe lo mandò unitamente all'abate.

Lunga, viva, tumultuosa divampò la discussione che tra il principe
Gisulfo, que' della sua corte, ed il priore Guiberto si aprì. Non vi
era via di convenire del luogo dove il combattimento si sarebbe
tenuto, perchè ciascuna delle parti lo voleva in terra dipendente
della sua giurisdizione per tema di tradimento; non si volevano
accettare patti gravosi da niuno dei due partiti, in caso di perdita;
non si sapeva decidere nè del numero dei campioni che avrebbero
combattuto, perchè molte sfide antecedenti erano pronte e precedute;
nè del numero di coloro che li avrebbero accompagnati alla lizza per
la sicurezza ed il mantenimento dell'ordine. Uno cercava trappolar
l'altro lasciando o chiedendo patti per sottrarsi alla promessa,
soccombendo. Ciascuno intendeva regolare a suo modo le condizioni
della pugna, e voleva giudici e marescialli di campo il di cui favore
si sapeva d'innanzi. In somma avrebbero ambedue bramato dar la legge a
proprio talento.

E l'abate, distribuendo torti e ragioni ora all'uno ora all'altro,
sceglieva un equo mezzo in ogni articolo, alla cui ragionevolezza
dovevano infine entrambi star sodi. E per tal modo si venne a fine di
compilare lungo protocollo, di cui facciamo grazia alle nostre
leggitrici, segnato da Gisulfo e da Guiberto come commissario di
Guiscardo, e da ambo i legati del papa. Ma come i patti che tutte le
possibilità prevedevano--ed in quei tempi di buona fede e mica
cavillosi e casisti come i moderni era facile--come i patti furono
stabiliti, messo da banda il priore, altra discussione tra i guerrieri
di Gisulfo cominciò.

Il campione doveva essere uno solo. Chi sarebbe stato costui?

Il principe Gisulfo, come il lione che si arrogava tutte le parti,
voleva essere egli stesso, perchè lo più interessato. Il fratello di
lui, Rainulfo, per affetto glielo contrastava, dichiarando, male stare
che allo Stato si togliesse il capo, avventurandolo a tanto periglio,
ma che, meglio a lui si addiceva, inspirato da eguale passione,
doveroso di battersi con pari vigore. Baccelardo protestava altamente
che giammai, per qualsiasi mezzo, avrebbe sopportato in pace che altri
gli avesse messo avanti il piede, dove trattavasi di torre vendetta di
Guiscardo e dei seguaci di lui; ch'egli avrebbe suscitati tumulti, si
sarebbe scagliato nel campo da forsennato, insomma che, ad ogni modo,
o avrebbe combattuto egli stesso ovvero il duello, per quanto era in
lui, non sarebbe avvenuto. Altri baroni adducevano altre
considerazioni e pretese onde ottenere la preferenza. In una parola,
nella corte facevasi matto baccano, e poco mancava non si venisse ai
pugnali.

Allora l'abate, che aveva assunta la parte di Nestore in quel
consiglio di furibondi, sentenziò

--Principe, baroni, trovo buone le ragioni di ciascuno, lodo la
generosa indole di tutti, che vorreste cogliere tanta nobile occasione
per far mostra di valore e di carità di patria. Ma non è questo il
lato della quistione che debbasi esaminare. Di che si tratta qui, miei
signori? Si tratta di vincere il campione nemico per liberarvi della
guerra. Si tratta di vincere il più prode tra i prodi Normanni, che al
più prode dei prodi Longobardi verrà opposto. Ora, se Iddio vi aiuta,
io dimando, castellani, come è dunque che la prodezza si mostra? Con
le parole ardite, mai no: perchè di parole temerarie abbondano anche
meglio i più vigliacchi. Coi fatti dunque si debbe provare la
valentia, ed ai fatti io vi appello.

--Ed in che modo? dimanda Gisulfo che stava attento ed impaziente ad
udire.

--In che modo? continua l'abate, eccolo. Quanti siete che volete
essere i Curiazii di Salerno? Poniamo dieci. Ebbene questi dieci si
disputino fra loro chi debbe affrontare il nemico.

--Ci uccideremo tutti, rispose sorridendo Baccelardo.

--Con vostra licenza, bel cavaliere, mai no. Io non consiglio che con
le armi ciascun di voi faccia prova di sua gagliardia, ma per altro
mezzo qualunque, e tale che e' crederà più acconcio, e che noi
giudicheremo assai valido. C'intendiamo?

--Sì bene, messere abate, sclamò Baccelardo. Voi però non potete
sapere che non sempre la forza decide della prodezza di un guerriero,
ma più sovente ancora la destrezza. Ed infine, gli è con le armi che
noi dobbiamo batterci, non coi sorgozzoni o col randello, come pare
che la sapienza vostra voglia accennare.

--Voi parlate da scaltro mastro di guerra, bel cavaliere, soggiunge
l'abate. Io però di lunga sperienza so pure, ed ho inteso dire dalle
migliori lance d'Europa per le corti che ho frequentate, che giammai
forte ed accorto cavaliere cedette campo a cavaliere più destro e più
debole. E codesta fortezza e prudenza io vorrei che si mettesse a
bilancia in una lizza.

L'abate aveva forse torto; però il suo consiglio prevalse e si propose
pel domani tal pruova singolare.

Il priore di Lacedonia, avvegnachè la sua missione fosse compiuta, non
tornò al campo: sia perchè fosse vago di assistere a quel saggio di
vigoria--ed al principe Gisulfo non dispiaceva che sì forte ed inteso
guerriero dell'oste contraria vedesse un po' quali uomini essi
avessero ad affrontare, e se non giungesse fino a paventarli li
ammirasse--sia perchè sotto il cappuccio di uno dei legati a Guiberto
era sembrato di scorgere alcuni tratti che ad Alberada somigliavano.
Restò quindi, proponendosi recar domani a Guiscardo, in una col
protocollo dei patti, il nome del campione.



V.

                ATAL. Ah! je suis de son sort moins instruite que vous
                                Cette esclave le sait.

                ACOMAT.                     Crains mon juste courroux,
                                Malheureuse; réponds.
                                            RACINE--_Bajazet_.


Nel punto stesso furono ordinati i preparativi della lizza: e perchè i
patti della tregua erano stati soscritti, molti famigliari uscirono
dalla città per provvedere di oggetti opportuni comandati dai loro
padroni. La quale tregua giovò altresì a Gisulfo onde far provigioni
per degnamente ospitare i legati del pontefice, cosa che non si
sarebbe per fermo potuto fare, se la cinta dei soldati normanni
durava. Perocchè lo stremo dei viveri nella città toccava il colmo, e
medesimamente la moria dei cittadini. E Gisulfo avrebbe tolto invece
cedere la piazza che malamente accogliere gli ospiti suoi,
segnatamente poi che e' conoscevasi da tutti quanto l'abate di Cluny
fosse amico delle brigate gioiose e morbinoso in fatto di desinari.

Si trascorse dunque lietamente la sera, fra i vini di Diamante e di
Sant'Eufemia e fra gli ambrati moscadi di Trani, che allora, com'oggi,
formavano la delizia dei bevoni. La profusione più pazza si osservò
nella cena. Perocchè con la profusione facevano spanto di loro
grandezza i Longobardi, dove che i Normanni si piacevano più della
delicatezza squisita delle vivande, come più sobri e da un tempo
meglio ingentiliti. Non mancarono bardi e buffoni che rallegrassero la
mensa di canzoni e di motti ora spiritosi ora pungenti, e sempre a
spese dei convivali, i quali pe' primi ridevano delle facezie. Vi
furono suonatori di viole, e ciccantoni che occupavano il basso della
sala, ed ora tutti insieme ora a parte a parte si facevano udire,
rispondendo eco tumultuosa alle coppe percosse.

I favellari intanto, che placidi e ragionevoli dalla guerra erano
partiti, senza verun riguardo alle dame principiavano a mutarsi in
ingiurie alle persone ed in petulanze a causa del lavorio del vino.
Caddero sul tappeto le discussioni di politica. Perocchè la politica
fu sempre la broda a cui ciascuno si credette in dovere d'intingere il
proprio biscotto, ed in tutti i tempi il leone morente a cui anche
l'asino può scagliare il suo calcio. Si venne dunque a ragionare dei
torti di Roberto Guiscardo; delle sue brighe col papa; della condotta
di Gregorio VII; delle pertinaci ostilità di costui col priore di
Lacedonia; del _placito_ di Montecassino; della sparizione di
Alberada; del ripudio di costei, e di cento altre di quelle cose che,
sgominate, inutili, inopportune, scipite, zampillano alle mense,
quando i liquori slegano lo scilinguagnolo tanto al sapiente che allo
stupido.

--Ed io sostengo, disse l'arcivescovo di Salerno, che il pontefice ha
fatto sgozzare Alberada in qualche fondo di chiostro, giusta la
condanna dei canoni, come colei che violò le leggi claustrali.

--Ma in quali canoni, monsignor riverito, dimanda il priore, ha vostra
mercede letto di codesta crudele condanna?

--Per il carro di s. Eliseo! voi dunque, ser priore, non avete mai
studiato nella _Georgica_ di Virgilio:

    Dulce ridentem Lalagen amabo,
        Dulce loquentem?

Alberada è stata strozzata come il cappone del vassallo a San Martino.

--A proposito, messer abate, chiede Baccelardo ad Ugone di Cluny, non
sarebbero esse vere le parole di monsignore arcivescovo?

Ugone, che con gli occhi fitti nella sua coppa, quasi dal fondo di
quella dovesse vedere a pullulare da un istante all'altro qualche
cosa, si aveva fatto più volte passar d'innanzi il fiaschetto senza
toccarlo, alcun poco scosso da Baccelardo, che da un lato gli sedeva
da presso, risponde come se si risvegliasse subitamente dal sonno:

--Gli è veramente così, miei figliuoli: _la materia è ciò che non è nè
chi, nè quanto, nè come, nè niente di ciò per cui l'essere è mosso_.
Non vi sembra chiara l'idea? Non ne siete voi finalmente padroni?

--Codesta è una balorderia, riprende gridando l'arcivescovo, brillo
piuttosto, se per rispetto alla sua dignità non vogliam dirlo briaco.
La materia è la materia, come Roberto Guiscardo è un corsaro, e sua
moglie Sigelgaita una pazza. Figuratevi un tanghero, come codesto buon
figliuolo di legato che vi siede a fianco, matto abate di Cluny, e che
becca i cibi come un passero, non beve vino come quel povero papero di
Gregorio VII, e non parla, come il pievano di Santa Severina a cui una
meretrice tagliò la lingua coi denti; ecco la materia; per la quale:

    Motus doceri, gaudet ionicos
      Matura virgo, et fingitur artubus
      Iam nunc, et incestos amores
      De tenero meditatur ungui.
    _Quod erat demonstrandum._

--Voi avete mentito come un Lombardo che vende uno smeriglio degli
Appennini per un falcone d'Arabia puro sangue, grida Gisulfo, voi
mentite, messer arcivescovo di Salerno, chiamando pazza mia sorella,
e, se non foste poeta, vi direi improbo o scempio.

--Ed io vi rispondo, messer Gisulfo, sclama l'arcivescovo alzandosi,
che voi foste dieci volte più matto di lei quando la sposaste a
Roberto Guiscardo, che aveva già in moglie altra bellissima donna, e
che amava monna Sigelgaita come io amo l'acqua nel vino--e fosse pur
l'acqua benedetta nel sabato santo.

--Ed io torno a dirvi, becco di un prete, ruggisce il principe
vinulento anch'esso ed alzandosi del pari, che voi mentite come un
giudeo, perocchè Roberto Guiscardo sposò mia sorella, quando,
trovandosi parente di Alberada, l'aveva già ripudiata.

--La ripudiò per gelosia,--scappa di bocca all'abate di Cluny, quasi
non volendo.

Queste sbadate parole furono come il lupo negli armenti, la scintilla
nella polveriera. Mille voci si levano, un buon numero di commensali
si alzano rovesciando fiaschetti, doppieri, fiale e bicchieri e da
tutti i punti si grida: No, no!

--Mai no, mai no, grida il principe con più veemenza degli altri,
Roberto ripudiò Alberada perchè le era parente, perchè tra i parenti è
peccato il matrimonio, perchè... perchè...

--Per gelosia, replica con fermezza il priore di Lacedonia
intervenendo a sua volta nel colloquio, per gelosia puerile ed infame;
dappoichè quella donna tanto oltraggio non meritava. E la colpa è
vostra, della vostra storditezza, fantastico abate di Cluny.

E così parlando, gli occhi fissava sopra Alberada, che, tutta celata
nel cappuccio a gote, si rannicchiava per tema di non essere scoperta
da Gisulfo, capace di trascorrere a qualche violenza, ubbriaco come
trovavasi. Costui però non ristava dallo strepitare:

--Non è vero, non è mica vero; io non so nulla di codeste storie. Voi
pure mentite, priore di Lacedonia, al pari di quest'arcivescovo cotto
come monna. Vi sfido a dimostrarmi che Alberada fu ripudiata per
gelosia, ovvero a darmi ragione dell'insulto, qui, sul momento, con la
spada o con la lancia, a piedi o a cavallo.

--Io non temo darvi qualunque ragione, risponde Guiberto, anch'esso
caldo alcun poco, potrei provarvi con la daga e col pugnale che ho
detto la verità, che io non soglio mentir mai parlando di quella pura
donna che mi fu moglie, e che l'infame Ildebrando mi tolse. Ed è ben
mestieri che sappiate, messer principe, che giammai la sorella vostra
sarebbe andata a sposa di Guiscardo, se questo smemorato di abate non
cacciava da' ferravecchi non so quale storia, che giammai avrebbe
dovuta contare, poichè dessa riassumeva la confessione di due uomini;
e che, dopo udita quella fatale leggenda, Roberto saltò in bestia,
ricordandosi come Alberada ritrosa lo avesse seguito all'altare.

--Che ritrosia mi contate, continua a sbraitare Gisulfo, cos'è codesta
ritrosia, cos'era codesta ritrosia; dite tutto, parlate chiaro, qui si
tratta dell'onore di mia sorella.

--Quella ritrosia, riprende il priore, non era se non pudore e carità
del padre, cui doveva lasciare a morir deserto e solitario nel
castello di Cariati. Or quella verecondia interpretando di poco amore,
o amore per altrui, Roberto, la notte stessa, vi mandò per il vescovo
di Bovino a domandare la mano di vostra sorella, ed all'alba egli pure
mosse alla volta di qui. Voi sapete poi come, di tutto ignara la
povera fanciulla, chè diciotto anni solamente contava allora Alberada,
credendo festeggiare gli ospiti di suo marito, molte cortesie
praticasse a voi ed alla sorella vostra, messer principe, e come
servendosi alla mensa il pavone, il duca Roberto si alzasse e dicesse:
Conti e baroni, vi presento la mia novella moglie Sigelgaita sorella
di monsignor Gisulfo di Salerno, perocchè ho già ripudiata la prima
moglie Alberada, come quella che fu figliuola di una nipote di mio
padre.

--Ebbene, ebbene, che cosa vuol dire codesto? gridava Gisulfo, non
vuol dire forse che era parente? Chi l'oppugna? Chi sostiene che
Guiscardo fece male? Chi accusa di ciò la sorella mia e me?

--Alcuno, riprende il priore, si biasima il modo. Alberada era
presente. Alberada in contegno tranquillo e rassegnata bacia il suo
figliuolo Boemondo sulla fronte ed esce. E voi, messer Baccelardo, che
allora eravate paggio di quella dama e a lei più che mai caro e
gradito, voi giuraste, e gittaste sulla tavola, proprio innanzi al
duca Guiscardo, il vostro guanticino di velluto come pegno da
sostenere il dì che avreste cinto il cingolo della milizia, che
Alberada era la più bella donna, e la più ingiuriata dama di
cristianità. La duchessa Sigelgaita sorridendo raccolse quel guanto,
ed attaccatogli un nastro dei suoi capelli, ne fe' dono a Roberto. Ora
sappiatelo, messer cavaliere, che Roberto ancora lo porta appeso alla
guaina della sua spada, aspettando che da Baccelardo adulto venga
riscattato il pegno di Baccelardo fanciullo.

--Ed io giuro a tutti i santi del paradiso, dice Baccelardo, che il
pegno sarà ridomandato, sia che la fortuna mi secondi domani ed io
sorga campione di Salerno, sia altra volta, prima che scorrano sei
mesi a contare da oggi.

--Io non so di che parliate, io non so di quali insulsi racconti
accenniate, ser priore, riprende il principe Gisulfo; io comprendo
solamente che qui si calunnia l'onore della sorella mia, sposata dal
Guiscardo per impeto di gelosia, come dite, non per elezione di amore.
Andiamo, in nome della SS. Trinità e di tutti i santi, io voglio esser
chiaro di tutto; io voglio udire codesta istoria. Poichè se vero è,
come è verissimo che voi mentite, io giuro di toglierne tale vendetta
da passare in esempio per l'avvenire ed insegnare di qual maniera fa
mestieri parlare di una nobile dama longobarda. Sbrighiamoci. Chi è
dunque che deve cantarci codesta filastrocca? Non sareste voi per
avventura, messer abate--messer abate di Cluny?

--Io per l'appunto, monsignore. Ma pregherei vostro valore di farmene
grazia, da poichè sento venirmi male; o almeno posporla fino a domani.
Perocchè tre sono le condizioni della _forma_, o, per farvi comprender
netta la dottrina dell'apostolo Aristotile, materia e forma sono
principio delle cose increate; la materia contiene la possibilità di
ciò che può ridursi una cosa; la forma porta la cosa possibile
all'attualità ed all'energia. Ond'è...

--Per la croce di Cristo! scatta su di nuovo Gisulfo, cosa diavolo mi
state sciorinando di forma e materia, e di sentirvi male e di
attendere?... Steste voi pure sulle brace come s. Lorenzo,
favellerete--favellerete sull'istante, e direte la storia per filo e
per segno, tal quale la contaste a Melfi. Io rispetto gli uomini della
Chiesa e gli oratori del papa. Però non avrei ritegno farvi appendere
ai merli della rocca come un nibbio, e farvi frecciare per tre dì, se
ricusaste darmi pieno ed ampio conto delle impertinenze che costoro si
sono permesse a spese della famiglia mia, e che altri hanno udite--A
voi, soggiunge poscia Gisulfo voltandosi verso i coppieri, recate
un'anfora di vino all'abate, onde si rinfreschi la memoria; e badate
bene, Ugone di Cluny, che io bevo una brocca d'acqua per dissipare
ogni tenebra che alla mente avesse potuto portarmi il vino, onde non
v'immaginiate di uccellarmi. E me e questi signori dovete convincere,
che tanto voi come il priore di Lacedonia diceste il vero, quando
dichiaraste Alberada ripudiata per gelosia.

L'abate di Cluny, che già viaggiava per le regioni del peripato, al
baccano dei commensali, alle gomitate di Baccelardo, il quale sovente
gli volgeva la parola sedendogli allato, alle minacce dell'ebro
principe, in quello stato di tutto capace, torna pienamente in sè. Si
frega la fronte con l'acqua fredda, si passa la mano sugli occhi, e
levasi un momento da sedere per disperdere affatto ogni nube dal suo
cervello, poi il principe Gisulfo prega:

--Monsignore, io farò il vostro piacere raccontandovi per minuto i
fatti: vi bastino questi. Ma dispensatemi svelarvi i nomi delle
persone. Ciò si attacca alla mia coscienza; ed io toglierei meglio
sperimentare ogni vostra minaccia anzi che palesarvi gl'individui i
quali mi facevano tal loro confessione, maggiormente poi che costoro
son uomini che vivono ancora, e da Dio collocati a posti sublimi.

--Sia pure così: raccontate.

L'abate si asside e comincia.



VI.

                Elle a voulu sa perte, elle a sû m'y forcer;
                Que l'on me venge. Allons, il n'y faut plus penser.
                Helas! j'aurais voulu vivre et mourir pour elle;
                A quoi m'as-tu réduit, epouse criminelle?
                            VOLTAIRE--_Marianne_.


--Dovete dunque sapere, mie belle dame, che in una piccola terra di
Toscana, non ha molti anni, viveva un falegname, povero ma distinto
per pensieri onesti. Dio aveva confortato il suo letto maritale di due
figliuoli. Il maggiore, chiamato Cuno, aveva indole, figuratevi!
tenebrosa e selvaggia come toro non domesticato, carattere altero,
indomito, e sopra ogni credere ostinato e tenace nel suo proponimento.
L'altro poi, Goccelino, di otto anni più giovane di Cuno, era un
folletto, vispo, franco, sempre vago di piaceri e di armi, generoso e
liberale come poteva. Perciocchè il corpo, giusta le dottrine del
santo padre Aristotile, prende la qualità dall'elemento che prepondera
e sovrabbonda; ed in Goccelino sovrabbondava il fuoco che è misto a
tutti i sentimenti o a nessuno.

--Volete voi sì o no lasciar da banda codesto Aristotile, cui nessuno
conosce fra i principi longobardi o normanni? l'interrompe Gisulfo.

--Egli era greco, esclama semplicemente l'abate. Or bene, questa
opposizione di carattere dei due figliuoli non è a dirsi se
contristasse il Bonizone, il quale, uno almeno dei fanciulli,
destinava per l'arte sua. Ma il primo pensava solo da mane a sera a
far sgorbi sulla segatura, quasi volesse scrivere. Ed in fatti si
assicura che un tabellione, entrato nella bottega del falegname per
ordinare non so qual lavoro, avesse letto in uno di quei trastulli le
parole di Davide: _dominerà da mare a mare_. E sì che il taciturno
putto nulla ancora conosceva di scrittura! Ovvero quel tristanzuolo
andava in traccia di vecchie pergamene, di vecchi scartabelli, e
nascosto in un angolo della casa simulava leggere, restando giorni
interi in tal atto, dimentico di cibo e di bevanda. E quando non
trovava di questi balocchi, metteva ogni suo sforzo ad arrampicarsi
sui punti più culminanti della casa, oppure sollevava i più grossi
ceppi da terra, addestrandosi così a superare tutte le resistenze, e
livellarsi a tutte le altezze ond'isfidare la vertigine.

--Ma che domine ci entra codesto con Alberada, la gelosia, Sigelgaita,
il diavolo e le sua corna? dimanda Gisulfo impaziente.

--Prego la vostra cortesia di udirmi, continua l'abate.

L'altro figlio di Bonizone al contrario teneva sempre dietro a
picchieri, a falconieri, fabbricava labarde di legno, arrolava
garzoncelli e comandava l'assalto di baluardi di neve, impazziva
dietro a canterini, alani e girofalchi, sì che il povero padre non mai
sapeva ridurlo a casa, neppure con le batoste, di cui col monello non
mostravasi avaro.

--Gli era forza, sclama Guiberto, perchè questo fanciullo era nato ed
aveva vissuto, nei suoi primissimi anni, in casa dei signori di
Coreggi di Parma, dove sua madre era donna di governo, e dove la
vecchia castellana lo tenne quasi figlio tra i militi e la corte del
castello.

--Può esser anche ciò che gli avesse formato il carattere, risponde
l'abate: ad ogni modo, Bonizone di là lo ritrasse per fare un
falegname come lui. Ma non gli riescì. Allora, vedendo che la sua
prole non voleva saperne del suo mestiere, per non farla crescere
nell'ozio e quindi nel mal costume, mandò il maggiore ad un suo
cognato, abate nel monistero della Beata Vergine del monte Aventino di
Roma, perchè lo iniziasse nella carriera monacale, affidò il secondo a
suo fratello, il quale occupava la carica di siniscalco presso uno dei
più grandi feudatari del paese d'Italia.

--Alla buon'ora! sclama Baccelardo.

--Dio sa ciò che fa, replica l'abate continuando. Bonizone restò
dunque deserto nella povera sua casa, perocchè gli era morta la
consorte nel mettere a luce Goccelino, là in Parma. Lo confortavano
solo le liete novelle che riceveva da suo cognato. Cuno infatti con
prontezza d'ingegno ed avidità di apprendere senza limite progrediva
nelle lettere, e compiva i doveri religiosi di tale austera
perseveranza che lo facevano addimandare il _piccolo santo_. Però il
buono abate non visse lungamente.

--Mori d'indigestione, grida l'arcivescovo, io lo conoscevo; e fu
desso che mi apprese l'arte dei menestrieri.

--Così dissero gli empi, risponde l'abate peritoso: il vero è che morì
di gocciola. Ora, siccome Cuno, tra pel favore dello zio, tra per
natural talento usava di orgogliosi modi verso tutti i monaci, niuno
rispettando, anzi qualcosa garrendoli della troppa lassezza nei doveri
religiosi, e si mostrava duro in tutte le opere che con la sua volontà
contrastavano; così i frati, all'elezione del novello abate, nemico di
suo zio e di lui, a pieni voti lo cacciarono via dal monistero.

--Birboni di frati! sclama l'arcivescovo di Salerno. Se fosse stato un
donnaiolo lo avrebbero nominato priore. Erano ben dessi, va!

--Figuratevi, belle dame, se Cuno piangesse, continua l'abate, nel
mettere piede fuori la soglia claustrale. Egli a vero dire non
piangeva già di dolore e di vergogna. Piangeva per offeso amore di sè,
per dispetto, e forse un tantino ancora per qualche visioncella
ambiziosa svanita. Pur nullamanco decise lasciarsi morire di fame. Ma
Iddio non abbandona i figli suoi, poichè provvede gli uccelli di
piume, gli agnelli di lana, come dice Salomone...

--E l'ubriaco di sete, soggiunge Baccelardo.

L'abate sorride e prosegue:

--Dovete dunque sapere che era stato grande amico di suo zio, un uomo
piacevolone, quell'arciprete Giovanni Graziano, che fu poi papa
Gregorio VI. Aveva costui veduto parecchie fiate il giovane Cuno, e
dallo zio ne aveva udito _mirabilia_, riguardo all'ingegno ed alla
pietà. Gli si era perciò venuto affezionando. Usciva dunque un giorno
l'arciprete della chiesa di San Paolo, allorchè gli parve di scorgere
alcuno che cercava evitarlo, e questi somigliare a Cuno. L'arciprete,
curioso, accelera il passo e raggiunge il giovane, il quale rosso nel
volto come bragia a lui si nascondeva. Cuno racconta tutto
ingenuamente. L'arciprete, che l'aveva pigliato per l'orecchia,
l'ascolta, lo crede, e perchè pizzicava anch'esso un po' dello stesso
umore sel mena a casa. Indi scrive a Bonizone che non pensasse più a
suo figlio, perocchè egli avrebbe tolta cura dell'ulteriore educazione
di lui, e che avesse pregato per entrambi.

--To'! questa sì che è sublime! sclama l'arcivescovo di Salerno,
incaricarsi dell'educazione di un giovane quel Gregorio VI, che fu il
più grosso barattiero del suo tempo, ed a cui per la smisurata
ignoranza il popolo romano ebbe ad assegnare un collega nell'esercizio
del ponteficato! Oh! _spectatum admissi risum teneatis amici_?

--Voi favellate da sapiente, monsignore arcivescovo, risponde l'abate,
ma Bonizone pregò tutti i giorni per l'arciprete, e non pensò più a
suo figlio. L'arciprete poi comprò il papato da Benedetto IX e si
dimandò Gregorio VI.

--Sì signore, l'interrompe ancora l'arcivescovo. Io ero a Roma allora.
E fu nel tempo in cui Enrico III scese in Italia e venne a Roma, dove,
come sapete, regnavano allora contemporaneamente tre pontefici:
Gregorio VI a Santa Maria Maggiore, Silvestro III a San Pietro a
Vaticano, Benedetto IX a San Giovanni a Laterano.

--Appunto così, continua l'abate. Or bene, Enrico accolse a Sutri un
concilio, dove il solo Gregorio comparve, e ne creò un quarto papa,
Clemente II. L'arciprete non si ostinò a restare nel ponteficato.
Depose la tiara incautamente compra, e venuto in molta grazia
dell'imperatore, unitamente al suo protetto lo accompagnò in Germania.

--Per divenirvi, sclama il priore, un bravo condottiere di lanzi, il
più prode fra tutti a menar le mani con la grazia di Dio, a vuotare
fiaschetti di Borgogna, e rimorchiare fanciulle.

--Dio l'avrà perdonato, mormora l'abate continuando. Cuno dunque si
divise dal glorioso arciprete, entrò in un chiostro dove compì la sua
istruzione, profferì il voto, e fu innalzato a priore.

» Ora lasciamo costui ad indurirsi peggio nelle rigidezze del convento
e ad alimentare ambizioni nel silenzio, e torniamo a Goccelino nel
castello... permettete che ve ne taccia il nome.

--Messer no, risponde Gisulfo, vi ho permesso tacer delle persone non
dei luoghi; dite dunque in qual castello avevano allogato Goccelino;
perchè noi già cominciamo a pescare di chi diavolo voi raccontate.

--Non fareste poi un miracolo! sclama l'abate qualcosa brusco. Indi
più rassegnato soggiunge: Sia fatto il vostro piacimento, tanto più
che ciò nè pon nè leva alla fama di chicchesia. Goccelino quindi
veniva educato nella fortezza di Canossa in Toscana. Lo zio di lui era
di quegli uomini bisbetici che credono un nipote essere una tignuola
che Iddio manda per rosicchiare le costole del vecchio albero. Lo
accolse perciò agriccio un cotal poco. Ma quando, guardatolo più da
vicino, scorse un giovanetto che aveva vantaggiosa figura, occhio
vivace, ardita risolutezza nell'espressione tutta del sembiante, lo
azzeccò dalle orecchie, e levatolo fino all'altezza del suo capo, che
non era poco! lo baciò in fronte e gli disse:

--Quel bestione di mio fratello non saprà fare nè porte nè casse, ma,
se l'è tutta opera della sua persona, per la luce di Dio! che sa fare
figliuoli bellocci.

Indi guardò in fronte il cattivello e con un tal qual piglio che non
voleva significare durezza ma nemmanco benevolenza, soggiunse:

--Piccolo mariuolo! in questo castello sei entrato coi piedi dalla
porta, pensa a non uscirne del capo per qualche abbaino. Qui son tutti
santi. Qui si parla più con gli occhi che con la bocca. Qui gli uomini
non valgono un baccello di fava. Qui si nomina in vano il nome di Dio,
almeno dugento volte al giorno, il vino si beve con l'acqua, alle
donne si parla al buio. Se sarai santo in casa, come un apostolo, e
diavolo al campo, come un gendarme tedesco, ti prometto io che di
codesto tuo legno saprò cavarne alcuna cosa. Ma se ti dai troppo
attorno a frascherie di donne ed a bazzecole mondane, come per
esempio, la caccia, il suono, il canto, e che so io, prega il tuo
santo protettore--e qui non mancheranno d'assegnartene uno--pregalo di
provvederti di buone gambe per varcare di un salto i quattro ricinti
del castello, perocchè te li farò saltar io dall'alto di qualche
merlo. _Per omnia secula seculorum._

» Il giovanetto, che intrepido e con gli occhi spalancati lo aveva
ascoltato, risponde tosto:

--_Amen_ ».

» Il vecchio siniscalco sorrise, e dicendo fra sè:

--Questo galuppo la sa lunga, la sa »! andò via.

» Ricevuto di così strana guisa, Goccelino non si sconfortò, che anzi
traendo partito dall'originale omelia dello zio, quantunque
garzoncello, s'infinse e si adattò per modo a quella corte bigotta,
che in pochissimo divenne il beniamino di tutti e paggio della
contessa Beatrice. Il vecchio siniscalco strabiliava come egli, con
settant'anni di fedeltà, non godesse di altrettanto favore, e
ripeteva:

--Quello scimiotto di ragazzo infinocchierà tutti, infinocchierà!

Il ragazzo però crebbe adolescente, l'adolescente si fe' giovane, ed
il paggio passò a scudiero. Un matto cappellano, che fabbricava versi
come il cuciniere i pasticci a torre, si aveva tolta la pena di
ficcargli nel cranio alcun buon migliaio di frasi latine, e
gl'insegnava la gramatica, la teologia, la geometria. Non gl'insegnò
filosofia perchè quello spropositato animale di mastro Donizone
credeva Aristotile eretico. Vedete la bestial creatura! Nonpertanto lo
addestrava in cento corbellerie di dialettica; nel tempo stesso che il
marchese Goffredo se lo recava appresso saltando fossi a cavallo,
fracassando crani della mazza ferrata, e forando corazze con la
lancia. Goccelino sembrava un demonio nell'un mestiero e
nell'altro--sebbene, a dir vero, meglio in quello del soldato che in
quello del teologo.

--Diavolo, diavolo, sclama l'arcivescovo, ci sono anch'io. Ora so di
chi si favella.

--Tanto peggio per voi, dice l'abate, e continua, stringendosi nelle
spalle:

» In questi tempi capitò per quel paese l'imperatore Enrico III. Il
marchese gli andò incontro per festeggiarlo, e menarselo al castello.
Lo accompagnò Goccelino come scudiero. Vorreste voi, ser priore,
raccontar questa parte della mia storia che anche voi conoscete, onde
lasciarmi riposare? chiede l'abate indirizzandosi a Guiberto.

--No, sclama secco secco costui. E l'abate sospirando continua:

--Una sera l'imperadore ed il marchese Goffredo cavalcavano forte per
arrivare a Parma. Il tempo era nebbioso, tutto il giorno aveva
piovuto, e cadeva ancora un'acqueruggiola come vapore. Il Taro che
dovevano passare gonfiava, talchè aveva menato via anche il
ponticciuolo di assicelle che i borghesi vi avevano costruito pel
comodo traffico della campagna. Il marchese disse all'imperatore:

--Sire, corre adagio tra i borghigiani, che non agisce da uomo
prudente chi affronta il Taro in furore. Consiglio perciò
vostr'altezza di arrestarsi alcun poco qui, fino a che la corrente non
si abbassi.

--Il proverbio dice, l'interrompe il priore Guiberto,

    Che l'estrema unzione innanzi prenda
    Chi il Taro nel furor di guadar tenta.

--Torna lo stesso, risponde l'abate. L'imperatore all'osservazione del
marchese fece una smorfiuzza di sprezzo, e per tutta risposta sprona
forte il ricalcitrante cavallo, ed entra nel letto del torrente. Ma
non vi ebbe appena messo il piede che puff! cavaliere e cavallo
scompaiono sotto i fiotti della torbida corrente. Come sapete, tutti
erano rimasti indietro, non escluso il marchese; e tutti
indietreggiarono ancora più, spauriti e schivi di affogare nel fiume.
Però Goccelino non bilancia neppur tanto. Salta da cavallo, si segna
della croce, e vestito di maglia come trovavasi si gitta nell'acqua.
La corrente già travolgeva precipitosa il corridore dell'imperadore,
questi non appariva. Goccelino, cui lo zio, se vi ricordate, aveva
minacciato annegare nell'Enza, che scorreva poco giù del castello,
dove non si fosse condotto dritto, era addivenuto perito nuotatore e
palombaro. Si spinge perciò giù nel fondo del fiume, afferra
l'imperatore dalla gorgiera, e facendo forza di braccia per sotto la
corrente stessa, lo tragge all'altra riva. Un grido di giubilo metton
tutti i cortigiani del marchese e di Enrico; niuno però si avventura
tampoco al valico. Così che dall'una sponda stavasi tutto il numeroso
seguito dei due principi, dall'altra Goccelino che si teneva
l'imperadore del capo giù sulle ginocchia onde fargli vomitar l'acqua,
e richiamarlo in sè. Non passa guari in fatti che Enrico rinviene. Il
suo primo sguardo cade su i pavidi suoi vassalli, l'altro sull'ardito
giovane, che, col capo scoverto ed il ginocchio a terra, diceva:

--Perdonate, sire, se ho posta audacemente la mano sul corpo
dell'altezza vostra. Consentiamo tutti che foste Alessandro Magno nel
campo, ma non sapremmo condonarvi che così giovane vogliate morire
affogato come lui.

--Bravo! sclama Baccelardo, le parole non furono meno belle
dell'azione.

--Sicuro! ed Enrico III, che anima nobilissima e generosa aveva, lo
guarda un momento, indi l'alza, e ponendogli famigliarmente la mano
sulla spalla, gli dice:

--Cavaliere! va pure superbo di aver salvata la vita ad Enrico III.
Non vogliam noi togliere giovane tanto prezioso e fedele al marchese
Goffredo nostro parente: ma se nulla mai potessimo fare per te in
qualunque tempo--perchè noi ne lasceremo altresì memoria nel nostro
testamento--per la beata vergine di Goslar! non devi che dire una
parola sola, e chiedessi tu il più bello dei nostri feudi imperiali,
ti sarà accordato sul fatto.

--Mercè, sire, risponde Goccelino; l'altezza vostra viva lunghi anni;
a me basta la gloria di aver toccata la vostra sacra persona.

Il torrente intanto era declinato, il guado reso più praticabile, e la
gente dell'imperatore varcata all'altra sponda; così che la sera si
giunse a Parma--Enrico III aggiustò le cose d'Italia e ripartì per
Lamagna. Goccelino, cui l'imperatore in persona aveva armato
cavaliere, restò. Non che lo rattenesse vaghezza del paese d'Italia,
ma perchè il suo cuore non batteva più libero.

--Ah! sclama la principessa di Salerno parimenti alla mensa con le sue
dame, supponevamo bene noi che la storia doveva andare a finire così.
Tirate avanti, bravo abate.

--Tutte le storie dei giovani cavalieri, madonna, finiscon così,
riprende l'abate salutando del capo la castellana.

» Trovavasi dunque al castello una Bertradina figlia del conte...
figlia di un conte, damigella della divota contessa Beatrice,
giovinetta, se volete niente avvenente, ma fastosa di natali
nobilissimi e d'immaculata virtù. Su di costei aveva messo l'occhio
Goccelino. Per molti anni egli tenne celato questo amore,
contentandosi di muta adorazione e della proferta di uffici che la
damigella non accettava mica con fierezza. Ella sembrava anzi
incoraggiare l'ardimento nel giovane di qualche occhiata carezzevole,
che era quanto dire in una corte di santi, dove l'amore veniva
considerato come peccato. Dopo l'avventura dell'imperatore, Goccelino
si fe' più ardito. Egli svela chiaro alla damigella le speranze osate
concepire, richiede da lei franca risposta.

--Ed ella? dimanda Baccelardo.

--Ella non lo scacciò già con alterigia: solamente piena di contegno
lo rimise al giudizio del padre suo.

--Ciò era giusto, mormora la principessa.

--Madonna, sì. Ora il conte che aveva solamente questa figliuola ed
era ricco e borioso, quasi quasi non fe' cacciar via villanamente il
cavaliere dal suo castello. Gli ordina però di non rimettervi più
piede, e mai più favellare di sua figlia, il cui nome reputava
macchiato nella bocca di un uomo, per le vene del quale scorreva il
sangue di Bonizone il falegname. Poi ne muove lamento al marchese ed
alla pia moglie di lui.

--Fu un minchione il vostro conte! risponde Gisulfo; io avrei dato
quello sfrontatello a divorare ai segugi.

--Come vi piace, monsignore, riprende l'abate. Certo è però che
Goccelino ebbe a sopportare grave riprensione dal marchese, lunga
omelia dalla contessa, ed aspro e schernevole garrito dal siniscalco
suo zio. Fastidito del pettegolezzo di quella corte, e' si accommiata
dalla castellana e dallo sposo di lei, e se ne torna a Parma dove i
signori di Correggio gli venivano altresì un poco parenti per parte di
madre. Ma perchè neppur quel paese lo guariva dal fernetico, se ne
rivenne alla casa paterna per disacerbare il duolo con la lontananza e
l'amorevolezza dell'eccellente padre suo. Capitò allora che Cuno fosse
a Roma. Goccelino vi si recò incontanente ed al fratello raccontò
dell'affronto ricevuto. L'altero spirito di Cuno, che nelle dignità
della Chiesa cominciava di già a progredire, ne rimane offeso.
Perocchè il suo carattere era addivenuto anche più violento e
puntiglioso nei rigori silenziosi del chiostro. In guisa che si fissa
in mente, e fa unico scopo dell'ostinata ed intraprendente sua volontà
di domare l'alterigia del conte, e di dare sposa al figliuolo del
falegname Bonizone la figliuola del barone. E senza metter tempo in
mezzo parte per Canossa.

--Non ci mancava che lui per completare la corona dei santi, dice
Guiberto sorridendo.

--In fatti, continua l'abate, in una corte, in cui i laici non
valevano una buccia, e la religione toccava il fanatismo, lascio a voi
considerare se un frate, ed un frate favorito consigliero di due
pontefici, e severo riformatore del costume degli ecclesiastici,
dovesse tornare potente e gradito come un santo. Accadde dunque così.
Da prima vi fu un po' di muffa dall'una parte e dall'altra, vi fu un
po' di discussione, un po' di orgoglio, un poco di ostinazione, ancora
qualche minaccia--il frate di gastighi spirituali, quelli di
temporali. Infine la contessa toglie acconciar ella le cose col padre
di Bertradina, e contentar tutti--tanto più che vivamente pel frate
s'interessava l'unica figliuola di lei, Matilde, le quale più fanatica
di tutti quanti, di nove in dieci anni, già dispotizzava sui parenti
in prima, e poi sui vassalli ed i feudatari. Ad ogni modo, non saprei
ben bene dirvi degli incantesimi che adoperasse la contessa Beatrice;
certo gli è, che il frate, il quale già mirabilmente se la intendeva
con Bertradina cui teneva dalla sua, fu contento, e si aggiustarono le
nozze.

--Giorno di maledizione! si lascia uscir di bocca il priore. Tutti lo
guardano. L'abate soggiunge:

--Goccelino sposa la giovane: ma si avvede presto che ella aveva per
lui, anzi che amore, ripugnanza, e che mal volentieri lo seguiva
all'altare. Invece pareva affascinata dal guardo di suo fratello.
Donizone il cappellano poeta, divenuto altresì abate del cenobietto
annesso al castello, benedisse gli sponsali; e Goccelino si menò a
casa Bertradina. Fece rumore in allora che, al domani, la giovane
sposa non ricevesse il _morgingab_ dal marito[1]. Se ne dissero delle
grosse, e parecchie anche insolenti.

  [1] Il _morgingab_ era un dono che il marito dava alla moglie dopo
    la prima notte delle nozze per averla trovata vergine. Ed era
    tanto l'entusiasmo degli uomini di allora per questa verginità,
    che le leggi ebbero a metter regola e modi ai loro doni.

Sia comunque, e Dio sa il vero, in queste trattative eran corsi
alquanti mesi; alcuni altri il frate ne dimorò nella casa paterna.
Infine ritornò a Roma dove seguì perigliosa e pertinace carriera di
consigliere e di morigeratore.

--Volete che vi nomini costui? domanda l'arcivescovo sorridendo:

--Dio ve ne preservi, susurra l'abate con voce pietosa, e continua.

» In quell'intervallo Goccelino, che dalla donna sua si era
compiutamente alienato, considerava quali spessi colloqui i due
cognati avessero fra di loro, quale perfetta intelligenza, e come
rammorbidivasi il cuore del fratel suo verso Bertradina. E sì che suo
fratello ad affetto tenero e compassionevole non aveva ancora, e forse
non aveva mai aperto il cuore! Ma Goccelino s'illudeva. Perocchè Cuno
non dava a quella donna che pietosi avvisi, e la confortava a
sopportar paziente il disgusto che il marito aveva concepito per lei,
e le cento scipite fole che sul fatto del _morgingab_ correvano pel
volgo. Sia però come vuolsi, certo gli è che dopo sei mesi Bertradina
sgravò, e mise a luce una bambina.

--Corpo dell'ostia! grida Gisulfo, dopo sei mesi voi dite?

--Sì, monsignore. Ma ciò non torna nulla al caso; imperciocchè anche
dopo sei mesi una femmina può partorire, e la prole vivere. Non
pertanto io non saprei dirvi quanta fosse l'indignazione di Goccelino.
Senza pigliar tempo, senza nulla considerare, ei si reca al letto
della moglie, e vilipendendola del nome di adultera, le lacera il seno
col pugnale.

--Dio ti perdoni, accecato! potè solo profferire la misera, e spirò.

--E Dio l'ha perdonato, sclama il priore suo malgrado e quasi parlasse
fra sè.

--Goccelino andava in cerca ancora della bambina, soggiunge l'abate,
allorchè Bonizone entra nella fatale camera. Egli si getta ai piedi
del figlio, gli abbraccia le ginocchia, e lo supplica di contentarsi
di un delitto solo. Goccelino spinge il vecchio ad urtare di capo nel
suolo ed esce, e fugge. Consentite intanto un momento, belle dame, che
io beva un gocciolo per inumidirmi il gorgozzule, poi ricomincio.



VII.

                Ito è così, e va senza riposo
                Poi che morì: cotal moneta prende.
                A soddisfar chi è di là tropp'oso--
                                _Purg._ II.


E dopo che l'abate si fu qualcosa rifrancato, ed ebbe bevuta una larga
sorsata di vino, continuò:

--Goccelino dunque corre subito alle scuderie, inforca il primo
cavallo che gli si para alla mano e vola a Roma. Cuno era partito
allora allora per l'abazia di Cluny. Goccelino gli tiene dietro.
Appena e' si arrestava la notte per dare un po' di strame alla
cavalcatura. Viaggiava solo, fosco come il turbine, furibondo come il
tigre. Egli fece periglioso e stentato viaggio, scavalcò montagne di
nevi eterne, valicò fiumi terribili, affrontò uragani, fame, incontro
di belve feroci; e sempre in una tetra tensione di spirito, superò
tutto, e giunse al monistero di Cluny. Non si nomò Chiese di Cuno suo
fratello; ma questi era assente. Intanto gli fu proferta ospitalità se
volesse attenderlo.

--Starà lungi molti dì? dimandò.

--Verrà stasera, gli risponde il frate portinaio, forse domani. Certo
non tarderà guari, perchè deve ricevere il voto di certi novizi che
debbono far professione, _Kirie eleison_! E siccome l'abate è a Goslar
con l'imperatore Enrico, il padre priore farà la funzione, _Christe
eleison_! Potete dunque attendere, ser cavaliere, se avete voglia del
riverendo priore, e gustare un gocciolo, _Kirie eleison_! che il
cellario può offrirvi buono come in ogni altro castello di barone.
_Kirie eleison! Christe eleison!_

--Avete detto che torna domani? replica Goccelino.

--Cosa avete, ser cavaliere? chiede inquieto il portinaio, vi
sentireste forse male? _Kirie eleison_! Gli è pur vero che il padre
priore con reliquie ed _agnus dei_, con miracoli e senza guarisce
infermi, _Christe eleison_! ma evvi ancora il vecchio padre Adalberto
che.....

--Addio, frate, grida l'altro, e volgegli il dorso.

--Goccelino scomparve. Il portinaio allampanato gli tiene dietro
dell'occhio; infine si segna di croce e sclama:

--Gran peccatore dovrà essere colui che per fermo veniva a confessarsi
al priore. _Christe eleison!_ La sua faccia però non è quella di un
contrito. _Kirie eleison!_ Ricusare anche un gotto! _Christe
eleison!_--io me ne intendo di queste botti: gran peccatore! pingue
furfante!

--Il brav'uomo che era quel portinaio, soggiunge l'arcivescovo. In un
mese che passai a Cluny mi fece cotto quarantadue volte.

--Ne abbiamo fatto un santo dell'ordine, sclama l'abate, e Dio l'ha
nel suo seno. Poi continua:

» Il priore infatti arrivò la sera, ma infermo. Il primo suo pensiero
fu di andare a ringraziare s. Benedetto del prospero esito della sua
spedizione, poi di cercare il letto.

» Al domani la chiesa rigurgitava di gente per contemplare la cerimonia
di quattro o cinque novizi che profferivano il voto. Un sacerdote
celebrò la messa. Finito l'evangelo i novizi si trassero avanti
l'altare. Allora dall'attigua sacrestia uscì un frate col capperuccio
calato per ricevere le loro promesse.

--Ah ci siamo, dice la principessa, io rabbrividisco di già.

--E vi è di che, riprende l'abate. Tutto il popolo infatti aveva
assistito con divozione alla messa; ma con più fervore di tutti,
giusto là presso ai balaustri di marmo del coro, avevano fissato un
cavaliero che della fronte piegata nelle mani, immobile, fervoroso
come un santo, aveva orato senza distogliersi mai.

--Birbo di santo! dice l'arcivescovo.

--Appena però si comincia la funzione della professione egli leva la
testa. E' sta un momento, un momento solo a squadrare il frate che la
compiva, indi di un lancio, come il gattopardo si avventa sulla preda,
si avventa su colui, e col pugnale lo trafigge alla nuca. Fu l'opera
di un baleno. Il povero cenobita manda un grido e cade supino. A
questa vista, Goccelino anch'esso si dà un colpo di mano sulla fronte:
poi come un fulmine passa per mezzo della gente atterrita, risale il
cavallo che gli teneva lesto un pitocco dietro il sagrato, e scompare.
Non era stato il priore che egli aveva ucciso.

--E chi dunque? dimanda la principessa di Salerno.

--Ma! un altro povero disgraziato di monaco, il quale aveva preso il
luogo di lui, ambasciato da febbre urente e trattenuto a letto.

--Demonio di un giovane! sclama l'arcivescovo di Salerno. _Enceladus
jaculatar audax!_

--Proprio un demonio, risponde l'abate, se vuolsi considerare
l'arditezza; ma buono quanto altri mai nel cuore. In effetti,
figuratevi se poche volte egli avesse versato il sangue sul campo di
battaglia! Eppure, il sangue di quell'innocente, sparso nel santuario
del Signore, pesò sull'anima dell'omicida come sull'anima di Caino
pesava quello del fratello. Egli erra qualche tempo alla ventura per
la Francia, ritorna nell'Italia, visita santuari, fa voti, cinge un
cilizio, si confessa con un santo. Ma vanamente, perocchè la pallida
spaventata faccia di quel frate gli stava sempre presente, sentiva
sempre alle spalle la voce di Dio che l'inseguiva gridando: omicida!
omicida!! Inoltre il padre di Bertradina ed il marchese di Toscana
avevano messa taglia alla sua testa, ed ei si vedeva perseguitato da
tutti--dall'ira degli uomini, cui temeva la meno, e dal castigo del
cielo. Così che si decide andare in pellegrinaggio a Gerusalemme.

--Lasciate il viaggio, ser abate, lo consiglia Guiberto, se no l'alba
ci coglie qui.

--Io non domando mica meglio. Non vi racconto dunque per minuto il
difficile e lungo viaggio, perchè già sento abusar soverchio della
cortesia di queste dame, e l'ore della notte inoltransi. Goccelino
compì il voto. Sul sepolcro di Cristo, la schiavina coperta di cenere,
il fianco allacciato da cilizio, pianse le sue peccata, si confessò,
fece spaventevole penitenza. Infine l'immagine del frate, e la voce di
Dio non lo perseguitarono più, ed ei si credette perdonato. Decise
tornare in Italia e comporsi cogli uomini, i quali non potevano
mostrarsi fieri dove che Iddio aveva accolto il suo pentimento. Sopra
galera veneziana s'imbarca dunque a Cesarea.

» Ostinata burrasca li travoglie lungamente. I corsari barbareschi
danno loro la caccia. Perigliano più volte andare a picco, e lunga
tormentosa agonia li travaglia. Infine un fil di vento forte li gitta
sulla spiaggia del Ionio, al lido di una terra di Calabria. I
Veneziani rimpalmano il legno e salpano per le venete lagune.
Goccelino, angustiato da febbre e stanco già di navigare, si arresta
quivi, sprovveduto di scorte e di panni. Si dirige quindi al castello.

--Qual castello? domanda Gisulfo.

--Uditemi, monsignore. A Cariati.

Il barone Giselberto, e la figliuola di lui Alberada si eran messi
allora allora a mensa. All'annunzio di un pellegrino, entrambi scendon
nella corte per riceverlo e menarlo al tinello. Il barone gli
scioglieva i sandali per lavargli i piedi, la giovinetta lo confortava
di differenti ristori. Goccelino rendeva loro mercè dell'ospitale
carità, e pregava che desistessero da quegli uffici.

Ma Giselberto dichiarava che, per lui, un palmiere figurava Iddio, e
perciò poco quanto gli potesse praticare.

--Bravo uomo! sclama Baccelardo. I Normanni non ebbero mai nè più
prode, nè più santo guerriero di lui.

--Infine l'infermo fu guidato al letto e vigilato con una amorevolezza
senza esempio. Eppure non gli avevano dimandato ancora nè del nome, nè
della condizione, nè d'onde venisse.

--La carità, figliuoli miei, è cieca.

--E più spesso sorda! dice l'arcivescovo sorridendo. L'abate prosegue:

--La malattia di Goccelino intanto volgeva al peggio, ed egli stesso
credeva di aver contratta la peste in Oriente. Però non nudriva alcuna
speranza di vita. Un giorno che più grave sentiva avvicinarsi l'ora
fatale, risolve scrivere a suo padre ed a suo suocero onde dimandare
loro perdono. Così fa, e le lettere partono per due vassalli che il
barone spicca.

Suo suocero lo aveva da lungo tempo perdonato--chè anzi non aveva mai
concepita veramente collera contro di lui, perchè anch'egli credeva
Bertradina colpevole, e braccheggiava dietro a Cuno, dentro Roma
sicuro e despota, per vendicare la seduzione della figlia. Bonizone,
giunto alla sua ora finale, agonizzava. Aveva presso di sè chiamato
Cuno, onde non passare al cospetto di Dio così sconfortato e deserto
di ambo i figliuoli. Cuno si era recato per dare al padre la
benedizione dei moribondi. La pietosa lettera di Goccelino arriva, li
commove entrambi. Bonizone lo benedice e spira.

--E la ragazza? dimanda la principessa di Salerno.

--La ragazza di Bertradina fu salva da Bonizone. Questi però non volle
tenerla presso di sè, sia che anch'egli credesse colpevole Cuno, sia
che gli premesse allontanare ogni memoria del vituperio. Aveva quindi
chiuso in un forzierino d'ebano il libro di ore di Bertradina, vi
aveva aggiunto una lettera d'invio della bambina, fatta da pubblico
tabellione di Soano, e l'aveva mandata a Cuno a Roma, per mezzo di un
pellegrino che si recava a Nostra Signora da Loreto e che aveva tolta
la missione di portarla. La fanciulla però non vi giunse e corse voce
che quel romeo l'uccidesse al colmo di mezzanotte, e del grasso
fecesse prezioso unguento pel male di luna.

--Oh! lo scellerato! sclama la principessa.

--E ve n'han tanti! dice l'abate. Cuno rese dunque gli ultimi ufficii
a suo padre, e si accinse a viaggio per le Calabrie, onde, se fosse a
tempo ancora, rinconciliarsi con l'illuso fratello, o ringraziare il
barone Giselberto e sua figlia della carità cristiana largheggiata al
pellegrino. I vassalli del barone gli tennero da guida.

--E rivide il fratello?

--Sì. Goccelino non era morto; chè anzi, mercè le amorevolezze di
Alberada e le mediche cognizioni di lei, riacquistava la salute e di
giorno in giorno volgeva alla convalescenza. Il barone non meno della
figliuola gli prodigò cure. Ma come lo vide mettersi sul meglio, lo
lasciò intero alla sapiente carità di Alberada, ed intese tutto alle
cacce ed ai banchetti cui e' grandemente amava.

--Il resto si prevede, dice Baccelardo,

--Ahimè, troppo, continua l'abate. La giovinetta passava lunghe ore al
governo dell'infermo, il quale, cominciandosi a riavere, raccontava
maravigliose storie di terra santa, e la pietosa iliade dei suoi
viaggi. Bella, ingenua, vereconda, lo ascoltava quella fanciulla, e
sovente versava lagrime di pietà. Dio la benedica. Dio conforti lunghi
anni quella pia, che io ebbi ventura conoscere ai suoi giorni felici!
Ah! non mai resterò dal piangere l'involontario male che io le feci.

--Era dessa bella? domanda la principessa.

--Ah, madonna, figuratevi che brillava come la stella del mattino.
Toccava appena la più fresca giovinezza, e nell'aria infantile del
sembiante le traspariva tale immaculato candore che inspirava nel
tempo stesso confidenza e venerazione religiosa. Ad una statura
vantaggiosa e svelta, talchè un cantore la pareggiò un dì ai cedri del
Libano di Salomone ed alla regina Saba, accoppiava un profilo
purissimo ed una carnagione bianca per modo che le venuzze cerulee del
seno vi si disegnavano sopra pallidamente. Il corruscare dello sguardo
ceruleo splendeva come i fuochi dell'opala, segnatamente quando
guardava alcuno dell'abituale sua benevolenza, lo che le dava qualche
cosa di non terreno, come quelle apparizioni di anime celesti di cui
si racconta nelle leggende, ovvero di quelle fate che proteggono le
difficili avventure di un paladino, come nei circoli della sera
sogliamo udire a narrare dai menestrieri. Non dico nulla poi della
soave melode della voce e della parola cortese che perenne le volava
dalle labbra. Allora io mi convinsi della dottrina del veggente di
Stagira, che l'anima occupa ogni parte del corpo secondo la totalità
della sua perfezione e della sua essenza, non già secondo la totalità
delle sue facoltà.

--Ser abate, si direbbe per Dio che voi l'amaste, dice il priore.

--Non sarebbe già la prima testa bianca ed il primo cuore freddo che
ciò abbia fatto, risponde l'abate.

Tanta bellezza dunque--e nei paesi, e nelle corti di Europa, perdonate
bellissime dame, io nulla mai vidi di somigliante--infiammarono
l'anima di Goccelino. Avrebbe voluto essere imperatore per elevarla
fino a lui! Divisava però, come col fratello si aprì, recarsi alla
corte di Germania, e supplicare Enrico di concedergli tanta parte dei
suoi favori da poterla impalmare. L'avesse pur fatto, chè quella donna
forse lo avrebbe tornato a virtù!

--Sì, mormora il priore, l'avesse pur fatto.

--Che può l'uomo, sclama l'abate d'accento commosso, quando Iddio
diversamente divisa? Dio infatti, nei suoi riposti consigli disponeva
diversamente. Ella era già fidanzata a Roberto Guiscardo.

Cuno giunse al castello. Tenera, effusiva dalla parte di Goccelino fu
la riconciliazione. Cuno lo perdonò. Vide anch'egli intanto la
giovinetta: seppe i pensieri di suo fratello. E fosse stato che Cuno
palpitasse pei giorni di quella fanciulla, con un uomo che tanto
ingiusto e brutale con Bertradina si era addimostrato, fosse stato
pietà di quella vergine pura, la quale, avvegnachè con solenne
promessa già fidanzata, sembrava sorbire lenta seduzione da Goccelino,
fosse stato infine che quel cuore di ferro anch'e' una volta si
schiudesse a teneri affetti, e per la prima fiata sentisse dolce moto;
certo, Cuno cominciò a colloquire più spesso con la fanciulla, e le
raccontava storie d'incauti affetti, e la teneva lungi da Goccelino
con parole scaltre.

--Ser abate, gli dice Alberada sotto voce all'orecchio, rammentatevi
che siete per isvelare la confessione di un uomo terribile.

--E chi lo dimenticherebbe? risponde l'abate segnandosi della croce.
Indi continua:

--Goccelino si avvide di quelle pratiche e qualche sospetto gli si
andava insinuando nell'animo. Si era levato già di letto, ed in parte
aveva racquistate le forze.

Una sera che costui, addossato ad un davanzale di finestra contemplava
malinconico tramonto, di sopra la sua testa, tra il merlato di una
torricella, Cuno ed Alberada favellavano. Le loro parole non si
udivano distinte, nè le pronunziavano tutte sul medesimo tuono. Ma
Goccelino ne udì tanto che l'anima si senti lacerare e rivivere nei
feroci affetti. Cuno, per compiutamente salvarla da suo fratello,
raccontava alla fanciulla normanna la storia di Bertradina. Goccelino
non proferì motto. La sera si addimostrò anzi lieto più del consueto e
più facondo; al fratello, che immaginava già cotto di quella donzella,
disse mille cose amorevoli. La notte però, mentre Cuno dormiva, egli
cerca della stanza di lui, e con sorriso feroce e diabolica voluttà
gli fa sulla persona tale oltraggio che fa inorridire e che mi è legge
per pudore celare. Nel castello intanto si parlò solamente di
pericoloso colpo di pugnale.

--Mio Dio! mormora Alberada sommessa.

--Indi scende alle scuderie, continua l'abate e simulando ordine
premuroso del barone, si fa aprire le porte del castello e fugge in
Germania--dove l'imperatore lo accoglie con ogni amorevolezza, e gli
tiene la parola datagli a Parma.

Il povero Ildebrando intanto......

--Ildebrando? sclamarono Gisulfo ed altri parecchi della mensa; gli è
dunque di lui e di suo fratello Guiberto, qui con noi, che racconta la
vostra leggenda, ser abate? Non ci eravamo dunque apposti nel
sospetto.

--No, baroni, scompigliato balbetta l'abate. Poi, rimettendosi,
soggiunge: io aveva altrove fisa la mente, e quel nome mi volò dalle
labbra scioperatamente. Non è di lui che io favello, non è di lui.
Altri sventurati volle Iddio provare coi fatti che io sono stato
costretto a narrare.

--Bene sta, ser abate, bene sta, freddamente dice Gisulfo; andate
innanzi, perchè noi sappiamo oggimai distinguere l'astore dall'airone.

E l'abate tutto rosso e mortificato proseguì:

--Il povero Cuno intanto dal sonno cadde nello svenimento. E per fermo
di emorragia sarebbe morto, se al maestro delle scuderie non nasceva
tardo dubbio di verificare, se veramente il barone avesse data quella
notturna commissione al favorito palmiere. Il maestro delle scuderie,
vecchio torpido e credulo, va su all'appartamento del barone e lo fa
risvegliare. Giselberto forte s'indigna della soverchieria che si
pensa fatta per trappolargli un cavallo, e manda a vedere alla camera
dell'altro fratello. Allo spettacolo miserando si commuove ognuno.
Tutto il castello si caccia sossopra, si mette in opera ogni
sollecitudine per aiutare il disgraziato. Cuno in effetti rinviene, e
domanda di Goccelino. Gli narrano della fuga di lui. Egli allora col
residuo di forze che rimanevangli, si rizza sul letto e di voce
vacillante susurra:

--Ascoltami Iddio, ascoltatemi Gesù Cristo, e vergine Maria, ascoltate
tutti, santi del cielo, angeli ed arcangeli, troni e dominazioni, il
sacramento che io fo. Se di questa ferita non muoio, possano le mie
ossa non avere quiete nel sepolcro, possa mancarmi il cibo alla fame,
l'acqua alla sete, il sonno alle pupille, possano i demonii
impossessarsi dell'anima mia e straziarla di rimorsi e di paure finchè
vivo, e col fuoco eterno dopo la morte, se non mi vendico di mio
fratello--fossimo entrambi a morire sul medesimo letto, fossimo
entrambi a comunicarci al medesimo altare--giuro di non perdonargli
mai, mai, mai!

--Mai! sclama fra sè Alberada colpita, mio Dio! che si richiede dunque
da me?

--Baroni, ecco la storia che io contai a Melfi, soggiunse l'abate di
Cluny, Cuno non morì. Roberto Guiscardo subito dopo sposò Alberada.
Innocente come era ed angosciata per doversi separare dal padre, la
santa fanciulla quasi invita lo seguitò all'altare. Questa memoria,
udendo il mio racconto, allucina Roberto, che appone ad amore per
altrui il pietoso stato dell'animo di colei, la quale avrebbe tolto
anzi morire che dipartirsi dal padre suo. Alberada fu ripudiata.
Decidete or voi, monsignore, se la verità noi favellammo.

--Vi domando perdono, ser abate, risponde Gisulfo, se vi aspreggiai di
parole, ed a voi altresì, priore di Lacedonia. Roberto agì da
forsennato. Alberada era innocente.

E sì dicendo il principe Gisulfo porgeva una mano all'abate, un'altra
al priore, e si alzava dalla mensa. I suoi ospiti lo seguivano. Allora
a lui si para innanzi l'arcivescovo di Salerno, Alfano, e dice:

--Ed a me, monsignore, a me non dimandate voi perdono dell'avermi
detto mentitore?

--A voi, messer arcivescovo, che ardiste dare del pazzo a nostra
sorella, fiero risponde Gisulfo, a voi non solo non dimandiamo scusa,
ma aggiungiamo che siete uno scimunito ubriaco.

Alfano a quelle brutali parole corrusca negli sguardi, e portando la
mano al fianco, dove soleva tenere il pugnale, fa due passi verso il
principe. Poi tutto ad un tratto ristà e dice:

--A domani, principe Gisulfo.

La principessa intanto dimandava:

--E Cuno ha perdonato il fratel suo, messer abate?

A questa domanda Ugone sembra interdetto. Ei resta un momento a
riflettere, poi risponde:

--L'ha perdonato.

--Mai! mai! sclama Alberada fra sè, uscendo dalla sala, mio Dio! che
si richiedeva dunque da me!

Allora sotto l'uscio della stanza il priore le si accosta all'orecchio
e dice:

--Alberada, deggio favellarti.

A quella voce ella si scuote: retrocede da prima, poi si accosta, e
presa da subito tremito che le invade tutta la persona, risponde:

--Non è più tempo, Guiberto, guárdati: fuggi--le terre d'Italia non
sono più per te.

Le nostre leggitrici han già del pari compreso che Cuno era
Ildebrando, ora Gregorio VII; Goccelino, Guiberto priore di Lacedonia.



VIII.

                Io vinsi al cesto
                Il figliuolo d'Enope Clitomede,
                Alceo Pleuronio nella lotta, a cui
                M'aveva sfidato; superai nel corso
                L'agile Ificlo; e nel vibrar dell'asta
                Polidoro e Fileo.        _Iliade_, XXIII.


All'ora di sesta del domattino tutto era in punto pel proposto
sperimento della forza e dell'agilità dei candidati al combattimento
con i campioni normanni. Avevano steccata una lizza nello spianato
della chiesa di San Matteo, che allora si edificava, e sopra cui
davano le finestre delle case circostanti. Da queste, sì la
principessa moglie di Gisulfo che le consorti dei suoi cortigiani
potevan tutto bellamente osservare. Ad una estremità del
parallelogramma avevano levato una tribuna, sulla quale sedevano, come
giudici della tenzone, Ugone abate di Cluny, Guaimaro conte di
Capaccio, Giordano sire del castello di Corneto nel Cilento,
Castelmanno figliuolo del conte Adelferio, e Giovanni figlio di
Ademario _il rosso_. Essendo tutti longobardi, stupenda vista e'
facevano con le loro lunghe barbe ondeggianti sui petti coverti a
guarnelli di bianco panno di Cipro. All'altra estremità della lizza
aprivasi la porta per introdurre i campioni già radunati in numero di
sette, ed erano, come si segnarono coi segni di croce sur una
pergamena tenuta dal maestro di campo di Gisulfo: Gisulfo principe di
Salerno; Baccelardo il _diseredato_ come veniva addimandato; Alfano
arcivescovo di Salerno; Astolfo figliuolo di Marino Capece di Napoli;
Pietro conte di Atenolfo; un milite chiamato Romualdo, e Laidulfo lo
Zanni. Il quale ultimo si segnò e scomparve dalla tenda, sì che tutti
pensarono non fosse una burla, e col maestro di campo si dolsero aver
ricevuto fra mezzo a loro un cotal satiro. Ma il maestro di campo li
pregò di star cheti, perchè quell'uomo, comunque e' si fosse alcuno di
loro non disonorava.

L'abate di Cluny celebrò la messa. I campioni l'udirono, giurando
sull'ostia della comunione di non fare per niun modo uso di ciurmerie
e d'invocazioni diaboliche onde vincere la prova. Dopo, l'abate si
recò al suo posto, i campioni alla tenda.

Innanzi di essersi cimentato alcuno non poteva assistere allo
sperimento dell'altro.

Ciò stabilito le trombe suonarono e la lizza si aprì.

Primo ad entrarvi fu il milite chiamato Romualdo. Un compagno di armi
gli recò grosso ferro di cavallo ben compatto, ben chiuso, saldo, non
forato. Romualdo andò dritto a presentarlo ai giudici, perchè
minutamente l'osservassero, poi lo presentò al popolo, fitto e
numeroso, che si addossava allo steccato, recandolo in giro. Egli
aveva le maniche del ghiazzerino di bufalo rimboccate fino al gomito;
portò il ferro sempre alzato in alto perchè di frode non si dubitasse.
E come lo ebbero tutti veduto, Romualdo ritorna presso la bigoncia dei
commissari, e lo lancia iteratamente in alto, facendo che netto
risuonasse al suolo. Poi lo riprende, lo rileva novellamente sulla
testa perchè tutti lo rivedessero intero, lo abbranca tra ambo le
mani, ed in due secondi senza sforzo, senza alterare il colore del
viso, come avesse rotta una ciambella, in due lo spezza, giusto nel
mezzo, ed ai giudici presenta i due pezzi, con lo stesso garbo, con la
stessa celerità che avrebbe messa un cerretano a fare scomparire due
bossoli.

--Bravo! bravo! grida la plebe: ed i giudici stessi lodarono sì la sua
forza che la sua destrezza.

Romualdo si appoggia delle spalle allo steccato ed aspetta.

Un araldo d'armi allora annunzia Pietro conte di Atenolfo, ed Astolfo
figliuolo di Marino Capece di Napoli. Nel sorteggio erano dessi usciti
dopo il milite. Entrarono in fatti i due signori accompagnati dagli
scudieri che recavano le spade e le mazze di acciaro. Anch'essi si
soggettarono alla cerimonia della visita. E poi gli era ben mestieri
che si fosse misurato il diametro dei manichi delle mazze rispettive;
e si trovò quello della mazza del conte Pietro un pollice e mezzo
circa, due pollici quello del sire di Marigliano Astolfo. Fatto ciò,
si portarono due ceppi nel mezzo dell'arena, sopra i quali ciascuno
collocò la sua mazza. Fu primo il conte Pietro a scagliare il colpo.
Alzò la daga lentamente sulla spalla sinistra, fissò il mezzo del
manico, ed il colpo cadde. La barra di acciaro è recisa quasi che
tutta; ma l'arma si rompe nell'elsa fra le mani del conte, di tal che
si accagionò questo incidente se intera non fu partita.

Il sire di Marigliano sorride, ed a volta sua alzando la spada, la si
vede corruscare per aria come baleno, la si ode sibilare e piombare
sul manico d'acciaro con la forza di un mangano. Ed una parte della
mazza era caduta da un lato del ceppo, l'altra dall'altro, messa in
due, netta come se fosse stata di neve.

I giudici applaudiscono al colpo poderoso, e la plebe grida forte:
_alleluia, alleluia!_ quasi avesse voluto adular quel signore. Del che
il conte Pietro adirato manda a dolersi col principe Gisulfo; e questi
ordina che fossero presi trenta di que' sciagurati e frustati, da
poichè e' non erano scesi nell'arena onde sollazzar la marmaglia e
togliere applausi da lei, ma per far generosa prova di chi meglio
avrebbe difesa la patria.

Il conte Pietro, che si era veduto umiliato da Astolfo, lo sfida alla
lotta. E' si credeva certo di vittoria, perciocchè statura gigantesca
aveva e membra robuste a petto di Astolfo, piccino anzi che no, e
segaligno. Il sire di Marigliano resta un istante titubante alla
sfida. Ma poscia, arrovetando la faccia, per solito pallida, accetta,
e senza pigliare indugi si cava il giubettino, e si colloca in
positura di aspettare l'assalto del nemico. A quell'inatteso
spettacolo i commissari ed il popolo si alzano per meglio osservare.
Ed in fatti il conte Pietro, vestito come si trovava di ferro, si
avventa sopra il sire di Marigliano per ghermirlo dal collo,
sollevarlo da terra, fargli perdere ogni equilibrio. Astolfo, al primo
assalto, sfugge il pericolo avvinchiandosi alle braccia di lui e lotta
di polsi onde ridurlo ad indietreggiare. Ma il conte sta fermo. Anzi
gli restituisce tal urto, che il meschino va a cader supino due passi
lontano. La sconfitta di Astolfo però è avvertita appena, tanto
sollecitamente risorge dal terreno e in piedi si mostra a fronte al
conte. Questi, confortato dal primo pegno di vittoria, ritorna per
aggavignarlo dal collo. E vi riesce, e lo solleva circa otto pollici
dal terreno. Astolfo allora sentitosi a quelle strette, gli si
attorciglia ai fianchi con le braccia, gl'involge le gambe tra le
gambe, e per tal modo lo stringe alla cintola che a poco a poco si
vede il conte Pietro allascare le braccia, la faccia da prima
s'impallidisce, poi colorasi a rosso, poi addiviene paonazza, poi
livida, infine si annerisce come la vôlta di un camino, strabuzza gli
occhi, il sangue gli rompe dalle narici e dalle orecchie, si spezza in
due, e cade resupino con Astolfo sul ventre.

E questi così fittamente si era attaccato al conte Pietro che le sue
braccia sembravano immedesimate nel corpo di lui. La corazza si era
avvallata sotto la pressione delle braccia, la spina dorsale si era
rotta, il conte Pietro era morto.

Cotal terribile prova fa restar tutti mutoli: e già si prevedeva che
il sire di Marigliano sarebbe stato il campione per combattere contro
il Normanno. Imperciocchè e' sembrava impossibile potersi dar saggio
di vigoria maggiore dei due che Astolfo ne aveva dati.

Egli si ritira alla tenda, dove aspettavano gli altri tenitori della
giostra, ed il corpo di Pietro conte di Atenolfo è menato via
dall'arena.

Gli araldi annunziano Baccelardo duca di Puglia e di Calabria. Perchè
questi siffattamente facevasi chiamare, agognando sempre ricuperare
gli Stati del padre suo Umfredo da Roberto usurpati.

Entrò nella lizza Baccelardo vestito di gabbano di velluto scarlatto,
avendo in una mano pennoncino dello stesso colore, e dall'altra uno
stocco lungo e sfilato somigliante tutto ad uno spiedo. E subito
appresso a lui vennero quattro scudieri, che menavano grosso toro nero
con la testa bendata, ed un cavallo leardo rotato, svelto, lungo,
vispo, che andava saltarellando dietro al palafreniere come un
levriere. Baccelardo vi salta sopra e comanda agli scudieri di
ritirarsi.

Egli allora si accosta alla bestia, si piega sul destriero, e con
l'elsa a croce dello stocco le strappa la benda. La luce del sole che
lo colpisce negli occhi fa restare il toro come stordito. Guarda il
popolo imbiettato nello steccato con torvo e lento sguardo, fiuta il
terreno, e con le zampe comincia a gittarselo alla pancia. Baccelardo
prima fa sventolargli innanzi del muso la banderuola rossa, poi lo
punge al fianco con lo stocco. Il toro mugnola ferocemente e non si
muove. Il cavaliere lo torna a tribulare in più parti con punture e
gli fa ripassare avanti agli occhi il rosso pennoncello. Ma anche
questa volta la bestia si contenta di far udire cupo muggito e pestare
dei piedi l'arena.

--Per l'anima mia! sclama Baccelardo, che torpido codardo animale!

E di bel nuovo forte lo punzecchia. Allora il toro tutto ad un tratto
dà un salto dal lato dove egli si trovava e gli va sopra. La presta
cavriuola che il giannetto spicca lo sottrae dal colpo cui giusto nel
bel mezzo del petto il corno formidabile aveva diretto. Baccelardo
fugge per lo steccato, sempre agitando la rossa banderuola, ed il toro
lo insegue. Infine questo si ferma e Baccelardo gli torna sopra ad
aizzarlo. E la belva novellamente ad inseguirlo sordamente,
orribilmente muggendo, ed egli a novellamente fuggire. Ma come il
cavaliere si fu accorto da quel muggito sordo e profondo, e dallo
scintillare dell'occhio, arroventato come carbone ardente, che il
parossismo del furore del toro toccava l'apice, e' si ritragge verso
la porta, dove stavano già presti gli scudieri, con le lance arrestate
per difendersi, e di un salto scendendo di cavallo lo consegna loro.
Quest'operazione fu l'affare di un minuto. Pure il toro, che all'altra
estremità della lizza lo puntava, incontanente gli corre addosso e si
trovarono l'uno a fronte dell'altro. Baccelardo adesso non solamente
non si ritrae, ma gitta lo stocco da un lato. Il selvaggio animale lo
fulmina prima di uno sguardo, indi piega la testa per menargli
terribile cornata. E di questa certo fuor fuori lo avrebbe passato e
slanciato a morir lontano sulle teste degli spettatori, se egli non si
trovava lesto a profittar di quella sfavorevole positura. Salta da un
lato, afferra il toro di una mano per un corno, sì che lo costringe a
ritorcere la testa, dall'altra per la coda irrequieta. Orribili ad
udirsi furono i mugghi della belva così disquilibrata e resa inabile
ad usar di sue forze. Perciocchè, chiunque una volta ha veduto una
_Corrida de toros_ sa, come a tutto disadatto sia questo in quella
situazione, e quali erano _las cositas_ che Pacquito Montes soleva
fare per _las sinoritas_ di Andalusia, ed io gliele vidi fare.
Infrattanto sforzi spaventevoli metteva la fiera onde raddrizzare il
capo, e palleggiarsi sulle corna l'ardito giovane; costui però,
puntando, soda ed inchiodata la teneva, e di un occhio feroce dominava
ed affascinava il sanguigno suo sguardo. Baccelardo allora descrive un
mezzo giro, costringe il toro, sempre in quella attitudine, a
seguirlo, lo trascina per l'arena fino innanzi alla tribuna dei
commissari. E come si è colà, mentre della mancina se lo teneva la
testa sommessa, con la destra gli scarica in un baleno fra le due
corna cotal pugno con la manopola di ferro, che l'animale dà in un
grido feroce ed a terra stramazza. Baccelardo tira quindi il pugnale,
sottile come uno spillo, e fra le due corna glielo caccia.

Tutti allora gridano: al miracolo, al miracolo; è uno stregone!! E le
donne segnatamente cominciavano a far delle croci a furia e
sclamavano: ecco il diavolo: _Iesus Maria!_ vedete là il diavolo.

In effetti, elleno non avevano torto. Dappoichè sull'impalcata che
copriva la tribuna dei commissarii, tutto ad un tratto si vede rizzare
un essere singolare, fino allora rimastovi accosciato. Colui aveva
piuttosto l'aspetto di satiro che di uomo. Della persona era basso,
scarno. I patimenti, e forse il digiuno, avevano consumato di sopra le
sue ossa ogni adipe, ogni succo inutile. Però egli era altresì restato
asciutto ed ossuto per modo, che i suoi tendini ed i suoi muscoli gli
si disegnavano sotto la pelle abbronzata, come in certi s. Bartolomei
che sogliono fare i pittori, per istomachevole e truce edificazione
dei fedeli. Il collo aveva toruto; la mano lunga, stecchita,
grandissima. Della faccia poi non distinguevasi gran cosa. Non aveva
che un dito di fronte e le livide labbra scoverte di pelo, tutto il di
più era irsuto di setolacce rossigne, folte e lunghe, che scomposte
gli piovevano sul petto--non escluso il naso piccino alzato della
punta verso la fronte. La quale fronte, bassa e stretta, circondava a
guisa di zona bianca, lenticolata, la testa piatta e schiacciata come
quella dei Samoiedi. In una parola, incarnava colui la figura di quel
pittore, il quale rimproverò il Caracci di non saper dipingere
animali, ed in animale dal Caracci fu ritratto, come nel museo
napolitano si può vedere.

Solo spiccatamente risaltavano in quel deforme capo due occhi
turchini, che vibranti e lucidi, quasi due fiaccole nel fondo di buia
caverna, rutilavano nell'orbita; poi i denti bianchissimi che
guarnivano una bocca, la quale fendeva la testa orizzontalmente in due
parti disuguali. Perocchè, tutto al rovescio degli altri uomini,
costui aveva corta altrettanto la metà del volto dalla bocca alla
fronte che lunga dalla bocca al mento.

Ei vestiva un giubbetto di cuoio di bufalo bollito, dall'attrito
raspato il pelo, dall'orgia e dall'incuria maculato in guisa da
sembrare screziato come il manto della tigre. Poi un paio di brache,
anche di cuoio di bufalo rattoppate di fresco a pelle di capra non
rasa dei peli. Alla cintura non portava arma, tranne il pugnale.

Costui era Laidulfo lo Zanni.

Laidulfo aveva veduto il prodigioso colpo di Baccelardo, ed il toro
atterrato. E' si lascia scorrere, della testa in giù, lungo uno
staggio che serviva da pilastro alla tribuna, e come un gatto salta
nello steccato. Ognuno pensò che, se colui non fosse davvero il
diavolo, non poteva mancar di essere per fermo una belva che si
avventava alla bestia uccisa per divorarla. Imperciocchè Laidulfo in
due salti è sul toro, ed afferratolo dai piedi, con gioia feroce
comincia a trascinarlo per la lizza. E' lo trasse fin presso la porta
di rincontro ai giudici. Dove essendo giunto, con ambo le mani apprese
ai piedi di dietro, sale sul parapetto di difesa che circondava il
recinto, solleva di terra la smisurata bestia, e principia a
dondolarla, a guisa di campana, a dritta ed a mancina. Indi mette uno
sforzo spropositato e la scaglia parecchi passi lontano da lui. Ciò
fatto dà novellamente un salto grottesco nell'arena, si slancia sulle
palizzate dall'altro lato, e dispare in un momento, come un momento
solo era durato l'apparizione e l'opera sua.

E la plebe che lo aveva riconosciuto e che per un suo eguale
simpatizzava, rompe ogni riguardo e grida bravo, _alleluia!_ Questo è
il campione che si voleva, viva Laidulfo il pazzo, Laidulfo il
buffone!

L'araldo interrompe le clamorose ovazioni, ed annunzia monsignor
Alfano arcivescovo di Salerno ed il principe Gisulfo.

I nostri lettori si ricorderanno senza dubbio con quali parole la sera
dell'orgia si separassero questi due signori, e come l'arcivescovo,
poeta famigerato ai tempi suoi e in seguito, fusse stato offeso
bestialmente dal principe. Non appena quindi un pochino di raggio
dell'alba si mise nella camera di Alfano, che tutta la notte, malgrado
il vino non aveva potuto chiuder pupilla, chiama a sè il suo maestro
di palazzo e manda a pregare Baccelardo si volesse compiacere a lui
venire. Al che, come Baccelardo ebbe obbedito, Alfano lo supplica di
recarsi incontanente in nome di lui, arcivescovo di Salerno, a sfidare
il principe per quella mattina, a primo transito o a tutta oltranza,
secondo a lui fosse gradito. Baccelardo gli fece da prima gravi
osservazioni. Però il prelato essendosi mostrato duro, gli fu giuoco
forza portarsi ad intimare la sfida. E Gisulfo, che uomo di cuore era,
l'accetta senza punto esitare, e decisero che si sarebbero battuti
quella mane stessa, nello steccato della prova.

Infatti montati ambedue sopra superbi cavalli e coverti di piastra e
di maglia entrano nella lizza. I loro scudieri portavano lance e
rotelle. I preliminari dell'abbattimento non furono lunghi. Convengono
subito che si sarebbero battuti fino che l'uno non fosse morto, o non
avesse dimandato mercè. Si situano quindi l'uno di rincontro
all'altro, avvegnachè lo steccato non fosse interamente atto a quella
pugna, perchè corto, e mettono in resta le lance dopo aversi attaccato
al collo gli scudi. Il maestro del campo fa suonare la tromba, e l'uno
sull'altro si rovescia. La prima corsa di lancia è fatale al principe:
perocchè la sua scivola sull'elmo di acciaro dell'arcivescovo, il
quale piegandosi, la schiva, e si va a piantar nel terreno. L'asta di
costui poi si rompe sul petto del principe dopo avergli forata la
rotella e la corazza, attraversata la maglia, e sfiorato alquanto le
costole. Gisulfo resta saldo sul cavallo: animosamente si tira dal
petto il mozzicone, e riprende la lancia che il suo scudiero gli
presenta. Novella lancia è data altresì ad Alfano, ed ai loro posti
ricollocansi. La seconda corsa è pure a disvantaggio di Gisulfo:
dappoichè egli fracassa l'asta sua sullo scudo dell'arcivescovo;
questi lo colpisce di tal poderosa maniera sulla corona principesca,
sormontante la celata, che rotte le gorgiere, lo fa percuotere delle
spalle sulla groppa del cavallo, e spiccar sangue dalle narici.

Il principe di Salerno sbuffava di modo orrendo così due volte
umiliato dall'offeso prelato. Si riprendono novelle lance, e si
situano per cominciar la terza corsa. Questa fiata però la fortuna è
diversa. L'asta dell'arcivescovo lambe il collo del principe,
sguizzando sulla polita spalliera, e va a ficcarsi nell'estremo della
groppa al cavallo; quella di Gisulfo passa Alfano da parte a parte dal
petto, lo ribocca, spezza le cinghie della sella, gli fa perder le
staffe, e sollevandolo di peso così infilzato, trascorre l'arena,
trascinato dal cavallo furioso per la ferita, e va a gittarlo sotto la
bigoncia dei commissarii.

Un grido di applausi fragoroso sbocca quasi involontario da ogni
banda. Gli spettatori giudicano unanimemente doversi a lui la palma
della vittoria.

Il misero arcivescovo intanto mormora le prime parole di quei versi
memorabili di Orazio: _Quo pius Eneas_, e muore--muore quale aveva
vissuto, valoroso cavaliere più che costumato ecclesiastico, fedele
fino all'ultimo respiro alla poesia, ad Orazio, al centenario Falerno,
che avevan formato la sua delizia invece della Bibbia.

Allora i giudici si riuniscono per decidere a cui spettasse l'onore
della pugna del domani contro il normanno campione. E primo il sire
del castello di Corneto si volge all'abate di Cluny per dimandargli
del suo parere. Ma l'abate, che si trovava sotto il dominio del suo
incubo sin dall'aprirsi della lotta, fraintende, e risponde:

--Il mio parere è che si seppellisca codesto arcivescovo, il quale è
morto da gagliardo dopo aver vissuto da epicureo. Ed egli è ben
mestieri che sappiate non intendere io per epicureo i settatori di
quella dottrina severa che stabiliva il filosofo di Samo, di cui
l'eloquente ed imaginoso Lucrezio sclamava: _Deus ille fuit, qui
princeps vitæ rationem invenit eam quæ nunc appellatur sapientia_; ma
quella sozza ed invereconda dottrina che professarono di poi i
discepoli suoi, e che Orazio, Petronio e Marziale cantarono, e che la
Chiesa condannò per canonizzare la sapienza del divino Aristotile. Ed
avvegnachè i precetti sublimi dello Stagirita sembrassero talora
eterodossi, perchè come il fulmine nasconde la sua luce nelle nuvole,
quel filosofo nasconde la sua sapienza tra le tenebre della parola;
non pertanto i santi Padri della Chiesa han convenuto, che niuna
dottrina meglio si addice alla santità dell'evangelo, i cui proseliti,
al dire di s. Giovan Crisostomo, son chiamati _fedeli, affinchè
mediante il disprezzo del ragionamento umano, alla grandezza della
fede si elevassero_. Io sovente ho meditate queste sante parole, e
della predestinata incomprensibilità di Aristotile mi son persuaso.
Pure non resterò mai dall'indagare cosa mai quell'onnipossente
intelletto intendesse con l'_entelechia_ e l'_univocazione
dell'essere_. Conciossiachè quel principio impalpabile, incorporeo,
etereo non ho saputo giammai conciliare come mai possa essere _essenza
della forma_, ed il _constituente dei corpi da cui ricevono
organizzazione_. Da poichè se è canone di logica che _dat nemo quod
non habet_.....

E molto Ugone avrebbe seguitato a dire. Ma gli altri quattro
commissarii, che vanamente avevano aspettato cavare un construtto da
questa cantafera, e che fosse infine venuto ad una conchiusione sul
fatto del campione, si tediano, e lasciandolo lì a predicare, si
tirano da un lato per giudicare la bisogna fra di loro. In effetti,
dopo alquanto di squittinio, e' decisero che:

« Al principe Gisulfo sarebbe toccato l'onore del combattimento per la
città di Salerno e le terre dipendenti dal principato, come quegli che
nella nobile lutta ogni altro aveva superato in vigore. Però essendo
stato egli ferito, ancorchè lievemente, ed essendo la pugna di
gravissimo peso, il suo posto si destinava al cavalier Baccelardo, il
quale non meno ardito e forte si era addimostrato.



IX.

                Voi imbottate come pevere:
                  I' vo bevere ancor mi.
                            POLIZIANO>--_Orfeo_.


La sentenza dei commissari, come che per tutte le considerazioni con
lui fosse giusta, al principe Gisulfo non talentò. E' si riputava non
solamente dei suoi dritti defraudato, ma insultato nell'onore, col
dare importanza a ferita per sè stessa di niuno momento, e che in
certo modo gli ottenebrava la pienezza della vittoria sopra
l'arcivescovo. Inoltre, egli definiva la prodigiosa forza di
Baccelardo meglio come bravo requisito di pugillatore, che come
valentia di cavaliere. Di più, un sospetto lo tribolava per allontanar
costui dal combattimento. Vale a dire, che essendo Baccelardo
normanno, avrebbe e' forse potuto non dimenticarlo intieramente,
quella gente vivendo sollecitissima della sua nazione, ed accordatosi
innanzi di qualche verso con Roberto, lasciarsi vincere allora, salvo
poi a riscattarsi l'onore della vittoria alcuni dì dopo. Infine
Gisulfo considerava che la sarebbe stata un'onta alla nazione
longobarda il non aver saputo mettere in piede un guerriero ad
osteggiare un normanno. E queste ed altre moltissime riflessioni, tra
generose e villane, andava facendo Gisulfo nel corso della giornata, e
pensava come distruggere la fatale sentenza, la quale, a vero dire,
non era stata proprio equa, avendo dimenticato affatto Astolfo, che
forse meglio di ogni altro si era condotto, e dichiarato Gisulfo il
più vigoroso tra i candidati. Ma, sia come vuolsi, avevano giudicato
così, e non potevasi da quello recedere, come da tutti i giudizi che
hanno spesso più inviolabilità che senno. Gisulfo vi pensò sopra tutto
il giorno; si chiuse a consiglio con alquanti dei suoi più intimi e
fedeli longobardi, si propose, si discusse, si confutò, si mise a
scrutinio. Infine, si appigliarono a partito fatale, per non dire
vituperoso.

Era una bella sera di luglio, una di quelle superbe sere italiane che
han formato mai sempre il delirio dei poeti e la disperazione dei
pittori. Iddio, che le ha destinate gelosamente per questo popolo,
tanto maltrattato dagli uomini, non patisce che l'opera suprema della
sua mano venga sfigurata dall'arte. Non vi era luna; ma più miriadi di
stelle ingemmavano la vôlta azzurra, e producevano quel voluttuoso
barlume cui s'imita nelle camere delle odalische attenuando la luce
coi veli. Dalla marina spirava aura deliziosa, tutta pregna ancora dei
baci degli aranceti di Sorrento.

Tutti dormivano. Solamente Alberada, nella cui mente si erano fitte
come chiodi le fatali parole del giuramento d'Ildebrando, non poteva
pigliar sonno. Ella si vedeva quel fantasima dinnante. Se lo vedeva
prima, come al castello del padre suo l'aveva osservato, pallido,
cupo, negli occhi riarsi, a giurare che giammai avrebbe perdonato al
fratel suo, giammai! Poi se lo rammentava come nelle camere della
Tomba di Adriano si era a lei presentato, febbricitante, ardenti gli
sguardi, convulso nel volto, che dava a lei commessa di condurgli quel
fratello, perchè con lui bramava riconciliarsi. E quell'uomo era
Ildebrando! quell'Ildebrando, Gregorio VII, il severo, l'inesorabile
pontefice, quegli che come globo di fuoco si levò nel suo secolo per
purificare o incendiare. Ella dunque ora passeggiava pensierosa per la
stanza, ora si fermava avanti la finestra spalancata e guardava. Non
guardava il cielo Alberada. Nel cielo aveva una volta messa la sua
confidenza e si era rassegnata. Ella guardava la terra. Guardava il
placido mare che con un mormorio simile al favellare di giovanette che
dei loro amanti si raccontano, venivasi a rompere alla riva. Guardava
le galee amalfitane, che a traverso di tanti perigli si recavano a
pigliare le tele dalla Persia, le sete dall'India, i profumi
dall'Arabia, ed ora, come masse brune, si cullavano negligentemente
nella perfida rada, solo animate dal fievole lumicino, che a guisa di
stella caduta, rischiara il passo lento del timoniere che non può
pigliar sonno. Guardava quei tranquilli accampamenti normanni, in
mezzo ai quali aveva passata sorrisa giovinezza, ombreggiata dalla
targa paventata di suo padre, allietata dal suo amore. E sotto quelle
tende ora riposava tanta parte dell'anima sua, tutta la storia del suo
cuore--Guiscardo, il priore, Boemondo! Guardava infine Alberada quella
città che, colpita dal languore dell'agonia, non dava più voce, non
accennava moto; quella città che era stata culla alla donna fatale per
cui tutto aveva perduto, e quel castello, in cui, come il cuore nel
corpo umano, si avvertiva ancora estremo battito di vita.

Ed in fatti un rumor sordo e confuso, maggiore del consueto, per la
rocca si udiva--un rumore di voci molte che favellano sommesso, di
armi che si urtano. Eran forse le scolte che si mutavano. Così pensò
da prima Alberada e proseguì nel corso delle sue malinconiche
meditazioni. Ma ecco che il rumor cresce più, si odono voci più
distinte; ed affacciandosi alla finestra, vede come tante fantasime
bianche che al castello si raccolgono. Un pensiero le sorge, un
pensier molesto che scaccia via come ingiusto. Non di manco apre la
porta della sua camera, e strisciando lungo buio corridoio, al cui
fondo si apriva una finestra che dava sul cortile del castello, a
quella si affaccia. Allora non dubita più di nulla. Queta queta, come
era venuta, ritorna indietro, ed invece di entrare nella sua, entra
nella camera dell'abate di Cluny, così dolce e quatta che costui non
si sveglia, perchè anche dormendo sognava di Aristotile come donna
innamorata del ganzo. Ella, tolto dallo scrittoio di lui un pezzo di
pergamena ed il calamaio, esce. Rientrata nella sua camera scrive
affrettatamente alcune righe, poi ripiega il foglio che ripone sul
petto, e scende nella corte.

L'affollarsi della gente che andava e veniva, l'allestirsi di cavalli,
il sordo trambusto, e la confusione per dare e ricevere ordini non
fece avvertire il nero spettro che, rasentando di volo le oscure
pareti, scivola fuori le porte e si avvia per la città.

Alberada discese con pena l'aspra roccia alla cui vetta sorgeva il
castello, ai cui piedi starnazzava la città. Per non perder tempo a
seguire i serpeggiamenti della strada consueta, ella si cala dritto
carponi per la scoscesa, e presto si trova tra le buie e tortuose
viuzze di Salerno, dalle quali con gran pena si può distrigare, e
giungere fino presso alle mura.

Fiduciosi nella tregua stabilita, i Longobardi guardavano i baluardi
con oscitanza. Imperciocchè Alberada, che sopra vi ascende, trova le
sentinelle riunite intendere a berlingare anzi che a star vigili nei
loro posti. Avevano appoggiate alle bertesche le labarde e gli archi,
e giuocando alla zarra vuotavano fiaschetti alla ricuperazione della
pace ed alla tolta dell'assedio. Alberada si accosta ad un gruppo di
questi disattenti, e loro dice:

--Buona guardia, bravi soldati. Si passano le ore di pace
allegramente: non è così?

--Venga, padre, venga con noi a bere un gocciolo. Non vorrà certo
ricusarsi a buoni figliuoli che sanno godere nella tregua, e menar le
mani nelle barruffe in onore di Dio ed in vantaggio dei loro borselli.

--Vi ringrazio, buone lance. Io son venuto a pigliar l'aria per
sgomberarmi di un disgraziato mal di capo che mi tormenta; non vorrei
riattizzarlo col vino.

--Baie, padre riverendo! Il vino è quel diavolo, che, entrato in casa,
caccia via tutti gli altri. Non si dia molestia perciò, e lo creda a
me che non ho usato mai di altro rimedio in mia vita fuori di questo.

--Beverò dunque una sorsata, non fosse che per farvi piacere, risponde
Alberada, a patto però che accettiate una minuzia per vuotarne un
fiaschetto di Procida; ma di quel che morde l'ugola e sganghera le
ganasce con l'aiuto di Dio.

--Per santa Cunigonda!.... perdono, padre! non vi faremo dolente
perciò. Ma berlo adesso che dobbiamo fare la guardia.... eh! quel
dannato di vino azzanna, ed il minor pericolo che potremmo correre e'
sarebbe di capitombolare dalle mura laggiù fra quei beccastecchi
normanni.

--Se tutto il dubbio resta qui, bevete pur lieti e dormite, chè
veglierò io; perchè il fresco del mare sento che va alleviandomi lo
spasimo.

--Che ne pensi tu, Raspacalici, eh?

--Io penso che una coppa di vino rifiutata è una porta di paradiso
chiusa. E tu, Strangolafrati?

--Senti, Raspacalici, ti ho detto che non voglio esser chiamato più
così, e te lo ripeto l'ultima fiata: perchè te lo giuro pel mio santo
battesimo, che un'altra volta ti manderò la parola nella gola con una
pugnalata. Mi pare che non parli latino io. Or dunque, accettiamo i
soldi del padre ed applichiamo l'ubbriacatura pel bene dell'anima sua.

--E tu, mastro coniglio, non saresti dello stesso avviso?

--_Dominus vobiscum!_ io mi son confessato ieri mattina!

--Dunque?

--Dunque... quando si trattasse di non dispiacervi, mi ubbriacherò con
voi--salvo poi a dirmi i sette salmi penitenziali.--_Credo in unum
Deum!_

E mastro coniglio cantava come i preti a messa.

--Insomma pare che siamo proprio tutti di un avviso?

--Io no, risponde un compagno, perchè ho promesso a Ziga di andarle a
far visita questa notte, dopo la guardia. Vi cedo perciò la parte mia,
e ritorno al mio posto.

--_Dies irae!_ sclama mastro coniglio, e tu fai di codeste visite,
Randolfo?

--Non cominciarmi a tribolare con prediche, figliuol di una vacca, che
ti spezzo il cranio con questa chiaverina. Io intendo di condurmi a
mio modo.

--Basta basta, risponde il soldato che la faceva da caporione, to,
mastro coniglio, questi sono i soldi del riverendo padre; recati
dall'ostiere qui presso, gittagli a terra la porta se non vuole
aprire, e comprane altrettanto prosciutto, vino di Procida ed
acquarzente. Bada però a non dimenticar parte dei quattrini nel fondo
della tua scarsella.

--Rubacristi! e la mia onestà? ti ho già detto, parmi, che m'era
confessato ieri mattina.--

--Ragione per cui più ti ricordo di non fare il _quare me repulisti_.

--Va e corri presto, sai! perchè non ci resta che un'ora buona. E voi,
riverendo padre, se non volete farci compagnia, toglietevi la pena di
vigilare i nostri posti. Passeggiate tra lo spazio da porta Marina a
porta d'Eboli, e se udrete rumore laggiù, negli accampamenti, o
vedrete gente che si appressasse alle mura; insomma se crederete
scorgere cosa che potesse darvi sospetto chiamateci, perchè verremo
noi ad osservare di che domine trattisi. Già non ci è paura, perchè
abbiamo tregua per tre dì; ma la cautela è cautela, e noi non siam
soldati per niente.

--Lascino fare a me, buone lance, e banchettino tranquilli. Mi diano
solo una labarda, un arco, che so io--potrebbe sempre giovarmi a
qualche cosa.

--Servitevi là a piacere, riverendo: vi troverete ogni bene di Dio.

Alberada stacca dalla parete un arco ed alcuni verrettoni, e parte
dicendo loro:

--Buona notte, figliuoli.

--Buona notte, rispondono i soldati, e ricominciano da capo i loro
giuochi.

Non passò guari, ed innanzi ad una sentinella normanna cadeva un
verrettone, nelle cui ale andava innestata una pergamena.



X.

                Passavan cheti e taciturni avanti
                Senza ronde scontrar nè sentinelle;
                Quando cessaro all'improvviso i canti,
                E i gridi e gli urli andar fino alle stelle
                                TASSONI, _La Secchia rapita_, IV.


I soldati longobardi, che lungi dal custodire le mura si deliziavano a
bevere a isonne, furono avvisati da Alberada del rumore crescente che
udivasi per la città. E non appena questa si allontanò per ritirarsi
alla rocca, che un centurione capitò loro addosso e li garrì
acerbamente dell'insubordinato condursi, ordinando che stessero in
punto sotto le armi, perchè questo era il comandamento di monsignore
Gisulfo. Nello stesso tempo e' videro calar giù dalla rocca grossa
mano di soldati, con bianca _camescia_ su per la corazza, conducendosi
a redina i cavalli, e ragunarsi presso le porte uno stuolo, che dava
sul migliaio, di uomini d'armi dello stesso modo divisati. Indi
un'altra folla di arcadori, che a mano a mano si attelavano sui
baluardi, allogandosi ad ogni merlo e ad ogni bertesca, guarnendo le
torri delle porte e tutto lo spianato dei bastioni. Quei poveri
soldati ubbriachi, che noi abbiam veduto nel capitolo precedente,
guardavano allampanati, non comprendendo qual demonio volesse
significare tutto quell'apparato ostile, mentre la tregua spirava il
poi domani. Ma il loro stupore non fu lungo. Imperciocchè, non passò
guari, e videro comparire il principe Gisulfo in persona, alla testa
di un cinquecento cavalli ed un buon migliaio di fantiglia. Egli
ordinò: che senza rumor fare si aprissero le porte; che i soldati di
guardia vigilassero attenti, e che, nel caso ei fossero inseguiti da
quei di fuori, le richiudessero loro alle spalle, appena stessero
novellamente riparati tutti dentro; che quei delle mura travagliassero
dei mangani e delle frecciate i Normanni, i quali benissimo da loro
distinguevansi, perchè non vestiti di bianco; e che il resto dei
cittadini e dei militari si tenessero pronti a spalleggiarli, in caso
che dimandassero aiuto. Date queste disposizioni, la porta Marina e la
porta di Eboli si aprono e Gisulfo col seguito esce.

Traditorescamente, e contro il sacramento della tregua, questo
principe cercava sorprendere con un'_incamiciata_ i Normanni, tra per
decidere così guerra terribile, tra per distogliere il duello. Il
perverso disegno gli tornò fatale. Perocchè non appena tutta la sua
gente ebbe oltrepassate le porte, che da quegli accampamenti, fino
allora sembrati stanza a gente neghittosamente addormentata, sbucano
fuori a guisa di demoni i Normanni.

La faccenda era proceduta di questo modo. Come Alberada mandò nel
campo, per lo mezzo del verrettone, la novella che i Longobardi
preparavano una sorpresa, quella pergamena da un giovanetto, per
ordine del padre lì collocato ad addestrarsi in tutti i travagli della
milizia, fu recata a Roberto Guiscardo. Il giovanetto era Boemondo.
Roberto senza prendere indugi fa svegliare le sue truppe tenda per
tenda con cautela e silenzio; ordina loro tenersi presti a seguire
monsignor di Bovino: vestissero le armi quetamente e solleciti, e del
ventre per terra restassero ad orecchiare dinnante la tenda. Indi fa
svegliare la sua quadriglia di Calabresi, ai quali comanda di
seguirlo, strisciando di pancia al suolo, fin sotto le mura; ed
un'ultima parte di gente affida al priore. Formava così il piano: di
cacciarsi egli nella città a portarvi la morte e lo scompiglio, come
che i Longobardi ne fossero usciti, trovando aperte le porte,
sgangherarle a colpi di mazza se chiuse: il priore Guiberto tenergli
dietro, sia per aiutarlo sia per proteggerne la ritirata: monsignor di
Bovino dare addosso alla gente di Gisulfo. Questi ordini, questo
disegno di attacco furono l'opera di un momento, e compieronsi con
eguale sollecitudine e silenzio, stando le truppe ben distribuite
nelle tende e da quelle protette dalla scoverta delle vedette
longobarde.

Uscito quindi Gisulfo fuori le porte, e disposte le colonne delle sue
truppe per procedere riuniti e con ordine, tutto ad un tratto ode dal
campo, quasi vicino alle sue orecchie, uno squillo di tromba, ed a
quel suono si vede rizzato innanzi, ai fianchi, e dietro un esercito
come se fosse sbucato di sotterra. Roberto senza nulla incaricarsi di
lui entra nella città, per le porte lasciate aperte, e vi precipita
con tanto impeto e sollecitudine, e così prestamente se ne
impadronisce, che i soldati longobardi di guardia hanno appena tempo
di distinguere non essere i loro tornati indietro perchè scoperti dal
nemico, ma Guiscardo in persona con quei suoi demonii di Calabresi. E
subitamente dopo a Roberto entra il priore che si era alzato di fianco
a Gisulfo. Guiberto non s'impaccia di scaricarsi sui Longobardi,
credendoli assai bene affidati all'ospitalità apostolica del vescovo
di Bovino. Penetrato anch'e' nelle mura, chè ormai le porte tenevano i
Normanni, comincia a distendersi sui baluardi, sgozzando le guardie e
precipitandole nei fossi, ed occupa le bastie, in guisa che, in minor
tempo che noi non ne abbiamo posto a raccontarlo, le fortificazioni di
Salerno cadono in mano a' nemici.

Il principe Gisulfo intanto, vistosi così di repente circondato
dall'esercito nemico, e vistoselo in gran parte sgomberare d'attorno
quasi fuoco fatuo, comprende di leggeri di che si tratta. Laonde,
invece di avventarsi addosso alle masnade di monsignor di Bovino, che,
le picche appoggiate al petto, stavan lì per riceverlo, pensa a
rientrare nella città, finchè ne aveva ancor tempo. Infatti ordina ai
suoi di voltare le spalle e seguirlo.

Io non vi dirò quale accoglienza preparasse loro Roberto di fronte, e
come il vescovo e gli altri condottieri li carezzassero alle spalle.
Fu fatto dei Longobardi macello da destar pietà, talchè non uno dello
sciagurato seguito del principe rimase vivo. Ma Gisulfo ebbe ventura
scampare, perchè quei di Salerno, al rumore ed alle grida svegliati,
presero anch'essi la pugna e cominciarono a travagliare i Normanni, e
perchè sua sorella, la quale come ogni altro soldato si batteva, lo
coverse del suo pavese. Sfuggì quindi alla strage, e solo, affranto,
ebbe campo appena di andarsi a chiudere nel castello e farne serrare
le porte. Il vescovo di Bovino poi, essendo anch'egli venuto dentro in
città con l'alba che spuntava, si riaccende per ogni straduzza, per
ogni chiassuolo accanito badalucco, non volendo quei di Salerno ceder
senza fare almeno gli ultimi sforzi. Li animava Baccelardo. Questi,
restato nel castello a dormire, della perfidia di Gisulfo nulla
sospettando, al trambusto si era svegliato. Comprende tutto in un
baleno. Accoglie perciò gli avanzi del presidio del castello ed
alquante milizie cittadine, e si apre varco sino alle porte, dove
Roberto faceva aspro scempio di Longobardi e Salernitani. Là giunto,
lo riconosce, lo chiama a nome, gli si scaglia sopra come demonio.
Terribile, cieca è la lutta che fra loro s'ingaggia.

--Vengo a domandarti il mio guanto, gridava Baccelardo, gli è tempo
omai che me lo renda, usurpatore de' Stati miei.

--Il tuo guanto è qui, appeso all'elsa della mia spada; prendilo,
sclamava Roberto.

E cotal botta gli menava là, dove l'epa discende all'inguine, che, se
di peggior tempra la panciera si fosse trovata, lo avrebbe passato da
parte a parte.

E di rimando Baccelardo gli misurava una stoccata.

Roberto è ferito alla coscia e vacilla. Accorgendosi Baccelardo di
averlo colpito e di poterlo finire più facilmente, l'incalza di
maggiore vigoria. Però Sigelgaita, che d'appresso a Roberto pugnava
unitamente a Boemondo--comechè di soli quindici anni--avvedutasi
parimenti del colpo del marito, grida, ed ambo correndo in aiuto di
lui, mentre fin allora non avevano fatto che guardargli le spalle,
stringono siffattamente Baccelardo, che l'obbligano a retrocedere
maggiormente perchè era omai restato solo. Allora questo sventurato
principe non vede altro riparo per sè che fuggire da una città caduta
in mano del suo più crudele nemico. Mette fischio acuto, e in un
instante si sente comparire alle spalle il cavallo. Vi monta sopra
senza toccar staffa, si caccia per tortuosi oscuri vicoli, finchè non
giunge a porta di Ronca, che sola rimaneva ancora in potere dei
cittadini, se la fa aprire, si lancia su per quegli aridi greppi, e
scompare.

La città di Salerno già padroneggiavano i Normanni.

Si rivolsero quindi alla rocca, nella quale si teneva chiuso Gisulfo.
Questo principe aveva combattuto con ferocia, e si era ritirato in
quell'ultimo baluardo, credendo potere opporre estrema resistenza col
presidio che si trovava lì dentro, o almeno capitolare dignitosamente.
Indicibile fu perciò la sua disperazione quando udì che il presidio
aveva menato via Baccelardo onde andare ad affrontare i Normanni
laggiù nella città. Il tradimento da lui progettato gli tornava fatale
anche per questo verso. Bestemmia, si dispera; però non gli resta
meglio che implorare la pietà del vincitore. Laonde manda i due legati
a supplicare Roberto affinchè volesse, se non altro, accordare la
libertà sì a lui che alla sua famiglia, e lasciar loro la vita, perchè
si sarebbero resi sul momento.

Alberada e l'abate vennero al padiglione di Roberto. Questi si era
fatto condurre negli accampamenti per medicare la ferita. Giunto nel
vestibolo della tenda, l'abate si volge ad Alberada e le dice:

--Madonna, vi ricordo ch'egli è omai tempo di mandare a compimento le
commissioni che la beatitudine di papa Gregorio vi dava.

Ed Alberada a lui:

--Messer abate, la beatitudine di papa Gregorio è un infame.
Ildebrando mi tendeva laccio codardo, che Iddio nella sua immensa
misericordia ebbe pietà di farmi alfine comprendere, e cavarmi dal
precipitar nel delitto. Questo sappiatevi, messer abate, e non cercate
di penetrar oltre in tanto scellerato viluppo.

Ugone sospira nè dice altro. Dopo di che Alberada si tira il
capperuccio fino agli occhi, ed entrano nella tenda.

Trovarono Roberto attorniato dai suoi fedeli, da parecchi conti e
baroni, da Sigelgaita e da Boemondo che avevano assistito alla
medicazione della profonda ma non pericolosa piaga. Come il duca li
vide, comprese subito di che si trattasse. Per lo che, dirigendosi
generosamente a sua moglie, le ordina:

--Madonna, vogliate avere la cortesia di dare udienza ai messi di
vostro fratello, che certo di qualche cosa manda a noi a
raccomandarsi.

Sigelgaita allora si rivolge ai legati e sclama:

--Favellate, messeri, chè la volontà di nostro fratello sarà fatta.

--Egli non vi sarà di molta molestia, madonna, risponde tristamente
l'abate. Lo sventurato principe Gisulfo promette cedere la rocca, dove
che a lui si conceda la vita e la libertà, unitamente ai membri della
sua famiglia.

--E non altro? dimanda Sigelgaita.

--Non altro, madonna, conoscendo egli il suo torto, e come duramente
col duca Roberto si sia comportato. Vogliate perciò usargli cortesia
di non negargli così tenue grazia, in mercè del castello che consente
di aprirvi senza colpo ferire.

--Il suo piacere sarà fatto, riprende Sigelgaita. E perchè il rendere
la casa dei padri suoi gli torni men aspro, io medesima mi reco a
pigliarne possedimento.

--Delicata idea! sclama l'abate, e basterebbe essa sola, madonna, se
vi mancassero le grazie ed il valore, per allogarvi fra le più nobili
dame d'Italia.

Sigelgaita esce, e l'abate, dopo alquanto di silenzio, rivoltosi a
Roberto dimanda:

--Non vorreste, monsignore, accordarmi adesso l'onore di favellarvi
breve tratto in segreto?

--Sì bene, risponde Roberto; traetevi altrove, signori--e tu altresì,
Boemondo, col molto riverendo padre che accompagna l'abate.

Boemondo ed Alberada si ritirano allora in uno scompartimento della
tenda, attiguo a quello dove Ugone e Roberto dovevano favellare--e non
saprei dirvi quanto Alberada ne fosse contenta. Dappoichè, quivi
giunta, si gitta indietro il cappuccio di un tratto, e toltosi in
grembo Boemondo, prende a coprirlo di baci e di lagrime gridando,
affogata dai singhiozzi:

--Io sono tua madre, Boemondo, io sono la sfortunata Alberada.



XI.

                S'avons perdu et je et vous assez
                Amis et drus et parens et privez.
                            GUILLAUME AU COURB-NEZ.


Quel ribocco di amore però non fu di lunga durata. Alcune parole
dell'abate, che parlava di Guiberto, colpiscono le loro orecchie.
L'infelice donna si arresta a mezzo ai baci, taglia nette le parole di
lungo amore compresso e le non mai sazie carezze, ed i non mai
inebriati sguardi, e sta più attentamente ad ascoltare. Qual dubbio
v'era? Il mercato era fatto, il patto di sangue era conchiuso. Il papa
dava a Guiscardo investitura del principato di Salerno e del ducato di
Amalfi, e Guiscardo al papa un uomo--l'abborrito, il paventato priore
di Lacedonia! Laonde andasse egli, abate di Cluny, a chiamarlo a nome
di Roberto alle tende, perchè quivi avrebbe questi di alcuna maniera
provocate liti con lui, e tiratolo del ciuffo ad atto di violenza
qualsiasi. Allora, gridando che il priore tentava assassinarlo, così
inchiodato al letto come trovavasi, i suoi fedeli Calabresi sarebbero
accorsi, lo avrebbero fatto prigione, e senza fallo, senza obbrobrio,
si saria mandato al papa in olocausto.

A tale scellerato accordo Alberada abbrividìsce e lo stesso Boemondo
si sente ardere di sdegno. Questo giovanetto si era trovato così fra
le braccia di sua madre senza aspettarselo, senza esservi preparato di
alcuna maniera. Fanciullo di appena tre anni, una mattina, nel più bel
mezzo di lieto banchetto, aveva sentito avventarsela al collo per
coprirlo di baci, poscia non l'aveva più veduta, e gli avevano anche
inibito parlar di lei. Ma quei baci, quell'aspetto in cui qualche cosa
d'inusitato favellava, non gli si era tolto più dalla mente. Anzi, a
misura che cresceva negli anni e di quella scena si rammentava, ovvero
alcun pietoso gli raccontava dei torti di suo padre e delle sventure
della madre sua, quei baci sentiva ancora più affettuosi e disperati
penetrargli fino al cuore, di quell'aspetto s'inebriava. In guisa che
bastarono appena le prime carezze, le prime parole di Alberada per
tutto tornargli alla mente, per vedere incarnata la visione di tante
notti, ed i pensieri dell'ore meste in che l'obbligavano di fare la
guardia al campo. Si precipitò fra le braccia di quella donna con
ebrietà, con delirio, e le carezze ed i baci le restituì non meno
ardenti ed affettuosi. Maggiormente poi che, ad onta degli anni e
delle sofferenze, il volto di Alberada poco erasi mutato.

Alberada aveva di quei sembianti infantili i quali lieve e tardi
risentono l'ala del tempo.

Quante cose non si avevano dessi a domandare, quante parole a
ripetere, quante storie a raccontarsi, e sfoghi, e compiacenze, e
tenerezze, e baci ed altri baci ancora, e non mai saziarsi di quella
santa inenarrabile voluttà? Le parole di Roberto e dell'abate furono
lo scongiuro che ruppe tutti gl'incanti, ogni delirio
agghiacciò--nell'anima di Alberada, perchè si sentiva colpire
nell'uomo che, dopo Guiscardo, amò più e che la riamava ardentemente;
in quella di Boemondo, perchè il vituperato patteggiare di suo padre
l'oltraggiava. In guisa che, quando udirono partito l'abate per
consumare il tradimento e tirare nella trappola Guiberto, ambedue,
senza affatto comunicarsi i pensieri, un medesimo sentimento inspirò.
Usciti da un altro lato del padiglione, verso la rocca si avviano,
sperando trovar quivi il barone di Lacedonia.

In effetti vi giunsero contemporaneamente all'abate di Cluny, quando
il misero Gisulfo, che in lui vedeva spegnersi l'ultima facella della
dominazione longobarda in Italia, usciva dal castello de' padri suoi
con la desolata sua famiglia, nudo, la testa china, senza sapere dove
la sera avrebbe riposato il capo, senza speranza di una crosta di pane
pel domani.

Così ignotamente passava il dominio di una forte nazione sopra le
contrade d'Italia. E quel che peggio era, non passava per andare a
dormire nel sepolcro il sonno dell'oblio, ma per trascinarsi di
castello in castello, di terra in terra, di porta in porta, accattando
un frusto di compassione, e non trovando che disprezzo. Imperciocchè
la miseria del debole commuove, l'abbiezione del forte rallegra, ed
eccita al dileggiamento. E nel punto stesso che Gisulfo, accompagnato
da sua sorella, nobilmente rassegnato e mutolo usciva, il priore
Guiberto allogava agli spaldi guardie normanne, a nome di Guiscardo, e
del castello prendeva possesso. Allora l'abate di Cluny gli si
presenta e dice con voce peritosa e tremante:

--Messere, vogliate avere la cortesia di seguirmi alle tende del duca,
perocchè egli, quivi trattenuto dalla ferita come sapete, ha gravi e
pressanti comandi a darvi in ordine alla città.

--Sì bene, ser legato, vengo tosto. Però in avvenire non prendete
sbaglio sulle parole. Io non ricevo comandi da chicchessia, fuori
dell'imperatore, ed a Guiscardo sono alleato non vassallo.

--Vi dimando perdono allora, messer barone, se profferii motto che mal
vi tornasse gradito. Non vorrei però che ciò fosse cagione del vostro
non arrendervi ai desideri del duca Roberto che ha premuroso bisogno
di voi.

--Vi ho detto che vengo sul fatto, risponde il priore.

E sì dicendo in compagnia dell'abate si avviava per discendere agli
accampamenti.

Allora Alberada si presenta loro, e gittandosi dietro il cappuccio che
le celava compiutamente il sembiante, al priore favella:

--Guiberto, non andate con codesto traditóre, perchè la vostra testa,
da recarsi al papa, tra costui e Roberto è stata patteggiata. Fuggite
anzi, fuggite senza indugio.

--Alberada! sclamano ad un tempo il priore e l'abate.

Ed ella:

--Fuggi, Guiberto, fuggi sollecito in nome di Dio! chè da un momento
all'altro non saresti più a tempo. E tu, abate di Cluny, uomo fino ad
ieri senza macchia, vergógnati e péntiti di essere disceso al mestiere
del sicario.

A queste acerbe parole, Ugone, che sempre era stato buono ed onorato,
si sente commuovere. Il suo fallo gli salta agli occhi spaventevole,
si vede vituperato da tutta Europa, gli sembra udir raccontare il suo
tradimento per tutte le corti, sente strapparsi fino dal sangue
l'epiteto di virtuoso attaccato al suo nome, e conciossiachè anche in
quell'azione condannevole e' fosse stato spinto da pietà per qualcuno,
nell'anima s'intenerisce, nel volto si copre di rossore, e cadendo al
ginocchio di Guiberto sclama:

--Perdono.

Quest'atteggiamento, questa sola parola profferita di accento
pietosamente solenne e profondo, tutto rivelano a Guiberto. E leggendo
altresì negli occhi di Alberada l'ansia paurosa che la divorava, e nel
sembiante abbattuto di Boemondo, vergognoso dell'onta del padre suo,
tutta l'urgenza, tutta l'estensione della cosa, alza il pugno armato
della manopola di ferro onde percuotere l'abate sul calvo capo. Poi
tutto ad un tratto ristà, si ferma un istante a guardarlo in quel
supplice atto, stringe la mano a Boemondo, le gote gli bacia, e
voltosi ad Alberada:

--Partiamo, sclama, Roberto Guiscardo udrà presto notizie di me.

--Parti tu, fuggi sollecito, Guiberto, risponde Alberada smaniosa;
ricórdati quanto Roberto sia scaltro, Ildebrando terribile--fuggi, ti
raggiungerò.

--Dove? quando? non saresti ancora tu in pericolo, Alberada?

--Non pensare di me, che vivo sicura sotto l'egida di legato. Non
arrestarti nei paesi d'Italia, dove il potere del papa e del duca è
illimitato; varca i monti. Ti raggiungerò in Germania. Ma presto, in
nome di Gesù! fuggi presto; potresti essere inseguito.

Guiberto si getta al collo di Alberada, le dà lungo abbraccio, e
parte.

Allora l'abate di Cluny le si volge e dice:

--Che facesti, Alberada! io lo tradiva per te!

--Vergogna! vergogna, sclama Alberada coprendosi il volto con ambo le
mani. Nel mondo non v'ha dunque più un cuore che ricetti la virtù?

Ugone resta a considerarla un momento, poi sospirando dimanda:

--Ed al papa che recherai in risposta, sventurata! che recherai?

Alberada alza gli occhi al cielo, accenna della mano il suo capo, e
risponde con nobiltà:

--La testa.

                FINE DEL PRIMO VOLUME.



NOTA.


Perchè non si credano miracolose le pruove di forza accennate nel
capitolo VIII si ricordino questi fatti storici.

Azzeddoulat, principe persiano, colle sole braccia stramazzava a terra
un toro, e faceva la caccia ai leoni.

Babaram, figlio di Iezdegerdo re di Persia, tolse la competutagli
corona fra due leoni affamati, che uccise, disarmato, e sbranò!!

Bouflers signore di Piccardia, come assicurano Loisel, _Memorie del
Beauvese_, e La Marlière nelle sue _Case Illustri_, rompeva con le
dita un ferro di cavallo--da stare su di un piede niuno lo
rimoveva--si alzava sulle braccia un cavallo e lo portava per molta
distanza--con gli stivali alle gambe passava di un salto i più larghi
fossi--uccideva di una sassata i quadrupedi al corso, gli uccelli al
volo--in una corsa di dugento passi avanzava un cavallo di Spagna.

Cleomede, dall'oracolo disegnato ultimo degli eroi, defraudato del
premio della lotta, ruppe la colonna di una scuola sotto le cui rovine
perirono 60 persone. E qui si ricordi anche Sansone--se i semidei
della Bibbia non sono miti o favole come quelli delle _Mille ed una
notte_.

Federico-Augusto I, re di Polonia--Ettore--Ercole--Federico II
elettore di Brandeburg soprannominato _dente di ferro_, ebbero forza
maravigliosa.

Firmio, chiamato il _Ciclopo_, che si fece proclamare imperatore in
Egitto per vendicare Zenobia, si dava a battere i metalli sul petto
come sopra un'incudine.

Luigi Gonzaga, signore di Sabbioneta nel Mantovano, soprannomato _il
Rodomonte_, al dir del Guazzo, storico contemporaneo, ogni grosso
ferro di cavallo apriva, e spezzava di una sola scossa una fune grossa
come cinque corde d'arco.

Il padre di Giacomo Rouxel, de Medavy, conte di Grancey e maresciallo
di Luigi XIII, avendo passato fuor fuori il signore di Frepigny, uomo
d'arme, lo portò in aria tutt'armato qual'era ed infilzato alla sua
spada per più di 4 passi.

Graziano, padre dell'imperatore Valentiniano I;

Marco Aurelio--Mario che con un dito fermava una carretta nel massimo
del corso;

Giovanni Podikove che rompeva in due un ferro di cavallo;

Andrea Everardo Rauber signore di Petrouel, che rompeva anche un ferro
di cavallo, e che aveva una barba lunga fino a terra e da terra alla
cintura, per sposare una figlia naturale di Massimiliano duellò con
uno spagnuolo a chi mettesse l'altro in un sacco, e ve lo mise;

Il celebre Giorgio Castriota detto Scandeberg, il quale per la sua
forza invogliò Maometto II a volerne vedere la scimitarra. Giorgio
gliela mandò dicendogli: che si era ben guardato mandargli altresì il
braccio il quale l'adoperava;

Cervione--Charri--e per ultimo Ugone Tudextisen, di cui parla
Summonte, che, per dar saggio di gagliardia agli ambasciadori greci,
scaricò un colpo di pugno sulla testa di un cavallo, e l'uccise.

Questi esempi, ed altri numerosissimi, fanno fede che noi non
esagerammo nelle prove che descrivemmo poc'anzi.



INDICE


    LIBRO PRIMO.--Il Placito         Pag.  5
    LIBRO SECONDO.--L'incamiciata     »   69
    Nota                              »  205



NOTA DI TRASCRIZIONE:


Sono state effettuate le seguenti correzioni:


  La giustizia favelli nei {vosti|vostri} cuori,

  E sì dicendo il giovane {proscrittto|proscritto} scendeva

  vi dan dentro e ne fanno poderoso {marcello|macello}.

  --Oh birbi, birbi, birbi! sclama {qualcuuno|qualcuno}.

  il priore le dà forte dell'aspersorio nella {frone|fronte}

  È costretto {tonar|tornar}. Giurollo.

  Io voglio sollevare per un {istate|istante} un velo

  avevo dovuto interdirmi ogni {afetto|affetto} tenero,

  E con tal fatto gran numero di vite sarebbe {ririsparmato|risparmiato}

  altra discussione tra i guerrieri di {Gisulso|Gisulfo} cominciò.

  L'abate sorride e {presegue|prosegue}:

  Ognuno pensò che, se colui non {fossse|fosse} davvero il diavolo,

  che tutta la notte, malgrado {li|il} vino


L'uso delle virgolette per il discorso indiretto è bizzarro e
incostante, e probabilmente mal interpretato dai tipografi. Abbiamo
riprodotto quanto appare nell'originale, nei limiti del possibile.





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