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Title: I misteri del castello d'Udolfo, vol. 1
Author: Radcliffe, Ann Ward, 1764-1823
Language: Italian
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*** Start of this LibraryBlog Digital Book "I misteri del castello d'Udolfo, vol. 1" ***

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DEL CASTELLO D'UDOLFO, VOL. 1 ***



by Biblioteca Sormani - Milano)



              I MISTERI
                  DEL
          CASTELLO D'UDOLFO


                  DI
            ANNA RADCLIFFE


                VOL. I

                MILANO
           _Oreste Ferrario_

      Sotterranei Galleria Nuova,
  via Silvio Pellico, 6, scala n. 18
          e Santa Margherita



  [Illustrazione: ... lacerò un fazzoletto per bendargli la piaga...

  _Cap. IV_]



CAPITOLO I


Sulle sponde della Garonna, nella provincia di Guienna, esisteva
nell'anno 1584 il castello di Sant'Aubert: dalle sue finestre
scoprivansi i ricchi e fertili paesi della Guienna, che si estendevano
lungo il fiume, coronati da boschi, vigne ed oliveti. A mezzodì, la
prospettiva era circoscritta dalla massa imponente dei Pirenei, le cui
cime, or celate nelle nubi, ora lasciando scorgere bizzarre forme, si
mostravano talvolta, nude e selvagge, in mezzo ai vapori turchinicci
dell'orizzonte, e talora scoprivano le loro pendici, lungo le quali
dondolavano grandi abeti neri, agitati dai venti. Spaventosi precipizi
contrastavano colla ridente verzura de' prati e delle selve
circostanti, e lo sguardo affaticato dall'aspetto di quelle voragini,
si riposava alla vista degli armenti e delle capanne dei pastori. Le
pianure della Linguadoca si estendevano a tiro di occhio a tramontana
ed a levante, e l'orizzonte confondevasi a ponente colle acque del
golfo di Guascogna.

Sant'Aubert, accompagnato dalla sposa e dalla figlia, andava spesso a
passeggiare sulle sponde della Garonna; egli si compiaceva di
ascoltare il mormorio armonioso delle sue acque. Aveva altre volte
conosciuto un altro genere di vivere ben diverso da questa vita
semplice e campestre; aveva a lungo vissuto nel vortice del gran
mondo, ed il quadro lusinghiero della specie umana, formatosi dal suo
giovine cuore, aveva subìto le tristi alterazioni dell'esperienza.
Nondimeno, la perdita delle sue illusioni non aveva nè scosso i suoi
principii, nè raffreddata la sua benevolenza: aveva abbandonata la
società piuttosto con pietà che con collera, e si era limitato per
sempre al dolce godimento della natura, ai piaceri innocenti dello
studio, ed in fine all'esercizio delle domestiche virtù.

Discendeva da un cadetto d'illustre famiglia; ed i suoi genitori
avrebbero desiderato che, per riparare alle ingiurie della fortuna,
egli avesse ricorso a qualche ricco partito, o tentato d'innalzarsi
colle mene dell'intrigo. Per questo ultimo progetto, Sant'Aubert aveva
troppo onore e troppa delicatezza; e, quanto al primo, non aveva
bastante ambizione per sacrificare all'acquisto delle ricchezze ciò
ch'esso chiamava felicità. Dopo la morte del padre sposò una fanciulla
amabile, eguale a lui per nascita, non meno che pei beni di fortuna.
Il lusso e la generosità di suo padre avevano talmente oberato il
patrimonio ricevuto in retaggio, che fu costretto di alienarne
porzione. Qualche anno dopo il suo matrimonio, lo vendè a Quesnel,
fratello di sua moglie, e si ritirò in una piccola terra di Guascogna,
dove la felicità coniugale ed i doveri paterni dividevano il suo tempo
colle delizie dello studio e della meditazione.

Da lunga pezza questo luogo eragli caro; vi era venuto spesso nella
sua infanzia, e conservava ancora l'impressione dei piaceri ivi
gustati; non aveva obliato nè il vecchio contadino incaricato allora
d'invigilare sopra di lui, nè i suoi frutti, nè la sua crema, nè le di
lui carezze. Que' verdi prati, ove, pieno di salute, di gioia e di
gioventù, aveva scherzato tanto in mezzo ai fiori; i boschi, la cui
fresca ombra aveva inteso i suoi primi sospiri, e mantenuta la sua
riflessiva malinconia, che divenne in seguito il tratto dominante del
suo carattere; le passeggiate agresti pe' monti, i fiumi che aveva
traversato, le pianure vaste e immense come la speranza dell'età
giovanile! Sant'Aubert non si rammentava se non con entusiasmo e con
rincrescimento questi luoghi abbelliti da tante rimembranze. Alla
perfine, sciolto dal mondo venne a fissarvi il suo soggiorno ed a
realizzare così i voti di tutta la sua vita.

Il castello, nello stato d'allora, era molto ristretto; un forestiero
ne avrebbe ammirato senza dubbio l'elegante semplicità e la bellezza
esteriore; ma vi abbisognavano lavori considerevoli per farne
l'abitazione d'una famiglia. Sant'Aubert aveva una specie di affezione
per quella parte d'edificio che aveva conosciuta il passato; e non
volle mai che ne fosse alterata una sol pietra, dimodochè la nuova
costruzione, adattata allo stile dell'antica, fece del tutto una
dimora più comoda che ricercata. L'interno, abbandonato alle cure
della signora Sant'Aubert, le somministrò occasione di mostrare il suo
gusto; ma la modestia che caratterizzava i suoi costumi, le fu sempre
di guida negli abbellimenti da lei prescritti.

La biblioteca occupava la parte occidentale del castello, ed era piena
delle migliori opere antiche e moderne. Questo appartamento guardava
su di un boschetto che, piantato lungo un dolce clivo, conduceva al
fiume, ed i cui alti e grossi alberi formavano un'ombra folta e
misteriosa. Dalle finestre si scopriva, al disopra delle pergole, il
ricco paese che estendevasi all'occidente, e si scorgevano a sinistra
gli orribili precipizi dei Pirenei. Vicino alla biblioteca eravi un
terrazzo munito di piante rare e preziose. Lo studio della botanica
era uno dei divertimenti di Sant'Aubert, ed i monti vicini, che
offrono tanti tesori ai naturalisti, lo trattenevano spesso giornate
intiere. Nelle sue gite, veniva qualche volta accompagnato da sua
moglie, e talvolta dalla figlia: un panierino di vimini per riporvi le
piante, un altro pieno di qualche alimento, che non si sarebbe potuto
trovare nelle capanne dei pastori, formavano il loro equipaggio;
scorrevano così i luoghi più selvaggi, le vedute più pittoresche, e la
loro attenzione non era concentrata totalmente nello studio delle
menome opere della natura, che non permettesse loro d'ammirarne
egualmente le bellezze grandi e sublimi. Stanchi di scavalcar rupi,
ove pareano essere stati condotti dal solo entusiasmo, e dove non si
scorgevano sul musco altre orme fuor quelle del timido camoscio,
cercavano essi un ricovero in que' bei templi di verzura, nascosti in
seno delle montagne. All'ombra de' larici e degli alti pini, gustavano
di una refezione frugale, bevendo l'acque di una sorgente vicina, e
respiravano con delizia gli effluvi delle varie piante smaltanti la
terra, o pendenti a festoni dagli alberi e dalle rupi.

A sinistra del terrazzo, e verso le pianure della Linguadoca, eravi il
gabinetto di Emilia, benissimo assortito di libri, di disegni, di
strumenti musicali, di qualche garrullo uccelletto e di fiori i più
ricercati; quivi, occupata nello studio delle belle arti, essa le
coltivava con successo, giacchè molto convenivano al gusto ed al
carattere di lei. Le sue naturali disposizioni secondate dalle
istruzioni dei genitori, avevano facilitato i suoi rapidi progressi.
Le finestre di questa stanza si aprivano fino al suolo sul giardino
che circondava la casa; e viali di mandorli di fichi, di acacie e di
mirti fioriti, conducevano assai lungi la vista fino ai verdi margini
irrigati dalla Garonna.

I contadini di questo bel clima, finiti i lavori, venivano spesso
verso sera a ballare sulle sponde del fiume. Il suono animato della
musica, la vivacità dei loro passi il brio delle movenze, il gusto ed
il capriccioso abbigliamento delle villanelle, dava a tutta questa
scena un carattere interessantissimo.

La facciata del castello, dalla parte di mezzogiorno, era situata di
fronte alle montagne. Al pian terreno eravi una gran sala e due comodi
salotti. Il pian superiore, chè eravene un solo, era distribuito in
camere da letto, meno una sola stanza, munita d'un largo verone, ove
si faceva ordinariamente la colazione.

Nell'aggiustamento esterno, l'affezione di Sant'Aubert per il teatro
della sua infanzia, aveva talvolta sacrificato il gusto al sentimento.
Due vecchi larici ombreggiavano il castello, e ne impedivano alquanto
la vista; ma Sant'Aubert diceva qualche volta, che se li vedesse
seccare, avrebbe forse la debolezza di piangerli. Piantò vicino a
questi larici un boschetto di faggi, di pini e di frassini alpini; su
di un alto terrazzo, al disopra del fiume, eranvi parecchi aranci e
limoni, i cui frutti, maturando tra i fiori, esalavano nell'aere un
ammirabile e soave profumo.

Unì loro alcuni alberi d'un'altra specie, e colà, sotto un folto
platano le cui frondi stendevansi fino sul fiume, amava sedere nelle
belle sere estive tra la consorte ed i figliuoli. Traverso il fogliame
vedeva il sole tramontar nel lontano orizzonte, ne scorgeva gli ultimi
raggi risplendere, venir meno e confondere a poco a poco i purpurei
riflessi colle tinte grige del crepuscolo. Ivi pure amava egli leggere
e conversare colla moglie, a far giuocare i figliuoletti, ad
abbandonarsi ai dolci affetti, compagni consueti della semplicità e
della natura. Spesso pensava, colle lagrime agli occhi, come que'
momenti fossero le cento volte più soavi de' piaceri rumorosi e delle
tumultuose agitazioni del mondo. Il suo cuore era contento; chè avea
il raro vantaggio di non desiderar maggior felicità di quella onde
fruiva. La serenità della coscienza comunicavasi alle sue maniere, e,
per uno spirito come il suo, dava incanto alla stessa felicità.

La caduta totale del giorno non lo allontanava dal suo platano
favorito; amava quel momento in cui gli ultimi chiarori si spengono,
in cui le stelle vengono a scintillare l'una dopo l'altra nello
spazio, e a riflettersi nello specchio delle acque; istante patetico e
dolce, in cui l'anima delicata schiudesi ai più teneri sentimenti,
alle contemplazioni più sublimi. Quando la luna, cogli argentei raggi,
traversava il fronzuto fogliame, Sant'Aubert restava ancora; e spesso
si faceva portare, sotto quell'albero a lui caro, i latticini ed i
frutti che componevano la sua cena. Allorchè la notte faceasi più
cupa, l'usignuolo cantava, ed i di lui armoniosi accenti
risvegliavangli nel fondo dell'anima una dolce malinconia.

La prima interruzione della felicità che aveva conosciuta nel suo
ritiro, fu cagionata dalla perdita di due maschi: essi morirono in
quell'età in cui le grazie infantili hanno tanta vaghezza; e sebbene,
per non affliggere soverchiamente la sposa, egli avesse moderata
l'espressione del suo dolore, e si fosse sforzato di sopportarlo con
fermezza, non aveva filosofia bastante da reggere alla prova di simile
sciagura. Una figlia era ormai la sua unica prole. Invigilò
attentamente sullo sviluppo del di lei carattere, e si occupò del
continuo a mantenerla nelle disposizioni più adatte a formarne la
felicità. Ella aveva annunziato fin dall'infanzia una rara delicatezza
di spirito, affezioni vive ed una docile benevolenza; ma lasciava
travedere nondimeno troppa suscettività per godere di una pace
durevole: avanzandosi alla pubertà, questa sensibilità diede un tuono
riflessivo ai suoi pensieri, e una dolcezza alle maniere, che,
aggiungendo grazia alla beltà, la rendevano molto più interessante
alle persone che l'avvicinavano. Ma Sant'Aubert aveva troppo buon
senso per preferire le attrattive alla virtù; egli era troppo
avveduto per non sapere quanto queste siano pericolose a chi le
possiede, e non poteva esserne molto contento. Procurò dunque di
fortificare il di lei carattere, di suefarla a signoreggiare le
inclinazioni ed a sapersi dominare: le insegnò a non cedere tanto
facilmente alle prime impressioni, e a sopportare con calma le
infinite contrarietà della vita. Ma per insegnarle a vincere sè
medesima, ed a prendere quel grado di dignità tranquilla, che sol può
domare le passioni, e innalzarci al disopra dei casi e delle
disgrazie, aveva bisogno egli stesso di qualche coraggio, e non senza
grande sforzo parea vedere tranquillamente le lacrime ed i piccoli
disgusti, che la sua previdente sagacità cagionava talvolta ad Emilia.

Questa interessante fanciulla somigliava alla madre; ne aveva la
statura elegante, i delicati lineamenti; aveva al par di lei, gli
occhi azzurri, languidi ed espressivi; ma per quanto belle ne fossero
le fattezze, l'espressione però della sua fisonomia, mobile come gli
oggetti che la colpivano, dava soprattutto al di lei volto
un'attrattiva irresistibile.

Sant'Aubert coltivò il suo spirito con estrema cura. Le comunicò una
tintura delle scienze, ed una esatta cognizione della più squisita
letteratura. Le insegnò il latino e l'italiano, desiderando che
potesse leggere i sublimi poemi scritti in queste due lingue. Annunziò
essa, fino dai primi anni, un gusto deciso per le opere di genio, a
questi principii aumentavano il diletto e la soddisfazione di
Sant'Aubert.--Uno spirito coltivato,--diceva egli,--è il miglior
preservativo al contagio del vizio e delle follie: uno spirito vuoto
ha sempre bisogno di divertimenti, e s'immerge nell'errore per evitare
la noia. Il movimento delle idee, forma, della riflessione, una
sorgente di piaceri, e le osservazioni fornite dal mondo medesimo,
compensano i pericoli delle tentazioni ch'esso offre. La meditazione e
lo studio sono necessarie alla felicità, tanto in campagna quanto in
città; in campagna esse prevengono i languori di un'apatia indolente,
e somministrano nuovi godimenti pel gusto e l'osservazione delle
grandi cose; in città, esse rendono la distrazione meno necessaria, e
per conseguenza meno pericolosa.--

La di lei passeggiata favorita era una peschiera situata in un
boschetto vicino, sulla riva di un ruscello, che, scendendo dai
Pirenei, spumava a traverso gli scogli, e fuggiva in silenzio sotto
l'ombra degli alberi; da questo sito si scuoprivano fra le fronzute
selve, i più bei siti dei paesi circonvicini; l'occhio si smarriva in
mezzo alle eccelse rupi, alle umili capanne dei pastori, ed alle
vedute ridenti lungo il fiume: in questo luogo delizioso si recava
bene spesso anche Sant'Aubert e sua madre a godere il rezzo ne' calori
estivi, e verso sera, all'ora del riposo, ci veniva a salutare il
silenzio e l'oscurità, ed a prestar ascolto ai queruli canti della
tenera Filomela; talvolta ancora portava la musica; l'eco svegliavasi
al suono dell'oboe, e la voce melodiosa di Emilia addolciva i lievi
zeffiri che ricevevan e portavano lunge da lei la sua espressione ed i
suoi accenti.

Un giorno, Emilia lesse in un canto del tavolato i versi seguenti
scritti col lapis:

    Ingenui figli del sentir più puro
      Che sì poco spiegate il mio dolore,
      Versi miei, se avverrà che in questo oscuro
      Sacro alla pace taciturno orrore
      Un oggetto gentil mai si presenti,
      L'amor mio gli narrate e i miei tormenti.
    Quel dì che nel mio core il suo sembiante
      Le amorose destò prime scintille,
      Ah! fatal giorno! ahi sventurato amante!
      Contro il vivo fulgor di sue pupille
      Indifeso mi stava e senza tema
      Della vaga di lor possanza estrema.
    E ripiena d'angelico diletto
      Già sentia palpitar l'alma nel seno:
      Ma l'inganno svanì; l'amato oggetto
      Da me volse le piante in un baleno,
      E lasciommi in partir tutti i più forti
      D'invincibile amor crudi trasporti.

Questi versi non erano indirizzati ad alcuno: Emilia non poteva
applicarli a sè medesima, sebbene fosse, senza alcun dubbio, la ninfa
di quelle boscaglie: ella scorse rapidamente il circolo ristretto
delle sue conoscenze, senza poterne fare l'applicazione, e restò
nell'incertezza: incertezza molto meno penosa per lei, di quello
sarebbe stata per uno spirito più ozioso, non avendo occasione di
occuparsi a lungo d'una bagattella, e d'esagerarne l'importanza
pensandovi del continuo. L'incertezza, che non le permetteva di
supporre che quei versi le fossero indirizzati, non l'obbligava
neppure di adottare l'idea contraria; ma il piccolo moto di vanità da
lei sentito non durò molto, e ben presto lo dimenticò per i suoi
libri, i suoi studi e le sue buone opere.

Poco tempo dopo, la sua inquietudine fu eccitata da un'indisposizione
del padre; esso fu colto dalla febbre, che, senza essere molto
pericolosa, non mancò di dare una scossa sensibile al di lui
temperamento. La signora Sant'Aubert e sua figlia lo assistettero con
molta premura, ma la sua convalescenza fu lenta, e mentre egli
ricuperava la salute, la di lui sposa perdeva la sua. Appena fu
ristabilito, la prima visita fu alla peschiera: un paniere di
provvisioni, i libri, ed il liuto di Emilia vi furono mandati
dapprima; della pesca non se ne parlava, perchè Sant'Aubert non
prendeva verun piacere alla distruzione degli esseri viventi.

Dopo un'ora di passeggio e di ricerche botaniche, fu servito il
pranzo: la soddisfazione provata pel piacere di rivedere ancora quel
luogo favorito, riempì i commensali del più dolce sentimento: la cara
famiglia parea ritrovare la felicità sotto quelle ombre beate.
Sant'Aubert discorrea con singolar allegria: ogni oggetto ne rianimava
i sensi; l'amabile frescura, il diletto che si prova alla vista della
natura dopo i patimenti d'una malattia ed il soggiorno di una camera
da letto, non ponno del certo nè comprendersi, nè descriversi nello
stato di perfetta salute; la verzura delle selve e de' pascoli, la
varietà de' fiori, l'azzurra vôlta de' cieli, l'olezzo dell'aere, il
lene murmure delle acque, il ronzio de' notturni insetti, tutto sembra
allora vivificar l'anima e dar pregio all'esistenza. La Sant'Aubert,
rianimata dalla gaiezza e dalla convalescenza dello sposo, obliò la
sua indisposizione personale: passeggiò pe' boschi, e visitò le
situazioni deliziose di quel ritiro: conversava essa col marito e
colla figlia, e riguardavali spesso con un grado di tenerezza che le
faceva versar lagrime. Sant'Aubert, accortosene, le rimproverò
teneramente la sua emozione: ella non potè che sorridere, stringere la
di lui mano, quella di Emilia, e piangere davvantaggio. Sentì egli che
l'entusiasmo del sentimento le diveniva quasi penoso; una trista
impressione s'impadronì dei suoi sensi, e gli sfuggirono
sospiri.--Forse, diceva tra sè, forse questo momento è il termine
della mia felicità, come ne è il colmo; ma non abbreviamolo con
dispiaceri anticipati; speriamo che non avrò sfuggita la morte per
avere da piangere io stesso i soli esseri interessanti che me la fanno
temere.--

Per uscire da questi cupi pensieri, o forse piuttosto per
intrattenervisi, pregò Emilia di andar a cercare il liuto, e suonargli
qualche bel pezzo di tenera musica. Nell'avvicinarsi alla peschiera,
essa fu sorpresa di sentire le corde del suo strumento toccate da una
mano maestra, ed accompagnata da un canto lamentevole, che cattivò la
di lei attenzione. Ascoltò in profondo silenzio, temendo che un
indiscreto movimento non la privasse d'un suono o non interrompesse il
suonatore. Tutto era tranquillo nel padiglione, e non sembrando che ci
fosse alcuno, ella continuò ad ascoltare; ma finalmente la sorpresa e
il diletto fecero luogo alla timidezza; questa aumentò pella
rimembranza dei versi scritti a matita, da lei già veduti, e titubò
se doveva o no ritirarsi all'istante.

Nell'intervallo, la musica cessò; Emilia riprese coraggio, e si
avanzò, sebben tremando, verso la peschiera, ma non ci vide nessuno:
il liuto giaceva sul tavolino, e tutto il resto stava come ce lo aveva
lasciato. Emilia principiò a credere di avere inteso un altro
istrumento, ma si ricordò benissimo di aver lasciato, nel partire, il
suo liuto vicino alla finestra; si sentì agitata senza saperne il
motivo; l'oscurità, il silenzio di quel luogo, interrotto sol dal
lievissimo tremolio delle foglie, aumentò il suo timore infantile;
volle uscire, ma si accorse che si indeboliva, e fu obbligata a
sedere; mentre procurava di riaversi, i suoi occhi incontraron di
nuovo i versi scritti col lapis; sussultò come se avesse veduto uno
straniero, poi sforzandosi di vincere il terrore, alzossi e si
avvicinò alla finestra; altri versi erano stati aggiunti ai primi, e
questa volta il suo nome ne formava il soggetto.

Non le fu più possibile di dubitare che l'omaggio non fosse a lei
diretto, ma non le fu meno impossibile d'indovinarne l'autore: mentre
ci pensava, sentì il romore di qualche passo dietro l'edifizio;
spaventata, prese il liuto, fuggì ed incontrò i genitori in un
sentieruzzo lungo la radura.

Salirono tutti insieme sopra un poggetto coperto di fichi, d'onde si
godeva il più bel punto di vista delle pianure e delle valli della
Guascogna: sedettero sull'erba, e mentre i loro sguardi abbracciavano
il grandioso spettacolo, respiravano in riposo i dolci profumi delle
piante sparse in quel luogo incantevole. Emilia ripetè le canzoni più
gradite ai genitori, e l'espressione con cui le cantò ne raddoppiò il
diletto. La musica e la conversazione ve li trattennero fino
all'imbrunire: i candidi veli che segnavan di sotto a' monti il veloce
corso della Garonna avean cessato d'esser visibili; era un'oscurità
più malinconica che trista. Sant'Aubert e la sua famiglia si alzarono
lasciando con dispiacere quel sito. Ahimè! La signora Sant'Aubert
ignorava come non dovesse ritornarvi mai più!

Giunta alla peschiera, essa si accorse di aver perduto un
braccialetto, che si era tolto pranzando, ed avea lasciato sulla
tavola, nell'andare al passeggio. Fu cercato con molta premura,
specialmente da Emilia, ma invano, e convenne rinunziarvi. La
Sant'Aubert aveva in gran pregio questo braccialetto, perchè conteneva
il ritratto di sua figlia; e questo ritratto, fatto da poco, era di
perfettissima somiglianza. Quando Emilia fu certa di tal perdita,
arrossì, e divenne pensierosa. Un estraneo si era adunque introdotto
nella peschiera in loro assenza; il liuto smosso ed i versi letti non
le permettevano di dubitarne: si poteva dunque concludere con
fondamento, che il poeta, il suonatore ed il ladro erano la
medesima persona. Ma sebbene que' versi, la musica ed il furto
del ritratto formassero una combinazione notevole, Emilia si sentì
irresistibilmente aliena dal farne menzione, e si propose soltanto di
non visitare più la peschiera senza essere accompagnata da qualcuno
dei genitori.

Nel tornare a casa, la fanciulla pensava a quanto le era accaduto;
Sant'Aubert si abbandonava al più dolce godimento, contemplando i beni
che possedeva. La sua sposa era conturbata ed afflitta dalla perdita
del ritratto; avvicinandosi a casa, distinsero un romore confuso di
voci e di cavalli; parecchi servi traversarono i viali, ed una
carrozza a due cavalli arrivò nello stesso punto davanti la porta
d'ingresso del castello. Sant'Aubert riconobbe la livrea del cognato,
e trovò difatti i coniugi Quesnel nel salotto. Essi mancavano da
Parigi da pochissimi giorni, e recavansi alle loro terre distanti
dieci leghe dalla valle, Sant'Aubert gliele aveva vendute da qualche
anno. Quesnel era l'unico fratello della moglie di Sant'Aubert; ma la
diversità di carattere avendo impedito di rafforzare i loro vincoli,
la corrispondenza tra essi non era stata molto sostenuta. Quesnel si
era introdotto nel gran mondo; amava il fasto, e mirava a divenire
qualcosa d'importante; la sua sagacità, le sue insinuazioni avevano
quasi ottenuto l'intento. Non è dunque da stupire se un uomo tale non
sapesse apprezzare il gusto puro, la semplicità e la moderazione di
Sant'Aubert, e non vi ravvisasse se non se picciolezza di spirito e
totale incapacità. Il matrimonio di sua sorella aveva mortificato
assai la sua ambizione, essendosi lusingato ch'essa avrebbe formato un
parentado più adatto a servire ai suoi progetti. Egli aveva ricevute
proposte confacentissime alle sue speranze; ma la sorella, che a
quell'epoca venne richiesta da Sant'Aubert, si accorse, o credè
accorgersi, che la felicità e lo splendore non erano sempre sinonimi,
e la sua scelta fu presto fatta. Qualunque fossero le idee di Quesnel
a tal proposito, egli avrebbe sacrificato volentieri la quiete della
sorella all'innalzamento della propria fortuna; e quand'essa si
maritò, non potè dissimularle il suo disprezzo per i di lei principii,
e per l'unione ch'essi determinavano. La Sant'Aubert nascose l'insulto
allo sposo, ma per la prima volta, forse, concepì qualche
risentimento. Conservò la sua dignità, e si condusse con prudenza; ma
il di lei riservato contegno avverti abbastanza Quesnel di ciò ch'ella
sentiva.

Nell'ammogliarsi, egli non seguì l'esempio della sorella; la sua sposa
era un'Italiana, ricchissima erede; ma il costei naturale e
l'educazione ne facevano una persona frivola quanto vana.

Si erano prefissi di passare la notte in casa di Sant'Aubert, e
siccome il castello non bastava ad alloggiare tutti i domestici,
furono mandati al vicino villaggio. Dopo i primi complimenti e le
disposizioni necessarie, Quesnel cominciò a parlare delle sue
relazioni ed amicizie. Sant'Aubert, il quale aveva vissuto abbastanza
nel ritiro e nella solitudine perchè questo soggetto gli paresse
nuovo, lo ascoltò con pazienza ed attenzione, ed il suo ospite credè
ravvisarvi umiltà e sorpresa insieme. Descrisse vivamente il piccolo
numero di feste, che le turbolenze di quei tempi permettevano alla
corte di Enrico III, e la sua esattezza compensava l'arroganza: ma
quando arrivò a parlare del duca di Joyeuse, di un trattato segreto,
ond'egli conosceva le negoziazioni colla Porta, e del punto di vista
sotto al quale Enrico di Navarra era veduto alla corte, Sant'Aubert
richiamò l'antica esperienza, e si convinse facilmente che il cognato
tutto al più poteva tenere l'ultimo posto alla corte; l'imprudenza dei
suoi discorsi non poteva conciliarsi colle sue pretese cognizioni:
pure Sant'Aubert non volle mettersi a discutere, sapendo troppo bene
che Quesnel non aveva nè sensibilità, nè criterio.

La Quesnel, nel frattempo, esprimeva il suo stupore alla Sant'Aubert
sulla vita trista che menava, diceva essa, in un cantuccio così
remoto. Probabilmente, per eccitare l'invidia, si mise poscia a
narrare le feste da ballo, i pranzi, le veglie ultimamente date alla
corte, e la magnificenza delle feste fatte in occasione delle nozze
del duca di Joyeuse con Margherita di Lorena, sorella della regina;
descrisse colla stessa precisione e quanto aveva veduto, e quanto non
erale stato concesso di vedere. La fervida immaginazione di Emilia
accoglieva que' racconti coll'ardente curiosità della gioventù, e la
Sant'Aubert, considerando la figlia colle lacrime agli occhi, comprese
che se lo splendore accresce la felicità, la sola virtù però può farla
nascere.

Quesnel disse al cognato: «Sono già dodici anni che ho comprato il
vostro patrimonio.--All'incirca,» rispose Sant'Aubert, reprimendo un
sospiro.--Sono ormai cinque anni che non vi sono stato,» riprese
Quesnel; «Parigi ed i suoi dintorni sono l'unico luogo ove si possa
vivere; ma d'altra parte, io sono talmente occupato, talmente versato
negli affari, ne sono tanto oppresso, che non ho potuto senza
grandissima difficoltà, ottenere di assentarmi per un mese o due.»
Sant'Aubert non diceva nulla, e Quesnel seguitò: «Sonomi maravigliato
spesso, che voi, assuefatto a vivere nella capitale, voi, che siete
avvezzo al gran mondo possiate dimorare altrove, sopratutto in un
paese come questo, ove non si sente parlare di nulla, e dove si sa
appena di esistere.--Io vivo per la mia famiglia e per me,» disse
Sant'Aubert; «mi contento in oggi di conoscere la felicità, mentre
anch'io per lo passato ho conosciuto il mondo.

--Ho deciso di spendere nel mio castello trenta o quarantamila lire in
abbellimenti,» soggiunse Quesnel, senza badare alla risposta del
cognato; «mi son proposto di farci venire i miei amici nella prossima
estate. Il duca di Durfort, il marchese di Grammont spero che mi
onoreranno della loro presenza per un mese o due.»

Sant'Aubert l'interrogò su' suoi progetti di abbellimento; si trattava
di demolire l'ala destra del castello per fabbricarvi le scuderie.
«Farò in seguito,» aggiunse egli, «una sala da pranzo, un salotto, un
tinello, e gli alloggi per tutti i domestici, poichè adesso non ho da
allogarne la terza parte.

--Tutti quelli di mio padre vi alloggiavano comodamente,» riprese
Sant'Aubert, rammentandosi con dispiacere l'antica abitazione, «ed il
di lui seguito era pur numeroso.

--Le nostre idee si sono un po' ingrandite,» disse Quesnel; «ciò
ch'era decente in quei tempi, or non parrebbe più sopportabile.»

Il flemmatico Sant'Aubert arrossì a tai parole, ma l'ira fe' presto
luogo al disprezzo.

«Il castello è ingombro d'alberi,» soggiunse Quesnel, «ma io conto di
dargli aria.

--E che! voi vorreste tagliare gli alberi?

--Certo, e perchè no? essi impediscono la vista; c'è un vecchio
castagno che stende i rami su tutta una parte del castello, e cuopre
tutta la facciata dalla parte di mezzogiorno; lo dicono così vecchio,
che dodici uomini starebbero comodamente nel suo tronco incavato: il
vostro entusiasmo non giungerà fino a pretendere che un vecchio albero
inutilissimo abbia la sua bellezza od il suo uso.

--Buon Dio!» sclamò Sant'Aubert; «voi non distruggerete quel maestoso
castagno, che esiste da tanti secoli, e fa l'ornamento della terra!
Era già grosso quando fu fabbricata la casa; da giovine io mi
arrampicava spesso su' di lui rami più alti; nascosto tra le sue
foglie, la pioggia poteva cadere a diluvio, senza che una sola goccia
d'acqua mi toccasse: quante ore vi ho passate con un libro in mano! Ma
perdonatemi,» continuò egli rammentandosi che non era inteso, «io
parlo del tempo antico. I miei sentimenti non sono più di moda, e la
conservazione di un albero venerabile non è, al par d'essi,
all'altezza de' tempi odierni.

--Io lo atterrerò per certo,» disse Quesnel, «ma in sua vece potrò ben
piantare qualche bel pioppo d'Italia fra i castagni che lascierò nel
viale. La signora Quesnel ama molto i pioppi, e mi parla spesso della
casa di suo zio nei dintorni di Venezia, ove questa piantagione fa un
effetto superbo.

--Sulle sponde della Brenta,» rispose Sant'Aubert, «ove il suo fusto
alto e diritto si sposa ai pini, a' cipressi, e pompeggia intorno a
portici eleganti e svelti colonnati, deve effettivamente adornare quei
luoghi deliziosi, ma fra i giganti delle nostre foreste, accanto ad
una gotica e pedante architettura!

--Questo può essere, caro signor mio,» disse Quesnel, «io non voglio
disputarvelo. Bisogna che voi ritorniate a Parigi, prima che le
nostre idee possano avere qualche rapporto. Ma, a proposito di
Venezia, ho quasi voglia di andarci nella prossima estate. Può darsi
ch'io diventa padrone della casa di cui vi parlava, e che dicono
bellissima. In tal caso rimetterò i miei progetti di abbellimento
all'anno venturo, e mi lascierò trascinare a passare qualche mese di
più in Italia.»

Emilia restò alquanto sorpresa nell'udirlo parlare in quei termini. Un
uomo tanto necessario a Parigi, un uomo che poteva appena
allontanarsene per un mese o due, pensar di andare in paese straniero,
ed abitarvi per qualche tempo! Sant'Aubert conosceva troppo bene la di
lui vanità per maravigliarsi di simile linguaggio, e vedendo la
possibilità di una proroga per gli abbellimenti progettati, ne concepì
la speranza di un totale abbandono.

Prima di separarsi, Quesnel desiderò intertenersi in particolare col
cognato; entrarono ambidue in un'altra stanza e vi restarono a lungo.
Il soggetto del loro colloquio rimase ignoto; ma Sant'Aubert al
ritorno parve molto pensieroso, e la tristezza dipinta sul suo volto
allarmò assai la di lui consorte. Quando furono soli, essa fu entrata
di chiedergliene il motivo; la delicatezza però la trattenne,
riflettendo che se suo marito avesse creduto conveniente
d'informarnela, non avrebbe aspettato le di lei domande.

Il dì dopo, Quesnel partì dopo aver avuto un'altra conferenza con
Sant'Aubert. Ciò accadde al dopo pranzo, e verso sera i nuovi ospiti
si rimisero in viaggio per Epurville, ove sollecitarono i cognati di
andarli a trovare, ma più nella lusinga di far pompa di magnificenza,
che per desiderio di farne lor fruire le bellezze.

Emilia tornò con delizia alla libertà statale tolta colla loro
presenza. Ritrovò i suoi libri, le sue passeggiate, i discorsi
istruttivi dei suoi genitori, ed anch'eglino godettero di vedersi
liberati da tanta frivolezza ed arroganza.

La Sant'Aubert non andò a fare la sua solita passeggiata, lagnandosi
di un poco di stanchezza, ed il marito uscì colla figlia.

Presero la strada dei monti. Il loro progetto era di visitar alcuni
vecchi pensionati di Sant'Aubert. Una rendita modica gli permetteva
simile aggravio, mentr'è probabile che Quesnel con tutti i suoi tesori
non avrebbe potuto sopportarlo.

Sant'Aubert distribuì i soliti benefizi ai suoi umili amici; ascoltò
gli uni, consolò gli altri; li contentò tutti co' dolci sguardi della
simpatia ed il sorriso dell'affabilità, e traversando con Emilia i
sentieri ombrosi della selva, tornò seco lei al castello.

La moglie era già ritirata nelle sue stanze; il languore e
l'abbattimento che l'avevano oppressa, e che l'arrivo dei forestieri
aveva sospeso, la colsero di nuovo, ma con sintomi più allarmanti.
L'indomani si manifestò la febbre; il medico vi riconobbe il medesimo
carattere di quella ond'era guarito Sant'Aubert; essa ne aveva
ricevuto il contagio assistendo il marito: la sua complessione troppo
debole non aveva potuto resistere: il male, insinuatosi nel sangue,
l'aveva piombata nel languore. Sant'Aubert, spinto dalla inquietudine,
trattenne il medico in casa; si rammentò i sentimenti e le riflessioni
che avevano turbate le sue idee l'ultima volta ch'erano stati insieme
alla peschiera; credè al presentimento, e temè tutto per la malata:
riuscì non ostante a nascondere il suo turbamento, e rianimò la
figlia, aumentandone le speranze. Il medico, interrogato da lui,
rispose che, prima di pronunciarsi, dovea aspettare una certezza, non
ancora da lui acquistata. L'inferma sembrava averne una meno dubbiosa,
ma i suoi occhi soltanto potevano indicarla; essa li fissava spesso
su' suoi con un'espressione mista di pietà e di tenerezza, come se
avesse antiveduto il loro cordoglio, e sembrava non istare attaccata
alla vita se non per cagione di essi e del loro dolore. Il settimo
giorno fu quello della crisi; il medico prese un accento più grave;
ella se ne accorse, e profittando di un momento ch'erano soli,
l'accertò esser ella persuasissima della sua morte imminente. «Non
cercate d'ingannarmi,» gli disse; «io sento che ho poco di vivere, e
da qualche tempo son preparata a morire; ma poichè così è, una falsa
compassione non v'induca a lusingare la mia famiglia; se lo faceste,
la loro afflizione sarebbe troppo violenta all'epoca della mia morte;
io mi sforzerò, coll'esempio, d'insegnar loro la rassegnazione ai
voleri supremi.»

Il medico s'intenerì, promise di obbedire, e disse un po' ruvidamente
a Sant'Aubert che non bisognava sperare. La filosofia di questo
sventurato non era tale da resistere alla prova di un colpo tanto
fatale; ma riflettendo che un aumento di afflizione, nell'eccesso del
suo dolore, avrebbe potuto aggravare maggiormente la consorte, prese
forza bastante per moderarla alla di lei presenza. Emilia cadde
svenuta, ma appena riprese l'uso dei sensi, ingannata dalla vivacità
dei suoi desiderii, conservò fino all'ultimo momento la speranza della
guarigione della madre.

La malattia faceva rapidi progressi; la rassegnazione e la calma
dell'inferma sembravano crescere con essa la tranquillità con cui
attendeva la morte, nasceva da una coscienza pura, da una vita senza
rimorsi, e per quanto poteva comportarlo l'umana fragilità, passata
costantemente nella presenza di Dio e nella speme d'un mondo migliore;
ma la pietà non poteva annientare il dolore che provava, lasciando
amici tanto cari al suo cuore. Negli estremi momenti, parlò molto col
marito e con Emilia sulla vita futura ed altri soggetti religiosi; la
di lei rassegnazione, la ferma speranza di ritrovare nell'eternità i
cari oggetti che abbandonava in questo mondo; lo sforzo che faceva per
nascondere il dolore cagionatole dalla momentanea separazione, tutto
contribuì ad affliggere siffattamente Sant'Aubert, che fu costretto ad
uscire dalla camera. Pianse amare lagrime, ma in fine fece forza a sè
stesso, e rientrò con una ritenutezza che non poteva se non accrescere
il suo supplizio.

In alcun tempo Emilia non aveva meglio conosciuto quanto fosse
prudente di moderare la sua sensibilità, nè mai erasene occupata con
tanto coraggio; ma dopo il momento terribile e funesto dovè cedere al
peso del dolore, e comprese come la speranza al par della forza
avessero concorso a sostenerla. Sant'Aubert era troppo afflitto egli
stesso per poter consolare la figlia.



CAPITOLO II


La spoglia mortale della Sant'Aubert fu inumata nella chiesa del
villaggio vicino; sposo e figlia accompagnarono il corteggio funebre,
e furono seguiti da un numero prodigioso di abitanti, che piangevano
tutti sinceramente la perdita dell'ottima donna.

Ritornati dalla chiesa, Sant'Aubert si chiuse nella sua camera, e ne
uscì colla serenità del coraggio e col pallore della disperazione;
ordinò a tutte le persone che componevano la sua famiglia di riunirsi
vicino a lui. La sola Emilia non compariva: soggiogata dalla scena
lugubre ond'era stata testimone, erasi chiusa nel suo gabinetto per
piangervi in libertà. Sant'Aubert l'andò a cercare; le prese la mano
in silenzio, e le sue lacrime continuarono: egli stesso stentò molto a
riacquistare la voce e la facoltà di esprimersi; finalmente disse
tremando: «Cara Emilia, noi andiamo a pregare per l'anima della tua
buona madre; non vuoi tu unirti a noi? Imploreremo il soccorso
dell'Onnipotente: da chi possiamo noi attenderlo se non dal cielo?»

Emilia trattenne le lacrime, e seguì il padre nel salotto ov'erano
riuniti i domestici. Sant'Aubert lesse con voce sommessa l'uffizio dei
morti, e vi aggiunse preghiere per l'anima dei defunti. Durante la
lettura, gli mancò la voce, e le lacrime inondarono il libro; si
arrestò, ma le sublimi emozioni d'una devozione pura innalzarono
successivamente le sue idee al disopra di questo mondo, e versarono
infine il balsamo della consolazione nel suo cuore.

Finito l'uffizio, e ritirati i domestici, egli abbracciò teneramente
la sua Emilia. «Mi sono sforzato,» le disse, «di darti fino dai primi
anni un vero impero su te stessa, e te ne ho rappresentata
l'importanza in tutta la condotta della vita; questa sublime qualità
ci sostiene contro le più pericolose tentazioni del vizio, ci richiama
alla virtù, e modera parimente l'eccesso delle emozioni più virtuose.
Vi è un punto in cui esse cessano di meritare questo nome, se la loro
conseguenza è un male; qualunque eccesso è vizioso; il dispiacere
medesimo, sebbene amabile ne' suoi primordi, diviene una passione
ingiusta, quando uno vi si abbandona a spese dei propri doveri. Per
dovere io intendo parlare di ciò che si deve a sè stessi, al par di
quello che si deve agli altri, un dolore smoderato infiacchisce
l'anima, e la priva di quei dolci godimenti che un Dio benefico
destina all'ornamento della nostra vita. Emilia cara, invoca, fa uso
di tutti i precetti che hai da me ricevuti, e di cui l'esperienza ti
ha così spesso dimostrato la saviezza... Il tuo dolore è inutile; non
riguardare questa verità come un'espressione comune di consolazione,
ma come un vero motivo di coraggio. Non vorrei soffocare la tua
sensibilità, figlia mia, ma moderarne soltanto l'intensità. Di
qualunque natura possano essere i mali, ond'è afflitto un cuore
troppo tenero, non si deve sperar nulla da quello che non lo è. Tu
conosci il mio dolore, sai se le mie parole sono di quei discorsi
leggieri fatti a caso per arrestare la sensibilità nella sua sorgente,
e il cui unico fine è di far pompa d'una pretesa filosofia. Ti
dimostrerò, cara figlia, ch'io posso mettere in pratica i consigli che
do. Ti parlo così, perchè non ti posso vedere, senza dolore,
consumarti in lacrime superflue e non fare veruno sforzo per
consolarti; non ti ho parlato prima, perchè avvi un momento in cui
qualunque ragionamento deve cedere alla natura. Questo momento è
passato, e quando lo si prolunga all'eccesso, la trista abitudine che
si contrae, opprime lo spirito al punto di togliergli la sua
elasticità, tu urti in questo scoglio, ma son persuaso che mi proverai
col fatto di volerlo evitare.»

Emilia, piangendo, sorrise al genitore. «O padre!» esclamò, e le mancò
la voce. Avrebbe aggiunto senza dubbio: Io voglio mostrarmi degna del
nome di vostra figlia. Ma un movimento misto di riconoscenza, di
tenerezza e di dolore l'oppresse di nuovo: Sant'Aubert la lasciò
piangere senza interromperla, e parlò di altre cose.

La prima persona che venne a partecipare alla sua afflizione fu un
certo Barreaux, uomo austero, e che sembrava insensibile; il gusto
della botanica li aveva legati in amicizia, essendosi incontrati
spesso sui monti. Barreaux erasi ritirato dal mondo, e quasi dalla
società, per vivere in un bellissimo castello, all'ingresso de'
boschi, e vicinissimo alla valle. Come Sant'Aubert, egli era stato
crudelmente disingannato dall'opinione che aveva avuta degli uomini,
ma, al par di lui, non si limitava ad affliggersene ed a compiangerli;
sentiva più sdegno contro i loro vizi, che compassione per le loro
debolezze.

Sant'Aubert fu sorpreso nel vederlo. Lo aveva invitato spesso a venire
a visitare la sua famiglia, senza avervelo mai potuto decidere; quel
giorno venne senza riserva, ed entrò in casa come uno dei più
intrinseci amici della famiglia. I bisogni della sventura parevano
averne addolcita la ruvidezza e domati i pregiudizi. La desolazione di
Sant'Aubert parve l'unica sua occupazione; le maniere, più che le
parole, ne esprimevano la commozione: parlò poco del soggetto della
loro afflizione, ma le sue attenzioni delicate, il suono della sua
voce, e l'interesse dei suoi sguardi esprimevano il sentimento del suo
cuore; e questo linguaggio fu benissimo inteso.

A quell'epoca dolorosa, Sant'Aubert fu visitato dalla sua unica
sorella, la signora Cheron, vedova da qualche anno, la quale abitava
allora nelle proprie terre vicino a Tolosa. La loro corrispondenza era
stata poco attiva: le espressioni non le mancarono però; ella non
intendeva quella magia dello sguardo, che parla così bene all'anima, e
quella dolcezza di accenti, che versa un balsamo salutare nei cuori
afflitti e desolati. Assicurò il fratello che prendeva il più sincero
interesse al suo dolore, lodò le virtù della sua sposa, ed aggiunse
quanto immaginò di più consolante. Emilia non cessò dal piangere fin
ch'essa parlò. Sant'Aubert fu più tranquillo, ascoltò in silenzio, e
cambiò tenore di conversazione.

Nel partire, la signora Cheron li pregò di andarla presto a trovare.
«Il cambiamento di soggiorno vi distrarrà non poco,» diss'ella; «fate
malissimo ad affliggervi tanto.» Suo fratello comprese la verità di
queste parole, ma sentiva più ripugnanza di prima a lasciare un asilo
consacrato alla sua felicità. La presenza della sposa aveva reso quei
luoghi tanto interessanti per lui, che ogni giorno calmando l'amarezza
del suo dolore, aumentava la vaghezza delle sue rimembranze.

Egli aveva cionnonpertanto doveri da compiere, e di questo genere era
una visita al cognato Quesnel; un affare importante non permetteva di
differirla più a lungo, e desiderando d'altronde di scuotere Emilia
dal suo abbattimento prese seco lei la strada d'Epurville.

Quando la carrozza entrò nel bosco che circondava il suo antico
patrimonio, e che scoprì il viale di castagni e le torricelle del
castello, nel pensare agli avvenimenti trascorsi in quell'intervallo,
e come il possessore attuale non sapesse nè apprezzare, nè rispettare
un tanto bene, Sant'Aubert sospirò profondamente; alla fine, entrò nel
viale, rivide quei grandi alberi, delizia della sua infanzia e
confidenti della sua gioventù. A poco a poco il castello mostrò la sua
massiccia grandezza. Rivide la grossa torre, la porta vôlta
d'ingresso, il ponte levatoio, ed il fosso asciutto che circondava
tutto l'edifizio.

Il romore della carrozza chiamò una folla di servitori al cancello.
Sant'Aubert scese, e condusse Emilia in una sala gotica; ma gli
stemmi, le antiche insegne della famiglia non la decoravano più. Le
travi, e tutto il legname di quercia del soffitto, erano stati tinti
di bianco. La gran tavola, ove il feudatrio faceva pompa tutti i
giorni della magnificenza e dell'ospitalità sua, dove il riso ed i
lieti canti avevano così spesso rimbombato, questa tavola non esisteva
più; le panche istesse che circondavano la sala, erano state tolte. Le
grosse pareti non erano ricoperte che di frivoli ornamenti, i quali
dimostravano quanto fosse gretto e meschino il gusto ed il sentimento
del proprietario attuale.

Sant'Aubert fu introdotto nel salotto da un elegante servitore
parigino. I coniugi Quesnel lo ricevettero con fredda garbatezza, con
qualche complimento alla moda, e parvero aver obliato totalmente di
aver avuto una sorella.

Emilia fu sul punto di versare lacrime, ma ne fu trattenuta da un
giusto risentimento. Sant'Aubert, franco e tranquillo, conservò la
sua dignità senza mostrare di avvedersene, e pose, in soggezione
Quesnel; il quale non poteva spiegarsene il motivo.

Dopo una conversazione generale, Sant'Aubert mostrò desiderio di
parlargli da solo a solo. Emilia restò colla signora Quesnel, e fu
tosto informata come per quel giorno istesso fosse stata invitata una
società numerosa: essa fu costretta di sentirsi dire che una perdita
irrimediabile non deve privare di verun piacere.

Quando Sant'Aubert seppe di questo invito, sentì un misto di disgusto
e d'indignazione per l'insensibilità di Quesnel, e fu quasi tentato di
tornarsene al momento al suo castello; ma sentendo che, a suo
riguardo, era stata invitata a venire anche la signora Cheron, e
considerando che Emilia avrebbe potuto un giorno provare le
conseguenze dell'inimicizia d'un simile zio, non volle esporvela;
d'altra parte, la sua istantanea partenza sarebbe parsa senza dubbio
poco conveniente a persone, che mostravano nondimanco un sì fiacco
sentimento delle convenienze.

Fra i convitati si trovavano due gentiluomini italiani, uno chiamato
Montoni, parente lontano della signora Quesnel, dell'età circa
quarant'anni, di ammirabile statura; avea fisonomia virile ed
espressiva, ma in generale esprimeva la baldanza e l'alterigia,
piuttosto che ogni altra disposizione.

Il signor Cavignì, suo amico, non mostrava più di trent'anni. Era ad
esso inferiore di nascita, ma non in penetrazione, e lo superava nel
talento d'insinuarsi. Emilia fu piccata del modo con cui la Cheron
parlò a suo padre. «Fratello mio,» gli diss'ella, «mi spiace di
vedervi di così cattiva ciera; dovreste consultare qualche medico.»
Sant'Aubert le rispose, con malinconico sorriso, che presso a poco
stava come al solito; ed i timori di Emilia le fecero trovare il padre
cambiato assai più che realmente nol fosse. Se Emilia fosse stata meno
oppressa, si sarebbe divertita, la diversità dei caratteri della
conversazione durante il pranzo, e la magnificenza istessa con cui fu
servito, molto al di sopra di tutto quanto aveva veduto fin allora,
non avrebbero senza dubbio mancato di svagarla. Montoni, recentemente
giunto dall'Italia, raccontava le turbolenze e le fazioni che
agitavano quel paese. Dipingeva con vivacità i diversi partiti;
deplorava le probabili conseguenze di quegli orribili tumulti. Il suo
amico parlava con altrettanto ardore della politica della sua patria;
lodava il governo e la prosperità di Venezia, e vantava la di lei
decisa superiorità su tutti gli altri Stati d'Italia; si rivolse in
seguito alle signore, e parlò colla medesima eloquenza delle mode,
degli spettacoli, delle affabili maniere dei Francesi, ed ebbe
l'accortezza di far cadere il suo discorso su tutto ciò che poteva
lusingare il gusto di quella nazione: l'adulazione non fu conosciuta
da coloro cui era indirizzata, ma l'effetto però che produsse sulla
loro attenzione non isfuggì alla sua perspicacia. Quando potè
disimpegnarsi dalle altre signore, si rivolse ad Emilia; ma essa non
conosceva nè le mode, nè i teatri parigini, e la sua modestia e
semplicità, e le sue belle maniere contrastavano forte col tuono delle
compagne. Dopo il pranzo, Sant'Aubert uscì solo per visitare ancora
una volta il vecchio castagno, che Quesnel pensava distruggere.
Riposando sotto quell'ombra, guardò attraverso le folte sue frondi, e
scorse tra le foglie tremolanti l'azzurra vôlta de' cieli; gli
avvenimenti della sua gioventù presentaronsegli tutti insieme alla
fantasia. Si rammentò gli antichi amici, il loro carattere, e perfino
le loro fattezze. Da molto tempo essi non esistevano più; gli parve
essere anch'egli un ente quasi isolato, e la sua Emilia sola poteva
fargli amare ancora la vita.

Perduto nella folla delle immagini che gli presentava la sua memoria,
giunse al quadro della moribonda sposa; sussultò, e volendo obliarla,
se gli fosse stato possibile, tornò alla società.

Sant'Aubert fece attaccare la carrozza di buonissim'ora; Emilia si
accorse per via ch'era più taciturno è più abbattuto del solito; essa
ne attribuì la cagione alle memorie ricordategli da quel luogo, nè
sospettò il vero motivo d'un dolore ch'egli non le comunicava.

Ritornati al castello, la di lei afflizione si rinnovò, e conobbe più
che mai gli effetti della privazione di una madre tanto cara, che
l'accoglieva sempre col sorriso e le più affabili carezze, dopo
un'assenza anche momentanea. Or tutto era cupo e deserto.

Ma ciò che ottener non possono nè la ragione, nè gli sforzi, l'ottiene
il tempo. Scorsero le settimane, e l'orrore della disperazione si
trasformò a poco a poco in un dolce sentimento che il cuore conserva,
e gli diventa sacro. Sant'Aubert al contrario, s'indeboliva
sensibilmente, sebbene Emilia, la sola persona che non lo abbandonasse
mai, fosse l'ultima ad accorgersene. La sua complessione non si era
ristabilita dall'urto ricevuto nella malattia, e la scossa che provò
alla morte della moglie, determinò il suo estremo languore: il suo
medico lo consigliò di viaggiare. Era visibile come i suoi nervi
fossero stati fortemente attaccati dall'accesso del dolore; e si
credeva che il cambiamento dell'aria ed il moto, calmandone lo
spirito, potessero riescire a restituirgli l'antico vigore.

Emilia si occupò quindi dei preparativi, e Sant'Aubert dei calcoli
sulle spese del viaggio. Bisognò congedare i servi. Emilia, che si
permetteva rare volte di opporre alla volontà del padre domande od
osservazioni, avrebbe voluto non ostante sapere per qual motivo, nel
suo stato infermiccio, egli non si riservasse almeno un servitore. Ma
quando, la vigilia della partenza, si accorse che Giacomo, Francesco e
Maria erano stati licenziati, e conservata soltanto Teresa, sua
antica governante, ne fu estremamente sorpresa, ed arrischiò di
domandargliene il motivo... «Lo faccio per economia,» le rispose egli;
«noi intraprendiamo un viaggio molto dispendioso.» Il medico aveva
prescritto l'aria di Linguadoca e di Provenza: Sant'Aubert risolse
adunque d'incamminarsi lentamente verso quelle province, costeggiando
il Mediterraneo.

Si ritirarono di buon'ora nelle loro camere la sera precedente alla
partenza. Emilia doveva porre in ordine alcuni libri e qualche altra
cosa; suonò mezzanotte prima che avesse finito; si ricordò dei suoi
disegni, cui voleva portar seco, e che aveva lasciati nel salotto. Vi
andò, e, passando vicino alla camera del padre, ne trovò la porta
socchiusa, e credè che fosse nel suo gabinetto, come solea fare tutte
le sere dopo la morte della moglie. Agitato da insonnii crudeli,
lasciava il letto, e andava in quella stanza per procurare di trovarci
il riposo. Quando essa fu in fondo alla scala, guardò nel gabinetto,
ma nol vide. Nel risalire, bussò leggermente all'uscio, non ricevè
nessuna risposta, e si avanzò pian piano per sapere ove fosse.

La camera era oscura, ma attraverso alla porta vetrata si scorgeva un
lume nel fondo di una stanza attigua. Emilia era persuasa che suo
padre stava là dentro; ma temendo che a quell'ora egli vi si trovasse
incomodato, volle andar ad assicurarsene. Considerando però che una sì
improvvisa apparizione l'avrebbe forse spaventato, lasciò fuori il
lume, e si avanzò pian piano verso la stanza. Là, essa vide il padre
seduto innanzi ad un tavolino, e scorrendo parecchie carte, alcune
delle quali assorbivano la sua attenzione, e gli strappavano sospiri e
per fino singulti. Emilia, la quale non si era avvicinata alla porta
se non per assicurarsi dello stato di salute del padre, fu trattenuta
in quel momento da un misto di curiosità e di tenerezza. Non poteva
essa scuoprire le sue pene, senza desiderare di saperne eziandio la
causa. Continuò ad osservarlo in silenzio, non dubitando più che
quelle carte non fossero altrettante lettere. D'improvviso, ei si pose
in ginocchio in un atteggiamento più solenne che fin allora non
l'avesse veduto; ed in una specie di smarrimento che somigliava molto
all'orrore, fece una lunghissima preghiera. Il di lui volto era
coperto da mortal pallore quando si alzò. Emilia pensava a ritirarsi,
ma lo vide avvicinarsi di nuovo alle carte, e si trattenne. Egli prese
un piccolo astuccio, e ne levò una miniatura: il lume, che ci
rifletteva sopra, le fece distinguere una donna, e questa donna non
era sua madre!

Sant'Aubert guardò il ritratto con viva espressione di tenerezza, lo
recò alle labbra, al cuore, e mandò sospiri convulsi. Emilia non
poteva credere ai propri occhi, ignorando ch'egli possedesse il
ritratto di un'altra donna fuor di sua madre, e specialmente poi che
gli fosse tanto caro. Essa lo guardò di nuovo a lungo per trovarci
l'effigie della genitrice, ma la di lei attenzione servì solo a
convincerla essere quello il ritratto di un'altra donna. Finalmente,
il padre lo ripose nell'astuccio, ed Emilia, riflettendo di avere
indiscretamente osservati i di lui segreti, si ritirò il più adagio
che le fu possibile.



CAPITOLO III


Sant'Aubert, in vece di prendere la strada diretta che conduceva in
Linguadoca, seguitando le falde dei Pirenei, preferì un cammino sulle
alture, perchè offriva vedute più estese e più pittoresche. Uscì un
poco di strada per congedarsi da Barreaux; lo trovò che erborizzava
vicino al suo castello, e quando gli manifestò il soggetto della sua
visita e la sua risoluzione, l'amico gli dimostrò una sensibilità di
cui fino a quel punto Sant'Aubert non avevalo creduto capace. Si
separarono con reciproco rammarico.

«Se qualcosa avesse potuto togliermi dal mio ritiro,» disse Barreaux,
«sarebbe stato il piacere di accompagnarvi in questo viaggio; io non
faccio complimenti, e potete credermi: attenderò il vostro ritorno con
grande impazienza.»

I viaggiatori continuarono il loro cammino: nel montare in carrozza,
Sant'Aubert si volse e vide il suo castello nella pianura. Idee
lugubri gl'invasero lo spirito, e la sua immaginazione malinconica gli
suggerì che non doveva più ritornarvi. Respinse questo pensiero, ma
continuò a guardare il suo asilo fino a che la distanza non gli
permise più di distinguerlo.

Emilia restò, come lui, in un profondo silenzio, ma dopo qualche
miglio, la di lei immaginazione, colpita dalla maestosità degli
oggetti circostanti, cedè alle impressioni più deliziose. La strada
passava, ora lungo orridi precipizi, ora pei siti più deliziosi.

Emilia non potè trattenere i suoi trasporti, quando, dal mezzo de'
monti e de' boschi di abeti, scoprì in lontananza immense pianure,
sparse di ville, di vigneti e di piantagioni d'ogni specie. Le onde
maestose della Garonna scorrevano in quella ricca valle, e dalla
sommità dei Pirenei, d'onde ella trae origine, si conducevano verso
l'Oceano.

La difficoltà di una strada così poco frequentata obbligò spesso i
viaggiatori di camminare a piedi; ma si trovavano essi ampiamente
ricompensati dalla fatica per la vaghezza dello spettacolo offerto
dalla natura. Mentre il mulattiere conduceva lentamente la carrozza,
avevano tutto il comodo di percorrere le solitudini e di abbandonarsi
alle sublimi riflessioni che sollevano l'anima, la leniscono, e la
riempiono in fine di quella consolante certezza che Iddio, è presente
dappertutto. I godimenti di Sant'Aubert portavan l'impronta della sua
meditabonda malinconia. Questa disposizione aggiunge un incanto
segreto agli oggetti, e inspira un sentimento religioso per la
contemplazione della natura.

I nostri viaggiatori si erano premuniti contro la mancanza degli
alberghi, portando seco provvisioni; potevano dunque fare le loro
refezioni a ciel sereno, e riposare la notte in qualunque luogo
avessero trovato una capanna abitabile. Avevano egualmente fatte
provvisioni per lo spirito, portando seco un'opera di botanica scritta
da Barreaux, e qualche poeta latino o italiano. Emilia, d'altronde,
aveva seco le matite, e tratto tratto disegnava i punti di vista che
la colpivano maggiormente.

La solitudine della strada aumentava l'effetto della scena; appena
incontravano essi di tempo in tempo un contadino coi muli, o qualche
fanciullo che scherzava tra le rupi. Sant'Aubert, incantato di quella
maniera di viaggiare, si decise di avanzare sempre nelle montagne
finchè trovasse strada, e di non uscirne che al Rossiglione, vicino al
mare, per passare quindi in Linguadoca.

Un po' dopo mezzodì giunsero in vetta d'un alto picco che dominava
parte della Guascogna e della Linguadoca. Colà godevasi d'una folta
ombra. Vi scaturiva una fonte, che, fuggendo sotto gli alberi fra
erbosi margini, correva a precipitarsi al basso in brillanti
cascatelle. Il suo lene murmure alfine perdevasi nel sottoposto
baratro, ed il candido polvischio della sua spuma serviva solo a
distinguerne il corso in mezzo ai negri abeti.

Il luogo invitava al riposo. Si ammannì il pranzo; le mule furono
staccate, e l'erba che fitta cresceva quivi intorno, lor fornì copioso
nutrimento.

Finito il pasto, Sant'Aubert prese la mano d'Emilia, e teneramente la
strinse senza dir verbo. Poco stante, chiamò il mulattiere, e
chiesegli se conoscesse una via tra i monti che guidar potesse nel
Rossiglione. Michele rispose trovarsene parecchie, ma esserne poco
pratico. Sant'Aubert, non volendo viaggiare se non fino al tramonto,
domandò il nome di vari casali vicini, ed informossi del tempo cui
impiegherebbero a giugnervi. Il mulattiere calcolò che si potea andare
a Mateau, ma che, se si volesse movere verso mezzogiorno, dalla parte
del Rossiglione, eravi un villaggio dove si giugnerebbe assai prima
del tramonto.

Sant'Aubert s'appigliò a quest'ultimo partito. Michele finì il pasto,
attaccò le mule, si ripose in via, e poco stante sostò. Sant'Aubert lo
vide pregare appiè d'una croce piantata sulla punta d'una rupe
all'orlo della strada; finita l'orazione, fe' schioccar la frusta e,
senza riguardo alcuno per la difficoltà della via, nè per la vita
delle povere mule, le spinse di gran galoppo sul margine d'uno
spaventoso precipizio. Lo spavento d'Emilia le tolse quasi l'uso de'
sensi. Suo padre, il quale temeva ancor più il pericolo di fermarsi
d'improvviso, fu costretto a tornar a sedere, e tutto lasciare in
balia alle mule, le quali parvero più savie del loro conduttore. I
viaggiatori giunsero sani e salvi nella valle, e sostarono sul margine
d'un ruscello.

Dimenticando ormai la magnificenza delle viste grandiose, internaronsi
nell'angusta valle. Tutto quivi era solitario o sterile; non vi si
vedea anima viva fuorchè il capriuolo montano, il quale, talfiata,
mostravasi di repente sullo scosceso culmine di qualche inaccessibile
dirupo. Era un sito qual l'avrebbe scelto Salvator Rosa, se avesse
vissuto. Allora Sant'Aubert, colpito da tale aspetto, attendeasi quasi
a veder isbucare da qualche antro vicino una torma di masnadieri, e
tenea in mano le armi.

Intanto inoltravano, e la valle allargavasi, assumendo carattere meno
spaventoso. Verso sera, trovaronsi sulle montagne, in mezzo a scopeti.
Da lunge, intorno ad essi, il campanaccio degli armenti, la voce de'
mandriani eran l'unico suono che udir si facesse; e la dimora de'
pastori l'unica abitazione che là si scoprisse. Sant'Aubert notò che
il lecce, il sovero e l'abete vegetavano per gli ultimi sulle vette
circostanti. Ridente verzura tappezzava il fondo della valle.
Scorgeasi nelle profondità, all'ombra di castagni e querce, pascere e
saltellare grosse mandre, disperse od aggruppate con grazia; taluni
animali dormivano presso la fresca corrente, altri vi spegnevano la
sete, ed altri vi si bagnavano.

Il sole cominciava ad abbandonare la valle; i suoi ultimi raggi
brillavano sul torrente, ravvivando i ricchi colori della ginestra e
delle eriche fiorite. Sant'Aubert domandò a Michele quanto fosse
distante il casale di cui avevagli parlato, ma esso non potè
rispondergli con esattezza. Emilia cominciò a temere avesse smarrita
la strada; non eravi ente umano che potesse soccorrerli, nè guidarli.
Avevano lasciato da lunga mano dietro a sè e il pastore e la capanna,
il crepuscolo scemava ognor più, l'occhio nulla potea discernere tra
l'oscurità, e non distingueva nè casale, nè tugurio; una riga colorata
segnava solo l'orizzonte, formando l'unica risorsa de' viaggiatori.
Michele si sforzava di farsi coraggio cantando ariette, che per vero
dire, non valevano molto a scacciare le idee lugubri, ond'erano
occupati i viaggiatori.

Continuarono a camminare assorti in quei profondi pensieri cui seco
traggono la solitudine e la notte. Michele non cantava più, e non si
udiva che il mormorio della brezza nei boschi, nè si sentiva che la
frescura. D'improvviso furono scossi dallo scoppio d'un'arme da fuoco;
Sant'Aubert fece fermare la carrozza, e si pose ad ascoltare. Il
romore non viene ripetuto, ma si sente correre nella macchia.
Sant'Aubert prende le sue pistole, e ordina a Michele di accelerare il
passo. Il suono di un corno da caccia fa rimbombare i monti;
Sant'Aubert osserva, e vede un giovine slanciarsi nella strada,
seguito da due cani; lo straniero era vestito da cacciatore; un
moschetto ad armacollo, un corno alla cintura, ed una specie di picca
in mano, davano una grazia particolare, alla sua persona, secondando
l'agilità dei suoi passi.

Dopo un momento di riflessione, Sant'Aubert volle aspettarlo per
interrogarlo sul casale cui cercava: il forestiere rispose che il
villaggio era distante solo una mezza lega, che vi andava egli stesso,
e gli avrebbe servito di guida; Sant'Aubert lo ringraziò, e colpito
dalle di lui maniere semplici e franche, gli offrì un posto in
carrozza. Lo straniero ricusò, assicurandolo che avrebbe seguito le
mule senza fatica. «Ma voi sarete alloggiato male,» soggiuns'egli;
«questi montanari sono gente poverissima; non solo non conoscono
lusso, ma mancano eziandio delle cose reputate più indispensabili.--Mi
accorgo che voi non siete di questo paese,» disse Sant'Aubert.--No,
signore, io sono viaggiatore.»

La carrozza si avanzava, e l'oscurità crescente fe' meglio conoscere
l'utilità di una guida; i sentieri poi che s'incontravano spesso,
avrebbero aumentata la loro incertezza. Finalmente videro i lumi del
villaggio: si distinsero alcuni casolari, o meglio si poterono
discernere mercè il ruscello che ripercotea ancora il fioco chiaror
del crepuscolo. Lo straniero si avanzò, e Sant'Aubert intese da lui
non esistere in quel luogo nessun albergo, ma egli si offrì di cercare
un ricetto. Sant'Aubert lo ringraziò, e siccome il villaggio era
vicinissimo, scese per accompagnarlo, mentre Emilia li seguiva in
carrozza.

Cammin facendo, Sant'Aubert domandò al compagno se aveva fatta una
buona caccia. «No, signore,» rispos'egli, «e nemmanco era il mio
progetto; amo questo paese e mi propongo di scorrerlo ancora per
qualche settimana; ho i cani con me piuttosto per piacere, che per
utilità; questo abito da cacciatore poi mi serve di pretesto, e mi fa
godere della considerazione, che verrebbe ricusata senza dubbio ad un
forestiero senza apparente occupazione.--Ammiro il vostro gusto,»
rispose Sant'Aubert, «e, se fossi più giovine, vorrei io pure passare
qualche settimana costì; siamo anche noi viaggiatori, ma il nostro
scopo non è l'istesso. Io cerco la salute ancor più del piacere.» Qui
sospirò e tacque per un momento; poi, raccogliendosi soggiunse:
«Vorrei trovare una strada un po' buona, che mi conducesse nel
Rossiglione, per passar quindi in Linguadoca. Voi, che sembrate
conoscere il paese, potreste indicarmene una?»

Lo straniero lo assicurò che si sarebbe fatto un piacere di servirlo,
e gli parlò d'una strada più a levante, che dovea condurre ad una
città, e di là facilmente nel Rossiglione.

Giunti al villaggio, cominciarono a cercare un asilo, che potesse
offrir loro ricovero per la notte; non trovarono nella maggior parte
delle case che ignoranza, povertà e brio; Sant'Aubert veniva guardato
con aria timida e curiosa; non bisognava aspettarsi un buon letto.
Arrivò Emilia, ed osservando la fisonomia stanca ed afflitta del
povero padre, si querelò ch'egli avesse scelta una strada sì poco
comoda per un malato. Le migliori abitazioni erano composte di due
camere; una per le mule e il bestiame, e l'altra per la famiglia,
composta quasi da per tutto di sette o otto figli, e tutti, con il
padre e la madre, dormivano su pelli o foglie secche; e siccome la
sola apertura che fosse in quelle camere era nel tetto, eravi un fumo
ed un odore nauseabondo tali, che toglievan quasi il respiro
nell'entrarvi. Emilia distolse gli sguardi, e fissò il padre con
tenera inquietudine, di cui il giovine forestiero parve intendere
l'espressione; trasse in disparte Sant'Aubert, e gli offrì il suo
letto. «Se lo paragoniamo a tutti gli altri, è abbastanza comodo,» gli
disse, «ma altrove mi vergognerei di offrirvelo.»

Sant'Aubert gli attestò la sua riconoscenza e ricusò l'offerta; ma lo
straniero insistette. «Non rifiutate; sarei dolente troppo, signore,»
ripres'egli, «se voi giaceste sopra una pelle mentr'io mi trovassi in
un letto; i vostri rifiuti offenderebbero il mio amor proprio, e
potrei pensare che la mia proposta vi spiaccia; vi mostrerò la strada,
e la mia albergatrice troverà modo d'allogare anche la signorina.»

Sant'Aubert consentì alfine; e restò sorpreso che lo straniero fosse
tanto poco galante da preferire il riposo di un uomo a quello d'una
giovane vezzosa, non avendo offerta la camera ad Emilia; ma essa non
fu della medesima opinione, e con un sorriso espressivo gli dimostrò
quanto fosse sensibile all'attenzione da lui avuta pel padre.

Il forestiero, che si chiamava Valancourt, si fermò il primo per dire
qualche cosa alla sua albergatrice. L'alloggio ch'essa aprì non
somigliava punto a tutti quelli che fin allora avevan veduti. La buona
donna impiegò tutte le sue premure nell'accoglier bene i viaggiatori,
ed essi furono costretti di accettare i due soli letti che si
trovassero in quella casa. Ova e latte erano il solo cibo che potesse
offrire, ma Sant'Aubert aveva provvisioni, e pregò Valancourt di
cenare con loro; l'invito fu benissimo accolto, e la conversazione si
animò. La franchezza, la semplicità, le idee grandiose ed il gusto per
la natura che mostrava di aver il giovane, incantavano Sant'Aubert.
Egli aveva detto spesso che quest'interesse per la natura non poteva
esistere in un'anima che non avesse gran purità di cuore e
d'immaginazione.

I discorsi furono interrotti da un violento tumulto, in cui la voce
del mulattiere cuopriva tutte le altre. Valancourt si alzò per saperne
il motivo, e la disputa durò tanto, che Sant'Aubert perdè la pazienza
e uscì egualmente. Michele altercava coll'albergatrice, perchè essa
proibivagli d'introdurre i muli nella stalla, che gli aveva permesso
di dividere co' suoi tre figli; il sito non era molto bello per
verità, ma non eravi nulla di meglio, e, più delicata dei suoi
conterranei, essa non voleva che i figli dormissero nella medesima
stanza coi muli. Valancourt riuscì finalmente a pacificar tutti. Pregò
l'albergatrice di lasciare la stalla al mulattiere ed ai suoi muli;
cedè ai di lei figli le pelli stategli preparate per riposarsi, e
l'assicurò che, avvolto nel mantello, avrebbe passato benissimo la
notte su di una panca vicino alla porta. La buona donna non voleva
accettare simile accomodamento, ma Valancourt insistè tanto, che
questo grande affare terminò così.

Era tardi, quando Sant'Aubert ed Emilia si ritirarono nelle loro
stanze; Valancourt restò dinanzi alla porta. In quella bella stagione
preferiva siffatto posto ad una stanzuccia e ad un letto di pelli.
Sant'Aubert fu alcun poco sorpreso di trovare nella camera Omero,
Orazio ed il Petrarca, ma il nome di Valancourt scritto su quei
volumi, glie ne fece conoscere il possessore.



CAPITOLO IV


Sant'Aubert si svegliò di buonissim'ora; il sonno l'aveva ristorato, e
volle partire subito. Valancourt fece colazione con lui, e narrò che
pochi mesi prima era stato fino a Beaujeu, città grossa del
Rossiglione, e Sant'Aubert, dietro suo consiglio, si decise di
prendere quella direzione.

«La scorciatoia, e la strada che conduce a Beaujeu,» disse il giovane,
«si uniscono alla distanza di una lega e mezza di qua: se volete
permetterlo, posso dirigervi il vostro mulattiere; bisogna ch'io
passeggi, e la passeggiata che farò con voi, vi sarà più gradita di
qualunque altra.»

Sant'Aubert accettò la proposta con grato animo; partirono insieme, ma
il giovine non volle acconsentire di entrare nella carrozza. La
strada alle falde de' monti percorreva una valle ridente splendida per
verzura e sparsa di boschetti. Numerosi armenti vi riposavano
all'ombra delle quercette, dei faggi e de' sicomori; il frassino e la
tremula lasciavan ricadere le fronzute punte de' rami sulle aride
rocce; un po' di terra appena ne ricopriva le radici, ed il più lieve
soffio ne agitava tutti i rami.

Ad ogni ora del dì vi s'incontrava gente. Il sole non compariva
ancora, e già i pastori guidavano una immensa mandra a pascere su pe'
monti. Sant'Aubert era partito assai presto per godere della vista del
sorger del sole e respirare l'aura pura mattutina, tanto proficua a'
malati, e che dovea esserlo specialmente in quelle regioni ove la
copia e varietà delle piante aromatiche la impregnavano della più
soave fragranza.

La leggera nebbia che velava gli oggetti circostanti dileguossi a poco
a poco, e permise ad Emilia di contemplare i progressi del dì.

I riflessi incerti dell'aurora, indorando le punte delle rupi,
rivestironle successivamente di vivida luce, mentre la lor base ed il
fondo della valle restavan coperti da negro vapore. Intanto, le tinte
delle nubi d'oriente rischiararonsi, s'imporporarono, e rifulsero
alfine di mille splendidi colori.

La trasparenza dell'atmosfera lasciò allo scoverto fiotti d'oro puro,
i raggi brillanti fugarono le tenebre, e penetrarono nelle fondure
della valle ripercotendosi negli argentei rivi: la natura destavasi da
morte a vita. Sant'Aubert si sentì ravvivato; avea il cuore commosso;
versò lagrime ed innalzò i pensieri al Creatore di tutte le cose.

Emilia volle scendere a calpestar quell'erba tutta rorida di fresca
rugiada; essa voleva gustar quella libertà onde il camoscio parea
fruire sulle brune vette de' monti. Valancourt sostava coi
viaggiatori, mostrando loro con sentimento gli oggetti particolari
della sua ammirazione. Sant'Aubert se gli affezionava.--Il giovine è
focoso, ma buono; dicea fra sè;--ben si vede che non ha mai abitato
Parigi.--Egli arrivò al punto dove si univano le due strade, con molto
suo dispiacere; e si congedò con più cordialità che non lo permetta
d'ordinario una nuova conoscenza. Valancourt continuò a discorrere
buona pezza vicino alla carrozza; era il momento di separarsi, e non
dimanco restava sempre mettendo in campo argomenti che lo scusassero
di questo prolungamento. Alla perfine accommiatossi, e quando partì,
Sant'Aubert osservò come contemplasse Emilia con isguardo attento ed
espressivo; ella lo salutò con timida dolcezza; la carrozza partì, ma
Sant'Aubert poco dopo, sporgendo la testa, osservò Valancourt immobile
sulla strada, colle braccia incrociate sul bastone, e gli occhi fissi
sulla carrozza; lo salutò colla mano, e Valancourt, scosso dalla sua
estasi, gli fece il saluto e si allontanò.

L'aspetto del paese cambiò in breve: i viaggiatori, si trovavano
allora in mezzo ad altissime montagne coperte fino alla sommità da
negri boschi di abeti. Varie punte granitiche, sorgendo dalla valle
stessa, andavan a celare in grembo alle nubi le nevose cime. Il
ruscello, divenuto un fiume, scorreva in dolce silenzio, e quei cupi
boschi riflettevano la loro ombra nelle sue limpide acque. Per
intervalli uno scosceso dirupo inalzava l'ardita fronte al di sopra
dei boschi e dei vapori che servivan di cintura ai monti; talvolta una
marmorea aguglia sosteneasi perpendicolarmente al fiorito margine
delle acque; un larice colossale la stringea colle robuste braccia, e
la sua fronte, solcata dalla folgore, coronavasi ancora di verdi
pampini.

Quando la carrozza camminava adagio, Sant'Aubert scendeva, e si
compiaceva di andare in cerca di piante curiose, ond'erano sparsi quei
luoghi; Emilia, nell'esaltazione dell'entusiasmo, s'internava nei
folti boschi, tendendo l'orecchio in silenzio al loro imponente
mormorio.

Per lo spazio di molte leghe non incontrarono nè villaggi, nè casali
di sorte alcuna; qualche capanna di cacciatori qua e là era la sola
traccia di abitazione umana. I viaggiatori pranzarono a ciel sereno,
in un bel sito della valle, assisi all'ombra dei faggi; dopo di che
partirono immediatamente per Beaujeu.

La strada saliva sensibilmente, e lasciando i pini disotto a loro,
trovaronsi in mezzo a precipizi. Il crepuscolo della sera accrescea
l'orrore de' luoghi, ed i viaggiatori ignoravano la distanza di
Beaujeu. Sant'Aubert nonpertanto credea di non esserne molto lontano,
e si rallegrava di non aver quindi più oltre quella città, a varcare
simili deserti. Le selve, le rupi, i circostanti gioghi confondevansi
a poco a poco nell'oscurità, ed in breve non fu più possibile
discernere quelle indistinte immagini. Michele precedeva cauto, appena
scorgendo la via ma le sue mule, più esperte, camminavano ancora con
passo franco.

Alla svolta di un monte, videro un lume; i dirupi e l'orizzonte furono
illuminati a gran distanza. Gli era certo un gran fuoco, ma nulla
indicava se fosse accidentale o preparato. Sant'Aubert lo credette
acceso da qualche masnada di quei banditi che infestavano i Pirenei;
stava molto attento, e desiderava sapere se la strada passava vicino a
quel fuoco. Aveva armi da potersi difendere in caso di bisogno; ma a
che serviva una sì debole risorsa contro una banda di assassini
determinati? Rifletteva a questa circostanza, quando udì una voce
dietro di essi, che intimava al mulattiere di fermarsi. Sant'Aubert
gli ordinò di camminar più presto, ma o fosse per testardaggine di
Michele, o dei muli, questi non cambiarono il loro passo; s'intese il
galoppo di un cavallo; un uomo raggiunse la carrozza, e ordinò
nuovamente di fermarsi. Sant'Aubert, non dubitando più del costui
disegno, scaricò una pistola dallo sportello; l'incognito vacillò sul
cavallo, ed il romore del colpo fu seguito da un gemito di dolore.
Sarà facile immaginarsi lo spavento di Sant'Aubert, il quale credè
riconoscere allora la voce dolente di Valancourt. Fece arrestare egli
stesso la carrozza, pronunziò il nome del giovane, e non potè averne
più alcun dubbio. Scese tosto, e corse a soccorrerlo; il giovane era
ancora a cavallo, il suo sangue scorreva in copia, e sembrava soffrir
molto, sebbene cercasse di consolare Sant'Aubert, assicurandolo che
non era nulla, e sentivasi ferito solo leggermente nel braccio.
Sant'Aubert e il mulattiere lo aiutarono a smontare e l'adagiarono in
terra; il primo voleva fasciargli la ferita, ma gli tremavano le mani
talmente, che non potè riuscirvi. Michele intanto correa dietro al
cavallo ch'era fuggito mentre ne scendea il padrone; chiamò Emilia, e
non ricevendo risposta, corse alla carrozza, e la trovò svenuta. In
questa terribile situazione, e spinto dal dolore di lasciare
Valancourt perdere il sangue, si sforzò di sollevarla, e chiamò
Michele per chieder acqua dal ruscello vicino. Michele era andato
troppo lontano, ma Valancourt, udendo il nome di Emilia, capì di che
si trattava, ed obbliando sè medesimo, andò in suo soccorso; essa era
già rinvenuta quando le fu vicino; egli seppe che il deliquio era
stato cagionato dal timore del sinistro occorsogli, e con voce turbata
da tutt'altro sentimento che da quello del dolore, l'assicurò che la
sua ferita era di pochissima conseguenza. Sant'Aubert si accorse
allora che il sangue non era ancora stagnato; i suoi timori cambiarono
oggetto; lacerò un fazzoletto per bendargli la piaga: il sangue si
fermò, ma egli temendo le conseguenze, domandò più volte se Beaujeu
fosse ancora molto lontano, ed avendo inteso ch'era distante due
leghe, il suo timore crebbe. Ignorava se Valancourt avrebbe potuto
resistere al moto della carrozza, e lo vedeva sul punto di svenire.
Appena questi ebbe conosciuta la sua inquietudine, si affrettò di
rincorarlo, e parlò della sua avventura come di una bagatella. Michele
aveva ricondotto il cavallo; Valancourt, salì nella carrozza; Emilia
s'era riavuta, e continuarono la strada di Beaujeu.

Sant'Aubert, rinvenuto dal terrore, manifestò la sua sorpresa
sull'incontro di Valancourt; ma questi la fece cessare. «Voi avete
rinnovato il mio gusto per la società,» gli disse; «dopo la vostra
partenza, il mio casolare mi sembrava un deserto. E giacchè il mio
unico scopo è quello di viaggiare per diletto, mi sono deciso di
partire immediatamente. Ho presa questa strada, perchè sapeva ch'era
più bella di qualunque altra; e d'altronde,» aggiunse esitando un poco,
«lo confesserò (e perchè non dovrei confessarlo?), io aveva qualche
speranza di raggiungervi.--Ed io ho crudelmente corrisposto alla
vostra gentilezza,» riprese Sant'Aubert, che si rimproverava la sua
fretta, e glie ne spiegò il motivo. Ma Valancourt, premuroso di
evitare qualunque inquietudine sul di lui conto, nascose l'ambascia
che provava, e seguitò a conversare allegramente. Emilia stava in
silenzio, a meno che Valancourt non le volgesse la parola, ed il tuono
commosso con cui lo faceva, valeva da per sè loro ad esprimere molto.

Trovavansi allora presso a quel fuoco che spiccava tanto vivamente
nell'oscurità della notte: illuminava allora la strada tutta, e
poteasi facilmente distinguere le figure che la circondavano.
Accostandosi, riconobbero una banda di zingari che, specialmente in
quell'epoca frequentavano i Pirenei, svaligiando i viaggiatori. Emilia
notò con ispavento l'aspetto truce di quella compagnia, ed il fuoco
che li rischiarava, diffondendo una nube purpurea sugli alberi, gli
scogli e le frondi, aumentava l'effetto bizzarro del quadro.

Tutti quegli zingari preparavano la cena. Una larga caldaia stava sul
fuoco, e parecchie persone occupavansi ad empirla. Lo splendore della
fiamma faceva scorgere una specie di rozza tenda, intorno alla quale
giuocherellavano alla rinfusa ragazzi e cani. Il tutto formava un
complesso veramente grottesco. I viaggiatori sentivano il pericolo.
Valancourt taceva, ma mise la mano sur una delle pistole di
Sant'Aubert, il quale, fatto altrettanto, fece avanzare il mulattiere.
Passarono nondimeno senza ricevere insulti. I ladri non s'aspettavano
probabilmente a tale incontro, ed occupavansi troppo della cena per
sentire allora tutt'altro interesse.

Dopo un'ora e mezza di cammino nella più profonda oscurità, i
viaggiatori arrivarono a Beaujeu e smontarono al solo albergo che vi
fosse, e che, sebbene molto superiore alle capanne, non cessava però
di essere cattivo.

Fu fatto venire immediatamente il chirurgo della città, se tuttavolta
si può dar questo nome ad una specie di maniscalco, che curava uomini
e cavalli, e che in caso di bisogno, faceva anche da barbiere. Esaminò
il braccio di Valancourt, e avendo riconosciuto che la palla non era
penetrata nelle carni, lo medicò e gli raccomandò il riposo; ma il
paziente non era in verun modo disposto ad obbedirlo. Il piacere di
star meglio era succeduto all'inquietudine del male; chè ogni
godimento diviene positivo quando contrasta con un pericolo.
Valancourt aveva riacquistate le forze, e volle prender parte alla
conversazione. Sant'Aubert ed Emilia, liberi da qualunque timore,
erano di una singolare allegrezza. Era già tardi, e Sant'Aubert fu
costretto di uscire col locandiere per andar a cercare qualche cosa
per la cena. Emilia, nell'intervallo, si assentò anch'essa sotto
pretesto di mettere in ordine alcune sue cose; trovò l'alloggio
meglio disposto di quello che credea e quindi tornò a raggiugnere
Valancourt. Parlarono delle vedute scoperte in quel giorno,
dell'istoria naturale, della poesia, e finalmente del padre d'Emilia
la quale non poteva parlare o sentir parlare, se non con gioia, d'un
soggetto tanto caro al suo cuore.

La serata passò piacevolmente, ma siccome Sant'Aubert era stanco, e
Valancourt soffriva ancora, si separarono subito dopo cena.

La mattina seguente, Valancourt aveva la febbre, non aveva dormito e
la sua ferita era infiammata: il chirurgo, che venne a visitarlo di
buon'ora, lo consigliò di restar tranquillo a Beaujeu. Sant'Aubert
aveva pochissima fiducia nei di lui talenti; ma avendo inteso che non
se ne poteva trovare uno più abile, cambiò il suo piano, e risolse di
aspettare la guarigione del malato. Valancourt parve cercar di
dissuadernelo, ma con più garbo che buona fede. La sua indisposizione
trattenne i viaggiatori per più giorni colà. Sant'Aubert ebbe luogo di
conoscere i di lui talenti ed il suo carattere, con quella precauzione
filosofica, che sapeva tanto bene impiegare in tutte le circostanze.
Conobbe un naturale franco e generoso, pieno di ardore, suscettibile
di tutto ciò ch'è grande e buono, ma impetuoso, quasi selvaggio ed
alquanto romanzesco. Valancourt conosceva poco il mondo; avea idee
assennate, sentimenti giusti; la sua indignazione, come la sua stima
si esprimevano senza misura, nè riguardi. Sant'Aubert sorrideva della
sua veemenza, ma la reprimea di rado, e diceva fra sè:--Questo
giovine, senza dubbio, non è mai stato a Parigi.--Un sospiro succedeva
a queste riflessioni: egli era deciso di non lasciar Valancourt prima
del suo pieno ristabilimento, e siccome esso era allora in istato di
viaggiare, ma non a cavallo, Sant'Aubert l'invitò ad approfittar
qualche giorno della sua carrozza. Avendo saputo che il giovine era
d'una famiglia distinta di Guascogna, il cui grado e la
considerazione erangli ben noti, la sua riserva fu meno grande, e
Valancourt avendo accettato l'offerta con piacere, ripresero tutti
insieme la strada che conduceva al Rossiglione.

Viaggiavano senza sollecitarsi, fermandosi quando il sito meritava
attenzione; s'inerpicavano spesso sopra alture, cui non potevan
giugnere le mule; smarrivansi tra que' dirupi, coperti di lavanda, di
timo, di ginepro di tamarindo, e protetti da ombre antiche; una bella
vista entusiasmava Emilia, superando le maraviglie della più fervida
imaginazione. Sant'Aubert si divertiva talvolta ad erborizzare, mentre
Emilia e Valancourt attendevano a qualche scoperta: il giovane le
faceva osservare gli oggetti particolari della sua ammirazione, e
recitava i più bei passi dei poeti italiani o latini cui essa
prediligeva. Nell'intervallo della conversazione, e quando non era
osservato, fissava gli sguardi su quel leggiadro volto, i cui
lineamenti animati indicavano tanto spirito ed intelligenza: quando
parlava in seguito, la dolcezza della sua voce palesava un sentimento
cui cercava invano di nascondere. Grado grado, le pause ed il silenzio
di lui divennero più frequenti: Emilia mostrò molta premura
d'interromperli: essa fin allora così riservata, parlava del continuo,
ora dei boschi, ora delle valli, ora dei monti, anzichè esporsi al
pericolo di certi momenti di silenzio e di simpatia.

La via di Beaujeu saliva rapidissimamente: ei si trovarono in mezzo a'
più eccelsi monti; la serenità e purezza dell'aere, in quell'alte
regioni, entusiasmavano i tre viaggiatori; l'anima loro ne pareva
alleggerita, ed il loro spirito diventato più penetrante. Ei non
avevano parole ad esprimere emozioni tanto sublimi, quelle di
Sant'Aubert ricevevano un espressione più solenne: le lagrime
irrigavangli le guancie, e camminava in disparte. Valancourt parlava
tratto tratto per attirar l'attenzione di Emilia; la limpidezza
dell'atmosfera che lasciavale distinguere tutti gli oggetti,
ingannavala talvolta, e sempre con piacere. Essa non poteva credere sì
lunge da lei ciò che parevale così vicino; il silenzio profondo della
solitudine non era interrotto se non dal grido delle aquile
svolazzanti per l'aere, e dal sordo rumoreggiar de' torrenti in fondo
degli abissi. Di sopra ad essi la splendida volta de' cieli non era
oscurata da nube alcuna, i vortici di vapore sostavano in grembo a'
monti, il loro rapido movimento velava talvolta tutto il paese, e tal
altra scoprendone parte, lasciava all'occhio alquanti momenti
d'osservazione. Emilia, estatica, contemplava la grandezza di quelle
nubi che variavano forma e tinte; ne ammirava l'effetto sulle
sottostanti contrade cui davano ad ogni istante mille nuove forme.

Dopo aver viaggiato così per parecchie leghe, cominciarono a scendere
nel Rossiglione, e la scena che si svolse spiegava una bellezza meno
aspra. I viaggiatori rammaricavano gli oggetti imponenti cui stavan
per abbandonare. Benchè stancato da que' vasti aspetti, l'occhio
riposava gradevolmente sul verde de' boschi e de' prati; il fiume che
irrigavali la capanna sotto l'ombra de' faggi, i giulivi crocchi de'
pastorelli, i fiori che adornavano i clivi, formavano insieme uno
spettacolo incantevole.

Scendendo, riconobbero uno de' grandi varchi de' Pirenei in Ispagna: i
fortilizi, le torri, le mura, ricevevano allora i raggi del sole
all'occaso; le selve circostanti non avevano più se non un riflesso
giallastro, mentre le punte de' dirupi tingeansi ancora di rosa.

Sant'Aubert guardava attento senza scoprire la piccola città
indicatagli. Valancourt non poteva informarlo della distanza, non
essendo mai ito tant'oltre; pur iscorgevano una strada, e doveano
crederla diretta, giacchè dopo Beaujeu non avean potuto smarrirsi da
alcuna parte.

Il sole era vicino al tramonto, e Sant'Aubert sollecitò il mulattiere;
egli sentivasi assai debole, e desiderava vivamente il riposo; dopo
una sì faticosa giornata la sua inquietudine non si calmò, osservando
un gran treno d'uomini, di muli e di cavalli carichi, che sfilavano
pei sentieri dell'opposto monte, e siccome i boschi ne celavano spesso
il cammino, non si poteva precisarne il numero: qualcosa di brillante,
come d'armi risplendeva agli ultimi raggi del sole e la divisa
militare si distingueva sui primi, e su qualche individuo sparso fra
la comitiva. Appena furono nella valle, un'altra banda uscì dai
boschi, ed i timori di Sant'Aubert aumentarono, non dubitando non
fossero tanti contrabbandieri arrestati nei Pirenei, e scortati dalla
soldatesca.

I viaggiatori avevano errato tanto nelle montagne che s'ingannarono
nei loro calcoli, e non poterono giungere a Montignì prima della
notte. Traversarono la valle, e notarono sopra un rustico ponte che
riuniva due coste, un crocchio di fanciulli i quali divertivansi a
lanciar sassi nel torrente; le pietre nel cadere, facevano spruzzar
colonne d'acqua mandando un sordo fragore ripercosso alla lontana
dagli echi dei monti. Sotto il ponte scoprivasi tutta la valle in
prospettiva, una cateratta in mezzo alle rupi, ed una capanna sopra
una punta protetta da annosi abeti. Quell'abitazione parea dovesse
esser vicina ad una piccola città. Sant'Aubert fece fermare: chiamò i
ragazzi, e lor chiese se Montignì fosse molto lontano; ma la distanza,
lo strepito delle acque non gli permisero di farsi udire, e la
ripidezza delle montagne che sostenevano il ponte era troppa perchè
tutt'altri fuor d'un alpigiano pratico potesse ascenderle. Sant'Aubert
dunque dovette decidersi a continuare col favore del crepuscolo la
strada, la quale era talmente disagiosa che parve miglior consiglio
scendere di vettura. La luna cominciava a spuntare, ma tramandava
troppo fioca luce; e' camminavano a caso in mezzo ai pericoli. In quel
punto si udì la campana d'un convento; la fitta tenebria impediva la
vista dell'edifizio, ma il suono pareva venire dai boschi che
coprivano il monte di destra. Valancourt propose d'andarne in cerca.
«Se non troviam ricovero in quel convento,» dicea egli, «almeno
c'indicheranno la distanza o la posizione di Montignì.» E si mise a
correre senza aspettar risposta; ma Sant'Aubert lo richiamò
dicendogli: «Io sono orribilmente stanco, ho bisogno di pronto riposo;
andiamo tutti al convento; il vostro robusto aspetto sventerebbe i
nostri disegni; ma quando si vedrà il mio spossamento e la stanchezza
d'Emilia, non ci si negherà ricetto.»

Sì dicendo, prese il braccio d'Emilia, e raccomandando a Michele
d'aspettarlo, seguì il suono della campana e salì dalla parte dei
boschi, ma a passi vacillanti. Valancourt gli offerse il braccio cui
accettò. La luna venne a rischiarare il sentiero, e lor permise in
breve di scorgere torri che sorgevano sul colle. La campana continuava
a guidarli; entrarono nel bosco, ed il fioco chiarore della luna
divenne più incerto per l'ombra ed il tremolio delle foglie.
L'oscurità, il cupo silenzio, quando la campana non suonava, la specie
d'orrore ispirato da un luogo sì selvaggio, tutto riempì Emilia d'uno
spavento che la voce e la conversazione di Valancourt poteva solo
diminuire. Dopo alcun tempo di salita, Sant'Aubert, si lamentò, e
tutti sostarono sur un erboso poggio, dove gli alberi, più radi,
lasciavan godere il chiaro della luna. Sant'Aubert sedette sull'erba
tra i due giovani. La campana non suonava più, e la quiete notturna
non era interrotta da strepito veruno, avvegnacchè il fragor sordo di
qualche lontano torrente paresse accompagnare, anzichè turbare il
silenzio.

Avevano allora sott'occhio la valle testè lasciata. La luce argentea
che ne scopriva le fondure, riflettendo sulle rupi e le selve di
sinistra, contrastava colle tenebre, onde i boschi a destra erano come
avvolti. Le cime sole erano illuminate a sbalzi; il resto della valle
perdeasi in seno ad una nebbia, di cui lo stesso chiaro di luna non
serviva che a crescere la foltezza. I viaggiatori ristettero alcun
tempo a contemplare quel bell'effetto.

«Simili scene,» disse Valancourt, «dilettano il cuore come i concenti
di deliziosa musica; chiunque ha gustata una volta la melanconia
ch'esse ispirano non vorrebbe mutarne l'impressione per quella dei più
squisiti piaceri. Elleno destano i nostri più puri sentimenti;
dispongono alla benevolenza, alla pietà, all'amicizia. Coloro ch'io
amo, parvemi sempre d'amarli assai più in quest'ora solenne.» Tremogli
la voce, e sostò.

Sant'Aubert nulla dicea. Emilia vide cadere una lagrima sulla mano cui
stringeva tra le proprie. Indovinonne ben essa il pensiero; anche il
suo era corso alla pietosa memoria della genitrice. Ma Sant'Aubert,
rianimandola: «Oh sì,» disse reprimendo un sospiro, «la memoria di
quelli che noi amiamo, di un tempo trascorso per sempre, gli è in
questo istante che si posa sulle anime nostre! È come una melodia
lontana in mezzo al silenzio delle notti, come le tinte raddolcite di
questo paesaggio.» Poscia, dopo una pausa, continuò: «Io ho sempre
creduto le idee più lucide a quest'ora che in qualunque altra, ed il
cuore che non ne riconosce l'influenza, è di certo un cuore snaturato.
Vi son tanti....»

Valancourt sospirò.

«Ve ne sono dunque molti?» disse Emilia.--Fra alcuni anni forse, cara
figlia,» rispose Sant'Aubert, «tu sorriderai ricordandoti tale
domanda, se tuttavolta questa memoria non ti strapperà le lagrime. Ma
vieni, mi sento un po' meglio. Andiamo innanzi.»

Uscirono finalmente dal bosco, e videro sopra un'eminenza il convento
cui aveano tanto cercato. Un muro altissimo che lo circondava li
condusse ad un'antica porta; bussarono, ed il laico che venne ad
aprire li condusse in una sala vicina, pregandoli di aspettare fino a
che fosse avvertito il superiore. Nell'intervallo, comparvero parecchi
frati ad osservarli con curiosità; poco stante ritornò il laico e li
scortò innanzi al superiore. Egli sedeva in un seggiolone; aveva un
grosso libro davanti a sè, sostenuto da vasto leggìo. Ricevè
garbatamente i viaggiatori senza alzarsi, fece loro poche
interrogazioni, ed acconsentì alla loro domanda. Dopo una brevissima
conferenza, fatti i debiti complimenti, furono condotti in una stanza,
ove si preparava la cena, e Valancourt, accompagnato da un frate, andò
a cercare Michele, la carrozza ed i muli. Appena ebbe scesa la metà
della strada, udì la voce del mulattiere, il quale chiamava i nostri
viaggiatori per nome. Convinto, non senza difficoltà, che tanto lui,
quanto il suo padrone non avevano più nulla da temere, si lasciò
condurre in una capanna vicino al bosco. Valancourt tornò in fretta a
cenare cogli amici, ma Sant'Aubert soffriva troppo per mangiare con
appetito. Emilia, assai inquieta per suo padre, non sapeva pensare a
sè medesima, e Valancourt, mesto e pensieroso, ma sempre occupato di
loro, non pensava ad altro se non a confortare ed incoraggire
Sant'Aubert. Separatisi presto, si ritirarono nelle loro stanze.
Emilia dormì in un gabinetto contiguo alla camera del padre; trista,
pensierosa ed occupata soltanto dello stato di languore in cui lo
vedeva, coricossi senza speranza di riposo.

Due ore dopo una campana squillò, e passi precipitosi percorsero i
corridoi. Poco esperta degli usi claustrali, Emilia spaventossi; i
suoi timori, sempre vivi pel padre, le fecero supporre che stesse più
male; si alzò in fretta per correre da lui, ma essendosi fermata un
momento all'uscio onde lasciar passare i frati, ebbe tempo di
riaversi, di riordinare le idee, e comprendere che la campana aveva
suonato mattutino. Questa campana non suonava più, tutto era quiete,
ed essa non andò più oltre; ma, non potè dormire, ed allettata d'altra
parte dal fulgore d'una splendida luna, aprì la finestra e si mise a
rimirar il paese.

Placida era la notte e bella, il firmamento senza nubi, e lieve
zeffiro agitava appena gli alberi della valle. Stava attenta, allorchè
l'inno notturno dei religiosi sorse dolcemente dalla cappella, situata
in luogo più basso, talchè il sacro cantico parea salire al cielo
traverso il silenzio delle notti. I pensieri susseguironsi;
dall'ammirazione delle opere, l'anima sua passò all'adorazione del
loro onnipossente e buono autore. Penetrata d'una pietà pura e scevra
da profani sentimenti, l'anima sua elevossi al disopra dell'universo;
gli occhi versaron lagrime; ella adorò la Potenza infinita nelle sue
opere, e la bontà sua ne' suoi benefizi.

Il cantico de' frati cesse di nuovo il posto al silenzio; ma Emilia
non lasciò la finestra se non quando la luna, essendo tramontata
l'oscurità parve invitarla al riposo.



CAPITOLO V


Sant'Aubert si trovò la mattina seguente bastantemente in forza per
continuare il viaggio, e sperando arrivare lo stesso giorno nel
Rossiglione, si mise in cammino di buonissim'ora. La strada che
percorrevano allora i viaggiatori, offriva vedute selvagge e
pittoresche come le precedenti; solo tratto tratto le scene, meno
severe, spiegavano una bellezza più amena e ridente.

Quando Sant'Aubert parea occupato delle piante, contemplava con
trasporto Emilia e Valancourt, i quali passeggiavano insieme; questi
col contegno e l'emozione del piacere indicava una bella vista nella
scena che lor s'offriva; quella ascoltava e guardava con
un'espressione di sensibilità seria indicante l'elevatezza del suo
spirito. Rassembravano a due amanti, i quali mai non avessero lasciati
i monti natii, che la situazione loro avesse preservati dal contagio
delle frivolezze; le cui idee, semplici e grandiose come il paesaggio
che percorrevano, non comprendessero la felicità se non nella tenera
unione de' cuori puri. Sant'Aubert sorrideva e sospirava a un tempo,
pensando alla romanzesca felicità onde la sua imaginazione offerivagli
il quadro; sospirava inoltre pensando quanto la natura e la semplicità
fossero mai estranee al mondo, poichè i loro soavi diletti parevano un
romanzo.

--Il mondo,» dicea egli seguendo il proprio pensiero, «il mondo mette
in ridicolo una passione cui appena conosce; i suoi movimenti ed
interessi distraggono lo spirito, depravano i gusti, corrompono il
cuore; e l'amore non può esistere in un cuore quando non ha più la
cara dignità dell'innocenza. La virtù e la simpatia son quasi la
medesima cosa; la virtù è la simpatia messa in azione, e le più
delicate affezioni di due cuori formano insieme il vero amore. Come
mai potrebbesi cercar l'amore in seno alle grandi città? La
frivolezza, l'interesse, la dissipazione, la falsità vi surrogano del
continuo la semplicità, la tenerezza e la franchezza.--

Era quasi mezzodì quando i viaggiatori giunsero ad un passo sì
pericoloso che lor fu d'uopo scendere di carrozza; la strada era
contornata da boschi, e anzichè continuare innanzi, si misero a cercar
l'ombra. Un umido rezzo era diffuso per l'aere; lo splendido smeraldo
dell'erba, la bella miscea de' fiori, de' balsami, de' timi e delle
lavande che la smaltavano; l'altezza de' pini, de' frassini e de'
castagni che ne proteggevano l'esistenza, tutto concorrea a far di
quello un luogo veramente delizioso. Talvolta il fogliame, più fitto,
interdicea la vista del paesaggio; altrove, qualche misterioso varco
lasciava traveder all'imaginazione quadri assai più leggiadri che fin
allora non avesse osservati, ed i viaggiatori abbandonavansi
volentieri a que' godimenti quasi ideali.

Le pause ed il silenzio che avevano già interrotto i colloqui di
Valancourt e d'Emilia furono quel dì molto più frequenti. Il giovane,
dalla vivacità più espressiva, cadeva in un accesso di languore, e la
malinconia pingevasi senz'arte fin nel di lui sorriso. La fanciulla
non poteva più ingannarsi: il suo proprio cuore partecipava il
medesimo sentimento.

Quando Sant'Aubert fu ristorato, continuarono a camminare pel bosco,
credendo sempre costeggiar la strada; ma s'accorsero alfine d'averla
smarrita affatto. Avevano seguito il declivio ove la beltà de' luoghi
li tratteneva, e la strada andava invece montando su per la ripida
costa. Valancourt chiamò Michele, ma l'eco solo rispose alle sue
grida, ed i suoi sforzi furono parimente vani per ritrovar la strada.
In tale stato, scorsero fra gli alberi, a qualche distanza, la capanna
d'un pastore. Valancourt vi corse per chiedere qualche indicazione;
giuntovi, vi trovò soltanto due ragazzi che giocavan sull'erba. Guardò
in casa, e non vide nessuno. Il maggiore de' fanciulli gli disse che
suo padre trovavasi ne' campi, sua madre nella valle, nè tarderebbe a
tornare. Il giovane pensava a quanto convenisse fare, allorchè la voce
di Michele echeggiò d'improvviso su le rupi circostanti. Valancourt
rispose tosto e cercò d'andare a raggiungerlo; dopo un faticoso lavoro
tra le boscaglie ed i massi, lo raggiunse alfine ed a stento riescì a
farlo tacere. La strada era lontanissima dal luogo ove riposavano il
padre e la figlia. Era difficile di condur fin là la vettura; sarebbe
stato troppo penoso per Sant'Aubert d'inerpicarsi pel bosco, com'egli
stesso avea fatto, ed il giovane era angustiato molto per trovare un
cammino più praticabile.

Intanto, Sant'Aubert ed Emilia eransi accostati alla capanna e
riposavano sopra una panca campestre situata fra due pini ed
ombreggiata dalle loro frondi; avean guardato a Valancourt, ed
aspettavano che li raggiungesse.

Il maggiore de' ragazzi aveva lasciato il giuoco per rimirar i
viaggiatori; ma il piccino continuava i suoi salti e tormentava il
fratello perchè tornasse ad aiutarlo. Sant'Aubert considerava con
piacere quella fanciullesca semplicità, quando d'improvviso tale
spettacolo, rammentandogli i figli perduti in quella fresca età, ed in
ispecie la loro diletta madre, lo fece ricadere nella mestizia.
Emilia, accortasene, cominciò una di quelle ariette commoventi cui
egli tanto prediligeva, e ch'ella sapeva cantar colla massima grazia
ed espressione. Il padre le sorrise attraverso le lagrime, le prese la
mano, la strinse teneramente e cercò bandire i malinconici pensieri.
Essa cantava ancora, quando Valancourt tornò; egli non volle
interromperla, e sostò ad ascoltare. Quand'ebbe finito, accostossi e
narrò d'aver trovato Michele ed anche una strada per ascendere il
dirupo. Sant'Aubert, a tai parole, ne misurò coll'occhio la tremenda
altezza; sentivasi oppresso, e la salita pareagli spaventosa. Il
partito però sembravagli preferibile ad una strada lunga e scabrosa
affatto; risolse di tentarlo, ma Emilia, sempre premurosa, gli propose
di pranzare in prima, onde ristorar alquanto le forze, e Valancourt
tornò alla vettura a cercarvi provvigioni.

Al ritorno, propose di collocarsi un po' più in alto, essendovi la
vista più bella ed estesa. Stavano per recarvisi, quando videro una
giovane accostarsi ai ragazzi, accarezzarli, e piangere amaramente.

I viaggiatori, interessati dalla di lei sventura, sostarono a meglio
osservarla. Essa prese in braccio il minore de' figli, e scorti i
forestieri, si terse le lagrime in fretta ed accostossi alla capanna.
Sant'Aubert le chiese la causa della di lei afflizione. Gli diss'ella
che suo marito era un povero pastore, il quale tutti gli anni passava
la state in quella capanna per condur a pascere un armento sui monti.
La notte precedente aveva perduto tutto; una banda di zingari, i quali
da qualche tempo infestavano la contrada, avean rapite tutte le pecore
del suo padrone. «Jacopo,» aggiunse la donna, «avendo accumulato
qualche peculio, avea comperato poche pecore per noi; ma adesso
bisognerà darle per sostituire il gregge tolto al padrone; il peggio
si è che quando questi saprà la cosa, non vorrà più affidarci i suoi
montoni; è un uomo cattivo; ed allora, che cosa sarà de' nostri
figliuoli?»

L'atteggiamento di quella donna, la semplicità del suo racconto ed il
suo sincero dolore indussero Sant'Aubert a crederne la trista storia.
Valancourt, convinto ch'era vera, chiese tosto quanto valesse il
gregge rubato; allorchè lo seppe, rimase sconcertato. Sant'Aubert diè
qualche moneta alla donna; Emilia vi contribuì col suo borsellino, e
quindi avviaronsi al luogo convenuto. Valancourt restò di dietro
parlando colla moglie del pastore, la quale allora piangeva per la
gratitudine e la sorpresa; le chiese quanto le mancasse ancora per
ripristinare il gregge rapito. Trovò che la somma era quasi la
totalità di quanto portava seco. Stava egli incerto ed afflitto.--Tale
somma, dicea tra sè, basterebbe alla felicità di questa povera
famiglia; sta in poter mio il darla, e renderli lieti e contenti; ma
come farò poi io? come tornerò a casa col poco che mi resterà?--Esitò
alcun tempo; trovava una voluttà singolare a salvare una famiglia
dalla rovina, ma sentiva la difficoltà di proseguir la sua strada col
poco danaro che avrebbesi riservato.

Stava così perplesso, quando comparve lo stesso pastore. I figliuoli
gli corsero incontro; egli ne prese uno in braccio, e coll'altro
attaccato alla cintola, inoltrò a lenti passi. Il suo aspetto
abbattuto, costernato, decise Valancourt; gettò tutto il danaro che
avea, tranne pochi scudi, e corse dietro a Sant'Aubert, il quale,
sorretto da Emilia, incamminavasi verso l'erta. Il giovane non erasi
mai sentito l'animo sì leggero; il cuore balzavagli dalla gioia, e
tutti gli oggetti a lui intorno parevano più belli ed interessanti.
Sant'Aubert osservò i di lui trasporti, e gli disse:

«Che cos'avete che sì v'incanta?

--Oh! la bella giornata!» sclamava Valancourt; «come splende il sole,
come pura è l'aura qual sito magico!

--E stupendo!» disse Sant'Aubert, la cui felice esperienza spiegava
facilmente l'emozione di Valancourt; «peccato che tanti ricchi, i
quali potrebbero procurarsi a piacimento uno splendido sole, lascino
avvizzir i lor giorni nelle nebbie dell'egoismo! Per voi, mio giovine
amico, possa sempre il sole sembrarvi bello quant'oggi; possiate voi,
nell'attiva vostra beneficenza, riunir sempre la bontà e la saviezza!»

Valancourt, onorato di tal complimento, non potè rispondere se non con
un sorriso, e fu quello della gratitudine.

Continuarono a traversare il bosco tra le fertili gole de' monti.
Giunti appena nel sito ove volean recarsi, tutti insieme proruppero in
un'esclamazione; dietro ad essi, la rupe perpendicolare sorgeva a
prodigiosa altezza e spartivasi allora in due punte egualmente alte.
Le loro grige tinte contrastavano collo smalto de' fiori sbuccianti
tra i crepacci; i burroni sui quali l'occhio scorrea rapido per
ispingersi giù nella valle, erano sparsi anch'essi d'arboscelli; più
giù ancora, un verde tappeto indicava i castagneti, in mezzo a' quali
scorgeasi la capanna del povero pastore. Da ogni parte, i Pirenei
ergeano le maestose cime; talune, carche d'immensi massi di marmo,
mutavan colore ed aspetto nel medesimo tempo del sole; altre, ancor
più alte, mostravan soltanto le nevose punte, e le basi colossali,
uniformemente tappezzate, coprivansi sin giù nella valle di pini,
larici e verdi querce. Questa valle, benchè stretta, era quella che
conduceva al Rossiglione; i freschi pascoli, la doviziosa coltura
contrastavano stupendamente colla grandiosità delle masse circostanti.
Fra le catene prolungate di monti scoprivasi il basso Rossiglione, e
la grande lontananza, confondendo tutte le gradazioni, parea riunir la
costa ai candidi flutti del Mediterraneo. Un promontorio su cui
sorgeva un faro indicava solo la separazione ed il lido; stormi
d'uccelli marini volavano intorno. Più lungi però distinguevansi
alcune bianche vele; il sole ne aumentava il candore, e la lor
distanza dal faro ne facea giudicar la celerità; ma eravene di sì
lontane, che servivan soltanto a separare il cielo ed il mare.

Dall'altra parte della valle, proprio in faccia ai viaggiatori, eravi
un passaggio fra le rocce, che guidava in Guascogna. Costà, nessun
vestigio di coltura; gli scogli di granito ergevansi spontaneamente
dalle basi, trapassando i cieli colle sterili aguglie; costà, nè
foreste, nè cacciatori, nè tuguri: talvolta però un gigantesco larice
gettava l'immensa sua ombra sopra un incommensurabile precipizio, e
talfiata una croce sopra un dirupo accennava al viaggiatore il
terribil destino di qualche imprudente. Il loco parea destinato a
diventare un ricovero di banditi; Emilia ad ogni istante aspettavasi a
vederli sbucare; poco dopo, un oggetto non meno terribile le colpì la
vista. Una forca, eretta all'ingresso del passaggio, e proprio al
disopra d'una croce, spiegava bastantemente qualche tragico fatto.
Evitò essa di parlarne a Sant'Aubert, ma tal vista inquietolla;
avrebbe voluto sollecitare il passo per giungere con certezza prima
del tramonto. Ma il padre avea bisogno di rifocillarsi, e, sedendo
sull'erba, i viaggiatori votarono il paniere.

Sant'Aubert fu rianimato dal riposo e dall'aria serena di quella
spianata. Valancourt era talmente estatico, talmente bisognoso di
conversare, che parea aver dimenticata tutta la strada che restava da
fare. Finito il pasto, fecero un lungo addio a quel sito maraviglioso
e tornarono ad inerpicarsi. Sant'Aubert ritrovò la carrozza con
piacere; Emilia vi salì secolui: ma volendo conoscere più minutamente
la deliziosa contrada dove stavano per discendere, Valancourt slegò i
suoi cani e li seguì a piedi; egli soffermavasi talvolta sopra le
alture che gli offrivano un bel punto di vista; il passo delle mule
permettevagli siffatte distrazioni. Se qualche luogo spiegava una rara
magnificenza, tornava alla carrozza, e Sant'Aubert, troppo stanco per
andar a goderne in persona, vi mandava la figlia e stavasene ad
aspettarla.

Era tardi quando calarono dalle belle alture che coronano il
Rossiglione. Questa magnifica provincia è incassata nelle loro
maestose barriere, non restando aperta che dalla parte del mare.
L'aspetto della cultura abbelliva in fondo il paesaggio, ed il piano
tingevasi de' più vividi colori, e quali il lussureggiante clima e
l'industria degli abitanti potevano dovunque farli nascere. Boschetti
d'aranci e di limoni imbalsamavan l'aere; i lor frutti già maturi
dondolavano tra le frondi, e le coste dal facile declivio facevan
pompa delle più belle uva. Più lungi, selve, pascoli, città, casali,
il mare, sulla cui rifulgente superficie scorrevano molte vele sparse,
un tramonto scintillante di porpora; questo passo, in mezzo ai monti
che lo dominavano, formava la perfetta unione dell'ameno col sublime;
era la bellezza dormente in seno all'orrore.

I viaggiatori, giunti al basso, inoltrarono fra siepi di mirti e di
melagrani fioriti sino alla piccola città d'Arles, dove contavan
passar la notte. Trovarono un alloggio semplice, ma pulito; avrebbero
passata una deliziosa sera, dopo le fatiche ed i godimenti del dì, se
il momento della separazione che accostavasi non avesse sparso una
nube su' loro cuori. Sant'Aubert voleva partir la domane, costeggiare
il Mediterraneo e giungere così in Linguadoca. Valancourt, guarito
troppo presto, ormai senza pretesto per seguire i suoi nuovi amici,
dovea separarsene in quel luogo stesso. Sant'Aubert, il quale l'amava,
proposegli di andar più innanzi; ma non reiterò l'invito, e Valancourt
ebbe il coraggio di non accettare, per mostrare d'esserne degno. E'
dovevano dunque lasciarsi la domane: Sant'Aubert per partire alla
volta della Linguadoca, e Valancourt per riprendere la via de' monti
onde riedere a casa. Tutta la sera non proferì sillaba, e stette
soprappensieri: Sant'Aubert fu con lui affettuoso, ma però grave;
Emilia fu seria, benchè cercasse di comparir allegra; e dopo una delle
più malinconiche sere che mai avessero passate insieme, separaronsi
per la notte.



CAPITOLO VI


Il giorno dipoi, Valancourt fece colazione coi compagni, ma nessun
d'essi parea aver dormito. Sant'Aubert portava l'impronta
dell'oppressione e del languore. Emilia trovava la di lui salute molto
infiacchita, e le sue inquietudini crescevano del continuo: osservava
essa tutti i di lui sguardi con timida premura, e la loro espressione
si trovava subito fedelmente ripetuta ne' suoi.

Sin dal principio della loro conoscenza, Valancourt aveva indicato il
suo nome e la sua famiglia. Sant'Aubert conosceva l'uno e l'altra, non
meno che i beni delle sua casa, posseduti allora da un fratello
maggiore di Valancourt, i quali distavano otto leghe circa dal suo
castello; ed aveva incontrato questo fratello in qualche luogo del
vicinato. Questi preliminari avevano facilitato la sua ammissione; il
contegno, le maniere e l'esterior suo gli avevano guadagnata la stima
di Sant'Aubert, che volentieri fidava nel proprio criterio, ma
rispettava le convenienze; e tutte le buone qualità che riconosceva in
lui, non gli sarebbero parse motivi sufficienti per avvicinarlo tanto
alla figlia.

La colazione fu quasi taciturna, quanto eralo stata la cena della sera
precedente; ma la loro meditazione fu interrotta dal romore della
carrozza che doveva condur via Sant'Aubert ed Emilia. Valancourt si
alzò, corse alla finestra, riconobbe la carrozza, e tornò alla sua
sedia senza parlare. Il momento di separarsi era omai giunto.
Sant'Aubert disse al giovane che sperava rivederlo nella valle, e che
non vi sarebbe passato di certo senza onorarli di una visita.
Valancourt lo ringraziò affettuosamente, e l'assicurò che non ci
avrebbe mai mancato: sì dicendo guardava timidamente Emilia, la quale
si sforzava di sorridere in mezzo alla sua profonda tristezza;
passarono qualche minuto in un colloquio animatissimo; Sant'Aubert
s'avviò alla carrozza, Emilia e Valancourt lo seguirono in silenzio:
il giovane restava fermo allo sportello, e quando furono saliti pareva
che nessuno avesse il coraggio di dirsi addio. In fine Sant'Aubert
pronunziò la trista parola; Emilia fece altrettanto a Valancourt, che
lo ripetè con un sorriso forzato, e la carrozza si mise in moto.

I viaggiatori restarono a lungo in silenzio. Sant'Aubert finalmente
disse: «È un giovine interessante; sono molti anni che una conoscenza
sì breve non m'ha così affettuosamente colpito. Egli mi ricorda i
giorni della mia gioventù, quel tempo in cui tutto mi sembrava
ammirabile e nuovo.» Sospirò, e ricadde nella sua meditazione. Emilia
si affacciò alla portiera, e rivide Valancourt immobile sulla porta,
che li seguiva cogli occhi; egli la scorse, e salutolla colla mano;
ella gli restituì il saluto, ma ad una svolta della strada non potè
più vederlo.

«Mi ricordo ciò ch'era io in quell'età,» soggiunse Sant'Aubert; «io
pensava e sentiva precisamente come lui. Il mondo allora aprivasi
dinanzi a me, ed or esso si chiude.

--O caro papà, non abbandonatevi a pensieri sì lugubri,» disse Emilia
con voce tremante; «voi avete, spero, da vivere molti anni, per la
vostra felicità e la mia.

--Ah Emilia!» sclamò Sant'Aubert; «pel tuo! sì, spero che abbia ad
esser così.» Asciugò una lagrima che scorrevagli lungo le guance, e
sorridendo della sua emozione, aggiunse con voce tenera: «Avvi
qualcosa nell'ardore ed ingenuità di quel giovane, che dee soprattutto
commovere un vecchio, di cui il veleno del mondo non alterò i
sentimenti; sì, io scopro in lui un non so che d'insinuante, di
vivificante, come la vista della primavera quando si è infermi. Lo
spirito del malato assorbe qualcosa del succhio rinnovantesi, e gli
occhi si rianimano ai raggi meridiani; Valancourt è per me questa
felice primavera.»

Emilia, la quale stringea amorosamente la mano del padre, non aveva
mai udito dalla sua bocca un simile elogio che le riescisse tanto
gradito, nemmen quand'erane stata ella medesima l'oggetto.

Viaggiavano in mezzo a vigneti, boschi e prati, entusiasmati ad ogni
passo di quel magnifico paesaggio cui limitavan i Pirenei e l'immenso
pelago. Dopo mezzodì giunsero a Calliure, situato sul mediterraneo. Vi
pranzarono, e lasciata passare la caldura, ripresero a seguire i
magici lidi che stendonsi fin nella Linguadoca. Emilia considerava
con entusiasmo il vasto impero dell'onde, di cui i lumi e le ombre
variavan tanto singolarmente la superficie, e le cui spiagge, adorne
di boschi, rivestivan già le prime assise dell'autunno.

Sant'Aubert era impaziente di trovarsi a Perpignano, dove aspettava
lettere di Quesnel, e per tal motivo aveva lasciato tosto Calliure,
malgrado l'urgente bisogno di qualche riposo. Dopo alcune leghe di
strada, addormentossi; ed Emilia, la quale avea messi due o tre libri
in carrozza partendo dalla valle, ebbe agio di farne uso. Essa cercò
quello che aveva letto Valancourt il dì prima: desiderava ripassar le
pagine sulle quali gli occhi d'un amico sì caro eransi fissati
poc'anzi. Volea riandar i passi ch'egli ammirava, pronunziarli
com'egli facea, e ricondurlo, per dir così, alla di lei presenza.
Cercando questo libro ch'essa non potea trovare, scorse in vece sua un
volume del Petrarca, appartenente al giovane, il cui nome vi appariva
sopra scritto. Spesso ei gliene leggeva alcuni brani, e sempre con
quella patetica espressione che caratterizzava i sentimenti
dell'autore.

Arrivarono a Perpignano subito dopo il tramonto del sole. Sant'Aubert
vi trovò le lettere che aspettava da Quesnel. Se ne mostrò così
dolorosamente commosso, che Emilia, spaventata, lo scongiurò, per
quanto glielo permise la delicatezza, di spiegargliene il contenuto.
Non le rispose se non con lacrime, e tosto parlò di tutt'altro. Emilia
credè bene di non sollecitarlo ulteriormente, ma lo stato di suo padre
l'occupava forte, e non potè dormire per tutta la notte.

Il dì seguente continuarono lungo la costa per giungere a Leucate,
porto del Mediterraneo, situato sulle frontiere del Rossiglione e
della Linguadoca. Cammin facendo, Emilia rinnovò la istanze del dì
prima, e parve talmente turbata dal silenzio e della disperazione di
Sant'Aubert, che questi bandì alfine qualunque riguardo. «Io non
voleva, cara Emilia,» le diss'egli, «avvelenare i tuoi piaceri, e
avrei desiderato, almeno durante il viaggio, nasconderti circostanze,
che avrei pur troppo dovuto manifestarti un giorno; la tua afflizione
me lo impedisce, e tu soffri forse più dell'incertezza che non
soffriresti della verità. La visita del signor Quesnel fu per me
un'epoca fatale; ei mi disse allora parte delle notizie dispiacenti
che mi vengono ora confermate dalle sue lettere. Tu mi avrai inteso
parlare d'un tal Motteville di Parigi, ma ignoravi che la maggior
porzione di quanto possiedo era deposto in sue mani; io aveva in lui
cieca fiducia, e non voglio ancora crederlo indegno della mia stima:
parecchie circostanze hanno concorso alla sua rovina, ed io sono
rovinato con lui.»

Qui si fermò per moderare la sua emozione.

«Le lettere che ho ricevute dal signor Quesnel» continuò egli
eccitandosi a fermezza, «ne contenevano altre di Motteville stesso, e
tutti i miei timori sono confermati.

--Bisognerà egli abbandonare il nostro castello?» disse Emilia dopo un
lungo silenzio.

--Non è per anco ben certo,» disse Sant'Aubert; «ciò dipenderà
dall'accordo che Motteville potrà fare co' suoi creditori. Il mio
patrimonio, tu lo sai, non era molto pingue, ed ora non è quasi più
nulla. Io ne sono afflittissimo per te sola, figlia cara.»

A tai parole gli mancò la voce. Emilia, tutta lacrimosa, gli sorrise
teneramente, e sforzandosi di superare la sua agitazione, gli rispose:
«Non vi affliggete nè per voi nè per me, o mio buon padre. Noi
possiamo essere ancora felici. Sì, se ci resta il castello della
valle, noi lo saremo certamente; terremo una sola donna di servizio, e
non vi accorgerete del cambiamento della vostra fortuna. Consolatevi,
caro papà, noi non proveremo nessuna privazione, giacchè non abbiamo
mai gustato le vane superfluità del lusso, e la povertà non potrà
privarci giammai dei nostri più dolci godimenti; essa non potrà nè
diminuire la nostra tenerezza, nè avvilirci ai nostri occhi od a
quelli delle persone che ci stimano.»

Sant'Aubert celossi il volto nel fazzoletto, non potendo parlare; ma
Emilia continuò a favellare al padre le verità ch'egli stesso avea
saputo inculcarle. «La povertà,» essa gli dicea, «non potrà privarci
d'alcuno de' diletti dell'anima; voi potrete sempre essere un esempio
di coraggio e bontà, ed io la consolazione d'un prediletto genitore.»

Sant'Aubert non poteva rispondere: strinse Emilia al cuore: le loro
lacrime si confusero, ma non erano più lacrime di tristezza. Dopo
questo linguaggio del sentimento, ogni altro sarebbe stato troppo
debole, ed entrambi stettero silenziosi. Sant'Aubert parlò in seguito
secondo il consueto, e se lo spirito non era nella sua ordinaria
tranquillità, ne aveva almeno ripresa l'apparenza.

Giunsero a Leucate assai per tempo, ma Sant'Aubert era stanchissimo, e
volle passarvi la notte. La sera andò a passeggiare colla figlia per
visitarne i contorni. Si scuopriva il lago di Leucate, il
Mediterraneo, una parte del Rossiglione circondato dai Pirenei, ed una
porzione molto considerevole della Linguadoca e delle sue fertilissime
campagne. Le uve, già mature, rosseggiavano sui colli aprichi, e la
vendemmia era principiata. I due passeggianti vedevano i crocchi
giulivi, udivano le canzoni a lor recate sui vanni di lieve zeffiro e
godevano anticipatamente di tutti i piaceri che lor promettea la
strada. Sant'Aubert nondimeno non volle lasciar il mare: bene spesso
fu tentato di tornarsene nella valle, ma il piacere che prendeva
Emilia a questo viaggio, contrabbilanciava sempre questo desiderio; e
d'altronde, voleva far la prova se l'aria marina non lo sollevasse un
poco.

Il giorno seguente si rimisero in cammino. I Pirenei, sebbene molto
lontani, offrivano una veduta delle più pittoresche; a destra aveano
il mare, ed a sinistra immense pianure, che si confondevano
coll'orizzonte. Sant'Aubert se ne rallegrava, e ne parlava con Emilia;
ma la sua allegria era più finta che naturale, ed ombre di tristezza
facean velo bene spesso alla sua fisonomia: un sorriso però di Emilia
bastava per dissiparle; ma ella stessa aveva il cuore straziato, e
vedeva benissimo che gli affanni del padre indebolivano visibilmente
tutti i giorni la sua salute.

Giunsero molto tardi ad una piccola città della Linguadoca; avevano
prefisso di dormirvi, ma fu impossibile; la vendemmia teneva occupati
tutti i posti, e convenne recarsi ad un villaggio più lontano; la
stanchezza ed i patimenti di Sant'Aubert richiedevano un pronto
riposo, e la notte era già avanzata; ma la necessità non ha legge, e
Michele continuò il suo cammino.

Le ubertose pianure della Linguadoca, nel fervore delle vendemmia,
rintronavano de' frizzi e della rumorosa allegria francese.
Sant'Aubert non potea più goderne; il suo stato contrastava troppo
tristamente col brio, la gioventù e i piaceri che circondavanlo.
Quando volgea i languidi occhi su quella scena, pensava che in breve
non la vedrebbero più.--Que' monti lontani ed eccelsi,» dicea tra sè,
considerando i Pirenei ed il tramonto, «queste belle pianure, quella
vôlta azzurra, la cara luce del dì, saranno per sempre interdette a'
miei sguardi; fra poco la canzone del contadino, la voce consolatrice
dell'uomo non giugneranno più all'orecchio mio...--

Gli occhi d'Emilia parean leggere tutto che passava nell'animo del
padre: essa li fissava sul di lui viso coll'espressione d'una tenera
pietà. Dimenticando allora gli argomenti d'un vano rammarico, non
vide più altro che lei, e l'orribile idea di lasciar la figlia senza
protettore, cambiò la sua pena in un vero tormento; sospirò dal cuor
profondo, e non mosse labbro. Emilia comprese quel sospiro; gli
strinse le mani con tenerezza, e si volse dalla parte della portiera
per nascondere le lagrime. Il sole proiettava allora un ultimo raggio
sul Mediterraneo, i cui vapori parevano tutti d'oro; a poco a poco le
ombre del crepuscolo si distesero; una zona scolorita apparve solo a
ponente, segnando il punto dove il sole erasi perduto nelle brume
d'una sera autunnale. Una fresca brezzolina sorgeva dalla spiaggia.
Emilia calò i cristalli; ma la frescura, sì gradevole nello stato di
salute, non era necessaria per un infermiccio, e il padre la pregò di
rialzarli. Crescendo la sua indisposizione, pensava allora più che mai
a por fine alla marcia del dì; fermò Michele per sapere a qual
distanza fossero dal primo villaggio. «A quattro leghe,» disse il
mulattiere.--Io non potrò farle,» disse Sant'Aubert; «cercate,
nell'andare innanzi, se non vi fosse una casa sulla strada in cui
possano riceverci per istanotte.»

Si rigettò in carrozza; Michele fe' schioccar la frusta, e galoppò
finchè Sant'Aubert quasi fuor de' sensi, gli fece segno di fermarsi.
Emilia guardava alla portiera: vide alla perfine un contadino a
qualche distanza: lo aspettarono e gli chiesero se non vi fosse ne'
dintorni alloggio pe' viaggiatori. Rispose di non conoscerne. «C'è un
castello in mezzo ai boschi,» soggiunse, «ma io credo che non vi si
riceve nessuno, e non posso insegnarvene la strada essendo quasi io
stesso forestiero.»

Sant'Aubert stava per rinnovellare le sue domande sul castello; ma
l'uomo piantollo lì e se ne andò. Dopo un momento di riflessione,
Sant'Aubert ordinò a Michele di andare pian piano verso i boschi. Ad
ogni istante il crepuscolo diventava più oscuro, e la difficoltà di
guidarsi cresceva. Passò un altro paesano.

«Quale è la strada del castello ne' boschi?» gridò Michele.

--Il castello ne' boschi!» sclamò il paesano. «Volete parlare di
quelle torrette?

--Non so se son torrette,» disse Michele: «parlo di quel caseggiato
bianco che vediamo da lungi in mezzo a tutti quegli alberi.

--Sì, son torrette. Ma che! fareste conto d'andarci?» rispose l'uomo
con sorpresa.

Sant'Aubert, udendo quella strana interrogazione colpito in ispecie
dall'accento con cui la si faceva, scese di carrozza e gli disse: «Noi
siamo viaggiatori, e cerchiamo una casa per passarvi la notte: ne
conoscete voi qui una vicina?

--No, signore,» rispose l'uomo «a meno che non voleste tentar fortuna
in que' boschi: ma io per me non ve lo consiglierei.

--A chi appartiene quel castello?

--Nol so, signore.

--È dunque disabitato?

--No, non è disabitato; il castaldo e la governante, vi sono, a quanto
credo.»

All'udir ciò, Sant'Aubert si decise a rischiare un rifiuto
presentandosi al castello. Pregò il contadino di servir di guida a
Michele, e gli promise una ricompensa. L'uomo riflettè un poco, e
disse che avea altre faccende, ma che non potevano sbagliare seguendo
il viale cui accennò. Sant'Aubert stava per rispondere, quando il
paesano, augurandogli la buona notte, lo lasciò senza aggiugner altro.

La carrozza si diresse al viale, cui si trovò sbarrata da una stanga;
Michele smontò ed andò a levarla. Penetrarono allora tra antichi
castagni e querce annose, i cui rami intralciati formavano una vôlta
altissima: eravi qualcosa di deserto e di selvaggio nell'aspetto di
quel viale, ed il silenzio erane tanto imponente, che Emilia si sentì
côlta da involontario tremore. Ricordavasi l'accento del paesano
nel parlare di quel castello: essa dava alle di lui parole
un'interpretazione più misteriosa che non avesse fatto prima: cercò
nullameno di calmare la paura; pensò che un'imaginazione turbata ne
l'avea resa suscettibile, e che lo stato del padre e la sua propria
situazione dovevano senza dubbio contribuirvi.

Inoltrarono lentamente; l'oscurità era quasi completa: il terreno
disuguale e le radici degli alberi che l'imbarazzavano ad ogni tratto
obbligavano a molta precauzione. D'improvviso, Michele si fermò:
Sant'Aubert guardò per saperne la causa. Vide a qualche distanza una
figura traversare il viale; faceva troppo buio per distinguere di più,
ed egli ordinò d'avanzare.

«Mi sembra un luogo strano,» disse Michele; «non veggo case, e faremmo
meglio a tornar indietro.

--Andate un po' più innanzi, e se non vedremo edifizi, torneremo sulla
strada maestra.»

Michele s'avanzò, ma con ripugnanza; e l'eccessiva lentezza della sua
marcia fe' riaffacciare Sant'Aubert alla portiera, e vide ancora la
medesima figura. Questa volta trasalì. Probabilmente l'oscurità lo
rendea proclive a spaventarsi più del consueto; ma, checchè esser
potesse, fermò Michele, e gli disse di chiamar l'individuo che
traversava di tal modo il viale.

«Con vostro permesso,» disse Michele, «può bene essere un ladro.

--Nol permetto di certo,» ripigliò Sant'Aubert, non potendo astenersi
dal sorridere a quella frase; «via, torniamo sulla strada, chè non
veggo alcuna apparenza di trovar qui quel che cerchiamo.»

Michele voltò con vivacità, e rifece velocemente il viale; una voce
partì allora d'in fra gli alberi a sinistra; non era un comando, non
un grido di dolore, ma un suono roco e prolungato che nulla avea
d'umano. Michele spronò le mule senza pensare all'oscurità, nè
agl'intoppi, nè alle buche, e neppure alla carrozza; nè si fermò se
non quando fu uscito dal viale, e giunto sulla strada infine, rallentò
il passo.

«Io sto assai male,» disse Sant'Aubert stringendo la mano della
figlia, la quale, spaventata dal tuono di voce del padre, esclamò:
«Gran Dio! voi state più male, e noi siamo senza soccorso; come
faremo?» Egli appoggiò la testa sulla di lei spalla; essa lo sostenne
fra le sue braccia, e fece fermar la carrozza. Appena il rumore delle
ruote fu cessato, sentirono musica in lontananza, lo che fu la voce
della speranza per Emilia, che disse: «Oh! noi siamo vicini a qualche
abitazione, e potremo trovarci aiuto.» Ascoltò attenta: il suono era
molto lontano, e parea venire dal fondo di un bosco, una parte del
quale costeggiava la strada. Guardò dalla parte d'onde venivano i
suoni, e vide al chiaro di luna qualcosa che somigliava ad un
castello, ma era difficile di giungervi. Sant'Aubert stava troppo male
per sopportare il più piccolo movimento: Michele non poteva
abbandonare le mule; Emilia, che sosteneva ancora il padre, non voleva
abbandonarlo, e temeva pur di avventurarsi sola a tal distanza, senza
sapere dove ed a chi indirizzarsi: frattanto bisognava prendere un
partito, e senza dilazione. Sant'Aubert disse dunque a Michele di
avanzare più lentamente che gli fosse possibile, e dopo un momento
svenne. La carrozza si fermò di nuovo; egli era privo affatto dell'uso
dei sensi. «Ah! padre mio, mio caro padre!» gridava Emilia disperata;
e credendolo in punto di morte, esclamò: «Parlate, ditemi una sola
parola; ch'io ascolti anche una volta il suono della vostra voce.»
Egli non rispose nulla: spaventata sempre più, ordinò a Michele di
andare ad attingere acqua nel ruscello vicino; egli ne portò un poco
nel suo cappello, che la ragazza spruzzò sul viso del genitore. I
raggi della luna, riflettendo allora sopra di lui, mostravano
l'impressione della morte. Tutti i movimenti di terrore personale
cedettero in quel punto a un timore dominante, e, confidando
Sant'Aubert a Michele, il quale con molta difficoltà lasciò le mule,
Emilia saltò fuori della carrozza per cercare il castello che aveva
veduto da lontano, e la musica che dirigeva i suoi passi, la fece
entrare in un sentiero che conduceva nell'interno del bosco. Il suo
spirito, unicamente occupato del padre e della sua propria
inquietudine, aveva dapprincipio perduto qualunque timore; ma la
foltezza degli alberi, sotto i quali passava, intercettavano i raggi
della luna; l'orrore di quel luogo le rammentò il suo pericolo; la
musica era cessata, e non le restava altra guida che il caso. Si fermò
un poco con uno spavento inesprimibile; ma l'immagine del padre vinse
ogni altro sentimento, e si rimise in cammino. Non vedeva nessuna
abitazione, nessuna creatura, e non udiva il più piccolo romore;
camminava sempre senza saper dove, scansava il folto del bosco e si
teneva in mezzo il più che poteva; finalmente vide una specie di viale
in disordine che metteva ad un punto illuminato dalla luna; lo stato
di quel viale le rammentò il castello delle torrette, e non dubitò più
di esserne vicina. Esitava a procedere, quando un romore di voci e
scrosci di risa colpirono all'improvviso il suo udito; non era un riso
di allegrezza, ma quello di una gioia smoderata, ed il suo imbarazzo
crebbe d'assai. Mentre essa ascoltava, una voce in gran distanza si
fece sentire dalla parte della strada ond'era partita; immaginandosi
che fosse Michele, suo primo pensiero fu quello di tornare indietro,
ma poi non seppe risolversi. L'ultima estremità poteva solamente aver
deciso Michele a lasciare le sue mule: credè il padre moribondo, e
corse con maggiore celerità, nella debole lusinga di ricevere qualche
soccorso da' convitati del bosco. Il suo cuore palpitava per terribile
incertezza; e più si avanzava, più il romore delle foglie secche la
faceva tremare ad ogni passo. Giunse ad un luogo scoperto illuminato
dalla luna; si fermò, e scorse fra gli alberi un banco erboso formato
a cerchio cui stavan sedute parecchie persone. Nell'avvicinarsi,
giudicò dal loro abbigliamento che dovevano essere contadini, e
distinse sparse pel bosco varie capanne. Mentre guardava e si sforzava
di vincere il timore che la rendeva immobile, alcune villanelle
uscirono da una capanna; la musica seguitò e ricominciarono a ballare;
era la festa della vendemmia, e l'istessa musica udita da lontano. Il
di lei cuore, troppo lacerato, non poteva sentire il contrasto che
tutti quei piaceri formavano colla propria situazione; si fece innanzi
ad un gruppo di vecchi assisi vicino alla capanna, espose la sua
circostanza, e ne implorò l'assistenza. Parecchi si alzarono con
vivacità, offrirono tutti i loro servigi, e seguirono Emilia, che
parea aver l'ali correndo verso la strada maestra.

Quando furono giunti alla carrozza, essa trovò il padre rinvenuto.
Ricuperando i sensi, aveva inteso da Michele la partenza della figlia;
la sua inquietudine per lei oltrepassando il sentimento dei suoi
bisogni, aveva mandato Michele a cercarla; non pertanto era tuttora in
istato di languore, e sentendosi incapace di andar più oltre, rinnovò
le sue domande sopra un albergo, o sul castello del bosco. «Il
castello non può ricevervi,» disse un contadino venerabile, il quale
aveva seguito Emilia, «esso è appena abitato; ma se volete farmi
l'onore di accettare il mio tugurio, vi darò il mio letto migliore.»

Sant'Aubert era francese: non istupì dunque della cortesia di un
francese. Malato com'era, sentì quanto valore acquistava l'offerta,
dalla maniera colla quale era fatta. Aveva troppa delicatezza per
iscusarsi, o per esitare un sol momento a ricevere quell'ospitalità
contadinesca; l'accettò dunque con altrettanta franchezza, quanta
n'era stata adoperata nell'offerta.

La carrozza camminò lentamente, seguitando i contadini per la strada
già fatta da Emilia, e giunsero alla capanna. L'affabilità del suo
ospite, e la certezza di un pronto riposo, resero le forze a
Sant'Aubert; egli vide con dolce compiacenza quel quadro interessante;
i boschi, resi più cupi dal contrasto, circondavano il sito
illuminato; ma diradandosi ad intervalli, un bianco chiarore ne facea
spiccar una capanna o riflettevasi in un rigagnolo; egli ascoltò con
piacere i suoni allegri della chitarra e del tamburello, ma non potè
vedere senza emozione il ballo di que' villici. Non avvenne l'egual
cosa di Emilia: l'eccesso dello spavento si era cambiato in una
profonda tristezza, e gli accenti della gioia facendo luogo a
spiacevoli confronti, servivano ancora a raddoppiarla.

Il ballo cessò all'avvicinarsi della carrozza: era un fenomeno in quei
boschi remoti, e tutti la circondarono con istraordinaria curiosità.
Appena intesero che vi era un forestiero ammalato, molte fanciulle
traversarono il prato, tornarono immediatamente con vino e canestri di
frutta, e li offersero ai viaggiatori disputandosi la preferenza. La
carrozza si fermò finalmente vicino ad una casuccia decentissima, che
apparteneva al venerabile condottiero; egli aiutò Sant'Aubert a
scendere, e lo condusse con Emilia in una stanzetta terrena,
illuminata soltanto dalla luna. Sant'Aubert, lieto di trovare il
desiato riposo, si adagiò sopra una specie di poltrona. L'aria fresca
e balsamica, impregnata di soavi effluvi, penetrava nella stanza dalle
finestre aperte e rianimava le sue facoltà infiacchite. Il suo ospite
che si chiamava Voisin, tornò immediatamente con frutta, crema, e
tutto il lusso campestre che poteva somministrare il suo ritiro. Offrì
tutto col sorriso della cordialità, e si mise in piedi dietro la sedia
di Sant'Aubert, il quale insistè per fargli prendere posto a tavola;
quando i frutti ebbero calmato la di lui sete ardente, si sentì un
poco sollevato, e cominciò a discorrere. L'ospite gli comunicò tutte
le particolarità relative a lui ed alla sua famiglia. Questo quadro di
unione domestica, dipinto col sentimento del cuore, non poteva mancare
di eccitare il più vivo interesse. Emilia, seduta vicino al padre,
tenendo una mano fra le sue, ascoltava attenta il buon vecchio. Il di
lei cuore era pieno di tristezza e versava lacrime, pensando che
quanto prima non avrebbe più posseduto il prezioso bene di cui essa
godeva ancora. Il fioco raggio della luna autunnale, e la musica che
si faceva ancora sentire da lontano, s'accordavano colla sua
malinconia. Il vecchio parlava della sua famiglia, e Sant'Aubert
taceva.

«Non mi resta più che una figlia,» disse Voisin, «ma fortunatamente
essa è maritata e mi tiene luogo di tutto. Quando morì mia moglie,»
aggiuns'egli sospirando, «io andai a riunirmi con Agnese e la sua
famiglia. Essa ha parecchi figli, che voi vedete ballare laggiù,
allegri e grassi come tanti fringuelli. Possano eglino esser sempre
così! io spero morire in mezzo a' loro, o signore: ora son vecchio, e
mi resta poco da vivere; ma è una gran consolazione il morire fra i
suoi figli.

--Mio buon amico,» disse Sant'Aubert con voce tremante, «voi vivrete,
lo spero, lungamente in mezzo ad essi.

--Ah, signore! nella mia età, non ho molto luogo a sperarlo.» Il
vecchio fece una pausa. «Eppoi lo desidero appena,» ripigliò quindi.
«Ho fiducia che, se muoio, andrò difilato al cielo; la mia povera
moglie vi è prima di me. La sera, al chiaro di luna, credo vederla
vagolar presso questi boschi cui amava tanto. Credete voi, signore,
che noi possiam visitare la terra, quando avremo lasciati i nostri
corpi?

--Non dubitatene,» gli rispose Sant'Aubert; «le separazioni sarebbero
troppo dolorose se le credessimo eterne. Sì, Emilia cara, noi ci
ritroveremo un dì.»

Alzò gli occhi al cielo, ed i raggi della luna, che cadevan sopra di
lui, mostrarono tutta la pace e la rassegnazione dell'anima sua,
malgrado l'espressione della tristezza.

Voisin comprese aver troppo prolungato il tema, e l'interruppe
dicendo: «Ma noi siamo all'oscuro; abbiamo bisogno di un lume.

--No,» gli disse Sant'Aubert, «preferisco il chiaro della luna: non
v'incomodate, caro amico. Emilia, amor mio, io sto ora assai meglio di
quel che non lo sia stato tutto il giorno. Quest'aria mi rinfresca; io
gusto questo riposo, e mi compiaccio di ascoltare questa bella musica
che si ode in lontananza. Lasciami vedere il tuo sorriso. Chi è che
suona così bene la chitarra?» diss'egli in seguito; «son due strumenti
oppure un'eco?

--È un'eco, o signore, almeno io lo credo. Ho inteso spesso questo
strumento la notte, quando tutto è in calma: ma nessuno conosce chi lo
suona. Talvolta è accompagnato da una voce, ma sì dolce e così trista,
che si potrebbe credere compaiano spiriti nel bosco.

--Vi compariranno per certo,» disse Sant'Aubert sorridendo, «ma in
carne ed ossa.

--Qualche volta, a mezzanotte, quando non posso dormire,» proseguì
Voisin, il quale non badò a quell'osservazione, «l'ho sentita quasi
sotto le mie finestre, nè mai ho intesa musica tanto piacevole: essa
mi faceva pensare alla mia povera moglie, e piangeva. Talfiata apersi
la finestra per procurare di scorgere qualcuno, ma nell'istante
medesimo cessava l'armonia, e non si vedeva nessuno. Ascoltava con
tanto raccoglimento, che il rumore d'una foglia o il menomo vento
finiva col farmi paura. Si diceva che questa musica fosse un annuncio
di morte; ma son molti anni che l'ascolto e sopravvivo ancora a questo
tristo presagio.»

Emilia sorrise ad una superstizione tanto ridicola, e non pertanto,
nella posizione del suo spirito, essa non potè del tutto resistere
alla sua impressione contagiosa.

«Va bene, amico mio, disse Sant'Aubert; ma se qualcuno avesse avuto il
coraggio di andar dietro al suono, il musico sarebbe stato conosciuto.
Nessuno l'ha fatto?

--Sì, signore, fu tentato più volte, si è seguita la musica sino al
bosco, ma essa si ritirava a misura che noi avanzavamo, e sembrava
sempre alla medesima distanza: i nostri villani hanno avuto paura, e
non vollero andar più oltre. Ben di rado la si sente tanto di buon'ora
come stasera; d'ordinario ciò accade verso mezzanotte quando quella
fulgida stella che si trova adesso al di sopra di quelle torrette
tramonta a sinistra del bosco.

--Quali torrette?» domandò Sant'Aubert; «io non ne vedo alcuna.

--Perdonate, signore, eccone là una, sulla quale riflette la luna;
vedete voi quel viale? il castello è quasi nascosto interamente dagli
alberi.

--Sì, papà,» disse Emilia guardando; «non vedete voi qualche cosa
brillare al disopra del bosco? io credo sia una banderuola, sulla
quale riflettono i raggi della luna.

--Sì, ora vedo ciò che mi accenni. Di chi è quel castello?

--Il marchese di Villeroy ne era il possessore,» rispose Voisin con
fare d'importanza.

--Ah!» disse Sant'Aubert agitatissimo: «siamo dunque così vicini a
Blangy?

--Era la dimora favorita del marchese,» soggiunse Voisin; «ma la prese
in antipatia, e son molti anni che non vi è stato: mi fu detto che è
morto da poco tempo, e che questo feudo passò in altre mani.»

Sant'Aubert, ch'era caduto in pensieri, uscì dalla sua meditazione a
queste ultime parole esclamando: «Morto! gran Dio! e da quanto tempo?»

--Mi fu detto esser già da quattro settimane,» rispose Voisin; «lo
conoscevate voi forse?

--È cosa straordinaria,» rispose Sant'Aubert, senza fermarsi alla
domanda.

--E perchè?» disse Emilia con timida curiosità. Egli non rispose, e
ricadde nella sua meditazione; ne uscì poco dopo, e domandò chi fosse
il suo erede.

«Mi son dimenticato del nome» disse Voisin; «ma so che questo signore
abita Parigi, e che non pensa neppur per ombra di venire al suo
castello.

--Il castello è egli ancora chiuso?

--A un bel circa, signore; la vecchia castalda e suo marito ne hanno
cura, ma vivono in una casuccia poco distante.

--Il castello è spazioso,» disse Emilia, «e dee essere molto deserto,
se non ha che due abitanti.

--Deserto! oh sì, signorina,» rispose Voisin; «non vorrei passarvi la
notte per tutti i tesori del mondo.

--Che dite mai?» soggiunse Sant'Aubert, uscendo dalla sua meditazione;
e Voisin ripetè l'istessa protesta. Sant'Aubert non potè trattenere
una specie di singulto; ma quasi avesse voluto evitare le
osservazioni, domandò prontamente a Voisin da quanto tempo abitasse
quel paese.

«Quasi dalla infanzia,» rispose l'ospite.

--Vi rammentate voi della defunta marchesa?» disse Sant'Aubert con
voce alterata.

--Ah! signore, se me lo ricordo; ve ne sono molti altri che non
l'hanno dimenticata neppur essi.

--Sì,» rispose Sant'Aubert, «ed io sono uno di quelli.

--Dunque vi ricorderete d'una bella ed eccellente signora: dessa
meritava una sorte migliore.»

Sant'Aubert versò qualche lagrima.

«Basta,» diss'egli con voce quasi soffocata, «basta, amico mio.»

Emilia, sebbene sorpresissima, non si permise di manifestare i suoi
sentimenti con veruna dimanda. Voisin volle scusarsi, ma Sant'Aubert
l'interruppe. «L'apologia è inutile,» gli disse; «cambiamo piuttosto
tema di conversazione. Voi parlavate della musica che abbiamo sentita.

--Sì, signore, ma zitto, essa ricomincia; ascoltate questa voce.»

Udirono infatti una voce dolce, tenera ed armoniosa, ma i cui suoni,
debolmente articolati, non permettevano di distinguer nulla che
somigliasse a parole. Ben presto essa cessò, e lo strumento che
l'accompagnava intuonò teneri concenti. Sant'Aubert osservò che i
tuoni n'erano più pieni e melodiosi di quelli d'una chitarra, ed anche
più malinconici di quelli d'un liuto. Continuarono ad ascoltare, e non
sentirono più nulla.

«Questo è strano,» disse Sant'Aubert, rompendo alfine il silenzio.

--Stranissimo,» disse Emilia.

--È vero,» soggiunse Voisin; e tacquero tutti.

Dopo una lunga pausa, Voisin ripigliò:

«Sono circa diciotto anni che intesi questa musica per la prima volta
in una bellissima notte estiva, men ricordo; ma era più tardi. Io
passeggiava solo nel bosco; mi ricordo ancora ch'era molto afflitto;
aveva un figliuolo malato, e temeva di perderlo; aveva vegliato tutta
sera al suo letto, mentre sua madre dormiva, avendolo essa assistito
tutta la notte precedente. Uscii per prendere un po' d'aria; la
giornata era stata caldissima, ed io passeggiava pensieroso sotto gli
alberi; udii una musica in lontananza, e pensai fosse Claudio che
suonasse la sua zampogna; egli era amantissimo di questo strumento.
Quando la sera era bella, stavasi un pezzo sulla sua porta a suonare;
ma quando arrivai in un luogo ove gli alberi erano meno folti (non me
ne scorderò per tutta la vita), mentr'io guardava le stelle di
settentrione, che in quel momento erano molto alte, tutto a un tratto
udii suoni, ma suoni ch'io non posso descrivere: sembrava un concerto
di angeli; guardai attentamente, e mi pareva sempre di vederli salire
al cielo. Quando tornai a casa, raccontai ciò che aveva ascoltato; si
burlarono tutti di me, e mi dissero ch'erano pastori, i quali avean
suonato il loro flauto; non potei mai persuaderli del contrario. Poche
sere dopo, mia moglie udì l'istessa armonia, e fu sorpresa quanto me.
Il padre Dionigi la spaventò moltissimo, dicendole che il cielo
mandava questo avvertimento per annunziare la morte di suo figlio, e
che questa musica aggiravasi intorno alle case, contenenti qualche
moribondo.»

Emilia, nell'ascoltare quelle parole, si sentì colpita da un timore
superstizioso affatto nuovo per lei, ed ebbe molta difficoltà a
nascondere il suo turbamento al padre.

«Ma nostro figlio visse, o signore, a dispetto del padre Dionigi.

--Il padre Dionigi?» disse Sant'Aubert, il quale ascoltava con
attenzione tutti i racconti del buon vecchio; «noi siam dunque vicini
ad un convento?

--Sì, signore, il convento di Santa Chiara è poco distante da noi;
esso è sulla riva del mare.

--O cielo!» sclamò Sant'Aubert, come colpito da un'improvvisa
rimembranza; «il convento di Santa Chiara!»

Emilia osservò che ai segni del dolore sparsi sulla di lui fronte,
mescolavasi un sentimento di orrore. Esso restò immobile; l'argenteo
chiaror della luna colpivagli allora il volto; somigliava ad una di
quelle marmoree statue che, poste su di un mausoleo, sembran vegliare
sulle fredde ceneri, ed affliggersi senza speranza.

«Ma, caro papà,» disse Emilia, volendo distrarlo dai tristi pensieri,
«voi vi scordate quanto avete bisogno di riposo; se il nostro buon
ospite me lo permette, io andrò a prepararvi il letto, giacchè so come
desiderate che sia fatto.»

Sant'Aubert si raccolse alquanto, e sorridendole con dolcezza, la
pregò di non aumentare la sua fatica con questa nuova premura. Voisin,
la cui cortesia era stata sospesa dall'interesse che avevano eccitato
i suoi racconti, si scusò di non aver fatto venire ancora Agnese, ed
uscì per andare a prenderla.

Poco dopo tornò, conducendo sua figlia, giovine di amabilissima
presenza. Emilia intese da lei ciò che non aveva ancora sospettato,
cioè che, per dar ricovero a loro, bisognava che parte della famiglia
cedesse i suoi letti. Si afflisse di questa circostanza; ma Agnese,
nella sua risposta, mostrò la medesima buona grazia e l'istessa
ospitalità del padre. Fu dunque deciso che parte dei figli e Michele
andassero a dormire in una casa poco distante.

«Se domani io starò meglio, mia cara Emilia,» disse Sant'Aubert, «noi
partiremo di buon'ora per poterci riposare durante il caldo del
giorno, e torneremo a casa. Nello stato della mia salute e delle mie
idee, non posso pensare se non con pena ad un viaggio più lungo, e
sento il bisogno di tornare alla valle.»

Anche Emilia desiderava questo ritorno, ma si turbò sentendo una
risoluzione così subitanea. Suo padre, senza dubbio, stava molto
peggio di quello che voleva far credere. Sant'Aubert si ritirò per
prendere un po' di riposo. Emilia chiuse la sua cameretta, e non
potendo dormire, i di lei pensieri la ricondussero all'ultima
conversazione relativa allo stato delle anime dopo morte. Questo
soggetto l'alterava sensibilmente, dacchè non poteva più lusingarsi di
conservare lungamente il padre. Ella si appoggiava pensierosa ad una
finestrella aperta. Assorta nelle sue riflessioni, alzava gli occhi al
cielo; vedeva il firmamento sparso d'innumerevoli stelle, abitate
forse dagli spiriti incorporei; i suoi occhi erravano negli immensi
spazi eterei: i di lei pensieri s'innalzavano, come prima, verso la
sublimità di un Dio, e la contemplazione dell'avvenire. Il ballo era
cessato, le capanne erano silenziose, l'aria sembrava appena
sommuovere leggermente la sommità degli alberi; il belato di qualche
pecorella smarrita, tratto tratto il suono lontano di un campanello,
il romore di una porta che si chiudeva, interrompevano soli il
silenzio della notte. Anzi da ultimo questi diversi suoni, che le
rammentavano la terra e le sue occupazioni, cessarono del tutto: cogli
occhi lagrimosi, penetrata da una rispettosa devozione, restò alla
finestra fintanto che, verso mezzanotte, l'oscurità si fu estesa sulla
terra, e che la stella indicata da Voisin disparve dietro il bosco. Si
ricordò allora di ciò ch'egli aveva detto su tal proposito, e
rammentossi la musica misteriosa; stava alla finestra, sperando e
temendo nel tempo istesso di sentirla tornare; era occupata della
forte commozione del padre, quando Voisin aveva annunziata la morte
del marchese di Villeroy e rammentata la sorte della marchesa, e si
sentiva vivamente interessata di conoscerne la causa. La di lei
curiosità su questo oggetto era tanto più viva, in quanto che suo
padre non aveva mai pronunziato alla di lei presenza il nome di
Villeroy. La musica non si sentì: Emilia si accorse che le ore
riconducevanla a nuove fatiche; pensò che bisognava alzarsi di buon
mattino, e si decise di porsi a letto.



CAPITOLO VII


Emilia fu svegliata di buon'ora, come l'aveva preveduto. Il sonno
l'aveva ristorata un poco; era stata invasa da sogni penosi, e la più
dolce consolazione degl'infelici non aveale menomamente giovato. Aprì
la finestra, guardò il bosco, respirò l'aria pura dell'aurora, e si
sentì più tranquilla. Tutto il paese spirava quella frescura che
sembra apportar la salute. Non si sentivano che suoni dolci e
simpatici, come la campana d'un convento lontano, il mormorio delle
onde, il canto degli uccelli e il muggito del bestiame, ch'essa vedeva
camminare lentamente fra gli sterpi e gli alberi.

Emilia udì un movimento nella sala, e riconobbe la voce di Michele,
che parlava alle sue mule ed usciva con loro da una capanna vicina:
uscì essa pure, e trovò il padre, il quale erasi alzato in quel
momento, e non istava meglio di prima. Lo condusse nella stanzetta
dove avevano cenato la sera avanti: vi trovarono una buonissima
colazione, e l'ospite e sua figlia, che li aspettavano per augurar
loro il buon giorno.

«Io v' invidio questa bella dimora, amici miei,» disse Sant'Aubert nel
vederli; «essa è così piacevole, così placida, così decente! E l'aria
che vi si respira! Son certo che questa potrebbe forse restituirmi la
salute.»

Voisin lo salutò garbatamente, e gli rispose con civiltà squisita: «La
mia dimora è divenuta invidiabile, dacchè voi e questa signorina
l'avete onorata della vostra presenza.»

Sant'Aubert sorrise amichevolmente a questo complimento, e si mise a
tavola, la quale era coperta di frutta, burro e cacio fresco. Emilia,
che aveva esaminato attentamente il padre, e lo trovava in uno stato
deplorabile, l'impegnava premurosamente a protrarre la sua partenza
fino a sera; ma egli sembrava impaziente di tornare a casa, ed
esprimeva questa impazienza con un calore veramente straordinario.
Assicurava che da lunga pezza non s'era sentito tanto bene, e che
viaggerebbe con minor pena al fresco del mattino che ad ogni altra ora
del dì. Ma mentre esso parlava col suo ospite rispettabile, e lo
ringraziava della cortese accoglienza fattagli, Emilia lo vide cambiar
di colore e cadere sulla sedia prima ch'essa potesse sostenerlo. In
pochi momenti si rimise dall'improvviso deliquio, ma stava così male,
che si riconobbe incapace di viaggiare; e dopo aver lottato un poco
contro la violenza dei suoi mali, domandò di essere aiutato a risalire
la scala, e rimettersi in letto. Questa preghiera rinnovò tutti i
terrori di Emilia provati il giorno antecedente, ma sebbene potesse
appena sostenersi, e resistere al colpo fatale che la colpiva, procurò
di reprimere il proprio dolore, e dandogli il braccio tremante, aiutò
il padre a tornare nella sua camera.

Appena fu in letto, egli fece chiamare Emilia, la quale piangeva fuori
della stanza, e chiese di esser lasciato solo con lei. Allora le prese
la mano, e fissò gli occhi nella figlia con tanta tenerezza e dolore,
che il suo coraggio l'abbandonò, ed essa proruppe in un pianto
dirotto. Sant'Aubert cercava di conservare la sua fermezza, e non
poteva parlare; non poteva che stringerle la mano, e trattenere a
stento le proprie lacrime; alfine prese la parola.

«Mia cara figlia,» diss'egli, sforzandosi di sorridere in mezzo
all'impressione del suo dolore, «mia cara Emilia!» Fece una pausa,
alzò gli occhi al cielo, come per implorarne l'assistenza, ed allora
con un tuono di voce più fermo, con uno sguardo in cui la tenerezza
paterna univasi con dignità alla pia solennità d'un santo,
«Figliuola,» le disse, «io vorrei addolcire le tristi verità che sono
costretto a svelarti, ma non so nasconderti nulla. Oimè! vorrei
poterlo fare, ma sarebbe troppo crudele di prolungare il tuo errore:
la nostra separazione è imminente; convien dunque parlarne, e
prepararci a sopportarla con le nostre riflessioni e le preghiere.»
Gli mancò la voce; Emilia, sempre piangendo, si strinse la di lui mano
al seno, ed oppressa da convulsi sospiri, non aveva nemmen forza
d'alzare gli occhi.

«Non perdiamo un solo momento,» disse Sant'Aubert, rientrando in sè
stesso; «ho molte cose da dirti. Debbo rivelarti un segreto della più
alta importanza, ed ottenere da te una solenne promessa; quando ciò
sarà fatto, io sarò più tranquillo. Tu devi aver già osservato, mia
cara, quanto desidero di essere a casa mia; tu ne ignori la ragione:
ascolta ciò che sono per dirti. Ma aspetta, ho bisogno di questa
promessa, fatta a tuo padre moribondo!»

Emilia colpita da queste ultime parole, come se per la prima volta
avesse conosciuto il pericolo del padre, alzò la testa; le sue lacrime
si arrestarono, e guardandolo un momento con l'espressione di
un'insopportabile afflizione, fu assalita dalle convulsioni, e svenne.
Le grida di Sant'Aubert attirarono Voisin ed Agnese, che le
apprestarono tutti i possibili soccorsi, ma per lunga pezza indarno.
Quando Emilia rinvenne, Sant'Aubert era così spossato da tutta quella
scena, che restò qualche minuto senza poter parlare. Un cordiale
presentatogli da Emilia, rianimò le sue forze. Allorchè per la seconda
volta furono soli, egli sforzossi di calmarla, e le prodigò tutte le
consolazioni compatibili colla circostanza. Ella si gettò nelle sue
braccia, pianse dirottamente, ed il dolore la rendeva talmente
insensibile a' suoi discorsi, ch'egli cessò di parlare, non potendo
che intenerirsi e mescolare le proprie lacrime a quelle della
fanciulla. Richiamata alfine ad un sentimento di dovere, volle
risparmiare al padre un più lungo spettacolo del suo dolore; si
sciolse dalle di lui braccia, asciugò le lacrime, ed articolò qualche
parola di consolazione.

«Cara Emilia,» riprese Sant'Aubert, «figliuola mia, assoggettiamoci
con umile rassegnazione all'Ente che ci ha protetti e consolati nei
pericoli e nelle afflizioni. Ogni istante della nostra vita è da lui
conosciuto; egli non ci ha mai abbandonati, e non ci vorrà abbandonare
neppure in questo momento. Io sento questa consolazione nel mio cuore;
ti lascerò, figlia mia, ti lascerò nelle di lui braccia, e sebbene io
abbandoni questo mondo, sarò sempre alla tua presenza. Sì; Emilia
cara, non piangere: la morte in sè stessa non ha nulla di nuovo o di
sorprendente, giacchè sappiamo tutti di essere nati per morire; essa
non ha nulla di terribile per coloro che confidano in un Dio
onnipotente. Se la vita mi fosse stata prolungata, il corso della
natura me la avrebbe tolta fra pochi anni. La vecchiaia, e tuttociò
ch'ella porta seco d'infermità, di privazioni e d'affanni, sarebbero
state quanto prima il mio retaggio; la morte finalmente sarebbe
giunta, e ti sarebbe costata quelle lacrime che spargi in questo
momento. Rallegrati piuttosto, cara figlia, di vedermi liberato da
tanti mali. Io muoio con uno spirito libero, suscettibile delle
consolazioni della fede, e con perfetta rassegnazione.»

Si fermò stanco di parlare. Emilia si sforzò di ricomporsi, e
rispondendo a ciò che le aveva detto, cercò di persuaderlo che non
aveva parlato invano.

Dopo un poco di riposo, egli ripigliò. «Ma torniamo al soggetto che
tanto mi preme. Ti ho detto che aveva da chiederti una promessa
solenne; bisogna ch'io la riceva, prima di spiegarti la circostanza
principale di cui devo parlarti; sonvene altre che, pel tuo riposo,
importa che tu ignori per sempre. Promettimi dunque che eseguirai
esattamente ciò che sono per ordinarti.»

Emilia, colpita dalla gravità di queste espressioni, si terse le
lagrime, cui non poteva impedirsi dallo spargere; e guardando il padre
eloquentemente, si obbligò con giuramento a fare ciò che egli
esigerebbe da lei, senza sapere di che si trattasse. Allora egli
continuò: «Ti conosco troppo, Emilia cara, per temere che tu abbia a
mancar mai ai tuoi impegni, ma sopratutto ad un impegno così
rispettabile. La tua parola mi pone in calma, e la tua lealtà diviene
di un'importanza inconcepibile per la tranquillità dei tuoi giorni.
Ascolta ora ciò che debbo dirti. Il gabinetto contiguo alla mia camera
nel nostro castello della valle contiene una specie di botola, che si
apre sotto un'asse del pavimento; la riconoscerai ad un nodo
rimarchevole del legno; d'altronde, è la penultima asse dalla parte
della parete, ed in faccia alla porta della camera. Circa ad un
braccio di distanza dalla finestra, scorgerai una commessura, come se
la tavola ne fosse stata cambiata; calca il piede su quella linea, la
tavola si abbasserà, e potrai facilmente farla scorrere sotto l'altra;
di sotto troverai un vuoto.» Egli si fermò per prender fiato, ed
Emilia restò nella più profonda attenzione. «Capisci tu queste
istruzioni, mia cara?» le disse egli. Emilia, capace appena di
proferir accento, l'assicurò che l'intendeva benissimo.

«Quando tornerai a casa...» E sospirò profondamente.

Appena ella lo sentì parlare di questo ritorno, tutte le circostanze
che dovevano accompagnarlo si presentarono alla di lei immaginazione;
ebbe un nuovo accesso di dolore, e Sant'Aubert, più afflitto ancora
dallo sforzo e dal ritegno fattosi, non potè trattenere le lacrime.
Dopo alcuni momenti, si riebbe, e continuò: «Cara figlia, consolati;
quando non esisterò più non sarai abbandonata. Ti lascio sotto
l'immediata protezione della provvidenza, che non mi ha negato mai i
suoi soccorsi. Non mi affliggere coll'accesso della tua disperazione;
insegnami piuttosto, col tuo esempio, a moderare quella che risento.»

Il malato, il quale non parlava se non con difficoltà, ripigliò il suo
discorso dopo una pausa. «Quel gabinetto, mia cara..... quando
tornerai a casa, vacci, e sotto la tavola che ho descritta, troverai
un fascio di carte; sta attenta adesso. La promessa che ho ricevuta da
te, è relativa a questo unico oggetto; tu devi bruciare quelle carte
senza osservarle, nè leggerle; io te l'ordino assolutamente.»

La sorpresa d'Emilia superando un istante il suo dolore, chiese il
motivo di quella precauzione. Il padre rispose che se avesse potuto
spiegarglielo, la promessa da lei richiesta non sarebbe stata più
necessaria. «Ti basti, figlia mia, di penetrarti bene di questa
ragione: essa è d'un'estrema importanza. Sotto quella medesima asse
troverai circa dugento doppie in una borsa di seta. Questo segreto fu
già immaginato per mettere in salvo il denaro che si trovava nel
castello, allorchè la provincia era inondata da truppe, che,
profittando della circostanza, si abbandonavano ad ogni sorta di
depredazioni ed al saccheggio. Mi resta ancora da ricevere un'altra
promessa da te, ed è, che in qualunque critica posizione possa
trovarti, non venderai mai la nostra possessione della valle.»

Sant'Aubert aggiunse, che s' ella si fosse maritata, avrebbe dovuto
specificare nel contratto nuziale, che il castello le sarebbe rimasto
in assoluta proprietà. Le parlò in seguito del suo patrimonio con
maggior dettaglio di quel che non avesse fatto fin a quel punto.

«Le dugento doppie, ed il poco denaro che troverai nella mia borsa,
son tutto il contante che ho da lasciarti. Ti ho già detto in quale
stato sono i nostri affari col signor Motteville di Parigi. Ah figlia
mia, ti lascio povera, ma non nella miseria.»

Emilia non poteva rispondere a nulla; inginocchiata accanto al letto,
bagnava di lacrime la mano diletta che teneva ancor nelle proprie.

Dopo questo discorso, lo spirito di Sant'Aubert parve molto più
tranquillo; ma, spossato dallo sforzo fatto, cadde nel sopore. Emilia
continuò ad assisterlo ed a piangere vicino a lui, fino a che un lieve
colpo battuto alla porta della camera la costrinse a rialzarsi. Voisin
venivale a dire che dabbasso eravi un confessore del convento vicino,
pronto ad assistere suo padre; ma essa non volle che lo si svegliasse,
e fece pregare il sacerdote a non andarsene. Quando Sant'Aubert uscì
dal suo sopore, tutti i suoi sensi erano confusi; e ci volle qualche
tempo prima ch'ei riconoscesse Emilia. Allora mosse le labbra, le
stese la mano, ed essa fu dolorosamente colpita dall'impressione di
morte che osservava in tutti i suoi lineamenti. Dopo pochi minuti
ricuperò la voce, ed Emilia gli domandò se desiderava vedere un
confessore. Le rispose di sì, ed appena fu introdotto il reverendo
padre, ella si ritirò. Restarono insieme circa mezz'ora: quindi fu
richiamata Emilia, che trovò il padre più agitato, ed essa allora
guardò il confessore con alquanto risentimento, come s'egli ne fosse
stato la cagione. Il buon religioso la rimirò con dolcezza, e
Sant'Aubert, con voce tremebonda, la pregò di unire le sue preghiere a
quelle degli altri, e dimandò se il suo ospite non volesse
associarvisi. Il buon vecchio ed Agnese arrivarono amendue piangendo,
e s'inginocchiarono vicino al letto. Il reverendo padre, con voce
maestosa, recitò lentamente le preci degli agonizzanti. Sant'Aubert,
con volto sereno, si univa con fervore alla loro devozione; qualche
lacrima sfuggivagli talvolta dalle socchiuse pupille, ed i singulti di
Emilia interruppero spesso l'uffizio. Quando fu finito, e che venne
amministrata l'estrema unzione, il religioso se n'andò. Sant'Aubert
fe' segno a Voisin d'avvicinarsegli, gli porse la mano, e stette alcun
tempo in silenzio. Alfine gli disse con voce fioca:

«Mio buon amico, la nostra conoscenza fu breve, ma essa bastò per
dimostrarmi il vostro buon cuore; io non dubito che voi non
trasportiate tutta questa benevolenza su mia figlia: quando non sarò
più, essa ne avrà bisogno. L'affido alle cure vostre, pei pochi giorni
cui dee passar qui: non vi dico di più. Voi avete figli, conoscete i
sentimenti d'un padre: i miei diventerebbero penosi assai se avessi
meno fiducia in voi.»

Voisin lo rassicurò, e le lagrime attestavano la sua sincerità, che
nulla trascurerebbe per addolcire l'affanno d'Emilia, e che, s'ei lo
bramasse, l'avrebbe ricondotta in Guascogna. L'offerta gradì tanto al
moribondo, che non trovò parole ond'esprimere la propria gratitudine,
o a meglio dire che l'accettava.

«Soprattutto, Emilia cara,» ripigliò il morente, «non cedere alla
magia de' bei sentimenti: gli è l'errore d'uno spirito amabile; ma
quelli che posseggono una vera sensibilità, debbon sapere di buon'ora
quant'ella sia cosa pericolosa; è dessa che tragge dalla menoma
circostanza un eccesso di guai o di piacere. Nel nostro passaggio
traverso questo mondo noi incontriamo più mali assai che godimenti; e
siccome il sentimento della pena è sempre più vivo che quello del
benessere, la nostra sensibilità ci rende vittima quando non sappiamo
moderar e contenerla.»

Emilia gli ripetè quanto i suoi consigli le fossero preziosi, e gli
promise di non dimenticarli mai e cercare di approfittarne.
Sant'Aubert le sorrise con affetto e tristezza insieme. «Lo ripeto,»
le disse, «io non vorrei renderti insensibile, quand'anche ne avessi
il potere; vorrei solo guarentirti dagli eccessi della sensibilità ed
insegnarti ad evitarli. È spregevolissima quella pretesa umanità che
si contenta di compiangere, nè pensa a confortare!...»

Sant'Aubert, qualche tempo dopo, parlò della signora Cheron sua
sorella.

«Bisogna ch'io t'informi,» aggiunse, «d'una circostanza interessante
per te. Noi abbiamo avuto, lo sai, pochissimi rapporti con lei, ma è
la sola parente che hai: ho creduto conveniente, come vedrai nel mio
testamento, di affidarti alle sue cure sino all'età maggiorenne: essa
non è veramente la persona alla quale avrei voluto rimettere la mia
cara Emilia, ma non aveva altra alternativa, e la credo in fondo poi
una buona donna; non ho d'uopo, figliuola, di raccomandarti d'usar la
prudenza per conciliarti le sue buone grazie: lo farai del certo in
memoria di chi l'ha tentato tante volte per te.»

Emilia protestò che quant'egli le raccomandava sarebbe religiosamente
eseguito. «Aimè!» soggiunse affogata dai singhiozzi; «ecco in breve
quanto mi rimarrà; sarà la mia unica consolazione il compiere
esattamente tutti i vostri desiderii.»

La fanciulla non potea che ascoltare e piangere, ma la calma estrema
del padre, la fede, la speranza cui dimostrava, lenivano alquanto la
di lei disperazione. Nondimeno, essa vedeva quella figura scomposta,
que' segni precursori di morte, quegli occhi infossati, e sempre fissi
in lei, quelle pupille pesanti e preste a chiudersi: avea il cuore
lacerato, e non poteva esprimersi. Ei volle darle ancora una volta la
benedizione. «Dove sei, cara mia?» disse egli allungando debolmente le
mani verso di lei.

Emilia era rivolta dalla parte della finestra per nascondere la sua
inesprimibile afflizione; ma comprese allora ch'egli non ci vedeva
più: le impartì la sua benedizione, che parve l'ultimo sforzo della
sua vita spirante, e ricadde sul guanciale; essa lo baciò in fronte;
il freddo sudore della morte gl'innondava le tempie; e dimenticando
tutto il suo coraggio, gliele irrigò di lagrime. Il morente aprì gli
occhi; egli esisteva ancora, ma erano gli ultimi sforzi della natura
affralita, ed in breve la sua anima volò innanzi al Supremo Motore.

Emilia fu strappata a viva forza da quella camera da Voisin e da sua
figlia, che procurarono di calmare il suo dolore; il vecchio piangeva
con lei, ma i soccorsi di Agnese erano più opportuni.



CAPITOLO VIII


Il buon religioso della mattina ritornò la sera per consolare Emilia,
e le portò l'invito dell'abbadessa di un convento vicino al suo di
recarsi da lei. La fanciulla non accettò l'offerta, ma rispose con
molta riconoscenza. La pia conversazione del confessore, la dolcezza
delle sue maniere, che somigliavano a quelle del defunto padre,
calmarono un poco la violenza dei suoi trasporti: innalzò il cuore
all'Ente Supremo, presente da per tutto.--Relativamente a
Dio,--pensava Emilia,--il mio dilettissimo padre esiste come ieri
esisteva per me: egli non è morto che per me; per Dio, per lui,
veramente esiste.--

Ritirata nella sua cameretta, i suoi pensieri malinconici vagarono
ancora intorno al padre. Immersa in una specie di sonno, imagini
lugubri offuscaronle l'immaginazione. Sognò di vedere il genitore
accostarsele con benevolo contegno. D'improvviso, sorrise mesto, alzò
gli occhi, aprì le labbra; ma invece delle sue parole, udì una musica
soave, trasportata sull'aere a grandissima distanza. Vide allora tutti
i suoi lineamenti animarsi nella beata estasi d'un ente superiore:
l'armonia diventava più forte; essa si destò. Il sogno era finito, ma
la musica durava ancora, ed era una musica celeste.

Tese l'orecchio, e si sentì agghiacciata da superstizioso rispetto: le
lagrime cessarono, si alzò, ed affacciossi alla finestra. Tutto era
oscuro, ma Emilia, distogliendo gli occhi dalle tetre selve che
frastagliavan l'orizzonte, vide a manca quell'astro brillante
ond'avea favellato il vecchio, e che trovavasi al di sopra del bosco.
Ricordossi quanto avea detto, e siccome la musica agitava l'aere ad
intervalli, aprì la finestra per ascoltar la dolce armonia, la quale
poco dopo andò affievolendosi, ed essa tentò indarno scoprire donde
partisse. La notte non le permise di nulla distinguere sul prato
sottoposto, ed i suoni diventando successivamente più fiochi e soavi,
cessero alfine il luogo ad un assoluto silenzio...

Il giorno dipoi essa ricevè un nuovo invito dalla badessa; Emilia che
non poteva risolversi ad abbandonare la casuccia finchè vi riposava il
cadavere del padre, acconsentì con ripugnanza di andare quella
medesima sera a rassegnarle il suo rispetto. Un'ora circa avanti il
tramonto del sole, Voisin le servì di guida, e la condusse al convento
traversando il bosco. Questo convento era situato, al par di quello
dei frati di cui abbiam parlato, all'estremità di un piccolo golfo del
Mediterraneo. Se Emilia fosse stata meno infelice, avrebbe ammirato la
bella vista di un immenso mare, che si scopriva da un colle, sul quale
sorgeva l'edificio; essa avrebbe contemplato quelle ricche spiaggie
coperte d'alberi e di pasture, ma le sue idee erano fisse in un solo
pensiero, e la natura non aveva ai suoi occhi nè forma, nè colore.
Mentre passava per l'antica porta del convento la campana suonò a
vespro, e le parve il primo tocco del funerale del padre. I più
leggeri incidenti bastano per alterare uno spirito infiacchito dal
dolore. Emilia superò la crisi penosa, da cui era agitata, e si lasciò
condurre dalla badessa, la quale la ricevè con materna bontà. La di
lei fisonomia interessante, i suoi sguardi benigni, penetrarono Emilia
di riconoscenza; avea gli occhi pieni di lacrime, e non poteva
parlare. La badessa la fece sedere vicino a lei e l'osservò in
silenzio, mentre essa cercava di asciugare le lacrime. «Calmatevi,
figliola,» le disse ella con voce affettuosa; «non parlate, io
v'intendo, voi avete bisogno di riposo. Noi andiamo alla preghiera;
volete accompagnarci? è una consolazione, fanciulla cara, il poter
deporre i propri affanni in seno del nostro Padre celeste: egli ci
vede, ci compiange, e ci castiga nella sua misericordia.»

Emilia versò nuove lacrime, ma le più dolci emozioni ne mitigarono
l'amarezza. La badessa la lasciò piangere senza interromperla,
guardandola con quell'aria di bontà che pareva indicare l'attitudine
di un angelo custode; Emilia divenne più tranquilla, parlando
francamente, spiegò i suoi motivi di non lasciare l'abitazione di
Voisin.

La badessa approvò i di lei sentimenti ed il suo rispetto figliale, ma
l'invitò a passare qualche giorno al convento, prima di ritornare al
suo castello. «Procurate di distrarvi, figlia mia,» le disse ella,
«per rimettervi un poco da questa scossa, prima di arrischiarne una
seconda; non vi dissimulerò quanto il vostro cuore si sentirà lacerare
alla vista del teatro della vostra passata felicità; qui voi troverete
tutte le consolazioni che possono offrire la pace, l'amicizia e la
religione; ma venite,» soggiunse vedendo che gli occhi le si
riempivano di lacrime, «venite, scendiamo in cappella.»

Emilia la seguì in una sala, ov'erano già riunite tutte le monache; la
badessa la presentò dicendo: «È una giovane per la quale ho molta
considerazione; trattatela come vostra sorella.» Andarono tutte
insieme alla cappella, e l'edificante devozione colla quale fu
recitato l'uffizio divino, elevò lo spirito di Emilia alle
consolazioni della fede e d'una perfetta rassegnazione.

L'ora era già avanzata, quando la badessa acconsentì a lasciarla
partire. Ella uscì dal convento meno oppressa di quando v'era entrata,
e fu ricondotta a casa da Voisin. Essa lo seguiva pensierosa in un
sentieruzzo poco battuto, quando d'improvviso la sua guida si fermò,
guardossi intorno, gettossi fuor del sentiero nello scopeto, dicendo
d'avere smarrita la strada; camminava con molta velocità. Emilia, che
non poteva seguirlo in un terreno lubrico e nella oscurità, restava a
gran distanza, e fu costretta di chiamarlo: egli non voleva fermarsi,
e l'invitava ad accelerare il passo con ruvidezza.

«Se voi non siete certo della vostra strada,» disse Emilia, «non
sarebbe meglio indirizzarvi a quel gran castello che scorgo là fra gli
alberi?

--No,» disse Voisin, «non ne vale la pena: quando saremo a quel
ruscello dove voi vedete splendere un lume al di là del bosco, noi
saremo a casa. Non capisco come ho potuto fare a smarrirmi: sarà forse
perchè vengo rare volte da queste parti dopo il tramonto del sole.

--È un luogo molto solitario,» disse Emilia. «Ma però non ci sono
assassini?

--No, signorina, non ve ne sono.

--Cosa è dunque che vi spaventa tanto, amico mio? Sareste mai
superstizioso?

--No, non lo sono; ma, per dirvi la verità, signorina, nessuno ama
trovarsi la notte nelle vicinanze di quel castello.

--Da chi è dunque abitato per crederlo così formidabile?

--Oh! signorina, se almeno fosse abitato! Il signor marchese è morto,
come vi dissi; non ci era venuto da molti anni, ed i suoi servitori si
sono ritirati in una casuccia poco lontana.»

Emilia comprese allora che il castello era quello di cui aveva già
parlato Voisin, e che aveva appartenuto al marchese di Villeroy, la
cui morte aveva tanto sorpreso il di lei padre.

«Ah,» disse Voisin; «com'esso è desolato! Era pure una bella casa; che
bella situazione! quando me ne ricordo...»

Emilia gli domandò il motivo di quel terribile cambiamento. Il vecchio
taceva, ed essa, colpita dallo spavento ch'egli manifestava, occupata
soprattutto dall'interesse manifestato da suo padre, ripetè la
domanda, ed aggiunse: Se non sono gli abitanti che vi spaventano, e se
non siete superstizioso, per qual ragione dunque, amico mio, non avete
il coraggio di avvicinarvi la sera a quel castello?

--Ebbene dunque, signorina, sarò forse un poco superstizioso, ma se ne
sapeste la vera cagione, potreste divenirlo anche voi. Sono accadute
colà cose stranissime; il vostro buon padre pareva aver conosciuto la
marchesa.

--Ditemi, vi prego, cos'è accaduto?» gli disse Emilia molto commossa.

--Oimè!» rispose Voisin; «non mi domandate di più; i segreti domestici
del mio padrone devono essere sempre sacri per me.»

Emilia, sorpresa da quest'ultima espressione, e sopratutto dal tuono
di voce con cui avevala pronunziata, non volle fare ulteriori domande.
Un interesse più vivo, l'imagine di Sant'Aubert, occupava allora tutti
i suoi pensieri, ella si rammentò la musica della notte precedente, e
ne parlò a Voisin. «Voi non siete stata la sola,» le diss'egli; «l'ho
udita anch'io; ma ciò m'accade così spesso a quell'ora, che non ci
bado più.

--Voi credete al certo,» disse Emilia, «che questa musica abbia
rapporti col castello, ed ecco perchè siete superstizioso, n'è vero?

--Può essere signorina; ma vi sono altre circostanze relative a quel
castello, e delle quali io conservo tristamente la memoria.»

Queste parole furono accompagnate da un profondo sospiro, e la
delicatezza di Emilia trattenne la curiosità, che le avevano destato
quei detti misteriosi.

Tornata a casa, la sua disperazione ricominciò: pareva che non ne
avesse sospeso il corso se non perdendo momentaneamente di vista colui
che ne formava il soggetto; andò tosto a contemplare la salma del
padre, e cedè a tutti i trasporti di un dolore senza speranza. Voisin
avendola finalmente decisa di allontanarsene, se ne tornò nella sua
camera. Oppressa dalle fatiche del giorno, si addormentò
immediatamente, e quando si svegliò trovossi molto più sollevata.

Sant'Aubert aveva domandato di essere sepolto nella chiesa delle
monache di Santa Chiara; aveva scelta la cappella settentrionale,
prossima alla sepoltura dei marchesi di Villeroy, e ne aveva indicato
il posto. Il superiore vi acconsentì, e la processione funebre
s'incamminò a quella volta. Il venerando padre, seguito da molti
preti, venne a riceverla alla porta. Il canto del _Miserere_, il suono
dell'organo, che rimbombò in chiesa quando vi entrò la bara, i passi
vacillanti, e l'aria abbattuta di Emilia, avrebbero strappato le
lacrime ai cuori più duri; ma essa non ne versò neppur una. Colla
faccia semicoperta da un velo nero, camminava in mezzo a due persone
che la sorreggevano; la badessa la precedeva, le monache la seguivano,
ed il lamentoso loro canto faceva eco a quello lugubre del coro.
Quando la processione fu giunta al sepolcro, Emilia abbassò il velo, e
nell'intervallo dei canti si distinsero facilmente i di lei singulti.
Il reverendo sacerdote cominciò la messa, ed Emilia riescì a frenarsi
alquanto, ma quando il cadavere fu deposto nella tomba, quando udì
gettar la terra che dovea ricoprirlo, le sfuggì un fioco gemito, e
cadde in braccio alla persona che la sosteneva; ma si rimise
prontamente, e potè intendere quelle parole sublimi:--_Il suo corpo
riposa in pace, e l'anima è tornata a Chi glie l'ha data._--La sua
disperazione allora fu sollevata da un diluvio di lacrime.

La badessa la fece uscire di chiesa, la condusse nel suo appartamento,
e le offrì tutti i soccorsi della santa religione e di una tenera
pietà. La fanciulla facea sforzi per vincere la sua debolezza; ma la
superiora, la quale l'osservava attenta, le fece preparare un letto e
la indusse al riposo. Reclamò con bontà la promessa fatta da lei di
passar qualche giorno al convento. Emilia, cui nulla più richiamava
alla capanna, teatro del suo infortunio, ebbe agio allora di
considerar la sua posizione, e si sentì incapace di ripartire
immediatamente.

Intanto la bontà materna della badessa e le dolci attenzioni delle
monache nulla risparmiavan per calmare il di lei spirito e restituirla
in salute; ma essa avea provato scosse troppo violente per
ristabilirsi presto: fu adunque per parecchie settimane colta da lenta
febbre, e cadde in uno stato di languore. S'affligea di lasciar la
tomba dove riposavano le ceneri del padre; si lusingava che, se moriva
colà, sarebbe a lui riunita. Intanto, Emilia scrisse alla signora
Cheron sua zia ed alla sua vecchia governante per partecipar loro
l'accaduto, ed informarle della sua situazione. Mentre l'orfanella
stava in convento, la pace interna di quell'asilo, la bellezza de'
dintorni, le attenzioni della superiora e delle monache fecero su lei
un effetto sì attraente, che fu quasi tentata di separarsi dal mondo;
essa avea perduto i suoi più cari amici, voleva chiudersi in quel
chiostro, in un soggiorno che il sepolcro del padre rendeale sacro in
sempiterno. L'entusiasmo del suo pensiero, ch'erale quasi naturale,
avea sparso una vernice sì patetica sul santo ritiro d'una monaca,
ch'ell'avea quasi smarrito di vista il vero egoismo che lo produce. Ma
i colori che un'imaginazione malinconica, lievemente imbevuta di
superstizione, prestava alla vita monastica, svanirono a poco a poco,
quando le tornarono le forze, e ricondussero un'imagine ch'erane stata
bandita soltanto passaggiermente. Tale memoria richiamolla
tacitamente alla speranza, alla consolazione, ai più dolci sentimenti;
bagliori di felicità mostraronsi da lunge, e benchè non ignorasse a
qual punto potevano esser fallaci, non volle privarsene. Dopo parecchi
giorni, ricevè una risposta dalla sua zia, gonfia di espressioni
comuni di condoglianza, ma non d'un vero dolore; le annunziava che una
persona da lei incaricata sarebbe andata a prenderla per ricondurla al
castello della valle, giacchè le di lei occupazioni non le
permettevano d'intraprendere un sì lungo viaggio. Sebbene Emilia
preferisse la sua valle a Tolosa, fu nonostante colpita da una
condotta così poco delicata e sconveniente. La zia permetteva ch'ella
ritornasse al suo castello senza parenti e senza amici per consolarla
e per difenderla; e questa condotta diveniva tanto più colpevole, in
quanto che suo padre moribondo aveva affidata la derelitta figliuola
alle cure della sorella, com'essa l'aveva avvisata nella lettera
scrittale.

Passarono alcuni giorni dall'arrivo dell'inviato della signora Cheron
all'epoca in cui Emilia fu in grado di partire. La sera precedente
alla sua partenza, andò a casa di Voisin per congedarsi da quella
buona famiglia, ed attestarle la sua riconoscenza: trovò il buon
vecchio assiso sulla porta, fra la figlia ed il genero, che, riposando
in quel momento dai lavori della giornata, suonava una specie di
flauto somigliante ad una zampogna. Essi avevano innanzi a sè
imbandita una piccola mensa ben provvista di pane, frutti e vino; i
ragazzi, tutti belli e pieni di salute, godevano intorno alla tavola
della refezione che lor veniva distribuita con indicibile affetto dai
genitori. Emilia si fermò un momento prima di avvicinarsi,
contemplando il quadro interessante di quella buona gente; essa
guardava attentamente quel vecchio rispettabile, e girando gli occhi
sulla casa, l'immagine del padre le rammentò tutto l'orrore della sua
situazione. Disse addio a tutta la famiglia con un'espressione la più
tenera e sensibile; Voisin l'amava come sua figlia e versava lacrime.
Emilia piangeva; evitò di entrare nella casetta, che le avrebbe
rinnovato impressioni troppo dolorose, e partì.

Tornata al convento, ella si decise di visitare ancora una volta la
tomba del padre. Avendo inteso che un andito sotterraneo conduceva a
quei sepolcri, aspettò che tutti fossero in letto, eccettuato una
monaca che le aveva promessa la chiave della chiesa. Emilia restò in
camera finchè l'orologio suonò mezzanotte, ed allora giunse la monaca
colla chiave promessa. Scesero insieme una scaletta a chiocciola; la
monaca si offrì di accompagnarla fino al sepolcro, aggiungendo
spiacerle il lasciarla andar sola a quell'ora; ma Emilia la ringraziò,
e non potè acconsentire di avere un testimonio del suo dolore. La
buona religiosa aprì una porticina e le porse il lume. Emilia la
ringraziò, si avanzò nella chiesa, e suora Maria si ritirò. Assalita
da improvviso terrore, la fanciulla si riavvicinò alla porta, ed era
tentata di richiamarla, ma al momento stesso, vergognandosi del suo
timore, si avanzò nuovamente. L'aria fredda e umida di quel luogo, il
cupo silenzio che vi regnava, e un fioco raggio di luna che traversava
una finestra gotica, avrebbero senza dubbio risvegliata in chiunque la
superstizione; ma essa in quel punto non aveva altro pensiero che il
suo dolore. Tutto ad un tratto le parve vedere un'ombra fra le
colonne; si fermò, ma non avendo udito i passi di alcuno, conobbe
esser l'effetto della sua imaginazione alterata. Sant'Aubert era
sepolto in un'urna semplicissima, la quale non portava altra
iscrizione fuor del suo nome e cognome, la data della nascita e quella
della morte, ed era situata al piè del pomposo mausoleo de' Villeroy.
Emilia vi si trattenne in orazione finchè la campana del mattutino
l'avvertì esser tempo di ritirarsi. Versò ancora qualche lacrima,
baciò il prezioso sarcofago, e se ne tornò in camera abbandonando un
luogo così tristo. Dopo quel momento di effusione gustò di un sonno
tranquillo; svegliandosi, si sentì lo spirito più calmo, e parve più
rassegnata di quello fosse stata dopo la morte del padre.

Giunto il momento della partenza, tutto il suo dolore si rinnovò; la
memoria di suo padre nella tomba, e la bontà di tante persone viventi,
l'affezionavano a quella dimora; ella sembrava provare, per il luogo
ove riposava Sant'Aubert, quella tenera affezione che si risente per
la patria. La badessa, nel separarsi da lei, le diede tutte le più
sensibili testimonianze di attaccamento, e l'impegnò a tornare, se
altrove non avesse incontrata quella considerazione, che dovea
aspettarsi. Le altre monache le esternarono i più vivi rammarici; alla
perfine lasciò il convento colle lacrime agli occhi, portando seco
l'affetto ed i voti di tutte le persone che vi restavano.

Aveva già percorso un lungo tratto di paese prima che il magnifico
spettacolo, che si offeriva alla sua vista, potesse distrarla. Assorta
nella malinconia, non notò tanti oggetti incantevoli se non per
rammentarsi meglio il padre perduto. Sant'Aubert trovavasi con lei
quando prima li aveva veduti, e le di lui osservazioni su di essi le
tornavano alla memoria. Quel giorno passò nel languore e
nell'abbattimento; la notte essa dormì sulla frontiera della
Linguadoca, ed il dì successivo entrò in Guascogna.

Al tramontar del sole, Emilia si trovò nelle vicinanze della valle
tutti quei luoghi che conosceva sì bene, richiamandola a rimembranze
che le straziavano il cuore, ridestarono tutta la sua tenerezza ed il
suo dolore; guardava piangendo le vette dei Pirenei colorite allora
dalle più belle e vaghe tinte del tramonto. «Là,» sclamava essa, «là
sono quelle medesime grotte; ecco là il medesimo bosco di abeti
ch'egli guardava con tanta compiacenza quando passammo insieme da quei
luoghi! Ecco là quella capanna sull'ameno colle del quale mi aveva
fatto disegnare la veduta. Oh! padre mio, io non vi vedrò mai più.»

La strada ad una svolta le lasciò scorgere il castello in mezzo a quel
magnifico paesaggio; i fumaiuoli, imporporati dall'occaso, sorgevan
dietro le piantagioni favorite di Sant'Aubert, il cui fogliame celava
le parti basse dell'edifizio. Emilia non potè reprimere un profondo
sospiro.--Quest'ora, pensava ella, era pure la sua ora prediletta.--E
vedendo il paese sul quale allungavansi le ombre: «Qual quiete!»
sclamava; «qual deliziosa scena! tutto è tranquillo, tutto è amabile,
aimè! come già un tempo!»

Ella resisteva ancora al peso terribile del suo dolore, quando udì la
musica dei balli campestri che bene spesso aveva osservati
passeggiando col padre sulle fiorite sponde della Garonna. Allora
pianse amaramente fino al momento in cui si fermò la carrozza. Alzò
gli occhi, e riconobbe la sua vecchia governante che apriva la porta
della casa. Il cane di suo padre veniva festoso incontro di lei, e
quando fu discesa la colmò di carezze; lo che aumentò il di lei vivo
dolore.

«Mia cara padroncina...» le disse Teresa, e poi si fermò; le lacrime
di Emilia le impedivano di replicare; il cane saltellava intorno a
lei; di repente corse alla carrozza. «Ah! signora Emilia, povero il
mio padrone!» sclamò Teresa; «il suo cane è andato a cercarlo.»

Emilia singhiozzò vedendo quell'animale amoroso saltare in carrozza,
scendere, fiutare, e cercare con inquietudine.

«Venite mia cara signorina,» disse Teresa, «andiamo; che cosa potrò io
darvi per rinfrescarvi?»

Emilia prese la mano della governante, sforzandosi di moderare il suo
dolore, con interrogazioni sullo stato della di lei salute. Camminava
lentamente verso la porta, si fermava, faceva un passo, e si fermava
di nuovo. Qual silenzio! Qual abbandono, qual morte in quel castello!
Temendo di rientrarvi, e rimproverandosi le sue esitanze, traversò
rapidamente la sala, come se avesse temuto di guardarsi intorno, ed
aprì il gabinetto che altre volte chiamava il _suo_. L'imbrunir della
sera dava qualcosa di solenne al disordine di quel luogo: le sedie, i
tavolini, e tutti gli altri mobili, che in tempi più felici osservava
appena, parlavano allora troppo eloquentemente al suo cuore; ella
sedette vicino ad una finestra che guardava sul giardino, d'onde, in
compagnia del padre, aveva spesso contemplato l'effetto maraviglioso
del sole all'occaso. Non si contenne più e si trovò sollevata da
quello sfogo.

«Vi ho preparato il letto verde,» disse Teresa portandole il caffè;
«ho creduto che ora lo preferireste al vostro. Non avrei mai creduto
che aveste a tornar sola. Qual giorno, gran Dio! La nuova, quando la
ricevetti, mi trapassò il cuore: chi l'avrebbe detto, quando partì il
mio povero padrone, che non doveva tornare mai più?»

Emilia si coprì la faccia col fazzoletto, e le accennò di tacere e
partirsene.

La fanciulla rimase alcun tempo immersa in alta mestizia; non vedea un
solo oggetto che non le ravvivasse il suo dolore: le piante favorite
di Sant'Aubert, i libri scelti per lei, e cui leggevano spesso
insieme, gli strumenti musicali onde amava tanto l'armonia e che
suonava egli medesimo. Alla fine, fattasi coraggio, volle vedere
l'appartamento abbandonato; sentì che la sua pena sarebbe aumentata se
differiva.

Traversò il cortile, ma il coraggio le venne meno nell'aprir la
biblioteca; forse l'oscurità che la sera ed il fogliame diffondevano
intorno accresceva il religioso effetto di quel luogo, dove tutto le
parlava del padre. Scorse la sedia nella quale si poneva: rimase
interdetta a tal vista, ed immaginossi quasi averlo visto in persona
dinanzi a lei. Cercò scacciare le illusioni d'un'immaginazione
turbata, ma non potè astenersi da un certo rispettoso terrore che
mescolavasi alle sue emozioni. Inoltrò pian piano verso la sedia e vi
s'assise; avea presso un leggìo, su cui stava un libro che suo padre
non avea chiuso; riconoscendo la pagina aperta, rammentossi che la
vigilia della sua partenza Sant'Aubert aveagliene letto qualcosa: era
il suo autore favorito. Guardò il foglio, pianse, e tornò a guardarlo:
quel libro era sacro per lei; essa non avrebbe chiusa la pagina aperta
per tutti i tesori del mondo; ristette dinanzi al leggìo, non potendo
risolversi a lasciarlo.

In mezzo ai suoi tristi pensieri, vide la porta aprirsi lentamente; un
suono cui udì in fondo alla stanza, la fece trabalzare; credette
scorgere qualche movimento. Il subietto della sua meditazione,
l'abbattimento de' suoi spiriti, l'agitazione de' sensi le cagionarono
un repentino terrore; s'aspettò qualcosa di sovrannaturale. Ma la
ragione vincendo la paura: «Di che ho io a temere?» disse; «se le
anime di coloro che amiamo compariscono, non può essere che pel nostro
meglio.»

Il silenzio che regnava la fece vergognare del suo timore; frattanto
il medesimo suono ricominciò; distinguendo qualcosa intorno a lei, che
venne ad urtar leggermente la sua sedia, gettò un grido, ma non potè
nel tempo stesso trattenersi dal sorridere con un po' di confusione,
riconoscendo il buon cane che si accucciava vicino a lei, e le lambiva
le mani. Emilia, non trovandosi in grado quella sera di visitare tutto
il castello, uscì ed andò a passeggiare in giardino, sul terrazzo
sovrastante al fiume. Il sole era tramontato, ma sotto i fronzuti rami
de' mandorli distinguevansi le strisce di fuoco che indoravano il
crepuscolo. La fanciulla si avvicinò al platano favorito, ove
Sant'Aubert sedeva spesso vicino a lei, e dove la sua tenera madre le
aveva tante volte parlato delle delizie della vita futura; quante
volte ben anco suo padre aveva trovato conforto nell'idea di una
eterna riunione! Oppressa da tale rimembranza, lasciò il platano, ed
appoggiandosi al muro del terrazzo, vide un gruppo di contadini che
ballavano allegramente sulle rive della Garonna, la cui vasta
estensione rifletteva gli ultimi raggi del dì. Qual doloroso contrasto
per la povera Emilia, infelice e desolata! Si voltò, ma oimè! dove
poteva essa andare senza incontrar ad ogni passo oggetti fatti per
aggravare il suo dolore? se ne tornava lentamente a casa quando
incontrò Teresa, la quale sgridolla dolcemente di esporsi sola in
giardino ed a quell'ora, dove non poteva ricevere alcuna consolante
assistenza nello stato penoso in cui si trovava.

«Ve ne prego, Teresa, lasciatemi tranquilla,» disse Emilia; «la vostra
intenzione è ottima, ma l'eloquenza è male adattata in questo momento.

--Intanto la cena è preparata,» rispose la governante.

--Non posso mangiare,» disse Emilia.

--Fate malissimo, mia cara padrona, bisogna nutrirsi. Vi ho preparato
un fagiano, che m'ha mandato stamattina il signor Barreaux: avendolo
incontrato ieri, gli dissi che vi aspettava; vi giuro che non ho mai
veduto un uomo più afflitto di lui, quando gli diedi la trista
nuova...»

Emilia, malgrado tutte le premure di Teresa, non volle mangiare, e si
ritirò nella sua camera.

Qualche giorno appresso ricevè lettere di sua zia. La signora Cheron,
dopo alcune espressioni di consolazione e di consiglio, la invitava ad
andare a Tolosa, aggiungendo che il defunto fratello avendole affidata
la sua educazione, si credeva in obbligo d'invigilare sopra di lei.
Emilia avrebbe preferito di restare alla valle; essendo esso l'asilo
della sua infanzia ed il soggiorno di coloro che aveva perduti per
sempre, poteva piangerli liberamente senza essere molestata da alcuno;
ma desiderava parimenti non dispiacere alla sola parente che le
restava.

Quantunque la di lei tenerezza non le permettesse di dubitare un
istante sulle ragioni che avevano determinato Sant'Aubert a fare
questa scelta, Emilia comprendeva benissimo che la sua felicità andava
ad essere esposta ai capricci della zia. Rispondendole, ella chiese il
permesso di restare ancora qualche tempo nella valle, allegando il suo
estremo abbattimento, ed il bisogno che aveva di riposo e di
solitudine, per ristabilirsi dai dispiaceri sofferti; sapeva benissimo
che i di lei gusti differivano assai da quelli di sua zia, la quale
amava la dissipazione, e le sue ricchezze le permettevano di goderne.
Dopo avere scritta questa lettera, Emilia si sentì più sollevata.

Ricevè la visita di Barreaux, il quale compiangeva sinceramente la
perdita dell'amico.

«Non posso rammentarmene senza il più vivo interesse,» diceva egli;
«io non troverò alcuno che lo somigli. Se avessi incontrato un uomo
solo come lui nel mondo, non ci avrei rinunciato.»

L'affezione di Barreaux per Sant'Aubert lo rendeva estremamente caro
ad Emilia; la di lei maggior consolazione consisteva nel parlare de'
suoi genitori con un uomo che stimava moltissimo, e che, sotto un
esteriore poco gradevole, nascondeva un cuore tanto sensibile ed uno
spirito così coltivato.

Scorsero parecchie settimane, ed Emilia nel suo pacifico ritiro passò
gradatamente dal dolore ad una dolce malinconia; poteva già leggere, e
leggere perfino i libri che aveva percorsi col padre, sedere al suo
posto nella biblioteca, inaffiare i fiori da lui piantati, suonare il
pianoforte, e cantare di tempo in tempo qualcuna delle sue arie
favorite.

Quando il suo spirito fu un poco rimesso da questa prima scossa,
comprese il pericolo di cedere all'indolenza, e pensando che
un'attività sostenuta avrebbe potuto restituirle la forza, si attaccò
scrupolosamente ad impiegare con metodo tutte le ore del giorno.
Allora conobbe più che mai il pregio dell'educazione ricevuta.
Coltivando la di lei mente, Sant'Aubert le aveva assicurato un rifugio
contro l'ozio e la noia. La dissipazione, i brillanti divertimenti e
le distrazioni della società da cui separavala la sua posizione
attuale, non eranle punto necessari. Ma, nel tempo medesimo, il padre
aveva sviluppato le preziose qualità del suo spirito; spargendo le sue
beneficenze intorno a sè, con la bontà e la compassione addolciva i
mali di coloro che non poteva alleviare coi soccorsi; in una parola,
sapeva compatire tutti gli esseri che si trovavano vittima dei mali
inseparabili della vita umana.

Non ricevendo nessuna risposta dalla Cheron, Emilia cominciava a
lusingarsi di poter prolungare il suo soggiorno nella valle; e
sentendosi bastantemente in forza, si arrischiò a visitare quei
luoghi, ove il passato rappresentavasi più vivamente al di lei
spirito; recossi dunque alla peschiera, e per aumentare la malinconia,
che tanto le piaceva, portò seco il liuto, e vi andò in una di quelle
ore della sera che tanto si affanno all'immaginazione e al cuore:
quando la fanciulla fu tra i boschi e vicina a quel luogo delizioso,
si fermò, appoggiossi contro un albero, e pianse qualche minuto prima
di avanzarsi. La stradella che menava al padiglione era allora tutta
ingombra di erbe; i fiori seminati da suo padre sui margini, ne
parevan quasi soffocati; le ortiche, il caprifoglio crescevano a
cespi; ed ella osservava tristamente quella passeggiata negletta; ove
tutto annunziava il disordine e la noncuranza, aprì la porta
tremando. «Ah!» disse; «ogni cosa è al suo posto come ve la lasciai
quando ci stava in compagnia di chi non rivredrò mai più.» Se ne stava
ella così pensierosa, senza riflettere ch'era imminente la notte, e
che gli ultimi raggi del sole indoravano già la cima de' monti;
sarebbe rimasta senza dubbio più a lungo in quella situazione, se non
fosse stata risvegliata da un rumore di passi dietro l'edifizio. Poco
dopo fu aperta la porta, comparve uno straniero, e stupefatto di
vedere Emilia, la supplicò di scusare la sua indiscretezza. Al suono
di quella voce, svanì il timore di lei, ma crebbe la sua commozione.
Quella erale famigliare, e sebbene non potesse riconoscerne l'oggetto,
la memoria le serviva troppo bene perch'ella conservasse paura.

L'ignoto ripetè le sue scuse. Emilia rispose qualche parola, ed allora
avanzandosi esso con vivacità, esclamò: «Gran Dio! è mai possibile?
Certo, io non m'inganno, è la signorina Sant'Aubert.

--È vero,» disse Emilia, riconoscendo Valancourt, la cui fisonomia
sembrava molto animata. Mille rimembranze penose rinnovarono le sue
tristi afflizioni, e lo sforzo che fece per contenersi, non servì se
non ad agitarla davvantaggio. Valancourt intanto s'informava
premurosamente della salute di Sant'Aubert. Un torrente di lacrime gli
fece conoscere pur troppo la fatal notizia. Egli la condusse ad una
sedia, e si assise vicino a lei che continuava a piangere, mentre il
giovane teneva una mano stretta fra le sue.

«Io so,» disse finalmente, «quanto in simili casi sono inutili le
consolazioni: dopo una sì gran disgrazia, non posso che affliggermi
con voi.»

Quando Valancourt intese che Sant'Aubert era morto in viaggio, ed
aveva lasciato Emilia in mano a persone estranee, esclamò
involontariamente: «Dov'era io?» quindi mutò discorso, e parlò di sè
medesimo. Le raccontò che, dopo la loro separazione, aveva errato
qualche giorno sulla riva del mare, ed era tornato in Guascogna
passando per la Linguadoca.

Dopo questa breve narrazione, egli tacque: Emilia non era disposta a
riprendere la parola, e s'incamminarono verso il castello. Quando
furono giunti alla porta, egli si fermò come se avesse creduto di non
dover andar più oltre; disse ad Emilia che contando recarsi il giorno
seguente ad Estuvière, domandava il permesso di venire a congedarsi da
lei, ed essa non ebbe coraggio di negarglielo.

Giunta la notte, non potè prender sonno, essendo più che mai occupata
dalla memoria del padre. Rammentandosi in qual maniera precisa e
solenne le aveva ordinato di bruciare le sue carte, rimproverò a sè
stessa di non avere obbedito più presto, e decise di riparar la domane
a questa negligenza.



CAPITOLO IX


La mattina seguente, Emilia fece accendere il fuoco nella camera da
letto del padre, e vi andò ond'eseguire scrupolosamente i di lui
ordini: chiuse la porta per non essere sorpresa, ed aprì il gabinetto
dov'erano i manoscritti; là, in un canto, presso un seggiolone, eravi
il medesimo tavolino ove avea veduto assiso il padre la notte
precedente alla loro partenza, ed essa non dubitò più che le carte di
cui le aveva parlato, non fossero quelle stesse la cui lettura gli
cagionava allora tanta emozione. La vita solitaria vissuta da Emilia,
i malinconici subietti de' suoi consueti pensieri avevanla resa
suscettibile di credere a spettri e fantasime. Era in ispecie
passeggiando la sera in una casa deserta, ch'ella avea rabbrividito
più volte a pretese apparizioni, che non l'avrebbero mai colpita
quand'era felice: tal fu la causa dell'effetto da lei provato,
allorchè, alzando gli occhi per la seconda volta sulla sedia posta in
un canto oscuro, vi scorse l'imagine del genitore. Fu colta da
terrore, ed uscì a precipizio. Poco stante rimproverossi la sua
debolezza nel compiere un dovere così serio, e riaperse il gabinetto.
A tenore delle istruzioni ricevute trovò ben presto il nodo che doveva
servirle di guida: calcò col piede, e la tavola scorse da per sè sotto
la contigua. Emilia vi ritrovò il fascio di carte, la borsa dei luigi,
e qualche altro foglio sparso; prese tutto con mano tremante, richiuse
il segreto, e disponevasi a rialzarsi, quando si vide ancora dinanzi
l'imagine che l'avea spaventata: ella si precipitò nella camera, e
cadde sopra una sedia svenuta; poco dopo rinvenne, e superò in breve
quella spaventevole, ma pietosa sorpresa dell'immaginazione. Tornò
alle carte, ma avea la testa sì poco a casa, che fissò gli occhi quasi
involontariamente sopra le pagine aperte, senza pensare che
trasgrediva agli ordini formali del padre; una frase di estrema
importanza risvegliò l'attenzione e la memoria di lei. Abbandonò le
carte, ma non potè cancellare dallo spirito le parole che rianimavano
così vivamente il suo terrore e la sua curiosità; essa erane
estremamente commossa. Più meditava, e più la sua immaginazione
accendevasi. Spinta dalle più imperiose ragioni, voleva conoscere il
mistero che si nascondeva in quella frase; si pentiva del giuramento
fatto, ed arrivò perfino a dubitare di essere obbligata ad osservarlo;
ma il suo errore non fu di lunga durata.

«Ho promesso,» diss'ella, «e non devo discutere, ma obbedire:
allontaniamo una tentazione che mi renderebbe colpevole, giacchè mi
sento forza bastante per resistere.» E all'istante tutto fu arso.

Aveva lasciata la borsa sul tavolino senza aprirla; ma accorgendosi
che conteneva qualcosa di più grosso dei dobloni, si mise ad
esaminarla.

«La sua mano ve li pose,» dicea ella baciando ogni moneta ed
irrigandola di lagrime; «la sua mano, che or non è più se non fredda
polvere!»

Vi trovò in fondo un pacchettino, contenente una scatoletta d'avorio
nella quale esisteva il ritratto d'una signora. Stupì e sclamò: «È la
stessa dinanzi la quale piangeva mio padre!» Per quanto la
considerasse attentamente, non potè precisarne la somiglianza: essa
era di peregrina beltà. La sua espressione particolare era la
dolcezza, ma vi regnava un'ombra di tristezza e rassegnazione.

Sant'Aubert non le aveva prescritto nulla a proposito di questa
pittura. Emilia credè poterla conservare, e rammentandosi in qual modo
le avesse parlato della marchesa di Villeroy, s'immaginò facilmente
che quello ne fosse il ritratto: pur non sapeva comprendere per qual
ragione egli l'avesse conservato.

La fanciulla osservava la miniatura, senza comprendere l'interesse che
prendeva a contemplarla, e il movimento d'affetto e di pietà che
sentiva in sè. Ricci di capelli bruni scherzavano trascuratamente
sovra un'ampia fronte: avea il naso quasi aquilino. Le labbra
sorridevano, ma con malinconia: sollevava gli occhi cilestri al cielo
con amabil languore, e la specie di nube sparsa su tutta la sua
fisonomia parea esprimere la più viva sensibilità.

Emilia fu scossa dalla profonda meditazione in cui l'aveva gettata
quel ritratto, sentendo aprire la porta del giardino: conobbe che
Valancourt ritornava al castello, e le abbisognarono alcuni momenti
per rimettersi. Quando lo incontrò nel salotto, fu colpita dal
cambiamento della sua fisonomia dopo la loro separazione nel
Rossiglione: il dolore e l'oscurità le avevano impedito di
accorgersene la sera precedente; ma l'abbattimento di Valancourt cedè
alla gioia di vederla.

«Voi vedete,» le disse, «ch'io faccio uso del permesso da voi
accordatomi. Vengo per dirvi addio, sebbene abbia avuto la fortuna
d'incontrarvi ieri soltanto.»

Emilia sorrise debolmente, e, come imbarazzata di ciò che dovrebbe
dire, gli domandò da quanto tempo fosse tornato in Guascogna. «Vi sono
da...» disse Valancourt facendosi rosso, «dopo aver avuta la disgrazia
di separarmi da amici che mi avevano reso così delizioso il viaggio
dei Pirenei; ho fatto un giro assai lungo.»

Una lacrima scorse dagli occhi d'Emilia mentre Valancourt parlava;
egli se ne avvide e parlò di tutt'altro; lodò il castello, la sua
bella situazione ed i punti di vista che offriva. Emilia,
imbarazzatissima per quel colloquio, scelse con piacere un soggetto
indifferente. Andarono sul terrazzo, e Valancourt fu incantato dalla
vista del fiume, dei prati, e dei quadri molteplici che presentava la
Guienna.

Si appoggiò al parapetto, contemplando il rapido corso della Garonna.
«Non è molto tempo,» diss'egli, «che sono rimontato fino alla sua
sorgente; io non aveva allora la fortuna di conoscervi, poichè in tal
caso avrei dolorosamente sentita la vostra assenza.»

Il giovane tacque, e sedette accanto a lei, muto e tremante;
finalmente disse con voce interrotta: «Questo luogo delizioso....
dovrò abbandonarlo, e abbandonerò anche voi, forse per sempre.

Questi momenti possono non tornar più; non voglio perderli: soffrite
intanto che, senza offendere la vostra delicatezza e il vostro dolore,
vi esprima una volta tutta l'ammirazione, e la riconoscenza che
m'inspira la vostra bontà. Oh! se io potessi avere un giorno il
diritto di chiamare amore il vivo sentimento che...»

La commozione di Emilia non le permise di rispondere, e Valancourt,
avendo gettato gli occhi su di lei, la vide impallidire e sul punto
di venir meno: fece un moto involontario per sostenerla, e questo moto
bastò a farla rinvenire con certo quale spavento. Quando Valancourt
riprese la parola, tutto in lui, e perfino la voce, manifestava
l'amore il più tenero.

«Io non ardirei,» soggiunse egli, «parlarvi più a lungo di me: ma
questo momento crudele avrebbe meno amarezza, se potessi portar meco
la speranza, che la confessione, testè sfuggitami, non mi escluderà in
avvenire dalla vostra presenza.»

Emilia fece un nuovo sforzo per vincere la confusione delle sue idee.
Temeva di tradire il suo cuore, e di lasciar conoscere la preferenza
che accordava a Valancourt. Ella esitava a manifestare i sentimenti
ond'era animata, non ostante che il cuore ve la spingesse con molta
vivacità. Nonpertanto, riprese coraggio, per dirgli che si trovava
onorata dalla bontà d'una persona, per la quale suo padre aveva avuto
tanta stima.

«Egli mi ha dunque giudicato degno della sua stima?» disse Valancourt
con dubbiosa timidezza; poi, rimettendosi, soggiunse: «Perdonate
questa domanda; io so appena ciò che voglia dirmi. Se ardissi
lusingarmi della vostra indulgenza, se voi mi concedeste la speranza
di avere qualche volta le vostre nuove, mi separerei da voi con
maggior tranquillità.»

Dopo un momento di silenzio, Emilia rispose: «Io sarò sincera con voi;
voi vedete la mia situazione, e son certa che vi ci adatterete. Vivo
in questa casa, che fu quella del padre mio, ma ci vivo sola. Oimè! Io
non ho più genitori, la cui presenza possa autorizzare le vostre
visite...

--Non affetterò di non sentire questa verità,» disse il giovane. Poi
aggiunse tristamente: «Ma chi m'indennizzerà del sacrificio che mi
costa la mia franchezza? Almeno mi permetterete voi di presentarmi ai
vostri parenti.»

La fanciulla confusa, non sapeva che rispondere conoscendone la
difficoltà. Il suo isolamento e la sua posizione non le lasciavano un
amico del quale potesse ricevere un consiglio. La Cheron, unica sua
parente, era occupata solo de' propri piaceri, e trovavasi talmente
offesa della ripugnanza di Emilia a lasciar la valle, che sembrava non
pensar più a lei.

«Ah! io lo vedo,» disse Valancourt, dopo un lungo silenzio, «conosco
che mi sono lusingato di troppo. Voi mi credete indegno della vostra
stima. Viaggio fatalissimo! Io lo riguardava come l'epoca più
fortunata della mia vita: quei giorni deliziosi avveleneranno il mio
avvenire.»

Qui si alzò bruscamente, e passeggiando a gran passi sul terrazzo, gli
si vedeva la disperazione dipinta in volto. Emilia ne fu vivamente
commossa. I movimenti del suo cuore trionfarono della di lei
timidezza, e quando egli le fu vicino, gli disse con una voce che la
tradiva: «Voi fate torto ad amendue, quando dite ch'io vi credo
indegno della mia stima; devo confessare che la possedete da molto
tempo, e che....»

Valancourt aspettava impaziente la fine della frase, ma le parole le
spirarono sul labbro: i suoi occhi nullameno manifestavano tutte
l'emozioni del di lei cuore; Valancourt passò rapidamente
dall'imbarazzo alla gioia. «Emilia,» esclamò egli, «mia cara Emilia. O
cielo! come resistere a tanta felicità!»

Si accostò alla bocca la mano della fanciulla; essa era fredda e
tremante, e Valancourt la vide impallidire; si rimise però
prontamente, e gli disse sorridendo: «mi pare di non essere ancora
ristabilita dal colpo terribile che ha ricevuto il mio povero cuore.

--Perdonatemi,» le rispose il giovane, «io non parlerò più di ciò che
può eccitare la vostra sensibilità.» Poi, obliando la sua
risoluzione, cominciò a parlare nuovamente di sè medesimo.

«Voi non sapete,» le disse, «quanti tormenti ho sofferti vicino a voi,
quando senza dubbio, se mi onoravate d'un pensiero, voi dovevate
credermi molto lontano di qui. Non ho cessato di vagolar tutte le
notti intorno a questo castello avvolto in una profonda oscurità;
quanto m'era delizioso il sapermi vicino a voi! Godeva nell'idea che
vegliava intorno al vostro ritiro, e che voi gustavate sonno
tranquillo. Questi giardini non sono nuovi per me. Una sera scavalcai
la siepe, e passai una delle più felici ore della mia vita sotto la
finestra, che credeva la vostra.»

Emilia s'informò quanto tempo Valancourt fosse stato nel vicinato.
«Molti giorni,» rispos'egli; «io voleva profittare del permesso
accordatomi da Sant'Aubert. Non capisco com'egli avesse questa bontà,
ma sebbene lo desiderassi vivamente, quando si avvicinava il momento,
io perdeva il coraggio, e differiva la mia visita. Era alloggiato in
un villaggio poco discosto, e scorreva co' miei cani i dintorni di
questo bel paese, anelando la fortuna d'incontrarvi, senza aver
l'ardire di venire a trovarvi.»

Passarono circa due ore in questa conversazione; finalmente
Valancourt, alzandosi: «Bisogna ch'io parta,» disse tristamente, «ma
colla speranza di rivedervi, e con quella di offrire il mio rispetto e
la mia servitù ai vostri parenti. La vostra bocca mi confermi in tale
speranza.

--I miei parenti si chiameranno fortunatissimi di far la conoscenza
d'un antico amico del padre mio.»

Valancourt le baciò la mano, e restarono immobili senza potersi
allontanare. Emilia taceva, teneva gli occhi bassi, e quelli di
Valancourt stavano fissi in lei. In quel punto, udirono camminare
frettolosamente dietro al platano.

La fanciulla, voltandosi, vide la signora Cheron; arrossì, e fu
assalita da improvviso tremito; pure si alzò, e corse incontro alla
zia.

«Buon giorno, nipote mia,» disse la Cheron gettando uno sguardo di
sorpresa e curiosità su Valancourt, «buon giorno, nipote mia, come
state? Ma la domanda è inutile; il vostro volto indica bastantemente
che vi siete già consolata della vostra perdita.

--Il mio volto in tal caso mi fa torto, signora; la perdita da me
fatta non può mai essere riparata.

--Bene!... Bene!... non voglio affliggervi. Voi somigliate moltissimo
a vostro padre... e certo sarebbe stata una fortuna pel pover'uomo se
avesse avuto un carattere diverso.»

Emilia non volle replicare, e le presentò l'afflitto Valancourt; il
giovane rispettosamente salutò la signora Cheron, la quale gli
restituì una fredda riverenza, guardandolo con piglio sdegnoso. Dopo
qualche momento egli si congedò da Emilia con un'aria che le faceva
bastantemente conoscere il suo dolore di allontanarsi, e lasciarla in
compagnia della zia.

«Chi è quel giovine?» disse questa con asprezza; «suppongo sarà uno
dei vostri adoratori; ma io credeva, nipote mia, che aveste un po' più
rispetto delle convenienze, per ricevere le visite d'un giovinetto
nello stato di solitudine in cui siete. Il mondo osserva questi falli;
se ne parlerà, credetelo a me, che ho più esperienza di voi.»

Emilia, punta da un rimprovero così violento, avrebbe voluto
interromperla, ma la zia continuò: «È necessariissimo che vi troviate
sotto la direzione d'una persona in grado di guidarvi più di quello
che possiate farlo voi stessa. In verità, ho poco tempo per un compito
tale; nondimeno, giacchè il vostro povero padre, negli ultimi istanti
di sua vita, mi ha pregato di vegliare sulla vostra condotta, sono
obbligata d'incaricarmene; ma sappiate, nipote cara, che se non vi
determinate alla massima docilità, non mi tormenterò troppo a riguardo
vostro.»

Emilia non si provò neppure a rispondere. Il dolore, l'orgoglio ed il
sentimento della sua innocenza la contennero fino al momento in cui la
zia aggiunse: «Io son venuta a prendervi per condurvi a Tolosa; mi
dispiace però che vostro padre sia morto con sì tenue sostanza:
malgrado ciò, vi prenderò in casa mia. Quel benedetto vostro padre è
stato sempre più generoso che previdente; in caso diverso egli non
avrebbe lasciato sua figlia alla discrezione dei parenti.

--E così appunto non ha fatto,» disse Emilia freddamente; «il
disordine della sua fortuna non proviene tutto da quella nobile
generosità che lo distingueva: gli affari del signor Motteville
possono accomodarsi, come spero, senza rovinare i creditori, e fino a
quell'epoca mi stimerò fortunatissima di risiedere nella valle.

--Non ne dubito,» rispose la Cheron, con un sorriso pieno d'ironia.
«Oh! non ne dubito; e vedo quanto la tranquillità ed il ritiro furono
salutari al ristabilimento del vostro spirito. Non vi credeva capace,
nipote mia, di una simile doppiezza. Quando mi allegavate questa
scusa, io ci credeva in buona fede, e non mi aspettava certo di
trovarvi in una compagnia tanto amabile come quella del signor La....
Va.... me ne sono scordata il nome. Si vede che osservate bene le
convenienze!...»

Emilia si fece di fuoco, raccontò la relazione di Valancourt e di suo
padre, la circostanza della pistolettata, e il seguito de' loro
viaggi; vi aggiunse l'incontro fortuito del giorno precedente, e
confessò infine che Valancourt le aveva dimostrato qualche interesse,
e domandato il permesso di rivolgersi a' suoi parenti.

«E chi è quel giovine avventuriere?» disse la Cheron; «quali sono le
sue pretese?

--Ve le spiegherà egli stesso, o signora; mio padre lo conosceva, ed
io lo credo irreprensibile.

--Sarà un cadetto,» sclamò la zia, «e per conseguenza un mendico. Così
dunque mio fratello s'appassionò per cotesto giovine in pochi giorni!
già fu sempre così; nella sua gioventù prendeva inclinazione o
avversione, senza potere indovinarne il motivo; ed ho osservato più
volte, che le persone dalle quali si allontanava, erano sempre più
amabili di quelle che l'interessavano; ma dei gusti non si può
disputare. Era assuefatto a fidarsi molto della fisonomia; qual
ridicolo entusiasmo! Cos'ha di comune il volto d'un uomo col suo
carattere? Un uomo dabbene non potrà forse qualche volta avere una
fisonomia spiacevole?»

La Cheron pronunziò questa sentenza col tuono trionfante di una
persona, la quale, credendo aver fatta una grande scoperta, se ne
applaudisce, e pensa non si possa contraddirla.

Emilia, desiderando finire quel colloquio, pregò la zia di accettare
qualche rinfresco.

Appena giunta a casa, questa le ordinò di fare i suoi preparativi
della partenza per Tolosa fra due o tre ore. Essa la scongiurò di
differire almeno fino al giorno seguente, e l'ottenne con qualche
difficoltà.

Il resto del giorno fu passato nell'esercizio di una pedantesca
tirannia per parte della zia, e nei disgusti e nel dolore per parte
della nipote. Appena quella si fu ritirata, Emilia diede l'ultimo
addio alla casa, ch'era stata la sua culla. La lasciava senza sapere
il tempo della sua assenza, e per un nuovo genere di vita che ignorava
assolutamente; ma non poteva vincere il presentimento che non sarebbe
mai più ritornata nella valle. Mentre era nella biblioteca paterna, e
che sceglieva qualche libro per portar seco, Teresa aprì la porta
onde assicurarsi, secondo il consueto, se tutto era in ordine, e restò
sorpresa di trovare colà la padroncina. Emilia le diede le opportune
istruzioni pel mantenimento del castello.

«Oimè!» le disse Teresa; «voi dunque partite? Se non m'inganno però mi
sembra che voi sareste più felice qui, che non dove vogliono
condurvi.»

Emilia non le rispose, e tornò nella sua camera. Ivi giunta, si mise
alla finestra, e vide il giardino fiocamente illuminato dalla luna che
sorgea allora al disopra dei fichi. La placida bellezza della notte
accrebbe il di lei desiderio di gustare un tristo piacere, facendo
pure i saluti ai luoghi prediletti della sua infanzia. Si sentì spinta
a scendere, e gettandosi indosso il velo leggero col quale soleva
passeggiare, entrò a cauti passi nel giardino, e si diresse
celeremente verso i boschetti lontani, lieta di respirar ancora
un'aura libera e sospirare senza essere osservata da veruno. Il
profondo riposo della natura, i soavi effluvi diffusi dal notturno
zeffiro, la vasta estensione dell'orizzonte e l'azzurro firmamento
stellato rapivano in dolce estasi l'anima sua e la portavano
gradatamente a quelle altezze sublimi donde le orme di questo mondo
svaniscono.

Emilia fissò gli occhi sul platano, e vi riposò per l'ultima volta.
Quivi, ancor poche ore prima, ella discorreva con Valancourt.
Ricordossi la confessione da lui fatta che spesso vagolava la notte
intorno alla sua dimora, che ne scavalcava il recinto; e d'improvviso
pensò che in quel momento stesso egli poteva trovarsi forse in
giardino. La paura d'incontrarlo, il timore altresì delle censure
della zia la indussero a ritirarsi in casa. Si fermava spesso ad
esaminare i boschetti prima di traversarli; vi passò senza vedere
alcuno; ma giunta ad un gruppo di mandorli più vicino alla casa, ed
essendosi voltata per vedere ancora il giardino, credette scorgere
una persona uscire dai pergolati più tenebrosi ed avviarsi lentamente
per un viale di tigli, allora illuminato dalla luna. La distanza, la
luce troppo fioca, non le permisero d'accertarsi se fosse illusione o
realtà. Continuò a guardare alcun tempo, e poco dopo credette udir
camminare a sè vicino. Rientrò a precipizio, e tornata nella sua
stanza, aprì la finestra nel momento in cui qualcuno penetrava sotto i
mandorli, nel luogo stesso da lei lasciato poc'anzi. Chiuse la
finestra, e, benchè agitatissima, potè gustare qualche ora di sonno.



CAPITOLO X


La carrozza che doveva condurre Emilia e la zia a Tolosa fu alla porta
di buonissim'ora. La signora Cheron comparve alla colazione prima che
vi giungesse la nipote, e piccata dall'abbattimento in cui la vide
quando comparve, glielo rimproverò in un modo poco acconcio a farlo
cessare. Non senza molta difficoltà, Emilia potè ottenere di condur
seco il cane tanto amato da suo padre. La zia, premurosa di partire,
fece avanzare la carrozza; la vecchia Teresa stava sulla porta per
congedarsi dalla sua padrona. «Dio vi accompagni, signorina,» le
disse.

Emilia non potè rispondere che stringendole teneramente la mano.

Molti degl'infelici che ricevevano soccorsi da suo padre, erano
dinanzi alla porta del giardino, e venivano per salutare
l'afflittissima Emilia. Essa distribuì tutto il danaro che aveva in
tasca, e si ritirò nella carrozza con un profondo sospiro. I
precipizi, l'altezza gigantesca dei Pirenei, e tutte le altre
magnifiche vedute, rammentarono a Emilia mille interessanti
rimembranze; ma questi oggetti d'ammirazione entusiastica, non
eccitavano più allora in lei che il dolore ed i dispiaceri.

Valancourt intanto era ritornato a Estuvière col cuore tutto pieno di
Emilia. Qualche volta si abbandonava ai sogni di un avvenire felice,
più spesso cedeva alle inquietudini, e fremeva dell'opposizione che
potrebbe trovare nei parenti di Emilia. Egli era l'ultimo figlio di
un'antica famiglia di Guascogna. Avendo perduto i genitori
nell'infanzia, la sua educazione e la sua tenue legittima erano state
affidate al conte Duverney, suo fratello maggiore di vent'anni. Egli
aveva un'elevazione di spirito ed una grandezza d'animo che lo
facevano brillare negli esercizi in allora chiamati _eroici_. La sua
sostanza era diminuita ancora per le spese della sua educazione; ma il
fratello maggiore parea pensare forse che il suo genio e i suoi
talenti avrebbero supplito alle ingiurie della fortuna; offrivano essi
una prospettiva brillante a Valancourt nella carriera militare, il
solo allora che potesse essere abbracciato ragionevolmente da un
gentiluomo; ed in conseguenza entrò al servizio.

Aveva ottenuto un congedo dal reggimento, quando intraprese il viaggio
dei Pirenei, all'epoca in cui aveva conosciuto Sant'Aubert. Il suo
permesso stando per ispirare, aveva perciò maggior premura di
presentarsi ai parenti di Emilia: temeva di trovarli contrari ai suoi
voti. Il suo patrimonio, col mediocre supplemento di quello di Emilia,
sarebbe bastato ad entrambi, ma non potea soddisfare nè la vanità, nè
l'ambizione.

Frattanto le nostre viaggiatrici avanzavano: Emilia si sforzava di
mostrarsi contenta, e ricadeva nel silenzio e nell'abbattimento. La
Cheron attribuiva la sua malinconia al dispiacere di allontanarsi
dall'amante; persuasa che il dolore della nipote per la morte del
padre non fosse che un'affettazione di sensibilità, costei faceva di
tutto per metterlo in ridicolo.

Finalmente giunsero a Tolosa. Emilia essendovi stata molti anni
addietro, glie n'era rimasta una debolissima rimembranza. Restò
sorpresa del fasto della casa e dei mobili; forse la modesta eleganza
cui era assuefatta, fu la cagione del suo stupore. Seguì la Cheron
traverso una vasta anticamera piena di servi vestiti di ricche livree,
entrò in un bel salotto ornato con più magnificenza che gusto, e la
zia ordinò che servissero la cena.

«Son contenta di trovarmi nel mio castello,» diss'ella abbandonandosi
su di un gran canapè; «ci ho tutta la mia gente intorno; detesto i
viaggi, sebbene dovessi amarli, perchè tutto ciò che vedo fuori di
qua, mi fa sempre trovare ogni cosa più bella nel mio palazzo. Ebbene!
non dite nulla? Perchè sì muta, Emilia?»

Questa trattenne le lacrimo che le sfuggivano, e finse di sorridere.
La sua zia si diffuse molto sullo splendore della casa, sulle
conversazioni, e finalmente su ciò che aspettava da Emilia, il cui
riserbo e la cui timidezza passavano ai di lei occhi per orgoglio ed
ignoranza. Ne prese motivo par rimproverarla, non conoscendo ciò ch'è
necessario per guidare uno spirito, il quale, diffidando delle proprie
forze, possedendo un discernimento delicato, e immaginandosi che gli
altri abbiano maggiori lumi, teme di esporsi alla critica, e cerca
rifugio nell'oscurità del silenzio.

La cena interruppe l'altiero discorso della signora Cheron, e le
riflessioni umilianti ch'essa vi mescolava per la nipote. Dopo cena,
la Cheron si ritirò nel suo appartamento, ed una cameriera condusse
Emilia al suo; salirono una larga scala, traversarono diversi
corridoi, scesero qualche gradino, e passarono per uno stretto andito
in una parte remota della casa; infine la cameriera aprì la porta di
una stanzuccia, e disse esser quella destinata per la signora Emilia:
la fanciulla, rimasta sola, si diede in preda a tutto l'eccesso del
dolore che non poteva più contenere. Coloro che sanno per esperienza a
qual punto il cuore s'affezioni agli oggetti anche inanimati allorchè
ne ha preso l'abitudine, quanto stenti a lasciarli, con qual tenerezza
li ritrovi, con qual dolce illusione crede vedere gli antichi amici,
costoro soli comprenderanno l'abbandono in cui si trovava allora
Emilia, bruscamente tolta dall'unico ricetto ch'ella riconoscesse
dall'infanzia, e gettata sopra un teatro e fra persone che le
spiacevano ancor più pel carattere che per la novità. Il fido cane di
suo padre era con lei nella cameretta, l'accarezzava, e le leccava le
mani mentr'ella piangea. «Povera bestia,» diceva essa; «non ho più
nessun altro che te per amico.»



CAPITOLO XI


Il castello della signora Cheron era vicinissimo a Tolosa, e
circondato da immensi giardini; Emilia, alzatasi di buon'ora, li
percorse prima della colazione. Da un terrazzo che si estendeva fino
all'estremità di questi giardini, scoprivasi tutta la Bassa
Linguadoca. Emilia riconobbe le alte cime dei Pirenei; e la sua
immaginazione le dipinse tosto la verzura ed i pascoli che sono alle
falde di essi. Il suo cuore volava verso la sua placida dimora.
Provava un piacere inesprimibil nel supporre di vederne la situazione,
sebbene potesse appena scorgerne i monti. Poco occupata del paese in
cui si trovava, fissava gli occhi sulla Guascogna, ed il suo spirito
pascevasi delle rimembranze interessanti destate in lei da tal vista.

Un servitore venne ad avvertirla che la colazione era pronta.

«Dove siete stata così di buon'ora?» disse la Cheron quando entrò la
nipote. «Non approvo queste passeggiate solitarie. Desidero che non
usciate tanto presto la mattina senz'essere accompagnata. Una
fanciulla, che al castello della valle dava appuntamenti al chiaro di
luna, ha bisogno d'un poco di sorveglianza.»

Il sentimento della propria innocenza non impedì il rossore di Emilia.
Essa tremava, e chinava gli occhi tutta confusa, mentre la zia le
lanciava sguardi arditi, ed arrossiva ella stessa: ma il di lei
rossore era quello dell'orgoglio soddisfatto, quello di una persona
che si compiace della propria penetrazione.

Emilia, non dubitando che la zia non intendesse parlare della sua
passeggiata notturna prima di lasciar la valle, credè dovergliene
spiegare i motivi; ma essa, col sorriso del disprezzo, ricusò di
ascoltarla.

«Non mi fido,» le disse, «delle proteste di alcuno; giudico le persone
dalle loro azioni, e proverò la vostra condotta per l'avvenire.»

Emilia, meno sorpresa della moderazione e del silenzio misterioso
della zia, di quello nol fosse stata dell'accusa, vi riflettè
profondamente, e non dubitò più non fosse Valancourt ch'ella avea
veduto la notte ne' giardini della valle, e che la zia poteva bene
aver riconosciuto. Intanto, non lasciando un soggetto penoso se non
per trattarne un altro che non eralo meno, parlò di Motteville e della
perdita enorme che la nipote faceva nel suo fallimento. Mentr'essa
ragionava con fastosa pietà degl'infortunii che opprimevano Emilia,
insisteva sui doveri dell'umanità e della riconoscenza, facendo
divorare alla povera fanciulla le più crudeli mortificazioni, ed
obbligandola a considerarsi non solo sotto la di lei dipendenza, ma
sotto quella ben anco di tutta la servitù.

L'avvertì allora che in quel giorno si aspettava molta gente a pranzo,
e le ripetè tutte le lezioni della sera precedente sul modo di
contenersi in società: aggiunse che voleva vederla abbigliata con
gusto ed eleganza, e poscia si degnò mostrarle tutto lo splendore del
suo castello, farle osservare tutto quanto brillava d'una magnificenza
particolare, e che si faceva distinguere nei vari appartamenti; dopo
di che si ritirò nel suo gabinetto di toletta. Emilia si chiuse nella
sua camera, tirò fuori i suoi libri, e ricreò lo spirito colla
lettura, fino al momento di vestirsi.

Quando i convitati furono riuniti, Emilia entrò nella sala con un'aria
di timidezza che non potè vincere, per quanto vi si sforzasse. L'idea
che la zia l'osservava con occhio severo, la turbava vie maggiormente.
Il suo abito di lutto, la dolcezza, l'abbattimento della sua bella
fisonomia, non meno che la modestia del contegno, la resero
interessantissima a quasi tutta la società. Riconobbe essa Montoni ed
il suo amico Cavignì, che aveva trovati in casa di Quesnel; avevano
questi nella casa della Cheron tutta la famigliarità di antichi
conoscenti, ed anch'essa sembrava accoglierli con molto piacere.

Montoni portava nel suo contegno il sentimento della superiorità: lo
spirito ed i talenti co' quali poteva sostenerla obbligavano tutti gli
altri a cedergli. La finezza del suo tatto era fortemente espressa
nella sua fisonomia; ma sapeva dissimulare quando bisognava, e
potevasi notare spesso in lui il trionfo dell'arte sulla natura. Aveva
il viso lungo e magro, eppure lo dicevano bello; elogio forse più da
attribuirsi alla forza e vigoria dell'anima, che delineavansi in tutti
i suoi tratti. Emilia concepì per lui una specie d'ammirazione, ma non
quell'ammirazione che poteva condurre alla stima; essa vi univa una
specie di timore, di cui non sapeva indovinare il motivo.

Cavignì era giocondo ed insinuante come la prima volta. Sebbene quasi
sempre occupato della signora Cheron, trovava il mezzo di parlar con
Emilia. Le indirizzò da principio qualche motto spiritoso, e prese in
seguito un'aria di tenerezza di cui ella si accorse benissimo, e che
non la spaventò. Ella parlava poco, ma la grazia e dolcezza delle sue
maniere l'incoraggirono a continuare; non fu interrotta se non quando
una giovine signora del circolo, che parlava sempre, e di tutto, venne
a mescolarsi ai loro discorsi; questa signora, che spiegava tutta la
vivacità e la civetteria francese, affettava d'intender tutto, o
piuttosto non vi mettea nemmeno affettazione. Non essendo mai uscita
da una perfetta ignoranza, s'immaginava che non avesse nulla da
imparare; obbligava tutti ad occuparsi di lei, divertiva talvolta,
stancava dopo un momento, e poi era abbandonata.

Emilia, quantunque ricreata da tutto quanto aveva veduto, si ritirò
senza rincrescimento, e si abbandonò volentieri di nuovo alle
rimembranze che tanto le piacevano.

Passarono quindici giorni in una folla di visite e di dissipazioni;
Emilia accompagnava per tutto la Cheron, si divertiva di rado, e
annoiavasi spesso. Fu colpita dell'apparente istruzione e delle
cognizioni di cui facean mostra intorno a lei le persone che
componevano la conversazione; non fu se non molto dopo che riconobbe
l'impostura di tutti quei pretesi talenti. Ciò che la ingannò
maggiormente fu quell'aria di brio continuato, e soprattutto di bontà
ch'ella osservava in ciascun personaggio. S'immaginava che
un'affabilità consueta e sempre pronta ne fosse il vero fondamento.
Finalmente, l'esagerazione di qualcuno, meno abile degli altri, le
fece sospettare che, se il contento e la bontà sono i soli principii
d'una dolce amenità, gli eccessi smoderati ai quali uno si abbandona
ordinariamente sono il risultato della più perfetta insensibilità.

Emilia passava i momenti più graditi nel padiglione del terrazzo. Vi
si ritirava con un libro, per godere della sua malinconia, o col
liuto, per vincerla. Assisa cogli occhi fissi sui Pirenei e sulla
Guascogna, essa cantava le ariette più interessanti del suo paese,
imparate nell'infanzia.

Una sera, Emilia suonava il liuto nel padiglione con un'espressione
che veniva dal cuore. Il sole all'occaso illuminava ancora la Garonna,
che fuggiva a qualche distanza, e le cui acque erano passate dinanzi
alla valle. Emilia pensava a Valancourt; non ne avea udito più parlare
dopo il suo soggiorno a Tolosa; ed ora, lontana da lui, sentiva tutta
l'impressione che aveva fatta sul proprio cuore. Prima di aver
conosciuto Valancourt, non aveva incontrato alcuno, il cui spirito ed
il gusto si accordassero tanto bene col suo. La Cheron avevale parlato
di dissimulazione, di artifizi; pretendeva essa che quella
delicatezza, cui ammirava nell'amante, non foss'altro che un laccio
per piacerle, eppure essa credeva alla di lui sincerità. Un dubbio
nondimeno, per debole che fosse, bastava opprimerle il cuore.

Il rumore d'un cavallo sulla strada, sotto la sua finestra, la scosse
da questi pensieri: vide un cavaliere il cui personale ed il
portamento le rammentavano Valancourt, giacchè l'oscurità non le
permetteva di distinguerne i lineamenti. Si tirò indietro temendo
d'esser veduta, e desiderando al tempo stesso di osservare.
L'incognito passò senza guardare, e quando si fu ravvicinata alla
finestra, lo vide nel viale che conduceva a Tolosa. Questo lieve
incidente la rese di cattivo umore, e, dopo alcuni giri sul terrazzo,
tornò presto al castello.

La Cheron rientrò più ruvida del solito; ed Emilia non fu contenta se
non quando le fu permesso di ritirarsi nella sua cameretta.

Il giorno dopo essa fu chiamata dalla zia, la quale ardeva di collera,
e che, appena la vide, le presentò una lettera.

«Conoscete voi questo carattere?» le disse con voce severa, e
guardandola fiso, mentre Emilia esaminava la lettera con attenzione.

--No, signora, io non lo conosco,» le rispose.

--Non mi fate perder la pazienza,» disse la zia; «voi lo conoscete,
confessatelo subito, esigo che diciate la verità.»

Emilia taceva e stava per uscire. La Cheron la richiamò.

«Oh! voi siete colpevole: vedo adesso che conoscete il carattere.

--Ma se ne dubitavate, signora,» disse Emilia con dignità, «perchè
accusarmi di aver detto una bugia?

--È inutile negarlo,» disse la signora Cheron; «vedo dal vostro
contegno che voi non ignorate il contenuto di questa lettera. Son
sicurissima che in casa mia, e senza mia saputa, avete ricevute
lettere da quel giovine insolente.»

Emilia, indispettita dalla villania di quell'accusa, ruppe il
silenzio, e si sforzò di giustificarsi, ma senza convincere la zia.

«Non posso supporre che quel giovine avrebbe ardito scrivermi, se voi
non l'aveste incoraggito.

--Mi permetterete di rammentarvi, signora,» disse Emilia con voce
timida, «alcune particolarità d'un colloquio che avemmo insieme a casa
mia: vi dissi allora con franchezza di non essermi opposta che il
signor Valancourt s'indirizzasse alla mia famiglia.

--Non voglio essere interrotta,» disse la signora Cheron; «io....
io... perchè non gliel'avete proibito?» Emilia non rispose. «Un uomo
sconosciuto a tutti, assolutamente straniero; un avventuriere che
corre dietro ad una ricca fanciulla! Ma almeno, sotto questo rapporto,
si può dire ch'egli si è ingannato d'assai.

--Ve l'ho già detto, signora, la sua famiglia era conosciuta da mio
padre,» disse Emilia modestamente, e fingendo di non avere udita
l'ultima frase.

--Oh! non mi fido niente affatto del suo giudizio favorevole,»
replicò la zia colla sua solita leggerezza. «Egli aveva idee così
guaste! Giudicava la gente alla fisonomia.

--Signora, poco fa mi credevate colpevole, eppur lo giudicavate dalla
mia fisonomia.»

Emilia si permise questo rimprovero per rispondere in qualche modo al
tuono poco rispettoso col quale la Cheron parlava di suo padre.

«Vi ho fatta chiamare,» soggiunse la zia, «per significarvi che non
intendo essere importunata dalle lettere o dalle visite di tutti i
giovinastri che pretenderanno adorarvi. Questo signor di Valla... non
so come lo chiamate, ha l'impertinenza di chiedermi che gli permetta
di offerirmi i suoi rispetti; ma gli risponderò come va. Quanto a voi,
Emilia, lo ripeto una volta per sempre, se non vi uniformate alla mia
volontà, non m'inquieterò più per la vostra educazione, e vi metterò
in un convento.

--Ah! signora,» disse Emilia struggendosi in lacrime, «come posso io
aver meritato questo trattamento?»

La Cheron in quell'istante avrebbe potuto ottenere da lei la promessa
di rinunziare per sempre a Valancourt. Colta dal terrore, non voleva
più acconsentire a rivederlo; temeva d'ingannarsi, e temeva finalmente
di non essere stata abbastanza riservata nella conferenza avuta alla
valle. Sapeva benissimo di non meritare i sospetti odiosi formati
dalla zia, ma era tormentata da infiniti scrupoli. Divenuta timida, e
dubitando di far male, risolse di obbedire a qualunque suo comando, e
glie ne fece conoscere l'intenzione; ma la Cheron non le prestava
fede, e non iscorgeva in lei che l'artifizio, o la paura.

«Promettetemi,» disse alla nipote, «che non vedrete quel giovine, e
non gli scriverete senza mio permesso.

--Ah! signora,» rispose Emilia, «potete voi supporre ch'io fossi
capace di farlo?

--Io non so cosa supporre; la gioventù non si capisce, chè manca
troppo di buon senso per desiderar di essere rispettata.

--Io mi rispetto da me stessa,» replicò Emilia; «il padre mio me ne ha
sempre insegnata la necessità. Egli mi diceva che, colla mia propria
stima, otterrò sempre quella degli altri.

--Mio fratello era un buon uomo,» soggiunse la Cheron, «ma non
conosceva il mondo. Ma... in somma, non mi avete fatta la promessa che
esigo da voi.»

Emilia fece la promessa, e andò a passeggiare in giardino. Arrivata al
suo padiglione favorito, sedette vicino alla finestra che guardava in
un boschetto. La calma di quella solitudine le permetteva di
raccogliere i suoi pensieri e di giudicare da per sè della sua
condotta. Si rammentò il colloquio avuto al castello, e si convinse
con gioia, che nulla poteva allarmare il suo orgoglio, nè la sua
delicatezza; si confermò nella stima di sè medesima, e della quale
sentiva tanto bisogno. In ogni caso, si decise a non alimentare una
corrispondenza segreta, e ad osservare la medesima riserva con
Valancourt allorchè lo incontrerebbe. Nell'atto che faceva queste
riflessioni, versò alcune lacrime, ma le asciugò prontamente, quando
sentì camminare, aprire il padiglione, e, girando la testa, ebbe
riconosciuto Valancourt. Un misto di piacere, di sorpresa e terrore
s'impadronì tanto del suo cuore, che ne fu vivamente commossa.
Impallidì, arrossì, e restò alcuni istanti nell'impossibilità di
parlare, e di alzarsi dalla sedia. Il volto di Valancourt era lo
specchio fedele di ciò che doveva esprimere il suo: la di lui gioia fu
sospesa quando s'accorse dell'agitazione di Emilia. Rinvenuta dalla
prima sorpresa, essa rispose con un dolce sorriso; ma una folla di
contrari affetti assalirono nuovamente il di lei cuore, e lottarono
con forza per soggiogar la sua risoluzione. Era difficile conoscere
se la vinceva in lei o la gioia di veder Valancourt, o la paura de'
trasporti ai quali si abbandonerebbe la zia allorchè saprebbe
quest'incontro. Dopo qualche parola altrettanto laconica che
imbarazzata, lo condusse in giardino e gli domandò se avesse veduta la
signora Cheron.

«No,» diss'egli, «non l'ho veduta, mi fu detto ch'era occupata, e
quando ho saputo ch'eravate in giardino, mi sono affrettato di venirvi
a trovare.» Poi soggiunse: «Posso io arrischiare di dirvi il soggetto
della mia visita senza incorrere nel vostro sdegno? Posso io sperare
che non mi accuserete di precipitazione, usando del permesso che mi
accordaste, d'indirizzarmi ai vostri parenti?»

Emilia non sapea che cosa rispondere, ma la sua perplessità non fu di
lunga durata, e fu di nuovo assalita dal terrore allorchè, alla svolta
del viale, vide la signora Cheron. Ella aveva ripreso il sentimento
della propria innocenza, ed il suo timore ne fu affievolito in guisa,
che, in vece di evitare la zia, le andò incontro tranquillissima con
Valancourt. Il malcontento e l'impaziente alterigia con cui li
osservava la Cheron sconcertarono però Emilia: comprese che
quell'incontro sarebbe stato creduto premeditato; presentò il giovane,
e, troppo agitata per restar con loro, corse a chiudersi in casa, ove
aspettò lungamente e con estrema inquietudine il risultato della
conferenza. Non sapeva immaginarsi come l'amante avesse potuto
introdursi in casa della zia prima di avere ottenuto il permesso che
domandava. Ignorava essa una circostanza che doveva rendere inutile
questo passo, nel caso ben anco che la Cheron l'avesse accolto.
Valancourt, nell'agitazione del suo spirito, aveva obliato di datare
la sua lettera; in conseguenza, non avrebb'ella potuto rispondergli.

La signora Cheron ebbe un lungo colloquio con Valancourt, e quando
rientrò in casa, il suo contegno esprimeva più cattivo umore che
quell'eccessiva severità di cui aveva fremuto Emilia.

«Finalmente,» disse la zia, «ho congedato quel giovinetto, e spero che
non riceverò più simili visite, mi ha assicurata che il vostro
abboccamento non era concertato.

--Signora,» disse Emilia commossa, «voi glie ne faceste domanda?

--Certo che glie l'ho fatta! non dovevate credermi imprudente tanto da
pensare che l'avrei trascurata.

--Cielo» sclamò la fanciulla; «quale idea si farà egli di me, signora,
se voi stessa gli dimostrate tali sospetti?

--L'opinione che si farà di voi,» ripigliò la zia, «è d'or innanzi di
pochissima conseguenza. Ho messo fine a questa faccenda, e credo che
avrà qualche opinione della mia prudenza. Gli lasciai travedere che
non era una stolida, e soprattutto non tanto compiacente da soffrire
un commercio clandestino in casa mia. Quanto fu indiscreto vostro
padre,» continuò poi, «d'avermi lasciata la cura della vostra
condotta! Vorrei vedervi accasata; se dovessi trovarmi importunata più
a lungo da quel signor Valancourt, o da altri pari a lui, vi metterò
certamente in un chiostro. Ricordatevi dunque dell'alternativa.
Quell'audace ha avuto l'impertinenza di confessarmi che la sua
sostanza è tenuissima, ch'egli dipende da suo fratello maggiore, e che
questa sostanza dipende dal suo avanzamento nella carriera militare.
Stolto! avrebbe almeno dovuto nascondermelo se voleva persuadermi.
Egli aveva dunque la presunzione di supporre ch'io avrei maritata mia
nipote ad un uomo nullatenente, ad un miserabile che lo confessa egli
stesso...»

Emilia fu sensibile alla sincera confessione fatta da Valancourt; e
quantunque la sua povertà rovesciasse le loro speranze, la franchezza
della sua condotta le cagionò un piacere che superò momentaneamente
tutti i suoi affanni.

La Cheron continuò: «Egli ha altresì creduto bene di dirmi che non
avrebbe ricevuto il suo congedo se non da voi, ciò ch'io negai
positivamente. Conoscerà così esser sufficientissimo che non lo
aggradisca io, e colgo questa occasione di ripeterlo: se voi
concerterete con lui il menomo abboccamento a mia insaputa,
preparatevi ad uscir di casa mia all'istante.

--Come mi conoscete poco, se credete che sia, necessario un ordine
simile!»

La signora Cheron si mise alla toletta, essendo invitata per quella
sera ad una conversazione. Emilia avrebbe voluto dispensarsi
dall'accompagnarla, ma non ardì domandarlo pel timore d'una falsa
interpretazione. Quando fu nella sua camera, diè libero sfogo al
proprio dolore: si ricordò che Valancourt, sempre più amabile per lei,
era bandito dalla sua presenza, e forse per sempre. Essa impiegò nel
pianto quel tempo che la zia consacrava ad abbigliarsi. Quando si
rividero a tavola, i suoi occhi tradivano le lacrime, e ne fu
duramente rimproverata. Fece grandi sforzi per parer lieta, nè le
riuscirono affatto infruttuosi.

Andò colla zia dalla signora Clairval, vedova di certa età, e
stabilita da poco tempo a Tolosa in una villa del marito. Ella aveva
vissuto diversi anni a Parigi con molta eleganza: era naturalmente
allegra, e dopo il suo arrivo a Tolosa, aveva date le più belle feste
che vi fossero vedute.

Tutto ciò eccitava non solo l'invidia, ma anche la frivola ambizione
della signora Cheron, e non potendo gareggiare nel fasto e nella
spesa, voleva almeno esser creduta l'intima amica della Clairval.

A tal uopo, le usava le maggiori cortesie; e quando si trattava di
essere invitata da lei, taceva qualunque altro impegno. Ne parlava da
per tutto, e si dava grandi arie d'importanza, facendo credere che
fossero amiche intrinseche.

Il divertimento di quella sera consisteva in una festa da ballo ed una
cena. Il ballo era d'un genere affatto nuovo. Si danzava a diversi
gruppi in giardini estesissimi. I grandi e begli alberi sotto i quali
si dava la festa, erano illuminati da infiniti lampioni disposti con
tutta la varietà possibile. Le diverse fogge aumentavano l'incanto di
quella scena. Mentre alcuni ballavano, altri, seduti sulle erbose
zolle, parlavano con libertà, criticavano le acconciature, prendevano
rinfreschi o cantavano ariette accompagnandosi colla chitarra. La
galanteria degli uomini, le civetterie delle donne, la leggerezza e il
brio delle danze, il liuto, il flauto, il cembalo, e l'aria campestre,
che i boschi davano a tutta la scena, facevano di questa festa un
modello piccantissimo dei piaceri e del gusto francese. Emilia
considerava questo quadro ridente con una specie di diletto
malinconico. Sarà facile comprendere la sua sorpresa allorchè,
gettando a caso gli occhi su di una contraddanza, riconobbe l'amante
che ballava con una bella e giovine signora, e sembrava aver per lei
le più premurose attenzioni: si volse tosto volendo condurre altrove
la zia, che discorreva con Cavignì senza avere veduto Valancourt.
Un'improvvisa debolezza l'obbligò a sedere, e l'estremo pallore che
comparve sul di lei volto, fece credere ai circostanti ch'ella fosse
incomodata. La Cheron continuava a parlare con Cavignì, e il conte di
Beauvillers, che si era occupato di Emilia, le fece alcune maligne
osservazioni a proposito del ballo, alle quali ella rispose quasi con
incoerenza, tanto l'idea di Valancourt la tormentava, tanto essa era
inquieta di restare sì a lungo vicino a lui. Le osservazioni del conte
sulla contraddanza l'obbligarono intanto a fissarvi gli occhi, che
nello stesso momento s'incontrarono in quelli di Valancourt. Tremò e
voltò via tosto gli sguardi, ma non senza aver distinta l'alterazione
di lui nel vederla. Si sarebbe volentieri allontanata all'istante
medesimo da quel luogo, se non avesse pensato che questa condotta gli
avrebbe fatto conoscere troppo l'imperio ch'egli aveva sul di lei
cuore. Si provò a continuare il discorso col conte, il quale le parlò
della dama che ballava con Valancourt: il timore di lasciar travedere
il vivo interesse ch'ella vi prendeva, l'avrebbe senza dubbio tradita,
se gli sguardi del conte non si fossero fissati allora sulla coppia di
cui parlava.

«Quel giovine cavaliere,» diss'egli, «sembra un uomo compito in tutto,
fuorchè nel ballo: la sua compagna è una delle bellezze di Tolosa, e
sarà ricchissima. Voglio sperare che saprà fare una scelta migliore
per la felicità della sua vita, di quel che non l'abbia fatto per la
contraddanza; m'accorgo ch'egli imbroglia tutti gli altri. Mi
sorprende però che quel giovane, col suo bel portamento, non abbia
imparato a ballare.»

Emilia, alla quale batteva forte il cuore ad ogni parola, volle
troncare il discorso informandosi del nome di quella signora: prima
che il conte potesse risponderle, la contraddanza finì; ed Emilia,
vedendo che Valancourt si avanzava verso di lei, si alzò tosto, e andò
accanto alla zia.

«Ecco qua il cavaliere Valancourt, signora,» le disse sottovoce; «di
grazia ritiriamoci.» La zia si alzò, ma il giovane le aveva raggiunte;
egli salutò la signora Cheron con rispetto, e sua nipote con dolore.
Siccome la presenza di quest'ultima gl'impediva di restare, passò
oltre con un contegno, la cui tristezza rimproverava a Emilia di aver
potuto risolversi ad aumentarlo: se ne stava essa pensierosa, allorchè
il conte Beauvillers le tornò accanto.

«Vi domando perdono, signorina,» le disse egli, «di un'inciviltà
involontaria. Quando criticava così liberamente il cavaliere nel
ballo, ignorava ch'ei fosse di vostra conoscenza.» Emilia arrossì e
sorrise. La Cheron però gli rispose: «Se voi parlate del giovane
passato poco fa, posso assicurarvi che non è, nè di mia conoscenza, nè
di quella della signorina Sant'Aubert.

--Gli è il cavaliere Valancourt,» disse Cavignì con indifferenza.

--Lo conoscete voi?» riprese la signora Cheron.

--Non ho con lui nessuna relazione,» rispose Cavignì.

--Non sapete i motivi che ho di qualificarlo d'impertinente? Esso ha
la presunzione di ammirare mia nipote.

--Se, per meritare l'epiteto d'impertinente, basta ammirare
madamigella Emilia,» soggiunse Cavignì, «temo che ve ne siano molti,
ed io m'inscrivo nella lista.

--Oh! signore,» disse la Cheron con sorriso forzato, «mi accorgo che
imparaste l'arte dei complimenti dopo il vostro soggiorno in Francia;
ma non bisogna adulare le fanciulle, perchè esse prendono l'adulazione
per verità.»

Cavignì girò un momento la testa, e disse con voce studiata: «A chi si
possono dunque allora far complimenti, signora? Perchè sarebbe assurdo
di rivolgersi ad una donna, il cui gusto è già formato: essa è
superiore a qualunque elogio.»

Terminando questa frase, egli guardava Emilia di soppiatto, e l'ironia
brillava nei di lui occhi. Essa lo intese, ed arrossì per la zia; ma
la Cheron rispose: «Voi avete perfettamente ragione, signore; una
donna di gusto non può, nè deve soffrire un complimento.

--Ho inteso dire al signor Montoni,» soggiunse Cavignì, «che una donna
sola ne meritava.

--Da vero,» esclamò la Cheron con un sorriso pieno di fiducia; «e chi
sarà mai?

--Oh!» replicò egli: «è facile conoscerla. Non vi è certo più di una
donna al mondo che abbia insieme il merito d'inspirare la lode e lo
spirito di ricusarla.» Ed i suoi occhi si voltavano ancora verso
Emilia, la quale arrossiva sempre più per la zia.

--Ma bravo signore,» disse la Cheron, «io protesto che voi siete
Francese. Non ho mai udito uno straniero esprimersi con tanta
galanteria.

--È verissimo, signora,» rispose il conte cessando dalla sua parte
mutola; «ma la galanteria dei complimenti sarebbe stata perduta, senza
l'ingenuità che ne scuopre l'applicazione.»

La Cheron non conobbe il senso satirico di questa frase, e non sentiva
la pena che Emilia provava per lei.

«Oh! ecco qua il signor Montoni in persona,» disse la zia; «voglio
raccontargli tutte le belle cose che mi avete dette.» Ma l'Italiano
passò in un altro viale. «Vi prego di dirmi che cosa può occupar tanto
stasera il vostro amico? Non si è lasciato vedere neppur un momento,
disse madama Cheron con aria dispettosa.

--Egli ha,» disse Cavignì, «un affare particolare col marchese
Larivière, che, da quanto vedo, l'ha occupato fino ad ora, perchè non
avrebbe mancato al certo di venire ad offrirvi i suoi omaggi.»

Da tutto quel che intese, Emilia credè accorgersi che Montoni
corteggiava seriamente la zia, e che non solo essa lo aggradiva, ma si
occupava con gelosia delle di lui menome negligenze. Che la signora
Cheron, alla sua età, volesse scegliere un secondo sposo, sembrava
partito ridicolo; pure, la di lei vanità non lo rendeva impossibile;
ma che, col suo spirito, il suo volto e le sue pretese, Montoni
potesse scegliere la zia, ecco ciò che sorprendeva Emilia. I suoi
pensieri però non fissaronsi a lungo su questo oggetto; essa era
tormentata da interessi più pressanti. Valancourt, rifiutato dalla
zia, Valancourt aveva ballato con una bella giovine signora...
Traversando il giardino, essa guardava da tutte le parti, sperando, e
temendo di vederlo comparire nella folla. Nol vide, e la pena che ne
risentì le fece conoscere aver ella più sperato che temuto.

Montoni le raggiunse di lì a poco, e balbettò qualche parola sul
dispiacere d'essere stato tanto tempo occupato altrove. La zia ricevè
questa scusa coll'aria dispettosa d'una bambina, ed affettò di parlar
soltanto a Cavignì, il quale, guardando Montoni ironicamente, parea
volergli dire: «Io non abuserò del mio trionfo, e sosterrò la mia
gloria con tutta umiltà.»

La cena fu servita nei vari padiglioni del giardino ed in una gran
sala del castello; la Cheron e la sua comitiva vi cenarono insieme
alla signora Clairval, ed Emilia potè reprimere a stento l'emozione,
quando vide Valancourt prender posto alla medesima tavola dov'era lei.
La zia lo vide egualmente, e chiese al vicino: «Chi è quel giovine?

--È il cavaliere Valancourt,» le fu risposto.

--So anch'io il suo nome,» soggiuns'ella; «ma chi è mai cotesto
cavaliere Valancourt che s'introduce a questa tavola?»

L'attenzione della persona da lei interrogata fu distratta prima di
ottenerne risposta. La tavola era lunghissima; Valancourt stava verso
il mezzo colla sua compagna, ed Emilia, ch'era in un angolo della
medesima, non l'aveva ancora veduta; ciò le diede motivo di fare mille
riflessioni tutte egualmente per lei disgustose.

Le osservazioni su tal proposito facevano il tema di una conversazione
indifferente, e qualcuno si compiaceva d'indirizzarle alla signora
Cheron, sempre intenta ad avvilire Valancourt.

«Ammiro quella bella signora,» diss'ella, «ma condanno la sua scelta.

--Oh! il cavaliere Valancourt è il giovine più amabile ch'io conosca,»
rispose la signora alla quale era stato rivolto quel discorso; «si
dice perfino che la signora Demery lo sposerà quanto prima, e gli
porterà in dote le sue ricchezze.

--Ciò è impossibile,» sclamò la Cheron, facendosi di fuoco; «egli ha
sì poco l'aria d'un uomo di qualità, che se non lo vedessi alla tavola
della signora Clairval, non mi sarei mai persuasa che potesse esser
tale; d'altra parte, ho forti motivi per dubitare della voce che
corre.

--Ed io non posso dubitarne,» disse l'altra signora, alquanto piccata
di quella contraddizione.

--Posso io domandarvi,» disse la Clairval, «signore mie, quale è il
soggetto della vostra quistione?

--Vedete voi,» le disse la Cheron, «quel giovine quasi in mezzo alla
tavola, e che parla colla signora Demery? Ebbene! quell'uomo, che non
è conosciuto da alcuno, ha pretese presuntuose su mia nipote, e questa
circostanza, almeno io lo temo, ha dato luogo a credere ch'egli si
spacciasse per mio adoratore; considerate ora quanto una tal ciarla
sia offensiva per me.

--Ne convengo, mia buona amica,» rispose la Clairval, «e potete esser
certa ch'io lo smentirò da per tutto.» E si voltò da un'altra parte.
Cavignì, che fino a quel punto era stato freddo spettatore di quella
scena, fu in procinto di rompere in una risata, e lasciò il posto
bruscamente.

«Vedo bene che voi ignorate,» disse alla Cheron la dama seduta accanto
a lei, «che il giovine di cui parlaste alla signora Clairval è suo
nipote!....

--È impossibile!» sclamò la Cheron, accorgendosi del suo grossolano
sbaglio; e da quel momento cominciò a lodar Valancourt con altrettanta
bassezza, quanta malignità aveva impiegata fino allora per
denigrarlo.

Emilia era stata assorta durante la massima parte del discorso, e fu
così preservata dal dispiacere di udirlo; fu sorpresissima dunque nel
sentire le lodi delle quali sua zia colmava Valancourt, ed ignorava
ancora ch'egli fosse nipote della Clairval; epperò vide senza
rammarico la zia, più imbarazzata di quello che volesse parere, cercar
di ritirarsi subito dopo la cena. Montoni venne allora a darle la mano
per condurla alla carrozza, e Cavignì, con ironica gravità, la seguì
accompagnando Emilia. Nel salutarli e nel rialzar la portiera, essa
vide l'amante tra la gente, alla porta. Egli sparve prima della
partenza della vettura; la zia non disse nulla ad Emilia, ed elleno si
separarono giugnendo a casa.

La mattina seguente, essendo Emilia a colazione colla zia, le fu
presentata una lettera, di cui, al solo indirizzo, riconobbe il
carattere; la ricevè con mano tremante, e la zia domandò tosto donde
venisse. Emilia la disigillò con suo permesso, e vedendo la firma di
Valancourt, gliela consegnò senza leggerla. La Cheron la prese con
impazienza, e mentre la leggeva, Emilia procurava d'indovinarne il
contenuto nei di lei sguardi; gliela restituì quasi subito, e siccome
gli sguardi della nipote domandavano se potesse leggere: «Sì, leggete,
leggete, figliuola,» le disse con minor severità di quello che si
aspettava. Emilia non aveva mai obbedito tanto volentieri. Valancourt
nella sua lettera, parlava poco dell'abboccamento del dì prima;
dichiarava che non avrebbe ricevuto congedo se non da lei sola, e la
scongiurava di riceverlo quella sera medesima, mentre leggeva, stupiva
che la Cheron mostrasse tanta moderazione, e, guardandola timidamente,
le disse: «Che debbo rispondergli?

--Eh! bisogna vederlo quel giovine, sì certo,» disse la zia; «bisogna
vedere ciò che può dire a favor suo; fategli dire che venga.»

Emilia osava credere appena a' propri orecchi.

«No, no, restate, gli scriverò io stessa,» aggiunse la zia; e chiese
carta e calamaio.

Emilia non ardiva fidarsi ai dolci motti che l'animavano; la sorpresa
sarebbe stata meno grande, se avesse inteso la sera innanzi ciò che la
zia non avea scordato, cioè che Valancourt era nipote della signora
Clairval.

Ella non conobbe i segreti motivi della zia; ma il risultato fu una
visita, la sera stessa, di Valancourt, che la Cheron ricevè sola nel
suo gabinetto. Ebbero essi insieme un lungo colloquio prima che Emilia
fosse chiamata: quando essa entrò, la zia parlava con dolcezza, e gli
occhi del giovane, il quale alzossi prontamente, scintillavano di
gioia e di speranza.

«Noi parlavamo di affari,» disse la zia; «mi diceva qui il cavaliere,
che il fu signor Clairval era fratello della contessa Duverney, sua
madre: avrei voluto ch'egli mi avesse parlato più presto della sua
parentela colla signora Clairval; l'avrei riguardato come un motivo
più che sufficiente per riceverlo in casa mia.»

Valancourt s'inchinò, e voleva presentarsi ad Emilia, ma la Cheron lo
prevenne.

«Ho acconsentito che voi riceviate le sue visite, e sebbene non
intenda impegnarmi in alcuna promessa, nè dire che lo considererò come
mio nipote, permetterò la vostra relazione e riguarderò l'unione
ch'egli desidera, come un fatto che potrà aver luogo fra qualche anno,
se il cavaliere avanzerà di grado, e se le sue circostanze gli
permetteranno di ammogliarsi; ma il signor Valancourt osserverà, e voi
pure, Emilia, che, fino a quel punto, v'interdico positivamente
qualunque idea di matrimonio.»

La figura d'Emilia, durante questa brusca aringa, cambiava ad ogni
momento; e, verso la fine, la sua confusione fu tale, che stava per
ritirarsi. Valancourt, intanto, quasi imbarazzato quanto lei, non
osava guardarla. Allorchè la zia ebbe finito, egli le rispose: «Per
quanto lusinghiera possa essere per me la vostra approvazione, per
quanto mi trovi onorato dalla vostra stima, nulladimeno temo tanto,
che oso appena sperare.

--Spiegatevi,» disse la Cheron. L'inattesa risposta turbò talmente il
giovine, che se fosse stato spettatore di quella scena, non avrebbe
potuto far a meno di ridere.

«Fino a che la signora Emilia non mi permetta di profittare delle
vostre bontà,» diss'egli con voce sommessa, «fintantochè ella non mi
permetta di sperare...

--Se non c'è altra difficoltà, m'incarico io di risponder per lei.
Sappiate, signore, ch'essa è sotto la mia custodia, ed io pretendo
ch'ell'abbia ad uniformarsi in tutto alla mia volontà.»

Sì dicendo, si alzò, e ritirossi nella sua camera lasciando Emilia e
Valancourt in pari imbarazzo: finalmente il giovine, la cui speranza
era maggiore del timore, le parlò colla vivacità e franchezza a lui
naturali: ma Emilia non si rimise se non dopo qualche tempo prima di
intendere le domande e le preghiere sue.

La condotta della signora Cheron era stata diretta dalla sua vanità
personale. Valancourt, nel suo primo abboccamento con lei, le aveva
ingenuamente confessata la sua posizione attuale, e le sue speranze
per l'avvenire; e con maggior prudenza che umanità, aveva severamente
ed assolutamente respinta la sua domanda: desiderava che la nipote
facesse un gran matrimonio, non già perchè le augurasse la felicità
che si suppone unita al grado ed alla opulenza, ma per voler dividere
l'importanza che un illustre parentado potea darle. Quando seppe che
Valancourt era nipote d'una persona come madama Clairval, desiderò
un'unione il cui splendore per certo avrebbela avvolta nella sua
aureola. Fondando le sue speranze sulla ricchezza della Clairval,
obliava ch'essa aveva una figlia. Valancourt però non l'aveva
dimenticato, e contava sì poco sopra l'eredità della propria zia, che
non aveva neppure parlato di lei nel suo primo colloquio colla Cheron;
ma comunque potesse esser per l'avvenire la fortuna d'Emilia, la
distinzione che le procurava questo parentado era certa, giacchè la
brillante situazione della Clairval formava l'invidia di tutti, ed era
un oggetto d'emulazione per quelli che potevano sostenerne la
concorrenza. Essa aveva dunque acconsentito di abbandonar la nipote
all'incertezza d'un impegno la cui conclusione era dubbiosa e lontana;
e di tal modo poco combinata la sua felicità o col consenso, o
coll'opposizione: avrebbe però potuto render questo matrimonio sicuro
e vantaggioso insieme, ma una tal generosità non entrava allora per
nulla nei suoi progetti.

Da quel punto, Valancourt fece frequenti visite alla signora Cheron,
ed Emilia passò nella sua società i più felici momenti dei quali
avesse goduto dopo la morte del padre. Erano ambidue troppo dolcemente
occupati del presente, per interessarsi molto del futuro: amavano,
erano riamati, e non sospettavano che quell'istesso attaccamento, il
quale formava la loro felicità, potesse cagionare un giorno la
disgrazia della loro vita. In questo intervallo, la relazione della
Cheron colla Clairval divenne sempre più intima, e la vanità della
prima si pasceva di già bastantemente, pubblicando da per tutto la
passione del nipote della sua amica per Emilia.

Montoni divenne anch'egli l'ospite giornaliero del castello, ed Emilia
si accorse, col massimo dispiacere, ch'egli era l'amante di sua zia, e
amante favorito.

I nostri due giovani passarono così l'inverno, non solo nella pace, ma
anche nella felicità. Il reggimento di Valancourt era in guarnigione
vicino a Tolosa, per cui potevano vedersi di frequente. Il padiglione
del terrazzo era il teatro favorito delle loro conferenze; la zia ed
Emilia vi andavano a lavorare, e Valancourt leggeva loro opere di
spirito. Egli osservava l'entusiasmo d'Emilia, esprimeva il suo, e si
convinceva infine, ogni giorno più, che le loro anime erano fatte
l'una per l'altra, e che con il medesimo gusto, la medesima bontà e
nobiltà di sentimenti, essi soli reciprocamente potevano rendersi
felici.


  FINE DEL PRIMO VOLUME

  1875. Milano, Tip. Ditta Wilmant.



NOTA DEL TRASCRITTORE

La presente edizione del libro è una traduzione abbreviata e priva di
quasi tutte le parti in poesia. La versione originale completa in
inglese è disponibile su LibraryBlog: The mysteries of Udolpho

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annnotazione minimi errori tipografici. In particolare, l'uso di
trattini e virgolette per introdurre il discorso diretto, molto
irregolare e incoerente, è stato per quanto possibile regolarizzato.

I seguenti refusi sono stati corretti [tra parentesi il testo
originale]:

  P.  5 - ora lasciando scorgere bizzarre [bizzare] forme, si mostravano
  "  10 - senso per preferire le attrattive [attrattative] alla virtù
  "  11 - gli oggetti che la colpivano, dava soprattutto [soprattuto]
  "  14 - l'entusiasmo [l'entusiamo] del sentimento le diveniva
  "  16 - trovò difatti i coniugi [cuniugi] Quesnel nel salotto.
  "  19 - ma l'ira fe' presto luogo al disprezzo [disprezeo].
  "  26 - è passato, e quando lo si prolunga all'eccesso [acesso],
  "  36 - grandiose, internaronsi nell'angusta valle [vallea].
  "  39 - altrove mi vergognerei [vergogneri] di offrirvelo.
  "  42 - della più soave fragranza [fraganza].
  "  54 - non sapeva pensare a sè medesima, e Valancourt [Valancorut],
  "  62 - superficie [superfice] scorrevano molte vele sparse,
  "  67 - d'un tal Motteville [Monteville] di Parigi, ma ignoravi che la
  "  68 - scuopriva il lago di Leucate, il Mediterraneo [Meditarraneo]
  "  73 - La carrozza [carozza] si fermò di nuovo; egli
  "  76 - si adagiò sopra una specie [spece] di poltrona.
  "  84 - alla finestra, sperando e temendo [tememdo] nel tempo istesso
  "  85 e altre - Sant'Aubert [Sant'Auber]
  "  93 - lenivano alquanto la di lei disperazione [dispezione].
  "  96 - a lasciarla [lascirla] partire. Ella uscì dal convento
  "  98 - perchè siete superstizioso [saperstizioso], n'è vero?
  " 100 - fu deposto [doposto] nella tomba, quando udì gettar la terra
  " 100 - avea provato scosse troppo violente [violenti]
  " 103 - alla perfine [perfino] lasciò il convento colle lacrime
  " 106 - La fanciulla rimase [rimasa] alcun tempo immersa in alta
  " 114 - sebbene abbia avuto la fortuna [fotuna] d'incontrarvi
  " 115 - poi, rimettendosi [rimettandosi], soggiunse: «Perdonate questa
  " 121 - rapivano in dolce estasi l'anima sua e la portavano [porvano]
  " 122 - il timore altresì [altresi] delle censure della zia
  " 129 - di aver conosciuto [conasciuto] Valancourt,
  " 130 - No, signora, io non lo conosco [conoscono],
  " 138 - essa è superiore [superiora] a qualunque elogio.
  " 141 - conosciuto da alcuno, ha pretese presuntuose [prosuntuose]

Grafie alternative mantenute:

  colta / côlta
  sopratutto / soprattutto





*** End of this LibraryBlog Digital Book "I misteri del castello d'Udolfo, vol. 1" ***

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