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Title: Il segreto dei fatti palesi seguiti nel 1859
Author: Tommaseo, Niccolò, 1802-1874
Language: Italian
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IL
SEGRETO DEI FATTI PALESI
SEGUITI NEL 1859

INDAGINI
DI
NICCOLÒ TOMMASEO.

I PATTI E I FATTI.--NECESSITÀ URGENTE.
IL VENETO.--L'ITALIA DI MEZZO.
IL PAPA NON È RE, MA IL CARDINALE ANTONELLI.
GL'ITALIANI, I MAGIARI, GLI SLAVI.

FIRENZE,
BARBÈRA, BIANCHI e COMP.
Tipografi-Editori, Via Faenza, 4765.
1860.

Proprietà letteraria.



_Chi leggesse per primo lo scritto intitolato_ Il Papa non è Re, ma il
Cardinale Antonelli, _o l'altro_ l'Italia di mezzo, _badi che alcune
delle cose toccate in quelli hanno al possibile dichiarazione dagli
altri nell'opuscolo contenuti. Dico al possibile, perchè certe cose non
è lecito esprimere nelle stagioni che la libertà comincia o finisce,
come in quelle di piena servitù, quando il dire è pericolo; dove
all'incontro in quell'altre il reprimere i propri affetti può essere più
difficile coraggio, perchè più forte astinenza. Ciò nondimeno accennasi
qui entro a cagioni o circostanze di fatti, non indicate ne' documenti
e ne' libri finquì pubblicati. La novità non è invenzione, è sincerità:
ma la sincerità non detrae del rispetto alle persone, nè della
gratitudine per quella parte di bene che han fatto, e per quella a cui
si sono col desiderio sollevati._

_Uno scrittore milite, marchese artista, politico d'ingegno elegante,
uomo di felice facilità in ogni cosa che opera e dice e patisce,
affermava dianzi che il mondo d'oggidì comincia a essere governato non
dalla fede cristiana ma dal principio cristiano. E ne reca in prova il
non si essere nella guerra di Crimea dato patenti di corsari a infestare
il mare con legittime ruberie. Io non so veramente se da legittime
ruberie siano o sperino farsi in breve sicure le terre; e se quel nuovo
pudore, certamente lodevole e fausto, non sia dovuto almeno in parte
alla potenza diplomatica del commercio, al prevalere della bottega sul
gabinetto, all'essersi fatta la stessa politica più e più trafficante.
Non so se il principio cristiano, anco che vogliasi senza fede, abbia
trionfato nella guerra di Crimea, la qual guerra non tolse i seguaci del
Vangelo alla scimitarra e agli strazii che il Corano santifica; non so
se trionfasse nella Grecia, impedita d'insorgere dalle armi cristiane;
se trionfi in Polonia dove il rito orientale è predicato tuttavia a suon
di busse, e lo knutte è l'aspersorio cruento del prete benedicente; se
trionfi in America sotto il patibolo di Giovanni Brown, dove la libertà
è macellaia e mercante di umana carne, e siede a banchetto tracannando
sangue che il boia le mesce. Forse coteste eccezioni al principio
cristiano vengono appunto dal mancare a esso fede vera: ma di questa non
pare che possa farsi apostolo degno il Cardinale Antonelli._

_6 Gennaio 1860._



                          I PATTI E I FATTI.


                             I.--_Assunto_.

Il non conoscere certi fatti, il trasandarne taluni, o il non li
collegare insieme, il fondare sopra cotesto imperfetto e caduco edifizio
troppo grandi speranze, apparecchia disinganni gravi; dai quali poi
l'inscienza stessa o la negligenza de' fatti ci toglie poter dedurre
utili insegnamenti per il tempo avvenire. Acciocchè dunque le recenti
vicende ci fruttino, importa collegare tra loro certi fatti dispersi,
accennare come meglio si può a certi altri o ignorati da molti o non
voluti avvertire; i vuoti che lascia anco la storia coetanea, riempierli
colle induzioni che porge l'esperienza, e la conoscenza sicura di certe
particolarità quanto più minute o intime, tanto più rilevanti. La
cronaca del giorno d'ieri ha anch'essa la sua critica come le indagini
dell'antichità più remota: e il giudizio intero d'avvenimenti
recentissimi, bisogna talvolta saperlo comporre al modo che si
ricompongono i mastodonti. Questo studio d'archeologia contemporanea noi
tenteremo qui, e non per vana curiosità.

Ragioneremo, senz'odii nè amori di parte, cose meno gravi a udire che a
dire; ma ci asterremo da ogni acerba parola.


                       II.--_Prime mosse nazionali_.

Nell'agosto del 1856 lo scrivente ebbe contezza del concetto di Giuseppe
La Masa, maturato da esso, a quant'egli dice, assai prima; del francare
l'Italia con moti concordi di tutta la nazione, e nel fine e ne' mezzi
avviarla a unità. Interrogato, per discarico di coscienza e non già
ch'io dessi peso al mio voto, io sottoscrissi alla proposta, con le due
condizioni espresse: che l'unità fosse il fine, che tutta la nazione
concorrere ne' mezzi, con libere forze ma docili concorresse; che i
governi e gli eserciti regolari, di queste forze non volessero
diffidare, ma sapessero fortemente ordinarle. Altri soscrissero: uomini
che si dicevano devoti al Piemonte, s'astennero come da soverchio
ardimento. Uscì nel settembre la lettera di Daniele Manin, scritta in
nome proprio di lui solo, che dava l'Italia al Piemonte, senz'altra
condizione se non che il Piemonte facesse l'Italia. Cotesto parve a
taluni imporre troppo poco, e troppo; perchè nazione non si fa nè da un
re, nè da un ministro, nè da una parte d'essa nazione, per valida e
sapiente e risoluta e omogenea che sia. Ma forse era semplice
improprietà di linguaggio: la risoluzione del posporre il bene delle
parti al bene del tutto, era di buon cittadino. Chi si trovava allora in
Piemonte, e chi ne leggeva i giornali anche fuori, sa come parecchi,
nell'atto stesso del trionfare di tal concezione quasi di confessione,
se ne facessero beffe, serbandola però come un'arme, e pensando a trarne
profitto per fini più angusti ancora, e con più larghi arbitrii di
quelli che consentiva il Manin. Fu poi fondata la Società il cui assunto
era l'indipendenza di tutta intera la Penisola sotto la dittatura di
Vittorio Emanuele, senz'altra condizione nessuna in guarentigia de'
popoli combattenti, ma in guarentigia del leale condottiere concedendo
che, se non il tutto, facessesi di liberare il più possibile delle
parti. Condizione che nella mente di Giorgio Pallavicini, l'egregio
Presidente della società, era l'ultimo caso e più remoto, nella mente
d'altri il più prossimo ed unico. Chi s'avvedeva della segreta
discrepanza nell'apparente concordia, se amico schietto d'Italia e del
Piemonte, ne prendeva mal augurio e dolore; se faccendiere o uso a
ridere del pro e del contro, se ne faceva gioco. Taluni temevano che la
Società, creata per indirizzare il governo, non fosse da certi
interpreti del governo, o che per tali si spacciavano, troppo
indirizzata essa stessa; che di stimolante che intendeva essere
modestamente, non fosse da ultimo se non frenabile dagli stimolati; che
parendo operare come d'autorità e quasi d'uffizio, non mettesse nei
lontani fiducia pericolosa e troppo precipitose speranze, confondendosi
la sua voce con la voce dello stesso governo; che di qui si destassero
i sospetti non inerti e non mansueti degli avversi, i quali griderebbero
sè provocati, e si armerebbero in tempo, e potrebbero intanto infierire
sugli incautamente speranti, resi dalla speranza minacciosi in parole, e
malaccorti a discernere l'altrui simulata paura e il proprio pericolo;
finalmente, che l'impresa diretta ad effetto d'ispirazione non paresse
una mezza cospirazione, e non ne apportasse gl'inconvenienti. Delle
intenzioni pie e generose del Presidente e di non pochi Socii, sarebbe
stato calunnia e crudeltà dubitare, e non gliene rendere onore. Ma il
fatto si è che al rompere della guerra, il degno uomo credette
inevitabile sciogliere la Società, non già che il fine, cioè
l'indipendenza delle parti, non che l'unità, fosse allora ottenuto; ma
perchè la condizione segreta e palese de' fatti, se non degli animi, a
lui stesso appariva mutata. Lo scoramento dell'onest'uomo, e non tanto
credulo quanto a certi goffamente furbi piaceva spacciarlo, era
presagio; e di più settimane precorse ai fatti.


                    III.--_Svolgersi del concetto_.

Ma ed egli, e tutti i veramente avveduti, cioè gli onesti, non disperano
però, e disperare non devono. Se la prova non è riuscita qual si voleva,
è nondimeno in certi rispetti riuscita oltre alla speranza di taluni,
oltre alla tema o agli angusti desiderii di tali altri. Intanto la forza
delle cose ha voluto che delle braccia e delle volontà concorrenti da
diverse parti della nazione dovesse fare suo pro anco chi sulle prime
ne diffidava, e non avrebbe imaginato in altrui tanta fede, nè forse
voluta. La prontezza bramosa colla quale migliaia d'Italiani, che pochi
anni fa non se lo sarebbero nè anco sognato, affrontarono il dolore de'
cari loro, i sospetti e le persecuzioni de' governi, la pena del confino
o della carcere o della morte, per venire dopo i terrori di furtiva e
lungamente tortuosa e dispendiosa fuga a affrontare gli splendidi
pericoli della guerra; la docile pazienza con cui sostennero
gl'inaspettati rifiuti, e gl'indugi fatti tormentosi dal desiderio e
dall'inopia e dal pensiero dei cari lontani indarno abbandonati, e i
disagi del quartiere più gravi che quelli del campo, e gl'imperii
militari talvolta più duri che la disciplina non richiedesse; è fatto
nuovo nella storia italiana, e, checchè possa accadere, fecondo. E
quand'io parlo di rifiuti e d'indugi e d'imperii duri, non intendo
incolpare tutti, anzi nessuno, quant'è all'animo e alle intenzioni.
Dacchè gli abiti del vivere e quelli del temperamento non mutano a un
tratto; e l'educazione civile mutua è cosa di secoli. Ma certo è che, a
dispetto di tutti gl'impedimenti, gl'Italiani nati in paesi il cui nome
a non pochi forse de' Piemontesi era ignoto finora, si strinsero ad essi
come a fratelli, e al loro fianco combatterono degnamente. Col
piemontese La Marmora e col savoiardo Mollard stettero i modenesi
Cialdini, Cucchiari, Fanti; e il nizzardo Garibaldi, col nome suo a
certi Italiani spaventoso forse più che ai nemici, attrasse a sè una
schiera diversa di patrie, unanime di cuore, la quale, aiutata poteva
ancora più efficacemente aiutare. E in Piemonte altri non Piemontesi
tennero grado onorevole di milizia, e lo meritarono; e Piemontesi
altrove ebbero quasi trionfale accoglienza. Quanto poi al concetto
finale dell'unità, io non dirò che il pensiero di taluni tra quegli
stessi che più ne parevano vaghi corrispondesse alle parole, o le parole
quanto potevano ai fatti; ma dirò che dal cinquansei è grande anche in
ciò l'intervallo; e non è colpa di tutti gl'Italiani se ad allargare le
idee e le voglie di taluni è bisognato o giovato anco l'aspetto e
l'invito d'uno straniero potente. E qui per ispiegare vicende le quali
ai più paiono inesplicabili, forza è salire alquant'alto, toccando
soltanto quel ch'è necessario a farsi capire o indovinare, ma alle
persone e alle intenzioni osservando la debita o riverenza o pietà.


                      IV.--_Guerra di Crimea_.

Ognuno rammenta che uomini e Piemontesi e d'altre parti d'Italia, amici
e questi e quelli all'onore di tutta Italia e in specialità del
Piemonte, dalla guerra di Crimea dissentivano. Le ragioni a concorrervi
erano timore de' potentati invitanti, se rifiutati; se obbediti,
speranza. Potevasi opporre che la speranza d'ingrandimento, il quale
avesse dalla guerra a venire, non era bene augurata, se nel timore del
contrario leggevasi una confessione di debolezza; e che la forza vera
del Piemonte dovevasi attingere dal seno della nazione stessa, non da
aiuti di fuori. E questo tanto più, che la paura dei tristi effetti del
rifiuto era vana; perchè nessun potentato d'Europa, nè anco il vicino
più nemico di tutti, avrebbe permesso che con invasioni si fosse
esercitata vendetta sopra il Piemonte, difeso dalla sua giacitura e
dalle reciproche gelosie. E quanto al non sperare dai corrucciati
soccorso al bisogno; ognun sa che siccome la gratitudine di per sè sola
non è la ragione del porgere soccorsi politici, così nè anco
l'ingratitudine altrui è ragione a negarli, quando il soccorrente sia
mosso dalle utilità proprie e dai propri pericoli. Intendimento degli
alleati d'allora nell'invitare il Piemonte non era tanto d'avere il
sussidio de' suoi ventimila, del resto valenti, quanto d'attrarre
Austria a sè con la minaccia d'un'amicizia che potrebbe tornarle
molesta. I negoziati allora tenuti lo provano in modo assai chiaro: a
chi non bastasse la conoscenza degli uomini e della storia, lo provano i
fatti seguiti. Austria intese; e il gioco rivolto contro lei torse a
proprio vantaggio, promettendosi alleata se le assicurassero quieto
intanto il dominio in Italia, e dal Piemonte nessuna briga. Collegarsi
per gratitudine a Russia non poteva, sì per timore d'una vendetta e in
Italia e altrove, sì perchè, ripetiamolo, la gratitudine è una virtù
privata, tutt'al più un consiglio evangelico ai Gabinetti. Nè
l'innalzamento del Russo e la depressione del Turco potevano all'Austria
parere desiderabili. Dall'altro lato prestare servigi d'accordo col
Piemonte a Francia e a Inghilterra, foss'anco in pro di Turchia, non
stimava comoda cosa; ma più spediente, risparmiando le forze proprie
risparmiare anco la Russia, quasi una mezza alleata; occupando i
Principati, renderle meno grave il peso della guerra; e stare intanto a
vedere da qual parte penderà la vittoria. Accusarla di perfidia, nella
condizione in cui l'avevano posta tutti i precedenti suoi atti, nella
presente moralità della politica comune (la quale fa vieppiù risaltare
le eccezioni generose, ma non le può convertire in legge per ora), è
semplicità in cui non cadono gli uomini di Stato, nè anco quelli che del
riservo dell'Austria hanno poco a lodarsi. Nessuno si pensa di chiedere
l'impossibile; e i sagrifizi pericolosi senza guarentigia di compenso
sono un impossibile agli uomini pratici.


                 V.--_Cose desiderate da farsi tra il 49 e il 58_.

Ma per ritornare al Piemonte, i vantaggi da quella alleanza sperati, non
a tutti parevano tali che non se ne potessero attendere altri maggiori
da chi sapesse aspettare, nel che consiste assai volte e la virtù e la
prudenza degli uomini di governo. Io qui non intendo detrarre punto alle
lodi d'un uomo d'ingegno arguto e di rara operosità; che nè questo è
momento a riprensioni, nè io me ne sento autorità nè prurito; e le
riprensioni, se giuste, dovrebbero rifarsi da taluni almeno di quelli
che precedettero ad esso. Ma non devo tacere che parecchi e Piemontesi e
sinceri amici al Piemonte desideravano che per il bene d'Italia si fosse
qui, fin dal primo, proceduto altrimenti. Desideravano che nei più che
dieci anni di costosa aspettazione; di troppo sicura incertezza, di non
sufficiente apparecchio nè alla guerra nè alla pace, scemassero i
dispendii sospetti dell'esercito, quanto al numero delle milizie, ma gli
arnesi di guerra venissersi intanto accumulando; addestrassersi i militi
cittadini sul serio; si raffermasse con la disciplina lo spirito
militare congenito a questo popolo buono; s'imitassero in ciò le
istituzioni di Prussia; che si provvedesse alla marineria, tanto
negletta fin dopo intimata la guerra; non si sdegnasse in ciò l'opera
degli esuli Veneti, nè il sussidio dato loro paresse gratuita carità;
con simile intendimento ascrivessersi almeno i più reputati fra i militi
d'altre parti d'Italia, non aspettando di farlo agli estremi, con risico
di non ottima scelta; prima che alla magnificenza de' porti, si desse
cura al modo di degnamente, se non riempierli, munirli, e con essi le
coste, acciocchè un altro Stato italiano, provocato provocante (e fu
provocato abbastanza) non potesse con le ben guarnite sue navi
impunemente assalire, e non si dovesse anche in questo riporre tutta
intera la speranza nel sussidio, non sempre sicuro e pronto, non mai
affatto gratuito, degli stranieri invocati. Desideravano che, scemate le
spese di guerra in tempo di pace, se non scemare, non crescesse almeno
il debito pubblico, che è debito di ciascun cittadino, e ne pagano il
pro più caro quelli a cui meno fa pro, quelli che meno possono; che le
imposte non si aggravassero specialmente sulle arti minute e sul
commercio minuto; che i possidenti pagassero il giusto, e a tal fine il
catasto fosse prontamente iniziato, e intanto una più equa distribuzione
suppletoria attenuasse i danni dello Stato, e alleggerisse i pesi del
popolo; che alla sorte de' villici si cominciasse a provvedere, buona
parte dei quali in Piemonte sono in condizione più dura che in altri
paesi non aventi Statuto; che alla prosperità dell'industria s'aiutasse
non solo con mostre di pompa che non creano, e con premii che non
ispirano, ma promovendo la diffusione delle utili novità, e
principalmente curando che nelle Società degli Artieri l'amore della
libertà e quel dell'ordine, la religione e la istruzione concorressero
al fine medesimo, non fossero commessi a battaglia dissolutrice d'ogni
vincolo umano; che al commercio fosse dato braccio, in ispecie al
marittimo, il qual darebbe alle coste non pericolosa importanza, e,
insieme coll'agricoltura e colle arti, vita nuova all'isola di Sardegna
la qual si sospetta disamata e spregiata; che nel lusso delle strade
ferrate, non tanto utile al vivere materiale quanto forse dannoso al
civile e morale delle Provincie, troppo da meno di poche città
dominanti, non si trasandassero, e in Sardegna e altrove le strade
interne, che son come le vene del gran corpo, necessarie insino alle
ultime sue estremità. Desideravano sopra molte altre cose data al
Municipio l'importanza dovuta, senza la costituzione del quale non
solamente gli Statuti non valgono, ma possono farsi fomite di corruzione
e strumento di tanto più cattiva schiavitù quanto più palliata; che
delle deliberazioni municipali e delle provinciali facessesi grado a
quelle del parlamento; che il parlamento fosse da' governanti rispettato
non solo co' modi urbani del dire e del sedere, ma principalmente col
lasciarne la concezione vergine d'ogni macchia, le elezioni pure d'ogni
sospetto, non dico di subornazioni ma nè anco di suggestioni indirette,
di promesse di cose lecite, di lusinghe insolitamente benigne.
Desideravano che i lavori del parlamento fossero meno travagliosi per
lunghezza e verbosità, e insieme più fruttuosi per leggi non disputate
senza concludere, non fatte per poi disfare e rifare, leggi che l'ordine
civile col nuov'ordine politico conciliassero; che le penali fossero
così ritemprate da non far parere necessario il lusso de' patiboli,
lusso il qual non corregge i costumi, ma li fa atroci laddove non sono;
che provvedessesi alla sanità e moralità delle carceri, fogne di tutta
sorte contagi; che nei processi di stampa le sentenze de' giudici alla
coscienza pubblica vera, non allo schiamazzo di pochi giornali, nè al
cenno de' governanti, neppur sospettato, ubbidissero; che non solamente
la calunnia ma lo scherno, specialmente se vòlto contro interi ordini di
persone, fosse esemplarmente punito, perchè stupra la libertà e nel
cospetto de' nemici la infama; che a frenare la licenza non fosse
bisogno d'imperii venuti di fuori; e che della necessità di servire a
tali imperii si approfittasse per frenare a un tratto ogni maniera di
licenza, e non permettere che, dall'un lato repressa, dall'altro essa si
scagli a insolentire più che mai sopra i deboli, e le credenze del
popolo senza nè civiltà nè pudore conculchi. Desideravano che
l'istruzione educatrice si promovesse non per moltiplicazione di
scuolette impotenti o tentatrici e di maestrucoli arrogantelli o
scandalosi, e d'ispezioni sopra ispezioni, d'esami sopra esami, di testi
sopra testi, di norme e di guarentigie sopra norme e guarentigie, le
quali mai non giungono a regolare e ad assicurare sè stesse; ma per
fondazione di buone scuole a formare maestri, per scelta pronta e
rispettosa di direttori e precettori autorevoli, senza prova oltraggiosa
di concorsi e inutile di attestazioni; che coi riguardi debiti non alle
fazioni ma alla pubblica moralità, non ai gazzettieri, ma ai padri di
famiglia s'aprisse libero l'adito all'insegnamento privato; che il
letargo delle università per il paragone si scotesse; che dell'illustre
Accademia delle Scienze si facesse un consiglio di civiltà, un modello
delle Accademie rinnovellate, si accettassero o chiamassersi gli uomini
insigni di tutta la nazione, che sarebbero accorsi riconoscenti; e si
levasse un vessillo men minaccioso del bellico, e più unificatore
davvero, e più trionfale. Desideravano che la prima mossa civile dopo le
calamità militari non paresse un voler, non potendo con Vienna,
attaccare la guerra con Roma; che alle necessarie franchigie della
potestà secolare prendessersi gli auspizi dell'esempio di Francia e di
Toscana e di Napoli, ma senza piglio inimichevole nè in forma di sfida,
giacchè con una potestà che resistendo immobile, stanca, e vince
aspettando, le impazienze non valgono; che dei vescovi, non ancora
provocati, scegliessersi i meglio disposti, e la loro autorità si
opponesse ai restii; che tra' preti si rivolgesse l'occhio a que' tanti
i quali alle mutate cose s'erano dimostrati propensi, nè tutti si
lasciassero da goffe impertinenze o inasprire o condannare al silenzio;
che inutilmente non s'aizzassero i frati, con la minaccia alienando da
sè anco i non tocchi, e facendo gridare all'usurpazione intanto che lo
Stato e il popolo sopportavano dalla confiscazione improvida pesi più
gravi, come se fosse gloria e lucro e trastullo il crearsi a bella
posta, e a proprie spese quasi assoldarsi, nemici. Desideravano che le
divisioni, per le quali il vecchio Piemonte non è ancora ben fuso in sè
e però invalido a fondere nuovi paesi che non siano provincie, divisioni
ad ora ad ora prorompenti in discordia, fossero per savie elezioni di
magistrati e per avvedimenti morali meglio che politici mano mano
composte; che tra gli esuli facessesi tale discernimento, da non
eccedere nè in predilezioni e indulgenze malcaute, nè in diffidenze
ingiuriose, nè in severità precipitose o tarde, le quali paressero atti
d'arbitrio o di ubbidienza soverchia a cenni stranieri. Desideravano che
alle relazioni cogli esteri Stati fosse tenuto dietro con veduta più
ampia; che si sbrattassero Consoli inetti o ignobili o ligi a potentati
non amici; che massime nel Levante, dove la lingua d'Italia è tuttavia
la più nota, ma quella di Francia tra poco soverchierà, la bandiera
Piemontese si facesse proteggitrice di tutti gl'Italiani, anzi de'
Cristiani, indarno invocata. Desideravano che gli altri potentati
d'Italia non fossero fuor di tempo irritati, nè da minacciose promesse
tenuti all'erta, ma, cominciando dai meno avversi, procurassesi di
ottenere da essi, ogni agevolezza possibile e a sè e ai loro sudditi;
non si permettesse ai giornali insolentirgli contro, non si attendesse
per questo il precetto di Francia; non si facesse nelle animosità
distinzione ingenerosa tra i forti e i deboli; i più ostinati tra questi
mettessersi dalla parte del torto coll'abbondare in riguardi, che mai
non potevano parere paura; che con gli esempi del meglio tranquillamente
continuati, questa parte d'Italia si facesse rimprovero a chi non la
voleva modello. Desideravano (cosa per vero difficile a condurre, ma non
impossibile politicamente, in dieci anni di tempo), che deposte le
diffidenze proprie e dileguate a poco a poco le altrui, ritentassesi
quello che si era fiaccamente voluto nel 48 o fatto le viste di volere,
dico la colleganza, non di servigi dall'un lato e d'imperii dall'altro,
ma di mutui sicuri vantaggi tra i due grandi Stati Italiani i quali soli
potevano rendere vita di nazione all'Italia; che quel vincolo maritale
il qual poi stretto a questo fine con una famiglia che i suoi doveri
fanno essere necessariamente straniera, per quanto le sue affezioni
vogliasi credere che la rendano amica e devota, quel vincolo si
stringesse a viemmeglio preparare l'interna unità.


                       VI.--_Congresso a Parigi_.

Io non dico che tutte queste fossero cose operabili: dico anzi che da un
solo uomo operabili non erano nè tutte nè la minima parte di quelle; che
le più importanti operare non poteva il Piemonte tutto intero qual è.
Io non approvo e non biasimo; espongo, e rammento. E la memoria mi dice
che i benefizi sperati dalla guerra di Crimea, la qual guerra poteva
portare seco pericoli estremi ai deboli se continuata e dilatata, non
vennero appunto di lì. Se il Piemonte ebbe quindi opportunità di sedere
a un congresso coi maggiori potentati d'Europa, ognun sa che le cose
seguite nel corrente, anno con quella adunanza non hanno vincolo
necessario, poichè i nemici d'allora dovevano poi sperarsi proteggitori,
e un alleato e proteggitore d'allora sospettarsi avverso. In quel
congresso fu parlato, sì, dell'Italia; ma come? non del farla libera da
quella forza che sola mantiene le dominazioni minori moleste; non per
accennare, nè anco in ombra, ai dolori o alle speranze de' Veneti e de'
Lombardi; non per proporre i veri rimedi all'abuso della potestà
temporale del Papa, contro il quale pareva esser vòlto tutto il coraggio
dello zelo, quasi contro il solo accusabile: ma lui solo prendevasi in
mira, non tanto quasi come una specie di mito politico, quanto come il
più debole, e da potersi assalire con più sicura speranza di raccorre i
suffragi de' seguaci di Lutero e di Arrigo VIII, di Fozio e di Maometto.
Alla proposta che ne porgeva il Piemonte, diresti che sole le Legazioni
patissero del governo de' preti, che sole meritassero reggimento
migliore, sole fossero mature a questo. E i rimedi suggeriti alle piaghe
di quel membro, indiviso dall'intero corpo piagato, erano pure
insufficienti, e portavano seco nuovi dolori e pericoli. Il pericolo
più grave era quel paragone ingiurioso e odioso tra le une e le altre
provincie, quel fare alle une sperare ciò che alle altre negavasi con
tanto più dura noncuranza che pareva meditata e accompagnata di ragioni
o di scuse. Eccitando negli uni fiducia importunamente superba, negli
altri invidia dispettosa e disperata; e per più squisitezza di spregio,
consigliando ai preti regnanti l'accorgimento di commisurare al numero
dei sudditi da tener sotto, il numero degli armati Italiani e stranieri
che bastassero al tristo uffizio; venivansi a suscitare discordie nuove
in paese dalle discordie ingangrenito; e così preparavasi la civile e la
morale unità.


             VII.--_Disegni più vecchi insieme e più nuovi_.

Cotesta vecchia ricetta, razzolata tra' fogli del conte Aldini, uomo
imperiale, che, come Bolognese, badava a San Petronio e alle aggiacenze,
e che scriveva al principe di Metternich, come protomedico della Corte e
della Penisola; cotesta ricetta, ognun vede non essere invenzione
colpevole del valente uomo che a Parigi nel 56 la mise innanzi
modestamente, per condiscendere al desiderio d'alcuni tra suoi amici, i
quali dalla guerra di Crimea non speravano migliore frutto; nè a quanto
pare da ciò lo sperava egli stesso. Onesta e pia cosa è discernere
l'angustia de' concetti dalla malignità degli intendimenti. Nè
intendimento maligno è da imputare, non dico all'arguto ministro che nel
congresso di Parigi portava in mezzo quell'unico tema, ma nè anco a
coloro che facevano lui troppo modesto canale di voglie nell'apparente
boria modeste. Senonchè bisogna pure soggiungere che meno angusto
concetto che quello di cui la facondia del conte di Cavour si faceva
levatrice nel 1856, era il concetto di Pellegrino Rossi nel 1832, quale
apparisce da una sua lettera al signor Guizot opportunamente ristampata
dal signor Eugenio Rendu nel recente suo libro intorno alle _Relazioni
tra le Corti d'Austria e di Francia e di Roma_; libro che chiaramente
dimostra quanto dalla protezione austriaca e la Corte e la Sede di Roma
abbia patito e sia in più pericolo di patire. Vero è che il Rendu
mescolando un po' le memorie con le speranze, ci dona l'occupazione
francese, qual è stata dal 49 infino a' dì nostri, come restitutrice
della dignità del Papato. Ma la sua argomentazione speriamo che, se non
storia, sia vaticinio; e, giacchè le cose sono a tal punto da chiedere
imperiosamente agli stessi imperanti risoluzione seria, aspettiamo.
Fatto è che il Rossi, più d'un quarto di secolo fa, proponeva che non
solo le Legazioni, ma insieme le Marche formassero uno Stato da sè,
titolarmente soggetto al Pontefice, e debitore a lui d'un annuo tributo,
assicuratogli da Austria insieme e da Francia. Il Papa così diventava
protettore davvero de' sudditi suoi Italiani dalle esterne e interne
violenze, e non protetto per forza d'armi esterne contro le esterne
insidie e contro gli odii intestini. E non che scemare, gli cresceva
sovranità; dico quella sovranità vera e degna di persona spirituale,
che secondo le originarie condizioni, gli fu conceduta sulle provincie
conservanti il diritto di governarsi di propria autorità.

Più largo ancora che quello del Rossi, era un concetto più antico, cioè
del 1822, ed era più pio al Pontefice, ancorchè dettato da Gian Pietro
Vieusseux protestante. Lo dettava egli alle istanze reiterate del conte
di Bombelles, uomo probo, allora ambasciatore austriaco in Toscana,
marito a una figliuola di madama di Brun, conosciuta da esso Vieusseux
in Copenaghen, amica al Sismondi, e riverente al nome italiano.
Proponeva il Vieusseux fin d'allora una Confederazione di Principi
Italiani, una Lega doganale, e quanta conformità d'istituzioni veramente
civili potessero permettere quei miseri tempi. Della quale proposta
giova, come di documento storico, tenere di conto, e all'affetto
dell'uomo benemerito renderne onore. E importa notare, che tra le cose
prudenti allora e opportune a dirsi, non più accomodabili a questo
tempo, ce n'è parecchie, e le più rilevanti, alle quali dovrebbero porre
mente i fondatori d'una Confederazione Italiana sul serio; che,
determinando questo concetto ancora incerto nella mente e de' governanti
e de' popoli, ne persuaderebbero la possibilità, ne farebbero più
agevole l'attuazione, e più sicura anco ai più diffidenti.


                   VIII.--_Jattanze e speranze_.

Ma ritorniamo all'animoso ministro dal quale l'ordine delle idee ci
portò alquanto lontano. Rivenuto di Parigi al suo parlamento dovevasi
certamente aspettare che, col ritegno voluto dalla prudenza, egli
toccasse delle cose trattate in Parigi, cioè della proposta sua rispetto
al migliore governo da dare a una parte degli Stati Papali. Nel che non
poteva, almeno in massima, non convenire, e l'Imperatore, la cui lettera
a Edgardo Ney rimaneva da più anni quasi fatta ludibrio alla Corte di
Roma; e l'Inghilterra, che aveva nella vittoria di Crimea messa in luce
piuttosto la sua debolezza che la sua forza, e a cui doveva gradire che
opportunità le si offrisse di far prova altrove in qualche maniera della
propria potenza. Veramente dovevano e l'Inghilterra e la Francia
rammentarsi altresì le accoglienze non rispettose da Napoli fatte alle
loro ingiunzioni, le quali avevano per ragione il disordine che quel
governo fomentava in Italia, e quindi in Europa: al che Napoli colla sua
inerzia sprezzante pareva rispondere, che altre cagioni di disordine
numera l'Italia e l'Europa; e che, tolte via queste, provvederebbe
anch'esso a fare il possibile dal suo canto. Ma le parole del ministro
in parlamento parvero avere significato più ampio che le sue proposte in
Parigi; e in quasi tutti subitamente infusero speranze grandi. Dicevano,
maravigliati dell'inaspettata fiducia: non è possibile che parole tali
non siano quasi il saggio d'altre parole segrete ancora più minacciose
ai nemici nostri, non siano precorritrici di fatti prossimi, memorandi.
Quindi le congratulazioni e i ringraziamenti affrettarsi; e
l'esultazione parere tanto più ragionevole, che rammentavasi, l'oratore
in altri tempi più disposti a guerra, essersi dimostrato ben cauto. Ma
coloro che questa memoria e la conoscenza degli uomini rendeva cauti,
non però diffidenti, aspettavano che prima ancora de' fatti, altre
parole venissero a rischiarare e temperare le prime. Vennero nel Senato,
dove il prudente dicitore avvertì, non essersi bene inteso il
significato del suo primo discorso, fervente di pii desiderii, ma non
istigatore di pericolose speranze. Certo è che le cose accadute nel 59
non erano nè pattuite nel cinquansei nè previste. Che a maturarle (come
taluni sognano, calunniando i popoli più che i principi) servisse un
misfatto, che quella paura ispirasse generosità; il crederlo sarebbe
quasi un farsi complice del misfatto: nè su tali stoltezze può l'uomo
onesto pur fermare il pensiero. Vero è che di lì venne occasione a una
legge, la quale, se le precedenti non bastavano, doveva essere portata
assai prima, acciò non paresse riparazione tarda, e quasi confessione di
reità nè commessa nè imaginata. E quelle leggi che provvedono al
rispetto delle persone e dell'onore sì de' principi e sì de' privati
cittadini, dovevano alcuna volta essere con severità più coraggiosa
eseguite. Ma cotesta negligenza piuttosto che agli uomini del governo è
da imputare alla timidità de' cittadini stessi, o alla loro inopportuna
generosità.


                         IX.--_Patti segreti._

Se i fatti storici, per disgregati che paiano, non possono in tutto
tenersi divisi così che non abbiano tra sè relazione veruna; non si
deve però nè anco la loro apparente successione, o il materiale concorso
di certe circostanze, prendere come vincolo di causa ed effetto. La
critica storica in questo rispetto dev'essere governata dal criterio
morale; e specialmente ne' fatti recenti deve l'uomo tenersi in guardia
contro i pregiudizi delle passioni, e contro le sentenze de' politicanti
volgari, e anche contro le testimonianze di taluni fra gli uomini che
hanno presa qualche parte alle cose. Chi dicesse che alla alleanza di
Francia col Piemonte nel 59 la guerra di Crimea fosse necessario
apparecchio, si mostrerebbe nuovo delle cagioni che consigliano le
alleanze. Ma chi non volesse immaginare alcun negoziato, alcun patto
precedente alle cose seguite nel corrente anno, col fare un vuoto nella
serie de' tempi, non provvederebbe alla verità meglio di coloro che il
vuoto riempiono con negoziati e con patti da sè immaginati. Quest'è la
parte inscrutabile della storia: nè a dileguare tutte le finzioni
mitologiche le quali confondonsi all'esperienza degli uomini quotidiana
basterà, cred'io, la luce che suole in tali oscurità venire portando il
corso degli anni. Quel che fu detto e taciuto, inteso e sottinteso e
frainteso a Plombières; quello che fu poi sopraggiunto o detratto o
mutato espressamente o no dalle parti, a Parigi e a Torino, a Milano e a
Firenze, e altrove; per quali gradi si passasse dalle prime prudenti
promesse di pace scritte per rassicurare l'Europa, al proclama dato in
Milano, e dalle nozze di Clotilde di Savoia alla pace di Villafranca;
non lo sapranno ben dichiarare nè tutte insieme raccolte le lettere de'
giornali più minutamente informati, nè tutti i più autentici documenti
diplomatici che, a cose finite, usciranno alla luce; nè le memorie che
della vita propria potranno scrivere coloro stessi che parteciparono ai
patti, che fecero e che disfecero; nè le stesse loro narrazioni
privatissime confidate agli orecchi de' più intimi amici. Perchè
ciascheduno de' partecipanti non sa che una porzione de' fatti, quella
dov'egli operò di persona, o di cui fu testimone; ma quanto accadde in
sua assenza, quanto fu o espresso o lasciato intendere o disdetto o
impedito, insciente lui, tutto cotesto può essere che taluno de'
principalmente benemeriti lo ignori e lo giudichi malamente fors'anche
più dell'ultimo dei suoi segretari. Nelle stesse parole inenarrabili,
che posson essere corse tra due uomini soli, chi dice a noi che e l'uno
e l'altro le abbiano prese nel medesimo senso, e nel medesimo le abbiano
ritenute; e che i nuovi casi via via succedentisi non ne abbiano quasi
insensibilmente mutata nell'animo loro l'intelligenza con tanto più
risico di reciproci sbagli, quanto più i due uomini erano sinceramente
unanimi, ed espertamente avveduti, e cautamente animosi? Chi dice a noi
che in faccende tanto gravi, dalle quali pendeva il destino di milioni e
milioni d'uomini, e l'onore de' negoziatori (dico l'onore nel senso
comune della parola, e anco in quell'altro che concerne l'esito
fortunato), parlando ciascun di loro seco medesimo, si sia trovato dal
principio alla fine sempre costante a sè stesso; e che nella medesima
parlata che nell'intimo suo faceva in un punto medesimo, si sia bene
inteso, e francamente svelato a sè il suo volere? Disperati pertanto,
come noi siamo, di conoscere la verità segreta de' patti, attenghiamoci
a quel che d'essi apparisce manifesto in digrosso, e materialmente
palpabile; facciamo come gli anatomici che sotto il coltello scrutatore
ben sanno di non poter rincontrare la vita, ma, come possono, studiano
nondimeno la vita.


                X.--_Apparecchi e auspizii della guerra_.

Se in troppe cose doveva il Piemonte pendere dal cenno del suo potente
alleato, e prenderne le parole e i silenzi per norma; in una cosa gli
era utile e bello imitarlo, nella parsimonia delle minacce e de' vanti,
sì perchè questa è indizio di forza e augurio fortunato, sì perchè non
paresse che il più debole fosse quasi condannato alle parti di
provocatore, e avesse sembianza di semplice strumento alle altrui
volontà. Rammentiamo con quanto riserbo e il Governo di Francia, e gli
stessi giornali francesi, parlassero dell'Austria innanzi la guerra; e
questo, se non ci spiega, c'insegnerà molte cose. Ma continui clamori,
non ismentiti, e non rattenuti come ognun sa che potevasi in questa
libertà della stampa, sfidavano il nemico, e lo annunziavano disfatto
già. Poniamo che esso non se ne lasciasse aizzare, che si tenesse armato
sull'orlo dell'opposta riva, aspettando a tutte le ore; e che d'altra
parte l'esercito di Francia si tenesse alle opposte falde dell'Alpi,
secondo la parola Imperiale la qual non prometteva soccorso se non
quando il Piemonte fosse dalle armi austriache occupato. Cotesto stato
d'inerzia violenta, di guerra senza guerra, di minaccia senza sfogo,
cotesto sfoggio rovinosissimo di potenza impotente, diventava ai freddi
e ai crudeli spettacolo di ludibrio; ma agli Italiani aspettanti tra
speranza convulsa e terrore dell'oppressore irritato, si faceva
incomportabile, inaudita agonia. Se l'Imperatore austriaco, quasi
impietosito, volle colla sua uscita imprevista e incredibile trarre
d'impaccio la parte avversa; non so chi ne possa andare superbo. So bene
che taluni invocavano le armi austriache di qua dal fiume acciocchè
tirassero le armi francesi di qua dal monte; ma io confesso che le
esperienze fatte sul corpo delle nazioni con tali calamite non mi paiono
un miracolo d'arte e di scienza. La tardità e inettitudine de'
condottieri nemici, le piogge del cielo e le acque della terra, la
provvida celerità del soccorso straniero, potettero attenuare i danni,
ma non impedire la troppo presentita possibilità che Torino per qualche
giorno vedesse nelle sue vie la bandiera gialla e nera; non impedire la
mal dimenticabile calamità, che provincie fiorenti fossero da
quell'aspetto contristate, insanguinate fuor di battaglia, insultate con
ladre angherie. Pagò caro; nè fu solo il braccio della Francia a
respingerlo di là da uno e da altro e da altro fiume, d'una in altra e
trincera e città; nè l'esercito Piemontese fu alla memorabile impresa un
inutile soprappiù. Combattettero allato ai soldati di Crimea e
d'Affrica, e noti inugualmente, soldati d'Italia; e tra questi, alla
pari coi meglio esercitati, i novelli; e ciascuna regione della Penisola
portò il suo tributo. Gran danno che, siccome i due Principi Capitani,
siccome le due nazioni sorelle, così non potessero sempre e in tutto
consentire intimamente i due eserciti ne' loro comandanti inferiori; e
ciò non per colpa d'alcuno in ispecie, ma perchè la novità del fatto, e
la diversità de' modi e de' temperamenti, più che quella degli umori e
degli animi, nocque un po'. Nè maraviglia se questo tra Piemontesi e
Francesi accadesse, quando taluni de' militi stessi d'altre parti
d'Italia ebbero a sentire alquanto fredde le accoglienze de' loro
fratelli, non si ricordando delle tante cause che per secoli li tennero
divisi da essi. Non è però meno da desiderare che questo non fosse; non
è men da dolersi che delle feste cordialmente clamorose fatte ai
Francesi venuti alla guerra nessuno evviva rimanesse per il ritorno di
loro vittoriosi, nessuna ghirlanda. Io so bene che la gratitudine era
ne' cuori, e che il dolore del disinganno è scusa più che sufficiente
negli occhi de' Francesi stessi; ma il meglio era governarsi per modo da
rendere o meno inuguale l'espressione della gratitudine, o piuttosto
impossibile il disinganno.


                   XI.--_Rotta e interruzione_.

Fatto è che l'Imperatore de' Francesi potè scrivere d'avere francato e
il Piemonte e la Lombardia; potè questa e quello chiamare debitori alla
Francia; potè quindi prescrivere al suo benefizio il limite della
propria volontà. Gli appassionati hanno un bel dire che la pace di
Villafranca è una ristampa del trattato di Campoformio con giunte e con
varianti: l'arbitro delle nostre sorti, o chi parla per lui, può
rispondere, che la guerra nel suo concetto non era che un episodio e
quasi una parentesi della pace; che l'altra guerra di Crimea è
similmente finita, lasciando le cose a mezzo, il vinto non più debole di
prima, l'alleato da soccorrere non punto più forte; che se là una
fortezza fu smantellata, e qui risparmiatene quattro, qui s'è in
compenso ricevuta con una mano, e donata con l'altra, una delle più
beate provincie del mondo; che la parola _rimettere_, comunque s'intenda
nel francese e nelle altre lingue d'Europa, non muta la natura de'
fatti; e che la storia dirà a chi quella provincia sia data, da chi
conquistata, e con quale frutto. Noi che non sappiamo nè gl'intendimenti
segreti di questa guerra, nè le promesse che a lei precedettero, e non
abbiamo altri documenti che le parole d'un proclama, e le promesse, non
sempre uguali e non tutte chiare, divulgate in nome del Piemonte, ma nè
dal suo Re nè dal suo Parlamento asserite; noi possiamo, se questo ci
giova, gridare barbaro col Metastasio il nostro destino; il meglio è
tacere, e apprendere come si vive. Chi invoca l'altrui soccorso, per
gaie che gli si facciano le condizioni, egli primo fa a se medesimo una
condizione dura, che la generosità altrui può fino a un certo segno
alleviare, mutare del tutto non può. Chi ha troppo sperato, ha già
tolto a sè stesso il diritto di muovere doglianza se le speranze sue
tutte non sono adempiute. Chi ha sperato in altrui, per forte che sia,
non è più in tempo a far prova di quel coraggio disperato che da ultimo
vince. Ricorrono adesso al Piemonte altri popoli speranti in lui, ma in
lui solo; e il Piemonte dalla sua stessa vittoria è messo in tale
stretta da non poter nè accettare di pieno arbitrio, nè rifiutare, nè
lasciare, nè prendere; apparisce avido insieme e timido, e non è nè
questo nè quello. E non per avidità nè per timidità, ma per altre
cagioni che sarebbe difficile dire chiaro, il suo potente alleato non
può permettergli ch'e' muova un passo senza prendere norma da quel che
conviene alla Francia. _Nec tecum possum vivere, nec sine te._

Senonchè legge provvida della natura si è, che in ciascun'anima umana, e
così in ciascuna società d'anime, sia una certa quantità, siccome d'ogni
altro bene, anco di buona fede. Felici gli uomini e i governi e i popoli
che sanno ben collocarla, e la spendono in cose e in persone oneste,
presso cui sole essa può rendere frutto. Ma la buona fede anco nelle
cose e nelle persone oneste ha i suoi limiti: e limite consiste nel
volere non tutto quel ch'è possibile, il che darebbe troppi diritti alle
speranze dei deboli, li renderebbe perpetui creditori e importuni
tiranni dei forti; ma volere l'utile, dico l'utile di coloro dai quali
aspettasi un qualche servigio. E quand'anco il servigio paia
espressamente promesso, bisogna por mente alle parole che esprimono la
promessa, e non dare a quelle un tropp'ampio significato. Io non dico
che le parole annunzianti l'_Italia libera fino all'Adriatico_
dovessersi intendere archeologicamente, cioè de' limiti fin dove il mare
arrivava in antico, che sarebbe la città d'Adria, e in tempi più remoti
ancora più su; ma dico che il nome di libertà si può intendere in molte
e diverse maniere, e che ai deboli non è lecito dargli l'interpretazione
più comoda a loro. Certo è che vedendo intatto dalla guerra l'Adriatico,
e del grande apparato marittimo non si fare dinnanzi a Venezia quell'uso
che gli Austriaci più d'ogni sforzo terrestre dovevano paventare;
raccogliendo le confessioni e le affermazioni non tanto private che non
diventassero pubbliche, le quali porgevano ai Veneti tutt'altro che
speranze; leggendo nella Gazzetta di Venezia il dì seguente alla
battaglia di Solferino un annunzio stampato già in altri giornali nel
quale vaticinavasi l'armistizio e le cose che poi sono fedelmente
seguite; e rammentando il celebre motto che l'_Impero è la pace_; se ne
viene a dedurre che la promessa dell'Italia libera è stata interpretata
in modo non conforme alla critica diplomatica, e che lo sbaglio è da
apporsi ai chiosatori imperiti. Il tutto si spiega supponendo che
l'Imperatore dei Francesi abbia con troppa buona fede sperato che
Austria e libertà italiana si possano conciliare. Non già ch'egli
potesse essere tanto credulo da sperare un Governo Italiano di libertà
civile entro a un Governo estero militare, nè le franchigie politiche
de' popoli consociate amicamente al franco esercizio d'una polizia non
assai popolare. Ma l'Imperatore si figurò che, siccom'egli in
Villafranca mutava disposizioni verso l'Austria vinta, o almeno
disperata di vittoria, così l'Austria muterebbe a un tratto disposizioni
verso i Veneti, se non liberati secondo il senso volgare della parola,
almeno raccomandati dal suo vincitore.

L'esempio de' Principati di lungo il Danubio gli era forse ragione a
fidarsi, dove l'Austria smesse da ultimo, tuttochè di mala voglia, le
sue renitenze men cristiane che turche; e dove con una specie di
scherzevole arguzia, vennesi a conseguire una specie d'unità. Vero è
che, pensando alla tanta mole di guerra, a tanta parte d'Europa
insorgente per la Turchia e per la civiltà contro Niccolò delle Russie
il qual diceva combattere per la croce; pensando al tanto sangue
versato, alle ruine fatte e alle eccitate speranze, i benefizi da
dedurne a Moldavia e a Valacchia potevansi aspettare maggiori: vero è
che l'unità della persona del Principe non è l'unità del principio nè
dello Stato; che all'occorrenza d'una novella elezione ritornano in
campo le dubbietà e le discordie; e che tocca ai Rumeni piuttosto
iniziare che compire l'impresa. Ma ad ogni modo la condizione di que'
Principati è meno incerta con accanto il Gran Turco, che non sia quella
del Veneto e dell'Italia con l'Austria soprale; e nel Veneto, quanto più
augusti erano anco diplomaticamente i diritti, tanto più minacciosi si
fanno, dopo la guerra liberatrice, i pericoli di servitù. Men difficile
imporre a Turchia leggi d'equità verso popoli mezzo francati, e per
buone ragioni sorretti dalla Russia vicina, che imporre all'Austria,
accovacciata in un nido d'Italia, patti di lega fraterna co' Principi
Italiani e co' popoli; trovar modo di conciliare i Principi tra loro e
co' popoli; sancire istituzioni tutte nuove, e donar loro in un dì la
fermezza d'inviolate consuetudini antiche. Questo credette l'Imperatore
de' Francesi fattibile nel suo buon volere, di cui diede saggi
guerreggiando, e nella sua grande potenza della quale è prova
arditissima la pace stessa.


                      XII.--_Congresso e guerra_.

Di qui non è da concludere che la pace sia per essere universale e
perpetua; giacchè se dall'un lato in Francia una parte degli armati
rimandasi, dall'altro apparecchiansi nuovi armamenti; e la nuova parola
inventata al nuovo bisogno, dico la demobilizzazione, va anch'essa
interpretata con le cautele debite; giacchè la diffidenza stessa
talvolta è una specie di credulità.

Altra specie di credulità, di semplicità, se posso così dire, doppia, è
il figurarsi di taluni, che un congresso europeo possa pacificamente
ordinare ogni cosa, e il figurarsi di tali altri che dalle pacifiche
dispute in congresso debba pullulare la guerra, e poi la libertà dalla
guerra. Certo è che o posino le armi o s'insanguinino, le sorti
dell'Italia infelice sono tali da non si poter decidere senza gli
arbitrii della forza straniera; e che le parole pacifiche, i consigli
amici, sono anch'essi nel caso nostro una maniera d'esercitare la
forza. L'Imperatore de' Francesi, provandosi di fondare una
Confederazione Italiana, assume non tanto il sospettato diritto quanto
il debito tedioso e rischioso di sempre intervenire nelle cose d'Italia
per sospingere questi, per rattenere quelli, per rammentare agli uni
ch'egli hanno troppa memoria o troppo ingegno, agli altri che poco. E,
non potend'egli, nè volendo, essere solo a compire gli uffizi di
pedagogo de' Principi e di arcipresidente della Lega; ne segue che tutti
i Gabinetti d'Europa troveranno la via d'immischiarsi nelle faccende
dell'Italia liberata, come parecchi s'immischiano nella creazione de'
Papi. Già fin dal 1847 fu detto, e dianzi da molte parti ripetuto, non
si poter ritoccare i trattati senza il consentimento di tutta l'Europa;
con che, senza forse avvedersene, vengono a riconfermare, come santi, i
diritti dell'alleanza del quindici, anzi a spacciarli per diritti
imprescrittibili e naturali. Consentimento di tutta Europa, qui suona un
foglio sottoscritto da cinque o sei Principi, dopo un più o men lungo e
amicabile disputare d'alcuni pochi inviati di Principi, dopo un
negoziare della cui generosità non si disputa; senza che in questa
Europa scrivente abbiano parte i parecchi milioni dell'Europa pensante e
paziente, senza che questi sappiano delle ragioni espresse disputando,
nè delle omesse, nè delle sottintese (e son quelle che tagliano il
nodo); non sappiano nè anco del destino che loro si viene facendo, se
non a cosa fatta. Questo significa il consentimento d'Europa. Entrano
nel congresso certamente per intercedere a favore de' deboli, ma non
però con sì rovinosa magnanimità che i forti abbiansi a ridurre nella
condizione di deboli; giacchè allora farebbero di bisogno nuovi
congressi per favorire coteste nuovamente create debolezze, sempre
rispettabili, perchè debolezze, fosser anco di Principi.


                        XIII.--_Inghilterra_.

Io non dubito punto di quelle che, nel linguaggio della diplomazia e
degli affetti teneri, chiamansi _simpatie_ del mondo incivilito a pro
dell'Italia; e non oserei da questo mondo escludere l'Inghilterra,
ancorchè nel 1848 ella non ci abbia altro mandato che Lord Minto per
saggio delle sue simpatie. Ma stimerei irriverenza all'amor patrio degli
Inglesi il pensare che nel presente zelo che mostrano in pro dell'Italia
sia in tutto dimenticata la cura degli utili loro; e che ad essi non
paia bello il poter gareggiare d'italianità coll'Imperator de' Francesi,
e fare le viste di voler superarlo. In troppe altre cose, e più
arrischiate di questa, si viene manifestando la gara. E io confesso che,
avendo l'Imperatore infino al giugno del corrente anno assai più
avventurato per l'Italia che non abbia Inghilterra, non posso vedere
senza rammarico e senza umiliazione, ch'altri intenda attribuire a sè
quasi postume benemerenze, e paia aver compassione di noi per fare
dispetto a chi dimostrò averla prima. Io non posso dimenticare le parole
dal Visconte di Palmerston scritte al Principe di Metternich, _suo
naturale alleato_, titolo oramai storico, come quello per cui tutti i
Principi sono cugini: «Accordandomi ai sentimenti legittimi del diritto
di possessione, per il quale il Governo austriaco manifesta la sua
risoluzione di difendere i possessi imperiali in Italia, il Governo
Britannico spera che nessun caso prossimo si presenti di mandare questa
risoluzione ad effetto.» Giova sperare che il signor Visconte, mutate le
insegne, e trasportato dall'Austria all'Italia il suo affetto, vorrà
beneficarci con altro che con la speranza che l'Austria non voglia
mandare contro di noi le sue risoluzioni ad effetto.


                              XIV.--_Russia_.

L'Italia che dianzi aveva tutti contro di sè, oggidì pare che abbia
tutti per sè cospiranti; nemici tra loro, o sospettati di poter domani
diventare nemici, in ciò solo unanimi stupendamente: Prussia e Francia,
Inghilterra e Russia. Anche Russia chiede un congresso; altri dice per
la Turchia, cioè per la cristianità, che le preme: ma l'una cosa non
esclude l'altra, essendo parte di cristianità anco l'Italia, a un
dipresso. Certo è che la guerra di Crimea, anzichè respingere Russia
verso Asia, la attrasse nel bel mezzo d'Europa; ebbe anche Russia la sua
Villafranca. Storico, ma sul serio, anzi sunto di storia molta, è il
motto: _Russia non s'imbroncia, ma si raccoglie_. Si raccoglie per
isvolgersi, come chi si fa indietro per prendere con più empito la
rincorsa. Russia, al modo di tutti coloro che si destinano, e son
destinati a vantaggi sicuri e ultimi, sa aspettare. E siccome i governi
liberi per loro fini si collegano co' governi assoluti; e umani in casa
verso una parte della propria famiglia, verso un'altra e di fuori son
altro; così per contrario i governi assoluti non solo si associano ai
liberi, ma si fanno promotori di libertà, di rivoluzioni, di congiure,
intendendo alla loro maniera il proverbio, che da un disordine nasce un
ordine. Non dico che debbasi da noi perciò diffidare o della Russia o
d'altri che sia, perchè nella diffidenza stessa, ripeto, può essere
credulità: dico che conviene saper discernere le ragioni vere e della
nostra fiducia e dell'altrui benefizio.


                     XV.--_Germania--Confederazione_.

Non bisogna attribuire agli uomini (uomini sono anco i Principi, persone
umane anco i governi) intenzioni sovranamente generose, o gratuitamente
crudeli; nè troppo grossi pensamenti, nè troppo acuti. In questo
rispetto Napoleone III fu da' suoi ammiratori calunniato, troppo più che
se fossero suoi nemici. Per torcere le parole di lui a servigio delle
proprie speranze, affermavano che quanto egli dice, è il contrario di
quello che sente; dal che per vero le promesse all'Italia
acquisterebbero senso troppo sinistro. Altri pensò che la pace di
Villafranca non fosse che un artifizio per lasciare l'Austria impacciata
nel Veneto, quasi un laccio di morte: altri per contrario pensò che
l'accostarsi all'Austria era un'alzata d'ingegno per dividerla da
Inghilterra, così come l'accostarsi a Russia era stato un voler mettere
l'Inghilterra in pensiero. Altri ordiva una trama di ragionamento più
fina; e diceva così: Francia non può permettere che Germania sia una,
che diventi nazione davvero. Finchè Polonia viveva, vigile e minacciosa
tra Germania e Russia, con la lancia sempre in resta contro la schiatta
Germanica, la più invaditrice che sia sulla terra; l'Europa poteva
affidarsi: ma, dopo la grande iniquità del secol passato, si è fatta
trista missione alla Francia impedire che Prussia appropri a sè tutte le
forze Alemanne. Or cotesto era da temere pocanzi; non gli eserciti del
Reno accennanti alla Francia, ma l'autorità morale cresciuta alla
Prussia dall'annichilarsi dell'Austria. Depressa questa con l'una mano,
con l'altra conveniva rilevarla da terra; e il rilevarla era un'altra
depressione. Il distruggere è un modo di creare; ma si può, anche
creando, distruggere. Questo gioco l'ha fatto la pace. Non so se la
Francia possa andar lieta di cotesto uffizio di reagente chimico di
revellente medico, se a Napoleone III possa piacere pur l'apparenza di
dissolvente e di pittima. Ma direi che chiunque troppo sperasse o troppo
temesse dalla dissoluzione delle alleanze vecchie e dal congegno di
nuove, risica di sbagliare; perchè e le nuove possono disfarsi, e le
vecchie rifarsi, siccome vedemmo e vediamo. E c'è una perpetua naturale
alleanza, in certe cose, di certa gente con certa altra gente. E per me
credo, che senza voler nè difendere nè offendere l'Imperatore di Francia
o quel d'Austria, altri potrebbe credere che nel loro colloquio e' si
siano dette ragioni a vicenda persuasive, e che l'uno abbia fatta la
parte dell'altro con rara, e forse unica, sincerità.

Guardiamoci dagli eccessi. Perchè la Confederazione Italiana fu adoprata
a palliare una pace non accetta, e a scusarla forse nella coscienza di
chi cercava conforti a sè stesso più che ad altrui, per questo taluni
parvero rigettare tutta sorte confederazioni, e si rifecero con
rettorica incauta dal numerare gl'inconvenienti delle confederazioni che
vivono, senza badare ai vantaggi. Laddove non si può di punto in bianco
cogliere la perfetta unità; laddove questa è da coloro stessi che si
dicono amici o sospettata o impedita; la Confederazione, quando non sia
ludibrio o laccio, giova a prepararla e a promuoverla. Laddove poi
siffatto vincolo è stretto dalle consuetudini e dalla ragione delle cose
(della quale la stessa utilità può essere prova, tuttochè non ne possa
tenere le veci), gli è cosa desiderabile senza dubbio. E affermo non
solamente che la Confederazione Americana e quella di Svizzera, ma fin
la Germanica ha per la Germania i suoi vantaggi; e che le discordie e i
pericoli degli Stati Germanici non da questa causa provengono, ma da ben
più profonde. Per la Confederazione, ancorchè svogliata e imperfetta, e
mal tollerata da lei stessa, Germania si sente a qualche modo nazione, e
ne prende le sembianze, il che è pure qualcosa; e ritrova occasioni
frequenti d'aspirare a unità, e di farla all'Europa temere. Questo nome
insomma è di per sè stesso una forza; e chi proponesse ai Tedeschi di
sciogliere ogni Dieta, ogni simulacro e cerimonia di deliberazioni
comuni, di affidare a uno Stato la cura di rappresentare tutta quanta la
schiatta e di renderla daddovero una, non ne avrebbe risposta del sì, se
non dallo Stato prescelto: e, messo al punto, anche questo esiterebbe,
come abbiam visto fare nel quarantotto la Prussia. Esiterebbe non tanto
per dappocaggine o per riguardi di verecondia e di generosità, quanto
perchè sentirebbe sorgere dalla natura stessa delle cose difficoltà
all'impresa non dissimili da minaccia. Certamente è ridicolo, in
orribile maniera ridicolo, che la Confederazione Germanica pianti i suoi
piuoli co' suoi cartelloni sull'estremo limite del Trentino, e distenda
sè stessa fin là; e chi dice a noi che la nuova Confederazione Italiana
per giuochi della sorte non impossibili non faccia sì che quei medesimi
piuoli con quei medesimi cartelloni vengano trapiantati sulle rive del
Mincio? Ma da coteste lepidezze germaniche non segue che quella loro
Confederazione sia per ora così cosa da nulla come taluni la vogliono.
Taluno de' quali, sbertando quella, confondeva ne' dispregi un degli
Stati Tedeschi serbato forse a sorte maggiore che non le sia dato fin
qui, la Baviera. Se si volesse per l'appunto misurare il valore
intrinseco delle sovranità, io non so quanti sovrani davvero potrebbero
contarsi in Europa; ma so che la vera potenza nè degli Stati nè delle
nazioni, la vera loro efficacia sull'avvenire, la storia non le suol
misurare nè dalla mole, nè dal rumore che fecero. La Baviera anco fino
al dì d'oggi, come contrappeso, fu qualche cosa al disopra del nulla:
ma potrebb'essere che diventasse un de' centri. E Napoleone I,
coll'istinto de' grandi ingegni e degli uomini fatali, pare che lo
presentisse; e accennò di volerlo operare: senonchè i lampi dell'alta
mente erano brevi a illuminare le tenebre del suo cuore e la tempesta
de' tempi. Ma può essere che, senza deliberata cospirazione di Principi
o rivoluzione di popoli, Austria venga via via perdendo, e dall'un lato
ceda del terreno alla Slavia rioccupante quel ch'è debito alla sua
schiatta, dall'altro alla Baviera meno sfruttata e meno odiata, che
rappresenti la Germania cattolica, e, rattenendo, educhi a istituzioni
più equabilmente liberali la Prussia. Questo, insinattanto che la
diversità delle confessioni, come nebbia importuna, al lume della virtù
si dilegui.


                              XVI.--_Roma_.

Se a questa grande unità Roma inalzasse il pensiero, ne avrebbe concetti
e più italiani e più cristiani; e non solo al decoro della sede, ma alla
sua stessa dignità temporale provvederebbe. I protettori della sua così
detta indipendenza dovrebbero farle paura, quand'ella rammenti che anco
la Russia accennò di voler essere vindice dei diritti del Pontefice Re;
che il visconte di Palmerston scrisse nel quaransette: «L'integrità
degli Stati Romani devesi riguardare come l'essenziale elemento della
politica indipendenza della Penisola Italica.» Ecco come l'ingegnoso
protestante concilii l'indipendenza della Chiesa Cattolica
coll'indipendenza della nazione italiana, per mezzo del Regno Papale,
conservato nella sua presente larghezza. Se poi Roma possa vantarsi e
godere di tal protettrice quale è l'Austria, contro cui protestò, come
contro usurpatrice, per bocca e di Pio VII e di Pio IX (e Pio VII faceva
profetica confutazione de' sofismi odierni, ripetendo in senso contrario
la parola stessa, e affermando le guarnigioni di Ferrara e Comacchio
contrarie all'indipendenza assoluta della Santa Sede, nel suo
principio), l'Austria che le tramava in casa cospirazioni, di quelle che
essa oltre Po punisce col laccio e col piombo, altri giudichi. Certo il
dover dipendere dalla difesa armata di protettori, per generosi e devoti
che siano, è una indipendenza di nuova maniera. E i più generosi e i più
devoti, dacchè si trovano coll'armi in mano ne' dominii del Pontefice
indipendente, non possono non parere e ad altri e a lui stesso, tosto o
tardi, sospetti di irriverenza. Guelfi o Ghibellini, protettori o
nemici, quando sono negli Stati del Papa, tutti è forza che siano o
paiano Ghibellini e nemici. Il cardinale Bernetti, quasi trent'anni
sono, scriveva che al Santo Padre i suoi figliuoli, come sudditi, _non
ubbidiscono che di nome_; nè credo che il cardinale Antonelli li abbia
col suo senno civile o con le sue virtù religiose fatti diventare più
docili. Or io non so come il non volere i popoli dipendere dal Principe
possa fare che il Pontefice non dipenda da Principi, nè da popoli. Dovrà
per lo meno dipendere dagli Svizzeri, da questi giannizzeri della
Cristianità, i quali fin Napoli sente di non poter sopportare. E
bisognerebbe poter interrogare la coscienza del cardinale Antonelli
perchè ci dica se la indipendenza che viene a lui dalle milizie di
Francia accampate in Roma, gli paia così comoda cosa com'egli pare
profondo politico al Gabinetto di Francia. Lo schermirsi ch'egli fa
dalla Confederazione minacciata sarà forse prova di raro accorgimento,
ma non è certamente di sacerdotale franchezza. E io credo insomma
ch'egli sia per l'appunto così contento della Francia, come la Francia è
di lui.

Quando Napoleone III calando in Italia prometteva serbare intatti al
Pontefice i suoi dominii terreni, nel Piemonte alleato fu fatto sopra
cotesta questione a un tratto silenzio, intimato, dicesi, dall'autorità,
o, se piace meglio, consigliato. La subitana prudenza che teneva dietro
alla licenza loquace, la qual troppo spesso confondeva e gli scandali
della Corte e l'autorità della Sede, non parve a me, credente,
generosità tanto imitabile, quant'era prova di maravigliosa prudenza e
docilità. E scrissi poche pagine, non per trattare a fondo la questione
già esaminata abbastanza, ma per rammentare riverentemente il diritto
de' popoli, il dovere de' preti. Giovava che la discussione non fosse
intermessa, anzi ripresa più pacatamente che mai, a fine di preparare,
nella coscienza pubblica, all'Imperatore stesso gli spedienti di
sciogliere il nodo, quando il suo momento venisse. Ma questo momento non
poteva essere, pendente la guerra: conveniva dunque intanto ragionare, e
aspettare la stagione de' fatti. Altri volle parere più zelante
dell'uomo la cui opera era stata, siccome necessaria, instantemente
invocata. Chi non seppe incominciare senza di lui, presunse finire senza
di lui; e apparentemente almeno, a dispetto di lui, non curando se ne
venissero smentite le sue parole, rotti i suoi segreti disegni. O
cotesti disegni erano ignoti, e conveniva usare precauzione grande
acciocchè l'inscienza e l'imperizia non paresse petulanza e ostilità; o
erano noti, e il pure precipitarne di proprio arbitrio il compimento era
per lo meno irriverenza pericolosa, o risicava di parere, che è il
medesimo, e forse peggio. Non giova mai voler apparire più forte o più
avveduto o più sollecito dei solleciti, degli avveduti, de' forti.

Ma la questione in parole, e pubbliche e schiette, ripeto, potevasi
intanto trattare, e dovevasi, anco per manifestare a Napoleone III i
_voti legittimi_ della nazione; al che egli disse di badare, e anche non
volendo ci bada. Speravo che il mio scrittarello potesse essere inteso
da tutti, come fu da moltissimi, per il suo verso: ma parve a taluno
che, laddove io proposi lasciassersi i sudditi del Papa assaggiare altro
governo, e poi, se loro meglio piacesse, ritornassero agli Svizzeri e al
Papa, io proponessi sul serio un nuovo regno del Cardinale Antonelli.
Che rispondere a interpretazioni tali? Che siamo in Italia; e che il fio
della servitù lunghissima, e della poca intelligenza de' fatti e del
linguaggio civile, bisogna pagarlo, e caro. Ora però dico sul serio che,
se gl'Italiani non fanno senno, anco liberati dai Papi, quel ch'io davo
come sfida dell'impossibile, diventerà inevitabile, e il Cardinale
Antonelli sarà di bel nuovo Re. Altri si dolse ch'io, desiderando
sottratto alla dominazione de' preti tutto il rimanente Stato, lasciassi
la città di Roma per sede al Pontefice; come se io ve lo volessi Re in
compagnia degli Svizzeri; come se il municipio di Roma amministrante sè
stesso non potess'essere degnamente all'intera nazione congiunto; come
se l'antica potestà temporale de' Papi non lasciasse ai municipii
maggiore libertà che ora non ne lascino certi statuti; come se quelle
liberali conciliazioni del diritto civile col canonico, le quali il Papa
ha permesse in tanti Stati cattolici, non si potessero, anzi dovessero
ammettere in Roma per evitare contraddizioni mostruose. A taluno pareva
crudeltà di niegare all'alma Roma quello che concedevasi a Forlimpopoli:
e appunto in quel mentre che la doglianza pia usciva, entravano in
Perugia gli Svizzeri a insegnare l'intervallo che corre dai desiderii
alla possibilità. Ma quand'anco da Roma e da Italia togliessesi insieme
con la Corte la Sede; quand'anco la nazione volessesi diredare di quella
morale potenza, maggiore di ogni impero, la qual verrebbe dall'autorità
spirituale d'un uomo sopra milioni d'uomini sparsi per tutto il mondo
civile, autorità ringrandita dallo sparir del diadema sopra la mitra;
quand'anco giovasse alla libertà Italiana e alla civiltà che il primo
prete o diventi suddito d'un Re straniero, o che un Re o una Repubblica
lo ricetti e gli dia un paese devoto al suo speciale governo, a
condizioni che potrebbersi fare gravi a lui a noi, forse a tutti;
quand'anco ciò fosse, nessun uomo che abbia memoria del passato e
discernimento del presente e presentimento dell'avvenire, oserebbe voler
collocato il centro della nazione novella in quella città che nè per
vantaggi militari nè per progressi civili e scientifici può dirsi
centro, in quella città che non solo all'Europa tutta ma alla misera
Italia stessa col suo nome risveglia tante rimembranze o di dolore o di
rancore, di troppo recente umiliazione e di troppo antica grandezza.

Ma queste sono anticaglie, che forse di qui a qualche secolo, come segue
di tutte le anticaglie, ritorneranno novità: per ora il fermarvisi con
la speranza o col timore sarebbe un far ridere i nostri nemici, un far
sospirare o anche arrabbiare gli amici. Adesso abbiamo dall'un lato
l'Impero Romano oltre l'Alpi (_Rome n'est plus dans Rome_), dall'altro,
il cugino del Re di Roma, che combattè nel trentuno non contro il
Pontefice ma contro gl'innumerabili regnatori di Roma al minuto, che da
dieci anni difende non il regno ma la persona del Pontefice con soldati
che non sono de' figli di Romolo; e insieme permette che una parte de'
sudditi del Sacerdote Romano esprimano in parole e in fatti i loro voti
legittimi non contro la persona del Sacerdote, ma contro que' regnatori
al minuto. In queste che paiono contraddizioni, egli sentirà certamente
una segreta convenienza che molti non sentono; ma io confesso di credere
non impossibile che sia sinceramente sentita in qualche maniera.


                          XVII.--_L'Alleato_.

E confesso altresì che, se le speranze in lui poste, se gl'impegni
espressi o taciti con lui presi mi paiono cosa rischiosa e ad altri e a
lui stesso; la dimenticanza di quegli impegni o la disperazione
improvvisa mi pare assai più rischiosa. Confesso che alla sua entrata in
Torino, dopo i memorabili cimenti suoi e del suo esercito, dopo la
Lombardia, o parte almeno della Lombardia, liberata, nonostante la pace
di Villafranca, avrei voluto men fredda accoglienza, acciocchè fin
l'ombra della ingratitudine fosse dagli avvantaggiati e dai deboli
allontanata, acciocchè il giusto dolore de' fratelli rimasti sotto il
giogo e in agonia non fosse potuto imputare a sentimenti di presuntuoso
dispetto, acciocchè l'angoscia appunto de' fratelli non fosse aggravata
dalla tema che il potente irritato li abbandoni per sempre alla loro
misera sorte. Io so bene che non si fa forza agli affetti, che non è
degno simulare la gioia, e ridurre a cosa teatrale i trionfi: ma se
quello era pretto e profondo dolore del benefizio non compiuto, pare a
me che dovesse durare un po' più, e con più efficaci segni, e non in
quell'incontro, essere significato. Il pensiero di quella giornata mi
sta sempre dinanzi; e mi umilia non solo per il vincitore salutato così,
ma e per la nazione che dalla sua improvvida credulità è tratta a
convertire in amaro la gioia delle stesse vittorie, e si espone a
esacerbare l'animo di colui che dianzi com'unica sua salute invocava.
Lasciando stare gli affetti, che in politica voglionsi cosa
spropositata, pare a me che se credevasi pur possibile che nell'animo
dell'uomo una buona disposizione verso le cose d'Italia o rimanesse o si
rinnovasse, cotesta possibilità di per sè sola era ragione a mostrargli
riconoscenza; e caso che ciò non si credesse possibile, le accoglienze
severe diventavano provocazione mal cauta, o per lo meno significazione
inutile ed impotente. Posto che il tremendo alleato più non volesse
giovare punto, non poteva egli nuocere più? Era forse amor patrio il
fornire pretesti a que' consiglieri pur troppi che gli stanno d'intorno,
che gli dissuadevano questa guerra, e che adesso di tale ricambio degli
Italiani si farebbero un'arme contr'essi? Possibile che e nello sperare
e nel disperare l'Italia abbia a dimostrarsi così nemica di sè?
Intenderebb'ella a così caro costo e in così nuova maniera smentire
l'antica calunnia appostale di Machiavelliche duplicità?


                XVIII.--_Il non fatto, e il da farsi_.

Senonchè gli uomini previdenti che ha la nazione, anzi la miglior parte
della nazione, pare che meglio intendano, e cerchino di farsi intendere
meglio. E' s'accorgono che la pace di Villafranca ha sospeso assai cose,
non ne ha conchiusa nessuna; che Napoleone stesso manifestamente
dimostra la sua intenzione d'aver voluto lasciare adito non solo ai voti
legittimi ma ai legittimi fatti. Nè egli può intendere la legittimità
nel vieto senso de' regnanti di razza, restringendola ai diritti d'una
famiglia, e cotesti diritti facendo salire e scendere per gli organi
della generazione principesca; nè i voti de' quali egli scrisse, hanno a
essere vuoti d'effetto, e desiderii di debolezza più che suffragii
d'autorità. L'autorità propria egli deve all'autorità di que' voti, la
dice dovuta; e in questo e in altre cose parecchie giova pigliarlo in
parola. Pigliarlo in parola, non come a un lacciuolo, ma perch'egli
desidera esserci preso; vuol essere inteso: e guai a coloro che non
sanno punto intendere chi non vuol dire tutto! L'arte del sottintendere
è la misura della civiltà, della quale l'Italia si tiene maestra. Non è
nè svantaggio dei tempi, nè colpa di Napoleone III, se i popoli sono da
esso invitati a manifestare le proprie volontà: ma chi si appagasse di
manifestarle in sole parole, lasciando che Napoleone III faccia,
frantenderebbe lui; il quale non potendo e non dovendo fare ogni cosa, e
non volendo e non sapendo far nulla noi, ne verrebbe necessità che i
suoi nemici e nostri facessero essi.

L'occasione, anzi la necessità del parlare alto e dell'operare, non è
passata dopo la pace di Villafranca; è anzi più destra che mai.
Foss'anco passata, bisognerebbe apparecchiarsi a poterla cogliere se
ritorna. L'apparecchio è di concordi consigli, di armi concordi. Il dir
di volere tal principe, di disvolere tal'altro, dirlo in piazza o in
assemblea, dirlo a tavola in brindisi o dalle finestre in dicerie
applaudite senz'essere udite, non basta: non basta festeggiare
trionfalmente la futura decadenza di tale o tale razza di Principi, e
pregare gli stranieri che ci facciano poi italiani. I decreti delle
Nazioni, acciocchè siano validi, devono essere incisi con la punta delle
spade, e scritti col proprio sangue. Ma le spade italiane al bisogno
contansi tuttavia poche. Da più mesi è sgombra Lombardia; e dopo tanto,
esce un foglio di carta che intima la leva, una leva come ne' tempi
ordinarii. E se nel luglio Luigi Napoleone moriva? E se s'avverava il
suo presentimento di guerra più vasta, che altrove chiamasse le forze di
Francia? Io non dico che l'ordine non sia buono, massime quando prova
che le ombre arciducali non sempre ne sono la necessaria tutela; ma
l'ordine può conciliarsi eziandio con gli apparati di guerra. Nè il
numero dei pronti a combattere sì in Toscana e sì nelle Legazioni e sì
ne' Ducati è tanto che possa, se non con sforzi di valore non tentabili
per mera pompa e senza gran sangue, resistere all'austriaco invadente.
Nè è cosa onorevole nè sicura fidare nella momentanea forzata inerzia
del nemico, e di questa menare vanto. Or in tanto bisogno di braccia
armate, in questa sospensione che rende tuttavia inevitabili al Piemonte
stesso i soccorsi stranieri, io non intendo perchè i volontarii o sparsi
per l'esercito o accolti in schiere da sè, dovessero, con sì precipitosa
e non chiesta sollecitudine dei loro agi, essere lasciati liberi
dell'andarsene, e non piuttosto, ora più che mai, allettati degli altri
con fraterne accoglienze a venire: I Veneti specialmente, ai quali porre
in mano pochi soldi da ritornare alle case loro, cioè sotto il bastone
dell'Austria, sarebbe ludibrio crudele se non fosse sbadataggine di chi
crede aver altro a pensare; i Veneti giovava che fossero tutti raccolti
in una legione distinta del nome loro, per metterli al punto di più
insignemente onorarlo, per mostrare ai calunniatori ignoranti o
spietati, che anco il Veneto è Italia, che Austria, di qua dal Mincio
insopportabile, non è benefattrice di là.

Vero è che la pedanteria soldatesca non è tutt'uno con la disciplina
militare; e che i poveri volontarii furono, sebbene armati di quella
docile pazienza che è più difficile del coraggio, messi da cotesta
pedanteria a prove dure. Ne trionfarono sopportando; e questa, al parer
mio, è la più bella vittoria e più ben augurosa all'Italia, perchè
vittoria di noi stessi. Che Stati finora aventi una qual si sia vita da
sè, spontaneamente si addicano ad altro Stato, non dirò io certamente
che non sia bello: ma può nel merito averci parte o l'ebrietà delle cose
nuove, il pericolo delle dubbiose. Quando gli animi siano attutiti, e
data giù la procella, allora comincerà daddovero il merito della
concordia, il saggio dell'unità. Se fosse quel che raccontano, che a
Perugia chiedente d'unirsi, taluni delle Legazioni rispondessero col
rifiuto, cotesto non sarebbe auspizio d'italianità lieto assai: ma
speriamo che sia voce bugiarda. Speriamo che quanti si sono dati al
Piemonte, non aspetteranno oziosamente da esso quel ch'e' dice chiaro di
non poter dare per ora, sapranno stringersi tra loro, e fare
onoratamente da sè. Il cittadino guerriero che rappresenti e metta in
atto la loro unanime volontà, non è sorto finora. Altri forse dirà
che qui richiederebbesi un Washington o un Bolivar, non per fare
repubblica (i nomi non creano le cose, talvolta le disfanno), ma perchè
quei milioni d'uomini dimostrino di poter operare e pensare da sè, e
perchè quindi il merito dell'unione apparisca. Altri dirà che il sorgere
d'uomo tale potrebbe rapire nel moto altre parti che voglionsi intanto
quiete; e che la mancanza di certe persone può non denotare tanto la
infermità de' tempi quanto la provvida disposizione di Dio, il qual
intende condurre gli uomini come e dove non sanno, e scemando la gloria
de' meriti, sminuisce insieme pietosamente la taccia de' falli. Certo è
che con coteste astrazioni matematiche, di linee che non sono
superficie, e di superficie che non sono solidi; con cotesto voler
separare nella libertà quello che la servitù stessa univa, non si fanno
le grandi nazioni, nè di veruna specie cose grandi.


                          XIX.--_Sincerità_.

Provvedasi almeno che, nella mezzanità de' concetti e delle opere, la
sincerità delle intenzioni sia salva. Intendo bene ch'egli è difficile
tarpare le ali al desiderio e alla fantasia, e farli andare al passo
della diplomazia bipede e senza piume; intendo bene che scherzare coi
suffragi universali e colle Costituenti non si può senza risico. Ma se
le cospirazioni e le congiure, o i maneggi che somigliano a quelle,
possono parere comode a certi Principi; questa è ragione di più perchè
ne sospettino i popoli e le rigettino. Se la storia recente ci mostra,
tra gli uomini che dicevano sè moderati, esempi di trame, se così piace,
onestissime, ma che non si posson chiamare con altro titolo che di
cospirazioni, soggiuntovi pure quello di ispirate e di sante; da ciò non
segue che tutti i procedimenti in cui le parole e i fatti e le
intenzioni non vanno d'accordo, sia da parte de' Principi, sia da quella
de' popoli, non tornino da ultimo funeste a coloro stessi che avevano
per sè la ragione e il diritto. E anche senza questo fomite di
dissoluzione, l'Italia infelice ne ha troppi già nel suo seno: onde chi
per tal mezzo volesse aiutarla, foss'anco con intendimento pio, sarebbe
protettore sospetto.

Io non dirò certamente atti di poca sincerità i così detti indirizzi, le
congratulazioni e le condoglianze, le visite reciproche tra municipii e
Provincie, i pranzi e le messe da morto, le ambascerie pubbliche e le
deputazioni segrete, le feste nelle quali da ultimo sfogasi fino la
disperazione: ma temo che qui non sia pari alla sincerità l'efficacia;
che la civiltà troppo antica di certi paesi crei una politica troppo
nuova delle cose del mondo. Io so bene che in mezzo agli evviva e alle
tazze ospitali gl'Italiani tutti non cessano di pensare con lagrime al
calice amaro, ad ogni ora riempiuto, che bevono i veneti fratelli loro:
ma desidererei che in forme talvolta men clamorose fosse significato
l'affetto dei meno disgraziati. Desidererei che pe' Veneti a un tempo e
per sè con la medesima istanza pregassero tutti quelli dell'Italia di
mezzo; che si facessero interpreti dell'altrui dolore per forza muto,
non per stupidità o per paura, muto e immobile non per menomare i
singoli oppressi a sè i mali proprii, ma per non aggravare inutilmente i
comuni. Desidererei che una voce, che mille voci si alzassero per dire
che nostri fratelli, Veneti insieme e Lombardi, nobil parte d'Italia,
sono i popoli del Trentino, dannati in un limbo tormentoso a non essere
nè Italia nè Germania, sospetti ad entrambe; sui quali nel titolo odiato
di Tirolesi al peso della tirannide si sopraggrava l'incomportabile peso
della immeritata calunnia.

Ad alto uffizio per certo è in queste prove destinato il Piemonte: ma le
difficoltà accumulate dalla storia e dalla natura, da' falli della
nazione e dalle insidie dello straniero, al Piemonte si fanno più dure
per le arti improvvide che certuni in suo servigio adoprarono. Noi lo
vediamo costretto a pendere anch'esso dall'altrui volere e da' casi, a
tenere sè e noi attaccati a un filo il cui capo non è per ora in sua
mano; a misurare con più parsimonia le promesse ch'altri non faccia le
minacce, le promesse che non sempre furono parche così. E questa
differenza, non foss'altro, è disgrazia grande. Senza doglianze, inutili
ormai, del passato, impariamo tutti, o deboli forti che si sia, a
raffrenare le nostre e le altrui speranze, a non sospingere con l'una
mano per poi coll'altra dover rattenere; a rammentarci che diplomazia e
rivoluzione, se sono pericolose ciascuna da sè, molto più collegate; e
che quand'anco esse paiano tendere al medesimo fine, per via si
dividono, se non si combattono. Certamente il Piemonte, con
similitudine ormai trivialmente ripetuta paragonato alla Prussia, non
intende imitare la Prussia in questo, del dividere la nazione che egli
aspira a far una. Le cause religiose e civili che in Germania sono di
divisione, l'Italia non le ha; ha altre sue proprie, e abbastanza
tremende, senza che le non sue per imitazione si aggiungano: e quella
della religione sarebbe la più immedicabile, e tanto più rea che
bisognerebbe qui intruderla per forza. Ma ricordiamoci tutti che i
conati a unione, sebbene sinceri, non bastano a fare unità; come non
basta a levarci l'Austria di tra' piedi il patteggiare che lasci a noi
la Corona di Ferro: trista memoria, da desiderare che insieme con lei se
ne vada.


                             XX.--_Austria_.

Non rimanesse in Italia dell'Impero che un'ombra; basterebbe a dar ombra
e agli Italiani e ai Potentati d'Europa, e più forse a quelli a cui
dell'Italia importa meno. L'Austria stessa da cotesto simulacro di
potestà, da cotesta soddisfazione momentanea dell'orgoglio, avrebbe
pericoli senza compensi nè di vera dignità nè di lucro. E già il lucro a
lei e la sicurezza e la vita, per quel che concerne l'Italia, sono cose
disperatamente divise, nonchè dalla dignità, dall'onore. Che l'onore le
possa essere reso da Luigi Napoleone per via della Lega, se egli in
buona fede lo spera, non lo spera l'Austria certamente. Altra volta ella
aveva in proprio nome proposta una lega, e dopo il quarantanove fattone
que' saggi che impunemente poteva; ma e nel sedici la lega fu ricusata,
e dopo il quarantanove aggravò su lei gli odii e fece più urgenti i
pericoli. E il Metternich, con quella semplicità che e in bene e in male
è la dote dell'esperienza consumata, scriveva: «che l'Imperatore non ha
pretesa d'essere un potentato Italiano, ma si contenta d'essere il capo
del suo proprio Impero.» Or è da credere, per quanto Napoleone III sia
politico accorto e tenero dell'Austria, che il Metternich di quello che
Austria vuole s'intendesse un po' più.

Altri dimostrò argutamente che l'Italia è all'Austria peso e danno. Ma
l'Austria pare disposta a rispondere che questo le è peso soave, e
gratissimo danno, e ch'ella vuole pur seguitare provando agli Italiani
la propria generosità e pazienza fino alla consumazione de' secoli. Del
resto nel novero de' vantaggi che trae l'Austria dall'Italia, bisogna
comprendere non solamente il danaro sonante che l'erario riscuote, ma
tutti gli utili economici e commerciali che ne hanno le altre provincie
dell'Impero, talune delle quali con questo titolo imperano veramente
sopra l'Italia, e ricevono i suoi tributi; e però coll'Austria
combattono e combatteranno contro di noi, tuttochè per altro
dall'Austria oppresse esse stesse e ingiuriate. Poi l'argomento de'
numeri potrebbesi allargare in forma a troppi altri molesta; perchè, se
dovessero i governanti donare o vendere tutte quelle provincie dove per
il momento presente la spesa è più della rendita, cotesta ragione
varrebbe contro Inghilterra e contro Francia per le isole Jonie e di
Malta e di Corsica; senza dire d'altre provincie dall'Austria dominate.
E costei, con più apparente ragione che Francia e Inghilterra, potrebbe
rispondere che, fidata nell'esperienza del passato e nel patto recente
di Villafranca e ne' premii che sono promessi ai perseveranti (giacchè
l'ostinazione e la stessa stupidità può parere a lei perseveranza, e non
pare a lei sola), ch'ella spera che questo stato dispendiosamente
violento, in cui tutte le ricchezze del suo regno Italiano le sono dalla
guerra divorate e non bastano, cessi; che torni l'aureo tempo
dell'ordine, del quale sia sufficiente guarentigia, invece del cannone,
la forca; e le fortezze non servano che a custodia de' ribelli. Poi la
soprallodata perseveranza austriaca ha un'altra idea: che il credito
politico, a similitudine del commerciale, bisogna conservarlo a ogni
costo, a costo anco di debiti rovinosi, e che tengano della rapina e del
furto, e che pure non possano se non differire l'estremo fallimento e la
fuga vituperosa. L'Austria vede che sopra la cosiddetta bilancia
politica i potentati pesano non colle rendite nette, nè coll'affetto de'
sudditi pochi, nè colla gloria delle armi poche e intemerate, ma colla
estensione e la mole delle provincie che tengono, bene o male, o per
amore o per forza. Coteste provincie, a un bel bisogno, servono non
foss'altro per baratto; ma poi posson anco servire per titoli di nuova
preda; giacchè nel jus delle genti, quale lo insegnano non i trattati
teorici ma i pratici, la preda è diritto alla preda. Or se così è che le
apparenze pur della forza somministrano vantaggi nelle partizioni che
i forti fanno delle spoglie de' deboli; quando l'Austria non si tenesse
aggrappata all'Italia per altro, ne la renderebbe tenace il pensiero
della Turchia, ch'è la Gerusalemme de' novelli crociati. Dico della
Turchia per un modo d'esempio; ma non intendo con ciò misurare gli
appetiti dell'Austria, nè segnare il confine ai voli delle sue fantasie.
Chi governa le fantasie di certi governi? La bilancia europea pesa
tutto; ma chi misura gl'impulsi, furtivi o scoperti, delle tante mani
che tengono la bilancia?

Questo traslato poetico, e le mitologiche personificazioni dell'ordine,
della famiglia, e tante altre figure politiche, provano che il regno
della poesia non è finito, che gli uomini positivi sono anch'essi poeti
alla loro maniera. Giacchè dunque la natura, cacciata con la forca,
ricorre; sia lecito le ragioni semplicemente aritmetiche confermare con
ragioni più alte; e volendo persuadere all'Austria che se ne vada,
rammentarle che un mezzo secolo di prove sempre più infelici e infami
sopra l'Italia è già assai; che i suoi pericoli sono venuti sempre
crescendo con l'ostentazione della sua forza e dell'accanita sua
volontà; che il malcontento, da prima mutolo e inerte e sparso, s'è
fatto sempre più clamoroso e operoso e concorde; che popoli e principi,
dianzi o non curanti o avversi, dimostrano adesso o rispetto dell'Italia
o pietà (vera o finta, interessata o generosa); che la simulazione
stessa è un omaggio, quanto meno spontaneo tanto più valido a dimostrare
la invitta necessità delle cose; rammentarle che le incessanti brighe
austriache di prevalenza, tuttochè attestino più timidità che vigore,
danno agli altri Principi, se non sospetto, noia; e che la noia riscuote
talvolta più che la stessa paura; rammentarle che le inquietudini
dell'Italia danno esempio tanto più pericoloso, che oramai riconosconsi
provocate dall'Austria stessa; e che ai Principi legittimi non piace
vedere il disordine diventato cosa legittima, ed essere sforzati a
proteggerlo per tema di peggio. Se Austria teme che il lasciare libera
di sè l'Italia, possa farsi tentazione agli altri popoli da lei tenuti a
osare il simile, pensi che l'esempio delle rivoluzioni continue e delle
guerre, miracolosamente restate, più che finite, per la generosità del
nemico o per casi dove il merito di lei non ha parte, sono tentazioni
agli altri suoi sudditi ben più da temere per essa. Pensi che il suo
dominio in Italia, meno antico e più contrario a natura e più
insopportabile per gli odii recenti da lei irritati, e anco per le
vergogne da lei patite, non solo non avvantaggia la sicurezza e l'unità
del suo vecchio impero, non solo non le porge speranza di nuovi
possessi, ma le minaccia interna totale dissoluzione; che verso le altre
provincie ell'è ancora in tempo di mutar tenore, rinsavita, e di
rendersi tollerabile, e anco, se vuole, benefica, migliorando le loro
istituzioni, e alla loro civiltà provvedendo. Per poter fare questo, per
sanare la gangrena del suo debito, se i Potentati le offrissero un certo
numero di milioni in premio delle sue rapine e in riscatto di quello che
mai non fu suo, essa dovrebbe accettarli come mancia insperata, e
andarsene quatta, facendo senno, e attendendo a curarsi e svolgersi
dentro; e non d'estorsioni maledette, ma di propria e sempre più feconda
e meritata grandezza arricchire.

Dove terrebb'ella i soldati Italiani sotto la sua bandiera coscritti?
Non nell'Italia malfida; non nelle altre provincie, dove lo stesso loro
aspetto sarebbe una rivoluzione vivente. Quali milizie manderebb'ella a
tenere l'Italia compressa? I Polacchi ch'ella ha aizzati alle stragi
fraterne, ma non però fatti amici suoi; e che, disperati d'altro, si
volgerebbero alla Russia con meno ribrezzo? tanto l'Austria si è
avvilita e moralmente spodestata da sè. Forse gli Ungheresi, che le han
fatto provare il bisogno dell'elemosina russa? Forse gli Slavi, de'
quali essa si è contro Ungheresi e Italiani servita per poi non solo
fallire alle recenti promesse della paura, ma rompere gli antichi
Statuti e giuramenti, sì comodi del resto a osservarsi, per schernire la
loro malcauta credulità, e conculcarli? Ecco i Croati, il cui nome per
le arti di lei è fatto intollerabilmente odioso alla civiltà, si
risentono, negano il loro braccio alla guerra, rammentano la fede
tradita, le loro franchigie violate, con atto tra di furto e rapina.
Esce un libro in Parigi, munito di documenti diplomatici e storici,
armato di ragionamenti e di fatti, che mette in luce cose all'Europa
ignorate, i torti dell'Austria verso la Croazia infelice. Libro degno
che vi pongano mente e Principi e popoli, e l'Austria più di tutti, per
iscuotere da sè i fantasmi della sua inferma tirannide, e gettare
l'occhio sul precipizio che le sta aperto, e lasciare l'Italia a cui
troppo essa costa, ma che le costerà troppo più, se ci resta.


                    XXI.--_Possibilità del pericolo_.

Ma gl'Italiani non devono attendere che Austria, consigliata o dal
pentimento o da un rotolo di monete messole nelle mani, se ne vada di
suo proprio moto, sospinta dai Potentati, tutti con improvvisa concordia
pietosi a pro del debole, risoluti a pro di chi non ardisce operare da
sè. Bisogna porre (ed è troppo possibile) il caso che Austria non voglia
cedere a nessun costo, che dentro in Italia ci sia chi la voglia, e,
anche uscita, la chiami; che fuor d'Italia nessuno voglia o possa sul
serio farle forza o paura; che, quand'anco cotesto volere e potere si
trovino uniti, un momento, un solo momento si dia, nel quale gl'Italiani
abbiano da sè stessi a far prova del proprio volere e potere contro un
astuto e agguerrito e disperato nemico. Nel pensiero di questa, fosse
pur lontanissima, possibilità, gl'Italiani devono affrettarsi agli
apparecchi di guerra, come se fossero soli al duello di morte,
raccogliersi in silenzio dignitoso e severo, nè con pompe di scenici
trionfi sgomentare e accuorare gli amici, gli avversi irritare insieme e
inanimire. Pretendere che altri faccia per essi, come servitore per
padrone; sdegnarsi che non abbia fatto abbastanza, quando non si sa
veramente quanto egli abbia promesso di fare, e a che condizioni
promesso, e se altri prima di lui possa essere sospettato di venir meno
alle poste condizioni; è, se non altro, puerilità. Quando sapete, e
dovete sapere, che patti segreti ci furono sopra il vostro destino;
l'immaginarli tutti in servigio di voi, è fantasia consolante,
perdonabile, se così piace, agli inesperti e agli infelici che sentono
il proprio dolore e diritto; ma non è fantasia alla qual devano ubbidire
i più forti come se fossero i deboli essi, e devano le leggi del mondo
civile piegarsi come a cenno di Dio onnipotente. Patti ignorati, perciò
stesso che sono ignorati, devono mettere, più che baldanza, sgomento,
massimamente a nazione che da secoli patisce inganni non sempre dal suo
lato innocenti, e disinganni crudeli. Il lavoro di secoli, foss'anco
lavoro di distruzione, non si disfà e non si ripara in un dì: che anzi
le ruine ammontate si fanno alla riedificazione impedimento. L'Italia
deve non aspettare che un Re, sia di qua o sia di là d'Alpe, la faccia.
Nessun Re, nessun uomo è da tanto. Essa deve con lunghissima fatica
riedificare sè stessa. Deve primieramente conoscersi, e acquistare la
coscienza della propria forza vera, la quale coscienza non si ha
dissimulando a grande studio le proprie debolezze. E gl'Italiani non
solamente se le dissimulano, ma se le aggravano e creano. Tra cittadini
e villici non s'intendono ancora: tra provincia e provincia è cominciata
così in digrosso una qualche specie o mostra d'intesa; ma decreti, nè
visite cerimoniose non bastano a tanto. Due milioni e mezzo e più
d'Italiani gemono e fremono sotto quel bastone e quel ferro che minaccia
tuttavia la nazione tutta quanta; e altri milioni intanto tripudiano
della speranza, alla quale il dolore fraterno e le significazioni del
lutto pubblico sarebbero augurio ben più fausto nel cospetto del mondo e
di Dio. E poi si dolgono che l'Imperatore de' Francesi non abbia fatto
abbastanza per loro. Hann'eglino fatto, fann'eglino il loro dovere per
sè? Vuolsi ch'egli si dolesse del non essere stato inteso. E sebbene io
non presuma d'intenderlo, perchè non so tutto quanto egli ha detto;
sebbene io creda ch'e' non ami essere sempre inteso in tutto e da tutti;
confesso però che chi molto pretende dai forti, ha dovere d'intenderli o
d'indovinarli in qualche maniera; e che l'unica scusa o compenso della
debolezza assai volte è l'intendimento, a almeno la prudenza modesta. Io
so bene che, oltre all'affezione, l'Imperatore ha altre ragioni di
giovare all'Italia; ma l'Italia ne ha ben più per giovare a sè stessa.
Egli può tuttavia mettere nella bilancia che libra i nostri destini,
mettere di quelle parole che pesano quanto la spada, perchè pronunziate
con in mano la spada; può senza suo risico acquistarsi una gloria di
conquistatore più pura che quella dello zio, la cui ombra occupa
tuttavia Europa tutta, e delle cui tradizioni si fanno forti e amici e
nemici: ma la spada di Francia, grazie a Dio, non costringe l'Italia a
starsene inerme, non assicura l'Italia da tutti i pericoli. La Francia
ha i suoi pericoli anch'essa: e se il sospetto d'uno di questi ha
dettata la pace di Villafranca, un altro sospetto può ben commuovere
nuove guerre nelle quali agli Italiani sia forza dar saggio di sè.
Napoleone III si compiace in far prova della propria oltrepotenza
distraendo amici e avversi con accenni di guerra or a ponente or a
mezzodì, or a levante; ma potrebbe anch'egli essere in simile maniera
distratto, sì che non possa provvedere a noi altri. E taluni tra noi
richiedevano il tutto da esso, come se l'Italia fosse il centro del
mondo, come se la Francia non fosse grande se non per farsi all'Italia
piedistallo. Siamo riconoscenti a quella nazione prode, che sparse tanto
sangue, per noi; ma pensiamo che non le sue intenzioni e il cuore de'
suoi magnanimi, ma le sue necessità vere o immaginate, e le arti ostili
di chi non vuole un'Italia forte, e le calamità secolari di questa
terra, potrebbero mutare in contrario le cose. Cotesto, nell'animo degli
onesti e de' previdenti, non dovrebbe punto scemare della gratitudine
debita ai fatti finora seguiti: nè Magenta e Solferino, indelebili nella
storia, devonsi mai, checchè decada, dalla coscienza dell'Italia
cancellare. Senonchè la più degna gratitudine al benefizio è il
dimostrarsene meritevoli; e il miglior modo del dimostrarsene meritevoli
è fare il possibile per non ne aver di bisogno. Se il tempo datoci a
riconoscere e rifare noi stessi, lo perdiamo in baldorie; sarà troppo
tardi il lamentarci ch'altri ci abbia lasciata una libertà di balocco
come a fanciulli, per rendere palpabile la nostra immaturità, per
farcela confessare a noi stessi, per condurci a invocare nuovo giogo
com'unico scampo, e strascinarci, disonorati, là dove noi non si voleva
venire. Intanto chi si tiene già libero e forte e felice, rattenga
gl'impeti della propria esultazione; si ricordi che c'è tuttavia
degl'Italiani che soffrono. La creatura conculcata e avvinta, che
appena ha sciolte le braccia e si vede ancora alle spalle il calcio del
fucile tiranno che minaccia percuoterla, non dovrebbe sentirsi gran
voglia d'agitare le mani per applaudire a sè stessa.


                       XXII.--_Conclusione_.

Narra la storia una di quelle parole che sono il compendio di vicende di
secoli, sono il simbolo del fato de' popoli, sono la filosofia della
storia; narra d'uomini Ghibellini in Firenze tratti dal vincitore alla
morte. Domanda l'uno: _Dove andiamo noi?_ E il compagno risponde: _A
pagare un debito che ci lasciarono i nostri padri._ Un debito tremendo a
noi lasciarono i nostri, e noi l'abbiamo aggravato; e pagarlo bisogna:
pagarlo bisogna o con lagrime e con sudore e con sangue, o almeno con
atti di senno forte, d'astinenza modesta, di virtù generosa. I nostri
padri invocarono lo straniero a opprimere i loro fratelli; invocato, lo
provocarono: sappiamo noi e meno insuperbire, e umiliarci meno;
esercitare a tempo la fiducia e la diffidenza. Essi affidarono l'armi a
braccia mercenarie: e a corrompere sè stessi abusarono il sentimento del
bello, e le maraviglie della natura e dell'arte: noi riformiamoci in
civiltà forte e austera; rammentiamoci che la grazia verace germina
dalla forza. Essi disconobbero il vicino, il fratello: noi apprendiamo a
studiarci, e leggere l'un nell'altro come in libro di lingua non ancor
bene nota. Essi disprezzarono e odiarono: sappiamo amare.



                           NECESSITÀ URGENTE.


Quel che doveva in Italia seguire dal primo del corrente anno all'ultimo
dì, nessuno, per grandi che avesse le speranze delle cose prospere o
l'apprensione delle avverse, l'avrebbe saputo antivedere, almeno per
quel che concerne la singolarità de' modi ne' quali si vennero gli
avvenimenti svolgendo. Così è che gli ammaestramenti della storia, per
la novità dei casi seguenti, tornano inutili a chi viene dopo; così
accade spesso che quelle cose più ci colgano sprovveduti, alle quali le
minacce altrui e i nostri vanti più parevano dover prepararci.

Il dì primo dell'anno non era ancora sonata quella parola regia con cui
Vittorio Emanuele si disse _sensibile al grido dei popoli_; e questa fu
che eccitò veramente un grido d'esultante ed impaziente speranza. Parve
di subito imminente la guerra, insoffribile ogni indugio; e quando
Francia prometteva ad Austria e ad Europa di non varcare le Alpi, se
non quando Austria avesse varcato il Ticino, quella promessa a molti
sonava minaccia; e taluni desideravano l'Austria invaditrice pur per
veder soccorritrice la Francia. Esaudì l'Austria quella invocazione; e
fu un punto che Torino sentì approssimarsi lo scalpitare dei cavalli
nemici. Francia venne; in meno d'un mese, di battaglia in battaglia, e
di sbaglio in isbaglio, Austria fu a Solferino. Dove per le sorti
italiane e per l'onore delle armi francesi e per il destino dell'impero
stesso, lungamente librati in fatale bilancia, combattettero il
pertinace valore degli uomini e la tempesta del cielo. Alla quale i
patti di Villafranca fecero succedere inaspettata bonaccia; simile a
quelle che invidiano il porto sperato ai naviganti stanchi, i quali,
sentendo le correnti marine ritrarli nell'alto, imprecano al nocchiero,
che, per freddamente audace che sia, impensierisce.

Il turbine della guerra, che aveva travolti oltre il Ticino gli
Austriaci, gli spazzò in men di un mese fin oltre il Mincio, divelse
piante ducali e arciducali, portò via cardinali. A cardinali e arciduchi
successero dittatori già sudditi loro; ed ecco da ultimo un avvocato del
foro torinese redare per procura la potestà dello zio di Francesco
Giuseppe e del nepote alla duchessa d'Angoulemme, d'una donna e di un
prete. Milano e un brano non piccolo di Lombardia ritornano d'Austria in
Italia; il Piemonte si allarga non tanto di terra quanto di concetti e
di affetti; i suoi nuovi fratelli lo obbligano a sempre più
fraternamente trattare i sudditi antichi; meditansi nuove leggi da
ampliare (con parsimonia però) le innocue franchigie municipali, e
l'onesta libertà del pensiero nell'educazione, libertà troppo più
importante al viver civile che quella della stampa, fatta per imperizia
e per abuso, se non dannosa, impotente. Altre leggi preparerannosi; le
quali del resto non diventeranno leggi davvero se non si mutano in
consuetudini, se non le fecondano i sentimenti. Apresi intanto un nuovo
campo di prove: l'Italia settentrionale si sente più vicina all'Italia
di mezzo; e se il riparo delle Alpi non si è più rialzato nè meglio
munito, quello degli Appennini in qualche parte è abbassato o forato.
Atti di concordia tra gli Italiani si celebrano, che mesi fa non si
sarebbero immaginati neanco: città che parevano sepolte in letargo, si
scuotono senza convulsione; altre che temevansi disperatamente frementi,
attendono con fiducia quieta. In sola una città (e non di quelle da cui
più sarebbesi temuto; e anche qui la previdenza degli uomini venne meno,
e fu questa forse la cagione del male che li colse alla sprovvista), in
sola una città un solo esempio d'atrocità fu veduto, fra tante ire da
tanta età accumulate: e all'onor dell'Italia giova notare che dalla
bocca di un Italiano, l'Azeglio, non da stranieri, uscirono a riprendere
quel fatto le parole più severe e accorate.

Se non che ai lungamente infelici e minacciati di nuova infelicità, il
fermarsi nei conforti al dolore, il non ne torre via le cagioni, sarebbe
pericolo e colpa e vergogna. Piuttosto che trascendere in esultazioni,
giova pensare che gli ottenuti qualsiansi vantaggi, l'Italia non li
deve tutti a sè stessa; e che nel 1848, fra i molti errori e non tutti
innocenti, potevasi almeno affermare che armi tutte italiane, comecchè
da ultimo sventurate, resistettero a lungo non inugualmente contro
quelle forze alle quali a gran pena si tenne pari l'agguerrita e animosa
e meritamente celebrata potenza di Francia; pensare che, se il giogo
della tirannide è grave, il peso del benefizio non è leggiero se non a
chi sappia farsene degno; pensare che la vittoria dovuta in parte ad
altrui, bisogna tosto o tardi scontarla; che se gli uomini privati
possono gratuitamente largire oro e sangue, i governanti de' popoli di
rado lo possono, lo vogliono ancor più di rado; e che il reiterare di
tali largizioni, nessuno può richiederlo come debito, e potend'anco, non
lo deve, se cura la propria dignità. Bologna che gode dei dittatori
Cipriani, Farini, Bon-Compagni, non può non rammentare il sangue, gli
insulti della sorella Perugia; e più alto che i cantici di Lombardia
liberata, s'innalza il gemito dei Veneti angariati, incarcerati,
percossi, delusi delle promesse solenni. Ai Veneti non è promessa
consolatrice il figurarsi dominati da Austria immedesimata all'Italia;
il figurarsi l'Italia trasformata in un corpo di nuova fattura, corpo di
cui il papa capo, e Francesco di Vienna e Francesco di Napoli membra, e
duchi e arciduchi incerti, o altri incogniti e nascituri come principi,
membra. Il fatto si è che, con tutti questi trionfi, Austriaci a diecine
ed a cinquantine di migliaia stanno accampati in Italia, e Svizzeri
assoldati versano o s'apparecchiano di versare sangue italiano, e
Italiani stanno per essere sguinzagliati contro i loro fratelli; e per
schermo da Austriaci e da Svizzeri e da Italiani ci restano Francesi in
Lombardia, in Roma Francesi.

Se a Roma fossero spediti col medesimo intento che in Lombardia; se
quelli di Lombardia devano da ultimo riuscire al medesimo intento che
quelli di Roma, o se viceversa; il giudicarlo o il domandarlo non spetta
a chi ignora assai cose, e quest'una ben sa, che tutto sapere non si può
nè si deve. Ma d'altra parte non si può non sapere che oltre agli
intenti palesi de' grandi fatti politici, sempre ce n'è di segreti; e
che, per esempio, la pace di Villafranca non poteva essere ad uomo così
cauto insieme e così risoluto com'è chi governa nazione tanto coraggiosa
quant'è la francese, non poteva essere consigliata dal solo timore delle
armi di Prussia. Inutili oramai sopra ciò le querele, ma peggio che
inutili le parole provocatrici a cui tanti si lasciarono e lasciano
andare pubblicamente. Se i popoli ignorando il segreto e di quella pace
e di quella guerra, non si potettero dar per intesi di certe cose, e
senza avvedersene offesero; se continuando per la medesima via, senza
malizia nessuna seguitano tutti i giorni a fare il contrario di quello
che altri vorrebbe; è da sperare non ne portino la pena, come semplici e
innocenti che sono: ma non sarebbe punto innocenza il voler tutte
interpretare a proprio comodo e piacere le parole che i potenti
pronunziano, e in quelle stesse che per le necessità politiche quali le
fa la miseria dei tempi suonano ambigue, voler leggere ogni cosa chiaro
e determinato in proprio servigio; e per contrario, alle parole che
chiarissimamente suonano sfavorevoli, non dare retta. Fu già
schiettamente significato all'Italia che la Francia aveva compita la
parte sua: e questo si chiama parlare netto; e non intendo perchè non
s'abbia ad intendere. E quand'anco non fosse profferita cotesta parola
che non è punto minaccia ma consiglio più provvido d'ogni promessa; chi
guarentisce a noi che la vita e la sanità e l'agio di difendere
gl'Italiani basti al potente alleato per tanto tempo quanto a essi fa di
bisogno? E se la morte, se una infermità, se una guerra diversa ci
lasciasse esposti agli assalti e alle insidie degli esterni e degli
interni amici e nemici?

La più feconda promessa uscita dalla bocca imperiale è nella parola:
_Armatevi, Italiani_. Nè per la pace fu quella parola disdetta; ma anzi
confermata e illustrata. E chi disse: _La mia parte è compita_, intese:
_Ora a voi_. Bisognava dunque, dopo il dì 12 di luglio, ben più
sollecitamente che prima, non dico provocare la guerra, ma dico
agguerrirsi; porre la propria salute nel non sperare da altri salute;
far ragione d'essere al mondo soli, circondati da pericoli minacciosi.
Non era ormai l'Italia che, rigettando i soccorsi, dicesse: _Farò da
me_; era l'Europa che parte per aspettazione di benevolenza, parte per
stanchezza o dispetto, comandava all'Italia: _Farai da te_. Bisognava
non svogliare o rimandare scontenti i poveri Volontari, ma sempre più
stringerli, disciplinarli, incuorarli, ordinare una leva che facesse
montare l'esercito a numero tale da far fronte alla forza nemica. E
potevasi; e della inesperienza avrebbe tenuto luogo l'ardente volontà,
la coscienza del diritto, il pensiero del combattere sul proprio
terreno; e il numero, non foss'altro, degli armati, avrebbe raffidati
gli amici, inanimiti i dubitanti, sgomentati gli avversi, spronati
insieme e rattenuti i consigli dei potentati europei, spronatili a
rompere gl'indugi insidiosi, rattenutili da sentenze sprezzanti e
spietate. Bisognava mettere a profitto il primo impeto dei popoli
liberati per ottenere e dai benestanti e dai poveri stessi (la cui
cordialità colla moltitudine delle piccole offerte accumulate supera i
donativi della più sfoggiata opulenza) ottenere que' sussidi, che
avrebbe del resto estorti per sè lo straniero se dimorasse più a lungo.
Bisognava, coll'autorità dei signori amati e dei preti degni, eccitare
nei campagnuoli l'affetto di patria, il quale nessuno mai curò svolgere
in essi neanco in quel grado che pur si poteva, neanco stringendo tra
loro e i cittadini que' vincoli non dico di fratellanza ma di clientela,
pe' quali erano forti le antiche società, e grandi imprese potettersi
dalle nazioni compire. La nazione bisognava rigenerare negli esercizi
militari, non contentarsi che qualche migliaio di guardie civiche in
qualche città si mostrasse con sufficiente destrezza e con lodevole
puntualità alle rassegne o a cerimonie di quasi scenica pompa:
incominciare con la vita del campo, con gite via via sempre più
faticose, con esercizi sempre più violenti, a indurarli al disagio, che
a sostenere perseverantemente è più duro del pericolo, e fin del
tormento, al disagio la cui dissuetudine rende i popoli imbelli.

L'apparecchiarsi daddovero alla guerra avrebbe vinta, prima che
sopraggiungesse, la guerra. L'usarvisi tuttavia (giacchè il tempo
opportuno non è tutto ancora passato) renderebbe gl'Italiani degni di
rispetto e agli stranieri e a quei, qualunque si siano, principi che
verranno. Perchè quand'anco l'esito delle cose oltrepassasse la più
lusinghiera speranza, quand'anco senza travaglio ottenessimo a un tratto
quiete libera e dignitosa; e all'Italia toccasse una sorte non mai
toccata a gente o ad uomo nessuno, dico di fruir con onore beni largiti
dall'altrui generosità, non conquistati con opera corrispondente al loro
valore; quand'anco ciò fosse, la conservazione di questi richiederebbe a
ogni modo il lavoro che per il loro conseguimento si fosse risparmiato.
Non basta mutare governo, bisogna mutare vita. E se le leggi sorreggono
la libertà, non la fondano che i costumi.

Libertà non si crea per decreti. Possono i parlamenti col coraggio
iniziarla, con la concordia sostenerla, con la proposta di buone
istituzioni avviarla: ma sue nutrici e tutrici sono la fede, le virtù
domestiche, e l'armi. Non parlo de' vanti matti nè delle feste puerili;
de' _Te Deum_ tra due pranzi, de' mortori alternati co' balli; agonia
della patria, morte de' vili. Ma dico che, salvo i non mai abbastanza
lodati, i quali affrontarono i pericoli del campo, le angustie della
carcere o dell'esilio, il maggior numero di questi undici milioni
d'anime hanno ricevuto la novella condizione di cose senza sagrifizi,
senza ansietà, senza quasi pensiero del buio e minacciante avvenire. E
la storia e l'esperienza ci provano come alle inerti speranze consegua
disperazione inerte, non consolata da memorie, non compianta. Questo
spiraglio concesso all'Italia di libera vita doveva essere così fitto di
nobili esempi, che qualunque si fossero i governanti venturi, dovessero
averne o modello o rimprovero, e l'Europa apprendesse da' fatti quello
che noi possiamo e sappiamo. La maraviglia che da più parti dimostrasi
per l'ordine conservato in mezzo a quello che da taluno chiamasi
disordine quand'è in nome dei molti, ma stimasi giustizia quand'è a
vendetta di pochi; cotesta maraviglia piuttosto che ammirazione
rispettosa o amorevole, è in altri sorpresa di fatto che non si
aspettava da gente a cui non si aveva nè fede nè stima, in altri
sorpresa stizzosa, perchè del disordine che disonorasse l'Italia
tramavano far loro pro; e si confidano che prolungando la prova, le
speranze irritate e deluse, il dispetto che prorompe dall'animo de'
deboli ad arte stancati, conduca le cose là dove costoro fin dal
principio intendevano d'avviarle. Non però ogni parola che si fa
sentire, è di maraviglia e di lode. Quegli nel quale i più speravano
maggiormente, e che più si dimostrava benevolo, non risparmia
riprensioni severe e di detti e di fatti; ma a chi sappia intenderle,
salutari. E basta rammentare la recente lettera di lord Ellenbouroug per
sentire come possa la lode sincera esser mista a rimproveri amari, e il
dono a raffacci che farebbero seccare gli allori della vittoria più
rigogliosi. Sarebbero ben semplici gl'Italiani se si fidassero ai
cospiranti affetti di tutti i potentati di Europa per loro; quando
cotesta cospirazione stessa è prova dell'essere que' potentati divisi da
interessi contrari e da reciproche gelosie.

Non lo possono oramai gl'Italiani dissimulare a se stessi. Il cammino
che han preso è onorato ma arduo: non che giunti alla meta, e' sono
appena alle mosse. Amici e nemici stanno a guardarli se sappiano
prendere la signoria del proprio destino. Da questo punto dipende il
destino di secoli forse. Nessuno farà l'Italia s'ella non si rifà da se
stessa; e primo segno del suo rifarsi sarà il ridivenire valida a
difendersi con le armi proprie da tutti, sola e sempre. Il tempo di
questi lunghi mesi perduto, riguadagnarlo bisogna: costituire un
esercito; raccogliere, non da prestiti che rovinano l'avvenire e fanno
la nazione dipendente dai suoi stessi nemici, ma da offerte comuni,
regolarmente raccolte a tempi fissi, il danaro occorrente. La nazione
che ha già saputo sagrificare le proprie affezioni municipali al
principio d'unità, s'è mostrata degna di sagrificare alle necessità
dell'onore e della vita una parte della propria ricchezza, che le
sarebbe poi restituita ad usura. Sta in lei il farsi l'ammirazione
davvero, o lo zimbello, dei popoli.

Queste parole ho dettate non senza pena, e dopo lungo esitare; ma,
sollecitato da chi ama d'ardente amore l'Italia, rimproverato del mio
silenzio come di colpevole noncuranza, scorgendo imminenti i pericoli,
e i disinganni sempre più acerbi, parlo, per invitare, per supplicare
che vengano efficacemente al soccorso coloro ne' quali è il valore della
parola, del senno, della volontà; coloro che hanno il vantaggio del
favore pubblico, l'autorità del consiglio, la potestà del comando.



                                IL VENETO.


Per quanta non curanza o si abbia o si finga delle cose d'Italia, in
particolare del Veneto, la sua condizione ogni dì si presenta come una
difficoltà politica ad Europa tutta; non per l'importanza storica o
civile, nè anco per l'economica, del paese, ma per la geografica e la
strategica, e per i potentati che han preso parte nella lite, e per
quelli che potrebbero prendervela, e per quelli che sono, anche malgrado
loro, obbligati a dovere comechessia definirla. Nè la soluzione delle
difficoltà si può differire a bell'agio, come s'è fatto, e si farà forse
ancora per assai tempo, di quanto concerne l'impero ottomanno; sì perchè
qui l'impaccio del partirsi le spoglie non c'è; sì perchè trattasi di
cosa più prossima e collocata nella luce delle nazioni civili; sì perchè
a questo è a bella posta convocato un congresso, il quale deve pur
qualche cosa risolvere, volendo essere tribunale supremo. Nè sarebbe
sentenza finale la sua se lasciasse appiglio a liti nuove, se non
provvedesse insieme alla sorte d'un popolo, e alla quiete di molti altri
popoli, e alla sicurezza e all'onore dei giudici stessi, i quali
tergiversando e lasciando spazio alle tergiversazioni altrui, non
darebbero gran saggio nè di potenza nè di previdenza. Or la questione,
non solamente giova ma è forza che sciolgasi in modo pacifico; perchè,
quand'anco il congresso non concludesse niente e si venisse di nuovo
alla guerra, dovrebbe alla guerra seguire un altro congresso; e, dato
giù il fumo dei cannoni rigati, bisognerebbe da ultimo consegnare alle
righe d'un foglio la giustizia o l'ingiustizia consumata. Seguirebbero
sempre dispute di diritto, o di quel che il più forte e il più destro
spacciasse per diritto; seguirebbero transazioni. L'ha detto un uomo che
pare assai perito della materia, l'autore dell'opuscolo _Napoleone III e
l'Italia_. Tant'era cominciare dalla cosa con cui si doveva finire: ma
quello che non si è fatto, conviene il farlo ora, innanzi che un altro
centinaio di migliaia d'uomini cada mietuto sulla terra d'Italia, se
bastano.

La soluzione da taluni proposta concilia molte contrarietà, che la
guerra non potrebbe se non più terribilmente aggravare. Il popolo da
liberarsi non rinnega la naturale santità del proprio diritto, la
storica legittimità di quello, venerabile come cosa antica, cospicuo
come cosa illustrata da prova recente; non confessa e non permette che
altri possa affermare, ch'egli si riscatta con oro per non si francare
col ferro. Dopo le resistenze di Vicenza e di Venezia, e del Cadore,
dove un pugno di montanari inermi respinse le soldatesche austriache per
sette settimane; dopo le schiere d'esuli volontari che corsero al
pericolo come a festa, e che Vittorio Emanuele attestò non impari a'
suoi prodi; nè Austria nè altri può dire che manchi il coraggio del
sacrifizio ad uomini che, disarmati, abbandonati d'ogni speranza,
100,000 e più fucili nemici appena possono oramai contenere. Se dunque
per risparmiare, non già ciascun veneto il sangue proprio, ma il sangue
de' suoi cari, e gl'insulti barbarici più amari che morte, per
risparmiare nuova guerra al resto d'Italia e all'Europa, gli oppressi si
rassegnano a un estremo tributo, impostogli non dall'oppressore,
disperato già del tenere più a lungo la preda, ma dal desiderio di
respirare al più presto insieme con gl'italiani fratelli un po' di
quiete, e dal consentimento dei potentati d'Europa; la dignità loro non
n'ha detrimento. E questi potentati, da altra parte, chiamando l'Austria
non a sindacato, ma seco a consiglio; non la discacciando dal Veneto con
le armi o con le minacce, ma proponendole un patto più vantaggioso a lei
della possessione aborrita e perpetuamente contesa; liberandola dal
doppio giogo dell'odio e de' debiti che schiaccia lei, più che essa
l'Italia; provvedono alla sua ch'e' potranno chiamare dignità, le
rendono un benefizio inestimabile, fanno opera di colleghi e fratelli.

Napoleone III, l'uomo di Magenta e di Solferino, non era di per sè solo
il più idoneo interprete dei desiderii de' Veneti presso l'Austria;
Napoleone III, l'uomo di Villafranca, non conveniva che di sua volontà
propria paresse egli solo voler dissentire da quello che aveva
coll'Austria consentito; Napoleone III, che in nome d'un suo antecessore
doveva dimostrarsi scontento dei patti del quindici, meglio era che la
proposta e l'uffizio del mutarli lasciasse agli eredi di coloro stessi
che avevano stipulati essi patti. E d'altra parte, possono questi eredi
dire all'erede dell'Austria, che, i titoli comuni delle loro possessioni
essendo fondati sopra la successione legittima, ed essendo la
possessione del Veneto venuta all'Austria dal patto di Campoformio, cioè
dalla concessione d'un figlio della rivoluzione, d'uno che aveva colla
spada stracciate tante pergamene di legittime monarchie e repubbliche;
liberarsi da questa memoria di disordine scandaloso, da questo documento
del quale e i Veneti e tutti gli altri popoli soggetti a lei si
potrebbero servire per coglierla in contraddizione, sarebbe assai
provvido accorgimento. Potrebbero insieme gli eredi dei re che scrissero
i patti del quindici considerare che, essendo il fine di quelli la pace
d'Europa e la loro propria quiete, e mancando oramai quelli al fine; il
mutarli è un consentire più intimamente allo spirito che li dettava. Nel
fatto de' Veneti poi conseguesi, per provvida disposizione della celeste
giustizia, il doppio vantaggio, dell'osservare insieme il principio
della legittimità, violato da coloro che se ne armavano, e del
riconoscere il suffragio dei popoli; al quale suffragio non solamente
l'imperator de' Francesi ricorse e ricorre, ma e quel d'Austria in
Gallizia, e con migliori auspizii quel di Russia, conciliando a sè il
maggior numero de' sudditi suoi coll'affrancamento de' servi,
conciliandosi l'opinione dell'Europa per mezzo di giornali avvedutamente
compilati, conciliandosi con molte industrie la fiducia di tutte le
nazioni slave e di tutti i seguaci del suo medesimo rito. Se l'intaccare
la scritta del quindici fosse novità, sarebbe pure atto di prudenza
coraggiosa l'osarla spontaneamente prima che tremende necessità
distruggano il merito di tale atto, e di vantaggioso e onorevole che
potrebbe essere ancora, lo facciano pieno di pericoli e di vergogna: ma
il Belgio e Cracovia e la Grecia e la Francia sono esempi sufficienti a
tor via gli scrupoli e dare ardimento. Senonchè le più delle eccezioni
sin qui fatte ai decreti della santa alleanza, quand'anco non si
vogliano chiamare o fortuite o forzate, certamente a tutti coloro che le
operarono o le permisero non acquistano lode di pura spontaneità o di
coraggio. Tempo è che di proposito e di concordia, lealmente,
solennemente, con pieno giudizio, un intero rinnovamento di que' decreti
si faccia; e che, come per buon augurio delle riformazioni rimanenti,
incomincisi da Venezia e dal Veneto; e Austria, fin che c'è tempo, abbia
il merito o almeno le apparenze del libero consentimento. Lasciando
stare la coscienza del giusto, e riguardando i computi della mera
utilità; deve Austria piegarvisi quando pensi che avrebbe potuto a
quest'ora perdere troppo più, e che troppo più risica di perdere poi
senza compenso e senza decoro.

Questo timore ben più legittimo che non siano i titoli di lei sopra il
Veneto, deve essere più forte dei sospetti che la turbano e tentano:
sospetti, dico, che l'esempio si faccia contagioso, e che altre parti
dell'impero pretendano cosa simile. Le condizioni del Veneto sono in ciò
singolari. Nessun'altra nazione soggetta all'Austria si trova divisa in
sè da governi opposti, parte esteri e parte suoi proprii: nessuna
provincia ha per più di dieci anni dimostrato e con la parola e col
silenzio, e con la rivoluzione e con la guerra, e con le carceri e con
gli esilii, la coscienza del proprio diritto, l'aborrimento del giogo
straniero, la perseverante e concorde volontà non di alleviarlo a sè ma
di scuoterlo: nessuna parte dell'impero è stata ed è più angariata, più
insultata insieme e temuta da' suoi insultatori, i quali coll'esaurirne
le forze, col provocarne l'odio insieme e il disprezzo, si confessano
disperati di poterla lungamente tenere non solo al modo che soglionsi
tenere popoli civili da civili governi, ma neanco al modo che il padrone
de' Negri o il mulattiere tiene la schiava sua o la sua bestia, avendo
cioè qualche riguardo alla vita e alle forze di quella per accrescere
lucro a sè e mantenerlo. Aggiungasi che gli altri stati o provincie sono
all'Austria attaccati da tempo più antico, con patti più o meno
consentiti o tollerati; i quali se essa col governo suo infrange, può,
ravveduta, osservandoli meglio, legittimarsi: ma il Veneto è possessione
recente, ingiusta nell'origine, ingiusta nel modo del tenerla e del
ripigliarla, intollerata ai posseduti, intollerabile ai posseditori; nè
può farla parere antica a chi patisce, se non la moltitudine de'
patimenti in così breve numero d'anni raffittita senza misericordia e
senza discernimento. Sola la Gallizia potrebbesi recare ad esempio; ma
nel Veneto e i diritti e i dolori e il malcontento e le resistenze ognun
vede essere incomparabilmente maggiori. E l'ora della Polonia non è per
anche suonata; ed è da sperare che col disciogliersi della tirannide
turca, gli stessi potentati che la Polonia divisero, ricevendo altrove
compensi, vogliano per onore ed utile proprio ricomporla.

Se Austria temesse che il torsi di dosso ai Veneti fosse ad altri popoli
da lei governati incitamento a imitarli, e però resistesse ai consigli
della propria utilità; non s'accorgerebbe del suo vero pericolo. Più
grave pericolo a lei, oltrechè più ignominioso, è l'esempio di sudditi
ch'essa non sa nè appagare nè domare, il cui silenzio sdegnoso e la
prostrazione irrequieta e violenta sono essi stessi una continua
ribellione: più grave pericolo è l'esempio quotidiano di questa guerra
instancabile dello spirito contro la materia tiranna, che lo opprime e
non può comprimerlo: più grave pericolo è la necessità di mandare i
sudditi delle altre provincie satelliti degl'Italiani, nel quale ufficio
non possono tutti compiacersi per crudeli che siano, nè, per vili che
siano, gloriarsi. Quando comincia (ed è già cominciata) a penetrare
negli animi dei soldati occupanti l'Italia la pietà e la vergogna;
quando cominciano a intendere e farsi intendere; quando si accorgono che
il ribelle è una vittima, e ch'essi stessi sotto sembianze d'aguzzini
son vittime; l'Austria è perduta, il suo impero è tutto una obbrobriosa
rovina. Poi, ripeto che il fatto delle altre provincie è diverso; che
parte di quelle nè si sentono ancora mature, nè possono costituirsi in
nazione; e che sola la rea ostinazione dell'Austria potrebbe mutare le
sorti loro in modo insperato. La più minacciosa di tutte, l'Ungheria,
dopo la gigantesca scossa d'anni fa, si gravò sopra sè stessa e giacque;
e coloro che maggiormente sperano in lei, se non amano illudersi o
illudere, devono pensare che ivi non è unanimità tanto piena quanto in
Italia; che un partito, e potente, vuole la grandezza magiara, ma la
vuole sotto la tutela dell'Austria; che la prossimità del paese, le
consuetudini inveterate, e il vanto stesso de' benefizi dal valore
ungarico all'Austria resi, sono vincoli non ancora rotti; e che, ad ogni
modo, il piantarsi una dinastia nuova in quel regno, oltre ad altre
difficoltà, avrebbe impedimento dalle gelosie de' potentati reciproche,
e dal timore che la novella dominazione colle armi di un popolo
bellicoso si distendesse sui popoli circostanti. Della Croazia
piuttosto, la quale i più degli Italiani, ignari d'altri e di sè,
immaginano come la verga ferrea dell'Austria; della Croazia delusa delle
promesse profuse nell'ora della paura, spogliata delle pattuite
guarentigie, aggravata ad arte della detestazione del mondo civile; dico
che della Croazia avrebbe Vienna a temere piuttosto: ma non è
l'affrancamento del Veneto che la inciterebbe a rivendicare la propria
libertà.

Un altro pericolo all'Austria verrebbe dal volere i Veneti soggiogati a
sè; che insorgendo taluna delle tante schiatte a lei sottomesse, la
necessità continua del tenere in Italia centomila soldati, se non più, e
del pagarli, le sottrarrebbe le forze a difendersi da altre sommosse; e
le leve forzate, e le forzate imposte la renderebbero sempre più debole
e povera, sempre più avvilita e fallita. Sottrarsi all'Italia a
qualunque sia patto, diventa per lei di dì in dì sempre più urgente
bisogno, per conservare alla meglio un impero, o piuttosto per
ricrearselo, giacchè essa lo ha con le sue proprie mani disfatto. E
soldati e armi e danari le mancano per tenere insieme Italia e Croazia e
Ungheria; ma quello che più le manca, è la mente: perchè, distratta da
tanti diversi sospetti e spaventi, sbalordita dalla propria tirannide,
non può discernere, non che calcare, la via che le resta unica di
salute; dico il dotare i suoi sudditi d'istituzioni migliori, o almeno
dare le già promesse, rendere le rapite. Questo degli altri sudditi;
giacchè, quanto all'Italia, ogni ammenda è tarda, ogni ritrattazione
discreduta, ogni accomodamento impossibile. S'ella, dopo gli smacchi
sofferti, a costo di perdere altrove quanto potrebbe pur ritenere, si
afferra a questo brano d'Italia; segno è che le sue mire vanno oltre;
ch'ella agogna a tutta l'antica preda, e a maggiore: perchè non potendo
col Veneto pagare i debiti che le costa e le costerebbe l'occupazione
del Veneto, di qui segue ch'ella deve sperare mutate, col nostro peggio,
le sue sorti. E lo spera; e i suoi fidi lo dicono apertamente. Or vedano
i potentati d'Europa se ciò torni comodo a loro; veda la Francia se a
lei giovi un'Italia austriaca; la Prussia, se un'Austria tedesca insieme
e italiana. E veda l'Austria se i suoi sognati ingrandimenti possano non
le fare nemica l'Europa tutta, e non tentare altri stati, ingelositi, a
sommovere contro lei, non che Italia, altri paesi più prossimi ad essa e
di possessione meno disperata. Ma l'Europa civile saprà, speriamo,
provvedere meglio e a sè e a noi; antivenire il caso non impossibile,
che gli Italiani, finalmente, stancati e da nemici e da amici, comincino
a contarsi, ad intendersi, a fidare in sè stessi e nella giustizia di
Dio degnamente invocata.

L'orgoglio siccome degli uomini singoli e delle famiglie private, così
dei principi e degli stati, si fa spesse volte vanità, illude sè stesso,
e colle armi proprie si ferisce. La speranza del riacquistare il perduto
per colpa e inettitudine, nell'atto di sospingere a sconsigliati
ardimenti, moltiplica le bugiarde paure, siccome bugiarda essa stessa.
L'Austria, a cedere in Italia, teme umiliazione che la abbassi nel
cospetto del mondo; non s'accorge, e dovrebbe pure accorgersi, come la
sua pertinace ingiustizia è quella che la disonora davvero e avvilisce.
Questo sarebbe anzi il momento di risolversene con meno umiliazione,
dacchè la pace di Villafranca le ha offerte condizioni insperate; dacchè
l'onore delle armi è salvo in battaglie, precedute e seguite da ritirate
soverchiamente frequenti, ma che al vincitore costarono caro; le quali
battaglie, pensando alla precipitazione delle prime mosse e alla tardità
dei capitani che le eseguivano, alla loro imperizia decrepita, alla
discordia manifesta, alla svogliatezza o renitenza delle soldatesche
combattenti per signore disamato, al paese sopra cui combattevano
avverso, ai contrattempi delle piogge e de' turbini, io confesserò
volentieri essere state battaglie maravigliose. Disfatta a Solferino
quando teneva la vittoria già in pugno, e ne aveva tutt'intorno spediti
i messaggi, Austria tra poco sederà di pari col suo vincitore a
consiglio, giudice e parte, giudice delle sorti proprie e di quelle
della nazione sua accusatrice e sua preda. Non si lasci sfuggire questo
punto di tempo, che forse è l'ultimo favorevole a lei; non aspetti il
fallimento che già la preme; non crei a sè turpe necessità di nuove
falsificazioni, di nuove lesioni alla maestà della fede pubblica, più
del fallimento vituperose. Son queste le umiliazioni il cui pensiero
dovrebbe metterle un raccapriccio di vergogna, e farla fuggire oltre
l'Alpi più ratta che se inseguita da un milione d'armati. Per rifarsi di
soldo e differire di poco la ruina del credito suo, Austria fece forza
alla propria natura cauta e lenta, passò disperatamente il Ticino:
ringrazi adesso Dio e gli uomini di potere, rifatta alquanto di soldo,
varcare i monti, come viaggiatore che ritorna stanco ma spontaneo alla
sua casa men ricca, dopo spassatosi lungamente a ufo nelle delizie di
palagi non suoi.

Ma se non s'intende che ad Austria la ricognizione di un diritto
accompagnata da compenso sia umiliazione, non è neanco da intendere che
umiliazione sia ai Veneti la profferta. La quale fu, non so da chi
primo, sparsa per i giornali; e parecchi Francesi generosamente amici
all'Italia la accolsero quasi festanti, e la divulgarono più e più,
confortandola con profferte proprie cordiali. Non essendo ormai dunque
lecito dissimularla, importa dichiararne il legittimo significato. La
condizione proposta possono i Veneti accettare, come un nuovo documento
della buona volontà loro, da porgere ai potentati d'Europa; i quali
possono alla loro volta proporla all'Austria non come un'elemosina alla
sua inopia, purchè dal canto suo l'Austria nè altri non si creda di fare
agli Italiani un'elemosina della loro imprescrittibile libertà. Non si
tratta di riscattare le anime, e neanco il terreno. Che se il popolo
italiano non mette innanzi la propria sovranità (parola schernita
crudelmente e smentita dai cortigiani della povera plebe), prega che gli
sia lecito desiderare la proprietà di sè stesso. Se altri lo ha
barattato o donato o venduto, non soffre già egli, accettando la
presente proposta, d'essere riguardato come schiavo, come greggia, come
cosa. Piuttostochè ricomprare sè stesso, egli si crederebbe di
riscattare Austria da taluno almeno de' suoi debiti divoratori; di
riscattare le nazioni all'Austria sottoposte dalla crudele necessità
d'invadere, depredare, bastonare, uccidere lui in nome di quella, e per
prezzo del reo ministero di sgherri ricevere bastonature e morte,
odiosità e vitupero. Intenderebbero i Veneti insieme risparmiare a sè
stessi la trista necessità de' disordini che accompagnano i moti di
libertà, anco più santi; risparmiare ai loro fratelli le calamità della
guerra, risparmiare all'Europa i dispendii incessanti d'un apparato
militare che smunge gli stati, che porta con sè gli svantaggi delle
battaglie perdute, e delle paci ingloriose; risparmiarle gl'impacci
delle pericolose mediazioni, e le ree loro sequele e rimorsi.

I Veneti, disarmati da secoli, posti in un paese che dalla sua giacitura
e dagli abiti dell'antica civiltà è fatto malagevole a difendere al modo
che difendonsi ne' deserti o tra le rupi montane i popoli indurati dalla
loro miseria stessa; i Veneti compressi entro le loro città da una forza
nemica contro la quale gli eserciti della bellicosa Francia appena
prevalsero in campo; non disconoscono la propria presente debolezza, il
dolore e l'ira non sfogano in vani vanti: ma sanno che l'Austria con
tutte le sue soldatesche è debole più di loro; e la coscienza del
proprio diritto, la volontà perseverante, il consentimento di quante ha
il mondo civile anime generose, i falli e le colpe del loro oppressore,
serbano a loro la finale vittoria. Senonchè gli sforzi necessari a
conseguirla trarrebbero forse in armi gran parte d'Europa; e l'Italia
sarebbe il campo dell'universale battaglia; sopra le sue terre, i suoi
monumenti, i suoi parvoli, le sue donne cadrebbero le rovine, le rapine
e gli strazi, ai quali dovrebbero lor malgrado concorrere gli stessi di
lei difensori, i figli suoi stessi. Se uno spediente si porge di
sperdere dall'Italia e dall'Europa questa tremenda minaccia; gli è
dovere sì degli Italiani e sì de' potentati europei l'appigliarvisi.
Questo terreno, i cui frutti per tanti secoli furono da tante fami
straniere divorati, inghiottì via via a centinaia di migliaia i
divoratori: ma qual pro della tarda, comechè atroce, vendetta? Meglio
prevenire il flagello. Siccome i Veneti, pronti all'insorgere sul
cominciare della recente guerra, rattennero gli sdegni e le speranze al
cenno di chi per fini suoi li voleva spettatori quieti e quasi
noncuranti de' fratelli e di sè; e per mostrare la propria fiducia alle
promesse, l'obbedienza ai liberatori sperati, la religiosa osservanza
dell'ordine, perdettero l'opportunità di sgomentare con moti interni
alle spalle il nemico, e di assicurare ai combattenti il trionfo; così
deporrebbero adesso ogni proposito di quelle resistenze violente alle
quali può essere offerto il destro e dalle turbazioni e dai dolori
d'altri popoli, e dalle guerre e dalle gelosie d'altri principi. Può
dunque il congresso annunziato evitare e a' principi e a' popoli
sventure grandi: chi sospetta dell'Austria, può così porle un freno; chi
l'ama, o per meglio dire, ha interessi più o meno comuni con essa, può
provvedere al decoro di lei con questa proposta che la sciolga dalle
difficoltà raggruppate da lei intorno a sè stessa.

Nè le difficoltà e i pericoli son di lei sola. Russia non dico che deva
temere della Polonia divisa, nè delle insidie d'Inghilterra potente
d'arti segrete assai più che d'armi, nè d'una nuova guerra più efficace
di quella che si ruppe contro Sebastopoli, come flutto spumante agli
scogli; ma deve temere che faccende estranee a' suoi fini la distraggano
dai vasti concetti ne' quali l'attenzione di lei si raccoglie.
Inghilterra deve temere le sue possessioni troppo ampie, le sue colonie
non tutte contente; temere Francia e Russia, e più di tutto i suoi
propri sospetti, e la smania di parer più potente che non sia, e più
benefica che non voglia. Prussia deve temere e dell'Austria rivale, e
degli stati minori a lei collegati, e della confederazione germanica,
che intende rinnovellarsi non forse per far lei padrona assoluta.
Francia è terreno che traballa e che fuma. Le insidie tese ai popoli non
sono sicurezza ai regnanti. Colgan essi questa occasione, unica forse,
di conciliare insieme le proprie utilità e la giustizia; se non vogliono
renderne conto severo a quel Dio che giudica i forti della terra, e
quanto più sollevati in alto, con tanto più rumorosa rovina gli
schiaccia.



                             ITALIA DI MEZZO.


Chi dubita se l'Italia sia fatta per essere nazione, osservi come, anco
lacerata qual è, le sue membra provino consentimento di vita. Non si può
toccare una delle sue questioni, o piaghe che piaccia chiamarle, che
l'altre non rispondano con un moto di dolore e di speranza, tutte.
Francate la Lombardia; e fate, se vi dà l'animo, che il Veneto rimanga
in pace, scisso: lasciate che si rimuovano da Parma e da Modena gli
antichi principi; e imponete a Parma e a Modena che formino ancora uno
Stato da sè: alleviate a Romagna il suo giogo; e poi consigliate che gli
altri sudditi del Cardinale Antonelli vivano lieti del dare con le
proprie miserie rimorsi alla Beatitudine di Pio IX: sollevate Toscana,
mostratele la speranza del farsi forte d'unione fraterna ed in essa
ritemperarsi; e poi mandatela al Congresso, che Svezia e Austria e
Napoli le indovinino le sue sorti: fate sventolare agli occhi della
Sicilia un vessillo italiano; eppoi consigliatela di stare buona, e
intanto di fare razza da sè con Francesco di Napoli.

Quando s'ebbe la guerra, l'unica riuscita ragionevole e onesta parve a
me che potesse venire dall'intendimento deliberato di farne partecipe la
nazione tutta quanta: epperò dacchè Toscana si mosse, io pregai fossero
paventati i consigli di coloro a cui pareva possibile restringere il
moto, e farlo utile e onorevole a sè tenendolo diviso da Napoli, e
consentendo a coloro i quali sconsigliavano ogni mossa nel regno per
servire a fini propri o ad altrui. E so che il Filangeri, temendo non
per il re suo ma per sè, aveva agli esuli mandato voce, e promesso che
adoprerebbe il suo ingegno e l'autorità d'accordo con essi: senonchè,
accorgendosi ch'egli poteva risparmiare un cimento rischioso, compose in
quiete accorta la troppo inerte e troppo operosa vecchiaia. Certo è che
senza quegli otto e più milioni d'uomini occupanti quella tanto ricca e
opportuna e pericolosa regione, senza quell'esercito e quella flotta,
non ci sarà mai Italia forte e vera, nè veruna altra parte d'Italia
potrà per sè sperare durevole sicurezza di libera pace.

Il tempo del fare ogni cosa a proprio senno è passato: potrà ritornare;
noi possiamo prepararlo, affrettarlo; ma per ora è passato. Chi invoca
l'aiuto di straniero potente, rimane legato dall'altrui benefizio,
ancorchè a lui non paia d'averlo pienamente conseguito e a suo modo;
deve obbedire alla necessità che s'è creata egli stesso.
L'ingratitudine è vietata ai deboli; i quali devono attendere di poter
diventare terribili per essere ingrati impunemente. Ma finchè dipendono
dall'altrui volontà, la prima condizione imposta non dico dalla sana
politica ma dal senso comune, si è di conoscere con certezza la volontà
che è l'arbitra dei loro destini; e quella parte d'essa volontà che
apparisce chiara, non la dissimulare a sè. Dicesi che nel 1848 in una
città d'Italia la moltitudine in piazza gridasse a un inviato straniero
affacciantesi alla finestra: _Vogliamo anche Malta_. Io non so se
qualche Italiano ci sia che si pensi di gridare all'Imperatore de'
Francesi e de' Corsi: _Vogliamo la Corsica_. Ma credo che nessun di
coloro che l'hanno invocato, possa, senza farlo sorridere amaramente,
dirgli a proposito di nulla: _Vogliamo_. La forza del volere è tanto più
nobile quanto più rara cosa; ma il volere costante non consiste già nel
ripetere le stesse parole senza accompagnarle co' fatti. C'è delle
parole che sono fatti, perchè li preparano, l'indirizzano, additano il
fine e i mezzi: ma il dire di per sè, e il pur ridire, non è un operare.

A formare un esercito italiano da poter solo da sè sostenere l'impeto
nemico e respingerlo, tutti confessano che in otto mesi non s'è fatto
quanto potevasi; e ne recano scuse accettabili, se così piace, ma che
non fanno l'esercito desiderato, nè tolgono la dipendenza accennata. Or
in questa pericolosa incertezza risicasi di offendere senza volere e
senza sapere; si risica di parere cospiratori contro il proprio
alleato, quando non cospiriamo che contro noi stessi. Le parti oggidì
paiono scambiate; e sono i principi che cospirano o per guadagnare
terreno o per ripigliarlo: ma appunto per questo i popoli devono fare
altrimenti; procedere retti, parlare schietti, e pregare ch'altri sia
schietto con loro; e se in alcuna cosa la provocazione a' deboli fosse
lecita, questo solo, dico la sincerità provocare. Sapute le intenzioni
del forte, sapranno o dissuaderle, o attenuarne almeno in parte gli
effetti, o piegarvisi senza viltà, e preparare le moltitudini al
disinganno, acciocchè gl'illusi non paiano traditori.

Soprattutto bisogna guardarsi dal raffermare e moltiplicare le illusioni
altrui nel momento che dai nostri occhi stessi le si vengono dileguando.
Bisogna guardarsi da promesse che paiano istigazioni, e possono
suscitare improvvide precipitose speranze, fomite di moti impotenti e
funesti. Bisogna guardarsi dall'esercitare contro i dissenzienti quegli
arbitrii di rigore che dispiacevano ne' principi tanto, e che non forza
denotano ma debolezza. Bisogna non aizzare gli avversi, non fare avversi
gl'indifferenti, non dare importanza ai dappoco, non stuzzicare la
prurigine degli agiati martirii. Bisogna, giacchè disperasi (e a torto,
secondo me) d'eccitare nell'umile popolo le animose ispirazioni della
patria carità, non provocare coloro che hanno nelle mani la coscienza
de' popoli.

Le moltitudini sono buone, docili, non solo credenti ma credule: e lo
sanno per prova anco gli avversi a' credenti. Nell'arguta Toscana,
nell'ardita e irritata Romagna ammiriamo la quiete rassegnata, la
gioia con cui s'obbedisce al volere d'uomini nuovi, senza saperne o
cercarne il perchè. A chi ne muove dubbio, son pronti a dozzine a
rispondere: _e' ci avranno le loro ragioni a fare così_. Han paglia in
becco. I Parlamenti non parlano, non perchè non sappiano che si dire o
che si pensare, ma perchè lo scemare pur d'una dramma l'autorità di que'
pochi che credonsi necessari dagli uni, inevitabili dagli altri, pare a
tutti misfatto. Se questa alcuno giudica prudenza soverchia, nessuno
oserebbe chiamarla inonesta.

Ma senza detrarre all'autorità di veruno, anzi per raffermarla in onore
e salute di tutti, sarà lecito desiderare che i governanti sappiano dove
vanno, dove conducono la nazione da essi con sincero animo amata. Si
aggregarono con civile intenzione al Piemonte; il Piemonte rispose
parole che non rifiutano, ma che non accettano in forma da creare la
bramata unità. Alle parole incerte succedettero fatti incerti, o certi
troppo. Or non è lecito agli uomini _pratici_ non si curare de' fatti, o
fare tra essi una scelta a piacere, o interpretarli in un solo senso, se
il senso n'è doppio. Pare che in Europa ci sia chi non vuole in Italia
un regno forte, perchè _forte_ a costoro significa _minaccioso_. E il
Piemonte accresciuto de' Ducati e del Granducato e di parte de' dominii
del Cardinale Antonelli, farebbe egli un regno forte veramente ora
adesso? Adesso, con l'Austria ai confini dov'è? Se il soccorso di
Francia gli venisse meno, potrebb'egli l'esercito Italiano qual è
difendere questo regno cosiffattamente ampliato? E cotesto stesso
Congresso, sperato liberatore, non ha egli allentati i voleri e
distratte le menti dal provvedere allo spediente unico di liberazione,
al rendersi sul serio forti?

Il Congresso darebb'egli leggi o consigli? Cederebb'egli alla ragione o
agli affetti, il Congresso? E di che genere affetti? Da che punti di
comune intesa moverebbe la disputa d'uomini tanto d'umore diversi? Cioè
a dire, in che lingua parlerebbero per intendersi? Il Conte di Cavour,
già sgradito a non pochi di que' del Congresso, e forse a chi più pareva
gradito, potrebb'egli, sedendo lì, col suo ingegno fare che l'esercito
italiano cresca in numero pur d'un sol uomo oltre a quelli che ne'
passati mesi di tregua si vennero preparando? È egli chiamato perchè si
sperino in alcuna parte mutate le sue disposizioni la forma del
manifestarle, o perchè siano mutate le altrui? È egli chiamato perchè
aiuti a Parigi, perchè in Italia non dia impaccio? È egli chiamato per
discarico di chi vuol fare chiaro che in pro dell'Italia s'è tentato
ogni cosa, e non bisogna prendersela che col destino d'Italia se
indarno?

Innanzi il Congresso de' Potentati Europei, conveniva che si fosse
potuto adunare un Congresso degli Stati Italiani, per dirsi netto quel
che potrebbero e vorrebbero dell'Italia far essi. L'impossibilità
dell'accordarsi tra loro, dimostra che la loro presenza al Congresso
Europeo non farà che moltiplicare le confusioni e gl'imbrogli. Ma un
altro Congresso era ed è fattibile e inevitabile e debito:
degl'inviati da' paesi d'Italia incerti ancora del proprio destino, che
dopo deliberatone invano co' loro decreti, dopo interrogatone indarno il
Piemonte incerto anch'esso di quel ch'è da fare e da dire e da omettere
e da tacere, non diano più retta a consigli passionati, a informazioni
che non osano farsi palesi per poter essere ritrattate o negate. Vadano
a dirittura dall'Imperatore dei Francesi, e non gli ripetano le volontà
loro, ch'egli sa bene a mente, ma sentano un poco la sua volontà.
Sappiano finalmente qual era il suo primo disegno, e quali intoppi lo
frastornarono: quale la sua intenzione d'adesso; perchè mai questa
latitudine data a una parte d'Italia a reggersi da sè mesi e mesi, a
rendere o lasciar parere impossibile il ritorno degli antichi padroni.
Ardiscano sentire il vero; ed egli non temerà certamente di dirgliene.
Non è lecito ignorare oramai certe cose; e fingendo ignorarle, o parendo
di fingere, offendere quotidianamente chi può sospettare nella stessa
semplicità e nella inscienza un oltraggio.



           IL PAPA NON È RE, MA IL CARDINALE ANTONELLI.


Se l'opuscolo _Il Papa e il Congresso_ sia di mano che sa trattare il
bastone del comando e la spada, non so; ma è certamente di chi sa
trattare la penna. Se questa sia opera precorritrice di fatti, non è
forse ben certo ancora a colui che l'ha scritta: ma debito nostro è non
discredere, e non impedire; e neanco porgere pretesti perch'altri ci
dica non buoni che a dare impaccio. Questo importa avvertire, e
tenerselo dinanzi alla mente.

Nell'opuscolo è una parte di principii, e una di pratica. Quanto ai
principii, essendo fatto per i diplomatici, e volendo per la via delle
solite transazioni all'una e all'altra parte concedere qualche cosa, i
ragionatori troppo severi o troppo sinceri ci avrebbero che ridire.

Quando si pensa che Cristo non fece sè nè san Pietro re, che il Papa fu
e apparve indipendente nella sua potestà anche prima d'essere re, e che
spodestato non disse eresie nè fu sospettato di dirle; e che essendo o
parendo re, non fu sempre e non parve e non pare a tutti libero; se ne
deduce che la necessità della corte all'indipendenza della Sede non è nè
domma nè fatto. Ma se s'intende che il Papa non deve, come nessun
altr'uomo, essere schiavo nè di re nè di popoli; e che per più alta
ragione ch'agli altri uomini dev'essere a lui assicurata eziandio
l'apparenza del libero arbitrio, come condizione non solo d'autorevole
dignità ma d'onore (inteso nel comune senso di buona fama); concedesi
volentieri come necessità morale e come dignità sociale e come
condizione della dignità di tutti i credenti, e dei non credenti stessi,
concedesi che il capo di una religione di dugento milioni d'uomini non
deva essere suddito. Non per salvarlo così dal debito dell'obbedire alle
terrene potestà giuste, alle quali devono obbedire anco i re; non per
sottrarlo ai meriti del coraggio, dell'annegazione, del martirio; non
per invidiare a lui quella forza interiore e quelle gioie sublimi che
vengono dall'esteriore debolezza e dalle contradizioni e dai dolori
inevitabili generosamente patiti; ma sì per togliere ai prepotenti
d'ogni generazione le agevolezze e le tentazioni di dargli noia,
d'offendere in esso milioni di coscienze; e per risparmiare alla società
umana turbazioni, alle anime, scandali. Senonchè a fare il papa non
suddito, basta assicurargli il soggiorno in città che non soggiaccia a
principe alcuno; dove le cure minute dell'amministrazione siano affidate
a' cittadini stessi, sì perch'eglino non siano macchine, e sappiano
servirsi da sè; sì perchè al padre di tanta famiglia dov'esso è il servo
de' servi, rimanga libera la mente e l'anima e la giornata per attendere
di cuore e sul serio al suo ministero tremendo.

Un'altra sentenza, contraria alla prima, par che conceda forse troppo da
un'altra parte, ed è là dove affermasi che il capo della confessione
cattolica, come tenace che dev'essere delle tradizioni, non può non si
fare avverso ai progressi civili. Ma la storia di molti secoli ci
dimostra come i più grandi progressi e della scienza e dell'arte, non
pochi de' più memorabili moti e delle più stabili istituzioni di
libertà, furono iniziati nel seno di nazioni cattoliche, non
contrastando i preti e gli uomini credenti, anzi spesso aiutando
valentemente. Chiaro è che non solo in fatto di religione, ma e di
scienza umana e di tutto quanto concerne la vita, certe tradizioni
bisogna serbarle, per non ritornare a ogni tratto all'abbiccì delle
cose, per intendersi, per francamente operare. Se la pianta, se l'uomo
son fatti per crescere; non è già che l'atterrare il tronco e svellere
le radici, lo slogare le ossa e sformare la faccia sia da stimare
bellezza e incremento. Le declamazioni che certi poveretti ridicono
fedelissimamente e noiosissimamente a proposito del progresso e de'
preti, non s'accorgendo essere una tradizione anche la loro, ma meschina
e dissolutrice, sono puerilità triviali, provano tutt'altro che libertà
di pensiero. Non c'è società religiosa nè civile la qual possa
permettere che tutta sorte verità pubblicamente si neghino: ch'anzi i
meno riverenti al sacerdozio, quando le questioni toccano i loro propri
diritti e utili e affetti, diventano più intolleranti; e nel senso che
dann'essi alla parola, più chierici. La differenza che dovrebbe correre
tra le potestà meramente civili, e l'autorità civilmente esercitata dal
prete, sta in questo, che il prete quand'anco avesse il diritto della
spada e del bastone e della catena, dovrebbe, per confutare il falso e
correggere il male, servirsi di mezzi intellettuali e morali e
religiosi, non solamente perchè più conformi alla sua missione, ma
perchè maggiormente efficaci, anzi essi soli davvero efficaci.

A porre in quiete pertanto la coscienza del sommo pontefice basta che
nel recinto dov'egli risiede non s'insegnino pubblicamente dottrine
contrarie al domma e alla morale insegnati da esso. E già quanto alle
verità morali, i governi di tutti i popoli cristiani consentono nel non
permettere promulgazione di principii contrari a quelle; senonchè ad
impedirla, i governi umani non hanno altre armi che materiali, nè di più
nobili possono giovarsi per assoluta autorità, ma per raccomandazione o
consiglio e preghiera. E di qui è che quando i governi sentono bisogno
del prete, ricorrono a lui; e se non possono con bel modo usano la forza
a strappare le sue predicazioni e i suoi cantici congratulanti; e se
n'hanno paura, la costringono in nome della libertà a stare zitto.

Posta così la questione, ognun vede che nel paese abitato dal Papa tutti
i progressi si farebbero leciti, tranne la negazione del domma, se
questa è progresso: ma ognun vede insieme che restringendo i limiti
della residenza pontificale, rendesi più fattibile la custodia del
domma. Date al Papa una larga frontiera ch'egli abbia a difendere dai
contrabbandi delle eresie e degli spropositi; e voi ridurrete tutta la
sua potestà alla impotente e insopportabile vigilanza sopra un esercito
di gabellieri spirituali; i quali tutti, per santi che siano ed eroi,
non possono avere lo zelo e il coraggio di Sua Santità. Vigilanza, più
che ad altri, insopportabile a lui, non foss'altro perchè sperimentata
impotente. Che se difficile cosa pare che pur dentro alla cerchia d'una
città non penetrino libri proibiti, come impedirlo in uno stato di tre
milioni? E al Papa-re, non è lecito avere milizia di soldati e milizia
di satelliti che non sappiano o non vogliano tenere da' suoi dominii
lontana la falsità; non è lecito in cosa tale farsi inutilmente
canzonare e odiare.

Ma la sua materiale potestà porta ancora più gravi contradizioni atte
massime della sua coscienza. Il Principe della Chiesa cattolica o deve
non avere forza per corporalmente punire e respingere gli altrimente
credenti, o deve tutta adoprarla a tutti punirli e respingerli, tutti e
sempre. Deve dunque la sua polizia vigilare sopra chiunque non senta
messa la festa, e non osservi gli altri comandamenti della Chiesa; sopra
chiunque tiene discorsi, anco privati, irriverenti alla religione o ai
ministri di lei; deve inibire che i suoi sudditi abbiano faccende o
colloqui con uomini di nessuna credenza o di diversa credenza; deve
penetrare il segreto delle pareti domestiche e delle lettere; deve
vietare che acattolici o israeliti saltino il fosso de' suoi dominii, e
circondare agli stati della Chiesa la muraglia della Cina. Solo questo
spediente lo può liberare dall'obbligo di statuire in regola generale
quella che parve enormità tanto strana, del consentire che sia sottratto
ai genitori un bambino per acquistarlo alla Chiesa. Se tutti i bambini
degli Israeliti e de' Protestanti non hanno a essere similmente
sottratti ai genitori, e se il Papa vuol essere Papa, non c'è che un
modo: non essere Re. Il concedere agl'Inglesi luogo di sepoltura decente
per tolleranza dell'oro e dell'armi britanniche, il negarlo ai Greci
perchè poveri e deboli, è contradizione che offende la coscienza e il
pudore, il senso comune ed il senso della umanità.

Dunque il non potere lui sempre neanco come Re quelle cose che come Papa
dovrebbe, dimostra che il suo regno non gli serve a nulla di bene, ma
gli moltiplica con le cure i rimorsi. Da una sola città gli sarebbe
possibile escludere le ballerine, e altri simili diletti e piaceri,
amenità e leggiadrie, le quali del resto nessun uomo di Stato, per
profano e profondo che sia, ha sentenziato finquì necessarie al
progresso della ragione, alla libertà dei popoli, alla felicità della
vita. Ma il fatto delle ballerine (alle cui vivacità mi si dice che
possa sedersi spettatore il porporato che ha in cura la polizia, cioè il
buon costume della Città Santa) è pure una leggerezza, un fuscello di
paglia, rispetto ai soldati svizzeri (e a quanto dicesi, anche d'altra
progenie) che sono la trave confitta nell'occhio del Cardinale
Antonelli. Dico del Cardinale Antonelli, perchè Pio IX nel mio pensiero
è collocato più alto, non solo per la dignità del suo grado, ma per la
bontà delle sue intenzioni, le quali non sorrette dalla forza
dell'animo, amici e nemici a gara fecero infruttuose. Se, come Paolo
sublimemente c'insegna, Carità è più che Fede; or mi si dica qual
sostegno alla Fede possa prestare una forza odiata e sprezzata, insulto
quotidiano alla divina carità.

Ma tempo è di venire alla parte pratica dell'opuscolo; la qual sola è
nuova, giacchè degl'inconvienti del regno sacerdotale, e del modo di
rendere il pontefice non solamente non suddito ma più che re, ampliando
la potestà vera sua col restringere l'apparente, e col dileguare le
illusioni bugiarde, altri avevano già fatto parola. E questo all'autore
è lode, perchè dimostra non essere una singolarità strana la sua, ma
proposta fondata così nell'opinione di molti autorevoli come
nell'esperienza pubblica e nella pubblica coscienza. L'importanza del
nuovo libro gli viene dal luogo e dal tempo, e desta in molti la voglia
di conoscere se nell'autore, qualunque egli sia, cotesta sia idea nuova
o antica. Io dico che antica. Altri ne frastornarono lo svolgimento con
fatti de' quali non è lecito dire chiaro perchè troppo segreti, e
superfluo dire a lungo perchè troppo palesi, dolersene inutile perchè
irreparabili. Ma volendo in qualche parte ripararli, e rannodare le fila
rotte, l'autore qualunque si sia (_O quem te memorem?_) scrisse questo
libretto; che a taluni parrà transizione brusca, contradizione, e non è
punto.

Parrà veramente che in questione concernente il pastore del gregge
cattolico, soli dovessero i potentati cattolici averci lingua: ma
badiamo che qui non si tratta delle sorti, com'altri disse con
improprietà, del papato, il quale per certo non dipende nè da re nè da
popoli, nè Congressi lo terranno ritto, nè rivoluzioni lo rovesceranno.
All'essenza del papato in tanto solo collegasi la trattazione presente,
in quanto il regno al papato è impaccio e tentazione: ma i Principi se
per questo facessero congresso o guerra, non riguarderebbero il Papa se
non come un principe italiano, insopportabile ai popoli italiani, e
quindi incomodo a Europa tutta. Di questo son giudici anco i Potentati
acattolici; i quali anzi, siccome meno interessati, sarebbero meno
sospetti di fini obliqui; e anche l'essere più lontani farebbe ad essi
discernere meglio certe cose che la prossimità o sminuisce all'occhio o
confonde. Più ragionevole sarebbe l'opporre: come e con che titolo, di
punto in bianco l'Europa de' gabinetti possa entrare a decidere le sorti
de' popoli italiani. Qui la risposta è terribilmente facile e pronta:
può perchè può. Agl'Italiani toccava provarsi d'incominciare a volere
essere più padroni in casa propria, voler esser almeno in grado di poter
dimostrare co' fatti il loro diritto al più o men prossimo esercizio
d'una qualche particella della lor padronanza: ma inutile adesso
riparlare di ciò. Resta solo a desiderare che chi può, voglia il bene
degli Italiani: e gran bene al certo sarebbe che si togliesse dai loro
occhi lo spettacolo d'un regno odiosamente inetto, e si desse a Pio IX
la forse da lui segretamente bramata opportunità d'un comodo
sagrifizio, d'un glorioso rifiuto. Coloro che approfittano della sua
regale servitù, urleranno intorno alla sua coscienza, la assorderanno; e
chi sa non riescano a farlo a sè medesimo parere martire di quello
appunto che più scalza l'edifizio murato col sangue de' martiri? Ma
checchè sia delle battaglie che quel pio infelice avrà a sostenere, gli
è cosa sicura che a togliergli dal viso la maschera che lo affoga di
principe, basta un solo atto di forza clemente; a tenergliela, voglionsi
atti quotidiani di violenza imprecata e impotente.

L'autore dell'opuscolo che rimarrà documento di storia, con ingegnoso
diletto discorre dei vantaggi onorati che alla nuova Roma verrebbero se
la potenza pontificale in lei si trovasse purificata, e a dir così
condensata. Senonchè, tra le lusinghe, gli scappa detta una parola che
suona minaccia, e già diede appiglio alle obiezioni di coloro a' quali
il distruggere è creare; dico là dove condanna i cittadini dell'eterna
città al _culto_ eterno delle _rovine_. Se ai Romani si lascia la cura
grave di amministrare davvero le proprie faccende, di migliorare
gl'intelletti e gli animi de' loro fratelli e le condizioni della comune
vita, di custodire non solo ma d'intendere e d'illustrare i loro
monumenti, e degnamente ampliarne con opere nuove l'eredità; se ai
Romani concedesi il diritto di trattare tutte quante le grandi questioni
che affaticano e consolano lo spirito umano, e la cui piena discussione
non è punto inceppata dalla credenza cattolica; se ai Romani si lascia
l'esercizio delle armi cittadine, le quali non sarebbero rivolte mai
contro un prete inerme, e difeso dalla venerazione e dalla indignazione
di tutta l'Europa civile; se ai Romani si largisce la cittadinanza
italiana, la facoltà di poter villeggiare a piacere nell'Italia laicale
e di porre ivi dimora alla pari con i natii, e di prendere parte con
Italiani e stranieri alle grandi imprese economiche e commerciali,
d'educazione e d'arte, alle quali la presente Europa in gran parte è
immatura tuttavia; non temete che venga ad essi in ribrezzo il domicilio
nella città fatta capitale davvero del mondo cattolico, la Parigi e la
Londra della religione; nella città ispiratrice e nutrice di nuovi
ordini religiosi, e de' vecchi (secondo il vecchio cattolico titolo)
riformati nella città; ispiratrice e nutrice di Congregazioni destinate
non tanto a numerare gl'innumerabili e illeggibili libri dov'è qualche
proposizione non vera, senza discernere i gradi dell'errore e la più o
meno reità dell'intenzione, e così additandoli alla curiosità de'
malevoli e facendone scandalo, quanto consacrate a consigliare e creare
libri nuovi e nuove istituzioni benefiche al mondo; nella Città
ispiratrice e nutrice d'Apostoli che, forti in dottrina di lingue e di
letterature, e d'erudizione varia e delle scienze stesse de' corpi,
vadano per tutta la terra predicando la verità con la parola e con
l'esempio e col sangue, e non comportino che Roma in ciò sia da meno di
Lione; nella Città illustrata da Cardinali che tra i più dotti e
benemeriti ciascuna nazione cattolica sceglierebbe in proporzione del
numero de' suoi fedeli, arricchita di rendita netta e onesta dagli
spontanei tributi di tutte le cattoliche nazioni. Se nella Roma
governata qual è, se nella Napoli di Ferdinando e di Francesco è sì
grande il numero de' forestieri non solo viaggianti a diporto ma lieti
di fermo soggiorno; or pensate se la fame de' giornali e la sete de'
parlamenti; se il bisogno da certa libertà così urbana e di certa così
gioviale eloquenza potrebbe lasciare deserta la città unica, divenuta
puramente religiosa, e libera quietamente.

Io non so se da quell'opuscolo deva riuscire deliberazione pacifica di
Congresso o risoluzione di guerra; non so se le due cose insieme; non so
se unite, o l'una da sè, conseguiranno l'intento: ma giova che la
proposta sia fatta, sia fatta fuori d'Italia, sia fatta da uomo
riverente alla sede. Quello che più disturberebbe il buon esito, sarebbe
un intenzione empia in impresa sì pia. Le apparenze stesse e i sospetti
dell'odio o del disprezzo nocerebbero gravemente. Se gl'Italiani,
irritanti dalla lunga stolta spietata tirannide di coloro che abusano il
nome del Papa e di Cristo, movessero da sè soli a spodestare il
principe; anco non commettendo atti indegni, parrebbero avventarsi a lui
come a preda; farebbero sembrare non solo lui vittima, ma il Cardinale
Antonelli e i fratelli suoi, martiri; tirerebbero sopra sè la
detestazione de' fedeli lontani che ignorano le costui colpe, e par loro
atto di fede il discrederle; ai nemici interni ed esterni offrirebbero
atroce pretesto di scagliarsi contro noi, come contro crocifissori
dell'Unto di Dio. Nè sarebbe maraviglia vedere potentati acattolici per
loro mire e per nuove brighe, che a un tratto trasmutano gli alleati in
avversari e i rivali in amici, i potentati acattolici farsi vendicatori
del Papa a fine di più avvilire il Papato e di comprimere le speranze di
questa Italia importune. E già ne avete preludii: ecco giornali
stranieri bisbigliare parole sinistre: ecco già l'Austria che santamente
per dono della santa alleanza si pigliava e si tiene le provincie
papaline oltre Po; l'Austria che fabbricava non solo in Ferrara e in
Comacchio alla sua Aquila i nidi; l'Austria che, tutrice della
indipendenza del prete, dentro ai dominii del principe contro il
principe cospirava, servendole non solo i Castagnoli e i Baratelli, ma i
suoi uffiziali che pubblicamente screditavano il governo del prete;
l'Austria che ai canoni del prete indipendente per molti e molti anni
nelle sue Università fece guerra, tacendo esso prete indipendente e
benedicendo; ecco l'Austria (dicesi; e io nol vo' credere ancora, ma il
rumore stesso è un preludio) che all'apparire di un opuscolo anonimo, ne
domanda ragione all'imperatore de' Francesi siccome a suddito da
chiamarsi con un precotto di polizia al tribunale della censura sua
aulica. Insomma, se altri che gl'Italiani potessero dedicarsi a
quest'opera, sarebbe una benedizione: e pare a me che dovremmo, anco a
patti che dianzi ci fossero sgraditi, accettarla.

Quanto difficile sia liberarsi dall'Austria l'abbiamo provato e
proviamo; ma meno difficile questo agl'italiani anche soli, che a loro
soli sottrarsi al Cardinale Antonelli senza una guerra europea.
L'Italia liberata dallo straniero, crescerebbe, giova sperarlo, in
nazione grande; ma chi liberasse il Papato dal regno, farebbe migliori
le condizioni di dugento milioni d'anime umane, anzi di tutta intera
l'umanità, della quale i popoli cattolici, nessun può negare che siano
una delle più nobili parti e destinate a più fecondo avvenire. Se per
questo benefizio da rendere a tutta la specie e a tutti i secoli, fosse
irremissibilmente ingiunto all'Italia il non essere per ora Nazione una,
o il sostenere altro sagrifizio; l'Italia lo dovrebbe, lo vorrebbe di
certo.

Resta a vedere se cotesta sia condizione irremissibile; e importa
saperlo. Chiunque teme conoscere questa verità, chiunque si sforza con
furberie semplicette di sviare da questo punto l'attenzione degli
Italiani, con qualunque intendimento lo faccia, li tradisce, tradisce sè
stesso. Pensiamo che in altro opuscolo grandi promesse sonarono, e
l'adempimento ne incominciò, e fu interrotto: di questo non accada il
simile, almeno per colpa nostra. Altri, uso già ai disinganni,
sospettava che nell'opuscolo non s'intendesse se non preparare
anticipata alla Francia una scusa, per poter dire poi: Volevamo; non s'è
potuto. Io non vo' credere questo: ma ad ogni modo è dovere
degl'Italiani il non fornire scuse, cercate che siano o no; il fare in
modo che non si possa mai dire loro: Noi volevamo; siete voi che non
avete voluto.

L'autore dell'opuscolo pare, a come parla, abbastanza informato di quel
che la Francia può e vuole; pare che creda e brami far credere un
pensiero maturato, non mutabile per ostacoli già previsti e da doversi
coraggiosamente incontrare. Se altri chiede ragioni da non si rendere,
se minaccia; la Francia, dopo provatasi di dileguare i sospetti
ingiusti, di associare all'alta impresa quanti se ne sentono degni, può
apparecchiarsi a diversa risposta, ove questa si voglia: mostrare (e
adesso sul serio) i suoi legni nelle acque di San Marco, sollevare il
Friuli, far con un soffio ch'Etna e Vesuvio ribollano. Sessanta milioni
tra d'Italiani e Francesi possono dar da pensare all'Europa, foss'anco
tutta nemica; che non sarà. E se non bastano, c'è la Polonia che geme;
l'Ungheria c'è che freme; c'è la Croazia, memore del benefico governo
francese, e, purchè non la soggioghino ai Magiari, pronta a levarsi per
le proprie franchigie violate, e per la civiltà a cui fu fatta con arti
tristissime parere avversa. Napoleone I, per sua sventura e nostra, nel
suo grande spirito non comprese lo spirito delle nazioni; dalla Russia
al Tirolo, dalla Germania alla Calabria, dall'Inghilterra alla Spagna,
le provocò tutte, e cadde. A Napoleone III s'aprono più sicuri e più
alti destini, purch'egli voglia; e ha provato che sa volere. Ma
perseveratamente non si vogliono se non le opere generose.



                        ITALIANI, MAGIARI, SLAVI.


Un giornale che a me non cadde di dover nominare molte volte che
potevasi a lode, e però non lo vo' nominare, adesso che devo contradire
in parte a una sentenza forse non propria de' suoi direttori; un
giornale italiano, trattando di quella che molti chiamano vendita della
Venezia, soggiunge che l'Austria, liberata da quest'impaccio e pericolo
sempre più minacciante, potrà con migliore agio e coscienza dedicarsi a
fare men dure le sorti degli altri popoli a lei soggetti, e così più
sicure onoratamente le proprie. Questo è consiglio utile e a' popoli e
all'Austria stessa: e noi dobbiamo desiderare l'utilità anco di quelli
che ci recarono e recano danni; con tanto più sincero animo desiderarla,
che il bene vero dei governati non si può mai dividere da quello dei
governanti; e finattanto che creature umane all'impero d'Austria
vivranno soggette, sarà sempre debito d'umanità l'augurare che Austria
le tenga in maniera comportabile e a quelle e a sè stessa. Il detto
giornale prosegue dicendo che all'Austria gioverebbe rammentarsi degli
obblighi ch'ell'ha verso la nazione Ungherese e al possibile farla
contenta: ed è sano consiglio anche questo, dacchè la nazione Ungherese
e per la innata prodezza, e per le ingiustizie patite, e per le dovizie
materiali e morali che raccoglie in sè, meritevoli d'essere svolte e
tratte nella luce del mondo civile, e per il vigore di volontà che ha
mostrato, è degnissima di commiserazione e di riverenza. Ma da questo
non segue che, per affidarsi ai Magiari, abbia l'Austria, diffidando de'
popoli slavi, come di quelli che le preparano _l'ultimo crollo_, a
concedere ai primi quella condizione di cose che noccia ai secondi.
Ognun sa che, tra le altre richieste, i Magiari vogliono l'integrità
dell'antico regno; e con questa parola è da temere che taluni non
intendano la trista e a loro medesimi funesta libertà di trattare gli
Slavi alla maniera che innanzi il 1848 li trattavano; onde poi vennero
le resistenze terribili delle quali Austria ben seppe approfittare, e da
ultimo l'infelice esito della guerra. La quale, se condotta
dall'Ungheria e dalla Croazia cospiranti, avrebbe prevenuti i soccorsi
della Russia, o li avrebbe fatti impotenti; avrebbe insieme con quelle
due nazioni liberata l'Italia. Non è certamente da credere che lo
scritto del giornale al quale accenniamo, intendesse insegnare
all'Austria come si faccia a schiacciare l'un popolo con le forze e con
gli odii dell'altro, e quel de' due che rimase depresso rialzare poi,
per deprimere quello che con la sua vittoria minaccia diventare molesto.
Siffatti consigli, buoni forse a bisbigliarsi all'orecchio tra principi
e principi d'una certa natura, non si conviene che i popoli li diano a'
principi, e molto meno popoli oppressi ne siano liberali al loro
oppressore in danno d'altri popoli nella miseria compagni. Gli
ammaestramenti che soglionsi a titolo di biasimo dire machiavellici, a
me sempre parvero, anzichè furberia, ineffabile semplicità: e questo del
quale parliamo, se all'Austria fosse dato da uomini italiani, sarebbe il
più machiavellico, cioè il più malaccorto di tutti. Non è dunque neanco
da immaginare che accennando al pericolo che Austria può dagli Slavi
temere, lo scrittore intendesse armare i sospetti di lei contro quelli;
ma conveniva, se non sbaglio, avvertire espressamente che dai diritti
del regno Ungherese vuol essere esclusa la così detta integrità nel
senso odioso a buona parte de' già componenti quel regno.

Non solamente certi giornali esagerando per sfogo di benevolenza, e a
buon fine, e di buona fede i vantaggi de' popoli che prendono a
difendere, ma i Potentati e i popoli stessi col dimostrare o troppo
presto o troppo spesso, e dapprima con soverchia instanza e poi con poca
costanza, il loro affetto verso tale o tal nazione, nocciono da ultimo
più che giovare. Se le più delle protezioni in effetto tornano da ultimo
moleste e tremende, non riescono un gran benefizio neanco le protezioni
in promessa. Che non si disse, e che non pareva volersi fare a pro
della sventurata Polonia? Tutti gli anni abbondanza di pie perorazioni
dalla ringhiera di Francia; tutti gli anni nella risposta della Camera
al Trono, una parola di raccomandazione degnevole per la Polonia. Ma
poi? Non vorrei il simile per la prode Ungheria. Ma so di buon luogo che
taluni degli stessi Ungheresi, i quali sono entro nel paese e non amano
illudersi, sperano meno baldanzosamente che i loro amici di fuori; nè
pare ad essi caparra di validi aiuti la dissoluzione della già
solennemente forgiata legione ungherese. E quest'è un fatto palese, e
che lascia arguire altri fatti segreti, tanto più malaugurosi al domani,
quanto parevano l'altr'jeri più lieti. Gli Ungheresi che si trovano
sopra luogo, ben sanno che in Ungheria quegli stessi che amano
caldamente la patria, non hanno nè verso l'Austria nè verso le varie
schiatte de' propri concittadini i medesimi sentimenti, nè le opinioni
medesime quanto al da farsi; e che quand'anco nell'ora del cimento la
concordia fosse piena, non sarebbe così un'ora dopo. Sanno che fin nelle
recentissime resistenze gli stessi Protestanti, i quali la comune causa
doveva più strettamente congiungere, si sono divisi; altri accettando le
concessioni austriache, altri no. Sanno che oltre alla Croazia, distinta
dalla natura e in parte dalle istituzioni, l'antico regno magiaro ha
dentro in sè molte razze e diverse, e che la nazione la qual darebbe il
nome allo Stato, dei dodici milioni di quello ne fa soli cinque, e che
gli altri milioni non comporterebbero oramai le condizioni di Governo
che già a malincuore pativano. Sanno che non solamente la parte
democratica, ma quegli stessi magnati che sono sospetti ad essa, non
cessano però d'essere all'Austria sospetti; la quale della presente
unanimità in tanto solo non teme in quanto la crede apparente, in quanto
spera potere dentro nel paese stesso fomentare le dissensioni, e
aiutarsene. Il credere, dunque, che Austria per timore degli Slavi si
possa confidentemente abbandonare a Ungheria, e Ungheria ad Austria per
odio degli Slavi, sarebbe illusione mal cauta, e in uomini liberali
inonesta.

Onesto e prudente e utile a tutti, ma principalmente agli Ungheresi,
sarebbe il dichiarare netto fin d'ora quel ch'essi intendano per diritti
del regno e per integrità; giacchè ne' termini ambigui si nasconde
spesso insidia non solo a chi li ode, ma a chi li pronunzia. Giova che
Austria intenda bene quel che da essa richiedesi, perchè poi non faccia
le viste di frantendere, come suole sempre a vantaggio proprio, con
quella furba affettazione di dabbenaggine che canzona gli accorti; e
acciocchè del frantendere innocente altrui non faccia arme a sè. Giova
che gli altri popoli o attigui o misti agli Ungheresi sappiano qual
destino a loro si vien preparando; e non solamente gli antichi e recenti
sospetti e dispetti s'acchetino, ma gli animi e le braccia si dispongano
a potentemente propugnare i comuni diritti, comuni davvero. Giova che
gli Ungheresi stessi tra loro s'intendano; giacchè non s'intendono bene
ancora, e se non si vuol dire dissenzioni, tra essi serpeggiano
dubbietà. Giova che ciascuno di loro intenda bene se stesso; giacchè
dall'osservazione di quanto essi fecero nel 48 e nel 49, e di quanto
ordirono poi, dall'udita di quanto dicono in palese e in segreto, mi par
di raccogliere che molti di loro non sono ben fermi di quel che
vogliono, e stanno attendendo dagli eventi consiglio. Pericolosa
incertezza, la quale ormai da amarissima esperienza proviamo quanto ai
popoli faccia danno, e quanto se ne approfittino i loro nemici. Un de'
malanni di tale incertezza è il fare inganno a noi stessi; e intanto che
noi con le indeterminate speranze illudiamo altrui, siamo noi medesimi
più traditi che traditori; l'improvvida temenza di guardar fiso
nell'avvenire e di dire quel che vediamo, ci frutta non solo disinganni
e sventure, ma odii e dispregi e calunnie.

Se, a cagione d'esempio, per integrità del suo regno l'Ungheria intende
che a lei venga restituita la ricca regione del Banato, la quale dalla
violenza astuta dell'Austria fu dopo il 48 divelta per indebolire esso
regno, sotto pretesto di favoreggiare lo svolgimento della nazione
Serbica, da' Magiari compressa (favore che da un governo tale qual è
l'austriaco non si sarebbero neanco i Serbi aspettato); se questo
s'intende, è di tutto diritto la chiesta. Ma quel che l'Austria faceva
le viste di volere così per istrazio de' Magiari e per ischerno de'
Serbi stessi, l'Ungheria deve operarlo sul serio e di cuore, acciocchè
l'integrità del regno apparisca, com'io credo che sia, cosa onesta. Dico
che d'ora innanzi non solo non devono gli Ungheresi schiacciare le altre
schiatte consorti, ma trattare le devono come concittadine, e
all'incremento di ciascuna adoprarsi per infino a quel segno che non
turbi l'armonia dell'intero, non ne dissipi l'unità. Or questo, forza è
confessare che non fu nettamente proposto finquì; e che taluni, e
autorevoli tra i Magiari, guatano quelle schiatte con occhio di
dispregio o di diffidenza, non come sorelle, ma a mala pena suddite. Un
recente indizio lo dimostra, indizio che non deve parere leggiero a chi
sa come il fatto della lingua sia, non solo nell'ordine intellettuale ma
nel civile, cosa di somma importanza. Perchè la lingua è il pensiero, il
respiro dell'anima; la lingua è il vincolo delle intelligenze e de'
cuori; la lingua è la proprietà della famiglia e della nazione; la
lingua è il frutto e il germe de' secoli.

Fu nel 1836 statuito che la lingua degli atti pubblici fosse la lingua
ungherese, cioè a dire che quanti d'altre razze la ignoravano, non
potessero più parlare in Parlamento, e per ogni altro uso degli uffizi
invocassero un turcimanno, e dalle cariche si astenessero infine a tanto
che l'avessero appresa. Così tutti i non giovani, e gli occupati da
altre cure e bisogni si trovavano a un tratto interdetti: e coloro
stessi che allo studio di quel difficile idioma si fossero sottoposti,
avevano pur sempre rimpetto ai Magiari uno svantaggio grave; e creavasi,
oltre all'aristocrazia de' natali, e quella de' soldi, e quella
degl'intrighi, una nuova e più pesante aristocrazia, della lingua.
Perchè tutti sanno quanto il potere speditamente e convenientemente
parlare e scrivere doni, in ispecie presso certi popoli e in certi casi,
autorità e sicurtà di vittoria; e come i prevalenti per altri titoli
sappiano nelle pubbliche lotte anche di questo valersi; e come nelle
elezioni si faccia scusabile, anzi giusto e necessario, che sia
prescelto colui che ha dominio della lingua dominante. Segue di qui, che
tra le tirannie le quali aggravano più intimamente e più
incomportabilmente, è da numerare la tirannia della lingua.

Ora leggiamo annunziato ne' giornali con vanto, come in Transilvania
nella città di Clausenburgo fosse di recente deliberato da una società
intitolata Museo che la lingua comune da usarsi abbia a essere
l'ungherese. Notisi che quel Museo non è punto un'autorità dello Stato,
che i soci sono tutti Magiari; e non è da stupire ch'essi amino usare la
lingua propria. Ma la Transilvania non è magiara tutta; e la campagna,
cioè la maggior parte della nazione, degna di riverenza perchè la più
semplice e più abbisognante di protezione, è Rumena. Innanzi che Austria
con le gravezze illegittimamente imposte in dispregio degli antichi
Statuti opprimesse e villici e cittadini, quelli erano molto
animosamente divisi da questi; adesso i comuni guai li congiungono e li
fanno parere più concordi che invero non siano, che almeno non
sarebbero, mutate in meglio le cose. Non è da credere che i Rumeni
soffrirebbero essere trattati dai pretti Magiari com'erano già; e è da
sperare che questi abbiano coscienza del dovere e dell'utile proprio.
Certamente non si conviene al Governo di uno Stato qualsivoglia essere
bilingue o trilingue e più; ma non è neanco da volere che questa
unificazione ch'è una delle più difficili a consumarsi, facciasi come
per infusione dello Spirito Santo: e prima di venire alla decisione
assoluta, bisogna preparare e gli animi e le menti e gli organi della
voce; bisogna sostenere i necessari indugi della preparazione; e
capacitarsi che il far presto è un disfare, e che la scala si scende e
si sale per gradi, o si ruzzola. E in nessun paese del mondo forse le
preparazioni a ciò intellettuali e morali e civili appaiono più
necessarie che nel regno ungherese.

Per toccarlo con mano, non c'è che da contare il numero degli abitanti
di nazione ungherese e il numero delle altre schiatte. I Magiari non
montano a cinque milioni d'anime secondo l'Almanacco di Gotha; ma
pongansi pure milioni cinque. Que' di stirpe germanica secentomila; i
Rumeni, dentro nell'Ungheria proprio, dugentomila; gli Slovacchi poco
meno di due milioni e mezzo; Croati e Serbi cencinquantamila;
quattrocentomila Ruteni. Nel Banato, già parte dell'Ungheria stessa, i
Magiari non sono che trecencinquantamila; i Rumeni stessi son più di
loro, cioè quattrocentomila; que' di stirpe germanica trecencinquantamila
anch'essi, i Serbi dugentottantamila, cencinquantamila i
Croati. I così detti confini militari dell'Ungheria (altri
da quelli della Croazia, s'intende) fanno dugentomil'anime tra
Tedeschi, Rumeni e Slavi; nè qui entra Magiari. In Transilvania Magiari
meno di mezzo milione; ma diasi mezzo: cencinquantamila Tedeschi; un
milione e settecentomila Rumeni. Insomma dei poco meno che tredici
milioni del regno ungherese, Ungheresi c'è meno di sei, il resto
parlanti altre lingue. Altri veda come sia giusto e facile cambiare a
più di sette milioni d'uomini la lingua in bocca e l'anima in petto;
cambiarla in questo momento di secolo che ciascuna nazione rivendica a
sè l'eredità delle sue tradizioni, e la pura proprietà della lingua che
alle tradizioni conserva, e da esse riceve, la vita.

Lo sforzo a rivendicare questa proprietà sacrosanta, tentata invadere
dal più tristo comunismo che sia, del quale certi governi che chiamano
sè legittimi porgono audacemente e incautamente l'esempio, lo sforzo che
dico, è notabile segnatamente nella Croazia, la quale, intedescata già
nella parte sua più civile, e abbandonata del resto, massime allorchè
vide minacciarsi l'invasione della lingua magiara, si risentì, e diede
cura alle lettere slave, adoprando la favella natia, sempre più appurata
e arricchita. Non tutti forse gl'Italiani sanno che, secondo l'antico
patto con cui la nazione s'era aggregata all'impero austriaco, oltre
alle diete sue proprie, la Croazia, non so s'io dica doveva o poteva
mandare suoi rappresentanti alla dieta generale del regno ungherese: ma
perchè essa intendeva conservare distinta la sua propria vita, che
Austria e Ungheria volevano, insieme cospirando, sottrarle di furto;
alla dieta non mandava già deputati di ciascuna provincia, ma due nunzi
soli; e questo per tema che le sue Provincie, a poco a poco assomigliate
a quelle del regno ungarico, non fossero da ultimo confuse con esse, e
fatte suddite; e così assorbito, sparisse quel regno che aveva già
esercitato il diritto d'eleggersi re suoi propri, altri da que'
d'Ungheria; aveva franchigie proprie, e imposte minori. Andando dunque
alla dieta i due nunzi, quando la lingua magiara fu diventata lingua del
parlamento, sebbene la sapessero anch'essi e nelle adunanze preparatorie
la usassero, nella pubblica dieta se ne astenevano apposta, e parlavano
il già consueto latino, con ira de' deputati magiari strepitanti e
picchianti delle sciabole in terra, intanto che uditori dalle ringhiere
spianavano le pistole sui nunzi imperterriti. Così l'antica lingua
d'Italia, alla nazione che contro l'Italia pur troppo esercitò le sue
armi, si faceva scudo e arme. Or se mai taluni degli Ungheresi con
l'integrità e co' diritti del regno intendessero ricuperare l'istituto
della comune dieta, e obbligare la nazione sorella a parlare la lingua
straniera a lei, ignota ai più de' suoi figli, tacersi; io non so se
nell'Europa civile gli uomini amici di libertà potrebbero a cotesta
maniera di guerra così cordialmente applaudire come ammirarono quella
che nel 1849 sostenne in campo l'animosa Ungheria.

A dileguare fin l'ombra delle superbie e degli astii vecchi dovrebbe
invero bastare la coscienza de' comuni dolori: e se Austria diffida e
paventa di Magiari insieme e di Slavi, e s'ingegna gli uni contro gli
altri aizzare, questa almeno dovrebbe essere ragione potente a amicarli.
Una vertigine provvida ai popoli travolge i pensieri della corte di
Vienna; che dopo il 1849 poteva conciliarsi l'una almeno delle due
nazioni, o qualche ordine almeno di persone in ciascuna delle due,
alleviandone i pesi, dimostrandone a qualche modo fiducia e riverenza:
ma tutte Vienna le esasperò. E come se gli antichi fomiti fossero pochi,
sopravvenne il Concordato con Roma (alzata d'ingegno tutta profana, per
fare della sagrestia un'anticamera al gabinetto di corte) sopravvenne a
incitare in Ungheria il risentimento de' protestanti (che tra' Magiari
sono il maggior numero, e forse i più ricchi), i quali dello zelo
religioso rinfiammarono l'amore di patria, e per questo parte degli
stessi Cattolici ebbero consenzienti. Così il Concordato, che in Italia
apparve uno scherno delle curie vescovili e della curia papale, facendo
più impertinente la licenza della polizia civile e della polizia
soldatesca, il concordato in Ungheria parve volersi dall'Austria
pigliare in sul serio, e suscitò contro lei serii impacci. Ma se gli
Ungheresi ebbero lo speciale privilegio di cotesta molestia, in altro
furono troppo appareggiati agli Slavi. E nell'uno e nell'altro paese i
beni della nazione, quasi fossero beni della famiglia imperiale, furono
(ricchezza inestimabile in mani intelligenti) venduti per una miseria,
come si suole dai prodighi e dai disperati. E le imposte, già tenui,
sopraccrebbero in modo tantopiù incomportabile quantopiù inusitato. Le
diete de' due regni ne stabilivano un tempo la quantità, anzi la
concedevano, secondo i patti dall'Austria giurati: oggidì l'arbitrio
imperiale le impone, come fa il Gran Signore de' Turchi; e Ungheria paga
d'imposte dirette ottanta milioni di fiorini; e i dugentottanta mila che
pagava Croazia, sono montati a sette milioni, somma esorbitante per
paese povero, e più tirannesca gravezza di quel che siano gli ottanta
all'ubertosa Ungheria. Aggiungansi le indirette che ascendono ad
altrettanto, e che massimamente sul popolo di Croazia pesano
odiosamente; al quale era ignota la maledizione del bollo; e ad essi la
cultura libera del tabacco, trafficato utilmente anche fuori, era grande
rinfranco. E tutto questo non per rifondersi in servigio delle nazioni
aggravate, ma forse più che la metà per opprimere e quelle e altre
nazioni, e principalmente l'Italia; per gettarlo nelle voragini della
polizia e della guerra, e servire alle ladrerie degl'ingegneri militari
e di generali voraci; un de' quali è ora appunto sotto processo infame,
e col deporlo, è già condannato dal padrone suo stesso.

Se dunque (per rivenire a quello da cui si è cominciato il discorso)
Austria, temendo de' popoli Slavi, intendesse aizzare i Magiari
contr'essi; dico primieramente che non le riuscirebbe l'arte sua trista,
come le riuscì l'altra volta: ma poi, se mai, lusingando le passioni
d'un partito, ella cominciasse a parere di poter conseguire in alcuna
parte l'intento, allora sì che l'amor patrio de' popoli Slavi, fatto più
veemente dalle passioni irritate, accrescerebbe ad essi potenza.
Croazia, già vergognata e sdegnosa de' patti antichi infranti, delle
promesse fallite, della odiosa parte che le fu fatta prendere in
servigio dell'Austria, impoverita e dal mal governo e da' tributi,
conscia più che mai della forza propria e del proprio diritto, si
solleverebbe tutta con l'impeto degli uomini semplici che si conoscono,
peggio che traditi, delusi; e troverebbe, tra i popoli e tra i
potentati d'Europa, aiutatori e segreti ed aperti. E quand'anco (cosa
non credibile) Austria potesse contro lei avventare l'intera Ungheria,
quand'anco in Ungheria non fossero e protestanti mal contenti e Slavi
compressi, e Rumeni aspiranti al consorzio di Moldavia e di Valacchia,
gli ottantaquattro mila dell'esercito magiaro (de' quali la cavalleria
famosa e terribile è il nerbo) non so quanto varrebbero contro i
cenventimila Croati, infanteria forte, che Napoleone da Smolensko
onorava col titolo di suoi prodi; contro tutto il paese dalle alture e
dalle foreste combattente per la propria terra e per le case e per le
donne, anch'esse non digiune di guerra. E quand'Austria col braccio di
sudditi, jeri ribelli e a un tratto fedeli, vincesse; l'impero già più
non sarebbe Austriaco ma Magiaro; Ungheria al suo padrone detterebbe la
legge. E se questo non fosse; se Austria, trovato non più che un docile
arnese di guerra, sapesse rimanere tuttavia imperatrice; che penserebbe
la Francia della sua così rassodata potenza? che ne penserebbe la
Prussia? e i potentati d'Europa tutta, che tanto fanno per il loro così
detto equilibrio, e per quello soffrono tante cose? Ma quando pur tutti
si compiacessero nella depressione de' popoli Slavi operata per il
valore de' Magiari in servigio dell'Austria; certo che gl'Italiani non
ci si dovrebbero compiacere. Anche posto che la così detta vendita del
Veneto sia patteggiata, e Austria riscuota la mercede de' sagrifizi
all'Italia fatti patire, e se ne stendano le carte in regola per man di
notaio, e del contratto entri mallevadrice l'Europa benevolente; chi
dice a noi che Austria ringagliardita non trovi altri titoli, oltre a
quelli per cui è creduta ora legittimamente tenere un piede in Italia,
per metterceli tutti e due, e per tentar d'assaggiare altre provincie
oltre a quella che avrebbe venduta? La dialettica della forza è feconda
di spedienti ingegnosi; e la legittimità del cannone sa farsi tenere più
imprescrittibile che il jus delle genti.

Non ho finquì rammentato la Russia perchè le serbavo luogo speciale, per
quindi prendere il destro ad un umile avvertimento che gioverebbe, se
non isbaglio, e a Russia e ad Austria, e a Slavi e a Magiari. Se Austria
seguita la perversa via d'irritare gli Slavi, o lo faccia per opera de'
Magiari o altrimenti; badi bene ch'ella si tira addosso gli sdegni e le
forze di circa ottanta milioni d'uomini, i quali già troppo Russia tende
ad attrarre a sè, senza che s'aggiunga la molla dell'odio alla potenza
delle credenze religiose, e alla innata smania del nuovo, e all'amore
del lontano che spesso apparisce più desiderabile o più venerando, e al
lenocinio delle promesse e delle lusinghe e de' doni. Austria sa che
anco prima della guerra ungherese, nella quale il soccorso russo non fu
mosso tanto dalla tema di ribellioni contagiose, quanto dalla voglia
d'accostarsi all'Europa civile, e dall'ambizione del patrocinare ch'è
sempre via comoda al padroneggiare, anco prima della guerra ungherese, e
dei dispetti eccitati da quella che suol chiamarsi ingratitudine di lei
verso il suo salvatore, Austria sa che anco prima, dicevo, viaggiatori
russi passeggiavano le sue provincie seminando regali e parole
tentatrici, e pur con la presenza tacita e col nome di Russi tentando.
Austria sa che da non pochi tra gli Slavi del mezzogiorno col nome
d'imperatore intendesi Pietroburgo, non Vienna; sa che in Boemia e
altrove sono scrittori da Russia salariati; sa che il Montenegro, meglio
che per telegrafi elettrici, corrisponde con Pietroburgo per fila
d'argento; sa che ora mentre parliamo, per via di libri e di messi,
l'antica cospirazione ferve più che mai operosa. Stava in lei farsi capo
vivente agli Slavi del mezzogiorno; concedere ad essi quelle temperate
libertà che Russia non poteva e non voleva concedere; e senza deprimere
quelli del rito greco, ma anzi conciliandoseli e distaccandoli da colui
ch'essi onorano come papa, rispettare gli Slavi cattolici, sì che non
s'abbandonino anch'essi alla Russia disperati e frementi. Questo giovava
da ultimo alla Russia stessa, la quale non può certamente fino alle
Bocche di Cattaro distendere il suo già troppo ampio impero; alla Russia
le cui ambizioni danno già tal noia all'Europa, che i più prudenti tra'
Russi, o lo facciano ad arte o davvero, non più ragionano di panslavismo
come di signoria esercitabile materialmente, ma di popoli Slavi
confederati. Sarebbe ormai tempo d'accorgersi che l'equilibrio europeo
non può più essere una scherma di reciproche gelosie tra' potenti, nè
uno sforzo loro concorde per dividere i deboli, i quali, lacerati dal
ferro e dai trattati, sui campi di battaglie e nei congressi, pur
tuttavia sentono la vita, e tendono a raccostarsi, a raccogliersi in
corpo retto da un'anima e da una mente.

Ma non dappertutto la natura e la storia consentono che ciascuna
schiatta di popoli faccia, così nettamente come potrebbe in Italia,
nazione da sè. E per parlare segnatamente dell'Ungheria, l'una stirpe
sul terreno medesimo è quasi insinuata nell'altra; e forza è che vivano
alla meglio sotto un comune governo. Acciocchè la mistione non sia nè
confusione nè stretta angustiosa, un solo spediente c'è, ma sicuro:
ridurre al mero essenziale l'unità del governo; e nell'amministrazione
della provincia e del municipio lasciare allo svolgersi di ciascuna
parte distinta, quanta si può mai libertà. Questo solo può conservare
all'Austria quel tanto di vita, ch'ella non ha co' suoi falli già tolto
a se stessa, questo solo può risparmiare alla Russia la prematura
decrepitezza che le è minacciata.

Quanto all'Italia, ci pare aver già detto abbastanza quel ch'ella deva
augurare ai Magiari e agli Slavi; e come alla possibilità e all'utilità
de' suoi desiderii la probità sia congiunta. Non per richiamare memorie
amarissime, ma per rammentare agli altri popoli il debito e l'utile
loro, avvertiamo che troppo tardi l'Ungheria s'avvisò nella grande sua
guerra di tendere la mano amica all'Italia; che quella dimenticanza
nocente a lei e all'Italia del pari, non è ancora ammendata; che
certamente ammendare non la potettero quegli Ungheresi che furono
dall'Austria forzati a porgere nel 1859 così dure prove contro
gl'Italiani del loro vigore animoso. Avvertiamo che i soldati italiani
sotto il vessillo austriaco non furono forzati a spargere in pace e nel
bel mezzo delle città sangue ungherese, come sparsero nel 1845 sangue
croato, allorquando in Zagabria una commozione popolare insorta per
causa d'elezioni municipali, fu sedata con le armi di militi italiani.
Avvertiamo che nel 1859 gli spiriti erano tanto mutati da non si poter
più Austria fidare d'alcun generale croato nella guerra d'Italia, da
essere quelle milizie tenute al retroguardo per proteggere la ritirata;
dappoichè ebbero per ben due volte fatta resistenza, essi soli di tutto
l'esercito, a marciare innanzi, affermando essere contro i patti della
nazione il guerreggiare fuor de' propri confini: della quale scusa noti
s'erano armati mai finallora. Dalle disposizioni mutate importa trarre
profitto; importa sapere che fin dal 1848 taluni tra gli Slavi erano
disposti ad accordi con gl'Italiani, se ne fosse loro aperto l'adito, e
l'adito cercarono essi, ma troppo tardi, da sè; di che io ho prove, e lo
posso attestare. Importa sapere che un libro è dianzi uscito in Parigi,
di scrittore croato, interprete del volere dei suoi concittadini di
tutti i ceti, un libro in lingua francese, a provare con documenti
diplomatici e storici i diritti della sua nazione, l'originaria
costituzione del regno e le consuetudini e i patti recenti dall'Austria
violati, il legittimo scadere di lei da' suoi titoli, per sola sua colpa
seguito. Importa sapere che negli apparecchi dell'ultima guerra il padre
veterano al figliuolo, sospinto a partirsi, diceva nelle pubbliche vie,
udenti tutti: ricòrdati, figliuolo, di quanto tuo padre e i tuoi
abbiamo, e inutilmente, patito. Importa sapere che in ricompensa
dell'impero scampato alla stretta estrema, gli Uffiziali croati dopo il
1849 erano rimandati alle case loro senza soldo; onde taluni
disperatamente si gettarono in terra turca a predare, altri agli edifizi
pubblici nelle città appiccavano per vendetta le fiamme. Importa sapere
che centomila circa tra donne e pupilli abbrunati dall'Austria nel 1848
e nel 49 piangono la loro indigente vedovanza e orfanezza; che a
migliaia si strascinano per le città e per le campagne i soldati che la
guerra mutilò e deformò (giacchè le materne cure dell'Austria da essi
propugnata negano un ricovero e un pane a que' cadaveri vivi), si
strascinano spettacolo di pietà e d'ira a' fratelli, accattando famelici
da famelici, e la voce, che sola ormai resta ad essi, grida al cielo
giustizia e pietà, pietà per la patria loro, pietà per quegli stessi
Magiari e Italiani dall'arme loro e dalla credula fedeltà al Bèlial
austriaco sacrificati. Importa sapere che non solo là dove prima non si
vedevano impiegati tedeschi, ora impiegati e maestri insultano con la
presenza, e tolgono ai nativi il campamento dovuto, e alla gioventù la
sua lingua, ma per le terre e per le borgate sono disseminati soldati di
polizia forestieri, documento di paura, e fomite di diffidenza, e
contagio di scostumatezza in popolo semplice al quale è religione il
pudore; e che questa è ferita di tutte più cocente, perchè offende
l'onore e penetra l'anima. Importa sapere che quella nazione la quale,
della civiltà non avendo tutti i vantaggi, non ne ha neppure tutti i
contagi, disingannata e stanca com'è, può domani sorgere in armi; e se
Francia o Italia sostiene con le sovvenzioni necessarie di danaro per
tre o quattro mesi i suoi moti, Austria è ita. Or l'Austria nell'atto
appunto di aprire alle chieste de' Magiari non gli orecchi suoi, ma le
carceri; ai Croati che stanno minacciosamente muti, si volge spontanea
con docilità e umiltà insolite, e con scossa subitana di pia
sollecitudine, interroga di quel che sarebbe da fare per più svolgere lo
spirito della loro Nazione, e per meglio coltivare il patrio idioma; e
ciò col doppio intendimento, di placare i loro corrucci, e più urtare i
Magiari palpando i Croati, e questi aver pronti contro quelli al
bisogno. Ma questi, cogliendo intanto dalla profferta il loro vantaggio,
sapranno scansare la rete marcia e squarciata; e non troveranno,
speriamo, un bano Jellacich, che ponga il suo vanto nel farli flagello
in mano altrui, flagello buttato poi a terra e calcato co' piedi; e ne
abbia in premio lo scherno d'un titolo impotente, il dispregio de' suoi,
una moglie, e vecchiaia prematura, quasi lunga agonia confusa
d'imbecillità e di rimorsi. Noi altri aiutiamoli a emendare il passato;
non li irritiamo col disprezzo, non li disperiamo coll'odio; non siamo
(nel senso che molti danno alla parola più cattivo) croati a noi stessi.
Se i fantasmi della paura sono debolezza fanciullesca, le superstizioni
dell'odio sono ubbie fratricide. Ma nell'odio è paura.

Quel motto che dei Borboni di Francia fu sazievolmente detto e ridetto,
gioverebbe che, se si vuole a altri principi, non si potesse almeno ai
popoli appropriare: _Niente hanno appreso, e niente dimenticato_.
Senonchè io a' popoli augurerei che, molto apprendendo, niente
dimentichino; nè i falli propri, per espiarli; nè le offese altrui, per
scansarne le cagioni e i pretesti, per provvedere come respingansi con
onestà e con onore, per vincerle co' benefizi, e il rispetto degli
avversi e degli sprezzanti conquistare con opere grandi. Apprenda sempre
meglio l'illustre nazione ungherese a non diffidare di quelli che stanno
a lei inseparabilmente attaccati, a convertire in vincoli d'affetto i
nodi della necessità, che altrimenti la impediranno, e la strozzeranno.
Apprendano gli Slavi o misti a' Magiari, fino ad ora congiunti ad essi
sotto la medesima dinastia, a non odiare neanco chi li sconosce, a darsi
a conoscere con fatti nuovi di mite civiltà generosa; e se il tempo
ingrandisce il loro paese col consorzio d'altri loro fratelli differenti
di riti di costumi o di lingua, vogliano concedere ad essi ogni
agevolezza di libertà; non imitino l'antica durezza improvvida de'
Magiari, la quale sentirono tanto intolleranda, che pur dall'ombra e dal
pensiero rifuggono. Apprendano gl'Italiani a volere, non in decreti e in
brindisi, ma in fatti e in affetti e in sagrifizi, sincera unità, non
per tema del pericolo o per speranza di peculiari vantaggi, ma per
obbedienza alle leggi della natura troppo qui violate dagli odii e dai
sospetti, per terrore delle discordie, per vergogna delle aggregazioni
fittizie, sotto le quali possono col tempo covare vanità peggio che
municipali, d'uomini singoli e di partiti: apprendano a cogliere l'una
dall'altra famiglia non tanto le facili utilità materiali, quanto gli
esempi civili e morali di bene; a farsi gli uni agli altri ministri e
discepoli, anzichè padroni e maestri. La docilità è dote propria degli
uomini e de' popoli grandi. Per essa la Grecia e l'Italia, attingendo
l'una dall'altra e dall'Oriente ambedue, si fecero educatrici del mondo,
vinsero il vincitore.


                                  FINE.



                                 INDICE


PREFAZIONE                                              Pag. III

I PATTI E I FATTI.
      I.--Assunto.                                       »    5
     II.--Prime mosse nazionali.                         »    6
    III.--Svolgersi del concetto.                        »    8
     IV.--Guerra di Crimea.                              »   10
      V.--Cose desiderate da farsi tra il 49 e  il 58.   »   12
     VI.--Congresso a Parigi.                            »   18
    VII.--Disegni più vecchi insieme e più  nuovi.       »   20
   VIII.--Jattanze e speranze.                           »   22
     IX.--Patti segreti.                                 »   24
      X.--Apparecchi e auspizii della guerra.            »   27
     XI.--Rotta e interruzione.                          »   29
    XII.--Congresso e guerra.                            »   34
   XIII.--Inghilterra.                                   »   36
    XIV.--Russia.                                        »   37
     XV.--Germania--Confederazione                       »   38
    XVI.--Roma                                           »   42
   XVII.--L'Alleato                                      »   48
  XVIII.--Il non fatto, e il da farsi                    »   49
    XIX.--Sincerità                                      »   53
     XX.--Austria                                        »   56
    XXI.--Possibilità del pericolo                       »   62
   XXII.--Conclusione                                    »   66

NECESSITA' URGENTE                                       »   67

IL VENETO                                                »   73

ITALIA DI MEZZO                                          »   93

IL PAPA NON È RE, MA IL CARDINALE ANTONELLI              »  100

ITALIANI, MAGIARI, SLAVI                                 »  114

       *       *       *       *       *

Nota di trascrizione:

pag. 15  - che provvedessesi [provvedessessi] alla sanità e moralità
delle carceri

pag. 22 - gli fu conceduta sulle provincie, [provincei,] conservanti
il diritto

pag. 25 -  inteso e sottinteso e frainteso [franteso] a Plombières;

pagg. 52, 53 - metta in atto la [la la] loro unanime volontà

pag. 97 - potrebb'egli l'esercito Italiano qual è [qual'è]

pag. 106 - contradizione, e non è punto. [punto punto.]

pag. 110 - Se nella Roma governata qual è [qual'è]

pag. 117 - Tutti gli anni abbondanza [abondanza] di pie perorazioni

pag. 119 - un governo tale qual è [qual'è] l'austriaco

pag. 121 - più abbisognante di protezione, è Rumena. [Rumeni.]

pag. 130 - Ma non dappertutto [dappertuto] la natura

pag. 137  - Pagina mancante nell'originale; ricostruita.





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