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Title: Fatalità Author: Negri, Ada Language: Italian As this book started as an ASCII text book there are no pictures available. *** Start of this LibraryBlog Digital Book "Fatalità" *** Internet Archive ADA NEGRI ———— _Fatalità_ MILANO FRATELLI TREVES, EDITORI 1911 PROPRIETÀ LETTERARIA. ———— _I diritti di riproduzione e di traduzione sono_ _riservati per tutti i paesi, compresi la Svezia, la_ _Norvegia e l’Olanda._ ———— Tip. Fratelli Treves.--1911 Indice · PREFAZIONE ..................................................... v · FATALITÀ ....................................................... 1 · SENZA NOME ..................................................... 3 · NON MI TURBAR.... .............................................. 7 · VA L’ONDA.... .................................................. 12 · BIRICHINO DI STRADA ............................................ 13 · SON GELOSA DI TE!... ........................................... 17 · STORIA BREVE ................................................... 22 · AUTOPSIA ....................................................... 23 · NEVICATA ....................................................... 29 · NEBBIE ......................................................... 33 · NOTTE .......................................................... 35 · FIN CH’IO VIVA E PIÙ IN LÀ ..................................... 37 · SULLA BRECCIA .................................................. 43 · BUON DÌ, MISERIA ............................................... 49 · VEGLIARDO ...................................................... 53 · IL CANTO DELLA ZAPPA ........................................... 57 · I VINTI ........................................................ 61 · MANO NELL’INGRANAGGIO .......................................... 65 · LA MACCHINA ROMBA .............................................. 67 · POPOLANA ....................................................... 69 · FIOR DI PLEBE .................................................. 75 · BACIO PAGANO ................................................... 79 · CAVALLO ARABO .................................................. 81 · TE SOLO ........................................................ 87 · SINITE PARVULOS.... ............................................ 91 · NENIA MATERNA .................................................. 95 · NELL’URAGANO ................................................... 99 · LUCE ........................................................... 103 · PORTAMI VIA .................................................... 107 · PUR VI RIVEDO ANCOR.... ........................................ 109 · STRANA ......................................................... 111 · PERCHÈ ......................................................... 117 · SFIDA .......................................................... 121 · SALVETE ........................................................ 125 · PIETÀ!... ...................................................... 131 · VA ............................................................. 135 · NO ............................................................. 139 · CANTO D’APRILE ................................................. 141 · MADRE OPERAIA .................................................. 143 · NON POSSO ...................................................... 147 · FANTASMI ....................................................... 149 · VIAGGIO NOTTURNO ............................................... 153 · ANIMA .......................................................... 159 · AFA ............................................................ 165 · TU VUOI SAPER?... .............................................. 169 · VIENI AI CAMPI... .............................................. 173 · FRA I BOSCHI CEDUI ............................................. 179 · CASCATA ........................................................ 184 · MISTICA ........................................................ 185 · HAI LAVORATO? .................................................. 189 · A MARIE BASHKIRTSEFF ........................................... 195 · IN ALTO ........................................................ 203 · SOLA ........................................................... 209 · SPES ........................................................... 214 · VEDOVA ......................................................... 215 · ROSA APPASSITA ................................................. 219 · DEFORME ........................................................ 223 · VOCE DI TENEBRA ................................................ 229 · MARCHIO IN FRONTE .............................................. 235 · VATICINIO ...................................................... 241 · LARGO! ......................................................... 247 PREFAZIONE ADA NEGRI¹ ———— Sta a Motta-Visconti. Questo lo si sa perchè tutte le sue poesie portano ai piedi, a sinistra, questa indicazione. Ma chi è Ada Negri? Perchè non scrive che sull’_Illustrazione Popolare?_ Perchè non esce fuori in piena luce e nessuno l’aiuta a uscir fuori? Io mi dibatto, maledico e piango, Ma passa il mondo e ride o non mi sente. ¹ È ormai costume generale presentare conferenzieri e poeti, la prima volta che compariscono dinanzi al pubblico. A presentare Ada Negri, ricorriamo ad un mezzo semplicissimo e che ci pare il migliore: riprodurre l’articolo che già nel dicembre scorso un’altra gentile e valente scrittrice le dedicò nel _Corriere della Sera_. (_Nota degli Editori_) Perchè nessuno l’ascolta? Questo si chiedevano, soltanto pochi mesi fa, gli abbonati del _Corriere della Sera_, e dell’_Illustrazione Popolare_; anche quelli che di versi non s’intendono, e non si curano, ma tutti, davanti alla poesia di Ada Negri, s’erano sentiti presi e scossi. Strano davvero che, così conosciuta e ammirata _privatamente_, ella non trovasse modo di sbucar dalla siepe che fiancheggiava il suo sentiero e non potesse uscir fuori liberamente sulla strada maestra. Ma forse è stato per il suo meglio: questa lotta contro ostacoli che non sapeva che fossero, questa sete di gloria non mai appagata, aiutarono certo ad accendere in lei quella fiamma che riscalda ormai tutta la sua poesia, dandole un’impronta così sentita, così nuova, così sua. I suoi lettori sono andati man mano comprendendo che il dolore dei suoi versi è dolore vero, che questa creatura giovane deve aver sofferto come se avesse già vissuto una lunga vita, e finirono col tenersi sicuri che, conscia del suo ingegno com’essa è, forte della sua triste esperienza, sarebbe balzata fuori da un momento all’altro al sole di quella gloria che sogna con tanto ardore. La «bieca figura» che le appare una notte al capezzale e si chiama sventura, dopo averla atterrita col profetarle tutto quello che è destinata a soffrire, le dice: .... A chi soffre e sanguinando crea Sola splende la gloria. Vol sublime il dolor scioglie all’idea. Ed ella, che l’aveva respinta, le risponde: Resta. La sventura! come si sente ch’essa fu la compagna della giovinezza di Ada Negri! forse fin da bambina seppe .... le notti insonni e l’inquïeto Pensier della dimane. fors’anche conobbe «i giorni senza pane»... Crebbi col buio intorno e qui nel core Una feroce nostalgia di sole. A diciott’anni saluta sua madre e parte da Lodi per il suo posto di maestra a Motta-Visconti: una grossa e grassa borgata _della bassa_ dove però non arrivano ancora neppure le rotaie di un tram; è là come dimenticata sul ciglione del Ticino dove si stendono boscaglie conosciute dai cacciatori milanesi, e dove Ada Negri va ad ascoltare le voci del vento che sale, Punge, penètra, sibila, travolge, Fiero scotendo l’ale. Ada Negri, quando i tuoi versi usciranno raccolti in volume, molte cose si vorranno dire e si inventeranno intorno alla tua persona e alla tua vita. Lascia ch’io dica prima almeno un poco della melanconica verità; essa è un onore per te, e alla tua povertà un giorno tu ripenserai con dolcezza e con gratitudine, poichè ad essa devi in gran parte quello che sei. Lasciaci dunque attraversare il vasto cortile fangoso, su cui s’aprono le stalle e dove guazzano le oche, per venir a bussare al tuo uscio screpolato, salendo i due alti scalini di mattoni rotti. Noi veniamo a salutarti nella tua stanza dove la luce è fioca perchè alla finestra non vi sono vetri ma impannate di carta, dove il mobile più elegante è la cassa de’ tuoi libri che ti serve da divano.... Il nostro cuore si stringe al primo momento, ma poi s’allarga, gonfio di commozione e d’ammirazione. * È in un giornale letterario, se non sbaglio, che uscì _Madre operaia_, la descrizione di quel lanificio dove lavora senza posa una povera donna stanca e affievolita, la cui fronte patita è come illuminata da una nobile fierezza perchè essa lavora per suo figlio che deve studiare: .... Suo figlio, il solo, L’immenso orgoglio della sua miseria, Cui ne la vasta e seria Fronte del Genio essa divina il volo. Chi, leggendo, non ha pensato che forse si doveva dire _una figlia_? La povera donna stanca e malata che ha lavorato tutta la vita, ora è là rifugiata presso la figliuola e attende, trepida e pensosa, l’avvenire luminoso in cui la bruna testa sarà cinta «di oro e di lauro». Sta forse per arrivare il gran giorno? Ecco che da ogni parte d’Italia giungono lettere, giornali e libri, e il nome della sua figliola è dappertutto, e il pavimento n’è ingombro ed ella vi cammina sopra con venerazione. Sì, il nome della tua figliola è conosciuto, ma nessuno sa chi ella sia ed ella non conosce nessuno, e dovrà ancora per qualche tempo andarsene in zoccoli alla sua scola, dove un’ottantina di ragazzi le strillano il buongiorno e mettono a prova la sua pazienza coi nasi che colano e l’ostinazione di voler gridare tutti insieme le lettere dell’alfabeto. Sua madre la vede tornare col viso pallido, colle mani che bruciano, gli occhi che balenano, e trema per paura che sia malata. È l’intenso sforzo di vivere due vite, di ascoltare due voci: mentre ode quelle del di fuori, e parla e risponde e compie rigida e ferma il suo dovere, dentro ha mille altre voci che le parlano, una musica strana che le sale dall’anima e vorrebbe prorompere, ma non lo può che nella notte alta, quando tutto tace intorno a lei e il dovere della sua giornata è compiuto. È allora che un immenso radiante orizzonte le si apre dinanzi. Chi legge i suoi versi può pensare ch’ella ha tutto visto e conosciuto: ma non conosce che la solitudine e la sventura: un mondo buio e freddo dal quale la luce del di fuori appare abbagliante, e più dolce e tepido che non sia, il mondo dei fortunati. Ada Negri ha letto pochissimi libri moderni ma li conosce tutti dalle varie opposte critiche dei giornali letterari, ed è curioso come del male e del bene che se ne dice ella afferra il vero! Non ha mai visto un teatro, ma è entusiasta della Duse ed è presa in questi giorni da una smania di sentirla e vederla che non lascia pensare ad altro: sono sempre i suoi giornali che la informano; un fascio; quasi tutti quelli d’Italia che riceve da due anni ogni settimana col bollo postale di Milano, da un ammiratore che non le si è mai fatto conoscere. Ada Negri non ha mai visto il mare, non conosce le montagne, neppure le colline o un lago: pochi mesi fa poteva dire neppure una grande città, poichè non faceva che attraversar Milano da Porta Ticinese a Porta Romana per andar a Lodi a passar le vacanze con sua madre. Quest’estate alcuni amici la vollero trattenere per due giorni e fu tutta una nuova vita spalancatasi ai suoi occhi nella gran città popolosa, nella stagione in cui le corse e le esposizioni la rendevano così brillante. I gaudenti le sfilarono davanti col barbaglio del lusso, della bellezza, dell’eleganza. L’arte ch’ella intravvide a Brera la sbalordì, la commosse, la trasportò; il magico incanto di terre lontane e genti nuove la sedusse là fra quegli egiziani e quei cavalli, davanti a quelle brune almée dagli occhi dipinti. Due giorni di sogno: tutta la sua personcina esile vibrava e i suoi grandi occhi neri fiammeggiavano come per febbre, tanto che gli amici si chiesero se non avevano commesso una cattiva azione mostrandole ciò di cui non avrebbe potuto godere a lungo. Ella tornò laggiù a riprendere i suoi zoccoli; tornò a insegnar a compitare ai suoi ottanta bambini rumorosi e cocciuti, ma pur troppo non seppe più essere tranquilla e rassegnata al suo oscuro destino. Vi sarà chi, leggendo il suo libro, dirà che c’è una nota insistente, troppe volte ripetuta: è vero, ella stessa lo sente e lo dice: ma è così, è lei, ora; è la campana lugubre, incessante che invoca al soccorso, è la sua giovinezza che si ribella al dolore che l’ha sempre accompagnata, è il grido dell’ingegno che lotta per non essere seppellito vivo. Son poeta, poeta, e non m’arride Luce di gloria. Pure come triste e dolce si fa il suo canto qualche volta: come la sua giovinezza, stanca di anelare all’avvenire, torna al passato, e si riposa ridiventando bambina alle ginocchia di sua madre. Madre, qui—nel silenzio—a te vicina! E chiede: Dimmi, perchè si soffre e si perdona. Perchè nel cor, con luminoso incanto, L’amore come alato inno risuona, Poi tutto crolla come sogno infranto? Dimmi, perchè si soffre e si perdona? La nota dolce della lirica di Ada Negri sgorga sempre e sola dal ricordo della fanciullezza cullata dall’amore di sua madre, o dall’amor materno che le appare come un lontano miraggio di pace. La desolazione non accascia però mai a lungo Ada Negri; ella scatta come una molla d’acciaio; l’amarezza dello sconforto si muta sempre in un lampo di sfida, in un impeto di audace speranza. Par che la sua personcina diventi più alta, quando sfidando la miseria, «spettro sdentato dalle scarne braccia», esclama: È mia la giovinezza, è mia la vita! Nella pugna fatale Non mi vedrai, non mi vedrai sfinita. Su le sparse rovine e su gli affanni Brillano i miei vent’anni! E che profonda commozione proviamo quando, povera creatura, dice: Vedi laggiù nel mondo Quanta luce di sole e quante rose, Senti pel ciel giocondo I trilli de le allodole festose, Che sfolgorìo di fedi e d’ideali, Quanto fremito d’ali! Ma l’ammirazione ci riempie, quando questa fanciulla coraggiosa, altera della sua virtù e del suo ingegno, soggiunge: Voglio il lavor che indìa, E con nobile imper tutto governa, e salutando fieramente la «maga nera» dice: .... dai lacci tuoi balzando ardita, Canto l’inno alla vita! Se c’è poesia sentita da tutti è questa di Ada Negri, essenzialmente moderna e democratica. Qui dentro è il «turbinoso presente» invocato da Arturo Graf, qui rigurgita davvero «l’onda immensa di voci che ci ingombrano di stupore, ci empiono di pietà, ci infiammano d’entusiasmo, ci rattristano a morte». dicembre 1901 _Sofia Bisi Albini._ FATALITÀ Questa notte m’apparve al capezzale Una bieca figura. Ne l’occhio un lampo ed al fianco un pugnale, Mi ghignò sulla faccia.—Ebbi paura.— Disse: «Son la Sventura.» «Ch’io t’abbandoni, timida fanciulla, Non avverrà giammai. Fra sterpi e fior, sino alla morte e al nulla, Ti seguirò costante ovunque andrai.» —Scostati!... singhiozzai. Ella ferma rimase a me dappresso. Disse: «Lassù sta scritto. Squallido fior tu sei, fior di cipresso, Fior di neve, di tomba e di delitto. Lassù, lassù sta scritto.» Sorsi gridando:—Io voglio la speranza Che ai vent’anni riluce, Voglio d’amor la trepida esultanza, Voglio il bacio del genio e della luce!... T’allontana, o funesta.— Disse: «A chi soffre e sanguinando crea, Sola splende la gloria. Vol sublime il dolor scioglie all’idea, Per chi strenuo combatte è la vittoria.» Io le risposi:—Resta.— SENZA NOME Io non ho nome.—Io son la rozza figlia Dell’umida stamberga; Plebe triste e dannata è mia famiglia, Ma un’indomita fiamma in me s’alberga. Seguono i passi miei maligno un nano E un angelo pregante. Galoppa il mio pensier per monte e piano, Come Mazeppa sul caval fumante. Un enigma son io d’odio e d’amore, Di forza e di dolcezza; M’attira de l’abisso il tenebrore, Mi commovo d’un bimbo alla carezza. Quando per l’uscio de la mia soffitta Entra sfortuna, rido; Rido se combattuta o derelitta, Senza conforti e senza gioie, rido. Ma sui vecchi tremanti e affaticati, Sui senza pane, piango; Piango su i bimbi gracili e scarnati, Su mille ignote sofferenze piango. E quando il pianto dal mio cor trabocca, Nel canto ardito e strano Che mi freme nel petto e sulla bocca, Tutta l’anima getto a brano a brano. Chi l’ascolta non curo; e se codardo Livor mi sferza o punge, Provocando il destin passo e non guardo, E il venefico stral non mi raggiunge. NON MI TURBAR.... Se qualche volta i tuoi detti d’amore, Assorta, io non ascolto, E m’ardon gli occhi, e insolito pallore M’imbianca il labbro e il volto; Se, di tutto dimentica, reclino La bruna testa, e penso, Non mi turbar—dinanzi a me, divino, Si schiude un mondo immenso. Da le nubi squarciate io vedo il sole Cinger, nudo e ridente, Il suol ricco di mirti e di viole In abbraccio possente; E dai fieni falciati, e da le messi Mareggianti all’aperto, Da le chiome de l’elci e dei cipressi, Da l’arido deserto, Dai grandi boschi urlanti al vento iroso Con grido appassionato, Dal fremito d’amor voluttuoso Che ravviva il creato, Sento, sento salir coi voli erranti D’aligere sperdute Soffi larghi, novelli e trionfanti Di forza e di salute. E non più sangue, non più sangue allaga La dolorosa terra, Non più, feroce ed inflessibil maga, Spiana il fucil la guerra; Ma tutto il mondo è patria e tutti un santo Entusiasmo avviva, E di pace solenne e mite un canto Vola di riva in riva. Non più il pazzo furor de la mitraglia Eruttano i cannoni, Non più volan fra mezzo a la battaglia Le belliche canzoni; Fuma il vapor; rompe l’aratro il cuore A le zolle feraci, Rimbomba de le macchine il fragore, Rosseggian le fornaci; E sul ruggito leonino e rude De la terra in fermento Libertà le sue bianche ali dischiude Fiera squillando al vento. VA L’ONDA.... Fra l’alte rive, irrefrenata e cieca, Va l’onda, e piange.—Il plumbeo cielo ascolta. Non ha sorrisi la quieta vôlta. Non l’aura un soffio ne la notte bieca. Va l’onda, e piange. E nel suo grembo porta E via trascina con mestizia greve Il giovin corpo inanimato e lieve D’una leggiadra suicida smorta. Va l’onda, e piange.—In quel lamento accolto È l’eco d’un mister torbido e strano; Da quel pianto s’eleva il grido umano D’un disperato amor vinto e travolto. BIRICHINO DI STRADA Quando lo vedo per la via fangosa Passar sucido e bello, Colla giacchetta tutta in un brandello, Le scarpe rotte e l’aria capricciosa; Quando il vedo fra i carri o sul selciato Coi calzoncini a brani, Gettare i sassi nelle gambe ai cani, Già ladro, già corrotto e già sfrontato; Quando lo vedo ridere e saltare, Povero fior di spina, E penso che sua madre è all’officina, Vuoto il tugurio e il padre al cellulare, Un’angoscia per lui dentro mi serra; E dico: «Che farai, Tu che stracciato ed ignorante vai Senz’appoggio nè guida sulla terra?... De la capanna garrulo usignuolo, Che sarai fra vent’anni? Vile e perverso spacciator d’inganni, Operaio solerte, o borsaiuolo? L’onesta blusa avrai del manovale, O quella del forzato? Ti rivedrò bracciante o condannato, Sul lavoro, in prigione, o all’ospedale?...» .... Ed ecco, vorrei scender nella via E stringerlo sul core, In un supremo abbraccio di dolore, Di pietà, di tristezza e d’agonia: Tutti i miei baci dargli in un istante Sulla bocca e sul petto, E singhiozzargli con fraterno affetto Queste parole soffocate e sante: «Anch’io vissi nel lutto e nelle pene. Anch’io son fior di spina; E l’ebbi anch’io la madre all’officina, E anch’io seppi il dolor.... ti voglio bene.» SON GELOSA DI TE!... Ti vidi un giorno—e di sospetto un palpito M’arse la solitaria alma sdegnosa, Senza saper perchè: Or ti conosco, e t’odio, e son gelosa, Son gelosa di te!... Va, sirena, e trionfa. A te di grazie Molli e procaci ben concesse Iddio Il fulgido tesor: Va—sei bella e fatal come il desìo, Bianca fanciulla da le trecce d’ôr!... Perchè venisti? Di repente al fascino Di tua fiorente giovinezza audace Fuggì mia speme a vol; E il mio splendido sogno infranto giace, L’ali spezzate, al suol. Se tu sapessi come punge l’anima L’acuta spina d’un dolor profondo, Quando fugge l’amor.... Come par vuoto e desolato il mondo. Quando negletto e senza meta è il cor!... Oh, potessi scordar l’alate e rosee Larve del sogno appassionato e stolto De la mia gioventù; Su le rovine de l’amor sepolto Non ridestarmi più! .... Va, sirena, e trionfa.—A te di gioie Intime il riso, e la bugiarda festa Di dolci voluttà; Ma se cupo abbandono a me sol resta, L’ira del fato su te pur cadrà. Quando, solinga, cercherai fra i ruderi Muti e dispersi de l’amor languente L’ebbrezza che svanì, Quando, fra i geli, invocherai l’ardente Felicità d’un dì, Ritta e proterva mi vedrai risorgere Come vindice larva a te dinante, Lieta del tuo dolor; E riderò su le tue gioie infrante, Bianca fanciulla da le trecce d’ôr: Poichè, superba di tue molli grazie, Tu calpestasti il sogno mio di rosa Sotto l’audace piè, T’odio, balda sirena, e son gelosa, Son gelosa di te!... STORIA BREVE Ella pareva un sogno di poeta; Vestìa sempre di bianco, e avea nel viso La calma d’una sfinge d’oriente. Le cadea sino ai fianchi il crin di seta; Trillava un canto nel suo breve riso, Era di statua il bel corpo indolente. Amò—non riamata. In fondo al core, Tranquilla in fronte, custodì la ria Fiamma di quell’amor senza parole. Ma quel desìo la consumò—ne l’ore D’un crepuscol d’ottobre ella morìa, Come verbena quando manca il sole. AUTOPSIA Magro dottore, che con occhi intenti Per cruda, intensa brama, Le nude carni mie tagli e tormenti Con fredda, acuta lama, Odi. Sai tu chi fui?... Del tuo pugnale Sfido il morso spietato; Qui ne l’orrida stanza sepolcrale Ti narro il mio passato. Sui sassi de le vie crebbi. Non mai Ebbi casa o parenti; Scalza, discinta e senza nome errai Dietro le nubi e i venti. Seppi le notti insonni e l’inquïeto Pensier della dimane, L’inutil prece e il disperar segreto, E i giorni senza pane. Tutte conobbi l’improbe fatiche E le miserie oscure, Passai fra genti squallide e nemiche, Fra lagrime e paure; E finalmente un dì, sovra un giaciglio Nitido d’ospedale, Un negro augello dal ricurvo artiglio Su me raccolse l’ale. E son morta così, capisci, sola, Come un cane perduto, Così son morta senza udir parola Di speme o di saluto!... Come lucida e nera e come folta, La mia chioma fluente!... Senza un bacio d’amor verrà sepolta Sotto la terra algente. Come giovine e bianco il flessuoso Mio corpo, e come snello! Or lo disfiora il cupido, bramoso Bacio del tuo coltello. Suvvia, taglia, dilania, incidi e strazia, Instancabile e muto. Delle viscere mie godi, e ti sazia Sul mio corpo venduto!... Fruga, sinistramente sorridendo. Che importa?... Io son letame. Cerca nel ventre mio, cerca l’orrendo Mistero della fame!... Scendi col tuo pugnale insino all’ime Viscere, e strappa il cuore. Cercalo nel mio cor, cerca il sublime Mistero del dolore!... Tutta nuda così sotto il tuo sguardo, Ancor soffro; lo sai?... Colle immote pupille ancor ti guardo, Nè tu mi scorderai: Poi che sul labbro mio, quale conato Folle di passïone, Rauco gorgoglia un rantolo affannato Di maledizïone. NEVICATA Sui campi e su le strade Silenzïosa e lieve, Volteggiando, la neve Cade. Danza la falda bianca Ne l’ampio ciel scherzosa, Poi sul terren si posa Stanca. In mille immote forme Sui tetti e sui camini, Sui cippi e nei giardini Dorme. Tutto dintorno è pace: Chiuso in oblìo profondo, Indifferente il mondo Tace.... Ma ne la calma immensa Torna ai ricordi il core, E ad un sopito amore Pensa. NEBBIE Soffro—Lontan lontano Le nebbie sonnolente Salgono dal tacente Piano. Alto gracchiando, i corvi, Fidati all’ali nere, Traversan le brughiere Torvi. Dell’aere ai morsi crudi Gli addolorati tronchi Offron, pregando, i bronchi Nudi. Come ho freddo! Son sola; Pel grigio ciel sospinto Un gemito d’estinto Vola; E mi ripete: Vieni, È buia la vallata. O triste, o disamata, Vieni!... NOTTE Sul giardino fantastico Profumato di rosa La carezza dell’ombra Posa. Pure ha un pensiero e un palpito La quiete suprema; L’aria, come per brivido, Trema. La luttuosa tenebra Una storia di morte Racconta a le cardenie Smorte? Forse—perchè una pioggia Di soavi rugiade Entro i socchiusi petali Cade.— .... Su l’ascose miserie, Su l’ebbrezze perdute, Sui muti sogni e l’ansie Mute, Su le fugaci gioie Che il disinganno infrange, La notte le sue lagrime Piange. FIN CH’IO VIVA E PIÙ IN LÀ Ella mi disse: «Tu non ridi mai; Imprecan sempre i versi tuoi mordaci. Tu il cantico non sai Ove il gaudio folleggia e vibra al sole La musica dei baci. Tu non conosci la canzon febèa Che ignuda erompe dal pagano ammanto Come un’antica dea, E in alto vola, nuvole spargendo Di glicine e d’acanto.» Ella mi disse ancora: «Ove sei nata, Poetessa fatal del malaugurio?... Quale perversa fata Ti stregò ne la culla?...»—A lei risposi: «Io nacqui in un tugurio. Io sbocciai da la melma.—Ed attraverso Al trionfo del sole ed ai ferventi Inni de l’universo, A me giunge da presso e da lontano Un’eco di lamenti. A me goccia sul cuore in accanita Pioggia vermiglia il sangue degli eletti Che gettaron la vita Ove crollante libertà chiedea Baluardo di petti. Dalle case operaie ove si pigia Una folla agitata e turbolenta, Una pleiade grigia Che al pan che le guadagna la fatica Famelica s’avventa; Da le fabbriche scure ove sbuffando Vanno, mostri d’acciaio, le motrici, E l’acre aër filtrando Pei pori, il roseo sangue intisichito Rode a le tessitrici; Da l’umide risaie attossicate, Dai campi e da sterili radure, Da le case murate Ove in nome di Dio s’immolan tante Inerti creature, A me giunge, a me giunge il pianto alterno Che mi persegue e che cessar non vuole, Lugùbre, sempiterno, Vipistrello che al buio sbatte l’ali, Nube che offusca il sole! Fuggon dinanzi a me gioia e bellezza, Fugge la luce a novo dì ridesta. La temeraria ebbrezza Fugge d’amore e l’estasi del bacio.... Solo il dolor mi resta!... Ma è dolor che non cede e non s’inclina, È il dolor che pugnando a Dio s’innalza; È la virtù divina Che Promèteo sostenne incatenato Su la selvaggia balza. E tetro vola il canto mio sonante Sopra l’intenta folla impallidita, Come cala gigante Su la ghiacciaia ove s’indura il gelo Un’aquila ferita.» SULLA BRECCIA Passan, compatti, tragici, severi, Colla testa scoperta. La cassa dell’estinto è ricoperta Di lunghi veli fluttuanti e neri. Un pensoso dolor fra ruga e ruga Su le fronti s’incide. Su loro invan da l’alto il ciel sorride; Sgorga tacito il pianto, e niun l’asciuga. Fra le travi inchiodate egli riposa, Rattratto e sfracellato. Lavorava sul tetto; e s’è spaccato, Cadendo, il capo su la via sassosa. Pieno di speme e di gagliarda vita, Bello come un Titano, Cadde.—Or la fredda e raggrinzata mano Stringe il cor d’una vedova sfinita; E via lo porta nei recessi austeri Del sonno e dell’oblio.— Sotto il dito terribile d’un Dio Passan, compatti, tragici, severi; E pensano.—O destin!... Com’egli è morto Forse anch’essi morranno. Il bracciante è soldato; essi lo sanno.— Gonfiasi il petto, e il volto si fa smorto. Erculei sono e coraggiosi, ed hanno Ai lor sogni una meta, Una famiglia e una casetta lieta, E forse, sul lavor, doman cadranno Da un tetto, nel fragor d’un opificio, Sotto un crollo di vôlta; Ma il grido di chi muor nessuno ascolta, Niun comprende il supremo sacrificio. Sorgono i vivi al posto degli estinti: Sul lutto è la speranza: Sconfinato è l’esercito che avanza, Serenamente calpestando i vinti: E come corron su le fosse mute I bambini festanti, Vanno le turbe, ignare e rimugghianti, Sui resti de le vittime cadute.— BUON DÌ, MISERIA _A Sofia Bisi Albini._ Chi batte alla mia porta?... ... Buon dì, Miseria; non mi fai paura. Fredda come una morta Entra: io t’accolgo rigida e secura. Spettro sdentato da le scarne braccia, Guarda!... ti rido in faccia. Non basta ancor?... T’avanza, T’avanza dunque, o spettro maledetto. Strappami la speranza, Scava coll’ugne adunche entro il mio petto; Stendi l’ala sul letto di dolore Di mia madre che muore. T’accanisci: che vale? È mia la giovinezza, è mia la vita! Nella pugna fatale Non mi vedrai, non mi vedrai sfinita. Su le sparse rovine e su gli affanni Brillano i miei vent’anni. Tu non mi toglierai Questa che m’arde in cor forza divina, Tu non m’arresterai Ne l’irruente vol che mi trascina. Impotente è il tuo rostro.—O tetra Iddia, Io seguo la mia via. Vedi laggiù nel mondo Quanta luce di sole e quante rose, Senti pel ciel giocondo I trilli de le allodole festose: Che sfolgorìo di fedi e d’ideali, Quanto fremito d’ali!... Vecchia megera esangue Che ti nascondi nel cappuccio nero, Io nelle vene ho sangue, Sangue di popolana ardente e fiero. Vive angosce calpesto, e pianti, ed ire, E movo all’avvenire. Voglio il lavor che indìa, E con nobile imper tutto governa. Il sogno e l’armonia, D’arte la giovinezza sempiterna; Riso d’azzurro e balsami di fiori, Astri, baci e splendori. Tu passa, o maga nera, Passa come funesta ombra sul sole. Tutto risorge e spera, E sorridon fra i dumi le vïole: Ed io, dai lacci tuoi balzando ardita, Canto l’inno alla vita!.... VEGLIARDO _.... in chiesa.—_ Prega—sei solo.—Il tardo Passo qual triste idea qui t’ha guidato, O pallido vegliardo? Forse ti parla ne la chiesa oscura Quel Dio che ti fe’ grande e sventurato, Quel tremendo Signor che t’impaura?... Passan ne la tua mente Le rimembranze de l’età fuggita, Passan, gelidamente: Ed il tetro squallor del tempo antico E il calvario crudel de la tua vita, La tua vita di servo e di mendico. Prega. Sfiorîr cogli anni Di tua lontana gioventù solinga Voti, speranze, inganni. E pur fidavi—e ti cantava in core, E ti spronava sulla via raminga Il fresco inno gentil d’un primo amore. Per quel nemico, acerbo Destin che sotto un giogo empio curvava Il capo tuo superbo; Per la tua mesta gioventù schernita, Pe’ tuoi laceri panni ella t’amava, E l’orme seguitò de la tua vita.... Era bionda e sottile, E come raggio le parlava in fronte Il cor grande e gentile. Con te divise degli affanni il pondo, De la tua povertà gli strazi e l’onte, E la sprezzante carità del mondo; Poi.... s’addormì. L’assorta Dolce pupilla al bacio tuo chiudea, Piccola fata smorta. Ove fuggiva?... In qual plaga profonda, In qual lembo di ciel si nascondea La tua boema innamorata e bionda?... .... Prega—sei solo.—Il tardo Passo ben triste idea qui t’ha guidato, O tremulo vegliardo! Forse ti parla ne la chiesa oscura Quel tremendo Signor che pur t’ha dato Il sorriso di lei ne la sventura?... Svanîr calma e tempesta; Ormai la tua giornata è giunta a sera, Nulla quaggiù ti resta. Su te mendico, servo e dispregiato, Senza posa gravò la sferza fiera D’un avverso destin.... ma fosti amato!... IL CANTO DELLA ZAPPA Ruvida spada io son che il terren fende; Son forza ed ignoranza. In me stride la fame e il sol s’accende; Son miseria e speranza. Io conosco la sferza arroventata Dei meriggi brucianti, Dell’uragan che scroscia a la vallata Le nubi saettanti. Io so gli olezzi liberi e feraci Che maggio da la terra Con aulenti corolle, insetti e baci Trionfando disserra: E nell’opra d’ogni ora e d’ogni istante Io più m’affilo e splendo; Rassegnata, fortissima, costante, Vo il duro suol rompendo. Ne le basse casupole sconnesse, Nel rozzo cascinale Ove penètra per le imposte fesse La ràffica invernale, Ove del foco sul tizzon che geme L’ignavia s’accovaccia, E la pellagra insazïata freme Gialla e sparuta in faccia, Entro e guardo.—E in un canto abbandonata, Ne l’alta e paurosa Notte che incombe a l’umida spianata E a la stanza fumosa, Mentre la febbre di risaia scote Feminei corpi affranti, E più non s’odon che le torve note Dei villici russanti, Veglio, ed un soffio di desir m’infiamma. .... Sogno la nova aurora, Quando, dritta qual rustico orifiamma Nel sol che l’aure indora, Serenamente splendida, brandita Da un’inspirata plebe, Sorgerò, bella di vigor, di vita, Da le feconde glebe. Ma le lame saran pure di sangue, E bianchi gli stendardi; Conculcato morrà de l’odio l’angue Sotto i colpi gagliardi; E dalla terra satura d’amore, Olezzante di rose. Purificata dal novello ardore De le gare animose, Fino a l’azzurro ciel tutto un tumulto Di rozze voci umane Salirà come un inno ed un singulto: «Pace!... lavoro!... pane!....» I VINTI Sono cento, son mille, son milioni. Son orde sconfinate. Sommesso rombo di lontani tuoni Han le file serrate. S’avanzan sotto il rigido rovaio Con passo uguale e tardo. Nuda è la testa, l’abito è di saio, Febbricitante il guardo. Essi cercano me.—Tutti son giunti.— Fluttuando com’onda Di grigie forme e di volti consunti, La turba mi circonda. Mi pigia, mi nasconde, m’imprigiona; Sento i rôchi respiri, Il lungo pianto che nel buio suona, Le bestemmie, i sospiri. «Noi veniam dalle case senza fuoco, Dai letti senza pace, Ove il corpo domato a poco a poco Piega, s’arrende, giace. Veniam dagli angiporti e dalle tane, Veniam dai nascondigli, E gettiam su la terra un’ombra immane Di lutto e di perigli. Noi lo cercammo un ideal di fede, Ed esso ci ha traditi. Noi cercammo l’amor che spera e crede, Ed esso ci ha traditi. Noi l’oprar che rigenera e rafforza Cercammo, e ci ha respinti. Ov’è dunque la speme?... Ove la forza?... Pietà!... Noi siamo i vinti. .... Sopra e d’attorno a noi, del sol raggiante Ne la gran luce d’oro, Scoppia e trasvola il vasto inno festante Del bacio e del lavoro: Ferreo serpe, il vapor passa e rimbomba Sotto montana vôlta, Chiama l’industria con guerriera tromba Menti e braccia a raccolta: Mille bocche si cercan desïose Innamoratamente, Mille vite si lancian generose Nella fornace ardente; E inutili siam noi!..—Chi ci ha gettato Su la matrigna terra?... Il sospiro del cor chi ci ha negato? Chi ne opprime e ne atterra?... Qual odio pesa su di noi?... Qual mano Ignota ci ha respinti?... Perchè il cieco destin ci grida: Invano?... Pietà!... Noi siamo i vinti.» MANO NELL’INGRANAGGIO Rôtan le cinghie, stridono le macchine; Indefessi ne l’opre, allegri canti Vociano i lavoranti. Ma un dissennato grido a un tratto levasi; E pare lacerante urlo di belva Ferita in una selva. Fra i denti acuti un ingranaggio portasi —Povera donna bionda e mutilata!...— Una mano troncata. ... Rôtan le cinghie, stridono le macchine; Ma le ruvide voci i lavoranti Più non sciolgono ai canti. Stillan, confuse col sudor, le lacrime; Da lontano rombando, la motrice Cupe leggende dice. E senza tregua appare agli occhi torbidi —Povera donna bionda e mutilata!...— Quella mano troncata. LA MACCHINA ROMBA La macchina romba.—S’eleva ruggendo Il vasto solenne rumor, Qual forte avoltoio che, l’aure fendendo, Si slancia a le nuvole d’ôr. La macchina romba.—Son gli urli selvaggi Di chi fra i suoi denti spirò: Di chi stritolata fra gl’irti ingranaggi La giovine vita lasciò. Di cinghie, d’acciaio, di morse, di foco, Di spire temuto signor, Il mostro sbuffante nel vigile loco Si nutre d’immenso clamor: Folleggia, sghignazza, divampa, s’allenta, Stridendo si frena e ristà: Poi torna all’assalto, si snoda, ed avventa Nel cielo il fatidico hurrà. «Avanti, campioni de l’opre venture, Scendete nel nobile agon: Di sega, di zappa, di picca, di scure Vi chiami l’onesta tenzon. Bollenti di vita le turgide vene, Baciati nel viso dal sol, Spiranti l’ambrosia de l’aure serene, Nudriti da fertile suol, Osate, o campioni di novi ardimenti, V’aspetta la libera età....» .... La macchina romba: nel cielo, fra i venti Si slancia il fatidico hurrà. POPOLANA Giran le spole, il fil s’attorce, io canto: Ho diciott’anni in core, Due begli occhi, un telaio ed un amore, Vesto d’indiana e non conosco il pianto. S’io snodo e sciolgo la mia treccia rossa Ove un raggio sfavilla, Nel guardo a chi m’affisa una scintilla S’accende, e in petto elettrica una scossa! Ma passo noncurante, e rido in viso Ai tentator loquaci; Serbo per l’amor mio tutti i miei baci, E il mondo venderei pel suo sorriso. Io l’amo;—egli è il signor della fucina, Egli è il re del martello: Alto, robusto, nerboruto e bello, A lui dappresso sembro una bambina. Quand’egli batte il ferro arroventato Dinanzi alla fornace, E sul volto ha i riflessi della brace, E s’inturgida il collo denudato, Io m’esalto per lui tutta d’orgoglio, E per lui tutto oblìo; Il mio demone egli è come il mio Dio, E per me sola, per me sola il voglio!.... E s’io l’attendo ne la mia soffitta, E l’ora è già trascorsa, Mi si strozza il respir dentro una morsa, E mi sento qui al sen come una fitta: Ma un passo già risuona sulle scale.... Già l’uscio si spalanca.... La mano trema e il labbro mi s’imbianca, Ma per corrergli incontro ai piedi ho l’ale.... Nero di polve e splendido d’amore, Affranto e sorridente, Ecco, ei m’avvolge in una stretta ardente, E sento sul mio cor battergli il core. FIOR DI PLEBE Tu la vedesti mai?... Sembra di rame La sua pelle morata. È una dea che ha per letto il nudo strame, Una dea folleggiante ed abbronzata. Sorride sempre ed ha sì bianchi i denti, E il labbro sì vermiglio, Che ti provoca ai baci.—In cor tu senti L’alta malìa del luminoso ciglio; E un turbamento che spiegar non sai Le tue viscere afferra. Ma d’esser bella ella non seppe mai, E non ama che me sopra la terra!... .... Tutte le sere, sola, essa m’attende Su quel canto di via. Quando mi vede, l’occhio suo s’accende, La sua voce diventa melodìa; Ed all’orecchio mi bisbiglia cento Folli e semplici cose.— Il batter lesto del suo core io sento, L’alito de le labbra desïose; E sento che benchè ricco soltanto Io sia d’un saldo braccio. Ella sarà felice a me daccanto, Niuno la strapperà da questo abbraccio!... .... Sai?... Le dissero un dì ch’io la tradìa; E le dissero il nome Da la nemica.—Tacita s’avvia. Anelante il respir, sfatte le chiome; La vede, la minaccia, s’accapiglia. La sfregia con un morso; Come indòmo cavallo che si sbriglia. Tutta la rabbia sua disfrena il corso. .... Io ritorno alla sera.—A me s’avvince Ella, tutta tremante; E colla voce che ogni sdegno vince, Col grand’occhio bagnato e supplicante, Scomposta, paurosa, scarmigliata, Bellissima d’amore, Umil come una schiava appassionata, Ammalïante come schiuso fiore, «Perdonami,» susurra,—e colla mano Carezzando mi viene— «Non disamarmi, non fuggir lontano.... Mi vendicai perchè ti voglio bene.» BACIO PAGANO Fra l’auree spiche, in faccia al rutilante Sole che tutta incendia la vallata, Nel solco fumicante, Su la tepida bocca ei l’ha baciata. Ride il ciel senza nube e ride il grano A la coppia rapita; Inneggia intorno al bacio schietto e sano Potentemente l’universa vita. Sanguigne olezzan le corolle schiuse Come bocche anelanti nell’amore; Sale per l’aure effuse Il canto allegro de la terra in fiore. S’abbraccian sorridendo in mezzo al verde I due giovani amanti, Mentre un trillo di rondine si perde Sotto l’arco dei cieli azzurreggianti; E dappertutto, nei cespugli ombrosi, Nei calici dei fiori, entro la bionda Messe e nei nidi ascosi, Freme il bacio che avviva e che feconda. CAVALLO ARABO Sogni tu forse le gialle radure, Sogni tu forse le calde pianure Arse dal sol? Vasti miraggi di sabbie cocenti, Corse d’audaci cavalli nitrenti Sul patrio suol? Quando tu scoti la folta criniera, E punti a terra la zampa guerriera Mordendo il fren, Quando tu nitri con urlo selvaggio, Subita brama di novo viaggio M’avvampa in sen. Non sai?... M’attiran le plaghe serene; Non sai?... M’attiran le nitide arene Arse dal sol. Vien, ch’io ti salti su l’agile groppa; Bruno corsiero, galoppa, galoppa, Divora il suol!... Fuggi le nebbie stagnanti sui piani, Su questa ignobile folla d’umani Passa col piè: Fendi correndo l’irsuta ramaglia. Fuggi, galoppa per valle e boscaglia, Libero e re! Dietro ti lascia gli abissi e le frane, Gonfî torrenti, spezzate liane, Calpesti fior. Avanti sempre, se lunga è la strada, Fin ch’io con te ne la polvere cada, Mio corridor!... O fiamme rosee di vesperi queti, O visïoni di snelli palmeti Riflessi in mar; Scabri e rocciosi profili di monti, D’arabe nenie pei glauchi orizzonti Fioco vibrar!... Sprizza scintille la sabbia infocata; Ahmed, galoppa!... La corsa sfrenata Più non ristà. Verso l’ignoto ti slancia, t’avventa; Tutto disfido se in faccia mi venta La libertà!... TE SOLO Qui.... te solo, te solo.—Oh, lascia, lascia Ch’io sfoghi sul tuo cor tutti i singulti Da tant’anni nel petto accumulati, Tutti gli affanni e i desiderî occulti.... Ho bisogno di pianto. Sul tuo sen palpitante, oh, lascia, lascia Ch’io riposi la testa affaticata, Come timido augello sotto l’ala, Come rosa divelta e reclinata.... Ho bisogno di pace. Sul tuo giovine fronte, oh, lascia, lascia Ch’io prema il labbro acceso e trepidante, Ch’io ti susurri l’unica parola Che t’incateni a me per un istante.... Ho bisogno d’amore. SINITE PARVULOS.... _Oh, si vouz rencontrez quelque part sous les cieux...._ _V. Hugo._ Se nel crocicchio d’una via deserta O in mezzo al mondo gaio e spensierato Incontrate un bambino abbandonato, Pallido il viso e la pupilla incerta; Che d’una madre il bacio ed il consiglio Abbia perduto, e pianga su una bara La memoria più santa e la più cara, Oh, portatelo a me!... Sarà mio figlio. Io lo terrò con me, per sempre.—A sera Gli metterò le sue manine in croce. Con lui, per lui dicendo a bassa voce De’ miei anni più belli la preghiera. La parola che eleva e che conforta Io gli dirò con placida fermezza; La gelosa e veggente tenerezza Avrò per lui de la sua mamma morta. Io gli dirò che la vita è lavoro, Gli dirò che la pace è nel perdono; Di tutto ciò che è giusto e grande e buono Farò nella sua mite alma un tesoro. La forza di pensier che Dio m’ha data Tutta trasfonderò ne la sua mente; Presso a lui sfiorirà tranquillamente La mia vita raccolta e scolorata. Mentr’io declinerò verso l’oblìo, E avrò la cuffia e metterò gli occhiali, Ei salirà, lo spirto agl’ideali, Le braccia alla fatica e il cuore a Dio. Fidente ei moverà verso l’aurora. Ingranaggio vital nell’universo, Irrequïeto augello al sol converso, Giovane stelo che nel sol s’infiora: E in pace io morirò.... poichè sofferto Non avrò indarno, e non indarno amato; E da un petto di figlio e di soldato Cadrà un sospiro su l’avello aperto. NENIA MATERNA Quando, bimba felice, a l’origliere Desiosa di sonno, io m’affidava, Curva su l’ago ne le lunghe sere La madre mia vegliava. Cantando ella vegliava—era una dolce Cantilena gentil come di fata, Donde il fioco ricordo ancor mi molce Nell’anima turbata. Nel silenzio vanìan le note lente Come tremando d’intima dolcezza, Vanìan per l’ampia oscurità dormente. Lievi come carezza; Ed io.... sognava.—Intorno a la mia culla Aleggiava di miti angeli un coro, D’amor parlanti a l’anima fanciulla, Belli nei nimbi d’oro. * Or più non canti. Ma nel verno algente Cruda miseria strazia, inesorata, La tua stanca vecchiezza e l’impossente Mia gioventù spezzata. Or più non canti, o madre.—Ad una ad una Svanîr le gioie—e pur, calma nei guai, A l’insulto crudel de la fortuna Non imprecasti mai; Ma nel torvo del cor sdegno profondo, Io lancio ai dardi de la sorte infida, A l’onta nera, a la miseria, al mondo, Una superba sfida. .... Pur, quando a la mia fronte austera e smorta Tacitamente, o madre mia, tu miri, Come in amare ricordanze assorta, Poi, timida, sospiri; Di lontane memorie una dolcezza, Di battiti segreti un’armonia, Mi spinge a ricercar la tua carezza Appassionata e pia. Ne la penombra dell’ora quïeta, Sotto il tuo caro sguardo, a te vicina, Madre, vorrei scordar che son poeta, E ritornar bambina. Vorrei sentirle ancor le nenie lente Che un dì, chinata su tranquilla cuna, Calma ne l’ampia oscurità dormente, Fidavi a l’aura bruna; E ribaciando la tua fronte bianca, Che tristezza d’amor tutta scolora, Fra le tue braccia, come bimba stanca, Addormentarmi ancora. NELL’URAGANO Quando de la procella scapigliata Rugge l’ira e gialleggia il lividor, Ed Eolo come furia scatenata Fischia dei lampi al vivido baglior, Vorrei nel turbinìo dell’uragano, Fra le saette d’ôr, Perdermi tutta, perdermi lontano, Così, stretta al tuo cor!... * In questa febbre di cielo e di terra, Con te sospinta nell’immensità, Dirti l’antica ed ostinata guerra Che tu in me non sospetti e Dio non sa; A me d’intorno l’ulular del vento, Buio, schianto, furor; Sotto ai piè la ruina e lo spavento, La testa sul tuo cor.... LUCE A fasci s’effonde Per l’aria tranquilla. Colora, sfavilla, La mite frescura Del verde ravviva, S’ingemma giuliva Per terra e per ciel, Vittorïosa, calda e senza vel. Son perle iridate Danzanti nell’onde, Son nozze di bionde Farfalle e di rose, La vita pagana Dolcissima emana Dai baci dei fior... Il mondo esulta e tutto grida: Amor!... Mi sento nell’anima La speme fluire, L’immenso gioire Di vivere sento. Qual schiera di rondini I sogni ridenti Fra i raggi lucenti Si librano a vol.... Son milionaria del genio e del sol!... PORTAMI VIA Oh, portami lassù, lassù fra i monti, Ove lampeggia e indura il gel perenne, Ove, fendendo i ceruli orizzonti, L’aquila spiega le sonanti penne; Ove il suol non è fango; ove del mondo Più non mi giunga l’odïata voce; Ov’io risenta men gravoso il pondo Di questa che mi curva arida croce. Oh, portami lassù!... Ch’io possa amarti In faccia a l’acri montanine brezze, Fra i ciclami e gli abeti, e inebbriarti Di sorrisi d’aurora e di carezze!... Qui grigia nebbia sul mio cor ristagna; Nelle risaie muor la poesia; Voglio amarti lassù, de la montagna Nel silenzio immortal.... portami via!... PUR VI RIVEDO ANCOR.... Pur vi rivedo ancor, povere stanze, Linde stanzette de la madre mia: Oh, nel mio sen, che folla di speranze, Quando, ricca di sogni, io ne partìa!... Pur vi rivedo ancor, povere stanze. O bianco letto ove dormii bambina, O vaghi fiori, o ninnoli gentili, Soavemente, con virtù divina, Voi mi parlate dei trascorsi aprili; O bianco letto ove dormii bambina!... La speranza nel cor si rinnovella, Care memorie, in voi mirando—e al muto Labbro la fede, più gagliarda e bella, Chiama il sorriso ch’io credea perduto.... .... La speranza nel cor si rinnovella. Madre, qui, nel silenzio, a te vicina, Chinar la testa fra le tue carezze, Sui tuoi ginocchi ritornar bambina, Dirti del cor l’indomite tristezze.... Madre, qui, nel silenzio—a te vicina!... Oh, non lasciarmi, non lasciarmi mai, Solo conforto ai miei tristi vent’anni!... Tutti, presso di te, mamma, tu il sai, L’anima scorda i paventati affanni.... Oh, non lasciarmi, non lasciarmi mai!... Move da l’aure un alito di pace; Palpitante di stelle è il firmamento, Ed ogni umana sofferenza tace Come dormono i fiori e tace il vento: .... Move da l’aure un alito di pace.... STRANA Treman le foglie con brivido lento: Al bosco verde che bisbiglia e posa Narra una storia il vento. E comincia così: C’era una volta.... E, trepidando all’alitante spiro, Il bosco verde ascolta. * Era un’errante e fervida gitana: Avea la bocca rossa e fulvo il crine, E si chiamava: Strana. Un giorno amò.—Fu spasmo e fu dolcezza, Fu sorriso e delirio, ombra e splendore Di quell’amor l’ebbrezza. Un altro giorno attese, ed ei non venne. Attese a lungo, palpitante e muta. Non venne più.... non venne. Ed essa allor, chinando il volto assorto, Disse: A che serve trascinar la vita, Quando l’amore è morto? .... Un alito passò tra fronda e fronda. D’infinito riposo a lei parlava L’acqua limpida e fonda; D’oblìo parlava!... E su come lamento Un susurro venìa: Tutto si spegne Quando l’amore è spento.— .... La moritura si drizzò fremendo, Col teso pugno un’adorata, infida Larva maledicendo; Poi com’ebra slanciossi. E su l’effuse Chiome, e sul niveo corpo disfiorato La fredda onda si chiuse. * Narra il vento così. La notte densa Cala, cinta di nubi, a la foresta, Che abbrividendo pensa. Ed ecco, a poco a poco il vento sale, Punge, penètra, sibila, travolge, Fiero scotendo l’ale. Ed è voce di pianto alta e suprema, Ed è lungo e gemente urlo d’angoscia, E la foresta trema. Son palpiti di fronde e son sussulti. Parole d’ira sibilate a volo, Aneliti, singulti.... Squallida e nuda, ad un ricordo avvinta, Via per la selva turbinando gira L’anima d’un’estinta; E par che gema tra le foglie attorte; No, non v’è pace!... Amor che avvampa in vita Spasima nella morte. PERCHÈ I. L’uno ha vent’anni—è bello, innamorato, Dolce signor d’armonïosi canti, E sul suo labbro acceso ed inspirato Fioriscono per me gl’inni vibranti. Ei che descrive nel suo verso alato Splendidamente de l’amor gl’incanti, Egli, vinto, sommesso, affascinato, Trema come un fanciullo a me davanti. E mi susurra al piè queste follìe: Darei la gloria pe’ tuoi cari accenti, Per te che sola al mondo adoro e bramo... E de l’arte le mistiche armonie, Sogni, voti, sorrisi, estri ferventi, Tutto a’ miei piè depone, e pur.... non l’amo!... II. L’altro drizza la fronte imperiosa Come tronco di quercia a la procella. Tace—ma tutta in lui leggo l’ascosa Poesia de la schiva alma rubella. Non mi parla d’amor—forse non osa. Ma l’acuto suo sguardo, ignea facella, Con secreta carezza e dolorosa Mi ripete ch’ei m’ama e che son bella. Quando langue sui vetri il dì che manca, Ed ei m’affisa ne la smorta faccia, E pensa, e soffre, e non sa dirmi: Io t’amo, Io chino il volto con ebbrezza stanca; Ed un desìo mi spinge a le sue braccia, Come trepido augello al suo richiamo. SFIDA O grasso mondo di borghesi astuti Di calcoli nudrito e di polpette, Mondo di milionari ben pasciuti E di bimbe civette; O mondo di clorotiche donnine Che vanno a messa per guardar l’amante, O mondo d’adulterî e di rapine E di speranze infrante; E sei tu dunque, tu, mondo bugiardo, Che vuoi celarmi il sol de gl’ideali, E sei tu dunque, tu, pigmeo codardo. Che vuoi tarparmi l’ali?... Tu strisci, io volo; tu sbadigli, io canto: Tu menti e pungi e mordi, io ti disprezzo: Dell’estro arride a me l’aurato incanto, Tu t’affondi nel lezzo. O grasso mondo d’oche e di serpenti, Mondo vigliacco, che tu sia dannato! Fiso lo sguardo ne gli astri fulgenti, Io movo incontro al fato; Sitibonda di luce, inerme e sola, Movo.—E più tu ristai, scettico e gretto, Più d’amor la fatidica parola Mi prorompe dal petto!... Va, grasso mondo, va per l’aer perso Di prostitute e di denari in traccia: Io, con la frusta del bollente verso, Ti sferzo in su la faccia. SALVETE Penso agli atleti della vanga—ai forti Che disfidando urlanti nembi e soli, Strappano a l’arsa tormentata gleba Misero un pane. Penso agli atleti del piccone—ai macri De la miniera poderosi atleti, Ne l’ombra nera ed imprecata ansanti Senza riposo. .... Un sordo rombo ecco serpeggia—e crolla Precipitando con fragor la vôlta, E tutto è polve e cieco abisso e lunghi Gemiti e morte.... Ma il sen squarciato del pietroso monte Fende il vapor vittorioso, e passa; E lo saluta al trionfato varco Fulgido il sole.— .... Penso agli atleti dell’idea, che, accesi D’ansia febbril la generosa mente, Martiri e duci, fra le turbe ignare Tuonano a pugna: Penso a chi veglia, s’affatica e muore Disconosciuto.... e dal mio seno irrompe Alto echeggiando su la terra un grido: Forti, salvete!— * Salvete, o petti scamiciati e ferrei, Ruvidi corpi e muscolose braccia Infaticate nel clamor ruggente De l’officine: Salvete, o voi, cui del lavoro infiamma Il santo orgoglio, e nel lavor morrete, Voi, del pensier, del maglio e della scure Strenui campioni. A me dinanzi in visïon severa Passan profili d’operaie smorte, Passan le navi ruinanti a l’urto De la procella; E bimbi stanchi e incanutite fronti, E mozzi corpi e sfigurati volti, E tutta, tutta un’infinita, affranta, Lurida plebe. Sento da lungi un romorìo di voci. Colpi di zappe, di martelli e d’aste: Io, fra il tumulto che la terra avviva, Libera canto; Te canto, o sparsa, o dolorosa, o grande Famiglia umana!... Va, combatti e spera, Tenta, t’adopra e non posar giammai; Breve è la vita. Su le tenzoni del lavor; sul capo Dei vincitori e l’agonie dei vinti, Sguardo sereno ed immortal di Dio, Sfolgora il Sole. PIETÀ!... Io t’invoco, o Signore, Che nel buio mi guardi. Batte da lungi l’ore La bronzea squilla. È tardi. Spiega la notte l’ale.... Io prego, inginocchiata, Convulsa, al capezzale Di mia madre malata. Pietà!... Sul terreo viso immoto Cala come un sudario. Dio dell’ombra e del vuoto, Che salisti il Calvario, Che portasti la croce, Che cingesti le spine, Ascolta la mia voce, Allontana la fine, Pietà! Pietà di lei che soffre, Pietà di lei che muore. Che vuoi da me?... M’avvinghia, O implacabil Dolore; Copri di strazi e d’onte I miei tristi vent’anni, Scavami sulla fronte Le rughe degli affanni, Fa che d’amor, di gioie, Fa che di tutto priva Io sia, tranne di lagrime.... Ma che mia madre viva. Pietà!... VA Tu che sei bello, generoso e forte, Tu amor mi chiedi?... Oh, bada. Se gaudio e speme a te reca la sorte, Non ti gettar su la mia fosca strada. Va, di pace e d’amor ricca è la terra: Fanciullo, io son la guerra. T’arde la fiduciosa alma ne gli occhi, E amor mi chiedi?... Oh, bada. Non trascinarti dunque a’ miei ginocchi, Non ti gettar su la mia fosca strada. Se gaudio e speme a te reca la sorte, Ti scosta—io son la morte. De la mia madre sulla grigia testa E sul mio capo bruno Scatenarsi vid’io nembo e tempesta, E cumular gli affanni ad uno ad uno. Esile ed avvilita, in vesti grame, Piansi di freddo e fame. Crebbi così, racchiusa in un dolore Torvo, senza parole; Crebbi col buio intorno e qui nel core Una feroce nostalgia di sole. D’occulti pianti e di sconforto vissi, Soffersi e maledissi. E quando penso a mia madre, che un lento Vorace morbo uccide, Al focolar de la mia casa spento, Al lauto mondo che gavazza e ride, Un odio, un infrenato odio mortale, Spiega a’ miei versi l’ale. E tu mi chiedi amor?... Parti, m’oblìa, Fanciullo!... Oh, tu non sai L’ansie de la rovente anima mia In lotta sempre e non placata mai?... Lascia ch’io fugga, disamata e smorta, Ove il destin mi porta. Lascia ch’io fugga tra i sassi e le spine Sin che la vita muore, Ch’io fugga senza tregua e senza fine, Colla febbre nel sangue e Dio nel cuore.... .... Va, di pace e d’amor ricca è la terra: Fanciullo, io son la guerra. NO Io lo respinsi e dissi: «Non t’amai, Non t’amo, no. Che tenti? Viva o morta ch’io sia, tu non m’avrai.» Egli rispose: «Menti.» Io lo respinsi e dissi: «No—non mai. S’io t’ami, Iddio m’annienti. Per sempre dal mio cor ti cancellai...» Egli rispose: «Menti.» «Indarno, indarno, o pallido infelice, L’anima mia tu chiami. Sigilla il cuore ciò che il labbro dice....» Egli rispose: «M’ami.» In volto lo mirai, scossa, non vinta. «Pel tuo fatale amore, Per la memoria di tua madre estinta, Per me, pel mio dolore, Per Dio che tutto vede e tutto sente, Pel tuo bieco passato, Per questa vita mia breve e morente Non ribellarti al fato; Lasciami e scorda. Oh, nulla ti trattenga: Favelli in te l’orgoglio. Vano ricordo io pel tuo cor divenga...» Egli disse: «Ti voglio.» * Inutilmente in quel desìo raccolto Infatti egli restò. Ma ancora, ancor gli sibilo sul volto: «Che fai? che aspetti?... No!...» CANTO D’APRILE O amore, amore, amor!... Tutto ti sento Divinamente palpitar nel sole, Nei soffii larghi e liberi del vento, Nel mite olezzo trepidante e puro De le prime vïole! Come linfa vital, caldo e ferace Vivi e trascorri nei nascenti steli; Con le allodole canti; angelo audace Fra mille atomi d’ôr voli, e cospargi Di luce i mondi e i cieli. O amore, amore, amor!... Tutto ti sento Nell’esultanza de l’april risorto; Dai profumi a le rose ed ali al vento, Copri la terra di raggi e di baci... Ma nel mio cor sei morto. MADRE OPERAIA Nel lanificio dove aspro clamore Cupamente la vôlta ampia percote, E fra stridenti rôte Di mille donne sfruttasi il vigore, Già da tre lustri ella affatica.—Lesta Corre a la spola la sua man nervosa, Nè l’alta e fragorosa Voce la scote de la gran tempesta Che le scoppia dattorno.—Ell’è sì stanca Qualche volta; oh, sì stanca e affievolita!... Ma la fronte patita Spiana e rialza, con fermezza franca; E par che dica: Avanti ancora!...—Oh, guai, Oh, guai se inferma ella cadesse un giorno, E al suo posto ritorno Far non potesse, o sventurata, mai!...— Non lo deve; nol può.—Suo figlio, il solo, L’immenso orgoglio de la sua miseria, Cui ne la vasta e seria Fronte del genio essa divina il volo, Suo figlio studia.—Ed essa all’opificio A stilla a stilla lascierà la vita, E affranta, rifinita, Offrirà di sè stessa il sacrificio; E la tremante e gelida vecchiaia Offrirà, come un dì la giovinezza, E salute, e dolcezza Di riposo offrirà, santa operaia; Mio il figlio studierà.—Temuto e grande Lo vedrà l’avvenire; ed a la bruna Sua testa la fortuna D’oro e di lauro tesserà ghirlande!... * .... Ne la stamberga ove non giunge il sole Studia, figlio di popolo, che porti Scritte ne gli occhi assorti De l’ingegno le mistiche parole, E nei muscoli fieri e nella sana Verde energia de le tue fibre serbi Gli ardimenti superbi De la indomita razza popolana. Per aprirti la via morrà tua madre; All’intrepido suo corpo caduto Getta un bacio e un saluto, E corri incontro a le nemiche squadre, E pugna colla voce e colla penna, D’alti orizzonti il folgorar sublime, Nove ed eccelse cime Addita al vecchio secol che tentenna: E incorrotto tu sia, saldo ed onesto... Nel vigile clamor d’un lanificio Tua madre il sacrificio De la sua vita consumò per questo. NON POSSO Perchè, quando con dolce e malïardo Labbro mi narri di tua vita errante, L’innamorato e cerulo tuo sguardo Par che tutto mi sugga il cor pulsante?... No, non chiamarmi ai morti sogni e ai baci.... Non posso, taci!... Quando, raccolta e pensierosa, ascolto La voce tua che come un’arpa vibra, Perchè sale una vampa a te sul volto, Corre un brivido a me per ogni fibra?... No, non chiamarmi ai morti sogni e ai baci.... Non posso, taci!... Altro fato m’incalza.—Oh, mai nell’ora Voluttuosa in cui tutto s’oblìa, E nel delirio rapida s’infiora. Labbro d’amante mi dirà: Sei mia. Su la mia bocca giovanile e pura Bacio è sciagura. Tu mai non pensi l’amor mio?... Raggiante Luce sarebbe di gioia e di gloria, Riso di giovinezza trionfante, Inno di speme e canto di vittoria: D’anima e di pensier, di mente e d’ossa Magica scossa. E pur, vedi, ti scaccio e m’allontano, Rigida e casta, ne la notte fonda; Non mi chieder perchè di questo strano Tirannico mister che mi circonda; Non richiamarmi ai morti sogni e ai baci.... Non posso, taci!... FANTASMI Io mirai l’onda che rompeasi al lido; E di veder mi parve Rasentar leggermente il flutto infido Una schiera di larve. * Eran vestite d’alighe spioventi: Avean sciolti i capelli, Disfatti i volti, occhi stravolti o spenti. Sotto ai lor piè l’acqua turbata avea Balenii di coltelli. Da quelle labbra scolorate uscìa Bava e un gemito rôco. Misto al rombo del mare esso venìa A parlarmi nel core.—Sui ginocchi Io caddi a poco a poco. Eran fracidi corpi d’annegati; Suicidi gettati Da volontà demente ai flutti e ai fati; Vittime con un ferro in mezzo al petto, Naufraghi scarmigliati. Mi disser: «Che si fa sopra la terra?» Io risposi: «Si piange. Ipocrisia trionfa, odio si sferra. Oh, più felici voi su gl’irti scogli Ove l’acqua si frange!...» Mi disser: «Scendi ai placidi riposi Fra l’alghe serpentine. Nascondigli d’amor sono i marosi Inesplorati, e sol nel nulla è pace. Scendi;—qui v’è la fine.» * .... Ed io mirai su le verdastre larve Il tramonto morire: Ne la penombra il queto mar mi parve Un letto per dormire. VIAGGIO NOTTURNO Si parte: è mezzanotte.—È pigra la cavalla, Su le malferme rôte il veicol traballa: Su, frusta, o carrettier!... Per noi, dell’avventura lieti e securi figli, Non ha minaccie il bosco, l’ombra non ha perigli, Sassi non ha il sentier. Tutto si cela e dorme—su, frusta, o carrettier!... Fuor da una nube occhieggia, sogghignando, la luna; Vecchia malizïosa, per la pianura bruna Ella spiando va. Al ciel velato gli alberi tendono i rami storti, Come preganti braccia di scheletri contorti: Che narri, o immensità?... .... Fuor da una nube l’algida luna spiando va. Ritta, commossa e pallida, l’occhio smarrito e fisso, Io, coi capelli al vento, interrogo l’abisso. Inghiotte il tenebror Preci e rancori d’anime, baci di labbra amanti, Sogni, delitti e lacrime, carezze deliranti D’avvelenati amor. Passan sospiri e brividi traverso al tenebror!... «Che fai? che vuoi?...» mi chiedono, sôrte da fossa impura Fatue fiammelle erranti presso le basse mura D’un àtro cimiter. Non so; cerco il destino. Forse eterno è il viaggio, Forse eterna è la notte; non importa. Ho coraggio. Su, frusta, o carrettier!... Io non vi temo, fatui spirti del cimiter. Nel silenzio tranquillo de l’assopito vano, Misteriosa scôlta, veglia il pensiero umano, Com’angelo immortal. Veglia, e coll’ali fatte di sogno e d’ardimento, sfiora la cieca terra, le nuvole d’argento, La fossa e l’ideal. Vola, o pensier, sui ruderi, com’angelo immortal!... ANIMA _A Nice Turri_. Era grande ed oscuro. Un divo soffio Di genio la sua fronte irrequïeta Baciava. Ai sogni, ai palpiti Cresciuto de l’idea, Bello, gentile, libero, poeta, Incompreso dal volgo, egli vivea. A lui gli astri e la luce—a lui la mistica Armonia de le cose un sovrumano, Un fervido linguaggio Parlava.—Ei che ghirlande Non chiedeva a la gloria, a un cuore invano Mendicò amor.—Gli fu negato.—Grande Ed oscuro, moriva!... In solitudine Fosca, moriva.—Ride il sol lucente Su l’invocato tumulo; Lunge, trilla e si perde Un canto alato come augel fuggente Per la serena maestà del verde; Sotto, fra i chiodi de la cassa, sfasciasi La domata materia.—A la feconda Terra, la terra ignobile Torna.—De la tua mesta E commovente poesia profonda, Del tuo genio, di te, vate, che resta?... * Tu, tu sola che amavi, e viva e rosea Del sol bevesti i luminosi rai, Tu che ne i lunghi spasimi D’intenso ardor fremesti, Tu, sanguinante ma non vinta mai, Sconosciuta e virile anima, resti!... Quando tace la terra, e nel silenzio Cala il bacio de gli astri al fior sopito, E come alito d’angeli Via per gli spazi immensi Un sospiro d’amor corre infinito, Tu in quell’alito vivi, e guardi, e pensi. Quando il nembo s’addensa, e il vento indomito Fischia, e pei boschi impazza la bufera, E rossi lampi guizzano Su ne l’accesa vôlta, Con la procella minacciosa e nera Tu soffri e gemi, nei ricordi avvolta. Quando, vanendo per le limpide aure, Sale un canto di donna al ciel gemmato, E di carezze e d’impeti E di desii supremi Parla e si lagna nel ritmo inspirato, Tu in quel canto, vibrante anima, tremi! Fin che sui rivi ondeggieranno i salici Fin che tra i muschi fioriran le rose, Fin che le labbra al bacio E a la rugiada il fiore Aneleranno, e le create cose Avviverà, febèa scintilla, amore: Ne le nozze dei gigli, ne la gloria Irrefrenata dei meriggi ardenti, In alto, de le tremule Stelle nei bianchi rai, Ne gli abissi del mar, librata ai venti, Nel mistero del cosmo, alma, vivrai. AFA Il sole sta. Sta l’aura D’atomi d’ôr cosparsa. L’erma pianura immobile, Tutta di foco e polve, Nella luce si avvolve Arsa. L’afa morta, implacabile, Pesantemente piomba. Ne la tristezza fiammea Posa la terra stanca, Come un’immane e bianca Tomba. .... Pace—Sognante vergine Assetata d’amore, Chino il riarso calice Sotto la vampa afosa, Un’appassita rosa Muore. Rugiade invoca e pioggie Quell’agonia pel suolo: La dolcezza d’un bacio, La voluttà d’un’ora, Per chi soffre e lavora Solo. Ma tutto brucia e sfolgora, Tutto è riposo e oblìo; Nell’alidor terribile Sopra la terra ignava Solennemente grava Dio. TU VUOI SAPER?... Tu vuoi saper chi io sia?... Fanciullo, senti. In deserta prigion chiuso e dannato Io sono augello dall’ali possenti; E chiedo il folgorar dei firmamenti, E qui m’agito e soffro incatenato. Biondo fanciullo, senti. Io sogno nozze di silvestri fiori Ne l’ombra secolar de la foresta, E de le belve i deliranti amori Su le sabbie del tropico; e gli ardori Del sole e il turbinar de la tempesta, Raggi, procelle e fiori. E qualche volta, vedi, audacemente Io mi dibatto, maledico, piango; Ma passa il mondo e ride o non mi sente, Ed io, testardo prigionier furente, Contro i ferri l’aperte ali m’infrango, E il mondo non mi sente!... Oh, chi mi spèzza l’ìnvide ritorte. Chi mi dona la luce e l’infinito, Chi mi dischiude le tenaci porte? Io voglio, io voglio errar, garrulo e forte, Nella luce del sole ebbro e rapito.... O libertade, o morte. VIENI AI CAMPI... Vieni ai campi con me!... Bagna nel verde La rugiada i miei sandali di seta. De la campagna che il mattin rinverde Vo’ coglier tutti i fior.... Vieni con me nei boschi, o mio poeta, Ma non dirmi d’amor!... Una rondin traversa il ciel di rosa, L’umide foglie sembran dïamanti; Brillan gl’insetti nell’erba muscosa, Ringiovanisce il pian; Guarda che luce, che festa, che incanti... Dio non esiste invan!... .... Non parlarmi d’amor.—Di quei fulgori L’anima nostra è un pallido riflesso. Guarda che forza di divini ardori Circonfondente il suol; Che amor possente e che possente amplesso De la terra col sol!... Tu dar non mi potrai quel bacio eterno.— .... Fatto di debolezza e gelosia, Di fosche nubi e di rose d’inverno, Di febbre e di timor, Dell’infinito innanzi all’armonia, Di’, che vale il tuo amor?... Io voglio, io voglio i campi sterminati Ove fremono germi e sboccian fiori, Come snella puledra in mezzo ai prati Io voglio, io voglio andar; Dell’iride vogl’io tutti i colori, Tutti i gorghi del mar!... Strappar le fronde e calpestar gli steli, Goder l’eccelsa libertà montana, Sul vergin picco che si slancia ai cieli Batter felice il piè; E assopirmi nel sol, come sultana Ne le braccia d’un re!... FRA I BOSCHI CEDUI Fra i boschi cedui Infuria un demone. Sghignazza, avventasi, Piega le quercie, Rompe ogni stel, Sinistre nuvole Chiama pel ciel. Fra i boschi cedui Sghignazza un demone. Tutta ravvivasi La selva ed ansima, Tutta contorcesi: Riscote ed anima L’immensità Un urlo magico: «Fatalità.» Tutta contorcesi La selva ed ansima. Narra la ràffica Bizzarre istorie D’amor, di lagrime, D’ebbrezze adultere Che Dio punì; Colpe e misterii D’antichi dì. Narra la ràffica Storie di lagrime. Prendimi, portami, Spirto malefico: Su l’audacissime Ali indomabili, Tra nubi e fulmini, Pel cieco orror, Portami, involami, Come la gracile Foglia d’un fior.... In alto, in alto sempre, in alto ancor!... CASCATA Da che eccelse scaturigini tu nasci, O cascata impetuosa?... Rimbalzante sulla china perigliosa, Tu scrosciando volgi al mar; Spumi, brilli, ridi, spruzzi, e niun t’arresta Ne la corsa secolar. * Da che eccelse scaturigini tu nasci, O pensiero zampillante? A te beve, secco il labbro e il petto ansante, L’assetata umanità; In te il sole si rispecchia, e niun t’arresta Ne l’immensa eternità. MISTICA Ella amava le gotiche navate Dei templi solitari; I ceri agonizzanti sugli altari, Il biascicar dei mistici Rosarî. Ella pregava sempre, pei dolori Che ancor non conoscea: Come un giglio era bella e nol sapea: Non di carne, ma d’etere Parea. Una sera, nell’ombra d’un’arcata, Uno sguardo l’avvolse, Ella chinò la testa e non si volse. Ma nelle fibre un tremito La colse. Un’altra sera ancor, nel tempio vuoto, Ella incontrò quel viso. Prometteva l’inferno e il paradiso.... Il cor le battè rapido, Conquiso. Ed una voce su la bocca: Io t’amo, Le disse, ed ella pianse.... Un angelo dall’alto la compianse; Sull’altare una lampada S’infranse. HAI LAVORATO? Dunque tu m’ami. Hai confessato; or, trepido, Taci ed attendi, e ti scolora il viso Un’onda di pallor. Vuoi dal mio labbro un bacio ed un sorriso. Vuoi di mia fresca giovinezza il fior!... Ma dimmi: L’ansie, le battaglie e gl’impeti Sai tu d’un ideal che mai non langue? Sai tu che sia soffrir?... Che ti val la tua forza ed il tuo sangue, L’anima tua, la mente, il tuo respir?... Hai lavorato?... Le virili insonnie De la notte in severe opre vegliata, Di’, non conosci tu?... A qual fede o vessillo hai consacrata La tua florida e bella gioventù?... Non mi rispondi.... oh, vattene. Fra gli ozî Lieti di sonnolente ore perdute Torna, vitello d’ôr. Torna fra balli, carte e prostitute; Io non vendo i miei baci ed il mio cor. Oh, se tu fossi affaticato e lacero, Ma coll’orgoglio del lavoro in faccia, E una scintilla in sen; Se stanche avessi l’operose braccia, Ma t’ardesse nel grande occhio un balen; Se tu fossi plebeo, ma sovra gli uomini Cui preme e sfibra il vile ozio codardo Ergessi il capo altier, E nel tuo vasto cerebro gagliardo Avvampasse la febbre del pensier, Io t’amerei, sì!... T’amerei per l’opre Tue vigorose e la tua vita onesta. Pel sacro tuo lavor; Sovra il tuo petto chinerei la testa. Forte di stima e pallida d’amor!... Ma tu chi sei?... Da me che speri, o debole Schiavo languente fra dorato lezzo? Sgombrami il passo, e va. Non m’importa di te—va—ti disprezzo, Fiacco liberto d’una fiacca età!... A MARIE BASHKIRTSEFF Da l’ampia tela, ammaliante e fisso Mi persegue il tuo sguardo; e a sè m’attira Come bocca d’abisso. Sotto la chioma d’ôr fina e fluente Sei tutta bianca, e le rosate nari Vibran nervosamente: Dice il labbro serrato: «Io penso e voglio:» Dice la fronte non curvata mai: «Io nacqui al lauro e al soglio.» .... Senti. È ver che sei morta, o bionda Slava, Che tesori d’ingegno a noi portasti Dai ghiacci di Poltawa; Che nel silenzio de le tristi nevi Come rosa sbocciasti, e inconsumata Sete di gloria avevi?... Del genio coll’ignoto a te la guerra; A te la fantasia che tutto sfiora, E irruendo si sferra; A te la melodia che ha preci e schianti. Che parla, erompe, impreca e si contorce Su le corde pulsanti; A te la tela ove gioia e dolore, E carne e sole ed anima diventa Lo sprazzo del colore. Che trionfo di vita e di baldanza. Quanta grandezza in te, quanto futuro, Che soffio di speranza!... Fiore di landa fra le nevi aperto, Tu sognavi, sul verde agile stelo, I cieli del deserto: Gracil patrizia, tu gli abeti foschi Sospiravi de l’Alpe, il mar di spuma, La libertà dei boschi. .... Or di te che rimane, o battagliera Figlia de l’Arte?... Una ferrata cassa Sotto la terra nera; Su la cassa una croce esposta ai venti; Dentro, fra i vermi, il tuo teschio che ride, Ride, mostrando i denti. * .... Null’altro?...—Calma senza fine grava Nella notte, dintorno.—Io su la tela Ti miro, o bionda Slava. Il cangiante tuo sguardo m’incatena: Qualchecosa di te m’entra nel core, E tutta m’avvelena. Una elettrica forza si sprigiona Dalla regal tua forma—e mi serpeggia Per tutta la persona; Ed io mi sento _te_.—Del martellante Desìo d’ignoto che il tuo sen minava Sento l’alito ansante. Sento l’innata facoltà che crea; Sento pulsar nel cérebro l’acuta Vertigin dell’idea. Vedo la morte rotear da lunge Già guatando il mio capo; algida larva S’appressa e mi raggiunge; Come in te, tutto stralcia e tutto annienta. Cala il corvo a gracchiar su la rovina: Fuma la torcia spenta. Nulla dunque di noi, nulla più resta?... Io lancio a te l’angoscïoso grido Dell’anima in tempesta. Ma la terra non sa, Dio non risponde!... Ne l’infinito il gemito s’inghiotte Come sasso ne l’onde. Mentre su i dubbi de l’ignare genti, O trapassata, il teschio tuo sorride Mostrando i tersi denti, Del tuo spirto la vivida scintilla Ne l’esser mio che morirà tra poco Penètra, arde e sfavilla. IN ALTO Sogno.—Dinanzi al mio vagante sguardo Una turba fantastica traluce Tutta ravvolta ne la rossa luce Del tramonto di giugno austero e tardo. Son macri volti e petti strazïati, Teste coperte di polve e di spine, Sfolgoranti d’amor luci divine, Corpi da interne piaghe divorati. Ed io domando: Ma chi siete voi, Che accennando sfilate a me davanti, E m’arridete, taciti e raggianti, Nella gloria del sol?...—«Noi siam gli eroi, Siam l’inspirata e tragica coorte Che sui campi di guerra e sugli spaldi Fra cozzo d’armi e risuonar di caldi Inni, i petti robusti offerse a morte. Gli sventurati eroi siam del pensiero, Siam la falange macera e sfinita Che invanamente consumò la vita Ne la ricerca del fuggente vero. Soldati fummo, martiri e giganti: Nostre le pugne, i sacrifici e l’onte. Nemico ferro ci squarciò la fronte, E pur cadendo singhiozzammo: Avanti! E plebi insane inferocîr su noi, E vilipesi fummo e lapidati, Crocifissi, derisi, torturati, Senza tregua o quartier!... Noi siam gli eroi.» .... Ed io sorgo ed esclamo: Oh, perchè mai Tanti sospiri e tante vite infrante, E tante ambasce e tanto lutto, e tante Serie infinite d’infiniti guai?... Perchè s’insegue con rovente ardore Un ideal che balenando sfugge, Perchè piangendo l’anima si strugge Nel desìo, ne l’inganno e nell’amore?... Perchè?...—Dinanzi al mio sognante sguardo La fantastica turba ancor traluce, Tutta ravvolta ne la rossa luce Del tramonto di giugno austero e tardo: Dai volti radïosi e senza velo Spira una calma che non è terrena: Schiudendo la pupilla ampia e serena Segnan col dito, sorridendo, il Cielo. SOLA Langue d’autunno il solitario vespero De l’âtre nebbie fra i cinerei veli; Scendon l’ombre a le verdi solitudini Giù dai lividi cieli. Cadon le foglie, volteggiando aeree Da la fredda portate ala del vento, Quai morti sogni. Erra per l’aure un brivido Come di bacio spento. Sui capelli di lei, ravvolti e morbidi, Muta agonizza l’ultima vïola. Ella guarda laggiù, fra i nudi platani, Ritta, scultoria—sola. Ella guarda laggiù. Pensa a le nivee Placide culle ove, chinato il biondo Capo sui lini, i sorridenti pargoli Dormon sonno profondo: Veglian le madri—e a la commossa tenebra, Come voci di ciel blande, serene, Sciolgono, i sonni a raddolcir degli angeli, Le lunghe cantilene. Ne la queta foresta, entro il pacifico Nido, l’augel s’appressa a la compagna, E s’addorme così... nè spira un alito Per la brulla campagna: Solo a le basse, immensurate nebbie Rabbrividendo il vizzo ultimo fiore, Sovra l’erbe, in un bacio, il roseo calice Piega—e quel bacio è amore. O dolcezze!... Ella sogna. Assorta in candidi Pensier, presso gentil cuna modesta, D’una lampa al chiaror, curva su l’agile Ago la bella testa; E mentr’ei tenta con le forti braccia Cinger le caste flessuose forme, A lui susurra con carezza timida: Silenzio!... Il bimbo dorme. Vane grida del cor, parvenze splendide, Di sorrisi e d’amor larve gioconde, V’estinguete laggiù fra i nudi platani E le brume profonde!... Foglia al ramo caduta, occulta lacrima, L’ultima speme dal suo cor s’invola; O nidi, o fiori, o baci, o culle nivee, Vi celate.—Ella è sola. Cala d’autunno il nebuloso vespero, Col lontano de i corvi acre lamento, Sovra gli aridi boschi e a lei ne l’anima, Inesorato e lento; .... Cala.—Superba come greca statua, Al plumbeo cielo ella solleva i rai.... Scote la brezza di novembre un brivido Che le susurra: Mai! SPES Quando, senza pietà, pungente e rude In noi penètra il duol, L’anima le sue grandi ali dischiude Librata a vol. In alto, insanguinata aquila altera, Posa, ove tutto è gel, Ove l’urlo non san de la bufera La vetta e il ciel. Pur, mentre impreca e sogghignando nega, Angiol ribelle, il cor, Mite una voce dal profondo prega: Amore, amor!... VEDOVA Vedova triste che silente stai Nel tuo gramo tugurio affumicato, E cuci, e cuci, e non riposi mai Presso il letto del tuo figlio malato; Che su la faccia scolorita e mesta D’un antico dolor serbi le impronte, E sei tanto infelice e tanto onesta, Vedi, vorrei baciarti sulla fronte. De la finestra tua sul davanzale Un geranio vermiglio s’incolora. T’oppresse il fato, e pur tu serbi l’ale; Hai tanto pianto, e pur tu speri ancora. Ch’io m’inginocchi presso te: m’apprendi La virtù che sopporta e che perdona: Tu che l’odio e il livor mai non comprendi, Benedicimi, o grande, o vera, o buona. Mai come qui con più commossa mente Io ricordai mia madre—e dentro il core Mi penetrò la fiera e pazïente Dignità del dolore. ROSA APPASSITA Forse ella ha troppo amato: Ora è stanca e riposa. Forse ha sofferto molto: Sul gambo ripiegato Or china con un tremito La testa dolorosa. Forse ella soffre ancora: La nausea de la vita, L’ebbrezza de la morte Nell’agonia de l’ora Parlan fra i vizzi petal.... Forse ella fu tradita. Non so che storia ascosa Mi narri il dì che cade, Il penetrante balsamo De la sfiorita rosa, La stanza solitaria Che la penombra invade. L’anima d’un ignoto Presso la mia respira: Aleggiare la sento Come un bacio nel vuoto, Mister di luce e d’ombra Che tutta a sè m’attira. Ed un desìo mi nasce: Essere morsa al cuore, Esser baciata in bocca, Provar gioie ed ambasce, La follìa del trionfo, La follìa del dolore. Batte un rintocco:—è l’Ave. O triste fior sfogliato Consunto di dolcezza, O fior mite e soave, Senti: non vo’ morire Prima d’avere amato. DEFORME Ascoltate, signor.—Da lunge, al porto, Il mar si lagna con muggente voce. Mi guardaste?... L’atroce Ghigno d’un demon mi creava; io sono D’una furia l’aborto. Coll’immortal malinconia del mare Il mio si fonde irrimediabil duolo. Piangetemi, son solo: Non ho moglie, non figli, non amici, Freddo è il mio focolare. E un giorno anch’io, capite, anch’io cercai Un astro folgorante alla mia sera: Cercai la donna.... Ell’era Una vagante e splendida boema; La raccolsi e l’amai. Quella donna mentiva, io lo sapea; Ma quando sul suo bianco, statuario Petto di marmo pario Io reclinava il deformato volto, Il mio cor si struggea!... Ell’era noncurante ed io geloso, Ferocemente, ineluttabilmente, Del suo crin rilucente, De la sua bocca e del suo sen velato, Del suo riso festoso!... M’abbandonò.—Cercò il piacer, l’aurora, Il maggio e la beltà!... Non l’ho seguita. Ma verso la svanita Sua forma io vile, sfigurato e irriso Tendo le braccia ancora!... Oh, s’io potessi smantellar le porte Di questa vita maledetta e lenta! Ma il nulla mi spaventa: La debole e vigliacca anima teme L’al di là della morte. .... Come de le schiumanti onde il fragore Commove l’aura e fa tremar la riva!... Non s’ode anima viva; Questa notte assomiglia al mio destino.— .... Addio dunque, signore. VOCE DI TENEBRA _A Raffaello Barbiera._ Solitudin di gelo.—La tenèbra Qui nel bosco m’ha côlta. Infoscansi le nubi, ed io com’ebra Sto, ma non temo.—O fredda aura sconvolta, Aura fredda del vespro in agonia, Parla all’anima mia! .... Ed essa parla. Parla con le arcane Voci de la boscaglia, Rumoreggianti per la selva immane Come ululìo di spiriti in battaglia: E mi dice: «Che fai su l’ardua piaggia, O zingara selvaggia? Cerchi forse la pace?... O il glacïale Rude schiaffo dei venti? Nulla qui, nulla a soggiogarti vale? Che temi tu, se al buio ti cimenti? Di che razza sei tu, se non t’adombra Il velame dell’ombra? Nata alle aurore fiammeggianti e ai voli Dell’aquila fuggente, Nata a le vampe dei bollenti soli Sovra gli aurei deserti d’Oriente, Fra ciniche bestemmie e stanche fedi Un ideal tu chiedi! Ma t’annoda pei polsi una catena, Ti circonda la bruma, E la vita ti rode e t’avvelena L’inutile desir che ti consuma. Fatalità su la tua testa grava, E sei ribelle e schiava. Pur tu combatterai, gagliarda figlia Di lutto e di disdetta: Senza freno irrompente e senza briglia La tua strofe sarà grido e saetta. Andrai fra gl’irti scogli del dolore Inneggiando all’amore; Andrai coi piè nel fango e l’occhio altero Nella luce rapito, Le magnifiche larve del pensiero Cercando per le vie dell’infinito: Da una possa virile andrai sospinta, Più grande ancor se vinta.» * Così mi parla la tenèbra—ascolta L’anima mia pensosa. Son pianti e lampi ne la notte folta, Tetri misteri ne la selva ombrosa: Ma il respiro d’un Dio forte e sereno Sento aleggiarmi in seno. MARCHIO IN FRONTE Una zingara snella in vesti rosse Mi toccò in fronte con un dito, e rise. Un tremito mi scosse. Ella disse: «Tu porti un marchio in fronte, Inciso in forma di bizzarra croce. Tu porti un marchio in fronte. Degli anni tuoi nel fortunoso giro Sempre l’avrai con te—poi che l’impresse Il morso d’un vampiro. Ei della vita tua la miglior parte Avido succhia, e il fuoco di tue vene; E quel vampiro è l’Arte. Nelle tue veglie solitarie, oh, quante, Quante volte esso venne al tuo guanciale, Famelico e guatante!... Tu d’Apollo nascesti al vieto regno; Ma in questo secol bottegaio e tristo È un delitto l’ingegno. Su, denuda nel verso prepotente Le vive piaghe del tuo cor; sul viso Ti riderà la gente. Ricca di gioventù sana e dorata. Libra un inno d’amore; e ti diranno Fantastica e spostata. Critici e sofi con insulti vani T’inseguiran come lupi la preda Per mangiarsela a brani; Ma cancellar quel marchio invan vorrai, Favilla di pensier più il non si spegne, Più mai, più mai, più mai....» * Disse. E, proterva ne la rossa vesta, Ritta dinanzi a me, parve il destino. .... Ed io curvai la testa. VATICINIO Raccoglie le pesanti ombre la sera Sovra il giaciglio dove il bimbo posa. Preme nel sonno una tristezza fiera La bocca dolorosa. Soavissima e cara un dì venìa D’una madre la voce a questa cuna, E, qual canto d’amor, lenta salìa, Trillando, a l’aura bruna; Ed aleggiando per le chete stanze, De la notte fra l’alte ombre perduta, Di sorrisi parlava e di speranze.... Or quella voce è muta. .... Povero bimbo senza madre, oh, posa, Posa le membra sul diserto strame. Domani, a la frizzante alba nevosa, Ti sveglierà la fame. Bello ne l’ingiocondo occhio superbo, Nel serio labbro e nella fronte scura Cui segna il fosco, inesorato, acerbo Stigma de la sventura, Predestinato del dolor, vivrai, Sconosciuto dal mondo, a Dio sol noto, Pensosamente sollevando i rai Su, ne l’immenso ignoto: E, solo, errante, macero, fremendo D’inconscio sdegno fra le vesti grame, A quell’ignoto chiederai l’orrendo Perchè de la tua fame. Pur, qual vergine palma infra i deserti, Qual fior che, sôrto da silvestri dumi. Soavemente innalza ai cieli aperti Aerei profumi Tu, d’abbandono e di dolor nudrito, Tu, condannato da la sorte rea, Lo spirto librerai nell’infinito Su l’ali dell’idea. Tu poeta sarai! Come invadente Luce d’incendio nel silenzio nero, Splendida sorgerà ne la tua mente La fiamma del pensiero; Poichè, se riso di beltà non resta, Se tutto al suolo le sue spoglie rende, Sola del Genio la possanza mesta Fra le procelle splende. Tu poeta sarai—coi gravi incanti De la schietta, virile arpa sovrana, Evocherai le veglie e i lunghi pianti De l’infanzia lontana; E gli schianti ribelli, e l’impossente Tua giovinezza, e la miseria atroce E la secreta nostalgia struggente De la materna voce: E qual fiero singulto, o qual lamento D’onda che al lido querula si frange, D’un popol tutto il doloroso accento Che s’affatica e piange. Te, poeta dei miseri, vissuti Oscuramente col destino in guerra, Dei martiri, dei prodi e dei caduti Saluterà la terra: Tutto un mondo che passa e soffre e tace, Tutto un mondo di laceri e d’affranti, Di suprema rivolta un grido audace Avrà dentro i tuoi canti: Per te, sôrto dal nulla a la vittoria, Della lotta su l’erta aspra e fatale, Innamorata serberà la Gloria Il suo bacio immortale. LARGO! Largo!... Da le sonore vôlte de l’officine, Dai rilucenti aratri, de l’orride fucine Da gl’infernali ardor, Dagli antri dove un popolo tesse, martella e crea, Da le miniere sorgo—e, libera plebea, Sciolgo un inno al lavor. Largo!... Dai boschi pieni di nidi e di bisbigli, Dai cespugli di mirto, dai freschi nascondigli. Dal fecondato suol, Da l’acque azzurre dove il mite alcion sorvola Cinta di fiori sorgo—e, balda campagnola, Sciolgo un peana al sol. Chi arresta la corrente nel suo corso sfrenato, Chi ferma a vol l’allodola sciolta pel ciel rosato, Chi il già partito stral? Il torrente che scroscia, la freccia scintillante, L’augel canoro io sono; or rondine vagante, Or gufo sepolcral! Arte, per te combatto:—avvenire, t’attendo. E il rigoglio d’affetti che, qual vampa fervendo, M’arde la mente e il cor, Ne la gemmata veste de la strofe volante, Io getto al mondo e al cielo, qual fascio rutilante Di fulmini e di fior!... _Fine._ Nota dei trascrittori I seguenti refusi sono stati corretti (tra parentesi il testo originale): 17 Bianca fanciulla da le trecce d’ôr [or] 23 Seppi le notti insonni e l’inquïeto [inquieto] 49 E sorridon fra i dumi le vïole [viole] 61 Mille bocche si cercan desïose [desiose] 117 Dolce signor d’armonïosi [armoniosi] canti 209 Muta agonizza l’ultima vïola [viola] *** End of this LibraryBlog Digital Book "Fatalità" *** Copyright 2023 LibraryBlog. All rights reserved.