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Title: La famiglia Bonifazio Author: Caccianiga, Antonio Language: Italian As this book started as an ASCII text book there are no pictures available. *** Start of this LibraryBlog Digital Book "La famiglia Bonifazio" *** Internet Archive. LA FAMIGLIA BONIFAZIO RACCONTO DI ANTONIO CACCIANIGA MILANO FRATELLI TREVES, EDITORI 1886. ———— PROPRIETÀ LETTERARIA _Riservati i diritti di traduzione._ Milano. Tip. Treves. ———— INDICE · I. · II. · III. · IV. · V. · VI. · VII. · VIII. · IX. · X. · XI. · XII. · XIII. · XIV. · XV. · XVI. · XVII. · XVIII. · XIX. · XX. ———— I. Il capitano Bonifazio e il maestro Zecchini erano sempre insieme, ma non andavano mai d’accordo. Il primo era un uomo d’azione e non da ciarle; ligio alla disciplina militare si era abituato ad obbedire ciecamente; il secondo avvezzo alla cattedra voleva sempre ragionare a diritto o a torto, come faceva alla scuola. Egli la pretendeva a filosofo, e amava la discussione; l’altro si schermiva girando la posizione con tattica; come nelle evoluzioni militari. Ogni giorno alla stessa ora andavano a fare la passeggiata per le strade più remote e tortuose dei campi. Il capitano serio e silenzioso, il maestro col sorriso sarcastico sulle labbra, coll’idea fissa nel principio fondamentale d’una sua particolare filosofia, che soleva riassumere in queste poche parole:—l’uomo è un asino. Egli difendeva questa teoria a spada tratta ad ogni occasione, e colla storia alla mano, cominciando a citare la condotta di Adamo nel paradiso terrestre, e proseguendo coll’esame di tutte le vicende umane, dalla più remota antichità fino ai nostri giorni.—Leggete la storia, egli ripeteva sovente, non troverete che sommissioni di popoli intieri alle violenze d’un solo individuo, o di pochi; non vedrete che guerre, stragi, menzogne, utopie delle quali gli uomini furono vittime. I selvaggi hanno un capo che li comanda; in tutte le antiche nazioni si trova la schiavitù, questa degradazione dello stato umano; e perfino i popoli moderni, i cittadini che si credono liberi, portano sulle spalle un tal peso di obblighi e di tasse, che supera di gran lunga la soma del grano portata dall’asino del mugnaio. I potenti, i padroni, quelli che mettono il basto e la cavezza agli altri, hanno mandato alla tortura la scienza, hanno arsa sul rogo la ragione, hanno condannata al patibolo la giustizia e la verità. E quegli stessi che si credono superiori e indipendenti dalle potenze della terra sono schiavi delle loro passioni, sono vittime dell’amore e dell’odio, dell’avidità o dell’orgoglio. L’uomo è un asino! nessuno eccettuato, e non vi sarà mai possibile di provarmi il contrario. Il capitano crollava le spalle, e gli rispondeva in francese:—_Mauvaise plaisanterie!_... e poi traduceva:—Scherzi senza sugo! e rivolto al maestro gli faceva le osservazioni seguenti: —Voi avete sempre vissuto in questo villaggio, come un ragno nel buco; io ho girato il mondo a tappe militari, ho vissuto nelle grandi capitali, ho ammirato le meraviglie del genio umano, e la vostra assurda teoria mi fa ridere di compassione. —Voi mi parlate di eccezioni, le quali non fanno che confermare la regola, gli rispondeva il maestro. L’uomo di genio è tanto raro quanto l’uomo felice. Conoscete la storiella della camicia dell’uomo felice? Si voleva trovare questa camicia, e pagarla a qualunque prezzo. Si andò a cercarla in tutti i paesi della terra, la difficoltà pareva insormontabile, quando finalmente si è trovato l’uomo felice.... ma era senza camicia!... —Voi uscite dall’argomento. Ritorniamo alla vostra assurda teoria. Io non avrei che a snocciolarvi una lunga filza di genii per vedere se avreste il coraggio di trattarli da asini; ma mi basterà citarvene uno solo;—e così dicendo, il capitano Bonifazio si tolse la pipa dalla bocca, si levò il cappello, alzò la testa, e sfolgorando il compagno cogli occhi scintillanti, esclamò imperiosamente:—Ditemi se Napoleone il grande fu un asino?... Il maestro pareva esitante, il capitano alzò il bastone in atto di minaccia, l’altro ebbe paura di quell’argomento perentorio e rispose in fretta: —È un’eccezione!... un’eccezione! Il capitano si calmò, fecero qualche passo in silenzio, poi il maestro tirandosi alquanto in disparte, soggiunse: —Napoleone è un’eccezione!... tuttavia.... —Tuttavia?... —Ma sì, tuttavia, dopo d’aver conquistata quasi intieramente l’Europa, ha tutto perduto, ed è andato a morire prigioniero, sopra uno scoglio in mezzo dell’oceano! La bomba era slanciata, e andò a colpire la lingua del capitano che restò morta sul colpo. Per salvare il resto dovette raccogliere tutte le sue forze disperse, e quel giorno non parlarono più della teoria prediletta del maestro. Il capitano Bonifazio aveva militato sotto Napoleone, ed era uno dei pochi reduci della catastrofe della Beresina. Testimonio dell’eroismo degli Italiani nelle guerre del primo regno d’Italia non poteva rassegnarsi alla dominazione austriaca, e viveva ritirato in campagna, per non vedere i Tedeschi, ed anche per incontrare il meno che fosse possibile i suoi compatriotti che disprezzava per la pecoraggine colla quale subivano il giogo straniero. Il maestro Zecchini era figlio d’un ricco signore, il quale dopo di aver consumato quasi tutto l’avito censo, era morto lasciandolo povero, e con una educazione incompleta, per cui fu costretto di fare il maestro comunale per vivere. Dallo sfacello della sostanza paterna si era salvata una fattoria, con pochi campi annessi, che divennero il domicilio stabile del maestro, della cui modica rendita viveva, colla giunta d’un misero stipendio. Il capitano aveva ereditato dalla sua famiglia parecchie buone terre ed una bella villa signorile, nello stesso villaggio del maestro, vicino a Treviso, nella pianura lodata fino dai tempi antichi che ha per orizzonte le cime nevose delle Alpi, e una verde cintura di colline sparse di castelli, d’abazie a di villaggi. Erano diventati entrambi agricoltori per forza; uno avrebbe preferito il mestiere delle armi l’altro i piaceri della città, ma i casi della vita li avevano costretti a rinunziare ai loro gusti e a ritirarsi in campagna. L’amore dei campi venne più tardi, dopo la lunga consuetudine, dopo le attrattive della natura e la necessità del lavoro. Il suolo coltivato attira il coltivatore il quale vi si fissa, come l’albero colle radici. Il capitano visse i primi anni nella solitudine; dopo lo sbalordimento delle guerre napoleoniche, dopo le prove ardimentose de’ suoi commilitoni, dopo i gloriosi fatti d’armi che onorarono gl’Italiani in varie parti d’Europa, egli si trovava sorpreso ed umiliato di dover sopportare la dipendenza d’un popolo che giudicava inferiore, per meriti militari e civili, ai suoi compatriotti; ridotti in schiavitù da trattati diplomatici, non contratti da essi anzi contrari alla loro volontà, e pur troppo tollerati, con colpevole indifferenza ed inerzia nei momenti decisivi. L’antica repubblica veneta degenerata nel lungo ozio e nella vita molle e gaudente, aveva lasciato i caratteri fiacchi, e dopo le rapide prove dei vari governi succeduti al suo dominio, i nobili e i preti preferivano l’Austria: il grosso della popolazione restava indifferente, mancava d’educazione politica e di energia. I pochi avanzi degli eserciti napoleonici sentivano troppo tardi il dolore della patria perduta, ed il bisogno dell’indipendenza nazionale. Il governo austriaco entrato come liberatore, si era fissato stabilmente, passando dalle promesse alle minaccie, perseguitando e condannando come un delitto di Stato l’amore di patria, ispirato dalla natura e dalla storia. Agli ufficiali delle guerre europee, lasciati in disparte, non rimaneva altro partito che quello di consolarsi della schiavitù colla memoria dei fatti compiuti, e colla lontana speranza di ritornare in campo, a tempo propizio. Erano rari superstiti di grandi avventure, ma bastavano a tener viva la scintilla del patriottismo, a spargere le idee, ad apparecchiare le forze necessarie a rivendicare i diritti conculcati della patria. E intanto raccontavano quella storia di rapide e meravigliose conquiste, così precipitosamente perdute, e ne raccoglievano le immagini con religiosa devozione. Tutte le pareti della casa del capitano Bonifazio, erano ornate di gloriosi ricordi. Statue, busti, ritratti di Napoleone, in tutti i costumi, dal costume adamitico scolpito da Canova, fino a quello col manto e la corona; ce n’erano a piedi, a cavallo, e sul trono. Ma la preferita era la statuetta di gesso, colla semplice divisa dei cacciatori della guardia, col piccolo cappello senza galloni, cogli stivali alla scudiera, le braccia incrociate sul petto, in atto d’osservazione. C’erano grandi e piccoli quadri delle battaglie più gloriose. Montenotte, Lodi, Arcole, Rivoli, Marengo, Cairo, Austerlitz, Jena, Wagram, Moskowa. C’era una camera coi ritratti dei generali francesi che ebbero titoli italiani. Massena duca di Rivoli, Augeran duca di Castiglione, Victor duca di Belluno, Moncey duca di Conegliano, Savary duca di Rovigo, Mortier duca di Treviso. Pochi ritratti di generali italiani, perchè molti erano entrati nell’esercito austriaco. In apposita stanza aveva raccolto le tremende memorie della Russia. Un quadro rappresentava l’incendio di Mosca; un altro una marcia di feriti sulla neve, inseguiti dai Cosacchi; nel terzo si vedeva la presa di Malo-Jeroslawetz eseguita dalla divisione Pino, sostenuta dai cacciatori della Guardia reale italiana. Il quarto era il passaggio della Beresina. Fra le vedute c’erano i ritratti, dei generali che più si distinsero in Russia, Davout, Murat, Ney, il principe Eugenio, e qualche altro. Nelle lunghe ore delle giornate piovose, il capitano Bonifazio faceva il giro delle stanze, si arrestava davanti ai suoi quadri, riviveva in quel passato, e nelle rare volte che era costretto di recarsi a Treviso pe’ suoi affari, si fermava per le strade dove passavano i soldati austriaci, e guardava con pietà quei poveri Croati negri e segaligni, e le faccie bonarie dei Boemi, e alzava le spalle pensando che Massena con 50,000 Francesi non esitava ad attaccare 80,000 Austriaci, comandati dall’arciduca Carlo, e li vinceva a Caldiero; e nutriva un fastidioso disprezzo pei suoi concittadini, che non si accorgevano nemmeno di appartenere ad una nazione eroica, nella quale gli pareva che un uomo con uno spiedo avrebbe infilzato come tanti polli quattro o cinque di quei poveri diavolacci, ma invece bastavano due uomini e un caporale per scortare a Vienna i furgoni delle svanziche, colle quali gli Italiani del regno Lombardo-Veneto pagavano all’Austria il diritto di possedere i propri campi e le case dove erano nati. E il capitano Bonifazio tornava alla sua villa fosco annuvolato, e guai a chi gli capitava fra i piedi. Per soddisfare, almeno in parte, a quel bisogno che sentiva di attività e di lavoro, vangava e potava, piantava alberi e arbusti, vigneti e frutteti, disegnava viali, sconvolgeva la terra, seminava, trapiantava e mieteva. A poco a poco si avvide d’aver fatto un parco magnifico, troppo superiore alla sua modesta condizione, ma davanti allo stupendo spettacolo della natura, dimenticava le umane miserie. E talvolta combatteva la umiliante teorica del maestro Zecchini, per semplice impulso della propria dignità; ma pensando al doloroso destino della patria, non poteva in tutto dar torto al suo vicino di campagna, almeno nel fondo dell’anima. Allora diventava più indulgente pel povero maestro, sturava una bottiglia di vino vecchio, e lo invitava a bere alla salute della patria. Zecchini correva a chiudere l’uscio e le finestre, perchè nessuno potesse udire la loro imprudenza. Il capitano si accorgeva della paura del compagno, stralunava gli occhi, atteggiava tutti i suoi lineamenti al più profondo disprezzo, ritornava bisbetico e dispettoso e pensava fra sè: «tacere le proprie opinioni, nascondere come un delitto i più naturali sentimenti, è una delle tristi necessità di chi è costretto di vivere sotto il giogo» e tracannando in fretta il suo bicchiere di vino, suonava il campanello. Poco dopo compariva Mosè per fare la solita partita a terziglio col padrone, e il vicino. Mosè fu uno degli ultimi coscritti di Napoleone, aveva servito il capitano al reggimento, e continuava a servirlo fedelmente dal tempo che deposte le armi, si erano ritirati in campagna. Era il vero amico, e il più fido compagno del padrone, gli faceva da segretario e da castaldo, da giardiniere e da cuoco. Passavano la sera colle carte in mano per evitare le questioni estranee al giuoco; il capitano diffidava del maestro, il maestro aveva paura del capitano; si guardavano in cagnesco, e Mosè collocato fra loro rappresentava il terreno neutro, e teneva in riguardo i due amici.... nemici. Del resto non era possibile di indovinare il maestro Zecchini; nessuno poteva dire con certezza se fosse buono o cattivo; nessuno aveva potuto leggere nel fondo della sua anima. I furbi sono un prodotto della schiavitù. Colle autorità superiori non mostrava che umiltà e riverenza, cogli uomini indipendenti si lasciava sfuggire delle espressioni liberali, col parroco era religioso, cogli increduli scettico, chi lo diceva sciocco e chi sapiente: il fatto sta che non aveva mai fatto male a nessuno, ed anzi in varie occasioni si era mostrato utile ai suoi scolari e ai loro parenti, col consiglio e coll’opera. Il capitano lo trovava nullo in politica, astuto in società, utile in famiglia, pericoloso negli affari delicati, indispensabile per giocare alle carte; e sapeva servirsene secondo i casi, perchè egli aveva una tattica magistrale per utilizzare le varie attitudini, senza compromettersi con nessuno. Il maestro si prestava con premura a rendergli parecchi servigi, andava a pagargli le prediali, lo rappresentava negli affari di ufficio, chiamava alla Pretura gli affittuali che non pagavano il fitto, gli faceva ottenere il passaporto quando ne aveva bisogno. Ottenere il passaporto sotto il governo austriaco non era impresa troppo facile. Nessuno aveva il diritto di viaggiare, nemmeno all’interno dello Stato, senza che il governo ne conoscesse il motivo, e lo trovasse plausibile. Per raggiungere l’intento giovava molto la prestazione d’un amico che fosse in buona vista della polizia. In simili casi, e in varie occasioni, l’amicizia di Zecchini riuscì utilissima al capitano, il quale vivendo incognito, ed essendo rappresentato sovente da un individuo giudicato come suddito sommesso e fedele, passava presso le autorità per uomo inoffensivo, dal quale il governo nulla aveva a temere. E così il capitano Bonifazio congiurava senza pericoli, e senza suscitare il minimo sospetto faceva parte d’una vendita di carbonari. La sua corrispondenza politica non era mai affidata alla posta, e gli arrivava sempre per mezzo di amici, o di messi speciali. Nel mese di maggio del 1820 il capitano Bonifazio dovette recarsi in Polesine per intelligenze con quei Carbonari, e poi a Milano per riferire ai capi della setta lombarda. Domandò il passaporto pel regno Lombardo-Veneto col pretesto di fare un viaggio agricolo, nel quale si proponeva lo studio di alcune colture speciali, che facevano difetto nella provincia di Treviso, come quelle del canape e dei prati a marcita. Il maestro Zecchini fu chiamato alla Polizia per le necessarie informazioni. Egli assicurò il commissario che il signor Bonifazio era un appassionato agricoltore, che aveva già introdotto nella sua campagna delle eccellenti migliorie, e che si disponeva a fare delle altre riforme, le quali avrebbero senza dubbio aumentato il prodotto delle terre, e servito di esempio ai vicini. Il commissario assentiva col capo, e pensava: «migliorando le terre si potranno accrescere le imposte! questo è un uomo utile all’Impero!» Poi domandava conto del carattere, delle abitudini, delle relazioni del petente; e il maestro rispondeva: —È un po’ bisbetico, si occupa tutto il giorno della coltura dei campi, del giardino, dell’orto; vive solo con un domestico, non riceve mai nessuno, ha dell’ottimo vino, e fa un eccellente cucina; io solo come vicino di campagna ho l’onore di frequentarlo, e di profittare de’ suoi cortesi inviti. «Chi mangia bene e beve meglio non fa l’umanitario, e non si occupa di politica, pensava il commissario; un uomo civile che vive ritirato in campagna non può essere che un misantropo.» —Andate pure, egli disse al maestro, non occorre altro. Il maestro curvò la schiena, che quasi toccava col naso lo scrittoio, presentò all’impiegato superiore i più rispettosi ossequi, uscì dalla stanza con ripetuti inchini, salutò gentilmente anche l’usciere, che aveva un’aria da sbirro, poi scese le scale lentamente, col collo torto, e un beato sorriso sulle labbra, pensando fra sè stesso: «l’uomo è un asino, è un asino, è un asino!...» E questo suo pensiero non proveniva dal benchè minimo sospetto sulle intenzioni e la condotta del capitano, che anzi teneva per vero quanto aveva asserito; ma vedendo che occorrevano tante cerimonie per ottenere il permesso di circolare a proprie spese nel proprio paese, e che tali cerimonie erano vane, perchè generalmente la polizia veniva ingannata dalle domande, dai pretesti, e dalle informazioni, la sua teoria prediletta gli tornava alla mente, e si compiaceva di poter dare dell’asino al commissario nell’intimità del suo cuore. Pochi giorni dopo, il capitano Bonifazio, col suo passaporto in piena regola, partiva pel Polesine, visitava alcune fattorie rinomate, procurando che l’I. R. Delegato Provinciale di Rovigo venisse a saperlo, e poi senza che nessuno l’avesse visto entrava in una casa colonica, nella campagna deserta, e s’intratteneva per un paio d’ore coi Carbonari venuti apposta da Ferrara, per intendersi con lui sulle armi e le munizioni da introdursi, per distruggere i governi dispotici, dare all’Italia un governo costituzionale, o almeno unire in vincolo federativo i varii governi italiani, tutti però aventi per basi costituzione, libertà di stampa e di culto, parità di leggi, monete e misure. Predisposta accuratamente la prossima rivolta del Polesine, passava in Lombardia, visitava i corsi d’acqua, i prati irrigatori e le marcite, facendo parlare di lui come d’un veneto appassionato agricoltore; poi scompariva per qualche ora, si abboccava coi patriotti malcontenti, stringeva la mano ai Carbonari lombardi, comunicava le disposizioni delle vendite del Veneto, e veniva informato degli accordi presi coi fratelli del Piemonte. Dopo quei ritrovi della setta, scriveva qualche lettera al maestro Zecchini e la gettava alla posta colla certezza che sarebbe aperta dalla Polizia la quale violava tutti i segreti. Egli si godeva a corbellare i commissari e il governo, parlando di prati e di vacche svizzere, di canape e di bachi da seta. Raccomandava all’amico le zucche e le patate, e gli prometteva al ritorno le più utili informazioni sulla coltura delle rape. Dagli amici di Milano ebbe lettere di raccomandazione per qualche coltivatore, e per qualche possidente austriacante della Brianza, sempre collo scopo d’ingannare la vigilanza della polizia; e si recò a visitarli, occupandosi di vigneti e di stalle, benedicendo i benefizii della pace, che si godevano a merito del regime paterno dei buoni Tedeschi. Prese alloggio in un grande albergo, assunse delle informazioni che lo fecero conoscere per esperto agricoltore. Poi lasciando gran parte del suo bagaglio all’albergo, e raccomandando all’albergatore le sue preziose sementi di bietole, cavoli e carote, annunziò una gita nei dintorni per visitare le colture, e partì solo e pedestre, munito d’una semplice valigietta alla mano. Prese la direzione opposta a quella che intendeva di seguire, e girando per certi viottoli deserti, assicurandosi che nessuno lo vedeva, trovò la sua strada, che lo condusse in un angolo romito delle colline, ove sorgeva una modesta casa di campagna quasi nascosta dai tigli, dai platani, e dalle robinie. Abitava in quella dimora un suo antico commilitone, un valoroso colonnello degli eserciti napoleonici, un fiero soldato, un ardente patriotta, che non aveva mai potuto comprendere come gl’Italiani si fossero rassegnati a subire l’umiliazione d’un governo straniero. Acerrimo nemico dell’Austria, egli congiurava come capo carbonaro contro l’aborrito governo, ma sapeva operare con tale avvedutezza che non comprometteva mai nessuno, apparecchiava le riunioni, dirigeva la congiura con sommo accorgimento, e metteva tanta astuzia nel gabbare i sospetti del governo, nello sviare le ricerche della polizia, nell’abbindolare le commissioni speciali, che il suo grande maestro, il generale Napoleone, non avrebbe impiegata tanta avvedutezza nell’apparecchiare il piano d’una battaglia. Odone Palanzo era un antico cospiratore, ancora giovinetto si era acceso di entusiasmo al primo raggio della nascente libertà. La portentosa discesa del San Bernardo, compiuta dall’esercito francese condotto dal generale Buonaparte, la sua improvvisa comparsa in Italia, la battaglia di Marengo che liberava il Piemonte e la Lombardia dagli Austriaci, esaltarono lo spirito liberale del giovane italiano, il quale detestava il regime debilitante del governo straniero che conservava sotto il giogo una popolazione rassegnata, e non curante della sua sorte nè dell’onore del paese. Egli non rifiniva di ammirare e celebrare l’eroica difesa di Genova, il carattere e le prodezze dei vincitori dei Tedeschi, l’impassibilità di Massena durante l’assedio, la fermezza di Lannes sul campo di battaglia, la carica di cavalleria di Kellermann, la risoluzione fortunata di Desaix. E quando tre giorni dopo di quella famosa battaglia Buonaparte entrava in Milano sul far della sera, il giovane lombardo si trovava fra quella folla plaudente che gettava fiori nella carrozza del primo Console, che procedeva lentamente nelle strade accalcate e illuminate a giorno. Allora si arruolò come semplice soldato, quantunque avesse moglie e una bambina, fece il giro d’Europa, guadagnò i suoi gradi ad uno ad uno, da caporale a colonnello, fu ferito in varie battaglie, e non depose le armi che dopo l’ultima campagna di Russia, dove ridotto all’estrema miseria, lacero, esausto dalla fame, e quasi cieco, sarebbe morto sulla neve se non avesse incontrato il capitano Bonifazio che lo sostenne, lo guidò, lo nutrì di crusca bollita e di carne di cavallo; e attraverso a mille pericoli poterono entrambi ripassare la Beresina, dopo le più strane venture. Giunti in Polonia come due fantasmi da far paura a vederli, fecero una lunga dimora negli ospitali, fino che ristabiliti in salute, ritornarono a Parigi, e ripresero servigio fino alla caduta di Napoleone. Rimandati in patria, il capitano Bonifazio accompagnò l’amico alla casetta di Brianza, dove il colonnello lo presentò alla famiglia come il suo salvatore. La moglie era un’ottima donna; e la figlia Maddalena, una bella ragazza, con due grandi occhi che ne rivelavano la bontà, era stata allevata dalla madre alle cure domestiche e rurali. Entrambe vivevano modestamente colle rendite di alcune terre che stavano intorno all’abitazione. Vedevano poca gente, e assai di rado il loro capo di casa, il quale di tratto in tratto compariva all’improvviso, si fermava alquanti giorni, e spariva. Scriveva poche lettere e laconiche, sempre da nuovi paesi, da varie parti d’Europa. Il colonnello aveva un fratello più giovane, che si fece parimenti soldato, e questi alla caduta di Napoleone prese servizio nel piccolo esercito piemontese. Quando furono di ritorno dalla Francia invasa dagli stranieri di varie regioni, il colonnello volle che il capitano si riposasse alcuni giorni nella sua casa, dove si godeva una pace serena, in quel paradiso della Brianza. Quel silenzio, quella solitudine sotto gli alberi, producevano l’effetto d’un delizioso calmante negli animi ardenti di quei soldati avezzi a tanti frastuoni e a tante stragi. A poco a poco il loro spirito esaltato dalle lotte si raddolciva, il loro sangue rallentava il suo corso, il loro cuore si apriva a nuove aspirazioni verso la tranquilla felicità della pace domestica. Finalmente il colonnello sentiva il bisogno di riposo, in quel nido fortunato, fra il sorriso sereno d’una buona moglie, e la fiorente gioventù d’una diletta figliuola. Il capitano Bonifazio che aveva perduto tutti i suoi parenti, si arrestava ben volentieri in quel ridente soggiorno, prima di rientrare nella solitudine e nell’isolamento che lo attendevano nella sua casa deserta. Gli occhi profondi di Maddalena lo colpivano vivamente, la sua voce gli penetrava nell’animo, i suoi lineamenti gli lasciavano nel cuore una indelebile impressione, ma egli non osava guardarla che di soppiatto, quando era sicuro di non esser veduto da lei; quella soave fanciulla gli pareva cosa divina, e si giudicava troppo ruvido soldato per credersi degno di meritare il suo affetto. I due commilitoni passavano alcune ore seduti sopra un banco rustico del giardino, colla pipa in bocca, rammentando le loro geste, e quando passava Maddalena, Bonifazio si alzava in piedi, ritirava in fretta la pipa, e faceva il saluto militare come davanti un generale. Alla sera quando si ritirava nella sua camera, invece di andare a letto a dormire si sdraiava sul canapè, pensava lungamente alla Maddalena, ne faceva il paragone colle altre donne che aveva incontrate nei vari stati d’Europa, e la trovava più bella, più interessante e più adorabile di tutte. Era stato piuttosto libertino, intraprendente, audacissimo col bel sesso, e poteva vantarsi di ardite conquiste tanto sui campi di battaglia che nelle alcove; ma quelle erano donne, e questa era un angelo, ed egli si trovava ospite da un amico, del quale gli era sacra ogni cosa, e più di tutto la famiglia. Così passavano i giorni, e Bonifazio si lasciava vivere in pace, in una specie di allucinazione, e di ebbrezza felice, e chi sa quando avrebbe pensato di andarsene allorchè la lettera d’un avvocato di Treviso lo chiamò al suo paese per affari urgenti. Il colonnello non voleva lasciarlo partire, le signore lo pregavano di non abbandonarle, e gli parve perfino di scorgere una lagrima che brillava come un diamante nei grandi occhi di Maddalena; ma la lettera era pressante, e poi sentiva anche il bisogno di fuggire da quell’amore soffocato che quasi quasi gli pareva un insulto alla casa dell’ospite e dell’amico; e partì. L’ultima parola del colonnello fu questa:—Siamo intesi, _facite judicium et justitiam_.... e l’altro rispose: —_Pubblice felicitatis incrementum_.... Erano parole del diploma guelfo dei Carbonari. Pochi giorni prima si erano abboccati coi fratelli della setta, in un sito deserto, e avevano giurato nuovamente di liberare la patria dal giogo straniero, o di morire. Nel viaggio di ritorno si arrestò a Brescia, Verona, Vicenza, Padova; fece una scappata a Rovigo e a Venezia, e in tutte queste provincie s’incontrava coi federati, faceva dei proseliti, formava nuovi centri carbonari, allargava le diramazioni nei principali villaggi, e stringeva i nodi d’un’ampia rete che doveva serrare nelle sue maglie l’aquila a due teste. Poi rientrò tranquillamente nella casa paterna, solo e disarmato, ma profondamente convinto che presto o tardi ma di certo, l’Italia sarebbe unita, libera e indipendente. II. Erano passati sei anni da quella prima dimora in Brianza, quando nel maggio 1820, il capitano Bonifazio ricomparve per la seconda volta davanti la casa del suo vecchio commilitone. Non era ancora guarito della profonda ferita ricevuta dai grandi occhi di Maddalena, e stupiva che una così bella ragazza non si fosse ancora maritata. Ma in quella solitudine!... egli pensava, è come un fiore delle Alpi che sboccia, profuma l’aria d’intorno, e muore senza che nessuno lo veda. Le accoglienze furono cordialissime. Il colonnello e sua moglie lo abbracciarono come un fratello.... Maddalena impallidì. Bonifazio vide il pallore della fanciulla, sentì la mano di lei tremante nella sua, lesse ne’ suoi grandi occhi un sentimento di tenera affezione, della quale non si era accorto al primo incontro. E come poteva avvedersene se non osava guardarla? non era lei che doveva confessargli il suo amore! Era partito all’improvviso, ed era rimasto sei anni senza ritornare in Brianza; anzi aveva paura di ritornarvi, e non sarebbe tornato senza la politica. La luce entrata per uno spiraglio non tardò a diffondersi. Venne a sapere che non mancarono alla fanciulla ottimi partiti, ma essa aveva respinto inesorabilmente ogni domanda di matrimonio. Si fece coraggio, incominciò a guardarla negli occhi: essa non evitava quegli sguardi, anzi vi corrispondeva con tale espressione che era il linguaggio dell’anima, un linguaggio eloquente per il cuore del capitano. Egli aveva 34 anni, otto anni di vita militare lo avevano reso robusto, sei anni di vita rurale lo avevano ringiovanito. Ella ne aveva 25, era un frutto maturo, conservato perfettamente dall’aria pura dei campi. La sorte li riavvicinava, e tutto li spingeva ad amarsi, le affinità naturali e domestiche, la riconoscenza, le memorie e le abitudini della vita. Le dichiarazioni furono franche, e soldatesche. —Maddalena, le disse un giorno il capitano, l’immensa amicizia che sento per vostro padre, è superata dall’amore che ho per voi; se vi degnate di concedermi la vostra mano io sarò l’uomo più felice del mondo,—e così dicendo le sporse la destra. Essa depose, senza esitazione, la sua mano in quella del capitano dicendogli: —Per la vita!.... —Per la vita!... egli soggiunse, stringendosi al petto quella mano, e vi depose un bacio rispettoso, come suggello della santa promessa. Poi si presentò subito al colonnello, rigido, diritto, come quando andava a presentare il rapporto nella vita militare, e gli disse: —Mio colonnello, sono innamorato! —Per la cinquantesima volta! gli rispose l’amico. —Per la prima volta! mio colonnello. Il vecchio soldato sorpreso da uno scoppio improvviso di risa, fece un’aspirazione così rapida, che il fumo della pipa gli entrò in gola, lo fece tossire, sputare, e bestemmiare con tanta violenza, che pareva soffocarsi. Quando tornò in calma, Bonifazio gli fece il solenne giuramento, che la sua asserzione era la pura verità. Era verissimo che aveva conosciuto molte donne, ma non ne aveva amata seriamente nessuna, o perchè nessuna aveva saputo meritarlo, o perchè le continue marcie forzate non gli lasciavano il tempo di dare l’importanza d’una passione ai suoi capricci passeggieri. Se n’era persuaso nel 1814, quando s’era innamorato seriamente per la prima volta, ma aveva amato in silenzio per sei anni consecutivi, e finalmente si era risolto di parlare.... —Ci hai messo del tempo!... gli rispose il colonnello, hai perduto l’abitudine della furia francese, hai contratto il contagio della flemma tedesca.... —Non mi credevo degno della donna amata, non osavo alzare gli occhi fino a lei.... —E adesso li hai alzati?.... —E adesso domando la sua mano.... Il colonnello lo guardava fisso, e cominciava a comprendere. Allora il capitano riprendendo la sua posa militare soggiunse: —Ho l’onore di domandare al colonnello Odone Palanzo la mano di sua figlia Maddalena. Il colonnello si gettò nelle braccia dell’amico, ridendo e piangendo, e gli mancava la parola per la commozione. Si recarono insieme dalla buona madre che accolse la domanda con vera soddisfazione, e concertarono ogni cosa di comune accordo. E quando nei giorni successivi, e negli intimi colloqui colla fidanzata, essa confessò a Bonifazio che lo amava fino dal loro primo incontro, e lo aspettava rassegnata, colla speranza di rivederlo, risoluta di non volere che lui o nessuno, egli non sapeva darsi pace della sua dabbenaggine, e del tempo perduto. E scrisse una lettera al maestro Zecchini che cominciava con le seguenti parole: «Faccio adesione piena ed intiera alla vostra prediletta teoria; sì, l’uomo è un asino! e me ne sono accorto in questi giorni, studiando la verità sopra me stesso.» Non si spiegava di più, passava ad altri argomenti, raccomandava le sue coltivazioni, ma le ultime parole del foglio confondevano il maestro, il quale restava sbalordito da questa conclusione: «ho il piacere di annunziarvi che prendo moglie.» Il povero Zecchini non sapeva che cosa pensare. Intanto l’amore del capitano Bonifazio andava di pari passo colla congiura. Al giorno godevano il sole di maggio sotto la pergola dei gelsomini, e vagavano per le colline, soffermandosi ad ammirare i lontani orizzonti, e il sorriso di primavera sulle rive dei laghi. Alla sera il colonnello e il capitano uscivano insieme col pretesto d’una lunga passeggiata militare, e invece si recavano ai convegni notturni dei Carbonari, tenuti in luogo sicuro. Era stato scelto a tale scopo un casolare incendiato nella campagna deserta, vicino a un bosco. I contadini rimasti senza tetto si erano rifuggiati altrove. Dietro alcune macchie di alberi i giovani apprendenti stavano in sentinella per dare il segnale convenuto in caso di bisogno, ai capi che si raccoglievano fra le rovine, al lume delle stelle. Ciascuno portava un nome romano, Sallustio, Orazio, Livio, Nerone, e molti di loro non si conoscevano che con questo nome. La parola di passo era: _libertà vendicata_. Colà il deputato veneto dei _cavalieri guelfi_ combinava gli accordi coi _federali lombardi_, i quali corrispondevano coi capi dirigenti degli _Adelfi_ del Piemonte. La _Costituzione latina_ era il loro statuto, che conteneva il piano fissato per effettuare una rivolta armata. Fra gli ufficiali del disperso esercito italiano i Carbonari si contavano a migliaia. Il colonnello si teneva in corrispondenza segreta con suo fratello Aristide, che annodava le relazioni della setta di Lombardia colle società segrete di Torino. La rivoluzione piemontese doveva scoppiare nei primi mesi del 1821, d’accordo coi Napoletani e i Lombardi. Esauriti gli argomenti da trattarsi i congiurati fissavano la notte pel successivo ritrovo, poi uscivano dal nascondiglio alla spicciolata. Il colonnello e il capitano ritornavano a casa fumando la pipa, parlando delle glorie passate, delle presenti vergogne, e dell’immensa sventura di vivere senza patria. All’alba il capitano era alla finestra a respirare l’aria mattutina e le soavi esalazioni dei campi. Poi passava delle ore deliziose conversando colla promessa sposa, e ammirando la perizia che dimostrava nel disimpegno delle faccende domestiche. L’amore e l’amicizia gli avrebbero fatto dimenticare la sua casa, e i suoi affari, se la politica non lo avesse costretto alla partenza, per apportare nel Veneto le decisioni prese dalle assemblee dei Carbonari, e provvedere con ogni sollecitudine ai prossimi avvenimenti. Furono presto d’accordo nel fissare il tempo delle nozze. Le donne chiesero sei mesi per apparecchiare il corredo, gli uomini assentirono volontieri, colla tacita speranza che fra sei mesi l’Italia sarebbe libera dal dominio straniero, e che per allora, la nuova famiglia italiana avrebbe una patria. La separazione fu dolorosa, abbracci e lagrime da ambe le parti, ma l’addio fu raddolcito dalla promessa d’una assidua corrispondenza epistolare, e dal ritorno nel novembre per celebrare le nozze. Il viaggiatore non distolse gli occhi da quella casa diletta che all’ultima svolta lontana della strada, e vide ancora un fazzoletto bianco che sventolava fra quel gruppo d’alberi, dove aveva lasciato il suo cuore. Rientrò all’albergo di Brianza raccontando le meraviglie vedute nelle sue gite agricole, nominò tutti i paesi, meno quello dove aveva soggiornato, e partì per Milano carico di sementi. Di là colle solite fermatine perfettamente dissimulate, e colle relative conferenze segrete coi principali centri carbonari, si diresse a piccole giornate verso il Veneto. Il maestro Zecchini e il fedele Mosè lo aspettavano con curiosa ansietà. Forse ritornava colla sposa! Era vero che non aveva dato alcuna disposizione in proposito, ma la casa era in ordine, e il parco era degno di ricevere qualunque signora. Mosè non voleva credere a questo precipizio, ma il maestro Zecchini non si sorprendeva di niente, anzi si aspettava ogni bizzarria da quell’originale, che gli aveva annunziato il suo matrimonio con tanto laconismo. Finalmente giunse una lettera che fissava il giorno preciso del ritorno, e siccome il capitano era esatto come un cronometro, così il domestico e l’amico stavano ad aspettarlo sulla porta quando si udirono i sonagli della vettura che riconduceva il pellegrino. Le disposizioni da prendersi per il prossimo matrimonio furono nuovo argomento di conversazioni e di diverbi fra il maestro e il capitano. Zecchini metteva fuori degli utili consigli per gli arredi, Bonifazio lo canzonava; Mosè dava sempre ragione al padrone, il quale dopo di aver ripetutamente disapprovato i piani dell’amico finiva qualche volta coll’adottare quei consigli che aveva respinti con ironia e indignazione. Ma si conchiudeva sempre la pace al tavolo del terziglio, ovvero si cambiava argomento di discussione raccogliendo le diatribe sulle carte da giuoco. III. Durante l’estate venne apparecchiata la stanza nuziale, e furono acquistati tutti gli arredi necessari per abbellire la casa, e renderla degna di accogliere una donna gentile. La corrispondenza correva regolare fra gli sposi, e il capitano seguitava ad occuparsi di agricoltura, e faceva delle gite a Venezia e altrove, per completare i mobili della casa, mascherando con studiate apparenze le trame della congiura, e i ritrovi dei Carbonari. Non riceveva mai nessuno, e solamente in una sera di settembre, sull’imbrunire, un signore smilzo, in occhiali, si presentò al cancello della villa, e chiese del capitano. Gli fu aperto da Mosè che lo introdusse nel salotto, e corse a chiamare il padrone. Il capitano parve sorpreso assai di quella visita. Rimasero un’ora in conferenza; poi, fatto attaccare il cavallo, partirono insieme col legno di casa. Il padrone prendendo in mano le redini e la sferza, avvisò Mosè che non sarebbe tornato che dopo la mezzanotte, e dicesse al maestro che era andato a ricondurre un amico, venuto a fargli visita. Un mese dopo questo fatto, insignificante in apparenza, successero dei casi che impressionarono fortemente il Bonifazio. Il maestro capitava ogni sera colle novità del giorno: arresti di persone stimate ed illustri di Milano, e in altre parti di Lombardia, e del Polesine. Si parlava dovunque di società segrete scoperte, di Carbonari fuggiti o messi in prigione. Il capitano crollava le spalle, tentennava la testa, brontolava, voleva mostrarsi indifferente, ma poi domandava le più minute informazioni. Quando suonavano il campanello stava sopra pensiero fino che non sapeva chi fosse; sbagliava le carte e ne dava la causa al maestro, il quale sbalordito dall’accusa fissava tanto d’occhi in faccia del capitano, che lo rimbrottava di guardarlo in quel modo, con quello sguardo da inquisitore. E si bisticciavano più del solito. Il giorno dopo, il capitano si chiudeva in camera, lo si sentiva aprire degli armadi, scartabellare delle carte, nelle ore che era solito di stare in giardino. Quella sera, il maestro che veniva come il solito a fare la partita, fiutava l’aria della stanza, guardando intorno con inquietudine. —Che cosa avete, che torcete il naso? gli chiedeva il capitano. —Sento un odore di bruciaticcio, gli rispondeva, e guardo se c’è qualche cosa che prenda fuoco. —Sono delle vostre solite idee!... io non sento niente.... non c’è niente. —Eppure c’è qualche cosa di bruciato! insisteva l’altro, andiamo a vedere. Il capitano s’impazientava, montava in collera, lo accusava d’essere un visionario, lo sgridava e lo consigliava a desistere dalle sue inquietudini, e l’obbligava a sedere in quiete, colle carte in mano. Ma la partita era turbata dalle insistenti aspirazioni nasali del maestro, che continuava a dimenarsi sulla seggiola, e a mostrarsi pauroso del fuoco. Il capitano fremente lo tacciava d’uomo ostinato, fino alla cocciutaggine. Ma quando il maestro partì fece spalancare tutte le finestre e le porte, affinchè uscisse ogni odore sospetto, e volle che Mosè tirasse fuori dalla stufa delle carte bruciate incompletamente, e che le riducesse in cenere, ma persisteva nel sostenere che non ci poteva essere nessun odore da fumo. —Ma quel benedetto uomo, egli ripeteva, vuol mettere il suo naso da per tutto! Mosè, come al solito, dava ragione al padrone, e vuotando la stufa delle carte bruciate, continuava a dire che non c’era il minimo odore di fumo. Poi il capitano diede degli ordini precisi e segretissimi, per delle possibili contingenze. «Che il cancello del giardino sia sempre chiuso a chiave, anche di giorno, in modo che se qualche persona vi si presentasse per entrare, sia costretta ad aspettare che si vada a prender la chiave, da lui stesso tenuta in saccoccia. La porticina in fondo del brolo, che mette ai campi, sia sempre aperta di giorno e di notte.» Il matrimonio che doveva aver luogo in novembre fu rimandato di comune accordo a tempo più opportuno. C’era pericolo imminente da ogni parte. Furono prese infinite precauzioni per non entrare nelle trappole tese dai nemici, ma non tutti i sorci hanno gli accorgimenti necessari per evitare le insidie, e burlarsi degli insidiosi; molti furono accalappiati, ed era indispensabile di non muoversi, di non dar segno di vita, per non eccitare sospetti. Il maestro che ignorava la dilazione del matrimonio aveva apparecchiato il suo bravo sonetto per le nozze dell’amico, nel quale non mancò di rammentare le prodezze guerriere dello sposo, e la bellezza della sposa (che non aveva mai veduta) per tirar fuori il solito paragone di Venere e Marte. Gli pareva di aver fatto un lavoretto abbastanza degno dell’occasione, e portò il manoscritto alla I. R. Censura per ottenere il permesso di stamparlo. Non lo avesse mai fatto! il censore lo fece chiamare in ufficio, gli diede una solenne lavata di testa, e gli osservò: —Anche senza badare all’indole sovversiva di tutto il sonetto non potrei lasciar passare alcune parole proibite, come Italia, patria, libertà; e poi che diavolo si è messo in mente di parlare di Buonaparte e di chiamare l’Italia una nazione? dove vede la nazione?... mi dica.... Il maestro tutto confuso gli rispose: —Sono stato trascinato dalle rime: Marte Buonaparte; Napoleone-Nazione. Sapeva di far piacere allo sposo che fu soldato di Napoleone. —Peggio che peggio! Ella ignora dunque che Napoleone Buonaparte fu nemico dell’Austria?... —Fu genero del nostro venerato Sovrano, di Sua Maestà l’Imperatore!... —Senta, le dò un consiglio da padre, lasci la politica agli uomini di Stato.... e a chi ha voglia di andare in prigione; e se vuol fare il poeta, quantunque io non ne veda la necessità, lasci stare i cavalli di battaglia, e salga al Parnaso col modesto ronzino che serve al suo pievano per andare alla congrega, e cavalchi tranquillamente nella pacifica Arcadia, che non ha mai fatto male a nessuno. E così dicendo lacerò il sonetto incriminato, lo gettò nel cesto, e congedò il poeta con uno sguardo severo accompagnato da queste poche parole: —Si tenga per avvertito! Il maestro Zecchini uscì dall’ufficio di Censura annichilato. Gli tremavano le gambe, si riteneva fortemente compromesso, vedeva già il commissario di polizia e gli sbirri che picchiavano alla sua porta, che lo perquisivano, lo arrestavano, lo conducevano in prigione. Corse difilato dal capitano a confessargli la sua imprudenza, e a domandargli consiglio. —Che cosa vi è passato per la mente? gli domandò il Bonifazio, in collera. Ignorate dunque che senza patria non si ha il diritto nè di scrivere, nè di pensare? Avete commesso una vigliaccheria degnandovi di sottomettere i vostri concetti alla censura, avete commesso una asinaggine gettandovi volontariamente in bocca al lupo. Non sapete che a Milano hanno soppresso il _Conciliatore_? che hanno chiuso le scuole di mutuo insegnamento?... Vi siete cacciato in un vespaio.... potreste essere arrestato. —Ma io non ho fatto niente!... —Appunto per questo siete in pericolo. Tutti quelli che furono arrestati in questi giorni non hanno fatto niente.... qualche leggerezza, qualche imprudenza, qualche fanciullaggine come la vostra; ma saranno condannati, perchè coloro che agiscono seriamente, sanno farlo colle dovute precauzioni, e l’Austria ne prenderà pochi. I generali muoiono raramente in battaglia, sono i semplici gregari che pagano per tutti. Ma pazienza che voi andiate in prigione, il peggio si è che compromettete gli amici con la pazzia dei sonetti, che non servono a niente. Non siete uomo da esporvi alle conseguenze d’un atto coraggioso, la vostra tempra frolla non vi permette di sfidare le crudeltà del dispotismo. Guai se vi manca ogni mattina il vostro caffè nero, e i calzerotti di lana l’inverno, il pancotto la sera, guai se vi togliessero l’aria e il sole dei campi, e vi chiudessero in un camerotto, colle balze agli stinchi per finire i giorni sul tavolaccio del carcere duro!... Il povero Zecchini si coricò colla febbre, e battendo i denti andava borbottando la sua massima prediletta, come una giaculatoria in _articulo mortis_, e questa volta intendeva parlare di sè stesso, quando ripeteva con compunzione:—l’uomo è un asino, un asino, un asino!... Gli volle molto tempo prima di ricuperare una discreta salute; e quando leggeva sulla _Gazzetta di Venezia_ dei nuovi arresti, sentiva un brivido fra carne e pelle, gli pareva di vedersi in mezzo ai Carbonari, e se li figurava tutti neri, le vesti, il viso, e le mani, e faceva il più solenne giuramento di mai più esporsi a simili pericoli, e per evitare ogni occasione di compromettersi, non voleva più vedere nessuno, e non frequentava che una sola casa, quella del suo vicino, il capitano Bonifazio. Intanto i processi di Milano e di Venezia continuavano le inchieste, e sempre nuove vittime cadevano in mano dell’Austria. Il capitano Bonifazio e il colonnello Palanzo erano costretti di protrarre continuamente il matrimonio nell’interesse di Maddalena, perchè nè un fidanzato nè un padre potevano condannare una giovane sposa a vincolarsi per la vita con un uomo minacciato dalla prigione o dall’esilio. E attendevano silenziosi e cauti che fosse cessato il pericolo, cercando di giustificare il ritardo con facili pretesti, ammessi facilmente da chi non vedeva altri motivi. Ma tutto non isfuggiva alla perspicace penetrazione delle donne; alcune parole colte a volo, alcuni fatti sospetti che coincidevano coi dolorosi avvenimenti del giorno le illuminavano abbastanza, da renderle rassegnate al destino, come ad una necessità ineluttabile. Il più difficile per Bonifazio consisteva nel giustificare il ritardo delle sue nozze presso il maestro Zecchini, il quale s’interessava vivamente alla sorte dell’amico, trovava opportunissimo il matrimonio, si riprometteva dal medesimo una conversazione più geniale, e non poteva credere nè rassegnarsi ai pretesti che gli venivano presentati dal capitano come i veri motivi della prolungata dilazione. E questo era nuovo argomento di dissenzione fra i due vicini, per le osservazioni noiose da una parte, e le risposte bisbetiche dall’altra. Così passavano i mesi dolorosi pei fidanzati, pieni di angoscie per le famiglie, con maneggi segreti dei congiurati per stornare le minacce, e per disperdere tutte le prove compromettenti per coloro che erano liberi. Tutto il 1821 trascorse nella caccia accanita degli inquisitori in cerca di congiurati, e nella somma destrezza dei capi della setta per sottrarre nuove vittime alla vendetta degli usurpatori, e alla insidiosa procedura di giudici arrabbiati per non poter cogliere nei loro tranelli che un numero assai limitato di Carbonari. In febbraio 1822 il lungo processo degli arrestati era finalmente finito, e interessava ai capi di assistere alla lettura delle sentenze delle povere vittime, che si faceva sulla pubblica piazza. A tale scopo il capitano Bonifazio partì per Venezia col suo domestico, potendo aver bisogno d’un uomo fidato, in quella dolorosa circostanza. Era il 22 febbraio, una bella giornata serena, il sole rallegrava la laguna e illuminava le case e le botteghe in assetto di festa. Mosè che ignorava il motivo del viaggio del padrone, essendo libero fino a mezzogiorno, chè a quell’ora doveva trovarsi in piazza, girovagò tutta la mattina intorno a Rialto. Passeggiando per la pescheria si fermava davanti i banchi ad ammirare i pesci di tutte le dimensioni e di tutti i colori, dal roseo al verde, dal bianco al bruno, tutti brillanti di squamme metalliche; e passando per l’erberia stava colla bocca aperta davanti le botteghe rigurgitanti di commestibili d’ogni genere, ornati di verdi fronde, e contemplava estatico i cestoni di frutta e di erbaggi, le piramidi di aranci e di limoni, le valanghe di bietole e patate, i mucchi di polli e di selvaggina, i monti di carubbe, i barili d’uva calabrese e di fichi secchi. I mercanti vantavano ad alta voce le loro merci ad eccessivo buon mercato, e invitavano i passanti a non lasciarsi sfuggire la bella occasione; chi cantava e chi urlava i nomi degli oggetti messi in vendita, chi alzava in aria i campioni, chi metteva il cesto sotto il naso dei passanti. E una folla allegra e ciarlona di curiosi e di acquirenti andava e veniva per la via fra quella babilonia di gente e di prodotti di tutti i colori e di tutti gli odori. Quando fu vicina l’ora fissata dal padrone, Mosè dovette allontanarsi da quel bizzarro e rumoroso spettacolo, e si avviò verso la piazza. Percorrendo le Mercerie si trovò fra gente affatto diversa, che camminava in fretta, colla testa bassa, verso un altro spettacolo. Sotto l’arco dell’orologio si stentava a passare, tutti andavano verso la piazzetta dove sorgeva la berlina, un palco alto, con una colonna tronca nel centro intorno alla quale girava una panca. Una folla immensa si stipava al sole in mezzo ai magnifici edifizi, davanti lo specchio della laguna. Tutta la guarnigione austriaca era sotto le armi, non si vedevano che teste e baionette. Comparvero fra gli sbirri, alcuni Italiani ammanettati, salirono sul palco, e rivolti verso il palazzo dei Dogi si udirono condannare a morte, e al carcere duro per aver osato sognare l’indipendenza della patria dallo straniero; e questa sentenza veniva letta da un curiale austriaco da quel palazzo, in quella piazza eretti da un popolo libero, ove tutto attestava quattordici secoli di indipendenza, contro un dominio usurpato da circa nove anni senza l’assenso dei veri padroni. Il terrore dominava quella folla, che assisteva in silenzio all’orribile spettacolo. Alle parole «condannati a morte» un fremito di sorpresa, di pietà, di sdegno sorse dalla folla, ma subito dopo ritornò il silenzio della paura. Mosè non potendo trovare il padrone in quella calca ritornò all’albergo, e quando vide il capitano gli andò incontro con aria misteriosa e gli domandò: —Ha veduto sulla berlina quel signore magrolino cogli occhiali che è venuto a farle visita una sera d’autunno, or son quasi due anni?! —Non dirlo nemmeno all’aria, se un giorno non vuoi vedermi al suo posto. Tutti quei condannati sono veri galantuomini, vittime d’una imprudenza. Volevano fare il bene, ma non sapevano farlo colla finezza indispensabile nella lotta del diritto inerme contro la forza armata. Mosè restò sbalordito, e pensava agli ordini ricevuti dal padrone poco dopo la visita di quel signore: il cancello del parco sempre chiuso, il cancello del brolo sempre aperto! e cominciava a capire qualche cosa, ma il capitano poteva essere sicuro che il segreto delicato starebbe sepolto per sempre in fondo al cuore dell’onesto e fedele domestico. Abortite le rivoluzioni di Napoli e del Piemonte e terminato l’infame processo dei Carbonari colle barbare condanne, il paese, seminato di spie, scoraggiato per le prove fallite, parve immerso in un silenzio di morte. I vecchi patriotti rimasero prostrati, scoraggiati di tentare nuove imprese; i giovani si gettarono negli stravizi, nella vita molle effeminata, che il governo straniero incoraggiava in molte maniere per facilitarsi il dominio d’uomini fiacchi e di anime corrotte. Quella fu l’epoca fortunata dei teatri, delle ballerine e delle mime, dei veglioni mascherati, dei carnevali rumorosi, degli intrighi galanti, della vita allegra e spensierata. Duravano tuttavia le proteste contro il dominio straniero, ma si limitavano a maledire o beffare il governo, eludere le leggi, burlarsi della dabbenaggine di qualche Tedesco, degli spropositi italiani dei Croati, a canzonare la ingenua semplicità d’un soldato, a guardare in aria sprezzante gli ufficiali dell’esercito austriaco. Poi sorsero nuove sétte, ma coi capi cospiratori viventi all’estero, pieni d’illusioni sulle condizioni locali del paese, con forze immaginarie, e con tentativi arrischiati che esponevano le vite dei cittadini, moltiplicando le piccole sollevazioni impotenti, e producendo nuove vittime. Che cosa potevano fare i prodi soldati degli eserciti napoleonici lasciati in disparte? i patriotti intelligenti rimasti senza patria? Crearsi una famiglia, educarla coi sani principii della giustizia, vivere ritirati, apparecchiare i figli per l’avvenire, attendere e sperare. E così fece il capitano Bonifazio. Andò in Brianza a sposare la sua Maddalena. Le nozze ebbero luogo in primavera del 1822, con semplicità patriarcale, senza feste, senza chiassi, e senza sonetti, come conveniva in tempi tristi, dopo dolorosi avvenimenti. La sposa che aveva sempre vissuto in campagna si trovò benissimo nella sua nuova dimora nei dintorni di Treviso. La casa era più grande, il possesso più esteso e più ricco; l’aspetto della pianura era meno pittoresco delle colline di Brianza, ma l’orizzonte più ampio ed aperto, la campagna bagnata da acque correnti, e l’aria pura ed elastica che viene dalle Alpi e passa per l’immenso letto del Piave apporta la salute, esilara lo spirito, ed eccita l’appetito. Il capitano riprese i suoi lavori agricoli e di giardinaggio, la Maddalena assistita da Mosè e da una fantesca, ordinò la casa; e così ebbe origine la nuova famiglia Bonifazio, della quale abbiamo raccolto la semplice istoria in queste povere pagine. IV. Talvolta i filosofi hanno il torto di ritenere troppo assolute le loro teorie, se si contentassero di limitarle al circolo ristretto della loro visualità, avrebbero perfettamente ragione. Per esempio: se il maestro Zecchini avesse proclamato, che l’uomo è un asino, senza uscire dalla sua scuola, nessuna autorità competente avrebbe trovato un argomento valido per confutarlo: e forse nemmeno lo stesso maestro avrebbe presentata un’eccezione. E infatti, studiando sè stesso, egli aveva sovente l’occasione di confermarsi nel suo principio. Appena ritornato dalla Brianza, il capitano Bonifazio invitò a pranzo il maestro Zecchini per presentarlo alla sposa, come amico e vicino di casa. Il maestro rimase colpito dalla bellezza lombarda della signora Maddalena, e per esprimere la sua ammirazione in modo che gli pareva molto appropriato, cominciò a raccontare a tutti i suoi amici e conoscenti che la sposa del capitano aveva due occhi da carbonara. E questa fu vera imprudenza, in un tempo, nel quale gli stessi mercanti di carbone non avrebbero osato chiamarsi col loro nome. Guai se il capitano lo avesse udito! ma il maestro contemplando quegli occhi bruciava in silenzio, nascondeva le brace sotto la cenere, e pensando al carattere vivace dell’amico celibe, aveva doppia paura dell’amico ammogliato quantunque costui avesse dei pensieri molto più gravi di quello di sospettare del maestro Zecchini. Malgrado tutte le precauzioni passibili, il primo tempo di quel matrimonio non poteva essere tranquillo e sereno, come sogliono essere tutte le lune di miele. A certe suonate di campanello il capitano lasciava trasparire un’involontaria apprensione, come al tempo degli arresti, a certi rumori notturni egli si alzava dal letto e andava a spiare attraverso le gelosie. La giovane sposa indovinava la causa di quelle inquietudini, e ne divideva le ansietà. Tale condizione di cose rendeva il capitano più bisbetico del solito, e avendo ripreso le partite serali delle carte, ad ogni errore commesso il maestro andava soggetto a dei rabuffi che lo intimidivano; la buona signora si studiava di consolarlo dei modi bruschi del marito con indulgenti sorrisi, e sguardi incoraggianti, e l’asino bruciava. Dopo qualche tempo la partita di terziglio fu abbandonata pel tresette. Il maestro pregato dal capitano aveva trovato un quarto giuocatore; certo Giacomo Pigna, fittaiuolo del paese, un po’ rozzo, ma galantuomo, laborioso ed allegro, e gran bevitore. Egli capitava ogni sera fedelmente, anche attraverso la neve e le bufere, per fare la solita partita. Gettava il suo tabarro e il cappellaccio a cencio sopra una seggiola dell’anticamera, ed entrava intrepidamente nel salotto coi capelli sulla fronte, l’occhio brillante, il naso violetto, i zigomi accesi, un buon sorriso sulla bocca, il ventre proeminente, e gli stivali sopra i calzoni. Il capitano gli dava la mano, che egli non osava stringere che debolmente, per riguardosa modestia. Prima di giuocare una carta si bagnava il pollice in bocca, e alla fine d’ogni partita tirava fuori la scatola di tabacco colla Madonna sul coperchio, ne offriva agli uomini, diceva le sue barzellette alla signora, e tirava su pel naso la sua presa, con una profonda aspirazione. Il parco diventava sempre più rigoglioso, abbellito di nuove piantagioni di alberi e di arbusti ornamentali, le macchie si arricchivano di fiori elegantissimi, l’orto aveva degli erbaggi stupendi, e il cortile sorvegliato dalla padrona di casa era popolato di numerosi pollami, d’anitre, tacchini e colombi. Un anno dopo le nozze un fortunato avvenimento allietò la famiglia, i parenti e gli amici, la nascita d’un figlio maschio, al quale venne imposto il nome di Gervasio. Due anni dopo ne nacque un altro, che fu chiamato Stefano; e così la famiglia cresceva, e viveva abbastanza felice, una vita tranquilla e regolare, come un paese senza storia. I bambini vennero allevati all’aria aperta, con una semplice vesticciuola, un cappello di paglia, e gli zoccoletti di legno: giuocavano tutto il giorno sotto i boschetti e sull’erba, e correvano incontro alla madre, colla bocca aperta, come i pulcini. Ebbero i primi insegnamenti dal maestro Zecchini sempre innamorato platonicamente della loro mamma, ed essa educava i loro cuori all’amore di Dio, dei genitori e del prossimo, con elevati sentimenti. Il babbo li voleva robusti e patriotti e li indirizzava per questa via. Divenuti grandicelli frequentarono le scuole di Treviso, modificate dall’insegnamento domestico. Il governo austriaco per assicurarsi dei soggetti rispettosi faceva leggere e imparare a memoria nelle scuole il libriccino intitolato _I doveri dei sudditi_. Il capitano faceva osservare ai suoi figli che la stessa natura ci ispira l’amore della patria, che la patria non può essere felice senza la libertà e la giustizia, e se non era giusto che un cittadino comandasse in casa altrui, così non poteva esser giusto che un popolo s’imponesse ad un’altra nazione. Ristabilita la vera base del diritto, dimostrava che quei pretesi _doveri dei sudditi_ non erano altro che gli _obblighi degli schiavi_, ed indicava la prudenza necessaria per condursi alla scuola, eccitandoli a farsi uomini per vendicare la patria. E invece di limitare le loro conoscenze alle nozioni di storia imposte dal programma austriaco, spiegava ai suoi figli la storia universale, ove l’Austria faceva una figura secondaria e insignificante, e talvolta odiosa; poi li voleva istrutti minutamente sulla storia d’Italia, dalla più remota antichità fino ai nostri giorni, perchè imparassero a conoscere i grandi avvenimenti, i fatti gloriosi che onorano il nome della patria davanti al mondo, rilevando in pari tempo tutti gli errori, tutti i torti, i vizii, i delitti che conducono i popoli alla schiavitù. E si fermava con somma compiacenza a certi nomi, e spiegava le azioni generose che li avevano resi immortali. Li addestrava a tutti gli esercizii del corpo, alla scherma, al tiro a segno, alla ginnastica. —Verrà il giorno che potrete utilizzare tutte le vostre conoscenze e tutte le vostre forze,—egli diceva loro;—impiegatele sempre a favore della giustizia e della libertà, a vantaggio dei buoni contro i malvagi,—e rivolto a sua moglie soggiungeva:—Questa è la migliore congiura che possa riescire a liberarci dal governo straniero. E scriveva ai parenti di Brianza i progressi dell’educazione dei figli, i loro costumi intemerati, e gli animi audaci, ma onesti. È facile immaginare come egli spiegasse la storia di Napoleone, davanti i ritratti e i quadri di casa. Erano racconti che facevano venire la pelle d’oca; ma a poco a poco lo spirito bellicoso li metteva in voglia di menar le mani, sentivano vergogna di vedersi dominati dagli stranieri, e ascoltavano a bocca aperta le geste di quei generali che rotta la spada prendevano in mano un fucile e trascinavano i soldati contro la mitraglia, mettevano in fuga il nemico colla baionetta, e restavano illesi in mezzo alla mischia. Gervasio, secondando il gusto dominante del padre si era dato con passione all’agricoltura e al giardinaggio. Coltivava dei bei fiori, ne faceva dei mazzi magnifici, e li presentava a sua madre nei giorni delle feste natalizie ed onomastiche. Piantava degli alberi nelle occasioni solenni, come modesti monumenti della vita domestica. Stefano amava lo studio, leggeva molto, annotando le cose che gli parevano degne d’essere rilette. Il maestro Zecchini li amava come figliuoli, ringiovaniva giuocando con loro; talvolta lo canzonavano per la sua teoria, ma con maniere scherzose che non potevano offenderlo. —Aspettate, e mi darete ragione col tempo,—egli diceva;—siete giovani senza esperienza, e giudicate le bestie dal pelo. È un errore! bisogna che la bestia sia morta per pronunziare un giudizio esatto delle sue qualità. Ci sono degli animali di tutti i colori, ma senza la pelle tutte le bestie sono eguali. Giacomo Pigna aveva un figlio, Giuseppe, col quale i ragazzi andavano a caccia, ora in montagna ed ora in palude, e così si esercitavano alle marcie e al tiro, con grande soddisfazione del capitano. Di tratto in tratto si facevano degli inviti alla villa, per mangiare cogli amici il lepre o la selvaggina. In quelle occasioni il vecchio Pigna alzava il gomito fuor di misura, e quando era brillo ne diceva delle grosse, che facevano ridere la brigata. Allora il maestro guardava gli amici strizzando un occhio, per dimostrare che l’occasione era favorevole all’applicazione della sua teoria. Questa vita semplice e laboriosa, rallegrata da festicciuole di famiglia, durò parecchi anni, senza che nessun avvenimento importante venisse a turbarla. Le aspirazioni liberali crescevano nel silenzio, lo spirito nazionale era coltivato dalle letture di buoni libri, ma lo si teneva nascosto nell’intimità, come un’arma proibita. Il bisogno d’indipendenza era penetrato anche nel popolo, e le condizioni d’Europa lo favorivano. Nel giorno memorabile 22 marzo 1848, fu scosso il giogo per la prima volta, con unanime slancio, nella Lombardia e nella Venezia. L’insurrezione di Milano fu irresistibile, gli Austriaci dovettero ritirarsi nelle fortezze del quadrilatero; il resto del paese fu libero per quella serie di fatti complessi che fecero cadere rapidamente il dominio austriaco, con poco spargimento di sangue. A Venezia pochi cittadini audaci, secondati dalla popolazione, ottennero il medesimo risultato. Pareva una corrente elettrica che gettasse a terra il governo sbalordito. Ma esso raccolse l’esercito e si apparecchiò alla rivincita; mentre la nazione esaltata dalla facile vittoria, priva d’esperienza e di senno politico si abbandonava alla gioia del trionfo, e non pensava ai pericoli imminenti. Sorsero dovunque i governi provvisori, incominciarono le pacifiche dimostrazioni, i proclami ampollosi, seguiti da tutte le esitazioni della inesperienza. Il capitano Bonifazio era soddisfatto della caduta del governo straniero, ma desolato delle declamazioni che mantenevano il paese nelle più pericolose illusioni. —Armi, disciplina ed unità di comando ci vogliono, egli esclamava, non vane ciarle, e mal fondate speranze. Gli Austriaci si concentrano per organizzarsi, attenderanno dei rinforzi da Vienna, e un giorno usciranno dalle fortezze, e riprenderanno il terreno perduto. Bisogna circondarli, combatterli e vincerli. Bisogna abbandonare le questioni accademiche sulla forma di governo più opportuna all’Italia, mentre il paese è ancora occupato da un esercito agguerrito di stranieri tenaci alla preda. Bisogna ripudiare la rettorica, è inutile scrivere degli indirizzi umanitari ai fratelli Ungheresi, ai fratelli Boemi, ai fratelli Croati, i quali non domanderebbero di meglio che tornarsene a casa in santa pace, ma che la mano ferrea dell’Austria saprà conservare sotto le armi, e slanciarli alla facile riconquista d’un popolo disarmato. Il maestro Zecchini che era stato pronto a metter fuori del balcone la bandiera tricolore, ascoltava attentamente i discorsi del capitano Bonifazio, li trovava molto ragionevoli, si pentiva dell’entusiasmo dimostrato nei primi giorni, ed alla prima pioggia ritirò la bandiera per non sciuparla, ma dopo tornato il sole finse di dimenticarla in un angolo della casa; avrebbe voluto anche sopprimere la coccarda, ma chi non la portava era creduto una spia, ed arrischiava la pelle. Egli prese il suo partito; si mostrava taciturno coi sospetti, modesto coi timidi, audace cogli esaltati, gridava cogli urloni, declamava coi barbassori, e abbondava nel senso di tutti per vivere d’accordo con ciascheduno. Il capitano Bonifazio si recò a Treviso coi figli per prendere le armi contro il nemico. Trovò il governo provvisorio composto di tredici persone (cattivo numero!). Mancava il denaro, quantunque ci fossero due ministri di _contabilità_ e _finanze_; mancavano le armi e i soldati, ma c’erano due incaricati alla _milizia_ e un ministro di _diplomazia e guerra_, un abate all’_istruzione pubblica_, un canonico al _culto_, un avvocato alla _consulta_, due ingegneri alle _pubbliche costruzioni_, un avvocato all’_amministrazione comunale_, un altro alla _Polizia_, e l’avvocato Presidente del governo, per mettere in moto questa gran macchina provinciale, e governare un popolo che non contava novantamila abitanti. E pubblicavano, dice uno storico contemporaneo, «annunzi, disposizioni, decreti, proclami, consigli a tenore delle circostanze, mostrandosi però sempre sicuri nel buon esito dell’impresa.» (_Semenzi_). La città era in festa, le case pavesate, le contrade illuminate, l’entusiasmo dei cittadini si manifestava in mille forme diverse. E così avvenne in ogni città e borgata del Lombardo-Veneto liberato dagli stranieri. Ma le aberrazioni della gioia furono brevi, sufficienti però a dimostrare all’Europa l’odio degli Italiani per il dominio straniero. Provenienti da varie regioni d’Italia entravano in città le più bizzarre milizie, in costumi pittoreschi: elmi romani e medioevali, pennacchi napoleonici, durlindane dell’Orlando furioso, fiocchi, galloni, giacche di tutte le parti del mondo, cappelli calabresi, romagnoli, trasteverini, napolitani e siciliani. Il capitano Bonifazio fu subito nominato istruttore e organizzatore della milizia, i suoi figli si arruolarono nei volontari, i quali ignoravano ancora il mestiere del soldato, quando furono mandati ad affrontare i primi scontri dell’esercito austriaco che scendeva dal Friuli, preceduto dei soliti Croati. Giovani studenti trasformati repentinamente in artiglieri, operai divenuti fantaccini in pochi giorni, resistettero intrepidamente al primo fuoco, si batterono con coraggio, e sparsero il loro sangue per la libertà. I Tedeschi bombardarono Treviso, che dopo la coraggiosa resistenza ottenne una delle capitolazioni più onorevoli delle guerre di indipendenza. Quei giovani soldati uscirono dalla città cogli onori militari, conservando le armi e i bagagli, con due pezzi di cannone, regalati dal generale austriaco «in contrassegno della particolare sua stima per la buona condotta durante il combattimento, e perizia nel maneggio delle armi.» (_Capitolo III della Capitolazione_). «I sudditi austriaci arruolati nelle truppe italiane, saranno considerati come emigrati.» Ed ecco che cominciava una nuova iliade di mali per gli Italiani, e la nazione tornava ad essere invasa ed oppressa dalle forze preponderanti degli invasori stranieri. Mentre le milizie italiane uscivano dalla porta Santi quaranta (ora Cavour), gli Austriaci entravano dalla porta di San Tommaso (ora Mazzini). Nella villa suburbana del capitano Bonifazio la povera Maddalena restava sola a piangere la partenza del marito e dei figli, che non aveva potuto abbracciare. Il maestro Zecchini e Mosè cercavano invano di consolarla facendole credere che sarebbero presto ritornati, ma il suo cuore di donna la avvertiva che i suoi cari starebbero assenti lungamente, esposti a mille pericoli; e al suo dolore di moglie e di madre si aggiungeva quello di buona italiana, che vedeva la patria rioccupata dagli stranieri. Quale solitudine, qual vuoto in quella casa, e in quel parco dopo la partenza de’ suoi cari! Una parte della cavalleria austriaca aveva preso alloggio nelle case di campagna intorno la città, le scuderie erano piene dei cavalli nemici, e i soldati inquieti andavano e venivano con volti arcigni e truce aspetto. Ecco il santuario domestico invaso dagli stranieri, che non hanno nulla di sacro nel paese conquistato. Si prendevano le frutta come fossero in casa propria, calpestavano le colture, legavano agli alberi i cavalli che coi denti rosicchiavano le corteccie. Maddalena che conosceva la passione del marito e dei figli per quelle belle piante, allevate con tante cure, piangeva disperata per non poter arrestare quella devastazione. Il maestro Zecchini trovò il modo di rendersi utile alla povera donna ed agli amici assenti, andando a parlare ad un colonnello che cercava un comodo alloggio in mezzo ai suoi soldati. Gli si presentò col cappello in mano, in attitudine riverente, e gli disse: —Se Vostra Eccellenza desidera un magnifico alloggio non ha che comandarmi; io sono il maestro del villaggio, e non ho altro desiderio che quello di servirla bene. Il colonnello volle vedere, lo seguì, e fu soddisfattissimo; e quando fu bene installato accolse con benevolenza un rispettoso reclamo che gli fu fatto dal maestro in favore degli alberi del giardino. I soldati coi cavalli ricevettero l’ordine di sgombrare immediatamente, e di ritirarsi nelle adiacenze, con l’obbligo di mai più mettere i piedi nel parco, e una sentinella fu collocata in sito opportuno colla consegna di non lasciar passare alcuno, e di sorvegliare la proprietà. Partito quell’ufficiale superiore ne venne un altro dello stesso grado, e così di seguito. La tradizione conservò l’abitudine dell’alloggio riservato, e così fu preservato dalla devastazione quel delizioso soggiorno. Ma intanto i proprietari vagavano raminghi per le terre d’Italia, invase per ogni parte da eserciti nemici. Milano ricadeva in mano dell’Austria, e tutto il sangue sparso dagli Italiani in quei mesi di lotta e di ansietà non valse a liberarli dalla invasione. La sola Venezia resisteva eroicamente, e i Bonifazio si recarono colà, per contribuire alla difesa. Le vicende dell’assedio di Venezia sono forse la più bella pagina nella storia della nostra emancipazione. Questa gloriosa città, tradita ed oppressa, che si ridesta alla libertà, dopo l’umiliazione del dominio straniero, che lacera e insanguinata si difende contro un nemico potente, combatte valorosamente, intrepida fra le rovine delle fortificazioni, che estenuata dalla fame, decimata dal coléra e dalle bombe, decide di _resistere ad ogni costo_, offerse un esempio di tale fermezza indomabile, che le guadagnò l’ammirazione del mondo. I Bonifazio furono fra quelli eroi che presero parte alla sortita di Mestre, e che difesero Marghera fino che fu ridotta ad un mucchio di rovine. Ma il vecchio soldato di Napoleone fu il solo che potè ritirarsi incolume in città dopo di aver combattuto per tanti giorni in mezzo ad un diluvio di palle. Gervasio rimasto fra gli ultimi sulla breccia fu ferito alla mano destra e Stefano ebbe una gamba traforata da una palla; e passarono gli ultimi tempi dell’assedio all’ambulanza. Finito l’ultimo pane nero, e l’ultima carica di cannone, Venezia dovette cedere senza esser vinta. Al momento della capitolazione i due fratelli erano ancora convalescenti. Tennero consiglio col padre, il quale pensando alla povera donna che non li aveva visti da più d’un anno, desiderava che volessero tornare entrambi a casa con lui. Per Stefano non ci poteva esser dubbio, poichè non era in caso di tenersi in piedi senza l’aiuto d’un bastone, ma Gervasio storpiato alla mano destra si rifiutò recisamente di ritornare a vivere sotto il governo austriaco, preferì di condannarsi all’esilio. Il padre non volle insistere, nella speranza d’un pronto risveglio della nazione e d’un ritorno alle armi. La separazione fu dolorosa. Gervasio s’imbarcò in un bastimento francese, e il vecchio soldato, sostenendo sotto il braccio il più giovane dei suoi figli ferito, ritornò alla sua villa. Povera Maddalena!... quando li vide entrare pallidi e magri, col suo Stefano ferito, e senza Gervasio, fu costretta di sostenersi ad un albero per non cadere; poi fatto animo e ripreso fiato si gettò nelle braccia loro esclamando: —Dove è Gervasio?... —È partito.... risposero, ma speriamo di rivederlo fra poco.... —È morto! essa gridò con accento straziante, il mio povero Gervasio è morto!... sarebbe qui di sicuro se non fosse morto!... Non voleva persuadersi che fosse partito, che avesse preferito l’esilio alla casa paterna, alle cure di sua madre! —Ha preferito l’esilio all’umiliazione di vivere sotto il giogo dei nostri nemici, come tanti altri suoi compagni, le disse il marito; ma le cose non possono durare a questo modo,—e manifestando tutte le illusioni di quel tempo, si studiava di provare l’impossibilità d’un lungo dominio austriaco in Italia, perchè i popoli coraggiosi possono tutto quello che vogliono; ma Maddalena non lo ascoltava più, baciava teneramente il suo Stefano, lo interrogava ansiosamente sulla ferita che gl’impediva di camminare, lo fece sedere in una poltrona, apportò dei ristori ai poveri viaggiatori sfiniti dai lunghi patimenti, dalla fame, dalla fatica del viaggio, in quello stato. Appena saputo il loro ritorno accorse anche il maestro Zecchini, e non finiva mai d’interrogarli sui più minuti particolari del memorabile assedio; si mostrò desolato per tante sventure, e voleva sostenere che bisognava rassegnarsi al destino, che era finita per sempre, che sarebbe assolutamente impossibile di vincere la potenza austriaca. Il capitano lasciò andare un pugno così violento sul tavolo che fece saltare i piatti e i bicchieri, e così incominciarono nuovamente le diatribe fra i due vecchi amici, che dopo l’assenza ritornavano a vivere insieme, sempre inseparabili, e sempre discordi. Intanto il Gervasio navigava verso la Francia, e pochi giorni dopo sbarcava a Marsiglia coi molti esiliati di Venezia, i quali si dispersero in vari paesi. Egli partì per Parigi colla speranza di trovare un’occupazione per non vivere a carico della famiglia. Ma in quel tempo la capitale francese rigurgitava di emigrati d’ogni parte d’Europa; le varie rivoluzioni del quarant’otto vi avevano gettato i loro naufraghi, che cercavano un rifugio. Tutte le passioni umane, e i diversi partiti politici si concentravano nel cervello del mondo; la vita era una lotta di forze contrarie che si agitavano convulse fra gli amari disinganni del passato, e le più esagerate illusioni dell’avvenire. Ad un’anima mite e senza ambizioni, come quella di Gervasio, la vita tumultuosa rendeva più doloroso l’esilio. Dopo lunga aspettativa gli venne offerta una cattedra di lingua italiana in Bretagna. Non esitò ad accettarla perchè sentiva anche il bisogno di quella pace campestre nella quale era stato allevato, e che gli mancava affatto nel movimento turbinoso della moderna babilonia. Ma il clima umido e triste della Bretagna accresceva la sua malinconia, e la vita solitaria gli faceva sentire doppiamente tutte le amarezze della nostalgìa. Non vide mai sorgere quel sole opaco dietro le nebbie, senza che il suo pensiero non lo trasportasse alla casa paterna; e la vedeva da lontano, illuminata dallo splendido sole d’Italia, e gli pareva di udire lo stormir delle fronde dei suoi boschetti, il pigolìo dei passeri al crepuscolo, credeva di respirare l’olezzo di quelle piante, e sentiva l’aria pura dei monti e del Piave, che gli sbatteva il viso, quando appariva il balcone della sua cameretta così piena di ricordi. La modesta stanza di Bretagna non aveva nulla che sorridesse alla memoria dell’emigrato; e i prospetti, l’aria, gli accenti, le esalazioni, tutto gli rammentava l’isolamento, e la lontananza della patria. I giorni delle feste solenni erano i più dolorosi. Tutti si raccoglievano lietamente alla mensa di famiglia, il povero emigrato viveva solo, colla memoria delle affettuose cure materne, delle abitudini domestiche del padre e del fratello, e della perduta compagnia degli amici. Bisognava cercare degli altri derelitti per fare insieme società. Conobbe allora i Ravelli, emigrati lombardi. La famigliuola si componeva del padre vedovo, del figlio Battistino, che fu ferito al Tonale difendendo quel passo alpino coi volontari, e di sua sorella Angelina, una buona ragazza di diciotto anni. Scambiavano fra loro le amarezze e i conforti comuni, dividevano i timori e le speranze, e quelle eterne illusioni degli esuli, sempre distrutte dagli avvenimenti, e sempre rinascenti dalle stesse rovine. Ogni primavera speravano il ritorno in patria per il prossimo autunno, ogni autunno per la ventura primavera; ma ogni volta che si credevano vicini al porto, una burrasca inaspettata li rigettava in alto mare. Tornato il cielo sereno, esaminavano l’orizzonte, e ad ogni nuvoletta lontana pronosticavano l’uragano che doveva sconvolgere l’Europa, far trionfare la libertà, e restituirli al loro paese; ma un venticello importuno rasserenava il cielo. Si lamentavano della indifferenza di tutte le nazioni per ciò che violava i loro diritti e il loro onore, vedevano in ogni piccolo alterco diplomatico un’offesa sanguinosa che rendeva indispensabile la guerra, aspettavano ansiosamente la dichiarazione desiderata; ma la pace si andava consolidando a loro dispetto, e l’esilio temporaneo diventava domicilio stabile degli emigrati. E così passavano gli anni, e intanto l’amicizia e l’amore fiorivano anche sulla terra straniera. Gervasio divenne intimo di casa Ravelli, fu il compagno inseparabile di Battistino, e non tardò a sentire per l’Angelina una profonda simpatia che a poco a poco si trasformò in reciproca affezione. Allora la primavera di Bretagna parve più bella ai giovani innamorati, che aprendo l’animo ai sentimenti e ai pensieri concordi, si creavano una nuova patria sul suolo straniero, la patria dell’amore, e così trovavano più ridenti quelle verdi campagne, più vaghi i fiori, meno fosco l’orizzonte, meno pallido il sole, e le notti azzurre e brillanti di stelle più belle delle notti italiane. Vivere insieme per amarsi sempre, e dimenticare tutto il resto, questa divenne l’unica aspirazione dei loro cuori. Dopo uno scambio di lettere colle rispettive famiglie in Italia, furono fidanzati; pochi mesi dopo si celebrò il matrimonio, e la terra di Bretagna parve un paradiso terrestre ai due sposi, nell’ebbrezza dell’amore soddisfatto. Passati dieci mesi venne alla luce un bel maschio, che per comune consenso dei due nonni fu battezzato col nome di Silvio, in segno di simpatia verso l’amico carbonaro, che fu prigioniero allo Spielberg, e di protesta contro il dominio straniero. Pareva che la felicità sorridesse pienamente alla nuova famiglia, quando una febbre insidiosa assalì la puerpera, e mise subito in dubbio ogni speranza. I sintomi più minacciosi si succedettero con terribile rapidità, e la malattia finì in pochi giorni con un lutto spaventoso. L’infelicissimo marito perdette la sua diletta compagna nel primo anno di matrimonio, il neonato perdette la madre nel primo mese di vita. Sotto il colpo inaspettato dell’improvvisa sventura, lontano dai cari parenti, fra il suocero e il cognato al pari di lui disperati, Gervasio risentì tutto il peso dell’esilio e dell’isolamento. La donna morta fu portata al cimitero colla sua candida veste di sposa; il bambino fu messo a balia; i Ravelli affranti dal dolore abbandonarono il paese, il povero esule rimase solo, fra una culla e una tomba, a piangere la sua cara compagna scomparsa;—solo senza patria, e senza famiglia!... V. Anche la famiglia Bonifazio si sentì colpita crudelmente dalla sventura del figlio. Alle lagrime dell’esule corrisposero da lontano le lagrime dei parenti, privi del conforto di stringere fra le loro braccia affettuose il povero orfanello e il padre desolato. Così l’esilio colpisce sempre da due parti; tanto chi resta, che chi si allontana soffre egualmente, senza il sollievo del reciproco conforto, senza l’amara consolazione di piangere assieme. Stefano guarito dalla sua ferita, andava spesso a Treviso, ove aveva molti amici. Un bel giorno girovagando per le strade della città, fu colpito dall’aspetto di una di quelle ragazze del popolo, tanto famose in tutto il Veneto per la rara bellezza dei lineamenti, per l’abbondanza dei capelli, la grazia della persona e l’eleganza del vestito. Si direbbero nate in mezzo al lusso d’uno splendido appartamento, e invece non sono che una curiosa aristocrazia della classe operaia, le contessine del popolo. Dove abbiano imparato a darsi quell’aspetto disinvolto, ed alzare quegli sguardi alteri di principesse, nessuno lo sa. Escono dalle povere catapecchie ove abitano, come da un palazzo signorile, scendono maestosamente dalle loro scalette di legno, come se fossero gli scalini del trono, raccogliendo, colla piccola mano coperta di guanti, e con flessuosa destrezza, gli svolazzi della veste, per lasciar vedere la elegante calzatura a talloni, portando con certa alterigia la testina graziosamente pettinata, e adorna d’un velo nero puntato con grandi spilloni. Camminano con franca andatura, portando l’ombrellino di seta, e il ventaglio, e vanno dalla sarta o dalla modista, ove dopo una lunga pratica giungono a guadagnare venti soldi per dodici ore di lavoro. La ragazza seguìta da Stefano, aveva sulla nuca una treccia di morbidi capelli color castagno, acconciata in molti giri, da destare l’invidia dei più avveduti parrucchieri che le offersero invano molto denaro per acquistarla, dicendole che una treccia posticcia avrebbe prodotto lo stesso effetto, e che i capelli crescendo più rigogliosi, essa poteva farsene una rendita lucrosa, senza che nessuno se ne accorgesse. Era la povera figlia d’un falegname, ma non volle mai tagliare i suoi capelli per nessun prezzo; quella era la sola sua ricchezza, la sua corona, e non l’avrebbe ceduta per tutto l’oro del mondo. Suo padre le dava torto, perchè i parrucchieri lo avevano sedotto colla promessa irresistibile di certe bottiglie d’un vino delizioso, che gli avevano fatto assaggiare in un bicchierino, e che gli era sembrato un balsamo di lunga vita. Ogni mattina la ragazza si metteva allo specchio coi capelli disciolti giù per le spalle, che arrivavano fino al ginocchio, e quella ricchezza la rendeva orgogliosa, perchè la più gran signora della città non poteva comperarli per nessun prezzo. Poi faceva colazione con due soldi di pane e latte, si vestiva con eleganza, e correva al suo magazzino. Lungo la strada tutti si voltavano a guardarla, ed essa era beata. Stefano non fece attenzione a quei capelli, che potevano anche essere posticci, ma fu sedotto dal sorriso degli occhi, dalla dolce espressione dei lineamenti, dalla bocca attraente, che indicava somma bontà e cuor contento, quantunque fosse un po’ troppo grande in proporzione delle altre linee del viso. La seguì parecchie volte dal magazzino alla casa, essa se ne avvide, e gli fece comprendere con uno sguardo che non disdegnava quell’omaggio, e che trovava il giovinotto di suo gusto. Egli non tardò molto ad esprimerle modestamente la sua rispettosa ammirazione, e le oneste intenzioni che lo animavano. Essa in principio si mostrò molto incredula, gli fece capire che era povera, e lo pregò di lasciarla in pace, di non voler renderla infelice per un capriccio. Stefano la rassicurò con solenni promesse, e così non tardarono a prendere la dolce abitudine di vedersi spesso, di passeggiare insieme in luoghi solitari, nella più cordiale intimità, coll’espansione di pensieri e sentimenti che sono il melodioso linguaggio dell’amore. L’affetto che i Bonifazio provavano pel figlio assente, pareva che volesse manifestarsi con doppie cure sul figlio vicino; l’indole soave e il carattere onesto del giovane lo rendevano degno della loro affezione. Egli non tardò molto a rivelare alla madre il suo amore per la Beppina, mostrandole il desiderio di farla sua moglie, e la buona madre predispose favorevolmente il marito. Il capitano Bonifazio, al contrario di molti padri, era sempre preoccupato dal timore che suo figlio potesse innamorarsi d’una signora. L’educazione delle ragazze nelle ricche famiglie cittadine gli metteva spavento, e diceva a sua moglie: —Se Stefano vorrà prender moglie, la nostra quiete sarà in pericolo. Che cosa faremo noi di una sposa cittadina colle nostre abitudini campagnuole? Vorrà essa adattarsi alla semplicità di questa vita? che cosa farà tutto il giorno alla villa? vorrà essa occuparsi delle cure domestiche recando qualche sollievo alle tue fatiche, quando la età avanzata ti farà sentire il bisogno di riposo? Avvezza alle visite oziose, ai teatri, agli spettacoli, alla società elegante, potrà essa sopportare senza noia la solitudine, le sciocchezze del maestro Zecchini, le asinaggini dei Pigna, padre e figlio? La povera Maddalena lo consolava facendogli osservare che la città era vicina, che i giovani avrebbero potuto fare una vita conforme ai loro gusti, e i vecchi si sarebbero dedicati ad allevare i bimbi, e a governare la casa, senza cambiare le abitudini di nessuno. Ma il capitano non era persuaso e pronosticava mille disturbi, in tal modo che quando Stefano gli annunciò il suo progetto, ne fu lietissimo, e volle subito vedere la ragazza. La Beppina avvertita in tempo di questa visita aveva messo in ordine la povera dimora, e li aspettava ansiosamente fingendo di lavorare, seduta davanti al balcone, adorno di alcuni vasi di fiori, che le erano stati regalati da Stefano. La visita fu breve, ma decisiva. Pareva che il capitano ne fosse più innamorato del figlio, tanto si mostrava entusiasta del soave sorriso di quel bel volto. Esso la trovò modesta e gentile, graziosa e intelligente, e ritornò a casa contento per darne l’annunzio a sua moglie, pronosticandole dei giorni felici, ed una vecchiaia tranquilla, con una figlia di più, la più cara e simpatica che si potesse mai desiderare, e diceva a Stefano: —Facciamo presto; a domani la domanda al padre, e quanto prima le nozze. E fu secondato in ogni suo desiderio. Al giorno seguente il falegname Morato non andò a bottega, e attese il capitano, dopo di essersi rasa la barba e vestito da festa, secondo gli ordini della figlia. All’ora fissata i Bonifazio furono esatti, e in poche parole si trovarono d’accordo. Alla cortese domanda del capitano, il Morato rispose: —Sono anni cattivi, siamo povera gente, mia figlia non ha nè dote, nè corredo.... —A questo ci pensiamo noi, soggiunse il capitano. Facciamo presto; io non vi domando altro, prima di tutto perchè non mi piacciono le cose lunghe, e poi perchè sono vecchio, e vorrei vedere un nipotino, prima di chiudere gli occhi per sempre. —Non parliamo di malinconie, gli rispose il falegname, con naturale buon senso. Siamo a vostra disposizione, riconoscenti dell’onore. Fissarono l’epoca delle nozze, il capitano baciò in fronte la Beppina, e i due giovani si mostrarono molto lieti degli accordi. Stefano scrisse al fratello, raccontandogli minutamente tutti i particolari del suo amore, vantandogli le buone qualità della sposa, senza nascondere la sua povertà. Poco tempo dopo arrivava dalla Francia una cassa pieni di arredi da donna con una lettera di Gervasio, nella quale egli si congratulava col fratello per il prossimo matrimonio, e gli faceva mille scuse se osava spedirgli il corredo della sua povera defunta, ancora nuovo, per l’immatura sua morte. «Non saprei farne un uso migliore, egli scriveva, la tua sposa non se ne offenda se la tratto fino da questo momento come sorella; fra fratelli che si amano quello che è dell’uno è anche dell’altro. Vivi felice in famiglia, intanto io pregherò il cielo che ci conceda di rivederci presto, per poter vivere tutti uniti in casa nostra, nella nostra patria, colla nostra famiglia, tutte cose preziose che ci vennero tolte dalla usurpazione straniera.» Al tempo fissato si fecero le nozze. Il capitano accompagnò Stefano a Treviso di buon mattino, e dopo la celebrazione del matrimonio, montarono in carrozza colla sposa e suo padre e tornarono alla villa. La buona Maddalena li aspettava sulla porta, Beppina si gettò nelle sue braccia. —Hai trovato la madre che ti mancava, disse alla nuora, baciandola in fronte. Dopo una breve refezione fra soli parenti, Stefano condusse la sposa a fare un giro pel parco. Avvezza al chiuso ambiente della sua cameretta in una casa vecchia di città, in una contrada di povera gente, le parve di passeggiare in paradiso. Attraverso le fronde passavano pochi raggi di sole, che segnavano degli sprazzi d’oro sulla sabbia dei viali. Il silenzio dei boschetti era rallegrato da qualche gorgheggio d’un capinero, accompagnato dal mormorio delle acque cadenti d’una cascatella sul lago. Dalle macchie di rose, dai caprifogli e dai gelsomini che si arrampicavano sui muri emanava un soave profumo che imbalsamava l’aria. La ricca vegetazione nel suo pieno vigore esalava degli aliti vitali, raccolti da tutte le forze unite della natura, dalla terra e dall’acqua, dalla luce, dalle foglie e dai fiori. Un’arcana voluttà serpeggiava nelle vene e inebbriava i sensi. Vagarono, ora bisbiglianti ed ora silenziosi, nella soave armonia delle commozioni e dei pensieri, sotto ai boschetti e sui prati di quell’incantevole giardino fino che udirono le campane dei villaggi vicini che suonavano il mezzogiorno. Era l’ora destinata al pranzo di famiglia coi parenti, e pochi amici. La stanza era adorna di fiori, la tavola apparecchiata con garbo, ma a quella mensa c’era un vuoto doloroso che ricordava la tristezza dell’esule lontano, gettava un velo di malinconia sulla gaiezza delle nozze, e faceva spuntare una lagrima sugli occhi della madre, mentre si atteggiava al sorriso. Tuttavia gli amici festeggiando gli sposi con ripetute libazioni fecero echeggiare un po’ d’allegria alla fine del pranzo. Il maestro Zecchini diventava loquace, papà Morato, volendo sostenersi con gravità, si teneva diritto con uno sforzo, e pareva diffidente delle sue gambe, il vecchio Pigna aveva due occhietti rossi e brillanti come rubini, suo figlio, con un sorriso immobile e costante, cogli occhi fissi, e due macchie rosse sulle guancie, mostrava il volto d’un ebete colla testa di legno. Dopo il caffè gli sposi presero congedo dai parenti e dagli ospiti e partirono per Venezia ove avevano fissato di passare i primi giorni del matrimonio. Ritornati in famiglia presero le abitudini regolari, e la giovane si mostrò degna della sua buona ventura. Affettuosa coi suoceri, gentile cogli amici, d’indole facile e allegra, si faceva amare da tutti. Stefano ne era più innamorato di prima, e le buone qualità che le aveva trovate gli facevano giudicare con indulgenza quei piccoli nonnulla che saltano fuori col tempo e colla intimità. L’amore è un vetro appannato attraverso il quale appariscono le figure piane come nelle ombre; il matrimonio è un cristallo trasparente che lascia vedere gli oggetti in rilievo, con tutti i loro pregi e difetti. Le belle qualità dell’animo, scoperte nella Beppina, compensarono Stefano della educazione incompleta, e la vista di quei capelli meravigliosi, che credeva prima un ornamento aggiunto alla natura, lo rese indulgente sull’ortografia e la grammatica, che mancavano alla sposa come il corredo. VI. Dopo un anno circa di matrimonio la Beppina diede alla luce una bella bimba, che somigliava alla mamma. Furono tutti contenti. La nonna ringiovaniva per fare la bambinaia, il nonno era beato che non fosse nato un maschio in quei tempi funesti, quando si richiedeva il sangue di nuove vittime per riscattare la patria. —Abbiamo già un nipote, nato in esilio, diceva il capitano, che un giorno dovrà fare il soldato, non sarà dunque mai al nostro fianco; questa bambina che è una vera delizia, sarà il sostegno della nostra vecchiaia. —E poi l’uomo è un asino! soggiungeva il maestro. Il capitano alzava le spalle indispettito, corrugava la fronte, faceva gli occhi severi, atteggiava la bocca all’ironia, e interrogava: —Se l’uomo è un asino, che cosa sono le donne?... che cosa sono le mogli, le figlie, le sorelle degli asini?... E il maestro rispondeva tranquillamente: —L’uomo è un asino, e le donne sono donne!... La storia ce lo insegna; essa ci parla di sovrani che furono belve, di guerrieri che furono eroi, e non dice che le loro mogli fossero nè bestie, nè eroine, erano donne. La donna non è simile all’uomo, sono gli uomini stessi che la giudicarono un essere inferiore, e fecero le leggi in conseguenza di tale giudizio.... ed anche in questo si mostrarono asini per eccellenza!... Il capitano gli voltava le spalle brontolando, e gli teneva il broncio fino all’ora della solita partita a tresette. Stefano era felice di vedere sua moglie ristabilita in salute, ed era soddisfatto della contentezza degli altri. E quando vedeva la sua Beppina allattare la neonata, la gli pareva una delle più belle madonne di Rafaello. La bimba fu battezzata col nome di Maria. Ma anche in seno d’una esistenza felice, Stefano non dimenticava mai i principii succhiati col latte, e sviluppati in tutta la loro forza dalla educazione paterna, dalle lotte del quarant’otto, e dai successivi avvenimenti della patria. Nessun galantuomo viveva indifferente alle faccende del giorno, nè si chiudeva in casa con sentimenti da egoista, abbandonando l’avvenire della patria alla fatalità del destino. Tutti i buoni Italiani apportavano la loro pietra, e apparecchiavano le fondamenta della futura nazione. Stefano andava a Treviso a vedere gli amici, e s’informava esattamente di tutto quello che veniva tentato per l’emancipazione del paese. Era il tempo dei Comitati secreti e del prestito di Mazzini. Come in tutte le parti soggette all’Austria, così anche a Treviso i patriotti corrispondevano segretamente cogli emigrati in Piemonte e in Francia, e apparecchiavano l’avvenire. La piccola Maria cominciava a camminar sola, correva incontro ai nonni, balbettava le prime parole, era la tenerezza di tutti. Venuto l’inverno la famiglia raccolta passava le sere nel salotto, ciarlando, giuocando alle carte e leggendo, la bambina dormiva tranquillamente nella sua cunetta di vimini, perchè la madre voleva tenersela sotto gli occhi fino all’ora di andare a letto, e allora se la portava in braccio, nella stanza, e la metteva nel suo letticino senza svegliarla. Se venivano gli amici facevano la partita alle carte e il capitano litigava col maestro. Maddalena cercava di mitigare le irritazioni, di giustificare gli errori, non si lamentava mai degli sbagli di Pigna che giuocava con lei, molto peggio del maestro col capitano; Stefano stava a guardarli, la Beppina lavorava nei vestitini della sua bimba. Quando erano soli il capitano giuocava agli scacchi con Stefano, o metteva in ordine i cartocci delle sementi, mentre suo figlio leggeva ad alta voce un buon libro, e le donne agucchiavano. Una sera di gennaio la pioggia cadeva a scrosci, il vento fischiava fra gli alberi, la famiglia era sola, raccolta nel tepore della stufa, quando si udì una scampanellata che indicava molta fretta. —Sarà il maestro Zecchini che si bagna, disse il capitano. Mosè corse ad aprire. Due sconosciuti domandarono se il signor Stefano Bonifazio era in casa. —Sì, signori, rispose il domestico, vengano avanti; e dopo di averli introdotti nell’atrio, domandò chi doveva annunziare. Uno di loro rispose: —Pregatelo di uscire un momento, abbiamo bisogno di dirgli una parola. Mosè entrò nel salotto col volto turbato, dicendo che c’erano di fuori due figure antipatiche che volevano parlare col signor Stefano. Stefano impallidì, il capitano se ne avvide e gli disse: —Andiamo a vedere. Uscirono insieme, lasciando le donne inquiete, nell’ansietà di un pensiero sospettoso. Erano due impiegati di Polizia, un commissario col suo assistente. Il primo mostrò l’ordine superiore, l’altro uscì a cercare le guardie che aspettavano dietro al cancello. Fecero una rigorosa perquisizione, misero sottosopra la casa, raccolsero varie lettere di Gervasio, dei documenti, delle carte varie, ne fecero un pacco e vi apposero il sigillo, raccolsero tutte le armi e ne fecero un fascio, poi intimarono l’arresto di Stefano. Ogni opposizione era vana. Il capitano frenava a stento lo sdegno che lo agitava. Le signore sulla porta del salotto, guardate a vista, supplicavano invano che a motivo della burrasca, aspettassero fino al mattino. Il commissario fu irremovibile, e intimò la partenza. Stefano corse a dare un bacio alla sua bambina, che dormiva tranquillamente, poi si gettò nelle braccia della moglie che svenne. La adagiarono sul canapè. Maddalena che voleva soccorrerla, non sapeva quello che si facesse; era fuori di sè, e barcollava. Il capitano cercava un’arma per fare un massacro, ma erano già tutte scomparse; le avevano portato fuori col pacco delle carte. Nella confusione generale, due sbirri presero Stefano sotto le braccia e lo trascinarono, seguiti dagli altri poliziotti, fino ad una vettura che aspettava a piccola distanza della casa. Lo fecero entrare nel calesse, tutti si collocarono nello stesso veicolo, chi dentro e chi fuori, e sferzati i cavalli partirono. In casa la desolazione e lo squallore erano succeduti alla pace d’un’ora prima. Beppina colle mani nei capelli, coricata sul canapè, chiamava il suo Stefano, mandando dei singhiozzi convulsi che parevano soffocarla. Maddalena in ginocchio se la stringeva al seno, piangendo dirottamente, il capitano col volto sconvolto, girava per la casa come un pazzo, senza sapere dove andava; Mosè lo seguiva col lume in mano senza parlare. Il primo a riprendere il dominio di sè stesso, fu il vecchio soldato, ma tutti i suoi ragionamenti riuscirono vani; nè la madre, nè la moglie, potevano consolarsi di tanta sventura; ascoltando gli scrosci della pioggia e i sibili del vento di quella orribile notte, pensavano ai patimenti fisici e morali del povero arrestato durante il viaggio, e poi negli orrori della prigione; conoscevano i processi lunghi e insidiosi dell’Austria, paventavano delle sue crudeltà; i genitori erano rimasti senza figlio, la moglie senza marito, la figlia senza padre! ogni felicità era scomparsa da quella casa, quella gente onesta e tranquilla non aveva diritto di amare il suo paese, nè di volerlo libero dagli stranieri, i quali si credevano in diritto di punire severamente i più nobili sentimenti della natura e dell’umana dignità. Quella notte tutti vegliarono, oppressi dall’angoscia, spaventati dall’avvenire. Il giorno seguente si sparse la notizia di molti arresti fatti nella stessa notte. Accorsero gli amici, ma nessun conforto poteva consolare quegli infelici caduti vittime di tale sventura. I prigionieri erano partiti per Mantova. Stefano fu gettato solo in una cella angusta, umida, oscura ed infetta, e pensava ai suoi cari, alla disperazione della moglie e della madre, all’afflizione del padre, alla bambina, alla casa, alle dolci abitudini domestiche. Quel cambiamento repentino di vita, quel rapido trapasso dalle gioie serene della famiglia, alle torbide agitazioni d’un processo pericoloso, dall’aria profumata d’un parco all’afa nauseabonda del carcere, era un colpo troppo violento per restare senza conseguenze sopra un giovane felice ed avvezzo all’aria libera dei campi. Quando i patemi d’animo, che lacerano il cuore, sono accompagnati da tutte le angustie del corpo, la natura umana soccombe. Dopo un accesso violento di disperazione, di furore e di lagrime, Stefano cadde sfinito sul fetido pagliericcio della prigione, e gli parve di essere stato sepolto vivo. Pensava alla vita passata come ad un altro mondo, abitato in un’epoca lontana, prima d’essere precipitato in fondo d’un precipizio. Provava una sete ardente accompagnata da affanni e da nausea. Fu trascinato davanti il giudice inquisitore colla febbre; le arterie delle tempie gli battevano come due martelli. Non intendeva le domande che gli venivano indirizzate, rispondeva con sdegnoso disprezzo, con pungente ironia, gli pareva di trovarsi fra le unghie adunche d’una belva feroce che stesse per divorarlo. Ritornato nella sordida cella fu visitato dal medico che lo trovò coi lineamenti immobili, colla lingua e i denti fuliginosi, in una prostrazione di forze completa; rispondeva lentamente, con parole insensate. Il medico conobbe i primi sintomi d’una febbre tifoide, e ordinò che fosse subito trasportato all’infermeria. Il povero infermo non se ne avvide nemmeno. Gli comparvero sul volto delle macchie rosse che sparivano sotto la pressione delle dita. Passò più d’un mese in questo stato, poi cominciò a peggiorare, e aveva perduto i sensi da qualche giorno, quando alle ripetute istanze della famiglia fu concesso di visitarlo. I parenti partirono subito per Mantova. Il giorno dopo del loro arrivo, il capitano colla faccia sparuta, ma fiera, conduceva la moglie e la nuora, che parevano uscite da una tomba, e camminavano sostenendosi reciprocamente, attraverso gli squallidi e infetti corridoi della prigione, sotto la scorta d’un attuario e d’un secondino. Il malato non conobbe nessuno, i poveri parenti non videro che una faccia cadaverica, coperta da un sudore viscido, con un respiro affannoso, che era il solo segnale di vita che gli restava. La Beppina cadde su quel sordido pagliericcio, perdendo i sensi, ed anche la povera madre stava per venir meno. Uscirono dalla infermeria, Maddalena sostenuta dal marito, e la Beppina trasportata da due infermieri. Adagiarono le misere donne in una carrozza che le condusse all’albergo. Chiamato subito un medico, la Maddalena fece uno sforzo sovrumano per assistere la nuora, reggendosi appena sulle gambe. Beppina era incinta di quattro mesi. Quando giunse alla villa il permesso di visitare il moribondo, i genitori pronti a partire, avevano fatto una vivissima opposizione al viaggio della nuora, della quale conoscevano la condizione pericolosa, peggiorata dalla disperazione per la prigionia del marito, e dalle gravi notizie sulla sua malattia, che erano state comunicate da Mantova. Ma ogni resistenza fu vana; non valsero nè le ragioni persuasive del medico, nè i più affettuosi consigli dei suoceri, essa si irritava talmente contro chiunque volesse impedirle di rivedere il suo Stefano, che in fine parve meno pericoloso il condurla con loro che il lasciarla a casa in preda della disperazione. Partì in uno stato di grande debolezza, con violente palpitazioni di cuore, ma si sostenne durante il viaggio a forza d’energia, la quale la resse fino alla porta dell’infermeria, ma la abbandonò totalmente all’aspetto dell’ammalato, ridotto in tale stato che era appena riconoscibile. Coricata nel letto dell’albergo, all’arrivo del medico la misera donna aveva già abortito, e la violenta emorragia cominciava a svenarla. Non le mancarono le cure più sollecite ed affettuose, ma il medico non dissimulava la gravità del pericolo, e diceva al capitano: —Caro signore, le carceri politiche hanno ucciso più donne che prigionieri. Questi resistono con vigore alle prove tremende, perchè sono animati da un altissimo sentimento che sostiene il loro coraggio, ma le madri e le spose soccombono colle viscere straziate dalla violenza che le privò dei figli e dei mariti. Nella condizione di vostra nuora colpita atrocemente nel giorno dell’arresto, quest’ultima scossa terribile fu un colpo mortale. E pur troppo riuscirono vani tutti i tentativi fatti per salvarla. L’anemia progrediente andò esaurendo d’ora in ora tutte le forze vitali, e alfine dovette soccombere. L’ultima mattina la povera inferma, sentendo la morte imminente, volle baciare i suoi cari, raccomandò caldamente all’affetto della suocera la sua piccola Maria, mostrò il più vivo desiderio di ricongiungersi al suo Stefano, in una vita di oltre tomba, e rivolti al cielo gli occhi languenti spirò. Il volto della povera morta pareva di marmo greco, il suo pallore risaltava maggiormente sulle morbide treccie di capelli che furono il suo diadema di sposa, e la sua corona di martire. Pochi giorni dopo moriva anche Stefano nel Castello di San Giorgio, e così sfuggiva al patibolo di Belfiore ove sarebbe perito con tanti eroi della patria. Il vecchio carbonaro accompagnava al sepolcro i due figli morti alla distanza di pochi giorni, e li faceva collocare uno presso dell’altro, piangendo di dolore, fremendo di sdegno, e invocando dal cielo la pace ai defunti, il castigo di Dio sui despoti della terra; e la libertà alle nazioni, che hanno saputo guadagnarsela con tanti sacrifizi di vittime umane. VII. La notizia di questa catastrofe colpì tutta Italia come una calamità nazionale; si sparse dovunque, ridestò l’odio degli esuli che soffrivano lontani dal focolare domestico, portò la desolazione a Treviso e in Brianza, ove i parenti e gli amici appresero con orrore la rapida morte dei loro cari, che parve a tutti lo schianto di due fiori prodotto dalla violenza d’un uragano. A tale sventura si aggiunsero le relazioni dell’infame processo, i patimenti di chi languiva nel carcere, i supplizi che lo seguirono, e tutto insieme accumulava le maledizioni degli oppressi sugli oppressori. I due poveri vecchi che in così breve spazio di tempo avevano perduto i due diletti figliuoli involati violentemente alla pace domestica, compiute le onoranze funebri, ritornarono piangenti alla loro casa, ove un’orfanella innocente li aspettava colle braccia protese invocando il ritorno della sua buona mamma, e del babbo. La nonna Maddalena dovette assumere gli uffici di madre, e dissimulare la grave disgrazia all’infelice bambina, essa che aveva tanto bisogno di piangere. Il capitano scriveva lettere di fuoco al figlio superstite, perchè gli esuli si agitassero anche in Francia, e spingessero quella nazione a non tollerare più oltre in Italia la infamia della dominazione straniera, e aiutassero gli schiavi ad infrangere quelle catene che li rendeva impotenti alla rivendicazione dei loro diritti. Da ogni parte venivano voci di speranza, ma il frutto non era maturo. Intanto le disgrazie accasciavano i vecchi. Il capitano curvava la schiena sotto il peso degli anni aggravati dal dolore. Soffriva delle vertigini che lo esponevano a cadere, se non trovava un sostegno. Il maestro Zecchini lo consigliava a consultare un medico, il Bonifazio alzava le spalle con dispetto e non gli dava retta. —Avete bisogno d’un salasso, insisteva a dirgli il maestro. —Il salasso bisogna farlo all’esercito austriaco, abbondante fino allo svenimento, e allora sarò sicuro di guarire. La piccola Maria cresceva in salute ed in grazia, sotto quegli alberi maestosi che colle loro ombre avevano protetta l’infanzia di suo padre, ed avevano consolato i giorni più lieti della breve esistenza di sua madre. La bimba giuocava coi fanciulli della sua età, e coglieva fiori e farfalle intorno a quei viali tortuosi che erano stati percorsi dai suoi genitori nel tempo felice. Il maestro Zecchini le insegnava a leggere sui vecchi libri che avevano servito al suo babbo ed allo zio Gervasio; ma quando la bambina si rifuggiava sui ginocchi della nonna, mostrandosi annoiata della monotona cantilena del maestro, implorando la grazia di ritornare ai suoi diletti infantili, la buona donna la liberava subito dal peso della lezione, e la rimandava libera ai boschetti del parco. —A che cosa serve l’istruzione per chi non ha patria? essa diceva a Zecchini, a che cosa hanno servito tanti studi al mio povero Stefano? se fosse stato un ignorante, sarebbe ancora con noi. —È vero! pur troppo è vero! rispondeva il maestro, il diritto, la ragione, la scienza sono impotenti contro la forza brutale. Contro le baionette non valgono che i cannoni, e il nostro popolo subisce la dura tirannide senza rivoltarsi.—L’uomo è un asino!... condotto colla cavezza e spinto col bastone, cammina rassegnato da vera bestia da soma.—E dopo qualche sospiro, riprendeva:—Tuttavia l’istruzione è l’unica arma che ci resta. Bisogna istruirsi per saper distinguere il male dal bene, l’intelligenza e la coltura aprono tutte le strade, è un dovere di tutti istruirsi; non solo gli uomini, ma anche le donne. Avete torto di incoraggiare la bimba a trascurare lo studio.... —Che sia felice almeno nella infanzia, interrompeva la Maddalena; chi sa a quale sorte è riservata nell’avvenire!... i pochi giorni felici sono tutti guadagnati. Così la bambina, secondata dalla nonna, cresceva ignorante, ma bella come la sua mamma, della quale aveva i capelli abbondanti, il sorriso degli occhi, e la bocca un po’ grande, ma affettuosa. Essa, che adorava la nonna, si prestava però volentieri per assisterla nelle faccende domestiche, le piaceva di stare in cucina ad ammannire le vivande, imparava prontamente ad apparecchiare a condire ed a cuocere le varie pietanze, e a sorvegliare i fornelli. Faceva grande attenzione alle faccende della casa, voleva che la nonna la lasciasse fare da sola, era contentissima quando riusciva bene, e che il nonno le faceva un elogio, per qualche manicaretto elaborato dalle sue tenere mani. E imparò presto a cucire, a rammendare la biancheria, a inamidarla e stirarla a dovere. Faceva bene la pulizia delle camere, metteva tutto in assetto con attenzione, le piaceva l’ordine in ogni cosa. Si annoiava soltanto quando le mettevano in mano un libro, o la facevano scrivere; allora sbadigliava, faceva delle smorfiette, e si rassegnava soltanto per contentare il nonno, che non divedeva l’opinione di sua moglie sull’istruzione, ed esigeva questo sacrifizio come un dovere indispensabile. La nonna difendeva sempre Maria, che non aveva voglia di studiare. —Lasciala in pace, diceva a suo marito, lascia che sia felice, le donne più felici sono quelle che sanno meno. —Non dir sciocchezze... rispondeva il capitano, una donna ignorante è una vera disgrazia!... il maestro ha ragione. —Il maestro ha torto. Se l’uomo è un asino, come egli asserisce, non è necessario che la donna sia sapiente.... —Tanto gli uomini che le donne devono distinguersi dai bruti colla istruzione. Gli asini tirano il carretto carico, e i padroni li fanno camminare a legnate; se gli asini fossero istrutti caccierebbero a calci il padrone. E così dicendo se ne andava maneggiando il bastone come fosse una sciabola, usciva nel parco borbottando fra i denti le più tremende minaccie contro il governo, abbatteva furiosamente le capsule dei papaveri per dare uno sfogo a quella collera impotente, che avrebbe voluto tagliare in quel modo le teste dei nemici. La bambina gettava i libri, e correva in fondo al parco per sfuggire alla seccatura dello studio, ed alle prediche del nonno. Così passarono alcuni anni fino che un carbonaro di Bologna, entrato nell’Assemblea nazionale francese, e poi salito sul trono imperiale dello zio, alzava lo stendardo delle nazionalità, promettendo l’emancipazione d’Italia, alla quale aveva giurato di contribuire, facendo parte della setta italiana nella vendita bolognese nel 1831. È facile immaginare l’entusiasmo del capitano Bonifazio quando lesse il Proclama di Napoleone III che voleva l’Italia «libera dalle Alpi all’Adriatico.» Il carbonaro trivigiano andava ripetendo ad alta voce, e in uno stato di esaltazione, alcune frasi che lo avevano colpito: «Andiamo su questa terra classica, illustrata da tante vittorie, a ritrovare le traccie dei nostri padri.» Tutta la sua gioventù ritornava a rifiorire, tutte le aspirazioni della sua vita di cospiratore si avvicinavano al trionfo, tutto l’odio accumulato nel suo petto andava a sfogarsi colla vendetta del figlio e della nuora uccisi collo stesso colpo dall’aborrito governo austriaco. Il vecchio soldato di Napoleone I si sentiva ringagliardire alle parole di Napoleone III, e la spina dorsale curvata sotto il peso degli anni dolorosi, si rialzava rigogliosa alla scossa elettrica scoppiettante nelle solenni promesse. Egli era vicino ai settantatrè anni ma gli pareva di essere ancora abbastanza robusto da poter portare un fucile, e intanto nell’impazienza d’un primo assalto, egli percorreva le camere a passo di marcia, armato del suo bastone, la sola arma che gli era stata lasciata dall’Austria, e si arrestava davanti i ritratti di Napoleone I, facendogli il saluto militare. All’arrivo del maestro si gettò nelle sue braccia; questi fu sorpreso e beato di tanta intimità, che non aveva mai ottenuta nei lunghi anni della loro relazione, passati brontolando sopra ogni argomento. La vecchia Maddalena temeva che suo marito diventasse matto in quello stato d’orgasmo e di esaltazione irrefrenabile. Il vecchio Pigna, tenendo per mano il figlio di suo figlio, un bambino di otto anni, lo condusse per la prima volta in casa Bonifazio a vedere i quadri delle battaglie di Napoleone, per fargli capire che cosa fosse la guerra. Il capitano gli dava le spiegazioni necessarie. Il piccolo Andrea col naso in aria, gli occhi sbalorditi, la bocca aperta, guardava ora le battaglie ed ora il capitano, ed aveva più paura di costui, gesticolante con furore, che degli eserciti combattenti nei quadri fra i morti e i feriti. La Maria venne a prendere per mano il piccolo Andrea, che era circa della sua età, e lo condusse in giardino per liberarlo dagli assalti del nonno. Il vecchio Pigna si fregava le mani in segno di giubilo, pensando che il nuovo governo avrebbe diminuite le imposte e il prezzo del sale, sperando che la guerra avrebbe fatto aumentare il valore del frumento, dell’avena, del vino, del fieno, come al tempo della guerra in Crimea. Ogni momento entrava qualche nuovo curioso per aver notizie della Lombardia. Il capitano non salutava nessuno, ma gettava in aria il berretto, e lo metteva in cima al bastone, alzandolo in segno di tripudio, e diceva a Zecchini: —È venuto il tempo del salasso! Assicurava tutti dell’imminente liberazione; ed esclamava: —L’Austria è finita!.... fra poco saremo a Vienna!... Evviva i Napoleonidi! Al primo indizio di guerra Gervasio aveva fatto i bauli, e rinunziato alla cattedra, per ritornare in patria. Ma prima di lasciare la Bretagna, il padre ed il figlio erano andati a fare l’ultima visita al cimitero, e genuflessi sulla tomba della moglie e della madre, l’esule sentiva che l’affetto e il dolore ci fanno mettere le radici anche nella terra straniera, e non poteva staccarsi da quel mesto soggiorno senza lasciarvi un lembo del cuore. La povera defunta restava sola e non avrebbe più l’omaggio delle lagrime e dei fiori dei suoi superstiti. Pei morti sulla terra straniera, il giorno della liberazione della patria, l’esilio diventa isolamento. I parenti, gli amici, i compagni ritornano al loro paese, ed essi rimangono affatto soli. Gervasio e Silvio partirono piangendo, e deplorando di non poter portare con loro le ceneri sacre della loro povera morta. Erano anche dolenti di non poter rientrare in patria colle armi alla mano, ma il padre era rimasto storpio per la ferita del 48, e il figlio aveva appena otto anni. Il reduce difensore di Venezia anelava ardentemente di riabbracciare i vecchi genitori, di consolarli colla presentazione di suo figlio, che avrebbe occupato il posto del povero Stefano, e anelava ansiosamente di rimettere il piede nell’eroica città, alla quale aveva consacrata la vita, e della quale dipingeva gl’incanti e il prestigio al figliuolo che stava estatico ad ascoltarlo. Attraversando la Savoja gli pareva che le Alpi si fossero moltiplicate per ritardare il suo ritorno. Finalmente giunsero a Torino e lo trovarono in festa per la battaglia di Magenta che aveva aperta la porta della Lombardia. Visitarono la capitale del Piemonte con rispettosa riconoscenza, come il tempio santo della rigenerazione nazionale. Il 9 giugno, Gervasio scriveva a suo padre: «Jeri siamo entrati a Milano, dopo gli eserciti alleati che accompagnarono il re e l’imperatore, i quali furono accolti con indescrivibile entusiasmo dalla popolazione esultante. Silvio è felice di trovarsi in Italia, e desidera vivamente di abbracciare i suoi nonni; domani visiteremo quelli di Brianza, e in breve tempo saremo in seno della famiglia, per non dividerci mai più. E questo pensiero mi consola in modo tale da farmi dimenticare molti dolori sofferti nella troppo lunga lontananza.» Poi furono interrotte le comunicazioni, e non corsero più nè le lettere nè le notizie stampate. Il 24 giugno nella villa Bonifazio si udiva il rombo lontano del cannone. Tutti ascoltavano in silenzio, il capitano era in uno stato di esaltazione eccessiva, fremeva d’essere lontano dal combattimento, si agitava convulso all’idea della vicina liberazione, che gli rappresentava il trionfo delle sue idee di patriotta, il meritato compenso dei pericoli di cospiratore, la vendetta dei figli perduti, la gioia di rivedere il suo primogenito, lontano da tanti anni, e di conoscere alfine il nipote, che continuava la discendenza mascolina della famiglia. Maddalena sospirava fra le speranze consolanti e le apprensioni dolorose, pensando alla gioia di abbracciare il figlio e il nipote, e palpitando per le nuove vittime della guerra. Maria girava pel parco col suo amico Andrea Pigna, e i due ragazzi inconsci del solenne momento si trastullavano coi giuochi infantili. Il giorno seguente giunse la notizia della battaglia di Solferino. Il maestro Zecchini ritornò da Treviso con relazioni confuse, che lasciavano incerti i risultati. Il capitano montò sulle furie e lo coperse d’improperi, ma il povero diavolo aveva fatto la pelle dura, dopo la lunga abitudine col vicino. Maddalena, come al solito, cercava di metter pace, ma questa volta i suoi tentativi riuscivano vani, suo marito si esaltava sempre più e non voleva ammettere altro che vittorie e trionfi d’Italia e Francesi, e sole disfatte d’Austriaci. Più tardi giunsero alcuni particolari precisi. La battaglia era stata micidiale da ogni parte, il furore del cielo s’era aggiunto al valore degli alleati, e dopo la strage guerresca l’uragano aveva costretto gli Austriaci alla ritirata. —Dunque fu una vittoria decisiva, esclamava il capitano, adesso i nostri devono girare le fortezze, ed entrare francamente nel Veneto; fra due o tre giorni saranno a Treviso!... E il maestro si arrischiava di rispondere: —Taluno, che si pretende bene informato, asserisce che i nostri non si muovono, e che l’Austria riceve rinforzi. —Baie! baie! urlava il capitano, baie fatte spargere apposta dal governo per persuadere i credenzoni e gli sciocchi.... —Ma a Treviso il governo non si muove, e a Venezia si aspettò invano l’arrivo delle flotte riunite... —Mi pare che siate troppo soddisfatto!... —Anzi al contrario sono dispiacentissimo, ma.... —Non ci devono essere dei ma!... nè ci possono essere altri dubbi, altre reticenze e incertezze che quelle dei nemici della patria... e delle spie!.... Maddalena volgeva gli occhi supplichevoli verso il maestro per farlo tacere, ed egli che era sempre innamorato di quella santa donna, sopportava in pace le ingiurie, abbassava la testa, e si rassegnava al silenzio. Il capitano dava un gran pugno sul tavolo e usciva inviperito, per correre in traccia di più consolanti notizie. Ma camminava barcollando sorpreso dalle solite vertigini. Frattanto la buona Maddalena metteva in assetto le camere destinate al suo Gervasio, e a Silvio, che amava tanto senza averlo veduto mai altro che in fotografia, e raccoglieva con materna sollecitudine tutte quelle cose che potevano tornare gradite ad entrambi, per la memoria del passato e le tradizioni di famiglia. Il vecchio Mosè la secondava del suo meglio, e contemplando i ritratti di Gervasio e di Silvio si commoveva al pensiero di vederli giungere al cancello, incontrati dai genitori e dai parenti, fra il giubilo degli amici, dei concittadini, di tutti coloro che amavano e stimavano Gervasio, del quale gli chiedevano sempre le nuove. Passarono alcuni giorni nell’incertezza, fino che giunse la notizia dell’armistizio. La Maddalena pregò il maestro e tutti di casa di nascondere la brutta novità per non esacerbare i nervi di suo marito, ed anche colla speranza che fosse una delle tante menzogne che circolavano in quei giorni, e non avevano alcun fondamento. Il capitano inquieto di quel silenzio uscì per cercare delle notizie, ma appena giunto al cancello vide un ragazzetto che gli veniva incontro con un viglietto. Lo aperse rapidamente. Lo scritto gli veniva da un amico fidato, e conteneva queste poche parole: «Hanno firmata la pace. Il Veneto resta all’Austria.» —Tradimento!...—urlò il capitano. Fece due passi, si fermò, voleva gridare ancora tradimento ma non riuscì che a balbettare poche sillabe interrotte. Alzò le braccia, e parve che cercasse d’intorno un sostegno che gli mancò, era barcollante, stramazzò a terra come se fosse colpito da un fulmine, battendo la testa sul pavimento. Il ragazzetto spaventato corse in tutta fretta a chiamar gente. Mosè si precipitò sul padrone, e mentre cercava di fargli riprendere i sensi, bagnandogli la fronte e ripetendo delle frizioni coll’aceto, gli altri domestici accorsero in cerca del medico, il quale non tardò a comparire. Il polso non batteva più, gli mise una mano sul cuore.... il capitano era morto. La violenta commozione gli aveva fatto salire il sangue al cervello; l’apoplessia, e il colpo ricevuto alla testa lo avevano ucciso. Gervasio aspettava il momento di passare il Mincio, quando ricevette la triste notizia. La pace di Villafranca che lo privava della patria, gli aveva rapito il padre. Maddalena che attendeva da un giorno all’altro il figlio e il nipote, perdette anche il marito; e si trovò isolata nel dolore, con una bambina, che le ricordava le passate sventure. Sono disinganni che vanno fino allo spasimo e al delirio. E non era la sola famiglia Bonifazio la vittima del prolungato dominio straniero, ma centinaia di famiglie venete restavano separate dai figli; e molte rimasero senza patria e senza figli, i quali erano morti sul campo di battaglia, difendendo l’indipendenza del loro paese. Furono giorni di lutto universale, da far disperare della libertà e della vita, se l’incrollabile fermezza degli Italiani non li avesse sostenuti in mezzo a tante minaccie, davanti a tanti pericoli, col voto costante di lottare sempre, senza contarsi, contro tutti, fino che fosse raggiunto lo scopo. Il maestro Zecchini tentò di consolare il profondo cordoglio della vedova, divenne la provvidenza della famiglia, e il tutore della bambina. Si occupò dei funerali del capitano, che riuscirono decorosi, dimenticò tutti i rabbuffi di lui, per non ricordarsi che delle buone qualità del vicino, faceva l’elogio del morto, con tutti gli amici e conoscenti, come si fa sempre in tutte le iscrizioni e in tutti i discorsi funebri. La nonna Maddalena e Maria rimasero sole in quella casa, che aveva tutto sacrificato pel paese, e il cómpito della povera vedova le era chiaramente definito: allevare Maria, conservare la modesta sostanza al figlio e ai due nipoti; e dato sfogo al dolore colle lagrime, dovette alfine rassegnarsi al destino, e si accinse con coraggio a fare il suo dovere. Il maestro Zecchini la consigliava di collocare la fanciulla in un buon collegio per educarla secondo la sua condizione, o almeno di mandarla in una buona scuola in città, ma la Maddalena vi si rifiutò recisamente. —Le donne, essa diceva, basta che sieno buone padrone di casa. Il maestro tentennava la testa, e le rispondeva: —No, cara signora, questo non basta; adesso si esige di più anche dalle donne, destinate alla vita sociale. Maria avrà una buona dote, può fare un buon matrimonio, e non deve restare ignorante. —Io non soffrirò mai che Maria si allontani da casa, voglio averla sempre sotto gli occhi, non devo abbandonarla, nè essere abbandonata dalla sola creatura che mi resta.... —Ma qui in campagna, senza istruzione, non potrà sposare che un uomo al di sotto della sua condizione.... —Purchè sia felice che importa?.... credete che in città sarebbe più felice?... Io ho vissuto sempre in campagna, e non avrebbe mancato nulla alla mia felicità senza le disgrazie della politica.... —Ma se un giorno la stessa Maria vi facesse il rimprovero di averla privata d’educazione, come potreste consolarvi di questa accusa?... —Non lo farà mai! Caro maestro, non si rimpiange quello che non si conosce.... —Domando scusa. Io non conosco i milioni, eppure deploro continuamente d’esserne privo. Quante belle cose avrei fatto, se fossi stato milionario.... —Credete che i milioni vi avrebbero reso felice? v’ingannate. Maria sarà felice, senza essere tanto ricca. Ci penso io, ve lo prometto, io saprò farne un’eccellente massaia; e suo marito, e i suoi figli saranno bene contenti d’averla per moglie e per madre. —Lo voglia il cielo, ma non sono di questa opinione. Farete di Maria una brava massaia, ma sarà una donna incompleta.... —Nulla è perfetto sulla terra! concludeva la Maddalena. E così andavano discutendo sovente fra loro, e pareva destino che il migliore amico di casa Bonifazio fosse sempre in contradizione prima col marito e poi colla moglie, che non potevano star senza di lui, trovandosi continuamente discordi. Ma se le cure per la bambina erano incessanti ed affettuose, le cure del giardino e del parco erano totalmente abbandonate. Maddalena da brava padrona di casa amava il risparmio, e giudicava il lusso contrario all’economia, non rifiutava mai di fare le spese pei campi che aumentano la rendita, ma le ripugnava di spendere pel giardino e pel parco. Preferiva occuparsi dell’orto che forniva la cucina e la mensa di eccellenti prodotti, trascurava la coltura delle serre e dei fiori che le sembravano superflui. E al posto delle piante rare dietro le invetriate faceva distendere al sole le reste delle cipolle e dell’aglio; in luogo dei vasi di gerani, e di viole a ciocche che il capitano esponeva alle finestre, essa vi metteva le zucche. Si compiaceva di avere dei bei sedani bianchi, delle rape dolci, dei cavoli giganti, dei poponi profumati e saporiti. Il resto lo confidava alla natura, e lasciava tutte le piante ornamentali in piena libertà. Ma chi credesse rovinato il parco sarebbe in errore, esso non aveva fatto che cambiare di aspetto, acquistando, dall’assoluto abbandono, una bellezza artistica senza pari. Gli alberi che non furono più tormentati dal coltello e dalla forbice che limitavano la loro espansione, si erano vendicati della passata disciplina gettandosi con pieno vigore ad ogni eccesso di sfrenata vegetazione, gli arbusti avevano invase le strade, le sementi cadute da tutte le piante avevano germogliato in un caos indescrivibile che presentava l’aspetto d’una foresta vergine dove le bignonie, le edere, le clematidi, e tutte le ampelidee si arrampicavano sugli alberi e ricadevano in festoni. I fiori moltiplicandosi senza freno erano usciti dalle aiuole, avevano invaso il prato e i viali, crescevano confusamente, e fiorivano in abbondanza nell’anarchia. I rosai che non furono mai regolati da nessun freno, erano saliti sulle piante più robuste, andavano a cercare il sole fuori dei rami del loro tutore, e fiorivano in alto ricadendo pel loro peso naturale in nappe e frangie fiorite come se ne vedono sulle scene del teatro in qualche ballo fantastico. I venti e gli uragani scuotendo violentemente tutte le fronde avevano compiuta l’opera della natura, infrante le cime di qualche abete, lacerate alcune piante antiche, e data l’ultima pennellata al quadro stupendo. Per certi viali non si passava più, ma in compenso erano sorti dei boschetti rigogliosi, con tutto il vigore della natura indipendente, in un terreno divenuto fertilissimo dal terriccio prodotto da vari strati di foglie cadute e marcite al posto, e si formarono delle macchie con viluppi inestricabili di rami di varie piante, con foglie, fiori e sementi della più bizzarra e capricciosa complicazione, che formavano cupole e pergolati che la più strana fantasia architettonica non avrebbe saputo immaginare. In cambio delle strade a curve studiate c’erano dei sentieri formati naturalmente dal passaggio dei contadini che andavano a falciare il fieno, o attraversavano il parco per altri motivi; i padroni, gli amici, i domestici passando sempre sulle stesse traccie si formava la nuova strada. Maria andava ad appiattarsi sotto quelle ombre, e vi si faceva dei nidi fra i rami, per riposarsi in compagnia d’Argo, un enorme cane di Terranuova, più grande di lei, dal quale era amata colla tenera affezione d’un protettore formidabile, che secondava tutti i suoi capricci, intendeva le sue parole, le serviva di morbido origliere, le lavava il viso colla lingua, e la avrebbe difesa validamente da chiunque le si fosse avvicinato senza il suo permesso. Maria e il suo cane passavano delle ore deliziose in quei nascondigli, dormivano, rosicchiavano biscotti, giuocavano insieme, e talvolta si udiva lo scroscio cristallino di risa della fanciulla, eccitato da qualche ghiribizzo del suo fedele compagno. La nonna li lasciava in pace malgrado le censure del maestro Zecchini, il quale odiava quel cane, chè ora gli rubava il berretto per portarlo in giardino, ora gli posava le zampe sporche da fango sui calzoni nuovi, ora tornando dal bagno che aveva fatto nel laghetto andava ad asciugarsi il pelo al suo vestito. Ma la ricreazione della fanciulla non durava tutto il giorno, ed era sovente un meritato compenso alle ore impiegate nel disimpegno delle cure domestiche, delle quali diventava sempre più esperta. Dopo ammannita una vivanda, apparecchiato il pranzo, e messa in ordine la biancheria, fatte le mende, stirato il bucato, la nonna lasciava Maria in libertà, Argo saltava su dal suo giaciglio, abbaiando in segno di contentezza, e i due amici si mettevano a correre per il parco, entravano nel bosco, e sparivano. VIII. Così passavano i giorni, i mesi, gli anni, senza avvenimenti, in una vita semplice, e relativamente felice. Maria diventava una bella fanciulla, somigliava sempre più alla sua povera mamma, cresceva sana e rigogliosa come le piante del parco. La nonna diventava sempre più vecchia, nei suoi capelli grigi andavano crescendo i fili d’argento, qualche dente spariva dalla bocca, gli occhi le si offuscavano, e già non poteva più lavorare senza occhiali, le prime rughe increspavano la pelle delle tempie. Il vecchio Mosè dopo la morte del capitano non stava più bene, era come una marionetta alla quale si fossero rotti dei fili che la fanno muovere, egli che non aveva altra volontà che quella del padrone, pareva istupidito dopo la partenza della sua guida. Aveva perduto in gran parte la vista e la memoria, era divenuto sordo e si accasciava sempre più. Nella sua ultima malattia venne assistito dalle padrone come da due sorelle o da due figlie. La Maddalena insegnava alla Maria come si devono soccorrere i malati, con affezione, con intelligenza, in silenzio, senza far rumori intorno al letto. La fanciulla aveva imparato a fare un brodo speciale per quello stomaco debole, gli alzava la testa con delicata attenzione, lo aiutava a cibarsi, gli somministrava esattamente i rimedi prescritti dal medico. Dopo lunghe sofferenze, consolate dalle cure assidue e dall’affetto delle signore, il povero vecchio morì benedicendo la casa nella quale era vissuto tanti anni onesto e laborioso, benedicendo le sue padrone che amava teneramente, e lasciando un addio cordiale al suo Gervasio e a Silvio, che si doleva di non aver veduti prima di morire, ma profetizzava che sarebbero ritornati presto alla loro casa, in seno della madre affettuosa. E pronunziò queste parole poco prima di morire, quantunque in fondo non ci credesse gran fatto, ma per finire la vita con un’ultima consolazione e un augurio alla sua buona padrona. E morì povero, avendo sempre soccorso i parenti col frutto delle sue fatiche, senza aver mai abusato della fiducia illimitata dei padroni. Fu pianto come un fratello, ed ebbe dalla famiglia, che aveva servita fedelmente per tanti anni, gli onori dei funerali e del sepolcro, come se fosse stato uno stretto parente. Quando il maestro Zecchini, dopo di averlo accompagnato all’ultima dimora, fu di ritorno in casa Bonifazio, per rendere conto della sua mesta missione, la signora Maddalena asciugandosi gli occhi gli disse: —Caro maestro, adesso tocca a voi di trovarci chi deve sostituirlo.... —È impossibile!... le rispose il maestro; quegli uomini non si sostituiscono più. Non ci sono più servitori. —Ma dunque?!... che cosa dobbiamo fare?... ci è impossibile di restare senza un domestico. —Cercheremo, investigheremo... ma è difficile! difficilissimo, non credo possibile di riuscire, come sarebbe mio desiderio. —Fra i tanti scolari che avete avuti, in tanti anni di scuola?... —Tutti asini, signora!... o birbanti.... o ladri.... o poltroni.... una generazione perversa!... Tre giorni dopo questo dialogo il maestro Zecchini entrava nella sala di casa Bonifazio, conducendo per un orecchio un giovinotto col naso camuso, coi capelli ricciuti sugli occhi, e lo presentava alla signora: —Questa bestia fu mio scolaro per parecchi anni. Non ha mai imparato nulla, nemmeno a fare il male. L’ho perduto di vista da qualche tempo, mi disse che ha servito a Treviso, e che adesso è senza padroni. Se vuole provarlo posso assicurarla che è figlio di gente onesta, e deve essere incapace di fare delle cattive azioni, che nè io nè i suoi parenti gli abbiamo insegnate. Lo scimunito, lasciato libero all’orecchio, ridacchiava, ora guardando il maestro ora la signora, e facendosi girare il cappello fra le mani, attendeva d’essere interrogato. Dopo poche domande fu accettato a prova. Si chiamava Nicola. Mostrò un certificato che non lo asseriva nè carne nè pesce. In pochi giorni si avvidero che era proprio un cretino, e fu rimandato. Fatte nuove ricerche si presentò un certo Damiano, ciarlone disinvolto che vantava onestà a tutta prova. Raccomandandosi alla padrona che gl’insegnasse ciò che non sapeva, mostrò buona volontà d’imparare. Venne accolto a prova anche lui. Appena entrato in servizio si mostrò svelto e intelligente, ma Argo lo guardava con sospetto, lo fiutava sovente ringhiando, tanto che Maria disse al maestro: —Argo non è contento di Damiano, se a lui non piace, vuol dire che non può fare per noi... —Sicuro, le rispose il maestro; gli uomini possono ingannarsi, ma i cani non hanno mai preso un gatto per un lepre. State bene attente, siamo in un tempo che non bisogna fidarsi di nessuno. E così sorvegliando il nuovo domestico non tardarono ad avvedersi che vendeva l’avena, facendo digiunare il cavallo. Venne congedato. Subentrò Michele, uomo onesto, e abbastanza esperto nel servizio, ma un ubriacone di prima riga. Cesare lo seguì. Non si ubriacava mai, ma era un tal ghiottone che vuotava le casseruole sui fornelli, beveva il brodo e vi sostituiva dell’acqua. Anche questo fu messo alla porta. Ah! povero Mosè come fu rimpianto, come si deplorava la sua perdita ad ogni cambiamento! Finalmente venne Pasquale, un vero macaco, col muso delle scimmie antropomorfe: faccia rugosa, orecchie piatte, narici aperte, labbra sottili e bocca enorme, fronte ristretta, capelli neri ed irti come una spazzola. Aveva i difetti e le buone qualità delle bestie alle quali rassomigliava. —Galantuomo?—puh! meno ladro degli altri.—intelligente?...—meno balordo.—Laborioso?...—meno pigro. Era suscettibile di qualche riconoscenza, non era impertinente, aveva infatti varie qualità negative, e si rendeva tollerabile per la grande necessità di non cadere dalla padella nelle bragie. E così si tirava avanti. Intanto Gervasio attendeva in Lombardia la ripresa delle armi, mentre che i diplomatici raccolti a Zurigo si studiavano di fabbricare una pace, come i fanciulli, quando innalzano dei castelli colle carte da giuoco. Dopo la brutta sorpresa di Villafranca, coll’anima lacerata da doppia sventura, la perdita del padre e della patria, stupido e sbalordito corse a rifugiarsi in Brianza col figlio per versare in seno dei vecchi parenti la piena delle amarezze. Trovò il nonno colonnello sdegnato contro Napoleone, lo diceva indegno di portare il nome dello zio, censurava aspramente la sua condotta come generale in capo, e come alleato. Diceva che l’atroce massacro di Solferino provava la sua inettitudine come strategico, perchè si poteva vincere senza quella immensa ecatombe, manovrando con tattica avveduta, risparmiando il sangue dei soldati, non precipitandoli come una valanga davanti i cannoni e le baionette del nemico. Ma dopo di aver vinto fermarsi a mezza via! non raggiungere la meta solennemente annunziata! era tale atto militare che non aveva nome. Il colonnello invidiava la sorte del genero suo commilitone, che era morto all’annunzio della fatale notizia, e oramai non sperava più di veder realizzato il bel sogno della sua vita, l’Italia indipendente dagli stranieri. Il vecchio soldato affranto dall’età avanzata e dai disinganni vedeva tutto nero, e dopo tanti tentativi falliti non aveva più fede nei suoi concittadini. Ma Gervasio non credeva possibile la assurda confederazione progettata coll’Austria e col Papa, e calmata l’esaltazione del primo momento, partì per Milano per provvedere all’educazione del figlio in attesa degli avvenimenti. Milano liberata dagli Austriaci si mostrava soddisfatta e si accingeva a trar partito dalla libertà, fidente nell’avvenire; e intanto si facevano le annessioni. Silvio si trovava in un nuovo mondo nel movimento elegante di Milano; e quando passeggiava pel Corso si rammentava con pietà i semplici costumi della Bretagna, i cappelli a larghe falde sulle lunghe chiome, i panciotti rossi, le giacchette lunghe, le uose fino al ginocchio, e ricordandosi il clima uggioso, le strade deserte piene di fango, i campanili acuminati sul fondo grigio e nebbioso, era tutto lieto e ambizioso della sua vera patria, e contemplava con viva soddisfazione le candide gugliette del duomo che spiccano con tanta leggiadria sul fondo azzurro del cielo lombardo. Papà Gervasio e il suo Silvio passarono le vacanze d’autunno in Brianza, in casa del nonno, bisnonno, il quale magro istecchito, rugoso, calvo, ma sempre colla pipa in bocca non era più che l’ombra dell’antico colonnello del primo Napoleone e del terribile Carbonaro del 1821. Però di tratto in tratto agitava ancora le sue vecchie ossa, e sprigionava qualche scintilla di quel fuoco che lo aveva riscaldato negli anni vigorosi. La politica era sempre il suo discorso prediletto, seguiva tutti gli avvenimenti, li giudicava severamente, ma ricominciava a sperare, prediceva al nipote l’avvenire, e diceva al giovinetto Silvio: —Tu non avrai più da fare nè il soldato nè il cospiratore. La nostra generazione compirà fra breve l’indipendenza, oramai i destini d’Italia sono evidenti. Fu nella casetta del nonno in Brianza che Gervasio conobbe personalmente il cugino Alessandro, figlio di Aristide fratello del colonnello, che era morto da qualche anno in Piemonte, ufficiale nell’esercito. Alessandro aveva seguita la carriera del padre e dello zio, ed aveva fatte le sue prime armi alla battaglia di Solferino, col grado di tenente. Era un bravo giovane, col quale il cugino passava piacevolmente qualche ora, ciarlando dei parenti, e delle faccende del giorno, e poi ne scriveva a sua madre gli elogi. Silvio avrebbe potuto imparare dalla conversazione del giovine ufficiale come si deve servire il paese, ma preferiva giocare alle boccie coi birichini del villaggio. Invece il giovane Alessandro dava retta allo zio, con rispettosa deferenza, e così questi due individui, senza saperlo preludevano entrambi alla futura generazione del regno, che si mostrò seria nell’esercito; frivola, inquieta e malsana altrove. Quando i suoi tre nipoti, Gervasio, Alessandro e Silvio gli stavano intorno, il vecchio continuava le sue osservazioni, e i consigli, e diceva: —Per uscire dalla schiavitù, per infrangere le catene, come Spartaco, ci voleva forza di muscoli, e audacia sfrontata, e non faceva male nemmeno un po’ di pazzia. Bisognava arrischiare tutto! ma l’avvenire domanda più forze morali che materiali, e la più seria assennatezza per consolidare la conquista, e far uscire dalla libertà la potenza e la prosperità del paese. Il periodo eroico sarà fra breve finito, e comincierà l’epoca dell’educazione e dell’istruzione, e allora saranno necessari i caratteri probi e onesti. Al nostro tempo ci volevano dei rompicolli, dei cospiratori, dei furbi, dei maneschi, bastava di avere del sangue nelle vene. L’avvenire abbisogna d’uomini onesti e sapienti, di scienza e lealtà. Le conquiste si fanno colle mani, e si consolidano col cervello. E mentre passavano gli anni nell’aspettativa, i vecchi cominciavano a cedere il posto ai giovani. La nonna di Brianza morì di vecchiaia, il colonnello la seguì da vicino. La povera Maddalena legata al suo posto dalle cure domestiche, dall’affetto alla sua Maria, divisa dai genitori dal governo straniero, non ebbe la consolazione di rivedere per l’ultima volta i suoi cari vecchi, che passavano da questa vita senza malattie, come lampade che si spengono per mancanza d’alimento. Il testamento del colonnello fu l’equo complemento della sua vita. Lasciò la casa e pochi campi d’intorno al nipote Alessandro: «colla certezza che conserverà religiosamente le memorie e le tradizioni domestiche, servendo fedelmente il paese in guerra ed in pace, come i suoi padri, non chiedendo mai verun compenso per aver fatto il proprio dovere.» Tutto il resto della modesta sostanza spettava all’unica sua figlia Maddalena Bonifazio, rappresentata dal figlio Gervasio nella liquidazione ereditaria, che fu condotta a termine prontamente dall’amichevole accordo dei due cugini. Mentre avevano luogo questi piccoli avvenimenti di famiglia, un avvenimento clamoroso sorprendeva il mondo. Mille Italiani condotti da Garibaldi conquistavano il mezzogiorno d’Italia, e la patria andava rompendo le barriere che la dividevano in varie parti contro natura; e il famoso punto geografico di Metternich si andava allargando, affermava la sua volontà, e proclamava altamente i suoi diritti. La Massoneria si annetteva tutte le società segrete, riordinava le loggie disperse, ed esercitava la sua potente influenza sul Parlamento, che avendo dichiarato «Roma capitale d’Italia» attendeva il momento opportuno per occuparla. E dopo ceduta Nizza e la Savoja, in compenso dell’assistenza ricevuta dalla Francia, si trasportava anche la capitale da Torino a Firenze fra le minaccie e le adesioni, le aspirazioni, le proteste, e gli eccitamenti dei vari partiti che bollivano confusamente nella gran fornace della rivoluzione nazionale, per fare l’Italia; come si fondono i metalli di varie specie per ottenere il bronzo di Corinto, per una statua immortale. L’Austria chiusa nel quadrilatero, come un cane alla catena, non poteva più minacciare i vicini, e tutti pensavano che il suo dominio era vicino alla fine. I giornali parlavano con sicurezza dei futuri destini d’Italia, e il popolo manifestava i suoi voti scrivendo col carbone sui muri:—Vogliamo Roma e Venezia—viva Vittorio Emanuele—viva Garibaldi. L’anno 1866 cominciava con preludi d’inalterabile tranquillità. Si parlava di trattati secreti per la cessione del Veneto; Napoleone, aprendo il Parlamento francese, il 22 gennaio, assicurava che tutto prometteva la pace. A Milano si celebrava ogni giorno qualche lieto avvenimento, e la giovane generazione cresceva fra i piaceri e le feste. Era una vita allegra piena di musiche, di feste, di bandiere e di entusiasmi. Silvio frequentava di preferenza gli studenti più avanzati di lui, erano giovinotti pieni di grilli, che facevano i critici letterari prima di aver compiuti gli studi, e discutevano di politica andando alla scuola. Il giovane Bonifazio si sentiva elettrizzato dai suoi compagni, sognava avvenimenti felici per la patria e per sè stesso, si vedeva aperto l’adito a tutte le soddisfazioni, e pensava che un giorno avrebbe preso la sua parte nella vita pubblica, e sarebbe diventato senza fatica, deputato, segretario generale e ministro. Prendeva una posa grave come quella dei ritratti dei grandi personaggi, si guardava nello specchio per vedere se l’aspetto corrispondeva alle sue idee, e si doleva grandemente di non vedersi ancora spuntare i mustacchi. Si era scelto un buon sarto, guidato dal consiglio dei colleghi più eleganti, e pensava che un uomo mal vestito non avrebbe mai potuto raggiungere le altezze ambite nelle sue fantasticaggini. Esigeva dal parrucchiere che la scriminatura fosse netta e perfetta, dalla fronte fino al collo, perchè l’acconciatura del capo rivelasse la finezza del cervello. Il bastonello nella tasca del paletot, e il zigaro fra l’indice e il medio, completavano il giovinotto precoce. Il babbo lo trovava un po’ troppo attillato, ma non osava contrariarlo, vedendo che i suoi compagni di scuola gli rassomigliavano quasi tutti, e non volendo che fosse meno degli altri. Ma non lo abbandonava mai; passavano insieme la sera al caffè ed al teatro, col cugino Alessandro; e il giovinotto doveva contentarsi di vedere il mondo alla superficie, perchè l’oculatezza paterna gl’impediva di seguire i compagni nei loro stravizi. Nelle ore di scuola Gervasio restava solo, e allora egli andava a passeggiare ai giardini, o visitava gli stabilimenti d’orticoltura, pensando alle terre di famiglia, che un giorno sperava di coltivare a suo modo, e faceva progetti di riduzioni, semine e piantagioni, per quando sarebbe tornato a casa sua. E questo felice avvenimento non poteva tardare. A tutte le proposte di congressi o di cessioni, gli Italiani rispondevano coll’accrescere e perfezionare l’armamento, e desiderosi di compiere l’indipendenza e l’unità della patria, contrariavano continuamente i segreti maneggi della politica, e i vani progetti della diplomazia, diffidavano delle scaltre blandizie, e non trovavano accettabile nessuna proposta, tranne quella della totale emancipazione dagli stranieri. Furono inutili le proposte d’un disarmo generale, inutili tutte le promesse e le minaccie, perchè la nazione fremente ed ansiosa si agitava per raggiungere il suo scopo finale, che oramai non avrebbe più abbandonato. Anche Vittorio Emanuele ambiva di terminare ogni agitazione colle armi alla mano, ed apparecchiava l’esercito; Garibaldi invocava armi e volontari; tutta la nazione voleva combattere. L’alleanza colla Prussia rese possibile la guerra, che finalmente venne dichiarata con generale contento il 20 giugno del 1866. In quel giorno tanto desiderato scomparvero tutte le dissenzioni, tutte le discordie, tutti i partiti; la nazione e il Parlamento furono unanimi. Il re annunziò che riprendeva la spada per la libertà del popolo e l’onore del nome italiano, facendo all’Europa questa solenne promessa: «L’Italia indipendente e sicura del suo territorio diventerà un pegno d’ordine e di pace, e ritornerà efficace strumento della civiltà universale.» Dopo la battaglia di Custoza l’esercito italiano passava il Po, ed occupava le provincie venete. Il primo drappello giunse a Treviso il 15 luglio, data incancellabile fra i ricordi più memorabili di questa città. La campana del Comune annunziò l’avvicinarsi dei soldati liberatori, la bandiera tricolore sventolava in ogni casa, le bande musicali suonavano l’inno nazionale, la folla immensa acclamava la libertà, l’esercito, il re con tale entusiasmo che pareva frenesia. Forse il capitano Bonifazio e i morti per la patria scossi dall’aria elettrizzata di quel giorno, trasalirono nelle tombe. IX. Pochi giorni dopo l’arrivo dei primi soldati italiani, si arrestava davanti il cancello della villa Bonifazio una carrozza da viaggio dalla quale scendevano inaspettati Gervasio e Silvio. Il telegrafo e la ferrovia essendo stati riservati all’esercito, non fu possibile agli esuli di annunziare la loro venuta. Le suonate di campanello e i latrati di Argo fecero accorrere Pasquale. Aperti i cancelli entrarono in casa commossi, si gettarono nelle braccia di Maddalena che se li strinse al seno, Maria venne subito dal giardino, e finalmente tutti i superstiti della famiglia si trovarono riuniti. Il primo effetto del loro incontro furono le lagrime, lagrime di gioia e di tenerezza, sgorgate dal rapido risveglio di tanti ricordi dolci e luttuosi, sereni e strazianti, da tante speranze lungamente nutrite invano, e alfine soddisfatte; lagrime miste ai baci e ai sorrisi. La vecchia madre che abbracciava il solo figlio ancora vivo, ma invecchiato, lontano da’ suoi occhi, per diciotto anni di assenza, che vedeva per la prima volta il giovane nipote, il quale finalmente conosceva la nonna; il figlio che leggeva sul volto rugoso e sui capelli bianchi della madre tutte le angoscie sofferte, che trovava un vuoto doloroso prodotto dalla morte del padre, del fratello, della cognata, e d’un vecchio e fedele domestico; i due cugini che si vedevano per la prima volta, tutte queste affezioni, queste gioie, questi dolori, queste sorprese, confusi insieme si fondevano in una tenerezza che non aveva altra espressione che il pianto. A poco a poco vennero le confidenze, i racconti, le storie. Quante domande, quanto desiderio di espansione dopo sì lunga separazione, così grandi avvenimenti, così atroci dolori! Quante carezze, quanti dialoghi, che gli stranieri avevano troncati, e che la patria vendicata rendeva sacri e soavi nella intimità del santuario domestico. L’esule aspirava con sicurezza l’aria della sua casa, sentiva il noto odore di quelle camere, riconosceva quei mobili, quei quadri come antichi amici, amati fino dalla nascita; guardava d’intorno quelle pareti che gli raccontavano coi loro quadri le prime impressioni dell’infanzia, che gli rammentavano le gioie innocenti e le felicità della vita giovanile, gli anniversari, le feste, le ricompense. Tutto ciò era scomparso nell’esilio, si era dileguato nell’età matura, come una nebbia che svanisse quando il sole è già alto sull’orizzonte. La patria libera restituiva all’esule la sua casa, ma come una bandiera dopo le battaglie, lacerata dalle palle nemiche. Al di fuori la natura aveva continuato il suo lavoro. Gli alberi del parco erano diventati giganti, avevano sorpassato il tetto della casa, il loro vigore indicava chiaramente i lunghi anni trascorsi; gli arboscelli piantati in gioventù, dolci ricordi di giorni felici, s’erano fatti robusti, e portavano una bella chioma di rami rigogliosi. Ma quale miscuglio trasandato e confuso di fronde! quale abbandono di piante invadenti, quale arrufìo scapigliato di foglie e di fiori! —Povera madre! esclamava Gervasio, ecco la storia delle burrasche della tua vita, scritta dalla natura! Tuttavia qualche angolo era conservato in buon ordine: l’ajuola dei fiori coi quali si facevano i mazzi per gli onomastici e i natalizi era ben coltivata e fiorita. La macchia dei crisantemi dove si tagliavano i fiori autunnali per le ghirlande del giorno dei morti era in ottimo stato; le tuberose predilette che profumavano la casa nel mese d’agosto erano ancora al loro posto. L’olivo odoroso che imbalsamava l’aria era cresciuto rigoglioso. Quel parco era proprio un libro scritto da una potenza superiore, ed era sublime per chi sapeva leggerlo come Gervasio, il quale si proponeva di rispettarlo come stava, in onoranza delle tradizioni domestiche. —Ecco il sedile sotto la sofora ove il mio povero padre veniva a fumare la sua pipa; e mi pare di vederlo quando girava pei viali colla forbice in mano, visitando le piante come si fa coi soldati in un giorno d’ispezione; e nei tempi dolorosi quando camminava colle mani dietro la schiena, la testa bassa meditabonda. Ogni angolo di questo parco conserva le sue orme, la coltura del giardino era la sua occupazione prediletta, egli amava la sua patria, la sua famiglia, e la bella natura, non si curava del resto, trovava la solitudine migliore della società, e qualche volta anche gli animali migliori degli uomini. Appena si seppe nel villaggio il ritorno dell’esule, gli amici accorsero ad abbracciarlo. Il più vecchio di tutti era il maestro Zecchini; esso fu il primo a comparire, e stringendosi al seno Gervasio gli pareva di rivedere un figliuolo. Parlava del povero capitano come d’un fratello perduto, egli aveva dimenticato la loro discordia di opinioni, e non si ricordava più che le varie vicende d’una lunga intimità. Il vecchio precettore provò somma consolazione di riconoscere in Silvio un giovinotto che aveva compiuti gli studi ginnasiali, e che si destinava ad entrare in liceo. —In natura l’uomo è un asino, egli ripeteva, ma l’educazione lo rende capace di grandi cose. Anche questa antica teoria del maestro risvegliava le più lontane memorie giovanili nell’animo commosso di Gervasio, il quale ammirava la fermezza del vecchio nel conservare i suoi convincimenti, e gli diceva: —La lunga esperienza della vita, i grandi avvenimenti trascorsi non hanno ancora modificato le vostre idee filosofiche riguardo all’uomo!... —Anzi, tutto mi conferma in questo principio, ma so bene che la mia teoria non verrà mai adottata nelle scuole come base filosofica, perchè vi sarà perpetuo ostacolo, l’orgoglio umano. Gervasio rideva come suo padre, e Silvio pensava: se fosse vero!... A interrompere la discussione vennero i tre Pigna, il vecchio beone, il babbo insignificante, e il giovane Andrea, l’amico di Maria. La prima visita di Gervasio e di Silvio fu fatta al Cimitero, ove portarono una ghirlanda sulla tomba del padre e del nonno. E quando Treviso celebrò nella cattedrale solenni esequie ai martiri della patria, tutta la famiglia Bonifazio assistette alla grandiosa cerimonia. Maddalena e Maria presero posto fra le donne vestito a lutto, col capo coperto da un velo nero, che occuparono sei file di banchi disposti ai lati della grande navata per tutta la lunghezza della chiesa. Gervasio e Silvio si collocarono in modo da veder bene le cerimonie e da udire il discorso che venne pronunziato in onore dei morti. La cattedrale era tutta parata di nero con bandiere nazionali e corone d’alloro, avvolte in neri crespi. Un immenso catafalco sorgeva nel centro, con analoghe iscrizioni, fra immenso numero di cerei, in mezzo a quattro grandi piramidi composte di canne di fucili, baionette ed altre armi, dalle quali pendevano degli scudi neri, intrecciati di fronde, coi nomi di tutte le battaglie nazionali dal 1848 al 1866. La messa funebre fu eseguita a grande orchestra, con degli a soli d’arpa che parevano voci del cielo, e produssero un effetto meraviglioso mentre suonavano le campane di tutte le chiese, si udivano le salve di moschetteria che partivano dalle truppe raccolte in piazza, e i colpi di cannone tirati a lunghi intervalli dalle mura. All’orazione che rammentava i dolori e le speranze d’Italia, e al suono dell’inno nazionale che chiuse la sacra funzione si sentiva nell’immensa folla raccolta un fremito di commozione. Dieci giorni dopo la festa funebre di Treviso ebbe luogo la cessione ufficiale di Venezia al governo italiano. Gervasio volle trovarsi presente anche a questo momento storico memorabile, e partì per Venezia con suo figlio, per fargli vedere per la prima volta la incantevole città, in così solenne occasione. Quale spettacolo! quei soldati austriaci che partivano erano rientrati dopo l’assedio fra lo squallore dei morti nella città bombardata, che dopo un anno d’eroica difesa, non fu vinta che dal coléra e dalla fame. Nella folla raccolta in piazza, che attendeva compatta la partenza degli stranieri c’erano ancora dei vecchi che avevano vissuto sotto la gloriosa repubblica, c’era molta gente che aveva veduto i patriotti del 21, salire sulla berlina eretta in piazzetta per condannarli alla morte, c’erano molti cittadini che avevano sofferto nelle carceri e nell’esilio. Quando la bandiera italiana fu issata sulle tre antenne di Cipro, Candia e Morea, si udì un clamore che non era un grido d’entusiasmo, nè un gemito di commozione, nè un urlo selvaggio, nè un applauso di trionfo; era una voce strana, inaudita, unanime, di migliaia di persone, una voce che fondeva in una sola espressione tutte quelle passioni compresse, ed echeggiava ad un tratto nell’aria, come un grido dell’umanità che si espandeva fino alle stelle. Questo grido della liberazione d’un popolo, si poteva udirlo da tutti i pianeti che stanno intorno alla terra. Uno splendido sole illuminava le cupole moresche di San Marco, brillava sull’oro dei mosaici, e sulle invetriate rotonde della basilica, e rifletteva nella calma laguna l’azzurro del cielo. Si udivano per l’aria le più soavi melodie, non si vedevano che volti ridenti, che espressioni d’anime soddisfatte. Sono memorie indelebili che valgono cent’anni di vita, rinforzano le membra infiacchite dei vecchi, infondono vigore alla gioventù, fanno obliare le amarezze, le umiliazioni, i dolori del servaggio. Gervasio dimenticava i lunghi anni d’esilio, e conduceva il suo Silvio a visitare Venezia, colla devozione d’un pellegrino cristiano in Terra Santa. Gli faceva ammirare i monumenti, le opere d’arte, le chiese, i palazzi, i canali, e fino le casupole, e gli spiegava la storia locale. Gli mostrava quel popolo buono, ameno, bizzarro, quei ruvidi pescatori figli del mare, quelle donnette goldoniane, quelle gondole uniformi, quelle voci di venditori ambulanti che cantavano l’annunzio della loro merce, vantando i bei cavoli, le belle frutta, i canestrini del pesce fresco e delle ostriche. Ogni pietra di Venezia è degna d’osservazione, è una memoria famosa o una pennellata pittoresca; la tinta ardita di una insigne tavolozza. Ogni monumento, ogni palazzo vi ricorda un’epoca diversa, un’arte stupenda, dei nomi illustri di magistrati, di conquistatori o di artisti. Ogni prospetto presenta un quadro ammirabile e singolare, sia un tempio di marmo e di mosaici, sia un gruppo di case vecchie, scalcinate, o l’angolo d’un canale tortuoso coll’acqua verde nell’ombra, e i camini del tetto illuminati dal sole sul fondo turchino del cielo. Le calli più misere, i rii più sporchi, l’erba sulle screpolature dei marmi, o nelle giunture dei mattoni corrosi, le macchie d’umidità, e i licheni sulle colonne, sembrano tutti capricci fantastici d’un genio strambo, che si divertì a intingere il pennello in tutti i colori della tavolozza. La bicocca a canto al palazzo, gli stracci e gli sbrendoli che si mettono ad asciugare in fianco ai marmi preziosi, il pergolato di vite intorno alla Madonna dei Traghetti, coi gondolieri devoti che la adornano di fiori, vi accendono il fanaletto, e siedono bestemmiando ai piedi dell’altarino, sono tutte bizzarrie veneziane che armonizzano coi suoi prospetti, coi suoi odori, col lusso dei suoi edifizii e le rovine delle vecchie abitazioni. Tutto è bello a Venezia!... anche il brutto, ed anzi è preferito dagli artisti nazionali, i quali hanno una vera ripugnanza per le copie dei monumenti più insigni, che abbandonano agli artisti stranieri, riservandosi la riproduzione delle case rotte, delle catapecchie e dei canali tortuosi, che fanno ammirare dal mondo intiero. Chi desidera una copia della facciata o dell’interno di San Marco, una veduta della piazza, o della chiesa della Salute, deve ricorrere agli artisti d’altre nazioni che accettano la commissione lavorando pazientemente dei lunghi mesi davanti il loro modello, colla più minuziosa esattezza. L’artista veneziano non si presta a queste opere monotone, regolari, ed eterne, meravigliose di pazienza e di esattezza; egli vuole le linee interrotte, i colori smaglianti, le pennellate franche, la tavolozza svariata, il prospetto capriccioso e fantastico. Silvio divenne entusiasta di Venezia, colla guida del padre imparò ad ammirarla fino negli angoli più remoti, ignoti ai volgari, ma adorati da coloro che sanno scorgere le bellezze più misteriose di questa incantevole sirena. Un giorno s’incontrarono col cugino Alessandro che era divenuto capitano, e passarono insieme alcune ore girando per la città. Il buon lombardo si lamentava delle viottole anguste, deplorava le esalazioni dei canali, e l’incomodo dei ponti. Gervasio meravigliato gli osservò: —Tu non ami Venezia!... —Anzi mi piace moltissimo, ma..... —Ma non la comprendi. Tu guardi Venezia con occhio profano; tu non la vedi!... Ciò che mi dava la nostalgia nell’esilio non erano i suoi monumenti, ma il suo odore, la sua voce, i suoi colori, le esalazioni che tu disprezzi!... Silvio che aveva amata Venezia prima di conoscerla, per le descrizioni che gli vennero fatte fino dalla infanzia, dopo d’averla veduta la ammirava alla maniera patema, e mostrava il desiderio di abitarla per qualche tempo. Il buon padre gli promise di contentarlo. —Adesso, gli disse, devi pensare agli studi del liceo, ma quando avrai compiuto il corso legale, ed ottenuta la laurea, verrai a far la pratica di avvocato a Venezia. Silvio era beato, ma il capitano Alessandro non poteva comprenderlo; egli preferiva le ampie strade di Torino, e le lunghe passeggiate in campagna. Lo invitarono alla villa ove avrebbe potuto soddisfare i suoi gusti di cacciatore, ove sua cugina Maddalena desiderava vivamente di vederlo. Egli promise che avrebbe chiesto una licenza di qualche giorno, e con questa bella promessa il padre ed il figlio ritornarono a casa. Maria aspettava ansiosamente il cugino Silvio per metterlo al corrente delle abitudini di famiglia. —Ti procurerò delle belle conoscenze, gli disse, ti metterò a parte di alcuni miei segreti che ti saranno utilissimi,—e precedendolo allegramente entrò nel parco, invitandolo a seguirla. Giunti ad un boschetto fitto di rami arruffati, che lasciavano verso terra una stretta apertura: —Abbassa la testa, gli disse, ed entriamo. —Dove si va? le chiese Silvio, che temeva di scompigliarsi i capelli ben pettinati. —Hai paura? gli disse Maria, guardandolo cogli occhi ridenti, e prorompendo in uno scroscio di risa argentine. —Dove mi conduci? le domandò Silvio. —Nel mio nido prediletto, essa gli rispose, vieni e sarai contento. —E che cosa faremo nel tuo nido? —Oh bella! quello che si fa in tutti i nidi.... Silvio la guardava fissamente, esitava ancora, non capiva, gli seccava molto di cacciarsi dentro quell’arruffio di rami intrecciati. —Ma infine, che cosa faremo nel tuo nido..... —E tu non sai quello che si fa dentro ai nidi?... Si mangia, si canta, si dorme, andiamo non aver paura, vieni con me;—e così dicendo si mise in ginocchio, abbassò la testa, e scomparve. E si udiva ancora la sua voce, che gli gridava dall’interno:—Vieni avanti. Silvio non voleva contrariarla, si rassegnò, si mise in ginocchio, abbassò la testa, ed entrò. Se l’ingresso era angusto il nido era comodo, e vi si stava benissimo tanto seduti che sdraiati. Era fatto come un casotto da uccellanda. I rami legati coi vimini formavano delle fitte pareti che non lasciavano penetrare il sole. Il sentore della terra e delle foglie fermentate, facevano esalare un profumo boschereccio. Silvio guardando d’intorno con aria sospettosa le disse: —Dimmi un po’ non ci sono delle biscie qui sotto? —Ma no di certo, essa gli rispose ridendo, sta pur tranquillo. Le biscie stanno sotto terra o cercano il sole, io non ne ho mai vedute da questa parte. —E che cosa facciamo qui? —Adesso te lo dirò, abbi un po’ di pazienza. Allora cominciò a frugarsi in tasca, ne trasse due pomi, ne offrì uno al cugino, e si mise subito a sbocconcellare l’altro con grande appetito. Silvio la ringraziò e tirato fuori il temperino voleva tagliarle il frutto. —Non ne ho bisogno, essa gli disse, e spalancando la bocca, metteva in lavoro i bei denti bianchi che tagliavano meglio del temperino. Silvio pelò il pomo, ne tagliò quattro spicchi, ne infilò uno nella lama e glielo offerse. Essa che aveva divorato il suo pomo, gradì anche l’altra parte e se la mangiò tranquillamente. Poi rifrugò nelle tasche, e tirò fuori un cartoccio di biscottini, e si misero a sgranocchiarli. Silvio cominciava a prender piacere a quella merendina, a quell’ombra, a quella quiete, quando si udirono dei passi sulle foglie secche del viale, e poi tutto d’un tratto, Argo ansante balzò come una bomba nel nido, e colle sue goffe carezze apportò il disordine, la confusione, e lo scompiglio. Contento d’aver trovato la sua amica, si mise a esprimerne la gioia leccandole il viso, saltando, scodinzolando e abbaiando, sbattendo la coda in volto a Silvio, e appoggiandogli le zampe polverose sui calzoni. Il giovane disperato sgattaiolò rapidamente fuori dal buco, e cominciò a spolverarsi col fazzoletto, mandando al diavolo quella bestiaccia impertinente che gli aveva insudiciato il vestito. Maria lo seguì sgridando il cane, e ridendo della sorpresa inaspettata, e della impressione disgustosa che le pareva avesse prodotto sul cugino. Passarono insieme a visitare il frutteto, ove pendevano dagli alberi dei bei pomi rossi, delle pere di varie tinte. Sta bene attento, disse Maria al cugino, indicandogli un pero carico di frutta, queste non si mangiano crude, sono troppo dure, hanno un sapore erbaceo, ma cotte sono eccellenti e zuccherine. E seguitava: Ti raccomando quel pomo, è il migliore di tutti, almeno a mio gusto. Questo pomo ruggine ti sembrerà brutto, ma è squisito, quell’altro riesce benissimo nello _Strudel_, che il povero nonno non voleva mangiare, perchè diceva che è un piatto tedesco. Poi gl’indicava i ciliegi, ai quali cominciavano a cader le foglie, e gl’insegnava gli alberi ove si raccoglievano le frutta più belle. Fiancheggiando un filare di fichi glieli nominava tutti, gli faceva gustare i migliori. Prendi questo verdino, assaggia quello della goccia, e il nero di collina, e conchiudeva: Adesso conosci i più squisiti, ma l’esperienza ti renderà più esperto. Poi visitarono le vigne. C’erano delle uve eccellenti, il povero capitano ne aveva fatta una raccolta stupenda. Finita la passeggiata, Maria gli disse: —Adesso passiamo alla presentazione dei miei amici. Non ho bisogno di dirti tutti i pregi di Argo, tu lo conosci abbastanza, questo fedele guardiano. Silvio torceva il muso, Maria rideva, e intanto si avviarono verso la scuderia. Prima di entrarvi si udì il nitrito di Falcone che aveva riconosciuto i passi e la voce della padrona, e la invitava ad entrare, un po’ per affezione, e un poco anche per interesse, perchè essa andava sovente a trovarlo portandogli un pezzetto di pane e dello zucchero. Pasquale, il macaco che stava nettando i finimenti sotto al portico, quando s’avvide che i due giovani andavano a visitare il cavallo, corse ad aprire la porta, e li precedette. Egli aveva certamente qualche cosa da nascondere. Quando entrarono, si avvicinava al cavallo che ebbe un tremito di paura, ma poi scorgendo Maria la buona bestia ripetè l’allegro nitrito, le appoggiò la testa sulla spalla, guardandola affettuosamente coi suoi grandi occhi neri, e raspando il pavimento colla zampa, per domandare qualche cosa. Maria disse al cugino: —Non gli manca che la parola. Egli distingue benissimo gli amici dai nemici,—e così dicendo fissava con disprezzo il domestico, che col suo grugno di scimmiotto faceva lo gnorri. La fanciulla si diffuse a vantare le ottime qualità di Falcone, e accarezzandolo si accorgeva che era stato strigliato male, e ne faceva l’osservazione a Pasquale, il quale si giustificava accusando il fieno d’essere pieno di polvere. Dalla scuderia passarono alla stalla delle mucche e dei vitelli. Maria le designava tutte per nome dicendone i pregi. _Mira_ è una grossa friburghese che fa un latte eccellente, _Macchia_ è sua figlia, è più bella della madre, ma meno lattifera. La _Tirolese_ con quell’occhio placido, sentimentale, è un bel tipo. _La Bianca_ non manca di buone qualità, ma la poverina cammina male. Le buone bestie voltavano la testa a guardare, e mettevano un lungo muggito, poi cacciavano il muso nella greppia, o stavano ruminando. Maria accarezzò i vitellini, poi uscì dalla stalla con un salto, dicendo al suo compagno: —Andiamo a visitare il pollaio. Prima di entrarvi andò a prendere una manata di becchime, poi aperse la porta del cortile. Pareva di entrare nell’arca di Noè, c’era ogni sorta di volatili, oche, anitre, tacchini, galletti e galline, capponi dalla ricca coda di colori metallici, pollastre calzate e cappellute, e un gallo adulto, rosso nero ed azzurro, coi bargigli accesi, la cresta ritta, e due speroni da fare invidia a qualunque cavaliere. Egli andava ruzzolando fra la terra smossa, la crusca e le foglie verdi di cavolo, guardando intorno con occhio vigilante, chiamando le sue galline a beccare i granelli scoperti. Maria sparpagliò il becchime chiamando: _pire pire pitte pitte_. Al suono della sua voce si udì uno svolazzamento rumoroso accompagnato da accenti acuti, rauchi, sonori, uno squittire, un chiocciare confuso di chirichichì, di glu glu, di cocodè, si vide un accorrere ad ali spiegate, un saltellare, uno sparnazzare di zampe frettolose, un beccare furibondo di affamati. In coda alla svariata comitiva si avanzavano le anitre dondolanti sulle gambe corte, che ansiose di raggiungere i compagni annunziavano il loro arrivo: quà quà quà. Ultimi ad arrivare furono i tacchini, quei boriosi perdevano una così bella occasione di satollarsi per mettere in mostra la ruota della coda e le ciliegie scarlatte della loro pappagorgia, come i vanitosi della razza umana. Uno stormo di colombi di tutti i colori era disceso dalla colombaia, e svolazzava intorno alla fanciulla, arrestandosi sulle sue spalle o prendendole i granelli dalle mani. La campanella del pranzo richiamò in casa i due giovani. Il gatto che sapeva le ore meglio degli orologi, aspettava la sua parte sul balcone della cucina, e fu l’ultimo presentato. Maria corse ad accarezzarlo, ed egli arcuava il dorso e si fregava al viso della fanciulla, facendo le fusa. —Ecco, disse Maria, il più furbo di tutti, Mumut viene a riposarsi sul mio panierino di lavoro, ma dorme con un occhio solo. Talvolta va a coricarsi fra le gambe di Argo, il quale non si muove più per non disturbarlo, e gli lava il muso colla lingua. Mumut fa la polizia della dispensa, visitata sovente da piccoli ladruncoli a coda lunga che rosicano il formaggio, mangiano la farina e il butirro. Ma qualche volta il briccone preferisce il vitello arrosto ai sorci crudi; allora è il gabelliere che fa il contrabbando, e la nonna va in collera. Durante il pranzo Silvio rese conto delle presentazioni della cuginetta, e degli ottimi consigli che gli aveva dati sulle varie qualità delle uve e delle frutta. Gervasio lodava le cure di suo padre che non aveva lasciato un angolo di terreno senza cultura. La nonna si asciugava una lagrima pensando al suo vecchio compagno, era soddisfatta di udirlo ricordare con riconoscenza dal figlio, e aveva un sorriso affettuoso pei due nipoti, che formavano l’unica consolazione della sua vita. Alla fine dell’autunno arrivò alla villa il capitano Alessandro, e fu accolto da tutti colle più cordiali dimostrazioni d’affetto. Maddalena non lo aveva più veduto dall’infanzia. Egli le apportò di quei cari ricordi domestici raccolti nella casa di Brianza, che sono i doni più preziosi che si possono fare a chi visse lungamente lontano dal tetto paterno. Un ritratto in miniatura del colonnello colle assise dei cacciatori della guardia imperiale, un ritratto di sua madre prima delle nozze. Alcuni lavoretti della sua infanzia, alcune lettere che suo padre scrisse alla moglie da varie parti d’Europa, nelle quali parlava con sommo affetto della loro bambina. Il mese che il capitano passò alla villa fu lieto per tutta quella buona famiglia, che rimase per tanto tempo dispersa. Si fecero delle belle gite nei siti più pittoreschi della provincia, ai colli d’Asolo e di Conegliano, ai monti ed ai laghetti di Ceneda e Serravalle, le due città congiunte in una sola dal Re liberatore, che le diede il nome famoso e immortale di Vittorio. Tutti andavano a gara per divertire l’ospite gradito, e intanto si divertivano con lui. Ai primi di novembre egli partì, e Gervasio condusse a Treviso suo figlio per cominciare gli studi liceali, gli raccomandò di studiare, e di tenere una buona condotta, e ritornò alla villa. Era la prima volta che Silvio si trovava affatto libero, e ne profittò subito per imparare il giuoco del bigliardo, pel quale si sentiva delle disposizioni incoraggianti. Fece una buona scelta d’amici, e di sigari; andava ogni sera al teatro e poi a cena, si coricava assai tardi, e alla mattina dormiva profondamente, dimenticandosi le ore delle lezioni, e così evitando la noia della scuola. Ritornò a casa per le feste di Natale e vi restò fino dopo il principio del nuovo anno; a carnevale nuove vacanze, e a Pasqua rimase in famiglia quasi un mese. In giugno celebrò la festa nazionale con una settimana d’ozio, e in luglio aveva finito il primo anno, ed esaurito a suo modo il programma dello studio, passando anche agli esami.... pel buco della chiave, come egli stesso confessava agli amici. Ad ogni vacanza regolare ad arbitraria andava a spasso per la città a farsi vedere come i tacchini della corte. Il cappello sull’orecchio destro, il sigaro in bocca, si dava un’aria spaccona da far ridere le mosche. Suo padre si stupiva di quelle incessanti vacanze, di quella vita dondolona, di non vederlo mai con un libro in mano, e si rammentava il sistema diverso del tempo nel quale egli andava alla scuola, l’appello dei professori, il rigore degli esami, il bisogno di studiare che sentivano gli studenti. Silvio gli rispondeva: —Quello era un tempo di pedanti, adesso è l’epoca della libertà!... —Libertà dell’ignoranza! soggiungeva suo padre. Noi ci siamo apparecchiati sui libri a liberare la patria.... —E avete fatta della retorica e delle famose corbellerie, che vanno celebri nella storia, col nome di _quarantottate_! Gervasio restava sbalordito. Le quarantottate!... il 1848 l’aveva lasciato storpio, aveva veduto coi suoi occhi i morti di Marghera, e del Ponte, gli pareva che le congiure, le carceri, i patiboli, la guerra non fossero retorica, ma forse si era ingannato. Egli pensava che la libertà ottenuta avesse bisogno di coltura per conservarla, ma suo figlio lo assicurava che il mondo cammina da sè, e che si diventa dottori anche senza dottrina. «Divento vecchio! pensava fra sè papà Gervasio, vivo troppo lontano dal mondo per essere in caso di giudicarlo. Non voglio parer rimbambito, nè dar noia colle mie prediche all’unico figlio.» Talvolta s’intratteneva di questi suoi dubbi, col vecchio maestro Zecchini, il quale gli rispondeva colla sua invariabile convinzione: —L’uomo è un asino!... va avanti fino a un certo punto poi ritorna indietro; i figli sono sconoscenti, i popoli sono ingrati, e dimenticano facilmente i benefizii ottenuti con tanti dolori dai loro padri. Io sono un vecchio testimonio dei tempi trascorsi. Ho veduto il sangue e le lagrime che vennero sparse dalla nostra generazione per ottenere la indipendenza. Adesso che è raggiunto lo scopo, i neonati si burlano del passato, e si apparecchiano all’avvenire con fatua dabbenaggine. Ne vedremo col tempo le conseguenze. Gervasio abbassava la testa, e procurava di distrarsi colle cure del giardinaggio e dei campi, cercava di far conoscenza con delle persone che dividessero i suoi gusti, e vedeva nella associazione al lavoro, non solo un vantaggio, ma eziandio un vero piacere. I Pigna erano tutti agricoltori. Il vecchio era decrepito, il figlio gli pareva un uomo da nulla, ma il figlio del figlio era un giovinotto dell’età di Silvio, e frequentava la famiglia, e con lui cominciò ad intrattenersi di colture, e a metterlo a parte de’ suoi progetti. Lo invitava a pranzo, e lavoravano insieme potando gli alberi, seminando, e trapiantando le pianticelle nei vasi. Era amico di Maria, e la nonna gli voleva bene. Per farsi un concetto preciso di questo giovane richiese il parere del maestro Zecchini. —I Pigna, gli rispose, sono piccoli possidenti, e grandi ignoranti; il giovane Andrea fu mio scolaro, ed è un asino come tutti gli altri suoi pari. Tutti i nostri agricoltori coltivano il suolo da padre in figlio, senza sapere che cosa sia la terra, l’aria, l’acqua, la luce colle quali lavorano, contrariando la natura, e ricavando meschini prodotti. Gervasio cercava d’istruire questo giovane amico, ma gli trovava la testa dura, e si doleva col maestro di quella tarda intelligenza..... —Sono ignoranti, ma furbi ed astuti, gli osservava il maestro. Contano sulle dita, ma non fallano mai a loro danno..... —Mi pare che s’interessi alla coltura dei fiori..... diceva Gervasio. —Perchè gli piacciono i desinari della signora Maddalena. È un ghiottone che ama i buoni bocconi, che per lui sono i veri prodotti dei vostri fiori. Papà Gervasio sorrideva del pessimismo del povero vecchio, che pareva nato con un paio di occhiali scuri sul naso, tanto vedeva tetro nel mondo. Tuttavia dopo d’aver passato un paio d’anni al contado, anche Gervasio era convinto che cittadini e contadini italiani sono due popoli affatto diversi, che vivono sullo stesso suolo, con idee e costumi differenti. Questa anomalia, questo dualismo della civiltà e dell’ignoranza selvaggia, del lusso e della miseria, è un gravissimo ostacolo alla vera unità nazionale. Tocca alla giovane generazione di fondere insieme queste diverse nature, egli pensava, e mio figlio sta apparecchiandosi all’ardua impresa. Suo figlio, in quello stesso momento, carambolava allegramente sul prediletto bigliardo, mentre il suo professore si sforzava a dimostrare agli scolari, che «la coltura d’una nazione è la più sicura garanzia della sua libertà.» Finiti gli studi liceali, Silvio andò a Padova a studiare la legge, e a giuocare al bigliardo, e ritornando alla villa dopo il secondo anno di studio cominciò ad accorgersi che sua cugina Maria era proprio una bella ragazza. Guardandola negli occhi gli sembrava di sprofondarsi in un lago senza fondo, e sommerso in quel pelago soave diventava muto come un pesce. Essa pure appariva più impacciata del solito. Correvano ancora come due fanciulli attraverso i prati del parco, o sotto i boschetti, mangiavano insieme le frutta seduti sull’erba, egli la contemplava in silenzio, gli pareva la più bella pesca matura della villa, l’avrebbe divorata viva e la invitava a fare una merendina nel nido come nei primi tempi, ma adesso ch’egli mostrava di andarci tanto volontieri, e senza paura delle biscie, essa non voleva andarci più, e furono vane tutte le preghiere. Silvio entrava nelle serre, raccoglieva i fiori più rari, ne faceva dei mazzetti eleganti e li presentava alla cugina che se ne mostrava lieta, e sapeva farli vivere lungamente, cambiando spesso l’acqua del vaso, e gettandovi dentro del carbone polverizzato. Ma la perfetta felicità non è pianta che attecchisca sul nostro pianeta; e appena s’intravede il paradiso terrestre, ecco che salta fuori il serpente. Silvio credette di vedere, con profondo rammarico, che quello stolido di Andrea Pigna gli vogava sul remo. Senza aver percorso gli studi universitari forse anche costui aveva fatta la stupenda scoperta del suo sapiente compagno; aveva trovato che Maria era una bella ragazza, e la contemplava con piacere. Allora il cuginetto si rammentò la storia di Cristoforo Colombo, e di Amerigo Vespucci, e pensando che non è sempre il primo scopritore che dà il nome alla scoperta, si sentì ferito nell’amor proprio, e cominciò a guardare di mal occhio il supposto rivale. Così ebbe principio una burrasca nell’ambiente ristretto della villa, prodotta dai nuvoloni che si alzavano dal cervello dello studente. Il suo odio per Andrea glielo faceva vedere più brutto del vero; ne sparlava con suo padre e con la nonna, ma tutti lo difendevano con simpatia, e giustificavano il suo carattere, che sotto la rozza scorza mostrava delle buone qualità. Allora Silvio parlando con Maria scherzava ironicamente sul bellimbusto, ed essa che lo aveva sempre guardato con indifferenza, si mosse a compassione, e si mise ad osservarlo con interesse. —Povero Andrea! essa diceva al cugino, è così premuroso nel contentare lo zio, è così attento ai suoi consigli, ha tanta cura dei nostri fiori. —Capisco, capisco, gli vuoi proprio bene a quel ragazzo. —Ma sicuro gli voglio bene. Ci siamo conosciuti da piccini, abbiamo giuocato insieme, è figlio e nipote di vecchi amici di casa. —Che il cielo vi benedica! e vi conservi lungamente concordi e felici, in questa valle di lagrime, che è per voi un vero giardino di delizie!... —Non so cosa vuoi dire colle tue declamazioni enfatiche, ma hai torto di usare delle sgarbatezze a quel ragazzo inoffensivo, e compiacente. E si bisticciavano sovente sul medesimo argomento. Silvio guardava in cagnesco Andrea, il quale gli faceva degli occhiacci dispettosi. Tutti questi malumori furono causa di malintesi, di equivoci, di risentimenti e di corrucci. Silvio teneva il broncio acciecato dalla gelosia, e si credeva in dovere, per tutelare la propria dignità, di nascondere l’amore nascente che covava sotto la cenere. Maria indispettita del cambiamento di tono del cugino, del suo linguaggio bisbetico, delle sue ingiustizie, alzava le spalle e lo lasciava in disparte, e guardava il povero Andrea con compassione e indulgenza, e tutto ciò incoraggiava il giovine a contemplarla con riconoscenza, e a sentire i primi sintomi d’una sincera affezione. X. Fra queste e altre varie vicende di poco rilievo passarono gli ultimi anni di studio, e finalmente Silvio ebbe la laurea, e si dispose a fare la pratica. Papà Gervasio, secondo la sua promessa, e coll’aiuto degli amici, gli aveva trovato un avvocato di Venezia che consentì di riceverlo come praticante, lo accolse con cortesia, e lo presentò alla sua famiglia, composta della moglie e d’una figlia. L’avvocato Annibale Ruggeri aveva una buona clientela che faceva prosperare il suo studio. Silvio non tardò a persuadersi della somma utilità della pratica che andava facendo nella trattazione degli affari. Colla sua giovanile ingenuità egli credeva che il merito dell’avvocato dovesse consistere nella rapidità della procedura. Considerando le lungaggini della giurisprudenza italiana, colle infinite pratiche precauzionali per guarentire tutti i diritti, egli la trovava eccessivamente diffusa e prolissa e pensava che la condotta d’ogni causa dovesse studiarsi in modo da correggere il difetto delle leggi, per soddisfare le parti colla massima possibile sollecitudine. Ma era tutt’altro. Gli bastò poco tempo per accorgersi che l’avvedutezza dell’avvocato consiste nell’arte di non precipitare le sentenze, che potrebbero riuscire funeste senza le dovute precauzioni. Bisogna che l’istruttoria sia ponderata e completa, l’esame dei documenti scrupoloso, è necessario di moltiplicare le conferenze, di allargare le informazioni, di pesare gli atti, di prevedere i sotterfugi degli avversari, di cercare le prove, domandando proroghe sopra proroghe, suscitando incidenti, promovendo dilazioni, mettendo in campo tutti gli amminicoli possibili per tirare in lungo, e avere il tempo di complicare le faccende, come una matassa arruffata, che avvolga l’avversario in una rete di abilissimi cavilli, e di argomentazioni imprevedute da rendergli impossibile l’uscita. E nello studio Ruggeri si lavorava a fondo con tali principii, moltiplicando all’infinito la lista delle spese, per bolli, scritturazioni, consulti, copie, corrispondenze, ma con piena rassegnazione dei clienti che affluivano in gran numero attirati dalla rinomanza dell’avvocato, e dalla speranza che il suo merito e la sua esperienza troverebbero il modo di abbindolare i giudici, facendo trionfare i loro torti come se fossero buone ragioni. E facevano delle lunghe anticamere per attendere il loro turno, alle conferenze. Cosicchè il denaro pioveva in abbondanza ed avrebbe apportata la ricchezza se la casa fosse finita agli ammezzati; ma disgraziatamente aveva un altro piano, e se la scala del piano inferiore faceva salire l’oro alla cassa, la scala del piano superiore lo faceva discendere e sparire. Quella casa era una vera pompa aspirante e premente; gli affari la riempivano, il lusso la vuotava. L’avvocato impallidiva sulle carte e sui codici, ci perdeva gli occhi e i capelli, l’appetito ed il sonno; e si consumava in quella vita sedentaria e in quella atmosfera morbosa, mentre il frutto delle sue fatiche svaporava con prodigiosa rapidità, per pagare le polizze dei tappezzieri e dei merciai, degli orefici, delle modiste e delle sarte. Quella testa forense dell’avvocato era un vero vulcano che sconvolgendo le viscere del mondo giudiziario ne faceva uscire delle eruzioni di cappellini, di fiori, di pizzi, di abiti, di mantelli, nastri, fiori, svolazzi e gioielli. Il prodotto d’ogni conflitto di diritti, d’ogni contratto di nozze e d’ogni testamento finiva sempre in un capriccio di moda. Infine dei conti, marito e moglie, senza saperlo, lavoravano col medesimo risultato, quello di dar da intendere al mondo lucciole per lanterne. Mentre l’avvocato si scervellava sul codice e sul dizionario onde trovare un articolo favorevole, e un vocabolo opportuno per mascherare una verità pericolosa, la moglie davanti lo specchio cercava di raffusolarsi magistralmente per nascondere le sue rughe, per far passare il fintino per capelli effettivi, e i cuscinetti d’ovata per rotondità naturali. Silvio cominciò a frequentare la famiglia Ruggeri, e nelle conversazioni serali ebbe campo di studiare l’arte soprafina della signora Emilia, come durante la giornata aveva potuto ammirare l’abilità magistrale del dottore Annibale nel maneggio degli affari. Nell’ombra prodotta dal cappello della lucerna in un angolo romito del salotto il giovane praticante osservava attentamente quelle due figure caratteristiche; una testa calva piena di pensieri e una testa vuota fornita di ricciolini posticci, che vivevano nel lusso a spese dei litiganti. E pensava fra sè: «le discordie domestiche, l’ignoranza, la mala fede, gl’inganni, le frodi, le rapacità della nostra vita civile forniscono questi tappeti turchi, questi stipi eleganti, questi mobili artistici, scelti nelle sale di Guggenheim e nell’officina di Besarel, questi vetri di Murano, questi ninnoli artistici, e i fiori freschi che profumano il salotto in quel magnifico vaso di Ginori.» Ma il più bel fiore era Metilde, quella bella bionda, leggiadra, snella ed eterea come un angelo dipinto da Morelli. Con quei capelli d’oro e quegli occhi turchini, quella vita di vespa, quell’incesso leggiero di silfide!... quando muoveva agilmente sul pianoforte le dita affusolate, Silvio restava estatico a contemplarla, quando in un giro di valzer essa scopriva gli stivalini arcuati che calzavano i suoi piedini eleganti, egli si tirava indietro per paura di toccarla, tanto gli pareva una divinità scesa dal cielo. La prima volta che essa si degnò d’indirizzargli la parola fu tanto confuso che le rispose una sciocchezza che la fece ridere mostrando due file di dentini meravigliosi per la regolarità ed il candore. Ed essa s’avvide subito che quella timidità proveniva da ammirazione, e ne fu soddisfatta. Suo padre aveva detto in famiglia che Silvio Bonifazio, nato in Francia, in esilio, era stato educato a Milano, pareva un giovinotto che accoppiasse le buone qualità francesi e italiane, mostrava spirito e ingegno, ed era audace come suo nonno, un antico soldato del primo Napoleone. Quell’aureola dell’esilio intorno ai capelli profumati, quei mustacchietti giovanili sulla freschezza del volto, quello spirito ecclissato dal semplice aspetto della bellezza gli guadagnò subito tutte le simpatie della fanciulla, e gli assicurò la più indulgente amicizia. A poco a poco venne anche il coraggio, e l’abitudine lo rese sempre più facile. Allora Metilde s’accorse che il giovinotto non mancava di brio, e non tardò a trattenersi seco lui con piacere in lunghe e geniali conversazioni, nelle quali essa pure faceva mostra d’eccellenti qualità intellettuali che raddoppiavano l’effetto della bellezza colla grazia d’un dialogo vivace, e dell’accento veneziano, che la rendevano incantevole. E davvero faceva onore al babbo che l’aveva fatta istruire dai migliori professori. Essa aveva corrisposto benissimo, imparando con pronta intelligenza, e continuando a coltivarsi con buone letture. E parlava con esatte cognizioni di storia e di letteratura, giudicando coll’acuto buon senso della donna accoppiato ad un gusto fine, istintivo e personale che rendeva interessanti i suoi giudizi. E faceva onore anche alla mamma che la vestiva a suo modo, come una bambola, ma con supremo buon gusto, e ben inteso, senza risparmio; non contentandosi di scegliere le stoffe e gli artefici migliori a Venezia o a Milano, ma ricorrendo anche a Parigi, mediante le grandi facilitazioni procurate dai Grandi Magazzini del Louvre, che spediscono gratis, disegni, modelli, campioni, e gli oggetti scelti senza domandare un soldo anticipato. A Venezia pagavano i clienti. La signora Emilia aveva squadrato con un colpo d’occhio il nuovo amico di casa, aveva veduto subito che la sua biancheria era di manifattura francese, che il taglio delle vesti era di Milano, aveva saputo dal marito che il giovinotto dimorava in una villa signorile nei dintorni di Treviso, un piccolo Trianon, un parco all’inglese, cogli alberi più alti del palazzo, con una vasta estensione di bosco, una cascata, un lago, dei frutteti, delle vigne, dei campi come se ne vedono pochi. Dunque non ci potevano essere inconvenienti a quella amicizia, quel giovane apparteneva evidentemente ad una famiglia molto ricca, e quindi era il ben venuto nella sua casa. Qualche interrogazione sagace fatta ai conoscenti e agli amici l’avevano anche perfettamente rassicurata sulla condotta di lui. Era un giovinotto che non frequentava che da Florian, non fumava che sigari d’avana, era carambolista di prima forza, non c’era pericolo che si rovinasse al giuoco, perchè perdeva di raro. Si poteva dunque ammetterlo nella più stretta intimità, ed invitarlo a pranzo senza riguardi. Frattanto papà Gervasio scriveva a suo figlio: «Ti raccomando l’economia. Tu mi assicuri che la biancheria che hai fatto venire da Parigi ti costa meno che se l’avessi acquistata a Venezia, sarà benissimo, ma la tua nonna mi ha fatto delle buone camicie, che mi vanno benissimo e costano meno della metà. In quanto alla polizza del sarto di Milano ti posso assicurare che è esorbitante, e la durata delle stoffe, che tu credi che deva compensarti del prezzo, è una vana illusione. La nonna voleva che Maria ti facesse un paio di guanti di lana, per star caldo, ma tua cugina pretende che tu non vuoi portare che guanti di pelle. Sai che non siamo ricchi, che il povero nonno ci ha lasciati molti debiti che aggravano le campagne, e con questi anni cattivi, colla malattia delle uve, la siccità, le grandini, il prezzo basso dei cereali, la miseria dei contadini, i possidenti si trovano in pessime condizioni. Capisco che la tua condizione esige una tenuta decorosa, e che la moderna società ha molte esigenze; ma procura di non passare i limiti, e pensa alle privazioni che ci siamo imposte per mantenerti a Venezia. «La mia salute non è perfetta, ho delle sofferenze intestinali, ma col tempo e le cure passeranno anche queste. Tutti gli altri di casa stanno benissimo, e ti mandano i più affettuosi saluti.» I giorni che gli capitavano di queste lettere Silvio si sentiva invaso da profonda malinconia, alzava gli occhi al soffitto ed esclamava: —Ah! non essere milionario, è la più gran disgrazia che possa toccare ad un uomo che deve vivere in società!... Libertà, indipendenza, diritti dell’uomo e del cittadino!... sono frottole che fanno sbraitare gl’imbecilli, ma infine dei conti non esiste nè libertà, nè indipendenza, nè nulla di buono a questo mondo senza il denaro!... Mio padre non è mai stato splendido, ma adesso che è vecchio diventa avaro. Se la povera nonna non mi aiutasse colle sue economie, se il bigliardo non mi assicurasse dei vantaggi, colla sola mesata paterna non mi sarebbe possibile di vivere a Venezia nella buona società. Una domenica mattina se ne andò a passeggiare, solitario, sulle _fondamenta nuove_, in fondo della città, e in quel deserto fumava un sigaro da un soldo, e meditava sui destini dell’uomo.... senza soldi. L’acqua turchina batteva le rive, s’increspava intorno alle isole, si perdeva in un lontano orizzonte confuso col cielo. A diritta qualche barca peschereccia colla vela riflessa nella laguna filava orzando verso il mare; a sinistra i monti che fanno corona al territorio trivigiano, con una leggiera tinta violetta sfumavano nell’azzurro. L’aria fresca che batteva sul viso era pregna dei profumi iodiati delle alghe, e di sapori salini. Quella quiete, quella solitudine, quei sentori, quel prospetto che gli ricordava gli sfondi pittoreschi del suo parco, trasportavano il pensiero di Silvio alla casa paterna, alle cure serene, ai piaceri semplici della vita domestica. Si ricordò di Maria con tenerezza e con rimorso, pensò che in quel ritiro suo nonno giuocava la vita per l’emancipazione della patria, lo zio era stato sacrificato allo stesso intento, la zia era morta di dolore, suo padre era partito per la guerra e per l’esilio, la nonna aveva passata l’esistenza nella solitudine fra le ansie delle persecuzioni. Ah quei poveri vecchi non avevano mai pensato alla necessità dei milioni, non aspiravano che all’indipendenza del paese, e vivevano modesti e laboriosi sacrificando tutto a questo santo dovere!... Colla mente attristata e il cuore malcontento, con una burrasca di pensieri nel cervello, ove i progetti fantastici, lottavano colle idee sane, rivolse i passi verso l’interno della città. Camminava lentamente, col cappello sugli occhi e il sigaro da un soldo fra i denti, senza guardare in faccia la gente che incontrava per via, sempre pensieroso, girando per un labirinto di calli strette, nell’ombra umida fra le case, salendo e scendendo gli scalini verdognoli e smussati dei vecchi ponti, senza guardare nelle gondole che passavano sotto col tonfo monotono dei remi che rompevano il silenzio di quei poveri quartieri, e sparivano nei canali tortuosi. Dopo lunghi raggiri, giunse finalmente in calle larga San Marco, svoltò per la merceria, e si trovò sotto l’arco della Torre dell’Orologio. Il sole che gli battè sul viso tutto d’un tratto parve che lo destasse da una specie di letargo. Alzò la testa, abbracciò collo sguardo il prospetto della Piazzetta, il Palazzo ducale, le due colonne del leone e di San Teodoro, la laguna, le barche, l’isoletta di San Giorgio, tutto immerso in un lago di luce abbagliante. Una soave armonia echeggiava sulla piazza, un cantico soave di voci celestiali s’innalzava nell’aria, e dopo gli accenti variati d’un a solo melodioso, prorompeva in un solenne rimbombo di tutti gli istrumenti, che pareva un inno trionfale. Era l’ora della musica. La piazza presentava l’aspetto d’una sala immensa, percorsa da una fila di signore eleganti che passeggiavano fra un corteggio di ammiratori. Si udiva un fruscio di seriche vesti, si vedevano tutti i colori che brillavano al sole fra gli abiti scuri degli uomini. Si respirava un’atmosfera artificiale mista di esalazioni confuse di tabacco e di muschio. Un cappellino capriccioso sopra una testa bionda, fece evaporare immediatamente tutta la tristezza dal cervello di Silvio. Addio pensieri malinconici, addio progetti di severa resipiscenza. Alla vista delle signore Ruggeri il giovane praticante dello studio gettò in fretta il mozzicone del sigaro da un soldo, si atteggiò al più grazioso sorriso, abbassò rispettosamente il cappello fino al ginocchio, strinse la mano all’avvocato, presentò i suoi complimenti alla signora Emilia, un sorriso ed un’occhiata alla signorina Metilde, e si unì alla comitiva che passeggiava su e giù dal fondo della piazza alla basilica, andando e ritornando come tutti gli altri. La viva luce che illuminava la chiesa pareva che trasformasse i vetri rotondi delle grandi arcate in tante medaglie d’argento, e le figure dei mosaici, a colori smaglianti, nuotavano nel fondo d’oro, mentre le onde armoniose della musica passavano sulla folla. Davanti a quei prospetti e fra quelle melodie indistinte e confuse con altre voci, le parole umane acquistano una espressione singolare, specialmente fra la gioventù e la bellezza, fra le seduttrici e i sedotti. I suoni reboanti della musica incoraggiano le audacie del dialogo e talvolta lo interrompono a proposito, l’a solo sentimentale d’un soave istrumento serve a meraviglia per accompagnare una frase gentile, e ne rialza il valore. L’uomo può arrischiare una dimostrazione velata, meglio che in un salotto, perchè la donna può fingere di non udirla, e i mariti, i babbi e le mamme, assordati dalle trombe e dai tamburi, non l’odono di sicuro. XI. Tutto quell’inverno fu rallegrato dai più deliziosi passatempi. Le noie della pratica curiale venivano lautamente compensate dai passeggi, dalle conversazioni, dalle feste da ballo, dagli spettacoli dei migliori teatri. Durante il giorno, nello studio dell’avvocato, Silvio imparava come si guadagna il denaro a spese dei litiganti, ed ogni sera imparava a spenderlo nella buona società. Il bisogno dei milioni, o almeno almeno di qualche migliaia di lire, si faceva vivamente sentire. S’era fatto degli amici che la pensavano come lui, non erano ricchi, perdevano al giuoco, si divertivano, e tuttavia non mancavano di denaro. Dove diavolo andavano a trovarlo? Si mise a studiarli a fondo, e a interrogarli: —Avete trovato una miniera?... —Sicuro, gli rispondevano, la miniera inesauribile delle umane miserie, delle corbellerie, delle dabbenaggini, delle birbonate, e delle geste quotidiane del genere umano!... —Che cosa volete dire!... non capisco niente! parlatemi più schietto, dove trovate il denaro per divertirvi?... —Nella stampa! gli risposero, in questa lupa affamata, che divora ogni giorno tutte le nostre ciarle, che consuma delle montagne di carta manoscritta, ed è sempre insaziabile per quanto inghiotta, e domanda continuamente dei nuovi alimenti, ed è costretta di pagarli. Noi siamo i fornitori della sua cucina. —Vorrei potervi imitare, ma non sono letterato, non so proprio nulla, non ho mai avuto il tempo di studiare. —Ma che letterati d’Egitto!... noi non siamo più sapienti di te. Slamo del numero infinito dei corrispondenti, che mandano della materia brutta... ma molto brutta a tutti i giornali del mondo. Non siamo capaci di scriver bene, con ponderazione e misura, ma per improvvisare siamo eccellenti. Chi scrive bene muore di fame, meno rare eccezioni. La stampa paga sempre in ragione inversa del volume. Un grosso volume in ottavo produce meno d’un modesto in sedicesimo il quale è meno pagato d’un articolo. La letteratura mena direttamente al fallimento, il giornalismo è più promettente, e può condurre alla ricchezza. Noi mandiamo ogni giorno le notizie di Venezia alla capitale ed all’estero, e ne ricaviamo qualche profitto. Il nostro uffizio di redazione è la bottega di caffè, dove gettiamo sulla carta tutte le ciarle del giorno, e senza nemmeno rileggere lo scritto lo portiamo alla posta. Non si guadagnano tesori, ma con tre o quattro giornali quotidiani si vive. Basta scrivere ogni giorno qualche novità.... —E quando non ce ne sono? —Ce ne sono sempre!... È impossibile che Venezia non fornisca qualche argomento alle nostre ciarle. Politica, amministrazione, belle arti, teatri, tutto ci serve. Quando non si sa parlare a fondo di niente, si può scrivere di tutto per sommi capi, degli articoletti divisi come le strofe d’un sonetto. È un genere che piace. È poi affatto impossibile che manchi un argomento piacevole alla cronaca del giorno, un assassinio, un fallimento, un furto, un suicidio, è impossibile che una buona ragazza non faccia uno scapuccio, e ci fornisca la materia per un articoletto verista, è impossibile che un camino non prenda fuoco, che la buon’anima d’uno spiantato non si getti in laguna, che un qualche cassiere non fugga, che il diavolo non metta la coda in qualche sito proibito. In caso disperato, anche senza essere letterati non siamo tanto scemi da non saper inventare una storiella spiritosa, che diverta il pubblico per qualche giorno. Diceva bene Balzac: «_pour le journaliste, tout ce qui est probable est vrai_.» Noi non abbiamo corrispondenze che con Roma e Milano, ma tu che sei nato in Francia, e scrivi il francese meglio dell’italiano, tu potresti guadagnare moltissimo mandando delle corrispondenze a Parigi. Silvio afferrò subito questa idea luminosa, scrisse un gran numero di lettere promettendo qualche cosa di nuovo e di interessante su Venezia, inesauribile argomento di osservazioni e di studi, che gli venivano in mente, ispirati dall’amore che suo padre gli aveva comunicato per questa città singolare. Portò le sue lettere alla posta pieno di illusioni, ma il giorno seguente dopo maturo esame, perdette ogni speranza di buona riuscita, e perplesso fra questi due estremi aspettò il risultato della sua prova. In quel tempo giunse alla villa Bonifazio l’annunzio del prossimo matrimonio del cugino Alessandro, che aveva lasciato il servizio nell’esercito per prender moglie, e invitava a nozze i cugini. «L’esempio della vostra vita tranquilla mi ha spinto a questo passo, egli scriveva, e l’esperienza del mondo mi ha persuaso che se vi sono dei giorni felici non si possono raggiungere che nella intimità della vita domestica, e nella pace della campagna. La casetta ereditata dallo zio mi facilita l’intento. La mia Enrichetta sarà come la Maddalena un’ottima moglie, e una brava padrona di casa. Venite dunque ad assistere al mio matrimonio, e la vostra cara presenza sarà il migliore augurio che io possa desiderare per l’avvenire.» Papà Gervasio soffriva troppo degli intestini per fare quel viaggio, Maddalena, come al solito, non voleva lasciare un solo giorno la sua Maria; scrissero dunque a Silvio di partire per la Brianza per rappresentare la famiglia alle nozze del cugino. Ma Silvio, che non voleva allontanarsi da Matilde in carnovale, prese il pretesto di affari urgentissimi dell’avvocato che non gli permettevano di assentarsi, si scusò col padre e col cugino, e non si mosse da Venezia, aspettando ansiosamente le risposte dei giornali. I primi riscontri gli vennero dalle provincie. Lo ringraziavano della sua ottima idea, accettavano la sua corrispondenza con sommo piacere, dolenti soltanto di non poterlo ricompensare che con una copia del giornale, il quale viveva della carità di qualche benemerito del partito, che però non bastava a salvarlo dai debiti, da cui era minacciata continuamente la sua esistenza. Un giornale di Parigi domandava un saggio degli scritti proposti, e se fosse riuscita la prova avrebbe accettato un articolo alla settimana, convenientemente retribuito. Un giornale di Roma accettava la corrispondenza senza prove, e assicurava un assegno mensile. Dagli altri nessuna risposta; le domande di corrispondenza erano state gettate nel cesto. Questo risultato gli parve inferiore alle prime speranze, ma di gran lunga migliore di quel fiasco completo, minacciatogli da troppa paura. Si accinse al lavoro, e non gli mancarono gli argomenti. Cominciò a parlare di feste e di spettacoli, intrecciando le relazioni del presente colle memorie del passato. Cercò di scoprire antiche origini d’usi sociali, mise le fabbriche antiche a paragone delle moderne, la basilica di San Marco colla stazione della ferrovia, i marmi antichi col gesso dei nostri giorni, il Ponte di Rialto coi ponti di ferro, che cancellano i palazzi del Canal Grande, come si cancella un conto sbagliato sopra un registro. Osservò nei ritratti dei musei e nelle medaglie le fisonomie degli antichi veneziani, e andò a cercarne le traccie nel popolo, e a forza di studi comparativi giunse a stabilire un sistema inverso di quello di Darwin, per dimostrare la degenerazione della razza veneziana. L’epoca del carnovale si prestava allo scherzo, ed alla scoperta dei discendenti degli antichi. Annunziò che il proprietario d’un caffè della piazza portava tutti i lineamenti d’un doge, che il gobbo che lustrava le scarpe scendeva sicuramente da un inquisitore di Stato, dipinto da Paolo Veronese. Il mercante di caramelli doveva essere un nipote del Cardinal Bembo, una fioraia che correva pei caffè era l’esatta riproduzione della Zulietta dipinta da Rousseau «in vestito di confidenza.» I famosi navigatori rispettati in tutti i mari del mondo erano tralignati nei gondolieri che non facevano che il giro dei canali, minacciandosi da lontano. I discendenti del _maggior Consiglio_ andavano in maschera da pagliacci, un erede di Marco Polo era vestito da Pantalone, e un pronipote di Gasparo Gozzi indossava l’abito appezzato dell’Arlecchino, i _Signori di notte_ suonavano nelle orchestre dei teatri, e i _Savi_ erano diventati matti. In ogni relazione introduceva degli aneddoti piccanti, e delle biografie piene di brio. Le sue corrispondenze facevano ridere, e questo fu un vero successo, per la stagione di carnevale. Quando venne la quaresima, volle che i suoi lettori facessero un poco di penitenza, e allora andò a spolverare gli antichi documenti degli archivi, e le pergamene tarlate, e si mise a parlare di storia. I suoi lettori si addormentavano col giornale in mano negli angoli dei caffè. Egli comprese subito che aveva trovato la chiave del vero corrispondente, e che disponeva a suo talento dell’animo dei lettori del giorno. Venne pregato di mandare anche delle notizie politiche, e fu l’inventore d’un nuovo genere di corrispondenze che ottenne un vero successo nel giornalismo, e fu prontamente imitato da vari periodici. Ecco in che cosa consisteva la sua invenzione. Egli raccoglieva le notizie di vari giornali francesi, sapeva ornarle d’una veste nuova, e le mandava a Roma, d’accordo col giornale, come corrispondenze di Parigi. E a Parigi mandava corrispondenze da Roma, eseguite sullo stesso stampo, coll’aggiunta di vari fatterelli curiosi raccolti da qualche deputato in vacanza, da persone che ritornavano da Roma, e da un signore che parlava ad alta voce in uno stanzino del caffè Florian, e che era sempre bene informato delle cose pubbliche, meglio del Questore e del Prefetto. In breve tempo Silvio divenne un vero _reporter_ di mestiere, curioso indagatore di novità, domandava conferenze e colloqui con personaggi illustri che giungevano a Venezia, commetteva le più audaci indiscrezioni, e le sue lettere acquistavano un credito, che gli veniva largamente retribuito. E così passò il primo anno di pratica, e l’inverno successivo, immerso nel lavoro, leggendo tutto, e studiandosi di perfezionare la forma letteraria per rendere più gradevoli i suoi scritti. Le ore della sera, prima del teatro, erano tutte dedicate alla famiglia dell’avvocato, a conversare con Metilde, ad ascoltare la musica delle sue parole, e del suo pianoforte, ad ammirare la sua grazia e la sua coltura. E non volle mai saperne di lasciare Venezia un solo giorno, giustificandosi colla famiglia col pretesto dei lavori legali che non gli lasciavano un’ora di libertà. Papà Gervasio, non potendo ottenere che suo figlio andasse a passare qualche giorno in campagna, gli faceva delle sorprese, recandosi a Venezia, ma per poche ore, con un viglietto di andata e ritorno. Arrivava colla prima corsa, entrava tutto ansante, carico di cestelle e di sporte, nella camera del figlio, che dormiva ancora. Gli dava un bacio e poi si metteva a sciogliere gl’involti, e sciorinava gli oggetti sul tavolo e sul cassettone, e metteva in mostra le frutta della stagione, e quelle che aveva saputo conservare. In primavera erano fragoloni più grandi delle noci, d’estate ciliege grosse come prugne, prugne grosse come persici, persici grossi come melagrani. D’autunno peri profumati meravigliosi, pomi d’ogni forma e d’ogni colore dal piccolo Appio dolce al _rainette_ grigio del Canadà. Tirando fuori i fragoloni, papà Gervasio diceva: —Guarda _Mac-Mahon_, è una delle più grandi varietà! guarda la _Regina Vittoria_, è delle più saporite. Mettendo in riga le pera e i pomi li voltava sempre dalla parte più colorita, li puliva colla palma della mano, li lucidava colla manica del vestito e li nominava: —Gnocco di Milano!—Generale Totleblen—Cardinale—Butirro Napoleone! Tutti di casa caricavano il povero papà Gervasio per spedire qualche dono al figliuol prodigo. D’inverno Maria gli mandava delle eccellenti conserve di frutta, in primavera le più belle varietà di rose, d’autunno delle uve moscate color d’oro. La nonna prodigava le calze, le mutande, i corpetti di lana, eseguiti colle sue mani, intrecciando infiniti pensieri e qualche lagrima all’eterna catena della maglia. Silvio si vestiva ammirando e ciarlando, ringraziava e domandava conto di tutti. Allora il papà gli raccontava le sue piccole sofferenze intestinali senza gravità, poi passava a narrargli i grandi avvenimenti della villa.—Mumut era scomparso improvvisamente di casa, Maria disperata lo fece cercare invano per molti giorni; è facile immaginarsi le sue angustie, i suoi sospetti su certa gente alla quale non ripugna il gatto in umido, purchè sia grasso. Non era possibile di ritrovarlo. Finalmente il maestro Zecchini lo vide accovacciato pacificamente in cima al muricciolo dell’orto della vicina masseria. Una passione sfrenata per una gatta dell’affittuale lo teneva schiavo in quel sito, immemore delle cure costanti di tua cugina, con ingratitudine colpevole. Venne portato a casa che non era più riconoscibile, magro consunto dalla passione, spelato per le lotte sostenute coi rivali. Ora si è abbastanza rifatto, ma conserva una morbosa malinconia che gli impedisce di ritornare alla sua naturale pinguedine. Ma adesso viene il più bello, ascolta anche questa. Pasquale incaricato di fare le più minute indagini per rinvenirlo, mancava ogni giorno di casa per lunghe ore, trascurando il servizio, ma abbiamo scoperto che invece di mettersi alla ricerca del gatto, egli andava a dormire sul fieno. —Non mi sorprendo, disse Silvio, la malafede e la poltroneria sono del numero dei suoi difetti. Quando Silvio era pronto facevano un giretto per la piazza, andavano a respirare una boccata d’aria salina sul ponte della Paglia, tornavano alle Procuratie, e passavano al _Cavalletto_, ove Gervasio faceva una colazione di pesce fresco, in compagnia di suo figlio. Dopo colazione ritornavano all’alloggio di Silvio, facevano una scelta delle cose migliori portate dalla campagna, e andavano a presentarle alla famiglia dell’avvocato. La signora Emilia riceveva papà Gervasio con cordiali dimostrazioni di amicizia, gradiva moltissimo quelle frutta, ne faceva mille elogi, diceva di non averne mai vedute di eguali; e si riconfermava sempre più nell’idea della ricchezza dei Bonifazio, che potevano vantare simili prodotti. Papà Gervasio gongolava agli elogi delle sue colture, e rispondeva che, in fatto, quelle frutta non si trovano in commercio, sono cose da dilettanti; e invitava la signora a visitare la sua villa, e a passarvi alcuni giorni colla sua famiglia, senza complimenti. —Mille grazie del cortese invito; una volta o l’altra ne profitteremo, prometteva la signora. —Sarà un vero piacere, e un grande onore per la nostra casa. La bella Metilde ammirava i fiori, li disponeva artisticamente nei vasi del salotto, cacciava i suoi dentini d’avorio nei fragoloni, gustava un po’ di tutto, e proclamava con tanta grazia le delizie di quelle frutta, che papà Gervasio le avrebbe dato un bacio assai volontieri, e sentiva il sapore di quei prodotti meglio che se li avesse mangiati. Capitava l’avvocato, ed erano nuove meraviglie, chiamavano anche i giovani dello studio ad ammirare quei prodotti della terra promessa. Dopo le lodi delle frutta venivano fuori gli elogi del figlio. Tutti ne dicevano un gran bene, meno la signorina Metilde, che lo pensava più degli altri, ma taceva per convenienza di ragazza bene educata. La signora Emilia parlava di Silvio come del più caro amico di casa, e il più fedele; l’avvocato mostrava di stimarlo un giovinotto di slancio, di spirito pronto, e che da qualche tempo s’era anche messo a studiare. Gervasio usciva da quella casa consolato, Silvio lo accompagnava alla ferrovia, e mentre la gondola li trasportava attraverso i canali, il padre mostrava al figlio la sua soddisfazione, e largheggiava di promesse e consigli. —Continua a condurti bene, gli diceva, studia, lavora, e procura di fare delle economie, perchè gli anni sono sempre più cattivi, e cerca di contentare l’avvocato e le signore. Una volta, ritornato da una delle sue gite, beato degli elogi che l’avvocato aveva fatti a suo figlio, papà Gervasio andava ripetendo al maestro Zecchini, e gli osservava: —Dovete convenire che la vostra teoria pessimista non è applicabile a mio figlio, e fregandosi le mani aggiungeva: non tutti gli uomini sono asini, caro maestro. —Dipende.... gli rispondeva seriamente l’amico. —Come dipende?... da che cosa dipende?... —Dipende dal punto di vista dal quale partono le osservazioni.... —Come sarebbe a dire? —Ogni cosa ha la sua luce e le sue ombre. Voi vedete vostro figlio dalla parte della luce, e vi presenta un bell’aspetto; se lo guardaste dall’altra parte, forse l’effetto sarebbe diverso. —Ciò vuol dire in poche parole che non credete ai meriti di mio figlio. —Parlo in generale. Credo poco a tutte le apparenze. La società impone ad ogni uomo una veste morale che nasconde la sua natura. Per conoscere a fondo un individuo bisogna esaminarlo come si fa coi coscritti. —E come si spoglia un uomo dalla sua veste morale? —È molto difficile, se non impossibile. L’unico partito per giudicare un uomo con probabilità di giustizia, è quello di aspettare che sia morto. Allora sulla tavola anatomica si spoglia il cadavere, si può fargli la sezione, si scoprono tutte le macchie e tutti i malanni nascosti. Sapete che pochissimi uomini muoiono di morte naturale, la maggior parte perisce per qualche.... asinaggine. Dunque aspettiamo a giudicare gli uomini dopo la morte. —Caro maestro, conchiuse Gervasio, desidero di potervi giudicare più tardi che sia possibile. —Grazie tante, caro Gervasio. Nella primavera del secondo anno Silvio ricevette una lettera della nonna, la quale gli annunziava che suo padre era a letto da qualche giorno, essendosi aggravate le sue sofferenze intestinali. Corse subito alla villa. La malattia non presentava alcun pericolo, ma vedendo che la sua visita era riuscita molto gradita a suo padre, egli decise di fermarsi qualche giorno in famiglia. La campagna gli pareva un altro mondo dopo il soggiorno prolungato di Venezia. Dai palazzi di marmo che si specchiano nell’acqua agli alberi del parco, dalla laguna solcata di barche ai campi arati dai buoi, dall’orizzonte infinito della marina al prospetto dei monti, la scena era intieramente cambiata, e tutto si presentava ai suoi sguardi con proporzioni diverse, e con aspetto modificato da quello d’altro tempo. È il solito effetto dei confronti. Chi visita Parigi per la prima volta resta sorpreso dell’ampiezza e del movimento delle strade, della larghezza della Senna, e dei ponti. Ma se ritorna a Parigi da Londra la città gli sembra più piccola e meno popolosa; le strade diritte, i parchi grandiosi, i bastimenti che passano sotto i ponti del Tamigi, diminuiscono le proporzioni dei _boulevards_ e fanno gran torto alla Senna. Tornando da Venezia dopo un lungo soggiorno e fermandosi in una città di terraferma si subisce lo stesso effetto, tanto quella città singolare non somiglia a nessun altro paese. Silvio trovava la sua casa più piccola, le stanze più basse e anguste, i mobili vecchi e di cattivo gusto, le battaglie di Napoleone ridicole, i ritratti dell’imperatore e dei suoi generali manierati come tante teste di legno, il parco troppo trascurato. E la bella Maria?... oh povera Maria, quale sorpresa!... Come pettinava goffamente quei capelli abbondanti! come vestiva senza garbo!... e quelle mani rosse e quei piedi così grandi e mal calzati, e quell’aspetto impacciato, e quella voce ingrata, e quei movimenti sguaiati, e quelle espressioni volgari!... Essa accolse il cugino con una lagrima nel sorriso, la bocca affettuosa, gli occhi ridenti, ogni lineamento del suo viso indicava una gioia mista di commozione trepidante. —Dopo tanto tempo!... e forse per così poco!... E lo osservava con muta sorpresa perchè le pareva più serio, più elegante, più disinvolto, e non osava interrogarlo, ma pure tradiva la curiosità collo sguardo. La nonna era invecchiata assai, bianca, deperita, s’incurvava sempre più sotto il peso degli anni, le scemavano le forze. Maria, la sua brava allieva, faceva tutto da vera padrona di casa. Papà Gervasio vedendo che sua madre non era più in caso di sostenere la fatica, non voleva essere assistito che dalla nipote, era la sua cara suora di carità, e gli faceva anche da segretario, da cuoca, e da cassiera. Ed essa dalla mattina per tempo fino a notte inoltrata, saliva e scendeva rapidamente le scale, sempre d’ottimo umore e di buona volontà. Col suo mazzo di chiavi appeso alla cintura del grembiale bianco di bucato, correva qua e là, a somministrare l’occorrente a tutti, a dare gli ordini, ad eseguire colle sue mani le cose più delicate; il brodo ristretto pel povero ammalato, le minestrine leggiere per la nonna. Tutti la invocavano da ogni parte, chi domandava la panna per fare il butirro, chi voleva la crusca per le mucche, chi l’avena pel cavallo. Un affittuale veniva a fare un pagamento, un altro a domandare una sovvenzione, essa riceveva, pagava, notava, dava delle disposizioni opportune, e dei buoni consigli. Gli ammalati mandavano a chiedere un decotto, i poveri la supplicavano d’un soccorso, ed essa soddisfaceva tutti con bontà, e aveva sempre in saccoccia un crostino per Falcone, un pezzetto di zucchero per Argo, qualche seme di popone pei canarini. Uomini e bestie tutti le volevano bene. La nonna e Silvio in fianco al letto del malato gli facevano compagnia, e il giovinotto osservava attentamente le delicate attenzioni di Maria per suo padre, il quale lodava la nipote per tutte le sue buone qualità. —Se tu sapessi come è buona, la mia Maria, gli diceva il padre, come è brava, previdente, solerte, peccato che non abbia avuto una bella educazione.... la poveretta sa appena leggere e scrivere, e fare un conto, ma non ha più un minuto di tempo per coltivarsi.... —Ne sa più di quanto basta per diventare un’ottima madre di famiglia, brontolava la nonna, e per rendere felice l’uomo che sarà suo marito. Osservandola minutamente, nei momenti che essa non poteva vederlo, Silvio si persuadeva che Maria era belloccia, buona, intelligente, operosa, ma non poteva dissimularsi che era incompleta, le mancava l’istruzione indispensabile a chi deve vivere in società, e quell’arte elegante che insegna alla donna a far valere i suoi pregi, o a nascondere e sostituire le sue mancanze, mercè gli indumenti esterni, e le cure speciali della persona. Una bella statua mal vestita fa più triste figura d’una marionetta uscita dalle mani esperte d’una modista eccellente; e qualche volta una prima impressione è decisiva per l’esistenza. È vero che quando ad un rapido sguardo succede un esame più coscienzioso, si finisce a discernere le apparenze dalla realtà, e il commercio della vita scopre tutti i segreti, e rivela tanto i vizii dissimulati che i pregi nascosti fra i quali primeggiano quelli dell’anima. E infatti era impossibile di vivere lungamente accanto a Maria senza volerle bene, e senza trovarla bella, perchè la bontà s’irradia sul volto e lo abbellisce meglio dell’arte più raffinata. Gli occhi ridenti e soavi di Maria penetravano insensibilmente nel cuore di Silvio già predisposto da quella simpatia che era nata nella intimità degli anni giovanili, e che si ridestava nelle abitudini della convivenza. Ma forse quell’affezione nascente si sarebbe assopita, o trasformata in amicizia, senza il soffio dell’invidia che nell’animo acceso del cugino, produceva l’effetto del mantice davanti il fuoco. Gli faceva rabbia quel sornione d’Andrea che continuava ad aspirare copertamente all’amore di Maria, dissimulando quanto poteva le sue tendenze, perchè sentiva di non essere corrisposto nè inteso, e non voleva accrescere le difficoltà dell’impresa, nè comprometterne il risultato, con intempestive dichiarazioni che lo esponessero ad essere allontanato dalla famiglia. Ma Silvio, memore del passato, e d’indole perspicace, non ebbe bisogno che d’una occhiata per accorgersi che l’amico di casa perseverava pazientemente nelle sue idee, le dissimulava con prudente astuzia, aspettando il momento opportuno per farsi avanti, con qualche probabilità di successo. Il giovane Bonifazio non poteva soffrire la ruvida natura di quel gaglioffo, gli pareva che la pretesa di farsi rimarcare da Maria fosse quasi una sfida verso di lui, lo trovava stupido e audace, e quei sentimenti gelosi gli rivelavano l’amore per la cugina, e l’odio per Andrea. A costui parve che Silvio volesse leggergli in fronte i pensieri, e guardava in cagnesco il giovinotto elegante, che contrariava la sua inclinazione. Parlavano di raro fra loro; Silvio gl’indirizzava la parola con sprezzante alterigia, Andrea gli rispondeva poche parole, cogli occhi torbidi, e i lineamenti contratti. Parlando colla nonna e con suo padre, Silvio pronunziò qualche parola sprezzante all’indirizzo d’Andrea, ma si sentì confutare, con sommo rammarico. Pareva anzi che il loro affetto per Pigna fosse cresciuto, e mostravano di crederlo degno di stima e di amicizia. Maria lo difendeva sempre colla più ingenua semplicità, e raccontava al cugino tutti i piccoli servigi che quel giovane rendeva alla famiglia, prestandosi cortesemente in tante brighe noiose. Essi lo impiegavano continuamente dentro e fuori di casa. Oltre l’assistenza che dava allo zio nelle cure delle serre e dei fiori, egli faceva acquisti e vendite per conto loro, sorvegliava i coloni e i domestici. Quest’ultima rivelazione illuminò lo spirito di Silvio, come un lampo. Se costui sorveglia i domestici, egli pensò, deve essere in uggia a Pasquale, che non vorrebbe essere sorvegliato; ecco dunque un alleato. Saprò qualche cosa da lui sul conto di Andrea, e potrò servirmene all’uopo. Silvio andò in scuderia a visitare Falcone al momento della strigliatura, disse qualche parola benevola al domestico per amicarselo, e cominciò a chiedergli conto di alcune persone che frequentavano la casa, per finire, con apparente indifferenza, a domandargli d’Andrea. Quel scimmiotto di Pasquale parlava del giovane come di un orso. Era evidente che l’orso e lo scimmiotto sentivano una ripulsione reciproca e si evitavano. Lo scimmiotto accusava l’orso di essere avaro: perchè non gli dava mai un soldo di mancia; d’essere traditore: perchè svelava ai padroni i suoi istinti rapaci; d’essere una spia: perchè sapendolo sciocco e rapace lo teneva d’occhio affinchè non danneggiasse la famiglia amica, verso la quale aveva delle obbligazioni e dei doveri. Anche dal maestro Zecchini non potè saperne di più. Secondo il maestro, Andrea era uno degli innumerabili asini usciti dalla sua scuola, nel lungo esercizio delle sue funzioni dalle quali si era finalmente ritirato, lasciando il mondo, poco su poco giù, come lo aveva trovato alla prima lezione. —E credo fermamente, egli diceva, che gli uomini saranno sempre gli stessi. Chi vive contento di tutto e di tutti, chi non è mai contento di niente e di nessuno. —Eppure, gli osservava Silvio, siete vissuto in epoche affatto diverse, e in tempi burrascosi, siete passato dalla schiavitù all’indipendenza, dal regime dispotico alla libertà, e anche gli uomini avranno mutato le loro tendenze, i loro vizii, le loro virtù.... —Niente affatto! gli uomini sono sempre gli stessi. Tanto all’epoca del dispotismo straniero quanto col regime della libertà si trovano i contenti e i malcontenti; adesso, come nella mia gioventù, ci sono società segrete e congiure, allora si voleva scacciare il governo austriaco, adesso si vorrebbe rovesciare la monarchia; più tardi si tenterà di mandare a rotoli la repubblica. Si ottennero delle cose che parevano impossibili, adesso se ne domandano delle altre che paiono utopie. Ma l’impossibile e l’utopia sono parole senza significato. Tutto è possibile a questo mondo!.... ma niente è perfetto. Quando c’erano i Tedeschi avevamo il vino in abbondanza e a buon mercato, ma non si poteva star allegri sotto la minaccia costante del carcere e della forca. Adesso che siamo liberi, si potrebbe stare allegri, ma non abbiamo più vino. Dispotismo o filossera, Austriaci o peronospora, c’è sempre qualche cosa che contrista la nostra esistenza! Adesso non c’è più pericolo d’andare in berlina, i galantuomini non sono più condannati al carcere ed all’esilio, ma i contadini devono esiliarsi spontaneamente, ed emigrare in America perchè la terra non dà più da vivere, i piccoli possidenti sono rovinati, i grandi sono minacciati dal petrolio e dalla dinamite, dai nichilisti e dagli anarchici che vogliono distruggere la società. E perchè tutto questo?... perchè l’uomo è un asino, che si lamenta quando è legato alla greppia colla cavezza, e appena lasciato libero mena calci da disperato e calpesta da stolto la terra, sulla quale non sa vivere, nè lasciar vivere in pace i suoi simili. Sono vecchio, sono vicino a lasciare il mondo, ho veduto delle cose tremende, ho assistito a degli avvenimenti meravigliosi, eppure non ho mai cambiato il criterio che mi sono formato alla prima lettura della storia:—l’uomo è un asino!...—Il vostro povero nonno andava in collera quando udiva questa verità, ma non ha mai saputo confutarla con validi argomenti. Vostro padre ha sempre riso della mia ostinazione, ma non ha mai osato discuterla sul serio; che cosa ne pensate voi, caro Silvio, che avete studiato tanto da diventare dottore, avvocato, e mi dicono anche giornalista, ditemi francamente che cosa pensate della mia teoria? —Caro maestro, ho sempre udito dire che i vecchi la sanno più lunga dei giovani, quindi sono incompetente a pronunziare un giudizio sopra la vostra sentenza. Ho poi imparato nella mia pratica d’avvocato che tutto è possibile, anche l’impossibile; che nessuno a questo mondo può essere mai sicuro di avere completamente torto o ragione, in qualsiasi questione. L’ingegno può essere un’apparenza, la virtù un’opinione, l’utopia una futura realtà. L’ideale può essere una verità, il vero può essere un inganno; non c’è niente di positivo nè di sicuro nè di assoluto, e quindi anche la vostra teoria non può essere che relativa.... —Capisco, capisco, siete uno scettico, non credete nemmeno ad una delle verità più evidenti, come l’asinaggine umana! —Non credo alla generalità della vostra teoria, ma non posso negare che credo all’asinaggine d’una grande maggioranza della razza umana.... —Ebbene, basta così, mi avete dato completamente ragione, senza accorgervene. Dopo immense tribolazioni, dopo le rivoluzioni e le guerre più sanguinose, abbiamo vinto, ci siamo liberati da tutte le oppressioni, e per conservare la libertà abbiamo adottato il sistema parlamentare, il governo della maggioranza!... cioè il dominio degli asini!!!... Silvio diede una sghignazzata solenne, prodottagli dalla logica del maestro. Ma vedendo che era uscito dalla questione che lo interessava maggiormente, e che non avrebbe potuto saperne di più sul conto d’Andrea, prese congedo dal maestro, il quale restando sempre serio, lo accompagnò fino alla porta, gli strinse amichevolmente la mano, e si ritirò. Il medico si mostrava soddisfatto dei miglioramenti progressivi della salute di papà Gervasio, la nonna e Maria se ne consolavano, il solo malato non era contento, e coi cenni del capo mostrava di non credere alle asserzioni del dottore. Pareva che non avesse più fede nella vita, l’avvenire lo preoccupava seriamente, faceva dei discorsi melanconici. Conversando con suo figlio si provò a persuaderlo delle magre risorse della professione di avvocato, specialmente per un giovane principiante, gli mostrò le amarezze e i pericoli del giornalismo, e contrapponeva a queste osservazioni le dolcezze della vita domestica, la quiete salutare dei campi, mostrando il più vivo desiderio che Silvio pensasse al sodo, prendesse moglie, venisse a stabilirsi in casa, gli procurasse questa consolazione prima di morire. Silvio opponeva le stesse parole che aveva udite altre volte da suo padre:—Oramai la terra non dà che rendite meschine ed incerte, gli anni diventano sempre peggiori, scarseggiano i prodotti, si vendono a prezzi disfatti, e il ricavato non basta per vivere, dopo pagate le imposte sempre crescenti, e il numero infinito delle tasse. Bisogna dunque avere una professione che supplisca ai redditi deficienti; ed egli ne aveva due: l’avvocatura e il giornalismo. —Tutto questo va benissimo, rispondeva papà Gervasio; ma se guadagni per due, tu spendi per quattro. Ho dovuto fare dei debiti per soddisfare ai tuoi bisogni, ho incontrato dei mutui, ho gravato le terre di ipoteche. Qui le spese sono piccole e si possono limitare alle rendite; col risparmio si riparano le perdite, con un lavoro razionale si migliorano le terre, si accrescono i prodotti, e vivendo con parsimonia e giudizio, si possono attendere gli anni migliori, che dovrebbero venire. Silvio tentennava il capo, non pareva convinto delle parole paterne, nè desideroso di sacrificare la sua esistenza nella solitudine rurale, ma non voleva scoraggiare il povero malato togliendogli ogni speranza, distruggendo con una crudele negativa tutti quei bei sogni di tranquilla vita domestica. Prese tempo a riflettere, promise che ci avrebbe pensato seriamente, e con vera abnegazione. E quando sedeva dirimpetto a Maria, davanti al suo tavolinetto da lavoro, e la guardava negli occhi profondi, e la faceva sorridere colle sue ciarle, si sentiva avvolto come in un fluido misterioso, in un’atmosfera affascinante che lo spingeva all’adorazione, come un devoto in mezzo ai profumi d’incenso davanti all’altare della Madonna. Essa rammendava attentamente la biancheria, egli pigliava in mano le forbici, tagliuzzava un pezzetto di carta, e contemplava la cugina in silenzio. Argo ruzzava ai loro piedi, i canarini cantavano un duetto con trilli e variazioni, e Mumut faceva le fusa sulla finestra aperta, dalla quale entravano gli effluvi del giardino, e le onde odorose di primavera. In tali momenti gli pareva possibile di passare degli anni felici in quelle condizioni, in quell’aria, in mezzo a quelle armonie di luce, di suoni e di profumi, davanti a quella fanciulla vegeta e forte. Ciarlava di varie cose ora meste ora allegre, ammirando quei sopracigli che s’inarcavano dalla sorpresa, che si corrugavano all’idea del dolore, e la mobilità di quella bocca che atteggiandosi al sorriso scopriva i denti bianchi, o stringeva le labbra in segno di dispetto, mettendo in luce quella peluria di pesca matura. Al racconto d’un fatto toccante un’ansia affannosa le agitava il seno, e allora Silvio non badava più al taglio del vestito, nè guardava la calzatura, ma intendeva gli avidi sguardi dove batteva quel cuore. Il suono d’un campanello rompeva l’incanto, la nonna o lo zio avevano bisogno di lei, Maria scattava come una susta e spariva, e Silvio restava con un palmo di naso. Così passavano i giorni. Intanto papà Gervasio si alzò dal letto, e l’avvocato Ruggeri scriveva lettere sopra lettere per chiamare al dovere il suo praticante indiscreto. Lo stesso suo padre lo spinse a partire, e dovette rassegnarsi. Abbracciò la nonna e il papà, gli promise ancora di pensare all’avvenire, strinse affettuosamente la mano di Maria, salutò freddamente Andrea, che lo vedeva allontanarsi con somma soddisfazione, diede una mancia a Pasquale e partì. E strada facendo, sballottato nel carrozzone della ferrovia, andava pensando a quella vita silenziosa, a quelle buone creature che aveva lasciate, e che si dileguavano a poco a poco nella nebbia trasparente d’un passato vicino, e vedeva ancora, come fra le nuvole, in un fondo verdognolo, un convalescente ed una vecchierella, una fanciulla ed un cane, l’orso e il scimmiotto i quali lo accompagnavano con l’amore, con l’odio, coll’indifferenza, e lentamente sparivano da lontano; mentre gli si presentava davanti gli occhi la vista della laguna increspata dalle brezze marine, i gabbiani che volavano in giro rasentando l’acqua, il sole del tramonto che tingeva di porpora e d’oro gli alberi delle navi, le invetriate delle case, le cupole e i campanili di Venezia. XII. Metilde o Maria?... questa interrogazione martellava continuamente il cervello di Silvio, e gli toglieva la pace. Egli desiderava di contentare, almeno in parte, suo padre, e di seguirne i consigli. Nei vari disinganni della vita, ogni qual volta ad una speranza delusa gli succedeva uno scoraggiamento, quando vedeva una causa giusta perduta, un’opinione onesta derisa, un’intrigante che scavalcava un uomo di merito, si sentiva spinto a fuggire in un ritiro tutte le ingiustizie sociali, a ritornare a casa sua a piantar cavoli in famiglia, e a prender moglie. Ma guardandosi d’intorno non si trovava troppo incoraggiato al passo fatale; il matrimonio gli faceva paura. Passeggiando per Venezia incontrava dei fidanzati inseparabili, sotto l’occhio vigilante della mamma. Gli pareva che dovessero affrettare le nozze per liberarsi da quel caro cerbero che spiava i loro dialoghi e quasi i pensieri. Come si amano! egli pensava, come saranno felici di poter rifare queste passeggiate, senza quell’intollerante testimonio materno! Finalmente si celebrava il matrimonio, facevano il loro viaggetto di nozze, ma quando ritornavano a Venezia, il marito andava da una parte, e la moglie dall’altra, e nessuno li vedeva più insieme! E poi dove trovare una moglie che corrisponda a tutti gl’ideali del marito, che appaghi tutti i suoi desideri, che contenti tutti i bisogni della vita? Che sia amabile e brava in casa, che sia gentile ed onesta con tutti? E se non ha questi pregi, quali saranno le conseguenze di ciò che le manca? «Ne conosco tante delle ragazze, pensava Silvio, e quasi tutte belle, ma vedendole più volte, e studiandole con attenzione e perspicacia, vi si scopre sovente qualche difetto, invano dissimulato da false apparenze. Donnine appariscenti, ma senza profumo, come i fiori falsi del loro cappellino, cervellini vani e leggieri come le penne di struzzo, anime misteriose e furbette da far paura ai più intrepidi. Non ne ho trovate che due sole che mi attraggano con eguale prestigio, ma anche queste non sono perfette; a quale delle due devo dare la preferenza?—a Metilde o a Maria?... «Metilde mi rappresenta la grazia e la coltura, è la più bella bionda di Venezia, e la ragazza più intelligente e più colta che possa soddisfare il giusto orgoglio d’un marito. Essa mi inebbria come un vino spumante, i suoi occhi, la sua voce sono affascinanti, quando mi parla o si mette al pianoforte, mi rapisce in estasi, mi fa echeggiare nell’anima le più soavi melodie, io ho bisogno di tutta la forza della mia volontà per frenare quell’entusiasmo che mi spingerebbe a stringerla fra le braccia, e a coprirla di baci, e resto muto e immobile come un imbecille. Ma questo gioiello della società veneziana non acconsentirebbe mai di venirsi a nascondere ne’ miei boschi, segregata dal mondo che la ammira, sacrificando la sua esistenza per un bellimbusto della mia specie, contentandosi della mia capanna e del mio cuore, nella solitudine del deserto domestico, come una monachella in un chiostro. Nemmeno per sogno!... «Maria è una bella figlia della natura; è un’anima sana in un corpo solido e scultorio. È donna positiva, senza ideali, ma utile e buona, come un’amandorla dolce dalla ruvida scorza. Ma santo Dio! che pettinature! che vestiti! che stivalini!... È un angelo in veste da camera!... Ma che sciocchezze! un parrucchiere, una sarta e un calzolaio dei migliori ne farebbero prontamente un’altra donna.... e che donna!...» E divagava tutto il giorno con simili pensieri, senza decidersi a nulla, senza saper sciogliere il più arduo problema della sua vita:—Metilde o Maria?... Papà Gervasio ristabilito in salute andò a trovarlo coi soliti doni. Silvio molto occupato nelle sue corrispondenze ai giornali non potè accompagnarlo in casa Ruggeri. Il babbo ci andò solo, depose un involto in anticamera, e si fece annunziare alle padrone nel salotto. La signora Emilia, tutta a svolazzi, scuotendo i cincinnoli della fronte, e dimenando i fianchi, con matronale dignità, gli andò incontro per presentargli le più gentili felicitazioni per la ricuperata salute. Metilde sorridente seguì la madre, e gli strinse cordialmente la mano. Finiti i soliti complimenti lo invitarono a sedere. —Le prego di concedermi un momento, disse Gervasio, sederò dopo, prima di tutto ho una presentazione da fare.... il migliore dei miei figli!... —Silvio! esclamò Metilde. —Ma come? interruppe la signora Emilia, avete un altro figliuolo?... Papà Gervasio non le rispose, ma con un rapido sgambetto sguisciò in anticamera, e un momento dopo ricomparve, ripetendo: —Vi presento il migliore dei miei figli!... era un enorme melone che teneva orgogliosamente fra le braccia, facendolo girare in modo che lo si vedesse da ogni parte. Risero di cuore della presentazione, lodarono ripetutamente la sua bellezza ed il profumo di quel portento, ed ascoltarono sorridendo una breve dissertazione sulla coltura dei cucurbitacei. —È singolare, osservava la signora Emilia, la grandezza di tutti i vostri prodotti! —Effetto dell’educazione, cara signora. —Ma voi trasformate le vostre terre nel paese della cuccagna! —Vengano dunque a vederci, almeno una volta.... —Verremo di sicuro, saremmo già venuti se l’avvocato avesse un solo giorno di libertà. In questo istante entrava nel salotto l’avvocato, gli additarono il frutto enorme, che egli credette una zucca. Ma questo equivoco che destò l’ilarità delle signore, fu accolto come un elogio dal donatore, che lo interpretò come un paragone di grandezza. Misero il melone sotto il naso dell’avvocato per farglielo conoscere dall’odore, e gli raccontarono la bizzarra presentazione. Anch’egli ne fece i più grandi elogi. Papà Gervasio non teneva più nella pelle dalla consolazione, il suo orgoglio era soddisfatto molto più di quel giorno che suo figlio fu fatto dottore. Tutti abbiamo le nostre passioni, egli aveva l’ambizione dell’orto. Raddoppiò le istanze per una gitarella alla sua villa, e per invogliarli alla visita enumerava i piaceri della giornata. —Un giro pel parco, sulle rive del laghetto, e pei boschi, una colazione all’aperto, sotto la pergola dei gelsomini, una passeggiata al frutteto ed alla vigna. Quest’autunno sarà matura quell’uva d’oro, moscata, che piace tanto alla signora Metilde, dei bei pomi, delle pera, dei fichi d’ogni colore, un po’ di tutto. Vedranno in orto delle altre meraviglie. Farò assaggiare al signor avvocato i miei vini, alle signore delle conserve. Non abbiamo da offrire nè spettacoli, nè teatri, ma prometto una giornata di riposo e di svago, un’accoglienza senza cerimonie, ma davvero cordiale. Metilde batteva le mani, e guardava suo padre con occhio supplichevole, mostrando il più vivo desiderio di passare una così bella giornata in campagna, in quel luogo di delizie. Lo avevano promesso tante volte, era giunto il momento di mantenere la parola. La signora Emilia secondava la figlia, l’avvocato assentì, e fu pattuito che nel prossimo autunno si manderebbe ad effetto quella visita. Papà Gervasio gongolante dalla gioia corse ad annunziare la buona notizia a suo figlio, che ne fu lieto, e s’incaricò di ribattere il chiodo perchè il progetto non andasse sventato, e d’informare a tempo la famiglia del giorno preciso dell’arrivo, per le disposizioni opportune. E anche questa volta papà Gervasio ripetè con insistenza il desiderio di vedere il figlio ammogliato, eccitandolo alla buona scelta d’una sposa, mostrando la più viva impazienza di vederlo stabilito prima di morire, e confortandolo con buoni consigli. —La felicità della famiglia dipende in gran parte dalla donna, egli diceva; essa attira o allontana il marito dalla casa, secondo le sue buone o cattive qualità; essa procura il benessere o getta il disordine in famiglia, bisogna pensarci seriamente. I figli allevati con molta severità al tempo del governo austriaco, hanno saputo combattere e morire per la libertà; i figli che crescessero nell’abbandono ci condurrebbero all’anarchia. Non seccarti delle mie prediche, lasciami dire tutto quello che penso, tutto quello che ha diritto di pensare un padre che ha pagato la libertà con infiniti sacrifizi. I futuri cittadini saranno ottimi o pessimi secondo le loro madri, perchè le azioni umane dipendono in gran parte dall’indirizzo dei primi anni. La palla che corre, se non trova ostacoli che la deviano, arriva sempre dove la spinse la mano che le diede il primo impulso. Silvio gli promise di contentarlo, si mostrò disposto a risolversi a questo passo scabroso, facendo una buona scelta, e pensava fra sè: «La gita dei Ruggeri in campagna sarà una bella occasione per decidermi; Metilde e Maria trovandosi insieme, potrò osservarle con attenzione, e finalmente sarò in caso di giudicarle senza pericolo di ritrattarmi il giorno seguente. Fino che sono divise e lontane, preferisco sempre quella che mi sta più vicina, ne subisco l’influenza magnetica, e l’assente ha sempre torto.» Due mesi dopo l’ultima visita di papà Gervasio, venne stabilito dai Ruggeri il giorno preciso per fare la scampagnata. Silvio ne diede avviso alla sua famiglia, la quale prese le opportune disposizioni per accoglierli degnamente. Era d’autunno, la bella stagione delle vendemmie e delle frutta mature, della temperatura mite, e dell’abbondanza. Non si poteva scegliere un’epoca migliore. Quando la carrozza entrò nel parco dal cancello spalancato, papà Gervasio attendeva al vestibolo, Pasquale era pronto per aprire lo sportello, la nonna e Maria corsero a ricevere gli ospiti. Furono condotti nelle stanze del primo piano, per spolverarsi, e riparare ai piccoli disordini del viaggio. Passarono per brevi istanti al salotto, fino che vennero introdotti sotto la pergola dei gelsomini e dei caprifogli, ove era stata apparecchiata la colazione quasi tutta coi prodotti della villa. La tavola coperta da una bella tovaglia era adorna di fiori e di frutta, fra le quali spiccavano dei pomi color porpora, e dell’uva d’oro. E stavano intorno dei piatti piccoli e grandi col burro fresco, il miele dell’arnie, le uova del mattino, il prosciutto e il formaggio di casa. I ravanelli rossi e verdi uniti al sedano bianco mostravano i colori nazionali, che non mancavano mai in casa Bonifazio. Servirono una frittura di pollo che fece onore alla nonna, una torta di frutta che ottenne molti elogi, guadagnati da Maria, e il vino della cantina fu portato alle stelle, con somma soddisfazione di Gervasio. Pasquale in cravatta bianca, rasato a fondo, col muso in aria, la schiena curva, le gambe un poco storte, serviva in tavola, come le scimmie dei saltimbanchi alla fiera. L’aria mattinale ed il viaggio avevano messo gli ospiti in appetito, l’aspetto attraente dei piatti lo spronava. Mangiarono allegramente, prodigando gli elogi su tutte quelle ghiottonerie le più golose. Peccato che le signore Emilia e Metilde guastassero il vino, mescendovi dell’acqua, e che l’avvocato bevesse pochissimo. Papà Gervasio non poteva consolarsi che non lo lasciassero riempiere i bicchieri a suo talento, e gli pareva che non sapessero apprezzare degnamente gli aromi deliziosi delle sue vecchie bottiglie. Le due ragazze, sedute vicine, presentavano il più bel quadro che potesse desiderare un artista. Maria aveva una rosa fresca nei capelli morbidi e abbondanti, la semplice natura era bastata ad abbellire la sua testa giovanile, che rappresentava la salute e la freschezza dei campi, ravvivata dalla gaiezza degli occhi ridenti. Portava al collo un fazzoletto di seta di vari colori vivaci, messo alla rinfusa per difendersi dalle brezze autunnali. Ma questa semplice precauzione era bastata a mascherare i difetti del vestito, che solevano dispiacere al cugino. I capelli d’oro di Metilde un po’ sviati dal viaggio e dall’aria, svolazzavano capricciosamente sulla fronte e sul viso candido della ragazza, con pittoresco disordine. La straordinaria levata mattiniera le aveva lasciati gli occhi un po’ languidi, ciò che abbelliva la delicata espressione de’ suoi lineamenti. Due grossi solitari di brillanti splendevano alle sue piccole orecchie come due stelle, e la somma semplicità del vestito accollato, che le disegnava il busto graziosamente digradante con curve eleganti fino ad una vita sottile di vespa, era rialzata da un’ampia cravatta bianca leggierissima di velo e pizzi, artisticamente annodata. Un mazzolino d’asclepie carnose introdotto in un occhiello dei bottoni, pallido come il suo volto, esalava un profumo penetrante. Metilde e Maria si sorridevano come due amiche, ma poi voltata la testa, si rivolgevano certe occhiate clandestine colla coda dell’occhio, che tradivano una reciproca diffidenza, ed una ripulsione istintiva. Silvio le divorava cogli occhi, contemplava attentamente le più minute agitazioni, i movimenti quasi impercettibili dei loro volti, la luce degli occhi, gli atteggiamenti di quelle rosee labbra che si studiavano di dissimulare il pensiero. Erano belle entrambe, d’una diversa bellezza, e dopo una lunga lotta di pensieri, e un grave imbarazzo nella scelta, egli volava col pensiero ai paesi della poligamia, che gli parevano più fortunati dei nostri, ove egli avrebbe sciolto agevolmente il quesito: Metilde o Maria? con queste sole parole: tutte due!... E stava appunto mulinando in segreto tali pensieri colpevoli, quando, finita la colazione, tutti mostrarono il desiderio di muoversi, di passeggiare pel parco, di visitare la villa. Uscirono dalla pergola, la nonna chiese il permesso di ritornare in casa per accudire alle faccende domestiche, papà Gervasio si mise in testa della comitiva per servire di guida, e cominciò subito le sue spiegazioni. Egli si mostrava entusiasta dei colori dell’autunno, e indicava le varie tinte delle foglie nelle grandi masse degli alberi di varie specie, e nelle macchie degli arbusti: —Quale tavolozza!... egli esclamava, il nostro Tiziano, il grande colorista, non aveva tanti colori, nè un simile impasto! guardino quel rosso vivo delle foglie di cotogno della China, osservino il giallo d’ocra di quel platano, e il lionato oscuro del suo vicino. Quell’ipocastano ha una tinta tané come il guscio delle castagne, quella robinia è tutta d’oro! E quel verde cupo degli abeti come si stacca dal verde tenero degli _strobus_! Favoriscano un’occhiata a quella idrangea a foglie di quercia; mi dicano se quelli non sono i colori metallici dei bronzi antichi, e delle armature di ferro irrugginite?! Vogliono vedere uniti la porpora e l’oro?... contemplino quella ampelidea vergine che è salita sul _liriodendron tulipifera_!... Mentre il vecchio coltivatore si animava nella descrizione delle tinte autunnali, ed era assorto nella declamazione di quelle bellezze pittoresche, l’avvocato guardava intorno sbadatamente, non vedeva nulla, e si andava concentrando coi suoi soliti pensieri del contenzioso giuridico. La signora Emilia osservava in aria canzonatoria le pieghe assurde del vestito di Maria, e ne dava d’occhio a Metilde, mentre essa accennava alla madre la calzatura della ragazza. Silvio soffriva del fiato perduto di suo padre, che si spolmonava invano spiegando davanti ad occhi profani il gran libro della natura. Argo seguiva fedelmente la sua amica, e per starle più presso si fregava agli abiti di Metilde, che pareva poco contenta della compagnia di quel cane. Giunti al vigneto si ridestò l’attenzione di tutti, e approfittando del cortese invito del padrone di casa, ciascuno si mise a beccare i bei grappoli d’uva bianca e purpurea che brillavano al sole. Così fu fatto anche davanti al frutteto, ma la signora Emilia non volle che sua figlia mangiasse altre frutta, papà Gervasio le incoraggiò a farne almeno una bella scelta fra le migliori, per portarle a Venezia. Poi visitarono l’orto, fornito d’ogni varietà d’erbaggi, entrarono nelle serre, ammirarono le aiuole all’aria aperta, e ne raccolsero tanti fiori che le due ragazze ne erano cariche, e dovettero depositarli nel chiosco del giardino. Poi saliti sopra una torricella che si chiamava il belvedere, papà Gervasio fece vedere il panorama delle Alpi lontane, i verdi colli sottoposti, il bosco Montello, e tutti i paeselli bianchi disseminati nella vasta pianura. Additò anche i suoi poderi in blocco, colle relative case coloniche sparse per la campagna intorno alla villa, le praterie ove pascolavano i suoi armenti, e i campi coltivati a lunghi filari di gelsi e di viti. Frattanto erano giunti due altri invitati a pranzo che passeggiavano sulla spianata davanti la casa. Quando la comitiva si avanzò, Silvio fece le presentazioni. —Il maestro Zecchini, Andrea Pigna. Il giovane che non era avvezzo alle cerimonie cercava di nascondersi dietro il maestro, il quale si avanzava con rispettose riverenze alle signore, col cappello basso nella destra, e la sinistra appoggiata al bastone, che lo aiutava a camminare. Papà Gervasio gli strinse la mano, dicendo all’avvocato; —È un vecchio amico di casa, che si ricorda ancora di Napoleone I; amico fedele di mio padre, maestro di parecchie generazioni, pensionato dal Comune. —Senza mio merito, rispose modestamente il maestro. Papà Gervasio volle condurre i suoi ospiti a visitare anche le stalle. Egli amava tutte le bestie per istinto di bontà che gli rendeva cari tutti gli esseri viventi, e poi come agricoltore, pei vantaggi che ricavava da queste valorose alleate. Il maestro faceva gli elogi delle mucche: —Sono le più belle del paese, egli diceva all’avvocato, e ce ne sono poche di migliori in tutta la provincia. L’avvocato le guardava senza vederle, la signora Emilia si alzava l’abito e le sottane fino a mezza gamba, e storceva il naso, perchè l’odore della stalla le dava fastidio, Metilde si teneva dietro le colonne perchè aveva paura di tutto, e diceva: —Guai se una di quelle bestie rompesse la catena che le tiene legate! Le mucche la guardavano con placidi sguardi, e alzavano il muso ruminando tranquillamente. Maria rideva clamorosamente, entrava nelle poste, accarezzava la Mira, che mostrava di conoscerla. Il maestro asseriva che le bestie hanno spesso più sentimento degli uomini, e molte buone qualità che scarseggiano nella vita sociale.... Per somma fortuna Pasquale venne ad annunziare che il pranzo era servito, e così risparmiò la dissertazione del maestro, che dopo l’elogio delle bestie, sarebbe indubbiamente finita col solito atto di accusa dell’uomo. La sala da pranzo era stata apparecchiata dalla nonna con quelle cure che soddisfano la vista, e mettono gli ospiti in buone disposizioni. I cristalli brillavano sulla lucida tovaglia fra i piatti fermi e l’argenteria. Un bel vaso di fiori confondeva i suoi profumi colle esalazioni delle pietanze. In principio non si udiva che l’acciottolio dei piatti, tutti mangiavano in silenzio, ma la signora Emilia s’accorse subito che Maria soffiava sul cucchiaio colmo, e mangiava la minestra col pane. Una bottiglia di vino bianco lucido trasparente color dell’ambra animò la conversazione che divenne sempre più animata e briosa. Il maestro raccontava le sue paure al tempo dei Tedeschi, quando cominciò a sospettare che il capitano Bonifazio appartenesse alla setta dei Carbonari. Egli si trovava gravemente compromesso e sognava tutta la notte sbirri, catene, sotterranei, e la forca! Papà Bonifazio per eccitarlo a tenere allegri gli ospiti gli riempiva continuamente il bicchiere. Un’immensa trota del Piave fu trovata eccellente. Tutto era buono e servito in punto. Andrea teneva gli occhi fissi costantemente sulle due ragazze, Silvio fremente spandeva il vino sulla tovaglia. Maria prese colle dita uno stinco di pollo e si mise a rosicchiarlo e a succhiarlo con disinvoltura, tagliava le vivande a pezzettini, e parlava colla bocca piena, teneva la forchetta colla destra, e il coltello colla sinistra. La signora Emilia faceva dei segni a Metilde per indicarle questi scandali; Silvio se ne avvedeva e si sentiva umiliato. Ma il malanno più grande si manifestò nei dialoghi, ai quali la povera ragazza ebbe l’imprudenza di prender parte. Essa diceva con ingenuità degli spropositi madornali, che provocavano dei sorrisi male dissimulati dalle signore e dall’avvocato e facevano salire il rossore al volto dell’infelice cugino. Si parlava dei suicidi che si vanno moltiplicando, ed essa raccontò il caso d’un giovane speziale che si era ucciso colla _strachinina_. Il maestro sostenne che il suicidio è una viltà, che la morte non è un eroismo che quando si va ad incontrarla per la patria... e Maria soggiungeva: —Come i mille che andarono in _Cicilia_!... Si parlò di Venezia, del lido, dei bagni d’Abano.... —Che sono eccellenti, osservò Maria, per le _irruzioni_ alla pelle. —E pei dolori reumatici, disse il maestro. —Ma questi, continuò l’intrepida fanciulla, si possono guarire anche coll’essenza di _Clementina_! Quest’ultima essenza spinse l’avvocato ad un irresistibile scroscio di risa, al quale fece eco la signora Emilia. Metilde arrossì. Silvio aveva gli occhi fuori della testa. Per consolarsi delle continue sciocchezze di sua cugina egli beveva senza misura, e fra il vino, gli spropositi e le umiliazioni perdeva il cervello. La nonna dissimulava, papà Gervasio nella sua bonarietà non capiva che una cosa sola, che gli ospiti stavano allegri, ed egli era soddisfatto. Il maestro si rammentava i consigli che aveva dati inutilmente per l’educazione della fanciulla, e deplorava vivamente la brutta figura che essa faceva a quella prima prova. L’arrosto delle lodole venne ad accrescere le sconvenienze di Maria. Curvata sul piatto, lacerava gli uccelli colle dita, ne cavava le polpe coi denti, poi ritirava le ossa dalla bocca sporca. Quando finì di divorarli, si versò un bicchiere di vino ben colmo, e se lo bevette d’un tratto lasciando il cristallo appannato dall’unto, e mettendo i gomiti sulla tavola, si riposò, guardando tranquillamente d’intorno. Le signore Ruggeri che avevano assistito a quello scandalo scambiando dei sogghigni ironici, abbassarono gli occhi per non lasciar scorgere la loro meraviglia. Alle frutta Maria sputava i noccioli sul piatto, e scherzava così insulsamente che gli ospiti ridevano per pietà. Il solo Andrea la trovava spiritosa, e s’innamorava sempre più di lei; mentre il cugino si vergognava d’aver preso sul serio una scioccherella, e la guardava con disprezzo. Dopo il caffè tutti sentivano bisogno d’aria aperta, e uscirono in giardino. Giunto il momento della partenza, papà Gervasio riempì i cassetti del calesse colle frutta raccolte alla mattina. Infiniti complimenti e strette di mano si andavano avvicendando con reciproca insistenza, tutti volevano ringraziare, nessuno voleva essere ringraziato. Quando le signore si accomodarono in calesse, furono coperte di fiori, l’avvocato e Silvio non trovavano il loro posto sotto quella valanga odorosa, ma finalmente si collocarono alla meno peggio. Papà Gervasio, il maestro, Andrea, la nonna e Maria circondavano la carrozza, reiterando i saluti e le strette di mano. Silvio slanciò un’occhiata sprezzante all’indirizzo di Maria, che voleva significare:—ti ripudio;—e salutò Andrea con un sorriso strano, accompagnato da un’alzata di spalle, che voleva dire:—prendila pure, che te la cedo volentieri. La signora Emilia partì dalla villa riportando la più ferma persuasione dell’opulenza della famiglia Bonifazio. Aveva veduto una bella casa, con tutti gli agi della vita, un parco principesco, e le campagne che aveva osservate dal belvedere le parevano immense. E infatti il padrone di casa non aveva trovato necessario d’indicarle i confini, nè di avvertirla che il verme dell’ipoteca rosicchiava quelle colture, e produceva gli effetti della filossera. XIII. Una volta si diceva che il ridicolo uccide, ma l’esperienza ci ha insegnato che in certi casi il ridicolo rende immortali. E infatti si conoscono dei ministri, che passeranno alla posterità piuttosto per le caricature del _Pasquino_ che per le pagine della storia, la quale non ha nulla da registrare sui meriti e sui profitti della loro autorità. Ma nell’amore se il ridicolo non uccide, certo ferisce crudelmente, e un uomo, che ha arrossito d’una donna amata, non vorrà più farla sua moglie. Così almeno pensava Silvio riguardo a Maria, bella e buona ragazza, ma tanto rozza da non poterla presentare nella buona società. Il problema: Metilde o Maria? era dunque sciolto a tutto vantaggio della prima, e oramai non mancava altro che di cavarne le conseguenze, e di finire la commedia come quelle del Goldoni, con un bel matrimonio. Il giovinotto vi si decise raddoppiando la sua assiduità nella famiglia Ruggeri, e cogliendo ogni occasione favorevole per dimostrare la sua crescente affezione verso Metilde. E queste occasioni non gli mancarono a Venezia, ove tutto è sempre predisposto per le scene d’amore. Questa città silenziosa presenta ad ogni passo degli spettacoli stupendi, che predispongono la mente ed il cuore ai più teneri affetti. Le rive solitarie sul mare infinito, un passeggio sotto gli alberi dei giardini col panorama incantevole che sta dinanzi, una gita in gondola sulla laguna in bonaccia, in un giorno sereno, quando il cielo azzurro si riflette nelle acque tranquille; una serenata notturna sul gran canale, quando l’eco lontano ripete mollemente le soavi melodie, e i fuochi di bengala trasformano quei palazzi in un mondo fantastico; un chiaro di luna sui marmi dei monumenti, una notte stellata davanti il molo quando gli astri si riflettono con tremula luce nella laguna, e si confondono colle strisce di luce oscillante riflessa dai fanali. In quei momenti, in quei siti Silvio e Metilde s’intendevano con uno sguardo, col tocco della punta d’un piede, e si sentivano beati d’essere insieme, senza rompere un silenzio tanto eloquente alle loro sensazioni. La signora Emilia vedeva con piacere i progressi di quella reciproca inclinazione, ne prevedeva il fortunato scioglimento, e cominciava a pensare al corredo. Per lei, a completare quella affezione, che verrà consacrata dalla religione e dalla legge, giudicava indispensabile... una mantiglia di velluto a pizzi di Brusselles per l’inverno, e un cappellino, modello di Parigi, e intanto studiava i figurini dei giornali di mode, e indicandone qualcuno a Metilde le diceva: —Guarda questo come è grazioso e distinto. Se le cose si faranno presto, ti andrebbe a meraviglia. —Abbiamo tempo da pensarci, mammina. —Ma infine, bisogna pure che si decida... mi pare che ci abbia pensato abbastanza... non conviene prolungare troppo questo assiduo corteggio senza una domanda formale... per riguardi verso il mondo... e anche perchè è una vera schiavitù... e mi secca di starvi in guardia... tu devi fargli comprendere le convenienze, e che si spieghi. Quantunque ripugnasse a Metilde di uscire dall’ideale per entrare nei discorsi concreti, tuttavia dovette obbedire alla mamma, e fece comprendere all’innamorato la necessità di chiedere l’approvazione dei genitori, per avere la licenza di presentarsi in casa, con un titolo che giustificasse la sua assiduità, e rendesse legittima la loro affezione. Silvio decise di partire per la campagna, per comunicare al padre le sue intenzioni, e pregarlo di venire a Venezia a fare la domanda formale. Partì, promettendo un pronto ritorno; e intanto le signore visitarono alcuni negozi di mode, per informarsi delle ultime novità, prendere dei campioni, vedere le stoffe, i cappellini da città e da viaggio, e tutto quello che sarebbe indispensabile per una sposa elegante. Nello stesso tempo il giovinotto annunziava al padre la sua scelta, che veniva accolta con esitazioni e dubbiezze poco lusinghiere. Papà Gervasio, colla sua innata bonarietà, gli fece considerare tutti gli ostacoli che si frapponevano a quel matrimonio. Prima di tutto la ragazza non si sarebbe mai rassegnata a vivere in campagna; e questo era il sogno paterno, di raccogliere la famiglia d’intorno, di vivere e di morire fra una corona di nipoti. —Per ora no, gli rispose il figliuolo, per ora mi sarebbe impossibile di obbligare Metilde a questa vita; ma io pure non intendo di rinunziare immediatamente alla città. Col tempo vedremo di combinare ogni cosa, intanto non voglio aver studiato per nulla, la professione e le corrispondenze ai giornali mi assicurano dei guadagni che sarebbero totalmente perduti, se io venissi ad oziare in campagna. —Allora i tuoi proventi uniti alla dote ti basteranno per vivere? —Questo non lo so, perchè ignoro l’importanza della dote. Se devo giudicare dai grossi guadagni dello studio, l’avvocato deve essere ricchissimo, ma non so come impieghi i suoi capitali, nè quanto profitto ne ricavi. Deve avere le cassette piene di rendita pubblica, ma non dice niente a nessuno, e forse nasconde i suoi tesori, per isfuggire all’avidità dell’agente delle tasse. Papà Gervasio sospirava, e diceva: —Io avevo la speranza che tu avresti sposato una donna semplice; le ricchezze non mi hanno mai fatto voglia, non le credo necessarie per vivere felici. Una modesta agiatezza è più opportuna alla pace della casa, e avrei voluto vederti qui, occupato dei tuoi affari, nel seno d’una famiglia tranquilla, onesta, contenta.... —Questo potrà venire col tempo, gli rispondeva Silvio, passati i primi anni in città, potrò in seguito persuadere la mia Metilde a ritirarci in campagna. È così buona, ama tanto la bella natura! Quel giorno dello scorso autunno, che siamo venuti in campagna, nella ferrovia da Mestre a Treviso, essa guardava sempre fuori del finestrino, mi fece osservare una misera capannetta affumicata fra i campi in un luogo deserto, e mi disse:—due amanti sarebbero felici in quel sito!—Verrà un giorno che sarà più contenta di questa casa. —Intanto io divento vecchio, osservò Gervasio. —Vecchio alla tua età! hai tempo da aspettare, e poi da vivere con noi lungamente.... —Sono sempre sofferente, i miei benedetti intestini mi danno tante molestie, guai al minimo disordine.... —Affari nervosi.... affari nervosi.... me lo ha detto il medico.... —Ah i medici!... non mi parlare dei medici. Si servono sempre dei nervi.... dei loro malati, per dissimulare le verità affliggenti, e consolare chi soffre col balsamo della speranza. —Non occupiamoci di malinconie.... —In conclusione non posso negarti che questo matrimonio non è quello che avrei desiderato per te e per noi tutti, ce n’era un altro migliore... senza andarlo a cercare lontano.... —Caro papà, i matrimoni sono quasi sempre un avvenimento improvviso, trascinato da circostanze imprevedibili e imprevedute, come i numeri del lotto, e tanto pel matrimonio che per il lotto bisogna lasciare i sogni.... —Non posso darti torto intieramente, e non intendo contrariare le tue inclinazioni, nè importi una sposa. Dimmi dunque che cosa devo fare per contentarti? —Devi farmi il favore di venire a Venezia per domandare alla famiglia Ruggeri la mano di Metilde per tuo figlio, mostrandoti anche soddisfatto della mia scelta.... —Questo s’intende... —Devi darmi una somma sufficiente al mio impianto, per comperare i mobili, ecc. ecc., e aggiungere qualche cosa alla mia mesata.... —Non hai fatto dunque nessuna economia, coi compensi dei giornali? —Non ho il becco d’un quattrino!... —Io pure ho le tasche vuote. Pare che la terra sia esaurita dopo tanti secoli di fecondità, e le meteore ci perseguitano con desolante persistenza. Brine, grandini, siccità, siamo ridotti agli sgoccioli; i coloni non sono più in caso di pagare il fitto, e mancano del necessario per vivere, le imposte sono esorbitanti, il possidente deve consegnare all’esattore tutte le sue rendite, e resta colle mani piene di mosche.... non posso offrirti che queste pel tuo matrimonio. —Dunque ti opponi alla mia domanda?... —No, ma ti domando alla mia volta come si fa? —Se non abbiamo denaro abbiamo dei campi. Non potresti contrarre un mutuo? —Sarà il terzo in pochi anni. Ci costerà il sette per cento con ipoteca, e la terra ci dà appena il tre, siamo dunque sull’orlo del precipizio! —Verranno giorni migliori, io saprò farmi una posizione, pagherò tutti i debiti, toglierò tutte le ipoteche.... —Che il cielo te la mandi buona, intanto camminiamo a gran passi verso la rovina!... Anche la nonna trovava che la signorina Metilde era un poco pretenziosa, avrebbe forse una bella dote, ma con molte esigenze. Tuttavia la buona vecchia benediceva gli sposi, augurava ogni bene, e prometteva di pregare ogni giorno per loro, come faceva per tutti. Maria, con fiero cipiglio, presentò al cugino le sue congratulazioni, perchè sposava una gran signora, degna di lui, si studiava di dissimulare la stizza che la mordeva, ma tradiva lo sforzo coll’ironia del linguaggio, e le troppo affettate dimostrazioni d’indifferenza. Quando credeva di non essere veduta, accarezzando Argo con tenera sollecitudine, una lagrimetta le spuntava sul ciglio, e le scorreva sulle guancie; ma appena udiva rumore si ricomponeva, e continuava a mostrarsi tutta intenta alle solite occupazioni di casa. Papà Gervasio andò a Venezia a fare la domanda formale e fu ricevuto dai Ruggeri con mille cortesie. Fecero un bel pranzo di famiglia, e alla sera ebbe luogo la presentazione dei fidanzati agli amici, con profusione di rinfreschi, dolci, sorbetti e vini squisiti. Qualche giorno dopo papà Gervasio trovava anche il denaro e lo portava al figliuolo per le spese d’impianto, e venne fissata l’epoca precisa per la firma del contratto e le nozze. La signora Emilia e la figlia si misero in traccia dell’appartamento girando tutto il giorno per Venezia, salendo tutte le scale delle case dove c’erano locali d’appigionarsi. Silvio le pregava d’evitare le calli ristrette, e raccomandava un prospetto pittoresco ed aperto, che si vedesse la laguna ed il sole. La signora Emilia fingeva di volerlo contentare, ma non dava retta alle sue ciarle. Essa voleva che l’appartamento della figlia fosse vicino alla sua casa, e poco lontano dalla piazza. Pensava che l’idea di voler vedere la laguna era una vera mania senza costrutto, di quelle ubbie ridicole di giovinotto egoista che non pensa alla moglie, la quale restando molto in casa, deve preferire un sito frequentato, per godere il passaggio della gente, che distrae dai pensieri tristi nelle ore d’ozio, e nei giorni piovosi quando non si può uscire per le visite o pel passeggio. In quanto al sole non bisognava pensarci nemmeno per due motivi, prima per non salire sotto ai tetti, e poi perchè all’estate sarebbe troppo caldo, e nelle camere oscure si sta più freschi, e le donne ci guadagnano un maggiore prestigio; l’ombra è favorevole alla tinta del volto, nasconde i piccoli disordini, come il velo, e rialza l’aspetto della persona nell’ambiente misterioso. Metilde tentava di secondare i desideri del fidanzato, si sarebbe sacrificata volentieri per soddisfarlo, ma la signora Emilia era irremovibile nelle sue opinioni, e le imponeva con fermezza. L’appartamento venne appigionato senza consultare lo sposo, la signora Emilia si giustificò dicendogli che non c’era tempo di mezzo per avvertirlo; un’altra famiglia, innamorata del locale, attendeva alla porta impaziente per impadronirsene se non avessero subito chiuso il contratto. Non bisognava lasciarselo sfuggire, perchè non ce n’erano di migliori, e conveniva per varie ragioni. Silvio corse a vedere il suo nido futuro, e ne uscì mortificato. Era oscuro, con un prospetto di case opprimenti a breve distanza, era rumoroso e frequentatissimo, ed aveva dirimpetto le botteghe più antipatiche. Un salumiere, con una frangia di salsiccie sulla porta, che esponeva in vetrina una testa di maiale con un limone fra i denti, in mezzo a due colonne di formaggio; e un beccaio che metteva in mostra la sua merce sanguinolenta, dei pezzi di carne floscia, coi muscoli scorticati, delle testine pallide di vitello cogli occhi stravolti dalla morte, degli agnellini cogli occhi fuori dal cranio sanguinoso col ventre aperto, dei cuori, dei fegati, dei polmoni appesi ai ganci, come trofei d’un massacro. Si lagnò alquanto con Metilde, che gli diede ragione, ma non aveva osato contrariare la mamma. Osservò sommessamente alla futura suocera che il salumiere e il beccaio gli facevano orrore; ma essa lo confutò trionfalmente, burlandosi di lui che mangiava con molto appetito ciò che gli faceva ribrezzo. Secondo lei erano idee strane, debolezze, e pregiudizii ridicoli. Che cosa poteva fare? non c’era più rimedio, dovette rassegnarsi, riservandosi la scelta delle tendine destinate a nascondere quel nauseante spettacolo. Egli aveva paura che la signora Emilia gli mettesse davanti agli occhi qualche altra scena turpe o affliggente, come se ne vedono tante, dipinte sulle tendine, Otello che uccide Desdemona, Giuditta che taglia la testa ad Oloferne, o il sotterraneo delle tombe con la morte di Giulietta e Romeo. Comperò due vedute della Svizzera: il castello di Chillon sul lago di Ginevra e un _châlet_ sulle rive d’un torrente, fiancheggiato d’abeti, con un fondo di montagne nevose, e due bei parchi con fiori e fontane sul davanti, e dei viali tortuosi che si perdevano nei boschi. Ma la signora Emilia lo criticò acerbamente, canzonandolo per la sua ingenuità puerile, dicendogli che non poteva fare una scelta peggiore, e cercava di persuaderlo che nessuno voleva di quelle tende, pel motivo delle tinte verdi che smaccano il colore della pelle, e fanno gran torto al viso delle donne. Era inutile lottare con quella signora, che sapeva difendersi meglio del marito avvocato; era più prudente capitolare alla prima, e lasciarla libera di fare alto e basso a suo piacimento. Così fu convenuto, ed essa si occupò dei mobili, delle tappezzerie, e di tutti gli arredi necessari, colla sola condizione di conservare le quattro tendine. Dopo questo patto, Silvio dichiarato inabile a simili imprese, venne escluso da ogni ingerenza nelle faccende domestiche, ed egli si consolava col giornalismo dando dei consigli alle grandi potenze d’Europa, sulla politica del giorno, e sosteneva delle polemiche coi giornali avversi, intorno alle sorti del mondo. Intanto alla villa Bonifazio si pensava al modo di riparare alla perdita delle speranze che si erano concepite sopra un matrimonio possibile fra i due cugini, che avrebbe tenuto unito il patrimonio domestico. Si chiamò anche il maestro Zecchini, per udire un suo parere, e fissare la condotta da tenersi per l’avvenire. Era evidente per tutti che Andrea aspirava alla mano di Maria, e giacchè Silvio vi rinunziava, bisognava occuparsene. —Che cosa ne pensava il maestro? Egli rispondeva: Tocca a Maria la decisione, essa si è trovata fra due asini, e credo che preferisce quello che fugge a quest’altro che si lascerà mettere la cavezza, ma prima di tutto bisogna consultarla. Fino al giorno che ho conosciuto la veneziana ho creduto che Silvio amasse Maria, dopo quel giorno ho mutato parere. Forse nè l’una nè l’altra gli conveniva intieramente, ma piuttosto la prima che la seconda; ed è appunto per questo che la sposa, perchè l’uomo, o per meglio dire la bestia, si attiene sempre al peggiore partito. In quanto all’asino numero due, di merito assai inferiore al numero uno, è forse più conveniente alla ragazza, per la semplicità delle idee e dei costumi; entrambi sono privi d’istruzione, ma tutti due laboriosi; essa è più intelligente, egli è più ricco di lei, con minori apparenze. Ci sono dunque delle compensazioni delle quali si deve tener conto; e se Maria fosse contenta, l’asino scelto per marito andrebbe alle stelle, tanto è innamorato di lei, che mi pesa sullo stomaco da un pezzo, per le continue dichiarazioni d’amore colle quali mi perseguita, mancandogli il coraggio di farle direttamente, ed ostinandosi a voler prendermi per mezzano, malgrado le mie continue ripulse. Signor maestro, io non sono degno di quella ragazza, egli mi ripete con insistente cocciutaggine, ma se mi prendesse farei il possibile per contentarla in tutto e per tutto, e potrei dirmi l’uomo più felice del mondo. La nonna fu incaricata di scandagliarla. Maria rispose subito colle lagrime, e con un sdegnoso rifiuto. Si vedeva chiaramente che era innamorata di Silvio, che non poteva consolarsi del suo abbandono, e che la stessa notizia del matrimonio non era bastante a farglielo dimenticare. L’amarezza del disinganno chiuso dentro di sè la soffocava; piangendo in seno della nonna trovò qualche sollievo. Essa non insistette, la accarezzò con vera affezione, l’aveva già abituata fino dalla prima infanzia alla rassegnazione ed al coraggio. La confortò con ogni maniera d’argomenti, e a poco a poco la persuase che il cugino era irremissibilmente perduto per lei; lo zio Gervasio doveva recarsi a Venezia fra qualche giorno per firmare il contratto di matrimonio di suo figlio colla signora Metilde Ruggeri. Non bisognava pensarci più, per dovere d’onestà, ed anche per dignità personale. «Chi non mi vuole non mi merita, è un detto volgare, ma tu puoi dirlo con ragione, perchè sei migliore di lui.» Di tratto in tratto le diceva bene di Andrea, della sua semplicità, dei suoi gusti modesti, del suo amore per le faccende rurali, della sua vita onesta, perchè era un vero galantuomo. Eccitava il suo amor proprio offeso dalla condotta di Silvio, le mostrava l’umiliazione di restare donzella, condannata ad assistere alle feste che si sarebbero fatte agli sposi. Quest’ultimo argomento parve che la colpisse più di tutti. —Se acconsenti di sposare Andrea, conchiuse la nonna, il tuo matrimonio potrà farsi prima dell’altro, e quando gli sposi di Venezia verranno qui tu sarai già partita, e potrai restare assente per tutto il tempo che essi si fermeranno in campagna. Tu avrai anche il vantaggio di non lasciare il paese ove sei nata, di non abbandonare la tua povera nonna, perchè saremo vicine di casa. Dopo lunghe esitazioni, e persistenti ripugnanze, finalmente si lasciò persuadere, e consentì di sposare Andrea, ma sempre piangendo, e ad una condizione soltanto, cioè che il suo matrimonio si farebbe prima dell’altro, e che per tutto quel tempo che Silvio e Metilde resterebbero alla villa, essa sarebbe assente dal paese. La nonna fu contenta, lo zio Gervasio fu soddisfatto, e Andrea nell’entusiasmo; gli pareva proprio di toccare il cielo colle dita. Il solo maestro Zecchini tentennava la testa, con evidente malcontento. Avvezzi alle sue continue obbiezioni non furono sorpresi dei dubbi, degli ostacoli, dei cavilli che avrebbe tirati fuori anche in questa circostanza, e lo pregarono di spiegarsi francamente. —Ecco quello che penso, egli rispose, questo è un matrimonio per dispetto, è una vendetta di Maria, è una scappatoia che non potete approvare senza pericoli. Non mi aspettavo un matrimonio d’amore, ma di ragione; invece capisco che si apparecchia un precipizio. Chi può prevedere le funeste conseguenze d’un’imprudenza? chi può assumerne la responsabilità?... Papà Gervasio che aveva approvato il piano di sua madre, diede ragione anche al maestro che diceva tutto il contrario. La nonna si mise in pensiero, e restò esitante. Si esaminò nuovamente la condizione delle cose, si discusse a lungo senza intendersi; poi si risolse di ritardare ogni decisione assoluta, per pensarci meglio, per osservare, vedere, considerare, riflettere, e apparecchiare uno scioglimento plausibile al caso delicato. Intanto Andrea avvertito dal maestro degli ostacoli che si opponevano alla sua felicità, si raccomandava caldamente a tutti perchè non esitassero ad accettare l’assenso della ragazza, che avrebbe deciso della sua vita, che oramai gli pareva impossibile senza di lei, prometteva di fare dei miracoli per rendersi degno della sua fortuna, e gettava fiamme dagli occhi, manifestando sentimenti di assoluta sommissione e di devota riconoscenza. —Ah! l’amore rende eloquenti anche gli asini, osservava il maestro Zecchini; l’amore sarebbe la più bella cosa del mondo... se non conducesse al matrimonio!... —Sono discorsi da vecchio celibe, gli rispondeva la signora Maddalena, voi non avete diritto di parlare di matrimonio, perchè non lo avete provato.... —Ma ho provato l’amore!... esclamava il maestro, guardando in modo singolare la vecchietta rubizza, mentre una scintilla fugace gli brillava negli occhi resi opachi e cisposi dagli anni; tutte le rughe del volto gli si animavano con contrazioni spasmodiche; alzava le braccia in atto di disperazione, e poi le lasciava cadere d’un tratto, come i pali del telegrafo rotti da un colpo di vento. La nonna rideva con malizia, e gli diceva: —Gli uomini sono matti, perfino nell’età del giudizio.... —No, sono asini fino all’estremo sospiro, gridava il maestro. —E anche questo può darsi, essa conchiudeva... lo avete tanto ripetuto, che me ne sono quasi convinta. Poi i tre vecchi si raccolsero intorno al tavolo rotondo del salotto, come i diplomatici a congresso, per discutere un arduo problema, assai più scabroso di molti affari di Stato, l’eterna questione dell’amore e del matrimonio. —Dobbiamo permettere il matrimonio di Maria con Andrea, o sarà meglio mandarlo a monte?... Essa non ama il futuro marito, eppure acconsente a prenderlo; esso è cieco d’amore e accetta il sacrifizio, ad ogni costo! Quali saranno le conseguenze d’una tale combinazione? —Maria è semplice ed onesta, rispondeva la nonna, il dovere sarà la sua guida, l’amore verrà col tempo. —E se non venisse mai? domandava il maestro, che cosa succederà? —Ma!... che cosa succederà? ripeteva Gervasio. —Se andassero a vivere in città, osservava la nonna, in mezzo a tutte le seduzioni e ai pericoli del mondo, bisognerebbe pensarci seriamente, ma nella semplicità della vita campagnuola, colle abitudini massaie di Maria, non c’è pericolo che succedano di quelle tragedie che fanno rabbrividire gli spettatori in teatro!... —Possono succedere delle commedie, disse il maestro, che facciano ridere il pubblico a spese degli attori. —Nelle mie lunghe notti insonni, continuò la nonna, ho pensato lungamente a tutte queste difficoltà, che ci amareggiano la vita, e non ho trovato altro termine possibile, che un matrimonio di ragione, che metta Maria in uno stato conveniente alla sua condizione, ed alle sue qualità; che le assicuri un’esistenza tranquilla ed agiata, e che ce la conservi vicina. Se voi avete trovato un migliore espediente, tanto meglio; mettetelo fuori, e vedremo. Gervasio dichiarò che non trovava nulla meglio del matrimonio progettato, e fissando gli occhi sul maestro, aspettava il responso dell’oracolo. Il maestro, dopo le opposizioni, le difficoltà, i cavilli messi in campo, non seppe formulare una proposta lodevole, nè trovare uno scioglimento che fosse più plausibile del matrimonio, e confessando la sua impotenza, conchiuse: che a questo mondo si fanno quasi sempre delle cose mediocri, perchè non se ne trovano di migliori, e che talvolta i risultati riescono contrari alle previsioni, che vi sono dei matrimoni bene assortiti che finiscono male, e dei connubi improvvisati, senza probabilità di buona riuscita, che diventano... non dirò buoni, ma tollerabili. E in tal maniera finiscono sovente molte ciarle delle pubbliche assemblee, e dei congressi diplomatici, cioè l’impotenza di ottenere la perfezione costringe per necessità ad accettare un partito qualunque, messo in campo dalle circostanze imprescrittibili della vita. Così venne risolto anche in quel consiglio di famiglia. Il consenso dei parenti fu annunziato agli sposi; Andrea lo accolse con un delirio d’amore, Maria con modesta bontà, che poteva sembrare anche rassegnazione, se coloro che avevano combinato quel matrimonio non avessero veduto più facilmente ciò che speravano di quello che era in realtà. In casa Pigna diedero subito mano agli apparecchi delle prossime nozze, i quali furono assai più semplici di quelli di Venezia. Due mani d’acqua di calce tanto alla stanza nuziale che alla cucina, si fecero scardassare i materassi dell’immenso letto di matrimonio della famiglia, riempiere di cartocci nuovi il saccone, rinnovare le penne della coltrice, mettere due cortine bianche di cambrich ai balconi della camera degli sposi, lustrare a nuovo i mobili, lavare i pavimenti e le scale, ordinare la batteria di cucina, stagnare i rami e fregarli a fondo, strofinare gli alari, la catena, la paletta, le molle; infatti un bucato universale, un ripulimento memorabile, da poterlo citare all’occasione, dicendo per esempio: quel mobile è stato ripulito all’epoca del matrimonio di Andrea. La polvere e le macchie dimenticate da una intiera generazione sparivano davanti il rinnovamento della famiglia che doveva inaugurarsi colla più scrupolosa nettezza. In quanto alla partenza degli sposi nel giorno delle nozze era disapprovata da tutti i parenti Pigna e del vicinato. Una cosa simile non si era mai vista. Da padre in figlio tutti avevano celebrato il giorno delle nozze con un banchetto ed un ballo, restando al proprio villaggio, dove il corteggio accompagna la sposa alla casa nuziale. E questa volta criticavano Andrea di cambiare le vecchie abitudini rurali, perchè sposava una signora. Ma Maria aveva delle amiche che prendevano la sua difesa, e facevano osservare alle pettegole malcontente e ai ciarloni invidiosi, che se il viaggio di nozze non era un uso in casa Pigna, era una vecchia abitudine in casa Bonifazio, e che una sposa come Maria aveva diritto a dei riguardi. Più tardi si venne a sapere che gli sposi non sarebbero andati girovagando per gli alberghi, come si usa adesso con poca poesia, ma che si recavano direttamente in Brianza dal cugino Alessandro, nella famiglia della nonna, ove erano stati invitati; e tale determinazione fu generalmente applaudita. E infatti era vero; quando ricevettero in Brianza l’annunzio del prossimo matrimonio di Maria, i gentili cugini offersero subito la loro casa agli sposi, domandando come un favore che volessero passarvi i primi giorni delle nozze. Questa cortese esibizione parve alla nonna un benefizio della provvidenza, comunicò subito l’invito agli sposi, che venne accolto con piacere, e così veniva a togliersi ogni attrito disgustoso fra i due matrimoni che dovevano succedersi a pochi giorni di distanza. La povera nonna aveva le lagrime agli occhi quando pensava che la sua diletta Maria sarebbe andata ad abitare per qualche giorno in quella casa così piena di memorie per lei, ove era nata, e aveva passata l’infanzia e la prima gioventù, e narrava alla nipote la bellezza di quei siti, il pittoresco delle colline e dei laghi, le delizie delle prospettive e dei giardini, la pace e la solitudine di quella casetta romita, quasi nascosta sotto gli alberi. Le raccomandava di visitare le posizioni più ridenti, e di renderle conto delle sue impressioni. Ed era felice che Maria passasse quei giorni di vita nuova dove essa aveva conosciuto ed amato il capitano, e le raccontava la modestia di quel soldato, la timidezza di colui che non aveva paura dei nemici armati, dei Tedeschi e dei Cosacchi, e che non osava parlare ad una ragazza. E le descriveva i due nonni come se fossero ancora vivi, e anche giovani, perchè Maria ne aveva conosciuto uno solo, ed anche vecchio, quando essa era bambina. Ma quelli erano tempi terribili e pericolosi, le congiure dei Carbonari avevano ritardato il loro matrimonio; tanto suo padre che il fidanzato dovevano tenersi pronti a fuggire in caso di pericolo, per salvarsi dalla prigione e dalla forca. Andrea si andava civilizzando, si faceva vestire a Treviso da un sarto migliore di quello del villaggio, aveva imparato a pettinarsi, si metteva la cravatta con qualche attenzione, e pareva quasi un giovinotto della città. Il maestro gli dava qualche buon libro, e gli diceva: —Per non parere un asino non basta cambiar la pelle, bisogna anche camminare con due gambe. L’uomo sta ritto perchè alza la testa; impara da Argo a stare in piedi e a farti amare da Maria; Argo è pieno di cortesie per la sua amica, e sa meritarsi la sua affezione. Cerca d’istruirti se non vuoi far ridere la gente quando apri la bocca. Se non impari qualche cosa farai una pessima figura nella famiglia di Brianza. Tuo nonno era un ubbriacone, ma pieno di buon senso; tuo padre sa fare il suo interesse, ma è un galantuomo; tu sei un bestione, ed hai bisogno di nascondere quella ruvida scorza che ti rende scabroso. Andrea non se ne aveva a male; conosceva le maniere del maestro, rispettava la sua vecchiaia, e non avrebbe mai osato di contraddire colui che aveva mostrato di proteggerlo, e gli dava dei buoni consigli. XIV. In quei giorni papà Gervasio fu invitato a recarsi a Venezia per la firma del contratto di matrimonio di Silvio, e partì subito insieme al maestro Zecchini, che ambì l’onore di servire da testimonio, e furono accolti con ogni cortesia dalla famiglia Ruggeri. L’avvocato annunziò la determinazione che aveva presa di conservare Silvio nel suo studio, come socio cointeressato in qualche parte degli affari. E questa era una rendita assicurata che rappresentava la dote. Alla morte dei genitori, Metilde figlia unica, restava la sola erede di tutta la loro sostanza. Per ora non potevano dare di più, per non privarsi delle loro abitudini; avevano però provveduto un ricco corredo che avrebbe reso inutile ogni altra spesa per molti anni. In corrispondenza di questi vantaggi, il futuro sposo prometteva un congruo assegnamento alla moglie, in caso di bisogno. Papà Gervasio e il maestro Zecchini restarono con un palmo di naso. Questo contratto era un vero disinganno, perchè in effetto la sposa non portava in dote che un corredo, il quale costituisce una pretesa proporzionale alla sua importanza. L’utile dello studio, limitato ad alcuni affari soltanto, non rappresentava altro che la giusta retribuzione al lavoro del marito. In quanto alla futura eredità essa poteva avverarsi a benefizio dei discendenti, in un tempo assai remoto, ed anche ridursi a nulla. Ma la domanda era stata fatta senza condizioni, tutte le apparenze lasciavano supporre una bella dote; si erano ingannati, ma la delicatezza e la dignità non permettevano osservazioni, e il contratto fu firmato in silenzio, dagli sposi, dai genitori e dai testimoni con tutta la solennità d’un atto gravissimo che decide la sorte d’una famiglia. I Bonifazio e Zecchini, dopo i convenevoli complimenti fra gli sposi e i congiunti, uscirono dallo studio in mezzo alle profonde riverenze dei commessi e degli scritturali che spalancavano le porte, e si allontanarono gravemente dalla casa, camminando silenziosi e pieni di dignità, perchè si sentivano osservati; ma appena svoltato l’angolo della strada e fatti pochi passi in sito sicuro, si fermarono tutti tre nello stesso momento, guardarono d’intorno se nessuno li ascoltava, e fissandosi in volto cogli occhi spalancati, ciascheduno espresse in poche parole le sue impressioni: —Rimango trasecolato! esclamò papà Gervasio. —Quale insigne asinità! disse Zecchini. —È stata una solenne corbellatura! conchiuse Silvio. Il maestro pareva esitante fra l’afflizione di vedere gli amici delusi, e la soddisfazione per il nuovo trionfo della sua teoria. Il padre accusava il figlio di soverchia leggerezza, e il figlio tentava di giustificarsi col lusso della famiglia Ruggeri. —Il lusso non è sempre prova di ricchezza, gli rispondeva il padre, può essere anche effetto di ambizione, di disordine, di sregolatezza. —Fumo negli occhi, soggiungeva il maestro, per abbagliare i babbei. Alle sei in punto, ci fu gran pranzo di famiglia in casa Ruggeri, ed alla sera un pomposo ricevimento per festeggiare i promessi sposi. Poteva dirsi una vera festa mascherata, perchè ciascuno s’era formato una fisonomia apposta per dissimulare i propri pensieri. L’avvocato affettava la più ingenua bonarietà, la signora Emilia rappresentava perfettamente la tenerezza materna in lotta fra la consolazione per il collocamento della figlia, e il dolore di perderla. Papà Gervasio simulava il volto dell’uomo completamente soddisfatto, sorridente, contento della sua sorte; il maestro Zecchini li guardava tutti sott’occhio, e sentiva in fondo della coscienza di essere il più grand’uomo di quella società, il più profondo, il più giusto, il più sincero di tutti. Silvio fissava gli occhi negli occhi di Metilde, la vedeva bella come un angelo, e pensava che se la dote era svanita come il fumo, gli restava l’arrosto. Ci furono brindisi agli sposi e ai parenti, e allegria costante, che proprio non pareva un banchetto di corbellatori corbellati. Eppure era così; la sposa creduta ricca era senza dote; lo sposo creduto un gran signore, aveva una piccola sostanza coperta di debiti. In quello stesso giorno venne fissata l’epoca precisa del matrimonio, e al mattino seguente papà Gervasio e il maestro Zecchini ritornavano a casa a comunicare alla signora Maddalena le varie impressioni ricevute nella famiglia Ruggeri, prendendo poi il savio partito di dissimulare con dignità l’amara sorpresa, e di rassegnarsi al destino. I due matrimoni vennero celebrati al tempo stabilito. Prima quello di Maria con Andrea, che partirono subito per la Brianza; e pochi giorni dopo quello di Metilde con Silvio, che si recarono in Isvizzera a fare il loro viaggio di nozze. Dopo d’aver vagato per monti e per valli, ritornarono contenti del loro pellegrinaggio, e come avevano promesso si ritirarono alla villa Bonifazio, per vivere qualche giorno tranquilli in famiglia, prima di stabilirsi a Venezia. Papà Gervasio e la nonna ebbero le più delicate attenzioni per la sposa, Silvio la faceva passeggiare pel parco, e la conduceva a visitare le case coloniche e i campi. Egli si fermava davanti gli spazii aperti del giardino, le mostrava le Alpi lontane, il bosco Montello, e quella linea oscura sul monte di Serravalle con alcune macchie d’intorno che indicano la foresta del Cansiglio. Essa guardava sbadatamente come suo padre, e tirava avanti. La nonna la consigliava a uscire di buon mattino per respirare l’aria salubre del Piave; ma essa non voleva bagnarsi gli stivalini alla guazza; le dispiacevano le stradicciuole rurali perchè i sassi le ammaccavano i piedi, e nelle strade più battute c’era troppa polvere e si sporcava l’abito. Detestava l’odore delle stalle, e il fumo delle cucine dei contadini. Era dunque un po’ difficile di passare le giornate, che le riuscivano lunghe. Leggeva qualche pagina sbadigliando, si doleva di non avere il pianoforte, e trovava la campagna monotona. Quando passeggiava sotto il portico delle adiacenze, Falcone nitriva invano per chiederle il pane che Maria gli portava sempre, e che gli mancava. Non voleva essere seguita da Argo, perchè quel grosso cagnaccio le faceva paura, e la povera bestia andava in giro colle orecchie penzoloni e la coda bassa, cercando invano la sua amica lontana; mangiava poco, con segni evidenti di profonda malinconia, non andava a coricarsi che sul tappeto davanti al tavolino di lavoro, dove Maria appoggiava i piedi, e guardava attorno cogli occhi tristi, interrogando alla sua maniera la gente di casa. Anche i colombi svolazzavano inquieti per la corte, cercando colei che mancava. Il solo Mumut continuava impassibile nelle sue abitudini, andava alla caccia dei sorci nel fienile e sui tetti, aspettava immobile, delle ore intiere, davanti il monticello d’una talpa, per spiare un movimento della terra e dare l’assalto alla tana; alla sera si arrampicava sugli alberi per abbrancare qualche povero uccelletto che andava a dormire, e all’ora della colazione e del pranzo non mancava mai dal balcone della cucina dove la nonna gli portava i residui della mensa. Silvio cercava invano di distrarre la sua sposa, conducendola in carrozza sulle rive del Sile o della Piave; essa preferiva recarsi a Treviso per mettere in mostra i cappellini e i vestiti, e fare invidia alle provinciali colla sua eleganza. Nei giorni piovosi trovava la campagna insopportabile, e non poteva comprendere come si potesse restarvi l’inverno senza morire di noia. Il tedio della solitudine la rendeva acre e mordace; si burlava collo sposo della dabbenaggine dei contadini, della goffaggine degli amici di casa, canzonava la semplicità dei Pigna, e non poteva soffrire le sentenze del maestro Zecchini. Silvio procurava di abbonirla, la pregava di non farsi sentire da suo padre e dalla nonna, lasciando che quei poveri vecchi conservassero le loro illusioni: la avvertiva che Pasquale aveva il difetto di ascoltare dietro gli usci, e la supplicava d’esser prudente. Essa non si consolava della solitudine della campagna che parlando di Venezia, e pensando ai piaceri che la aspettavano, ed alla libertà che avrebbe goduta nella sua nuova condizione di donna maritata. La nonna osservava, indovinava, taceva, e cercava di dissimulare la tristezza che provava per la lontananza di Maria, la quale aveva lasciato in casa un gran vuoto, che non trovava compensi cogli altri sposi. Le lettere di Brianza erano le sole consolazioni che la facessero pazientare. Maria si trovava benissimo coi cugini; Alessandro conduceva Andrea alla caccia, l’Enrichetta si accordava perfettamente coi gusti di Maria. Fecero delle gite a Milano e sul Lago di Como, e passavano in casa dei giorni lieti, apparecchiando dei buoni piatti ai cacciatori che ritornavano stanchi ed affamati. Qualche volta andavano tutti insieme a fare delle escursioni mattutine sui colli, apportando delle provvigioni per far colazione sull’erba, in qualche sito pittoresco, ove meriggiavano in pace sotto gli alberi. Enrichetta aveva una bella collezione di conigli, tenuti in gabbie di ferro, coi migliori sistemi d’allevamento. Maria se ne invaghì, gliene promisero parecchie coppie a sua scelta, le insegnarono le cure necessarie alla buona riuscita. Essa andava spesso a visitarli, carica d’erbe, di foglie di cavolo e di carote; adorava i piccini, non poteva risolversi a quali dovesse dare la preferenza. Il più bello di tutti le pareva il coniglio d’Angora, pel candore del lungo pelo, simile a quello dei cagnolini maltesi, cogli occhi rossi come bragie, affabilissimo, affettuoso coi figli, che appena nati parevano tante pallottole di penne di cigno. Il cenerino di Fiandra, con quel pelo _petit gris_ era una meraviglia, pareva un bel manicotto da signora; ma anche l’argentino era stupendo, un pelo nero di lavagna colla punta bianca! e quello di Normandia? e l’enorme Ariete con quelle orecchione lunghe? veri portenti!... —Te ne daremo quanti ne vuoi, le dicevano i buoni cugini, e colle relative cassette pel trasporto in ferrovia, e oltre il piacere che avrai, sarai anche benemerita della classe rurale, introducendo nel tuo villaggio l’allevamento di questi animali che sono un cibo eccellente, e danno una buona rendita per la vendita delle pelli. Maria batteva le mani come una bambina, gettava uno sguardo interrogativo su Andrea, temendo che facesse opposizione, o trovasse qualche ostacolo; ma egli che l’adorava non aveva altro intento che quello di contentarla in tutto, e vederla felice, e avrebbe portato i conigli sulle spalle per farle piacere. Egli era beato, mangiava per quattro, e il capitano gli riempiva continuamente il bicchiere d’un certo vinetto frizzante di Montevecchia che sdrucciolava giù per la gola con una facilità sorprendente. Al dopo pranzo le donne lavoravano all’uncinetto, Andrea si gettava in una poltrona, e si addormentava immediatamente d’un sonno profondo. Quando russava troppo forte, Maria lo urtava col piede, ma invano allora si alzava per far rumore, gli dava delle scosse, e accusava il cugino di farlo bere un po’ troppo. Alessandro la pregava che lo lasciasse dormire in santa pace, e si metteva a fumare, raccontando alle due donne certi aneddoti del bisnonno di Maria che la interessavano assai e provavano la ferrea tempra del colonnello. Quell’uomo coraggioso sapeva dirigere con suprema destrezza le più pericolose macchinazioni dei Carbonari; la polizia sentiva una mano potente che la stringeva da ogni parte, ma non poteva afferrarla. Seduto nella vecchia poltrona di cordovano, colla sua pipa di schiuma in bocca, in veste da camera e in pantofole, egli studiava il modo di far traballare il trono dell’imperatore, e ci riusciva, senza perdere la testa nè la libertà. Era audace, ma scaltro; la polizia, e le commissioni speciali si dibattevano nelle reti che egli aveva tese, facevano qualche vittima che non sapeva schivarsi, ma il caporione sfuggiva sempre ai loro conati, ed alla loro rabbia che si sfogava colle barbare condanne degli innocenti. La nonna scriveva lettere sopra lettere per sollecitare il ritorno della sua Maria, e al fine fu necessario di compiacerla, fissando il giorno della partenza, e dandole avviso dell’arrivo. Quando giunse a villa Bonifazio questa notizia, Silvio ne fu fortemente colpito. Egli non si sentiva ancora abbastanza forte da affrontare la cugina, per la quale gli restava nel profondo del cuore come un ricordo di gioventù pieno di tenerezza. Annunziò a Metilde il suo desiderio di ritornare a Venezia, parendogli che fosse tempo di prender possesso del loro appartamento, e di riprendere le abitudini di lavoro e di studio. Metilde non domandava meglio, accolse il desiderio del marito colla più sincera soddisfazione, quella vita di campagna le pareva davvero insopportabile, ma pel dovuto riguardo allo sposo ed ai parenti, non diceva la metà del male che ne pensava, e si studiava di dissimulare l’immenso tedio che la opprimeva. Quando fu sicura d’andarsene, le parve più facile di manifestare il dispiacere di lasciare i parenti del marito, così buoni per lei, e non mancò di mostrarsi afflitta di lasciare la villa, e vivamente riconoscente di tante cortesie ricevute. Partirono due giorni prima dell’arrivo degli altri sposi, e furono accolti alla stazione di Venezia dai Ruggeri che erano andati ad aspettarli per condurseli a pranzo in casa, dove trovarono una ragazza, pronta a servirli, che li attendeva, provveduta a tempo dalla signora Emilia, la quale l’aveva già messa alla prova, ed istruita sulla condotta che doveva tenere. La Betta era piaciuta alla signora Emilia pel suo aspetto di cameriera che faceva buona figura. Sapeva cucire e stirare la biancheria, e si adattava anche ad ogni più basso servizio. —E per la cucina? domandò Silvio. —Oh Dio, rispose la suocera, sulla cucina non è troppo esperta ma per mettere un pezzo di manzo in una pentola con dell’acqua e del sale tutti sanno farlo, e una minestra di riso non domanda studio. Col tempo e la pazienza potrà imparare anche il resto.... —Il resto!? pensò Silvio fra sè, il resto in questo caso vuol dir tutto. —Capisco che non sa niente, ma al peggiore dei casi la metteremo alla porta, e ne prenderemo un’altra. Dopo pranzo mandarono la Betta ad aprire l’appartamento e ad aspettare i padroni. Più tardi la signora Emilia volle accompagnarli, per far vedere tutto quello che aveva operato per mettere in assetto ogni stanza con perfetto buon gusto. E infatti trovarono tutto in buon ordine. Dall’anticamera si entrava in una sala destinata alla conversazione, con belle tappezzerie e specchi alle pareti, e tappeto sul pavimento. Tutti gli arredi erano di perfetto buon gusto. Il pianoforte occupava il posto opportuno, il canapè, i divani, le seggiole formavano un semicerchio che aveva nel centro un tavolo elegante, con vasi di fiori, album, e strenne. Agli angoli stavano dei tavolini da giuoco, e degli scaffali da collocarvi degli oggetti d’arte. Seguivano due belle camere da letto, una per gli sposi, l’altra pei parenti e gli ospiti. Un salottino per Metilde, un gabinetto di studio per Silvio, una bella stanza da pranzo presso alla cucina, e poi degli altri locali per la domestica, e per sbarazzare la casa. Le famose tendine erano state collocate nella sala di ricevimento e nello studio; la camera da letto e il salottino avevano quelle acquistate dalla signora Emilia, con colori favorevoli al viso, ma con disegni assurdi. Metilde fu contentissima della nuova dimora, e Silvio dovette mostrarsi riconoscente verso la suocera che si era data tanti disturbi per ordinare i mobili, e dirigere gli operai che avevano messo ogni cosa al suo posto. Al mattino seguente apersero i bauli, Metilde e la Betta furono occupate tutto il giorno a riempiere gli armadi e i cassettoni, coll’assistenza di Silvio che piantava chiodi, si martellava le dita, bestemmiava fra i denti, e si protestava beato. Poi fecero i loro conti su quello che potevano spendere, cercando di proporzionare le spese alle rendite per avere una norma, e ciascuno prese le sue abitudini. Silvio si recava ogni mattina allo studio Ruggeri, e si occupava d’affari legali sotto la direzione dello suocero, e nelle ore libere continuava a scrivere nei giornali. Metilde attendeva sua madre o andava a trovarla, uscivano insieme quasi ogni giorno, facevano delle visite e delle spese imprevedute, e tanto delle prime che delle seconde ce n’erano sempre. La Betta si occupava a mettere in ordine l’appartamento, spazzettava gli abiti della padrona, stirava la biancheria, metteva la carne al fuoco, poi andava alla finestra a veder passare la gente o a fare delle lunghe conversazioni coi garzoni delle botteghe, informandosi esattamente di tutti i pettegolezzi della calle. Verso le cinque pranzavano, Silvio contemplava sua moglie da vero innamorato, la trovava sempre più bella, e non si accorgeva che la minestra era scipita, il manzo duro e poco cotto, ma Metilde chiamava la Betta e se ne lamentava, questa accusava il beccaio, e protestava d’aver soffiato tutto il giorno nel fuoco. Il primo giorno avevano ancora fame dopo finito il pranzo. —Non c’è altro?... domandò Metilde al marito, e questi alla Betta: —Non c’è altro?... —Non mi hanno ordinato di più, rispose la domestica. Allora la mandarono a prendere un piatto dal trattore vicino, del presciutto dal pizzicagnolo, e delle frutta dal fruttivendolo. —Si vede proprio, osservò Silvio, che il conto preventivo bisogna farlo dopo il pranzo. Non ci sono piani economici possibili, fino che non si ha mangiato il bisogno. Metilde rideva, e gli dava ragione. Così presero l’abitudine di non cuocere in casa che la minestra ed il lesso, acquistando gli altri piatti qua e là, dal pizzicagnolo o dal trattore, per non consumare troppa legna, e non far perdere il tempo alla serva. Ma l’accessorio costava il doppio del principale. Il cielo provvederà! pensava il marito, e la moglie non se ne occupava. Uscendo dallo studio dell’avvocato, Silvio girava per le strade occhiando le ghiottonerie esposte nelle vetrine, faceva qualche acquisto che nascondeva nel fazzoletto, e così portava a casa il complemento del pranzo; talvolta mandava la Betta a comperare il pesce fritto, o qualche manicaretto che gli aveva fatto gola, messo in mostra alla trattoria. In questo modo il conto preventivo del bilancio domestico riusciva una vera derisione; era facile convincersi che conveniva meglio di fare il pranzo in famiglia, ma chi se ne sarebbe occupato? La Betta non aveva nessuna attitudine alla cucina, e nessuna economia, per cuocere due uova in tegame metteva doppio burro del necessario, e le serviva crude o bruciate. Bisognava trovare una donna che sapesse fare un po’ di cucina con economia, ma la signora non voleva privarsi della Betta che la pettinava di buon gusto, e per salvarla dalla noia le raccontava tutti i pettegolezzi del giorno, aveva imparato a vestirla, a metterle il velo sul cappellino, lavava benissimo in un attimo i colli, i polsini, i fazzoletti preferiti, e li stirava sul momento. Sapeva ricevere senza chiasso tutti gl’involti mandati dal merciaio, e consegnarli alla padrona, senza bisogno di disturbare il marito. Capiva in aria ogni cosa, bastava strizzare un occhio per avvertirla. Tuttavia consultarono la signora Emilia, la quale domandò se erano matti. —È una vera ingenuità da ragazzi senza esperienza! essa esclamava. Ma sapete quale difficoltà s’incontri a trovare una donna fedele ed onesta in questi tempi di ladri e di sgualdrine. Non v’è in tutta Venezia un’altra donnetta come la Betta! essa fa un’ottima figura, si presenta benissimo a chi viene a far visita, conosce le cose più necessarie, meglio di qualunque cameriera, e la si adatta a fare ogni altro servizio. —Ma non sa far niente in cucina; osservò Silvio con impazienza. —Imparerà; rispondeva la suocera, bisogna istruirla, capisce subito. —Ma chi deve istruirla? domandava il povero giovinotto, che cominciava a nausearsi di quei cibi mal fatti. —Io no di sicuro, diceva Metilde, che ho orrore degli imbratti e degli intingoli, e l’odore del carbone mi fa male. —Poveretta!... esclamava la signora Emilia con accento pietoso, poveretta! nemmeno per sogno, tu non sei stata allevata in cucina, nè per fare la serva! Silvio fremente non osava rispondere. Aveva paura di lasciarsi sfuggire qualche parola offensiva, ma pensava fra sè: «ed io dunque? ho forse imparato alla Università a fare il cuoco o il domestico?!... santa pazienza!... bisognerà pensare a qualche cosa, perchè così non si tira avanti.» Quel giorno non si disse di più, ciascuno s’era fermato al punto scabroso; Metilde andò a vestirsi, sua madre e la Betta la assistevano con grande attenzione; e finalmente si udì un fruscio di vesti di seta, si vide un’ondeggiare di piume e di svolazzi, e le signore facendo un grazioso inchino al marito sbalordito, lo lasciarono con un palmo di naso, e andarono al passeggio sulla riva degli Schiavoni. Egli aveva voluto una donna elegante, e l’aveva; non c’era da che dire, bisognava tirare avanti con rassegnazione e aspettare che il tempo e la necessità venissero a modificare le cose. Ma ogni giorno che passava cresceva le difficoltà, e portava nuove amarezze. Una volta papà Gervasio andò a passare una giornata coi figli. Giunse carico come il solito dei migliori prodotti dell’orto e della corte, fra i quali si trovavano due magnifici capponi. Uno di questi capponi fu lessato pel pranzo, e venne servito stracotto; le carni si distaccavano dalle ossa, in un brodo lungo, senza sapore. Il pesce fritto perdeva il sangue sul piatto. —Fate una cucina detestabile! disse papà Gervasio, senza tanti complimenti. Figliuoli miei, la vostra Betta vi rovina lo stomaco. Colle mie solite sofferenze intestinali, io non potrei reggere a questi cibi malfatti. Dovete sapere che la cattiva cucina è un vero veleno!... —Pur troppo! gli rispose Silvio, questo è quello che ripetiamo ogni giorno tutti due, ma Metilde non se ne intende, ed io meno di lei. —Eppure, disse Gervasio, tu hai veduto in cucina, per tanti anni, la nonna e Maria, che qualche cosa avresti dovuto imparare. —Non ho imparato che a mangiar bene, egli soggiunse con un profondo sospiro; e adesso ho la doppia afflizione di mangiar male e di non saper trovare un rimedio. —Ma a me il rimedio mi sembra facile, cambiate la domestica. —È impossibile!... gli rispose il figlio, e per non compromettere sua moglie e non parere un minchione, soggiunse: è tanto brava in tutto il resto, e ci conviene perfettamente. —Ma la cucina è l’essenziale, si tratta della salute.... della vita! —È verissimo, ma si può cadere in una ladra pericolosa, non si sente a parlare che di furti. Siccome Silvio gli aveva domandato un sussidio straordinario, perchè si trovava senza quattrini, essendosi sbilanciato per le spese d’impianto, papà Gervasio voleva rispondergli:—che cosa vuoi che ti rubino se sei sempre senza soldi?—ma temendo di offendere la nuora e di mettersi sopra un terreno pericoloso, si tacque, preferì di continuare il discorso, e disse: —Se volete che venga qualche volta a trovarvi abbiate pietà del mio povero stomaco e dei miei intestini. Procurate d’istruirvi in quello che non sapete, ingegnatevi, imparate, chi non sa fare non sa comandare. Scommetto che avete dei romanzi, e delle poesie, e che vi manca un libro di cucina, il libro più utile della casa!... Aveva indovinato giusto, e tutti si misero a ridere di buon cuore. —Aggiungete un’altra considerazione, continuò; se il non saper fare la cucina produce il malanno di mangiar male, il non sorvegliarla riesce ancora più dannoso. I padroni che non guardano mai nelle pentole, che non stanno in guardia contro la noncuranza o la sguaiataggine delle persone di servizio, non possono immaginarsi tutto quello che inghiottono: polvere, nero fumo, sabbia, verderame, muffe e corpuscoli d’ogni sorte, aggiungete il concime e i vermi che si trovano negli erbaggi. Questa insipienza di molti produce sovente dei terribili risultati, dei fermenti che guastano lo stomaco, dei dolori misteriosi, la cancrena e la morte!... I due giovani lo guardavano cogli occhi spalancati, pieni di ribrezzo. Dopo il caffè, papà Gervasio scomparve. Lo cercarono invano in tutte le camere; egli non era avvezzo ad uscir di casa al dopo pranzo, e restava coi suoi figli fino all’ora della partenza. Temettero che fosse indisposto, e furono inquieti. —Si sarà dimenticato qualche piccola spesa, osservò Metilde; e si mise ad aspettarlo alla finestra. Silvio le tenne compagnia fumando il sigaro, guardando da lontano per non vedere le mostre del pizzicagnolo e del beccaio. Dopo una buona mezz’ora ecco papà Gervasio che spunta sull’angolo della via che mette alla piazza. Vedendo i figli alla finestra si mise a sorridere, alzando in aria un involto, con aria trionfale. Quel buon padre era andato a far l’acquisto del miglior libro di cucina che si trovasse in commercio. Entrò nel salotto dicendo: —L’ho trovato! e ve lo dono. È il più bel regalo che un padre possa fare... ai figli che mangiano male. Lo andava scartabellando con vera soddisfazione, ne scorse l’indice delle materie e trovata la pagina che cercava, cominciò a leggere ad alta voce: «Dopo d’aver legato il cappone si deve metterlo in una pentola dove si trovi in ristretto. Aggiungete acqua, carote, una cipolla con due chiodetti di garofano, una foglia di lauro, sale, e pepe in grano. Due buone ore di cottura a fuoco dolce.» —Chiamatemi la Betta, che venga qui colla pentola nella quale ha fatto bollire il cappone. La Betta comparve tutta confusa, portando in mano una marmitta di ghisa smaltata; era il corpo del delitto. —È questa la marmitta dove avete fatto cuocere il cappone? —Signor sì. —Ebbene in quella marmitta ce ne stanno tre comodamente, era piena d’acqua? —Signor sì. —Ebbene quell’acqua era bastante per tre. Che cosa avete messo in quella laguna? —Ho messo il cappone. —E poi? —Ho messo del sale. —E poi? —Non ho messo altro. —Mancava dunque una cipolla, i chiodetti di garofano, le carote, il lauro ed il pepe. E quanto ha bollito? —Ha bollito tre ore. —Misericordia!!... ma questa è la cucina delle bettole, delle prigioni, e del seminario! Papà Gervasio voltò le spalle alla Betta, e rivolto a suo figlio gli disse: —Brillat-Savarin nel suo classico trattato sulla _Fisiologia del gusto_ mette fuori questa giusta sentenza: «_Dimmi che cosa mangi e ti dirò chi sei_.» Adesso che vedo come mangi io ti dico: Tu non sei un avvocato ma un galeotto, tu non sei un uomo libero, ma un seminarista!... Prendi questo libro di cucina, leggilo attentamente, consiglia tua moglie a impararlo a memoria, e se per disgrazia la vostra casa andasse in fiamme, lascia bruciare i tuoi codici, ma salva il libro di cucina. È un libro positivo, ma che non esclude una certa poesia e prosa preferibile a molti versi. Il codice civile è buono per gli accattabrighe, per chi vuol far debiti senza pagarli; il codice penale mostra ai bricconi come si possa rubare senza andare in galera; ma il codice della cucina insegna a conservare la salute dei galantuomini, e questo val meglio di tutto. Compera anche il volume di Brillat-Savarin e meditatelo seriamente. Papà Gervasio si era animato parlando, non aveva più riguardi, usciva dai gangheri; Metilde torceva il muso e s’attribuiva la predica: «Se la cucina val meglio di tutto, essa pensava dentro di sè, vuol dire che mio suocero mi considera come buona da nulla, ma la mia educazione non mi permette di scendere tanto basso, ed io resterò sempre al mio posto.» Oramai il pregiudizio morboso, che le faceva credere una volgarità ciò che è un sacro dovere, aveva messe le radici del tumore maligno, che il migliore chirurgo non può estirpare senza arrischiare la vita del malato. XV. Bisognava che Silvio si rassegnasse al destino per conservare la pace, egli vedeva chiaramente l’assoluta impossibilità di combattere le idee della moglie e della suocera, e prese l’eroica determinazione di seguire per suo conto i consigli paterni. Comperò e lesse con somma attenzione il libro sapiente e brioso di Brillat-Savarin, e avendovi trovato diletto si convinse che la sua ripugnanza per le operazioni gastronomiche, non era in fondo che un pretto pregiudizio senza fondamento. Se l’occuparsi della cucina fosse una vergogna o un disonore, il soldato non si farebbe da pranzo. E andava ripetendosi le massime del maestro che aveva studiato: «Che cosa sarebbe l’universo senza la vita? e tutto ciò che vive si nutre.» «Gli animali si pascono, l’uomo mangia, il solo uomo di spirito sa mangiare.» «Il destino delle nazioni dipende dalla maniera che si nutriscono.» «Il Creatore obbligando l’uomo a mangiare per vivere, lo invita coll’appetito e lo ricompensa col piacere.» «La scoperta d’un nuovo cibo è più vantaggiosa alla felicità del genere umano della scoperta d’una stella.» «Colui che ricevendo i suoi amici non dà nessuna cura personale al pranzo che viene preparato per loro, non è degno di avere degli amici.» Dunque necessità, dignità, spirito, riconoscenza, politica, filantropia, ospitalità, tutto esige che i padroni di casa s’intendano di cucina. Di qua non si sfugge!... senza ritornare selvaggi. Cominciò le più serie meditazioni sul libro di cucina, e qualche modesto tentativo riuscito abbastanza bene lo animò a proseguire la prova. E quando ritornava dallo studio entrava in cucina, ordinava i preparativi alla Betta e poi sorvegliava la cottura. Metilde mangiava con grande appetito i piattelli allestiti dal marito, e gliene faceva degli elogi che lo incoraggiavano sempre più a perfezionarsi in quest’arte benefica. Lo stomaco soddisfatto produce il buon umore, il quale mantiene la concordia, e la piccola famigliuola si trovava benissimo della riforma. Silvio ci prendeva gusto, cercava di far conoscenza con buoni cuochi, andava a vederli al fornello, domandava informazioni, suggerimenti, consigli, s’indirizzava ai parenti ed agli amici per ottenere delle ricette di piatti squisiti. Scrisse una lunga lettera a suo cugino di Brianza pregandolo di mandargli una informazione precisa sul modo di fare il risotto alla milanese e i maccheroni al sugo. Nelle lettere alla nonna non parlava d’altro che di cucina, la pregava d’insegnargli a fare i ravioli, i gnocchi, e la torta di lasagne. Quando l’avvocato Ruggeri era chiamato fuori di Venezia per qualche affare, Metilde invitava a pranzo la mamma, dicendogli: —Vieni, e mangerai bene, adesso Silvio se ne intende, e ti farà gustare un pranzetto delizioso;—e poi s’indirizzava al marito:—Ti raccomando quella fritturetta che sai; il pollo in fricassea, e la _charlotte_. —Basta che siate esatte per le sei in punto. Tutto sarà pronto. Alla solita ora del passeggio, le signore andavano a spasso nei più eleganti abbigliamenti, e il giovane avvocato, corrispondente di parecchi giornali nazionali e stranieri, deponeva la penna, e rientrava in casa prima del solito. Egli aveva capito che non poteva fidarsi della Betta nemmeno nelle cose secondarie, e preferiva di far tutto da sè. Si metteva in maniche di camicia, cingeva il grembiale, si avvolgeva in testa un fazzoletto per preservarsi i capelli dalla cenere e dalle faville. Puliva il tavolo con un cencio, gettava il carbone nei fornelli, e agitava la ventola per apparecchiarsi il fuoco necessario. Poi andava alla moscaiuola, prendeva le carni, le poneva sul ceppo, le tagliava e apparecchiava regolarmente, con tutte le cure e tutti gl’ingredienti indicati; prendeva la mezzaluna, faceva il battuto di cipolla, prezzemolo e presciutto, e lardellava lo stufato. Dopo ammannite le vivande e infilzati i polli allo spiedo approntava il girarrosto, e sorvegliava con occhio vigilante tutte le cotture. Le varie esalazioni della cucina spandevano intorno un odore eccitante; e tutte quelle voci sommesse o sonore che uscivano dai diversi recipienti, tutte le note basse od acute dell’ambiente armonizzavano fra loro e formavano una sinfonia gastronomica strana. Il crepitare del fuoco accompagnava come un pertichino il gorgogliare dell’acqua bollente nella marmitta; il friggere della cazzeruola, il grillettare dei tartufi nell’olio e lo scoppiettio pizzicato della legna si associavano al suono monotono del coltello che batteva sul tagliere, e ai colpi del pestello nel mortaio, e di tratto in tratto si udiva il ritornello della soneria del menarrosto che indicava la fermata. Le signore rientravano all’ora fissata; mettevano timidamente la testa entro la porta della cucina, ma scappavano via subito spaventate dagli odori. Silvio si avanzava per avvertirle che tutto era pronto, faceva il saluto militare colla mestola, e si metteva a passare il brodo dallo staccio per la minestra. Venuto il carnevale, la nonna annunziò il desiderio di Maria di passare qualche giorno a Venezia con suo marito. Silvio si mostrò poco lieto della notizia, e studiava dei pretesti per non alloggiare i cugini, ma Metilde gli fece comprendere la impossibilità di lasciarli andare all’albergo, e lo obbligò a rispondere che tutto era pronto per riceverli, e che tanto lui che sua moglie avrebbero un gran piacere a vederli. Al giorno fissato Silvio andò a riceverli alla stazione, e caricarono una gondola coi cesti e le sporte dei regali e il loro bagaglio. Arrivati a casa abbracciarono cordialmente Metilde, e dopo scambiati i saluti e le solite domande, presentarono gli oggetti portati in dono. Un enorme coniglio Ariete, allevato da Maria, otto beccaccie uccise da Andrea, il burro fresco e le uova, dei cavoli enormi, dei bei mazzi di cicoria rossa trivigiana, delle frutta e dell’uva perfettamente conservate, e delle confetture d’albicocco e di ciliegio. Tutte queste cose deposte sul tavolo facevano bella mostra, e furono accolte con ringraziamenti ed applausi. Ma c’era un imbarazzo. Silvio non aveva mai fatto cuocere un coniglio, e non sapeva come ammannirlo. —Si può farlo arrosto, colla salsa alla cacciatora, come il lepre, disse Maria, o alla _gibelotte_ alla francese. —Non conosco nè questa salsa nè la _gibelotte_, osservò Silvio in aria compunta. —Farò tutto io, a vostra scelta, soggiunse la cugina, sarà un vero piacere per me, di trovarmi in famiglia senza complimenti. —Ma credi mai che acconsentiremo ad una cosa simile, esclamò Metilde; ma nemmeno per sogno! siete venuti per divertirvi, e non dovete pensare ad altro.... —C’è il suo tempo per ogni cosa, osservò Maria, e se non mi lasciate fare è segno che volete farmi partire più presto. —Lasciala fare come le piace, disse Silvio a sua moglie, e poi rivolto alla cugina, soggiunse:—Ti aiuterò io in cucina, e vedrai che sono un guattero distinto.... —Queste non sono faccende per gli uomini, disse Maria, e meno ancora per gli avvocati; a ciascuno la sua parte; se avessi bisogno di assistenza avrei ricorso a Metilde.... —Oh cara Maria, rispose subito Metilde, tutta confusa, io non sono buona da niente.... non saprei nemmeno soffiare nel fuoco.... —Allora farò da me sola, conchiuse la cugina, e cambiarono discorso. Maria e Andrea furono condotti nella loro stanza, e mentre si spolveravano, e aprivano il bagaglio, Metilde afferrò il marito per un lembo dell’abito e lo trascinò nel salotto. —Per carità, gli disse, non mischiarti in cose di cucina fino che i cugini sono qui. Hai udito che cosa ne pensa Maria!... tu mi faresti un gran torto lasciandole vedere che sei avvezzo ad occuparti di queste brighe.... —Ma se le hai detto tu stessa che non te ne intendi!... —Sta bene, ma tu devi fingere di saperne meno di me.... —Sarà difficile. —Vuoi dunque farmi vergognare davanti di loro?... —Ma non ti rammenti che ho scritto varie lettere alla nonna per avere delle ricette di pietanze? —Ma le ricette potevano esser per me.... —E il papà non ha veduto che non vuoi saperne?... —Come non voglio saperne?... dunque ti penti di non aver sposato una cuoca?... Silvio per finirla le diede un bacio sulla fronte, e le rispose: —Tu pure non hai sposato un cuoco.... ed io lo faccio per necessità, e per la nostra salute.... Udirono un rumore di passi che annunziava il ritorno degli ospiti. —Ti prego, per carità, non tradirmi! gli disse in fretta Metilde, e con uno sguardo così supplichevole che Silvio, per tranquillarla, le rispose:—Non aver paura, ti dò la mia parola; sta tranquilla. Fecero colazione, poi uscirono insieme tutti e quattro per fare un giro per Venezia. Quel primo giorno non permisero a Maria di occuparsi di cucina, e Silvio non abbandonò mai i suoi ospiti. Il pranzo lo fecero venire dalla trattoria; ma la Betta incaricata di tener calde le vivande, le servì in parte fredde, e in parte abbruciate. Cercarono di giustificarla alla meno peggio, ma Silvio soffriva in silenzio per amore dell’arte che aveva cominciato a coltivare, e non poteva a meno di lamentarsi. —Domani farò io, disse Maria, e mangeremo il coniglio. Ciascuno riprese le sue abitudini, con qualche modificazione indicata dalle convenienze. Andrea girovagava tutto il giorno. Metilde conduceva Maria a visitare le chiese e i monumenti; le faceva vedere le mostre dei negozi, e specialmente quelle dei merciai e delle modiste. Quando rientravano, Maria si cambiava di vestito e andava in cucina a fare il pranzo. Metilde riceveva qualche visita, e suonava il pianoforte. La Betta correva su e giù per servire le signore, quando avevano bisogno di lei. Silvio attendeva ai suoi atti giudiziari, ed alle corrispondenze dei giornali; sollevato dell’obbligo della cucina avrebbe potuto lavorare più lungamente allo studio, ma voleva godersi un po’ di vacanza, e andava a fumare il sigaro a Santa Marta o alla Zuecca. La signora Emilia si lasciava vedere di raro, perchè sapeva che sua figlia non era libera, e che andavano ogni sera al teatro. Silvio, per dovere d’ospitalità, cercò di mostrarsi sempre cortese per Andrea, gli evitò l’occasione di trovarsi con persone che avrebbero potuto farlo arrossire della sua goffaggine. Metilde si prestò, con amichevole confidenza, a togliere i difetti più rimarchevoli dell’abbigliamento di Maria; la Betta fu molto occupata a disfare delle pieghe assurde, a rifarle in modo più corretto, a cambiar di posto certi nastri, a rifarne i nodi, o a sopprimerli addirittura. Fu chiamata una modista che sostituì un cappellino semplice e ammodo, a un certo cappello sopracarico di fiori a pennacchi che avea acquistato a Treviso. Comperarono un paletò di foggia recente che sostituì la tunica di vecchia data; così Maria facea buona figura, e la elegante cugina poteva accompagnarla, senza timore che la strana disuguaglianza della coppia facesse ridere la gente. Frequentando i passeggi, i teatri e gli altri spettacoli, schivarono di ricevere in casa certe visite di signore schizzinose che non avrebbero saputo nascondere l’impressione impreveduta di certi strambotti che sfuggivano a Maria nel suo dialogo, di alcune pose, e di certe mosse troppo ardite della persona che tradivano la mancanza di buone abitudini sociali. La trasformazione esterna di Maria attirò l’ammirazione di Silvio che si sentiva attratto verso di lei da una forza arcana, come il ferro verso la calamita, che egli voleva dissimulare, alla quale si sforzava di resistere, animato dal dovere, dal rispetto, dall’onestà, e che riusciva a dominare ed a vincere, ma dopo una lotta pertinace, e una rivolta del cuore, dove sentiva ancora un antico fuoco che covava sotto la cenere. Ma queste lotte dell’istinto brutale col dovere dell’uomo onesto, della natura colla ragione, mettevano in burrasca il suo povero cervello, lo torturavano con pensieri sconvolti e riflessioni strambe sulle leggi e sui costumi del mondo civile. Gli pareva di poter amare due donne in una volta, senza pregiudizio di nessuna, la poligamia gli sembrava una legge di natura, la monogamia un errore sociale; e concludeva che il diritto della monogamia impone alla donna un dovere inesorabile, quello di essere completa, di soddisfare ai bisogni ideali e ai bisogni materiali dell’esistenza, di accoppiare la coltura sociale alla istruzione domestica, di saper scrivere bene una lettera e lisciarsi la pelle come un’odalisca, di saper suonare un notturno, e cuocere un pollo. Fino che abbisognano varie donne ai diversi uffici, se la monogamia sarà una legge civile, la poligamia continuerà ad essere un’abitudine comune, un uso od un abuso della nostra vita sociale! —Silvio!...—gli chiedeva sua moglie,—perchè sei così pensieroso?... dopo l’arrivo di Maria non mi sembri più quello di prima!... non mi ami più?... La presenza di tua cugina ti ricorda il primo amore, che mi dicevi spento e dimenticato!... dopo che io mi sono prestata ad abbellirla, tu saresti capace di compensare la mia abnegazione col tradimento!... La guardi lungamente in silenzio.... se le parli, ti confondi... e così mi rendi infelice!...—e si metteva a piangere e a singhiozzare, con pericolo d’essere udita nella stanza vicina degli ospiti. Il marito protestava altamente, cercava di consolarla, le diceva che quelli erano sogni, visioni d’una mente ammalata, la assicurava che egli non amava più Maria; che se l’avesse amata, quelle sue maniere, quei suoi spropositi gli avrebbero prodotto l’effetto d’una doccia gelata. Si animava troppo parlando, passava rapidamente dalla dolcezza alla collera, voleva convincerla con delle carezze e riusciva sdegnoso, non giungeva mai ad ispirarle fiducia, e passavano una parte della notte a far delle scene o delle querele; alla mattina erano pallidi e sfiniti, e Silvio che voleva mostrarsi indifferente, pareva dispettoso, e appariva più imbarazzato di prima nei suoi dialoghi colla cugina. Così finirono il carnevale, e finalmente la quaresima venne a togliere l’incubo che li opprimeva; i cugini lasciarono Venezia, e l’ordine fu ristabilito nella piccola famiglia, ove Metilde liberata dalla vista di Maria, distratta dalla compagnia di sua madre, si mostrò meno gelosa e più tollerante col marito, il quale aveva ripreso tranquillamente le sue funzioni suppletorie dei fornelli, e viveva occupatissimo nel triplice incarico di avvocato, di giornalista e di cuoco, lavorando assiduamente colla penna e colla mestola, fra le rifritture del foro, i pasticci della politica, e i processi della cucina. XVI. Un fortunato avvenimento venne a rompere la monotonia della loro esistenza. Una gradita rivelazione annunziò a Metilde lo gioie della maternità. La buona notizia corse le poste, portò la contentezza a papà Gervasio ed alla nonna; destò l’invidia dei cugini, attirò le congratulazioni cordiali dei parenti di Brianza, e di tutti gli amici di casa. La signora Emilia stese subito una lunga lista di tutti gli oggetti indispensabili al futuro rampollo dei Bonifazio, e la mise sotto gli occhi del genero che ne restò sbalordito. E la suocera previdente tornò da capo a fare le solite peregrinazioni ai negozi, per esaminare, discutere, e consigliare gli acquisti più opportuni alla figlia. E intanto che lo due signore continuavano a girare per le botteghe, a casa piovevano i pacchi, le scatole, gli involti spediti dai negozianti, colla polizza relativa. La Betta lavorava tutto il giorno ad approntare fascie, bende, gonnellini, bavagli, camicine, e berrettini. Silvio fra la gioia di diventar padre, e lo spavento di non riuscire a pagarne tutte le spese, perdeva la testa. Moltiplicava le corrispondenze ai giornali, per accrescere i suoi guadagni, quando mancavano le notizie le inventava, e i lettori dei giornali nei quali scriveva erano avvertiti d’ogni minimo avvenimento, colla giunta di riflessioni, commenti, supposizioni e predizioni spaventose, che mettevano in pensiero i droghieri, e tutto questo per apparecchiare un corredo conveniente all’erede presuntivo.... dei suoi debiti probabili. E a forza di scrivere nei giornali d’opposizione, con un pessimismo comandato, con l’obbligo di trovar tutto male, lamentando continuamente la mancanza degli uomini che sapessero governare, aveva finito per persuadersi ch’egli sarebbe riuscito colla più accurata educazione del figlio a farne l’uomo aspettato, quello che avrebbe guidate le future generazioni alla gloria, alla prosperità, alla potenza. Gli pareva di sentire un’intuizione che lo ammonisse d’un grande avvenire per la sua famiglia, e cercava attentamente sul lunario un nome che corrispondesse alle sue idee, e che fosse di buon augurio. Il nome di suo padre gli metteva un brivido, un grand’uomo non poteva chiamarsi Gervasio. Annibale il nome del suocero gli pareva troppo classico, gli richiamava alla memoria la noia delle traduzioni scolastiche. Andava enumerando con sua moglie tutte le illustrazioni della patria, ma trovava sempre degli ostacoli per adottare que’ nomi. Vittorio era troppo guerresco, Giuseppe troppo comune, Massimo troppo pretendente, Urbano troppo modesto.... —E Camillo? gli chiese Metilde, non ti pare un bel nome!... —Camillo!... è bello davvero! bravissima, l’hai trovato, nostro figlio si chiamerà Camillo. Un mese dopo di questa deliberazione, la signora Metilde metteva al mondo una bambina, che la puerpera voleva battezzare col nome di Emilia. Silvio si oppose, col pretesto che non voleva far torto a nessuna delle nonne, e quindi le escludeva entrambe; ma in fondo egli pensava che una sola Emilia in casa gli bastava, ed era anche troppo, e soggiunse: —Se invece d’un maschio c’è nata una femmina, ciò vuol dire evidentemente che l’Italia ha più bisogno d’una donna che d’un uomo, mio padre me l’aveva già detto, ed è stato profeta. Si chiamerà Camilla, e se Camillo ha tanto contribuito a fare l’Italia, Camilla farà gl’Italiani... secondo la formula di Massimo d’Azeglio. Ne faremo una donna completa... secondo i diritti dell’uomo che aspira a conservarsi monogamo, dentro e fuori della legge. Metilde non capiva niente di questi discorsi strampalati, e non aveva la forza di domandare spiegazioni. Pallida, affranta nel suo letto ornato di pizzi, volgeva lo sguardo alla cuna, ove riposava la bimba, e la contemplava con affettuosa compiacenza. Nel lungo puerperio non riusciva a riacquistare le forze, l’allattamento la immagriva, il medico raccomandava ogni riguardo, e di risparmiarle la benchè minima fatica, e il più semplice disagio. Silvio era stato costretto dalla necessità a raddoppiare il lavoro per non mancare dei mezzi necessari a far fronte a tante spese. Lavorava allo studio ed in casa, trattava gli affari curiali, scriveva articoli, faceva il brodo ristretto e la pappa, e gli mancava anche il riposo della notte. Si coricava tardi, oppresso dalla stanchezza, ma dopo breve tempo il pianto della bimba lo risvegliava. Udiva dapprima fra la veglia e il sonno un lieve lamento, un piagnucolare sommesso, che a poco a poco si trasmutava in un piagnisteo e diventava un belato rumoroso e continuo che lo obbligava ad alzarsi. Andava a prendere la bambina, la portava alla mamma che la allattava, poi la riponeva in cuna, si gettava in letto e ritornava ad addormentarsi, ma poco dopo ricominciava la stessa solfa. Si alzava sudato, la riportava in giro sul suo guanciale per la camera fredda. La bimba aveva lo spasimo, gridava per molte ore consecutive, a brevi intervalli; consultarono il medico il quale osservò che la madre faceva poco latte, e trovò indispensabile di aggiungere il poppatoio alla alimentazione insufficiente. Ed ecco l’avvocato, giornalista, cuoco, diventato anche balia, incaricato di alimentare la bimba col poppatoio; e passava gran parte della notte in veste da camera, con un fazzoletto allacciato in testa, a cantare la ninna nanna colla bambina sulle braccia. Dopo lo spasimo e la fame vennero i vermi e la dentizione, e il buon babbo somministrava lo sciropetto di cicoria, fregava le gingive della bimba col dentaruolo di avorio; ma quelle tribolazioni di bambinaia e di balia aggiunte alle fatiche del foro, alle elucubrazioni del giornalismo, ed alle manipolazioni della cucina furono superiori alle sue forze, non tardarono a riuscirgli insopportabili, e volendo egli lottare con vani tentativi di resistenza, finirono per opprimerlo completamente e gettarlo in letto con una grave malattia. Meno male che Metilde cominciava a riaversi, si alzava dal letto, e poteva occuparsi della bimba. Il medico ordinò che la Betta andasse a dormire nella stanza della signora, e si cercasse qualche altra persona per l’assistenza del malato, passato in altra camera. La signora Emilia si dichiarava troppo sensibile, e poco pratica per assistere gl’infermi; fece venire una donna provvisoria, e consigliò Metilde di scrivere al signor Gervasio, pregandolo che mandasse la nonna. Ma per disgrazia di tutti, in quello stesso giorno era successo un brutto accidente anche alla villa Bonifazio. La povera nonna era stata colpita da un insulto apoplettico, e se le fossero mancati i pronti soccorsi del medico, avrebbe dovuto soccombere. Portata in letto priva dei sensi era alquanto rinvenuta dopo il salasso, ma la paralisi le toglieva i movimenti e la favella. Borbottava delle parole confuse, e non poteva muoversi senza aiuto. Maria chiamata in fretta accorse subito al letto della povera paralitica, e non la abbandonava un momento. Papà Gervasio per l’improvvisa afflizione sentiva aggravate le sue sofferenze agli intestini, non si allontanava che per brevi istanti dalla camera della madre, non era in caso di accorrere a Venezia, e non poteva mandare nessuno in assistenza del figlio. Queste desolanti notizie afflissero grandemente le due famiglie di Venezia, che si trovavano in grave imbarazzo. La signora Emilia affaccendata correva dalla sua casa a quella della figlia, si consultava con tutti, ma non ascoltava nessuno, si lamentava sulla sua sorte, gemeva per lo stato di debolezza di Metilde, le raccomandava la quiete e il riposo, deplorava il colpo apoplettico che aveva colpito la signora Bonifazio fuori di tempo, confondeva le cose, sgridava la Betta, voleva insegnarle a fare il brodo per gli ammalati, lo lasciava cadere sul fuoco e infettava la casa col fumo dell’unto bruciato, e concludeva con un atto di accusa contro quel benedetto omo di suo genero, che non aveva preveduto nulla, che colle sue imprudenze s’era guadagnato quella malattia, che metteva in iscompiglio tutta la casa in un momento importuno. Metilde cercava invano di giustificare il marito, il povero diavolo si era troppo affaticato per assisterla, aveva preso freddo di notte, e lavorava soverchiamente pei bisogni della famiglia... —Tu taci, che non sai nulla, le rispondeva sua madre; gli uomini sono testardi, e non sanno mai regolarsi, avrà mangiato troppo di quella sua cucina pesante.... avrà fatto qualche disordine. Tutti i mariti, o quasi tutti assistono le mogli puerpere; è il loro dovere; non ci mancherebbe altro che si rifiutassero... nessuno si ammala per questo!... —Povero Silvio! esclamava Metilde, adesso è inutile di cercare i motivi del suo male; adesso è ammalato e non dobbiamo pensare ad altro che a guarirlo. Il medico dice che quella donna non basta; se potesse bastare almeno per la notte che io ci ho la bimba che non posso abbandonare, farei il possibile anch’io per assisterlo durante il giorno. —Sei matta! non sai proprio quello che dici. Non si conosce ancora la sua malattia; pare che sarà tifo, una malattia contagiosa! Tu non devi nemmeno entrare nella sua stanza, non devi esporti al pericolo, non hai forze bastanti per resistere a tante fatiche, devi pensare prima di tutto alla tua salute, è il tuo dovere di madre!... —E così, chi assisterà mio marito! —Un infermiere!... di qua non si scappa; costerà di sicuro del denaro, ma il vecchio Gervasio pagherà; senza infermiere non è possibile di andare avanti. Ne ho già parlato al medico... mi sono intesa con lui, che ha promesso di trovarlo. —Ah! povero Silvio, quando si vedrà assistito da un estraneo, come resterà crudelmente colpito; si crederà abbandonato da tutti, e questa amarezza potrebbe peggiorare il suo male. —Non aver paura di questo, egli non conosce più chi gli sta intorno, non risponde alle domande che con un gemito insignificante, forse non capisce più nulla!... Metilde piangeva, sua madre la sgridava, facendole osservare che le lagrime in questi casi non servono a nulla, e rovinano gli occhi. Il medico venne con l’infermiere, esaminò nuovamente il malato, e non seppe dissimulare la sua inquietudine. Era giovane anche lui, amico di Silvio, molto studioso, ma esercitava da poco tempo la professione, e ne sentiva la grave responsabilità. Mostrò desiderio di consultarsi con un medico provetto, e propose il celebre dottor Pellegrini. Le signore acconsentirono subito, ed alla sera ebbe luogo il consulto. Il dottor Pellegrini, dopo d’aver ascoltato una relazione del medico curante, esaminò attentamente l’infermo e volle essere informato esattamente delle condizioni fisiche dei parenti, perchè era convinto che ogni individuo riceve coi germi della vita anche quelli della morte. —Le buone e le cattive qualità del sangue, egli diceva, producono la salute o le malattie, predispongono le azioni del galantuomo e del birbone, le opere dell’uomo di genio e dell’imbecille. Cerchiamo dunque prima di tutto, di conoscere le origini, di studiare negli ascendenti le tendenze del nostro soggetto. È certo che l’ambiente, la professione, il genere di vita, gli alimenti, le cure igieniche o i disordini, esercitano la loro influenza, modificano le tendenze, le accelerano o le ritardano secondo i casi. Ma tanto l’albero che l’uomo non possono dare che ciò che hanno nel sugo vegetale e nel sangue. È certo che il castagno non farà mai pesche; nè un prossimo parente dell’ultimo doge di Venezia si metterà alla testa di mille uomini per liberare la Sicilia; nè un letterato avrà le stesse malattie d’un cuoco!... A queste parole Metilde arrossì, e subiva nella coscienza una lotta fra la vergogna e il rimorso. «Se parlo,—essa pensava,—faccio palese la mia inettitudine come padrona di casa; se taccio arrischio la vita di mio marito! Mio Dio! che devo fare?...» Le parve di trovare un espediente e chiese al medico: —Mi dica un poco, dottore, se un uomo solo facesse il letterato ed il cuoco, quali sarebbero le sue malattie? Il medico sorrise alquanto, e le rispose, con grande meraviglia di Metilde. —Ne ho conosciuti moltissimi anche di questi, un mio amico improvvisatore, faceva una famosa cucina!... In questo caso, vede mia cara signora, le opere letterarie diventano pasticci, e i pasticci diventano poemi.... cioè sono composti dei più svariati ingredienti.... Ciò non vuol dire che riescano sempre deliziosi come l’Orlando Furioso; anzi talvolta sono indigesti come qualche altro poema... che le auguro di non leggere. Allora Metilde si fece coraggio, e confessò: —Devo avvertirla per sua norma, dottore, che mio marito si diverte a far la cucina.... —Ah! bravissimo, disse il dottore, conosco anche qualche avvocato che sa arrostire a meraviglia i suoi polli, e li fa mangiare in tutte le salse.... —Forse il fuoco dei fornelli, avrà fatto male a mio marito?... —Se fosse così, si consoli; questo fuoco non è micidiale come quello delle battaglie, non domanda eroismo per affrontarlo, e si guarisce facilmente da’ suoi effetti. Non abbia timore, ripareremo a tutti i malanni. Il sangue dei Bonifazio è buono, la patria ha tutto l’interesse di conservarlo. E fatte le sue prescrizioni, prese commiato dalla signora, ed uscì seguito dal suo collega. Quando furono in istrada il dottore Pellegrini continuava a fare quelle domande, che non dovevano udirsi dalla famiglia. —Quali sono le condizioni morali dell’ammalato? ha dei pensieri gravi? delle preoccupazioni attristanti?... —Credo, gli rispondeva il collega, che abbia molti debiti.... —Lo purghi con perseveranza.... Ha forse dei patemi d’animo? —Ha una suocera... vecchia elegante.... —Vi aggiunga del rabarbaro.... La malattia procedeva regolarmente, senza nuovi accidenti; ma pochi giorni dopo cominciò ad ammalarsi anche la bambina, e il medico non sapeva che ordinarle. L’ammalato se ne accorse per la confusione della casa, sospettò che le mancassero i dovuti riguardi, e se ne lamentava coll’infermiere, dicendo: —La Betta non avrà la pazienza di cambiarla spesso, ed io credo che mia moglie non se ne intenda; la mia malattia è una doppia disgrazia!... Raccomandava al medico di esaminare il contenuto del poppatoio, che non si fidasse della mala fede della domestica, e che insegnasse alla signora tutte le cure necessarie, perchè non è stata mai avvezza ad assistere malati. Così gli crescevano le inquietudini, anche per le notizie poco soddisfacenti che venivano dalla villa, e quando avrebbe dovuto star meglio la malattia si aggravava. XVII. Alla villa Bonifazio succedevano dei fatti importanti. La nonna non aveva riacquistato nè il movimento, nè la favella, pareva che intendesse ciò che le dicevano, dai movimenti della testa e degli occhi, ma non poteva che borbottare poche parole incomplete e confuse. Papà Gervasio era sempre sofferente, e malgrado l’assiduità di Maria si mostrava desolato ogni qual volta essa era costretta di ritornare al domicilio coniugale. Senza una donna di cuore in casa, con quell’egoista di Pasquale, che veniva tollerato per la somma difficoltà di sostituirlo, e di ammettere un nuovo domestico in momenti disgraziati, senza la direzione della padrona di casa resa impotente dal malore, col figlio ammalato a Venezia, che non poteva giovarlo in nessuna maniera, il povero Gervasio si sentiva disperato, e prevedeva che il disordine crescente e l’abbandono di tutti, avrebbero portato agli estremi le sue disgrazie. Il vecchio maestro Zecchini che si studiava di confortarlo ebbe una buona idea. —Perchè non v’intendete coi Pigna, gli disse, per prendere in casa i nipoti, e non fate padrona di casa la Maria!... —Per riguardo verso mio figlio e la nuora, rispose Gervasio, che potrebbero offendersi della preferenza.... —Non è una preferenza, è una necessità inevitabile. Vostro figlio e vostra nuora non verranno mai più a stabilirsi in campagna; che cosa farete voi solo e malescio con vostra madre resa impotente dall’infermità? Non abbiate riguardi ed anzi per l’interesse stesso di vostro figlio e della sua famiglia, chiamate Maria a dirigere la vostra casa, e avrete, oltre la sua valente assistenza, anche l’aiuto e la sorveglianza di suo marito. Non fu difficile convincerlo, perchè questo era il suo stesso desiderio. Ogni cosa fu prontamente combinata; i vecchi Pigna aderirono subito perchè ci vedevano il loro interesse; la famiglia di Venezia non ebbe motivo di sorprendersi d’un avvenimento suggerito dalla necessità a vantaggio di tutti. I giovani sposi trasportarono prontamente i loro arredi in casa dello zio e della nonna e vi presero stabile domicilio. Andrea aveva prese le abitudini dei Bonifazio, e vi si era affezionato; Maria che sentiva tanto bisogno di non abbandonare la nonna, era lietissima di rientrare in casa della sua famiglia ove era nata, ove aveva tante memorie e tanti amici, ove i bisogni del cuore, e tutte le necessità della vita la rendevano indispensabile. Essa riprese con bontà ed energia il suo antico dominio, e papà Gervasio ne fu così lieto che gli parve anche di star meglio di salute, e si propose di seguire i consigli del medico, ai quali non faceva più attenzione per le afflizioni che gli amareggiavano l’esistenza. Le sue sofferenze esigevano un esercizio moderato; l’immobilità gli riusciva dannosa quanto l’esercizio violento. Non poteva camminare senza incomodo, non poteva subire le scosse della vettura senza inconvenienti. Si fidava benissimo di Falcone, cavallo onorato e tranquillo; ma era ancora troppo brioso per lui, perchè restando lungamente in scuderia, quando lo attaccavano al legno salutava l’aria aperta dei campi con ripetuti nitriti, e faceva dei salti d’allegria. Il medico lo aveva consigliato di acquistare un somarello e un carrettino relativo, e di farsi trascinare senza scosse per le vie battute. Aveva seguito il consiglio, e l’asinello seppe meritarsi facilmente le simpatie di Maria, che gli aveva messo nome Martino. Collocato in scuderia nella posta vicina al Falcone, i due animali si facevano buona compagnia, si strinsero prontamente in amicizia, e vennero ammessi alle stesse profende d’avena, alle stesse largizioni di pane e di zucchero, ed alle carezze della mano affettuosa di Maria. Quando uno dei due era tirato fuori dalla stalla, l’altro mandava dei lamenti dolorosi, e continuava a dolersi durante l’assenza del compagno, e al ritorno si udivano i reciproci saluti, gli allegri nitriti del cavallo e i ragli ripetuti dell’asino. Martino aveva imparato da Falcone a poggiare il muso sulle spalle della signora, a frugarle le tasche colla bocca, a dimostrare in diversi modi il piacere di vederla, e la riconoscenza dei doni ricevuti. Maria ne faceva l’elogio al maestro Zecchini, lo conduceva in scuderia a fare conoscenza col nuovo amico. Papà Gervasio li seguiva insieme con Andrea, si lodava moltissimo dell’onestà e della intelligenza dell’animale, che gli si rendeva così utile, Pasquale voleva convincerli che il somaro era migliore del cavallo; guai se egli tardava un momento a somministrare l’avena a Falcone, appena trascorsa l’ora il cavallo si dimenava impaziente, e batteva le zampe in segno di collera. Martino aspettava rassegnato, non si lamentava mai, si contentava d’ogni cibo, ed anche in piccola porzione. Uscendo dalla scuderia Andrea confermò i detti di Pasquale e ne fece i commenti; egli asserì che il cocchiere rubava la avena, e preferiva il somaro, perchè la povera bestia non si lamentava d’esserne intieramente privata, quando a Falcone era obbligato di darne almeno una parte per farlo tacere. Pasquale va in furia, disse Andrea, per questa esigenza del cavallo, bestemmia, e lo bastona. L’ho veduto io coi miei occhi. Alcuni giorni dopo questa visita alla scuderia papà Gervasio si trovò in salotto col maestro Zecchini che stava seduto sulla poltrona in aspetto malinconico, silenzioso, cogli occhi bassi, rispondendo appena alle interrogazioni con parole tronche e recise. Si mostrò sorpreso di quei laconismi, e gli domandò se qualche afflizione lo rendeva così triste e pensieroso. —Sicuro, ho una grande afflizione, gli rispose il maestro, e si può averne per motivi meno gravi del mio. Che cosa pensereste voi se un’opinione sostenuta in tutto il corso della vita, e costantemente confermata dalla esperienza, cominciasse a mostrarvisi erronea nell’età più avanzata? —Avete dunque da deplorare un simile disinganno? —Pur troppo!... pur troppo!... Voi sapete benissimo che ho ripetuto sempre la stessa cosa, per un lungo corso di anni, ho sempre detto che l’uomo è un asino! —Ebbene?... —Ebbene, ho gran paura d’aver calunniato l’asino!... —Ma come vi vengono questi scrupoli? —Dall’attenta osservazione. Ho fatto un esatto studio comparativo fra il vostro domestico e il vostro somaro, e mi risulta che Martino è superiore a Pasquale in tutti i punti. L’asino è buono e Pasquale è crudele: l’asino è sobrio e Pasquale è un ghiottone; l’asino è paziente e Pasquale è violento; l’asino è onesto e Pasquale è un briccone; l’asino è pacifico e Pasquale è un accattabrighe; l’asino è utile e Pasquale è dannoso, l’asino è riconoscente e Pasquale è un ingrato.... —Queste sono tutte verità indiscutibili! —Dunque la mia teoria è stata un errore! che ha ingannato una lunga esistenza.... —Consolatevi, forse la vostra teoria non è sbagliata quanto può sembrare a prima vista. Voi conoscete la legge delle compensazioni. Applicate questa legge al vostro caso; se vi sono degli uomini che si possono mettere senza scrupoli al di sotto degli asini, ve ne sono di quelli che bisogna metterli molto al di sopra, molto più in alto, ed è forse per questo che si chiamano uomini superiori! Ebbene le due eccezioni si compensano fra loro; e resta la grande maggioranza del genere umano, che dà perfettamente ragione alla vostra teoria. La loro conversazione fu interrotta da un rumore della stanza vicina. Poco dopo Pasquale spalancò la porta che metteva al piano superiore, e videro entrare Andrea e Maria che portavano in un seggiolone la nonna paralitica. Il medico aveva ordinato di farla alzare dal letto, di vestirla, di trasportarla al pian terreno, ove l’aria balsamica del giardino, le avrebbe fatto del bene. E infatti essa guardava attorno con sguardo curioso, e meno triste. Pareva che la povera donna sorgesse dal sepolcro, tanto era pallida e magra, e che ritornando fra suoi diletti, rivedesse con piacere i cari volti del figlio, dei nipoti, dell’amico, e quelle pareti che le raccontavano una lunga storia di ansie e di dolori, di affanni, di lagrime, temperate appena da qualche raggio fuggitivo di gioia, da qualche bel giorno sereno fra le burrasche della vita. Tutti le furono intorno con congratulazioni ed auguri. Essa ascoltava e mostrava di comprendere, ma non poteva rispondere che con un sorriso ed una lagrima, muoveva anche le labbra, ma la parola usciva confusa e incomprensibile. La mano paralitica era sostenuta da un fazzoletto assicurato alla spalla, l’altra che poteva muoversi la teneva appoggiata affettuosamente sulla testa di Maria, come una santa benedizione che invocasse il cielo per lei. —Povera donna! esclamava Gervasio, asciugandosi una lagrima col dorso della mano, tanta operosità, tanta vita, ridotte in questo stato!... —Se possiamo conservarla così, rispose Maria, tenerla con noi, consolarla ed assisterla, non abbiamo diritto di lamentarci. Quando penso che potevamo perderla per sempre, ringrazio Iddio di avercela conservata, anche in questo stato. Pasquale che era uscito, ritornò poco dopo con una lettera. Metilde teneva informata esattamente la famiglia, sulla salute dei suoi ammalati che andavano migliorando. La febbre e le sofferenze di Silvio erano assai più miti, egli domandava continuamente della sua famiglia lontana. Chiamava suo padre, la nonna, Maria, e li pregava di scrivere. La piccola Camilla ricominciava a zampettare, e rideva quando le facevano il bausette, ma talvolta la sua faccina si alterava tutto ad un tratto, e le uscivano dagli occhi dei lucciconi che mostravano le sue sofferenze. Saranno i vermi, il medico non sa che cosa ordinarle, ma ci dice di sperar bene. «Questa parola _sperare_, che dovrebbe consolarmi, mi fa paura, scriveva Metilde; ogni speranza ammette un dubbio, che nel mio caso è spaventoso. La povera bimba è molto esile, delicata, i suoi lamenti che non posso tradurre nè intendere mi mettono alla disperazione. Ah! se potessi indovinare che cosa domanda! le darei l’anima mia. Sento che se dovessi perderla non avrei più la forza di vivere. Se Maria potesse darmi un consiglio, aspetto ansiosamente le sue lettere.» Maria cercava di risponderle il meno male che fosse possibile, ma questa corrispondenza le riusciva un poco imbarazzante. Tuttavia, avvezza a molti sacrifizi non osava rifiutarsi al più grande di tutti. Stava al tavolo delle ore intiere per mettere insieme una pagina tutta piena di strambotti; cancellava, tornava a provare, sostituiva uno sproposito ad un altro, poi ricopiava varie volte, e finiva sospirando, tutta rossa in viso, e colle dita sporche d’inchiostro. Quando Metilde leggeva queste lettere a suo marito cercava di dissimulare, per quanto le era possibile, la soddisfazione che provava della inferiorità della cugina, ma un certo sorriso sarcastico svelava i suoi pensieri e attristava Silvio. Papà Gervasio scriveva più raramente, per sollevare Maria, si limitava a far coraggio a’ suoi figli, dava le notizie precise della famiglia, e basta. Quando c’erano buone nuove, Metilde scriveva con brio, e pareva che il suo buon umore, pieno di grazia, si spandesse per la casa, come una consolazione soave. Quando il marito o la bimba peggioravano, le sue espressioni prendevano un senso così doloroso che stringevano il cuore. Aveva delle frasi nuove, originali, tutte sue, che riuscivano balsami o frecce, secondo i casi. Quando leggevano quelle lettere, tutti stavano attenti ad ammirarle, e papà Gervasio esclamava: —Scrive come una fata! si vede che ha ricevuto una educazione letteraria perfetta!... —Peccato, osservava il maestro, ma proprio peccato che non sappia cuocere due uova al burro!... Un giorno Metilde ricevette una lettera di Maria con tali errori, sconcordanze, ed equivoci burleschi, che leggendola a suo marito, senza essersi apparecchiata, non le fu possibile di frenare uno scoppio di risa argentine che parvero colpire l’ammalato come tante laminette taglienti. Essa lo vide sconvolto, si pentì subito della sua imprudenza, gliene fece mille scuse colle lagrime agli occhi, ma fu peggio di tutto. Egli chiuse in sè stesso quella dolorosa impressione, ma sulla sera fu ripreso dai brividi della febbre con acute sofferenze d’intestini. Il medico alla cura, fortemente impressionato dalla impreveduta recrudescenza della malattia, volle udire nuovamente l’opinione del dottore Pellegrini, il quale comparve per la seconda volta al letto dell’infermo. Il medico alla cura chiese alla signora che cosa aveva mangiato suo marito. —Un semplice brodo con un tuorlo d’uovo, essa rispose. —Nemmeno se fosse stato un uovo di serpente! esclamò il medico, e volle sapere che cosa avesse bevuto. —La solita acqua di limone allungata. —Ha preso aria? Hanno aperte le finestre! —Mai! mai, mai.... Intanto il dottor Pellegrini taceva. Seduto in fianco al letto colla mano al polso dell’ammalato, cogli occhi intenti nel volto di lui, lo andava guardando con profonda attenzione, come volesse scrutarne i pensieri. Quando il medico alla cura ebbe finito il suo esame, il medico consulente cominciò colla interrogazione seguente: —Chi è venuto oggi a trovarlo?... —Nessuno affatto... rispose Metilde. —La signora, o la domestica gli avranno data qualche notizia?... —Gli ho letto una lettera della famiglia —Ah!... fece il dottor Pellegrini, poi rivolto al collega gli disse: Ecco il motore!... ecco l’agente! e rivolto alla signora gli domandò: —Erano forse notizie attristanti?... —Tutt’altro.... erano buone notizie.... tutti stanno un po’ meglio. —Allora ha sorriso per la gioia, o ha pianto di consolazione? —Non ha nè riso nè pianto. —Chi scriveva quella lettera? —Nostra cugina.... —Una cugina.... nubile?... maritata?... —Maritata, maritata, rispose Metilde con un po’ di dispetto, tanto la seccavano quelle interrogazioni indiscrete. —Vedo che la signora mi trova troppo curioso, osservò il dottore; ella crede certamente inutili le mie domande. Ebbene, io voglio giustificarmi perchè parlo con persona che intende. Ella deve dunque sapere, cara signora, che ogni uomo obbedisce come uno schiavo ad un complesso di leggi che non conosce. Molte ispirazioni elevate, molti sentimenti generosi non sono che effetti d’un alimento o d’una bevanda, e così pure molti dolori intestinali sono prodotti da un’impressione morale. Se nessun cibo e nessuna bevanda hanno fatto male a suo marito, bisogna cercarne la causa nel cervello o nel cuore, perchè questi organi sono strettamente legati agli intestini, come il telegrafo di Venezia è legato a quello di Roma. Tutte le parti del nostro corpo corrispondono fra loro, e comunicano cogli agenti esterni non solo colla bocca, ma ancora cogli occhi e colle orecchie, quello che si vede e che si sente può produrre gli stessi effetti di quello che si mangia; una lettura può agire come un veleno; un paesaggio come un calmante. La collera, il disinganno, l’invidia alterano il fegato, i debiti fanno dolere la testa, la paura agisce sulla vescica e sugli intestini.... Ella vede dunque chiaramente che è stata quella lettera, che avendo trovato suo marito in uno stato di profonda debolezza, ha prodotto gli effetti dolorosi che ora dobbiamo risanare. A queste parole, Silvio si scosse dal letargo nel quale lo aveva gettato la febbre, e disse: —È verissimo quello che dice il dottore, l’inasprimento delle mie sofferenze è una conseguenza di quella lettera; essa mi ha fortemente contrariato ed afflitto. —Ecco trovata la causa, conchiuse il dottor Pellegrini, adesso tocca a noi a modificarne gli effetti, e a riparare i danni prodotti. Metilde in piedi davanti il letto guardava il marito con occhio torvo, mentre il dottor Pellegrini scriveva una ricetta, parlando sotto voce col collega, che mostrava di approvarlo col movimento del capo. Il giorno seguente toccò alla piccola Camilla d’essere molto sofferente. Il medico la trovò aggravatissima. La madre afflitta ed inquieta era poco fiduciosa nel dottore, ma non voleva nemmeno consultare quel famoso Pellegrini che cominciava a diventarle antipatico. Pregò sua madre di mandarle il loro vecchio medico di casa, che non faceva tante domande suggestive, che ordinava ai bimbi dei biscottini, ed agli adulti quei beveroni di fieno filtrato, i quali contenendo tutte le erbe medicinali conosciute, dovevano giovare a tutte le malattie. Ma il povero vecchio era morto da qualche tempo, senza lasciare degli allievi. La piccola ammalata peggiorava, il giovane medico consigliò la signora di chiamare ancora il Pellegrini, e nell’interesse della bambina dovette rassegnarsi al nuovo consulto. Quando udì il campanello che annunziava la visita all’ora fissata, la signora agitata da diverse sensazioni andò ad incontrare i medici in anticamera; li ricevette con un certo sussiego, e quando furono davanti la cuna, s’indirizzò al dottore Pellegrini, e gli disse con aria di mal dissimulata ironia: —La povera bimba non ha ricevuto nessuna lettera da un cugino, dove andremo adesso a trovare il movente dei suoi dolori?... —Nel sangue dei genitori: le rispose pacatamente il medico, in un qualche vizio, in qualche disgrazia degli antenati, in una debolezza o in un peccato della nonna o della bisnonna. Nella vita sociale i debiti restano alcune volte insoluti. Il benefizio d’inventario è un’invenzione umana, come ne ebbero sempre i legislatori; ma la natura non transige, e se i parenti contraggono dei debiti, tocca ai discendenti a pagarli. —I nostri parenti morirono tutti vecchi, rispose Metilde; il nonno di mio marito, il capitano Bonifazio ha fatta la campagna di Russia ed è morto da pochi anni; sua moglie invecchiò come lui; i miei nonni morirono vecchioni; i miei genitori, grazie al cielo, stanno benissimo; mia suocera è morta da parto; mio suocero fu fra i difensori di Venezia: è una famiglia ricca di sangue generoso.... —Cerchiamo dunque nel sangue degenerato della generazione presente, soggiunse il dottore; i vecchi resistettero ai disagi della guerra, affrontarono impavidi tutti i pericoli; i discendenti minacciano di morire per la lettera d’una cugina! la ricchezza è diventata la povertà, la pletora degli eroi si è ridotta all’anemia d’un fisico fiacco. Non c’era caso d’aver ragione con quell’implacabile scrutatore delle umane miserie. Metilde si fece buona, alzò le mani congiunte in atto di preghiera verso il medico, e cogli occhi velati di pianto, gli disse: —Per carità, dottore, mi salvi questa creaturina innocente di tutti i torti degli avi; dalla sua vita dipende la mia esistenza!... Il dottore Pellegrini le rispose in tuono raddolcito: —Mia cara signora, gli alberi si puntellano contro gli uragani; ma basta un soffio d’aria leggiera per abbattere un fiore. La scienza che ha costruite le macchine a vapore non è capace di creare un insetto. La natura è il solo medico dei deboli; la loro tenuità sfugge alla nostra ruvidezza. Cerchiamo di secondare la natura nella sua opera benefica; non possiamo sperare che nella sua potenza. Stia bene attenta ai più lievi movimenti della bimba, cerchi d’indovinare i suoi desideri, la aiuti a conseguirli; invece di consultare i medici, consulti il suo cuore, il cuore di una madre è il miglior medico dei bambini; se una madre, che abbia intelletto d’amore, non salva il suo bimbo ammalato, nessun altro lo può. Eccole il mio consiglio. Questa volta parve a Metilde che il medico avesse ragione; se ne mostrò riconoscente, lo ricondusse fino alla porta dell’appartamento, stringendogli la mano in modo affettuoso. Avevano fatto la pace. La malattia rimase stazionaria per due giorni, poi andò peggiorando. Metilde non abbandonava la bambina nemmeno un istante, la vegliava assiduamente tutta la notte, le dava quei soccorsi che le venivano indicati dal cuore in osservazione continua; ma la natura del male si mostrava ribelle ad ogni cura. Silvio inquieto, fremente nel suo letto di dolore, andava fantasticando con mille sogni d’infermo. Conoscendo sua moglie inetta a tutte le faccende domestiche, confondeva la padrona di casa colla madre, e pensava che una donna incapace di preparare una bevanda, non poteva essere capace nemmeno di assistere con intelligenza la sua bambina ammalata, e la rendeva ingiustamente responsabile dell’esito della malattia. È certo che vedendosi assistito da un infermiere l’animo irritato e malcontento lo spingeva a cattivi giudizii. Ma la natura fu spietata e inesorabile, ogni più delicata cura materna fu vana; e dopo parecchi giorni di atroci sofferenze, la povera Camilla morì. E nessuno avrebbe mai potuto cavar dalla mente di Silvio che fosse morta per mancanza di cure. Per riguardo al dolore della madre che fu grandissimo, il marito desolato nascose il triste pensiero, ma gliene rimase sempre un punto nero nel fondo dell’anima. Ne diedero subito l’annunzio funebre alla famiglia, e ricevettero le più affettuose condoglianze, e un cassetto contenente i più bei fiori del giardino, raccolti e spediti da Maria per ornare di belle ghirlande la candida bara della morticina. L’uscita della bara dall’appartamento fu uno schianto atroce pel cuore di Metilde, che cadde priva di sensi nelle braccia di suo padre, accorso colla signora Emilia per assisterla, e calmare il suo dolore. Si temette assai anche pel povero Silvio che quantunque in via di guarigione si trovava tanto abbattuto di forze da non poter sopportare una sensazione violenta. Ma il medico prevedendo la gravità del pericolo gli aveva somministrato degli oppiati soporiferi che attutivano il suo dolore. Nel giorno dei funerali i signori Ruggeri rimasero colla figlia, lasciando libero sfogo alle sue lagrime; ma il giorno seguente la signora Emilia la ammonì in aria solenne di fare uno sforzo di rassegnazione, per occuparsi di quelle cure affliggenti che sono l’immediata conseguenza della morte dei nostri cari, e le diceva con aria compunta: —Il mondo, mia cara, ha le sue terribili esigenze, dopo le lagrime c’è un’altra cosa, assai dolorosa, ma indispensabile; bisogna occuparsi del lutto, bisogna vestire le gramaglie.—La sarta e la modista attendevano in anticamera, la signora Emilia accennò alla Betta d’introdurle. Allora distesero sul tavolo i figurini della moda in lutto, i fiori, e le perline nere di vetro, e le stoffe. Metilde guardava sbadatamente, cogli occhi gonfi iniettati di sangue; prendeva in mano un figurino, con aria distratta, languente; si asciugava le guancie bagnate di lagrime, rispondeva sì e no coi semplici cenni della testa. La signora Emilia osservava le figure, le stoffe, consultava la sarta, discuteva, si animava parlando, e diceva a sua figlia: —Ti consiglio la sottana di casimiro, a pieghe nella parte superiore, e a sboffi dal ginocchio in giù. Deve terminare con uno sboffo, una gala a cannoni e un pieghettato. Poi prendendo un altro figurino, le indicava: questa sarebbe la tunica.... —Mi piacerebbe più il giacchettino attillato, soggiungeva Metilde, con voce fioca e sommessa, ma la madre con voce insinuante, riprendeva: —Creatura mia, quei giacchettini non si portano più dalle signore ammodo, sono troppo comuni, ne hanno perfino le cameriere; invece guarda bene questa tunica, si compone di due panierini sui lati; per di dietro si guerniscono di crespo e formano il puff.... Il disegno del puff sul didietro la persuase. Allora fissarono la forma del cappellino, scelsero i fiori neri, e il lungo velo crespo d’un effetto funebre meraviglioso. La sarta, la modista e la signora Emilia ciarlavano, criticavano certe mode; un mezzo sorriso velato sfiorò anche le labbra della madre, accennando con aria di profondo disprezzo alcuni aggiustamenti del giornale di mode, che le spiacevano. Poi passarono alla scelta delle golette, dei polsini, dei fazzoletti di battista, a larghe righe nere.... —Mi occorrono anche dei guanti, disse Metilde, con un profondo sospiro, un ombrellino, e un ventaglio... —Tutte queste cose le compreremo insieme alla prima uscita, le rispose la madre. Ho veduto da Fana dei ventagli da lutto, deliziosi!... te li farò vedere. Dopo la partenza della sarta e della modista entrarono nella stanza di Silvio; si avvicinarono al letto; la signora Emilia gli parlò dei preparativi del lutto, e gli domandò se desiderava che mandassero il suo cappello dal cappellaio, perchè vi mettesse il velo crespo. Silvio guardò la suocera cogli occhi stupiditi, poi tutto d’un tratto le voltò le spalle e proruppe in uno scoppio di pianto. Metilde gli si avvicinò, gli appoggiò una mano sulla fronte, e piansero insieme. La signora Emilia si ritirava scuotendo la testa, mettendo in moto i ricciolini della fronte, e dimenando i fianchi in aria disinvolta, si affacciava alla finestra, e guardava se il macellaio aveva aperta la bottega, per mandare la Betta a far la spesa. Tutte quelle scene le vuotavano lo stomaco, e sentiva il bisogno di rintonarsi le forze. Incominciata la convalescenza, gli amici di Silvio venivano a vederlo, e a fargli un po’ di compagnia; la signora Metilde faceva la sua comparsa in gran lutto, e prendeva parte alla conversazione. Quei giovinotti, quando uscivano dalla casa, si comunicavano le loro impressioni. Chi diceva che Metilde era una donna molto elegante e gentile; chi lodava la sua intelligenza e coltura; e chi trovava che il lutto andava bene a tutte le donne, ma specialmente alle bionde. Silvio si accorgeva della rispettosa ammirazione degli amici, e ne andava superbo. Aveva già congedato l’infermiere da qualche giorno, e non si rammentava più quanto gli fossero mancati i soccorsi del cuore nei giorni delle sofferenze. Erano privi da qualche giorno di notizie della villa, quando giunse inaspettata una lettera del maestro Zecchini, il quale non scriveva che nelle grandi occasioni. Ruppero prontamente la busta per vedere che cosa c’era di nuovo, e cominciarono a leggere una lunga filastrocca che preparava l’annunzio d’una nuova disgrazia. Tutte quelle frasi lambiccate potevano riassumersi in poche parole; ma egli divagava lungamente per persuadere che a questo mondo bisogna morire, specialmente dopo qualche insulto apoplettico. La morte della nonna era tutt’altro che inaspettata, anzi tutti erano sorpresi che la povera paralitica potesse tirare più in lungo. Ma la vita le fu prolungata per le cure affettuose di Maria. Alfine dovette soccombere ad un ultimo attacco decisivo. Maria poteva dire di aver perduto sua madre, e infatti nessuno tentava di consolarla. La povera vecchietta paralitica era più che rimbambita, ma la nipote la sorvegliava con tenerezza, e sperava che le sue cure affettuose l’avrebbero conservata ancora per lungo tempo. Il sorriso benevolo della nonna la ricompensava largamente di tante fatiche, e la sua morte lasciava un vuoto spaventoso nella casa Bonifazio, e nel cuore figliale della nipote. La perdita della madre adorata, la desolazione straziante di Maria, le lagrime e il lutto di tutti diedero l’ultimo crollo anche a papà Gervasio, già infiacchito dagli anni e dalle amarezze, e consunto dalle sofferenze intestinali, che lo molestavano da lungo tempo. Si mise a letto, fece chiamare il maestro Zecchini, come il più vecchio amico di casa, e colla sincera effusione d’un animo affranto, gli confidò i suoi presentimenti e le sue disposizioni. —Mi sono tenuto in piedi colla forza della volontà, egli disse; fino che viveva mia madre le dissimulava le mie sofferenze, perchè leggevo l’inquietudine nel suo sguardo incerto e vagante, e non volevo aggravare il suo stato mostrandole di star male. Ma sento che la mia fine si avvicina, ho dei doveri da compiere, vi prego di farmi venire un notaio. —Appunto perchè soffrite da molti anni io spero che il male non sia grave, e che la vostra vita sarà prolungata per il bene di tutti, gli rispose il maestro; ma siccome il far testamento non fa morire nessuno, così io vado a cercare il notaio, e vi approvo; ma lo condurrò senza che la povera Maria se ne avveda; essa non ha bisogno d’altri dolori. E così fu fatto. Papà Gervasio dettò il suo testamento, e dopo la partenza del notaio, pregò l’amico Zecchini di scrivere un’altra lettera a suo figlio, annunziandogli che le sue sofferenze si erano aggravate, che desiderava vederlo ancora una volta prima di morire per dargli l’ultimo bacio e la sua benedizione. Il maestro sapeva che Silvio cominciava appena la convalescenza della grave malattia sofferta, e vedeva d’altronde che le apprensioni di Gervasio erano esagerate; scrisse dunque in modo da non spaventare nessuno, annunziando il desiderio del padre, facendo vedere che non c’era urgenza, e che sarebbe stato bene di prendere delle misure per restare in campagna qualche mese colla moglie, per tener compagnia al padre infermo, e in pari tempo per rimettere perfettamente in salute anche Silvio, coll’aria pura ed elastica della villa, durante la bella stagione. Questa lettera giunse a Venezia qualche giorno dopo di quella che annunziava la morte della povera nonna, e aggravò il dolore sofferto, lasciando sospettare, malgrado le attenuazioni del maestro, la minaccia d’una perdita ancora più dolorosa. —Le disgrazie sono come le ciliegie, diceva Silvio; non vengono mai sole, e quando cominciano non finiscono più! Il medico venne informato minutamente di tutte queste circostanze, e in considerazione della gravità del fatto permise a Silvio di lasciarlo partire fra pochi giorni, quantunque non fosse ancora intieramente ristabilito, e che le forze continuassero a fargli difetto. Tuttavia la brevità del viaggio, fatto con ogni precauzione possibile non poteva recargli danno. Avrebbe continuato la sua cura ricostituente anche nella casa paterna, col vantaggio dell’aria della campagna, e della quiete tanto benefica ai convalescenti, che gli restituirebbero prontamente le forze indebolite, e il vigore perduto. Marito e moglie furono concordi per seguire il consiglio medico; ma la signora Emilia vi trovava delle grandi difficoltà, e non poteva persuadersi della necessità d’un soggiorno prolungato in campagna. —Pazienza per qualche giorno, essa diceva a sua figlia, ma al tempo dei bagni! nella stagione più brillante per Venezia; e se passasse l’autunno, e se venisse il novembre e che tuo suocero fosse ancora ammalato? Se si trattasse d’una malattia acuta che si sbrigasse in qualche giorno, ma quel pover’uomo mi pare un cronico, e vi sono dei cronici che vivono più dei sani!... —Intanto per adesso ci vuol pazienza, le rispondeva Metilde, in seguito si vedrà, la campagna farà bene anche a Silvio.... —Che cosa ti sogni? essa riprendeva, l’aria di Venezia non lascia nulla a desiderare; cosa pensi? di sacrificarti per una chimera, di seppellirti in un deserto, in mezzo a quei boschi, fra gente rozza, alla tua età, colla tua educazione?!... —Bisogna andarci per la disgrazia della nonna, e per la malattia di mio suocero.... —Lascia che ci vada lui, tuo marito, tu già non sei in caso nè di assistere gl’infermi, nè di resuscitare i morti!.... —Oh mamma! Silvio è ancora ammalato, vuoi che lo lasci solo! —Ma, creatura mia, egli non ha bisogno di nessuno per guarire, il tuo sacrifizio mi pare affatto inutile. Adesso poi che ti sei fatta quel bel vestito di lutto, vuoi andarlo a sfoggiare fra i contadini?... non valeva la pena di sceglierlo con tanto buon gusto. Che tuo marito vada pure a trovare suo padre, lo trovo giusto, e che ritorni quando vorrà. Se suo padre starà meglio, tu non sei in dovere di andargli a far visita; se per sua disgrazia dovesse morire, io non posso permettere che un nuovo dolore ti riapra una piaga recente, con gravissimo pericolo per la tua salute. —Ma io gli ho promesso d’accompagnarlo, ed è tanto contento!... —Gli farai osservare che io non approvo la tua promessa, che la tua salute esige dei riguardi, che in seguito, se starai meglio.... si vedrà. —Ma io sto benissimo.... —Che importa!... gli dirai che ti senti male.... gli uomini credono tutto.... oh, non ti fa spavento quella vita noiosa, al letto d’un malato bisbetico, senza una distrazione nè uno svago, in quella perpetua solitudine?!... Ma nessun argomento poteva persuaderla a rimanere, perchè oltre all’affetto del marito, e al sentimento del dovere, un altro motivo imperioso la spingeva alla partenza. Essa pensava a Maria che le pareva pericolosa, disprezzava Andrea, non ignorava il primo amore di Silvio, e non era disposta di abbandonarlo al pericolo, per non esporsi al rimorso di non averlo preveduto. Partì dunque insieme al marito, malgrado il malcontento e la disapprovazione della madre, che fino all’ultimo momento la scongiurava a non abbandonarla. E accompagnando alla stazione il genero e la figlia, mandava i suoi saluti e quelli di suo marito al caro signor Gervasio, e a tutta la famiglia, cogli auguri d’una perfetta guarigione, e le più calde raccomandazioni d’un pronto ritorno. XVIII. Durante il viaggio in ferrovia Silvio guardava fuori dal finestrino del carrozzone il fumo nero della vaporiera che scendeva sui campi e si disperdeva nell’aria, e aspirava con voluttà i sentori della campagna che gli facevano bene. Era la fine d’agosto, dei nuvoloni bianchi correvano nell’azzurro del cielo. I grappoli d’uva cominciavano a rosseggiare sui tralci, il sole d’estate aveva tinto le foglie di vari colori, il granoturco mostrava le pannocchie colle barbe mature, le quaglie cantavano nella saggina, i pettirossi e le cingallegre nelle siepi, le rane gracidavano nei fossi. Tutte quelle piante, e quelle voci, rammentavano a Silvio la sua prima gioventù, il tempo felice delle vacanze, quando correva pei campi in compagnia della cugina. Come erano cambiate le cose col corso degli anni!... Metilde pensierosa teneva gli occhi abbassati sul ventaglio chiuso nella destra, e batteva le stecche colle dita della sinistra, come sulla tastiera del pianoforte. La gente che entrava ed usciva dalle diverse stazioni, i giardinetti dei guardiani, le carrozze che attendevano i viaggiatori non giungevano a distrarla dai suoi pensieri; la madre l’aveva tanto impaurita sulla vita che la attendeva, che ne presentiva tutte le tristezze, e rimpiangeva la sua Venezia. Immersa nelle cupe meditazioni, passò senza avvedersene dalle stazioni di Mestre, Mogliano, Preganziol, ma quando il treno correva in fianco ai laghetti formati dalle curve del Sile, fra le canne palustri, e vide apparire la chiesa di San Nicolò di Treviso, come uno spettro severo e grandioso davanti le casupole che lo circondano, sentì una stretta al cuore che le annunziava l’arrivo. Alla stazione trovarono il legno che li aspettava. Fecero caricare il loro bagaglio, e domandarono subito a Pasquale le notizie del malato. —Sempre lo stesso!—rispose il cocchiere, e queste parole suonarono all’orecchio della signora, come la condanna d’un lungo martirio. Silvio accarezzò il collo di Falcone, che mostrò di riconoscerlo, e partirono subito per la villa. Quando entrarono nel parco, Argo che stava sdraiato sulla porta di casa, balzò in piedi, ed annunziò il loro arrivo coi soliti abbaiamenti. Comparve subito Maria che si gettò piangendo nelle braccia di Metilde, la quale corrispose colle sue lagrime a quelle della cugina. Scambiarono dolenti condoglianze sulla povera nonna, sulla bimba tanto desiderata, e tutti insieme si recarono direttamente al letto di papà Gervasio. Parve che un raggio di sole entrasse nella camera alla vista del figlio. Si abbracciarono teneramente piangendo, a ciascheduno mancava la parola, le strette di mano supplivano alla voce, nell’espansione di quegli affetti domestici. Dopo tanto tempo che non si erano veduti, tutti avevano sofferto, tutti avevano bisogno di aprire il cuore riboccante di dolori e di lutto. Sedettero intorno al letto, il figlio accarezzava la mano del padre, Maria raccontava singhiozzando gli ultimi momenti della povera nonna, che si era spenta senza sofferenze apparenti, come tutte le anime buone, che dopo una vita laboriosa e faticata, si addormentano dolcemente nel sonno eterno. Metilde si asciugava le lagrime col fazzoletto listato di nero che esalava un odore soave, e colla coda dell’occhio esaminava i vestiti di Maria, che non le parevano ammodo. Si vedeva che aveva scelto il più oscuro dei suoi abiti, e portava annodato al collo un fazzoletto di seta nera. La seta nei primi mesi del lutto!...—pareva una cosa scandalosa agli occhi di Metilde, ligia alla prammatica che non ammette che la lana ed il crespo. Quando Metilde si trovò sola col marito, gli segnalò subito quella vergogna. Silvio con faccia da scimunito non capiva niente, non poteva penetrarsi della gravità di quello scandalo, e le rispose in aria sprezzante che la sua osservazione era una vera sciocchezza. Metilde lo guardò con sorpresa, non insistette; era perfettamente convinta che suo marito avrebbe sempre approvati tutti gli errori della cugina, diventando anche impertinente; quella indulgenza non aveva limiti, e lo rendeva cieco. Papà Gervasio, passato il primo momento di soddisfazione, che pareva avergli giovato, ricadde subito in profondo abbattimento. Il medico non dissimulava il lento, ma inesorabile progresso del male. L’inappetenza completa rendeva difficilissima la conservazione delle forze che andavano scemando. Maria si scervellava nella ricerca di tutti gli artifizi possibili per ammannirgli qualche cibo che non ripugnasse al suo stomaco delicato. Faceva dei brodi ristretti dorati, trasparenti, delle gelatine che mettevano appetito al solo vederle. Anche Silvio dopo la malattia era macilento, aveva il viso smunto, affilato, si sentiva molto debole. —Mangia della carne, gli diceva Metilde, se vuoi riprender le forze. Maria non era di questa opinione. —I convalescenti, essa osservava, digeriscono male, bisogna sostenerli con cibi sostanziosi, ma leggieri,—e gli apparecchiava dei tuorli d’uova sbattuti nel Marsala; gli dava di quelle gelatine e di quei brodi che apparecchiava per papà Gervasio. Quando Silvio cominciò a sentire appetito, Maria lo teneva a stecchetto, non lo lasciava mai mangiare il suo bisogno. Gli apparecchiava delle cervelline fritte, in agro-dolce, e delle salse piccanti che gli facilitavano la digestione. Lo teneva corto di pane, gli mescea dell’acqua nel vino, malgrado la sua opposizione, portava via il formaggio dalla tavola, ad onta dei suoi spergiuri. Metilde trovava quelle attenzioni esagerate e ridicole, li canzonava tutti due; diceva ch’egli simulava le smorfie del bambino per farsi medicare dalla dottoressa di cucina. Una febbriciattola insidiosa continuava a minare la vita del povero papà Gervasio, il suo ventre si gonfiava, aveva la pelle e le mani secche, era angustiato da una sete continua, e la nausea gli rendeva odioso anche il brodo migliore. Maria gli faceva gustare delle conserve di frutta, delle gelatine profumate di ribes e lampone, trasparenti come il cristallo; teneva sempre pronte delle spremute di limone e di arancio, apparecchiava del latte d’amandorle, e di semi di popone. Silvio mostrava desiderio di aver la sua parte, ma essa lo persuadeva che per lui non erano opportune, e gli faceva bere di preferenza qualche bicchierino di vino vecchio. Metilde osservava tutto in silenzio, lavorando all’uncinetto. Quel lavoro quasi meccanico permette alla donna di raccogliere i suoi pensieri, di discuterli tacitamente, senza distrazione, rimuginando nel cervello i più minuti particolari della vita. Quella casa era ben cambiata dal primo tempo del suo matrimonio, quando essa regnava con potere assoluto sull’animo di tutti i parenti che andavano a gara per compiacerla, e nel farle omaggio. I più vaghi fiori, e le migliori frutta del giardino erano per lei. Alla colazione ed al pranzo essa trovava ogni giorno davanti il suo piatto un vasetto snello di vetro opalino di Murano colle più belle rose sbocciate al mattino, di tutte le varietà, d’ogni gradazione di colore dalla porpora al carminio, dal giallo d’oro al candido perfetto. Ce n’erano d’orlate, di variegate, di punteggiate, di vellutate e di lucenti come il raso. Formavano l’orgoglio di papà Gervasio, ed erano la sua offerta giornaliera. In quel tempo felice Silvio la adorava, le usava le più delicate attenzioni, le procurava ogni distrazione possibile, il passeggio, le gite in carrozza o in ferrovia nei paesi vicini. La povera nonna temeva sempre che le mancasse qualche cosa, le offriva tutto quello che poteva farle piacere, si affaticava per servirle ogni giorno un pranzetto appetitoso. Gli amici di casa venivano a farle visita, tutti i domestici erano occupati per lei, eppure trovava la campagna noiosa. Immaginarsi adesso!... Adesso tutto era tristezza, l’ombra della morte era passata sulla casa. Il pianterreno era silenzioso e deserto, il primo piano attristato dalla malattia; alla gaie vesti di sposa era succeduto il bruno del lutto, ai piaceri svariati la vita monotona, alla primavera l’autunno, all’amore ridente il truce fantasma della gelosia. Il medico veniva due volte al giorno, e partiva colla testa bassa; il parroco si presentava alla porta per vedere se era venuto il momento anche per lui; un’aria di profonda malinconia dominava la casa, tutti portavano sul volto le traccie delle perdite recenti, e l’apprensione dell’avvenire. Perfino i canarini mutavano le penne, e non cantavano più. Il solo indifferente a tutto quel cambiamento di scena era Mumut, il vecchio gatto di casa, il quale continuava impassibile a presentarsi al balcone della cucina all’ora consueta, e nella beata aspettativa del pasto schiacciava un sonnellino, e faceva le fusa. Tutto il resto pareva colpito d’una immobilità spaventosa. La statua in gesso di Napoleone, colle braccia incrociate sul petto, era coperta dalla polvere degli anni e dell’abbandono, e guardava sempre ad un punto fisso. I ritratti dei generali imitavano il loro imperatore; le battaglie appese ai muri, coi loro morti e i feriti, e i reggimenti all’attacco, aspettavano invano la ritirata o la vittoria. Metilde passeggiava lentamente, osservando ogni cosa, e passava da una stanza all’altra, mandando dei lunghi sospiri. Sua madre le scriveva due volte per settimana i pettegolezzi di Venezia, che le davano la nostalgia, i cambiamenti di moda, gli arrivi e le partenze degli amici, e le annunziava gli spettacoli che si promettevano per il prossimo inverno, i teatri e i piaceri del carnevale, e sperava che finito l’autunno Metilde sarebbe alfine ritornata a goderne la sua parte. Ma la giovane donna subiva gli effetti dell’ambiente malinconico, tutte quelle promesse le parevano vane, cose dell’altro mondo; oramai tutto le sembrava finito, si vedeva sepolta viva chi sa per quanto tempo, forse non avrebbe mai più veduta la sua Venezia, e a questo pensiero una lagrima le sgorgava dal ciglio, e si affrettava a nasconderla per non essere obbligata a render conto a nessuno de’ suoi pensieri, e della sua profonda tristezza. Quando una famiglia attraversa un’epoca nefasta; se vi sono in casa dei bricconi, sanno cavar partito dalle disgrazie a loro vantaggio. Andrea aveva saputo in paese che Pasquale comperava degli animali bovini, e li dava a mezzadria nelle stalle vicine. Con un modico salario questi risparmi non erano possibili. Maria si era già avveduta dei prezzi esagerati d’ogni cosa che il domestico era incaricato di comperare, ma non aveva il tempo di controllare le sue spese, e poi anche questo genere di furto non poteva bastare ai suoi dispendi. Ci dovevano essere degli altri abusi, ma non era facile scoprirli. Andrea lo sorvegliava attentamente, lo seguiva dovunque, teneva le chiavi di tutto. Pasquale che si sentiva sorvegliato, odiava l’intruso, si rifiutava di riconoscerlo per padrone, non si credeva obbligato di eseguire i suoi ordini, lo guardava con occhio sprezzante e sdegnoso, e cercava ogni occasione per denigrarlo. E per disgrazia queste occasioni non mancavano. Trovandosi in possesso delle chiavi della cantina, Andrea si credette in obbligo di osservare se i vini si guastavano nelle botti o nelle bottiglie. Cominciò con degli assaggi prudenti, ma un poco alla volta prese l’abitudine di fare delle bevute solenni. Egli aveva ereditato dal nonno Pigna la natura propensa al vino, e si sentiva le migliori disposizioni per imitarlo e superarlo, non gli mancava che l’occasione favorevole per sviluppare il suo talento. Questa occasione gliela aveva apparecchiata bellissima papà Gervasio, il quale, vedendo che i prodotti della vite andavano sempre più declinando pel funesto influsso di molteplici malanni, aveva pensato di mettere in serbo ogni anno una parte del suo vino migliore, per assicurarsi il latte della vecchiaia. Sulle pareti della cantina, dietro alle botti, correvano dei palchi pieni di bottiglie, allineate come i soldati sul campo, colle relative etichette che indicavano gli anni. Era una seduzione irresistibile, un attraente invito agli studi comparativi sulla diversità dei prodotti di varie epoche. Andrea sturava una bottiglia che indicava dalla sua trasparenza la purezza del vino. Era un nèttare delizioso!... gli anni avevano sviluppati gli aromi che salivano per le narici con esalazioni eccitanti. Quello dell’anno antecedente doveva essere ancora più profumato. Ne faceva la prova, e vedeva di aver ragione. Il più vecchio deve essere il migliore di tutti, e faceva un ultimo assaggio che era un nuovo trionfo!... Egli usciva dalla cantina colle gambe mal sicure, cogli occhi brillanti, e lo sguardo ardito. Pareva che la vista delle battaglie di Napoleone lo animasse alla lotta, e guai a chi gli compariva davanti in quei momenti fatali. Pasquale lo sfuggiva, dicendo che il vice-padrone aveva il vino cattivo, andava a rifugiarsi nel fienile; l’altro batteva a tutte le porte, entrava in scuderia, e finiva col cadere sullo strame, ove restava delle ore, immerso nel profondo letargo dell’ubbriachezza. Il cocchiere usciva prudentemente dal suo nascondiglio, andava a chiamare il figlio del padrone, e lo conduceva a vedere lo spettacolo del cugino sdraiato in terra come un maiale. Silvio ne diede subito avviso a Maria che passata la sbornia fece una ramanzina al marito, il quale si giustificò mettendo in campo il sospetto che un certo vino prendesse lo spunto, egli volle subito assicurarsene e ne aveva assaggiato trovandosi a digiuno. Un’altra volta il vino gli aveva fatto male, perchè prima di entrare in cantina aveva bevuto della birra. Ma continuando ad ubbriacarsi non seppe trovare altro pretesto che quello che il buon vino gli piaceva, e che non vedeva la ragione di privarsene. Divenne una brutta abitudine. Beveva anche all’osteria, e rientrava in casa barcollando, colla bocca storta dalla quale uscivano delle parolaccie villane, delle espressioni tronche minacciose. Metilde ne aveva paura, ed alla comparsa dell’ubbriaco fuggiva nella sua stanza, e si chiudeva dentro. Un giorno esso entrò improvvisamente in cucina tutto traballante, e si mise a strepitare senza riguardi davanti ai cugini. Maria lo minacciò di togliergli le chiavi della cantina; egli le rispose con uno schiaffo. Silvio saltò al collo d’Andrea e voleva strozzarlo. Metilde urlava spaventata, dicendo che quelle erano baruffe da mascalzoni, che Silvio non aveva bisogno di farsi paladino di nessuna dama, che egli non doveva ingerirsi negli affari degli altri. Silvio dichiarò che si stimava in dovere di difendere la cugina, questa singhiozzava convulsamente, e non voleva che Silvio battesse suo marito. Andrea barcollante voleva menare dei pugni, allora la zuffa si riaccese, e Silvio lo mise alla porta a furia di calci nel deretano. In questo momento giunse il maestro Zecchini, che veniva, come al solito, a far compagnia all’ammalato. Sorpreso dallo spettacolo inaspettato, si gettò fra i combattenti, e giunse a separarli. Quando tutti furono più calmi, egli disse: —Non mi sorprendo che gli uomini si prendano a calci; li ho giudicati da un pezzo; questa è una manifestazione spontanea della loro natura asinesca.... ma mi meraviglio che simili scene abbiano luogo in questa casa.... e in questi momenti!... Volle sentire le giustificazioni di ciascheduno, prima di pronunziare la sua sentenza, e poi soggiunse: —Mi toccava vivere tanto lungamente da persuadermi che i nipoti sono simili agli avi, l’eredità del sangue è imprescrittibile. Tu Andrea sei un ubbriacone come tuo nonno; tu Silvio sei battagliero come l’avolo capitano, che ha ornato queste pareti colle battaglie del primo Napoleone; ma tuo nonno si batteva contro la cavalleria dei cosacchi, e tu ti batti con quell’asino vestito e calzato, indegno di questa casa, e di questa donna. Maria, perdonate all’ubbriacone, come Gesù Cristo ha perdonato a chi lo metteva in croce, dicendo: «egli non sa quello che fa!» Per buona ventura papà Gervasio non aveva udito nulla di quel tafferuglio. Il maestro Zecchini li scongiurò di vivere in buona armonia, di non tralignare dall’esempio di quella famiglia che era stata sempre un modello di probità e di buoni costumi. —Almeno, egli aggiunge, state tranquilli fino alla finale catastrofe che vi attende, e che pur troppo non è molto lontana. E infatti il male si aggravava, e la febbre sempre più forte consumava il malato. Maria era instancabile, gli somministrava esattamente i rimedi nelle ore prescritte, senza sgarare d’un minuto, gli risparmiava le più leggere emozioni, gli evitava il più piccolo rumore, girava intorno al letto in punta di piedi, sorvegliando attentamente i minimi cenni dell’infermo. Gli cambiava l’aria della stanza senza molestarlo con luce troppa abbagliante, gli asciugava il sudore della fronte, gli ravviava i capelli scomposti. Fino che conservò i sentimenti volle vedere ogni giorno gli alberi del parco; Maria gli metteva dei cuscini sotto la testa, ed apriva le finestre. Egli guardava cogli occhi languenti le foglie appassite dell’autunno, aspirava con avidità l’aria esterna che entrava a ondate odorose. Maria gli portava dei fiori, le rose rifiorite, gli ultimi crisantemi, o le prime viole del pensiero seminate in agosto; egli mostrava piacere, e domandava conto degli animali e delle piante più care, fra le quali aveva passate le ore migliori della vita. Maria pensava a tutto e a tutti, con calma serena, senza confusione fra le molteplici brighe, con quel sorriso degli occhi che indicava la bontà e la pazienza, anche sul volto illanguidito dalle fatiche, anche coi lineamenti resi malinconici dalle amarezze e dai disinganni della vita. Un giorno l’ammalato perdette la parola, ma parlava ancora cogli occhi, poi anche questi s’intorbidarono, si fecero vitrei, immobili e senza luce, le occhiaie divennero livide, i zigomi prominenti, la bocca pareva più grande, e cominciò il rantolo dell’agonia. Metilde ne ebbe paura, e fuggì dalla camera per non più rimettervi il piede, Maria rimase ferma fino all’ultimo istante, umettando le labbra inaridite del moribondo, con una penna bagnata nel vino di Marsala, e accompagnando le sue preghiere a quelle del prete. Silvio teneva nella sua mano quella del padre, e gli asciugava i sudori della morte. Quando spirò, gli chiuse gli occhi con una pezzuola ripiegata, e raccolse fra le braccia la cugina svenuta. La portarono nella sua camera, ma quando ricuperò i sensi era tanto sfinita che dovette mettersi a letto. La sua assenza di poche ore fu segnalata a tutti da qualche privazione. Il fuoco della cucina rimase spento fino a tarda notte. Nessuno si sarebbe occupato del pranzo, se l’appetito non avesse deciso Pasquale ad approntare qualche cosa. C’era un po’ di brodo, ma era insufficiente per tutti. Pasquale si bagnò una buona zuppa, poi aggiunse dell’acqua al brodo che avanzava e fece la minestra pei padroni. Si prese la parte migliore di tutto ciò che rinvenne in dispensa, e servì il resto sulla tavola della famiglia. Quel giorno Andrea si astenne dall’abuso del vino, e Pasquale diede fondo alle bottiglie quasi piene che rimasero sulla tavola. Si dimenticò di dare l’avena a Falcone e a Martino; i polli ed i colombi rientrarono al pollaio e in colombaia senza l’ultima porzione di becchime, e i conigli rimasero senza cena. Argo coricato ai piedi del letto di Maria, la contemplava tristamente, di tratto in tratto alzava una zampa sul materasso richiamando la sua attenzione; essa gli faceva una carezza sulla testa, ed egli mandava un gemito. Andrea apportò in camera qualche cibo per sua moglie, che essa respinse con ripugnanza; il marito lo sporse al cane, che voltò la testa da un’altra parte, rifiutandosi di mangiare. Le fantesche di casa andavano e venivano dalle stanze, sbalordite, dimenticando i soliti uffizi. Il maestro Zecchini fu pregato di occuparsi dei funerali. Egli spedì subito il triste annunzio mortuario ai parenti ed agli amici, e fece tutti i preparativi necessari. Il giorno delle esequie il parco fu invaso dalla folla, che aspettando il momento del trasporto, girava pei viali, ammirando il sito pittoresco, e ciarlando sotto voce. I reduci delle patrie battaglie erano accorsi colla loro bandiera per onorare il collega del Quarant’otto, l’esule del governo straniero; molte persone, beneficate tacitamente dal defunto, erano accorse spontaneamente al mortorio, per sentimento di gratitudine. Il maestro Zecchini aveva fatto apparecchiare la fossa del defunto presso quella de’ suoi genitori. Il padre e il figlio, due valorosi campioni della indipendenza nazionale, riposano tranquillamente nel modesto cimitero del villaggio coll’unico onore che avevano ambito in compenso dei loro servigi, la presenza della bandiera nazionale sul loro sepolcro. Il notaio si recò alla villa Bonifazio per la lettura del testamento. Silvio e Maria, figli di due fratelli indivisi, erano gli eredi legittimi di tutta la sostanza, che verrebbe divisa fra loro in due parti eguali, prelevate alcune spese, e qualche piccolo legato di amicizia e beneficenza, fra i quali era ricordato il maestro Zecchini, come l’amico più antico e più devoto alla famiglia, e Andrea Pigna: e seguivano le clausole seguenti: «Considerando che l’unico mio figlio Silvio, dedicato all’avvocatura non potrebbe dimorare alla villa: «Considerando che mia nipote Maria ha quasi sempre vissuto nella casa paterna (meno i pochi mesi dopo il suo matrimonio) rendendosi benemerita della famiglia per tutte le sue prestazioni: «Desiderando che la nostra dimora continui ad essere abitata dalla famiglia, e dai discendenti, e conservata, per quanto sarà possibile, nelle presenti condizioni, così dispongo che la casa e le adiacenze, coi mobili e gli animali, il parco, il giardino, l’orto ed il brolo che costituiscono la villa, sieno compresi nella parte spettante a Maria, alla quale raccomando di continuare nelle tradizioni domestiche. «Questa parte è libera da ipoteche. «Siccome poi tutte le ipoteche che gravitano le campagne vennero imposte dai mutui contratti per l’educazione e il mantenimento di mio figlio, così è giusto che tutta la parte passiva, rimanga a solo ed esclusivo suo carico, coll’obbligo di pagare regolarmente tutte le scadenze dei mutui, e di affrancarli alle epoche fissate nei relativi contratti, se non gli sarà possibile di ottenere dagli interessati la necessaria dilazione.» Il testamento si chiudeva colle solite formule notarili, la data, le firme del testatore e dei quattro testimoni, e quella del notaio col bollo del tabellionato, tutto in perfetta regola, secondo le prescrizioni del codice civile. Silvio e Maria riconobbero che quel testamento era l’ultimo atto di probità del loro padre e zio. Metilde e Andrea furono malcontenti, ma non osarono esprimere il loro rammarico davanti il notaio, e mostrarono di aderire col silenzio. Ma nei giorni successivi cominciarono i lamenti in famiglia. Andrea faceva osservare che l’eredità di sua moglie si riduceva ad una abitazione troppo grande, con poche rendite e molti passivi, per le spese di manutenzione delle fabbriche e degli animali. Metilde domandava l’inventario per vedere che cosa restava dopo pagati i debiti che gravavano la parte di suo marito. Il maestro Zecchini fu pregato di assumere l’incarico delle divisioni; e quantunque si aspettasse un risultato poco soddisfacente, pure non volle rifiutarsi per la fiducia che tutti gli dimostravano, invocando la sua lealtà e l’antica amicizia. Metilde annunziando alla sua famiglia la morte del suocero, e il testamento, pregava sua madre di pazientare ancora per qualche tempo, non essendo possibile di abbandonare la villa al momento delle divisioni, alle quali attendeva il marito con grande assiduità, perchè dal loro risultato dipendeva l’avvenire, nessuno essendo in caso di giudicare l’importanza dell’eredità prima di conoscere le rendite e le passività, e di aver esaminato i mutui, che restavano tutti a carico di suo marito, il quale aveva avuto la dabbenaggine di accettare l’eredità senza benefizio d’inventario. E su questo punto aveva avuto delle diatribe piccanti con Silvio, che non voleva lasciarla parlare di benefizio d’inventario, dicendosi rassegnato a qualunque pretesa capricciosa della moglie, meno che a far torto alla santa memoria di suo padre, e all’onore intemerato della famiglia. Maria non intendeva niente alla necessità delle divisioni, e diceva a suo cugino: —Perchè ci dividiamo? Non possiamo restare uniti come fecero i nostri genitori? Non possiamo abitare la casa in comune come abbiamo fatto fino adesso? Io userò tutte le economie possibili in famiglia, tu amministrerai la sostanza, e in pochi anni potremo pagare i debiti, e ritornare come prima. Se vuoi ritornare a Venezia pei tuoi affari, e per far piacere a Metilde, che sta in campagna per forza, le vostre camere saranno riservate, potrete venire qualche giorno in primavera, un mese d’autunno, noi andremo a visitarvi a Venezia, e così ci vedremo sovente. Non ti fa piacere che ci vediamo? —Cara Maria, rispondeva Silvio, se dipendesse da me solo non vorrei lasciarti un momento, io non sono felice che in questa casa ove ho passata la mia gioventù in tua compagnia. Ah! quelli furono gli anni felici! e come sono passati!... ti ricordi le nostre merendine nel nido?... —Quando tu avevi paura delle bisce.... —Ero un vero imbecille!... —Eri un galantino!... sei sempre stato così... ti sono sempre piaciuti i bei vestiti, i goletti e i polsini inamidati.... —Che frivolezze!... è ben vero!... sono stato troppo leggiero; la fatuità fu la mia rovina!.... Quanto sarebbe stato meglio se avessi ascoltato mio padre, e fossi tornato a casa dopo gli studi... —Povero zio!... Quanto ha sofferto per la tua assenza, vedendo che non poteva persuaderti a tornare in famiglia.... ma egli ti nascondeva le sue pene per non affliggere la tua gioventù... non si vive che una volta sola, egli diceva, non posso obbligare mio figlio a sacrificarsi in campagna per farmi piacere!... Egli ha sempre sperato fino al tuo matrimonio.... poi non ha sperato più!... —Che cosa diceva di mia moglie?... —Diceva che era bella.... assai bene educata... seducente per un giovinotto.... e ti compativa. —Mi compativa?... —Oh scusa se ti offendo.... volevo dire.... che egli capiva che ti dovesse piacere.... ma diceva che.... Infatti adesso a che serve di ritornare al passato, il quale non torna più.... —Ti prego, Maria, non rifiutarti di dirmi ciò che pensava mio padre di Metilde; è tuo dovere di non nascondermi le sue parole.... —Ma non diceva niente di male.... anzi ti assicuro che ne faceva moltissimi elogi.... solo che.... —Che cosa?... —Che non era per te... che non poteva renderti felice.... —Aveva ragione!... —Oh Silvio!... non dire di queste cose. Nessuno è perfetto, tutti abbiamo qualche pecca, ma Metilde è bella, elegante, graziosa.... —Tu li conosci i difetti di Metilde.... —Io no.... —Sì, li conosci! è un po’ egoista, pensa per sè, è di umore incostante, quando la tiri via dalla società e dal pianoforte non sa far altro; in famiglia non è che un impaccio.... —Oh Silvio, non dir cattiverie.... una signora non è avvezza a certe cose.... —Che signora!... le signore ricche si capisce che piglino chi le serva, ma Metilde non mi ha portato in dote che delle idee e delle pretese, senza avere i mezzi di soddisfarle.... La conversazione fu interrotta da Andrea, che spalancò la porta con tale violenza che fece tremare Maria. —Di che cosa hai avuto paura? le chiese sgarbatamente il marito, guardando il cugino con aria sospetta. —Non vuoi che tremi, gli rispose bruscamente Silvio, pareva che entrasse una bomba, o che venisse il terremoto. Metilde seguiva Andrea, questi le gettò un rapido sguardo, adocchiò gli altri due, poi tornò a fissarla con due occhiacci che volevano dire: «vedete che se la intendono; li ho sorpresi in un colloquio clandestino; che cosa ne pensate voi?» Metilde lo guardò appena, tanto aveva paura di quell’ubbriacone, e cercava di evitare tutte le occasioni di parlargli. Silvio e Maria erano costretti dalla necessità a continue conferenze d’affari, soli o col maestro, esaminavano i registri, facevano i conti ai coloni, e l’inventario per le divisioni procedeva regolarmente. Molte partite riscontrate richiamavano alla memoria i ricordi svaniti. Allora coi gomiti sulle carte ciarlavano insieme del passato, dei loro parenti, della povera nonna, e di tante prove dolorose e momenti terribili attraversati dalla famiglia. Maria si ricordava pochissimo dei genitori, ma conosceva la loro tragica storia; parlava del nonno capitano, delle sue beghe continue col maestro, della loro amicizia, cementata dalla pazienza di Zecchini, e dagli avvenimenti. E tutti quei parenti erano morti!... non restavano che loro soli della famiglia. Come avrebbero finito anche loro?... Allora Silvio pensava ai suoi errori e ai meriti di Maria. Essa aveva assistiti gli ultimi parenti, con somma bontà e intelligenza, e ricordando le cure delicate ed affettuose da lei prodigate al suo povero padre, gli occhi gli si riempivano di lagrime, e si espandeva in atti di viva riconoscenza per la cugina, assicurandola che non avrebbe dimenticato mai più tutto il bene che aveva fatto in quella casa. Egli medesimo le era debitore della salute, era giunto alla villa in cattivo stato, forse a Venezia sarebbe morto, ma si era ristabilito perfettamente a merito suo, e delle sue cure, e quel mascalzone di Andrea mostrava di non saper apprezzare abbastanza un tale tesoro.... —Andrea non è cattivo, te lo assicuro, gli diceva Maria; se non avesse quel maledetto vizio del vino, non avrei mai avuto da lamentarmi di lui.... col tempo si correggerà.... —Diventerà sempre peggiore, soggiungeva Silvio. Quel vizio esecrando gli toglie la ragione e lo rende brutale, non può che peggiorare cogli anni, e renderlo insopportabile.... Maria, dimmi francamente che cosa faresti, se quell’uomo invece di correggersi, come tu speri invano, diventasse sempre più vizioso, e ti mancasse ancora di rispetto?... Se prendesse l’abitudine di darti degli schiaffi?... Maria alzò la testa con una espressione di fierezza che Silvio non le aveva mai veduta, rimase qualche istante perplessa, poi con duro cipiglio gli disse: —Parliamo d’altro. In quel momento Silvio vide una scintilla negli occhi della cugina, e si sentì consolato dal pensiero che il sangue dei Bonifazio non era degenerato; e quello sguardo inaspettato gli fece battere il cuore più forte. La riconoscenza e l’ammirazione che sentiva per Maria gli fecero dimenticare quel linguaggio e quegli atti, che talvolta la rendevano volgare, e lo facevano arrossire davanti la gente. Allora non vedeva più che quella costante devozione per la famiglia, che ne riassumeva i sacrifizii, quella vita utile, quel cuore semplice e onesto, e deplorava altamente di non avere saputo apprezzarla in tempo, ed esclamava sospirando: —Ah! cara Maria, ho falsato la mia vita, ho sbagliata la strada!... —Io credo, gli rispose mestamente Maria, che nessuno a questo mondo possa realizzare i propri sogni, che nessuno sia completamente felice. Nella ingenuità degli anni giovanili si spera l’impossibile, si travede una vita color di rosa, come quelle figure che abbiamo ammirate sul muro da fanciulli, prodotte dalla lanterna magica, ma quando il lume si spegne il muro ritorna bianco; la realtà è molto diversa dalle ubbie giovanile... ma è inutile lamentare le illusioni perdute.... perchè non erano che illusioni. L’esperienza ci mette davanti la verità, e bisogna contentarsi del proprio stato, e rassegnarsi al destino.... Così dicendo si alzò, quasi avesse timore di dire troppe cose, o di udirne, e uscì rapidamente dalla stanza, lasciando Silvio in una agitazione morbosa, fra il rimorso e la speranza, deplorando le aberrazioni del passato, e cercando il modo di riparare i suoi falli.... forse con nuovi errori!... XIX. I conti e l’inventario procedevano regolarmente, e si cominciava a prevedere il risultato finale. La parte di Maria, netta da passività, poteva bastare ad una famiglia modesta ed economa, per vivere in una relativa agiatezza; ma l’altra parte, dopo pagati i debiti che vi erano attribuiti, non poteva dare per civanzo che una rendita derisoria. Era dunque indispensabile di pensare seriamente all’avvenire, e Silvio se ne preoccupava con diversi progetti, eccitato anche dalle sensate ammonizioni del maestro Zecchini che presentiva la rovina. La dipendenza del suocero avvocato, oltre di riuscirgli pesante, non gli dava che mediocri risultati economici; le corrispondenze ai giornali non erano che un debole aiuto. Il pensiero dominante di Silvio era quello della emancipazione dai suoceri, per liberarsi specialmente dal pesante dominio della signora Emilia, che contribuiva alle sue disgrazie colle abitudini e le idee che ispirava alla figlia. Egli avrebbe rinunziato volontieri alla vita mondana per vivere in libertà nella casa paterna, ma prevedeva l’opposizione ostinata della moglie, si vedeva minacciato da pericoli, e non si sentiva abbastanza forte per resistere alle tentazioni che gli esaltavano il cervello. Si risolse di rivolgersi ad un suo amico, che gli aveva procurato delle buone corrispondenze, che lo lodava sovente, incoraggiandolo a dedicarsi intieramente al giornalismo. Gli scrisse una lunga lettera, facendogli conoscere i più minuti particolari delle sue condizioni domestiche e finanziarie, domandandogli consiglio se recandosi a Roma potesse sperare un’occupazione conveniente, avendo i mezzi sufficienti per aspettare qualche tempo, potendo scegliere, senza la fretta pericolosa della urgente necessità. La risposta non si fece attendere lungamente, ed era la seguente: «_Carissimo amico_, «Io divido il genere umano in due parti disuguali. «Una piccola minoranza che pensa colla sua testa, una grande maggioranza che pensa colla testa degli altri. Noi possiamo vantarci di appartenere alla prima categoria, e viviamo alle spalle della seconda, colla giunta di quelli che pensando colla propria testa, sono curiosi di sapere quello che pensano gli altri. Dunque quasi tutto il gregge umano contribuisce al nostro mantenimento, e chi pensa bene ha diritto di vivere più lautamente degli altri; ma c’è posto per tutti, anche per coloro che vendono idee false, perchè tanto la miglior trattoria quanto la peggiore taverna smaltiscono i loro cibi, e chi non può mangiare il lepre deve contentarsi del gatto. «Come il cuoco che ammannisce le varie vivande pei suoi avventori, il giornalista apparecchia ogni mattina la politica, la letteratura, la critica, le notizie cittadine, e il bollettino della borsa per uso e consumo de’ suoi lettori, molti dei quali attendono con impazienza il giornale, per sapere che cosa devono pensare in quel giorno. Tu sai benissimo che l’ultimo giorno di carnevale, e la festa di Pasqua che non esce il foglio stampato, moltissimi associati o lettori non pensano a nulla, o pensano come la vigilia. Questo immenso prodotto della stampa, sempre crescente, a misura che scemano gli analfabeti, ha continuo bisogno di nuovi coscritti, da mettere al posto dei morti e degli invalidi. «Chiunque vuol venire a Roma, qualunque sia la sua essenza, carne o carota, è sicuro di bollire nella gran pentola dell’eterna città. «Dal primo ministro all’ultimo spazzino ciascuno trova il suo posto. «Ci vengono da tutte le provincie degli uomini d’ingegno e degli stolidi, senza contare tutte le zucche spedite dagli elettori, la cui maggioranza appartiene a coloro che pensano colla testa degli altri.... «Ero giunto a questo punto della mia lettera, quando vidi entrare il nostro comune amico Sacripante che veniva a domandarmi se avessi da proporgli un direttore per la _Confederazione Universale_, giornale sbattuto dalle onde e dai venti contrari. Ho pronunziato il tuo nome che fu accolto con entusiasmo. Vieni dunque, appena sarai libero, a fare il capitano di questo naviglio in burrasca, e se saprai guidarlo con destrezza, e condurlo in porto, la tua posizione è assicurata, diventi grande ammiraglio della stampa.—Addio.» Appena giunta questa lettera, Silvio chiamò Metilde, chiuse l’uscio della camera, e le mise sotto gli occhi una tabella piena zeppa di cifre, che indicava in modo positivo il risultato finale della liquidazione della sostanza paterna.—Una rendita meschina!— A scongiurare così desolante condizione non restavano che due soli espedienti, o rassegnarsi a vivere modestamente in campagna, o partire per Roma, da dove gli veniva offerta la direzione d’un giornale cosmopolita. Metilde escluse intieramente la prima proposta, e non accettò nemmeno la seconda, riservandosi di rispondere, dopo di aver consultata la famiglia. Scrisse subito a suo padre, raccontandogli le dolorose contingenze del loro stato dopo la liquidazione disastrosa, notificandogli le proposte del marito, il rifiuto perentorio fatto alla prima, l’esitazione sulla seconda, e unendovi una copia della lettera di Roma, domandava consigli e suggerimenti sulla condotta da tenersi. Mentre si aspettava la risposta da Venezia, un nuovo incidente venne a rendere più irritante la reciproca condizione delle due famiglie che vivevano insieme alla villa, guardandosi con diffidenza. Pasquale aveva saputo all’osteria che Andrea si lamentava con tutti del testamento dello zio Gervasio, e dei carichi che gli erano imposti. La villa gli riusciva troppo onerosa con l’obbligo di conservare il parco passivo, coll’abitazione troppo grande che rappresentava un altro capitale infruttifero, e le convenienze della moglie che lo obbligavano a mantenere due cugini parassiti, che gli costavano cari. Pasquale pensava che Andrea aveva ereditato più di quanto meritava, e lo giudicava indegno di godere tutto quel ben di Dio che non sapeva apprezzare. Un giorno erano brilli tutti due, caso che succedeva sovente. Andrea si mise a rimproverare Pasquale per tutto il tempo che passava colla spazzola in mano intorno al cavalletto dei finimenti che non avevano bisogno d’essere tanto lucidi, mentre trascurava molti altri lavori più utili, dei quali dovrebbe occuparsi se non fosse tanto poltrone. Questa verità fece saltare la mosca al naso del domestico, il quale gli rispose, che anche lui avrebbe qualche occupazione più seria che non dovrebbe trascurare per simili frivolezze.... —Che cosa vuoi dire con queste ciarle?... —Voglio dire che se io avessi una bella moglie, non vorrei che i mosconi le girassero d’intorno, —Balordo!... Silvio ha ragione di dire che sei un vero briccone!... —Ah! il signor Silvio dice questo?... farebbe meglio anche lui di non ingannare sua moglie, facendo la corte alla cugina!... questa sì è una vera azione da briccone!... Tali parole entrarono nel cuore di Andrea come tante freccie avvelenate. Egli guardava il cocchiere in atto di sdegnoso disprezzo, ma non sapeva trovare una parola da rispondere. Pasquale con un sogghigno satanico accresceva l’insulto e l’agitazione del padrone, il quale soffocava a stento la gelosia, e il desiderio di vendetta. La vista di quello scherno, la vergogna di parere ridicolo, il furore della gelosia lo spinsero a svelare un atroce segreto che chiudeva gelosamente nel seno. Trasse di tasca un coltello, fece brillare davanti gli occhi di Pasquale quella lama lucente e accuminata, e gli disse: —Chiunque mi offenda deve pagare, con questa lama nel ventre, tanto chi m’inganna, quanto chi si burla di me; tientelo bene a mente, e vedrai che non mento. Non mi fa paura nessuno!... hai capito? nessuno!... saprò cogliere il momento opportuno.... e mi vendicherò, e non me ne importa nè della galera, nè della forca, nè del boia!... Pasquale era soddisfatto d’avere colpito sul vivo, colla doppia ferita del sospetto e della vergogna, l’uomo che detestava, e godeva di aver soffiato nel fuoco di quell’odio che divorava internamente l’infelice. Fu poi una dolorosa combinazione che Andrea rientrando in casa fremente di collera si scontrasse con Metilde, la quale vedendolo cogli occhi stralunati lo credette più ubbriaco del solito, affrettò il passo per allontanarsi, mentre egli la chiamava ad alta voce: —Metilde.... Metilde.... non mi fuggite no, non abbiate paura di me, non sono ubbriaco di vino, sono ubbriaco di collera contro quel bighellone di vostro marito che ci tradisce tutti due.... Metilde si arrestò d’un tratto, davanti alla porta di casa, e gli piantò in volto uno sguardo interrogativo. —Non vi siete mai accorta, egli continuò, che vostro marito fa la corte a mia moglie?... non sapete che furono amanti, e che lo sono ancora?... ignorate il passato, il presente, tutto?... non sapete fare che delle cerimonie, dei complimenti, delle smorfie!... Metilde impallidiva, si metteva la destra sul cuore, si sentiva mancare; la rivelazione e l’insulto la colpivano ad un tratto, e l’amaro sospetto che la dilaniava da un pezzo si trasmutava in realtà; la speranza di ingannarsi svaniva davanti quelle parole pronunziate da una vittima. La misera donna traballò per qualche passo, poi andò a cadere sopra una seggiola, nel vestibolo. —Siamo traditi!... siamo traditi!... le urlava contro quel forsennato.... Attirata dalla schiamazzo comparve Maria; indovinò con un colpo d’occhio di che cosa si trattava, diede uno sguardo severo al marito, senza degnarsi di proferire una parola. L’aspetto di quella donna calma e serena impose rispetto ad entrambi. Andrea infilò la porta e si allontanò bestemmiando fra i denti. Metilde colle mani nei capelli, cogli occhi stravolti, esclamava: —Mio Dio, quante amarezze in questo deserto!... fino alla nausea.... fino alla disperazione!... con questa gente!... —Calmati, Metilde! soggiunse Maria.... siamo rozzi ma onesti.... non lo credi?... Metilde non le rispose. Scoppiò in un pianto dirotto, e si ritirò nella sua camera. XX. Silvio era andato a Treviso, e ritornò con una lettera per sua moglie. Era la risposta dell’avvocato, che diceva fra le altre cose: «Quella lettera di Roma è scritta evidentemente da un matto, che vede il mondo attraverso il suo cervello, che offre ad un amico l’impresa pericolosa di dirigere un giornale screditato, per compiere la sua rovina. Andando a Roma con quelle idee non trovereste che gl’imbarazzi e la miseria. Il disastro economico di tuo marito non lo obbliga a fare nè il contadino nè il giornalista. In campagna senza le cognizioni nè la pratica dell’agricoltore egli non potrebbe vivere che in ozio, condannando la moglie educata, e avvezza a vivere nella buona società, a trascinare una vita noiosa, nello squallore rurale. A Roma senza un impiego fruttuoso, nella lotta scapigliata dei partiti non avrebbe a subire che continui disinganni e pericoli. A Venezia non potrete più tenere un appartamento, ma avete la nostra casa, ove tu riprenderai le consuete abitudini, vivrai coi tuoi genitori, e lui dividerà le mie fatiche, e colla sua onorata professione d’avvocato troverà degli onesti compensi. Ecco il vostro solo rifugio. Noi riceveremo in famiglia il figliuol prodigo, e subiremo le conseguenze d’un matrimonio troppo precipitato, senza la dovuta ponderazione e le necessarie garanzie.» Quel giorno nessuno volle scendere a pranzo, la tavola di famiglia rimase deserta. Metilde lesse attentamente la lettera di suo padre, la trovò ragionevole e generosa; la passò a suo marito che la scorse in silenzio, ma colle mani tremanti dalla collera che lo strozzava, non ebbe la forza che di pronunziare poche parole, e interrotte: —Rispondi a tuo padre che partiremo per Roma.... che non ho bisogno della sua elemosina.... gli dirai che «il matrimonio troppo precipitato» l’ho fatto io «senza la dovuta ponderazione, e le necessarie garanzie» e che le sue offese alla mia famiglia, ingiuste e sventate, hanno prodotto un pessimo effetto, quello di esiliarti per sempre da Venezia,... perchè tu non devi vederla mai più!... —Silvio! ascolta.... tu non hai diritto di privarmi dei miei genitori.... nè della mia patria. —Ho diritto di far rispettare la mia famiglia.... e di respingere con sdegno le parole ingiuriose dei tuoi parenti.... Venezia è stata la mia rovina.... tu non la vedrai mai più!... gridò il giovine inviperito. —Ma non vedrò nemmeno Roma!... gli rispose Metilde, con energia. —Ebbene, resteremo qui!... soggiunse il marito con calma apparente. —Nemmeno un giorno di più!... esclamò Metilde, con fiera fermezza, e alzando la destra verso il crocifisso che pendeva sul letto, conchiuse: —Lo giuro sull’anima mia, davanti a quel Cristo!... —Lo vedremo!... disse Silvio al colmo della collera, e sentendo che non poteva più frenare lo sdegno, uscì precipitosamente dalla camera, sbattendo le porte con tale violenza che ne tremò tutta la casa. All’ora del tramonto, Metilde scese lentamente le scale, uscì dalla porta d’ingresso senza essere veduta da nessuno, ed entrò nel parco. La sua testa era in fiamme, sentiva bisogno d’aria libera e di solitudine, per raccogliere i suoi pensieri. Era verso la metà del novembre, una nebbiola trasparente si alzava dai prati, mentre il crepuscolo rosseggiava ancora all’estremità dell’orizzonte. I monti lontani passavano dalla tinta violacea alla turchina, si confondevano col cielo, e finalmente scomparivano nell’oscurità della notte. La terra era coperta dalle foglie cadute dagli alberi che scricchiolavano sotto i piedi. Al fruscìo della veste, e al rumore dei passi, gli uccelli raccolti sui rami fuggivano in massa, producendo l’effetto d’un soffio improvviso di vento. Poco dopo il suo passaggio ritornavano al loro posto, e si sentiva nel bosco un pigolìo confuso, che andava scemando a poco a poco, e si diffondeva il silenzio notturno, interrotto lievemente dallo screpolo d’un ramo secco, o dalla lenta discesa d’una foglia fra le ciocche dei pedali. A notte inoltrata Silvio rientrò in casa, accese un lume, salì nella sua stanza, e fu sorpreso di trovarla vuota. —Un altro capriccio dispettoso!—esclamò, e si gettò tutto vestito sul canapè per aspettare la moglie. Divagò lungamente assorto in dolorose meditazioni, fino che cominciò a sonnecchiare, poi ad assopirsi, e finì coll’addormentarsi profondamente, abbattuto da tante sensazioni diverse, e da tanti pensieri. Risvegliatosi tutto ad un tratto a motivo d’un sogno spaventoso, alzò la testa sonnolenta, si sorprese di non essere a letto, poi si ricordò del motivo dell’aspettativa, guardò d’intorno, e rimase meravigliato d’essere ancora solo. Guardò l’orologio e diede un guizzo, era passata la mezzanotte! —Dove diavolo sarà andata a cacciarsi? pensò con qualche inquietudine; o era proprio un dispetto ostinato!...—Prese il lume, e cominciò a girare per le camere vicine, con infinite precauzioni, per non risvegliare quelli che dormivano. Visitò tutte le stanze che sapeva disabitate, per vedere se si fosse addormentata sopra qualche divano, ma erano tutte vuote. Esaminò le porte di casa, ed erano chiuse come al solito; dunque Metilde era rimasta fuori.—L’avranno creduta nella sua stanza, ed essa non si sarà degnata di picchiare;—e pensava,—dove diavolo può essere andata? essa che ha paura di tutto! è davvero sorprendente!...—Poi cominciava ad aver paura anche lui....—ieri sera mi pareva in uno stato di esaltazione.... mi ha veduto molto in collera.... se avesse perduta la testa?... ah no!... mai!... Piano piano aperse la porta con mano tremante, lasciò il lume sul tavolo, e uscì. Era un bel chiaro di luna. Cominciò a guardare intorno alla casa, sotto il portico e nelle serre, cercò attentamente in ogni angolo delle adiacenze, e non vide nessuno. Allora entrò nel bosco, dove la luna non penetrava che a sprazzi attraverso i rami degli alberi. Diede un’occhiata al laghetto e si sentì la pelle d’oca. La superficie tranquilla non aveva una crespa, ma all’ombra faceva paura, perchè era nera come un panno funebre. Si passò una mano sulla fronte, e continuò a camminare sotto gli alberi. Al minimo rumore si fermava, e chiamava a mezza voce:—Metilde.... Metilde sei qui?...—ma nessuno gli rispondeva. Sentiva il rimorso d’aver dormito un po’ troppo, di non aver cercato prima, sentiva di aver avuto torto; forse nuove disgrazie lo aspettavano dopo tutte le altre, forse la misura non era ancora colma!... Girovagando inquieto con questi pensieri, e con molti altri, vide dapprima un’ombra scura sopra un banco ai piedi d’un albero, si avvicinò rapidamente, e non tardò ad avvedersi che era proprio lei; ma chiamata per nome non rispose, e non si muovea. Quella rigida immobilità gli fece un’impressione tremenda, un tremito di paura lo assalse, non osava avanzarsi, ebbe bisogno di uno sforzo energico per avvicinarla, guardarla, toccarla. Metilde dormiva. La scosse leggermente; essa alzò il capo, distese le braccia e le gambe, fece uno sbadiglio, e si mise a battere i denti dal freddo.... doveva essere irrigidita. Non rispose a nessuna delle sue domande, si alzò in piedi e partì. —Metilde, arrestati, ascolta, dove vai? che cosa pensi?...—nessuna risposta! continuava ad andare avanti lentamente, e lui la seguiva, e pensava: —È peggio assai di quanto io temeva!... non è morta, ma è pazza!... e le diceva, con voce angosciosa: —Metilde!... povera Metilde!... aspetta tuo marito.... ascolta una parola.... fermati un momento; ho da parlarti.... ma essa non gli dava retta, e proseguiva impassibile la sua strada, fino che veduta la porta aperta entrò in casa. Silvio la accompagnava da presso, chiuse la porta, prese il lume, essa lo precedeva, prese a salire la scala, ed entrò nella sua camera, ed egli la seguì, ed anche quell’uscio fu chiuso. Egli osservava tutti i movimenti di lei con grande attenzione, vide che cercava qualche cosa, le offerse un mantello, la aiutò a coprirsi, poi quando sedette sul canapè, gli si mise dirimpetto e ricominciò a interrogarla. —Perchè non sei venuta a dormire?... —Perchè mi avete chiusa fuori, gli rispose. —Perchè non hai picchiato alla porta? —E tu perchè non sei venuto a cercarmi? Non era nemmeno pazza! era dunque una commedia, una brutta e dispettosa commedia. Questi pensieri cambiarono le ansiose inquietudini del marito, in una irritazione sdegnosa, che gli fece dire sgarbatamente: —Quando si tratta di fare dei dispetti non hai più paura di niente, nemmeno d’un raffreddore, o anche d’una malattia più grave!... —Magari pure! rispose Metilde, così almeno tutto sarebbe finito!... —Sciocchezze!... Ti avverto che questa sia l’ultima volta che mi fai delle scenate; io non amo gli scandali, e sono deciso di non tollerarli. —Sarà l’ultima volta!... te lo prometto.... te ne dò la mia parola d’onore.... se questa sera mi è mancato il coraggio, sarò più forte domani mattina.... —Con queste sballonate tu credi di farmi una grande impressione, e invece mi fai dispetto... Pare a sentirti che tu sia la donna più infelice della terra!... ma che cosa ti manca?... —Mi manca tutto! essa rispose; l’affezione e il rispetto di mio marito, la pace domestica, le speranze dell’avvenire, e tante altre cose che non dico.... —Alle corte: l’affezione e il rispetto non si impongono, ma bisogna meritarli. In quanto alla pace domestica, sono i tuoi sospetti, e i tuoi dispetti che la intorbidano, sei bisbetica, egoista, intollerante, difficile in ogni cosa! —Tu mi trovi anche difficile?!... ma quali sono le mie esigenze?.... vivo forse secondo il mio stato?... o non mi hai condannata alla vita più noiosa del mondo?... in mezzo a gente rozza.... fra un ubbriacone e la tua ganza!... Silvio scattò, come se fosse spinto da una molla potente, e facendosele davanti coi pugni al viso le disse: —Voi mentite sfacciatamente!... insultate una santa donna, la suora di carità della famiglia, quella che ha soccorso pietosamente i miei poveri parenti infermi, che ha chiusi gli occhi alla buona nonna e all’ottimo mio padre; essa vale mille volte più di voi, non siete degna di mettervi al suo paragone, e guai a voi! se osaste ancora insultare la sua virtù.... civettuola orgogliosa.... e buona da nulla!... Allora Metilde si alzò alla sua volta, pallida come una morta, e disse, con voce tremante: —Non mancavano più che questi insulti!... e la glorificazione d’una ipocrita che non inganna che voi solo!... tutti gli altri la conoscono, tutti sanno che è la vostra ganza! —Basta così!... questa è una menzogna, è un’infamia; tutti la benedicono, voi sola la calunniate indegnamente!... ritirate subito questo insulto.... —Giammai! è la pura verità, lo dice lo stesso suo marito.... lo ripete perfino il cocchiere!... —Due cialtroni vigliacchi! due idioti, due ingrati balordi!... che insultano l’angelo della famiglia! —Che sia maledetto quell’angelo, che divenne il demonio dell’inferno! —Maledetta voi e la vostra razza infame e orgogliosa, maledetto il nostro matrimonio che ci ha resi tanto infelici! —Ancora per poco! soggiunse Metilde, la misura è colma. Consolatevi che presto sarete libero di continuare la vostra tresca, senza l’incomodo della moglie.... —Declamazioni... fanfaronate... commedie tutte da ridere. Vi conosco troppo, voi e tutta la vostra razza frolla.... non siete capaci di pungervi un dito. Mettetevi a letto, riposatevi dalla stanchezza prodotta dalla rappresentazione drammatica di questa notte. E apparecchiativi a partire per Roma! —Parto piuttosto per l’altro mondo!... il Sile non è poi tanto lontano!... ricordatevi il mio giuramento davanti il Cristo.... e siate sicuro che io non giuro mai il falso. Silvio alzò le spalle in atto d’incredulità e di disprezzo, si sentiva soffocare dalla collera, provava il bisogno di rompere qualche cosa, temeva che l’eccesso dello sdegno lo spingesse a delle escandescenze; volle fuggire il pericolo, uscì dalla stanza, scese precipitosamente le scale, e si mise a correre sotto gli alberi del parco, con passo concitato, coi pugni serrati, coi denti stretti. Era l’alba. L’aria fresca della mattina non tardò a portare qualche refrigerio ai suoi nervi malati, a calmare l’onda del sangue che gli bolliva nelle vene, ma il suo cervello delirava. —Quale funesto destino! egli pensava; quante amarezze, quanti disinganni! E quale avvenire mi attende?... la vita non è che un sogno rapido e triste; a che servono le fatiche degli studi, le lotte della politica, le agitazioni del mondo? Appena cominciata l’azione.... tutto finisce! Qui, in questa casa potevo vivere tranquillo e felice i pochi giorni che mi sono concessi, come fece mio padre, ma fui sordo a’ suoi buoni consigli, fui cieco e ambizioso. Ho creduto di sprezzare chi amavo teneramente, pago di false apparenze, ho ceduto il posto ad un idiota briccone; ho preferito all’oro greggio l’orpello lucente, e mi sono ribadita ai piedi la catena del forzato!... Oramai è inutile che mi faccia delle illusioni, la verità è questa: detesto mia moglie, e adoro mia cugina! tutti lo vedono e lo ripetono, io solo mi ostino a nasconderlo a me stesso, malgrado la passione che mi arde dentro, compressa violentemente da tanto tempo, e prossima ad uno scoppio inevitabile.... Ah! Maria!... Maria!... ti ho sempre amata, anche prima d’essermene accorto, e non ho mai avuto l’ardire di confessartelo, nemmeno quando eravamo liberi entrambi.... Essa non ha mai udito dalla mia bocca una dichiarazione d’amore.... ma sa tutto.... e mi ama!... sì, essa pure mi ha sempre amato, fino dalla prima gioventù; noi lo sentiamo senza bisogno di dircelo, lo sentiamo nel profondo dell’anima, lo vediamo nello sguardo, nell’accento, nel sorriso, lo proviamo nell’aria elettrizzata dalle nostre scintille, nel tremito dei nervi, nel tocco delle mani!... La vera passione ha il suo linguaggio arcano, ben più sublime delle ciarle volgari. Le parole umane non hanno significati sufficienti per manifestare le più alte e profonde sensazioni. Eppure con questa passione nell’anima, e coll’arcana intelligenza dei nostri cuori, io l’ho tradita!... l’ho abbandonata! e ne ho sposata un’altra!!... Non esisteva fra noi nessuna promessa palese secondo le fredde abitudini sociali.... ma le due anime erano già legate dalla natura.... io avevo un debito segreto verso di lei, le sono sfuggito con vera fellonia.... ma tali debiti si pagano sempre, in questa o nell’altra vita!... Iddio mi ha condannato al martirio in questo mondo, ed ora incominciano le pene!... Maria, col suo coraggio, colla sua dignità, ha dissimulato il mio tradimento!... col buon senso pratico che domina la sua vita, ha nascosto l’offesa, ha sofferto in silenzio, ha accettato con rassegnazione il compagno che le venne proposto dai parenti, e lo tollera coi suoi vizii, e lo difende!... ma non può amarlo.... non lo ama.... perchè ama me solo!... e forse attende che io mi prostri ai suoi piedi.... per gettarsi nelle mia braccia!.... Io sono sempre stato un fatuo, uno scimunito, un idiota!... io attendevo senza pensarci, che Maria venisse a confessarmi il suo amore, che venisse a provocarmi con soavi parole davanti l’alterigia spietata del mio contegno.... imbecille!!... Ma la nostra passione è giunta a tale intensità, che basterà una sola parola per farla prorompere.... e questa parola non l’ho ancora detta!— Mentre fantasticava in queste stravaganze, agitato dalla passione fomentata dalla collera, dal lungo digiuno, dalla notte insonne, vide Andrea che usciva di casa collo schioppo in ispalla. —Essa è sola nella sua camera, egli pensò; è giunto il momento di finirla!...—Rientrò in casa con prudenti precauzioni, per non esser veduto da nessuno, e reso sicuro dall’ora quieta della mattina, e dal silenzio che regnava dovunque, andò a picchiare addirittura alla camera da letto di Maria. —Chi è? essa domandò. —Sono io.... Silvio.... ho bisogno di parlarti.... —Aspetta un momento, vengo subito, rispose. Egli aspettò ansiosamente, col cuore in burrasca, colla mente esaltata da pensieri strani. Udiva nell’interno della camera uno scompiglio affrettato, un fruscìo precipitato di cose, cassette che si chiudevano, sedie rimosse, e finestre che si spalancavano. Quando tutto fu messo in assetto. Maria corse ad aprire, e, col solito aspetto sereno, gli disse: —Scusami se ti ho fatto aspettare, tutto era in disordine.... Ti sei alzato molto per tempo, che cosa vuoi?... —Vengo a farti una proposta, le disse il cugino, una proposta definitiva, che metterà un termine a tutte le nostre amarezze, che riparerà tutti i miei torti, che ci aprirà un avvenire felice.... mettiti al disopra di tutti i pregiudizii, non secondare che l’unico impulso del cuore, e rispondimi francamente sì o no senza esitazioni.... —Ebbene parla.... io sono pronta a tutto, non c’è sacrifizio che possa parermi troppo grave, se posso vederti contento.... dimmi che cosa devo fare.... —Vieni a Roma con me.... —A Roma?... per che fare?... con chi?... —A Roma noi due soli!... fuggiamo da questo paese.... è l’unico rimedio a tutto un passato di errori funesti, seguìti da disinganni fatali. Io non amo Metilde, tu non ami Andrea, io non amo, non ho mai amato che te sola. Il nostro reciproco affetto col suo silenzio eloquente è l’amore vero, tutto il resto non è che inganno e illusione!... —Silvio! Silvio.... tu deliri, hai gli occhi che gettano fiamme, il tuo viso è stravolto, hai i capelli irti sulla fronte, dimmi che ti senti male, va nella tua camera.... —Io ti amo ardentemente, ti ho sempre amata, non posso più vivere senza di te, tu devi esser mia per sempre.... vieni e saremo felici!... —Ma tu bestemmi e mi offendi!... tu spergiuri, e mi proponi il disonore, la vergogna, il tradimento!... e vuoi che siamo felici!... tu sei malato, povero Silvio, qualche dolore inaspettato ti ha sconvolto il cervello.... —Maria, rispondimi francamente, voglio sapere se mi sono ingannato, se devo vivere o morire, rispondimi francamente: mi ami o non mi ami?... —Io non devo amare che mio marito.... —Ma tu non puoi amarlo!... —Ho promesso davanti a Dio, di vivere con lui e per lui.... tutto il resto è impossibile!... ritirati.... va.... tu mi proponi una infamia.... non sei degno del nome che porti!... —Maria, non rinnegare la voce della natura, la vita, l’amore, tutto quello che è buono e che è vero, per dei pregiudizii funesti, per un vano rispetto alle ingiustizie ed alle insanie sociali!... Maria.... Maria vieni con me, io ti prometto il paradiso in cambio d’ogni sacrifizio.... —Tu vaneggi, e non mi offri che l’inferno, il tradimento, la vergogna, il disonore, i rimorsi.... ritirati.... va.... te lo impongo in nome di tuo padre che ci vede.... esci da questa stanza....—E così dicendo con voce imperiosa, gli accennava la porta col braccio alzato e l’indice disteso. Silvio si precipitò in ginocchioni davanti la donna amata, spinto dall’amore sfrenato o dal rimorso, alzò le mani giunte verso di lei....... e in quel momento si spalancò la porta della camera, e Andrea e Metilde comparvero sulla soglia. Ci fu un minuto di sosta, e poi Andrea si slanciò verso Silvio colla mano armata dal coltello, e gli misurò un colpo che venne sventato dal braccio di Maria, la quale rimase ferita ad una mano, ma potè disarmarlo. Alla vista del sangue che spruzzò sul volto di Silvio, Metilde spaventata si mise a gridare, chiedendo aiuto, e fuggì precipitosamente giù dalle scale. Silvio si era alzato in piedi, dicendo ad Andrea: —Usciamo di qui, sono pronto a darvi qualunque soddisfazione, ma rispettate vostra moglie, l’avete ferita brutalmente, senza rendervi conto d’una scena che dovrebbe avervi sorpreso. Vi siete fitto in mente che io abbia sedotto vostra moglie, ma se questo fosse vero non mi avreste trovato ai suoi piedi. Io la supplicavo di fuggire lontano da voi, che non la meritate; essa vi difende e vi resta fedele malgrado i vostri torti. Ringraziate Iddio di tanto benefizio, del quale siete indegno. Ora sono ai vostri comandi, che cosa esigete da me?... —Prima di tutto esigo che abbandoniate all’istante questa casa, per mai più rimettervi il piede. Silvio guardava Maria, interrogandola collo sguardo. Essa finiva di bendarsi la mano, e dopo d’aver calmato alquanto il marito, soggiunse: —Andrea ha diritto d’imporvi quest’obbligo e voi dovete obbedirlo. Silvio abbassò il capo, alzò le braccia in aria ed uscì senza proferire una parola. Era una protesta o un segno di rassegnazione? nessuno poteva saperlo. Andrea lo seguì, Maria inquieta li accompagnava da lontano. —Adesso tocca noi di finirla, gli mormorava Andrea dietro le spalle, in modo da non essere udito dalla moglie, per ritrovare la quiete bisogna che uno di noi due scomparisca dal mondo. —È vero, gli rispose Silvio, io sono pronto a seguirvi dovunque. —Adesso, subito, è impossibile, rispondeva Andrea, mia moglie ci sorveglia, allontanatevi, ma prima di lasciare il paese, giuratemi che ci rivedremo. —Vi dò la mia parola, che sarò pronto. Maria afferrò il marito per l’abito, e lo trascinò altrove. Silvio entrò nella sua stanza, per fare il baule, che riempì alla rinfusa con quanto gli cadeva in mano senza sapere ciò che facesse, lo chiuse, si mise la chiave in tasca, e uscì per cercare sua moglie. Fece il giro del parco, diede un’occhiata dovunque, poi si recò sotto il portico dell’adiacenza per domandare se qualcuno l’avesse veduta e trovò Pasquale che pareva molto sorpreso d’incontrarlo e gli disse: —Ah, padrone mio, credevo di non vederlo più vivo!... —Perchè?... —Ecco la ragione: questa mattina la signora Metilde uscì per tempo, mi pareva molto agitata, ho creduto prudente di seguirla a qualche distanza. Essa vagava pei campi, camminava in fretta, guardava il cielo, e faceva dei gesti strani. Io le teneva dietro da vicino nascosto da una siepe, quando s’incontrò col signor Andrea che andava alla caccia, gli si fermò davanti, e le disse:—Dove andate a quest’ora?...—Non lo so, essa gli rispose seccamente.—E avete lasciato solo vostro marito? quale imprudenza! e soggiungeva: Se egli sapesse che sono uscito di casa, andrebbe a trovare mia moglie.—Silvio è uscito prima di voi, e vi avrà veduto ad uscire, essa gli disse:—Ah?... si sarà nascosto apposta per ispiarmi.... scommetto che sarà in compagnia di mia moglie.... sarà entrato nella sua camera....—Ah?... se fosse vero! esclamò la signora Metilde; ho un pensiero fisso al quale resisto ancora perchè mi manca il coraggio; ma se avessi quest’ultima prova, saprei compiere il mio destino!...—Allora il signor Andrea la prese per mano, e le disse:—Andiamo a vedere!—Essa lo seguiva come una bambina, io mi acquattai dietro la siepe per non essere scoperto, e non ebbi tempo di avvertirvi prima che essi entrassero in casa. Quando seppi che vi avevano proprio trovato in camera, vi piansi per morto! ma le fantesche mi dissero che la sola padrona è ferita. Me ne consolo con voi che l’avete scappata bella!... —E mia moglie l’hai più veduta?... —Dopo quella scena non l’ho più vista. Ah poverina! non la abbandoni troppo al suo dolore. Mi scusi sa, ma farebbe pietà ai sassi. Se l’avesse veduta questa mattina!... le tenga gli occhi adosso.... è in tale stato d’esaltazione che sarebbe capace di commettere qualche imprudenza!... Pareva che queste ultime parole lo colpissero fortemente. Affrettò il passo, uscì dal cancello, si mise in traccia di sua moglie, ripetendo lo stesso ritornello della sera antecedente: dove diavolo sarà andata a cacciarsi?... Poi gli ritornavano alla memoria alcune espressioni della infelice: «mi è mancato il coraggio, sarò più forte domani mattina» ed aveva ripetuto ad Andrea: «mi manca il coraggio, ma se avessi quest’ultima prova saprei compiere il mio destino» e si rammentava che gli aveva detto fra le altre cose: «presto sarete libero, il Sile non è tanto lontano!...» ed altre parole di pessimo augurio. Girovagò stupidamente, senza sapere dove andasse, era digiuno da ventiquattr’ore, esaltato da passioni diverse, l’amore deluso, l’odio per Andrea, il disgusto colla moglie, la ferita di Maria, le minacce della moglie, e la sicurezza d’un duello sanguinoso; vedeva buio nell’avvenire, e provava delle allucinazioni paurose. Camminava a caso, senza discernimento, colla mente confusa, dimenticando talvolta perfino lo scopo principale del suo andare. Poi si scuoteva d’un tratto, come se uscisse da un sogno affannoso, e domandava ai passanti se avessero veduto per caso una signora bionda vestita in lutto. Ma nessuno l’aveva veduta, e lui andava avanti. Si trovò dirimpetto alle vecchie mura di Treviso, fra la porta di San Tommaso e la Barriera Garibaldi, e ad una lavandaia che lo guardava curiosamente fece la solita domanda: —Di grazia, avreste veduta una giovane signora bionda, vestita così e così? —Sì signore, è passata poco fa.... —Snella, vestita in lutto? —Snella, vestita in lutto! —È lei!... Da che parte si è diretta? —Camminava sulle sponde del Sile, colla testa bassa, arrestandosi sovente a guardare il fiume ed osservando d’intorno, quasi volesse assicurarsi che nessuno la seguiva.... —È proprio lei!... pensò Silvio e, vi ringrazio, soggiunse, mi avete detto che andava da quella parte? —Sì signore.... a sinistra.... seguiva il corso della corrente... Silvio studiò il passo. Cominciò a sentire una seria inquietudine, e rammentava con sempre maggiore apprensione quelle tremende parole: «domani avrò più coraggio... il Sile non è lontano.... sarete libero....» e pensava. Eppure se fosse vero? se tornassi libero?... libero!... e costeggiava il Sile, guardando attentamente i movimenti dell’acqua. Il cielo era tetro, si alzavano dei nuvoloni scuri dalla parte del mare, un’aria umida scuoteva i rami dei pioppi e ne staccava le ultime foglie ingiallite. Cominciava a cadere una pioggerella minuta, l’acqua del fiume pareva inchiostro, e metteva ribrezzo. Il corso tortuoso del Sile è pieno di curve e di accidenti, e fa certi mulinelli traditori che travolgono nelle loro spire tutti gli oggetti galleggianti. Silvio vide da lontano dei viluppi neri che giravano intorno d’un gorgo, sotto ai roveti delle sponde. Corse spaventato da quella parte. Erano mucchi di foglie secche, di spazzature, di stracci e di stecchi. Respirò più liberamente, e tirò avanti. La pioggia veniva giù sempre più forte, non aveva nè mantello nè ombrello; la strada era molle e fangosa, egli proseguiva imperterrito, tutto fradicio e inzaccherato di pantano fino al ginocchio, col presentimento che finirebbe per trovare la sua donna annegata. E pensava:—farò smentire il suo suicidio, si crederà ad un accidente; le farò fare degli splendidi funerali, e poi sarò libero.... libero!... non resterà più che un solo ostacolo alla mia felicità, quel rozzo villano....—e meditava con truci pensieri di far sparire l’ostacolo.... aveva la mente piena di sicari, e di delitti.... e finiva coll’aver paura di sè stesso, per l’orrore dei suoi pensieri. E tornando a idee più miti, diceva fra sè: io devo anzi studiarmi di non ferirlo in duello, per non rendere impossibile ogni relazione con Maria, e cercherò di lasciarmi ferire per eccitare l’interesse di lei, e risvegliare la sua passione!... Poi crescendo sempre la pioggia, e avvicinandosi la sera, pensò che i cadaveri degli annegati non vengono a galla che molte ore dopo la morte, e che quindi fino al giorno seguente, le sue ricerche sarebbero riuscite vane. Salì sopra un’altura della riva, dove il fiume faceva un gomito, slanciò un’ultima occhiata da vicino e da lontano, a diritta ed a sinistra, e non vide altro che la tranquilla corrente la quale scendeva verso il mare senza il minimo ingombro, poi diede uno scroscio di risa nervose, eccitate da una nuova idea che gli attraversava il cervello: —Sarebbe bella, egli pensò, che mentre io cerco mia moglie, come un’imbecille, sotto la pioggia, sulle rive del Sile, essa fosse ritornata alla villa!... Retrocesse sui suoi passi, percorse nuovamente la strada per lungo tratto, poi prese delle scorciatoie attraverso i campi e i fossati, sprofondandosi nei sentieri, sdrucciolando nelle pozzanghere, camminando a dondoloni, fino che a notte inoltrata, giunse stanco e sfinito davanti il cancello della villa. Ma quando si arrestò per suonare il campanello gli venne in mente che in quella stessa mattina, egli aveva promesso che non avrebbe riposto il piede nella casa paterna. Rimase sbalordito sulla soglia, si sentiva mancare le forze, aveva assoluto bisogno di qualche soccorso. Ah! se Maria l’avesse veduto non lo avrebbe certamente abbandonato sulla strada, in quel triste stato, in una notte piovosa. Ma la sua dignità gl’imponeva di morire piuttosto di domandare ad un villanzone rifatto di concedergli, come una carità, l’alloggio nella casa paterna. Si appoggiò alquanto ai pilastri per riprender fiato e farsi coraggio. Dopo qualche esitazione risolse di chiedere l’ospitalità in casa del maestro Zecchini, il quale avrebbe potuto recarsi alla villa per chiedere notizie di Metilde. Andò dunque a picchiare a quella casa, poco discosta dalla casa paterna. Nessuno rispondeva. Prese un sasso sulla strada e si mise a picchiare più forte, ma si facevano ancora aspettare. Finalmente udì che si apriva un balcone, al primo piano, vide comparire un lumicino, e la vecchia fantesca, che gli domandò in aria diffidente e sospettosa: —Chi è a quest’ora, e con questo tempo da ladri?... di chi domandate? —Domando del maestro Zecchini, e non sono un ladro. —Il maestro è a cena, e a quest’ora non riceve nessuno, andate con Dio in santa pace. —A cena?! disse Silvio, tanto meglio!... apritemi dunque Anastasia, non mi avete ancora conosciuto?—sono Silvio Bonifazio. —Maria Vergine santissima! esclamò la vecchia, il signor Bonifazio con questo tempo! a quest’ora!... corro subito ad aprire—e scomparve. Silvio sentì gli zoccoli dell’Anastasia che scendevano per la scala di legno, ma attese invano per lungo tempo che essa venisse ad aprire. La povera vecchia era corsa in tinello ad avvertire il maestro di quella visita, ma egli non voleva crederle; convinto che Silvio fosse partito colla moglie, temeva un tranello, qualche malfattore che volesse ingannarlo per farsi aprire la porta, e assassinarlo, non si è mai sicuri in questi tempi!... e stava discutendo sul partito da prendere, mentre Silvio aspettava sotto la pioggia. Dopo lungo tempo si riaprì la stessa finestra del piano superiore, e questa volta era la testa calva del maestro che si presentava ad interrogare il visitatore sospetto. Dopo un breve dialogo venne tolto ogni dubbio e il maestro si decise a discendere, e ad aprire la porta. Ma quando vide entrare quella figura tutta sciupata le vesti, e ricoperta di fango, egli mandò un grido di terrore, credette d’essere caduto nell’inganno, e non voleva persuadersi che fosse Silvio Bonifazio. —Ma sono io medesimo, in carne ed ossa, ripeteva Silvio, sono io che vengo a mangiarvi la cena, e a domandarvi un letto per questa notte.... —Tanto meglio! tanto meglio! diceva sospirando il maestro, che stentava a rimettersi dallo spavento. Lo introdusse in cucina, lo fece sedere sotto la cappa del camino, coi piedi sul focolare; accesero delle fascine, che rischiararono tutto l’ambiente, e fecero fumare l’ospite inaspettato, che pareva prendesse fuoco. Intanto che l’Anastasia, con una spazzola, gli levava il fango dalle scarpe, il maestro gli stropicciava i vestiti con un cencio; egli li ringraziava, e rispondeva alle domande ansiose del vecchio amico: —Ho corso dietro tutto il giorno a quella matta di mia moglie, che ha scelto questa bella giornata per andare al passeggio sulle rive del Sile.... e che forse sarà ritornata alla villa prima di me. —Io rientro appena dalla villa, gli rispose il maestro, e nessuno ha mai saputo niente di voi in tutto il giorno.... Andrea ubbriaco è andato a letto per tempo, io ho tenuto compagnia alla povera donna, che mi raccontò la scena di questa mattina. Essa era inquieta per voi due, non sapendo dove siate andati senza i vostri bauli. Vi ha fatti cercare tutto il giorno, ma invano. La tua imprudenza ha messo il colmo alle sue disgrazie, e tu puoi dire d’averla resa infelice due volte!—Ma infine dove è tua moglie?... —Dio solo lo sa!... non so se sia viva o morta.... ma posso giurarvi che io sono più morto che vivo!... Da più di trenta ore non mangio, mi agito, cammino come uno scemo, senza sapere dove vado.... Il maestro lo fece entrare in tinello, Anastasia apparecchiò la tavola, e dopo pochi istanti servì delle uova strapazzate con dentro delle salsiccie, un’insalata di cicoria e ruchetta, del cacio pecorino vecchio, un vinetto bianco frizzante, del pane fresco, e delle frutta. Mangiarono in silenzio, Silvio sgranocchiava a due palmenti, e non faceva complimenti col maestro che continuava a riempirgli il piatto e il bicchiere. —Mi dispiace che non ho altro da offrirti, gli disse il maestro. —Basta così, ne abbiamo più del bisogno, e tutto eccellente, diceva Silvio; e poco dopo soggiunse—se una tremenda apprensione non mi intorbidasse la mente, potrei dire che questo è stato il più lauto banchetto della mia vita!... non ho mai mangiato con tanto appetito. —Intanto la Anastasia è salita ad apparecchiarti un buon letto, riprese il maestro. Prendiamo un’altra fiammata, poi andremo a dormire, per questa sera non possiamo far altro. La notte porta consiglio; domani faremo il resto. Appena coricato, Silvio fu preso da un sonno intenso e profondo, ma dopo poche ore di riposo si destò improvvisamente, scosso da subitaneo terrore. Aveva sognato di vedere la moglie morta, galleggiante sul Sile. Fra il sonno e la veglia non si ricordava più dove fosse, e le tenebre della notte accrescevano la tremenda impressione. Era bagnato di sudore, e andava palpando il letto per raccapezzarsi. Alfine si rammentò tutte le divagazioni del giorno antecedente, il suo arrivo in casa del maestro, e il suo imminente duello con Andrea. I pensieri che lo assalivano erano così incalzanti e affannosi che non gli fu possibile di dormire. Gli pareva che il sangue gli bollisse nelle vene, gettava le coperte che lo soffocavano, si rivoltava nel letto che gli riusciva spinoso. Soltanto all’alba riprese un po’ di sonno, oppresso dalla stanchezza. Il maestro inquieto sulla sorte di Metilde si alzò molto per tempo e corse alla villa per sapere se c’era qualche notizia. Nessuno aveva udito parlare di nulla. Il maestro confidò a Pasquale l’arrivo di Silvio, e lo pregò che alla prima notizia gli mandasse un pronto avviso, e che intanto gli portasse il baule, affinchè il suo ospite potesse cambiarsi. Così Silvio si rimise in assetto, e appena fu in ordine, voleva ripartire, alla ricerca della moglie smarrita, ma il maestro gli fece osservare che era inutile fare delle ricerche senza nessun dato positivo, senza sapere da qual parte rivolgere i passi. Per semplice precauzione aveva mandato un uomo fido ad orecchiare lungo il fiume, ed in città; e aspettavano ansiosamente la distribuzione dei giornali locali per vedere se la cronaca cittadina avesse raccolto qualche sinistro accidente. Solo verso le dieci si vide da lontano Pasquale che correva in direzione della casa del maestro e si pensò subito che ci doveva essere qualche notizia. E infatti egli portava una lettera all’indirizzo di Silvio, giunta in quel momento alla villa col messo postale. Silvio lacerò rapidamente la busta con mano nervosa, e con indicibile apprensione. Era il suocero che gli scriveva, annunziandogli che Metilde era giunta felicemente in Venezia; ed era ritornata in famiglia, dopo tante amarezze, col fermo proponimento di non vedere mai più suo marito. S’era accorta da molto tempo della tresca infame di lui, ma le mancava il coraggio di abbandonarlo. Le maledizioni, e gl’insulti aggiunti alla sua pessima condotta, e specialmente l’ultima scena scandalosa la spinsero a mandare ad esecuzione il suo divisamento. I genitori la approvavano pienamente, e in quello stesso giorno il suocero avrebbe presentato al Tribunale la domanda di separazione, facendo valere il diritto della sposa agli alimenti, secondo la clausola del contratto di nozze. —Altro che annegata!... e quella maledetta lavandaia di Treviso che m’aveva fatto credere di averla veduta!... —Non conosci ancora certe donne! gli disse il maestro, non sai che si divertono a mandare i mariti a spasso, e a tenerli lontani dalle mogli, pensando di giovare al proprio sesso, è una vera camorra. La lavandaia si è burlata di te, che dovevi essere abbastanza ridicolo colla tua ingenuità!.... —Riconosco d’essere stato un asino!... —Siamo sempre d’accordo, gli rispose il maestro, non parliamone più. Adesso devi pensare agli affari, a guadagnare gli alimenti per la moglie, come li esige il suocero avvocato. —Per mia moglie, osservò Silvio, gli alimenti saranno magri!... e a me non resterà più un soldo per vivere! —Nè una donna da amare!... soggiunse il maestro. —Non importa.... domani posso esser morto! osservò Silvio. Vado subito a Treviso a trovarmi i testimoni, e si deciderà la mia sorte, e quella d’Andrea. Prima di uscire svelò il segreto al maestro Zecchini, il quale alzando le spalle gli rispose: —Sei matto, non ti mancherebbe altro!... e poi che testimoni d’Egitto! credi tu che quel mascalzone d’Andrea sappia nulla di duelli e di testimoni; egli la intenderà alla sua maniera, come i villani, ti condurrà sul terreno per finirla a pugni e a coltellate; e ti ammazzerà come un cane dietro un albero! —Oh! questo poi no!... —Lasciami fare, vado io a terminare ogni questione.... —No, no, no, le cose non si devono fare a questo modo, egli crederebbe che abbia paura di lui.... io intendo di mandargli i miei testimoni che gl’insegneranno le cose a dovere. Conosco un ufficiale dell’esercito, e penso d’indirizzarmi a lui.... —Il testimonio lo voglio far io!... disse il maestro con fermezza, e mi pare di averne il diritto. Figurarsi se posso permettere che due matti facciano un altro scandalo, e accrescano gli strazii di quella povera Maria con un delitto!... Vado subito alla villa, aspettami qui, che fra non molto sarò di ritorno. Silvio sperava che il maestro s’ingannasse, aveva proprio voglia di trascinare l’avversario sul terreno; si sentiva ben disposto tanto ad ucciderlo che a morire, e attendeva con impazienza il suo destino. Ma il maestro aveva ragione. Andrea ignorava tutte le leggi cavalleresche, credeva di fare un duello in famiglia, senza tante cerimonie; e forse era anche vero quello che aveva detto Zecchini: avrebbe voluto giuocare di coltello, e ammazzare l’avversario a tradimento. Il maestro Zecchini non tardò a persuadere Andrea Pigna che aveva torto, e che per rispetto verso la moglie doveva rinunziare ad una vile vendetta. Maria vedendo il marito fremente pregò il maestro che persuadesse anche Silvio di lasciare il paese.... e per sempre. Non era possibile fare altrimenti, per la pace di tutti, e per l’onore di Maria. Silvio rilasciò al maestro Zecchini una procura illimitata per compiere totalmente le divisioni di famiglia, liquidare tutti i conti, e presentarne i risultati all’avvocato Ruggeri, e fissare la parte alla quale aveva diritto sua moglie. E venne stabilito il giorno seguente per la partenza di Silvio per Roma. —Ma hai pensato seriamente a quello che fai? gli chiese il maestro, guarda bene di non commettere delle nuove corbellerie, ne hai già fatte anche troppe!... devi pensare sul serio a guadagnarti il pane!... —Perdio! rispose Silvio, vuoi che a Roma io muoia di fame?... —Il giornalismo non è per tutti.... che cosa farai se non riesci?... sarai uno spostato!... —Farò il cuoco!—disse il giovane in aria burlesca—e sarò debitore a mia moglie di questo ripiego. Essa non ha mai voluto saperne di occuparsi del nostro pranzo; ci ho dovuto pensare io, così ho imparato l’arte, e la metto da parte, come dice il proverbio. —Piccola differenza!... farai il giornalista.... od il cuoco?... —Idealismo e positivismo, politica e cucina paiono cose tanto disparate, eppure si avvicendano continuamente; il pensare mette in appetito, il mangiare modifica le idee; chi mangia bene fa una politica da egoista, chi mangia male una politica rivoltosa e rivoltante. Discutere gli affari di Stato e la minuta del pranzo sono due fatti positivi dai quali dipende sovente la pubblica moralità. Mangiare e sognare, illudersi sempre! ecco in che cosa consiste la commedia della vita!... Il maestro non capiva niente a queste elocubrazioni, e rideva per amor proprio soddisfatto. Venuta la sera, Silvio fece una passeggiata solitaria intorno la villa paterna; diede l’ultimo addio a quella casa, a quegli alberi, a quelle memorie, a quella pace. Al mattino seguente il maestro Zecchini prese a nolo una vettura e accompagnò alla stazione l’amico che partiva. Passando per l’ultima volta davanti al cancello della villa, Silvio mandò un profondo sospiro, e asciugandosi una lagrima disse al maestro: —Potevo essere completamente felice in quella dimora deliziosa, e vivere giorni sereni e tranquilli con quella donna semplice e sublime.... ed ho tutto perduto!... Il maestro ruppe in una sghignazzata satanica, che faceva il più strano contrasto coi sentimenti melanconici espressi da Silvio, il quale rimase tristamente sorpreso, e gli domandò perchè ridesse a quel modo. —Ti domando scusa, mille volte scusa, si affrettò a rispondergli il maestro; non ho mai saputo frenare il mio maledetto carattere, nè la mia maniera di pensare. Che vuoi!... ascoltando i tuoi lamenti mi è venuto in mente un antico proverbio che dice: «l’asino non conosce la coda, che dopo di averla perduta.» Silvio si sentì umiliato da quella verità, ma era una verità; ed abbassò il capo, e non trovò una sola parola da rispondere. Continuarono la strada in silenzio. Giunti alla stazione si abbracciarono commossi, e Silvio partì per Roma. FINE. DELLO STESSO AUTORE: _Il Proscritto_ (1853). 2.ª ediz. (Milano, Rechiedei, 1870). _Le donne hanno ragione_ (Milano, Redaelli). _La vita campestre_ (Rechiedei, 1870), 2.ª edizione. _Bozzetti morali ed economici_ (Treviso, Zoppelli, 1868). _Ricordi d’un Eremita_ (Milano, Rechiedei, 1870-74). _Ricordo di Treviso_ (Treviso, Zoppelli, 1874). _Le Cronache del Villaggio_ (Milano, Rechiedei, 1872). _Il Bacio della contessa Savina_ (Treves, 1875). 3.ª ed. L. 1 — _Villa Ortensia_ (Treves, 1876) L. 3 — _Novità dell’industria applicata alla Vita domestica_ (Treves, 1879). 2.ª edizione L. 3 — _Il Roccolo di Sant’Alipio_ (Treves, 1881) L. 3 50 _Sotto i Ligustri_, novelle, reminiscenze dell’esilio e impressioni rurali (Treves, 1881) L. 3 50 _Il Convento_ (Treves, 1883). 2.ª edizione L. — 50 _Il Dolce far niente_ (Treves, 1884). 2.ª edizione L. 3 50 Nota del Trascrittore Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, così come le grafie alternative (fruscio-fruscìo, nostalgia-nostalgìa e simili), correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. Sono stati corretti i seguenti refusi (tra parentesi il testo originale): 95—subisce la dura tirannide [tirrannide] 162—scelti nelle sale di Guggenheim [Guggenhein] 198—e con vera abnegazione [annegazione] 254—sdrucciolava giù per [per per] la gola 342—Metilde e Andrea furono malcontenti [malcoltenti] 372—andò a picchiare addirittura [addiritura] *** End of this LibraryBlog Digital Book "La famiglia Bonifazio" *** Copyright 2023 LibraryBlog. All rights reserved.