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Title: I mesi dell'anno ebraico Author: Bachi, Felice Language: Italian As this book started as an ASCII text book there are no pictures available. *** Start of this LibraryBlog Digital Book "I mesi dell'anno ebraico" *** This book is indexed by ISYS Web Indexing system to allow the reader find any word or number within the document. BREVI NOZIONI DI ARCHEOLOGIA BIBLICA *** I MESI *DELL’ANNO EBRAICO* CON BREVI NOZIONI DI ARCHEOLOGIA BIBLICA *LETTURE* AD USO _DELLA GIOVENTÙ ISRAELITICA_ PER *BACHI FELICE* RABBINO TORINO TIPOGRAFIA LOCATELLI E COMP. _nel R. Albergo di Virtù._ 1880. ALLA SANTA MEMORIA DI SANSON LAZZARO _Rabbino_ E GÙTELA MIEI GENITORI. LETTERA. _dell’Ecc.o Prof. Cav. _S. Ghiron_ Rabbino Maggiore_ ———— *Egregio Signor Rabbino,* _Con quella modestia, che La predistingue, La S. S. volle presentarmi la Sua Opera_ «*I mesi dell’anno Ebraico*» _affine di avere il mio avviso prima di pubblicarla. Io la lessi col maggior piacere, dacchè vi si comprendono nozioni storiche ed archeologiche sulle nostre solennità che indubbiamente si potranno leggere con grande utilità dalla gioventù israelitica, al cui insegnamento Ella ha dedicata la vita intiera. Se di vantaggio riescirebbe il di Lei lavoro in ogni tempo, opportunissimo mi pare che dovrà tornare ai giorni che corrono, in cui con minor fervore sono pur troppo coltivati gli studii sacri dai nostri giovanetti, mentre tanto bisogno dovrebbero sentire di premunirsi contro tante irreligiose tendenze._ _Faccio voti cordiali pertanto, affinchè il suo scritto, fatto di pubblica ragione, Le ottenga quel premio, che non dovrebbe mai fallire a chi dedica il suo tempo all’incremento della Virtù e della Fede: la ricompensa celeste e la pubblica approvazione._ Umsà hhén vescéchel tóv beené eloím veadám. _Mi pregio di dichiararmi con predistinta considerazione_ _25 marzo 1880._ _Suo Devotissimo_ *S. GHIRON.* LETTERA. _dell’Ecc.o Dott. _M. Levi Ehrenreich_ Rabb. Magg.e_ ———— Preg.mo Signore, _Nel restituirle il lavoro sui_ *Mesi dell’anno israelitico* _non posso a meno di porgerle le più sincere congratulazioni per essere riuscito a condurre a termine un’opera molto pregevole, che arricchirà la nostra letteratura d’un libro per molti rapporti assai commendevole._ _Mi piacque anzitutto l’idea d’insegnare ai nostri giovani la nostra storia antica, le leggi, i riti e costumi sacri, prendendo occasione dalle feste, dalle commemorazioni e sacre pratiche, come si susseguono nei vari mesi dell’anno._ _Il suo libro mi piace inoltre, perchè attenendosi nell’esposizione delle dottrine e delle leggi alla pura ed inesausta fonte della Santa Scrittura, Ella non trascura di rendere all’antica Tradizione il riguardo e l’omaggio che le è dovuto; mi piace infine, perchè destinato ad erudire la nostra gioventù in ciò che nell’istruzione della medesima deve occupare il primo posto, il suo libro è adorno di quei pregi che a siffatti lavori non devono mancare, voglio dire la chiarezza, l’ordine, forma attraente ed estensione e profondità d’insegnamenti proporzionati allo scopo che veggo essere quello di far conoscere, apprezzare ed amare ai giovani israeliti le nostre antichità, la nostra Religione e le sacre pratiche che da essa traggono origine._ _Mi abbia, Egregio Signore, quale sono con distinta stima_ _23 ottobre 1879._ _Devot. Amico e Servo_ *M. LEVI EHRENREICH.* INTRODUZIONE *Ai buoni e cari fanciulli Israeliti.* Col mio _libro di Morale pratica_, intesi proporre alla vostra meditazione una raccolta di atti nobili e generosi narrati nella Bibbia e nei libri Talmudici, dandovi altresì un saggio del sapere dei nostri antichi Dottori, mediante svariati assiomi ed apoftemi morali applicabili alle contingenze della vita domestica e sociale. Quel mio lavoro fu assai modesto; ed ora un secondo ne intraprendo, e per darvi ragione e di quello e di questo, vi dirò che mi vi indusse la decadenza fra noi dello studio della lingua ebraica e relativa letteratura. Un secolo addietro, lavori di gran lunga superiori ai miei, ed i miei in conseguenza, sarebbero stati inutili e totalmente incurati; ritenuto che non fossevi Israelita, che di poco si levasse dalla mediocrità, a cui non fossero famigliari i libri talmudici, o per lo meno le raccolte aneddotiche e morali da essi estratte e proposte a studio scolastico. Oggidì la bisogna corre assai diversa; la lingua sacra è più che trascurata....; e se voi arrivate a leggere una lezione del Pentateuco, anche senza capirne il senso, credete, o vi fanno credere, abbiate fatto abbastanza per l’educazione vostra religiosa. Egli è per questo motivo che noi preposti alla vostra educazione sentiamo il bisogno, il dovere d’iniziarvi nelle cose giudaiche: di farvi conoscere la storia del popolo nostro, i suoi usi, i suoi costumi, i passi da lui fatti nel cammino delle scienze; affinchè cresciuti negli anni, anzichè arrossire, come molti pur troppo fanno per insipienza, del nome d’Israelita, possiate portare alta la fronte e dire e ripetere ai nemici e disprezzatori del nome d’Israelita: Noi apparteniamo ad un popolo il quale oltre di avere tenuta viva in terra la fiaccola del vero religioso, di molti rami dello scibile fu iniziatore e di altri molti coltivatore a nessuno fu secondo. Il codice civile e criminale israelitico ha nulla ad invidiare al romano, o a qualunque altro dei popoli i meglio inciviliti: ed anzi in molti punti, massime nella parte criminale, li supera. In quanto ad astronomia e medicina, nel medio evo ancora, allorchè il nome d’Israelita era colpito d’immeritato obbrobrio, era affidata ad Ebrei la salute di re e principi, e persino quella dei papi: e furono Ebrei quelli che emendarono gli errori astronomici del calendario Giuliano, e collaborarono alla compilazione delle tavole Alfonsine e calendario Gregoriano. Ma io m’accorgo di escire dal seminato e di essere già ito assai oltre di quanto conveniva per la introduzione del modesto mio lavoro che intitolo: _I mesi dell’anno Ebraico_; essendo mio scopo segnarvi i fatti più memorabili avvenuti al popolo nostro in ciascun mese, e dei quali come ne serbarono memoria i nostri maggiori, così conviene la serbiamo noi. A complemento poi di questi fatti ho creduto bene di dare alcune fra le più importanti nozioni di Archeologia biblica, distribuendole alla fine di ciascun mese. Vi riescano utili queste letture e valgano ad inspirarvi amore pel giudaismo, ed io mi terrò appieno compensato. NOZIONI PRELIMINARI DIVISIONE DEL TEMPO § 1.—*Stagioni.* A differenza degli Europei che divisero l’anno in quattro stagioni, gli Orientali usavano dividerlo in sei parti che noi distingueremo col titolo di _epoche_, poichè pare che tale divisione fosse stata addottata anche presso gli antichi ebrei. Probabilmente essi la fondavano sopra un versetto del Pentateuco che ora noi andremo a citare. Dopo il diluvio, quando Dio strinse l’alleanza con Noè e gli promise che non avrebbe più mandato il diluvio a distruggere la terra, perchè la tentazione del cuore umano è cattiva dalla sua gioventù; soggiunse: «Per tutta la durata della terra la seminagione (_I_) e la mietitura (_II_), l’inverno (_III_), e l’estate (_IV_), la primavera (_V_) e l’autunno (_VI_), il giorno e la notte non cesseranno». Esaminiamo dunque brevemente queste sei epoche dell’anno ebraico. L’epoca prima, quella della mietitura, comincia alla metà di aprile per finire alla metà di giugno (secondo e terzo mese dell’anno ebraico). Per tutto questo tempo il cielo ordinariamente è sereno; ma ai primi giorni d’aprile l’aria comincia a farsi calda. L’epoca seconda è la stagione dei frutti e dura dalla metà di giugno alla metà di agosto (quarto e quinto mese). Il calore comincia ad ingagliardire tanto che gli abitanti dormono spesso sui terrazzi¹ a cielo scoperto. ¹ In Oriente, come diremo altrove, le case erano ordinariamente e sono tuttavia in gran parte di un sol piano oltre il piano terreno; e sono coperte non da tetti a tegole come da noi, ma bensì da terrazzi di cui spiegheremo l’uso a suo tempo. L’epoca terza, segna il tempo del gran caldo che si fa sentire eccessivo dalla metà di agosto alla metà di ottobre (6º e 7º mese), e per la sua ardenza i ruscelli si asciugano e la terra si screpola. Le pioggie sono bensì rarissime dalla metà di aprile alla metà di settembre, ma in compenso cade abbondante la rugiada a ristorare la campagna. L’epoca quarta è quella della seminagione, e dura dalla metà di ottobre fino alla metà di dicembre (8º e 9º mese). La temperatura è varia; sopravvengono pioggie, brine, nebbie, ecc. Il più spesso verso la fine d’ottobre cominciano a cadere le prime pioggie d’autunno, indicate nella Bibbia col nome di _iorè_ e tanto necessarie ai campi per la germolazione del seminato. L’epoca quinta segna l’inverno, e comincia alla metà di dicembre per finire alla metà di febbraio (10º e 11º mese). La neve cade talvolta anche nel piano, ma è raro che duri un giorno intiero, ed il ghiaccio sempre sottilissimo si strugge ai primi raggi del sole. I lampi, il tuono e la grandine vengono molto frequenti. Verso la fine di gennaio, i prati cominciano ad abbellirsi di fiori, i maggesi inverdiscono, gli alberi si rivestono di foglie. L’epoca sesta, che corre dalla metà di febbraio alla metà di aprile (mesi 12º e 1º), è la stagione del freddo. La temperatura che nel principio di quest’epoca si mantiene tuttavia freddetta va riscaldandosi a gradi. Nel principio del mese di aprile cadono le ultime pioggie indicate nella Bibbia col nome di _malcosc_, per le quali si facevano pubbliche preghiere e voti ardenti, essendo esse assai necessarie per la fecondazione dei campi. § 2.—L’anno. Non è probabile che i primi uomini abbiano determinato la durata dell’anno e regolatone il corso secondo il cammino del sole; imperocchè sarebbero loro bisognate cognizioni astronomiche, che solamente più tardi potettero acquistare; epperò è molto più verosimile che essi abbiano preso per norma la state e il maturare dei frutti della terra. Osservando infatti che la state e la maturità dei frutti ritornavano, nei principii, dopo dodici lunazioni circa, composero l’anno di dodici mesi lunari, onde nelle età primitive l’anno ebbe solamente 354 giorni. Ma come dopo un certo numero d’anni così computati, lo stesso mese aveva finito per ricondurre stagioni opposte, si sentì la necessità di conciliare l’anno lunare col solare. Difatti dalla narrazione della grande catastrofe diluviana si rileva come fosse già stabilito l’anno di dodici mesi a giorni 30 caduno. Mosè prescrisse agli Ebrei l’anno lunare: ma affinchè fosse sempre in armonia col solare, comandò di offerire a Dio nel secondo giorno di Pasqua, vale a dire nel giorno sedicesimo dopo la neomenia del mese di Nissan, un manipolo di spighe mature (_ómer_): così se le messi non erano ancora giunte a maturanza i sacerdoti dovevano aggiungere un mese. Questa cosa dovevano farla quasi ogni tre anni, giacchè gli undici giorni di differenza che passano annualmente tra l’anno lunare e il solare, componevano in tre anni più di un mese intiero. Questo mese aggiunto si chiamava _Veadar_. Gli Ebrei avevano un doppio cominciamento d’anno, il sacro d’instituzione mosaica, secondo cui regolavano le feste, i digiuni e tutto quanto si riferiva alla religione; ed il civile, d’instituzione rabbinica, e di cui si valevano per gli affari e le cronache civili. L’anno sacro cominciava in primavera alla neomenia del mese di _nissan_, l’anno civile cominciava in autunno alla neomenia del mese di _tisrì_. § 3.—Del giorno e del mese. Sulla durata del giorno furono e sono varie le usanze dei diversi popoli. I Babilonesi contavano i loro giorni da un levare all’altro del sole; gli italiani all’incontro da un cadere ad un altro; gli Ebrei invece da un tramonto ad un altro del sole. Lo spazio d’un giorno intiero, cioè di 24 ore, viene designato nella Bibbia colle parole: _sera_ e _mattina_ oppure _meèrev ad èrev_ (da una sera all’altra). Un’indicazione affatto naturale divide il giorno in tre parti, vale a dire il mattino, quando il sole nel suo mo movimento apparente, s’alza sopra l’orizzonte; il mezzodì, quando il sole giunto alla maggiore altezza è a metà del suo corso; la sera quando esso tramonta e si cela al nostro sguardo. Sono appunto questi i tre tempi del giorno in cui il fedele Israelita deve volgere il suo pensiero e la sua adorazione a Dio. Però, come fanno ancora tuttodì gli Arabi, gli Ebrei dividevano il giorno in sei parti ineguali, ed erano: 1º _sciahhar_ (ricercare, considerare quanto ne circonda) l’aurora; 2º _boker_ (riconoscimento degli oggetti) mattino; 3º _hhom aiom_ (riscaldamento del giorno) le ore prossime al meriggio; 4º _ssahoraïm_ (le due luci) il tempo medio del giorno, cioè il fine della prima metà e il principio della seconda; 5º _ruahh aiom_ l’ora del vento (che nelle contrade Orientali spira ogni giorno) sul cadere del giorno; 6º _érev_ (confusione) sera. Il tempo che comincia col tramontare del sole e finisce al momento che le tenebre coprono la terra, viene pure detto: _ben-aarbaim_, e la notte viene designata col nome di _laila_. Quantunque non trovisi menzione delle ore, come l’intendiamo noi, nè nei libri santi, nè negli scritti caldaici² tuttavia è probabile che gli ebrei conoscessero la divisione del giorno in 24 ore; e ciò lo possiamo argomentare dal quadrante d’Ezechia diviso in gradi _maalód_, e dalla cognizione che avevano gli Egiziani delle clessidre, inventate, dicevano essi, da Mercurio. ² Le parole _saà_ e _sanhtà_ interpretate nei libri rabbinici per _ora_, probabilmente non furono in principio adoperate se non nel senso di _momento_, _istante_, derivando esse dal verbo _saà_ che vale: gettare uno sguardo. Trovasi la parola _regan_ per significare il minuto. La settimana veniva indicata col nome _ssavuan_ (giro di sette giorni da _ssevan_, _ssivñhà_). I giorni non avevano nomi peculiari, ma s’indicavano numericamente 1º, 2º, 3º ecc. Essendo il sabbato il dì principale della settimana, perciò si dava anche alla settimana intiera il nome di sabbato. Oltre le settimane di sette giorni si avevano ancora: 1º Le ebdòmade di settimane, cioè i quarantanove giorni che correvano dalla festa di Pasqua alla festa di _Savuód_; 2º Le ebdòmade d’anni, dei quali il settimo si chiamava anno sabbatico _senad assemità_; 3º Le ebdòmade di anni sabbatici, cioè i periodi di quarantanove anni chiusi dall’anno del giubileo _iovel_, che cadeva nell’anno cinquantesimo. Lo storico Giuseppe Flavio fa anche menzione di un periodo di dodici anni giubilari, cioè di seicento anni: ma i libri santi non parlano in verun modo di tale divisione. Non v’ha dubbio che le varie fasi della luna abbiano fornito occasione ai primi uomini di determinare i mesi. Quando videro che dopo ventinove giorni e mezzo la luna ricominciava la sua carriera, era cosa naturale che, mossi da tale regolarità, avvertissero questo periodo di tempo, in cui poscia inchiusero il mese. Difatti i vocaboli ebraici adoperati ad indicare il mese sono: _ierahh_ (da _iareahh_ luna); _hhodess_ (da _hhadass_ nuovo ovvero novilunio). I mesi, tranne pochissimi, venivano anch’essi indicati numericamente 1º, 2º ecc. Durante la schiavitù babilonese gli ebrei adottarono i nomi dei mesi babilonesi e i nomi degli angeli³. I mesi stabilmente prescritti colla compilazione del Talmud sono i 13 seguenti: 1º _Nissan_ indicato nel Pentateuco col nome di _abib_ (maturazione); 2º _Iiar_ (_ziv_ bellezza, decoro per l’abbondanza dei frutti e dei fiori); 3º _Ssivan_; 4º _Thamuz_; 5º _Ab_; 6º _Elul_; 7º _Tisrì_ designato nella Bibbia col nome di _ierahh aedanim_⁴; 8º _Merhhasvan_ (bul); 9º _Chisslev_; 10º _Theved_; 11º _Ssevath_; 12º _Adar_; 13º _Veadar_ o _Adar_ secondo. ³ Prima della schiavitù babilonese non si trova nei libri santi veruna menzione di nomi speciali dati ad angeli, ma bensì il nome generico di _malach_ adoperato indistintamente per significare: _angelo_, _messaggiere_, _inviato_. Difatti con questo vocabolo troviamo designati i messaggieri che Giacobbe inviò ad incontrare il fratello Esaù; l’angelo che impedì ad Abramo di sacrificare il figlio Isacco; l’uomo apparso a Gedeone per consigliarlo ed incoraggiarlo a prendere le armi per liberare la sua patria gemente sotto l’oppressione straniera; Mosè redentore d’Israele; gli uomini mandati da Mosè al re di Edom ecc. Invece in Daniele, che scrisse all’epoca della schiavitù Babilonese, gli angeli assumono nomi proprii: Michæl che sta alla destra dell’Eterno, Gabriele che sta alla sinistra di lui, Raffaele, Uriele ecc.; e Schammaele, e Sàtana quali angeli cattivi. ⁴ Questo vocabolo viene dai commentatori diversamente interpretato, perchè, come vedremo in seguito, ricorrono in tale mese gli anniversarii di parecchi fatti importantissimi: quali quello della creazione del mondo, quello della nascita dei patriarchi, quello della nascita di Samuele ecc. Però il suo significato più probabile e letterale è la sua derivazione dalla radice _adà_ venire, essendo il mese in cui si raccoglievano nei granai tutte le specie dei prodotti campestri. (Lib. vocabolo _Edan_). NISSAN (_Marzo-Aprile_). Come s’apre splendido e nobile l’anno ebraico! Con quanta ragione Mosè potè rivolgere al popolo che stava per redimere le seguenti parole: «Questo mese è a voi il capo dei mesi: il primo sia per voi dei mesi dell’anno»; poichè fu in esso che quello stesso popolo scosse il lungo giogo di dura oppressione, cominciò ad avere vita politica, ad essere nazione. Riassumiamo questo principale avvenimento della storia del nostro popolo. Dopo ventidue anni dacchè Giacobbe piangeva perduto il suo amato Giuseppe, appena lo sa vivo spinto dall’ardente desiderio di abbracciarlo ancora una volta prima di morire, non esita neppure un istante ad aderire all’invito di lui, e portasi in Egitto con tutta la sua famiglia composta di settanta persone. Passato poco meno d’un secolo, e morto Giuseppe e tutti i suoi fratelli, sorge a re d’Egitto un uomo, che agitato dalla paura e guidato da una politica iniqua, infrange ogni legge di lealtà; e dimentico degli immensi benefizii fatti da Giuseppe all’Egitto, a quella famiglia venuta colà ad ospitare fiduciosa, e fattasi in quel frattempo un popolo numeroso, impose dapprima enormi gravami e poscia nell’intento di estinguerla totalmente decretò: che ogni neonato maschio di essa, venisse violentemente strappato dalle braccia materne e affogato nel Nilo. Ma se Dio pei suoi imperscrutabili disegni permetteva che questa famiglia scelta a ricevere e spandere la sua eterna volontà fra tutte le nazioni della terra, fosse nei suoi primordi oppressa da dura schiavitù, vegliava nullameno su d’essa con particolare affetto. Ad una madre, Iochebed figlia di Levi, non resse il cuore di lasciarsi strappare il suo nato dagli sgherri di Faraone. Le riuscì di nasconderlo. Ma non potendo celarlo oltre a tre mesi, lo espose alle rive del Nilo fidente nel divino aiuto, e quasi presaga di quanto doveva succedere. Iddio, che con segni straordinarii, come ci afferma la tradizione, aveva palesato la grandezza avvenire di quel bambino sino dal suo nascere, dispose che raccolto dalla figlia di Faraone e da quella, stupita dalla sua maravigliosa bellezza, addottato a figlio e chiamato Mosè; venisse condotto alla reggia e quivi educato dai sacerdoti d’Osiride in tutta la scienza del paese. Però nè le seduzioni della sapienza, nè quelle della Corte, fecero dimenticare a Mosè i suoi fratelli oppressi. Dopo luminose vittorie, che a capo degli stessi Egizii che avevano dovuto proclamarlo loro capitano, ottenne sugli Etiopi che avevano invaso e volevano sottomettere l’Egitto⁵; egli ebbe a provare la più nera ingratitudine. Esigliato per essersi levato in difesa di un suo fratello ingiustamente maltrattato da uno di quegli aguzzini, che strumenti di tirannia, pare che si facciano una legge e trovino una dolce voluttà nell’aspreggiare vilmente i miseri pazienti sottoposti ai loro ordini; dovette riparare in Madian ove trovò cortese ospitalità presso un certo Ietro sacerdote di quel paese e del quale ne sposò poscia la figlia Zéfora. ⁵ Nelle sue antichità giudaiche, Giuseppe Flavio racconta alcune curiose particolarità su Mosè, che noi crediamo utile di riportare compendiandole; poichè nel Pentateuco si riscontrano effettivamente nella vita di Mosè certe lacune o allusioni a fatti che non vennero in esso registrati, perchè onninamente personali al suo autore e non richiesti da nissun vero interesse storico. Dopo di avere quindi descritto le doti fisiche di cui Mosè era ornato e dettolo di una bellezza mirabile e divina, nota che la sua intelligenza era talmente sviluppata e superiore alla sua età, che la sua madre addottiva Thermutis, che i nostri dottori cambiarono in Bitià, presa per lui di un’affezione talmente viva, all’età di tre anni lo presentò al proprio padre onde volesse dichiararlo suo erede presuntivo qualora non fosse favorito di prole maschile. Espone in seguito come gli Egiziani atterriti da un’invasione di Etiopi furono costretti a nominare Mosè loro capitano, malgrado le vivissime opposizioni di molti suoi nemici e particolarmente di quelle che gli venivano fatte dai Sacerdoti; i quali invidiosi della sua straordinaria sapienza paventavano che la corona dei Faraoni dovesse veramente cingere la fronte di uno straniero. Mosè preso dunque il comando diede battaglia ai nemici del suo re, li ruppe completamente: anzi assediò e prese Saba (Méroé) loro capitale, e sposò Tharbis (forse la donna mora, _Cussid_, accennata nel Pentateuco e che diede motivo a mormorazioni contro Mosè per parte di Aronne e Marianna?) figlia del re che erasi perdutamente invaghita di lui. Racconta poscia un breve episodio il quale quantunque concordi nel fondo coll’esposizione fattane pure dai nostri dottori, ciò non pertanto diversificando nei particolari, noi crediamo bene di attenerci a questa seconda: e tanto maggiormente perchè essa serve a dare una ragione plausibile di un difetto organico di Mosè. Ecco il fatto: Un giorno che Faraone teneva nelle sue ginocchia il bambino Mosè, questi gli tolse la corona dal capo e se la cinse egli stesso. I maghi di Faraone, che avevano già in lui pronosticato un futuro salvatore d’Israele, dissero a Faraone: «Bada che costui non abbia ad essere il tuo nemico e rivale: mandalo a morte». Ietro, presente a quel barbaro consiglio, s’interpose a favore del bambino, dimostrando che il solo lucicare delle pietre preziose lo avevano allettato ad afferrare la corona; e per meglio persuadere i suoi opponenti propose la seguente prova: «Si presenti, disse egli, a questo bambino un bacile con sopravi la corona e una brace ardente; e si esperimenti se è la vivacità della luce o un interno presentimento di futura grandezza che lo abbia spinto a quell’atto.»—La prova è accettata: il bambino ha davanti agli occhi una brace lucidissima e una corona. Senza esitare egli stende la mano alla corona; ma un angelo scende dal cielo gli sospinge la mano a dar di piglio alla brace. Il bambino mette un grido, porta alla bocca la mano e il fuoco, la lingua ne fu scottata, rimase balbuziente, ma fu salvo. Nella solitudine del deserto di Sinai presso cui pascolava le pecore dello suocero, invigorendo il suo nobile e magnanimo cuore maturò il sublime proposito di tornare in libertà i suoi fratelli e di farne un popolo segnalato fra le nazioni. Certo dell’appoggio divino che nel roveto ardente vinceva le estreme sue riluttanze, inspirate dalla sua modestia e dalla gravezza dell’incarico che stava per assumersi⁶, va in Egitto: e col fratello Aronne arringa il popolo d’Israele, e lo persuade che il Dio giusto e forte dei suoi padri conobbe i suoi dolori, vide l’angoscia del suo animo; e lo trarrà da quella vita di avvilimento e di patimenti e lo condurrà in una terra beata promessa ad Abramo, Isacco e Giacobbe, e da loro già abitata. Portatosi poscia al cospetto di Faraone gli domanda la libertà del popolo primogenito di Dio in nome di quell’Essere che fu, è, e sarà⁷. Faraone con un’alterigia dissennata, non si soddisfa di rispondere con un rifiuto dicendo di non avere cognizione di tale Iddio; ma con una iniqua disposizione impone sul popolo un nuovo gravame, attribuendo la domanda fatta da Mosè unica conseguenza della loro pigrizia. Ma coll’opera di mirabili prodigi, detti le dieci piaghe d’Egitto, Mosè rende manifesta a tutto l’Egitto la onnipotenza del vero Iddio, e libera Israele arricchito delle spoglie dei suoi oppressori⁸ che prima eransi arricchiti del suo lavoro di oltre due secoli⁹. ⁶ Nelle riluttanze spiegate da Mosè nell’Oreb, quando a più riprese cercò di sottrarsi a tale missione altissima, giustificando il suo rifiuto colla tardità di sua favella, dice a Dio: «anche da quando tu parlasti al tuo servo». In tali parole i nostri Dottori trovarono una prova che già precedentemente a quell’avvenimento Iddio aveva parlato a Mosè su tale proposito. ⁷ La rivelazione, che contiene tutta la filosofia, e più che la filosofia, così espresse la definizione di Dio: «Io sono colui che sono». Definizione stupenda, che quando fu promulgata non sarebbe potuta essere trovata dal discorso degli uomini, e che congiuntamente alle altre dottrine dei libri mosaici, non potendo aversi per un parto naturale di quei tempi, accusa un’origine divina. _Gioberti_, _Teorica del Sopran._ ⁸ Nel nostro libro di Morale pratica, pag. 89, abbiamo inserito una quistione storico-politica ricavata dal Talmud e suscitatasi tra gli Ebrei e gli Egiziani all’epoca in cui Alessandro Magno vinto Dario re di Persia aveva esteso il suo dominio in gran parte dell’Asia e dell’Egitto, e la quale serve a spiegare questo fatto che da troppi scrittori venne preso a pretesto di ignobili accuse e basse insinuazioni contro l’onestà di carattere del popolo nostro. ⁹ L’Egitto fioriva da antichissimo d’una prosperità materiale, e consideravasi come il paese della ricchezza e della scienza. Colà viaggiò Abramo spintovi dalla carestia; e i libri sacri, come vanto della sapienza di Salomone, dicono che vinceva quella degli Orientali e degli Egizii. _C. Cantù_, _Docum. alla sua St. Un._ Pare essere destino dei tiranni di non volere o potere mai cedere alla ragione acciecati dalle loro prave passioni. Cuocendo al Faraone di avere permesso a tanti uomini di sottrarsi al suo giogo, e non potendo comportare che quel popolo che per tanti anni aveva dovuto curvare il capo alla sua verga se ne andasse libero; raccoglie in fretta il suo esercito e si pone ed inseguirlo, onde ritornarlo di nuovo alla sua soggezione. Ma allora appunto lo aspettava una terribile punizione che tardi o tosto colpisce sempre l’ostinato ed inumano oppressore. Breve strada disgiunge l’Istmo di Suez dalla terra che Dio aveva promessa agli Ebrei; ma siccome questi avrebbero incontrato prontamente i Filistini, e siccome il dovere subito combatterli avrebbe in essi risuscitato il desiderio di tornare in Egitto, perchè una secolare schiavitù ne aveva avvilito il cuore e domato il coraggio, Mosè fece loro prendere la via del deserto. È assai difficile il precisare oggi le posizioni, a cagione dei grandi cambiamenti che una lunga serie di secoli, fece subire alle spiaggie del Mare Rosso. La prima tappa fu fatta in un luogo detto _Sucoth_ (tende) probabilmente a causa delle tende colà rizzate; la seconda ad _Etan_. Però affine d’ingannare il re d’Egitto, facendogli credere di essersi smarrito in quelle inospiti e sconosciute solitudini, Mosè fece accampare il popolo con una marcia retrograda tra _Migdol_ e il mare dirimpetto a _Baal-Sefon_. Era il sesto giorno dall’uscita d’Egitto, e il popolo alzando gli occhi videsi vicino la formidabile oste di Faraone. Smarrito, grida al suo conduttore: «Ecchè! non eranvi forse sepolcri in Egitto, che ci conducesti a perire in questo deserto? Perchè ne traesti dall’Egitto?» Mosè, avvisato da Dio del grande fatto che stava per succedere, li conforta con queste parole: «Non temete! Oggi per l’ultima volta voi vedrete gli Egizii. È l’Eterno che combatterà in vostra difesa». Sorge l’alba del settimo giorno, e dietro l’ordine di Dio, Mosè batte colla sua verga i procellosi flutti del mare: ed oh prodigio! le acque si dividono, e schiudono nel loro seno un ampio passaggio ad Israele che lieto vi si precipita, onde frapporre il mare tra sè e l’inimico. Acciecato dal desiderio di vendetta, Faraone ordina al suo esercito d’inseguire i fuggenti, che già toccavano l’altra sponda. I soldati accortisi, ma troppo tardi, dell’estremo pericolo che loro sovrastava affannosamente gridavano: «Fuggiamo, fuggiamo da Israele, poichè Iddio combatte per lui contro l’Egitto». Intanto Israele esce festosamente dal mare, e Mosè batte di nuovo colla sua verga le acque, le quali con immenso fragore ripigliano il loro corso ordinario, e seppelliscono nei loro abissi quegli ostinati oppressori. Un sublime cantico, la lirica più antica giunta insino a noi, venne composto da Mosè; e coll’accompagnamento di strumenti musicali venne cantato dal popolo ad onore di quel Dio, che si dimostrò tanto buono e potente in suo favore. Ecco il grande avvenimento che diede origine alla instituzione della festa di Pasqua o delle azzime _Pessahh_ o _hhag amassod_, che noi celebriamo nel plenilunio di Nissan, cioè dai 15 ai 22 di questo mese. La doppia denominazione con cui viene designata questa festa avviene da ciò, che colla parola _Pessahh_ (che significa _transito_, _salto_) si vuole commemorare l’incolumità serbata ai primogeniti ebrei quando l’angelo di Dio uscendo per l’Egitto ad uccidere indistintamente i primogeniti degli uomini e delle bestie, _saltava_ le abitazioni degli Ebrei frammischiate a quelle degli Egiziani; e coll’altra denominazione di _hhag amassod_ si vuole ricordare il comando dato da Mosè, e costantemente quanto scrupolosamente osservato dal popolo ebreo, di cibarsi d’azzime per tutto il tempo della sua durata. Quantunque sia forse cosa superflua, pure ricordiamo, che lo scopo di questa ordinazione fu quello di volere commemorare il pane _dell’afflizione_ che mangiarono gli Ebrei nella loro precipitosa uscita dall’Egitto; inquantochè fu talmente forte lo spavento provato da Faraone e da tutti gli Egiziani, vedendo istantaneamente cadere esanimi i loro primogeniti, e non trovarsi casa ove non vi fossero morti; che raccoltisi frettolosamente presso Mosè ed Aronne li stimolarono, li obbligarono ad allontanarsi immediatamente dal loro paese, pregandoli pure a volerli benedire prima della partenza, onde non avessero ad incontrare anch’essi la sorte dei loro primogeniti. Gli Ebrei dovettero pertanto caricarsi sulle spalle la pasta che con prudente disposizione Mosè aveva fatta loro preparare pel viaggio, e farla cuocere con sollecitudine in focaccie non fermentate appena fuori della città. E qui cade acconcia una osservazione. Tanto questa solennità come quelle di _Savuóth_ e di _Sucóth_, noi le prolunghiamo di un giorno oltre al numero fissato da Mosè, e in opposizione a quanto anco attualmente si segue in Gerusalemme. Ecco il motivo di tale differenza. In Gerusalemme ove risiedeva il Sinedrio che formava il Senato della nazione, e di cui noi parleremo in seguito, si stabiliva il primo giorno del mese dietro le deposizioni di testimonii irrecusabili di avere veduto la luna nuova: e di questa decisione se ne rendevano partecipi le provincie con fuochi accesi convenzionalmente sopra certe montagne. Ma dopo la distruzione del Tempio e il trasporto del _Beth Din_ in Iabnè, sul dubbio che l’annunzio del vero primo giorno del mese arrivasse in tempo nei luoghi lontani, si decise che si prolungasse di un giorno la festa; e la Pasqua si festeggiava nei dì 15 e 16 per cui il 7º e 8º giorno della festa venivano a cadere nei dì 21 e 22 del mese. Questo giorno fu chiamato il _iom tov scenì scel galuiod_ (secondo giorno festivo della dispersione). E quantunque sia ora impossibile il cadere nell’errore che si temeva dai nostri antenati, nullameno si persiste a seguire tale uso quasi universalmente. Inaugurazione del Tabernacolo. Fu pure nel primo giorno di questo mese nel secondo anno dall’uscita d’Egitto, che fu inaugurato il tabernacolo fatto fabbricare da Mosè nel deserto. Noi ommettiamo la descrizione di tale solennità, sia perchè essa riescirebbe troppo lunga e sia per essere cosa di mediocre importanza storica. Nelle nozioni di Archeologia, avremo però occasione di parlare del pregio artistico di quei lavori. Non dobbiamo però passare sotto silenzio, essere stato tale l’entusiasmo del popolo nell’offrire preziosi oggetti per erigere ed arredare quella prima casa d’orazione consacrata al vero Iddio; che Mosè fu costretto «a fare passare una voce nell’accampamento onde raccomandarne l’astensione, essendone già provvisto oltre al bisogno». I direttori dei lavori furono due artisti di genio designati da Dio stesso, e che si chiamavano Bessalel e Oliab. Sollevazione del popolo. Essendo destino dell’umanità che al bene debba trovarsi sempre mescolato il male, in maggiore o minore proporzione, dopo i due fatti precedenti di cui uno glorioso e l’altro onorevole pel popolo nostro; noi siamo costretti di presentare ai nostri lettori un fatto deplorevole sia per se stesso e sia per le sue conseguenze, avvenuto nel deserto di Sin.—Poco tempo dopo la morte di Marianna, sorella di Mosè, venendo a mancare l’acqua¹⁰, il popolo si sollevò contro Mosè rimproverandolo di averlo tratto dall’Egitto per condurlo in luoghi ove difettava persino l’acqua. Come sempre, Mosè si rivolse a Dio: e neppure questa volta gli venne meno il suo soccorso in favore di quel popolo protervo, che malgrado tanti miracoli, ad ogni minimo ostacolo che incontrava, perdeva ogni fiducia nella provvidenza. Mosè ed Aronne fecero radunare il popolo presso una rupe indicata da Dio, e dalla quale sgorgò un rivo d’acqua limpidissima. Ma in questo fatto i due grandi personaggi commisero tale atto di mancanza verso Dio, (atto che noi avremo occasione di dilucidare in seguito), che furono anch’essi condannati a morire nel deserto. ¹⁰ Dissero i nostri Dottori che il sasso prodigioso che forniva acqua al popolo nel deserto era merito speciale di Marianna: per cui essa morta, cessò il prodigio. Passaggio del Giordano. Ultimo fatto importante successo in questo mese fu il passaggio del Giordano. Il Giordano era quel fiume che separava i paesi di Sihhon e Og dalla terra santa. Morto Mosè dopo d’avere combattuto e vinto i re di quei due paesi, perchè si rifiutarono a concedergli il chiesto passaggio attraverso ai loro stati, e concessone il territorio in eredità alle due tribù di Gad e di Ruben e alla metà della tribù di Manasse¹¹, Iddio avvertì Giosuè, che nella stessa guisa che il mar Rosso aveva aperto un varco asciutto al popolo d’Israele, altrettanto avrebbe fatto il Giordano. Quel giorno memorando fu il decimo del mese di Nissan, epoca in cui il fiume era straordinariamente ingrossato. Giosuè ordinò ai sacerdoti portatori dell’Arca santa di porsi alla testa del popolo per passare il Giordano, e appena i loro piedi ne toccarono le acque, queste arrestarono immediatamente il loro corso impetuoso, si ammucchiarono ai due lati, ed aprirono al popolo un libero passaggio. Ad eternare la memoria di quel fatto che, unito ai tanti altri prodigi operati da Dio in favore d’Israele, finì per gettare lo spavento nel cuore degli abitanti di Canaan, Giosuè fece innalzare nel Ghilgal un monumento di dodici pietre levate appositamente dal letto del Giordano, e rispondenti alle dodici tribù d’Israele. ¹¹ Furono gli stessi componenti le suddette tribù che trovandosi possessori di numerose greggie, e riconoscendo come quel paese presentava grassi pascoli, pregarono Mosè di concederglielo loro in eredità. Mosè aderì alla loro domanda colla condizione che tutti gli uomini atti alle armi passassero il Giordano, e aiutassero i loro fratelli a conquistare la terra che Dio aveva loro promessa. Questa condizione fu scrupolosamente osservata. Fabbricate fortezze a difesa delle loro donne e dei loro figli, tutti gli adulti si portarono col resto del popolo al di là del Giordano; e non ritornarono in seno alle loro famiglie se non quando vennero congedati e benedetti da Giosuè stesso, dopo le vittorie da lui riportate sui 31 re che dovette combattere. ARCHEOLOGIA BIBLICA Della Palestina. § 1.—_Limiti, montagne e fertilità della Palestina._ La Palestina è una piccola contrada della Siria in Asia. La parola Palestina, presa nel suo senso ristretto, significa il paese dei Filistini o Filistei, che stendesi lungo il mare mediterraneo da Gazza al sud, fino a Lidda, al nord. In un senso più esteso, s’applica a tutto il paese di Canaan detto anche terra promessa o terra d’Israele, situata fra il mediterraneo, chiamato nella Bibbia _iam agadol_ (mare grande), il mare morto _iam amelahh_, ed il Giordano. Quando Abramo entrò nel paese di Canaan, lo trovò abitato da dieci popoli che traevano il loro nome dagli undici figli di Chanaam figlio di Hham. La Palestina è paese montuoso; due catene di montagne l’una al di qua del Giordano, l’altra al di là di questo fiume, stendonvisi per traverso dalla Siria all’Arabia, e sono interrotte da molti piani. Le principali montagne della Palestina sono: 1º Il _Libano_, che si compone di due catene nel cui mezzo sta la gran valle detta dagli antichi _Celesiria_. Egli è su questa montagna che una volta crescevano in abbondanza i magnifici cedri tanto celebrati nella storia, e più particolarmente nella Sacra Scrittura. 2º Il _Carmelo_, catena di monti coperti da boschi di quercie e di abeti. Le valli che vi stanno frammezzo ombreggiate da lauri ed olivi ed irrigate da molti ruscelli, formano un paese deliziosissimo¹². ¹² Un viaggiatore così termina la sua breve descrizione delle valli del Carmelo nella _Revue britannique_: «Codesto quadro, malgrado la sua tristezza, non risponde all’idea che si fa della desolante sterilità della Palestina. Alla ricchezza della vegetazione si può giudicare che se questa terra fosse coltivata con cura, essa sarebbe come altra volta il giardino del Signore». 3º Il _Thaborre_, monte rotondo e sublime nella Galilea. Fu su questo monte che la profetessa Debora levatasi, come Ella stessa dice nel suo stupendo canto, a madre d’Israele, eccitò _Barak_ a raccogliere un dieci mila uomini della tribù di Naftali e di Zebulun; e messasi ella stessa alla loro testa sfidò e vinse Sissera generale del re Iavin che da vent’anni opprimeva Israele. 4º Le _montagne d’Israele_ dette anche _monti di Efraim_, catena aspra ed ineguale che sta in faccia alle montagne di Giuda, il cui suolo invece è molto fertile. Nel Deuteronomio ed in Giosuè si fa menzione dei monti _Ebal_ e _Garizim_, posti l’uno al nord, l’altro al mezzodì di Sichem. A queste montagne bisogna riferire il famoso monte _Moria_ ove Abramo erasi portato per sacrificare l’unico suo figlio, ed ove Salomone fece erigere il più maestoso Tempio, che l’uomo abbia innalzato ad onore dell’unico vero Iddio; e il monte _Sion_ ove era la città di Davide. 5º _Le montagne di Galaad_, poste al di là del Giordano. A questa lunga catena appartiene il monte Nebo ove salì Mosè per contemplare la terra promessa avendogliene Dio impedito, colla morte, di entrarvi. Il Sinai e l’Oreb, il primo famoso perchè fu su d’esso che Dio proclamò il Decalogo: il secondo perchè fu su d’esso che Dio apparve a Mosè nel roveto ardente, e lo decise alla grande impresa della redenzione d’Israele; si trovano nell’Arabia Petrea fuori della Palestina. Capitale del regno sotto Davide e Salomone, del regno di Giuda dopo il distacco delle dieci tribù dalla dinastia davidica, e di tutto il lungo periodo che durò il secondo Tempio, fu Gerusalemme. Più avanti si troverà la descrizione di questa città cotanto celebrata nella storia e la descrizione del tempio di Salomone. Non taceremo che vi furono alcuni scrittori, i quali, giudicando lo stato antico della Palestina da quello che presenta attualmente, dissero: che Mosè ingannò gli Ebrei quando promise loro un paese «colante latte e miele, e prodigiosamente fornito di ogni cosa per trarre la vita in continua abbondanza»; per poi dare loro un paese montuoso ed arido. Ma così non è: poichè, oltre alla storia biblica che ad ogni passo ci fa fede della prodigiosa fertilità di quel paese, come proveremo innanzi, abbiamo pure la testimonianza degli storici profani, quali Ecateo contemporaneo di Alessandro il Grande, Tacito, Ammiano, Marcellino e Plinio. Se ora quel paese è sterile, ne sono causa le devastazioni successive dei Babilonesi, Egiziani, Sirii, Romani, Saraceni, Arabi¹³, ecc. e l’attuale mancanza di coltura. ¹³ Gerusalemme fu presa e saccheggiata 17 volte, dice Chateaubriand: nessun’altra città provò simile sorte.... Quella contrada divenuta preda del ferro e del fuoco, i campi inculti perdettero la fertilità ecc. _Itineraire_, tom. 2. § 2.—_Dell’agricoltura e suoi Strumenti._ La pastorizia e l’agricoltura, furono i due rami d’industria ai quali primamente si dedicarono gli uomini, chiamativi dalla necessità di soddisfare i materiali loro bisogni. Iddio pose Adamo nell’Eden, non perchè vi conducesse una vita di contemplazione oziosa, ma affinchè _lo custodisse e lo lavorasse_. I due figli che egli procreò dopo il suo fallo, si dedicarono appunto uno alla pastorizia, l’altro all’agricoltura: e all’agricoltura troviamo dedicato Noè appena uscito dall’arca. Desiderando Mosè che il suo popolo si dedicasse particolarmente all’agricoltura, la favorì in tutti i modi. Nel corso di questo lavoro, noi avremo occasione di parlare di parecchie sue opportune e savissime disposizioni prese a tale riguardo, fra le quali primeggiano quella della partizione del territorio nazionale, e quella dell’anno sabbatico. Riserbandoci di esaminare i diversi motivi che dettarono queste due disposizioni, diremo intanto che la prima tendeva a riparare diverse piaghe dell’agricoltura che si possono riassumere nelle tre seguenti: 1º Le grandi proprietà, che in mano di uomini potenti e sensuali sono cariche di sontuosi edifizi, di eleganti giardini, di deliziosi boschetti. 2º Il continuo succedersi dei coloni. La mancanza di una cognizione vera ed esatta del terreno che si deve coltivare ha un’importanza massima sul successo dei ricolti. 3º Le spese e i lavori ai quali si è spesso obbligati per migliorare il terreno, e a cui difficilmente vi si assoggetta, colui a cui manca la sicurezza di un lungo possesso. Gli strumenti che in principio si adoperavano per arare i campi, dovettero essere molto semplici, consistendo probabilmente in soli bastoni aguzzi. Nel Deuteronomio si parla d’uno strumento, con cui gli ebrei dovevano fare un buco nel terreno fuori del campo pei loro bisogni naturali; e questo arnese detto _Iathed_ probabilmente era una specie di vanga o di pala che serviva anche ai lavori di terra. Però nel primo libro di Samuele si fa menzione di vari strumenti aratorii, quali sono: _mahharesced_ vomere, _eth_ zappone, _kardom_ scure, _mahharesciâ_ sarchiello. Il _malmed_ era lo stimolo dei buoi. § 3.—_Suoi Prodotti._ Sono menzionati nella Bibbia i seguenti cereali: _dagan_ grano, _hhittà_ frumento, _nisman dohhan_ miglio, _cussémed_ spelta, _seorà_ orzo. I legumi od erbaggi venivano detti con nome generico _jarak_ (da _ierek_ verde) od _oróth_. Erano tali: il _pol_ fava, gli _adascím_ lenti, i _kisciuím_ cetriuoli, gli _abbatihhím_ poponi, i _bessalím_ cipolle, il _hassir_ porro, lo _scum_ aglio. S’incontrano pure i nomi di parecchi fiori e di molte specie di alberi fruttiferi ed infruttiferi. Lo _sciuscian_ viene interpretato pel giglio, la _hhabasseleth_ per rosa. Il vocabolo _dudaim_, col quale si sottintende il frutto della mandrágola, probabilmente era qualche fiore d’amore derivando dal vocabolo _dud_. Il _karkom_ indica lo zafferano, la _laanà_, l’assenzio, e l’_ezov_ trovandosi spesso contrapposto all’_erez_, cedro, fa credere che fosse una pianta piccolissima. Fra gli alberi fruttiferi sono nominati il _thappuahh_ melo, il _thamar_ palmizio, il _rimon_ melagrano, il _theenà_ fico, il _zaid_ olivo, il _sciacked_ o _luz_ mandorlo, e l’_egoz_ noce. La vite _ghefen_ fu in ogni tempo coltivata con grandissima cura. Molte viti avevano il loro ceppo abbastanza alto perchè si potesse starvi sotto comodamente, onde la frase che s’incontra spesso nella scrittura: _essere assiso sotto la sua vite e sotto il suo fico_, per significare il godimento di una vita fortunata e tranquilla. ———— IIAR (_Aprile-Maggio_). «Ed il Signore si pentì d’aver fatto l’uomo in terra e ne ebbe il cuore addolorato¹⁴». Con queste parole, premesse alla narrazione del diluvio universale, Mosè fece manifesto il corruccio provato da Dio nel riconoscere come quella creatura fatta a sua immagine e somiglianza s’ingolfasse in ogni sorta di brutture; contaminasse nel fango di ignobili passioni la sua anima immortale; e costringesse Lui, il sommo bene e la somma misericordia, a dovere usare il massimo rigore annientandola¹⁵. ¹⁴ Il Celeberrimo Maimonide nel suo _Morè nebohhim_ dimostra luminosamente come questa e tantissime altre consimili espressioni bibliche quali: _il braccio dell’Eterno_; _odorò Iddio_; _discese Iddio per vedere_, non intendano di materializzare Iddio in nissun modo; ma siano adoperate esclusivamente per addattarsi al nostro intendimento. La parola dell’uomo si trova impotente a esprimere convenientemente gli ineffabili attributi di Dio, e le inesplicabili vie per le quali si conduce colla umanità; per darne un’idea si è costretti a servirsi delle espressioni con cui si rappresentano le cose materiali e i loro attributi. Non possiamo astenerci di rapportare il seguente aneddoto Talmudico relativo al soggetto di cui stiamo intrattenendoci: Un ateo s’imbattè un giorno in un Rabbino e gli disse: «Nella vostra legge si nega la previdenza al vostro Dio: poichè nel fatto del diluvio sta scritto: «e il suo cuore ne fu addolorato» Perchè creare l’uomo per poscia pentirsene e addolorarsene?». «Mio caro, rispose il dotto rabbino: Non fosti mai padre?»—«Si»—«Ebbene! non sapevi che tuo figlio dovrà sostenere fatiche e dolori per poscia morire? Perchè il procreasti e festeggiasti la sua nascita?»—«Penso e spero che potrà anche essere felice, darmi care soddisfazioni ed essere il sostegno e il conforto di mia vecchiaia»—«Così Iddio che creò l’uomo per la felicità, ritiene che mercè la carità e la giustizia, potrà raggiungere quella mêta assegnatagli malgrado la veemenza delle sue passioni che spesso lo fanno deviare dalla virtù e dalla rettitudine». ¹⁵ Anche nel castigo meritato dai tristi geme la divina misericordia. Dissero i nostri Dottori che quando gli Egiziani stavano per essere sommersi nel mare Rosso gli angeli intuonarono il cantico. «Come! disse Iddio, le mie creature affogano nel mare e voi intuonate il cantico!». Nella universale corruzione un uomo solo, Noè¹⁶, seppe mantenersi giusto e pio: e il Signore lo destinò a ripopolare la terra. Gli ordinò quindi di fabbricarsi un’arca ove riparare colla moglie, coi figli, e colle nuore, e con una coppia di ogni specie di animali, fatta eccezione pei quadrupedi ed uccelli puri¹⁷, dei quali doveva accoglierne sette coppie. ¹⁶ Si ricava dalla Bibbia che i nomi imposti in quei tempi ai bambini si riferivano o a qualche speciale incidente occorso alla madre prima o all’atto dello sgravio; o valevano a rappresentare qualcosa relativa al bambino stesso; o servivano a commemorare qualche luttuosa circostanza pubblica o privata o la speranza di vedere compiuto qualche desiderio. Egli è per questo che la nascita di quel bambino avvenuta in tempi assai tristi fu salutata dal padre, Lemehh, augurando agli uomini un più lieto e riposato vivere, epperció chiamò il suo nome _Noahh_ (da _nahhà_ riposare o da _nahham_ consolare) con dire: Questi ci sarà di conforto, in mezzo al nostro lavoro, ed al travaglio delle nostre mani, proveniente dal terreno che il Signore ha maledetto». ¹⁷ Mosè distingue gli animali in _puri_ ed in _impuri_. Sono da lui dichiarati puri quelli della cui carne ci è permesso di cibarci, impuri tutti gli altri. In quanto agli uccelli Mosè non ci somministra veruna indicazione per distinguere gli uni dagli altri, ma specifica nominatamente egli stesso gli impuri quali: l’aquila, il nibbio, il corvo, lo struzzo, il falcone, ecc.; in quanto ai quadrupedi dichiara soltanto puri quelli forniti di unghia fessa e che sono ruminanti: e in quanto ai pesci dichiara puri solamente quelli che hanno pinne e squamme. I nostri Dottori dissero: che Iddio ordinò a Noè d’impiegare 120 anni nella costruzione dell’arca, nell’intento che venendo egli interrogato dell’uso a cui essa doveva servire; Noè predicesse loro la catastrofe che pendeva sui loro capi e li esortasse al ravvedimento. Noè s’uniformò all’ordine di Dio: ma la tradizione nota che le di lui esortazioni non solo riuscirono vane, ma anzi, trattato da quegli empi quale pazzo, non riceveva in ricambio che dileggi e scherni. L’esposizione biblica ci dice che Noè aveva 600 anni allorchè entrato nell’arca coi membri della propria sua famiglia, con tutte le specie di animali e con grandi provviste di viveri, le acque cominciarono a cadere. L’arca era un immenso rettangolo col coperchio curvo per lo scolo delle acque. Spalmata di pece dentro e fuori per meglio impedire all’acqua di penetrarvi, essa misurava 300 braccia di lunghezza, 50 di larghezza e 30 di altezza. Non v’ha dubbio che o l’uomo antidiluviano aveva uno sviluppo fisico proporzionato alla sua longevità¹⁸, e quindi assai superiore al nostro; o che il braccio che servì di misura all’arca dovette essere più lungo del braccio di un uomo comune. Altrimenti non si saprebbe comprendere come un’arca di così ristrette proporzioni abbia potuto contenere l’infinita varietà di animali che vi ebbero stanza, e l’immensa provvigione di viveri che Noè vi dovette introdurre, senza ricorrere al miracolo, comodo sistema, di alcuni commentatori per appianare qualunque difficoltà. Era pertanto il giorno diciasettesimo di Iiar quando le catteratte del cielo si aprirono; l’oceano furente uscì dal proprio letto e si riversò sulla terra; e un vento impetuoso che soffiò per 150 giorni, favorì il rigonfiarsi delle acque che superarono le cime dei più alti monti. Tutto fu distrutto: solo l’arca di Noè galleggiando sicura su quello sterminato oceano, portava nel suo seno i pochi avanzi della creazione. La colomba messa fuori da Noè; e a lui ritornata in sul far della sera portando in bocca una fresca foglia di olivo, lo avvertì essere la terra pressochè asciutta. È ammirabile l’insegnamento morale ricavato dai nostri dottori da questo fatto. Il corvo, spedito prima, tristo ed ingrato, abbandonò il suo benefattore, nè più ritornò nell’arca. La colomba innocente e pia vi faceva bensì ritorno, ma con una foglia di olivo in bocca. E perchè ella raccolse una foglia amara a preferenza di qualunque altra?—Per significare al suo ospite che per quanto ella fosse grata e sensibile ai benefizii che da lui riceveva con un vitto abbondante e gratuito, ad ogni modo vi preferiva di gran lunga un pane stentato e povero, ma fornitole dal proprio lavoro. ¹⁸ Quantunque non sia nostra intenzione di entrare in disquisizioni filosofiche o filologiche, che in questo lavoro sarebbero affatto inopportune, tuttavia noi teniamo a dare nel modo più semplice e breve, che per noi si possa, la ragione o la dilucidazione di alcuni pochi fatti o precetti, che giudicati superficialmente possono parere molto oscuri. Daremo ora pertanto alcuni schiarimenti sul fatto della longevità, constatata dal Pentateuco, di parecchi uomini antidiluviani e che fu oggetto di tante controversie tra i dotti. Il celebre Maimonide nel summentovato _Morè nebohhim_, dopo d’avere dimostrato insussistente la teoria di quanti vollero sostenere, che gli anni d’allora fossero di una durata assai più breve degli attuali; stima che la longevità antidiluviana non fosse generale, ma individuale ai pochi uomini nominati nel Pentateuco: e ciò per divina parzialità verso di loro in premio del loro tenore di vita morigerato e virtuoso. Abrabanel, seguendo l’opinione del Nahhmanide, respinge questa spiegazione. Ritiene invece generale la longevità negli uomini antidiluviani, attribuendola: 1º Alla differenza degli alimenti di cui si cibavano allora e che appartenevano esclusivamente al regno vegetale; 2º alla vita morigerata e virtuosa delle prime generazioni umane; 3º alla purezza e soavità dell’atmosfera straordinariamente alterata e guastata dal diluvio e dalle morbose esalazioni di tanti residui animali corrotti; 4º alla necessità di popolare la terra con maggiore sollecitudine; e finalmente al vantaggio che tale longevità procurava alle arti e alle scienze appena nascenti, poichè moltiplicava gli ammaestramenti della esperienza. In quanto al braccio che servì di misura per l’arca, lo stesso Abrabanel opina che effettivamente fosse più lungo del nostro, e che in media equivalesse a sei braccia di un uomo pos-diluviano. Il di 27 dello stesso mese, in cui era entrato un anno prima, Noè e tutti gli animali abbandonarono l’arca. Quali sensazioni di sgomento, di stupore e di dolore non avrà provato quella famiglia ricalcando la terra! Più nulla dava indizio di vita. Case, uomini, animali, vegetabili tutto era intieramente sparito, cedendo il posto ad un vasto ed orrido deserto. Ma a tali sensazioni penosissime, succedette ben presto il sentimento del dovere. Noè fabbricò sollecitamente un altare e offrì olocausti al Signore. Il Signore gradì la manifestazione della sua riconoscenza, e gli promise che mai più avrebbe mandato un diluvio a distruggere la terra. Poscia benedisse lui e i suoi figliuoli, e permettendo loro l’uso di cibi animali, loro proibiva formalmente il sangue¹⁹. Sono significanti le parole colle quali condanna il suicidio, perchè prova non dubbia dell’immortalità dell’anima, di cui ragioneremo più diffusamente altrove, e che sono le seguenti: ¹⁹ «Però fortemente, dice altrove il Legislatore, tu devi astenerti dal mangiare il sangue, perchè il sangue è elemento di vita: e tu non devi mangiare la vita (ciò che dà la vita) colla carne. Non devi mangiarlo, ma versarlo in terra come acqua. Non mangiarlo; e così, facendo cosa grata al Signore sarai felice, e lo (saranno) i figli tuoi dopo di te. «Farommi poi rendere conto dell’omicidio che attenterete sulle vostre stesse persone; farommene rendere conto dall’anima sua immortale²⁰». ²⁰ Vedi traduzione e commento Reggio, e Dizionario Lib. sul vocabolo _hhaià_. L’alleanza conchiusa tra Dio e Noè consistette nel dargli sette comandi, detti Noèchidi, e che sono puramente e semplicemente i più ovii principii della religione naturale. Eccoli quali ce li trasmise la tradizione: 1º Non professare un culto idolatra; 2º Non bestemmiare il santo nome di Dio; 3º Non commettere omicidio; 4º Non commettere adulterio; 5º Non commettere furti e rapine; 6º Osservare i principii fondamentali di giustizia; 7º Non cibarsi di un membro strappato o tagliato ad un animale vivo. Censimento del popolo. Fu pure nel primo giorno di questo secondo mese che Mosè, dietro ordine di Dio, invitava i capi delle dodici tribù d’Israele a fare il censimento degli uomini atti alle armi; vale a dire dagli anni 20 in su. Il risultato, esclusa la tribù di Levi, esente da pubblici carichi, fu di 603550. Quarant’anni dopo, nelle pianure di Moab presso alle rive del Giordano poco prima della sua morte, Mosè ordinò un secondo censimento che diede un totale di 601730. Non farà meraviglia alcuna la diminuzione nella cifra, se si considerano i disagi, le privazioni d’ogni specie sofferte dal popolo per tutto quel lungo lasso di tempo; e più di tutto per le mortalità che infierirono nel popolo per la deplorabile sedizione di Corahh, pel fatto degli esploratori, e per l’adorazione di Baal Peór. È antico assioma che la popolazione non aumenta che nella pace, nella prosperità e nell’abbondanza di ogni cosa. E posciacchè parliamo di censimenti, non crediamo fuori proposito segnalare quello ordinato da Davide circa 500 anni dopo il summentovato. Dopo le tante guerre sostenute per la conquista del paese che Dio aveva promesso al suo popolo, Davide sedendo finalmente tranquillo e sicuro sul suo trono; inviò il suo fedele generale Gioab per tutto il regno, onde conoscere il numero totale degli uomini atti alle armi che risultò di 1300000: fatto che dimostra evidentemente come la monarchia d’Israele fosse allora la più possente dell’Asia. Ma il precipuo intendimento che ci fece citare questo fatto, non fu quello di dare il numero dei soldati di cui Davide poteva disporre o segnalarne la conseguente prosperità del popolo; ma per dilucidare il luttuoso avvenimento che contristò Davide e Israele in tale occasione. Fatto il censimento pel quale si impiegarono 9 mesi e 20 giorni, una terribile pestilenza infierì nel popolo d’Israele miettendo in brevissimo tempo ottanta mila vittime. Lo storico sacro, lascia supporre che tale avvenimento fosse un castigo mandato appunto da Dio in causa del fatto censimento. Ma perchè ricorrere al sovrannaturale quando si tratta di un fatto che si spiega naturalmente con tanta facilità? Per adempire all’incarico avuto, Gioab e i suoi coadiutori si stabilivano sicuramente nei capi luoghi di provincia, ove dovevano convenire tutti i capi di famiglia. Anche ammettendo che non si trasandassero, cosa abbastanza difficile, i precetti d’igiene, pure una tale agglomerazione d’individui in paesi tanto caldi, non può recare meraviglia che abbia favorito lo sviluppo di qualche malattia contaggiosa; come non può recare meraviglia che costernato alla notizia che la pestilenza si avvicinava alla Capitale, Davide propiziasse Dio onde vi mettesse un termine accusando se stesso il solo autore di tante sventure. Conviene pure notare che alla narrazione del censimento, lo stesso storico fa precedere quale spiegazione l’avvertenza che Dio era adirato contro Israele per motivi che però non palesa, e che fu Davide stesso che scelse la pestilenza a preferenza della carestia o della rotta in guerra; onde, come disse egli, cadere nelle mani di Dio misericordioso, anzichè in quelle degli uomini. Ad ogni modo i due censimenti del popolo fatti eseguire da Mosè, per ordine espresso di Dio, dimostrano insussistente l’opinione che sia proibito di numerare il popolo sotto pena di pestilenza²¹. ²¹ Il su citato Abrabanel con chiare e convincentissime ragioni sostiene e dimostra la verità della su espressa opinione contro le argomentazioni di parecchi altri commentatori, i quali s’appoggiano oltre al fatto di Davide al primo paragrafo della lezione di _Chi tissà_, e col quale si obbligano i futuri numerandi del popolo a versare un mezzo siclo d’argento al tesoro del Tempio quale offerta di espiazione. Fondazione e inaugurazione del Tempio di Salomone. Un altro fatto della più alta importanza successe in questo mese. Resisi tributarii i più potenti popoli vicini, sin dagli ultimi anni del regno di Davide, Israele godeva di tutta quella prosperità materiale e morale, che può essere raggiunta da un popolo i cui destini sono confidati ad un re, che alla gloria delle armi seppe unire una sapiente amministrazione e una prudente politica. La Bibbia ci attesta che la pubblica ricchezza era salita a tale grado, che al tempo di Salomone l’argento aveva quasi perduto e pregio e valore. Davide che ad un animo religiosissimo univa le qualità di valentissimo musico e di altissimo poeta, non ancora soddisfatto delle lodevolissime disposizioni per le quali circondò di decoro e di ordine il Culto divino; manifestava un giorno al profeta Nathan il suo ardente desiderio di fabbricare una Casa degna del Dio d’Israele. Ma Dio non gli permise d’incarnare il suo pensiero nobilissimo; inquantocchè le sue mani avessero versato molto sangue. Ed era giusto. Il Tempio che è legame di pace, di amore e di concordia tra Dio e l’uomo e tra l’uomo e l’uomo; il Tempio ch’è quel sacro luogo ove il nostro cuore sollevandosi a Dio mercè la preghiera s’inspira alla virtù, alla carità, alla purezza; non poteva essere l’opera di un re conquistatore, per quanto le guerre da lui intraprese avessero un fine nobilissimo: la redenzione del patrio suolo e la grandezza del proprio popolo. Però per la sua predilezione per quest’uomo che fece tanto bene ad Israele, e che a fronte di alcune colpe da lui commesse aveva un cuore pio e santo, pieno di nobili e generose aspirazioni; Dio lo assicurava per bocca dello stesso profeta che suo figlio Salomone avrebbe effettuato il suo pio divisamento. Non erano infatti trascorsi che quattro anni dalla sua morte, quando nel secondo giorno di questo stesso mese di Iiar, Salomone valendosi degl’immensi tesori lasciatigli a tale uopo dal padre, pose le fondamenta del tempio i cui lavori ebbero la durata di sette anni e mezzo. La festa inaugurale fatta dopo la solennità di Sucoth fu di una splendidezza affatto eccezionale. Vennero sacrificati 22000 buoi e 120000 pecore²². Immensa fu la gioia del popolo che in quel grandioso, ricchissimo ed imponente edificio, oltre al vedere soddisfatto un suo lungo desiderio religioso, vedeva una prova palmare della sua grandezza e potenza e la consacrazione della sua unità religiosa e politica. ²² Si vedrà più lungi che dopo di avere lasciato all’altare e ai sacerdoti la parte ad essi assegnata dalla legge sui sacrifizii; il resto, cioè il più, serviva ad alimentare le turbe. La preghiera fatta da Salomone in tale occasione è degnissima di nota. Cominciò a ringraziare Iddio di tanti favori accordati al padre suo, e di quello poi insigne di avere reso lui stesso degno di dedicargli quella Casa; enumerò le diverse contingenze che avrebbero potuto condurre gli individui e il popolo intiero a versare la piena del loro dolore in quella Casa, da dove sarebbero usciti immancabilmente col cuore confortato; e finalmente con un sentimento di tolleranza tutt’altro che comune alle idee generali di quei tempi, così soggiunse: «E anche lo straniero non appartenente al tuo popolo che venisse a supplicarti in questa Casa, deh o Dio! ascolta la sua preghiera e compi i suoi voti; cosicchè tutte le nazioni, quanto il tuo popolo Israele, siano portati ad adorarti dalla cognizione della tua potenza e della tua bontà». ANTICHITÀ DOMESTICHE Abitazioni degli antichi Ebrei. Fra le nozioni delle antichità sacre, le più importanti a conoscersi sono, a nostro avviso, quelle che riguardano la composizione della famiglia, le basi su cui essa era fondata e i reciproci rapporti che ne univano i componenti. Però sia per l’importanza che hanno le abitazioni sull’igiene e sui costumi della famiglia stessa, e sia perchè la cognizione delle medesime serve per comprendere parecchie descrizioni degli autori sacri; crediamo indispensabile farvi appunto precedere un breve cenno sulle primitive abitazioni degli uomini: vale a dire sulle caverne, sulle capanne e sulle tende, per poscia parlare dei villaggi, delle città e delle case. § 1.—_Delle Caverne._ In sulle rive del mare Rosso e del golfo Persico, nelle montagne dell’Armenia come nelle isole Baleari e nell’isola di Malta, alcuni popoli non avevano altra dimora che antri scavati nel sasso onde furono detti _Trogloditi_, parola che deriva dal greco e che significa: «quelli che s’ascondono nelle caverne²³». Le montagne dell’Arabia, della Giudea e della Fenicia, erano in gran parte piene di tali sorta di caverne; che per essere molto ampie potevano dar ricetto a buon numero di persone. Maundrel nel suo _Voyage de Jerusalem_ (pag. 198) ci da la descrizione d’una caverna scoperta nei dintorni di Sidone, e tanto ampia da essere divisa in circa dugento camere ciascuna di dodici piedi in quadrato. E la Bibbia ci porge anch’essa parecchi esempi di tali abitazioni: È in una caverna che Loth si rifugiò colle figlie onde scampare all’eccidio di Sodoma; è in una caverna che si rifugiarono i cinque re inseguiti dai soldati di Giosuè dopo la totale disfatta dei loro eserciti; sono pure caverne le abitazioni che si procurarono gli Ebrei angariati ed oppressi dai Madianiti affine di salvare sè stessi e nascondere i raccolti dei loro campi; e finalmente è in una caverna ove Davide riparò coi suoi quattrocento soldati per isfuggire dalle mani di Saulle. Queste caverne dopo d’avere servito di usuali abitazioni e di rifugio ai perseguitati, divennero in processo di tempo depositi di morti, e asilo dei ladri. ²³ Il vocabolo ebraico _Hhorì_ (libero) è indubitatamente adoperato per indicare una tribù _Troglodita_ inquantocchè la radice di questa parola sia _hhor_ che significa: _foro_, _caverna_. § 2.—_Le Capanne._ Per utili che fossero le caverne, presentavano però inconvenienti per molti riguardi; il principale dei quali era la difficoltà di ridurle accomodate ai bisogni della vita. Per questo motivo esse dovettero ben presto venire sostituite dalle capanne _sucoth_, le quali vennero riconosciute tanto comode e vantaggiose in quei paesi caldi, che non andarono affatto in disuso anche quando l’arte ebbe inventate abitazioni più perfette e più sicure. § 3.—_Le Tende._ Per l’inconveniente che presentavano le capanne di non potere essere trasportate con facilità dalle popolazioni nomade, si dovette ben presto pensare a sostituirvi le tende _hóel_, che serbando l’identica forma della capanna, presentavano il vantaggio di essere trasportabili. Primieramente le tende venivano fatte con pelli d’animali, ma poscia s’impiegarono per esse tessuti di lana o di tela che stendevansi su pertiche, tenacemente conficcate al suolo col _iadéth_ (cavicchio), affinchè potessero resistere all’impeto del vento. Quantunque la S. Scrittura ci faccia sapere che i patriarchi vivevano in tende, ci fornisce però pochissime nozioni su tal sorta di dimore. Dalle descrizioni che alcuni viaggiatori moderni ci fanno delle tende degli Arabi, che da quanto si può presumere sono modellate su quelle dei più antichi loro padri, pare che le grandi tende fossero divise in tre parti: La prima parte che si trova alla stessa entrata è occupata dagli schiavi; la seconda è assegnata agli uomini; e la terza che ne forma il fondo, è riserbata alle donne. Quest’ultima parte è detta dagli arabi _alcobbah_, che indubbiamente corrisponde al vocabolo _kubbà_ ebraico adoperato nel Pentateuco per designare la camera cubicolare. L’abitudine e l’amore alla indipendenza d’una vita errante e campestre, aveva reso tanto famigliare agli antichi questa maniera di vivere sotto le tende, che la continuarono ancora molti secoli dopo che l’arte aveva inventate le case. Così fece Abramo quando entrò nella terra di Canaan quantunque il paese fosse pieno di città; così fece Giacobbe al suo ritorno dalla Mesopotamia presso la città di Salem; così fecero gli Ebrei in Gàlgala dopo entrati nella terra promessa; e così fanno oggigiorno diversi popoli dell’Oriente. § 4.—_Villaggi e Città._ Essendo gli uomini socievoli per natura, non appena si moltiplicarono sulla terra dovettero provare un prepotente bisogno di abitare a poca distanza gli uni dagli altri, per potere più facilmente prestarsi mutuo soccorso nei loro reciproci bisogni. «O la società o la morte», disse il leggendario Onì. La Bibbia ci somministra la prova di questo bisogno umano soddisfatto da Caino stesso, il quale fabbricò una città _ir_ o _kirià_ che chiamò _hhanoch_ dal nome del figlio. Subito dopo il diluvio, gli uomini si occuparono nuovamente a edificare diverse città fra le quali _Ressen_ la grande, che stava in mezzo alle altre due città Ninive e Cálahh. Le descrizioni dei viaggi fatti dai patriarchi nella Palestina e nell’Egitto, ci fanno persuasi che esistevano in quei paesi molte città governate da capi detti _melech_ re, _aluf_ duce dominante, _nascì_ principe. Gli esploratori andati a visitare la terra di Canaan assicurarono il popolo d’Israele di avere trovate città assai grandi e fortificate; prima di passare il Giordano le tribù di Gad e di Ruben edificarono città e fortezze a difesa delle loro famiglie che lasciarono al di qua di quel fiume. Non mancavano sicuramente i villaggi o borgate distinti col nome di _migrasc_, _hhavà_, _chefar_. Le città principali venivano possibilmente edificate su qualche altura, e spesso cinte da doppio e triplice ordine di mura. Il muro principale detto _hhomà_ era munito di tratto in tratto da alte torri, e aveva davanti un fosso profondo, oltre al quale era l’antimuro detto _hhel_. Innanzi alle porte della città e talvolta anche nell’interno d’essa, esistevano piazze _rehhovód_, che servivano tanto ai pubblici mercati, quanto a luogo di residenza dei magistrati per l’amministrazione della giustizia. Mancando allora le botteghe, si capirà facilmente che le mercanzie si tenevano esposte all’aperto sotto tende o capanne. § 5.—_Le Case._ All’ingresso degli Ebrei nella Palestina pare che trovassero le case _baiith_ tutte di un solo piano, sormontante da un terrazzo che serviva non solamente per passeggiare e respirare aria più pura, ma ancora per farvi i pasti e passarvi le notti della state. Egli è per questo motivo che il legislatore ebreo, sollecito e tenero del bene del suo popolo, non trascurando neanche le cose di minor conto trattandosi di evitare loro un qualche pericolo, aveva imposto con prudente ordinazione di guernire l’orlo del tetto di un muricciuolo o parapetto _maaké_ alto abbastanza per impedire le cadute. In processo di tempo gli Ebrei seppero fabbricarsi case ampie e alte particolarmente nelle grandi città, e decorarle non solamente con molto buon gusto ma con molto sfarzo, come avremo a convincercene quando discorreremo delle arti coltivate dai medesimi. In quanto alla disposizione degli appartamenti, sembra che la maggior parte delle case grandi e ricche avessero quattro ale o divisioni formanti un cortile quadrato detto _toch abaiith_ (corte interiore), e precedute da un cortile esterno detto _hhasser_, destinato a ricevere le persone che ordinariamente non venivano ammesse nell’interno della casa. È molto probabile che il quartiere delle donne fosse collocato nella parte la più remota, poichè quando Davide volle significare come si manifesti la benedizione di Dio su d’un uomo pio, si servì della seguente espressione poetica: «La tua moglie sarà quale feconda vite _beüarchethè bethécha_ (nella estremità della tua casa). I tuoi figli saranno quali giovani piante d’olivo, intorno al tuo desco»—Dalle profezie di Amos e di Geremia, si ricava che i ricchi avevano appartamenti distinti per l’estate e per l’inverno. Il primo che abbia parlato di cucina propriamente detta, è il profeta Ezechiele. Tanto le città quanto le case avevano porte _sáar_²⁴ di una o di due imposte. La porta formata di un’imposta sola si diceva _deleth_, e quella formata di due imposte _delathaim_. L’architrave si chiamava _mascof_ e gli stipiti _mezuzoth_. Certo si sa per insegnamento ricevuto sino dai più teneri anni, che questa parola fu traslativamente appropriata ad indicare un piccolo rotolo di carta pecora, rinchiusa in una canna o vetro, e contenente i due primi paragrafi del _Schemanh_ e che si pone nello stipite dell’uscio delle case dal lato diritto di chi vi entra. Sul di dietro di questa pergamena sta scritta la parola _sciaddaï_ che deriva dalla radice _sad_ mammella, e viene tradotta in italiano per: prima causa d’ogni cosa, onnipotente, provvidente²⁵. ²⁴ Questo vocabolo indica spesso il vuoto della porta e talora anche la città intiera o i cittadini o i magistrati suoi. Così il vocabolo _pedahh_ che preso da taluni nel senso dell’uscio, non ne indica che l’ingresso o il limitare. ²⁵ Questo precetto di Mosè parimenti a quello del _Sissith_ che doveva applicarsi ai quattro angoli degli abiti, e dei _Tefilin_ che si portavano al capo e al braccio sinistro tutto il giorno, e attualmente nel tempo della preghiera mattutina, hanno uno scopo solo: quello di mantenerci costantemente virtuosi impedendoci di dimenticare neppure un istante la presenza di Dio, e il dovere che abbiamo di non posporre all’interesse o ai diletti del senso i suoi sacrosanti ordini di lealtà e di purezza. Quanti peccati e diremo anche quanti delitti di meno avrebbe a deplorare la società qualora tutti gli uomini si ricordassero sempre ed ovunque che all’occhio di Dio nulla sfugge, e che per ripetere l’espressione di Davide, «le più fitte tenebre sono per lui luminose come il giorno!». Il timore di Dio purifica il cuore e lo fa forte contro le tentazioni. Non ci pare fuori di posto il seguente racconto: Un dottore stava per morire. I suoi discepoli che muti e tristi ne circondavano il letto colsero un istante in cui pareva che i suoi dolori gli concedessero una tregua, e lo pregarono di volerli benedire. Voglia Dio, rispose il dottore, che il di lui timore sia nei vostri animi tanto efficace, quanto è efficace il timore di un uomo. A questa benedizione i discepoli fecero tali atti di stupore che non poterono sfuggire al moribondo, il quale soggiunse: O figli miei! Non vi paiano strane o prive di valore le mie parole. Ditemi in grazia! Qual’è il pensiero che più preoccupa un uomo quando sta per commettere un’azione riprovevole? Di non avere testimoni che possano accusarlo; pensiero che fu espresso da Giobbe colle parole: «e l’occhio del malfattore attende la notte dicendo fra se stesso: non mi potrà scorgere occhio umano». Ora, se il timore di Dio parlasse altrettanto forte nel suo pensiero si lascierebbe egli trascinare al peccato? Le porte si chiudevano con _sbarra_ o _chiavistello_ detto _beriahh_. Quantunque nella Bibbia non si trovi una parola che si possa veramente tradurre per _serratura_ poichè la parola _manùl_ derivando da _naál_ (_calzare_, _chiudere_), probabilmente voleva indicare non una serratura ma un legaccio o una catena a cui si attaccava il _beriahh_; ciò nullameno rileviamo da Giuseppe che esse erano conosciute. Ed a parere nostro è probabilissima tale opinione, poichè nel racconto della morte d’Eglone ucciso da Aód²⁶ si dice che i servi di questo principe presero un _mafteahh_ (chiave), per aprire l’uscio che s’era chiuso dietro di sè l’uccisore. ²⁶ Morto Giosuè e tutti i suoi coetanei, che erano stati testimoni dei grandi fatti operati da Dio in favore di Israello; sorse una nuova generazione la quale lasciandosi adescare dagli ignobili e sensuali allettamenti dei riti del paganesimo, abbandonò prestamente la legge di Mosè, e contrasse matrimonii con donne straniere. In punizione della sua ingratitudine, Dio dava il suo popolo in balìa delle nazioni che Giosuè non ebbe tempo di vincere, e che ne facevano aspro governo. Ma quando angosciato e pentito, si rivolgeva a Dio supplicandolo di perdono e di soccorso; egli allora commovendosi alle sue miserie, inspirava qualche coraggioso cittadino a farsi suo difensore. Questi uomini vengono distinti col nome di _sciofethim_ (giudici) quantunque fossero in fatto veri _dittatori_ nominati talvolta da una sola tribù e talvolta da tutto il popolo intiero. Il primo di tali _sciofethim_, che vinse Cussan re di Aram, fu certo Othniel il figlio di Chenaz fratello minore di Caleb. Ma dopo quarant’anni di pace, gli Ebrei ritornarono da capo ai loro traviamenti; e Dio permise che fossero di nuovo angariati per diciotto anni da certo Eglon re di Moab. In capo a questo tempo Iddio inspirò certo _Aód_ di salvare i suoi fratelli. Ed ecco come avvenne il fatto. Costui fu incaricato di portare al re un presente, che probabilmente non era altro che una quota di tributo. Compiuta la sua missione e congedato il suo seguito, disse al re di avergli a confidare qualcosa d’importanza. Il re fece allontanare immantinenti tutti i suoi servitori, e scese dal trono. Convien sapere che il re era assai pingue e Aód mancino. Quando questi due uomini si trovarono di fronte, con un rapido movimento Aód estrasse un lungo coltello che teneva celato dal lato destro, e lo conficcò sino al manico nel ventre del re che cadde al suolo esanime. Aód uscì dalla camera chiudendo l’uscio dietro di sè; e arrivato nel monte di Efraim raccolse alcune migliaia di soldati: affrontò i Moabiti che presi alla sprovvista e mancando di direzione, vennero trucidati in numero di dieci mila. Questa vittoria apportò ottant’anni di pace. I mattoni sono designati nella Sacra Scrittura col vocabolo _levenim_ da _lavan_, bianco, perchè fatti di argilla bianca comunissima in Oriente. È singolare che il procedimento di formare e cuocere i mattoni, sia attualmente eguale alla breve descrizione dataci da Mosè nella Genesi. I legni che venivano adoperati principalmente negli edifizii erano il sicomoro, l’acacia, il palmizio, l’abete e l’olivo. Il cedro molto più prezioso di tutti questi s’adoperava soltanto negli edifici sontuosi. Nella descrizione della balaustrata fatta costrurre da Salomone, e che dal suo palazzo conduceva al Tempio, si parla d’un legno detto _almugghim_ o _algummim_. Isaia parla pure del legno _teascur_, tradotto per _bosso_, ma che forse non era che una specie di cedro. Le case d’_avorio_ di cui si parla nel libro dei Re e nelle profezie di Amos, venivano così dette per la grande copia di lavori d’avorio che le decoravano. § 6.—_Mobili._ Le nozioni che ci vengono somministrate dalla Bibbia relativamente ai mobili sono assai scarse. Nella descrizione dei sacri arredi del Tabernacolo non troviamo menzionati che gli specchi _maròd_ (fatti con rame lucente), la tavola _sciulhhan_, le caldaie _assirod_, i bacini _mizrecód_, le forchette _mizlegod_, le palette _mahhtod_, la lampada a più becchi _menorà_, il bacile _kearà_, e la conca _chior_. E così quando all’epoca dei re una signora di _Sunem_ propone al marito di fare allestire una camera appartata pel profeta Eliseo, non troviamo menzionata che una tavola, una menorà, una _mità_ (letto) e un _chissé_ (sedia). Ciò nullameno è indubitato che sino dai tempi di Abramo, i ricchi dovevano avere mobili quali potevano venire suggeriti dal bisogno e dal lusso, poichè le arti avevano già fatti progressi tali da occuparsi in oggetti di puro lusso per ornamento muliebre quali orecchini, anelli e smaniglie. ———— SIVAN (_Maggio-Giugno_) Coll’intervento divino manifestatosi coi grandi prodigi di cui noi parlammo nel mese di Nissan, Israele infrange le sue ritorte; con _mano alta_ esce da quella terra che fu tanto inumana per lui, e si accinge a conquistare il paese di Canaan promesso ai suoi antichi patriarchi, che già avevano avuto in esso lunga dimora. Ma colla libertà è indispensabile a tutti i popoli una educazione religiosa, civile e politica atta ad illuminare la mente di ogni singolo cittadino, e a fortificarne il cuore: onde quella stessa libertà, ch’è il più caro tesoro dell’uomo, non degeneri in licenza alterando il morale equilibrio della società e preparandole spensieratamente disordine e rovina. Egli è per questo che quasi appena data la libertà al suo popolo, Iddio stesso volle proclamare al suo cospetto, i principii fondamentali di quel codice eterno che col mezzo del suo servo fedele, Mosè, intendeva elargirgli. Ed ecco come avvenne questo fatto grandioso. Correva il terzo mese dacchè Israele era uscito dall’Egitto, ed era precisamente il giorno sesto di Sivan, quando frammezzo a spessa nuvola, preceduto ed accompagnato da spaventoso fragore di tuoni e da terribili lampi; Iddio stesso proclamava sul Sinai il Decalogo²⁷: compendio religioso-morale non solo d’Israele, ma della intiera umanità; inquantocchè esso racchiuda i principali e massimi doveri che la religione e la morale reclamano imperiosamente da ogni individuo. Il solo primo di questi precetti ha un carattere tutt’affatto speciale verso al popolo d’Israele; perchè con esso Iddio, si dichiara tale per lui, per averlo tratto dalla schiavitù d’Egitto. ²⁷ Decalogo è voce greca, che significa _dieci parole_ ed è la esatta traduzione dell’espressione ebraica _Ascered adevarim_ o _Ascered adiberoth_. I nostri dottori sempre solleciti a valersi di qualunque fatto da cui si potesse ricavare qualche morale insegnamento, fecero rimarcare la predilezione che ha Dio pei deboli e modesti dal fatto, che per dare la legge al suo popolo, Egli scelse il Sinai ch’è una delle più basse montagne dell’Arabia. Preparato tre giorni innanzi a santo raccoglimento con corporali astinenze purificatrici del corpo e dello spirito, il popolo intiero, uomini, donne e fanciulli furono testimonii di questo grande avvenimento. «Domanda alle generazioni che furono, dice Mosè a Israele, dall’una all’altra estremità della terra, dal dì che Dio pose l’uomo sulla terra sino al giorno d’oggi, se mai abbia avuto luogo ciò che successe a te; che Dio stesso siasi rivelato ad un popolo intero circondato da un fuoco avvampante ed abbia proposto direttamente a lui le basi del suo patto!²⁸» È Dio stesso che col primo precetto abolisce in massima ogni sorta di schiavitù²⁹ e di caste³⁰; proclama colla sua Unità la eguaglianza fra tutti gli uomini componenti l’Assemblea di Giacobbe, perchè tutti indistintamente trasse dall’Egitto da casa di schiavi. «Presso di loro (gli Ebrei), dice a questo proposito l’abate Gúenée, nissuna di quelle ingiuriose distinzioni di casta stabilite presso gli Egiziani ed i Romani; nè quell’oltraggiante disdegno d’un ordine di cittadini per l’altro; nissuna di quelle barbare istituzioni che altrove riuniscono _in una parte_ della nazione i privilegi e l’autorità.... Tutto conduceva all’eguaglianza naturale». E D. Calmet diceva a questo proposito: «Tutta la legge è nell’interesse della nazione intiera, e non del tale o tal altro privato. Le distinzioni sociali non possono essere basate che sull’utilità comune». ²⁸ In altro luogo si troveranno schiarimenti su questa espressione, quantunque nel mese precedente a questo, abbiamo già riportato le parole di un nostro illustre filosofo su tali espressioni bibliche, che prese letteralmente parrebbero umanizzare Iddio, cosa questa che sarebbe in perfetta contradizione collo spirito che informa tutta la legislazione mosaica. ²⁹ Nelle nozioni archeologiche che daremo sulla famiglia saremo necessariamente portati a parlare della schiavitù presso gli antichi ebrei; e dalle nostre parole risulterà con evidenza che se Mosè non l’abolì pienamente di fatto, ciò fu per una concessione a certe idee o bisogni affatto temporanei come avvenne per la poligamia e pei sacrifici: ma che tale concessione fu da lui subordinata a tante restrizioni da renderne l’applicazione assai più apparente che reale. ³⁰ Naturale conseguenza della unità della razza umana proclamata dal Genesi e confermata dalle scoperte dei secoli posteriori. Perchè, domandano i nostri dottori, fu creato un sol uomo ad essere padre di tutte le generazioni della terra? Per darci due ammaestramenti. Il primo è che chi uccide un uomo è come distruggesse un mondo, e chi salva un uomo è come salvasse un mondo; il secondo è per mantenere la pace fra l’umana società, affinchè una generazione non possa dire all’altra: «il padre mio fu più grande del tuo». Col secondo precetto Iddio raccomanda di non adorare idoli, di non fare immagini nè figure di qualunque oggetto esistente nel cielo, nella terra e nelle acque; poichè egli, Dio geloso, punisce i peccati dei padri sui figli sino alla terza e quarta generazione, ed usa con benevolenza coi suoi amici sino alla millesima generazione. Come! esclamarono in ogni tempo ed esclamano tuttavia i detrattori della Bibbia. Il Dio di Mosè partecipa dunque a tutte le umane passioni? Sente gelosia, serba rancore, prova il bisogno di vendetta? Nè basta ancora che punisce i figli per le colpe dei loro padri e dei loro avi?—Eppure niente di più erroneo di questo ragionamento. Dopo la fatta proibizione di tracciare immagini, che per le impressioni portate seco dall’Egitto e per l’esempio di tutte le nazioni da cui erano circondati sarebbero stati immancabilmente condotti ad adorarle; Iddio proclama una verità naturale, un fatto che si rinnova ogni giorno³¹. Daltronde la Bibbia intiera protesta contro una tale supposizione. Ne citeremo alcuni esempi: Tra i consigli e gli ordini che Mosè stesso impartisce ai giudici onde non si lascino influenzare da verun sentimento di debolezza verso il potente, di commiserazione verso il povero ecc.; troviamo la seguente raccomandazione: «Non saranno fatti morire i padri per i figli nè i figli per i padri: il colpevole solo sarà fatto morire». Ed è inspirato a questo principio di giustizia che Ezechiele rivolge le seguenti parole agli abitanti della terra d’Israele: «Che andate voi ripetendo questo proverbio: i padri mangiarono l’agresto e i denti dei figli sono allegati? L’uomo giusto vivrà; se il figlio è tristo, quel figlio morrà; se il figlio d’un uomo tristo non imita il padre vivrà sicuramente. La probità del giusto starà sopra di lui, e la malvagità dell’empio sopra di lui resterà. Quando il giusto si ritrarrà dalla sua probità e commetterà inique azioni, egli perirà a cagione di quelle. E quando l’empio si ritira dalle malvagità che commetteva e pratica giustizia ed umanità, egli si procura la vita». ³¹ La infinita misericordia di Dio si è rivelata, mediante questo testo all’umanità nel più sublime dei suoi aspetti. Niuna mente umana avrebbe potuto concepire ed esprimere la distinzione tra gli effetti del bene e quelli del male. Appena, adesso, dopo il tesoro raccolto di secolari minutissime osservazioni fisiologiche, morali e metafisiche, la scienza umana è giunta a constatare la verità di questa Bibblica dottrina, che, cioè, i risultati delle opere malvagie cessano prestamente alla terza e quarta generazione che vi perduri, perchè il male distrugge sè medesimo, ma il bene reca frutti perpetui che non cessano per volgere di secoli, e determinano il perfezionamento umano e la umana felicità. _Mortara._ _La Religione Israelitica_, pag. 160. Nel libro dei re vediamo l’adozione pratica di questa equa disposizione. Il cronista sacro dopo avere raccontato come il re Amassià abbia punito colla morte gli uccisori del proprio genitore; aggiunge la seguente considerazione: «E i figli degli uccisori non fece morire, uniformandosi a quanto sta scritto nel libro della legge di Mosè comandata da Dio: «Non saranno fatti morire i padri pei figli nè i figli pei padri: il solo colpevole subirà la morte». Col terzo precetto si proibisce di proferire il nome del Signore per cose vane. Quel santo nome che ci richiama alla mente quell’Essere infinito centro di ogni perfezione, amore e delizia di ogni anima pia; non può e non deve venire pronunziato che nelle nostre preghiere e per motivi gravi, e con quel rispetto e con quella venerazione che per noi si può maggiore. Col quarto ordina la santificazione del sabbato in memoria della creazione del mondo. Conviene però avvertire che la santificazione del sabbato non consiste unicamente nel riposo fisico, che anzi questo non deve servire se non quale mezzo onde elevare a Dio il nostro cuore e la nostra anima mercè la preghiera, la vita in famiglia e l’istruzione. Nella stessa guisa che dopo sei giorni di lavoro attivo il corpo necessita di un giorno di riposo, così l’anima dopo i pensieri che la tennero più che occupata, diremo quasi totalmente assorbita, negli interessi materiali per tutta la settimana; ha bisogno di un giorno di riposo, onde poterlo dedicare al suo perfezionamento ed acquistare la cognizione esatta dei proprii doveri religiosi e morali. È questo appunto il doppio benefico fine dell’instituzione del sabbato, assai bene definito dai nostri dottori colle parole: _hhassì l’Adonai_ (metà a Dio per l’istruzione religioso-morale) _vehhassì lachem_ (e metà a voi pel riposo del corpo e pei leciti passatempi). Gli altri sei non sono che principii di morale e di giustizia e quindi universali per tutti gli uomini. Onora tuo padre e tua madre; non commettere omicidio; non commettere adulterio; non rubare; non attestare il falso; non desiderare cosa alcuna che appartenga al tuo prossimo. Questo decimo precetto, dice il Medrass, controbilancia tutti gli altri. Il desiderio delle cose altrui, l’avidità di possederle è la principale sorgente di tutti i misfatti. Non rivolgiamo mai la nostra bramosia su qualsiasi oggetto che appartenga al nostro prossimo, siamo moderati nei nostri desiderii i quali non debbono mai oltrepassare la nostra possibilità di appagarli; padroneggiamo le nostre passioni e non lasciamole mai sortire dai limiti consentiti dall’onestà e dal dovere; contentiamoci dello stato in cui ci pose la Provvidenza: e collo spirito calmo, col cuore soddisfatto riconosceremo allora la profonda sapienza che dettò ai nostri dottori il seguente aforisma: «Essere vero ricco colui che è contento del proprio stato». Fu appunto per solennizzare questa divina rivelazione che venne instituita la festa del _mathan torà_ (proclamazione della legge) o _savuod_ (delle settimane), perchè accade sette settimane dopo il primo giorno di Pasqua. S’intitola pure, _iom abicurim_ (giorno delle primizie): poichè in tale giorno si rendevano a Dio solenni azioni di grazie per la messe con apposite offerte e sacrificii. Questa festa stabilita un sol giorno si portò a due pel motivo già indicato nella festa di Pasqua. Società domestica presso gli antichi ebrei. § 1.—_Matrimonio._ «Corrotti i costumi, dice un giudizioso autore³², non v’ha più famiglia, non affetti domestici, non più pace e confidenza nel commercio della vita; ma solamente mistero e perfidia sotto il medesimo tetto paterno». Il matrimonio quale venne stabilito da Dio all’aurora del mondo, era naturalmente contrario ad ogni specie di disordine e di licenza: pure, malgrado il diluvio, la corruzione generale fece di bel nuovo sì rapidi progressi, che al tempo di Mosè non solamente si commettevano laidezze brutali, ma gli atti più osceni erano divenuti presso molti popoli parte essenziale del loro culto religioso. ³² _G. S. Cellèrier_, _Esprit de la legislations Mosaïque_. Temendo Mosè che il popolo ch’egli voleva _santo_ e _modello_ a tutti gli altri tanto per civile e religiosa sapienza quanto per la purezza dei costumi, si lasciasse sedurre dallo esempio dei popoli vicini, non lasciò intentato nissun mezzo onde premunirlo contro la corruttella e la licenza dei costumi. Statuì il maggior riparo alla seduzione, prescrisse severissime pene per l’oltraggio al pudore, per l’infedeltà delle mogli e l’adulterio dei mariti. In più luoghi poi non cessa di ricordare che la distruzione totale dei Cananei, comandata da Dio, era appunto la punizione delle loro stomachevoli e laide azioni per le quali la terra stessa contaminata e polluta, ne li rigettava dal suo seno. La monogamia, ovverosia l’unione di un solo uomo con una sola donna, è l’instituzione primitiva del matrimonio. Lamech fu il primo che contravvenne a questa disposizione sposandosi a due donne Adà e Sillà. Quantunque Mosè non abbia abolito di fatto la poligamia, sia perchè vi trovò un ostacolo nel clima per cui quell’uso si era generalizzato (e dura tuttavia oggigiorno in quelle contrade), e sia per non dare accesso ad altri mali maggiori; nulladimeno ne dimostrò le fastidiose conseguenze con esempi pratici, e tentò di impedirla con savie disposizioni. Egli ricordò: 1º che la monogamia era d’instituzione divina e che Noè e i suoi tre figli, i patriarchi³³, Giuseppe, lui stesso³⁴ ed Aronne suo fratello, erano monogami; 2º espose i disordini, le contese, le dissenzioni che spesso provengono dalla poligamia; 3º proibì ai monarchi futuri la grande copia di mogli onde «non abbiano a corrompere i loro cuori». ³³ Se Abramo tolse Agar, ciò fu per consiglio della stessa sua moglie Sara oltremodo addolorata di non avere prole; e se Giacobbe ebbe quattro mogli ciò è da attribuirsi intieramente alle circostanze speciali che ne lo obbligarono. ³⁴ Un passo del Pentateuco piuttosto oscuro lascierebbe supporre che precedentemente a Zeffora Mosè avesse sposato una donna mora _Cussid_. Più avanti nella vita di Mosè si troverà qualche schiarimento su questo fatto. Da parecchi passi della scrittura si raccoglie che la richiesta in matrimonio era fatta dal padre stesso del giovine. È Abramo che manda Eliezer a chiedere Rebecca in moglie ad Isacco suo figlio. Sansone avendo vista in Timnà una ragazza Filistea che gli piacque, ne rese consapevoli i proprii genitori; e li pregò a volersi portare colà e richiederla per lui in moglie. Tra gli sponsali _eresc_, e la ceremonia delle nozze vi correvano per lo più, secondo quanto insegnano i Rabbini, sei mesi od un anno. Quest’opinione si fonda sulle parole che Labano rispose ad Eliezer dopo la conclusione degli sponsali tra la sua sorella Rebecca ed Isacco. Insistendo quegli per l’immediata partenza, Labano gli rispose: «Stia la ragazza presso di noi un anno o dieci mesi e poscia se ne andrà». Checchè ne sia, il matrimonio avevasi per conchiuso dal dì degli sponsali. Egli è perciò che qualora il fidanzato, dopo gli sponsali, si fosse rifiutato di contrarre matrimonio definitivo, era obbligato di dare lettera di divorzio alla sua fidanzata; e se per altra parte la fidanzata fosse caduta in fallo con altr’uomo, veniva trattata siccome adultera. La ragazza, raggiunta la sua età maggiorenne, 12 anni³⁵, non poteva in niun modo venire obbligata ad accettare uno sposo suo malgrado, e a sua istanza i tribunali annullavano qualunque impegno preso da suo padre anticipatamente. L’unico caso in cui la fanciulla non godeva piena libertà di sposarsi a chi meglio le talentava, era quando mancando di fratelli essa veniva dichiarata l’ereditiera del patrimonio paterno; perchè in questo caso la sua scelta doveva cadere su un giovine della stessa tribù, alla quale apparteneva ella stessa. ³⁵ È quasi superfluo che noi facciamo riflettere che in quel clima caldissimo lo sviluppo fisico dell’uomo era, ed è, assai più precoce che nei nostri paesi. Da principio la celebrazione del matrimonio non era considerata che quale contratto puramente civile, epperciò spoglio di qualunque ceremonia religiosa. Il padre o il più autorevole dei parenti impalmava i giovani sposi, impartiva loro la benedizione nuziale, ed invocava su loro i favori divini. Ai giorni nostri è il rabbino quello che ordinariamente benedice la giovine coppia, e legge l’atto del contratto redatto in lingua rabbinica (ebraico-caldaica)³⁶ scritto sopra un foglio di pergamena e da consegnarsi poscia al padre della sposa. ³⁶ La formula di cotest’atto detto _chedubà_ (scrittura) è certamente dei tempi dei Talmudisti. Pensiamo non essere fuori di posto il darne qui la traduzione. Il giorno..... della settimana, alli..... del mese... dell’anno... dalla creazione del mondo, in questa città..... posta presso al fiume..... Isacco figlio di..... disse a Rebecca figlia di..... sii mia sposa secondo la legge di Mosè e di Israele. E io prometto di provvedere ai tuoi materiali bisogni secondo l’uso dei mariti ebrei, che condegnamente provvedono i necessari alimenti ed indumenti alle loro mogli. Oltre a ciò ti prometto l’amicizia coniugale cosa comune a tutti i popoli della terra. Rebecca consente a divenire moglie d’Isacco e gli porta in dote la somma..... alla quale lo sposo aggiunge la somma... onde essa abbia in totale..... Questa dote e donazione lo sposo garantisce e assicura sui suoi beni presenti e futuri. E noi testimoni accertiamo ecc. Sette erano i giorni dedicati a festeggiare gli sposi come pare che risulti dalle parole di Labano a Giacobbe, dalla storia di Sansone, e dall’uso costantemente mantenutosi sino ai giorni nostri. E non erano i soli parenti ed amici che partecipavano alla loro letizia, ma lo Stato medesimo prendeva sensibile interesse alle gioie degli sposi; poichè Mosè ordinò: «che qualunque novello sposo non fosse soggetto alla leva nè venisse sottoposto a verun carico pubblico per un anno intiero; onde se ne stesse a casa sua occupato a rallegrare la moglie che prese». Il vocabolo _pileghesc_, che si trova tanto spesso nella scrittura, viene tradotto in italiano impropriamente per _concubina_ poichè il suo valore è tutt’altro. La _pileghesc_ era moglie legittima ma inferiore alla padrona di casa. Ciò che la distingueva dall’_Hissà_ (moglie), era la non celebrazione a di lei riguardo delle cerimonie di sposalizio. § 2.—_Levirato._ Il levirato, _Jibum_, è una legge in forza della quale il fratello doveva sposare la vedova del fratello rimasta tale senza prole; attribuire legalmente al defunto il primogenito dei figli che avrebbe procreato da quella donna, e trasmettergli la eredità dello stesso³⁷. Questa legge era antichissima poichè noi la troviamo già praticata da Giuda in favore di Thamar sua nuora. Mosè adottandola non ingiunse che venisse applicata inesorabilmente in tutti i casi. ³⁷ «Onde non venga cancellato il nome suo in Israele» dice il testo: ciò che prova che esistevano fra gli ebrei tavole genealogiche nelle quali s’inscrivevano tutti i padri di famiglia. Un regolamento particolare esentava il re dal dovere del levirato onde non esporlo alle umilianti conseguenze del rifiuto. Il sommo pontefice ne era escluso di diritto essendogli per legge proibito di sposare una vedova. E ciò con molta ragione perchè se da un lato essa aveva per oggetto di procurare uno stato alla vedova, di trasmettere ai posteri il nome di un caro parente, di moltiplicare le famiglie e favorire l’accrescimento della popolazione; non v’ha dubbio che dall’altro lato essa poteva cagionare molestie ed inconvenienti: sia nuocendo alla libertà dei maritaggi, sia danneggiando gli interessi delle famiglie. Fu per quest’ultimo motivo appunto che Ruth venne rifiutata in moglie dal più prossimo di lei parente. Mosè lasciò pertanto piena libertà al cognato di rifiutarsi di contrarre tal legame, ma lo sottomise alla seguente cerimonia. La donna presentavasi agli anziani della città ed esponeva loro il rifiuto avuto dal cognato colle seguenti parole: «Il mio cognato ricusa di far risorgere in Israele il nome di suo fratello, egli non vuole compiere verso di me il dovere di cognato». Gli anziani facevano venire quell’uomo alla loro presenza, e lo consigliavano ad adempiere al suo dovere, ma se egli persisteva nel suo rifiuto e ripeteva: «Non voglio pigliarla»; allora la sua cognata gli si appressava e in presenza degli anziani e di molti assistenti, gli levava la scarpa dal piede, gli sputava in faccia e gli diceva: «Così si fa all’uomo che non vuole edificare la casa del proprio fratello³⁸». Ed egli veniva chiamato in Israele: «La famiglia dello scalzato³⁹». ³⁸ Per farsi un’idea giusta di quest’atto che a molti parrà strano e spregevole, bisogna considerare che esso veniva compiuto da una donna che oltre all’affronto personale che riceveva con tale rifiuto, vedevasi tolta per esso la protezione e l’appoggio del fratello del proprio marito, vale a dire di colui che la natura e la legge avevano designato per primo suo amico e difensore. ³⁹ Opinano taluni commentatori, che l’uomo che si rifiutava a sposare la cognata e quindi a perpetuare il nome del fratello, perdeva il diritto di perpetuare il suo, che più non compariva nei registri: e la sua discendenza portava il nome non di famiglia del tale, ma sì di famiglia d’un anonimo, nota soltanto sotto l’ignominioso nome di: «scalzato». Naturalmente si redigeva un atto col quale la donna era dichiarata libera di sposarsi ad altro uomo. Il Talmud ci trasmise copia di tale atto che noi non accenniamo per la sua lieve importanza. § 3.—_Moglie sospetta._ Dissero i nostri dottori: «L’adulterio genera la maledizione ai padri. La donna infedele allo sposo mentisce a lui e mentisce a Dio; perchè è il Signore che ha accolto il suo giuramento e le fa legge di osservarlo». Per quanto Mosè non abbia trascurato veruna occasione per raccomandare la illibatezza dei costumi; per quanto egli ne abbia promossa la realizzazione con prescrizioni eccellenti; cionullameno ben prevedendo che non sarebbero bastate le persuasioni per impedire il mal fare per quelle perverse nature che non difettano mai, neanche nelle società le meglio ordinate, fece pure appello al rigore statuendo la morte per pena dell’adulterio. Ma come pur troppo può succedere che certe nature sospettose si lascino acciecare dalla passione, e sognino il male ove esso non esiste veramente; per questo Mosè nell’intendimento di sottrarre la moglie sospetta dall’ira del marito, la sottopose ad un rito che può appellarsi _giudizio di Dio_, poichè a lui solo _scrutatore delle reni e dei cuori_, se ne lasciava appunto la decisione. Ed ecco in che consisteva questo rito. La donna sospetta veniva condotta dal proprio marito al cospetto del sacerdote con un’offerta detta di _Gelosia_, e nella quale non mettevasi nè olio nè incenso come usavasi per le altre offerte. Il sacerdote poneva tale offerta tra le mani della donna: quindi dopo di avere preso in una delle sue proprie mani un vaso di terra con entro dell’acqua consacrata, rivolgeva la parola alla donna stessa e le presagiva i mali orribili che le avrebbe causata quell’acqua, qualora essa si fosse trovata colpevole. Scriveva in un _Sefer_ (libro) tali sue dichiarazioni, le cancellava nell’acqua⁴⁰, e poscia porgeva quell’acqua alla donna affinchè la bevesse. ⁴⁰ Vedete, dissero i dottori, quanto torni cara a Dio la concordia domestica, che per ricondurla in una famiglia permise che il santissimo suo nome fosse cancellato nell’acqua. Lo scritto era del seguente tenore: «Se tu sei innocente e pura della colpa che si sospetta in te, sarai esente della malefica virtù di quest’acqua amara e maledetta; ma se invece sei colpevole, e tradisti la fede giurata a tuo marito, Iddio farà sì ch’essa ti apporti una morte pronta e crudele e la tua memoria resterà ignominiosa frammezzo al tuo popolo». La donna era obbligata a rispondere: «Amen, amen». I talmudisti riferiscono che quest’uso venne abolito alcuni anni prima della distruzione del Tempio: poichè posta in dimenticanza la legge di Dio, corrotti i costumi e fattosi comune l’adulterio fra gli stessi mariti, Iddio aveva privato d’efficacia una simile prova. § 4.—_Divorzio._ «Allorquando il consorzio coniugale è ordinato, concorde e puro la divinità aleggia su di esso, se no se ne diparte lasciandovi lo spirito del male ad esercitare la sua triste influenza»⁴¹. Come nell’ordine fisico gli uomini diversificano l’uno dall’altro per la Conformazione delle membra e per la regolarità e venustà della loro disposizione, altrettanto avviene nell’ordine morale: differenziando essi l’uno dall’altro per istinti, per indole, per passioni, per coltura dell’ingegno e per la sensibilità dell’animo. Supponendo ora l’unione di due persone di sesso diverso e dotate di un carattere morale totalmente opposto, è cosa naturale la persuasione che si andrebbe incontro a tristi conseguenze, la minore delle quali consisterebbe nella infelicità di entrambi i coniugi, nel volerli tenere avvinti con un nodo indissolubile. ⁴¹ Sotà, cap. 2. E fu appunto la possibilità, pur troppo, non rara di tale eventualità che consigliò a Mosè la instituzione del divorzio⁴². Secondo la legge era il marito solo che aveva il diritto di dare il divorzio alla moglie qualora avesse trovato in essa qualche _ervath davar_ (qualcosa di sconcio)⁴³. Era però permesso alla moglie di citare innanzi ai tribunali il marito qualora esso avesse mancato a qualche clausola del contratto matrimoniale; e dopo parecchie rimostranze persistendo esso nella sua sleale condotta verso la moglie, questa veniva dichiarata ripudiata di fatto e libera di sposarsi ad altr’uomo. ⁴² Il divorzio non viene ammesso dalle nazioni cattoliche perchè contrario ai loro principii religiosi. Vi fu solo introdotta _la separazione dei coniugi_. Non è nostra intenzione l’enumerare gli inconvenienti di tutt’altra specie, ma a parer nostro senza dubbio maggiori, che presenta questa legge su quella mosaica. Ci limiteremo solo a constatare che non solamente vi furono altravolta autorevoli giureconsulti e scrittori di vaglia che propugnarono la instituzione del Divorzio; ma che progetti di legge furono presentati in questi ultimi tempi alle assemblee nazionali di Francia e di Italia a tale scopo: e che in ambidue i paesi si tengono pubbliche conferenze per dimostrare che colla sua adozione non solamente sarebbero resi alla felicità molti sventurati, ma che sarebbe ridotto d’assai il contingente delle prigioni e dei bagni. ⁴³ È probabilissimo che nella mente di Mosè l’espressione _ervath davar_ stesse per qualificare l’adulterio. Certo nei tempi posteriori quando la religione, e con essa, la virtù perdettero d’efficacia e la licenza ebbe il sopravvento nel popolo, il divorzio prese maggior estensione. Si fu allora che le due scuole di Hillel e di Sciammaï disputavano sui motivi che potevano legittimare tale atto, patteggiando la prima anche per motivi meno gravi. Dobbiamo però affrettarci a soggiungere, che erano tanto complicate e minuziose le formalità che si richiedevano per quest’atto: erano tali i consigli che il magistrato era in dovere di porgere all’offeso marito, da disporlo sicuramente a più miti pensieri ove non fosse stato indotto a tal passo da motivi seriissimi, o da invincibile incompatibilità fisica o morale. Pei due seguenti casi particolari il marito perdeva il diritto di ripudiare la moglie: 1º In caso di seduzione della sua propria moglie prima delle nozze; 2º Se dopo sposata l’avesse calunniosamente accusata d’impudicizia innanzi ai tribunali, o sottoposta alla prova delle acque amare. Nonostante il divorzio il marito poteva riconciliarsi colla moglie e riprenderla, semprechè essa non fosse passata ad altre nozze. Riguardo all’atto stesso del ripudio Mosè si limita a dire: «e scriverà a lei una carta di ripudio e gliela consegnerà in propria mano, e la manderà via di casa sua». I nostri Rabbini ci tramandarono la formula di tale carta di ripudio e concepita nei seguenti termini: «Il giorno... della settimana... del mese... dell’anno... dalla creazione del mondo, in questa città... posta sul fiume... io... così chiamato figlio di... di mia propria volontà e senza esservi costretto in nissun modo, ho voluto rimandare e rimando te... figlia di... già mia moglie, e ti permetto di andare ove ti piacerà, di contrarre matrimonio con qualunque altro uomo senza che veruno possa impedirlo. In fede del che le ho rimesso la presente lettera di ripudio, polizza di rimando, certificato di divorzio secondo la legge di Mosè e d’Israele». ———— THAMUZ (_giugno-luglio_) Verso la metà di questo mese cominciano i giorni nefasti ad Israele. Sei sono i digiuni stabiliti nel corso dell’anno. Quello della espiazione _chipur_ l’unico comandato da Mosè; quello di Ester il giorno precedente a Purim, istituito in commemorazione del digiuno raccomandato da quella Regina agli Ebrei di Susa, onde implorare da Dio la sua protezione prima di esporsi al pericolo di morte, presentandosi non chiamata ad Assuero; e quattro ordinati dai Profeti. Il primo di questi quattro digiuni per ordine di tempo è quello che accade il giorno 17º di questo mese. In origine esso si faceva ai 9 di questo stesso mese, per commemorare il triste avvenimento della breccia aperta nelle mura di Gerusalemme, dalle armi di Nabucodonosorre re dell’Assiria; ma fu posteriormente trasportato ai 17 sia per commemorare l’altra breccia che in tale giorno fu aperta nelle medesime mura dai Romani, i quali in tale congiuntura si impadronirono della parte bassa della santa città; e sia per commemorare altri quattro luttuosi avvenimenti che si credono successi in tale giorno. Questo avvenimento fu il triste preludio della caduta di Gerusalemme, e dello sfacelo della politica esistenza della nazione di Israele che non tardò a verificarsi, e di cui tratteremo diffusamente nel mese venturo: e il principio per la nostra sventurata nazione di quella lunga serie di mali non ancora chiusa, pur troppo, in certe contrade dopo oltre 18 secoli. § 5.—_Fanciulli_. L’onore attribuito alla fecondità e l’obbrobrio di cui erano coperti nell’opinione nazionale il celibato e la sterilità, influivano assai sull’accrescimento della popolazione degli Ebrei. La tradizione poi colle sue speranze e le sue promesse tendeva come le loro instituzioni a produrre questo effetto. La posterità di Abramo doveva essere numerosa come le stelle del cielo e come l’arena del mare; e nella benedizione del padre non mancava mai l’augurio di numerosa prole. «Non sarà in te nè uomo nè donna sterile, dice Mosè al popolo d’Israele, fra le promesse di premii, che fa loro per l’osservanza delle leggi di Dio». Era pertanto naturale che una famiglia numerosa fosse tenuta quale benefizio e benedizione di Dio ed un titolo di gloria in Israele, come la privazione di prole un castigo celeste ed una vergogna. «Oh dammi dei figli, esclama con amarezza la dolente Rachele a suo marito, altrimenti io mi muoio». E quando finalmente Dio esaudì le sue supplicazioni e le concesse il figlio tanto ardentemente desiderato, ella lo chiamò Giuseppe (aggiungerà), pregando Dio che gliene volesse concedere un secondo. «Oh questa volta io debbo ringraziare e lodare Iddio che mi concesse un quarto figliuolo», diceva lietissima la sua sorella Lia. E la povera Anna? Benchè teneramente amata dal marito, noi la troviamo ai piedi dell’altare di Dio supplicandolo a toglierla all’onta della sterilità, e promettendo di consacrare al suo servizio il figlio che sarebbe per concederle. E tanto profonda era l’amarezza del suo cuore, e così assorta essa era nel pregare da rimanere insensibile a quanto la circondava; sicchè il vecchio Elì ingannato la rampognava qualificandola ebbra. «La moglie tua, dice Davide, sarà qual vite feconda nell’interno di tua casa, i figli tuoi quali rampolli d’olivo intorno alla tua mensa. Così è benedetto l’uomo temente Dio.... E tu vedi i figli dei figli tuoi, pace su Israele». § 6—_Circoncisione._ In origine pare che fosse la madre quella che designava il nome del figlio e che glielo si imponesse al momento della nascita. Così si rileva da diversi passi della Genesi. Però in seguito il nome si imponeva ai figli maschi all’atto della circoncisione, e si solennizzava tal giorno con un banchetto e con altri segni di giubilo: costume che si segue ancora oggigiorno ovunque. Dio comandò ad Abramo di circoncidere ogni fanciullo maschio nel giorno ottavo dopo la sua nascita. Pertanto, la circoncisione, specie di suggello impresso sulla stessa nostra carne, era ed è destinata a distinguere il popolo d’Israele da ogni altra nazione e a ricordargli continuamente il patto conchiuso tra lui e Dio. Ma a questo motivo principale bisogna aggiungerne altri di minor importanza, quali sarebbero la preservazione di alcune malattie spesso mortali nei paesi caldi. Nulla determina la legge nè sul ministro, nè sullo strumento della circoncisione. Zèfora moglie di Mosè, vedendo in pericolo la vita del marito nel loro viaggio verso l’Egitto per la trascuranza⁴⁴ di tale precetto, ella stessa circoncide suo figlio con una pietra affilata. Ed è pure con un tale strumento che appena passato il Giordano, Giosuè fece circoncidere tutti i maschi nati nei quarantanni che Israele errò nel deserto e che non vennero circoncisi. Secondo il Talmud è il padre stesso che dovrebbe circoncidere il figlio: ma richiedendosi per tale operazione speciali cognizioni e perizia, per schivare quei pericoli che potrebbero risultarne pel circonciso, essa viene praticata o da chirurghi o da persone che vi si dedicano dopo fatti gli studi necessari. ⁴⁴ Questa trascuranza non provenne sicuramente che dalla fretta di Mosè di adempire al mandato che ebbe da Dio di portarsi da Faraone o dal timore che il bambino avesse a correre qualche pericolo nel viaggio. Fra tutti i popoli antichi il padre poteva trasferire i diritti di primogenitura, che erano immensi, su qualunque dei suoi figli. Mosè tolse ai padri questo diritto che era indubitabilmente fonte di ingiustizie, di discordie, e di delitti; e limitò il diritto del primogenito a una doppia parte nella eredità paterna sui fratelli. Il primogenito era pure l’erede presuntivo del trono paterno, quantunque la legge lasciasse in facoltà del padre di destinare qualunque altro figlio a suo successore. § 7.—_Educazione._ Gli studi dovevano avere per oggetto peculiarissimo la cognizione della legge di Dio: che secondo il Legislatore era per Israele un titolo di sapienza e di prudenza al cospetto delle nazioni, e la unica e immancabile sorgente della sua materiale e morale grandezza e felicità. I principi ed i grandi pare che avessero in casa maestri che educavano ed istruivano i loro fanciulli sotto i loro proprii occhi. In origine oltre alla legge di Dio, ai doveri e ai diritti del cittadino, l’educazione tendeva probabilmente all’agricoltura e alla guardia del gregge: ma coll’estendersi e prosperare del regno, i fanciulli venivano generalmente pure istruiti nelle arti, nei mestieri e nelle scienze. Nella Scrittura e nei libri posteriori non si scorge che vi fossero Scuole propriamente dette, prima della dipendenza politica degli Ebrei ai Romani (esclusa quella dei profeti che era diggià fiorente all’epoca di Samuele); poichè il primo che ne abbia instituito fu il figlio di Gamlà, la cui memoria ci fu perciò tramandata dai nostri dottori fregiata dal titolo di benemerito dell’istruzione. Prima d’allora era il padre stesso che impartiva l’istruzione religiosa ai suoi figli, uniformandosi al precetto Mosaico che nel Semanh (che è un sublime compendio delle verità della nostra Religione) costituisce il padre maestro dei suoi figli: «Sulle cose ch’io ti comando oggi, dice egli, ragionane ai figli tuoi nello stare in casa, nello andare per la via, nel coricarti e nello alzarti». Vi erano pure (nei sabbati) pubbliche accademie, ma il loro scopo era unicamente quello di trattare materie religiose e morali pel bene dello stato in generale. L’educazione delle ragazze variava naturalmente secondo la condizione e la qualità delle persone. Erano però anche esse istrutte nella legge e nella letteratura, come ci attestano le ammirabili cantiche di Debora e di Anna. Però venivano precipuamente ammaestrate in ogni cura domestica. Quanto potente fosse il sentimento della dignità che la educazione inspirava alle ragazze, e quale la purezza dei loro costumi possiamo argomentarlo dalle parole che Thamàr figlia di Davide rivolge al fratello Amnon che tentava di indurla a cosa disonesta: «Deh! o fratel mio non farmi ingiuria che tali cose non s’usano in Israele. Deh! non volere commettere una tale ignominia. Ove potrò io nascondere la mia vergogna? E tu potrai soffrire di venir considerato tanto vile in Israele?» Nè avrebbe potuto succedere diversamente quando la legge ordinava che una donna maritata convinta d’impudicizia prima delle sue nozze, venisse lapidata innanzi la porta della casa paterna per la colpa, dice la legge, «di aver fatto cosa laida in Israele.» Quale terribile minaccia si fa con tale disposizione alle ragazze, ma alle madri specialmente onde agli ammaestramenti e agli esempi accoppiassero un’indefessa ed oculata sorveglianza! Anche le ragazze di famiglie agiate non isdegnavano di occuparsi in ogni sorta di lavori campestri; poichè il Pentateuco ci rappresenta Rachele, Lia e le figlie di Ietro conducenti le greggie al pascolo colle loro secchie sulle spalle. § 8.—_Schiavi._ «In niun luogo, dice uno scrittore cristiano, gli schiavi furono trattati così umanamente come presso gli ebrei». In principio la virtù dei patriarchi rese loro sempre sopportabile e dolce il dispotismo che avevano sopra di essi; e poi Mosè si occupò con tanta sollecitudine della sorte loro, che la saviezza dei suoi precetti doveva impedire assolutamente anco ai supposti cattivi padroni di abusare del proprio potere. La dolcezza delle disposizioni Mosaiche verso gli schiavi, risplende meglio qualora noi ci facciamo a paragonarla all’inumanità colla quale venivano trattati quegli infelici, non diremo in quei tempi di universale ignoranza e barbarie, ma presso quei popoli che in tempi più prossimi a noi levarono di sè tanta alta fama, vogliamo dire i Greci ed i Romani. Presso costoro gli schiavi erano considerati meno dei bruti, e col consenso della legge venivano massacrati per semplice passatempo, dati pascolo alle fiere dei loro circhi, e gettati pascolo a certi pesci carnivori, quali le murenne, che si allevavano in appositi serbatoi, onde riescissero più graditi ai palati di quegli inumani Sardanapali. È triste, e quasi ripugna il dirlo, ma è storia. Dame romane dimentiche di ogni elementare principio di quella delicata bontà che forma il più bel pregio del loro sesso, e divenute insensibili agli strazii delle loro vittime; percuotevano a sangue le loro schiave per la menoma negligenza usata nella disposizione della loro teletta: e i seni di quelle sventurate servivano a ricettacolo degli aghi e degli spilli dei loro lavori, o dei loro abbigliamenti! Ma lasciamo queste tetre descrizioni che rattristano il cuore; e ritornando al nostro proposito, esaminiamo alcune di quelle disposizioni. La legge dichiarava reo di omicidio quel padrone che in seguito a percosse causava la morte a un suo schiavo: e bastava il mutilarlo anche di un dente o di un occhio solo perchè venisse dichiarato libero. Come il padrone, lo schiavo fruiva del riposo sabbatico. Non solamente era proibito di molestare o consegnare al padrone quello schiavo che per i maltrattamenti sofferti fossesi indotto a ricoverarsi presso di loro in cerca di un asilo, ma si doveva permettergli di prendere stanza in quella città che sarebbe stata di suo piacimento. E si noti che queste ordinazioni sono tutte relative agli schiavi non ebrei, perchè riguardo a questi ultimi il nome di schiavi è affatto improprio, poichè la loro condizione era tanto mite, tanti doveri di umanità e di delicati riguardi erano imposti al padrone verso di loro, da inspirare ai nostri dottori il seguente adagio: «Colui che si prende un domestico, da a sè stesso un padrone». Esaminata partitamente la costituzione della famiglia ebraica, ci piace aggiungere alcune considerazioni generali sullo spirito delle ordinazioni che la reggevano. Presso tutte le nazioni antiche la donna era considerata quale oggetto di sensuali diletti, e sempre schiava del padre o del marito. La sua condizione era tutt’altro ohe invidiabile persino presso i Romani e i Greci, tanto celebrati nella storia per civile sapienza e per politica grandezza. La patria potestà poi non aveva limiti. Il padre era padrone assoluto dei suoi figli: poteva incarcerarli, venderli od ucciderli qualunque fosse la loro età e il loro grado. Pensiamo ora noi quale moralità, quale confidenza e dolcezza in tale consorzio di schiavi sottomessi all’autorità e al capriccio d’un padrone che la certezza dell’impunità, l’altrui esempio, e l’abitudine del comando potevano rendere ciecamente feroce. Ma quale e quanta differenza nelle famiglie ebree! In esse non esistevano nè padroni nè schiavi. La legge e la religione sancivano la perfetta eguaglianza dei due sessi, poichè dalle stesse prime pagine del loro libro venerato risultava: 1º Essere stato Dio stesso che aveva instituito il matrimonio e benedetto i primi sposi; 2º Non essere la donna inferiore al marito, poichè dopo che Adamo ebbe imposto un nome a tutti i viventi fra i quali non ne trovò alcuno simile a lui; quando gli fu presentata la donna da Dio stesso, egli esclamò: «Questa è finalmente, osso delle mie ossa, e carne della mia carne; questa deve chiamarsi Hiscà (donna) poichè dall’Hisc (uomo) fu tratta». Ammirabile insegnamento! La donna non è la schiava dell’uomo, ma la sua compagna, un aiuto analogo a lui. Le unioni erano contratte liberamente e per conseguenza precedute spesso dall’amore, o almeno da una reciproca stima e simpatia che facevano sperare armonia e concordia. I soavi pensieri, le dolci cure di una prole desiderata e carissima, dovevano rendere quei legami ammirabili per moralità e piacevolezza. E tali furono sicuramente finchè il popolo si mantenne fedele alla parola di Dio. Da queste teorie ne veniva per naturale conseguenza il fatto, che nello stato e nella famiglia, i diritti della donna per quanto potevano conciliarsi coi riguardi dovuti alla sua maggiore sensibilità, alle sue domestiche occupazioni, agli altri doveri speciali al suo sesso, erano pareggiati a quelli dell’uomo. Hulda è profetessa; Debora profetessa e guerriera. Marianna a capo delle donne intuona l’inno della vittoria sulle sponde del mar Rosso; e alla caduta di Golia son le donne che colle loro patriottiche laudi al guerriero vincitore, feriscono al vivo l’invido cuore di Saulle. Salomone, che qualifica la cortigiana o la moglie infedele allo sposo coi nomi di Zarà o Nocrià (straniera) quasi temesse di offendere la suscettibilità della donna indigena, descrivendone i liberi costumi e i colpevoli inganni verso l’inesperta gioventù; dice valere meglio di qualunque cosa una buona moglie; la donna sapiente rialzare la sua casa, distruggerla colle proprie mani la dissennata. La dipintura che egli fece della donna forte è tutto quanto si possa immaginare di stupendo nel suo genere. È un modello della donna libera, laboriosa e sapiente; l’affermazione della fiducia sconfinata che colle sue nobili doti seppe acquistare dal marito e dell’immenso e meritato ascendente che ha sulla famiglia intiera. «Ed ecco grida Malacchia, altra cosa tristissima che voi fate e per la quale Iddio non si rivolge ai vostri presenti perchè il suo altare è coperto di sospiri e di lagrime. Ma perchè dite voi?—Perchè voi tradite iniquamente la donna alla quale vi lega un patto solenne». Tutta la legge fa fede dei principii suesposti. Anche le donne assistettero alla rivelazione del Sinai; anche le donne dovevano trovarsi nella radunanza che la legge prefiggeva di tenere in capo ad ogni settimo anno nella festa dei Tabernacoli, e ove si leggeva tutta la legge all’udienza del popolo; anche le donne al ritorno dalla schiavitù babilonica prestarono il loro giuramento d’adesione al nuovo ordine di cose. Ambi i genitori hanno gli stessi diritti alla riverenza dei figli. «Onora tuo padre e tua madre se vuoi vivere lungamente» sta scritto nel Decalogo. Ed altrove così si esprime il Legislatore: «Ciascuno di voi abbia timore della madre e del padre». «Chi maledice suo padre o sua madre sarà fatto morire». «L’occhio che si fissa irriverentemente torvo sul padre o sulla madre, dice l’Ecclesiaste, merita di essere acciecato dai corvi». Le manifestazioni di rispetto dovuto ai genitori vengono così definiti dai nostri dottori. Non sedersi nel posto da essi ordinariamente occupato; non contraddirli nè ascoltare i loro discorsi con irriverenza o impazienza; averne ogni cura nella loro vecchiaia, e fare quanto può loro tornare utile o gradevole. L’unico dovere imposto al padre⁴⁵ era quello d’addottrinare il figlio nella religione e nella morale: parlandogliene, come dicemmo, nel suo stare in casa, nel suo andare per viaggio, nel suo coricarsi e nel suo alzarsi. ⁴⁵ In una famiglia nella quale tutto era stato savissimamente disposto perchè rafforzando i sentimenti naturali l’amore vi regnasse sovrano, qual bisogno di tracciare doveri tra padri e figli oltre quelli del rispetto e timore dei secondi verso i primi? Su questo tema Salomon Fiorentino, valente poeta nostro correligionario, dettava un magnifico sonetto col quale, ricordando il fatto di Davide che piange amaramente il tristo figlio che tento di rapirgli e regno e vita, termina colla seguente terzina che ci piace di rapportare: «Oh del figlio inuman se un padre ha cura La legge parli minacciosa al figlio Che dolce al genitor parlò natura». Qui poniamo termine alle nostre brevi considerazioni sulla famiglia Israelitica, colla ferma convinzione, che per quanto poco noi abbiamo detto su tal soggetto, pure debbano risultarne le due seguenti verità: 1º Essere stata la legislazione Mosaica la prima, che diede alla donna la somma di tutte quelle libertà consentanee al suo sesso, e regolate per modo che non avendo esse altro limite oltre quello segnato dal pudore e dalla sua speciale costituzione, non servissero ad arma di licenza e venissero a menomare quelle soavi prerogative che fanno di lei l’angelo tutelare della famiglia; 2º Essere stata la legislazione Mosaica la prima, che seppe fondare la famiglia sopra le sue naturali e vere basi: moralità, stima ed affetto. AB (Luglio-Agosto). Questo mese può chiamarsi a giusta ragione, il mese infausto del popolo d’Israele; inquantochè in esso abbiano avuto compimento i terribili castighi già minacciati da Mosè e tante volte predetti, ma pur troppo invano, dai profeti che Dio suscitava in ogni secolo, e siano succeduti i luttuosi avvenimenti della distruzione del primo e del secondo Tempio di Gerusalemme. Il primo giorno di questo mese segna la morte di Aronne, avvenuta sopra il monte Hor nell’anno quarantesimo dell’uscita d’Israele dall’Egitto, e 123° della sua età. La tradizione fissa al giorno ottavo di questo mese, il ritorno degli esploratori spediti da Mosè nel paese di Canaan. Ci fermeremo a narrare diffusamente quest’avvenimento anch’esso luttuoso per parecchi motivi, per indi parlare della distruzione dei due Tempii di Gerusalemme, ma in particolare modo del secondo, maggiormente importante per noi. Infatti dal dì della sua caduta data non solo la cessazione della indipendenza politica d’Israele, ma il principio di quella lunga sequela di sofferenze e di persecuzioni inenarrabili, che se la mercè di Dio cessarono ora in quasi tutta l’Europa civile, e delle quali noi dobbiamo conservarne la memoria per solo rammarico di vedere distrutto quel centro dove serbavasi sotto un simbolo visibile la legge divina, e per ammirazione verso i nostri padri, che con invitta costanza verificarono alla lettera l’espressione di Davide: «Tutto questo soffrimmo ma non dimenticammo Te, (Dio) e non mentimmo al tuo patto», dobbiamo però constatare che pur troppo tali sofferenze e persecuzioni durano tuttavia in parecchie contrade, dove il sole della libertà e della universale fratellanza degli uomini, non potè ancora farvi penetrare i suoi raggi benefici. Correva il secondo anno dall’uscita d’Egitto, e il popolo d’Israele, che toccava oramai i confini dell’Emoreo, si raccolse presso Mosè e lo richiese di mandare «innanzi a sè alcuni uomini ad esplorare il paese che doveva conquistare: onde sapessero indicargli «la via per cui doveva andare, e le città a cui doveva rivolgersi». La manifestazione di questo desiderio poteva interpretarsi come un atto di diffidenza verso lo stesso suo condottiero, che ripetutamente gli aveva assicurato il possesso immancabile di un «paese di frumento e d’orzo, di viti, fichi e melagrani; paese d’olivi (abbondanti) d’olio e di miele. Paese, ove senza scarsezza mangerebbe pane, ove non mancherebbe di cosa alcuna; paese di cui le pietre erano (dure come il) ferro, e dai cui monti ricaverebbe rame». Pure, anzichè adontarsene Mosè dichiara che «la cosa gli piacque»; e scelti a quest’uffizio dodici uomini, il capo di ciascuna tribù, con particolareggiate istruzioni li inviò a riconoscere tutto quel paese. Partiti il giorno 29 di Sivan, impiegarono quaranta giorni nel loro viaggio d’esplorazione, ed arrivarono all’accampamento ebreo il giorno 8 del mese di Ab. Onde assecondare la raccomandazione fatta loro da Mosè, che desiderava dimostrare al suo popolo con prova evidentissima la verità delle sue dichiarazioni; gli esploratori portarono di colà alcuni frutti, che presentarono al popolo ansioso di conoscere il risultato delle loro osservazioni. Per una colpevole leggerezza o per un criminoso accordo, come pretendono alcuni commentatori, dieci di loro, dopo d’aver magnificato la, prodigiosa fertilità del paese visitato, ne esagerarono assai i difetti. Dissero, che la statura degli abitanti era gigantesca, e superiore all’ordinario la loro forza; che le mura che cingevano le città erano alte e forti e per loro indubbiamente inespugnabili; che il clima era tanto inclemente e micidiale, che quella terra poteva dirsi con tutta ragione, una madre divoratrice dei proprii figli. Queste false notizie spaventarono in modo straordinario i loro ascoltatori, i quali dimenticarono tutto d’un tratto i grandi miracoli operati da Dio in loro favore, e di cui furono testimoni essi stessi: rammaricarono amaramente di avere prestato fede alle lusinghiere ma fallaci promesse di Mosè; dubitarono stoltamente della potenza di Dio, e manifestarono il timore di vedersi destinati a morire di stenti in quell’inospitale deserto, o di divenire essi e i loro figliuoli facile preda di quei formidabili nemici. Nè le assicurazioni degli altri due esploratori Giosuè e Caleb, valsero a fare loro riconoscere la grave offesa che facevano a Dio con questo atto di ribellione, e a rinfrancare i loro cuori: che anzi arrivarono a tale punto di demenza, da concepire e manifestare altamente la iniqua e vilissima intenzione di lapidare quei due coraggiosi e intemerati uomini, e poscia darsi un capo che facesse loro ripigliare la via dell’Egitto. Ma la divina giustizia già offesa parecchie altre volte, non poteva lasciare impunito questo nuovo gravissimo atto d’ingratitudine per parte di quella nazione, che per ripetere l’espressione di Mosè, Dio «era andato a togliere da mezzo ad altre nazioni con prove, con miracoli, con prodigi, con battaglie, con potente mano, con braccio disteso e con grandi spaventi», nel solo intento di farla depositaria delle sue eterne verità, e di condurla a fruire i beni di quel paese promesso ai suoi patriarchi Abramo, Isacco e Giacobbe. La divina giustizia per quanto longanime e clementissima, non poteva permettere che quella generazione che in ogni occasione si dimostrò riluttante alla voce dell’Eterno e che la schiavitù aveva resa paurosa, vile ed ostinata, andasse a godere di «quei campi ch’essa non aveva dissodati e di quelle case piene d’ogni bene ch’essa non aveva fabbricate». I dieci esploratori causa dell’enorme peccato morirono di morte improvvisa, e tutta la parte del popolo che già aveva oltrepassato i vent’anni di età il giorno dell’uscita dall’Egitto, e che pertanto non avrebbe dovuto mai dubitare della onnipotenza di quel Dio che aveva fatto a suo pro’ tanti miracoli e in Egitto e nel deserto, fu condannata a morire nel deserto nel corso di quarantanni, epoca fissata allo ingresso della nuova generazione nella terra promessa. Due uomini soli furono esclusi da questo castigo, Giosuè e Caleb, perchè dice il testo «adempirono (ebbero fede) dietro Iddio». La morte di Mosè ed Aronne avvenuta parimenti nel deserto in sullo spirare dell’anno quarantesimo, fu occasionata dal peccato da loro commesso nel fatto delle così dette _me merivà_ (acque della contesa).⁴⁶ ⁴⁶ Ecco come viene esposto questo fatto nel libro dei Numeri, che per la sua imponenza merita di essere da noi raccontato: Era già estinta tutta la vecchia generazione condannata a morire nel deserto, ed era pertanto giunto il tempo prefisso all’ingresso del popolo ebreo nella terra promessa, quando arrivato esso in un certo posto detto deserto di Sin, venne a mancare affatto d’acqua. Come al solito, esso mosse i più alti lamenti verso Mosè ed Aronne, accusandoli di averlo tratto d’Egitto per condurlo a morire in un «luogo cattivo, non atto a seminagione, sprovvisto di fichi, di viti, di melagrani e persino d’acqua». La maestà del Signore si rivelò a Mosè e gli ordinò di munirsi della verga che stava nel Tabernacolo, e accompagnato da Aronne «_parlare_ al sasso in presenza di tutto il popolo, poichè da quel sasso sarebbero scaturite acque in tale abbondanza da dissetare il popolo e il suo bestiame». Mosè fece adunare immediatamente il popolo attorno al sasso indicato, e apostrofando il primo con poche ma dure parole, che lasciano chiaramente indovinare non essere esse che il principio di una vivace rimostranza che voleva dirigergli pel modo indegno con cui si comportava verso Dio quando versava in qualche momentaneo bisogno, _battè_ due volte il sasso colla sua verga e le acque sgorgarono in gran copia. Ma l’Eterno disse a Mosè ed Aronne: «Giacchè _non avete avuta fede_ in me _per santificarmi_ alla presenza dei figli d’Israele, perciò non condurrete questo popolo nella terra che ho loro donato. Interpretando letteralmente questo fatto, si dovrebbe conchiudere, come si crede ordinariamente, che il peccato commesso da Mosè e da Aronne abbia dovuto consistere nella mancanza di fede in Dio per avere _battuto_ il sasso invece di _parlargli_. Ma oltrecchè non si può ragionevolmente ammettere che Mosè chiamato da Dio stesso «servo fedele in tutta la sua casa» abbia dubitato di Lui, quale differenza può farsi tra il _parlare_ o il _battere_ trattandosi di un corpo inanimato? Forsechè il miracolo avrebbe scemato della sua importanza nel servirsi d’un mezzo piuttostochè dell’altro? E poi a quale scopo Dio avrebbe ordinato a Mosè di munirsi della verga se non avesse dovuto adoperarla? Fra le diverse opinioni emesse dai commentatori su questo fatto, noi riteniamo per la più accettabile quella del Rabbo Mosè a-Coen Tedesco e sviluppata da l’Illustre I. S. Reggio. Dice egli in sostanza: «che Mosè afflitto e sdegnato della riprovevole condotta e delle incessanti mormorazioni contro Dio per parte di un popolo tanto visibilmente da Lui protetto, e temendo che Dio ne lo punisse aspramente come fece altre volte pel fatto degli esploratori, per la sollevazione di Cora, per l’adorazione prestata a Baal-Peor ecc.; quando si trovò presso al sasso si lasciò vincere dalla collera e cominciò ad apostrofare il popolo con tale veemenza che la commozione interna gli troncò la parola in gola; per modo che dalle poche parole dette, il popolo fu quasi portato a dover credere che questo _miracolo_ dovesse attribuirsi precisamente a lui stesso e al fratello, anzichè a Dio. Questa interpretazione si accorda benissimo colle parole che denotano il motivo del castigo quello cioè «di non avere essi _santificato_ Iddio». E quasi la giustizia divina non si tenesse tuttavia paga del castigo inflitto a quella generazione, i nostri dottori vogliono ch’essa sia uscita in queste lugubri parole: «Voi piangeste questa notte senza verun motivo. Ebbene! sin d’ora io stabilisco in essa un pianto secolare pei vostri figliuoli». Nella caduta di Gerusalemme si trova la spiegazione di queste parole di colore oscuro. Caduta del regno d’Israele. Se pressochè in ogni caso la parola _divisione_ è sinonimo di _indebolimento_, i suoi tristi effetti sono poi più funesti ed immediati, quando la divisione avviene tra individui o nazioni fra le quali esistono o possono svilupparsi germi di rivalità, per motivo d’interesse o di dominio. Per quanto il regno di Salomone fosse stato glorioso, ed avesse portato la grandezza e la prosperità d’Israele ad un punto non mai raggiunto allora da nessun popolo dell’Asia, ciò malgrado uno scontento grandissimo serpeggiava nel popolo. Per sopperire alle ingenti spese causate dalle città che egli fece costruire in diversi punti del regno, e per la costruzione del tempio e dei sontuosi suoi palazzi; Salomone dovette imporre sul popolo pesi enormi. Sia quindi per questo motivo, e sia perchè offese gravemente Dio e il sentimento nazionale, erigendo templi dedicati agli idoli delle sue tante mogli nella Santa Città, lo scontento era tanto profondo e generale, che non attendeva che una favorevole occasione per prorompere in fatti. E questa occasione, pur troppo, non si fece attendere lungamente. Morto Salomone, il popolo si raccolse in Sichem per la incoronazione del di lui figlio Roboamo; e si valse appunto di questa occasione per fare sentire al suo futuro re, come avrebbe desiderato un alleviamento ai troppo pesanti carichi che aveva dovuto sostenere lungo il regno del padre. Roboamo chiese tre giorni di tempo per riflettervi, e intanto si rivolse agli antichi consiglieri di suo padre. Questi nella loro prudenza ed esperienza, gli suggerirono una risposta mite e conciliante colle seguenti parole: «Se oggi ti mostri compiacente verso questo popolo soddisfacendo al suo desiderio, e parlando ad essi con buone parole, esso ti sarà soggetto per tutti i giorni». Ma sia che questo savissimo consiglio urtasse il suo orgoglio, o sia che gli facesse temere che scendendo a patti col popolo e annuendo alla sua richiesta, venisse a dare un cattivo precedente di debolezza e a menomare il suo prestigio e le prerogative reali; fatto sta, che ebbe l’infausta inspirazione di consigliarsi pure coi giovani suoi coetanei. E questi nutriti cogli stessi sentimenti d’alterigia, risposero colle seguenti insensate e crudeli parole: «Così devi dire a questo popolo, il quale ti parlò dicendo: Tuo padre ci ha imposto un grave giogo, ora tu ce lo allevia, così devi dire loro: il mio dito mignolo è più grosso dei lombi di mio padre. Ora dunque mio padre vi caricò di un grave giogo, ma io ci aggiungerò ancora: mio padre vi castigò colle sferze ed io vi castigherò con flagelli a punture». Si capirà facilmente, che il popolo vedendo respinta in un modo tanto brutale la sua domanda, che riteneva e fors’anche era, opportuna e ragionevole, ne fu punto sul vivo, e fece una sedizione che ebbe per conseguenza la divisione del regno. Restarono fedeli alla dinastia Davidica le due sole tribù di Giuda e di Beniamino, le altre dieci tribù si elessero a re un certo Geroboamo figlio di Nebath. Costui fu già servo di Salomone, e ritornato da poco dall’Egitto ove erasi rifuggiato per sottrarsi all’ira del suo Signore, apparentemente informato del colloquio di lui col profeta Ahhià, che nel nome di Dio, gli aveva promesso sino d’allora, il dominio sopra dieci tribù di Israele. Quantunque per opera d’un profeta, siasi per allora scongiurata la guerra fraterna che stava per iscoppiare tra queste due frazioni d’Israele, pure da questa divisione data il vero principio della rovina d’Israele, essendo stata causa di fare iniziare l’idolatria a religione dello Stato. Ed ecco in qual modo. Nell’intento d’impedire ai suoi sudditi di portarsi a Gerusalemme nelle tre solennità dell’anno, temendo che l’uniformità del culto religioso richiamasse sotto il glorioso scettro di Davide quelle tribù che se n’erano distaccate; Geroboamo fece innalzare due vitelli d’oro alle due città estreme del regno, Dan e Betel, e fece bandire al popolo: «Voi non dovete più salire in Gerusalemme: questi sono, o Israele, i tuoi dêi, che ti trassero dalla terra d’Egitto». La grande maggioranza del popolo si lasciò trascinare facilmente all’idolatria poichè, per isventura, vi aveva molta propensione; e d’allora in poi popolo e re si allontanarono sempreppiù dal retto cammino tracciato dalla loro legislazione religiosa, finchè la divina giustizia stanca dei loro tanti traviamenti, fece di loro aspro governo nel terribile modo ch’ora noi andremo a dire. Gli esempi di questo regno, conosciuto nella storia col nome di regno d’Israele, furono ben presto imitati dai loro fratelli delle due altre tribù componenti il così detto regno di Giuda; e Roboamo anch’esso fece innalzare statue e quercie a dêi stranieri. Alla purezza dei costumi sottentrò una sconcia e ributtante licenza; si allentarono i legami domestici e sociali; e la decadenza politica vi tenne dietro sollecita; per cui sino dal quinto anno del regno di quest’ultimo troviamo già che un certo Sissac re d’Egitto prese Gerusalemme e la spogliò di tutte le cose preziose che contenevano il Tempio e la reggia. Si aggiunga poi che tra Roboamo e Geroboamo e la maggior parte dei loro successori, durò una quasi non interrotta lotta fraterna: per cui queste due parti d’un popolo solo, oramai in tutto discordi meno nello allontanarsi dal cammino della virtù s’indebolirono a vicenda, e necessariamente divennero facile preda ai loro comuni nemici, che s’ingrandivano a loro spese. Per punire Acabbo che fu il più triste dei re d’Israele, e i cui peccati più lievi furono paragonati dallo storico sacro ai più gravi commessi da Geroboamo, Iddio suscitò contro Ioram figlio di lui e per nulla degenere da tale genitore, certo Jehù uno dei suoi capitani. Questi, ribellatogli l’esercito mandò a morte lui, settanta suoi fratelli, la madre, i parenti, gli amici della famiglia regnante e tutti i più noti adoratori del Baal. Ma neppure lui potè o volle sradicare intieramente l’idolatria, poichè lasciò sussistere i vitelli d’oro innalzati da Geroboamo e ne tollerò l’adorazione. Per cui Dio sdegnato permise che Hhazàel potente re della Siria mettesse a contributo il regno d’Israele, e durante il regno di Ocozia figlio e successore di Iehù, progredisse talmente colle sue vittorie, da non lasciare in Israele che poche migliaia d’armati e pochissimi carri da guerra. È bensì vero che Dio impietositosi dell’angustia in cui versava il suo popolo, gli fece poscia ritornare le città perdute per le vittorie accordate a Gioas figlio di Iohahhaz, e al belligero Geroboamo figlio di lui; pure sia per la licenza dei costumi ingenerata dall’idolatria che non venne mai abbandonata neanche dai rè migliori, e sia dalle continue scosse politiche; le piaghi erano tali e talmente profonde da fare prevedere prossima la totale rovina della nazione. E la catastrofe si compì effettivamente regnando Osea figlio di Elà. Samaria fu presa dal giro Salman-Assar dopo un assedio che durò tre anni. Tranne i più poveri fra i cittadini che il vincitore lasciò nel paese per coltivare la terra, tutti gli altri, uomini, donne e fanciulli furono obbligati ad emigrare di là dell’Eufrate; e vennero dispersi in varie provincie dell’Assiria e della Media, nei lunghi più lontani dalla loro patria. Il paese rimase deserto per più di quarant’anni, finchè Assaphar Assar-Hhadon nipote di Salman-Assar vi mandò a popolarlo una colonia di Cutei. Questo regno, agitato da non poche sedizioni e regicidi durò 255 anni. Ebbe 19 re, uno solo dei quali riuscì a conservare la successione al trono sino al quarto dei suoi discendenti, il quale però non tenne il regno che per soli sei mesi. Caduta del regno di Giuda e distruzione del primo Tempio. Cento trentadue anni dopo la caduta di Samaria, Gerusalemme cadeva essa pure in potere di Nabucodonosor re di Babilonia, dopo un assedio di circa due anni. La città fu abbandonata al furore delle soldatesche, che tutta l’empierono di sangue e di cadaveri, il Tempio fu saccheggiato e distrutto; Sedecia fu fatto prigione; sotto i suoi occhi furono scannati i suoi figli, indi fu egli stesso acciecato e condotto prigione a Babilonia. Furono pure uccisi il sommo Sacerdote Seraià e non pochi fra i principali cittadini. Gerusalemme fu disfatta, le sue mura demolite, i suoi tesori portati via; e tutti gli abitanti salvati dalla spada furono messi a fila e sotto buona scorta condotti di là dall’Eufrate, e dispersi nelle provincie dell’impero babilonese. Tutte le altre città del regno furono vuotate egualmente, e non si lasciarono in esse che pochi miserabili contadini e vignaiuoli, tanto perchè la terra non rimanesse affatto deserta. Nabo-Sar-Adan mandato ad eseguire questi ordini del re elesse un certo Ghedalià per Governatore di quel povero resto di un popolo già numeroso e potente. Ma come vedremo in altro mese (Tisrì), di lì a non molto esso fu assassinato da un traditore, che si fece strumento vile di un iniquo straniero: per cui gli Ebrei rifiutando di seguire, come per loro sventura fecero sempre, i consigli del profeta Geremia; soprafatti dal terrore di una nuova invasione di babilonesi, disertarono la terra natale e cercarono un asilo in Egitto. Ma non si fece attendere molto il pentimento. Invece della quiete sperata, vi trovarono la fame e la morte; e i pochi che sopravanzarono furono menati schiavi dai babilonesi, cinque anni dopo quando Nabo II conquistò anco l’Egitto. Rifabbricazione di Gerusalemme e del secondo Tempio. Cinquant’anni dopo l’eccidio di Gerusalemme, la monarchia babilonese fu soggiogata da Ciro re dei Persiani, il quale nel primo anno del suo regno pubblicò un editto col quale permise agli Ebrei di ritornare nella loro patria, e riedificarvi il Tempio. Fece anco restituire una parte dei vasi sacri già portati via da Gerusalemme; ed onde sopperire alle spese assegnò una somma sulle rendite della Samaria. Ma erano 66 anni, da che varii Ebrei erano stati trasferiti di là dall’Eufrate nella prima invasione di Nabucco, erano 51 dacchè tutta la nazione fu trasmigrata nella invasione ultima, e pertanto erano trascorse due generazioni dacchè si trovava in terra straniera. Quasi più niuno dei vecchi esisteva, i più vecchi avevano abbandonato Gerusalemme nella loro giovinezza, o appena se ne ricordavano; gli altri erano tutti nati nella Caldea, ne avevano oramai adottato la lingua e molte usanze; vi avevano impieghi e beni, ed estranei allo entusiasmo patriottico che avrebbero provato i loro maggiori, si sentivano poco inclinati ad abbandonare una felicità presente per incontrare incerte sorti in una terra povera, derelitta, e per cercare frammezzo a sterpi e rovine quale fosse la casa, quale il podere dei loro avi. Infatti, malgrado il generoso invito e le larghezze promesse da Ciro, pochi ne vollero approfittare. Tutta la colonia emigrante sommò appena a cinquanta mila individui d’ogni età, sesso e condizione. La terra che ricuperavano da ogni lato che si guardasse, non presentava se non squallore e rovine. Le città erano distrutte, l’ellera e il muschio ne coprivano le macerie, sotto vi stanziavano i rettili, i campi erano inselvatichiti: quindi bisognava ricostruire nuove abitazioni, sboscare il suolo e ridurlo a forma capace di coltura; bisognava scavare nuovi pozzi e nuove cisterne in luogo di quelle che il tempo aveva otturate; bisognava sopportare tutte le angustie che mena seco la povertà e l’odio di nemici accaniti. Ma la religione e l’amore di patria infusero coraggio agli emigranti. Dopo sei mesi di lavoro ebbero finalmente costrutto un altare e qualche rozzo fabbricato, e nel mese di Tisrì cominciarono ad offrire i sacrifizi e gli olocausti, e celebrarono la solennità dei Tabernacoli. Il Tempio era però il voto principale degli Ebrei e ad esso posero mano. Infiniti furono gli ostacoli, i disagi e le molestie che incontrarono nella malevolenza e gelosia dei popoli vicini che in tutti i modi cercavano di attraversarne l’esecuzione. Parecchie volte si dovette sospendere il lavoro per ordine espresso dei re di Persia, insospettiti dalle maligne insinuazioni di quei tristi vicini. I poveri operai dovevano lavorare colle armi al fianco, per trovarsi pronti a respingere i loro continui assalti. Ma la ferrea tenacità e costanza di un proposito che era il sospiro dei loro cuori doveva trionfare di tutti gli ostacoli, e novant’anni dopochè i primi Ebrei erano partiti da Babilonia, l’opera fu compiuta, specialmente per merito del profeta Nehhemia che vi contribuì con tutti quei mezzi che gli vennero suggeriti da un ardente patriottismo, dal favore grandissimo che godeva alla Corte d’Artaserse, da una intelligenza non comune, e da un carattere imperterrito che prevede i pericoli e, o vi provvede con assennate disposizioni o sa superarli col coraggio. La dedica fu celebrata con una grande festa, quantunque parecchi vecchi piangessero a calde lagrime confrontando la meschinità di quel Tempio, colla vantata imponenza e maestà del primo. Distruzione del secondo Tempio. Non essendo nostro pensiero di tessere qui la intiera storia del lungo, e certo non inglorioso, periodo che abbraccia oltre a cinque secoli, e che corse appunto dalla fabbricazione del secondo Tempio alla sua distruzione: ma semplicemente il luttuoso avvenimento della sua distruzione che noi commemoriamo con rigoroso digiuno e col canto di meste e lugubri elegie ai nove di questo mese, non faremo quindi che appena accennare quei soli fatti che si collegano intimamente a quell’infausto avvenimento. Comincieremo quindi a notare, che la prima volta che i Romani compariscono sulla scena della Storia Giudaica si fu ai tempi di Giuda Maccabeo, il quale prevedendo che a lungo andare non avrebbe potuto tenere testa al re della Siria; mandò due legati a Roma per impetrare l’amicizia del Senato e la sua mediazione col re anzidetto, allora tributario dei Romani. L’ambasceria fu accolta con favore, e ottenne l’intento desiderato. Accenneremo pure che Simone fratello e successore di Giuda fu il primo principe ebreo che coniasse moneta col proprio nome; e che Giovanni suo figlio, dichiarato indipendente dai Romani, trovandosi abbastanza potente da farsi rispettare dai suoi vicini, inquantocchè possedesse quasi tutto l’antico regno d’Israele e di Giuda, assunse il titolo di re, estinto appo gli Ebrei già da 580 anni. Ma questa indipendenza conquistata mercè lunghi anni di lotte eroiche, con prudenza finissima e con tali e tanti sacrifizii che riempiono i cuori di meraviglia ebbe la corta durata di ottant’anni. Pompeo assoggettò di bel nuovo ad annuo tributo questo regno, che per la sua posizione e prosperità, pareva destinato ad essere bersaglio della cupidigia e dell’ambizione dei potenti vicini; ed entrato in Gerusalemme ne fece demolire le mura, cambiò ad Ircano il titolo di re in quello di Etnarca, e dubitando che tali misure bastassero a domare quel popolo insofferente di giogo straniero, ne smembrò il regno, distaccandone parecchie provincie. Quanto mai sono fallaci le previsioni umane! Giuda Maccabeo non avrebbe giammai supposto, che l’alleanza coi Romani da lui tanto desiderata e ricercata per consolidare, come realmente consolidò allora, la libertà della patria, dovesse fruttare nel corso di un periodo di tempo relativamente breve e per l’opera inconsulta dei suoi nipoti, schiavitù e dispersione. Accenneremo ancora che finito il regno degli Asmonei 116 anni dopocchè Gionata fu riconosciuto dai re di Siria Nassì e Pontefice degli Ebrei, titolo che equivaleva a quello di Principe indipendente; Erode ottenne anch’esso dal Senato Romano il titolo di re. Costui che la storia ci tramandò col titolo di grande _rabbà_⁴⁷ seppe bensì con manovre astute, con incontestabile abilità militare e con una fortuna poco comune afferrare il potere, ricuperare le antiche frontiere del regno, e renderlo più prospero e ricco di quanto fosse mai stato prima d’allora; fece bensì rifabbricare il Tempio con tanta magnificenza e splendidezza che venne dichiarato dai nostri Dottori: «una delle meraviglie del mondo»; ma ciò non ostante non gli fu possibile conseguire l’amor del popolo, sia pel suo procedere sleale, e vuolsi anche crudele, verso gli ultimi superstiti della famiglia dei Maccabei e sia per essere egli di origine straniera. ⁴⁷ C’è chi crede che tale epiteto usato anticamente per significare il maggiore, fosse semplicemente aggiunto al nome di Erode per distinguerlo dall’altro Erode venuto dopo di lui e detto _zeerà_ (il minore). E una solenne prova di questa invincibile antipatia l’abbiamo nel fatto che appena lui morto, quel popolo, che in ogni epoca della sua storia si dimostrò sempre svisceratamente amante della libertà; chiese ed ottenne da Varo di poter mandare una ambasceria ad Augusto, perchè il Governo della Giudea venisse tolto ai figli del morto re, e ridotta questa a provincia Romana. Pareva loro di dovere vivere più quieti, e di potere essere meglio governati da un Preside Romano, che non da deboli e cattivi principi figli di un tiranno tanto temuto quanto odiato, sempre in dissensione tra loro, ed in balia dei favoriti. Augusto non credette di aderire immediatamente alla loro richiesta, ma nove anni dopo depose Archelao, e aggiunse la Giudea alla Siria. Mandò a governarla un procuratore che pose sua sede in Cesarea, e che fu investito della potestà civile e militare e incaricato di esigere i tributi. Però, a Gerusalemme come città santa, si conservarono gli antichi suoi privilegi. Noi vedremo or ora, come questa mutazione invocata dagli Ebrei medesimi colla speranza di un viver più riposato, sia stata la causa prima degli estremi mali toccati alla nazione. Pare però che sino d’allora si trovassero cittadini giudiziosi e previdenti che pronosticarono l’esito esiziale di quell’imprudente passo, inquantocchè noi troviamo nel commento di Ionathan Ben Uziel la seguente invettiva, che sventuratamente fu profetica: «L’aiuto che speravamo dai Romani si svanì in fumo, perchè i Romani non sono un popolo che salva; anzi dissiparono le nostre vie, onde noi ben veggiamo che sono compiuti i nostri giorni, e che si avvicina l’estrema nostra catastrofe». Non tardarono infatti a scoppiare torbidi⁴⁸. Le iniquità che commetteva Albino per estorcere danaro dai poveri suoi amministrati, e quelle ancora maggiori del tristissimo Floro, infiammarono gli animi di giustissimo sdegno e stancarono talmente la pazienza degli Ebrei, che non era difficile pronosticare che un terribile incendio era prossimo a scoppiare. Nè l’occasione si fece attendere lungamente. ⁴⁸ Ecco quale piccola causa, assegnano i nostri Dottori, alle prime ostilità insorte tra gli Ebrei e i Romani. Un cittadino di Gerusalemme aveva fra i suoi amici un tale che portava il nome di _Camzà_, e un acerbo nemico che portava il nome di _Barcamzà_ (figlio di Camzà). Il cittadino di Gerusalemme, diede un giorno un grande e sontuoso banchetto, a cui invitò i personaggi più ragguardevoli della città. Nell’accennare al famiglio i nomi di quelli che voleva fossero invitati, ricordò fra i primi il suo amico Camzà. Per mala ventura il famiglio sbadato andò ad invitare Barcamzà. Il padrone di casa vedendo costui a prender posto alla mensa con voce minacciosa gli intima di uscire. Invano Barcamzà lo prega di riflettere quanto sia grande la viltà di recargli così grave e pubblico insulto, invano ei si offre di pagare del suo la parte del pranzo che farebbe in casa sua: l’inesorabile rivale, non ascoltando che il suo odio, gli intima di nuovo di uscire. Allora costui a cui cuoceva un tale atto, si dispose di pagare la spesa della metà del banchetto, e finalmente di tutto il banchetto: ma non ottenne che ripulse. L’insultato Barcamzà sortì da quella casa colla rabbia nel cuore, e giurò di vendicarsi aspramente del suo rivale, e di quei tanti ragguardevoli personaggi, che rimasero spettatori indifferenti di quella triste scena. Un infernale pensiero gli attraversò la mente, e vile quanto scellerato, non esitò a coinvolgere la patria nella sua privata vendetta. Si portò dall’Imperatore romano, e simulando uno zelo immenso per lui, lo avvertì che gli Ebrei si preparavano nascostamente alla ribellione e che già avevano fermo di non più obbedirgli. E per fare esperimento delle sue asserzioni gli suggerì di mandare una vittima ad offrire nel loro tempio. L’Imperatore accetta quel consiglio, consegna a Barcamzà un giovine vitello, e manda i suoi ordini agli Ebrei per mezzo di alcuni suoi famigli. Cammin facendo il maligno calunniatore, ben sapendo che gli Ebrei si sarebbero rifiutati di sacrificare una bestia difettosa, ferì leggermente in un occhio il povero vitello. I sacerdoti indovinando fosse la maligna intenzione del traditore, pensarono di offrirlo sia per atto di riverenza verso l’Imperatore e sia per la salute del popolo. Ma contro questo savio e prudente consiglio, sorse impetuosamente un certo Zaccaria figlio di Anchilas. Qualcuno propose allora di ammazzare Barcamzà e l’animale, ma anche contro questa proposta sorse con impeto Zaccaria. I savi disapprovarono i soverchi scrupoli religiosi che fecero rifiutare il sacrifizio, e che portarono conseguenze tanto luttuose pel popolo d’Israele. Correva l’anno 11 di Nerone, quando tra gli Ebrei e i Greci di Cesarea s’impegnò una zuffa, perchè uno di questi ultimi trovandosi possessore di un terreno situato presso la Sinagoga dei primi, un sabbato, per far loro onta, dispose tutti gli apparecchi necessarii, per compiere ivi un sacrificio di uccelli, cosa che gli Ebrei volevano impedire assolutamente. Questa fu la scintilla che produsse la guerra giudaica: guerra intrapresa nei santi nomi di Dio e della patria da un pugno d’uomini contro quella sterminata potenza che aveva esteso il suo dominio su tutto il mondo allora conosciuto: guerra di cui la storia non ha la seconda, e che certo avrebbe avuto un esito ben diverso, se pel compimento dei suoi imperscrutabili ed eterni consigli, Dio non avesse permesso la guerra civile⁴⁹. L’indole del nostro lavoro non ci permette di seguire passo a passo tutte le fasi di questa guerra da leoni, sostenuta per oltre tre anni contro la potente monarchia dei Cesari; ci limitiamo pertanto a riassumerne gli avvenimenti principali. ⁴⁹ Non crediamo di privare i nostri lettori del seguente aneddoto, che serve a dimostrare la profonda convinzione che avevano i nostri Dottori sulla inutilità di qualunque umano intendimento, per iscongiurare la tremenda catastrofe seguita; inquantochè Dio avesse decretata irrevocabilmente la caduta del Tempio. «Il generale che fu preposto all’esercito invadente la Giudea, nel secreta della sua anima, sentiva una certa inclinazione per la sacra fede di quel popolo contro cui si portava a combattere. Prima pertanto di intraprendere qualunque atto ostile ricorse a una delle solite superstizioni pagane per prendere augurio dell’avvenire e pronosticare l’esito della sua spedizione. Scoccò nell’alto una freccia e questa cadendo si volse contro Gerusalemme. Il generale si volge dall’altro lato, e scocca un’altra freccia: ed anche questa va a cadere in faccia alla santa città. Ripetè tale esperimento da tutte le parti del mondo, e sempre una forza misteriosa torceva la freccia verso Gerusalemme. Il generale rimase attonito di questo fatto e conchiuse tra sè che Dio stesso aveva decretato la rovina di Gerusalemme». L’aneddoto termina dicendo che questo stesso generale si fece ebreo, e che da quel nuovo stipite trasse origine il celebre Dottore Meir. Il primo avvenimento che presentasi al nostro esame è la rotta che gli Ebrei fecero subire a Cestio Gallo, e che fu tanto grande da mettere in pericolo l’impero dei Romani nell’intiero Oriente. Viene dopo l’assedio di Iossafat di Gàmala che fu sostenuto dagli Ebrei con un eroismo più che umano, e i cui difensori vista perduta ogni speranza di scampo, per isfuggire alla ignominia di cadere vivi nelle mani del feroce vincitore, scannarono le mogli e i figli; incendiarono la roba e gli edificii: indi tirarono a sorte dieci fra loro che dovessero essere i carnefici degli altri; i quali sdraiati ciascuno presso i corpi dei suoi cari, attesero con tranquilla indifferenza la spada che doveva accompagnarli agli estinti. Compiuto questo orrendo uffizio anco i dieci si uccisero. Quantunque il terreno fosse disputato palmo a palmo ai superbi invasori con un accanimento fierissimo, il nemico avanzava sempre; poichè è innegabile che oltre ai grandi mezzi di cui esso poteva disporre, spiegò in questa guerra, che per lui valeva il dominio o l’abbandono dell’Oriente, una costanza, un’abnegazione ed un eroismo a tutta prova. La guerra si ridusse pertanto alle porte della Capitale. E fu qui, assai più che nei precedenti combattimenti, dove il Romano si trovò di fronte non uomini, ma leoni indomabili, che si battevano colla tenacità e ferocia della disperazione, unita alla calma di una risoluzione bene pesata e ponderata. L’entusiasmo che inspira una causa santissima; l’odio legittimo verso chi non offeso traversa l’oceano per rapirvi o contaminarvi ogni più puro e santo affetto dell’anima per libidine d’impero e per sete d’oro, era temperato e guidato dalla calma più fredda e dalla più fina prudenza. Le abili operazioni militari dei Romani trovavansi oppugnate da manovre altrettanto abili e giudiziose da parte degli Ebrei. Ma a lottare contro il destino l’uomo non vale, per quanto s’impieghi la più ferrea ed imperturbata costanza, l’eroismo il più sublime, i sacrifizii i più penosi. Scoppiò la guerra civile capitanata da tre facinorosi⁵⁰ che, se per un lato la storia severa ne segnò i nomi con nota d’infamia, dall’altro giusta ed imparziale dovette concedere, che alla libidine di comando era pari in essi, l’amore di patria e l’indomito valore. La prima funesta conseguenza della guerra civile fu lo sperpero e l’incendio di molti granai, per cui la fame non tardò a farsi sentire in tutta la sua orridezza⁵¹. Ma nè la fame, nè il ferro, nè il fuoco, nè le epidemie che mietevano le vittime a migliaia, valsero a scuotere la costanza degli strenui difensori dell’ultimo baluardo della patria, e ad inclinarli ad accettare le proposte di pace, fatte loro da Tito per mezzo di Giuseppe Flavio già governatore di Iossafat⁵², e poscia storico illustre delle guerre giudaiche e delle sue antichità. Nè gli uomini soli prendevano parte a quei micidialissimi combattimenti, ma bensì ancora le donne e i fanciulli; e questi ultimi con tanta bravura ed astuzia da meritarsi l’ammirazione degli stessi nemici. ⁵⁰ Simone Ben Iorà che occupava la città inferiore; Giovanni di Gìscala che occupava tre fortezze della città alta; Eleazaro di Simone il quale occupava il tempio e i luoghi più forti della città superiore. ⁵¹ Per dare un’idea della miseria estrema a cui giunse quella città, che Geremia qualificò per «la grande fra le nazioni, la regina fra le provincie»; diremo che una donna già ricca e di sangue illustre, certa Maria figliuola di Eleazaro, e vedova di Doeg Ben Iosef di Betezob nella Perea, condotta alla estrema miseria sbranò il bambino lattante, lo fece arrostire e ne divorò le carni. Una parte la serbava onde pascersi il giorno seguente, ma altri affamati sopravvennero allettati dal leppo di quell’iniquo arrosto, e minacciando scannarla se non dava fuori quanta cibaria ella si aveva annicchiato;—la donna delirante tra l’amore della vita e il terrore del proprio misfatto, pose quel pasto esecrando sotto gli occhi di coloro ai quali rimaneva ancora tanto senso umano che inorridirono e frementi e tremanti si ritirarono. ⁵² Per l’esattezza storica non dobbiamo tacere che se le proposte di pace vennero rigettate con disdegno, ciò è da attribuirsi quasi unicamente all’uomo incaricato appunto di presentarle, vale a dire a Flavio stesso, persona altamente invisa agli Ebrei che lo ritenevano traditore della patria, perchè certamente non difettavano nè gli amici della pace per sentimento naturale di un vivere quieto, nè gli uomini assennati, i quali prevedendo la sorte infelice che sovrastava alla patria sarebbero scesi volentieri a trattare col nemico. E quantunque costoro fossero persuasi che con tale condiscendenza ribadivano sulla loro nazione, la catena d’una completa dipendenza straniera, pure si confortavano pensando che almeno non sarebbero allontanati dal patrio suolo. Spaventati però dal destino toccato ai primi che osarono consigliare un accordo cogli assedianti si tacquero, e patriotti sinceri e leali accettarono la causa abbracciata dai loro fratelli per quanto la estimassero disperata, e la difesero con tutto l’ardore di cui erano capaci i loro cuori nobilissimi. Ma negli eterni consigli divini era stata decretata la caduta di Gerusalemme, e Gerusalemme cadde. Quel giorno funesto era un sabbato, 10 del mese di Ab: ed allora al tintinnìo delle armi, al grido dei combattenti, al gemito dei moribondi, ai clamori di vittoria degli uni, alle grida di disperazione degli altri si univano le voci strazianti dei cittadini che vedevano consumarsi «la casa dei secoli», e con essa il più caro dei loro pensieri, l’orgoglio dei loro cuori, la speranza della loro vita. Il secondo Tempio fu distrutto nello stesso preciso giorno, in cui 658 anni avanti era stato incendiato e distrutto il primo da Nabo-Sar-Adan generale di Nabucco. La città fu saccheggiata, e i soldati fecero tale un eccidio di gente, che essi medesimi, per quanto oltremodo esacerbati per la lunga resistenza ed eccitati dalle furie della vendetta, dalla libidine del sangue che li rendeva ferocemente briachi, si sentivano stanchi e nauseati dal troppo uccidere. «Tale fu il fine, scrive un nostro illustre correligionario (Munch), di questa guerra spaventevole, che pose fine alla esistenza politica della nazione ebrea di cui l’eroica resistenza dopo la sottomissione di tutto l’Oriente, umiliò l’orgoglio di Roma. La sua lotta fu gloriosa, unica forse negli annali delle nazioni. La sua catastrofe è una delle più spaventevoli di cui la storia ci abbia conservato il ricordo. Gerusalemme fu più grande nella sua caduta, di quanto lo fu giammai nella sua magnificenza. I fieri romani dovettero ammirare il coraggio invincibile degli ebrei, e quell’ardente amore della patria che faceva loro temere la vita più che la morte, dacchè li si voleva distaccare dal suolo paterno». Il numero delle vittime dell’assedio e della presa di Gerusalemme fu immenso. Flavio lo fa ascendere a un milione e cento mila oltre a novantasette mila prigionieri⁵³. Il bottino fatto a Gerusalemme fu così enorme, che l’oro perdette in Siria la metà del suo valore. ⁵³ Per persuaderci della possibilità di quest’asserzione, dobbiamo fare le due seguenti riflessioni: 1º Che anche in tempi normali, Gerusalemme era circondata da sobborghi, che potevano contenere un numero di popolazione stragrande; 2º Che coll’avanzarsi del nemico una folla innumerevole si chiuse nella Capitale, parte per aiutarne la difesa, e parte per trovarvi un rifugio contro la crudeltà del nemico che non la perdonava nè a età, nè a sesso. Non possiamo por fine a questi brevi cenni sulla caduta di Gerusalemme senza aggiungere, che oltre alle orribili efferratezze che Tito permise in tale occasione alle sue soldatesche, egli stesso portandosi in Cesarea a dare grandi feste per celebrare l’anniversario di suo fratello Domiziano, condannò 4500 ebrei a battersi nel circo o contro le fiere o da essere abbrucciati vivi. Spettacoli consimili diede a Berito in onore del padre; lo stesso fece in più altre città della Siria e dell’Asia Minore, ove gli ebrei trascinati d’uno in un altro luogo, nudriti come animali da stia, venivano esposti al ludibrio del volgo a sbranarsi a vicenda, o ad essere sbranati da belve, ovvero legati ad un rogo facevano le veci dei nostri fuochi d’artificio. Le loro membra palpitanti, i loro gemiti, le loro agonie, servivano di giocondo trastullo a popoli che passavano allora, e che da certi storici si decantano tuttavia pei più inciviliti e quasi quasi si propongono a modelli. Ma non desterà niuna meraviglia il diletto che vi prendeva la plebe, quando si vorrà riflettere che tali feroci ed esecrandi trastulli venivano ordinati da un principe il cui nome fu tramandato ai posteri fregiato col sublime epiteto di: «_delizia e bellezza del genere umano_⁵⁴». ⁵⁴ Ecco una bella leggenda colla quale i nostri Dottori vollero constatare la punizione che Dio inflisse ai distruggitori della sua Casa, e dipingere l’orgoglio satanico di quell’uomo che colla più abbietta ipocrisia, o per la sua morte _a tempo_ (immaturamente) come vogliono dottissimi critici moderni seppe ottenere un titolo tutt’altro che meritato. Forse si saprà che esso morì all’età di 42 anni dopo due soli di regno. «Consumato l’eccidio della sacra città, che più non presentava all’occhio attonito del pietoso viatore che un mucchio di ardenti rovine, Tito esultante ed orgoglioso oltre misura entra nella nave che onusta delle preziose e rare spoglie tolte alla già regina dell’Oriente, volge la prua verso Roma. Erano passate poche ore dacchè quella nave solcava le onde dell’Oceano allorchè il cielo si oscura improvvisamente, le onde si accavallano furiose per lo imperversare di un vento impetuoso. In mezzo allo scompiglio generale, Tito rivolgendosi ai suoi capitani così dice in suono di scherno: «Ei pare, a dire vero, una cosa singolare che il Dio di costoro (degli Ebrei), non abbia potere se non nelle acque. Volle vendicarsi di Faraone e ne sommerse l’oste nel mare Rosso; volle vendicarsi di Sissera e ne traboccò l’esercito nel torrente Chisson; ora vuole probabilmente vendicarsi di noi, e minaccia di farci inghiottire dall’Oceano. Venga in terra a provare la sua forza!» A queste parole petulanti così suonò una voce dal cielo: «O empio uomo, rampollo di empio stipite! (La tradizione rabbinica lo fa discendere da Esaù.) Appena tu metterai il piede in terraferma, io farò ministro di mie vendette la più piccola delle mie creature, così imparerai o stolto fin dove s’estenda il mio dominio». Il mare si acquietò immantinenti come per incanto». Con un monumento che sussiste ancora (l’arco di Tito); con medaglie su cui sta effigiata una donna dolorosamente piangente al piè di una palma, col motto IUDAEA CAPTA; con festeggiamenti straordinarii, (i quali ci dimostrano appunto la grandissima importanza che attaccarono i Romani a quella vittoria); Roma si prepara a ricevere il vincitore della Giudea. Tito scende dalla nave tra gli applausi frenetici della moltitudine, ma appena il suo piede calca le prime zolle della spiaggia, il più minuto moscerino gli si introduce nelle narici e su su ne va direttamente al cervello, della cui sostanza nutrendosi vive colà sette anni consumando la vita del suo ospite. Inenarrabili ed incessanti erano gli spasimi di Tito. Parendogli un giorno di ricevere qualche sollievo sentendo a battere un martello su di un’incudine mandava tutti i giorni per un fabbro onde ripetesse quell’esercizio. Se l’operaio era pagano riceveva una mancia generosa, ma se per caso era un ebreo, Tito gli diceva: «Vattene, a te deve bastare la gioia di vederti tanto vendicato». «Tito, scrive un autore cristiano⁵⁵, la _delizia del genere umano_, la cui dolcezza passò in proverbio nelle nazioni dell’occidente, è singolare modello di bontà e di clemenza nell’assedio e presa di Gerusalemme! Ei faceva crocifiggere ogni giorno 500 ebrei di null’altro colpevoli che di cercare intorno alla città un po’ d’erba per ammorzare la fame, e quando il figliuolo di Vespasiano usò moderazione, si limitò a _far tagliare le mani_ alle povere genti rimandate nella città!.... Questi Romani che Mitridate denominava il _flagello dell’universo_, eran pure di genio esecrabile, se il loro miglior Imperatore poteva compiere atti di ferocia simili a quelli accumulati in questo racconto». ⁵⁵ Poujoulat, _Histoire de Jerusalem_. Ma se veramente questi fatti ci provano una strana aberrazione del senso morale talmente pervertito che popoli e principi trovavano immenso diletto in ispettacoli orrendi; quali severe parole basteranno a biasimare quegli uomini che privilegiati per ingegno e per posizione invece di adoperarsi ad impedirli, per qualche beneficio ricevuto o sperato, non solo non trovavano nei loro cuori avviliti un senso di commiserazione per le povere vittime, nè dalle loro penne vendute usciva una parola di biasimo per gli scettrati carnefici che li ordinavano; ma anzi ne lusingavano la vanità con lodi immeritate. Ma per buona ventura la verità si manifesta sempre per quanto si faccia per soffocarne le voci con colpevoli adulazioni. L’eloquenza dei fatti, prova che la verità sta dal lato dei nostri Dottori che appellarono quell’uomo _Titóss Arassanh_ (l’empio Tito), poichè non si troverà sicuramente anima bennata che non mandi una parola di esecrazione alla memoria di chi ordinava tali inutili macelli. In questo caso poi il nostro animo è doppiamente addolorato nel dovere confessare che lo stesso Flavio testimone di tali efferatezze, non solo si astiene dallo stigmatizzarle con quell’indegnazione che bene avrebbero meritate, ma anzi irride ancora allo strazio inenarrabile dei suoi fratelli, e lo dichiara al disotto delle loro colpe. E dire, che questo apprezzamento viene fatto da tale uomo che in principio della guerra, rispose forse con un tradimento, alla fiducia che avevano riposto in lui i suoi concittadini nominandolo governatore della importantissima fortezza di Iossafat; e viene diretto a uomini che se ebbero qualche colpa, fu unica quella di avere amato sopra ogni cosa la religione e la patria! A complemento degli importantissimi avvenimenti suesposti aggiungiamo una rapida narrazione di alcuni fatti che vi tennero dietro, i quali servono a dimostrare ancora una volta, quanto gli animi dei nostri antichi fossero potentemente agitati dal desiderio d’indipendenza e quanto amore li legasse al patrio suolo; perchè ancora una volta essi osarono alzare il capo e fare un ultimo sforzo per ritogliere la loro patria al potente impero che l’aveva soggiogata. Allorchè i soldati romani ebbero abbandonata Gerusalemme cangiata in un mucchio di rovine, parecchie famiglie ebree e cristiane vennero a stabilirsi in quei luoghi di desolazione: preferendo un miserabile tugurio sulle ruine della sacra città, al soggiorno comodo ed agiato che potevano offrire loro altre città della Giudea risparmiate nella guerra devastatrice. I romani conoscendo che l’indole fiera ed indomabile degli ebrei, mal si piegava a schiavitù, lasciarono una guarnigione di sei cento uomini sul monte di Sion, per impedire la riedificazione di Gerusalemme; temendo a giusta ragione, ch’essa ridiventasse per loro un centro di riunione. L’imperatore Domiziano fratello e successore di Tito perseguitò tanto gli ebrei quanto i cristiani. Si dice, ch’egli desse ordine di scoprire tutti i superstiti della famiglia di Davide onde averli nelle mani, e colla loro morte togliere agli ebrei ogni speranza di vedersi restituita per essi la perduta indipendenza. Traiano li perseguitò ancora più fieramente: e le asprezze che venivano loro usate dal governatore romano li esasperò talmente da farli ricorrere alle armi in parecchi punti dell’Impero. Ma se tali insurrezioni parziali non ebbero altro effetto, all’infuori di quello di causare la morte di parecchie migliaia di ebrei e di rendere più dura ancora la sorte di quelli risparmiati dalla spada; nullameno bastavano a dimostrare come essi non avessero ancora rinunciato a sostenere colle armi il diritto che avevano di vivere e morire liberi nella terra dei loro padri; e come il sangue dei loro innumerevoli martiri, anzichè atterrirli, li spingesse, li affermasse nel loro poco meno che insensato, ma nobilissimo progetto. Forse non si attendeva da loro che una favorevole occasione onde effettuarlo, e questa fu loro presentata dalle stolte e crudeli prescrizioni dell’imperatore Adriano. Quantunque si creda che in principio del suo regno costui non fosse tanto ostile agli ebrei quanto i suoi predecessori, pure è un fatto ch’egli richiamò in vigore un decreto di Traiano col quale veniva proibito agli ebrei di praticare la circoncisione; d’osservare il sabbato; e di occuparsi di qualunque studio religioso. E non soddisfatto di queste prescrizioni risolse di rifabbricare Gerusalemme, per farne una città pagana popolata di Romani e di Greci: e così togliere agli ebrei qualunque speranza di una ristorazione politica. Non si può certamente negare che tali esorbitanze sarebbero bastate per esacerbare gli animi i meno infiammabili: pensiamo poi quale effetto dovessero produrre in uomini agitati da un amore ardente per la loro patria e da un odio profondo verso i loro dominatori che la profanavano in tutti i modi. Tra l’apostasia e la morte, non poteva nascere dubbio che gli ebrei non scegliessero la morte. L’insurrezione fu generale in Giudea. Un uomo coraggioso e intraprendente detto Bar-Cozibà (figlio della menzogna)⁵⁶ si pose a capo degli insorgenti, si dichiarò l’aspettato Messia, prese il nome di Bar-Cochebà (figlio della stella), e profittando dell’assenza delle legioni romane radunò numerose truppe; si impadronì di cinquanta piazze forti, e di molti villaggi e città aperte; debellò parecchie volte i battaglioni romani comandati da Tinnio Ruffo: si condusse da re e fece coniare moneta. ⁵⁶ Si crede comunemente, che questo nome gli sia stato dato più tardi per la non riuscita della sua magnanima quanto ardita intrapresa; però contro questa opinione, troviamo un passo nel Talmud, ove quest’uomo viene così chiamato dal celebre Rabbino Akibà suo partigiano entusiasta e devotissimo, e che contribuì immensamente a fargli trovare credito e favore presso il popolo, dichiarando essere esso precisamente _la stella_ vista da Balaamo, che doveva fare trionfare la causa d’Israele. Adriano, che a tutta prima aveva dato assai poca importanza a tale movimento, dovette ben presto ricredersi e spedire in Giudea Giulio Severo, il migliore dei suoi capitani, con buon numero di truppe. Costui non osando dare battaglie campali, si limitò a stancare e a dividere i rivoltosi con piccole scaramuccie, e col tagliare loro le comunicazioni e i viveri. Questo astuto maneggio gli riuscì a meraviglia: ad una ad una prese tutte le città fortificate. Bar-Cochebà si chiuse in Biter e assediato dai Romani vi resistette tre anni e mezzo. Secondo la tradizione, anche questa città cadde in potere del nemico ai 9 del mese d’Ab l’anno 136 dell’E. V.; e si videro rinnovate in essa le scellerate ed orride scene di barbarie commesse nella presa di Gerusalemme, ai tempi di Tito. Bar-Cochebà trovò nella mischia la morte dei prodi; e il misero Rabbino Akibà, caduto in potere dei nemici in principio della guerra, fu da quelle iene in sembianza umana scorticato vivo; e senza emettere un lamento spirò calmo e sereno ripetendo il verso: «Ascolta Israele l’Eterno Dio nostro, l’Eterno è unico!». Sulle ruine di Gerusalemme Adriano fece fabbricare una città novella, che chiamò ÆLIA: e dove una volta trovavasi il santuario degli ebrei fece alzare un tempio a Giove Capitolino. Proibì agli ebrei, sotto pena di morte, di entrare nella città o solamente di avvicinarvisi: e quegli infelici rimasugli di un popolo tanto grande e potente, quegli infelici martiri di una causa nobile e santa, si rassegnarono a comprare dal dominatore a peso d’oro il permesso di entrare una volta l’anno, il giorno anniversario della sua caduta, nella già capitale del loro florido regno, per deplorarne la perdita e baciarne la sacra polvere. Descrizione di Gerusalemme. A corollario degli importantissimi avvenimenti da noi raccontati in questo mese, crediamo cosa opportuna il fare seguire una breve descrizione della Gerusalemme antica ed un’altra del Tempio di Salomone, in sostituzione alle nozioni di Archeologia biblica che ripiglieremo nel mese venturo. Gerusalemme, come era quel centro dove serbavasi sotto un simbolo visibile la legge divina, così ell’era eziandio la metropoli di tutti gli Ebrei. Questa città collocata frammezzo ad adiacenze povere di erba e di alberi, a guisa di un edificio aereo s’innalzava 3,000 piedi sul livello delle pianure del Giordano; ed era piantata sovra quattro monti o colli di natura calcarea che la dividevano come in tre parti: la città alta, la città bassa e la città nuova. La prima, detta anche città di Davide, era situata sul monte Sion il più eminente degli altri. A scirocco (sud-est) del monte Sion era il Moria, o monte del Tempio, congiunto alla città superiore col mezzo di ponti. La città inferiore sorgeva sopra un colle detto l’Acra a tramontana del Sion, ad occidente del Moria, ma alquanto più basso di loro; e più lunge, sempre verso a tramontana, alzavasi il quarto colle detto dagli Ebrei Bèzeta e dai Greci Henopoli, o città nuova, che una profonda fossa artificiale separava dalla Torre Antonia, sorgente dirimpetto. A levante di Gerusalemme era il monte Oliveto, e uscendone, verso mezzogiorno aprivasi la deliziosa valle dei figliuoli di Hinnom ov’erano case, giardini, boschetti ed anco sepolcri, e girando verso ponente si entrava nella valle di Ghihhon. Da queste tre parti la città elevavasi sopra il dorso di rupi scoscese ed inerpicabili che la garentivano da nemici assalti: inoltre la cima era crestata di muri e di torri per cui il nemico, che voleva assalirla, prima di penetrare fino alla città alta era pur sempre obbligato a superare tre giri di mura. Le prime e più forti erano quelle fatte costruire da Agrippa onde chiudere la città nuova; avevano merli e 60 torri; la città inferiore aveva una linea di mura con 14 torri, indi altre mura ed altre torri più interne garantivano la città superiore. Altra fortezza era il Tempio, accessibile soltanto dal lato della città alta, perchè da levante presentava i dirupi del Moria, e dalle altre parti era protetto dalle fortificazioni interiori della città. Ecateo, due secoli prima dell’Era volgare, dava a Gerusalemme 50 stadii di circuito e 120000 anime. Tacito conta che durante l’assedio vi fossero chiuse di dentro 600000 persone; ed il suo commentatore Brotier crede che parli della popolazione ordinaria senza contare gli Ebrei di fuori, che in quell’occasione si affollarono a Gerusalemme. Plinio attesta che Gerusalemme era la più bella città non della Giudea soltanto, ma di tutto l’Oriente; ma questa magnificenza era dovuta in gran parte agli Erodi. La reggia degli Asmonei sopra la città alta era stata rifatta a nuovo da Erode il grande ed era non pure un palazzo reale con tutti i comodi e le delizie che si potevano desiderare da un gran principe, ma anche un castello; altre case reali e fortezze erano le torri d’Ippico, Fasaele e Marianna fatte fabbricare egualmente da Erode. Gerusalemme era considerata come una città comune a tutti gli Israeliti e nella sua qualità di santa, non doveva contenere niente d’impuro. Era pertanto vietato l’introdurvi animali che la legge dichiarava immondi; erano vietati i mestieri che tramandavano fetore o impurità, ed erano persino espulse le galline a cagione del puzzo che lasciavano nelle case o nei pollai. I cadaveri dovevano essere trasportati fuori prima di notte; non doveva esservi letame, e per conseguenza non orti, non campi perchè sarebbe bisognato di coltivarli; gli alberi, fruttiferi dovevano essere piantati lontani almeno 25 cubiti, e gli sterili a 50; era però lecito di coltivarvi qualunque specie di fiori. Non si saprebbe dire precisamente in quale tempo questa, città ricevesse il nome di _Gerusalemme_ (abitazione o eredità della pace), che si trova per la prima volta nel libro di Giosuè. Forse era l’antica _Salem_ (la pacifica), ove ai tempi di Abramo regnava un certo _Melchisedecco_ il sacerdote di Dio altissimo. Essa fu conquistata da Davide che ne fece la capitale del regno. Descrizione del Tempio. Venendo ora a parlare del Tempio di Salomone, dobbiamo avvertire anzitutto essere cosa quasi impossibile il darne una descrizione esatta: inquantochè siano assai incomplete le nozioni che ci vengono somministrate dal primo libro dei Re, e dal secondo delle Cronache; e non si accordino totalmente quelle che troviamo nei libri di Geremia e di Ezechiele. È bensì vero che ne troviamo una bellissima descrizione in Giuseppe Flavio, ma essa è più probabilmente la descrizione dei Tempio di Erode che non quella del Tempio di Salomone. Ad ogni modo noi ci studieremo di dare qui quei dati, che a noi paiono i meno incerti. Tutto l’edificio, che era disegnato sul modello del Tabernacolo fatto erigere da Mosè nel deserto, tranne nelle dimensioni che erano in proporzioni assai maggiori, si componeva del Tempio propriamente detto e di due cortili. Il Tempio fabbricato in pietra era intieramente coperto di legno di cedro, aveva 60 cubiti di lunghezza, 20 cubiti di larghezza e 30 cubiti di altezza. Innanzi all’entrata del Tempio, all’Est, si trovava un portico detto _ulam_, la lunghezza del quale copriva tutta la larghezza dell’edificio. Innanzi a questo portico, si posero due colonne di rame vuote al di dentro, ciascuna delle quali aveva l’altezza di 18 cubiti con 12 cubiti di circonferenza. Lo spessore del metallo era di 4 dita. La colonna che guardava al mezzodì ebbe il nome di _Iachin_, e quella che guardava il Nord portava il nome di _Booz_. Queste due colonne unitamente a tutti gli altri oggetti in rame, furono lavorati sotto la direzione di un artista fenicio nomato Hhiram, chiamato espressamente da Tiro, e che era figlio d’un Tiro e di una donna ebrea, della tribù di Neftali. Il portico e le due colonne formavano la facciata del Tempio. Ai due lati e al di dietro dei muri del Tempio, cioè a nord, mezzodì e ovest si addossarono tre piani composti di camere che comunicavano tra loro per mezzo di porte. Questi piani erano destinati al tesoro e alle provviste del Tempio. Il Tempio era diviso in due parti. La parte anteriore ricevette il nome di _Hechal_ (palazzo) e la parte posteriore ricevette il nome di _Debir_ (Tempio) o _Kodesc akodascim_ (santo dei santi). Quest’ultima parte di forma cubica situata all’occidente, misurava la terza parte dello spazio compreso dal Tempio. Per tutto il tempo che durarono i lavori, 7 anni, non si sentì a battere nè martello nè chiodo entro il Tempio (nel § delle Arti se ne troverà la spiegazione). Tutto il materiale necessario all’edificio veniva preparato altrove nella giusta misura. L’intonaco di legno di cedro che copriva i muri era scolpito di cherubini, di rami di palmizio, di coloquintida e di fiori sbuccianti. Il soffitto era pure fatto intieramente in legno di cedro e il pavimento in legno di cipresso. Tanto l’intonaco che copriva i muri quanto il pavimento erano coperti di una tenace e spessa indoratura. Sopra la parete d’occidente, la quale separava il luogo santo dal santo dei santi, vi era un ornamento d’oro fatto a catena. L’intonaco, gli ornamenti e le indorature del Debir non differenziavano in nulla da quelli dell’Hechal tranne nel pavimento che era in legno di cedro. L’entrata del Debir era chiusa da una porta a due battenti e fatta di legno d’olivo selvaggio, scolpita ed indorata come l’intonaco dei muri. Una porta uguale chiudeva l’entrata dell’Hechal però in questa i soli battenti erano di legno d’olivo: le tavole erano di legno di cipresso e ciascuna banda era formata di due pezzi che si ripiegavano e si volgevano sopra arpioni d’oro massiccio. Nulla sappiamo di positivo relativamente alla disposizione del portico. Abbiamo detto che il Tempio era circondato da due cortili o atrii. Quello interno, il solo menzionato nel primo libro dei Re, era circondato d’un muro di tre piani di pietre d’intaglio sormontate da una balustra di legno di cedro. Le sue dimensioni non ci sono note: probabilmente era una specie di rettangolo che circondava tutto il Tempio; ma che era assai più inclinato verso l’Ovest che all’Est. La parte anteriore di tale atrio doveva essere vastissima, per poter contenere gli oggetti che in esso si trovavano deposti. Nel secondo libro delle Cronache viene chiamato l’_atrio dei sacerdoti_, appunto perchè i sacerdoti vi esercitavano le loro funzioni; e in Ezechiele si menziona pure una corte grande ossia un atrio esterno che circondava l’atrio interno. L’entrata dei due atrii era chiusa da porte coperte di rame. In questo stesso atrio noi troviamo più tardi parecchie porte in diverse direzioni, e un gran numero d’appartamenti destinati al tesoro, ai sacerdoti e ai leviti di servizio. Una parte di queste porte e di questi appartamenti rimontavano indubbiamente alla costruzione primitiva di Salomone; specialmente poi un portico verso l’Oriente chiamato più tardi: _il portico di Salomone_. In mezzo all’atrio interno vi era il grande altare di rame. Il bacino che si trovava al S. O. dell’altare in grazia della sua immensa grandezza, fu chiamato il _mare di rame_, e riposava sopra dodici buoi egualmente di rame. I fianchi del bacino erano lavorati a forma di calice di fiori di giglio e ai suoi orli correvano due ordini di coloquintida. Oltre a questo bacino immenso, ve n’erano dieci altri di dimensioni minori che dovevano servire a lavare le differenti parti dei sacrifici, ed erano posati sopra piedistalli di rame ornati di figure di leoni, di buoi e di cherubini. Nell’Hechal innanzi all’entrata del santo dei santi si trovava l’altare degli incensi, in legno di cedro coperto di lamine d’oro. Il _candelabro a sette bracci_, e la tavola dei _pani di proposizione_ occupavano il posto identico a quello che tenevano nel Tabernacolo di Mosè, colla differenza che qui si avevano per ciascun lato cinque altri candelabri e cinque altre tavole parimenti d’oro, con sopravi gran numero di tazze, di molle, di pallette, di vasi e di varie altre suppellettili tutti d’oro massiccio. Entro al Debir non v’era altra cosa all’infuori dell’_Arca santa_, che probabilmente poggiava sovra un piedistallo, e nella quale stavano racchiuse le tavole della Legge. Due cherubini di legno d’olivo selvaggio coperti d’oro, venivano a congiungersi nel mezzo dell’Arca partendo dalle due sue estremità. Ciascuno d’essi aveva dieci cubiti di altezza, e colle loro ali occupavano tutta la larghezza del Debir e coprivano l’Arca santa. Questa veniva così nascosta a tutti gli sguardi, ed anche quando veniva aperta la porta del Debir non potevasi discernere veruna delle sue parti tranne le estremità delle sbarre che servivano a trasportare l’Arca, e la cui lunghezza superava l’ampiezza della tenda. ———— ELLUL (_Agosto-Settembre_). Nulla di veramente importante registra la nostra storia in questo mese, se si esclude il fatto del compimento delle mura che dovevano cingere Gerusalemme attuato dai reduci della cattività babilonese. Com’ebbimo a dire nel mese scorso per l’erezione del Tempio, il cui lavoro fu più volte interrotto per l’opposizione dei popoli circostanti che lo avversavano accanitamente, considerandolo, come lo era infatti, un primo passo verso il riacquisto della primitiva indipendenza; lo stesso dobbiamo ripetere ora relativamente all’erezione della muraglia di cinta. Ma grazie alla protezione divina, e alla energia e costanza degli stessi Ebrei, codesto lavoro fatto sotto la direzione del principe Zorobabele ebbe il suo termine ai 25 di questo mese. Non passeremo sotto silenzio che anche in questa occasione tornò indispensabile la validissima cooperazione prestata dal profeta Nehhemia, il quale per l’instancabile operosità, per le abnegazioni e pei sacrificii d’ogni genere di cui fu esempio, acquistò un titolo immortale di patria benemerenza. ———— Persuasi di fare cosa nonchè utile, ma altresì grata ai nostri giovani lettori, alla continuazione degli studii di Archeologia biblica, noi facciamo precedere alcuni schiarimenti sull’uso che tuttavia si segue in questo mese di suonare lo _sciofar_, e poichè ci troviamo sull’argomento aggiungeremo alcune parole sui diversi motivi che inspirarono a Mosè le due notevolissime instituzioni dell’_anno sabbatico_ e dell’_anno del Giubileo_; per la cui solenne e pubblica annunciazione si faceva appunto uso di quello strumento musicale. Lo _sciofar_ si suona in tutti gli Oratorii e in tutti i giorni di questo mese tranne i sabbati, dopo l’orazione mattutina, _tefilà_, e in certe località anche dopo l’orazione antivespertina, _minhhà_. Tale suono viene limitato a quattro sole voci (_tekiód_) distinte colla parola _tasrad_⁵⁷. ⁵⁷ Tale vocabolo è composto delle lettere iniziali delle quattro parole: _tekià_, _scevarim_, _teruà_, _tekià_, e che significano quattro diverse modulazioni di voci. Per insegnamento tradizionale noi sappiamo che questo uso deve la sua esistenza al pensiero di commemorare la seconda ascensione sul Sinai fatta da Mosè per prendere le seconde tavole della legge: importantissimo avvenimento che si vuole successo appunto il primo giorno del mese di _Ellul_. Forse non si ignora che le prime tavole della legge, che per ordine di Dio Mosè salì a prendere immediatamente dopo la proclamazione dei 10 comandamenti, furono da lui stesso spezzate in un istante di giustissima ed irrefrenabile ira, quando cioè disceso dal monte vide gli insani tripudii del popolo intorno al vitello d’oro fatto da Aronne. La tradizione crede adunque che prima di assentarsi di nuovo per quaranta giorni, Mosè edotto dalla esperienza della leggerezza ed incostanza del popolo abbia voluto rendernelo avvisato facendo suonare lo _sciofar_, e ridisceso il dieci di _Tisrì_, abbia consacrato quel giorno alla penitenza e al perdono, chiamandolo _ìom achipurim_ (giorno dell’espiazione o del perdono). Secondo questa credenza la _tekià_, o le _tekiód_, secondo l’usanza delle Comunioni, che chiudono quel santo giorno, sarebbero state stabilite in memoria appunto del suono dello _sciofar_, che Mosè fece ripassare nell’accampamento quello stesso giorno per annunziare al popolo il suo ritorno. Vedremo in seguito quanto fossero famigliari agli Ebrei il canto e la musica: diremo qui che lo _sciofar_ tradotto dalla Vulgata in _buccina_, nella Bibbia viene pure appellato _keren aiovèl_ espressione che a detta dei Rabbini significa _corno di montone_, locchè ci può fare convinti che questo istrumento era fatto effettivamente con un corno di montone, o ne aveva almeno la forma. Nella Scrittura si parla spesso di codesto istrumento musicale, che si adoperava specialmente nelle guerre e per annunziare pubblicamente l’anno dell’_iovel_ (Giubileo). È cosa probabilissima che la denominazione data a quell’anno abbia avuto origine dall’istrumento che era adoperato per annunziarlo solennemente. Per dovere di esattezza dobbiamo però aggiungere, come taluni opinino invece che la parola _iovel_ derivi dalla radice _iaval_ che significa _apportare_; perchè tale anno apportava ad ogni cittadino la gioia di rientrare in possesso dei beni forzatamente alienati, e ad ogni schiavo una libertà completa. Ecco come si esprime la legge sul modo di annunziare tale anno alla nazione e sulle importanti specialità che lo distinguevano: «Numererai poi sette ebdòmade di anni (cioè) sette anni sette volte; e quando il corso delle sette ebdòmade di anni ti avrà dato quarantanove anni, nel mese settimo ai dieci del mese suonerai _buccina_ clamorosa; nel giorno dell’espiazione suonerete la _buccina_ in tutta la vostra terra. Consacrerete l’anno cinquantesimo e proclamerete franchigia nel paese a tutti i suoi abitanti. Quello sarà per voi _giubileo_ (_iovél_), e ciascheduno di voi farà ritorno alla sua possessione, e ciascuno tornerà alla propria famiglia». I principali motivi che inspirarono le due istituzioni dell’anno sabbatico e dell’anno del giubileo furono i seguenti: 1º Il progresso dell’agricoltura; 2º l’inalienabilità dei possedimenti prediali; 3º la libertà degli schiavi. Quantunque le disposizioni di cui noi parliamo non si accordino guari colle idee perdominanti ai giorni nostri sia sul commercio, quanto sulla proprietà e sulla agricoltura; pure non furono solo possibili allora, ma altamente commendevoli. E la prova si è che non fu solo Mosè che concepì l’idea della parità di averi per ogni cittadino, e per conseguenza della inalienabilità delle terre. Però è per noi gradito dovere quello di potere asserire colla testimonianza della storia, che fra quanti antichi Legislatori tentarono d’incarnare tale concetto, nessuno seppe concepire un piano tanto semplice, e di così facile attuazione quanto quello ideato dal Legislatore ebreo. Intimamente persuaso Mosè che la durata e la felicità delle nazioni dipende dalla bontà delle istituzioni che la reggono, dall’abbondanza d’annona e dal forte vincolo che lega il cittadino al patrio suolo, più che da estese relazioni commerciali che spesso apportano la corruzione col lusso e colle ricchezze, o dalle imprese guerresche e dalle micidiali conquiste che spandono bensì sprazzi di luce viva ed abbagliante, ma quasi sempre passeggiera e d’una utilità piuttosto apparente che reale; dopo di avere dati al suo popolo un codice di leggi «giuste e rette», cercò d’inspirare nei loro animi il massimo amore per le due innocenti ed utilissime professioni dell’agricoltura e della pastorizia. A questo fine cominciò a nobilitarle cogli esempi dei patriarchi e suoi, poscia annunziò al suo popolo che esso non era il vero proprietario della terra, ma niente più di un semplice vassallo e coltivatore a cui Dio assegnò una parte del suo terreno affinchè la custodisse e la coltivasse con amore. «La terra è mia, dice il Signore, e pertanto non sarà definitivamente venduta. Voi non siete con me se non forestieri ed abitanti». Stabilita questa premessa, dopo di aver dichiarato che i componenti la sua repubblica erano tutti eguali al cospetto del Signore, perchè tutti «suoi figli e suoi servi che trasse dalla schiavitù d’Egitto», doveva naturalmente conseguire un diritto indiscutibile per ciascuno di essi di partecipare nella stessa misura al suolo da conquistarsi⁵⁸. Ma oltre alla sanzione della perfetta eguaglianza di tutti i cittadini in faccia alla legge, è fuor di dubbio che tale disposizione, serviva mirabilmente ad inspirare in ciascuno d’essi un fortissimo amore di coltivare bene, e di difendere strenuamente quei campi e quelle case a cui erano legati da tante care memorie e dai più gentili affetti; e che come formarono il patrimonio dei loro padri, così dovevano venire tramandati ai loro figli; com’è fuor di dubbio che la parte toccata in eredità a ciascun cittadino, doveva bastare ad assicurare un vitto abbondante alla propria famiglia. «Quando voi sarete in possesso della terra che Dio promise ai padri vostri, dice il Legislatore, voi la dividerete col mezzo della sorte, per famiglia e per tribù, per modo che ciascuno abbia la sua parte conveniente; dando (cioè) una porzione più grande a quelle (tribù o famiglie) che saranno in numero maggiore, e una porzione più piccola a quelle che saranno in numero minore». ⁵⁸ Di questo diritto fu esclusa la tribù di Levi, onde le occupazioni materiali non la distogliessero dal servizio divino e dallo ammaestramento del popolo a cui fu consacrata. Più tardi vedremo che la legge ne la compensava esuberantemente col prodotto delle decime e dei sacrifizii, e coi non rari doni dei privati. Uniformandosi a questa prescrizione, dopo le sue splendide vittorie, Giosuè invitò l’assemblea del popolo raccolta in Silo, a scegliere tre uomini abili per ciascuna tribù, di dare loro l’incarico di percorrere il paese in tutti i sensi, tracciarne il piano e dividerlo in porzioni. E a questo proposito non possiamo trattenerci di fare rimarcare il seguente fatto degno di nota. Ammettendo anche inesatta l’opera di quegli uomini, non ci deve recare meno stupore la considerazione che 3500 anni fa, al loro ingresso nella terra di Canaan, gli Ebrei abbiano già potuto avere ciò che i popoli più inciviliti ottennero da non molti anni, con grandi sforzi e gravi dispendii, il piano cioè del loro paese, il cadasto della proprietà pubblica. Ma se queste prescrizioni erano di tale natura da fare avvanzare l’agricoltura⁵⁹, non valevano tuttavia ad assicurarne una fertilità duratura; inquantochè la terra possa isterilirsi tanto per l’indolenza e l’incuria del proprietario, quanto per la sua insaziabile ingordigia. Prevenuto il primo di questi due pericoli conveniva pensare a scongiurare il secondo. Oggi giorno si usa di alternare le seminagioni: ma allora o non si conosceva questo sistema o non si credeva bene di praticarlo. Aggiungeremo ancora, che per motivi che qui non occorre cercare, Mosè proibì la simultanea mescolanza dei vegetabili nello stesso campo. Occorreva dunque cercare uno spediente; e fu egregiamente trovato coll’istituzione dell’anno _sabbatico_, che era un anno intiero di riposo alla terra. Ecco come si esprime la legge a questo riguardo: «Sei anni coltiverai il tuo campo, e sei anni poterai la tua vigna, e ne ritirerai il prodotto. Ma nell’anno settimo la terra avrà sabbato di riposo, sabbato ad onore del Signore: il tuo campo non seminerai, e la tua vigna non poterai. La raccolta che ti nascerà spontanea (dai grani caduti), non mieterai; e l’uva delle tue viti incolte non vendemmierai: egli sarà per la terra un anno sabbatico. Il (prodotto del) sabbato della terra sarà vostro da cibarvene: tuo (cioè), e del tuo schiavo e della tua schiava, e del tuo mercenario, e del tuo avventiccio, dimoranti teco. Ed (anche) al tuo bestiame, ed alle fiere esistenti nel tuo paese, sarà lasciato mangiare ogni suo prodotto». ⁵⁹ E che gli Ebrei abbiano profittato delle raccomandazioni di Mosè, noi non possiamo neanche dubitarne. A conferma della prodigiosa fertilità della terra promessa, che come dicemmo viene messa in dubbio da quanti si fermano alle desolanti descrizioni che di quel paese ci danno gli scrittori moderni senza por mente agli sconvolgimenti cui andò soggetto, noi non rapporteremo quanto vi si trova nella Scrittura e in Giuseppe Flavio onde non si creda che in noi parla la passione, ma bensì la testimonianza di scrittori pagani. Dopo che Plinio chiamò Gerusalemme «la città la più celebre, non solamente della Giudea, ma dell’intiero Oriente»; dopo ch’ebbe dato descrizioni favorevolissime della Giudea e delle sue produzioni in generale; dopo ch’ebbe vantato la flessibilità del legno del terebinto, la sua lunga durata e il suo colore di un nero splendissimo; dopo ch’ebbe fatto notare l’importanza della resina e del miele d’olivo (specie questo di una manna che si raccoglieva sulle foglie di quegli alberi); si ferma pia particolarmente sulle palme e sulla pianta del balsamo. Ecco le sue parole dalle quali possiamo desumere quale caso si facesse allora di quella produzione: «Il balsamo sdegna di crescere altrove (così credeva anche Flavio: Ora però cresce in Arabia) e il liquido che se ne estrae, e che viene preferito a qualunque altro profumo, la Giudea è il solo paese del mondo al quale la natura lo abbia accordato. Gli Imperatori Vespasiano e Tito furono i primi che mostrarono in Roma ed abbiano portato nel loro trionfo questo prezioso arboscello, divenuto tributario del nostro impero, come la nazione che il coltivava». Tacito ne parla in questi termini: «Questo paese confinante all’Oriente coll’Arabia, al mezzodì coll’Egitto, a ponente colla Fenicia e col mare; dal Nord si estende in lontanza verso la Siria. Gli uomini sono sani e robusti, le pioggie rare, il suolo fertile; esso dà le stesse produzioni del nostro paese, colla stessa abbondanza, e in dippiù il balsamo e le palme: le palme, alberi alti e belli; il balsamo, arboscello il di cui succo s’impiega utilmente nella medicina». Un romano orgoglioso e poco favorevole agli ebrei, poteva forse lodare meglio la Giudea che paragonarla alla gentile e fertile nostra patria, dando la preferenza alla prima? Alle testimonianze di questi due scrittori tutt’altro che parziali pel popolo nostro, possiamo aggiungere quella di un gran numero di medaglie fatte incidere dai Greci e dai Romani nelle occasioni delle loro vittorie sugli ebrei, e che certo non era nella loro intenzione di fare cosa gradita ai vinti lusingandone l’amore patrio. Queste medaglie rappresentano tutte la fertilità del paese, poichè in certune d’esse la Giudea viene rappresentata gemente all’ombra di una palma; in altre offre i suoi olivi e il suo balsamo; una rappresenta covoni di grano, in altra vedonsi tre spicche di grano uscenti da un sol gambo; in questa smisurati pampini d’uva, e in quella corni colmi di parecchie specie di frutti. E quasi superfluo che noi facciamo notare, come il Legislatore ebreo non siasi lasciato sfuggire neanche questa occasione onde disporre il cuore del suo popolo alla bontà e alla misericordia. L’avvicinarsi dell’anno settimo poteva impensierire i meno abbienti pel timore di mancare del necessario; ed ecco il Legislatore che anticipatamente viene in loro soccorso, li libera di un pensiero angoscioso, prescrivendo che i prodotti spontanei di quell’anno fossero lasciati a loro favore. Solenne prova di un cuore nobilissimo e di un sentimento squisitamente gentile! La terra abbandonata a se stessa pel corso di un anno riparava alle sue forze stremate pei sei ricolti consecutivi: e le numerose mandre che ricondotte dal deserto vi pascolavano in libertà, ne aumentavano d’assai la fertilità. E posciacchè questa istituzione potrebbe sollevare qualche difficoltà nell’animo dei nostri lettori, non sapendosi rendere ragione che uno stato possa seriamente rinunciare all’intiero raccolto di un’annata, e particolarmente poi in quei tempi che presentavano tanti ostacoli a provvedersene altrove per la difficoltà di comunicazione; noi rapporteremo le parole colle quali Mosè rassicurava il suo popolo a questo riguardo: «E se voi mi chiederete, cosa mangeremo noi nell’anno settimo, se non faremo seminagioni, e non potremo perciò raccogliere verun prodotto?»—«Io comanderò su voi la mia benedizione nell’anno sesto, e la terra vi darà un prodotto bastevole per tre anni». Ma senza pregiudicare minimamente questa divina promessa, subordinata alla osservanza delle sue leggi; non v’ha dubbio che questa instituzione serviva altresì a inspirare e a sviluppare in loro il sentimento della previdenza e dell’economia. Le terribili carestie dei tempi d’Abramo e di Isacco ci fanno fede che i mezzi di conservare i generi alimentarii erano affatto sconosciuti o assai negletti. Invece per questa legge gli Ebrei erano appunto obbligati ad inventare ed a perfezionare diversi mezzi per conservare il grano, le frutta, il vino e l’olio; e ad abituarsi a sagaci approvigionamenti. Con queste lodevolissime precauzioni essi venivano a premunirsi contro il flagello delle carestie che in quei tempi erano tutt’altro che rare, e che ancora più che dalla inclemenza delle stagioni, erano prodotte dalle guerre comunissime allora e di carattere selvaggio. Ma i benefici effetti dell’anno sabbatico si estendevano pure alla derelitta classe degli schiavi. Parlando della costituzione della famiglia ebrea, noi ebbimo già occasione di constatare le sollecitudini di Mosè per quelle infelici creature, che la sventura o il bisogno assoggettava ai loro simili. Nessun’anima gentile potrà non convenire con noi che al dissopra della triste condizione in cui lo schiavo gemeva giornalmente, era senza dubbio straziante il pensiero che gli fosse tolto definitivamente ogni speranza che ritornasse a rilucere per lui un raggio di libertà, che valesse a riabilitarlo nei suoi diritti di uomo e di cittadino. La schiavitù non gli presentava che un immenso ed indefinito orizzonte di sofferenze e di dolori che faceva capo alla tomba. Togliere questo strazio inesprimibile dal cuore dello schiavo ebreo, era una delle prerogative dell’anno sabbatico. «Quando tu acquisterai uno schiavo ebreo esso ti servirà sei anni, e nel settimo se ne sortirà liberamente⁶⁰. Questa legge ammetteva però un’eccezione concessa per un lodevole sentimento di tenerezza supposto nello schiavo verso il proprio padrone, verso la propria moglie e verso i figli. Ecco come si esprime la legge a questo riguardo: «E se lo schiavo dirà: Io amo il mio padrone, mia moglie e i miei figli e non voglio andarmene libero»; allora il padrone lo farà presentare ai giudici, e questi lo faranno avvicinare ad un battente, o allo stipite della porta della città (luogo, come vedremo più innanzi ove risiedevano in quei tempi i tribunali composti ordinariamente dei vecchi della città, ed ove per conseguenza amministravano pubblicamente e gratuitamente la giustizia) e colà, lo stesso padrone, gli buccherà il lobo dell’orecchio..... e lo schiavo lo servirà _leolàm_, vale a dire sino all’anno del _Giubileo_, come intendono, tutti i commentatori. ⁶⁰ Per dare una prova dell’alta importanza che attaccavano i Profeti a questa disposizione, comecchè interessasse una delle più importanti prerogative di ogni cittadino «la libertà individuale», perchè la legge sanciva allo schiavo liberato la immediata restituzione dei diritti civili e politici; noi trascriveremo qui alcuni versetti che coll’animo traboccante di indegnazione, Geremia ne apostrofava i trasgressori: «Dice così il Signore, Dio d’Israele: Io imposi l’obbligo ai vostri padri allorchè li trassi dalla terra d’Egitto, dov’erano schiavi con dire: «In capo a sette anni rilascerete ciascheduno il vostro fratello ebreo, che vi si fosse venduto, ed avessevi servito sei anni; e lo rimanderete da voi in libertà. E i vostri padri non m’ascoltarono.....».—«E voi in oggi vi emendaste, e faceste ciò che piace ai miei occhi, proclamando l’uno all’altro libertà; e ne faceste solenne promessa innanzi a me........».—«Ma poi, pentiti, profanaste il mio nome, e faceste tornare ciascheduno il proprio servo, e ciascuno la propria serva, che avevate rimandati in balia di sè, e li sforzaste ad essere a voi schiavi o schiave. Perciò dice così il Signore: «Voi non mi avete obbedito di proclamare l’uno all’altro libertà; ecco ch’io sono per proclamare contro di voi libertà, dice il Signore, alla spada, alla peste e alla fame; e renderovvi oggetto d’orrore a tutti i regni della terra. E darò quegli uomini che contravvennero alla fattami promessa....... in mano dei loro nemici e di quelli che cercano d’impossessarsi delle loro persone». I nostri Dottori interpretano così questo atto che sembra strano: «Per quale motivo la legge ordina di offendere l’orecchio a preferenza di qualunque altro membro?—Disse Dio: «Quell’orecchio che intese la mia voce sul Sinai, quando proclamai: che tutti i componenti l’Assemblea di Giacobbe sono ugualmente miei schiavi che trassi dalla terra d’Egitto, e ciò non pertanto si sottomise volontariamente al giogo d’altro schiavo, porti esso il marchio dell’ignominia e del disonore». L’anno del _giubileo_ differenziava dall’anno sabbatico per la prescrizione d’una libertà intiera, assoluta ed inesorabile per la terra e per tutti i suoi abitanti. Imperocchè, nella guisa istessa che nell’anno sabbatico s’era fatta un’eccezione alla legge relativa agli schiavi, così se ne ammise una riguardo alla legge sulla proprietà permettendone l’alienazione in dati casi. Ma questa concessione non era che temporanea anch’essa: inquantochè oltre al permettere al possessore stesso di ricuperare in qualunque momento la possessione alienata; oltre al raccomandare questo misero decaduto alla pietà dei suoi parenti, facendo loro quasi un dovere di ricuperare per lui la già sua possessione; statuì che in qualunque caso all’anno del giubileo, egli ritornasse di pien diritto al possesso dei suoi beni. I debiti di qualunque specie essi fossero venivano pure rimessi⁶¹. ⁶¹ Non possiamo proprio passare sotto silenzio la raccomandazione che Mosè indirizza al suo popolo a questo rapporto, esternando un nobilissimo pensiero: «Bada bene che non ti entri nel cuore un malvagio pensiero, cioè: «S’avvicina l’anno settimo, l’anno della remissione—e tu divenga avaro verso il tuo fratello bisognoso, e non gli dia; nel qual caso egli si lagnerebbe contro di te al Signore, e tu incorreresti in peccato. Ma dagli, e non ti dolga il cuore nel dare a lui; poichè in premio di questa cosa il Signore, Iddio tuo, ti benedirà in ogni opera tua, ed in tutto ciò, a cui porrai mano». Così ad ogni mezzo secolo tutto rientrava nell’ordine primitivo: lo stato ricuperava i membri per lui perduti nella schiavitù; e questi miserabili resi alla patria e ristabiliti nei loro fondi, riprendendo il titolo di cittadino si trovavano alla portata di adempirne le funzioni e di sopportarne i carichi. NOZIONI DI ARCHEOLOGIA Antichità civili. Dopo d’avere parlato nei mesi precedenti sulla società domestica degli antichi Ebrei, comincieremo in questo la descrizione dei loro usi sociali, facendovi precedere alcune considerazioni sul loro carattere in generale. È cosa innegabile che il carattere degli ebrei antichi teneva alcun che di singolare, e distinguevasi da quello degli altri popoli per virtù e vizi proprii. Se è vero che essi non erano affatto scevri dei vizi propri degli Asiatici quali: l’arroganza, l’indocilità, la caparbietà, la mollezza, l’amore del lusso e delle pompe; se è vero ch’essi ebbero una tendenza invincibile verso l’idolatria fino all’epoca del primo esiglio; non è men vero che in parecchi periodi della loro storia noi li riscontriamo sobrii e semplici nei costumi, modesti nelle glorie, attribuendone maggior merito alla protezione di Dio che al loro proprio valore; li riscontriamo ammirabili per fede religiosa e per isviscerato amore al patrio suolo; schietti, mantenitori delle promesse, chiari per umanità, giustizia ed affabilità. Gli sforzi di Mosè per insinuare nei loro cuori una forte passione per l’agricoltura e per la pastorizia non furono vani, perchè essi vi si mostrarono cotanto propensi e vi si dedicavano con tanto amore, che la massima prosperità della nazione veniva figurativamente espressa dai profeti colle parole che: «ciascuno condurrebbe la sua vita sotto la sua vite e sotto il suo fico»: per quanto ciò non abbia minimamente impedito che ogni qualvolta la loro patria reclamava l’aiuto dei suoi figli, questo popolo non abbia saputo cangiare con prestezza ammirabile e con uno slancio insuperabile gli strumenti di pace in quelli di guerra. Vediamo ora come il loro carattere si manifestasse in pratica nelle diverse congiunture della vita. Non è mestieri di essere molto versato nel Pentateuco, per sapere quanto già dicemmo e ripetiamo ora, che cioè il suo autore si studiò di ingentilire l’animo del suo popolo, e di insinuare nei loro cuori urbanità e delicatezza⁶². E noi ci sentiamo ben orgogliosi di potere asserire senza, tema di smentita, che da questo lato gli ebrei si uniformarono sì bene all’intenzione del loro Legislatore, che lasciarono una prova indubbia della più alta civiltà. ⁶² Ci dovremmo allungare di troppo se noi volessimo passare in rassegna tutti i precetti, che forse non ebbero altro motivo oltre quello di abituare Israele alla mitezza, a sentimenti di pietà, di amore e di gentilezza verso tutti gli uomini. Il seguito di questi nostri studi ci dimostrerà in modo indubitabile che il terreno, cioè il popolo, era veramente adattato a ricevere e a fare crescere rigogliosi quei nobili semi. Ci contentiamo pertanto a segnalarne alcuni: La raccomandazione di alzarsi al cospetto d’un vecchio; di non cibarsi del sangue degli animali; di non fare cuocere il capretto nel latte della madre; di non uccidere il bue o l’agnello nello stesso giorno in cui si uccide il loro figlio; di non mettere la musoliera al bue quando batte il frumento; di non serbare rancore verso il prossimo nè trar vendetta delle sue offese; di non restare testimone indifferente del pericolo dal prossimo; di non maledire al sordo, nè mettere inciampo al piede del cieco ecc. Cadendo in acconcio e persuasi di fare cosa grata ai nostri giovani lettori inseriamo il seguente aneddoto col quale i nostri Dottori vollero appunto dipingere l’indole gentile e pietosa del nostro Legislatore. «Mosè pascolava le pecore di Ietro suo suocero. Un giorno che trovavasi verso l’Oreb, luogo arido e deserto, volgendo l’occhio attorno vede una pecora che si sbranca, e va e va, e s’allontana dalle compagne. Il buon pastore le tiene dietro: la pecora affretta il corso, e scorre per vaste pianure finchè si arresta presso ad uno zampillo d’acqua. Mosè la raggiunge, s’arresta anch’esso, la guarda mestamente e dice: «Mia buon’amica! era dunque la sete che ti spingeva a lasciarmi e sfuggirmi! ed io non me ne era accorto. Poveretta! come devi essere stanca e affaticata! Come potrai raggiungere le tue compagne?» Come la pecora ebbe terminato di bere, Mosè se la trasse sulle spalle, e curvo sotto quel peso, ripiglia il suo cammino alla volta della greggia. Mentre Mosè camminava con quel peso sulle spalle, una voce dal cielo suonò in queste parole: «Tu che hai tanto amore, tanta pietà per la greggia degli uomini, meriti bene di essere chiamato a pascolare la greggia del Signore!» L’atto più comune di urbanità essendo il saluto che viene scambiato tra amici e conoscenti; è perciò naturale che si presenti primo al nostro esame. Presso gli ebrei, la locuzione che esprimeva il saluto, conteneva una benedizione. Il saluto più ordinario era infatti: _Dio_ (sia) _con te_: al quale veniva risposto: _benedica te Iddio_. Si usavano però altre formule quali sarebbero: _Dio ti sia benigno_: _la benedizione di Dio_ (sia) _sopra di te_; _io ti benedico nel nome di Dio_. Volendo informarsi del benessere dell’amico, gli si indirizzava la seguente interrogazione: _aschalom lach?_ a cui ordinariamente veniva risposto: _schalom_. Gli amici, i parenti e quelli che erano di un rango eguale per lo più facevano seguire un abbraccio al saluto e specialmente poi quando non si erano visti da lungo tempo. Incontrando o accomiatandosi da persone di un rango più alto facevano una profonda riverenza, che la Bibbia esprime colle parole: _si prosternò colla faccia a terra_. Da quanto si rileva dal fatto di Rebecca verso Isacco e da quello di Abigaille verso Davide, si può conghietturare, che l’inferiore si affrettava a scendere dalla sua montura, quando vedeva arrivare l’uomo di distinzione al quale voleva presentare i proprii omaggi. Nel corso della conversazione, l’inferiore dava al superiore il titolo di _signore_, e a se stesso si attribuiva quello di _servitore_, senza però lasciare di parlargli direttamente in persona seconda, formula che si usava quasi esclusivamente. Anche le donne parlando a uomini a loro superiori davano a se stesse l’epiteto di _serventi_. Pare che gli uomini non usassero salutare in pubblico le donne, ma che all’incontro queste si mostrassero molto sollecite ad usare verso gli uomini quest’atto d’urbanità. Tale uso si conserva ancora oggi giorno tra gli Arabi. Stando a quanto scrisse un celebre viaggiatore⁶³ sugli Orientali, i quali, dice esso, «conservano talmente le usanze antiche menzionate nella Storia Sacra e profana, che salvo la religione, si può dire che è ancora lo stesso popolo di due mila anni fa», noi siamo portati a conghietturare che quando si andava a fare visita a un grande personaggio sì usava farsi annunziare: ma che volendo invece entrare in una casa ordinaria si bussava alla porta, e si attendeva che sortisse il padrone per esservi introdotto. Partendo dalia stessa supposizione si ha fondamento a ritenere che, come si usa attualmente dagli Orientali, si usasse anche fra gli Ebrei di abbruciare incensi in onore degli ospiti e di complimentarli con rinfreschi che consistevano allora in vino mescolato d’aromi, in sciroppo di melagranate, ecc. ⁶³ Shaw t. 1 p. 390. Nel rispondere al saluto di commiato del visitatore, il padrone di casa gli diceva: _lech leschalom_ (va in pace) augurio questo che si adoperava anche pel viaggiatore. Fra gli scambievoli atti d’urbanità a cui ci obbliga la vita socievole, dopo il saluto e la visita vengono i regali, e di essi la Bibbia ci offre pure molti esempi. È quasi superfluo dire che i regali, i quali sono forse ancora più che il saluto e la visita una manifestazione d’una reciprocanza non dubbia di affetto, di stima e di devozione; dovevano necessariamente variare a seconda dei vincoli di parentela e di amicizia che legavano tra loro chi li offriva e colui a cui venivano offerti, e a seconda della differenza della loro condizione sociale⁶⁴. Essi consistevano in armi, in vestiti, in danaro e in derrate, fra le quali devesi particolarmente notare il grano secco, il pane e il miele. Naturalmente non v’era epoca fissa per tale scambio di regali, poichè gli amici se ne scambiavano nei giorni di allegria per qualsivoglia festività domestica; e in tali giorni, come pure nelle ricorrenze delle solennità religiose, se ne distribuivano generosamente al levita, al forestiero, all’orfano e alla vedova: onde anch’essi, secondo il detto Mosaico «potessero partecipare alla comune letizia». ⁶⁴ Mosè aveva formalmente proibito ai giudici di accettare regali, inquantocchè secondo la sua espressione; «i regali acciecano i chiaroveggenti e pervertiscono le parole dei pii». Questa raccomandazione non fu soltanto seguita alla lettera dai nostri Dottori rivestiti della qualità di giudici, ma troviamo anzi che parecchi d’essi ne spinsero la pratica esecuzione ad una scrupolosità diremo quasi esagerata, come ce lo dimostrano ben chiaramente i due seguenti esempi che noi presentiamo ai nostri lettori e che sono spigolati da un campo ben provveduto: Rabì Samuele tragittava un’acqua sur una barchetta. Giunto alla riva un uomo gli porge la mano per aiutarlo a scendere. Lo stesso uomo gli presenta poscia una causa per farlo giudice tra lui e il suo avversario. «Amico, gli dice il Dottore, io non posso essere tuo giudice perchè ho ricevuto da te un servigio». Un altro Dottore, certo Rabì Josè, si faceva portare dai suoi campi ogni venerdì un cesto di frutta dal proprio fattore. Una volta questi gli si presentò il giovedì col solito cesto di frutta. «Per qual cagione hai tu oggi anticipato?» gli domandò il padrone. «Signore! rispose il gastaldo, ho una causa qui in città, e dovendomivi recare, ho pensato profittare del viaggio per portarvi dei vostri frutti. Di grazia! ecco il tenore della mia causa: spetta a voi darne sentenza. «Amico! risponde il Dottore, tu mi hai fatto una cortesia, io non posso più essere tuo giudice»: e delegò due savii a fare le sue veci. Dalle parole che il servo di Saulle indirizzò al medesimo quando gli propose di portarsi da Samuele onde avere notizie delle asine smarrite dal padre di lui, e da un passo relativo ad Eliseo, parrebbe che i consigli dati dai profeti fossero corrisposti con regali di danaro o di qualche genere alimentario; però dalle prove di disinteresse date da questi due profeti, e particolarmente dal primo d’essi, del quale parleremo in seguito, e che furono gli unici dei quali si faccia menzione sotto questo rapporto, noi abbiamo fondati motivi a credere che quei regali quando venivano da essi accettati, lo erano a solo titolo di atti di beneficenza verso i loro alunni poveri. Si offrivano pure regali ai grandi, dei quali volevasi acquistare la protezione. Talvolta anche i grandi ne offrivano ai loro inferiori, locchè veniva stimato un segno di favore e di protezione. Anche ai re si offrivano regali, ma probabilmente altro non erano se non un’imposta mascherata. È però dovere di giustizia il soggiungere che anche i re dal canto loro si dimostravano liberali verso quei loro sudditi che ritenevano degni di particolare distinzione, e che nei tempi di pubblica esultanza facevano distribuire viveri al popolo radunato. Un altro genere di urbanità consistente nei pranzi era pure in uso allora. Si davano pranzi per festeggiare l’arrivo di qualche parente od amico che non s’era visto da gran tempo; alla tosatura delle pecore; alle vendemmie; allo spopparsi dei bambini e in occasioni di matrimoni; presso i principi si davano pranzi anche nelle neomenie e nei giorni loro natalizi ecc. Questi festini vengono indicati colla parola _misthè_, che letteralmente significa _tempo di bere_, probabilmente per la larga parte che si lasciava al vino in quei tempi in compenso alla scarsità delle pietanze, che erano certamente ben lungi di raggiungere o anche di solamente avvicinarsi al numero di quelle che s’imbandiscono attualmente nelle mense dei grandi. Portavano pure il nome di _lehhem_ che vale _pane_, quasi ad atto di ossequio al primo e più importante alimento. Da quanto si legge in Samuele, pare che il pasto fosse preceduto dalla benedizione del capo dei convitati. Nei diversi festini di cui parla la Bibbia non si fa mai cenno sull’intervento delle donne, per cui siamo portati a conchiudere che anche fra gli ebrei, le donne tenessero festini nei loro appartamenti separati come si usava in tutto l’Oriente; quantunque dall’importanza che aveva la donna nella famiglia ebrea, debba mettersi fuor di dubbio che esse venivano ammesse nei pasti famigliari. Tutto lascia credere che tali festini fossero rallegrati da concenti musicali e da canti di gioia. Nel conversare il loro contegno era misurato e grave, come lo è quello degli orientali in generale, e specialmente quello degli arabi. Si parlava poco, e con parole convenienti. Le espressioni lubriche, disoneste od anche solo equivoche non solo erano bandite dal loro parlare, ma venivano colpite dalla riprovazione universale: i buffoni erano tenuti in tale pessimo concetto, che Davide li assimila ai malfattori e ai reprobi. Crediamo fare cosa utile rapportando su questo argomento alcune osservazioni giudiziose e spassionate dell’abate Fleury, nel suo pregiato lavoro _Mœurs des Israélites_: «Essi, gli ebrei, usavano volontieri nei loro discorsi allegorie ed enigmi ingegnosi. Il loro linguaggio era modesto e conforme al pudore. Essi dicevano per esempio: «L’acqua dei piedi» per sott’intendere l’orina: «Coprire i piedi» per soddisfare agli altri bisogni naturali, perchè in tale azione si coprivano dei loro mantelli dopo d’avere scavato la terra..... D’altra parte se essi hanno certe espressioni che a noi sembrano piuttosto dure quando parlano del concepimento e della nascita dei bambini; se nominano senza riguardo certe infermità segrete dell’uno e dell’altro sesso, ciò avviene per la distanza dei luoghi e dei tempi...» Sull’argomento dei loro piaceri lo stesso autore così si esprime: «La loro vita agiata e tranquilla unita alla bellezza del paese li rendeva inclinati al piacere: ma i loro piaceri erano semplici e facili non avendone guari oltre il buon vitto e la musica. I loro festini erano imbanditi di vivande assai semplici e la maggior parte di loro sapeva cantare e servirsi degli strumenti musicali». Quantunque in verità noi riteniamo che gli ebrei godessero altri piaceri oltre ai due summentovati; è però vero che il vecchio Barzilai non enumerò che questi due, che certo erano per loro i principali, quando invitato da Davide a volere dimorare nella sua Corte, rispondeva di non potere accettare perchè la sua grave età non gli permetteva oramai di gustarne il diletto. L’ecclesiastico poi paragona questi due piaceri nella vita dell’uomo, all’effetto che produce alla vista uno smeraldo incastrato nell’oro. Per godere il fresco e l’aria libera, essi mangiavano volentieri sotto gli alberi e sotto capanne. Due altri generi di divertimenti, il giuoco e la caccia, sono ai tempi nostri annoverati tra i principali. Riguardo al giuoco possiamo affermare che nella Bibbia non se ne ha traccia veruna. Solo nella legge tradizionale si parla di giuochi d’azzardo e non solo vengono dichiarati proibiti, ma si aggiunge che coloro che vi si davano non potevano deporre come testimoni innanzi ai tribunali. Riguardo poi alla caccia, che in origine dovette formare una delle occupazioni essenziali tanto dei nomadi, quanto dei pastori della Palestina, pel bisogno che avevano di difendere le loro greggie dalle bestie feroci; pare che fosse esercitata anche dagli ebrei, sia per lo stesso motivo e sia perchè poteva fornire i loro pasti di buone vivande. Nessuno ignorerà probabilmente che il potente Nembrotte era chiamato «cacciatore forte al cospetto dell’Eterno»; e che la selvaggina tornava tanto gradita al palato del Patriarca Isacco, da ispirargli maggior tenerezza pel figlio Esaù che spesso gliene provvedeva. Da parecchi passi della Bibbia risulta che la Palestina era ricca in selvaggina, e la legge non opponeva alla caccia che una sola restrizione, che a noi pare bene trascrivere nella sua interezza: «Se per la via s’affaccia innanzi a te, in qualche albero, o per terra un nido d’uccelli (ove siano), pulcini o uova, colla madre coricata sui pulcini o sulle uova; non devi pigliare la madre coi figli. Manderai via la madre, e potrai pigliare per te i figli: così avrai del bene, e vivrai lungamente⁶⁵». ⁶⁵ Tutti i commentatori si accordano a riconoscere in questo precetto una raccomandazione altamente morale. Ed ecco in sostanza il senso che gli attribuiscono: «Questo comando per una parte ha lo stesso valore di quello che proibisce di fare cuocere il capretto nel latte della madre, vuole cioè allontanare gli ebrei da qualunque azione che possa esercitare sulla loro immaginazione e sul loro cuore un’influenza meno che pietosa; e per altra parte include un delicato pensiero di misericordia, che è il carattere speciale della Legislazione mosaica, verso quella povera madre che dovrebbe assistere alla morte dei suoi figli e allo sperdimento delle sue uova: inquantochè anche gli animali irragionevoli soffrano immancabilmente vedendo straziati i loro nati, non dipendendo l’amore materno da causa intellettuale, ma bensì dalla immaginazione e dall’istinto pari nell’uomo, come in tutte le altre creature. I cacciatori si servivano di diverse armi da guerra e particolarmente dell’arco, delle freccie, del _romahh_ (picca o lancia), dell’_hhanid_ (asta o lancia) e dell’_hherev_ (spada). Le bestie feroci e specialmente i leoni si prendevano nella _sciuhhà_ (fosso), col _mochesc_ (trappola) e col _pahh_ (laccio). Era molto ingegnoso il modo di preparare i fossi. Finita l’escavazione, se ne copriva l’orifizio di canne o ramoscelli d’alberi, e nel mezzo si fissava un palo piuttosto rilevato al quale si attaccava un agnello vivo. I belati dell’agnello attiravano la bestia feroce, la quale si slanciava con furia sulle canne per impadronirsi della preda; ma queste cedendo al suo peso, lo traevano seco nella fossa. Questi fossi, vengono spesso usati nella Bibbia per dare l’immagine d’imboscate e di pericoli. Per completare questi nostri brevi studii sulla vita domestica e sociale degli antichi Ebrei, ci crediamo obbligati a consacrare alcune parole sul trattamento che trovavano presso di loro i poveri ed i forestieri. Sui primi diremo: che per quanto Mosè considerasse eccellenti le disposizioni da lui prese, e da noi in parte esaminate, onde tutti i componenti della repubblica da lui fondata potessero vivere in condizione agiata ed indipendente; tuttavia non poteva illudersi, come veramente non si illuse, sulla possibilità che la infingardaggine e i vizii degli uni, e la vile ingordigia degli altri non avessero in un tempo più o meno lontano alterato lo stupendo equilibrio sociale da lui stabilito. Ecco con quali parole dimostra questa possibilità ed ordina di venire in soccorso ai bisognosi: «Perocchè non suol mancare in un paese qualche bisognoso, perciò io ti comando con dire: Apri la tua mano al tuo fratello povero e bisognoso, nel tuo paese». La lingua ebraica ha tre vocaboli per designare questa classe di diseredati: 1º _Evion_, derivante dal verbo _avà_, che significa desiderare, volere; 2º _anì_, da _óni_, afflizione, miseria; 3º _dal_, che deriva dal verbo _dalal_, e che vale impoverire, mancare, scarseggiare. Questo vocabolo viene usato indistintamente tanto rapporto alla salute fisica e allo stato dello spirito, quanto in rapporto ai beni di fortuna e alla condizione sociale. Se portati dall’argomento noi dovemmo occuparci di questa classe sfortunata, ciononpertanto ci riteniamo dispensati di allungarci a dimostrare con quanta premura ed amorevolezza venisse essa raccomandata alla pietà dei ricchi, sia da Mosè stesso e sia dai Profeti. I nostri Dottori poi eccedettero talmente nelle loro raccomandazioni delicate e previdenti da quasi rasentare l’esagerazione. A degno complemento dei loro ammaestramenti definirono il popolo d’Israele per _rahhamaním benè rahhamaním_, misericordiosi figli di misericordiosi, inquantochè, conchiusero essi, sia cosa indubitabile che colui che non ha misericordia verso i sofferenti non può essere (degno) discendente di Abramo⁶⁶. ⁶⁶ Persuasi che verranno letti con interesse e soddisfazione, noi non possiamo resistere alla tentazione di inserire qui due Sentenze ed un esempio, spigolati nel vastissimo campo della carità Israelitica. Non isfuggirà certo alla penetrazione dei nostri lettori l’alta importanza della prima Sentenza per la tolleranza religiosa di cui ci dà bella prova. «È legge di pace l’obbligo di soccorrere i poveri di qualsiasi nazione in un coi poveri d’Israello, di assisterne gli infermi, di seppellirne i morti». «L’infelice che geme nella povertà è talvolta condotto dai suoi dolori a mormorare della Provvidenza. Egli pensa tra se stesso: «Non sono anch’io una creatura di Dio? Perchè tanta differenza da me a quel ricco? Egli dorme tranquillo i suoi sonni nella casa che è sua, ed io giaccio in questo tugurio non mio. Ei dorme su soffice letto ed io sul nudo terreno. L’uomo benefico, colla sua carità, calma il fremito del povero e ne fa tacere le mormorazioni. Iddio dice a quest’uomo benefico: «Colla tua carità tu riconcilii quel poveretto con me; tu ci metti in pace». «Un personaggio di distintissima famiglia teneva corteggio principesco, ma colpito da gravi disgrazie, si vide in pericolo di cadere dalla sua grandezza e di dovere abbandonare quella pompa che s’addiceva al suo nome ed alla sua famiglia. L’infelice confidò le sue strettezze a Rabì Illel, e caldamente gli si raccomandava. Fra le solite pompe di costui era questa la più costante, di percorrere le vie della città montato sur un superbo cavallo, e preceduto da uno schiavo che gli correva davanti. Rabì Illel fece per qualche tempo le spese del cavalle e dello schiavo. Una volta non trovò uno schiavo che accondiscendesse a prestare tale uffizio; e il buon rabbino si offrì egli stesso, e corse davanti al cavallo per ben tre miglia». Forse ancora più che pei poveri, Mosè ebbe commoventi raccomandazioni verso gli stranieri. Non sarà forse mestieri che noi notiamo, che presso tutti i popoli antichi i forestieri venivano tenuti quali altrettanti nemici. Ma quale diverso trattamento impone Mosè verso di loro! Oltre di autorizzarli a raccogliere in comunione dei regnicoli poveri le spighe cadute al mietitore, i grappoli d’uva, le olive che il proprietario doveva lasciare non raccolte, e quasi dimenticate, in un angolo del campo e della vigna; la produzione spontanea degli anni sabbatici; in faccia alla legge concedeva loro gli stessi diritti dei cittadini. Quanto sono ammirabili le parole colle quali sancisce questo loro diritto! «Come un cittadino tra voi sarà (considerato) il forestiero che verrà a stanziare tra voi; voi lo amerete come voi stessi, inquantochè voi conoscete _l’anima_ (le sofferenze morali) del forestiero, che forestieri voi foste nella terra d’Egitto». Ed altrove fissando le norme per cui la giustizia riescisse amministrata con imparzialità, equità e fermezza, così si esprime a riguardo del forestiero: «Una sola giustizia, una sola legge regnerà tra voi sia pel cittadino quanto pel forestiero». E convinto della efficacia che hanno gli esempi sugli animi, e che è a cento doppi maggiore di quella dei freddi precetti; dimostrò tradotti in pratica questi generosi e nobili sentimenti cogli esempi di ospitalità dati da Abramo e da Loth quando vennero visitati dagli angeli in forma d’uomini; dall’esempio di Batuele verso Eliezer; da quello di Labano verso Giacobbe fuggitivo dalla casa paterna; dell’ospitalità da lui stesso ricevuta in Madian da Ietro, e che a sua volta gli restituì nel deserto, nell’occasione che gli accompagnò colà la moglie e i figli. ———— TISRI (_Settembre-Ottobre_). Questo mese, che nella Bibbia porta il nome di _ierahh aedanim_ (mese dei forti), potrebbesi a giusta ragione chiamare il mese sacro del popolo ebreo; sia perchè in esso ricorrono le sue feste principali, e sia perchè i dieci primi giorni d’esso sono intieramente consacrati alla penitenza; Mosè aveva stabilito nel primo giorno di questo mese una festa che chiamò _iom teruà_ (giorno di strepitazione). Ora tale festa, appellata _ross’assanà_ (capo d’anno), si celebra per due giorni consecutivi in tutto il mondo Israelitico; e per insegnamento tradizionale i nostri Dottori la dichiararono festa anniversaria della creazione del mondo motivo per cui l’appellarono: _iom azícarón_ (giorno di commemorazione). In tali due giorni che sono i primi dei così detti _asséred iemè tessuvà_ (i dieci giorni penitenziali), oltre allo suonare lo _sciofar_, gli uffizi religiosi sono assai più prolissi che in qualunque altro giorno festivo: e sbandito dal rituale ogni canto giulivo, le preghiere s’informano tutte a una certa malinconia che commuove il cuore, inspirate come sono dalla credenza tradizionale che in questi giorni Iddio esamina e giudica tutte le azioni degli uomini, e segna il destino di ciascuno d’essi per l’anno che incomincia. In questi, meglio che in qualunque altro giorno dell’anno, sottoponendo a scrupoloso esame il nostro cuore e le nostre azioni, noi abbiamo il dovere di richiamare alla memoria le colpe di cui bruttammo le nostre anime immortali; e grati a Dio, che nella sua misericordia per la nostra debolezza ci suggerì un mezzo onde purificarle, siamo in dovere di adoperarci a riparare quei mali che volontariamente od involontariamente causammo al nostro prossimo⁶⁷. ⁶⁷ I nostri Dottori dissero: che nel giorno di Chipur non ottengono il perdono di Dio oltre agli impenitenti, le seguenti due classi di persone: La prima comprende quegli stolti che facendo troppo a fidanza coll’indulgenza di Dio dicono fra se stessi: «Pecchiamo pure senza ritegno nè timore: Verrà il giorno di Chipur e noi otterremo egualmente il perdono». La seconda classe comprende quegli uomini che contriti e pentiti pei peccati commessi verso Dio, non si danno alcun pensiero di ottenere il perdono delle colpe commesse verso i loro simili e di risarcirne, possibilmente, il danno arrecato. Su quest’argomento è da notarsi, pel fine eminentemente morale, che lo ispirò, il seguente caso di coscienza proposto dagli stessi Rabbini: «Ove l’offeso, dicono essi, fosse morto prima di concedere il perdono al suo offensore, oltre al risarcire i danni materiali, se ve ne sono, agli eredi, il colpevole è obbligato di farne pubblica ammenda sul suo sepolcro, pronunziando le parole seguenti alla presenza di dieci testimonii, la vigilia del giorno di Chipur: Io fui colpevole verso il Dio d’Israele, e verso costui». È naturale che inspirandosi a questa credenza, il nostro cuore sia agitato da un indefinibile timore del giudizio che sta sospeso sul nostro capo, e da una dolce speranza di ottenere col perdono un anno di vita e di soddisfazioni. Ed è per questo che con un raccoglimento maggiore che in qualunque altra epoca dell’anno, noi facciamo serio proponimento di opporre per l’avvenire una valida resistenza alle tendenze peccaminose: preghiamo Dio con insolito fervore pel bene nostro proprio, pel ristabilimento e per la gloria del popolo d’Israele, e pel bene della umanità intiera⁶⁸; lo supplichiamo a non permettere che la carestia, la guerra e la pestilenza percorrano la terra seminando la desolazione e la morte; facciamo voti ardenti onde regni fra gli uomini un patto inalterato d’amicizia fraterna; e che spunti presto quel giorno in cui tutti gli uomini unanimi anche nel sentimento religioso, piegheranno il ginocchio a un Dio solo, giorno che fu annunciato dal profeta colla seguente espressione: «la legge uscirà da Sionne e la parola di Dio da Gerusalemme». ⁶⁸ Carattere speciale delle nostre preghiere è quello di essere tutte in numero _plurale_. Idea sublime! che ci rappresenta incessantemente il nodo di fratellanza che unisce tutti gli uomini, e per conseguenza il dovere di amare e di cercare con sincerità ed efficacia il bene di tutti, implorando per tutti, come per noi, la protezione divina. Conviene però notare che se, come dicemmo, in ogni mattina del mese di Ellul, si suonano quattro sole _techiód_ di _sciofar_; in ognuno di questi due giorni se ne suonano _cento_: cioè trenta tra le due orazioni di _tefilà e mussaf_ (preghiera questa addizionale dei sabbati, capi mesi e feste solenni); trenta nel corso della recita di quest’ultima preghiera, e quaranta alla fine d’essa. Le prime trenta vengono dette _techiód miiossév_ (da _iassav_ stare, sedere); le seconde trenta vengono dette _techiód meoméd_ (da _amad_ alzarsi, sorgere) perchè si suonano mentre si dice la _amidà_. Un chiarissimo Dottore esaminando quali cause avevano potuto motivare l’obbligo imposto di suonare lo _sciofar_ in questi due giorni, nè enumerò dieci. Noi ne accenneremo soltanto quelle che a parere nostro sono le principali: 1ª In commemorazione della proclamazione della legge sul Sinai, nella cui narrazione è detto: «la voce dello _sciofar_ era fortissima»; 2ª In commemorazione della distruzione del primo tempio, perchè Geremia annunziando agli Ebrei l’avvicinarsi del nemico, predisse le funeste conseguenze che sarebbero derivate da quella guerra nefasta, colla seguente dolorosa esclamazione: «Nelle mie viscere, nelle mie viscere io tremo; nelle interne pareti è agitato il mio cuore: tacere non posso: imperocchè il suono dello _sciofar_ udì l’anima mia, il clangor di battaglia»; 3ª In commemorazione del sacrifizio d’Isacco, fatto che segnò la più maravigliosa prova di amore e di fede che un uomo abbia potuto dare alla divinità; fatto che noi ricordiamo spesso nelle nostre preghiere; ma tanto maggiormente nei dieci giorni penitenziali sia a titolo di merito dei nostri due primi patriarchi, e sia a perenne nostro ammaestramento della potenza che deve avere la fede e l’amore di Dio sulle nostre affezioni terrene; 4ª La manifestazione della speranza di un politico ristabilimento indipendente d’Israele, avvenimento che verrà anunziato, dice un profeta, «collo suono di _grande sciofar_». Non trovandosi nel Pentateuco nessuna lezione allusiva particolarmente a questa solennità, nel primo giorno si legge un paragrafo del Genesi in cui si racconta la nascita del patriarca Isacco, e nel secondo giorno la lezione seguente che tratta del suo sacrifizio, due avvenimenti che secondo la tradizione, successero in tale ricorrenza. Anche l’_aftarà_⁶⁹, che si recita nel primo giorno, ci espone l’avvenimento della nascita di Samuele: di quel grande profeta e giudice che Davide pose a pari di Mosè e di Aronne quando cantò: «Mosè ed Aronne fra i suoi sacerdoti (di Dio) e Samuele fra gli invocatori del nome suo, invocano Dio ed Egli li esaudisce»; e che acquistossi grandi ed incontestabili titoli di benemerenza verso il popolo d’Israele. ⁶⁹ L’instituzione dell’_aftarà_ (che consiste in un capitolo dei Neviim Storia e Profeti, e che per lo più ha una diretta analogia colla _parassà_), si crede tragga origine da una fiera persecuzione sofferta dagli Ebrei sotto l’Imperatore Adriano. Come vedemmo nel mese precedente, costui aveva proibito agli Ebrei sotto pena di morte, l’esercizio di qualsivoglia atto del loro culto, e lo studio religioso. Gli Ebrei non volendo per un lato trasandare i doveri che imponeva loro la religione, che secondo il celeberrimo dottore Akibà è il loro elemento di vita, ma temendo per l’altro lato di esporsi ai gravi pericoli che erano loro minacciati dal prepotente dominatore; si studiarono di praticarli circondandosi di ogni precauzione. Perciò in luogo di leggere la lunga lezione sabbatica del Pentateuco, vi sostituirono una lezione brevissima scelta nei Profeti e che avesse con essa la maggiore possibile analogia. Cessata la persecuzione si credette opportuno di continuarne la lettura dopo la lezione del Pentateuco, sia in memoria dei pericoli che dovettero sfidare i nostri padri per mantenersi fedeli alla loro religione, e sia in omaggio a Dio che pensando la loro costanza sventò i tristi calcoli dei loro avversarii. Egli venne assunto a giudice in un momento assai difficile. Israele trovavasi accasciato per una forte rotta subita dai Filistei e che fu causa della morte improvvisa e tragica del suo venerando giudice e pontefice Eli; della perdita dell’Arca santa e di parecchie belle provincie dello stato; della morte di tanti prodi soldati che lasciavano deserti e derelitti vecchi genitori, tenere spose e innocenti bambini. Ciò non pertanto Samuele acquistatosi l’amore e la fiducia d’Israele, ne risollevò lo spirito abbattuto; lo richiamò alla purezza del Culto mosaico, e non solo gli fece riacquistare le città perdute, ma dilatò i confini del regno; ed ebbe l’insigne merito di riunire in un corpo di nazione compatta, forte e libera le sparse membra delle dodici tribù d’Israele. Racconteremo l’ultimo incidente della sua vita politica, poichè da esso risplende di luce vivissima il suo disinteresse nobile e delicato, il suo carattere integro e leale, e la sua giustizia indipendente ed incorrotta. Dopo la prima e grande vittoria riportata da Saulle su Nahhass l’Ammonita, che fu quel re tristo e pazzo che per far onta al popolo d’Israele ebbe la bizzarra e crudele idea di cavare l’occhio destro a tutti gli abitanti di Iabess Galaad; Samuele fece radunare tutto il popolo al Ghilgal per fare riconoscere Saulle già proclamato re, e per dare a lui e al popolo gli estremi suoi consigli. Dichiarato lo scopo dell’invito, principiò la sua arringa colle seguenti parole: «Ed ora ecco il re che se ne va innanzi a voi (vi governa); ed io son vecchio e canuto, e i miei figli sono con voi; ed io sono andato innanzi a voi dalla mia giovinezza insino ad ora. Eccomi: testificate contro di me davanti al Signore e davanti al suo unto a chi ho tolto un bue, a chi ho preso un asino, a chi ho fatto frode, a chi feci vessazioni e da chi ho accettato riscatto per chiudere gli occhi intorno a lui (cioè per lasciargli impunemente commettere ree azioni); ed io vi indennizzerò». Quelli risposero: «Non ci hai frodati, e non ci hai vessati e non hai tolto ad alcuno che che sia». Ed egli disse loro: «È testimonio oggi, contro voi, il Signore, ed è testimonio l’unto suo, che non avete trovato da rinfacciarmi che che sia». E (il popolo) disse: «testimonio». Il giorno decimo di Tisrì e ultimo dei penitenziali, è giorno di rigoroso digiuno. Vien detto _iom achipurím_, giorno delle espiazioni, e lo si passa intieramente negli Oratorii in continue preghiere. Era quello l’unico giorno dell’anno in cui il sommo sacerdote era obbligato a funzionare personalmente. Gli uffizi religiosi che avevano principio coi primi albori del giorno, allorchè esisteva il Tempio, erano circondati di una solennità severa e di uno sfarzo imponente. Fra le altre cerimonie, il sommo sacerdote conduceva all’altare il vitello che doveva essere immolato pei suoi peccati e pei peccati della sua famiglia: poscia gettava la sorte su due capri che erano portati pei peccati del popolo, onde sapere quali dei due bisognava uccidere, e quale mandare libero al deserto. Dopo d’avere purificato il santuario, il tabernacolo e l’altare, imponeva le sue mani sulla testa del capro da mandarsi all’_azazél_ al deserto, lo caricava (simbolicamente) di tutti i peccati, di tutte le colpe e prevaricazioni del popolo, e finalmente lo consegnava alla persona precedentemente incaricata di condurlo al suo destino per ivi lasciarlo in propria balìa. Il vitello e il capro stati immolati, l’uno pei misfatti del pontefice, l’altro pei misfatti del popolo, simboleggiavano colla loro morte il castigo dovuto ai medesimi: tali vittime si bruciavano fuori della città. La libertà data all’altro capro significava che gli Israeliti erano liberati dalla pena dovuta ai loro traviamenti. Era pure in tale giorno, unico nell’anno, che il Sommo sacerdote entrava nel _Debìr_ o santo dei santi a bruciare l’incenso innanzi all’Arca santa. La tradizione ci ha conservato la breve preghiera che egli faceva prima di sortire, e che era del seguente tenore: «Voglia deh, o Dio, dare alla terra il sole e la pioggia al tempo opportuno; fa che non cessi di sedere sul trono d’Israele un rampollo della Tribù di Giuda; fa che ogni individuo componente il tuo popolo non abbia a dipendere (per annona) l’uno dall’altro nè da popolo straniero; nè voglia Tu ascoltare le preghiere dei viandanti» (i quali pregano costantemente perchè non piova). Era pure in questo giorno che, come dicemmo, ad ogni sette ebdómade d’anni si annunziava l’anno del giubileo, facendo passare lo suono dello _sciofar_ in tutto il paese. Rientrando alla sera nelle domestiche pareti il pontefice si trovava circondato dai parenti e dagli amici, che si portavano a congratularsi seco di avere passato felicemente una giornata per lui tanto solenne e pericolosa⁷⁰; ed a sua volta egli dimostrava la propria soddisfazione dando una festa. ⁷⁰ La tradizione lascia supporre, che ove il Pontefice fosse stato trovato al cospetto di Dio macchiato di peccati talmente gravi, da essere divenuto immeritevole di coprire un posto tanto eminente ed importante, moriva appena entrato nel santo dei santi; e se ne estraeva il cadavere con una catena di argento che in precedenza si legava al piede di ogni Pontefice. A prova di tale credenza si constata dai nostri dottori, che di tutti i pontefici che ufficiarono nel secondo Tempio, quando cioè quella dignità era divenuta un mercimonio dei dominatori stranieri e concessa al migliore offerente senza riguardo ai meriti personali dei candidati e per conseguenza caduta nella disistima del popolo, tre eccettuati uno dei quali il pio Simone, che pontificò per quarant’anni, tutti gli altri non compirono l’anno nell’altissimo ufficio. Ai quindici di questo stesso mese ricorre la festa di _sucoth_ o dei tabernacoli, instituita in memoria del viaggio fatto dai nostri padri nell’Arabia: ed ove camminando in quella sabbia infuocata, «il loro vestimento non gli si è logorato addosso, nè il loro piede si è gonfiato», quantunque non avessero che tende o tabernacoli ove riparare dall’ardore del sole. Questa festa viene pure chiamata _hhag aassif_ (festa del raccolto) perchè segna il termine dei lavori campestri. Si rizzavano anticamente, come si usa ancora tuttodì in molti luoghi, tende o capanne sui terrazzi delle case o nei cortili, ove le famiglie prendevano domicilio fisso per sette giorni, essendo vietato di mangiare o dormire altrove per tutto quel tempo. Secondo la legge mosaica, i fedeli dovevano provvedersi pel primo giorno di questa solennità del frutto d’una pianta che la legge denomina _ess-adar_, e che la tradizione definisce pel _cedro_; dei rami di palme _lulav_; e dei salici di riviera _aravà_; e portarli processionalmente nel Tempio per sette giorni⁷¹. ⁷¹ Alla sera nell’atrio delle donne si faceva una gran luminaria che tramandava il suo splendore su tutta Gerusalemme; ivi adunavasi gran gente, i leviti suonavano i loro strumenti musicali e le persone le più serie e le più divote, pigliavano faci in mano ed intrecciavano una danza religiosamente simbolica durante la quale oltre agli inni che venivano cantati, sembra che si gettassero faci in aria per riceverle di nuovo in mano; e come una prova di singolar destrezza si narra che Simone figliuol di Gamaliele e Nassì (principe presidente) del Sinedrio, danzasse con otto faci in mano e le gettasse in aria senza lasciarne cadere a terra neppure una. Il concetto morale di questa unione di vegetali pregiati e superbi coll’umile salice di riviera, fu stupendamente incarnato dai nostri Dottori. Secondo essi, indica l’unione fraterna di tutti gli uomini. La durata di questa festa era primitivamente di otto giorni, col primo e l’ultimo soltanto festa solenne. Questo portava e porta tuttavia il nome particolare di _sceminì asséred_ (ottavo giorno di festa), e il giorno aggiunto per la causa già detta porta il nome di _simhhad torà_ (letizia della legge), perchè in tale giorno si terminano le lezioni sabbatiche del Pentateuco. Il sabbato che segue immediatamente questa festa, e nel quale si ricominciano tali letture si festeggia, diremo quasi, con maggiore allegria e solennità di tutti gli altri. Non dobbiamo passare sotto silenzio come anche il giorno sesto di questa festa porti il nome speciale di _ossaanà rabbà_, probabilmente perchè si recita la _ossaanà_ più lunga. Quantunque in sostanza questo giorno non diversifichi dagli altri giorni di _hhol amoéd_ (mezze feste), pure l’orazione mattutina viene prolungata di qualche parte addizionale destinata ad implorare da Dio, più particolarmente, il beneficio delle pioggie⁷²; ed oltre al _lulav_ ogni fedele si provvede di una così detta _aravà_ (alcuni gambi di salici), che sfoglia alla fine della preghiera addizionale _mussaf_. Quest’uso prese fondamento da una pia credenza tradizionale, secondo la quale, la misericordia di Dio paziente e longanime, ritarda sino a quel giorno a segnare la punizione definitiva meritata da quel peccatore che ostinato ed incredulo, passò impenitente il giorno delle espiazioni. ⁷² Certamente in memoria della libazione delle acque che si faceva nel Tempio onde invocare la prosperità delle pioggie, che nella Palestina cominciavano d’ordinario col susseguente mese di Merhhasvan. Questa festa è l’ultima delle tre così dette _saloss regalím_ in cui tutti i maschi adulti erano tenuti a portarsi a Gerusalemme, ove offrivasi in regalo la decima delle greggie e le primizie delle frutta⁷³. Là si facevano sacrifici, si davano banchetti a cui partecipavano i forestieri e i poveri, e là ciascuno rendeva grazie a Dio dei favori compartiti a sè e alla nazione intiera. ⁷³ Anche senza tenere conto degli atti di beneficenza che derivavano da questa instituzione, noi siamo persuasi che sarà di leggieri riconosciuta ed ammirata la sapienza politica che l’ha inspirata. Per essa tutte le forze vive della nazione venivano a riunirsi, a conoscersi, ad affratellarsi nella comune capitale; per essa si stringevano quei vincoli di amore e di fedeltà che necessariamente debbono legare ogni singolo cittadino al suo governo, alla sua religione e alla sua patria; per essa ogni cittadino veniva tre volte l’anno a fare atto di ossequio al suo Dio e al suo re, e nella comune letizia apprezzando i supremi benefizii della concordia e della pace, riconosceva il suo imprescindibile dovere di concorrere con tutti i suoi mezzi alla gloria della religione, e all’indipendenza della patria. Come già accennammo fu appunto alla ricorrenza di questa solennità che Salomone inaugurò il suo Tempio suntuoso, con una pompa straordinaria e coi segni della maggiore letizia, l’anno 480, dopo l’uscita d’Israele dall’Egitto: e fu al primo di questo mese che si incominciarono ad offrirsi i sacrifizi quotidiani nel secondo Tempio, e che come già accennammo, non furono più interrotti sino all’entrata dei Romani in Gerusalemme. Ci duole il dovere terminare la cronaca di questo mese col racconto di un fatto luttuoso successo il giorno terzo che fu giudicata, e fu realmente, di tanta grande importanza, che i Dottori nostri lo vollero commemorato con pubblico digiuno. Dopo che i Caldei capitanati da Nabusar-Adan ebbero presa e spogliata Gerusalemme; uccisi o fatti emigrare i migliori suoi cittadini; uccisi i figli del re Sedecia alla presenza del loro misero genitore, e poscia acciecato lui stesso; onde la terra non avesse a rimanere affatto deserta e divenisse stanza di belve feroci, il generale nemico vi lasciò alcuni pochi e poveri agricoltori e vignaiuoli, nominando a loro capo un certo Godolia. Il primo atto che fece costui della sua autorità, fu di radunare quel misero avanzo a cui si erano già riuniti non pochi Ebrei che al tempo dell’assedio e della presa della città, avevano riparato in Edom, presso Moab, e presso gli Ammoniti; e lo ammonì di essere ossequente ai Caldei e a darsi alle sue occupazioni con tutta sicurezza. In mezzo ai congregati trovavasi pure il profeta Geremia, l’inarrivabile cantore dei funebri patrii, che fu prima instancabile quanto inascoltato consigliatore di un’alleanza coi Caldei, e che poscia rifiutò le generose proferte avanzategli dal conquistatore per rimanere nella terra dei suoi padri con quel piccolo e misero rimasuglio; giudicando nel suo ardente ed oculato patriottismo che se esso non era che una pallida larva della vita e dello splendore antico, pure lasciava almeno un principio, diremo quasi un addentellato ad un ritorno all’indipendenza primitiva. Ma fu appunto il timore di questo possibile avvenimento, che molestando il cuore di certo Banhaliss re degli Ammoniti, nemico degli Ebrei, gli fece concepire l’infame progetto di fare morire Godolia col triste scopo di renderli maggiormente invisi ai Caldei e farli totalmente disperdere dalla loro patria. Certo Ahhicam figliuolo di Careahh avvertito che un vilissimo sicario, certo Ismaele figlio di Nedanià, prezzolato dal re degli Ammoniti meditava di uccidere Godolia, rese quest’ultimo informato della rea trama che era stata ordita contro la sua vita; disponendosi nello stesso tempo di uccidere quell’uomo infame che per servire lo straniero non si peritava a commettere un vile assassinio, e a farsi traditore della patria. Ma quel retto cuore di Godolia, non potendosi persuadere di così nero misfatto, tacciò di calunnioso tale rapporto, e proibì al suo preteso difensore di nulla intraprendere contro quell’uomo, il quale sventuratamente ebbe pertanto agio ad attuare il suo tristo progetto. Godolia assalito all’improvviso, venne barbaramente trucidato unitamente al suo piccolo presidio composto di Ebrei e di Caldei, e i pochi scampati a quell’eccidio temendo più che mai la vendetta dei Caldei, diedero piena ragione agli infami calcoli di Banhaliss e ripararono in Egitto, malgrado gli avvisi e le proteste del profeta Geremia che si adoperò in tutti i modi, onde non venisse totalmente disertato il sacro suolo nazionale. Ufficii della tribù di Levi e sua consacrazione. Prima di continuare i nostri studii sui costumi sociali degli antichi Ebrei, crediamo cosa opportuna di consacrare alcune considerazioni sulla tribù di Levi, prescelta da Dio a officiare e a servire nella sua casa; e ad ammaestrare il popolo nei suoi doveri religioso-morali. Levi fu il terzogenito di Giacobbe, e si unì al fratello Simone per prendere, ad insaputa del padre e degli altri fratelli, aspra vendetta degli abitanti di Sichem, perchè il principe di quel paese violando ogni dovere di ospitalità e di giustizia, offese atrocemente la loro famiglia nella loro sorella Dina. Giacobbe al suo letto di morte, ricordò quel fatto e maledicendo «all’ira dura ed aspra di quei suoi due figli», per la pace di tutto il popolo augurò che i loro discendenti «venissero sparsi in Giacobbe e divisi in Israello». Mosè incarnò questo desiderio. Dalla tribù di Levi, realmente disseminata in Israello, venne staccato un grande ramo, la progenie di Aronne, che diede origine alla casta sacerdotale. Dacchè Mosè aveva accettato, quasi suo malgrado, lo spinoso ma sublime incarico di redimere dalla schiavitù un popolo intiero, a nessuno di questo popolo era mai venuto in animo di contrastare il principato a lui e il sacerdozio al fratello, tranne a Corahh. Costui invidioso dell’altissimo posto che occupavano quei due fratelli, suoi prossimi parenti, colse l’istante in cui il popolo trovavasi indispettito contro di essi pel fatto degli esploratori, si mise alla testa di pochi sediziosi sperando di afferrare lui il sacerdozio. Ma male incolse a lui e ai suoi congiurati. Volendolo Dio, si aprì una voragine sotto i piedi di quegli stolti ambiziosi, e vi furono inghiottiti colle loro tende, colle loro famiglie e coi loro averi. Onde però non avesse a ripetersi un così grave scandalo, Dio ordinò a Mosè, che si facesse consegnare una verga da ogni capo di ciascuna tribù di Israele, e alla sera le disponesse tutte innanzi all’Arca santa, poichè Egli, Dio, avrebbe manifestato la sua predilezione verso una delle tribù col fare fiorire la sua propria verga. È quasi superfluo aggiungere che tale distinzione toccò ad Aronne; la cui verga fu trovata al mattino carica di mandorle⁷⁴. Per ordine di Dio, questa verga ed un’ampolla di manna si conservarono nel Tabernacolo, per rammemorare ai posteri i grandi fatti che rappresentavano. ⁷⁴ Posciacchè noi riteniamo essere utile ripetere le cose di grande importanza perciò non ci stanchiamo di dire che: come Mosè _fu il più umile_ di tutti gli uomini, così ne fu il più nobilmente _disinteressato_. Avrebbe potuto farsi re del popolo che aveva redento e nol volle, poteva lasciare il principato ai suoi figliuoli ed invece scelse a suo successore un estraneo alla sua casa e alla sua tribù. Non toccò la terra promessa; e dopo che Dio miracolosamente gliela fece vedere dal vertice del Nebo, fu contento di spirare alla vista di quel fertile paese, ove quel popolo che amò d’un amore immenso avrebbe dovuto dimostrarsi grande delle più nobili delle grandezze, la sapienza e la virtù; avrebbe dovuto essere ammirato dagli altri popoli per la pietà e la giustizia; e ciò che più importa, avrebbe condotto una vita tranquilla e felice mantenendo il suo patto. «L’esistenza di tale uomo, dice C. Cantù nei documenti alla sua Storia Universale, sarebbe il maggiore dei portenti, s’egli non fosse inspirato». Ora appena Mosè ebbe date le necessario disposizioni per la fabbricazione del Tabernacolo, ebbe ordine da Dio di fare un invito a tutti i «_sapienti di cuore_», perchè confezionassero gli abiti di Aronne e quelli dei suoi figli. Gli Uffizi dei sacerdoti consistevano nell’offrire le oblazioni e le vittime; bruciare l’incenso; mantenere perpetuamente acceso il lume santo innanzi all’altare; compire la purificazione delle persone e delle cose; rinnovare il pane di proposizione e benedire il popolo. Quando dovevano presentarsi all’altare era loro severamente proibito l’uso del vino e dei liquori. Il loro vestimento ordinario consisteva in una tunica di lino, in una cintura adorna di ricami, in un paio di calzoni sotto la tunica, e in una specie di mitra rotonda fatta di un tessuto di lino piuttosto spesso. Il pontefice portava inoltre una seconda tunica più ampia alla quale si trovava attaccato l’_Efod_, specie di veste di un ricco tessuto, in ciascuna delle cui spalle era incastrata una grossa pietra preziosa coi nomi di sei tribù. Il lembo estremo di questa seconda tunica era alternativamente guernito di una granata fatta di lino ritorto di diversi colori, e di un campanellino d’oro il cui suono annunziava la entrata di lui nel santo dei santi. La sua tiara assai più elevata che la mitra degli altri sacerdoti, aveva innanzi una piastra d’oro, attaccata con un cordone di porpora sulla quale si leggevano le parole: _kodesc l’adonai_ (Santo all’Eterno). Un tessuto doppio di lana variata, detto _hhoscen_, di lino e di fili d’oro, si trovava fissato sul suo petto con delle catenelle, di cui le une si affibbiavano alle spallette dell’_Efod_, le altre al cinturino. Dodici pietre preziose incastrate su quattro ordini, portavano inciso ciascuna il nome di una delle tribù di Israele. Stupenda idea rappresentante la confederazione delle dodici tribù in un popolo unito, e la loro perfetta uguaglianza al cospetto di Dio padre e Signore di tutti! Tranne dunque il maggior numero degli abiti e l’unzione sul capo, la consacrazione di Aronne a pontefice fu uguale a quella dei suoi figliuoli. Ecco come tale funzione fu compiuta da Mosè. Lavati e vestiti degli abiti sacri, si collocarono davanti l’altare dove eravi un toro giovine, due montoni, pani azzimi, ed una paniera contenente due specie di schiacciate. Eglino imposero le mani sul capo del toro, che venne immolato pei loro peccati. Poscia Mosè segnò di sangue i quattro angoli dell’altare, ne sparse il resto sulla predella, e dispose sull’altare le partì pel sacrifizio. Tutto il rimanente delle carni venne tolto e bruciato fuori del campo. Aronne e i suoi figli misero pure le mani sulla testa d’un montone che Mosè immolò in olocausto, e di cui versò il sangue in terra e bruciò le carni sull’altare dopo averle spezzate. Avendo i sacerdoti messo le mani sul secondo montone, Mosè scannollo ancora, quale sacrifizio di consacrazione. Col sangue della vittima tinse l’orecchia destra, il pollice del piede e della mano destra di Aronne e dei di lui figli, e ne sparse il rimanente attorno l’Ara. Raccolse quindi un po’ di sangue allora versato, lo mescolò con olio santo e ne unse gli abiti dei sacerdoti, inoltre versò l’olio santo sulla testa del pontefice, per cui fu chiamato: _acoén amasciahh_ (l’unto). In seguito diede in mano ai sacerdoti le parti del sacrifizio, cioè il grasso che cuopre gli intestini, la coda, le reni ed il grasso che le circonda, il piccolo lobo del fegato, la spalla sinistra, un pane azzimo ed una schiacciata perchè offrissero il tutto a Dio. Questa ceremonia è espressa colle parole: _empiere le mani_, che hanno lo stesso significato di esercitare, consacrare. Dopochè i sacerdoti ebbero fatto offerta di tutte le cose sopradette, esse vennero arse sull’Ara. Mosè offrì a Dio in proprio nome il petto della vittima. I sacerdoti mangiarono nel tabernacolo il residuo delle carni che si erano cucinate, come pure i pani azzimi e le schiacciate, e alla dimane si arsero i rilievi. Queste cerimonie continuate per otto giorni consecutivi, segregarono perpetuamente i sacerdoti dal resto del popolo e dai leviti medesimi. Al tempo di Davide i Sacerdoti erano divenuti tanto numerosi, che furono ordinati in ventiquattro classi, le quali succedevansi ogni settimana nelle funzioni sacre. Sin dopo la schiavitù Babilonese il titolo di pontefice fu ereditario nella famiglia di Eleazzaro. Antioco Epifane cominciò a vendere tale dignità al migliore offerente. In seguito alle splendide vittorie dei Macabei, uno di quei fratelli, Simeone, fu investito dagli ebrei della doppia dignità di principe e di pontefice: dignità che si perpetuarono nei suoi discendenti sino ad Erode. D’origine straniera, costui dopo di aver usurpato l’autorità sovrana, e lordatosi le mani del sangue dell’ultimo rampollo maschio⁷⁵ di quella illustre famiglia, riserbò per sè la nomina del pontefice. Quest’abuso, che serviva a fare versare l’oro a piene mani nel tesoro dello Stato e nelle borse dei suoi proconsoli, fu seguito dai Romani; per cui quella dignità non fu più circondata dalla venerazione popolare come per lo innanzi. ⁷⁵ Questi fu Aristobolo giovine di 17 anni: di fattezze avvenenti, grande, bello e ben fatto della persona; che tenne brevissimo tempo il pontificato, e che era tanto idolatrato dal popolo quanto ne era esecrato Erode. E fu appunto l’ammirazione e l’entusiasmo ch’egli destò nel popolo nella prima grande solennità nella quale pontificò, che fu causa della sua morte. Oltremodo spaventato dal favore popolare che si ridestava veemente pel discendente di tanti eroi, Erode ricorse al delitto, e lo fece affogare in un lago che abbelliva il parco del reale palazzo di Gerico. L’indole del nostro lavoro non permettendoci di narrare la vita agitatissima di questo re, tanto fortunato nei suoi ambiziosi disegni di potenza quanto sfortunato nelle sue pareti domestiche; e che se fece molto male compì opere grandiose e fu per natura o per calcolo, munificentissimo; aggiungeremo qui solamente ch’egli fece perire, a 22 anni, l’infelice Marianna sua moglie sorella del suddetto Aristobolo, donna celebrata per venustà di forme, per religione e pudicizia e da lui idolatrata. Questi due fatti ci spiegano l’odio invincibile che trovò sempremai nel popolo malgrado le sue larghezze, le città rifabbricate o abbellite, e la sontuosa riedificazione del Tempio. La consacrazione dei Leviti seguì in questo modo: 1º Dopo che s’era loro lavato il corpo e raso in tutte le sue parti, essi dovevano prendere farina, olio e due tori. Uno di questi tori doveva essere offerto in olocausto, e l’altro in sacrifizio espiatorio; 2º Mosè doveva aspergerli di acqua lustrale; 3º I capi di famiglia imponevano loro le mani sulla testa, come si faceva per le vittime, e li consacravano al Signore in proprio luogo ed invece dei loro primogeniti; 4º I leviti assistiti dai sacerdoti si prosternavano davanti al Signore od al tabernacolo per consecrargli le loro proprie persone; 5º Finalmente imponevano le mani sui tori offerti e li immolavano. Questa cerimonia li consacrava al ministero santo e li dichiarava appartenenti a Dio e ai sacerdoti. Pare che la legge non assegnasse loro alcun particolare vestimento; solamente ai tempi di Davide e di Salomone i cantori, i musici e quei che portavano l’arca dell’alleanza, erano distinti dagli altri, da una specie di rocchetto o cotta di fino lino, che indossavano solamente nell’esercizio delle loro funzioni. Gli uffizi dei leviti erano i seguenti: servire i sacerdoti; fare da guardiani al Tabernacolo e poscia al Tempio; portare le varie parti del Tabernacolo cogli accessori nella marcia del deserto; mantenere la pulizia del Tempio; amministrarne le entrate e i tesori, e finalmente sotto Davide e dopo questo principe addestrarsi nella musica e nel canto. Dovevano inoltre studiare le sacre scritture e coadiuvare i sacerdoti nello istruire il popolo nei suoi doveri religiosi e morali. I leviti erano divisi in tre grandi famiglie secondo il nome dei tre figliuoli di Levi Kead, Gheresson, e Meravi. Davide divise in quattro classi i trent’otto mila leviti che allora si trovavano adulti, ventiquattro mila furano addetti al servizio dei sacerdoti; quattro mila vennero fatti guardiani o portinai, altrettanti nominati musici, e sei mila giudici e genealogisti nelle città inferiori. I musici furono alla loro volta divisi in ventiquattro classi, il cui servizio era alternativo e durava una settimana. I guardiani si mutavano pure ogni settimana nel giorno di sabbato e facevano sentinella a sei, a quattro, a due. Tutti gli ordini e tutte le classi avevano capi particolari. Archeologia. Riprenderemo ora gli studii incominciati nel mese antecedente sulla Società civile degli antichi ebrei, e parleremo delle diverse specie di malattie cui andavano soggetti; della immortalità dell’anima; degli usi che hanno rapporto alla morte e alla sepoltura dei cadaveri; ed infine degli ufficii dei medici e della loro importanza. § 1—_Malattie._ Gli uomini delle prime età, alieni dalle grandi passioni, e conducenti una vita semplice ed uniforme, non dovettero essere soggetti che a piccolo numero d’infermità; motivo per cui nella Scrittura si parla molto raramente di malattie propriamente dette. Oltre a questa ragione generale a tutti i popoli antichi, due altre cause dovevano, a parere nostro, contribuire principalmente a rendere rare le infermità presso gli ebrei, cioè l’aria salubre del clima da loro abitato, e le savie leggi igieniche di Mosè. Generalmente parlando pare che gli ebrei avessero la persuasione che le malattie e la morte altro non fossero che castighi mandati da Dio a colpire il peccatore. Adamo ed Eva peccano e tosto Dio li condanna alla morte; Faraone rapisce Sara e Abimelecco rapisce Rebecca, e Dio affligge di terribile malore l’uno e l’altro colle loro famiglie; Marianna sorella di Mosè non sì tosto mormora del fratello, viene colpita dalla lebbra; i figli d’Aronne sono colpiti da morte per avere brucciato intempestivamente l’incenso dinanzi a Dio; e i Filistei, i Betsaniti, Ozia re di Giuda, Oza, il re Gioram si fanno colpevoli verso Dio, e la mano di lui pesa immediatamente sul loro capo. Davide seduce Betsabea, e Dio colpisce di malattia letale il frutto dell’adulterio; lo stesso re commette un atto di superbia e Dio che già era adirato contro Israele (per peccati che non specifica), manda una epidemia terribile che in meno d’un giorno, spegne ottantamila persone. Ghehhazì si rende colpevole d’indelicatezza verso Eliseo e tosto è colpito dalla lebbra; Saulle trasgredisce gli ordini di Samuele ed è invaso da uno spirito maligno che lo tormenta; Giobbe è oppresso da grandi sciagure e gli amici che erano accorsi a confortarlo, lo suppongono reo di qualche misfatto perchè Dio non colpisce se non i peccatori. I nostri Dottori ci lasciarono il seguente adagio: «Non si dà morte senza peccato, nè si danno dolori senza colpe». Le principali e più terribili malattie di cui ci parli la Scrittura, sono la pestilenza e la lebbra tutte e due endemiche dell’Egitto. La pestilenza è malattia abbastanza conosciuta da esimerci di parlarne. La lebbra non è solo una malattia cutanea, ma attacca eziandio il tessuto cellulare, le ossa, la midolla, tutte le articolazioni; corrode le estremità delle membra, a poco a poco stendesi per tutto il corpo e finalmente lo mutila riducendolo allo stato più schifoso. Fra gli ebrei i sintomi di questa malattia erano benigni: i primi non erano altro che piccoli punti quasi impercettibili, che presto diventavano croste o scaglie dapprincipio bianche poi nericcie e circondate da aureola rossigna: ma questi punti prima radunati attorno gli occhi od alle narici, stendevansi gradatamente su tutto il corpo fino a che non vi restava più brandello di cute; gli stessi capegli o peli tutti infetti da questo orribile morbo, cadevano affatto. Il peggio si era, che questa malattia si perpetuava fino alla terza e quarta generazione; e che il semplice contatto, l’alito, la vicinanza, bastavano sovente a comunicare il veleno. Ciò ci rende, ragione della severità delle disposizioni Mosaiche per separare i lebbrosi dalla società comune, e dell’obbligo imposto al lebbroso, di portarsi fuori dell’abitato gridando _thamè, thamè_ (immondo, immondo), per allontanare da lui tutti i passanti. I sacerdoti erano incaricati della visita dei lebbrosi, e dovevano vigilare sull’esecuzione delle leggi a loro relative. Giudicando da quanto fece Davide nella malattia del figlio ch’eragli nato da Betsabea, dobbiamo conghietturare che quando la malattia si aggravava i parenti più prossimi gettavano lugubre grida, si rotolavano per terra, si stracciavano gli abiti, si mettevano polvere o cenere sul capo e digiunavano. § 2.—_Immortalità dell’anima._ Quantunque per regola generale, noi ci siamo imposti di volerci astenere da qualsivoglia disquisizione filosofica o filologica, perchè le riteniamo inopportune pei giovani ai quali sono particolarmente dedicati questi nostri studi, pure, trattandosi di un soggetto d’alta importanza, ci teniamo obbligati di farvi un’eccezione. La ragione che ci induce a derogare dalla nostra linea di condotta, è quella di provare che la teoria dell’immortalità dell’anima non era sconosciuta a Mosè, contrariamente all’opinione di molti scrittori che con troppa leggerezza sostennero non trovarsene nel Pentateuco il minimo cenno. Anche non tenendo conto che Plinio e Tacito, constatano che gli Ebrei credevano nell’immortalità dell’anima, è cosa certa che questa credenza formava un dogma pubblico della religione degli Egiziani. Ora si potrebbe supporre con fondamento che gli ebrei, se anche l’avessero ignorata prima, non avrebbero accettato con trasporto una credenza che se non altro serviva mirabilmente a mitigare le loro sofferenze presenti colla speranza di una vita migliore, ove il Dio della giustizia li avrebbe compensati con gioie immortali, e avrebbe fatto aspra vendetta dei loro oppressori? Anzi l’essersi Mosè astenuto di parlarne chiaramente non deve piuttosto ritenersi quale prova convivente che il popolo teneva a questo dogma con fede sicura? D’altronde contentandoci di appena accennare la risurrezione di Ezechiello; lo spirito di Samuele fatto evocare da Saulle e che dimostra ad evidenza una fede nella immortalità dell’anima, poichè non si evoca cosa che non si creda esistere fermamente; il versetto che troviamo nell’Ecclesiaste così concepito: «E ritornerà la polvere (il corpo) alla terra come fu; e lo spirito (l’anima) ritornerà al Dio che la diede», e tenendoci ai soli libri mosaici diciamo essere indubitabile che in essi vi si allude in più luoghi con tanta chiarezza, da renderne impossibile la contestazione. Come avremo occasione di notare altrove, Mosè raccomanda vivamente agli ebrei di mai mettere in dubbio l’assoluta spiritualità di Dio, e di non obliare mai che nel grande fatto del Sinai essi «ascoltarono voce, ma non videro immagine alcuna». Ora avendo egli proclamato che l’uomo è fatto ad _immagine_ e _somiglianza_ di Dio, in che poteva fare consistere questa _immagine_ e _somiglianza_ se non nello _spirito_ ovverossia nell’_anima_? Ignaro di questa teoria avrebbe potuto accertare, come accertò nella estrema sua cantica, che Dio ha la potenza di ferire e di risanare, di fare _morire_ e di fare _rivivere_? E le espressioni di cui esso si serve per indicare la morte, non sono una conferma a questa nostra opinione? Le parole di _andare a ritrovare i padri suoi; essere accolto dai suoi padri; coricarsi, addormentarsi coi proprii padri; andare in pace coi proprii padri; raccogliersi alle proprie genti_ suscitano forse nell’animo nostro la sconsolante e desolata immagine del nulla? Mosè voleva indicare il ritrovo delle fredde ceneri degli avi e delle proprie genti che furono, o non piuttosto una cara promessa di essere riuniti a quei nostri diletti che ci precedettero nella vita eterna del cielo? E l’espressione di _gherim_ (pellegrini) con cui si qualificano i patriarchi, non serve forse a dimostrare chiaramente che questa vita non era considerata che un passaggio verso la vera patria che è il cielo?⁷⁶. ⁷⁶ Gli ebrei dividevano l’universo in tre parti: 1º _samáim_ (cielo) abitazione di Dio; 2º _érez_ (terra) abitazione dei viventi; 3º _sceól_ dimora dei morti. § 3.—_Sepoltura._ Quando qualcuno moriva, i parenti e gli amici gli chiudevano gli occhi; ed era per loro un pietoso dovere il darsi ai preparativi pei funerali. La maniera di seppellire i morti variava secondo le diverse condizioni del defunto. Trattandosi di persona volgare si limitavano a lavarne il cadavere e ad avvolgerlo in una tela prima di sotterrarlo: ma trattandosi di una persona ragguardevole, pare cosa assai probabile, che a imitazione degli Egiziani anch’essi lo avviluppassero in molte fasce o lenzuoli, lo esponessero per alcun tempo sopra di un catafalco sparso di fiori odorosi, oppure di aromi e principalmente di mirra e d’aloe, e che vi praticassero l’imbalsamazione. Quest’operazione, che gli ebrei impararono in Egitto, consisteva nello estrarre i visceri per un’incisione fatta al fianco sinistro, ed il cervello per le narici con uno strumento ricurvo e poscia ne riempivano le cavità di bitume, di mirra, di cannella, di nitro; poi si veniva alla fasciatura, e tutti i membri erano avviluppati l’un dopo l’altro in lunghe bende di tela. Dal Genesi rileviamo che per quest’operazione s’impiegavano quaranta giorni. Il corpo imbalsamato era posto in una bara di sicomoro, rappresentante al di fuori la forma umana. Niuna minaccia era più terribile che quella di lasciare i corpi insepolti a pasto delle belve e degli uccelli rapaci. Il corteggio funebre era composto dei congiunti e degli amici dei defunti; ma volendolo rendere più pomposo, si prezzolavano piagnone e musici che eseguivano arie lugubri e tremolanti imitando i singhiozzi. Nel Talmud troviamo infatti essere obbligo d’ogni israelita di onorare la propria moglie, provvedendo pei suoi funerali due _hhalilín_ (tamburri) ed una piagnona. Il luogo assegnato alle sepolture doveva distare almeno cinquanta cubiti dalle città o dai borghi, e l’essere sotterrato di nascosto senza corteggio e lutto era il massimo dei disonori; e si diceva _kevurád hhamór_ (sepoltura dell’asino). Le fosse erano talvolta scavate nel sasso vivo o costrutte nella terra in forma di critte o di caverne, che ora sono dette _mearà_, ora _scihhà_ o _sciuhhà_, ora _bor_ ed ora _kéver_. Quest’ultima denominazione era però adoperata ad indicare qualunque sorta di sepolcri. Le persone di bassa estrazione si seppellivano in una semplice fossa in cimiteri comuni: ma le famiglie agiate avevano tombe particolari, ed il sito a preferenza d’ogni altro, era scelto nei giardini e nei luoghi ombrosi. In tutte le epoche della storia nostra, cominciando dal patriarca Giacobbe che ne innalzò una alla sua dilettissima Rachele, che perde immaturamente nel suo ritorno in patria; vediamo fatto menzione di _massevoth_ o tumuli, che erano fatte d’un sol sasso grande e scolpito, come se ne incontrano tuttavia in Oriente, e che risalgono alla più alta antichità. Sono quasi incredibili, dicono i viaggiatori, le dimostrazioni di dolore a cui si abbandonano in Oriente i parenti dei defunti. Noi abbiamo già accennato che quelle che davano gli ebrei in tali luttuose circostanze non erano meno intense. Aggiungeremo qui, che fra i molti segni di lutto consacrati presso di loro, è principalmente da notarsi quello di squarciarsi gli abiti sino alla cintola, di camminare a piedi e capo nudo, e di tenere barba e cappelli arruffati. Era pure proibito l’uso dei profumi e degli olii odorosi, i bagni e le conversazioni. Taluni astenevansi pure dal vino e digiunavano. La legge però proibiva severamente di strapparsi le sopracciglia, di graffiarsi il viso ad imitazione dei gentili. § 4.—_Medici._ S’ignora affatto in che consistesse la medicina presso gli uomini primitivi; ma si può bene affermare che non era tale certamente da meritarsi il nome di scienza. Strabone ed Erodoto ci dicono che presso i Babilonesi e gli Egiziani, gli infermi erano esposti al pubblico affinchè i già colpiti e sanati dalle stesse infermità, aiutassero di consigli quelli che ne soffrivano: questo sistema che aveva il vantaggio di fare profittare a ciascuno delle scoperte particolari fu probabilmente accettato da altri popoli. La prima volta che nella scrittura si parla di medici _rofeím_, è in un versetto del Genesi ove è detto che essendo morto Giacobbe, «Giuseppe ordinò ai suoi servitori i _rofeim_ d’imbalsamare suo padre». Ma convien notare due cose: La prima che non è detto che Giuseppe abbia mandato medici a visitarlo malato; la seconda che in tutta la Genesi, non v’ha altra parola riguardante i medici e le medicine; quantunque si parli bene spesso di malattie come quelle che afflissero Faraone, Abimelecco, Isacco, Rebecca e alcuni altri ragguardevoli personaggi. A proposito anzi di Rebecca sappiamo, che trovandosi essa assai indisposta in una certa epoca di sua vita, e non sapendo come spiegarsi i patimenti che soffriva andò a consultare _Adonai_ (Iddio), dizione che i commentatori intendono per un profeta di Dio e che credono fosse Sem o Abramo. In due luoghi però Mosè accenna a medici e medicine. Primieramente quando parlando di due abbarruffatori, l’uno dei quali fosse stato così malconcio da dovere mettersi a letto, ma non per ferita mortale statuisce che: «il feritore sia assolto; ma indennizzi il ferito dell’interruzione del lavoro, e della spesa voluta per la compiuta guarigione». L’altro luogo si è quando tratta della lebbra. Egli ne distingue le differenti specie, ne indica i segni e i sintomi, e descrive persino gli indizii d’una lebbra incominciata, inveterata, guarita. Nella Bibbia si fa pure menzione di ulceri, di fratture, di contusioni e dei rimedii che venivano impiegati per la loro guarigione, e che consistevano principalmente nel balsamo, nella resina, nelle fasciature e nell’olio. Appoggiandoci al fatto, che la massima parte dei malori nominati si riferiscono alle parti esterne del corpo, noi siamo portati ad inferirne che presso gli Ebrei come presso gli altri popoli antichi, le discipline mediche consistessero per la massima parte nelle nozioni chirurgiche⁷⁷; e che presso d’essi come presso gli Egiziani, la medicina fosse dapprincipio affidata esclusivamente ai sacerdoti. Sono essi infatti che dichiarano la comparsa della lebbra negli uomini, nelle stoffe e nei muri delle case⁷⁸; sono essi che ne curano gli affetti e ne attestano la guarigione. ⁷⁷ Al ritardo dello sviluppo delle mediche discipline vollero forse alludere i nostri Dottori quando appoggiandosi a testi biblici, dissero: che sino al patriarca Isacco nessun uomo si accorse di avvicinarsi alla morte per indebolimento delle sue forze naturali; che sino al patriarca Giacobbe nissun uomo si ammalò prima di morire; e che sino al profeta Eliseo, nissun uomo guarì di una malattia precedente a quella a cui dovette soccombere. ⁷⁸ Un autore Egiziano (El-Makrisy traduz. de M. Etienne Quatremère) racconta i seguenti fatti: «l’anno 791 e i seguenti, i vermi che attaccano le stoffe di lana si moltiplicarono d’una maniera prodigiosa a qualche distanza dal Cairo. Un uomo degno di fede mi assicurò che quegli animali gli avevano rôse 1500 pezze di stoffa. Meravigliato di un fatto tanto straordinario, io presi, secondo la mia abitudine, tutte le precauzioni possibili per assicurarmi della verità; e riconobbi coi miei proprii occhi che i danni causati da quei vermi non erano stati esagerati».... «Nell’anno 821 essi attaccarono i muri delle case e rosero talmente i travicelli che formavano i pavimenti, che essi rimasero assolutamente vuoti. I proprietarii si affrettarono a distruggere gli edifizii che i vermi avevano risparmiati per modo che quel quartiere fu quasi distrutto intieramente». Questi fatti ci spiegano le disposizioni date da Mosè, relativamente alla comparsa delle così dette da lui piaghe di lebbra nei muri delle case. ———— MERHHASVAN (_Ottobre-Novembre_). Due soli avvenimenti degni di nota successero in questo mese. Il primo è quello che segna il termine dei lavori del Tempio eretto da Salomone; il secondo è quello che segna la data della festa ideata ed instituita da Roboamo in onore del Baal, onde sostituire nell’opinione del popolo la festa che si era solennizzata in Gerusalemme il quindici del mese precedente (Sucoth). Questo malaugurato pensiero gli fu suggerito dalla stessa causa che già gli aveva consigliato l’erezione dei due vitelli d’oro, alle due estremità del regno. Ci pare degno d’essere raccontato per intiero l’incidente successo allo stesso re, nel momento preciso in cui stava per bruciare l’incenso sull’altare. Conviene sapere che nello stesso modo che egli aveva consacrato a sacerdoti individui che non appartenevano neanche alla tribù di Levi, così si creò da se stesso Pontefice del nuovo culto introdotto in Israello. Un profeta⁷⁹ arrivato allora dal paese di Giuda, con accento sdegnoso e profondamente convinto, rivolgendosi all’altare così prese ad apostrofarlo: «Oh altare, oh altare ascolta la parola di Dio. Verrà tempo in cui nascerà un figlio nella famiglia di Davide che si chiamerà Giosia; il quale farà dissotterrare le ossa dei sacerdoti del Baal, e li farà abbrucciare su te. Ed in prova che questa mia predizione non sarà per fallire, tu, o altare, ti spaccherai immantinenti atterrando tutto quanto ti sta sopra». Il segnale dato stava per verificarsi, quando il re sdegnato di tanta audacia, allungò il braccio, e segnando il profeta gridò agli astanti: «prendetelo, prendetelo». ⁷⁹ G. Flavio crede che il nome di questo profeta fosse Iadon, ma probabilmente egli lo confonde con Iedò o Iudò menzionati nel secondo libro delle Cronache. Ma un prodigio si operò allora in favore dell’uomo di Dio. Il braccio del re perdette la propria flessibilità per cui non gli fu più possibile il piegarlo, se non in seguito alle intercessioni fatte a Dio per lui dallo stesso profeta. Impressionato da questo avvenimento, il re sollecitava il profeta ad accettare ospitalità in casa sua. Ma questi vi si rifiutò affermando: «che Dio gli aveva formalmente imposto di non fermarsi in tale luogo, di non mangiarvi pane nè bevervi acqua; e appena compiuta la sua missione se ne tornasse indietro per un via diversa da quella tenuta nel venirvi». E difatti senza frapporvi verun indugio egli se ne partì per una direzione opposta a quella presa primamente. Ora conviene sapere che viveva allora in Betel un vecchio profeta⁸⁰, che informato dai figli di quanto era successo si affrettò a farsi preparare la sua moritura, e corse dietro al profeta. Raggiuntolo, mentre riposava all’ombra di una quercia, gli si presentò quale collega in profetismo; e fingendosi inviato a lui espressamente da Dio, lo persuase a ritornarsene indietro per rifocillarsi in casa sua. Erano tuttavia seduti a tavola, quando una voce divina predisse all’orecchio del vecchio profeta che in punizione di avere trasgredito l’ordine ricevuto da Dio, il suo commensale non avrebbe avuto il supremo conforto di essere sepolto presso i suoi padri. Finito il pasto, il profeta forestiero si accomiatò dal suo ospite e si diresse verso il suo paese natale. ⁸⁰ Il vocabolo _navì_ in ebraico non corrisponde sempre all’idea che esprime la parola _profeta_ (ossia colui che predice l’avvenire) con cui viene tradotto in italiano. Questo vocabolo deriva dalla radice _niv_ che vale articolazione, parlare, pronunziare; motivo per cui il titolo di _navì_ veniva applicato indifferentemente tanto ai _profeti_ decisamente tali nello stretto senso della parola, ossia quegli uomini che per inspirazione divina preannunziavano il futuro, quanto ai poeti, agli oratori e ai pubblici parlatori. Dippiù troviamo che questo epiteto viene dato indifferentemente tanto a quegli animi eletti per dottrina e per pietà, e che o inspirati direttamente da Dio, o da un ardente patriottismo non aspiravano che al bene della patria; quanto a quei tristi che adoperavano la loro facilità di eloquio e le loro doti intellettuali ad adulare i principi, e a corrompere sempre più il popolo, trascinando e questi e quelli nell’idolatria e nella schifosa e ributtante immoralità che ne conseguiva. Il profetismo, nel suo lato buono veniva ad essere una scuola di iniziati, di uomini virtuosi e santi per costumi e disinteresse; di patriotti intemerati ed ardenti, che spesso sotto la sorveglianza diretta di un profeta di grido venivano ammaestrati nella scienza religiosa, nella letteratura e nella eloquenza; onde col fascino della facilità di eloquio, colle doti della mente e più cogli esempi di una vita virtuosa, s’incaricassero di fare trionfare in Israele la giustizia, la carità e l’amore. Per poco che si sia studiata la Bibbia non si possono ignorare il famoso apologo di Natan a Davide onde rimproverargli la morte di Uria; la predizione di morte fatta da Michea ad Acabbo in pena del vigliacco assassinio commesso con ipocrito zelo religioso sull’infelice Naboth; le apostrofi veementi di Elia allo stesso re e ad Ocozia quando gli rimprovera i suoi delitti e gli predice che, «non scenderebbe più dal letto in cui sali in principio del suo malore» ecc. Questi esempi basteranno a convincerci che nessuna considerazione personale, nessun timore era accessibile al cuore adamantino di quegli uomini egregi, che accettavano il grave, uggioso e pericoloso compito di proclamare la verità, di patrocinare la causa del debole, di difendere l’oppresso. Parecchi commentatori fra i quali Ionathan Ben-Uzièl, Rascì e Radak, si accordano nel ritenere che il profeta di cui si tratta nello storico episodio sopraddetto, e costantemente designato col nome di _anavi azaken_ (il vecchio profeta), fosse un profeta falso malgrado la divina inspirazione ch’egli ebbe sedendo a mensa. Ma erasi di poco dilungato dalla città, allorchè un leone scagliatoglisi addosso lo uccise. E per provare chiaramente come tale fatto non fosse un azzardo, ma punizione che gli attirò la disobbedienza sua; non solo il leone si astenne di guastare minimamente il suo cadavere, e di uccidere l’asino, ma stette lì fermo in loro custodia fino a che avvisato dell’accaduto il vecchio profeta, causa unica di tanta iattura, fu sollecito di andare a togliere il cadavere dalla pubblica strada e a dargli onorata sepoltura. Probabilmente la morte di quell’uomo virtuoso fu, se non calcolata, almeno sperata da quel vecchio profeta, il quale negli ultimi suoi momenti raccomandò ai suoi figliuoli di seppellirlo nella fossa di quell’uomo divino, onde le sue ossa fossero risparmiate il giorno in cui Giosia, il zelante re profetizzato, farebbe abbrucciare le ossa dei profeti falsi. Archeologia. Continuando i nostri studi d’archeologia biblica, noi esamineremo in questo mese quali arti venissero maggiormente coltivate dagli antichi ebrei, e colla solita brevità che ci siamo imposti, ne seguiremo il loro sviluppo e il loro progresso. Giustamente osserva Goguet, lodato autore dell’origine delle leggi, delle arti e delle scienze, che, come il bisogno fu il maestro e il precettore dell’uomo insegnandogli a valersi delle mani ricevute dalla Provvidenza e del dono della favella di cui lo volle fregiato a preferenza d’ogni altra creatura; così le prime scoperte, frutto per la maggior parte del caso, non sarebbersi recate a certo perfezionamento senza la riunione delle famiglie, e lo stabilimento delle leggi che consolidarono le società. E che questo giudizio sia pienamente conforme alla storia dell’umanità, la quale nelle sue invenzioni cominciò dalle cose più necessarie alla vita, per arrivare a poco a poco a quelle che dovevano procurare l’agiatezza, la comodità e il lusso; noi ne saremo pienamente persuasi risalendo ai primordi della creazione colla scorta della Bibbia, unico documento che esista di quelle epoche vetuste. La nudità di Adamo ed Eva vengono coperte da Dio stesso con tuniche di pelli, e scacciatolo dal paradiso terrestre Dio impose all’uomo di guadagnarsi il pane col lavoro. Una rozza capanna ove riparare dalle intemperie, alcune rozze armi per difendersi dalle belve feroci furono certo le prime invenzioni. Ma un bisogno naturale dimostrò presto agli uomini il vantaggio di riunirsi in società, poichè Caino stesso si occupò a edificare una città, che dal nome del figlio intitolò _Anóch_. Questa città non consisteva probabilmente che in un gruppo più o meno grande di capanne o di tende; ma a questo primo passo tenne dietro un periodo di sviluppo artistico pronunciatissimo, poichè certo Tubal-Caino già conosce l’arte di lavorare i metalli e segnatamente di ferro, e certo Iuval inventa o perfeziona la cetera e l’organo. Ai tempi di Noè le arti dovevano già avere raggiunto uno sviluppo non indifferente, poichè la costruzione dell’arca coi suoi tre piani e scompartimenti, ci attesta la cognizione d’un grandissimo numero d’arti. Il diluvio ha certamente portato un colpo terribile all’umana industria, facendola indietreggiare di parecchi secoli; ciò non pertanto, noi possiamo convincerci che non tutte le cognizioni acquistate dai primi uomini, andarono perdute: poichè appena i figli di Noè si furono moltiplicati, concepirono e in parte incarnarono il colpevole divisamento, di costruire una città con un forte castello la cui cima giungesse sino al cielo⁸¹. ⁸¹ G. Flavio dice nelle sue antichità Giudaiche: Che avendo Adamo profetizzato che la terra sarebbe stata un giorno giudicata col fuoco o coll’acqua, i figli di Seth che avevano già rinvenuto parecchie scienze, fra cui l’astrologia, alzarono due altissime colonne, una di mattoni e l’altra di pietra e scrissero in amendue le nozioni delle scienze imparate e le scoperte da essi fatte: coll’intendimento che, ove la colonna di mattoni fosse atterrata dalla forza delle pioggie, restasse sempre quella di pietra per indicare a qualche superstite i progressi fatti nelle industrie e nelle scienze. Al tempo dei patriarchi le arti erano pervenute già a un certo grado di perfezionamento presso i Cananei e i Fenicii, posciachè troviamo fatta menzione di pietanze degne della tavola d’un re; di veli per donne; di vestimenti di distinzione; di braccialetti e pendenti d’oro per ornamento donnesco; della fabbricazione d’idoli; della incisione e della tintura di stoffe in colore cremisi. Si parla di carovane che venendo dall’est del Giordano percorrevano il paese per andare a fare il commercio in Egitto; si parla di pezzi d’argento che avevano corso tra mercanti e che se non erano coniati, erano sicuramente segnati con qualche incisione particolare; e finalmente nelle benedizioni che Giacobbe diede ai suoi figliuoli vediamo pure menzionati i porti di mare e le navi⁸². ⁸² Isaia ed Ezechiele parlando di navi fanno menzione di alberi, di vele, di gomene e di remi. È cosa indubitabile che all’epoca di Mosè si conosceva pure la scrittura alfabetica. Appoggiano quest’opinione: i nomi delle 12 tribù incise nelle due gemme dell’_Efod_; il _santo di Dio_ sulla tiara del Pontefice; le tavole del Decalogo; le numerazioni delle tribù; lo scritto della donna sospetta che doveva poi essere cancellato nelle acque amare; il libello di disdetta da consegnarsi alla donna ripudiata ecc. Nel libro di Giosuè si fa menzione di una città chiamata allora _Debir_, ma che innanzi portava il nome di _Kiriad-sefer_, ossia la città dei libri, e forse rinomata pei suoi scrittori o per essere in essa conservati gli archivii. In Egitto poi le arti fiorirono sin dalla più remota antichità, e gli ebrei che vi soggiornarono lungo tempo, e che senza dubbio ebbero gran parte nella erezione di quelle maravigliose piramidi, che se per un lato attestano il grado di schiavitù a cui un popolo può essere assoggettato dai suoi despoti, per l’altro lato attestano una sorprendente abilità artistica; ebbero campo ad esercitarvisi e a perfezionarvisi. A questo punto, ci sentiamo in dovere di dedicare alcune parole, a dissipare un errore ingenerato da una inesatta interpretazione di una prescrizione Mosaica. Nel corso di questo lavoro noi abbiamo potuto convincerci più volte, quanto fosse vivo e sviscerato l’amore di Mosè per quel popolo che liberò dalle ritorte egiziane; a cui fece attraversare «un deserto grande e terribile, covo di serpenti e di scorpioni avvelenati e di siccità dove non era acqua»; che condusse «sul suo seno come un aio conduce un adorato pargoletto» ai confini di quella «terra colante latte e miele promessa ai suoi padri». Ora non potendo dissimularsi la tendenza di questo popolo verso l’idolatria, e temendone a ragione le fatali conseguenze che ne sarebbero immancabilmente risultate, perchè avrebbe rotto il patto conchiuso con Dio e atterrato quel maraviglioso edificio che doveva dimostrare alle universe genti «la sua alta sapienza ed intelligenza»; e che sfidando i secoli doveva durare «come i giorni del cielo sulla terra»; non lasciò occasione veruna di fare le raccomandazioni le più calde ed amorevoli e di minacciare i castighi più terribili e spaventevoli per tenerli lontani. «Perocchè, diceva esso negli ultimi istanti del viver suo, conosco la tua contumacia e la dura tua cervice. Se essend’io ancor vivo presso di voi foste ribelli al Signore, quanto più (lo sarete) dopo la mia morte! Perciocchè so che dopo la mia morte commetterete gravi colpe, e vi scosterete dalla via che vi prescrissi e vi avverranno i mali nei tempi lontani facendo voi ciò che spiace al Signore irritandolo coll’ (adorar l’) opera delle vostre mani». Ora quale maraviglia può destare la proibizione fatta al suo popolo, di fare scoltura o figura di cosa che (sia) nel cielo disopra, nella terra disotto, e nelle acque disotto la terra; di non inchinarsi ad esse nè adorarle; perchè l’Eterno è Dio geloso che non lascierebbe impunita una tale colpa? Concediamo che questa inibizione, non era un incoraggiamento alle arti, poichè è indubitabile che la rappresentazione della divinità sotto forme sensibili, sia un potente incentivo agli slanci entusiastici del genio che produce nobilissime creazioni quali sono quelle tramandateci dalla Grecia antica. Ma oltrecchè, in ogni peggior caso, vale meglio per una nazione essere priva di capi lavori artistici, piuttosto che esporsi a irreparabile rovina; non v’ha dubbio che tra il non incoraggiare un’arte qualunque e il proibire assolutamente di esercitarla, come erroneamente si pretende da molti scrittori, corra un divario grandissimo. E che l’intenzione di Mosè fosse precisamente quella di allontanare il suo popolo dalle seduzioni dell’idolatria e non la semplice rappresentazione degli oggetti, noi possiamo argomentarlo dai seguenti versetti del Deuteronomio ove il concetto di questa proibizione viene ampiamente sviluppata: «Guardatevi dunque bene, quanto v’è cara la vita—posciachè non avete veduta alcuna figura nel giorno che il Signore vi parlò in Oreb di mezzo al fuoco—di non commettere una grave colpa, e farvi alcun simulacro, della figura di qualsiasi idolo di forma maschile o femminile; della forma d’alcun animale ch’è in terra; della forma d’alcun uccello alato che vola nel cielo; della forma d’alcun (essere) strisciante sul suolo, o della forma d’alcun pesce ch’è nelle acque al disotto della terra. Bada bene che non avvenga che alzando gli occhi al cielo, e vedendo (ed ammirando) il sole e la luna e le stelle, tutta (insomma) la schiera celeste, _tu travii_, e ti _prostri_ loro, e _presti_ loro culto......». E a convincere meglio i nostri lettori aggiungeremo che l’interpretazione data a questo precetto dai nostri Dottori più ortodossi concorda perfettamente colla nostra opinione. Il sapientissimo Maimonide nel trattato _avodà zarà_ dice: essere affatto permesse le figure di animali e di piante anche in rilievo; e Raban Gamaliel teneva raffigurata la luna in tutte le sue fasi nel suo studio, e alle osservazioni che una fiata gli vennero mosse, rispose: «essere puramente proibita la rappresentazione dei corpi celesti fatta nell’intento di adorarli». E se così non fosse, lo stesso operato di Mosè sarebbe in aperta contraddizione colla sua prescrizione, poichè in una invasione di serpenti avvelenati mandati da Dio per punire la maldicenza e la ribellione del popolo, e che portarono nell’accampamento ebreo desolazione e lutto; Mosè fece costrurre un serpente di rame, e fissatolo sopra un alto palo lo espose alla vista del popolo. Questo serpente durò sino al tempo del re Ezechia che lo fece sminuzzare perchè gli Ebrei se ne erano fatto un idolo. Ma v’ha dippiù. Nel Tabernacolo stesso egli fece porre due Cherubini che, come dicemmo altrove, coprivano l’Arca Santa colle loro ali: e noi sappiamo che nel Tempio di Salomone, oltre ai Cherubini, vi era il grande bacino che poggiava sopra dodici buoi; e nei piedestalli degli altri bacini si trovavano figure di buoi, di leoni, di fiori ecc. Nè si supponga che ciò possa essere stata un’infrazione alla legge, posciachè Salomone si attenne con tanto scrupolo alle prescrizioni mosaiche da non permettere che si adoperasse nè chiodo, nè martello, nè altro istrumento di ferro nell’interno dell’edificio stesso⁸³, perchè Mosè avea raccomandato di non frammischiare ferro nella fabbricazione dell’altare. ⁸³ Siamo persuasi di fare cosa sommamente grata ai nostri lettori inserendo qui la bizzarra «leggenda di Salomone» che si rapporta a questo fatto. Crediamo che non sarà difficile capirne l’allusione delli «versi strani»: Il sapientissimo re al quale era stato affidato il glorioso incarico di fabbricare la Casa Sacra, turbato dall’ordine divino che il Sacro tempio non fosse tocco da ferro, non sapeva trovare modo di compire la grande impresa. Come infrangere enormi massi di marmo e fare a pezzi durissimi legni senza aiuto di ferro? Chiamati a sè i suoi ministri ed esposta loro la cagione del suo turbamento, uno dei più sapienti così rispose: «Gran re! L’ultimo giorno della creazione in sull’imbrunire il Creatore, diede la vita ad un vermicello chiamato _shamir_, il quale possiede la singolare virtù di tagliare i marmi più duri col solo suo tocco. Dove questo vermicello annidi non seppe mai mente umana». Ma il re sapientissimo, a cui era stata data piena signoria su tutti gli spiriti, chiamò a sè due _scedim_ (spiriti, che avevano molta affinità cogli uomini, perchè la credenza popolare riteneva che come questi si nutrissero, vestissero abiti e si propagassero ecc.) ed impose loro di indicargli il luogo ove il _shamir_ si nascondeva. Questi tremanti dichiararono che quel segreto era solamente noto al loro re Asmedai. Interrogati ove quel principe avesse sua dimora risposero: Egli abita sulla vetta di un monte di qui assai lontano, e dentro al monte egli ha scavato una profonda pozza che ha riempito d’acqua, e che chiuse con un gran masso attaccato al terreno colle impronte del suo suggello, e ogni mattina prima di salire al cielo ed ogni sera nello scendervi, esamina attentamente i noti segni, beve e riposa. Salomone licenziò gli spiriti e chiamò a sè il suo prode capitano Benajà; gli porse una catena con sopravi impresso il santo nome di Dio, e un gran numero di fiaschi di vino e lo incaricò di condurgli Asmedai. Benajà si avviò alla grande opera e dopo molti giorni di viaggio arrivò al monte designato. Cominciò collo scavare un largo fosso ove fece scorrere tutta l’acqua della pozza, e poscia ne scavò un altro più sopra e pel quale versò nella pozza tutto il suo vino. Nel cadere della notte Asmedai, sceso dal cielo, si avvicinò alla pozza, ne esaminò il suggello e lo trovò intatto, sollevò il masso e vi sprofondò dentro. S’accorse del cambiamento e temendo di qualche insidia si propose di non bere, ma straziato da ardente sete tracannò ingordamente una quantità di vino e venne colto da profondo sonno. Benajà che stava alle vedette si slanciò frettolosamente sul dormiente e gli girò intorno al collo la sacra catena. Asmedai si svegliò e accortosi della catena che lo serrava si dibattè disperatamente e mandò urli spaventevoli; ma poscia accorgendosi dell’inutilità d’ogni suo tentativo si acquetò e seguì Benajà. Giunti alla presenza di Salomone questi gli fece manifesto il suo desiderio ed Asmedai così gli rispose: Il _shamir_ fu confidato al re del mare; e questi l’ha confidato al gallo selvatico, e col più terribile dei giuramenti l’ha stretto a conservarlo inviolato e sempre. E il gallo selvatico ha posto il suo nido in un alto monte nudo e deserto e mai se ne diparte che non porti seco il suo deposito. Salomone chiamò di nuovo il suo fedele Benajà e lo mandò alla scoperta del gallo selvatico. Il prode guerriero s’avviò al disimpegno del suo incarico e dopo lungo cammino gli riescì di scoprire il nido del gallo selvatico. Attese che il gallo vi uscisse, chiuse il nido con una campana di vetro e poscia si nascose e aspettò. Ritornò il gallo selvatico e corse al suo nido a portare l’imbeccata ai suoi pulcini; trovò il vetro e vi si arrestò sopra; girò intorno, sparnazzò colle ali, spinse e picchiò, ma invano. I pulcini intanto chiamavano e piangevano. Finalmente ricorse al prezioso deposito per infrangere il vetro; trasse di sotto le ali il _shamir_ e l’accostò.... Ma in quel punto Benajà uscì dal suo nascondiglio e mandò un grido terribile: il _shamir_ cadde a terra, e Benajà ebbro di gioia lo raccolse avidamente e fuggì. Il povero gallo selvatico, disperato del violato giuramento si diede la morte. Non paia strana questa raccomandazione. Chi studia con amore e con riflessione le istituzioni mosaiche deve restare convinto che, tranne pochissime il cui senso ci è ora impenetrabile per la grande distanza dei tempi ed enorme differenza dei costumi, tutte le altre sono inspirate da due fini ch’egli si prefisse di ottenere: 1º La salute del corpo, mercè assennatissime disposizioni sui cibi e sulla pulitezza, e mercè la moderazione nei piaceri; 2º il miglioramento dell’anima, mercè la pratica d’ogni virtù domestica e sociale. «Santi siate, raccomanda egli al suo popolo, che santo sono io, l’Eterno Dio vostro». Ecco ora l’interpretazione che danno i nostri Dottori di questo precetto: «L’altare, dicono essi, è ministro di pace tra l’uomo e Dio e tra l’uomo e l’uomo; e viceversa il ferro è ministro di morte. Ora l’istrumento di morte non può nè deve confondersi coll’istrumento di pace, di concordia e di amore». Dilucidato questo punto ritorniamo alle nozioni d’archeologia che abbiamo interrotto. I molti oggetti numerati nel Pentateuco e nei libri posteriori, dimostrano ad evidenza, che, in rapporto ai tempi, l’industria e le arti presso gli Ebrei non erano in uno stato inferiore a quello degli altri popoli. Si sapevano filare e tessere stoffe di lana, di lino, di cotone e di bisso (stoffa questa che certi dotti vogliono fosse una specie particolare di lino più fino e di una bianchezza più splendente del lino ordinario, e certi altri vogliono che fosse il cotone); si sapeva tingere in diversi colori quali il turchino, il cremisi, la porpora e il giallo. Quando Mosè fece appello agli Ebrei invitandoli a portare offerte pel tabernacolo che intendeva erigere onde «Dio abitasse in mezzo a loro»; le donne industriose furono assai sollecite di filare lino finissimo e lana di capre, che nelle mani d’uomini abili furono trasformati in tappeti. Noi non descriveremo qui quel lavoro che dovette riescire di una eleganza ed imponenza severa e solenne, sia perchè ci obbligherebbe ad allungarci oltre al limite che ci siamo prefissi, sia perchè chi ne avesse vaghezza ne troverebbe la descrizione nell’Esodo capitolo 19 e seguenti. Diremo però che fu un’opera felicemente ideata ed eseguita con legno di _scithim_ (specie di acaccia); con pelli di montone e di tasso; con tappeti coperti o guerniti d’oro. I direttori di quei lavori, che erano certi _Bessalél_ figlio di Urì della tribù di Giuda, e _Aholiáb_ figlio di Ahhissamach della tribù di Dan, vengono dichiarati da Mosè «uomini pieni dello spirito di Dio in industria, in ingegno e in sapere; abili nel fare disegni da lavorare in oro, in argento e in rame, e nell’arte di pietre da legare ed in quella di lavorare in legno». Compiuto il lavoro e presentato a Mosè, questi ne passò in rassegna ogni singola parte e ne rimase talmente soddisfatto, che lo dichiarò eseguito secondo il comando di Dio, e impartì la sua benedizione a tutti quanti vi ebbero parte. Si noti che Mosè, il quale passò tutta la sua gioventù in mezzo alle grandezze e al lusso della Corte egiziana, non avrebbe certo potuto dichiararsi soddisfatto d’un lavoro dozzinale e grossolano. Ai tempi di Davide e di Salomone, che segnarono la maggiore grandezza e prosperità del regno d’Israele, che era allora il più esteso, il più ricco e il più potente dell’Asia; si trovarono operai tanto abili ed intelligenti da costrurre quelle maraviglie dell’arte che furono il Tempio; il palazzo reale col ricco e splendido suo mobiglio; alcune città e fortezze fra cui la celebre _Tadmór_ (Palmira); il trono di Salomone tutto d’avorio incrostato d’oro, che la storia afferma «non essersene fabbricato l’eguale in nissun regno»; e che vi si arrivava per sei gradini ognuno dei quali portava un leone in ciascuna sua estremità. È bensì vero, e noi lo constatiamo senza reticenze, che prima d’intraprendere i lavori del Tempio, Salomone inviò un messaggio al Re di Tiro, col quale ricordandogli l’antica amicizia che lo legava a Davide ed annunziandogli la sua intenzione di fabbricare un Tempio al Signore; lo invitò ad ordinare ai suoi servi di tagliare cedri dal Libano, perchè nessun individuo ebreo sapeva meglio dei Sidonii tagliare e fare viaggiare legnami da costruzione; ma conviene considerare che questo fatto non menoma per nissun modo l’importanza degli operai ebrei, perchè non riguardava che un ramo particolare d’industria dei Sidonii. La stessa considerazione si deve fare rapporto ad Hhiram chiamato, come avemmo a dire altrove, a Gerusalemme a dirigere i lavori in rame. A misura che la prosperità materiale del popolo aumentò mercè le relazioni commerciali contratte colle nazioni straniere, sparì bensì con essa la primitiva semplicità dei costumi, ma le arti e i mestieri ebbero largo campo ad esercitarsi e a perfezionarsi; poichè il giorno della caduta del regno fra dieci mila capi di famiglia _mille_ erano capi di officine. I ricchi abitavano in case grandi e spaziose ornate d’oro e d’avorio, con sale particolari per festini e con appartamenti distinti per l’estate e per l’inverno. È questo lusso che producendo la corruzione dei costumi, infiammò il petto dei veggenti d’Israele che lo biasimavano con veementi ed irose invettive ritenendolo, e non a torto, lo strumento che doveva portare la intiera rovina della nazione. Chi avesse vaghezza di conoscere specialmente gli abbigliamenti delle belle figlie di Sionne, li potrebbe riscontrare nel capitolo terzo d’Isaia, e dovrebbe conchiudere che nè pel numero (che è ventidue), nè per la qualità, nè per galanteria stavano al disotto di quanti ne offra la teletta di una ricca ed elegante signora dei nostri tempi. A titolo di curiosità storica ne citeremo alcuni. Il primo a presentarsi è il _nézem_ (orecchino o pendente dell’orecchio) il quale si componeva di diverse parti quali: _aghil_ (rotondo) _netifód_ (goccie o perle). Viene in seguito una seconda specie di _nézem_, che era un pendente del naso. Anche oggi giorno le donne orientali portano quest’ornamento sospeso ad una della pinne del naso, che a quest’effetto si bucava come si bucano ora le orecchie⁸⁴; il _revid_ collana o catena sospesa attorno al collo e cadente sul seno, e alla quale venivano attaccati altri ornamenti detti _saaronim_, o _lehhascim_ (amuleti), o la _boat anéfesc_ (vasetti di odore); il _zamid_ o _esadà_ (braccialetto), il _tabàad_ (anello); il _realà_ (velo); la _hhagorà_ (cintura) e i _hharittim_ (borse eleganti) e finalmente gli stivaletti coi campanelli che porsero occasione allo stesso profeta di rimproverare le figlie di Sionne «di essersi fatte altere, di marciare colla gola tesa (scoperta), di fare cigolare i fermagli coi piedi». ⁸⁴ Salomone volendo rappresentare quel senso di disgusto e di ripugnanza che si prova nel vedere un oggetto prezioso e pregiato ornare una persona deforme, paragonò una donna bella e gentile ma priva di senno, a un _nézem_ d’oro pendente dal naso di un maiale. La composizione degli olii odoriferi, degli unguenti e dei profumi sia per uso profano come pel servizio religioso; esigeva un’arte particolare che noi troviamo già ben conosciuta e coltivata ai tempi di Mosè. L’artista portava il nome di _rokeahh_. L’olio santo che Mosè insegnò a preparare e col quale si consacrarono Aronne e i suoi figli, tutti gli oggetti del Tabernacolo, e che doveva servire di sacra unzione per tutti i secoli; si componeva di quattro specie d’aromi, aggiunti all’olio d’oliva fino, che doveva venire preparato appositamente dal sacerdote. Questi aromi erano i seguenti: 1º _morderór_ mirra semplice, ovverosia quella che colava spontaneamente senza bisogno d’incisione; 2º _kinamón_ cinamomo o canella odorosa; 3º _canè boscem_ canna odorosa; 4º _kidá_ cassia aromatica. Il profumo per le fumigazioni del santuario si componeva altresì di quattro sostanze aromatiche. La prima era il _natáf_ gomma; la seconda lo _scehhéled_ storace liquida; la terza la _hhelbonà_ galbanum; la quarta la _levonà zacà_ incenso puro. In questo articolo dovrebbero trovare posto, alcune nozioni sulle scienze coltivate dagli antichi ebrei, sulla lor lingua e poesia; ma sia che l’indole del nostro lavoro non ci permette di diffonderci in questo studio quanto sarebbe necessario e sia perchè esso potrebbe riescire poco dilettevole per quei lettori ai quali è specialmente destinato il nostro lavoro, preferiamo a non parlarne. Abbiamo già accennato che gli ebrei erano assai appassionati per la musica colla quale rallegravano i loro festini e accompagnavano i sacri canti. Aggiungeremo ora che i Rabbini vogliono che tali strumenti allora conosciuti fossero in numero di trentaquattro. D. Calmet nella sua dissertazione sugli strumenti di musica, ammette bensì che gli strumenti musicali erano presso gli ebrei in numero assai maggiore che presso qualunque altro popolo antico, ma non ne accetta oltre a venti; intanto che il Ben Zeeb, nella sua prefazione al libro dei Salmi commentato dal Nahhmanide, ne enumera ventuno quali tipi primitivi dai quali ne fa originare altri nove. Da qualunque parte stia la ragione a noi poco importa. Ci basta notare che i padri nostri avevano avanzato anche in questa nobilissima fra le arti belle, tutti i popoli antichi. Gli strumenti musicali da loro usati erano di tre specie: 1ª Gli strumenti _a corda_ compresi sotto il nome generico di _neghinód_ i cui principali erano: il _nébel_ nabbo; il _assór_ decacordo e il _chinór_ chitarra. 2ª Gli strumenti _a fiato_ quali: il _ugáv_ organo; lo _sciofar_ del quale abbiamo parlato lungamente nei mesi precedenti; _aghil_ flauto; la _hhazozerà_ tromba. 3ª Gli strumenti _a percossione_ quali il _tof_; il _menanhém_; il _scialissím_ e il _selselim_ cembalo. Di questo strumento ne esistevano sicuramente due specie: una detta _silselè sámah_, e l’altra _silselè teruà_. Come la musica e la poesia, anche la danza è un divertimento naturale all’uomo. Tutti gli scrittori ne attestano la sua antichità e universalità fin fra i popoli più barbari, presso i quali era anzi una ceremonia importantissima dello strano e sconcio loro culto. Ammettendo che il vocabolo _mahhól_ abbia il significato che gli si attribuisce generalmente, si deve credere che la danza fosse praticata presso gli ebrei specialmente in occasione di pubblica esultanza: stante però le rare volte a cui vi si accenna, la poca sua consonanza colla gravità dei loro costumi e alla serietà del loro carattere, e alla massima facilità colla quale potevasi prestare alla leggerezza e all’incontinenza, ci è lecito supporre che fosse assai poco in uso. CHISLEV (_Novembre-Dicembre_). Due fatti della più alta importanza registra la nostra storia in questo mese. Il primo d’essi si rapporta ad una decisione presa da Esdra, e che per quanto la si debba giudicare crudele e dolorosa verso gli interessati, che erano in numero grandissimo, tuttavia era imperiosamente richiesta tanto dalla religione quanto dalla politica; poichè si trattava di estirpare uno sconcio che perpetuandosi minava senza via di scampo sino dalle radici l’esistenza religiosa e politica della nazione intiera. Questa misura consisteva nell’ottenere la separazione degli Ebrei da tutte le donne idolatre sposate nell’intervallo che passò tra la partenza della prima e della seconda colonia giudaica da Babilonia, per la loro antica patria. Ecco la causa di questo sconcio e il riparo portatovi da un uomo che si acquistò tanti titoli alla benemerenza di Israele, che i Talmudisti lo paragonarono a Mosè. La prima colonia dei reduci da Babilonia era contornata da Moabiti, Ammoniti, Arabi, Samaritani, Fenicii, Siriaci e da altre nazioni che o parlavano una stessa lingua, o dialetti affini, quindi era impossibile ad evitarsi il contatto colle medesime. Si contrassero matrimonii scambievoli; gli Ebrei diedero le loro figlie agli stranieri, e presero mogli da loro. Ne ebbero figliuoli che formarono una razza ibrida non ben giudea, nè ben gentile, ma che per una conseguenza tutt’affatto naturale, partecipava più della madre, dalla quale riceveva col latte le prime nozioni religiose. Quella parte della nazione che era tuttavia attaccata sinceramente alla religione avita, vedeva con dolore questa contravvenzione al più necessario e reciso ordine di Mosè: ben a ragione temeva l’avveramento delle funeste conseguenze da lui pronosticate, tanto più poi perchè tale rilassatezza aveva preso proporzioni estese intaccando a guisa di contagio tutte le classi dei cittadini. Per rimediarvi pare che questi zelanti patriotti chiamassero da Babilonia Esdra, sacerdote riputatissimo per dottrina e gravità di costumi. Egli discendeva da Zadoc, e perciò apparteneva alla casta dei Pontefici: era stimato il più profondo nella cognizione delle patrie leggi, e gli veniva dato il sopranome di _sofér maír_ (scriba perito), con cui si voleva indicare non pure la sua maestria nello scrivere, ma eziandio la singolare sua perizia nel leggere e spiegare le sacre Scritture⁸⁵. ⁸⁵ A quest’uomo che risuscitò la legge quando stava per estinguersi, si attribuisce la fondazione della _Chenesced Aghedolà_ (la grande Accademia o Sinagoga), cioè di una assemblea di Dottori della quale egli fu il primo Presidente e Simone il Giusto l’ultimo, i quali dovevano conservare e spiegare la legge e tramandarsi di uno in altro le tradizioni orali che la completavano. (Come diremo più estesamente altrove, queste tradizioni e spiegazioni furono poi raccolte dal Rabbino Giuda sopranominato _akadoss_ (il santo) nella _Misnà_, e dai due Dottori Ravà e Rav-Assè nel _Talmud_ o _Ghemarà_). A lui si attribuisce l’invenzione dei punti vocali, degli accenti e della _màsora_ o critica filologica del testo biblico; a lui si attribuisce la compilazione delle orazioni quotidiane, e oltre al libro che porta il suo nome e che si crede scritto da lui, gli sono attribuiti anco i due libri de’ Paralipòmeni. Vuolsi pure che il libro di Malachia (l’ultimo dei profeti canonici) appartenga altresì a lui, e che abbia occultato il suo vero nome sotto questo, che vale _angelo_ o _messo_. Esdra dunque venne a Gerusalemme l’anno primo di Artaserse Longimano, munito di un favorevole rescritto di questo principe che gli attribuiva tutti i poteri di un governatore: gli regalò eziandio cento talenti di argento e gli assegnò somministrazioni di grano, vino, olio e sale pei bisogni del Culto. Oltre a questi sussidii, Esdra raccolse dalla pietà degli Ebrei trans-Eufrateni altri cinquecentocinquanta talenti d’argento, cento d’oro, e molto vasellame di argento e d’oro; parte avuto in dono e parte di quello che trasportato da Gerusalemme non era ancora stato restituito e che a lui riuscì di ricuperare. Con lui si aggiunsero più di 1800 altri ebrei che vollero accompagnarlo, fra i quali alcuni sacerdoti, cantori, leviti e natinei⁸⁶. La carovana partì verso la metà di Nissan ed arrivò a Gerusalemme nel mese d’Ab. Esdra dopochè fu bene informato dello stato delle cose se nè mostrò scontentissimo, si stracciò le vesti, ed assunse tutti gli altri contrassegni del dolore e del lutto, onde i Giudei commossi dalla sua autorità, promisero di sottoporsi alle riforme che avrebbe voluto fare. Egli allora ordinò che tutti gli Ebrei, anche quelli della campagna si trovassero fra tre giorni, che veniva appunto ad essere il venti del mese di Chislev, a Gerusalemme. L’assemblea ebbe luogo infatti al giorno stabilito, e il popolo se ne stava trepidante e timoroso, per la suprema importanza delle decisioni che si dovevano prendere, sulla piazza che trovavasi innanzi al Tempio. E infatti il motivo era seriissimo, poichè, come già dicemmo, si trattava di giudicare tutti quelli che avevano menato mogli straniere, e fors’anco costringerli a separarsi da esse e dai figliuoli che avevano procreato. E costoro non erano pochi; vi erano sacerdoti, leviti e persone di alto e di basso stato; e si poteva presumere che non tutti sarebbero stati disposti ad accondiscendere al volere altrui in un negozio in cui erano interessate le affezioni più delicate del cuore; poichè sarebbe stato difficile il persuaderli che l’interesse generale dello Stato reclamava da loro un sacrifizio cotanto grave e penoso. ⁸⁶ _Natinei_ vale _dati_, _votati_, e probabilmente erano prigionieri di guerra che avevano adottato la religione di Mosè, e che secondo il libro d’Esdra furono consacrati da Davide e dai suoi Capitani al servizio dei leviti, ad imitazione di ciò che fece Giosuè dei Gabaoniti. Non crediamo fuori di luogo di raccontare questo brano di storia sulla conquista della Palestina, che servirà pure a ristabilire un fatto, che a torto viene interpretato in modo sfavorevole al popolo nostro. Finito il lutto per la morte di Mosè, il popolo ebreo mosse verso il Giordano, che, come dicemmo altrove, passò a piedi asciutti. Pervenuta la notizia di questo fatto, della presa di Gerico città importantissima munita di alte mura e forti torri, della espugnazione di Ai alle orecchie dei Gabaoniti; questi nella speranza di stornare dal loro capo la sorte esiziale da cui erano minacciati ricorsero ad uno strattagemma. Scelti tra loro parecchi individui li ammaestrarono sul da farsi, li provvidero di indumenti vecchi e logori, di pane ammuffato, d’otri di vino secchi è screpolati dal tempo. Godesti uomini si portarono al campo degli Ebrei, si presentarono a Giosuè e agli anziani, si finsero venuti da paesi lontanissimi inviati dai loro anziani e concittadini a domandare la loro alleanza e ad implorarne l’amicizia, in causa dell’onnipotenza dimostrata dal loro Dio coi grandi miracoli operati in loro favore in Egitto e nel deserto. A conferma delle loro asserzioni presentarono il pane muffato e che assicurarono essersi preso dietro appena tolto dal forno; mostrarono gli abiti indossati, a loro dire, nuovi e logoratisi pel lungo cammino. Giosuè e i principi si lasciarono ingannare da tale racconto menzognero e senza consultare Iddio conchiusero seco loro l’invocata alleanza; ma dopo tre giorni si venne a conoscere la verità. Il popolo alzò gravi querimonie contro la precipitazione dei principi. Ma il fatto non potevasi oramai revocare, l’alleanza era stata giurata nel nome dell’Eterno e non si poteva violare; quindi Giosuè volendo dare soddisfazione al popolo e nello stesso tempo mantenere la fede giurata, destinò i cittadini di Gabaon ai grossi servizii del Tempio. Oltre alle precise istruzioni date da Mosè nel condurre l’assedio di città lontane o non appartenenti alle nazioni votate a morte pei loro peccati; oltre alle storiche assicurazioni che constatano come Davide e Salomone abbiano vinti e resi tributarii parecchi popoli senza distruggerli; l’esistenza stessa dei Natinei è una prova convincente che Mosè non aveva imposto agli Ebrei di sterminare senza pietà tutti i popoli della Palestina, come erroneamente o maliziosamente pretesero parecchi scrittori. La totale distruzione era stata decretata solamente per sette popoli o tribù le cui opere erano talmente nefande «che la terra, dice Mosè con una figura espressiva, stomacata e polluta li vomitava dal suo seno». Anzi i nostri Dottori dicono che prima di accingersi alla conquista della Terra Santa, Giosuè mandò nella Palestina tre proclami così concepiti: «1º Chi vuole sancire con noi un punto di pace sarà accettato; 2º Chi vuoi sottrarsi all’eccidio esca volontariamente dalla Palestina; 3º Chi vuole guerra avrà guerra». I Gabaoniti accettarono il primo; la popolazione Gersunita si uniformò al secondo; 31 principi mossero guerra e soggiacquero. Sembra quindi che l’assemblea sia stata tumultuosa, e che l’unione di tutta quella gente lungi dal contribuire al buon effetto della combinazione desiderata, lo contrariasse. Colta dunque l’opportunità che pioveva a dirotto, e che il popolo si trovava assai a disagio, l’assemblea fu congedata; e si credette più acconcia l’instituzione di un tribunale composto di Esdra e di alcuni uomini capi dei loro casati designati per nome, onde giudicare i refrattarii citandoli ad uno ad uno. Questo spediente riescì: la commissione lavorò tre mesi ad indurre colle buone o colle cattive gli ebrei a rompere quei matrimonii dichiarati illegali. Un gran numero vi acconsentì mandando via le mogli e i figliuoli, che furono pertanto costrette a ritirarsi alle rispettive nazioni a cui appartenevano; e questo affronto accrebbe contro gli ebrei il numero e l’odio dei nemici. Tuttavia dobbiamo notare che la riforma non era stata generale: molti eziandio sacerdoti e leviti, anzi le persone più potenti, ricusarono di sottomettersi alla decisione di Esdra, e diedero origine ad una fazione contraria ai rigoristi (farisei)⁸⁷, ed unita d’interesse cogli stranieri e specialmente coi Samaritani e coi governatori persiani, che risiedevano a Samaria. ⁸⁷ L’epiteto _fariseo_ passò quale sinonimo di falso religioso, di vilissimo ipocrita, quantunque tale designazione non sia sempre assolutamente esatta. Egli è per questo che noi crediamo bene di trascrivere le seguenti linee del celebre S. D. Luzzato, nelle quali ci viene spiegata l’origine del fariseismo e il significato di tale denominazione. «A Esdra tenne dietro gran numero di _soferim_. Dei più antichi non si conoscono i nomi, e questi innominati sono i veri fondatori del Rabbinismo, gli autori di tutte quelle instituzioni che diconsi _divrè soferim_, o parole degli scribi (il nome _sofer_ significò poscia anche maestro di scuola ed anche scrivano, copista). Col lasso del tempo vi furono dei falsi scribi, degli scribi ipocriti, come vi furono nel primo tempio i falsi sacerdoti o i falsi profeti. Questi falsi devoti furono detti per ischerno _farisei_, _astinenti_, _austeri_; e quando la tendenza liberale e grecizzante formò un partito sotto il nome di _Sadducei_, l’epiteto di farisei fu da questi dato indistintamente a tutti i rigoristi, attaccati alle istituzioni degli antichi scribi, sia che fossero veramente ipocriti, sia che fossero uomini d’una sincera pietà». Il secondo avvenimento che ebbe luogo in questo mese fu di tale importanza e segna una pagina cotanto gloriosa nella nostra storia, che noi crediamo necessario fare una eccezione alla linea di condotta che ci siamo imposti, e svolgerlo con una certa ampiezza almeno nella sua prima fase: vale a dire sulle cause che determinarono la guerra d’insurrezione contro i Greci, sino alla totale liberazione dello suolo nazionale per opera di Giuda Macabeo. I reduci da Babilonia nei primi tempi furono governati da capi ebrei nominati ordinariamente dai re di Persia; ma tale dipendenza si faceva sentire così poco da potere quasi dire che la Giudea formasse una specie di repubblica sotto l’alta sovranità di quei re. Il primo di tali capi fu Zerubabele, al quale vuolsi sia succeduto Mesciulla suo figliuolo e poscia Esdra e Neemia. Dopo quest’ultimo, pare che il governo inferiore sia passato nelle mani dei sommi sacerdoti, tanto per la parte religiosa quanto per la civile e politica; e ch’essi siano divenuti i soli intermediarii tra il popolo e i re stranieri di cui erano tributarii. Dobbiamo però notare che per soddisfare le favorevoli propensioni del popolo per la casa di Davide, si introdusse l’uso di nominare un Nassì (principe) tra i membri di quella casa; quantunque peraltro non gli si lasciasse esercitare veruna autorità di fatto. Noi non ci occuperemo della successione di parecchi re di Persia perchè non fu portata per essi veruna sensibile alterazione nei loro rapporti con gli ebrei, se si escludono i mali che questi ultimi patirono per le guerre che ebbero luogo tra la Persia e l’Egitto: e verremo a parlare degli avvenimenti successi all’epoca in cui Alessandro il Macedone colle sue vittorie minacciava di prossima rovina l’impero di Dario. Trovandosi all’assedio di Tiro, Alessandro inviò una lettera a Iaddo sommo pontefice degli ebrei, che i nostri Dottori per uno strano equivoco confondono con Simeone il Giusto vissuto parecchi anni dopo questi avvenimenti; invitandolo a spedirgli soccorso d’uomini e di provvigioni, e a pagare a lui quel tributo che sino allora era stato pagato a Dario. Iaddo per non mancare al giuramento fatto al suo alleato si rifiutò di aderire a queste richieste, osando sfidare la collera del Macedone il quale giurò di trarre aspra vendetta degli ebrei. Presa Tiro, Alessandro mosse verso Gaza. Questa città gli oppose un’eroica resistenza, ma in capo a cinque mesi essa cadde in potere degli assedianti, e subì un trattamento feroce. Diecimila uomini vennero trucidati; e il resto della popolazione, uomini, donne e fanciulli, furono venduti per ischiavi. Una sorte eguale pareva riservata a Gerusalemme. Un miracolo poteva solo salvare la città santa: e questo miracolo ben meritato dai suoi abitanti in premio del coraggio e della devozione di cui diedero prova nel serbare la fede giurata, fu operato da Dio. Giuseppe dice che una voce divina ordinò in sogno a Iaddo, di portarsi ad incontrare Alessandro seguito dai suoi sacerdoti. Iaddo ossequente a questa voce indossò gli abiti sacerdotali, e fatteli indossare agli altri sacerdoti e dando le opportune disposizioni onde la città venisse parata a festa, uscì processionalmente incontro al temuto conquistatore. Alessandro colpito da questo imponente spettacolo si avanzò verso il pontefice e inchinandoglisi innanzi lo salutò rispettosamente. Il suo amico Parmenione avendogli dimostrato lo stupore da cui era compreso per tali atti di rispetto tributati ad un nemico, Alessandro gli rispose che trovandosi tuttavia in Macedonia, una figura d’uomo vestito come quel pontefice gli era apparso in sogno e lo aveva incoraggiato a persistere nei suoi progetti di conquista, assicurandogli la vittoria sui Persiani. Strinse poscia la mano a Iaddo, entrò in Gerusalemme, visitò il tempio e vi offrì sacrifizii; e dietro domanda dello stesso pontefice, accordò agli ebrei l’esenzione dei tributi nell’anno sabbatico e la libertà di vivere ovunque secondo le loro leggi e i loro usi. Questa libertà estesa a quei giovani che avessero avuto il desiderio di militare sotto le sue bandiere, fece sì che molti ebrei s’iscrissero nelle file del suo esercito. Oltre a queste concessioni, al suo ritorno dall’Egitto volendo compensare gli ebrei della inalterata fedeltà che gli serbarono regalò loro una parte del territorio Samaritano⁸⁸. ⁸⁸ A titolo di curiosità storica e per gli eccellenti ammaestramenti morali che racchiudono, non vogliamo privare i nostri lettori delle principali fra le dieci domande, che al dire dei nostri Dottori, Alessandro Magno indirizzò ai sapienti d’Oriente e le risposte date dai medesimi: e di un apologo sui viaggi e sulla straordinaria avidità di conquista che teneva agitato lo spirito di quel monarca, e per la quale non si peritava a gettare intiere nazioni in braccio agli orrori di guerre funestissime. Ecco le domande: «Misura forse maggiore distanza l’Oriente dall’occidente o il cielo dalla terra?» I pareri furono discordi: chi opinava la distanza essere pari e chi la voleva maggiore dall’Oriente all’Occidente. «Nella creazione del mondo quale delle due cose ebbe la precedenza tra il cielo e la terra?».—«Il cielo».—«Fu creata prima la luce o l’oscurità?». Questa interrogazione non ebbe una risposta sicura. Ma perchè obiettarono altri sapienti non gli si rispose «l’oscurità», poichè effettivamente risulta dal sacro libro che essa dominava l’abisso? A questa giusta osservazione venne risposto, che temendosi per parte di quel monarca altre interrogazioni insolubili sull’eternità di Dio e sulla fine del mondo, si preferì di interromperne il corso prendendo a pretesto l’insufficiente capacità di poter soddisfarne il desiderio». Qual uomo, ridomandò egli, puossi chiamare veramente sapiente?—«Il preveggente»—Quale veramente forte?—«Quello che sa vincere le proprie passioni»—Quale veramente ricco?—«Quello che è contento del proprio stato». Ed ecco ora l’apologo: Alessandro seguendo la sua insaziabile bramosia di grandezze e di regni, manifestò agli stessi sapienti il disegno di attraversare i monti delle tenebre, e chiese loro consiglio sui mezzi da impiegarsi per riuscirvi. Ottenutili e attraversati quegli orridi monti, giunse fino agli estremi confini dell’Asia, e si trovò presso il paese delle Amazzoni, ove le donne erano preposte al Governo, compievano gli uffizi guerreschi e combattevano invece degli uomini. Queste gli mandarono un’ambasciata di parecchie loro compagne, che gli tennero il seguente libero discorso: «Sire! Se mediti di moverci guerra, tu tenti una folle impresa. Se vinci, quale gloria d’avere vinto delle donne? Se sei vinto, quale disonore d’essere vinto da donne?» Alessandro persuaso da tale giudizioso discorso abbandonò l’impresa, e dopo d’avere fatto incidere sovra un sasso queste parole: «Io Alessandro, fin qui stolto e vano, appresi senno dalle donne»; volse la sua marcia verso un paese dell’Africa. Il re di quello stato conscio della propria debolezza e della potenza di Alessandro, gli aperse la città e la reggia e lo invitò a pranzo. Tutto nella mensa era oro: pane, pietanze, frutti tutto era d’oro. Alessandro altamente stupito rivolgendosi al suo ospite gli chiese: «Che mangiate oro nel vostro paese?»—«Posso io credere, rispose esso, che tu mova così lontano per nutrirti, come gli altri uomini, dei prodotti del campo? Forsechè fanno essi difetto nel tuo paese? Io m’immaginai che tu volessi oro, e ti presentai dell’oro». Ritornato in Asia, Alessandro camminava un giorno per lo mezzo di sterili deserti e d’inculti terreni, e capitò alfine presso un ruscelletto le cui acque scorrevano con un mormorio così dolce e tranquillo, che parevano invitare il passeggiero a sedersi sulle rive onde godervi riposo e pace. Alessandro aderì a questo tacito invito, si sedette, bevve di quell’acqua che trovò di un sapore delizioso, fece tuffare in essa alcuni pesci salati di cui era provvisto, e sentì che mandavano una fragranza soave. Fortemente maravigliato, gli balenò in mente il desiderio di cercare il paese fortunato da cui quel ruscello traeva la sorgente. A quell’uomo singolare bastava gli si suscitasse un desiderio nell’animo, per volerlo immediatamente compiuto. Risalendo a ritroso dell’acqua giunse alla porta del Paradiso. Picchiò, ma gli venne negato l’accesso. Alessandro ripigliò colla sovrana alterigia del suo focoso carattere: «Apritemi, ch’io sono Alessandro il Grande conquistatore dell’Asia»—«No, gli fu risposto, questa è la porta del Signore; e qui non possono entrare che i soli giusti che seppero dominare le loro proprie passioni». Alessandro impiegò preghiere e minacce per esservi ammesso; ma accorgendosi che tutto era invano, così parlò al guardiano del Paradiso: «Dammi alcuna cosa che mostri al mondo com’io son venuto colà, ove nessun mortale giunse prima di me». Una mano invisibile gettò allora disopra l’alta muraglia un piccolo involto, che venne a cadere ai piedi di Alessandro. Questi lo raccolse con avidità, e tornò frettolosamente alla sua tenda. Ma quale non fu il suo stupore, allorchè aperto l’involto, vi trovò racchiuso un occhio di morto. Furibondo lo gettò a terra. Ma un suo savio consigliere così gli favellò: «Gran re! Non disprezzare questo dono, perchè se tu lo libri coll’oro e coll’argento vi troverai in esso qualità straordinarie». Alessandro ordinò di provare immantinenti. Si recò una bilancia; la reliquia fu posta in un guscio, l’oro nell’altro; e con grande meraviglia di tutti per quanto oro vi si mettesse, l’occhio traboccava sempre. «Non v’è dunque contrappeso che valga a rimettere l’equilibrio, esclamò Alessandro?» Altro che! rispose il savio, voi vedrete che basta assai poca cosa»: e raccolto un tantino di terra ne coperse l’occhio, che subito si sollevò nel suo bacino. «Se il puoi, spiegami immantinenti questo fenomeno, gridò Alessandro»—«Eccomi a soddisfarti, rispose il savio vecchio. Quest’occhio rappresenta la cupidigia insaziabile del cuore umano. Finchè quell’occhio sta aperto non v’è nè oro, nè argento, nè ricchezza che basti a soddisfarlo. Ma chiuso e coperto di terra, allora si fa palese la vanità dei suoi ambiziosi progetti e dei suoi sconfinati desiderii; e dei grandi della terra non avanza che la memoria del bene o del male che fecero ai popoli confidati al loro governo. Ma come si saprà dalla Storia Greca, Alessandro non ebbe il tempo di assodare le sue conquiste nei suoi figliuoli, e dopo la sua morte il suo impero fu diviso fra i suoi più illustri generali. Tolomeo figliuolo di Lago s’impadronì dell’Egitto e vi fondò la dinastia dei Tolomei, mentre che Seleuco Nicàtore ne fondò un’altra nella Siria. Queste due potenze furono quasi sempre in guerra fra di loro; e la Palestina posta nel mezzo e palleggiata più volte dall’uno all’altro dominio ebbe molto a soffrire, poichè il continuo succedersi di padroni, il cangiamento di governatori e di pontefici tutti egualmente assetati d’oro, dovevano fruttare contestazioni tra i cittadini, violenze e tumulti. L’esacerbazione degli ebrei trovò un’occasione a sfogarsi. Antioco Epifane aveva portato la guerra in Egitto contro Tolomeo Filomètore, che vinse e condusse prigione; ma prima che arrivassero queste notizie si era invece diffusa la voce che Antioco stesso era rimasto nonchè vinto ma pure ucciso: onde i Gerosolomitani ne fecero grandi feste congratulandosi di essere finalmente liberati di un infesto tiranno. Antioco informato di questi avvenimenti, passò prestamente coll’esercito vittorioso in Giudea, assediò e prese di assalto Gerusalemme, e l’abbandonò al sacco e al furore dei soldati. In tre giorni furono massacrate ottantamila persone d’ogni età e sesso ed altrettante ne furono vendute. Quell’iniquo profanò il Tempio, vi fece sacrificare dei porci; ne portò via il candeliere, l’altare, la mensa, lo spogliò di ogni cosa preziosa, e ritornando in Antiochia carico di un immenso bottino lasciò per governatore della Giudea certo Filippo uomo crudo e severo. Questo Antioco che si faceva chiamare Epífane o l’illustre e che il popolo per ischerzo chiamava Epímane o il pazzo, era veramente più degno di questo che del primo titolo. Come capitano, aveva rialzato il credito e la potenza della Monarchia avvilita dopo le sconfitte che i Romani diedero a suo padre, ma nel resto era un assai cattivo principe. Di volgari sentimenti, praticava colla plebe e si mischiava con essa; era stravagante, dissipatore, vizioso, prepotente, feroce e più tiranno che re. Abbenchè padrone di un vasto e ricco impero, era in bisogno perpetuo di danaro; e per arraffarne tutti i mezzi erano buoni per lui, anco i più impopolari e i più sacrileghi. Quindi gli Ebrei incorsi nello sdegno ornai inespiabile di un tale uomo, non potevano più aspettarsi che sciagure. Il loro spirito eccezionale, la singolarità dei loro costumi, la loro vita frugale ed industriosa e con essa e per essa la loro prosperità e le loro ricchezze, avevano concitato contro di essi l’odio e la gelosia di tutte le nazioni idolatre, che dopo le conquiste di Alessandro si erano stanziate nella Palestina e nelle regioni confinanti; e queste erano altrettanti mantici che soffiavano nelle orecchie di un re già malamente disposto. Erano appena passati due anni dagli avvenimenti che abbiamo raccontato di sopra, quando Antioco obbligato dai Romani a sgomberare l’Egitto già fatto sua preda, si rivolse a sfogare i suoi rancori contro Gerusalemme. Forse egli temeva che gli Ebrei non si appigliassero al partito di darsi anch’essi ai Romani, come aveva fatto Tolomeo Filomètore; e per impedire questa sospettata diserzione, che lo avrebbe posto a gran pericolo, mandò quietamente a Gerusalemme Apollonio col funereo ordine di sterminare quella città. Apollonio vi entrò come amico, ed aspettato un giorno di sabbato quando tutti gli ebrei erano raccolti nelle sinagoghe, li fece assalire all’improvviso. Tutti gli uomini che non poterono fuggire furono massacrati, le donne e i fanciulli ridotti in servitù; e dopo il saccheggio la città fu abbandonata al ferro e al fuoco di una turba briaca di oro e di sangue, che nulla conservava di umano, forse neppure il volto, deturpato da selvaggie passioni. Una terribile cittadella detta l’Acra fu allora innalzata allo scopo di dominare il Tempio e munita di grosso presidio per impedire che i pochi superstiti vi accedessero, motivo per cui Gerusalemme rimase affatto deserta. E quasi la feroce libidine di vendetta di quel mostro non si tenesse ancora soddisfatta, egli mandò nella Giudea un delegato, certo Ateneo Antiocheno, per fare eseguire una nuova sua legge per la quale si obbligavano tutti gli ebrei ad abbracciare la religione dei Greci. Con lui furono inviati missionari per predicare la nuova fede, e per convertire i non credenti: e un prete greco fu pure mandato a Gerusalemme a profanare il Tempio del vero Iddio e a introdurvi il culto di Giove Olimpico. In conseguenza di che furono proibiti sotto pena di estremo supplizio pei contravventori la circoncisione, l’astinenza dei cibi vietati, l’osservanza del sabbato e lo studio religioso. Il delegato regio disertò le sinagoghe, fece ardere le sacre scritture, e la statua del padre dei Numi Omerici fu piantata ove era l’altare degli olocausti. Cessarono i sacrifizi, i sacerdoti furono sterminati o dispersi, e se qualche pio ebbe tuttavia l’occulto coraggio di obbedire più alla sua coscienza che alla snaturata deformità della nuova legge non tardò guari a scontarne il fio. Un vecchio nonagenario, i cui residui di vita si poteano appena numerare per giorni o per ore, fu trascinato a crudele supplizio; due bambini nati da pochi giorni e circoncisi furono strangolati, i poveri cadaveri vennero appesi al collo delle loro infelici genitrici che con sì atroce apparato furono fatte passeggiare per la città, indi precipitate dall’alto; e furono altresì uccisi spietatamente quanti avevano prestato mano a quel religioso rito⁸⁹. ⁸⁹ Fu pure nel corso della persecuzione di questo tiranno, tanto tristo quanto dissennato, che successe quel pietosissimo caso di sette fratelli che subirono il martirio, piuttosto che cedere alla intimazione di cibarsi di carne porcina o di fare atto di ossequio alle divinità greche. Ecco come viene esposto nel Talmud questo fatto, che per una strana confusione di data, venne registrato tra i luttuosi avvenimenti successi all’epoca della distruzione del secondo Tempio. Condotti questi sette fratelli al cospetto dell’Imperatore questi invitò il primo a fare atto di adorazione al simulacro del suo idolo. Il fanciullo rispose: Signore! Mi è impossibile ubbidirti, inquantochè sta scritto nel sacro libro della nostra religione: «lo sono l’Eterno Iddio tuo». Fu consegnato al carnefice e morì fra i tormenti. Venne introdotto il secondo e all’identico invito fatto al primo rispose: Sta scritto nella legge, «non sarà a te altro Dio al mio cospetto» e anche questo incontrò la sorte del fratello. Il terzo rifiutò di obbedire appoggiandosi al divino comando di «non inchinarsi a Dio straniero»; il quarto riferendosi alla minaccia «di scomunica» comminata «a colui che sacrifica a Dêi stranieri»; il quinto col proclamare l’unità di Dio espressa nel primo versetto del _Schemah_; il sesto col ripetere un versetto del Pentateuco concepito in questi termini: «E conoscerai oggi e serberai in cuore che l’Eterno è (l’unico) Iddio nel cielo disopra e nella terra dissotto e non ve n’ha altri» e come i due primi anche questi spirarono fra atroci tormenti. Venne la volta del settimo, la cui gioventù e bellezza disponendo in suo favore lo stesso tiranno, questi gli propose di gettare in terra il proprio anello ch’egli dovrebbe inchinarsi a raccogliere, lasciando supporre agli astanti un attestato di omaggio verso l’idolo la cui immagine stava scolpita sull’anello. Ma l’eroico fanciullo rifiutò con disdegno, e dichiarò attenersi strettamente vincolato dal patto conchiuso tra Israele e Dio e pel quale il primo prometteva di mantenersi fedele alla legge ricevuta, e il secondo di considerare perpetuamente Israele per suo popolo peculiare. Intanto che anch’esso era condotto a morte così pregò la povera madre; «Lasciate ch’io abbracci ancora una volta il mio povero figliuolo». Il figliuolo le si getta nelle braccia, e questa lo stringe teneramente al seno e lo bacia, e gli dice: «figliuoli miei! andate in pace, e dite al Signore che il patriarca Abramo erasi disposto a sacrificargli un solo figlio, ed io ne sacrificai sette per la gloria del suo nome». E in così dire scoppiandolesi il cuore per la insopportabile ambascia esalò l’eroica e desolata sua anima. Con queste persecuzioni delle quali la storia degli ebrei non ne offriva esempio, l’insensato Antioco credeva di pervenire a distruggere la nazionalità Giudaica e a fare prevalere le ceremonie e le superstizioni pagane sul Culto antico e sulle sublimi dottrine di Mosè. Ma quando mai l’ignoranza potè avere una supremazia durevole sulla sapienza, le tenebre sulla luce, la menzogna sulla verità, il vizio e la corruzione sulla virtù e la purezza? La Provvidenza riducendo gli ebrei a tali terribili estremità volle forse dimostrare loro le funeste conseguenze della loro religiosa rilassatezza; e umiliandoli in un modo così basso fare rivivere in loro il sentimento nazionale che nella maggior parte del popolo s’era, se non intieramente estinto, almeno assai affievolito pel corso di quattro secoli di dominazione straniera. I partigiani zelanti del Culto nazionale soffrivano in silenzio non osando sollevarsi contro la forza imponente del tiranno; ma le eccessive crudeltà di Antioco e l’eroica devozione di una famiglia di sacerdoti li fecero sortire dal loro ritiro, e li incoraggiarono a prendere le armi per vendicare la loro religione e la loro nazionalità, e farle trionfare oppure morire della morte dei prodi. E questa volta la fortuna finì per arridere alla ferrea costanza, ai nobili sforzi di quegli uomini eroici capitanati dai figli di certo Matatia che abitava in un borgo chiamato Modin, che trovavasi sulla strada che da Ioppe mette a Gerusalemme. Questo Matatia veggendo un Ebreo che sedotto o costretto da un ufficiale del Re sacrificava agli idoli, arse di sdegno e zelante per la legge, come Finees, si gettò sopra di lui lo uccise e con esso uccise anche l’ufficiale del Re. Questa fu la scintilla che fece scoppiare la rivolta. Dopo questo fatto Matatia accorgendosi che la sua vita era in pericolo, gridò per la città chiamando quanti altri zelanti vollero seguirlo, e con loro e i suoi proprii figliuoli si ritirò nelle montagne. Matatia era sacerdote della classe dì Ieoiarib e dal nome di Asmoneo, proavo di lui, anco i suoi discendenti presero il nome di Asmonei. Matatia aveva cinque figli Giovanni, Simeone, Giuda, Eleazaro e Ionatan, i quali, abbenchè giovanetti, erano tutti egualmente accesi dall’entusiasmo del padre, e del pari ed anche più di lui intraprendenti, bellicosi e terribili. Ora questo coraggioso sacerdote, diventato capo dell’opposizione si vide ben presto circondato da altri zelanti. In quello stesso tempo, avvenne che un migliaio di altri Ebrei fra uomini e donne e fanciulli, traendo seco il loro bestiame si erano ritirati nei deserti e procacciaronsi un asilo nelle spelonche. Ma inseguiti dai soldati del Re, ed attaccati un giorno di sabbato, essi, per soverchia fedeltà alla religione, ricusando di difendersi in quel sacro giorno di riposo si lasciarono tutti quanti ammazzare. Matatia avendo udita questa cosa, fece sentire ai suoi seguaci che se avessero voluto comportarsi egualmente sarebbero tutti periti come senza difesa così senza utilità; onde a voti unanimi fu deciso che si potesse fare la guerra anco in quel giorno semprecchè i nemici fossero i primi ad attaccare. Nel seguito i Rabbini decisero che in sabbato fosse lecita anche la guerra offensiva, massime nella espugnazione di una città quando fosse stata assediato almeno tre giorni prima. Tuttavia questa savissima decisione non fu ammessa generalmente, e più altre volte gli Ebrei preferirono di lasciarsi ammazzare piuttosto che di difendersi in sabbato. Così provveduto alla propria sicurezza e difesa, e chiamati intorno a sè quanti sentivano zelo per la legge e che erano risoluti di vincere o di morire per lei; Matatia cominciò ad assalire i villaggi e i luoghi meno muniti, massacrando quanti si opponevano, atterrando le are profane, e circoncidendo i fanciulli ancora incirconcisi. Ma la sua carriera militare fu breve. Oppresso meno dagli anni che dai dispiaceri, sentendosi vicino a morire, elesse egli medesimo per suo successore nel comando Giuda, suo terzogenito, che di non molto oltrepassava i vent’anni, ma che stimava ed era più degli altri valoroso e forte; e raccomandò che per le cose ove fosse stata necessaria la prudenza dei consigli ubbidissero tutti a Simeone, il secondogenito. Infine esortò caldamente i suoi seguaci a resistere contro l’empietà dei figliuoli della superbia, e a combattere per la causa di Dio e del suo Tempio. Questo suo testamento dettato da un senno maturo e da una profonda cognizione del merito rispettivo dei suoi figli, ed eseguito da essi con rigorosa fedeltà; valse ai medesimi la conquista di un regno ed una fama immortale. Così morì Matatia e fu sepolto in Modin nella tomba dei suoi padri. Giuda, armato come un gigante e terribile come un leone, all’entusiasmo religioso che lo animava, univa l’attività e il vigore di una gioventù bollente e robusta, e un coraggio sterminato, ma non cieco nè imprudente. Le rapide sue vittorie e le sanguinose battaglie che diede consecutivamente ai nemici, gli fecero dare dai contemporanei il sopranome di Macabeo _macabì_ (martello). All’ardimento di Giuda era troppo poca cosa il limitarsi a scorribandare le campagne o sui monti, o ad attaccare luoghi remoti od indifesi; la sua operosità e la generosa sua ambizione volevano un campo più vasto. Si diede quindi a correre tutto il paese; con sorprese notturne, con rapidità straordinaria assalì città e castella, le prese, le fortificò e le fece altrettanti punti di appoggio alle sue operazioni. Eccitò lo zelo e il fanatismo dei suoi compatrioti, ingrossò il numero dei suoi guerrieri. Affrontò coraggiosamente l’un dopo l’altro due generali di Antioco: li battè, li ruppe, e li uccise; fece un gran macello del loro esercito, e sparse ovunque il terrore del suo nome. Antioco si avvide ben tosto che quello non era un movimento da disprezzarsi, avrebbe voluto reprimerlo in sul nascere, ma la mancanza di danaro, un’insurrezione nell’Armenia e la fede vacillante dei Persiani lo obbligarono a ritardare ed a dividere il suo esercito. Vennero quindi spediti contro Giuda i generali Nicànore e Gorgia con quaranta mila fanti e tre mila cavalli; e seguendo il costume di quei tempi un gran numero di mercanti di schiavi accodavano l’esercito onde comperare i prigionieri. I generali erano così certi della vittoria, che ne chiamarono da tutte le parti della Fenicia, invitandoli a prender seco molta pecunia, essendo loro fermo proposito di sterminare affatto gli Ebrei, e di vendere all’incanto quanti fossero risparmiati dalla spada. Giuda non aveva che poche migliaia di soldati senza loriche, senza elmi, senza spade ed armati ciascuno di quello che potè avere; ma erano uomini d’animo deliberato di vincere o di morire per Dio e per la patria, e guidati da un capitano tanto valente quanto accorto. Questi convocò le sue schiere in Masfa di rimpetto a Gerusalemme: ivi le purificò, le santificò coi riti della religione, le esortò con vivi ed efficaci discorsi onde infiammarne lo zelo, e in ossequio al precetto Mosaico, rimandò i novelli sposi, i timidi e quelli che avessero di recente piantato una vigna o fabbricato una casa; e coi pochi prodi che gli rimanevano marciò contro il nemico. I due eserciti si scontrarono in Emmaus nei dintorni di Gerusalemme. Giuda con astute manovre evitò le mosse del nemico, lo ingannò, lo divise; assalì di sorpresa il corpo più debole, lo sbaragliò; e l’altro corpo di Siriaci che aveva fatto un giro per cogliere gli Ebrei alle spalle e serrarli in mezzo, mirando dalle colline la sconfitta dei compagni, il disordine del campo, la fuga di tutti e non sapendo a quale causa attribuire un così improvviso avvenimento; si smarrirono anch’essi d’animo, volsero le spalle e si dissiparono. Questo successo aggiunto alla ricca preda che fecero gli Ebrei, accrebbe il loro coraggio e lo infuse anche ad altri correligionari, che vennero ad associarsi. Un secondo corpo di Siriaci comandato da Timoteo e da Bacchide subì la stessa sorte; nè più fortunato fu Lisia che con 60,000 fanti e 5000 cavalli fu sconfitto a Betsura fortezza che era l’antimurale di Gerusalemme ai suoi confini coll’Idumea. A coronare queste prosperità giunse la notizia della morte d’Antioco Epifane, che cadendo da un cocchio si piagò il corpo e morì per atroci dolori, rammaricando, secondo Giuseppe, i mali fatti soffrire agli Ebrei e pei quali Dio ne prendeva giusta vendetta, e lasciando il regno ad un altro Antioco suo figlio, fanciullo di nove anni, sopranominato poscia Eupatore. Così la Giudea fu sgomberata dai nemici. Tutte le città si erano date a Giuda, ed ai Siro-Macedoni non restava che la cittadella di Gerusalemme. Allora Giuda entrò in questa città e trovò il Tempio ingombro da cento profanazioni, l’altare diroccato, le porte distrutte col fuoco, le erbe e i virgulti cresciuti nel luogo santo. A questa, vista gli Ebrei si lacerarono le vesti e fecero gran cordoglio. Giuda purificò il Tempio, rifece a nuovo l’altare dei profumi, il candeliere, la tavola, il velo ed altri sacri arredi o distrutti o rapiti. Ripristinò i sacrifizi e fece la dedica del santuario, il giorno 25 di questo nono mese tre anni e mezzo dopo che era stato contaminato da Apollonio. Una festa nazionale e religiosa, venne instituita nella data sopradetta per immortalare ai posteri la memoria di questo avvenimento. Per la pratica si sa da tutti indubbiamente che questa festa, detta _hhanuchà_ (Encenie o inaugurazione), viene solennizzata coll’accensione di lumi nelle case per otto sere consecutive e con canti di allegria. Aggiungeremo poche parole per registrare come la indipendenza intiera degli Ebrei da qualunque soggezione straniera, venne conseguita da Simone il secondogenito di Matatia 400 anni dopo il ritorno da Babilonia, e che fu da quel momento che gli Ebrei cominciarono a datare i loro atti pubblici e a coniare monete. Archeologia. _Pesi e Misure._ Il presente paragrafo avrebbe dovuto trovare il suo posto appropriato nel mese scorso, quando tenemmo parola delle arti e dei mestieri, perchè in realtà trovavasi attinente a tale articolo: ma lo ritenemmo pensatamente per questo mese, per la proporzionata distribuzione delle diverse nozioni di Archeologia biblica, che ci proponemmo di trattare nel corso di questo nostro lavoro. La più antica maniera di commerciare dovette certamente consistere in un semplice scambio d’oggetti. Uno dava altrui quell’oggetto che per sè era inutile o superfluo, per riceverne in cambio quello che eragli necessario o tornavagli gradito. Ma siccome doveva spesso accadere che presso l’uno non si trovasse quello di cui l’altro difettava, ed in mille occasioni poi non si potesse dare un valore precisamente eguale a quella tal merce di cui si voleva fare procaccio; per facilitare le permute si dovettero ben presto introdurre nel commercio materie, le quali per via d’un valore arbitrario, ma convenuto, potessero rappresentare tutte le specie di mercanzie, e così valessero di prezzo comune a tutti gli effetti posti in commercio. Ora fra queste materie i metalli dovettero essere preferiti, sia perchè se ne trovano in ogni clima, e sia perchè la loro durezza e solidità li preservano da molte alterazioni. Da quanto rileviamo dai nostri sacri libri siamo condotti a conghietturare che in principio questi pezzi di metallo si _pesavano_⁹⁰ e che non fu che più tardi che essi s’improntarono di una figura pubblica per indicarne il valore e assicurarne il peso e la lega. ⁹⁰ Sono moltissimi i passi biblici che ci autorizzano a questa opinione: ne rapporteremo alcuni. Abramo essendosi rifiutato di accettare la cortese offerta fattagli da Ebron l’Iteo di concedergli gratuitamente la grotta di Macpelà per seppellire la propria moglie, glie ne _pesò_ il prezzo convenuto in quattrocento sicli d’argento correnti a mercanti. I fratelli di Giuseppe riportando in Egitto il danaro ritrovato nell’imboccatura dei loro sacchi, dichiararono al maestro di casa di averlo riportato _dello stesso peso_ di quello sborsato prima. Geremia comprando un campo da Hhanamél suo zio gliene sborsò il prezzo di sette sicli e dieci monete d’argento in _peso_, e finalmente troviamo nel profeta Amos che volendo far palese la malafede di disonesti mercanti mette in loro bocca le seguenti parole: «Vendiamo con false misure, e _pesiamo_ con false bilancie l’argento che ci viene dato». Per l’esattezza storica non possiamo però esimerci dal fare riflettere che nella Bibbia troviamo altresì la parola _pesare_ adoperata all’epoca dei Persiani, epoca in cui senza dubbio tale parola doveva avere il senso di _pagare_ poichè si aveva sicuramente l’argento coniato. Bœkh nelle sue ricerche metrologiche dà per istorico ciò che racconta Erodoto VI, 127, che cioè Fidone tiranno d’Argo abbia pel primo fatto battere moneta in Grecia l’anno 750, avanti l’êra volgare, dietro un sistema di pesi e di misure imparato dai Fenicii, ai quali parecchi autori Greci fanno risalire l’invenzione delle monete, quantunque lo stesso Erodoto ne attribuisca il merito ai Lidii. Ora gli Ebrei che avevano così frequenti relazioni coi Fenicii non avranno forse creduto ancor più che utile, indispensabile l’avere anch’essi moneta coniata? Questa opinione è sostenuta da Bertheau nella 3ª edizione della sua Archeologia d’accordo con parecchi altri autori. Non essendo state rinvenute monete ebree coniate, antecedenti al tempo dei Macabei, dobbiamo pertanto ammettere che il primo a coniare moneta fra loro sia stato Simone Macabeo a ciò autorizzato da Antioco Sidete. Di queste monete ne esistono ancora parecchie⁹¹. In certune d’esse si trovano impresse figure di palme, di pigne, di spighe, di covoni di grano; in certe altre si trova una foglia di vite, un grappolo d’uva, un fiore o un vaso di quelli consacrati agli usi del Tempio. Intorno alle figure di parecchie d’esse si leggono le leggende di _Séchel Israél_ (Siclo d’Israele), _Ierusalaim akedossà_ (Gerusalemme la santa). ⁹¹ Nella Biblioteca reale di Parigi si trovano 6 specie di tali monete, tre d’argento e tre di rame. Le prime tre d’argento sono le seguenti: 1º Un siclo che porta impresso un vaso con sopra un’_Alef_ (prima lettera dell’alfabeto) adoperata certo come cifra significante 1º anno della liberazione—2º Un mezzo siclo che porta un vaso eguale a quello del siclo con sopra le iniziali Anno 2º—3º Una medaglia colla leggenda «_lehherud ierusaláim_» (per la libertà di Gerusalemme) dall’uno lato, e dall’altro lato la parola «_Simeone_»—4º Una moneta di rame colla iscrizione: «Simeone principe di Israele» e intorno ad un gambo di balsamo che sta in una delle sue faccio la leggenda: «Anno primo della liberazione d’Israele»—5º Altra moneta di rame colle stesse iscrizioni.—6º Finalmente una terza moneta di rame colla leggenda: «Anno quarto... metà»—«della liberazione di Sionne». Per avere un’idea se non esatta almeno approssimativa del valore dei pesi e delle misure degli antichi Ebrei, converrebbe confrontarli con quegli dei Greci e dei Romani che successivamente dominarono nell’Oriente; poscia ridurli ai pesi e alle misure nostrane, tenendo calcolo delle differenze subite dai valori. Questo studio sarebbe troppo lungo e forse riescirebbe noioso pel maggior numero dei nostri lettori, perciò noi ci limiteremo ad indicarne il solo nome con a fianco il valore approssimativo in misure metriche, valendoci dei quadri combinati dal celebre Munch già da noi citato. Le misure di lunghezza dette _midóth_ sono le seguenti quattro: 1. _Esbán_ (dito o pollice) che misurava la lunghezza del dito mignolo e vale m. 0,023. 2. _Tófahh_ o _téfahh_ valutato a m. 0,092. 3. _Zéretk_ che è lo spazio compreso tra il pollice e l’annulare stendendo le dita il più che si può e vale m. 0,277. 4. _Ammà_ o _cubito_ che venne definito per l’intervallo tra il vertice del gomito e l’estremità del dito medio e vale m. 0,555. Alle misure di lunghezza appartengono pure quelle che dinotano le distanze da un luogo ad un altro o le itinerarie. Due sole misure di questa specie troviamo menzionate nella Bibbia. La prima è quella detta _chivrád-érez_ (spazio del paese) che forse misurava tre miglia piemontesi; la seconda è quella detta _dérech-ióm_ ovvero sia il cammino d’un giorno che può fare un uomo a piedi. Le misure di capacità servivano indifferentemente tanto pei solidi quanto per le materie liquide, solamente che nel primo caso venivano designate col nome particolare di _miskál_, e nel secondo caso con quello di _messuród_. Le misure che servivano per le materie liquide erano le seguenti: 1. Il _bath_ che secondo i Rabbini era della capacità di 432 uova di gallina e calcolasi a l. 38,843. 2. Il _log_ che poteva capire 6 uova ossia l. 0,539. 3. Il _nébel_ misura grande che valeva tre _bath_. 4. L’_hin_ sesta parte del _bath_ l. 6,707. 5. Il _mezzohin_. 6. Il _bessà_ dei Rabbini la capacità d’un uovo o il sesto del _log_. Quelle che servivano per le materie secche erano le seguenti: 1. L’_efà_ che aveva la stessa capacità del _bath_. 2. Il _ómer_ o _issarón_ che era la decima parte dell’_efà_. 3. Lo _seà_ che valeva il terzo dell’_efà_. 4. Il _cab_ piccola misura che era la sesta parte del _seà_. 5. _hhómer_ o _cor_ che conteneva dieci _efà_. 6. Il _léthec_ che conteneva la metà del precedente. Il peso detto _miskál_, si determinava come ora da noi col mezzo di bilancie a coppe dette _mozenáim_, oppure d’una bilancia a braccio detta _péless_. Pare che i contrappesi non fossero altro che pietre, che i mercanti portavano entro un taschetto attaccato alla cintura, come si usa tuttavia in Oriente. Ed è così che si spiegano le raccomandazioni sulla lealtà di commercio che fa Mosè in più luoghi colle parole: «Non sarà a te nella tua _tasca_ pietra e pietra _éven vaáven_» (cioè) grande (per comperare) e piccola (per vendere). Le misure _monetarie_ erano le seguenti, alle quali noi mettiamo a fianco il peso in grani (di grano), che erano la loro unità. Relativamente al valore di ciascuna di esse si avrà facilmente prendendo per base il _sékel_ che valeva L. 3,10. 1. _Chicár_ (talento) pesava 822000 grani. 2. _Manè_ che pesava 16440 grani. 3. Lo _sékel_ il cui peso era di 274 grani. 4. Il _bèca_ e pesava 137 grani. 5. La _gherà_ che pesava g. 13,7. Giacobbe arrivato a Salem la città di Sichem, al suo ritorno dalla Mesopotamia, comprò dallo stesso principe una pezza di campo per cento _kessità_. I commentatori non si accordano nell’interpretazione di questa parola, poichè taluni vogliono che si trattasse di monete su cui fosse improntata una pecora, ed altri credono invece che si trattasse veramente di agnelli o di pecore, dati da Giacobbe in cambio del terreno. ———— TEVED (_Dicembre-Gennaio_). L’unico avvenimento che si presenta al nostro esame in questo mese è l’infausta ricorrenza che diede origine al digiuno del giorno decimo. La caduta del regno d’Israele e l’esilio della grande maggioranza del popolo ebreo nelle lontane provincie dell’Assiria, non fece rinsavire il regno di Giuda perchè i suoi Re, pochissimi eccettuati, continuarono nei loro traviamenti. Ezechia uno dei suoi ultimi Re può annoverarsi fra i più virtuosi, perchè lo storico sacro, a massimo suo elogio, lo paragonò a Davide. Mosso dal desiderio di indipendenza e affidato alla protezione divina, si ribellò al Re d’Assiria di cui era tributario; e questi raccolto un potente esercito e postolo agli ordini di tre capitani Tartan, Rav-Sariss e Rav-Sakè (quest’ultimo d’origine ebrea secondo certi commentatori) lo spedì ad investire Gerusalemme. L’oste formidabile giunse presso le mura di Gerusalemme, ove Rav-Sakè sperando di farsi aprire le porte dal popolo tormentato dalla fame e di entrare nella città senza colpo ferire, prese ad arringarlo per fargli intendere quanto sarebbe stato meglio per lui darsi in braccio al Re d’Assiria, contro il quale lottarono invano tante altre nazioni. Ezechia atterrito dall’imminente pericolo si rivolse a Dio, il quale per mezzo del profeta Isaia lo assicurò che i soldati del Re Assiro non avrebbero calpestato la polvere della santa Città; inquantocchè «quell’orgoglioso monarca briaco di sua potenza avesse osato di alzare gli occhi sul forte abitatore del cielo, e per mezzo dei suoi servi avesse scagliato ingiuriose parole contro il forte d’Israele». In quella stessa notte Iddio mandò il suo angelo distruttore (un’epidemia) che spense nell’accampamento Assiro cento ottantacinque mila uomini, per cui i rimasti s’affrettarono a togliere l’assedio e a ritornarsene alla loro patria. Or bene! figlio e successore di quest’ottimo monarca fu Manasse il più tristo dei Re di Giuda, sia perchè sopravanzò tutti i suoi predecessori nelle abbominevoli pratiche dell’idolatria, e sia perchè dimostrò una crudeltà d’animo, una sete di sangue affatto insolita nei regnanti ebrei. E lo storico sacro ci tramandò il suo nome con un marchio indelebile d’infamia notando «che riempì Gerusalemme di sangue da una estremità all’altra». A costui successe Amon che non volle mostrarsi figlio degenere di un tale genitore. Questi due ribaldi scettrati aprirono tali piaghe nel regno di Giuda, che non fu possibile il rimarginarle neanche al virtuoso e religiosissimo Giosia, figlio del secondo e del quale lo storico sacro attesta: «che non fu prima nè sorse dopo, un Re osservatore cotanto fedele delle prescrizioni mosaiche». Non passarono che pochi anni dopo la morte di quest’uomo tanto più meritevole di lodi, quanto più seppe staccarsi dagli esempi paterni e lottare indubbiamente contro una corrente di corruzione per ricondurre il popolo, fors’anco suo malgrado, alla purezza del culto antico; che Nabucco il quale aveva esteso il suo dominio dal torrente d’Egitto fino al fiume Perath venne ad assediare Gerusalemme in questo stesso decimo mese ai dieci del mese. Dopo circa due anni di assedio nel giorno nove del quinto mese (Ab), la città cadde in potere dei Caldei e il popolo d’Israele fu totalmente allontanato dal suo patrio suolo. Terminando con questo l’annua rassegna dei digiuni, ci sia concesso di esprimere la speranza che Dio voglia in un avvenire non lontano, adempire la promessa ch’egli fece al popolo d’Israele per bocca del profeta Zaccaria colle seguenti parole: «Così disse il Dio Sabaóth: il digiuno del quarto mese (17. Tamuz), quello del quinto (9. Ab), quello del mese settimo (3. Ellul), e quello del decimo (del quale parlammo ora) saranno per la famiglia di Giuda giorni di giubilo, di allegria e di festa: amate però la verità e la pace»⁹². ⁹² Poichè ci si presenta l’opportunità rapportiamo la «teoria del digiuno» data dai nostri Dottori. «Un Dottore dice: chi fa digiuno volontario è un peccatore. La sacra legge impone un’espiazione al Nazareno perchè ha mancato contro sè stesso, giurando di astenersi dal vino. Se è peccatore chi tribola sè stesso con questa sola astinenza, è doppiamente peccatore chi si astiene dai doni celesti». Un altro Dottore dice: «non è peccatore, anzi è un uomo pio». «Il sapiente non deve fare digiuni volontarii, perchè toglie a sè la forza di lavorare per la gloria del nome divino». «Lo studioso che fa digiuno, possa il cane portargli via il suo pasto». «Nei pubblici digiuni, il più venerabile della comunità s’alza e dice: «Fratelli miei! non il digiunare, non il coprirsi di cilicio, valgono ad impetrare la grazia divina, ma la penitenza, ma le opere buone. Nel perdono concesso ai Niniviti, dice il profeta, Dio non fece caso dei loro digiuni e dei loro cilici, ma del loro pentimento». E poichè ci occorse di nominare questo profeta e che secondo noi certe verità non sono mai abbastanza ripetute, sentiamo a quali cause egli attribuisse la caduta di Gerusalemme ovverosia il compendio dei doveri principali che Dio impose all’uomo. «Ecco le cose, dice egli, che Dio faceva proclamare dai suoi profeti in Gerusalemme quando essa sedeva regina potente e gloriosa: amministrate una giustizia equa; abbiate l’un per l’altro trattamento di pietà e di misericordia; non maltrattate, non usate concussioni colla vedova, verso l’orfano, verso il forestiero e il mendico; non vengavi mai in mente il pensiero di desiderare l’altrui male». ARCHEOLOGIA Antichità Politiche. _Forma di Governo._ Dopo d’avere parlato nei mesi precedenti della società civile degli antichi Ebrei, tratteremo in questo mese e nei seguenti delle loro antichità politiche ovverosia della forma del loro governo, dei magistrati, dei re, e finalmente delle leggi penali e della loro applicazione. La sola ragione basta ad insegnare che il governo paterno fu primo d’ogni altro, posciachè la famiglia fu la primiera delle società. L’aumento delle famiglie non isciolse dapprincipio l’autorità di quegli che ne era il capo naturale; e alla morte del padre o in sua assenza il maggior dei figli potè mantenere una certa autorità sui minori, ma poco a poco questa dominazione dell’età e della esperienza dovette andare menomando di forza, ed alcune famiglie cominciarono a dichiararsi indipendenti. Tale stato di cose ingenerando anarchia e disordine fece presto palese la necessità di un capo comune senza pregiudizio all’autorità dei loro capi particolari. Ecco pertanto le autorità che dovettero costituire il primitivo governo dei popoli; e che quantunque fossero tutte indipendenti nei loro rispettivi uffizi, pure erano insieme collegate da un interesse generale. E questo sistema naturale di governo è quello appunto che noi scorgiamo funzionante presso gli Ebrei, sin da quando essi trovavansi in Egitto: poichè tutto ci lascia credere che quantunque essi fossero sotto la dipendenza di quei re, nullameno erano pure governati dai loro proprii capi. Le tribù, ch’erano in numero di dodici, secondo i nomi dei dodici figli di Giacobbe, pare che fossero divise in famiglie le quali avevano ciascuna il proprio _Zakén_ (anziano). A capo di ogni tribù vi era il _Nassi_ (principe) che avevano ai loro ordini i _Soterim_. Quando Dio incarica Mosè di presentarsi al re d’Egitto onde intimargli di lasciare partire Israele dal suo paese gli impone di «fare radunare gli _anziani_ di Israele e di manifestare loro ch’era giunto il tempo in cui Dio stava per adempire la promessa fatta ai loro patriarchi Abramo, Isacco e Giacobbe, cioè di trarlo da quella dura schiavitù e condurlo in un paese colante latte e miele». Mosè arrivato in Egitto comunica al fratello Aronne l’alta missione di cui fu incaricato, e uniformandosi agli ordini di Dio si affretta a fare radunare gli anziani, e accompagnato da questi e dal fratello si presenta a Faraone. E allorquando costui respinse sdegnosamente tale richiesta e furioso inveì contro gli Ebrei appellandoli pigri, e con una dissennatezza pari alla crudeltà ordinò ai suoi servi di aumentare la somma dei lavori di quei miseri schiavi e di esigerne l’esecuzione col massimo rigore; noi troviamo menzionati certi officiali ebrei sotto il titolo di _Soterim_⁹³ la cui autorità era sicuramente sanzionata dal Governo Egiziano, verso il quale erano personalmente responsabili dei carichi imposti alla colonia; perchè si fecero interpreti delle lagnanze del popolo presso il re stesso per tale rigore: e uscendo inesauditi dal suo cospetto e incontratisi con Mosè ed Aronne, rivolsero loro acerbe parole perchè la loro missione aveva sortito un effetto contrario a quello che avevano fatto sperare al popolo. ⁹³ Il vocabolo _soter_ deriva da una radice araba che indica _tracciare_, _scrivere_ e Michaelis presume che i _soterim_ fossero incaricati di tenere le tavole genealogiche e i registri degli officii e dei tributi a cui era chiamata a concorrere ciascuna famiglia. Quantunque noi non conosciamo precisamente le attribuzioni nè l’autorità degli anziani e dei _soterim_, dobbiamo credere che tali primitive instituzioni, che noi chiameremo patriarcali, presentassero molti inconvenienti trattandosi di applicarli ad una nazione numerosa e che si voleva unita e forte. Vediamo infatti che appena arriva Ietro suocero di Mosè all’accampamento ebraico, si inizia immediatamente una riforma. Da quanto si rileva Mosè solo giudicava allora il popolo, e Ietro trovando un tale sistema faticoso per Mosè e incomodo pel popolo che doveva attendere lungamente prima di essere giudicato, gli suggerisce di dividere il popolo in migliaia, poscia suddividere queste in centinaia e le centinaia in cinquantine e in decine. Uomini segnalati per dottrina e per probità, dovevano essere posti a capo di ciascuna di queste divisioni, incaricati di rendere giustizia al popolo e di consigliarlo nelle cose meno gravi; riserbando a sè e dopo lui al capo della repubblica, la decisione dei casi più difficili. E Mosè riconoscendo la sapienza di tale consiglio lo attuò immediatamente lasciando alla nazione stessa la nomina dei suoi capi. Noi non ci fermeremo ad esaminare quale titolo convenga meglio al governo instituito da Mosè: se cioè esso si debba definire per aristocratico, democratico o teocratico, perchè ci impegnerebbe in una quistione lunga, difficile e niente adattata all’indole del nostro lavoro. Infatti quale importanza può avere il nome? Badiamo piuttosto agli elementi di cui si componeva, e del modo pratico con cui funzionava e se questo esame ci persuaderà che esso fosse, come era veramente, una garanzia d’ordine e d’equità, una sicurezza per la persona, e la sostanza d’ogni cittadino, che importa che gli si debba applicare un nome piuttosto che un altro? È probabilmente all’assemblea dei deputati della nazione che vanno attribuiti i vocaboli _kaál_ o _edà_ (assemblea o adunanza) che con tanta frequenza si riscontrano nel Pentateuco e i cui membri appellati _keriè aedà_ o _keriè moéd_ venivano sì spesso convocati da Mosè per trasmettere i suoi ordini al popolo, non potendosi ragionevolmente ammettere ch’egli s’indirizzasse a poco meno d’un milione d’uomini alla volta. Il Dio vero ed unico, creatore e conservatore di tutte le cose, è il Capo Supremo della repubblica ebraica, alla quale in segno di compiacenza e di predilezione egli affida la sua religione e il suo culto. Mosè e i suoi successori non erano che organi, luogotenenti e mediatori tra questo Dio-re ed il suo popolo. Nè l’instituzione della monarchia alterò questa disposizione, imperocchè l’elezione del primo re si fece per via della sorte, onde Dio stesso indicasse il nome di colui ch’egli voleva designare a suo luogotenente. Si è per questa ragione che l’idolatria non era considerata empietà, ma atto di ribellione contro il legittimo sovrano e punita di estremo supplizio; che il tabernacolo non era considerato soltanto come un luogo comune di preghiera, ma quale abitazione del re. Il suolo era di assoluta proprietà del re; la tavola coi pani di proposizione era la tavola reale: pertanto i sacerdoti ed i leviti ministri e servi del re si cibavano di questo pane, riscuotevano le decime e le primizie delle produzioni del suolo, il riscatto dei primogeniti degli uomini, e il riscatto o i primi nati degli animali che erano devolute al proprietario. Soddisfatto per tal modo al primo bisogno che sente un popolo di avere un Capo supremo a cui dirigersi in qualunque difficile emergenza, vediamo ora l’esplicazione del sistema di governo e pel quale i funzionanti che emanavano da questo centro quali raggi dal globo solare erano chiamati a provvedere alla conservazione e al benessere della nazione, alla esecuzione delle leggi e alla amministrazione della giustizia. Non possiamo però esimerci dal notare precedentemente colle parole dell’abate Guéné che «i pubblici impieghi non costituivano, fra gli ebrei, titoli di esazioni nè posti di stipendi e propine, poichè tutto si esercitava gratuitamente». A questa verità aggiungeremo noi che fu col suo proprio esempio che Mosè dimostrò agli ebrei come il potere debbasi usarsi al benessere del popolo e non rivolgersi a strumento di tirannia, nè a fonte di lucro: poichè egli resse per quarantanni il suo popolo colla stessa pazienza, collo stesso amore che non conosce sacrifizi con cui «un aio porta in seno il bambino affidato alle sue cure». § 1.—_Gli Anziani._ Presso gli Ebrei come presso tutti i popoli antichi gli Anziani _zechenim_⁹⁴, esercitavano una grande autorità ed erano oggetto della massima venerazione: «Alzati innanzi ad un capo canuto, disse il Legislatore, e dimostra il più alto rispetto al volto d’un vecchio». Più tardi il vocabolo anziano non fu più che un semplice titolo di riverenza dato a coloro che per la loro nascita, per la fortuna, o per le doti intellettuali seppero porsi alla testa della loro città o della loro tribù. ⁹⁴ Non abbiamo dati sicuri per indicare l’età voluta per costituire l’_Anziano_. Abbiamo però un fatto da cui possiamo argomentarla. Roboamo figlio e successore del re sapientissimo, aveva circa quaranta anni allorchè per rispondere alla domanda del popolo di voler diminuite le esorbitanti imposizioni che doveva sopportare, si consigliò coi suoi coetanei, che la storia appella _giovani_, dando poi il titolo di _anziani_, ai consiglieri del defunto suo genitore. Noi abbiamo già notato l’importanza degli anziani presso gli Ebrei in Egitto: noi li ritroviamo nel deserto al festino dato da Mosè a Ietro suo suocero quando gli ricondusse la moglie e i figli: noi li troviamo in tutte le epoche della storia nostra sempre circondati del più alto rispetto e di una autorità incontestabile. Pare che gli anziani delle città formassero una specie di Consiglio municipale e talvolta anche un giurì per gli affari criminali; e gli anziani della nazione, che forse erano scelti tra i principali fra gli anziani delle diverse città del regno, formassero una specie di Consiglio di Stato, un tribunale supremo della nazione, un moderatore delle usurpazioni a cui poteva trascendere il potere supremo. Noi troviamo spesso questo Corpo in diretti rapporti col Capo dello Stato, al quale talvolta consiglia e tal’altra impone misure governative. Tanta era la loro autorità che Mosè al momento di una ribellione vi fece appello per sostenere la sua vacillante. Giosuè angosciato ed atterrito da una disfatta che se era d’un’importanza si può dire di nessun conto per se stessa, ne assumeva però un’altissima e suprema morale perchè scoraggiava Israele, nel mentre che lo spogliava al cospetto delle nazioni Cananee del prestigio della sua invincibilità per la protezione divina, si prostra innanzi all’Arca in mezzo agli anziani del popolo⁹⁵. Sono gli anziani che domandano a Samuele di rassegnare il suo potere ed eleggere per loro un re, e sono anziani quelli che più tardi danno la sovranità a Davide, e che lo ristabiliscono sul trono dopo la sua fuga da Gerusalemme in seguito alla ribellione del figlio Assalonne. ⁹⁵ La sollevazione contro Mosè a cui si vuole alludere è quella di Cora già da noi accennata. La disfatta subita da Giosuè sotto le mura della piccola città di Ai, fu causata dal peccato di certo Ahhán, il quale violando il giuramento fatto da Giosuè in nome del popolo, di considerare quale scomunica (_hherem_) la città di Gerico e tutto quanto vi si conteneva in essa, epperciò di sola spettanza dei sacerdoti; avido e stolto si appropriò alcuni oggetti di valore. Merita pure di essere ricordata la proibizione fatta da Giosuè di rifabbricare la città medesima, sotto pena di vedersi morire dal contravventore il figlio maggiore alla sua fondazione, e il figlio minore all’istante che la si munisse delle porte. Per tale motivo Gerico rimase rovinata sino ai tempi del re Acabbo, in cui per l’affievolimento del sentimento religioso prodotto dall’idolatria, venne in animo a certo Hhiél di rifabbricarla tenendo in non cale la minaccia di Giosuè. Ma male gliene incolse, perchè la minaccia ebbe il suo compimento: i due suoi figli, il primogenito Abiram e l’ultimogenito Segov vi perdettero miseramente la vita. Questi esempi basteranno a farci capaci dell’alta influenza che gli anziani dovevano avere sul popolo, e quale potente ausiliario o avversario temuto potevano essere in gravi momenti, pel potere esecutivo. § 2.—_I Capi delle tribù e delle famiglie._ Dopo gli anziani noi troviamo i dodici _nessiím_ (principi) o Capi delle dodici tribù, che certo erano gli uomini più distinti delle loro rispettive tribù. La loro nomina era elettiva come quella dei capi delle famiglie detti _ross-bethav_, i quali erano sotto gli ordini dei primi, e tanto gli uni quanto gli altri erano incaricati della tutela degli interessi particolari delle famiglie e delle tribù da essi rappresentate. Dobbiamo avvertire che tanto le cause giudiziarie quanto le contrattazioni civili, si dibattevano sulla pubblica piazza alle porte della città, nei luoghi cioè più frequentati onde il popolo vi potesse assistere. Quest’uso non era particolare agli Ebrei, ma generale fra i popoli antichi, e non v’ha dubbio che oltre ad essere una delle più valide barriere contro la corruzione dei giudici, sostituiva la redazione degli atti. Infatti è bensì vero che in Geremia si parla della redazione d’un atto sottoscritto da testimonii, quando cioè quel profeta comperò dallo zio _Hhanamél_ figlio di Salum un campo situato in _Anadód_, ma ciò fu per dimostrare al popolo la propria fiducia nelle divine promesse di ricostituire Israele a nazione indipendente; perchè il profeta raccomanda a Baruch, suo segretario, di chiudere quel documento in un vaso di creta onde potesse conservarsi a lungo: ma veramente Mosè non parla della redazione di nessun atto giuridico tranne quello relativo al divorzio, e in tutta l’epoca biblica non ne troviamo altro cenno. Abramo compera la grotta di Macpelà per seppellire la moglie, ne pattuisce e ne sborsa il prezzo alla presenza dei cittadini d’Ebron; Sichem signore di Salem, desiderando di sposare Dina figlia di Giacobbe, fa radunare i suoi cittadini alla porta della città e quivi li arringa e li persuade della convenienza che essi avevano di farsi circoncidere per potersi imparentare con quella potente e ricchissima famiglia; Booz con dieci anziani della sua città sale nel fabbricato che trovavasi presso la porta per fare valere i suoi diritti di parentela con Noemi e colla vedova di Maclon. § 3—_I giudici._ Mosè ordinò al suo popolo di eleggersi giudici e soterim in tutte le città. Nella scelta del giudice dovevasi badare anzitutto alla onestà del carattere e alla sua posizione sociale che lo dovesse rendere indipendente, imparziale ed incorruttibile. Accadendo che un magistrato fosse dubbioso sul senso della legge o sulla sua pratica applicazione, o che qualcuna delle parti contendenti non si tenesse soddisfatta della sentenza da essi emanata, i primi erano obbligati di ricorrere, e i secondi erano in facoltà di appellarsi al Capo dello Stato, ai leviti e ai sacerdoti, o al tribunale supremo sedente in Gerusalemme. I giudici formavano una classe di cittadini che era tenuta in altissima considerazione poichè il Pentateuco li designa col titolo di _Eloím_ (dii o uomini divini). § 4—_I Soterim._ Attaccati ai _nesíim_ stavano i _Soterím_, ovvero gli ufficiali del potere esecutivo. Costoro sopraintendevano alla levata delle truppe; nel fare le proclamazioni prescritte dalla legge prima dell’entrata in campagna affine di fare uscire dalle file coloro che venivano da essa esentati dal servigio⁹⁶ e nel fare conoscere all’armata gli ordini del capitano nel corso della campagna. ⁹⁶ La legge esentava dal servizio militare: 1.º I fidanzati e i coniugi di un anno di matrimonio non ancora compiuto. 2.º Coloro che avevano fabbricato una casa nuova e non ancora abitata. 3.º Quelli che avevano piantato una vigna od un campo d’olivi e non per anco raccoltine i frutti. 4.º I timidi ed i trepidanti all’appressarsi della pugna. L’arte dello scrivere non essendo allora molto estesa fra gli ebrei, le funzioni di Soter facendo supporre un alto grado d’istruzione, essi venivano tenuti in un concetto assai onorevole, ed erano ammessi nelle assemblee dei rappresentanti della nazione. § 5.—_Capo dello Stato._ Alla testa dei poteri summenzionati si trovava il Capo della repubblica il quale era rivestito del potere esecutivo per tutto ciò che concerneva l’interesse comune di tutte le tribù riunite in corpo di nazione, e considerato quale luogotenente di Dio, il re invisibile. Questo capo doveva essere nominato direttamente da Dio, per via di sorteggio come avvenne per Saulle, o per mezzo di un suo profeta come per Davide e parecchi altri, o eletto dalla volontà del popolo per organo dei suoi legittimi rappresentanti. Era consacrato dal sommo pontefice colla imposizione delle mani, o colla unzione dell’olio santo; e nelle gravi circostanze doveva rivolgersi allo stesso pontefice per la sua qualità di primo ministro del re supremo, Dio, per interrogarlo mercè gli Orim e Tumim⁹⁷. Mosè non fissa veruna disposizione riguardo all’elezione di un capo temporaneo che appella _Sofet_ nè riguardo all’ipotetica elezione e successione dei re. Conviene però dire che non avendo appunto ammesso che quale ipotesi la nomina di un re, si può pertanto ragionevolmente conghietturare che il suo desiderio fosse che il popolo continuasse a reggersi a repubblica; e che seguendo il suo esempio, ogni _Sofet_ nominasse egli stesso il proprio successore. I fatti ci provano che in realtà l’organizzazione delle tribù era tanto semplice che, tranne in casi eccezionali, lo stato poteva funzionare benissimo senza un capo permanente. Così vediamo da una parte che senza alterare l’armonia dello stato una tribù sola o associandosi ad altra faceva la guerra per l’interesse suo proprio locale senza consultare la nazione; e d’altra parte vediamo la nazione intiera commoversi all’annunzio dell’orrendo misfatto commesso sul territorio della tribù di Beniamino, e senza esservi obbligata dall’ordine espresso di un capo supremo sorgere «come un solo uomo» per ottenerne la riparazione. ⁹⁷ In parecchi luoghi Mosè parlò di questa specie di Oracolo. La prima volta quando ordinò la confezione dei diversi indumenti sacerdotali colle seguenti parole: «E porrai dentro al pettorale della decisione gli _Orim_ e i _Tumim_, e staranno sul petto di Aronne quando entrerà innanzi al Signore, ed Aronne porterà sul petto sempre, presentandosi innanzi al Signore, la decisione (l’Oracolo) dei figli d’Israele»; la seconda volta quando passò in rassegna i lavori ordinati; la terza volta quando Iddio incaricando lo stesso Legislatore di imporre le sue mani nella testa di Giosuè per costituirlo suo successore così si espresse: «Egli (Giosuè e il Capo futuro) poi starà davanti di Eleazaro il sacerdote, il quale consulterà per lui la decisione degli Orim, davanti al Signore e secondo al suo detto (responso) uscirà ecc.»; la 4ª volta allorquando benedicendo la tribù di Levi la proclamò meritevole di portare gli Orim e Tumim divini. Che cosa erano dunque questi Orim e Tumim? Mosè non ci dà sopra verun altro schiarimento epperciò sono assai disparate le opinioni dei diversi commentatori. Nella nostra impossibilità di farne oggetto di discussione conchiuderemo col celebre Reggio il quale amplificando l’opinione emessa dai nostri dottori dice: «che gli Orim e Tumim erano una scrittura santa il cui secreto stava unicamente tra Dio e Mosè, e che venivano appellati Orim dalla radice Or (luce) perchè illuminavano di una luce divina il Sacerdote che li indossava, e Tumim la cui radice vale perfezione perchè davano un responso perfetto e sicuro». La storia ci apprende come si sia ricorso a quest’oracolo in parecchi casi straordinarii, e com’esso abbia sempre dato il relativo responso tranne a Saulle dopochè ei venne riprovato da Dio. Fu dopo vent’anni dalla morte di Eli che il popolo minacciato da una invasione dei Filistei, tutto tremante si rivolse a Samuele; il quale presa la direzione del Governo, certo nell’interesse della nazione, intendeva farne una dignità ereditaria nella sua propria famiglia. Ma i suoi figli amarono i regali, commisero parzialità ed ingiustizie e suscitarono nel popolo il desiderio di un re. Abbiamo accennato or ora che questo caso fu preveduto dal Legislatore, il quale lo permise sotto alcune condizioni che erano le seguenti: Il re eleggendo doveva essere di origine ebrea, doveva serbare la semplicità dei costumi, non insuperbire della sua autorità; non doveva accumulare ricchezze, non doveva avere molte donne onde il suo cuore non fosse ammollito; non doveva avere molti cavalli nè provvedersene dall’Egitto; doveva considerare i suoi sudditi come altrettanti fratelli, e finalmente doveva scriversi una copia della legge di Dio, tenerla costantemente innanzi ai suoi occhi e leggerla di continuo, onde il suo cuore non avesse ad isviare dal retto cammino in essa tracciato, e potessero così prolungarsi i giorni del regno suo e di quello dei suoi figli nel mezzo d’Israele. Diremo di passaggio che disgraziatamente questi savissimi consigli, furono in parte lettera morta anche pei re migliori, e che un lusso immoderato sottentrò alla primitiva semplicità sino dai tempi di Davide, perchè lo storico racconta che Adonia figlio dello stesso aveva «carri e cavalieri e cinquanta uomini che correvano innanzi a lui (al suo carro)». Ma se anche nei re Ebrei, l’amore del lusso e l’ambizione ebbero attrative invincibili, dobbiamo però convenire che essi si diportavano verso i loro sudditi, in modo ben diverso degli altri re Orientali. Questi non intesi che ai sensuali piaceri si tenevano celati ai loro sudditi, mentrecchè quelli giudicavano personalmente il loro popolo⁹⁸, e si frammischiavano ad esso particolarmente in epoche di pubblica letizia. Il re aveva il diritto di dichiarare la guerra, di conchiudere trattati anche senza consultare il gran consiglio degli Anziani. La successione al trono toccava di diritto al suo figlio primogenito: se Davide non si uniformò a questa regola ciò fu per espresso ordine di Dio che gli impose di dichiarare erede Salomone. Trattandosi di un minorenne, la madre o l’avola del principe presuntivo governava quale reggente sotto il titolo di _ghevirá_. Si può però ritenere come cosa certa che la consacrazione sacerdotale non si praticava che pel capo della dinastia o per motivi affatto speciali, poichè la troviamo adoperata per soli quattro re (che furono) Saulle, Davide, Salomone perchè i suoi diritti potevano venire contestati da Adonia che era il primogenito e capo di un certo partito che lo preconizzava re d’Israele, e finalmente Gioas (unico fra i reali di Giuda) perchè abbisognava di questo prestigio onde potere con maggiori probabilità ricuperare il trono usurpatogli sette anni prima da Atalia sua avola. ⁹⁸ L’assioma citato nella Misnà «il re non giudica nè viene giudicato» si rapporta a una decisione presa negli ultimi tempi del secondo Tempio, in seguito ad una contestazione nata tra il Presidente di un tribunale che voleva mantenute inviolate le prerogative che la legge sanciva a riguardo dei giudici, ed un re (citato a testimonio) che abusando della sua alta posizione, si credette in diritto di manometterle a suo vantaggio. La persona del re era oggetto di profondo rispetto ed inviolabile; poichè Davide si credette in diritto di mandare a morte il soldato che avea messo fine all’agonia di Saulle, da lui stesso pregato, per la sola ragione ch’egli aveva osato di porre la mano sull’unto di Dio. I nomi adoperati dagli Ebrei per indicare il re sono: _adón_ (signore) _mélech_ (re) _mescíahh adonai_ (l’unto dell’Eterno). Dovendogli dirigere il discorso lo si appellava semplicemente: _o re, il re_, oppure _mio signore, il re_. Nulla si trova nella Bibbia relativamente al trattamento o agli uffizi dei diversi membri della famiglia reale, tranne due passi: il primo dei quali in Samuele che appella _Coaním_ (capi, ufficiali) i figli di Davide, e il secondo nei Paralipòmeni nel quale si legge: «che i figli di Davide erano i primi a fianco del re». Nella Bibbia non troviamo nulla di preciso sull’appanaggio del re, ma combinando tra loro certi passaggi, è facile capire che le loro rendite fossero assai considerevoli, e che derivassero dai cespiti seguenti: 1º I doni volontarii dei sudditi; 2º Le greggie e le produzioni dei campi, dei giardini, ecc. di loro esclusiva proprietà e che aumentavansi continuamente per le conquiste e per le confische nei delitti di stato; 3º Un tributo che esigevano; 4º Le spoglie più preziose dei popoli vinti e i tributi loro imposti; 5º I diritti esatti sui negozianti indigeni e stranieri. I re portavano vestimenti particolari che li distinguevano da tutte le altre persone. Sulla mitra adattavano il loro diadema detto _nézer_ che vale segno di distinzione, e la _atarà_ (ornamento cingente o corona) che portavano in ogni tempo unitamente alla collana e ai braccialetti. Il trono _chissé_ aveva precisamente la forma di un seggiolone, ma alto in modo che i piedi bisognavano di un appoggio che chiamavasi _adóm_ (sgabello); lo scettro _scéveth_ (verga o bastone), viene spesso adoperato dagli autori sacri per simbolo della dignità reale o dell’esercizio del potere supremo. § 6—_Del Senato o Sinedrio._ «Fammi radunare settanta uomini tra i più vecchi d’Israele, i quali tu conosci che potranno essere gli anziani del popolo ed i suoi soterim, disse Dio a Mosè, ed io separerò una porzione dello spirito ch’è sopra di te; e lo compartirò sopra loro, così essi correranno teco a portare il carico del popolo, e non avrai a portarlo tu solo». Al tempo dei Maccabei questo supremo tribunale della nazione sedente in Gerusalemme fu appellato _Sanedrím_ (sinedrio) dal Greco _Synedrion_ che significa un’assemblea di gente assisa. Secondo i dottori l’assemblea eleggeva il suo membro più autorevole per innalzarlo alla presidenza. Egli rappresentava Mosè. Alla sua destra eravi l’ab-beth-din, e alla sua sinistra siedeva una specie di vice-presidente detto _Ehhahham_ (il sapiente). Gli altri senatori si siedevano in semicircolo secondo l’ordine della loro nomina. Gli scribi o segretarii avevano i loro posti particolari. I voti venivano raccolti talvolta dal presidente e talvolta dal membro più giovane, nell’intento che nessun senatore avesse ad influenzare sui voti che dovevano essere motivati. Per le quistioni di pubblico interesse richiedevasi l’unanimità dei voti, ma per le quistioni secondarie bastava la maggioranza d’un voto solo. ———— SCEVATH (_Gennaio-Febbraio_). Questo mese non presenta alla nostra meditazione oltre a due episodii e di una semplice importanza morale. Il primo si rapporta a una visione del profeta Zaccaria avuta verso la fine dei settant’anni della cattività babilonese. Egli racconta di avere udito un angelo che indirizzava a Dio una pietosa interrogazione sul quando egli si moverebbe a misericordia degli infelici ebrei, già da circa settant’anni gementi in terra estrania; e sin quando la loro antica patria resterebbe covo di animali selvaggi. Iddio risponde all’angelo «parole buone, parole di conforto». Egli si dice pieno di tenerezza verso il suo popolo sconsolato, e fortemente adirato contro quelle nazioni che fatte ministre di sue vendette oltrepassarono la misura del male. Che però era appunto arrivato il tempo della redenzione d’Israele, e l’epoca da lui stabilita per la riedificazione della sua casa in Gerusalemme, città di sua eterna predilezione. Il secondo episodio è quello della ripetizione della legge fatta da Mosè stesso. Era il primo giorno dell’undicesimo mese dell’anno quarantesimo, dall’uscita d’Egitto: il popolo d’Israele trova vasi nel paese conquistato a Moab vicino al Giordano allorchè Mosè «si compiacque di spiegare (ripetere) tutti i principali avvenimenti loro successi dalla proclamazione del Decalogo, sino a quel giorno, e pressochè tutte le prescrizioni e i riti i meglio importanti contenuti nei quattro libri precedenti». Tale riassunto forma l’ultimo dei cinque libri di Mosè e viene chiamato _séfer adevarím_ (Deuteronomio). E posciachè l’argomento ce ne porge l’opportunità noi ci fermeremo talpoco ad esaminare le varie parti di cui si compone la Bibbia e daremo un brevissimo cenno sulla compilazione della Misnà e della Ghemarà di cui ebbimo occasione di parlare tante volte in questo nostro lavoro. La Bibbia si divide in tre grandi parti che sono: 1º La legge di Dio (Thorà); 2º I profeti primi e secondi (Neviim); 3º Gli _Agiografi_ (Cheduvim). La _Thorà_ è divisa in cinque libri. Il primo è chiamato Genesi (_Berescid_) principio. In esso si racconta la storia della creazione del mondo, quella dei primi uomini, delle prime invenzioni, dei primi abitatori della Cananea, sino alla morte del patriarca Giacobbe avvenuta in Egitto ove erasi recato colla famiglia⁹⁹. ⁹⁹ «Una delle maggiori meraviglie a chi legge la Genesi, dice C. Cantù, è la sua concordanza coi più recenti acquisti della scienza». «Tutte le scoperte umane, disse Herschel, paiono fatte solo allo scopo di meglio confermare le verità chiuse nei libri di Mosè». Il sommo Gioberti nella sua Teorica del sovranaturale così ragiona delle tre classi in cui distingue i geologi odierni: «Gli uni si studiano di conciliare la scienza della terra colle tradizioni mosaiche, mediante una vasta e profonda cognizione dell’una e delle altre; e questi sono degni di grandissima lode. Gli altri si restringono fra i soli termini della geologia ecc. Ma vi sono alcuni terzi (pochi per buona ventura), che senza forse sapere di geologia più che tanto, spacciano Mosè per un favolatore solenne, e un parabolano; dei quali non si può dir altro, se non che scambiano il millesimo corrente col passato, quando essi intendano di far ridere alle spese della religione ecc.». «Nella Genesi Mosè è lo storico della creazione, il sopranaturale rivelatore di tutte le origini. La creazione della luce, la formazione del mattino, della sera, della notte, l’ampiezza delle acque incarcerate in profondi abissi, la terra che vestesi d’erbe e di piante, il sole posto nel centro dell’azzurro firmamento, la luna e le stelle obbedienti alla voce che segna loro il cammino attraverso lo spazio; gli animali che in loro infinita varietà, piglian possesso dei mari, dei monti e delle pianure; infine l’uomo, l’ultima e più bella opera di Dio, il quale nel: bel mezzo del giovine universo, ne vien per così dire fatto Sovrano... Mosè ci spiega in tre pagine l’universo e l’uomo. Sulle grandi cose da Mosè dette in tre pagine vi furono migliaia e migliaia di libri in ogni secolo e presso tutte le nazioni antiche e moderne; ma non fu vero se non ciò che trovossi conforme alla testimonianza di Mosè. Gli sforzi del genio in quaranta secoli, le profonde investigazioni nelle viscere della terra, nelle più disparate regioni, e le indagini fatte nelle più tenebrose memorie del genere umano, non fecero che dare solenne ragione alla mosaica cosmogonia....». «Se nella Genesi non vi fosse il soffio di Dio, se non la fosse che pura opera umana, non vi sarebbero lingue bastevolmente eloquenti ad ammirare l’Ebreo legislatore. Il Decalogo in paragone del quale le antiche leggi di Persia, d’India, d’Egitto, di Grecia e di Roma non sono che immagini grossolane e rozze invenzioni, e che divenuto suprema guida del genere umano; la morale politica e religiosa organizzazione di una nuova nazione che tutto abbraccia a forza di profonda saviezza, giustizia e provvidenza; quelle regole, quelle prescrizioni, quelle massime espresse con mirabile semplicità, hanno per noi l’aspetto della verità che discende dal cielo in terra a visitare l’uomo». _Poujoulat_—_Histoire de Jerusalem._ Il secondo libro viene detto _scemod_ (Esodo o uscita). I principali fatti che si narrano in questo libro sono: la schiavitù d’Egitto, la liberazione d’Israele e la proclamazione del Sinai. Il terzo _vaikrà_ o Levitico viene così chiamato perchè contiene più particolarmente le attribuzioni dei sacerdoti e dei leviti, e le norme relative ai sacrifizii. Il quarto _Bamidbár_ (numeri) viene così chiamato perchè comincia coll’ordine dato da Dio a Mosè nell’anno secondo dopo l’uscita d’Egitto di numerare il popolo che risultò composto di 603,550 uomini capaci alle armi, ossia dalla età di 20 anni in su. In questo calcolo non venne compresa la tribù di Levi esente dal servigio militare perchè, come dicemmo, particolarmente dedicata al servizio del Tempio e all’istruzione del popolo. Numerata pertanto separatamente essa diede la cifra di 22 mila maschi da un mese in su. Questo libro finisce colla esposizione delle vittorie riportate da Mosè sui Moabiti e Madianiti i cui paesi confinavano col Giordano, e che oltre al negargli il chiesto passaggio attraverso il loro territorio, colla seduzione delle loro donne avevano indotto molti Ebrei ad abbracciare lo strano e sconcio culto di _Baal peór_ che causò la morte a 22 mila persone. Il quinto ed ultimo libro è appunto il Deuteronomio che finisce colla benedizione di Mosè. I _neviím_ comprendono tutta l’epoca storica del popolo nostro, dalla morte di Mosè all’esilio babilonese; e constano del libro di Giosuè, di quello dei giudici, dei due libri di Samuele, dei due Re, degli immortali scritti dei tre profeti maggiori Isaia, Geremia ed Ezechiele vissuti alla fine del primo Tempio e al principio della cattività babilonese, e dei frammenti rimastici di dodici profeti minori (così chiamati per distinguerli dai primi). I _Cheduvím_ (agiografi o scritti santi) comprendono: 1º I salmi di Davide che oltre alla sublimità poetica che raggiungono molti d’essi, inspirano tutti tanto viva ed efficace pietà religiosa, contengono in sì grande copia precetti morali che giustamente vennero adottati a far parte di alcune nostre preghiere, sia nelle liete come nelle luttuose circostanze; 2º I proverbi di Salomone che sono una raccolta di ammaestramenti esposti ai giovani con singolare semplicità e maestria, e che dipingono con una ammirabile fedeltà e vivezza i danni della ignoranza e di una sregolata condotta: e viceversa i pregi della sapienza e i beni ch’essa procura a coloro che l’amano. Questo libro finisce colla descrizione della donna forte (_ésced hhail_) che per una pia usanza si canta tuttora nelle famiglie al venerdì sera al ritorno dal Tempio; 3º Il libro di Giobbe stupendo lavoro che in seguito a intelligentissimi studii venne attribuito a Mosè; 4º Il Cantico dei Cantici _scir ascirím_ di Salomone, nel quale molti commentatori credettero di trovarvi simboleggiato Dio (lo sposo) e la nazione d’Israele (la sposa), che si esprimono la loro ardente e reciproca tenerezza; 5º Un frammento storico del Tempo dei Giudici (_Ruth_) che ci descrive i pietosi avvenimenti della virtuosa e pia bisavola di Davide e dichiarato da Goeth il più bell’idilio che esista scritto; 6º L’Ecclesiaste attribuito a Salomone, esame a tinte oscure, e fors’anco esagerate in parte, dei diletti materiali e delle improbe fatiche che sostiene l’uomo per procurarseli, per quanto in realtà siano tutte vanità delle vanità; 7º La storia d’Ester di cui parleremo nel mese venturo; 8º I treni innarrivabile lavoro del profeta Geremia che piange sulle fumanti rovine della sua patria; 9º I preziosi frammenti storici di Daniele, di Esdra e di Neemia contemporanei della schiavitù babilonese, e come dicemmo altrove i due ultimi d’essi strenui propugnatori della riedificazione del secondo Tempio; 10º I due libri delle cronache (_divrè aiamím_) rapido riassunto di tutti i libri santi. Non v’ha dubbio che molti nostri scritti dovettero andare smarriti sia per l’incendio ordinato dal dissennato Califfo, della famosa biblioteca di Alessandria, e sia per le tante peripezie sofferte dal popolo nostro, posciachè nella Bibbia noi troviamo menzionate parecchie opere che non possediamo. Si parla a mò d’esempio d’un libro intitolato «delle guerre di Dio»; d’un altro delle «cronache dei re di Giuda e d’Israele»; di un terzo intitolato «della rettitudine» che non è certo il libro che nella letteratura nostra si conosce sotto tale titolo, e finalmente di tre importantissimi lavori del re Salomone, il primo dei quali era una diffusa storia sui regni animale e vegetale, il secondo una cantica di mille e cinque (soggetti o capitoli), e il terzo una raccolta di tre mila proverbi o favole. La legge orale (_torà scebèal-pè_) non è che una spiegazione, un commento, un’amplificazione alla legge scritta; e in molti casi incontestabilmente necessaria per la retta intelligenza di molti riti involti in una certa oscurità o appena in quella accennati¹⁰⁰. ¹⁰⁰ I Karaiti, setta ebraica naturalmente posteriore alla pubblicazione della Misnà, e ridotta ora a pochi gregarii sparsi nella Russia, che respinsero appunto ogni rabbinico insegnamento per mantenere alla lettera tutti i riti mosaici; ci sono testimoni viventi della stranezza di certi usi. Così a cagione d’esempio essi usano, di non sortire affatto di casa al sabbato e di non farvi accendere fuoco nelle loro abitazioni; di portare il zizid nell’abito; di legare i Tefilim sulla mano; di non praticare la visita nei visceri degli animali, nè ucciderli col nostro sistema ecc. Secondo la tradizione, questa spiegazione della legge scritta fu da Mosè stesso insegnata oralmente a Giosuè, il quale, a sua volta, la trasmise agli anziani. Questi poi la insegnarono ai profeti, e da questi venne trasmessa ai membri della grande Assemblea. Il provvido e coraggioso Rabbì Jeudà, chiamato per antonomasia «Rabenu akadoss» (il nostro Maestro santo), nell’anno 180 dell’êra volgare la raccolse in un volume detto Misnà (ripetizione o studio), poichè per la perdita della politica indipendenza, per la dispersione d’Israele nei quattro angoli della terra, e pel conseguente decadimento della letteratura nazionale, entrò nell’animo degli uomini religiosi e pii la tema che col volgere degli anni potesse andare alterata o dimenticata. Il Talmud o Ghemarà diviso come la Misnà in sei trattati, oltre alle sentenze, ai racconti, alle leggende religioso-morali che contiene in gran copia; oltre alle preziose nozioni di storia contemporanea e scene della vita domestica e sociale tanto del popolo nostro quanto delle altre nazioni con cui avevano relazioni; è poi un diffuso e minutissimo commentario della Misnà. In esso vengono scrupolosamente registrate tutte le discussioni, che si può dire sopra ogni articolo della Misnà, fecero le più famose accademie di Terra Santa e di Babilonia fino al secolo V. Questa raccolta immensa fu compilata dai Rabbini Ravena e Rav-assè. *Archeologia.* Termineremo ora la nostra breve rassegna delle leggi giudiziarie mosaiche col ragionare delle leggi penali e della loro pratica applicazione. Le leggi penali di Mosè hanno per carattere generale l’_espiazione_ e il _compenso_. Un dotto rabbino diceva, che il mondo poggia su tre basi: la verità, la giustizia e la pace. È per questa ragione che un delitto di qualunque specie esso sia intacca l’equilibrio _morale_ del civile consorzio, il quale non può essere ristabilito che in seguito a una condegna riparazione data alla società offesa mercè la _giustizia_, il cui còmpito è appunto quello di ricondurre la pace ove fu turbata. Ma posciachè non tutti i delitti portano un uguale sconcerto nell’armonia del sociale consorzio, ne deve conseguire che la riparazione va graduata al male fatto. La suprema riparazione reclamata dalla società terribilmente offesa da un suo membro, è quella di respingerlo assolutamente dal suo seno condannandolo alla _morte_. Nella legislazione mosaica la morte veniva applicata in tre modi diversi: 1º Colla _lapidazione_ (_sekilà_), che secondo la tradizione consisteva nel gettare il paziente dall’altezza di un palco che distava da terra l’altezza di due uomini, e poscia soffocarlo sotto un mucchio di pietre che gli venivano gettate addosso; 2º Coll’_abbruciamento_ (_serefá_) sull’applicazione del quale son diverse le opinioni. Taluni vogliono che tale abbruciamento si consumasse sul cadavere dopo la lapidazione, e altri credono che si strangolasse il paziente con un drappo, e poi gli si colasse in gola del piombo fuso che gli bruciava gli intestini. Secondo Giuseppe parrebbe che il paziente si abbruciasse vivo, perchè egli sostiene che una figlia di Sacerdote che avesse mancato ai suoi doveri d’innocenza, veniva abbruciata viva; 3º Colla _spada_ (_éreg_) la cui applicazione ci è affatto ignota. I nostri Dottori ne aggiungono una quarta, la _strangolazione_ (_hhenek_) della quale non ne troviamo traccia nella Bibbia. Dopo la pena di morte viene il così detto _Careth_ (distruzione o stralciamento). La massima parte dei commentatori, ritengono che questa pena non consistesse che in una divina minaccia, di colpire con una morte immatura il trasgressore di qualcuna fra le leggi cerimoniali. Altri ritengono invece che si sott’intendesse una specie di morte civile, vale a dire la privazione dei diritti di cittadino per un tempo determinato. Vengono in terza linea le _pene corporali_, consistenti in colpi di bastone che il paziente riceveva disteso boccone in terra. Tali pene, che nelle nostre contrade vennero abolite ovunque (tranne in Inghilterra per l’indisciplina militare), perchè ripugnanti alla nostra indole; non avevano invece nulla d’umiliante presso gli antichi Ebrei, poichè secondo i Rabbini lo stesso pontefice dopo d’avere ricevuta una di tali pene per la sua trasgressione di qualche legge cerimoniale, rientrava nelle sue altissime funzioni senza che la sua dignità ne soffrisse minimamente. Un’altra specie di pena viene da taluni classificata, impropriamente, in questa categoria. Tale pena sarebbe quella risultante dal così detto: _diritto del talione_, che preso alla lettera, consisterebbe effettivamente nel fare subire al colpevole la mutilazione di quel membro che deliberatamente troncò o rese inservibile al suo simile. Ma tale interpretazione è insussistente affatto, perchè i nostri Dottori affermano concordemente, che il legislatore non volle indicare per nissun modo una vera amputazione nel corpo del delinquente, cosa questa che non avrebbe avuto altro effetto oltre quella di dare una barbara soddisfazione, ove fosse stato capace di provarla, al povero mutilato; ma vi sott’intese invece un risarcimento materiale del danno presuntivamente risultato, ciò che doveva recare al danneggiato una soddisfazione di ben diversa natura! Vengono poscia _l’ammenda_, che serviva all’espiazione di certi delitti involontarii; e che variava secondo la loro gravita: e i _sacrifizii d’espiazione_, che non erano altro che pene disciplinari ecclesiastiche, a cui veniva sottomesso colui i cui peccati non erano di competenza giuridica¹⁰¹. ¹⁰¹ I sacrifizii di cui le vittime non potevano essere scelte che nelle seguenti specie di animali domestici, vale a dire: buoi, montoni, agnelli, colombe e tortore, erano di diversa specie: 1º La _Olà_ (olocausto) parola derivante dal Greco _olos_ (tutto) e _kaio_ (bruccio) che veniva offerta quale sacrifizio quotidiano del mattino e della sera, quale sacrifizio addizionale della festa, e talvolta anche quale sacrifizio di privato. La vittima si abbruciava totalmente tranne la pelle che apparteneva ai sacerdoti. 2º Il _Hhatath_ (sacrifizio per lo peccato), e l’_Assam_ (sacrifizio per la colpa) che si portavano per diversi peccati volontarii od involontarii specificati dalla legge, nei quali potevano incorrere tutti i fedeli, compresi il Principe e il Pontefice.—L’infallibilità non è dote dell’uomo. Tutti possono errare perchè tutti sottoposti alle stesse passioni e agitati da consimili desiderii. Dio solo è perfetto, epperciò lui solo infallibile.—Di questa specie di sacrifizii si abbruciavano le sole parti grasse destinate all’altare, e il resto apparteneva esclusivamente ai sacerdoti. 3º Il _Zìbahh asselamém_ (sacrifizio pacifico o di riconoscenza). Il titolo stesso ne indica lo scopo. Erano sacrifizii che si portavano per ricorrenze festive e in rendimento di grazie al Signore per benefizii da lui ricevuti. Abbruciate le parti grasse in onore di Dio, il resto veniva diviso tra i sacerdoti e gli offerenti. I poveri e i forestieri erano quasi sempre invitati a parteciparne. Oltre a tali sacrifizii ve n’erano alcuni altri che chiameremo circostanziali, quali sarebbero quelli pei peccati d’ignoranza del popolo nelle varie feste dell’anno; quelli dei Nazireni inavvertitamente resi impuri; quelli che portavano le persone guarite dalla lebbra, ecc. Di questa specie di sacrifizii i due seguenti meritano particolare menzione. Il primo è quello che veniva immolato nel caso in cui si trovasse una persona assassinata in mezzo ai campi senza che si fosse potuto scoprirne l’uccisore. La legge ordinava che dato questo caso gli anziani e i giudici sedenti in Gerusalemme, si portassero nel luogo ove era stato consumato il reato e misurassero quale città fra quelle che circondavano il cadavere, ne fosse la più vicina. Gli anziani della città indicata, dovevano prendere una giovenca che non fosse stata adoperata al lavoro, e che non avesse mai tirato al giogo. Dovevano quindi condurla in una valle sassosa, non coltivata, nè seminata, ed ivi ucciderla. Ciò fatto tutti gli anziani di quella città dovevano lavarsi le mani nel sangue di quella giovenca e dire: «Le mani nostre non versarono questo sangue e gli occhi nostri non videro (chi lo versò)». E i sacerdoti e i leviti dicevano: «Deh o Signore! perdona al popolo tuo Israele che liberasti (dalla schiavitù egizia) e non porre in mezzo al tuo popolo Israele (la colpa, la responsabilità del versato) sangue innocente». Questa prescrizione fu probabilmente inspirata da due motivi: Il primo valeva a raffermare la pena di morte di cui si era reso meritevole l’assassino, il secondo serviva a mantenere negli animi il dovuto orrore pel sangue versalo. Il 2º era quello della così detta _vacca rossa_, perchè la scelta della vacca la cui cenere doveva servire per la purificazione di certe impurità, come quella di aver toccato un cadavere ecc. doveva cadere su d’una che fosse totalmente rossa, senza difetti e che non avesse mai portato giogo. Vogliono i commentatori che questa disposizione, di cui non ci si dà il più piccolo schiarimento, fosse consigliata a Mosè dal pensiero di espellere onninamente dal cuore del popolo la tendenza all’adorazione della vacca, che come si sa, era il principale oggetto del Culto degli Egiziani. V’era pure la _minhhà_ (offerta) che per lo più si componeva di fior di farina di frumento e d’olio d’oliva. Tale offerta era per lo più accessoria delle vittime dei sacrifizii, ma pel povero sostituiva le vittime stesse. Talvolta si offriva la farina pura, versandovi entro dell’olio e mettendovi incenso, e talvolta se ne facevano schiacciate azzime unte d’olio e cotte al forno o in su una tegghia. Era obbligatorio mettervi sale quale segno di un’alleanza durevole con Dio, detta _berith mélahh_, e proibito di mescolarvi lievito o miele. Quantunque dalla storia di Giuseppe risulti chiaramente che in Egitto erano in uso le prigioni quale pena afflittiva, ciò non pertanto in tutta la legislazione penale mosaica non ne troviamo fatto cenno, forse perchè esse presentavano due gravi ostacoli per una nazione eminentemente agricola quale era l’ebraica. Il primo era l’area occupata da quei luoghi di pena, che veniva sottratta al lavoro e per conseguenza al comune interesse; il secondo era la spesa ingente richiesta per la custodia e pel vitto dei detenuti. Si riscontrano però nel Pentateuco due esempii di detenzione preventiva: il primo in odio di un individuo della tribù di Dan, nato da un’ebrea ammogliatasi ad un egiziano, che litigando con altro ebreo aveva bestemmiato e maledetto il santissimo nome di Dio; e il secondo verso di un altro che profanò il sabbato portandosi a raccogliere legna; ma si capisce facilmente che ciò avvenne nel solo intendimento di sapere da Dio, quale doveva essere il castigo proporzionato alla loro diversa prevaricazione. In processo di tempo essendosi fatta strada la corruzione e con essa i delitti, che ne sono la conseguenza diretta, anche le prigioni trovarono il loro posto come si può riconoscere dal fatto di Acabbo, il quale stando per intraprendere una guerra, ordinò di incarcerare il profeta che gli predisse la sua morte sulle alture di Galaad, luogo ove aveva fatto assassinare l’innocente Naboth; e dalla storia di Geremia tenuto in prigione perchè consigliava al popolo l’alleanza col re d’Assiria, contro la volontà dei grandi dignitarii dello stato. Non è nostro intendimento di passare in rassegna tutto il sistema penale mosaico, perchè ci obbligherebbe ad allungarci oltre al nostro proposito. Daremo soltanto alcune considerazioni generali che secondo noi basteranno a dimostrare con esuberanza, che se tale sistema era giustamente severo era però ben lontano di essere inumano come si pretese da taluni, che lieti di poter affilare le loro armi contro Mosè, si fermarono all’apparenza e trovando spesso ripetute le parole di _morte_, di _sarà tagliato_ da mezzo il suo popolo, gridarono alla barbarie. Faremo notare anzitutto, che il parricidio non fu previsto da Mosè sia perchè un delitto cotanto snaturato gli pareva forse impossibile, e sia perchè aveva già stabilito la pena di morte per colui che avesse soltanto battuto uno dei genitori. La pena di morte era stabilita, come dicemmo, per l’idolatria; per chi si dava alla negromanzia; pei violatori del sabbato; per l’omicida; per chi commetteva certi atti contro natura; per chi rubava un uomo e lo vendeva per ischiavo e per quel giovane che manifestava istinti cotanto malvagi, da costringere i suoi stessi genitori di deferirlo ai tribunali. Quando un uomo veniva condannato a morte per omicidio nissun asilo serviva a sottrarlo al rigore delle leggi. Ecco come si esprime la legge stessa a questo proposito: «Quando un uomo avrà ucciso con premeditazione un suo simile, da sopra il mio stesso altare lo prenderai per farlo morire, perchè la terra contaminata dal sangue (innocente) versato su d’essa, non può essere perdonata (purificarsi) se non col sangue di chi lo versò». Ma la lodevole severità della legge verso quei feroci che per malvagio istinto si bruttavano le mani nel sangue dei loro simili, non escludeva tutte quelle garanzie che reclama da un lato l’umanità, e dall’altro la facilità di essere tratto in errore da una prima dolorosa impressione di una sventura irreparabile, o dall’orrore istintivo che si prova all’annunzio di una morte violenta. Un malaugurato accidente non può forse cangiare in omicida l’uomo dotato di un cuore il più sensibile e il più nobile? Ecco un esempio con cui Mosè dimostra la possibilità di tale evento deplorevole: «Può succedere, dice egli, che un uomo si porti alla selva per tagliare legna. Alza con forza la scure contro l’albero, ma il ferro gli sfugge sventuratamente dalla mano e va a colpire un suo compagno e lo uccide. Costui non può ritenersi reo di omicidio perchè Dio stesso permise che tale morte avvenisse per sua mano». Ed ecco il provvedimento col quale egli viene in soccorso dell’omicida involontario. Conviene sapere che ai tempi di cui parliamo esisteva, ed esiste tuttavia presso gli Arabi, e presso parecchi altri popoli Orientali, un uso che obbligava il parente d’un assassinato a vendicarne il sangue uccidendo a sua volta l’assassino. Il parente su cui incombeva tale dovere, nella Bibbia viene designato col nome di _goel adam_ (redentore o vendicatore del sangue): e qualora vi avesse derogato veniva ritenuto come un uomo senza onore. Non potendo forse abolire quest’uso inveterato e universalmente praticato, Mosè ne prevenne saggiamente i molti abusi a cui poteva dare luogo. Egli stabilì sei città (tre per caduna estremità dello stato) che chiamò _aré amiclath_ (città di rifugio), onde accogliere l’omicida supposto involontario e proteggerlo contro il _goel adam_. Tutte le città del regno dovevano avere una strada che tendesse ad una d’esse. L’omicida veniva poscia deferito ai tribunali: se risultava colpevole veniva consegnato nelle mani del _goel adam_ onde gli desse la morte; ma se risultava innocente doveva restarsene nell’asilo che la legge gli assegnava, sino alla morte del sommo sacerdote allora in uffizio; trascorso il qual tempo egli poteva ritornare alla sua città in tutta sicurezza, perchè il _goel_ aveva perduto ogni suo diritto. Amministrazione della giustizia. Dal sin qui detto noi abbiamo potuto convincerci tanto della semplicità quanto della eccellenza del sistema giudizionario organizzato da Mosè. Esso era infatti fondato sulle seguenti basi: 1ª sulla pubblicità dei dibattimenti che è la più sicura garanzia della equità ed imparzialità dei giudizii; 2ª sulla maggiore possibile libertà concessa al prevenuto onde avesse mezzo di produrre qualunque prova a sua discolpa. Si noti che presso gli Ebrei, come fors’anco presso gli altri popoli antichi, non esisteva come nelle legislazioni Europee attuali un magistrato colla missione (strana davvero) d’insinuare nei giudici la persuasione della colpevolezza del pregiudicato; nè l’altro individuo quasi sempre sconosciuto al colpevole colla missione (ancora più strana) di servirsi d’ogni argomento oratorio onde pervenire ad ottenere lo scopo diametralmente opposto, ovverossia persuadere i giudici dell’innocenza di colui che si macchiò di delitti orrendi o almeno di attenuarne gli effetti; 3ª sulla sincerità delle deposizioni dei testimonii sia mediante l’applicazione al testimone falso della stessa pena di cui sarebbe stato meritevole l’incriminato, e sia col costringerli ad essere i primi a gettare le pietre contro il condannato. Questa disposizione fu senza dubbio il motivo per cui le donne non potevano deporre in tribunale; ed è un omaggio che la legge fa alla sensibilità e gentilezza femminile, esonerandole da un dovere che avrebbe ripugnato al loro carattere mite e dolce. Esaminiamo ora come si procedeva in un giudizio di pena capitale. Al giorno del giudizio si faceva comparire l’accusato, gli si leggeva l’atto d’accusa, e i testimonii accusatori venivano successivamente chiamati a deporre. Ecco la stupenda ammonizione che il Presidente rivolgeva a ciascuno di questi ultimi: «Bada! che noi non ti domandiamo che tu deponga nè su conghietture, nè sulle pubbliche voci corse sull’accusato. Pensa che pesa su te una responsabilità tremenda. L’affare di cui si tratta non è affare di danaro pel quale si potrebbe sempre in qualche modo trovare un risarcimento. Se tu fai condannare un uomo innocente il suo sangue e il sangue della posterità ch’egli potrebbe dare alla patria, peserebbe su te; e Dio te ne domanderebbe conto, come domandò conto a Caino del sangue di Abele e del sangue dei figli che avrebbe generato». Oltre alle donne non potevano attestare i fanciulli, gli schiavi, gli uomini di cattiva riputazione, coloro che non erano in piena facoltà mentale, nè coloro che erano stati condannati a pene corporali prima che avessero subita la loro pena. I testimonii dovevano certificare l’identità della persona, deporre sul giorno, sull’ora e sulle circostanze del delitto. La menoma discordanza tra i testimonii ne annullava pienamente il valore. Dopo i testimonii a carico si sentivano i testimonii in favore. Finiti gli interrogatorii si facevano allontanare tutti gli assistenti. Due segretarii raccoglievano i voti: l’uno i favorevoli, l’altro i contrarii. Se la maggioranza dei voti risultava favorevole l’accusato veniva dichiarato innocente e rimesso immediatamente in libertà; se invece la maggioranza gli era contraria, la seduta si dichiarava sospesa, e differita al posdomani la lettura della sentenza. I giudici dovevano occupare il giorno intermedio nel discutere tra loro quella causa, e astenersi dai liquori e da cibo abbondante onde il loro spirito si mantenesse libero e sereno. Al mattino del terzo giorno i giudici dovevano raccogliersi nel tribunale e addivenire a nuova votazione con questa clausola pietosa. Il giudice che aveva votato per l’assoluzione non poteva darlo per la condanna; ma quello che viceversa l’aveva dato per la condanna poteva ritirarlo e darlo per l’assoluzione. Letta la sentenza di condanna due magistrati accompagnavano il condannato al supplizio e i giudici se ne stavano in seduta permanente. Un uffiziale con un drappo in mano stava all’entrata del tribunale, mentrechè un altro uffiziale con un consimile drappo in mano, seguiva a cavallo il condannato; e di tratto in tratto si rivolgeva verso il primo. Se in questo frattempo qualcuno si fosse portato in tribunale a deporre in favore del condannato, il primo agitava il suo drappo e il condannato veniva ricondotto indietro fino alla quinta volta. Un araldo precedeva pure il convoglio e di tratto in tratto gridava al popolo: «Quest’uomo (tale figlio del tale) viene condotto al supplizio pel tale delitto. I testimonii che deposero contro di lui sono i tali. Se qualcuno ha qualche schiarimento a dare in di lui favore si affretti». I magistrati che accompagnavano il paziente lo consigliavano a confessare il suo delitto, e a poca distanza dal luogo del supplizio, gli somministravano un beveraggio stupefattivo onde rendergli meno spaventevole l’avvicinarsi della morte. Dopo l’esecuzione, il cadavere veniva tolto alla vista del pubblico e reso ai suoi parenti, onde provvedessero alla sua sepoltura. Questi ne potevano deplorare la perdita, ma senza quei segni pubblici di dolore, da noi già notati, che si facevano per gli altri defunti. Anzi a pubblica dimostrazione di omaggio al pronunciato del tribunale, alla inconcussa fede nella onestà e sapienza dei giudici; la prima volta che i parenti del giustiziato s’imbattevano nei giudici e nei testimoni dovevano precedere a salutarli e dirigere loro le seguenti parole: «Noi non conserviamo verso di voi verun risentimento; sappiamo che voi avete agito lealmente secondo il diritto». ———— ADAR (_Febbraio-Marzo_). Due avvenimenti importantissimi registra la storia nostra in questo ultimo mese dell’anno: uno decisamente nefasto, e l’altro, quantunque minacciasse di irreparabile rovina il popolo nostro, la Provvidenza che in ogni tempo vegliò e veglia con particolare sollecitudine ed amore alla sua esistenza; sventò i consigli dei suoi nemici, e facendo trionfare la verità e la giustizia lo cangiò in una lieta e festiva commemorazione. Consiste il primo nella ricorrenza della morte di Mosè, avvenuta (secondo quanto ci insegna la tradizione) il sette Adar, il giorno anniversario della sua nascita, quarantanni dopo l’uscita d’Egitto e centoventesimo della sua età. Dalle sue stesse affermazioni noi siamo informati quanto fosse vivo il suo desiderio di condurre egli stesso il popolo che tanto amava alla conquista della Palestina; e quante preghiere indirizzasse a Dio a tale uopo. Ma pei suoi imperscrutabili decreti Dio rimase inflessibile, e: «Ti basti, gli disse, non mi parlare più intorno a questa cosa; perocchè non passerai questo Giordano». Volendo però soddisfare, in parte, il nobilissimo desiderio del suo servo fedele lo invitò a portarsi alla cima della collina, da dove per una virtù prodigiosa concessa alla sua vista, gli sarebbe stato possibile di vedere «la terra buona che estendevasi al di là del Giordano, il monte bello e il Libano». Quando Mosè si convinse della inutilità delle sue istanze si rassegnò ai divini voleri, impose le sue mani sul capo di Giosuè costituendolo suo successore, salì sulla vetta del Nebo da dove potè effettivamente ammirare la terra in cui sperava il suo popolo lungamente felice, e che non v’ha dubbio lo sarebbe stato, se avesse meglio custodito la sua legge. Finalmente fece radunare tutto il popolo e dopo di averlo consigliato a mantenersi fedele a Dio, e presentato alla sua perpetua meditazione una cantica sublime (_aasínu_) che secondo il suo detto «non avrebbe dovuto venire mai dimenticata dalla bocca della sua posterità», perchè era una «testimonianza» delle promesse fatte e mantenute da Dio di condurlo ad ereditare la terra di Canaan, e del dovere che imprescindibile incombeva su lui di restare fedele al patto conchiuso su tale base tra lui e Dio, benedisse particolarmente ogni tribù; e «senza che il suo occhio si fosse minimamente offuscato, nè diminuiti i suoi umori vitali» rese l’anima a Dio. Gli ebrei fecero un lutto di trenta giorni. L’elogio funebre che per bocca di Dio si scrisse Mosè di suo vivente, secondo il Nacmanide, o che come credono altri aggiunse il suo successore negli ultimi versetti del Pentateuco, è un brevissimo compendio delle sublimi sue gesta. Eccolo nella sua semplicità ammirabile: «E non surse in Israele un profeta come Mosè, col quale il Signore trattava faccia faccia. (Nessuno l’eguagliò), in quanto a tutti i segni e miracoli, che lo mandò Iddio a operare nella terra d’Egitto a Faraone ed a tutti i suoi servi, a tutto il suo paese. E in quanto a tutti gli atti di potente mano ed a tutte le cose grandemente terribili, che Mosè fece alla vista di tutto Israele». Iddio stesso raccolse quell’anima santa e fece sparire i purissimi resti mortali di quell’uomo maraviglioso¹⁰². ¹⁰² I nostri Dottori, che nei loro studi sulla Bibbia non si lasciarono sfuggire nessun precetto e nessun avvenimento senza farne risaltare il concetto morale che ne poteva provenire, si fermarono appunto su questo fatto; e constatarono come la legge divina abbia principio da un’opera di misericordia, praticata da Dio stesso verso Adamo ed Eva col coprirne la nudità con tuniche di pelle allorchè li scacciò dal Paradiso terrestre; e termini con un’altra opera di misericordia compiuta parimenti da Dio verso Mosè col seppellirne il cadavere. Noi crederemmo di fare un grave torto ai nostri giovani lettori, privandoli del racconto leggendario che sulla morte di Mosè trovasi in un antico libro di parafrasi al Pentateuco, chiamato _medrass rabà_ (grande commento), e di un aneddoto «sul sepolcro di Mosè» registrato nel Talmud. Ecco il primo: Tutto intento a scrivere le ultime parole della sacra legge, Mosè erasi arrestato alla scrittura del nome infallibile di Dio, e in quel punto del tempo era giunto il momento designato alla sua morte. Il Signore chiama a sè l’angelo Gabriele, e così gli dice: «Va e porta in cielo l’anima di Mosè». E l’angelo attonito risponde: «Signore! Signore! Come oserò io dare la morte all’uomo di cui tutte le umane generazioni non vantano pari?» E il Signore chiama a sè l’angelo Michele: «Va e porta in cielo l’anima di Mosè». E l’angelo atterrito risponde: «Signore! Signore! Io gli fui maestro: ei mi fu discepolo dilettissimo. Non mi basta il cuore di vederne la morte». E il Signore chiama a sè Samaele, l’angelo della distruzione e della morte, e gli dice: «Va e porta in cielo l’anima di Mosè». L’angelo della morte esultante di una gioia che non sa nascondere si veste d’ira, e tutto chiuso nelle sue armi sanguigne piomba ratto qual folgore innanzi all’uomo santo e trovandolo coll’ineffabile nome divino sotto la penna trema in tutta la persona. Lo guarda, e il raggio di divina luce che sfavilla sul volto di Mosè lo abbarbaglia, e gli fa torcere il guardo truce. Ei pensa tra sè: «È un angelo costui, e niuno degli angeli potrà dargli la morte». Intanto Mosè si accorse di aversi un testimonio innanzi e a lui rivolgendosi gli grida: «Che vuoi tu, che cosa cerchi qui?» «Io son mandato per darti la morte, risponde l’angelo ancora tutto tremante. Tutti i mortali sono soggetti al mio impero». «Tutti gli altri mortali sì, risponde Mosè sicuro di se stesso, ma non io. Consacrato prima di nascere, ministro dei portenti celesti, banditore a tutta la terra della legge della verità, io non affiderò mai a te l’anima mia». Samaele tutto confuso rivolò in cielo. Ma una voce misteriosa allora suono dall’alto, e diceva: «Mosè, Mosè; la tua ora è giunta, tu devi morire». «Signore! Signore! gridava Mosè piangendo, io fui accolto nelle celesti sfere da te, io fui altre volte ammesso al tuo bacio divino, perchè vorrai affidare l’anima mia all’angelo della morte?» E la voce, gli rispose: «Datti pace, io stesso adempierò all’ufficio della tua morte e della tua sepoltura». E allora Mosè si prepara a morire puro come un Serafino, e il Signore scende dagli altissimi cieli, e tre angeli, Michele, Gabriele, Zagaele, gli fanno corona. L’angelo Michele scava la tomba, Gabriele stende un bianchissimo lino al capo, e Zagaele ai piedi, e l’angelo Michele sta immoto da un lato a Mosè, e l’angelo Gabriele immoto dall’altro lato. E il Signore dice a Mosè: «chiudi le pupille,» e Mosè le chiudeva, «stringi le mani al cuore,» e Mosè stringeva al cuore la mano, «accosta i piedi» e Mosè accostava i piedi. «Anima santa! fanciulla mia! diceva il Signore: da cento vent’anni tu animi questa creta intemerata. Ma è giunta l’ora, esci e vola in cielo». E l’anima tutta dolorosa rispondeva: «Su questo corpo intemerato e puro io ho posto tutto il mio amore, e non ho il coraggio d’abbandonarlo». «Fanciulla mia! esci. Io ti accoglierò negli altissimi cieli, sotto al mio trono immortale, coi Serafini e Cherubini». E l’anima esitava. Il Signore allora impresse un bacio sulla fronte a Mosè e con quel bacio l’anima volò in cielo. E una nube di mestizia velava il cielo dove suonavano, queste parole: «Chi resta ora a combattere l’empietà e l’errore?» E una voce rispondeva; «Egual profeta non sorse mai». E la terra piangeva: «Ho perduto il santo». E Israele piangeva: «Abbiamo perduto il pastore». E gli angeli in coro cantavano: «Venga il santo, venga in pace all’amplesso divino». Il sepolcro di Mosè. Fu consiglio di divina provvidenza il nascondere ad ogni occhio mortale il sepolcro dell’uomo di Dio. La rovina del sacro tempio, il lungo esilio d’Israello stavano già innanzi d’allora, al previdente consiglio di Dio. Quando Israele prostrato sul sepolcro di Mosè, e bagnando di pianto quelle sacre zolle, avesse supplice invocata la potente intercessione del santo uomo presso la Divina Giustizia, affinchè il tremendo destino fosse mutato, come avrebbe potuto la stessa Divina Giustizia respingere quel santo intercessore? Quando sul popolo errante nel deserto, la vendetta Divina aveva decretato l’abbandono e la morte, solo Mosè bastò a disarmarne la collera. E i giusti, cari a Dio in vita, gli sono doppiamente cari in morte. L’empio impero persiano volle un giorno scoprire il sepolcro del grande Legislatore. Una numerosa schiera dei suoi satelliti si reca al monte cerca, fruga, sale, discende, e lo percorre da tutti i lati. Fuvvi un momento in cui, giunti al culmine del monte e gettando in giù lo sguardo, s’immaginarono d’avere laggiù in fondo scoperto il cercato sepolcro. Si slanciano precipitosi alle falde del monte, girano lo sguardo intorno, sollevano lo sguardo in alto. O stupore! il sepolcro di Mosè si presenta ai loro occhi in sull’alta vetta. Confusi, sbalorditi, si dividono in due schiere, di cui l’una si ferma ai piedi, l’altra alla cima del colle. «Eccolo, gridano dall’alto, eccolo, l’avete a voi vicino». Perocchè il sepolcro di Mosè si presentava agli occhi loro presso la schiera disotto. «È trovato, è trovato, gridava questa invece alla compagna; voi ci siete presso». Perocchè il sepolcro di Mosè si presentava ai loro occhi presso la schiera che era in alto. E il sepolcro non fu trovato mai. Il secondo avvenimento di cui dobbiamo parlare è quello che diede origine alla festa di _Purim_ (delle sorti), festa dedicata intieramente all’allegria e al piacere. Ecco in breve il riassunto storico di tale avvenimento. Noi abbiamo già avuto occasione di parlare del profeta Neemia e della parte importantissima da lui avuta nella rifabbricazione del secondo tempio, come ebbimo pure a parlare di Alessandro Magno, delle sue vittorie in Asia, della sua entrata in Gerusalemme e delle sue larghezze usate verso gli Ebrei sia per esser stato colpito di rispettosa venerazione al cospetto del loro Pontefice che si portò ad incontrarlo, e sia per compensarli della loro fedeltà. Or bene tra la morte del primo alle conquiste del secondo passò un periodo di circa un secolo; nel corso del quale probabilmente non avvenne nulla di notevole agli ebrei; perchè tanto in Flavio quanto nei libri santi esiste un’ampia lacuna, se si esclude la così detta _meghilà_ (storia) di Ester. Chi fosse l’Assuero (_Ahhassveross_ nome indubbiamente persiano) di cui si parla in questo libro è disputa fra gli eruditi. Nella Scrittura troviamo dato questo nome ad un re che è sicuramente Cambise, ad un altro che debb’essere Astiage ed all’Assuero di Ester che non può essere nè l’uno nè l’altro di quei due re. Giuseppe crede che fosse Artaserse Longimano, altri, e sono i più, credono riscontrare molte somiglianze fra il carattere di Assuero e quello di Xerse celebre per l’infelice esito della sua spedizione nella Grecia, altri ritengono che fosse un re dei Medii, ed altri ancora, fra cui il celebre I. S. Reggio, ritengono che fosse Dario Istaspe. Chiunque fosse questo Assuero sappiamo che aveva il dominio su uno esteso impero di centoventisette provincie, cioè da _Oddu_ (l’India) sino a _Cuss_ (l’Etiopia). Nel terzo anno del suo regno diede ai grandi della sua corte una serie di festini per cento ottanta giorni consecutivi, chiusa da sette altri giorni di festini continui dati a tutti gli abitanti della Capitale (Susa). Or avvenne che nel giorno settimo in cui il re aveva bevuto oltre il convenevole, volendo presentare all’ammirazione dei suoi cortigiani la regina Vasti, dotata, secondo lui, di maravigliosa bellezza, mandò ad invitarla al festino. Non si sa per qual motivo, ma probabilmente per un naturale e lodevole sentimento di pudore, la regina rifiutò d’intervenirvi. Il re oltremodo adirato, chiese ai sette suoi principali ministri che lo circondavano quale pena era dovuta alla regina per la sua disobbedienza, e dietro la proposta di un certo Memuhhan, Vasti _fu tolta da regina_ (uccisa o relegata nell’Arem). Per surrogarla vennero incaricati dei commissarii di fare la scelta delle più belle ragazze dello stato per essere inviate all’Arem reale di Susa. Fra le donzelle raccolte si trovava un’ebrea chiamata _Adassà_ (mirto) o _Ester_ (astro in lingua persiana). Rimasta orfana di padre e di madre era stata adottata a figlia da un suo cugino, certo Mardocheo della tribù di Beniamino, abitante in Susa. Ester presentata al re seppe conquistarne il cuore e fu assunta a regina nell’anno settimo del regno di Assuero: senza che questi pensasse neanche d’informarsi di quale famiglia essa si fosse, e a quale popolo appartenesse. Mardocheo, che sicuramente aveva un uffizio nel servizio del palazzo reale, potè scoprire una congiura che erasi ordita da due eunuchi contro la vita di Assuero: col mezzo di Ester il complotto fu sventato e puniti i colpevoli. Più tardi avendo il re elevato un certo Amano alla più importante carica di Corte ordinò che i sudditi avessero ad inginocchiarsi al suo cospetto. Fosse per scrupoli religiosi o fosse per altri motivi, su cui tace il testo, Mardocheo non volle mai piegare il ginocchio quando gli avveniva d’incontrarlo. Il superbo Amano altamente indispettito risolse di perdere con lui tutta la nazione alla quale apparteneva. Presentatosi pertanto al re disse che come il popolo ebreo, era distinto da tutti gli altri per proprii costumi e leggi, così era insubbordinato verso i magistrati e trasgressore delle leggi del regno; e dando cattivo esempio agli altri popoli parevagli necessario di farlo totalmente distruggere. Il re senza informarsi di nulla diede il suo assenso, ed Amano giubilante estrasse colla sorte il giorno da stabilirsi per la distruzione degli Ebrei. Il numero estratto segnò il giorno tredicesimo del mese duodecimo. Si capirà facilmente che la pubblicazione di tale decreto portò la costernazione fra gli Ebrei. Mardocheo ne trasmise copia alla regina Ester sollecitandola ad intercedere pel suo popolo presso il monarca. Ester esitò dapprima ad accettare tale incarico, temendo di esporsi a certa morte presentandosi non chiamata nell’appartamento particolare del re, ma poi vi accondiscese facendo ordinare agli Ebrei di Susa un digiuno di tre giorni. Al terzo giorno ella si presentò al re il quale l’accolse con tutti i segni del maggiore affetto, e con tutti i riguardi dovuti al suo grado. Ester lo pregò di accettare in compagnia di Amano un pranzo nel di lei appartamento in quello stesso giorno. Il re vi aderì; e a metà del banchetto domandò alla regina quale causa l’avesse decisa a quell’insolito invito. La regina rimandando al giorno seguente la manifestazione del suo desiderio, invitò nuovamente lui ed Amano a pranzo presso di lei. Amano fiero del grande onore ricevuto dalla regina, fu maggiormente ferito dal disdegno dimostratogli da Mardocheo che ebbe ad incontrare sui suoi passi; ed essendosene lagnato colla propria moglie, questa, gli suggerì di domandare al re l’autorizzazione di fare appiccare Mardocheo l’indomani, al quale uopo fu nella notte alzato un patibolo nel suo cortile istesso. Ma arrivò che in quella stessa notte Assuero non potendo dormire, si fece leggere gli annali del suo regno; e ripresentatasi così l’occasione di richiamarsi alla memoria il benefizio ricevuto da Mardocheo, domandò se già gli fosse stato corrisposto il premio meritato. Alla risposta negativa Assuero si rivolse ad Amano che gli compariva in quel punto, e gli domanda: quale cosa dovessesi fare ad un uomo ch’egli desiderava onorare pubblicamente. Nel suo sterminato orgoglio Amano suppose che il re avesse l’intenzione di onorare lui stesso; epperciò lo consigliò di fare vestire quell’uomo del manto reale, di farlo montare sul cavallo che montò il re stesso il giorno della sua incoronazione, e farlo quindi girare per le vie della città col cavallo condotto a mano da un principe obbligato a gridare di tratto in tratto «così si fa all’uomo che il re desidera di onorare». Il consiglio piacque al re, il quale incaricò Amano stesso di eseguirlo alla lettera. Questo fu il preludio della punizione dell’alterigia vincolata alla tristizia e il trionfo dell’innocenza. Eseguito quello per lui ben penoso incarico e intervenuto al festino della regina questa, lui presente, chiese grazie al re per sè e pel suo popolo. Si aggiunga poi che un eunuco certo _Hharvonà_, raccontò al re come Amano avesse fatto alzare nel suo cortile un patibolo per farvi appiccare Mardocheo. A quest’annunzio l’ira del re scoppiò terribile e ordinò che Amano venisse immediatamente appeso a quello stesso patibolo. Conviene sapere che i decreti dei re Persiani non potevano venire revocati per niun motivo; epperciò Mardocheo chiamato dalla fiducia del re, a succedere nella carica d’Amano, con altro decreto reale dovette autorizzare gli Ebrei a prendere le armi per difendersi dai loro nemici nel giorno che era stato fissato pel loro eccidio. Con tale autorizzazione egli sperava probabilmente di intimorire i mali intenzionati e di risparmiare l’effusione del sangue; ma pochi nemici acerrimi degli Ebrei non avendo voluto desistere dai loro sanguinarii progetti a cui li autorizzava tuttavia il decreto d’Amano assalirono gli Ebrei. Ma questi aiutati dalle autorità, che dovevano prestare loro mano forte, li vinsero facilmente. Noi pensiamo che la cifra dei nemici uccisi dagli Ebrei nel giorno 13 e 14, registrata nel libro d’Ester sia stata esagerata: quantunque non si debba obbliare l’ampiezza del regno che constava, come dicemmo, di 127 provincie. Questi due giorni miracolosamente cangiati, come si esprime il testo: «dall’afflizione al gaudio, dal lutto all’allegria» furono consacrati alla gioia da Mardocheo e da Ester per tutti gli Ebrei; raccomandando ai contemporanei e alla loro posterità di volerli solennizzare in ogni anno facendosi: «reciproci regali e largheggiando verso i poveri». Archeologia. _Rapporti esteriori—Guerra._ Completeremo il nostro studio sulle antichità politiche degli ebrei, trattando ora dei rapporti che essi ebbero colle nazioni straniere. Abbiamo già parlato altrove del trattamento degli ebrei verso lo straniero. La guerra, terribile necessità dei popoli, originata da contese tra gli individui, da lotte tra le tribù per la malaugurata avidità negli uni di usurpare quanto era di spettanza degli altri; flagello che disgraziatamente la civiltà non ha ancora potuto rendere impossibile per quanto ne abbia attenuati i disastrosi effetti, e che forse non isparirà completamente dalla terra se non nei tempi messianici vaticinati dai nostri profeti per un’êra di pace inalterata tra gli individui e fra le nazioni, perchè allora «tutta la terra sarà piena della conoscenza di Dio come il mare è pieno d’acque»; non poteva non richiamarsi alle umanissime sollecitudini del Legislatore ebreo. Abbiamo già detto altrove, e ripetiamo ora, che Mosè non voleva che il suo popolo diventasse un popolo conquistatore: i limiti del territorio che doveva occupare erano stati segnati precedentemente dal Signore stesso. Dominato da tale lodevolissimo pensiero egli doveva mostrarsi, come si mostrò effettivamente, avverso alla guerra offensiva. Abbiamo già parlato sulla sorte riservata alle popolazioni della Palestina e dei proclami di Giosuè al suo ingresso in essa. Relativamente alle nazioni stabilite fuori di quel territorio egli le divise in diverse categorie. Agli Amaleciti guerra eterna perchè tanto codardi quanto scellerati, sorprendevano le donne e i fanciulli che nell’uscire dall’Egitto restavano alla coda del popolo, e li trucidavano senza misericordia. Ai Madianiti guerra d’esterminio, perchè colle loro infami astuzie spinsero gli Ebrei ad abbracciare il loro sozzo culto e causarono così la morte a ventiquattro mila persone. Agli Ammoniti e ai Moabiti nessuna guerra aggressiva, ma neppure nessuna alleanza, nessun rapporto d’amicizia perchè oltre al rifiutarsi di concedere agli ebrei il libero passaggio nel loro territorio per portarsi alle rive del Giordano, passaggio invocato da Mosè a titolo della parentela che esisteva tra le due nazioni, diedero prova di una straordinaria malvagità verso gli stessi ebrei perchè sibbene non minacciati da quelli, chiamarono presso di sè con larghe promesse di onori e di premii il mago Balaamo per farli maledire persuasi di poterli poscia combattere e vincere¹⁰³. Agli Idumei discendenti di Esaù, obblio intiero del rifiuto dato al richiesto passaggio sul loro territorio verso il Giordano. Lo stesso generoso obblio verso gli Egiziani; pel merito di aver ospitato la famiglia del patriarca Giacobbe. Riguardo poi altri popoli lasciò intera facoltà di fare guerra o conchiudere alleanze. Egli raccomanda però che qualora avessero dovuto attaccare una città fuori della Palestina si dovesse cominciare per offrire agli abitanti una capitolazione. Se la città si fosse resa volontariamente, gli ebrei dovevano contentarsi di renderla tributaria, ma costretti ad ottenerla colla forza, allora la legge li autorizzava ad uccidere gli uomini supposti di avere militato contro di loro, e di menare in ischiavitù le donne e i fanciulli¹⁰⁴. ¹⁰³ Fedeli al compito che ci siamo prefissi, di dare cioè quelle maggiori nozioni storiche che hanno una qualche relazione coi diversi argomenti che andiamo trattando, e tanto maggiormente poi quando tali fatti abbisognano di essere dilucidati; crediamo utile raccontare brevemente questo avvenimento, facendolo seguire dagli opportuni schiarimenti che ci vengono somministrati da commentatori tanto ortodossi quanto eruditi. Ecco il fatto. Dopochè Mosè ebbe vinto Sihhon re dell’Emoreo, e Og re del Bassan, il campo degli ebrei venne trasportato nelle pianure di Moab. Non era affatto nella intenzione di Mosè di aggredire Moab sia perchè gli era stato ciò espressamente proibito da Dio per la parentela del loro patriarca Loth con Abramo, e sia perchè il suo territorio non s’estendeva in tale direzione da impedirgli la sua marcia verso il Giordano. Ma per un sentimento d’invidia e di odio tanto più biasimevole perchè niun motivo serviva a giustificarlo, Moab desiderava l’eccidio del popolo ebreo. A questo intento e d’accordo colla tribù Madianita spedì un’ambasceria a Balaamo, ritenendo di una sicura validità tanto le sue maledizioni quanto le sue benedizioni, affine ch’egli si portasse presso di lui a maledire quel popolo numeroso e potente, onde poscia potesse combatterlo e vincere. Balaamo esultante in cuor suo per l’insigne onoranza che gli veniva impartita da un potente monarca, e perchè codesto invito gli porgeva la desiderata occasione di cooperare alla distruzione del popolo ebreo che egli odiava quanto altri mai, rispose agli ambasciatori: «che attendessero il mattino onde interrogare Dio nella notte sulla decisione da prendersi». Effettivamente Dio essendoglisi rivelato gli ingiunse di non _andarvi_. Al mattino gli ambasciatori vennero congedati, ma in modo da lasciare loro indovinare che il rifiuto era dato suo malgrado, e che forse vi avrebbe aderito sotto altre condizioni. Questo fu il motivo per cui gli venne spedita una seconda ambasceria composta di un maggior numero di individui, rivestiti delle più alte dignità e promettitori di ricompense ben più laute. Come la prima, anche questa ambasciata fu invitata da Balaamo a pernottare in casa sua in attesa del permesso divino. Nella notte Dio apparì di nuovo a Balaamo e gli permise di portarsi da Balak colla condizione di poi dire soltanto ciò che Egli, Dio, _gli avrebbe imposto_. Appena spuntata l’alba, Balaamo lietissimo monta sulla sua asina e in compagnia degli ambasciatori si dirige verso il paese di Moab. Un angelo inviato da Dio con una spada sfoderata in mano si presenta all’asina: la spaventa, e per tre volte la fa deviare dal retto sentiero. Balaamo sommamente indispettito batte tutte e tre le volte la sua montura, ma alla terza volta l’asina apre la bocca, e con parole esprime al suo cavalcatore le proprie lagnanze per le immeritate battiture che le vennero date, e lo interpella se mai fu abituata a comportarsi come in quel giorno. Nel frattempo Dio permette che Balaamo vegga l’angelo, e riconoscendo il suo torto, e come sarebbe stato condotto a benedire Israele suo malgrado, propone di ritornarsene addietro. L’angelo vi si oppone e Balaamo giunto presso Balak, invece di maledire benedisse per tre volte Israele, motivo per cui fu costretto di ritornarsene frettolosamente al suo paese. Due riflessioni si presentano spontanee alla nostra meditazione in questo fatto. Perchè Dio si rivelò ad un idolatra nemico del suo popolo?—Balaamo non era che un sedicente _profeta_, un _mago_ (_kossem_) pieno di vanagloria e di petulanza. Dio gli apparve in sogno, coll’ultimo grado della profezia e in quella sola occasione, per l’onore d’Israele e per umiliarlo agli occhi dei suoi stessi ammiratori: obbligandolo a proclamare eletto e protetto da Dio quel popolo che per odio e per interesse avrebbe volentieri annientato. S’egli fosse stato profeta, anzi se la sua indole orgogliosa e malvagia non l’avesse acciecato, egli avrebbe dovuto sapere che «Dio non è uomo da mentire, nè mortale suscettibile di pentimento»; e che avendo stretto un patto d’alleanza con Israele non l’avrebbe rotto giammai. Nè basta; che pel suo ardente desiderio di onori e di averi e per odio verso Israele, egli profanò Dio pubblicamente facendosi credere talmente nelle sue grazie da fargli cangiare di proposito, avendo taciuto la condizione sotto cui eragli stato concesso lo andarvi, poichè ove l’avesse manifestata non gli sarebbe sicuramente stata inviata la seconda ambasceria. La seconda riflessione è la doppia concessione fatta all’asina, cioè la vista dell’angelo e la parola. Premettendo che Dio non dotò l’asina neanche momentaneamente della ragione, ma le permise di esprimere soltanto le fisiche dolorose sensazioni provate per le sofferte percosse, diremo che anche ciò avvenne appunto per castigare l’orgoglioso _mago_. Quale umiliazione maggiore per un uomo che osa qualificarsi «profeta ascoltante le parole di Dio, intendente la scienza dell’Altissimo, e veggente la visione dell’onnipotente» nel sentirsi rimproverare dalla sua stessa montura di ignorare che in quel momento succedeva qualcosa di straordinario che la faceva agire in modo cotanto per lei inusitato? Quale maggiore umiliazione di quella di sentire un’asinella a rimproverarlo della sua ingiustizia verso di lei, nel medesimo istante in cui egli si disponeva contro la volontà divina, a lanciare la maledizione sopra un popolo «santo regno di sacerdoti» di nulla colpevole verso di lui? Quale umiliazione maggiore di quella di sentire una sozza asinella, priva per natura del dono della parola, esporre giusti lagni al profeta che va a prostituire la parola, quel dono concesso da Dio all’uomo per istrumento di perfezione? Da quanto viene esposto in Giosuè risulta che codesto tristo _mago_ fu poi ucciso dagli ebrei colla spada. ¹⁰⁴ Forse potrà parere strano a qualche nostro lettore che noi stimiamo umana questa misura, ma trasportandoci col pensiero ai tempi di cui noi stiamo parlando, dovremo ammettere indubbiamente che in paragone delle barbarie che si usavano allora coi miseri vinti, tali prescrizioni segnavano già un immenso progresso. Si rammenti poi che in tempi assai posteriori a quelli, i Romani usavano ancora di massacrare freddamente uomini, donne e fanciulli e stimandosi tuttavia umani si lagnavano degli strazii che i Cartaginesi facevano soffrire ai loro prigionieri. Organizzazione militare. Dai tempi di Mosè sino a Saulle l’organizzazione militare dovette essere molto imperfetta; e sono assai poche le nozioni che a tale riguardo ci vengono somministrate dai libri santi. Sappiamo soltanto che erano sottoposti alla milizia tutti i maschi dall’età dei 20 anni in su; che la milizia non si componeva che di fanti; che tutti i militi di una stessa tribù marciavano uniti sotto lo stesso vessillo; che l’apertura della guerra si faceva allo suono di trombe; che i _sotérim_ facevano le proclamazioni da noi già sopra dette, prima dell’attacco, per fare sortire dalle file gli esentati dalla legge. Alcune disposizioni riguardanti la pulizia delle truppe dimostrano evidentemente che nel campo degli ebrei doveva regnare la proprietà e i buoni costumi. Saulle fu il primo a dare l’esempio di truppe stanziali. Dopo la sua proclamazione a re d’Israele sul Ghilgál scelse tremila uomini: duemila li tenne sotto i suoi ordini immediati, e pose gli altri mille sotto gli ordini di Gionata suo primo figlio. I Filistei già prostrati da Samuele erano ridivenuti tanto insolenti, e facevano pesare sugli ebrei tale servaggio, da proibire loro la fabbricazione di qualunque specie di utensili di ferro: motivo per cui questi erano costretti a provvedersi presso i loro dominatori, persino gli strumenti agricoli. Ciò nullameno per un atto eroico di Gionata e del suo scudiero, Saulle ottenne su quelli una vittoria segnalatissima, che servì a consolidare il suo trono e ad umiliare la baldanza dei Filistei. Ma dovendosi aspettare improvvisi loro attacchi, quantunque la storia non ne faccia nissun cenno, dovette certo mettersi in misura di respingerli tenendo sotto le armi un buon numero di truppe sperimentate, sotto la direzione del valoroso Abner; poichè la storia c’informa ch’egli «combattè intorno contro tutti i suoi nemici in Moab, nei figli di Amon, in Edom, e nei re di Sovà, e nei Filistei, negli Amaleciti ed ogni dove si dirigeva egli dava sconfitte». Davide, guerriero in tutto il senso della parola, chiamato a succedere a quel valoroso quanto infelice monarca, inebbriato dai suoi successi dimenticò che un re ebreo doveva limitarsi a conquistare e a difendere il territorio che Dio aveva assegnato al suo popolo, si lasciò dominare dall’ambizione e compose una vera armata regolare. Cominciò col circondarsi di una numerosa guardia reale probabilmente composta di soldati stranieri; poscia compose un corpo di milizia di 285 mila soldati diviso in dodici corpi ciascuno di ventiquattromila uomini, che dovevano restare in servigio un mese dell’anno nei dintorni della Capitale. Queste truppe venivano esercitate per turno sotto gli occhi stessi del re da abili capitani, da lui nominati e scelti fra i suoi trenta eroi. Salomone completò l’opera del padre colla formazione di un corpo di cavalleria, e colla provvista di carri da guerra, ch’egli distribuì in diverse piazze forti: non pare però ch’egli abbia dovuto servirsene, perchè il suo regno fu pacifico per eccellenza. Più tardi noi troviamo in ambidue i regni armate perfettamente organizzate, particolarmente sotto Assà, Giosafatte, Amasia, Ozia e Gioacaz. Nell’esercito si distinguevano tre divisioni principali: l’infanteria, la cavalleria e i carri. Questi portavano, oltre al conduttore, parecchi combattenti. L’armatura sola faceva certo distinguere il soldato dal semplice borghese, perchè noi non troviamo traccia di uniforme fra le truppe ebree. Ogni corpo d’armata si componeva, di parecchie legioni di mille uomini, suddivise in bande di cento e di cinquanta. Il generale in capo detto _sar ahháil_ o _sar assavà_, oppure il re quando prendeva il comando in persona, aveva sotto i suoi ordini i generali comandanti le divisioni, ed era seguito da uno scudiero o portatore d’armi detto _noscè chelim_. A quanto pare i carri formavano due divisioni, di cui ciascuna aveva il proprio capitano. Gli ufficiali superiori formavano un consiglio, che in tempo di guerra si erigeva a tribunale per giudicare gli accusati di delitto politico. Probabilmente fu un consimile tribunale che fece gettare Geremia in un pozzo contro il volere del re stesso, perchè predicava al popolo l’alleanza coi Caldei. Il mantenimento dei soldati era a carico delle loro proprie famiglie; e dal fatto di Barzilai bisogna convenire che i ricchi proprietarii erano larghi di provvisioni alle truppe che militavano presso i loro possedimenti. Le armi che adoperavano gli ebrei erano come quelle degli altri popoli di due specie _difensive_ ed _offensive_. Quali armi difensive noi troviamo menzionate le seguenti: 1º Il _Sinnáh_ o il grande scudo, il quale probabilmente aveva la forma ovale e copriva tutto il corpo; 2º Il _maghén_, il piccolo scudo di forma tonda e che copriva il ventre. Quest’arma è molto più antica del _Sinnah_ perchè mentre questa la troviamo menzionata ai tempi di Abramo, non troviamo traccia dell’altra sino dopo l’epoca di Davide. Da un passaggio d’Ezechiele risulta, che queste armi erano in legno, coperte di una pelle che talvolta veniva unta d’olio. Ciò non toglieva però che se ne fabbricassero anche in rame, e che Salomone ne avesse parecchie d’oro sospese alle pareti del suo palazzo quali ornamenti. 3º Il _Kóvanh_ (elmo) ordinariamente di rame. 4º Il _Sirion_ corazza di rame fatta a scaglie. 5º Il _Mishhà_ gambale di rame menzionato una sola volta nella descrizione della armatura di Golia, epperciò forse non in uso fra gli ebrei. Di armi offensive ne troviamo pure diverse: 1º Il _hhérev_ (coltello o spada) chiuso in una fodera _thàar_ e attaccato a una cintura particolare; 2º differenti specie di lancie, e di dardi designati colle parole: _rómahh_, _hhanid_, _hhídon_, _hhess_; di cui è difficile precisare le forme; 3º _Késced_ (arco) ordinariamente di rame, colle freccie che si portavano in un turcasso sulle spalle; 4º _Kélan_ (fionda), che era a dir vero un’arma pastorale, ma convien credere che se ne servissero anche nelle guerre perchè la Bibbia registra che la tribù di Beniamino contava «settecento giovani scelti mancini, i quali tutti miravano colla fionda ad un capello e non fallivano». Per completare queste nostre nozioni, dovremmo discorrere delle macchine da guerra che erano di un’immensa importanza nello assedio delle città, e nella loro difesa. Ma sono pochissime le nozioni che ci sono somministrate dalla Scrittura a questo riguardo. Nel secondo libro dei Paralipòmeni leggiamo che Ocozia re di Giuda, fece fabbricare in Gerusalemme mai più vedute _hhissevonóth_, per metterle sulle torri e sugli angoli delle mura a lanciar dardi e grosse pietre. Ora tali macchine non potevano essere che catapulte e baliste e fors’anche arieti il cui nome proprio _carim_, e l’appellativo _mehhí kobél_ (percottente di faccia) sono adoperati in Ezechiele. Di fatti la catapulta era un grande arco che si stendeva e lanciava molto lontano freccie, giavellotti pesantissimi ed anche travi; e la balista teneva luogo di grande fionda gittando sassi a grandi distanze. Ma le più micidiali fra tutte le macchine da guerra erano i così detti _carri falcati_, che la Scrittura distingue in due specie: gli uni servivano solamente per condurre i principi o generali; gli altri armati di ferro si spingevano contro la fanteria e menavano grande strage. I primi carri bellici di cui ci si parli, sono quelli condotti da Faraone contro gli ebrei dopo la loro uscita dell’Egitto, e che vennero sommersi nell’Eritreo in numero di sei cento: ma Mosè non dice se erano armati o semplici carri da corso. I Cananei, i Filistei e i Sirii ne facevano grande uso, perchè Sìssera si portò a combattere contro Debora con settecento carri di ferro, ma non scorgesi che i re ebrei siansene mai serviti. Tre vocaboli sono adoperati in ebraico per designare le insegne militari, cioè _déghel_, _oth_ e _ness_. È impossibile determinare con certezza la differenza degli oggetti indicati con tali nomi. Molti interpreti però credono che il vocabolo _ness_ si adoperasse per designare un piuolo o pertica alla cui sommità attaccavasi una striscia di stoffa od altro che sventolasse, e che si ergeva sulle colline quale segnale o punto di convegno; che il vocabolo _oth_ significasse l’insegna particolare di ciascuna tribù; e che il _déghel_, distinto dagli altri due pel colore della stoffa, fosse l’insegna comune di ogni corpo d’armata composto di tre tribù. Secondo i Rabbini le dodici tribù d’Israele formavano quattro corpi colle seguenti insegne. Giuda, Issacar e Zebulun portavano sulla loro bandiera un lioncello con queste parole: _Kumà adonaî véiafússu oievéhha_ ecc. (Sorgi o Signore! e saranno dispersi i tuoi nemici e fuggiranno i tuoi avversarii dal tuo cospetto); Ruben, Simeone e Gad portavano sulla loro bandiera un cervo colla leggenda _Scemáh Israel_ ecc. (Ascolta Israele l’Eterno Dio nostro è Dio unico); Efraim, Manasse e Beniamino avevano un fanciullo ricamato col motto _Vaanán adonaï aleém iomám_ (e la nube di Dio era sopra di loro nel giorno, nel loro partire dall’accampamento) e finalmente Dan, Asser e Naftali avevano un’aquila collo scritto _Suvvà adonai rivevóth alfè Israél_ (Ritorna o Dio fra le migliaia d’Israele!), Giunti oramai al compimento del nostro lavoro, e rincrescendoci di separarci dai lettori che ebbero la gentilezza di seguirci sin qui, coll’argomento che la disposizione della materia ci obbligò a trattare per ultimo; ci sia permesso che ci accomiatiamo da loro coll’esprimere un voto che parte spontaneo dal nostro cuore: ripetendo qui le parole colle quali il profeta Isaia e Michea, vaticinarono l’epoca beata che immancabilmente dovrà sorgere per l’umanità. «Popoli numerosi si porranno in cammino, e diranno: «Venite, andiamo al monte del Signore, al tempio del Dio di Giacobbe; perchè c’insegni alcuni dei suoi dettami, in guisa che possiamo seguire le sue vie». Imperocchè da Sionne uscirà ammaestramento, e la parola del Signore da Gerusalemme. Egli giudicherà tra le nazioni, e pronunzierà sentenza a popoli numerosi, i quali quindi spezzeranno le proprie spade per farne delle marre, e le proprie lancie per farne falci; una nazione non alzerà più contro l’altra la spada, nè altri più si eserciterà nell’arte della guerra.... Gli stranieri poi aggregatisi al Signore per prestargli Culto, e per amare il nome del Signore, ed essergli servi.... Io li condurrò al mio sacro monte, e li rallegrerò nella mia Casa d’orazione; i loro olocausti ed altri sacrifizii saranno graditi sul mio altare: perciocchè il mio Tempio si chiamerà Casa d’orazione di tutti i popoli». INDICE _Introduzione_ pag. 5 Nozioni preliminari » 7 _Divisione del tempo_ § 1. Stagioni » ivi § 2. L’anno » 8 § 3. Del giorno e del mese » 9 _Sui nomi degli Angeli_ » 11 *Nissan* Nascita di Mosè » 13 Uscita d’Egitto » 16 Instituzione della Pasqua » 17 Inaugurazione del Tabernacolo » 19 Sollevazione del popolo » ivi Passaggio del Giordano » 20 _Archeologia Biblica_ _Della Palestina_ § 1. Limiti, montagne e fertilità della Palestina » 21 § 2. Dell’agricoltura e suoi strumenti » 24 § 3. Suoi prodotti » 25 *Iiar* Diluvio » 26 Sulla longevità degli anti-diluviani » 28 I sette comandi Noèchidi » 30 Censimento del popolo » ivi Fondazione e inaugurazione del Tempio di Salomone » 32 _Antichità Domestiche_ _Abitazioni degli antichi Ebrei_ » 34 § 1. Le Caverne » ivi § 2. Le Capanne » 35 § 3. Le Tende » 36 § 4. Villaggi e città » ivi § 5. Le Case » 37 _Mezuzà, Sissith e tefilim_ » 38 Dei _Sciofetim_ (giudici) » 40 § 6. Mobili » 41 *Sivan* Proclamazione del Decalogo » 42 _Savuòd_ » 47 _Società Domestica_ pag. 47 § 1. Matrimonio » ivi § 2. Levirato » 50 § 3. Moglie sospetta » 52 § 4. Divorzio » 53 *Thamuz* Digiuno » 56 § 5. Fanciulli » ivi § 6. Circoncisione » 57 § 7. Educazione » 59 § 8. Schiavi » 60 La famiglia ebrea—Considerazioni » 61 *Ab* Ritorno degli esploratori » 65 Il peccato di Mosè » 68 Caduta del regno d’Israele » 69 Caduta del regno di Giuda e distruzione del primo Tempio » 73 Rifabbricazione di Gerusalemme e del secondo Tempio » 74 Distruzione del secondo Tempio » 76 Il castigo di Tito—Leggenda » 85 Nuova insurrezione in Giudea —_Bar-Cochebà_—Caduta di Biter » 89 Descrizione di Gerusalemme » 90 Descrizione del Tempio di Salomone » 92 *Ellul* Compimento delle mura di Gerusalemme » 95 Sullo suono dello _Sciofar_ » 96 Dell’anno Sabbatico » 98 Fertilità della Palestina » 100 Dell’anno del Giubileo » 105 _Antichità Civili_ Carattere degli antichi Ebrei » 107 Atti di Urbanità—Del Saluto » 109 Dei Regali » 111 Dei Festini » 112 Del giuoco e della caccia » 113 Sul trattamento verso i poveri e gli stranieri » 115 *Tisrí* Capo d’anno—I 10 giorni penitenziali » 118 Nascita di Samuele—Instituzione dell’_Aftará_ » 121 Il giorno di _Chipur_ » 122 _Sucoth_ » 124 Morte di Godolia—Digiuno » 127 Ufficii della tribù di Levi e sua consacrazione » 128 Morte di Aristobolo » 132 _Antichità Civili_ § 1. Malattie » 134 § 2. Immortalità dell’anima » 136 § 3. Sepoltura » 138 § 4. Medici » 139 *Marhhasvan* Festa instituita da Roboamo pag. 141 Il profetismo » 143 Delle Arti presso gli antichi Ebrei » 144 Leggenda di Salomone » 149 *Chislev* Importante decisione di _Esdra_ » 156 Dei _Natinei_ » 158 I tre Proclami di Giosuè » 160 Guerre dei Macabei contro Antioco » 161 Chi erano i Farisei » ivi Alessandro Magno in Asia—Apologo » 163 Martirio di sette fratelli » 168 _Hhanuchà_ » 174 Pesi e misure » ivi Monete » 175 *Teved* Digiuno » 179 Assedio di Gerusalemme » ivi Teoria del Digiuno » 180 _Archeologia_ » 181 _Antichità politiche_ » ivi Forma di Governo » ivi § 1. Gli Anziani » 185 § 2. I Capi delle tribù e delle famiglie » 187 § 3. I Giudici » 188 § 4. I soterim » ivi § 5. Capo dello Stato » 189 Gli _Orím_ e _Tumim_ » 190 § 6. Del Senato o Sinedrio » 193 *Scevath* Ripetizione della Legge » 194 La Bibbia—Sue divisioni » 195 La Legge Orale » 199 I _Karaiti_ » ivi _Archeologia_ » 200 Delle Leggi penali » ivi I Sacrifizii » 201 Amministrazione della giustizia » 206 *Adar* Morte di Mosè » 209 Il sepolcro di Mosè » 213 _Purim_ » 214 _Archeologia_ » 218 Rapporti esteriori—Guerra » ivi Il mago Balaamo » 219 Organizzazione militare » 222 ———— _Proprietà Letteraria_ ———— DELLO STESSO Nozioni primordiali di Grammatica Ebraica L. *0,40* Libro di Morale pratica » *1,20* ———— _Vendibili presso l’Autore_ *Via Carlo Alberto, Num. 22.* ———— Nota di trascrizione La traslitterazione delle parole ebraiche adottata nel testo originale non è standard, e non sempre coerente; segue la pronuncia ebraica italiana, specialmente quella piemontese: per esempio ת senza daghesh = _th_, ma anche _t_, in fine di parola _d_ (p.es. a p.195 _Thorà_, _Berescid_); la ע è stata perlopiù trascritta _n_ (_regan_, _ssavuan_) o _nh_, oppure omessa (_aravà_, _saà_) o trascritta con _h_ (_Schemah_); addirittura a p.10, sestultima riga del testo, la lettera ע è resa in _ssivñhà_, unica volta nel libro, con una _n_ barrata, qui trascritta con _ñ_, seguita da una _h_. שׁ = _sc_ (_scum_) o _sci_ (_sciuscian_) ma anche _sch_ (_schalom_) o _ss_ (p.es. a p.118 _ross’assanà_, _sciofar_); צ = _s_, _ss_ tanto quanto _z_ (p.es. a p.156: _hhazozerà_, _silselè_); ח = _hh_, salvo le poche volte in cui è omessa come in _Oreb_; la ה, muta per gli italiani, è di regola omessa; muta per muta, la א raramente è resa con _h_ (_Hisc_, _Hiscà_). Le consonanti sono raddoppiate quando la pronuncia ebraica italiana le rinforza. Tutto questo lo si è riprodotto fedelmente. Sembra inoltre che l’autore abbia fatto una certa attenzione all’uso di accenti gravi, acuti, circonflessi come di dieresi sulle parole traslitterate, sia nel loro mezzo che sulla sillaba finale; tuttavia, il sistema usato sembra molto incostante (per esempio a p.226 si trova tanto _Israel_ che _Israél_; e altresì _adonai_, _adonaï_ e _adonaî_). Tutti questi accenti sono stati mantenuti nella presente trascrizione. Le note a piè pagina, numerate per pagina nell’originale, sono state rinumerate con numerazione progressiva globale. Sono stati corretti i seguenti refusi: - *p.21, nota, l.1:* a difesa della loro donne —> a difesa delle loro donne - *p.26, nota (1), l.9:* si rapppresentano —> si rappresentano - *p.22, nota, l.-1:* su questa terra —> se questa terra - *p.48, nota (1), l.2:* Sarà —> Sara - *p.50, nota (1), l.3:* quì la traduzione —> qui la traduzione - *p.51 l.13:* popoteva —> poteva - *p.69, nota, l.-7:* aspostrofare il popolo —> apostrofare il popolo - *p.76 l.4:* di tessere quì —> di tessere qui - *p.98 l.17:* l’inanienabilità —> l’inalienabilità - *p.139 l.-16:* Aggiungeremo quì —> Aggiungeremo qui - *p.140 l.21:* acccenna —> accenna - *p.159 l.6:* si trovasseso —> si trovassero - *p.164, nota, l.-11:* dell’asia —> dell’Asia - *p.173 l.-13:* Gesusalemme —> Gerusalemme - *p.174 l.13:* hhamuchà —> hhanuchà - *p.202, nota (1), l.3:* olocuasto —> olocausto - *p.211 l.-6:* cerchi quì? —> cerchi qui?» - *p.216 l.-12:* nuovamente lu —> nuovamente lui - *p.216 l.-4:* non poi tendo —> non potendo - *p.221 l.7:* allora al —> allora la - *p.221, nota, l.-17:* montaneamente —> momentaneamente - *p.226 l.-5:* seguirci sin quì —> seguirci sin qui - *p.226 l.-2:* ripetendo quì —> ripetendo qui - *p.227 l.7:* da Gesusalemme —> da Gerusalemme Punteggiatura corretta: - *p.10, l.28:* sette giorni da _ssevan_, _ssivñhà_) _parentesi mancante_ - *p.15 l.-6, nota:* «Io sono colui che sono» _punto mancante_ - *p.19 l. 17:* da Mosè nel deserto. _punto mancante_ - *p.20, ultima linea del testo*: tribù di Manasse _punto e virgola invece di virgola dopo il riferimento di nota_ - *p.20, nota (2), l.3:* grassi pascoli, _punto e virgola invece di virgola_ - *p.21 l.13:* Canaan, _punto e virgola invece di virgola_ - *p.48, nota (1), l.1:* della stessa sua moglie _punto di troppo_ - *p.51, nota (1), l.5:* conseguenze del rifiuto. _punto mancante_ - *p.53, testo, l.-5:* per pena dell’adulterio. _punto mancante_ - *p.55 l.7:* di ripudiare la moglie: _due punti mancanti_ - *p.55 l.18:* Il giorno... _due soli punti di sospensione_ - *p.55 l.22:* rimando te... _due soli punti di sospensione_ - *p.65 l.19:* per noi. _punto mancante_ - *p.65 l.-8:* (Dio) _punto superfluo_ - *p.65 l.-4:* i suoi raggi benefici. _punto mancante_ - *p.76 l.-5:* ottant’anni. _punto mancante_ - *p.93 l.-10:* entro il Tempio _due punti superflui_ - *p.94 l.1:* fatto a catena. _due punti invece del punto_ - *p.108, nota (1), l.-14:* verso l’Oreb, _virgola mancante_ - *p.112 l.10:* in occasioni di matrimoni; _due punti invece di punto e virgola_ - *p.124 l.3:* in tutto il paese. _virgolette » superflue_ - *p.148 l.12:* una tale colpa? _virgolette » superflue_ - *p.176, nota(1), l.-7:* » (per la libertà di Gerusalemme) _mancano virgolette chiuse dopo ierusaláim_ - *p.178 l.-11:* 3. Lo sékel _punto dopo il 3 mancante_ - *p.182 l.-19:* capi. _punto mancante_ - *p.194 l.-4:* eterna predilezione. _virgolette » superflue_ Lezioni dubbie lasciate tali (tra parentesi quadre la probabile lezione corretta): - *p.19 l. 17:* ommettiamo _[omettiamo]_ - *p.26, nota (1), l.-2:* mêta _[meta o méta]_ - *p.36 l.3:* nomade _[nomadi]_ - *p.36 l.4:* hóel _[óhel]_ - *p.36 l.9:* iadéth _[iathéd]_ - *p.43, nota (1) l.5:* contradizione _[contraddizione]_ - *p.44, ultima linea del testo:* Daltronde _[D’altronde]_ - *p.45 l.24:* E i figli degli uccisori: _citazione nella citazione, virgolette « aperte due volte e chiuse una volta sola_ - *p.45, nota, l.2:* Bibblica _[Biblica]_ - *p.47 l-2 (testo):* corruttella _[corruttela]_ - *p.74 l-7:* allo entusiasmo _[all’entusiasmo]_ - *p.98 l.21:* perdominanti _[predominanti]_ - *p.100, nota, l-4:* nero splendissimo _[splendidissimo o splendentissimo]_ - *p.101, nota, l-18:* in lontanza _[in lontananza]_ - *p.104, nota (1):* «Dice così il Signore,... _citazione nella citazione, virgolette « aperte più volte che chiuse_ - *p.105 l.4 seg.:* «Per quale motivo _citazione nella citazione, virgolette « aperte due volte e chiuse una sola_ - *p.170 l.-15:* Finees _[Pinehhas]_ - *p.177 l.9:* Zéretk _[Zéreth]_ - *p.177 l.18:* chivrád-érez _[chirvád-érez]_ - *p.181, nota, l.-4:* «Nei pubblici digiuni _citazione nella citazione, virgolette « aperte due volte e chiuse una sola_ - *p.185—193:* _§ 1. 5. hanno il punto, § 2 3 4 6 no_ - *p.227 l.2 seg.:* «Popoli numerosi _citazione nella citazione, virgolette « aperte due volte e chiuse una sola_ *** End of this LibraryBlog Digital Book "I mesi dell'anno ebraico" *** Copyright 2023 LibraryBlog. 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