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Title: Che cosa è l'amore?
Author: Panzini, Alfredo
Language: Italian
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  CHE COSA È L'AMORE?



  CHE COSA È
  L'AMORE?


  Novelle di ALFREDO PANZINI



  MILANO Società Editoriale Italiana


  Diritti letterari ed artistici riservati per tutti i paesi alla
  SOCIETÀ EDITORIALE ITALIANA--MILANO

  Copyright 1912, by SOCIETÀ EDITORIALE ITALIANA--Milano.


  =A Titiritì=



  INDICE

    I.--Che cosa è l'amore?                   Pag.   9

   II.--Le olimpiadi e la signorina Olimpia      »  21

  III.--Abito nero e abito bianco                »  33

   IV.--Le mosche e la Polonia                   »  47

    V.--La busecca                               »  59

   VI.--Ahi, quel povero colonnello!             »  71

  VII.--La bambola fatale                        »  85

 VIII.--Vuoi sapere come ho fatto il milione?    »  97

   IX.--Un piccolo bacio, qui!                   » 107

    X.--Giacominus Giacomini                     » 119

   XI.--Come la lingua della signora si calmò    » 133

  XII.--La morte di un re                        » 145



CHE COSA È L'AMORE?


Il signor Aurelio, uomo di abitudini mentali alquanto filosofiche, e
perciò mediocre accumulatore di denaro, viaggiava in uno scompartimento
di terza classe.

D'estate si viaggia meglio in terza classe che in prima, specialmente
oggi che la democrazia ha attaccato dei carrozzoni belli e inverniciati
di terza ai diretti, così che poveri e ricchi hanno la soddisfazione
fraterna di trovarsi a breve distanza, trascinati dalla stessa forza; e
più specialmente si viaggia bene in terza classe quando non si gode di
nessun diritto a biglietti gratuiti, come era il caso del signor
Aurelio.

La campagna, verde e rosea, fuggiva davanti al finestrino, e quel
movimento di tutte le cose suggeriva al signor Aurelio quest'idea
peregrina: «tutto è mobile in questo mondo.» Ma poi considerando che gli
oggetti si movevano soltanto nell'apparenza, meditò quest'altra idea,
anche più peregrina: «tutto è stabile ed immobile in questo mondo.
Dormi, Pina, Pinuccia bella! sì, il _lacu_...»

Il signor Aurelio non viaggiava solo, ma con una sua bambina, gracilina
e bionda come l'oro. L'aveva posta a giacere sopra un cuscino: aveva
steso un lenzuoletto candido per evitare il contatto coi microbi: ma la
non voleva dormire. Oltre che gracilina, nervosa, eccitabile! Dio, che
disgrazia essere nati da un padre di abitudini filosofiche!

«Sì, cara, il _lacu_!» Ella aveva un suo linguaggio, tutto fatto di
strane analogie, che lui solo, il padre, intendeva. Ogni corso d'acqua
era _lacu_, cioè, lago. Ogni oggetto, fuori del finestrino, destava in
lei enorme meraviglia. «Eppure un poco di ricchezza e di proprietà per
queste povere creaturine, non è mica un delitto!» (Il signor Aurelio già
pensava alle teorie collettiviste che oggi sono così in vista
sull'orizzonte umano, e per le quali egli simpatizzava un giorno sì, e
un altro giorno no).

       *       *       *       *       *

Cadeva il vespero; ed una grande città sfumava enorme, rossiccia,
turrita in fondo al piano: il diretto vi si approssimava rapidamente.

--Ci fermeremo qui--pensò il signor Aurelio dopo molte
considerazioni.--Proseguire col treno della notte e col freddo che fa
alla notte, non conviene.

Lungo la notte fredda vegliano le bronchiti, le polmoniti, ed altre
cose feroci che la Natura sparge e contro cui la sua povera mimma aveva
le più limitate difese.

Per tutte queste ragioni il signor Aurelio instituì questo bilancio, se
era più dispendioso proseguire, mutando la terza in una seconda classe,
o pernottare in un albergo molto pulito, quasi in un _hôtel_, non per
sè--si intende--ma per la Pina; un _hôtel_ dove i microbi fossero meno
visibili. Vinse la scelta dell'_hôtel_, anche perchè si correva il
rischio di trovare una seconda classe piena zeppa di gente, e allora la
Pina? Non dobbiamo meravigliarci di questi dubbi, considerando che il
signor Aurelio aveva per le altre questioni un colpo d'occhio fulmineo,
ma per le piccole operazioni quotidiane era spesso impicciato in una
maniera troppo vergognosa per un uomo della sua barba, della sua età.

Scese, dunque, e si fece condurre in un albergo dove i camerieri hanno
l'abitudine di portare la camicia bianca e si assicura che la biancheria
del letto è di bucato. Il naso del signor Aurelio fece, tuttavia,
parecchie esperienze.

Disse il babbo alla sua mimma:

--Una felice idea, adesso, Pina. Andiamo fuori di porta io e te.
Troviamo un bel _restaurant_, e facciamo un bel pranzo.

E richiamò alla Pina tutte le cose che le piacevano: latte, _purée_,
pappa, e le fragole rosse, queste soltanto da vedere e da ammirare.

--Ah! sì!--faceva la Pina con gran serietà e convinzione.

Ma poi, lavata che ebbe la sua mimma, un grave pensiero si affacciò alla
mente del signor Aurelio: «Le metterò il berretto di lana o il
cappellino di velo?» Il pomeriggio era tiepido, ma calato che fosse il
sole, probabilmente l'aria si sarebbe fatta fredda. Dunque mise alla
Pina il cappello di velo, e nella tasca si tenne la berretta di lana e
sul braccio prese la mantellina di lei.

Uscì: il corso era tutto elegante, fastoso, signorile, nella rossa luce
del tramonto, che stendeva come un pulviscolo di porpora fra la gente,
ed anche di microbi.

«Oh, io prendo la mia Pina in braccio, e chi vuol guardare, guardi»,
così deliberò il signor Aurelio.

Pensare che vent'anni addietro, quando lui abitava in quella città, da
studente, si sarebbe messo a ridere vedendo un uomo con la barba come
lui ora aveva, andare, a modo di una balia, con una mimma in braccio!

Fece il corso. Giunse nella piazza dove erano i tram. Scelse un tram che
conduceva verso la collina, fuori di porta. Si attraversò un altro gran
corso, poi con diletto si vide che le case diradavano, ed i pioppi
sorgevano verdi con un fremito già di frescura vespertina. Il tram
correva oramai per la campagna, nella bianchezza della via, tagliata
netta, ai margini, dal verde dei campi. Il tram cominciò a salire verso
i primi colli, e quando fu giunto ad un piccolo alberghetto o
ristorante, quivi le rotaie finivano ed il tram si fermò.

L'alberghetto era pulito, ed aveva una bella cucina. La padrona, in bel
grembiale bianco vi troneggiava fra i fornelli e le casseruole, e due
minuscoli garzoncelli, in berrettino bianco, la aiutavano a sbucciare
pisellini e tagliare una gran spoglia gialla e grande come luna
nascente.

--Buona sera, signore--e--oh, che bella mimma--disse la padrona venendo
incontro agli ospiti.--Vuol restare servito qua? o vuole invece andar di
sopra, che c'è una bella terrazza? C'è pronta una minestrina di pasta
battuta coi piselli che è una bontà, e dei maccheroncini che aspettano
che l'acqua bolla: poi ci sono bistecche, costolette. Oh, vuole un mezzo
pollastrino alla diavola? E da bere desidera vino o birra?

Anche qui non era facile decidere: ma quanto alla terrazza, sì, fu
deciso: per il resto avrebbe pensato poi, ma certamente, intanto, una
minestrina minuta, e ben cotta per la mimma.

--E il brodo leggero, leggero, quasi acqua, mi raccomando!

--Per questo non dubiti, Signore--disse l'ostessa.

Salì dove c'era la bella terrazza.

Essa era rossa di gerani in gran fiore e punteggiata di campanelle che
già chiudevano i loro petali iridescenti. La sera imminente alitava la
sua pace e la sua frescura, oramai, nell'aria calda del giorno.

La Pina vide le belle tavole preparate, e fece un «oh» di felicità.

--Guarda, nei campi, mimma--disse il babbo sollevandola--, ecco il
grano. Esso è biondo oramai. Guarda sopra la collina quei bei draghi e
serpenti grandi d'oro che vi si posano: le nuvole. Vedi come si rompono,
come si snodano; dileguano, impallidiscono! E vedi tutti quei cipressi
neri come una processione? Oh, ma quelli non li guardare!

--Oh, la luna!--fece la mimma che aveva scoperto anche la luna, una
falce pallida, pallida di luna nel cielo d'oriente.

--Già, anche la luna: tutto tuo, mimma!

--Oh sì, e la pappa...

       *       *       *       *       *

Parlavano forte il babbo e la fanciullina perchè nella terrazza non
c'era alcuno.

Ma no! Nella stanzetta che precedeva la terrazza, c'era un giovane: un
elegante aitante giovane di primo pelo. Pareva solo: ma anche uno meno
distratto del signor Aurelio, subito si sarebbe accorto che non era
solo. Egli stava dritto e guardava i due nuovi venuti, mentre con una
mano accarezzava una rotondità provocante che terminava in due
scarpette alte e lucide. Era una _grisette_ graziosa, nascosta dalla
figura del giovane ed appoggiata al davanzale. Si voltò: apparve un
volto birichino di giovanetta, con un nasetto all'insù. Curva sul
davanzale, la cara fanciulla si lasciava lisciare molto dilettosamente.

«Anch'io, se ben mi ricordo, vent'anni fa devo aver fatto qualcosa di
simile--pensò senza rancore il barbuto signore--e certamente era una
cosa molto piacevole. Anzi si può affermare che le osterie suburbane
sono una succursale del paradiso; ed un'ostessa che tiene pronte le
tagliatelle e delle uova e delle bistecche, l'estate specialmente che fa
gonfiare i papaveri, ella è una benemerita del genere umano; e tutte
quelle buone cose da mangiare in due, fra il verde, rappresentano come
degli zeri aggiunti all'esponente ben miserabile della felicità.»

Queste cose pensò il signor Aurelio mentre la Pina contemplava nella sua
innocenza un piccolo gnomo di terracotta, che la guardava dalla sua gran
faccia di satiro ridente.

«--La presenza delle terze persone--continuò il signor Aurelio--non è
piacevole, e noi certo non siamo piacevoli e bene accetti a quei due
innamorati».

Per questa ragione, dopo aver disegnato sulle labbra un garbato sorriso,
il signor Aurelio non esitò a parlare così:

--Proseguano pure le loro occupazioni, come se noi non ci fossimo: la
piccina, come ben vedono, è ancora innocente; e, per conto mio, ciò che
non fa male alla piccina, non mi disturba affatto.

Disse ciò da filosofo e insieme da persona educata: così come si suole
dire per cortesia: «Seguiti, o signore, a fumare lo stesso! A me non
disturba il fumo, anzi...»

Probabilmente i due innamorati avrebbero seguitato a fumare, anche senza
permesso.

La ragazza sorrise, cioè distese in su le estremità delle rosse labbra e
socchiuse i suoi grassi occhietti. Il giovane, invece, aggrottò le
ciglia, e parve pensare se quelle parole contenevano l'offesa di una
ironia. Ma no! Allora sorrise anche lui, e ringraziò.

Poi si stabilì un certo scambio di parole fra le due coppie di
commensali.

Aspettando che il cameriere portasse in tavola, la ragazza fece
conoscere meglio alla mimma quei gnomi di terracotta che ornavano la
terrazza, in figura di vecchietti ridenti, barbuti ed incappucciati; e
le spiegò che quei coboldi incappucciati non mangiano le bambine, nè
buone nè cattive; ed infine le mostrò l'imagine sua di angeletta
deformata nelle spere di vetro. Ciò fece molto ridere la mimma. E il
signor Aurelio fu molto riconoscente alla graziosa _grisette_.

Poi vennero i maccheroncini fumanti nel pomidoro nuovo e nel burro:
venne la minestrina leggera per la mimma, ed allora ognuno badò ai fatti
suoi.

Ma poi accesa la sigaretta, lui e anche lei, lui, il bel giovane, disse
al signor Aurelio:

--Eppure, veda, caro signore, vi sono dei brontoloni, specie certi
vecchi barbogi e puritani, che in una sala di albergo si scandalizzano
se trovano una coppia, così come noi, _tête-à-tête_, che fa all'amore. È
invidia. Creda, tutto invidia.

--Certo è invidia, invidia dormente--rispose l'uomo filosofico.--Io però
non la provo affatto. Io provo un altro ben diverso sentimento quando
vedo due giovani, come voi due, avidi,... avidi di confondere il loro
essere in un essere solo.

--Mi piace la frase--disse il giovane.--Ma tu, Argia, non ne hai capito
niente, vero?

L'Argia sosteneva che aveva capito benissimo, e poi, disse:

--Il sentimento, mi dica il sentimento che lei, signore, prova quando
vede due giovani che si vogliono bene.

L'uomo filosofico meditò e poi disse:

--Oh, una gran cosa, sublime e terribile! Veda, signorina, comunemente
il pubblico, quando osserva due amanti camminare su e giù per i luoghi
solitari; o, a tavola, negli alberghi, come può essere qui, li vede
alternare un boccone e un sospiro; e lasciare in pace la bistecca per
appiccicarsi per mano; e fare sbocciare piccoli baci dalle labbra
socchiuse, ebbene allora il pubblico grossolano crede e giudica che ciò
sia cosa immorale. Ma niente affatto...

--Ma sicuro...--disse l'Argia con molta approvazione.

--Adagio: la mi lasci finire, signorina. Per me i due innamorati non
sono due che si divertono; ma due meschinelli, due inconsapevoli
lavoratori e servi di quella grande autocrate che si chiama Natura, i
quali, poveretti, ubbidiscono a certe leggi che impone questa fatal
Natura. A me è accaduto lo stesso come accade a voi. Ho amato, ho
baciato e poi..., e poi e poi è nata quella lì. Allora ho sentito la mia
giovinezza morire, ed ho sentito che la mia vita non aveva più altro
ufficio che quello di difendere questo piccolo debole fiore delle mie
carni.

L'uomo filosofico prese la Pina sulle ginocchia e la guardò con grandi
occhi, umidi e dolci; e domandò:

--Lei non ha mai pensato a queste cose, signorina?

La graziosa Argia questa volta non rise.

Ma il giovane, recingendo alla sua bella amica il fianco, disse:

--Lei deve essere filosofo, caro signore. Ma in verità ella è troppo
filosofo, e perciò non è più filosofo. Anch'io sono filosofo e come
studente di medicina, è quasi un dovere essere tale. Certamente io
convengo che la natura imponga queste leggi. Ma il nostro dovere di
uomini civili è di non pigliarlo sul serio il codice semi-barbaro della
natura. Frodarle fin dove si può queste leggi! Questo sì è il segreto
della vita!

--E se non si può?--richiese il signore.

--Se non si può--disse in tono di suprema rassegnazione il giovane,--si
è dei deboli, cioè bisogna accettare di essere infelici. Ecco tutto. Ma
bisogna potere! Pensi, caro signore: non abbiamo mica noi, nascendo,
approvato, firmato e sottoscritto il contratto feroce che la Natura ci
ha imposto! È lei che ce lo ha imposto. Chi non lo sa? È una delle prime
nozioni di fisiologia: _alla natura brutale niente importa di noi, ma la
conservazione di noi come specie_. Invece a me importa moltissimo di me
e niente affatto della conservazione della specie. Io perciò come
persona intelligente, mi ribello ai decreti imperiali della natura, o
quanto meno cerco di raccogliere le rose e buttare via le spine.
L'Argia, quest'amabile fanciulla, possiede anche lei un'intelligenza
filosofica istintiva e condivide queste mie idee; e perciò tutti e due
facciamo un amore facile, piacevole, direi così, sportivo; e molti
giovani fanno come noi, e fanno saviamente. E lei che mi risponde ora,
caro signore?

L'uomo chinò il capo.

--Lei è destinato ad essere più felice di me, e perciò a vivere di
più--disse e guardò a lungo la sua piccola Pina.

Poi sospirando aggiunse:

--Tutto il mio mondo è qui, in questi quattordici chili di carne! Qui
stanno tutte le leggi della vita, per me!

Era sera oramai.

Mise alla Pina la berretta di lana e la mantellina.

       *       *       *       *       *

Altre coppie intanto dall'amore «sportivo» cominciavano ad occupare
rumorosamente qua e là i tavoli. Col nascere delle tenebre cominciava la
giornata gaia del piacere per gli amanti più saggi. Per lui si chiudeva.

       *       *       *       *       *

Ricondusse la Pina all'albergo, voltò la chiave della luce elettrica, e
la bella stanza si illuminò di bianchezza con gran piacere della Pina.

Il signor Aurelio le tolse poi le vestine, e la mise sotto le coltri;
dicendole che stesse buona e dormisse.

Ella dormiva. E lui guardava con occhi di infinita domanda quella strana
imagine che era sopra il letto: Maria Vergine, vestita di azzurro, con
gli occhi in su, sopra un arco di stelle!

--Quella lì--mormorò il signor Aurelio--è destinata a correggere i
tremendi decreti di Dio o della Natura. Ma che ne sai tu, povera
imagine?



LE OLIMPIADI E LA SIGNORINA OLIMPIA.


--Lei faccia i suoi libri e vada via!--scoppiò a dire il signor
professore contro di me.--E via subito, subito, subito. Fuori da
quest'aula!

E la mia giovinezza fu tutt'ad un tratto investita, assalita da
quell'uomo congestionato in faccia, che mi respingeva con parole di
minaccia, coi gesti, con la persona, finchè l'uscio della scuola fu
ribattuto contro di me.

E ancora sento e vedo lo stupore e il silenzio dei miei compagni. Ma che
misfatto mai avevo commesso? Quale malefizio avevo mai perpetrato contro
quell'uomo? Quale lebbra era apparsa in me, giovinetto, per essere
espulso a quel modo?

Io mi trovai solo, nella strada, coi miei libri di greco: le tempie che
mi martellavano, il pensiero che non si fissava più se non in un'unica
idea: la licenza liceale perduta, il mio avvenire distrutto, il mio
povero babbo... E allora cominciai a lagrimare.

E così lagrimando mi accorsi che non ero più tra le vie tumultuose
della città; ma seduto su di una banchetta solitaria dei giardini
pubblici, e sopra di me i tronchi protesi e neri di un'antica pianta si
aprivano pudicamente, meravigliosamente con le loro infinite gemme di
petali rosa, e più sopra ancora splendeva l'azzurro del cielo.

Era il dolce maggio.

Ma quale misfatto avevo io commesso?

Lo dirò candidamente ora che la tranquillità è ritornata nel mio
spirito, e molto tempo è trascorso.

Io avevo allora diciotto anni ed ero un buon scolaro di greco e di
latino. Ero ossequiente alla mitologia greca, credevo alle virtù dei
Greci e dei Romani. Credevo, senza che il mio pensiero avesse sino
allora sollevato alcun dubbio, in Giove Tonante, nei Titani, nelle Muse,
nelle regole di grammatica e di retorica. Ero, insomma, un bravo
figliuolo, un buon figliuolo, ed anche un gentile ingenuo figliuolo.

Ma il vero è che in quel giorno io avevo inconsapevolmente offeso il mio
professore di greco in ciò che di più delicato e sensibile ha l'uomo,
cioè nella sua vanità.

Ma quale colpa ne avevo io se ignoravo nella mia candida anima
l'esistenza di questo punto vulnerabile nell'epidermide coriacea
dell'uomo? Se lo studio delle virtù greche e romane mi avevano quasi
instillato la convinzione che dire la verità fosse il miglior modo di
mettere in pratica quelle illustri virtù?

Dunque in quel giorno si spiegava un passo di autore greco e vi si
trattava delle Olimpiadi. Io sostenevo che le Olimpiadi erano uno spazio
di quattro anni nel complicato Calendario dei Greci; il professore
sosteneva che esso era di cinque anni. E certo io avevo più ragione di
lui! Ma poi la disputa si inacerbì e, non so come, mi vennero fuori
queste vere ma infelici parole, cioè che anche i professori di greco si
preparano sulle versioni letterali dal greco.

Non l'avessi mai detto!

Quel maestro di umanità perdette d'un tratto ogni sua umanità, divenne
furente e mi scacciò, come ho detto.

       *       *       *       *       *

Dunque io lagrimavo silenziosamente sulla banchetta dei giardini
pubblici, sotto quella dolce fiorita di rose, e un cantare lontano di
uccelletti pareva come aiutasse le timide gemme a sbocciare.

Allora mi accorsi di non essere solo sulla banchetta.

Una giovane donna sedeva presso di me.

Io fino a quel giorno avevo conosciuto, anzi avevo combattuto con i tre
generi, maschile, femminile e neutro; ma ignoravo che cosa fosse
quell'essere delizioso e perfidamente saggio che è la femmina.

Era bella? era elegante colei che sedeva presso di me? Io ben sentivo il
languore di due grandi pupille nere che sempre più si venivano scostando
da un fine libro e si posavano, quasi avvolgendomi, sulla mia giovinezza
lagrimante.

Alla fine udii una voce pietosa e quasi materna che mi rivolse queste
parole:

--Perchè piange, se è lecito domandare?

Così cominciammo a parlare, ed io raccontai tutta la mia disavventura,
dalla questione delle Olimpiadi a quell'espulsione feroce, la prima
grande sventura della mia vita.

Ella ascoltava. Un grazioso sorriso di meraviglia e di pietà balenava
sulle sue labbra. Il volto, un po' chinato, mi si faceva sempre più da
presso: un volto pallido, ambrato, fine, strano, delimitato da un velo
nero che si inarcava sulla fronte: perchè all'infuori di quel volto
bianco, di due nude bianche mani, tutto era nero: tutta chiusa ella era
in una veste nera. Ma non ne emanava alcun fantasma di morte o di lutto;
ma come un profumo esotico e forte.

A quel profumo anzi io sentivo sobbalzare l'anima mia stranamente, e
quasi sbocciare come sbocciavano le gemme della pianta che si allargava
sopra il mio capo. E ciò mi dava un senso di nuovo piacere, che nasceva
dal mio dolore.

Diceva ella ogni tanto:

--Oh, che roba! Che orrore! _Pauvre enfant!_

Poi con volubilità che quasi mi offese, mi pregò che le spiegassi quella
storia delle Olimpiadi.

Che cosa le potevano interessare le Olimpiadi?

--Così--disse con un sorriso ambiguo--, è perchè anch'io mi chiamo
Olimpia.

Allora io cominciai a raccontare.

--Ella deve sapere, signora--dissi--che nell'anno 776 avanti Cristo,
cioè 23 anni prima del 753, anno della fondazione di Roma...

A queste mie parole la signora strabiliò, e inarcò le grandi ciglia.

--E lei, così giovane,--disse--deve ricordare tutte le cose dai secoli
delle Olimpiadi sino ad oggi? Ma se io non ricordo più nemmeno quello
che è avvenuto ieri! _Ah, pauvre enfant!_

E mi guardò con intensa pietà.

Io andai avanti e le spiegai tutta la storia dei giuochi Olimpici:
cominciando da quel re briccone di Enomao, che sfidava alla corsa dei
cocchi tutti i pretendenti alla mano della bella sua figlia
Ippodamia,--ma siccome l'asse dei cocchi era di cera, veda, signora,
così tutti cadevano vinti.

--Oh, che birbante!--disse la signora Olimpia.--Ma oggi sarebbe
squalificato quel signore!

--Ma un bel giorno--proseguii--nella terra Apia arrivò Pelope, figlio di
Tantalo.--La storia di Pelope e dei suoi cavalli fatati interessò
moltissimo la signora, specialmente quando imparò la sua vittoria su
Enomao, il suo sposalizio con Ippodamia.--E da queste nozze poi nacque
Atreo, che fu padre di Agamennone e di Menelao.

--Oh, guarda--disse la signora Olimpia, e sorrise in modo che mi
sconcertò.

--Ho detto qualche sciocchezza forse, signora?

--Ma niente del tutto--e rideva gaiamente.

Ma poi si fece seria e mi domandò:

--E lei deve sapere tutte queste cose?

--Ah sì, e altre ancora.

La signora si strinse le tempie con le mani, come fosse stata colta da
un accesso improvviso di emicrania.

Domandò:

--E cosa prendono di paga i vostri professori, che insegnano tutte
queste cose?

--Due o tremila lire, credo, signora.

--All'anno?

--Sì, signora, all'anno.

La signora parve sbalordire.

--E anche lei, se volesse fare il professore, prenderebbe lo stesso?

--Così credo--risposi.

I grandi occhi della signora Olimpia espressero una grande pietà.

Disse:

--Ma se io ne spendo quasi altrettanto per le calze...!

Allora stupii io:

--Per le calze, signora?

--Sì, calze e accessori--si affrettò correggendo. Ma poi parve pentita
delle sue parole.

Domandò di vedere i miei libri greci: li girò in alto, in basso come una
cosa nuova.

Dissi io allora:

--Anche lei leggeva, signora.

--Ah, il mio libro non si può vedere: e sigillò il libro, posando sulla
busta di cuoio la mano.

Io non insistetti e tacqui.

Ma dopo un poco mutò pensiero.--Guardi--mi disse audacemente.

Guardai. Era un libro francese, un romanzo. Non lo avevo mai letto; ma
il titolo non mi era nuovo. Poi ricordai. Ricordai che un giorno mio
padre, parlando con un magistrato di quel libro, aveva detto: «Finchè
non riuscirete a togliere dalla circolazione questo genere di libri, le
vostre leggi non rappresenteranno che un'ipocrisia sociale di più».

--Non ha letto mai questo libro?

Io arrossii grandemente.

Per me? per lei arrossii che leggeva quel deplorevole libro? Non so: mi
sentivo un gran calore nelle vene.

--Davvero non l'avete mai letto?--chiese socchiudendo maliziosamente le
sue grandi pupille.

--Davvero!--e arrossivo anche di più.

Mutò discorso.

--Dunque il vostro caso è disperato?

--Sì, signora.

--Ma io non credo--disse ad un tratto assumendo un'aria ben strana di
serietà.--Anzi è un affare rimediabile. Dunque il greco, voi dite, è
molto difficile. E deve essere così! E voi assicurate che anche i
professori si aiutano con le traduzioni?

--Sì, signora, con le traduzioni letterali dal francese. Io non dico che
tutti i professori facciano così, ma il mio fa così.

--E voi gliel'avete detto?

--Pur troppo, signora--sospirai--, e magari potessi rimediare al
malfatto!

--Semplice--disse.--Carta, penna e calamaio. Vi detto io.

       *       *       *       *       *

Ora io non ricordo più come avvenne, ma so per certo che per trovare
carta, penna e calamaio, io salii con lei, da lei, nel suo appartamento.

Venne ad aprire una cameriera. Non ricordo l'appartamento. Mi parve
strano e diverso da quello di casa mia. Perchè diverso, non so.

La camera da letto dove mi introdusse, era misteriosamente elegante, con
un lettuccio piccolo, grazioso, tutto a trine.

Ma non conservo percezioni nette; soltanto ricordo che un brivido
morboso si veniva impadronendo di me, mentre ella con calma esacerbante
si toglieva, allo specchio, tutti quegli strani armamenti della testa.

Mi pareva che qualcosa di inusitato, di enorme dovesse fra poco
succedere.

--Ma sapete--disse--che l'abito nero dà un bel caldo! Deve essere caldo,
oggi.

--Sì, caldo!--dissi, e ricordai non so quanti gradi di temperatura.

--Oh, anche di più!--disse ridendo.--Permettete?

Uscì. Rimasi solo. Rientrò poco dopo. Era uscita dalla guaina nera: era
tutta vestita di una gran veste rosea. Mi parve più magnifica. Stupii
come sotto quelle maniche dell'abito nero ci fossero state nascoste due
braccia così bianche! Ebbi l'impressione di una energia occulta e
deliziosa in quelle braccia nude.

--Oh, che cattiveria, che cattiveria, che cattiveria--disse ridendo e
venendomi sempre più vicino, quasi rasente--tormentare col greco e con
tutti quei libracci un povero bambino!--e così dicendo crollava la
testa, e si appressava di più.

--Povero bamboccione--disse d'un tratto, e mi prese con le due mani
adunche per i capelli ed accostò il mio volto alle sue grosse labbra.

Io impallidii. Ella parve godere del mio pallore. Non parlava più.

Probabilmente la mia faccia era diventata una mela o una pesca di
luglio: una pesca sugosa e fresca che ben si morde.

       *       *       *       *       *

--Ora, ragazzo, _s'il te plait_, torniamo alle Olimpiadi e al tuo
professore--disse.

A me parve come di essere desto dal sogno in cui il Veglio della
Montagna immergeva coloro che gli dovevano essere devoti sino alla
morte.

Io non ne volevo più sapere nè di Olimpiadi, nè di scuole.

--Voi siete ben goloso, _mon petit_. Torniamo alle Olimpiadi.

In quell'ampia vestaglia ella si era rannicchiata in fondo ad una
poltroncina.

--Mettetevi lì, e buono. Già bisognerà fare così!--Prese un tavolino e
lo collocò fra la sua persona e la mia a guisa di bastione.--Posso
offrirvi?

Mi porse una sigaretta: ne accese una per sè.

Devo confessare che la mia mente era così annebbiata che se colei mi
avesse detto: «manda i padrini al tuo professore, e battiti a duello»,
io avrei trovato il consiglio naturalissimo.

Invece il suo consiglio fu molto savio e rivelò molto acume. Aggrottò le
ciglia e disse:

--Tu capirai che lui dovrà pensarci due volte prima di formulare l'atto
di accusa contro di te. In fondo è un atto di accusa contro di sè.

--To', è vero!

--Ma non basta: la sua rabbia è appunto in relazione alla impossibilità
in cui l'hai messo di punirti...

--To', è vero! Ma può vendicarsi--aggiunsi.

--Perfettamente. Ma tu prendi dal «secrétaire» carta e busta e scrivi.
Scrivi: detto io. No, quel foglio lì.--Guardai il foglio. Vi era
impresso in azzurro, «Olympie».

Oh, Olimpia, dolce pingue nome! Tutto azzurro, tutto fresco come la
grande acqua del mare.

--Su, andiamo, scrivi! Eri così «savio» poco fa.

Io scrissi: «Signor Professore, in un momento di vera aberrazione
mentale ho osato formulare contro di lei un'accusa che tanto più mi
tormenta di rimorso quanto più riconosco la sua dottrina e il suo
sapere. Come posso rimediare se non facendo piena dichiarazione della
mia colpa e supplicandola di volermi perdonare?»

--È tutta una bugia--dissi.

--E la bugia si trova dentro la vita o fuori della vita?--mi chiese
l'adorabile Olimpia.

È vero: la menzogna è nella vita. E allora perchè soffrire per
combattere quello che è nella vita, che è la vita?

Guardò l'orologio.

--Presto, pòrtala subito al tuo professore.

       *       *       *       *       *

O me, miserabile! Mi feci quasi scacciare da quella stanza da cui non
volevo più uscire.

       *       *       *       *       *

Il giorno dopo il professore annunziò la mia lettera alla scolaresca; la
lesse anzi; poi pronunciò un discorso di elogio alla mia persona. Ma io
rimasi molto indifferente.

       *       *       *       *       *

Dopo due mesi ero in possesso della licenza, ma senza troppo studiare.
Me ne era andata via la voglia di studiare. Mio padre forse se ne
accorse, specialmente quando gli manifestai la intenzione di darmi a
tutt'altri studi che quelli classici.

Abbandonai le Olimpiadi per sempre e tutti i secoli di cultura classica
prima di Cristo e tutti quelli dopo Cristo, fino ai tempi nostri.

Bisogna conquistare la vita, e non servire ai morti.

E se i Greci avessero dovuto studiare il greco, e i Romani studiare il
latino, quei due popoli non sarebbero stati i grandi popoli che furono.

Di questa semplice verità io devo la conoscenza alla signorina Olimpia,
artista di caffè-concerto e stella di prima grandezza.



ABITO NERO ED ABITO BIANCO.


--Ecco, veda, io non domando di far carriera: io domando, prima che
questa barba diventi grigia, di poter respirare un poco d'aria igienica.

E il signor Foresti mi presentava sul dorso della mano, dall'alto della
sua statura atletica, la sua barba, dove il grigio già minacciava una
invasione generale: ed io credo che fosse questo grigio, in aumento,
combinato con la speranza, sempre più in diminuzione, di potere
respirare «un poco d'aria igienica», che rendeva il signor Foresti
piuttosto irritabile, anzi molto irritabile, nel suo ufficio di
capo-stazione della piccola stazione di S... Egli era capace di
avvertire dal suo buco di distribuzione dei biglietti: «Questa bottega è
diversa dalle altre: meno avventori vengono, più piacere mi fanno!»; era
capace di dire, percorrendo il treno con le braccia aperte e con un
sorriso tremendamente ironico: «Ma quei baci, ma quei saluti, ma se li
distribuiscano prima!» Capace, nella spedizione delle merci, di
attaccarsi a tutti i rampini di quei regolamenti che odiava di un odio
così profondo.

Un orco! La più docile ed umile pasta di questo mondo: tanto è vero che
non aveva fatto carriera. Certo, in quei momenti, era bene non
avvicinarlo, non parlargli.

Ma io avevo trovato un mezzo per esasperarlo in modo soave ed atroce.
Chiudevo le pupille dolcemente, dicevo con voce sentimentale:

--Ecco qui il suo piccolo giardino, i garofani, l'insalata; ecco la sua
piccola stazione, beata come un eremo, baciata dal primo raggio del sole
e salutata dalle rondini... Ah, se io fossi come lei, capo-stazione,
come lo terrei coltivato, inaffiato, fiorito, il piccolo giardino: e
come ci farei una capannetta per leggere, per istudiare...

--Badi bene come parla, sa! Non si prenda mica giuoco di me!...

--Scusi, capo, io dico sul serio. Per me, costretto a vivere in una
grande città, questa vita idillica sarebbe l'ideale... Lei qui, intanto,
è padrone assoluto...

In verità, in verità, era un reclusorio quella piccola stazione: e lui,
il capo, un coatto, costretto a vivere fra un disco al nord e un disco
al sud; giacchè l'amministrazione lo aveva bensì elevato al grado di
signore assoluto, essendo egli, bigliettaio, spedizioniere,
telegrafista; ma non aveva chi lo sostituisse o lo aiutasse fuorchè uno
scambista e un facchino.

--Quanto ai libri da leggere, eccoli qui!--e prese un ammasso enorme di
libri e carte. Io temetti che me li scaraventasse sulla testa: si
accontentò di accatastarmeli davanti: erano regolamenti, circolari,
istruzioni.

--Questa è la mia letteratura!--Aveva gli occhi feroci.--Creda--mi
diceva poi acquietandosi con la subitaneità della sua indole buona--io
odio questo sole, io odio quest'aria balsamica; io, democratico,
considero questa sudicia umanità di campagna come una razza inferiore.
Persino le donne, capisce lei? persino le donne non mi sembrano donne!

L'aria balsamica, l'aria igienica pel signor capo era quella che si
respira nel fondo di quei pozzi grigi che sono le vie, le piazze di una
grande città.

«Ah, a mezzanotte--sospirava--un teatro illuminato! per le vie lucide
dei tram lucidi! uomini col colletto pulito, donne all'ultima moda;
donne autentiche, lavate; _bars_, _buvettes_, scintillanti di luce
elettrica, vetrine messe con gusto: lavorare sì anche, ma almeno potere
un'ora al giorno sedere entro un caffè, godere lo spettacolo
dell'umanità che passa davanti al vostro tavolino, al vostro calice di
birra autentica! Macchè sole, macchè mare, macchè alberi, fiori,
verdura, insalata, garofani!»

Oh, allora sì, il signor capo si sarebbe «arrangiata» la barba che
oramai diventava grigia, ed avrebbe speso allegramente il capitale
esuberante della salute che rifioriva nel suo corpo.

Da anni ed anni tempestava la direzione per un trasferimento in una
città grande: era lì, rimaneva lì, e non aveva più altra speranza che
quella di ammalarsi sul serio e poter ottenere un congedo.

Ma come fare ad ammalarsi? In quella piccola stazione dall'aria
balsamica, la gente ci veniva per salute all'estate, ed egli aveva la
soddisfazione di vedere bensì in quel tempo aumentato il suo lavoro, ma
senza potere avere la consolazione di ammalarsi.

       *       *       *       *       *

Una mattina di luglio, una ben calda e serena mattina, io presenziavo
l'arrivo di un piccolo treno, che usurpa il nome di diretto.

Il signor Capo, tra spedizione merci e spedizione viaggiatori, ne aveva
sino oltre al berretto paonazzo. Tempo di villeggiatura per la restante
umanità! Un piccolo rossore alla fronte, un parlar secco allo sportello
dei biglietti, un saluto glaciale a me, mi avevano fatto capire che
quella mattina la caldaia cerebrale del signor Capo era in uno stato di
ebollizione pericolosa.

Il treno si era appena fermato che un piccolo signore, da uno
scompartimento di prima classe, si era affrettato a chiamare:

--Aprite, presto, presto!--Poi si era calato da sè, come se la carrozza
fosse in fiamme: ma un po' impediva il ventre che sporgeva dagli
svolazzi di un giacchetto di _orléans_ nero; un poco era colpa delle
gambine esili, che non riuscivano a toccare il predellino.--Dove sono i
carabinieri? i due carabinieri regolamentari?

Le guardie del treno, la gente si affollò subito d'intorno a quel
signore, invocante l'intervento di quegli uomini neri e rossi, i quali,
benchè siano da alcuni considerati come un arcaismo nella società
moderna, tuttavia costituiscono la più visibile manifestazione della
giustizia umana. Essi però erano assenti.

--Ma non si faccia compatire; ma non faccia ridere il pubblico--gli
gridava dal treno, come dall'alto di una tribuna, un giovane signore,
tutto vestito di bianco che pareva un sorbetto vanigliato.

--Lei ha violato la mia personalità! Quel signore ha violato la mia
personalità!--denunciava il piccolo signore nero con gli occhi fuori
dalla testa, con una voce così irosa, che guai per l'elegante giovinotto
se il vecchiotto avesse avuto il resto del suo fisico così bellicoso
come la voce.

Un professionista del furto nei treni? Mai più! L'elegantissimo giovane
scese anche lui per dare spiegazione al pubblico che si affollava.

Semplicemente uno che voleva chiuso il finestrino. Invece il vecchio
signore lo voleva aperto.

--Soffro d'asma!--diceva, e questo era evidente, chè pareva minacciato
da una congestione.

--E se soffre d'asma? Io non posso mica sacrificare il mio vestito e il
mio panama (il panama che il giovane aveva in testa era veramente
bellissimo ed immacolato) alla sua asma!

Così si riaccese la disputa lì sul marciapiede, con l'intervento
giuridico dei signori ferrovieri e dei signori viaggiatori. La questione
giuridica sui finestrini aperti o chiusi fu dibattuta con
quell'entusiasmo del tutto italico per le questioni bizantine. «Esiste
un articolo del regolamento...!» «Non esiste niente, invece! Chi è
immediatamente vicino al finestrino, è padrone del medesimo». «Sì, ma i
finestrini laterali sono piombati. Esiste solo il finestrino di mezzo.
Quello di mezzo è collettivo!» «Ma nel caso specifico erano due soli
nello scompartimento e perciò non si poteva invocare l'appello alla
collettività.» «Esisteva però sotto la vecchia Mediterranea un articolo
che dava diritto di chiudere dalla parte del vento!» «Ma oggi la
Mediterranea è scomparsa: non esiste che lo Stato.» «Le ferrovie di
Stato hanno creato un subbisso di regolamenti: ma nessuna regola
specifica oggi esiste in relazione ai finestrini aperti o chiusi.»

L'elegantissimo giovane con calma imperturbabile dimostrava la assoluta
inferiorità delle ferrovie di Stato italiane, rispetto alle ferrovie
estere. «Chi ha viaggiato all'estero, sa che nei vagoni-_salons_ è
diffusa l'abitudine di tenere chiusi i finestrini in qualunque stagione;
e se quel signore non sa fare a viaggiare...» «Io non so fare a
viaggiare? È il mio mestiere viaggiare...--fremeva il vecchio
signore.--Del resto, qui è unicamente questione di essere gentiluomini o
mascalzoni».

--Be'--disse il capo-stazione intervenendo--a che punto siamo?
Sciocchezze, sciocchezze! Capo-treno, dia la partenza.

--Io rimango--disse il vecchio, immobile, lì, coi suoi occhietti irosi
fissi sull'avversario.

--Io parto--disse il giovane, arrampicandosi, ma con la testa rivolta
all'avversario.--Del resto, sa, se vuole riparazione...

Squillò la cornetta; e il treno si mosse; e il vecchio signore già
emetteva, con tutto il suo fiato disponibile: «Prepotente!», quando
l'elegante giovane signore fu colto da un fremito di spavento. Che era
accaduto?

Il suo abito candido, il suo cappello splendido non erano più bianchi
che davanti.

L'uomo era diventato bicromatico.

Durante la sosta e la disputa, la macchina, seccata, aveva fumato
vigorosamente, e tutto il fumo aveva investito in modo irreparabile
l'abito bianco.

Non era il giovane signore più presentabile alla prossima stazione
balnearia, dove era diretto e dove probabilmente gli stava a cuore di
giungere perfettamente candido.

Già il treno era in moto, ed egli, aperto lo sportello, era balzato a
terra con la sua valigetta.

Il vecchio signore, all'improvvisa discesa del suo avversario, galoppò,
come potè veloce, nella sala d'aspetto. Senonchè il giovane non lo
inseguì. Affrontò alteramente il capo-stazione Foresti, dicendo:

--Favorisca presentarmi il libro dei Reclami.

--Cosa vuol reclamare?--domandò il Capo, con un certo fare un po'
bonario, un po' canzonatorio all'aspetto bicromatico del signore.--Io
piuttosto potrei reclamare contro di lei che è sceso dal treno in moto.

--La sua macchina mi ha rovinato!--esclamò il giovane con voce
esasperata.

Il capo-stazione lo guardò: le sue labbra sorrisero, tutta la barba
sorrise.

--Infatti--disse--è un pochino sudicio.

--E lo dice in questo tono?

--Pretende forse che mi metta a piangere?

--Pretendo che lei faccia il suo dovere. Intendo elevare formale reclamo
contro la sua macchina, intendo domandare risarcimento del danno
subìto... Esiste un articolo del regolamento ferroviario che vieta alle
macchine di fare fumo...

--Infatti--disse il signor Capo--articolo decimo, paragrafo sesto delle
_Istruzioni pel servizio dei macchinisti e fuochisti_: _«i macchinisti
devono astenersi da qualsiasi operazione che possa produrre fumo, o,
comunque, riuscire molesta od incomoda ai viaggiatori, come...»_

--Perfettamente, e allora perchè lei rifiuta di accogliere il mio
reclamo?

--Perchè è stupido--disse il capo-stazione accendendo in tutta pace una
sigaretta.

--Ma chi, stupido?

--Il reclamo, il regolamento, la causa per il risarcimento dei danni...
Il mondo è pieno di cose stupide...

--Ma io le posso citare--disse il giovane signore eccitandosi
visibilmente--il caso del barone Y..., segretario dell'ambasciata
germanica, mio buon amico, che fece causa ed ottenne un risarcimento
dignitoso dallo Stato perchè una macchina aveva, come nel caso mio,
rovinato una _toilette_ della sua signora...

--Ma cosa vuole che me ne importi del suo barone, della _toilette_ di
quella signora? Bella novità che lo Stato paga! Non paga mica, però, chi
dovrebbe essere pagato! Oh, vada a farsi benedire e favorisca di
lasciarmi libero...

Il giovane signore, invece, gli sbarrò il passo e con voce insolente
esclamò:

--E chi crede di essere lei? Un tirapiedi del Governo, forse?

La parola «tirapiedi» ebbe la virtù di trasformare il signor Foresti.

--Le pare che io abbia una faccia di tirapiedi?

Si era drizzato sulla persona, aveva buttato via la sigaretta.

--Tirapiedi del Governo,--confermò il giovane signore andandogli col
viso contro il viso--la metterò io a posto!

--Ma non lo dica neanche per ridere!...--e proferendo queste parole,
distese quella sua larga mano, prese tutto il disgraziato signore per
l'abito e con violenza inaudita lo tirò a sè; poi lo allontanò usando
del braccio come fosse stato un'asta di stantuffo; quindi lo proiettò
sconciamente lontano.

Per sua mala sorte lì presso c'era un carretto delle merci, e il giovane
vi urtò in malo modo, cadendo.

Sanguinava.

Il facchino accorse e lo rizzò a stento.

Fu condotto al pozzo: rimase lì un po', fra un secchio d'acqua e un
asciugamano.

--La caserma dei carabinieri? dov'è la caserma dei
carabinieri?--domandava angosciosamente.

Gli fu indicata. Due chilometri di distanza.

Il signor Capo, intanto, aveva riaccesa la sigaretta: andava fra un
disco e l'altro: la sua galera.

--Ci rivedremo in tribunale!--gli disse il gentiluomo salendo in una
carrozzella.

Il Capo non voltò nemmeno la testa. Ma vide me che attendevo, e allora,
un po' ridendo, un po' fremendo:

--Bel mestiere il capo-stazione!--disse.

--Bravo Capo! Bel colpo! Ma lei ha una forza...

--Da facchino, caro. Doveva vedermi dieci anni fa! Povero giovane, mi
dispiace, ma che vuole? Ho perso il lume degli occhi. Mi poteva dire
tutte le brutte parole che voleva: è un corollario del mestiere: non ci
bado più. Andò proprio a trovare quella parola _tirapiedi_. Io tirapiedi
del Governo! Io che per dire a tutti, superiori e inferiori, quello che
va detto, ho fatto questa bella carriera dopo venti anni di servizio!
Adesso il meno che mi possa capitare è una sospensione.

       *       *       *       *       *

Ma non fu propriamente così.

Mezz'ora dopo, il signor Capo stava consumando la sua modesta colazione
fra un treno e l'altro, in una piccola osteria, vicina al disco, quando
precipitò nella stanzetta quel signore vestito di nero. Il suo aspetto
era esilarante, luccicante: saltellava sulle piccole gambe.

--Ah, finalmente la ritrovo! Ma dove è il signor Capo, quell'egregio
signor Capo, quel grande uomo del signor Capo? ho chiesto e mi hanno
indicato qui. Permetta che io stringa quella valorosa mano! Lei è la
perla dei funzionari dello Stato!

--Grazie--disse il signor Capo, Foresti--è la prima volta che mi sento
fare un simile elogio. Peccato che lei non sia un ispettore dello Stato.

Il piccolo signore sorrideva con aria olimpica; volle nelle sue piccole
mani prendere la grossa mano del signor Foresti; la voltò, la rivoltò,
la esaminò.

--Una mano simile--disse con profonda convinzione--vale tutto un codice
di legislazione sociale. Pensi che questa mano mi ha risparmiato un
mezzo accidente. Io schiattavo dalla bile. Pensi che in treno quel
prepotente si è permesso di fermarmi il braccio che voleva tirare il
campanello di allarme: il suo vestito bianco gli premeva più della mia
soffocazione! Io voglio proporre per una ricompensa quell'egregio
macchinista che alimentava così vigorosamente il fuoco, che usava con
tanta opportunità il soffiante... Ma lei, lei poi come ha risposto
bene, che dignità, che correttezza! Oh, se tutti i funzionari dello
Stato sentissero la responsabilità del proprio ufficio; considerassero
lo Stato come, come dire? come la rocca Capitolina delle istituzioni
sociali, e non come la vacca da mungere...! Ma che cosa posso fare io
per lei? Mi esprima un suo desiderio, io sarei ben lieto, ben onorato...

Il signor Capo aveva smesso di levare la pelle a certe infami fette di
mortadella e fissava il suo interlocutore. Il suo aspetto era molto
autorevole.

--Oh, io--disse quell'incognito autorevole signore--proporrò per prima
cosa tutto un regolamento sull'uso dei finestrini: infatti la
legislazione delle ferrovie dello Stato è muta a questo proposito. E
lei, scusi, mi viene un'idea splendida, possederebbe per caso una
qualche laurea in legge? No? Peccato! Io la proponevo subito all'Ufficio
centrale per le contestazioni legali...

--Ma scusi--fece molto turbato il capostazione Foresti--lei chi è?

--Chi sono? Ah, sì, chi sono?--e trasse e presentò al capo-stazione il
suo biglietto da visita: _Cav. Comm. X. Y.--Ispettore capo delle
Ferrovie dello Stato._

       *       *       *       *       *

E fu così che il signor capo-stazione Foresti fu trasferito in una
grande città, dove potè respirare l'aria balsamica dei grandi corsi,
l'aria igienica dei teatri scintillanti, dei caffè-concerto; dove i suoi
occhi poterono contemplare delle donne pulite, autentiche, all'ultima
moda; dove potè consumare tutto il suo capitale di salute prima che la
barba diventasse totalmente grigia.



LE MOSCHE E LA POLONIA.


Non mi accusate di essere positivista, scettico o come meglio vi piace
chiamarmi. Io, alla vostra età--parlavo con un giovane amico--ero
terribilmente romantico ed idealista. Combattere per la infelice Polonia
era il mio sogno...

--Non per il Proletariato?

--No, mio giovane amico; allora non era ancora di moda quella cosa che
voi dite.

--Non c'era il Socialismo ai vostri tempi?

--Sì, c'era; ma era--come dire?--ancora a balia: un grosso, tozzo
marmocchio di una voracità incredibile che lasciava indovinare uno
sviluppo prodigioso: un po' bruttino, sia espresso col dovuto rispetto,
ma marmocchio ancora, come vi dicevo. Ah, morire con una palla in fronte
e il sole polacco davanti agli occhi, centuplicava l'ebbrezza della mia
gioventù! La mia gioventù è fiorita agli ultimi bagliori del
Romanticismo. Ma anche senza Romanticismo, sta il fatto che pei giovani
la Morte spesso si presenta come una forma eroica di Vita. Se la natura
non ci usasse questo lugubre scherzo, le guerre sarebbero finite da un
pezzo! Ma io non voglio tediarvi con la filosofia. Vi dirò, dunque, che
allora vi erano comitati per la Polonia, conferenziere polacche, come
oggi vi sono le suffragette. Sapete chi mi ha guarito della mia malattia
romantica? Le mosche!

--Le mosche?

--Sì, come ho il piacere di dirvi: se non c'erano le mosche, io sarei
rimasto--forse--ancora romantico ed idealista, e non avrei fatto la
discreta carriera politica che voi, bontà vostra, esaltavate poco fa.
Quel lurido e petulante animale mi ha inoculato il _virus_ del
positivismo. Una reazione, quasi fulminea, è sopravvenuta, ed
improvvisamente la mia vita ha deviato come un treno, a cui lo scambista
toglie, con un colpo di leva, la direzione: dà un sobbalzo e poi fila,
precipita verso nord invece che verso sud. Vi può interessare?

Il mio giovane amico rispose gentilmente:

--Moltissimo.

Io allora gli offersi una sedia, una sigaretta e, richiamando alla
memoria cose antiche, proseguii. Alla vostra età io amavo una signora
polacca, di Varsavia, anzi di _Varsovì_, come ella diceva in un suo
gergo, mescolato di polacco, di francese e di italiano.

--Ci siamo col solito amore!--disse l'amico.

--Ma, benedetto Iddio, questo dovreste saperlo: senza l'amore e senza la
donna non esisterebbe nè romanticismo, nè positivismo, nè lirica, nè
epopea, e tutto questo benchè la donna sia un fenomeno triste. Ricordate
la conclusione dei Nibelunghi?

--Nemmeno per sogno.

--È un'espressione notevole. I Nibelunghi terminano con queste parole:
«perchè l'amore porta in fine disgrazia».

--Era questa vostra signora una conferenziera Pro-Polonia?

--Mai più. In che lingua doveva conferire? Era una splendida, lattea,
placida creatura bionda, di quel biondo tenero come di spiga non baciata
bene dal sole; anzi vi dirò che quella bellezza nordica aveva così
conquistato il mio animo che non soltanto il color bruno ardente delle
bellezze nazionali, ma lo stesso color falbo delle nostre donne, mi
pareva un'imperfezione di natura. Ella era inoltre così squisitamente
monda e detersa che dalle sue carni lattee io sentivo esalare un
perpetuo profumo di pervinca e di mughetto; e gli occhi suoi grandi,
quasi squarciati, di un azzurro dolcissimo, sotto due archi di ciglia
perfetti ed evanescenti, mi immergevano nello stupore di un sogno, da
cui uscivo talora fremente e con queste terribili domande: «E come
finirà questo amore? Come farò io a palesarle il mio affetto? E palesato
pur anche il mio amore, dopo che avverrà?»

--Allora un amore ideale...

--Altro che ideale, romantico, vi dico: anzi nessuna dichiarazione
d'amore era avvenuta. Ella era donna per bene, madre di due graziosi
bambini a cui io facevo da bambinaio, perchè la servetta era una
smemorata, un'arfasatta, come sovente sono nei nostri paesi.

Suo marito, uomo di molti affari, viaggiava per l'Europa, ed aveva
lasciata la sua signora a curarsi in una piccola, modesta stazione
balnearia, dove ella aveva preso a pigione una villetta solinga presso
il mare, e dove io l'avevo, naturalmente, seguita. Permettete che
continui la descrizione: Il suo mento era di un ovale perfetto e la sua
piccola bocca, a cuore, era la sola cosa rosea in quel volto. Il naso,
quello sì, era poco perfetto: un piccolo nasetto rivolto in su, ma vi
dirò: i nasi aquilini e forti delle nostre donne, con sopra le dense
corrusche ciglia nere, spesso congiunte, che sono così caratteristiche
fra noi, mi spiacevano tanto al confronto che mi chiamavano in mente il
becco delle civette e le ciglia dei bachi da seta.

--Parlavate della Polonia?

--Mai più: ella era una donna placida, come vi dissi, e si parlava di
cose placide: delle mie cacce, dei bagni, di cose da mangiare, tanto più
che io la aiutavo nelle compere presso gli avidi e zotici nostri
rivenditori, che avevano, anche allora, l'abitudine di mettere sugli
stranieri una tassa di soggiorno mediante un sovrapprezzo sui
commestibili. Del resto, la cucina italiana le gradiva moltissimo, e se
ne parlava. I _pròcoli_ (broccoli) fritti le piacevano assai. I nostri
vini leggeri, razzanti, erano una deliziosa _pìpita_ (bibita). Sospirava
Napoli dove era stata parecchio tempo. _A Naple semper trovate tante
buone gente_. Ma le pizze di Napoli la turbavano, al ricordo.

Ella mi affidava il suo _portmonè_ (portamonete), e andavamo coi bimbi a
far la spesa. Si comperava la _pulpa_ di manzo per fare il _buglione_
(brodo); e trasaliva di gioia con tutta la chioma flava, come una
fanciullina, quando vedeva nei panieri: _Keste pikkel cose fini fini_
(queste piccole cose fine fine), le _ziligi_ (ciliege).

--Dio, come era volgare!

--Tutto è relativo; e poi a quel tempo non era di moda l'estetica. Vi ho
detto che era placida, ma aveva anche lei i suoi momenti di lagrime e di
commozione: per esempio quando il marito la avvertiva che lui non poteva
tornare, perchè era chiamato per affari a Parigi. Lambiva con le belle
mani i suoi piccini: «_Povres enfants! Kante_ (quando) un _ome_ (uomo)
promette, deve _mantenire_» (mantenere). E diceva ciò assai gravemente.

Aveva molti scatti di sdegno contro la fanticella _très-laide_, e
peggio: chè, spesso di giorno, spesso anche di notte, era trovata
assente, sotto il pretesto delle danze campestri al lume della luna. Le
diceva sempre: _Vergognati gli occhi fuori della testa!_ Doveva essere
una espressione polacca.

Per conforto io dovevo cantare.

--Voi cantavate?

--Certo, come italiano io avevo il dovere di sapere cantare e cantare
canzoni napoletane.--Canta, bell'italiano!--diceva.

--Anche «bello» vi diceva?

Era nient'altro che un epiteto ornativo: tutto ciò che era in Italia
godeva di questo aggettivo, eccezione fatta dei bottegai. Povera e buona
signora! Del resto io ero assai bello, nè mi vergogno, oggi, di dirlo:
bello di quella bellezza maschile, forte, che io non so se l'esotismo
della moda, oppure il positivismo hanno fatto perdere a voialtri,
giovani moderni. Concedetemi la divagazione: voi moderni siete brutti:
la virtù fisica maschile è appena sostenuta oggi dagli ufficiali;
e quelle signore che oggi sono così fiere propagandiste
dell'antimilitarismo, dovranno creare, forse, un militarismo pacifico ed
artificiale in omaggio alla bellezza virile. Ma sapete che siete ben
goffi, ben menci coi vostri abiti razionali? Noi, romantici, eravamo
belli. Alto io ero, nerboruto, con due calzoni assaettati, stretti sì
che i muscoli delle cosce guizzavano: voi oggi portate le gonnelle, non
i calzoni, e qual meraviglia se le donne vogliono adottare i calzoni?
Portavo io, allora, coturni da cacciatore, feltro grigio, giacca stretta
al busto e così cantavo, come potevo, ed ella diceva: _Canta, canta,
mio core mi fa male! tanto dispecere col core malato!_

Ma il cuore, malato veramente, era il mio.

       *       *       *       *       *

Avevo cantato tutta quella mattina stringendo appena la sua pallida
mano, odorante di giunchiglia, fresca della sua primavera. Avevo
mangiato un boccone all'osteria; mi ero chiuso nella mia stanza. Era un
giorno ardente, e il sudore, con la passione, grondava dalla mia fronte.
Come concludere quell'amore? Rapirla, e poi? E dove andare? Come vivere?
E quei figli? Sappiate che io ero povero, allora. Volli almeno,
qualunque fosse stato il nostro destino, che ella sapesse almeno tutto
il mio amore. Non ci saremmo, forse, mai più riveduti, ma del mio amore
ella doveva avere notizia certa e memoria perpetua.

Per tutto questo, benchè mi paresse cosa disonesta ed audace rivolgere
dirette e vere parole d'amore a donna che apparteneva ad altro uomo,
pure la passione vinse e scrissi. Timidezze dei venti anni!

Suo marito, forse--io pensavo--mi avrebbe ucciso. Ebbene? Non ero già io
disposto a dar la vita per la Polonia? Guardai per la misera stanza
d'albergo: non c'era calamaio nè penna, istrumenti poco usati nelle
locande campestri, anche oggi che siamo così evoluti. E poi, che
calamaio, che penna! Trassi il coltello, mi denudai il braccio, vi
immersi la punta della lama. Più profondamente premetti che non fosse
necessario; ed un forte rivoletto di sangue, del mio sangue, rutilò. Lo
contemplai con occhi sbarrati: scendeva giù per l'avambraccio, scuro, e
si veniva grumando nella mano. Poi che l'ebbi deterso alquanto, scrissi
col mio sangue. Che cosa scrissi? Non ve lo saprei ripetere. Poche
parole, ma parole di sangue; ma degne di essere scritte col sangue. Poi
mi si appannò la vista; mi parve che un'aria, quasi gelida, asciugasse
il sudore della fronte. Un gran languore mi colse. Caddi riverso sul
letto, e mi addormentai profondamente.

       *       *       *       *       *

Cadeva il vespero quando i miei occhi si riapersero. I bagliori
sanguigni del tramonto sereno entravano nella stanzetta muta. Mi
ricordai. Balzai per prendere il foglio dove avevo consegnato al mio
sangue la confessione del mio amore.

Il foglio era scomparso!

V'erano bensì sul pavimento due o tre fogli del mio taccuino, ma quello
con la lettera era scomparso.

Qualcosa di terribile balenò allora nel mio cervello. Io non vi ho detto
di alcune gelosie che nutrivo in segreto per la bellissima donna. Ella
ne era del tutto innocente: ma un barbuto signore del luogo, assai
prepotente e ricco, e di sospetti costumi, troppo spesso e troppo da
vicino, e con aria troppo beffarda soleva passare presso di noi, lungo
la spiaggia del mare. Io vi assicuro che più volte ero stato preso da un
impeto folle di affrontarlo, e soltanto per riguardo alla dama me ne era
trattenuto, per timore che egli beffardamente mi dicesse: «E lei chi è?
che c'entra?» Ora il sospetto che colui, o altri per lui, avesse,
durante il mio sonno, fatto rapire il foglio, mi si presentò come cosa
certa, per effetto dell'immaginare mio fallace; tanto più che l'uscio
della stanza era rimasto aperto. Misi in tasca il coltello, stavo per
lanciarmi fuori, quando rassettando rapidamente le cose mie e
raccogliendo quei fogli sparsi, m'avvidi con stupore profondo di una
cosa non sospettata.

Ecco: durante il mio sonno, le mosche avevano fatto colazione con la mia
lettera. Avevano mangiato col sangue le mie parole d'amore.

Il foglio non era stato rapito; era stato succhiato dalle mosche. Ecco
perchè esso era tornato bianco come prima. Quali pensieri mi
germogliarono in mente, non vi saprei dire: ma ricordo che guardai le
molte mosche appollaiate sui vetri: esse parevano godere di una
eccellente digestione. La mia idealità era stata divorata dalle mosche!

Allora avvenne quel disorientamento nel mio spirito di cui vi parlavo in
principio; o se vi pare, un nuovo orientamento.

--Avete rifatta la lettera con l'inchiostro?

--Nè con l'inchiostro, nè col sangue: avevo trovato la soluzione
semplice, naturale del problema che mi tormentava. Il violino dell'oste
faceva già _zin-zin_ e un contrabbasso faceva _zun-zun_: le danze sotto
l'imminente luna erano cominciate.

Attesi: Quando fu notte alta, vidi fra le ballerine apparire la servetta
della mia signora polacca a cui la frase, _vergognati con gli occhi
fuori della testa_, non produceva alcun effetto morale.

La Polonia, dunque, era sola in casa.

Allora mi avviai, ed ero ben risoluto: il cancelletto era aperto e la
sabbia del viale non produceva alcun rumore.

Povera e buona signora! Me ne rimorde un po' ancora il cuore: ella aveva
messo a letto i suoi piccini e si preparava in abito molto notturno a
seguirli, dolce, placida, indifesa e per nulla presaga dell'avvenire di
quella strana notte. Quando mi vide scavalcare la finestra a piano
terreno mandò un grido...

--Di paura o di piacere?

--Chi se ne ricorda più? Ricordo che rimase immobile, paralizzata. Io
ero ben gagliardo allora, e le mie braccia e tutto il mio essere si
affondò in quella profumata tenerezza bianca della Polonia.

La sentii più tardi mezza dormiente sussurrare alle mie orecchie:--Da
quanto tempo ti aspettavo bell'italiano!--E la mattina mi diceva quasi
piangendo: _Mon Dieu_, come mi potevo difendere? Voi siete entrato come
un _véritabile_ brigante _et une femme quand est en toilette de nuit ne
peut absolumment se défendre_.

Non mi rimase che l'ufficio di confortare la sua coscienza,
assicurandola che la colpa non era sua, ma della _toilette_ che vestiva
in quell'ora.

       *       *       *       *       *

Il dì seguente io mi ricordo che ebbi una discussione con l'oste e con
alcuni avventori di campagna. Le mosche erano a nembi per la cucina in
quella mattina d'estate; e quella gente ragionava, per effetto di quella
disposizione filosofica che è connaturata nell'uomo, sui misteri della
Creazione.

Essi sostenevano, ad esempio, la inutilità assoluta delle mosche nella
economia della vita.

Io ero di opinione contraria.

Sventuratamente non potevo spiegarmi, se non col dire che anch'esse
erano creature di Dio. Certo io ero guarito dell'orgasmo della mia
passione. Avevo trovato quella base morale che Archimede, come sapete,
propone come giusto fulcro delle operazioni umane, nessuna esclusa. Sono
diventato positivista; ho abbandonato la Polonia al suo destino storico;
mi sono dato anch'io al Proletariato, del quale, come esempio vi
dimostra, si vive, ma non si muore.



LA BUSECCA.


Vedi questa mia barba selvatica? Vedi queste mie scarpe e questi calzoni
inconciliabili nemici di ogni elementare eleganza?

E d'altra parte vedi quella automobile laccata di verde con quella bella
signora? con quei due bambini, compresi già della loro posizione
privilegiata? Vedi quella governante che conserva tutta la dignità della
razza britannica a dispetto della bianca cuffia servile? Vedi tutto
questo?

--Sì, vedo, ma andiamo oltre.

Il mio amico pittore--artista molto delicato e fine, ma pur troppo,
oramai fallito per la gloria--si trovava in quell'ora del pomeriggio nel
suo stato abituale di saturazione lucida di assenzio.

--Niente affatto «andiamo oltre», rimaniamo qui. Contempla soprattutto
quella signora. Ti pare bella, sì o no?

--Sì, bella, ma andiamo oltre.

--Niente «oltre», perchè tu devi sapere che io, se non fossi nato
imbecille, potrei essere seduto su quella _limousine_: quei figliuoli,
cioè no quei figliuoli, insomma alcuni figliuoli li avrei potuti fare
io, cioè lei; lei ed io _in marital nodo congiunti_. Tu ne dubiti? tu
credi ad una mia allucinazione verde? Guarda! Sono stato avvistato. La
signora ha dato ordine al meccanico di allontanarsi.

La signora, infatti, volgendosi a caso verso di noi, ci aveva scorti:
aveva fatto un impercettibile segno di spiacevole sorpresa e poco dopo
la automobile si allontanava per il viale del Parco.

L'amico pittore continuò:

--Ci credi ora? Vuoi sapere la storia? Vuoi venire a casa mia a vedere i
documenti? no? Bene, paga un assenzio e ti racconto la storia
inverosimile. Essa è fatta di niente.

È il dramma psicologico di un cretino: e il cretino, lo intuisci subito,
sono io. Credi tu che uno, perchè è artista, non possa essere
profondamente cretino? Credi tu che uno, perchè è pittore e sente il
colore, non possa essere un cieco della vita reale?

Io sono un cieco della vita. Ascolta.

Dieci anni addietro questa barba orribile non era nata: fra le mie
scarpe ed i miei calzoni esisteva un'intesa di eleganza e la mia
cravatta svolazzante era come una bandiera di giovinezza. Ero astemio. I
miei capelli fiorivano sul mio capo dolcemente al tepore della mia anima
sciocca, ma sensitiva. Io giungevo per la prima volta a Milano così
sicuro di essere accolto nel Grande Hôtel della gloria, come il mio
primo quadro era stato accolto all'Esposizione di Brera: le poche
centinaia di lire che avevo in tasca, mi parevano un capitale a fondo
illimitato, come si legge nelle Società di banca, «capitale a fondo
illimitato». La prima impressione di Milano non fu piacevole. Era un
mattino grigio di febbraio; e già quel verde crudo della campagna sotto
il cielo basso che gemeva di pioggia, mi pareva un colore stonato,
disteso da un cattivo pittore. Le case, le strade, tutto mi pareva
precipitare verso una tinta unica: un grigio caffè e latte. Perchè uno è
imbecille? Perchè ha i sensi che fanno vedere e sentire tutto falso.

Era il mattino. Avevo negli occhi il risveglio nel mattino della mia
Venezia, in piazza San Marco. San Marco balena d'oro; è tutto animato
come una trireme antica in voga piena. Poi abituato al fetore delle
alghe e di altre cose stagnanti, l'assenza di quel profumo mi pareva
rendere l'atmosfera priva di un elemento necessario alla respirazione.
Vi sentivo invece un indistinto lezzo di coloniali, droghe, zafferano;
come un odore dell'anima mercantile della città. Il dialetto, questo
terribile dialetto lombardo con quelle desinenze cupe, in _oeu_, _u_,
_uh_, _uuh_, mi scoteva i nervi, e mi pareva che tutti si fossero
divertiti a rivolgermi delle parole scortesi. Oh, invece, il risveglio
della mia Venezia! batter di zoccoletti, scandere di parole cadenzate,
musicali, come su di un'antica spinetta. Provai un bisogno di fuggire
ancora, di imbarcarmi sul primo treno in partenza. Ma poi pensai: E la
conquista della gloria? e il mio quadro all'Esposizione?

Avevo una fame da poeta; e proprio in quell'ora un ristorante si apriva.

--Avete niente di pronto?

--La busecca.

--Ah sì, la busecca!

Mi stava in mente l'idea che la busecca fosse una sorta di manicaretto
raro; un cibreo delicato, aristocratico, asciutto, finamente rosato,
servito in un piattino, o tegamino di bel metallo.

Mi vidi portare davanti una tazza da brodo, soverchiata da un liquido
giallastro purulento. Dentro vi nuotavano delle anse intestinali
lardacee. Ne concepii un terrore macabro.

Guardai il cameriere: esso stava col naso in su, soddisfatto di sè,
intento alla disinfezione mattutina del detto naso. Questa non è una
specialità milanese, ma dei lavoratori della mensa in genere. Ma allora
mi parve una specialità milanese, come la busecca. Uscii naturalmente
senza toccare cibo.

       *       *       *       *       *

Girai tutto il giorno per trovare una stanza d'affitto che non avesse
l'apparenza atroce di essere io in balìa di un'affittacamere. Ebbi la
fortuna di trovare una cameretta pulita, in una via relativamente
silenziosa. La mia finestra dava in un cortile grigio, quadrato. Quattro
pareti grige, ma pulite, si innalzavano per altri tre piani e
sprofondavano per altri due. In fondo, alcune piante di bambù si
allungavano nella nostalgia dell'azzurro. Io le guardai con un affetto
fraterno.

       *       *       *       *       *

Passavo lunghe ore alla finestra a dipingere, ed ero così assorto nel
mio lavoro che non mi accorsi che di fronte a me, a venti metri di
distanza, una figura di giovinetta passava, ripassava, era intenta a
fissarmi. La guardai anch'io. Essa si era messa con la testolina
appoggiata sulle palme della mano, e mi pareva che le sue labbra
mormorassero: «Cattivo, non vi accorgete che da tanti giorni vi guardo?»

Certamente--pensai--è una cameriera, una sartina, una ballerina, io non
so bene. Ma qualcosa di volgare deve essere per fissarmi con tanta
insistenza.

Risposi tuttavia al saluto. Un giorno mi fece un cenno vivace, come a
dire: «Abbiate la cortesia di aspettare».

Aspettai.

Scomparve un momento, riapparve: diede una occhiata rapida per osservare
se dalle altre finestre poteva essere scorta, se vi era qualcuno; poi
rapida, risoluta, graziosissima, sollevò un foglio grande come quelli da
disegno. Se lo collocò davanti alla faccia.

C'era disegnato in nero un gran V geometrico.

Subito il V è buttato via; ed è sollevato un altro foglio con un I della
stessa proporzione.

Seguì un breve cenno molto calmo, molto grazioso con la testa, come a
chiedere: «Avete capito? Quello che vi ho fatto vedere è un VI. Ora
attento.»

Ed allora sfilarono fulmineamente tre lettere, sostenute da un colossale
ammirativo: esse formavano la parola _Amo!_ Vi amo!

E rimase lì imperterrita. Io rimasi lì. La rivedo ancora fare un gesto
così grazioso, così disperato di impazienza! Certo deve aver detto:
_Dio, come l'è bell, ma come l'è stupid. El capiss no!?_

Allora io, cretino, meditai come avrei dovuto fare per comunicarle la
risposta, che era questa: «Io sono straordinariamente stupìto».

Mi posai la mano sulla fronte, e la allontanai con un gesto
melodrammatico. «Ah! Ah, io sono straordinariamente stupìto».

Lei, la cara fanciulla, interpretò quel gesto come un'espressione
romantica, come avessi detto: «Il vostro amore mi dà alla testa, e mi
toglie la facoltà, per ora, di rispondervi.»

Parve soddisfatta; prese dalle sue labbra un bacio e me lo consegnò
deliziosamente.

Scomparve.

       *       *       *       *       *

Noi abbiamo tenuto corrispondenza epistolare per quasi un mese. Le sue
lettere erano scritte tutte con alti caratteri in punta; esatte,
regolari, e contenevano un loro profumino delicato, e la loro
immancabile enorme viola fresca del pensiero, fermata con uno spillo e
un nastrino all'angolo superiore sinistro. La sua ortografia era
precisa, la sua prosa non priva di fioriture letterarie, nate non da
lei, ma appiccicatele dalla maestra di letteratura. Le espressioni sue,
sue di lei, invece balzavano fuori da quelle convenzionali, misurate,
calme, positive, concludenti: tutto il contrario di quello che si poteva
supporre dopo quell'assalto di torpedine: Vi amo!

La prima lettera fu naturalmente la sua, ed il ragionamento, così della
prima come delle seguenti, seguiva questa linea di logica:
«Voi--parliamoci chiaro--non mi amate se non forse un pochino per
vanità. Io vi amo invece davvero, e ve l'ho dichiarato. Per quante prove
io vi portassi che sono una signorina per bene, voi non ci credereste:
non negate. È una disgrazia; ma mi crederete in seguito. Siete disposto
a sposarmi? I miei genitori sono molto severi, ma mi vogliono anche
molto bene. Io ho ventidue anni, ma non intendo di fare niente senza
l'approvazione dei miei genitori. Potete dare, come non dubito dal caro
volto che avete e che amo tanto, buone referenze di voi? Se sì, ditelo
presto e l'affare è fatto».

Era stata allieva di qualche scuola di ragioneria, la signorina, per
trattare l'amore così alla spiccia?

La signorina era carina: e ti confesso che se l'avessi veduta su di un
balcone di marmo a Venezia, intenta a interpretare l'azzurro
interminabile della laguna, io mi sarei chiamato felice di una così rara
ventura. Invece io la vidi un giorno, quasi da vicino, in un grande
negozio: slanciata, bella, elegante in un grembiuletto di seta, tutto
quello che vuoi; ma ritta accanto ad un libro mastro. Era il negozio
paterno. Esso era immenso, pieno di commessi, e ne esalava quell'odore
di droghe, caucciù, medicinali che mi pareva l'odore di Milano. Il
sorriso, che lei mi lanciò dietro il libro mastro, si impregnò di
drogheria, di ragioneria. Ma che importa la ricchezza! Che importa la
miseria!--dissi fra me--Non è la Miseria la divina introduttrice nel
vestibolo della Gloria? Almeno così avevo imparato nei romanzi e anche
nei libri di scuola.

Allora avrei dovuto lasciarla: una bella lettera d'addio, e tutto
finito. Ma io, uomo inconcludente, oltrechè cretino, non sapevo
decidermi. Non per amore, sai, ma così, per quella impotenza morale, che
ho alfine riconosciuta come mia proprietà inalienabile: e un po' per
egoismo, perchè mi confortava il sapere che, nella città tumultuosa e
grande, esisteva un piccolo cuore che palpitava per me; fosse pure un
cuore di ragioniera.

Un giorno mi scrisse e diceva così: «Sentite, per lettera vedo che non
c'intendiamo. Proviamo ad intenderci a voce: mi vedrete così anche da
vicino. Alle ore sette trovatevi nella chiesa di via X***. Entrate in
chiesa: a quell'ora la chiesa è deserta; potremo parlare.»

       *       *       *       *       *

Un piccolo raggio di sole si riverberava sulle alte cime delle piante
allora rifiorenti nei giardini pubblici per cui lei doveva passare per
recarsi in quella chiesa. La vidi arrivare in fatti. Era in compagnia di
una sua governante o domestica che fosse. Vestita di scuro con una
veletta scura sul volto: dietro turgeva la massa bionda dei capelli. Mi
vide. La sua testolina si inchinò insensibilmente, ed un piccolo cenno
della mano mi fece capire: «Seguitemi a distanza». Le sue scarpette
facevano scricchiolare i sassolini dei viali, deserti a quell'ora.

Allora vidi bene i suoi piedi. Io, l'essere più sprovvisto di
fondamento, avevo delle idee estetiche assolute, sui piedi delle donne.
Io pensavo ai piedi di lei e ad un'altra cosa che mi si era fissa in
mente.

«Piedi troppo lunghi--sospirai--: irremissibilmente piedi troppo lunghi.
È orribile: queste donne lombarde hanno tutte i piedi lunghi.»

Ella scomparve dietro la portiera della chiesa.

Io entrai.

La chiesa era deserta, infatti. Lei mi affrontò. Due bianche belle mani
sollevarono la veletta.

--Voi non mi avete veduta mai da vicino--disse.--Voi siete artista e
questo pensiero mi turba un po'. Sono quello che sono, così: guardatemi.
Vi piaccio?

Dio, che caro volto, che tremore nelle pupille, che candore nei denti!
Ma io pensavo a quei piedi, e poi aveva quell'altra idea fissa in testa.
Vedi, quando io ricordo tutte queste cose, io corro alla _buvette_ a
bere assenzio e domando:

«Un assenzio per questo cretino.»

--E la voce?--io domandai.

--Ma deliziosa, amico mio: tutto delizioso.

--E cosa ti disse?

--Cosa vuoi che possa ricordarmi io che vivevo dentro un'idea fissa? Mi
fece, ecco, capire che bisognava che mi decidessi: o prendere o
lasciare. Quella insistenza mi turbava. Io mi ricordo che sentivo il suo
piccolo tacco battere impazientemente come tu faresti se fossi un
maestro di musica e udissi delle stonature.

--Ma di positivo che cosa hai detto tu?

--Di positivo? ho domandato: Signorina, lei mangia la busecca?

Mi guardò trasognata.

Io ripetei imperterrito la domanda.

--Ma certamente--rispose.--Il sabato è d'uso, in casa, fare la busecca:
a papà piace tanto. Perchè?

Vedi, amico, allora l'idea di sposare una donna che mangiava la busecca,
mi incuteva un senso di orrore!

       *       *       *       *       *

Poi non ricordo più nulla.

La rividi attraversare ancora i giardini. Aveva la testa abbassata, come
se una ferita la avesse offesa nel petto.

Le sue finestre non si aprirono più.

La grande Arte non mi aprì nemmeno l'anticamera del suo palazzo; e
l'Arte del tanto per cento mi scacciò a calci nel sedere.

Ma nelle trattorie di infimo ordine sono felice oggi quando mi
annunciano che c'è una busecca con cui riscaldarmi e sfamarmi con poco
prezzo. Allora penso: Cretino, che ti era capitata una donna col
cervello sano e forte, col cervello di ragioniera, che avrebbe pensato
anche per te... E tu...! Via, via, amico, pagami l'assenzio.



AHI, QUEL POVERO COLONNELLO!


Polifemo--come sanno quasi tutti--era un mostro della specie oggi
scomparsa dei Ciclopi, cioè che avevano un solo grand'occhio tondo in
mezzo la fronte.

Questo Polifemo era innamorato di Galatea, la quale era una bella ninfa
del mare, bella e bianca come il latte. Aveva un solo occhio, Polifemo,
ma le lagrime che pioveva per la passione di Galatea non erano per ciò
meno abbondanti, e i sospiri che mandava su la zampogna silvestre
facevano tremare le foreste dell'Etna.

Ma Galatea veniva su dal mare e gli faceva, _maramao!_ e poi con le
compagne vezzosamente rideva del rozzo amatore, e tratta dai delfini,
gli facea davanti scorribande pel glauco mare.

Queste cose, assai vecchie, sono consegnate nei libri degli antichi
poeti.

Ma i poeti hanno trascurato di dirci che guai per Galatea se fosse
giunta a tiro di mano di Polifemo!

Per troppa furia d'amore se la sarebbe messa in bocca come un _fondant_
e se la sarebbe ingoiata, per goderne tutto il sapore.

       *       *       *       *       *

Ebbene, qualche cosa di simile accadde tra il signor conte Guido Ubaldo
e la signora Fanny, o donna Fanny, come ella amava chiamarsi; perchè
ella era una dama molto aristocratica. «A Roma--e sospirava--andavo ai
balli di Corte!»

Ci fu un giorno che il signor conte si trovò al contatto della mano
della signora Fanny, e dopo la mano venne il braccio e dopo il braccio
venne il resto, finchè... «Finchè il signor conte ingoiò così come
stava la signora Fanny...?» Per l'appunto: finchè la sposò, così come
stava.

       *       *       *       *       *

Ma non bisogna dimenticare che le mani della signora Fanny erano
deliziose e rare; e un po' i profumi, un po' la pelle, un po' lo
splendore languido delle turchesi e degli anelli, accoppiato col pallido
corallo delle unghie, fatto è che quelle mani esercitavano una tale
seduzione, che il signor conte fu più che scusabile se ne subì il
fascino irresistibile.

Gentiluomo campagnolo, il signor conte, bruciato dal sole, riarso dalla
vita faticosa dei campi e della caccia, col sangue grosso e caldo di un
uomo che--quando arrivava a sedere nel tinello della sua villa--li
faceva suonare sì gli ossicini dei pollastri, e un fiasco di vino della
sua vigna (oh che vino!) gli andava giù come ridere; un uomo--dico--in
quelle condizioni, al posar le sue grosse e arse labbra su quelle mani,
aveva provato l'impressione indimenticabile di ingoiare un sorbetto di
vaniglia o di ananasso.

Ora, tutto il resto della signora Fanny era--almeno per gli occhi e pei
sensi del signor conte--nella relazione di quella mano: una donnina
profumata, signorile, languida, che pareva avesse la virtù di attaccare
alle vesti la emanazione carnale di se stessa. Ora se una mano soltanto
dava questa sensazione di piacere, che cosa avrebbe dato l'intera
signora Fanny?

Il signor conte si ammalò di questa malattia di assaporare la signora
Fanny per intero, e l'infezione giunse a tal punto che fu necessario
l'intervento del matrimonio.

Ma ci furono dei guai seri e delle difficoltà da superare.

Il signor conte, ohimè! rasentava il peso di un quintale: ora appariva
da molti segni poco probabile che la signora Fanny volesse accettare il
matrimonio con un uomo di quelle proporzioni. Inoltre il signor conte
portava le camicie di flanella coi colletti rovesciati: aveva
l'antiestetica abitudine di legare le mutande su le calze, per modo che
bene spesso si scorgevano giù pendere i legacci: ignorava--almeno a
giudicar dall'esterno--l'uso degli stiracalzoni; e non soltanto fumava
degli orribili mezzi toscani, ma, quel che è peggio, giungeva al punto
di tagliuzzare con un coltello da tasca un mezzo toscano, ne imbottiva
la pipa e fumava come un plebeo.

Aveva altre abitudini rozze e contadinesche, che non concordavano niente
con la sua nobiltà. Per esempio, fra le otto e le nove del mattino, dopo
tre o quattro ore di caccia o di sorveglianza ai lavori agricoli, era
per lui un gran piacere far colazione, all'ombra se era estate, al sole
se era inverno, nelle più umili osteriuzze di campagna in cui
s'imbatteva, e mangiava quello che c'era, come un muratore: quattro
soldi di tonno cosparso di pepe e un mazzo di cipolline fresche, e, se
v'erano operai, manovali, carrettieri, villani, parlava con loro da pari
a pari, tranne che a lui aggiungevano un _signor conte_, ma un _signor
conte_ così alla buona e consuetudinario che passava inavvertito. E
d'altronde se quel tonno con la cipolla piaceva tanto a lui come a
quegli altri, che bisogno c'era di far tante distinzioni anche nel
resto?

Nella casa del signor conte non esisteva una _table à the_, anzi credo
che quanto al tè preferisse una buona tazza di camomilla; e infine
attorno alla sua mensa non girava nessun muto e impassibile cameriere,
ma la stessa cuciniera si staccava dai fornelli per mettere in tavola,
così com'era, con il grembiule. Ed essendo oramai solo e senza nessuno,
arrivava d'estate al punto da mangiare anche in maniche di camicia.

Però di tutte queste ultime cose la signora Fanny non aveva che un
lontano sospetto, come ignorava la predilezione di lui per la minestra
di fagiuoli col lardo; o di ceci, con i quadrettoni di cruschello ben
grossi, che si sentono sotto i denti.

La signora Fanny era in quell'estate ospite in villa di una cospicua
famiglia, la quale era in buoni rapporti di vicinato e confinante per
proprietà coi beni del signor conte; e per tal modo si erano conosciuti.

La signora Fanny aveva appena da un anno smesso l'abito di lutto per il
suo primo marito: anzi si può quasi assicurare che era stato lui, il
signor conte, a farla sorridere la prima volta dopo quella gran
disgrazia; lui, con quel suo fare bonario, semplice, con quel suo largo
riso sano e felice, con quei suoi occhi celesti, senza ombre e senza
malizie.

--Pare un grosso bambino, ed ha la barba che qua e là è grigia--aveva
detto agli ospiti la signora Fanny.

--Un uomo felice--avevano detto gli ospiti.

       *       *       *       *       *

La signora Fanny non aveva appetito, perchè aveva troppo sofferto per la
morte del suo povero colonnello, chè tale era il grado del defunto
consorte. Ma ci pensò lui, il conte, a stuzzicarglielo l'appetito, chè
da un laghetto sull'Alpe lontana faceva venir giù certe trotelle, certi
panierini di fragole selvatiche, certi formaggi che fanno i pastori,
certi funghi...! Tutta roba che si trova sul remoto Appennino, e non è
facile conoscere la via, i mezzi, il tempo per acquistarla. Ma il signor
conte, gran cacciatore, conosceva la montagna a palmo a palmo, e sapeva
in quale gorgo di fiume matura la trota, in quale selva cresce il
lampone e la fragola.

E che dire della caccia? O, quanti pennuti, già felici fra i ginepri e
le forre montane, quante gallinelle, quante starne, quante quaglie
furono dal micidiale piombo del conte sottratti alla libertà ed alla
vita e presentati come omaggio alla inappetenza della signora Fanny!

Fu così che la signora Fanny cominciò ad acquistare l'appetito; ma il
signor conte cominciò a perderlo.

Un giorno gli caddero molte lagrime sopra due quaglie, le cui compagne
erano state consegnate alla cuoca della signora Fanny, e allora pensò:

--Ma perchè piango io, sciocco che sono mai? Se quel povero colonnello
fosse in vita, allora sì avrei da disperarmi; ma poichè il colonnello è
morto..., io ben la posso sposare.

Pensar questo fu cosa facile.

Ma se il conte ci riusciva ad offrire le quaglie e le starne, ad offrir
se stesso non ci riusciva: trattare con donna Fanny era per lui
un'impresa seria: si imagini come offrire la scomposizione e
ricomposizione di un orologio alle dita di un carrettiere. Ne parlò ai
comuni amici, i quali ne parlarono alla signora Fanny.

--Rimaritarmi, io?

La signora Fanny non faceva questione del conte o di altri: faceva
questione semplicemente del verbo _rimaritarsi_. Come è naturale, donna
Fanny faceva presente l'ombra di Sicheo, voglio dire del defunto
colonnello, il quale era inutile che fosse stato così buono, così
cavaliere, così compiacente di morire, se la vedova si doveva legare con
altri. Il vero è che lei non vedeva nessuna necessità di queste seconde
nozze. Sarebbe come offrire una seconda licenza ad uno scolaro: ma è la
prima quella che è necessaria, il _porro unum_ della carriera.

Così per le donne: è il primo marito che è necessario.

E poi quel dover rinunciare alla pensione che quel povero colonnello le
aveva lasciata, a lei pareva quasi un delitto di ingratitudine.

E infine, perchè non dirlo? Il suo primo marito era stato troppo buono,
troppo cavaliere, troppo delicato in tutto, così che lei si sentiva come
un pochino viziata.

--No, amico, credetelo, vi farei infelice--diceva al conte.

Ma se tutti gli impedimenti erano questi, egli, il conte, poteva
garantire che sarebbe stato tanto buono, tanto docile, tanto delicato
anche lui.

--Sì, ma poi voi siete troppo colossale, mio Dio! Vi pare che staremmo
bene vicini l'una all'altro?

A questa terribile domanda, il povero conte non sapeva che rispondere;
ed era tanta la desolazione che si dipingeva sul suo viso, che donna
Fanny ridea di gusto, e da allora cominciò a pensarci su. Le donne--come
è ben noto--hanno l'istinto della redenzione, e fu appunto per questo
che nel cervello della signora Fanny entrò, non l'amore propriamente, ma
l'idea di redimere quel povero conte: compiere come una missione di
bene.

Senza cominciare da Beatrice Portinari, che gettò nella mente del suo
pallido amico l'idea della _Divina Commedia_, quante donne potrebbe
registrare la storia che furono cagione dell'opera egregia di tanti
uomini illustri!

Ora la signora Fanny non si proponeva certo di far comporre al conte una
_Divina Commedia_, e nemmeno di iniziarlo alla vita politica. Ma le
pareva opera degna della sua muliebre intellettualità e di quell'istinto
materno che fu depositato dalla natura nel segreto di ciascuna
discendente di Eva, richiamare alla vita quel disgraziato conte.

Perchè io non ho detto tutto: ma il vero è che il conte Guido Ubaldo
portava un bel nome storico, che il suo patrimonio era cospicuo, e il
castello che abitava era stato testimone di antiche storie. Con questi
requisiti, un uomo si doveva seppellire in campagna? vestire a quel
modo? condurre l'esistenza di un fattore?

«Ma salva e redimi quell'infelice nostro discendente», pareva dicessero
alcuni ritratti antichi a donna Fanny, il giorno che il conte la
condusse a visitare il castello.

Fu così che donna Fanny si decise, perchè oltre a richiamare il conte
Guido Ubaldo a vita conforme al proprio grado, c'era tutto il castello e
le sue adiacenze da riformare.

Riformare la mobilia, se non in tutto almeno in parte: tutte quelle sale
tetre con quei mobili neri, roba d'altri secoli, consunti dai tarli,
roba da antiquari, sostituirli con aerei, azzurri, rosei mobili di stile
floreale; e bianco e oro alle pareti; e su la spianata invece di quei
funebri cipressi, spianarvi un _lawn-tennis_, e perchè no? sostituire il
vecchio e geometrico giardino all'italiana con tutti quei vasi di
limoni, con tutti quei corridoi di verdura, con un vago e vario giardino
all'inglese.

C'era insomma da consumare l'attività di una donna anche meno
intraprendente della signora Fanny. Ma più che il castello, stava a
cuore a donna Fanny di riaprire e rimodernare il palazzo comitale di
città; e più che il castello e più che il palazzo, le stava a cuore di
rimodernare e aprire alla vita il suo volonteroso secondo consorte.

       *       *       *       *       *

Così adunque vennero celebrate le nozze.

Gli sposi partirono, e si racconta che, nei primi tempi, molto
viaggiassero, e in grandi città facessero loro dimora.

Se non che, dopo qualche anno, ritornarono al castello perchè il povero
conte non istava proprio bene. Infatti non si riconosceva più.

Lasciamo stare l'abitudine delle minestre col cece e delle colazioni da
cacciatore con il tonno, il pepe e la cipolla: ma voglio dire che lui
non si conosceva più. Era diventato di un colore che ricordava il grano
che è cresciuto in cantina; e, mentre prima stava ritto, ora era tutto
cascante, e quella sua barba veramente fiorita, in cui i fili d'argento
già facevano bizzarro contrasto con il color primitivo del rame, era
stata trasformata in una barbetta in punta, d'un colore tutto eguale, un
colore sporco fra il cenere e il biondo.

Parlava mansuetamente e assicurava tutti che stava bene di salute; ma
quel suo sorriso stirato, dava a vedere che non lo diceva con
convinzione.

Anche l'aria nativa non gli giovò: e come molti avranno osservato che
gli uomini prima di impazzire, prima di ammalarsi di incurabili mali,
ovverosia prima di morire, mettono fuori certi loro sentimenti sigillati
nel cuore da anni ed anni, così si racconta che il povero conte
esclamasse una volta:

--Ah, perchè è morto quel povero colonnello!

       *       *       *       *       *

Quando anche il conte morì, fu osservato che la sua barba era tutta
bianca e così i capelli; e così si osservò che il suo volume e il suo
peso non erano diminuiti.

Ahi, come si dolse donna Fanny della morte del povero conte! Dopo il
colonnello ella credeva impossibile di trovare un uomo più cavaliere,
più gentile. Eppure ella lo aveva trovato nella persona del conte Guido
Ubaldo; ed era morto!

Tutto ella aveva fatto per lui: lo aveva abituato a portare i colletti
alti; a gustare il tè, che prima non poteva soffrire, a fumare le
sigarette invece dei toscani. Aveva smesso l'abuso dei farinacei, del
fiasco di vino; s'era adattato benissimo ai ricevimenti del venerdì, a
coricarsi dopo il teatro, a stare in letto al mattino sino alle otto per
lo meno: insomma, in tutto si era incivilito, dirozzato quel povero
conte; in una sola cosa non era riuscita donna Fanny: nel farlo
dimagrare. Perchè quello di ridurlo magro era stato il principale
pensiero di donna Fanny. Ma invano!

Cure sopra cure, aveva fatto: non vino rosso, non farinacei di cui era
sì ghiotto; molto tè, molto digiuno, massaggio, cura elettrica ad alta
frequenza, idroterapia, cura di Montecatini, di Carlsbad, tabloidi di
tiroidina. Macchè! Diventava pallido, ma magro niente!

Così, ma molto più in lungo spiegava donna Fanny al dottore, il vecchio
dottore di condotta, che la stava ad ascoltare a fronte bassa e con gli
occhi chiusi dalla mano.

--Pensi--seguitava donna Fanny--che vedendo l'impossibilità di ottenere
alcun dimagramento, mi sono raccomandata ad un celebre specialista
omeopatico, il quale mi consigliò come infallibile una cura assai rara e
costosa, fornitami--noti bene--da quella stessa casa--una delle case più
accreditate--da cui io da anni faccio venire i miei articoli da
_toilette_.

A questo punto il vecchio dottore si tolse la mano dagli occhi, e,
levando il volto, affissò attentamente il volto della contessa Fanny,
chè tale ora si poteva a buon diritto chiamare; e poichè qualche cosa
era necessario rispondere, così il dottore disse:

--Io sono della vecchia scuola, signora contessa; ma io credo che chi è
nato grasso e grosso non potrà mai diventare snello e magro. Credo
piuttosto che una vita libera ed all'aperto, piena di attività, quale
era quella che spontaneamente conduceva prima il defunto signor conte,
avesse virtù di mantenere l'equilibrio organico meglio che le cure
specifiche escogitate al proposito e a cui ella testè mi accennava. La
ragione ci consiglia spesso di violentare la natura, ma una più acuta
ragione ci avverte che è bene usare le maggiori cautele in quest'opera
di violenza.

Così parlò il vecchio dottore.

Ma alla sera, avendo osservato il volto imbiutato e lisciato di
cosmetici della signora contessa--cosa di cui forse il conte Guido
Ubaldo non si era mai interamente accorto--scrisse in un suo libro di
memorie mediche, accanto al nome del defunto, questa nota in latino,
come soleva:

E le parole sono queste:«_Ex eodem unguentario unde causas nuptiarum,
idem, miser comes Guidobaldus, mortis emit causam_.» (Dal medesimo
venditore di cosmetici, da cui il misero conte Guidobaldo tolse la
_causa_ del matrimonio, comperò pure la _causa_ della sua morte.)



LA BAMBOLA FATALE.


--_Patà! Canca Imma_.

--Cosa vuol dire _patà_?

--_Patà_ vuol dire, _in braccio_. E _canca_ vuol dire, che _Irma è
stanca_.

La prese in braccio.

Dopo un po' egli disse:

--Ma, cara mia, capirai che valigia, pastrano, ombrello e la bambina,
anche, per giunta... è impossibile.

La signora, allora, lo alleggerì della valigia, una di quelle valigette
di cuoio, leggere leggere; poi gli prese anche il pastrano e l'ombrello,
e non gli rimase che la mimma.

--Auf!--soffiò ancora il giovane.

--Ti pesa?

--Piuttosto: ma vedremo di rimediare. Di'? tu, oilà, vuoi andare più in
alto, al terzo piano, che ti porto meglio?

--_Tì!_--rispose la piccola mimma con quella sua languida voce di
cantilena.

--_Tì_ lo capisco: vuol dire _sì_--disse il babbo.

--Eppure pesa così poco, pesa: magari pesasse di più--disse la madre.

Il babbo sollevò la bambina sua al terzo piano: cioè a cavalluccio sopra
le spalle.

       *       *       *       *       *

Il babbo e la mamma erano assai giovani: lei una donna scialba,
delicata, lunga, troppo lunga. Doveva essere stata vezzosissima pochi
anni prima: ma la maternità intensa aveva fatto quasi repentinamente
sfiorire la sua giovinezza; aveva deformata la sua persona. Le mani
erano lunghe, trasparenti: le orecchie, il naso mostravano le
cartilagini. Lui, sì, era un bruno, aitante, esuberante, forte maschio.
Pareva che la sua giovinezza fosse ancora sorpresa del laccio
ineffabilmente tenue e infrangibile del matrimonio, rappresentato da
quella mimma esile come la mamma, da quella sposa patita. Eleganti erano
l'uno e l'altra: ma di diversa eleganza: in lui era l'eleganza che cerca
il piacere, in lei l'eleganza che non va oltre il decoro e la nettezza.

Dunque la sollevò, la sua mimma, sulle spalle, al terzo piano.

--_Pimpala, Imma!_--fece la bimba spaurita.

--Cos'ha, adesso, con questo _pimpala?_--chiese lui alla moglie.

--_Pimpala_--spiegò ancora la moglie con una sua voce di
rassegnazione--vuol dire che l'Irma cade, che lei cade.

--Ma dio--disse lui alla bimba--dammi le manine. Con tutte le cose che
hai in mano!...

Ed egli prese le cose che aveva nelle sue mani di giglio, e se le pose
in tasca; poi strinse l'una e l'altra mano dell'Irma; e ci stavano per
intero, la manina ed il piccolo braccio della bimba, nella sua forte
mano.

--_Oh, lulù, lulù!_--esclamò ad un tratto gioiosamente la bimba,
dondolando con la voce la testa e le chiome.

--_Lulù_, vuol dire?--chiese lui.

--_Lulù_ vuol dire il _lago_.

--Perchè?

--Mah! lei dice così.

Infatti, dall'alto del terzo piano anche lei, la piccola mimma, vedeva
il lago.

       *       *       *       *       *

I giovani sposi con la loro bambina scendevano verso il lago. Il
paesaggio era immobile nella lucidità del mattino di giugno: il lago
giaceva laggiù così in fondo che i battelli bianchi a vapore che lo
attraversavano, parevano balocchi.

Al di là dei muriccioli di pietra che costeggiavano il sentieruolo, si
occultavano le villette; e qua e là tutti i fiori, tanto quelli dalle
aiuole ben rasate delle villette, quanto quelli dalle rocce e dai dirupi
erbosi, si occhieggiavano nella rivista del sole: bocche di leone,
giaggioli, rose, viole, contesse e duchesse della specie, pettinate dal
giardiniere, fiori aristocratici, insomma; e poi umili fiori di campo.

--Bella mattina, eh, Irma?--domandò il babbo.

La bambina non rispose niente.

Da due mesi erano brutte mattine per lei: non si destava più ridendo e
gorgheggiando, ma tediata e piangente. Perchè prima il riso ed ora il
pianto, ella non sapeva. Lo sapevano i genitori ed il medico. Per ciò
era stata condotta sul lago, fuori della città afosa. Era pallida
pallida; era magra, non pesava più nulla. La pelle le cadeva giù per le
coscie come due borse vuote: il collo era uno stelo venato d'azzurro.
Piangeva spesso per niente. Ora però si veniva rimettendo in meglio, ed
i suoi genitori spiavano il suo volto, il suo colore, il suo appetito,
il suo umore ed altre cose, come i marinai fanno col cielo quando temono
la burrasca.

       *       *       *       *       *

--Ma ha un bel colorito stamane, vero?--chiese lui.

--Non c'è male.

--Irma, mi vuoi bene, oh Irma, dimmi, mi vuoi bene?--chiese lui.

--Sì, tanto, papà.

La voce veniva da sopra il suo capo, dal terzo piano. Ma che voce!
Accorata, profonda. Pareva venisse come da un mondo crepuscolare, ove
non è lago, non sono fiori, non è sole. Un mondo crepuscolare ove
abitano quelli che furono, ove abiteremo noi, che siamo.

Sorrise a quel--_sì tanto_;--lo fece ripetere e disse:

--Ah, questo sì, Irma, è un linguaggio chiaro.

E poi, come... come non so, la tolse dal terzo piano, la accostò alle
labbra, la baciò.

--To'! e tu perchè piangi?--domandò alla moglie.

--Perchè non ci vuoi bene a questa povera bimba. Ogni momento tu te ne
vai via.

--Ma, amica mia, sii ragionevole; gli affari in prima linea, dopo voi
altre, si intende! Sto fuori, qualche volta mi assento. Ma che vuoi? Un
artista è come un uomo politico: non può allontanarsi dalla società. Son
capaci di dire: «Lo scultore Taliedo com'è che non si vede? Mah! È
ammalato, è neurastenico, è etico, non può più lavorare. Che peccato, un
artista così bravo!» Ora io non voglio dare queste soddisfazioni ai miei
amici. Per esempio, l'affare per cui vado oggi a Genova mi è venuto
d'_emblée_, al Grand Hôtel Excelsior a Roma. Senti, è buffa: un
americano è venuto in Italia per farsi fare la statua di sua moglie
morta. Egli è felicissimo che sua moglie sia morta, ma vuole eternare in
marmo la sua gratitudine.

Il giovane scultore Taliedo parlava così con volubilità allegra, ma la
giovane donna ascoltava come fossero cose estranee e lontane: la piccina
aveva reclinata la testa bionda sull'esile stelo del suo collo esangue.

       *       *       *       *       *

Un'ora dopo il giovane scultore Taliedo correva in diretto--ben
rincantucciato e accomodato--verso Genova.

La felicità della vita consiste, come tutti sanno, di diversi capitali,
come la salute, i denari, il buon umore; ma consiste anche nel sapere
mutare, nel cinematografo del cervello, la serie delle imagini.

Un'imagine è lugubre, per lo meno sconsolante? Sostituiamola con un
_film_ tutto da ridere.

Mentre il treno correva, lo scultore Taliedo faceva passare con
vertiginosa rapidità le ultime imagini di sua moglie: «Cara, brava,
buona, virtuosa, tutto quello che volete: ma è strano come con
l'apparire delle virtù morali, siano scomparse le virtù corporali.
Poverina, non è colpa sua, ma è troppo lunga, troppo affilata: troppe
cartilagini visibili.»

Lo scultore Taliedo era pienamente giustificato davanti ai suoi occhi se
lasciava il lago e correva a Genova in un treno diretto.

--Mia moglie--proseguiva dal delizioso angolo ove stava
rincantucciato--andrebbe bene come modello per Maria Vergine! Ma non se
ne fanno più ordinazioni di Marie Vergini in questi tempi sacrileghi; e
quei positivisti di parroci le comprano già bell'e fatte, inverniciate e
vestite, dalle case di commercio. Ah, poveri artisti!

Però l'idea di modellare sua moglie con Irma in braccio lo seduceva: una
visione soave. Irma che ride, pargoletta, dalle braccia materne: una
visione secolare: la maternità e il figlio o la figlia, cioè il germe
della vita!

È il grande motivo dell'arte che fu. E Taliedo vide, nel corso dei
secoli, artefici canuti e barbuti che gareggiavano nell'esprimere sulla
tela o con la creta il tema meraviglioso della Donna vergine e madre; e
di mano in mano che creavano, adoravano la loro creazione.

Sì, ma erano tutte cose che si potevano fare al tempo di Giotto e del
Beato Angelico, perchè è un fatto che nell'evo medio a Venere erano
riusciti a dare una bella batosta. Un po' con l'_asperges_, un po' col
_vade retro, Satana_, l'avevano spaventata, povera Venere! Ah, l'evo
medio aveva ridotto Venere in uno stato ben deplorevole. Una età senza
bagni in casa, senza calze di seta, senza saponi, senza tela batista.
Imaginare Beatrice con una camicia storica color Isabella; Laura con un
paio di calze di bigello affezionate alle gambe per delle settimane;
madonna Isotta con le unghie non spazzolate! Che orrore! La voluttà era
allora condita in salsa naturale, come quella che gli offriva sua
moglie.

       *       *       *       *       *

La dama che lo attendeva a Genova pareva invece avere la specialità
delle salse più rare e raffinate. Non le aveva ancora assaggiate, è
vero: ma se il treno fosse arrivato a Genova, tutto, tutto dava a
credere che le avrebbe assaggiate.

Era una dama americana. Gli era stata presentata ad un grande albergo in
Roma. Lui le era stato di guida in qualche gita artistica ed ella si era
persuasa che lui solo aveva le qualità richieste per eseguire il busto
del suo defunto marito, da collocare onoratamente nel cimitero di***. A
Genova, diceva lei di avere alcuni ritratti del morto: ripassando per
Genova avrebbe telegrafato a Taliedo. Così avvenne: così egli era
partito.

Dopo tutto Taliedo non aveva mentito a sua moglie che nel genere:
un'americana, invece di un americano.

Il treno arrivò.

La dama attendeva.

Anch'ella era magra come sua moglie, ma di una magrezza diversa e
provocata da ben altro genere di sofferenze.

Si parlò molto del defunto marito: un uomo pieno di capacità e di
ragionevolezza, come dimostravano i suoi ritratti. Egli aveva provato
tutte le gioie del matrimonio e perciò Dio lo aveva fatto morire a
tempo. Non era stato un re dell'ottone, o del ferro, o del grano; ma un
onorevole vassallo al servizio di un re del petrolio: tuttavia un uomo
di grande valore. Si trattava di far rilevare, nel monumento funebre, i
simboli del suo commercio.

--Sempre felice con lui: mai divorziata--ella diceva.

Anche questo doveva apparire dal monumento.

--Come, voi non avete ancora legge del divorzio in Italy?--ella chiese.

Taliedo atteggiò il volto alla più infantile meraviglia: non conoscendo
il matrimonio, come poteva conoscere il divorzio?

Così conversando del defunto marito, quella dama magra e ardente gli si
era venuta accostando, da buona compagna, lì, sul sofà.

La sua _toilette_ da casa era in quel caldo giorno il perfetto contrario
dell'infagottamento rigoroso e sudicio in cui erano imprigionate le
Laure, le Beatrici e le Isotte del tempo antico.

Ridendo gaiamente delle virtù del defunto marito, le parti molli del suo
lungo corpo, parevano sussultare di gioia. I denti erano lupigni. Un
braccio pallido, terminava in una deliziosa mano rapace. Taliedo se lo
sentì svolgere dietro le sue spalle: apparire dall'altra parte della sua
testa, dietro la spalliera del divano.

Che enorme caldo! Egli era assai pallido, come avviene nei casi di
insolazione. Era il momento di reagire: egli lo intuì.

Mosse per levare il fazzoletto di tasca ad asciugarsi il sudore gelido.

--Oh, Taliedo, cosa avete lì?

--Dove lì?

--In vostra tasca.

Taliedo non ebbe il tempo di guardare che cosa avesse in tasca, che la
dama con l'altra sua mano rapace gli aveva estratto, per la testolina
sporgente, una piccola bambola.

Essa, la pupa, non era scostumatamente in camicia, come sogliono essere
le pupe che si espongono e si fanno comperare nei negozi; ma era
rigorosamente e virtuosamente vestita come le Laure, le Isotte antiche.

Aveva le calze, le scarpe, le doppie sottane con la cintura, un
giubboncino: tutto in regola.

Era la pupa di Irma che Taliedo si era messa in tasca quando aveva
elevata la sua mimma al terzo piano.

Si era dimenticato di renderla alla mimma: gli era rimasta in tasca.

--Oh, _a little doll!_--fece la dama accostandola molto da vicino ai
suoi grandi occhi miopi.

--Date qui--disse Taliedo di scatto--è un piccolo regalo, un piccolo
modello...

--Oh no!--disse la dama come non rispondendo a lui,--oh no!

--Molto _pretty, very pretty_--diceva intanto lei, gravemente.

--Già, molto _pretty_. Piccolo modello artistico.

--Oh, no.

--Dico di sì, modello artistico. Date qua, via.

--Niente dare qua, niente modello, niente via.

--Giuro!

Ella fece una brutta, severa smorfia a quel «giuro».

--Avete visto? Vi piace? Adesso datemi il mio piccolo modello.

--No, non dare.

--Io non capisco cosa vi troviate di straordinario...

Ella guardava ora non più la pupa, ma gli abiti, le cuciture: le faceva
passare al contatto delle sue lucide unghie crudeli.

--Dove vendono in Italy le _poupées_ così vestite?--domandò,
seccamente.

--In tutti i magazzini.

--Falso!

--Giuro.

--Falso!

Taliedo comprese che il suo volto tradiva che realmente egli diceva il
falso: infatti la vestizione della pupa era stata opera paziente di sua
moglie, sotto le più precise ed esigenti indicazioni di Irma.

--A me non piacere uomini maritati: uomini senza dedizione
assoluta--disse ella infine come ritraendosi, come rimettendosi nella
credenza tutte le salse che aveva preparato, compresa la deliziosa mano
rapace.

--Ma io non capisco, scusate.

--Voi capite benissimo.

--No!

--Voi avere moglie e _little baby_.

--Giuro di no!

--Allora lasciate fare così!

Prese la pupa e fece atto di collocarla sotto il nero, americano tallone
della perfetta sua scarpa.

--Ah, no!--fece Taliedo balzando.

--Non bambola italiana io: donna americana--disse la dama levandosi in
piedi e restituendo la pupa con disprezzo.

       *       *       *       *       *

E fu così che, per colpa di quella malaugurata pupa, dimenticata lì in
tasca, Taliedo perdette l'occasione di guadagnare una bella somma
facendo il monumento a Mister George Paddy, mercante defunto di
petrolio, e anche--ciò che gli lasciò una grande amarezza, un vuoto
strano--l'occasione di gustare quella salsa esotica di cui aveva gran
desiderio.



VUOI SAPERE COME HO FATTO IL MILIONE?


Eravamo nel palco: io, Ballesio, l'universale Ballesio, il famoso
Ballesio il cui nome è da per tutto, il cui ritratto onora persino le
scatole dei cerini, la cui _réclame_ splende, scintilla dalle quarte
pagine dei giornali alle proiezioni luminose sui tetti; e con noi c'era
il colonnello, personaggio assai decorativo, e infine la signora
dell'immortale Ballesio.

La signora dell'immortale Ballesio sedeva al parapetto con la guardia
d'onore del colonnello.

Io non conosco di preciso l'età della signora Ballesio, ma certamente
fra i quaranta ed i cinquanta: però si può dire di lei «è ancora una
bella donna». Ma il cav. Ballesio afferma invece che la sua signora è,
tuttora, la più bella donna della città. Esagerazioni! Certo è che a
teatro tutti gli occhi girano, e poi si fermano su di lei. Perchè?
Perchè è la moglie dell'immortale Ballesio? Perchè osa esporre, contro
la maldicenza, uno scollato autentico ed inaudito in un teatro di
provincia? Perchè i due solitari che le adornano gli orecchi sono
calcolati a lire diecimila l'uno?

Il cav. Ballesio mi disse piano:

--Senti: ho sonno, e poi mi annoio. Sono stanco di _Vedova allegra_.
Vieni con me a prendere un altro caffè? Permetti, cara?--chiese alla
signora.

--Sì, caro.

E ci allontanammo.

--Questa sera tua moglie è, come dire?, superlativa,--dissi versando il
caffè all'amico.

--Questa sera? Puoi dire «sempre», mia moglie, la Trebbiatrice.

--Perchè la chiami così?

--È un vezzeggiativo. Non hai mai visto le trebbiatrici? Ingoiano tutto.
Così mia moglie, in fine d'anno, ha il coraggio di trebbiare dalle venti
alle trentamila lire per le sue spese personali. A Parigi, a New York
sarebbe un'inezia; ma qui in provincia, bada che ci vuol del genio per
trebbiare trentamila lire l'anno! Mia moglie è straordinaria! Ma come
fai ad ingoiare tanti biglietti da mille? le domando. È un suo segreto!
Capisci tu? Ma sta sicuro che li ingoia.

L'immortale Ballesio, quando ha mangiato e bevuto bene--quella sera egli
aveva onorato il colonnello con un magnifico desinare--non si riconosce
più: non è più la solita mutria: parla, ha dello spirito. Capace poi,
domani, di negare villanamente tutto quello che si è lasciato sfuggire:
ma per quella volta, parla.

--Così che, così che--chiesi io--la tua casa privata ti porta ad una
spesa equivalente ad un milione circa di capitale. Non è così?

--Un piccolo milionario--rispose Ballesio--un modesto milionario... Il
milione, vedi, sarà in avvenire come quel tale pollastro che quel Re di
Francia voleva nella pentola dei più poveri fra i suoi sudditi.
L'avvenire della società è sbalorditivo...

--E tu intanto principi...

--Bisogna ben dare l'esempio...

--A parte gli scherzi--dissi,--ma spiegami come va questa faccenda; come
va che tu che sei un modello di esosità, spendi, senza protestare,
ventimila lire e più per la tua signora...

--Mettiamo le cose a posto: prima di tutto, modello sì, ma non di
esosità. Quanto alla mia signora, è evidente; io devo tutta a lei la mia
fortuna. Lei non lo sa, ma è così!

--Ma se non ti ha portato un centesimo di dote!...

--Ti sbagli: mi portò il padre, la madre e quattro fratelli da
mantenere, che oggi sono tutti impiegati nell'azienda.

--E allora?

--È un problema psicologico. Tutti i problemi umani hanno un fondamento
psicologico occulto. Senti il mio: ma prima di tutto guardami bene in
faccia: non quale mi vedi nelle fotografie, nei quadri, nei _tablò_; ma
quale sono realmente: sono bello o brutto?

Esitai.

--Di' pure brutto, piccolo, rincagnato, pelato fino dalle origini, e
senza l'onor del mento. Ma devi aggiungere che a ventidue anni, quando
la sposai, ero anche più brutto: lo dico io, e mi puoi credere. Mi sono
fatto un po' bello in seguito. Immagina invece che cosa doveva essere
mia moglie allora! Tu dirai: Una dea! Io aggiungo: Una carica di
cavalleria! Dopo la quale tu non sapevi più in che mondo eri. Sono cose
che a dirle non ci si crede. Bisogna provarle.

--Provare per credere--dissi io--come per le tue pillole.

--Precisamente--disse con gravità Ballesio.--Senonchè Mariuccia allora
non era Giunone; era Ebe; Giunone, quale tu la ammiri adesso, diventò un
poco per volta. Ebbene io, a differenza di molti uomini, inconsapevoli
della verità, intuii subito che avrei fatta una deplorevole fine nella
mia qualità di marito. Bada bene però, e vedi di non confondere: mia
moglie era, come è adesso, l'esemplare delle mogli; ma tu devi sapere
che le facoltà ragionative della donna non hanno sempre la stessa sede
di quelle dell'uomo. Supponi, per modo di dire, che in mia moglie le
facoltà ragionative risiedano nell'epidermide, e che la sua epidermide
dicesse allora: «io ho bisogno di vestirmi--quando mi vesto--di seta e
di pietre preziose», e poi di' quale doveva essere la mia sorte che non
potevo comperarle che un abito di cotonina! Io sentivo la necessità di
diventare ricco appunto per non diventare un marito, come dire?
infelice. Ma come si faceva a diventare ricco? Lo sai tu?

Io sospirai.

L'immortale Ballesio mi spiegò e disse:

--La donna è la glandola della ricchezza. Pare un assurdo, ma è così. La
donna è come la pituitaria, la tiroide, la surrenale, glandole superflue
in apparenza. Ma tu portale via, e l'uomo diventa l'ombra di un uomo.
Sopprimi la donna, e tu hai l'uomo che ritorna allo stato selvaggio e
cretino.

Dopo ciò Ballesio bevve un cognac, e seguitò:

--A quei tempi io reggevo una farmacia a Montefalco. Guarda che per
andare giovane di farmacia in quel paese bisogna essere morti di fame.
In una settimana tu non fai cinque lire di banco. Il mio predecessore
era scappato via per disperazione, portando con sè quel po' di chinino
che c'era e una mezza dozzina di barattoli antichi.

Io, appena arrivato lassù, avevo messo fuori un gran cartello: _Farmacia
uso Roma_. Sai tu cosa vuol dire _farmacia uso Roma_? Io no.
Probabilmente era uno sfogo di quel genio della _réclame_ che mi si
sviluppò in seguito. Una sera d'inverno, dopo l'avemaria, stavo al buio
pensando al mio avvenire di marito infelice. Sentivo nella stanza di
sopra, ogni tanto, il passo di Mariuccia. Ella bubbolava dal freddo,
poverina! e doveva tenere sotto le sue adorabili sottane un vile
scaldino di carbonella. Sai tu quali orrendi pensieri devono passare per
la mente di una bella giovane costretta a bubbolare dal freddo in un
paese come Montefalco? Io sentivo già i brividi sul mio capo.
O Mariuccia--esclamai--o io morirò, o tu avrai un camino grande come una
fornace; e quando vorrai andare a spasso, avrai una carrozza con quattro
cavalli che ti tireranno dove vuoi. Allora, capirai, di automobili non
si parlava dalle nostre parti; non esistevano le mie pillole; il
termosifone era una cosa sconosciuta.

Ed ecco che un Marcantonio di montanaro, grosso e alto come la bottega,
mi spalanca la vetrina, entra e butta sul banco una cosa, e dice con
disprezzo:

--Questa tientela per te.

Guardo. Era una carta senapata.

--Non ha fatto effetto, galantuomo?--dico io.

--E che effetto vuoi tu che abbia fatto?--mi dice. Non mi ha grattato
nemmeno la pelle.--Ora, prosegue l'ineffabile Ballesio, tu sai la storia
dell'uovo di Colombo, della lampada di Galileo, del pomo fradicio di
Newton! Ebbene, quell'uomo è stato la mia lampada, il mio uovo, il mio
pomo marcio. Sentii, come farti capire? una luce trapassare la mia
mente, un lampo; ma avevo trovato!

--Amico--dissi con effusione a quel villano--vieni fra due ore e avrai,
ti giuro, il cerotto che tu vuoi e che ti guarirà.

Due giorni dopo l'uomo tornò. Mi mostrò la sua schiena che era tutta una
piaga; ma lui era esultante: era guarito!

Io avevo inventato il famoso cerotto di Sant'Antonio. Nelle nostre
campagne chi non conosce adesso il cerotto di Sant'Antonio? I farmacisti
delle città avevano dimenticato la esistenza dei forti lavoratori della
terra, la cui epidermide, perchè sa--come si dice oggi--il lavoro dei
campi, è insensibile ai comuni revulsivi. Avevano dimenticato questa
elementare psicologia della medicina popolare che un farmaco è creduto
tanto più efficace quanto più si sente e fa male.

--Ma tu dici delle bestialità, Ballesio.

--Mai più! È affare di autosuggestione. Il villano si sente bruciare e
pensa: «ecco, io guarisco!» Pensare di guarire spesso vuol dire guarire.
Aggiungi poi dietro il cerotto l'imagine di Sant'Antonio, del grande
taumaturgo, e tu hai la spiegazione dell'immenso successo del mio
specifico. Devi poi notare che nelle nostre campagne c'è ancora un po'
di religione e i parroci, con una piccola percentuale sulle vendite,
hanno fatto una _réclame_ strepitosa a questo revulsivo che cura
sciatiche, lombaggini, raffreddori e, dopo usato per l'uomo, tu non lo
butti via, ma ne incolli la immagine nelle stalle per la protezione
delle bestie.

Dopo il cerotto di Sant'Antonio, la via era aperta. Un giorno
contemplando la mia signora che si svestiva allo specchio, esclamai:
«Dio, che tesori! ma perchè devono esistere fanciulle clorotiche,
smunte, senza l'onore di quel seno e perciò prive della venerazione
degli uomini e della santa gioia della maternità?» Pensare questo ed
inventare le mie pillole fu un attimo. Ah, tu ridi? saresti buono anche
tu di far le mie pillole, eh? Ma di persuadere l'umanità che con le mie
pillole si guarisce, fui capace io solo.

E Ballesio assunse la sua aria di grand'uomo. E aggiunse gravemente:

--Al bene di tutte le classi sociali io ho provveduto: ai neurastenici,
agli stitici, agli ipocondriaci; e poi mi chiamano--qui in quest'idiota
paese--avaro, esoso, tirchio; imbecille mi chiamano anche! pucinella
politico, perchè, ora--dicono loro--sto coi preti, ora sto coi
socialisti. Io sto con chi soffre, e il mio nome è universale: _Vos
omnes qui laboratis et «ammalati» estis, venite ad me!_ Questa è la mia
divisa. Non vi sono che i medici ed i preti che preferiscono la
percentuale sui miei specifici agli specifici medesimi: ma si tratta di
una classe, direi quasi cinica, senza fede, destinata a scomparire. Ma
tutto il resto del mondo è basato sulla fede! Come ha progredito il
Cristianesimo? Con la fede. Come progredisce il Socialismo? Con la fede.
Che cosa è il _sole dell'avvenire_ che gli increduli deridono? Una forma
allotropica della fede. Come si diffondono per il mondo le mie
boccettine, le mie scatoline? Con la fede. La fede è l'ossigeno della
vita. La fede genera il dogma: il categorico imperativo di Massimiliano
Kant. Chi non crede al dogma, _anathema sit!_ Scomunicò la Chiesa,
quando potè! Scomunico io chi non crede a me! Ti pare? Senza fede, che
cosa hai? Hai la ribellione, hai la critica, hai individui pallidi,
stitici, dolorosi, senza vigore di volontà; hai degli irregolari della
vita. Ora--sta bene attento--dall'incontro di un atomo di fede negli
altri con un atomo di genio tuo, si ottiene il protoplasma intorno a cui
si verrà poi innucleando il milione. Hai capito adesso come si fa a
diventare milionari?

--Ma tu hai fede nei tuoi specifici?--chiesi io.

--Immensa! Essi valgono quello che valgono gli altri specifici. Tieni
bene a mente: nel campo terapeutico, tranne l'olio di ricino, il chinino
per la malaria, il bicarbonato pel bruciore di stomaco, tu non hai che
dei medicamenti illusori: bastoncini di carta su cui l'ammalato si
appoggia disperatamente per passare dallo stato egrotante a quello di
sanità. La sola terapia vera è l'igiene, l'aria, il sole e, moralmente,
essere un poco bestia. Ma che colpa ne ho io se l'uomo non può e non
potrà mai essere uomo igienico? se la sua anima non è sempre bestiale?

       *       *       *       *       *

E quell'imbecille di Ballesio chi sa per quanto avrebbe durato, se in
quel punto il rumore del pubblico non avesse avvertito che la _Vedova
allegra_ era finita.

Ballesio corse a prendere la sua signora: giacchè questo onore egli non
lo cede a nessuno.

Sarà ridicolo questo minuscolo uomo, in grande sparato bianco, dare
maestosamente il braccio alla giunonica sua signora; ma è uno spettacolo
che tutti ammirano.

Quella sera la signora aveva un manto di ermellino arrivato da Parigi.

Si può chiamarlo imbecille finchè si vuole, ma bisogna fargli largo. La
sua automobile ha l'ordine di rombare spaventosamente, ed i suoi fari
devono essere i più luminosi. La luce ed il suono tengono viva la fede.
Ammirabile uomo, dopo tutto, che conserva inalterabile, assoluta la
fede, anche nella sua signora.



UN PICCOLO BACIO, QUI!


--Riservato per dame?--domandò la dama al conduttore indicando l'interno
di uno scompartimento di seconda classe, dove otto corpi di grosso sesso
maschile si stavano pigiati.

--Viaggiamo in condizioni eccezionali, signora.

--Ah!--fece la dama--e le sue pupille grige sotto il velo rialzato, e
che scendeva giù da una gran falda di cappello, fulminarono gli otto
grossi corpi; fulminarono il conduttore, e con lui il suo colletto un
pochino lercio, le sue mani quasi nere; fulminarono il treno in
disordine, la stazione in disordine; e, più largamente, fulminarono
l'Italia e le ferrovie in disordine: anzi in quel giorno in completa
disorganizzazione per effetto della neve; una neve enorme, paurosa,
strana, la quale pareva avesse un suo linguaggio di morte, come dire: io
ti voglio coprire, congelare, vecchio mondo!

--Venga con me, signora: la metterò in prima--disse il conduttore, e
precedette la dama attraverso un ingombro immenso del treno: bagagli,
gente.

--Qui è interamente vuoto--disse infine, indicando uno scompartimento di
prima classe.

--Se permette, ci sono io--disse al conduttore un signore che era lì, in
piedi, nel corridoio; ed indicò il suo grosso sciallo buttato
nell'angolo.

       *       *       *       *       *

Questo signore era piccolo, anzianotto, sbarbato e fiorito nel volto:
però aveva un bellissimo naso grosso, ed un bellissimo ventre, sporgente
da un bellissimo pastrano da viaggio. La sua testa pelata era difesa da
un cupolino di seta. Egli stava a guardare dietro la grossa lastra di
cristallo ciò che avveniva nella stazione, e con una mano grassoccia,
adorna di un pesante anello, fumava un vile toscano: da che si poteva
arguire che quel signore era italiano, non straniero.

All'avvicinarsi della dama egli ritirò con bel garbo il ventre, e la
dama passò; passò perchè era sottile, ma la si contorse come per evitare
il contatto di quel ventre, di quel naso, di quel puzzo di vile toscano.
Ma per entrare, la sua alterezza dovette piegarsi da una banda perchè il
cappello non entrava.

Tranne il cappello, che fra veli e piume e spilloni, era di una
complicazione ammirabile, tutto il resto era semplice: una gonna nera,
un'ampia giacca di lontra, nel cui mezzo era posato un cespuglio di
violette finte: finte, ma non importa! Tutta la leggiadra creatura
odorava di viva viola, di fresco mughetto, di pura lavanda. Ma le narici
del suo nasetto impertinente si dilatarono e parvero aspirare in quello
scompartimento come un malvagio odore: le delicatissime labbra si
storsero: poi si sedette come rassegnata. Lentamente, con due sottili
mani inguantate, alti i cubiti, si toglieva veli, spilloni, cappello,
come fosse una funzione sacra. Apparve allora una leggiadra testa dai
capelli cinerei. Con un rapido moto trasse poi da una borsetta uno
zendado, vi ravvolse in un attimo il capo nella foggia languida in cui è
effigiata Beatrice Cenci; distese sul velluto un gran lino bianco; vi si
adagiò con la testa; vi si immobilizzò: forse dormiva se non fosse stato
un piccolo piede a dichiarare che ella era pur desta.

Il grosso signore si rivoltò ancora, lui e il suo naso, contro la
stazione. Era interessante guardare quello che vi succedeva. Un grigio
enorme, un umidore intenso, una folla sconvolta era sotto la tettoia:
ogni tanto passava qualche macchina fumida, gemebonda che trainava
vagoni lenti grondanti da una impellicciatura mostruosa di neve: dentro
si vedeva sfilare un ingombro di umanità.

Si va? si sta? cosa si fa? chi lo sa? Dall'interno del treno immobile,
dal di fuori giungeva un ininterrotto suono di voci:

«Ritardo di due, sei, dieci ore! La neve! macchè la neve: il
«sabotaggio». Ci vuole un ferroviere impiccato per ogni stazione! Ma si
impicchi lei per primo! Le ferrovie ai ferrovieri! Alle società private
le ferrovie. Senti il compare! È un deputato forse lei? Vi sono delle
donne, dei bambini nelle sale d'aspetto che strillano, che si disperano,
che hanno fame.»

Il vecchio signore faceva: _up, là!_ sollevandosi ritmicamente sulle
punte dei piedi, poi ricadendo sui talloni. Ad un tratto abbassò il
vetro: un signore era uscito dall'ufficio del capostazione; agitava
furibondo le braccia; dietro di lui erano altri signori furenti; dietro,
due capo-aggiunti, ma avviliti, poveretti; la barba di tre giorni, i
baffi in giù, il bavero in su, l'orgoglioso berretto color granata,
pesto, avvilito anche lui. Quel signore aveva tutta la bocca aperta e le
sue parole dovevano essere terribili: ma non si sentivano: ecco perchè
il vecchio che faceva _up, là!_ aveva abbassato il vetro.

Allora si udì la voce di quell'energumeno che urlava:

--Ma dove è quel capostazione? Ha finito il suo turno ed è andato a
casa? Già loro signori capi non sanno niente, loro non capiscono niente,
tutto un giuoco a scaricabarile. Al telegrafo, al telegrafo! Mangiapani
a tradimento. Vi concio io, ora! Un dispaccio al ministro.

Chi poteva essere quell'autorevole e furibondo personaggio?

Tutta la folla si volta, al galoppo, verso il telegrafo, e dietro
corrono le lucerne di due carabinieri. Ma tornano tutti subito indietro.
Una imprecazione collettiva, enorme: Il telegrafo non funziona più!

Ma che succede adesso? Un altro signore rompe la calca, affronta
l'energumeno e strilla come un'aquila:

--Prima di tutto, lei che grida tanto, fuori il biglietto!

Era il più bello della scena, quando la dama, levando appena il dito,
disse laconicamente:

--Prego, chiudere.

Il vecchio grasso gentiluomo udì, si voltò, guardò la dama. Ella diceva
proprio a lui. Lui parve meditare: dopo tutto la signora di seconda
classe era come sua ospite nel compartimento di prima.

--Prego chiudere--ripetè la signora in tono che non era affatto di
preghiera.

Allora il signore alzò lentamente e come a malincuore il cristallo.

Intanto un lento moto avvertiva che il diretto, forse, stava per
partire: uscì dalla tettoia, infatti. Allora brillò una gran luce: ma
non dal cielo uniforme di piombo scendeva quella luce; ma dalla immensa
candidezza della terra, e fuori di quel candore, tutto era ugualmente
plumbeo: le fiumane, le piccole case, disperse, livide, sepolte: un
paesaggio immobile, desolato, bianco su cui avanzava, quasi immersa, la
linea nera del convoglio.

       *       *       *       *       *

Però era oramai mezzogiorno e il signore si preparò a far colazione:
l'apparecchio o viatico che levò da una cestina e dispose bene bene,
rivelava l'esistenza di un cuoco di casa, o forse anche di una di quelle
mogli rare e preziose che preparano tutto per il marito che viaggia.
Quel viatico rivelava inoltre che egli era un buongustaio e anche uno
stomaco solido. Guardò con occhio commosso un'anca di cappone a lesso;
pallida, piena, gelatinosa, accuratamente priva di bordoni e di piume,
oh non come sono le ali e le ànche scheletriche nei disingannevoli
cestini da viaggio! Guardò un bellissimo, brunito, rosato, profumato
arrosto di filetto, disposto in ordinate fette. Esitò: finalmente prese
delicatamente una fetta d'arrosto, aperse la bocca, mise un po' fuori la
lingua... In quel punto la dama fece una smorfia di supremo disgusto.

Il signore fissò: depose la fetta su le altre, non sulla lingua, e in
tono di persona seccata disse:

--Oh, senta, cara signora, che lei mi voglia impedire di fumare, vada
anche, benchè questo è scompartimento per fumatori; che non mi permetta
di aprire il finestrino per un momento, sia pure; ma mangiare, ah,
mangiare...

--Non parlare con voi.

--Allora io parlare con voi... oh, corpo di Bacco! E dire che quando noi
andiamo all'estero, stiamo, si può dire, col cappello in mano; e questa
razza prepotente quando viene in Italia...

Ma la signora con una mossa sdegnosa, appena detto «non parlare con
voi», si era rifugiata nell'angolo opposto, e d'altra parte,
quell'arrosto era così buono, così persuasivo che pareva dire: «Perchè
ti vuoi guastare la digestione?» Le fette sparivano tranquillamente,
alcuni panini scricchiolarono, una bottiglia nera versò una volta e due
il suo contenuto luminoso giù per la gola dell'amabile signore. Non
rimaneva che la frutta, e questa era rappresentata da grossi mandarini
dalla buccia ben sciolta.

A questo punto il treno, che già andava lento, rallentò: la macchina
mandò un gran sbuffo, poi un sibilo flebile, lugubre, morente: il treno
si fermò. Un silenzio profondo, poi un'agitazione paurosa per tutto il
treno. Il treno era sotto la neve. Stazione vicina? No. In aperta
campagna. Si sentivano sportelli e vetri aprirsi. Un individuo o due
saltarono giù. Rimasero confitti come cialdoni nel lattemiele: la neve
rasentava la banchina. Terrapieno, siepe, tutto era livellato in una
desolazione bianca: la macchina--la si scorgeva in curva--era quasi
tutta immersa. Nevicava ancora.

La signora si scosse.

--Cosa succede?--chiese voltando la testa verso il compagno di viaggio.

--Probabilmente bloccati.

--Ah! Verranno a sbloccare.

--Speriamo bene, signora.

Può fare sempre piacere ad un filosofo il constatare che la piccola
graziosa neve ha forza di arrestare una macchina enorme e nera, simbolo
del progresso; come la pudica acqua di affondare un transatlantico; come
un microbio invisibile di uccidere un uomo: ma è bene non trovarci in
simili casi.

La verità cruda non tardò a farsi strada: treno bloccato in aperta
campagna: avanzare e retrocedere impossibile: segnalazioni
insufficienti: telegrafo rotto: macchina spenta.

Prospettiva certa: cinque ore di blocco, almeno, cioè il tempo da
permettere alle guardie di percorrere i venti chilometri lungo la linea
sino ad arrivare alla stazione da cui erano partiti: poi aspettare la
locomotiva liberatrice. Altra prospettiva molto più probabile: la notte
in treno, senza calore e senza luce perchè la caldaia era già spenta.

Quando la signora seppe questo, fece anche lei come tutti nel treno:
protestò: il treno era un coro di proteste. La signora aggiunse la sua
voce esotica al coro, con speciale sintesi diffamatoria verso l'Italia.

--Viaggiato molto--diceva--ma mai visto qualche cosa così orribile.
Russia, Norway, Svizzera, paesi avanzati avere _puf_, _uf_ (soffiava).
Avere, come dicete voi? _Avere rotery-snow-plough_ per soffiare via
neve.--E con la manina vorticosa faceva un molinello che buttava via
tutta la neve.

--Vuol dire--spiegava il capotreno ai circostanti, un giovanotto quasi
elegante--che all'estero adoperano un tipo nuovo di spazzaneve a
ventilatore per liberare i binari. Qui siamo ancora al vecchio tipo che
non è buono se non a buttare la neve da un binario sull'altro; e poi con
una neve come questa non va.

La signora, dopo avere protestato, si dovette anche lei adattare al
fatto reale; aspettare, pazientare, tacere.

Passava, interminabile, il tempo.

Quando la superba umanità intuisce una forza che non può vincere, con
cui non può lottare, si abbatte avvilita, muta. I carrozzoni, specie
quelli di terza classe, potevano richiamare in mente certi
carri-bestiame, pieni di corpi immoti, attoniti.

Ma i bambini si udivano gemere: qualche donna piangeva. La fame! Qualche
vigoroso, qualche ardito discese: dal casello vicino, da una cascina si
potè avere un poco di pane: ma era una disputa feroce: la si
intravvedeva nei vagoni di testa.

Calava la sera.

--Signora, posso offrire?

La signora pareva sofferente: era scossa come da brividi.

Il signore aveva tolto dalla grossa valigia di cuoio una fialetta di
essenze.

--Veda, signora--disse--quando io viaggio, ho l'abitudine di prevedere
tutto. Ecco qui, oltre al resto, una candela: è probabile che fra poco
torni a proposito.

--Grazie, ma avere anch'io _petit flacon_. Piuttosto ho fame.

--Ah--fece il signore--e presa la cestina, ne trasse ancora quella
deliziosa anca di cappone. Poi fissò la signora: sorrise dolcemente con
i suoi denti bianchi nella faccia rubiconda, un po' ironica, e senza
muoversi punto, appena movendo le labbra:--Sì--disse--ma pagare!

«No, no denaro--disse fermando il gesto della signora.--Soltanto un
piccolo bacino, qui!»

E indicò la punta del grosso naso.

--Ah!... _Fy, old satyr!_

--Niente, vecchio satiro, _madam_. Ho dato addio da tempo alla carne:
non però alle ànche di cappone. Ma quest'oggi mi sento americano
anch'io, cioè molto originale--e così dicendo fece atto di riporre la
preziosa anca superstite.

Allora con un moto rapido, la dama si appressò: il signore sentì cose
molli, profumate, deliziose appressarsi a lui: la lontra, le viole.

I labbruzzi di lei sfiorarono il suo grosso naso. Poi tutta si ritrasse
indietro, coprendosi il volto per non vedere quella orribile cosa che
aveva baciata.

       *       *       *       *       *

--Dire--ruminava tra sè il signore allontanandosi nel corridoio, e
riacceso un toscano per lasciare che la dama affondasse in pace i suoi
dentini in quella anca rosata--dire che circa vent'anni fa questa triste
avventura della neve poteva essere fra i più saporiti ricordi della
vita!

Un mezzo toscano è spesso una grande consolazione, nella miseria.



GIACOMINUS GIACOMINI.


Quella volta la mamma, per quanto pietosa, non potè nascondere il grave
fallo di Giacomino: il babbo venne, seppe, e quella sera grandinò.

Una grandine alla vigilia di Natale?

Sì, una grandine di busse, ma non sui campi: bensì sulla persona di
Giacomo Giommi, ovvero Giacominus Giacomini, come lo chiamavano
beffardamente i compagni di scuola, figlio legittimo ed unico del signor
cav. Antonio e della signora Palmira, scolaro ginnasiale
scioperatissimo.

La signora Palmira conosceva del non egregio suo Giacomino tutte le
prodezze: dalla vendita della grammatica latina per acquistare il
diritto di copiare i problemi, alle lezioni marinate con superba
disinvoltura; sapeva perchè diminuiva lo zucchero ed aumentava in modo
anormale la lista del calzolaio e del sarto. Il padre, cav. Antonio,
ignorava tutte queste cose: prima perchè nessuno gli diceva niente,
secondo perchè dalle sette del mattino--ora in cui si levava--a
mezzanotte e anche all'una talvolta--ora in cui rincasava--non compariva
nel domestico focolare che per le due ore del pranzo. Però se ignorava
l'analisi, intuiva la sintesi:

--Quel ragazzo non ha voglia di far niente di bene!

--Ha ingegno, e farà bene--risponde la signora Palmira che più si
avvicinava alle nozze d'argento e meno veniva dividendo le idee del
marito.

--Ingegno a dir le bugie, ingegno a sgraffignare se trova, ingegno ad
inventare tutte le scuse per faticare meno che si può e godersela più
che può. Credete che io non me ne accorga?

--E anche in ciò si richiede ingegno--rispondeva la signora Palmira, la
quale si riserbava almeno il diritto di parlare sempre per ultima.

Chi possedeva l'analisi e la sintesi sul conto di Giacomino era la donna
di servizio: ella sapeva tutti i progressi fatti da lui nel _folklore_
delle ingiurie plebee ad una umile fantesca: da _servaccia_, _sguattera_
sino a certe parole che offendevano la dignità del sesso. Ella aveva
anche imparato la differenza che passa tra l'impressione di una scarpa
coi chiodi e un'altra senza chiodi: i modi con cui Giacomino comandava
potevano ricordare un linguaggio non più ammesso dalla democrazia. Vero
è che, quanto a termini ingiuriosi, la domestica disponeva di un
vocabolario ricchissimo. In questi casi Giacomino, leso nel suo onore,
riferiva alla mamma.

La mamma allora interveniva come giudice e diceva: «Mettiamo bene le
cose a posto. Tu sei la serva e lui è il padroncino, tu sei una donna
fatta e lui è un bambino ancora ingenuo.»

«Per me l'è un barabba!» diceva con profonda convinzione la donna, e
allora Giacomino assisteva ad un'altra varietà di diverbio, quello fra
la donna di servizio e la mamma: diverbio molto più clamoroso e lungo
perchè la donna di servizio si credeva in diritto di pretendere per sè
l'ultima parola.

Dunque quella antivigilia di Natale la signora Palmira aveva dovuto
recarsi alla direzione del Ginnasio, chiamatavi d'urgenza da un laconico
biglietto del signor Direttore.

Veramente il biglietto era per il padre e non per lei.

Il signor Direttore, anzitutto rilevata questa sostituzione, accolse la
signora Palmira con un contegno così solenne ed enigmatico che la detta
signora perdette la sua abituale sicurezza.

--Abbia ad ogni modo la bontà di accomodarsi.

«Non avrà mica ammazzato qualcuno!» pensò la signora Palmira.

Il signor Direttore torna a sedere sul suo seggiolone: preme il bottone
elettrico: compare il bidello: ordine di far comparire Giacomino Giommi,
e Giacomino compare.

«Povero figlio mio--palpitò la signora Palmira come lo vide con un
aspetto così compunto come mai gli era accaduto--questa volta ne hai
fatto una grossa!»

Il Direttore con una crudele lentezza estrasse un foglietto e lo
presentò alla signora.

--È questo--domandò--il carattere del suo signor consorte?

--Veramente...--disse la signora.

--Questo è un falso; ieri il suo signor figliuolo ha presentata questa
giustificazione. Del resto guardi--e col dito fulminò lo
scolaro--_habemus confitentem reum!_--Per tutto questo ed altro io
desidero la presenza del padre.

--Ma...--obbiettò la signora Palmira.

--Assolutamente: intanto la avverto che il suo figliuolo, per deliberato
consiglio dei professori, è sospeso dalle lezioni. Questo come
preavviso: il resto verrà poi!

Il signor Direttore fece capire che non aveva altro da esporre, almeno a
lei, signora Palmira.

La signora Palmira inchinò, uscì, con Giacomino dietro.

«Si può essere più imbecilli? E si può essere più villani con una
signora? Un falso! a quell'età!» e rideva verde: tuttavia come giunse a
casa, ordinò con un cenno al rampollo di seguirla. La signora elevò il
_tu_ alla potenza del _lei_.

--Ha inteso, bel signorino?

--È stato Finotti...!--rispose Giacomino con un tono che non avrebbe per
nulla indicato quel nobile sentimento «che fa l'uom di perdon talvolta
degno»: indi dirotto pianto, ma di rabbia.

--Finotti a far che? a scriver la lettera?

--No, a dirmi come si doveva fare _la scusa_. La fanno tutti, mica io
soltanto! Il direttore l'ha su con me, e mi castiga solamente me--così
rispose Giacomino.

--Va bene: lei vada intanto nella sua stanza.

Giacomino non domandava di meglio e si rifugiò nella sua stanza dove
tutto serbava traccia delle sue imprese: la tappezzeria stracciata per
ornare il palazzo della regina nel teatrino dei burattini: le sedie
adattate a biciclette e ad automobile: il lume meccanicamente contorto
per costituire il fanale della detta automobile: le quali cose insieme a
molte altre, se davano alla stanza un disordinatissimo aspetto,
provavano le disposizioni congenite del giovanetto alla meccanica.

Ma quel triste vespero Giacomino entrò assai turbato nella sua stanza:
il gatto che lo vide--al rumor della porta aveva levato la pupilla dal
suo vigile sonno--come saetta fuggì: negli esperimenti meccanici di
Giacomino, o nelle rappresentazioni dei burattini, egli--onesto
micio--era forzato a fare delle parti repugnanti alla sua indole
tranquilla.

       *       *       *       *       *

Proprio in quell'ora il signor cav. Antonio tornava a casa.

L'abitudine nei _paterfamilias_ è così forte che essi ricasano anche
quando la dimora non è più asilo di pace.

Il signor Antonio era bensì cavaliere per ragione del suo grado
ufficiale, ma viceversa doveva sgobbare come un somiere. Giacchè se lo
stipendio governativo era sufficiente per una famiglia di abitudini
modeste, diveniva inadatto a sopperire al treno di casa quale era
imposto dall'esempio delle altre famiglie e dalla filosofia della
signora Palmira, la quale soleva dire: «Si vive una volta sola e perchè
ci dovremo privare di qualche piccolo benessere?» Per soddisfare questo
_piccolo benessere_, il cav. Antonio doveva «arrotondare» il suo
stipendio.

Questa necessità dell'arrotondare degli stipendi spesso rappresenta uno
sgonfiamento del denaro pubblico, e qualche volta ha il suo epilogo
nelle aule dei tribunali. Ma è proprio vero che il signor Antonio
_arrotondava_ onestamente, cioè lavorando di più col tenere alcune
amministrazioni private.

Però con questa vita da bue lavoratore portare il titolo di cavaliere, è
una ironia! Ma il cavalier Antonio non si accorgeva oramai più di questa
ironia: il mondo era divenuto per lui un immenso cartafaccio con colonne
di numeri lunghe lunghe da sommare, e non finivano mai, e non lo
avrebbero mai abbandonato: lui sì avrebbe abbandonate le formiche delle
cifre il dì della morte, ed esse--le cifre--sarebbero state prese sotto
tutela da qualche altro: ma suo figliuolo--Giacomino--sarebbe divenuto
non un impiegato, ma un libero professionista! ed ecco perchè Giacomino
era entrato in Ginnasio e nella casa del cav. Antonio era entrato _Rosa
Rosæ_, _genitivo_ e _dativo_, _Fedro_ e la _grammatica dello Schultz:_
arnesi di pensieri, dei quali il più domestico e perito era, a tutto
dire, _Giacominus ipse!_

Il povero signor Antonio si confortava di respirare la libertà futura
che avrebbe goduta il suo figliuolo, dottore, ingegnere, avvocato! Di
altre soddisfazioni non ne aveva. Il _thè_ che la sua signora offriva
alle amiche nel giorno di ricevimento, aveva per lui un sapore di
amarezza stantìa: e quanto al buon gusto della sua signora nel vestire
egli era forse il solo a non apprezzarne tutta la finezza. Tuttavia
anche lui aveva le sue oasi, rappresentate dalle rare e necessarie
vacanze, e fra queste la più dilettosa e lunga era quella del Natale.
«Tre giorni di pace in casa!»--pensava il signor Antonio rincasando--e
passando dal pasticcere ha ordinato un dolce di vaste proporzioni: dal
pollivendolo un tacchino, due capponi e tre dozzine di uova, dal
droghiere, marsala e liquori. Con queste liete disposizioni di spirito
il cav. Antonio entra nel lare domestico.

--Oimè! cos'è quest'aria di mistero? Perchè tutti si rimpiattano? dove è
Giacomino?

       *       *       *       *       *

La signora deve pur raccontare.

Il volto del cav. Antonio si offusca: insolitamente balena e lampeggia.
La signora Palmira non ha mai assistito ad una burrasca di suo marito
più improvvisa di quella. «Oh! come diventano neurastenici questi
uomini! e poi chiamano isteriche, noi, donne!»

Il cav. Antonio entra nella stanza di Giacomino.

Giacomino lo sbircia.

Svelto come uno scoiattolo, ha presentito la caccia e la tempesta. Cerca
di fuggire, ma la porta è chiusa.

Caccia, nella stanza, all'uomo, anzi a Giacomino!

Giacomino salta sul letto, s'appiatta, s'arrampica. Ma il terrore di
quell'uomo che non ha mai visto così adirato, paralizza la velocità
delle sue gambe.

Giacomino, infine, come un volgare malfattore, è preso da quell'uomo e
per qualche tempo una grandine di pugni cade su di lui senza riguardo ad
una parte piuttosto che ad un'altra della sua persona.

Finalmente la grandine cessò.

Al molto rumore di grida e di mobili smossi è successa una gran calma.

Il bruciore dei pugni passò in breve. Giacomino mette fuori la punta di
un occhio: sbircia, e torna ancora a nascondere la testa fra le braccia.
Sì, perchè quell'uomo è ancor lì, anzi era lui--quell'uomo--che faceva
quel curioso rumore--e non sapeva prima quello che fosse--col fiato.
Giacomino non si muoveva perchè aspettava che quell'uomo andasse via; e
torna a sbirciare con la coda dell'occhio: guarda meglio, e lo vede
finalmente alzarsi, e andar via.

Ma dietro la porta chiusa c'era la mamma che invano aveva forzato di
aprire. E come i due si incontrarono, si appiccicarono: e Giacomino
sentì che si dicevano fra loro quelle brutte parole che a lui erano
interdette e per cui--per l'appunto--la serva lo chiamava barabba.

Ma il babbo, a differenza della mamma e della serva, non ci doveva
tenere al diritto della parola per ultimo, perchè poco dopo fu un gran
silenzio e non si mosse più nulla.

Però qualche piccola, impercettibile cosa si mosse. Dove? Dentro di
Giacomino.

La mamma aveva detto che lui, quell'uomo, lo voleva ammazzare con tante
busse, ma Giacomino non ne sentiva più nemmeno l'indolitura.

I pugni che pigliava talvolta, come incerto delle sue monellerie, da
qualche condiscepolo, più robusto ed anziano, lasciavano un'impressione
molto, oh molto più durevole. Eppure il babbo è molto più grosso di
coloro!

E allora perchè? Perchè ha meno forza? E perchè ha meno forza? perchè
ha la barba quasi bianca? Sono i vecchi che hanno la barba quasi bianca.

Dunque il babbo è vecchio!

       *       *       *       *       *

In quel punto la stanza si illuminò ma nessuno aveva portato il lume:
era la lampada nella strada e la stanza appariva chiara, più chiara che
mai, perchè oltre alla luce della lampada c'era la luce del tramonto, un
tramonto di una luminosità trasparente e grande come suole d'inverno
talvolta, con dei riflessi azzurrini.

Le altre volte che Giacomino era stato messo agli arresti di rigore
nella sua stanza, come si era fatto certo di esser ben solo, obliava il
suo fallo, obliava il rimprovero, obliava la lieve percossa ricevuta, e
levati alcuni ferri dal comodino, si sfogava esercitando l'arte del
meccanico con ingiuria dei mobili, ovvero insegnava la parte di elefante
al gattuccio quando doveva comparire su la scena dei burattini. Così
operando, tutto facilmente obliava.

Ma quella sera i mobili godettero della loro pace, e il
micio--prudente--non c'era. In vece Giacomino pensò.

Che cosa pensasse, non è facile a dire: ma qualche cosa pensò: non alla
mancanza della scuola, oh no davvero!

Ma il babbo, quell'uomo che vedeva così di rado; quell'uomo che per aver
dato pochi pugni leggeri leggeri, tirava il fiato sul letto, poco fa;
quell'uomo che la mattina si alzava col lume, e via; che la sera col
boccone ancora in bocca, pioggia o bel tempo, inverno o estate, neve o
afa, si alzava e via; quell'uomo che poco fa aveva detto «vergogna!» gli
stava davanti: penosamente davanti.

Oh, bella! anche il direttore aveva fatto la voce terribile e aveva
detto a Giacomino «vergogna!» eppure quella stessa parola «vergogna!»
detta dal babbo gli faceva un altro effetto: gli faceva un'impressione
più dolorosa che i pugni che aveva presi.

Giacomino voleva un gran bene alla sua mamma, mentre col babbo non aveva
avuto mai gran relazione. Se ne riconosceva l'autorità, ciò era per il
fatto che doveva dire «buon giorno, buona sera», per il fatto che era
lui che metteva fuori i denari, era lui che per fare certe spese tirava
fuori dal portafogli certi biglietti grossi che Giacomino avrebbe mutato
così volentieri in tanti dolciumi; era lui, sempre lui.

Se non che la gran differenza tra prima e adesso era questa: prima gli
pareva una cosa naturale che tutto ciò dovesse avvenire per parte del
babbo, nel modo medesimo che è naturale che colui il quale ha sete va al
caffè e ordina il gelato: chi ha fame va al ristorante e ordina un bel
piatto di maccheroni: chi ha freddo va presso alla stufa: chi vuol fare
un viaggio monta in treno: chi vuol vivere in montagna, prende in
affitto una villetta sui monti nel tempo dell'estate, ecc. Ora tutte
queste cose così naturali e così semplici, anzi così abituali, erano
abituali semplici e naturali perchè c'era quell'uomo che vi pensava:
quell'uomo che si alzava al mattino col lume, che la sera andava via col
boccone in bocca, che poco fa ansimava per aver dato a lui Giacomino,
due piccoli pugni, che avea detto «vergogna!» e avea la barba quasi
bianca.

       *       *       *       *       *

Congiunte queste due cose che prima erano disgiunte, Giacomino capì che
aveva fatto male, molto male! Male a far la firma falsa? No. Ma se lo
fanno tutti! Male a fare una cosa che dava dispiacere al babbo.

E siccome questo dispiacere che dava dispiacere al babbo, dava anche un
certo non so che a Giacomino che gli faceva venire la voglia di
piangere, così Giacomino si mosse in punta di piedi alla ricerca del
babbo. Giacomino sa camminare, quando vuole, con la prudenza di un
pellirosso: esce di stanza, fiuta e, naturalmente, s'avanza verso il
tinello. No, il babbo e la mamma non pranzano, come credeva. La tavola è
bensì apparecchiata, anzi c'è in mezzo la zuppiera. Ma nessuno dei due
l'ha toccata.

Le posate sono al loro posto: sul canterano sono gli involti intatti dei
doni di Natale.

Giacomino sbircia: la mamma, seduta su la poltrona, legge il giornale.

E il babbo?

È andato via anche quella sera che è l'antivigilia del Natale? Io non
saprei proprio dire se Giacomino ebbe la visione dolorosa di tante belle
serate con dolci, castagne, panna levata e cialdoni, forse anche con
teatro, andate maledettamente a male per colpa del direttore; certo ebbe
il sentimento che nessuno più del babbo soffriva per la sua mancanza.

       *       *       *       *       *

C'era il lume nella stanza da letto. Giacomino spinse l'uscio. È il
babbo che va a letto.

Giacomino non si ricorda più--perchè adesso è diventato un giovanotto
serio e bravo--non si ricorda più quello che disse, però si ricorda che
il babbo, quando lo vide con quelle disposizioni, fu molto buono con
lui: lo perdonò subito subito e diceva:--Non mi darai più dispiaceri,
vero?--e lui Giacomino rispondeva di no! con una convinzione insolita, e
il babbo non gli diede nessun bacio, ma con la mano gli toccava i
capelli, e ciò gli faceva un gran piacere, e quando il babbo gli disse:
«Adesso va a mangiare, che avrai fame!» Giacomino non andò a mangiare,
ma prima andò nella sua stanza e acceso certo suo candeliere, cominciò a
scrivere una lettera al babbo. La lettera fu tanto lunga che nessun
compito raggiunse mai, a memoria di Giacomino, una così spontanea
prolissità.

Scritta la lettera, Giacomino la collocò in luogo tale che il babbo al
mattino la scorse prima di ogni altra cosa.

Di fatto il babbo la scorse, la aprì, la lesse e riconobbe che il suo
Giacomino ha cominciato a pensare. Ah, se il signor Antonio sapesse il
latino, come si rallegrerebbe ripetendo il motto di Cartesio: _cogito
ergo sum_, cioè non più Giacomino birichino, ma _homo sum!_



COME LA LINGUA DELLA SIGNORA SI CALMÒ.


La signora entrò in casa, si gettò sul sofà, tacque, cioè no; si preparò
a parlare: invocò il nome di Dio--riservato così spesso, ohimè! per gli
attacchi d'emicrania--si levò di scatto, spalancò due o tre porte a
vetri, e si precipitò, cioè scoppiò nello studio di suo marito.

--Io non ne posso più, più, più! Capisci tu? intendi? fai il sordo?
l'oca? lo stupido? il superuomo? Io soffro, ho dei dolori atroci, mi
sento come svenire; non mangio più, non dormo più, non digerisco più.
Sono diminuita di tre chili e mezzo. Capisci tu cosa vuol dire diminuita
di tre chili e mezzo? Ho delle vampe, delle fiamme; poi un gran freddo,
un gran gelo; poi tutto un formicolìo; il cuore si ferma, dà dei colpi,
poi mi sfugge, non lo sento più, lo sento in gola: mi chiude, mi
soffoca! Ho un vizio di circolazione, l'arteriosclerosi, capisci? È
orribile l'arteriosclerosi, capisci? Orribile! E quest'uomo, questo
marito, questo esseraccio spregevole che si chiama marito, si riempie
l'epa, beve come un facchino, dorme come una talpa, va a spasso,
digerisce stupendamente e non s'accorge d'una povera donna che soffre,
che sta male, che muore; una donna tanto gentile, elegante, fine, buona,
intelligente, sì, intelligente per un uomo che mi sappia intendere, una
donna che avrebbe fatta la felicità di qualunque altro che non si
chiamasse Marx Giraldi! Ah, la mia personalità, il mio io, ah, questo
voi vorreste distruggere, annientare, calpestare; voi mi vorreste
ridurre alla moglie che bada al soffritto e sorveglia i buchi delle
vostre calze e serve per gli usi intimi! L'avete trovata, il mio uomo,
la donna che si lascia calpestare! Vendicatevi, ora, fate la mummia, il
papa di gesso, l'indifferente. Vi sveglierò io, vi sveglierò! Mi voglio
distrarre, capite? Distrarre! Aspettate, aspettate che stia un po'
meglio! Intanto fuori i soldi: cento lire! Chi rompe paga. Domani altra
visita. Il professor Marchi non visita per meno. Se mi volete
accompagnare, è al Grande Hôtel, se pure non riparte stasera.

Qui si fermò, e allora una voce rispose dietro i cumuli delle carte
della scrivania:

--Io credo che cinquanta lire siano sufficienti.

--Le figure grette, meschine, esose, le lascio tutte a voi.

Allora si udì una chiavetta aprire un cassetto ed una mano porse un
biglietto da cento lire.

--Imbecille!--e la mano della signora prese il biglietto e rovesciò
tutte le carte.

Dietro di esse apparve un uomo di mezza età, barbuto, con la fronte
posata in calma sulla mano: il marito.

La signora uscì sbattendo l'uscio.

Allora, dietro una specie di paravento, venne fuori un omarino mezzo
spelato e con barbetta caprina, il quale subito si rivelava come
appartenente alla nobile, antica classe degli scrivani, che le macchine
da scrivere e le dattilografe vanno distruggendo in modo spietato.

Pareva abituato a questa specie di cicloni familiari, perchè si mise
senz'altro a raccogliere le carte e i libri.

--Per un uomo d'affari però--osservava--è grave questo modo di sfogarsi
con le carte. Pare, vero signor Giraldi? che vi sia nella signora una
specie di crescendo. Ogni parola si accumula con l'altra, come in una
pila elettrica, finchè avviene l'esplosione.

--State buono--rispose il signore, aiutando anche lui a raccogliere le
carte--oggi è andata abbastanza bene. È quando comincia dalle origini,
dai tempi precedenti il matrimonio, quando prende a rivangare i vivi ed
i morti. A proposito, cos'ha nominato? il prof. Marchi? Grande Hôtel?
Che sia il Marchi, professore dell'Università di...? Voi che avete la
specialità dei nomi, ve ne ricordate?

--Sì, certo: Gian Franco Marchi, specialista per le malattie del
cervello. Deve essere venuto qui apposta per un consulto al senatore
X***. Sarà una visita _in extremis_, ma era d'obbligo.

--Allora--disse il signore--noi ci siamo conosciuti, e molto bene, in
collegio. Egli era di due corsi avanti di me. Un giovane di valore,
ricordo benissimo: uno dei pochi che si son fatti strada senza
ciarlataneria. Sapete, amico mio, che è una cosa curiosa?--e pareva un
po' rasserenato.--Noi nella vita moderna ci perdiamo spesso di vista, di
nome, di tutto, peggio che nel deserto. Accade poi, un bel giorno, di
vedere nel giornale un necrologio e allora diciamo: Io l'ho conosciuto
quell'uomo! Ma non siamo più a tempo per andare a stringergli la mano.

--Lo dica a me che sono rimasto solo come un fungo...; e non me ne pento
ormai più--sorrise fra sè l'omarino.

--Vi dispiacerebbe di portare, ma subito, un biglietto al Grande Hôtel?
Se il Marchi non c'è, aspettate. Se domattina presto non può, mi fissi a
che ora vuole, stasera, un appuntamento.

Il signore si mise a scrivere.

L'omarino si levò la manica di lustrino e andò ad infilare il vecchio
pastrano a pipistrello e ad avvolgere il collo, le orecchie, la nuca
nella fascia di lana.

--Si trova da per tutto quest'accidente! io domando come si fa a non
avere male di testa con quest'accidente!

Lo prese con delicatezza, come fosse stata una macchina infernale,
diabolica.

--Un chilo e mezzo deve pesare!

Era il cappello della signora.

       *       *       *       *       *

Alle ore undici, nel Grande Hôtel, il prof. Gian Franco Marchi parlava
ancora con la signora Giraldi. La signora si veniva riallacciando
l'abito con mano tremante. Era una cosa terribilmente piena di
mortificazione per la signora: quell'uomo, il prof. Marchi, gelido,
meccanico, irreprensibile nel vestito, aveva esercitato su di lei
un'impressione di paura, di soggezione e di ammirazione insieme. Eppure
quell'uomo aveva parlato sempre con una voce soavissima, musicale, con
un bellissimo accento italiano: appena, appena una sfumatura di amabile
ironia. Aveva trattato con la verecondia di un asceta, con la
delicatezza di una suora di carità. Oh, nulla di brutale, come certi
medici; e nulla nemmeno di manierato, di dolcificato come altri medici
alla moda. La signora Giraldi ne aveva fatti passare ormai parecchi di
medici, e invano! Ma era quella specie di gelidezza interiore ad ogni
influsso di passione, che la soggiogava.

La signora, nei preliminari della visita, aveva cercato, come soleva, di
celiare un po'. Bella donna, elegante, donna di spirito, poteva
concedersi questo privilegio. «Non so, come chiedere: Lei ha moglie,
dottore? ha provato mai questi incomodi? ha avuto casi consimili?» Ma
poi le si congelò la voce e si trovò paurosamente nello stato di materia
inerte nelle mani del prof. Gian Franco Marchi.

La signora si veniva, dunque, riallacciando. Le stanze dell'Hôtel
scintillavano di lampadine elettriche, perchè il sole esisteva forse
ancora, benchè vedendo la città fasciata tuttora dalla caligine del
dicembre, se ne potesse dubitare.

Il dottore aveva escluso in modo assoluto l'arteriosclerosi, il vizio
valvolare, il diabete, l'appendicite, il verme solitario ed altri mali
proposti dalla signora.

--Isterismo allora, come dice mio marito?

Il dottore fece un nobile gesto per allontanare questa parola,
«isterismo» ed anche «marito».

--Ma allora cos'è il male che io ho? Almeno sapere il male che io ho.
Perchè io sono ammalata, vero?

Il dottore si fece serio, terribilmente serio.

--Non mi guardi così! no! Mi fa paura! Devo forse morire?

Finalmente il dottore domandò con voce lenta:

--La signora ha paura di morire?

La signora impallidì...

--Quando penso che anch'io dovrò, molto probabilmente, morire... Ah,
no, signore! E lei ride?...

--Sorrido, signora.

--Agli Stati Uniti--disse la signora--i medici vietano assolutamente di
pensare a morte, a disgrazie, a malattie; ma assolutamente. Ecco perchè
le Americane sono sempre belle, allegre, piene di vitalità.

--E invecchiare, signora, è anche questo un pensiero che la
turba?--domandò ancora il dottore, senza tener conto dell'America.

Un fremito scosse la signora:

--Mi pare impossibile di dovere invecchiare! Ogni sera, a letto, mi
viene questo pensiero; ed allora il cuore comincia a precipitare. Faccio
la luce: prego,--noti bene, prego--mio marito di sentirmi il cuore. Si
rifiuta! Un brutale, mio marito!

--I mariti sono quasi sempre brutali--sentenziò gravemente il dottore.

--Ah, ecco un medico che capisce!--esclamò la signora.

--Lei, invece--proseguì il dottore--è di indole dolce, amabile, ma ha la
sua personalità...

--Il mio io... Certamente!

--Ella vede, per esempio, suo marito che divora beato una bistecca,
mentre lei non può digerire, e allora in un impeto di giustificabile
rivolta, scaglia la tovaglia per terra...

--Come fa a saperlo?

--Il suo male, signora--disse blandamente il dottore, e proseguì:--Lei
deve possedere una memoria di ferro e quindi deve ricordare, enumerare
tutti i torti di suo marito. Questo elenco, fatto quasi ogni giorno,
supponiamo, porta all'autosuggestione, all'esacerbazione della voce,
agli atti--diremo così--incoscienti. Poi segue un abbattimento, nausee,
palpiti, cefalee...

--Ah, sì, mio marito è la causa di tutto!--esclamò la signora.--Oh, come
capisce, dottore! Ecco, bisognerebbe che lui si sopprimesse.

--È un consiglio che non so se vorrà accettare, ed intanto veda, osservi
gli effetti di questa iperestesia del suo «io subcosciente».

--Ha detto?...

--Oh, non importa che lei impari il nome! Osservi gli effetti! La
pupilla ha già acquistato una disposizione strabica; le corde laringee
per lo sforzo abnorme della voce, stanno producendo le matasse del
collo; il quinto paio nervoso stira le labbra fuori della linea normale
e produce le così dette rughe; la digestione, resa impossibile, genera
macchie, acni, rossori.

--Orribile! Ma quale il rimedio?

--La calma assoluta e perciò il silenzio, signora. L'assoluto silenzio.

--Allora, abolito l'«io», la personalità, la volontà, la libertà, tutto
... In politica, in morale, in arte, nell'economia della casa non dovrò
più avere le mie idee?

--Sì, signora. Ma noi ne modifichiamo semplicemente le manifestazioni.
Per esempio, invece di dire: Il giornale! il giornale! il giornale! lei
dice: Favorisci il giornale? Invece di ricordare i torti passati di suo
marito, lei ricorda soltanto i torti presenti. Anzi, faccia di meglio:
glieli presenti in iscritto. Invece di dire: Voglio andare a teatro, lei
dice: Avresti voglia questa sera, amico mio, di condurmi a teatro?

--Anche «amico mio?»

--Ma sì! Dopo tutto lo fa per la sua salute. Invece di domandare al
cameriere: C'è lui? lei domanda: Mio marito, oppure Giulio, Jacopo, come
si chiama?

--Marx... pur troppo!

--Ebbene, lei chiede: Marx è in casa? Invece di dire: «Ah, lo hanno
impiccato quell'infame di... Così dovrebbero fare anche di te!» Lei si
limita alla prima frase. Quanto alla politica, non se ne preoccupi. Io,
per esempio, non me ne occupo affatto.

--Allora tutta grazia, tutta gentilezza con un rospaccio, con un
istrice, con un orso, un villanaccio di quella sorta.

--Ecco, veda, troppe parole! rospetto, villanello tutt'al più. Si guardi
come subito le rughe tirano in giù il labbro. Che cosa è la vecchiezza?
Sono gli anni? Mai più! Sono i nervi che subiscono una lenta,
irreparabile alterazione.

--Allora io dovrò essere una moglie come una di quelle che esistevano
prima della proclamazione dei diritti della donna?

--Ecco, lei provi: e pensi che lo fa per suo bene e non per riguardo al
marito: ma silenzio, assoluto silenzio. E come cura, moto, aria aperta,
passeggiate in campagna, alla buona. Lei dice: Marx, mi conduci a
spasso?

--Ma se non è buono di cogliere un fiore, di aiutare a passare un fosso...

--Glielo insegni, signora. La donna in queste cose è nata maestra.

Sommessamente intanto il paggetto dell'hôtel aveva avvertito che
l'automobile era pronta. Pian piano, garbatamente, giù per le belle
scale di marmo, l'illustre dottore accompagnò la signora sino al
vestibolo, assicurando la più completa guarigione. Fuori rombava
l'automobile.

La signora estrasse la busta col denaro.

--Sì, va bene--disse il dottore--ma faremo tutto un conto. Io devo
ripassare fra un mese; e respinse la busta con gesto che non ammetteva
replica.

       *       *       *       *       *

Alla stazione, sotto la tettoia, era un grigio che mal si vedeva
d'intorno: le macchine vi immettevano getti di fumo come nell'ultimo
atto della _Valchiria_. Il dottore, in piedi, presso il montatoio di una
vettura a letto, pareva in attesa di qualcuno.

Un uomo si precipitò.

--Ebbene?

--Niente di grave, caro Giraldi; vizio organico nessuno: si tratta di
difetti funzionali dovuti a forme isteriche, tipiche, ma di cui io ne so
quanto te. Bada però che il non sapere o il non trovare noi, così detti
scienziati, la causa del male, non vuol dire esclusione del male: il
male esiste, ricordatene!

--Allora i più grandi oratori--disse il signor Giraldi--devono essere
stati tutti degli isterici perchè l'eloquenza di mia moglie è senza
limiti.

--Lascia le facezie: anzi abolisci assolutamente con tua moglie ogni
genere di facezia, di ironia, sopra tutto abolisci il silenzio; parlale
molto, molto, di molte cose buone ed allegre. È donna, cioè un essere
meravigliosamente fine e complesso, che noi altri uomini, occupati negli
studi o negli affari, giudichiamo spesso con una semplicità di criteri
che ci fa veramente torto. Tienti a mente questa cosa, caro Giraldi: tu
essendo freddo, sgarbato con tua moglie, commetti il delitto medesimo
che molti commettono essendo crudeli verso i bambini, così detti
cattivi. Sono bambini infermi! E non dimenticarti anche questo: la donna
è un'infante di cui possiamo avere bisogno supremo. Il nostro orgoglio
maschile ci nasconde questa verità. Ma se tale sventura dovesse
avvenire, tu baceresti piangendo quella mano che ora allontani da te.

--Ma quella spaventosa eloquenza..., quella lingua che non tace mai!...

--Credo di averla curata o, almeno, mi lusingo. Basta, tu me ne
scriverai...

In quel punto il diretto si mise in moto.

--Dimenticavo una cosa--aggiunse il dottore sforzando la voce,--se la
conduci a spasso in campagna, misura il tuo passo col suo e qualche
volta prendila per la vita; e se di notte vuol farti sentire il suo
cuore, e tu sentilo. Esiste realmente un po' di cardiopalmo.



LA MORTE DI UN RE.


Quando io avevo dieci anni, o giù di lì, giocavo coi re, e fu il solo
tempo in cui vissi in dimestichezza con gente di gran paraggio. Li avea
fatti io stesso di cartone e dipinti di rosso e di azzurro con elmo e
spada. L'ho a mente quella stanzaccia a soffitta, diroccata, con un odor
di topi. Là i miei re conducevano un'esistenza da fare invidia ai veri
re della terra. Si cavavano tutte le voglie, i miei nobili re. Ma in
fondo ero io che mi cavavo simbolicamente le mie: ed era certamente per
questa specie di incantamento che io non mi stancavo mai dal giocare a
quel giuoco silenzioso e calmo, ma pieno di terribili cose: giacchè
vendicarsi, sterminare i nemici e farne strage, e poi riportarne il
trionfo era il più grande de' miei piaceri.

Allora non era convinto amico della Società per la Pace e gli istinti
atavici parlavano potentemente in me: ma forse più che atavici erano
malvagi istinti naturali, che troviamo in tutti i bambini.

I miei di casa si meravigliavano come io potessi stare per ore ed ore
con un pupazzo in una mano e un pupazzo nell'altra, e non capivano che
era un re che parlava ad un altro re suo rivale, vinto, stretto in
catene davanti a lui.

Ma in simili casi la concione avrebbe potuto durare delle giornate,
tanti erano gli argomenti che il trionfatore avea a sua disposizione per
ischiacciare e vilipendere il vinto re! Io non ero malvagio, ma i miei
re erano terribilmente feroci, e inesorabili. Quali diritti esercitavano
mai!

Un'altra cosa ricordo ancora, cioè che i miei re riposavano delle
fatiche belligere in grandi e sontuosi pranzi, i quali corrispondevano a
punto a quelli che non si facevano a casa mia, ma erano bensì nel mio
desiderio. Sua maestà di cartone era un principe molto vendicativo, ma
era anche un goloso eminente.

       *       *       *       *       *

Un bel giorno, non ricordo da chi nè come, mi venne regalato un piccolo
falco; un falchetto.

Ora quando venne il falco, i re furono messi in riposo, anzi furono
dimenticati. La polvere cadde su di loro; lo scudiero non venne ad
avvertire i nobili signori che già il sole era levato e illuminava la
nera foresta sonora; e i palafreni bardati scalpitavano e i mastini
odoravano la caccia.

Il senso di profonda soddisfazione che mi invase al nuovo possesso,
evidentemente doveva provenire da questo: cioè che ora possedevo un re
autentico, non di cartone, ma vivo; un re dell'aria; un re anzi
prepotente e crudele, ma che adesso si trovava sotto la mia
giurisdizione assoluta, astretto in catene e sul quale io certamente
avrei avuto finale vittoria. Era il medesimo giuoco che continuava,
soltanto che la finzione aveva una parvenza di realtà.

       *       *       *       *       *

Li avea visti spesso nel cielo i falchi o, più esattamente, me li
avevano indicati.

Nel cielo lucido del mattino aveva visto certi uccelli che un più
trionfal giro volgevano nel cielo: poi si libravano in alto e
disparivano nella superba profondità dell'azzurro. Ne avea chiesto ai
villani e quelli, sospendendo il placido lavoro della vanga:--Son
falchi!--dicevano,--tutta l'aria ubbidisce a loro: quando ci sono quei
signori lassù, non vedrai altri uccelli volare e cantare.

Ora un falco stava in mia balìa e lo contemplavo con avida curiosità per
iscoprire il segreto della sua potenza. Lo avrei pensato più grande,
come un tacchino almeno o un pavone. Era un piccolo re, grosso come una
colomba. «Sei un piccolo re!» gli dissi.

Piccolino era infatti, liscio, grigio, con due zampe aduste come due
ferri da calza; immobile, con la testa piatta ritirata fra le penne.
Immobile come una mummia, supremamente indifferente alle mie ispezioni.

--Dico a lei, signor falco, ha inteso? le ho detto che lei è un piccolo,
anzi ridicolo re!--e siccome quegli pareva non tener conto alcuno delle
mie parole, tanto mi accostai col dito che lo toccai. Non lo avessi mai
fatto! Quel re disprezzava le parole, ma non ammetteva scherzi di mano.
Fulminee vidi aprirsi due alacce smisurate che pareva impossibile
dovessero star rinchiuse in quel piccolo corpo, e in pari tempo mi
ritrassi con la mano ferita; il dosso della mano portava l'impronta di
cinque scalfitture, dove il sangue segnò cinque tracce di avvertimento.
Come ebbi a lungo contemplata la mia ferita, mi riaccostai al falco, ma
con molta prudenza, e lo vidi con regale solennità immobile come prima:
solo l'ala rientrava come da per sè quasi serpe che rimbuca, e quattro
lunghi e sottili aghi adunchi si ritraevano nei loro alveoli.

I suoi occhietti gialli, tondi, si movevano solo essi, e seguivano ogni
mio gesto, come l'immagine nello specchio segue chi vi si affaccia, e
col muover delle pupille si moveva un becco breve ma uncinato, di cui
prima non mi era accorto, e dava alla fisionomia un aspetto grifagno.

Compresi allora come il piccolo animale, uguale nell'aspetto agli altri
uccelli, ne fosse diverso per certe qualità segrete che prima non avea
sospettate.

Pensieri di rappresaglia si agitavano nel mio cervello.--Io ti punirò
di morte,--dissi con voce di giudice che sentenzia, ma la mia voce
risonò a vuoto nello stanzone melanconico, ma era una voce dolce la mia:
egli invece mi aveva colpito senza emettere un suono.

Gli enumerai con persuasione tutti i suoi torti:--Voi siete un violento,
un rapace, un masnadiero dell'aria, voi avete, signor falco, spogliato
tanti nidi, lacerato e ucciso tanti innocenti augelletti i quali
cantavano la gloria del Signore e provvedevano il vitto ai loro piccini!
Gran perfidia fu la vostra, signor falco, ma ora siete in mia balìa e ne
sconterete bene la colpa senza alcuna remissione o pietà.

Così fermato il proposito della pena, dopo essermi assicurato che il
falco era ben legato, corsi in cerca di un bastoncello e feci per
colpirlo.

Ma il falco stette: solo si contorse nell'atto superbo e magnifico con
cui sogliono effigiarsi le aquile negli stemmi dei re e le pupille
perforanti saettarono un senso:--Vile!

Ed io non lo percossi.

       *       *       *       *       *

Come la mia piccola anima si mutasse, io non so. Ma ricordo che, dopo
essermi aggirato due o tre volte per la stanzaccia, sentii nascere in
me per il prigioniero una grande pietà e una viva ammirazione; ma sopra
tutto un indistinto desiderio di farmelo amico, di allearmi a quella sua
indomita fierezza, a quella sua forte malvagità.

--Ti faccio grazia della vita per ora, e ti porterò da mangiare,--gli
dissi.

E con tale proponimento mi recai da un certo tale, esperto di cacce con
l'archibugio e con le panie, e gli richiesi quale fosse il nutrimento
dei falchi.

--Cuore e fegato,--mi fu risposto.

Cuore e fegato ebbe, e ben lo seppero i polli della cucina che in quel
giorno vennero trovati privi delle interiora, con gran dispetto della
fantesca e sorpresa del gatto--un onestissimo e moderatissimo gatto--che
mi guardava con le sue fosforescenti pupille come a dire:--ecco un altro
che usurpa il mio mestiere di rubare!

Corsi in soffitta e presentando quella superba imbandigione, mi
lusingavo di ottenere almeno un cenno di ringraziamento. Non fu così.

Non si degnò nemmeno di chinarsi per toccare quei cibi.--Quando avrai
fame mangerai e quando avrai sete berrai,--dissi allora.

       *       *       *       *       *

Era azzurro il cielo fuori della finestra; un cielo fondo, pieno di
libertà e di silenzi. Ma il falco aveva abbassato sulle terribili
pupille le due palpebre gialle e grinzose e rimaneva ritto, rigido. Lo
contemplai: non un atto per istrappare la catena!

Piano piano, me gli accostai.--Povero falco,--dissi,--vuoi la
libertà?--e feci per lisciarlo.

Fu, come prima, un istante: si voltò, si rabbuffò, le ali si spiegarono,
le cortine delle pupille si alzarono e folgorarono le pupille. Questa
volta la mia mano portava, oltre ad un'altra copia di solchi, uno
strappo sanguinoso. Mi aveva ferito col becco, in modo che mi fece
subito conoscere senza aiuto di storia naturale quale differenza
interceda tra il becco degli uccelli di rapina e gli altri suoi pennuti
fratelli. La notte dormii con la mano fasciata, e al mattino corsi su in
soffitta a vedere che ne fosse del falco.

Il falco non aveva mangiato; il cuore e il fegato imputridivano ai suoi
piedi.

--Tu vuoi morire, bestiola mia, se non mangi,--gli dissi, ma ogni mia
esortazione cadde a vuoto. Le palpebre gli si chiudevano con una non so
quale solennità e pareva ed era immobile. Molta tristezza vinse la mia
piccola anima infantile e quel dì non giocai.

Andai nell'orto a trovare dei lombrichi i quali strisciavano i loro
umili anelli sulla terra; presi larve di insetti, bachi, piccole
lucertole, che godevano sul muricciuolo il dolce sole, e fatto di questi
innocenti animaluzzi un cibreo che giudicai appetitoso, lo offersi al
mio falco. Non mangiò nemmeno allora.

       *       *       *       *       *

Al mattino seguente era ancora lì, rigido, fermo. Ne ebbi pietà e gli
dissi:--Vedi che ti voglio bene e solo desidero che tu ti faccia buono e
che noi diventiamo amici!

Ma poi vedendo che non dava alcun segno, e meravigliandomi come potesse
vivere senza cibo, ne ebbi alquanto sgomento.

E l'Ave Maria del terzo giorno cantava melanconicamente nel vespero
dall'alto di un campanile, quando il falco cadde di botto; le gambe
sottili non sorressero più l'esile corpo, e l'esile corpo si era
rovesciato all'improvviso. Corsi e con trepidanza paurosa lo toccai;
strinsi sotto le piume quel piccolo corpo che non si scosse. Era morto.

Egli, il re dell'aria, aveva vinto su di me.

Allora mi accostai alla finestra col falco fra le mani e, alla luce che
ancor pendeva nell'aria, a lungo cercai tra quelle penne di scoprire il
segreto della sua ferocia, come fanno i bimbi che cercano nei balocchi
infranti il segreto del loro moto; ma non ve lo trovai, e da allora ne
ebbi grande tristezza.

FINE DELLE NOVELLE.
Estate 1912.--_Laus Deo_.


  Nota del Trascrittore:

  Le variazioni ortografiche sono state mantenute.





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