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Title: Vae victis!
Author: Vivanti, Annie, 1866-1942
Language: Italian
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Internet Archive.

                             ANNIE VIVANTI


                              VAE VICTIS!

                                ROMANZO

                            SECONDA EDIZIONE


                                 MILANO
                 _Dott._ RICCARDO QUINTIERI — _Editore_
                          CORSO VITT. EM., 26

                                  ————

                          PROPRIETÀ RISERVATA
     per tutti i paesi compresi la Svezia, la Norvegia e l’Olanda.

                _Copyright 1917 by A. Vivanti Chartres._


                                 10089

          Premiata Tipografia AGRARIA — Milano, Via Agnello, 8
                             Novembre 1917

                                  ————



                                   I.


La prima ad essere pronta fu Chérie. Si gettò sulle spalle il lungo
accappatoio a righe e si chinò a sollevare Amour che le abbaiava alle
calcagne rosee e si torceva per l’impazienza di uscire.

«_Au revoir dans l’eau_», disse la fanciulla con allegro gesto di saluto
alla piccola Mirella e a Frida, la governante tedesca.

«Oh, Frida! _Vite, vite, dégrafez-moi!_» gridò Mirella volgendo le
spalle alla giovane donna e indicandole con dito impaziente un gruppo di
fettucce annodate che le pendevano dietro.

«Parlate tedesco, l’ho già detto a tutt’e due. Oggi è il vostro giorno
di tedesco,» ammonì Frida, sciogliendo con lentezza il groviglio di
nodi, mentre Mirella pestava i piedi per l’impazienza.

Indi ritta in sottana e copribusto davanti allo specchio la governante
si tolse d’in cima al capo ciò che le ragazze chiamavano il suo «Wurst.»
Nello specchio scorse Chérie che si avviava verso la porta, e la
richiamò, severa:

«Chérie! voi non andrete per la strada senza calze e senza cappello!»

«Ma Frida, che storie! A Westende tutti vanno al bagno così.» E Chérie
levò in aria la rosea gamba ben tornita sventolandola davanti ad Amour
per farlo abbaiare.

«Non importa come vanno gli altri. Voi non andrete così;» disse Frida
Rothenstein, e spazzolò il suo bruno e lucido «Wurst» prima di
appenderlo accuratamente alla cornice dello specchio.

«Allora, cosa siamo venuti qui a fare?» disse Chérie imbronciata,
lasciando cadere Amour e dandogli un piccolo calcio col piede nudo.
Amour, offeso, si ritrasse sotto al letto.

«Siamo venute qui», sentenziò con teutonica pesantezza Frida, «per
godere delle salubri gioie del mare, e non già per esporre sulle
pubbliche vie le nostre gambe denudate».

Mirella diede in uno scoppio di riso, e a quel suono rassicurante Amour
tornò fuori da sotto al letto e ricominciò ad abbaiare.

Chérie stringendosi nelle spalle traversò la stanza e andò alla sedia
dove aveva gettato in tutta fretta le sue vesti. «Se metto i sandali, mi
pare che basterà.»

«No, non basta. Sandali e calze», disse Frida. «E cappello», soggiunse,
lanciando un’occhiata severa a quella leggiadra testa china, da cui
pendevano in lunghi ondeggiamenti le chiome fulvo-dorate.

Chérie si mise in fretta e furia le calze nere, occhieggiando ridente a
Mirella; e nulla poteva esser più dolce a vedersi di quelle pupille
rilucenti traverso il velo dei capelli sciolti.

Eccola pronta; il largo cappello a pastorella calcato sui baldi
riccioli, Amour stretto nuovamente sotto al braccio; e con un cenno di
commiserazione a Mirella — fremente d’impazienza per dover aspettare
Frida — ella corse giù per la stretta scala di legno di Villa Esther
(_chez Madame Guillaume_) e fuori, col viso ridente rivolto al mare.

La breve rue dei Moulins di Westende, per metà non ancora fiancheggiata
da fabbricati, parte da un nuovo «hangar» per aeroplani e conduce alla
larga passeggiata asfaltata che costeggia il mare. Chérie v’incontrò
qualche altro bagnante. Alcuni uomini tornavano dalla spiaggia, in
maglia rigata, nude le gambe abbronzate, con un asciugamano bagnato
intorno al collo e i capelli umidi appiccicati sulle gote. Essi
passarono accanto alla figuretta pittoresca nel succinto costume da
bagno rosso, senza quasi guardarla; già, lungo tutta la spiaggia — da
Nieuport, venti minuti verso Ovest, fino ad Ostenda, a mezz’ora verso
Est — se ne vedevano a centinaia di questi graziosi tipi di scolaretta
lanciati a volo sulle sabbie; mentre tutte le «figlie di gioia» da
Bruxelles, Namur e Spa, aggiungevano la loro nota più acre e provocante
all’azzurra gaiezza della scena estiva.

Chérie, passando davanti al negozio di biciclette, salutò con un cenno
della mano Cirillo Wibon, che inginocchiato davanti alla sua
«pétrolette» da corsa, ne lavava il naso lucente colla tenerezza d’una
nutrice e l’orgoglio di un padre.

«Non scordate le due biciclette, alle undici, sulla spiaggia», gridò
Chérie in fiammingo, e Cirillo sollevando rapidamente l’indice ai bruni
capelli fè cenno d’aver inteso.

Chérie proseguì quasi correndo traverso la larga passeggiata e scese a
salti gli scalini che vanno alle sabbie, quelle vaste sabbie di Westende
da cui si vede un orizzonte di tre quarti di cerchio, quelle sabbie che
vanno a perdersi nelle tragiche dune deserte. Chérie si lasciò cadere
dalle braccia Amour che, fatto un ruzzolone, si raddrizzò, scavò in
fretta colle zampe posteriori una breve serie di buchi nella sabbia e
poi si allontanò di trotto in cerca di certi suoi odiati nemici contro
cui nutriva foschi e perpetui rancori: un levriere scarno e pretenzioso,
un impertinente fox-terrier, e un vilissimo cagnolino nero, tremebondo,
di cui i gusti e la storia non comportano indagini.

Chérie s’inoltrò attraverso il mezzo chilometro di arena asciutta nella
quale i suoi piedi affondavano ad ogni passo; giunta alla superficie
liscia che la marea scendente lascia dura e levigata, tolse rapida
accappatoio, cappello, sandali e calze; e a passetti brevi, in punta de’
piedi corse nell’acqua. Lesta e leggera traversò a piccoli salti le
prime arricciature delle onde finchè l’acqua non le cinse i ginocchi, e
la gonnellina rossa si gonfiò a pallone tutto intorno a lei. E corse
avanti con piccoli brividi e grida di piacere, alzando le bianche
braccia al di sopra della testa, mentre l’acqua saliva e l’accerchiava
del suo fresco e forte abbraccio. Il sole gettava una rete di brillanti
sul mare di raso celeste; e la fanciulla sentì improvvisa in sè come una
cosa selvaggia e viva la gioia dell’esistenza.

Congiunse in alto la punta delle dita, e si tuffò nelle scintillanti
acque; indi ne emerse, ricacciando dalla fronte colla manina bagnata i
bagnati capelli. E si spinse al largo, nuotando, verso il cerulo
orizzonte, sognando di nuotare e nuotare così, per sempre, e andarsi a
perdere nell’infinita azzurrità del mondo.

Un aeroplano tornando da Blankenberghe a Nieuport passò con iroso
ronzìo, e Chérie si volse e nuotò supina per vederlo meglio; lo salutò
agitando il braccio ignudo e sgocciolante.

Per un istante ebbe l’impressione che l’aeroplano facesse un tuffo e
stesse quasi per caderle addosso; indi lo seguì collo sguardo,
trattenendo il respiro, inquieta per la salvezza del pilota, finchè non
si dileguò nella lontananza. Allora si rivolse e riprese a nuotare,
guardando verso la spiaggia lontana, per vedere se appariva Mirella.

Sì, sì! Ecco laggiù la stecchita siloetta di Frida, e accanto a lei
l’ancor più stecchita siloetta di Mirella, di cui le esili gambette non
avevano percorso che dieci brevi aprili. La sua chiara voce infantile
trafisse l’aria.

«Chéri-i-e! Chéri-i-e! Torna indietro! Vieni a prendermi!»

E Chérie, con un sospiro, nuotò pianamente verso la spiaggia.

Mirella le corse incontro, mandando a spruzzi l’acqua con molti strilli
d’allegria, mentre Frida si fermò vicino alla riva dove l’acqua era alta
pochi centimetri. Ivi compì una serie di riti igienici, bagnandosi prima
la fronte, poi il petto, e poi ancora la fronte e finalmente sedendo
solennemente nell’acqua il tempo di contare da uno a cento.

Così, concluso il suo bagno, la governante tedesca — con molte
raccomandazioni gridate a Chérie e Mirella che non l’ascoltavano — tornò
a casa a vestirsi.

Un’ora dopo ella apparve di nuovo sulla spiaggia, correttamente
abbigliata nel suo _Reformkleid_, colla salsiccia di capelli asciutti
riinstallata a sommo della testa ancora umida. Girando gli occhi intorno
in cerca delle due fanciulle le vide stese immobili sulla sabbia,
supine, ad occhi chiusi, sotto il sole cocente. Facevano finta d’essere
morte; e davvero, pensò Frida nel guardarle così piccole e immote su
quella immensità sabbiosa, parevano due poveri esseri affogati, due
meschini brandelli d’umanità che il mare avesse rigettato sulla sponda.
Prima ancora che arrivasse vicino a loro le passò d’accanto come una
saetta Cirillo, il maestro di bicicletta — l’uomo-scimmia, come lo
chiamavano le ragazze. Egli andava a tutta velocità — pedalando su di
una macchina e guidando l’altra — verso quelle due piccole figure
sdraiate. Esse, appena lo udirono, balzarono in piedi; e prima che Frida
potesse arrivare a loro, Mirella era già issata su una vecchia
bicicletta rugginosa, mentre Chérie — snella figuretta scarlatta, i
capelli aurati al vento, le braccia e le gambe candide biancheggianti
fuor del vestitino rosso — filava via, già lontana, sulla sabbia
elastica e liscia.

«Non approvo», ansò Frida correndo a fianco di Mirella, traballante sul
suo ferravecchio mentre l’uomo-scimmia le trotterellava dietro reggendo
il sellino, «non approvo questo andare in bicicletta in costume da
bagno....»

«Oh, Frida, smetti di sgridarmi, che mi fai cadere,» gridò Mirella, e
infatti, dopo varie terrificanti oscillazioni, la bicicletta descrisse
un rapido semicerchio, e corse giù nel mare.

Mirella fu molto in collera con Frida e colla bicicletta, e
coll’uomo-scimmia; questi, ridendo coi denti molto bianchi nella faccia
molto nera, la rimise in sella.

Frida si stancò presto di seguirli e andò a sedersi vicino ad una barca
capovolta a leggere «_Der Trompeter von Säkkingen_».

Säkkingen! Mentre gli occhi di Frida sfioravano le pagine nitidamente
stampate e s’indugiavano sull’incisione d’un campanile e d’un ponte,
l’anima sua ritornava alla piccola città lontana, sul Reno. Perchè
Frida, come il famoso trombettiere dello Scheffel, era oriunda di
Säkkingen; i suoi piedi, calzati di solide e quadre scarpe tedesche,
avevano barcollato, trotterellato, corso, e passeggiato nelle diverse
età di sua vita, su quel famoso ponte coperto; ella s’era affacciata,
coi gomiti sul davanzale, a quelle piccole finestre infiorate, mandando
i suoi sogni di fanciulla a navigare sulle acque sonnolenti del Reno.
Era passata, tutte le mattine andando a scuola, davanti al monumento
piccolo e tozzo di Victor von Scheffel; ed ogni sera tornando a casa
aveva alzato gli occhi alle finestre chiuse di quella bianca casa
accanto al ponte che era stata quella del poeta. Säkkingen — colle sue
strade bianche e pulite, la sua Kaffee-Halle dipinta in bianco e
celeste, le sue panetterie olezzanti di freschi _Kuchen_ e
_Schnecken_.... Frida alzò gli occhi dal libro per gettare uno sguardo
pieno d’ira e di rancore sulle danzanti acque del Mare del Nord, sulla
piana e ridente spiaggia belga, sulle figurette lontane di Chérie e di
Mirella, sull’uomo-scimmia, e perfino sullo scodinzolante Amour e i suoi
compagni d’iniquità. Li odiava tutti. Sì, li odiava. Egoisti tutti
quanti, volgari, frivoli, senza poesia nell’anima. In questo paese non
c’era senso religioso; non c’era senso d’ordine; la cucina era
pessima... Frida scosse amaramente il capo: «_Das Land das meine Sprache
spricht...._», ella mormorò, nostalgica e sospirosa.

Poi riprese il suo libro, e lesse le considerazioni che faceva
Hidigeigei, gatto e filosofo, intorno alla primavera e all’amore:

    _Warum küssen sich die Menschen?_
    _Warum meistens nur die Jungen?_
    _Warum diese meist im Frühjahr?..._

                                  ***

Quella sera Mirella udendo il fischio del portalettere andò ad aprirgli.
Egli le consegnò due lettere, e la bimba — nascondendone una dietro alla
schiena — tornò nel salotto dove Frida e Chérie sedevano lavorando.
Lesse ad alta voce, con esasperante lentezza, l’indirizzo dell’altra:

«Mademoiselle — Chérie — Brandès — Villa — Esther....»

«Dà qui, dà qui», esclamò Chérie, allungando la mano impaziente.

«E’ di Lulù», disse Mirella, porgendo la lettera a Chérie e tenendo
l’altra ancora nascosta dietro le spalle.

«_Lulù!_ Che modo è questo di parlar di vostra madre!» rimbrottò Frida.

«Ma se a lei piace!» rispose ridendo Mirella. «Del resto anche Chérie la
chiama così.»

«Chérie è sua cognata, non è sua figlia», sentenziò Frida; poi scorgendo
d’un tratto l’altra lettera in mano a Mirella: «Per chi è quella
lettera?»

«_Hochwolgeborenes Fräulein Frida Rothenstein_», declamò Mirella; ma
Frida era già balzata in piedi, e le strappò la lettera di mano.

«Uh, che sgarbata!» fece Mirella. «E chi è che ti scrive? E’ la nostra
carta da lettere; ma non è la scrittura di Lulù, e neppure di Papà. Chi
è che ti scrive tutte quelle sciocchezze di hochwolgeboren sulla busta?»

Nessuno rispose. Con occhi intenti Frida e Chérie leggevano le loro
lettere. E Mirella continuò il suo monologo. «Scommetto che è di Fritz.
Il domestico di Papà! Immaginiamoci! Una hochwolgeborene Signorina che
riceve lettere da un servitore!»

Frida non si degnò di rispondere; nè sollevò gli occhi dal foglio che
teneva in mano; eppure — Mirella lo vedeva — non vi era che una riga di
scritto. Quattro o cinque parole, nulla più. Ma Frida sedeva immobile,
impietrita, come se quel breve messaggio l’avesse mutata in una statua
di sasso.

Ed ora Chérie, che aveva finito di leggere la sua lettera, sollevò il
viso costernato.

«Frida! Mirella!... Sapete che cosa accade? Dobbiamo tornare a casa
domani.»

«Domani?» gridò Mirella. «Ma cosa dici? Papà ha detto che dobbiamo star
qui due mesi e non siamo arrivate che quattro giorni fa!»

«Lo so. Ma la tua mamma scrive che si deve tornare subito a casa. Hai
sentito, Frida?»

Frida nè rispose, nè alzò gli occhi.

«Ma perchè? perchè?» ripeteva Mirella quasi piangendo. «Ma dunque non lo
sa Lulù che abbiamo fissato di festeggiar qui il tuo compleanno?... E
che Lucilla e Jeannette e Cricri vengono tutte qui apposta?»

«Lo sa, lo sa», rispose Chérie volgendo i suoi dolci occhi perplessi dal
visino sconcertato di Mirella al volto impassibile di Frida. «Ma
dice.... dice che sta per scoppiare la guerra.»

«La guerra? Ebbene? E che cosa c’entra con noi la guerra?» esclamò
Mirella risentita. «Oh, che rabbia, che rabbia! E dire che avevo
imparato a nuotar tanto bene, toccando terra con un piede solo!»



                                  II.


L’indomani il sole si alzò caldo ed iroso. Era il trenta di luglio. Alle
dieci Frida aveva fatto tutti i bagagli.

Amour, confortato da un osso, fu messo nella sua cesta da viaggio, dove
stava assai pigiato; ma un po’ con carezze, un po’ con qualche schiaffo,
il coperchio scricchiolante potè finalmente essere chiuso sopra il suo
dorso tondo.

Poi bisognò aspettare la carrozza, ordinata per telefono ad Ostenda fin
dalla sera innanzi.

Ma la carrozza non arrivava. Alle undici Chérie corse all’ufficio del
telefono e parlò, con molta severità, alla Rimessa Boulant di Ostenda.

«_Eh bien?_ Questa carrozza? L’abbiamo ordinata per le dieci. Viene si o
no?»

«Non viene», rispose una voce brusca.

«Non viene?!»

«Nossignora». Indi, in tono più sommesso, quasi confidenziale: «E’ stata
requisita».

«Cosa vuoi dire? Allora mandatene un’altra», disse Chérie. Ma Ostenda
aveva tolto la comunicazione e Chérie se ne tornò mortificata e attonita
a Villa Esther, dove Frida con aria fosca, e Mirella piagnucolante,
l’aspettavano sedute sui bauli nella stretta anticamera di Madame
Guillaume.

«Non c’è carrozza», annunzio Chérie.

«Non c’è carrozza?» esclamò Frida.

«E perchè no?» chiese Mirella.

«Ma... non so; ne hanno fatto qualche cosa....» rispose incerta Chérie.
«Non ho capito bene. «E’ stata restituita.... o ripulita, o che so io».

A mezzogiorno la buona Madame Guillaume trovò un facchino che caricò i
bagagli su una carretta a mano e li trasportò alla stazione del tram di
Westende. E il tram portò le viaggiatrici, e il bagaglio, e Amour nella
sua cesta, ad Ostenda, dove un altro facchino con un’altra carretta a
mano prese bagagli e cesta e li portò alla stazione ferroviaria.

Videro subito che Ostenda aveva un aspetto strano e nuovo. Le strade
erano affollate, ma non dalla solita folla di languide demi-mondaines ed
oziosi viveurs. No; le strade erano piene di gente affaccendata, di
soldati a piedi e a cavallo; automobili, motociclette, carri e furgoni
ingombravano le vie; e dietro a questi venivano contadini conducendo a
mano lunghe file di cavalli e di muli.

Per la Rue Albert, con rapido passo di marcia, scendeva un drappello di
Guardie Civiche, coi loro cappotti lunghi e l’incongruo cappello duro da
borghese fermato sotto il mento dalla striscerella di cuoio. Gruppi
d’ufficiali arrivati ad Ostenda pochi giorni prima per le gare
internazionali di tennis, fermi all’angolo dell’Avenue Léopold,
parlavano tra di loro sommessi e concitati.

«Ma che cos’hanno tutti?», chiese Mirella mentre traversavano in fretta
la Place St. Joseph e il ponte, seguendo l’uomo coi bagagli, che già
spariva dentro all’affollata stazione.

Quasi in risposta alla sua domanda, due strilloni passarono correndo e
annunciando con grida assordanti: «_Supplément.... supplément de
L’Indépendance.... Mobilisation générale..._»

«Ma, Frida!... vi sarà davvero la guerra?» esclamò con ansia Chérie
volgendosi a interrogare con occhi inquieti l’arcigno profilo della
governante.

«Probabilmente,» rispose Frida; «tra la Russia e la Germania».

«Ah, lontano da noi!» rise la giovine Chérie con una scrollatina di
spalle; e corse avanti a salvare il prezioso cestello scosso e dondolato
dalle rudi mani del facchino.

«Senti Amour, come piagnucola!» susurrò Mirella, mentre, pigiate dalla
folla, aspettavano il loro turno davanti allo sportello dei biglietti.

«Guai a lui! Non deve farsi sentire», ammonì Chérie. «Ufficialmente, è
la nostra merenda».

Allora Mirella battè ripetutamente sullo scricchiolante canestro il
piccolo pugno inguantato, mormorando: «_Couche-toi, tais-toi, vilain
scélérat!_» E la merenda ufficiale si ricompose nella sua cesta e
tacque.

Fu un viaggio indescrivibile. Il treno era stipato fino alla
soffocazione; pareva che tutta la gente nel mondo volesse andare a
Bruxelles; ogni cinque minuti il loro treno si fermava per lasciarne
passare altri, più stipati ancora, che passavano come fulmini roboanti
lanciati verso la capitale.

«Non ho mai veduto tanti soldati» disse Mirella. «Non credevo ce ne
fossero tanti nel mondo!»

Frida Rothenstein ebbe un sorrisetto sprezzante cogli angoli della bocca
rivolti in giù. «Nel mio paese ce n’è qualcuno di più!» osservò.

«Come? In Germania?... Ma certo non saranno così belli!» gridò Mirella,
sporgendosi dal finestrino a salutare col fazzoletto, come tanti altri
facevano, una compagnia di lancieri che passava al galoppo — lance in
resta e pennacchi ondeggianti — sulla strada polverosa costeggiante la
ferrovia.

Frida li degnò appena d’uno sguardo. «Dovreste vedere i nostri Ulani,»
disse. «Chissà,» soggiunse, «che un giorno non li vediate davvero!»

Ma le ragazze non l’ascoltavano. Finalmente si arrivava a Bruxelles.

Il viaggio da Ostenda era durato cinque ore invece di due. E per più di
un’ora dovettero restar là, ferme, nel treno immobile nella stazione di
Bruxelles.

«Di questo passo non arriveremo mai a Liegi; e tanto meno a Bomal»,
disse Chérie sgomenta, mentre uno dietro l’altro i treni carichi di
soldati l’asciavano la stazione prima di loro, andando verso l’Est. Qui
si sarebbe detto che tutta la gente al mondo volesse fuggire da
Bruxelles per correre alla frontiera orientale.

Ma tutto ha una fine. E venne anche il momento in cui il loro treno si
mosse, e uscì ansante e sbuffante dalla Gare du Nord verso Louvain e
Tirlemont.

Era quasi buio quando arrivarono a Liegi; allorchè lasciarono la Gare
Guillemain, la morbida notte estiva avvolgeva già tutta la vallata nei
suoi drappi tenebrosi.

La piccola Mirella s’addormentò, col visino smunto e sudicio di
fuliggine poggiato al braccio di Frida. Anche Chérie sonnecchiava nel
suo cantuccio, sognando l’azzurro mare di Westende; ma gli occhi di
Frida erano aperti e fissi nel buio, mentre il treno entrava ed usciva
rombando dalle gallerie e passava fragoroso sui ponti seguendo la curva
nero-luminosa del fiume Ourthe.

Là, dove l’Ourthe incontra il suo minor fratello, l’Aisne, il treno
rallentò, fremette, ebbe un lungo sibilo, e si fermò.

«Bomal», annunzio il conduttore.

«Eccoci giunti; su, Mirella, svegliati!» gridò Chérie guardando un
istante dal finestrino e poi volgendosi a calcare sulla testolina
arruffata e assonnata di Mirella il largo cappello a rose, mentre Frida
radunava in fretta i libri, le racchette da tennis e gli ombrellini.

«Eccolo! Eccolo!» e Chérie agitò la mano dalla portiera a salutare
un’alta figura maschile che percorreva con volto ansioso la piattaforma.
«Claudio! Claudio! siamo qui!»

Claudio Brandès, un bell’uomo, d’una quindicina d’anni più vecchio della
sorella Chérie, corse ad aprire lo sportello con un’esclamazione di
sollievo. «Ah, sia lodato Iddio, siete qui», disse, alzando Mirella tra
le braccia come se fosse una bambina piccola e portandosela sulla
spalla. «E così? State bene?... Avete tutto? Andiamo!» E si avviò lungo
la piattaforma a passi così rapidi che Chérie e Frida stentavano a
tenergli dietro. «Oh, Mademoiselle», diss’egli volgendosi a Frida, «se
avete lo scontrino dei bagagli, datelo a Fritz».

«Oui, Monsieur le Docteur,» rispose Frida fermandosi a frugare nella
borsetta. Indi si volse e si guardò intorno in cerca del domestico,
Fritz, ch’ella non aveva ancora scorto.

Fritz Hollaender («Hollaender di nome e Hollaender di nazionalità»,
com’egli soleva dire di sè ogni volta che faceva una conoscenza nuova)
uscì improvviso dall’ombra e le fu davanti. Le prese di mano il
foglietto senza rispondere al timido saluto di lei; nè parve accorgersi
dello sguardo interrogante ch’ella gli fissava in volto. Senza una
parola girò sui tacchi, e la sua massiccia figura scomparve tosto
nell’androne dei bagagli.

La piccola comitiva era già all’uscita della stazione ed il treno con un
ultimo fischio serpeggiava via nel buio, allorchè Mirella d’improvviso
alzò la faccia dalla spalla di suo padre e diede uno strillo. «Amour!
Abbiamo dimenticato Amour!»

Era vero. Amour rattrappito e disgustato nel suo canestro della merenda
se ne viaggiava nella notte verso il verde cuore delle Ardenne.

Vi fu un istante di muto sgomento, seguìto da molti vicendevoli
rimproveri.

«In fin de’ conti, peggio per lui», disse Chérie che era stanca e aveva
fame. «E’ colpa sua. Perchè non ha abbaiato? Sapeva perfettamente che si
scendeva».

«Ma se gli abbiamo insegnato noi», singhiozzò Mirella indignata «a far
finta d’essere una cosa da mangiare, quando si viaggia!»

«Via, via, Mirella, non piangere,» disse suo padre. «Telegraferemo alla
stazione di Marche che lo fermino e ce lo rispediscano. Vedrai che
domani ce lo vedremo ricomparire più seccante e scodinzolante che mai».

E così fu fatto.

Mentre attraversavano a piedi il silenzioso villaggio di Bomal, Chérie
chiese a suo fratello: «Come mai Lulù non è venuta anche lei ad
incontrarci? Potevi condurla nell’automobile».

Suo fratello esitò un istante prima di rispondere. «Ho mandato via
l’automobile», disse.

«Mandata via?» esclamò Chérie. «Perchè?».

«L’ho.... l’ho prestata a qualcuno», disse il dottor Brandès.

«A chi?» chiese Mirella trotterellandogli accanto appesa al suo braccio.

Egli ebbe un piccolo sorriso: «Al re,» rispose.

«Oh, Dio!» disse Mirella, «che idea! Non era proprio un’automobile da
prestare al re!... Ne avrà certo lui delle migliori!»

«Ognuno dà quello che ha, in tempo di guerra,» disse suo padre. «Sei
stanca, uccelletto mio? Vieni ti porterò in collo». E di nuovo la
sollevò e la portò in braccio come una bambinetta.

«Cos’è tutta questa tenerezza?» chiese Mirella, mettendogli il braccio
intorno al collo e battendogli con la piccola mano sulle larghe spalle.
«Cos’hai da essere così affettuoso?»

Chérie si mise a ridere. «Ma non è sempre affettuoso?» chiese, e alzò
verso il suo grande fratello uno sguardo pieno di adorazione.

«Sì, sì, è affettuoso», rispose Mirella, col suo fare positivo. «Ma non
così esageratamente». E risero tutt’e tre.

Frida, che li seguiva nell’ombra portando i libri, le racchette e gli
ombrellini, sentì di odiarli di più perchè ridevano.

                                  ————

Luisa Brandès — una sottile figura bianca nella bianca luce lunare — li
aspettava, ritta sulla soglia di casa. Abbracciò Mirella e Chérie,
salutò affettuosamente Frida; poi fece dare a tutte del latte caldo e
dei biscotti e le mandò a letto.

«Ma io voglio raccontare a Papà che a momenti so nuotare, e che quasi so
andare in bicicletta,» protestò Mirella attaccandosi stretta alla mano
di suo padre.

«Glielo racconterai domani, tesoro mio», disse Luisa.

«Sì, domani», disse Claudio.

Ma il domani era nell’oscuro grembo degli Dei.

La mattina seguente, quando Frida e le due fanciulle scesero di buon’ora
per la colazione, furono stupefatte di vedere Luisa — ancora nell’abito
bianco della sera innanzi — seduta, sul divano, colla faccia pallida e
gli occhi rossi. Alle loro domande essa rispose tremula che Claudio era
partito. Due ufficiali erano venuti a chiamarlo verso la mezzanotte....
gli avevano dato appena il tempo di fare la valigia e prendere la sua
borsa d’istrumenti chirurgici — poi l’avevano condotto via in gran
fretta.

«Ma dove — dove è andato?» chiese Chérie.

«Non lo so,» rispose sua cognata e gli occhi neri le si soffusero di
pianto. «Parlavano di mandarlo... non so... a un’ambulanza da campo... o
al Deposito Centrale....»

«Cos’è il Deposito Centrale?» domandò Mirella.

Ma poichè nessuno lo sapeva, nessuno rispose.

A quel punto entrò Marietta, la cameriera, portando la colazione; e la
seguiva sua madre, Maria, la cuoca. Tutt’e due avevano gli occhi rossi e
appena interrogate si rimisero a piangere. Maria narrò che all’alba
erano venuti i suoi due figli, Charles e Toinot, vestiti da soldato;
avevano detto addio a lei ed a Marietta; il maggiore, Charles, che
apparteneva al nono reggimento fanteria partiva per Stavelot; e Toinot,
che non aveva ancora diciott’anni, s’era arruolato volontario e
l’avrebbero mandato Dio sa dove.

«Certo,» soggiunse Maria, mentre le fitte lacrime le rigavano la faccia
travagliata, «non c’è ragione di piangere. Si sa che non c’è alcun
pericolo per il nostro paese. Ma tuttavia vedere i propri figli che se
ne vanno così... cantando la Brabançonne.... come se andassero a morire»
— la voce le si ruppe in singhiozzi.

«Certo, mia buona Maria,» fece eco Luisa, «non c’è ragione di piangere.»

E piansero tutte quante, amaramente e a lungo. Anche Frida, colla faccia
nel fazzoletto, singhiozzava — un po’ per fare come gli altri e un po’
perchè un profondo _Weltschmerz_ le commoveva il falso e sentimentale
cuore tedesco.

Dietro suggerimento di Mirella si misero finalmente a tavola, e
prendendo il caffè si sentirono un po’ meglio. Visto che quasi tutti gli
uomini di Bomal erano partiti o dovevano partire, fu un conforto per
tutti il pensiero che Fritz Hollaender, il domestico confidenziale del
dottore, essendo olandese, poteva rimanere. Certo Fritz non era una
persona molto amabile; era anzi quasi sempre imbronciato e taciturno;
ma, come fece osservare Luisa, appunto per questo si sentiva che era una
persona di cui ci si poteva fidare.

«Io» — disse la saggia Luisa, che aveva ventott’anni ed era una fervida
ammiratrice di Georges Ohnet — «io mi fido sempre delle persone che
parlano poco e vi guardano bene in faccia quando rivolgete loro la
parola.»

«A me Fritz non piace niente affatto,» dichiarò Mirella. «Trovo odiosa
la forma della sua testa.»

«Non dir sciocchezze.» osservò Chérie.

«E detesto le sue orecchie,» soggiunse Mirella.

Frida, che stava inzuppando un _croissant_ nel caffè, alzò il capo.
«Egli ha le orecchie che Iddio gli ha date,» disse con le sottili labbra
un po’ tremanti.

Tutte la guardarono stupefatte, ed ella, facendosi di brace, abbassò il
capo e rituffò il panino nella tazza.

Dopo colazione Luisa andò a riposare per qualche ora; Frida disse che
aveva da scrivere delle lettere, e si ritirò in camera sua; mentre le
due fanciulle decisero di andare alla Maisonnette des Lilas a far visita
alle loro amiche, Cecilia e Jeannette Dorè. Bisognava decidere insieme
che cosa avrebbero fatto per festeggiare il compleanno di Chérie il
giorno 4 agosto.

Arrivate alla villetta di Madame Dorè, trovarono Cecilia e Jeannette
affaccendate intorno al loro fratello Andrea, un biondo boy-scout di
quattordici anni.

Cecilia gli cuciva sulla manica della blusa di tela verde una striscia
colle iniziali: _S. M._

«Che cosa vuoi dire _S. M._?» domandò Mirella.

«Vuoi dire _Service Militaire_,» rispose con superbia Andrea.

«Ma guarda un po’!» esclamò Mirella, «e dire che non hai ancora quindici
anni!»

Andrea si passò con aria distratta la mano nelle chiome. «Eh, già!»
disse con fare di superiorità negligente, «poichè gli altri uomini se ne
vanno tocca a noi di vegliare su di voi donne;» e degnò d’uno sguardo di
benevola protezione la piccola Mirella che lo fissava estatica
d’ammirazione.

«Tieni fermo quei braccio,» disse Cecilia, «se non vuoi ch’io ti punga!»

«Vostro padre dove è?» chiese Chérie. «E’ partito anche lui?»

«Sicuro,» rispose Andrea. «Fa parte della Guardia Civica. L’hanno
mandato alla Chaussée di Louvain, non lontano da Bruxelles.»

«Che confusione! che agitazione!» esclamò Jeannette, saltarellando per
la stanza.

«Ma noi,» chiese Mirella — «contro chi combattiamo?»

«Non si sa ancora,» sentenziò Andrea. «Forse contro i francesi; forse
contro i tedeschi.»

«E forse contro nessuno,» concluse Cecilia tagliando coi denti il filo,
e spianando colla mano il bracciale ben cucito sulla manica del
fratello.

«Eh, sì, probabilmente contro nessuno,» fece eco Andrea, non senza un
poco di rammarico nella voce. «Già, nessuno oserà mai invadere il nostro
paese.»

«Andiamo in giardino!» disse Jeannette.

                                  ————

Tale era l’anima del Belgio alla vigilia dello spaventevole suo fato.
Senza dubbio, in alti lochi — nella Place Royale e nel Palais de la
Nation — vi era chi vegliava in preda a febbrile angoscia, paventando e
prevedendo l’immane calamità; ma per tutto il resto del paese non vi era
che una certa irrequietezza quasi baldanzosa, un senso d’aspettazione
risoluta.

Nessuno dubitava che i sacrosanti diritti della nazione non verrebbero
rispettati; ciò nonostante — si diceva — non era un male l’essere
preparati a tutto. E il paese si mobilizzava e s’armava.

Ma non v’era in quella dolce sera d’estate alcun serio allarme nei
cuori; nessuno — dall’ultimo angolo del Lussemburgo, fino al più remoto
casolare delle Fiandre — mirando tramontare quell’ultimo sole del luglio
1914 sui placidi campi di grano sognava che già nel crepuscolo stava a
falce alzata la Morte, che già sulla soglia le nordiche belve appiattate
e pronte al balzo fremevano, fiutando sangue.... Nessuno, nessuno
sognava che di lì a quattro giorni su quelle ridenti vallate delle
Ardenne l’orda delle jene germaniche sarebbe passata nel suo delirio di
furore, nella sua frenesia di strage.

.... Oh, ridenti vallate delle Ardenne!...

                                  ***

Così, mentre nel villaggetto di Bomal, Chérie e Cecilia, Jeannette e
Mirella correvano pel giardino soleggiato, a un lontano balcone di
Berlino si affacciava in quell’ora stessa un uomo dalla barba grigia.

Ai suoi piedi ondeggiava una folla convulsa e tumultuosa. Parlava,
parlava l’uomo dalla barba grigia. E prometteva sangue alle jene.

... Così, mentre le quattro soavi fanciulle progettavano sorridenti la
festa che avrebbero fatta il quattro d’agosto, da quel balcone sulla
Wilhelmstrasse veniva pronunciata la sentenza che determinava il loro
fato e il fato dell’Europa.

«... Inviteremo Lucilla, Cricri e Verbena,» diceva Chérie.

«Distruggeremo quanti si porranno sulla nostra via!» gridava l’uomo sul
balcone.

«... Faremo musica,» diceva Jeannette.

«Abbatteremo su loro il nostro pugno di ferro,» diceva l’uomo sul
balcone.

«... E balleremo,» rise Mirella.

«E il nostro calcagno ferrato li schiaccerà,» disse Von Bethmann Holweg.

                                  ————

E le Jene Grigie ulularono.



                                  III.


                        _Dal diario di Chérie._


Oggi è il primo d’agosto. Fra tre giorni avrò diciott’anni.

A diciotto anni, dice Luisa, si è una vera signorina. Non si portano più
le treccie per le spalle; anzi, io mi pettinerò come Cecilia: tutti i
capelli raccolti in cima al capo con un grande pettine spagnuolo! A
diciott’anni si può anche portare dei gioielli, quando se ne hanno; e si
può mettersi del profumo, e pensare: chi mai amerò?....

Cecilia mi dice che stamattina ha veduto passare Florian Audet. Era a
cavallo, alla testa del suo squadrone di Lancieri. Ritto in sella, così
bello e severo, pareva Lohengrin, dice lei. Forse quest’anno, con tutto
questo trambusto di manovre e di mobilitazione, egli non si ricorderà
della mia festa.... Chissà?

Oggi fa molto caldo.

Non abbiamo alcuna notizia di Amour. Povero Amour! Che cosa gli sarà
accaduto? Siamo molto rattristate pensando alla sua sorte; e stanotte
Mirella è venuta in camera mia a dirmi che non poteva dormire per il
pensiero di certi schiaffi che gli aveva dato quando non se li meritava.

                                  ————

_Più tardi._ — Claudio scrive che il suo reggimento ha ricevuto l’ordine
di recarsi a Mons. Dice che è possibile — ma non probabile — una
invasione del nostro paese. Ci raccomanda, qualsiasi cosa accada, di
essere molto calme e coraggiose.

All’idea di dover essere calme e coraggiose ci siamo talmente spaventate
che non sappiamo più dove dar della testa. Ogni qual volta il campanello
suona, ci figuriamo che è il nemico che arriva, e ci mettiamo tutte a
strillare.

(Sentenza da ricordarsi: Non dire mai a nessuno di aver coraggio perchè
questo mette paura).

                                  ————

_2 Agosto._ — Altra giornata torrida. Ah, se si fosse a Westende!
Com’era bello laggiù quando si andava in bicicletta sulla sabbia nel
vestito da bagno. Un giorno, ricordo, io arrivai fino all’Yser. L’Yser è
un grazioso canale azzurro che separa Westende da Nieuport; sulla sponda
del canale sta un uomo con una barca che vi traghetta a Nieuport per
dieci centesimi. (Veramente io quel giorno non volevo affatto andare a
Nieuport, poichè ero vestita da bagno. D’altronde, non avendo tasche,
non avevo neppure i dieci centesimi).

Mi pare di non scrivere delle cose di grande importanza in questo mio
diario. Me lo ha regalato mio fratello Claudio dicendomi che non lo
riempissi di futili sciocchezze. Ma cosa scriverci? Qui, di fatti
importanti non ne accadono mai.

Non vi è nessuna notizia di Amour.

La Germania ha dichiarato la guerra alla Russia. (Ecco, questo sarebbe
un fatto importante, ma mi pare più una notizia da giornali che una cosa
da mettere nel mio diario.)

Lulù afferma che la Germania ha tutti i torti, ma noi, essendo neutrali,
non dobbiamo dirlo.

                                  ————

_Più tardi._ — Questo pomeriggio — essendo oggi domenica — andremo a
fare una gita. Si va con Frida a Roche-à-Frêne a girovagare tra le
rocce. Verrà forse anche Lulù; e Fritz ci seguirà con un cesto di
sandwich, latte e frutta. E’ stata Mirella a suggerirlo. Ha detto
stamattina a colazione: «Mammà! Adesso mi pare che siamo stati tristi
abbastanza. Abbiamo pianto e strillato tutto ieri e ier l’altro. Oggi si
potrebbe andare in escursione a Roche-à-Frêne.»

Mirella è intelligentissima; e sarebbe anche bella. Peccato che abbia i
capelli che non si arricciano.

                                  ————

_Sera, tardi._ — Siccome niente d’importante è avvenuto quest’oggi —
eccettuata una sola cosa — descriverò in questo diario la nostra
escursione.

(Dirò subito la cosa importante: abbiamo veduto Florian e mi ha promesso
di venire senza fallo a trovarci il giorno della mia festa.) Ora dunque
parliamo della gita. Eravamo quasi allegre dopo essere state così tristi
e spaventate in questi giorni passati a causa della guerra. Anche Lulù
disse che era difficile pensare ad avvenimenti spaventosi con un sole
così gaio e un cielo così bleu.

Frida per tutta la strada fu arcigna e silenziosa, e continuamente
rallentava il passo per stare dietro a noi e vicino a Fritz. A
proposito: Lulù ci disse che se il contegno della Germania non fosse
corretto tutti i tedeschi sarebbero espulsi dal Belgio.

Questo vorrebbe dire che anche Frida se ne andrebbe. Se così fosse non
ce ne dispereremmo. Essa è assai cambiata da qualche tempo in qua. Non
risponde quando le si parla; quando scherziamo e ridiamo tra noi, essa
ci guarda fisso coi suoi occhi tondi e vitrei, che sembrano, dice
Mirella, quelli di un gatto randagio nella notte.

«Guarda Frida che fa il gatto crepuscolare,» dice Mirella ad ogni
istante.

Questa similitudine di Mirella mi dà l’idea che Frida possa essere
innamorata, poichè ho sentito dire che è l’amore che rende così strani e
pazzeschi i gatti nella notte.

Sarebbe assai romantico e interessante se scoprissimo che Frida è
innamorata!

Se non fosse che Fritz è un semplice servitore — mentre Frida è una
damigella di compagnia — direi quasi ch’ella potrebbe essere innamorata
di lui. Egli però non la guarda mai se non con un cipiglio da far paura.

A proposito di Fritz, oggi durante l’escursione lo vidi fare una cosa
molto strana.

Ci eravamo scostati dalla strada e si camminava tra le roccie, quando a
un dato punto scoprimmo una fonte d’acqua chiarissima, quasi nascosta
tra cespugli e felci. Mentre le altre proseguivano, io ero rimasta
indietro e mi arrampicavo a cercare del capelvenere; vedevo da lontano
Fritz che aveva lasciato anche lui la strada e veniva lentamente dietro
a noi. Appena egli scorse la fonte montanina vidi che si fermò di botto,
chinandosi a guardar l’acqua. Indi si tolse rapidamente di tasca un
taccuino, ne strappò un foglio e guardatosi attorno come se temesse
d’essere veduto, vi scribacchiò qualche cosa. Poi tornò indietro
frettoloso. Giunto al punto dove avevamo abbandonato la strada vidi che
fissava il foglietto bianco sul tronco di un albero.

Mi venne in mente che potesse essere un messaggio amoroso.... forse per
Frida. E appena egli fu ripassato scivolai giù per le rocce e corsi a
guardare. Sul foglio erano scritte due sole parole: «_Trinkwasser —
rechts._»

Trovai la cosa molto strana. Non avevo mai pensato che Fritz sapesse il
tedesco. Fantasticando ripresi il cammino e quando raggiunsi Fritz stavo
per domandargli il significato di quel foglietto; ma appena egli mi vide
parve così sorpreso e incollerito che non osai parlargli. Più tardi
seguendo un sentiero nei boschi trovammo appiccicato su una roccia un
altro foglietto di carta. Vi stava scritto: «_Trinkwasser. — links._»
Allora raccontai a Lulù ciò che avevo visto ed essa andò difilata a
Fritz a chiedergliene la spiegazione. Fritz rispose che l’aveva fatto
per Frida; tanto perch’ella sapesse dove trovare dell’acqua da bere.
«Frida è un’anima assetata,» soggiunse ridendo e mostrando una quantità
di piccoli denti da coniglio. Credo che sia la prima volta che vedo
ridere Fritz in tutto questo tempo che è con noi. Confesso che non è
molto bello quando ride.

Ma — come ha detto Frida delle sue orecchie — egli ha il sorriso che gli
ha dato Iddio.

La gita a Roche-à-Frêne è grandiosa e fantastica. Dopo la nostra merenda
restammo sdraiate sull’erba a guardare il cielo. Io forse sonnecchiai un
pochino perchè tutt’a un tratto mi parve di essere a Westende quel
giorno che l’aeroplano mi passò sopra mentre nuotavo.... Udii l’aspro
ronzio del motore, ma stavolta m’impressionò lo strepito, ch’era
straordinario; certo non ho mai udito un motore così rumoroso. Aprii gli
occhi e vidi l’aeroplano proprio sopra di noi. Volava ad una grande
altezza e aveva una strana apparenza d’insetto. Sembrava uno scarabeo.
Era tutto bianco, con una larga striscia di celeste vivo sotto ogni ala.
Notai anche che le ali avevano una forma curiosa; non erano diritte come
quelle di tutti gli aeroplani che ho veduto, bensì si curvavano
all’indietro come le ali degli uccelli.

Tutti guardavano in su e Mirella esclamò: «Com’è bello! pare uno
scarabeo bianco! E vedete quelle striscie azzurre sotto le ali?...»

Allora accadde una cosa straordinaria. Fritz che stava seduto un po’
discosto da noi leggendo un giornale, scattò in piedi. Egli è miope e,
nel balzo che fece, gli occhiali gli caddero dal naso sull’erba. Allora
si pose a gridare come un forsennato: «I miei occhiali, i miei
occhiali!» E pestava i piedi; pareva impazzito. Per colmo, ecco Frida
che si precipita a cercarglieli come se fosse la sua serva. Fritz
gridava ancora: «Come ha detto — come ha detto? Uno scarabeo bianco?...
con striscie azzurre sotto l’ali?...» e Frida guardando in su diceva:
«_Ja! ja! ja!_» Parevano due pazzi.

L’aeroplano passò ronzando e sparve. Lulù s’era levata in piedi; era
pallidissima. Subito dispose che tornassimo a casa; e per tutta la
strada non aprì bocca.

Fu mentre attraversavamo Luzaine che c’imbattemmo in Florian. Era a
cavallo e ricordai che Cecilia lo aveva paragonato a Lohengrin. Io
trovai che somigliava forse più a Carlo il Temerario o a Cid el
Campeador. Egli c’informò che il suo reggimento era accampato sulle
sponde della Mosa in attesa d’ordini. S’aspettava da un istante
all’altro d’essere mandato alla frontiera. Mentre egli ci narrava
questo, il suo cavallo — un sauro magnifico — s’impennava e
indietreggiava capriolando con passo di danza, come un cavallo da circo.
Lui stava in sella, ritto e immobile, e mi sorrideva col sole negli
occhi.

Mi promise, che, se non lo mandavano al fronte, sarebbe venuto senza
fallo il giorno 4 a farmi gli auguri. Anche se non gli concedevano che
un’ora sola di congedo. Gli ricordai che infatti egli non aveva mai
mancato di venire a trovarmi in quel giorno; fin dal primissimo anno che
arrivai in casa di mio fratello Claudio.

Ricordo perfettamente quel primo compleanno. Compivo — in quel lontano 4
di agosto — gli otto anni, e avevo perduto un mese prima il papà e la
mamma a Namur.

Lulù mi dice ancor oggi che in quell’epoca ero una piccola selvaggia,
scontrosa e tremante nei miei vestitini da lutto; piangevo sempre e
avevo paura di tutto e di tutti.

Ebbene, in quel giorno del mio ottavo compleanno, poichè non facevo che
piangere e singhiozzare, mio fratello Claudio ebbe l’idea di mandare a
prendere Florian, ch’è suo figlioccio, pregandolo di provarsi a fare
amicizia con me. Ricordo, come oggi, Florian al suo entrare in questa
camera — proprio qui, in questa camera d’ingresso dove ora sto
scrivendo. — Mi par di rivederlo, un ragazzo quattordicenne, alto, coi
capelli ricci e gli occhi di un azzurro d’acciaio; mi sembra che
assomigliasse un poco ad Andrea; ma più in bello!

Era ciò che Lulù chiama: «un petit type très-crâne.»

«Bonjour,» mi diss’egli nella sua voce chiara e risoluta. «Io mi chiamo
Florian. Detesto le ragazze.» Mi parve strano che mi dicesse questo, e
smisi di piangere per dare in una risatina. «Già,» continuò Florian
guardandomi con aria di disapprovazione, «le ragazze — o stanno sempre a
piagnucolare, o allora ridono come tante oche.»

Io cessai subito di ridere; e smisi poi anche di piagnucolare per non
essere detestata da Florian.

.... Questi ricordi mi passavano per la mente oggi mentre lo guardavo;
egli si chinava verso Luisa e le parlava a bassa voce, mentre il suo
cavallo continuava a fare il _passage_, roteando e capriolando da una
parte all’altra della strada.

Sì, egli somigliava davvero a un Charles le Téméraire molto giovane; od
anche a quel cavaliere della leggenda che andò a svegliare la «Belle au
Bois dormant»...

                                  ————

_3 Agosto._ — Siamo molto felici! Abbiamo saputo che Amour è salvo. Si
trova in custodia del capo-stazione di Marche, e il nostro piccolo amico
Andrea andrà domattina prestissimo a prenderlo. Andrea ci fa osservare
che l’andare a cercare i cani smarriti non è precisamente un servizio
militare; ma soggiunge che è dovere di ragazzo esploratore il soddisfare
i desideri d’ogni dama che richieda il suo aiuto. Quindi anche il
rintracciare le loro bestie favorite non è cosa indegna di un boy-scout.
Ha anzi soggiunto che per questa impresa porterà i colori di Mirella; ed
essa, molto lusingata, gli ha legato intorno al braccio il nastro rosa
un po’ sgualcito che porta in fondo alla treccia.

Abbiamo invitate Lucilla, Jeannette, Cecilia e Cricri a venire da noi
domani sera. Non sarà una vera festa come l’anno scorso perchè tutto è
antipatico e disagevole a cagione dei tedeschi che si comportano così
male. Per quanto neutrali si sia, non si può a meno d’essere disgustati
di loro.

Credo che anche Frida si vergognasse oggi a tavola, quando Lulù lesse ad
alta voce ciò che la Germania ha osato di fare. Figurarsi che i tedeschi
si sono permessi di mandare una nota al nostro re proponendo —
nientemeno! — ch’egli li lasciasse passare attraverso al nostro paese
per arrivare alla Francia! Che insolenza!

Naturalmente il re ha risposto: — No! —

Siamo tutti usciti questo pomeriggio per recarci al piazzale della
chiesa ad acclamare il nostro adorato sovrano. E’ venuto Andrea a dirci
che tutta Bomal vi accorreva; difatti è stata una bellissima
dimostrazione. Eravamo tutti entusiasti. Il Borgomastro fece un gran
discorso, poi cantammo la Brabançonne; ed infine Monsieur le Curé invocò
la benedizione del cielo sul nostro paese e sul nostro re.

Tutti sventolavano i fazzoletti e c’era anche chi piangeva. Era accorso
tutto il paese — non mancava nessuno. Solo Frida non volle venire con
noi; si tappò in casa vergognandosi, certo, di essere tedesca. C’era
anche Fritz; anzi Marietta osservò ch’egli era veramente l’unico
giovinetto rimasto in Bomal. E’ vero. Tutti gli altri o sono stati
chiamati al servizio militare o sono partiti volontari. La piazza oggi
era gremita di ragazze, di bambini e di gente molto vecchia.

Confesso che mi fa piacere il fatto che Fritz appartenga a noi. Avere un
uomo in casa — come diceva bene l’altro giorno Lulù — vi dà un certo
senso di sicurezza. Gliene riparlai oggi mentre tornavamo a casa; ma
Lulù scosse nervosamente il capo. Pareva agitata e inquieta. «Ma
Chérie!» disse stringendomi convulsamente il braccio, «non ti sei
accorta come Fritz è cambiato? Dacchè Claudio è partito egli non si
comporta più da domestico; non viene mai a chiedere i miei ordini; e ier
l’altro a Roche-à-Frêne pareva un pazzo. — E pareva pazza anche Frida,»
continuò Lulù, guardandosi attorno con gli occhi spauriti. «Non so, non
so... vorrei che Claudio tornasse!»

E’ un fatto che c’è qualche cosa di strano nel contegno di Fritz. Questa
sera, per esempio, quando ci portò il giornale rimase lì a guardarci
mentre l’aprivamo. Aveva un fare insolente e le mani in tasca.

Io lessi forte dal giornale: «_I tedeschi entrano nel granducato di
Lussemburgo e s’impossessano delle linee ferroviarie..._»
All’esclamazione costernata di Lulù alzai gli occhi, e allora scorsi
Fritz che ci fissava con un risolino strano. Sotto ai nostri sguardi
stupiti egli si tolse le mani di tasca; ma continuò a guardarci fisso.

«Questa è una notizia spaventosa,» mormorò Lulù.

Fritz disse: «Sissignora,» e aveva sempre sul volto quel suo strano
sorriso di coniglio.

Vi fu un istante di silenzio: poi Lulù sospirò tra sè e sè: «Chi
l’avrebbe mai detto?... Dieci giorni fa nessuno pensava alla guerra...»

«Oh!» fece Fritz. «La signora si sbaglia. C’era — c’era chi ci pensava.»

«Da dieci giorni...» balbettò Lulù.

«No. _Da dieci anni!_» rispose Fritz, con un sinistro balenìo negli
occhi.

Seguì un nuovo silenzio. Indi Lulù domandò con voce-un po’ tremante: «Vi
disse qualche cosa il padrone l’altra notte quando l’accompagnaste alla
stazione?... Lo lasciaste nel treno, non è vero?»

«Sissignora,» rispose Fritz, secco.

«E che cosa vi disse?» ridomandò Luisa.

Fritz attese un gran pezzo prima di rispondere. Poi crollò le spalle.
«Ne disse tante di cose.»

«Ditemele!» ordinò Luisa. «Ripetetemi le sue precise parole.»

Fritz si rimise le mani in tasca e si appoggiò in atteggiamento
insolente allo stipite della porta. «Mi disse: — Fritz, tu sei un
servitore devoto e fedele! —» Ancora gli balenò sul volto quello strano
sorriso.

«Già...» mormorò Luisa impallidendo un poco.

«Mi disse: « — Lascio qui tutto ciò che ho di più caro — mia moglie, mia
figlia, mia sorella....»

«Sì...» ansò Luisa.

«Mi disse» — e Fritz alzò la voce — «difendile, Fritz, se vengono
_quelle belve_. — Già. Ha proprio detto così: _quelle belve!_ — Quelle
belve!» egli ripetè forte e pareva volesse fulminarci cogli occhi.

Lulù divenne bianca come un lino, ed anch’io mi sentii venir freddo.

In quel mentre era entrata saltarellando la piccola Mirella, e udì le
ultime parole di Fritz.

«Ma di che belve parlate?» chiese lei, un poco impressionata.

Fritz si rivolse alla piccina e la fissò con uno sguardo terribile.

«Di belve feroci!» disse lui. «Belve tedesche!... E ne sentirete le
zanne!»

Poi girò sui tacchi e se ne andò, lasciandoci esterrefatte e mute.

                                  ————

Che cosa significa tutto ciò?

Lulù ha scritto una lunga lettera a Claudio. Ma gli giungerà? E se pur
gli giunge, potrà egli ritornare a noi?



                                  IV.


                        _Dal diario di Mirella._


Questo è un giorno importante: il quattro agosto — giorno di nascita di
Chérie. Lulù le ha regalato un orologio d’oro e una sciarpa di seta
lunga lunga color cielo. Io le ho regalato una scatola di cioccolatini,
quasi piena. Anche una testa di clown dipinta su un pezzo di gomma; è
una faccia molto comica che se si preme di qua o di là fa delle boccacce
e delle smorfie. Le ho anche regalato il mio salvadanaio vuoto, un po’
rotto. Ma abbastanza bello. E’ foggiato ad elefante, e ciondola la testa
quando vi si mette dentro del denaro, e poi seguita a ciondolarla per un
pezzo come se ne domandasse ancora.

Cecilia e Jeannette hanno mandato delle rose; Lucilla e Cricri una
scatola di fondants; Verveine Mellor, da cui non ci si aspettava nulla,
mandò un parasole rosso. Veramente non avevamo invitato Verveine per
questa sera perchè abita così lontano, quasi fuori del paese; ma visto
il parasole, la inviteremo.

C’è mancato poco che mammà non lasciasse venire nessuno, tanto essa e
Chérie si tormentano all’idea dei tedeschi; ma io ho pianto — e so che
detestano di vedermi piangere — allora la mamma ha finito col dire che,
dopo tutto, lasciar venire quelle cinque ragazze che vediamo tutti i
giorni non era poi un ricevimento. Dunque verranno; ed io metterò il mio
vestito rosa.

Il grande avvenimento di quest’oggi è stato l’arrivo di Amour nel suo
cesto con quattordici franchi da pagare. Siamo molto contente di
riaverlo; Chérie ha detto ch’era quasi come se le avessero regalato un
cane nuovo per la sua festa. L’unica contrarietà riguardo ad Amour è che
ha preso subito tra i denti la faccia di gomma dipinta che io aveva
regalata a Chérie e non c’è stato verso di fargliela lasciare. E’
scappato via e si è nascosto per rosicchiarla in pace. Difatti, quando
l’abbiamo poi ritrovata sotto al letto, tutti i colori erano stati
leccati via e non era più che un pezzo di gomma informe. Chérie mi
assicura che le piace lo stesso, e Marietta dice che può servire molto
bene come gomma da cancellare.

Marietta e Maria oggi se ne vanno; dicono che hanno paura a star qui. Si
portano via poca roba e vanno a Liegi, dove si sentiranno più al sicuro.
Maria ha raccomandato che andassimo via anche noi, e mammà ha detto che
se le cose arrivassero a quel punto, certamente ce ne andremmo.

Mammà ha pianto due o tre volte oggi. E Frida fa finta di essere
ammalata e s’è chiusa in camera sua. Da iersera non abbiamo più visto
Fritz. Insomma, tutto è molto spaventoso e interessante. A pranzo
dovremo servirci da noi e non ci sarà gran che da mangiare perchè
nessuno ha fatto la cucina; ma non importa poichè vi sono molte paste e
dolci preparati per la festa di questa sera. Anche delle tartine al
foie-gras. Tutto è bene accomodato con fiori su una lunga tavola. Da
bere avremo aranciata e granatina. Dovevano esserci anche i gelati, ma
il pasticciere è andato a fare il soldato avant’ieri e sua moglie dice
che ha troppi fastidi e troppi bambini per stare a fare i gelati. Essa
ci raccontò che suo marito con tanti altri soldati stavano scavando dei
fossi tutto intorno al Belgio per impedire ai tedeschi di entrare.
Adesso vado a vestirmi. Chérie si fa molto bella. Mette il suo vestito
di velo bianco come una sposa. Si fa anche una pettinatura nuova, tutta
a girigoggoli che pare una torta — quella torta col rhum che Frida
chiama «Kugelhopf.» Mammà ha promesso di farsi bella anche lei. Ha anche
promesso che fino a domani non penserà più alla guerra nè ai tedeschi
per non guastarci la serata, perchè — come le ha fatto osservare Chérie
— non si compiono i diciotto anni che una sola volta nella vita!

Adesso che ci penso, anche gli undici non si compiono che una sola volta
nella vita. Mi ricorderò di dirlo anch’io il giorno del mio compleanno;
ho visto che mammà se ne è molto commossa....

                                  ————

Così scriveva Mirella seduta al tavolo in sala da pranzo; e il suo
atteggiamento — dalla testa molto inclinata sull’omero, alla punta della
lingua sporgente e moventesi lentamente da un angolo all’altro della sua
piccola bocca socchiusa — dinotava accuratezza e diligenza.

Dietro a lei la porta s’aprì senza grande strepito e Fritz s’affacciò
per un istante. Guardò intorno, poi richiuse la porta e stette in
ascolto sul pianerottolo; si udivano indistintamente dalla camera da
letto le voci sommesse di Luisa e Chérie.

Fritz salì rapido al secondo piano e girò la maniglia della stanza di
Frida. Era chiusa a chiave.

«Apri la porta,» comandò.

Frida obbedì. Non era la prima volta ch’essa apriva la sua porta a
Fritz.

«Come parli forte,» susurrò ella in tono di rimprovero; e richiuse a
chiave l’uscio. «Forse ti avranno udito.»

«E quand’anche?» disse Fritz. «Udranno ben altro.» Sedette ed accese una
sigaretta. «Ah, ecco! Da due anni faccio il servitore qui. Da domani in
poi diventerò il padrone.»

«Da domani!» balbettò Frida impressionata. «Ma che cosa dici?»

«Dico che ci siamo! Ci siamo finalmente!» esclamò Fritz, e il suo
sguardo si levò lucido e feroce, verso la finestra aperta al cielo
d’occaso.

Già da tempo il sole tondo e rosso — il gran sole d’agosto — era
tramontato, ma il giorno s’indugiava ancora come se gli dolesse di
finire. Là dove il cielo era più chiaro esso portava nel seno la
falciuola scolorita della luna nuova, come una pallida ferita per la
quale il giorno dovesse morire.

«Ci siamo, ci siamo!» ripetè Fritz. «E tu tienti pronta alla partenza.»

                                  ————

In quel giorno stesso l’uragano s’era già scatenato sull’Europa. Le Jene
Grigie si riversavano sul Belgio dal Sud-Est. A Dohain, a Francorchamps,
a Stavelot l’orda cenerognola s’avanzava inesorabile, onda su onda,
spargendo intorno la violenza e la morte.

Ma i cannoni non parlavano ancora. Nel villaggetto di Bomal, discosto
appena una ventina di miglia, nulla se ne sapeva; e Luisa appuntando una
rosa nelle treccie lucenti di Chérie diceva: «Domani penseremo alla
guerra.»

Chérie la baciò e rise. Rise, ma con gli occhi un poco pensierosi,
mentre mirava nello specchio la sua graziosa imagine. Poichè la
giornata, di un azzurro insolente, svaniva in una serata d’azzurro tenue
— e Florian Audet non aveva ancora mantenuto la sua promessa.

Forse, pensò Chérie, il suo battaglione ha ricevuto ordini di lasciare
l’accampamento sulla Mosa; forse egli è stato mandato alla frontiera.
Sospirò. Ah! s’ella avesse potuto rivederlo ancora!... Se avesse almeno
potuto dirgli addio!...

Ma ecco entrare a colpo di vento la piccola Mirella, simile a un petalo
di fior di pesco nel vestitino di seta vermiglia. «Vieni, vieni, Chérie!
Hanno suonato alla porta!»

E poichè non c’era nessuno che potesse andare ad aprire — Maria e
Marietta erano partite, Frida stava chiusa in camera sua, e Fritz era
sparito — le due fanciulle scesero correndo ad aprire la porta a Lucilla
e a Cricri, radiose entrambe nelle loro vesti di mussola cilestrina.
Presto arrivarono anche Cecilia e Jeannette, e poi Verveine, coi brevi
riccioli al vento — e tutte insieme colle bianche braccia intrecciate e
le chiare gonne ondeggianti salirono alla sala da musica.

Verveine sedette al pianoforte, e le altre danzarono cantando:

    _«Sur le pont_
    _«D’Avignon_
    _«On y danse,_
    _«On y danse,_
    _«Sur le pont_
    _«D’Avignon_
    _«On y danse,_
    _«Tout en rond_

Attraverso le finestre spalancate le voci ridenti si spandevano nella
mite aria serale; e un giovane soldato a cavallo che passava al galoppo
per la strada silenziosa del villaggio udì la canzone ancor prima di
giungere alla porta del dottor Brandès. Era Florian Audet che veniva a
mantenere la sua promessa.

Egli saltò a terra, e gettando la briglia sopra una punta della piccola
cancellata, suonò il campanello. Fu Luisa che scese ad aprirgli la
porta.

«Ah, Florian,» esclamò lieta, «come sarà felice Chérie —» ma in
quell’istante la luce dal corridoio battè in pieno sul viso del giovane,
ed essa lo vide livido e stravolto. «Che cosa c’è?» chiese, abbassando
la voce.

«Devo parlarvi!» rispose Florian, traendola in casa; entrò con lei nello
studio del dottore e chiuse la porta. Luisa sentì d’improvviso come una
gran pietra caderle sul cuore.

«Florian! dimmi... che cosa è accaduto? Vi sono notizie peggiori?»

«Le peggiori possibili,» disse il giovane. Indi i suoi occhi stupiti
errarono sopra la graziosa figuretta che gli stava di fronte. «Si può
sapere perchè siete vestita così?» Il volto gli si contrasse in un
sorriso d’amara ironia. «Cosa c’è? Un ballo?»

«Ma no, Florian...» balbettò Luisa. «Ma sai pure che è la festa di
Chérie...»

    _«Sur le pont d’Avignon_
    _«On y danse, on y danse...._

cantavano di sopra le voci giovanili.

Florian si coprì gli occhi. «Mio Dio,» mormorò... «Quanta incoscienza! E
come faccio io a lasciarvi — come faccio?» Indi alzando lo sguardo vide
gli occhi spauriti di Luisa che lo fissavano, e le prese la mano.

«Marraine,» disse. «Voi sarete coraggiosa — non è vero? E’ meglio che io
vi dica come stanno le cose.»

«Sì, Florian,» disse Luisa tenendo gli occhi fissi su di lui mentre il
colore le spariva a poco a poco dal volto, lasciandolo di un pallore
latteo.

«Ebbene — il paese è invaso ad ogni punto. Vi è già stato uno scontro a
Verviers.»

«A Verviers!» gridò Luisa.

«Sì. E a Fleuron!»

Vi fu un silenzio.

Quindi Luisa domandò, quasi afona: «Che cosa... che cosa accadrà? Cosa
significa questo per il nostro paese?»

«Significa rovina e strazio,» mormorò Florian a denti stretti.
«Significa violenza, strage e devastazione.»

Luisa fu presa da un tremito convulso e si lasciò cadere su una
seggiola. Florian girò su e giù per la stanza. «Teniamo ancora Visé,»
mormorò soffermandosi. «Lo teniamo contro Von Emmich e le sue jene
infernali!... E quando non potremo più tenerlo faremo saltare il ponte
della Mosa.»

Luisa ebbe un singulto; poi alzò gli occhi — i grandi occhi che parevano
macchie d’inchiostro nella faccia scolorita. «Florian! Credi — credi
possibile che.... _costoro_ vengano qui?»

«Tutto è possibile,» gemette Florian, «sì, sì! Anche questo è
possibile.» E guardando la fragile figura davanti a sè e pensandola qui
sola con Chérie e Mirella, uno spàsimo gli attraversò il viso.

«Ma tu resterai con noi!» esclamò Luisa, e il suo sguardo si appoggiò
sulla gagliarda figura e sul maschio volto del giovane. «Quanto tempo
potrai restar qui?»

Florian dette in un’amara risata. «Quaranta minuti,» disse. E vi fu un
nuovo tragico silenzio.

Finalmente Florian si scosse. «Che ne è di quell’Olandese — quel
domestico fidato di Claudio? Dov’è?»

«Fritz?» esclamò Luisa, tremando. E subito gli narrò la scena avvenuta
la sera prima, ed anche gli impressionanti eventi della gita a
Roche-à-Frêne.

Florian l’ascoltò con viso fosco, stringendo i pugni. Quindi riprese a
camminare in su e in giù per la stanza. «Basta,» disse finalmente con
voce rauca. «Per gli errori passati non c’è rimedio.» Poi si fermò
davanti a Luisa. «Avete promesso d’essere coraggiosa. Adesso ascoltate
ciò che vi dico — ed obbeditemi.»

Le diede istruzioni brevi e precise. Raccogliessero subito le poche cose
di maggior valore che possedevano e lasciassero Bomal la mattina
seguente alla prim’ora. Si recassero a Bruxelles, per la via di Marche e
Namur — non per la via di Liegi. «Rammentatevi!» ripetè Florian, «non
dovete passare per Liegi.» Nel caso che non vi fossero treni, dovevano
noleggiare una carrozza o un carro — qualsiasi veicolo potessero
trovare; e se non potevano trovar nulla andassero a piedi fino a Huy e
di là a Namur come meglio potevano.

«Avete capito?»

Sì, Luisa aveva capito.

«E perchè non partire adesso — questa sera stessa?» suggerì Florian.
«Potreste arrivare a Tervagne stanotte, se attraversate i boschi....»

«Stanotte!... Attraversare i boschi!...»

Luisa parve così terrorizzata a quelle parole ch’egli non osò insistere.
D’altra parte, egli riflettè, potrebbe darsi che anche i boschi,
stanotte, fossero già percorsi da drappelli di Ulani. No; meglio partire
all’alba. Alle tre o le quattro del mattino.

«E’ inteso?»

Sì; era inteso.

«E....» chiese la tremante Luisa, «che cosa faremo di Frida?»

«Non ve ne fidate!» esclamò Florian. «Tuttavia conducetela con voi se
vuol venire. Se no, lasciatela stare. — Oh! e tenete chiuse le porte!
Tutte le porte. Chiuse a chiave e a catenaccio.»

«Sì.» Luisa tremava da capo a piedi come una foglia al soffio della
bufera.

«Avete denaro?»

Sì, sì, ne avevano del denaro.

«Sta bene. E adesso,» disse Florian — l’orologio al suo polso
l’avvertiva che venti dei quaranta minuti erano già passati — «adesso
voglio parlare con Chérie.»

«Vado a chiamarla,» disse Luisa, e si mosse trepidante. Quando fu alla
porta si volse e l’interrogò cogli occhi smarriti. «Che cosa devo dire a
quelle bimbe?... Devo avvisarle del pericolo che ci sovrasta?»

«Subito — ma subito!» gridò Florian; «e mandatele a casa
immediatamente.»

«Mio Dio! Mio Dio! Pietà di noi!» singhiozzò Luisa. «E Mirella — cosa
farà? Avrà paura — piangerà...»

«Ma no, ma no. La piccola Mirella è coraggiosa più di noi,» disse
Florian. Poi, come Luisa singhiozzava ancora andò da lei e le mise il
braccio attorno alle esili spalle. «Su! coraggio, mia piccola madrina,»
e si piegò sopra di lei con tenerezza fraterna a baciarle la guancia
pallida.

Luisa, singhiozzando, uscì.

Florian rimase solo per pochi istanti. Udì che il canto di sopra si
arrestò improvvisamente. Indi dei passi rapidi e leggeri scesero
correndo le scale. La porta s’aprì e Chérie apparve sul limitare.

Florian indietreggiò, e gli si fermò il respiro. Ma come! Questa visione
d’incanto, questa pura bellezza nei bianchi, ondeggianti drappeggi — era
Chérie? la sua piccola amica Chérie? Ma come, come mai si era essa così
trasformata dalla bambinetta scontrosa ch’egli aveva sempre conosciuta,
in questa eterea beltà floreale?... Chérie ben s’avvide della sua
meraviglia, e ristette ferma sulla soglia; timida, si velava le lattee
spalle con una sciarpa vaporosa che le fluttuava intorno e le dava come
un’aria di volo. I suoi limpidi occhi erano levati a lui larghi di
azzurra e divina innocenza.

Un brivido scosse l’uomo che la guardava — un brivido di presciente
orrore. Non erano già vicine le orde nemiche, briache di sangue e di
ferocia? Non stavano già aprendosi con violenza la via verso questo
fiore verginale? Ed egli doveva lasciarla! lasciarla, sola, alla mercè
della loro brutalità? Di nuovo il brivido terribile lo scosse; mentre
quei limpidi occhi ingenui lo fissavano, sorridenti.

«Chérie!» diss’egli con voce rauca. «Chérie!» La trasse a sè, le alzò il
viso delicato e guardò profondamente dentro l’azzurra meraviglia dei
suoi occhi.

Essa non parlò; nè ebbero un battito le sue ciglia. Offerse allo sguardo
di lui tutta la trasparente profondità della sua anima. Ed egli ripetè
ancora quella sola parola: «_Chérie!..._»


I quaranta minuti erano passati. Vi fu un affrettato congedarsi,
un’ultima agitata parola di avvertimento e monito; poi con un tintinnio
di speroni Florian era corso giù per le scale e s’era slanciato in
sella.

Girò la testa del cavallo, che s’impennava, verso il Nord, e levò lo
sguardo alle finestre.

Sì, erano tutte là a fargli cenno d’addio! Tutte vicine, le teste bionde
e le brune; gli occhi ceruli e gli occhi neri lo seguivano....

«Ricordatevi,» gridò ancora Florian a Luisa, «ricordatevi — dovete
partire domattina all’alba! Domattina all’alba!» E ancora mentre
parlava, quell’indicibile brivido lo riprese. Era forse un presagio di
ciò che l’indomani avrebbe recato? Era forse una visione di ciò che la
tragica e sanguinosa aurora teneva in serbo per coloro ch’egli lasciava,
sole nella loro indifesa bellezza e gioventù?...

Spronò il cavallo e partì.

Giunto in fondo alla strada egli si girò in sella un’ultima volta a
riguardare la casa; vide che Chérie era corsa fuori sulla terrazza e
stava lì, ritta e bianca come un giglio nella luce lunare.

Egli levò in alto la mano in segno di saluto. Poi si volse e partì al
galoppo.

Via! — via nella notte, via verso i tonanti cannoni di Liegi e i
sanguinanti campi di Visé! Via, portando con sè quella visione di
candida e delicata bellezza.

E ripensò che non le aveva detto una parola d’amore, nè le sue labbra
avevano osato toccare quelle di lei. No; la sua purità eterea lo aveva
intimidito; il nimbo della sua virginale giovinezza era intorno a lei
come un’armatura di neve....

                                  ————

Così — così egli la lasciò: pura, fragile e dolce, bianca come un
giglio, veduto in un giardino sotto la luce lunare...

Così — così egli la lasciò.



                                   V.


Le fanciulle, nelle vesti di mussola e le scarpette di raso, si
sparpagliarono verso le loro case come un volo di farfalle spaurite.

L’avevano sognato, o c’era stato proprio, mentr’esse correvano sopra il
ponte, un suono profondo e rimbombante come tuono lontano?... Ristettero
ad ascoltare.

Sì.... eccolo di nuovo quel profondo fragore, tuonante da lungi nella
notte stellata.

«Jésus, Marie, St. Joseph, ayez pitié de nous,» susurrò Jeannette, e le
altre ripeterono tremanti la invocazione. Quindi attraversarono correndo
il ponte e giunsero alle loro abitazioni.

                                  ***

Luisa, Chérie e Mirella erano rimaste sole nella casa deserta. Quando
salirono a cercare di Frida trovarono la sua stanza vuota. Nulla di suo
vi rimaneva, soltanto due libri — il «_Deutscher Dichterschatz_», e
«_Der Trompeter von Säkkingen_» — giacevano sulla tavola, e il busto in
gesso di Mozart stava ancora al suo posto sul caminetto.

«Sarà sgusciata via mentre noi parlavamo con Florian», disse a bassa
voce Chérie volgendo una faccia pallida e stravolta a Luisa che girava
lo sguardo stupefatto intorno alla stanza vuota.

«Era una vipera,» osservò Mirella tenendosi un po’ più stretta al
braccio di sua madre. «E anche Fritz era un serpe.»

Al nome di Fritz Luisa fu scossa da un brivido.

«Fritz!... Non sarà tornato?» disse piano, lanciando uno sguardo pauroso
verso la finestra. Di là del cortile si scorgeva ancora nella
semi-oscurità il fabbricato rustico dove il domestico aveva la sua
camera. «Che ci sia?...»

Nel silenzio che seguì tutte guardarono quelle finestre chiuse e buie
sopra il garage; e l’idea che Fritz potesse essere là nascosto e in
agguato era assai inquietante.

«Bisogna andare a vedere,» disse Chérie, tremante ma risoluta.

Così — tenendosi vicinissime l’una all’altra, e Luisa portando alta
sopra la testa una lanterna — attraversarono il cortile silenzioso.
Spinsero la porta di legno, socchiusa, e salirono per le scale
scricchiolanti alla camera di Fritz.

Vuota! — Era vuota anch’essa.

Luisa tirò un tremulo sospiro di sollievo; ma Chérie le additò il baule
accanto al letto, e gli abiti sparsi per la stanza.

«Si vede che ha l’idea di tornare,» susurrò Chérie; e tutt’e tre
tremarono a questo pensiero. Allora scesero rapide, attraversarono il
cortile e rientrarono in casa. Si trassero dietro la pesante porta
d’ingresso che si chiuse con fragore; ma quando vollero spingere il
catenaccio e chiudere a chiave trovarono che questa era stata portata
via, e la grossa spranga di ferro era staccata dal battente.

Fu in quel momento che il primo rombo lontano giunse alle loro orecchie.

«Che rumore è quello?» chiese Mirella, scotendo il braccio di sua madre.
«Rispondi!»

Chérie le prese la manina. «Niente.... era niente,» disse rapida.
«Andiamo su a preparare le nostre cose...» E vedendo Luisa che stava
ancora davanti alla porta, impietrita come una statua colla lanterna in
mano, le gridò: «Lulù! Ti prego.... va in camera tua a radunare ciò che
vuoi portar via domattina.»

Luisa si volse e la guardò con occhi di sonnambula; indi lentamente si
mosse, ed obbedì.

.... Ardua cosa scegliere fra tutti gli oggetti che ci circondano quelli
da portarsi via, così, nelle nostre due mani! Ah, queste cose inanimate
come ci crescono profondamente nel cuore, come diventano, col passar
degli anni, una parte integrale della nostra esistenza!

Ma come? Si devono prendere solamente i denari e pochi gioielli?... E
non questo quadro? Non queste lettere? Non questo dono prezioso di chi
non è più?... Non la massiccia argenteria che per generazioni è stata
nostra? Non il caro velo delle nostre nozze?.... Non lo sgualcito
libriccino da Messa della nostra Prima Comunione?... E non le preziose
medaglie che commemorano le campagne di guerra di nostro padre? Nè i
documenti che dimostrano chi siamo e ciò ch’è nostro?...

Ma — e la gabbia con dentro i canarini che dormono — lievi pallottole di
lanugine dorata? Si devono lasciarli qui a morire?... E il cane — il
fedele compagno che alza su di noi i suoi occhi buoni e intelligenti?...

«Ah! Amour, a qualsiasi costo, lo portiamo con noi,» disse Chérie.

«Lo portiamo con noi...» ripetè trasognata Luisa che errava come
un’anima smarrita per le stanze raccogliendo degli oggetti e poi
rimettendoli giù.

Un orologio lontano suonò le undici.

Mirella, ancora nel suo vestitino di mussola rosa, s’era arrampicata sul
letto di Luisa e sonnecchiava.

Ah!... Eccolo di nuovo quel rimbombo cupo, tuonante, perdentesi in un
lungo e minaccioso brontolio....

«E’ più vicino!» ansò Luisa, torcendosi le mani. «E’ più vicino!» E
mentre ancora lo diceva, ecco ripetersi il suono terribile — e più
vicino, infatti, e più cupo, più profondo, più temibile.... Le vetrate
della casa tremarono.

Mirella balzò a sedere sul letto cogli occhi spalancati e lucenti.
«Cos’è?» Poi gridò forte: «Mamma! dimmi cos’è?»

Luisa accorse. «Zitta, cara, zitta,» disse chinandosi su di lei e
baciandola.

«Ma cos’è?» insistette la bambina. «Voglio sapere! E’ un temporale? O
sono i nemici?»

«Ma no, piccola cara, no!» la rassicurò Chérie, accorsa anch’essa. «Sono
i nostri cannoni, che sparano appunto per tenerli lontani.»

Mirella lasciò ricadere il capo sul guanciale e le chiome di seta bionda
si sparsero tutt’intorno al piccolo viso.

Dopo un attimo riaprì gli occhi.

«Ma vorranno venir qui, i tedeschi?»

Vi fu un silenzio. Poi Chérie disse: «Che idea!» e Luisa soggiunse: «Mai
più!»

«Ma... hanno voglia di venir qui?» insistette Mirella, cogli occhi che
si appesantivano.

«E che cosa verrebbero a fare, scioccherella?» balbettò Luisa colle
labbra pallide. «Che cosa potrebbero volere in questo piccolo
villaggio?»

«Ma già,» assenti Chérie. «Dormi, dormi, Mirella, che l’alba sarà subito
qui.»

Mirella chiuse gli occhi, e pensò ai tedeschi. I tedeschi — secondo gli
insegnamenti di Frida e di un giornale umoristico settimanale chiamato
«_Fliegende Blätter_» — si distinguevano in due categorie: Professori e
Tenenti. I Professori erano vecchi, calvi e comici; i Tenenti erano
giovani, aristocratici ed affascinanti. I Professori erano così
distratti che non sapevano mai nè dove andassero, nè che cosa facessero;
i Tenenti erano così irresistibili che solo a vederli tutte le ragazze
di Germania cadevano in deliquio, e morivano per essi di etisia e di
amore. Frida talvolta ammetteva che vi era qualche altro tedesco
all’infuori di queste due categorie. Vi erano dei poeti, per esempio, ma
questi erano già quasi tutti morti; vi erano delle buone madri di
famiglia, che facevano una conserva chiamata Konfitür; vi erano dei
camerieri d’albergo che andavano all’estero.... Ma certamente, pensò
Mirella, i tedeschi che volevano entrare nel Belgio questa sera erano i
Tenenti e i Professori....

Mirella si annidò più comodamente nei soffici cuscini e si addormentò.
Sognò che erano proprio arrivati, che erano molto amabili e che
ammiravano molto il suo vestito rosa.

Un rombo assordante la destò — uno scoppio immane con uno scrosciar di
travi rotte e di vetri frantumati.

Mirella balzò dal letto, e subito un lampo l’acciecò, un altro rombo
riempì l’aria.

Pareva che crollasse il mondo.

«Mirella!!» Le braccia di sua madre erano intorno a lei, e Chérie si
aggrappava ad entrambe.

«Andiamo via — andiamo via subito!» gridò Chérie. «Cercheremo rifugio
dal Borgomastro... dal Parroco... Non stiamo qui, non stiamo qui, sole!»

«Sì... sì... andiamo...» balbettò Luisa. «Ma chi ci porterà la roba?...»

«Che roba? Ma cosa dici?» gridò Chérie. «Non possiamo prender nulla —
nulla, Lulù! — Per amor di Dio, andiamo!»

«Ma.... i denari?...»

«Fa presto!» gridò Chérie.

«Fa presto!» strillò anche Mirella battendo i denti.

«Ma come possiamo...» balbettò Luisa, toccandosi con mano tremula la
gonna di trine, «come possiamo andare per il mondo vestite così?»

«Non importa — non importa — andiamo! Facciamo presto! mio Dio! facciamo
presto!...»

Ma Luisa sembrava paralizzata e impietrita dal terrore.

«Adesso verranno... verranno,» mormorava fissando con occhi folli la
finestra frantumata. Le pareva che nell’oscurità di fuori pulsassero e
tuonassero le tremende parole di Florian: «Oltraggio, violenza e
strage.... oltraggio, violenza e strage.»

D’improvviso un gigantesco fascio di fiamme si alzò nel cielo,
illuminando la stanza d’un fantastico bagliore. Quindi un’immane
esplosione scosse la casa fino alle fondamenta.

Con un grido Luisa afferrò Mirella e si slanciò fuori dalla stanza.
Chérie le seguì scendendo a precipizio le scale. Ma un’altra esplosione
le arrestò, folli di panico, sul pianerottolo. La casa tremava, i vetri
della scala cadevano in mille frantumi intorno a loro.

Pazze di terrore si rifugiarono nella sala d’entrata.

                                  ————

Passarono ore, od istanti?... Non lo seppero mai.

A un tratto sopra l’assordante baccano percepirono altri suoni. Erano
voci — voci forti e rauche — giù, nella strada. Un frastuono di grida,
di comandi secchi e gutturali, un clicchettìo di sciabole e speroni.

«Lasciami — voglio guardar fuori,» ansò Chérie, svincolandosi dalla
stretta convulsa di Luisa. E corse, barcollando alla finestra....

Indi volse a Luisa un volto stralunato.

«Eccoli. _Sono qui!_»

Mirella cacciò un urlo che si perdette nello strepito crescente, e Luisa
levò le mani al cielo.

«E’ la morte — la morte» gemette, e strinse tra le braccia la piangente
Mirella.

«Taci! Taci!» susurrò Chérie. «Forse non entreranno. Il portone è
chiuso...» Ma pur mentre lo diceva sentiva tutta la fallacia di tale
speranza. «Ah! mio Dio!» E Chérie, barcollante indietreggiò dalla
finestra, aggrappandosi alle tende per non cadere. «Luisa, c’è qualcuno
che apre la porta! _E’ Fritz...._ E’ Fritz.... E’ lui che li fa
entrare!»

Ed ecco già per le scale un trepestìo e un vociar alto e rude tra il
tinnir di sciabole e speroni.

Allora, quasi se l’imminente incombere del fato l’avesse d’un tratto
investita d’una forza e dignità nuove, Luisa si raddrizzò alta e tragica
fra le due fanciulle tremanti, e con gesto solenne tracciò sulla fronte
ad entrambe il segno della croce. Poi anch’essa si segnò; e con le
braccia intrecciate stettero immobili. Erano pronte a morire.

Villanamente sbattuta da un calcio la porta si aprì; dei militari in
uniformi grigie apparvero sulla soglia; altri gremivano l’andito
spingendosi avanti rumorosamente. Ma alla vista delle tre figure
allacciate si arrestarono e vi fu un istante di silenzio; quindi un
ufficiale — un uomo alto, magro, dai baffi grigi — mosse un passo
davanti agli altri, ed entrò nella stanza. Quelli dietro a lui si
schierarono rigidi e impettiti sul limitare, evidentemente aspettando
ordini.

«_Tiens, tiens, tiens!_» fece l’ufficiale squadrando le tre figure
femminili da capo a piedi, dalle chiome lucenti alle scarpette eleganti.
«Che quadro delizioso!» — e i suoi occhi sorridevano. «Si direbbe che vi
siete falle belle per riceverci?» Il suo francese era perfetto; il tono,
benchè lievemente sprezzante, non era nè rude nè scortese; i suoi occhi
azzurri erano intelligenti e un po’ canzonatori. A dir vero non sembrava
una «jena infernale,» nè evocava l’idea di violenza, d’oltraggio o di
strage.

Nell’anima di Luisa una reazione improvvisa successe alla tensione
suprema di terrore. Le parve di fondersi e svanire in un’onda ineffabile
di conforto e di speranza; e il sangue agghiacciato le rifluì con un
caldo palpito nel cuore.

Frattanto l’ufficiale si era rivolto agli uomini immobili dietro di lui
— due di questi parevano ufficiali di grado inferiore, gli altri otto o
dieci erano semplici soldati — e diede loro un breve aspro comando in
tedesco. Tutti salutarono, rigidi; mentre i due ufficiali facevano un
passo avanti e si ponevano a lato del loro superiore. Uno di costoro —
un giovane alto, dagli occhi chiarissimi — teneva un foglio di carta in
mano.

Dietro l’ordine secco dell’ufficiale anziano egli lesse ad alta voce
quanto vi stava scritto. L’ufficiale superiore, ascoltando quella
lettura, si guardava intorno; volgeva gli occhi dalla finestra alla
porta, poi all’altra porta, poi alla breve scalinata ricoperta di
tappeti rossi che conduceva agli appartamenti superiori....

Chérie e Mirella — che capivano il tedesco — ascoltavano stupefatte
quella lettura. Era una breve precisa descrizione della casa e dei suoi
inquilini.

«Abitazione di Claudio Leopoldo Brandès dottore e ufficiale di riserva;
età 34 anni; ammogliato con prole. Sua moglie, sua figlia e una sorella
vivono con lui. Al pian terreno cinque vani: cucine, studio del dottore,
camera da chirurgia e due sale d’aspetto; al primo piano, quattro vani;
ai piani superiori, nove vani. — Garage; scuderia; rimessa (due cavalli,
una motocicletta, un’automobile — requisiti); cantine e telefono. — _Das
ist alles, Herr Kapitän._»

«Uomini adulti in casa?» chiese il Herr Kapitän.

No. Queste donne soltanto.

«Dov’è questo dottor Brandès?»

Partito nella notte del 3 luglio.

«Per la frontiera?»

No; probabilmente per la capitale. «Ma,» soggiunse il giovane ufficiale,
lanciando una fuggevole occhiata alle tre donne, «sarà facile
accertarsene.»

«Bene. E c’era un nostro incaricato qui?» chiese il capitano.

«Sì. Un certo Fritz Müller di Löhrrach.» Chérie fremette e strinse più
forte la mano di Luisa.

«Dov’è questo Müller?» domandò il capitano guardandosi intorno.

«E’ giù.... dabbasso: quel domestico,» spiegò il tenente, «che ci aprì
la porta».

«Incaricatelo dei biglietti d’alloggio;» ordinò il capitano. «Si
provveda per 125 uomini. Quanto a noi —» prese di mano al giovane la
carta e la rigirò per guardare il piano della casa disegnato a tergo del
foglio — «vediamo un po’... Tre stanze a questo piano... quattro di
sopra.... Glotz!» disse, volgendosi all’altro ufficiale, un sottotenente
giovanissimo che gli stava dietro, muto e impalato — «Lei venga con me.
E porti due uomini.»

Glotz salutò rigido.

Il capitano gettò un’occhiata su Luisa e Chérie. «Von Wedel» —
l’ufficiale dagli occhi chiari si mise sull’attenti — «tu starai qui.»

Indi il capitano girò sui tacchi, salì impettito i quattro gradini, e
sparve per le scale, seguìto dal sottotenente Glotz e due soldati.

Gli altri otto o dieci uomini rimasero nel vestibolo, schierati in fila,
rigidi e immobili come tanti soldati di piombo.

Von Wedel con un colpo di piede chiuse l’uscio in faccia a costoro;
quindi si volse a contemplare le tre donne lasciate in sua custodia.

Mosse lentamente, con passo deliberato, verso di loro; ed esse
indietreggiarono tenendosi ancora per mano e levando su di lui gli occhi
stellanti e spauriti.

Egli era molto alto e molto largo di spalle e torreggiava sopra le tre
figurette tremanti.

Rimase, così, fissandole per alcuni istanti; i suoi occhi chiarissimi
andavano da Luisa a Chérie, da Chérie a Mirella, poi tornavano a
soffermarsi su Chérie.

«Ebbene, colombelle?» disse alfine; e rise. «Ci aspettavate dunque? Vi
siete vestite da festa per riceverci?» Nei tre paia d’occhi alzati su di
lui fluttuava molta paura.

Egli rise ancora, e mosse d’un altro passo più vicino. Subito tutte e
tre indietreggiarono.

«Ebbene? Perchè non rispondete?»

Luisa si avanzò d’un passo mettendosi davanti alle altre due, quasi in
atto di difesa; poi parlò con voce bassa e tremante:

«Signore.... spero... che voi e i vostri amici.... avrete la bontà di
lasciare questa casa... Come vede.... non siamo che donne, qui.... E
siamo sole...»

«Permetterete a noi di tenervi compagnia,» fece in tono tra l’insinuante
e l’ironico Von Wedel; e soggiunse in aria d’amabile interrogazione:
«Vostro marito non è qui?»

«No,» disse Luisa, e al pensiero di Claudio il suo labbro inferiore
tremò, come quello d’un bambino che sta per piangere.

«Ah, non è qui? Ne sono desolato;» disse Von Wedel alzando un piede e
poggiandolo, nello stivale infangato, su una sedia di broccato chiaro.
«Aspetteremo che ritorni.»

«Ma,» balbettò Luisa «non torna stanotte.»

«Ah, no?... Che marito poco galante!» rise l’ufficiale sporgendosi in
avanti col gomito sul ginocchio ripiegato, e i suoi occhi chiari e
insolenti che finora, anche parlando con Luisa, erano sempre stati fissi
su Chérie, errarono sfrontatamente sopra la graziosa trepidante figura
della sua interlocutrice. «E dove sarebbe andato?»

Egli lanciò la domanda con noncuranza, traendosi di tasca un
portasigarette d’oro e togliendone l’unica sigaretta che conteneva. «Mi
pare che il vostro domestico dicesse che l’avevano mandato a Namur...»

«No, a Mons,» disse Luisa.

«Ah già, già — Mons!... Interessante città, Mons.» Picchiò leggermente
un’estremità della sua sigaretta sul palmo della mano. «Già. Bella
cattedrale, quella di St. Waudru.... Ed è andato solo?»

Mirella diede un pizzicotto a sua madre. «Taci, mamma! Non dirlo.»

L’ufficiale l’udì e rise. Presala per un braccio l’allontanò dolcemente
dal fianco di sua madre.

«Ma guarda, guarda!» disse, sempre ridendo, «come siamo furbe e
diplomatiche!» E stringendole forte il piccolo braccio la fece
indietreggiare traverso tutta la stanza; indi, dandole una lieve spinta
la lasciò, e rivolse di nuovo la sua attenzione alle altre due.

Luisa, che si era lanciata in soccorso di Mirella ristette pallidissima,
mentre dal fondo della stanza Mirella, incolume e indoma, la rassicurava
cacciando fuori la lingua dietro le spalle del nemico, in segno di sfida
e di disprezzo.

Von Wedel fissava di nuovo Chérie, e sotto l’insolente insistenza di
quello sguardo essa tremò come una fiammella al vento.

«Perchè tremate?» chiese egli. «Avete paura di me?»

«Sì,» mormorò la fanciulla, chinando il capo.

Egli rise. «Perchè? Non sono una belva feroce. Ho forse l’aria di una
belva feroce?» E le andò più vicino.

Luisa con un passo si pose davanti a Chérie. «Mia cognata, signore, è
molto giovane, e non è avvezza alle attenzioni degli estranei.»

«Buona donna,» replicò Von Wedel con tranquilla insolenza, «andate un
po’ a prendermi delle sigarette.».

E siccome Luisa lo fissava, sbigottita e immobile, egli alzò alquanto la
voce. «Sigarette, ho detto. Preferibilmente turche. Vostro marito certo
ne avrà. Su! movetevi, buona donna. _Eins, zwei, drei — marsch!_»

Per un attimo Luisa esitò; indi si volse e lasciò la stanza; Mirella
correndo la seguì.

Anche Chérie si lanciò per seguirle, ma Von Wedel con un balzo le fu
accanto e le afferrò il braccio.

«Halt, halt!» fece ridendo. «Voi starete qui, colombella; starete qui a
discorrere con me.»

La fanciulla arrossì, impallidì e tremò.

«Che colombella timida,» disse Von Wedel curvandosi sopra di lei. «E
come vi chiamate?»

«Chérie,» rispose essa, a voce così bassa che quasi non si udiva.

«Come, come? _Chéri?_ E’ a me che lo dici? Altrettanto a te, caruccia
mia!»

E Von Wedel sedette sopra un angolo della tavola chinandosi vicinissimo
a lei. «Ma di che cosa hai paura? E di chi hai paura?... Del capitano
Fischer?... Di me?... Dei soldati?...»

«Di tutti,» mormorò Chérie.

«Di tutti! Ma guarda un po’! E dire che siamo così brava gente,» disse
lui, e soffiò una boccata di fumo in lungo getto davanti a sè; poi buttò
sul tappeto la sigaretta e la spense col piede. «Ma non sai che non
faremmo male ad una mosca, noi? E neppure a un cane,» soggiunse ridendo
alla vista di Amour, che comparso in cima agli scalini ne scendeva a
piccoli salti zoppicanti, mandando dei guaiti dolorosi. «Tanto meno poi
faremmo del male a un’adorabile tortorella come te.»

Il cane, lamentandosi pietosamente, venne ad appiattarsi ai piedi di
Chérie.

Essa si chinò e lo prese tra le braccia. Evidentemente la bestiola
soffriva.

Von Wedel disse: «Che bravo cagnolino,» e allungò la mano per
accarezzarlo, ma Amour ringhiò mostrando i denti e l’ufficiale ritrasse
in fretta la mano.

Luisa riapparve portando delle scatole di sigari e sigarette, e le
depose sulla tavola. Mirella che la seguiva scorse Amour tra le braccia
di Chérie è ne udì il minaccioso brontolìo. Al suo accorrere la bestiola
riprese il suo fioco lamento.

Mirella lo guardò, gli toccò la zampa, poi volse due occhi saettanti
sull’ufficiale: «Cosa gli avete fatto?» gridò, alzando in gesto quasi di
minaccia la piccola mano.

L’ufficiale diede in una risata. «Toh, toh! che piccola Furia! che
viperetta!» esclamò. «Del resto puoi portartelo pur via quel cagnaccio!
A me le bestie non piacciono.»

A queste parole Chérie subito si mosse verso la scala portando seco
Amour, ma l’ufficiale la trattenne.

«No, no, no, cara! Dà il cane alla piccola Furia. — Tu resti qui con
me!»

Chérie, mordendosi le labbra per non piangere obbedì; indi si rifugiò
accanto a Luisa, mentre Mirella correva di sopra con Amour tra le
braccia. Essa lo portò nella camera di Chérie, gli baciò la ruvida testa
nera, gli accarezzò la povera zampa che pendeva come spezzata, poi lo
adagiò in un cantuccio bene accomodato su di un cuscino.

Indi tornò giù, correndo, a vedere cosa succedeva.

Amour lasciato solo espresse la sua sofferenza ed indignazione in lunghi
urli e lamenti. Qualche istante più tardi il capitano Fischer, seguìto
dal sottotenente Glotz e dai due soldati, scendendo dal suo giro
d’ispezione nei solai, udì gli strazianti gemiti e si fermò sul
pianerottolo.

«Cos’è questo rumore? Chi grida così?» chiese rivolto a Glotz.

«Sarà quel cane, signor capitano, a cui avete dato un calcio poco fa.»

«Orribile strepito,» disse il capitano. «Fatelo cessare.»

Allora uno dei soldati entrò nella stanza — e lo fece cessare.

Il capitano Fischer scese al primo piano seguìto da Glotz.

Quando Von Wedel lo vide entrare si allontanò da Chérie e si pose
sull’attenti.

Di fuori era cessato già da tempo il rombo del cannone, ma si udivano
ogni tanto degli scoppi d’arma da fuoco — improvvise scariche di
fucileria che cessavano di colpo com’erano principiate.

I tre ufficiali parevano non badare a questi rumori. Si erano radunati
intorno al tavolo e parlavano tra loro a bassa voce; il capitano dava
ordini secchi e concisi; Von Wedel ogni tanto interrompeva domandando
una cosa o un’altra; mentre Glotz, rigido e diritto come un balocco
meccanico, diceva ad intervalli: «Ja, Herr Hauptmann — ja, Herr
Leutnant,» senza alcuna espressione sul viso tondo, rosso e solenne.

Egli non aveva mai rivolto gli occhi sulle donne. Pareva che per lui non
esistessero.

Luisa, con Chérie e Mirella, si era rifugiata in un angolo della stanza
e tutt’e tre tenevano fissi gli occhi pieni d’ansia sul gruppo degli
ufficiali.

«Chissà cosa dicono,» susurrò Luisa. «Cercate di capire....»

Chérie tese l’orecchio.

«Stanno parlando... aspetta... dicono dove andranno a dormire.»

Luisa giunse le mani. «Sta attenta, sta attenta...»

«Otto uomini staranno qui,» tradusse Chérie rapida, a bassa voce,
«quattro negli abbaini e quattro giù al pian terreno.... Loro stessi —»

«Ebbene? Cosa? Dimmi — dimmi —»

«Andranno altrove.»

Luisa sussultò, premendosi le mani sul cuore.

«Aspetta... parlano del Cheval Blanc — aspetta... aspetta! dicono» le
pupille dell’ascoltatrice si dilatarono «dicono che non vi possono
andare perchè l’albergo è in fiamme.»

A questo punto Von Wedel ruppe in una rumorosa risata ed anche il
capitano sorrise.

Solo il volto tondo di Glotz restò grave ed impassibile come la faccia
d’un bambino solenne.

«Cosa dicono?... Cosa dicono?» ansò Luisa.

Fu Mirella che tradusse: «Parlano del _Pfarrer_ — del signor Curato....»

Von Wedel diede un’altra risata. «_Der alte Esel!... Seine eigene
Schuld...._»

«Cosa? Cosa?» domandò Luisa.

«Il vecchio somaro... tutta colpa sua,» tradusse Mirella.

Ed ora il capitano si curvava, guardandosi gli stivali.

«Cosa dice? Dimmi cosa dice —»

Chérie interpretò: «Dice che vuol levarsi dai piedi il fango e il sangue
—»

«Il fango — e il sangue!... Ma no — ma tu fraintendi —»

Mirella saltò su: «No, no! Ha proprio detto così. _Koth und Blut_ —
fango e sangue.»

Un languore mortale come di deliquio colse Luisa: le parve di sentire
sollevarsi il pavimento, poi affondarsi e crollare sotto di lei.

Ora Von Wedel aiutava il capitano a togliersi la tunica, traendogli il
braccio sinistro dalla manica con molte precauzioni.

«Dice che è ferito,» susurrò Mirella.

«Ma che è cosa da nulla,» soggiunse Chérie; «una scalfittura al
braccio...»

Difatti il capitano Fischer, tolta la tunica, stava rimboccando con
molto riguardo la manica della camicia, scoprendo l’avambraccio piagato
e sanguinante. Anche Von Wedel si chinò a guardare la ferita scotendo il
capo con aria di grave inquietudine.

Il capitano guardò di sott’occhio Luisa e le fece cenno col dito di
avvicinarsi.

«_Gnädige...._ venga qui, per favore.»

Luisa cogli occhi stralunati e la faccia terrea obbedì.

«Vostro marito è medico, non è vero? Avrete dunque in casa qualche
antisettico.... del lisoformio? Del sublimato?....»

Luisa fece cenno di sì.

«Allora portatemene, ve ne prego. E un po’ d’acqua, bollita, se ce n’è.»

Luisa si volse senza parlare e lasciò la stanza.

«Mi pare molto stupida,» osservò Von Wedel seguendola cogli occhi.

«Mi pare molto bella,» disse il capitano.

Luisa passò davanti ai soldati che affollavano l’andito. Scese le scale,
tenendosi una mano alla fronte. Aveva le vertigini e le pareva di
camminare in sogno. Sarebbero rimasti qui, in casa sua, tutta la notte
questi uomini? Avrebbero mangiato e dormito qui? Avrebbero seguitato a
darle degli ordini, ad occhieggiare Chérie, a spaventare Mirella? Quanto
tempo rimarrebbero? Chissà? Forse una settimana.... forse un mese?...

Luisa entrò barcollando nello studio di suo marito e accese la luce.
Alla vista di quella stanza, della poltrona di lui, del suo libro ancora
aperto sullo scrittoio, così come l’aveva lasciato nella precipitosa
partenza — Luisa si sentì torcere il cuore in una morsa d’angoscia.
«Claudio... Claudio!...» singhiozzò. «Torna! Torna a proteggerci!...»

Ma Claudio era lontano.

Trovò la piccola fiala azzurra delle pastiglie di sublimato; versò
dell’acqua distillata in una bacinella; poi prese del cotone e un pacco
di garza. Quindi uscì, risalì le scale, passò ancora davanti alla turba
grigia dei soldati, ed entrò nel salotto.

Era vuoto. Dove erano andati? dove avevano portato Chérie e Mirella?

Vacillando, inciampando, come acciecata dal terrore, Luisa salì i
quattro gradini che conducevano alla sala di ricevimento. Dentro udì
delle voci, ed aprì la porta.

Il capitano Fischer, in maniche di camicia e senza scarpe, stava
sdraiato sul divano; Von Wedel e Glotz in piedi accanto alla tavola
ancora tutta adorna di fiori per la festa, divoravano a grandi bocconi
dolci, focacce e sandwich. Avevano gettati i loro elmetti grigi sul
pianoforte; i loro cinturoni ingombravano le seggiole.

Luisa vide Chérie, tremante e pallida, addossata al muro in un lontano
angolo della stanza.

«Mirella dov’è?» gridò Luisa.

Chérie rispose: «E’ andata disopra. Quell’uomo» — e indicò il capitano —
«l’ha mandata a cercargli delle pantofole. Io volevo andare con lei, ma
non mi hanno lasciata....» La voce le si ruppe in un singhiozzo.

«Dio di misericordia,» mormorò Luisa, «mi pare tutto un sogno.....»

Il capitano, vedendo Luisa, si era rizzato a sedere.

«Ah!» esclamò, «ecco la mia suora di carità! La mia dolce Samaritana!» E
si alzò e le andò incontro nelle sole calze e le prese dalle mani la
catinella.

Indi si guardò intorno, incerto dove posarla. Finalmente tirò a se una
poltrona di damasco e vi depose la catinella d’acqua. «_So gut_,» disse.
«E qui, cosa abbiamo?»

Tolse di mano a Luisa la piccola fiala di sublimato e ne lesse
l’etichetta. — «Perclorato di mercurio — grammi 1. — Benissimo.»

Aprì la boccetta; fece cadere sul palmo della mano una delle pastiglie
di color rosa vivo, e la gettò nell’acqua.

«Ed ora, bella signora, volete aiutarmi? Volete lavare la ferita del
nemico? Del nemico... ammiratore?»

Denudò l’avambraccio e si rimise sul divano, facendo posto accanto a sè
per Luisa. Ma quando tentò di trarsela al fianco essa si svincolò e
volle rimanere in piedi davanti a lui.

«Ah! la belle Dame sans Merci!» citò ridendo il capitano.

Luisa aveva immerso il cotone nell’acqua e si chinava a lavare
leggermente il braccio ferito, allorchè la piccola Mirella entrò
portando in mano un paio di pantofole di suo padre.

Ristette sbigottita sulla porta vedendo sua madre, curva sopra il
braccio di quell’uomo. Il piccolo viso le si fece di fiamma. Gettando
per terra le pantofole corse a rifugiarsi nell’angolo accanto a Chérie,
e le nascose la faccia in seno.

«Toh! Toh! la viperetta!» esclamò Von Wedel con una grossa risata,
prendendo un altro sandwich. «E da bere cosa ci date? Non questi
sciroppi, spero?» additando con disgusto l’aranciata e la granatina.
«Vogliamo dello champagne! Eh, Glotz? Cosa ne dici? Piper Heidsieck,
Extra Dry.»

«E del cognac,» aggiunse Fischer che stava esaminandosi il braccio.
«Questa graffiatura mi fa maledettamente male.»

Vi fu un istante di silenzio, indi Chérie facendo un rapido passo verso
la porta, disse: «Vado a prendere il cognac.»

«Vengo anch’io,» esclamò Mirella.

«No, no, no, no!» rise Von Wedel afferrandole, ciascuna per un braccio.
«Voialtre volete scappare! Conosco le vostre malizie. Niente affatto. La
viperetta starà qui. E la colombella» — si chinò col viso vicinissimo a
quello di Chérie — «la colombella verrà con me a farmi vedere dove si
trova il cognac e lo champagne.»

«No! No! voglio venire anch’io!» strillò Mirella avviticchiandosi al
braccio di Chérie.

«Tuoni e fulmini!» vociò Von Wedel, «che piccolo scorpione! Qui, Glotz!
tienla un po’ ferma — o meglio portala via, che mi dà sui nervi!»

A queste parole Luisa smise di lavare la ferita del capitano, e scoppiò
in pianto.

Glotz che stava seduto a tavola mangiando tranquillamente, si alzò,
asciugandosi la bocca in una delle serviette di carta velina. «So io
dov’è la cantina,» disse. «Ci sono passato nella ronda col signor
capitano. Se il signor capitano permette andrò io stesso a cercare il
cognac.»

Von Wedel lo guardò sdegnato. «Cosa t’immischi, idiota?»

Ma Glotz uscì rapido dalla stanza, senza badare a Von Wedel che lo
ingiuriava sommesso.

Luisa frattanto singhiozzava ancora. Invano il capitano le accarezzò la
guancia dicendole che a Mirella nessuno avrebbe fatto nulla; essa
continuò a piangere amaramente, disperatamente, mentre gli fasciava il
braccio.

Von Wedel avendola osservata qualche momento si rivolse a Chérie. «Dimmi
un po’, che parentela hai con quella Niobe piangente?»

«E’ mia cognata,» rispose Chérie con un filo di voce.

«Eh? Cos’hai detto? Non capisco. Parla più forte,» disse Von Wedel,
seduto su un angolo della tavola e accendendo un sigaro del dottor
Brandès.

«Mia cognata,» ripetè Chérie quasi afona.

«Tua cognata?» Von Wedel soffiò verso il soffitto una boccata di fumo.
«Caruccia!» E le pizzicò il mento. «Ed io sarò tuo cognato; va bene? —
Ah! ecco lo champagne!» esclamò vedendo spalancarsi la porta.

Ma non era lo champagne. Era un altro ufficiale, vestito anch’egli di
un’uniforme grigia e senza alcun distintivo. Era rosso in faccia e tutto
sporco di polvere e di terriccio.

Salutò il capitano, fece un cenno di saluto a Von Wedel; poi allentò il
suo cinturone e buttò l’elmetto grigio sul pianoforte vicino agli altri.

«Ah! finalmente, Feldmann,» disse il capitano Fischer. «E così?... Cosa
avete fatto?»

«Il mio dovere,» rispose il nuovo arrivato, con una voce stranamente
rauca.

«_Der Pfarrer?_...» chiese Von Wedel.

Il nuovo venuto annuì con un movimento del capo e torse le labbra in una
smorfia di disgusto, «Già. E anche quel balordo di un boy-scout. — Era
lui,» soggiunse volgendosi a Fischer, «che aveva sparato contro di voi.»

«Ma no, non era lui,» ribattè impaziente il capitano, stringendosi nelle
spalle. «Vi ho detto che era un vecchio.... da una finestra vicino alla
chiesa....»

«Può darsi. Basta; io non ho visto vecchi, dichiarò il capitano
Feldmann.» E questi civili devono imparare la loro lezione. — Cos’avete
qui di buono?» E girò lo sguardo intorno alla tavola. «Ho una fame da
lupo.»

E ponendo uno sull’altro tre o quattro sandwich, aprì una gran bocca e
li mangiò.

«Infetto villaggio!» osservò poi a bocca piena. «Potevamo benissimo
tralasciare di venirci.»

«Niente affatto,» dichiarò Fischer in tono severo.

«Basta, non discutiamo su ciò,» ribattè Feldmann. «Tanto, domattina ce
ne andiamo. — C’è da bere?»

Chérie si era fatta di fiamma. Una sola cosa aveva afferrato: sarebbero
partiti l’indomani mattina!!... Bisognava dare a Luisa questa
meravigliosa novella! Difatti glielo disse, rapida e sommessa, in
fiammingo.

Luisa che aveva terminato di fasciare il braccio del capitano si rimise
a piangere. Stavolta erano lacrime di gioia.

«Queste donne cosa sono?» chiese Feldmann guardandosi attorno. «Paiono
ballerine.»

«Quella,» fece Von Wedel additando Luisa, «è la Niobe piangente; e
quella» — indicando Mirella — «è la piccola Furia. E questa» — prendendo
Chérie per il polso e tirandola a sè — «e questa è la mia adorabile
cognatina...»

«E questa è la Vedova Cliquot, ’85» — interruppe Glotz, entrando rapido
con molte bottiglie polverose in braccio, e intromettendosi come per
caso tra Chérie ed il suo tormentatore.

Gli uomini rivolsero subito tutta la loro attenzione ai vini, e
mandarono Glotz ripetutamente in cantina a cercarne dell’altro.

Vollero del Martel; poi vollero del Kirsch; poi del Pernod. Dopo di che
vollero dell’altro champagne, e degli altri sandwich che Luisa andò a
preparare. Poi vollero il caffè che Feldmann insistette a voler fare lui
stesso sopra una lampadina a spirito. Rovesciarono la lampadina sulla
tovaglia, e i tovaglioli di carta velina presero fuoco. Allora li
gettarono per terra e li spensero calpestandoli nel tappeto.

Von Wedel sedette al pianoforte e cantò: «Traum durch die Dämmerung»
mentre il capitano con lamentìo fioco faceva il coro. Quindi Feldmann
recitò una poesia. Essendo completamente briaco, dovette chiamare Glotz
e mettergli un braccio intorno al collo per poter reggersi in piedi;
coll’altro braccio gesticolava, accompagnando le parole:

    _«Liebe Mutter, der Mann mit dem Kox ist da!_
    _Schweig still, mein Sohn, das weiss ich ja._
    _Hab’ ich kein Geld, hast du kein Geld,_
    _Wer hat denn den Mann mit dem Kox bestellt?...»_

Fragorosi applausi accolsero questa declamazione: Glotz soltanto, calmo
ed impassibile, col braccio di Feldmann avvinghiato al suo collo,
rimaneva immobile e taciturno guardando davanti a sè con espressione
vacua.

Da un pezzo non parevano badare più affatto alle tre donne, raggruppate
insieme nell’angolo più lontano della stanza. Ma se appena queste
tentavano muovere un passo verso la porta, subito Von Wedel, con un
balzo delle lunghe gambe, le fermava.

«Non si esce di qui. No, no, caruccie mie! Non si esce di qui!»

E a un dato momento, fermando su di loro lo sguardo ebbro e fluttuante
dei chiarissimi occhi, andò alla porta, la chiuse, ed intascò la chiave.

Allora le tre creature spaurite si avviticchiarono più strette l’una
all’altra e susurrarono colle pallide labbra: «All’alba!... All’alba,
andranno via!...»

Ma l’alba — ahimè! — era lontana ancora.

A un dato momento il capitano Fischer sbadigliando disse ch’era tempo di
andare a dormire; ma gli altri protestarono con alte voci bestemmiando e
dicendogli che era un vecchio gufo. Fischer allora spiegò molto
verbosamente che la disciplina militare non li autorizzava a chiamarlo
un vecchio gufo. E chiamò anche Luisa a testimonio che lo avevano
chiamato un vecchio gufo...

Ma in mezzo al suo discorso Feldmann si mise a cantare a squarciagola:
«Gaudeamus igitur», e poichè il capitano non riusciva più a sentirsi
parlare, finì col cantare anche lui.

«Su, tortorella, su!» esclamò Von Wedel avvicinandosi con grandi passi
barcollanti a Chérie e reggendo due bicchieri colmi di champagne nelle
mani. «_Brüderschaft trinken!_ Devi bere alla fratellanza con noi.»

E le spinse in mano uno dei bicchieri, rovesciandole il biondo vino per
tutta la veste.

«Così,» — la tenne ritta di fronte a lui — «Ora prendimi a braccetto,
là, in faccia a me!» — infilò il suo braccio sinistro sotto il braccio
sinistro di lei, ed alzò il bicchiere nella destra.

Chérie si svincolò ansando e si rifugiò dietro Luisa. Ma l’uomo la
riafferrò brutalmente per il braccio.

«Obbedienza!» ruggì stralunando gli occhi torvi. «Adesso canterò:
«_Lebe, liebe, trinke, schwärme_ — e tu sta attenta. Quando arrivo alle
parole «_froh mit mir_» devi battere tre volte il tuo bicchiere contro
il mio. Hai capito?»

«Lasciatemi! ve ne prego! Ve ne prego!» pianse Chérie.

«_Froh — mit — mir!_» ripetè lui dondolandosi sui piedi e fissandola
truce traverso le palpebre semichiuse.

E cantò:

    _«Lebe, liebe, trinke, schwärme_
    _Und erfreue dich mit mir._
    _Härme dich wenn ich mich härme_
    _Und sei wieder_
      _froh —_
        _mit —_
          _mir!»_

Alle tre ultime parole cozzò il suo bicchiere contro quello di Chérie.

«Bevi!» comandò con voce terribile. «Se non bevi è un insulto che fai
all’armata tedesca; un insulto che va punito.»

Con un singhiozzo Chérie si portò il bicchiere alle labbra.

Luisa piangeva torcendosi le mani. «Vili... vili....» gridava; mentre
Mirella avvinghiata alle sue vesti fissava con occhi sbarrati la scena.

Il capitano Fischer guardò di sottocchi Luisa.

«Mia Samaritana....» balbettò colla lingua già spessa; «mia suora di
carità...»

Si alzò e le si fece vicino con un ebete sorriso. Mirella si scagliò
contro di lui come una piccola selvaggia.

«Andate via!» strillò. «Andate via!».

Il signor capitano la prese senza brutalità per le esili spalle.

«Le piccole bambine....» borbottò, «a quest’ora... devono essere a
letto. Le mie bambine sono già a letto da un pezzo.»

Luisa torse le mani convulse. «Vi supplico, vi supplico! Abbiate pietà
di noi! Lasciateci andar via.... La casa è vostra, ma lasciateci andar
via...»

L’ufficiale la guardava con aria istupidita, arricciandosi i baffi
grigi. «E dove volete andare?» domandò.

«Nelle nostre camere,» balbettò Luisa.

«Ma non ne avete voi di camere!» fece il capitano, con un sorriso
ambiguo. «Sono nostre le camere!» E piegandosi in avanti e spalancando
gli occhi, la fissò in modo assai significativo.

Luisa si guardò selvaggiamente attorno, come un povero animale preso in
trappola.

Essa vide Von Wedel e Feldmann che tenevano in mezzo a loro Chérie e la
forzavano a bere nei loro bicchieri; vide Glotz che si girava e rigirava
sullo scanno del pianoforte, imbambolato ed impassibile; e vide
quest’uomo di fronte a lei che si sporgeva avanti, che ammiccava lubrico
e suggestivo — così vicino che essa ne sentiva in faccia l’alito caldo
ed acre. Il nemico! Era il nemico. L’uomo dai piedi imbrattati di fango
e di sangue.... ecco, egli tendeva la mano.... la toccava!

Allora Luisa cadde in ginocchio e trasse giù a ginocchi anche la piccola
Mirella. Tendendo in alto le mani giunte, levò su di lui il volto rigato
di lagrime.

«Le vostre bambine — voi avete delle bambine a casa vostra — ebbene,
sono a letto, le vostre bambine! Dormono!... Sono al sicuro... Sono sane
e salve, ben chiuse nella loro casa. — Che Dio ve le guardi! Che Dio ve
le protegga! Ma voi, oh! abbiate pietà! Proteggeteci! Abbiate cura di
noi!... Siate buono — siate buono!» E cadde prona davanti a lui colla
testa a’ suoi piedi, mentre la piccola Mirella, con rapide lacrime che
le scorrevano per il sottile viso alzava lo sguardo implorante su di lui
e gli toccava la mano colla piccola mano tremante.

Egli abbassò lo sguardo su quelle due figure inginocchiate ed aggrottò
le ciglia.

Sì... è vero... Aveva pure a casa sua, in Mainz, tre piccole bambine,
tre buone bambolette bionde. Eh, sì! Bene per loro che erano a Mainz e
non nel Belgio. Ma per Dio! Erano delle bambine tedesche, quelle; mentre
questa gente qui — Nemici erano... erano belligeranti. Borghesi, se si
vuole, ma tuttavia belligeranti.

Il suo sguardo si abbassò su quel capo di donna curva ai suoi piedi, su
quella testa bruna, su quelle esili spalle in sussulto.... Poi i suoi
occhi si volsero e si fermarono sul bianco viso infantile che la bambina
levava su di lui.

«Belligeranti....» brontolò; e tosto fece un cipiglio più che mai fosco
ed arcigno. Poi d’un tratto il volto gli si contrasse; ebbe negli occhi
un tremolio annebbiato.

«Via dunque!» ordinò con voce secca e rauca. «Via! Via subito! tutt’e
due! Andatevene! Nascondetevi. In cantina — in soffitta — dove volete...
Non andate fuori. Le strade sono piene di soldati ubbriachi. — Via!»

Luisa gli gettò le braccia intorno ai ginocchi e glieli baciò; gli baciò
i piedi, nelle pantofole di Claudio, benedicendolo e piangendo di
gratitudine; e Mirella sorrideva col serafico volto ancora inondato di
lacrime e diceva: «Grazie! Grazie! Grazie!...» senza neppur sapere di
che cosa lo ringraziasse.

«Ma — e Chérie?» Luisa ansante si volse a guardare quella figuretta,
smarrita e piangente nella sua bianca veste, in mezzo ai due lubrici
uomini briachi. «Non possiamo lasciarla....»

«Portatela via con voi!» disse Fischer, e traversando con passo risoluto
la camera, prese Chérie per un braccio e l’allontanò dai due uomini.

«Ma come? Ma cosa fate, vecchio libertino?» urlò Feldmann con una grossa
risata. «Si può sapere quante ne volete, voi? Non ve ne bastano due,
vecchio porcospino che siete? Per tutti i diavoli! Questa qui la
lascerete stare!»

«La lascerete stare anche voi altri,» tuonò il capitano. «Io le ordino
di andar via.» E Fischer corrugò selvaggiamente le sopracciglia tentando
di ristrappare Chérie alla stretta di Feldmann e di Von Wedel.

«Olà! siete impazzito?» disse Von Wedel andando vicinissimo a Fischer e
guardandolo dall’alto in basso con fare provocante e minaccioso.

«Ho detto di lasciarla stare,» sbuffò il capitano; «questi sono i miei
ordini. E voi, tenente Von Wedel, se non mi ubbidite dovrete rispondere
a chi di ragione.»

«Vecchio scimmiotto! Vecchio cammello ammuffito!» urlò Von Wedel. «Ah!
ne dovrò rispondere, io? Ma se siete ubbriaco, voi! Ubbriaco fradicio. E
sono ubbriaco anch’io. E me ne infischio di voi e dei vostri ordini.»

E strappando il braccio di Chérie alla stretta di Fischer, lo spinse
violentemente all’indietro.

«I vostri ordini....» balbettò l’inebbriato Feldmann, pronunciando a
stento le parole e poggiando la sua mano sulla spalla stessa di Fischer
per tenersi ritto, «i vostri ordini.... contraddizione diretta con altri
ordini... ordini superiori.... che abbiamo ricevuti. Vero?... eh, Von
Wedel?» E tentennò la testa, strizzando l’occhio a Fischer. «Sigillo
della Germania.... da imprimersi sul paese nemico.... Sigillo della
Germania.... Andatevene. Non venite qui a seccarci.»

«Non fate il vecchio cammello,» soggiunse Von Wedel col braccio intorno
al collo di Chérie, che vacillava, livida, tramortita, cogli occhi
semispenti.

«_Vae victis!_ Se non siamo noi, sarà qualcun altro.» E additando Glotz:
«Sarà quello scimunito lì! Guardatelo! Guardatelo già tutto arzillo ed
aspettante! _Arrectis auribus!_... Vero, Glotz?... O allora saranno i
nostri soldati ubbriachi,» e additò la finestra infranta, nera breccia
aperta sul buio della notte. «Li sentite?...»

Fischer ascoltò. Di fuori i soldati mugghiavano «_Die Wacht am Rhein_.»

Il ragionamento di Von Wedel gli parve persuasivo.

«_Vae victis!_» sospirò, ingurgitando un altro bicchiere di cognac e
sogguardando di traverso Luisa che seguiva con occhi stralunati ogni sua
movenza. «Se non io.... Glotz.... o qualcun altro.... soldati
ubbriachi....»

S’avanzò barcollando verso di lei che si aggrappava disperatamente alla
porta. «Guai ai vinti, mia povera donna!... Sigillo della Germania....
ordini superiori.... — Perchè dovrei fare il vecchio cammello?...»



                             PARTE SECONDA



                                  VI.


E’ piacevole cosa, in un mite pomeriggio settembrino, starsene seduti
nella verde quiete di un giardino in Inghilterra. Piacevole è
sorseggiare il thè e discorrere del tempo e della guerra, mentre i
passerotti avventurosi vi saltellano vicini sull’erba vellutata, e una
lieve brezza vi porta, misto a un profumo di reseda, il lontano alito
del mare.

Così pensavano nella loro anima pacata le due sorelle, Miss Jane e Miss
Julia Corry, volgendo intorno gli occhi azzurri, sereni, soddisfatti a
mirare i prati, i passerotti, il servizio d’argenteria, i crostini
imburrati, e la loro migliore amica Miss Lorena Marshall, venuta da
Harrow a prendere il thè con loro e di cui le serene pupille brune
riflettevano la stessa pacata felicità.

Tutte e tre avevano, sotto alle ravviate chiome grige, il viso ancora
giovane; tutte e tre avevano entro il severo petto verginale un cuore
impressionabile e tenero; tutte e tre avevano attraversato l’esistenza,
contegnose ed impeccabili, senza deviare mai dalla più rigorosa
anglosassone convenzionalità.

Erano sublimemente ingenue, divinamente caritatevoli, e inflessibilmente
austere.

«E’ piacevole cosa, invero,» ripetè Miss Julia colla sua voce in
falsetto un po’ querula. Essa era la più giovane delle tre — aveva
appena quarantacinque anni — e sua sorella e l’amica la trovavano di
vedute assai moderne. «Ammetto che anche sul Continente non si sta male,
se si passa l’estate nella Svizzera e l’inverno a Montecarlo —»

«Oh! Julia, cosa dici!» interruppe scandolezzata Miss Jane. «Perchè
parli di Montecarlo? Se non ci siamo rimaste che un quarto d’ora?»

«Tanto peggio!» ribattè la ribelle Miss Julia. «Dovevamo rimanerci di
più. Il mare era di un’azzurrità di sogno, e le _toilettes_ di quelle
donne! — una rivelazione! Tuttavia, come dicevamo, l’Inghilterra resta
pur sempre....»

Noi tutti sappiamo ciò che resta sempre per il cuore delle inglesi
l’Inghilterra. E nell’enumerazione dei pregi e privilegi di quella beata
isola sarebbe trascorso piacevolmente tutto il pomeriggio, se non veniva
Barratt, il domestico, ad annunziare l’arrivo di altre visite.

Era Lady Mulholland e sua figlia Kitty che giungevano in dog-cart da
Windford, ed ora s’affrettavano attraverso il prato, colle gonne
fruscianti, i cappelli infiorati e le velette di trina al vento.

Si rifece il thè per loro ed esse portarono la loro nota nuova alla
conversazione.

«Figuratevi che siamo state a trovare la signora Davidson,» disse Kitty.

«A proposito, non pensate anche voi di prendervi in casa qualche
profuga?» chiese Lady Mulholland a Miss Jane. «I Davidson ne hanno presa
una.»

«Ma come! I Davidson ne hanno presa una?» esclamò Miss Marshall.

«I Davidson ne hanno presa una!» fecero eco Miss Jane e Miss Julia
Corry.

«Sicuro,» disse in tono un po’ sarcastico Lady Mulholland. «E mi pare
che se loro si permettono di tenerne una in quella meschina casa che
hanno, ce lo potremmo permettere anche noi.»

«Già; sono di gran moda oggi i rifugiati,» osservò Kitty a Miss Lorena
Marshall. «Tutte le migliori famiglie ne hanno.»

«Sì, ma via! I Davidson!...» esclamò Miss Marshall. «Come mai possono
permettersi questo lusso?»

«Hanno licenziata la cameriera,» spiegò Lady Mulholland, «e fanno fare
da sguattera a questa povera donna belga.»

«Che a casa sua,» saltò su a dire Kitty, «era una signora
dell’aristocrazia. Molly Davidson mi ha assicurato che è veramente una
gran dama! Marchesa, contessa, o che so io.»

«Già;» soggiunse sua madre. «Mi hanno anche detto che i letti li rifà
molto male.»

«Povera creatura!» sospirò Miss Jane.

«Secondo me,» proseguì Lady Mulholland, «è assurdo che i Davidson si
diano il lusso di avere una contessa forestiera a rifare i loro letti,
mentre noi, che abbiamo delle discrete entrate e delle case decenti,
stiamo a guardare. — Grazie, cara, due pezzi di zucchero. — Difatti,
oggi ho scritto al Comitato offrendo ospitalità ad una famiglia di due o
tre persone.»

«Quanto sei generosa!» esclamò Miss Jane; e Miss Julia fece una timida
carezza alla mano grassoccia di Lady Mulholland che reggeva la tazza di
thè.

«Noi altre, a dir vero, non ci avevamo ancora pensato,» si scusò Miss
Jane. «Ma se possiamo in qualche modo soccorrere queste infelici, lo
faremo con molto piacere.»

«Oh, certo! Siete così angeliche!» esclamò l’impulsiva Kitty,
circondando d’un braccio robusto le rigidette spalle di Miss Jane e
schioccandole un bacio sulla guancia.

Miss Jane arrossì di piacere.

«E allora, che passi si fanno per avere una di queste profughe?» chiese
Miss Lorena Marshall. «Anch’io potrei trovar posto per qualcuna in casa
mia. Anzi, non mi spiacerebbe affatto. Sono lunghe le serate per me che
vivo sola; e riprenderei volentieri un po’ di conversazione francese.»

Lady Mulholland, a cui ella s’era rivolta, indugiò alquanto a
rispondere; quindi in tono piuttosto asciutto disse: «Potete scrivere al
Comitato per i rifugiati, a Kingsway; oppure al Consolato Belga.» Vi fu
una pausa. «I Davidson devono averla avuta dalla Lega pel suffragio
femminile. La prevengo però,» soggiunse guardando con occhio frigido la
signorina Marshall, «che il Comitato, a quanto mi si dice, è
particolarmente rigoroso. S’informa per filo e per segno sul conto di
coloro che vogliono i profughi. Non li manda, così, a chiunque ne faccia
domanda.»

Vi fu un nuovo silenzio; quindi Lady Mulholland e sua figlia si alzarono
e presero commiato.

A Miss Julia, che le accompagnò fino al cancello, la signora osservò a
bassa voce: «Ma guarda un po’ che impertinenza! Quella Miss Marshall che
ha il coraggio di voler prendersi in casa una profuga! Lei!... Col suo
passato!»

«Che passato?» chiese stupita Miss Julia, spalancando gli occhi cilestri
un po’ sbiaditi. «Che cosa dici mai?!»

«So ben io cosa dico,» ribattè l’amica con una crollata del capo che
fece fluttuare ai venti il velo di trina bianca. «So ben io!... cara
Julia, credimi: quando si vive tanto tempo all’estero» — e Lady
Mulholland scosse vicino al naso di Miss Julia un indice sapiente e
ammonitore — «c’è sempre qualche cosa sotto! Qualche gatta che ci cova.
— Dunque addio. Vi aspetto mercoledì al thè in casa mia.»

E la gentildonna salì in carrozza seguita dalla sorridente Kitty,
lasciando Miss Julia muta ed esterrefatta sotto gli alberi del suo
giardino.

Dopo qualche istante di dolorosa riflessione Miss Julia ritraversò il
giardino colla fronte pensosa e l’animo turbato. Ma come! Nè lei nè sua
sorella si erano mai preoccupate del passato di Miss Lorena Marshall.
Era prudente questo?

Miss Marshall a vero dire non evocava per nulla l’idea di un passato;
tanto meno di un passato esotico, che alla mente di Miss Julia e di Miss
Jane si associava vagamente a un terribile libro intitolato — «Pour lire
au bain» — che era loro capitato in mano, ed a certi lochi infernali
chiamati Bullier e Tabarin.

No; il pudico cappellino nero, correttamente assiso sulla capigliatura
color pepe e sale di Miss Marshall non mostrava invero la più lontana
parentela con quei folli «petits bonnets» che si buttano al disopra dei
mulini in un momento di giovanile ebbrezza. Le sue solide scarpe a tacco
basso e punta quadra respingevano risolutamente ogni idea che il piede
così giudiziosamente calzato avesse potuto un tempo scendere danzando la
fiorita china del peccato.

«Secondo me, è una malvagia e crudele calunnia,» mormorò Miss Julia; e
appena fu sola con la sorella gliene parlò.

Anche Miss Jane respinse sdegnata l’ingiuriosa insinuazione, e quando
nella serata il Reverendo Smyth, curato di Pinner, venne per discutere
con loro i preparativi di un imminente concerto di beneficenza, le due
sorelle confidenzialmente chiesero la sua opinione. Da quanto tempo
conosceva egli Miss Marshall? Ne aveva udito parlare prima ch’essa
venisse a Pinner? Gli pareva possibile ch’ella avesse un passato? Un
passato.... continentale?

Il giovane Reverendo sorrise, e disse che secondo lui tale sospetto era
ridicolo e poco caritatevole.

«Lei dirà, caro Mr. Smyth,» disse Miss Jane, «che mia sorella ed io
siamo due zitellone noiose, dalle idee ristrette —» il curato fece un
gesto di cortese protesta.

«Già; bisogna compatirci. Siamo zitellone noiose dalle idee ristrette,»
ripetè Miss Julia.

Era questa una frase prediletta dalle due signorine Corry; la dicevano
ad ogni istante — un po’ per farsi contraddire e un po’ per una specie
d’umiltà che sta assai vicina all’orgoglio. Non era già un segno
d’indubbia superiorità il riconoscersi dei difetti? E poi questa
«ristrettezza d’idee», non è quasi sinonimo di «nobiltà d’idee,» quando
significa il giusto aborrimento d’ogni volgarità e sconvenienza?

                                  ————

Quando, il mercoledì seguente, le due signorine Corry andarono a rendere
la visita a Lady Mulholland trovarono la sala di ricevimento piena di
gente. Tutta Pinner e Hatch End e Harrow si dava convegno ai thè di Park
House.

Le due sorelle entrarono, un po’ timide; Lady Mulholland, molto
circondata e prodigandosi a tutti, le accolse con distratta gentilezza.
Kitty, gaia e affettuosissima, offrì loro con premura il thè.

C’erano anche le Davidson. («Che pessimo gusto hanno nel vestire,»
osservò Miss Jane a Miss Julia; «nessuno porta il raso per l’afternoon
tea!») Madre e figlia Davidson formavano il centro di un gruppo di
persone, e, rosse in viso, stavano narrando la serie di guai avuti con
la loro profuga contessa belga.

«Anzitutto non era affatto contessa,» diceva Dolly Davidson, con broncio
puerile.

«E poi non era nemmeno belga,» soggiunse la povera signora Davidson,
scotendo il capo piumato. «Mi stupisco che la Lega per il Suffragio
Femminile ce l’abbia mandata. Figuratevi che ci confessò, partendo,
d’essere una artista di varietà, nata a Linz! E non sapeva parlare che
il tedesco e lo czeco. Dire che noi abbiamo sempre creduto che parlasse
fiammingo!»

Le ascoltatrici dissimularono appena sotto un’apparenza di lieve
commiserazione i loro sorrisi di giubilo. Ah, che meritata lezione! Ma
come?! Questa insignificante Clara Davidson (Davidson padre aveva
qualche oscuro impiego nella city) si era data tante arie con quella sua
contessa! Ed ecco che doveva confessare d’aver ospitata una
canzonettista austriaca!

«Mia povera cara amica!» esclamò Lady Mulholland. «Come avete fatto a
liberarvene?»

«Ma...» balbettò la infelice signora Davidson arrossendo, «venne un uomo
— un brutto tipo — a cercare di lei tardi l’altra sera, e fecero molto
chiasso in anticamera. Non so se litigavano o altro...»

«Poi sono andati disopra tutt’e due,» aggiunse la loquace Dolly
Davidson. «La mamma ha mandato su Reggy a chiamarli.» Reggy, un torpido
adolescente che in quel momento aveva la bocca piena di torta, arrossì —
«per dire che dovevano scendere e andar via subito. Ma Reggy rimase su,
e quando sono salita io a cercarlo l’ho trovato che guardava dal buco
della chiave.»

«Non è vero,» borbottò Reggy.

«Basta; abbiamo dovuto chiamare un policeman,» concluse rapida la
signora Davidson. «E’ stata una cosa veramente spiacevole.»

Il penoso silenzio che seguì fu rotto da Lady Mulholland.

«Confesso,» disse, «che non è senza trepidanza ch’io attendo l’arrivo
dei miei profughi.»

«Quanti ne aspetti, cara?» chiese Miss Julia Corry.

«Quattro,» rispose lugubre Lady Mulholland. «Se potessi mandare un
contrordine!...»

«Ah, no!» esclamarono in coro tutte le amiche. «Una volta che le hai
invitate devi accettarle.»

                                  ————

Arrivarono difatti il giorno seguente: una madre, magra e
insignificante, due ragazzotti taciturni e grassi, e una ragazzina
dall’aria furba, con due occhi vividi da furetto.

Si chiamavano Pitou.

Dal giorno che avevano abbandonato la patria, la casa e i beni — questi
consistevano in un piccolo Restaurant in un’oscura viuzza di Bruxelles
esalante un effluvio perenne di ragoût di montone — i quattro esuli non
si erano trovati troppo male.

Appena sbarcati in Inghilterra avevano appreso ch’erano degli eroi.
Erano stati acclamati, insieme ai loro compatrioti, quali salvatori
d’Europa. Con stupore non disgiunto da compiacenza avevano ascoltato i
discorsi pronunziati in loro onore, nei quali si assicurava che la
riconoscenza del mondo intero non avrebbe mai ripagato il debito che la
civiltà aveva contratto verso di loro.

Non c’era quindi da stupirsi se questi profughi — come molti altri —
accettavano come di diritto e colla massima naturalezza tutto ciò che
veniva loro offerto.

Mangiavano tutto il giorno — e nella notte tenevano accanto al letto dei
biscotti che all’indomani buttavano via. Esigevano burro e marmellata a
tutti i pasti; mettevano zucchero nel vino e acqua di fior d’arancio nel
latte; si lagnavano assai che il caffè non era buono.

Se faceva freddo si mettevano sulle spalle il mantello di lontra di Lady
Mulholland e le sciarpe di seta di Kitty. Parlavano poco, e sempre a
bassa voce tra di loro.

Passavano gran parte della giornata nel salotto, sdraiati in poltrona a
sfogliare le riviste illustrate. Scrivevano molte lettere e prendevano i
francobolli dal cassetto della scrivania di Lady Mulholland.

Non ringraziavano mai di nulla.

Perchè avrebbero dovuto ringraziare?

Non avevano forse salvato l’Europa? Se non erano loro, dove sarebbe a
quest’ora il mantello di lontra di Lady Mulholland? Se non era il Belgio
a quest’ora sui divani di casa Mulholland si sdraiavano gli Ulani; e
verrebbero gli Ussari della Morte a mangiarsi le conserve di casa
Mulholland, a servirsi di francobolli e a criticare il caffè. _Comment
donc!_

E non avevano essi, Pitou, per salvare l’Europa, abbandonato tutto? La
patria? La casa? Gli affari?...

Ben presto il meschino Restaurant nel Passage de la Pompe assunse nei
loro appassionati ricordi una magnificenza e un fasto di Grand Hôtel.
_Le souvenir, cet embellisseur_, con un rapido gioco di
prestidigitazione ne cancellava la sudicia insegna, faceva sparire
candele, limoni, sardine e mosche dalla vetrina d’entrata, costruiva
qualche piano di più, una facciata a colonne, e riempiva l’imponente
fabbricato di clienti ricchi e titolati.

«A proposito, come si chiamava il vostro Hôtel?» chiese un giorno Lady
Mulholland. «Noi, andando a Spa, abbiamo pernottato a Bruxelles; e mi
ricordo che abbiamo alloggiato in un eccellente Albergo. Il Britannique,
o il Métropole, o qualche cosa di simile.»

Madame Pitou si rivolse con un sospiro a sua figlia che soleva fare da
interprete:

«Toinon, dille tu il nome del nostro albergo,» sospirò. «Traducilo dal
francese.»

E Toinon tradusse: «Ristorante Al Gaio Anatolio o Alla Lepre Saporosa.»

«No; non Ristorante — Hôtel» corresse Madame Pitou. «Hôtel _Alla Lepre
Saporosa_.» E sospirò profondamente.

Indi soggiunse: «Toinon, avvisa questa gente che vogliamo un potage aux
poireaux per questa sera. Io non voglio nè posso più ingurgitare quelle
brodaglie nere che in questo paese si ha il coraggio di chiamare
minestra.»



                                  VII.


Ben presto in Pinner l’entusiastica infatuazione per i profughi si
calmò. Lo slancio di generosità esagerata cadde; e quando nelle case si
riunivano le signore a lavorare per i soldati, e a raffrontare i Belgi
da loro ospitati, si notava una mal celata amarezza in coloro che ne
avevano in casa, e un tono di sorridente compatimento da parte di chi
non ne aveva.

Si parlava dei profughi quasi come di una malattia; un estraneo avrebbe
potuto credere che si trattasse degli orecchioni o delle febbri
malariche.

«Pare dunque che la povera Lady Osmond li abbia.»

«Ma davvero?»

«Sicuro. Ed anche la povera signora Whitaker.»

«La signora Whitaker? E’ possibile?»

«Li ha, li ha, ve l’assicuro io. E mi dicono che ne soffra assai.»

«Poveretta! Bisognerà ch’io vada a trovarla,» disse Lady Mulholland, in
tono di sincera commiserazione.

Ma in quello stesso pomeriggio capitò da lei precisamente la signora
Whitaker.

«Ah, mia povera, cara Teresa,» cominciò Lady Mulholland afferrandole le
mani e stringendogliele con eloquente simpatia. «Come stai? Come ti
senti? Ho saputo che anche tu...»

«Già, già,» e la signora Whitaker ritrasse un po’ stizzita la sua mano.
«Te l’hanno detto che li ho anch’io.» Vi fu un istante di silenzio. «Te
lo confesso, non me li aspettavo lugubri a tal punto.»

«Lugubri?» esclamò Lady Mulholland. «Se non è che questo....»

«Ti accerto che basta,» sospirò la signora Whitaker. «Non puoi fartene
un’idea. Sono tre creature d’incubo.....»

Ma Lady Mulholland subito si lanciò in una lamentosa narrazione delle
proprie pene. «Mia cara, si fanno prestare tutti i tuoi vestiti?
Adoperano tutta la tua carta da lettera? Comandano loro il tuo pranzo?
Danno ordini alla tua servitù? Se no, non lamentartene. Figurati» —
continuò fremente di sdegno — «la mia cuoca — una perla! — mi ha dato
adesso gli otto giorni. E perchè? Perchè la mia profuga, Madame Pitou,
si è permessa di andare in cucina alle quattro del pomeriggio a farsi un
timballo di riso coi funghi.»

«Possibile? Ah, mia povera Lucy!» disse la signora Whitaker scotendo il
capo e dissimulando un sorriso. «No, questo le mie non lo fanno. Si
accontentano di star sedute negli angoli, mute, immobili, spettrali,
come tre fantasmi. Un giorno che avrai tempo le verrai a vedere.»

«Posso venire anche subito,» disse Lady Mulholland con alacrità. «Ma
sono convinta che i miei Pitou sono mille volte peggiori.»

Sparì, e tornò quasi subito pronta ad uscire; e con un’ultima
raccomandazione a Kitty di non permettere ai Pitou di far cucina in
salotto uscì frettolosa accanto alla signora Whitaker.

Presero la scorciatoia traverso i campi e giunsero in pochi minuti alla
Loggia delle Acacie.

«Che lingua parlano?» chiese a bassa voce Lady Mulholland seguendo
l’amica che si inoltrava rapida sotto i castagni del viale.

«Non parlano affatto,» rispose quella. «E confesso che avevo proprio
contato su di loro per far fare alla mia Eva e a Giorgio un po’ di
conversazione francese. Era anzi per questo che le ho prese in casa.»

Si affrettavano pel viale allorchè, dal tennis-court una graziosa
figuretta venne loro incontro, correndo traverso il prato. Era Eva
Whitaker e la seguiva il fratello Giorgio, bel giovane in uniforme
khaki.

«Ho battuto Giorgio per sei contro quattro!» gridò Eva Whitaker agitando
la racchetta in segno di saluto.

«L’ho lasciata fare,» spiegò il fratello, «se no, erano bronci per tutto
il giorno.» E il giovane tese ridendo la mano a Lady Mulholland e
accettò la carezza, piena di affettuoso orgoglio che sua madre gli fece
sulla guancia abbronzata.

«Che bel ragazzo!» mormorò Lady Mulholland; e in cuor suo si rammaricò
di non aver condotto Kitty, quand’anche i Pitou avessero approfittato
della loro assenza per cuocere, come già una volta, della testina di
vitello in salsa piccante sul fuoco della sala di ricevimento.

«Ed _essi_.... dove sono?» chiese la signora Whitaker abbassando la voce
e guardandosi intorno.

«Non lo so,» rispose Eva. «In tutto il pomeriggio non li ho veduti.»

«Lo so io,» interpose Giorgio. «Sono laggiù nel boschetto;» e additò una
folta macchia di roveri a fianco della casa.

«Va a chiamarle, figliolo caro,» disse sua madre.

«No, grazie,» rispose lui.

«Vado io,» esclamò Eva. E corse traverso l’erba, scansando le aiuole
fiorite e falciando l’erba colla racchetta.

«Deliziosa creatura,» esclamò con esuberante entusiasmo Lady Mulholland
seguendo cogli occhi l’agile siloetta. Indi, fermando sulla maschia
figura di Giorgio uno sguardo anche più ammirativo, ripensò a Kitty.
«Bisognerebbe,» sospirò, «che le nostre care figliole si vedessero un
po’ più di sovente....»

La signora Whitaker lanciò sul profilo dell’amica un’occhiata
penetrante. «Furbacchiona intrigante,» pensò tra sè; e forte disse: «Hai
ragione, carissima. Non appena Giorgio sarà partito per Aldershot conto
di vedere qui tutti i giorni la tua Kitty.»

«Brutta maligna,» riflette Lady Mulholland; e ad alta voce rispose:
«Verrà con gioia. Si amano tanto le nostre figliole!»

Giorgio si era avviato dietro alla sorella verso il boschetto; ma già
Eva riappariva — sola.

«Vengono?» chiese da lontano sua madre.

Eva scosse il capo. «Non vogliono venire.»

«Come mai?» esclamò Lady Mulholland.

«E perchè no?» chiese la signora Whitaker.

Eva si strinse nelle spalle. «Non so perchè. Ma la più grande ha scosso
la testa e ha detto: «Merci!»

Giorgio rise.

«E te ne stupisci, mamma?» Volse il bel viso giocondo e schietto verso
Lady Mulholland. «Lei deve sapere che mia madre ne ha fatto una specie
di Esposizione Permanente. Già tutta la contea di Sussex è venuta a
guardarle.»

«Vado a prenderle io stessa,» dichiarò la signora Whitaker. «Aspettate
qui.» E s’avviò risoluta verso il boschetto. Indi si fermò. «Di un po’,
Giorgio! Tu che hai studiato quattro anni il francese — è un mezzo
parigino, sai, questo figliolo! —» soggiunse all’amica; «insegnami un
po’ come devo dire questa frase: «Spero che mi farete la gentilezza di
venire un momento con me; desidero presentarvi ad una mia carissima
amica che s’interessa tanto alla vostra sorte.»

Giorgio riflettè alquanto; poi tradusse: «_Venné._»

«Ma come? Basta così?» chiese sua madre.

«Sì, sì; basta,» assicurò Giorgio.

La signora Whitaker si avviò ma Lady Mulholland la raggiunse.

«Non sarebbe meglio che facessimo entrambe un giretto in giardino....
passando casualmente pel boschetto?»

E fecero così.

Giorgio le seguì a distanza, ed Eva gli si attaccò al braccio; ella era
molto superba del suo bel fratello soldato.

Entrarono tutti nel boschetto, dove tre figure vestite a lutto sedevano
su una panca.

«Misericordia!» esclamò a bassa voce Lady Mulholland. «Sono macabre
davvero. Quasi quasi mi sembrano peggiori dei miei Pitou.»

Le tre nere figure si levarono lentamente in piedi; poi stettero
immobili e silenziose. Lady Mulholland si avvicinò sorridente, ma provò
subito uno strano turbamento quando i suoi occhi incontrarono quei tre
paia d’occhi cupi e profondi che la fissavano senza sorriso. Anche lei
si trovò a fissarli come allucinata.

La signora Whitaker rivolse loro la parola in inglese, parlando molto
forte coll’idea di farsi capir meglio. Ma pareva che non la udissero.
Certo non fecero alcun tentativo per rispondere alle sue amabili
osservazioni sul tempo.

Lady Mulholland colpita dal lugubre aspetto delle tre sventurate stese
loro commossa la mano.

Due di quegli spettri risposero al suo gesto ponendo per un istante le
loro mani inerti e fredde nella mano di lei. Ma la terza — Lady
Mulholland si accorse con stupore che questa era una bambina, benchè
portasse come le altre una lunga veste nera — nè si mosse, nè mutò la
fissità dello sguardo impietrito.

Vi fu un silenzio un poco imbarazzante. Allora Lady Mulholland, facendo
la sua più amabile voce da società domandò: «E così? Come vi piace
l’Inghilterra?»

Nessuna risposta.

La signora Whitaker si volse a suo figlio: «Giorgio mio, domandaglielo
tu in francese.»

Il «mezzo parigino» si fece avanti — timido come tutti gli inglesi
davanti alle donne o al dolore. Il rossore gli salì alla fronte
abbronzata, tossì e si schiarì la gola. Finalmente domandò con impeto:

«_S’il vous plaît Londres?_»

Aveva rivolto questa interrogazione alla più alta delle tre, ma essa lo
guardò con occhi trasognati e parve non capire. Vicino a lei stava la
bambina, ma anche questa nè rispose, nè parve avere udito; teneva i
grandi occhi sbarrati, fissi in volto alla sconosciuta signora
Mulholland, nè sembrava accorgersi che altri fossero intorno a lei.

Giorgio si fece anche più rosso in viso e si rivolse verso il terzo
spettro. Tossì nuovamente, e ripetè la sua domanda:

«_S’il vous plaît Londres?_»

Allora accadde una cosa strana.

Il terzo spettro — sorrise!

Fu un vero sorriso, un sorriso radioso, un sorriso a fossette che
trasformò subitamente lo spettro in una fanciulla incantevole.

«_Merci. L’Angleterre nous plaît beaucoup;_» diss’ella in francese per
non offendere il suo interlocutore. Poi soggiunse in un inglese timido e
corretto: «Abbiamo trovato che Londra è molto bella.»

«Oh! guarda!» esclamò la signora Whitaker in tono risentito. «Ma voi
sapete dunque l’inglese?»

E la sua voce esprimeva lo stupore e l’offesa di chi vede altri
adoperare senza suo permesso una cosa di sua esclusiva proprietà.

«Un poco, signora,» mormorò la giovanetta. E sotto lo sguardo austero
della signora Whitaker il soave sorriso svanì, le fossette sparvero e la
fanciulla ridiventò il pallido spettro di prima.

Le due dame con un cenno di saluto si allontanarono.

Giorgio ed Eva, dopo un momento d’esitazione e d’imbarazzo, le
seguirono.

«Ma guarda che ipocrisia! Che falsità!» esclamò sdegnata la signora
Whitaker. «Non mi hanno mai detto che capivano l’inglese!»

«Già. Avranno voluto scoprire tutti i vostri fatti di casa,» commentò
Lady Mulholland.

Un mormorio indistinto uscì dalle labbra di Giorgio. Ma Lady Mulholland
si convinse d’aver frainteso. Impossibile che quel caro ragazzo avesse
detto «Vecchia pettegola!»

In tutti i modi non potè accertarsene, perchè il giovane senza dir altro
era entrato in casa.

«Non credo affatto che siano ipocrite,» asserì Eva. «Mi sembrano
piuttosto intontite, sbalordite ancora dalle sofferenze, dal viaggio....
Povere creature! Non m’ero accorta che fossero così giovani. Hai visto,
mamma? La più piccola è proprio una bambina.» Fece una piroetta sui
tacchi ed esclamò: «Io torno da loro a discorrere un pochino.»

«No!» fece sua madre secca e recisa. «Resterai qui.»

Quella sera, allorchè il signor Whitaker tornò dalla città, la sua
diletta figliola Eva aveva molte cose da raccontargli; e anche Giorgio,
che di solito aveva un contegno piuttosto distratto e indifferente,
degnò interessarsi alla conversazione.

«Figurati! I fantasmi hanno parlato, babbo!» gridò Eva correndogli
incontro nell’anticamera. Poi, attaccatasi al suo braccio lo trasse in
salotto e lo fece sedere in poltrona. «Ti assicuro — una rivelazione!
Non sono fantasmi! E te lo dirà anche Giorgio. Sono tutte giovani; e ce
n’è una che è bellissima. Vero, mamma?»

Ma sua madre non rispose, nè alzò gli occhi dal lavoro.

Fu il signor Whitaker che parlò.

«Al Comitato mi hanno detto che erano ottime persone — moglie, sorella e
figlia di un dottore.»

«Misericordia! E sembrano pezzenti!» fece Eva.

«Sembrano spaventa-passeri,» disse Giorgio.

«Anche il console belga,» continuò il signor Whitaker, «mi ha detto che
erano persone distintissime. Teresa,» soggiunse guardando sua moglie,
«credo che avremmo dovuto insistere perchè prendessero i loro pasti con
noi.»

«Ma se ho insistito,» rispose un po’ aspra la signora. «Mi hanno
risposto che preferivano mangiare da sole.»

«E allora rispettiamo il loro desiderio,» concluse il signor Whitaker,
aprendo una rivista commerciale.

«Ma pensa, papà,» seguitò Eva, issandosi sul bracciolo della poltrona e
carezzando i capelli un po’ radi di suo padre; «pensa! la più piccola —
quella cogli occhi così spauriti — è sordomuta.»

«Chi te l’ha detto?» chiese la signora Whitaker alzando gli occhi dal
lavoro. «Sua madre?»

«No; me l’ha detto quell’altra — quella delle fossette, che parla
inglese. Ah! quanto è carina quella! Vero, Giorgio?»

«Si chiama Chérie,» osservò il fratello.

«Si può sapere chi t’ha detto il suo nome?» chiese severamente la
signora Whitaker posando in grembo il lavoro e fissando gli occhi
inquisitori sul figliolo.

«Me l’ha detto lei,» rispose questi, senza scomporsi.

«Te l’ha detto lei?» ripetè sua madre. «Io non sapevo che tu facessi
della conversazione con quelle donne.»

«Non ho fatto conversazione. L’ho incontrata in giardino, l’ho fermata e
le ho chiesto: «Come vi chiamate?» E lei mi ha risposto «Chérie.» Ecco
tutto.»

«Un nome curioso,» osservò il babbo.

«Caro Anselmo; la questione non è lì —»

Ma Anselmo non seppe mai la questione dove fosse, perchè il sonoro
appello del gong li mandò tutti nelle loro camere a vestirsi per il
pranzo.

Quella sera, dopo il pranzo, Eva andò come di consueto nel salotto
attiguo e aprì il pianoforte; suo padre, in poltrona in sala da pranzo
colle doppie porte aperte, la vedeva e ne udiva la musica mentre gustava
tranquillamente il suo bicchiere di Porto e la sua pipa.

«Che cosa ti suono stasera, papà? — Rachmaninoff?»

«No. Quello che hai suonato ieri,» disse il signor Whitaker
accomodandosi meglio nella poltrona, mentre il domestico sparecchiava
silenziosamente la tavola.

«Ma è precisamente Rachmaninoff, angelo di un papà,» rise Eva aprendo il
magnifico Erard.

Giorgio le si avvicinò e si chinò a dirle qualche cosa sottovoce.

«Sì! sì!» esclamò Eva. «Dillo alla mamma.»

«Diglielo tu,» fece Giorgio; e tornò in sala da pranzo a sedere accanto
a suo padre, accendendo una sigaretta.

La signora Whitaker si fece un poco pregare; ma Eva, che sapeva essere
molto carezzevole e persuasiva ottenne il consenso chiesto.

Uscì correndo dalla stanza, e ritornò quasi subito conducendo seco le
tre figure nero-vestite; e poichè queste ristavano esitanti sulla
soglia, essa infilò amichevolmente il suo braccio sotto quello della
riluttante «Chérie.»

«Avanti, avanti! _Venné!_»

E i tre fantasmi entrarono.

Parevano fantasmi davvero con quei tre visi pallidi, quegli occhi fissi,
e l’andatura a scatti come sonnambule.

Sedettero mute, in fila, lungo il muro. Eva andò al pianoforte e suonò.

Suonò il preludio di Rachmaninoff.

Quando l’ebbe terminato le tre ascoltatici nè si mossero, nè parlarono.
Allora con arpeggiante preludio Eva passò alla Barcarola di Godard; ma
la dolce malinconia di quella musica non strappò alle tre ombre nè un
commento, nè un gesto. Il Carnevale di Schumann non le rallegrò; nè le
commosse la Sonata al Chiaro di Luna.

Infine Eva chiuse il pianoforte.

Allora le due più alte si alzarono, s’inchinarono in silenzio ed
uscirono, conducendo per mano come si conduce una cieca la più piccola,
il cui pallore sembrava ancor più spettrale, il cui silenzio pareva
ancor più profondo del loro.

«Infelici! Infelici!» mormorò il signor Whitaker seguendole con occhio
commosso. «Teresa mia, guarda che non manchino di nulla. E quanto a
voialtri» volgendosi ad Eva e a Giorgio «spero che avrete sempre tutti i
riguardi per queste sventurate che abbiamo l’onore di ospitare.
Giorgio,» soggiunse volgendosi al suo bel figliolo con un cipiglio che
intendeva essere assai severo, «ho notato che tu le guardavi molto. Non
farlo più. La sventura è sensitiva e non vuole essere osservata.»

Giorgio mormorò che non le aveva affatto guardate e se ne andò,
imbronciato. Eva mise le braccia intorno al collo del babbo e gli scoccò
sulle guancie quei baci rumorosi ed infantili ch’egli tanto amava.

«Vero papà, che posso andare da loro a discorrere un pochino?» gli
susurrò.

«E perchè no?»

Eva non aspettò altro e se ne andò correndo nel momento stesso in cui
sua madre alzando gli occhi dal suo lavoro domandava: «Che cosa c’è?»

«Ho mandato Eva a fare un po’ di compagnia a quelle infelici,» disse suo
marito. «E’ nostro dovere il cercare di sollevarle, anche moralmente,
quelle disgraziate! Veramente, Teresa,» sospirò, «non ho mai veduto uno
spettacolo più desolante!»

La signora Whitaker si levò, agitata.

«Dove vai?» le chiese suo marito.

«A richiamare Eva,» rispose la signora.

Il signor Whitaker le prese la mano e la trattenne.

«Ma che idea, Teresa? Perchè non vuoi che quella bambina segua gli
impulsi generosi del suo cuore?»

Sua moglie volse verso di lui gli occhi azzurri e turbati — begli occhi
irlandesi che vent’anni fa a Dublino.... Ma quella è un’altra storia.

«Anselmo, tu non capisci. Eva non è più una bambina.»

«E che c’entra?»

«C’entra.... Insomma, non voglio che stia con quelle donne.»

Il brav’uomo si raddrizzò con viso severo. «Teresa, vuoi ch’io ti creda
senza cuore?»

La fronte di lei si colorò fin sotto le morbide chiome ancora bionde,
pacatamente e rigidamente divise nel mezzo della fronte.

«Pensa ciò che vuoi,» disse. «Io ti confesso che a me quelle donne
dispiacciono e fanno paura.» E leggendo lo sdegno e lo stupore nel viso
di lui, continuò:

«Sì, sì! paura. Non so... mi pare che qualche cosa di sinistro aleggi
intorno a loro. Quando vedo Eva avvicinarle, parlare con loro... mi vien
freddo — come se la nostra figliola entrasse in un mondo buio e
sconosciuto. Ah! che cosa avranno veduto — che cosa avranno subìto
quelle donne? E tu, Anselmo, vuoi mettere a contatto di questi sinistri
misteri la candida anima di tua figlia?»

Suo marito la fissava attonito, senza rispondere.

«So che mi credi cattiva, Anselmo; so che mi credi fredda e senza cuore
—»

«Un po’ severa lo sei...» disse Anselmo approfittando subito di questo
stato d’animo e di cose.

«E guai se non lo fossi con voi altri tre,» disse la signora Whitaker, e
gli occhi azzurri lampeggiarono.

Anselmo non osò proseguire su quella via.

«Mi pare che dovresti essere più gentile, più tenera per queste
sventurate.»

«Lo so. E lo vorrei. Vorrei poter essere gentile ed affettuosa, vorrei
incoraggiare i figlioli alla bontà verso di loro. Ma c’è qualche cosa —
qualche cosa negli occhi di quelle donne, che mi fa orrore. E non posso,
non posso vedere Eva a contatto con loro. Non so spiegarti questo
istinto — ma è più forte di me.»

Vi fu un breve silenzio.

«Non ti nascondo,» disse suo marito, «che a me sembra un istinto egoista
e crudele.»

Ella si alzò in piedi e di nuovo una vampa dolorosa le salì alla fronte.

«Dovremo dunque sacrificare la purezza d’animo di nostra figlia a queste
estranee? Immolare a loro la sua ignoranza del male? E’ possibile che
sia nostro dovere incoraggiare dei rapporti che potrebbero strappare dai
suoi occhi il candido velo dell’innocenza?»

«Non lo so,» rispose grave il signor Whitaker. «Mi pare che qui ci
troviamo di faccia ad uno dei mille problemi creati dalla guerra. Un
problema minore se si vuole, ma tuttavia un problema. Secondo me, una
ragazza che oggi è chiamata a curare i feriti — i feriti nel corpo e
nell’anima — non può più vivere nella bella e puerile ignoranza d’una
volta... La vera carità non può essere cieca. Per poter compatire le
miserie umane bisogna conoscerle.» E come, con un gesto di dolore, sua
moglie protestava, «Teresa,» continuò, «è questo un altro sacrificio che
noi genitori dobbiamo portare in olocausto alla guerra. Dobbiamo dare
non soltanto la vita dei nostri ragazzi — ma, se ci viene richiesta,
anche la santa innocenza delle nostre figlie.»

«E’ crudele, è crudele!» esclamò la signora Whitaker.

«Sì. La guerra è crudele. E la vita è crudele. Ma non aggiungiamo, tu ed
io, altre crudeltà alle umane tristezze!» Egli le posò una mano
affettuosa sulla spalla. «Se per poter fare il bene, nostra figlia deve
conoscere il male — così sia. Muoia l’incoscienza nel suo cuore, purchè
vi nasca qualche cosa di più nobile — la pietà.»

Vi fu un altro silenzio; un lungo silenzio.

Indi la signora Whitaker prese la mano di suo marito, e la baciò.



                                 VIII.


Eva, frattanto, salite le scale, andò a battere leggermente all’uscio
dello studio, trasformato ora in un salotto per le rifugiate.

Nessuno rispose; ed ella, stette un momento incerta. Poi udì una voce
che diceva tra i singhiozzi: «Mirella! Mirella!»

Era tale la disperazione in quella voce che la fanciulla con subitaneo
impulso girò la maniglia e socchiuse l’uscio.

Nel cerchio di luce sotto la lampada, un quadro, quasi biblico nella sua
tragica bellezza, apparve ai suoi occhi e la fermò incantata sulla
soglia.

La più giovane delle profughe — la pallida bambina — stava ritta e
immobile coi lunghi capelli che le cadevano lisci e lucenti come acqua
aurata intorno al viso; guardava fissa dinanzi a sè, rigida come una
statuetta di marmo. Prostrata a’ suoi piedi — e le lunghe vesti nere si
spandevano come un cerchio di lutto intorno a lei — era la maggiore
delle tre, il volto e le braccia levate in gesto disperato verso la
figuretta immota. Era la sua voce singhiozzante quella che Eva aveva
udito. E in piedi accanto a loro, tenendo alto tra le mani giunte un
piccolo crocifisso d’oro, l’altra — la giovanetta che aveva sorriso —
pregava: «_Sainte Vierge, aidez-nous! Mère de Dieu, faites le miracle!_»

Ma immobile, senza udito, senza sguardo, la bambina per cui le donne
pregavano rimaneva ritta e rigida, cogli occhi spalancati fissi nel
vuoto.

Eva sentì serrarsi il cuore e indietreggiò, richiudendo piano la porta.
Indi, dopo un istante d’esitazione tornò a bussare, un po’ più forte.

Quasi subito una voce tremante rispose: «_Entrez._»

Ora erano in piedi tutte e tre, ma la più grande aveva ancora il volto
rigato di lagrime.

«Non vorrei disturbarvi,» balbettò Eva sulla soglia. «Venivo per restare
un pochino con voi.»

La seconda, quella che capiva l’inglese, si fece subito innanzi con un
pallido sorriso riconoscente.

«Grazie, signorina, ne saremo felici.» Ed Eva entrò e chiuse la porta.

Vi fu un silenzio; poi Eva, con gesto timido e rigidetto, stese la mano
alla maggiore: «Non pianga!» disse.

Ah! Come queste parole aprono il varco alle lacrime! Benchè pronunciate
in una lingua a lei straniera, la dolorante donna le comprese e il
fiotto di pianto risgorgò.

«_Lulù! Lulù! Ne pleure pas,_» scongiurò l’altra; e volgendosi ad Eva
spiegò:

«E’ per la sua bambina che piange — la sua bambina che non vuole più
parlarle.»

Eva si sentì stringere il cuore. «E’ proprio muta?» chiese a bassa voce,
contemplando quel visino, serafico e scolorito come un pallido affresco
di Frate Angelico.

«Non sappiamo. Non si riesce a capire.... E’ da più di un mese che non
ha mai sorriso e non ha mai parlato.» La dolce voce della giovinetta
ruppe in un singhiozzo. «Sembra che non ci oda, che non ci
riconosca....» S’avvicinò alla bambina, e ne carezzò il sottile volto:
«_Mireille, petite Mireille! dis bonsoir à la jolie dame!_»

Ma Mirella rimase muta, tenendo fissi gli occhi in qualche cosa che
nessun altro vedeva.

Allora anche Eva le si avvicinò e prese tra le sue la manina inerte
della bimba.

«Mirella,» chiamò piano. Gli occhi azzurri parvero fluttuare, si volsero
per un attimo verso Eva, ma subito lo sguardo si smarrì di nuovo, vacuo
e vago, nel vuoto.

«Ma che cosa le è accaduto?» chiese Eva colla gola serrata in un
singhiozzo. «Che cosa l’ha ridotta così?»

«Lo spavento,» rispose breve la giovanetta, mordendosi le labbra.

E non disse altro.

«Spavento di che?» insistè Eva colla inconscia crudeltà della giovinezza
e del desiderio di consolare.

«Sono venuti... i nemici... in casa nostra,» balbettò quella che si
chiamava Chérie. «Le hanno fatto paura....» E di nuovo le sue labbra
tremanti si serrarono mentre una vampata di rossore le inondava il
volto. Poi il colore svanì, lasciandola d’un pallore cereo con un’ombra
bistrata intorno agli occhi.

«Furono crudeli con lei? Le fecero del male?» chiese palpitante Eva; e
volgendo gli occhi su quella misteriosa figuretta immobile, l’animo suo,
colpito, realizzò per la prima volta il significato della parola
_guerra_.

«No, no! non le fecero male. A lei non fecero niente. Ma ebbe tanto
spavento —» circondò con un braccio le esili spalle della bambina; e
tacque.

«E allora?»

«E allora, perchè gridava, la presero.... e la legarono.... a una
ringhiera.»

«La legarono a una ringhiera?! Che infamia!» esclamò Eva. «Che
crudeltà!»

«Ah, sì! Erano crudeli,» mormorò la fanciulla e il memore terrore le
riapparve negli occhi. Poi si volse, quasi per cercar rifugio, all’altra
donna, quell’alta e nera figura silenziosa che fissava con occhi
sognanti il fuoco.

«Luisa!» invocò a voce bassa. Ma quella non si mosse.

«Ma voi,» continuò Eva, appassionata di sapere di più, «avevate paura
anche voi?»

«Sì. Avevo paura.»

«Allora cosa avete fatto? Siete fuggita?»

«Non so... non ricordo. Non ricordo nulla...» ansò la fanciulla. E tale
era il terrore e l’angoscia in quel giovane viso che Eva non osò
chiedere altro.

«Perdonatemi,» balbettò. «Forse non avrei dovuto parlare di queste
cose... Mi perdonate?... Ditemi che mi perdonate... _Chérie!_»



                                  IX.


Le placide giornate di settembre passarono; la tranquilla atmosfera
inglese, il sano vitto inglese, e la saggia ospitalità inglese — che
consiste nel non occuparsi dei propri ospiti, ostentando piuttosto un
completo oblìo della loro esistenza — tutto concorse a compiere dei
blandi miracoli su quelle tre anime sventurate.

Non già che Mirella ritrovasse la parola; ma Luisa, giorno per giorno,
potè notare con palpitante cuore il rifiorire del color di rosa su
quelle guancie diafane e vide gradatamente sparire da quegli occhi
l’espressione straziante di terrore.

Mirella non piangeva mai, e non sorrideva mai. Sembrava vagare
nell’ombra della vita, muta, inconscia e serena.

Ma la vita e la gioia ritornarono frementi e pulsanti nel giovane cuore
di Chérie, rivelandosi in tremuli sorrisi, in qualche parola alata di
gaiezza. Presto furono risate trillanti e un correre per il giardino con
passo lesto e leggero....

Sovente accadeva a Luisa, seduta alla finestra dello studio accanto a
Mirella, di lasciar cadere il lavoro sulle ginocchia per seguire cogli
occhi stupiti la figuretta di sua cognata, che volava qua e là per il
campo del tennis con una leggerezza di farfalla. Luisa si trovava ad
ascoltarne, sorpresa, la voce dolce e gaia che si era così presto
intonata alla favella inglese.

E l’animo suo si riempiva di meraviglia. Come.... come aveva fatto
Chérie a scordare così presto? Non aveva dunque più pensiero per il
fratello e per il fidanzato, combattenti laggiù nelle sanguinose pianure
d’Ypres? Come, come poteva essa correre, distrarsi, ridere, mentre non
si avevano notizie nè di Claudio nè di Florian? Mentre forse — ahimè! —
giacevano entrambi in qualche lontana vallata del Belgio morti — morti —
colle faccie rivolte al cielo. E come, ah! come mai poteva ella aver
scordato ciò che avvenne in quella notte d’orrore — non più di qualche
settimana fa?

Sovente allora — quasi che un tenero istinto le parlasse al cuore —
Chérie si volgeva improvvisa e guardava su. Guardava quei due pallidi
volti incorniciati dalla finestra, tra le foglie rosso-dorate d’un
rampicante autunnale. Allora gettava via la racchetta e senza una parola
ai compagni di gioco, correva in casa, e su nella stanza da studio, a
gettarsi ai piedi di Luisa con singhiozzi e un diluvio di lagrime.

«Mirella!... Florian!... Claudio!...» i tre nomi diletti le sgorgavano
dalle labbra in accenti disperati, e a stento Luisa poteva consolarla,
baciandola, ravviandole i riccioli scomposti, carezzandole la fronte
accaldata e le guancie lagrimose, e riaccompagnandola alfine ella stessa
in giardino.

Mirella le seguiva, lieve e silenziosa, come un serafino che camminasse
in sogno....

Infine non fu soltanto per consolare Chérie che Luisa ritrovò in quei
primi giorni d’esilio il suo sorriso. Anche in cuore a lei entrava,
timida ospite, la speranza.

V’erano notizie migliori dal Continente; tutta Europa era sorta in armi
e combatteva con loro e per loro. Già erano giunte le prime gloriose
nuove della battaglia della Marne. Poi, un giorno, arrivò un messaggio
da Florian!

Apparve nella colonna degli annunci sulla prima pagina del «Times»; e il
signor Whitaker stesso — seguìto solennemente dalla signora Whitaker, da
Eva e da Giorgio — volle portarlo disopra alle loro ospiti.

Nelle brevi righe di quell’annuncio Florian diceva di essere sano e
salvo, di aver veduto Claudio, che stava anch’egli bene. Dava un
indirizzo al quale li pregava di voler scrivere se fortuna volesse che
questo messaggio cadesse sotto i loro occhi.

Luisa e Chérie si abbracciarono, piangendo di gioia. Claudio e Florian
erano salvi! Salvi! E un giorno sarebbero venuti in Inghilterra a
prenderle. Forse, chissà! tra un mese o due la guerra sarebbe finita...

Da allora in poi tutte le notti Luisa sognò ad occhi aperti il ritorno
di Claudio. Si figurava il suo arrivo, il suono dei suoi passi sulla
ghiaia del giardino, la sua voce nell’atrio.... e poi — poi le sue forti
braccia intorno a lei — Ah! mio Dio! con un sussulto essa ricordava
Mirella!

Mirella!...

No — no! Con un grido Luisa si drizzava a sedere sul letto. No! No!
Mirella doveva guarire, guarire prima che Claudio la vedesse. Egli non
dovrebbe sapere mai ciò che era accaduto. Non bisognava dirgli nulla.
Nulla. — Mai.

Oppure?... Si doveva dire?...

Questo dubbio divenne un’ossessione, una tortura. Doveva essa dirgli
tutto — o tacere?

Perchè, perchè, l’avrebbe dovuto dire? Per spezzargli il cuore?...

E allora tornava all’angoscia di prima. No, bisognava tacere. Bisognava
far guarire Mirella, far guarire Mirella, prima che suo padre la
rivedesse! Sì, sì! Il Dio di misericordia la farebbe guarire!

Mirella ritroverebbe quella sua voce striduletta e cara, quel suo riso
acuto e gaio con cui sempre accoglieva il ritorno del babbo....

Il sorriso e la voce di Mirella! Dov’erano? Chi li teneva in serbo? Se
li erano presi i Santi del Paradiso? Ma che se ne facevano loro della
voce e del riso d’una povera bambinetta umana? E Luisa cadeva in
ginocchio cento volte al giorno, pregava Dio, la Vergine e i Santi che
rendessero a Mirella la sua voce e il suo sorriso.

Ah, Sant’Agnese certo l’avrebbe aiutata! o la piccola Santa Filomena —
martirizzate entrambe a tredici anni....

E Luisa pregò. Pregò piena di fede e di speranza, per molti giorni; e
poi pregò, piena d’angoscia e di disperazione, per molte settimane....
Poi, d’improvviso, non pregò più.

Da un giorno all’altro il suo viso si trasformò. Le morbide linee
parvero improvvisamente scolpite nella pietra.

Ora quando sedeva, sola faccia a faccia con Mirella, i loro occhi
s’incontravano ed avevano la stessa fissità tragica, lo stesso vacuo
stupore; però, mentre dallo sguardo della bambina era svanita
l’espressione di spavento, ecco il terrore era entrato negli occhi della
madre.

Una paura nuova, una ossessione nuova, teneva l’anima smarrita di Luisa.
E coll’alba d’ogni novella giornata ingigantiva quel dubbio, cresceva
quella certezza di sventura e d’orrore.

                                  ————

«Luisa! cara! Che cos’hai? Sei malata?» le chiese un giorno Chérie
notandone lo stanco atteggiamento ed il pallore mortale.

«No, cara, no,» disse Luisa. «Non ho nulla. E — _tu_?»

Ella fece questa domanda all’improvviso, volgendosi e figgendo le
pupille ardenti in viso alla fanciulla.

«Io?... Che strana idea! Perchè me lo domandi?»

«Ma rispondi! Ti senti bene?» insisteva Luisa. «Giorgio Whitaker.... mi
disse...» Luisa riusciva appena a parlare «... che l’altro giorno ti eri
sentita male.... che avevi avuto — non so — come uno svenimento...»

«Oh!» fece Chérie ridendo e scrollando le spalle. «Che stolto quel
ragazzo a venirtelo a dire! Ma se non è stato nulla!» E come Luisa la
fissava, stranamente, intensamente, ella spiegò: «Giorgio ed Eva
m’insegnavano a giocare al hockey... e tutt’a un tratto mi venne come un
abbaglio agli occhi.... uno stordimento — e caddi. Ma era niente, ti
assicuro, proprio niente. Mi avviene spesso di provare un po’ di
vertigine e di nausea.... Ma perchè diventi pallida? Se ti dico che non
è nulla! Sono un poco anemica, e nient’altro. Davvero, davvero!»
ripeteva ridendo, e abbracciando Luisa. «La prova migliore è che ho
sempre una fame da lupo!»

E ribaciò Luisa, e se ne corse via a passo di danza, a cercare quel
«Mister George» per sgridarlo d’aver raccontato delle storie.

Lo sguardo di Luisa la seguì — angosciato, profondo, scrutatore.



                                   X.


Il Reverendo Smyth aveva organizzato un concerto di beneficenza in
favore dei profughi ospitati dalle varie famiglie di Pinner. Il concerto
avrebbe luogo nel salone della scuola, l’ultima domenica di settembre.
Il ricavato sarebbe andato diviso tra i rifugiati belgi del vicinato, ai
quali furono pure mandati dei biglietti d’invito.

Le due prime file di posti erano riservate esclusivamente per loro.

Già da qualche settimana ferveva intensa l’agitazione tra i dilettanti
che avevano offerto il loro concorso. Miss Sophy Slepper, la vicina dei
Whitaker, doveva cantare «Goodbye» di Tosti e «Il Bacio» di Arditi; essa
passava le sue giornate in alterni gargarismi e gorgheggi; e sovente
l’ascoltatore non riusciva a distinguere quale delle due cose ella
stesse facendo.

Infine la gola le si irritò a tal segno che dovette rinunciare al
concerto; e il Comitato si recò a pregare Madame Mellon di cantare in
sua vece.

Madame Mellon, bruna, grassa ed amabile signora, dichiarò che era pronta
a qualunque cosa: e così sul programma al «Goodbye» e al «Bacio» venne
sostituita «la Habanera» della Carmen — ben noto pezzo di resistenza di
Madame Mellon.

Questa sguernì per l’occasione il suo più bel capello — modello parigino
— per averne la rosa di velluto rosso da mettere nei capelli.

«Ma come!» esclamò la povera Miss Slepper in un bisbiglio roco — ell’era
andata generosamente a trovare la sua rivale per sentire un po’ come
stava di gola — «Ma come! Avete forse idea di cantare la Carmen in
costume?!»

Madame Mellon, ampia ed equanime davanti allo specchio, inarcò le folte
sopracciglia «Ma... non precisamente,» disse provandosi la rosa prima
sulla tempia sinistra, e poi accanto all’orecchio destro, «non
precisamente in costume. Ma bisognerà pur dare, anche
nell’abbigliamento, quel tocco spagnolo... quel non so che di folle e di
felino che la romanza esige... Non vi pare, cara?»

Miss Slepper strinse le sottili labbra in un sorriso acidulo e beffardo.

«Ho fatto accorciare la mia veste di merletto nero,» continuò Madame
Mellon: «e vi ho aggiunto una nota di colore audace qua e là....»

E accennava all’esuberante petto e ai poderosi fianchi.

«Metterò una cintura scarlatta, con un nodo qui. Quanto a questa rosa
forse, come la Carmen di Merimée, la terrò fra i denti entrando. Sarà di
molto effetto. Avevo anche pensato,» soggiunse, «di avere in mano una
sigaretta accesa. Ma mio marito e il Reverendo Smyth me l’hanno
sconsigliato.»

    «_L’amor, sel sappia il mio bel damo_»

gorgheggiò giocosa nella ricca e pastosa voce di contralto. E la povera
Miss Slepper si sentì contrarre in gola per l’invidia le sue note
asprette di soprano, che le raschiavano l’ugola come tanti pezzetti di
vetro rotto....

Giorgio Whitaker doveva eseguire qualche gioco di prestigio che aveva
imparato in un libro intitolato: «La Magia in Famiglia.» Li aveva
eseguiti varie volte in casa con grande destrezza e successo; ma il
giorno del concerto sentì a un tratto mancargli la bella e balda
sicurezza di sè. Girava per la casa dicendo a tutti: «Ho idea che
stasera farò una figura barbina.» E nessuno aveva il tempo o la voglia
di contraddirlo.

Circa mezz’ora prima che si dovesse partire egli si trovò con Chérie
nell’atrio, aspettando gli altri che stavano ancora vestendosi.

Chérie indossava una veste prestatale da Eva, una veste di mussola
bianca con nastri celesti che Giorgio conosceva bene, e gli faceva
provare verso di lei un vago senso di fraterna tenerezza. Sua sorella e
sua madre erano ancora disopra a fare toletta, ed anche Luisa non era
ancora scesa, avendo dovuto mettere a letto Mirella e raccomandarla — in
un inglese più febbrile che corretto — alle cure di Mary, la cameriera.

«Farò una figura da perfetto imbecille,» ripetè Giorgio per la millesima
volta fissando con cupo sguardo Chérie. «Lo sento nelle ossa.»

«Ma no,» lo incoraggiò essa.

«Ma sì,» asserì Giorgio rabbiosamente. «Ho le mani umide e diaccie. Non
potrò far niente.»

«Peccato!» sospirò Chérie scotendo la vezzosa testa.

«Sentite... sentite un po’ che mani,» disse Giorgio stendendogliele
perchè essa le toccasse.

«Poveretto!» disse Chérie.

«Ma sentitele!» insistè Giorgio. «Sono gelide.»

E Chérie colla punta d’un dito gli toccò la mano.

«Gelide, davvero,» affermò con profonda commiserazione. E allora Giorgio
rise, e rise anche lei.

«Vi assicuro,» confessò il prestigiatore, «che sono nervoso;
straordinariamente nervoso. Ho anche il batticuore.»

«Possibile!» fece Chérie.

«Sì, sì, un terribile batticuore,» disse Giorgio; e sospirò
profondamente. «Ricordatevi che ve l’ho detto. Farò una figura barbina.»

                                  ————

La fece.

Il primo numero del programma era il suo; e quando egli apparve fu
salutato da applausi prolungati ed entusiastici. Ma appena la sala si fu
accomodata in un silenzio pieno d’aspettativa, il panico lo colse.

Svariate cose gli scapparono subito dalle maniche; oggetti inattesi che
non avrebbero dovuto ancora presentarsi gli facevano capolino dalle
tasche; quando voltava le spalle gli si vedeva la schiena gonfia di
oggetti nascosti; e per colmo di sventura delle bandierine apparvero e
si spiegarono di moto proprio molto prima del tempo, e in certe parti
della persona dove non è solito esporre bandiere.

Sua madre guardandolo, era tutta in un bagno di sudor freddo. Eva aveva
chiuso gli occhi e pregava il cielo che la finisse presto.

Ma non finiva. Quelle bandiere che avrebbero dovuto essere la chiusa
patriottica e trionfale della sua rappresentazione essendo apparse al
bel principio, pareva ora all’angosciato Giorgio che non vi fosse più
modo di finire. Tirò avanti, smarrito, colla gola arida, frugando qui,
abbrancando là, trovandosi nelle mani un cappello a cilindro, un
fazzoletto e un uovo, senza la più lontana idea di che cosa ne avrebbe
fatto.

Chérie da principio lo aveva seguìto con serietà ed attenzione, ma
quando egli, incontrando improvvisamente il suo sguardo, lasciò cadere
l’uovo — le parve di dover ridere o morire.

Quando poi una palla da tennis gli cadde dalla manica ed egli andò
carponi a cercarla sotto il pianoforte a coda, mentre la bandiera
britannica gli scendeva lentamente da sotto alla marsina e si svolgeva
solenne dietro a lui — Chérie si sentì mancare. E rise, rise nascondendo
la faccia tra le mani, rossa la fronte, rosso il collo, colle sottili
spalle sussultanti, mentre Luisa le dava bruscamente di gomito
susurrando: «Sta ferma!... Non ridere!... Non ridere, che ti guarda!»

Difatti Giorgio uscendo di sotto il pianoforte vide subito quella
figuretta scossa dalle risa in prima fila; e le mani gli divennero più
umide e la gola più secca.

Finalmente il Reverendo Smyth nelle quinte, per porre fine alla
prolungata angoscia di Giorgio e del pubblico, si diede ad applaudire
rumorosamente; e l’umiliato prestigiatore se ne andò rapidamente, mentre
dalla tasca posteriore della sua marsina sporgeva il capo, con occhio
curioso e perturbato, un coniglio.

Dietro le quinte il Reverendo tentò di confortarlo:

«Ma via! Non disperarti così. Non c’è poi stato tanto male!» disse
giovialmente battendogli sulle spalle. «Ti ha fatto confondere quella
scioccherella che rideva in prima fila!»

«Ma no; ma niente affatto!» dichiarò Giorgio asciugandosi il sudore. «E’
stato quel maledetto uovo.»

«Ah, già! l’uovo,» disse il Reverendo coprendosi la bocca col programma.

«E quando mai m’è venuta l’idea del coniglio! Si dimenava come un
ossesso, mi faceva un solletico insopportabile.... E’ stato lui che ha
fatto venir giù la bandiera —»

«Già. La bandiera,» mormorò il Reverendo.

«Basta,» disse l’infelice Giorgio; «bisognerà spiegare che ho fatto così
apposta. Che questo doveva essere un numero buffo....»

«Non occorre spiegarlo,» disse il crudele Reverendo.

Ma già cominciava il secondo numero. Madame Mellon era uscita sul
palcoscenico colla rosa in bocca e la mano sull’anca. Il suo gomito
rosso e possente appariva ignudo tra le brevi maniche e i guanti troppo
corti.

Madame Mellon ricordandosi di dover essere folle e felina volgeva in
giro gli occhi sfolgoranti d’appassionata vivacità spagnuola.

Al pianoforte il timido e miope signor Mellon, dopo molte aggiustature
dello sgabello scricchiolante, prese il suo posto e cominciò. Ma aveva
appena attaccato nervosamente le prime note delle battute
d’introduzione, che la «Habanera» irruppe turbolenta dal petto di Madame
Mellon. Con uno scoppio di voce ella informò l’uditorio che l’amore era
un misterioso augello....

Il signor Mellon, che aveva ancora da suonare tre battute
d’introduzione, si confuse, perse il segno, andò avanti un poco
brancolando mollemente tra gli accordi sbagliati — poi si fermò e volse
alla moglie un viso sbalordito.

Seguì una breve discussione a bassa voce, ciascuno rimproverando l’altro
d’aver sbagliato — ella chiedendogli perchè non andava avanti, e lui
spiegando che lei avrebbe dovuto aspettare ancora quattro battute.

Ricominciarono. E per la seconda volta Madame Mellon informò il suo
uditorio che l’amore è un misterioso augello.

Con impeto latino, con molto ansar del seno e fiammeggiar delle pupille,
ella dichiarò con selvaggia noncuranza:

    «_Se tu non m’ami — ebben io t’amo!_»

e le parole: «_E se mai t’amo dêi tremar per te!_» sembrarono acquistare
sulle sue labbra un significato di minaccia nuova e temibile.

E ancora una volta Chérie che aveva ascoltato seria e composta le prime
battute, fu presa da un accesso d’irrefrenabile ilarità, e dovette
nascondere il viso fra le mani, scossa da uno spasmodico accesso di
riso.

Luisa guardò Chérie; poi guardò Madame Mellon; ed ecco che lei pure fu
colta da una voglia di ridere quasi isterica. Le labbra serrate fra i
denti, le narici frementi, ella si tenne rigida e dritta, cogli occhi
fissi sul palcoscenico, ma le sue spalle susultavano, e le lagrime le
scorrevano pel viso.

Certo Madame Mellon vide quelle due colpevoli in prima fila; ma ne
distolse con disprezzo lo sguardo. Il suo canto si fece più forte, più
impetuoso e più stonato. Le sue note si libravano crescenti di un
semitono, in strida selvaggie sommergendo il timido accompagnamento del
povero signor Mellon che arpeggiava querulo tre battute dietro di lei.

Gli altri profughi accorgendosi che Chérie e Luisa ridevano si volsero a
guardarle; i ragazzi Pitou cominciarono a ridacchiare, ma furono
rapidamente ricondotti alla serietà da qualche ben assestato pizzicotto
materno.

Il numero che seguiva era una danza; una specie di danza di Salomé —
modificata e moderata per uso inglese — ed eseguita da Miss Tilly Prim.

Quando Miss Prim mise fuori dalle quinte pudicamente i piedi e le gambe
nude, e s’avanzò angolosa e arridente negli scarsi drappeggi, anche la
signora Pitou fu presa da un irrefrenabile parossismo di risa, e dovette
lasciare che i piccoli Pitou si torcessero dall’allegria, mentre ella
nascondeva il viso paonazzo nel fazzoletto. In breve tutti i profughi
furono presi dal contagio di un’insensata ilarità. Ogni gesto di Miss
Prim, ogni suo passo di danza, ogni suo sorriso svenevole e promettitore
evocava nuovi convulsivi accessi di risa. Ella danzava ignara e
passionale; mentre ogni sua piroetta, ogni salto che scoteva con sordo
tonfo il palcoscenico faceva ondeggiare dalle risa tutti gli occupanti
delle due prime file.

Quelli immediatamente dietro a loro se ne avvidero. Poi altri. Si
cominciò a sussurrare per la sala che i profughi ridevano.

In breve tutto l’uditorio allungò il collo per vedere questi indegni e
ingrati stranieri, a beneficio dei quali il concerto veniva dato, e che
stavano scioccamente ridendo come tanti mentecatti.

La inconsapevole Miss Prim stava appunto rialzandosi da un atteggiamento
di genuflessione, con un sorriso estatico e due macchie nere sulle
ginocchia, allorchè scorse il ragazzo Pitou che si torceva in silenziosa
allegria all’estremità della prima fila. Gli occhi di lei vagarono
allora lungo tutta la prima e la seconda fila, ed ella vide tutte quelle
faccie sconvolte dalle risa, tutti quegli atteggiamenti spasmodici e
quelle spalle in sussulto.

Lanciando su di loro una sguardo di sdegno ineffabile, ella rientrò
altezzosa, colle sue gambe nude, nelle quinte.

Il signor Mellon seguitò ad arpeggiare un pochino, trepido, sul
pianoforte, e poi egli pure si alzò e si affrettò a sparire dalla più
vicina uscita.

Dietro le scene gli artisti erano riuniti in un congresso
d’indignazione. Vi erano sul programma altri undici numeri, ma nessuno
voleva più prodursi.

Qualcuno propose che il Reverendo Smyth si presentasse e facesse un
discorso breve, ma tagliente; ed egli si avanzò infatti fino a metà del
proscenio, ma tornò indietro non avendo nulla di pronto da dire; ed
anche perchè la vista di quei profughi che si dimenavano nelle risa lo
sconvolse.

Quanto a loro, il vederlo apparire e sparire non servì certo ad
alleviare la loro condizione che ora rasentava l’isterismo collettivo.

Finalmente, dopo un rapido consulto dietro le quinte, la buona Miss
Johnson si lasciò persuadere a uscir fuori a cantare i «Pifferi di Pan.»

Ripassò in fretta mentalmente le parole:

    _«Torna il Dio Pan_
      _su questa terra in fiore..._

E poi il ritornello:

    _«Quale mai suon di giubilo_
      _Echeggia da lontan?_

    _«Ah! Sono i folli pifferi,_
      _I lieti, folli pifferi,_

    _«I folli allegri pifferi,_
      _I pifferi di Pan.»_

Intanto il signor Mellon, colla gola arida per il nervosismo e la paura
di quanto Madame Mellon potesse avere a dirgli a concerto terminato, era
andato a trangugiare un bicchiere di birra al buffet, nella sala di
ginnastica.

Quando Miss Johnson si presentò alla ribalta vide che il signor Mellon
non era al pianoforte per accompagnarla; lo attese qualche momento con
dignitosa calma; indi rientrò nelle quinte da una parte, al momento
stesso in cui il signor Mellon — asciugandosi la bocca — usciva
frettoloso dall’altra.

Allora ci volle del bello e del buono per placare Miss Johnson, e
persuaderla e spingerla fuori una seconda volta. E tutto ciò la confuse
tanto che dimenticò tutte le parole e dovette contentarsi di fare dei
suoni inarticolati finchè non arrivò al ritornello.

Qui si sentì salva.

    _«Ah! sono i polli fifferi...»_

cominciò. C’era o non c’era qualche cosa di sbagliato in quelle parole?

    _«I pieti polli fifferi —»_

Miss Johnson girò intorno gli occhi stralunati, che cosa stava cantando?

    _«I polli —»_

gridò disperata sul là diesis acuto.

E la voce le mancò per il resto.

«Misericordia!» mormorò la afona Miss Slepper alla signora Whitaker che
le sedeva vicino. «Che voce stridula!»

«Già,» assentì la signora Whitaker. «E che strana canzone! I polli
fifferi — che cosa saranno mai?»

                                  ————

Inutile negarlo. Il concerto era un fiasco.

L’esecrabile contegno dei profughi e il contagio del loro ridere
insensato aveva dato luogo ad una specie d’isterismo che si era
propagato per tutta la sala. L’intero uditorio aveva finito col cedere
ad una ilarità pazzesca e irrefrenabile.

Ogni numero del programma veniva accolto da risa soffocate, talvolta
addirittura da strilli di risa frenetiche dalla parte più giovane del
pubblico.

Il Reverendo — che anche lui a dire del signor Mellon era stato trovato
convulso ed esausto su di una panca in un’aula vuota della scuola —
fece, alla fine dello spettacolo un discorsetto breve ma caustico.

«Sarà colpa nostra e dei nostri troppo modesti talenti,» disse, «se non
abbiamo saputo che destare le facoltà risive dei nostri ospiti
forestieri... Ad ogni modo,» concluse, «ho il piacere di annunciare che
la somma raccolta è di lire sterline 16, sette scellini, e sei pence.»

I profughi se la svignarono umiliati e vergognosi; e per molto tempo
furono trattati come paria da tutta la contea di Surrey.

                                  ————

Quanto agli artisti, da quel funesto giorno in poi nessuno ha mai più
osato pronunciare la parola «concerto» in presenza di Madame Mellon, di
Miss Johnson o di Miss Prim.



                                  XI.


                          _Diario di Chérie._


Lulù è malata ed io sono molto in pensiero per lei. Ne sarà causa questo
clima inglese, perchè a dir vero anch’io non mi sento bene come mi
sentivo a Bomal. Provo spesso uno strano malessere, un indescrivibile
senso di languore; e talvolta ho delle vertigini in cui tutto sembra
turbinare intorno a me.

Poi per certe cose e certe persone provo una invincibile ed
irragionevole antipatia. A pranzo mi accade che quando Mary porta in
tavola delle vivande o dei dolci che nei primi giorni del mio arrivo qui
mi parevano eccellenti, provo un tale orrore che devo stringere i denti
e fare un grande sforzo per non alzarmi e fuggire dalla stanza.

Ma ciò che vi è di peggio è che anche verso le persone più care provo la
stessa inspiegabile avversione. C’è per esempio Giorgio Whitaker, così
gentile e buono.... ebbene, non so dire ciò che soffro quando egli mi si
avvicina. E’ come un brivido di terrore che mi percorre alla vista delle
sue spalle gagliarde, delle sue mani forti ed abbronzate, de’ suoi occhi
grigi che pure mi guardano con tanta bontà. Non so spiegarmi questo
senso di raccapriccio invincibile ed irragionevole.

Che le ansie ed angoscie patite nei mesi scorsi mi abbiano sconvolto il
cervello?...

Ma torniamo a Luisa. Vedendola da qualche giorno così pallida e smarrita
mi dicevo che certo stava in pena per Claudio, da cui non avevamo più
notizie. Ma ecco che l’altro giorno ci è giunta da lui una cara lettera,
allegra e rassicurante. Ebbene — da quel momento in poi Lulù sembra star
peggio di prima.

E’ vero ch’egli è stato ferito ma — come scrive egli stesso — c’è quasi
da rallegrarsene, poichè la ferita non è grave, e nell’Ospedale a
Dunkerque egli è lontano da pericoli maggiori.

E’ stato colpito al ginocchio e potrà forse rimanere zoppo. Ma — dice
lui — questo che cosa conta? Di salute, grazie al cielo, sta
perfettamente bene.

Naturalmente m’aspettavo che Lulù partisse subito per andarlo a trovare.
Era facile ottenere il permesso, e Claudio le ha anche mandato i denari
per il viaggio. Invece no; Luisa non ci pensa neppure. Anzi piange e si
dispera ogni volta che gliene parlo.

Di notte poi non dorme mai.

Siamo vicine di stanza e quando mi accade di svegliarmi nella notte, la
sento di là che piange, o che prega a bassa voce, o che cammina in su e
in giù.

Oggi le ho chiesto perchè, perchè non vuole andare a vedere il povero
Claudio? Ah! al suo posto, se sapessi dov’è Florian — chi mai mi
tratterrebbe dal raggiungerlo?...

Ma ella scuote il capo, e piange, e il suo viso è pieno di terrore.

Le ho chiesto se è a causa di Mirella che gliene manca il coraggio. «Hai
forse paura di dovergli dire che la povera piccina non parla più?»

«Sì, sì, sì,» singhiozza lei. «Ho paura, ho paura di dirgli ciò che è
accaduto per ridurla così.»

«Ma lo sa pure, cara,» insisto «che i nemici vennero a Bomal; lo sa pure
che saccheggiarono la nostra casa; che uccisero il vecchio parroco ed il
povero Andrea...»

«Sì, questo lo sa;» mi risponde Luisa cogli occhi stralunati fissi nei
miei. «Ma non sa —» E tace.

«Che cosa non sa?»

Ella mi trae a sè stringendomi convulsamente le braccia, e i suoi occhi
si sprofondano nei miei con un’insistenza di demente.

«Ma — Chérie! — Ma è possibile.... che tu abbia scordato?...»

Scordato? In verità ho scordato molte cose. Vi sono delle lacune nella
mia memoria, dei larghi spazi vuoti che, per quanto mi torturi il
cervello, non riesco a colmare. Tratto tratto un fugace ricordo, una
visione sconnessa mi balena innanzi come una folgore — ma subito tutto
si confonde, si cancella, svanisce.... Ed è come se una fitta nebbia
bianca mi calasse sullo spirito. Quando cerco di riafferrare ciò che ho
intraveduto, non esiste più. E più non ricordo ciò che ho ricordato.

«Dimmi, Luisa! dimmi — che cosa ho io scordato?»

Ma ella mi fissa con quegli occhi tragici, ossessionati, e susurra:

«Taci, taci, mia povera Chérie.» E mi posa la mano fredda sulle labbra
come se volesse chiudermele.

Ma io voglio, voglio ricordare. Voglio riordinare i miei pensieri e
scrivere in queste pagine tutto ciò che di quei giorni e di quelle notti
terribili mi è rimasto nella memoria.

Da un punto in poi ricordo tutto. Non so quando nè come fuggimmo da casa
nostra.... ma mi ritrovo con Luisa e Mirella nascosta nei boschi;
affamata, assetata, battendo i denti per la febbre e il terrore. Il mio
primo ricordo è di aver visto, attraverso gli alberi, il campanile della
nostra chiesa ardere come una torcia, e vacillare, e crollare in una
densa nube di fumo e di fiamme.... Eravamo appiattate in un fosso, coi
ginocchi nell’acqua, le teste chine sotto a un folto di rovi che ci
laceravano il viso e le mani — udivamo da lontano il furioso galoppo
degli ulani. Si avvicinavano.... si avvicinavano sempre più — finalmente
li scorgemmo tra il fogliame fermarsi a pochi passi da noi.

In un cespuglio poco discosto erano accovacciati i due bambini della
vedova Duroc, Carletto e Nino.

Ebbene noi vedemmo quei soldati — sì, li vedemmo e mi par di vederli
ancora! — stritolare col calcio dei loro fucili i piedini di quei miseri
bimbi, — beffeggiandoli poi, invitandoli con grossolane risate a
«scappare a casa!...» Finchè vivo non mi uscirà dagli occhi quella
visione: i due ragazzetti che si dibattevano strillando nella stretta di
quegli uomini che, tenendoli per le spalle, li forzavano a star ritti —
mentre due altri colpivano, pestavano quei piccoli piedi che si
affondavano sanguinanti nel terreno....

Da quel punto in poi ricordo tutto. Ma prima?... Prima?

Quella nebbia bianca mi riempie il cervello, ora si sposta un poco, ora
si solleva per un attimo.... poi torna ad avvolgere tutto in una
impenetrabile nebulosità.

Cosa vuol dire Luisa quando mi chiede se ho scordato? Voglio forzarmi,
forzarmi a ricordare.

Ritorniamo alla sera del mio compleanno: il quattro agosto. Vengono le
nostre amiche. Si canta e si balla.

    _«Sur le pont_
    _«D’Avignon_
    _«On y danse,_
    _«On y danse....»_

Poi arriva Florian. — E riparte.

Ecco! l’ultima cosa che chiaramente, luminosamente ricordo, è quella sua
partenza. Netto e preciso — come un alto-rilievo scolpito nel mio
cervello — io lo veggo ritto in sella laggiù in fondo alla strada. Si
volge, mi saluta colla mano....

Sparisce. Io resto sulla terrazza, sola. Riveggo ai miei piedi la fila
dei nostri vasi di garofani rossi; e le due piante di grandi margherite
che sembrano così stranamente bianche nella verdognola luce del
crepuscolo; sento ancora nell’aria il fine profumo dei garofani.

Io sono lì nella mia veste di velo bianco, e sulle spalle ho la sciarpa
di seta celeste regalatami quella mattina da Luisa.... Ma ecco la voce
gioconda di Mirella che mi chiama! Vengono tutte correndo a cercarmi —
Lucilla e Cricri, Verveine, Cecilia e Jeannette....

Poi, d’un tratto — _il cannone_! Ah, quel primo rombo lontano!...

Le ragazze sono fuggite pallide e tremanti alle loro case. E noi
restiamo sole, Luisa, Mirella ed io — sole, perchè Frida e Fritz —

Aspetta! Che cosa mi ricordo di Fritz? Che egli apre la porta al nemico
— ? no; non è quello. E’ un’altra cosa... una cosa che mi spaventa
ancora di più — ma non so che cosa sia. Mi pare di vedere Fritz che
ride....

E’ strano che sempre quando ricordo Fritz, lo vedo che ride. E’
appoggiato a una porta.... e c’è una tenda.... Già. Mi pare di vedere
una tenda rossa, strappata, che pende accanto a lui; ed egli ride, ride
rovesciando la testa all’indietro.... Perchè mai ride così? E’ di me che
ride? Perchè? Che cosa accade per farlo ridere di me?... Ecco! ecco la
nebbia bianca che scende e ingolfa Fritz. Non lo vedo più.... E’
svanito. Non mi riesce trattenerne l’imagine... tutto dilegua e
svanisce.

Ma — prima ancora di questo? Vediamo; devo pur ricordare altre cose
prima di questo! Torno indietro.

I cannoni tuonano, la casa trema, un gran fascio di fiamma s’alza nel
cielo.... Poi uno scroscio, un’esplosione — ed è come se il mondo
crollasse intorno a noi.

Ed ecco la casa si riempie di soldati; i nemici s’impadroniscono delle
nostre stanze — i loro cinturoni ingombrano le seggiole, i loro elmetti
sono buttati sul pianoforte.... Vi è fra di loro un giovane alto, cogli
occhi molto chiari....

Già. Un giovane alto, cogli occhi molto chiari....

Avanti, Chérie. Ricordati, ricordati!...

Questi uomini parlano con insolenza, ci ordinano di fare questo e
quello.

Luisa piange. Uno di loro è ferito — vedo il sangue sul cotone inumidito
che Luisa gli ravvolge intorno al braccio... e adesso — mio Dio! — torna
la confusione nella mia mente, scende quella nube bianca sul mio
cervello....

Santa Vergine, sollevatela! Toglietela! e fatemi ricordare!

Due di quegli uomini mi sono vicini, mi soffiano in viso il fumo delle
loro sigarette; vogliono ch’io beva nei loro bicchieri.... Io piango....
Non voglio. E loro mi forzano... minacciano non so che cosa... _Eins,
zwei, drei!_...

Gli occhi chiari dell’uno sono vicinissimi ai miei.... minacciosi,
impellenti.

Ho paura — e bevo.

Essi cantano, ridono, e uno di qua, uno di là mi fanno bere, e bere
ancora — dello champagne freddo e spumante, del cognac che brucia come
il fuoco — finchè mi vengono tali vertigini che sento il pavimento
ondeggiare sotto i miei piedi....

Piango e piango, e chiamo Luisa; ma ella non è più nella stanza.

Vedo Mirella appiattata in un angolo che mi fissa, bianca in viso,
terrorizzata.

«Mirella! Mirella!» le grido ed ella dà un balzo e si slancia verso di
me, strillando come una creatura impazzita; ma l’uomo dagli occhi chiari
l’afferra per i polsi e ride.

Quell’altro — uno degli altri, non so quanti siano — uno che aveva i
capelli rossi ed aveva declamato non so che cosa in tedesco, si sdraia
sul divano e s’addormenta.

Ma un altro ancora — ricordo che aveva una faccia tonda, ricordo che gli
altri lo insultavano ed imprecavano contro di lui — mi si avvicina e mi
susurra qualche cosa all’orecchio. Non ho paura di lui.... so che cerca
di aiutarmi. Ma mi sento così male, la testa mi gira a tal punto che non
capisco ciò che mi dice. Egli mi spinge verso l’uscio, e mi dice in
tedesco: «_Geh! Geh! Mach dass du fort kommst!_» E ancora mi spinge,
gridandomi: «Ma vattene dunque! Corri — la porta è aperta!»

Ma io mi volgo per vedere cosa fanno a Mirella.

La vedo che tiene in mano un bicchiere rotto e tenta colpirne in viso
l’ufficiale alto, mirando a quegli occhi chiari, quasi volesse
acciecarli. Egli ha un po’ di sangue sulla gota e sul mento, ma ride
ancora — ride. Ora si china e afferra la mia sciarpa celeste ch’è caduta
in terra; prende Mirella e colla sciarpa le lega le braccia dietro la
schiena, e l’avvolge, l’avvolge tutta finchè ella non può più
muoversi....

Poi.... Aspetta! — Aspetta! lasciate che ricordi!... poi prende una
delle cinture di cuoio rimaste sulla poltrona e con quella attacca la
bambina alla ringhiera — a quella breve ringhiera di ferro che conduce
al primo pianerottolo. Ecco, sì. — Lo vedo che la trascina e la solleva
su per quei quattro gradini; butta via con un calcio il vaso da fiori
cinese ch’è sull’ultimo scalino, per avvicinarsi meglio alla
ringhiera... e vi attacca colla cintura di cuoio la bambina... Ah! quel
piccolo viso folle che si volge verso di me! Ah, quelle braccia
legate!...

Sento ch’egli dice in tedesco — e ride, e ride — «_Da bleibst du... und
schaust zu!_» La ucciderà? Mio Dio! La ucciderà? No. Ripete ancora:
«Starai a vedere — starai a vedere!»

Che cosa vuol fare? Vuole uccidere me? Uccidermi sotto agli occhi della
bimba?...

Adesso mi si avvicina.... Ancora la nebbia bianca.... la nebbia bianca
mi cala sul cervello! Vedo l’altro ufficiale, quello che aveva tentato
di spingermi verso la porta — _Glotz!_ Sì! si chiamava Glotz! — ebbene,
lo vedo gettarglisi contro, afferrarlo per le braccia e cercare di
fermarlo, di trattenerlo lontano da me.... Allora mi slancio in soccorso
di Mirella, cerco di slegarla, di strapparla di lì, di liberarla.... Non
posso, non posso, non ho forza! E lei piange, piange.....

Glotz mi grida ancora in tedesco: «Va via! Va via!» e vedo che lotta
coll’altro per darmi il tempo di fuggire.

Allora fuggo. Salgo le scale inciampando e cadendo ad ogni scalino,
gridando: «Luisa! Luisa!» Arrivo, non so come, alla sua porta. E’
chiusa! E dentro odo dei rumori — il respiro affannoso d’un uomo e
parole rauche e concitate. Convulsa, soffocata da un indefinibile orrore
mi precipito verso la mia stanza. — Mi chiuderò dentro, aprirò le
finestre e chiamerò aiuto....

Sulla soglia di camera mia, con un sussulto mi fermo. Cos’è, cos’è che
giace là sul limitare? Una cosa informe, nera... in una pozza di sangue!
— Amour!

E’ Amour — morto! col cranio sfracellato.

Mentre lo sto a guardare odo dei passi che salgono correndo le scale. E’
lui — è quell’uomo dagli occhi chiari — che viene a cercarmi! Mi getto
innanzi alla cieca coi piedi che sdrucciolano nel sangue di Amour, e mi
nascondo dietro le tende dell’alcova dove sono appese le mie vesti.

L’uomo si ferma sulla soglia e guarda intorno. Vede il cane morto sul
limitare e con un’esclamazione di ribrezzo cerca di spingerlo in là col
piede. Dà un’occhiata in giro alla stanza; gli sembra vuota; allora si
volta e se ne va pel corridoio; lo sento aprire altre porte, battere col
pugno all’uscio di Luisa, donde una voce d’uomo gli risponde. Poi lo
sento correre su, all’ultimo piano, in cerca di me.

Striscio fuori dal mio nascondiglio, incespico in quella terribile cosa
che una volta era Amour, e scendo a precipizio giù per le scale e nel
salotto. Mirella è ancora lì, legata alla ringhiera, il suo viso è
rovesciato all’indietro, è livida, sembra una morta.

Ed è sola. — Non c’è che l’ufficiale dai capelli rossi che giace
addormentato sul divano. Mi viene un’idea! Attraverso la stanza, che mi
ondeggia sotto ai piedi come un mare, vado alla mensola dove Luisa ha
lasciato la fiala del sublimato, l’afferro, l’apro, mi riempio le mani
di quelle pastiglie rosse. — poi corro alla tavola.

C’è un calice ancora quasi colmo di champagne... vi lascio cadere le
pastiglie — poi mi volto perchè sento qualcuno scendere le scale.
Eccolo! E’ lui. E’ apparso in cima alla gradinata, accanto a Mirella. Mi
vede e ride.

«Ah! la colombella che voleva sfuggirmi!...»

Io gli sorrido, indietreggiando verso la parte della tavola dove ho
posato il bicchiere. Egli si passa la mano sulla fronte, sui capelli. Ha
il viso acceso: certo beverà ancora —

E si accosta barcollando a me, mi cinge con un braccio la vita —
coll’altra mano — sì!... sì!.... prende il bicchiere.

E ancora questo rivedo nella mia memoria, chiaro come se vi fosse
scolpito con un coltello: quell’uomo alto che mi sta a fianco, che mi
tiene stretta a sè — ed alza il calice di champagne alle labbra.
Trattengo il respiro. Beverà!

No! Si è arrestato, come impietrito e guarda dentro al bicchiere.

Il suo sguardo è fisso, senza espressione. Guarda in fondo al bicchiere
quella sostanza colorata da cui salgono e si svolgono delle lenti
spirali di colore, tingendo di rosa vivo il pallido vino ambrato.

Per un tempo che a me sembra un’ora, un’eternità, egli fissa così il
fondo del calice, poi quelle sue iridi chiare si volgono lentamente
verso di me. Ed è quella l’ultima cosa ch’io vedo.

Nel deliquio in cui piombo e m’affondo porto ancora con me il ricordo di
quegli occhi chiari, di quello sguardo fisso — odo vagamente lo scroscio
del bicchiere ch’egli getta lontano da sè.... poi sulle mie braccia è la
stretta delle sue mani ardenti.... E nulla più.

Odo Mirella che strilla e strilla.... mi dibatto disperatamente contro
le tenebre che m’avvolgono....

Poi, più nulla....

Più nulla.

                             .  .  .  .  .

La nube che grava sul mio cervello, fluttua, si dirada.... si risolleva.

E’ trascorso un istante?... Un’ora? Un’eternità?... L’ignoro! Sento che
qualcuno mi solleva.... mi trasporta....

Mi sento la testa violentemente rovesciata all’indietro, sento i capelli
tesi sulla mia fronte come se qualcuno me li strappasse....

Ed ora il mondo è pieno di orrori indefiniti, di tortura, di strazio
lacerante....

E ripiombo nel nulla.

Fritz?... E’ allora che lo vedo guardarmi, e ridere? Ritto, vicino a un
cortinaggio rosso, mi pare che parli con qualcuno, ma i suoi occhi non
si staccano da me, e ride.... ride....

Ancora una volta, l’incoscienza, come una caverna nera, m’inghiotte.

                                  ————

Mi ridesta la voce di Luisa. Pare che mi chiami, mi chiami da
lontano....

Poi quella voce si fa più forte... più vicina — ecco! grida il mio nome.
Ed apro gli occhi.

Sì, Luisa è china sopra di me. Mi solleva, mi ravvolge in uno scialle,
mi trae con sè... Dove andiamo? Non so. Luisa mi porta fuori di casa, e
via per un viottolo sassoso che conduce ai boschi.

Non è giorno e non è notte. Forse è l’alba.

Una sete terribile mi consuma, un malore indescrivibile mi dilania, e
sempre Luisa mi trascina avanti, e avanti ancora. Non posso andar oltre.
Appoggio la fronte al tronco d’un albero, e la sua rude corteccia mi
lacera tutto il viso quando sdrucciolo e cado a terra, abbattendomi
sull’erbe umide e sul musco.

Piango e mi lamento....

«Zitta! Per amor del cielo! non farti sentire!» E’ la voce di Luisa.
«Nasconditi,» susurra, «nasconditi. Giù!... giù!» E mi trascina dentro
un fosso umido, pieno di spini.

E’ allora che odo il galoppo di cavalli e un clamore di voci rudi e
gutturali. Mio Dio! Eccoli. S’avvicinano. Passano —

No — si sono fermati.

Hanno trovato i due ragazzetti della vedova Duroc nascosti nei cespugli.
Carletto che ha sei anni impugna il fucile di legno, e con riso spavaldo
fa il gesto di mirare.....

In un attimo tre o quattro uomini sono balzati di sella per punire i
ragazzi....

I ragazzi sono puniti.

                             .  .  .  .  .

Ripartono.... Ma il martirio di quei bambini ha richiamato alla mia
mente il ricordo di Mirella. «Mirella!» grido. «Cos’hanno fatto di
Mirella?»

«Zitta, zitta! Mirella è qui.»

«Mirella è qui? Ma come?... Non è morta? E allora chi — chi è morto?»

«Nessuno, nessuno è morto,» mi dice Luisa. «Calmati. Siamo tutte e tre
qui.»

«No — no — no! Qualcuno è morto. So che qualcuno è stato ucciso. Io lo
so. Chi è? Sono io! E’ forse Chérie che è morta?»

Le braccia di Luisa mi stringono, il suo viso è così vicino al mio che
sento le sue lagrime scorrere sulle mie guancie....

E per un’ultima volta la nebbia vaga e vellutata discende sul mio
spirito, cancella ogni ricordo ed ogni pensiero.

                             .  .  .  .  .

Quando mi sveglio sono a bordo di un battello in alto mare. Tutto
all’intorno l’acqua verdognola spumeggia e mugghia, s’innalza e si
sprofonda.

Tanta gente ci sta d’intorno; e sono tutti derelitti come noi. Guardano
il cielo e il mare con occhi di desolazione...

Da lungi biancheggiano le scogliere d’Inghilterra...



                                  XII.


                          _Diario di Chérie._


_2 Novembre — Giorno dei Morti._

E’ strano; eppure anche ora di quando in quando mi riprende quella idea
fissa — l’idea che in quella notte sia morto qualcuno.

E — cosa più strana ancora — non mi riesce di liberarmi dal pensiero che
sono io, io stessa che fui uccisa; io, Chérie, che non esisto più.

Non posso descrivere questa sensazione. Sarà certo una forma di
debolezza cerebrale, di aberrazione provocata dalla scossa morale che
abbiamo sofferto. E’ quello che il buon dottore inglese — chiamato a
vederci tutt’e tre, ma specialmente per tentare di guarire Mirella —
chiama «trauma psichico». Egli dice che Mirella soffre di trauma
psichico: vuoi dire che la sua anima è stata ferita.

Ebbene io, talvolta, provo la sensazione che l’anima mia non solo sia
stata ferita, ma uccisa, assassinata mentre ero svenuta in quella notte
di terrore.

Mi pare che non sia io — non la vera Chérie, ma un fantasma, uno spettro
che mi assomiglia e porta il mio nome — colei che passeggia per questi
placidi parchi inglesi, che parla e sorride, che bacia e conforta Luisa,
che prega per Claudio e per Florian.

Florian!... Florian! Dove sei? Che forse anche tu sia morto? Che questo
senso d’annientamento, d’irrealità in me, non sia che un presagio, un
avvertimento della tua vera morte?

Ah! mio diletto dagli occhi azzurri, mio gaio e temerario eroe, sei tu
forse già fuori della vita? Se io pur andassi peregrinando per tutta la
terra non ti troverei forse mai più?

Ah! fossimo anche noi raccolte sotto l’ala quieta e sicura della Morte —
Luisa ed io e la povera Mirella; tutte e tre stese nel buio e nel
silenzio con gli occhi chiusi e le calme mani incrociate....

Tante volte lo penso. Che dolce cosa sarebbe se potessimo tutt’e tre
fuggir via — fuori dell’esistenza, come riuscimmo a fuggire dal bosco in
quella notte! Se potessimo silenziosamente sparire dalla vita, sfuggendo
ai lunghi giorni e alle notti paurose; alle estati infocate e agli
squallidi inverni; alla giovinezza febbrile e alla vecchiaia desolata;
sfuggire all’esilio e alla nostalgia, alla fame e alla sete, all’amore e
all’odio!... Ah! dolce giacere in pace sotto gli alberi ondeggianti del
piccolo cimitero di Bomal, col cuore tranquillo e gli occhi chiusi. E
accanto a noi, come una marmorea statua di giovane guerriero, Florian —
Florian quale io l’ho conosciuto e amato, Florian, bello, fiero e
fedele!

.... Ma Claudio? che cosa farebbe solo nel mondo il povero Claudio?

Claudio tornerà zoppicando dalla guerra, o troverà devastata la sua
casa, troverà sua moglie che trema di lui, e la sua bambina che non può
più parlargli, e sua sorella che, pur essendo viva, sente d’essere stata
uccisa nel sonno.... Ah, povero Claudio! Meglio, forse, se non tornasse.


Oggi è venuto di nuovo il dottor Reynolds. E’ stata Luisa a mandarlo a
chiamare; poi, quand’è venuto, non ha voluto vederlo. Si è chiusa nella
sua camera e nessuno ha potuto persuaderla a scendere.

Così ho dovuto condurre io la piccola Mirella nel salotto dove egli
colla signora Whitaker ci aspettava.

Parlavano insieme con una certa animazione quando ho picchiato alla
porta; certo ho sentito la voce della signora Whitaker che parlava
concitata. Ma appena siamo entrate ella non ha più detto nulla. Ho
notato però che mi guardava da capo a piedi in un modo molto strano.
Allora m’è spiaciuto d’avere indosso la vecchia veste nera di Luisa,
invece del bel costume nuovo che questa buona gente mi ha fatto fare un
mese fa. E’ un bel vestito, ma — non so come mai — non mi riesce più di
agganciarlo, tanto m’è stretto al collo e alla cintura!

E a questo proposito ricordo una cosa. Quando la signora Whitaker
l’altro giorno disse che desiderava mi visitasse il dottore, io risi e
l’assicurai che dovevo avere ben poco male dal momento che ingrassavo
tanto. Lei però non rise; anzi mi guardò fissa senza rispondere, con
un’aria strana.

Certo c’è qualche cosa di nuovo, di curioso nell’atmosfera di questa
casa. Non so che cosa sia. Tutti sono silenziosi, un po’ freddi; direi
quasi che sembrano impacciati quando ci parlano. Certo sono assai meno
cordiali d’una volta. Eva, non si sa il perchè, è stata mandata via; già
da due settimane si trova a Hastings in casa d’amici. Giorgio, che fa il
corso d’allievo ufficiale a Aldershot, viene a casa ogni sabato e resta
fino a lunedì. Ma non ci rivolge quasi mai la parola. Lo vedo girellare
davanti alla casa o vagare malinconico per il giardino — quel triste
giardino tutto sgocciolante di pioggia — sferzando collo scudiscio
l’erba molle e le piante sfiorite. Sovente egli si volge a guardar su
alla mia finestra, e si direbbe che voglia parlarmi; ma se io al
davanzale lo saluto con un cenno del capo, o gli sorrido, egli mi fissa
un momento serio serio, e poi s’allontana. Ho come un’idea che sua madre
gli abbia vietato di parlare con noi. Un giorno egli aveva chiesto a
Luisa e a me di leggere del francese con lui, e ne eravamo assai
contente. Ma subito sua madre lo chiamò e gli parlò a lungo. D’allora in
poi egli non è più tornato nel nostro salottino.

Chissà! saranno probabilmente stanchi di averci per casa. Non c’è da
farsene meraviglia. Siamo delle creature così tristi e dolenti! E poi,
abbiamo tutte qualche infermità. Io stessa, se non ingrassassi a questo
modo, penserei che vado tisica tanto mi sento debole, affranta e
svogliata. Ho orrore del cibo, ed ho dei dolori lancinanti al petto.
Già, sono anemica; questo lo so. Tuttavia non ho tosse. Quindi speriamo
che non sia nulla di grave.

Oggi, dunque, quando siamo entrati in salotto il buon dottore ha preso
il polso di Mirella e le ha parlato con dolcezza. Ma frattanto non
staccava gli occhi da me; ed anche la signora Whitaker mi guardava.

Poi il dottore mi ha fatto varie domande; e mentre gli dicevo tutto ciò
che mi sentivo, lui tossicchiava e diceva: «Uhm... Già... Sicuro.»

Finalmente ho visto che dava un’occhiata alla signora Whitaker; questa
si è alzata subito ed è uscita conducendo via Mirella.

Rimasto solo con me, il dottore mi ha fatto cenno d’accostarmi, poi mi
ha preso con molta dolcezza la mano.

«Mia povera figliola,» disse, «avete qualche cosa da confidarmi, non è
vero?»

Lo guardai spaventata e perplessa. «Perchè, perchè dice questo?»

Egli non rispose ed io m’impressionai più ancora. «Sono molto malata,
dottore? Sto forse per morire?»

«Ma no, ma perchè dovreste morire?» disse lui. «Non si muore —» poi
s’interruppe e tacque.

«Ma cosa c’è? Si tratta forse di Mirella? Ha qualche cosa di grave
Mirella?» chiesi tremando.

«Ora parliamo di voi, non di Mirella,» ribattè il dottore è la sua voce
mi parve quasi severa. E aspettò un poco ch’io parlassi, ma io non
sapevo che cosa dire. Finalmente dopo aver tossito con aria impacciata
riprese: «Mia povera, cara figliola. Io sono vecchio.... sono padre....»
E di nuovo s’interruppe come se stentasse ad esprimersi. «Conosco tutte
le miserie e tutte le tristezze della vita. Potete confidarvi in me.»

«Oh! grazie!» risposi. «Lo so. Lo credo.»

Vi fu un altro lungo silenzio. Pareva sempre ch’egli aspettasse.

Infine si alzò e il suo volto mi parve singolarmente freddo e austero.

«Forse preferite parlare colla signora Whitaker?...»

«Ma no, ma perchè?» feci io trasognata.

Ed eccolo di nuovo a fissarmi con quell’aria d’aspettativa, mentre io
guardavo lui, attonita e imbambolata.

A un tratto prese i guanti e il cappello. «Ebbene, signorina, io non
posso forzare le vostre confidenze. Seguite la vostra strada a modo
vostro.» E uscì dalla stanza.

Io restai di sasso. Che confidenze dovevo fargli? Che strada dovevo
seguire a modo mio? E perchè — perchè sembrava in collera con me?

Nell’aprire la porta per tornare alla mia camera, lo udii che parlava
nell’atrio colla signora Whitaker. «Pur troppo sono sicuro di non
sbagliare» diceva; «ma non c’è modo di farla entrare nell’argomento.»

Non capisco nulla. In quale strano mondo di sogni viviamo?

                                  ————

_Più tardi._

E’ chiaro che tutti si aspettano che io dica qualche cosa. Io non so che
cosa. La signora Whitaker mi guarda sempre con un’aria di attesa; e non
lei sola: ciò che vi è di più strano è che anche Lulù ha l’aria di
aspettare non so che cosa da me. Vi sono talvolta dei lunghi silenzi tra
di noi, e quando alzo gli occhi la vedo che mi guarda con una strana
fissità, una specie di intensa, inquieta attesa di cui non riesco ad
afferrare il significato.

                                  ————

_Notte tarda_.

Ed ecco la incomprensibile fine ad una giornata incomprensibile. La
signora Whitaker poco fa è entrata in camera mia; non aveva bussato, ed
io stavo in ginocchio a dire le mie preghiere; e piangevo.

Allora, con un gesto impulsivo di bontà e di tenerezza, mi ha presa tra
le braccia. «Povera, povera bambina!» disse, e mi baciò. Poi, quasi
facesse eco a ciò che aveva detto quest’oggi il dottore, soggiunse:
«Chérie, io capisco tutto. Io sono mamma.....» S’interruppe commossa. «E
tu non devi credermi severa e fredda come a volte voglio sembrare.»

Aveva le lacrime agli occhi; io le afferrai la mano e gliela baciai.
Ella allora sedette e mi trasse a sedere su di uno sgabello vicino a
lei.

«Dimmi, dimmi tutto, cara. Io comprenderò tutto.»

Allora le ho detto tutto. Le ho detto come sto in pena per Luisa e per
Mirella; le ho detto di Claudio all’ospedale....

«Sì, sì, questo lo so,» disse lei con un’ombra d’impazienza negli occhi.
«Prosegui.»

Allora le ho parlato anche di Florian. Ho detto quanto era buono e
bello, e che eravamo fidanzati. E piansi amaramente narrandole la mia
paura ch’egli possa essere morto.

Ella mi sollevò il viso tra le mani e mi guardò profondamente negli
occhi.

«E’ stato lui?» chiese.

Io non compresi ed ella ripetè la sua domanda.

«E’ stato lui —» esitava come cercando l’espressione — «è stato lui a
farti torto?»

«Torto? Perchè?» domandai. Ella mi guardava fisso negli occhi ed anch’io
la guardavo cercando di comprendere cosa intendesse dire.

«Ti ha ingannata?»

«Ingannarmi, lui? Oh, no!» esclamai..«Florian non inganna. Egli è leale
e fedele come un santo!»

Ero quasi sdegnata ch’ella avesse potuto farmi una simile domanda.
Florian che non ha mai guardato, non ha mai pensato ad altra donna che a
me! Ingannarmi!

«Basta,» diss’ella levandosi improvvisamente, e la sua espressione di
dignità un po’ fredda mi ricordò di nuovo il contegno del dottor
Reynolds. «Se fosse stato l’oltraggio del nemico sono certa che me
l’avreste detto. Non insisterò più oltre. Questo solo vi dirò — che
mentre avrei potuto compiangere la sventura, non so perdonare la
mancanza di sincerità.»

E mi lasciò.

Io mi domando se sono io che sogno, o se la gente in questo paese è
incomprensibile e pazzesca?



                                 XIII.


Luisa guardò in faccia la sua sventura — e tremò. Non vi era più dubbio,
non vi era più speranza. Novembre! Il terzo mese era passato. Ciò
ch’ella aveva temuto più della morte, avveniva. L’oltraggio subito si
perpetuava in lei. L’onta si era fatta eterna, la violenza si era fatta
umana. Il delitto viveva — viveva! e le pulsava in seno.

Nel cuor della notte ella si levò a sedere nel letto. La realtà orribile
l’aveva colpita come una percossa al cuore.

Rimase così al buio, coi denti serrati, le mani premute alle tempia; poi
scivolò dal letto e stette immobile in mezzo alla stanza. Tutta la casa
dormiva. Ella era sola, sola col suo orrore e la sua disperazione.

Come poteva sottrarsi all’orribile cosa che portava in sè? Come sfuggire
a sè stessa?

Accese la luce e andò con rapidi passi allo specchio. E si guardò.

Si guardò a lungo facendo cenno di sì col capo, come una mentecatta; e
la sua imagine riflessa, lunga e bianca nella camicia da notte, le
faceva cenno di sì. Era vero. Ecco, ella ne riconosceva tutti i noti
segni: quei lineamenti stirati, quegli occhi stanchi ed irrequieti,
quella faccia che sembrava già troppo piccola in confronto al corpo —
tutto tutto quell’aspetto spaurito, dolente — era la maternità! La
maternità. Ciò ch’ella e Claudio avevano tanto desiderato, tanto
sospirato — un altro figlio — ecco, ora le veniva concesso. La natura
accordava alla violenza ciò che aveva negato all’amore.
Nell’esasperazione della tortura, nel parossismo dell’odio, la materia
aveva risposto e fiorito.

Coi denti stretti, coi pugni chiusi ella guardava quell’imagine,
guardava quel suo fragile corpo in cui si compiva l’eterno mistero della
vita.

Notava la subdola preparazione della sua muliebrità per l’adempimento
della sua missione: la curva già più marcata delle sue forme, e la trama
delicata delle cerulee vene sul candor latteo del collo e del petto.

Con un gemito di creatura ferita ella nascose il volto tra le mani.

Mia Dio! Che cosa fare? Che cosa fare? Come in un baleno ella rivide la
faccia convulsa, ubbriaca del nemico china sopra di lei... E con un
grido che destò di soprassalto Chérie nella camera attigua, Luisa cadde
a ginocchi presso il letto.

Liberarsene, liberarsene!... o morire!

                                  ————

Allora cominciò per Luisa la disperata corsa alla liberazione, la
straziante ossessione dei tentativi di scampo.

Si levava ogni giorno all’alba e camminava per ore ed ore, noncurante
dell’intemperie, affannandosi per aspre salite e ripide discese,
correndo per affaticarsi e stremarsi; finchè madida di sudore, esausta,
si abbatteva affranta...

A nulla giovò. Allora si decise di andare a Londra. Inventò ogni sorta
di scuse per andarci sola; e in quell’enorme, crudele deserto di strade
ignote, di folla ignota ella vagò in cerca di oscure farmacie. Tornava
portandosi a casa delle medicine venefiche, delle bevande pericolose che
le davano crampi e convulsioni, che la lasciavano malata, esausta, colla
bocca amara e il viso spettrale.

Tutto era vano. La natura proseguiva inesorabile il suo corso.

Allora si decise di chiedere aiuto alle donne che sui giornali
promettevano assistenza; e andò tremante ad esporre a loro il suo caso.

Ma esse non la conoscevano; era straniera e probabilmente senza danaro.
Nessuno volle ascoltarla, nessuno volle soccorrerla.

Finalmente Luisa si decise a consultare un medico. Il primo a cui si
rivolse era un giovane svizzero, rigido, onesto e rude. Egli minacciò di
denunciarla al suo Consolato, e la mise alla porta.

Allora ricorse a un dottore francese di cui qualcuno le aveva detto che
era amabile e cortese. Difatti egli l’ascoltò, benevolo, se pure con un
sorrisetto non scevro di malizia.

Già!... Ve n’erano molti di questi casi dolorosi.... Era quasi difficile
credere che fossero tutti genuini!... Andiamo, andiamo! Si trattava qui
veramente della violenza dell’odiato nemico?... O non era forse
responsabile qualche _bon ami_? Qualche affascinante «Tommy» od
ufficialetto inglese? Suvvia, era troppo naturale — e il dottore le
prese la mano — quando si era _ravissante_ come lei, con quelle guancie
infocate e quegli occhi ardenti.... Ah! con quegli occhi si ha _le
diable au corps, n’est-ce-pas_?

Luisa, comprendendo, era balzata in piedi fremente di disgusto e d’ira.
Allora egli cambiò tono e l’avvertì che se osava ripresentarsi a lui
l’avrebbe denunciata alle autorità.

Col coraggio della disperazione Luisa andò da varî dottori inglesi; e
quando si trovò davanti a loro non osò dire quello che desiderava. Essi
le ordinarono dei calmanti e dei ricostituenti. Se mai ella osava
narrare loro la sua storia, o non la credevano, o scotevano
malinconicamente il capo raccontandole a loro volta dei casi che avevano
conosciuti simili al suo, od altre storie di barbare atrocità. Luisa
doveva interessarsi al fato dei bambini di Visè cui erano state mozzate
le mani; doveva commuoversi per il soldato di Hertfordshire cui avevano
strappato gli occhi.... Poi pagava cinque scellini (se era un medico
della City) o due lire sterline (se era un medico di Harley Street) e se
ne tornava a casa con una ricetta di sedativi e tonici.

Allora Luisa decise che bisognava morire. Non vi era rimedio, bisognava
morire. Aveva paura della morte. Si sentiva legata alla vita da un
duplice istinto, il suo e quello della creatura che viveva in lei. Ah!
come tenacemente si aggrappava quell’essere alla vita! Non voleva
morire, quell’immonda creatura — no! non voleva morire e liberarla. Si
attaccava con tutte le fibre alla sua esecrata esistenza.

Ben sapeva Luisa che cosa sarebbe accaduto se portava fino al termine
questo suo martirio! Sveglia, ogni notte, ella si figurava ciò che
nascerebbe da lei, immaginava vivente questo essere concepito nell’odio
e nell’orrore. E lo vedeva un mostro, una cosa informe e demoniaca, una
cosa fantastica e terrorizzante che a guardarlo agghiaccia il sangue!...
Tale sarebbe la creatura che nascerebbe da lei, ch’ella dovrebbe
carezzare e nutrire, — e recare tra le braccia andando incontro a suo
marito quand’egli tornava zoppicante dalla guerra!...

Ossessionata e pazza, ella si figurava quell’incontro in mille modi —
tutti terribili, tutti indicibilmente spaventosi.

Vedeva Claudio venirle incontro sulle sue grucce, fissarla incredulo
senza capire.... Vedeva Claudio che impazziva.... Claudio che alzava la
gruccia e sfracellava il cranio della creatura immonda, come era stato
sfracellato il cranio di Amour.... _Amour!_ Ah! quel terribile Amour
ch’ella aveva veduto morto in quell’alba nefasta...

E Luisa tentennava la testa o parlava tra sè e sè. Già... già! fu
quella, quella la prima cosa che videro i suoi occhi quando uscì
barcollando dalla camera dove l’oltraggio si era compiuto! E la
spaventosa visione la perseguitava ancora: bastava che chiudesse gli
occhi per vedere Amour — un ammasso nero e sanguinante, col cervello che
gli schizzava dal cranio — Ah, mio Dio! E se questa visione orrenda
l’avesse a tal punto impressionata che il bambino...? Silenzio! Questa
era la pazzia; ella si sentiva impazzire.

Dunque bisognava morire.

Morire? Come morire? E quando fosse morta che cosa ne sarebbe di Mirella
e di Chérie?

Chérie! All’idea di Chérie un nuovo torrente di pensieri invase il
cervello vaneggiante di Luisa. Chérie! Che cosa aveva Chérie?

Non aveva essa pure quell’espressione irrequieta e strana, quei
lineamenti stirati, quel viso ansioso e troppo piccolo in proporzione
del corpo? Era possibile — era possibile che la mala sorte avesse
colpita anche lei?

Allora Luisa si sforzò di ricordare, di ricordare quegli eventi di cui
pure avrebbe pagato colla vita l’oblio. Cogli occhi chiusi, le membra
scosse da brividi, ella impose a sè stessa di rivivere le ore più fosche
della sua vita....

L’alba del cinque agosto.

.... La casa vuota, silenziosa. Gli invasori sono partiti.

Luisa, uno spettro livido nel grigio pallore dell’aurora, esce
barcollando dalla sua camera... passa con un sussulto davanti ad Amour
sulla soglia della camera di Chérie.... Poi scende vacillando le scale.

Ed ecco, accasciata ai piedi della ringhiera di ferro — Mirella! Mirella
ancora colle braccia legate, colla piccola bocca aperta, ansando breve,
a tratti, come un uccellino che sta per morire...

Luisa la solleva, slega e scioglie la sciarpa che la stringe, le spruzza
dell’acqua sul viso.... e Mirella apre gli occhi.

Ma quelli non sono gli occhi di Mirella! Vi è delirio e frenesia in
quelle pallide iridi che si volgono lente intorno alla stanza, che
vagano indecise e che d’un tratto si fermano su un punto, folli,
intente.

Che cosa mai guardano con quell’espressione di indicibile terrore?

La madre segue quello sguardo e vede una porta — la porta drappeggiata
da una tenda rossa che dà in una camera da letto. E’ questa una camera
poco usata dove talvolta un ospite o un paziente di Claudio ha dormito.
Ed è su questa porta che lo sguardo allucinato di Mirella si fissa. E’
aperta la porta; la tenda rossa pende strappata....

Luisa guarda — poi guarda ancora; e non si muove. La luce elettrica là
dentro è ancora accesa, una seggiola è rovesciata sul limitare, e là, là
sul letto giace qualcuno.... E’ Chérie! Chérie nel suo vestito di velo
bianco — Luisa vede che è tutto lacero e macchiato di sangue — Chérie,
colle braccia alzate e le mani legate alla sbarra del capo-letto. Il
largo nastro rosa le è stato strappato dai capelli per legarle così le
mani sopra al capo. Ha la faccia graffiata e sanguinante. E’ immobile.
Sembra morta.

... Ah! come trovò Luisa la forza di sollevarla, di richiamarla alla
vita, piangendo su lei e su Mirella, correndo disperata, folle, dall’una
all’altra delle due creature?

Le aveva vestite, inviluppate di scialli. Era riuscita, ora
trascinandole, ora portandole, a scendere con loro le scale, a trarle
fuori — fuori da quella casa profanata!

Che cosa fare? Doveva chiamare aiuto? Doveva andare gridando la loro
vergogna e la loro disperazione per le vie del villaggio?

No, no, no! Che nessuno le veda, che nessuno sappia mai ciò che è
accaduto a loro.

.... Ma che rumore era questo — questo galoppo di cavalli per le vie
deserte del villaggio? Ah! sono loro, sono gli ulani!... bisogna
fuggire! fuggire!

Gemendo, barcollando, incespicando, ella sollevò, portò quelle due
creature inconscie per il viottolo sassoso che conduce ai boschi....

                                  ————

E quivi, la mattina seguente, una pattuglia di soldati belgi le trovò.



                                  XIV.


Il Ministro episcopale di Maylands, il reverendo Ambrogio Yule, era nel
suo studio intento a scrivere l’articolo mensile per la «Northern
Ecclesiastical Review.» Il soggetto lo interessava: «Le Nostre Domeniche
Peccaminose.» Pensieri e parole gli scorrevano facili; condannava con
focosa penna le conversazioni frivole, l’assenza dalla chiesa, la
frequentazione dei cinematografi e, in generale, il contegno festivo
deplorevole dell’anglosassone gioventù.

Scriveva rapido e fluente nella bella calligrafia nitida di cui assai si
compiaceva.

Un bussar lieve alla porta l’interruppe.

«Cosa c’è?» chiese, non senza un’ombra di impazienza.

«C’è una signora che desidera parlarle,» disse Parrot, la cameriera,
affacciata all’uscio.

«Una signora? Chi è? Tutti dovrebbero sapere che oggi non ricevo.»

«Scusi, signore. E’ una di quelle persone forestiere che stanno in casa
della signora Whitaker.»

«Ah, va bene. Fatela entrare in salotto ed avvertite la vostra padrona.»

«Scusi, signore,» insistette timidamente la cameriera, «questa signora
ha chiesto proprio di Lei. Ha detto che desiderava» — un lieve sorriso
balenò sull’amabile volto di Parrot mentre citava l’inglese esotico
della straniera — «che desiderava parlare al Signor Ecclesiastico in
persona.»

«Va bene,» sospirò rassegnato il Vicario. «Fatela entrare.»

Collocò un ferma-carte sulle sue cartelle, si alzò e andò al caminetto;
ivi in piedi colle spalle al fuoco attese la sua visitatrice.

Questa entrò — una figura alta, vestita di nero — e fissò sul Vicario
due pupille di fuoco e di velluto, risplendenti in un viso pallidissimo.

«Signora, vogliate accomodarvi,» disse il Reverendo. «In che cosa vi
posso servire?»

«Perdoni ...» balbettò la straniera, sommesso, «posso parlarvi in
francese?»

«_Mais certainement, Madame_,» fece il cortese prelato che, venti o
trent’anni prima, aveva studiato _sur place_ con benevola attenzione le
domeniche peccaminose del Continente.

La signora sedette e tacque. Portava dei guanti di filo nero e stringeva
nervosamente tra le mani un fazzoletto, girandolo e rigirandolo fino a
ridurlo una pallottola sgualcita. L’amabile ministro protestante, col
capo leggermente piegato sull’omero, attese che parlasse. Ma poichè
perdurava il silenzio si decise a chiederle in francese:

«Ella sta qui a Maylands? In casa della signora Whitaker, se non erro?
Mi pare di averla incontrata talvolta con due giovanette....»

«Sì; mia figlia e mia cognata.» La donna parlava così piano ch’egli
dovette piegarsi in avanti per afferrarne le parole.

«Già, già, perfettamente.» Il vicario riunì insieme le punte delle dita,
poi le scostò, poi le picchiettò lievemente insieme aspettando ulteriori
schiarimenti. Ma la signora taceva ed egli si decise ad interrogarla.

«Posso chiederle il suo nome?»

«Luisa Brandès.»

«Ah, perfettamente. Già.» Un altro silenzio. «E.... il di Lei consorte?»
Il viso del Reverendo già si atteggiava ad un’espressione di
condoglianza.

«E’ in un ospedale a Dunkerk — ferito.»

Il Vicario scosse la bella testa grigia. «Triste, triste, invero,»
mormorò. «Ed Ella desidera probabilmente che io l’assista ad andarlo a
trovare?»

«No!» La parola uscì quasi come un grido dalle labbra della donna, ed
improvvise lagrime le soffusero gli occhi, le scesero per le guancie e
le caddero sulle mani giunte — quelle povere mani inguantate di nero.

«E allora?...» interrogò il Ministro colla testa ancora più inclinata
sull’omero.

Luisa sollevò le nere ciglia e fissò lo sguardo angosciato su quella
bella faccia benigna che le stava dinanzi; vide quella fronte blanda e
benevola, quelle labbra sottili e strette, e le mani bellissime — il
Vicario sapeva di avere le mani bellissime — colla punta delle dieci
dita leggermente unite. E Luisa sentì nell’animo la certezza che se
avesse domandato a costui pietà, protezione o denaro — tutto ciò le
sarebbe accordato. Ma sentì pure che ciò ch’ella stava per implorare da
lui avrebbe incontrato una inesorabile ripulsa. Tuttavia non potè, nè
volle indietreggiare. Ella ripetè a sè stessa che questo sarebbe stato
l’ultimo passo, l’ultimo sforzo che avrebbe tentato per ottenere
soccorso. Non era egli il sacerdote, il rappresentante del divino Potere
e della divina Pietà?

Con un singulto si fece il segno della croce, cadde in ginocchio davanti
a lui e gli afferrò la mano. «_Mon Père_...» balbettò — non altrimenti
soleva ella rivolgersi al vecchio curato di Bomal, trucidato in quella
notte indimenticabile — «ah! mon Père —»

Il prete inglese e protestante ritrasse bruscamente la mano da quella
stretta.

«Vi prego, signora, di non parlarmi così. Vi prego inoltre di rialzarvi
e di mettervi a sedere.» E tra sè e sè sospirò: «Ahimè! Come sono
melodrammatiche queste razze latine! Povera donna! Come se tutta questa
teatralità fosse necessaria per venire a chiedermi qualche sterlina, o
per annunciarmi che non va d’accordo con quella buona e irascibile
signora Whitaker!»

Luisa, fattasi prima rossa e poi pallida si era prontamente rialzata.
«Perdonate...» mormorò, profondamente mortificata.

E allora anche il buon Vicario si fece rosso e la coscienza gli rimorse
per averla trattata con tanta rudezza.

In quel momento si aprì la porta ed entrò la signora Yule, mite donna
dalla fronte serena e dagli occhi di bontà. Era con lei il dottor
Reynolds, che portava in mano la sua borsa chirurgica di pelle nera.

«Oh!» esclamò la moglie del Vicario, scorgendo Luisa. «Scusami,
Ambrogio. Non sapevo che tu avessi visite.»

«Vieni, cara,» disse il reverendo Yule, «vieni a far conoscenza con
Madame Brandès, una signora belga che sta in casa dei nostri amici
Whitaker. Essa è venuta a consultarmi per qualche cosa che la
riguarda....» Poi, volgendosi al dottor Reynolds: «Dunque, Reynolds,
come hai trovato il nostro ragazzo?»

«Bene! Benissimo! Lo rivedrete tra poco rompersi il collo in qualche
altro match di foot-ball,» rise quello. Poi soggiunse più serio: «Non si
tratta, te lo accerto, che di una stiratura di tendine. Cosa da nulla
assolutamente.»

La signora Yule era andata incontro a Luisa colla mano tesa.

«Sono felice di conoscerla,» disse cordialmente. «Resterà con noi a
prendere il thè, non è vero? Anche mia figlia Mary sarà così contenta di
vederla — non già» soggiunse, e la voce le si velò — «non già che essa
possa vederla davvero. Forse avrà sentito dire che la mia cara bimba è
cieca....»

«Cieca!» esclamò in un singulto Luisa.

Come un’onda immensa il dolore del mondo sembrò sommergerle il cuore.
Ella sentì terribile e insopportabile la tristezza della vita.

«Cieca!» ripetè. E chinando improvvisa il viso tra le mani scoppiò in
pianto.

Il cuore della signora Yule fremette; i suoi occhi materni avevano
notato subito l’aspetto affranto, la linea rivelatrice di quella mesta
figura. Le si accostò rapidamente e le prese ambo le mani.

«Suvvia, cara! Venga, venga qui accanto al fuoco. Vuole togliersi il
cappello? Sa... questo clima inglese... fa proprio male a chi non vi è
abituato,» mormorava la soave donna con quella specie di timidezza che
gli anglo-sassoni provano sempre di fronte all’emozione altrui. Anche i
due uomini avevano voltate le spalle e discorrevano tra loro vicino alla
finestra.

La signora Yule strinse fra le sue quelle mani inguantate di nero. Che
cosa conta, pensava, se quello scoppio di pianto fu provocato dalle
condizioni di salute di quest’infelice, dai suoi nervi sovreccitati, o
da qualche suo proprio intimo dolore?... Il fatto restava ch’essa era
scoppiata in lacrime alla notizia della sventura di Mary. L’anima della
signora Yule ne fu tocca. Nè mai più lo scordò.

Sedette accanto a Luisa e le parlò in francese affettuosamente:

«Voi siete belga, cara signora? Pensate che io sono stata in collegio a
Bruxelles.» Infatti il suo accento francese era perfetto, diverso dal
parigino soltanto per quel vezzo che hanno i valloni di chiudere le
vocali alla finale delle parole. «Già da tempo sarei venuta io stessa a
vedervi e pregarvi di fare amicizia colla mia Mary» — e le strinse di
nuovo la mano — «di cui la disgrazia ha tanto afflitto il vostro tenero
cuore; ma, come avrete forse saputo, mio figlio si è fatto male al
foot-ball, e da parecchie settimane io non esco di casa. — Un momento,
dottore!» soggiunse, vedendo che questi si accommiatava da suo marito.
«Voglio presentarvi alla signora Brandès....» E, volta a Luisa, «Ecco,»
disse, «il nostro miglior amico — il dottor Reynolds. Un angelo d’uomo,
e uno scienziato valente.»

«Ci conosciamo,» disse il dottor Reynolds stringendo la mano a Luisa e
guardandola bene in viso con que’ suoi occhi miopi e penetranti. «La
figlioletta di Madame Brandès,» soggiunse rivolto alla signora Yule, «è
una mia piccola paziente.»

«Ah, davvero?» disse quella.

Vi fu un momento di silenzio; poi il medico, volgendosi al Vicario,
abbassò la voce:

«E’ un caso pietosissimo. La loro abitazione è stata invasa, e pare che
la bambina ne abbia avuto un terribile spavento. Fatto sta che ha
perduto la ragione e la favella. E’ un caso veramente doloroso.»

Fu la signora Yule cui questa volta le vivide lagrime di pietà
riempirono gli occhi. Con uno slancio di tenerezza si chinò
improvvisamente e baciò la pallida guancia dell’esiliata.

Allora, come al bagliore d’una folgore, s’illuminò il buio nell’anima di
Luisa. Essa sentì che ora o giammai doveva svelare il suo segreto; ora o
giammai doveva tentare l’ultimo sforzo, la suprema lotta per la
liberazione e la vita.

Le sue nere pupille andavano dai dolci occhi della signora Yule, ancora
nuotanti nel pianto, alla faccia grave e pietosa del dottore. E la
speranza come una cosa viva le corse nel cuore. Il sangue le affluì alle
guancia.

Balzò in piedi.

«Dottore!...» balbettò «Signora!... Devo dire... devo parlare....»

Si coprì il volto.

«Parlate, cara,» disse dolcemente la signora Yule.

Il Vicario mosse un passo innanzi. Guardò incerto da Luisa a sua moglie,
poi il dottore. «Forse desiderate che io vi lasci....»

Ma Luisa gli stese una mano tremante. «Ah, no!» supplicò. «Voi siete il
medico dell’anima. Ed è tanto malata l’anima mia!»

«Sono onorato della vostra confidenza, signora,» disse, grave e cortese.
E sedendo accanto a Luisa, aspettò che parlasse.

Nè aspettò invano. Coll’eloquenza della disperazione, colla veemenza
della follia, Luisa mise a nudo l’anima torturata, rivelò la storia del
suo martirio.

In quella stanza tranquilla, nella placida sicurtà di quella religiosa
dimora inglese furono rievocate le scene orrende di strage, d’orgia e di
brutale violenza, nelle quali il nemico coi piedi lordi di fango e di
sangue aveva calpestato l’anima di tre creature inermi. L’oltraggio fu
ricompiuto dinanzi agli ascoltatori inorriditi.

Luisa era sorta in piedi — una figura alta, nera, con viso spettrale.
Era dessa la Tragedia vivente, lo Spirito della Femminilità che la
guerra strazia ed infrange; era ella il Cordoglio del Mondo.

Ella si gettò ai piedi della signora Yule con le braccia tese, con gli
occhi fuori dell’orbite:

«Signora! Signora! Voi che siete donna dovete capire — capire che cosa è
stata quella notte.... colla porta aperta.... i soldati ubbriachi nella
casa!... Ah! vorrei nascondere la faccia sotto terra quando ci penso...»

«Povera donna!» mormorò convulsa la signora Yule.

«Mille volte al giorno,» proseguì Luisa, «ringrazio Iddio che la mia
bambina — ammutolita per chissà quale spavento! — non possa domandarmi:
Mamma! cos’hai? Mamma, che cosa pensi? Dovrei dirle: «Penso che sono
maledetta tra le donne, che sono indegna di alzare la fronte. Penso che
porto nel mio seno un essere immondo che renderà eterna l’onta che ho
patito —»

«Coraggio, figlia mia,» disse grave il Reverendo ponendole una mano sul
capo chino.

«Ah! ne avrò, ne avrò del coraggio! Affronterò la morte con letizia, con
gratitudine!» Si volse al medico, che ascoltava impallidito e muto.
«Dottore, dottore! Se muoio non me n’importa. Ma il delitto non deve
vivere. Ciò che fu concepito nell’odio e nell’orrore non deve, non deve
vedere la luce.»

Il dottor Reynolds indietreggiò, colpito:

«Signora!... Che cosa mi domandate?»

«Domando la liberazione,» gridò Luisa, «La liberazione immediata,
completa! E se voi, dottore, non vi sentite di darmela — la Morte me la
darà!»

E cadde bocconi ai piedi del medico, scossa da singhiozzi spasmodici
come nel parossismo d’un attacco epilettico.

Il dottore la sollevò, l’adagiò sul divano, mentre la signora Yule
correva a cercare dell’acqua e dell’aceto per bagnarle la fronte.

Ma il signor Yule fissava su quella figura di dolore il suo occhio grave
ed austero.

«Infelice donna,» mormorò. «Essa delira. La sua ragione è scossa.»

«Eh, sì, caro amico,» mormorò il dottore, lanciando sul sacerdote uno
sguardo quasi impaziente. «Dite bene: la sua ragione è scossa. E’ una
creatura che sta sull’orlo della demenza.» E il suo occhio esperto
percorse la figura tesa e irrigidita, scossa ancora tratto tratto da un
tremito convulso.

«E’ un caso pietoso, un caso assai pietoso,» ripetè il Vicario evitando
d’incontrare lo sguardo risoluto del medico. «Ella avrà le nostre più
fervide preghiere.»

«Ella avrà la nostra più valida assistenza,» disse il dottore.

Come se questa parola fosse giunta allo spirito di Luisa, essa fremette,
sospirò ed aprì gli occhi. La signora Yule era china sopra di lei, il
suo braccio protettore la circondava. Luisa con un singhiozzo richiuse
gli occhi.

Il Vicario guardò fisso il dottore; poi traversò la stanza e si fermò
accanto al divano.

«Signora,» disse con voce dolce e grave a Luisa. «Voi sarete coraggiosa,
non è vero? Noi siamo tutti qui per portarvi aiuto e conforto.»

Luisa aveva riaperto gli occhi. A queste parole un’abbagliante raggio di
speranza le illuminò il viso.

Il Vicario continuò pietoso e grave.

«Tutta la nostra amicizia, tutta la nostra pietà, vi è dovuta — e
l’avrete. Se, com’è probabile, la signora Whitaker non desiderasse più
ospitarvi, voi rimarrete in questa casa come una figlia nostra, diletta
e sacra. Avrete da noi tutte le cure, tutte le tenerezze; sarete
rispettata ed onorata —»

Luisa ruppe in singhiozzi e afferrando la mano della signora Yule la
recò alle labbra.

«E nell’ora —» il Vicario si raddrizzò solenne ed imponente — «e
nell’ora del vostro supremo martirio, voi non sarete abbandonata.»

Lenta, tremante Luisa si rizzò a sedere. «Che cosa — che cosa dite?»

Lo fissava stravolta, cogli occhi che ardevano come torcie nere nel viso
color di cenere.

«Dico,» pronunziò solenne il prete, tenendo lo sguardo fermo e fisso
sulla donna tremante; «dico che perchè voi avete sofferto della nequizia
umana, non avete il diritto» — egli levò la mano e la sua voce vibrò
sonora ed imperiosa — «non avete il diritto nè di proporvi, nè di
spingere altri, a commettere un atto delittuoso.»

Un profondo silenzio regnò nella stanza. L’autorità sacerdotale reggeva
il suo potente dominio.

«Un atto delittuoso!» ansò Luisa e si levò in piedi, vacillando. «Ma non
sarebbe maggiore delitto spingermi alla morte? O voler forzarmi a dare
la vita ad un essere che non può, che non deve vivere? Ah!» gridò con,
violenza folle, «ma io mi strapperò gli occhi prima di vederlo, mi
lacererò il petto prima di nutrirlo — e con queste mani, se nasce, lo
strangolerò!»

Il reverendo Yule, impallidendo, tese le mani.

«Donna, voi bestemmiate!»

«No, no! Non bestemmio,» gridò Luisa. «Pensate... pensate.... che ho un
marito...! che m’ama.... che combatte per noi nelle trincee! Che un
giorno» — la voce le si spezzò in un singulto — «se il cielo è pietoso —
tornerà!» Vi fu un attimo in cui nessuno parlò. «E non basta dovergli
dire che la sua bambina è impazzita e muta? Volete ch’io gli vada
incontro recando in braccio il figlio di un nemico?»

Un profondo silenzio tenne la stanza.

Allora Luisa, stralunata, nel rapido mormorio della demenza, continuò:

«Ma io lo sento... lo sento che divento pazza sotto quest’incubo! Pazza,
pazza di terrore e d’odio. Cerco di sfuggire a me stessa, di sottrarmi
alla velenosa cosa ch’è in me, che ogni giorno prende maggior forza,
ogni giorno diviene più vitale, ogni giorno m’invade di più! Dottore!
dottore!» — con un grido gli cadde ai piedi — «è un cancro — un cancro
vivente ch’è in me! Toglietemelo! Liberatemene!... o mi darò la morte.»

Cadde prona ai piedi del dottore. Questi, pallidissimo anch’egli, la
sollevò.

Poi affidatala alle materne braccia della signora Yule, che col viso
inondato di lagrime l’accolse, il medico si volse risoluto al sacerdote.

«Io non prenderò alcuna decisione affrettata,» disse. «Ma se dopo
ulteriore riflessione mi convinco che — come uomo e come medico — debbo
intervenire ed interrompere il corso degli eventi, non è detto che io
non abbia a farlo.»

Il Vicario lo guardò atterrito.

«Reynolds, mio buon amico! non dirmi dunque che oseresti intervenire!»

Il dottore tacque. Luisa, con le pallide labbra aperte, gli occhi
smarriti e fissi sui due uomini, aspettava la sua sentenza.

«A priori,» soggiunse il dottore studiando il viso disfatto e il corpo
macilento di Luisa, «a priori credo poter asserire che le condizioni
mentali e fisiche di questa donna giustificano il mio intervento.»

«Ah!» Fu un urlo di gioia delirante che proruppe dalle labbra di Luisa.
Ella si strappava dal collo la veste, soffocata, cercando il respiro,
scossa da un riso frenetico e da singhiozzi, ripresa da un nuovo
violento spasimo isterico.

Dovettero riportarla sul divano; mentre la signora Yule le bagnava le
tempia, il dottore sciolse nell’acqua un calmante: glielo forzò tra i
denti serrati; poi le sedette vicino, tenendole l’esile polso.

In breve sentì che le pulsazioni disordinate si facevano più ritmiche e
i tesi muscoli si allentavano. Si alzò e traversò la stanza.

Il sacerdote stava muto e immobile accanto alla finestra, guardando
fuori sullo squallido giardino battuto dalla pioggia.

«Yule,» disse il dottore, «sarò desolato se per seguire il dettato della
mia coscienza dovessi perdere la tua amicizia — un’amicizia che dura da
quando dura la nostra vita, e che» — la voce gli si spezzò — «mi è
indicibilmente preziosa.»

Il Vicario non rispose. Ma la signora Yule, abbandonando Luisa che
pallida come un cadavere giaceva ad occhi chiusi sul divano, traversò
senza rumore la stanza e venne a mettersi accanto al dottore — a colui
che da tanti anni aveva vegliato su lei e sui suoi cari, curando,
guarendo, confortando; colui che, quindici anni prima, le aveva messo
tra le braccia con tanta mesta tenerezza la sua figliolina cieca....
Ella gli si tenne vicina, tremante, col volto acceso, e le sue labbra si
movevano come in silenziosa preghiera.

Suo marito, immobile, continuava a guardar fuori nel nebbioso crepuscolo
autunnale.

«Ma nessun vincolo d’amicizia, nessuno scrupolo religioso,» continuò il
medico, «devono impedirmi di compiere ciò che sento essere mio dovere.
Yule, qui si tratta di ubbidire ai sentimenti della più elementare
umanità, che nel caso attuale, coincidono esattamente cogli insegnamenti
della scienza. Date le condizioni in cui trovo questa donna, devo
tentare di tutto per salvare la sua ragione e la sua vita. — E così
farò.»

«E farete bene, sant’uomo che siete!» L’inattesa esclamazione irruppe
impetuosa dalle labbra della signora Yule; e pur tremando sotto lo
sguardo stupito e sdegnato di suo marito ella nè ritrasse, nè rimpianse
quelle parole.

«Clara, tu hai detto un’empietà!» e nella voce del prete tremava più che
lo sdegno una profonda sofferenza. «Non si infrangono impunemente le
leggi divine —».

Il dottore scattò:

«Ma via, Yule! Non è per legge divina che quella sciagurata si trova
oggi in queste condizioni. Ogni legge divina e umana è stata infranta
dagli immondi bruti che la guerra ha scatenato!»

Il Vicario non rispose; e l’uomo di scienza continuò:

«La legge divina dà alla donna il diritto di selezione. Essa ha il
diritto di scegliere chi sarà il padre delle sue creature. E questo
sacrosanto diritto è stato violato.»

«E questo giustifica forse un delitto? Reynolds, Reynolds — ti
renderesti reo di un crimine?»

«Reo o non reo,» dichiarò il dottore, «davanti a questo caso sento
l’obbligo di intervenire.»

Il Reverendo tremava, scuotendo le mani congiunte: «Tu — tu uccideresti
un essere umano?»

«Non è quasi ancora un essere umano,» fece il dottore crollando
impaziente le spalle. «Per me, questa donna è afflitta da un morbo, da
una infermità. Porta in sè un male che va estirpato, un male che
corrompe ed avvelena le più profonde sorgenti della vita. Se questa
donna in queste stesse condizioni fosse tisica, tu lo sai che si
ammetterebbe senz’altro l’intervento. Orbene, essa è malata; essa è
psicopatica. Il continuare in queste condizioni mette a repentaglio la
sua vita e la sua ragione. Il dottore ha il diritto, anzi, ha il
sacrosanto dovere di salvarla — se può.»

«A spese della vita umana ch’essa porta in sè?» chiese il Vicario, colla
voce soffocata.

«Sì, sì. A spese di questo germe di vita malefico e intossicato.»

Il Vicario con gesto di orrore si portò la mano alla fronte; ma lo
scienziato, irremovibile, continuò:

«Se gli eventi seguissero il loro corso, tu lo sai al pari di me ciò che
ne risulterebbe. Ammetterai che la creatura concepita nella violenza e
nell’alcoolismo sarà probabilmente un anormale, un degenerato, un
epilettico.» Il dottore additò il divano dove giaceva Luisa livida e
svenuta. «E la madre? Guardala! La madre andrà al cimitero o al
manicomio.»

Il Vicario non rispose. La signora Yule con gli occhi pieni di lagrime e
le mani tremanti gli si avvicinò, ma egli distolse il viso e guardò
fuori sul giardino ormai quasi buio sotto la scrosciante pioggia.

Finalmente si volse, austero e pallido, verso il dottore:

«Reynolds, noi siamo dei vecchi amici, non è vero? Orbene, con quanto
affetto, con quanta autorità ho, ti prego — ti comando di desistere dal
tuo proposito.» E poichè il dottore taceva, soggiunse: «Ricordati,
Reynolds, l’atto che stai per compiere non è solamente immorale — è
anche illegale.»

«Se la tua coscienza, Yule, ti spinge a denunziarlo all’autorità, fa
pure.» E il dottore si chinò sopra l’incosciente Luisa e le toccò la
fronte e il polso. «Quanto a me, farò il mio dovere.»

«Ed io farò il mio,» dichiarò tremando il sacerdote.

«Che sarà — di pregare per loro!» implorò sua moglie, ponendogli le
braccia intorno al collo e tentando di trarre a sè quel viso severo e
doloroso.

Ma egli si sciolse dal suo abbraccio e senza una parola uscì dalla
stanza.



                                  XV.


Era calato il crepuscolo — il malinconico crepuscolo di novembre —
allorchè Luisa uscì dal cancello del Vicariato e si affrettò verso casa
traverso i prati umidi e le campestri viottole deserte.

Non aveva voluto che la signora Yule l’accompagnasse nè che la facesse
accompagnare. Aveva bisogno d’essere sola — sola a guardare in faccia la
sua felicità, sola colla sua nuova divina estasi di gratitudine!

Ah! finiti, finiti i giorni di martirio, le notti d’incubo e di terrore!
A Luisa pareva di uscire da una negra caverna in cui giacessero uccisi i
fantastici Mostri che l’avevano straziata — la Vergogna dal volto
fiammante, e l’Orrore che le aveva conficcato gli artigli nelle carni, e
la Pazzia frenetica e ghignante...

Libera, redimita, rinnovata, ella usciva con passo alato nella vita, e
vi trovava ancora fiorenti per lei la giovinezza e la felicità.

Come un fiotto di luce le rifulsero nel cuore tutte le fedi e tutte le
speranze. Claudio sarebbe tornato; il Belgio sarebbe liberato
dall’invasore; Mirella avrebbe ritrovata la parola — sì! Mirella avrebbe
ritrovata la dolce voce e il riso trillante....

Chissà! forse era causa lei stessa della sventura di Mirella; forse il
negro abisso in cui vagava l’anima materna aveva attirato nelle sue
profondità anche lo spirito della bambina.... Certo ora che Luisa usciva
fuor dalle tenebre, anche quel frale spirito infantile moverebbe con lei
verso la luce. Ah, sì! Certo tutte le gioie erano possibili in questo
mondo pieno di gioia.

Luisa affrettava il passo, lieve e lesta nella nebbia crepuscolare,
aspettandosi quasi di vedere Mirella, già guarita, correrle incontro
gaia e garrula, chiamando: «Mamma!»

O forse le verrebbe incontro Chérie, lieta, agitata, ad annunciarle la
nuova che il miracolo era avvenuto?...

Chérie!

Il nome, il pensiero di Chérie colpirono, il cuore di Luisa con un urto
improvviso. Sostò. Era come se una folata di vento autunnale avesse
spente la luce della gioia ch’era in lei. Ritta tremante in mezzo alla
via, ella sentì che il nembo le si riaddensava d’intorno, che l’abisso
la riprendeva.

Chérie! Che cosa aveva detto di Chérie il dottore, accompagnandola or
ora al cancello del Vicariato? Tenendole le mani in una stretta forte
che le prometteva salvezza e liberazione, quali parole aveva egli
pronunciate? Ella allora non le udì, non le comprese, rapita nella sua
travolgente felicità e gratitudine; ma ora quelle parole le ritornavano
d’un tratto nella memoria, ora le riudiva, le comprendeva.

Il dottore aveva detto guardandola fisso in volto: «E che ne sarà di
vostra sorella?»

Vostra sorella! Egli alludeva a Chérie. E che ne sarebbe di lei? Ancora
una volta Luisa sentì quel tuffo nel sangue, come un sordo colpo datole
nel cuore.

Poichè ben sapeva ella ciò che il dottore intendeva dire; ben sapeva
ella che ne era di Chérie.

Lo stesso abominio, lo stesso orrore, la stessa sciagura.

Luisa chiuse gli occhi e strinse i denti. Se lo stato di Chérie si
faceva palese anche agli occhi degli estranei, come dubitare ancora,
sperare ancora? Fino ad oggi, tutta compresa nella sua propria sventura,
afferrata dal turbine delle sue proprie angoscie, Luisa aveva
risolutamente chiuso gli occhi e il cuore ad ogni altro pensiero; ciò
che accadeva intorno a lei era parso senza importanza, insignificante ed
irreale come un sogno. Se nello sfondo del suo pensiero aveva pur
sentito la minaccia di quell’altra sventura, nella lotta di vita e di
morte in cui si dibatteva non si era fermata a domandarsi che ne sarebbe
di quell’altra anima che naufragava accanto a lei, infranta e sommersa
dalla medesima procella.

Ma ora bisognava affrontare ancora questo strazio. Bisognava rivelare a
Chérie la verità, aprirle gli occhi all’orribile sua sventura.

Poichè Luisa sapeva — per quanto incredibile ciò potesse sembrare ad
altri — che Chérie era completamente ignara di quanto le era accaduto in
quella notte, in cui il terrore, l’ebrietà e la violenza l’avevano
piombata nell’incoscienza. Non un barlume della verità, non una favilla
di comprensione aveva rischiarato la sua inesperienza, non un alito di
dubbio aveva sfiorato la sua semplicità. Pura sebbene contaminata,
candida sebbene violata — ben di lei potevasi dire che aveva concepito
senza peccato.

Luisa seguitò il suo cammino per la viottola ormai immersa nell’ombra.
La sua gioia celava il volto davanti al dolore che doveva recare a
Chérie, alla ferita che doveva infliggere a quell’anima innocente.

Ma ben presto ripensando al messaggio di conforto e di speranza che al
tempo stesso poteva recarle, la gioia si ridestò cantando nel suo cuore.

Ed eccole — eccole al cancello le due dilette figure aspettanti! La più
alta cingeva col braccio la più piccina, e Luisa corse loro incontro,
agile, colle braccia tese.

«Luisa!» esclamò Chérie, «dove sei stata? E come sei raggiante! Anche
nel buio e da lontano ho visto il tuo sorriso!»

Luisa le baciò le fresche guancie, prese nella sua la manina fredda di
Mirella, e si avviò tra loro verso casa. Ah, come brillavano allegre le
finestre illuminate! Come placido e sicuro era questo loro asilo! Come
generosi i cuori che le ospitavano! Come lieta, dolce e bella era la
vita!

                                  ————

«Dimmi la verità, Lulù,» disse Chérie quella sera, allorchè Luisa,
avendo messo a letto Mirella, ritornò nel loro salottino; i riflessi del
fuoco danzavano sulle gaie pareti e sulle tende cremisi ben chiuse.
«Dimmi la verità — tu hai avute notizie! Tu sai qualche cosa di
Claudio.... qualche cosa —» Chérie si fece rossa dal niveo collo fino
alla linea classica e delicata della fronte — «di Florian! Sì, sì! Te lo
leggo in viso. Tu hai avuto notizie.»

Sì; Luisa aveva avuto notizie.

«Buone notizie?...»

Sì. Buone notizie. — Luisa sedette su di una poltroncina accanto al
fuoco e disse piano: «Chérie.»

Quella venne rapida a mettersi ai suoi piedi; i bagliori della fiamma le
guizzavano sui capelli fulvi e sul latteo ovale del viso.

«Chérie...» La voce di Luisa era trepida e sommessa. Le pareva d’essere
un carnefice; le pareva di dover compiere un assassinio su qualcosa
d’infinitamente tenero e floreale, di dover aprire a forza i petali
chiusi di quell’anima ancora infantile e riempirne il calice di veleno.
I vili le avevano violato il corpo; a lei pareva di doverne violare
l’anima.

Chérie alzava verso di lei un viso radioso, pieno di lieta aspettativa.

Come dirle? Come dirle?....

Luisa si chinò e coprì con una mano quegli occhi fulgenti,
interrogatori.

«Domani, Chérie!... Domani.»



                                  XVI.


La mattina seguente Chérie si svegliò presto. Non le riuscì di capire
che cosa l’avesse strappata d’improvviso al sonno. Certo ella si trovò
desta a un tratto cogli occhi sbarrati, con ogni nervo teso e vibrante
in una specie d’aspettazione intensa. Che cosa aspettava? Ella stessa
non l’avrebbe saputo dire. Era accaduto qualche cosa che l’aveva
svegliata, ed alla ora stava aspettando che questa cosa si rivelasse, si
ripetesse; aspettava di riudire o di riprovare ciò che l’aveva così di
soprassalto destata. Ma la misteriosa causa del suo improvviso
risveglio, fosse suono o sensazione, non si ripetè.

Chérie si alzò rapida, infilò i piedini nelle babbuccie e andò alla
finestra; appoggiò i gomiti nudi sul davanzale e guardò nel giardino. Il
suo sguardo azzurro vagò sul prato luccicante di pioggia, sugli alberi
spogli che si disegnavano neri e nitidi contro il cielo mattinale. Era
un’alba grigio-rosata, d’una luminosità così soave che si sarebbe detta
di primavera e non d’autunno. Vi era nell’aria pallida e radiosa come
una promessa di giornate serene.

D’un tratto Chérie si sentì invasa da quell’onda di stordimento e
vertigine che ormai era solita provare. Il pavimento ondeggiò sotto ai
suoi piedi, e la mortale nausea che conosceva e temeva le serrò la gola.

Poi questi fenomeni svanirono e Chérie si sentì perfettamente bene; le
parve anzi di provare uno strano e lieto senso di benessere che le era
nuovo. Era una sensazione indefinita di gioia — di gioia morale e
fisica, era... che cosa era? Era come una pulsazione lieve, un fremito
d’una dolcezza impossibile a definire. Ma non appena questo strano senso
la scosse, che già era svanito. Allora Chérie si rammentò: ecco ciò che
l’aveva svegliata! Sì, era quello stesso palpito strano ch’ella aveva
sentito nel sonno — quel lieve tremolio somigliante a un batter d’ali,
quasi che un altro cuore pulsasse entro al suo.

Così strano, così nuovo, così profondo era questo brivido di gioia
ch’ella pensò per un momento di correre in camera di Luisa a chiederle
che cosa potesse significare. Ma già la sensazione era cessata, lo
stranissimo senso di gioia fisica era svanito e a Chérie parve quasi
impossibile rammentare a sè stessa, tanto meno descrivere ad altri ciò
che aveva provato.

Chérie, certa di non poter più dormire, si vestì, rapida e silenziosa
per non destare Luisa, avvolse le gracili spalle in uno scialletto e
scese nel giardino.

Quel mattino anche Giorgio Whitaker si era svegliato di buon’ora. Erano
questi i suoi ultimi giorni di licenza prima di partire per il fronte,
ed egli aveva nell’animo una febbrile irrequietezza. Sua sorella Eva
doveva tornare da Hastings quella mattina stessa; passerebbero insieme
questi ultimi due giorni felici prima della sua partenza per quella
meravigliosa e spaventosa avventura ch’è la guerra.

Aveva obbedito al desiderio di sua madre e non aveva più cercato di
trovarsi o di discorrere colle loro ospiti belghe. Invero era facile —
troppo facile! pensò Giorgio con un sospiro — evitare ogni incontro con
loro, poichè sembravano farsi ogni giorno più timide e ritrose. Giorgio
appena le scorgeva, apparizioni fugaci, dietro le loro finestre chiuse;
tal’altra volta gli era concessa una visione del capo lucente di Chérie,
chino sopra un lavoro o un libro presso il balcone dello studio.

Quel mattino mentre egli stava vigorosamente spazzolandosi i folti
capelli il suo sguardo distratto errò sul giardino; allora scorse Chérie
collo scialletto bianco intorno alle spalle e un libro in mano che se ne
andava lenta pel viale verso il pergolato. Giorgio buttò giù le spazzole
e finì di vestirsi in fretta e furia.

Dopo tutto — riflettè — erano queste le sue ultime quarantott’ore in
Inghilterra. Poi sarebbe partito, partito per andare chissà dove, per
ritornare chissà quando! Forse non avrebbe più avuto un’occasione come
questa per vedere e salutare la fanciulla belga. A dir vero, era un po’
presto per dirle addio; l’avrebbe poi incontrata ad ogni istante nei
giorni seguenti, poichè Eva, tornando, soleva sempre tenersi d’accanto
la sua piccola amica straniera. Già; Eva aveva un certo modo di passare
il suo braccio sotto quello di Chérie e di portarsela via, dicendo:
«Allons, Chérie!» che Giorgio, ripensandovi, trovava molto simpatico.
Non sarebbe spiaciuto neppure a lui di prendere per il braccio bianco e
delicato la soave creatura e dirle: «Allons, Chérie!...»

E si figurava lo stupore nei grandi occhi azzurri e il rossor vivo sulle
guancia delicate — forse un corrugar sdegnato delle ciglia.... oppure,
chissà? le sarebbe brillato nel volto soave la fuggevole meraviglia del
sorriso.

Corse giù per le scale e in giardino; in un attimo fu sotto al
pergolato, ma Chérie non c’era più. La trovò che passeggiava lungo il
laghetto artificiale nel bosco; era immersa nella lettura d’un libro.

«Buon giorno,» disse Giorgio in tono di eccessiva naturalezza, quasi
fosse cosa abituale l’incontrarsi in giardino a quell’ora.

Ella, assai sorpresa, alzò il viso.

«Oh! buon giorno, Monsieur Georges!» e la morbidezza francese dei «g»
nel suo nome suonò assai dolce al signor Giorgio.

«Che cosa fate levata così presto?»

«_Et vous?_» ribattè lei con quel suo breve, vivido sorriso.

«Io... io... sono venuto a dirvi addio!»

«Addio? Ma come mai? Credevo non partiste che domani sera?» esclamò
Chérie.

«Perfettamente,» rispose Giorgio. «Ma io amo fare le cose senza fretta.
Perciò comincio a salutare gli amici due giorni prima del tempo.»

E di nuovo gli piacque il rapido sorgere e sparire del sorriso che le
arcuava la bocca e le metteva delle fossette nelle guancie.

«Allora — addio,» fece lei guardandolo per un attimo e presentendo che
quella partenza l’avrebbe lasciata più triste.

Egli le prese di mano il libro, e poi le stese la mano destra.

«Addio!»

Chérie pose in quella di lui la sua mano piccola e fredda. E Giorgio,
poichè non trovava altro da dire, ripetè: «Addio!»

«Addio,» rispose lei ridendo. «Ma adesso bisogna che ve n’andiate. Non
potete continuare a dirmi addio, e restar qui.»

«Già;» ammise Giorgio. «Adesso me ne vado.» Poi tossì per darsi un
contegno, e soggiunse con aria che voleva essere indifferente: «Sarete
ancora qui, quando ritorno dal fronte? Ho idea che non vi piacerebbe
vivere sempre in Inghilterra.»

«Non lo so,» rispose Chérie, incerta. «A dir vero non ci ho mai
pensato.»

«Capisco,» ribattè Giorgio con qualche insistenza. «Ma vi piace
l’Inghilterra? O non vi piace?»

«_S’il vous plaît Londres?_» citò essa alzando a lui gli occhi ridenti.

Ah! certo, pensò Giorgio, non vi erano nel mondo altri occhi colle
ciglia così lunghe, altre pupille così stellanti e raggianti!

«E’ vero che per certe cose l’Inghilterra non mi piace,» ella osservò
pensosa. «Per esempio, le donne inglesi — non è che non mi piacciano...
ma non le capisco. Sembrano — come dire? — così rigide, così aride
d’anima....» Aveva staccato un ramoscello di bacche invernali e con esso
giocherellava distratta camminando accanto a lui. «Pare sempre che
abbiano paura di essere troppo espansive o troppo cortesi.»

«E’ forse vero,» riflettè Giorgio.

«Appena arrivate qui, vostra sorella ce ne parlò per metterci
sull’avvisato. — Guardatevi bene — disse — dal far vedere ad una donna
inglese che avete della simpatia per lei. Qui non si usa; e sareste
fraintese.»

«Perfettamente,» osservò Giorgio. «A noi non piacciono le effusioni
esagerate. Se siete molto amabile si pensa subito che avete bisogno di
qualche cosa; che state per chiedere denari o qualche altro favore.»

«Che strana idea!» esclamò Chérie.

«Eppure è così. Dovreste vedere mia madre com’è squisitamente villana
colla gente che incontra per la prima volta! E’ questo il segreto dei
suoi grandi successi in società.»

Chérie rise. Giorgio, dopo un momento di silenzio, parlò esitante:

«E.... e gli uomini di questo paese? Vi piacciono poco anche quelli?»

«A dir vero non li conosco,» disse lei. «A guardarli» — e volse lo
schietto sguardo azzurro in pieno su di lui — «a guardarli sono belli.»

Un vivido rossore tinse la fronte abbronzata di Giorgio.

«E... e non vi verrebbe mai in mente, vero? l’idea di.... di sposare un
inglese?»

Chérie scosse il capo, e le lunghe ciglia batterono sulle iridi
stellanti. «Sono fidanzata,» disse piano. E con una stretta al cuore,
soggiunse: «ad un soldato belga.»

«Ah. Già. Sicuro. Naturale,» disse Giorgio in fretta.

Proseguirono a fianco l’uno dell’altro in silenzio. Finalmente egli, non
sapendo che cosa dire, aprì il libro che ancora teneva tra le mani.

«Che cosa leggevate?... Poesia?»

Diede un’occhiata al frontispizio e vide scritto le parole: «_Florian
Audet à Chérie._» Voltò subito il foglio.

«Sì,» disse Chérie.

«Già... poesia...» ripetè Giorgio, «di Victor Hugo. — Ma ecco un verso
che pare scritto per voi:

    _«Elle était pâle et pourtant rose...»_

Si volse a guardarla: «Voi siete proprio così.»

Ella non rispose. Ancora, ancora quel batter d’ali nel cuore? Cominciava
ad impaurirsi. Che fosse «angina pectoris» o qualche altra strana e
terribile malattia? Non le dava dolore, ma la faceva vibrare da capo a
piedi.

«Siete proprio _pâle et pourtant rose_, in questo momento,» ripetè
Giorgio guardandola. Poi soggiunse con un po’ d’amarezza nella voce e
rendendole il libro: «State pensando al giorno in cui sposerete il
vostro soldato belga?»

«Forse non vivrò fino a quel giorno,» mormorò Chérie a voce spenta. Il
fremito non cessava, non cessava!

«Che idea!» esclamò Giorgio.

«E quanto a lui,» continuò Chérie con un singhiozzo, «forse a quest’ora
me l’avranno già ucciso.»

«Ma no!» esclamò Giorgio. «Non dite questo. Vive, vive certo. E voi
vivrete. E sarete tanto felici. — Quanto a me,» soggiunse rapido, «io
vado a divertirmi un mondo. Ho idea che mi manderanno ai Dardanelli... I
Dardanelli! Che bel nome allegro! Pare uno scampanellìo a festa.» E rise
cacciandosi all’indietro i capelli dalla fronte chiara ed aperta. «Mi
piace l’idea di andare ai Dardanelli.»

«Vi auguro fortuna,» disse Chérie guardandolo con un improvviso senso di
tenerezza e di rimpianto.

Avevano fatto il giro del lago ed ora tornavano indietro sotto al
pergolato in piena vista delle finestre della villa. Sul balconcino
dello studio s’era affacciata Luisa. Chérie vide che le faceva cenno
colla mano, e corse sotto al balcone alzando gli occhi.

«Mi chiamavi?»

«Ah, Chérie! Non sapevo dov’eri,» disse Luisa, china sovra il parapetto,
«e mi sentivo in pena. Non vuoi venir su, cara? Ho da parlarti.»

«Ah, è vero! è vero!» esclamò Chérie, e i suoi occhi lampeggiarono
rammentando la promessa fattale dalla cognata la sera precedente. «Ora
mi dirai...» Si volse a Giorgio. «Devo entrare,» disse. «Dunque è venuto
davvero il momento di dirci addio!» E rise.

«Addio!» disse Giorgio, grave e un po’ pallido.

«E perchè non diremmo arrivederci?» fece Chérie colla mano in quella di
lui.

«Ah, sì!» disse Giorgio guardandola intensamente. «Diciamo arrivederci!»

«Arrivederci, signor Giorgio!... Arrivederci!»

E Chérie entrò in casa.

                                  ————

La sera seguente il giovane ufficiale partì.

Partì. E lo mandarono ai Dardanelli.

Nè vi fu mai su questa terra un «arrivederci» per il signor Giorgio.



                                 XVII.


Luisa uscì sul pianerottolo per aspettare Chérie. La vide salire le
scale un po’ lenta e col respiro affannoso: la trasse rapidamente nello
studio e chiuse l’uscio.

Mirella sedeva come al solito sulla poltrona presso la finestra, col
piccolo viso tranquillo rivolto verso il cielo.

«Chérie,» disse Luisa traendola a sedere presso di sè sul divano. «Ho da
parlarti.»

«Lo so, lo so,» disse gaia Chérie. «L’ho capito subito iersera quando
t’ho vista tornare. Dimmi, dunque, dimmi le buone notizie.»

Luisa tacque esitante.

«Parlami, Luisa.»

«Per me.... per me....» balbettò «sono buone notizie. Per te, Chérie,
sorellina mia, per te, se non ti rendi conto di quanto ci accade —
potranno essere notizie terribili!»

Chérie la guardò spaventata. «Che cosa vuoi dire?» chiese quasi senza
voce.

Luisa si portò la mano alla gola; si sentiva soffocare; aveva la bocca
arida. Non trovava nè parole, nè voce per dare alla fanciulla aspettante
il messaggio di duplice onta.

«Chérie, mia diletta.... devo parlarti di quella notte.... la notte
della tua festa —».

Chérie sussultò. «Ah, no! Non parlarmene! Hai detto quando arrivammo qui
che lo dovevamo scordare! Hai detto ch’era stato un sogno.... Perchè,
perchè ne riparli!»

«Chérie,» disse Luisa a voce bassa «per te, forse, per te.... è stato un
sogno. Ma non per me.»

La fanciulla s’irrigidì, fissandola tesa e intenta. Che cosa intendeva
dire?

«Luisa!... Hai detto che tutto era passato — hai detto che tutto sarebbe
come prima...»

«Sei certa, tu,» chiese Luisa abbassando la voce e prendendole la mano,
«sei certa tu, d’essere come prima?» Chérie la guardava sbigottita,
senza comprendere. «Sei certa?» ripetè ancora Luisa.

E dopo un breve silenzio quasi senza voce: «Ti senti.... come prima?»

«Sì.... credo....» mormorò Chérie, spaurita ed esitante. «Non so...
forse sono ancora un poco anemica.... un poco scossa...»

«Io.... io non sono come prima.» Luisa pronunciò le parole lentamente
tenendo fissi i tragici occhi sulla cognata.

«Perchè? Come? Cos’hai?» chiese Chérie agitata.

«Io devo partire. Vado questa sera stessa col dottore. Egli mi curerà.
Egli mi guarirà.»

«Ti guarirà? Ma che male hai? Mi fai paura!»

Luisa si coprì il volto colle mani. «Come dirti?... come dirti?... Ah,
con quale brutalità devo aprire i tuoi occhi alla vita!...»

E in quello stesso istante l’ineffabile brivido, il fremito meraviglioso
scosse di nuovo Chérie e la fece balzare in piedi con gli occhi
allucinati, estatici, e le mani convulse strette al cuore.

«Ancora!... Ancora!... Luisa! Che cos’ho? Che cosa sento?»

Illividita, trasecolante, Luisa la guardava.

«E’ come.... un batter d’ali.... è come un palpito — che non è.... del
_mio_ cuore....»

«Chérie! Chérie!»

«Che cos’è? — che cos’è?» balbettò Chérie smarrita.

Le braccia di Luisa la circondavano, la stringevano convulse. «E’ la
cosa terribile. E’ la cosa nefanda!... Chérie — tu sarai madre!»

Chérie indietreggiò vacillante, le sue braccia batterono l’aria come se
stesse per cadere.

«Madre!» La sua voce era un soffio. «Madre!... Io!» E stette immobile.

Dall’aperta finestra entrava un raggio di sole, uno strale dorato che la
innondava di luce e le versava sulle chiome un nimbo rutilante di
luminosità. Una trasplendenza estatica era nel fulgido azzurro de’ suoi
occhi.

Immobile, colle pallide mani protese e il liliale volto alzato al cielo
ella pareva ascoltare. Quale voce ultra-terrena giungeva a lei? Quale
Annunciazione divina la trasfigurava così?

Stupita e tremante Luisa la guardava. E quasi non osava parlare.

«Chérie!... — che cosa pensi con quel viso estatico?... Chérie, angelo
innocente, non temere! Anche tu sarai salvata dall’onta e dal disonore.»

La fanciulla volse su lei le pupille splendenti. Sembrava non
comprendere.

Luisa si chinò verso di lei ansante. «Tu non sarai la tragica madre
d’una creatura ancor più tragica —».

Ma Chérie colle mani in croce sopra il petto, non ascoltava — non udiva.
Nel consacrato atteggiamento di verginale estasi ed umiltà, ella
ascoltava un’altra voce — la voce della creatura non nata, che a lei
chiedeva il dono della vita.

E a quella voce rispondeva il suo sangue, rispondeva la sua anima,
rispondeva l’istinto sublime e trionfale della Maternità.



                                 XVIII.


Il dottor Reynolds mantenne la promessa fatta a Luisa.

A Londra, in una clinica privata, l’opera spietata e misericordiosa fu
compiuta. La scintilla di vita, non anco accesa fu spenta.

Dal profondo delle tenebre, dalla Vallata della Morte, lentamente, con
trepidi passi Luisa risalì verso la vita.

                             .  .  .  .  .

Durante i due mesi ch’ella fu nella clinica non vide nè Chérie nè
Mirella; ma la signora Yule, affettuosa e tenera, veniva ogni giorno da
Maylands a portargliene notizie, narrando quanto ella stessa e suo
marito erano felici di ospitarle al Vicariato.

Poichè nel giorno stesso in cui Luisa era partita col dottor Reynolds
dalla casa dei Whitaker, il reverendo Yule vi era andato in persona e,
con amabile autorità, vincendo le deboli riluttanze della signora
Whitaker, aveva preso le due derelitte fanciulle sotto la sua
protezione, conducendole via con sè.

La signora Whitaker a dir vero non si era troppo vivacemente opposta
alla loro partenza; ma aveva baciato colle lagrime agli occhi quelle due
pallide creature che partivano come erano arrivate — mute, smarrite,
poveri fuscelli travolti dal turbine della guerra.

In casa del Vicario di Maylands le due sventurate trovarono asilo, e la
innocente Mirella e la tragica Chérie furono ugualmente sacre al suo
cuore generoso.

Liliana Yule, la fanciulla cieca, ben presto le adorò entrambe.

Soleva sedersi tra loro due, tenendo tra le sue la mano di Mirella, ed
ascoltava estatica i racconti che Chérie le faceva della loro
fanciullezza nel Belgio.

Mai non si stancava di udire la descrizione del Pensionnat des
Demoiselles Thibaut, dove Chérie era andata a scuola; e voleva la
narrazione di tutte le loro gite a Bruxelles, a Ostenda e ad Anversa;
fremeva ascoltando gli orrori delle prigioni di Château Steen e le
visite al campo di battaglia di Waterloo, dove Chérie si era seduta
sulla poltrona di Lord Wellington e aveva bevuto il caffè nella storica
camera da letto di quel grande generale. Chérie doveva narrarle la loro
vita a Bomal; la breve vacanza a Westende, dove imparavano ad andare in
bicicletta sulla sabbia, sotto la direzione dell’uomo-scimmia.... E qui
i racconti di Chérie si fermavano.

Liliana coi suoi occhi chiusi e il viso intento sempre alzato verso il
cielo come alla ricerca della luce, ascoltava; e la dolce espressione
del piccolo viso estatico faceva quasi mancare la voce a Chérie, e le
riempiva gli occhi di pianto.

                                  ————

Un giorno arrivò una lettera da Claudio; egli scriveva d’essere quasi
guarito della sua ferita; stava dunque per lasciare l’ospedale di
Dunkerk per tornare nel Belgio, alle retrovie. Egli mandava il suo
pensiero e la sua benedizione a Luisa, alla piccola Mirella, a Chérie.
Si sarebbero ritrovati tutti insieme nei bei giorni che presto sarebbero
tornati. Chiedeva se avessero notizie di Florian; egli stesso non ne
riceveva da gran tempo; l’ultima era stata una cartolina mandata dalle
trincee di Loos....

E in quello stesso giorno — era un grigio pomeriggio di Dicembre e
nevicava — Luisa, uscita dall’ombra della Vallata della Morte venne,
pallido fantasma, a battere alla porta del Vicariato.

E anche a lei fu aperta la casa ospitale e il cuore generoso di coloro
che l’abitavano.

Con tenerezza pietosa i suoi passi malfermi vennero guidati al focolare,
verso la piccola Mirella che vi sedeva nella sua solita inconsapevole
serenità. Solo al vederla Luisa comprese di quanto affetto la sua bimba
era circondata. Con un grosso cane di Terranova accucciato ai suoi
piedi, la piccina sedeva nella grande poltrona di cuoio del reverendo
Yule; i biondi capelli divisi sulla fronte erano legati dalla signora
Yule con un nastro celeste; un braccialetto d’oro, regalo di Liliana, le
brillava sull’esile polso.

Con un grido di tenerezza riconoscente Luisa le si inginocchiò accanto,
baciandole le manine fredde, la bocca silenziosa, gli occhi che non la
riconoscevano.

«Mirella, Mirella! Parlami! Dimmi una parola! Dimmi: Ben tornata,
mamma!»

Ma le labbra della bimba restarono mute, la sua voce era ancora una
fontana chiusa.

L’uscio si aprì e Chérie entrò nella stanza — una Chérie nuova agli
occhi di Luisa, quasi estranea nella sua tragica, matronale dignità.

Luisa indietreggiò colpita alla vista di quel mutamento. Poi con un
singulto di appassionata pietà le andò incontro e la chiuse tra le
braccia.

Chérie con un sorriso ed un sospiro le celò il volto in seno.



                                  XIX.


Le feste Natalizie passarono calme e solenni versando il loro balsamo di
pace nei cuori feriti delle esiliate.

Ma un giorno ecco arrivare ai profughi belgi rifugiati all’estero
l’ordine di ritornare in patria. Era un comando perentorio del
Governatore tedesco di Bruxelles a tutti coloro che possedevano case o
terreni nel Belgio. Queste proprietà verrebbero confiscate se i
possidenti non si presentavano a reclamarle entro un brevissimo termine
di tempo.

Luisa entrò nella camera di Chérie colla lettera in mano. Era atterrita
e tremante. Chérie ascoltò in silenzio la lettura.

«Ma Chérie! capisci — capisci che ci ordinano di rientrare nel Belgio?
Ti rendi conto di ciò che significa questo per noi?»

«Significa — tornare a casa nostra,» mormorò la fanciulla con gli occhi
bassi e un’improvvisa vampata di colore sulle guancie smunte.

«A casa nostra! Ma tu ricordi che cosa era la casa nostra quando la
lasciammo?» gridò Luisa cogli occhi fiammeggianti.

«No,» disse Chérie. «Non ricordo.»

«Casa nostra! Senza Claudio!... Senza Florian! e i nostri amici
dispersi... straziati.... uccisi... Ah!» gridò Luisa, e le lacrime, così
facili a scorrere nell’estrema debolezza fisica, le rigarono il volto
smagrito. «Casa nostra! — con Mirella spettrale e silenziosa, e tu — e
tu! —» le nere pupille appassionate sfiorarono per un istante la persona
di Chérie e la vergogna e il dolore la soffocarono. «Basta, basta! non
ne parliamo più. Non ne parliamo più.» E gettò sul fuoco la lettera.

Ma non così potè distruggere il ricordo di quel richiamo. La possibilità
di ritornare in patria — possibilità che fino allora era sembrata così
remota, così inverosimile — l’idea di ritornare al focolare che avevano
creduto di non rivedere mai più, ora occupava la sua mente e quella di
Chérie ad esclusione d’ogni altro pensiero.

Quel rude comando di rimpatrio echeggiava nei loro cuori giorno e notte
destando lo struggimento e la nostalgia.

Luisa si trovava ogni notte a sognare quel ritorno: sempre ne scacciava
il pensiero con ira e con paura, ma sempre quel pensiero tornava a
martellarle il cervello, a stringerle il cuore.

Appena chiusi gli occhi — ecco, si figurava di partire da Maylands, di
traversare la gelida e turbolenta Manica, di sbarcare a Ostenda, di
passare per Louvain, Tirlemont, Liegi — e arrivare a Bomal!...
Traversava correndo le vie del villaggio, giungeva al cancello di casa
sua... entrava, saliva le scale, apriva l’uscio della camera di
Claudio!... Con una scossa Luisa si destava alla realtà. E un istante
dopo ricominciava il sogno.

A poco a poco la nostalgia come un enorme serpe le si attorcigliò al
cuore, serrandoglielo, stritolandoglielo nelle sue spire, avvelenando
del suo morso virulento ogni ora della sua giornata. La bramosia
insostenibile di rivedere la sua patria, di riudire la sua favella la
strinse, la straziò; e nulla potè più calmare quella sofferenza.
Ripensando la sua patria sanguinante sotto il calcagno dell’invasore,
più forte e più struggente si faceva in lei quella tortura che si chiama
il male del paese.

Finalmente il senso dell’esilio le divenne intollerabile. Tutto ciò che
era inglese la urtava, la feriva; odiava la vista della gente inglese,
il suono delle voci inglesi, il modo di pensare inglese. Nelle
tempestose acque della Manica che la separavano dalla sua patria
dolorosa sentiva sommerso ed affogato il cuore.

Dieci giorni dopo aver detto a Chérie di non parlarne mai più. Luisa non
pensava ad altro, non sognava altro che quel ritorno a casa — alla sua
casa devastata, profanata. Ivi voleva rifugiarsi, ivi aspetterebbe
Claudio, nella fede, nella speranza e nella preghiera. Si sentirebbe più
vicina a lui quando il deserto grigio di quelle nordiche acque non li
separasse più.

Là, nel giorno beato della liberazione e della redenzione del Belgio,
egli la troverebbe, ferma, fedele, aspettante il suo ritorno. — Ah!
certo, certo quel giorno non poteva ormai più essere lontano!

.... Ma ahimè, che direbbe Claudio trovando la sua bambina, muta,
inconscia, vagante nell’ombra della vita come un piccolo spettro?...
trovando sua sorella Chérie —

Luisa, al pensiero di Chérie si torceva le mani piangendo.

Una notte, torturata dall’insonnia, ella entrò nella camera della
cognata. Aveva aperto adagio la porta per non svegliarla; ma Chérie non
dormiva. Stava seduta accanto al fuoco cucendo e canticchiando piano.

Appena vide Luisa balzò in piedi arrossendo, e cercò di nascondere il
lavoro che teneva in mano. Ma Luisa lo vide. Era una mantellina bianca
da neonato che Chérie stava ricamando. Allora anche le guancie pallide
di Luisa si fecero di fiamma.

«Chérie.» balbettò esitante, «ho pensato.... ho pensato... che cosa
diresti se tornassimo davvero a casa?»

«Ma sì, Luisa. Torniamo pure,» acconsentì Chérie, colla blanda serenità
di chi non ha altra missione che l’attesa.

«Allora partiremo. Partiremo presto,» disse Luisa febbrile. «Arrivate a
Bomal, metteremo la casa in ordine; la faremo bella per quelli che
torneranno...»

«Sì,» rispose quieta Chérie.

«Poichè torneranno! Torneranno, e ci troveranno là ad aspettarli. Se
pure la tempesta è passata sopra di noi,» la voce le si ruppe in un
singhiozzo, «tuttavia Mirella guarirà — lo so, lo sento. E tu, tu — oh,
Chérie!» cadde a ginocchi accanto alla fanciulla tremante — «tu devi
purificarti, redimerti.... sì! anche tu, anche tu devi distruggere
questa fonte di vergogna, d’odio e d’orrore... te ne prego, te ne
supplico...»

Chérie volse a lei il volto grave, inesorabile, ispirato.

«Luisa, nessuna tua parola, nessuna tua preghiera può mutare l’animo
mio. Ognuna di noi è arbitra dei proprî destini. Ciò che per te è
vergogna, odio, orrore — per me è amore, meraviglia, estasi. Non so
spiegarlo; io stessa non lo comprendo. Ma sento che prima di distruggere
volontariamente questa vita che porto in me, mi strapperei il cuore —
vivo e pulsante — dal petto.»

Luisa tacque, impallidendo.

Ma troppo il pensiero del ritorno in patria le stringeva il cuore.

«Chérie.... ma se torniamo a casa?... Pensa — pensa che cosa dirà la
gente che ci ha conosciute?»

Chérie sospirò e non rispose.

«E quando Claudio ritornerà — pensa, Chérie! quando Claudio
ritornerà!...»

Chérie abbassò il capo e non rispose.

Luisa le si fece più vicino. «E Florian? Hai tu scordato Florian?
Florian che ti ama?... che vuol farti sua sposa?»

Gli occhi di Chérie si soffusero di lacrime, ma ancora tacque.

La voce di Luisa divenne quasi un grido. «Chérie, ma non ricordi che il
padre di questa creatura è l’abbietto soldato ubbriaco che ti prese e ti
legò?... Non pensi che tu — belga — sarai la madre di un figlio
tedesco?»

.... Ma Chérie non ascoltava nulla, non pensava nulla, non ricordava
nulla.

Non udiva che una voce — la voce del figlio non nato — che attendeva da
lei il dono della vita.

E quella voce le diceva che nelle superne lande mattutine dove attendono
le creature umane che vivranno, non vi sono nè belgi nè tedeschi, nè
vinti nè vincitori. Non vi sono che gli innocenti fiori dell’avvenire —
le bianche colombe del Signore, le candide agnella di Gesù...



                              PARTE TERZA



                                  XX.


Il Feldwebel Karl Sigismund Schwarz giaceva nel pendio interno di un
cratere, sotto un cielo vespertino cosparso di nuvolette rosse. Aveva
gli occhi chiusi, ma non dormiva. Stava dicendo a sè stesso che
bisognava muovere il braccio sinistro. Aveva qualche cosa di anormale
quel braccio; un peso infinitamente grave pareva schiacciarlo; se lo
sentiva plumbeo e infocato. Certo bisognava muoverlo; bisognava alzarlo
e agitarlo nella fresca aria serale perchè vi tornasse la circolazione.
Sì, sì, tra un momento avrebbe mosso il braccio.

Presa questa decisione, Feldwebel Karl Sigismund Schwarz si sentì in
diritto di riposare da tanto sforzo mentale, e si addormentò.

Si risvegliò più che mai deciso che bisognava muovere il braccio. E per
muovere il braccio cosa bisognava fare? Dov’era questo braccio? E lui
stesso, Karl Sigismund Schwarz, dov’era?... E cos’era quel violoncello
che gli suonava così da vicino?... Se lo sentiva vibrare profondamente
nelle orecchie e nella testa: «Zuum... zuum-zuum... zuum-zuum....»

Ah, un momento!... Ecco — adesso sapeva dov’era. Era a Charlottenburg,
nel Caffè des Westens e il direttore d’orchestra — l’ungherese Makowsky
— suonava il contrabasso. Precisamente. Zuum... zuum-zuum... Gli altri
dell’orchestra aspettavano il loro turno per cominciare... Ma intanto
cosa diavolo aveva al braccio?

Gemette forte e fece per alzarsi sul gomito destro. Non vi riuscì. Ma
nel volgere la testa scorse a pochi passi da lui un uomo in uniforme
belga, steso a terra col profilo rivolto al cielo.

Ma allora — si disse Schwarz — non si era a Charlottenburg? No; si era
nelle Fiandre, vicino a un’infetta città chiamata Ypres, e lui stava
sdraiato in una buca fatta da una mina.

Gettò di traverso un’occhiata al belga; poi urlò forte:

«Olà! dite un po’ — cos’ho io al braccio?»

Ma costui non rispose, nè si mosse; e Schwarz riflettè che probabilmente
non capiva il tedesco, e che più probabilmente era morto.

Allora Karl Sigismund Schwarz si riabbandonò supino, e stette ad
ascoltare il contrabasso che gli ronzava nella testa.

Il tramonto purpureo era svanito in un crepuscolo grigio, quando a sua
volta il belga aprì gli occhi. Sospirò e si rizzò a sedere; e vide
sdraiato accanto a sè, colle gambe tese e inerti, con un braccio
sfracellato e il volto incrostato di sangue, un tedesco ferito.

Costui aveva gli occhi aperti, e il belga lo salutò con un cenno del
capo. «_Eh bien? Ça va, mon vieux?_»

«_Verfluchter Schweinehund_,» rispose il tedesco. E Florian Audet, non
comprendendo l’improperio gli fece un altro amichevole cenno col capo.

Poi tacquero entrambi, occupato ognuno dai propri pensieri.

Florian cercò di comprendere ciò che era accaduto. Mosse prudentemente
un braccio; poi l’altro; poi i piedi e le gambe. Indi si spostò un poco
colle spalle. Tutto pareva sano. Non sentiva che un dolore sordo alla
nuca, una specie di crampo che gli saliva fino alla sommità del cranio.
Del resto in complesso niente di male.

Oh, come mai si trovava qui? Riordinò alla meglio gli sconnessi ricordi;
c’era stato l’ordine di attaccare... Lui e i suoi soldati si erano
slanciati sulla bianca via di Ypres, e traverso i campi verso il sud....
poi — poi un formidabile rombo, una scossa immane....

Ed eccolo a giacere in questa buca, colla terra smossa che ogni tanto
gli scendeva a cascate sulla testa e sulle spalle. Chissà il resto della
sua compagnia dov’era e come era andato l’attacco?... Si udiva ancora,
non molto lontano, il fragore di spari.

Florian tentò di rizzarsi in piedi, ma pareva che il terreno si alzasse
con lui; non poteva staccare le mani da terra. Il cratere e il cielo gli
turbinavano d’intorno e dovette tornarsi a sdraiare.

Sorse dal tonante oriente la notte, e spense il crepuscolo.

Frattanto il Feldwebel Karl Sigismund Schwarz era di nuovo nel Caffè des
Westens. Sì, sì, era perfettamente così. Il Caffè des Westens.
L’orchestra di centomila contrabassi gli rimbombava nelle orecchie, ed
egli batteva, a tempo colla musica, il suo braccio pesante sul marmo
della tavola; e gridava al cameriere Max che gli portasse qualche cosa
da bere.

Max arrivava correndo e gli porgeva un vassoio carico di bevande: grandi
schoppen ghiacciati di Münchener e Lager, e bicchieri colmi di limonata
gelida — scegliesse. Quale voleva? E Karl non poteva decidersi. Colla
gola arsa, collo stomaco in fuoco dalla sete stava a guardare quelle
fresche bibite, le birre gelide, le limonate aspre e ghiacciate — e
sentiva di non poter prenderne una per non lasciare le altre. Avrebbe
voluto versarle tutte insieme sul fuoco che gli ardeva dentro.
Vediamo.... beverebbe prima la birra — no, prima la limonata — no, prima
la birra....

D’un tratto si avvide che la Wasserleiche — (sapete bene, la
Wasserleiche del Caffè des Westens.... quella donna che chiamano
«l’Annegata» perchè ha l’aspetto così cadaverico, le carni così
verdognole, come se fosse rimasta sott’acqua due giorni e poi
ripescata...) ebbene, l’Annegata si slancia sul cameriere e lo
abbraccia. E giù i bicchieri dal vassoio!... Ping! — pang! — giù tutti!
tutti fracassati! — Ping! — pang!

Quando mai si è sentito dei bicchieri fare un fracasso simile?... E non
restava più nulla da bere; nulla — in tutto il mondo!...

Allora il Feldwebel Schwarz si mise a piangere. Egli stesso si udiva
gemere e mugolare mentre l’Annegata gli pizzicava il braccio...

E poi non era Max che l’Annegata aveva abbracciato. Già, quella non
abbracciava mai gli uomini. No; era la sua amica Mélanie, che adesso
stava lì anche lei e rideva colla bocca aperta come ne aveva il vezzo,
mostrando il palato roseo e i piccoli denti da lupacchiotto, bianchi e
aguzzi.

Il cameriere Max susurrò a Karl Schwarz che se voleva qualche cosa da
bere doveva fare la corte a Mélanie. Allora per lusingare quella
viperetta Karl volle cantare la canzone della famosa contessa sua
omonima:

    _«Unter Bäumen_
    _«süsses Träumen_
    _«liebte Gräfin_
    _«Mélanie!»_

Ma, strano a dirsi, invece di quelle parole gliene venivamo sulle labbra
delle altre:

    _«Die Flundern —_
    _«Werden sich wundern.»_

Cantò innumerevoli volte questo brano di romanza da Cabaret senza mai
arrivare a finirla. Il cameriere Max, sdraiato per terra in mezzo ai
bicchieri rotti, applaudiva rumorosamente.

Era insopportabile il fragore di quegli applausi; gli penetravano nel
cervello, gli spaccavano il cranio.... e Mélanie frattanto non gli dava
nulla da bere. Allora cercò di abbracciarla, ma l’Annegata, che non
permetteva a nessuno di abbracciare Mélanie, si slanciò su di lui
rabbiosamente e gli morse il braccio.

Karl gridò per lo spasimo; e allora anche Mélanie si curvò su di lui,
mostrando i suoi denti da lupo, ed anche lei lo morse al braccio.

Gli strappavano, gli sbranavano le carni; non gli riusciva di liberare
il braccio da quelle due terribili creature.

«_Verdammte Sauweiber!_» urlò. E quell’urlo stesso lo svegliò.

Vide il cielo notturno tempestato di stelle: e là accanto giaceva ancora
la figura prona del belga. Probabilmente — pensò Karl — quelle belve,
Mélanie e l’Annegata, avranno azzannato e sbranato anche costui.
Bisognava tenerle lontane ad ogni costo. Perciò egli dovette seguitare a
cantare colla sua gola arsa ed arida:

    _«Die Flundern,_
    _«Werden sich wundern...»_

    _«Die Flundern_
    _«Werden sich wundern...»_

Gli pareva che queste parole dovessero esercitare qualche occulto potere
contro le sue tormentatrici; e così egli continuò a ripeterle per tutta
la notte.

                             .  .  .  .  .

Verso le due del mattino Florian Audet riaprì gli occhi e girò il capo
per guardarsi intorno. La voce del tedesco ferito — una voce rauca e
rantolante — l’aveva strappato al sonno; o al deliquio, forse. Ora,
desto, si domandava vagamente che cosa mai potessero significare quelle
parole continuamente ripetute: «_Die Flundern werden sich wundern...._»
Forse era qualche frase nazionale, un grido di vittoria o di sfida, come
sarebbe: «La libertà o la morte!» o «Tutto per la Patria!» Certo doveva
essere qualche cosa di simile.

Il suono mugolante di quelle parole gli si conficcò nel cervello.

Girando appena il capo Florian vedeva, alla sua sinistra, la figura
supina del nemico, colle molli gambe distese, i piedi abbandonati
rivolti in su negli scarponi gialli infangati, e udiva nel respiro già
rantolante il suono spezzato di quelle parole: «Die Flundern.... werden
sich wundern....»

Una subitanea immensa pietà lo invase, pietà di quel corpo spezzato
accanto a lui, pietà di sè stesso, pietà del mondo intero. Con uno
sforzo eroico, poichè gli pareva di avere le membra infrante, egli si
volse sul fianco e si trascinò penosamente vicino al moribondo.

Quando l’ebbe quasi raggiunto riposò alquanto, poi si cercò indosso la
fiaschetta del cognac, la trovò, l’aprì e tendendo il braccio l’accostò
al viso del morente.

«_Prends, bois!_» disse. Ma il tedesco non si mosse ed in breve il
respiro rantolante cessò.

Florian mosse le mani plumbee e si trascinò ancora più vicino all’altro;
con un immenso sforzo riuscì a passargli un braccio sotto al capo
sollevandoglielo un poco. Allora, alla scialba luce del giorno nascente,
vide sgorgare da una ferita che quell’uomo aveva alla testa un fiotto
scuro che gli piovve giù per la faccia.

Il tedesco aprì gli occhi: che cosa facevano ora quelle donne
diaboliche? Gli versavano del vino caldo sulla testa?... Traverso quel
tiepido velo scarlatto gli occhi morenti fissavano Florian pieni di
infinito terrore e smarrimento.

Un’onda di mortale debolezza e nausea invase Florian. Allentò il
braccio, e su di esso ricadde all’indietro la spaventosa testa
insanguinata del nemico. Florian si abbattè accanto a lui svenuto.

Così giacquero per lunghe ore, fianco a fianco, come fratelli — il vivo
e il morto, l’ufficiale belga col braccio intorno al soldato tedesco. E
così due militi della Croce Rossa li trovarono nei brividi dell’alba,
allorchè scesero a sdruccioloni entro il pendio del cratere portando tra
loro una barella ripiegata.

Erano entrambi giovanissimi i due militi; avevano troncato a mezzo i
loro studi di filosofia all’Università di Bonn allo scoppio della
guerra, lasciando da parte Kant e Hegel per intraprendere un rapido
corso di chirurgia. Il più giovane dei due — che aveva i capelli biondi
come il miele — si dilettava a scrivere delle insensate poesie latine
ch’egli asseriva essere nello stile di Lucrezio.

Deposero la barella. Stettero silenziosi e immobili a guardare quelle
due figure irrigidite nel fraterno abbraccio; quell’atteggiamento
narrava tutta la storia dell’agonia. La mano di Florian poggiava sul
petto del tedesco morto tenendo ancora nelle dita rilassate la
fiaschetta aperta del cognac; il volto sanguinoso del loro camerata
posava fidente sul braccio ripiegato del nemico.

Un’emozione profonda strinse alla gola i due che guardavano. Il più
giovane — quello che scriveva i versi latini — si chinò e pose la mano
quasi invocando una benedizione, sulla fronte pallida di Florian.

Trasalendo si volse al compagno.

«E’ vivo!» esclamò.

L’altro a sua volta toccò la fronte del belga; poi ne sollevò la mano
inerte per sentirgli il polso.

Inginocchiati accanto a lui gli versarono dell’acquavite in bocca; indi
con tutti i mezzi noti alla scienza, muti, tenaci, persistenti lo
contesero alla morte; dopo qualche tempo un tremulo soffio di vita alitò
su quelle labbra cenericcie e le spente pupille azzurre oscillarono in
uno sguardo vago.

I due tedeschi si rimisero subito in piedi. Finchè il belga giaceva
svenuto col braccio attorno al collo del loro morto compagno, egli era
per loro un eroe e un amico. Ora, vivo, con gli occhi aperti, era il
loro nemico e prigioniero.

Gli rivolsero la parola, non scortesemente, in tedesco; poi, un po’ più
bruschi, in francese. Ma quegli non rispose. Una stupefazione torpida lo
teneva; sembrava paralizzato. Non poteva nè parlare nè reggersi in
piedi. Allora lo sollevarono e lo posero sulla barella.

«Poveraccio,» mormorò il più giovane accomodandogli lungo i fianchi le
braccia inerti, e indicando al compagno la manica dell’uniforme belga
inzuppata di sangue tedesco. «Poveracci! Potevamo tralasciare di
salvarlo. Per mandarlo a quell’inferno di Wittemberg, tanto valeva —»

«Già. Povero diavolo,» mormorò l’altro.

«Senti un po’» esclamò il biondo poeta, «e se gli lasciassimo una via di
scampo? Perchè non abbandonarlo al caso?... Affidarlo al capriccio della
sorte?...

                             .  .  .  .  .

Florian non seppe mai in qual modo e per quali circostanze egli venne a
trovarsi sdraiato su una coperta da campo in una cascina per metà
demolita. Alzando il capo indolenzito per guardarsi intorno vide accanto
a sè, per terra, una scodella di latte, una pagnotta e del cognac. Vi
era anche un pacchetto di sigarette, qualche fiammifero ed una tavoletta
di cioccolatta. Bevve avidamente il latte, ingoiò un sorso di cognac e
si levò in piedi. Traballava e aveva la vista torbida; una terribile
vertigine gli dava nausea allo stomaco; tuttavia potè reggersi in piedi
e stette così ritto qualche istante appoggiandosi con una mano al muro
calcinato. E tutt’a un tratto si avvide di essere completamente nudo.
Intorno a sè non una traccia d’indumento, non una vestigia della sua
uniforme. Nulla.

In mezzo al pavimento stava un paio di scarpe gialle e fangose che gli
ricordavano quelle vedute ai piedi del tedesco ferito sul pendio del
cratere. Queste scarpe e la coperta di lana grigia stesa per terra, ecco
tutto ciò che avrebbe potuto mettersi indosso.

Nulla rimaneva di quanto era stato suo; perfino il cognac era in una
fiaschetta che non aveva mai veduto.

Florian si guardò intorno nel luogo deserto; notò le mura sbrecciate e
crollanti, demolite da bombe ed obici; in un angolo un aratro rotto e
rugginoso e qualche arnese agricolo poggiavano al muro. Null’altro. Dopo
breve riflettere Florian si decise a mettere quelle scarpe. Poi finì il
latte, il pane e il cognac. Finalmente annodò in un angolo della coperta
la cioccolatta, le sigarette ed i fiammiferi, poi avvolgendosi la ruvida
flanella grigia intorno al corpo uscì ad affrontare il mondo.

Era un mondo vuoto e desolato. Sulla strada fangosa che attraversava la
pianura non si vedeva che il gonfio cadavere di un cavallo. Giudicando
dal sole Florian si disse che potevano essere le sette del mattino. Gli
parve di riconoscere la località: doveva trovarsi a due o tre chilometri
dal terreno di combattimento del giorno innanzi. Sì, ecco, lì, a
sinistra, la via bianca e diritta che va da Poperinghe a Ypres.... ben
riconosceva quel duplice filare di alberi...

Ed ora, dove andare? In quale direzione si trovavano le linee belghe?
Florian si sentiva ancora assai debole, le ginocchia gli tremavano e nel
cervello vuoto non aveva che una confusione di suoni insensati. Le
parole che il tedesco morente aveva continuato a ripetere per tutta la
notte gli ronzavano nella testa incessantemente, ed anch’egli si trovava
a mormorarle sommesso: «Die Flundern werden sich wundern...»

Gli pareva di essere ancora nelle spire di un sogno faticoso e
incoerente. Doveva fare un grande sforzo mentale per persuadersi che
realmente lui, Florian, s’aggirava per il mondo vestito d’un paio di
scarpe e d’una coperta da campo. Probabilmente nulla di tutto questo era
vero. «Probabilmente» — si disse Florian — «io sono ferito, sono in un
ospedale con qualche lesione al cervello, e questo è parte del mio
delirio.» Era inverosimile, era impossibile che qualcuno potesse avergli
rubato tutti i suoi abiti lasciandogli in cambio il latte, la cioccolata
e le sigarette. Come conciliare la viltà da parte di chi lo aveva
derubato quand’era incosciente, collo spirito di fraternità e di affetto
dimostrato nell’avergli fatto trovare a portata di mano latte e cognac,
cioccolatta e sigarette?... Era tutta una cosa assurda e fantastica.

«Di due cose, l’una,» ragionò Florian procedendo nella direzione di un
bosco che vedeva non lontano, e inciampando ad ogni passo nella sua
coperta: «o sono stato la preda di un pazzo, oppure sono io che in
questo momento non ho la testa a segno... («Die Flundern werden sich
wundern.»)

Dovette fare un enorme sforzo per non dire quelle parole insensate ad
alta voce; sentiva che se le diceva sarebbe impazzito davvero. Gli
pareva che finchè se le teneva chiuse dentro al cervello ne era padrone
lui, ma guai se gli sfuggivano di bocca: sarebbero diventate più forti
di lui, e certamente avrebbe continuato a dirle e a ripeterle come quel
povero tedesco delirante... Ah, sì; decisamente non aveva il cervello a
posto; bisognava tenersi bene in freno. Non bisognava.... «Die Flundern
werden sich wundern.»

D’un tratto vide uscire dal bosco dei soldati a cavallo. Li riconobbe
subito per una pattuglia tedesca. Pensò di tornare indietro e
nascondersi nella cascina; ma ormai era tardi. Già l’avevano scorto e
venivano a grande galoppo verso di lui.

«Basta; la partita è persa,» disse Florian tra sè e sè; l’avrebbero
preso. Già non poteva uccidere nè sè stesso nè altri con un pezzo di
cioccolatta e un pacchetto di Josetti. Sostò, incrociò le braccia e
attese, ritto e immobile, il loro arrivo. («Die Flundern werden sich
wundern.»)

Gli otto o dieci cavalleggeri arrivavano al galoppo e Florian potè
notare anche da lontano il loro sbigottimento alla sua vista. Gli
gridarono qualche cosa in tedesco, ma egli non rispose. Ritto, come una
statua egli disse a sè stesso che incontrerebbe il suo fato con dignità.

Ma non aveva fatto i conti col suo grottesco abbigliamento. Due soldati
smontarono ed uno di loro gli rivolse la parola in tedesco, mentre tutti
lo guardavano da capo a piedi con un largo sorriso.

Ma l’altro — un giovane ufficiale — imponendo bruscamente agli altri di
tacere si volse a Florian con fosco cipiglio e gli domandò in francese
cosa diavolo facesse vestito così.

«Dov’è la vostra uniforme?» chiese, aggrottando minaccioso le ciglia.

Anche Florian aggrottò le ciglia e lo fissò senza rispondere. Aveva
deciso che non aprirebbe bocca. («Die Flundern werden sich wundern.»)

L’ufficiale diede un ordine; due soldati lo presero per le braccia e gli
strapparono da dosso la coperta. Egli rimase così, nelle sole scarpe,
nudo alla grande luce del giorno, col viso, le mani e i capelli
imbrattati di fango. Era una forte e magnifica figura d’uomo.

L’ufficiale e gli uomini avevano rivolto la loro attenzione al nodo
nell’angolo della coperta. Lo sciolsero e vuotarono del suo contenuto
quella tasca improvvisata. Si guardarono l’un l’altro; poi riguardarono
l’uomo nudo. Il cioccolatto era tedesco; le sigarette erano tedesche; le
scarpe erano tedesche. — E l’uomo cos’era?

«_Meschugge_,» mormorò il tenente, a spiegazione non della nazionalità
di Florian, ma della sua condizione mentale.

«Meschugge! Meschugge!» Ripeterono gli altri sghignazzando.

Tuttavia l’ufficiale sembrava incerto. Dopo aver fissato lungamente
Florian si volse a parlare a bassa voce cogli altri. Florian capiva che
discutevano di lui. A quale decisione arriverebbero? L’arresterebbero
come un astuto belga che, spogliatosi della sua uniforme, aveva rubato
le scarpe e la coperta ed ora si fingeva muto e demente? O lo
crederebbero un tedesco ammattito e lo manderebbero in un ospedale?
Meglio se fosse così. Certo sarebbe più facile la fuga da un ospedale
che da una prigione tedesca. Una prigione tedesca!... Florian digrignò i
denti. Dall’atteggiamento dell’ufficiale Florian lo giudicò incline a
quest’ultima decisione.

«Die Flundern werden —»

A momenti lo diceva forte! Sentiva nel palato una smania, un solletico,
quasi una necessità fisica di pronunciare quelle parole insensate. Erano
certamente quelle voci tedesche intorno a lui, era il suono gutturale di
quegli accenti che gliele strappavano di bocca. Già le sue labbra si
movevano a formularle....

L’ufficiale l’osservava intento.

Invano Florian strinse le labbra, morse la lingua tra i denti —
d’improvviso le grottesche parole gli scapparono dalla bocca: «_Die
Flundern werden sich wundern..._»

L’effetto di quella frase fu istantaneo e inatteso. Tutti ruppero in un
grande scoppio di risa; persino il fosco volto dell’ufficiale si spianò
in un largo sorriso.

I soldati ripetevano le parole, commentandole. «Avete sentito? _Die
Flundern!..._ Ah, bellissima! Sarà stata una canzonettista
dell’Ueberbrettel a mettergli i topi nel cervello!» E si smascellavano
dalle risa, battendogli le spalle nude e chiedendogli in quale Kabaret
avesse lasciato il cuore ed il senno.

Di quanto dicevano Florian non capiva una sillaba; ma questo capì: era
salvo. Almeno per il momento. Qualunque fosse il significato di quelle
parole, certo ad esse doveva la sua salvezza e l’ilarità amichevole di
quegli uomini. Per quanto ancor confuso e debole, ebbe la lucidità di
prenderà un’immediata decisione: se quelle parole l’avevano salvato non
ne pronuncerebbe altre.

E difatti fece così.

Un po’ più tardi aggiunse un vocabolo di più al suo repertorio:
«Meschugge.» Florian stesso non aveva la più lontana idea del
significato di «Meschugge,» ma lo udì pronunciare molte volte dal
tenente prussiano e dai soldati che lo ricondussero, dignitosamente
avvolto nella sua coperta, alle linee tedesche.

«Die Flundern werden sich wundern,» e «Meschugge.» Con queste sei
parole, mormorate a intervalli tre o quattro volte al giorno, Florian
passò incolume il fronte e le retrovie tedesche; con questo frasario
entrò in un ospedale da campo prima, e poi in una infermeria di Liegi.

Ufficiali e medici lo visitavano, ridevano, gli battevano sulle spalle.
«_Famoser Kerl!_» Qui non c’era errore. Costui non poteva essere nè
belga, nè francese, nè inglese. Giammai un forestiero avrebbe potuto
scegliere dal ricco vocabolario tedesco proprio la parola «Meschugge,»
nè avrebbe scoperto nella letteratura poetica tedesca il verso dei
«Flundern.»

_Ach nein!_ bisognava essere un autentico figlio del Vaterland per
capirne puranco il significato. Questo bel matto arrivato fra loro in
costume adamitico e scarpe gialle era un Berlinese purosangue!... _Er
lebe hoch!_

                                  ***

E fu in questo modo che la famigerata Wasserleiche — l’Annegata del
Caffè des Westens — e la sua amica Mélanie salvarono la vita ad un
valoroso ufficiale belga.

Ed è questa, probabilmente, l’unica buona azione ch’esse abbiano mai
compiuta nella loro deplorevole e sciagurata esistenza.



                                  XXI.


Nei primi giorni di maggio, il lento fiume Ourthe e la spumeggiante
Aisne, incontrandosi nei pressi di Bomal, si salutarono coi soliti
frizzi e spruzzi. «Eccoti qui, pettegola,» brontolò l’Ourthe. «Non si
può mai fare questa strada in pace.»

«Sei tu che ti spingi vicino,» protestò l’Aisne. «Guarda che gomito fai!
Stammi più lontano.»

«Devo pur passare sotto il ponte,» borbottò l’Ourthe.

«Anch’io!»

«Ah, vedo già che tu vuoi farmi straripare,» gorgogliò l’altro
stringendosi nelle sponde.

«Oh, guarda, guarda!» fece l’Aisne, per cambiar discorso. «C’è una
cicogna che passa sopra di noi.

«E che me n’importa?»

«E’ la cicogna che porta i bambini! Guarda — ne ha uno nel becco!...»

«Farebbe meglio a lasciarlo cadere,» brontolò l’Ourthe; «qui sono molto
profondo.»

L’Aisne che lo era poco non comprese il bisticcio. «Come sei plumbeo,»
disse, avvicinandosi sempre più, sinuosa e serpentina. «Sarà che vuol
piovere.»

«Se piove,» mugghiò l’Ourthe, rabbrividendo, «farai bene a stare nel tuo
letto.»

«Io no!» esclamò l’Aisne. «Vengo nel tuo!» E con un balzo gli fu
accanto, tutta arricciata e increspata.

«Oh, che ti pigli la Mosa!» spumeggiò l’Ourthe, gonfio ed iroso.

.... E a Liegi la Mosa se li prese tutt’e due.

                                  ————

La cicogna frattanto era volata alta sopra il ponte di Bomal. Scese a
cerchi digradanti sopra la casa del dottor Brandès. Pose una zampa sul
tetto e si fermò.

Schiuse con precauzione il becco. «Apri gli occhi, bambino umano,»
disse: «Eccoci arrivati.»



                                 XXII.


    _«Rockaby, lullaby,_
    _«bees in the clover..._»

cantava Nurse Elliot, facendo dondolare la culla e guardando
distrattamente dalla finestra donde si scorgeva il campanile della
chiesa di Bomal e le cime ondeggianti degli alberi nel cimitero.

«Forse,» sospirò Miss Elliot, infermiera della Croce Rossa Americana,
«forse questa povera creaturina starebbe meglio se dormisse già laggiù,
sotto quegli alberi....»

Quasi in assentimento il bimbo nella culla emise un malinconico vagito.
Allora Miss Elliot ricominciò a ninnare la culla ed a cantare.

Il bambino rinunciò subito a gareggiare con quella poderosa voce di
contralto e per disperazione si riaddormentò. Non era al mondo che da
sette giorni e, a dir vero, non vi aveva trovato gran che da
rallegrarsi; Vi era molto trambusto e canto, poco nutrimento e parecchi
dolori di qua e di là.

«Questa è la vita!» gli disse la cicogna che stava ancora sul tetto,
ritta su una gamba sola, a riposarsi dal viaggio. «Potevi stare
dov’eri!»

«Non si potrebbe tornar via?» pianse il piccino. «Si stava assai bene
nell’azzurra landa dell’inesistenza, sdraiati nel calice d’un fiore di
loto.»

La cicogna si strinse nelle ali e si pettinò le piume col becco. «Abbi
pazienza. La vita dura poco.»

«Quanto tempo dura?» chiese il bambino umano, un poco inquieto.

«Meno di cent’anni,» rispose la cicogna.

Allora il bambino pianse più di prima. «Ma come? Ma perchè dura così
poco?»

«Ah, questa stolta, illogica umanità, quanto la disprezzo,» disse la
cicogna; e volò via.

                                  ————

Erano arrivate a Bomal dieci giorni prima, Luisa, Chérie e Mirella, dopo
un viaggio terribile traverso l’Olanda e le Fiandre. Alla stazione di
Liegi Chérie stava così male da muovere a compassione anche le autorità,
che permisero a un’infermiera di accompagnarla fino a Bomal. La buona
Nurse Elliot ottenne dalla Croce Rossa il consenso di rimanervi ad
assistere l’ammalata fino ad evento compiuto.

Al loro arrivo a Bomal Luisa non era andata direttamente a casa. Le
mancava il coraggio di condurvi Mirella. Tremava — ella stessa non
sapeva di che. Avrebbe la bambina riconosciuto quei luoghi? Quale
effetto produrrebbe sulla piccola anima sensitiva la scossa di tali
ricordi?.... Luisa si sentì incapace di affrontare una nuova emozione;
le fatiche e le angoscie del viaggio aggiunte alla tormentosa
inquietudine, d’ora in ora crescente, per lo stato di Chérie, l’avevano
affranta. Decise dunque di condurre Mirella in casa della loro vecchia
amica, Madame Doré.

Incerta dell’accoglienza che ne riceverebbe, tremante dei mutamenti che
vi potrebbe trovare dopo nove mesi d’assenza, Luisa battè con tremante
mano alla porta della «Maisonnette des Lilas.»

Fu Madame Doré in persona che venne ad aprire. Ma era questa veramente
Madame Doré? Questa donna dai capelli bianchi, dal volto stralunato, che
la fissava senza riconoscerla?

«Madame Doré! Sono io, Luisa e la piccola Mirella! — Non ci
riconoscete?»

La donna sussultò. «Zitta, parla piano. Entra, entra!» E prendendole il
braccio la trasse rapida nell’anticamera e chiuse a chiave e col
catenaccio la porta di casa.

Il suo sguardo era oscillante, smarrito, e di tratto in tratto uno
spasimo nervoso le contraeva il volto.

«Oh, mia cara!» esclamò Luisa, e l’abbracciò piangendo.

Madame Doré la condusse di sopra nella sua camera da letto, ed anche là
chiuse la porta a doppio giro: aveva l’ossessione di essere
costantemente spiata e vigilata.

Allora sottovoce, tra il pianto, narrò a Luisa la sua terribile storia —
Andrea ucciso nella notte del 4 agosto sul piazzale della chiesa;
Jeannette, quindicenne, preda della soldataglia tedesca e morta in un
ospedale di Bruxelles; Cecilia fuggita in Inghilterra.

Ed a sua volta la triste donna apprese dalle labbra di Luisa il loro
triplice martirio.

Col cuore stretto da un’infinita pietà Madame Doré accarezzava i morbidi
capelli di Mirella. «Sì, sì; lasciala pure con me. Puoi essere
tranquilla sul suo conto. Sarà anzi un grande conforto averla qui. Ah,
se ci fosse anche Cecilia che l’amava tanto!»

«Come mai Cecilia ha trovato il coraggio di partire così, tutta sola?»
chiese sommessa Luisa.

«Altre quattro donne di Bomal sono andate con lei. Ve n’era una che
aveva dei parenti nella contea di Surrey... Qui Cecilia non poteva più
vivere,» singhiozzò la madre, «dopo la morte di Jeannette e di suo
fratello Andrea. —» Di nuovo lo spasimo nervoso le contrasse il viso
macilento. «Tu sapevi di lui... che l’avevano ammazzato a fianco del
nostro povero curato in quella notte....»

Sì, Luisa sapeva. E strinse forte tra le sue le mani scarne e tremanti
della vecchia amica.

Parlarono di tutti i loro amici e conoscenti. Su tutti, su tutti era
passata la procella, travolgendo, rovinando quelle esistenze, mandandole
disperse per il mondo....

«Taci!» sussurrò improvvisa Madame Doré afferrando il braccio di Luisa.
«Ascolta! Ascolta!»

Fuori si udivano i passi cadenzati della soldatesca, e un vociar rude,
ed imprecazioni e risa.

«Li senti, i nostri padroni?» susurrò Madame Doré stringendosi convulsa
a Luisa. «Entrano nelle nostre case quando vogliono, anche nel cuor
della notte. Entrano e frugano da per tutto; portano via i nostri
denari; leggono le nostre lettere; ci comandano, consultano a piacer
loro. A noi non è lecito nè parlare, nè pensare, nè esistere senza il
loro consenso e la loro approvazione. Viviamo sotto la minaccia perenne
della prigione o della deportazione. E abbiamo fame... si, abbiamo anche
fame! Ah! perchè, perchè non ho avuto il coraggio di partire anch’io?
Potevo rifugiarmi con Cecilia in Inghilterra....»

«Era forse meglio,» disse Luisa a bassa voce.

«Che vuoi? Non ho osato abbandonare i miei morti.... E poi mi sentivo
così vecchia, così vecchia e spaventata... Ed ora eccomi qui rinchiusa
nel Belgio come in un carcere — e Cecilia è lontana e sola!»

Invano Luisa tentò confortarla con parole soavi e tenere carezze. La
vecchia donna era colpita al cuore e desolata. Il solo fatto che Luisa,
quando era in Inghilterra, non aveva veduto Cecilia nè avuto nuove di
lei, le empiva l’animo di sgomento. Chissà che ne era di Cecilia in quel
lontano paese, tra quella gente straniera!

«Non temete per lei,» la confortò Luisa. «Non le accadrà alcun male. Gli
inglesi sono brava gente.» E, mentre lo diceva, un improvviso senso di
rimpianto, di struggimento quasi nostalgico le morse il cuore. Ah,
invero gli inglesi — che brava gente! L’Inghilterra! che porto sicuro,
che rifugio di salvezza! Come placida e calma e forte nella sua cerchia
di acque grige!...

«Forse,» pensò Luisa ritornandosene sola traverso il villaggio e
cercando di schivare lo sguardo di gente estranea e dei soldati tedeschi
che camminavano da padroni in mezzo alla via, «forse era meglio rimanere
in quel nostro lontano esilio, e non tornar qui per essere alla mercè
delle belve che ci hanno conquistate...»

E ripensando a Jeannette, Luisa impallidì.

                                  ————

Frattanto in casa del dottor Brandès l’energica e attiva Miss Elliot non
aveva perduto tempo. Data una rapida rivista alla dimora saccheggiata
aveva constatato che, sebbene gli invasori avessero portato via
argenteria, quadri e ogni altra cosa di valore, restava tuttavia intatta
la biancheria di casa, nè mancavano gli utensili domestici più
necessari.

Energica e gaia ella accomodò Chérie in un letto candido, le spazzolò i
bei capelli e glieli raccolse in due lunghe treccie lucenti; le diede da
mangiare del pane e del latte; poi, chiuse le imposte, con un bacio
sulla fronte la lasciò.

Indi si mise risoluta a ripulire la casa; bisognava far sparire il
disordine e la confusione prima dell’arrivo di Luisa.

Dal pianterreno alla soffitta la casa era sparsa di piatti sporchi, di
bicchieri, di bottiglie, di mozziconi di sigari e di sigarette.
Materassi e coperte colle impronte di scarpe fangose ingombravano i
pavimenti; cassetti e armadi erano stati vuotati e il loro contenuto
rovesciato per terra. Stoviglie, brocche e catinelle d’acqua sporca
erano su tutti i mobili — sulle credenze, sulle tavole, sulle sedie.

Miss Elliot pulì, spazzò, vuotò, strofinò, indi aprì tutte le finestre,
accese tutti i fuochi nei caminetti — e quando Luisa, ansante e pallida,
battè al portone Miss Elliot le aprì con un sorrisetto di soddisfazione.
Indi la seguì di stanza in stanza notando commossa il fluttuante raggio
di gioia che appariva su quel pallido viso alla vista di tante cose note
e care....

Ah, questa era casa sua! Casa sua!... E Luisa guardandosi intorno
nell’ambiente famigliare sentì tornarle in cuore — trepida ospite
desueta — la speranza.



                                 XXIII.


Il bambino aveva già tre settimane, ed ancora Chérie non aveva veduto nè
amiche nè conoscenti; nessuno era venuto a trovarle ed ella non osava
uscire. Di giorno si vergognava di farsi vedere per le vie, e dopo il
tramonto i regolamenti dell’invasore vietavano agli abitanti di Bomal di
uscire dalle loro case.

Chérie tremava al pensiero di doversi incontrare con qualcuno di
conoscenza. Vero è che ben pochi ne rimanevano nel villaggio; chi aveva
potuto partire, era partito. Gli uni si erano rifugiati all’estero, gli
altri si erano radunati nelle grandi città, come Liegi o Bruxelles,
sperando forse di trovarvi libertà maggiore e di sentirvi meno
amaramente il loro stato di sottomissione e di schiavitù.

Venne un giorno un telegramma che richiamava Mary Elliot a Liegi. Era un
soleggiato pomeriggio verso la fine di maggio, e l’infermiera, chiusa la
sua valigia, ripiegato il suo mantello, si accinse alla partenza.

Chérie piangeva. «Restate ancora, Nurse Elliot, restate ancora con
me!...»

«Impossibile, mia cara,» rispondeva Miss Elliot, che non voleva sembrare
commossa. «Devo tornare al mio posto a Liegi. Del resto qui non avete
più bisogno di me.»

«Oh! tanto bisogno abbiamo di voi!» pianse Chérie. «Io mi sentirò così
sola, così abbandonata!»

«Abbandonata? Col vostro bambino? Con vostra cognata? Sciocchezze!»
disse l’infermiera in tono energico, scoccando un bacio sulla guancia
pallida di Chérie.

«Ma Luisa mi parla appena!» singhiozzò quella, desolata. «Sapete pure
ch’essa odia il mio bambino e me!»

«Sciocchezze!» ripetè, Miss Elliot. Ma in cuor suo sentiva che Chérie
diceva il vero.

Era infatti impossibile non accorgersi dell’avversione quasi morbosa che
Luisa provava per il povero piccolo intruso. Luisa stessa, per quanto
tentasse di vincere o di nascondere questo sentimento non ci riusciva.
Ogni lineamento di quel minuscolo viso, ogni filo dei fini capelli d’oro
chiaro, e la piccolissima bocca imbronciata, e gli strani occhi d’un
grigio chiarissimo — tutto, tutto le era odioso, tutto le faceva orrore
e ribrezzo e paura.

Quando vedeva Chérie sollevarlo e baciarlo, si sentiva impallidire;
quando vedeva al petto di Chérie quella piccola testa impaziente, e le
manine cercanti e tastanti sul giovane seno materno, era presa da un
senso di nausea e di esecrazione. Per quanto ella dicesse a sè stessa
che questo era irragionevole e crudele, pure non riusciva a vincere un
sentimento che aveva le sue radici nella più profonda essenza della sua
anima belga. Il suo odio era un istinto primitivo, ingenito, come
ingenito ed istintivo era l’amore di Chérie per la sua creatura.

«Oh, sì, si, Mary! Luisa ci odia, ci odia entrambi,» ripetè Chérie
stringendosi con gesto disperato le mani sul cuore. «Se mai per un
istante mi accade di scordare le nostre tristezze, se gioco col piccino
e gli sorrido, subito sento gli occhi di Luisa fissi su di noi, ostili,
implacabili. Luisa ci odia. E tutti, tutti ci odieranno così. Sì! Sì!
Tutti ci guarderanno con quegli occhi d’ira e di disprezzo. Ahimè! Dove,
dove andremo a nasconderci, io e quel povero piccolo essere sfortunato?»

E volse una sguardo lacrimoso alla porta della camera che celava la
culla.

Mary Elliot sospirò; poi si legò la cuffia sotto al mento e si mise i
guanti. Era pronta alla partenza.

«Mia piccola amica,» disse gravemente ponendo le due mani sulle esili
spalle di Chérie, «il fato, qualunque esso sia, lo dovrete affrontare. E
lo affronterete con coraggio.» La baciò affettuosamente sulle due
guancie. «Ed ora se mi volete un po’ di bene, se in questi tristi giorni
ho potuto confortarvi un poco — ecco venuto il momento di
compensarmene!»

«Ah, come — come potrò mai compensarvi?» singhiozzò Chérie.

«Mettendovi il cappello, prendendo il vostro bambino tra le braccia, ed
accompagnandomi alla stazione.»

«Alla stazione! Io!... col bambino! — oh, no! Non me lo chiedete!» Una
vampata di rossore le era salita al viso.

In quel punto entrò Luisa pronta ad uscire.

«Sì,» ripetè l’infermiera fissando in volto a Chérie i suoi occhi
risoluti. «Mi accompagnerete alla stazione — voi, vostra cognata ed il
bambino. Verrete tutti e tre a dirmi addio e ad augurarmi buona
fortuna.»

«Ve ne supplico, non mi chiedete questo,» mormorò Chérie.

«Lo chiedo,» disse Mary gravemente; «e voi non me lo potete rifiutare.
Non vi ho forse dato molti giorni e molte notti di veglia e di cura? E
molto affetto e molta tenerezza? Ebbene, questo è l’unico compenso che
io vi chiederò.» Si avvicinò ancor più a Chérie e la circondò col
braccio. «Ma non capite, cara, che prima o poi, oggi o domani, dovrete
pur decidervi a questo passo che tanto vi spaventa? Non vorrete già
chiudervi per sempre fra queste quattro mura, voi e il vostro bambino!
Su dunque, prendete il vostro coraggio a due mani e venite fuori ad
affrontare il mondo! Oggi — immediatamente — mentre ancora io sono con
voi.»

Chérie esitava, pallida e titubante. D’un tratto si volse a Luisa:

«Tu — tu usciresti con me?»

Vi era tanta umiltà, tanta angoscia in quella domanda che Luisa ne fu
tocca.

«Ma certo, cara,» rispose. «Corri, corri a vestirti.»

A quella risposta il cuore di Chérie ebbe un palpito di gioia. Afferrò
la mano di Luisa e la baciò; poi corse rapida nella sua camera.

Indossò il modesto vestito nero che aveva portato nel viaggio
dall’Inghilterra; ma il bambino lo vestì con tutto ciò che aveva di più
bello. Gli mise il mantello bianco ricamato da lei, e la cuffietta di
merletti adorna di nastri celesti, e le più eleganti scarpette a maglia
di seta azzurra. Poi lo prese in braccio e andò a mettersi con lui
davanti allo specchio.

Insomma, dopo tutto, era un gran bel bambino, non è vero? Non si poteva
dire che non fosse bello come un cherubino. La gente avrebbe forse
potuto odiarlo non conoscendolo.... ma appena l’avessero visto!...

Tremante, arrossente, sorridente, ella apparve al cancello del cortile
dove già Mary Elliot e Luisa l’aspettavano. In mezzo a loro due uscì
nella via e s’avviò tremante. Assai giovane, assai commovente ell’era,
colle guancie vermiglie per l’emozione, volgendo in giro gli occhi
lucenti e timorosi.

Chissà se incontrerebbero qualcuno? Qualcuno di loro conoscenza?....

Sì. Incontrarono Mademoiselle Veraender, la maestra di scuola. Questa le
guardò, trasalì, poi facendosi di fuoco in viso, passò dall’altra parte
della strada. Poi incontrarono Madame Linkaerst con sua figlia
Clairette, compagna di scuola di Chérie. La ragazza diede
un’esclamazione di gioia nel riconoscerle, ma la madre la prese
bruscamente pel braccio e svoltò con lei in una via laterale.
Incontrarono quattro soldati tedeschi che fumavano e parlavano ad alta
voce tra di loro; questi si fermarono a guardare con curiosità
l’infermiera della Croce Rossa americana; poi guardarono Luisa; poi
Chérie, col suo bambino in braccio.

Uno di loro fece un’osservazione e gli altri dettero in una grande
risata. Si fermarono tutt’e quattro in mezzo alla strada a guardare le
tre donne, e quello che pel primo aveva parlato, fece con la mano un
gesto di saluto a Chérie.

«_Was haben wir da? Ein Vaterlandskindlein, gewiss!_»

E gettò un bacio al piccino.

Tre o quattro monelli che correvano dietro ai soldati beffeggiandoli e
imitando la loro andatura arrogante, videro quel gesto e
l’interpretarono colla malizia che caratterizza il monello d’ogni paese.
Anch’essi si misero ironicamente a gettare baci a Chérie e al bambino,
gridando: «_Petit boche, quoi?... Fi donc le petit Prussien!_»

Chérie tremava come una foglia.

Un uomo che passava, zoppo e non più giovane, comprese la situazione e
rincorse i ragazzi col suo bastone. Allora altra gente si fermò.
Qualcuno tra essi riconobbe Luisa e Chérie; ma nessuno le salutò;
nessuno sorrise al bambino nella sua cuffietta coi nastri ceruli e il
suo mantello ricamato.... Tre o quattro oziosi seguirono le donne fino
alla stazione, ridacchiando e lanciando frizzi grossolani ed insultanti.


Mary Elliot partì. Fu una triste separazione.

Allora Luisa e Chérie tornarono a casa silenziose, facendo un gran giro
per evitare le strade più frequentate. Mentre risalivano il viottolo
ombroso dietro la casa, Luisa volse uno sguardo alla cognata e si sentì
stringere il cuore. Povera piccola Chérie! Quanto era bambina ancora,
nonostante i suoi diciannove anni! E come triste, spaurita e vergognosa!
Come aiutarla? Quale conforto porgerle? Quale speranza?

Nessuna! Nessuna! A meno che il bambino morisse.

Ma perchè avrebbe dovuto morire quella nefasta creatura? Non era esso
forse frutto della giovinezza potente e della brutale vitalità? Non
traeva il suo sostentamento dalle più pure sorgenti della vita? Perchè
avrebbe dovuto morire? No, il bambino vivrebbe — vivrebbe per essere
fonte di danni e di dolori, per portare vergogna e tristezza a tutti.
Vivrebbe a ricordo eterno dell’oltraggio nemico, vivrebbe per tenere
accesa eternamente la fiamma dell’odio nei loro cuori.

Chérie sentendo su di sè lo sguardo di Luisa si volse a lei con un
rapido palpito di speranza.

All’anima sua sensibilissima non era sfuggito quel primo soffio
passeggero di compassione e di tenerezza. Che Luisa volesse rivolgerle
una parola di conforto e di pietà?... Che la vista del povero piccolo
innocente le avesse finalmente toccato il cuore?

Ah, no! no! Ecco ancora negli occhi di lei quel lampo di risentimento,
quel fiammeggiare terribile d’ira e di vergogna.

Abbassando ancor più il capo sul suo bambino, Chérie affrettò il passo e
rientrò in casa.



                                 XXIV.


Dopo la partenza di Miss Elliot la casa sembrò più che mai deserta e
malinconica. Luisa stava per lo più chiusa in camera sua e Chérie non
parlava mai. Già, con chi avrebbe parlato? E di che cosa avrebbe parlato
se non del suo bambino?

Altre mamme — rifletteva Chérie con amarezza — parlavano tutto il giorno
dei loro bambini; anch’ella avrebbe voluto parlarne. Ma chi le avrebbe
dato ascolto?

A chi poteva essa raccontare tutte le meraviglie che andava scoprendo di
giorno in giorno nella sua creatura? A chi dire che nei sogni il piccino
sorrideva sempre? (E questo, tutti lo sanno, significa che gli angeli
gli vengono a parlare!) A chi mostrare la fossetta nel mento, le
fossette nei gomiti, i morbidi riccioli d’oro chiaro, i piedini rosati
come petali di eglantina? Luisa stessa di tutte queste meraviglie non
sapeva nulla, nè Chérie osava parlargliene.

No. Il silenzio — un silenzio profondo e crudele — era intorno a quella
povera culla.

Per timore che il bambino disturbasse Luisa, Chérie aveva lasciato fin
dai primi giorni la sua camera, e dormiva nella stanza degli ospiti
accanto al salotto — quella stanza dalla portiera rossa che, strano a
dirsi, pareva non ridestare in lei alcuna memoria.

Un giorno ch’ella vi sedeva malinconica, col suo bambino tra le braccia,
Luisa — che non varcava quasi mai quella soglia — aprì l’uscio ed entrò.

Con un sorriso di gioia Chérie alzò il viso per darle il benvenuto, ma
vedendo che Luisa distoglieva lo sguardo da lei e dal bambino dormente,
non osò dir nulla.

«Vengo a dirti,» fece Luisa ad occhi bassi, «che questa sera verrà qui
Mirella. Vado adesso da Madame Doré a prenderla.»

Chérie sussultò. «Mirella!... Mirella verrà qui?»

«Pensavi forse ch’io volessi lasciarla eternamente in casa d’estranei?»
Gli occhi di Luisa si riempirono di lacrime. «Ho sofferto già troppo
della sua lontananza.»

«Oh, lo so.... lo capisco,» balbettò Chérie. «Ma... io — che cosa farò?»

«Che cosa vuoi fare?» chiese con infinita amarezza Luisa.

Chérie si chinò sul piccino. «Non so. Vorrei che ci potessimo
nascondere, il bambino ed io; nascondere dove nessuno mai ci potesse
trovare.»

Luisa non rispose. Sedette, volgendo altrove il capo, cercando di non
essere spietata, lottando contro quel senso di feroce, implacabile
rancore di cui ella stessa era la prima a soffrire.

«Mirella verrà qui!» ripetè Chérie sommessa. «E quando vedrà il bambino
— che cosa dirà?»

Luisa alzò il capo con un singulto di selvaggio dolore. «Ah, non dirà
nulla, povera Mirella! Non dirà nulla.»

No! No! qualunque cosa accadesse, Mirella — quel folletto un tempo così
allegro e chiacchierino — non direbbe nulla. Vedrebbe Chérie con un
bambino tra le braccia, e non direbbe nulla. Vedrebbe sua madre
inginocchiata davanti a lei implorando una parola — e non direbbe nulla.
Vedrebbe tornare suo padre dalle trincee — ed ella resterebbe muta. O
forse, egli non tornerebbe più, ed alla notizia della sua morte ella non
schiuderebbe il labbro.

Quest’altro bambino, questo intruso, questo essere aborrito e funesto,
crescerebbe allegro e sano, imparerebbe a parlare, imparerebbe il riso
ed il sorriso; chiamerebbe Chérie col dolcissimo nome che a Luisa
nessuno direbbe mai più. Mentre Mirella....

Chérie si era alzata col piccino in braccio. Trepida venne a
inginocchiarsi ai piedi della cognata.

«Luisa! Luisa!... Non puoi amarci un poco? Non puoi perdonarci? Che cosa
ti abbiamo fatto, Luisa? Che cosa ti ha fatto di male questo povero
piccolo essere, perchè tu debba odiarlo così? Non è per me, vedi, non è
per me che imploro la tua pietà, il tuo affetto. Io posso vivere
disprezzata e odiata, perchè so... perchè capisco.... Ma per lui
t’imploro, per lui! che entra nella vita credendo di essere come tutti
gli altri bambini, credendo che tutti l’ameranno... Ah, per lui ti
supplico, t’imploro — una parola di tenerezza, Luisa, una parola di
benedizione!»

Aveva afferrato con mano tremante l’orlo della veste di Luisa, e si
chinava a baciarlo piangendo. «Luisa, se tu mettessi la mano sulla sua
fronte e dicessi: «Iddio ti benedica!» credo che io ne morrei di
felicità. Non puoi dirle, Luisa, queste tre parole che tutti dicono,
anche ai più poveri, anche ai più reietti? «Iddio ti benedica!...» Che
cosa ti costa? Questa piccola preghiera, la più breve di tutte — dilla,
dilla per lui!»

Silenzio. Luisa non si mosse.

«Luisa,» singhiozzò disperata Chérie. «Pensa, pensa ai giorni di dolore
che verranno per me e per lui. E non vuoi fargli un augurio? Non vuoi
che Dio lo salvi e benedica?... Ah, Luisa, è troppo triste, è troppo
crudele che nessuno, nessuno abbia mai invocato una benedizione sopra un
bambino così derelitto e disgraziato!»

Gli occhi di Luisa si soffusero di pianto. Chinò lo sguardo sul tenero
viso del piccino — e trasalì. Aveva incontrato lo sguardo strano di
quegli occhi chiarissimi fissi nei suoi.

Erano occhi crudeli. Erano gli stessi occhi che l’avevano fissata
beffardi e canzonatori dal fondo della stanza, quand’ella a ginocchi
davanti all’oppressore implorava pietà. Sì; nel momento supremo in cui
le sue preghiere e quelle di Mirella parevano aver commosso il cuore del
nemico — quegli occhi, quegli stessi strani occhi grigio-chiari che ora
vedeva aperti nel piccolo volto di fiore, avevano lampeggiato su lei
freddi, ironici, spietati....

.... «_Il suggello della Germania deve essere impresso sul paese
nemico...._»

Erano quegli occhi che avevano pronunciato la sua condanna.

«Non posso, non posso benedirlo,» singhiozzò Luisa. E distolse il viso.



                                  XXV.


Era calato il crepuscolo, e la nebbia sottile saliva strisciante su dai
due fiumi, allorchè Luisa col capo avvolto in una sciarpa nera, uscì di
casa per andare alla Maisonnette des Lilas. Si guardò intorno. Le strade
erano deserte e quasi buie. Per arrivare alla casa di Madame Doré senza
passare dal piazzale della chiesa dove a quest’ora si riunivano a
crocchi i soldati tedeschi, Luisa decise di passare per la straduccia
scura e stretta detta Ruelle de la Bise. Già stava per svoltarvi
allorchè scorse in fondo al vicolo una figura curva e sbilenca; era un
contadino fiammingo, che s’avvicinava lento e zoppicante. Borbottava tra
sè e sè, ed aveva un aspetto così poco rassicurante sotto il
cappellaccio di feltro calato sugli occhi, che per evitarlo Luisa
preferì tornare indietro e attraversare la piazza.

I soldati che vi stavano raggruppati chiacchierando e fumando non
badarono a lei ed ella s’affrettò, quasi correndo, verso la casa
dell’amica.

Nel suo cuore era nata una nuova ineffabile speranza. Ella andava a
prendere Mirella; l’avrebbe ricondotta a casa. Per la prima volta da
quella terribile alba in poi, la fanciulletta si sarebbe ritrovata
nell’ambiente noto alla sua infanzia, e — Luisa lo pensò con un sussulto
— e nella stanza stessa in cui si era compiuto il suo martirio.

Ora, ritrovandosi d’improvviso in quell’ambiente in cui il trauma
psichico lo aveva tolto la favella, non poteva darsi — Luisa quasi non
osava formulare nel suo pensiero la folle speranza — non poteva darsi
che Mirella sarebbe d’un tratto guarita? Casi simili se ne erano pur
dati. Luisa ricordava d’aver sentito dire — o forse l’aveva letto? — di
persone dementi che ritrovavano subitamente la ragione, di persone mute
che ritrovavano la favella sotto la scossa morale di qualche grande
emozione.

Col cuore in tumulto ella affrettò il passo per le silenziose vie.

Frattanto, nella Ruelle de la Bise, l’uomo che Luisa aveva scorto
proseguiva zoppicante per la sua strada. Uscendo dal vicolo egli volse a
destra e si trovò di fronte alla casa del dottor Brandès.

Si fermò di botto e guardò su. Le finestre erano aperte, tutte aperte
alla fresca aria vespertina. A quella vista un fiero palpito di gioia
gli scosse il cuore. La casa era dunque abitata. Da chi? Da chi? Erano
tornate le esule? Erano tornate sane e salve a Bomal? Claudio aveva pur
scritto che erano partite dall’Inghilterra per tornarsene in patria....
Erano dunque qui — qui a due passi da lui?

Un brivido di gioia scosse Florian Audet.

Era stata questa speranza che gli aveva ispirato il coraggio di tentare
un’impresa quasi impossibile — la fuga dall’ospedale di Liegi traverso
il paese invaso. Era il pensiero di rivedere Chérie che lo aveva
sorretto in quel viaggio temerario traverso tante miglia di terreno
battuto dalle pattuglie tedesche. Quando per la prima volta in
quell’ospedale, dove tutti parevano ancora incerti se trattarlo da
ammalato o da prigioniero, gli era balenata l’idea della fuga, egli
l’aveva scacciata da sè, dicendosi che era una follia del suo cervello
indebolito. Ma sempre la visione di Chérie pareva invocarlo; ella gli
era al fianco, fantasma incalzante, quando nel cuor della notte colle
mani lacere e sanguinanti egli lavorò ad allentare e sciogliere le
maglie del reticolato che sorgeva intorno all’infermeria; la bianca sua
mano lo aveva guidato per monti e valli, la sua voce soave lo aveva
confortato nelle lunghe giornate senza cibo, nelle lunghe notti di
veglia; lo aveva incalzato a celarsi nei boschi, ad accovacciarsi nei
fossati, a traversare a nuoto i fiumi, a scavalcare muraglie e roccie, a
vincere perigli d’ogni sorta, ad affrontare mille morti per arrivare a
lei.

Ed ora ella forse era là! Là in quella casa davanti a lui — a portata
della sua voce, in vista de’ suoi occhi! Là, dietro quelle gaie finestre
aperte!...

Florian ricordò come in quella sera fatale, non anco un anno fa — ah,
come la Morte e la Devastazione erano passate sul mondo in quel
frattempo! — egli era venuto a galoppo per queste vie tranquille ed
aveva veduto, come ora, le finestre spalancate alla blanda aria serale.
Come allora, gli parve di udire un coro di chiare voci che cantavano:

    _«Sur le pont_
    _«D’Avignon_
    _«On y danse_
    _«On y danse....»_

Dette una rapida occhiata in giro, poi alzando il capo, fischiò sommesso
il ben noto motivo.

    _«Sur le pont_
    _«D’Avignon_
    _«On y danse_
    _«Tout en rond....»_

                             .  .  .  .  .

Chérie era rimasta sola col suo bambino che le dormiva fra le braccia.

Ella aveva sentito uscire Luisa; l’aveva udita chiudere la porta
esterna; per un istante anche il suono dei suoi passi che
s’allontanavano leggeri e frettolosi le era giunto all’orecchio, tanto
era silenziosa e deserta la via.

Ed ora Chérie era sola; sola coi suoi pensieri.

Ecco. Luisa andava a prendere Mirella. Tra poco sarebbero ritornate
insieme. Bisognava venire ad una decisione. Che cosa doveva fare Chérie?
Come poteva incontrarsi con Mirella? Andarle incontro col bambino tra le
braccia? Ah, mai, mai!

No, bisognava nascondersi, nascondersi col bambino perchè Mirella non lo
vedesse. Certo, come diceva Luisa, la povera Mirella non avrebbe detto
nulla — nulla, cioè, che orecchio umano potesse percepire. Ma l’anima di
Mirella che cosa avrebbe detto? Chi poteva sapere ciò che Mirella vedeva
o non vedeva? Come essere certi che non fosse capace di vedere, di
ricordare, di odiare, forse, come Luisa odiava? Ah, Chérie sentì che
tale odio — l’odio silenzioso di quella piccola anima di mistero —
sarebbe anche più terribile, più impossibile a sopportare che non
l’esecrazione palese di Luisa.

Già, era possibile anche questo strazio. Mirella, la piccola Mirella,
vedendo quegli occhi strani, chiarissimi, spalancati nel viso del
bambino — forse ricorderebbe.... Ricorderebbe l’uomo che l’aveva
martirizzata, che l’aveva torturata e legata alla ringhiera, legata col
piccolo viso folle rivolto all’uscio.... già, proprio a quest’uscio
dalla tenda rossa....

Sì, potrebbe essere così. Il ricordo e l’orrore tornerebbero alla mente
smarrita di Mirella ogni volta che scorgeva quei grandi occhi chiari del
bambino.... Chérie abbassò lo sguardo per vederli; in questo momento
erano dolcemente socchiusi, mentre la testolina s’annidava assonnata sul
petto materno.

Chérie si chinò sopra la sua creatura, baciò i biondi capelli e gli
occhi assonnati e la piccola bocca dolce. E che importava a lei se tutti
l’odiavano? Essa lo amava, lo amava coll’amore di tutte le mamme, lo
amava d’un amore fatto più grande dalla sofferenza, dalla disperazione,
dalla vergogna.

«Piccolo mio,» susurrò, «perchè non ci hanno lasciati morire tutt’e due
in quel mattino di maggio, quando tu non eri ancora entrato nella vita
ed io ero già così vicina alla morte? Perchè non ci hanno lasciati
sparire, dileguare nell’eterna pace, te ed io insieme, lontani da queste
tristezze e da queste pene?»

Ma il bambino dormiva sorridendo agli angeli.

E poichè era tardi, ed era l’ora di metterlo nella culla, ella si levò e
con passo leggiero e colla guancia appoggiata al piccolo capo biondo, se
lo portò nella stanza vicina, allontanando col gomito, nel passare, la
tenda rossa che pendeva sull’uscio.

«Ninna-nanna,» mormorò mettendolo nella culla.

E mentre così faceva si trovò d’improvviso a rammentare, senza una
ragione, la sera del suo compleanno; le veniva in mente — chissà perchè?
— la danza con Jeannette, Cricri, Cecilia....

Questo ricordo correva come un filo luminoso e sconnesso tra mezzo ai
suoi foschi pensieri. Come mai le ritornava alla mente in quest’ora?
Perchè mai riviveva così d’un tratto quella breve ora felice che aveva
preceduto la catastrofe immane, lo scoppio della procella che l’aveva
travolta e ruinata?

Le fanciullesche parole di quella vecchia canzonetta, ecco, le tornavano
alla mente.

    _«Sur le pont_
    _«D’Avignon_
    _«On y danse_
    _«Tout en rond.»_

Chérie sostò; un brivido la percorse. C’era una ragione per quel
ricordo. Qualcuno nella strada fischiettava quella melodia.

Gli occhi le si riempirono di lagrime per i ricordi che quel puerile
motivo le rievocava in cuore.

    _«Sur le pont_
    _«D’Avignon_
    _«On y danse_
    _«On y danse_
    _«Sur le pont_
    _«D’Avignon_
    _«On y danse_
    _«Tout en rond.»_

Piano e pur chiara la melodia persisteva. Non cessava. Non si
allontanava. Persisteva con sommessa insistenza.

Chérie accomodò la coperta e i guanciali della culla, si chinò a baciare
il piccino; poi andò alla finestra. Dovette rizzarsi in punta de’ piedi
per guardar fuori, poichè quella stanza aveva una finestrina ogivale,
alta e tonda come quella della cabina d’una nave.

Appena ella guardò fuori il fischiare cessò. Laggiù nella via una figura
si mosse staccandosi dall’ombra del muro.

Il cuore di Chérie dette un balzo — poi si fermò.

_Florian!_



                                 XXVI.


Indietreggiò vacillante dalla finestre e si guardò intorno, folle,
smarrita, Florian! Era Florian! Che cosa fare? Il bambino — dove
nascondere il bambino?

Il fischio sommesso riprese, ma più urgente con una nota di fretta e
d’ansia. Sì — sì — bisognava far entrare Florian. Come mai era
giunto?... Certo lo minacciavano mille pericoli laggiù sulla strada
aperta...

Chérie abbassò gli occhi e si guardò. Guardò la sua vestaglia bianca
ancora slacciata sul petto — tepido nido del pargolo lattante — e
l’allacciò colle mani che tremavano. Poi scorse uno scialle nero di
Luisa gettato sopra una seggiola; se ne avvolse in fretta le spalle e
corse giù ad aprire.

Florian entrò rapido e chiuse subito la porta dietro a sè. Che strano
aspetto aveva con quel cappotto di tela cerata gialla, e il cappellaccio
calcato sulla testa! Chérie al primo sguardo lo vide cambiato; le parve
più alto, e scuro e scarno in faccia.

Ora, chiusi nel vestibolo buio, ella non ne distingueva più i
lineamenti.

«Chérie!» Egli le aveva afferrato la mano e gliela stringeva forte. «Sei
tu, mia piccola Chérie!...» Aveva la voce rauca per l’emozione. «Dimmi —
chi c’è qui con te?»

«Nessuno,» rispose lei.

«Nessuno? Ma come? Sei sola in casa?»

«Sì —» mormorò Chérie, ritraendo la sua mano. «Cioè —» E tacque.

«Ma tu — vivi qui sola? Ma gli altri dove sono? Luisa? Mirella?»

«Luisa è qui — è uscita... » balbettò Chérie.

Florian trasse un gran sospiro di sollievo. «Ah, Luisa è qui!...
Conducimi di sopra. Guarda che ho poco tempo.» Si chinò per guardarla
meglio. «Cos’hai? T’ho fatto paura?»

«Sì,» rispose Chérie.

«Ma sei livida! Sei spettrale... Chérie —» una nota d’ansia, di terrore
nuovo gli vibrò nella voce. «Cos’hai? Sei ammalata?»

«Sì,» ripetè Chérie e la sua voce era un soffio.

Egli non le chiese altro; la cinse col braccio, sorreggendola nel salire
le scale. La porta del salotto era aperta e Florian entrò rapido
guardandosi intorno nella stanza famigliare.

«Ah, sia lodato Iddio,» disse piano, e traendo seco Chérie che pareva
quasi svenuta, chiuse la porta.

Gettò su una seggiola il largo cappello lacero e il lungo cappotto, ed
apparve vestito di un’uniforme di tela scura come Chérie ne aveva veduto
indosso ai feriti tedeschi.

«Vieni qui, accanto alla finestra — ch’io ti veda.» E la trasse a sedere
dove l’ultima luce di quel crepuscolo di maggio le illuminava il viso.
«Dimmi, Chérie, dimmi! Che cosa hai avuto?... Che ne è di te?»

Gli occhi di lui non si staccavano da quel pallidissimo volto, dalle
fragili forme ritrose, dal chiarore delle chiome raggianti. «Dammi tutte
le notizie. Pur troppo non potrò restar qui molto —» le strinse forte la
piccola mano fredda — «sarebbe pericoloso per voi e per me.... A
quest’ora le pattuglie batteranno tutta la regione per ritrovarmi — e
per ritrovare il cappotto del giardiniere!» soggiunse con un rapido
sorriso che lo fece per un attimo rassomigliare al Florian d’una volta.
«Sono fuggito sette giorni or sono dall’ospedale di Liegi —»

«Dall’ospedale? Sei ferito?»

«No, affatto. Sono stato semplicemente intontito da un’esplosione. I
tedeschi m’hanno trovato, m’hanno creduto «boche» e «meschugge» — che in
berlinese vuol dir pazzo — e da tre settimane mi tengono a letto col
ghiaccio sulla testa....» E rise. «Forse nei primi giorni sarò stato
davvero un po’ tocco nel cervello.... ti vedevo sempre là, ritta a’
piedi del mio letto.... Ma dimmi, dimmi di te! Come stai? Come sta
Luisa?»

«Luisa sta bene.»

«E la piccola? E’ qui?»

«Mirella?» Vi fu una pausa. «Sì, Mirella è qui.»

Qualche cosa nella voce di lei lo colpi. «Che cosa c’è? E’ accaduto
qualche cosa?»

Ella non rispose. Florian si sentì d’un tratto il respiro più corto. La
guardò. Gli parve improvvisamente che questa timida creatura nella sua
veste bianca, nel suo scialle nero, fosse aliena da lui, estranea a lui
e avvolta nel mistero. «Che cosa c’è stato?» ripetè. «Rispondi. — Luisa
dov’è?»

E si guardava intorno nella stanza amica, morso al cuore da un cattivo
presentimento.

«E’ andata a prendere Mirella,» balbettò Chérie.

«A prendere Mirella? Dove? Perchè?»

Chérie alzò gli occhi — erano gli occhi di preda inseguita — e li fissò
in volto a lui.

«Mirella... non è più quella di prima.»

Florian si sentì stretto alla gola come se una tigre l’avesse azzannato.
«Cos’ha?»

«Non riconosce nessuno... » balbettò Chérie, «e non parla più.»

«Non parla più?» Florian stentava a respirare. «Che cosa — che cosa vuoi
dire?»

«E’ muta,» disse con un singulto Chérie.

«Muta!!...»

Ansante Chérie continuò: «Si è spaventata... in quella notte... quella
notte della mia festa...»

Non potè dir altro. Tacque. Ed anche Florian improvvisamente non parlò
più.

Il silenzio di lui sembrò cadere come una roccia sul cuore di Chérie. Il
sudore freddo le perlò sulla fronte.

«Parla,» disse lui alfine con voce rauca.

«Sono venuti qui i nemici...»

«Lo so, lo so che attraversarono Bomal,» gridò Florian soffocato. «Ma
non vennero in questa casa?»

Per tutta risposta Chérie lo guardò negli occhi.

E di nuovo cadde su loro il silenzio — il silenzio fatidico, sinistro.

Allora Florian si levò in piedi e si scostò un poco da lei.

«Vennero in questa casa,» ripetè come se parlasse in sogno. Aveva le
labbra secche e la gola arida; udiva la sua propria voce, e gli sembrava
remota, come se non appartenesse a lui. «Che cosa — che cosa accadde a
Mirella?... Le fecero del male?»

«No. Aveva paura.... strillava.... allora l’hanno presa... e l’hanno
legata là, a quella ringhiera —» additò colla mano tremante la balaustra
di ferro battuto a fogliami e fiori.

Ed anco una volta il terribile silenzio di Florian le cadde sul cuore
come un masso pesante, soffocandola, togliendole il respiro e la vita.

Dopo molto tempo Florian si mosse. Indietreggiò, scostandosi ancora più
da lei; le sue labbra si movevano senza ch’egli potesse pronunciare le
parole.

«E a te.... » la voce gli uscì rauca, a scatti, di tra i denti chiusi,
«a te?... Cos’hanno fatto?»

Silenzio.

Egli attese, attese a lungo, poi ripetè la domanda.

«A te — cos’hanno fatto?»

D’improvviso Chérie cadde in ginocchio e si nascose il volto tra le
mani.

Con un ruggito di belva egli si slanciò su lei, le afferrò i polsi, le
strappò le mani dal viso. «No! Non è vero!» urlò. «Non è vero! Dimmi che
non è vero!»

E frattanto sentiva con odio nella sua stretta quei polsi delicati e
pieghevoli, vedeva con furore quella frale creatura accasciata davanti a
lui in tutta la sua debolezza, in tutta la sua femminea acquiescente
fragilità. Avrebbe voluto sentirla d’acciaio e d’adamante, per poterla
spezzare e frantumare — per poterla stritolare e distruggere.

Prona a terra ai suoi piedi ella singhiozzava e piangeva. Florian per
non colpirla, per non ucciderla serrava i pugni così stretti che le
unghie gli si conficcavano nelle palme.

Guardava quel capo chino, i capelli vaporosi, la nuca bianca, le fragili
spalle sussultanti.... Ah, Dio! Il nemico l’aveva avuta! Il nemico
l’aveva tenuta e forzata e posseduta!

Questa creatura che gli era parsa quasi troppo sacra per il suo amore,
questa eterea vergine liliale di cui egli non aveva mai osato baciare la
fronte, i capelli, le labbra — aveva saziata la bestiale voglia
dell’invasore!... Immondi soldati ubriachi avevano soddisfatto su di lei
le loro lubriche brame — ed eccola lì, spezzata, contaminata,
perduta!...

Con un grido di creatura ferita egli levò al cielo i pugni serrati; il
sangue gli scorreva sui polsi dalle palme lacerate, e le lagrime — le
lagrime roventi che corrodono l’anima d’un uomo — gli scorrevano sul
volto scarno e straziato.

Eccola lì, la creatura rovinata e infranta! Eccola lì, prona davanti a
lui; simbolo della sua patria — della sua patria rovinata e devastata.

Perdute, perdute entrambe!... Spezzate, contaminate, impure.

Ah, invano egli verserebbe per loro tutto il suo sangue e tutte le sue
lagrime. Nulla, nulla più varrebbe a salvarle, nulla più varrebbe a
rialzarle nella loro primiera gloria e purità!

Perduta l’anima della donna, straziata l’anima della patria!...

Iddio! dov’è la Tua giustizia? — Dov’è la Tua pietà?


Scese su loro il grigio crepuscolo e velò d’ombra il viso della donna
che doveva terminare la tragica confessione.

L’uomo non parlò più. Accasciato su di una seggiola, colla fronte nelle
mani, gli pareva di essere morto — morto in un universo morto.

Tutte le fiamme della sua ira, tutti i furori della sua disperazione
erano spenti. La sua anima era ridotta in cenere. Non rimaneva più
nulla. Nulla per cui si dovesse vivere, combattere o pregare.

La donna gli stava ai piedi, singhiozzante. Ma egli non udiva ciò
ch’ella diceva. Una parola soltanto — una parola continuamente ripetuta
gli martellava il cervello come batte il maglio sul ferro rovente. «Il
bambino... il bambino...» Era la parola che ricorreva costantemente
sulle labbra di Chérie: «il bambino.»

«Se non fosse per il bambino, vedi — vorrei morire,» piangeva essa e
s’abbatteva colla fronte a terra. «Ma come faccio a lasciare il bambino?
Un bambino così piccolo, così abbandonato! Nessuno lo guarda, nessuno
gli dice mai una buona parola — mai! Anche Luisa diventa crudele,
diventa come una furia quando vede il bambino. Mio Dio! Mio Dio! Come
passeremo nella vita lui ed io, tra l’odio, il disprezzo, il dileggio di
tutti? Di me importa poco, ma che ne sarà del bambino?...»

Alzò a lui il viso stravolto e lagrimoso. «Ah, forse aveva ragione
Luisa! Avrei dovuto fare come lei — strapparmelo dal seno prima che
nascesse....»

Un brivido profondo scosse Florian.

«Ma non potevo, no, non potevo! Vi era qualche cosa in me di più forte
della mia vergogna, di più forte del mio dolore!... Era come se una voce
— la voce stessa di Dio — mi gridasse: «_La maternità è sacra. Tu non
ucciderai!_»

Florian abbassò lo sguardo su quella figura prona. Era questa la piccola
Chérie, la sua fidanzata? Questa la Chérie dal sorriso luminoso, dalle
guance a fossette, la creatura eterea tra fiore, farfalla e bimba
ch’egli aveva conosciuta e amata? Un gemito gli uscì dalle labbra. Ma
ella non l’udì, non se ne curò. Il dolore dell’uomo non giungeva al
cuore di lei fatto spietato dalla imperiosa, inesorabile passione
materna.

«Ah! lo vorrebbero morto — sì! Io lo so che lo vorrebbero morto. E se
potessimo fuggir via dalla vita, lui ed io insieme, ne sarei contenta.
Ma come — come farlo morire? Quando apre gli occhi e mi guarda, quando
colle piccole mani mi tocca la faccia, come posso io pensare a fargli
del male? Posso io forse colle mie mani stringere quella tenera gola e
soffocare l’alito dolce della sua bocca?...»

Alzava a Florian gli occhi inondati di lagrime, ma non vedeva Florian.
Non vedeva che il suo strazio materno, non vedeva che la sua creatura,
sangue del suo sangue.

Disperata si torceva le mani. «E perchè, perchè, non deve vivere lui?
Vivere ed essere felice come tutti gli altri bambini? Che cosa ha fatto,
povero innocente, per essere odiato, disprezzato, maledetto?»

«Basta!» gridò Florian, «basta di lui —».

Ma ella non l’ascoltava, non l’udiva. Neppure udiva la sfrontata fanfara
tedesca che passava sotto le finestre, lanciando al cielo vespertino
l’insolenza trionfante della «Wacht am Rhein.»

No, Chérie non udiva nulla, non si curava di nulla fuorchè della
creatura sua — sua, e del nemico!

E Florian — soldato — si sentì ribollire il sangue.

«Ed è questo» — gridò sdegnato — «questo che tu trovi a dirmi, quando
ritorno a te scampato dagli artigli della morte? Questo, questo tutto il
tuo pensiero mentre la nostra patria sanguina, straziata dagli immondi
bruti che vi hanno violate entrambe? Ah, maledizione su loro —
maledizione eterna su loro e sulla creatura —»

«No!» con uno strillo ell’era balzata in piedi e gli copriva la bocca
colle mani. «Noi no! Non maledirlo!... Non maledirlo anche tu quel
bambino — che nessuno mai ha benedetto!»

«In nome del Belgio,» tuonò forsennato Florian, «in nome delle donne del
Belgio violentate e straziate, in nome dei loro figli torturati, dei
loro uomini trucidati — io maledico la creatura a cui tu hai dato la
vita. In nome dei nostri cuori lacerati, in nome delle nostre città
incendiate, dei nostri focolari distrutti, dei nostri altari abbattuti e
profanati — lo maledico, lo maledico! Nei nomi sacrosanti di Louvain, di
Lierre, di Mortsel, di Waehlen, di Herselt —»

I nomi sacri al martirio e alle fiamme gli sgorgavano dalle labbra
accrescendo la furia del suo cuore. La donna gemeva, coprendosi gli
orecchi per non udire, per non udire quei nomi tragici e famigliari — il
rosario di fuoco e di strazio del Belgio.

Stringendosi il capo fra le mani, ella piangeva: «Che Iddio non ti
ascolti! Che Iddio non ti ascolti!»

Ma egli alzava la voce fremente nell’atroce litania: «E Malines, e
Fleron, e Notre Dame, e Rosbeck, e Muysen —»

D’improvviso ristette. Un suono — un suono gli aveva colpito l’orecchio.
Che cos’era?

Era un breve grido — il breve, fievole grido d’un neonato.

L’uomo ristette immobile, come impietrito. Gli occhi iniettati di sangue
parevano uscirgli dall’orbita tanto si fissavano ardenti sulla porta
drappeggiata di rosso, donde era venuta quella voce.

Chérie, cieca di terrore, gli si gettò ai piedi gemendo, abbracciandogli
i ginocchi. «Pietà! Abbi pietà! Uccidimi — ma non far male a lui!»

E sempre Florian restava immobile, come impietrito, cogli occhi fissi
sulla porta donde era uscito quel suono. Le disperate parole di lei, il
suo pianto di terrore, non giungevano al suo orecchio. Egli non udiva
che un suono, non udiva che quel grido querulo — il pianto del bambino.
Vincendo i lamenti della donna, vincendo il frastuono dell’inno nemico
che ancora frangeva l’aria, vincendo il tuono delle armi e il fragore
della guerra, ecco saliva dalla terra questo acuto grido di vita — il
pianto dell’umanità.

E questo pianto gli entrò nel cuore come una spada. Gli pareva che in
esso fosse tutta la desolazione e il dolore del mondo. Pareva dire tutta
la tristezza, tutta l’inutilità irrimediabile d’ogni cosa.

Sdegno, ira e furore gli caddero dall’animo come cose morte. E il
bisogno di vendetta e la bramosia d’uccidere — tutto si spense in lui,
lasciandogli il cuore silenzioso e vuoto.

La disperata donna che si aggrappava a lui vide i fieri occhi velarsi,
vide la feroce bocca tremare. Nel lungo silenzio che seguì ella comprese
che più nulla aveva da temere. E più nulla da sperare.

                                  ————

L’uomo si scosse alfine. «Povera Chérie!» disse. «Povera, povera
Chérie!»

La sollevò da terra; prese tra le due mani quel viso pallido e disfatto;
e lungamente la guardò negli occhi: «Povera Chérie! Che ne sarà di te?»

Chérie non rispose. Fissava su lui quegli occhi di pianto, senza
pensiero, senza comprensione, senza speranza.

«Dimmi addio, Chérie, dimmi addio. E che i nostri Santi ti proteggano.»

«Ah, dove vai? Dove vai?» singhiozzò lei. «Perchè mi lasci?... Mio
Dio!... Che cosa vuoi fare?»

«Molto c’è da fare per me.» la voce di Florian era grave e ferma. «Molto
c’è da fare.» E volse lo sguardo verso la finestra aperta, donde
giungeva ancora da lungi lo squillo della fanfara tedesca.

Allora ella comprese che davanti a lei non stava più colui ch’ella aveva
conosciuto: Florian, il compagno della sua giovinezza, l’amico,
l’innamorato, era sparito. Qui non vi era che il soldato — remoto da
lei, estraneo a lei — il soldato, solo, faccia a faccia col suo grande
dovere.

Con uno schianto ella sentì ch’egli le sfuggiva, che lo perdeva per
sempre; e la donna rinacque in lei, la donna creatura d’amore, creatura
di spasimo e di passione.

«Ah, non lasciarmi, non lasciarmi, Florian, amor mio! Mio diletto, non
lasciarmi! Che cosa farò al mondo senza di te? Se m’abbandoni che cosa
più mi resta?»

Quasi a risponderle, il debole grido della creatura si levò di nuovo.

L’uomo non pronunciò parola. Grave, solenne, alzò la mano e additò
quella porta.

Chérie chinò il capo e si nascose il volto nelle mani.

Giù nella via ripassava la fanfara.

    _«Deutschland, Deutschland über Alles_
    _«Über Alles in der Welt...._»

                             .  .  .  .  .

Chérie era sola.

Il suo bambino piangeva ancora....

Allora, mansueta, ella si levò e andò a lui.

Ed umilmente riprese il suo posto — il posto della donna — accanto alla
culla.



                                 XXVII


Gli squilli di tromba che ingiungevano agli abitanti di Bomal di
rientrare nelle loro case echeggiavano già, mentre ancora Luisa si
affrettava traverso le vie del paese, ormai deserte e buie. Teneva
stretta nella sua la fredda manina di Mirella, e le parlava a voce
bassa, concitata, come se la fanciulletta potesse comprenderla.

«Vedrai, vedrai, Mirella, ora quando entri in casa tua, ti ricorderai di
tutto. Appena avrai varcato quella soglia, ecco, vedrò sorgere nei tuoi
occhi il ricordo, come un’aurora improvvisa. Allora li volgerai a me,
trasognata forse, come chi si sveglia da un lungo sonno, come chi
ritorna da un lungo viaggio. E schiuderai le labbra alla parola.»

«Ah! Quale sarà la tua prima parola, Mirella? Forse quella più dolce di
tutte, quella parola che tu sola mi puoi dire?... E colla parola
ritroverai le altre due soavi cose perdute: il sorriso e il pianto. Come
reggerà il mio cuore, Mirella, quando ti vedrò sorridermi colle lagrime
negli occhi?....»

«La tua piccola anima, Mirella, ch’era volata via, volata via come una
rondinella spaventata dalle infamie degli uomini, stasera tornerà
quaggiù. Mirella, Mirella, io so, io sento che questa sera riudrò la tua
voce.»

E Luisa affrettava il passo traendo con sè la bimba silenziosa.

                                  ————

(In quell’ora, sopra i lontani monti delle Ardenne, sorse la grande
fulgida luna di maggio).

                                  ————

Arrivando davanti alla casa Luisa si accorse con sorpresa che il
cancello del cortile era aperto. Chi mai poteva essere entrato o uscito
durante la sua assenza? Alzò gli occhi alle finestre: erano aperte, ma
buie. Il senso di timore, quasi di panico che non le era mai lontano dal
cuore dacchè era ritornata nel Belgio, la riafferrò come una mano di
ghiaccio.

Era forse accaduto qualche cosa? Perchè Chérie non aveva acceso i lumi?
E chi mai aveva lasciato aperto il cancello?

Ma subito il pensiero di Mirella, la folle speranza della sua guarigione
— divenuta improvvisamente quasi una delirante certezza — le
rifiammeggiò nel cuore, ed ogni altra cosa fu scordata. Era sola nel
mondo, sola con Mirella.....

Tenendo gli occhi fissi su quel piccolo viso immoto, essa guidò i passi
della bambina oltre il cancello, e dentro al cortile, e traverso
l’erbosa spianata percorsa le mille volte dai piedini saltellanti della
bimba ne’ suoi giocondi anni infantili.

Ma sul calmo volto di Mirella non un fremito passò; non una favilla si
accese negli occhi sognanti; e con un singulto Luisa strinse più forte
quella piccola mano inerte traendola rapidamente verso il portone di
casa.

Anche questo era socchiuso come se qualcuno l’avesse lasciato così,
nella fretta, immemore degli ordini severi che volevano dopo il tramonto
tutte le porte chiuse.

Per un istante Luisa pensò di chiamare Chérie, e interrogarla. Ma subito
il bisogno di sentirsi sola con Mirella, sola con quella piccola anima
al momento del suo risveglio, la trattenne. Entrò con Mirella nel
vestibolo, chiuse la porta, e con gesto rapido accese i lumi.

«Mirella!... Mirella!...» mormorò ansiosa. «Guarda, cara ... non
ricordi? Non ricordi?»

Le quiete pupille della bimba vagarono dagli arazzi appesi alla pareti,
alla panoplia d’armi incrociate sopra l’arco del vestibolo; dall’antico
oriolo a pendolo, ai paesaggi invernali del Van der Welde nelle loro
cornici nere. Ma non un raggio di rimembranza illuminò il suo viso
immobile, puro e bello come un fiore chiuso.

Col cuore in tumulto Luisa la cinse col braccio e ne guidò i passi
leggeri e incerti lungo il corridoio e su per le scale.

L’uscio del salotto era aperto. Luisa con mossa rapida illuminò la
stanza.

Mirella, sulla soglia, trasalì; e quel lieve sussulto mandò un fremito
immenso nel cuore di Luisa. Sostò, senza respiro, ad osservarla.

Certo, certo, la bimba doveva riconoscere questa stanza: là, a destra,
il grande camino fiammingo, col vecchio sedile di quercia — qui il breve
tratto di scala colla balaustrata di ferro battuto, che conduce alle
camere superiori — e là, di faccia, la porta drappeggiata di rosso....

Portata improvvisamente davanti alla scena stessa del suo martirio, ecco
— il velo dell’oblio le sarebbe caduto dall’anima. Luisa lo sentiva,
Luisa lo sapeva. E attendeva trepida il sussulto, il grido col quale sua
figlia si sarebbe rivolta a lei, cadendole tra le braccia.

Nulla. Non avvenne nulla.

Per un fuggevole attimo un fluttuar vago, un bagliore pallido come di
paura aveva tremato su quel piccolo volto calmo. Sì, la fanciulla aveva
trasalito sul limitare della stanza — si era fermata d’improvviso cogli
occhi fissi sulla tenda che drappeggiava in lunghe pieghe rosse la porta
della camera di Chérie. Ma subito quel fuggitivo raggio d’emozione era
svanito, come un piccolo lume che il vento spegne.

Poi — nulla più. Colle mani inerti, le braccia pendenti lungo il corpo,
i ceruli occhi senza sguardo, ella rimase immota nel consueto
atteggiamento d’abbandono — bianca, eterea, irreale, una creatura di
serenità e di sogno.

E più che mai pareva un serafino stanco, che avesse smarrita la via di
ritorno al cielo.

Nell’anima materna la torcia fiammeggiante della speranza cadde e si
spense.

E il mondo per lei fu desolato e nero.



                                XXVIII.


Nella sua camera Chérie, inginocchiata presso la culla, le aveva udite
entrare. Si alzò lenta, trepidante. Bisognava andare al loro incontro,
salutare Mirella.... dire a Luisa che Florian era tornato — tornato....
e ripartito.

Il silenzio profondo nella stanza attigua la colpì. Ella si chiese,
movendo esitante verso l’uscio, perchè mai Luisa non parlava? Era pur
solita a parlare con Mirella, a parlarle sempre con quella tenera voce
sommessa, con quel dolce tono materno un po’ insistente che pareva
volere ad ogni costo ridestare la mente assopita della bimba.

Che cosa significava questo silenzio?

Non si udiva un soffio; pareva che la stanza fosse vuota.

D’un tratto Chérie comprese. Luisa attendeva silenziosa, immobile, che
il miracolo si compiesse — attendeva la prima parola di Mirella!

Allora Chérie non osò più avanzare. Congiunse le mani in atto di
preghiera, e anch’essa attese. Attese un suono, una parola, un grido.

Nulla. Il silenzio durava profondo.

S’udì infine il pianto di Luisa, un pianto sommesso e desolato, e poco
dopo i loro passi lievi sul tappeto della scala.... Indi, di nuovo, il
silenzio.

Chérie rimase immobile colla fronte appoggiata allo stipite della porta
chiusa.

Se ne erano andate. Luisa conduceva Mirella nella sua camera... la
metteva a dormire. E non aveva chiamato Chérie! Non le aveva dato la
buona notte; non l’aveva chiamata a salutare Mirella. No. Nessuno,
nessuno aveva bisogno di Chérie. Luisa, anche nel suo grande dolore, non
aveva pensato di chiedere conforto a lei. Era andata via, sola con
Mirella, a chiudersi nella sua camera, a piangere le sue amarissime
lagrime... Avrebbe pianto, avrebbe pregato, avrebbe dormito alfine —
senza neppur sapere che Florian era venuto.... senza sapere che se ne
era tornato via per sempre, senza sapere che il cuore di Chérie era
spezzato!...

Con un singhiozzo di appassionato dolore Chérie si ritrasse dalla porta
e si abbattè piangendo presso la culla.

                                  ————

(Grande, diafana, luminosa, la luna di maggio sorgeva dalle colline
delle Ardenne; e salendo come un disco opalescente nei cieli, trovò la
piccola finestra ogivale, e raggiò, blanda e luminosa su Chérie e sul
bambino dormiente).

                                  ————

All’orologio della vecchia chiesa di Bomal scoccarono le undici.

Sveglia nel suo letto, al buio, Luisa contò i lenti rintocchi. Le onde
sonore si spensero e di nuovo nella camera silenziosa non si udì che il
lieve respiro di Mirella. Luisa ascoltò quell’alito leggero e regolare.
Poi pensò a Claudio, e pregò Dio che lo salvasse da ogni male. Ma per il
suo ritorno non pregò.

Esausta dalle emozioni, alfine si assopì.

Ma Mirella non dormiva. Nonostante il suo respiro tranquillo e regolare,
i suoi occhi erano aperti. Immobile nel buio ella ascoltava qualcosa che
lentamente si svegliava in lei: la Memoria.

.... L’orologio della chiesa battè le undici e mezza. Luisa dormiva col
respiro singhiozzante, spasmodico di chi ha molto pianto prima di
addormentarsi.

La stanza era completamente buia, le imposte chiuse, le tende calate.
Silenziosa e sicura come una sonnambula Mirella scese dal letto e
traversò, lieve fantasma bianco, la camera.

Trovò l’uscio, l’aprì silenziosamente, percorse il corridoio e scese la
scala — i passi dei piedini ignudi cadevano sul tappeto con la
leggerezza di petali di fiore....

Dove andava? Quale pensiero la guidava così per la casa oscura e
silenziosa?

Il ricordo! — Il ricordo della porta drappeggiata di rosso.

Null’altro vedevano i suoi occhi ossessionati, null’altro ricordava il
suo spirito allucinato — nulla se non quella tenda rossa calata sopra
una porta chiusa. Doveva rivederla.... rivederla.... ricordarsi perchè,
come, quando l’aveva già veduta. Sì, bisognava rivederla.... _E se
quella porta si apriva_ — A quel pensiero il terrore indefinito in cuore
di Mirella raggiungeva il parossismo — perchè sapeva, sentiva che se
quella porta si apriva ella sarebbe morta.

Così, come sospinta da una forza irresistibile, ella giunse all’ultimo
breve tratto di scala — i quattro larghi gradini costeggiati dalla
ringhiera di ferro — e qui si soffermò trasecolante.

Anche nel buio sapeva dov’era quella porta. Era là, di faccia a lei —
nera sul nero sfondo dell’oscurità.

Colle mani strette dietro la schiena, si addossò convulsa alla
ringhiera.

E rimase così, nella positura identica del suo passato martirio; le
pareva di essere legata, le pareva di dover restar per sempre immobile,
cogli occhi fissi nel buio, verso quella porta — quella terribile porta
dalla tenda rossa....

                             .  .  .  .  .

Accasciata per terra accanto alla culla, col viso tra le mani, Chérie
aveva udito scoccare le undici ore; poi il quarto, poi la mezza.

Per lei tutto era finito. La sua decisione era presa. Ora che aveva
riveduto Florian non c’era altro da aspettare. Nulla più, nè gioia nè
speranza, poteva venirle dalla vita.

Che cosa avrebbero fatto al mondo lei e il suo bambino? Nessuno aveva
bisogno di loro. Nessuno desiderava mai di vederli, di parlare con loro;
tutti li sfuggivano; tutti li disprezzavano. Neppure Luisa aveva voluto
invocare su di lui una benedizione. No, era un bambino esecrato e
maledetto; era uno sventurato che portava sventura.

Chérie si levò in piedi e s’appressò alla finestra — la finestra tonda
come quella della cabina d’una nave — e la spalancò. La luce lunare
piovve per entro la stanza innondandola d’un effuso, latteo chiarore.

«Luna, addio!» disse Chérie. «Addio, notte. Addio, cielo. Addio, tutto!»

Poi si volse e tornò presso la culla. Si chinò e sollevò tra le braccia
il bambino che dormiva.

Come era tepido e tenero e piccolino! Non bisognava che prendesse freddo
— pensò istintivamente — e si guardò intorno cercando qualcosa con cui
coprirlo. Prese dal cassetto una grande sciarpa di seta celeste, e
l’avvolse intorno a sè ed al piccino: faceva fresco fuori in quella
bianca chiarità lunare, e dovevano andare lontano.... bisognava passare
il ponte sull’Ourthe e scendere per l’altra riva del fiume,
attraversando tutta quell’erba alta e umida intorno al vecchio
mulino....

Più in là vi era un posto dove la sponda scendeva meno ripida e la
corrente era più forte; ivi, chiudendo gli occhi e affidandosi a Gesù,
sarebbe entrata, correndo, nell’acqua....

Le pareva già d’esserci, tanto sentiva vivida l’impressione che ne
avrebbe avuto. Tante volte a Westende l’anno scorso era corsa così
dentro alle fresche onde increspate del mare.... Assai bene se ne
ricordava.

E adesso sentirebbe, come allora, l’acqua fredda cingerle le caviglie,
le ginocchia... poi quel fresco e forte abbraccio le salirebbe alla
cintola, mozzandole il respiro... poi al petto... poi alla gola....

Allora ella avrebbe stretto a sè con maggior passione e maggior forza il
suo bambino, gli avrebbe posata la bocca sulla bocca per non sentirlo
piangere, e coll’ultimo alito avrebbe bevuto il dolce respiro di quella
piccola bocca, socchiusa sempre ai baci, fragrante d’erbe e di
violette....

Alzò di nuovo lo sguardo alla finestra ogivale. «Addio!» disse ancora
una volta al cielo, alla terra, alla vita. Poi risoluta volse le spalle
a quel cerchio di bianca luminosità.

Si avvolse meglio nella lunga sciarpa azzurra, coprendosene il capo e le
spalle, incrociandosela sul petto ed avvolgendo nelle pieghe cerule
anche il bambino, che le posava ancor dormente al seno.

Poscia, pianamente, aprì la porta. Davanti a lei scendeva a lunghe
pieghe la portiera rossa, ed essa la scostò col braccio facendola
correre indietro sugli anelli. Dalla finestra rotonda dietro al suo capo
si proiettava su lei un fascio d’argentee lucentezze.

Così — tutta velata d’azzurro, diafana nella luce lunare — ella mosse un
passo innanzi.

Poi si fermò, trasecolante, impietrita.

Chi c’era là, nell’ombra? Chi stava immobile là sulla scalinata, a pochi
passi da lei?

_Mirella!..._

                                  ————

Sì; Mirella era là, immota, quasi catalettica, cogli occhi pazzi di
terrore fissi su quella porta. Quella porta si apriva — si apriva! Ecco
— ecco — uno spiraglio di luce bianca appariva sotto alla tenda....

Ah! La porta era aperta... la tenda si scostava!... Ora Mirella sarebbe
morta. Lo sapeva! Ciò che stava per vedere l’avrebbe uccisa, come già
una volta aveva uccisa l’anima sua. Sì... sì... la tenda rossa si moveva
ancora, lo spazio di luce s’allargava....

Mirella ansava, soffocata, morente —

Quand’ecco in quella luce — oh, meraviglia! oh, estasi infinita! — in
quella luce apparve una Visione!

Inondata dai raggi della luna, tutta velata di rilucente azzurrità,
stava una Madre col suo Bambino. Dietro a lei brillava un grande cerchio
di luce.

Ah, ben la conosceva Mirella quella dolce figura! Rapita delirante, tese
le mani giunte verso lei.

Con quali parole doveva salutarla?... Le sapeva, le sapeva, quelle
parole; le ricordava.... le sentiva, salire su dal cuore, farle ressa
alla gola — ma le labbra convulse non le potevano formulare.

Spasimando, torcendo le mani congiunte, Mirella taceva — taceva mentre
quelle parole si aprivano come fiori di luce nella sua mente,
risuonavano come note d’organo nel suo cuore.

La visione si mosse, parve ondeggiare, trasalire.... Ah, sarebbe dunque
svanita, svanita per sempre? E Mirella ricadrebbe ancora nell’abisso
della solitudine e del silenzio?

Qualche cosa sembrò spezzarlesi nella gola — e un grido, un grido acuto
e vibrante le irruppe dal petto. Ecco aperta, aperta la chiusa fonte
della sua voce! ecco dalle sue labbra fluire le parole del saluto
immortale:

«_Ave Maria!..._»

Ed ora l’eterea visione sorrideva, sorrideva movendo verso di lei....

Soverchiata dall’estasi Mirella le cadde ai piedi.

                                  ***

Luisa s’era svegliata di soprassalto, udendo un grido... Che voce era
quella?

Intorno a lei la camera era immersa nel buio, ma Luisa sentiva d’essere
sola, sentiva che Mirella non era più accanto a lei. Dalla porta
socchiusa veniva un fioco chiarore.

Colla rapidità del lampo Luisa fu nel corridoio e giù per le scale.
Scendeva a precipizio. Ma giunta all’ultimo pianerottolo — si arrestò
irrigidita.

Là, nell’effuso chiarore lunare stava una luminosa forma
nell’atteggiamento umile e sacro della immortale Maternità.

Davanti a lei, inginocchiata, era Mirella.

E Mirella parlava.

«_Benedicta tu..._»

Chiare, spiccate, argentine cadevano dalle sue labbra quelle parole:
«_Benedicta tu..._»

La benedizione che Luisa e tutti avevano negata, ecco — usciva ora quasi
un annunzio profetico da quelle labbra innocenti da tanto tempo mute;
risuonava come un decreto divino in quella pura voce da tanto tempo
silenziosa.

Mirella era guarita! Guarita in grazia di Chérie e del bimbo suo, figlio
dell’onta, della violenza e del dolore.

... Scossa da un brivido immenso Luisa cadde a ginocchi presso la sua
bambina, e ripetè con lei le consacrate parole....

Tremante ed estasiata Chérie stringeva più forte al seno la sua creatura
piegando il capo sotto l’ala di quella divina benedizione.

                                  ***

Ed ora addio — addio a Chérie, a Luisa, a Mirella.

Esse vivono ancora nel lontano villaggetto del Belgio aspettando,
invocando l’alba della liberazione. E con essa il ritorno della
speranza, della gioia, del perdono...

Intorno a loro tuona ancora la guerra; turbina la procella.

Ma forse il termine del loro affanno non è lontano.


                                _Fine._



                         Opere di ANNIE VIVANTI


LIRICA L. 4, —

I DIVORATORI (Romanzo) » 5, —

CIRCE (Il romanzo di Maria Tarnowska) » 3,50

L’INVASORE (Dramma in tre atti) » 3, —

VAE VICTIS! (Romanzo) » 4,50

ZINGARESCA » 3,50



                                  ————

                          GIUDIZI DELLA STAMPA

                                   SU

                               *«CIRCE»*

    _Ettore Janni_ nel *Corriere della Sera*.

    _Annie Vivanti_ ha composto un’opera di spasimante umanità e di
    bellezza.... Col suo nobile ingegno e col suo istinto poetico,
    ha dato delle memorie di Maria Tarnowska una interpretazione che
    ha una sua poesia intrinseca.... un romanzo che appassiona di
    capitolo in capitolo, intensamente, che è tutto profumato, nel
    suo tetro groviglio di errori e di orrori, di passaggi candidi e
    luminosi....

    *Pall Mall Gazette.* — Documento umano di meraviglioso e
    soggiogante interesse.

    Una combinazione di poesia e di verità sui modello dato da
    Goethe... Narrazione di maestria vivida e potente.

    *Mail.* — Raramente accade di trovarsi dinnanzi ad un documento
    umano di così tragico e patetico interesse.

    *Times.* — _Annie Vivanti Chartres_ ci ha dato un documento
    umano di straordinario fascino, uno studio dell’aberrazione del
    temperamento femminile e della psicologia del crimine che ci
    lascia turbati e atterriti.

                                  ————

                          GIUDIZI DELLA STAMPA

                                   SU

                            *«I DIVORATORI»*

    *Herald.* — Qui ci troviamo davanti a quella rara cosa —
    un’opera di genio.

    *Telegraph.* — Questo meraviglioso libro è un’opera di bellezza
    creata da chi possiede il più grande dono dello scrittore — lo
    stile.

    *Daily Mail.* — Questo romanzo, scritto da un poeta, ha tutta la
    ossessionante potenza della Poesia.

    *The Times.* — Con questo libro _Annie Vivanti_ ha compiuto
    un’opera stupefacente. Sciegliendo un tema finora non mai
    trattato da un romanziere essa ci ha dato un libro del più
    strano ed avvincente fascino.





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