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Title: Top
Author: Albertazzi, Adolfo
Language: Italian
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Internet Archive.

                           ADOLFO ALBERTAZZI


                                  TOP



                                EDIZIONI
                              A. MONDADORI
                             ROMA — MILANO

                     PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA

             _I diritti di riproduzione e traduzione sono_
                _riservati per tutti i paesi, compresi_
                       _la Svezia, la Norvegia e_
                               _l’Olanda_

                  _Copyright by Casa Ed. A. Mondadori_
                                 _1922_

                              1º MIGLIAIO

                                  ————



                                 INDICE


    IL CANE DELLO ZIO PROSPERO
    LE PENNE DEL PAVONE
    LA FIUMANA
    A SANT’ELPIDIO
    L’OMBRELLO
    CI VUOL PAZIENZA!
    FRANCESCO MIO...
    SIMPATIA
    NELLA ROMAGNA D’UNA VOLTA
    VALENTINO E LUCILIO
    LA PASSIONE D’UN GENTILUOMO VENEZIANO
    COMPASSIONE E INVIDIA
    UN MARTIRE DELLA VERITÀ
    IL VITELLO
    ZVANÒN
    LA CASTA SUSANNA
    BUONA GENTE
    IL TESTAMENTO
    CHE COSA E’ IL MONDO?
    NELL’ANNO XX DELLA RE-SO-EU

                                  ————



                                  TOP

                                NOVELLE

                                  ————



                       IL CANE DELLO ZIO PROSPERO



                                   I.


— Top!

Il cane seguitò per la sua strada, proprio opposta a quella da cui
veniva il padrone — Prospero Marzioli — nel tornar a casa.

— Top!

Al secondo più forte richiamo il bracco dovè ricordarsi del castigo
meritato altra volta facendo il sordo: una schioppettata della quale,
più che pallini, gli restava addosso una gran paura. Piegò il capo; si
fermò un istante, quasi a riflettere; poi accorse. E dimandava grazia
con la coda e con gli sguardi. Se non aveva da temer lo schioppo —
perchè si trovavano in paese —, c’era il bastone non meno spaventevole a
rammentarne i colpi; e a vederlo già alzato — misericordia! — si
comportò come soleva in tale pericolo. Una tattica tutta sua:
s’abbatteva in terra supino, le gambe piegate e rattratte. Così salvava
almeno il cocuzzolo e il dorso ed esponeva solo la parte del corpo più
tenerella e più acconcia, secondo lui, a commuovere la pietà padronale.

Ma quel giorno nel rivolgere la testa e il collo espose al padrone anche
una cosa più commovente: di sotto al collare uscì una carta, un
bigliettino che, ben arrotolato, vi era tenuto stretto da un filo. Oh!

Oh! oh! Mentre il signor Prospero se ne stava tranquillo dal barbiere o
dalla tabaccaia, Top serviva dunque da portalettere, da messaggero,
da... A chi? Uno strappo; e, senza neppur leggere intera una parola, gli
fu manifesto, al signor Prospero, chi commetteva il contrabbando. Non
gliel’aveva insegnata lui, all’Elena, la calligrafia?

Elena — innamorata!

Ebbe la tentazione di leggere tutto: ma si trattenne, vinto da un senso
di profanazione e disgusto, dall’amarezza che gli salì alla gola e quasi
dal dubbio che il suo tradimento fosse più riprovevole dello stesso
inganno in cui gli pareva d’esser caduto.

Ricompose il biglietto; tornò a legarlo; poi comandò iroso: — Su! Via!
—; e accennava al cane la strada della missione incompiuta.

E Top, contentissimo, scappò a compierla.



                                  II.


Innamorata — Elena! Di chi? Non gl’importava saperlo; particolare
secondario nel fatto enorme. Questo: che la bambina di ieri, la
fanciulletta in cui egli aveva raccolta tutta la sua affezione e una
gioia superiore forse a quella di padre, Elena già palpitava per un bene
segreto, celato a lui, lo zio, come a qualsiasi altro che potesse
contaminarlo! Peggio che un inganno, quella condotta non dimostrava
oltraggiosa diffidenza? ingratitudine? E perchè non avvertire il
fratello o la cognata? Non ne aveva l’obbligo, Prospero Marzioli?

Egli rincasò fermando questo proposito nella mente confusa. Ma non entrò
per la porta grande: entrò per la porta del camerone che da secoli era
usato, dai Marzioli — razza di cacciatori — a uccelliera, museo di
vecchie armi, magazzino e officina d’ogni arnese da caccia. E con un
calcio spedì la civetta a soffiare in disparte, e avanzando ad aprir la
finestra rovesciò la panca con su le pentole del vischio e le ciotole
dei chiodi. Quella mattina si sbagliò fin nel distribuire il pasto ai
richiami: mise vermi e cuor trito nel beccatoio dei fringuelli; i merli
ebbero miglio e canepa. Anche, un beveratoio gli sfuggì di mano e andò
in pezzi. E ruppe del tutto, e quindi gettò sotto la tavola, la gabbia
di vimini da accomodare. E passato nella camera da pranzo appena fu
certo di non essere visto, salì nella sua camera; e adocchiò dalla
finestra scostando un po’ la tenda.

Elena se ne stava là, nel cortile, all’ombra. Cuciva. — Innamorata!

Ebbene: c’era da meravigliarsene tanto? Diciott’anni; ormai diciannove;
e una bella ragazza. Molto bella! Due occhi di una dolcezza ineffabile;
un sorriso di anima pura; i capelli biondi...

«Ah quando tu, zio, le dicevi: — perchè ti pettini così? — e lei diceva:
— perchè è di moda —, e tu ribattevi: — non mi piaci —, tu mentivi:
avresti voluto che nessuno la vedesse pettinata alla moda, i biondi
capelli spartiti su la fronte bianca e serena. E quando, vestita di
nuovo, la mortificavi: — questa tinta non ti si confà; stai male —, tu
ingelosivi dell’ammirazione che susciterebbe. E quando la sorprendevi
nell’atto di specchiarsi e l’accusavi di vanità, e lei, timida,
arrossiva quasi colta in fallo, tu dubitavi fin d’allora che verrebbe il
giorno in cui, specchiandosi, essa non penserebbe solo a sè, penserebbe
a chi non sarebbe certo suo zio».

Dalla voce che gli parlava dentro in tal modo il signor Prospero derivò
argomento a darsi, per minor rimprovero, dell’imbecille.

«Timida? Imbecille! È timidezza l’amoreggiare e ricorrere a sotterfugi?
valersi di strattagemmi piuttosto che confidare nel senno dello zio, se
non della madre o del padre?».

Ma l’intima voce opponeva: «Che sai tu, vissuto fuori del mondo, delle
audacie a cui una ragazza, appunto perchè timida, appunto perchè ha
soggezione dei suoi e dello zio, può essere indotta dall’amore? Che sai,
tu, di quel senso di pudore verginale per cui un’anima ingenua
affronterebbe ogni rischio anzi che svelarsi appunto a chi crede d’aver
acquistato il senno dall’esperienza della vita? Che sai, tu, degli
ostacoli che Elena veda per la realtà del suo sogno e della fede che
abbia solo in sè stessa per superarli? E perchè mai la rimproveri nel
tuo pensiero, appiattato dietro una tenda, e non le manifesti
apertamente il tuo pensiero, il tuo dispetto, il tuo rammarico? Saresti
timido anche tu? innamorato... anche tu, di lei?».

Come se la tenda si sollevasse di colpo e Elena di laggiù e il mondo
intero gli leggessero in faccia quest’ultima dimanda, il signor Prospero
si tolse dalla finestra, e si accasciò su la poltrona ad ascoltarsi e a
consultarsi.

Innamorato, no, non gli pareva di essere (non gli pareva: a quarantatrè
anni! di sua nipote!), ma geloso, sì: non poteva negarlo; non poteva
ammettere che quella creatura bella, a cui aveva dato tanto del suo
cuore e del suo animo, divenisse preda d’un altro, d’un indegno, forse;
non poteva immaginarla fidanzata, immaginarsi spettatore dei sommessi
colloqui di lei, felice. Un martirio insopportabile!

— Top! Vieni qua, Top! il mio Top! — gridava Elena.

E il povero zio scattò in piedi; tornò ad osservare di soppiatto. Il
cane, di ritorno a casa, era venuto a lei; lei lo accarezzava; lo
premiava con lo zucchero o i dolci; e intanto rigirava il collare di
sotto in su; ne staccava il cartellino, la risposta.

«L’ammazzo!». Ohibò! Ammazzato Top, perduta Elena, che gli resterebbe al
mondo? Con la visione rapida e precisa di un morente, il signor Prospero
scorse tutto il suo passato, la sua esistenza inutile. Non un amore
serio; non una salda amicizia; nessun altro svago, altro diletto che la
caccia; nessun altro scopo. Eppure durante diciotto anni gli era
sembrato di vivere pienamente, nell’affetto della nipote. Elena! Elena!
Quando, piccolina, gli veniva incontro ad abbracciargli le gambe!
quando, su le ginocchia, gli tirava i baffi! quando — e lui fingeva di
non accorgersene — apriva gli sportelli delle gabbie, e i cardellini e i
verdoni, via! Chi gli avrebbe mai detto allora che per lei dovrebbe
soffrire? E quando la piccolina si ostinava a non capir le lezioni, e
piangeva, e lui s’inquietava e la giudicava poco intelligente, chi gli
avrebbe detto: un giorno la conoscerai più furba di te?

«Come avrà fatto a istruir Top? — L’ammazzo!».

Ohibò, signor Prospero! Non bastava levargli, a Top, il collare? Elena
comprenderebbe che lo zio sapeva; tremerebbe; gli confesserebbe tutto.

E il signor Prospero deliberò di levar il collare a Top. E, per la
speranza di soffrir meno, prese anche una deliberazione più grave.



                                  III.


Se, poco oltre mezzodì, lo zio Prospero non sedeva a tavola ad aspettar
il fratello, la cognata avvertiva la domestica o l’Elena: — chiamate il
cane! —; e se il cane non arrivava, eran certe che lo zio desinerebbe in
campagna e rincaserebbe solo la sera. Quel giorno dunque si
meravigliarono a veder il cane e a non veder lui. In ritardo? Non
tardava mai. Invitato da qualche amico? Non aveva amici che lo
invitassero a pranzo, e quando ne avesse avuti, non ci sarebbe andato.
Cos’era successo? L’Elena stentava a dissimulare l’angustia. Ma per
fortuna nessuno, all’infuori di lei, si accorse che a Top mancava il
collare; e, per fortuna maggiore, suo padre — nonostante il fiero
aspetto — era l’uomo più pacifico di questo mondo. Egli si limitò a
dire:

— Chi non mangia, ha mangiato.

Non sospettava di nulla. E non si meravigliava di nulla, Adelmo
Marzioli! La spiegazione della strana assenza l’avrebbero, prima o poi:
inutile preoccuparsene.

Egli, infatti, l’ebbe prima di averci ripensato: due ore dopo
mezzogiorno, alla Congregazione di carità ov’era segretario.

Prospero gli comparve dinanzi con gli occhi semichiusi sotto le ciglia
folte e lunghe, in un’attitudine quasi violenta per lo sforzo della
volontà. E al fratello, che attendeva zitto e cheto, parlò con un lieve
tremito nella voce.

— Ho pensato che è meglio ci dividiamo. Io mi tengo la Valletta; a te
l’altro podere, la vigna e la casa. Nella casa mi riservo il camerone.
Ci mettiamo il letto; il camino c’è: mi basta.

— Come vuoi — disse Adelmo Marzioli.

— Incarichiamo del rogito il notaio di qui o di Faenza?

— Come vuoi.

— Siamo d’accordo?

— D’accordo.

E Adelmo Marzioli riprese a scrivere.

Se non che mentre Prospero stava per uscire successe quasi un miracolo:
il fratello aveva qualchecosa da aggiungere.

— Ehi! Senti!

Prospero si voltò.

— Cosa ne dirà il paese?

Prospero rispose: — Dirà quel che dico io: che io sono un uomo
all’antica e le tue donne vanno alla moderna; che, secondo me, voi
spendete troppo in proporzione al tuo stipendio e alle entrate, e io
voglio assicurarmi della mia parte per quando sarò vecchio e per
lasciarla, quando morirò, a mia nipote se non si mariterà, o se sposerà
uno della sua condizione. È chiaro?

— È chiaro.

— C’è altro?

— Nient’altro.

                                  ***

La separazione non dispiacque neanche alla cognata. Non che Prospero le
avesse mai dato soverchio disturbo; sempre però l’avevan tenuta in un
certo disagio quel suo carattere scontroso e quelle sue abitudini di
misantropo, e da un pezzo in qua egli la seccava con le osservazioni a
ogni spesa che si faceva per l’Elena. — Ah ah! vestito nuovo; scarpine
nuove! oro! gioielli! Durerà? — Dispiacere, e più che dispiacere, provò
invece l’Elena. Come ad accorgersi di Top senza collare pensò che lo zio
aveva scoperto la marachella, all’avvenimento che seguì pensò che lo zio
era impermalito con lei; e dubitò d’averlo contrario nelle sue speranze.
Avrebbe voluto impietosirlo dicendogli: — Io le sono tanto affezionata!
sia buono! —, o magari provocarne lo sdegno dicendogli: — Che cosa le ho
fatto, io? —; purchè parlasse! Il silenzio di lui l’atterriva. Ma non
osava andar a trovarlo nel camerone; affrontarlo. Finchè ebbe un’idea.
Dall’uscio che dal camerone metteva nella stanza da desinare la madre
aveva tolta la grossa chiave. Elena s’avvide che per il buco della toppa
passava una spera di luce. Allora si chinò, guardò, scorse le gambe
dello zio andare e venire. Benissimo! E colto il momento che nessuno
poteva udirla, fece, a voce bassa:

— Zio! zio!

Lo zio palpitò; volse lo sguardo intorno; e non fiatò.

— Sono qui dall’uscio! M’ascolti! Una parola, zio!

Egli non fiatò; non si mosse.

— Io le sono tanto affezionata, e lei non mi risponde nemmeno! Cosa le
ho fatto, io?

Ma a questo punto Top, il quale giaceva nel cantuccio vicino alla
civetta, tese gli orecchi, si alzò, precipitò all’uscio; e drizzato su
due piedi contro di esso, si mise ad abbaiare e a guaire
affettuosamente.

— Ah Top! il mio Top! Tu sei buono! Diglielo tu allo zio che è cattivo,
che mi fa soffrire!

Cattivo? Soffrire? Era un’ingiustizia! un’infamia! Lo zio non ci resse
più. Esclamò, ironico:

— Soffri, eh, perchè ho levato il collare a Top?

Poi, con sarcasmo per lei e per sè medesimo:

— A far all’amore non potrebbe servirti, in cambio, il buco di una
serratura?

Nessuna risposta. Non s’udì più che il vario vocìo dei richiami. E Top
tornò ad accucciarsi vicino alla civetta.



                                  IV.


Non molti giorni dopo, mentre stava aggiustando gli staggi a una rete,
il signor Prospero udì battere alla porticella di strada e chiedere
forte:

— È permesso?

Nè aveva ancora risposto — avanti! — che un signore entrò; giovine.

— Disturbo, signor Marzioli? Mio padre mi ha consigliato di venir da lei
per...

— Chi è vostro padre? — interruppe il Marzioli senza muoversi da sedere
e senza far complimenti.

— Tarelli! Io sono Diego Tarelli.

Ah! aveva dinanzi il figlio del conte; il più ricco del paese: bisognava
riceverlo con garbo.

— S’accomodi! Mi dispiace... — affrettò cerimonioso e imbarazzato —; in
questa stamberga..., in questo disordine...

— Amabile disordine! — esclamò, disinvolto, il giovine. — Sapesse come
l’invidio, signor Prospero! Lei è il più famoso cacciatore di Romagna!
Quante volte a Roma ho pensato a lei!

— A Roma?

— Ci ho compiuti gli studi; e adesso sono, vorrei diventar cacciatore
anch’io. Ecco — aggiunse contemplando le gabbie in terra o appese al
muro —: ecco i richiami, i cantaiuoli! Quaglie. Un merlo. Cardellini.
Fringuelli. Un fanello...

— Un frisone — corresse il signor Prospero.

— Sbagliavo: un frisone; un...

—... bigione.

— E quante reti! Di quante sorta! Piccole, grandi, a maglie larghe e a
maglie strette. E han tutte il loro nome, eh?

— Sì. Quella lassù, distesa, si chiama aiuolo; quella accanto,
paretella; quell’altra, è una ragna. Queste qui giù sono erpicatoi,
diluvi. Questa che sto aggiustando è una lungagnola.

Intanto Diego Tarelli cercava accostarsi all’uscio (l’uscio dal buco
della serratura aperto); e come ci fu, volse il dorso e alzando gli
occhi alla parete di contro:

— Anche armi antiche — disse —. Curiose!

Il signor Prospero accennava:

— Uno schioppetto del seicento. Una cerbottana; una balestra.

— E gli ordigni, più in basso?

(Com’era difficile...).

— Corni da polvere.

— No: intendo dir gli altri, là, a terra.

(Com’era difficile infilare un bigliettino nel buco della serratura
voltandole le spalle!).

— Sono trappole; pignuole; bertovelli.

— E il modo d’usarli?

— Semplicissimo.

Il signor Prospero andò a prendere una gabbia col ritroso per
dimostrarla da vicino al visitatore; e questi intanto riuscì a spingere
nel buco il biglietto che la mano dell’Elena da un pezzo era pronta a
ricevere.

Ma la faccenda non doveva finir bene. Colpa di Top.

Il quale, spalancata d’un salto la porta, entrò, e a veder Diego Tarelli
gli fece la festa dovuta a un caro amico.

— Top! Top! — Il giovine non potè fingere di non conoscerlo.

Allora un sospetto balenò alla mente del signor Prospero. Strinse gli
occhi sotto le ciglia folte e lunghe. Dimandò, cupo:

— Vi conoscete?

— Chi non conosce Top? Tutto il paese! Io poi ne sono un ammiratore; e
appunto perciò sono venuto a disturbarla, signor Prospero. Me lo vende?
a qualunque prezzo...

«Me lo vende?» Ahi ahi! Cotesta dimanda, cotesta proposta, urtando nel
sospetto che tornò a insistergli in mente, strappò, a un tratto, fuor di
sè lo zio. Parve investir il visitatore, minacciarlo con la gabbia in
mano. — Vendere, io, Top?

Vendere Top, la sola creatura affezionata che, perduta Elena, gli
resterebbe al mondo, almeno per qualche anno?

— Vendere il mio cane? — ripetè più forte. — Io? Top?

E prima che l’altro potesse articolar parola, tanto era rimasto sorpreso
da quella veemenza, seguitò:

— E voi dite di essere, di voler essere cacciatore? No! — gridava e gli
agitava, avanti e indietro, sotto il naso, la mano sinistra con l’indice
teso —. No! Cacciatore tu, giovinotto, non sarai mai! mai! Non sei, tu,
che un signorino, un ricco! — E aveva nella voce il disprezzo di chi
accusa una brutta azione. — Già! perchè avete dei soldi, molti soldi,
voi signori, voi ricconi, vi credete lecito tutto: ogni indelicatezza,
ogni sopruso, ogni usurpazione di affetti, di cose care! Ma ci sono
delle cose che non si vendono, che non si comprano! Tientelo a mente,
giovinotto mio!

Diego Tarelli aveva lui pure sangue romagnolo nelle vene; nondimeno si
contenne. Riflettè che aveva a fare non solo con un mezzo matto o un
matto intero, ma con lo zio di Elena. E borbottava delle scuse.

— Non credevo d’offenderla... Mi scusi... Mi perdoni...

— Che scusare e perdonare! Vattene e buon giorno!

— Sì! Buon giorno!

Il giovinotto se ne andò chiudendo di colpo la porta.

E il signor Prospero si accasciò su la seggiola.

— È lui! — mormorava —. È lui l’innamorato di Elena!

Bella lezione, però, gli aveva data!

Tale lezione, infatti, tale innamorato che appena fu fuori Diego Tarelli
temè il crollo della sua felicità in causa di quel matto zio e di quel
benedetto e maledetto cane; e corse alla Congregazione dal signor Adelmo
Marzioli a chiedergli la mano della figlia.



                                   V.


Confermandosi nell’ipotesi per cui si era arrabbiato, il signor Prospero
ebbe un rigurgito di amarezza in gola; poi si sentì pieno di male il
cuore. E si sfogò a inveire, entro di sè, contro la nipote. Stupida!
Infatuarsi d’un Tarelli! Credere avesse buone intenzioni e si proponesse
davvero di sposar lei! Non dubitare che egli amoreggiasse per
divertimento! Stupida! — Poi inveì di nuovo contro quel gaglioffo che
lusingava, per divertimento, una ragazza onesta, la nipote di Prospero
Marzioli! canaglia! briccone!

Se non che, a pensarci, comprendeva ora come la richiesta di comprar Top
fosse stata un pretesto e come la visita, con i salamelecchi e le
adulazioni, dovesse avere avuto uno scopo anche più ignobile: stringere
amicizia con lo zio; ingraziarselo, servirsi di lui meglio che del cane.
— Ragazzaccio! Tu sei furbo, ma...

Più furbo lui, lo zio!, quantunque non arrivasse a immaginar tutta la
verità. Questa: mancato il sussidio del collare, giudicando troppo
rischioso il gettito dei biglietti e delle letterine dal muro del
cortile, oh che restava all’Elena se non suggerire a Diego il mezzo
suggerito dallo zio a lei: il buco della serratura?

Nè lo sfogo sollevò il signor Prospero; egli non ebbe riposo nel cuore e
nella testa. Adesso voleva e non voleva parlar alla nipote, esortarla a
metter giudizio o, no, tacere. Finchè l’ira di nuovo prevalse.

No; l’Elena non meritava i suoi consigli! Non aveva avuto fiducia in
lui; non ne aveva: corresse dunque al castigo; alla delusione! E, dopo
tutto, per lei sarebbe meglio. Non s’innamorerebbe più così facilmente;
forse non si mariterebbe mai; vivrebbe nel bene dei suoi e dello zio.
Questo, questo egli, ora, sperava!

«Egoista!» gli gridò la coscienza; e mentre si ascoltava sorpreso,
«egoista» gli sembrò ripetessero dalle gabbie, piangendo e cantando, le
creature schiave della sua vita inutile; «egoista!» sembrò affermar
anche Top, che era stanco di dormire e desiderava andar fuori, in
campagna, a caccia.

Onde Prospero Marzioli, più afflitto che mai, si alzò, prese lo
schioppo, passò il braccio nella cinghia; si diresse alla porta da cui
il bracco l’aveva preceduto. Ma sulla soglia ristette.

E tornò indietro; e venne all’uscio a figger lo sguardo nel buco della
serratura. Non vide nessuno. Elena! Elena! Chiamarla? Non ne ebbe la
forza.

Oh! fuggire di là, in campagna, a caccia, con Top, a guarire del male
che aveva nel cuore!



                                  VI.


Rimase alla Valletta una settimana: tempo sufficiente perchè il vecchio
contadino, il quale dianzi l’aiutava a tender le reti, a invischiare, o
a batter le macchie, si convincesse che il padrone era ammattito del
tutto. Aveva mandato a prendere i richiami, la civetta e gli arnesi; ma
non si recarono nemmeno una volta al paretaio o nelle larghe a tirar
alle allodole. Camminavano su e giù per i campi aspettando che il cane
scovasse la lepre, e non sparavano un colpo; e sedevano stanchi alle
prode dei fossi. Ivi il padrone o contemplava, vattelapesca chi e che
cosa, oppure discorreva in modo che non l’avrebbe capito l’arciprete.

— La verginità volontaria avvicina l’umanità a Dio. Lo credi?

— Sissignore — il vecchio rispondeva, fedele al principio che conviene
dar sempre ragione ai matti.

— Da che mondo è mondo la vita fu considerata come una prova dell’uomo e
della donna per elevarsi, perfezionarsi l’anima; e l’amore, come
s’intende dai più, fu considerato un abbassamento, un prolungamento di
quella prova superata soltanto dalla verginità. Lo credi?

— Dice bene lei!

E un’altra volta, quel poveretto, tenne al contadino questo bel
discorso:

— Tu negli alberi non vedi che frasche da sfogliare, legna da tagliare e
da bruciare; nei fiori non vedi che un ghiribizzo della madre terra;
negli uccelli non vedi che materia da umido o da arrosto. Sfòrzati
invece a pensare che tutte queste creature sono animate dello spirito
che ci dà vita a noi, e starai meglio con loro che con gli uomini e con
le donne. Lo credi?

Il vecchio rispose:

— Credo sia già suonato mezzogiorno. Andiamo a mangiare, signor padrone?

Rincasando non si accorgevano, l’uno per la filosofia e l’altro per
l’appetito, che Top era scomparso.

Top, con mirabile puntualità, all’ora di desinare giungeva ogni giorno a
casa Marzioli, dove l’Elena gli preparava la zuppa. Mangiava; dormiva;
quindi tornava in campagna desideroso di novità.

Ma ne era più desideroso, di novità, il signor Prospero. E l’ottavo
giorno, per interrompere in qualche modo la pena protratta, riprese la
via del paese e del camerone.

                                  ***

Il trambusto di lui, là dentro, trasse l’Elena all’uscio, come egli
aveva immaginato.

— Ehi, zio! sono qui: ascolti una parola!

— Elena!

Mai chiamandola lo zio aveva avuto una voce così tenera; la voce di chi
ha pianto. Aggiunse:

— Che vuoi?

— Ho una cosa da dirle; accosti l’orecchio.

— Son qui.

Un lungo attimo di silenzio. E l’Elena sussurrò:

— Non mi attento.

— Ah — egli fece, pentito a un tratto d’essersi abbassato alla serratura
—: ti attentavi però ad attaccar i bigliettini al collare del cane!

— Bene, zio! — mormorò pronta la ragazza —: lei adesso può star
tranquillo; può rimettere il collare a Top.

Se dal buco della serratura Prospero Marzioli avesse scorto l’universo
quale possessione sua, tutta sua, non avrebbe provata tanta gioia!

Rimettere il collare a Top, star tranquillo, non significava forse che
l’amoreggiamento era finito? Senza dubbio il Tarelli, dopo la lezione
ricevuta dallo zio, aveva rinunciato all’Elena. Quant’era bello adesso
il mondo, sebbene dal buco della serratura non si scorgesse più nessuno
e non si udisse più nulla!

E ora Prospero Marzioli poteva incontrare Adelmo Marzioli senza timori e
senza rimorsi.

L’incontrò poco dopo, che veniva dalla Congregazione. Ma — miracolo! —
questa volta parlava prima lui, Adelmo; al solito, però, pacato e
conciso.

— Il figlio di Tarelli ha dimandato l’Elena. A San Martino si sposano.

Elena — sposa!

Lo zio Prospero impallidì; diventò rosso; tacque finchè fu certo di
poter dissimulare la passione con lo sdegno. Un lungo attimo; e
aggrottate le ciglia, esclamò:

— Non aspettatevi regali, non aspettatemi alle nozze. Sono uno da star a
pari dei Tarelli, io?

Bene. Non si commosse Adelmo; chiese soltanto:

— C’è altro?

— Nient’altro — rispose Prospero allontanandosi e premendosi con la mano
il cuore.



                                  VII.


E rimise il collare a Top. Ma chiuse per sempre il camerone delle
memorie e delle glorie sue e familiari.

Alla Valletta — ove dimorava in una piccola stanza simile a una cella —
consumava molta parte del giorno leggendo o tentando di leggere. Aveva
dato la libertà ai richiami e alla civetta; e a caccia non andava più
che con Top, senza sparare un colpo. Nel dissidio che era in lui fra
l’energia della razza e l’affievolimento dell’amore — l’amore per tanti
anni respinto — l’amore troppo tardi conosciuto — ora si meraviglierà di
aver potuto incrudelir con le creature innocenti e liete eppur godere,
nel tempo stesso, della comunione di sè con la vita naturale; ed ora si
rammaricava d’esser così mutato, d’esser così fiaccato nel suo soffrire.

Elena! Avrebbe voluto udir parlare sempre di lei, solo di lei.

Spesso gliene discorreva il vecchio; ogni volta che tornava dal paese.
Quante chiacchiere intorno al matrimonio Marzioli Tarelli! Che cotta
s’era buscata quel giovine! Che fortuna, quella ragazza! Ma la meritava.
La più bella ragazza del paese! Una bella romagnola!

Già si sapeva che, il dì di San Martino, le nozze sarebbero celebrate
con gran pompa; e dopo, gli sposi partirebbero per Roma.

— Col diretto delle undici — notò, per dire qualche cosa, per nascondere
sè a sè stesso quasi con una prova d’indifferenza, il signor Prospero.
Poi dimandò aggrottando le ciglia:

— E di me cosa si pensa?

— Qualcuno pensa che lei ha giudizio.

— Perchè?

— Perchè lei non approva questo matrimonio. I Tarelli han troppi soldi,
e i troppi soldi non han mai fatto contento nessuno.



                                 VIII.


Alla proda del fosso, davanti all’acaciaia, Prospero Marzioli sedeva
tenendo lo schioppo appoggiato al ginocchio sinistro e poggiando sul
destro il gomito si reggeva col braccio e con la mano il capo. Aspettava
passasse il treno che portava gli sposi al viaggio di nozze. Finalmente
— ecco — sobbalzò. Laggiù tra gli alberi, sotto il fumo che livido
stentava a sollevarsi e a diffondersi nell’aria umida, egli osservava
scorrere il convoglio, rotear via rombando.

Elena! Elena! Senza voce la chiamò con tutta l’anima; invisibile agli
occhi, la vide; la perdè: con tale angoscia che non si morse più le
labbra per trattenere i singhiozzi. Nè allora ebbe vergogna di sè
stesso. Gli parve allora che la derisione, lo scherno di tutti gli
uomini non l’avrebbe offeso. E mentre le lagrime gli colavano per le
guance e volgeva lo sguardo, a scorgersi, a sentirsi solo in quella
campagna deserta e squallida capì che di contro il dolore umano c’è
qualche cosa di peggio che l’umana cattiveria, l’irrisione, lo scherno:
c’è l’indifferenza di tutta la vita estranea alla nostra vita, c’è la
separazione da noi delle infinite esistenze inconsapevoli di noi.

A lui che cosa restava? chi gli restava? Un cane! L’ira lo scosse; gli
diè l’impeto di chi cerca divincolarsi. E gridò, fremente:

— Top!

Top impazzava a levar passeri dal seminato, a inseguirli abbaiando; e
non attese alla voce del padrone.

Ma questa volta il padrone non ripetè l’ordine prima di punir la
disubbidienza.

Sparò.

Un guaito; e il bracco cadde.

Prospero Marzioli corse a lui; e vide gli occhi spaventosamente
affettuosi, ebbe da quegli occhi che si spegnevano una tremenda
invocazione di pietà. E quasi per trovar ristoro al male atroce o fine
all’agonia, la povera bestia piegò il collo.

Dal collare usciva, arrotolato e tenuto da un filo, un bigliettino.

E lo zio, premendosi con la sinistra il cuore, lo prese. Lesse:

_Diglielo tu, Top, allo zio che gli vorrò sempre bene; tanto, tanto
bene_!

Ma Top era morto.



                          LE PENNE DEL PAVONE


Andar a bruscolare anche allora significava in pratica, più che la
parola non dica, raccogliere, per bruciaglia, stipa grossa e bacchetti
lunghi, e se nel luogo della ricerca si trovavan begli alberi frondosi
la coscienza non escludeva qualche strappo o taglio di materia non
secca. La massima antica che «la roba dei campi è di Dio e dei Santi»
pareva dar diritto, allora, a portar via qualche cosa appartenente ad
altri; e poichè oggi il diritto nuovo pare conceda di portarla via
tutta, o quasi tutta, evidentemente la roba dei campi sarà oggi passata
in padronanza superiore a quella dei Santi e di Domineddio: il mondo non
cammina per nulla.

— Non date danno — raccomandava la donna del casellante ferroviario ai
suoi ragazzi; e aggiungeva come argomento positivo alla moralità ideale:
— Potreste buscarvi delle bòtte —. Quando però i figliuoli rincasavano
carichi di legna o, magari, stringendo al seno un mellone o un cocomero,
e dicevano: — Ce l’han donato —, lei fingeva di crederlo: li vedeva
incolumi, e «la roba dei campi...».

Ma la buona donna raccomandava con maggior premura: — State lontani dai
borroni!

Perchè a bruscolare andavan di solito lungo il Rio Rosso dove scorre più
fondo tra più folto e più pioppi, verso monte; e non vi mancavano le
tentazioni e i pericoli.

Il divertimento alla chiusa!: togliere i travi che servivan da paratoia
per veder la piena precipitare riscintillante, e mandar con essa — a
rischio di tenergli dietro — il primo trave per sollevare dal baratro
una fragorosa colonna di spume e di faville! E i pesci? Non si godeva a
sorprenderli e quasi afferrarli mentre galleggiavano nell’acqua limpida
e tremula?

                                  ***

Quel giorno, dunque, i figliuoli del casellante, Mario e Aldo Sartori...
Bei ragazzi tutt’e due, ma più il piccolo — Aldo —, che esprimeva dagli
occhi la letizia del sangue sano e la bontà dell’indole... Quel giorno,
a fin di luglio, appena furono discesi dal ponte s’avviarono di corsa
alla chiusa. Ahimè, non aveva raccolta. E il caldo era così grande che i
pesci non comparivano, e fin i ranocchi, all’approssimar dei passi,
tardavano a balzar giù con un tonfo e a penetrar nella melma dimenando
le gambe e intorbidando, come d’un fumo, il breve specchio. Soltanto le
idrometre mostravano d’esser contente a sfiorar l’acqua coi fili delle
loro zampine, insensibili a tutto fuorchè al correre miracolosamente
così su l’acqua, nel sole; emanazione di vita indifferente a tutto
fuorchè al molle contatto e al moto alacre e incessante.

— Raduna tu i bacchetti — comandò Mario al fratello, e si adagiò a
un’ombra. — Io farò il fascio.

Sapeva già compor le fascine a modo degli uomini. Con un vinco. Ne
attorcigliava la vetta a cappio, sottoponeva il legame alla stipa, la
calcava col piede, e introducendo nel cappio l’altra estremità del vinco
la tirava e torceva in groppo sì che tenesse la presa. Poi si addossava
il fastelletto e portandolo a dorso curvato si credeva che chi lo
guardava lo stimasse un uomo. Perciò comandava al fratello e gli
lasciava il vanto della fatica più umile.

— Cogli tu! Presto!

No e no. Aldo ne aveva meno voglia di lui. E liticarono. E si
acciuffarono. Dei due, Mario, che percuoteva più sodo, era più facile a
lamentarsi. Aldo resisteva finchè poteva, indi scappava con rivincita di
boccacce e sberleffi che ne rideva lui stesso. E ridendo tornavano in
pace.

                                  ***

Da quanti secoli si ripete nei fanciulli la smaniosa gioia che dovevan
provare gli uomini primitivi allorchè riuscivano a impossessarsi di
qualcuna delle più liete creature del mondo? Era una vittoria su la
natura, la quale ai volatili volle dar mezzo di sfuggire alla cupidigia
umana, ed è tuttavia la soddisfazione di un’istintiva, atavica invidia
per quelle creature così liete a credersi inafferrabili: tanta
soddisfazione, tal gioia da rendere ingenua e inconsapevole la crudeltà.

— Con un archetto — diceva Mario — si prendon le buferle.

Ora i fratelli sedevano all’ombra insieme, pacificati e invogliati di
caccia da un branco di cardellini che calando dalle fronde di sopra a
loro eran venuti a bere e a bagnarsi.

— Sono men furbe dei cardellini le buferle — diceva Aldo.

— E se ci restan, nella corda, non scappan più. Vedrai!

Ma costruire un archetto non era agevole come legare un fascio di stipa.

Mario piegò ad arco un ramoscello e lo tese per bene con uno spago
doppio a scorsoio. Se non che non sapeva ancora la giusta distanza dei
nodi, nè trattener l’uno col piòlo, che, quando la vittima capiterebbe
su la corda, cadrebbe, e l’arco scatterebbe serrando e stringendo le
povere gambe fra l’altro nodo e la cocca. Uno spasimo atroce.

— Fa presto! — Aldo sollecitava, ansioso del giuoco. — Dove ce n’è,
delle buferle, adesso?

— Nell’acaciaia del Palazzaccio.

E prova e riprova, finalmente la macchina sembrò in ordine.

Mentre avanzavano per il sentiero tra le macchie il piccolo si accorse
che il giorno mutava luce.

— Vien tempo da piovere.

— Lascia! In caso che piova andiamo a ricovero nella capanna del
vignarolo, lassù. Io non ho paura di niente.

                                  ***

Ecco. Sfogliata la cima a un’acacia, posato l’archetto fra una rama e
l’altra, non c’era più che da attendere con pazienza, zitti e queti.
Passeri ne giungevano, d’intorno, ma parevano avvisarsi a vicenda
dell’insidia: buferle, nessuna. E Aldo non poteva star fermo e tacere.
Deluso, cominciò a insistere per tornar a casa.

— Non senti che tuona?

Il temporale rombava da lungi e già ne pesava, nell’afa bassa, la
minaccia. Quando uno strano grido, come d’una voce troppo alta emessa da
una gola troppo stretta, come d’un richiamo doloroso e selvaggio, sorse
lì, da loro.

— Un pavone!

— Un pavone di quelli del Palazzaccio. Cercherà la pavona e i pavoncini,
per ammazzarli — disse Mario.

E lo videro. Nonostante l’impedimento della coda oltrepassava svelto fra
tronchi e sterpi. Addosso! Forandosi le mani e le guance
nell’inseguirlo, lo spinsero contro un cespuglio.

— Càvagli le penne! — incitava il piccolo. — Ne voglio una!

Infatti come la bestia ebbe nascosto il capo nel cespuglio e pensandosi
non più vista non si mosse più, Mario potè strapparle una, due, tre
penne delle più belle.

E nel cielo ottenebrato proruppero i lampi.

Allora i ragazzi fuggirono a ricoverarsi nella capanna.

                                  ***

Il capannotto del vignarolo era a sommo della riva, appoggiato a una
quercia e contesto di frasche.

Vi entrarono felici. Essere al coperto, al sicuro, là sotto, come
fossero sol lor due al mondo, mentre la bufera si scatenava! Il tuono
ora scuoteva cielo e terra.

— È il diavolo che va in carrozza con sua moglie. — Mario rideva; non
aveva paura.

Ma Aldo non rideva più. In fondo, dove il riparo era più saldo, sedè
accosto al pedale della quercia e si coperse il viso con le braccia. E a
un tratto, dal cielo squarciato piombò la grandine col fracasso della
ghiaia scaricata dalle birocce; con un guizzo di luce abbacinante una
folgore cadde da presso. I chicchi grossi quanto le nocciole fendevano
il fogliame e il frascame dell’albero; alcuni penetravano di colpo nel
rifugio.

— Mamma! — invocò il piccolo.

— Non aver paura! — ammonì il fratello. — Ci son io; e ti copro con la
paglia. Tieni tu le penne.

Gli porse, gli mise nella mano le penne del pavone, e tornò verso
l’entrata dov’era un po’ di paglia, in mucchio. E si chinava per
raccoglierla, per difendere con essa, dalla tempesta, il fratellino che
chiamava la madre e piangeva; e in quell’istante si sentì investir
tutto, rapire da una fiammata. E non capì più nulla.

                                  ***

Quando rinvenne, Mario vide che il sole splendeva. Ma aveva
l’impressione di non poter più muoversi. Con un terrore folle si sforzò
ad alzarsi in piedi, e alzatosi gli parve di sentir il sangue rifluire
per ogni vena e d’essere leggero leggero.

— Andiamo via! corriamo a casa! — gridò volto ad Aldo.

Aldo non si mosse. Teneva il capo a terra, contro il braccio sinistro;
tendeva l’altro braccio stringendo in mano le penne del pavone.

E Mario gli si avvicinò, lo chiamò più forte.

Non rispose.

Tendeva il braccio destro, irrigidito, quasi volesse rendere al fratello
le penne del pavone che il fulmine gli aveva lasciate intatte nella
mano.



                               LA FIUMANA


Che gli asini camminando più o meno piano per la strada maestra si
provino a prendere ogni viottola che scorgono di qua e di là, si
capisce. La strada larga e bianca, precorrente senza limite visibile,
suscita in loro l’idea e il panico dell’infinito; e poichè sanno per
esperienza come da colui che trasportano e che li guida e bastona ci sia
da aspettarsele tutte — e non sarebbe da meravigliare neppur il
proposito, in lui, d’andare all’infinito — essi dalle viottole laterali
han l’illusione o la conoscenza o la speranza di un termine prossimo, e
tentano rivolgersi a quello.

Più difficile è spiegare perchè anche l’asino bennato oppugni a voltar
indietro pur nella più larga e più piana strada. Ecco. Il prudente
auriga tira dalla parte destra fin quasi al limite del fosso, indi tira
a sinistra con tanta energia che la bestia è costretta a piegar contro
la stanga il collo, la testa, la bocca aperta dallo spostamento del
morso, e, per esprimer meglio il suo volere, il padrone rialza e
riabbassa in fretta il randello, sì che la battuta groppa si addossa,
rintronando e dolorando all’altra stanga — e, nossignori, non cede;
piuttosto che cedere l’asino va inesorabilmente nel fosso di sinistra
col biroccino e chi c’è sopra. Perchè? Forse per amor proprio? punto di
onore? dignità personale? In tal caso bisognerebbe supporre a questa
ostinazione, a cocciutaggine così pericolosa, un ragionamento degno d’un
uomo di carattere quale ce n’è pochi, specie al giorno d’oggi. — Ah tu
che mi sfrutti mi hai dunque attaccato al biroccino non per bisogno, ma
— poichè vuoi tornar indietro — solo con l’intenzione di farmi faticare
e di bussarmi? Ebbene, no! neanche se io debba tornare alla dolce
stalla, io non volto! Preferisco pungermi alla siepe, rompermi una
gamba, fiaccarmi l’osso del collo nel baratro. Non volto: no, no e no!

E che tale o simile ragionamento non fosse da escludere lo dimostrerebbe
un fatto: che laggiù, quando sia rimasto in piedi o risorga, l’asino si
mette subito a brucar l’erba della sponda. L’ostinazione cieca non gli
permetterebbe di vederla, l’erba: la stizza invece, che nelle persone
intelligenti non toglie il lume degli occhi e passa presto — appena
hanno avuto sodisfazione —, gli lascia dire tra sè: — Adesso che l’ho
vinta io, sono contento. Mangiamo!

Ma quand’anche questa presunzione intellettiva nei ciuchi fosse
esagerata, l’ostinazione loro sarebbe sempre più agevole da intendere,
psicologicamente, che l’ostinazione dei cavalli.

                                  ***

Qualche anno fa venne di moda il negar l’intelligenza al cavallo, o —
nella reazione ad ogni ammirazione del passato — per contrasto al Buffon
e all’Alfieri, o per consenso al grande — allora — e nuovo Mirbeau, o
per incredulità delle esperienze di Elberfeld, ove dicevano che un certo
cavallino eseguiva esercizi d’aritmetica coi piedi, i quali oggi nemmeno
usan più i poeti agli esercizi della prosodia. E si chiamava stupido il
«più nobile compagno dell’uomo» perchè è ombroso e perchè ha lo sguardo
velato: come se l’adombrare non potesse indicar il prevalere della
facoltà fantastica su la fredda ragione, che è indizio di genialità, e
come se non ci fossero stati grandi uomini, scienziati o poeti, non solo
con velato sguardo, ma con occhi morti del tutto.

Un fenomeno però della razza equina varrebbe meglio a giustificarne i
detrattori: il restio. Quale maggiore stolidezza, se volontaria?
Fermarsi a un tratto senza perchè manifesto; resistere a ogni stimolo, a
ogni esortazione più carezzevole, a ogni più duro castigo: lì, immoto
con la testa china, proprio a mo’ degli asini malnati, e talvolta con il
di dietro alzato a springar calci in ricambio delle frustate, dei pugni
su la testa e dei calci nella pancia che l’uomo, per diritto di ragione
e di padronanza, elargisce all’animale, indarno.

Tale pervicacia, a udir il contadino o il birocciaio alle prese con
essa, a udirne, tra le bestemmie e gli _oh!_ e gli _uh!_ e i _va là!_
gli epiteti che tempestando e infuriando rivolge all’animale suo
(carogna! — vigliacco! o vigliacca! — ignorante! etc), non sarebbe da
giudicare appunto che uno stolido capriccio. Ma la scienza, dopo
parecchi secoli da che si han cavalli restii, scoperse che il fenomeno
non andava e non va chiarito moralmente, e ne accertò la causa
fisiologica e patologica.

Si tratta di un disturbo funzionale, nervoso, psicopatico; di un morboso
potere inibitorio che improvvisamente impedisce l’atto volitivo del
correre. E se è così, nè vi ha dubbio che non sia così, quale passione,
mio Dio!, quale martirio! Altro che pungersi alla siepe per
l’ostinazione d’andar nel fosso! Pensateci. Pur ammettendo che gli
manchi affatto l’intelligenza, non negherete che il cavallo ebbe dalla
natura l’esser generoso. Quanto può, dà. Ora, l’accesso del male a che
drammatico doloroso intimo conflitto lo condanna! Pensate! pensate!...
L’istinto lo porterebbe alla corsa senza freno, al galoppo fin che gli
basti il respiro, e il misero non può più muoversi!; la natura l’ha
creato sensibile ai richiami della voce, al tocco delle redini, al
dolore delle frustate, e deve star lì immoto, inchiodato, a udir il
padrone gridar come una bestia terribile, a ricever le percosse, a
tremar a nervo a nervo, a bagnarsi di sudor freddo, senza voce, senza
maniera di svelar il suo martirio, di chiedere pietà — non posso più
correre! non posso più andare! —; veder davanti a sè aperta, libera, la
strada in cui gli è pur così grato superar i fratelli o seguirli, e aver
addosso, intanto, l’apprensione orrenda di non poter più dar un balzo e
avviarsi: mai più! Un cavallo! Non sarebbe — dite — una pena atroce
quand’anche gli mancasse affatto l’intelligenza? E gli mancasse davvero!
Soffrirebbe meno.

Invece....

                                  ***

Cenzo Dimondi è ancor vivo e sano, e narra volentieri la storia del suo
Baio.

Se capitate alla bottega — tre chilometri oltre Pedriolo, su la destra
del Sillaro — ove con _Sali tabacchi maiale e altri generi_ egli vende,
fra gli altri generi, vin buono, bevete un bicchiere con lui e fatevi
ripetere il racconto: non mi accuserete dopo d’averci introdotto
aggiunte sentimentali per renderlo più vero.

— Un cavallo, che i miei ragazzi chiamavan Baio, era la mia delizia —
narra Cenzo Dimondi. — Sano, fido e di tanto sentimento che non
sopportava nemmeno lo schiocco della frusta. In due mesi da che l’avevo
comprato, non mi aveva recato un torto, mai. Quando, un giorno di
settembre, venivo da Bologna. Vicino a casa vidi che doveva esser
piovuto da poco e che in montagna il cielo s’abbuiava. Tornare indietro,
al ponte, e allungare il viaggio per non attraversare il fiume a guado,
al solito? No: il fiume non dava segno di cresciuta, nè io potevo
immaginarmi che in montagna alta ci fosse stata intemperie. Senza
sospetto di quel che stava per succedere calai dunque dalla riva, per la
carraia che lei vede là dirimpetto. E il cavallo, tranquillissimo,
taglia il primo raggio d’acqua; passa la secca; rimette le gambe nella
corrente più larga; tranquillo tranquillo avanza fino a metà e... si
ferma.

Lei dice: — un capogiro. Ma col capogiro i cavalli, nel fiume, mi si
eran sempre mostrati diversi. Dubitano un poco e basta eccitarli un
poco. E lui. Baio, eccitato con la voce, non si mosse.

Non giovando nè le parole nè lo scuotergli addosso le redini, lo tentai
con la frusta. Niente. Nessun dubbio più: era restio! Io sapevo anche
allora che il restio è quasi una paralisi che dura dieci minuti, un
quarto, fin mezzora. Bisognava pazientare, attendere. Ma la mia donna di
qui, dalla bottega, mi vide col biroccino fermo in mezzo all’acqua e
cominciò a gridare: — Presto, Cenzo, che non arrivi la fiumana! — E i
ragazzi: — La fiumana, babbo! — Mi diedi a frustare, prima senz’ira, poi
senza misericordia: sopra, sotto, nelle gambe, nel collo, nella testa;
la pelle s’enfiava a cordoni. E niente, come se battessi lei, che non
c’era. E gli urli della donna e dei ragazzi diventarono più acuti. — Si
sente la romba! Scappa, Cenzo, per amor di Dio! — La fiumana, babbo! la
fiumana!

Già, avrei dovuto scendere; abbandonar cavallo e biroccino; perderli,
chè la piena qui, sboccando dal letto stretto e fondo, rovescierebbe e
si porterebbe via un paio di buoi con il carro. Ma mi ero impuntato
anch’io. Se il restio è un male — pensavo —, un male più grande lo
scaccerà. E mi misi a picchiare il cavallo col manico della frusta
tenendolo a due mani. Botte da accopparlo. E niente; come niente!

Disperati, mia moglie e i miei figliuoli, che mi vedevan me là in mezzo
e vedevan la piena che arrivava arrivava, ora chiamavano aiuto. — Aiuto!
aiuto! — Aiutarmi chi? Non c’eravam che noi, in questa parte, a quel
tempo. Aiutarmi in che modo?

Mentre bastonavo e bastonavo, da matto, voltai l’occhio... Mi si drizzan
i capelli in testa anche adesso a ricordarmene; mi si gela il sangue
nelle vene. L’acqua torba raggiungeva la chiara, dilagava furibonda; le
onde...

Stavo per diventar matto davvero; per saltar giù dal biroccino. Se salto
giù, mi annego. Le onde tra pochi momenti erano alle ruote, le dico!

Gridai: — I miei figliuoli! — E... Dio! Dio! Il cavallo si slancia; in
due, tre balzi trascina il biroccino fuori dell’acqua, si avventa
attraverso la secca e su, di galoppo, per la riva: su! su! siamo nella
strada. Ah!... Salvo! Come dentro a un sogno vedo le facce bianche della
mia donna e dei miei figliuoli che mi guardavano senza più voce; E qui,
davanti alla bottega il cavallo, Baio, mi stramazza. Morto.

A questo punto Cenzo Dimondi non si vergogna a raccogliere due lacrimoni
nel fazzoletto. Indi seguita:

— Baio, un cavallo di tanto sentimento, attaccato dal male non sentiva
più nè parole, nè frustate, nè bastonate. Ma aveva capito il pericolo:
non dico il pericolo di me o di lui: un pericolo spaventoso, quasi di
tutti, di tutto il mondo!, e l’aveva capito dalle grida dei miei, dalla
romba lontana, dallo squasso vicino, dall’urlo mio. E volle vincere il
male che l’inchiodava, a ogni costo. Lo vinse. Ma gli crepò il cuore.

Dopo un’altra pausa Cenzo Dimondi conclude con una dimanda:

— È così o non è così?



                             A SANT’ELPIDIO


— Ed Elena Baschi, così intelligente, così bella?

— Sempre lassù, tra i monti, a Sant’Elpidio, dove andò maestra la prima
volta.

— Maritata?

— Nemmeno.

                                  ***

La prima volta che Elena Baschi andò a Sant’Elpidio fu in un nuvoloso
pomeriggio, al finire di settembre.

Lungo, interminabile il viaggio. La strada procedeva a salite e discese
tra siepi alte, al di là delle quali non si scorgevano, a quando a
quando, che i soliti campi alberati e arati, deserti; e per le frequenti
svolte anche la vista, dinanzi, veniva spesso impedita.

Gravavano tedio e silenzio. E se la siepe diradava o cessavano i filari
degli olmi, appariva, a sinistra, la costa montana, che nebbiosa, senza
cime, escludeva l’orizzonte con limite uguale e dava pur essa il senso
di una solitudine lunga.

Finchè, dopo una calata, la strada svoltò ancora, improvvisamente... Oh!
Meraviglioso! Allo sguardo si aperse, libero e vasto, un meraviglioso
scenario. Il passaggio dalla uniforme e scarsa veduta a quell’inatteso
spettacolo fu così repentino che ad Elena sfuggì un’esclamazione di
gioia.

La strada rasentava la riva del fiume, che precipitava a picco,
profonda; e il fiume, svelato di un tratto, spaziava bianco nel greto,
brillava a raggi intermittenti nell’acqua: la sponda opposta declinava
verde, folta, sparsa di case; e laggiù, dove le rive si distendevano a
valle era, da una parte, la chiesa, bianca, grande, col rosso campanile
e una fila di pioppi; e dall’altra parte, una tenera frescura di erba, e
tra gli alberi festonati di viti, in gruppi, le case del villaggio.
Congiungeva le rive un nuovo ponte a begli archi; sorgevano nello sfondo
le montagne, prima azzurre, quasi a respirare nel cielo sereno; poi
svanivano in una luce cinerea.

— Sant’Elpidio — disse il vetturale.

E in quella dilatata ampiezza, dall’una all’altra di quelle chiare e
ariose rive, correva, come per affrettarsi avanti il morir del giorno,
una vita possente di suoni e di voci.

Contadini che incitavano i buoi; donne e ragazzi che si chiamavano e
rispondevano; muggiti di vitelli; canti di galli; densi cinguettii di
passeri. Quindi il tinnire di un’incudine. Quindi, anima che raccoglieva
mille anime e interrompeva mille echi, più forte e vibrante si diffuse
il suono delle campane.

Elena Baschi, commossa, pensava.

Con l’orgoglio di bastare finalmente a sè stessa, con la superiorità che
le prometteva la cultura della Scuola Normale, con la fiducia di aver a
compiere una nobile missione non l’attendevano forse lieti giorni in
così mirabile luogo? Non potrebbe sperare anche là d’esser degnamente
amata? Gli otto mesi da trascorrere a Sant’Elpidio non sarebbero almeno,
per lei, come la vigilia di una festa avvenire, la prova meritoria della
felicità avvenire?

                                  ***

Prese a dozzina la nuova maestra una vedova, vecchia di forse
sessant’anni, piccola e grassa; col viso grinzoso, cotto dal sole. Gli
occhi vivi; non brutta, e ridente. Ma doveva essere avara, perchè il
vitto, abbondante e buono ai primi giorni, andò scemando in quantità e
qualità; e nei modi la vecchia dava a vedere una rozzezza inasprita dai
pregiudizi e dalle costumanze incivili. Così, faceva che l’ospite
desinasse e cenasse sempre sola, sebbene la tavola fosse apparecchiata
per due; per l’ospite e per il figlio Agostino, il tiranno.

Questi mercanteggiava in bestiame; ai paesi e alle fiere del monte e
della pianura. Era bell’uomo e villanzone. Incontrandosi con Elena, ai
primi giorni, si toccava appena la falda del cappello, senza dir nulla;
di poi, disse, senz’altro complimento:

— La saluto, maestrina.

D’una volgarità stupida nei brevi discorsi, i suoi motti tendevano
sempre ad allusioni sensuali. E avvolgeva Elena d’occhiate lunghe e
fredde, da mercante speculatore e da buongustaio mutevole.

Non li temeva essa, quegli occhi; l’assicurava la superiorità
dell’intelletto e dell’animo.

La turbavano, al contrario, le occhiate della madre. Quella vecchia
espansiva e gioconda con tutti gli altri, aveva mutato aspetto con lei;
non dissimulava nello sguardo come una preoccupazione continua, una
segreta diffidenza, un’antipatia a stento repressa. Perchè? Elena
sdegnava interrogarla.

Il disgusto però le crebbe quando s’avvide che quella osservazione
ostile la seguiva anche fuori di casa, da altri; fuori, divenne anzi
sgarberia manifesta, dispettosa insolenza. La ragazza della bottegaia
l’aspettava su la soglia della bottega per voltarle, vicina, le spalle;
la moglie del medico condotto o fingeva di non vederla o rispondeva al
saluto chinando appena il capo e fuggendo; la sorella del sarto
sorrideva con ironia maldestra; l’ostessa... Che avevano, insomma,
coloro? Che aveva fatto, lei, a quelle donne?

Quando potè saperlo, rise. Ingenuamente la madre di una scolaretta le
disse un giorno:

— Per quassù lei è una maestra troppo giovine e troppo bella!

Ah ah! Ecco che cosa avevano! Gelosia; invidia; timori d’oscuri
pericoli.

Via! Stessero pur tranquille, tutte! Non mirava, no, a rapire l’amante a
nessuna, il marito a nessuna, il figliuolo a nessuna! Nè si curò più
della guerra esterna.

Ma in casa, per queto vivere, volle subito sollevar la vecchia dello
strano sospetto ch’ella cercasse d’innamorarle il figlio. Appena di lui
udiva i passi o la voce, scappava nella sua camera.

E la signora Filomena, la vecchia, non tardò ad accorgersi del proposito
e a dimostrar gratitudine. Talvolta, piano piano, toccando con l’indice
la punta del naso per impor silenzio, entrava a porgerle un uovo appena
fatto; talvolta la chiamava dolcemente di sotto la finestra perchè
scendesse a prendere un po’ di sole con lei.

— Venite giù, poverina! Vi farà bene. E tanto insisteva che bisognava
accontentarla. Sedevano a solatio, davanti alla casa e di lato al pozzo
e alla catapecchia ov’erano il forno, il porcile e il pollaio. Sotto al
fico, dal piede bianco di cenere, la Filomena dipanava matasse
all’arcolaio e cantarellava a bassa voce; Elena, seduta sulla panca del
bucato, tra l’olla e la siepe su cui asciugavano fazzoletti e borracci,
o cuciva o guardava le galline che andavano a letto. Montavano per la
piccola scala sbalzando a una a una di piolo in piolo e misurandosi ogni
volta, con la testa alta, allo slancio. Su! Ma lassù, là dentro, seguiva
un rimescolio di voci e di proteste; e alcune malcontente atterravan di
volo e tornavano a beccare nel truogolo. Tra i galletti ancora a terra
intervenivano le ultime risse; gli ultimi assalti alle galline proterve.
Le oche (non mancavano due oche) si spollinavano a vicenda affondando il
becco tra le piume e scuotendo la coda; e il gatto si leccava e
lisciava, beato.

Ma già il porco domandava a suo modo la cena; e quando il sole calante
accendeva d’una luce d’oro la montagna di là dal fiume, stupenda, la
vecchia s’alzava per accontentar il porco, povera creatura, e preparare,
dopo, la cena dell’ospite.

                                  ***

Questi gli svaghi a Sant’Elpidio! Questa la vita che compensava tanti
studi, tanti sacrifizi! Eppoi? Muterebbe mai sorte pur mutando luogo? Ed
Elena Baschi nella presente mortificazione fu presa dallo sgomento del
futuro, e pianse la sua bellezza sfiorita entro una scuola, il suo
ingegno consunto in opera meschina.

Ma della tristezza accorata in cui cadde a poco a poco, ma della
desolazione profonda a cui a poco a poco si abbandonò, nè le fatiche
della scuola, nè il disagio domestico, nè la stessa mancanza di affetti
(orfana; sola al mondo) potevano rendere bastevole ragione. Un maggior
male le rodeva l’anima: come un più segreto affanno; come un’aspirazione
dell’anima spossata, e pur avida d’un bene ignoto e inconoscibile. Oh
fuggire! oh rompere ogni catena! oh morire!

Piangeva guardando dalla finestra della sua camera la mirabile
prospettiva dei monti e del fiume e della valle verde, che l’autunno
circonfondeva di una soavità luminosa e di una luminosa pace. E non
comprendeva che il maggior male le veniva appunto di là, dal contrasto
fra la vita esterna e la sua intima vita, dal discordo fra la tentazione
di quel cielo e di quella terra piena d’anima arcana e la sua piccola
anima riflessa nel suo povero pensiero ribelle.

La sosteneva in faccia agli altri l’alterigia. E non comprendeva
l’inconsapevole consiglio che a viver bene le dava, nella persona della
vecchia, l’umiltà. Al contrario, della consuetudine con la vecchia
risentiva un’irritazione, un fastidio sempre più grave e ormai pari
all’odio.

Già esente da ogni soggezione, la Filomena, anche quando la maestra era
in casa, cantava a squarciagola i canti della sua fanciullezza; e
cantava con impetuosa gioia, interrompendosi talora sol per ripetere
l’usato grido — Oh... là! —, che i ragazzi le mandavano dalla pendice
opposta. A sessant’anni! Ebbra di vita, così!

— Pazza! — mormorava Elena, tormentata.

Pazza? O piuttosto in quella donna sopravviveva qualche cosa dell’anima
primitiva, quando l’umanità non si era fatta estranea e insensibile alla
natura? Naturalmente — senza riflessione, senza contemplazione, senza
ammirazione — la vecchia cedeva alle stesse energie di vita, che,
indistinte, traevano liete voci dagli animali, e colori e profumi dalle
piante, e risplendevano nel fiume, contro i monti, nel cielo. E cantava,
così, priva di pensiero, per un ignaro irresistibile consenso del suo
spirito alla vita universa.

Se non che, al cader del giorno anche lei si raccoglieva; pensava anche
lei. E allora soffriva.

Era un presentimento, conoscendo lei pure il carattere aspro, violento,
pericoloso, del figliuolo? o era un’oscura temenza che aveva nel sangue,
ereditaria? o un panico per qualche recente ricordo di sanguinoso
assalto?

Ogni giorno, all’imbrunire, la madre usciva in mezzo alla strada e vi
restava immobile, attendendo, in ascolto. Se percepiva da lungi il noto
trotto, tanto diverso a’ suoi orecchi da quello d’ogni altro cavallo,
gridava forte: — È qui! è qui! —; come annunciasse al mondo intero una
miracolosa salvezza; e rincasava trafelata a scaldar le vivande, mentre
Elena si ritraeva, saliva alla sua camera. Ma se l’arrivo di Agostino
tardava o mancava, allora la madre cominciava a dolersi: — Oh poveretta
me! oh Madonna santa! —; e dalle parole mormorate appena acuiva la voce
a esclamazioni angosciose:

— Gli assassini! Oh Madonna santa, se me l’hanno ammazzato, il mio
figliolo? Dio! Dio! me l’hanno ammazzato!

Elena, le prime volte che l’aveva vista e udita in tale ambascia, aveva
cercato di quetarla, aveva richiesto il perchè di così atroce spavento.

Con sdegno la vecchia le aveva risposto:

— Non sapete nulla, voi!

Ed Elena ripetendo — è pazza! — se ne andava a letto, tormentata perchè
la vecchia sino a notte tarda pregava ad alta voce o gemeva in sogno. E
il mercante di buoi, quando tornava a notte tarda, sbatteva la porta,
parlava forte tra sè; bestemmiava salendo la scala. Forse ubbriaco?

Elena si alzava ad accertarsi che il suo uscio era ben chiuso.

                                  ***

Passò novembre. Venne l’inverno.

Quand’ecco, nel pesante silenzio di una sera che nevicava, la folgore,
lo schianto tragico.

Elena era già in letto, desta; e udì battere più colpi alla porta.

Chi, a quell’ora? Perchè? Non poteva essere che _lui_! Non chiamava;
mandava, _lui_ — sì, era _lui_ —, un lamento fioco, faticoso, quasi a
prova d’ultima vitalità.

Orrenda l’attesa; orrende, a un tratto, le strida che proruppero, della
madre: — Il mio Agostino! il mio figliolo! Madonna santa! il mio
figliolo!

Elena balzò; e intanto che si gettava indosso la veste, distingueva fra
quelle strida atroci, incessanti, lo scalpiccio dei passi per le scale,
il sussurro delle voci — di coloro che lo portavano su...

E dall’uscio aperto vide, nell’altra camera, al lume rossigno della
candela...; vide; comprese.

Ferito, l’avevano adagiato nel letto... Seguitavan le strida; strazio,
spasimo delle viscere materne; odio, esecrazione dell’anima materna
davanti l’assassinio del figlio.

Nella memoria di Elena, ogni volta che raccapricciando riguardava la
tragica notte, questa sola visione della madre era rimasta evidente; ma
del resto il ricordo era torbido, confuso come le immagini d’allora, tra
l’ombre agitate dal lume rosso della candela.

E la vecchia che non voleva staccarsi di là, e i due uomini che parevano
forzarla senza potere...; due uomini!

Poi, il medico... Giungeva, usciva; tornava dicendo: — laparotomia...;
tentare.

E lei, Elena? Nel ricordo si vedeva quale fosse stata sempre là
spettatrice, smarrita, tremante, convulsa, nell’ombra. Invece, no: lei
sola aveva fatto cessar quelle strida intollerabili; lei aveva tratta a
sè la vecchia, l’aveva spinta nella sua camera, l’aveva minacciata — con
che parole non rammentava — perchè tacesse.

E la madre, che aveva urlato così il suo dolore, con uno strazio di
maternità selvaggia, era caduta a sedere affranta, in un pianto dirotto
e cheto; povera vecchia sublime.

                                  ***

Morì. E la maestra udì dire che le due coltellate se le era meritate in
un litigio all’osteria. Quasi potesse esser giusto tanto dolore; il
dolore della madre, cui nessuno all’infuori di lei, che v’assisteva ogni
giorno, pensava commiserando!

La vecchia riprese le abitudini domestiche; ma sembrava impietrita
dentro. Taceva sempre, ora; e quel silenzio, in essa di natura così
clamorosa, commoveva più che lagrime e lagni. Non solo. O perdeva la
coscienza della sventura cadendo per la stessa fissità del pensiero in
uno smarrimento mentale, o con volontà ferma, con energia chiusa e
voluttuosa la povera donna cercava d’esasperare il suo soffrire nulla
omettendo delle antiche abitudini.

E ogni sera apparecchiava la tavola, come un tempo, anche per _lui_!
Sparecchiava, dopo, e sospirava; come soleva le sere che il suo Agostino
non tornava a casa.

Nè Elena, per quanto si provasse, riusciva a confortarla. Alle parole
che venivan dal cuore e che spontanee e sincere avrebbero fatto tanto
bene a una donna educata, la Filomena scuoteva le spalle, sfogava lo
sdegno brontolando: — Siete una signorina, voi! — Nella fiera vecchia il
dolore pareva a volte condensarsi in astio; i suoi occhi mandavano lampi
d’ira: per un orgoglio barbaro. Nessuno doveva tentar di scemare il suo
disumano dolore. Nessuno!

Trascorso più d’un mese, mutò; s’intenerì alquanto; schiarì gli occhi e
il viso attendendo alle pratiche religiose. Prima d’andare a letto
recitava il rosario e il _Deprofundis_; ma Elena, che a seguirla nelle
preci si era sentita costretta come da necessità, doveva non dar segno
di compianto. Guai se la vecchia le scorgeva gli occhi rossi! La guatava
bieca: non la riteneva degna di soffrire per lei!

E con l’andar del tempo Elena, dianzi piegata dalla compassione, tornò a
ribellarsi. Si sottrasse a quei modi d’intolleranza. Che obbligo, alla
fine, aveva lei di patir tanto per una persona alla quale non era stata
congiunta che dalla sua propria sfortuna? Che compenso aveva avuto del
suo soffrire? Che speranza poteva riporre nella convivenza con una donna
tale; tanto diversa da lei; a lei contraria del tutto, in tutto? E si
confermò nel proposito di partir di lassù. E cambiava discorsi e
maniere. Non cercava più affatto le buone parole; non si rammaricava più
che non fossero comprese e gradite le attenzioni del suo pensiero
gentile e vigile. Divenne ruvida; sin impaziente. Taceva lei, ora. Si
meravigliava essa stessa, ma non le dispiaceva, d’aver forza bastevole
per non rispondere alle richieste che la vecchia era pur costretta a
rivolgerle; e quando bisognava, richiedeva con tono altezzoso; senza
guardare.

Alla metà di giugno: via! Se n’andrebbe! La liberazione!

Ebbene, allora, nell’attesa, Elena s’accorse che la Filomena posava su
di lei sguardi di nuovo indagatori; quasi a leggerle nell’anima. E quasi
indotta in un’apprensione diversa, la vecchia cominciò a starle attorno
con nuove premure, con attitudini timide, incerta tra la soggezione e la
confidenza. Pareva aver acquistata la coscienza de’ suoi torti e aver
bisogno di perdono e dimandare con gli occhi la pietà che per l’addietro
aveva disdegnata, l’affetto che aveva respinto.

Finchè, un giorno, a voce bassa, con le labbra tremule, uscì a dire:

— Voi, Elena, gli volevate bene: è vero?

E gli occhi materni rifulsero dietro il velo delle lagrime.

Elena perdè d’un tratto la sua energia. Stupita, non ebbe coraggio di
negare. Non rispose; sviò lo sguardo. E la vecchia:

— Me n’ero accorta, io! E avevo paura che vi sposasse! Ma sarebbe stato
meglio...

Bel complimento! Meno male che il suo Agostino sposasse lei, anzi che
morire ammazzato! Ma Elena non rise. Non potè riderne neppur dopo;
perchè dopo, la vecchia si rivolse a confortar lei per confortarsi con
lei.

— Rassegnatevi, poverina! — le diceva —. Pugni al Cielo non se ne posson
dare. Ma il Signore è giusto; e voi sapete se era buono, il mio
figliolo! Ah se era buono!

O le diceva:

— Cerchiamo d’esser buone anche noi, e lo rivedremo in Paradiso, il mio
Agostino.

Elena non aveva questa speranza, nondimeno taceva; non commetteva la
crudeltà di contrariare col minimo atto l’illusione della povera
vecchia. — Che ignorante! — pensava. — Stolida! Credere che io ne fossi
innamorata!; che desideri, io di rivederlo in Paradiso! Io!

E contava quanti giorni mancavano alla chiusura della scuola, e
sospirava l’ora che se n’andrebbe. Ma sentiva che il distacco non
sarebbe agevole; sentiva che il dolore vincola più dell’amore e che, no,
non invano aveva sofferto per quella povera vecchia ignorante e stolida.
Bisognava dirle: — Me ne vado. Vi abbandono, per sempre —. Era un
pensiero penoso.

Quando un giorno, uno degli ultimi giorni avanti le vacanze, credè
giunto il momento opportuno a dar l’avviso. E rincasando, udì... Oh una
cosa insana! incredibile! Al solito luogo d’un tempo, sotto al fico,
mentre rigirava l’arcolaio, la Filomena cantava a squarciagola! Appena
otto mesi dopo aver perduto il figlio in quel modo, cantava; ripresa dal
fervore che nel giugno pieno di vita la natura le effondeva d’intorno,
dal cielo caldo e luminoso, dai campi dorati di grano e verdi di messi,
dai monti azzurri e solatii, dal fiume bianco e lucente. Cantava! Nè
volgendosi sorpresa, arrossì; non si vergognò. Interruppe il canto;
attese che Elena le venisse vicino. E sorrideva, in un modo...

Elena s’avvicinò per dirle (tanto, non era pazza quella vecchia?), per
dirle: — Alla fine della settimana, parto. — Ma prima che parlasse la
vecchia le prese di forza la mano, la costrinse a piegarsi verso di lei,
sul suo petto, le accostò al viso le guance grinzose, la baciò su la
fronte.

Poi si scostò d’un tratto per guardarla — oh con tutto il cuore negli
occhi, con un affetto immenso! —, e mentre i lagrimoni le calavano su le
grinze e sorrideva: — Il Signore è buono — mormorò —. Mi ha tolto il
figliolo, ma mi ha dato una figliola. Tu, sei tu, non è vero?, la mia
figliola!



                               L’OMBRELLO



                                   I.


Si accompagnarono, per caso, un pomeriggio del giugno, ai Giardini
pubblici, e godettero a trovarsi coetanei o quasi. Ottantatrè, ne aveva
l’uno — Ceccuti —; ottantaquattro, l’altro — Boldrighi.

Bell’età!, e portata così bene da entrambi, con aspetto così vegeto,
che, quantunque fossero molto diversi nella faccia e nella persona, ai
loro occhi parvero assomigliarsi come fratelli. Ma risentirono
un’impressione anche più forte a ripetersi, a vicenda, il nome.

— Io debbo averlo conosciuto, un Boldrighi.

— E io, un Ceccuti.

Dove? quando? Poichè Ceccuti, partito non ancora trentenne da Bologna,
vi era tornato da soli due anni col figlio pensionato delle Ferrovie, e
poichè Boldrighi non aveva mai perduto di vista le due torri, il loro
incontro, se era avvenuto mai, bisognava rintracciarlo qui, a Bologna,
più di mezzo secolo addietro. Vattelapesca!

Riandarono fin i tempi della puerizia, rievocarono maestri e
condiscepoli, cercarono relazioni famigliari, investigarono nella storia
contemporanea della città, si raffigurarono in mezzo alle maggiori
solennità e alle più famose vicende: e niente!, lo sprazzo di luce
rivelatrice non veniva.

Eppure conservavano freschissima la memoria delle cose lontane.

Pensa e pensa... A un tratto Ceccuti esclamò:

— Si ricorda, lei, di una certa Rosa detta la...?

—... la Garibaldina! — esclamò Boldrighi, arrossendo nelle gote
grassottelle.

Non fu un lampo: fu la folgore a squarciare le tenebre.

Ah! ah! Guarda dove, come si erano conosciuti!

— La Garibaldina! — Ceccuti ripetè con le palpebre socchiuse.

— Sicuro! Eravamo due dei Mille!

E risero forte. Ma tosto si ritrassero da quel ricordo, che potendo
avrebbero cancellato volentieri dalla loro biografia.

— Quando si è giovani... — fece l’uno, in tono di chi si scusa.

E l’altro:

— Consoliamoci che, a differenza di tanti, noi siamo ancora qua a
raccontarci le nostre pazzie.

— Ah sì! Io sto benone; sano di spirito e di corpo.

— E io? Chi lo crederebbe? Io non ho mai avuta una malattia grave.

Ne aveva avute, invece, Boldrighi; ma gli eran giovate a depurargli il
sangue.

Poi: moderarsi in tutto; rinunciare quasi a tutto; questo era da un
pezzo la norma di Boldrighi, per mantenersi vegeto.

Ceccuti scosse il capo.

Moderazione in tutto; ma non rinunciare quasi a nulla: questa invece la
norma sua.

Così, egli beveva anche adesso vino buono a colazione e a desinare;
faceva una deliziosa pipatina dopo colazione e dopo desinare. E si
manteneva in gamba!

Di fuori Porta Saragozza, ove abitava, il giorno andava in centro, e la
sera veniva ai Giardini e rincasava sempre a piedi.

— Il moto è la vita.

Boldrighi scosse ora lui il capo, disapprovando.

— La macchina quando è vecchia bisogna risparmiarla.

Niente Bacco e niente tabacco! Egli campava di latte e ova; e per andar
a casa, in via Mascarella, prendeva il tram a Porta Santo Stefano e il
tram di Piazza. Una passeggiatina e boccate d’aria libera bastavano a
impedir che la macchina arrugginisse.

Discordavano, insomma, nel regime igienico; ma li allietava a un modo la
convinzione di aver trovata la via per campare il più possibile e bene.

— Il mondo non mi è mai parso bello come adesso — affermò Ceccuti.

E Boldrighi canticchiò:

— Sempre allegri e mai passiòn!



                                  II.


Quella tarda amicizia fu per i due buoni vecchi una nuova fiducia a
vivere. Sin dal principio avevano compreso che la presenza dell’uno
testimonierebbe agli occhi dell’altro il suo proprio benessere, e che il
rimanente viaggio sembrerebbe loro anche più agevole e grato a compierlo
insieme. Perciò vedersi ogni sera divenne, più che consuetudine,
necessità.

Giocondamente, seduti al solito luogo ai Giardini, si riferivano le
liete memorie, escludendo le tristi o solo accennandole; si
meravigliavano di casi consimili; scoprivano conformità di carattere, di
azioni, d’idee. E non discorrevano di politica.

— Non vogliamo guastarci il sangue.

— Vogliamo andar d’amore e d’accordo.

— Si sta così bene al mondo in pace e quiete!

— Sempre allegri e mai passiòn!

Forse la decrepitezza comporta il più intenso desiderio di esistere e
concede ogni giorno, ogni ora, ogni minuto il piacere di quel desiderio
esaudito, come per miracolo, per singolare grazia di Dio, o per giusta
predilezione della sorte?

Una quasi sola apparenza vitale nasconde il disfacimento del corpo, e
appunto allora l’istinto della conservazione esulta in un placido
egoismo; la morte è dietro le spalle, e non si vede; non si vede il
limite estremo perchè già un piede v’è sopra: e prevale sensibile di
continuo, ogni giorno, ogni ora, ogni minuto, la sodisfazione di chi si
scorge superstite in una strage e di chi dall’aspra realtà
dell’esistenza attinge una illusione non interrotta di vago sogno.

Ma guai se contrasti e sospetti sottentrino a risvegliare e tener
sveglia l’apprensione della fine imminente!

Quei buoni Ceccuti e Boldrighi non avevano presentito l’amaro che in
fondo a tanta dolcezza amichevole condenserebbe l’emulazione istintiva,
la gara, tra ingenua e insana, a chi dei due campasse di più, fosse
anche, il di più, un anno solo. E il dissidio che doveva corrucciarli
era appunto nel regime adottato per campar un pezzo. Cominciarono a
guardarsi chiedendosi dentro: — Sta meglio lui di me? Sarebbe meglio mi
mettessi anch’io a latte e ova? — Oppure: — E se bevessi anch’io qualche
bicchiere di vino? se dessi anch’io qualche fumatina per aiutar lo
stomaco a digerire?

Nel dubbio, tentavano dissimulare sempre più i disturbi e gli acciacchi,
e lo sforzo si manifestava nell’aspetto. Allora riprendevano fede e
pensavano guatandosi l’un l’altro: — Mio caro, come siete brutto, oggi!
Se non mutate usanza, tocca a me cantarvi una _requiem_!

Ma la consolazione non durava; tornava presto il dubbio, il sospetto,
l’apprensione. E a poco a poco provarono il bisogno di sfogarsi,
convinti, come erano, che ogni tentativo dell’uno per condur l’altro al
suo metodo riuscirebbe vano.

Presero a contraddirsi, a polemizzare; insistenti, caparbi. Le dispute
diventarono presto diatribe; e per non mostrarsi deboli cedendo, quando
uno era messo alle strette, insolentiva; e l’altro ribatteva.

— Sissignore!

— Nossignore!

— E io vi dico di sì!

— E io vi dico di no!

— Con voi non si ragiona. Ostinato più d’un mulo!

— E voi? È inutile consumare con voi il ranno e il sapone!

Non tacevano finchè non dicevano a un tempo:

— Basta! — Basta!

E Ceccuti prendeva e leggeva (senza occhiali) il giornale o il libretto
delle spese quotidiane, e Boldrighi con la punta del bastone imprimeva
su la sabbia la fisionomia di un asino (senza occhiali) e ci faceva
sotto un bel C affrettandosi però a cancellare il disegno prima che
l’amico se ne avvedesse.

Quando l’orologio alla chiesa di San Giuliano suonava le otto sorgevano
in piedi; s’accompagnavano, sempre zitti. E alla barriera si separavano
con un freddo «buona notte».

Boldrighi andava adagio alla Porta di Santo Stefano ad attendere il
tram, e Ceccuti marciava lungo la circonvallazione, alla volta di Porta
Saragozza.

Il dimani passavano ore di pena a rimeditar i dibattiti, le
provocazioni, le accuse, le offese, le difese. Borbottavano: — Stasera
non ci vado. Già, se ha un po’ di amor proprio, non ci andrà nemmen lui,
ai Giardini: gli ho dato del mulo — gli ho dato dell’asino! — Bisognava
finirla! Rottura!

Ma un’intima voce rimproverava: «Anche tu però...»; e il rammarico
cresceva a disgusto, mutava in pentimento.

Giunta l’ora solita, non resistevano più; sentivano che il loro ultimo
legame era indissolubile; cedevano quasi a un destino. E andavano.

Quello che arrivava primo, e aspettava, pareva seder su le brace;
guardava fisso alla nota parte o sbirciava di tratto in tratto. Che
ritardo! L’amico non veniva. Impermalito davvero? Ammalato? morto? Non
avrebbero mai creduto di volersi tanto bene!

Ah eccolo, finalmente! E si sorridevano da lungi. Ceccuti ilare, a
qualche passo dal sedile, chiedeva in dialetto adottivo: — Cossa gavemo,
de novo?

E Boldrighi, se l’atteso era lui:

— Siam qui, vecchio amico! —; e incolpava il tram, del ritardo.

Come era bello non serbar rancore, andar d’amore e d’accordo!

Se non che... L’asserzione più innocente, fermata e contraddetta
d’improvviso, dava l’appiglio al nuovo litigio.

— Alta di statura la Malibran? — No, press’a poco come la Galletti. —
Cesare Rossi superava Salvini nell’_Otello_? — Bestemmia! — Ugo Bassi
parlando al popolo si cavava gli occhiali? — Non li portò mai gli
occhiali! — Pietramellara conte? — Non era nemmeno nobile!

E non si pensi che questi e simili intoppi fossero cosucce da
strigarsene tosto, perchè la Malibran, ad esempio, conduceva a questione
di musica; i grandi attori tiravano in ballo le grandi attrici, dalla
Ristori alla Duse, giudicate anch’esse con giudizio opposto; e Ugo Bassi
e Pietramellara trascinavano i contendenti nel campo della politica da
cui avevan giurato star fuori.

Così una volta Boldrighi si lasciò trasportar a tal segno che si mise a
gridare: — Gente, correte! Costui qua diventa matto!

E Ceccuti una volta osò agitar la destra in faccia all’amico dicendo: —
Se non aveste un anno di più...



                                  III.


Finchè, al principio di settembre, un ombrello intervenne a risolvere
tutte le questioni.

Era stata una giornata calda come d’agosto; non un fiato d’aria nemmeno
all’approssimare del tramonto; non una nuvoletta in quella chiarità
biancastra.

E Boldrighi apparve all’amico, che l’aveva preceduto ai Giardini,
recando un ombrellone nero invece del bastone dal manico di corno.

— Nevica! — gli urlò contro, dal sedile, Ceccuti, e rise.

L’altro sedè soffiando.

— Prima di notte, pioverà.

— Chi ve l’ha detto?

— I miei piedi.

— Oh! guarda dove voi tenete la scienza!

— Più sicura della vostra, che l’avete in testa.

— Io so che il barometro è alto.

— E io so che il barometro sbaglia.

Si capisce dall’esordio come il colloquio procedesse quella sera; ad
argomento scientifico, con urti e cozzi di opinioni intorno
all’influenza atmosferica sui calli, i budelli, i nervi ecc., intorno
alla pressione e alla densità, dell’aria ecc.; intorno al gracidar delle
rane e al pizzicar delle mosche ecc.

In cognizioni di tal sorta Ceccuti superava e discorreva con più lena;
ma, pur interrompendo di quando in quando, Boldrighi se la spassava a
considerar il cielo verso sud-ovest. A un tratto indicò là e disse:

— Vedete?

Si offuscava la montagna sotto un cielo divenuto plumbeo.

— Calura; nient’altro che calura! — l’amico oppose.

— Non sentite? Lassù tuona! — insistè Boldrighi.

Ebbene, non ci poteva essere elettricità nell’aria anche senza vapore
acqueo?

Ah i segreti della natura! ah i misteri della fisica! Tuonare anche a
ciel sereno, o quasi!

Boldrighi lasciava dire. Aspettava con un sorrisetto ironico sotto i
baffi; poichè vedeva grosse nuvole avanzare in fretta, aderendo; sempre
più nere nel mezzo e livide ai lembi. E il tuono rombò forte ad ammonire
Ceccuti che smettesse di far lezione.

Ceccuti tacque. Poi, per non confessarsi vinto riattaccò. Disse, acido:

— Voi non siete di buona razza; portate l’ombrello e andate in tram. I
Romani conquistarono il mondo a piedi, e ombrelli non se ne sognavan
nemmeno. Quando pioveva, e si bagnavano, facevano come faccio io:
andavano a casa ad asciugarsi, bevevano un bicchiere di vino, e a letto
a sudare! Capite?

— Voi fate proprio così? — Ora Boldrighi, nell’ironia della dimanda,
nascose il suo pensiero. Aveva deliberato di cedere l’ombrello a lui,
credendo gli spiacesse rinunciare, per il temporale, alla passeggiata
igienica; ma giacchè l’amico non aveva paura di bagnarsi, anzi ci
avrebbe gusto a far il Romano, l’ombrello, egli, lo terrebbe per sè. E
avendo l’ombrello egli non aveva bisogno di scappare come quelli che da
ogni parte dei Giardini trottavano a rifugiarsi in città.

I goccioloni cominciavano a mordere la polvere; eppure nessuno dei due
voleva esser primo ad alzarsi in piedi. Finchè una saetta guizzò,
scoppiò poco lontano. Allora scattarono, si avviarono.

Alla barriera Ceccuti ristette a guardar in alto.

— Non piove più; spruzzola, dicono i toscani.

Dunque: — buona notte! — E s’incamminò impavido per la sua strada, a
passo da bersagliere.

Ma Boldrighi ebbe un senso di rimorso e attese.

Pochi istanti dopo si aprì la cateratta; l’acqua precipitò con furia.

— Ceccuti! Aspettate, Ceccuti! — Boldrighi si diè a gridargli dietro, e
si mise a inseguirlo con l’impeto di una smania riparatrice.

Correva, il vecchietto, stupito lui stesso di aver le gambe ancora così
svelte.

— Fermatevi! Aspettate, Ceccuti! L’ombrello servirà a tutti e due!

Ma l’altro tirava innanzi senza badargli.

Pensava: — Si stancherà, tornerà indietro; e io mi riparerò sotto la
Porta Castiglione.

Se non che d’improvviso ebbe un dubbio; un senso di rimorso anche lui. E
si voltò.

— Siete matto a correre così, voi? Suderete! vi prenderete un malanno! —
urlava.

La compassione lo inchiodava, il buon Ceccuti, ad aspettar sotto lo
squasso.

E nell’atto che Boldrighi, il quale non ne poteva più, porgeva
l’ombrello all’amico, una raffica rovesciò l’arnese, e nel frangente
rimasero a inzupparsi, stretti insieme, come pulcini.

Quasi non bastasse, il tram su cui pure il camminatore impavido si era
rassegnato a salire, tardò parecchi minuti, che parvero secoli, e sotto
la Porta Castiglione spirava un vento freddo e violento.

Poveri vecchi! Si sentirono gelar il sudore addosso.

                                  ***

... Nè la polmonite, che si buscaron tutti e due, doveva lasciar tempo
all’uno di cantare una _requiem_ all’altro.



                           CI VUOL PAZIENZA!



                                   I.


Dopo i saluti, così affettuosi che tolsero subito d’imbarazzo il suocero
e la suocera, il colonnello avrebbe voluto salire alla sua camera. Ma
prima dovè far la conoscenza della cagnetta, che si era precipitata
dalla cuccia per abbaiargli contro, e del gatto che la signora in gran
fretta aveva salvato da un prevedibile assalto della nemica
raccogliendolo maternamente nelle sue braccia. Ah i fasti della Lillín e
di Rossello! Che peccato, però, non andassero d’accordo e i loro litigi
sconcordassero talvolta anche la coniugale armonia del signor Astolfo,
protettore dell’una, e della signora Amalia, protettrice dell’altro!

Poi ci furon da ammirare i vasi di limoni, l’orto, il giardino. Sette o
otto limoni pendevano gialli dai ramoscelli di nuovo in fiore; più in
là, una dozzina di riquadri, uguali e grandi poco più di un metro,
contenevano i fagiuoli e i pomodori, le cipolle e le patate, l’indivia e
la lattuga, le carote e le pistinache: di qua dalla siepe, peri nani e
susini promettevano — se non sopravvenisse una nebbia o un’aria fredda —
quindici o sedici susine e pere.

— Ma niente ciliege quest’anno! — lamentò il signor Astolfo. E
sospirando avvertì che le fatiche, le cure, le pene del coltivare
gravavano tutte su di lui. I contadini avevano ben altro da fare, ora
che le braccia mancavano!

— Tutto io!

La natura maligna insidia essa stessa ogni suo bene, col malume, con la
peronospora, con la ruggine, coi bigatti, con i gorgoglioni, i pidocchi,
le formiche, le forfecchie, le lumache, le arvicole, le talpe. Ma lui
combatteva senza paura: pompa e soffietto, solfato di rame e tabacco,
fosforo e trappole. Guerra in veste da camera e berretto da ciclista!

E venne la volta del giardino: vari i gerani; belle le rose; odorosi
anche troppo i nasturzi.

— Brava! Bravo! — ripeteva il genero sorridendo. Pensava:«Non sono forse
felici questi due vecchietti, che hanno saputo impiccolire così la loro
esistenza, mitigare in tal modo il loro egoismo?». E quasi gli doleva
d’esser venuto a turbarne la pace e a rinnovar in loro, con la sua
presenza, il ricordo dell’unica figlia perduta dieci anni addietro.

— Bravo te! — mormorò la suocera tirando fuori a stento il _te_ e
accompagnandolo da un sospirone.

— Bravo voi! — esclamò il suocero alzando e battendo la mano su la
spalla del genero —. Colonnello a quarant’anni!

L’ufficiale allora chiarì il perchè aveva chiesto la loro ospitalità
durante la breve licenza. Aveva un certo lavoro da finire, in quiete. Ma
non si dessero pensiero di lui (e se ne eran dato tanto, con tanta
soggezione, avanti che arrivasse!); non si distogliessero dalle loro
abitudini: proprio come se lui non ci fosse. A servirlo e ad aiutare la
domestica c’era l’ordinanza: un ragazzo che sapeva far di tutto, anche
il cuoco.

— Sentirete che dolci! — E dire che al suo paese, in Romagna, faceva il
fabbro! Divenuto attendente, si era comperato manuali e ricettari, e tra
le cannonate aveva imparato a comporre pietanze. «Ci vuol pazienza!» era
il suo motto.

«Ci vuol pazienza!» — il soldato raccomandava a sè stesso e agli altri
quando le bombe e la mitraglia gli rovesciavano le casseruole e
mandavano all’aria i disgraziati còlti in pieno.



                                  II.


Ed ecco, mentre il colonnello parlava voltandogli le spalle, avanzar
l’attendente, per il prato.

Dopo due o tre passi si fermava e s’inchinava. Sorridendo fino alle
orecchie nella faccia tonda, guardava i padroni di casa e pareva dire: —
Riverisco! Ossequi! Ci vediamo, eh, finalmente? Staremo allegri!

— Buon giorno! Buon giorno! — salutavano, in risposta, il signor Astolfo
e la signora Amalia, sorridendo anche loro.

Ma con un dietro-front il colonnello chiamò: — Monterúmici! —; e seguì
una trasformazione istantanea.

Su l’attenti, con la faccia seria e irrigidita, gli occhi fermi e fieri,
il soldato si pose, corpo e anima, agli ordini del superiore.

— Porta la valigia su, nella mia camera, e aspettami!

Un cenno del capo, e via!; il soldato partì, sempre senza parlare.

— Non la troverà, la camera; non sa quale sia — osservò la signora
Amalia, avviandosi per seguirlo. Il genero la trattenne.

— La troverà; non dubitate!

E infatti poco dopo Monterúmici si affacciò alla finestra, a sorridere e
a strizzar l’occhio.

— Ci piglia in giro tutti quanti? — la signora sospettò e disse, rimasta
sola col marito.

— Non credo, è un tipo ameno: nient’altro.

Del tipo ameno se ne udirono tosto i passi, a precipizio giù per le
scale; e comparve su la porta con un paio di scarpe. Sollevandole con la
sinistra per mostrare com’erano infangate, e agitando la destra in atto
di spazzolare, parlò:

— Cinque minuti! — E aggiungendo: — Ci vuol pazienza! — scappò verso la
cucina.

Ma non v’era ancor giunto che la cagna, entrata per la porta opposta,
gli si avventò contro, ad abbaiamenti furiosi. Egli non si spaventò, da
uomo avvezzo a peggiori assalti ed attacchi. La paventò invece il gatto,
che stava facendo colazione, e balzò su la credenza. Su la credenza
(tutto ciò avveniva in pochi secondi) era un castelletto di piatti, e
all’urto... Misericordia! Fu come se la casa intera andasse in frantumi!
Urlava la serva, le mani nei capelli; urlava la signora Amalia
arrivando, a braccia levate e aperte; urlava il signor Astolfo
chiamando: — Lillín, Lillín! — E la Lillín seguitava a tempestare, sorda
anche alla voce del padrone, sempre più arrabbiata contro l’intruso.

Solo lui, Monterúmici, non fiatava; quasi non fosse nemmeno spettatore
del disastro. Seguitava nella faccenda per cui aveva i minuti contati. E
compiuta che l’ebbe, passò davanti alla signora in disordine, le diede
un’occhiata al capo, s’accorse o si accertò che portava la parrucca,
guardò serio ai cocci, disse: — Ci vuol pazienza! — e volò su per le
scale.



                                  III.


— Pazienza un corno! — brontolava il signor Astolfo, cui finalmente
riuscì di portar la cagna nella camera da desinare, — Un danno grande!
per colpa di quel gatto senza cervello! Stupido! Cretino! Imbecille!

La moglie lo udì, e apriti cielo! Maledetta la cagna! Così stupida che
non conosceva neppure le persone amiche di casa, così imbecille che non
sapeva nemmeno d’esser bianca e andava a fregarsi contro le calderine e
anneriva e insudiciava da per tutto; così cretina e ignorante da
compiacersi dello spavento che incuteva in una povera bestiola.
Animalaccio — la cagna — ostinato come un mulo, ineducato come un asino.
Intollerabile!

— L’ammazzo! la voglio ammazzare! — la signora gridava, ormai fuori di
sè.

Quando, nella scena che volgeva al tragico, sopravvenne, discretamente,
Monterúmici. A inchini e a sorrisi entrò, domandò la parola, disse:

— Ci penso io, signori! Fra due o tre giorni la Lillín e Rossello
saranno amici per sempre. Prometto, garantisco: sissignori! Vedranno!



                                  IV.


Due o tre giorni? Sarebbero stati pochi al compimento di una difficile
impresa; troppi al compimento di un miracolo. E questo avvenne il giorno
stesso, nel pomeriggio.

Col dito contro il naso, per raccomandar silenzio, il soldato condusse
la signora alla cuccia, ove, l’uno accanto all’altra, placidamente
dormivano la cagna e il gatto.

Oh stupore! Oh commozione!

— Astolfo! Corri a vedere! Corri!

E il marito venne adagio adagio, dall’orto, con la zappettina in mano, e
rimase a bocca aperta.

— Come avete fatto? — chiedevano a Monterúmici.

Egli scosse le spalle. Sorridendo significava: se tutte le difficoltà,
le questioni a questo mondo fossero di tal fatta! Ma:

— Ci vuol pazienza!

E — a udirne la relazione — il miracolo incuriosì anche il colonnello,
quando discese, lieto del suo lavoro. E su l’uscio della stalla chiamò:

— Monterúmici!

— Pronto! — (con la striglia in mano).

— Come hai fatto a domesticare quelle due bestie feroci?

Rispose senza esitare:

— Io con la quiete non posso dormire. Ho bisogno, per dormire, delle
cannonate. Il farmacista invece mi ha dato delle polverine; e io ne ho
data una...

Il colonnello scoppiò a ridere. E si avviava. Se non che l’attendente
balzandogli davanti e mettendosi in posizione, seguitò:

— A svegliarsi e a vedersi vicini si meraviglieranno anche loro, di
essersi così amicati, e saran sempre buoni amici: vedrà!.

— Ho capito! ho capito!

Non era un bel matto?

Quante volte però, non molto tempo di poi, all’orecchio dell’ufficiale
dovevan tornare quelle parole: «Io con la quiete non posso dormire».



                                   V.


Nè i due vecchietti erano felici, perchè il dolore del mondo varcava il
breve confine della loro solitudine.

La lettura del giornale, di cui avrebbero potuto fare a meno e non
potevano, lasciava in loro un turbamento, un senso indefinibile — più
che di sgomento — di pena e di pietà, e dicevano, senza saperlo, delle
cose profonde.

— Con tanta miseria d’intorno, fra tanto soffrire, si ha quasi rimorso
di vivere tranquilli; pare che Dio ce ne debba tener conto per
castigarci anche noi, presto o tardi.

— A star qui, lontano dagli orrori della guerra, si comprende che non ne
possono aver tutta la colpa gli uomini che si dice potessero evitarli;
ci deve essere una causa più remota; un destino che di quando in quando,
di tempo in tempo, si inasprisce, diventa più crudele, si accumula come
una forza perversa e prorompe.

Il colonnello a udirlo dir ciò, guardava stupito il suocero, in veste da
camera e berretto da ciclista; guardava stupito la suocera nella cui
fronte, sotto alla parrucca, balenava una luce di intelligenza ancor
viva e per le cui guance grinzute cadevano, a parlar della guerra, le
lagrime. Essa diceva, volta al marito:

— Ogni sacrificio, piccolo o grande, ha il suo compenso; ogni dolore, il
suo conforto. Se Iddio ci concedesse di vivere fino a quando il mondo
avrà bene, dopo tanto soffrire!

Rincresceva al genero di averli giudicati egoisti; già comprendeva il
dispiacere che avrebbero il dì che li lascerebbe, e vedeva come si erano
affezionati all’attendente.

Monterúmici, del resto, meritava quella benevolenza. Nell’orto, in
giardino, in cucina: prestava mano da per tutto; tutti lo desideravano;
e dalla stalla il cavallo lo chiamava nitrendo; e lui, la cagna e il
gatto ora sembravano tre creature nate per campar d’amore e d’accordo e
ruzzare insieme. Ma ahi! Rossello una mattina disparve. Forse lo sviava
una pratica fuor di stagione? O piuttosto si era accorto ed era stanco
del bromuro che l’amico seguitava a propinargli?

Due giorni stette assente. Poi, di ritorno, ne fece una delle sue.

Sedevano a desinare; la signora volgeva le spalle alla finestra aperta.
D’un balzo quell’animale, e senza il minimo segno di avviso e prima che
anche gli altri se ne avvedessero, le saltò su le spalle. Come percossa
in ogni nervo, lei die’ un grido; ed allo scossone, per mantenersi
saldo, Rossello si afferrò dove potè: un’unghia si impigliò nella
parrucca, la tirò, e un mezzo cranio nudo fu scoperto agli occhi
dell’attendente, che serviva a tavola.

Egli non rise, ma non potè contenersi, e la bieca occhiata del
colonnello valse solo a fermarlo a mezza strada:

— Ci vuol...



                                  VI.


... pazienza. Sissignori! la virtù degli uomini savi, non degli asini.

Monterúmici non chiariva a parole questa sua opinione; la manifestava
con gli occhi. Nel dubbio però di non spiegarsi abbastanza, volle darne
anche una prova, un giorno, a suo modo. Con fare guardingo si accostò
alla signora Amalia, che stava a cucire nel giardino, e le porse una
fotografia. Era di una donna giovine, belloccia.

— Bella! La vostra fidanzata? chiese la signora.

— Mia moglie!

— Oh! Voi avete moglie?

— E come! — Aggiunse serio: — Tutta fuoco!

L’altra fu costretta a ridere; e lui:

— Può credere che non me le abbia fatte, non me le faccia?

E a significar la cosa portò la destra alla fronte, col pollice, il
medio e l’anulare riversi. Indi riprese il ritratto, scosse il capo e
conchiuse, andandosene:

— Ci vuol pazienza!

Non solo, Monterúmici, piaceva ed esilarava per quel contrasto manifesto
fra la sua natura gioconda e il ritegno che egli si imponeva, quasi
l’angelo custode fosse sempre lì a dirgli: — Abbi giudizio —, ma piaceva
anche per un contrasto meno appariscente, d’ingenuità e furberia. Se era
furbo! Conoscendo il punto debole in tutti — goloso il colonnello;
parsimoniosa la signora Amalia; il signor Astolfo, delicatuccio, e
invidiosa la domestica — traeva argomento da queste disparità di
carattere per divertirsi. Esercitava una perspicacia di psicologo nel
mentre che accontentava tutti con la sua valentia di cuoco.

Ai manicaretti da lui composti si accompagnavano, sempre uguali, le
lodi.

— Appetitoso! — il colonnello giudicava. E la suocera: — Fatto, si può
dire, con nulla! — E il signor Astolfo: — Proprio adatto al mio stomaco!

— Merito vostro che l’avete cotto — il soldato protestava rivolto alla
cuciniera, tutta contenta.

E una mattina Monterúmici si presentò alla signora con l’attitudine un
po’ impacciata di quando aveva da chiederle le uova e lo zucchero.

— Signora: domenica al mio paese, si mangiano i ravioli. Siamo di festa!

— Ho capito. Volete che li facciamo anche noi.

Egli scosse il capo.

— Vorrei una grazia più grande.

— Cioè?

— Che lei dimandasse al signor colonnello di lasciarmi andar a casa
sabato. Tornerò lunedì, coi ravioli. Sentirà!

La licenza fu data. Il sabato Monterúmici partì, tranquillo e giocondo
al solito.

Ma il cavallo, la cagna e il gatto, se avessero potuto parlare,
avrebbero forse detto che l’amico li aveva salutati di nascosto, in un
certo modo...



                                  VII.


Il lunedì mattina i giornali recavano da Fontanelice questa notizia:

«Il soldato Pietro Monterúmici, essendo tornato a casa improvvisamente e
avendo còlta la moglie in intimo colloquio con un compaesano, ha ucciso
a colpi di pugnale il drudo. Poi si è costituito ai carabinieri».

... Ci vuol pazienza!



                            FRANCESCO MIO...


Aveva tanta sensibilità e fantasia così primitiva, tanta cedevolezza
alle impressioni e ingenuità di commozioni che gli bisognava umanare
tutte le cose; e se queste doti bastassero da sole a fare un poeta,
sarebbe stato un poeta ammirato fors’anche dai critici e dagli editori,
ricco e felice. Mancandogli quel che gli mancava era invece
soprannominato Mattucco, e campava di piccole mance e di carità.

Di solito, badava ai birocci e alle birocce che si fermavano davanti
alle osterie e alle botteghe del paese, e, deriso dagli uomini, si
intratteneva in seri colloqui con i buoi, i cavalli e gli asini.

Delle bestie interpretava a meraviglia i moti del cuore e del cervello,
per non dire l’animo e le idee; e nelle bestie trasferiva l’animo suo e
il suo pensiero con semplicità adeguata: poteva così indovinarne e
riferirne a sè stesso, a voce alta e chiara, domande e risposte. E chi
si doleva con lui del padrone manesco, e chi dei tafani tormentosi, e
chi del carico soverchio. Capitavano mamme che avevano il vitellino o il
cavallino o l’asinino a casa e gli confidavano le materne ansie, ed egli
ne ammirava l’affezione; le consolava. Capitavano manzoli o puledri
irrequieti, ed egli ne rimproverava i capricci; li esortava ad esser
bravi. Capitavano vecchie rozze, e il dialogo assumeva una simpatia
fraterna.

Se per improvviso miracolo uno di quei buoi o di quei cavalli o di
quegli asini avesse acquistata davvero la favella, a discorrere con lui
non avrebbe potuto usar modi e toni diversi da quelli che egli gli
attribuiva.

Nè avrebbe inorridito, Mattucco, al fenomeno mostruoso: gli sarebbe anzi
parsa la cosa più naturale del mondo, appunto per quell’intima
cordialità di rapporti fra lui e gli animali.

Rari i malintesi; e dopo, più amici di prima! Per poco non gli toccava
la cornata, o il calcio, o il morso che era rivolto a una mosca proterva
o a un’ombra fugace o a un’avversione istantanea? Chiarito l’equivoco,
subito la pace era fatta; sancita, magari, da un bacio.

Gli uomini, invece!

Sempre in guerra: sempre accuse, provocazioni, proteste, minacce,
offese, violenze. Senza tregua, mai, dalle osterie, dal mercato, dalle
strade, dalle case giungevano all’orecchio dello scemo voci d’irosi
dissidi, di contratti stentati, di promesse strappate a forza, di
inganni scoperti a caso; di frodi; di tradimenti; d’infamie; e nel suo
cervello, sì tenero alle apparenze e alle sensazioni della vita
estranea, la turbolenta umanità si confondeva tutta in un litigio unico,
tremendo, continuo, enorme, insopportabile. Che cattiveria! Ne soffriva
sebbene non ci avesse nè arte nè parte, e con i nervi eccitati e il
batticuore si rifugiava al convento, là, fuori di porta.

A mezzogiorno i frati gli davano un mestolo di zuppa, e l’ingollava
seduto sul gradino, alla cella di San Francesco. Dormendo, dopo, sul
gradino, chetava in sè il tumulto della vita sociale; e risvegliandosi e
rialzandosi restava a conversare un po’ col santo, che lo rincorava, da
buon amico anche lui, nei dialoghi immaginari.

_Pater, Ave e Gloria._ Poi Mattucco tornava in paese, a intrattener le
bestie — che bontà! —, e a paventar gli uomini — che cattiveria!



                                  II.


Sotto il portico, a un lato della chiesa francescana, era la cella del
Santo e della Pietà.

La Madonna, assisa su di un masso, reggeva il capo al divin figliuolo e
piangeva: giaceva, morto, il Signore; livido e sanguinante. E, separato,
di contro, San Francesco con la faccia benigna volta a coloro che
sopravvenivano, tendeva la destra accennando al sacrificio e con un
mesto sorriso significava ai visitatori giudiziosi:

— Guardate e pregate, fratelli!

I visitatori guardavano e talvolta pregavano. E poichè le statue erano
colorate al vivo, alte come persone vere e umane nel sacro aspetto, e
l’ombra inclusa nel portico e l’interna penombra della stanza
accrescevano il senso del dramma arcano, qualche cuore rimaneva preso e
compunto. Alle preghiere seguivano le offerte.

Raccogliendo queste a intervalli, fra’ Pasquale, portinaio e sagrestano,
lasciava tuttavia alcuni soldi in terra a esempio e invito ad altra
elemosina; e così la carità del Signor morto e di San Francesco rendeva
abbastanza bene.

Or avvenne che lo scemo si destò un giorno dal solito riposo mentre due
monellacci osservavano dentro la cella, e dicevano tra loro:

— A un’asta impegolata in cima, i soldi s’attaccherebbero.

— E i frati? E fra’ Pasquale?

— Hai ragione. Meglio starne alla larga, da quell’accidente!

Temevano il bastone dei frati, non il sacrilegio, i gaglioffi! E se
n’andarono. Lo scemo, però, aveva capito. Canaglie, che idea! Rubare a
San Francesco! i soldini di San Francesco! — E stette là, immoto, come
immersa l’anima in un pensiero profondo. Pensava con faticosa
connessione d’idee:

— Elemosine. — A chi vanno? Chi se le gode?

— Soldini e... bicchierini: soldini e pane.

Poi Mattucco guardò alla statua del santo quasi si aspettasse di vederla
turbata. Ma no: non aveva perduta l’abituale bonomia: anzi sembrava che
il dolce sorriso s’effondesse vieppiù dagli occhi per le guancie.

San Francesco parve dire — e Mattucco disse infatti per lui:

— Son da compatire anche i bricconi, se i frati non fan le cose giuste!
Fra’ Pasquale non aiuta chi n’ha più bisogno.

— È vero — aggiunse Mattucco da parte sua. — A me non mi dà mai un
soldo.

— Prendine — gli disse San Francesco. — Adesso hai imparato come si fa.

— Prenderne? E l’inferno?

San Francesco sorrideva sempre. — Non ci son io a farti perdonare; io,
San Franceschino?

Ma lo scemo non era ancora persuaso. Dimandò:

— E fra’ Pasquale? Se mi arriva addosso quell’accidente?

— Non c’è qui il Signore con la Madonna a proteggerti, a difenderti
dalle bastonate?... _Pater Ave e Gloria._

Allora Mattucco recitò le orazioni. E si avviava, persuaso, per andar a
cercare l’asta e la pece.

Ricordandosi però di quanto avveniva tra gli uomini, in paese, tornò
indietro a stringere il patto, a prender garanzia.

— D’accordo? Siam d’accordo, San Franceschino mio? Sì? proprio davvero?

— D’accordo!

— Parola?

— Parola di galantuomo!



                                  III.


Fra’ Pasquale non tardò ad accorgersi del furto, sebbene avvenisse a
intervalli lunghi; e di quando in quando, nel tempo che aveva libero,
stette in agguato dietro la porticina della cella.

Ed ecco, un pomeriggio, vide entrar l’asta per l’inferriata e
contemporaneamente udì una voce che diceva:

— San Franceschino mio, son qui! Ho voglia d’un bicchier di vin buono.
Voi badate a fra’ Pasquale.

Chi era il ladro! Lui, Mattucco, rubava! Povero mendico! E chi gli aveva
insegnato il tiro? O forse la sete del vino gli aveva aguzzato
l’ingegno? A ogni modo la scoperta fe’ sbollir subito l’ira al
francescano; gli mise la voglia di seguitare il gioco per divertirsi. E
pronto, in tono soave, senza mostrarsi, fece:

— Ah Mattucco! Mattucco! Io sonò il tuo protettore, il tuo San
Franceschino, e tu mi rubi le elemosine? Credi proprio che all’inferno
ci si stia bene?

A queste parole lo scemo rimase stupito. Stupito, non spaventato. Non
sbigottisce al portento: San Francesco ha parlato? La cosa più naturale
del mondo! Ma gli è incredibile quel che ha udito, da lui.

Come? Il Santo adesso lo rimprovera? lo minaccia? E il patto conchiuso
fra loro? La parola data: parola di galantuomo?

— All’inferno! — séguita con tono cupo il frate. — Povero te!

L’altro non si muove. Cerca chiarirsi in testa questo misterioso
mutamento. Mancar di parola, adesso. Perchè mai?

Ah che pur troppo la trova la spiegazione! Sì: i santi furono uomini; e
mutano di parola come gli uomini litigiosi e falsi!

E lo scemo s’arrabbia; e tutte le contumelie che ha appreso per le
strade, per le osterie e nel mercato a mortificazione di chi manca ai
patti, le scaglia contro San Francesco. E si spiega:

— Vergogna! Rimangiarsi la parola data! E pretender fede dai
galantuomini, dai poveretti! E tradire! E chiamar in aiuto il diavolo,
un santo!

Ma nella sua ira c’è, più profondo, il dolore; c’è l’amarezza di una
delusione crudele; c’è una disperata angoscia. Gli pare, a Mattucco,
d’impazzire! Un santo! Traditore! Oh!

Che mondo! Che onore! Che infamia! Oh scappar via! via! Scappare
lontano, per sempre! fuggire dove non s’inganni e si tradisca! Non
vedere nè un uomo, nè un santo, mai più! Via! ... Dove?



                                  IV.


Si diede alla campagna. Bello vagare qua e là lungo i sentieri ombrosi o
per le strade solitarie; bello mansuefare con le buone maniere i cani
infuriati e chiamar con voci infantili i vitellini e i puledri; bello
intendersi con le stelle o ridere con la luna.

Alle case le donne che lo riconoscevano gli chiedevano qual disgrazia lo
avesse colpito; quali dispiaceri avesse. Una volta la sua faccia era
così allegra! Adesso invece era così magro!

Si schermiva; ricevuto il tozzo di pane, scappava rapido. E finchè
poteva resistere, preferiva la fame a mendicar dalla gente.

Ma ahimè! Mentre egli sfuggiva alla vita degli uomini, altra vita
sfuggiva a lui. Quella sua sensibilità, quella sua intimità con gli
animali e con le cose, comportabile nei limiti del paese, nel mondo
sconfinato diventava faticosa troppo; un continuo sforzo; un esaurimento
lungo e mortale.

Ed era tanto debole!; pativa la fame. E più che per la fame, pativa
perchè in quel lento mancare di sè a sè stesso pareva venirgli meno il
mondo, che già viveva con lui e di lui. A poco a poco gli si estingueva
l’energia animatrice, povero Mattucco!

Un giorno giacque sotto un olmo in un campo deserto. Guardava con gli
occhi languidi davanti e d’intorno, e non ci si trovava più. Tutte le
cose ora vivevano per sè sole, in un egoismo mostruoso, in una
indifferenza spaventevole, con una incuranza spietata.

Il grano alto e giallo aspettava l’ora di compiere il suo destino E si
godeva il suo ultimo sole; il trifoglio si beava di essere tutto in
fiore; le viti, distese fra gli alberi, bevevano i raggi ardenti e si
mostravano intente solo a produrre; gli olmi o avevano molli dedizioni
delle fronde più alte alle carezze dell’aria, o restavano immobili,
alcuni in una letizia pacifica e sonnolenta, alcuni in una gravità
solenne, come se muovendosi temessero — egoisti anch’essi — di nuocere a
ciò che loro solo premeva: il nido che nascondevano nel folto. Nel
cielo, a volo rotto i cardellini passavano rapidi e giulivi non
conoscendo che la loro esistenza; non altro vedendo dell’universo che la
loro letizia. A due a due, le farfalle apparivano e sparivano in una
felicità lieve lieve, bianca e silenziosa; e le formiche, lì, in oscura
fila... Che da fare! Potevano curarsi, loro, di un povero uomo? Peggio
per lui se era nato uomo!

Peggio: Mattucco non aveva mangiato e non aveva da mangiare. E fin la
terra gli pareva incresciosa di sostenerlo, perchè s’assopisse,
quietasse nel sonno l’inedia, lo struggimento del totale abbandono,
l’affanno dell’intero esilio in cui s’era perduto.

Quand’ecco fra i rami, proprio sopra al suo capo, vivacemente:

— _Francesco mio!..._

Come ferito al cuore, nella rimanente vitalità, Mattucco s’alzò in
piedi. Come il vinto che raccoglie le forze estreme per ributtare
l’ultima viltà prepotente, l’ultimo scherno, si chinò ad afferrare un
pezzo di zolla; e l’avventò con un grido osceno in alto. E al crepitìo
della polvere tra il fogliame, il fringuello volò ad un altro albero. E
di là:

— _Sì sì sì: Francesco mio..._

Allora lo scemo ricadde e si mise a piangere.

Ma Colei che soffriva per il più atroce dolore umano, china nella
penombra sul figlio livido e sanguinante, gli apparve; egli la scorse
che piangeva tra le sue stesse lagrime. E parlava:

— Si sì sì, Francesco mio... Questo poverino muore, per te. Chiamalo! Fa
che torni a prender la zuppa al convento: se no, muore, il poverino!

Ah Madonna santa! ah Madonna buona! Comprendeva lei, aveva compreso lei
il torto di San Francesco, il male che aveva fatto!

Diceva soave:

— Vieni, Mattucco. Ritorna. Francesco mio ti dirà: «Sei qui?». Francesco
mio! Francesco mio!...; e fra’ Pasquale t’accoglierà, buono, tra le sue
braccia, e ti darà un mestolo di zuppa.



                                   V.


Arrivò estenuato al convento.

— Son qui — disse con voce fioca, con un sospiro, affacciandosi alla
cella del Signor morto; e guardò.

Ma San Francesco...

Ah! troppo a lungo il misero poeta scemo era rimasto fuori dalle
illusioni antiche, troppo evidentemente la realtà si era sottratta alle
sue fittizie animazioni!

Guardò; e vide sol quello che tutti vedevano, quel che vedevano i savi:
San Francesco, muto, accennava al Signor morto, solo per dire: —
Pregate, fratelli. — Null’altro. E la Madonna era anch’essa una statua
muta. E il Signore, una statua. Null’altro! Null’altro! E tutte le cose,
tutte le creature che egli aveva creduto vivessero come egli viveva, con
i suoi pensieri, con il suo sentire, gli si presentarono, di subito,
agli occhi e alla memoria, mute, senz’anima. Era finita! Finito
l’incanto, si spegneva l’universo. Finito l’incanto, Mattucco diventava
savio, e moriva davvero.

Si trascinò alla porta; tirò la corda del campanello; si abbandonò
esanime nelle braccia di fra’ Pasquale.



                                SIMPATIA


Bontà e forza: con questo temperamento e carattere ce n’è ancora della
gente nelle nostre campagne; temperamento e carattere dell’italiano
pretto nel pensiero e nelle vene. Esempi? Eccone uno, assunto dalla più
umile verità.

                                  ————

La guerra aveva fruttato insoliti guadagni anche a Leonardo Morini,
l’«ovarolo», ma aveva privato anche lui della sua pace. Fino a
settantadue anni era vissuto senza grossi guai; senza invidiare chi
aveva famiglia; contento della salute che gli permetteva d’andar in giro
a piedi per le campagne e ai mercati a guadagnar commerciando
onestamente; contento d’aver messo da parte qualche risparmio; contento
d’abitare solo e libero in una soffitta. Ma al mondo ci sono dei
misteri. Perchè fra tante case e cascine, che visitava da anni e anni,
non trovava differenza, e andando all’Olmello si sentiva un che nel
sangue, come se andasse da gente del sangue suo? Perchè fra tanti
ragazzi, che in quelle case e cascine s’era visti attorno in tanti anni,
non aveva fatto nessuna differenza e a Celso, il figlio della non bella
e piagnucolosa Assunta e d’un contadino tanghero quale Stefano
dell’Olmello, aveva preso a voler così bene? E perchè Celso fin da
bambino gli correva incontro con un lume negli occhi e con un sorriso
che per lui nessun altro bambino aveva mai avuto; un sorriso di
riconoscenza, quasi d’intimo riconoscimento? Perchè quando gli altri
ragazzi erano cresciuti ai suoi occhi nella giusta misura dell’età,
Celso gli era parso diventar così presto un bel giovine robusto, e più
bello e più robusto e sano di tutti gli altri?

E perchè al dispiacere e al compiacimento insieme di quando Celso era
andato soldato, gli era seguito in cuore un contrasto di tanta passione
quando la gran guerra scoppiò? Forse perchè era stato soldato lui pure e
aveva combattuto nel ’59? O forse era una legge: la legge del mondo e
degli affetti umani imponeva che egli, che era figlio di nessuno e non
aveva voluto esser padre, cercasse nella creatura d’altri l’affezione
filiale che non aveva potuto provare, sentisse per la creatura d’altri
l’affezione paterna che non aveva potuto provare. O era piuttosto una
condanna, un castigo. L’egoismo d’una esistenza quasi intera doveva alla
fine essere scontato da affanni per amore di estranei, doveva risolversi
in una espansione di affetto che comprendesse tutti i sentimenti
ignorati.

In verità, allorchè il vecchio Leonardo, reggendo con un braccio il
cesto da riempire di uova e poggiandosi al bastone, curvo come se avesse
sulle spalle il peso della strada percorsa e volesse conquistare anche
col petto la strada da percorrere, a passi piccoli e frettolosi arrivava
all’Olmello, recava in cuore la tenerezza di un padre buono, la bontà di
una madre tenera, un’ansia fraterna, un desiderio di amico unico, una
cristiana voglia di confortare, un bisogno di consolarsi consolando.

— Che nuove avete? — chiedeva, rialzato il capo, fermo a mezzo dell’aia.

Talvolta gli davan da leggere una lettera, gli mostravano una cartolina.
Non perciò egli s’allietava del tutto. Troppo l’infastidivano le
lamentele della madre e l’impenetrabile aspetto del padre. L’Assunta,
che donna! Non intendeva che la guerra era la guerra.

E Stefano taceva. Che uomo! Due parole in un’ora; e da ignorante. Pareva
avesse il figlio in un’impresa tenebrosa e le tenebre fossero entrate
nel petto a lui, dove gli altri ci hanno il cuore, o nella testa, dove
gli altri ci hanno il cervello.

— No! — pensava Leonardo. — Un padre non dovrebbe essere di ghiaccio o
di macigno. No! Una madre non dovrebbe essere di ricotta. Che gente!

E si proponeva di non ricomparir all’Olmello prima che fossero passate
due o tre settimane e le galline avessero fatto assai ova. Vi tornava
invece dopo due o tre giorni. Ma se ne pentiva sempre; ripartiva sempre
con quell’uggia, quell’amarezza di un bene deluso, quel disgusto di non
essere compreso e di non poter ridurre pari al suo l’animo del padre
rude e della madre dolente.

                                  ***

Un brutto giorno, un giorno che la nebbia bagnava i panni addosso e
stillava dai rami, e i passeri, negli alberi, rabbrividavano sotto le
penne arruffate, Leonardo entrò nel campo da fuori della carraia. Co’
suoi passettini rapidi e il suo bastone, discese lungo il ciglio erboso
alla volta di Stefano che stava affondando il fosso. A vederlo, il
contadino attese, il piede sul vangile e le mani a sommo della vanga.
Perchè il vecchio non era andato in casa, prima, dalla donna? Ma il
contadino non mosse voce. Guardava senza anima manifesta, e aspettava. E
il vecchio col freddo nell’anima sorrise appena appena e disse:

— In paese si discorre d’una gran battaglia.

Stefano aspettava immobile.

— Si parla di molti feriti; di molti morti. Ma speriamo...

Poi Leonardo tacque.

Allora il padre chiese come non avesse udita l’ultima parola:

— E lui?

— Eh! Innanzi che si sappia che ne è stato, di Celso, se l’ha scappata,
come io spero, correrà un po’ di tempo.

L’altro ebbe negli occhi un’accensione d’ira; ebbe uno sguardo bieco,
quasi di odio; ed esclamò forte:

— Cosa siete dunque venuto a fare?

Cos’era venuto a fare? Leonardo non dubitò che il silenzio, lo sguardo,
la violenza mal repressa e la dimanda di colui significassero una
tremenda angoscia costretta in sè da una timidezza o da una energia
quasi selvaggia, esprimessero la pena di dover aspettare troppo a lungo
una notizia atroce. Pensò:

— Che bestia!

Cosa era venuto a fare? Non lo sapeva chiaramente nemmeno lui, povero
vecchio, il perchè era accorso subito dal paese: era accorso perchè il
cuore l’aveva portato: ecco. Bisogna dirle, domandarle certe cose? Per
dare una parola di speranza, se non per riceverla, era venuto; per
prepararsi il cuore con loro, se mai...

E impermalito, Leonardo stava per rispondere: — Non verrò più a
disturbarvi — quando dall’alto del poggio (Stefano si era rimesso a
vangare) l’Assunta chiamò, invocò:

— Leonardo! Leonardo!

Egli le andò incontro; sorridendo, al solito, disse:

— Sì. C’è stata una battaglia. Ma — aggiunse — niente paura! Avete avuto
cattive nuove? No. Dunque...

La donna lo fissò prima di piangere; per l’apprensione improvvisa ebbe
negli occhi un insolito acume, e chiese:

— Ne siete sicuro, ch’è salvo?

— Sicuro del tutto..., oggi com’oggi...

E lei rompendo in singhiozzi, disperata, con la voce di chi impreca:

— Ma allora, cosa siete venuto a fare?

                                  ***

Poichè dunque non s’intendevano; poichè lo rimproveravano invece di
ringraziarlo, Leonardo giurò, sul serio questa volta, che all’Olmello
non lo rivedrebbero più, se Celso non tornasse a casa.

E soffriva, il vecchio, a pensarci; e ci pensava sempre. Sperava. E
quando sperava, si immaginava Celso così lieto d’esser scampato alla
morte, così felice di riabbracciare i suoi, che non ne restava più, del
suo bene, per il vecchio amico. Nè il rancore e l’uggia gli cessarono
come si diffuse la voce che con parecchi morti del paese era rimasto
ferito Celso dell’Olmello.

E passò quasi un mese; e Celso gli scrisse lui, a Leonardo, che ormai
guarito del tutto veniva in licenza.

                                  ***

Il giorno che gli aveva scritto di tornare il vecchio andò alla stazione
per tempo, al mattino; e sì che il diretto che credeva porterebbe il
reduce arrivava a un’ora del pomeriggio! Essendo freddo, camminava su e
giù per il marciapiedi, fin che la mano gli si gelava sul bastone e
l’aria gli aveva tagliato abbastanza le orecchie.

Entrava allora nella sala d’aspetto a scaldarsi alla stufa. Ma non
potendo resistere al tanfo di chiuso, usciva di nuovo.

Passò un treno merci. S’arrestò, più tardi, un treno omnibus. E, dopo,
una tradotta. Da questa Leonardo vide scendere un soldato; poi non vide
più nulla perchè aveva visto che era lui. Nella sua mente confusa, nel
suo animo sbalordito fu come l’imminenza d’un destino che si compieva...

E a sentirsi dire: — Voi qui, Leonardo? —, a sentirsi abbracciare, a
sentirsi chiedere: — E i miei? —, tornò in sè ma non per rispondere: per
ridere, ridere di contentezza. Pareva ebbro.

Intanto alcuni conoscenti attorniavano il giovine, e mentre questi
scambiava qualche parola il vecchio si fe’ largo, lo tirò per una
manica; e sollecitava:

— Andiamo, Celso! A casa! Via!

Nè volle attraversare il paese.

— Tua madre ha pianto tanto...; tuo padre... Bisogna andar subito a
casa! A casa! Via! Presto!

Per i campi, volle che andassero, soli, liberi. Felice!

E quando fu sicuro che nessuno glielo rapirebbe, Leonardo si fermò un
istante; alzò lo sguardo incontro allo sguardo del giovine; chiese:

— E lassù?

Celso si mise a parlare della guerra; senza esagerazioni.

Ai Casetti, s’interruppe. Disse: — Due salti, e vado a salutar la mia
bionda.

— T’aspetto — fece l’altro. E l’aspettò lì, al freddo, tossendo.

                                  ***

Ma a casa, quando arrivarono finalmente a casa, Leonardo ebbe la
rivelazione. Dal modo con cui il ragazzo si comportò con i suoi, capì
che non s’era sbagliato ad affezionarglisi tanto, e dal modo che i suoi,
del ragazzo, si comportarono, capì che li aveva mal giudicati.

Celso si stringeva la madre al petto con la forza d’un bambino e la
chiamava: — la mia mamma! la mia vecchia —; e la baciava non sazio. Indi
rivolto al padre, che gli disse — gli disse solo: — Sei qui, Celso? —,
contenne con un visibile sforzo la commozione e disse, disse solo:

— Come state, pa’?

Finalmente era chiarito il mistero!

Sì: il difetto della madre era la troppa tenerezza, e durezza il difetto
del padre; ma il vecchio comprese che si comportavan così anche per una
reazione vicendevole e involontaria, e comprese che il difetto dell’uno
e dell’altra si eran temperati nell’animo di Celso a una virtù che lui,
povero vecchio, aveva sentita senza rendersene ragione. Era la stessa
sua virtù istintiva: bontà e forza.

                                  ***

E quel giorno Leonardo si ammalò. La notte la casigliana che abitava una
stanzaccia attigua alla sua l’udì tossire e vaneggiare. Faticosamente,
nei giorni dopo, egli scendeva e saliva le ripide scale: sedeva sui
gradini e, sorpreso, fingeva di star là a perdere il tempo; per non
parer mal ridotto, cantarellava piano piano. La tosse lo riassaliva
secca, soffocante.

Celso che non dubitava fosse ammalato, non veniva in paese; preferiva
far all’amore ai Casetti con la bionda. Rincasando, però, dimandava ogni
volta: — E Leonardo non s’è visto?

Arrivò all’Olmello un pomeriggio. Con la tosse, sudato, affannoso,
affranto.

— Il ragazzo dimanda di voi — l’Assunta gli disse. — Lui sorrideva.
Chiese delle uova.

Di ritorno col cesto, l’Assunta gli disse anche, senza piangere, che il
ragazzo presto ripartirebbe. Senza piangere! E Stefano quel giorno parlò
di molte cose. Stefano parlò!

Ma il vecchio non aveva nemmen più la forza di meravigliarsi. E se
avviandosi si fosse voltato indietro, avrebbe scorto il contadino
scuotere il capo, mentre la donna mormorava: — Quello è un uomo che se
ne va.

Leonardo se ne andava infatti, zampicando, col suo bastone, come verso
un destino che si compieva. Quando la sera fu, per grazia di Dio, in
paese, si fermò dal notaio; offerse le uova che l’Assunta gli aveva date
e sorridendo pregò:

— Vorrei fare, signor dottore, testamento... adesso.

La mattina dopo Celso venne a cercarlo per salutarlo. Partiva.

Sulla porta la casigliana gli disse:

— Stanotte non l’ho sentito tossire.

E aggiunse: — È un uomo che se ne va.

Salirono insieme. Batterono. Silenzio.

Tirata la cordicella e aperto l’uscio, lo videro, nel letto; videro che
se n’era già andato.

E il soldato, l’erede, gli chiuse gli occhi.



                       NELLA ROMAGNA D’UNA VOLTA


A ricevere la seconda lettera con cui, goffamente, Nino Galastri le
chiedeva di sposarla, Livia perdè la pazienza e rispose un semplice
_no_. Inesperta, com’era, del mondo, non riflettè ai diversi gradi di
tono e di significato che, sino alla ripulsa oltraggiosa, può assumere
un _no_ scritto; castigando una indiscreta vanità, non ebbe il dubbio di
offendere l’orgoglio paesano, il quale, ferito, ferisce col morso e il
veleno della vipera; e conoscendo la fierezza del nonno, non domo dagli
anni, dubitò invece di far male a rivelar la cosa a lui. Nè la vendetta
tardò a giungerle: terribile perchè l’armava la pubblica malignità,
perchè la sosteneva un’accusa copertamente diffusa e inoppugnabile,
perchè disonorava il suo nome.

Già delusa nella felicità quale aveva immaginato trovar fuori del
collegio e predisposta alla solitudine, più che dalla sensibilità
materna e dalla sventurata condizione di orfana, dal rude costume della
razza da cui scendeva, Livia Antoni ricorse col pensiero e con l’anima
al luogo dove era cresciuta, in una clausura quasi monacale, e presentì
che in nessun altro luogo e in nessun altro modo avrebbe potuto vivere
senza il peso addosso dell’onta o del sospetto dell’onta. E segnò essa
stessa il suo destino in un dilemma: o l’accusa che si faceva al nonno
non era vera, e valeva meglio scampare da un mondo così tristo; o era
vera, e la rinuncia di lei apparirebbe come un sacrificio riparatore,
una rinuncia sublime in lei, giovine, bella, ricchissima.

«Se un’idea entra nella testa di un Antoni non c’è più santo che gliela
cavi», pensò la più vecchia delle domestiche, quando Livia le disse che
aveva intenzione di farsi suora.

Ma quando quella donna, incerta come chi teme di dare un avviso che
addolori troppo, ne parlò al padrone, egli la fissò, poi scosse le
spalle quasi a udir cosa di nessuna importanza. Solo, die’ ordine di
cominciar subito i lavori di sterro sul poggio, ove sorgerebbe la nuova
villa. E lo stesso giorno vi condusse la nipote.

— Guarda! — le disse accennando alla vallata stupenda.

La vita brillava nell’aria, serenava nei lontani monti, palpitava nei
colli rinverditi, fluiva e rabbrividiva placida fra il greto del fiume.

— Io sarò morto allora — soggiunse il vecchio —. Ma tu vivrai qui sposa
e madre felice.

La ragazza tacque. E sentì che il momento di manifestare il suo
proposito era quello, e raccolse tutta la forza per dissimulare
l’affanno e dire dolcemente:

— La ringrazio, nonno. Io però non ho intenzione di maritarmi.

Seguì ancora un attimo di silenzio: insopportabile nell’incerta
aspettazione della loro anima. Il vecchio non parlò; dovè parlar di
nuovo Livia, per dire, bianca in viso, con le labbra esangui:

— Ho la vocazione di farmi monaca.

Allora il vecchio, che a ottant’anni teneva in soggezione tutti anche
quando non usava i modi della sua ferrea volontà e la mitigava con
l’espansiva energia del suo gran cuore, tremò a nervo a nervo.

Paventava d’essere debole davanti a una giovinetta esile come un giunco,
o d’esser travolto dall’ira come avrebbe fatto davanti a un minacciato
assassinio?

Le afferrò un braccio, la costrinse a guardarlo negli occhi, e disse
soltanto:

— Bada, bambina!

Quegli occhi, quelle due parole avrebbero piegato chiunque altra,
d’altro sangue. La giovinetta che aveva nelle vene il sangue degli
Antoni fu invece inanimata alla resistenza e alla difesa.

— Se lei vuol sapermi contenta, deve consentire alla mia volontà.

— Non dire la tua volontà! — gridò il vecchio prorompendo —. Di’ l’idea
stupida che ti han messa in testa là dentro, dove io non ti avrei mai
rinchiusa!

Il rimprovero, che toccava la memoria di sua madre, accrebbe ardire in
Livia.

Esclamò:

— Le giuro, nonno, che questa idea mi è venuta dopo che sono uscita di
collegio.

E soggiunse subito:

— Mi sono convinta che il mondo è brutto e cattivo.

— No! — il vecchio ribattè forte —: il mondo è buono, è bello per chi ci
sappia vivere. Che esperienza puoi averne tu?

A fatica Livia compresse in cuore il suo segreto; frenò l’angoscia;
trattenne le lagrime. E rispose:

— Basta guardarsi attorno e ascoltare.

Il sospetto si affacciò ora alla mente dell’Antoni. E chiese:

— Ascoltar che cosa?

— Il dolore degli altri — disse lei. — Chi non ha da lamentarsi del male
che riceve?

— E fra quattro mura tu credi di evitar il male e goder il bene della
vita?

Nè attese risposta. Quasi per strapparsi a una enormezza egli si
allontanò. E Livia gli tenne dietro singhiozzando sommessamente.

Otto giorni dopo era costretta ad accompagnar il nonno in un lungo
viaggio.

                                  ***

Meraviglie di ogni sorta, spettacoli indimenticabili; ma non una notte
la giovinetta si addormentò prima d’aver pensato: «Non mi divertirei
come il nonno crede che io mi diverta se non fossi ricca; e non sarei
ricca se lui...».

Dal viaggio tornò così stordita e stanca da parere intimamente mutata,
queta e remissiva, e il vecchio sperò di guarirla del tutto continuando
il rimedio.

Anche l’antica casa parve mutar anima: risonò di feste; risplendè di
signorile ospitalità.

E alla giovine non mancarono corteggiatori. Li respingeva con ferma
freddezza.

Intanto si compivano i lavori della villa, che un giorno avrebbe dovuto
vederla sposa e madre felice. Ma lei non andava una volta a Belpoggio
che non pensasse: «Ancora due anni, poi sarò padrona della mia volontà».

E quante volte si ripeteva: «Oh, vivere di solo pane, senza dubitare che
sia di origine impura!».

Questo pensiero diventò un’ossessione nella sua mente, tanto più
ostinata quanto più caparbio essa giudicava il nonno a non volerla
comprendere.

Così non doveva tardar molto il giorno che di quelle due volontà in
conflitto l’una si convincerebbe o illuderebbe di aver vinta l’altra.

                                  ***

Cesare Antoni, come soleva, una mattina uscì di casa con lo schioppo a
tracolla. Scorgendolo dalla finestra Livia patì, violento, quale non
mai, il riscontro delle due imagini. Pensò: «Il Passatore!».

E per non piangere si morse le labbra, e non pianse.

Ma più tardi, senza un appiglio, senza un pretesto, osò chiedere al
vecchio:

— Mia madre cosa ebbe in dote?

Egli la guardò negli occhi; essa ne sostenne lo sguardo.

— Niente ebbe. Perchè?

Niente! Dunque non avrebbe potuto dir suo, non impuro, neanche un tozzo
del pane che sino allora aveva ingoiato e che per due anni dovrebbe
ingoiare! E al colpo inatteso, Livia abbassò gli occhi, affranta.

— Perchè? — insistette l’altro, ancora forzandola a risollevar gli occhi
e a rispondere.

— Son decisa a disubbidirle; e avrei desiderato evitare che lei, fra due
anni, m’incolpasse d’ingratitudine.

A ricevere uno schiaffo l’Antoni avrebbe reagito con minor impeto.
Infiammato in faccia e nelle pupille, diritto, alto, imponente
vegliardo, avanzò come per arrestare nella sciagurata il pensiero
colpevole prima che cadesse nel pentimento. E l’investì:

— Ti sei svelata, una buona volta! L’ho avuta la prova manifesta del tuo
cuore, della tua religione, della tua pietà! Tu non vuoi obblighi di
gratitudine e di affetto; tu mi odii! Peggio: l’odio vincola, e tu non
vuoi vincoli! Hai capito che io ho una volontà di ferro; hai temuto che
la mia volontà sia più forte della morte e io possa dominarti sempre,
finchè vivrai, e per ribellarti, per essere libera, minacci di farti
suora! Ma non t’accorgi, sciagurata, della contraddizione mostruosa; non
t’accorgi che sei pazza d’egoismo? Pazza! — le gridò contro.

Ella tacque; tremante; reggendosi a stento in piedi: ma con lo sguardo
immoto.

E il nonno, men violento oramai che disperato, aggiunse:

— Già si dice! Nino Galastri a chi dimandava, al caffè, perchè tu non
trovi chi ti sposi, ha detto: — «Non sapete che l’Antoni è matta?».

Lui? Nino Galastri?

— Lui? — fe’ la ragazza, il volto improntato di un sarcasmo che la
svisava come una smorfia atroce.

— Sì. Presto o tardi se ne pentirà; ma l’ha detto!

E allora ella corse nella camera attigua, trasse da uno stipo la lettera
dell’innamorato respinto, e tornò porgendola.

Il vecchio l’afferrò. Mentre la leggeva lei si aspettava che cadesse
morto di colpo: leggeva: «... sposandola, signorina, io avrei offesa
l’opinione pubblica; si sarebbe detto che la sposavo per godere i
marenghi del Passatore».

Invece il nonno gettò il foglio e rise.

— Ah, ah! E tu la conosci tutta, la storia? Non la conosci bene? No? —
Essa non rispondeva. — Te la racconterò io! A Belpoggio, proprio dove ho
fabbricato la villa per te, per la tua felicità, c’era una casupola
mezza in rovina; e io l’avevo affittata a un manutengolo o a un collega
del Passatore. Dopo che questo fu ammazzato, colui fu preso e condannato
non so a quanti anni di galera. E di là scriveva alla moglie, che non
sapeva leggere e veniva da me a farsi leggere le scritture del marito.
Ma io, furbo, le leggevo prima per conto mio. E una volta vidi che il
ladro raccomandava alla moglie di non abbandonar mai la casa ove stava.
Io, zitto!; e diedi subito commiato alla donna. E mi misi a scavare.
Scavai una, dieci, cento pentole piene di marenghi rubati dal Passatore,
e così... Hai inteso?

— Gl’invidiosi, gli oziosi, gli ignoranti, i maligni, i vigliacchi —
seguitò l’Antoni, di nuovo sopraffatto, nell’ironia, dall’ira — non
comprendevano, non comprendono la origine di una ricchezza acquistata
con le fatiche, con gli studi, l’ingegno, la forza della volontà e dei
nervi, e m’han dato, a me, per collega il demonio, e hanno inventata
l’infamia e ci credono! E tu vuoi farti suora per questo!

Per questo. La storia non era vera? E come negare che era bene uscire da
un mondo ove si commettevano coteste infamie, deturpando il nome di una
famiglia, affliggendo la vita intera di un uomo, senza castigo?

— Sì, nonno: per questo! — Livia fu sul punto di rispondere. Ma a veder
il vecchio divenuto livido, in una attesa di passione mortale, gli si
gettò d’impeto nelle braccia piangendo:

— Lo credo! Lo credo, nonno, che lei sia innocente!

                                  ***

Cominciò da allora l’equivoco che doveva durar due anni.

Ritennero l’una e l’altra di aver vinto. «Si rassegna alla volontà di
Dio», pensava la ragazza. «Si rassegna alla mia volontà», pensava il
vecchio. Ed ella non urtata più, cedeva nei modi; s’inteneriva; diceva
tra sè: «povero vecchio!».

Nemmeno, nel suo segreto, lo rimproverava d’essere ostinatamente rimasto
in mezzo a gente sì perfida, perchè allontanarsi con l’onta addosso
sarebbe stata, per uomo di tal fatta, viltà; sarebbe stata la maggiore
ignominia.

Alla proposta di passar l’inverno altrove, ella si rifiutò: e il nonno
ne fu lieto.

E come Dio volle, rifiorì la primavera. Il nonno con vigile cuore vedeva
rifulgere quegli occhi, splendere quel sorriso di gioventù. Si celava
dietro le macchie del giardino a spiar la nipote allorchè andava per il
prato a raccogliere fiori umili, e non più dubitando l’udiva
cantarellare.

Gli pareva salva. Non comprendeva che ella gioiva quale chi aspetti una
prossima gioia, più grande; non capiva perchè l’anima di lei esultava in
tal modo.

Passò, similmente, l’estate; passò un altro inverno. Poi andarono ad
abitare nella villa nuova.

                                  ***

E giunse finalmente quel giorno. Livia era maggiorenne.

Il nonno l’attendeva nella loggia, per dirle:

— Adesso sei arbitra di te, di me, di quanto possiedo. Non mi
abbandonare, Livia!

Ma quando ella uscì, anzi che morire di colpo a vederla, il vecchio ebbe
uno strano senso di sollievo: gli parve cessare la sua agonia. Livia (e
una carrozza da nolo avanzò nella corte), Livia era vestita da viaggio.

Risoluta; padrona di sè, disse:

— Addio, nonno!

Maledetta?

A mani in croce, a scorgere la maledizione nei terribili occhi, ella
scongiurò:

— Mi perdoni!

Egli non parlò. Si volse a guardare i bei luoghi che Livia non
rivedrebbe mai più, quasi egli non dovesse rivederli mai più; i monti
sereni, i colli verdi e il bianco fiume.

Poi disse:

— Ti perdono.

E le porse il braccio, e tra le serve e i servi e gli operai attoniti,
diritto, alto, imponente vecchio, venne con lei nella corte, la condusse
fino alla carrozza.

Livia si chinò ad abbracciarlo, a baciarlo. Egli l’abbracciò; la baciò.
Sorrise. Disse:

— Addio!

                                  ***

Indi, partita, Cesare Antoni tornò in casa; imbracciò, secondo soleva,
lo schioppo; diede ordini, al solito; e prese la via del paese: ove,
ogni giorno verso le nove, Nino Galastri usciva di casa, traversava la
strada, ed entrava nel caffè.

Quando fu alla bottega del tabaccaio, poco distante dal caffè, il
vecchione entrò a comperar sigari; e scegliendoli, e di tratto in tratto
sogguardando fuori, motteggiava con la tabaccaia.

— Sempre allegro, lei!

Uscì. E si fermò ad accendere un sigaro. Alcuni paesani, che
conversavano in gruppo, salutarono. Non buono il primo sigaro, lo gettò
via; ne tolse un altro. Gettò via anche quello: e... (Nino Galastri!):
d’un lampo, afferrato lo schioppo, gridando che tutti udissero: — Il
Passatore avrebbe fatto così! — Cesare Antoni, puntò, sparò.

Il Passatore mirava dritto.



                          VALENTINO E LUCILIO


L’auriga Libanio in carcere! Forse condannato a morire per la rivalità
del padrone. Ne amava una bella schiava, giovinetta. Questa la sua
colpa! E Boterico, il barbaro divenuto governatore a Tessalonica, aveva
dunque ricevuto il battesimo per essere più crudele? cristiano, trattava
così i suoi servi? ascoltava così gli ammonimenti dell’imperatore: che
governasse con prudente consiglio e cuor buono?

Gelosia d’amore e di gloria. Perchè maggior gloria aveva acquistato
Libanio auriga nel circo che in guerra Boterico luogotenente di Teodosio
il Grande: ecco quel che gravava la colpa del povero giovine. Dal
servizio del governatore assunto a condur nelle corse i cavalli della
fazione «prasina», aveva meritato tal favore dal popolo che neppure le
altre fazioni gli volevan male; lo vantavano anch’esse vittorioso o
vinto. E per lui le corse di Tessalonica levavan grido, oltre la
Macedonia, a Costantinopoli, a Roma, a Milano.

Nessuno infatti, da quando s’eran visti cavalli e carri nel circo,
nessuno vi aveva mai dimostrata arte pari alla sua.

Guidava i poledri più focosi e indocili quasi fossero attempati
nell’evitar gl’impedimenti e girar le mete; pareva che il più lieve
tocco delle sue dita alle redini rilassate avesse una prodigiosa virtù
di moderazione o, se bisognava, d’incitamento; ogni studio di agitatori
e ogni audacia di giocolieri, compri dagli emuli perchè interrompesse il
galoppo, perdesse terreno, si rovesciasse, tornava inutile. E agitava la
frusta, ma non percuoteva.

Bello era a vederlo, il ginocchio sinistro fermo all’appoggio del carro,
la gamba destra tesa col piede puntato nell’estremo limite a tenersi
inconcusso, il petto chino all’innanzi quasi a empirsi dell’ebbrezza de’
suoi corsieri, e il capo drizzato a scorgere, con sguardo imperioso e
sereno, certa la gara, libera la vittoria.

— Libanio! Libanio! — acclamava il popolo. Non gridava: — Prasina! —
quasi non vedesse più in lui la fazione, ma vedesse lui solo; e
l’ansietà delle scommesse era superata dall’ammirazione; e il sole
riflettuto dall’elmo, dalla tunica di seta verde e dalle cinghie che la
stringevano e increspavano sembrava irradiargli il viso.

Agli occhi di quel pubblico oramai tutto cristiano rifulgeva una
apollinea imagine.

Ma adesso Libanio sospirava in una carcere stretta ed oscura; eran
spente le feste che dovevan celebrare Teodosio vincitore di Massimo,
Teodosio trionfante a Roma.

— A morte Boterico! A morte l’ingiusto! l’indegno!

Imprecazioni e minacce passavano di bocca in bocca; e si diceva che come
l’imperatore aveva perdonata la sedizione di Antiochia, ove era stata
abbattuta fin la statua dell’imperatrice, perdonerebbe a Tessalonica se
osasse castigare il governatore malvagio.

Prima però di osare tanto, i cittadini più saggi e cospicui speravano
d’indur lui stesso, Boterico, al perdono. Che lode gli verrebbe, di uomo
generoso, a trar dalla carcere il giovine caro al popolo, e per
intercessione della città intera concedergli ciò che era inumano
proibire: la felicità dell’amore e delle nozze!

No. L’empio rispose no.

A morte! E nulla più può trattenere la folla: irrompe al palazzo: le
guardie cadono trucidate. Boterico si fa innanzi; alza la mano per
dire... Troppo tardi dire: perdóno. È trucidato.

E sono aperte le porte della carcere.



                                  II.


Quando ebbe notizia della sedizione di Tessalonica Teodosio stava per
entrare in Milano, di dove muoveva a incontrarlo Ambrogio, il santo
Vescovo. L’ira dell’imperatore cedè alla parola di lui, che era la
parola d’un santo. Ma dopo, nel consiglio, parlò il Gran maestro di
Palazzo: — Se anche Tessalonica restava impunita, tutto l’impero
rovinerebbe, e la storia ne chiederebbe conto all’ultimo imperatore, che
aveva vinti i nemici e non aveva saputo vincere i ribelli; che si era
addolcito della pietà dei vescovi e non si era inasprito per la licenza
del popolo.

Nè gli altri consiglieri furono da meno a rimproverare e a esortare.
Teodosio, alla fine, diè l’ordine. Soldati fossero subito mandati a
Tessalonica; di là il mondo avesse nuovo, terribile esempio che non
s’offendeva senza pena l’autorità imperiale, sebbene l’erede di Roma si
facesse ora il segno della Croce.

E non sarebbe l’ultimo imperatore di Roma Teodosio il Grande! Gli
ufficiali che ebbero tale missione dal Sovrano e dalla Storia ne
godettero, e pensarono di adempierla con neroniana letizia: nel circo,
tra la folla festosa, ignara della strage imminente, plaudente
all’auriga per il quale Boterico era morto.



                                  III.


Affrancata dal novello Governatore, la giovinetta schiava che Libanio
amava diventò sposa a Libanio. Dunque nessun dubbio che Tessalonica
fosse perdonata come già Antiochia. I mercenari testè venuti
aumenterebbero le milizie di Boterico solo per resistere ai barbari.

Nessun sospetto. C’era anzi nell’animo popolare quell’aperto consenso di
fiducia e di gioia a cui sopra tutto pareva attendere Teodosio
trionfatore, Teodosio il Grande.

Furono riprese le feste. E mai corse annunciate nel circo suscitarono
tanta aspettazione. Appena i «russati» o rossi e i «veneti» o azzurri
avevan saputo che la fazione «albata» o bianca lancerebbe quattro
cavalli degli allevamenti di Cappadocia, avevano affrettate richieste a
Costantinopoli. Giunsero, per loro, fin poledri di razza araba,
dall’Asia Minore. Ma la fazione verde o «prasina» non cercò mutamenti di
corridori e di auriga: le bastavano i suoi cavalli armeni, le bastava
Libanio.

                                  ***

Quanta gente, il gran giorno, per la strada che conduceva al circo! Che
frequenza di vetture, fossero rede tirate da cavalli o carruche tirate
da mule, con sopra ricchi e patrizi e matrone! In carrozza andò anche
Cesario Prisco, il ricco mercante di gioielli, con i suoi figliuoli.

Pienamente felici, quei due. Il minore, che non era mai stato al circo,
volgeva le più curiose domande, alle quali l’altro rispondeva con ciò
che sapeva di propria scienza e esperienza e con ciò che aveva imparato
dai compagni a scuola, o s’inventava lui. Fin sapeva, Lucilio, perchè
dalla «spina» del circo, la quale vi era la parte mediana ove sorgeva
l’obelisco, erano state tolte le statue della dea Tutelina e di Cibele
assisa sul leone.

— Perchè? — Valentino chiedeva riflettendo dai begli occhi chiari
meraviglie sempre più improvvise e strane al suo pensiero.

— Perchè — rispondeva Lucilio — l’imperatore ha voluto il battesimo; è
cristiano anche lui, come noi.

— E perchè Tutelina e Cibele non erano cristiane come noi?

E perchè questo? perchè quest’altro?

Il padre godeva a udirli cinguettare così. Ma quando Lucilio, il più
grande, fu stanco di rispondere ciò che non sapeva e ciò che sapeva,
tornò a insistere col padre che gli dicesse per chi parteggiava, per chi
scommetterebbe.

— Io sto per i «rossi» — preveniva Valentino. — Me l’ha detto la mamma
che vincerà Libanio.

— Libanio, è prasino, non rossato! — esclamò con sufficienza Lucilio. E
soggiunse:

— Io credo che vinceranno gli azzurri. E tu, padre? Scommetti per loro!
Se sapessi che cavalli hanno! Venuti d’Asia!

— No — ribatteva Valentino —, scommetti per il rosso, che è il colore
più bello!

E il padre, il quale era della fazione albata e aveva seco tante monete
d’oro da giocare per i poledri di Cappadocia, fingeva una grande
perplessità nella scelta. Dopo un lungo silenzio disse interrogando sè
stesso:

— Per vincere starò dunque con Valentino o con Lucilio?

— Con me! — Con me! — pregavano ambedue i fanciulli, a gara.

— Vincerà quello che mi vuol più bene!

— Io!

— Io, padre!

— Vincerà quello a cui voglio più bene.

— Io! io!

— No, io! — e a Valentino si riempirono gli occhi di lacrime. Allora il
padre trasse quattro monetine — quadranti — e le diede ai fanciulli, due
per ciascuno. — Faremo così: quello che perderà darà un quadrante al
fratello, e uno a me. — Accettarono felici di scommettere come gli
uomini.

— Ma — ripigliò dopo un poco il padre quasi preso da un nuovo dubbio —:
se perderete tutti e due? Se vincerà, invece della rossa o dell’azzurra,
la prasina o l’albata?

— Allora — esclamò Lucilio ridendo —: allora ci teniamo noi i
quadrantini, e a te niente!

— A te un bacio — concluse Valentino allungando le braccia.

E volevano dargli un bacio tutti e due in una volta.



                                  IV.


Quando entrarono e salirono al terzo ordine, già i primi gradi, dei
patrizi, e i secondi, dei cavalieri, erano pieni; lassù trovarono liberi
appena due posti attigui. Cesario Prisco li lasciò ai figliuoli, e
rimase in piedi a capo della scalinata, di dove poteva meglio
scommettere cogli amici. Lucilio, timido, a bassa voce indicava intanto
al fratellino la tribuna imperiale, vuota, il seggio dei giudici, le tre
mete dalla parte delle scuderie e le tre mete opposte con la porta
trionfale, nella spina, i segnacoli con i delfini e le uova che
servivano a numerare i giri della corsa.

Nè l’attesa fu lunga. Un silenzio immenso, improvviso.

Ecco: aperte le scuderie: ecco i carri. Avanzano sino al principio della
spina; si allineano; ristanno davanti a una corda... Un istante. E a
Valentino tremò il piccolo cuore; ebbe paura, non sapendo di che; cercò
cogli occhi il padre. Ma Lucilio lo tirò per la veste e gli sussurrò: —
Guarda!

Una mano agita una benda purpurea, la corda cade: via!

Nel galoppo molteplice si vedevan di pari le teste dei cavalli, le
fruste alzate e i colori delle tuniche. E cominciarono le scommesse e il
richiamo a tutti noto: — Libanio! Libanio! — Libanio non sferzava.
Giunse ultimo alle mete, nel primo giro. Prima le oltrepassò la russata.

Allora Lucilio disse, dimentico del suo entusiasmo per la quadriga
veneta o azzurra: — Io scommetto per la russata. E tu Valentino? —
Valentino non ricordò più che appunto la rossa era la sua fazione;
ricordò che la madre gli aveva detto: — Vincerà Libanio — e rispose: —
Io sto per Libanio, il verde!

— Sta attento! Non vedi che è ultimo, il verde? Guarda! Guarda!

Gli agitatori e giocolieri cominciavano a operare inganni in pro delle
loro parti. Balzavano improvvisi, correvano qua e là, e facevan gesti da
impaurire, e recavan cose da gettare nell’arena. Uno, a cavallo, tagliò
d’un tratto la via, e la quadriga russata, che ancora precedeva,
s’impennò; passò innanzi la veneta o azzurra, e giungeva l’albata.

Ma di subito, imprevedibile, un giocoliere si gettò a terra con
meravigliosa arte, con pazzo ardire, cogliendo l’istante e l’intervallo
fra le gambe posteriori dei cavalli e le ruote della veneta, ora
precedente a tutte; e rialzandosi incolume, quasi sorgesse di sotto
terra, spaventava i poledri dell’albata sopravveniente.

Così la russata riguadagnò terreno, ma per poco non arrotò la veneta e
(fu da tutti i petti una voce di terrore) non la rovesciò. Approfittò
dell’istantaneo indugio Libanio, senza che i suoi quattro cavalli, d’un
splendido mantello baio dorato, sembrassero mutar norma al galoppo:
superava secondo, subito dopo la veneta, il compimento del secondo giro.
Quand’ecco un giocoliere gli gettò incontro un cesto: le ruote non lo
toccarono. Un altro gettò un’anfora: evitata. L’auriga ancor primo si
rivolse per colpire con la sferza agli occhi i cavalli che già aveva al
fianco, ma Libanio evitò il tradimento facendo di nuovo scartare i suoi
cavalli. E questa volta oltrepassava primo le mete.

— Libanio! Libanio! — Tutti gli spettatori, in piedi, plaudivano; più
alte, deliranti, si levavano le acclamazioni dalla fazione prasina.

Se non che al quarto giro questa ebbe assai da temere. L’albata
l’accostava; le era alle ruote. E le scommesse raddoppiavano di foga.

Cesario Prisco, sicuro di vincere, guardò sorridendo ai suoi figliuoli,
ed essi parvero sentirne lo sguardo.

— Padre! — gli gridò Lucilio. — Io sto con te; per l’albata! — Ma
Valentino pieno di ardire, adesso, felice, battè le mani e avvertì tutto
il circo:

— Io sto per Libanio!



                                   V.


Repentinamente, enorme, un clamore di barbari all’assalto entrò dalle
porte, sorse per le scale, proruppe. I mercenari! Con le spade, le
lance, i pugnali, là dentro, a colpire urlando. Urlando alzavano le lame
sanguinanti; sul tumulto, sulle strida delle donne, sui gemiti dei
ragazzi, sul terrore tacito degli uomini proclamavano la vendetta di
Boterico.

Strage! Al macello andavano quanti con la frenesia dello scampo
invadevan l’arena, tra le quadrighe già ferme, per di là raggiungere le
scuderie o la porta trionfale: i macellatori vi aspettavano il branco. E
a morire in massa andavano quanti si addossavano per le scalette;
cadevano. I caduti facevano intoppo: monti di corpi da trafiggere
inerti.

E dal terzo ordine molti si gettavano giù nella strada; e nei primi
ordini cavalieri e patrizi invocavano e si davan la morte tra loro, per
non essere sgozzati. A mani giunte, a voce chi alta e chi sommessa, le
matrone chiamavano Gesù Nazareno. Le lame in alcune tentavano adagio il
petto accompagnate da oscene esclamazioni e risate; in altre il colpo
alla gola, accompagnato da un ruggito, era così violento da quasi mozzar
il capo.

La strage! Il macello per vendicar Boterico. Per ordine di Teodosio il
Grande mille carnefici su diecimila cristiani! Settemila vittime
opposero invano il lamento dell’umanità sacrificata alla bestialità più
feroce, truculenta, sitibonda di sangue umano.

Per vendicar Boterico! E sulla punta dell’obelisco, nella spina, fu
infissa la testa di Libanio.

                                  ***

Cesario Prisco aveva afferrato e preso in braccio il figlio più piccolo,
e tratto per mano l’altro, era stato dei primi a scendere. Ma allo
sbocco del secondo ordine dovè arrestarsi, ritrarsi nel ripiano,
appoggiarsi al balteo per non precipitare; per non perire, lui e i
figli, sotto i fuggitivi che l’addossavano. E quelli che scendevano
incontravano altri manigoldi che salivano. Cadevano morti. Egli, di là,
quasi appartato per un miracoloso consiglio, col bambino che piangeva in
braccio, con l’altro che gli stringeva un ginocchio e piangeva, vide i
morti ostruir la scala, gli uccisori travalicarli. Poi vide che due, con
la rabbia della belva che scopre la preda nascosta, gli muovevano
contro: non mercenari: un decurione, erano, e un vecchio legionario.

Fece in tempo a deporre il bambino, a trar le monete d’oro, a tendere le
pugna piene, a scongiurare:

— Salvateli! Ammazzate solo me, Cesario Prisco! Quel che possiedo per la
vita dei miei figliuoli! Salvateli!

Il legionario carpì la manciata d’oro. Il decurione parve commuoversi.
Un istante. Che istante! Ma scosse il capo e disse:

— Tutti e due, no!

E il legionario:

— Gli agnellini scarseggiano nel pecorame che abbiamo da macellare!

— Uno sì! — e il decurione prese la sua parte di monete —. Scegli!
presto!

Al padre si velarono gli occhi guardando Lucilio e Valentino che si
tenevano abbracciati, stretti, muti.

Come a un morente cui ricorre sensibile, viva, la più remota
impressione, tornò al padre la sua propria voce che diceva ai figliuoli
lontana lontana: — Chi dei due mi vuol più bene? A chi dei due voglio
più bene? — E la voce non rispondeva ora: — Io!

Abbracciati, stretti l’uno all’altro, adesso erano muti. Ed egli non
resse alla mostruosa necessità della scelta, alla mostruosa condanna.

— Ammazzatemi! — supplicò scoprendosi il petto.

Ma prime le due lame trafissero a un tempo, sotto i suoi occhi,
Valentino e Lucilio.



                 LA PASSIONE D’UN GENTILUOMO VENEZIANO


Il «magnifico» gentiluomo Alvise Pasqualigo...

Non vi aspettate una fastidiosa novella in vecchio stile e vecchia
forma. No, è un racconto di amore che si può dire di ieri e d’oggi.
Perchè, come la passione è eterna nella sua vicenda di colpa e castigo —
il castigo che la colpa ha in sè stessa — così ne è vera, e viva, e
commossa, e attraente l’espressione, quando è sincera e priva di
letteratura. E se qualche cosa varia, varia nel costume e nell’ambiente:
ciò che giova nell’apparenza della novità.

Dunque il magnifico gentiluomo Alvise Pasqualigo, tornato dopo lunga
assenza a Venezia, incominciò a scrivere lettere a madonna Vittoria: per
non darle noia sette anni era stato lontano da lei; tre anni aveva
errato per il mondo in vana ricerca di svaghi; sperando che lei almeno
gli concedesse di svelarle a voce alcuni segreti, era tornato in patria.

A messer Alvise, buon amico d’infanzia, Vittoria (che era moglie d’un
giovine conte) rispose per lamentarsi ch’egli le mandasse anche delle
ambasciate affidandole a servi. «La mia professione è sempre stata ed è
di donna d’onore, nè mai mi sarebbe caduto nell’animo che aveste usato
meco sì fatta discortesia. Basta, pazienza, non resterò per questo di
amarvi quale fratello...».

Ma Alvise meritava scusa, e le diceva: «Se io non vi facessi, per
qualche vostra donna di casa, intendere i tormenti che per cagion vostra
sostengo, in che modo potrei io vivere?».

E poichè la contessa scongiurava invano messer Alvise ad essere
prudente, a non mostrare il ritratto di lei ad alcuno, a non mandarle
ritratti perchè non voleva essere scoperta; poichè, non crudele come lui
la chiamava, poteva dirgli in coscienza: «Io vi amo; il che mi pare che
non sia male, nascendo dall’amore ogni buona operazione», qual fallo mai
avrebbe commesso concedendogli di parlare, dietro la porta di casa, una
sola volta?

Così, da quel primo onesto colloquio doveva penetrare nell’animo di
madonna una gran dolcezza d’amore puro, una gran compassione per il
nobile giovine innamorato: e quando lo seppe infermo in villa, gli
scrisse amorosa che cercasse di venir a Venezia a rimettersi più
facilmente; e poi, più tardi, gli si mostrava ammirata «dello splendore
che senza pari ritrovava in lui», e per lui pregava il Signore: anche
accettava e gli mandava piccoli doni.

Ma Alvise non viveva lieto, nè la promessa di lei, che «se è vero che di
là più che di qua vi sia amore, e si ami, esso mio spirito in cielo vi
godrà», gli arrecava bastevole conforto; avrebbe voluto tornare a
discorrere con lei.

Lei temeva nella dimanda ostinata un’insidia, e disperando che l’amore
di lor due rimanesse «giusto, fedele e onesto» com’era incominciato,
minacciò Alvise di rifiutare le sue lettere. «Conosciuta la vostra
disonestà, mi sono spogliata di quell’amore ch’io vi portava...».

E lui, disperato: «Già che tanto vi piace che dal mondo mi tolga, son
contento di soddisfarvi. E per ciò mi risolvo, colla prima occasione,
d’andar in luogo tanto lontano che secondo il desiderio vostro finisca i
miei giorni».

Finalmente madonna Vittoria, pentita e impaurita, un giorno l’accolse in
casa. Fu quello il giorno della colpa. E da quel dì in avanti le lettere
di madonna Vittoria si seguirono piene di amarezza, di tristezza
profonda.

Dopo ciascuno dei gioiosi convegni essa piangeva.

«Come foste partito mi gettai nel letto e con gli occhi del corpo
(benchè col pensiero a voi) mi addormentai: indi a poco svegliatami e
ritrovatami senza di voi, cominciai a piangere sì forte che s’io non mi
fossi nascosta sotto la piega del letto, avrei senza dubbio svegliato
ognuno di casa... La malinconia m’è sì cresciuta che mi sento uscir
fuori l’anima...».

Di lui era compresa così intimamente che a ripensarne le parole ne
riudiva la voce e dalla voce ne riacquistava quasi la sensazione intera:
si deliziava a martoriarsi finchè si abbatteva in una mortale angoscia.

«Da quell’ultima ora che mi parlaste fino a questa si è cresciuta in me
la confusione, ch’io non so più quello ch’io mi faccio. Le vostre
dolcissime parole mi sono rimaste così vive nella memoria che, se talor
chiudo gli occhi, parmi di vedervi e di ragionar con voi; il che è
cagione che molte volte stendo le braccia per abbracciarvi, e mi ritrovo
ingannata. Destatami, vergognata di me stessa sento tanta passione che
mi è forza di desiderar la morte per uscir una volta di pena...».

Non conosceva ancora la pena della gelosia; ma quando _lui_, il conte
marito, cominciò a sospettare, e già alcuno dei vicini e dei conoscenti
mormorava della tresca, dovettero contenersi e non vedersi che di rado.
Quali altre donne amava Alvise? Ove passava il giorno? A che feste si
recava?

Messer Alvise pareva tuttavia appassionato; e per andare da lei,
avvertito da segnali di richiamo, sfidava ogni vigilanza. Se non che
lettere anonime persuasero il conte che la moglie lo tradiva e tentarono
persuadere madonna Vittoria che era ingannata dall’amante: il Pasqualigo
ebbe minacce di morte entro otto giorni se si ritrovasse ancora una
volta con Vittoria, ed essa pativa d’una gelosia divenuta incomportabile
tormento.

Invano egli tentò di assicurarla che solo per nascondere il vero amore
ne simulava ora un altro; Vittoria minacciava di uccidersi.

«Ma ditemi — le scriveva l’amante per frenarla —: vi piacerebbe ch’io
rotto ogni freno di ragione, venissi con forza a levarvi di casa per
torvi di mano a chi potrebbe tor la vita a voi? O pure vi piacerebbe
ch’io, spinto dal desiderio della salute e contentezza vostra, uccidessi
lui, e mi convenisse poi d’esser eternamente separato da voi?».

I pericoli infatti aumentavano con l’aumentare dei sospetti nel conte,
il quale proibiva alla moglie finanche di stare alla finestra, e fino a
un amico dava incarico di osservarla: a un certo Fortunio.

Costui già da tempo aveva saputo che un ritratto di Vittoria era in
possesso d’Alvise; più di una volta era stato sul punto di sorprendere
gli amanti; forse o senza forse era stato lui l’autore delle lettere
anonime e quello che aveva trafugato a madonna un pacchetto di lettere:
di madonna era innamorato anche lui. Oltre Fortunio spiava Vittoria una
«ribalda» cognata o suocera.

E il marito «tutto il dì gridava seco dicendole: io ti darò tanta mala
vita che ti farò anzi ora morire...». Essa pensava ad Alvise «confinata
in casa, sempre».

«Ieri vi vidi in strada, e credo certo che se lui non era in casa, io
era sforzata, rompendo ogni velo d’onestà, di chiamarvi ad alta voce...
Insomma, questa nostra vita è troppo aspra e mi pare quasi impossibile
di poterla vivere lungo tempo...

«Misera e disavventurata! A che termine sono giunta per amore, dal quale
non può o non dovrebbe nascere altro che buoni affetti e pur in me non
provo altro che passioni, tormenti, e morte; e se io potessi finire,
sarei contenta...».

«Bisogna frenare gli appetiti e scacciare certi pensieri dannosi»,
esortava Alvise col tono dell’amante che riflette dopo essere stato
sodisfatto.

Cercava, nondimeno, di confortarla da vicino. Una volta, per parlarle,
si vestì da donzella, e accompagnato da una donna si pose in chiesa,
alla predica, nella stessa panca di lei; ma poi, sospettato uomo, fu
costretto ad uscire. Un’altra volta, mentre stava discorrendo con
Vittoria, essa fu sorpresa da uno di casa e minacciata di morte.

In tale guerra, con troppo brevi tregue, l’amore di messere Alvise si
raffreddava, e nell’inquietudine e nei pericoli (egli doveva guardarsi
da sicari; e un giorno ferì tre che l’assalirono per via, e non osava
andar fuori che accompagnato da tre gentiluomini: Madonna Vittoria
temeva che il marito l’avvelenasse) le doglianze e i raffacci
diventavano più acerbi e più frequenti.

Per lei Alvise «aveva dispregiati gli onori della sua repubblica, per
lei aveva messo a rischio l’onore offendendo, percuotendo e ferendo non
solo uomini e donne di basso stato, ma di sangue nobile ed alto; l’amò
per tutta la vita attendendo il guiderdone della divina maestà!». E
Vittoria, di riscontro: «Le vostre crudeltà sono tante e tante che
meritano che ciascuno le fugga!».

Alla fine, lui le scrisse che per non accontentare i suoi, i quali
volevano s’ammogliasse, partirebbe da Venezia. Essa lo scongiurò che
rimanesse; magari s’ammogliasse; e lo minacciò: «Vi avvertisco bene che
vi potrete ancora chiamare pentito. Tenetevi bene a mente queste parole,
perchè si verificheranno».

Lui se ne andò. E lei giurò di vendicarsi.



                                  II.


La lontananza parve spegnere affatto l’antica fiamma nel cuore di
messere Alvise Pasqualigo; ma bastò che ritornasse a Venezia perchè la
vista dell’amante gli ravvivasse nell’anima, dalle poche faville che
v’erano rimaste, tutto il fuoco d’un tempo. Ahimè! Trovò madonna
Vittoria mutata al bene e molto sicura contro le tentazioni.

«Mentre che siete stato lontano (essa gli scriveva), per non perdere
l’anima insieme col corpo, ho pregato Iddio che rompa il fisso pensiero
che di voi avea... e fui esaudita».

Non le credette. E lei:

«Io conosco il vostro amore verso me, fuori di ogni mio merito,
ardentissimo, e confesso di aver ricevuto da voi quantità di cortesie,
che quando anche spendessi mille volte la vita per voi, non pagherei la
minor di quelle. Ma perchè io mi sono deliberata di voler rimettere
tutte queste vanità corporali, rivolgere l’animo a Dio e riconoscerlo
per mio Signore vivendo vita cristiana, vi prego che non vogliate romper
questo mio proponimento col molestarmi ogni ora colle vostre
lettere...».

No no... non le credeva; Alvise sospettava il tradimento.

Infatti non pentimento, non rimorsi l’avevano mutata così, ma la colpa
di lui che era stato lontano quattro mesi e non le aveva scritto neppure
una lettera. E non s’era mutata così come diceva: aveva davvero un
amante. Un giorno Alvise vide che nell’altana, ove si biondeggiava i
capelli al sole, accoglieva Fortunio. Fortunio, quello delle lettere
anonime! Fortunio il delatore!

Essa negò. Ma Fortunio, per vanagloria e paura a un tempo, disse al
Pasqualigo: — È vero —. Lei stessa, madonna Vittoria, l’aveva tratto a
sè.

E Madonna Vittoria dovè confessare. E confessò senza vergogna, con
audacia, con impudenza:

«Voi sapete che vi partiste contra mia voglia e ch’io rimasi tra tanto
duolo che come morta me ne giacevo nel letto; onde alla fine, disperata,
veggendo che non vi curavate nè anche di consolarmi con una semplice
carta, caddi in tanta gelosia, ch’ebbi ad impazzire, e mi risolsi
vedendo il mio male senza rimedio, di oprar ogni sorta di malia per
liberarmi di tante angoscie.

«Attesi l’occasione, la quale non sì tosto mi venne che l’abbracciai nel
modo che avete inteso da quel crudele, che più tosto dovea patir morte
che confessarvi le cose passate tra lui e me... Ma pazienza! La mia
fortuna ha voluto ch’io spenga affatto l’amor vostro e sì m’accenda di
lui che non abbia mai requie...».

Pazienza? Ed essa perdonava a quel perfido: l’amava e nell’amore nuovo,
e nell’abiezione, non avrebbe avuto più un pensiero, una parola, uno
sguardo per Alvise!

Alvise Pasqualigo allora non sopportò l’abbandono deciso ed assoluto
della donna che aveva amata troppo e troppo a lungo; non volle
rassegnarsi alla vendetta di madonna Vittoria; non si riebbe, e la
gelosia travolse nel fango l’anima sua e la dignità d’un uomo. Nessun
innamorato fu mai un mendico più sordido di Alvise Pasqualigo, che
scriveva:

«Fate almeno per una volta sola che io venga a voi, ch’io venga a baciar
la terra dove voi tenete i piedi...».

Madonna Vittoria, senz’altro, gli rimandava i ricchi doni; le lettere,
il ritratto.

E lui:

— «O mio amore infinito, o donna ingrata! E qual altro sarebbe stato che
non avesse scoperto al mondo i vostri tradimenti acciocchè foste stata
riconosciuta per quella che siete? Voi meritavate pure ch’io scoprissi
il vostro adulterio a vostro marito; ma io non voglio che la fragilità
di donna poco savia mi faccia far atto indegno di me».

Si sarebbe contentato di essere amato da fratello purchè talora gli
fosse concesso di vederla, di ragionarle «con quell’amore che sogliono i
fratelli famigliarmente»!

No: essa l’odiava, ora.

«Voi secondo ch’io bramo vi lasciate vedere ogni giorno, ma vi mostrate
sì colma d’orgoglio che men noia mi apporterebbe il non vedervi. Se io
vi saluto voi vi volgete ad altra parte; s’io vi parlo, sorda e muta vi
mostrate, e io posso dire, in verità, d’essere odiato a morte».

Peggio: era burlato.

«La mia mala fortuna vuole che io abbia gli occhi d’Argo acciò ch’io
vegga la cagione della mia rovina. Son contento, poi ch’altro non posso,
che voi m’inganniate. Ma che i vostri amanti mi burlino, non patirò mai.
Se gli avete cari, fate che mi lascino stare e che si contentino di
godervi».

Troppo a basso era caduto: un impeto d’ira contro l’amante di lei, se
non contro la donna, se non contro se stesso, non avrebbe potuto
scuoterlo e sollevarlo? A vedere madonna Vittoria alla finestra, con la
faccia ridente, e Fortunio sotto, che le rispondeva, «spinto da furor
geloso» e attaccata questione, ferì il drudo...

Ma dopo scongiurò Vittoria che gli perdonasse!

Atterrata, essa rispose: «Il solo rispetto mio doveva por freno ad ogni
vostra voglia, nè amandomi doveva aver maggior forza lo sdegno che
l’amore; ma poi che le cose passate non hanno rimedio e che mi chiedete
perdono, io ve ne faccio grazia...».

E, per convincerlo, gli mandò copia della lettera con cui diceva addio a
Fortunio. Gli diceva:

«M’abbandonai ad amarvi vinta da certe qualità che mi pareva di scorgere
in voi».

Le pareva! Le qualità di quell’uomo le parevan amabili dopo che l’aveva
saputo delatore, sicario, vigliacco! Che menzogna! Che infamia!
Spudorata. Abietta.

E allora, ma solo allora, Alvise Pasqualigo aprì gli occhi. Non comprese
che se lei era giunta a tal segno, la prima colpa ricadeva su lui
stesso; non ricordò che per amor suo la donna aveva pianto. Con un
pretesto, finalmente, spezzò l’ignobile legame.

E mutato il nome di lei, ne pubblicò, insieme con le sue, le lettere:
nel 1569.



                         COMPASSIONE E INVIDIA


C’è chi ha bisogno di essere invidiato e chi ha bisogno di essere
compianto: forme opposte di uno stesso egoismo e di uno stesso
malcontento.

Dopo vent’anni di separazione Aldo Varni, commerciante venuto da Milano,
e Michele Bragozzi, piccolo possidente che non aveva mai oltrepassati i
confini provinciali in nulla, si erano rivisti un giorno per caso, e
avevano rinnovata l’amicizia di compagni di liceo.

A ritrovarsi dopo quell’intervallo di vita non esente da delusioni e
inganni, a provare il rimpianto quasi nostalgico dell’età migliore, si
sentirono vicendevolmente attratti alla confidenza e si abbandonarono
alla loro natura.

Al caffè, dove ristavano ogni giorno alla solita ora, parlava Aldo? Oh
che uomo invidiabile! E via e via per l’argomento preferito: quello
della felicità domestica e coniugale. Sua moglie era un’arca di virtù.
Bella, elegante, valente in tutto: in conservarsi l’amore del marito o
con l’amore fervido, o con manicaretti appetitosi, o col buon gusto
degli abiti ideati e talvolta, per saggia economia, rimodernati da lei
stessa.

Parlava Michele? Oh che uomo da compiangere! E via e via per l’argomento
preferito: l’infelicità domestica e coniugale. Sua moglie era una somma
di difetti. Sempre di malavoglia, sempre sarcastica, nervosa,
dispettosa. Lui, povero martire, faceva di tutto per contentarla, e
senza lamentarsi: cure, regali, vesti, cappelli, gioielli; e, in
compenso, raffacci, scenate di gelosia, litigi, disperazioni. Una vita
impossibile!

Ma mentre l’uno si sfogava impavido, l’altro ascoltava paziente
secondando solo a monosillabi — Ah! — Eh! — Già! — Uh! —; a sorrisi o a
sospiri. Nessuno dei due tentava di contenere le esagerazioni
dell’amico, nè osava dargli torto per il segreto timore di perdere a sua
volta quella piena accondiscendenza; non dava ragione e non compiangeva
o non invidiava apertamente come per un ritegno di pudore. Tutt’al più
Varni, contemplandosi nella specchiera all’opposta parete e profilando i
magnifici baffi, mormorava per assenso di compianto: — destino! —; e
Bragozzi, quando toccava a lui, raccoglieva lo sguardo smorto e smarrito
a considerarsi le scarpe e mormorava per assenso ed invidia: — fortuna!
—. Eran le parole che tornavano, a vicenda, più grate.

Se non che a poco a poco cessarono anche di approvarsi così. Michele
Bragozzi già pensava dell’amico tanto fortunato: «Imbecille! o s’illude
o crede d’illudermi»; e Aldo Varni pensava dell’amico sfortunato:
«Poveromo! Non sa stare al mondo, e spera che io non capisca!».

                                  ***

Con tale accordo e reciproca conoscenza erano venuti a un tacito patto:
tener a distanza, l’una dall’altra, le mogli. Il pensiero che esse,
figurate tanto dissimili, avessero da trovarsi insieme, metteva in loro
l’apprensione della cosa mostruosa o assurda. E ciascuno dei due
quand’era con la moglie si studiava d’evitar l’amico paventando che
questi potesse scorgere in lei particolari nuovi, o differenze dal
ritratto che ne aveva ricevuto, e accusar di finzione o dissimulazione
il giudizio maritale. Ma l’uno come l’altro appena a casa, ogni giorno,
riferiva alla sua signora le contrarie prodezze della signora
dell’amico; e quelle poverine sottintendevano bene nel riferimento
un’intenzione non ingenua. «Gilda — pareva voler dire Aldo Varni a sua
moglie —, il mal esempio della Bragozzi valga a renderti sempre più
perfetta» — «Ah Cloe! — significava Michele Bragozzi —; se tu imitassi
un po’ la moglie di Aldo e provassi anch’io qualcuna delle sue gioie!».
Di qui antipatia e astio fra le due donne, che non s’eran mai scambiata
una parola; e la irresistibile voglia, che esse ebbero, di conoscersi
almeno di vista.

Ci riuscirono presto. Ed ecco con che effetti.

Diceva al marito la signora Cloe Bragozzi:

— Oggi mi sono imbattuta nella Varni. Cara! Sembra proprio una cocotte,
con quel cappello!

— Se l’è fatto da sè — mormorava lo smorto Michele.

— Da sè? — (una risata tremenda, e apriti cielo!) — Da sè? Così
massiccio? così enorme? così sconcio? E suo marito lo crede? E tu lo
credi? Ma dove siete nati? Allocchi! Ma non capite che è un cappello
venuto da Parigi? È un cappello da cocotte! Ah che sciocca! Ah che
civetta!

Indulgente invece cominciava la signora Gilda Varni:

— Sai che la Bragozzi è bellina davvero? E non deve essere cattiva come
la dipingete voi altri.

Varni, che sapeva stare al mondo, taceva. Allora la moglie seguitava:

— Peccato che sia così stupida! Si vede; non ha gusto. Oh quell’abito! E
quegli occhi di bambola? Che stupida!

Senza essersi mai detta una parola la signora Gilda e la signora Cloe
parevano conoscersi anche loro da più di vent’anni.

                                  ***

Un giorno Aldo Varni, elegante e sorridente al solito, giunse con modi
di fretta insolita e non si sedè. Non poteva trattenersi.

— Ho un forestiero in casa; un parente di mia moglie.

E sorbendo il caffè troppo caldo proseguì, fra un sorso e l’altro:

— Un suo cugino... Da sette anni non è stato in Italia. Oh che tipo! che
bel tipo! Simpaticone! Pieno d’ingegno, di spirito!

Bragozzi, il quale intanto che aspettava il resto della informazione
guardava l’amico, chinò d’improvviso gli occhi e pensò: «Uhm! Cugino?...
In che grado?».

—... Capitano di lungo corso. Da pochi giorni è arrivato dall’Australia.
E ha avute certe avventure... Oh! oh!

Varni rideva di gusto, dopo aver posata la chicchera sul tavolino e
mentre si contemplava nello specchio.

— Figurati che ha tre mogli legittime: una nella Nuova Zelanda, una a
Borneo e una a Cuba; e tutte e tre fedeli, disgraziato! Se tu lo vedessi
a disperarsi! Ah è proprio un’ottima compagnia! deliziosa! Resterà qui
otto giorni, e ce ne racconterà delle belle; che ti dirò poi.

«Anche il cugino incomparabile, adesso!», pensava Bragozzi. Tuttavia
sorrise, per accondiscendere alla contentezza dell’amico; lo scusò del
non restare; lo salutò: — A rivederci domani! —; e andò difilato a casa,
a portar la notizia alla Cloe.

— Cugino? — la signora esclamò appunto come si era immaginato Michele. —
Cugino? Allocchi che siete! È l’amante! l’amante dell’arca di virtù! E
il tuo caro amico...

Il marito non la lasciò correre. Trovò necessario interromperla:

— Non può essere! Il capitano da sette anni manca dall’Italia. Non si
fermerà qui che otto giorni... Dunque...

— Eh! si fermerà di più! — ribattè la Cloe. — Di più! di più! Quindici
giorni ci resterà; un mese!... Vedrai! Se pure l’arca non scapperà prima
con lui...

Quale perfidia! Per evitare il litigio Bragozzi s’affrettava a riferire:
che il capitano di lungo corso aveva tre mogli; così e così.

— E la quarta in Italia!: illegittima, questa, e infedele, perchè è la
moglie del tuo amicone. Oh cari!

Il litigio non fu evitato; e nel misero Michele lasciò la consueta
amarezza, il profondo rammarico di chi si sente immutabile sotto una
maligna stella. Per sua tribolazione era arrivato a Bologna adesso anche
il cugino di lungo corso!

Infatti il giorno dopo ecco Varni sorridente, apparentemente beato a
scaricar le geste del capitano.

— Ah che caro giovine! che compagnia!

E qui una massa di fandonie. Bragozzi sorrideva, per compiacere un po’
l’amico che rideva; ma pensava: «no no, Aldo non è così imbecille da
crederci! E spera che ci creda io, imbecille!».

Poi rincasando col proposito di non parlarne più, ecco la Cloe a
provocarlo:

— Come va il cugino? Come va l’amico? Come va la signora di tutti e due?

Basta; passarono finalmente quei maledetti otto giorni, e Bragozzi
attendeva trepidando la notizia: — è partito —, allorchè Varni con
quella sua aria modesta, d’uno che ha una fortuna oltremodo invidiabile,
venne a dirgli:

— Sai? Sto per conchiudere un bellissimo affare d’esportazione e
importazione di merci; col capitano. L’ho indotto a trattenersi altri
otto giorni. Un’idea splendida!

«Mia moglie ci ha colto!» pensò Bragozzi.

— Un affar d’oro, caro Michele! — seguitava Aldo. — Presto si stipula, a
Genova. Fra otto o dieci giorni.

E per una settimana Aldo Varni non si fece vedere al caffè. Quando
ricomparve ahi! non entrò; e fece cenno a Bragozzi d’uscire. Sotto il
portico disse con un tremito nelle labbra — e il sorriso era diventato
una smorfia —:

— Michele! Ho la fortuna d’aver un amico come te, e desidero che tu mi
consigli.

— Per la società col capitano?

Varni scosse le spalle, inquieto. Aggiunse, piano, cessando la smorfia e
assumendo una solennità di dolore imponente:

— Sono stato a Genova, e non li ho trovati!

— Chi?

Ah! Aldo Varni non avrebbe mai pensato che Michele Bragozzi fosse così
poco agile. Certe cose bisogna afferrarle in aria. E gli rincrebbe dover
spiegarsi, dire:

— Lei e lui!

— Oh! (— Mia moglie ci ha colto! —).

— Dubito si siano imbarcati a Napoli...

E l’avevano fatto correre a Genova?

—... Ma io non sono un debole! Io, Michele, sono un forte! — Varni
alzava la voce —: Un forte!; riconosco che la colpa è mia!

— Tua? — Bragozzi (infelice!) non capiva più nulla. Pensava: — Sempre
ragione, lei, mia moglie!

— Colpa mia! Non dovevo trasferirmi qua da Milano! condur qua in
provincia, in questo villaggio, una donna come quella! Così intelligente
e colta! così poetica! così fanatica per i viaggi e le cose
straordinarie! Non dovevo! E se ritorna, io... — che ne dici? — Io sono
un forte! Non ho pregiudizi, io; e perdono!

                                  ***

L’infedele però non tornava. E a poco a poco Varni sembrò cambiar
costume. Senza ritegno si dimostrava abbattuto, affranto; un uomo finito
che non avesse più nessuna ragione per farsi invidiare. E Bragozzi, il
quale avendo sempre bisogno del conforto altrui non trovava mai il
momento opportuno e la parola giusta a consolare gli altri, non sapeva
che si dire. Pensava che Aldo soffrisse in una recrudescenza di dolore;
sentisse ogni giorno più il cordoglio del perduto affetto e il rovello
del tradimento. Invece... Una indigestione val meglio che un sistema di
filosofia a mutare la visione del mondo o la concezione della vita.

— Non vivo più! — mormorò Varni.

L’amico Michele sospirò; e stava per dire quella che per lui era non
verità ma menzogna convenzionale: — Il tempo, amico, è un gran rimedio.
— Ma l’amico:

— Se non trovo una famiglia che preferisca il manzo al cavallo, le ova
fresche alle fradice, il burro di Milano allo strutto rancido, e mi
prenda a dozzina, io muoio! Mi ammazzano al ristorante!

Nè Bragozzi aveva ancora raccolto lo sguardo smarrito a considerarsi le
scarpe, che l’altro già lo colpiva in pieno petto.

— Prendimi a dozzina tu, Michele!

— Io? — esclamò inorridendo Michele. — Con mia moglie?

Voleva dire: con una donna quale il destino mi ha data per rovinarmi
d’accordo con le cuoche che il destino mi manda?

E il discorso cadde. Lasciando però andare in tal modo la proposta
dell’amico, Bragozzi rimase malcontento anche di sè; e pentendosi di non
aver decentemente mitigato il rifiuto, cercò di confortarsi, a casa, con
il rifiuto della moglie, che s’immaginava inevitabile.

Ebbene, Michele disse:

— Il povero Aldo è malato di stomaco. Lo avvelenano all’albergo.

E allora la Cloe disse; disse, subito, la Cloe!:

— Prendiamolo a dozzina noi.

Lei! Così! La Cloe! Chi l’avrebbe immaginato?

                                  ***

E ciò che doveva avvenire, avvenne.

Non più minestre insipide, non più fritti mal fritti, non più arrosti
bruciacchiati, non più dolci inaciditi; nella più perfetta tranquillità
domestica e amichevole armonia Aldo Varni e Michele Bragozzi ora
mangiavano a crepapancia.

Al caffè, dopo la colazione o il desinare, Aldo Varni era felice di
esclamare rivolto a qualche conoscente:

— Oh che cuoca ha l’amico Bragozzi! E che brava, che buona, che
intelligente signora! Che pranzo abbiamo avuto oggi!

Una cosa incredibile, mostruosa, assurda! Aldo Varni voleva essere
invidiato adesso servendosi di colui che avrebbe meritato tanta
compassione! Sì, compassione. Varni, egoista e vano, non comprendeva la
perfidia di quella donna che si comportava così bene solo per il piacere
che le aveva messo in cuore la disgrazia coniugale dell’amico di suo
marito! Non era un’infamia? Un’infamia era! Anche, Michele Bragozzi
soffriva (benchè a pancia piena) delle smentite a tutte le sue passate
accuse. Bel conforto aveva avuto dal confidarsi a Aldo Varni! Varni lo
smentiva di continuo con le lodi alla signora Cloe! Bel ristoro vivere
in quiete a colazione a desinare! La moglie lo smentiva e umiliava di
fronte all’amico, sempre, con simulazione pertinace, con una bonomia,
una dolcezza che tirava gli schiaffi!

Privo di sfogo, offeso nell’amor proprio, stanco del suo maligno destino
Michele Bragozzi incupiva ogni dì più. Nè s’avvedeva di nulla allorchè
la moglie e l’amico cominciarono a guardarlo di sottecchi, ammiccandosi.

                                  ***

Ma... Ma trascorso qualche mese Aldo Varni parlò alla signora Bragozzi,
in tenero colloquio; seriamente.

— Senti, Cloe. Ogni marito deve sospettare della moglie se si dimostra
troppo gentile e affettuosa con lui. Tu cerca di esser meno buona con
Michele.

— Impossibile! — esclamò, tutta amore, la Cloe. — Ora gli voglio tanto
bene, a mio marito!

— Appunto... Pròvati, anche per amor mio, a non metterlo in sospetti che
gli faccian male.

Ella dovè promettere. E usò, nella prova, di un’audacia, di una
sfacciataggine...!

Attaccò l’infelice Michele incolpandolo di gelosia.

— Sei geloso di Varni: capisco! Lo so! Vergognati! ecc. ecc.

A colazione, dispetti; a desinare, sgarberie; a tutte le ore, rabbuffi,
povero Michele! Egli tornava all’infelicità di prima; aveva da
sodisfarsi ora della cattiveria di sua moglie.

Troppo anzi! Troppa grazia! Aldo Varni temè che il mutamento della Cloe,
repentino e grave, scoprisse il gioco al marito; e per non
compromettersi compiangendolo del tutto, fu riserbato. Disse:

— Tua moglie è nervosa, ma non è cattiva. Solo, bisogna saperla
prendere.

Saperla prendere! Bragozzi scattò in ogni nervo. Saperla prendere?
Dunque l’intimo amico scorgeva in lui un difetto di tattica? Dunque non
vedeva in lui una vittima del destino che l’aveva ammogliato in tal
modo; non lo riteneva un martire innocente? Dunque non lo stimava degno
di compassione libera e profonda? Ah piuttosto che essere giudicato
così, e da uno che aveva voluto essere invidiato per la sua propria
felicità coniugale un tempo e invidiato dopo per la felicità coniugale
d’un infelice, egli, Michele Bragozzi, arrivò dove non era arrivato mai;
arrivò a riconoscere fino una virtù di sua moglie! E attese con
desiderio il momento della riscossa.

Scattò eppur tacque quel giorno. Quando però, alcuni giorni dopo, Varni
lo compianse: — Tua moglie oggi è davvero intollerabile! — Bragozzi,
quasi dicesse: — invidiami giustamente una buona volta! —, ribattè
pronto:

— Ma almeno lei è onesta!



                        UN MARTIRE DELLA VERITÀ


— Peralti! — esclamarono gli ascoltatori. — Carmelo! Il nostro Carmelo!

Già: Carmelo Peralti, il loro compaesano, da qualche anno entrato nella
Pubblica Sicurezza e perciò rinnegato da tutti.

E Silvio il sarto riprese a leggere nel giornale la gran notizia, ora
incespicando e ora affrettando come se le lettere, dopo l’intoppo,
godessero di lasciarsi afferrare dagli occhi e dalle labbra:

— «... la guardia Peralti, senza far uso della rivoltella, acci... uffò
gli altri due teppisti e riuscì a trattenerli uno per mano, finchè
sopraggi... unsero in aiuto due soldati d’artigli...eria e li
arrestarono».

— Capite? Uno per mano! — gridò più che mai rubicondo e giocondo
Colamosto il calzolaio. — Si chiama forza! si chiama coraggio!

Che notizia! che fatto! E che onore per il paese! che gloria!

— Gli daran la medaglia di sicuro! — diceva uno.

E un altro: — Ci vado anch’io alla funzione, quel giorno. Carmelo è mio
cugino.

E un altro:

— Lo inviteremo qui per la festa d’agosto. Berremo! Bravo, Carmelo!

Grappanera aveva ascoltato zitto e cheto attendendo che ammirazioni e
commenti gli consentissero di parlare. Allora, al punto buono, battè la
pipetta su la costa del paracarro per vuotarla della cenere; la riempì;
accese uno zolfanello e mentre lo zolfanello ardeva, egli, fra sonore
aspirazioni, cominciò:

— Quand’ero giovine, a Verona... in una osteria..., che litigavano...

— Non dirla troppo grossa! — l’esortava Pannocchia, piano, in
confidenza.

Senza badare alle facce beffarde della compagnia, con l’usata
naturalezza e semplicità, con quella sua aria di modestia, Grappanera
seguitò:

—... io ne presi tre per il petto, in una volta.

Era andata; e non era più possibile nè ritirarla nè mutarla.

Oh! uh! Parve fosse scoppiata una bomba che avesse la virtù di far
ridere l’universo.

— Bum!... Fanfarone!... Spaccone!... —: tale l’ammirazione che il povero
Grappanera suscitava per sè. Acceso dall’ira nella faccia patita, egli
tuttavia si sforzò a contenersi; a ingoiare.

Il medico gliel’aveva cantata chiara da un pezzo: — Sei tocco al cuore.
Se ti arrabbi, ti ammazzi. Ma come non arrabbiarsi? Bisognava pur
difendersi, difendere la verità!

Onde, deposta la cesta che aveva già infilata al braccio per avviarsi e
non pregiudicarsi quanta salute gli restava, tornò indietro. Gridò
gemebondo:

— Uno, ne presi, con questa! — E alzò la mano destra perchè gli
increduli la vedessero bene.

— Uno con questa!... — e alzò la mancina.

— E il terzo? — chiesero più voci spietate. D’impeto, in un atto solo
Grappanera fece come un bue che abbassi la testa a cozzare o un cane che
s’avventi a mordere. — Ham! — Sissignori: così, con la testa, la bocca,
i denti — mentre ne teneva due con le mani — egli aveva afferrato per il
panciotto il terzo dei litiganti, a Verona, in gioventù.

Non era una cosa possibile? verosimile? Vera!

— E dopo? — Pannocchia chiese serio, quasi per sapere ciò che più
importasse. — Chi lo rammendò, dopo, lo strappo al panciotto?

Ridevano tutti, sguaiati; schernivano cattivi oltre il solito.

Il martire finalmente fu costretto a partire con la cesta sotto il
braccio. Ma allorchè svoltava dalla Porta Montana, si rivolse; e
agitando la sinistra, per disperato ammonimento più che per rimprovero,
rispose ai dileggi con tutta la voce che aveva, con voce di pianto: — Mi
fate morire! — E disparve.

                                  ***

Ogni giorno dopo desinare la compagnia veniva là all’ombra dei tigli
fuori Porta Montana a passar l’ora del riposo, o, come dicono in paese,
l’ora di Sant’Agostino. Leggevano il giornale; conversavano;
disputavano, se non di teologia, di politica, scienze ed arti, sdraiati
su l’erba: Silvio il sarto; Colamosto il calzolaio; Pannocchia il
sensale; Volturno Schiza, che sapeva di ogni mestiere e d’ogni cosa, e
qualche ozioso di buon umore. Con la cesta delle paste dolci e delle
mosche — perchè il velo che avrebbe dovuto proteggere quelle da queste
era tutto buchi e le mosche passandovi entravano a deliziarsi senza
farsi scorgere — ci veniva anche Grappanera; smorto; quasi terreo; i
baffi grigi spioventi; il berretto da ciclista sulle ventitrè. Talvolta
recava il liquore di sua privativa, squisito e benefico nelle digestioni
difficili; ma egli tornava gradevole più spesso con invenzioni d’altro
genere. Perchè Grappanera non diceva mai bugie; solo che le verità che
diceva, se le inventava lui. I fiori, le fronde, i frutti della sua
fantasia portentosa avevano sempre un fondo di realtà o di ragione; le
storie che narrava, le avesse concepite ascoltando da altri fatti o cose
lontanamente consimili, o risultassero da sparsi elementi di verità
certe a tutti e da lui ricomposti quasi per cerebrazione inconscia, le
sue storie si specchiavano nella fantasia, da cui sorgevano, in un
riflesso di illusione così vivida che il primo a crederci era lui; e vi
giurava sopra, sicuro di non dannarsi l’anima. Ma a che valevano i
giuramenti? Coloro là non gliene mandavano buona una. Nè egli poteva
staccarsi da coloro, ch’erano la sua morte, appunto perchè chi ama la
verità è trasportato dove più la verità è combattuta, misconosciuta,
negata, spregiata.

Ignoranti! cocciuti! barbari!

— Abbiamo o non abbiamo la testa per ragionare? — egli protestava ogni
giorno; e si raccomandava invano: — Per carità, ragioniamo, ragazzi!

Ragionando, non sarebbe parso naturale che un uomo lungo e magro, come
era lui ora, avesse avuto molta forza un tempo? Si sarebbe forse
ammalato di cuore se non avesse molto esercitato sangue, muscoli e
nervi? E ciò considerando, non riuscivano ammissibili le sue geste? Che
c’era di impossibile, per esempio, nella paura che aveva fatto prendere
a due ufficiali, a Verona, al tempo degli austriaci?

Aveva una bella amorosa e una sera le venne sete, a lei.

— Andiamo al caffè? — Andiamo. — Mentre attendevano il cameriere, i due
ufficiali, che sedevano al tavolino dirimpetto, cominciarono a guardar
la giovane, a sorridere, a strizzar l’occhio.

— Uf! che caldo!

Bolliva dentro, Grappanera. In bel modo bisognava avvisar quei signori
che se al caldo di fuori s’aggiungeva ancora un po’ più di caldo dentro,
essi, quella sera, andavano a casa con la testa rotta. E che pensò lui?
Prese con le due mani a una estremità la tavola di marmo, la sollevò e,
come altri farebbe con una cartella, — Uf! che caldo! —, con quella egli
si mise a sventolarsi... Semplicemente. Chi non avrebbe capita la
minaccia? I due ufficiali la capirono benissimo.

Ma ecco: — Marmo tarlato! — commentava, serio, Pannocchia. Ecco il
martirio: Pannocchia il sensale dava sempre spiegazioni così
strampalate, aggiunte così spropositate, prove così buffe ai racconti di
Grappanera, che la verità ne restava oppressa e schernita, nonostante i
richiami alla ragione. Si degnava di ridere a crepapancia anche Volturno
Schiza. Per il ridere Colamosto si contorceva come in convulsione, su
l’erba.

Al chiasso i curiosi accorrevano.

E: — Mi fate morire! — doveva concludere il povero martire, scappando
con la cesta delle paste e delle mosche.

                                  ***

Perciò da un pezzo Grappanera si era imposta una norma che non avrebbe
più trasgredita se non l’avesse provocato ad emulazione la guardia
Peralti. Volendo a un tempo risparmiar disordini al suo povero cuore e
persuadere che lo moveva il più disinteressato amore della verità,
sopprimeva sè stesso nei racconti ove avrebbe potuto o dovuto figurare
quale prima parte; compieva il sacrificio di sostituirvi «un mio amico»,
«un tale di mia conoscenza».

Così faceva narrando del tempo che, come tutti sapevano, era stato
soldato in Austria per servizio obbligatorio, negli ulani.

Certa nave trasportava una volta un reggimento di ulani giù per quel
fiume cui dicono Danubio e che supera il Po, l’Adige e dieci altri fiumi
dei nostri insieme.

Quand’ecco nella vecchia carcassa tedesca l’acqua cominciò a penetrare
da molte bande. Mano alle pompe, agli stracci, al catrame, alla stoppa
per turare i buchi. Presto! Si corre, si grida, si suda. Invano. Ha una
forza, una spinta che non s’immagina, l’acqua del Danubio! E se
seguitava a introdursi a fiotti, non c’era da dubitare che si andrebbe a
fondo, col rischio di finire in bocca a una balena; a una balena del
Danubio.

Ma allora a un soldato, un ulano «di mia conoscenza», venne una buona
idea. Nell’alzar gli occhi al cielo per raccomandarsi l’anima, vide che
dal cielo della stiva pendevano dei lardoni.

— I lardoni! — feci io. — Mettiamo dei pezzi di lardo subito, contro i
buchi! Presto, chi di qua, chi di là....

E fu la salvezza.

— E i sorci — aggiunse Pannocchia —, che in Austria sono dieci volte i
nostri e hanno anche più giudizio, non mangiarono il lardo per non
essere mangiati dalle balene del Danubio.

Risa, clamori, contorcimenti della compagnia: questo il premio al
sacrifizio di Grappanera.

— Mi fate morire!

Nè meglio giovava al martire ricorrere a storie che non contenessero
proprio nulla della sua biografia ed escludessero ogni suo vanto diretto
e indiretto. Quale relazione, per esempio, sarebbe stata da scorgere tra
lui e il gran maresciallo Mac Mahon?

E raccontava... — (l’aveva intesa da persona degnissima di fede) —
raccontava che Mac Mahon, dopo la vittoria, passò col suo seguito
davanti a una masseria dove stavan prigionieri duecento tedeschi, circa.
E il maresciallo ordinò al capitano di guardia di condurgli i
prigionieri a Magenta.

— Ma, generale, siamo in dodici tra graduati e soldati!

Come avrebbero potuto, dodici militari, scortar duecento nemici, circa,
con armi e bagagli, e senza che si ribellassero o scappassero?

Mac Mahon pensò un momento e poi... Bella idea!

Comandò di chiamar fuori a uno a uno i prigionieri; a uno a uno fece
staccare il bottone che ne reggeva le brache alla cintola. E in tal
modo, dovendo reggere con una mano il fucile e con l’altra le brache, i
duecento prigionieri, queti come agnelli, furono condotti a Magenta da
sola una dozzina d’uomini.

Gli ascoltatori naturalmente risero. Ma non avrebbero riso che per
l’astuzia di Mac Mahon se Pannocchia, il quale nel ’59 aveva ancora da
passare due anni prima di nascere e non sapeva nemmeno in qual parte del
mondo Magenta si trovasse, non avesse aggiunto, serio serio:

— Me lo ricordo anch’io Mac Mahon a Magenta!

Or fino a un certo segno è compatibile l’ignoranza che non presta fede
alle opere umane, ma non è poi compatibile chi non crede al caso, quando
ogni giorno si vedono avvenire per caso i fatti più straordinari.

E coloro là non ammettevano neanche la storia del merluzzo!

Con la sua cesta al braccio, Grappanera andava un giorno per i monti, e
in un luogo solitario scorse rilucere una pozza d’acqua, e risplendervi
dentro una cosa...; un animale, enorme, che pareva d’argento. Si
accosta. Immaginate! Era... un merluzzo!

Ma chi, dal mare, l’aveva portato e messo lassù in montagna, in una
pozza, un pesce di mare così grande? Questo il problema.

— Un colpo d’aria — rispose Volturno.

E Grappanera, pazientemente:

— Non ci sono cicogne a questo mondo? Non falchi? non aquile? Uccelli,
insomma, così robusti da pigliare un pesce, un merluzzino, in mare e
portarlo in montagna per divorarselo in santa pace? Il pesce, però,
preso da uno di questi uccelli, dovè pensare alle faccende sue e battere
e sbattere la coda disperatamente; l’altro aperse un momento il
becco...; e il merluzzino scappò, cadde. Per caso, proprio là sotto dove
cadde, stava una pozza d’acqua. Il problema era risolto.

— E se te lo mangiasti tutto te, il merluzzo, quanta grappa nera ci
bevesti dietro? — dimandò Pannocchia.

Schernivano ormai per partito preso. Inutile, oramai, qualsiasi
discorso.

                                  ***

Ma non solo per questo Grappanera pativa sino al martirio: pativa non
tanto perchè non credevano alle verità che diceva lui, quanto perchè
credevano ciecamente alle fandonie che dicevan loro e che imparavano dai
libri e dai giornali. Questa la sua maggior passione: di non riuscir a
convincerli delle bugie, delle assurdità stampate.

Ah la storia dei canali di Marte!

Un giorno lui, Grappanera, arrivò al convegno mentre Silvio il sarto e
Volturno Schiza disputavano, sostenendo l’uno che la gran stella che
accompagna il sole al nascere o al morire si chiama Marte, e l’altro che
si chiama Venere. La questione non gl’importava molto; e lui,
Grappanera, tacque in attesa che la finissero. Come non la finivan più,
disse:

— Pensate che se ne abbia permale lo stellone del dì o della sera, se
non gli date il suo nome giusto?

Ma Silvio gli si rivolse contro.

— Tu non sai niente! non sai che se è proprio Marte, lo stellone è
abitato da gente come siamo noi, tale e quale!

E Volturno confermò:

— Gli scienziati con il cannocchiale ci han visti dei canali come i
nostri, con gli argini come i nostri, tali e quali! L’ho letto io nel
libro di mio figlio, che fa la quinta!

Capite? Perchè il libro di suo figlio, che faceva la quinta, diceva
così, bisognava crederci quasi fosse Vangelo! E perchè gli scienziati ci
avevan visti dei canali in Marte, Marte (guai a non crederci!) era
abitato.

Ma quel giorno Grappanera ebbe un’idea così giudiziosa che chiaramente
dimostrava agli amici quant’erano chiù. Disse:

— Bene. Figuriamoci dunque d’esserci noi lassù, nello stellone, a
guardar giù, alla terra, con il cannocchiale. Vi credete voi che
diremmo: — Laggiù, in quella stella, che si chiama Terra, ci han da
essere degli uomini fatti come noi perchè ci si vedono dei canali con
gli argini? No! no! Diremmo: — Quella cosa lunga là, cos’è? Una torre!
Quell’altra? Un campanile! Quell’altra? Il camino d’una fabbrica! —
Questi sono i segni più visibili della mano dell’uomo; questi sono i
segni che non ingannano. Ecco perchè la terra si può dire abitata. Altro
che i canali, chiù che siete!

Ma no e no: non rimasero persuasi della ragione; gli diedero
dell’ignorante a lui, povero martire!

                                  ***

Le invenzioni sopra tutto contribuirono ad affrettare la fine del
martirio; e tre furono i presunti miracoli che la ragione e il cuore di
Grappanera non poterono assolutamente comportare.

Primo; l’aeroplano. Allora, poco più che un quarto di secolo fa, nessuno
degli scienziati solenni avrebbe ammesso quale possibile invenzione che
un corpo più pesante dell’aria non solo volasse ma si dirigesse alla
sicura per il cielo. Era dunque da rimproverar Grappanera se, per solo
amore della verità, sosteneva che la notizia di cotesta invenzione non
era bevibile? che il giornale letto dal sarto conteneva balle di bugie?

Palloni se ne eran visti tanti a volare, anche con uomini dentro, che
egli ne avrebbe ritenuto possibile uno grande come la cupola di San
Pietro a Roma, e capace di portar, magari, due o tre famiglie, purchè il
pallone andasse a suo capriccio. La macchina invece descritta nel
giornale di Silvio — un’automobile con le ruote, le ali e il motore —
andava dove voleva chi c’era sopra.

— Ragioniamo! Per andar dove si vuole è o non è necessario un appoggio?
la terra, ai piedi e alle ruote; l’acqua, alle barche e ai bastimenti?
Ma la terra e l’acqua sostengono i meccanismi di direzione perchè esse
si toccano, si sentono, si prendono. Prendete in mano dell’aria se siete
buoni!

A tagliar corto la disputa, Colamosto ricorse agli uccelli.

Quasi che gli uccelli non avessero l’anima fatta apposta per volare e
non l’avesse inventata chi ne sapeva più di un giornalista: Domineddio!

Ma il guaio fu che la disputa d’aeronautica si tirò dietro la seconda
delle dispute più grandi e funeste, quando poi Volturno Schiza parlò,
rivolto a lui, il contradditore: — Tu l’altro giorno dicevi: — prendete
in mano dell’aria se siete buoni! — E oggi io ti dico che l’aria si può
liquefare, e se si può farne un liquido, si potrà anche prendere in mano
dentro una bottiglia o un bicchiere! L’ho letto io nel libro di mio
figlio, che fa la quinta.

Grappanera si provò a ridere a questa fola come loro ridevan delle sue
verità. — Ah! ah! l’aria liquida! l’aria in bicchieri, l’aria in
bottiglie! Non era buffa?

Ma anche il ridere gli sconquassava il cuore. Tacque. Riflettè. Trovò il
modo a dimostrar l’errore di quei creduloni: di nuovo per assurdo, da
perfetto dialettico.

— Se l’aria, che è un fiato...

— Un gaz, vuoi dire — corresse lo Schiza.

— Se l’aria, che è un gaz, si può ridurre a liquido, il mio liquore, che
è un liquido, si potrà ridurre a gaz. Bene! Me lo paghereste due soldi,
voi, un bicchierino di gaz? E io potrei dire: il mio gaz guarisce lo
stomaco?

Furono convinti dell’errore, per assurdo? Ma che! Meno che mai!

— Mi fate morire!

E la terza delle più funeste invenzioni...

Era vecchia, ma disgraziatamente se ne discorse la prima volta pochi
giorni dopo che Grappanera aveva tanto sofferto in causa della guardia
Peralti.

Si discuteva, a proposito di un truce delitto, intorno alla pena di
morte. E Volturno asserì — e gli amici confermarono — che in America
hanno una curiosa maniera di punir gli assassini e liberarsene.

Raccolgono due o tre fulmini in una scatola, raccostano al condannato,
che senza sospettar di nulla sta a sedere tranquillamente in una
poltrona, toccano una molla, i fulmini sbalzan fuori..., e giustizia è
fatta!

Colamosto disse, tutt’allegro:

— Presto o tardi questo sistema si userà anche qui da noi.

E Silvio:

— La mannaia e la forca erano un’infamia!

E Pannocchia:

— Ma così, con quella cassettina, dev’essere un piacere anche fare il
boia!

Grappanera era rimasto a bocca aperta. Se ci son cose al mondo
infrenabili, inafferrabili, che scappan da tutte le parti, sono le
saette. E coloro credevano si potessero raccogliere e metterle in una
cassettina come le anguille! Quando si arriva a questo punto, a dover
udir questo, non c’è neppur più da augurarsi di campare. Meglio andar in
un altro mondo dove non si stampino fole di tal sorta e non ci sia
nessuno che ci creda!

Grappanera, quand’ebbe chiusa la bocca, prese la sua cesta e si avviò
ansimando ma in silenzio. Quando fu alla Porta Montana si rivolse;
ripetè il solito disperato gesto, ma non disse: — Mi fate morire! — E
disparve.

Il giorno dopo, all’ora di Sant’Agostino, la campana della parrocchia
avvisava la solita compagnia che egli era passato da questo mondo pieno
di menzogne alla verità eterna.



                               IL VITELLO


                                                            _20 luglio._

Ma sì! Per il mese che potrò restarci in riposo e quiete il luogo mi
piace. Pura l’aria che cala dai monti e sale dal fiume; bella la vista
dalla mia finestra; fresche le ombre d’intorno: un senso d’antica pace
contiene questa vecchia casa dai muri massicci. E i padroni di casa son
ricchi d’antico stampo, ricchi che lavorano la terra e mostrano
nell’onesta faccia e nei modi franchi una semplicità cordiale. Non ci
siamo mai visti prima d’oggi, e ci siamo riconosciuti subito. I due
vecchi — il reggitore e la reggitora — m’han chiesto tante scuse non so
di che, asserendo per altro che qui starò benone; nè m’han detto d’aver
dubitato che rinunciassi a venir da loro perchè ci hanno, in casa, una
parente malata. La casa è così grande! E io non debbo darmene pensiero;
non debbo nemmen sapere in che camera giaccia quella poverina: debbo
godermi senza fastidi la bella campagna, e nessuno mi disturberà. Sono
libero! solo!

A Francesco, il padron giovine, che è lui di fatto il reggitore della
famiglia o il direttore dell’azienda, è bastato avvertirmi che sarà
sempre pronto a’ miei comandi; e lo zio e il garzone, più timidi, e gli
operai mi fanno scappellate da lungi, e zitti. Quanto a Reno, il
compagno che avrò sempre fido, mi dice tante cose, ma senza parlare. È
un grosso cane dagli occhi malinconici, dal muso lungo e dal cranio
appuntito: intelligente, e anche con lui ci siamo riconosciuti subito.
S’avventa furioso agl’intrusi; me, mi ha accolto scodinzolando, quasi
sapesse che sarei arrivato, e mi promette un affetto immenso in ricambio
di qualche tozzo di pane. Degli altri animali, non ho da temere nessun
disturbo. La cascina con la stalla piena di buoi è discosta; la
cavallina pascola queta nel prato; la scrofa e il degno figliuolo si
imbrattano lontano... Ho visto, tra le galline, i galletti, i tacchini e
le anitre, un’oca; ma che ha a fare un’oca con un letterato che usa
penne d’acciaio?

Dunque pace e libertà; ozio e beatitudine!

... Quale sarà la camera dell’inferma?

                                                            _22 luglio._

Ieri, mentre desinavo al rezzo, è capitato il medico condotto. Saluti;
pochi complimenti. Gli ho chiesto: — È grave? — Non ha potuto negare che
è uno di quei casi in cui la scienza si rimette ai decreti della natura;
però ha soggiunto: — È robusta, e tirerà innanzi un pezzo. — Come a
dire: — Stia pur tranquillo; stia allegro. Morirà quando lei non sarà
più qui. — Benissimo! — Buona sera, dottore!

... La sera, quando sono andato di sopra, ho guardato all’uscio in fondo
alla loggia. È sempre chiuso: deve essere là.

                                                            _24 luglio._

Io sto bene. La mattina mi alzo col sole e la frescura mi ravviva il
sangue per tutta la giornata. A un’ora di sole, come dicon qui, una
carrozzella viene a prendermi e mi guida lungo il fiume, per una strada
deliziosa, allo «Stabilimento». E faccio un bagno grato quanto un
lavacro spirituale. Al ritorno, la colazione, bevendo acqua eccellente e
vino idem, mi persuade meglio di un volume di Tolstoi che la felicità
sta in noi. Posso abbandonarmi, io, anche a una dormitina di alcune ore.

E segue, nel pomeriggio, la lettura dei giornali. Politica, scandali,
delitti, informazioni sfuggon di sotto agli occhi senza lasciar tracce
nella memoria. Nè si dica che l’ozio annoia. Un filosofico benchè muto
colloquio con Reno, quando non mi sonnecchia a lato; una capatina nel
frutteto dove anneriscono certe prugne e s’indorano certi fichi da
Paradiso Terrestre; un’occhiata ai lavori dei campi; un po’ d’attesa a
chi passi per la via —, e giunge l’ora di desinare. La sera, vengono a
trovarmi conoscenti vecchi e nuovi, e si chiacchiera, si fuma, si beve,
si gusta la bellezza del firmamento, e si ride. C’è uno il quale ride
con tale impeto che deve udirsi anche nella camera più recondita della
casa...

Lo so! lo so! La Morte, nel suo transito fatale e perenne, guarda a
questa casa di buona gente.

— _Tutto mio, tutto mio_ — canta da presso la civetta.

Ma: — Non ci badi — mi dice il reggitore. — È il suo verso.

                                                            _25 luglio_.

Effetto d’assuefazione: il ricordo dell’inferma, ridestato in me dal
quotidiano apparir del medico, non mi dava più che una tenuissima noia.
Non c’è beatitudine perfetta; e Reno, per esempio, non manca di pulci.

Se non che la paesana che mi serve da cuoca ha vinto finalmente la
soggezione, ha sciolta la lingua e mi ha avvelenata la colazione,
stamattina.

— Sa? — mi ha detto. — L’ho vista...

— Chi?

— L’ammalata.

— Ebbene?

— Vedesse com’è ridotta! Era una bella donnona, ma adesso... Patisce
pene d’inferno. Eppoi, ha una paura...

— Paura di che?

— Teme dar disturbo a lei. Quando si lamenta, per il male, si sforza
perchè lei non senta...

Per poco io non ho gettato a Reno tutta la bistecca. E la cuoca ha
seguitato:

— Esser ridotta così, agli ultimi anni, che avrebbe potuto passarli
bene! Perchè ha dei quattrinetti. Staremo a vedere a chi toccheranno.

Intanto io pensavo...

E l’altra puntando l’indice al naso e facendomi la confidenza a voce
sommessa (non è una chiacchierona):

— Gli eredi, vedrà, saranno questi parenti qui, sebbene ne abbia degli
altri, più stretti. Ma di chi la colpa? Ha una nipote, figlia di sua
sorella, che è in bisogno. La nipote, appena lei cominciò a patire, se
la prese in casa per curarla meglio, diceva. Invece un bel giorno le
ragazze, le figliole, aprirono cassa e armadio e se ne spartirono i
panni, come fosse già morta. Son cose da fare? Un po’ di prudenza ci
vuole, di pazienza! E l’ammalata se ne addiede; mandò a chiamare il
reggitore, questo qui, e si fece portar via. Allora la nipote mise di
mezzo un frate...

Io pensavo...

—... un frate che la consigliasse a far testamento e a lasciar tutto a
lei. Il testamento l’ha fatto, ma — l’ho saputo da un testimonio — alla
nipote gli toccheranno solo cento scudi.

Io pensavo: «Se ammalato fossi io, in questa casa, e quella poverina
fosse sana, non verrebbe forse a salutarmi qualche volta? a farmi
coraggio?».

— Le avete fatto coraggio? — ho chiesto alla cuoca.

— Sì. Le ho detto: — quel signore che è qui vi vuol presto nel prato a
conversare con lui.

— E lei?

— Ha voltato la testa, ha ficcato la faccia contro il cuscino, per
pianger piano...

                                                            _27 luglio._

Dimani la voglio fare, la mia visita di pietà. La voglio fare! La debbo
fare! A ogni costo.

                                                            _28 luglio._

Oggi è domenica, e l’inferma ha avuto altre visite e parole di
consolazione; attimi, forse, di speranza. Tra gli altri che son venuti a
trovarla c’è stata la nipote vedova, quella avida dell’eredità, e a
vederla si direbbe una buona donna; ma che non fa il bisogno? Essa, che
è sorda e sorride come i sordi, ha rotta la consegna di non avvicinarmi;
è venuta a chiedermi se sto bene, per susurrarmi che l’ammalata sta
male. — Male! male! Non camperà una settimana. Il dottore non capisce
niente.

                                                            _31 luglio._

Anzi il dottore ha capito subito la mia intenzione. Alla dimanda: — È
molto peggiorata? —, s’è prima stretto nelle spalle, significandomi che
talvolta la natura non s’appaga di vincer la scienza ma vuol anche
corbellarla; poi ha detto: — È meglio che lei non la veda.

Consiglio disinteressato! La vista dolorosa potrebbe, infatti, guastarmi
il sangue. Ma io, risolutamente, ho imposto a me stesso un _aut-aut_:
domani o vederla o partire!

                                                             _1 agosto._

E stamane la cuoca mi ha chiesto:

— Ha sentito? questa notte?

Anche le notti scorse, svegliandomi di soprassalto, ho teso l’orecchio,
se mi giungesse qualche gemito, e non ho mai udito nulla.

— C’è stato il prete tutta notte.

Il prete? ad assisterla? Avrà dunque perduta la coscienza. La mia visita
sarebbe ormai inutile...

Che sollievo!

Ma per tutto il giorno ho dubitato. — È morta? — La reggitora e il
figliuolo mi sfuggivano; il vecchio m’ha parlato del tempo, e che non
piove, e che mancherà presto il mangime alle bestie... Sempre disgrazie!
Però nella faccia onesta leggevo una maggior pena: quella di non aver
saputo e di non sapermi preparare all’evento. Egli e i suoi si sentono
in colpa verso di me. Turbare la mia quiete così!

A sera ho scorso la vecchia salir frettolosa le scale con un bicchierino
di vin santo...

                                                             _2 agosto._

_Tutto mio! tutto mio!_ È morta.

                                                             _3 agosto._

Sono casi, ma strani e perciò notevoli. Ieri sera Reno — non ci fu verso
— ha voluto salir con me, s’è accucciato presso il mio letto e v’è
rimasto tutta notte. Abbiamo dormito poco e male.

Oggi ho chiamato Francesco, il giovine, e gli ho detto sottovoce:

— Non vi date pensiero. Quando la porterete via, andrò per il campo.

Egli mi ha sorriso e, al tempo stesso, ha lasciato scorrere per le
guancie abbronzate due lagrimoni.

Ha detto:

— Lei badi a Reno. — Poi, come a un amico:

— Alla disgrazia ci eravamo preparati; ma adesso cominceranno i guai,
per quel po’ di roba...

                                  ***

Via! Il diavolo non è mai brutto come si dipinge, ossia la Provvidenza
non manca mai. Non dico per me: io ho mantenuto la parola, nè mi sono
afflitto troppo, per non dar dispiacere ai miei ospiti. Dal campo,
lontano, ho sogguardato al trasparir delle fiammelle, tra gli alberi; e
tenevo in chiacchiere Reno perchè non uggiolasse.

E dopo, anzi, mi sono quasi divertito.

Persiste in questi luoghi l’uso della cena funebre, a cui s’invita la
parentela e che, con una bella scorpacciata, accorda in piena cordialità
le necrologie. Però qui minacciava la questione del testamento, noto per
l’indiscrezione dei testimoni. Anche coloro che nulla ne speravano
temevano da un momento all’altro il conflitto fra la nipote vedova e
sorda, o i suoi figliuoli, e i presunti eredi.

Dalli e dalli, chi con dire: — La poverina ha finito di soffrire — o: —
Ha fatto il suo purgatorio in terra —; e chi con aggiungere: — Adesso
sta meglio di noi — o: — È in Paradiso di sicuro — la sorda ha udito e
non ha potuto contenersi.

— In Paradiso ci sarà andata se avrà fatto le cose giuste.

Le ha risposto Francesco, il giovinotto:

— Non sta a noi giudicare.

Ma ha ribattuto un figlio della vedova:

— Sta a chi ha nelle vene più sangue della sua gente, di lei. Gli eredi
dobbiamo esser noialtri! Siamo noi i parenti più stretti!

E il reggitore, il vecchio:

— La roba si lascia a quelli che la meritano, a quelli che ci voglion
più bene!

— Bravo! — ha esclamato un Tizio rompendo la neutralità.

— No! — ha esclamato un altro, il quale deve trovarsi in cattive acque:
— Si aiuta chi ha bisogno! Se no, il diavolo ride!

Così il conflitto è presto diventato una mischia di voci virili e
femminili. Già sormontava qualche bestemmia romagnola. Il sangue
romagnolo ribolle per poco; e qui non si trattava di poco, ma di più che
diecimila lire: nella Cassa! — Si sa! — Lo sappiamo! Dov’è il libretto?

— Il libretto — ha gridato Francesco — l’ho io in consegna e lo darò a
chi di ragione!

Intanto anche Reno ringhiava. Il baccano degli uomini e delle donne
offendeva il suo senso bestiale.

                                  ***

— Oh! reggitore! Francesco! correte!

E la voce del garzone ha soggiunto, anche più forte:

— Portate del sale! Correte!

Che cosa è successo? Che cosa succede?

Accorrono con la lanterna, col lume; anch’io accorro, tra gli altri,
uomini e donne, nella stalla. Quivi le voci irose si mutano in
esclamazioni di meraviglia o d’invidia... Una vacca ha partorito, zitta
e quieta, un bel vitello! Com’è grande! Vedo il vecchio cosparger di
sale il neonato e la madre lambirlo, leccarlo, tutto molle, con materna
tenerezza.

— Chi va e chi viene — osserva il vecchio sorridendo e rialzandosi.

E le parole del saggio inspirano d’improvviso il padrone giovine.
Francesco, in mezzo agli astanti, chiama la vedova. Dice:

— Sentite, Rosina. Non sta a noi giudicare la volontà di quella che se
n’è andata. Avrà fatto le cose secondo la sua coscienza. Ma per amore di
quella che se n’è andata, voi l’accetterete da noi, quando sarà da
vendere, questo che è venuto proprio adesso, come mandato da Dio a
metter pace tra di noi?

La sorda resta un po’ estatica, con gli occhi fissi, quasi dubiti di
aver male udito; poi si getta singhiozzando nelle braccia di Francesco.

Un brivido fugge per i rudi nervi degli astanti; a qualcuno s’arrossan
gli occhi. Si mormora: _bravo! bene!_ Parecchi si abbracciano.

                                  ***

... E andiamo a letto contenti tutti. Io ho in cuore una tenerezza...; e
mi par di vedere la puerpera leccare e tener caldo col fiato il suo
figliuolo.



                                 ZVANÒN


Lo rivedo ancora bene — Svanòn — nella penombra della memoria: alto,
massiccio, imponente quale un gigante a me bambino, e strano per gli
occhi chiari cilestri in contrasto con il viso bruno e i baffi e i
capelli neri. E ne ho precise in mente le parole, perspicue le
attitudini di quando la mia anima e la sua ebbero dalla sorte una
vicendevole tragica apprensione. Ma poco o nulla io ricordo dei suoi
modi con gli altri; non so se agli altri apparisse temibile come a me,
eppur buono; se con gli altri ridesse come con me quasi cedendo a una
giocondità improvvisa; se la dolcezza del suo sguardo fosse turbata
spesso, non fosse più di un fuggevole consenso alla debolezza e alla
letizia delle piccole creature.

Era, nella famiglia patriarcale, il secondo o terzogenito. Dei cinque
fratelli solo il più attempato aveva donna, con parecchi figliuoli
giovani già fatti, allorchè s’ammogliò il quintogenito, di cui non
rammento neppure il nome. Più che il nome — Adalgisa — rammento invece
della novella sposa: il sorriso che pareva splendere da tutta la sua
persona; un’imagine di luce nella oscura casa campestre, tra la
reggitora vecchia cadente, la cognata oppressa dalle faccende
famigliari, gli uomini rozzi. E nel campo, tra il verde...: così: la
scorgo, la Gisa, venir dal rio per la costa recando sul capo il cesto
della biancheria lavata e tenendolo con le braccia nude; la gonna rossa
sostenuta da un lato, alla cintola, per aver libero il passo, e una
gamba fin quasi a mezzo scoperta; i capelli biondi scomposti, e il sole
che pareva tutto per lei.

Quanto tempo era trascorso dal dì delle sue nozze a quello che lei
s’impresse così vivamente nella mia memoria puerile?

Forse non più di un anno.

                                  ***

Quel giorno avevo ottenuto il permesso d’andar con la Gisa al rio.
Lavando, cantava ad alta voce; ma nessuno udendola avrebbe dubitato
cantasse a voce tant’alta per essere udita lontano — era lieta, era
bella —; nè a me bastava l’età della discrezione, a cui ero appena
giunto, per concepire tal dubbio allorchè, con un rumore di frondi
rimosse a un impeto, vidi arrivar Tito: Tito del Mulinetto, che veniva
qualche volta alla villa a giuocare alle bocce coi contadini.

Egli si adagiò su la riva mentre la donna sciacquava, in ginocchio su la
pietra, e io, al solito, lavoravo a scavar nella sabbia.

Discorrevano, ridevano. E mi stancavano. Mi spiacevano.

Forse antipatia di quel giovine ben diverso da Zvanòn, che se mi aveva
seco e non aveva altro da fare consentiva ai miei capricci? Per colui
invece era come io non esistessi. O me lo rendeva antipatico un arcano
presentimento?

Stanco, dissi alla donna:

— Vado a casa.

Lei non voleva. Mi aveva in consegna, e dovevo restare. Minacciò, pregò.

Otto o nove mesi dopo, costretto a ripensare e a rievocare quanto mi
avvenne quel giorno (e ritenni in mente e in cuore per sempre) sentivo
un accento quasi di pianto nella sua preghiera di restar con lei, quasi
temesse, dal mio allontanarmi, un pericolo. Ma Tito non mi fè parola.

— Sono stanco di star qui — ripetei.

E scappai.

Oh non per correre a casa, come la donna credette! A mezza costa c’era
la pozza del vincheto; e mi venne voglia di un vincastro dalla rossa
scorza. Tra i vinchi d’intorno all’acqua componevano un folto le
vitalbe, i pruni, i biodi, le carici, sì che a penetrarvi non s’era
visti nemmeno da chi saliva per il sentiero alla volta della casa.

Entrai nel folto; girai alla parte opposta, dove m’invitava con belle
aste un vinco vecchio ma basso; mi arrampicai su quello. Raggiunto che
ebbi l’inforcatura del tronco, vi fermai i piedi e prima di staccare il
virgulto ambito mi volsi a guardare di là, arditamente pago della mia
prodezza. Vedevo lì giù, tra i pioppi, il rio; e la Gisa con l’uomo.

Essa, in piedi ora, porgeva a Tito, disceso a lei, i pannolini; e li
torcevano tenendoli l’una a una estremità e l’altro all’altra. Poi egli
li gettava indietro, su l’erba.

Infine, salirono alla riva.

Ed egli accostò il viso al bel viso.

E poco dopo, mentre stavo appiattato e seduto a sfogliare il virgulto,
scorsi tra il folto la donna che avanzava sola per il sentiero declive.
Aveva sul capo il cesto della biancheria lavata e lo reggeva con le
braccia nude: la gonna sollevata a un fianco, una gamba scoperta sin
quasi a mezza gamba; i capelli scomposti.

E il sole pareva tutto per lei.

Rimasi alla pozza perchè, mentre percuotevo l’acqua con l’asta a
sollevar spruzzi sfavillanti, ci avevo fatta una scoperta: di certi
pesciolini mai visti, a due zampe che parevano terminare in manine; col
capo tozzo, gli occhietti spalancati, con tutto il corpo tutto coda,
grosso e corto; la pelle scura, a macchie più scure. Brutti. Oh
prenderne almeno uno!...

Quand’ecco un rumore, una voce grossa.

— Cosa fate qui?

Sobbalzai, mi volsi. Cedetti a Zvanòn, che mi afferrò un braccio e mi
scostò dall’acqua.

— A rischio d’annegarvi! Allora sì, i vostri! — sgridava.

Per scusarmi gli dissi:

— Voglio uno di quei pesciolini.

E lui, severo:

— Pesciolini? Ranocchini, sono; ranocchi non ancora fatti. Andiamo!

Tagliò i vimini per cui era venuto; si sospese dietro, alla stringa, il
pennato; mi prese, con la mano libera, la mano, e ripetè:

— Andiamo!

E soggiunse, mentre andavamo: — Lo dirò a vostra madre il rischio che
avete corso: di annegarvi nella pozza!

Cominciavo a persuadermi di aver commesso una marachella più grave delle
solite; e se di mia madre temevo più il dolore che i rimproveri, di mio
padre temevo il rimprovero più di qualsiasi castigo. Bisognava che
Zvanòn non dicesse nulla alla mamma; bisognava che egli dimenticasse il
mio fallo prima di giungere a casa. Ebbi, nell’ingenua scaltrezza di un
fanciullo settenne, l’idea di distrarlo dal pensiero di me con ciò che
vagamente sospettavo dovesse stupirlo; e gli dissi: — Sai? Ho visto che
Tito del Mulinello ha dato un bacio alla Gisa.

Egli si fermò, di colpo; mi guardò negli occhi per sorprendervi la
verità. Un istante. Sentii, nell’istante, la sua anima apprendersi alla
mia; e n’ebbi tal pena che, non interrogato, confermai in fretta.

— Sì sì: è vero!

Allora lui rise. Disse, come a darmi subito ragione del suo stupore
enorme:

— Oh dunque non lo sapete, voi, che Tito è fratello della Gisa?

E riprendemmo la via.

— Povero Tito! — aggiunse Zvanòn dopo un tratto —. Deve tornar soldato,
fra poco. Non verrà più a giuocare alle bocce con noi.

Eravamo al sommo della costa; oramai a casa. E io dubitavo ancora;
temevo che Zvanòn mi conducesse dalla mamma. Ma un’altra idea mi
soccorse.

— E le boccine di terra creta quando me le fai? Fammele, Zvanòn!

Tacque. Poi rispose:

— Adesso adesso... Io lego i fasci di sterpaglia. Voi intanto ammolirete
la terra creta, e dopo faremo la fornacetta da cuocer le palline.

Così io ottenni ch’egli dimenticasse d’accusarmi, ed egli dovè sperare
che non parlerei a nessuno di Tito e della Gisa, e di quel che avevo
visto.

                                  ***

Otto o nove mesi dopo, a Bologna, al pomeriggio di un giorno invernale,
una scampanellata mi fece correre prima della domestica ad aprir
l’uscio.

Zvanòn!

Non mi sorrise; non mi salutò; mi guardò. Un istante.

Ed ebbi di nuovo quell’impressione di pena, indefinibile, per me, se non
dicendo che l’anima sua si apprese, nell’istante, alla mia. Questa volta
però non era stupore in lui: angoscia. Ed era Zvanòn ed era un altro.

— Cosa m’hai portato? — gli chiesi timidamente.

Non rispose. Mi chiese:

— Dov’è vostro padre?

La domestica lo condusse nello studio.

Indi a poco, da uno spiraglio, scorsi che mio padre usciva con il
contadino. E giacchè Zvanòn non era più lui, io intuii una sventura.

Infatti quando mio padre tornò... — Ascoltavo palpitante dietro l’uscio
quel che diceva con la mamma —... Zvanòn aveva ammazzato con un colpo
della vanga dal lato del taglio, in litigio, per una cinquantina di
franchi che gli doveva — perduti nel giuoco da Tito — Tito del
Mulinetto!

Per una cinquantina di franchi che Tito aveva perduti al giuoco?

— No no! — fui per gridare in uno scoppio di pianto, e precipitarmi di
là, dai miei, e dire: — Io lo so il vero perchè Zvanòn ha ammazzato
Tito!

Ero certo. Il lampo della verità aveva illuminata la mia mente non più
ingenua, come otto e nove mesi prima. Entrai in cucina. Dissi alla
donna:

— Zvànon ha ammazzato Tito, con la vanga!

La vecchia domestica allibì. Non poteva credere. Conosceva da tanti anni
quella famiglia: galantuomini: gente di fede: cristiani. Impossibile!

— Per una cinquantina di lire. Tito non gliele voleva dare... — E
chiesi:

— Tito non è il fratello della Gisa?

— Ma che! — fece la donna. Soggiunse: — Povera Gisa! Avere per cognato
un assassino!

La vecchia non sospettava d’altro. Ma io sapevo perchè Zvanòn aveva
ammazzato Tito: Zvanòn che mio padre aveva accompagnato a costituirsi.
Ne ero certo. Quelle occhiate...

                                  ***

Ed io tacqui il mio segreto. Non ero forse complice del delitto?

Questa paura mi occupò tremenda. Pensavo: se io non mi fossi fermato
alla pozza dove c’erano i ranocchini non ancora fatti, e non avessi
voluto prenderne uno, e per prenderlo non avessi corso il rischio
d’annegare, Zvanòn non mi avrebbe minacciato d’un castigo e io non avrei
detto nulla a Zvanòn.

Zvanòn, no, non avrebbe ammazzato Tito! Certissimo. Quelle occhiate...
Di chi dunque la prima colpa?

Se io svelassi il mio segreto non metterebbero in prigione anche me: me
che avevo la mia mamma sempre malata, e non potevo darle tanto dolore, e
non potevo abbandonarla senza che io morissi? No, non dovevo dirglielo
il mio segreto, dirle la paura che mi occupava tremenda, senza che lei
patisse della mia stessa paura. In prigione il suo figliuolo, compagno
di un assassino!

Con tutti dovevo tacere. Con tutti!

Ma quel segreto era troppo più grande di me.

A scuola, chinavo improvvisamente il capo sul banco e piangevo.

— Perchè piangi? — mi domandavano i compagni, il maestro.

Rispondevo:

— Non lo so.

E mi canzonavano perchè piangevo senza sapere il perchè.

                                  ***

Al processo Zvanòn ripetè quel che aveva detto a mio padre il dì che era
venuto per consiglio, e quel che aveva detto al procuratore del Re e a
tutti.

In litigio, acciecato dall’ira, aveva colpito, senza intenzione di
uccidere. Voleva essere pagato del debito; dei cinquanta franchi vinti
al giuoco.

Alla dimanda se fra lui e Tito del Mulinetto fossero stati precedenti
rancori o ci fossero altre cause di rancore, rispose: — No.

I testimoni confermarono che erano amici.

Nessun sospetto, in nessuno, della tresca fra Tito e la Gisa. E Zvanòn
parve ricevere impassibile la condanna.

Mio padre, riferendo in casa del processo, conchiudeva:

— Si direbbe quasi che ha voluto essere condannato lui, a trent’anni.

E io capii. Zvanòn aveva voluto salvare l’onore della sua famiglia;
l’aveva salvato.

Ma aveva salvato anche me — pensavo; e la gratitudine che sentivo per
lui era così grande da rendermi gradevole, ora, il segreto più grande di
me. Avrei sfidato la morte piuttosto che rivelarlo. Povero Zvanòn! Mi
era ben manifesto ora il significato di quelle sue occhiate che mi
prendevan l’anima! Che colpa avrei commessa, per lui; che tradimento
d’amico; che infamia se avessi detto a qualcuno, pur a mia madre: — Vidi
che Tito baciava la Gisa!

E con che cuore ascoltavo le notizie che a intervalli — a lunghi
intervalli — ci davano i parenti del prigioniero! Ci mandava a salutare.

Poi ci mandò dei regalucci: d’opera sua. Una volta fu un vasetto in
forma d’anfora; un’altra volta un cestello; un’altra volta una scatola
col coperchio.

L’opera era abbellita da rilievi, fregi, piccole frutta, fiori a tinta
color mattone; e tutto composto di polvere di mattone e di pane
ammollito ed essiccato, che stecchi contenevano saldo.

E avvenne che guardando entro la scatola ci leggemmo scritto nel fondo,
a tinta più rossa (sangue?): — _per Dolfo._ — Allora guardammo nel fondo
esterno del cestello e dell’anfora, e ci vedemmo le stesse rosse parole:
— _per Dolfo._

                                  ***

Scontati soli cinque anni di pena Zvanòn moriva, a Portolongone.

Io ero sui dodici anni. Non temevo più. E rivelai finalmente perchè
Zvanòn fu omicida. Allora si comprese chiaramente come, non giuocatore,
egli avesse attirato l’altro, che era scarso a quattrini, a giuocar di
molto: per conseguire un pretesto da finir la tresca in un litigio.

E a me dissero:

— Facesti male a tacere. Parlando avresti mitigata la pena di quel
disgraziato; non sarebbe forse morto in carcere.

Ma anche adesso non so persuadermi che feci male. Zvanòn al disonore
della sua famiglia preferì Portolongone.

E col pane del suo nutrimento componeva le cose che rammentassero a chi
lo aveva aiutato a salvar l’onore dei suoi, la sua gratitudine,
l’affetto imperituro, l’anima sua. _Per Dolfo._



                            LA CASTA SUSANNA


L’orrida bellezza dei «calanchi»! Dalla parte ove il monte dirupa nella
Landa sino al limpido rio quella rovina par l’opera d’una gran fantasia
turbolenta e ansiosa che la morte abbia interrotta, improvvisamente
freddata quasi a castigo d’orgoglio; e l’anima che ammanta di verde i
dorsi al di sopra e riempie la valle di colori e di voci lì sembra
tenuta in un lungo stupore, sembra attonita e stanca in un sogno che fu
e non è più pauroso.

Diroccate muraglie, quali tramezzi disposti con regola e sostenuti da
irti sproni, protendono guglie e cuspidi, estendono creste, si aprono a
tagli, a frastagli, a crepe, a solchi, a strappi, a lacerazioni, a
incavi tra cui le ombre e le luci mutano lente; e i tronchi vertici, e
le sottili lame dentate, e i corrosi ricami — quando un soffio di vento
si direbbe bastasse ad abbatterli, confonderli, disperderli — rimangono
in vista, fuori degli sconvolgimenti massicci e su le profondità opache,
come fortunati avanzi di un infantile capriccio o di una sublime
audacia. Il sole accende la sabbia gialla che ricopre le balze argillose
ma non un filo di erba erompe dalla inerte materia. È una squallida
uguale tristezza. Eppure così bella!

                                  ***

I calanchi — a cercarvi conchiglie fossili — furon la méta dei primi
giuochi per me e Adriana: compagni d’infanzia.

E forse quell’asprezza del luogo nativo ci aveva come d’istinto allevati
a una fiera puerizia, che contrastava all’educazione familiare.

Ma con l’aumentar dell’età preferimmo scendere per i campi nella Landa e
là raccoglier fiori con lo spettacolo della montagna di fronte, così
vario di tinte e di luci nel seguir delle ore. Giorni beati dell’anima
ancor candida! giorni felici delle prime ingenue e pure tentazioni
d’amore!

S’intende però che, con tutto il bene che ci volevamo, Adriana ed io ci
accapigliavamo spesso; a volte più che lo sfogo di una bizza improvvisa
era quasi una prova di ribellione. Avevamo l’arcana coscienza di esser
legati dall’affetto per sempre, e ci bisognava anche la coscienza di
poter divincolarci.

A volte diveniva fin necessario l’intervento di qualche amico per
rimetterci in pace: a fatica sembravamo far grazia l’uno all’altra; e ne
avevamo tanta voglia di sorriderci e di correr via insieme, incontro
alla gioia, incontro a un non dubbioso avvenire!

                                  ***

I nostri prediletti amici erano due uomini attempati: Isidoro Lamandini,
il vignarolo; e Paolo Querzè, il falegname, che aveva la bottega su la
strada maestra.

Il primo, di solito in giacca alla cacciatora e lo schioppo a tracolla,
c’incuteva un rispetto affettuoso perchè, forte e temuto, a noi si
dimostrava servizievole e carezzevole. Possedeva un’arte meravigliosa.
Balzava vestito nei borroni della Landa e, intorpidata l’acqua,
acchiappava i pesci con la disinvoltura d’uno che cogliesse cose inerti,
e ce li gettava splendidi e boccheggianti su l’erba.

Il secondo — Paolone — sapeva tagliar il vetro difilato col diamante, e
preparar vernici di ogni colore, e raccontarci lunghe storie che
s’inventava lui spacciandole come vere. Quando non aveva voglia di fole,
cantava, a squarciagola, del brigante Mastrilli e di «Erminia fra
l’ombrose piante». Ma il divertimento più grande quei due ce lo davano a
contendere per scherzo fra loro. Se ne dicevan di cotte e di crude; se
ne facevan di tutte le sorta. Non di rado Paolone restava senza pialla e
Isidoro senza schioppo, e spendevan ore e ore a cercar quella o questo
minacciandosi di legnate e finendo all’osteria a bere un litro.

                                  ***

A sedici anni Adriana era una ragazza come ce ne sono tante, se
cresciute fuor del mondo. Timida che arrossiva per nulla, si vergognava
della sua timidezza e per rifarsi s’avventava a dispetti e a
impertinenze. Vanitosa fino al capriccio, sdegnava le lodi alla sua
bellezza quasi fossero canzonature. Buona, godeva a parer cattiva. E se
la dicevano innamorata, protestava offesa. S’intratteneva più volontieri
con me che con le amiche perchè io le piacevo di più: che c’era di
strano?

D’inverno quando, giù a Castello, lei passava i giorni tediosi in casa e
in chiesa, e io in città sospiravo le vacanze per rivederla, mi scriveva
lunghe lettere in presenza della madre e gliele leggeva: notizie; motti;
confidenze; insolenze, magari: parole d’amore nessuna. E guai se mancavo
alla consegna di far lo stesso!

Come ebbe da riferirmi la disgrazia capitata all’amico Lamandini
cominciò la lettera così:

«Ho da raccontarti una storia da ridere...».

Isidoro e Paolone l’ultima notte di carnevale si eran presa una sbornia
solenne. Rincasando sopra la neve, l’uno aveva piegato a destra, l’altro
a sinistra con la pretensione d’indirizzarsi l’un l’altro per la via
buona. E Isidoro era precipitato nella pozza piena d’acqua gelata,
presso la chiesa.

Ma Paolone, che non stava diritto e non aveva forza di trarlo fuori,
chiamava aiuto invano. Nessuno gli credeva; gli davan dell’ubbriaco;
dubitavano d’una burla.

E la lettera finiva:

«Isidoro s’è ammalato, e forse morirà. Non ci mancava che questo per
farmi piangere!».

                                  ***

Quell’anno gli esami di licenza liceale ritardarono il mio ritorno in
campagna. Il giorno che finalmente vi giunsi non trovai Adriana in casa.
— Sarà nella Landa a cucire — mi disse la madre.

Era là, infatti, all’ombra delle querce e dei pioppi, ove il rio più
affondava tra le sponde folte di acacie e di vinchi. Ma non riuscii a
sorprenderla con un grido: — Adriana!

Mi prevenne, incontro. Era pallida.

— Gli esami? — chiese.

— Bene!

Allora si sfogò in rimproveri. Tenerla in pena! Non telegrafarle!
Esagerava l’inquietudine per dissimulare il suo desiderio — e frenar il
mio — di consolarci più che con una stretta di mano dopo così lunga
assenza.

— Mi vuoi ancora bene, mi ami! esclamai.

Confermò con la luce degli occhi e del sorriso.

E dimandò:

— Perchè dici ancora?

— Perchè sei diventata più bella!

Scosse le spalle mormorando: — Lo dicon tutti. Ma — aggiunse seria — è
ora di metter giudizio!

E a dar insieme prova di giudizio m’impose di raccoglierle fiori e
mentastro, come quando eravamo bambini.

Intanto lei cuciva e discorreva.

— Che paradiso, qui! Ci starei da mattina a sera!

Indi, col tono di chi dice la cosa più semplice, più naturale, più
innocente del mondo:

— Che brividi di delizia in quest’acqua così fresca, all’ombra! Ci fo il
bagno ogni giorno.

Io ebbi un senso di disgusto, quasi di panico. E dissi:

— Se qualcuno ti vede?

— A mezzodì, quando tutti sono a desinare? Chi temi che ci venga
quaggiù?

Fui per gridarle: — Non voglio! —; se non che sapevo che per piegarla al
mio volere non era quello il modo. E tacqui. Un silenzio — speravo —
ammonitore.

Tacere quando avevamo tante cose da dirci!

— Ah! — esclamò lei d’improvviso. — Mi dimenticavo di darti una brutta
nuova. Paolone sta male. È a letto da tre giorni con una polmonite.

E Lamandini?

Indovinò la mia dimanda.

— Isidoro se ne andrà alla caduta delle foglie. Tisi senile.

                                  ***

Il giorno dopo andammo a trovar Paolo Querzè. Era infuocato dalla febbre
e di tratto in tratto delirava. Ma a udir le nostre voci volle
sollevarsi; e ci sorrise dicendo:

— Ah la gioventù! Siete contenti, voi due! E raccogliendo lo sguardo in
me solo:

— Com’è bella Adriana!

Poi socchiusi gli occhi e spento il sorriso, mormorò:

— E io muoio.

In quel punto udimmo tossire, da basso.

Lamandini.

Saliva a stento la breve scala. Quando fu su, dovè sedere per ricuperar
il poco di fiato che gli avanzi dei polmoni gli concedevano ancora. Ma
aveva ancora tant’animo!

Si accostò al letto dell’amico, a scherzare con tutta la rudezza di un
tempo.

— Fai proprio viaggio, Paolone?

— No — l’amico rispose. — Aspetto che te ne vada tu, prima.

— Prima io? Non credo. A ogni modo, hai regolati i tuoi conti, per non
aver noie, di là?

— È presto! — ribattè l’altro. — Tu, piuttosto, l’hai avuto il permesso
di transito? il passaporto?

— Non ne ho bisogno. Non ho ammazzato nessuno.

— Nemmeno io.

— Non ho rubato.

— Nemmeno io. Ma e il resto, Paolone?

— Niente!

— Ah niente? Ti par niente aver mancato fin all’ultimo?

— Mancato?

— Sì: con quelle ispezioni... — e Isidoro strizzò l’occhio a Adriana
sorridendo: il sorriso di un cadavere —; le ispezioni tra l’acaciaia,
mentre una bella ragazza faceva il bagno...

— Anche tu, con me — conchiuse l’altro, mesto e affannoso.

Adriana, ch’era avvampata all’oltraggio ignorante, diventò così pallida
che temei svenisse.

— Andiamo! — affrettò.

                                  ***

Appena fummo su la strada si fermò affrontandomi. E con voce sicura, con
sguardo fisso, con anima imperiosa disse:

— Tutto è finito tra noi due! Lasciami. Io ti lascio!

Impazziva? Tremai a dimandarle che cosa le avevo fatto, io, di male; che
colpa avevo io se coloro l’avevano offesa. Voleva pigliassi a schiaffi
due moribondi?

Oh non questo voleva!

— Non capisci? — insistè stupita, più addolorata, pareva, dalla mia
incoscienza. — C’è da spiegarle certe cose? Non capisci la mia
ripugnanza? Non capisci che mi sarà intollerabile, per sempre, questo
pensiero? il ricordo di quello che tu hai udito oggi, di me?

Non capivo: non potevo capire il pericolo in cui per colpa non mia
correva il nostro amore. Esperto del mondo e della donna avrei risposto:
sì. Concedere per forse ricuperare.

Invece, con gli occhi pieni di lagrime, l’invocavo: — Adriana! Adriana!
— La scongiuravo: — Non farmi soffrire!

— Non soffro anch’io? — gridò irritata dalla mia debolezza, muovendosi
per avviarsi. E ad ultima difesa io ebbi un sorriso amaro e dissi: — Un
pudore esagerato! — Schifiltoso, volevo dire; assurdo a pensarlo!

Lei, senza ribattere, si avviò.

Mi mordevo le labbra per non rompere in pianto. Pensavo e non sapevo che
pensare. Perduta! Tutto sarebbe stato inutile... Perduta!

Tutto inutile?

Ah costringerla a voltarsi, a insolentire, a schiaffeggiarmi! Forse era,
col pentimento di lei, la salvezza, dopo!

Sghignazzai; gridai:

— La casta Susanna!

Ma Adriana non si voltò.

Era finita.

                                  ***

Laggiù, nel praticello della Landa, dove lei non sarebbe tornata mai
più, io piansi. Eppoi inveii come l’avessi presente; la accusai di
crudeltà, di demenza, di ogni cattiveria, di perfidia.

Ma a poco a poco, nel mentre stesso che l’accusavo, la difendevo.

Innamorata d’un altro aveva colto quel pretesto per liberarsi di me? No.
Amava me: ne ero certo. Da che cosa dunque attingeva la forza per
vincere e respingere il nostro amore? Perchè? Perchè? Per una
impressione morbosa? Nulla sapevo io, povero ragazzo ignaro, di
isterismo e di psicopatia femminile; ma no: non poteva essere un male
dei nervi o del sangue la causa di tanto dolore! E nemmeno il
pregiudizio religioso che l’incolpasse dell’aver condotti a peccato
mortale quei due vecchi prossimi a morire. No: doveva esser stato
l’orgoglio! l’orgoglio ferito! Ma quale? Ma perchè? Ecco. L’orgoglio,
era stato, che aveva una radice profonda nell’indole della donna, nel
sesso: l’orgoglio della verginità che si sentiva contaminata; l’orgoglio
come della sanità che avesse patito il contatto della brutalità in
dissoluzione, della corruzione, della morte; l’orgoglio di un amore
puro, alto, nobile che era stato macchiato, abbassato, avvilito da
sguardi, pensieri osceni, da schifose voglie; l’orgoglio di un’anima
profanata che si comprendeva diminuita dinanzi al suo stesso amore.

Più tardi però, agli anni dell’esperienza, quando ci pare d’avere
conosciute bene le donne, mi chiesi più d’una volta: Adriana avrebbe
tanto sofferto di quella profanazione se invece che vista dai due
vecchi, di cui l’uno era preso alle spalle dalla morte e l’altro le
andava incontro, fosse stata vista dai miei occhi innamorati e avidi
d’amore sano e forte?

Ma anche adesso non so che cosa rispondermi.



                              BUONA GENTE



                                   I.


La fattoria vecchia, grande come un castello, con davanti l’ampio prato
e lo steccato in mezzo per i puledri, e il muricciuolo di cinta
investito dai capperi (il profumo di questi fiori, così tenui, al
luglio!); la montagnola della conserva che le acacie difendevano dal
caldo; l’orto con la vasca (belle, ora, anche le salamandre!); eppoi i
campi di grano e di canapa, tra gli olmi, belli...

La stretta per cui si svegliava con un nodo alla gola non gli veniva da
un’improvvisa imaginazione brutta o triste nella serenità del sogno; gli
veniva da quel sereno fondo senza fine, da quel sole abbagliante, fermo.
Nel destarsi, se vi era luce, stentava a riconoscere lo stambugio ove lo
ricoverava la lavandaia; e gli pareva che il cuore gli si allargasse a
vedere il cane dormente lì a lato della branda.

Non gli restava più che il cane. E il suo passato era nel sonno e nei
sogni. Ma quanto soffriva!

Invano pregava Dio ogni sera che lo liberasse da questa pena. Non
bastava che espiasse, nella miseria, e tenesse l’espiazione quasi
elemento della sua ultima vita; no, non bastava: l’afflizione più grande
doveva patirla dormendo. E il contrasto fra la sua sorte e la sorte di
tutti gli altri, che al soffrire trovavano riposo al dormire, gli
imprimeva in faccia quel triste sorriso mesto, come d’ironia mitigata da
un doloroso pudore.

Ma diventava una contrazione spasmodica, quel sorriso, se qualche antico
conoscente incontrandolo lo salutava e gli porgeva la mano.

— Stringermi la mano? — egli chiedeva mentre porgeva timidamente la sua.

E con fatica, quasi gli mancasse il respiro, rispondeva alle dimande
spietate per essere pietose. Le figliuole? Una era suora, a Lugo;
l’altra, moglie di un avvocato, stava a Firenze.

— Perchè non andate con lei?

Rispondeva:

— Capirete...

Già: capirete che un avvocato che si stima non può mantenersi tra i
piedi il suocero in voce di aver rubato, e il conte Sesti, da cui era
stato cacciato per ladro, aveva tante conoscenze, in tutta Italia!

— Non mi avanza che questo — aggiungeva Procolo Granari accennando al
cane.

— Fatevi coraggio, Procolo!

Egli si avviava scuotendo il capo senza dir nulla, senza salutare.
Avrebbe potuto dire che il genero guadagnava poco e che la figlia aveva
da mandargli solo un piccolo aiuto di quando in quando? che l’ignoranza
d’ogni cosa all’infuori della campagna, e gli anni e i malanni, non gli
permettevano di buscar un soldo? che mancando di protezioni non sperava
di essere ammesso nel Ricovero di Mendicità?

Andava vagabondo e il cane, alla corda, lo seguiva più mesto di lui
perchè pativa più fame.

Ah! quel bracco così alto e macilento!

Faceva sin ridere i monelli; e lo chiamavan _Tredici_! E se a vederlo
solo, Procolo Granari, curvo nella lunga persona, coi capelli candidi
sfuggenti di sotto il cappellaccio, la barba bianca rada su le guance
smunte e quel suo sorriso, con gli abiti oramai cenciosi, eppure puliti,
e le mani di un pallore esangue, pulite, avrebbe commosso per quasi
un’apparenza di nobiltà decaduta ma non perduta, a vederlo con il cane
enorme, pelle e ossa, agli occhi anche non maligni egli assumeva un
aspetto sinistro; il suo sorriso pareva cattivo.

Maltrattare così una povera bestia!



                                  II.


Invece di crescere, il soccorso della figlia, da Firenze, scemò. Essa
gli scriveva che il marito non guadagnava abbastanza da risparmiarle
sacrifici, e lo scongiurava di rivolgersi a questo o a quello per entrar
nel Ricovero.

Ma Procolo Granari a mendicare raccomandazioni da questo o da quello
preferiva rivolgersi alla pietà anonima, su la strada.

Ahimè! Al male preferibile non è sempre agevole adattarsi, e per quanto
egli si ripetesse che era necessario provare il castigo, quando stava
per stender la mano al passante gli mancava l’animo; non sentiva più la
fame.

E il cane sbadigliava.

Fu appunto un lungo e tacito sbadiglio di quest’altro disgraziato che
gli suggerì un giorno il mezzo a superar la vergogna: mendicare non per
sè, ma per lui, il solo amico che gli rimaneva.

Se lo tirò dietro fin in Piazza San Domenico. Aspettò davanti alla
chiesa.

Quando ne vide uscire una vecchia signora, mosse verso di lei col
cappello in mano.

— Un po’ di carità per questa povera bestia.

Aveva parlato così sommessamente che la signora ne aveva inteso a fatica
le parole e, meravigliata della richiesta, a volgere gli occhi diè un
grido.

— Che orrore, mio Dio!

In fretta traeva due soldi dalla borsetta. Ma li porse con viso turbato.
E disse, tremante di sdegno:

— Perchè lo tenete se non avete da dargli da mangiare?

— Non ho coraggio...

— E avete il coraggio — interruppe andando — di vederlo morire di
stento!

Procolo traversò la piazza; entrò dal fornaio a comperar due soldi di
pane. E sbocconcellandone la metà, intanto che spezzava e dava al cane
l’altra metà, guardava con occhi pieni di lagrime; e il rimprovero della
signora gli pareva giusto.

L’elemosina per cui rompeva il digiuno l’aveva avvelenato.

Eppure gli convenne ripetere l’esperienza che non era riuscita male del
tutto. E affrontò un tale nella cui faccia di ricco borghese credè
scorgere buon cuore e buon umore.

— Mi scusi...

Il signore s’affoscò. Prevenne:

— Non sapete che l’accattonaggio è proibito?

Procolo tentò giustificarsi accennando al cane.

L’altro lo considerò un istante, ne potè trattenersi dal ridere, dal
dire:

— Va a lavorare anche tu!

Lo scherno.

E a testa bassa, senz’ira, anzi con un’amarezza di coscienza colpevole,
il vecchio si incamminò per una strada appartata, sebbene nel centro
della città.

Ivi ricuperò la speranza.

Una giovane bella, elegante, si fermò ad osservar non lui ma la carcassa
ambulante; e con mirabile ingenuità, non sapendo che altro pensare,
dimandò seria:

— È una réclame?

Senza rispondere a parole Procolo scosse il capo, e chinò gli occhi.

Allora la passeggera comprese; aperse il portamonete. Ma l’ufficiale,
che essa attendeva, giunse in tempo a fermarle la mano.

— Non capisci? — esclamò. — Fan patir le bestie per eccitare la pietà
pubblica!

E vòlto al colpevole:

— Se ci fosse una guardia — minacciò — vi farei arrestare!

Rincamminandosi a testa bassa, il vecchio udì che la bella voce diceva:
— Che delitti! Il cane potrebbe arrabbiare, rompere la museruola...

... Se rincasato Procolo Granari non avesse ricevuta una
cartolina-vaglia della figliuola (venti lire), non solo avrebbe dimessa
l’idea che la mattina gli era parsa sagace, ma avrebbe accusato il solo
amico che gli restava al mondo di essergli anche lui causa di soffrire.

E la notte sognò che andava a caccia con Reno per una prateria fiorita,
ed erano felici tutti e due finchè il sole del sogno lo svegliava
angosciato.



                                  III.


Accadde che per mutamento della sorte a suo solo favore Reno fu davvero
felice.

La contessa Torselli nell’uscire un giorno dal suo palazzo di via Goito
— l’automobile l’attendeva — ebbe impedito il passo da quel cane. Non
esitò a chiamare colui che lo conduceva.

— Ehi! signore!

Procolo si fermò.

— Il suo cane è ammalato. Io appartengo alla Società protettrice degli
animali, e il mio nome basterà perchè vi sia curato gratuitamente.

Porgeva, molto gentile, il biglietto da visita.

Ma Procolo Granari disse:

— Non è ammalato. Ha fame. — E col suo mesto sorriso aggiunse, piano: —
Come me.

— Fame? — riprese la signora dopo un attimo di perplessità. — Venga!

Rientrò nell’atrio; premè il bottone del campanello; ordinò alla
portinaia:

— Dite al cuoco che vi mandi giù subito una scodella di zuppa per questa
povera bestia, e dategliela.

Indi a Procolo:

— Ogni giorno all’ora d’oggi ci sarà qui, in portineria, una scodella di
zuppa per il cagnone. Se ne ricordi!

E senza aspettare ringraziamenti la contessa Torselli, protettrice degli
animali, salì in automobile.

                                  ————

Ogni giorno Procolo restava fuori nell’atrio, forse per non soffrir
anche di invidia, intanto che Reno ingoiava la zuppa. Si spicciava con
poche boccate. Pronta, la portinaia alzava la scopa.

— Passa via, brutta bestia!

E il cane, sebbene non sazio, scodinzolava tornando al padrone.

Ma a poco a poco la portinaia s’intenerì. Quegli occhi pieni di
riconoscenza già prima che lei aprisse il cancello; quel lieve uggiolare
quando lei tardava, quasi voce di preghiera o timore; quel tentativo di
balzarle amicamente contro — l’avrebbe baciata a suo modo se essa non si
ritraeva svelta e se a lui più non premeva spingere con una zampata
l’usciolo e correre al noto angolo — le fecero cambiar apostrofe. La
«brutta bestiaccia» diventò in ischerzo un «brutto matto»; e poi il nome
proprio di Reno fu amicamente usato nei richiami e nelle carezze.

Ora bisognava alzare la scopa perchè il cagnone non avrebbe voluto
uscire così presto dal luogo di delizia. Si accucciava ai piedi della
donna, guaiva, parlava. — Tenetemi sempre qui, con voi.

— Gli manca la favella — la portinaia ripeteva —, ma si capisce lo
stesso. Che giudizio! Che giudizio può avere una bestia!

Mentre il padrone gli rimetteva la museruola e la corda al collare, il
cane scodinzolava; era però evidente ne’ suoi occhi l’intimo conflitto
fra le due affezioni: la vecchia e la nuova.

E un giorno appena fuori di casa sfuggì, con uno strappone, di mano a
Procolo; il quale giunse al palazzo Torselli dubbioso di non trovarvelo.
Se le guardie l’avevano accalappiato, addio!

Invece la portinaia disse:

— È qui. — E lo chiamò più volte:

— Reno! Reno!

Il cane non compariva. Perchè? Dov’era? Dove si era nascosto?

Finalmente lo scopersero nel bugigattolo del carbone. Fingeva dormire.

Onde Procolo scosse il capo. Aveva capito.

— Anche questo... — mormorò.

E la portinaia:

— Lasciatelo a noi. Vi risparmierete i quattrini della tassa.

Sì! La tassa gliela aveva pagata due volte la lavandaia sua ospite; ma
adesso la lavandaia era stanca di non ricevere più un acconto. Già aveva
pregato «il signor Procolo» di cercarsi altro alloggio.



                                  IV.


Al dormitorio di via delle Mole si pagavano cinque soldi per notte;
spesa non grande chi pensi che in ogni giaciglio c’eran cuscino e
coperta di lana — sebbene il cuscino, il quale avrebbe dovuto esser
bianco, al lume della lampada a petrolio apparisse del color della
coperta; la quale avrebbe dovuto essere bigia —, ma spesa non piccola,
cinque soldi, per i frequentatori non forniti di paga costante o
guadagno sicuro.

E il signor Giulione e la signora Tecla, proprietari e ministri
dell’azienda, non facevan credito a nessuno.

Così, quando nell’avanzar dell’inverno gli mancasse o tardasse il
soccorso della figlia, il vecchio Granari poteva trovarsi a questo
dilemma: o morir d’inedia o morir di freddo. Poteva anche, però, morir
d’inedia e di freddo contemporaneamente.

E una mattina, a gennaio, il signor Giulione e la signora Tecla entrando
nella stamberga per la pulizia — e che pulizia! — ebbero una sorpresa:
s’accorsero di una trasgressione al regolamento non avvertita la mattina
prima d’andar a riposare. L’ultimo letto di destra era ancor occupato.

Scossero quel corpo inerte nella buca del pagliericcio.

— È morto? — il marito dimandò confuso.

— No — rispose la moglie. — Va a prendere l’aceto.

Per l’aceto il giacente rinvenne; cercò con lo sguardo, senza
riconoscere dove fosse. Pronunciò qualche parola.

— Muoio — di — fame.

— Corri! Dammi il latte che m’è rimasto nella teglia — ordinò, ansiosa
adesso, la signora Tecla.

Ma il latte, deglutito a pena, non rimase in quello stomaco, tanto era
debole. E allora la signora Tecla riempì la mente del marito con
commissioni successive, di cui, nella sua intenzione, una sostituiva
l’altra e che il signor Giulione credè invece fossero da adempier tutte
quante.

— Va alla farmacia a prendere un cordiale. — (Il grosso uomo
s’incamminò). — Va a chiamare il medico all’ambulatorio. — (Due passi).
— Va in Municipio a dir che vengano i pompieri con la lettiga. — (Due
passi). — Va all’Ospedal Maggiore: caso d’urgenza. Di’ così: caso
d’urgenza. — (Partì di trotto).

Poi la signora Tecla, indossata la mantella, scese per consiglio
all’osteria di fronte: un basso fondo.

L’ostessa esclamò: — Latte freddo gli ha messo in gola? Brodo caldo vuol
essere!

Súbito attinse alla pentola, che borbottava al fuoco, e con una scodella
del liquido fumante seguì l’amica. Intanto la serva annunciava a chi
passava:

— Sapete? Al dormitorio c’è uno che muore di fame. Proprio moribondo!

La voce si sparse in un attimo per la contrada.

E la carbonaia — la famosa manutengola detta la Strazzarola — accorse
con una tazza di caffè; e la fruttivendola guercia recava un ovo fresco.
Anche, dal postribolo, in vestaglia di lana rossa, uno scialle bianco su
le spalle, i capelli sciolti e una guancia imbellettata e l’altra no, la
Romana si precipitò gridando:

— Io, la salvo io questa creatura! Assassini! Vigliacchi!

Chi fossero gli assassini e i vigliacchi sapeva lei, portando una
bottiglia di cognac e un bicchierino.

Alle grida, lo spazzaturaio avvicinò l’asino e la biroccia a una
colonna; salì, armato della lunga scopa. E salì al dormitorio anche
Figuretta. Senza cappello, in pelliccia, si calzava i guanti. Figuretta
il borsaiuolo, uscito il giorno innanzi di collegio. — In vacanza —
spiegava lui.

— Io! io! — ripetè la Romana facendosi largo fra le donne, disperate che
il vecchio non ritenesse nè brodo, nè caffè, nè ovo. — Lo salvo io!

Gli versò, per la fessura della bocca, un bicchierino pieno di cognac.

E Procolo Granari riaprì gli occhi; ricompose la faccia. Sorrise.

La prostituta era contenta come d’un miracolo compiuto da lei.

— Non avete parenti al mondo? — chiese la carbonaia. E la fruttivendola:

— Non avete nessuno?

Procolo rispose, con abbastanza voce:

— Una figlia — suora — a Lugo.

— Bene! — notò, in disparte, Figuretta.

— Un’altra — ne ho — a Firenze — moglie d’un avvocato.

— Meglio! — Figuretta disse più forte.

Pausa. Ora il vecchio, affannato, agitava una mano; che gli ricadde, di
peso.

— Non c’è niente da fare — sentenziò la fruttivendola. Se ne andava con
lo spazzaturaio.

— Un gocciolo solo! — insisteva frattanto la Romana. — Un gocciolo solo,
poveraccio!

— Se l’ubbriachi, San Pietro non gli apre la porta! — ammonì, di lì
dov’era, Figuretta.

Ma Procolo voleva parlare. Gemè:

— Anche Reno — il mio cane — mi ha — abbandonato.

E il borsaiuolo:

— Si sarà messo con una cagna borghese.

— La contessa...

Una risata delle astanti, meno la Romana.

—... la contessa... — di via Goito...

E il borsaiuolo, serio, accostandosi:

— La contessa Torselli? La conosco. Quando usavano gli abiti «tailleur»
col taschino sotto il petto — una comodità — mi regalò il suo orologino
d’oro.

Nuova risata.

— Il conte... — ripigliava Procolo — il conte... — (non ricordava
neppure questo nome, il nome del suo padrone!) — Dalla fattoria —
vecchia — mi passò — alla — nuova. — Ero sempre stato — un galantuomo. —
Le ragazze — le avevo messe — in educazione...

— Bella educazione! — Figuretta seguitava a commentare.

— Vennero a casa. — Senza la madre — spendi e spendi. — Speravo. — Il
conte si ammalò...

— Ma non crepò. — Figuretta affrettava alla conclusione.

Concludeva anche Procolo.

— Quando fummo — ai conti — mi mandò via. — Ladro.

— No! Imbecille! — corresse a bassa voce il borsaiuolo. — Un fattore che
si fa cacciar via per ladro prima d’essere arricchito, che imbecille!

Entrò un’altra della casa di tolleranza. Bionda; sentimentale. E
Figuretta le diè luogo con una mossa da gentiluomo. Ma la ragazza
inorridì. Fuggì dicendo:

— Mi par di vedere il mio babbo!

— Tutto lui! Unica differenza, che la figlia di questo babbo qui fa la
suora a Lugo.

Non sorrisero al borsaiuolo che la carbonaia e l’ostessa, mentre se ne
andavano anche loro. Non c’era, infatti, più speranza di giovar a quel
disgraziato. Moriva.

Quando arrivò, finalmente, il signor Giulione. Non glien’era riuscita
bene una. Per il cordiale bisognava una bottiglietta o una tazza. Il
medico era impegnato. Aveva detto: — Se ha fame, dategli da mangiare. —
I pompieri non si muovevano che per un infortunio. All’Ospedale
pretendevano, com’è giusto, carte in regola.

— Tanto, è inutile — mormorò la Romana, sempre china su l’agonizzante;
alle cui labbra, di tratto in tratto, appressava il bicchierino.

Ecco: — Il prete — il morente potè dire con l’ultima voce.

— Non importa. Vi assolvo io — assicurò Figuretta.

Ma questa volta la Romana gettò all’amico una truce occhiata.

— Finiscila, per li mortacci tuoi! — E alla padrona di casa: — Accendete
una candela!

                                  ————

... Rimasero soli lor due, la prostituta e Figuretta.

Lei si inginocchiò. Pregava sommessamente. Lui attese un poco; indi le
si accostò, a dirle all’orecchio:

— Romana, prestami dieci lire per andar all’Eden. Prima di sera te ne
porto cinquanta.

Seguitando a pregare, la Romana tolse dalla tasca della vestaglia la
chiave del comò; gliela diede.

Allora il giovine si chinò su Procolo Granari e piano, ma spiccando le
sillabe come per farsi udire da un sordo:

— Diteglielo a Dio, se lo vedete, che la buona gente siamo noi!



                             IL TESTAMENTO



                                   I.


Instaurato che sia il Comunismo non si udrà più ripetere quel che nel
paese di San Giorgio al Piano fu ripetuto nei caffè, in ogni bottega, in
ogni casa, in ogni canto alla morte repentina del sindaco comm.
Ceredoli: — Ha fatto testamento? — Non l’ha fatto? — Eredi i figli e le
figlie in parti uguali? E la vedova? La legittima alla moglie?
l’usufrutto? Di quanto? — Quanto avrà lasciato? Un milioncino? Meno?
Più?

Ah sì! beati i tempi in cui le eredità saranno di soli affetti! Lásciti
di tal sorta non muoveranno torbide invidie, e s’immagina come ne
godranno i figli amanti del dolce far nulla e le figlie amanti del dolce
far qualche cosa, ma con eleganza, con lusso, e coi necessari dispendi.
In quel paese, però, prevaleva allora alla curiosità bassa e oziosa un
desiderio discreto: sapere in che modo il commendatore Ceredoli —
sindaco benvoluto da quasi tutti — si era comportato davanti alla morte:
se aveva pensato al caso di spirare all’improvviso tra le braccia di
Sant’Andrea d’Avellino. E possibile non si fosse proposto di serbar
defunto la stima che vivo aveva meritata da quasi tutti: giudizioso,
giusto, onesto, modesto, caritatevole? Non era forse stato uno di quei
borghesi (di una volta) che seguendo le vecchie tradizioni domestiche
civili e religiose sapevan conciliare la borghesia alla virtù?



                                  II.


Solenni i funerali; con lungo séguito, al trasporto, di gente concorsa
anche dalla città e dalle campagne. C’era una carrozza carica di
ghirlande e sul feretro una di puro lauro e una di fiori candidi:
significato chiaro in questa se non in quella pur alla scarsa
intelligenza del popolo. E i preti e i frati recitavan le preci con voce
così cordiale che si sarebbero detti del tutto contenti. I discorsi alla
Porta, prima che il carro svoltasse per l’ultimo tragitto, non finivan
più; e i saluti alla salma parevan auguri d’un viaggio che nessuno degli
oratori credesse dover compiere anche lui, un giorno o l’altro. Poi, al
ritorno, l’assessore anziano interrogò i colleghi se non trovassero
opportuna l’idea di dedicare all’illustre estinto un busto di marmo, nel
giardino pubblico.

— Purchè non si oppongano le disposizioni testamentarie — osservò il
segretario del Comune.



                                  III.


Sempre allegro, Agosti, il segretario del Comune, sudava a non ridere
nelle gravi circostanze perchè ne rilevava, a sè stesso e agli altri, i
contrasti comici. Così ammoniva: — Siamo seri — appunto quando più
presentiva il pericolo di scoppiare in una risata aperta o in singhiozzi
di riso irrefrenabile. — Siamo seri — susurrò all’orecchio dell’amico
assessore dell’Igiene entrando nel salotto di casa Ceredoli. L’intera
Giunta ci era venuta per la visita di condoglianza alla vedova e per
informarsi intorno al testamento.

Ed ecco aprirsi l’uscio e presentarsi la vedova accompagnata dalla luce
della gran vetrata di contro. Agosti, che teneva gli occhi bassi (—
siamo seri! —), ebbe da quella luce una rivelazione, uno spettacolo
strano e inatteso. La signora aveva indossato in fretta la veste nera
senza pensare che la tenuità del tessuto la rendeva trasparente. E
mostrava come velate impudicamente le gambe. E che gambe! due colonne
calzate d’un colore dubbio e basate su due piedini in scarpine lucide.

Bastò. Sentendo che gli sarebbe vano ogni ritegno il segretario si
volse, e col fazzoletto al viso andò a scoppiare presso l’altra
finestra. I suoi singhiozzi ruppero il silenzio di quegli istanti, e
l’assessore anziano, mentre egli e i colleghi s’inchinavano, ne
approfittò a proferir belle parole d’occasione.

— La commozione così sincera del nostro segretario le dimostra, signora,
quanto il suo signor marito era amato dai dipendenti e come grande debba
essere il cordoglio dei suoi colleghi del Consiglio comunale che noi,
qui, abbiamo l’onore di rappresentare.

— Grazie..., s’accomodino... — balbettava la vedova col fazzoletto in
mano.

E tutti sedettero, tranne Agosti che le commoventi parole dell’assessore
anziano indussero a singhiozzare più forte.

— La Giunta anzi — seguitò il capo della Giunta — ha in animo di
proporre al Consiglio che le virtù dell’illustre estinto e il compianto
della cittadinanza siano ricordati in un monumento, in un busto...: se
pure le disposizioni testamentarie di un uomo tanto modesto non vi si
oppongano e non dimostrino preferenza per le opere di pietà. Nel qual
caso...

— Ma il testamento non si è ancora trovato — interruppe la vedova
asciugandosi gli occhi. — Non sappiamo se l’abbia fatto...

Meraviglia in silenzio. Possibile? E l’uscio dell’altra camera si
riaperse e ad uno ad uno, con successivi inchini, entrarono il figlio
del defunto e i tre generi. Il segretario che si era quietato, cercò di
far largo scostando sedie e poltrone. E si mordeva ferocemente la
lingua.

Strette di mano, in silenzio.

— Possibile? — disse l’assessore anziano rivolto alla vedova.

Essa riferì ai venuti l’argomento del discorso.

— Impossibile che non l’abbia fatto! — rispose il figlio. — Un uomo come
mio padre...

— La previdenza, la prudenza in persona...

— Ma — obiettò il più lungo dei generi — se avesse avuta l’intenzione di
testare il povero commendatore non ne avrebbe avvertita la sua signora,
per cui non aveva segreti?

— Ah! questo è vero! — la signora disse asciugandosi gli occhi.

— Ma — obiettò il più piccolo dei generi col tenue sorriso di chi si
lascia scappare una castroneria —: a far testamento ci si tira, dicono,
la morte addosso.

Oh! Protestarono. — Il povero commendatore non aveva di questi
pregiudizi!

— Ma — obiettò il genero di mezzo per accomodar la topica dell’altro —:
il povero commendatore forse dubitò di spiacere alla signora. — Già:
come a dire che la superstiziosa era lei! Altre proteste. Il segretario
sgattaiolò a prender aria.

— Mi viene il dubbio — intervenne a questo punto l’assessore anziano —
che se non è presso il notaio Tibaldi, il testamento sia nel gabinetto
del sindaco.

— Questo sì! — Ipotesi verosimile.

E subito si deliberò di mandare una commissione in municipio.

— Segretario! segretario!

Agosti rientrò con faccia dolente. Egli e il figlio Ceredoli, un genero
e due degli assessori se ne andarono alla ricerca in municipio.

Tra i rimasti c’era l’assessore dell’Igiene, che sino allora non aveva
aperto bocca. Qualche cosa bisognava pur dire! Disse avanzando una nuova
ipotesi:

— E non hanno interrogato il canonico Bonerba? Era così amico del povero
commendatore! Forse lui ne conosce le intenzioni.

— Perbacco! — fecero i due generi ch’eran rimasti lì seduti.

Come mai non ci avevan pensato?

E lor due con quello dell’Igiene se ne andarono subito subito in cerca
del canonico Bonerba, alla cattedrale.



                                  IV.


Dal municipio tornarono con un fascio di carte inutili: fatica
particolare, a portarlo, del segretario Agosti, il quale si tenne punito
così della sua ilarità intempestiva, e rideva ripensandoci. Ma dalla
cattedrale gli altri messi recarono di meglio.

Quel sant’uomo del canonico Bonerba arrivò rosso e sbuffante (non è
legge che tutti i santi debbano avere il ventre smilzo) e chiese di
parlare da solo a sola con la vedova. Allora gli estranei alla famiglia
si mossero a salutare, per assentarsi.

— No no — esclamò il canonico —: la loro presenza, quali rappresentanti
del Comune, è forse più che conveniente, necessaria tra poco.

E quindi tutti, fuorchè i due — il sacerdote e la signora — passarono
nella camera da desinare. Ivi erano in perfetto lutto le figlie e la
nuora del defunto.

— Desideravo d’essere chiamato per uscire di perplessità — continuò il
sacerdote. — Non che io sappia se il mio povero amico abbia o no
testato, ma so quali erano le sue intenzioni testamentarie e rispetto
alla chiesa e rispetto alla beneficenza, alle opere pie.

— Ah — sospirò la vedova — se l’ha fatto, il testamento, dove l’avrà
dunque depositato?

— Ecco...; appunto... Il mio povero amico aveva una preoccupazione sola:
non turbare l’armonia della sua famiglia veramente esemplare. Si sa...;
i beni di questo mondo generano dissidi, alle volte, fin tra le persone
più affezionate. E Ceredoli era così delicato, così sensibile, che aveva
quasi il pudore della sua saggezza, della sua giustizia, della sua
prudenza. Mi spiego?

— Ah! — sospirò la vedova asciugandosi gli occhi.

— Voglio dire che se fece testamento forse lo nascose perchè il figlio e
le figlie non sapessero che l’aveva fatto e non ne pensassero male (pur
troppo la fragilità umana...). E il Signore nel chiamarlo a sè non gli
lasciò tempo di avvisare lei o me o altri del luogo ove aveva riposto il
documento.

«Riposto»? Potere di una parola! La vedova a udirla ebbe un lampo di
chiaroveggenza in un istantaneo risveglio della memoria. Ricordò la
cassapanca secentesca ai piedi del letto nuziale e la cassettina che
v’era dentro, antica anch’essa, in forma di bauletto o di cofano.

Balzò in piedi esclamando:

— È nel cofano dentro la cassapanca del seicento!

Il sacerdote la trattenne con dolcezza nell’atto e nella voce.

— Aspetti, signora. O il testamento si trova dove lei dice, o non vi si
trova. Se non si trova neppur lì io mi credo in obbligo di dichiarare
oggi stesso, con le cautele consigliate, anzi imposte dalla legge, quali
erano le intenzioni del mio amico. Per questo ho pregato i membri della
Giunta di rimanere. E se il testamento si trova, non le par bene che sia
aperto da mano di notaio? Non le par conveniente mandare prima di tutto
per il dottor Tibaldi?

La signora annuì. Un servo fu mandato per il dottor Tibaldi. Quindi
essa, la vedova, portò nella camera da desinare e vi depose su la tavola
il cofano avito. Era chiuso. Ne mancava la piccola chiave.



                                   V.


Il canonico, la vedova, il figlio, le tre figlie, i tre generi, la
nuora, i quattro assessori e il segretario...: 15. In quindici, nella
camera da desinare, aspettavano il notaio.

Che venne, finalmente.

— Siamo seri — mormorò Agosti all’orecchio dell’assessore d’Igiene; e
col coltello in mano si pose, ritto in piedi, dietro la seggiola in cui,
a capo della tavola, siederebbe l’uomo del Diritto. Davanti, aspettava
il cofano. E gli porse — il segretario al notaio, appena questo fu al
posto — il suo coltello da caccia, per forzare la debole serratura. Di
qua e di là della tavola, stavano, in piedi il figlio e i generi; di
fronte, le signore e il canonico, e più indietro, in piedi, i
rappresentanti del Comune.

Momenti di aspettazione ansiosa, dissimulata da facce serie e sguardi
severi.

— Constatato che nel cofano che si presume contenga il testamento del fu
comm. Antonio Cerédoli manca la chiave idonea ad aprirlo — il notaio
chiese — tutti gli aventi diritto, senza eccezione, consentono che si
sforzi la serratura?

— Sì! sì! — tutti risposero.

E _cric_ fece al passar della lama il concavo coperchio. Aperto subito;
senza sforzo. E...

— Eh? cosa? — disse il dottor Tibaldi voltandosi indietro quasi il
segretario avesse parlato. Rossi erano; congestionati, sembravano, tutti
e due. Ma Agosti non aveva parlato; aveva veduto quel che il notaio
aveva veduto.

— Eh? cosa? — Scappò via, Agosti, fuori della stanza, come se ci avesse
veduto un leone a bocca spalancata o una leonessa, dentro il cofano. Per
dir meglio, più semplicemente — con scandalo dell’assemblea — scappò via
come uno che non può più resistere.

— Cosa? cos’è stato? Cosa c’è? — adesso significavan nello stupore
enorme tutte le facce, mentre il notaio rialzava appena appena il
coperchio e si accertava che le carte lì dentro erano tutte della stessa
sorte.

Sì, tutte della stessa, sorte! della stessa natura!

Il povero uomo del Diritto cercò il modo e le parole per trarsi
d’imbroglio. Trovò. Parlò con voce tremula:

— Quanto è contenuto qui dentro non è ostensibile. — Non è ostensibile —
ripetè —; non ammette alcun atto legale, e solo a un amico intimo della
famiglia spetta consigliar il da farne.

Così dicendo il dottor Tibaldi venne col cofano dal canonico, lo depose
sull’ampio seno di lui; e susurrate che ebbe due paroline all’orecchio
del sant’uomo, scappò via lui pure quale uno che non ne può più.



                                  VI.


Che cosa conteneva il cofano?

Conteneva...

(— Dentro la mia casa e dentro la mia coscienza ci si può guardare come
se avessero le pareti di vetro puro — soleva ripetere il povero comm.
Cerédoli. Questa l’arma che l’aveva difeso da ogni più feroce attacco
partigiano, da ogni più forte avversione, da ogni più recondita
insidia).

Il cofano conteneva...

(— Il bene sociale riposa sul bene della famiglia — spesso ammoniva il
canonico Bonerba —; e il bene della famiglia riposa su la virtù e sul
buon costume, su la rettitudine e sul buon esempio: guardate la famiglia
del comm. Cerédoli).

Conteneva...

(E il figlio Cerédoli diceva spesso: — In fatto di moralità con mio
padre non si scherza; è fin eccessivo. — )

Conteneva...

(E la madre Cerédoli raccomandava, di quando in quando, ai generi: —
Specchiatevi nel commendatore, e renderete felici le mie figliuole. — ).

Conteneva...

(— Ah il babbo! — esclamavan le figliuole alzando gli occhi al cielo).

Conteneva, insomma, dei ritratti...

Eh? cosa?

... ritratti di donne...

(— Ah il nostro sindaco! — esclamavano i cittadini di San Giorgio al
Piano, alzando gli occhi alle finestre di lui —. La sua casa è come se
fosse tutta di vetro puro —).

... ritratti i quali, sebbene non avessero vesti a determinarne l’epoca,
si vedeva che erano modernissimi.

Eh? cosa?

Appunto: nella cassapanca del seicento, ai piedi del letto nuziale,
dentro il cofano che aveva forse accolti i mistici o verginei segreti di
qualche avola, il povero comm. Cerédoli ci teneva delle fotografie —
concludendo con le due paroline dal dottore Tibaldi mormorate
all’orecchio del santo uomo —... fotografie oscene.



                         CHE COSA E’ IL MONDO?


È enorme il mistero dell’Infinito, ma è enorme anche il naso del signor
Petronio. Dicono che in origine non era così, che lo trasformò una
malattia; e certo chi lo veda, quel naso, la prima volta, pensa subito a
una di quelle conflagrazioni di sostanze misteriose e recondite, a una
di quelle eruzioni vulcaniche o a uno di quei terremoti per cui una
bella montagna andò sottosopra e rimase tutt’un disordine di lavine e
rocce, anfratti e magagne, precipizi e rupi; non senza le tracce che in
tali rovesci lascian gli uragani e vi rinnovan le tempeste. (Fuori di
similitudine, l’uragano o la tempesta potrebbe essere il vin buono!).

Ma errerebbe chi non avendo mai visto il signor Petronio lo immaginasse,
dalla descrizione del suo naso, un brutto vecchio. Tutt’altro! è
simpatico. La persona alta e ben proporzionata serba ancora, oltre ai
settant’anni, vigoria e salute; la perfetta canizie dei capelli, delle
ciglia e dei baffi mitiga il rosso della carnagione e la vastità delle
orecchie; e soprattutto piacciono la pacatezza del suo parlare, indizio
di animo onesto e il sorriso dei suoi piccoli occhi, indizio di sicura
fede. Qual fede? In sè stesso: la fede più consolante e più invidiabile.
Mentre sul mercato il signor Petronio passa per sensale in granaglie,
nella vita intima e tra gli amici discorre da filosofo che sa di non
errare, sapiente. E sì che egli non sa nè leggere nè scrivere! Pare un
miracolo; eppure durante mezzo secolo ha potuto commerciare in
granoturco, riso e fagiuoli, restando galantuomo, sebbene analfabeta, e
avanzandosi dei soldi. Quanto alla filosofia, il suo difetto
d’istruzione o non è difetto o è lacuna che si ripara con altro mezzo.
Perchè si noti anche questo: chi legge ubbidisce più o meno a chi ha
scritto; chi va a scuola ubbidisce al professore. E credete voi che
tutti quelli che tengon la penna in mano abbiano giudizio? Eh!, buon
senso ci vuole! Il buon senso è il rimedio del signor Petronio, è la
forza della filosofia; e se qualche filosofo non lo crede, poco importa:
lo crede lui, e basta; appunto perchè lui non sa nè leggere nè scrivere
e la pensa a modo suo.

Naturalmente a chi scorge chiara, chiarissima ogni cosa nel mondo e ogni
faccenda dell’universo, talvolta rincresce gli manchi il più acconcio
mezzo di persuader gli altri, che san leggere: il signor Petronio ha chi
lo ascolta e l’approva ma, purtroppo, solo al caffè, non in Parlamento,
non in Senato, non al Ministero, non alle corti di Europa, non agli
imperi d’Oriente e alle repubbliche d’America, non a casa del diavolo
laggiù, al Transvaal o in China.

E ripete con desolata invidia:

— Che fortuna saper di lettere! — Si consola però subito. — Io non ne so
e ci rimedio: col buon senso.

Così, quando al caffè ode leggere dagli amici il giornale e ode i
commenti alle notizie politiche e alle miserie pubbliche, si riconforta,
si libera a giusto interprete di quel foglio stampato con inesplicabili
caratteri, e la sua stessa deficienza gli sembra una conseguenza logica
della sua filosofia e della legge che la sostiene: egli, cioè, non
comprende un’acca del giornale e comprende tutto l’universo, al
contrario di chi guarda al sole e non vede più nulla. O come a dire: i
giornalisti, i letterati, gli scienziati scrivono quel che sanno e
(salvo il rispetto) non sanno quel che scrivono; e i governanti
pretendono di condurre per la strada diritta e non s’accorgono che
girano in tondo! In tondo girano; in tondo giriamo: è la legge!

Infatti: oggi corre innanzi un uomo o un popolo, e domani un altro;
finchè il primo torna a precedere. Oggi a me, domani a te. — Il figlio
del dottore farà lo spazzacamino, e il figlio dello spazzacamino sarà
dottore. — Sempre non è seren, sempre non piove. — L’uomo crea e l’uomo
distrugge. — Progresso, eppoi regresso. — Tutto è equilibrio; tutto è
armonia; tutto su e giù. — E la conclusione sta nell’unico principio in
cui riposa il sistema del signor Petronio:

— Il mondo è una ruota che prilla! — Ecco tutto!

Direte che non è una concezione nuova. Grazie tante!; essa raccoglie le
dottrine di Pitagora, quel delle sfere in musica, e di Galileo, quel del
pendolo; le dottrine di Newton, quello a cui cadde la mela sul naso, e
di Darwin, quello dell’evoluzione e delle azioni e reazioni per cui da
una scimmia balzò fuori l’umanità. Ma prima di tutto, se non è originale
il sistema, è originale il signor Petronio, che nessuno potrà mai
incolpare d’aver copiati quei gran filosofi. In secondo luogo, quanti
secoli saranno che morì Pitagora? Mettiamo venti, trenta secoli. Ebbene,
se dopo trenta secoli, al giorno d’oggi, il signor Petronio la pensa
press’a poco come il gran Pitagora, ecco la più bella prova che il mondo
è proprio una ruota che gira. In terzo luogo, sia di Tizio, sia di
Sempronio o del signor Petronio, questo sistema è il più semplice, il
più intelligibile, il più spiccio per risolvere tutti i problemi fisici,
morali, economici, sociali, politici. Il cielo è tondo, il sole è tondo,
la luna è tonda; dunque la terra deve esser tonda. È la legge! Le
stagioni da un pezzo in qua non combinan fra loro? Dunque presto
torneremo a godere della primavera e dell’autunno. È la legge!
Quest’anno son care le patate: quest’altr’anno saran cari i fagiuoli. È
la legge.

Concepito il mondo così, ogni cosa procede liscia. Nemmeno il progresso
e le scoperte della scienza turbano la fantasia, e un vecchio
settantenne può sinceramente lodare il presente in confronto del suo
passato. Automobili, tram, biciclette trascorrono davanti agli occhi del
signor Petronio lasciandolo pago, quasi ci avesse avuto la sua parte a
inventarli. Pacifico, egli ragiona: — si è sempre detto che in China la
macchina a vapore esisteva mille anni prima che da noi; e chi vi dice
che non ci esistessero anche i tramvai o gli aeroplani? E viaggeremo
tutti per aria e gli aeroplani saran così fitti che succederanno scontri
e disgrazie, e si buscheranno malattie come a viaggiare in terra, tali e
quali. Ma, pur troppo, torneranno i giorni della barbarie, e i nipoti
dei miei nipoti, poverini, patiranno come me quand’ero ragazzo, che
pigliavo scapaccioni per paga se aiutavo qualche soldato «dal becco di
legno» a levar la ruggine dal fucile. È questione di buon senso: è la
legge. —

Infine, quando tutti concepissero il mondo così, ci sarebbero meno
birbanti, ricchi e poveri, e meno scioperi: per l’armonia politica non
si avrebbero tanti senatori o deputati sempre pronti con i loro tromboni
o i loro argomenti e le loro grida a fracassarsi la testa da cari
colleghi; e per l’armonia famigliare non si contenterebbero tante
stonature e tanti corni e scorni e suicidi in due. Ad esempio, voi, con
una donna quale la moglie del signor Petronio, vi sareste affogato nel
fiume per liberarvene! Tutto il santo giorno: — Petronio, ho male qui;
Petronio ho male qua —; quasi un filosofo avesse obbligo di esser medico
e quasi i medici possedessero l’arte di guarire un male qui e un male
qua! Lui invece esorta la sua signora a rassegnarsi, a gettar nel pozzo
quella morfina maledetta che le fa far tante smorfie, contorsioni e
sussulti, a bere vin buono e a sorbir aria fresca, insieme con suo
marito che d’inverno spalanca finestra e bocca appena giorno perchè il
freddo gli ammazzi tutti i microbi nella camera, nello stomaco, e magari
sul naso. Ma son vani consigli; nè giova ripetere, per consolarla:

— È una ruota, Càrola; una ruota che gira. Una volta tutte le donne
avevano il convulso: adesso han l’isterismo... (La signora Càrola è sui
settanta anche lei)... Una volta non c’era altro rimedio che l’_Aceto
dei sette ladri_; adesso, la morfina. Ma non dubitate che si tornerà
all’aceto e al convulso: soltanto, ladrerie e donne saran sempre quelle!

                                  ***

A proposito della signora Càrola la biografia del signor Petronio
contiene un aneddoto che rivela l’uomo e nell’uomo rivela insieme il
buon marito e il pensatore profondo. Ma bisogna, per questo, risalire a
diciassette o diciott’anni or sono, quando il mondo pareva aggravato
dalla guerra giapponese cinese. I medici — i quali san leggere ma non
capiscon nulla — consigliavano l’inferma signora Càrola a distrarsi; e
un giorno che il marito doveva andare a Bazzano per contrattare, là
presso, una partita di granturco, dàlli dàlli, riuscì a caricare la
moglie in treno e a distrarla dal finestrino con lo spettacolo della
campagna ancora estiva e dei casolari e dei villaggi pieni di gente
allegra. Arrivati che furono, entrarono in paese. Lei si abbandonò su di
una seggiola del caffè, e fra un sorso e l’altro di vermouth cominciò a
sbigottir la caffettiera con le smorfie, le scosse e la storia dei suoi
malanni. Egli intanto prese la via del monte; giunse in mezz’ora alla
cascina, e in quattro e quattro otto s’accordò col venditore. Una
bottiglia di lambrusco aiuta ad appianar gli affari non meno che un giro
di ruota a comprender l’universo.

Di ritorno, il signor Petronio non pensava più affatto al frumentone; e
il suo sguardo navigava inconscio nella gran luce del pomeriggio, che
avvolgeva la terra e infondeva sin nelle pietre un calore di vita
gioiosa e feconda. Sebbene non ci fosse ombra di bosco e la strada
polverosa, ardente e deserta difilasse aliena da frescura di fonte o da
soavità di rivo, un poeta avrebbe scorte chi sa quante amadriadri e
ninfe a tentarlo procaci e scappargli via proterve. Il signor Petronio
se ne veniva lemme lemme, catelon catelone, non badando neppure ai
piccoli ciottoli in mezzo al suo cammino. Sorrideva a sè medesimo,
intanto che a ogni curva o svolta l’ombrello perdeva la direzione del
sole e, inutilmente aperto, lasciava riscaldare nel cranio sottoposto il
buon senso della filosofia.

Quand’ecco, alle prime case di Bazzano, sbucare l’amico Mascarella,
sensale anche lui, ma di bestie bovine.

— Oh! quel Petronio!

— Oh Mascarella!, amato mio bene!

— Venite a Bologna?

— Pronti!

E s’accompagnarono.

— Come van gli affari? — domandò il signor Petronio, giocondo e rosso
più del solito.

— Male! siam giù!

— E la guerra?

— Che guerra?

— Là, in China! Non sapete?

Mascarella, infatti, sapeva leggere.

— A me — rispose — a me la guerra in quel paese non mi fa nè caldo nè
freddo. In America la vorrei...

— Non vi fa concorrenza, a voialtri, la China?

In quel punto un paesano chiamò, per due parole, Mascarella. Quando
venne, rispose:

— Che concorrenza volete ci facciano i Chinesi? A quel che si legge,
mangiano i cani, e gli uomini, da loro, servon da tiro. Vi mettereste a
sensale, voi, da cani e da cristiani?

— Maomettani, direte: son d’un’altra fede.

— Sian di Maometto o sian del diavolo, son razza di cani. Dunque..., che
gusto matto grapparli per il codino e dondolarli come zucche!

Il signor Petronio disapprovava, evidentemente. Ma in quel punto l’amico
entrò dal tabaccaio e vi si trattenne un po’ a discorrere. Riprendendo
il cammino, riprese il signor Petronio:

— Vorreste ammazzarli tutti quanti?

— Chi?

— I Chinesi.

— Tutti! Far del largo, anche per voi! Se laggiù non ci nascesse più
frumento, riso o fagioli, voi diventereste milionario!

— E qui, dopo? A mandar la roba là, ci mancherebbe a noi.
Bell’interesse! Non capite che è una ruota? Abbondanza là, carestia qui:
abbondanza qui, carestia là. Invece di far la guerra, per questo,
sarebbe meglio venir a patti; contrattare. — Quanto domandate, voi
Chinesi, per lasciarci coltivare il riso anche a noi, Italiani, Inglesi
o Russi? — Tanto! — Vi diam tanto; e parola da galantuomini. Una stretta
di mano, senza protocolli; e _amen_!

— Ma la guerra non si fa per questo, per guadagnare.

— Perchè allora?

— Per la civiltà.

Il signor Petronio non attendeva altra risposta. Cominciò
tranquillamente l’esposizione del suo sistema, la spiegazione della
legge civile, umana, mondiale, divina. Ad ascoltarlo, strada facendo, si
aggiunse un bazzanese, che andava egli pure alla stazione, per venire a
Bologna, e poichè il filosofo s’arrestava di frequente chiedendo: — È
chiaro? — Capite? — La vedete come me, voi due? —, fu necessario, a non
perdere il treno, prendere una scorciatoia.

Arrivarono in tempo alla stazione. Ma dove intendeva giungere il signor
Petronio con la sua ruota che gira? Nient’altro che alla pace
universale! Il sensale Mascarella e il Bazzanese, che sapevan leggere,
interrompevano, però; interloquivano a lungo, con le loro ragioni e
bestialità. Sicchè dopo un’ora e mezza di viaggio, arrivando a Bologna,
il filosofo non era riuscito a persuaderli di altro che della pace in
China e solo per evitare, nell’avvenire, un’invasione di Chinesi in
Europa, in Italia, a Bologna, a Bazzano, in mercato, forse, a rubar
bovini maschi e femmine.

Ed ecco che, appena fermo il treno, si ode gridare da ogni parte:

— La pace! la pace! Ultimi telegrammi! Notizie della pace! Telegrammi
dalla China!

Subito il signor Petronio comperò due o tre giornali; felice come se
avesse imparato a leggere in quel punto. Poi discese, e disceso che fu,
si volse a guardar nel sedile del vagone e su, alla reticella.
Nonostante il gaudio, gli pareva d’essersi dimenticato qualche cosa. Ma
l’ombrellino l’aveva: sotto il braccio. E la pace era fatta! Fuori della
tettoia, Mascarella, che era già convinto nella chiaroveggenza del
filosofo, domandò:

— Venite a desinar con me, Petronio? Leggeremo i fogli.

Allora il filosofo ebbe una luce attraverso il cervello.

— E la mia donna? — esclamò.

... Povera Càrola, che l’aspettava ancora nel caffè a Bazzano, con tutti
i mali addosso e senza morfina in tasca!

                                  ***

Eppure questo buon Petronio, forse per il naso più che per il resto,
dispiacque un giorno a uno sconosciuto che capitò al caffè e che
l’ascoltò un pezzo in silenzio, eppoi l’investì arrabbiato come una
bestia. Inutile dire che era un altro filosofo. Disse, gridò:

— Ah lei vede tutto chiaro, tutto semplice, tutto spiccio? E lei mi
risponda, con la sua ruota: perchè si nasce, perchè si muore? Mistero!
Di dove veniamo, dove andiamo? Mistero! Perchè non c’è male senza bene e
bene senza male? Mistero! Perchè la coscienza ci dirige e dove ci
dirige? Mistero! Se la morte è un male perchè ci è data e se la vita è
un bene perchè ci è tolta? Mistero! Perchè l’uomo fu sempre infelice,
insaziabile del vero, instancabile a progredire e a che fine? Mistero!

Il signor Petronio sorrideva zitto e quieto quasi pensasse: Qual’è il
sistema filosofico che non incontra e trascura le piccole difficoltà?

Ma l’altro filosofo proseguì sempre più torvo e più violento:

— Bando alla sua ruota! e risponda! Perchè tutta la materia è in moto?
Mistero! Perchè il feto sviluppandosi nell’alvo passa per tutti i gradi
e tutte le forme dell’evoluzione animale? Mistero! Che cosa è l’etere?
la luce? Perchè la telepatia? Quale l’essenza della vita? Che cosa è il
sonno? la morte? l’enorme mister dell’infinito? In una parola, che cosa
è il mondo?

Il signor Petronio aveva ascoltato tutt’orecchi (che orecchie!) e
sorridendo; e alla fine della sparata non si scompose. Si grattò a pena
a pena il naso, s’alzò pacifico più che mai e con la gran semplicità del
suo buon senso, del suo cuore e della sua eloquenza, rinunziando una
volta tanto alla sua ruota, rispose:

— Ce la spiego io, in due parole, la questione. Dalla vita alla morte, e
anche dopo la morte, il mondo è tutto un imbroglio!



                      NELL’ANNO XX DELLA RE-SO-EU


Quando, nel quattordicesimo anno della Re-So-Eu (Repubblica Sociale
Europea; 2010 d. C.) i radiotelegrammi, gli eliogrammi e ogni sorta di
elettrogrammi annunciarono l’invenzione del dottor Pantìfilo, la
meraviglia non fu quale si crederebbe. Da un pezzo si conosceva la
«emostatina», con cui quasi istantaneamente si arrestava ogni più
violenta e copiosa emorragia; da forse un decennio era in uso la «sutura
spontanea», per cui in breve si cicatrizzavano le più profonde ferite,
si riconnettevano i nervi, le vene, le arterie, i tessuti; e fin dal
secolo ventesimo era stata intravveduta l’efficacia dei raggi
«ultra-rossi» a mantenere la vitalità nervea. E che faceva il dottor
Pantìfilo?

Mozzava la testa ai conigli o alle cavie; ne impediva con l’«emostatina»
l’effusione e la dispersione del sangue; salava di radio, per così dire,
le parti recise; operando sempre alla luce ultra-rossa riattacava le
teste mercè la «sutura spontanea»; e dopo poche ore le cavie e i conigli
decapitati e rincapitati sgambettavano allegri al pari di prima. Il
merito della risurrezione era dunque particolarmente dei sali di radio,
e, tutt’al più, del modo con il quale il dottor Pantìfilo se ne valeva.

Nè la nuova invenzione poteva ritenersi di qualche utilità pratica. Dopo
le stragi che avevano condotta l’Europa evoluta alla fratellanza
universale, le ghigliottine «perfezionate e multiple» erano state
rinchiuse nei magazzini della gran Repubblica, a Lublino. Non poteva più
accadere che teste di innocenti di dentro ai panieri sembrassero accusar
d’ingiustizia il fratello boia; e non c’era da sperare che in via
privata qualche capo di uomo o di donna fosse tolto dal busto con la
precisione netta e meccanica che si richiedeva alle esperienze del
dottor Pantìfilo.

Ma ecco che nell’anno XX della Re-So-Eu (Repubblica Sociale Europea) i
radiotelegrammi, gli eliogrammi e ogni sorta di elettrogrammi da Lublino
(nel centro, o quasi dell’Europa) trasmisero al mondo intero una ben più
strepitosa notizia; annunciarono il fatto orrendo per il quale il dottor
Pantìfilo doveva esser presto consolato oltre le sue speranze.

Là, a Lublino, capitale della Gran Repubblica, si era scoperta una
cospirazione contro il Fraternale Governo; il direttorio, cioè che
gl’innumerevoli soviety europei, mediante le dodici confederazioni
elettríci, ogni anno componevano coi più insigni rappresentanti del
socialismo internazionale.

Sì, da appena vent’anni la Gran Repubblica era stata costituita su
l’eguaglianza economica, che da secoli si credeva la base più salda alla
umana e civile beatitudine, e già l’ancor recente costituzione pareva
difettosa, vessatoria, tirannica, iniqua. A quanti? Eh! se molti erano
gli uomini malcontenti, dagli Urali al Tago, dal Capo Nord a Candia, le
donne malcontente erano moltissime. Chi l’avrebbe mai detto? Ottenuta la
parità agli uomini in ogni esercizio manuale e intellettuale, in ogni
materiale e moral benefizio, le donne per ogni dove eran state prese
dalla smania di superare gli uomini in tutto; da ogni parte e da un
pezzo tendevano a sovvertire l’ordine della società distendendo e
annodando le fila di una trama manifesta, e adescavano i maschi in
qualunque modo potessero a renderseli partigiani e seguaci.

Il Fraternale Governo, di sua natura fiducioso, benigno, quasi ingenuo,
aveva lasciato correre — come al principio del secolo ventesimo, là
verso il 1921, i governi della borghesia lasciavan correre il femminismo
rivoluzionario —. C’era ben altro da pensare! Ma la trama ebbe termine e
potere esecutivo proprio in Lublino; si scoperse, a Lublino, ch’era
affidata... — incredibile! orribile! — ai cinque personaggi forse più
famosi nella Gran Repubblica: cinque glorie del pensiero e dell’opera,
emergenti dalla universale società in modo che il solo soprannome
scientifico bastava a distinguerle e celebrarle nel mondo intero:
Serenidad, Marjana, Rankness, Uebersinnlich, Prôneur.

Queste e questi erano i congiurati a far saltare in aria il palazzo del
Direttorio e il Direttorio che v’abitava, come nell’età delle bombe
anarchiche: Serenidad, l’astronoma nata in Ispagna: l’austera, severa,
intemerata donna che quantunque fosse già vecchia proseguiva i suoi
portentosi studi su la geografia e l’etnografia planetarie; Marjana, la
scienziata fisico-chimica nata in Russia: la forte, giovine viragine che
quantunque fosse di tendenze un po’ mistiche compieva stupefacenti e
positive esperienze su le monadi e gli elettroni; Uebersinnlich, il
filosofo nato in Germania, il quale sebbene fosse un po’ troppo grasso
era forse il pensatore che più aveva avvicinato l’Assoluto; Rankness, lo
sportsman inglese, il restauratore della bellezza corporea dopo che gli
sport pazzeschi dei secoli decimonono e ventesimo avevano deformato il
tipo umano; e Prôneur, il francese poeta, per il quale tutto era detto
quando si diceva che era Prôneur il poeta.

Ebbene, costoro si eran messo in mente che un ritorno alla monarchia
feliciterebbe l’Europa; una monarchia, però, di genere femminile e
femminista. E da quei pensatori che erano ragionavano così:

Diceva Serenidad, l’astronoma: — Le colossali, singolari, uniche opere
che si osservano in Marte non possono essere effetto che di una volontà,
di una sovranità individuale, non collettiva. Un governo di molti non
avrebbe avuta la concordia necessaria a ordinarle e a compierle. Ma se
l’individuo che in Marte comanda a moltitudini di uomini, fosse un uomo,
la civiltà di Marte sarebbe press’a poco quella di su la terra al tempo
dei Faraoni. Invece la civiltà in Marte, per consenso di tutti gli
astronomi, è più progredita che su la terra; dunque in Marte domina la
donna. Facciamo su la terra come in Marte!».

Alla conclusione stessa arrivava per la sua via Marjana, la
fisico-chimica, sostenendo che a viver bene l’uomo deve seguire le
predisposizioni della Natura o, meglio, dell’Ente soprannaturale alla
cui legge la Natura ubbidisce: in natura (è fenomeno accertato da
secoli) le monadi prevalgono agli elettroni.

Da che non differiva molto il ragionamento dello sportsman Rankness.
Gridava: — L’agilità delle membra, la robustezza dei muscoli, la
consistenza della fibra hanno il fine di migliorare l’umana razza; mezzo
necessario a tal fine è piacere alle donne. Ma non si fa piacere o
servigio ad alcuno senza riconoscerne la superiorità.

E Uebersinnlich, il filosofo: «Da secoli è accertato che la donna nella
somma delle energie psichiche supera l’uomo. Finchè la donna rimase
inferiore all’uomo nelle energie fisiche e intellettuali, un equilibrio
tra i sessi fu possibile; pareggiata la donna all’uomo nella forza e
nella cultura della mente, essa è diventata superiore all’uomo nel resto
e, per legge di evoluzione e di perfettibilità, la donna ha dunque da
predominare.

Quanto al poeta Prôneur, egli cantava la perfezione sociale
dell’alveare: una regina; le api operaie; i fuchi riproduttori. Da
milioni d’anni — diceva — i fuchi son paghi d’esser fuchi. Oh che virile
gioia sarebbe per gli uomini non essere altro che fuchi! Lode ai fuchi!
Gloria alle operaie! E viva la regina!

Or il Fraternale Governo non si era perduto a confutar cotesti
ragionamenti: ma quando ebbe in mano il tubetto che una donna operaia
deponeva nella sala del consiglio e che acceso sarebbe bastato a
sconquassar tutta Lublino, quando la donna interrogata rivelò
sorridendo, con incoscienza che un tempo sarebbe parsa eroismo, chi le
aveva dato il micidiale incarico, esso — il Direttorio — non indugiò a
prendere una severa deliberazione, per amore, s’intende, della Gran
Repubblica.

La proposta di rinchiudere i rei nella casa di salute psichica, quali
delinquenti soliti, non passò; l’attentato alla salute della Gran
Repubblica non era da compatire o da compiangere come un qualsiasi
assassinio commesso per forza morbosa. Ci voleva un esempio di castigo
spaventevole.

E con undici voti su dodici i congiurati furono condannati a morte.

A morte?

Ma la pena di morte non era stata abolita dalla Costituzione sociale?
Maledetta la logica!; non si poteva violare la Costituzione per punire
chi violava la Costituzione!

Fu allora che uno dei membri governativi pensò al trovato più
paradossale che mai fosse stato fatto: al trovato del dottor Pantìfilo.

— Bella idea mi viene! — esclamò quel tal membro. — Condanniamo a morte
i rei per convincere che la Gran Repubblica non scherza, e zitti e queti
facciamoli risorgere per dimostrare, dopo, che nessun governo sarà mai
più generoso della Re-So-Eu.

E fu così che il dottor Pantìfilo ebbe finalmente cinque teste umane a
sua disposizione. Egli — chiamato d’urgenza — garantì che l’operazione
riuscirebbe senza fallo purchè la ghigliottina «perfezionata e multipla»
fosse eretta nella piazza della sua clinica, vicino vicino ai
laboratori: quivi si appronterebbero cinque gabinetti illuminati a luce
ultra-rossa; quivi si trasporterebbero subito subito i cinque corpi
decapitati e rinchiusi al momento dell’esecuzione in casse radioattive,
e le cinque teste mozzate e rinchiuse al momento dell’esecuzione in
altre cinque casse radioattive: poi, presto, si procederebbe agli
adattamenti capitali e alla rivivificazione dei corpi.

Benissimo! Tutti frattanto giurarono di mantener il segreto intorno ai
propositi governativi; e i radiotelegrammi, gli eliogrammi e ogni sorta
di elettrogrammi annunziarono soltanto che i cinque rei riconosciuti
ordinatori della cospirazione rivoluzionaria erano da considerarsi come
messi fuori della Costituzione.

                                  ***

Ma la notizia data in tal forma dispiacque, dagli Urali al Tago, dal
Capo Nord a Candia. Che intendeva significare il Direttorio con la frase
che «i rei eran da considerarsi come messi fuori della Costituzione»?
Fuori a parole o di fatto? Privati dei diritti civili e repubblicani,
soltanto? O mandati in case di salute? o piuttosto e meglio in una
vecchia carcere, in un antico ergastolo?

Guai ai governi i quali non hanno idee chiare e edificanti!

Se non che i cittadini di Lublino a vedere il giorno dopo, nella piazza
della Clinica, la ghigliottina «perfezionata e multipla», compresero
come il Fraternale Governo aveva, al contrario, idee molto chiare e
molto edificanti, e non dubitarono più per la sorte della Re-So-Eu.

Pochi protestarono che con la pena di morte si violava la costituzione
sociale; pochi mormoravano: infamia! I più avevan voglia di veder in
azione la ghigliottina «perfezionata e multipla».

E una gran folla si accalcò intorno al patibolo. Nel cielo, sopra, i
velivoli volteggiavano adagio adagio per goder con libero respiro lo
spettacolo da troppo tempo non dato.

La funzione, del resto, non durò che pochi minuti.

Così: i rei, in fila, ascesero il palco infame e con a lato i cinque
incaricati di deporne i corpi tronchi nelle casse radioattive, si
disposero ciascuno alla sua lunetta: dinanzi a loro, altri cinque
assistenti aspettavano l’attimo per mostrare le teste al popolo, deporle
subito nelle altre singole casse e distribuirle nei gabinetti del
laboratorio.

Al segno del fratello boia i giustiziandi s’inginocchiarono. Essi
gridarono: «Viva la monarchia fem...!».

E, rotta a mezzo nelle cinque bocche l’ultima parola, le esecuzioni
furono fatte, cinque in una volta, senza scuotere l’animato, alto
silenzio dell’attesa. Impossibile far meglio e più presto! Quel che
segui, s’immagina, poichè tutto procedette secondo le prescrizioni del
dottor Pantìfilo.

Tutto?

Quasi tutto.

I rei erano stati disposti sul palco in questo ordine, e in questo
ordine prendendoli — da sinistra a destra — i loro corpi tronchi furono
distribuiti nei gabinetti della Clinica: l’astronoma, lo sportsman, il
poeta, il filosofo, la fisico-chimica.

Invece, per una lieve svista, le teste furono portate ai gabinetti nello
stesso identico ordine, ma prendendole da destra a sinistra: la
fisico-chimica; il filosofo; il poeta; lo sportsman; l’astronoma.

Che accadde? Pur questo è facile immaginare. E per l’ansietà della
faccenda e per la densità della luce rossa, la quale confondeva aspetti
e fisionomie, gli assistenti del dottor Pantìfilo s’accorsero
dell’equivoco solo quando spensero la luce rossa e accesero le lampade
azzurre per immergere gli operati in un sonnellino ristoratore.
Spaventati, allora corsero dal maestro, con le mani nei capelli,
esclamando:

— Abbiamo scambiate le teste!

Il maestro palpitò, tremò, guardò il corpo che aveva reintegrato lui
stesso e sorrise. Si era riserbata per sè la testa più difficile da
mettere a posto: quella del poeta, e vide che errore non c’era. Lì per
lì non ebbe agio a riflettere che nell’ordine dell’esecuzione il poeta,
sia contando da destra sia contando da sinistra, aveva occupato sempre
il terzo luogo; per il poeta pareva non essere avvenuto scambio.

Ma il dottor Pantìfilo non sorrise dopo, nello scorgere che davvero al
vecchio corpo dell’astronoma Serenidad era toccato la bella testa di
Marjana, la fisico-chimica, e che il giovane corpo di Marjana ora aveva
in cima la vecchia testa di Serenidad; si mise anche lui le mani nei
capelli a riscontrar nella persona dello sportsman Rankness, l’inglese,
la testa del tedesco filosofo Uebersinnlich, e viceversa.

                                  ***

Eppure i cinque corpi reintegrati in tal modo riposavano così
dolcemente! Forse sognavano d’essere a riposar in paradiso, premiati per
il loro ideale di monarchia femminile e femminista.

Possibile che la meravigliosa scoperta del dottor Pantìfilo, in
conseguenza di una semplice svista degli assistenti, dovesse finire in
tal modo, suscitando uno scandalo enorme dagli Urali al Tago, dal Capo
Nord a Candia, disonorando l’Europa in America, in Africa, etc.?

No! Bisognava riparare!

E il dottor Pantìfilo (che ingegno!) si mise a sedere, riflettè, si
alzò; poi sorrise e disse ai suoi assistenti:

— Io dimostrerò che costoro d’ora innanzi vivranno più contenti di
prima!

Infatti egli si era già persuaso che con l’aiuto del caso aveva fatta
un’altra, maggiore scoperta; e deliberò di escludere il merito del caso.

Come il Fraternale Governo lo chiamò a render conto dell’errore
commesso, egli parlò francamente:

— Fratelli! Ho trovato il mezzo di render davvero felice l’umanità.
Avanti la grande rivoluzione, che diede alla società europea l’assetto
di cui tutti dovremmo esser lieti, gli uomini parevano soffrire per
cause meramente esteriori; stato economico, differenze di classi,
ambiente sociale. Tutto ciò fu mutato. Ebbene, voi avete visto, di
questi giorni, se la generosa magnanima Re-So-Eu bastò a render pago il
genere umano! No. E perchè no? Perchè gli uomini hanno il male, il
nemico, non fuori di sè ma in sè stessi. Le espressioni che corrono su
la bocca di tutti: «bisognerebbe mutar la testa alla gente», «colui,
colei non ha la testa a posto», non dimostran forse l’intuizione volgare
e secolare di fenomeni morbosi dei quali sino ad ora la psicologia e la
patologia non han conosciute le cause?: non accertano che spesso nel
corpo umano c’è un disquilibrio organico, una discordia funzionale tra
le membra o le viscere e il cervello; un contrasto fra le attività
pazienti e riflesse e la facoltà acuente e promovente, che è anche
l’attività pensante? Sì, fratelli miei! Per ridar il benessere fisico e
psichico a chi l’ha perduto, e quindi per ridar la quiete alla società,
è proprio necessario sostituir le teste a corpi cui meglio convengano;
mettere, cioè, davvero le teste a posto!

L’assemblea governativa approvava. Ciascuno del Direttorio pensava non
ai mali della società fraterna ma ai malanni del suo proprio corpo e
alla possibilità di rimediarvi così radicalmente.

— Con fortunato tentativo — seguitò il dottore — e con coscienza
tranquilla ho colto l’occasione per un nuovo esperimento. L’operazione è
riuscita a meraviglia. E considerate che io avevo solo quattro persone
da avvicendare! Il poeta ho dovuto lasciarlo tal quale, perchè le storie
letterarie attestano che quando la critica vuol correggere i poeti, i
poeti fan peggio di prima. Ma io ho resa felice Serenidad, l’astronoma.
L’illustre donna, carica di gloria per le sue scoperte, già risentiva i
malanni dell’età e perciò, senza aver coscienza di ciò, cospirava. Ora,
nel corpo di Marjana, essa raccoglie l’umana perfezione: il senno
dell’età matura e l’energia della giovinezza.

E Marjana è pur essa felice. Quante volte i giovanili femminili disturbi
la distrassero da’ suoi studi profondi e dalle scoperte intravvedute!
Quante volte ella maledisse le basse tentazioni che le scemavano la
gloria! Ora non più: ora essa, in una gioia di liberazione, affretterà
le prove del suo sublime ingegno, contenta di compensare con la fama
immortale gli anni di meno che nel corpo senile dell’amica avrà da
vivere.

Anche Marjana non cospirerà mai più!: statene certi!

E a Rankness, lo sportsman irrequieto, esuberante di forze, malcontento
perchè gli pareva di non trovar idoneo sfogo alle energie nervose e
muscolari, ho dato la moderazione d’un corpo ligio a una mente ordinata,
pacata e lucida; ho data la quiete individuale, famigliare e sociale
nella persona del filosofo.

E Uebersinnlich, il filosofo? Oh dite dite!: chi meglio di lui,
irrobustito nelle membra dello sportsman, potrà vantare le delizie della
_mens sana in corpore sano_?

A questo punto l’assemblea del Fraternale Governo scattò: applausi,
abbracci, baci. Il dottor Pantìfilo fu proclamato lo scienziato più
grande della Re-So-Eu.

                                  ***

Ah povero dottor Pantìfilo! Che errore! che disastro!

Appena usciti, perfettamente in gambe, dalla clinica, coloro che
avrebbero dovuto ringraziarlo tanto, imprecarono contro di lui.

Primo e più forte protestava il poeta Prôneur. Il quale diceva che s’era
visto aprir dinanzi agli occhi le porte del Paradiso ma che gliele
avevano subito rinchiuse in faccia. «Appena vidi il sol che ne fui
privo!». Diceva che la gioia di sentirsi dividere con un colpo netto —
tàffete! — e con un fulgore di luce divina la sede della poesia dal
corpo bruto e vile è tal gioia che nessuna altra morte può darla uguale,
e andava attorno agitando una scure e pregando gli amici di rinnovargli
quel servizio. Fu necessario rinchiuderlo in una «casa di malati
psichici», cioè in un manicomio. Ma trattandosi d’un poeta geniale, non
c’era da farsene caso. Il guaio fu che lo sportsman, l’inglese, con
folli tentativi di suicidio revolverava i passanti perchè il braccio
armato sbagliava il bersaglio. Il disgraziato, capeggiando le membra del
filosofo, a ogni momento stupiva d’essere così pigro e lasso. — What is
that?, «Che cosa è questa?» —, gridava fuori di sè. Sopratutto
l’eccitava la idrofobia delle membra disubbidienti ogni volta che gli
veniva il pensiero di far un bagno. E peggio, se possibile, si sentiva
il filosofo tedesco. Egli — e a lui pareva cosa nuova in lui — asseriva
che adesso ragionava coi piedi, con le gambe, con le braccia, con tutto,
fuor che con la testa, e correva e saltava di qua e di là senza riposo.
— Was ist das? — Sfido! Aveva le gambe, le braccia e il resto del più
famoso sportsman della Re-So-Eu! Bisognò mandarli tutti e due a tener
compagnia al poeta.

Quanto alle due donne, oh che miseria! oh che umiliazione, che abiezione
del femminismo!

A considerarsi sotto al capo, così diverse da quel che erano una volta,
le infelici s’abbandonarono, loro così celebri pensatrici, all’atavica
vanità del sesso, della fragilità di Eva.

Imbellettata e ritinta l’astronoma Serenidad andava in giro invocando: —
Amore! amore! volontad! —, e chiamava i passanti susurrando: — Vedeste
come sono bella! e piangeva disperata perchè a guardarla in faccia le
rispondevano: — Va via, brutta vecchia!

E tutta infronzolita e in guardinfante, per nascondere le deformità del
corpo, Marjana ora malediceva le monadi; urlava: — Abbasso gli
elettroni! —; e ammoniva alla voluttà ideale, senza combinazioni
chimiche. Ma in segreto piangeva, minacciava d’impiccarsi. Si sentiva
così vecchia; vecchia così presto! Povera donna!

Povere donne! le mandarono in manicomio anche loro.

E là imprecarono più dei maschi colleghi a quella che era stata la
generosità o la vendetta della Re-So-Eu (Repubblica Sociale Europea).


                                  ————



                          DELLO STESSO AUTORE

    ROMANZI:

    _L’Ave_ (Zanichelli); _Ora e sempre — In faccia al destino_
    (Treves).

    NOVELLE:

    _Vecchie storie d’amore — Amore e amore_ (Zanichelli); _Novelle
    umoristiche — Il zucchetto rosso e storie d’altri colori — Il
    diavolo nell’ampolla — Faccie allegre_ (Treves); _A stare al
    mondo..._ (Vitagliano); _Sotto il sole_ (Urbis).

    PER RAGAZZI:

    _Asini e compagnia_ (Bemporad); _Cammina, cammina, cammina..._
    (Treves).



                         Nota del Trascrittore


Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, così come le
grafie alternative (sodisfatto/soddisfatto, Ceredoli/Cerédoli, die’/diè
e simili), correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. Sono
stati corretti i seguenti refusi (tra parentesi il testo originale):

    85 — e saran sempre buoni amici [animici]
    89 — Monterúmici, piaceva ed esilarava [esilerava]
    110 — s’era sbagliato ad affezionarglisi [effezionarglisi]
    136 — Tutti [Tutte] e due, no!
    178 — pochi giorni dopo che Grappanera [Grappaneva]
    202 — Mi era ben manifesto [menifesto] ora





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