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Title: La Giovine Italia
Author: Mazzini, Giuseppe, 1805-1872
Language: Italian
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*** Start of this LibraryBlog Digital Book "La Giovine Italia" ***


Internet Archive.

              BIBLIOTECA STORICA DEL RISORGIMENTO ITALIANO
     pubblicata da _T. Casini_ e _V. Fiorini_. — _Serie III, N. 6_

                                   LA
                            _Giovine Italia_


                             NUOVA EDIZIONE
                                 A CURA
                                   DI
                             MARIO MENGHINI


                                  ROMA
                    SOCIETÀ EDITRICE DANTE ALIGHIERI
                                   —
                                  1902

                                  ————

                          PROPRIETÀ LETTERARIA
                 DELLA SOCIETÀ EDITRICE DANTE ALIGHIERI


_Gli esemplari di questo volume non firmati dal gerente della Società si
                      ritengono per contraffatti._


               (01-621) Roma, Tipografia Enrico Voghera.

                                  ————



                                 INDICE


    INTRODUZIONE.
    DELLA GIOVINE ITALIA
    ORAZIONE per Cosimo Damiano Delfante
    ROMAGNA
      _Un cenno ad onore dell’estinto PIETRO COLLETTA,_ benemerito
      italiano, gia’ tenente-generale, e ministro della guerra a Napoli,
      nel 1821.
    LA VOCE DELLA VERITÀ
      SOCIETÀ DEGLI AMICI DEL POPOLO.
      DISCORSO PRONUNCIATO DA RASPAIL, PRESIDENTE DEGLI AMICI DEL
      POPOLO.
      1831.
      RIVOLUZIONE DI PARIGI
      AGLI ITALIANI.

                                  ————



                             INTRODUZIONE.


Il giornale _La Giovine Italia_, indicato nel frontispizio come una
«serie di scritti intorno alla condizione politica, morale e letteraria
della Italia, tendenti alla sua rigenerazione», è un de’ rappresentanti
maggiori, se non il migliore, di quella raccolta di periodici
mazziniani, che s’inizia con l’_Indicatore Genovese_, che si chiude con
la _Roma del Popolo_, e che aspetta sempre uno studioso di coscienza, il
quale ne indaghi le vicende e ne stabilisca l’importanza, certamente
moltissima, che tiene tra la stampa periodica italiana negli anni piú
splendidi del nostro Risorgimento¹. Divenuto raro sin da’ primi anni
della sua pubblicazione, tanto per le difficoltà che incontrava nel
diffondersi all’interno ed all’estero, quanto per il pericolo che
minacciava tutti coloro che ne possedessero qualche fascicolo, dacché,
una volta scoperti, avrebbero scontato «l’errore con una vita di
dolore²», il periodico si sarebbe dovuto ristampare per le cure stesse
del Mazzini, di modo che, ristretto nel materiale, sfrondato degli
articoli di minore importanza, avrebbe potuto ancor degnamente
rappresentare l’eco di nobilissimi propositi, i quali, anche sette anni
dopo, possedevano il pregio dell’attualità: inerte, torpido, prostrato
sotto il vigile occhio dell’Austria e dei governi d’Italia essendo
sempre il paese, che il grande apostolo tentava ancora una volta di
galvanizzare, uscente da quella tremenda _tempesta del dubbio_ dapprima,
e dal doloroso raccoglimento di poi, in cui rimase per oltre anni,
quando una persecuzione senza tregua lo ebbe obbligato ad abbandonare la
Svizzera e avere un piú sicuro asilo in Inghilterra.

   ¹ Un saggio notevole è però quello di _Piero Cironi_, _La stampa
     nazionale in Italia_ (in _Piovano Arlotto_, a. III (1860), pp.
     381-414 e 563-581).

   ² Avuta notizia che la _Giovine Italia_, nonostante le molte
     persecuzioni e la vigilanza alle frontiere, era potuta penetrare
     ne’ suoi Stati e circolare tra gli affiliati della associazione
     omonima, Carlo Alberto pubblicava il seguente decreto, inteso a
     regolare l’introduzione delle stampe in Piemonte:

                            _Carlo Alberto, ecc._

     «La moltiplicità e quantità di libri, giornali e scritti che
     s’introducono o si fanno circolare clandestinamente ne’ nostri
     Stati, e le funeste conseguenze che ne derivano, ci hanno fatto
     conoscere l’insufficienza delle leggi attuali, e sentire la
     necessità di nuove più energiche disposizioni, onde antivenire e
     reprimere tali abusi. Quindi è che per le presenti, di nostra certa
     scienza e Regia autorità, avuto il parere del nostro Consiglio di
     Stato, abbiamo ordinato e ordiniamo quanto segue:

     _Art. 1._ — L’introduzione dall’estero ne’ nostri Stati di libri,
     giornali, o altri scritti o disegni qualunque tanto a stampa che a
     mano, contrari ai principii della Religione, della morale e della
     nostra monarchia, sarà, oltre alle pene prescritte al cap. 16, tit.
     34 delle Generali Costituzioni, ed al cap. 17, tit. XXXIII, lib. 2
     del Regolamento pel Ducato di Genova, punito con una pena corporale
     di carcere o di catena da uno sino ai tre anni, la quale potrà
     estendersi anche alla galera da due a cinque anni, quando pel
     numero degli esemplari, o per altre circostanze, apparisse che
     fossero introdotti per essere disseminati.

     Qualora però una tale introduzione tendesse a provocare o
     promuovere taluno dei delitti previsti nel cap. 2, tit, 34, lib. 4
     delle stesse Generali Costituzioni, e nel cap. 2, tit. XXXIII, lib.
     2º dell’anzidetto Regolamento, e gli introduttori ne fossero
     cooperatori o consapevoli, saranno applicate le pene ivi stabilite.

     _Art. 2._ — Le sopradette pene saranno pure applicate contro chi
     stampasse, pubblicasse, o facesse circolare ne’ nostri Stati i
     detti libri, giornali, scritti o disegni.

     _Art. 3._ — Chiunque li riceverà per la posta o per altro mezzo,
     anche senza sua partecipazione, o consenso, sarà obbligato di
     rimetterli immediatamente ai rispettivi Governatori o Comandanti, e
     nei luoghi ove questi non risiedono, potrà anche rimetterli al
     Sindaco. I contravventori, massime quando per la loro condotta
     fossero già in tali fatti sospetti, saranno puniti a giudizio del
     Senato, col carcere fino a due anni.

     _Art. 4._ — Dichiariamo inoltre che la multa di scudi cento antichi
     portata dal § 14, cap. 16, tit. 34, lib. 4 delle Generali
     Costituzioni, e dal § 32, cap. 17, tit. XXXIII, lib. 2 del
     Regolamento pel Ducato di Genova, spetterà per metà allo scopritore
     o denunciatore della contravvenzione, il quale, volendo, sarà
     tenuto segreto.»

     In seguito, scoperta la congiura che fu spenta col sangue di tante
     nobili esistenze, il governo sardo fu ancor più feroce contro i
     possessori della pericolosa pubblicazione. Infatti, con sentenza
     del 20 maggio 1833 Giuseppe Tamburelli di Voghera, caporal furiere,
     era a Chambéry fucilato alla schiena «per aver letta o imprestata a
     qualche soldato la _Giovine Italia_»; con altra del 13 giugno 1833
     si condannava l’avv. G. B. Scovazzi «alla pena di morte ignominiosa
     ed incorso in tutte le pene e pregiudizi dei banditi di primo
     catalogo» per avere, tra le altre colpe che gli si apponevano,
     sparso tra i congiurati «il terzo volume del libro sedizioso
     intitolato la _Giovine Italia_»: con altra del 20 successivo il
     causidico Audrea Vocheri, piú infelice dello Scovazzi, riescito a
     scampare con la fuga, fu condannato alla stessa pena, che sostenne
     con indicibile eroismo «per avere da alcuni mesi prima del di lui
     arresto tenuto pratiche ed usato mezzi di subordinazione»,
     distribuendo in Alessandria «scritti sediziosi e segnatamente la
     _Giovine Italia_.» Né qui ha termine la dolorosa lista, né il
     Piemonte fu solo nella via delle persecuzioni. Basterà dire che a
     Modena l’avvocato Mattioli, spaventato d’un processo ridicolo,
     artefatto con grottesche imputazioni, ideò una tela di confessioni
     per salvarsi, e invece coinvolse nella sua condanna certo
     Cristoforo Pezzini, accusandolo d’avergli rilasciato i fascicoli
     della _Giovine Italia_ e varie carte settarie. E il Pezzini, con
     sentenza del 16 maggio 1833 fu condannato alla pena di morte «che
     gli venne commutata dal Duca il 19 di quel mese alla galera a
     vita.» Cfr. _A. Sorbelli_, _La congiuria Mattioli_; Roma, Soc. Ed.
     Dante Alighieri, 1901, p. 140.

La ristampa doveva compiersi a Parigi, per i tipi della vedova Lacombe,
casa editrice ben nota agli studiosi del nostro Risorgimento, in quanto
ad essa gli esuli italiani di Francia affidarono gran parte de’ loro
scritti, perché fossero divulgati per le stampe. Alla fine di maggio del
1840 uscì infatti il seguente manifesto che annunciava la nuova edizione
del periodico: "L’edizione della _Giovine Italia_ essendo da piú anni
esaurita, alcuni italiani hanno pensato che una ristampa potrebbe
riuscire giovevole all’educazione della gioventú italiana ed avviamento
a nuovi lavori. Ma tra gli scritti contenuti in quella raccolta, molti
uscirono dettati dall’impulso di circostanze oggi modificate, e non
importa ripubblicarli; altri, dotati di valore storico piú che teorico,
spetterebbero ad una collezione ordinata con intento diverso da quello
degli editori di quest’annunzio. L’intento è quello di presentare agli
Italiani, raccolti in un libro, que’ scritti soli che contengono il
programma primo della _Giovine Italia_, e insegnano nello spirito
dell’associazione il fine da prefiggersi agli sforzi della nazione, e i
mezzi opportuni a raggiungerlo. E que’ scritti spettano presso che tutti
a un solo fra i collaboratori, Giuseppe Mazzini. Gli editori si sono
dunque rivolti a lui richiedendolo d’ordinar quegli articoli, condurre a
termine quei ch’erano rimasti, pe’ casi de’ tempi, imperfetti,
modificare e aggiungere dov’ei credesse. Risultato di un lavoro siffatto
è il libro che qui si propone alla sottoscrizione, col titolo: _La_
_Giovine Italia_, _raccolta di scritti pubblicati in diversi tempi da
Giuseppe Mazzini._ Oltre un’introduzione e un articolo scritto ora
espressamente dall’autore, ecco i titoli degli argomenti che entreranno
in questa ristampa: La _Giovine Italia_, programma politico; D’alcune
cause che impedirono finora lo sviluppo della libertà in Italia; —
Dell’Unità Italiana; — Della guerra d’insurrezione; — Ai preti Italiani;
— Ai poeti, pensieri; — Fratellanza de’ popoli; — Cose di Savoia; —
Lettera alla Gioventú Italiana, ecc. ecc. — Due volumi. Prezzo 6 franchi
per i sottoscrittori, 8 per gli altri, ecc. Parigi». Ma il periodico
aveva suscitato troppo fermento in Italia, perché tutti i governi non si
commovessero all’annuncio che ancora una volta si tentasse diffonderlo
nel popolo. Cominciarono quindi i preparativi per impedirgli l’entrata
all’interno, tanto piú che la pubblicazione di esso segnava il
cominciamento d’un nuovo periodo di riscossa, alla quale il Mazzini
s’accingeva con metodi piú pratici, migliori ad ogni modo di quelli che
già gli aveano procurate due amare delusioni, lanciando quel memorando
invito agli Italiani, perché s’aggregassero alla _Giovane Italia_ e
operassero «tutti concordemente colla massima attività pel conseguimento
del divisato intento». Una circolare a tutti i commissari superiori di
polizia nel Lombardo-Veneto avvertiva il 25 luglio dello stesso anno:
«Con apposito avviso a stampa la tipografia di Madama Lacombe di Parigi
ha pubblicato da poco tempo la comparsa d’una nuova opera divisa in due
volumi in ottavo, ed accordata in via di associazione in Parigi al
prezzo di sei franchi, quale porta per titolo: _La Giovine Italia_,
raccolta di scritti pubblicati in diversi tempi da Giuseppe Mazzini.
Collo stesso avviso si avverte che l’opera suddetta, compilata dietro
quanto si potea ora esigere dal già seguito mutamento di tempi e di
circostanze, tende specialmente ad istruire la gioventú nelle massime
professate dalle società segrete.

«Rendendone perciò consapevole cotesto..... lo s’invita simultaneamente
a voler attivare le piú energiche ed avvedute misure di sorveglianza,
all’uopo di possibilmente scoprire ed impedire la clandestina
introduzione delle preaccennate diaboliche produzioni, quali nel caso di
scoperta dovrebbero essere tantosto sequestrate e rimesse a questa
Direzione Generale, cui dovrebbero essere scortati anche quegli
individui che mai ne fossero trovati in possesso, onde procedere in loro
confronto, a norma delle superiori istruzioni»³.

   ³ _Carte segrete e Atti Ufficiali della Polizia Austriaca in Italia
     dal 4 giugno 1814 al 22 marzo 1848_; Capolago, tip. Elvetica, 1852,
     vol. III, p. 52.

Tuttavia la ristampa della _Giovine Italia_, per ragioni che ora ci
sfuggono, non poté effettuarsi, come era sfumato il disegno, concepito
cinque anni prima, di pubblicare il giornale in una traduzione francese,
che avrebbe dovuto compiersi a Losanna⁴. Probabilmente, le persecuzioni
de’ governi d’Italia, le rimostranze de’ gabinetti esteri a quello di
Luigi Filippo, subdolo quanto mai in quegli atti del suo governo che si
riferivano alle mene contro i rifugiati politici, contribuirono a fare
abortire il nobile proposito, il quale forse non fu aiutato abbastanza
da’ sottoscrittori. La _Giovine Italia_ rimase quindi ciò che si dice
una vera rarità bibliografica, sconosciuta ai più, anche a coloro che ne
parlarono di proposito, ma che ne ignorarono gran parte del contenuto,
perché, ad eccezione di quegli scritti, che il Mazzini inserì nella
raccolta delle sue opere, e che poterono quindi consultarsi con più
agio, l’altra parte, certamente meno importante, ma forse più curiosa e
più utile allo studioso, in quanto riflette le passioni del momento, e
abbonda di particolari di grande interesse per la storia del
Risorgimento, seguitò a rimanere inaccessibile. Onde parve a noi che
ripigliando il proposito del Mazzini, allargandolo in quei concetti che
nel 1840 potevano essere più plausibili, e ristampando integralmente i
sei fascicoli della _Giovine Italia_, riproducendo esattamente, o almeno
fin dove era possibile, le caratteristiche esterne ed interne del
periodico, si sarebbe reso, come si dice, un utile servigio agli
studiosi della nostra storia nazionale.

   ⁴ Il proposito di questa traduzione fu espresso nell’_Europa
     Centrale_ del 12 marzo 1835. Ecco il manifesto della pubblicazione,
     che forse fu inserito anche in altri periodici:

     «Le journal, la _Giovine Italia_, fondé par les plus nobles débris
     de l’émigration italienne, et que le nom de Mazzini fait resplendir
     de tant d’éclat, a acquis une réputation telle que tout éloge
     serait superflu dans notre bouche.

     «Les espérances, l’héroïsme et les infortunes de l’Italie sont si
     puissans d’intérêt, racontés avec une touchante vérité par ceux-là
     mêmes qui furent acteurs dans les évènements qu’ils décrivent: la
     plume de Mazzini, de ce jeune homme au patriotisme pur et élevé, à
     l’âme bouillante de toutes les généreuses passions, est si
     remarquable par la profondeur des pensées, la vigueur du style et
     la force d’une logique irrésistible, qu’on désirait depuis
     longtemps une traduction en français de cet ouvrage; ce voeu nous
     l’avons rempli.

     «Nous avons pensé que nous devions retrancher de la _Giovine
     Italia_, qui compte déjà six volumes in-8º ordinaire, tout ce qui
     serait empreint d’un caractère de localité trop prononcé. Nous
     n’avons choisi que les articles qui font plus particulièrement
     connaître ses doctrines et qui retracent des malheurs d’une réalité
     sanglante.

     «Nous traduirons au fur et à mesure de leur apparition les
     productions à venir de la _Jeune Italie_. La traduction de ce qui a
     paru jusqu’à présent et que nous offrons au public, se composera de
     4 vol. in-8º de 250 pages chaque, qui seront augmentés d’un
     supplément toutes les fois que nous jugerons convenable d’extraire
     de la _Revue républicaine_ quelques-uns des articles dont M.
     Mazzini paraît vouloir enrichir de temps en temps cette
     publication.

     «Les livraisons auront lieu par volume.

     «Le premier volume paraîtra dans le courant d’avril prochain, et
     les suivans seront publiés de mois en mois à partir de cette
     époque.

     «Le prix du volume est fixé, en faveur des souscripteurs seulement,
     a 3 fr. 60 cent. de France, payables à sa réception.

     «La souscription sera close au 20 avril prochain.

     «On souscrit chez tous les principaux libraires des différentes
     villes de la Suisse, et chez le traducteur, poste restante, à
     Lausanne, auquel on pourra s’adresser pour toute espèce de
     réclamation. Toutes les demandes devront être affranchies. Les
     frais de poste seront à la charge des souscripteurs qui y donneront
     lieu».

Il còmpito al quale ci siamo assunti è stato poi agevolato dal fatto che
una copia completa della _Giovine Italia_ è conservata nel fondo
_Risorgimento_ della Biblioteca Nazionale Vittorio Emanuele di Roma. La
grande cortesia del bibliotecario, conte Domenico Gnoli, ci permise di
trascriverla tutta, dando agio a me e al tipografo di riprodurre
esattamente il frontespizio e tutte quelle particolarità che possono
offrire al possessore di questa ristampa l’illusione di aver presso di
sé l’originale, dal quale ad ogni modo, non riproducemmo, liberandoci
d’una soverchia pedanteria di editore diplomatico, gli errori di stampa
e l’errata-corrige. Diremo di più che a piede di pagina abbiamo notato
le varianti degli scritti mazziniani risultate dal confronto tra la
_Giovine Italia_ e la prima edizione degli _Scritti editi e inediti_
intrapresa per le cure stesse dell’autore nel 1861, perché ci parve che
il Mazzini, grande stilista, più di quanto ai più non sembri, abbia
sempre prediletto di tormentare la forma classica del periodo. Abbiamo
di più posto alla fine della pubblicazione un indice analitico, che
servirà allo studioso per orientarsi e indagare per entro il periodico.

                                  ***

Sono abbastanza note, perché le narrò, forse con troppo parsimonia, lo
stesso Mazzini in alcuni di quei preziosi _Ricordi autobiografici_
sparsi ne’ primi volumi dei suoi _Scritti editi e inediti_, le origini
del periodico. Esso fu ideato, insieme con l’associazione omonima, nel
forte di Savona, dove il Mazzini era stato rinchiuso, dopo che la
delazione di Raimondo Doria aveva rivelate al governo sardo le deboli
fila della Carboneria genovese, alla quale aveva aderito qualche tempo
prima il grande Italiano, allora agli inizii della sua carriera di
cospiratore, «Ideai — dice egli stesso — in quei mesi d’imprigionamento
in Savona, il disegno della _Giovine Italia_; meditai i principii sui
quali doveva fondarsi l’ordinamento del partito, e l’intento che
dovevamo dichiaratamente prefiggerci: pensai al modo d’impianto, ai
primi ch’io avrei chiamato ad iniziarlo con me, all’inanellamento
possibile del lavoro cogli elementi rivoluzionari Europei»⁵. Liberato
dal carcere, a condizione che scegliesse tra un soggiorno, che non fosse
Genova, né Torino, né un punto qualsiasi delle spiagge liguri, e
l’esilio, preferì quest’ultimo. E nell’esilio, dopo la lettera a Carlo
Alberto, che gli procurò l’ira del governo sardo, dopo tante delusioni
ch’ebbe per l’abortita insurrezione dell’Italia centrale e per la
mancata prima spedizione in Savoia, mise ad effetto il disegno che avea
maturato nel forte di Savona, cioè «la fondazione della _Giovine
Italia_» a cui provvide quando dalla Corsica ritornò a Marsiglia, e
«fermo nell’idea d’iniziare la doppia missione segreta e pubblica,
insurrezionale e educatrice», s’affrettò a stampare il manifesto del
periodico, che fu divulgato sul finire del 1831, a poca distanza dalla
pubblicazione del primo fascicolo⁶.

   ⁵ _Scritti editi e inediti_, vol. I, p. 38.

   ⁶ Questo manifesto fu in seguito ristampato in _Scritti_, ecc., I,
     122 e segg.

Ben modesti furono gl’inizi del giornale, perché quasi tutti gli esuli
erano «dissestati in finanza». Tuttavia Giacomo Ciani, un de’ due
fratelli che tanto diedero d’opera e di danaro in que’ primi movimenti
patriottici, fece «guarentigia per ottomila franchi al periodico»⁷; il
Mazzini «andava economizzando quanto più poteva sul trimestre che _gli_
veniva dalla famiglia»⁸; altri aiutarono in diverse guise, come quel La
Cecilia «allora dirittamente buono», che giunto in Marsiglia dalla
Corsica, dove s’era rifugiato dopo l’infelice tentativo di Lione, si
fece compositore di caratteri, e ad un tempo collaboratore; come
Giuseppe Lamberti, l’amico, il segretario fidato del Mazzini, che
assunse la correzione delle bozze. Insomma fu un affratellamento de’ più
eroici, accesi tutti del nobile entusiasmo di divulgare scritti che
avrebbero infiammato i giovani italiani del santo amore della patria.
«Vivevamo uguali e fratelli davvero — assicura il grande cospiratore, —
d’un solo pensiero, d’una sola speranza, d’un solo culto all’ideale
dell’anima; amati, ammirati per tenacità di proposito e facoltà di
lavoro continuo dai repubblicani stranieri; spesso — dacché spendevamo,
per ogni cosa, del nostro, — fra le strette della miseria, ma giulivi a
un modo e sorridenti d’un sorriso di fede nell’avvenire. Furono, dal
1831 al 1833, due anni di vita giovine, pura e lietamente devota, com’io
la desidero alla generazione che sorge. Avevamo la guerra accanita
abbastanza e pericoli, com’ora dirò, ma da nemici dai quali
l’aspettavamo. La misera tristissima guerra d’invidie, di ingratitudini,
di sospetti, e calunnie da uomini di patria e spesso di parte nostra,
l’abbandono immeritato d’antichi amici, la diserzione della Bandiera,
non per nuovo convincimento, ma per fiacchezza, vanità offesa e peggio,
di quasi una intera generazione che giurava in quegli anni con noi, non
aveva ancora non dirò sfrondato o disseccato l’anime nostre, amorevoli
oggi e credenti siccome allora, ma insegnato a noi pochi

    La vïolenta e disperata pace,

il lavoro senza conforto di speranza individuale, per sola riverenza al
freddo, inesorabile, sacro dovere»⁹.

   ⁷ Lettera del Pecchio al Panizzi in _Lettere ad Antonio Panizzi_;
     Firenze, Barbèra, 1880, p. 109.

   ⁸ _Scritti_, ecc., vol. I, pp. 122.

   ⁹ _Scritti_, ecc., vol. I, p. 395-396.

Ma a questi pericoli i quali il Mazzini poteva prevedere, agli altri,
che pur troppo furono un fatto compiuto e si chiusero, tragicamente, col
sangue, altri ancora s’addensavano sui capi di quei magnanimi, dacché la
vigile polizia sarda a Marsiglia ne spiava attentamente i più riposti
propositi, riferendoli al governo centrale di Torino. Infatti, nel
dicembre del ’31 il consolato sardo a Marsiglia era in grado di scrivere
al suo governo: «Mi annunziano che una società di rifugiati italiani,
alla testa dei quali si trova l’avvocato Mazzini, si sta attualmente
occupando per trovar mezzo di pubblicare un giornale sotto il titolo di
_Giovine Italia_, proprio ad esaltare gli spiriti e indurli alla
rivolta, coll’idea poi di spanderlo a profusione per tutta Italia»¹⁰; il
mese dopo, il Morra, governatore d’una città di frontiera del Piemonte,
scriveva al ministro Tonduti della Scarena: «Coll’ultimo corriere di
posta m’è pervenuto dal solito corrispondente di Marsiglia una nota
contenente in ispecie alcune ben interessanti indicazioni sia riguardo
alla società sotto il titolo di _Giovine Italia_, quanto principalmente
sui corrispondenti, che li capi di detta Società trovansi avere tanto in
Genova che a Bologna. Il solito corrispondente, essendo non senza
difficoltà pervenuto a procurarsi il manoscritto del prospetto di quel
giornale sotto il nome di _Giovine Italia_, che alcuni fuorusciti hanno
intenzione di stampare in Marsiglia, me ne ha coll’ultimo corriere
trasmessa copia. Da quanto egli mi annunzia, il primo numero di quel tal
giornale verrà senza fallo pubblicato il 1º del prossimo mese di
febbraio, e non ostante tutte le precauzioni che i redattori prendono,
perché non capiti nelle mani che dei soli loro, mi lusingo nulladimeno
di averne regolarmente un esemplare. Sto altresì occupandomi per
conoscere di quali altri mezzi, oltre li indicati, potranno per
avventura prevalersi li detti redattori dello stesso giornale in
Italia»¹¹. Prosa, come si vede, sporca e negletta, come l’abito della
spia. La quale, seguendo il suo ufficio con assai diligenza, scriveva da
Marsiglia alla Polizia torinese nel marzo dello stesso anno: «Enfin
l’ouvrage périodique vient de paraître, et il a été distribué hier matin
à tous les abonnés..... Il m’a été assuré par quelqu’un qui est à même
de le savoir que le principal envoie en Italie aura lieu par le bateau à
vapeur le _Francesco Primo_, commandé par le capitaine De Martino, qui
partira de cette ville le 31 de ce mois. Le capitaine est l’intime ami
de Mazzini, et ce qui est cause qu’on compte plus sur lui qui tout
autre. Mais indépendemment de celà, on se propose de profiter de toutes
les occasions favorables qui peuvent se présenter. Ils ont des abonnés à
Gènes, à Milan, mais sortout dans les quatres légations»¹².

  ¹⁰ Questo documento fu certamente osservato e trascritto di su
     l’autografo dell’Archivio di Stato di Torino da _Nicomede Bianchi_,
     che ne pubblicò la parte da noi riprodotta nel volume: _Vicende del
     Mazzinianismo politico e religioso dal 1832 al 1854_; Savona, tip.
     Sambolino, MDCCCLIV, p. 18.

  ¹¹ _N. Bianchi_, op. cit., pp. 18-19.

  ¹² _N. Bianchi_, op. cit., p. 19.

Ma, nonostante le molte persecuzioni che forse si saranno usate per
impedirne la pubblicazione, il 18 marzo del 1832 era pronto, per essere
irraggiato su tutta la penisola, come un astro nuovo, puro, virgineo,
che riscaldava di calore insolito l’intorpidita coscienza degl’Italiani,
il primo fascicolo di quella raccolta periodica di scritti, i quali,
osserva uno storico che fu tra’ piú temuti avversari del Mazzini, e qui
intendo accennare a Nicomede Bianchi, «col battesimo in fronte di
_Giovine Italia_, erano indirizzati dal Mazzini a preparare una
rivoluzione popolare di concorso e di attuamento; comecché invero essi
dettati fossero in una lingua ardua non solo alle plebi, ma a molti
eziandio che non si stimano plebe»¹³. Ma, questa, che nella mente del
Bianchi (e non del solo storico della _Diplomazia europea in Italia_)
potè sembrare un difetto della _Giovine Italia_, era invece una delle
sue forze. Sino allora, se ne togli qualche rarissimo opuscolo, ad
esempio il tremendo libello del Panizzi contro il Duca di Modena, la
letteratura patriottica dal 1821 in poi deve considerarsi una specie di
accademia; sembra, infatti, che gli scrittori, piú del contenuto!, si
preoccupino della forma nelle loro argomentazioni; piú della patria,
delle persone; e questo effetto produce la lettura di quella miriade di
libri, di opuscoli, di fogli volanti usciti pro e contro coloro che
avevano partecipato ai moti rivoluzionari del 1831 nell’Italia Centrale.
Invece la _Giovine Italia_, sotto l’impulso del suo direttore, che volse
e diresse le coscienze italiane ad altri ideali, con la santissima
formula che non finí mai di ripetere, essere la vita una missione, una
virtú il sacrifizio, che alla distanza di settanta anni sono oggi sempre
gli stessi, o almeno dovrebbero esser tali, ebbe un diverso obbiettivo.
«A principio — scrive il Mazzini nel settembre del 1832 a Pietro
Giannone, — volendo pure cacciare innanzi il sistema nostro, ho dovuto
esaltare la gioventú, e ingigantirla a’ suoi proprii occhi. Vinto oggi,
o quasi, quel primo tumulto ch’io prevedeva, ch’io suscitai
deliberatamente, perché mi pareva necessaria una separazione fra chi
vuole esser forte, e chi è debole, o peggio, io scemerò gradatamente le
mie lodi a’ giovani, serbandole a’ fatti». E qui sta tutto il segreto
della potenza di Giuseppe Mazzini; né alcuno meglio di lui, che aveva la
parola dell’ispirato, la purezza di costumi d’un angelo, la tenacia di
proposito d’un uomo veramente superiore, le predizioni d’un profeta,
alcuno meglio di lui, ripetiamo, con buona pace di Nicomede Bianchi, che
destinò molte pagine d’un suo libro per dimostrare il contrario, poteva
degnamente prestarsi al nobile assunto.

  ¹³ Id., p. 19.

                                  ***

Il primo fascicolo della _Giovine Italia_ uscí, insieme col secondo¹⁴,
il 18 marzo 1832. Tipografo ne era Giulio Barile, amministratore e
gerente Vittorio Vian. Parecchi illustri esuli, quali Guglielmo Libri,
Antonio Benci, Giovanni Berchet, Giuseppe Pecchio, avevano promesso la
loro collaborazione, che poi non effettuarono mai, onde il Mazzini si
lamentava giustamente d’essere rimasto quasi solo¹⁵. Egli però doveva
essere molto contento del successo ottenuto, poiché nel novembre del
1832 scriveva a Carlo Didier, l’autore della _Rome Souterraine_: «Le
journal a suscité une telle clameur, dès sa première apparition qui,
inexplicable pour tout étranger non initié à nos querelles
d’organisation politique, ne l’est pas pour moi. Cette clameur je
l’avais prévue et calculée d’avance. Elle se rattache aux évènements
politiques qui ont agité l’Italie à la surface en 1831. Je dis à la
surface, parce que là gît tout le levain de discorde entre nous et les
vieillards; c’est à la surface qu’ils agitent et agiteront toujours
l’Italie, car ils craignent l’orage, ils ont peur de soulever de
tempêtes au milieu desquelles leurs faibles mains ne puissent pas
gouverner; nous nous voulons remuer cette terre jusqu’aux entrailles;
nous voulons bouleverser cette eau morte, soulever le flot de l’activité
populaire; que si le débordement nous entraînera nous les premiers, peu
importe; nous en sommes à ce point, auquel il faut prononcer le grand
mot, dût-il coûter la vie à celui qui le prononce»¹⁶. Ma quante fatiche
per metterlo insieme e quante astuzie perché potesse circolare in
Italia! «Eravamo, Lamberti, Usiglio, un Lustrini, G. B. Ruffini ed altri
cinque o sei modenesi, quasi tutti soli, senza ufficio, senza
subalterni, immersi l’intero giorno e gran parte della notte nella
bisogna, scrivendo articoli e lettere, interrogando viaggiatori,
affratellando marinai, piegando fogli di stampa, legando involti,
alternando tra occupazioni intellettuali e funzioni di operai»¹⁷.
Tuttavia il lavoro di contrabbando, vitale per la _Giovine Italia_, irto
di pericoli e di responsabilità per chi lo compieva e per chi lo
commetteva, era mirabile. «Un giovane, Montanari, — scrive il Mazzini
ne’ suoi _Ricordi autobiografici_, — che viaggiava sui vapori di Napoli
rappresentandone la Società, e morí poi di colèra nel mezzogiorno di
Francia, altri, impiegati sui vapori francesi, ci giovarono moltissimo.
E finché l’ira dei governi non fu convertita in furore, affidavamo ad
essi gli involti, contentandoci di scrivere sull’involto destinato per
Genova un indirizzo di casa commerciale non sospetta in Livorno, su
quello che spettava a Livorno un indirizzo di Civitavecchia e via cosí:
sottratto in questo modo l’involto alla giurisdizione doganale e
poliziesca del primo punto toccato, l’involto serbavasi
dall’affratellato sul battello, finché i nostri, avvertiti, non si
recavano a bordo dove si ripartivano le stampe celandole intorno alla
persona. Ma quando, svegliata l’attenzione, crebbe la vigilanza e furono
assegnate ricompense a chi sequestrasse, e pronunziato minacce tremende
agli introduttori — quando la guerra inferocí per modo che Carlo
Alberto, con editti firmati dai ministri Caccia, Pansa, Barbaroux,
Lascarène, intimò, a chi non _denunzierebbe_, due anni di prigione e una
ammenda, promettendo al _delatore_ metà della somma e il segreto —
cominciò fra noi e i governucci d’Italia un duello che ci costava sudori
e spese, ma che proseguimmo con buona ventura. Mandammo i fascicoli
dentro barili di pietra pomice, poi nel centro di botti di pece intorno
alle quali lavoravamo, in un magazzinuccio affittato, la notte: le
botti, dieci dodici, si spedivano numerate per mezzo d’agenti
commerciali ignari a commissionari egualmente ignari ne’ luoghi diversi,
dove taluno dei nostri, avvertiti dell’arrivo, si presentava a
mercanteggiare la botte che indicava col numero il contenuto. Cito un
solo dei molti ripieghi che andavamo ideando»¹⁸.

  ¹⁴ «Un incidente legale, una difficoltà ministeriale mossa intorno
     alla legalità del giornale, produce un lieve ritardo; il primo
     uscirà insieme al secondo; avvisa però ognuno.» Lettera del Mazzini
     al La Cecilia in data 18 febbraio 1832, pubbl. nel I volume
     dell’_Epistolario di G. M._, Firenze, Sansoni, 1902, p. 7.

  ¹⁵ Ved. la lettera al Didier che cito qui sotto. Anche al La Cecilia
     scriveva il 16 febbraio 1832: «Molti mi hanno promesso, e mi
     mancano, al solito: io speravo grande aiuto di associati e di
     scrittori dalla Toscana, e fui deluso. Non pertanto, il numero sta
     sotto i torchi, e vedremo se si desteranno, perché credo che un
     buon giornale possa giovar molto all’Italia.» _Epistolario_ cit.,
     I, 6.

  ¹⁶ Questa lettera fu pubblicata nell’_Avvenire_ di Novara, a. X, 9
     marzo 1889, e ristampata nell’_Epistolario_ cit., vol. I, pp.
     36-40.

  ¹⁷ _Scritti_, ecc., vol. I, p. 395.

  ¹⁸ _Scritti_ ecc., vol. I, pag. 396-397.

Nonostante, quindi, le immense difficoltà e la vigilanza quasi febbrile
della polizia, la _Giovine Italia_ entrava di soppiatto ne’ luoghi dove
poteva maggiormente riscaldare e far palpitare. Da Marsiglia e da
Lugano, co’ metodi indicati dal Mazzini e con altri che usavano i
patriotti, facendo a gara d’astuzia con la polizia, il verbo della nuova
associazione si diffondeva per la penisola. «Fra le risultanze
processuali apparve che la filatura di cotone di Castiglione, presso
Lecco, era una fucina contro lo straniero, e che ivi i fratelli Grassi
ricevevano i pacchi della _Giovine Italia_ e del _Tribuno_»¹⁹. Da
Genova, dove giungevano per la via di Marsiglia, i fascicoli erano
distribuiti ad Alessandria, Casale, Vercelli «per il tramite
Ruffini-Pianavia-Girardenghi-Bossi-Stara»²⁰; né valse che una volta, il
4 luglio 1832, la polizia, avutane notizia da qualche vile delatore,
scoprisse a colpo sicuro molte copie del periodico nel doppio fondo di
un barile diretto dal Mazzini alla madre: perché, se vigili e talvolta
bene informate, erano le polizie italiane, audacissimi si dimostravano
gli affigliati della _Giovine Italia_.

  ¹⁹ _De Castro_, _Cospirazioni e processi in Lombardia_ (1830-35),
     nella _Rivista Storica Italiana_, an. IX [1894], pag. 439.

  ²⁰ _Faldella_, _I fratelli Ruffini e la_ Giovine Italia; Torino, Roux,
     pag. 221-222.

                                  ***

Ma non erano solo i governi a combattere ad oltranza il periodico, in
quanto i giornali, apparsi nell’Italia centrale subito dopo la
rivoluzione del 1831, quasi a distruggere le idee liberali che si
andavano sempre piú sviluppando, si fecero paladini e corifei de’
governi reazionari, comprendendo subito che il nemico col quale doveano
cimentarsi era veramente terribile. «Che cosa è la _Giovine Italia_?» si
domandava un di questi giornali²¹, il piú feroce di tutti, la _Voce
della Verità_ di Modena, diretto apparentemente da Cesare Galvani,
dacché gl’ispiratori erano il Canosa e il balí Sanminiatelli, i due piú
ascoltati consiglieri del Duca di Modena. E rispondeva: «La _Giovine
Italia_ è un magazzino di sferravecche del filosofismo del secolo
passato, è una compilazione alla vecchia moda rivoluzionaria di Francia
scritta nel vecchio gergo del 1793.

  ²¹ Prima del direttore della _Giovine Italia_, la _Voce della Verità_
     avea ricoperto di contumelie Enrico Misley, il quale, scampato da
     certa morte nella congiura di Ciro Menotti, aveva stampato anonimo
     nel 1831 un _Discorso storico sulla vita di Ciro Menotti_. Nel num.
     30 del 14 ottobre 1831 si legge infatti:

     «È giunto a nostra cognizione un infame libello uscito non ha
     guari, e, come è noto, dai torchi di una città vicina, col titolo:
     _Discorso storico sulla vita di Ciro Menotti_. I Redattori della
     _Voce della Verità_ avean pensato prima di abbandonarlo al
     disprezzo che meritano le vigliacche e ridicole arti del suo
     vigliacco e ridicolo scrittore, ma perché non si traggano temerarie
     conseguenze dal loro silenzio, annunziamo fin d’ora che sarà
     risposto a quel turpe ammasso di menzogne e di villanie.

     «Intanto il Direttore della _Voce della Verità_, Cesare Galvani,
     Guardia Nobile d’Onore di S. A. R., Aggiunto Bibliotecario della
     Estense (e non Consultore di Governo come ivi si annunzia), in nome
     ancora de’ suoi collaboratori tutti, altamente dichiara che
     l’autore dell’opuscolo scellerato e sciocco mente dalla prima
     sillaba sino all’ultima; e brama ch’egli sappia, che se colle sue
     provocazioni e minacce avesse creduto di atterrire chi si è
     consacrato a difendere la causa di Dio, e de’ suoi legittimi
     Rappresentanti, si disinganni, perché ciascuno dei Redattori della
     _Gazzetta dell’Italia Centrale_ [il sotto titolo della _Voce della
     Verità_] non teme delle penne vendute all’impostura della Setta,
     come non temerebbe giammai lo scontro faccia a faccia con qualunque
     degli _Eroi della Libertà_.»

«La _Giovine Italia_ ha per iscopo di ricondurre fra noi l’anarchia,
gettando in mezzo al popolo il vecchio balocco dell’_indipendenza_ e
dell’_eguaglianza_, sotto il patronato dei vecchi nostri Bassà a tre
colori, e dei nostri vecchi espilatori.

«La _Giovine Italia_ ha per sistema la vecchia tattica dei sofisti
oltremontani, di mettere a traffico la credulità dei gonzi, obbligandoli
a giurare _in verba magistri_ sopra una quantità di cose incredibili,
l’inesperienza dei giovani, allontanandoli dall’investigazione delle
cose passate, e l’accidia degli adulti, dispensandoli dal peso incomodo
dei doveri per trattenerli continuo di una quantità di diritti
fabbricati nella vecchia fucina del 1789.

«La _Giovine Italia_ infine ha per ausiliarî tutti i vecchi miscredenti,
i vecchi giacobini, i vecchi bonapartisti, i vecchi mercanti di
rivoluzioni, e tutte le vecchie arpie della tirannide forestiera, che
aspirano a gettarsi di bel nuovo sulla nostra penisola e ad ingrassare,
giusta la vecchia usanza, colle rapine pubbliche e private»²².

  ²² _Voce della Verità_ del 12 febbraio 1833, n. 238.

Ma ben piú villane, piú gesuiticamente esposte, erano le ingiurie della
_Voce della Verità_, prima e dopo che i fascicoli uscissero alla luce.
Avuta infatti notizia, dalle spie assoldate a proprie spese, o pure da
comunicazioni del governo sardo, il quale, come vedemmo, poteva averle
piú direttamente, che il periodico si stava preparando, pubblicava nel
num. 70 del 17 gennaio 1832 una dichiarazione che vale la pena di
riportare qui: «Un’empia associazione si è formata in Marsiglia dal
rifiuto e dalla feccia degli emigrati italiani, e la quale
impudentemente si dà il titolo di _Giovine Italia_. Essa non accetta nel
suo novero che quelli i quali sono nati entro il secolo corrente, o
quelli al piú che non oltrepassano i 40 anni, onde esser certa che il
foco della gioventú spinta alle colpe dall’esempio e dai dommi di una
età corrotta e corrompitrice, non sia frenato da una esperienza di
disinganno. Essa ha per primo scopo quello di non risparmiare spesa
alcuna e pericolo personale per portare di nuovo in Italia il fuoco
della discordia e della rivoluzione: essa ha per secondo quello di
pubblicare un giornale, e diffonderlo nella nostra bella Penisola, il
quale serva alla _Propaganda Infernale_, e susciti di nuovo alla rivolta
ed al sangue. Essa spera di restare occulta fra noi, e di operare in
segreto: ma noi sappiamo che sono alla sua testa Mazzini di Genova,
Santi di Rimini e il Piemontese conte Bianco: noi conosciamo i nomi de’
suoi corrispondenti in Ginevra, in Genova ed in Bologna: noi
compiangiamo la rovina che essi vogliono trarre sul loro capo e
sull’altrui. Intanto rendiamo pubblica questa infame intrapresa, perché
si sappia che la _Voce della Verità_ raccoglie il guanto che costoro
gettano all’Italia, e che combatterà le inique loro dottrine. Entrino
essi nel campo: noi stiamo Mantenitori della lizza. Operino essi in
segreto: noi in pieno sole, e con alzata visiera».

È noto che il Mazzini, nel primo fascicolo della _Giovine Italia_,
ribatté con la sua prosa alta e vibrata quella degli _uomini del Canosa
e del Duca_, rimproverandoli alla sua volta di ravvolgersi nel velo
dell’anonimo nell’atto di lanciar contumelie; onde parve al Galvani un
atto di grande coraggio sottoscrivere il seguente articolo, che il
Mazzini sdegnò di ribattere.

«Ai Redattori della _Giovine Italia_, i Redattori della _Voce della
Verità_».

«Noi scrivevamo nel nostro num. 70...²³.

  ²³ Qui segue la dichiarazione da noi riportata nella pagina
     antecedente.

«Il giornale è uscito alla luce col 1 marzo; noi ce ne siamo procacciato
un esemplare, ed abbiamo scorti che non ci eravamo ingannati nel nostro
giudizio; essi hanno tenuta la loro promessa, e noi terremo la nostra.

«Ma vi è di piú. A pagina 91 del primo fascicolo è uno scritto del
Mazzini in risposta alla nostra disfida. Che in esso egli accumuli il
veleno e la rabbia bene gli sta: noi non compreremo né aspetteremo
giammai le carezze dell’inimico. Ch’egli ci maledica, gliel perdoniamo
agevolmente; perché la parola maledizione è la chiusa consueta d’ogni
periodo dei liberali, e perché ci tornano in gioia i loro anatemi.
Soltanto, come egli ignora o finge di ignorare quali noi siamo
veramente, cosí noi vorremo svelargli il piú intimo del nostro cuore.

«Sí, noi professiamo odio per le opinioni che sovvertono il mondo. Le
combattiamo, le combatteremo; e consacrammo a sí nobile fine quelle
forze, che, qualunque esse siano, ci furono largite da Dio. Sí, noi
dunque professiamo di odiare e di combattere le opinioni della _Giovine
Italia_, né cesseremo finché si possa di sclamare e di ragionare contro
di esse. Questo è l’odio che abbiamo nell’anima, questa è la vendetta
che ci lusinga. Odio agli errori, vendetta della verità sull’errore...
Ma in queste anime nostre che temono Iddio, che a lui si volgono, e che
ardentemente desiderano amarlo e servirlo; in queste anime nostre l’odio
e la vendetta non passa oltre le dottrine e i delitti. Gl’incorreggibili
autori del disordine si compiangono, si lasciano all’arbitrio della
giustizia, e si bramerebbe il ravvedimento degli sciagurati, anziché il
necessario castigo.

«Voi che in queste pagine stesse della _Giovine Italia_ santificate
l’assassinio e il veleno, potete voi dirci altrettanto a fronte sicura?

«Voi sfrontatamente accumulando, come piú vi giova, parole di lode o di
disprezzo, di apoteosi o di vitupero, lusingando le passioni, liberando
da ogni freno gli affetti, spargendo il dubbio e l’incertezza sovra ogni
principio piú santo, ponendo in campo una nuova filosofia di
disperazione che porta il vuoto del sepolcro sull’aurora della vita,
togliendo di mezzo ogni idea di placida virtú, di vergine innocenza, di
gratitudine, di pure dolcezze, per sostituirvi immagini di sangue e
deliri di un fanatismo fatale; voi rivestendo questi fantasmi con
ampollosità di suoni, con ebbrezza di vaticini, con terrizioni di
minacce e di bestemmie; voi travolgete le incaute fantasie de’ giovani,
e dalla vita reale le trasportate ai sogni affannosi di un tumulto di
vicende decretato da destino inesorabile, a un’ansia di perigli e di
licenza, a un desiderio di vendetta, a un’impazienza d’indugi, di
ostacoli, di leardi e di doveri. Miserabili! E se voi rinunziaste alle
speranze di un beato eterno avvenire, perché trascinare nel vostro
abisso tanti infelici? Se voi contristaste le canizie de’ vostri
genitori, se portaste lo sconvolgimento fra le mura della patria, per
quale infernal gioia volete che questi peccati si moltiplichino, e si
perpetuino?

«Se invece (e noi pure siam giovani, e la _Voce della Verità_ è stesa
per la piú parte da scrittori non anco maturi), noi invece chiamiamo i
nostri fratelli di studi e di età a quei principî di vero immutabile, di
ordine eterno, di provata rettitudine, di consolata coscienza, coi quali
solo l’uomo vive tranquillo in sé, utile ai simili suoi. Né sia chi ci
accusi di voler raffreddare qualsiasi affetto forte e generoso, ché a
noi Dio concesse cuori che sentono quant’altri mai, che rispondono ad
ogni energico eccitamento, che vorrebbero tutta la gioventú italiana
gagliarda e magnanima, ma gagliarda e magnanima quale conviensi al
cristiano e al soldato d’onore; non feroce e arrabbiata quale è
l’assassino e il settario. Noi amiamo la patria nostra, e perché
l’amiamo, la vorremmo grande, bella, felice; e tale sarà sempre
all’ombra dei legittimi troni. E voi, miserabili, voi che profanate ad
ogni istante il suo nome, voi la vorreste veder di nuovo dibattersi
prima fra le convulsioni intestine e le stragi cittadinesche, poi
doversi necessariamente incurvare di nuovo alle falangi straniere. Voi,
voi siete i veri nemici, i veri sicari della Patria.

«Qui potremmo por fine alle nostre parole, e lasciare il giudizio a
chiunque conosca e le reciproche dottrine, e le scambievoli azioni. Ma
voi ci avete dati dei consigli, e noi vogliamo rispondervi.

«Voi volete atterrirci gridando che già il decreto della nostra rovina è
segnato dal secolo, dallo sviluppo degli intelletti, dall’odio alla
tirannide, dai volti che impallidendo al vederci ci rivelano un nemico,
dalle tante famiglie che sono un centro di congiura contro di noi. Voi
volete atterrirci? Disingannatevi! Il terrore nasce dal rimorso o dalla
vigliaccheria, e il Cielo ci ha scampati finora dall’uno e dall’altra.
Cosí ne fossero immuni i nostri nemici!

«Voi ci chiamate al Tribunale di Dio? Oh, non provocate questo giudizio!
Noi crediamo in questo Scrutatore cui nulla è occulto, e appunto il
timore di lui ci fa difendere la causa sua contro la rabbiosa vostra
guerra. Cosí ci donasse Egli coscienza in tutto, come in ciò,
tranquilla: cosí ci doni di non invanire perché noi deboli ha scelti a
strumenti della sua pugna. Ma voi... Deh possano gli anni ed i casi
mutarvi innanzi quell’ora tremenda!

«Voi ci consigliate a tenere il nostro _compianto per quella dinastia in
oggi errante in cerca d’asilo sulla quale fondavamo tutte le nostre
speranze_. E che! insultereste ancora con empia ironia alla virtú
sventurata? Sorridereste dunque di infame letizia all’esiglio, e alle
amarezze di quelli che dai fratelli vostri furono cacciati di soglio per
non poter sopportare i continui loro benefici, e il loro perdono?
Vigliacchi! è questa la maggiore delle villane codardie. Io che scrivo
queste linee stenderei, lo giuro, la mano al Mazzini, se percosso dalle
meritate sciagure, mi chiedesse un soccorso; ed egli gode delle pene di
un vecchio che ha per sé otto secoli di gloria domestica, e il trionfo
di Algeri; di una principessa che bevve fin dall’infanzia tutto il
calice de’ dolori, e incanutisce tra nuovi affanni; di una madre cui il
pugnale del liberalismo tolse il marito, e avrebbe tolto il figlio, se
l’inferno vomitava due Louvel; di un innocente fanciullo ch’era l’amore
della Francia, come ne è ora la sola speranza! Ma noi ci gloriamo di
ammirare e di amare questa eroica famiglia. Potessimo così offrirle
qualche tributo più efficace del solo affetto.

«Voi ci chiamate _uomini di Canosa e del Duca_. Sia pure: noi avremo ad
onore di esser riconosciuti degni seguaci del Principe più Religioso ed
Intrepido: dell’Uom di Stato più irremovibile del secol nostro.

«Voi dite che millantiamo di combattervi a visiera alzata, mentre
abbiamo le _baionette d’intorno, e il carnefice a fianco_. Ipocriti!
Forse che ignoriamo la morte di Kotzebue? Forse che le baionette e il
carnefice ci difenderebbero da quelle coltella che voi invocate e dite
sante; se non ce ne facesse sicuri Dio, e quel coraggio che ci viene da
lui?

«Voi finalmente imputate chi vi svelò nel n. 70 di _ravvolgersi nel velo
dell’anonimo_, mentre voi segnate il vostro nome. Voi mentite, Cesare
Galvani che allora scrisse di voi, e qui scrive di nuovo, non si è
occultato, né si occulterà mai, perché non vi teme. Egli fin dal n. 30
del suo Giornale pubblicava in simile circostanza il suo nome; egli si
fa gloria della propria opinione, e degli insulti che gli versano sopra
i nemici di Dio e dei legittimi Re»²⁴.

  ²⁴ _Voce della Verità_ del 12 aprile 1832, n. 107.

Né qui sostarono gli eroici redattori della _Voce della Verità_, perché
nel supplemento al n. 106 il Canosa volle farsi anche paladino di quei
Borboni di Napoli, che aveva così ben serviti, meritandosi poi, come
premio, la via dell’esilio, e precisamente polemizzando col La Cecilia,
il quale, nel _Cenno storico ad onore dell’estinto Pietro Colletta_
aveva affermato esser la ferocia il «primo attributo dei Borboni».

L’articolo, che non ristampiamo, perché edito già molte volte, era
preceduto da questa dichiarazione: «Pubblichiamo una lettera scritta da
un valente difensore dell’Altare e del Trono, in confutazione del primo
fascicolo della _Giovine Italia_, riserbandoci di pubblicare ancora le
nostre osservazioni sopra questa sozza insolente, che per comando della
sediziosa _propaganda_ di Parigi tiene i suoi torchi nei bordelli di
Marsiglia». Ed infatti il periodico tenne la sua parola. Quattro giorni
dopo, nel n. 108, pubblicava «_Alcune riflessioni sopra un articolo
della_ Giovine Italia, _firmato_ U. D. F.», cioè sull’_Elogio di Cosimo
Delfante_ scritto dal Guerrazzi, elogio alla lettura del quale l’autore
delle _Riflessioni_ provò un fremito paragonabile «a quello che agitava
il _suo_ cuore quando una mesta curiosità _lo_ condusse a por piede, ad
osservare, a dar ascolto nel reclusorio d’Aversa», dove, come si sa,
stanno i pazzi delinquenti. Al Canosa successe il balí Cosimo Andrea
Sanminiatelli, nel n. 149 del 19 luglio 1832, con un articolo intitolato
_Brevi parole agli scrittori e partigiani della_ «Giovine Italia»²⁵; e
di nuovo, nel supplemento al n. 180 del 29 settembre, il feroce
consigliere di Francesco IV, che prese la difesa de’ Borboni contro gli
attacchi ripetuti del La Cecilia.

  ²⁵ Crediamo opportuno di riprodurlo qui in nota:

     «Colui, che testé si è creduto onorato di scrivere in questo
     celebre e memorabile giornale «che è nemico d’Italia chi cospira di
     riunirla sotto un solo governo, che è traditore d’Italia chi invita
     o le seduzioni riceve, a tale oggetto, dei faziosi», non può
     raffrenare il suo vero patriottismo senza rivolgere brevi, ma
     concludenti parole a quegli scrittori, di cui la superficialità è
     il minore difetto, che profughi in un paese straniero, disprezzati
     da quell’istesso governo, oggetto, sono pochi mesi, dei loro più
     fervidi voti, e causa dei movimenti loro maniaci, non si stancano
     di travagliare, in mille modi, l’opinione, e le legittime simpatie
     della misera Italia, e con lo specioso, insulso, quanto infernale
     pretesto di ringiovanirla, depurarla ed all’apice guidarla,
     corrispondenze mantengono con una focosa gioventù, elettrizzandone
     le passioni le più impure, e con una precoce, per i misfatti,
     vecchiezza, dichiarandone i membri i venerabili padri coscritti
     dell’Italica rigenerazione. Ma cosa pretendete voi mai, ove tendono
     i vostri sforzi? Forse tentate, sperate di rivedere i patrii lari,
     gli aviti abituri, quando foste da tanto di portare l’Italia
     all’anarchia, alla guerra civile, all’ateismo pratico? Per verità
     non potreste che sotto auspicii sì benefici lavarvi dall’ostracismo
     divino e politico, che vi percuote! O sivvero gustare volete il
     miserabile piacere d’aumentare il gregge vile ed infame dei
     banditi, dei facinorosi, dei sediziosi? Vi compatisco però mentre
     _Solatium est miseris socios habere poenarum_. Vandali novelli, nel
     secolo decantato dei lumi, egoisti furenti, in una età proclamata
     eminentemente filantropa, eroi sublimi, col pugnale, lo spergiuro,
     ed il tradimento alla mano, siete voi che liberare ci volete dai
     tiranni, dal bigottismo e dalla schiavitù? Sono questi i vostri
     titoli, le vostre caratteristiche; a questo tende la barbara vostra
     propaganda? Deh, noi vi abiuriamo per fratelli, per nostri
     concittadini, e se per brevi istanti abbiamo il coraggio di
     trattenerci con voi, onde abbattere, e smascherare, nelle loro
     ultime trincee, gli empi vostri sofismi, i nauseanti vostri
     paradossi, gl’imbecilli vostri calcoli politici, lo facciamo, onde
     scuotervi una volta, per una commiserazione, che sebbene non
     meritiate, ci è d’altronde prescritta dai divini precetti della
     legge evangelica. Ciò posto, esaminiamo, a sangue freddo, i
     progetti degli scrittori e partigiani della così detta _Giovine
     Italia_. Fare dell’Italia adunque un solo governo o monarchico, o
     repubblicano, questo poco importa, mentre dal 1830 in qua, non
     ostante il valore intrinseco della parola monarchia, si è trovato
     (oh! felice scoperta dei lumi del secolo XIX) il mezzo di
     constituire delle monarchie con instituzioni repubblicane, talché
     Montesquieu, e tanti altri trattatisti della vera indole e
     carattere dei governi sono rimasti eclissati dal luminoso pianeta
     rivoluzionario. O sivvero, fare dell’Italia un governo, _ad instar_
     delle provincie unite dell’America settentrionale. Abbattere il
     grottesco potere politico del Papa, evocando le ombre degli uomini
     illustri dei bei tempi di Roma. Lasciare la religione cattolica ai
     bigotti, senza perseguitare di fronte coloro che hanno
     l’imbecillità di credervi, per meglio ruinarla con la spada a due
     tagli del ridicolo, secondo il testamento filosofico del Patriarca
     di Ferney, e annientare così i pregiudizi di una gotica educazione,
     appoggiandone la nuova ad una morale, in cui il furto suoni
     scaltrezza, lo spergiuro fortezza d’animo, il matrimonio un
     contratto temporario, lo stupro, il ratto, l’adulterio, l’incesto,
     il concubinaggio slanci e moti di un’anima gentile e sensibile, il
     suicidio eroismo immortale, ecc. ecc.; e sulla sommità di questa
     santissima morale si assida la dommatica ridotta ai consolanti
     principî dell’eternità della materia, del fine di tutto alla morte
     dell’uomo, della sola adorazione al _dio natura_, conciliando, in
     tal modo, l’ateismo con il deismo. In quanto poi agli attuali
     beneficentissimi ed illuminatissimi Sovrani d’Italia, o ucciderli
     col valore del pugnale, e col mistero sublime di propinati veleni,
     o per tratto di liberale clemenza, accordare ad alcuni più
     benemeriti della politica d’amalgama e di tolleranza, di girsene in
     bando profughi e raminghi, quali trofei viventi della debellata
     schiavitù. Sono questi adunque i vostri progetti? Deh! non tentate
     di negarli, di modificarli! Quaranta anni di prova, tanti giorni
     nefasti che avete fatti subire all’onore, alla pietà, alla fedeltà,
     tanti tentativi abortiti, e con una diabolica ostinazione
     riprodotti, non lasciano ombra di dubbio al più ignorante, al meno
     perspicace. Sommi politici quali vi vantate, non avete saputo
     celare i vostri iniqui desiderî con una machiavellistica
     segretezza. Anzi, basta leggere i vostri giornali, gli effimeri
     balbuzienti fogli vostri periodici per convincersi che costituite
     gloria, e gloria immortale, nel palesarvi apertamente. Ecco adunque
     cosa può sperare l’Italia quando sia da voi ringiovanita, depurata!
     Sappia ancora l’Italia che in benemerenza di doni sì ricchi, voi
     volete, senza attendere i di lei suffragi e consenso, assidervi
     sulle sedie curuli, ammassare tesori, spiegare la pompa, ed il
     fatigante lusso dell’Asia, in mezzo alle semplici e civiche virtù,
     che promettete alla rigenerata Penisola. Sappia che non le
     mancheranno né l’alta polizia tenebrosa, né i colpi di stato delle
     barricate, né il dileggio amaro e segreto di questi satrapi alla
     filosofica, per i molti imbecilli che si credessero dei Tulli e dei
     Demosteni nei comizi popolari. Siete adunque svelati in faccia al
     cielo ed alla terra. E ci taccierete d’impazienti, d’ignoranti se
     noi non possiamo trattenerci di più ad esaminare gl’infami vostri
     progetti? Quale utilità infatti arrecherebbe a noi ed a voi il
     dirvi dopo ciò, che l’Italia non può essere felice, che nel sistema
     d’equilibrio proprio ed europeo, in cui l’hanno situata i suoi
     legittimi governi; che essa, sebbene divisa in frazioni, un
     medesimo spirito però anima ed infiamma, per il suo vero e leale
     vantaggio, gli ottimi Sovrani, che la reggono; che dal resultato di
     questo spinto collettivo essa ha un sicuro garante d’essere difesa
     dalle straniere invasioni, e vede sorgere una gara lodevole, e
     prodigiosa direi, fra questi Unti del Signore per felicitare in
     mille modi, le parti della medesima, che essi governano; che in una
     parola essa gode tutti i benefizi dell’unità politica, il primato
     ecclesiastico sulle nazioni, circondato di tante pie ed illustri
     ricordanze, e tutti i felici risultati dell’occhio vigile e paterno
     dei suoi Sovrani sopra le più minute sue località, che protetta
     dalle generose, e fedeli, quanto imponentissime armate austriache,
     essa non ha bisogno di snervare la sua industria, di togliere alla
     agricoltura, all’arti ed al commercio le braccia sue piú robuste,
     per mantenere un’armata formidabile onde difendersi dalle gelosie,
     ed egoismi nazionali, che ci susciterebbero spesse fiate, se fosse
     riunita in un solo governo; e che finalmente se è chimerica l’idea
     di questa pretesa rigenerazione italica, se veramente costituisce
     in quelli che tentano procurarla (se fossero di buona fede)
     l’ignoranza piú crassa dei veri interessi della famiglia europea, e
     se Napoleone, che tutto, per fatalità, poteva, che era italiano,
     non ardí che tentarla da lungi, e finí poi con rendere l’Italia una
     assoluta provincia francese, facendo spargere il sangue italiano,
     per interessi affatto ignoti ed inutili all’Italia o nelle desolate
     contrade di Spagna, o negli agghiacciati deserti di Russia; è tanto
     piú chimerico, vile ed impossibile, che questo sognato, illusorio
     benefizio possa provenire all’Italia dalla filantropica
     cooperazione dei francesi in generale, ed in ispecie dei francesi
     rivoluzionari di tutte l’epoche, di tutti i partiti, e colori.

     «E voi, rinnegati italiani scrittori della cosí detta _Giovine
     Italia_, e partigiani di queste farse da teatro, è da loro che
     avete imparato a balbettare il simbolo rivoluzionario, è negli
     antri delle galliche sètte che scrivete, e spingete i vostri
     libelli infamanti onde mantenere l’impuro incendio, nel seno della
     misera Italia, ché anche nella iniquità non avete neppure l’orrida
     gloria di fare da maestri; deh! scuotetevi una volta, se ne siete,
     che non crediamo, capaci, ed unitevi con gli onesti e virtuosi
     italiani a scolpire in marmi od in bronzi, ad eterno disinganno,
     questa venerabile massima dell’antichità, cangiati però i nomi dei
     protagonisti, ed il valore e l’indole del concetto: _Quidquid
     delirant Galli plectuntur Itali._

     _«Balí Cosimo Andrea Samminiatelli.»_

                                  ***

Abbiamo detto che, nonostante la guerra feroce che gli si muoveva, il
periodico continuava le sue pubblicazioni, alle quali il Mazzini
sorvegliava con grande cura, rimediando alle mille difficoltà che
sorgevano per la compilazione di esso, resa ancor più difficile quando
il grande Italiano, espulso da Marsiglia, dové nascondersi ne’ pressi
della città, e colà vivere intanato come una bestia feroce, sino al
giorno in cui, cedendo alle infinite persecuzioni, fu costretto a
rifugiarsi nella Svizzera. Seguitò a pubblicarsi anche dopo il tentativo
d’invasione savoiardo, anzi nel sesto fascicolo trovarono luogo que’
preziosi documenti con i quali il Mazzini rese conto presso gli Italiani
della sua parte di responsabilità; ma questo sesto fascicolo uscito nel
giugno 1834, fu l’ultimo della serie; e cosí veniva a spegnersi la
«prima rassegna del Partito Nazionale Italiano, ispirata, dal bisogno di
ordinare a sistema le idee sconnesse ed isolate frementi
nell’associazione»²⁶. «Stamperemo anche il settimo — scriveva il Mazzini
al Rosales il 20 luglio di questo anno; — appunto perché i governi non
vogliono; ma per non aver vincoli, non riceveremo abbonamenti. Faremo
pagare a volumi»²⁷; nondimeno il proposito non ebbe effetto per molte
ragioni, finanziarie e politiche. Alle prime il Mazzini accenna in varie
sue lettere alla madre e al Rosales; le seconde crediamo riconoscere nel
fatto che altri orizzonti, piú vasti, lumeggiati di ben altre tinte, si
erano aperti alla mente di questo «sultano della libertà», rischiarando
il cammino ad altre mète piú gloriose, se bene irte di pericoli ancor
piú insormontabili; egli stava vagheggiando la fratellanza dei popoli
europei, dapprima con la _Giovine Svizzera_, poi con la _Giovine
Europa_, antiveggendo fin d’allora, in momenti di tristissimo servaggio
per tutte le popolazioni europee, una nuova epoca di progresso sociale.
Credette quindi troppo inadeguato allo scopo il giornale di Marsiglia,
come mezzo di diffusione delle sue idee; un anno dopo il _Proscrit_,
quindi la _Jeune Suisse_ e nel 1840 l’_Apostolato Popolare_ erano gli
organi della nuova generazione, la quale, sia pure indirettamente,
assorbiva la parola calda, e fascinatrice del Mazzini, e si preparava
alle grandi lotte del Risorgimento, non solo, ma di tutta Europa, dalle
rive della Senna, a quelle del Danubio, della Sprea, e di là per altri
paesi, dovunque la feroce catena del dispotismo tenesse avvinti i
popoli, sviandoli dal pensiero di liberi sensi.

  ²⁶ _P. Gironi_, op. cit., p. 388.

  ²⁷ _Epistolario_ di _G. Mazzini_, Firenze, Sansoni, 1902, vol. I, pp.
     245-46.

    Roma, 10 marzo 1902.

                                                          _M. Menghini._

                                  ————



                                   La

                            GIOVINE ITALIA.

           SERIE DI SCRITTI INTORNO ALLA CONDIZIONE POLITICA,
              MORALE, E LETTERARIA DELLA ITALIA, TENDENTI
                        ALLA SUA RIGENERAZIONE.


                                                 Italiam! Italiam!..
                                                             _Virg._

    Ma voi, che solitari, o perseguitati sulle antiche sciagure
    della nostra patria fremente, perché, non raccontate alla
    posterità i nostri mali? Alzate la voce in nome di tutti, e dite
    al mondo, che siamo sfortunati, ma né ciechi, né vili.....
    Scrivete. Perseguitate con la verità i vostri persecutori.

                                                          _Foscolo._


                               MARSIGLIA.
                 TIPOGRAFIA MILITARE DI GIULIO BARILE.
                                 1832.

                                  ————



                          DELLA GIOVINE ITALIA


    Les jeunes gens de vingt à trente-cinq ans ont grandi dans la
    révolution..... Eux seuls sont notre espérance²⁸.

                                                    _Victor Cousin._


Le parole di Cousin, poste in fronte all’articolo, racchiudevano, parmi,
un alto senso politico, e compendiavano in certo modo la scienza del
moto sociale nel secolo XIX. Egli le proferiva parlando allo Zschokke, e
Zschokke, canuto, ma d’anima giovine e repubblicana, le raccoglieva con
amore, e le registrava in fronte a un suo libro, intravvedendovi una
profezia di vittoria e di civiltà.

Quando Cousin parlava quelle parole, la Francia era schiava a un
dipresso, com’oggi noi siamo. I miracoli repubblicani tornati in nulla,
le corruttele de’ governi nulli, intermedi fra la Convenzione e
Bonaparte, le servilità dell’Impero, che trasparivano attraverso il
manto di gloria steso dal genio dell’uomo del destino, poi la tirannide
del _ristoramento_, le brighe sacerdotali e gesuitiche, le delusioni e
la cortigianeria prevalente avevano diffuso un sonno sulle menti degli
uomini dell’89, una pace stanca, un silenzio di rovina, che vietava ogni
speranza di meglio. Le forze della generazione nata fra i due secoli
XVIII e XIX, s’erano consumate nei quaranta anni di guerra ostinata e di
sagrifici, spesi a ricadere nel fango d’onde avea voluto levarsi. Gli
uomini che aveano veduto il primo e l’ultimo giorno d’una rivoluzione
destinata a mutare le sorti europee, disperavano del progresso. Tante
credenze s’erano accumulate in quello spazio di tempo, e tante volte la
prepotenza de’ fatti le avea soffocate, che gli animi erano giunti a
rinnegare ogni fede, e gl’intelletti giacevano sconfortati, avviliti,
sfiduciati dell’avvenire. Le teoriche filosofiche, perduta ogni attività
d’esame, ogni eccitamento di contrasto, dormivano nel materialismo del
secolo XVIII, e confinavano l’uomo nell’esercizio delle facoltà
individuali. Letteratura non v’era, tranne nelle accademie, vendute al
potere, qualunque si fosse, e inerti per natura d’ogni collegio
privilegiato. Era quel momento di riposo, che segna l’ultimo moto d’una
razza la cui missione è compiuta, e il primo d’un’altra che raccoglie le
proprie forze a incominciare lo sviluppo di quella, che ogni nuovo
secolo affida a’ suoi figli.

  ²⁸ L’epigrafe è troppo assoluta, perché noi la ammettiamo senza
     riserva, — e rimettiamo all’articolo. Ma non abbiamo potuto
     resistere al piacere di registrare in favore della gioventú un
     giudizio pronunciato da uno de’ primi padri della _dottrina_, che
     contende alla nuova generazione la facoltà di progresso.

Il secolo XIX sentiva la propria missione. I fatti accumulati dal secolo
passato erano troppi, perché le conseguenze potessero cancellarsi con un
trattato. L’elemento _giovane_ fermentava tacitamente. Troppo debole
ancora per combattere a visiera levata la tirannide politica, ne’ suoi
dominii, s’agitava intorno al vecchio edificio sociale novamente
puntellato, avvezzandosi a guardarlo, a misurarlo senza paura e
venerazione, studiandone il lato piú fragile, logorandolo, poiché al
centro non poteva, per ogni dove all’intorno. Mancava la unione, mancava
la concordia in alcuni principii fondamentali allo sviluppo dei quali si
concentrassero gli sforzi individuali; mancava un _simbolo_ alla
religione che cominciava a farsi via tra le rovine d’un culto perduto,
che i re tentavano rinvigorire col terrore delle baionette; ma lo
studio, non foss’altro, che gl’ingegni nati col secolo ponevano nelle
diverse molle sociali, la tendenza che spingeva le menti alle scienze
storico-filosofiche, l’affetto che viveva nelle grandi memorie,
protestavano contro agli inetti, che negavano il progresso o
s’attentavano d’arrestarlo. Allora sorsero alcuni uomini, potenti
d’intelletto e di dottrina, che avevano desunta dalle pagine di Vico e
d’altri la teorica d’un perfezionamento progressivo indefinito, e si
consecrarono apostoli del rinnovamento morale. Rinnegarono l’autorità,
rinnegarono quanto d’esclusivo si racchiudeva nei mille sistemi,
creazione e pascolo dello spirito umano. Guardarono con occhio d’aquila
le linee storiche del passato, risuscitarono la idea spirituale,
eressero un altare alla civiltà nel santuario della coscienza, e
chiamarono la _giovine Francia_ a sagrificare su quell’altare
salutandola speranza della patria, potente, rigeneratrice. La _giovine
Francia_ rispose a quel grido: La _giovine Francia_ ardita, impaziente,
fiduciosa, e spronata dall’entusiasmo, non aveva raccolto del passato
che i sommi principii, risultati de’ fatti, senza aver subíta
l’iniziazione spesso funesta dei fatti stessi, e si slanciò dietro a
quella bandiera. Tentò quante vie s’affacciavano: assunse a tempo quante
forme si offrivano interpreti del pensiero generoso. Fu romantica,
ecclettica, protestante. Si arrestò, appassionandosi, intorno al medio
evo, sulle teoriche trascendentali, nelle incertezze del misticismo. Ma
sempre, attraverso tutte le fasi, sotto le varie gradazioni che
avviavano l’intelletto alla verità, nelle lettere, nell’arti, nella
filosofia, traspariva la coscienza d’una forza indipendente da’ vincoli
materiali, traspariva lo spirito di libertà, solo eterno, solo
onnipotente a mutare in meglio le condizioni civili; ma dietro a quella
gioventú desiosa, insisteva una voce che gridava: innanzi! innanzi! —
Protestantismo, Romanticismo, Ecclettismo erano tendenze di transizione:
preludi nei quali l’intelletto sviluppava, esercitava le proprie forze
prima d’intraprendere dirittamente la via del rinnovamento. Bensí, quei
primi, che il caso avea cacciati a condottieri di tanta impresa²⁹,
avevano forze ineguali all’ufficio. Piú eloquenti che logici, piú vasti
che profondi nelle loro osservazioni, piú ambiziosi forse che caldi
veramente della fiamma santa che crea il genio protettore delle razze
umane, avevano intravveduto un istante la missione del secolo, e s’erano
smarriti davanti alla sua grandezza. Come Pietro Eremita, avevano
sollevato lo stendardo d’una Crociata senza ammetterne, senza intenderne
le inevitabili conseguenze. Tentennavano fra diversi sistemi,
malcontenti di tutti, non rifiutandone alcuno, senz’ardire per
distruggerli, senza fede o potenza per crearne un nuovo. Rivelati alcuni
principii, procedevano paurosi nelle applicazioni, titubavano nello
sviluppo delle proposizioni che avevano prefisso a’ loro libri, a’ loro
insegnamenti, a’ loro giornali. Volevano insomma rovinare il passato, ma
senza creare l’avvenire, senza accettare l’eredità de’ padri, senza
sacrificarsi per essa.

  ²⁹ [_Scritti_, ecc.: _intrapresa_].

Ma la eredità de’ padri era tale, e santa di tanta solennità di
sventura, che i figli non potevano rinunziarvi per amor de’ maestri. Per
venti anni d’eroismo, e di sagrificio non v’è fiume d’oblio, e la
gioventú ridestata una volta, trascorse altre ai confini che le
segnavano. I padri avevano predicata una fede, i padri l’avevano
suggellata col sangue; ma, come il secondo Gracco, avevano cacciata una
stilla di quel sangue verso il Cielo, sclamando: frutti il vendicatore!
— Quel sangue ardeva nelle vene dei figli, e la fede dei padri
s’affacciava ad essi raggiante, pura, piú cara, perché incoronata della
palma del martirio, bella di speranze, o d’un’eterna promessa. La
rivoluzione dell’89 aveva mostrato in compendio tutta la carriera di
riforma che dovea corrersi. Una generazione l’aveva divorata coll’ansia
di chi scopre una nuova terra, a balzi, a slanci, senza arrestarsi. I
primi intraprenditori delle rivoluzioni sono vittime consecrate, e si
muoiono; ma i principii non muoiono, e le generazioni che tengono dietro
s’assumono d’educarli, di svolgerli, di trarre da’ primi contorni un
quadro immortale, di ricorrere piú lentamente, ma piú stabilmente la via
che i primi hanno segnata. La grande rivoluzione sociale, della quale la
rivoluzione francese aveva dato il programma, incominciava appena,
quand’altri s’illudeva d’averla spenta. E la gioventú, fatta accorta
della propria potenza, accettò la missione: si strinse, si raggruppò,
stette attenta, vegliando il momento che dovea sorgere nello spazio. Il
momento sorse, la gioventú lo afferrò. Il cannone dell’_Hôtel de Ville_
tuonò la chiamata. La gioventú si levò come un sol uomo: la gioventú
vinse. Cortigiani, baionette, trono, tutto rovinò davanti all’impeto
d’un principio. Il sole del 27 aveva diffusa la luce sopra ogni cosa: il
sole del 29 non salutò che una bandiera: — la bandiera del secolo. Gli
uomini, che alcuni anni addietro avevano comunicato l’impulso
senz’antivederne gli effetti, s’erano ritratti atterriti; poi, quando la
gioventú riposò dalla sua creazione, si cacciarono addosso al cadavere
d’una monarchia, usurparono la gloria d’averla morta, e giudicarono
l’ossa de’ sette mila essere convenevole base al sistema ch’essi avevano
predicato utilmente, viva e prepotente la tirannide. Ora, parlano
tuttavia di progresso, — e vorrebbero che s’arrestasse dove essi
s’arrestano: magnificano le glorie del Luglio, — e vorrebbero che una
nazione non si fosse levata se non a mutare un nome nella sua storia:
protestano del loro amore alla libertà, — e l’hanno rivestita d’un manto
d’infamia, — l’hanno cacciata ludibrio a’ re, sospetto mortale ai
popoli. Due secoli, il XVIII, e XIX, li rinnegano: come que’ codardi che
Dante pone alle porte del suo Inferno, si stanno tra l’infamia e
l’oblio: l’oblio per la loro eloquenza che prima eccitava i giovani,
oggi s’è prostituita al potere: — per la loro letteratura, campo di
prova agli ingegni, ove essi vorrebbero confinare per sempre l’anelito
al moto perenne, che affatica lo spirito umano; — pel loro ecclettismo,
sistema di transizione, che intendono perpetuare: la infamia per la
gretta e fredda politica individuale, alla quale hanno sacrificate le
grandi speranze sociali suscitate per essi — pel sangue de’ popoli che
hanno pattuito coi re a mendicare una pace che non otterranno — pel loro
trovato del _giusto medio_, ecclettismo politico, senza passato,
senz’avvenire, senza logica, senza sviluppo, sistema paralitico, che non
s’attenta rifiutare i principii rigeneratori, ma s’industria a
strozzarli in fasce. E sia cosí, poi che vogliono! — il secolo li aveva
circondati dell’affetto giovenile e di plauso: poi tentarono sostituirsi
al secolo, e il secolo li affogherà. — Chi può cacciare un principio, e
voler che non frutti? — Chi può dar moto all’intelletto, e gridargli:
arrestati dov’io m’arresto?

In Italia, siccome in Francia, la tirannide, tanto piú esosa quanto piú
impudente, produsse il suo effetto di reazione, e l’anime inferocirono
nell’odio, crebbero smaniose d’indipendenza. — In Italia, prima che in
Francia, gl’ingegni intolleranti di freno versarono nella scienza la
idea di progresso che non potevano applicare agli ordini civili, e
levarono il grido di libertà del pensiero nel campo delle lettere³⁰. —
In Italia, siccome in Francia, gli uomini che cacciarono i primi semi di
libertà furono oltrepassati da chi venne dopo, però che la sventura è
maestra piú potente d’ogni teorica, e ogni anno, ogni evento, ogni
tentativo fecondò la Italia di nuova rabbia, di sangue e di
insegnamenti. Ed oggi, gli uni contendono per la eccellenza dei metodi
che predominarono soli, e fruttarono negli anni addietro: gli altri,
cresciuti col secolo, predicano la parola del secolo, e si assumono di
esserne interpreti. Bensí la differenza sta in questo, che in Francia,
gli uomini ch’or vorrebbero arrestare il moto, addotrinarono la
crescente generazione, e i loro sforzi furono talvolta coronati dalla
vittoria: in Italia, le circostanze, avverse sempre e prepotentemente
fin’ora, vietarono a ogni uomo di convalidare il proprio sistema
coll’autorità del trionfo, e gl’Italiani non raccolsero ammaestramento a
fare che dai rovesci, e da quel tanto di sviluppo che i fatti continui
impongono all’intelletto. — Però, ogni questione s’agita fra due
opinioni, nessuna delle quali ha generato finora risultati positivi. Noi
siamo schiavi: per quali mezzi si riacquista da schiavi la libertà? — e
stabile? — ed efficace? Quali principii hanno a reggere i tentativi? —
Gli antichi, recentemente praticati, fallirono. Fu legge di cose,
necessità di tempi, o vizio inerente al sistema, che, mutati gli
elementi, dovea mutarsi? Forse fu la prima cagione; non pare a ogni modo
che a favorir quei sistemi giovi il mal esito. La tendenza del secolo ne
predica altri; e le tendenze non nascono a caso, non prevalgono per
capriccio di pochi: emergono da’ bisogni, trionfano col voto dei piú.

  ³⁰ Il _Conciliatore_, giornale stampato in Milano, nel 1818, predicò
     il sistema della libertà nelle lettere, prima che la giovine scuola
     avesse organi periodici, e centro in Francia. Il Tedesco ne intese
     meglio che ogni altro lo scopo, e vietò il giornale,
     perseguitandone gli scrittori.

A noi, dovendo spesso nelle pagine della _Giovine Italia_, occorrere di
combattere il sistema che i casi — e non le nostre parole, — dimostrano
ogni dí piú sistema vecchio e impotente a rigenerare una nazione caduta
in fondo, corre obbligo, corre necessità di spiegarci una volta per
tutte sulle nostre intenzioni a riguardo d’un partito politico, che
rappresenta cotesto sistema, e che pur numera — forse a torto — ne’ suoi
ranghi molti uomini puri, incorrotti e deliberati nemici d’ogni
tirannide, a’ quali la Italia, comunque spinta dalla forza delle cose
per altre vie, serberà gran tempo venerazione e affetto di gratitudine.
Le denominazioni di _Giovine Italia_ e d’_uomini del passato_ increscono
a primo tratto a que’ molti che non s’addentrano nelle cose. La
mediocrità è sospettosa, e intravvede offese per ogni dove. Gli uomini
che invecchiarono in un sistema d’idee, che hanno combattuto e sofferto
per esso, mutano difficilmente. La educazione politica non si rifà, se
non ne’ pochissimi creati a camminare fino alle esequie cogli anni,
immedesimati col moto progressivo della civiltà; e l’affetto che si
genera dall’abitudine è potente quant’altro mai. D’altra parte la
gioventú, fervida, impaziente s’affaccia briosa alla vita dell’avvenire,
si sente fremere dentro potente il concetto d’emancipazione, e rompe
guerra al passato: nol guarda, o se il fa, guarda dispettosa, o
sprezzando. Quindi l’ire aspreggiate dalla sventura: quindi le accuse
reciproche, e ciò che spesso è colpa di fati, attribuito all’una o
all’altra opinione. Da siffatte guerre non esce che danno alla patria. E
però vogliamo interpretare que’ termini, che potrebbero prestare
alimento a gare funeste: vogliamo snudare tutta intera l’anima nostra,
perch’altri non vi sospetti un pensiero che ogni Italiano rifiuta. È
duro dover discendere a spiegazione di ciò che tutti dovrebbero
intendere: è duro l’esser tratto a scolparsi di tacce che tra noi
nessuno avrebbe sognato. Bensí, la unione³¹ anzi tutto — e v’hanno tali
materie, nelle quali giova rimovere anche il nudo sospetto.

  ³¹ [_Scritti_, ecc.: _Ma l’unione_].

Noi lo dichiariamo solennemente: — _Per Giovine Italia_ noi non
intendiamo che un _sistema_, voluto dal secolo: quando noi combattiamo,
la _vecchia_, noi non intendiamo combattere che un _sistema_, rifiutato
dal secolo.

Le denominazioni _giovine e vecchia Italia_ non sono nostre; e perché
vorremmo noi gravarci l’anima d’un rimorso, creando una divisione, dove
i fatti non ci strozzassero³² a riconoscerla, dove il progresso inerente
alle umane cose non ci soggiogasse col mostrarcela inevitabile? Abbiamo
dieci secoli d’oltraggi a vendicare³³: abbiamo a distruggere un
servaggio di cinque secoli. I padri, i padri de’ padri, e gli avi remoti
ebbero tutti la loro parte di quell’oltraggio: tutti hanno bevuto a quel
calice che Dio serbava all’Italia, e del quale la fortuna assegnava a
noi l’ultime goccie — e le piú amare forse. E noi gemiamo per tutti,
fremiamo per tutti; e se a rigenerare una terra guasta da cinquecento
anni di servitú muta bastasse levarsi e combattere³⁴ gli uomini del
passato, quanti insorsero e morirono per la patria da Crescenzio fino al
Menotti, sarebbero nostri fratelli alla pugna, dove alcuno potesse
evocarli dalla loro polvere. — Ma il sangue solo santifica, non rigenera
una nazione. Stanno contro di noi non le sole baionette straniere, ma le
discordie cittadine inveterate per lunga memoria di stragi, rieccitate
sordamente dalla tirannide artificiosamente ineguale e corrompitrice:
stanno i vizi, che si generano nelle catene, e la intolleranza di freno,
ottimo elemento per distruggere, pessimo per fondare, e piú ch’altro sta
la mancanza di fede: di quella fede, che sola crea le forti anime e le
grandi imprese, di quella fede che sorride tranquilla nel sagrificio,
perché trae seco sul palco, o nel campo la promessa della vittoria
nell’avvenire. Queste cagioni di servitú durano tuttavia prepotenti, e a
superarle conviene giovarsi di quanti elementi, di quante forze
fermentano tacitamente in Italia, ridurle a centro, calcolarle colla
maggiore esattezza — e ogni anno le modifica, le tramuta, le aumenta —
poi mormorare ad esse la parola di fede, spirarvi dentro l’alito d’una
vita potente, animarle di quello spirito che dagli elementi inerti crea
il moto d’un mondo, e vi stampa sopra l’orma di Dio. Ma il segreto del
secolo sta nelle mani dei nati col secolo. — Né il linguaggio che
suscita le passioni, e le dirige a grandi cose, e insegna a santificarle
consecrandole coll’altezza d’un intento sociale, si rivela ad altri che
a coloro, i quali hanno sorbito³⁵ col primo alito le passioni del
secolo, e l’ansia di moto che affatica l’anime de’ fratelli. Or, perché
illuderci, quando ogni illusione frutta rovine? — e che giovamento può
nascere dal rinnegare la nostra potenza e dissimularci la missione
d’intelletto che la natura ci assegnava cacciando la nostra culla alla
sorgente delle rivoluzioni, per paura che l’ossa de’ padri s’agitino
irrequiete ne’ loro sepolcri, irate ai figli perché intraprendono
franchi e deliberati la via ch’essi calcarono incerti e timidamente? —
Oh! da que’ grandi ch’ora dormono l’ultimo sonno, non viene fremito a
noi se non d’incoraggiamento e di conforto ad osare: — da que’ sepolcri
non esce voce che non esclami: — «siate migliori di noi! siate grandi,
come la vostra sciagura, come l’epoca nella quale vivete: grandi
nell’atto come noi nel pensiero! Noi fummo a tempi, ne’ quali il solo
concetto di rigenerazione era un trionfo sulla tiranide; la rivoluzione
sociale era un’alba³⁶, e noi, avvezzi alle tenebre, non potevamo
misurare la luce del giorno venturo, né oprare risolutamente animosi,
quando fiacchi e forti, tranne pochissimi, stavano contro di noi, e la
esperienza era muta. Ma voi nasceste ne’ moti, e v’allevaste tra i moti:
ammaestratevi nelle nostre disavventure: abbiate le nostre virtú, ma
rinnegate i nostri errori».

  ³² [_Scritti_, ecc.: _sforzassero_].

  ³³ [_Scritti_, ecc.: _da vendicare_].

  ³⁴ [_Scritti_, ecc.: _a combattere_].

  ³⁵ [_Scritti_, ecc.: _assorbito_].

  ³⁶ [_Scritti_, ecc.: _sociale un’alba_].

Le denominazioni _giovine e vecchia Italia_, non sono nostre: noi non le
abbiamo create: le ha create una tal potenza contro la quale non valgono
né ciance d’uomini, che sentono sfuggirsi di mano una influenza già
consumata da’ fatti, né rancori e sospetti d’inetti maligni, che
vorrebbero occupare il secolo delle loro meschine ambizioni, e della
loro vita incognita al mondo. E la potenza de’ fatti: — la potenza che
mutava alcuni anni addietro nella Germania il _Tugenbund_³⁷ (fratellanza
della virtú) in _Jugenbund_ (fratellanza di gioventú): — la potenza che
concentrava in Polonia poco tempo avanti la rivoluzione le molte società
patriottiche nella grande associazione della gioventú condotta da
Lelewel: — la potenza che commettendo alla _giovine Francia_ la impresa
di luglio e i fati Europei, strappava di bocca a Cousin le parole che
noi ponemmo in capo allo scritto — e Cousin eccitatore un tempo della
gioventú francese, è pure in oggi un di que’ tanti che s’industriano a
distruggere l’opera loro, tentando confinare nel cerchio angusto d’una
_dottrina_ immutabile e inapplicata gli uomini del progresso; ma la
verità vuole il suo dritto, e si fa via tra’ sistemi. La verità si
rivela continua e progressiva attraverso gli eventi; e se gli eventi ci
sono propizii d’ispirazioni politiche: — se il secolo ci suggerisce una
nuova via di successo, perché rifiuteremo noi di seguirla?³⁸ perché
diremo al secolo: tu se’ diseredato di mente: trascorri inutile alla
umanità?

  ³⁷ [Abbiamo ammesso questa correzione, che è giusta. Nella _Giovine
     Italia_ si legge invece: _il_ Tugenbund].

  ³⁸ [_Scritti_, ecc.: _seguirlo_].

Bensí, dalla nostra credenza non esce spregio, o biasimo assoluto alle
vecchie credenze politiche, né perché abbiamo opinione che le cose nuove
debbano trattarsi con metodi nuovi, gittiamo l’anatema dell’ingrato alle
teoriche applicate sinora. Quelle teoriche sono storia, e come storia le
veneriamo: come storia vi leggiamo dentro una manifestazione del
principio adattata a’ tempi e alle circostanze. Soltanto in oggi le
vicende, le sciagure, e gl’insegnamenti de’ fatti hanno svolti nuovi
elementi, hanno messa in luce chiarissima la _idea_, che prima giaceva
oscura ne’ simboli. Allora conveniva accennare il principio; ora ci par
giunta l’epoca d’una manifestazione solenne. — Ogni cosa ha il suo
tempo: ogni sistema ha la propria necessità d’esistenza nella condizione
morale dell’epoca. Chi schernisce o maledice al passato, è stolto o
maligno: egli dimentica come dai vagiti e da’ modi informi e plebei di
Guittone Aretino esciva la bella lingua dell’Alighieri, di Petrarca e
Boccaccio, né senza quei primi e timidi tentativi politici, non
parleremmo³⁹ in oggi queste parole. Ma noi non malediciamo al passato,
se non quando c’incontriamo in uomini, i quali s’ostinano a farne⁴⁰
presente, e quel ch’è peggio, avvenire. Le rivoluzioni son tali fatti
che non si compiono in un istante o con un solo sistema, perché non v’è
momento nello spazio, o sistema nella mente umana che valga a
raccogliere, a concentrare in una unità potente d’azione tutti quanti
gli elementi che mutano faccia agli stati. I sistemi politici non sono
per noi che i risultati degli elementi d’azione che stanno a un dato
tempo in un popolo, calcolati e ordinati pel meglio. Se ogni popolo
potesse rassegnarsi ad attendere in pace il momento nel quale l’elemento
_morale_ rivoluzionario equabilmente diffuso e coordinato fosse giunto a
tale un grado di potenza che assorbisse l’elemento _materiale_, le
rivoluzioni non avrebbero che un sistema. — Ma la natura non ha voluto
che dalla morte nascesse a un tratto la vita; e la rigenerazione d’un
popolo non balza fuori nella sfera de’ fatti, potente e compiuta, come
Minerva dal capo di Giove. La natura non ha voluto che le rivoluzioni si
operassero senza lunghe fatiche, forse perché i popoli imparassero a
gradi e attraverso le delusioni il prezzo della libertà; né una nazione
cresce grande davvero, se non è consecrata all’eternità della missione
sociale nel sacramento del dolore. E d’altra parte, la tirannide
soverchiante, e inquieta per coscienza d’infamia, non concede che la
guerra fra gli elementi del progresso e la inerzia si consumi sordamente
e mutamente nella società, e l’urto non si manifesti che quando il
trionfo è sicuro; ma inferocita nei sospetti e nei terrori che
l’affaticano, caccia nell’arena, come un guanto a’ popoli, qualche testa
di prode — e i forti di sdegno e d’audacia titanica traggono anzi tempo
le moltitudini incerte al giudicio di Dio. Quindi le vittorie brevi, e
le dubbie vicende, e gli errori. E dalle dubbie vicende e dai molti
errori hanno vita, incremento e perfezione i sistemi.

  ³⁹ [_Scritti_, ecc.: _politici, noi parleremmo_].

  ⁴⁰ [_Scritti_, ecc.: _farlo_].

E v’è un periodo nella vita de’ popoli, come in quella degli individui,
nel quale le nazioni s’affacciano alla libertà, come l’anime giovani
all’amore: per istinto — per bisogno indefinito e segreto — perché la
natura creando l’uomo gli scrisse nel petto _libertà e amore_ — ma senza
conoscenza intima della cosa bramata, senza studio de’ mezzi, senza
determinazione irrevocabile di volontà, senza fede. Allora la libertà è
passione di pochi privilegiati a sentire e soffrire per tutta una
generazione, a spiare il progresso e il voto de’ popoli, a intendere il
gemito segreto che va dalle moltitudini al trono di Dio — a vivere
profeti e morire martiri; per gli altri è desiderio, sospiro, pensiero,
e null’altro. Allora le rivoluzioni si tentano artificialmente colle
congiure: gli uomini liberi si raccolgono a metodi d’intelligenza
misteriosa: s’ordinano a fratellanze segrete: costituiscono setta
educatrice, e procedono tortuosi. Però che le moltitudini durano inerti,
e i piú vivono astiosi al presente, ma spensierati dell’avvenire — e se
taluno rompe guerra al tempo, e tenta rivelarlo a’ milioni, i milioni lo
ammirano onesto, ma la scherniscono sognatore di belle utopie. Il
sagrificio solenne è venerato anche allora, perché nel core degli uomini
v’è un istinto di verità che mormora: quel sangue è sparso per voi;
quelle vittime si stanno espiatrici delle vostre colpe; que’ martiri
equilibrano a poco a poco la bilancia tra le creature ed il creatore. È
venerato, perché v’è un sublime nel sagrificio, che sforza i nati di
donna a curvare la testa davanti ad esso, e adorare; perché s’intravvede
confusamente che da quel sangue, come dal sangue di un Cristo, escirà un
dí o l’altro la seconda vita, la vita vera d’un popolo — ma la
venerazione si consuma sterile e solitaria, nel profondo del core, nel
gemito dell’impotenza; non crea imitatori; non risplende maestosa e
fidente intorno al simbolo della nuova fede, ma soggiorna paurosa nelle
iniziazioni d’un culto proscritto, e piange d’un pianto che non ha
conforto neppur di fremito. — La condizione de’ tempi impone allora
doveri particolari ai pochi che s’assumono l’opera rigeneratrice; allora
il voler sanare gli estremi mali cogli estremi rimedi è piú follia che
virtú; perché dove il male è inviscerato nella società e ti preme d’ogni
lato predominante, o tenti struggerlo alla radice, e cadi tra via deriso
da’ tristi; o fai guerra ineguale a’ rami, e tu sei⁴¹ gridato tiranno
da’ buoni. — Allora l’ostinarsi a fondar la vittoria su forze proprie e
sui miracoli del valor nazionale frutta disinganno amaro e talora pure
rimorso, perché le nazioni si _rigenerano colla virtú o colla morte_; ma
dove non è virtú di sagrificio né furore di gloria, dove nei cuori non
vive un’eco alle grandi passioni, i vasti concetti falliti e le molte
vittime infondono la inerzia, non il coraggio della disperazione. Quindi
la moderazione nell’applicazione de’ principii piú scaltrezza che
inconseguenza; quindi la speranza e l’aiuto accettato dello straniero
necessità deplorabile piuttosto che codardia; e l’arti diplomatiche
usate a tempo, pericolose sempre, pure talvolta efficaci a smembrare le
forze nemiche. Ad ogni operazione politica è base prima il calcolo delle
proprie forze; e dove queste non reggono, è forza cercarne altrove, o
ristarsi⁴². Siffatti mezzi non danno libertà mai alle nazioni, bensí
conquistano anime alla santa causa, e insegnano a intendere la libertà
ed amarla dolce, tollerante, incontaminata. — Poi le vicende ammaestrano
a conseguirla.

  ⁴¹ [_Scritti_, ecc.: _e sei_].

  ⁴² [_Scritti_, ecc.: _ritrarsi_].

Ma poi che il pensiero concentrato ne’ pochi s’è diffuso alle
moltitudini, e la libertà è fatta sorella dell’anime — quando il voto
segreto s’è convertito in anelito irrefrenabile, e la speranza in fede,
e il gemito in fremito — quando il sangue delle migliaia grida vendetta
agli uomini e a Dio, ed ogni famiglia conta un martire o un iniziato
alla religione del martirio — quando le madri non hanno piú sonni,
l’amplesso delle mogli ha il tremore e il presagio della separazione, e
un pensiero di rancore, un pensiero di cupa vendetta solca le fronti de’
giovani nati all’amore, e al sorriso spensierato degli anni vergini
sottentrano anzi tempo le cure e le gravi apparenze dell’ultima età —
allora — l’ora di risurrezione è suonata. Guai a chi non si assume tutto
il dolore, tutto il dritto di vendetta solenne, che spetta ai suoi
fratelli di patria! Guai a chi non sente il ministero che le circostanze
gli affidano, e reca le idee mal certe del tentativo nella lotta
estrema, decisiva, tremenda! — Allora la tirannide ha consumato il suo
tempo; le _transizioni_, e i sistemi di _transizione_ diventano passi
retrogradi; la guerra è tant’oltre che tra la distruzione e il trionfo
non è via di mezzo, e gli ostacoli che un tempo si logoravano coll’arti
della lentezza, vanno atterrati rapidamente. — Allora la iniziazione è
compiuta; alla religione del martirio sottentra la religione della
vittoria; la croce modesta e nascosta s’innalza⁴³ nell’alto convertita
in _Labarum_; la parola della fede segreta fiammeggia segno di potenza
scritto sulla bandiera de’ forti — e una voce grida: _in questo segno
voi vincerete!_

  ⁴³ [_Scritti_, ecc.: _si svolge_].

E allora la gioventú si leva — raggiante, concorde, serrata a una lega
di pensieri e fatti magnanimi, aspirante un’aura di vittoria, spinta da
una forza di progresso e di moto che insiste sovr’essa, che la purifica
in un oblio d’ogni affetto individuale, che la ingigantisce nella
potenza d’un desiderio sublime. Salute a quella gioventú! — Date il
varco alla generazione, che venne col secolo, e maledetto colui che la
guardasse con occhio d’invidia, o gittasse dietro ad essa il motto dello
scherno amaro, però ch’essa ha intesa la voce del passato e quella
dell’avvenire, ha raccolti gl’insegnamenti dell’esperienza dalla bocca o
sulle tombe dei padri, e s’è ispirata al soffio della civiltà
progressiva, all’armonia della umanità, che ogni secolo, ogni anno, ogni
giorno rivela all’anime nuove un arco del proprio orizzonte!

Ora — è il tempo, o non è? Siam noi giunti al punto in cui una nuova
rivelazione⁴⁴ politica dia moto alle menti, e gli antichi sistemi
esauriti abbiano a cedere davanti a’ nuovi suggeriti dalla esperienza,
voluti dai piú, potenti a struggere ed a creare?

  ⁴⁴ [_Scritti_, ecc.: _rivoluzione_].

La questione è codesta — e noi, uomini del secolo XIX, la riteniamo
decisa.

Noi stiamo sul limitare d’un’epoca, e non è l’epoca de’ sistemi di
_transizione_, che gli uomini delle rivoluzioni hanno predicato finora.
L’epoca de’ sistemi di _transizione_ è il gradino che la necessità
impone alle nazioni, perché salgano dal muto servaggio alla libertà. La
libertà è troppo santa cosa, perché l’anima dello schiavo la intenda e
il suo cuore possa farsene santuario, se prima non s’è riconsecrato alla
_vita morale_ nelle lunghe prove e nel lungo dolore. Ma noi l’abbiamo
consumata quest’epoca: quaranta anni di tentativi, il battesimo del
pianto e del sangue, e la vicenda europea che s’è svolta davanti a’
nostri occhi, hanno fruttato sapienza ed ardire; e noi siamo d’una
terra, che ha dato celerità singolare agli ingegni, e un battito piú
concitato al cuore de’ suoi figli.

Noi guardammo all’Europa. Dappertutto è sorto un grido di nuove cose, un
appello alle nuove passioni, una chiamata a’ nuovi elementi, che il
secolo ha posto in fermento. Dappertutto due bandiere hanno diviso i
combattenti per una medesima causa; e la guerra oggimai non riconosce
altro arbitro che la vittoria, però che gli uni contendono per
arrestarsi a’ primi sviluppi della _idea_ rigeneratrice, gli altri per
inoltrarsi e spingere i principii alle legittime conseguenze: i primi
avvalorati dal silenzio delle moltitudini, naturalmente cieche,
naturalmente inerti, magnificano il riposo supremo de’ beni, non
avvertendo che anche la morte è riposo; i secondi, forti di logica e di
fede negli umani destini, intimano il moto, come legge, necessità, vita
delle nazioni. — La guerra è implacabile, perché tra il sistema che da
noi s’intitola _vecchio_ e la nuova generazione sta, come pegno d’eterno
divorzio, una rivoluzione portentosa ed europea negli effetti, divorata
in un giorno da pochi codardi e venali, ridotta a un mutamento di nome,
e non altro — sta l’_Associazione universale_ costretta a retrocedere
d’un passo davanti a delusioni siffatte⁴⁵, che un secolo di strage non
basterebbe a scontarle, se un’ora di libertà non avesse potenza di
cancellare il passato. La guerra è implacabile, però che le sorti di
mezza Europa sono strette al successo, e non v’è pace possibile, poiché
l’Europa ha imparato fin dove meni la ostinazione d’un sistema d’inerzia
a fronte d’una volontà irrevocabile. L’Europa ne ha lette le conseguenze
al lume degl’incendi di Bristol, e scritte col sangue de’ Lionesi — e
noi vorremmo, per la speranza d’una transazione impossibile, dissimulare
la verità ai nostri fratelli, rinnegare la bandiera che il secolo ci
pone alle mani, contrastare ad un fatto universale, evidente, che sgorga
dai minimi incidenti, da’ giornali, da’ libri, dai tentativi, da ogni
popolo, da ogni lato? La unione! noi la vogliamo; ma tra buoni, e
fondata sul vero. L’altra, che alcuni paurosi od inetti gridano
tuttavia, senza insegnare il come si stringa, è unione di cadavere colla
creatura vivente: spegne il lume della vita dov’è, senza infonderlo
dov’è morte.

  ⁴⁵ [_Scritti_, ecc.: _tali_].

Noi guardammo alla Italia, — alla Italia, scopo, anima, conforto de’
nostri pensieri, terra prediletta da Dio, conculcata dagli uomini, due
volte regina del mondo, due volte caduta per la infamia dello straniero
e per colpa de’ suoi cittadini, pur bella ancora di tanto nella sua
polvere, che il dominio della fortuna non basta ad agguagliarle l’altre
nazioni, e il genio si volge a richiedere a quella polvere la parola di
vita eterna, e la scintilla che crea l’avvenire. Guardammo con quanta
freddezza d’osservazione può dare un desiderio concentrato, un bisogno
di afferrarne l’intima costituzione (e il core ci batteva forte nel
petto, perché abbiamo passioni giovani e l’orgoglio del nome italiano ci
solleva l’anima dentro); ma noi imponemmo silenzio al cuore, e la
vedemmo come era, vasta, forte, intelligente, feconda d’elementi di
risorgimento, bella di memorie tali da crearne un secondo universo,
popolata d’anime grandi nel sagrifizio, e nella vittoria — ma guasta,
divisa, diffidente, ineducata, incerta fra la minaccia delle tirannidi e
le lusinghe perfide dei molti, che adulandola dell’antica grandezza,
l’addormentano sicch’ella non ne tenti una nuova — e tutta la forza de’
suoi elementi controbbilanciata, annientata dalla mancanza d’unione e di
fede — due virtú, che né dieci secoli di sventura derivata dalle
animosità provinciali, né potenza d’intelletto o fervore di fantasia
hanno potuto ancora far predominanti tra noi — e a fondarle, volersi piú
che ogni altra cosa l’autorità d’un principio alto, rigeneratore,
universale, applicabile a tutti i rami della civiltà italiana, che li
riformi tutti purificandoli e dirigendoli ad un intento — d’un principio
uno e potente a cui si concentrino tutti i raggi, tutti gli elementi di
vita; nella cui fede l’anime si rinverginino, e la coscienza mormori una
destinazione alle masse — perché in oggi manchiamo non di mezzi, ma
d’accordo e di vincolo fra questi; non di materia, ma di moto che la
sospinga; non di potenza, ma di convinzione che noi siamo potenti. Noi
vedemmo la Italia, soffermata ai confini del mondo _sociale_
dall’_individualismo_, rimanersi tuttavia sottoposta all’influenza del
medio-evo. La idea _personale_, il sentimento radicato in ogni uomo
della propria indipendenza, la ripugnanza a confondere la unità
singolare nella vasta unità del concetto nazionale, predominavano,
elementi ottimi in sé, ma avversi, quando sono spinti tropp’oltre, al
progresso comune. — De’ tristi non favelliamo; ma la tendenza
individuale traspariva fin nella passione di libertà, che assumeva ne’
migliori aspetto d’odio a’ ceppi, di reazione forzata, di vendetta
suscitata dalle lunghe offese. Pochissimi amavano la libertà per amore;
perché fine prefisso all’uomo; perché mezzo unico di progresso sociale.
Pochissimi mostravano coscienza dell’alta missione, che ogni vivente ha
dalla natura verso la umanità. É la coscienza di questa missione che
creava giganti Mirabeau, gli uomini della Convenzione, Bonaparte,
Robespierre — e finché la seguirono, furono grandi — e perché mal si
scerne il punto in cui svaniva davanti ad altri moventi, la posterità li
griderà grandi. — Ma all’Italia, come noi la vedemmo, il materialismo,
struggendo ogni dignità d’origine e di destino nell’uomo disseccava la
vita al cuore; o la indifferenza, sperdendo ogni sete di vero, rapiva
molte di quell’anime, piú frequenti in Italia che altrove, che vivono e
muoiono martiri d’una idea. Quindi la mancanza di fede, di fede in sé,
nel dritto, e nell’avvenire, perché l’uomo, confinato
dall’_individualismo_ dominatore nel cerchio ristretto della propria
influenza, schiacciato sotto la vastità del concetto, o si rassegna a
vivere schiavo, o si fa libero colla morte sul palco. — E questi vizi,
che il lungo servaggio e Roma imposero alla Italia, stavano contro ad
ogni tentativo piú tremendi delle baionette tedesche.

E guardammo al passato a vedere se potesse trarsene il rimedio. Ma il
passato c’insegnava a non disperare; il passato c’insegnava quante e
quali fossero l’arti della tirannide, e le reliquie del servaggio
nell’anime — non altro. La scienza de’ padri s’era esercitata intorno ai
principii piú che intorno alle applicazioni. Forse la fiamma di patria e
di libertà, che li ardeva, aveva illuminato ad essi quanto era vasto
l’arringo: ma le circostanze avevano affogato il concetto; e i tentativi
non avevano assunto né la energia, né la vastità, né l’armonia che si
richiedeva a tanta opera. Era necessaria una unità di principii e
d’operazioni — e i moti prorompevano invece parziali, e provincialmente.
Ma senza un moto universale, riescirà impossibile sempre il trionfo,
senza la universalità dell’accordo precedente, il moto non proromperà
simultaneo e veramente italiano mai — e per consumare ad un tratto le
invidie, e le animosità che vivono tuttora tra le provincie, vuolsi
affratellarle tutte nella fratellanza del tentativo del pericolo e della
vittoria. Era necessario il diffondere lo spirito riformatore, il
bisogno di rinovamento sovra tutti i rami dell’incivilimento italiano —
e limitavano la riforma a un ramo solo dell’umano intelletto; agli altri
contendevano il progresso; e gli uomini che predicavano libertà politica
e indipendenza dalle vecchie abitudini di sommessione, bandivano la
crociata addosso agli ingegni vogliosi d’emancipazione dalle teoriche
antiche filosofiche e letterarie; rubavano agli Inglesi la bilancia dei
poteri e i principii della monarchia costituzionale, mentre
vilipendevano schiavi del nord e traditori della patria quanti tentavano
rivendicarsi negli studii e nelle composizioni quella libertà che non
s’era mai perduta nel settentrione — né badavano alla necessità di
educare all’indipendenza intellettuale gli uomini che volevano trarre al
concetto dell’indipendenza politica; però che l’uomo è _uno_, e
l’intelletto non s’educa a un tempo a due sistemi contrarii. La grande
rigenerazione alla quale intendevano, aveva bisogno d’alimentarsi di
sagrificio sublime, di forti esempli, di rinnegamento totale
dell’individuo a prò d’un principio. Conveniva levar l’uomo all’altezza
d’una generalità, levarlo a un concetto partito d’alto tanto⁴⁶, che
potesse abbracciare tutta quanta la umana natura. Conveniva scrivergli
dentro la tavola de’ suoi diritti e de’ suoi doveri, dargli la coscienza
d’una grande origine, prefiggergli una missione _sociale_, e
rivelargliela nell’azzurro de’ cieli stellati, nella grande armonia del
creato, nell’universo fisico ridotto a simbolo d’un pensiero potente,
nelle rovine del passato, nella idea generatrice delle religioni, nella
profezia de’ poeti, nel raggio onde il Genio solca la terra, ne’ moti
inquieti del cuore, perché egli da tutte le cose imparasse sé essere
nato libero, gigante di facoltà e d’energia, re del mondo e della
materia, non sottomesso mai ad altre leggi, che alla eterna della
ragione progressiva ed universale. Conveniva purificarne le passioni,
animarle d’amore, cacciargli a fianco l’entusiasmo, ala dell’anima alle
belle cose, e davanti a’ suoi passi la vergine speranza col suo sorriso
che dura in faccia al martirio — ed essi lo trattenevano nel
materialismo, credenza fredda, scoraggiante ed individuale, rifugio a
ogni uomo contro alla prepotenza delle superstizioni e della tirannide
sacerdotale, ma nella quale ei non può durare senza che gli s’inaridisca
il fiore dell’anima: — lo indugiavano nello sconforto d’una lotta
eterna, avvezzandolo a contemplarsi dominato alla cieca e
inesorabilmente dai fatti, mentre bisognava convincerlo che v’era tal
forza dentro di lui indipendente da’ fatti, padrona de’ fatti,
dominatrice dell’istesso destino: — lo angustiavano in una vicenda
alterna d’_azione_ e di _reazione_, mentr’era d’uopo stampargli in petto
una coscienza di _progresso_ invincibile e di trionfo. Irridevano le
vecchie credenze, né tentavano sostituirne altre nuove; spegnevano
l’entusiasmo, e volevano risvegliarlo con nomi: parlavano di patria alle
moltitudini, e struggevano la fede, patria dell’anime; la fede in una
legge superiore di miglioramento, in un concetto di moto perenne che
abbracci e promova tutta la serie dei fenomeni umani: — la fede che creò
la potenza di Roma, la vasta dominazione del Maomettismo, i diciotto
secoli del Cristianesimo, la Convenzione, Sand⁴⁷, e la Grecia risorta: —
la fede che ridona la dignità perduta allo schiavo, e gli grida: _Va!
va! Iddio lo vuole! Iddio, che t’ha creato a immagine sua, e t’ha
spirato una scintilla della sua onnipotenza!_ Questo avrebbero dovuto
tentare i primi riformatori d’una nazione caduta in fondo, se i primi
potessero far altro che intravvedere un rinnovamento e morire per esso.
Poi, scendendo alle applicazioni, era necessario avere il popolo,
suscitare le moltitudini: a farlo, bisognava convincerlo che i moti si
tentavano per esso, pel suo meglio, per la sua prosperità materiale,
perché i popoli ineducati non si movono per nudi vocaboli, ma per una
realtà; e a convincerlo di queste intenzioni, bisognava adoprarlo,
parlargli, cacciar nell’arena quel nome antico e temuto di Repubblica,
solo forse che parli ai popoli una parola di simpatia, una idea di
_utile_ positivo: — ed essi tremavano del popolo; disperavano — mosso
che fosse — di poterlo dirigere; e lavoravano ad addormentarne il
ruggito, o a moverlo, gli esibivano teoriche astruse di poteri
equilibrati, idee metafisiche di lotta ordinata, sicché ne escisse
quiete permanente allo stato, e costituzioni accattate da altri paesi,
provate oggimai inefficaci a durare, e non adattate ai costumi, alle
abitudini, alle passioni. — Le rivoluzioni si preparano colla
educazione, si maturano colla prudenza, si compiono colla energia, e si
fanno sante col dirigerle al bene comune. Ma le rivoluzioni, a questi
ultimi tempi, sorsero inaspettate, non preparate, artificialmente
connesse; furono dirette al trionfo d’una classe sovra un’altra,
d’un’aristocrazia nuova sovra una vecchia — e del popolo non si fece⁴⁸
pensiero — poi, procedettero sulla fede di principii fittizi, lasciati
all’arbitrio di governi astuti che gl’interpretassero, paurose di ogni
cosa, disperate d’ogni soccorso, che non venisse dalla diplomazia, o
dallo straniero, l’una, arte essenzialmente menzognera, l’altro,
essenzialmente sospetto, amico talvolta dei forti, non mai de’ fiacchi.
Noi vedemmo uomini insultare a re, imponendo loro leggi e patti che
insegnavano aperta la diffidenza, e dimezzavano il loro potere — e nello
stesso tempo fidarsi illimitatamente nelle loro promesse e nei loro
giurí come se i tiranni avessero un Dio nel cui nome giurare. Vedemmo
assalita nelle costituzioni proposte l’aristocrazia, e non pertanto
venir chiamata alla somma delle cose, come se le caste potessero mai
suicidarsi. Leggemmo sulle bandiere il nome d’Italia, mentre si
rinnegavano ne’ proclami e nelle operazioni i fratelli vicini e insorti
per la stessa causa, nell’ora stessa, in forza di concerto comune.
Udimmo gridare indipendenza di territorio, mentre il barbaro guardava
alle porte; e intanto l’andamento de’ nuovi governi si fondava sulla
speranza d’evitare una guerra, che la natura ha posta eterna fra il
padrone, e lo schiavo, che rompe la sua catena — e si frenavano i
giovani che volevano diffondersi in piú largo terreno — e si decretavano
toghe, non armi. — Errori che ci hanno fruttato taccia di codardia dagli
stessi che ci hanno illusi vilmente e traditi: errori figli forse piú
delle circostanze e della infamia de’ gabinetti europei, che degli
uomini preposti alle cose nostre; ma tali che il sostenerli avvedimenti
politici di profonda esperienza è oggimai parte d’inetti o di traditori.

  ⁴⁶ [_Scritti_, ecc.: _concetto alto_].

  ⁴⁷ [_Scritti_, ecc.: _Convenzione, e la Grecia_].

  ⁴⁸ [_Scritti_, ecc.: _ebbe_].

E allora — guardammo d’intorno a noi; allora ci lanciammo nell’avvenire.
L’anima sconfortata dalle lunghe delusioni si ritemprò nella coscienza
d’una eterna missione, si rinfiammò nel sentimento d’un furore di
patria, d’un voto di libertà ch’è la vita per noi. Gli errori de’ padri
erano voluti dai tempi; ma noi perché dovevamo insistere sugli errori
de’ padri? Gli anni maturano nuovi destini; e noi, contemplando il moto
del secolo, intravvedemmo una giovine generazione, fervida di speranze —
e la speranza è il frutto in germoglio — commossa a nuove cose
dall’alito _spirituale_ dell’epoca — agitata da un bisogno prepotente di
forti scosse, e di sensazioni: e di mezzo ad essa, tra la incertezza dei
sistemi, tra l’anarchia de’ principii, dall’individualismo del medio
evo, dal fango che fascia la vita italiana,⁴⁹ sorgere qua e là uomini
che vivono e muoiono per una idea; levarsi anime che, come Prometeo,
protestano contro la fatalità che li opprime, e l’affrontano sole;
apparire aspetti, che hanno una profezia d’avvenire sulla fronte: esseri
d’una natura superiore che la natura caccia sempre sulla terra al finire
d’un’epoca per congiungerla alla⁵⁰ nuova — e tutta la generazione, e
que’ pochi privilegiati non mancano, ad esser grandi, che d’un
riconcentramento d’opinioni e tendenze, d’una unità nella direzione,
d’una _parola_ feconda, energica, incontaminata d’odio e paura, che
riveli nudo e potente il voto del secolo.

  ⁴⁹ [_Scritti_, ecc.: _italiana_, _vedemmo_].

  ⁵⁰ [_Scritti_, ecc.: _colla_].

Questa _parola_ noi la diremo.

Questo voto noi tenteremo d’interpretarlo. Tutte le tendenze che ci
parve intravvedere nel secolo, e che abbiamo accennate nel corso di
quest’articolo, noi le svilupperemo nel nostro giornale coll’ardore di
gente che né spera, né teme dai partiti politici, e non vede sulla terra
se non uno scopo e una via per arrivarlo⁵¹. E da queste tendenze ch’or
sono in germe, da tutte le necessità che sgorgano innegabilmente dai
fatti trascorsi, dalle ispirazioni dell’epoca, escirà, noi lo speriamo,
un sistema che raccoglierà intorno a sé la generazione crescente. Non è
che un sistema, ripetiamolo anche una volta, che noi abbiamo voluto
accennare col nome di _Giovine Italia_; ma questo vocabolo noi lo
scegliemmo, perché con un solo vocabolo ci parea di schierare innanzi
alla gioventú italiana l’ampiezza de’ suoi doveri, la solennità della
missione che le affidano, le circostanze, perch’essa intenda come l’ora
è suonata di levarsi dal sonno ad una vita operosa e rigeneratrice. — E
lo scegliemmo, perché, scrivendolo, noi avevamo in animo mostrarci quali
siamo: combattere a visiera levata: portare in fronte la nostra
credenza, come i cavalieri del medio evo la tenevano sullo scudo — però
che noi compiangiamo gli uomini che non sanno la verità, ma disprezziamo
coloro che, sapendola, non osano dirla.

  ⁵¹ [_Scritti_ ecc.: _raggiungerlo_].

Vergini di vincoli, e di rancori privati, con un cuore ardente di sdegno
generoso, ma schiuso all’amore, senz’altro desiderio fuorché di morire
pel progresso dell’umanità e per la libertà della patria, noi non
dovremmo essere sospetti d’ambizioni personali, o d’invidie. — La
invidia non è passione di giovani. — Fra noi chi cura gl’individui? chi
move guerra a’ nomi? L’epoca de’ nomi è consumata; siamo all’epoca de’
principii; non difendiamo, né assaliamo che questi, non siamo
inesorabili che su quel terreno. Là è il perno del futuro; là stanno le
nostre piú care speranze. — Le generazioni passano; i nomi e le
battaglie intorno ad essi passeranno soffocate dal torrente popolare,
che sta per diffondersi. Stendiamo un velo sui fatti che furono: chi può
far che non siano? — ma l’avvenire è nostro; le teoriche del passato noi
le rifiutiamo pel tempo che c’incalza. Noi cacciamo la nostra bandiera
tra il mondo vecchio, ed il nuovo — chi vuole s’annodi intorno a questa
bandiera; chi non vuole, viva di memorie, ma non cerchi di sollevarne
un’altra, caduta, e lacera.

Che se tra gli uomini a’ quali l’esser nati in un’epoca anteriore alla
nostra ha stillato un dubbio nell’anima, che si voglia per noi e per le
nostre dottrine rimoverli dalla impresa, vi sono uomini⁵² che abbiano la
canizie sul capo e l’entusiasmo nel core, uomini che procedendo col
tempo veglino⁵³ lo sviluppo progressivo degli elementi rivoluzionari, e
modifichino a seconda di questo sviluppo il loro piano d’operazione, oh
vengano a noi! guardino spassionatamente alle nostre teoriche, a’ nostri
atti, ai nostri affetti — e vengano a noi! Vengano, e ci snudino le
ferite onorate che ottennero nei campi delle patrie battaglie: noi
bacieremo quelle sante ferite; venereremo que’ capegli canuti;
accetteremo il loro consiglio, e raunandoci intorno ad essi, li
mostreremo con orgoglio a’ nostri nemici sclamando: noi abbiamo la voce
del passato, e quella dell’avvenire per la nostra causa!

  ⁵² [_Scritti_, ecc.: _alcuni_].

  ⁵³ [_Scritti_, ecc.: _vogliano_].

Sia dunque pace! — Pace è il voto dell’anime nostre. In nome della
patria — in nome di quanto v’è di piú sacro, noi gridiamo pace! —
L’accusa di seminar la discordia ricada sulla testa degli uomini che si
gridano liberi e non ammettono progresso nelle cose umane — che parlano
di concordia e accumulano le interpretazioni maligne e i sospetti sulle
parole proferite candidamente — che predicano la unione, e schizzano il
veleno sulle intenzioni. — Con questi, non è via d’accordo possibile.

Giovani miei confratelli — confortatevi, e siate grandi! — Fede in Dio,
nel dritto, ed in noi! — Era il grido di Lutero, e commosse una metà
dell’Europa. Innalzate quel grido — e innanzi! I fatti mostreranno se
c’inganniamo, dicendo che l’avvenire era nostro.

                                                              _Mazzini._



                  ORAZIONE per Cosimo Damiano Delfante


Dentro povera tomba, in mezzo a un’isola lontana dal nostro emisfero
giace il _Fatale_, che nessuna altra cosa ebbe di comune con gli uomini
tranne il nascimento, e la morte. Chi mai vorrà giudicarlo, o chi
volendo potrà? Tremi la gente d’interrogare quel sepolcro, poiché le
sorgeranno nell’anima siffatti pensieri, che ella poi tenterà in vano
sostenere, o definire. Educato a dolentissima scuola, io da gran tempo
ho appreso a diffidare di coteste azioni, che i popoli chiamano virtú, e
delle altre che si vituperano pel mondo come delitti: conobbi l’uomo
stimare le imprese dall’evento, e ciò talvolta per ignoranza, spesso per
malignità, spessissimo per ambedue: — vidi sempre l’infamia aggravarsi
sopra il caduto... Solo _perché caduto_, onde io e piansi, e risi, e
dubitai di tutto. — Dunque con un cuore, che non si atterrisce, né
s’infiamma per cosa contemplata, anima grande, mediterò su di te. Molti
dei tuoi compagni ti posero in obblio; molti tra i tuoi servi ti
abbandonarono: molti ancora di quelli, che beneficasti ti hanno tradito:
la voce del poeta, che ti salutava Giove è spenta⁵⁴; tu dormi polvere,
_e non coronata_, la tua potenza divenne di una memoria..., ma una
memoria piú durevole dei secoli, che dall’alto delle Piramidi stettero a
vederti vincere le battaglie egiziache!⁵⁵. Eterno tu avrai il dominio
dei tempi avvenire, perché la vittoria ha l’ale, non già la sapienza, né
si rapisce la fama come la corona. Tu fosti grande, e tale ti confessava
anche l’odio. Ora chi ti levò a sí stupenda altezza, la _pietà, o il
terrore_ dei viventi? Quel forte nel canto, scorta amorosa dei miei
pensieri, lord Byron sorge severo e ti domanda: «Spirito tenebroso!
perché conculcasti la stirpe, che umiliando ti si prostrava davanti? Tu
potevi salvare, e l’unico dono, che facesti ai tuoi adoratori è stata la
tomba. O Dio! doveva il mondo essere sgabello a cosí abbietta
creatura?»⁵⁶. — Difenderò la tua causa. Dimenticando, che veniva dagli
uomini la voce: _scegli la tua parte, e sii oppressore, o vittima_⁵⁷;
non avvertendo al veleno, che si era posto dinanzi per sottrarsi al
patibolo, Giovanni di Condorcet irradiava di speranza il tristo carcere
e scriveva⁵⁸: doversi migliorare i destini umani, gli utili
ammaestramenti non potere riuscire invano; averli la stampa diffusi per
modo, che una nuova barbarie non sarebbe sufficiente a sopprimerli, e la
luce della filosofia tanto penetrata nei misteri del sapere da poterne
un giorno derivare facoltà di vivere immortali, e notate, uditori, che
egli teneva il veleno davanti per fuggire il patibolo. Io per me penso,
che questo pur fosse lo scopo del _Fatale_, sebbene piú moderato siccome
conveniva all’indole di lui; e meditando sopra le sue azioni sembra, che
non repugnasse dal conseguirlo con le armi, con le leggi, e con la
religione. — Quando la fortuna del mondo lo condusse in Affrica finse
costumi da profeta, e le turbe lo dissero Sultano del fuoco, e Sultano
giusto⁵⁹; — tornato in Europa non depose il disegno, favellò di destini,
accennò stelle⁶⁰, e forse si tenne davvero un eletto di Dio, — _e forse
egli era_: temendo poi in queste nostre contrade troppo scarso il
frutto, che si ricava dalla fede, attese il Sapiente a governare _con la
ragione_, e compose un codice, monumento di antica, e di moderna
dottrina; ma le sorti non gli arrisero del tutto in questo nuovo
disegno, imperciocché lo stato singolare del secolo presente voglia _che
l’uomo non sia tanto scempio da lasciarsi andare alle superstizioni, né
tanto incivilito per soddisfarsi del nudo ragionamento_. — Gli valsero
le armi, felicissime un tempo; una volta avverse, funeste per sempre. Il
caso lo pose in Francia, ve lo fermò l’occasione, ve lo mantenne il
destino; gli parve quel paese quasi un centro donde muovere le fila
della sua trama per la universa Europa... furono queste fila di ferro, e
di fuoco, eppure piú fragili del velo, che l’insetto ordisce nell’angolo
della sala: — disperdi l’opera dell’insetto, ed ei tornerà a rifarla piú
animoso di prima; turba l’opera dell’uomo, e questi o disperato si
asterrà dal riprenderla, o consumerà la vita in vani conati per
nuovamente comporla; quindi se io mal non veggo il paragone torna in
vantaggio dell’insetto!

  ⁵⁴ _Monti_, _Inno in morte dell’ultimo Re de’ Francesi_.

  ⁵⁵ Proclama di Napoleone.

  ⁵⁶ _Ode to Napoleon Buonaparte._

  ⁵⁷ Versi di _Condorcet_.

  ⁵⁸ _Esquisse sur les progrès de l’esprit humain._

  ⁵⁹ _Jomini_, _Vie de Napoléon_, etc., etc.

  ⁶⁰ _Ségur_, _Histoire de la Grande-Armée_.

Se tu dunque, o _Fatale_, concepisti il disegno di _emendare le colpe
della creazione_, nessun voto piú degno di essere adempito l’Angiolo
della preghiera presentò al trono dell’Eterno. — Forse teco rimasero
sepolti i destini del mondo, forse l’aquila imperiale fuggendo dalle tue
bandiere si portava la speranza, e non pertanto alla gloria, che ti
circonda potrebbe aggiungersi altra gloria piú splendida, voglio dir
quella di benefattore della umanità, e il tuo sepolcro potrebbe
annoverarsi tra i sacri pellegrinaggi.

Cosa importa, che il mio spirito contristato neghi l’umano
miglioramento, e dica: la guerra è in natura; notate _Austin_ inglese il
quale dopo diciassette anni di continue fatiche, giunge appena a
mantenere in vita comune quattordici animali di specie diversa
_pascendoli quotidianamente a sazietà_⁶¹; or dunque quanto piú dura
impresa fia quella di accordare gli uomini in pace poiché a loro non fu
concessa una somma di bene per soddisfarli tutti, o piuttosto un’anima
che si potesse soddisfare? Cosa importa, che dai climi, dai costumi,
dalle voglie contrarie io derivi argomento di guerra perpetua? Cosa
ch’io mostri le pagine della storia eternamente contaminate dalle stesse
rapine, dai misfatti medesimi? Cosa ch’io provi la civiltà aver giovato
agli uomini per commettere le colpe con sottigliezza maggiore, e per
cuoprirle con la ipocrisia togliendo loro quell’unica parte, che avevano
di buono, o almeno di non tristo, la sincerità? Cosa, che io dichiari il
pensiero di sottoporre, il mondo ad un medesimo reggimento doversi
lodare piuttosto come mosso da un cuore sensibile, che da tenersi come
uscito da un cervello sano? E quando ancora questa sapienza diffusa
producesse alcun bene, potrei dimostrare come non essendo perenne, né
dapertutto uguale le sue conseguenze diventerebbero nulle. Dove io
questi, ed altri argomenti prendessi ad esporre, avrei reso un mal
servigio alla società, né tu rimarresti meno il Benefattore degli
uomini, imperciocché io mi sia instruito a considerare il consiglio
disgiunto dall’opera, e quando per impotenza riesce inadempito ne
attribuisca il biasimo a Colui, che potendo, non concedeva facoltà
bastanti per conseguirlo, e la lode a chi volle, e non potè. — Ma io ho
fede alla sentenza dell’_Ecclesiaste_: «Quello che è stato è lo stesso
che sarà, e quello che è stato fatto, è lo stesso, che si farà: e non
v’è nulla di nuovo sotto il sole. Evvi cosa alcuna della quale altri
possa dire: vedi questo, egli è nuovo? già è stato nei secoli, che sono
stati avanti di noi»⁶². E quella mano stessa, che apparve al convito di
Balthazar⁶³ sopra le rovine dei tempi trascorsi ha scritto la legge:
_Sii oppresso od oppressore._ Ho veduto la sapienza pellegrinare attorno
la terra, e non posarsi mai, e al suo partire sopprimere ogni traccia
della dimora; — ho contemplato un popolo crescere, allargarsi, e
dominare per tutta la terra, divenuto poi debole cadere per infermità
interna, o per guerra di fuori; cosí tra le nazioni di cui conserviamo
memoria avvenne ai Romani, cosí ai Longobardi, cosí ai Francesi sotto
Carlo Magno, agli Spagnuoli sotto Carlo V, nuovamente ai Francesi sotto
Napoleone, e forse esistono adesso due popoli ai quali si apparecchiano
gli stessi destini nelle ragioni del declinare, e del sorgere. Quando io
considero l’assiduo alternare di siffatte vicende, esclamo dal profondo
dell’anima: oh! perché non si posava il tuo sguardo sopra la terra, che
ti dette la vita! Nel modo stesso col quale Dio creò la luce se
profferivi la parola: Italia sia, e Italia sarebbe stata. Se al volo
antico drizzavi l’aquila romana, meglio della tua francese avrebbe
conosciuto; e con la piú robusta percorso la via del firmamento; e se
avversa ti stava la fortuna, noi ti avremmo co’ nostri petti difeso,
superati e non vinti giaceremmo insieme nella terra di Cammillo e degli
Scipioni... ma noi avremmo vinto perché la causa delle nazioni cimentata
dal sangue dei martiri termina sempre col trionfo, perché la parola del
forte, che spira in difesa della patria ha virtú di fecondare la sabbia
del deserto... e noi Italiani non siamo sabbia per Dio. — Ahimè! forse
anche questo è un delirio, e la differenza, che passa tra il delirio del
sapiente, e quello dello stolto consiste in questo, che il primo ha
potere di troncarlo, con un _forse_, mentre il secondo deve continuarlo
all’infinito! Cominciai col dubbio, ho concluso col dubbio, valeva
meglio tacere... pure qual altra scienza oltre il dubbio conviene al
nato per morire? Gli umani ingegni non distinsero mai il bene, e il
male: vana, ed incerta ogni cosa, certa soltanto la morte; il periodo di
vita, che percorriamo è assai piú breve di quello, che sembra: due terzi
della infanzia, e della vecchiezza sono spesi nel sonno, un terzo ne
consumiamo nella pubertà, e nella virilità; l’uomo che vive ottant’anni,
ne ha dormiti quaranta!⁶⁴ Gli occhi ne furono concessi per contemplare
la sciagura, e per piangerla! E nondimeno fra tanto estremo di miseria
vi han tali, che godono tormentare l’anima del fratello, e seminargli il
sentiero di triboli. Verseremo noi l’ira di uno spirito ardente sopra di
loro? Imprecheremo scongiuri su la testa abborrita di cui la ricordanza
gli spaventerà piú dei propri rimorsi? Dire parole insomma, che
suoneranno loro piú terribili della chiamata dell’angiolo al giudizio di
Dio? No. Voi non siete feroci come Catilina, né simulati come Tiberio,
né maligni come i Borgia; abbietti, schifosi, meschini non meritate né
anche la fama di Erostrato, vivete... io vi condanno a vivere, a rodervi
nella coscienza della vostra nullità.

  ⁶¹ _Revue encyclopédique._

  ⁶² _Ecclesiaste_, cap. I, X, XI.

  ⁶³ _Daniel_, cap. V.

  ⁶⁴ Cav. _Palloni_, _Riflessioni sul sonno, e sul sonnambulismo_.

Lasciamo di coteste infamie, e di coteste miserie, leviamoci a respirare
un aere piú puro, e poiché di siffatta potenza ci erano i cieli cortesi,
sorgiamo a meditare le bellezze ideali, circondiamoci d’illusioni,
c’inebbriamo di gloria se di felicità non possiamo.

Favelliamo di gloria. — Napoleone Buonaparte tratto dalla volontà, e
dalle vicende muove in Egitto, lasciando la Francia temuta; e seco parte
la fortuna di Francia! Mentre egli vince alle Piramidi, al monte Tabor,
ad Aboukir, altri generali francesi le sue conquiste perdevano. —
Mantova presa, l’Olanda di Russi e Inglesi ingombrata, la sconfitta
della Trebbia, — l’altra di Novi — Massena, già folgore di guerra,
adesso condottiero infelice, Scherer respinto, Joubert ucciso,
Macdonald, e Moreau superati, ogni cosa in rovina. — Napoleone
Buonaparte udite le sinistre notizie, abbandonava Alessandria, si poneva
all’avventura sul mare; scampato dagli elementi, e dai nemici, tornava a
Parigi. Qui giunto, con tali parole favellava al Direttorio: «Che avete
voi fatto di questa Francia, che tanto prosperevole vi aveva lasciata!
Dov’era pace, rinvenni la guerra, dove lasciai vittorie, ho incontrato
sconfitte... perché tanta miseria quando io vi consegnai i milioni
d’Italia? Che avete voi fatto di cento mila Francesi tutti compagni
della mia gloria? — Perirono»⁶⁵. Cosí rampognava per ira, piú per arte.
— Soppresso il Direttorio, ridotta in sue mani la somma della
Repubblica, pensa ristorarne la declinata fortuna, e agevolmente il
poteva, poiché seco era tornata la vittoria: gl’impedimenti, che gli
oppongono la natura, e gli uomini superava, con sottilissimo ingegno; il
forte Bard sfuggiva, a Chiusella, e a Montebello vinceva, le pianure
italiane occupava. Si affronta in mortale combattimento co’ suoi nemici
nei campi di Marengo; cotesta fu una battaglia di giganti; — l’Austria
cadde; — l’Italia tutta in poche ore tornò nel dominio Francese, il
Genio del primo Console prevalendo costrinse gli avversari a supplicarlo
di pace.

  ⁶⁵ _Jomini_, _Vie de Napoléon_.

Questi fatti raccontava la fama per le città italiane, sicché forte se
ne infiammavano le menti di quelli, che le udivano. — Era in que’ tempi
nei giovani petti Italiani un desiderio, un anelito di accorrere sul
campo delle battaglie, che apertamente dimostrò, non anco in essi morto
l’antico valore, e santi furono allora i nostri voti, imperciocché
Napoleone fingendo amare le libertà italiane, richiamava in vita la
Repubblica Cisalpina. — Ah! furono inganni cotesti... Ma l’Antomarchi
applicando al cranio di Buonaparte il sistema di Gall, lo trovò tanto
potente simulatore,⁶⁶ e il cuore dei giovani si lascia cosí di leggieri
prendere alle illusioni, ch’io davvero tremo pel giudizio, che i posteri
faranno su la memoria di quel Grande, malgrado le mie difese; — pure se
gl’Italiani si lamentano, che tu non li abbia amati, non però ti
maledicono mai; essi avrebbero voluto difenderti col proprio sangue, e
con quello dei figli, essi quantunque da te delusi pregano Dio, che ti
perdoni com’eglino ti hanno perdonato. —

  ⁶⁶ V. _Les derniers moments_, etc.

Nato da poveri genitori nel 1781, viveva in questa nostra patria Cosimo
Damiano Delfante. L’anima caldissima del giovanetto, l’ingegno pronto ed
il sentirsi forte gli facevano mal comportare gli oscuri natali; — e
l’esperienza insegna essere la ignobilità piú che la chiarezza del
linguaggio, stimolo acuto a ben meritare avendo la natura concesso
all’uomo maggiori potenze per acquistare, che non per mantenere. Ora
pervenuto Cosimo nostro al suo ventiduesimo anno, incapace a reprimere
il genio interno, si presentava al padre tutto tremante, e gli diceva:
«Chiamarlo la patria, né volere egli rimanersi inoperoso alla chiamata;
non badasse al momentaneo dolore, tra poco la fama dei suoi fatti lo
consolerebbe di mille doppi; gli desse intanto la paterna, benedizione».
— Qual core fosse il mio, mi parlava Giovacchino Delfante, il quale
ottuagenario si vive con la vecchia moglie Uliva Bujeri in Livorno,
«qual core fosse il mio nel sentire il disegno di Cosimo, pensatelo
voi...» e fissatomi in volto aggiungeva: « — No, voi nol potete
immaginare perché dalla vostra giovanezza suppongo, che non siate anche
padre...» Il mio corpo fremé per ogni fibra, l’anima si sollevò in un
sospiro, e tacqui; — egli riprese: «Dio me lo aveva dato per unico
figliuolo, e Dio non volle, che sostenesse la mia vecchiezza; — Cosimo
fu di persona piú alto di voi, e piú robusto assai; di sguardo benigno,
se non che quando lo vinceva l’ira, ne tremavano tutti; e pure malgrado
il suo impeto, le amarezze piú forti, che mi abbia apportate sono
queste: nella notte in cui arse lo _Scipione_, — voi avrete sentito da
vostro padre il caso dello _Scipione_, — era un vascello Francese, che
incendiò nella nostra spiaggia, chi disse in que’ tempi per negligenza,
chi per malizia, e veramente in quella occasione si commessero orribili
fatti, pochi salvarono le vite, il legno deserto lanciava da ogni parte
schegge, e ferramenti infocati, le artiglierie sparavano contro la
città; quando giunse la fiamma al magazzino delle polveri parve ne
subbissasse Livorno; in quella notte d’inferno, Cosimo non si ridusse a
casa, e si rimase con molto suo pericolo a contemplare dal molo cotesto
spavento. — L’altro dolore me lo dette nel ’98, allorché vennero i
Francesi a portarci un palo, e un berretto, che chiamavano la libertà, e
ci rapirono monumenti preziosi, ed averi. — Il mio Cosimo non potendo
soffrire la superbia di uno tra costoro lo sfidava a duello; il
repubblicano non vergognò adoperare l’arme contro un fanciullo di
quindici anni, ma il figliuol mio per quello, che poi me ne raccontarono
se la cavò bene, perché senza che io ne sapessi nulla, aveva imparato di
scherma; — in cuore n’ebbi piacere, ma lo rimproverai comandandogli per
quanto aveva caro l’affetto di suo padre non ne facesse piú, alle quali
rimostranze, egli scusandosi, rispose: «Che il sangue voleva la sua
parte, e chi soffriva in pace l’ingiuria meritava quella, ed altre
ancora». Per quanto le mie povere facoltà lo consentivano feci educarlo
come meglio potei; tutto egli apprendeva con prestezza maravigliosa in
ispecie le lingue, e quando si partí da Livorno sapeva il latino, il
francese, e l’inglese, di piú imparò il tedesco, lo svedese, e lo
spagnuolo. — Io vedeva andare con lui le mie speranze; l’animo mi
presagiva male, rimaneva solo; pure egli affermava chiamarlo in sua
difesa la patria, sospirai considerando che non avevo altri figli, e
feci il sacrificio alla patria di questo unico mio; — io lo benedissi:
la povera Uliva, che dopo la sua morte perdé alquanto del lume
dell’intelletto, univa alla mia la sua benedizione, piangendo come
piangono le madri quando si staccano da un figliuolo unico, e Cosimo
anch’egli tutto in lacrime si partí sul principiare dell’ottobre 1803».
Mentre l’ottimo vecchio questi casi mi raccontava, la madre udendo
com’io mi fossi quivi condotto per iscrivere la lode del suo figliuolo
defunto, mi si accostò vacillando, e con pianto dirotto prese a baciarmi
il lembo del mantello! — Volli consolarla, e non trovai la parola.

In questa maniera Cosimo Delfante, separatosi dai suoi genitori,
giungeva a Reggio, e quivi volontario il 22 ottobre 1803, indossava la
veste del soldato. — Egli però non era uomo da starsi lungo tempo
confuso col volgo, e infatti da una patente autentica della Repubblica
italiana io ricavo come dopo tre giorni lo creassero caporale, dopo otto
sergente, dopo ventuno al grado di sotto-tenente, lo promovessero. Nel
14 aprile 1804, il Vice-presidente della Repubblica italiana Melzi di
Eril, innamorato delle ottime qualità del nostro concittadino, desiderò
che col grado medesimo passasse a far parte della guardia del Presidente
nel battaglione dei granatieri; e voglionsi qui riferire le onorate
parole con le quali il suo antico superiore Foresti gli accompagnava
quest’ordine:

«Il capo non può abbastanza palesare il suo dispiacere per la perdita al
corpo di un ufficiale, a che per la sua moralità, zelo, ed intelligenza
si è distinto nei differenti gradi da lui occupati nella mezza brigata;
si compiace però di vederlo collocato in un corpo ove piú vasto campo
gli è aperto per dimostrare i suoi talenti, e non dubita, che saprà con
la sua condotta meritare la stima, e l’affetto dei nuovi superiori, e
camerata, e conservarsi cosí la vantaggiosa opinione, che lascia di lui
nella seconda mezza brigata».

Esaminando le poche carte, che per fortuna avanzano di questo valoroso,
trovo una lettera del Ministro della guerra a lui diretta con la quale
gli raccomanda di trasferirsi nei _dipartimenti_ dell’Olona, del Lario e
del Serio _per accogliere que’ giovani che mossi da entusiasmo volessero
militare per la patria_, e poco sotto aggiunge molto promettersi
dall’opera sua come quello, che aveva grandissima influenza per le sue
relazioni ne’ mentovati _dipartimenti_, e pei suoi modi cortesi riusciva
gradito all’universale. — Veramente Cosimo Delfante avrebbe con buone
parole persuaso i piú schivi, ma giova ripetere come la gioventú
italiana non abbia bisogno d’invito per correre alle armi. — Ricorda la
Storia come nel 1812 essendo stata imposta l’estrazione su i
_conscritti_ del _cantone_ di Chivasso _dipartimento_ della Dora nel
giorno decimo di ottobre, i giovani di Chivasso, e Varlengo
comparissero, quelli di Brandizzo divisi dai torrenti Orco, e Malone
gonfi per insolita pioggia mancassero; non era da tentarsi il guado, che
l’acqua menava giú a furia, e non si trovavano barche. — Il Viceprefetto
saputa la cosa aggiornava la estrazione al sabato venturo; — appena egli
aveva profferito il decreto, i giovani di Brandizzo grondanti acqua gli
appariscono davanti: — non avevano quei magnanimi sostenuto, che si
fosse detto di loro: — i Brandissesi mancarono alla chiamata,
dell’onore, e poiché tentati diversi argomenti per traghettare il
torrente riuscirono invano, il piú robusto tra essi si lanciò
nell’acqua, prese la mano al compagno, e questi a un altro, e cosí
procedendo formarono una catena da una sponda all’altra, e con molto
pericolo non meno, che con gloria immortale superarono la corrente⁶⁷.
Tal era in que’ tempi, e tale sarà, dove l’occasione si mostri, l’ardore
della gioventú italiana! —

  ⁶⁷ Cav. _Laugier_, _Gl’Italiani in Russia_.

Tornando adesso al nostro concittadino Delfante ho narrato in qual modo
nel periodo di pochi giorni dal grado di semplice soldato a quello di
sotto-tenente nella guardia del Presidente pervenisse. A tanto gli
valsero l’ingegno pronto, le cognizioni acquistate; adesso ardeva
distinguersi con qualche bello atto di valore, né imperando Napoleone
Buonaparte era lungamente da aspettarsi il modo.

Male comportarono gl’Inglesi la pace d’Amiens conchiusa il 23 maggio
1802, e fino da quel tempo Sheridan aveva dimostrato qual fosse
l’opinione del pubblico, intorno ai patti nella medesima stabiliti;
mandarono pertanto a lord Whitworth, ambasciatore a Parigi, perché
ordinasse al governo di Francia sgombrare immediatamente l’Olanda,
concedere per dieci anni all’Inghilterra il domino di Malta, e
Lampedosa; se no, rompesse la guerra. — L’esercito inglese è fatto
prigioniero nell’Annover, il duca di Cambridge scampa malapena fuggendo,
l’Elettorato cade in potestà dei Francesi. — Napoleone apparecchia a
Bologna sul mare le armi per condurre la guerra nelle Isole britanniche;
al punto stesso scuoprendo le lunghe arti, sopprime ogni apparenza di
uguaglianza, e desidera dominare solo su la Francia e l’Italia.

In Francia lo acclamano Imperatore tutti, meno Carnot.

L’Italia non può, né vuole contendergli il principato, egli prende di
sua mano la corona da gli altari; e se la cinge al capo, e reputando
fermare eterne sul capo la potenza, e la vita, esclama nell’orgoglio
dell’anima: guai a chi la toccherà! Dio la toccò, Dio, che distrusse con
la corona la testa che la portava.

Adesso pensoso quel mirabile politico Guglielmo Pitt sopra i destini
della patria, volendo volgere altrove la tempesta, ordina nuova lega con
Russia, e con Austria. La Baviera sorpresa cede alle armi tedesche.
Muove Napoleone al soccorso e seco le milizie italiane, e il nostro
Delfante; seguendo le arme del _Fatale_ egli vide nemici con la
prestezza del desiderio dispersi, Ulma caduta, Vienna presa, lo
Imperatore fugato; e Russi, e Tedeschi apprestargli nei campi di
Osterlizza una nuova vittoria, nissuna forza pareva potesse resistere a
quel Terribile; dodici generali tra russi, e tedeschi spenti sul campo,
quarantacinque bandiere, centocinquanta cannoni ornarono il trionfo dei
Francesi, uno degl’Imperatori chiedeva pace, l’altro per soverchia
generosità lasciato andare. —

Cosimo Delfante operò in questa impresa prove di valore, e ne venne
ricompensato col grado di tenente. Su le pianure di Osterlizza
quantunque inebbriato dalla vittoria non obbliò i cari parenti, che
stavano lontani trepidando per la sua vita, e scrisse loro del nuovo
grado, delle azioni fatte, di quelle, che statuiva di fare. — Chiesi le
lettere al padre, ed egli mi rispose, averle distrutte preso dal dolore
all’annunzio della sua morte. — Siccome io credo, che l’affanno di un
padre per la perdita dell’unico figlio in qualsivoglia maniera si
manifesti sia cosa sacra, cosí mi tacqui sconfortato. —

A brevissima pace nuove guerre succedono. Insorge la Prussia. Vinta a
Schleitz, ed a Saalfeld, prostrata a Jena, e a Lubecca in quindici
giorni cessa di esistere quella potenza, che Federigo il Grande aveva
con tanto sangue, e con tanta politica instituita. — Torna la Russia a
tentare la sorte delle armi, e le riescono infelici a Czarnuovo, a
Pultusk, a Calymin, e sempre; perde altri 25,000 uomini sul campo di
Eylau, oltre a 60,000 su quelli di Friedland. — Veramente io dubito
forte, che i posteri vogliano aver fede in siffatti racconti, ed anche i
presenti gli stimerebbero esagerati dove la turba delle madri, e delle
vedove le quali tuttavia piangono, veri non glieli attestasse pur
troppo. — Conchiusa la pace di Tilsith, Gustavo IV di Svezia ardiva solo
opporsi alla potenza di Buonaparte: a ciò lo inducevano le istigazioni
inglesi, e la cupidigia dell’acquisto della Norvegia. — Buonaparte
sdegnando adoperare il suo ingegno per opprimere cotesto avversario,
manda Brune, e con Brune il Gen. Pino, condottiero delle milizie
italiane di cui faceva parte Delfante. Adesso si narra come Pino
procedendo alla volta di Stralsunda affidasse la condotta di un buon
numero di soldati al nostro cittadino ordinandogli aspettarlo in certo
luogo determinato: andava, e attendeva il Delfante; vedendo poi, che
tardava, e dubitando che se ne fosse andato oltre, s’incamminava animoso
alla volta di Stralsunda; lo raggiunse dopo alcune ore il suo Generale,
e turbato non poco pel pericolo a cui si era esposto, lo chiamò incauto,
gli disse imprudente. — «Trovate dunque chi meglio adoperi prudenza di
me» rispose Cosimo, e se ne andava, senonché richiamatolo il buon
generale, dolcemente rimproverandolo lo confortava a deporre lo sdegno,
e a starsi di lieto animo, ch’egli avrebbe pensato, secondo i suoi
meriti, a ricompensarlo. — Posto l’assedio intorno Stralsunda, certa
notte il generale gli commetteva portasse l’ordine ad un suo subalterno
di avvicinare i quartieri al forte dell’armata; provvedesse ad eseguirlo
celeremente, poiché quella stazione come troppo lontana, poteva da un
punto all’altro riuscire piena di pericolo. Andava Delfante, e trovato
che il superiore si era dipartito dai suoi soldati per darsi buon tempo,
egli desideroso di corrispondere alla fiducia, che in lui aveva riposto
l’ottimo Pino, con singolare perizia operò in modo, che il campo fosse
mutato. Il generale soddisfatto per quest’azione, appena n’ebbe inteso
il racconto, postagli la mano sulla spalla gli disse: «Tu sei un
valoroso capitano» e fino da quel punto Cosimo nostro tenne nella
milizia quel grado. — Cadde Stralsunda, imperciocché Gustavo avesse per
difenderla la pertinacia, non l’ingegno di Carlo XII, e fu smantellata
da Brune; cadde ancora dopo pochi giorni l’isola di Rugen, e cosí ebbe
fine la guerra della Pomerania Svedese.

Comincia la guerra spagnuola; guerra per la quale si conobbe quanto
possano i popoli sebbene inesperti dell’arte militare allorché abbiano
fermo di vincere, o seppellirsi sotto le rovine delle loro città: — ogni
goccia di sangue versato per la patria produce nuovi difensori, e quelli
spenti, altri, e piú fieri risorgono finché l’oppressione non sia
superata. — Ma da una parte non combatté sola la cupidigia d’impero; la
inquisizione soppressa, le barbare leggi abolite, gli errori o
distrutti, o diminuiti, le insolenze feudali raffrenate dimostrano come
ancora si volesse migliorare; né dall’altra fu tutto amore di patria,
ché vi si aggiunsero le ignoranze superstiziose, e le ferocie di uomini
di sangue. Ben fece Napoleone, se il suo genio lo chiamava a mutare i
destini degli uomini, a costringerli onde i beneficii della civiltà
ricevessero; meglio operarono gli spagnuoli a rigettarli perché
partecipati in modo, che parevano una pena, e il benefizio per forza
trasmesso equivale all’ingiuria. Forse da ambedue le parti stava la
ragione, da ambedue il torto. Nuova, eppure a mio senno, maniera unica è
questa per considerare le storie dove l’uomo non voglia ricercare i
fatti dei suoi simili per dedurne offese, o difese a coloro, che li
operarono, sibbene ammaestramenti di esperienze per giudicare le vicende
attuali.

Il sig. cav. Laugier, nome carissimo alla gloria delle armi italiane, in
certa sua lettera scrivendo del nostro Delfante cosí si esprime: «Reduce
dai geli del settentrione, partiva alla volta di Catalogna, desideroso
d’imprendere geste maggiori. La battaglia di Trentapassos, quella di
Molinos del Rey, l’altra di Valz, la presa di Vique, l’assedio di
Girona, la caduta di Hostalrich, e finalmente un numero infinito di
fatti di arme levarono tra i piú distinti il nome dell’ottimo Delfante»
e poco sotto, «prode quanto buono, e generoso bisognava vedere con quale
tenerezza si occupasse degli amici, dei sottoposti, degli stessi nemici
tostoché cessava lo strepito della battaglia. — Oh! quante famiglie a
cui egli salvava vita, onore, e sostanze innalzarono al cielo
fervidissime preci onde invocare la benedizione su quell’anima veramente
celeste; non v’era superiore, non compagno, non subalterno, che non lo
amasse, e lodasse. A lui davvero poteva applicarsi la divisa di Baiardo:
— il cavaliere senza rimprovero, e senza paura». E questo è elogio con
tanta pienezza di animo gentile tributato alla memoria del compagno
defunto, da meritare, che almeno per una metà ritorni in onore del cav.
Laugier. — Il padre Giovacchino Delfante mi narrava siccome presa
Figueras il figliuol suo, capitanando una mano di soldati rimanesse
stretto all’improvviso da troppo maggior numero di milizie spagnuole, le
quali schernendo, e mostrando le armi, intimassero agl’Italiani nostri
la resa. — Cosimo voleva animare i suoi con la voce, né, vinto dall’ira,
potendo, dava con la spada assai piú forte eccitamento, che con la
bocca; si cacciò a corpo perduto nella folla, lo seguitarono i suoi, e
ne accaddero molte, disuguali mischie particolari. Ma i nemici si
addensavano su quel drappelletto di valorosi, già molti ne avevano
uccisi, piú molti feriti; — chiusa allo scampo ogni via. — Delfante
volge attorno lo sguardo, e veduto in parte diradato il cerchio, si
avventa su quella, si sgombra il sentiero, e guadagna celerissimo co’
suoi una forra vicina: il nemico costretto a ridurre la fronte secondo
l’angustia del passo, perde ogni vantaggio, avvilito per le troppe morti
rallenta l’ardore,... cessa d’inseguire e il nostro cittadino cosparso
di sangue spagnuolo, e del suo, riconduce salvi i soldati al campo
italiano. Mentre cosí il vecchio padre esponeva le geste del figlio, il
sangue gli si era scaldato, e gli ornava il volto coi colori della
gioventú.

Meritavano queste prodezze conveniente mercede, ed egli già fino dal
principio della guerra era stato promosso al grado di aiutante di campo
del general Pino; ora per decreto imperiale riceveva l’ordine della
corona di ferro; poco dopo la stella della legione di onore. Il cav.
Camillo Vaccani nella sua opera degl’Italiani in Ispagna rammenta
onoratamente il nostro Delfante, allorché il general Pino, circondato
dal colonnello Marsshal, su le alture dei monti Ramannà fece prigionieri
1500 Spagnuoli i quali accorrevano in soccorso di Girona.⁶⁸ Narrasi
ancora ch’egli fosse dei primi a salire la breccia del forte Monjoui
presso Girona, dove dagli assaliti, e dagli assalitori furono operate
prove di prodezza inaudita.

  ⁶⁸ _Campagna del 1809_, p. 3.

In questa guerra spagnuola, io lo avvertiva poc’anzi, si vide fino a
qual punto estremo possano giungere o la ferocia, o l’eroismo della
creatura umana. — Agostina da Zaragozza, fortissima vergine, fuggiti i
difensori, abbattuta la porta Petrillo, non dubita dar fuoco ai cannoni,
sfolgorare i Francesi di mitraglia, e ributtarli fuori delle mura; e
quantunque l’obbligo mi costringa ad esser breve, a me non riesce
esserlo tanto, che lasci innominata per queste mie carte l’illustre
donna Lucia Fitz Gerard condottiera della crociata a difesa di Girona⁶⁹.
Nuove battaglie, dico, furono queste, che vado raccontando, né da
Napoleone aspettate; e’ bisognava a palmo a palmo conquistare il
terreno, dispersi oggi i nemici tornavano piú infesti e numerosi domani;
il pugnale, e il veleno spensero piú vite, che non le armi guerresche;
_ed è santo ogni mezzo purché ordinato alla salute della patria_.
Ridotte in mucchi di sassi le mura delle città, era mestieri combattere
di contrada in contrada, di casa in casa, di piano in piano; ardevano i
cittadini le proprie dimore, e le rovine, e sé stessi sopra gli odiosi
stranieri precipitavano, oppure scavavano buche, vi nascondevano
polveri, e con la propria, la morte di molti nemici procuravano. Le
malattie, la fame, la dura necessità, che domarono fin qui ogni ente
mortale, non vinsero gli Spagnuoli; — morivano, non si arrendevano.
Alvarez, comandante di Girona vicino a spirare anziché scendere alla
capitolazione dismesse la carica. Solo un dolore era comune ai vinti,
quello di non esser morti; rimproverati della feroce loro ostinatezza
rispondevano: «Se volete svergognarci davvero, fateci rampogna del viver
nostro dopo che giurammo morire; mostrateci gli edifizi, che pur sorgono
illesi, non i caduti, i prigionieri non i cadaveri.» — «Infelice popolo,
qual frutto ricavasti da tanti sagrifizi? Dove sono i tuoi guerrieri?
Quale hanno mercede nel riposo della patria? Come i tuoi destini
migliorasti? — Mi valgano le parole del paterno mio amico l’illustre
generale Colletta⁷⁰: «Alvarez morto in carcere, Bleke, Fournays
perseguiti, e disgraziati: O-Donnell, sentenziato come traditore, schiva
con la fuga la morte: Ballesteros, Morillo vivono spatriati, o prigioni
nella Francia: vive in Inghilterra da fuggiasco il prode Mina:
l’Empecinado è morto sul patibolo: ed in somma dei piú chiari Spagnuoli
chi fu spento per pena, o per nuovi sconvolgimenti, chi piú infelice
mena il remo, e chi (gli avventurosi) stan liberi ma dimenticati, e mal
visti». — Oh! chiudete il volume della storia, troppo vi soverchiano le
memorie dei misfatti, e delle sventure onde l’uomo possa percorrerlo
senza sentirsi l’anima travagliata da infinita tristezza. — Salomone
profeta apertamente lo insegna: «Non acquistate sapienza, perché in essa
si contiene altissimo affanno; non accrescete la scienza, perché in essa
è perturbazione di spirito: il ricercare per molti libri non mena a
nulla, e la frequente meditazione inaridisce la carne»⁷¹.

  ⁶⁹ _Southey_, _Guerra della Penisola_.

  ⁷⁰ _Antologia_, n. 69.

  ⁷¹ _Ecclesia._, c. XII.

Ora il mio subbietto mi stringe a raccontare altre guerre, altro dolore.
Due colossi si stringono in battaglia di morte. Pare, che potenza umana
non potesse superare il _Fatale_, perché i geli, il fuoco la fame si
unirono in lega co’ suoi nemici, e allora soltanto ne rimase abbattuto,
né meno si voleva per abbatterlo. — Nel giorno 22 giugno si apre la
impresa russa. Quante speranze affidavano la Francia! Un capitano, che
non conobbe mai fuga, un esercito provato di oltre 500,000 uomini
numeroso, generali valorosissimi; però sembravano le parole profferite
in quei tempi da Napoleone profezia del futuro:

«Noi non ancora degenerammo, siamo gli stessi di Osterlizza, varchiamo
il Niemen, la seconda guerra contro la Russia sia non meno della prima
gloriosa alle armi francesi, e imponga termine alla influenza russa, la
quale da ben 50 anni turba le condizioni di Europa»⁷². Napoleone
traghettata la Dwina, espugna il campo trincerato di Drissa, rompe il
nemico, lo insegue fin presso Polotosk; — proseguendo il cammino, valica
il Boristene, vince a Krasnoie, supera di nuovo i nemici a Smolensko,
arde la città; — continua la via, giunge alla Moskowa. Le storie moderne
non ricordano battaglia piú sanguinosa di quella, che s’ingaggiò su i
campi di Borodino; vi piansero i russi morti 30,000 soldati, 40
generali; non si contarono i feriti. Mi sia concesso dilungarmi alquanto
nella narrazione di questa battaglia, avvegnaché gl’Italiani nostri la
vincessero, e Cosimo Delfante vi operasse prove mirabili. La somma delle
cose si era ridotta su certa eminenza coronata da fortini commessi alla
difesa del generale Ostermann, e divisa dai Francesi mediante il burrone
di Goriskoi. — Augusto Caulincourt, generale, guidando la seconda
divisione dei corazzieri, con imperterrito animo si caccia giú del
dirupo; fulminato dalle batterie nemiche perde la vita; indietreggiano i
suoi. Allora il rialzo parve convertirsi in vulcano: ne uscí prima una
tempesta di fuoco, poi i cavalieri russi per calpestare i corazzieri
respinti. Mentre in questa parte la fortuna favorisce alle armi di
Russia, il principe Eugenio con l’esercito italico investe di fianco il
fortino. I Russi capitanati dal general Likaczen sostengono francamente
l’assalto. Cosimo Delfante considerando il poco frutto che si ricava da
quel trarre di lontano, e l’indugio mortale, dispone avventurare un urto
disperato; accennato ai prodi compagni, nulla badando alle schegge
striscianti intorno al suo capo, si spinge primo contro il ridotto:
all’urto disperato oppongono i Russi disperata resistenza, rifiutano i
quartieri, antepongono la morte alla resa; — rimasero tutti miseramente
trucidati. — Likaczen, capitano infelice non codardo, sdegnoso di
sopravvivere ai suoi, si precipita tra le file italiane cercando la
bella morte, e gl’Italiani in quella ebbrezza di sangue cupidi di
vendetta gliel’avrebbero data, allorché Delfante gridava: «si
rimanessero, volere il russo un duello, e a lui appartenere per
diritto». Cosí dicendo lo affronta, e lo disarma. Likaczen, fermo di
finire la vita tratta una pistola se la volge alla tempia, e qui pure
Cosimo lo trattiene, e confortandolo con animose parole, lo consigliava
a vivere e gli rendeva la spada. Il principe Eugenio lo creò aiutante
comandante dello stato maggiore sul campo di battaglia, dicendo ad alta
voce: «Valoroso Delfante, quest’oggi ti sei comportato da eroe»⁷³. —
Vinta la battaglia di Borodino, Moscua viene in potere dell’armata
francese. Fin dove poteva salire la potenza del _Fatale_ è ormai salita,
adesso sentirà come siano amari i passi della fuga, come lacrimose le
vittorie peggiori delle sconfitte, come duro l’esilio! — Gli storici di
questa impresa scrivono che meno sfortunosa sarebbe riuscita la ritirata
dove Napoleone avesse preso il sentiero di Kalouga, e di Toula per alla
Lituania, e parve che a lui pure piacesse il disegno, e gl’Italiani con
gloria eterna vincendo a Malo-Jarolavetz, gli sgombravano i passi, ma o
il destino lo accecasse, o meglio di quello possiamo supporre noi
prevedesse, ordinò la ritirata a Smolensko. Le sventure della grande
armata furono descritte; qualcheduno, che le vide, vive tuttora per
raccontarle, e i popoli atterriti conoscono come reggimenti interi
abbracciatisi per ischermirsi dal freddo durante la notte fossero
contemplati alla mattina vacillare, e cadere senza, che se ne rilevasse
pure uno; udirono le genti come gli umani cadaveri servissero a
mantenere il fuoco per riscaldare i mal vivi, e questi piegarsi
avidissimi su quelle orribili fiamme, e venire al sangue onde ributtarne
gli accorrenti, finché spinti sovr’esse mentre studiano fuggire la morte
minacciata dal gelo, muoiono miseramente abbruciati: tali e piú tremende
sventure ascoltammo, sí che i tormenti dell’inferno di Dante ci parvero
fievole immaginazioni a confronto di queste verità. — Il 13 di novembre
1812, l’esercito d’Italia ridotto a 5000 ordinati, e due volte tanti tra
donne, infermi per malattia naturale, o per ferite, ed altra gente di
ogni maniera, lacerati senza posa ai fianchi, e alle spalle dai
cosacchi, giungeva a grande stento su la sponda del Wop; due mesi prima
era ruscello, adesso spaventoso torrente, vollero costruirvi un ponte
co’ legni delle case vicine, ma quelli, che vi si erano riparati,
mostrarono contrastarle col ferro; tentarono traghettare i cannoni
carreggiandoli su le acque gelate; il ghiaccio si ruppe, cannoni, e
cannonieri sprofondando scomparvero per sempre; frattanto il giorno
declinava, il freddo si faceva piú intenso, i cosacchi impazienti di
strage e di rapina ingrossavano. Gli artiglieri italiani, quantunque
presso al morire desiderano rallegrarsi il cuore con una qualche
vendetta, e abbandonati i bagagli si ritirano; sopraggiungono le torme
dei barbari, stendono le mani alla preda... una traccia di polvere
accesa dai nostri artiglieri appicca il fuoco ai cassoni delle munizioni
di guerra; — rapitori, e rapine vengono con miserabile eccidio
sbalestrati per aria. — Animoso, non utile conforto; nuovi cosacchi piú
inferociti di prima tornano all’assalto. — Di su, di giú, come finsero
gli antichi cantori dei dannati lungo la sponda dell’Acheronte andavano
i nostri per la riva del Wop, ponevano un piede per iscendere e non si
attentavano; que’ ghiaccioli taglienti, le acque grosse, l’altra sponda,
lontana atterrivano i piú forti; in questa le minaccie dei vincitori, e
gli urli dei vinti cresceano, e si udiva all’intorno un suono di pianto,
un gemere confuso, un invocare, e un imprecare il cielo, un chiedere, e
non trovare soccorso, che rifiniva il cuore di acutissimo spasimo. — Il
Viceré pensoso non sapeva a qual partito appigliarsi; — leva gli occhi,
e guarda fisso Cosimo nostro; questi intende qual cosa gli domandasse il
buon principe col guardo, dacché con la voce non osava manifestargliela,
si trae il cappello, lo agita in segno di sicurezza, e si lancia nel
fiume; molti come lui avventurosi toccarono la riva opposta, molti non
la toccarono; — ma senza Cosimo Delfante sarebbero morti tutti⁷⁴.

  ⁷² Proclama alla Grande Armata del 22 genn. 1812.

  ⁷³ _Laugier_, op. cit.

  ⁷⁴ _Ségur_, _Histoire de la Grande Armée_, l. IX, c. 13.

Mi avvicino a descrivere la morte di questo valoroso. Correva il giorno
15 di novembre, quando il principe Eugenio con alcuni dei suoi si
dilungava da una torma di gente disordinata, infelice residuo
dell’esercito d’Italia; all’improvviso lo circondano molte migliaia di
Russi capitanate dal generale Miloradowitch, e gl’intimano la resa; — la
gente, che seguitava Eugenio facendosegli intorno lo scongiurano ad
allontanarsi finché n’è tempo, salvasse gli avanzi dell’armata, ella
penserebbe di per sé stessa alla sua salute; repugnante, Eugenio
abbandona quel pugno di prodi, raggiunge i suoi, ed ingaggia battaglia
su i piani di Krasnoie. La colonna dei fuorviati rimasta priva di capo
si ordina sotto il tempestare delle palle nemiche, e composta in
drappelli serrati dà dentro alle file dei Russi; erano 1500 contro 15 e
piú mila nemici; — questi pensando, che volessero deporre le armi,
aprono la fronte, e li lasciano entrare; quindi vedendo com’eglino non
si disponessero a nessun atto di ossequio li pregano a dimettere ogni
tentativo di resistenza; rispondevano combattendo; sdegnosi i Russi li
fulminano con tutti i cannoni; meglio di mezzi cadono, gli altri
continuano; i Russi sia maraviglia, o terrore non osano toccarli, ed
essi orribilmente laceri si riparano entro le linee italiane, le quali
gli accolsero con altissime grida di gioia. — Ora i Russi inseguenti
l’armata d’Italia appoggiano la destra a un bosco, la sinistra alla
strada maestra. Eugenio studiando di sgombrare il cammino oppone la
seconda divisione alla sinistra dei Russi, la prima alla destra, nel
centro mette la guardia reale, la divisione Pino in riserva, gli
sbrancati si celano in certe macchie dietro l’ala destra del generale
Pino. — I cavalieri russi dànno la carica; respinti dai nostri composti
in battaglione quadrato cominciano a sfolgorare con la mitraglia, e
gl’Italiani di tutto manchevoli mal potendo rispondere a que’ fuochi,
soffrono gravissimi danni. — Eugenio si affanna a provvedere, e spinge
la seconda divisione contro il fianco destro del nemico, ma oppressa da
un fuoco terribile e da una cavalleria numerosa, si ripiega anch’ella in
battaglione quadrato. Rimasta per siffatta maniera scoperta la sinistra
della guardia reale, i dragoni di Kargonpoll e di Moscou si sforzano
romperla; ributtati aspramente non replicano l’assalto. Il Viceré
favellando agli ufficiali circostanti domandava a chi di loro con
alquanti de’ piú valorosi desse il cuore di procedere lungo la strada
maestra, per raccogliere la prima divisione. Si offriva volenteroso
Delfante, e seco lui 200 spontanei. Quasi presago esser coteste le sue
ultime, operò prove di stupendo valore; lanciandosi con quel
drappelletto contro la foga dei cavalieri russi li trattenne, e convertí
la battaglia in molti combattimenti a corpo a corpo; ferito nella tempia
non si rimosse, né fece sembiante di dolore, o di terrore; continuando
la mischia venne di nuovo ferito sul ginocchio, e sebbene la virtú
vitale per la perdita del sangue appoco appoco in lui si estinguesse,
non pareva che pensasse a posarsi. Un generoso Francese, il signore di
Ville-Blanche, vedutolo tutto sanguinoso lo tolse per le braccia, e
facendogli forza lo trasse in disparte per fasciargli le piaghe. —
Sopraggiunse Eugenio, e chiamatolo a nome lo conforta a darsi coraggio:
«Altezza, risponde Cosimo, io mi sento morire, vi raccomando la mia
famiglia». — Compiute appena le parole, una palla di cannone gli rompe
le spalle, e spicca la testa dal busto al Ville-Blanche. Il viceré si
allontanava smarrito, i duecento compagni del nostro eroe morirono
tutti, ma prima di cadere, nel sangue dei nemici lo vendicarono. —

Dove giacciono le ossa di Cosimo Delfante, onde se qualche suo patriotto
pellegrinasse in quelle remote contrade invochi sopra di loro la pace
dei forti? — La pianura di Krasnoie è grande, e va ingombra d’infinite
altre ossa; eppure alle sacre reliquie manca, o Italiani, non solo
l’onore del sepolcro, ma nessuno tra voi ebbe fin qui anima potente a
diffondere su que’ campi di gloria la luce del canto.

O Italiani, non amate voi vostri morti? L’inno della lode tacerà dunque
pei defunti perché questi non dieno né speranze, né doni? — Sovente però
il turpe lusinghiere del vivo null’altro consegue dalla sua viltà tranne
una speranza delusa, mentre il celebratore dei morti nel compartirla
altrui acquista fama. Pochi furono gl’Italiani scrittori i quali di
conveniente elogio placassero le ombre dei nostri defunti, la qual cosa
dimostra quanto vada ingombra la mente dei troppi di paura, e di viltà,
quanto nei pochi sieno grandi e l’amore, e l’ardire; — benefizio
estremo, che la fortuna o il destino concedono alle nazioni cadute di
condensare le virtú antiche della massa del popolo in alcuni magnanimi,
quasi scelti custodi di un deposito sacro; io poi non sono un magnanimo,
ma nel mio cuore arde una fiamma di vita, e non temo con forti accenti
rilevare le glorie dei nostri valorosi; — e felice la patria quando la
lode dei trapassati non vorrà considerarsi come esperimento d’immaginare
arguto, o di ornato scrivere sibbene come ufficio cittadino. — Veramente
a noi non dovrebbe esser mestieri l’andare con tanto studio ricercando
le geste dei nostri guerrieri se piú fosse stato generoso quel popolo di
cui abbracciammo la causa; — sconoscente! ei rifiutò far menzione dei
nostri, egli usurpò le nostre glorie⁷⁵: italiano, e non francese fu il
soldato il quale mezzo sepolto dalla neve nelle lande di Russia
nessun’altro pensiero ebbe presso alla morte se non quello di porre in
salvo la stella dei prodi, che acquistò combattendo sul campo di Vagria:
popolo sconoscente! dimenticando, che noi col nostro sangue ti
acquistammo potenza, e onde meglio ci gravasse il giogo francese
pugnammo con mani italiane poiché⁷⁶ il _Fatale_, quantunque nato di
questa terra temendo nella nostra libertà il tuo servaggio negò di
rompere le antiche catene, tu applaudisti al sussurro poetico di uno tra
i tuoi il quale, seguitando i canti del fanciullo Aroldo, come la iena i
passi del leone, osò chiamar noi _polvere di uomini!_⁷⁷. Oh! Aroldo si
beava nel sorriso del cielo italiano, e gemé considerando, che cuopriva
una terra addolorata, e quel suo gemito ci consolava di un secolo di
sventura. — Barbaro straniero, che insulti l’angoscia solenne di un
popolo caduto, possano le tue parole tornarti amare su l’anima quanto la
maledizione di tuo padre moribondo. — Or non è molto, quasi in ammenda
di tanto delitto mosse da quel paese una voce di conforto, e di lode a
noi infelici Italiani,⁷⁸ ma la piaga fatta dall’orgoglio alla sventura
non cosí di leggieri risana. Tenete per voi la lode, e l’oltraggio, noi
né quella curiamo, né questo: _Il giudizio dei posteri veglia severo su
le colpe dei popoli, e noi fidenti ci commettiamo a quel giudizio._

  ⁷⁵ _Laugier_, op. cit.

  ⁷⁶ _Réponse à Walter Scott, par le comte de St.-Leu._

  ⁷⁷ _Lamartine_, _Dernier chant de Childe-Harold_.

  ⁷⁸ _Revue Française, Art. sur l’Italie._

Ora nuovamente mi è dolce volgermi a voi, giovani fratelli: — vedete
l’onore italiano come vilipeso! — Sentite qual ne corra bisogno di
provvedere alla fama nostra! — una gente, che altra volta chiamammo
barbara, come esempio di barbarie ci addita. — Siate grandi! — né mi
rispondete: — che giova affannarci? non hai tu scritto, che gli uomini
saranno sempre infelici? — Ma io ho scritto ancora, che voi potrete
diventare potenti; — e le mie parole erano di dubbio; — assuefatto a
dubitare di tutto per fuggire la pena di un sistema, pensate voi ch’io
volessi assumere la parte dell’Apostolo del male? — Operiamo
magnanimamente, non ci curiamo del fine: — forse l’antico agricoltore
non pianterà l’ulivo perché le sue mani non ne raccorranno il frutto? —
E forse io lessi male le pagine della storia; — e forse l’affanno in cui
andava sepolto il bel fiore dei miei anni giovanili mi fece temere
ov’era sicurezza; — chi sono io perché mi crediate come a Profeta? — Non
vi sarò compagno nel sepolcro? — Sia adunque con voi anche quella
speranza, che la natura doveva avermi compartita; — e dove la pietà dei
superstiti, fornito questo terreno pellegrinaggio pel quale ho già
stanche le membra, mi credesse degno di una lapide, che mi distingua dal
volgo dei morti, possano i figli felici stender la mano su quella
lapide, e dire: «Egli ha mentito». Essi però non oltraggino la mia
polvere, perché se il decreto di mutare quelli, ch’io riputava destini
si fosse dovuto scrivere col sangue, io avrei dato il sangue, e del piú
puro del mio cuore — e se a me, come a loro fossero corsi favorevoli i
tempi, avrei forse agli antichi canti di questa nostra terra aggiunto
nuove melodie, e la gioia avrebbe afforzato l’ale dell’alta fantasia,
mentre ora di giorno in giorno s’illanguidisce nell’amarezza, e nel
dolore.



                                ROMAGNA


Quando ideammo la _Giovane Italia_, le sorti della Romagna pendevano
incerte. La nota presentata alla segreteria di stato di Gregorio XVI, la
sera del 21 maggio 1831 assicurava agli stati pontificii riforme che
costituissero un’era _affatto nuova e felice_. — La corte romana dava
invece illusioni e frodi, o minaccie. Ma le popolazioni forti del loro
dritto, e d’una promessa europea avevano assunta una attitudine energica
e deliberata, che avrebbe fruttato un miglioramento qualunque, se
l’intervento d’una forza brutale non avesse troncato a mezzo le speranze
autorizzate dalla diplomazia. — Il popolo dall’impeto d’una
_rivoluzione_ caduta era passato ad una _opposizione_ parziale che non
varcava i confini di ciò che i gabinetti chiamano _legalità_. Il Papa
esauriva tutte l’arti d’una politica perfida per suscitarlo a moti
dichiaratamente rivoluzionarii. — Ma il popolo s’avvedeva dell’inganno e
non si dipartiva da un sistema d’azione lenta e pacifica, ch’escludeva
ogni intervento straniero.

Allora, noi avevamo in animo d’esporre in un quadro esatto la condizione
di Bologna e della Romagna: i diritti che la espressione del voto comune
avea posti in luce: le inchieste fatte, e non contrastate: e le vie che
rimanevano alle potenze perché la rivoluzione inevitabile un dí o
l’altro scoppiasse meno sanguinosa e irritata dalla intolleranza d’una
parte e dalla impazienza dell’altra.

Era un tributo che si pagava per noi ad una illusione di giustizia
politica, che non esisteva se non nell’anime nostre. Guardando alla
importanza della questione che s’agitava, guardando all’utile che
sgorgava innegabilmente da un sistema di concessioni progressive, unico
sistema che valesse a indurre una pace che i governi invocavano primi,
guardando ai patti giurati, alla promessa sancita da una conferenza di
ministri europei, ai principii banditi da una nazione grande a un tempo
ed avida di tenere il primato della civiltà, noi cedevamo ad una
speranza, ad una lusinga che non fosse spenta ogni generosità nei
popoli. — E però il linguaggio nostro era volto ad ammaestrarli delle
condizioni nelle quali era posta una gente insorta per eccesso di
tirannide, caduta in fondo per troppa credulità, schernita da quei
medesimi, che l’avevano accarezzata di lusinghe mortali. — Ci travolgeva
un errore; e ne abbiamo rimorso; però che siamo a tale di sventura e
d’esperienza nel passato che oggimai ogni errore è delitto. Questo
errore noi lo scontammo amaramente; e il grido dei nostri fratelli
scannati nel nome di Cristo dai soldati del pontefice a Ravenna, a
Cesena, a Forlí, ci suona tremendo all’orecchio come un rimprovero. — La
diplomazia europea non vide nei reclami legittimi d’un popolo mille
volte deluso che un pretesto all’intervento straniero. Le baionette
tedesche ci recarono solenne risposta. — Quattro potenze dichiararono
nulle e intaccate di ribellione le pretese, ch’esse alcuni mesi prima
aveano dichiarate giuste e fondate. Quattro potenze diffusero colle loro
minaccie il terrore sovra una moltitudine inerme, incerta e divisa —
poi, quando lo stupore ebbe spento anche quel poco entusiasmo suscitato
da una contesa civile — quando l’oro ebbe stillata la seduzione ne’
ranghi dei cittadini — quando il mutamento improvviso ebbe scemata colla
differenza delle opinioni la forza della concordia — le potenze diedero
il segnale, e dissero alle bande romane: _ferite il cadavere._ — Quattro
mila soldati del pontefice s’affacciarono da un lato, dodici mila
tedeschi dall’altro. — I nostri erano 1603!

Cosí doveva essere. — Maledetto colui, che fida in altri che in se
medesimo!

Noi lacerammo lo scritto. — Ogni sillaba ci pesava sull’anima come una
condanna — e da tutto quel cumulo di conghietture, da quelle parole di
pace, da quella luce di speranza vilmente concetta, e stoltamente
nudrita, sorgeva un grido: guai a chi si commette alla fede dello
straniero! le illusioni della vittoria si convertono per lui in
derisioni d’inferno: i frutti ch’egli immaginava cogliere colle altrui
mani, si tramutano in cenere, come i frutti del lago Asfaltide. Oh! non
impareremo mai nulla dalle nostre sciagure? Non impareremo mai, che lo
schiavo non ha per sé e che il proprio braccio, e il proprio diritto?
Noi calchiamo una terra la cui polvere è polvere d’uomini venduti dallo
straniero. Non v’è pietra di tomba, non v’è rovina di monumento che non
ci parli una delusione, che non c’insegni un tradimento de’ potenti che
ci sedussero alla confidenza per coglierci alla sprovveduta. E non
faremo senno mai della lunga vicenda?

Noi lacerammo lo scritto — però che non avevamo mestieri di snudare agli
oppressori la infamia loro, né volevamo levar la voce a giustificarci
della sommessione apparente. Le infamie sono palesi, e la vera
giustificazione d’un popolo oppresso è quella, che si scrive col sangue
degli oppressori. Né maledizione, né gemito. — Poi che non abbiamo
saputo maturare il tempo della vendetta, soffriamo in silenzio: stiamo
soli colla nostra rabbia: pasciamoci di furore muto: non lo sperdiamo in
lamenti, che nulla fruttano — è tesoro, che dobbiamo custodire
gelosamente — beviamo tutto il calice amaro: forse un giorno, quando
avremo esaurite l’ultime stille, frangeremo quel calice.

Perché, a chi rivolgerci? — ai governi? cos’è per essi il gemito d’una
gente tradita? Son cinque e piú secoli, ch’essi trafficano di noi come i
mercanti de’ poveri negri. Son cinque e piú secoli, ch’essi non guardano
in noi che come in materia di negoziati e di protocolli. — Alle nazioni?
— le nazioni stanno pei forti — e noi non lo siamo: le nazioni non hanno
finora simpatia per la sciagura, ma per l’attitudine dello sciagurato,
scendono nell’arena talvolta a soccorrere al gladiatore morente senza
batter palpebra — e noi finora — convien dirlo e arrossire — abbiamo
levata la mano prima di averla adoperata sul nemico. — Da esse ci verrà
forse un compianto sterile e breve. Che giova il compianto? Hanno pianto
anche sulla Polonia. Hanno pianto, mentre un ministro d’un popolo libero
ne decretava la perdita come pegno di pace. Ma quel pianto ha forse
risparmiata una goccia sola del sangue dei prodi? Quel pianto ha forse
fecondata di nuovi difensori la polvere, dove cadevano i primi? —
Lasciate star quella polvere! non agitate il lenzuolo de’ morti! —
Possono esse le vostre lagrime rianimare il cadavere?

Un giorno, quando convinti della onnipotenza d’un popolo che vuole
rigenerarsi davvero, noi ci saremo levati di dosso la vergogna e
l’oltraggio, alzeremo la voce, e narreremo a’ popoli, che allora ci
stenderanno la mano, l’arti adoprate del tedesco voglioso d’un nuovo
dominio, per trascinarci a insurrezioni brevi, e non concertate — e
l’armi somministrate perfidamente, poche per la difesa, tante da
invogliare gl’incauti ad osare — e l’oro diffuso a promuovere le
divisioni tra le guardie civiche e le moltitudini — e le proteste di
pace fatte ad illuderci, e illudere un popolo vicino, mentre un proclama
pubblico imponeva la mossa alle truppe straniere — poi le predicazioni
furibonde de’ preti che rinnegano ogni santità di ministero: le calunnie
versate nell’orecchio delle ignare popolazioni: le stragi commesse sopra
gente inerme, e tranquilla, preparate con astuzia, e bassamente
scolpate. — Quel giorno, verrà, però che nessuna forza può far
retrocedere il secolo, e i delitti di sangue si scontano nel sangue — e
allora noi potremo narrar queste cose, e documentare la storia delle
nostre sventure, senza astio, senz’odio, senza rancore per la inerzia
delle nazioni, perché noi vagheggiamo da lungi la fratellanza europea, e
serbiamo dentro tanta potenza d’amore da affogarvi molti secoli di
memorie. Ma ora, fresche ancora le piaghe, calde le ceneri dei caduti a
Forlí, noi non potremmo rivolgere la parola allo straniero, senza che un
alito d’ira la facesse amara, e sdegnosa, senza che un fremito di deluso
vi scorresse dentro a convertirla in suono di maledizione. Però, abbiamo
risolto tacere per tutti, intorno agli ultimi eventi — per tutti,
fuorché pe’ nostri.

E ai nostri, traviati sovente ne’ loro giudizi dalle menzogne, che i
governi italiani astutamente diffondono, gioverà ridire, come dagli
ultimi fatti della Romagna debbano trarre conforto a sperare ed osare,
anziché scoraggiamento, o terrore. Gioverà convincerli, che gli ultimi
fatti travisati da’ nostri padroni a trarne un tentativo di rivoluzione
assoluta, per millantare d’averla vinta una seconda volta non furono in
sostanza che conseguenze d’una discussione municipale, d’una questione
piú civile, che politica, questione che né si doveva né si volle
sostenere coll’armi dalle moltitudini, però che la Romagna contempla,
anzi i fati italiani che i propri! — e non pertanto quel pugno di
giovani, raccolto in armi, subitamente assalito, era tale, che i
pontificii disperavano vincerlo, se non lo atterrivano colla minaccia di
quattro nazioni, e colla mossa dell’Austriaco. Gioverà mostrar loro i
due vantaggi che sgorgano da que’ fatti, il primo riposto nella
coscienza che ogni italiano può trarre dalla lotta durata dalle
legazioni contro la oppressione papale; della unione universale in un
solo voto di libertà; l’altro, che deriva dalla complicazione delle
differenze che regnano tra gabinetti, aumentata dalla nuova occupazione
tedesca e in oggi dalla francese. — E noi ne parleremo forse
distesamente nel secondo fascicolo della _Giovine Italia_, dacché in
questo non possiamo per l’angustia dello spazio.

Ma i nostri concittadini della Romagna veglino da forti, e accolgano la
voce de’ loro fratelli, che noi qui esprimiamo: vegliate, ed unitevi:
ritemprate il vincolo dalla concordia nel servaggio comune: non vi
lasciate sedurre a divisioni fatali da vanità meschine, da rancori di
municipio. Strignetevi nella comunione della sventura: santificatevi nel
pensiero della vendetta; però che la vendetta della patria è santa di
religione, e di solenne dovere. E sopratutto non fidate nello straniero.
Non fidate nello straniero, che vi reca speranze nuove, poiché v’ha
travolto nel precipizio: ritrarre il ferro dalla ferita, poiché s’è
immerso fino all’elsa, muta forse il feritore in proteggitore? Non,
fidate nello straniero, che oggi sommoverà i soldati del pontefice a
trucidarvi per ottener vanto il domani d’averli frenati, o puniti. Non
vi lasciate sedurre da quell’arti: non vi lasciate adescare da quel
finto sorriso. È il sorriso dell’assassino sulla sua vittima.
Ricordatevi dei vostri padri. Ricordatevi che quei ferri, ch’ora
s’ostenta di stendere a serbare intatto l’ordine pubblico, e a tutela
degl’individui, hanno tal macchia di sangue fraterno, che veglia fra il
tedesco, e voi, come un decreto di Dio tra l’innocente e lo scellerato.
— Curvate la testa, poiché i fati lo vogliono, sotto il giogo abborrito;
ma frementi, vivi nell’odio, e col sospiro a quel giorno, che darà moto
in Italia al grido d’Unione, d’Indipendenza, e di Libertà.

                                                          _Un Italiano._

    _P.S._ — La occupazione francese, accaduta dopo scritto
    l’articolo, complica gravemente la questione politica: la
    complica di tanto, che forse a sciorla non varrà che la spada. E
    non pertanto noi non vogliamo cancellare parole dall’ultime
    linee dello scritto. L’Arti diplomatiche, e le paure de’
    gabinetti possono rimovere _momentaneamente_ le nuove speranze.
    Nuove combinazioni possono differire lo scoppio degli odi
    celati, e giova, non obbliare come il ministero Perier è il
    ministero della pace _à tout prix_, e come la esistenza sua è
    stretta a questa pace, mercata finora l’Europa sa come. Chi
    decise la occupazione, commise un errore contro il proprio
    sistema; le conseguenze possono uscirne prepotenti, ed
    irreparabili; ma gl’Italiani, noi lo ripetiamo, hanno a fidare
    in sé, non in altri.

                                  ————



 _Un cenno ad onore dell’estinto PIETRO COLLETTA,_ benemerito italiano,
   gia’ tenente-generale, e ministro della guerra a Napoli, nel 1821.


    Naturæ clamat ab ipso vox tumulo.


Ciascun giorno che si perde fra gl’immensi spazi del tempo, è per
l’Italia cinto di funereo lume; ciascuna contrada di quella miseranda
terra vede biancheggiare le ossa d’immensi martiri sacrificati
all’onnipotenza di un dispotismo contro del quale alzarono la voce, ed
osarono proclamare il diritto degli uomini: tutta la penisola che
dall’Alpi al mare siciliano si estende sembra un vasto sepolcro, ove tra
i gemiti de’ traditi, e l’aggirarsi d’ombre squallide, tremenda
s’innalza la tirannide de’ principi e de’ sacerdoti, e degli stranieri.
— Da ogni regione Italiana sorge eziandio un grido lugubre che chiede
vendetta pel fiore de’ suoi figli caduti sotto la scure, o spenti fra
ceppi, o finiti in doloroso esilio, pel solo delitto di avere amato la
patria...; o se qualche generoso, accostando la mano alle tombe di quei
trapassati osasse rimuoverne le ceneri, udrebbe un sol fremito dai monti
al mare, ascolterebbe da ogni avello invocar la vendetta, — imperocché
vendetta chiedono quei che caddero nelle provincie napolitane, e
piemontesi, per aver dato fede alla parola dei Re, ed innalzati al sommo
impero due principi nutriti nel lezzo delle corti, e noti in Europa per
la sola infamia del tradimento: vendetta parimenti dimandano coloro che
un ministro di pace, mutato in carnefice di oltremontano sire, spegneva
sullo rive del Tevere, e nell’ubertosa Romagna: — vendetta, fu l’ultima
voce de’ morenti di Modena e di Sicilia: e vendetta infine invoca la
spoglia di Pietro Colletta, già consunta per tiranniche persecuzioni, —
e del quale alla memoria io discorro breve cenno; e il discorso, non pur
depositato sul suo tumulo come fiore che abbellisce le urne degli
schiavi, — ma qual pegno di animo libero ad uomo libero tributato, ma
quale invito a futuro riscatto.

Nella città di Napoli, di Antonio, avvocato, e Maddalena Minervino,
nacque Pietro Colletta, nel 1780: ad una vivacissima infanzia tenne
dietro un’ingegnosa giovinezza, passata fra i profondi studi della
scuola militare di quella capitale: e quando la patria salutò l’aurora
di una repubblica (che si spense quasi sul meriggio) pria l’annoverarono
i patrioti fra le loro fila come officiale d’artiglieria, — e poscia
l’ebbero a compagno della proscrizione che una corte sleale fulminava,
ad onta de’ patti giurati e garantiti dai rappresentanti delle prime
potenze d’Europa: — indi, mutatesi le fortune ed i tempi, e cacciati i
Borboni nell’ultima Sicilia dalla spada di Bonaparte, perveniva il
Colletta ai sommi onori civili e militari, e vi perveniva non senza fama
d’intelligente amministratore e di sagace militare. — Nominato
Intendente nelle Calabrie, Consigliere di Stato, Tenente-generale dello
scientifico Corpo del genio, e Direttore generale di ponti-e-strade;
mostrossi sempre, qual era stato nella modesta giovinezza, cioè,
affettuoso con gli amici e coi propinqui, amorosissimo della patria, e
protettore de’ talenti. — Cadute poi l’armi dei Francesi, — e ritornati
i Borboni a ricalcare i troni abbandonati per viltà, e riottenuti per
opera straniera, disponevasi il Colletta a girsene in volontario esilio,
sapendosi quanta e quale fosse la fede de’ reali di Napoli; ma non
glielo permettevano quei principi, che allora fingevano vezzeggiare i
liberali, — che anzi il destinavano al comando della divisione
territoriale di Salerno. — Assumeva quell’impegno il Colletta, e con
franchi accenti consigliava il ministero di secondare il voto de’ popoli
che già chiaro appariva per ottenere una Costituzione tante volte
promessa dall’esule Ferdinando; e poiché quei consigli non spiacevano ai
ministri (o almeno il dicevano), riteneva il comando, e sperava di
essere un giorno veramente utile alla patria; ma quando ritornavasi a
quella ferocia, ch’è il primo attributo dei Borboni, ed esigevansi
persecuzioni e rigori da ogni capo-politico o militare contra i
liberali, pria che contaminarsi e prestarsi ai voleri del dispotismo,
deponeva ogni pubblica cura, e ritornava alla vita privata per
continuare placidi studi che gli dovevano essere un giorno di conforto
nell’esilio.

Pacifico e ritirato egli se ne viveva dunque, quando si appressarono i
nembi; — né cariche occupava, allorché udissi l’accento della
rigenerazione sulla vetta di Monteforte — accento al quale risposero
tutte le provincie del regno, — e che fu poscia ripetuto su i santi
evangeli da un re, sulla tomba del quale pesa la maledizione de’ popoli,
e ’l giudizio della Storia. — Infranto in quella guisa il dispotismo,
ricomparivano i benemeriti cittadini ai pubblici ufficii, e con essi
riedeva il Colletta al Corpo del genio; indi ne andava Comandante
supremo delle armi nella Sicilia, e finalmente sul finir del gennaio
veniva chiamato al ministero della guerra; — né in tutti quegl’impieghi
esercitati, smentiva le antecedenti pruove date alla patria; — soltanto
era anch’esso aggirato nella cabala che il Principe-Vicario ordí onde
ingannare un popolo, il quale fidente ed ingenuo, erasi abbandonato
nelle sue mani, e che tardi comprese quanta simulazione e perfidia
allignasse nel cuore de’ Borboni.

Mancate le promesse, — calpestati i giuramenti col sussidio del Capo
della chiesa, e ritornato il Re colle austriache bandiere, dilettavasi
il Principe-Vicario di scoprire al truce Canosa quei che credendo nella
sua lealtà, i veri sentimenti di patriottismo gli aveano svelati; — né
fra coloro fu risparmiato il Colletta: egli era reo di amare la patria:
il principe adunque lo designava a Canosa, — e quel sicario della
legittimità lo condannava senza verun processo, pria alla prigionia di
sette mesi, e poscia ad un perpetuo esilio nella gelida Moravia: in vano
un cadente genitore reclamava il figlio, — in vano i fratelli
chiedevano, che davanti ai giudici si esponessero le sue colpe, — tutto
fu negato; — ei partí per la Moravia, ed ivi rimase due anni ad
attingervi il germe di quel funesto morbo che il trasse a morte. —
Deposto egli dunque nell’esilio ogni pubblico pensiero, volgeva sovente
lo sguardo alla patria desolata, e desiava darle l’unico conforto che
rimane all’esule, — quello di scrivere i suoi mali; — e questo pensiero
mandava ad effetto, allorché, stabilitosi nella gentile Firenze,
addicevasi a scrivere le Napoletane Storie dai tempi di Carlo III fino
ai nostri giorni, e per fortuna dell’Italia compiva il lavoro pria di
morire: e noi diciamo per fortuna, poiché in esse sono registrate le
pagine fedeli delle turpitudini e de’ delitti consumati dai re e dai
sacerdoti pel giro di 50 e più anni. — Questo lavoro, che tanti affetti
destava nello scrittore, — che tante memorie richiamava al travagliato
suo animo, consumava il di lui corpo, e già sin dall’anno 1829, ei
mostrava nelle sparute gote non lontano il suo fine: allorché le fasi
del 1830, e le persecuzioni del Governo Toscano che di nuovo esilio il
minacciava, accrescevano le sue sofferenze, e quasi a spettro vivente lo
riducevano, ed ei trascinavasi appena nel cammino della vita, quando in
sull’alba del 12 novembre 1831, compivasi la sua carriera, e spirava col
pensiero alla patria, agli amici, — ai congiunti.

Udivasi allora un sol gemito fra la gioventú Toscana, che a loro padre
l’aveano: coprivansi di mestizia i volti de’ dotti, che loro socio
l’ebbero nelle letterarie ricerche; ne ripeteva la fama il merito e la
perdita, — gareggiavano Pisa e Livorno per accordare alla sua memoria, i
funebri onori: ciascun Italiano affrettavasi di offrire un tributo alla
virtú perseguitata: e un amico ancora (il generoso Capponi, che
nominiamo ad onore), offriva la tomba de’ suoi padri, e raccoglieva i
resti inanimati di un chiarissimo uomo, — d’un virtuoso cittadino, — e
di un vero Italiano. In ogni contrada dunque della piú colta provincia
italiana compiangevasi il termine immaturo dell’illustre esule; ogni
cuor generoso ne sentiva l’affanno: — solo i despoti sorridevano: — e
mentre l’ipocrita governo Toscano instruiva un processo contro l’immensa
gioventú intervenuta ai funerali, rallegravasi la corte di Napoli,
lusingandosi entrambi, cioè, l’uno che le sue mascherate prepotenze, non
si scoprissero, — sperando l’altra che la Storia non divenisse di
pubblica ragione, tanta ignavia per loro e pei discendenti vi ravvisano.
— Ma, noi proscritti, — nel giurar la vendetta de’ nostri perduti
fratelli, e nel pronunziare la lode sul loro sepolcro, smascheriamo
l’ipocrisia del dolcissimo imperare Austro-Toscano, ed imploriamo nel
tempo stesso dagli amici dell’estinto Colletta la pubblicazione di una
Storia, nella quale stanno scritte a carattere indelebile le note infami
de’ nostri re; e noi erranti senza patria, traditi, venduti, lo dobbiamo
all’Italia, avida di conoscere le nequizie de’ potenti che la opprimono;
— lo dobbiamo infine allo stesso Colletta, — ai suoi sofferti travagli,
— al suo cenere, che un giorno commisto a quello di tutt’i martiri
poseremo sull’altare della patria, ed all’ombra di quel vessillo
tricolore che dovrà sventolare un giorno dall’Alpi all’Etna, ed
innalzarsi glorioso sulle ruine degli scettri, de’ troni, delle tiare e
delle corone.

                                                      _Gio. La Cecilia._



                          LA VOCE DELLA VERITÀ


Un giornale, pubblicato in Modena, intitolato _la Voce della Verità_,
conteneva in data de’ 17 gennaio, nel numero 70, un articolo, del quale
ci piace riferire alcuni brani.

L’articolo incomincia con queste parole:

_Un’empia associazione s’è formata in Marsiglia del rifiuto e della
feccia degli emigrati italiani, la quale impudentemente si dà il titolo
di_ Giovine Italia. _Essa non accetta nel suo novero, che quelli i quali
son nati entro il secolo corrente... ond’esser certa che il fuoco della
gioventú spinta alle colpe dall’esempio e dai dommi di una età corrotta
e corrompitrice, non sia frenato da una esperienza di disinganno. Essa
ha per primo scopo quello di non risparmiare spesa alcuna e pericolo
personale per portare di nuovo in Italia il fuoco della discordia, e
della rivoluzione; essa ha per secondo quello di pubblicare un giornale
e diffonderlo nella nostra bella Penisola, il quale serva alla
Propaganda Infernale, e susciti di nuovo alla rivolta ed al
sangue................................_

_Noi compiangiamo la rovina ch’essi vogliono trarre sul loro capo e
sull’altrui. Intanto rendiamo pubblica questa infame intrapresa, perché
si sappia che la_ Voce della Verità _raccoglie il guanto, che costoro
gettano all’Italia, e che combatterà le inique loro dottrine. Entrino
essi nel campo: noi stiamo mantenitori della lizza. Operino essi in
segreto; noi in pieno sole, e con alzata visiera._

L’articolo cita i nomi de’ pretesi capi dell’intrapresa — e tra questi
il nome di chi scrive queste linee.

Noi non avremmo insozzate le nostre pagine ricopiando coteste infamie,
se non ci fosse sembrato di rinvenire in esse la migliore testimonianza
delle nostre intenzioni, e del nostro dritto. Due gioje concesse Iddio
agli uomini liberi sulla terra: il plauso de’ buoni, e la bestemmia de’
tristi — e quando noi sacrammo anima, vita e braccio alla patria,
guardammo davanti a noi, né curammo di voci che si levassero dal fango a
insultarci, o di pericoli che ci venissero da’ nemici alle spalle.
Giurammo a noi stessi silenzio — e non moveremo parola d’ora innanzi
contro le mille accuse, e basse calunnie che ci lancieranno dietro que’
vili, la cui penna, come il corpo della meretrice, si vende a chi piú la
compra. Tra noi ed essi la lizza è troppo ineguale; né gli uomini liberi
s’hanno ad avvilire scendendo a discutere coi carnefici. — Bensí, prima
di procedere sulla via, giova forse rompere una volta almeno il
silenzio, ond’altri non lo interpreti siccome paura. E d’altra parte,
chi può vedersi davanti la impudenza villana, e non maledirla? — Chi può
passare dappresso al calunniatore coperto, e non dirgli: tu se’ noto:
rimanti infame e per sempre dinanzi agli uomini, e a Dio?

Uomini del Canosa, e del Duca! — non v’illudete. Non tentate ridurre ne’
confini angusti d’una associazione segreta, d’un consorzio privato il
voto universale in Italia contro di voi — contro la tirannide, che
promovete — contro i delitti co’ quali la puntellate. Non impicciolite
lo spirito di progresso, che vi minaccia, attribuendolo a pochi
individui. Il decreto della vostra rovina vien d’alto: vien dal secolo,
che v’incalza, vi preme, vi mina per ogni lato: viene dall’intelletto,
che ogni anno sviluppa, commove, suscita contro le vostre teoriche di
sommessione abbietta, e d’ineguaglianza: viene dall’odio alla tirannide
ch’esercitate tremenda contro ogni classe, che ponete a luce deforme in
ogni atto della vostra vita, che non tentate velare neppure colle cure
date alla prosperità materiale de’ vostri sudditi. Quante sono le vostre
vittime? quante sono le famiglie che gemono sul destino d’un caro
proscritto? quante sono le madri, che balzano ne’ sogni davanti alla
sembianza d’un figlio prigioniero, o spento per voi? quanti sono i
volti, che impallidiscono d’ira repressa al vedervi? — Numerate que’
volti, quelle madri, quelle famiglie; perché ognuno di que’ volti vi
rivela un nemico, ognuna di quelle madri vi scaglia un anatema, ognuna
di quelle famiglie è un centro di congiura contro di voi. Avete
sagrificata la virtú, che v’era rimprovero, negletto o perseguitato il
merito, che paventavate nemico, usurpato il frutto de’ suoi sudori
all’agricoltore colle dogane, co’ dazi, colle ruberie de’ processi — e
cercate la espressione de’ pericoli, che v’accerchiano in una _forma_ di
fratellanza? — Avete manomessa l’opera della creazione, avete travolta
nel fango la immagine di Dio, avete convertito in casa di pianto il
giardino della natura, punita la parola, inceppato il core ne’ suoi
moti, tormentato il pensiero — e vi perdete a dissotterrare i vostri
nemici all’estero — e proferite tre nomi?

Uomini di Canosa, e del Duca! — Napoleone ha segnata a Sant’Elena la
vostra sentenza — e chi siete voi per durare tiranni dopo Napoleone? Il
gigante de’ secoli è caduto davanti all’urto della opinione — e voi
vorreste reggervi in faccia ad essa? — voi, forti soltanto della nostra
discordia? — E seguite — struggete — mozzate alcune teste di martiri:
rinasceranno a migliaia — spegnete i forti d’una città — verranno
dall’altre — ardete le case: edificatevi un trono sulle rovine: regnate
sovra deserti. — Oh! non v’è Dio? — non v’è il rimorso? — non lo
sentite? — non lo vedete simboleggiato fin nei volti di satellite che
v’errano attorno? — e quando, la notte, fra i sospetti delle tenebre,
fra i terrori del silenzio, ricorrete al passato, o v’affacciate al
futuro, — oh! dite, dite — non intravvedete voi il rimorso? l’ultima
visione del passato, e la prima dell’avvenire non è forse la immagine
del tempo, che vi numera l’ore?

Là, dovete rivolgere le vostre forze. Là — ne’ vostri delitti, e nel
tempo che premia, e punisce, è la _Giovine Italia_, che voi temete!

Da quaranta anni voi combattete questi uomini liberi, che affettate di
disprezzare. — Da quaranta anni avete lanciato lo spionaggio, la
baionetta straniera, il carnefice contro questa che voi chiamate
fazione, setta, congrega di pochi iniqui, _feccia e rifiuto_ degli
uomini — avete troncate le fila presunte — avete immolati i piú ardenti
tra essi — e v’è forza ricominciare ad ogni ora — e v’è forza confessare
che perdete terreno: che i _ribelli_ aumentano ogni dí piú: che l’epoca
è _corrotta, e corrompitrice_. Dieci anni addietro, cinque anni addietro
l’Europa era vostra: ed ora avete perduto il Belgio, minacciato il
Portogallo, la Germania, l’Italia. — _E compiangete la nostra rovina?_ —
Oh! tenete il compianto per quella dinastia in oggi errante in cerca
d’asilo, sulla quale fondavate tutte le vostre speranze. — Abbiate
almeno la ferocia del leone ne’ suoi ultimi momenti, poiché la
generosità non potete. — Mostratevi a nudo, mostratevi con tutto il
furore che v’agita, con tutta la sete di strage, che vi governa. Ma non
versate calunnie, alle quali nessuno dà fede: non ritorcete in noi, in
noi caduti finora per dare al mondo lo spettacolo delle rivoluzioni come
noi le avevamo concetto, pure, innocenti, pacifiche, l’accusa di
delitto, e di _sangue_. Sangue! — Assassini di chi v’ha salva la vita,
il sangue d’Andreoli, di Borelli, e di Menotti v’affoga!

Noi trascorriamo — e sarà l’unica⁷⁹ volta — in un linguaggio che non è
il nostro; ma il sangue si precipita nelle vene all’udire coteste
accuse, al pensare in che mani è caduta la nostra Italia. Oh! l’anima
nostra era un sorriso per tutte le creature: — la vita s’affacciava alla
vergine fantasia come un sogno d’amore; e i moti piú concitati del
nostro cuore erano per la bella natura, per la donna, ideata ne’ primi
anni giovenili, pel genio de’ grandi trapassati. — Chi ci ha messa la
parola dell’ira sul labbro, se non essi, gli oppressori delle nostre
contrade, i tormentatori de’ nostri fratelli? — Chi ci ha rapita⁸⁰ la
metà della esistenza, chi, se non essi, ci ha stillato l’odio
nell’anima? — L’odio! ci è tale incarco, che vorremmo deporlo, anche
colla vita, se fosse nostra. Ma le teste de’ nostri fratelli ci stanno
innanzi sanguinose, e l’ultime voci loro ci affidavano un tale deposito,
che nessuno può rinnegare senza delitto.

  ⁷⁹ [_Scritti_, ecc.: _ultima_].

  ⁸⁰ [_Scritti_, ecc.: _rapito_].

Ed oggi che noi alziamo la voce, in nome di tutti, oggi che noi tentiamo
pagare parte almeno del nostro debito, gli scrittori della _Voce della
Verità_ ci accusano di operare in segreto, e millantano di combatterci
_a visiera levata_. — A visiera levata! Sí; colle baionette d’intorno, e
il carnefice a fianco. — A visiera levata! — e chi s’attentasse di
serbare in Italia alcuna, di queste pagine, sconterebbe l’errore con una
vita di dolore. — A visiera levata! — Oh! noi l’alzammo la visiera: noi
ci levammo davanti a voi nella potenza della virtú, e della fede: ci
levammo grandi di amore, e di⁸¹ confidenza delle moltitudini, che
c’intendevano — e i troni, le tirannidi, e voi sfumaste al nostro grido,
però ch’esso era il grido dei milioni conculcati, il grido di Dio che
v’avvertiva dell’iniquità vostra — e fuggiste vilmente — e mendicaste la
spada straniera a rifarvi il trono, che soli eravate impotenti a
reggere; ma noi abbiamo, poich’altro non potevamo, suggellata la nostra
fede sul palco: abbiamo sagrificati gli affetti che fanno cara la vita
al pensiero che Dio c’impose — ed oggi, proscritti, innalziamo la nostra
voce — e segniamo — e voi — voi vi ravvolgete nel velo dell’anonimo!

                                                              _Mazzini._

  ⁸¹ [_Scritti_, ecc.: _della_].



                    SOCIETÀ DEGLI AMICI DEL POPOLO.


Quando la rivoluzione di Luglio diede speranza agli uomini buoni, che il
tempo fosse giunto in cui ogni cittadino chiamato ad esercitare una
parte di sovranità, è in obbligo di contribuire co’ lumi, col braccio, e
col senno allo sviluppo progressivo d’un sistema di libertà, e alla
educazione nazionale, alcune riunioni si formarono a Parigi, ed altrove,
che a poco a poco acquistarono carattere di Società popolari. Erano
unioni d’uomini giovani, che s’erano da gran tempo affratellati nella
comunione degli studi, dell’amicizia, e delle operazioni. Avevano
cospirato insieme contro la tirannide di Carlo X, dal momento in cui
s’erano avveduti della impossibilità di transigere, e che a rovesciare
la forza non valea che la forza. Avevano combattuto insieme nelle tre
giornate, quando Parigi non avea che un grido, e la bandiera tricolore
risuscitava le glorie della rivoluzione. Ottenuta la vittoria, il primo
loro pensiero fu quello di custodirla, e vegliarne i frutti; e bagnati
ancora di sangue, bruni di polvere e di fumo si costituirono di mezzo
alle barricate, trono popolare, amici, ed educatori del popolo. Certo:
il loro mandato non era meno valido di quello che allegavano a
impadronirsi della rivoluzione gli uomini d’una camera eletta prima, che
la nazione avesse ritirato il mandato, e risolto di far da sé: formata
sotto la influenza del potere caduto, votata da Collegi elettorali
sedotti dalle trame ministeriali, o atterriti dalle baionette, giusta
leggi coniate della dinastia fuggitiva. Quello _degli amici del popolo_
era mandato segnato col sangue del popolo e il popolo un dí o l’altro se
ne sovverrà.

In diritto, la riunione d’un certo numero di cittadini ad oggetto di
discutere i mezzi migliori per provvedere al buono stato della nazione,
non è delitto. Sotto l’impero d’una costituzione, che accorda ad ogni
cittadino il diritto di _pubblicare_ le proprie opinioni, la
soppressione delle società pubbliche è, in tesi generale, una
illegalità. La stampa non è che una forma di pubblicazione: la parola
costituisce l’altro. Or chi direbbe la parola dover essere piú serva
della stampa? e donde trarre ragione di differenza in faccia alla legge
tra una società che parla, e una società che stampa?

Per noi, il principio d’un governo libero è uno, le applicazioni sono
moltiplici. Il diritto _individuale_ si stende, socialmente parlando,
fin dove incomincia il diritto altrui. I diritti politici de’ cittadini
si stendono fin dove incomincia una violazione de’ diritti politici
d’altri cittadini, una perturbazione nell’ordine pubblico. Se una forza
sottentra a interporsi fra questi due termini, prima che siano giunti a
un contatto di collisione, non v’è libertà. La possibilità che da
siffatte riunioni insorgano quando che sia inconvenienti, non basta a
discioglierle. Il principio di prevenzione, logicamente applicato, e
dedotto con tutte le sue conseguenze, trascinerebbe con sé il diritto di
sospendere ogni libertà pubblica, o individuale, senza motivo. Adottate
il principio nella sua estensione: voi precipitate nell’assurdo.
Ritenetelo in certi confini, e vietatelo in altri: eccovi ricaduto
nell’arbitrio; voi confidate un potere indeterminato al potere
esecutivo: voi lasciate ad esso la scelta de’ casi ne’ quali conviene
usarne; chi v’assicura della sapienza dell’uso? Il governo sopprimerà in
oggi una società, pericolosa davvero; chi vieterà che domani i suoi
satelliti non ne sciolgano una innocente, e virtuosa? — La giustizia, in
uno stato ordinato con leggi stabili, non previene, reprime. La riunione
pone in pericolo la cosa pubblica? o commette azioni dichiarate
colpevoli? — Punite le azioni: vegliate la condotta di que’ cittadini:
intervenite, pacificamente quando vi pare ch’essi stiano presso a
traviare: convinceteli cogli stessi mezzi di pubblicità. Fino a quel
punto, stanno per voi diritti, e doveri. Piú oltre d’un passo, sta la
tirannide. In fatto, la Società degli _Amici del Popolo_, non pose,
sembra, in pericolo la cosa pubblica, né commise azioni colpevoli in
faccia alla legge, dacché la legge non la colpí. Disciolta violentemente
dal governo, appoggiato sopra una disposizione legislativa pugnante
coll’insieme dei diritti sanciti dalla rivoluzione, e riprovata da’ suoi
organi stessi dinanzi alle Camere, la Società si giovò dell’altro mezzo
di pubblicità a esporre i suoi pensieri alla Francia: cotesti scritti
sono appunto quei che hanno dato moto al giudizio, dalla cui discussione
è tratto il discorso, che noi qui pubblichiamo; e questi furono
dichiarati innocenti; la condanna severa pronunciata contro alcuni degli
accusati, è desunta dalle difese parlate all’Udienza, non dagli scritti
citati in causa. Le opinioni, e gl’insegnamenti della Società non erano
dunque tali, che la legge, anziché proteggerne l’espressione, dovesse
punirla. La condotta del Governo, sciogliendo la Società, fu dunque
illegale.

Comunque, la Società fu disciolta. Gli _Amici del Popolo_ hanno credenza
repubblicana; e que’ molti, che confondono ancora la repubblica colla
scure del terrore, senza avvedersi che il _terrore_ non fu se non
conseguenza della guerra, mossa alla Francia da’ nemici della
repubblica, plaudirono al governo. Bensí la opinione traviata dalle
calunnie insinuate contr’essi, s’è corretta di molto dopo il processo,
finito pochi giorni addietro. I quindici repubblicani tradotti in
giudizio, stettero davanti a’ loro giudici, come accusatori, anziché
come colpevoli. Trelat, Raspail, Thouret, Blanqui, e gli altri esposero
candidamente il loro simbolo, le loro teoriche, i loro voti. E noi
abbiamo creduto far cosa utile alla nostra Italia, esponendo una di
queste arringhe, pronunciate colla coscienza, della verità, e colla fede
dell’avvenire. Siamo a guerra dichiarata, e giova, che tutti gli uomini
liberi simpatizzino gli uni cogli altri.



  DISCORSO PRONUNCIATO DA RASPAIL, PRESIDENTE DEGLI AMICI DEL POPOLO.


................ Sí: ogni qualvolta voi condannate un patriotto, il
popolo v’annovera fra i complici dell’usurpazione di que’ padroni che a
principio chiamavansi nostri eguali, di quegl’ipocriti, i quali si
vantavano repubblicani e democratici per giugnere piú agevolmente alla
_quasi legittimità_, e piú tardi corruppero con mani impure la croce di
Luglio ponendola sul petto a quattrocento indegni, l’uniforme della
Guardia nazionale, assoldando fra le sue file colle croci d’onore, colle
indennità, persin col salario quindici mila ligi per lo meno al potere.
Infatti, osservate come dal Luglio 1830, appena una dell’arti loro è
svelata essi ne sostituiscono un’altra. Se la Guardia nazionale rifiuta
aderire ad alcune pretese, essi cercano corrompere, ed ubbriacare i
soldati, perocché il francese nell’ebbrezza soltanto può rinnegare
l’onore. Ed allora sotto gli occhi del vostro re, il sangue francese
bagnò le lastre del Palazzo Reale. Io m’arresto a quell’unico fatto che
Carlo IX solo potrebbe invidiare: quest’unico fatto può far tacere per
un momento le rimembranze di Menotti, della Spagna, dell’Italia, e di
Varsovia, di questa sorella della Francia, che la Francia, o per meglio
dire, gl’ingrati che la governano, hanno tradita nelle mani dei
carnefici stranieri; e il ferro dei carnefici stranieri ci minaccia
tuttora da lungi ad onta di concessioni tanto crudeli. Eccovi, signori
giurati, i fatti de’ quali vi fate complici, allorquando voi condannate
gli scrittori che li manifestano. Oggimai v’è di mestieri aprire gli
occhi: il popolo vi accusa d’una colpevole solidarietà, — respingetela,
separatevi da questi uomini che fanno traffico de’ vostri giudizj,
separatevi dai diplomatici speculatori frodolenti, i quali han posto il
trono sopra una banca, la Francia nel fango... Via questi intrusi, e la
loro infamia. — Cittadini francesi, cessate d’essere i loro complici. —
Essi lo sanno che voi pure nel profondo dell’anima nodrite, siccome noi,
un senso di dispregio, e d’ira contro di loro. — Il sangue, che vi corre
nelle vene è sangue francese, e voi non potreste sentire diversamente.
Ma i Borboni son razza astuta, e da quindici anni si giovano per ogni
via della nostra credulità a soffocare le vostre simpatie. Per cenno
loro s’urlava nelle strade quel grido: i patrioti vogliono reazioni:
anelano alle vendette. I repubblicani cercan di rinnovare il 93!
Tremate, tremate, se non giugnete a schiacciarli.

I repubblicani non anelano il sangue del 93, donde trarlo oggimai? Essi
non richiedono che le sue istituzioni modificate secondo i bisogni
dell’epoca attuale. Né io m’avvilirò ad accertarvi che i repubblicani
abborrono la devastazione, ed il saccheggio. Qual banchiere, agente
politico, o speculatore fraudolento oserebbe pronunziare siffatta
bestemmia contro il popolo del 1830? Venga — io non risponderò che
volgendo le loro borse lorde del soldo ch’essi rapiscono a milioni al
povero popolo che poi opprimono di calunnie.

Vi hanno detto, che noi bramiamo la caduta dell’attuale governo, —
v’hanno detto il vero. Noi bramiamo la caduta d’un governo dato alla
nazione dai Dupin, dai Guizot, e da un centinajo di deputati egualmente
venali: d’un governo, che finora non fu riconosciuto che dalle
deputazioni d’impiegati o d’aspiranti a cariche, quando non si voglia
interpretare a segni d’adesione le insurrezioni di San Germano
d’Auxerre, ed altre, la vittoria dei Lionesi, e le mille sommosse, che
scoppiano successivamente in tutte le parti della Francia. Noi bramiamo
la rovina d’un governo di fatto che ha logorate in Francia tutto le
molle di gloria, e di libertà, che curva a piedi delle nazioni la patria
per ottenere una pace a prezzo d’infamia: che distrugge a proprio
profitto l’industria, ed il commercio: che a comprimere il popolo
richiama nelle file dell’esercito i regali già vinti dal popolo, ed
appunta i cannoni di Montmartre contro Parigi, cosí ubbidiente finora
alle sue inique pretese: infine un governo, che semina col tradimento
tanta sciagura da ridurre quasi il popolo illuso a piangere quella
dinastia, che mandataria dei re stranieri governò a loro nome per
quindici anni la Francia, dopo aver combattuto vent’anni contr’essa nel
campo dell’inimico.

Ma noi non cospiriamo: noi vogliamo illuminare le masse, sottoporre i
nostri consigli al popolo sovrano, porci in somma alla testa
dell’influenza per seguire il movimento. Non punite oggi un diritto
riconosciuto da voi medesimi colla vostra adesione alla rivoluzione dal
1830.

Ho rispinta la calunnia, è tempo ch’io parli alcune verità; v’esposi ciò
che non vogliamo, udite ora ciò che vogliamo. Se la vostra opinione sta
contro alla nostra, confutatela, ma non ci condannate, però che a nessun
uomo quaggiú fu dato il diritto di porre a tortura colle accuse, colle
prigioni, colle ammende un uomo onesto per diversità d’opinioni.

                                  ————

La _Società degli Amici del Popolo_ ebbe origine dalle barricate: tutti
i suoi primi membri aveano combattuto, ed i più appartenevano all’estesa
tela de’ carbonari per ben quindici anni sostenitori della lotta contro
la restaurazione a prezzo del loro riposo, delle loro sostanze. Autori
immortali d’una incontaminata rivoluzione ne invocarono tutte le
conseguenze, e stettero in armi, quando seppero, che pochi aggiratori
usciti da un giorno da’ nascondigli, ove la paura gli aveva cacciati,
s’annodavano intorno a un uomo venuto fuori da’ suoi tranquilli giardini
a manomettere insieme la pubblica libertà, e profittare d’una
rivoluzione fatta senza l’opera loro.

Ma il libero dire, ed il coraggio furono vinti dall’oro, e dalla
corruttela: i nostri sforzi si rimasero sterili: una camera senza
missione racconciò una costituzione, ed elesse all’improvviso un re. La
trama poteva sciogliersi col sangue. La Società preferí l’armi
dell’influenza, e della persuasione. Il potere, che in allora dava
principio alla sua carriera di delusioni, fece nascere una sommossa di
vili diretta da’ suoi assoldati, e la Società, avendo in orrore la
guerra cittadina, rinnegò per quel giorno la sua potenza, si raccolse in
un asilo inaccessibile al pubblico, d’onde piú tardi ragionava col
popolo per mezzo della stampa. Ora piú che mai, ve ne accerto, la
Società anela a quanto voleva in allora.

O ricchi, porgete orecchio alla nostra dottrina: io la ridurrò a somme
formole. Le leggi sinora furono coniate a vantaggio d’un potere
usurpato: il popolo non v’ebbe parte che a guisa di pecora da tosare. Le
meno inique tra quelle leggi trasudano ancora lo spirito aristocratico.

Le imposte accresciute ogni anno dalla monarchia pesano esclusivamente
sull’infelice proletario che vende i suoi generi in proporzione degli
oneri, che li gravano. Io non vedo il popolo, che lavora, rappresentato
né alla camera, ne ai tribunali. L’oro, l’oro solo regola ovunque la
capacità elettorale. L’ignoranza, patrimonio del povero dalla culla,
l’accompagna al campo di battaglia, dove spende la vita per una classe
meno prode, o per un uomo piú astuto. Povero popolo! tu dopo la
vittoria, tutta tua veramente, contempli ancora con ebbrezza la tua
libertà di cui altri fa traffico, e la tua gloria, di cui altri
s’adorna.

Eppure il popolo nacque al ben essere materiale; eppure la natura
beneficandoci della vita non dannava alcun uomo a perire nella miseria.
Il suolo della Francia coltivato con cura può bastare ai bisogni, ed
anco ai capricci di 60 milioni d’abitanti. In oggi tra noi non si
contano che 32 milioni, e i due terzi muoion di fame: dunque si sprecano
le risorse. Ecco il male: come rimediarvi? Questo è il problema: a noi
fa d’uopo d’un sistema politico in forza del quale non esista in
Francia, un solo «infelice che nol sia per colpa propria, o per vizio di
conformazione originale». O ricchi, aiutateci a sciogliere questo
problema: voi dovete avervi, credetelo, maggior interesse del povero,
che in silenzio divora gl’insulti profusi dal vostro egoismo.

Gesú Cristo credeva trovarne la soluzione nell’ebbrezza delle illusioni
della speranza; ma il nostro clima è meno poetico, e noi abbiamo
carattere piú positivo, bisogno piú forte di reale. — Però la morale di
Cristo produceva savî in Oriente, e fra noi ha generato quasi sempre
ipocriti. La monarchia stancò per quindici secoli a sciogliere cotesto
problema tutte le risorse della piú astuta diplomazia; — il suo sistema
rovinò per sempre nell’89. La repubblica espose il proprio: lottò sei
anni coll’Europa congiurata a suo danno pria di farne l’applicazione,
dacché il Direttorio non ne diede che un breve saggio alla Francia. — Un
Genio lo soffocò nel suo nascere, e compose un sistema misto
d’eguaglianza repubblicana, e di fasto monarchico: magica, ma perfida fu
la luce onde quel sistema fu splendido, e lo trascinò colla bella patria
sua sotto il giogo di piombo dei re vinti un tempo da lui.

Allora risorse la monarchia pura col corteggio del diritto divino, de’
titoli ereditari, della _quasi feudalità_, quasi a convincere vieppiú la
Francia della sua impotenza a fronte dei bisogni d’un gran popolo. La
Francia la struggeva col suo seguito: la Francia ha cancellato il
vecchio sistema, ma la pagina è bianca, — la Francia ha da scrivervi
ancora.

La questione s’agita tutta in oggi davanti all’Europa: da un lato, la
monarchia cinta de’ suoi vizi, e dei suoi seidi: — dall’altro sta il
popolo con una disperazione che cova grandi disegni, guardando al
selciato delle sue strade. O bella Francia! quanto dolore ingombra il
tuo volto. Oh! i tuoi nemici gelosi stanno a’ confini guardandoti con
gioia segreta! Qual tempesta è quella che pende sul capo tuo? Ah!
maladetto l’empio il quale a sbramare una sordida avarizia, e sostenere
un perfido sistema invoca la procella. Muoia il traditore, sopratutto se
porta nome di re. O popolo sovrano, affrettati, riprendi lo scettro ch’è
tuo, e noi detteremo le leggi. Tu solo puoi bandirle giuste, e rette,
perché tu solo puoi conoscere le tue risorse, e i tuoi bisogni.

E però noi teniamo l’intima convinzione, che il popolo quando il
despotismo organizzato non comprimerà il suo entusiasmo, e non illuderà
il suo patriottismo, stabilirà egli stesso i seguenti principj, e noi
avremo il dí dopo la soluzione del problema.

«Ogni cittadino francese ha il diritto eterno, incontrastabile di
concorrere alla elezione de’ suoi magistrati, de’ capi della guardia
nazionale, e de’ mandatari a’ quali è commessa la rappresentanza del
popolo nel Congresso, che redige le leggi, e vota le imposte.

«Ogni cittadino francese giunto all’età di venticinque anni è soldato,
dove un forte motivo non coonesti la sua esecuzione, dove il voto de’
suoi concittadini non lo chiami ad altri uffici. I pericoli dello Stato
modificano i quadri dell’esercito: alla sorte, e all’elezione è
riserbato il compirli.

«Tutti gli uffici civili, scientifici, e militari saranno affidati per
concorso, o per elezione. Il giurí dei concorsi è nominato da un giurí
primario, e questo è formato dai cittadini competenti. La lista dei
giurati definitivi è determinata dalla sorte all’apertura della
sessione. Da questo punto incomincia l’inamovibilità degli uffici;
tuttavia un giudizio richiesto dalle parti interessate può romperla.
L’eredità de’ titoli è follia: quella degli uffici usurpazione. I soli
rappresentanti del popolo hanno il diritto di nominare il potere
esecutivo: la sua missione spira dopo alcuni anni. Il membro, se il
potere esecutivo è in mano di molti, o il presidente se è in mano d’un
solo, finita la loro missione, ritorna privato, né può essere rieletto
che scorsi dieci anni.»

Non piú accumulamento di pensioni e di beneficii: le retribuzioni degli
uffici hanno ad essere modiche.

Perché dovrebbesi seppellir vivo sotto le rovine delle _Tuilleries_,
quel cittadino che richiedesse la povera Francia di 14 milioni per
mantenere la vita.

Ogni affare contenzioso, civile, militare, politico e scientifico, verrà
sottomesso ad un giurí competente, a una specie di giudizio d’arbitri,
ed il magistrato, perduto per sempre ogni potere inerente alla sua
dignità, non interviene che a dirigere la discussione, e provvedere
l’esecuzione della sentenza.

Non piú i giudici in causa propria avranno l’imprudenza di vendicare le
ingiurie personali.

La stampa è libera in tutta l’estensione della parola. La legge punisce
le sole ingiurie alla morale pubblica, e all’onore de’ cittadini
innocenti.

La libertà individuale è inviolabile. Non v’è sentenza che possa
rapirla, quand’essa non minacci di grave pericolo tutta la società.

La pena di morte, il marchio d’infamia, e la confisca sono abolite. La
prigione debb’essere una scuola di buoni costumi e non una tortura: il
prigioniero otterrà la remissione della pena col lavoro e la buona
condotta. Insomma la giustizia non si vendica piú, né infama; protegge e
migliora.

Non piú cariche venali nella magistratura. Camere di magistrati a spese
dello Stato faranno le veci dei tabellioni, e procuratori pagati dalle
parti; quindi il retaggio della vedova, e dell’orfanello non sarà piú
divorato dall’ingordigia, dalle formule forensi, e da’ riti di
processura. Un giurí composto d’operai, e di capi-lavoro e presieduto
dai magistrati stabilirà la tariffa de’ prezzi al minimo dei lavori,
onde l’opera dell’esecutore, e l’intelletto dell’inventore abbiano la
dovuta parte nel guadagno che risulta dalle vendite.

Nessuno deve chiedere invano lavoro per guadagnarsi la vita: lo Stato
provvede all’operaio senza lavoro, qualunque siasi il suo mestiere.
Gravar d’imposte gli oggetti necessari è furto, gravare il superfluo è
restituzione. Quindi l’abolizione delle imposte dirette, e personali,
perché alla fin dei conti, esse pesano soltanto sul povero. Il sistema
delle imposte progressive, stabilito bensí sovra basi tanto saggie, che
l’applicazione non serbi alcun carattere di legge agraria. Ogni
monopolio è vietato; all’agricoltura, all’industria e al commercio
s’aspettano gl’incoraggiamenti speciali del Governo, e punizioni severe
frenano i venditori di mala fede.

L’insegnamento è libero; lo Stato veglia attivamente alla moralità degli
educatori. Ma un giurí composto di padri di famiglia ha solo il diritto
di scegliere le persone destinate ad adempiere questo ufficio. Ogni dolo
di speculazione concita la severità delle leggi. Amministrazioni dello
Stato, polizia, finanze, aggiudicazioni, imprese, tutto si compie
apertamente, senza mistero, e davanti agli occhi del popolo.

Queste sono le principali basi della dottrina, la cui applicazione ci
sembra dover somministrare la soluzione del problema, concedendo alla
Francia un governo a buon mercato senza corruttele, e senza seidi, un
governo favorevole allo sviluppo delle facoltà morali, e fisiche
dell’uomo.

Allora finirebbe ogni pericolo di rivoluzione, perché non vi sarebbero
usurpazioni: ogni miseria, perché non vi sarebbero monopoli: ogni
possibilità di lesioni perché non esisterebbero privilegi.

Certo: adottando cotesto sistema avreste Repubblica. Ah! direte, la
Repubblica è impossibile in Francia! il primo saggio non riuscí felice.
Che? non fu che un saggio, e retrocedete? Oh! noi siamo oggimai al
settantesimo saggio della monarchia — e _l’ultimo è il pessimo!_ Come
non disperare? come non rovesciare un sistema contro al quale grida lo
sdegno, la delusione di quindici secoli?

Noi abbiamo cercato propagare queste dottrine pubblicando gli scritti
popolari, che in oggi sommettono alla vostra inquisizione. Noi abbiamo
voluto parlare al popolo: hanno voluto impedire al popolo che ci
ascoltasse. Hanno trattato noi, come seduttori, il popolo come un
fanciullo: il popolo raccoglieva avidamente i nostri stampati: la
polizia s’impadroniva de’ poveri venditori, che traevano da quegli
opuscoli la sussistenza delle loro famiglie; il dí dopo questa deforme
polizia facea vendere essa pure, e impunemente nelle strade dei libelli
sozzi di scurrili calunnie contro i patriotti pacifici, ch’essa
tormentava. O pudore pubblico! la polizia s’arroga sola il diritto
d’insegnare al popolo, d’educargli lo spirito, e il cuore!

La prova sta, dic’essa, nel diritto ch’io ho d’immergervi nelle carceri,
— e l’ha fatto. Ma sei mesi di prigione non bastano alla sua collera:
essa esige altri sei mesi dal vostro giudizio. La nostra pazienza
stancherà questo potere di fatto; ma né le sue carceri, né le ammende
stancheranno noi: noi sfideremo quest’armi come abbiamo sfidato i suoi
assassini assoldati e i suoi libelli.

Abbiamo a compiere una grande missione: noi la compiremo, se è
necessario, per altri quindici anni sul banco delle Corti di giustizia.
La compiremo sull’orme di quelle giovani vittime della libertà, il
sangue delle quali grida vendetta qua dentro. La compiremo sotto la
scure della tirannide, perocché la nostra è piú che missione: è un culto
sacro, è un fuoco che abbrucia, è l’amore dell’umanità. Ora il potere
prosiegua: confuti le nostre teoriche colla prigione, colle catene,
colle ammende, mentre sotto l’egida dell’impunità, il forense aumenta i
suoi illeciti guadagni, il capo d’ufficio divide coll’impresario, il
commissionario cogli uomini del potere, finalmente, il segretario di
Stato dà marito alle sue Frini vendendo gl’impieghi. Un potere ladro, ed
imbecille per un solo grido venuto dal fondo della coscienza riversi
pure sul capo del giusto, che lo proferisce tutta la collera che
dovrebbe rovesciarsi pure sul carlista che si cela ne’ ranghi della
guardia nazionale; e sul sergente di città, che col favor delle tenebre
ha intinto il suo ferro nel sangue de’ nostri concittadini. Prosiegua:
il piú lieve pretesto basti a tenerci sei mesi sotto un’accusa, mentre
una donna contro la quale stanno terribili probabilità, e gravi
sospetti, gode di tutta la sua libertà, direi quasi, esulta del suo
trionfo, pendente ancora il giudizio di sangue. I nostri fratelli siano
lasciati al gemito della fame, e del freddo nelle carceri, mentre questa
baronessa sfoggia la sua veste rossa nei balli della corte, che non
serba neppur tanto pudore per rifiutare i frutti per lo meno equivoci
d’un’adultera compiacenza. Tutto questo è naturale, perocché tutto
questo è monarchico.

Ma noi che non assistiamo ai balli di corte, noi che non offriamo al
guardo d’un re poc’anzi repubblicano i nostri abiti rozzi ma immacolati,
noi che non curviamo il ginocchio davanti ai cosacchi, né abbiamo
tradita la causa dei popoli, noi che abbiamo le mani pure d’ogni benché
menoma frazione dei 25 milioni prodigati in quest’anno dai traditori ai
venali: ah! noi siamo colpevoli. — Condannateci, condannateci se siete
servili al potere. Condannateci, ma non isperate cangiarci. Bensí
cercate un popolo diverso da quello del 1830, per chiedere la ricompensa
dovuta a tali atti. Perocché il popolo, che punisce collo spregio,
rimunera colla stima, — e non è alla pubblica estimazione che aspirano
gli autori di siffatte condanne⁸².

  ⁸² Il cittadino Raspail fu condannato alla prigione ed all’ammenda
     unitamente a’ suoi fratelli di opinione e di accusa. Bensí assolti
     come _amici del popolo_, furono condannati per le arringhe
     proferite nella difesa. La contraddizione de’ giudici, che
     dichiararono innocente la credenza degli accusati, e colpevole lo
     sviluppo di questa credenza, rimarrà ne’ fasti della magistratura
     francese del 1832, in un col giudizio, che intervenne nella causa
     Dumenteuil, giudizio in cui le pretese della intolleranza cattolica
     furono rinnovate a fronte delle leggi civili, de’ dogmi politici
     dello Stato e dell’incivilimento del secolo XIX!



                                 1831.


    Crescit in adversis virtus.


Ed era pur l’anno che al suo cominciar prometteva la per secoli invocata
rigenerazione de’ popoli! Ed era pur l’anno in cui l’ora al dispotismo
fatale dovea scoccare! Perché trascorse fecondo in avvenimenti, ma non
rispose ai voti ardenti della razza umana? Come andò egli a confondersi
nel prodigioso numero di quelli che l’uomo ci mostrano nell’obbrobriosa
schiavitú ancora sepolto? Corse egli intero sottraendosi alla legge
possente del progresso? Fu irreparabilmente esso perduto per la santa
causa della Libertà?

Riposi qualche istante il desiderio inquieto di leggere nell’incerto
avvenire e volgiamoci ad esaminare impassibili se il 1831 respinse o
sospese il movimento progressivo politico, o se benché lentamente, lo
secondava.

Riscossa la Francia dal sovrastante pericolo di perdere ogni sua libertà
avea fin dalla metà del precedente anno con uno slancio inaspettato, e
tutto nuovo acquistato il diritto di mettersi alla testa delle nazioni
d’Europa mature all’emancipazione, e guidarle ad ottenerla: la subita ed
inattesa rivoluzione avea atterriti i despoti che vili per costume
nell’avversità riconobbero Filippo da pochi illusi, o deboli eletto a re
dei Francesi, e si piegarono per sottrarsi alla rovina che li minacciava
a sancirne il principio di _non intervento_ proclamato a favorire gli
sforzi delle nazioni, che sorgessero ad imitarli. La grande scossa era
data, l’assolutismo vacillava, e sarebbe caduto se incauti i Liberali di
Francia che avean fatta la rivoluzione non chiamavano al reggimento
delle cose loro quegli uomini i quali non si erano a dir vero mostrati
nel pericolo, ma che per le loro professioni di fede, e per
l’opposizione costante nella quale si eran mantenuti col governo di
Carlo X, la pubblica confidenza avean sopr’essi raccolta: la tradirono
questi come tradiron la loro coscienza, come cogli interessi della loro
patria gli interessi sagrificarono degli altri popoli, i quali non
dissimulando la loro simpatia per la nazione che superiore all’altre in
civilizzazione rinunziava generosa all’antico desiderio di dominazione,
si mostravan disposti ad esserle compagni all’impresa magnanima di
condurre a Libertà l’Europa intera. Primi infatti si mossero alcuni
stati di Germania: chiedevano i Sassoni al loro re una costituzione piú
larga; al loro duca la chiedevano i Brunsvikesi: oppresso dal dominio
tirannico della casa d’Orange, e depauperato dall’Olanda insorgeva il
Belgio a volere l’indipendenza ed un governo a sua voglia. Piú forte e
piú decisa dichiarava la Polonia sfidando le barbare orde del nordico
tiranno voler essere ormai terra libera o cambiarsi in vasto sepolcro.
S’impegna quindi la lotta ineguale, ed infiammati di patrio amore,
sostenuti dalla speranza di giugnere alfine la Libertà e l’indipendenza
bramata, oppongono i valorosi Polacchi non contando i nemici lunga e
ostinata difesa. Sventurati! i prodigj di valore inauditi, i sagrifizj
senza esempio a salvarli non valsero: furono rovesciati dal torrente de’
Vandali ch’essi con una mano armata tentavan respingere mentre chiedevan
coll’altra il promesso soccorso alla Francia, la quale, dimentica delle
perdite e del sangue che all’antica alleata costava la sua fedeltà, di
cantici e lodi sol la sovvenne.

Creduto opportuno l’istante si sollevò quindi una, parte d’Italia a
procacciarsi Indipendenza e Libertà, tanto piú da lunghi anni desiderate
quanto piú grave era il giogo sotto cui gemeva, quanto piú triste ne era
la condizione. Modena diede prima l’esempio; era il colpo fallito per la
vigilanza del sospettoso tiranno se Bologna commossa non ne secondava la
rivoluzione facendo la propria: la Romagna e le Marche non indugiarono e
si sottrassero al governo sacerdotale. I Parmigiani venian appresso e
respingevan da loro una principessa che nulla avea di comune col
grand’uomo cui era stata compagna se non un fasto che impoveriva i
sudditi, che alla di lei condizione mal conveniva.

Vedevano intanto i Toscani con interesse procedere a quel modo le cose
in Italia disposti a seguirne in appresso la sorte, ma non anco maturi
alla grand’opra attendean circostanza opportuna a sollevarsi contro un
governo che di liberale non avea che l’apparenze, che simulando
tolleranza, era come gli altri della Penisola tutto arbitrario e
dispotico.

Guardati da vigilanti e numerose truppe straniere Lombardi e Veneti si
volgean con fiducia al Piemonte lusingati che spingerebbe le temute
legioni a secondare gli sforzi d’Italia: ma i Piemontesi non ancora
volean dichiararsi, fidando nel principe che tra non molto dovea
succedere al re Carlo Felice, di cui la cagionevol salute, e l’avanzata
età facean presagire prossima la fine. Ahi quanto male giudicavan
l’inetto! Chi tradiva, una volta la santissima causa non poteva sentire
né amore di libertà né ambizione, di aggiungere al suo nome quello di
liberatore d’Italia: codardo nel cuore, e colla febbre di regnare si
collegò coi nemici della sua patria, ma coi rimorsi nell’anima, ma col
tormentoso presentimento che colla maledizione degli amici sagrificati
un giorno da lui, la pena nol giunga che al traditore è dovuta.
Titubando nell’incertezza aspettavan dal tempo consiglio i Napoletani
preparati a far causa comune coi loro fratelli se ne venia loro il
destro, e se propizie le circostanze si mostrassero; a decidersi
prontamente li tratteneva però la speme riposta nel giovine re da poco
tempo salito sul trono che l’avo e il padre spergiuri avean veduto
vacillare, e che crollerà sotto lui, poiché la lezione non lo fece piú
saggio.

Se con fermezza si mantenea la Francia nell’onorifico posto che avea
scelto, il tempo felice era giunto, ed essa dettava la pagina piú bella
nella sua Istoria: nol volle; rinegò o tradusse a suo modo gli emessi
principj: quindi gli inciampi che il concepito movimento rallentarono:
non s’arrestava però, e ne uscivano generali vantaggi. Strapparono ai
loro principi concessioni non lievi alcuni stati germanici: se non
ottenne la Belgica un governo repubblicano, o l’aggregazione alla
Francia l’una dopo l’altro richiesti, fu dell’indipendenza assicurata.
Fu la misera Polonia schiacciata, ma tutti i popoli d’Europa fecero eco
al gemito che cacciava spirando; ma benché dall’Austria infida forzati a
rimanere in uno stato di _quasi barbarie_ mandavano gli Ungheri da ogni
circolo, da ogni casolare indirizza a Vienna, perché fosse un termine
alla strage pei Polacchi superstiti nei quali raddoppiava l’odio pei
loro carnefici. Non ritrasse la Francia tutti i beneficj dalla sua
rivoluzione, ma escludendo nei Pari l’eredità diede il colpo mortale
all’aristocrazia del sangue. Ma stanca, nell’impero, di una gloria
inutile al vincitore, al vinto molesta; tormentata nella ristorazione
dal bisogno di togliersi all’abbiezione in cui l’avean precipitata i
Borboni che a mantenersi in trono avean venduta la patria: disingannata
degli uomini che abbastanza manifestarono che la loro missione era di
parole soltanto: vergognosa di esser guidata dal timido coniglio non dal
gallo generoso corre veloce a cercare la sola felicità de’ popoli nelle
istituzioni veramente libere, nella Eguaglianza repubblicana. La
scintilla elettrica della libertà passa in ogni cuore, investe ogni
classe: e qual potenza potrà frenarne gran tempo lo scoppio?

Sull’oligarchía avean vittoria i liberali inglesi colla proposta del
Bill di riforma, la quale, benché non per anco ammessa dal Parlamento, è
aspettata e quotidianamente dal popolo richiesta.

Se d’armi non forniti, se dalla brevità del tempo sorpresi fidando
anch’essi nella Francia non opponean gl’Italiani al Tedesco che una
debole resistenza, si conobbero, si inteser tra loro, si chiamaron
finalmente fratelli: alla non ben apprezzata patria gli affezionò
l’emigrazione dacché viddero quanto amaro sia il tozzo ch’altri con
disprezzo ti getta nella terra che t’accoglie profugo. Eccitò in essi
l’emulazione il pugno di bravi che racchiusi nella casa del Menotti
infelice si votarono alla patria, e animosi sostennero il ripetuto
assalto del moderno Ezzelino. Ma li persuase che per tutta l’Italia è un
desiderio solo, un bisogno, anche la pietà delle venete madri che ai
teneri figli mostrando come liberatori della patria que’ prodi che
l’Austria contro ogni diritto in un mare non suo avea predati, nei
giovanili petti sensi italiani infondevano.

Amare perdite al certo furono ai liberali e l’italiano Menotti col
compagno Borelli dal supplizio dell’assassino e del parricida rapiti per
sentenza del mostro che avea piú volte promesso salvarli! e
l’instancabil Torijos che dall’insidie dei satelliti del tiranno
spagnuolo sul patrio suolo attirato soffriva cogli intrepidi suoi
seguaci il martirio della libertà: e il siciliano de Marchi che fu cogli
undici amici sagrificato perché tentò sottrarre la patria dall’abborrito
servaggio. Ma ogni stilla del loro sangue innocente è seme d’infamia ai
despoti e a note incancellabili ha scritto pei popoli — leggi e libertà.
Per tutta Europa ora celato ora palese serpeggia l’incendio; se tenta il
despotismo estinguerlo dove si mostra, piú grande si sprigiona e in
altra parte si fa strada; una segreta forza, una specie di moral
magnetismo i popoli attrae alla benefica libertà. La spinta è
comunicata; non è a sperare riposo finché non sia ogni privilegio
distrutto; tenti ostinato l’assolutismo a sua posta di arrestare il
progresso, non farà che affrettarlo; vegga egli nelle ripetute sommosse
di Parigi e delle provincie di Francia l’opera di bonapartisti, o de’
settatori d’Enrico, o che piú gli giova: ma chi non prevenuto le osserva
attentamente e le segue è a ragione convinto che son assalti vigorosi
all’unica aristocrazia che ora in Francia rimanga; l’influenza delle
ricchezze. Tutte sono proteste de’ popoli contro la tirannide, tutte
imperiose domande a riavere i loro diritti: condotti dalla luce che il
secolo andato spandea, convinti che la forza per essi solo è costituita,
procedono risoluti sul terreno che l’assolutismo cede ogni giorno.

Non è l’ora lontana in cui dopo essersi in altrettante nazioni libere
divisa, sarà l’umana razza condotta dalla legge d’amore, ad unirsi in
una sola famiglia. Abbiano intanto anch’essi una volta gl’Italiani una
patria. Sia tutta unita l’Italia, e allo straniero non serva. Non
dubbio, ma certo ma universale è già fatto quel voto: se uniti, siamo
all’opra bastanti, non inutil ricordo ci lasciava il Menotti morendo, di
non calcolare sugli ajuti stranieri, di non aver fede che in noi. Non
piú indugi, non piú transazioni; dove voglia una rivoluzione aver base,
là deve esser guerra e mortale. L’ultime prove ci hanno ammaestrati
solennemente: badiamo a non confondere la moderazione coll’inerzia: il
nemico è dovunque si nuoce alla patria, dovunque si tradisce il voto del
secolo. Chi è reo d’infamia a di codardia abbia col nemico comunione di
sorte: giaccia inonorato senz’onore di tomba: il sepolcro patrio sia per
coloro che piansero sulla Italia, sorsero a darle vita e morirono.
Racconti la pietra ai nepoti il premio che la tirannide concedeva a chi
non respirava che nelle patrie virtú. La esperienza c’insegni, — che
l’affetto di libertà non riesce a buon porto se non assume i caratteri
di religione: c’insegni che dalle fondamenta alla cima tutto nuovo deve
essere l’edifizio che innalzeremo: c’insegni a spegnere ogni spirito
municipale, e che nella concordia sola è riposta la forza: nel fermo
volere e nella fiducia del sacrificio il successo: nel salire
all’altezza de’ moderni principii il tipo italiano del secolo XIX. —
Questo c’insegni l’anno trascorso; e chi potrà dirlo perduto?

                                                                  _Mon._



                         RIVOLUZIONE DI PARIGI


                             (LUGLIO 1830).

I Parigini, sempre inquieti pel sistema retrogrado che il re Carlo X
voleva far prevalere in Francia, attendevano che una qualche favorevole
circostanza presentasse loro il mezzo di smettere il giogo dal quale
erano oppressi. Gli editti reali del 25 luglio infransero le barriere ed
il fantasma del diritto divino fu dissipato dal coraggio del popolo di
Parigi. La monarchia, imposta dal dispotismo d’un milione di baionette,
fu rovesciata da 50,000 coraggiosi che seppero anteporre l’acquisto
della libertà allo spargimento del loro sangue. Il popolo parigino,
nelle tre memorabili giornate di luglio, vendicò i suoi diritti,
maltrattati dalla forza, e dal dispotismo degli alleati. Questo popolo
portò al supremo comando l’uomo puro, l’uomo integerrimo, l’uomo della
libertà, Lafayette: il trionfo del popolo, la sera del 29 luglio
sembrava assicurato.

Una frazione d’uomini, corrotti e perversa, immaginò d’impadronirsi di
questa rivoluzione e di farla valere a suo profitto. D’una rivoluzione
nazionale si fece una rivoluzione di palazzo. Con questa mira si
allontanarono gli amici della causa popolare, e si avvicinarono al trono
gl’intriganti e gli ambiziosi. Furono congedati Lafayette, Dupont de
l’Eure, Odillon, Barrot, ecc., e conservati Talleyrand, Sebastiani,
Perrier, Montalivet, ecc. La rivoluzione di palazzo fece aprire le
trattative coi re dell’Europa, riconoscere gl’ignominosi trattati del
1814 e del 1815, ricusare le offerte dei Belgi, abbandonare, disperdere
i patriotti di Spagna e dell’Italia, e commettere l’azione la piú
impolitica e la piú infame, nel lasciar perire l’eroica Polonia. La
rivoluzione di palazzo rimase tutta a profitto di quei vili che ambivano
gli onori, gli impieghi, e le ricchezze. Costoro non si occuparono che
di quello soltanto che poteva e doveva consolidare il loro ben essere
particolare. Nel mentre che la corte, i ministri, e la Camera dei pari
favorivano i propri interessi, la Camera dei deputati non intendeva il
proprio dovere. Questa Camera avrebbe dovuto vigorosamente opporsi al
sistema che voleva adottare il suo governo. Essa non poteva ignorare la
pubblica opinione. La stampa periodica non ha mai taciuto; questa
interprete del voto nazionale, a rischio de’ suoi materiali interessi, e
del suo ben essere, ha svelato i misteri, ed ha combattuto
incessantemente i nemici del popolo. Anche i pochi buoni
dell’opposizione hanno con coraggio sostenuto gl’interessi della causa
popolare, hanno però dovuto essi pure soggiacere alla maggioranza.
Gl’interessi della nazione furono sagrificati.

La libertà, per tutto circondata dal potente e baldanzoso dispotismo,
come potrà trionfare? Ai Pirenei, alle Alpi, al Reno stanno in agguato i
piú acerrimi nemici della Francia e della libertà. Come potrà prosperare
l’industria francese, avendo gl’Inglesi alla direzione delle manifatture
del Belgio? In caso di guerra, che disposizioni potrà dare un generale
francese, avendo un re inglese ad Ostenda, a Mons, ed a Lussemburgo?
Quando piú mai la Francia vedrà tre milioni di Polacchi, resi dal loro
coraggio indipendenti, combattere in favore della stessa causa, e
degl’interessi di lei!

La gioventú francese, colla coscienza del suo vero bene, voleva correre
a Brusselles per aiutare quel popolo che spargeva il suo sangue, per
unirsi alla Francia. L’eroica difesa dei Polacchi trovava simpatia ed
ammirazione in ogni cuore. Allorché si è voluto rallegrare la guardia
nazionale di Parigi, e distrarla dai sinistri riflessi che potevano
esserle richiamati dall’anniversario delle tre giornate, si è immaginato
di far spargere la notizia di una vittoria riportata dai Polacchi. Il
machiavellismo del ministro francese credette utile di traviare il
pensiero dei Parigini, facendo trovar loro sulla Vistola quella
consolazione che non potevano avere sulla Senna.

Gloria eterna al coraggio ed all’intrepidezza del popolo di Parigi, ed
esecrazione a coloro che fecero piegare il trionfo del popolo a
vantaggio d’una rivoluzione di palazzo. Esecrazione a coloro che
soffrono vilmente, che la causa della libertà perda il frutto di
circostanze cotanto favorevoli.

Non tarderà no il giorno nel quale la Francia dovrà pentirsi di essere
stata spettatrice indifferente del sacrifizio della sua libertà, e di
avere lasciato nelle mani di pochi intriganti il destino della patria.
Sí; la Francia si pentirà di aver permesso che l’egoismo del traffico e
dell’ambizione abbiano prevalso al ben essere, alla gloria, ed all’onore
dell’intera nazione.

                                                  _Articolo comunicato._



                             AGLI ITALIANI.


Quando intraprendemmo di pubblicare una serie progressiva di scritti
tendenti alla rigenerazione italiana, noi intraprendemmo, convien dirlo
francamente, una cosa superiore alle nostre forze. Noi soli non possiamo
vincere tutte le difficoltà che s’attraversano — non isvolgere
convenevolmente, e in tutte le sue applicazioni letterarie, filosofiche,
politiche il concetto vasto, e fecondo, che ci affatica la mente — ma
noi fidammo nell’aiuto de’ nostri fratelli italiani.

Noi calcolammo gli ostacoli, pesammo i doveri, intravedemmo i pericoli —
tutto sfumò davanti all’utile dell’intrapresa. Oggimai, la stampa è
l’arbitra delle nazioni. Le nazioni hanno sete di verità. L’Italia non
ha una voce che si levi a bandirla; e chi mai può scrivere, o lagnarsi
in una terra, dove fin la indipendenza letteraria procede esosa a’
governi, dove il gemito è argomento di pena, e la ruga de’ profondi
pensieri stampata sulla fronte al giovane è spia di tendenze pericolose
agli inquisitori politici? L’Italia non ha una voce, che si levi a
snudarne le piaghe, a romperne il sonno, a predicare i rimedi. Ogni
giorno segna una vittima della tirannide — e non v’è alcuno che ne
raccolga l’ultima maledizione. Ogni giorno genera un voto, una idea di
progresso nei giovani cuori — e non v’è alcuno, ch’esprima altamente i
voti e le idee, che solcano l’anime, che balenano nelle menti, poi si
perdono inavvertite, perché nessuna penna dà loro forma, e perpetuità. —
E il furore delle poche anime generosamente feroci si consuma solitario
nella disperazione, e i molti vivono d’una vita materiale, non
s’attentando pure di rompere un silenzio, che si traduce poi lentamente
in obblio.

Ma gli esempli di tutte le età, e di tutte le nazioni ci avvertono, che
dove non si propaga colla stampa il lume de’ principii alle moltitudini,
dove non si trasfonde colla parola la fede, difficilmente si prorompe in
un moto energico ed efficace. E le cure che i governi pongono a
reprimere ogni libertà di scrittori, e le precauzioni minute usate
contro la introduzione d’ogni libro che parli parole libere, c’insegnano
quanto essi tremino dell’effetto di siffatte dottrine, perché
_l’inchiostro del savio vale quanto la spada del forte_, e Maometto, che
proferiva queste parole, s’inoltrava tra le genti colla spada in una
mano, e il Corano nell’altra. — E noi potremmo citare le circolari date
dal re Carlo Alberto a’ doganieri del suo Stato, poi che il manifesto
del nostro giornale ebbe veduta la luce, perché vegliassero a impedirne
la introduzione e le inquisizioni praticate fin d’ora su’ viaggiatori a
vedere se mai ne fossero portatori.

Però, noi ci determinammo all’impresa.

Ma siffatte imprese non giungono all’intento, se non durano ostinate, e
progressivamente migliori. La stampa non giova, se la diffusione non è
vasta, continua, ed universale. — Di mille esemplari d’uno scritto,
cinque cento vanno perduti per la vigilanza di chi sta contro, o per le
paure degli uomini a’ quali giungono. — Gli altri circolano generalmente
tra chi ne ha meno bisogno, né trapassano, se non di rado alla gioventú,
che le cure della esistenza allontanano dagli studi e dagli agi. — Poi,
uno scritto che riescirà ottimo per una classe, è parola muta per
l’altre, ineducate e senza esercizio di lettura. — E però noi abbiamo in
animo, se avremo aiuti, di pubblicare unitamente a questo un giornale
popolare, pianamente scritto, e pensato, destinato a’ parrochi di
contado, agli artieri, alle classi insomma operose. — Ma perché l’opera
riesca, efficace, conviene estenderla quanto si può — è d’uopo, che il
numero degli esemplari s’aumenti gradatamente — è d’uopo, che in ogni
angolo de’ loro stati, nelle officine, ne’ teatri, nelle università,
dappertutto la _parola libera_ s’affacci agli oppressori, come il _Mane,
Thecel, Phare_ di Balthazar.

E perciò — noi ci rivolgiamo a’ nostri fratelli d’esilio — a quanti
giovani hanno sortita un’indole forte, e un ingegno svegliato dalla
natura — a quanti son posti dalla fortuna in condizioni che concedono
mezzi di soccorso pecuniario e morale all’impresa — Italiani, nostri
concittadini! noi v’invochiamo tutti. Questo giornale non si sosterrà se
non per voi. Se a voi sembra giovevole la diffusione de’ buoni principii
— se vi pare che noi non siamo indegni di assumerci questo ministero,
sta in voi di promuoverlo. — Spiate la tirannide che v’opprime, ne’ suoi
minimi atti: raccogliete i documenti delle infinite ingiustizie, che
passano inosservate: raccogliete il grido della miseria: notate le
vessazioni, le venalità, le brighe, le persecuzioni: e fate che giungano
fino a noi — additateci il linguaggio che trova la via dei cuori:
rivelateci i pregiudizi, che meritano d’essere combattuti a preferenza,
gli errori piú radicati, le riforme le piú urgenti, perché si prepari il
terreno da noi. — Poi, soccorrete all’opera italiana coi mezzi necessari
alla propagazione: versate l’obolo per la causa santa. — Abbiate fede in
noi. — Noi la richiediamo, perché sappiamo di meritarla: perché possiamo
levar la fronte a Dio, e agli uomini, e non arrossire: perché la mente
può mancarci all’uopo, ma il core è puro, le intenzioni sante, e il
proposito deliberato.

Ora noi abbiamo fatto il nostro dovere: del resto avvenga che può. Noi
innalziamo una bandiera. Spettai a voi, o Italiani, circondarla
d’affetti e di sacrifici: a voi reggerla sublime all’aure. — Noi la
sosterremo questa bandiera, finché le braccia nostre varranno. Se
avranno a ricadere stanche sul petto — ed altre braccia non
sottentreranno alle nostre — noi ci racchiuderemo nel silenzio,
aspettando l’ora, che deve chiamarci tutti alle vie dell’azione.

                                                              _Mazzini._



                                  ————



                         Nota del Trascrittore


Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, così come le
grafie alternative (principi/principî e simili), correggendo senza
annotazione minimi errori tipografici. Sono stati corretti i seguenti
refusi (tra parentesi il testo originale):

    xvi — par le capitaine [capitain] De Martino
    13 — voluto dal [del] secolo
    23 — perché l’anima dello [della] schiavo
    23 — e la vicenda [vicendo] europea
    53 — mandarono pertanto a lord Whitworth [loro Wothworth]
    56 — poteva da un punto all’altro riuscire [riusciere]
    87 — e de’ delitti consumati [consusumati]
    102 — La riunione pone in pericolo [periricolo]





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