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Title: Fame usurpate Author: Imbriani, Vittorio Language: Italian As this book started as an ASCII text book there are no pictures available. *** Start of this LibraryBlog Digital Book "Fame usurpate" *** Internet Archive. FAME USURPATE QUATTRO STUDII DI VITTORIO IMBRIANI CON VARIE GIUNTE SECONDA EDIZIONE NAPOLI CAV. ANTONIO MORANO, EDITORE 371, Via Roma, 372. — M.DCCC.LXXXVIII. ———— Proprietà Letteraria ———— INDICE QUALCHE SPIEGAZIONE AVVERTENZA IL NOSTRO QUINTO GRAN POETA A TOMMASO GAR I. II III. IV. V. VI. VII. VIII. IX. X. XI. XII. POSCRITTA UN CAPOLAVORO SBAGLIATO I. — _Impressione e Giudizio._ II. — _Imparzialità Italiana._ III. — _Digressione._ IV. — _Importanza storica e concetto filosofico._ V. — _Tre esempli._ VI. — _Ulteriori conseguenze._ VII. — _Fausto è l’uomo._ VIII. — _Triplice contenuto._ IX. — _L’epopea del Fausto._ X. — _Seconda Digressione._ XI. — _Una ballata di Vittorio Hugo ed il_ prologo in cielo. XII. — _L’antica Leggenda di Fausto._ XIII. — _Modo in cui il Goethe poetava._ XIV. — _Genesi del Fausto e la Dedica._ XV. — _La novella del_ Fausto _ed una romanza di Federico Schiller_. XVI. — _Incertezze._ XVII. — _Disocchiatezza e la scena della maliarda._ XVIII. — _Intervento diabolico._ XIX. — _I caratteri de’ protagonisti._ XX. — _Conclusione._ UN PRETESO POETA POSCRITTA TRADUTTORE, TRADITORE POSCRITTA DANIELE MANIN II. III. È GALANTUOMO IL CAIROLI? APPENDICE ———— QUALCHE SPIEGAZIONE Affidatomi il grato compito di curar la ristampa di questo volume, ho cercato di riprodurre fedelmente la edizione eseguita sotto gli occhi dell’autore pei tipi di A. Trani, — Napoli, 1877; ed ormai resa irreperibile. Solo, mi son permesso mutare, dove si vedeva chiaro, trattarsi di mende tipografiche. Nel resto, ho spinto la fedeltà, fino allo scrupolo, specie per la punteggiatura, la quale, — quantunque un po’ diversa da quella adoperata dall’Imbriani, negli ultimi anni, — pure, giova a spiegarci, come, dopo maturo esame, a poco a poco, era venuto formandosi il suo metodo ortografico. Certo, io non potevo far diversamente... Ma l’autore, — che non si stancava mai d’adoperar la lima, — vi avrebbe trovato da modificare e da correggere, come, del resto, ce ne fa fede una copia del libro, che egli andava preparando per la futura edizione, nelle prime pagine con ritocchi e mutamenti, di tutt’i quali ho tenuto conto. Ai quattro studî si sono aggiunti due altri, l’uno sul Manin e l’altro sul Cairoli, secondo era divisamento dell’istesso Imbriani, tanto da esserne in trattative con qualche editore; trattative non conchiuse per ragioni, che, qui, è inutile specificare. In fine, ho raccolto, in appendice, tre o quattro altre cosette, che, altrimenti, sarebbero andate smarrite; e che, (se non m’inganno) giovano alcun poco a meglio chiarire il suo pensiero. E godo commemorare il secondo anniversario, (che ricorre oggi) della morte immatura del povero Imbriani, con la pubblicazione di un’opera, la quale maggiormente giovò a farlo conoscere che è tanta parte di lui. Anzi, fo voti, che questo sia l’inizio d’una serie di ristampe de’ tanti suoi lavori, perchè ritengo, non potersi meglio onorare la memoria, se non divulgandone gli scritti, in cui rivive la sua simpatica ed originale personalità, e contribuire, in tal guisa, a fargli rendere giustizia dalla coscienza nazionale. Capodanno, M.DCCC.LXXXVIII. _Gaetano Amalfi._ ———— AVVERTENZA Ripubblico, ritoccati, ma senza alterazioni sostanziali, quattro studî critici, scritti parecchi anni fa. Vennero stampati dapprima in giornali o riviste; e conservano sempre la macchia originale, essendo conditi di capestrerie, che dovevano, secondo me, renderli tollerabili al palato de’ lettori di _Appendici_, Se non erro però, sotto all’intingolo più o men pruriginoso, v’è cibo sano e nutriente. Ho intitolato il volume _Fame Usurpate_. Un birrichino d’un pretazzuolo schiericato, mi fece un casa del diavolo addosso, perchè avevo adoperato, in non so che versucciacci, _Fame_, plurale di _Fama_. M’ero servito di quel vocabolo pensatamente e confortato anche da esempli numerosi del Petrarca e del Boccaccio. Quindi, invece di recitarne il _mea culpa_, colgo con piacere l’occasione di ripeter la parola sopra un frontespizio, per mostrare in qual conto tenga le riprensioni delle birbe, degli sciocchi e degl’ignoranti, che s’imponeano a parlar di lingua, senz’aver neppur letto i migliori nostri scrittori. Non c’è cosa, ch’io aborra quanto le riputazioni scroccate d’ogni genere; quanto le virtù posticce, gli eroi (_façon_ Sapri) finti ed i falsi dei. Nulla di più dannoso per un popolo de’ culti irrazionali, di ogni venerazione inconsistente. Ho cercato sempre di purgarne l’animo mio; ed ho sempre consigliato altrui di tenersene immune, di resistere agli andazzi, di non venerare od amar checchessia, se non a ragion veduta. Da sedici anni, in questa Italia, che mi riesce tanto diversa dal mio desiderio, veggo invece l’impostura e la ciarlataneria riscuoter plauso e trionfare; farabutti e dappochi incensarsi a vicenda; le fabbriche di grandi uomini artificiali ingombrare il mercato politico e letterario, e cattedre e parlamento, di prodotti di scarto. Non inchinandomi ad alcun vitello, nè di carne nè d’oro; non comperando io lodi bugiarde con encomî menzogneri; dicendo sempre quel, che io stimo vero; mi son procacciato nemici e malevoli senza fine, molti dolori e non ho fatto gli affari miei. Ma non me ne duole; ch’io so d’aver fatto il dover mio, ch’è meglio. Potrà darsi, che la pubblicazione di questo volumetto stuzzichi un vespaio. Che m’importa? Ad un Italiano, amante della patria e devoto alla dinastia, che può importare di persecuzioncelle letterarie in questo momento? Qual pettegolezzo o briga o dissapore privato può aggiungere all’amarezza, ch’io provo, vedendo il potere in mani abjette e malfide, scorgendo i pericoli, che corrono la Monarchia e l’Unità, prevedendo l’avvenire, che ci minaccia? . . . . La cruda e iniqua Ragion di parte vinse Valor, senno e virtù; sì che in segreto Ne geme Italia, rossa di vergogna¹. ¹ _A’ Moderati_, vinti ne’ Comizi del 5 Novembre 1876. Canzone di Matteo Raeli. — Noto Tip. di Fr. Zammit. 1876. Uomini peggiori e più scadenti no, che non è possibile l’immaginarne, ma uomini ugualmente malvagi ed insipienti, son forse giunti qualche rara volta altrove al potere: però sempre in tempo di rivoluzione, ne’ parossismi della massima perturbazion morale, quando la canaglia prevaleva e sopraffaceva armata mano. Che il santuario dello Stato potesse venir profanato in tempi ordinarî e per le vie legali da tanta dappocaggine ed iniquità; che, per un voto delle Camere, ratificato dagli elettori, dovessimo subire questo obbrobrio di Ministero; mi spaventa e sgomenta. Qual è dunque mai lo stato morale e sociale dell’Italia, se qui è possibile e si tollera pazientemente quel, che altrove non si ammetterebbe neppure come ipotesi? Per la patria e la dinastia, inseparabili nel cuor mio, nulla posso: non posso nè lavar la macchia, nè rimuovere il pericolo. Ma stimando, che chiunque, comunque, ancorchè per un solo istante abbia potuto acquetarsi ed anche solo mentalmente consentire ad un tanto vitupero e scempio, debba arrossirne; voglio almeno, a tutela della fama mia, dichiarare, pure innanzi a questo volumetto, ch’io non ho nulla di comune con la banda de’ sedicenti progressisti. Roma, 7 Gennaio 1877. *Imbriani.* IL NOSTRO QUINTO GRAN POETA (ALEARDO ALEARDI) — M.DCCC.LXIV. A TOMMASO GAR — «_Mesi fa, Ella, per ispronarmi, a scrivere, sulle poesie d’Aleardo Aleardi, mi fu cortese dell’ultima edizione fiorentina, impressa da Gaspare Barbèra, nel MDCCCLXIV. Veramente, percorse, io le aveva, già, non tutte, altra volta, e quando la fama dell’autore era bambina, accogliendone un’impressione, ma senza badare a formarmene un criterio proprio. Non mi pareva roba da badarci più che tanto. Stavolta,... La lo sa, La lo sa, son fanatico per l’incisione: baratterei tutta l’incolore scuola pittorica lombarda, per un’acquaforte del Rembrandt! Oh s’immagini, dunque! Quel ritrattaccio dell’Aleardi impomatato e stregghiato, che sta rimpetto al frontespizio, come drago sul sogliare d’orti incantati. All’adocchiarlo, raccapricciai; ed il volume ruzzolò, per le terre._» — — «_Sicchè, non ha letto?_» — — «_Anzi! Raccattai l’opera; la spolverai; tagliai, con la stecca, i fogli; e, poi, mi dissi: Coraggio! Avanti, marsc’! E lessi, rilessi, studiai, postillai, da cima a fondo, il cosiddetto e sedicente poeta civile. Ma..._». — — «_Ma che?_». — — «_Ferma un’opinione in capo, esito a porla in carta! L’impegno assunto, duolmi, oltre ogni dire, per un giusto riguardo. Maledettissimi riguardi! Inceppano, precludono qualunque libero moto, al malcapitato estetico. Sono mostri, che_ non lasciano altrui passar per la sua via. _Stai, per isnocciolare quattro verità, forse, dure, ma che stimi utili e che ti costan fatica, quando ti si para davanti una considerazione, uno scrupolo di convenienza; ed o t’imbavaglia o ti sforza a balbettare qualche scempiaggine menzognera e lusinghiera. Non se la pigli, con l’amico, che ommise d’avvertirla, quand’Ella, ierdassera, sedette a carteggiare, con quel baro: caspita! egli tacque, per onesti riguardi. E, sempre, per qualche buon riguardo, che mogli e drude c’infinocchiano; e che i ministri.... ne sballan tante. Qual meraviglia, quindi, se, per convenienza, per delicatezza, un critico anch’esso s’inducesse a mentire od almanco ad ammutolire?_». — — «_Pure, abbiamo dietro le spalle i tempi, quando si pagava in busse od a pugnalate le giuste riprensioni. Ma comprendo! Il quieto vivere è desiderabile; e, talvolta, si teme, che gli scrittori biasimati....._». — — «_No, giuraddio! Temere? Un corno. Temere chi? La mi farebbe attaccar moccoli e ceri! O ch’io mi spiego male o ch’Ella m’ha franteso. Potrà darsi, che, altrove, allignino, tuttavia, scribacchini, a’ quali imporre silenzio, con l’intimidazione; ma quì, tra noi, mi giova crederne spenta la razza. I riguardi ci s’impongono non dalla violenza, anzi dalla seduzione, ch’è vera forma di violenza, come sclama l’Emilia Gallotti, nel povero dramma lessinghiano. Sempronio ci pare un imbrattacarte: foss’egli efferato e potente, al pari del tiranno siracusano, glielo spiattelleremmo, sul muso, lì. Ma c’è, che, quantunque imbrattacarte, ha congiunti e congiunte, amici ed amiche, ammiratori ed ammiratrici; ed il critico meschinello (guarda combinazione!) sarà congiunto, ammiratore od amico od altro di alcuna od alcuno fra loro. C’è, che visceri d’uomo, ne abbiamo, ancor, noi, checchè blaterino gli scrittorelli tartassati. Abbiamo le debolezze della carne; ed_, al postutto, non siamo angeli, _come piagnucolava l’anima candida di Tartufo. Crocifiggeteci e non ritratteremo la menoma scioccheriuola, rivaleggiando coi fanatici (politici e religiosi), i quali si saranno, pur, talvolta, accorti delle assurdità, che perfidiavano nel confessare, per amor proprio malinteso. Ma non oseremmo affermare, che, a mezzogiorno, il sole sta, nel punto zenitale, ove dubitassimo di contristare persona cui ci leghi affetto; di attirarci, puta, occhiatacce bieche, da quel par d’occhi bruni, tanto gentili quando sorridono..... Ecco, io mi trovo, ad un simil bivio: o non dar parola al mio concetto d’Aleardo Aleardi; o calpestare riguardi e rispetti di non piccol momento_». — — «_Che? Un par d’occhi bruni.... eh?_» — — «_Nossignore: una barba grigia. Si tratta d’uno di que’ pochi Italiani, esuli, tuttora, sul territorio del Regno d’Italia; d’un uomo, che ha mezza logora la vita negli studî e mezza per la patria; ambasciadore della seconda efimera repubblica veneta alla seconda efimera repubblica gallica; del quale ho sperimentata la solerte benevolenza. Come non volergli bene? Ed egli, intimo dell’Aleardi lo ha incuorato a poetare; ne ha ricorretti gli stracciafogli; e si compiace della celebrità, che altri, forse, chiamerà facile ed usurpata, ch’egli rèputa, appena, adeguata, a’ meriti dell’amico. Quest’uomo è la Signoria Sua. So, che Le dorrà, ch’io scriva, come sto per iscrivere. Me ne spiace, assai; pure....._» — — «_Pure?_» — — «_Scrivo! certo, ch’Ella mi perdonerà. Le debbe esser noto a pruova, che, per l’onesto scrittore, quando ha la penna in mano, è giuocoforza scarabocchiare sotto la dettatura di quell’accattabrighe della coscienza. Il solo giornalista di qualche merito in Italia, Ruggiero Bonghi, dice (non so se sinceramente, ma, certo, congruamente):_ Io non vedo altro compenso dello scrivere, che giovare, dicendo il vero. Quando lo scrittore o non sa o non può vincere le difficoltà, che gli si oppongono a ciò, meglio tacere; e scegliere soggetti, ne’ quali non debba mentire o dissimulare, a sè medesimo. _Ma il galantuomo, la penna non può non recarsela in mano, quando ha qualcosa da bandire. Chi stima di posseder la verità e non si sbraccia per acquistarle fautori, aderenti, proseliti, partigiani, mi fa schifo. Al levita, capitato in mezzo ad un sinedrio di crisomoscolatri e che si sa provvisto di saldi muscoli abduttori ed adduttori, la sindèresi non concederebbe, mai, pace o tregua, s’egli non iconoclasteggiasse un tantino. Conoscendo quanto io La riverisca, Ella comprenderà, quanto mi affligga, il dover porre alla berlina un verseggiatore mediocre, ma protetto da Lei. E da un tale atto e dalla presente dedica, che ad uomo volgare parrebbe impertinenza, trarrà motivo, per confermarmi quella Sua stima, che tanto ambisco_». — Angosce finse e simulò letizie Con quell’accento che non vien dal core. _Aleardo Aleardi_ — _Accanto a Roma_. I. Discuto il poeta, non l’uomo. Osservazioni, epiteti, giudizî s’hanno a riferire, alla personalità dello scrittore Aleardo Aleardi, ente astratto; non allo Aleardi, uomo in carne ed ossa, che, da taluni, mi si afferma essere una cara persona. Se questo è, debbo rimpiangere di non aver avuto seco relazione di sorta, tranne una sola stretta di mano e momentanea. Potrà darsi, ch’io paja talvolta _troppo acerbo_, (com’ebbe a dire Alessandro Manzoni;) e mi spiacerebbe, se l’irruenza del dire scemasse credito alla cosa detta; prometto d’avere ogni riguardo, ogn’indulgenza possibile. Ma so scriver solo, fotografando i sentimenti miei: la rettorica mia consiste nell’esprimere quantunque io pensi, comunque il pensi. Ora, basta il barlume d’intelligenza, largito a’ cretini, per comprendere, come un Italiano non possa ragionar di quanto, a parer suo, ammorba la nostra letteratura contemporanea, accademicamente, spassionatamente, in quella guisa, che discorrerebbe d’un cattivo andazzo antico, degli Arcadi o de’ Frugoniani. Altro è il passato, altro il presente. Mentre ferve la mischia, io me n’infischio di mostrarmi garbato e cavalleresco. Che un pessimo verseggiatore, dugent’anni sono soddisfacesse, perfettamente, a’ bisogni estetici della nazione, è fenomeno storico, che ci aveva la sua ragion d’essere; giudicarlo o discuterlo, non serve; bisogna rendersene conto. Al male odierno, invece, conviene ostare, rimediare, aprendo gli occhi agli illusi, mostrando alla gente di facile contentatura quel, che, pure, avrebbe il dritto di pretendere. Questa norma vale e per la politica e per le lettere. Nel combattere un error divulgato e radicato, sarò, quasi chirurgo, che intende a guarire una cancrena profonda e diffusa, adoperando, senza alcun ritegno, tutti i ferri del mestiere: chi l’ha per mal, si scinga. Si sbaglia, addirittura, ritenendo la calma contrassegno dell’aver ragione, e l’irruenza per indizio dell’aver torto: è faccenda di temperamento. Chi s’appassiona (già, si sa!) facilmente, trasmoda: ed io non nego di parlare, appassionatamente. Son certo, che l’Aleardi, lui, me ne saprà grado. Lo sdegnarsi di qualcosa parmi un renderle omaggio, prendendola sul serio. Una volta, trattenendosi il Goethe, in una cittaducola di bagni, nel passeggiar, per un viottolo, che conduceva, ad un mulino, incontrò non so qual principe: sopravvennero alcuni muli carichi di sacca di farina, e bisognò ricoverarsi in una casipola. I due intavolarono discussioni profonde sulle cose umane e divine. Ed essendosi mentovati _I Masnadieri_ dello Schiller, quel principe sclamò: — «S’io fossi stato messer Domineddio, nell’accingermi a creare il mondo, prevedendo, che vi si sarebbero scritti _I Masnadieri_, io non l’avrei creato.» — Il giudizio era, passionalmente, esagerato: lo Schiller, però, avrebbe avuto torto di lagnarsene, perchè attribuiva tanta importanza, ad una sconciatura da collegiale. E, poi, distinguiamo: c’è passione e passione. C’è la passione, che rampolla da un interesse personale, esclusivo e, quindi, irrazionale, o illogico; e la passione monda, razionale, che mira al vantaggio universale. E di quale altro genere potrebb’essere l’affetto immenso, che ho riposto nella Letteratura Italiana, reputandola la incarnazione più sublime del bello poetico? Questo, a scanso d’equivoci. II _Ire bollenti e fuggitive; santa_ _Ignoranza dell’odio e dell’oblio;...._ _Carità di perdoni; una serena_ _Purezza di pensier, mista a febbrile_ _Sperïenza di cupide carezze;_ _Ingenue fedi; desiderî audaci_ _E insazïati; avidità di arcane_ _Ebrezze; del martirio e de la tomba_ _Uno sprezzo magnanimo; un perenne_ _Vagheggiamento dell’eterna idea;_ _Ecco, Elisa, il poeta...._ No, cara ed ignota Elisa, non creder, mica, da gonza, quanto scarabocchia l’Aleardi in una delle peggiori fra le sue _Ore cattive_. Dato e non concesso, che questa addizione impoetica di qualità sopraccariche d’epiteti, abbia, per prodotto, una persona, io, francamente, non saprei ravvisare, nelle poste, le _membra disjecta_ d’un poeta, anzi, piuttosto, quelle d’un frate. Non i requisiti politici, fisici, morali o religiosi costituiscono il poeta; anzi la virtù di sentire ogni pensiero, in modo da trasformarlo in fantasma: tutto il resto è puro ammenicolo, quando non guasta. Che il viceconte Vittorio Hugo viva fra gli adulterî o che il conte Giacomo Leopardi muoja vergine; che il consigliere intimo Gian Lupo di Goethe strisci, nella corte d’un principato lillipuziano, o che Giorgio Byron aspetti, imperterrito, il naufragio imminente, sulle coste della Corsica; che Alessandro Manzoni sia capace di perdonar finanche a que’ tedeschi, i quali fustigarono in pubblica piazza le sue milanesi, o che Dante Allaghieri sia uomo, da non perdonarla, neppure al suo Brunetto Latini; gua’, sono accidenti! ci spiegano le peculiarità di que’ valenti; bisogna conoscerli, per rendersene conto e del contenuto delle scritture; ma, con essi e senz’essi, e’ si puole essere poeta. Un Byron impotente e leccazampe, un Allaghieri codardo e perdonevole, un Manzoni scettico e donnajuolo, un Goethe patriota e tribuneggiatore, un Leopardi ignorante e spensierato, un Hugo che non fosse banderuola politica, avrebber possedute le istessissime facoltà poetiche, la medesima immaginativa. Sia di creta, di bronzo o di oro la lampade, il valore della luce, che ne scaturisce, non cambia. Sia rosso o verde o bianco il vetro del cartoccio o della palla, non importa; importa, bensì, che l’intensità della luce valga ad illuminare e adombrare gli oggetti, nel microcosmo della stanza, per modo, che acquistino fisonomia. Ogni determinazione, che non è essenziale alla fantasia, non influisce sul valore poetico dello scrittore. Il sentimento del poeta, trasfuso nella cosa vagheggiata (impressione, riflessione, idea, fatto, eccetera,) ne trasfigura l’effettività in guisa, ch’essa implichi un cotal concetto dell’Universo, la cui special forma è indifferente, il cui pregio artistico dipende, da tutt’altre ragioni, che non è il merito intrinseco. E, nel mondo ideale, dove il caso, il fortuito sono sconosciuti, ogni parte implica il tutto, ogni individuo contiene la legge generica, più, ancora, che nel mondo effettivo. La rappresentazione d’un’onda può rendermi l’immensità de’ mari. Gli adagi veneti m’insegnano, che _do’ done e un’oca fa un marcà e che tre femene e un pignato e ’l marcà ex fato_. E, se una rondine non fa primavera nel proverbio, in quante poesie popolari è il contrario! Un uomo raffigura l’umanità; e nelle vicissitudini d’un amore si espongono le vicende dell’universo. In pittura, in iscultura, nella musica, è lo stesso. Il poeta porta (o conscia od inconsciamente) un mondo, in sè: cioè, un sistema; cioè un concetto. Mondo, che, apparirà tanto più poeticamente perfetto, quanto più risponderà a tutte le peculiarità dell’animo suo, quanto più sarà subjettivo. Difatti, allora, esso poeta saprà infondere più vita e più caldo alle singole parti. Che s’egli, invece, non ha sentite e trovate, nel proprio petto, le leggi del suo mondo, questo mancherà di spontaneità e di originalità, potremo chiamarlo rettorico. Vi sorprende, neh, ch’io parli, così, avvezzi a sentir lodare gli antichi pel loro objettivismo poetico? Ma bisogna distinguere! Il concetto vuol essere subjettivo, specifico dell’artista; e la sua fantasia deve aver tanto vigore, da rappresentarglielo come piena e perfetta objettività. Intendiamoci bene, però! Si tratta non d’un sistema o d’un concetto scientifico o filosofico, anzi di un concetto poetico. Poco monta, ch’e’ sia falso, in sè, purchè bello; e, quando risponda, onninamente, al cuore del poeta, non potrà non rappresentarci un momento dello spirito dell’epoca; il modo di sentire sempre conforme a sè stesso (_sibi constat_) fa sì che egli in ogni immagine ti lascia sfolgorare dinanzi l’intero concetto, perchè ogni suo fantasma contiene l’universale. Quella unità, che la scienza dimostra, vien sentita dalla Poesia; e per questo Scienza e Poesia s’invadono a vicenda, come due larghe fiumane, che provengano da giogaje discostissime, ma scorrano vicine, e delle quali or l’una or l’altra straripando allaghi l’alveo della contigua. Di fatti: — «senza immaginazione non vi è nessuna specie di scienza; e chi non ha fantasia può a sua posta chiamarsi uno scienziato, ma in realtà non è che un’eco esterna, un pappagallo senza ragione; e noi, per non privarlo di un’illusione che gli procura un piacere, lo tratteremo a tutto pasto di naturalista, ma fra noi non possiamo dissimularci che egli non è che un copista, perchè non riconcepisce e non comprende la Natura. Comprendere è rifare il fatto, e ricreare il creato; fare o rifare, creare o ricreare, è sempre immaginare». — Dice il De Meis e dice benone; e quando mai no? Or bene, qual’è l’idea logica del mondo poetico di Aleardo Aleardi? l’occhiale ch’egli adopera per guardare i fatti e le idee? il sentimento dominante sustrato del suo carattere poetico? III. Quel sentimento che nel mondo delle cose si chiama fatuità. L ’Aleardi non giunge mai a percepire chiaro e spiccato il fantasma, ad infondergli autonomia, perchè tra ’l fantasma contemplato e lui contemplatore s’inframmette sempre un’altra immagine: quella della sua propria riverita persona. Non ci ricorda l’attore interamente assorbito dal personaggio, anzi il burattinajo che ti dimena sugli occhi de’ fantoccini di legno, e quasi gli dolesse di dar campo all’illusione, caccia di tempo in tempo la propria zucca sul palcoscenico. Sembra preoccupato da paura che l’opera faccia dimenticare il poeta; e s’interrompe, al meglio, e si lascia cader la maschera per rettificare il vostro abbaglio, caso aveste supposto daddovero in iscena altri che lui. Siffatta relazione fra l’autore e le sue creazioni è giustificata nell’umoristico, quando lo scrittore intende appunto ad uccidere la poesia, riducendola a fantasmagoria col dimostrare la nullità intrinseca, la dipendenza del fantasma dal suo capriccio; ma dovunque è serietà diventa incompatibile. Pare che di ciò l’Aleardi non abbia sospetto: per lui, temi e concetti non sono qualcosa d’essenziale, anzi lo svariato scenario che il farà figurare, innanzi al quale ei potrà pavoneggiarsi ora in una, ora in altra veste. L’universo esiste soltanto per suscitargli un’emozione ch’egli esprime con più civetteria che poesia. Il Giusti scriveva ad un amico celiando: — «sa, che l’Io è come le mosche; più lo scacci, più ti ronza d’intorno, e per questo non ti maravigliare se _io_ comincio dal mio signor me.» — L’Aleardi comincia e finisce da sè. E sì, pretende che l’ammiriate, com’egli si ammira; registra ogni suo moto, ogni gesto, ogni atteggiamento, quasi che importassero molto; ed esagera ed ostenta e vuol che guardiate attraverso una lente magnificativa tutte le miserie di una vita prosaica, d’un animo comune: tepidi amorazzi, peccadigli che non son delitti, le solite lacrimette, le solite orazioncelle. Questo per mostrarsi uomo di carattere, dopo detto _Che l’angoscia profonda ha il suo pudor_, dopo affermato di sdegnare l’indiscreto verso _Che pubblica gli affetti intimi al volgo_. L’effetto non può non essere comico. Scartabellando il suo volume sei indotto in tentazione di credere che nelle brigate le belle signore invitate da lui per la contraddanza gli rispondano: — «Tropp’onore, mio poeta;» — che scarrozzando col virginia in bocca alle Cascine, tremi per l’_olimpia febbre de’ carmi_; e che pappandosi il mezzo sorbetto la sera, innanzi al Caffè d’Italia su’ deschetti in via Santa-Trìnita, ad ogni cucchiaino rimastichi qualche _acre reminiscenza del passato pianto_. L’idea, ridicolamente eccessiva, della sua importanza come poeta, si manifesta in modo presso che io non dissi scandaloso nelle dediche premesse ad ogni singolo componimento, dove la forma epigrafica le dà spicco e la scusanda del verso è svanita. Citerò qualche esempio caratteristico. _A. Te._ _Nina. Sarego-Alighieri-Gozzadini._ _Che. Comprendi. Più. Che. Non. Dico._ Il rivolgersi ad una donna, ad una giovane sposa, accennando in nube ad una secreta intelligenza, è una impertinenza tanto fatta, una incontrovertibil pruova di fatuità indelicata. Inoltre il poeta sembra alludere ad un senso profondo, remoto d’ogni sua parola, senso intelligibile soltanto a pochi eletti: ed oltre i miracoli espressi ne’ versi, ci ha le mirabilia taciute, i portenti rimasti chiusi nell’animo di lui ed i quali non gli è dato manifestarci, senza dubbio perchè: — «quantunque v’ha di meglio nel cuore, non n’esce mai» — per dirla col Lamartine, ingegno della stessa tempra, ma di ben altre proporzioni. Bella frase! gentil pensiero! se non che l’ammetterlo per vero equivarrebbe ad una sentenza capitale contro la poesia. Il contrario è vero, come dice Ludovico Börne: — «In quella forma che ogni spirito trova la propria glorificazione in un corpo, anche ogni pensiero vede nella parola la sua perfezione». — Certo, qualche volta, si pruova una giusta renitenza a pubblicare od anche scrivere de’ versi che rivelano alcune parti o piaghe segrete dell’animo nostro. Il Musset, parlando in una lettera confidenziale di certe stanze ad una suora della Carità che lo avea accudito, dice: — «I versi per suor Marcellina, io li finirò uno di questi giorni, l’anno prossimo, fra dieci anni, quando mi piacerà e se mi piacerà. Ma non li pubblicherò mai e non voglio neppure scriverli. È già troppo l’averteli recitati. Ho detto tante cose a’ gonzi e ne dirò loro ancor tante, che ho pure il dritto, una volta in vita mia, di comporre qualche strofa per uso mio particolare. La mia ammirazione e la mia riconoscenza per quella santa ragazza non saran mai impiastricciate d’inchiostro da’ rulli del torcoliere. Cosa fatta capo ha; non toccar più questo tasto. La Signora Di-Castries m’approva, asserendo: che giova aver nell’animo un cassetto segreto, purchè vi si nasconda solo roba salubre.» — Benone, ma non bisogna andar decantando il contenuto del ripostiglio occulto; nèd il Musset pretese mai d’essere ammirato per que’ versi alla Marcellina che nessuno avea visti. Chi si vanta di ciò che non mostra, induce a credere di non aver che mostrare; appunto come uno che non ispendesse mai e parlasse delle sue ricchezze le farebbe credere immaginarie. _Pongo. Sul. Sepolcro._ _Di._ __Carlo Troja__ _Questo. Canto._ _Che. Vivendo. Ebbe. Caro._ Non appurandosi altro di questo Carlo Troja (da non confondersi col grande istorico napolitano) che l’aver egli ammirato i versi d’Aleardo Aleardi, e’ ci si para davanti come un uomo il quale non abbia fatto altro vita natural durante (vita bene spesa affè!); come una ristampa peggiorata di quel Jacopo Boswell; che per la prona ammirazione verso Samuele Johnson s’è lucrata una ridicola immortalità fra gl’inglesi, tanto che Tommaso Babington Macaulay chiama spiritosamente _lue boswelliana_ ogni venerazione inconsulta, irragionata, inintelligente. _A. Giuseppe. Garibaldi._ _Aleardo. Aleardi._ Da pari a pari. Narrano che Goffredo Augusto Bürger visitasse una volta il Goethe, col quale non s’era per anco incontrato personalmente, e che per farsi conoscere gli dicesse: — «Voi siete il Goethe, io sono il Bürger;» — ma soggiungono che il Goethe gli voltasse le spalle, lasciandolo in asso. La fatuità non è l’orgoglio, rimpicciolisce: quindi (se m’han detto il vero: ma, se non è vero, è ben trovato!) quindi la debolezza dell’Aleardi di mutarsi il prenome di Gaetano, che veramente è un po’ volgare, in quello inaudito d’Aleardo, che è d’un buffo, ma d’un buffo!...... Vergognarsi d’essere l’omonimo dell’autore della _Scienza della Legislazione_! Ma il Foscolo si vergognò di portare lo stesso prenome dell’autore del _Principe_, — «quando in Ugo cambiò ser Nicoletto!» — Piccolezze umane! Il volgo si preoccupa molto de’ nomi, e da essi giudica gli uomini: non del tutto irrazionalmente, s’e’ si trattasse de’ cognomi, i quali indicano la schiatta, sebbene la fragilità delle mogli cagioni molte perturbazioncelle note ed ignote; ma scioccamente affatto, per quanto concerne i prenomi, dipendendo questi dall’arbitrio de’ genitori, de’ parenti, de’ compari. Un critico inglese a proposito di alcuni verseggiatori americani scriveva: — «C’era o c’è un certo Dwight, il quale ha stampato un poema in forma d’epopea; ed il nome suo di battesimo era Timoteo». — Il lettore volgare sogghigna d’un poema epico che ha per autore un Timoteo e l’opera gli par giudicata. Sarebbe come se un napoletano per confutar la filosofia del Gioberti, si limitasse a dire-: — «Che razza di filosofia volete che stampi uno che si chiama _Si Vicienzo_?» — Ma se l’Aleardi fosse davvero quello _sdegnoso_ pel quale e’ si spaccia, avrebbe pensato l’uomo illustrar il nome, non il nome l’uomo. _What’s in a name? That which we call a rose,_ _By any other name would smell as sweet._ Questa idiosincrasia, che nell’Aleardi ci stomaca, non è punto rara nella colonia europea del Parnaso. Splendido esempio presso i francesi Alfonso di Lamartine, pertinace a descrivere se dovunque ed ognora, nel parossismo dell’effusione lirica, quasi nel momento dell’affetto avesse avuto uno specchio davanti ed equanimità da studiarvi le mosse, il nodo della cravatta e la discriminatura. Finanche quando da una sua parola dipendono le sorti della patria, quando volgo ed assemblea aspettano che egli decida, per proclamare o la repubblica o la reggenza della duchessa d’Orléans, ha tempo da pensare all’atteggiamento, da notare i gesti propri. Finanche piangendo una figliuola unica, perduta per sua colpa! _Le front dans mes deux mains, je m’assis sur la pierre,_ _Pensant à ce qu’avait pensé ce front divin,_ _Et repassant en moi de leur source à leur fin,_ _Ces larmes dont le cours a creusé ma carrière._ Or bene, Aleardo Aleardi ha trovato modo di superare Alfonso di Lamartine! Allegramente, pècori giobertiani! ecco un nuovo documento del nostro primato! Anche rivedendo la madre in cielo, egli pensa solo a coglier l’occasione per esaltar sè, calunniando un popolo ed un secolo, dei quali non possiede e non comprende la robusta virtù: _Nuovamente accorrâi questo sdegnoso_ _Che partorivi con fatica tanta,_ _O troppo presto o troppo tardi, in mezzo_ _A le viltadi d’una fiacca stirpe._ Ogni quadro gli sembrerebbe imperfetto s’egli non vi occupasse il primo piano. In un _canto_ profetizza l’ingresso trionfale del Re nella patria Verona, la dimane d’una vittoria sugli Austriaci: benchè la descrizione sia mediocrissimamente favoleggiata, pure il semplice pensiero della cosa descritta esercita tal potenza su d’un patriota Italiano, ch’e’ si riman compunti fino alle lacrime. Quand’ecco, sul più bello, l’autore, quasi arrovellato che veronesi e leggitori, assorti nell’immagine simpatica del Re, dimentichino lui, scappa fuori così: _Emanuele, Re d’Italia, anch’io_ _Non ultimo poeta,_ _Un saluto t’invio. Certo mia madre,_ _Santa com’era, divinando il figlio,_ _Me al nascere di panni_ _Tricolori fasciò. Sin da fanciullo...._ eccetera. E così giù per ventun verso farnetica di sè, finchè gli paia tempo, dopo essersi ricordato e raccomandato all’attenzione del rispettabil pubblico e dell’inclita guarnigione, di riprendere l’interminabile pittura, slavata in guisa da sembrare quel che ahimè! non puol essere, copiata dalle gazzette. In una _poesia volante_ (dichiaro fra parentesi di non capire come possano volare le poesie) troviamo il Nostro prigione oltr’Alpi. Una giovanetta, _fior di cortesia, ch’ei non vide mai, nè vedrà forse in terra mai_, gli ha usato di quelle benevolenze che scendono tanto dolci al cuor dell’esule e del captivo. Come ringraziare una donna se non lodandola? e che lodare credibilmente in una ignota ed incognita? Il nome: questo nome fu anche della madre di lui e par quasi che stabilisca una parentela fra’ due. Benone! chi non ha talvolta profittato di simile coincidenze, chi non le ha spesso astutamente mentite, per trovare punti di contatto con qualcuna che gli premeva? Fin qui la poesia riesce gentile, affettuosa; la situazione è felice: commuove daddovero quell’uomo costretto ad accettare alcunchè da una donna ed il quale può rimeritarnela solo con poche strofette. Ma l’Aleardi non si ferma su questo motivo; non può rassegnarsi a rimaner nella mente della giovane Fraile un carcerato qualunque; vuol darsi importanza; gli manca la sublime verecondia che nel _Conte di Carmagnola_ del Manzoni induce il Pergola figlio a confondersi con gli altri prigionieri volgari e tacere; quindi termina: _Ma siccome ho giurato alla mia Musa_ _Di non cantar fuor dell’Italia mai,_ _Se la incontri per via_ _Non le dir ch’io cantai, bella Maria._ Ecco sfumata la gentile impressione. Non vedi più che la fatuità poetica di chi si fa correre dietro per lo mondo una personificazione della Poesia, quasi uscito lui d’Italia, ne sia svanito ogni lume d’Arte. E _siccome_, nel senso di _poichè_, non è Italiano; gallicismo, barbarismo. Come ultima sciagura a Genova ed a Pisa, _scellerate nipoti di Caino_, il Nostro annunzia loro che il Vate le maledice: se le perpetue guerricciuole delle repubblichette medievali non avesser procacciato altro danno che le imprecazioni dell’Aleardi!... Convien rileggere intero il brano per rendersi ragione di tutto il prepotente effetto comico della scappata. L’autore, per rappresentarmi le due città, le personifica: Pisa, _in sella ad una prua spumante_, scende a giostrare con Genova, _leonessa saettatrice_: e non si capisce punto perchè non abbia all’incontrario fatta inforcar la prora a Genova e chiamata luna sagittaria Pisa. Il Poeta passa di lì, forse camminando sulle acque come san Pietro, probabilmente qual ei vien descritto altrove: _l’astro del genio in fronte_, e senza dubbio coi baffi e col pizzo dell’Aleardi; e si ferma a recitare con qualche opportuna variante i versi di Ugo Foscolo sulla battaglia di Maratona. Perchè un anatema conturbi chi l’ascolta, si richiede autorità in chi lo profferisce: quest’autorità si acquista dal moralista persuadendoci dell’altezza del suo ideale etico, dal poeta impossessandosi della nostra fantasia con immagini che ci sforzino a sentire come lui. Chi non impreca con l’Allighieri alla crudeltà di Pisa contro la famiglia del conte Ugolino? chi non accetta, nel leggerlo, il giudizio che Dante fa de’ contemporanei e de’ passati? e non dura fatica poi a rettificarlo in modo conforme alla verità storica, tanto è il fascino di quella poesia? onde il Settembrini ha in somma parte ragione scrivendo che: — «il giudizio che si fa di queste anime, a ciascuna delle quali si assegna il suo _stato_ è il gran giudizio fatto da dio nella coscienza dell’uomo libero ragionante; è il giudizio che si aspettava nel Mille e non venne ed ora è fatto....» — Ma l’Aleardi non avendo saputo trascinarci con le immagini sue, rimane un declamatore esautorato. Vorrei finirla su questo capitolo; ma mi accorgo d’una conseguenza della fatuità poetica; sulla quale m’incombe il dovere di richiamar l’attenzione delle signore Italiane. Badate, care dilette, a non annaspare nessun amoretto con chi pizzica del poeta, senz’averci prima pensato bene. Non è cosa da farsi alla cieca: al primo bisticcio sarebbe capace di mandarvi a casa l’intera penisola, sana sana, acciò rendiate conto delle vostre bizze: _.... Oh sconsigliata_ _L’Itala donna cui fu dato in sorte_ _Stringersi al petto un’amorosa testa_ _Nata agli allori, che la cinge invece_ _Di domestiche spine! A lei di contro_ _La penisola sorga, e le domandi_ _Terribil conto del perchè la inerte_ _Stella non manda lume...._ Avete inteso? Pare che non avesse tanto torto quell’amico di Gian Cristiano Kestner, che gli scriveva, quando il Goethe con leggerezza inescusabile lo ebbe posto alla berlina insieme con la moglie nei _Patimenti del giovane Werther_: — «Salvo il rispetto dovuto all’amico vostro, ma gli è pericoloso d’avere un autore per amico.» — Per me, fossi femmina ed avessi letto que’ versi, e poi l’Aleardi mi richiedesse di amore, non lo promuoverei mai da patito a drudo. E poichè mi trovo maschio, quantunque non la pretenda a poeta, prevedendo il caso in cui mi venga in sèguito un simile ghiribizzo, chieggo il permesso di dichiarar qui solennemente e dichiaro: _che in ogni mio futuro dissidio con qualsivoglia Italiana non sarà mai chiamata ad immischiarsi la penisola, intendendo io rinunziare e rinunziando esplicitamente ad invocarne l’intervento._ Ce la vedremo a tu per tu, da solo a sola. E consiglio le mie care compatriote di fare scrivere e sottoscrivere una dichiarazione identica a tutti gli adoratori loro presenti ed avvenire, che, registrata e bollata, si depositerà presso pubblico notaio. Sia quest’atto una formalità indispensabile (sennò, no) per chiunque vuol rendersi loro aggiudicatario, come la cauzione provvisoria per chiunque concorre ad un pubblico appalto. Ma riconosciuto, pure, che la fatuità sia il più spiccato sentimento dell’Aleardi poeta, non sarà certo il solo, neh? Giulio Cesare venne accusato d’esser un bell’imbusto, anzi un finocchio: nè siffatte colpe il rimpicciolivano. O se questo fosse il caso d’un Giulio Cesare della poesia? La fatuità, la vanità si condona volentieri al merito. Quali sono le altre parti dell’animo di lui? quali sono i concetti nei quali ha dato opera ad incarnarle? IV. Aleardo Aleardi ha scombiccherati parecchi componimenti in cui parla della madre e d’Italia e di libertà e d’amore e di religione: cose tutte le quali sono state e saranno in eterno fonte ricchissima di vera poesia. Ad un patto però: che siano sentite, che divengano passione, che si concretino in fantasmi autonomi. Sono poesia nelle loro manifestazioni, non già nella loro astrattezza. Spieghiamoci con un paragone: i paragoni, se non provano, rischiarano; ed in casi molti, rischiarare val quanto provare. Nelle _due pagine autobiografiche_ preposte ai suoi Canti il nostro autore vi dice: _Ho considerato la poesia come la perla del pensiero: chè nasce anche ella da una febbre dell’animo, come la perla da un malessere della conchiglia: chè l’aceto della scurrilità e della malvagità la distrugge come l’aceto dissolve la perla._ A dirla, io non so se l’aceto dissolva le perle, e mi ho annodato la cocca della pezzuola per ricordarmi di chiederne a Sebastiano De Luca la prima volta ch’io l’incontri; so bensì di certo, che la scurrilità è, quanto ogni altro, schietto e legittimo elemento di poesia: e se l’Aleardi non si trova in grado di comprenderlo, suo danno. Non sarebbe il solo; moltissimi, tutte le nature fiacche sono negate all’intelligenza delle categorie comiche. Ma lasciamo star ciò, ch’io non intendeva citare il paragone per biasimarlo, anzi per farlo mio. La perla si produce dalla secrezione sovrabbondante della materia che fodera la conchiglia, la quale, agglomerandosi in alcuni punti a mo’ di bernoccolo, senza dubbio ingenera nell’ostrica un piacevol prurito; e tante volte l’ostrica ricopre di sostanza madreperlare qualche corpo estraneo, che gli dava noia con la sua forma irregolare, ma poi arrotondito dagli strati che gli si sovrappongono, non torna più d’incomodo. Se non che più l’escrescenza ed il corpo estraneo stanno e più divengono voluminosi; la protuberanza si stacca dal guscio e diventa una cosa per se, la pallottola ingigantisce, e dànno peso e dànno molestia all’animale, finchè questi non trovi modi di sbarazzarsene. Con simile appunto si ravvisa il processo poetico nella mente dello scrittore dalla percezione all’espressione. Il percepire avidamente l’objetto, (fatto, sentimento, eccetera) l’assumerlo in sè, l’appropriarselo, procaccia dapprima una piacevole impressione: l’è quel diletto che noi precisamente cerchiamo nella lettura od in teatro. Anche quando la percezione è tornata dolorosa o per la sua veemenza o per la sua natura, lavorandoci intorno con l’immaginazione, togliendone le asperità, finisce per essere ospite gradita della memoria. Poi, mano mano che procede la traduzione dell’objetto in immagine interna, e quanto più questa divien viva e potente, _id est_ autonoma, s’ingenera e cresce un malessere nell’animo del poeta, cagionato dalla presenza del fantasma. Malessere del quale si guarisce incarnando esso fantasma in un lavoro, estrinsecandolo. La stessissima successione di momenti si percorre nella generazione fisica dal concepire allo sgravo. Più il pensiero diventa perfetto in sè, tutto immagine, cioè artistico, e più diventa estraneo allo scrittore, che quindi è angosciato dalla sua presenza, come donna negli ultimi mesi della gravidanza. Il fantasma s’impone allo scrittore, che non gli comanda, anzi il subisce. Molti anni dopo la pubblicazione delle _Affinità Elettive_, il Goethe leggendo il carteggio di Ferdinando Solger trovò una lettera su quel romanzo, la quale gli parve il meglio che se ne fosse scritto. Il Solger, riconoscendo che il fatto era il prodotto di tutti i caratteri, pur biasimava quello d’Eduardo: — «Non saprei volergliene» — disse il Goethe — «nemmanco io posso soffrirlo, benchè pieno di verità... Ma, mi piacesse o mi spiacesse, dovetti farlo a quel modo.» — Notatevi quel _dovetti_. Ecco perchè diceva che tutti quei santi e gentili affetti, i quali rendono caro un uomo nella vita empirica ordinaria, per mutarsi in poesia han bisogno prima di _diventar passione_, cioè di crescere in intensità, e poi di _trasformarsi in fantasmi autonomi_, cioè in immagini che abbiano in sè la ragion di loro vita e non siano mero prodotto dell’arbitrio di chi scrive. Tanto la passione, quanto l’autonomia del fantasma, sono rese impossibili per Aleardo Aleardi dall’idiosincrasia che chiamammo fatuità poetica. Il fantasma non acquista mai effettività objettiva nella sua mente; l’affetto non diventa mai cosa seria pel suo cuore; anzi egli se ne fregia, come una civettuola di finte trecce e di nastri nell’acconciarsi. Egli non può mai profondarsi nell’objetto, poichè questo al postutto non ha importanza intrinseca agli occhi suoi, anzi è solo un mezzo per farlo figurare. L’amor patrio, l’amor filiale, l’amor divino e finalmente ciò che dicesi amore per eccellenza e per antonomasia, sono nel freddo animo e morto di lui piante esotiche, le quali non fioriscono mai come passione. Aleardo Aleardi ne si protesta buon cristiano: s’adonterebbe se lo chiamassimo, come Lisandro chiamava Aristodemo nella prima e men cattiva tragedia del Monti: _..... Uomo_ _Non sottoposto all’opinar del volgo_ _.... che questi dei, quest’ombre_ _De l’umano timor, guarda e sorride._ Ma un vero credente forse temerebbe che quel suo cristianesimo rettorico e sbiadito voglia conferir tanto poco alla sua salvezza eterna quanto poco giova al suo merito letterario. Quel dio, così spesso apostrofato, non è persona, anzi personificazione; e neppure: è una mera occasione, un pretesto, per rammodernare in fragorosi versi il cianciume delle immagini bibliche. Una vecchia protestantaccia importunava sempre la fantesca cattolica, acciò ne andasse al tempio ed ascoltasse i sermoni del pastore. La domestica v’andò una domenica per arrendevolezza; e si sciroppò la predica, attenta e devotamente. A casa poi la padrona l’accolse con una sfuriata d’interrogazioni. — «Neh, ch’è una gran bella cosa? Neh, che vi si parla benissimo e pertinentissimamente di iddio?» — La servetta, dopo aver ascoltato un pezzo, poi rispose: — «Ne parlan molto, ma nol mostran punto». — L’Aleardi nomina sempre dio; ma non cel mostra mai. Ma non ha la più remota idea dell’ardente religiosità ed appassionata, che cerca sfogo irreperibile nella penitenza, nelle stravaganze de’ riti, nella preghiera; che guasta tante belle ginocchia e consuma tanti animi gentili sul genuflessorio o nel confessionile; che fa piangere; che fa sperare e sperare e disperare; che ci fa vedere il nostro ideale morale come una personalità distinta da noi, o amico perdonevole o giudice inesorabile. Egli non ha mai provato e neppure intelletto cose siano la paurosa preoccupazione dell’eternità, gli scrupoli severi, quei dubbi che schiantano il cuore, gl’imperativi categorici, i delirî sublimi di san Tommaso d’Aquino o di santa Teresa d’Avila, che udivano esterrefatti parlare i Cristi di legno, che si accorgevano con isbigottimento d’essere stati rapiti al cielo. Cheh! la religione dell’Aleardi non è neppure una cosa eterna, come la concepisce e pratica certa brava gente che va puntualmente a sentir messa la domenica e tutti i giorni crocesegnati nel calendario; che mangia di magro mercoledì, venerdì e sabato; che obbedisce al decalogo ed ai precetti di santa madre chiesa: ma nei quali dio non vive. Questa religione rifredda, alla Don Abbondio, desta almeno il riso o il disgusto: è cosa da commedia, è cosa scurrile; ma lo scurrile è categoria del comico ed il comico è forma di poesia. Invece il cristianesimo dell’Aleardi sembra un abito stanco, una vuota consuetudine di professarsi cristiano, com’usa pur troppo da molti in Italia, quantunque in fondo non si sia più cristiani che turchi o scettici od hegeliani e s’ignorino affatto gli spasimi e le voluttà del sentimento religioso, e non si pratichino neppure i riti del culto. Da questa disposizion d’animo può solo emergere l’ironia, e quando l’autore non sa o non può ironizzare, e vuol fingersi cristiano come Vincenzo Monti si fingeva pagano, rimarrà sempre nel declamatorio e nel rettorico. V. Nè diversamente accade all’Aleardi quando ragiona d’amor patrio o di libertà. — «Come, come? cos’ha detto? Forse abbiamo franteso. Il patriottismo, il liberalismo non sarebbero passione in Aleardo Aleardi? E le sue persecuzioni? E l’esilio? E Iosephstadt? Ed i tempi passati.... _su lo strame De le prigion, col trave Del patibolo in faccia?_» — Io non dico dell’uomo: che importa dell’uomo a me ed a voi? Ma dall’Aleardi poeta anche l’amor patrio si ostenta sol per dare un qualche spicco alla personalità del poeta, rassomigliando alla foglietta d’argento che l’orafo sottopone ad un mediocre plasma di smeraldo acciò sfolgori quanto una vera gemma. Il patriottismo del cittadino rimane sterile per lo scrittore: ne parla, nol mostra. Cos’è l’Italia per lui? Si scartabellano senza frutto i canti in cerca d’un concetto della patria, della libertà, espresso in una immagine ammodo: per l’autore, come per quei filosofanti medievali, sono meri _flatus vocis_. Leggi la famosa canzone del Petrarca: _Italia mia, benchè il parlar sia indarno_; leggi la invettiva dantesca: _Ahi serva Italia di dolore ostello_; leggi le _Fantasie_ di Giovanni Berchet; leggi fin que’ miseri epigrammuzzi di Vittorio Alfieri; ed innanzi alla tua mente starà chiara e viva un’immagine di questa tua patria; ognuno di que’ sommi me l’ha rappresentata com’e’ l’ha sentita, come la sua fantasia gliela raffigurava o presente o futura. Ma non sente, non ha viva in sè l’Italia nostra, colui che parlandone a Gesù Cristo in paradiso, la chiama: _La terra tua, però che là su un_ (ahi!) _sacro_ _Colle, di voti e di laureti adorno,_ _La verginella ebrea,_ _Che ti fu madre, un giorno_ _La poveretta casa deponea._ Ma che? tutta l’istoria e la gloria nostra non è dunque nulla per l’animo di costui? La bellezza di questa terra, la virtù di questo popolo, sono cose tanto estranee alla sua coscienza, che per raffigurarmi l’Italia ei dà di piglio alla casa della Madonna? E se almeno fosse un picchiapetto, un bigotto, un uomo religioso; e ci credesse davvero alla alleata casa! se fosse di quelli che, andandovi in pellegrinaggio, piangendovi di tenerezza, stimano gloria maggiore per la patria l’esserne depositaria, anzichè di tutti i trofei romani! Ma, nossignori, rettorica pretta! e’ se ne ride e tutt’al più concede con lo Astigiano che sia _Pur men risibil delle antiche dee_. Quanto alla cacofonia del _su un_, so che potrebbe tentare di scusarla, citando il _Furioso_ (Canto II. Stanza XLI.) _Che nel mezzo, su un sasso, avea un castello_ _Forte e ben posto e a meraviglia bello._ Allora si pronunziava e taluno scriveva _s’un_; contrazione che non so quanto si ammetterebbe adesso. Pure queste parole dolcissime _Italia_ e _Libertà_, per quanto sia vuoto di sentimento chi le pronuncia, possedevano e posseggono una strana virtù: di strappar lacrime agli occhi, di strappar plauso alle mani; come il nome della diletta che circonfonde per noi d’un’aureola le più schifose creature. La più stupida uscita contro i tedeschi, procaccia agli attori una sfuriata di battimani: ed insomma la popolarità della _Francesca da Rimini_ di Silvio Pellico per tre quarte parti si deve alla fragorosa apostrafe all’Italia. Ogni strimpellator di violino che scortichi pe’ caffè l’Inno di Garibaldi è sicuramente applaudito e raccoglie soldi assai nel vassoino; prima, perchè ricorda agli acculattatori delle panche una persona che loro è simpatica; poi e soprattutto perchè sanno di fare un dispetto ai questurini. Ed il ripeter sempre _Italia_ e _Libertà_, ha procacciato il favor popolare all’Aleardi; ha coperto d’un pampano la sua nudità poetica. Riguardo poi all’ostentarci di continuo il martirio di quei pochi mesi di prigionia.... cazzica! io non sono tanto offeso esteticamente dal modo in cui se ne parla, quanto moralmente dall’udir tanto baccano per tanta parvità di materia: _much ado about nothing_. Ma venne osservato già da un pezzo, come ne’ rivolgimenti politici chi meno si lamenta è sempre chi più perde; e viceversa chi fa più bordello è sempre chi meno ha sofferta. Noi, giovani della nuova Italia, educati negli esilî all’odio aperto od in patria all’odio coperto delle tirannidi; avvezzi a considerare come avvenire inevitabile e desiderabile gli ergastoli ed i patiboli sortiti da’ nostri maggiori; noi, che tutti, tranne pochi dappochi e gl’impediti da forza superiore, abbiamo indossato o la tunica del soldato o la camicia del volontario; noi, consueti a non calcolar mai per ostacoli le minacce ed i pericoli; noi, che s’è mostrato di essere uomini e di meritare d’esser liberi; noi, ci perdoni l’illustrissimo signor commendatore Aleardo Aleardi; non siamo, noi commossi da chi guaisce quasi femminetta per breve carcerazione o non lungo sbandeggiamento, consolato da stipendî malguadagnati. Forse nell’epoca slombata anteriore al milleottocenquarantotto, nell’epoca frustata da quel Giuseppe Giusti che il signor commendatore Aleardo Aleardi fatuamente chiama il _suo povero Beppe_, forse allora si scroccava un brevetto d’eroe, di martire, mercè d’una visita domiciliare o d’una detenzioncella preventiva. Ma ora!... Quanti hanno sofferto viemmaggiormente; e, quel che più monta, operato qualcosa; ed illustri non ci rompono gli stivali col raccontarcela sempre daccapo magnificando; oscuri, non pensano neppure a farsi valere! E che direbbe il signor commendatore Aleardo Aleardi se avesse vissuto come Luigi Settembrini metà della vita fra ’l carcere e la galera e settantadue ore in confortatorio? sempre uomo ed allora e prima e dopo? Ed il Settembrini di tutto parla e fors’anche (anzi senza forse) non di tutto tutto a proposito; ma degli anni e delle ore in cui fu eroe, mai. E che direbbe il signor commendatore Aleardo Aleardi se a lui giovanetto fossero toccate dalla polizia austriaca le vessazioni che il pittore leccese Gioacchino Toma sofferse dalla borbonica e mercè le quali rischiava di crepar di fame? Autodidatta, egli era venuto da Tricase a Napoli pedestremente per amor dell’arte e campava facendo l’ornamentista il giorno e studiando il nudo la sera: sbandirlo dalla metropoli era un precludergli ogn’avvenire artistico ed un togliergli ogni mezzo di sostentarsi nel presente. Ed ha penato con impassibilità, s’è onestamente ingegnato, ha preso le armi nel momento opportuno, ha pugnato con coraggio, senza poi mendicare il riconoscimento delle sue spalline insurrezionali. Ed il Toma non chiacchiera mai corampopulo de’ suoi fatti, non si dipinge da protagonista ne’ suoi quadri; ed è uomo che dopo aver pennelleggiato quel capolavoro dello _Esame rigoroso del Sant’Uffizio_, perchè sente altamente dell’Arte, perchè sente pudicamente di sè, teme d’aver mal fatto, appoggia la tela con la superficie dipinta rivolta al muro, la guarda di tempo in tempo dubitando sempre e finalmente, sforzato dagli amici e dal bisogno, la porta di contraggenio all’Esposizione, dove la intera Napoli la ammira. Non tutti siamo da tanto, nè per valore nè per modestia: sappiamcelo! Ma tutti o sommi o minimi, o scrittori od artisti, riguarderemmo come insultante una legge sul tenore dell’Ateniese, che il commendatore Aleardo Aleardi sembra rimpiangere, la quale vietasse agli scrittori od agli artisti di avventurarsi in battaglia. E se mai legge analoga ricevesse l’approvazione de’ due rami del Parlamento e venisse sancita e promulgata dal Re, non ci casca un dubbio al mondo, che malgrado la nostra devozione al Parlamento ed al Re, la trasgrediremmo. Ben inteso che ho parlato sempre non dell’Aleardi uomo, anzi dell’Aleardi poeta. Dunque non ha sentito nè la religione, ned il patriottismo. Vediamo se per avventura abbia sentito l’amore. VI. L’amore è per le letterature de’ popoli moderni quel che la vôlta è per le loro architetture. E l’uno e l’altra acquistarono valore per l’Arte appo i Romani e signoria presso che esclusiva nel Medio-Evo. Allora la vôlta divenne principio e norma di ogni costruzione artistica, anche nelle contrade dalle quali il clima e la natura del materiale in uso avrebbero dovuto apparentemente escluderla. Inesauribile nelle forme e nelle combinazioni; pieghevole ad ogni scopo, ad ogni bizzarria; capricciosamente complicata nel gotico e nel barocco; miracolosa nelle cupole, ne’ ponti, negli acquedotti; perchè cominciasse a perdere del suo d’impero, conveniva che questo matto secolo decimonono desse di piglio a due materiali sin’oggi trascurati dall’arte edificatoria: al ferro ed al vetro, rivaleggiando con lo Atlante dell’Ariosto e con le fate de’ conti popolari. Parlavamo di amore. Non v’ha passione più spontanea, più universale, più comprensibile: ogni uomo, che sia uomo, ogni animale, che abbia anima, debbe averla sentita o sott’una o sott’altra forma; se finanche le cieche forze di natura sembrano sciogliersi in rapporti amorosi! — «Niuno effetto ovvero accidente, qualunque ei si sia, è tanto universale e comune a tutte le cose. Perciocchè egli non è cosa nessuna in luogo nessuno, nè tanto bassa e ignobile, nè così alta ed eccellente, la quale non abbia in sè qualche amore; anzi quanto è più nobile ciascuna cosa e più perfetta, tanto ha senz’alcun fallo più perfetto amore e più nobile.» — Così Benedetto Varchi. Foggiandosi l’amore diversissimamente, secondo le più minute e nascose parti della personalità amante e dell’amata, esso è inesauribile nelle sue modificazioni: e quindi, tanti poeti, tanti amori. Sel sanno e conscii di quanto lor giovi quest’affetto, non possono pensarvi senza entusiasmo e riconoscenza, — «sono innamorati dell’amore; — _Applaudissez du moins pour l’amour de l’amour_, conchiude una volta Teodoro di Banville. Hanno adoperato le più vaghe parole ed efficaci per rappresentarcelo vivamente; hanno sfruttato le cave delle metafore e degli epiteti per caratterizzarlo. L’hanno chiamato fiamma, catena, sospiro, piaga, luce, guerra, martoro, follia, raggio; ed ognuno di questi termini indica ed implica già di per sè ed _in nuce_ un concetto della passione; sebbene col tempo, pur troppo, rimettendo della efficacia primitiva, siano precipitati nell’uso volgare della lingua, e sappiano del rettorico quando lo scrittore indifferentemente li adopera. Ed Aleardo Aleardi in busca di novità chiama l’amore.... voi non vorrete credermi, ed è pur così.... chiama l’amore: _assillo!_ Dunque non è per lui la fiamma divoratrice del vivicomburio; nè la piaga onde sgorga il sangue e la cancrena si diffonde; nè la catena obbrobriosa, fatale e pur cara; ned il martirio immeritato e sofferto imperturbatamente, grazie alla buona speranza che lo allevia; ned il raggio implorato che dissipa gli errori della tenebria; no! chêh! anzi una delle innumerevoli noje della vita, seccatura inevitabile che ci sforziamo di scacciare come l’importuno tafano, bestemmiando la santa volontà di messer domineddio. L’amore è un disturbo della nostra pace; distrae Narciso che si specchia al fonte, e sparpaglia e fa diventar frenetica con le sue punture la povera mandra umana che rumina tranquillamente all’ombra. Nè si scusi l’Aleardi allegando il tropo esser tolto di peso dall’ode terza d’Anacreonte tejo. Perchè rubare quando non si sa utilizzare il furto? In quello scherzo umoristico dello amico di Policrate samio, un puro paragone simile, fatto di volo, sta bene; ma chi ne fa una metafora e l’adopera sul serio, non sa quel che si faccia. E la passione amorosa che in Omero esiste appena come accessorio e sotto la forma quasi brutale d’affetto conjugale; che l’Erissimaco di Platone confessa con istupore di non trovare encomiata da alcuno de’ tanti innografi; che in Virgilio, quantunque essenziale d’importanza, è puramente episodica nella composizione: diventa dalla poesia provenzale in poi fondamento e condizione d’ogni poesia. Sembra che ormai l’ideale possa incarnarsi solo in forme femminili; e che la via fatta, o prosperamente od indarno, per raggiungerlo, l’Iliade combattuta e l’Odissea sostenuta, possa ritrarsi unicamente dipingendo le vicende di un amore. Diceva il Goethe: — «Rassomiglio le donne a patere d’argento, in cui noi poniamo frutta d’oro. L’idea, ch’io ne ho, non l’astraggo dalle parvenze effettive, anzi m’è innata, od è sorta in me dio sa come. I caratteri femminili, che ho rappresentati, se ne sono avvantaggiati: sono meglio sempre che nella effettività... La donna è l’unico vaso, che rimanga a’ moderni, per versarvi la loro idealità. Degli uomini non c’è, che farne. Omero ha tutto preso anticipatamente in Achille ed Ulisse, nel più forte e nel più saggio.» Questo modo di concepir l’amore apparterrebbe al più basso comico, al buffonesco. Quando il monaco medievale raffigurava nella miglior passione umana il demonio tentatore e si crocesignava scorgendo una bella ragazza, era ridicolo; ma latitava pur sempre uno strazio altamente serio in fondo a quell’apparenza comica: tutto il fàscino della tentazione, tutto l’intenso desiderio del frutto vietato, tutta l’ebbrezza d’una gioia momentanea fruita a prezzo d’eterni tormenti. Quando l’alverniate Sebastian-Rocco-Nicolò Chamfort definiva l’amore: — «scambio di due capricci e contatto di due epidermidi» — era ignobilmente prosaico; eppure si ravvisa qualcosa di tragico in quest’uomo costretto dal ragionamento e dall’esperienza a negare la maggior dolcezza della vita. Epperò quel comico spontaneo e questo comico dottrinario serbano una certa dignità. Invece il comico del concetto implicito nella espressione aleardesca, risiede nell’incapacità del subjetto, il quale si dimostra disadatto a gustar l’amore. È una comicità nauseosa, come quella dell’eunuco innamorato delle sultane che attuffa nel bagno o conduce al talamo del padrone, nelle _Lettere persiane_ di Carlo di Secondat, barone della Brède e di Montesquieu. Ho detto _è_, doveva dire _sarebbe_, se fosse sentita ed enucleata, il che non è. Meno forse d’ogni altra cosa l’Aleardi concepisce l’amore: qui proprio non ha mai barlume di vera tenerezza o di vera disperazione, qui dove l’infimo degli scrivacchiatori coglie spesso qualche felice momento. S’egli ostenta d’essere amato, non commette un’indiscrezione scusabile dall’affetto sovrabbondante, anzi una calcolata scimmieggiatura di Vittor Hugo per propalare che una signora _comiffò_ il chiama: _mio poeta_. Se impreca ad una ritrosa, non accade pel crepacuore della passione insoddisfatta, anzi per tradire, imitando Giacomo Leopardi nell’_Aspasia_, dispetto e meraviglia che una donna abbia potuto non istimarsi onorata e beata d’esser prescelta ad appagar le voglie d’un tanto vate. Ripeto, tutto questo tornerebbe sublimemente disgustoso, se il comico ne fosse sentito e svolto: ma l’autore parla con la massima serietà e senza evidenza. Non sente l’amore. Descrivendo due amanti, i quali godono: — «quel soave fin d’amor, che pare All’ignorante vulgo un grave eccesso,» — il signor Aleardi ha osato chiamare i momenti di voluttuosa ebbrezza: _........ ore di cielo,_ _Che ne l’inferno echeggiano.......;_ e peggiora nell’ultima edizione questo pessimo brano, correggendo: _Ore di ciel, che il ciel condanna._ Corpo di Bacco! ed io crederei che questo uomo abbia potuto amare mai? Oh quegli cui una gentile desideratissima è stata quandochessia benigna una ora; quegli che almeno con la fantasia cupidamente ha bramato un’ora di felicità; sente nel ritrarla, non casca in freddure, in concettini, in antitesi; non pensa ned al cielo, ned all’inferno: quel presente è tale che spreoccupa del futuro. — «Ma l’Aleardi ha forse voluto manifestare la sua riprovazione per gli amori illeciti, che ne offendono il senso morale....» — Poverino! Davvero? E gli uomini dal senso morale conturbato, gli uomini ripieni di santo sdegno contro il peccato, a’ tempi nostri il rivelano coi bisticci; come un secentista, come il cappuccino nel _Campo di Wallenstein_, del quale lo Schiller coadjuvato dal Goethe compilò la parlata sulle opere di Abramo da Santa Chiara? Che tanfo da don Pirlone! L’Aleardi ha voluto mentire una riprovazione che non sentiva, e non gli è riuscito. Non potremmo che commiserarlo se davvero sentita l’avesse: Dante era un carattere moralmente severissimo, come non ce n’è più, e colloca Francesca col cognato nella bufera infernale; eppure piange al vederli, eppure gliene duole, eppure s’impietosisce fino a cadere in deliquio: condanna e non impreca, perchè la mente gl’impone di condannare, ma il cuore scusa; invidia que’ meschini, ma la fantasia, ritraendogliene la dolce colpa, lo invaghisce di essa. Ma lasciamo Dante: i paragoni sono odiosi. Il Nostro dichiara di amare ardentemente non so che Maria, ed in pruova le propone..... — «Cosa? Badiamo, veh, di moderare le espressioni!....» — — Non c’è da moderar nulla; non fu mai vista più moderazione in alcun amadore. Le propone di andarsene soli scorrazzando senza saper dove...... — «Scarrozzando?» — — No, scorrazzando, a piedi. — «E non sarebbe meglio prender la ferrovia e scapparsene per un mesetto a Parigi, ch’è il luogo più acconcio per godersi lietamente la luna di miele di qualsivoglia amore?» — — Crederei, ma i giudizî differiscono. Le promette di raccogliere muschio e fargliene un guanciale, senza federa; di _suaderle il sonno cantando la sua canzon più bella_; e di meriggiarle accanto sotto _all’odorosa tenda d’un’acacia tardiva_ perchè non diventi mora.... — «Vedi bàlia e ninna-nanna! non sarebbe meglio andare all’albergo e farle preparare un buon letto sprimacciato, magari a due piazze?» — — A parer nostro, ma i gusti variano. Caso sopravvenisse un temporale; _di freschi allori le farà ghirlanda_; acciò vada: _rispettata dai fulmini le chiome_...... — «O non sarebbe meglio aprire il paracqua?» — — Secondo gli usi odierni, ma i costumi cambiano. Quando poi la Maria avrà sete le _..... corrà pei solchi,_ _L’onda del ciel nel calice dei fiori._ _Che dio prepara all’uccellin che migra...._ — «E quando l’avrà fame?» — — Una creatura tanto eterea non ha mai fame; ad ogni modo _le frangerà il suo pane sovra un desco di rose e di viole_; — «Magro pranzo e desco incomodo!» — — Quistion d’abito. Malgrado la etereità, pure a queste offerte seducenti, la Maria va _..... celando, con la man di neve,_ _L’esistenza che in porpora la tinge._ — «La _man di neve_? scommetterei che il _braccio eburneo_ e le _labbra coralline_ son poco discoste. Una ciliegia tira l’altra». — — Zitto, che adesso viene il bello. L’amante per assicurar lei che tituba, le dice: _Rea non sarai: però che sempre è mesta_ _Quella letizia che di colpa odora._ — «Odore di colpa? somiglierà all’odore di becco, m’immagino. Un amante chiama reato e colpa lo scopo dell’amor suo? Mi burli? O che nuovo modo di sedurre? che nuova razza d’amanti è codesta?» — — Una esotica, rinvenuta dall’Aleardi, che han fatto probabilmente commendatore in grazia della preziosa scoperta zoologica, e non già, come si buccina dalle male lingue, in mercede de’ versi scarabocchiati nell’albo del ministro Natoli. Egli prosegue: — «Al fondo non ci separa che un pregiudizio stolto. La progenie umana _ai capricciosi_ _Moti del suo pensier diede il superbo_ _Nome di legge._ Ma non importa: rispetteremo lo stolto pregiudizio, perchè... lo rispetteremo. Vivremo come fratello e sorella, placidamente insieme. _Mia non sarai. Fidati_». — E descrive gli amori di due isolette vicine, consorti, ma separate da mare profondissimo: _Si guardan sempre e non si toccan mai_; della luna e del globo, che fanno all’amore, quantunque _...... una infinita_ _Lontananza di freddo aer le parte:_ _Si guardan sempre e non si toccan mai,_ e conchiude: _Così noi due, soletti pellegrini,_ _In vicinanza coraggiosa e monda,_ _Malinconicamente esuleremo;_ sicchè nojaltri lettori si finisce col fargli l’atroce ingiuria di credere che la Maria potesse fidarsi daddovero! Chieggo scusa dello scherzo, che convengo esser di pessimo gusto. Ma sfido io di rimanere in contegno leggendo questa robaccia e ricordando che pur c’è chi l’ammira _bona fide_. Chiunque ha un po’ di mondo sa che nella vita si dànno casi analoghi; due infelici, due miserrimi possono trovarsi in una posizione falsa siffatta; ma se amano veramente, sinceramente, uno strazio catartico, una tragica colluttazione debbe verificarsi negli animi loro. Et, od il travaglio interno, cresciuto al punto — «che sostener nol può forza mortale» — gentilmente uccide i travagliati; oppure, vincendo ogni ritegno, sforzandoli a violare i dettami della coscienza, apparecchia la necessità della espiazione. Tale sarebbe il caso d’un fratello e d’una sorella che si amassero d’amore non fraterno, come il Renato e l’Amalia di Francesco-Augusto, visconte di Chateaubriand. Ma una rassegnazione placida, come questa dell’Aleardi, che non fa presentire nessuna catastrofe, è non meno psicologicamente assurda, che poeticamente incapace di soddisfarci. Verso la fine dello squarcio che ho riassunto si notano alcune descrizioncelle indovinate, almeno come intenzione: la rosa, _All’amoroso rosignuol contesa;_ Le isole, che _..... l’una all’altra_ _Sorridon liete;_ La luna e la terra, che: _..... nelle notti,_ _Si scambiano un saluto alternamente_ _Con favella di luce;_ ma perchè riuscissero poetiche qui, avrebbe da ogni parola dovuto trapelare la meraviglia, che a dispetto d’ogni legge naturale, il fiore e l’augello, le due isole, i due astri non si costringano in amplesso, ingenerando negli uditori il convincimento, che malgrado tutte le belle promesse, dopo la prima giornata di viaggio, il poeta sarà uomo e la Maria sarà donna, e la categoria morale violata preparerà la sua vendetta e la loro rovina. Allora avremmo biasimato l’aberrazione pur commiserando quei traviati, come nella _Mirra_ dello _Allobrogo feroce_ (che fu allobrogo solo ne’ versi del Foscolo) per quanto s’inorridisca delle brame incestuose è pur forza compatire la vittima infelice della Nemesi. Ma così, come l’Aleardi li ha rappresentati: primo, l’impedimento, rimanendo troppo nel vago, sa del capriccio irragionevole; e, secondo, la rassegnazione sa d’impotenza. Il poeta non ha sentito: non v’è strazio di sorta in lui. Non v’è di che stupire. L’amore è abnegazione, oblio di sè: come può dunque amare un autolatra? Chi non vede che sè solo dappertutto, non può provare alcuna maniera di affetto. E questo è il caso nell’Aleardi anche per l’amor filiale: più lo decanta, più ne ostenta, e meno ci commuove. Se fra’ cani ci fosser de’ verseggiatori, forse a qualche o bracco o levriere o barbone od alano o mastino o molosso potrebbe condonarsi il dire: _..... ne la deserta_ _Mia cameretta ancor sento il celeste_ _Tuo profumo di santa;_ ma per la _genitura_ o meglio progenitura di Giapeto, un figliuolo che fiuta od annusa la madre è una immagine ridicola, ed un profumo di santa non si sa cosa sia. Nè mi si citi la Novella sesta della seconda giornata del _Decameron_, dov’è detto: — «Il figliuolo, quantunque molto si maravigliasse, ricordandosi di averla molte volte avanti in quel castello medesimo veduta e mai non riconosciutola, pur nondimeno conobbe incontanente l’odor materno e sè medesimo della sua preterita trascuraggine biasimando, lei nelle braccia ricevuta lagrimando teneramente basciò.» — Che _odore_ in questo brano non indichi cosa che agisce sull’olfatto, è chiaro. La Crusca registra lo squarcio come esempio di odore nel senso d’indizio o sentore; e dopo — «conobbe incontanente l’odor materno» — aggiunge parenteticamente — «cioè la raffigurò.» — La spiegazione letterale non parmi soddisfacente, ma non importa. La brutal metafora del Boccaccio non era da prendersi per ingemmarne una lirica. VII. La passione è femmina, il concetto è maschio; quella vuol esser fecondata da questo per produrre un portato poetico. L’animo dello scrittore il paragono ad un areme, un gineceo, un serraglio; i suoi affetti mi rappresentano le odalische; ed il concetto figura il pascià che gitta il fazzoletto a qual più gli aggrada. Nella Real Casa dell’Annunziata di Napoli, (_di squallida risorta ampliata_, come vi dice una lapide insulsa, che ricorda il celebre: _L’un era padovano e l’altro laico_) dove con pochissima carità si diseducano le projette, v’era e v’è forse ancora una usanza singolare: stretta clausura tutto l’anno, ma il giorno della festa del luogo, le porte si spalancano o spaparanzano (come s’esprime energicamente il dialetto partenopeo, con parola, che secondo il Manzoni, la lingua Italiana gl’invidia). Chiunque voglia entrare e visitare il brefotrofio, padrone. Le educande, in gran montura, stanno impalate lì come tanti capi di merci in vendita; e se alcuna mi dà nel genio, posso scegliermela e sposarla su due piedi e crearne una madre-famiglia: non c’è memoria che un’esposita avesse rifiutato un pretendente per quanto laido, scontraffatto, decrepito e scostumato, che una cosa anelano esse tutte più che lo Ebreo la venuta del Messia: di liberarsi dalla bolgia, dalla tomba, in cui gemono; in cui sono oppressi i polmoni, depressi gli spiriti; dove non si può nè respirare nè sperar bene. Appunto quelle innocentine somigliano alle disposizioni dell’animo nostro, che si precipiterebbero col più scapestrato concetto, pur di uscire da’ muti claustri della mente, e vivere nella luce e nello splendore della parola. Ogni componimento implica un concetto, che n’è l’anima, ch’è il pensiero il quale in esso risiede e s’incentra, facendone un microcosmo. Sparito il concetto, ogni poesia sfigurerebbe; la più zeppa e ridondante d’immagini vaghe sarebbe soltanto un mucchietto di preziose gemme. Perchè le gioie si spietrino; e, come nel mito indiano sotto la mano prepotente della divinità, divengano membra di sommo splendore e fattezze d’impareggiata avvenenza e vita: bisogna che il signor concetto sopprima con un colpo di stato l’autonomia delle singole parti ed immagini, subordinandole ad una unità superiore. Allora il componimento addiventa un tutto organico, acquista coscienza e significato. Il Carteromaco, nel sesto canto del _Ricciardetto_, ha un bel paragone che qui quadrerebbe: _Come il pittor ch’a mosaico si dice,_ _Dev’esser il poeta a mio parere;_ _E quegli è riputato il più felice,_ _Che meglio accoppia pietre bianche e nere_ _E rosse e gialle: e poi di tutte elice_ _Una fera, una donna, un cavaliere._ _Così deve il poeta, se sa fare,_ _Di varie cose il suo poema ornare._ Le pietruzze variopinte son le immagini singole, il concetto è appunto quella figura che risulta dal compaginarle. Il concetto pare dunque la più capace affermazione in cui si concreti il sentito dal poeta: se lo scrittore avesse male o deficientemente sentito, la riflessione genitrice del concetto, mancherebbe di sustrato, di un objetto sul quale esercitarsi. Nè mi si opponga il trovarsi qualche rara volta alti concetti senza punto sentimento, puta, nelle liriche di Giovambattista Vico. È vero, quindi nol nego. Ma non essendo stati sentiti, anzi solo pensati, que’ concetti non si trasformarono di scienza in poesia; commuovono forse l’intelletto ma non la fantasia. Ed occorre non dimenticar mai, che scienza e poesia, quantunque spesso coincidano, sono essenzialmente due. Esaminiamo un po’ qualche concetto de’ componimenti di Aleardo Aleardi. Chi non ripensa frequentemente un’_Ora della sua giovinezza_, divenuta momentosa per l’intera esistenza? Od anche le ore più volgari della prima età? Il trovarsi oppresso e stanco dalla ricchezza di contenuto della vita; il guardarsi indietro vagheggiando l’insulso tempo infantile, quando e’ si vegetava; è umana cosa. Accade talvolta momentaneamente alle anime più robuste, vieppiù spesso alle fiacche ed imbecilli. Questo rimpianto, manifestato sotto forme adatte ad esprimere ciò che può esser solo un sentimento passaggiero, un accesso acuto, ha la sua ragion d’essere come ogni sentimento, e ci appaga negl’Idilli, nelle Romanze, nell’Elegie, che so! Se vien adoperato umoristicamente, meglio ancora. Ma non puole affermarsi con serietà in un lavoro a pretensioni e proporzioni colossali, che appena l’approfondisci, salta agli occhi quanto ha in sè di buffo, di ignobile, d’antipoetico, di gretto. Ed è così facile il cadere nell’indeterminato e nel declamatorio! — «Gli animi della fanciullezza» — scriveva il Leopardi — «sono, nella memoria di ciascheduno, quasi i tempi favolosi della vita; come, nella memoria delle nazioni, i tempi favolosi sono quelli della fanciullezza delle medesime.» — In quel modo che il popolo Romano a’ tempi di Augusto non poteva rimpianger sul serio il Regno di Saturno, in quel modo che il collegio de’ cardinali non brama sul serio d’esser ricondotto a’ tempi degli apostoli; ciascun di noi non vagheggia sul serio com’ideale l’adolescenza, neppure i più scontenti della propria vita posteriore. Che, badate, particolarmente poetica, non è la giovinezza in sè, bensì quel grande sperare che si fa in essa ed il cui risolversi in fumo è tanto tragico. Dunque non m’hai da diffonderti troppo ne’ particolari, non hai da infilzarmi prolisse querimonie da donnicciuola; anzi devi sapermi evocare splendidamente ma sobriamente con qualche immagini potenti, quell’epoca di beata inscienza ed incoscienza; farneticare di ciò che avrebbe potuto essere, che saresti potuto divenire; e poi con un tratto, con una parola, richiamarmi, revocarmi al presente amaro, nudo, sconsolato. Così mi seduci; t’impossessi dell’animo mio; e non mi lasci campo di riflettere e dirti: — «Che diamine! Non t’avvilire! Sii uomo!» — Aleardo Aleardi, invaso dalla stanchezza della virilità, rimpiange la quietitudine dell’animo puerile, il babbo, la mamma; racconta come una fiata, cavalcando a diporto, gli paresse di vedere co’ proprî occhi ricombatter la battaglia di Rivoli; come, nel tornare a casa, pensasse alla Polonia; e, giunto alla tomba d’una fanciulla scannata dal ganzo, le imponesse di apparire per dargli notizie dell’insurrezione di allora (MDCCCXXXI); e come la donzella emergesse dal sepolcro per dirgli: _..... la vergine polacca...,_ _Or che ti parlo è già meco sotterra;_ e come quindi una femmina vestita tricolore, _velata tutta d’iridi sacre_, nientemeno che l’Itala Musa in persona, intervenisse e sclamasse: _No. T’inganni, fanciulla. Ella è sepolta,_ _Ma non è morta. Un popolo non muore;_ affermando cosa che ogni alunno di ginnasio dovrebbe saper falsa, chè di popoli ne son morti tanti tanti; e come poi quest’_Itala Musa_ si mettesse a baciucchiar lui, che da quel giorno ha sempre cantato.... non dice però se da basso, tenore, baritono o soprano. Maledetta! debbo di nuovo chiedere scusa al leggitore per una facezia di cattivo gusto! Ma lo scherno s’impone a chi si vede imbandir prosuntuosamente queste... via, scavizzoliamo una parola blanda: questo pasticciotto insulso. Non basta il più saldo proposito di rimaner serio, quando si leggono ridicolaggini. L’Aleardi non s’abbandona ingenuamente alle reminiscenze giovanili, cheh! non racconta alla buona fatti accaduti o possibili; le sue invenzioni stravaganti e pretensiose debbono voler dire qualcosa; e noi abbiamo il diritto di appurare che significhino tante bizzarrie? che simboleggia quella visione? perchè invece di entrare nel caffè a dare un’occhiatina alle gazzette, scappa ad evocare una monella uccisa dal damo? eccetera. Ahimè, tutto ciò non significa, non dice nulla nulla; è un pretesto per descrivere gl’inverni irlandesi, una personificazione battezzata dea Vittoria, e che so io! un puro pretesto per isciorinare cognizioni di nomenclatura botanica e versi e versi e versi, ed informarci ch’egli è _l’enfant chéri des dames_, che fa girare il capo alle signore, ma che soprattutto la Musa travede per lui: _Mesto crebbe e virile il nostro amore;_ _E di te indarno ingelosir le belle_ _Creature, che un dì mi seminâro_ _Di vipere e di fior la primavera_ _Della mia vita; e stettero per anni_ _Del mio riso signore e del mio pianto._ Che malora sia l’_Itala Musa_, non so troppo, io. Forse il nostro casto verseggiatore avrà davvero incontrato ed abbracciato in sul far bruzzo qualcuna vestita tricolore; ma cosa fosse quest’una, il dirò con una parola, quantunque m’abbiano a leggere occhi più sicuramente pudichi de’ suoi.... Eppure, no; meglio una perifrasi.... E nemmanco di questa c’è bisogno: ci siamo intesi. Nelle _Prime Storie_ il poetino suppone gl’Italiani immemori e svergognati, visto ch’e’ ne ha mendicato invano un po’ d’attenzione: quindi cerca consolazione tornando alla Musa e vuol cantare, non però dei vieti e vuoti numi d’Olimpo: altri tempi! La Grecia non favoleggia più, anzi compie grandi gesta (si vede!) e noi com’essa abbiamo per Ippocrene la patria. Speriamo e cantiamo. La Musa, comincia a cantare; e per iscegliere un tema _palpitante d’attualità_, parafrasa il Genesi, ciarla delle repubblichette Italiane, delle crociate, della scoperta delle Americhe, eccetera. E quanti popoli furono indarno! La civiltà segue il corso del sole: ma prima dell’egemonia americana, e non si sa perchè, dovrà sorgere e tramontare un nuovo periodo egemonico Italiano. Sfido io a pescare un concetto in questo guazzabuglio, in questo cibreo di volgarità e d’amenità. L’autore voleva rifare poeticamente la storia universale? Dunque, bisognava cavarne una somma, identificarla in personaggi ne’ quali il pensiero filosofico diventasse vita, dando alle grette scrupolosità d’esattezza, bando alle inimmaginose nomenclature. Già, se vi limitate a riversificarmi per la millesima volta le storielle della mitologia biblica, non filosoferete, nè poeterete. Invece, infondendo nuovo contenuto al mito, potrete produrre splendide creazioni, come l’_Inno ai Patriarchi_ di Giacomo Leopardi; o per iscegliere un esempio che non sembri all’Aleardi una caricatura, come _Il Prigioniero_ di Francesco De-Sanctis, che senza dubbio è il _non plus ultra_ di quanto può fare chi non è nato poeta. Che serve esaminare ad uno ad uno questi titoli d’una pretesa infondata? Quando l’Aleardi accusa l’_Itala Musa_ d’esserglisi prostituita, è un calunniatore; e basta dimostrar falsa una parte del suo racconto, uno de’ documenti presentati, perchè ragionevolmente non sia più da credergli in nulla. Due sole parole sul _Canto politico in morte della Contessa Marianna Giusti, nata Marchesa Saibante_, dedicato _Al Venturo Pontefice_, perchè le ingiuste contumelie e facili e senza pericolo e codarde quindi e plebee, contro la canizie veneranda del pontefice vivente mi cagionano un tal disgusto, che avrei preferito passare senza ragionarne. Qui era balenato all’Autore un gran concetto. Egli chiede alla morta: — «Perchè morire? ora che riacquistiamo una patria! esser cittadina d’un gran popolo, non è meglio forse, che diventare abitatrice del cielo?» — Quanta profondità in questo ingenuo pensiero! come esprime acconciamente le idee moderne dell’uman genere adulto, che pago della sua sfera, conscio del suo significato, rinunzia volontariamente ad ogni speranza oltremondana! l’uomo si sente dappiù del santo, del dio, parti del suo spirito; la vita con le sue vicissitudini vien anteposta alla beatitudine immobile. Somiglia il concetto del _Prometeo_ del Goethe, che in quel frammento del francofortese rimane troppo astratto e filosofico, non si anima in tutto, non acquista vita piena e salda. Ebbene, di questo gran concetto che inciampava, messer Aleardo Aleardi non s’è nemmeno accorto! anzi giunge a tale eccesso di platealità da mandare la sua morte in cielo a pregare per l’Italia, come farebbe ogni scolaretto, come si legge su tutte le lapidi, come han fatto millantamila altri imbrattacarte prima di lui; eccetera, eccetera. VIII. Bastino codesti esempli: quando esaminassi tutti i canti, dovrei perennemente ripetermi. Vi è però, giustizia vuole ch’io ’l confessi, una maniera di componimenti, nella quale Aleardo Aleardi riesce egregio, poichè vi si può fare ammeno di concetto e di sentimento, vi basta un’emozioncella momentanea, un pensiero isolato. Intendo parlare di quelle, che volgarmente si chiamano _poesie d’occasione_; che i francesi denominano _fuggitive_; ch’egli addimanda, con un epiteto abbastanza incongruo, _volanti_; e che suppergiù corrispondono agli _Epigrammi_ degli antichi. Ho già notate alcune gentili strofuzze per una Maria Wagner; e non tacerò delle stanze per le venete, che mandano all’emigrazione i loro vezzi. Le misere hanno sentito _..... come un lamento_ _Di nota voce languida per fame,_ _Che vereconda dimandasse a stento_ _La carità d’un obolo di rame._ Ed in questi versi e’ s’avverte qualcosa di strascinato, che s’attaglia stupendamente al pensiero espresso e fa sentire la languidezza ed il ritegno col quale la voce chiede; ma perchè _obolo di rame_? tanto vale un obolo di rame quanto un obolo di argento, come tanto pesa un chilogramma di ferro, quanto un chilogramma di penne. Le Venete hanno udito; e commosse pregano un barcaiuolo di recare que’ pochi giojelli scampati alla rapina tedesca sull’altra riva del fiume: _Riva gioconda e pur riva d’esilio_; e di rammentare agli esuli che Venezia aspetta. Convien far la tara a queste esagerazioni: se le Venete ci avessero mandate tutte le gemme, tutta l’oreficeria loro, gli emigrati sarebber divenuti tanti signoroni; ma, preso con discrezione, il pensiero è semplice e vero, e nelle poche quartine e’ ci ha momenti indovinati e riboccanti di poesia. Esempligrazia, quando parla del _..... cor degli stranieri,_ _Bersaglio eterno all’Itale vendette,_ l’Aleardi dice meglio e più sull’odio fra la razza germanica e la schiatta latina, esprime vieppiù robusta e vivacemente l’astio accumulato dalle sofferenze, che non faccia con prolisse filastrocche nel _Canto politico_, ne’ _Sette Soldati_ ed altrove. Nondimeno anche qui non mancano dissonanze. Le Venete han la parola: _A noi meschine, in questi dì supremi_ _Fra la speme e lo spasimo ondeggianti,_ _Non si confanno anelli o dïademi,_ _Perle non si confanno o dïamanti._ strofa tollerabile, quantunque la smania dell’antitesi e del parallelismo vi giunga fino al bisticcio: _speme e spasimo_, _diademi e diamanti_, scherzi aliterativi, artifiziucoli, che la passione traboccante e sincera non comporta forse, ma che qui dove si tratta soltanto di formulare un’emozioncella in modo spiccato, facile a ritenersi, musicale anzichè poetico, sono forse non immeritevoli d’indulto. Approvo anche la dieresi, sebbene di solito _diamante_ sia trissillabo, e nello italianizzar vocaboli greci che cominciano per _dià_, come _diavolo_, _diadema_, si soglia restringere la particella in una sola sillaba, facendo dell’i una _j_ consonante; così Dante: _Che questi lasciò un diavolo in sua vece._ Ma l’Aleardi fa seguire immediatamente quest’altro tetrastico: _Abbiam catene in cambio di smaniglie,_ _La fune al collo in cambio di monili;_ _Le nostre fronti gocciano vermiglie_ _Sotto un serto di rie spine servili;_ che è pura rettorica: immagini false e quindi inefficaci e poi vengono questi versi: _Noi pur, se giova, taglierem le chiome;_ _E, con le trecce de’ capelli neri,_ _Tenderem corde da avventar saette;_ elle sono rettorica pretta. Care, non fate, che non giova. Vi svisereste senza scopo. Solo gl’indigeni della Nuova-Zelanda adoprano saette, ora; nel secolo dei cannoni rigati e de’ fucili ad ago. All’Aleardi, strano fenomeno, sembra prosaico il caratteristico, ch’è il vero poetico, e quindi s’attuffa nei luoghi comuni. Anch’egli Francesco Dall’Ongaro (altra bella cima e cara gioia!) ne’ suoi _Stornelli_ (che non sono altrimenti _stornelli_, anzi _rispetti_) fa offrire dalle livornesi il sacrificio di questa bellezza muliebre. La Maria Antonietta (dice egli) aveva giurato (_credat Judaeus Apella, non ego_) tornando, d’imbottirsi le materassa e gli origlieri con le trecce delle livornesi; e queste rispondono, ricordando come in altri secoli le loro capellature servissero a tender gli archi, e promettendo d’impiegarle ora a fasciar le ferite ai volontarî. Reminiscenza del Tasso: ma non si comprende, come nel caso dell’Erminia e di Tancredi, la necessità di ricorrere a tali fasciature poco igieniche e molto disadatte: manca pezze, bindelli e sfilacci? _Altezza, queste trecce, o brune o bionde,_ _Le abbiam già tronche un dì di propria mano,_ _Per tender gli archi e risarcir le fionde_ _Ai difensori dell’onor toscano._ _Or fascerem le margini profonde_ _Ai volontarî del lombardo piano...._ _Ma voi non ci godrete ore tranquille,_ _Vi pungeranno, Altezza, al par di spille...._ Ma questa freddura è roba vecchia, vieta, stantia, rancida, barba di cassone e di scaffale, fritta e rifritta, trita e ritrita, detta e ridetta le mille volte e meglio assai da scrittori precedenti, e con più spirito, Per esempio, il secentista Antonio Muscettola ha composta una canzone concettosa intitolata, _La chioma recisa_, dedicata al signor Mario Rota, in cui scrive: _IV. Già di recisa chioma_ _Fabricarsi mirò bellico arnese,_ _Perchè fusser difese_ _L’eccelse rocche sue, l’antica Roma;_ _Et or nove armi architettando Amore,_ _Troncò quel crin per saettarmi il core._ _XI.... Et, o beata sorte,_ _Se la crudel che mi ferì sdegnosa,_ _Divenuta pietosa_ _Di mia vicina irreparabil morte,_ _Troncasse del suo crin le fila vaghe_ _Del sen trafitto per fasciar le piaghe._ Le tre ottave _Alle Donne Milanesi_ sono indovinate, meno la seconda. Il componimento venne recitato in una festa data a Milano nel MDCCCLX, da signore veneziane abbrunate, che presentavano dei mazzolini di fiori alle lombarde e che invece di darsi in ispettacolo con simili commedie, avrebber servito meglio assai la patria standosene costumatamente in casa a rinacciare o far conserve od insegnare a compitare a’ figliuoli. Come è ben sentito il verso onomatopeico, che rappresenta l’austriaco, _Ululando la lingua di Lutero!_ magnifico e caratteristico in bocca d’Italiane cattoliche. L’ultima ottava poi è un capolavoro tecnico e poetico: quanta gentilezza nella chiusa: _E voi, lombarde memori sorelle,_ _Se mai trovate tra i soavi odori_ _Qualche stilla rimasta per incanto,_ _Badate, o pie, non è rugiada, è pianto._ Nel madrigale _A Re Vittorio Emmanuele_ finalmente, col quale Venezia serva è supposta accompagnare un bucchè, la personificazione è così spontanea e ben riuscita, che non oso condannarla; l’antitesi è così gentile e ben trattata, così franco e ben maneggiato il verso, che neppure un pedante osa chiedere da quando in qua le parti sono invertite e le spose mandino ramiglietti (mi si perdoni il napoletanesimo autorizzato da un esempio del Tansillo) mandino ramaglietti agli sposi, ed un napolitano stesso leggendo non pensa all’equivoco osceno che nel suo dialetto offre l’ultimo verso e quella parolaccia _mazzo_. Quando si giunge a preoccupare un napolitano fino al punto di non fargli avvertire una porcheria, è tutto dire. _C’est un joli rien_, come dicono oltr’Alpi. Per questi nulla, per queste inezie solo, aveva disposizione e capacità l’Aleardi: ed è veramente da rimpiangere ch’e’ non ne abbia scritto in maggior numero. Nulla? inezie? Sbaglio, ho mal detto. Non è mica la mole che fa il merito d’una poesia, anzi la perfezione: e parecchi rimangono immortali per siffatte gemme epigrammatiche. L’impressione momentanea ha dritto ad essere espressa dal vate; e molti poeti non possono, per idiosincrasia loro, ammucchiare i pensieri, le immagini, i sentimenti che quotidianamente si presentano alla fantasia, ammucchiarli, dico, ne’ magazzini della memoria pe’ casi in cui occorrano; se non li esitassero subito, li perderebbero. Così pure alcune frutta bisogna coglierle e mangiarle; la dimane non sarebber più commestibili. Così pure alcune pietanze vogliono esser trangugiate calde; a Napoli dicono: _friggi e servi_. Aggiungerò che l’eccellenza si raggiunge più agevolmente in queste bagattelle, che ne’ lavori di lunga lena. S’è sempre freschi; non s’è sopraggiunti da quelle stanchezze micidiali, che inducono spesso a buttar giù l’opera di anni od a lasciare interrotte minacce di lavori ingenti; non si rischia di riuscir mediocre in qualche parte, che sbagliata fa scomparire il rimanente quantunque ottimo; non si è costretti a sacrificare, ad eliminare mille bellezze, che non servono per lo schema concepito. Maestro del genere è l’Arouet: e dire che il signor di Ferney se n’è compiaciuto equivale al ragionare la bontà del genere; l’istinto inconscio d’un tanto genio è infallibile. _Chè intelletto divin, celeste ingegno,_ _Nulla a caso giammai forma e dispone._ (Adone. VI. 8.) Il Goethe opinava: — «Quantunque scriva un Voltaire, mi par buono, sebbene io protesti contro alcune temerità; ma le poesie d’occasione sono fra le sue cose più aggraziate: non v’incontri verso, che non ridondi di chiarezza, di spirito, di venustà, d’ilarità. Non visse mai poeta che al par di lui comandasse a bacchetta l’ingegno proprio. Una volta, mentre egli, dopo lunga visita alla Du-Chatelet, stava per incarrozzarsi, sopraggiunge un messaggio dalle educande del vicino convento; le quali, volendo recitare pel natalizio della Badessa _la Morte di Cesare_, pregavano l’autore d’un prologo apposta. L’occasione era tanto amena, che l’uomo non potea lasciarsela sfuggire. E’ si fa recare penna, carta e calamajo; e verga il prologo richiesto sul caminetto, in piedi. Saran venti versi: la poesia è pensatissima e perfetta, appropriatissima al caso, d’ottimo gusto. Ma non mi pare inserita nella raccolta delle sue opere.» — Un genere, ripeto, che lo amante della dotta Urania, che il Proteo multiforme della Francia ha coltivato con amore, non può disprezzarsi da chicchessia ragionevolmente. IX. — «Ma, chi scrive, bisogna pur che dica qualcosa; e gli ha da essere un impiccio indiavolato quando manca sentimento e concetto!» — — Gnornò. Anzi, stimala per la cosa del mondo più comoda: si scarabocchia carta e carta senza fatica, senza palpiti, senza patemi, senza sciuparsi, come amavano la Veneranda ed il Taddeo dell’_Amor pacifico_. Grazie a’ tanti secoli di vita che l’uman genere conta, grazie alla lunga esplicazione letteraria della mente Italiana, v’è una sterminata quantità di formolato a disposizione delle fantasie sterili: espressioni consacrate, immagini proverbiali, concetti volgari, luoghi comuni, parole e pensieri che furono forse un tempo roba poetica e sentita, ormai ridotta dall’uso a mere cifre, a segni convenzionali, come quelle monetacce, che circolando a lungo pèrdono l’impronta del conio. — «La lingua verseggia per lui,» — diceva il Goethe a proposito de’ componimenti dilettanteschi d’un Re bavaro. In somma delle somme, v’ha il mare inesauribile del rettorico (faccio per non nominarlo); di ciò che alcuni in Economia Politica addimandano ricchezza comune e gratuita, e che appunto perchè gratuita e comune, mal si spaccia per ricchezza nella scienza sociale e mal si battezzerebbe poesia nell’Arte. Ci è il sol di luglio del proverbio; e molti se ne fan belli, e molti il vendono, e molti dabbenuomini il comprano a caro prezzo, come cosa di valore e rara. All’oceano del rettorico, del formolato, attinge, senz’ombra di scrupolo, copiosamente Aleardo Aleardi: ne’ suoi canti non ravvisi la manifestazione immaginosa di concetti sentiti, anzi un sèguito di formole, de’ lunghi polinomî di cosiddette imagini poetiche. Ed il lettore ne riman commosso suppergiù come lo spettatore da una pergamena istoriata di rebeschi o da un papiro coperto di geroglifici. Quindi non vien freddato un tanghero nelle sue battaglie, del quale non si deplori la solita madre o l’immancabile sposa che ne aspettano il ritorno conteso in eterno! Se una fanciulletta od una contessucola sparenta, consoliamoci, anzi rallegriamoci: le sono ite ad acculattar qualche panca in cielo alla destra di dio padre onnipotente ed intercedono per nojaltri! Se accade una mischia, ecco subito i singhiozzi obbligati delle mamme e delle sorelline! I sepolti, ci s’intende, aspettano vendetta ed invocano l’ira del nume sul carnefice! I mondi danzano. (Ho l’imbarazzo della scelta fra mille esempli di questa immagine più vecchia del brodetto. Antonio Muscettola, nella canzone a don Giuseppe de’ Medici, Prencipe di Ottaiano, in cui narra come _danzando con la sua donna, da molti diamanti, ch’ella avea nelle dita, gli fu in gran parte scemato il diletto_, scrive: _Stanco il mondo godea_ _Tranquille piume in fra gli orror segreti:_ _E scintillanti e belle_ _Tessean lucidi balli in ciel le stelle)._ La natura inneggia al creatore. I firmamenti sono una tenda. La terra è un granel di polvere, chi la guardi dal cielo. (Vedi, per restringermi ad una citazione, la parlata d’Amore, in fine del quint’atto dello _Endimone_ del Guidi: _E la terra, che appare immensa mole,_ _Dall’uno all’altro polo_ _Sarà, sott’un tuo sguardo, un punto solo.)_ I vespri tuonano come quegli arcangeli, de’ quali nessuno ha udito la musica mai. Il Byron ha lasciato _l’ossa ad Albione ed i poemi al mondo_. (Di simili divisioni della eredità degli uomini grandi o spacciati per tali, potrei addurne centomila esempli. Mi basti rammentare la iscrizione sulla tomba del cardinal Parisio in Santa Maria degli Angeli a Roma ed il sonetto in morte di Torquato Tasso, che leggesi nelle _Tre Grazie_ del seicentista Antonio Bruni da Manduria: _Morto il gran Tasso, anzi avvivato in dio_ _Quei, che già riportò fra’ cigni il vanto;_ _Tra la Fama e la Terra e ’l Ciel s’udio_ _Bella gara d’onor fra ’l lutto e ’l pianto._ _Il Ciel diceva: «Il gran Torquato è mio,_ _Poi ch’apprese da me celeste il canto»._ _Dicea la Terra: «A me si dee, perch’io_ _Di me stessa gli ordii caduco il manto»._ _Ma soggiunse la Fama: «Anzi, a me sola_ _Dèssi il cantor che vinse il dio di Delo,_ _Perchè in Pindo per me chiaro sen vola»._ _Indi Febo parlò da un aureo velo:_ _«La Fama il nome, or che all’obblio s’invola,_ _S’abbia; il corpo la Terra; e l’alma il Cielo».)_ Quel destriero barbaro, di cui già Orazio, scalpita nei canti dell’Aleardi per mille millesime volte sulle tombe Italiane: _Barbarus heu! cineres insistet victor et urbem_ _Eques sonante verberabit ungula;_ eccetera, eccetera. Non vi si cansa un platealità demagogica o rivoluzionaria. Beninteso, che l’eminente statista, il quale in Austria si chiamava Clemente-Vincislao-Nepomuceno-Lotario Principe di Metternich e nel Reame delle Due-Sicilie, Duca di Portella vien gratificato dall’epiteto di assassino, e l’Austria riceve il predicato _perfida_, eccetera eccetera. Insomma ad ogni personaggio, ad ogni stato è conservato l’aggettivo in uso presso i politicanti da caffè ed i gazzettieri di trivio: l’Aleardi potrà servire di repertorio, quando una più giusta cognizione ed estimazione della storia li avrà fatti dimenticare agli avvenire. La Polonia cos’è? La terra di Giovanni Sobieschi, ben inteso, abbandonata dalla ingratitudine di questa Europa, che essa salvò dalla barbarie musulmana.... (Vedi i compendî di Storia ad uso delle scuole; tutti gli articoli di fondo scombiccherati da’ politicanti sentimentali sulla Polonia; e tutte le insulse filastrocche verseggiate su di essa da’ poetonzoli Italiani, cominciando da Giuseppe Ricciardi e terminando a Pasquale Turiello, o s’altri v’ha più da meno, miseri stemperatori delle tumide parole dello Châteaubriand nella biografia del Rancé: _Sobieski entra dans Vienne par la bréche qu’avait ouverte le canon des Turcs. Les Polonais sauvèrent l’Europe, qui laisse exterminer aujourd’hui la Pologne. L’histoire n’est pas plus reconnaissante que les hommes;_ goffi parafrasatori delle belle strofe del Poerio per l’arrivo in Sicilia dello autocrate Niccolò). Che dirò delle reminiscenze mitologiche, pagane e cristiane, eccletica e rettoricamente adoperate; delle personificazioni, che ti agghiacciono ad ogni piè sospinto? Bacco piange sulla crittogama; _l’insidioso Satana vola largamente con l’ale sul tenebroso tetto del Quirinale;_ le anime vengono _assunte al glorioso bacio del Cristo_; e via discorrendo. Non crediate già che il merito d’una battaglia trionfata spetti a’ nostri prodi! Ohibò! _..... Il derisore_ _Dio de le fughe visita le file_ _Degli stranieri e il core._ La convenzione di Vilagos ed il preteso tradimento sono bell’e spiegati col matrimonio di Arturo Görgey. — «Che forse amoreggiava con la figliuola del conte Rüdiger?» — — Nossignore, anzi..... _..... l’infamia..... su lo aborrito_ _Campo di Ieno a lui pose nel dito_ _Il suo vipereo anello nuziale._ Chieggo a voi che avete combattuto, o come mi rappresentereste un combattimento, una vittoria? M’immagino che porreste in luce un tratto caratteristico, il quale lasciasse indovinare il tumulto, le vicende della battaglia, del trionfo; che vi regolereste insomma press’a poco come Giovanni Berchet nelle _Fantasie_, quando sua mercè riviviamo a’ tempi di Legnano, divenuti ne’ suoi carmi più belli che non fossero nella torbida realtà. Ecco invece in qual guisa l’Aleardi si lusinga di pormi una vittoria sott’occhi, una vittoria del Bonaparte sull’Alvinczy; _Un giorno, immansueta e bella_ _Dea, la vittoria scese; e per quei poggi_ _Danzò la danza pirrica su metro_ _Repubblicano...._ eccetera, eccetera. Veggo con la mente una sgualdrina scambiettare, non mica combattersi una mischia. Vien proprio voglia di esclamare, come i contadini bresciani, quando per la calura sorgono vapori da’ campi acquitrinosi, ch’essi addimandano _nidi della vecchia_, di sclamare: _Bala, pör vecia!... che gh’ho in cul el to balà!_ Chiunque è avvezzo a non creare le immagini che adopera e ci è avvezzo per l’ottima ragione che non sente poeticamente; chiunque è avvezzo a servirsi del formolato: non potrà cansare, nel prendere delle _res nullius_, di por talvolta la mano anche su qualcosa che abbia un padrone, che non sia ancor divenuto patrimonio pubblico. E l’immagine od il pensiero accattato da uno scrittore, costituisce ciò che con blanda parola si addimanda reminiscenza e con altre più dure o meno ipocrite plagio o furto. Volere o non volere, alla mente senz’utero, inetta a fantasticare o favoleggiare con indipendenza, si affacciano que’ pensieri forniti e forbiti, perfetti, potenti; e non avendo essa virtù di trasformarli specificamente, le s’impongono. Quindi niente meraviglia, se percorrendo il Nostro, l’orecchio è percosso ogni tanto da un’eco languida d’altri scrittori contemporanei, massime del Foscolo, del Manzoni, del Leopardi e de’ franzesi Hugo e Lamartine. Anche su codesto capitolo io mi pregio d’essere frammanicone: nulla di più lecito che il riprendere l’opera d’altri. V’è del vero in quelle parole del Beroaldo di Verville: _Ceux qui disent «j’ai vu ceci et cela autre part» sont des chetifs averlans. Quand on mange d’un chapon, est-ce le chapon qu’il y a plus de cent ans qui fut mangé et chié?_ In Arte l’appropriarsi l’altrui non è rubare. Ad un patto però: che tu faccia tuo quel che t’appropri, che e’ imprima il tuo suggello, che vi scolpisca la tua marca, te, la tua personalità; che ne ricavi miglior partito dello inventore; che tu faccia come l’occupatore, l’usurpatore d’un terreno demaniale inculto ed insalubre, il quale il dissodi ed il bonifichi. Ingenerandosi ogni immagine da un’impressione, importa ben poco al fondo se questa prima impressione sia naturale affatto, oppure una immagine artistica anch’essa. — «Il mondo riman sempre il medesimo; le condizioni si ripetono; l’un popolo vive, ama e sente come l’altro; o perchè un poeta non dovrebbe favoleggiar come l’altro? Se le situazioni della vita sono simili, perchè pretendere dissimili le situazioni della poesia?» — Così diceva una volta il Goethe, chiaccherando su’ motivi delle poesie popolari serbe, tradotte in tedesco dalla Talvj; mentre Federigo-Guglielmo Riemer e Giampietro Eckermann osservavano: avere il Goethe, aver essi stessi, adoperati parecchi di quei motivi senza saper di serbo. C’era stato incontro. Ma come li avevano esplicati? a modo loro, non alla serba. Ogni tema, ogni situazione, ogni personaggio, ogn’idea, ogn’immagine, ogni metafora vive in ogni letteratura una lunga enucleazione poetica; le differenti fantasie di molti poeti guardano quegli elementi diversamente, successivamente e li esplicano, enucleano, svolgono, sinchè se ne sia cavato il cavabile; anzi, queste manifestazioni successive procedono storica e logicamente l’una dall’altra: si presuppongono e s’implicano. Gustave Pianelle ha compilato un libro: _Echi poetiche_, in cui registra molte imitazioni di squarci latini fatti da classici francesi: ce ne ha, che sono trasformazioni, ce ne ha, che rimangono semplici copie. Negli _Annali per le letterature romanze ed inglese_, un tedesco stampava testè non so che saggio sulle imitazioni degli antichi nell’Ariosto; e per citarne una, l’episodio di Cloridano e Medoro è ispirato evidentemente dall’episodio di Eurialo e Niso: ma quanto diverso! Giampietro D’Alessandro pubblicò verso il M.DC.IV uno scritto sugli accatti analoghi del Tasso; non ho vista l’opera, ma il Mannerini la rivendica per cosa propria od almeno afferma di aver messo insieme un lavoro consimile, nella prefazione al _Pastor costante_. Quante immagini l’Allighieri non desume da Virgilio! diremo che il saccheggi? Le famose ottave di Torquato Tasso sulla rosa presuppongono quelle di Ludovico Ariosto, che non ci sarebbero senza le stanze d’Angiolo Poliziano, imitate dagli esametri di Catullo: ma il Poliziano non ruba Catullo; nè l’Ariosto il Poliziano; ned il Tasso l’Ariosto: hanno esplicato e trasformato il concetto, sempre. Invece, nel _Cantore Sciaculi_, l’Aleardi manomette il _Bertrano dal Bornio_ di Ludovico Uhland; nel paragone che chiude le _Lettere a Maria_, ruba il _Mazeppa_ di Vittor Hugo; qui la trasformazione, l’esplicazione ulteriore del concetto manca. Nel _Triste Dramma_, nelle _Città Italiane_, nell’_È morta_, nella _Viola_, nel _Giuoco di Palla_, eccetera, eccetera; ecco dovunque reminiscenze del Foscolo e del Leopardi. Evidentemente Aleardo Aleardi non è infetto della delicatezza morbosa che spingeva Alfredo di Musset ad avvertire in nota ai lettori come qualmente egli avesse accattata questa o quella metafora del tale o tal altro. Non ha la franchezza con cui il De-Iouy diceva nella prefazione ad una commedia: — «Un generale estero, noto pe’ suoi fiaschi nella guerra d’America, il quale si consolava con trionfucoli teatrali a Londra delle batoste solenni buscate a Saratoga, il Bourgoyne, aveva già ideato di rappresentare una ereditiera circondata da proci avidi. Non avrei avuto scrupolo alcuno, il confesso, d’accattar da lui un motto arguto, un carattere nuovo, una scena od anche una situazione interessante, se ne avessi trovati nel suo lavoro: gl’imprestiti fatti agli stranieri non venner mai tenuti per plagi. Ma seguendo in ciò l’esempio dato spessissimo dagli autori inglesi, non li avrei imitati anche nel tacere gl’imprestiti da me fatti e nel disconoscere i miei debiti». — Insomma, per non uscir fuori della Italia, anzi per rimanere nel Veneto, lo Aleardi non ha l’ingenuità simpatica di Pietro Michieli, che dichiarava al lettore della sua _Benda di Cupido_: — «L’autore non ne ricerca lode, che di fatica; essendone la minor parte di sua inventione, e la maggiore trasportata da autori d’altre lingue. L’esser egli il maggiore nemico che possa haver l’otio è cagione di ciò: poichè, quando egli non si sente così pronta la vena poetica per comporre del proprio ingegno, s’ingegna almeno d’affaticarsi intorno alle compositioni da altri in altre lingue scritte, per non passare il corso della sua vita (per quanto può) in altro, che in attioni virtuose. In altri è stato stimato lodevole simile esercitio, e forse anco in lui non verrà biasimato. Tanto più, che avendo fino ad hora consignato alle stampe molti volumi di sua propria et assoluta inventione, da quelli si viene in cognitione, che non ha bisogno di mendicare dagli altri, essendo dovitioso nel proprio capriccio». — Ma del Nostro non abbiamo volumi _di sua propria et assoluta inventione_. Giovanni Berchet scrisse una volta: Come il mar su cui si posa Sono immensi i guai d’Italia, Inesausto è il suo dolor. — ed Aleardo Aleardi augura con cristiana carità al comunista francese di venir deportato in isole lontane: _Dove lo cinga un lutto_ _Perpetuo come il flutto._ Alessandro Poerio ha detto parlando de’ suoi dolorosi tempi: Nel seno del poeta Non s’agita il profeta; Gli è chiuso l’avvenir; — ed Aleardo Aleardi ripete: _..... E nel poeta_ _Il profeta morì._ Il Marino disse: Così dunque cangiar sinistra sorte Può maniglie in manette? anella in nodi? Gli aurei monili in ruvide ritorte? _Adone_ XIV. 299. Ed Aleardo Aleardi, come abbiam visto, scimmiotta: _Abbiam catene in cambio di smaniglie,_ _La fune al collo in cambio di monili._ Alessandro Manzoni ha posto in bocca al suo Adelchi certi versi, che lo Adelchi storico ripudierebbe, ma che tutti sanno a mente: ..... Una feroce Forza il mondo possiede e fa nomarsi Dritto: la man degli avi insanguinata Seminò l’ingiustizia; i padri l’hanno Coltivata col sangue, e ormai la terra Altra messe non dà; — versi che Aleardo Aleardi copia così: _L’odio fu sparso, il postero_ _Raccoglierà vendetta._ Lo stesso Manzoni vi rappresenta Alboino che sale sopra ’l monte, rivolge in giù lo sguardo all’Italia e sclama: — «Questa terra è mia!» — Ed Aleardo Aleardi imita: _.... Or su que’ sassi... si sdraja_ _Il vïennese sordido gregario:_ _Stende le membra, del bastone esperte,_ _Plebeamente, e, accesa l’acre foglia_ _Americana, guarda in ver le pingui_ _Venete valli e le lombarde e dice:_ _«Quelli son miei poderi.»_ E, (salta agli occhi) imita con ben poco discernimento. La esclamazione, dal Manzoni acconciamente suggerita ad Alboino Re, non istà bene sulle labbra dei poveri soldati tedeschi, i quali, come gli avrebbe dovuto insegnare _il suo povero Beppe_: .... Re pauroso Degl’Italici moti e degli slavi Strappa a’ lor tetti e qua senza riposo Schiavi li spinge per tenerci schiavi! Ci vuole anche un po’ di criterio per utilizzare ammodo gli spogli è gli _excerpta_ fatti nello scartabellare i buoni autori: non foss’altro per non somigliare alla moglie del tintore. Un giorno che aveva bisogno di cenere per le stoviglie o pel bucato, dà di piglio ad una catasta di guado e di verzino, credendo fosse roba di scarto; e con buona alchimia da cinquecento lire di droghe trasse cinquazei centesimi di cenere. Il Byron, sclamando: _Know ye the land where the cypress and myrtle_ _Are emblems of deeds that are done in their clime?_ con quel che segue, ha imitato il Goethe, che nel _Guglielmo Maestri_ fa dire alla sua Mignon: _Kennst Du das Land? wo die Citronen blühn_ eccetera. Il fatto è innegato: quella splendida introduzione ad uno dei più cari poemetti dello irrequieto inglese, venne aggiunta sulle bozze di stampa; è da lodarsi di non avere rifuggito dall’imitare. Ed il Goethe ed il Byron han date stupende descrizioni, idealizzando la natura di due contrade a loro cognite e memorande. E la forma interrogativa ne’ loro versi non è arbitraria, anzi ha un significato: indica la nostalgia degl’interlocutori, quel desiderio intensamente appassionato, il quale non può credere ignoto ad alcuno l’oggetto dell’affezione nostra, e chiama tutti a testimoni che si ha ragione di amare. Ma quando Aleardo Aleardi sul serio ti chiede: _..... Hai tu veduto_ _Ne la convalle di Siddim profonda,_ _Sotto il nitido ciel di Palestina,_ _Hai veduto brillar sinistramente_ _La laguna d’Asfalte?_ questa interrogazione è rettorica, perchè senza ragione d’essere, mera scimmieggiatura. Quando il Nostro, parlandoci d’un prigioniero che ritrae sulle mura del carcere la sua ganza, chiama _arte di Giotto_ la pittura; questa denominazione parafrastica è rettorica, perchè il povero Ambrogio Bondone qui non c’entra: il richiamarcelo in mente ci distrae dal prigioniero e dal suo triste sollazzo; mentre invece altrove, come ho avvertito, il tedesco è stupenda e caratteristicamente chiamato _lingua di Lutero_, rammentando così tutto l’odio che ogni Italiano vuoi cattolico, vuoi incredulo, deve alla nazione che generò quel secondo periodo di barbarie e di recrudescenza fanatica addimandato Riforma. Le descrizioni dell’inverno islandese e simili, sono rettorica nell’Aleardi, perchè il paragone serve solo a determinare e caratterizzare il termine principale, a compierne il fantasma; ed ove diventi un tutto per sè, una cosa autonoma: ove lo scrittore nel pennelleggiarlo ecceda i limiti e dimentichi il principale, dobbiamo conchiudere che il poeta patisce di distrazioni, _id est_ che non è potentemente preoccupato dall’essenziale, che non ne è quindi commosso. Ecco perchè tali strampalataggini convengono agli umoristi, a’ quali importa mostrarsi fuori et al disopra della poesia. La scelta de’ paragoni non è concessa all’arbitrio del poeta; non gli è mica lecito di adoperar questo o quello, a capriccio, perchè nuovo, perchè gli va a sangue, per una sua fisima, perchè così gli pare e piace. Gnornò: le similitudini hanno una necessità logica derivata dal sentimento, dal soggetto, dal carattere che volete esprimere; e quell’Italiano, il quale, per mostrare come l’anima sua, risalendo i tempi, migri agli anni della giovinezza, descrive in trentun versi i cigni che migrano d’Islanda in Grecia, doveva proprio aver l’animo più freddo del naso d’un gatto o vogliam dire (per non incorrere nella colpa che riprendiamo) più fredda delle ghiacciaje che circondan l’Ecla. X. Mai non disse Aleardo Aleardi la più giusta cosa, che quando fece reclamare dalla sua musa come proprio retaggio _..... Fucate fantasie, vestite_ _D’arte caduca._ Infatti, chi, per mancanza di concetti e di sentimenti, nonchè di forma e di pensieri proprî, è costretto a vivacchiare di accatto e d’impostura, cerca per istinto necessario o per necessità istintiva, di nasconder questa menda esaggerando², spaccando e rinvergando in cose estranee alla poesia le quali egli falsamente giudica fregi ed ornamenti, l’originalità, la virtù di piacere, che la steril sua fantasia è impotente a dargli. Questi mezzucci riescono spesso ad illudere e si scrocca fama di poeta; ma, trascorso il primo bollore, vien riconosciuto che lo scrittore è precipitato nel goffo, nel mostruoso ed ha sconfinato dalla poesia. Così talvolta una vecchiaccia, o rinsecchita od adiposa, a furia di perrucchini, di belletto, di bambace, di fascette, di polvere di riso e d’altri simili ordigni e cosmetici, giunge a simulare un’apparenza di grazia e di gioventù; e (l’uomo è fragile!) può farti scusabilmente girare il capo come un arcolajo per minuti cinque. Ma dopo i cinque minuti di capogiro scusabili, come la ti ha concesso un favore e l’effervescenza del sangue calmandosi toglie il momentaneo velo all’occhio, saresti inescusabile se non sapessi vederla nella schifosa realtà sua ed abborrirla. ² _Esaggero_, con due _gg_, per conservare al vocabolo la forza del valore etimologico. Viene da _Ex-aggero_. Gherardinianismo sporadico. Il nuovo piace anche a me: cui non piace? Pure, cosa intendete per nuovo? La novità non istà per Aleardo Aleardi nell’incarnare ne’ suoi componimenti concetti e sentimenti così connaturati, che diano una impronta particolare, singolare a’ pensieri, alle immagini, alla lingua, al verso. Egli spesso si figura di ringiovanire il triviale e l’altrui che costituiscono il fondo della sua poesia, aggiungendovi de’ ghirigori superflui, degli ammennicoli inutili, frammischiandovi qualche barbaro o strano vocabolaccio. Ha molto del secentista, come del resto quasi tutti i più vantati del secolo fra gli stranieri. Del pari Bernardino di San-Pietro non ravvisava il merito del suo _Paolo e Virginia_ nello aver creato delle persone vive o nell’importanza del concetto poetico e sociale; bensì nell’aver posta la coppia innamorata fra gli insoliti banani e palmizî, invece di collocarla fra le querce e le ficaje consuete. Esemplifichiamo. Il poeta non è botanico, nè la botanica è poesia. L’insopportabile abuso, che fa l’Aleardi di termini tecnici, i quali talvolta mi mascherano stranamente le più note pianticelle, non ha senso, ed esaspera il lettore. Mi ricorda la rabbia del vecchio cortigiano Behrisch, il quale avea riempita una delle stanze assegnategli per alloggio nella duchesca di Dessavia, con graste di geranî, pianta di moda, allora. Ma i botanici in Lamagna fecero distinzioni e suddivisioni tra geranî e geranî, attribuendo il nome di pelargonie ad alcune varietà. Ed il Behrisch li malediva: — «Imbecilli! io mi rallegravo di aver la stanza piena di geranî, e loro vengono e dicono che, nossignore, son pelargonie. Ed io cos’ho da farmene se non sono geranî? delle pelargonie a me cos’importa?» — Que’ nomacci eterocliti non ci stanno mica per una necessità poetica; vi son tirati pe’ capelli a documento della scienza botanica dell’autore. Ad Alessandro Manzoni, che si guarda ben dal farla, noi perdoneremmo quest’ostentazion di sapere, la quale in lui potrebbe psicologicamente giustificarsi. Difatti, il descrittore del giardino inselvatichito di Renzo Tramaglini non è un dilettante di botanica, anzi un filologo di primissim’ordine, che ha ideato una classificazione delle piante originalissima, e, come mi asseverano uomini competenti, scientificamente superiore a quelle dello svezzese Carlo di Linneo o del ginevrino Augustino-Piramo Decandolle. Ma la scienza dell’Aleardi probabilmente si riduce a qualche reminiscenza scolastica, all’aver isfogliato un manuale od all’aver passeggiato in qualche giardino de’ semplici, leggendo su’ polizzini attaccati alle piante od impalati lungo le ajuole: _conifere_, _lonicere_, _ottonie_, _bromelie_, _benisterie_, _ninfee_, _napelli_, _solatro_, _ranuncolo scellerato_, _lemna_, eccetera, eccetera. Propongo un’ipotesi: forse il Nostro fa ciò per mero esercizio mnemonico. Diceva il Goethe: — Degli studî ci rimane sol quanto praticamente applichiamo, il resto va perduto.» — L’autore adopera que’ termini, perchè gli rimanga impressa qualche cognizioncella botanica racimolata qua e là. Non sarei punto sorpreso, che non avendole mentovate mai, ignori cosa sono la vellintonia, l’eucalitto, la zeodaria, lo xilosteo, le alimacee, il liriodentro tulipifero, l’asimina triloba, eccetera, eccetera. Il poeta non è topografo; nè la natura per sè stessa poetica. Mancando l’uomo che vi si agita, non ci commuove. Il mondo senza uomini, come dice Piersippe Giusti, ossia il Marchese Giuseppe Spiriti, nella _Salace trasformata_: ..... ancorchè spettacolo giocondo Di meraviglie sia egli a sè stesso, Pur fora qual teatro a cui sian tolti Chi vi giuochi la sera e chi l’ascolti. Dunque, volendo rappresentarmi, puta caso, una valle, basta dipingermela come scena di un avvenimento caratteristico, ed è perfettamente inutile che tu spenda un cinquanta versi a particolareggiarmene la pianta, i nomi antichi e moderni, le produzioni e che so io; minuzie interessantissime in una _Guida novissima del Viaggiatore_, ma che non suscitano immagini commoventi, così da dar vita al fantasma di quella valle. Più analizzi, più distingui, più sminuzzi, più _dettagli_ e meno veggo l’insieme. Dimmi che i monti son cinerei, che la consolare è candida (l’avran forse lastricata di carrara lustro), che il fiume è verde (cosa da stagno), e mi avrai unicamente posto sotto gli occhi tre immobili macchiacce: verdognola cinerognola e biancastra. Dimmi che passano poane pel cielo e zattere pel fiume; ed io potrò solo fondare meditazioni ornitologiche e commerciali su codesti fatti. Dimmi che l’Adice reca a Verona un sorriso di Trento, ed io rispondo sbadigliando: — «rettorica!» — Dimmi che un fortino veneto è trasformato in fortezza austriaca, ed io ti ringrazio della notizia archeologica. — «Ma» — scappa fuori l’Aleardi, indispettito come un bambino, al quale si vieti di fare ogni impertinenza — «questo no, quello no; corpo dell’ostia, come aveva io a fare per dipinger poeticamente la Chiusa?» — — Come, eh? Semplicissimo! Cancellar tutta la descrizione salvo queste parole: _..... Il loco ha somiglianza_ _Di Termopile, e forse alcuno attende_ _Leonida venturo._ Ma sa Ella, che questa immagine è degnissima del maggior poeta? Illumina la personalità dell’autore; suscita l’objetto innanzi alla fantasia; promuove un tumulto di pensieri. Ecco qua, senza corredo d’annotanzioncelle prosentuose, senza imprecazioni, senza contorsioni o scontorcimenti, lo scrittore si dimostra, io m’accorgo, ch’egli è patriota; m’accorgo, ch’egli è di una terra serva sì, ma ognor fremente, e fiduciosa nella vicina riscossa, e certa di non mancare al proprio dovere: onesta baldanza! Ch’è d’un paese insomma, _eo immitior quia toleraverat_, che ha dato i Mille come la Grecia i Trecento. Quella sola immagine mi dipinge la valle nella fantasia così vivace e caratteristicamente, come s’io l’avessi vista co’ proprî occhi miei: vi ha pochi esempli d’una descrizione poetica tanto vera e perfetta. Ma perduta questa geniale oasi in un deserto d’inconcludenze e di rettorica, passa inavvertita e fallisce l’effetto. Quel che più importa allo scrittore ambizioso, non dico di eccellenza, anzi solo di serietà, è il saper cancellare. Un componimento esce dalla fantasia, come la statua di bronzo dalla forma, tutto sbavature; bisogna limare e cesellare, cesellare e limare senza mai stancarsi. Dicon che lo Schiller fosse maestro di cosiffatte potagioni. Gli avevano mandato una volta pel suo _Almanacco delle Muse_ non so che oda pomposa in ventidue strofe: a furia di cancellazioni e’ la ridusse a sette, e sì che mediante le crudeli amputazioni il prodotto ci guadagnò, rimanendo intatto nelle sette strofe il buono sparpagliato per le ventidue. Pirro Lallebasque, ossia Pasquale Borrelli da Tornareccio, osservò bene, quantunque barbaramente si esprimesse, scrivendo: — «Noi non siamo prolissi, se non perchè ci manca il tempo o la pazienza di esser brevi.» — Voleva dire: _Siamo prolissi, sol perchè_, eccettera. Come disse il Metternich al Varnhagen? — «Se scorgo qualche oscurità nel mio dettato o sento che qualche brano potrebbe non riuscir chiaro ai lettori, seguo il consiglio datomi una volta dal vecchio barone di Thugut, uomo pratico che m’insegnò di non ingegnarmi a dare un altro giro al pensiero, a modificarlo, anzi di studiarmi solo di cancellare quanto vi ha di superfluo nel luogo oscuro; il rimanente esprime compiutamente e sicuramente il senso. E trovo di fatto che il semplice si regge da sè, i puntelli e gli aiuti oscurano per lo più». — Il poeta non è delegato di questura: non gli è concesso, mal presume di raffigurarmi una persona, enumerandone i connotati, perchè con essi posso solo al più arrabbattarmi a costruirmi nella mente un insieme di venti parti; ma l’immagine non mi balza viva nella fantasia, non vi s’affaccia repentinamente, non _Fa di sè bella et improvvisa mostra_, come _Diana in scena o Citerea si mostra_. Che vita nelle Silvie e nelle Nerine del Leopardi! eppure il recanatese non le esamina membro per membro dal vertice alle piante come in una visita medica, come usa con le meretrici. L’Elvira, la bellissima donna amata da Consalvo, era alta un metro e settanta, oppure un metro e sessanta centimetri? La Nerina era bruna o bionda? L’occhio della Silvia era nero od azzurro? Solo incidentalmente apprendiamo che quest’ultima era di capel nero: Non ti molceva il core, La dolce lode, or delle negre chiome, Or degli sguardi innamorati e schivi; Nè teco le compagne, a’ di festivi, Ragionavan d’amore. In prosa, si può ammettere qualche latitudine nel descrivere i protagonisti; eppure Alfredo di Vigny (ch’è tra’ quattro o cinque francesi di questo secolo, i quali abbiano saputo scrivere) sclamava: — «Non ho punto bisogno d’un ritratto in miniatura d’ogni vostro personaggio. Credetemi, a chiunque sia per poco immaginoso, basta uno schizzo. Un tratto indovinato vai più di tanti particolari. Se vi lascio fare, mi direte la manifattura de’ nastri di seta adoperati per la coccarda degli scarpini. Abito pernicioso di narrare, che si diffonde spaventevolmente.» — Chi si lascia vincere dalla smania, dalla mania di descrivere, non ha più freno, e sacrifica tutto pur di soddisfarla. Mi ricordo, in un romanzo francese, che un tale dà un’occhiata, una occhiata fugace in una stanza e vede.... vede i più minuti oggetti, che ne vengono minutamente enumerati e descritti; vede e nota ciò, che un’ora di esame attento non sarebbe sufficiente a vedere e notare. Diceva il Goethe di Gualtiero Scotto: — «Strano che appunto la virtuosità nel particolareggiare, lo induca in errore! Nell’_Ivanhoe_ descrive l’apparenza e le vesti d’un forestiero, che entra durante la mensa nel tinello d’un maniere, e sta bene; ma che ne descriva i piedi, le calze e la calzatura è uno sproposito. Quando siedi a mensa di sera, se qualcuno entra, ne scorgi solo la parte superiore del corpo. Descrivendo i piedi, entra subito in ballo la luce del giorno, e così la scena perde il carattere notturno.» — La poesia, impotente a darmi la forma esterna, mi dà la coscienza o l’azione del personaggio, che la fantasia del lettore riveste in un battibaleno di forme corrispondenti: in chi vuol gustarla, si richieggono alcune attitudini d’immaginazione, come in chi vuol gustar musica si richiede orecchio. Le Belle Arti, esse, invece, mi presentano le forme esterne, sotto le quali indovino una coscienza. Indarno lo scrittore sgobba per distinguere e determinare con parole i più minuti particolari od accidenti di forma e di colore: più s’affacchina, più l’oggetto sfugge. La vita del fantasma poetico non istà in un occhio piuttosto azzurro che nero, in un braccio più o men bianco, in questa o quella linea. _Avea riccia la chioma e colorata_ _Come la buccia di castagna alpina_ _Molti fior di giardino avrian voluto_ _Paragonarsi coll’aerea tinta_ _Che azzurreggiava nella sua pupilla:_ _Ma ciò che forse le venia più presso_ _Era il lin che fiorisce o il ciel di sera._ Misericordia! eccoci alla più ridicola materialità, al passaporto in versi: capelli castagni e ricci; occhi cilestri. Eppoi questi occhi non ci guardano, non ci splendono, non ci ridono; sono vuoti di sentimento, due immobili macchie azzurregianti, sulla cui gradazione un tintore ragiona (l’Alfieri direbbe _dissertaziona_) in guisa da fare andare in solluchero l’autore del _Dialogo sui colori che si danno alle sete_. È Maria Luisa, Porcellana, Isabella, Minerva, Turchino del Re, Turchino Ghimè, Turchino della Regina, Turchino màmmola, Turchino di cobalto, Azzurro o Lapislazzuli? Sarà forse Celeste blù, Blù Raimond, Blù porcellana. Blù Isabella, Blù Maria Luisa, Blù Napoleone? O non piuttosto Aria, Celeste cielo, Latticino, Celeste chiaro, Celestino, Celeste Laudon, Celeste cupo o Celeste Lumiera? — «O come aveva a fare» — sclama l’Aleardi con l’accento indispettito dello scolare, che nell’esame non giunge a soddisfare con alcuna risposta i pedagoghi, — «come avevo a fare, per dipingere la mia Caterina Cavalieri di Monte? Me lo insegna Lei?» — — Perchè no, caro? Lo insegnare agl’ignoranti è opera di misericordia. O se a quel nome dolcissimo di Caterina si congiungesse daddovero in mente vostra una immagine, di tutta la lunga descrizione avreste scritto que’ soli versi: _... da ch’ella era nata..._ _... Mai sovra il paterno_ _Camperello la grandine non cadde_ _Nè al_ (cacofonia) _mandorlo imprudente arse la brina_ _I frutti; nè verun maggior dolore_ _Osò varcarne la vegliata soglia._ Versi, che mi ricordano questi altri nell’_Ardelia_ d’Olympo degli Alessandri da Sassoferrato, il quale, parlando d’una bella donna, scrive: — «E contra lei non giova dura sorte, Che vince il ciel con sue piacevolezze... La donna e ’l ciel e ’l mar governa e muove L’aer la terra e l’universo clima; Et son sopra natura le sue prove.» — Similmente il Maresciallo di Francia, Biagio di Monteluco, scrive di Andrea Doria; — «parca che il mare ne ridottasse e quindi non si dovea scontentarlo od irritarlo senza grande occasione.» — Similmente il cavalier Marino: Di tai chimere vo’ che tu ti rida, Ancor che d’empio ciel raggio ti tocchi: Qual sì cruda sarà stella omicida Che rigor non deponga ai tuoi begli occhi? Quanta gentilezza in questa fanciulla dell’Aleardi, che ne impone alle stesse inesorabili leggi di natura, al fato stesso, il quale le risparmia il dolore debito ad ogni carne umana! Deh come può essere, che chi inciampa siffatte bellezze, non le comprenda, non ne abbia coscienza; e trovi requie solo quando ne ha distrutto l’effetto con mille aggiunte stolte? — «Vojaltri dilettanti» — scriveva presso a poco il Mozart a non so che barone, il quale gli avea mandate alcune composizioni: — «o non avete pensieri propri e rubate gli altrui; o ne avete e non sapete cavarne partito.» — Simili baleni di poesia s’incontrano veramente nell’Aleardi; ma pur troppo son baleni fugacissimi, che fanno meglio avvertire la tenebria circostante, come gli spiragli nel sotterraneo di Montezuma, a detta d’Antonio de Solis, _permitian solamente la (luz) que bastava, para que se viesse la obscuridad_. È uffizio, è gioia, è dovere del critico richiamar sempre l’attenzione su queste belle parti; e specialmente poi quando in uno scrittore sono rare, mi sembra più che dovere, carità fiorita. Quanto è viva la nobil-donna ungherese, frustata dagli sgherri austriaci! _.... La gentil ribelle_ _Sentì infamarsi le patrizie terga_ _Dal vitupero dell’austriaca verga,_ _E odiò la vita. E, dato_ _L’ultimo bacio a le atterrite ancelle,_ _Sotto la pietra del sepolcro ascose_ _Le membra vergognose._ T’impietosisci e parteggi per quella infelice ribelle, benchè il senno ti dica la legge dover essere sempre obbedita e la ribellione punita e soppressa a qualunque costo ed in tutti i modi, e che i governi costituiti hanno autorità suprema ed assoluta in chi sorge a combatterli. Quant’è sentito quel dire con enfasi, affermando Roma esser nostra, solo nostra: _Se cosa alcuna di straniero è in essa,_ _Sono il pianto e le ceneri de’ servi,_ _Ch’ivi traemmo dalla vinta terra._ Spiove, l’atmosfera si rasserena: _Scuote i fogliami, che gli fero ombrello,_ _L’augelletto e giocondo vola via:_ _Manda il ramo una stilla, e par che pianga_ _Dell’ospite cantor la dipartita._ Questo si chiama animar la natura, e l’immagine non sarebbe mai venuta in capo, a chi non avesse provato lo strazio di crudeli addii. — «È precetto d’Aristotile» — diceva un retore egregio del seicento — che quelle sono le ottime traslazioni, le quali _cat’enérgian_ sono appellate; cioè, quando le cose inanimate s’inducono ad operare, come se fussero animate; quale, per esempio, è quella di Omero, che attribuisce il desiderio alla saetta di Panduro, dicendo, che ella desiderasse di volare fra gl’inimici; e quell’altra, che dice delle onde, _cyrtà phalerióonta_, cioè gobbe e che s’imbiancavano o incanutivano. Di questa sorta di traslazioni così parla Quintiliano: _Praecipueque ex iis oritur mira sublimitas, quae audaciae proxima periculo translationis attolitur, cum rebus sensu carentibus actuni quandam et animos damus. Qualis est:_ _pontem indignatus Araxes;_ _et illa Ciceronis:_ _Quid enim tuus ille districtus in acie Pharsalica gladius agebat? cuius latus ille mucro petebat? qui sensus erat armorum tuorum._» — Eccone un altro esempio Aleardesco: gli austriaci hanno innalzato la forca sugli spaldi mantovani per appiccarvi un patriota: _.... In mezzo a un campo_ _Scellerato, spingea le immonde braccia_ _Un patibolo al ciel, quasi pregasse_ _D’essere fulminato._ Un letteratuolo, premiato nello scorso secolo dall’Accademia francese, ha scritto: _Les dieux ont un Olympe et nous une patrie._ Nell’Aleardi, il poeta assunto a’ cieli, li percorre, se ne inebbria, dipinge la terra come un meschino granello di sabbia e poscia con poca logica, ma con infinita poesia sclama: _Oh! potess’io, poscia che avrò veduto_ _Sì addentro l’universo, un’ora sola_ _Rinascere alla terra Itala e sciorre_ _Rivelator di meraviglie un carme,_ _Nobile, forte, non caduco e nuovo._ Quant’è vero quest’uomo che stima un’ora di vita in patria, più che l’eternità in cielo! quanto è vero questo letterato che apprezza più la fama terrena della beatitudine paradisiaca! Ma l’ultimo verso stona; l’impressione sublime de’ precedenti è ammorzata da quella gelida filza d’aggettivi qualificativi, che terminerebbe degnamente l’allocuzione d’un professor di quarta ginnasiale nell’assegnare agli allievi un tema di esercitazione rettorica. Nè si scusi l’Aleardi citando Dante: Pareva a me che nube ne coprisse Lucida, spessa, solida e pulita. In una descrizione di cosa materiale, que’ quattro aggettivi, che ne determinano le qualità essenziali, sono necessari; ma i quattro aggettivi appiccati da lui al carme, _rivelator di meraviglie_ inaudite, ne indicano qualità, che si sottintendevano e ch’egli escogita con la riflessione. Nell’_Ardelia di Messer Baldessar Olympo da Sassoferrato Nella quale si contiene Sonetti Capitoli Dialoghi Frottole et Strambotti Et di nuovo con ogni diligentia Stampata et ridotta in una bella e nuova forma_; opera pubblicata, come in calce all’ultima pagina: _In Venetia per Dominico de’ Franceschi al segno della Regina 1569_; trovo parecchie Ottave di _Epitetti_ (sic) _bellissimi di Baldessare Olympo da Sassoferrato in laude di Leontia_. Sono una sfuriata prima di aggettivi e poi di sostantivi; e veramente questo genere di poesia, che si direbbe imitata dall’Aleardi, non richiede isforzo grande di fantasia. Eccone per saggio una stanza: — «Unica, eccelsa, singulare, grata, Gentil, soave, gratiosa e honesta; Piacevole, gioconda, accostumata, Inclita, saggia, famosa, modesta; Ingeniosa, accorta, vaga, ornata, Humil, pietosa, dolce, pia e presta; Celeste, amena, ludibonda e lieta, Tepida, pura, angelica e discreta.» — Deh, perchè tutti i _canti_ non sono pari a’ pochi brani surriferiti? Allora l’estetico saluterebbe con gioia in Aleardo Aleardi, se non il — «quinto gran poeta Italiano,» — come ha detto qualche imbecille, che non conosceva di certo ne l’Alfieri, ned il Leopardi, ned il Manzoni, di certo una nostra nuova gloria. Mentre invece ora queste gemme, _rari nantes in gurgite vasto_, servono solo a dimostrare non esserci letamajo, nel quale non possano scavizzolarsi perle. Basterebbe aver pazienza e stomaco da razzolarvi, e chi sa? potrebbero trovarsi dei galantuomini sugli stalli della sinistra parlamentare. Ma quando in un tutto artistico qualcosa non riesce, esso è sbagliato come tutto, per quanto alcune singole parti possano essere buone in sè, e quindi l’autore ha prodotto un’opera senza pregio e valore. Un’immagine indovinata non può salvare un componimento pessimo del resto; giacchè una sola immagine basta unicamente a formare l’epigramma, genere di componimento, pel quale riconoscemmo gran disposizione nell’Aleardi. Il poeta non è dotto, ned istoriografo; dottrina e poesia son due: possono coincidere, possono divergere. Non so immaginar cosa più ridicola del pretendere ad un merito poetico versificando nozioni geologiche od isteriche o rendendo inintelligibili i versi senza un buon corredo di noterelle. Ma non è poi lecito, quando uno vuol darsi l’aria del dottore, d’incorrere in quegli svarioni, che fanno scoppiare i precordi dalle risa e giustificano lo scherzo: _doctores a docendo, sicut montes a movendo_. Estendere la passione delle reminiscenze e del rettorico fino ai farfalloni, l’è un po’ troppo. Nè vale per iscusa il provare che l’errore fu tenuto ieri per verità inconcussa: oh bella! tu vivi oggi; e, se se’ savio, hai da vivere com’usa oggi. Se tutto muta! Non più d’un dieci anni fa, quando ottenevi da una signora il ritratto, potevi tenerti sicuro dal fatto tuo, anzi le belle facevano quasi quasi più difficoltà per accordarti la miniatura, che per concederti i sommi favori: adesso, invece, possediamo la fotografia di chi ci pare, e nessuna l’ha per male e non implica nulla. Fosse del pari agevole l’aver gli originali in braccio! Se quindi uno scrittore, ora, facesse andare in bestia qualcuno, solo perchè scopre il ritratto della sua donna in mano ad altri, farebbe una castroneria. In simili castronerie incorre parecchie volte il Nostro. È egli lecito d’impiegare ben sedici versi a maledire quel valentuomo, anzi grand’uomo, che fu Omar ed a compianger l’uman genere per lo incendio della biblioteca alessandrina, che i bimbi a scola imparano il prelodato Omar non aver mai bruciata, perchè già distrutta prima di lui? Stupisco che l’Aleardi calunni un nimico melensamente, uniformandosi a’ suggerimenti di Don Basilio. È egli permesso di chiamare il tedesco _..... ispido nipote_ _Dei Nibelungi da la fulva chioma,_ quando non c’è uomo colto, che ignori i Nibelungi essere stati Franchi? appartenevano cioè al ramo meno incolto e men barbaro del tronco germanico, che si staccò da esso e si fuse interamente con la popolazione gallica stedescandosi. Non farei certo un carico d’ignorarlo, a chi non s’occupa di Letteratura germanica; ma perchè voler far mostra di intendersene, quando se n’è digiuni? E egli ammessibile di celebrare il magiaro come una _..... gentil favella,_ _Che non ha madre, che non ha sorella,_ creando un nuovo fenomeno filologico? Una lingua prima e senza parentele! È egli perdonabile di battezzare per _Cimbri_ i tedeschi? Mah! e dire che Aleardo Aleardi sprofessoreggia, la fa da professore in Firenze! Sia però notato a lode de’ fiorentini, l’uditorio di lui comporsi di qualche inglesaccia sfiancata, di qualche damina emancipata, del loro codazzo e degli amici del professore. L’Italia impiega pur bene i danari, che gli snocciola! Pagherei una lauta mancia, sborserei una larga cortesia, a chi potesse dimostrarmi, che l’insegnamento di lui è stato fecondo del benchè menomo frutto. XI. Scendendo ora alle minute particolarità di lingua, stile, eccetera; sarò brevissimo e mi guarderò bene dal cercare il pel nell’uovo. Manca ad ogni cosa la vita organica, il significato. Spargi con più cura il cacio grattugiato su’ maccheroni, che Aleardo Aleardi non dissemini gli adjettivi pel discorso: per lo più ci stanno senza ragione, sono manifestazione dell’arbitrio dello scrittore. Gli abitanti delle valli retiche favoleggiano, che messer domineddio prese un giorno seco dalle bolgette, nelle quali si rinchiudevano le sementi delle lingue e le andò sparpagliando per le terre: e dove buttò semente d’Italiano, lì si parlò poi l’Italiano; dove d’inglese, ivi l’inglese; dove di spagnuolo, lo spagnuolo e via discorrendo. Ma, giunto ne’ Grigioni, o che gli girasse il capo o che gli si sdruciacchiassero le tasche, fatto sta, che cadde una poca di ciascuna semente in quelle valli; ed ecco perchè fino al giorno d’oggi vi è tanta eteroclita diversità di linguaggi; e da un villaggio romancio passi al tedesco e dal tedesco all’Italiano e poi ne trovi un altro romancio, eccetera. Bisogna dire, che, nel far versi. Aleardo Aleardi confonda i sacchetti degli epiteti e delle metafore. Da quando in qua la stirpe de’ cigni è _battagliera_? Qual popolo ha gli occhi _crocei_, se il croco è il _carthamus tinctorius_ de’ botanici? Chi ravviserebbe i granatieri napoleonici mascherati da _omerici fanti_? Il _sapiente legno del Nazereno_ è una sciarada, che s’indovina a scaparcisi un po’ su: giudico meno facili ad interpretarsi _le cupole intemerate di neve_, e quindi mi affretto ad aggiungere che s’intendono le montagne. Che diavolerie sieno la _febbre lionina del trionfo_, le _cento febbri de’ vent’anni_, _l’olimpia febbre de’ carmi_, _il febbril zampillo della vena_, e diecimila altre febbri e febbrilità registrate ne’ canti dell’Aleardi, forse potrà dircelo Salvatore Tommasi, Carlo Gallozzi Salvatore de Renzi; atterrito, io sclamo col venosino: _nova febrium terris incubuit cohors!_ Come vedete, manca pure una certa varietà. L’amore è un _assillo_, l’indipendenza è un altro _assillo_... Basta; ma, prima di conchiudere, lasciatemi citare due versi unici nel loro genere: _...... E dalla rada ove Colombo nacque_ _Volò san Giorgio a cavalcar sull’acque._ Ostia! (dirò anch’io alla Veneta: una bestemmia qualche volta la ci vuole! ) ostia, che tropi! L’è un miracolo, l’è un _tour de force_ da santo, veramente miracoloso, il cavalcare volando od il volare cavalcando sulle acque marine! sfido il più valente cavallerizzo di quante compagnie equestri girano, girònzano, girovagano per l’Italia, a fare altrettanto. Eppure, neppure questa corbelleria..... no, la parola è scortese, mutiamola; neppure questa _frase poetica_ è originale! Sicuro, Francesco Maria Arouet Voltaire c’informa, che Niccolò Malebranche, volendo un giorno dimostrare, come ad un filosofo torni agevole di fare il poeta quando gli piace, componesse d’improvviso il distico seguente: Il fait en ce beau jour le plus beau temps du monde. Pour aller à cheval sur la terre et sur l’onde. Nè mi sembra, che lo Aleardi possa scusarsi, allegando, che _cavalcare il mare_ (e non _cavalcare sulle acque_) è stato adoperato semplicemente per _navigare_, (se pure non è errore di stampa per _travalicare_), per esempio dallo Straparola da Caraviaggio nella favola IV della III delle sue _Tredici piacevoli notti_: — «Alchia, veduta la volontà di Fortunio ogni ora più pronta, nè vedendo modo, nè via di poterlo rimuovere dal suo duro proponimento, diedegli la maledizione, pregando Iddio, che se gli avvenisse per alcun tempo di cavalcare il mare, ei fusse dalla Sirena non altrimenti inghiottito, che sono le navi dalle procellose e gonfiate onde marine.» — Cosa volete ch’io dica de’ continui bisticci? Servono a vieppiù manifestare la commozione, la serietà del poeta! Abbiamo già rilevate le _ore di ciel, che il ciel condanna_. Persio è chiamato un _giovanetto incolpabile, vissuto in colpevoli tempi_. Per dire che un galantuomo è ito a Patrasso, l’Aleardi scrive: _....... già sul.... petto,_ _Esercitato da sì lunghe croci,_ _L’ultima croce sta._ I martiri, que’ poco autentici, ma molto uggiosi martiri, erano trascinati _..... nei densi circhi a sazïar le tigri_ _D’Affrica, ad allegar l’inclite noje_ _De le tigri di Roma._ Io non aspiro a pedanteggiare; _nil humani a me alienum puto_, e non condanno _a priori_ ogni bisticcio. Quando ci quadra, _optume_. Veramente in altre lingue e ne’ dialetti Italiani sta sempre meglio, che nell’Italiano aulico, e si confà più all’indole bonaria e gioviale di que’ popoli oltramontani, che non alla nostra severa e contegnosa; è cosa di volgo, e nelle parlate del volgo non istona, sta al posto suo. Pure, ove abbia un perchè, ove dica e significhi qualcosa, non l’escluderei. È forma di pensiero comico: ed il contenuto delle poesie vernacole, sendo sempre necessariamente comico, in esse devi _a priori_ aspettarti a trovarlo di frequente. Ma ficcarti nel bel mezzo d’un serio discorso il più sconchiusionato de’ bisticci, che, opposto all’intenzion manifesta dello scrittore, a quantunque precede e segue, scioglie buffonescamente il momento tragico, è leggerezza inconcepibile. Passò il tempo in cui ammiravamo Pietro della Vigna, il quale, in una relazione ufficiale sulla vittoria di Cortenuova, osava scrivere bisquizzando. _Et dum castrametatì sunt juxta_ _Lolium_ _perditionis filii, ut rationem segetis perderent, zizaniae, quae a vulgo_ _Lolium_ _dicitur, semina seminarunt._ E lasciamo a’ tedeschi applaudire il loro Paolo Heyse, scrittorucolo, che, in una sconcia tragedia ed insulsa sulla istoria della _Francesca da Rimini_, scarabocchiata (o che pare apposta per render indulgenti verso il rettoricume del Pellico ed indurci ad apprezzarlo e desiderarlo), fa bisticciare Paolo su due sensi della parola _vergeben_ (perdonare ed avvelenare,) allorchè la Francesca gli dice avergli rimesso lo inganno per cui si trova moglie del deforme Lanciotto, invece d’esser mogliera di lui: _Doch ich vergeb’es und vergess’es nie,_ _Dass ich mit Lügengift dir schnöd vergeben._ — «Il bisticcio» — diceva un secentista, notate, bene, un secentista! — «è segno di animo sciolto e non passionato; e maravigliosa cosa è, quanto egli impedisca la commozione dello affetto. Però, quando il Poeta lo mette in bocca di chi si rammarica, una delle due: fa credere che quegli si burli o che esso sia un bue; e verifica in sè quel proverbio, che _chi bisticcia è una bestiaccia_.» — Sulla prosodia poche parole: Aleardo Aleardi fa meno spropositi d’altri verseggiatori contemporanei, che pure raccolgon plauso, come Arnaldo Fusinato, per esempio. Ma _carriaggi_ non è, nè puol essere trissillabo; _viaggiatrice_ non è, nè puole esser quadrissilabo. Veramente un _sottile ravignan patrizio_ nello — «Epitaffio di Cesare, in opposto sentimento a quello del Sannazzaro,» — ha posto questo verso: Fuggi viator: qui di sanguigne spoglie... Ma chi non sa quanto poco e di lingua e di prosodia s’intendesse Paolo Costa? _Espiazione_ bruttamente si contrae a cinque sillabe, dietro il mal esempio dato da qualcuno per le parole in _ione_. — «Non dichiamo noi _compassione_ con quattro e i poeti con cinque sillabe? Non _intentione_, _operatione_, _devotione_, _invidioso_, _litigioso_ e mille altri noi con una meno, e i poeti con una sillaba più?» — Così messer Fagiano; ma la pronunzia de’ poeti è la buona: la dieresi ci vuole: la i è una vocale in quelle parole; ed il mutarla in j è un errore sempre, in cui però, nol nego, sono incorsi qualchevolta anche gli ottimi, conformandosi alla cattiva pronuncia fiorentina. Che nella lingua ci sia la tendenza a trasformar in j la i, che segue una consonante precedendo una vocale, non può negarsi; ma questa trasformazione, quando ha avuto luogo, ha cagionato sempre un’alterazione profonda nella consonante precedente od almeno ne ha prodotto il raddoppiamento: (confronta _vezzo_ da _vitium_, _mezzo_ da _medium_, _ragione_ da _ratio_, _rabbia_ da _rabies_, _figlio_ da _filius_, _ingegno_ da _ingenium_ e via discorrendo). Ma vorreste imitarli, quegli ottimi, anche quando errano? Chi farebbe senza rimorso un trissillabo di _Beatrice_, quantunque Dante istesso abbia perpetrato questo delitto di prosodia? E forse può scusarsi in lui, ripeto, perchè avrà pronunziato alla fiorentina _Biatrice_ ossia _Bjatrice_: ricordiamoci, che egli vien riconosciuto fiorentino da’ dannati dallo accento: ...... ma fiorentino Mi sembri veramente, _quand’io t’odo_. Ma con sei sillabe, _espiazione_, per la giacitura degli accenti, non entrerebbe in alcun endecasillabo! Davvero? Poco male! o che tutti i vocaboli debbono potersi ficcare in ogni verso? Rammentiamoci gli epigrammi di Marziale in onore dello schiavo Earino. Nomen nobile, molle, delicatum, Versu dicere non rudi volebam: Sed tu, syllaba contumax repugnas! Dicunt Earinon tamen Poetae, Sed Graeci, quibus est nihil negatum, Et quos _áres áres_ decet sonare: Nobis non licet esse tam disertis, Qui Musas colimus severiores. A’ quali versi un commentatore annota: _Jocatur hic noster... in nomine Earini, Domitiani eunuchi ex pulcherrimis et amatissimis: et ait nomen quidem dulcem esse, quod a vere sit deductum (Graecis enim_ ear _ver sonat), at idem contumacibus syllabis constare, quae neque hexametri neque_ hendecasyllabon _rhythmo congruant. Hi enim versus dactylos tantum aut spondaeos aut trochaeos recipiunt. Vocis autem istiusce_ _Earinus_ _tres primae syllabae breves. Sed quid obstitit, scire velim, quominus hic Noster iambicis aut scazonte uteretur?_ Il giambo tragico tedesco, essendo formato dall’alternarsi ripetuto d’una breve e d’una lunga, ne esclude una infinità, di vocaboli, nè per questo impaccia chi è valente. Il verso d’Aleardo Aleardi è un verso floscio, moscio, che mi ricorda que’ majali inglesi tutta ciccia, dallo scheletro ridotto a’ minimi termini, schisato.³ Non di rado si sostiene per un pezzo magnifico, sonoro; ma questo, checchè molti vaneggino, non è mica un pregio. I nostri maggiori poeti sol di quando in quando hanno scritto be’ versi: il verso allora è indovinato quando non l’avverti, quando combacia perfettamente col pensiero. Ove si affermi come qualcosa di bello per sè, ove cattivi l’attenzione, ahi!... Quando, letto uno squarcio verseggiato, gli uditori esclameranno: — «che be’ versi!» — dite pure, che il ritmo ha travolta e sommersa la poesia, che il musicale soverchia il fantastico. Non crediate però, che l’Aleardi abbia nel maneggio del verso la virtuosità, la franchezza del Frugoni o del Cesarotti. Si nota lo stento, abbondano le riempiture oziose; e vorrei sapere quali orecchie in Italia valgano a pescare il ritmo ne’ seguenti endecasillabi: ..... Sarai del Cristo, anima di Maria.... ..... E passò. Io stetti in disperato pianto.... ..... D’espiazione; ed or le capre e l’erba...; o quali labbra Italiane riescano a pronunziare senza incespicare questa filza di liquide: _Vela la nebbia de le stelle il lume._ ³ Ho visto con piacere seguito questo giudizio dal Barrili, uno de’ pochi, se non il solo scrittor di novelle contemporaneo, che mostri istruzione e buon gusto. Egli non vi parlerebbe di cavalli _amburghesi_, come il Tarchetti; non vi porrebbe Rouen, la patria del Cornelio, sul mare, come Salvatore Farina nel _Tesoro di Donnina_; egli non farebbe, come il Guerzoni, scrivere da una bennata fanciulla alla madre la dimane delle nozze. — «Ti mando tutti i baci che mio marito mi lascia disponibili,» — frase che non adoprerebbe una donna da conio. Eccone le parole: — «Luisa! Bel nome! Egli lo sapeva finalmente, e stava con fanciullesca cura a pronunziarlo, non come si fa a Genova, ma scandendolo in tre sillabe: _Lu-i-sa_, e sibilando un tal poco l’esse alla maniera toscano. E’ non era un nome strano, di quelli, che certi capiscarichi impongono alle bambine, per dare importanza di eroine da romanzo o da dramma alle loro creature grame. Gli era un nome quieto, gentile, dolce a pronunziarsi e dolce a udirsi: Luisa! E’ non era _Elisa_, nome da mettere in endecasillabi morbidi e flosci come quelli di... acqua in bocca per non farci maledire dal secolo, che li ha in gran pregio. Non era neppure _Eloisa_, nome da far ricordare la badessa del Paracleto, innamorata d’un teologo, o la svizzera di Giangiacomo Rousseau, innamorata d’un astrologo sconclusionato. Era _Luisa_: modestamente, unicamente e soavemente _Luisa_.» — La lingua è flaccida, insipida, come accade sempre a’ non commossi. La _genitura de’ giusti_ è frase di pessimo gusto. _Zillo_ è un vocabolo che nessun vocabolario registra; benchè il dottor Gaetano Savî nella _Ornitologia toscana_, stampata in Pisa dal M.DCCC.XXVII al M.DCCC.XXXI, dica, che i rampichini propriamente _mettan zilli_ (I, 188.) Sarà probabilmente una corruzione idiomatica di _zirlo_; io non la ripudierei, perchè fo buon viso a qualunque termine de’ dialetti, che importi una nuova distinzione e più minuta. Ma qui rimarrebbe a spiegare da quando in qua gl’insetti abbian preso ad imitare le voci de’ tordi o dei rampichini. Il _ne_ spesso viene adoperato dall’Aleardi in modo, che rasentando la sgrammaticatura, non è certo eleganza, anzi sconcio pleonasma. L’esse impura in Italiano vuol esser preceduta dall’articolo _lo_; è norma, che lice senza dubbio trasgredire, ma con intenzione d’ottenere bellezze, per dare maggior forza, non per accozzare orrori, come: ..... E il scintillio de le fraterne spade... ..... Ma al scintillar de le serene stelle... Pel secondo de’ quali versi, che vuole esprimere una immagine gentile, l’Aleardi non potrebbe neppure accampare per iscusa di pensare, come un candidato alla licenza liceale, che conosco: — «L’articolo _lo_ si adopera, quando si vuol essere cortesi; e l’articolo _il_, quando si parla villanamente.» — _Opinione_ (chiamiamola così) che fe’ sclamare a Diomede Marvasi: — «Dunque, se dicessi ad uno: _ti darò un calcio nello sedere_, sarei cortese.» XII. Conchiudiamo, che n’è tempo. Ho dimostrato, come Aleardo Aleardi non senta in verità gli affetti, che pretende ritrarre; tutto il resto è conseguenza necessaria di codesta premessa. Chi non sente, difficilmente ha grandi concetti; e, se per avventura ne capita uno, non ha virtù d’incarnarlo. E chi, senza proprio concetto e sentimento delle cose, s’incaponisce a scrivere, dovrà prenderli ad accatto: o da una massa comune e casca nel rettorico; e da un altro scrittore e.... ed ha delle reminiscenze. In ambo i casi cercherà di nascondere la sua nullità esagerando, spaccando, sfoggiando meriti non poetici; e le immagini particolari ed i tropi e le figure e la lingua ed il verso dimostreranno di non essere un tutto, l’espressione di un pensiero organico, sibbene un composto artifiziale, senza significato. Ed al critico avanzerà solo da spiegare un fenomeno frequentissimo nella Storia Letteraria: come un retore possa usurpar fama di gran poeta. Nel caso nostro speciale, le cagioni del fenomeno sono due soprattutto: prima la dappocaggine, la pecoraggine della critica ordinaria; e poi, le condizioni politiche, le quali trasformavano le parole _patria_ e _libertà_ in parafulmini estetici per le più inette scritture. In Italia, al presente, critica non può dirsi, che ve ne sia: giudichiamo con l’utero, cerebrinamente, per ragioni subjettive e psicologiche, per simpatia ed antipatia, per ispirito di parte, per motivi personali. Si fischia un dramma, perchè il padre dell’autore era poliziotto austriaco; si leva al cielo una colascionata, perchè lo scrittore è stato in carcere a Iosephstadt, o lusinga le passioni popolari (o meglio plebee) piaggiando l’_eroe di Caprera_, insultando Pio IX. Aveva ragione il De Vigny nel dire. — «che i tempi di rivoluzione sono comodi e propizi alle mediocrità» — ed aveva sovranamente torto il Goethe di affermare: — «che un grande effetto presuppone sempre una gran causa; che una poesia popolare e diffusa deve aver qualità eminenti; che un dramma il quale si mantiene per venti anni ed ha le simpatie del pubblico dev’essere qualcosa in sè.» — Le opere stesse a proposito delle quali parlava così, le poesie dell’Uhland ed i drammi del Kotzebue provano il contrario. Son ormai roba morta e stramorta; e riesce malagevole il comprendere, come incontrasser tanto un tempo. Insomma, il plauso non guarentisce bontà. Pe’ versi dell’Aleardi si rinnoverà quel che da Tacito impariamo esser pure avvenuto a’ zibaldoni di Vejentone: _Nero Vejentonis libros exuri jussit, conquisibos lectitatosque donec cum periculo parabantur; mox licentia habendi oblivionem attulit._ Ora Aleardo Aleardi, destituito d’ogni valore intrinseco, è di moda a dispetto della ragione; è un andazzo, che deve finire come tutti i dirizzoni, ma del quale ho stimato utile affrettar la fine: buona cosa è lo accelerar la suppurazione degli ascessi. Non c’è maggior pena per chi si dà all’estetica del lavorare su scrittori d’ultim’ordine e senza importanza; il critico si compiace nell’esporvi perchè i grandi son grandi e non può trovar diletto a dimostrare perchè i piccoli sono piccoli; allo storico letterario giova occuparsi de’ protagonisti, non delle comparse. Se non che, spesso bisogna sacrificare le inclinazioni all’utilità comune: l’innalzare una Reggia, un teatro, un arco trionfale è più gradevole, appaga più lo amor proprio, dello scavare una cloaca; ma, quando v’è necessità d’una cloaca, il miglior architetto non le negherà l’opera sua. Era ormai tempo di atterrare un idolo vano; ed io ho studiato e parlato coscienziosamente, senza tacer la lode dove andava amministrata. Spero d’aver convinto chiunque m’ha letto e d’aver dimostrato il mio assunto, cioè, che Aleardo Aleardi: _Angosce finse e simulò letizie,_ _Con quell’accento, che non vien dal core._ Del rimanente, poichè _nolenti non fit beneficium_, padronissimo pure chiunque di non accettare la mano, ch’io gli offro e porgo per ispastojarsi da una indecorosa ammirazione; e di perseverare nell’errore. Ma mi permetterò di paragonarlo al giudeo, del quale un amico mi raccontò la tragicomica avventura. Poveraccio! Figurarsi un dotto rabbino, esimio talmudista, oracolo delle sinagoghe, arbitro del sinedrio, non so come capitombolato in una fossa piena, colma, riboccante di....... chi m’insegna una circonlocuzione decente? insomma in una fossa simile alla bolgia secondo dell’inferno dantesco, dove stanno e si accasciano Alessio Interminei da Lucca e la Taide; in una fossa — «che con gli occhi e col naso facea zuffa.» — Francamente, non avrei voluto essere ne’ panni del meschinello: confitto in quella fetida poltiglia fino al mento, con le braccia impegolate così da non potersi nemmanco schermire dagl’innumerevoli sciami di mosche e tafani, che suscitati da uno splendido sole, gli mangiavano quasi la testa. La bellezza appunto della giornata, aveva indotto Benedetto Spinosa, già combattuto dalla tisi, che doveva ucciderlo l’anno di poi, a fare una passeggiatina in campagna; il caso volle, ch’ei capitasse di lì e scorgesse quel capo, che emergeva dallo sterco. Subito si accinse a cavare il rabbino da quell’angoscia; ma il tentativo non gli riuscì meglio degli altri fatti per isfrancar l’uman genere dalla fogna dell’errore. Lo Spinosa, sceso sul margine della fossa, afferrandosi con la manca ad un salcio, sporse con la destra il bastoncello al talmudista confitto nel giulebbe, gridandogli, che facesse uno sforzo per agguantarlo. Ma quel giudeo non si mosse, non diè crollo: era un sabato e la sacrosanta sua religione, ch’ei ritenea per unica vera, gl’imponeva di astenersi da qualsivoglia lavoro. Serenamente, superbamente, rispose allo Spinosa: _Sabbatha sancta colo_ _Et de stercore exire nolo._ Ed il filosofo, accortosi d’avere a fare con un individuo da’ convincimenti robusti, dalla fede incrollabile, gli replicò non senza l’onesto dispetto di chi suo malgrado si lava le mani dell’altrui sciocchezza: _Sabbatha sancta quidem_ _Remanebis ibidem._ E ripulitesi le punte delle scarpe, già contaminate alcun poco, nell’erba fresca e folta, s’avviò verso casa, ripensando all’incorregibilità dell’uman genere, che, pur di non contraddire ad un’idea ricevuta, consente a rimaner sepolto vivo nelle chiaviche. POSCRITTA (M.DCCC.LXXII.) SCORSA BIBLIOGRAFICA _In morte di Donna Bianca Rebizzo. Lettera a Raffaele Rubattino di Aleardo Aleardi. — Roma, Tipografia Barbèra, Via de’ Crociferi, 44. — M.DCCC.LXXI._ — «Chi scrisse questi poveri versi amerebbe, che tutti gli uomini, i quali hanno seriamente meditato sulle cose di religione e su quello, che sarà per essere di noi al di là della tomba, prima di lasciar la vita, facessero il loro atto di fede e lo manifestassero alla gente. Egli penserebbe, che, in tanta confusione di concetti e di credenze, nella quale ogni di più si versa e miseramente si ondeggia, questa lunga serie di onesti documenti frutterebbe un gran bene all’Umanità.» — Così l’autore in una nota. Siamo dunque avvisati: l’Aleardi ha scritto questi poveri versi per beneficare l’uman genere; questi poveri versi sono un credo, via, sono il testamento religioso e filosofico d’un pensatore, e quasi un bollettino d’un plebiscito sull’esistenza di messer domineddio e sull’immortalità dell’anima. La gente ascoltino con reverenza e riconoscenza la parola meditata, ponderata, che rischiarerà la confusione universale. Si procede alla chiama: ed, a scorno solenne degli scettici, nientemeno che Aleardo Aleardi vota pel sì: sì, c’è un dio; sì, l’anima è immortale. Ritengo, che questo effato non abbia punto meno autorità del celebre decreto sul medesimo argomento, suggerito dal Robespierre alla Convenzione francese. L’Italia brulica, formicola di persone, che in fondo non hanno punto sentimento religioso, che non adempiono per conto proprio alle prescrizioni di nessun culto; ma che pure affettano di dare molta importanza alla religione, perchè credono, che lo scettico inculcator di religiosità, che l’incredulo, il quale raccomandi agli altri la fede, acquisti fama di testa politica e machiavellica. Laida genia si è codesta, pei quali la religione serve a soddisfare una fatuità sacrilega. Costoro, adesso, applaudiscono al _gran poeta, che tratta argomenti morali, filosofici, civili_; anzi un certo P. P. in un’Appendice dell’_Opinione_, vorrebbe persino, che ne ammirassimo _il coraggio_... Ah! certo, se l’Aleardi ha coscienza della ridicolezza di quella Nota e della povertà de’ suoi versi, non può negarsi la grandezza del coraggio suo nello stampar l’una e gli altri! Ma lasciamo la burletta. Le quistioni filosofiche non si risolvono col passare a’ voti. Gli atti di fede, i _credi_, non importano un corno alla scienza. Le affermazioni immotivate, sia _pro_, sia _contra_, sono cosa fatua e vana. Io mi fo beffe tanto di chi superstiziosamente crede senza saper ragionare la credenza sua, quanto del sedicente libero pensatore, che nega, senza saper dimostrare la sua negazione. Lo scherzare dilettantescamente co’ problemi più ardui mostra la presunzione e la leggerezza dell’individuo, non altro. Meditare, pensare, non è da tutti. L’Aleardi s’immagina di aver detto qualcosa, scrivendo: _.... s’io vivente unico, in vetta_ _D’una rupe restassi, esterrefatto_ _Testimone dell’ultima ruina_ (del mondo), _Oh! non ancor dimetterei la salda_ _Fede nella immortale anima e in dio._ Orazio ha ben detto: _Si fractus illalatur orbis_ _Impavidum ferient ruinae;_ e l’Aleardi non fa, se non parafrasare e stemperare questo concetto; inopportunamente: giacchè bene è alta immagine dell’audacia d’un uomo il dire, che neppure il finimondo lo impaurirebbe; ma un cataclisma non sarebbe argomento nè favorevole nè contrario alle ipotesi dell’esistenza di dio o dell’immortalità dell’anima. Tanto è vero che anche il cristianesimo ammette il mondo dover finire; e solo alcune generazioni d’atei ne hanno sostenuta la immortalità. Eppure, se gli domandate: — «Ma cos’è dunque l’anima? cos’è dio?» — l’Aleardi sa dirvi soltanto: — «_Tutto è mistero._ Io non so in fondo nulla nulla e dell’uno e dell’altra. _Nè per lagrime mai, nè per scienza, Quaggiù al mortale indovinar fia dato Il destin de le cose.... Qua dentro, immortale Ti sento, anima, sì; ma veramente Altro di te non so; so che a me stesso Sono un mistero._» — Gli è presso a poco il modo di ragionare di quel frate predicatore: — «Fratelli miei dilettissimi in Cristo: o dio c’è, o non c’è. Di qua non si scappa. Se c’è, qual sarà mai lo sbigottimento vostro, nel trovarvi un giorno ignudi, inermi, colpevoli, di fronte al giudice adirato ed onnipotente; che vi scruterà i lombi, che vi rinfaccerà le colpe vostre più secrete: quelle che avevate nascoste a tutti; quelle, che avevate dimenticate voi medesimi. Ma, mentre voi commettevate e dimenticavate, un angelo le registrava lassù in un volume eterno ed indistruttibile. Quali scuse balbetterete allora? quali attenuanti accamperete? Lì non varranno i sofismi della eloquenza venale del foro, lì non potrete allegare compri testimonî, che vi discolpino e calunnino altri. Come rimpiangerete allora, fra le lagrime e lo stridor dei denti nella profonda geenna, di aver sacrificata la felicità eterna, di avere incontrata l’eterna dannazione, per poca e transitoria e monca voluttà! Ma il pentimento sarà tardo e vano, il danno irreparabile. Se poi dio non c’è... Oh! ma c’è!» — Anima e dio, sono due parole: tutti le adoperiamo; ogni terminologia filosofica le ammette; ma bisogna scrutare un po’ qual concetto adombrino secondo la bocca, che le profferisce. Dire: — «io credo in dio;» — equivale al non dir proprio nulla, se non mi spiegate cosa intendiate per dio; cioè, su quali argomenti fondato e quali deduzioni seguendo, siete giunto ad un concetto determinato. L’Hegel, Pio VII, Fraddiavolo, il Royer-Collard, credevano tutt’e quattro in dio: ma il dio dell’uno non era certo quello degli altri tre; il mio dio non è quello dell’abate Curci, nè quello del lustrastivali, che sta alla cantonata. Dio essendo infinito, nessuna mente umana finita può concepirlo tutto qual’è, ognuna ne vede solo una parte, uno aspetto, e crede però, che quell’aspetto sia il tutto. Quando l’Aleardi pretende di avere escogitata una panacea morale col dire, che crede in dio e nell’immortalità dell’anima, mi ricorda que’ demagoghi ingenui, che stimerebbero felice la patria, purchè si proclamasse la repubblica, senz’avere alcuna idea precisa sul contenuto da darsi a questa repubblica futura. Fede, significa cognizione; cognizione forse inesatta, forse falsa, forse supposta, ma cognizione sempre. Pigliate la più melensa femminetta del volgo; interrogatela; e vedrete, vedrete com’ella conosce tutte le determinazioni del suo dio. Ne avrà un concetto grande o meschino, sublime o grottesco, alto od ignobile od anche irriverente: questa è un’altra quistione! ma un concetto ne ha e chiaro e preciso. La parola dio, nella mente di lei, suscita un pensiero, una rappresentazione: e rappresentazione e pensiero sono forme della cognizione. Invece l’Aleardi si contenta del semplice _flatus vocis_, rammentandomi quel motto arguto d’una franzese: — «il vocabolo _dio_, maschera con la sua grandezza il vuoto del pensiero di chi ’l profferisce⁴.» — Sotto al cranio di questo messere non c’è dunque, ed egli stesso il confessa, idea di sorta, che risponda alla parola scarabocchiata dalla sua penna. Dunque non crede, affetta di credere. ⁴ Daniele Stern, il cui vero nome era Contessa d’Agoult, più nota veramente per le avventure galanti, che per le opere letterarie. Del resto, voglio dimenticare quella nota fatua: abbiamo qui de’ versi; voler loro attribuire un’importanza scientifica è stolta cosa, ma ne potrebbero, ne dovrebbero avere una artistica. L’hanno? No, pur troppo. In questo carme _In morte di Donna Bianca Rebizzo_, ritroviamo peggiorato il vecchio Aleardi, senza fantasia, senza originalità, buono solo a rubacchiare altrui imagini e motivi ed a farne un centone innestandovi amenità, platealità e concettini. In fondo egli ha voluto soltanto rifare _L’Espoir en dieu_ di Alfredo di Musset; rappresentare un uomo straziato fra l’impossibilità di credere e l’impossibilità di discredere, (sarebbe poi lui); ed il quale, malgrado che la ragione abbia distrutto l’Olimpo, il ricrea col sentimento e con la fantasia, mosso dall’orrore della morte. Giacchè, non serve il dissimularlo: gli è appunto questo sentimento vigliacco, il prono amor della vita, il non sapervi rinunziare, _Il non saper nell’orba fantasia_ _La morte immaginar, che cosa sia,_ (come è detto ne’ _Paralipomeni_ della _Batracomiomachia_,) da cui prende le mosse l’Aleardi. Non ha l’animo stoico; e rifugge dal voto altero d’un poeta romano, il quale augurava l’immortalità materiale a’ codardi e la morte in premio a’ prodi: _Mors utinam pavidos vitae subducere nolles; Sed virtus te sola daret!_ Non ha la mente epicurea, nè può capire Lucrezio, quando questi esclama, che l’idea della vita eterna distrugge ogni moralità, perturba ogni vita civile e la chiama... _metus... Acheruntis... humanam qui vitam turbat ab imo_, od il Bruno, quando dice, che le speranze di essa: _Humanam turbant pacem saeclique quietem, Extinguunt mentis lucem, neque moribus prosunt._ Tali concetti non sono pane pe’ suoi denti. Egli ricorda Menandro aver detto: — «Muor giovane colui, che al cielo è caro;» — ma gli sovviene pure l’Achille dell’Odissea parlare altrimenti; ma pensa, che i giovani antichi certo non avran lasciato senza dolore la dolce consuetudine di vivere e di operare. Considera che i sacerdoti d’ogni generazione hanno un bel prometterci il paradiso: riman problematico, e la terra è tanto bella! E sclama: — «Oh potere essere rassicurato sull’avvenire, ottenere certezza della durata nostra in tanto dubbio! Io voglio credere, io ho bisogno di credere, io credo!» — Sta bene, con questa tela, su questi sentimenti, la fantasia può ricamare. Ma l’Aleardi non sa concretare in immagini l’amor della vita, la paura dell’òbito, il dubbio sulle promesse sacerdotali, la sua pretesa fede, il suo preteso dubbio; egli non sa creare un dio, cui prostrarsi; e la stessa ragione, che non dà valore filosofico al suo _credo_, gli toglie anche la possibilità di acquistar valore artistico. Voi non sentite lo strazio di un uomo in questi versi; la personalità del poeta è nulla e quindi il suo centone rettorico ci lascia freddi. Rammento un grazioso aneddoto, che lessi nelle Memorie della Contessa di Genlis; di quella Genlis, sulla quale fu fatto l’epigramma: _Comme tout renchérit_, disait un amateur. _Les œuvres de Genlis à six francs par volume!_ _Autrefrois, quand son poil valait mieux que sa plume,_ _Pour la moitié j’avais l’auteur._ Il signor di Louvois, figliuolo del marchese di Souvrè, giovane scapatissimo diciottenne, si trovava in Brest con molti debiti e punti quattrini. Scrisse al babbo per ottenerne; e, non ricevendo risposta, pensò di recarsi al castello di Louvois, dove il marchese rusticava nella state. (Apro una parentesi. Questa villeggiatura non era del tutto volontaria. Quando Ludovico XV esiliò il Maurepas, ministro della marina da trent’anni, perchè indiziato autore della quartina seguente contro la Pompadour; La Marquise a bien des appas: Ses traits sont vifs, ses grâces franches, Et les fleurs naissent sous ses pas... Mais, hèlas! ce sont des fleurs blanches! il marchese di Souvré disse ad alta voce nella camera da letto del Re: — «Per bacco, faceva accortamente il Maurepas, quando era in auge, portando sempre seco la berretta da notte: un cortigiano non sa mai dove può toccargli di dormire, e molto meno un ministro.» — Spiacque al Re la facezia: e chiese in tono severo: — «Signor Marchese, quando pensa di partire pe’ suoi feudi?» — «Domani, Maestà» — rispose il Souvré alteramente. Chiudo la parentesi). Dunque, il povero Louvois conosceva la rustichezza del padre, inasprita dal dispetto di star lungi dalla corte, in provincia, a domicilio coatto. Era proprio il caso di rinnovare il Miracolo di Maometto; e, giacchè i danari non volevano venir a lui, andar lui da’ denari. E, per fare le spese del viaggio, gli convenne vendere tutte le sue robe. Gli avanzò solo una giubbaccia consunta. Malissimo accolto dal genitore, ne’ primi tempi non pensò neppure a salassarlo. Ma, una sera, il Marchese annunziò al figliuolo, che il posdomani sarebbero venute a pranzo le più nobili e più ricche signore del contado: — «Spero» — soggiunse, — «che avrà la bontà di smettere questo sconcio abito da viaggio e di vestirsi decentemente.» — Il Marchesino, non osando confessare di non possederne proprio alcun altro, dichiarò di aver portato seco soltanto abiti vecchi; e, cogliendo la palla al balzo, chiese denari. Il padre rispose in modo, che non dava campo ad insistere od a sperare, poter’egli addivenire a più miti consigli; sicchè il giovane rispose: — «Sarà obbedito. Metterò un altro abito.» — Nella sua camera da letto, c’era una gran tappezzeria a figure; ne staccò un lembo, che rappresentava Rinaldo ed Armida; e, mandato pel sarto del villaggio, gl’impose, che in ventiquattr’ore ricavasse da quell’arazzo un vestito intero: giubba, panciotto e brache. Il sarto fece le maniche con le braccia di Armida; mise sul dorso la testa di Rinaldo, con elmo e pennacchio; due amoretti ed un frammento dello scudo formavano il resto della giubba, che il Marchesino indossò giubilando. E rimase tappato in camera ad aspettare pazientemente le visite. Come udì entrar le vetture nel cortile, giù per le scale, sudando pel peso degli abiti, reso anche più intollerabile dal caldo del luglio; balza e corre con tutta serietà a porger la mano alle signore, che scarrozzano. Queste, stupite, tempestavano indarno di domande il Marchesino, che le conduceva trionfalmente in salotto, quando sopraggiunse il padre. Scorgendo il figliuolo adorno delle spoglie opime della sua stanza e la _Gerusalemme Liberata_ ridotta a giubba e brache, rinculò di tre passi e chiese in tono fulmineo ragione della stravaganza, della mascherata intempestiva: — «Non siamo di carnevale, ned al ballo dell’Opera, signore!» — «Babbo» — rispose il Louvois — «Ella mi ha imposto di mettere un abito nuovo; e, non potendo io disporre di altra stoffa, ho dovuto impiegar questa per obbedirle.» — Trattando la fantasia, madre dei poeti, trattando, dico, lo Aleardi da madrigna, dimostrandosi seco avarissima, non somministrandogli mezzi per rivestirsi ammodo, il poveraccio ha creduto lecitissimo di farsi cucire un bell’abito con brani tagliati dalla stoffa del Leopardi: e di questo, quando una volta si ammette, ch’egli sia spinto a perpetrar versi da una specie di forza irresistibile, non oserei fargli una colpa grave: ... il poverel digiuno Scende ad atto talor, che ’n miglior stato Avria in altri biasmato. Se non che, ciò ch’era bellissimo come tappezzeria, per quanto industre si dimostri il sarto, sfigura ridotto a giubba. La descrizione della gioventù è desunta dalle _Ricordanze_, e guasta⁵: l’orrore d’una giovinetta antica per la morte, è desunto dal canto _Sopra un bassorilievo antico sepolcrale_, e guasto; le interrogazioni alla natura, quel chiedere il perchè delle cose, son desunti dal _Canto notturno d’un pastore, errante nell’Asia_, e guasti. Fa proprio dolore; è uno strazio, il veder così manomessi que’ pensieri, che siamo avvezzi a venerar da fanciulli, appunto come figure, che adornano da lunga pezza le stanze della fantasia, in cui solevamo andare a diporto. Il Voltaire leggeva un giorno la sua _Semiramide_, presente il Piron: c’erano intercalati nella tragedia versi del Cornelio e del Racine: quantunque volte se ne incontrava uno, il Piron faceva una gran reverenza con tutta serietà. Il Voltaire gliene chiese la ragione. — «Oh prosegua pure! Non badi, sa? È un’usanza, ch’io mi ho, di salutar la gente, che conosco.» — ⁵ L’Aleardi dice, rimanendo sempre nell’indeterminato: ... Nell’April della vita, allor che varchi Quasi danzando il limitar del mondo Fiorito a festa e della tua venuta Si allegra ogni sembiante, e ad ogni giorno Mette le piume una speranza e vola Pe ’l novo aere cantando, poi che il Vero, Freddo saettator, nessuna ancora Ne uccise... Ed il Leopardi ha espresso in più poesie il rimpianto per la gioventù perduta, dicendo, che _la scena del mondo sorride in vista di paradiso al guardo giovanile_, e che _... s’accinge all’opra_ _Di questa vita come a danza o gioco_ _Il misero mortal..._ (La vita solitaria) _... Chi rimembrar vi può senza sospiri,_ _O primo entrar di giovinezza, o giorni_ _Vezzosi, inenarrabili, allor quando_ _Al rapito mortal primieramente_ _Sorridon le donzelle; a gara intorno_ _Ogni cosa sorride: invidia tace,_ _Non desta ancora ovver benigna...._ (Ricordanze) _... In sul fiorir d’ogni speranza, e molto_ _Prima, che incontro alla festosa fronte_ _I lùgubri suoi lampi il ver baleni._ (Sopra un bassorilievo) Tanto è vuoto di fantasia, tanto è retore l’Aleardi, che, per rappresentarci la morte subitanea di gocciola d’una cara donna e venerata, (se non pregevole e veneranda,) nel giorno suo onomastico appunto, in mezzo ad una raccolta di persone, che le voglion bene e radunate per festeggiarla; scena, la quale avrebbe potuto essere straziante, sol che si fosse stati veri nel ritrarla; tanto è retore l’Aleardi, che ha bisogno, per ispiegarla, di fingersi un angelo, il quale scenda dallo empireo a dare un bacio alla donna! Cosa, cui non crede certo lui; cosa cui non ci può far credere, giacchè sappiamo benissimo le apoplessie fulminanti non venir cagionate da baci d’angeli, generazione d’esseri, la cui natura è del resto poco nota, quantunque nel dugento Brunetto Latini e l’abate Fornari a’ dì nostri, ne abbian parlato _ex-professo_. Se uno scolaretto, al Liceo, introducesse una zeppa cosiffatta in un suo componimento, gli daremmo _zero_ punti! Ma cosa diremo, cosa diremo di coloro, che, leggendo tal minchioneria, più vecchia del brodetto, sclamano: — «Non è inaspettata e nuova l’immagine della morte fatta apparire in forma d’angelo? E in quel freddo bacio non è forse espresso vivamente tutto l’orrore della morte?» — L’incapacità del lettore corrisponde all’impotenza dello scrittore. Il quale, è da stupire, come non abbia avvertito, che, facendo supporre a Donna Bianca, lo angelo esser venuto a complirla pel suo onomastico, ci sforza a ridere alle spalle di costei, rappresentandocela per bamba e sciocca quanto Madonna Lisetta da ca’ Quirina, che avea per intendimento l’Agnol Gabriello. ..... A un tratto apparve Un angiolo da lei sola distinto: Avea nere le chiome e l’ali nere, Punteggiate di _stelle_; e, _nelle_ nere Pupille, ardeagli un lume agonizzante, Che parea tremolar nello infinito (??). — «Angiol» — ella gli disse — «Angiolo bello, Forse e tu pure a festeggiar venisti La mia giornata?» — «A compierla» — rispose; E in fronte la baciò... Le personificazioni sono sintomo di fantasia inerte, che sostituisce una cifra ad una immagine; e, per poco, che si prolunghino, divengono ridicolissime; e sfido io chicchessia a non isghignazzar delle _speranze, che mettono le piume e volano cantando pel novo aere_: _.... poi, che il Vero,_ _Freddo saettator, nessuna ancora_ _Ne uccise...._ È ben naturale, che chi scrive senz’alcuna favoleggiativa si lasci distrarre da quanto incontra sotto la penna. Allorchè manca un sentimento, un pensiero dominante, che investa, che invasi lo scrittore; che determini le proporzioni d’ogni immagine, d’ogni metafora; che metta ogni cosa al posto: si cade nelle amplificazioni, nelle personificazioni, si adoperano mille frasi per dire una cosa, anfanando; si perde ogni temperanza. Allora non si sa più chiedere alla Natura, perchè c’è la terra, senza farne una descrizione geologica. Allora, nella crocifissione di Cristo, _i due legni in croce in cima ad un colle_ divengono l’importante; e dell’anima del crocifisso, di quell’anima ardente di amore operoso, non se ne parla neppure. Allora si dice, che, allo apparire del cristianesimo, .... per le sacre selve I fauni agonizzâro alle scontrose Driadi moribonde avviticchiati; E galleggiar sopra i flutti marini. Dell’estinte Nereidi le salme.... E queste sono pure frasi, alcune sconce e ributtanti. L’Aleardi sa benissimo, e noi meglio di lui sappiamo, che il dire: _i fauni, le driadi e le nereidi son morti_, è una metafora; che, in realtà, non son morti, perchè non vissero mai; che soltanto l’uomo ha cessato di credere alla loro esistenza. Volendo precisar troppo la metafora e trattarla come cosa salda, si cade nel goffo e nel vuoto. _La primavera della vita_ è buona metafora; ma i _prati della primavera della vita_, e _la fanciulla, che col piè sedicenne va correndo lungo i prati della sua primavera_, sono goffaggini le quali non significan nulla. _La terra, che sprofonda perfidamente e scende a la riva squallida d’Acheronte_, è qualcosa, che non giungo a capire. Non ci può esser nulla di più antipatico del vedere sfilare una frotta di sostantivi a braccetto con altrettanti aggettivi, come ne’ versi seguenti: .... lo stesso Achille _Deiforme_ avria tolto essere in terra Schiavo _affamato_ di signore _avaro_, Anzi che dominar _scettrata_ larva Sull’ombre _vane_ de la _morta_ gente. Che cascaggine! _Il moral cipresso_, è insulso. _Fondere in lagrime_, sarà francese, ma Italiano non è. _Metter risi_ per ridere, non si dice: quel _tutta mettea risi la casa_, fa credere, che tutta la famiglia, compresi la Bianca Rebizzo e Don Raffaele Rubattino, stessero affaccendati in cucina e mettessero a cuocere i risi, come dicono nell’Alta Italia. _L’acque mediterranee ululava..._ _Se bionda scenda o argentea la chioma...._ _Di dio, oppure fiammelle distinte..._ sono versi cacofonici per lo sconcio incontrarsi delle vocali o per dieresi inopportuna. Del resto pare, che in alcuni casi l’Aleardi abbia profittato della lezione, ch’io gli ho data altra volta: quindi non usa in questa epistola nomi strampalati di piante; ed ha imparato, che _viaggia_ è trissillabo, non dissillabo, come usava adoperarlo prima. È qualcosa! Impari pure, che le lettere in versi si chiamano da noi: _Epistole_. Tutto questo, mel so, non impedisce, che molti contemporanei chiamino Aleardo Aleardi gran poeta, gran pittore; uomo, che ha una natura a sè; originale, nuovo nelle immagini; venusto nella forma; vivo e maestrevole nel colorito. Dican pure. Il plauso de’ contemporanei sciocchi non vuol dir nulla. Chi conosce ora Ludovico Aleardi? Certo, nessuno. Or bene, costui dedicava il XXVIII marzo MDCXII a Giovanni Vendramino, podestà di Vicenza, una sua favola boschereccia, intitolata _Origine di Vicenza_⁶, stampandovi in calce, come usava allora, _parecchi sonetti di diversi in lode dell’autore e dell’opera_. Usanza dismessa! A’ di nostri, abbiamo invece i _soffietti_ su’ giornali, sulle _Nuove Antologie_, sulle _Riviste Europee_, non meno inverecondi; opera d’anonimi per lo più, talvolta di salariati o compiacenti dello scrittore, il cui libro si giudica, ed in qualche caso di esso scrittore medesimo; _soffietti_, che poi taluni autori fan persino ristampare dietro alle loro sconciature od in opuscoli a parte o che gli editori riproducono su’ loro cataloghi: _mutatis mutandis_ è la stessa cosa. Dunque, fra gli altri sonetti in lode di Ludovico Aleardi, ve n’è uno del Fervido, accademico Incerto, che scrive: Canti con stil sì chiaro e sì facondo, Aleardi, ch’estinta a terra cade La possanza del tempo; e la pietade Tua varca ardita oltre l’oblio profondo. Il Confuso, Accademico Inviato, ribadisce la lode: Forma sì dolce la tua musa il canto, Che non ha chi l’agguagli..... In Elicona Poggi sì ardito e con perpetuo onore Tessi fregi di glorie a le tue carte. E così tutti quanti: il Rinchiuso, l’Aggravato, l’Eccitato, l’Incolto, il Tardo, il Lucido, l’Illustrato, il Temperato. Nè basta; Giambattista Basile il Pigro, il gran Basile, dice di questo Aleardi seicentista nel _Teagene_ (Canto V; stanza LXI): L’Aleardi, ne l’ale aquila vera! ⁶ Ludovico Aleardi non era un volgarissimo fabbro di versi. Ecco in qual modo fa parlare Giove nel prologo delle _Origini di Vicenza_: Tra le parti, onde il mondo In ampio giro si dilata e spande, O che circonda co’ suoi flutti il mare; O che cinga de’ monti alta corona, O che in bel largo pian stenda le membra, Non ve n’è certo alcuna Che l’Italia pareggi. L’Italia è il fior di tutte e la bellezza, E d’ogni altra provincia è la Regina Così vols’io crearla Quando il profondo caos disciolsi e trassi Fuor dalle oscure tenebre la luce, Che poi sì bella machina scoperse E le celesti sfere agli occhi altrui. Volli quinci arrecar cocente arsura. Quindi algente rigor; sterile un loco, Altro fecondo far; ma, sotto un cielo Temperato e felice Locai l’Italia, quasi Unico de la terra almo giardino. Movi il passo onde vuoi: da un lato scorgi Colli sempre fioriti e sempre verdi; Da l’altro spaziose ampie campagne, Ove una Primavera eterna ride. Corron rivi d’argento in grembo a l’erbe; Sembra ogni prato un ciel cinto di stelle; Ogni cosa è divina, il tutto alletta, ecc. ecc. E, nelle _Odi e Madrigali_, esagera anche più la lode, esplicandola: Mentre spieghi, Aleardo, Con stile almo e sovrano De l’infelice Amida il caso strano, Chi ascolta il raro canto Forz’è, che rida al riso e pianga al pianto; Ami nel dolce amore; Gioisca nel gioire; Languisca nel languire; E si trasformi il core, Leggendo il suo dolor nel suo dolore; Mora ne la sua morte E corra seco una medesma sorte: Così pònno i tuoi detti Mover nostr’alme e dominar gli affetti. Sono passati due secoli e mezzo, e Ludovico Aleardi, Accademico Olimpico e Inviato detto l’Infecondo, è profondamente ignoto; così accadrà di certo anche infallibilmente del Professore Aleardo, dopo qualche tempo. Ve ne sto mallevadore. Il tempo è galantuomo. UN CAPOLAVORO SBAGLIATO (IL FAUSTO DEL GOETHE) — (M.DCCC.LXV.) I. — _Impressione e Giudizio._ La gente colta in Italia da lunga pezza era informata, che un certo Gian Lupo (Volfango, alla tedesca) di Goethe, nato in Francoforte sul Meno l’anno millesettecentoquarantanove e poi consigliere intimo dell’altezza serenissima del Granduca di Vimaria, avea dato alla luce una favola drammatica intitolata: _Fausto, tragedia_; e composta da una dedica, un preludio sul teatro, un prologo in cielo e due parti, delle quali la prima non è divisa in atti e la seconda ne comprende cinque. Ma, possedendone solo volgarizzamenti monchi, poco divulgati ed affatto illeggibili, l’inclito pubblico nostro, (avvezzo alla pecoraggine, alla inerzia intellettuale, a giurare _in verba magistri_ dalle istituzioni, che ha più care e più venera, non che dalla educazione,) faceva atto di fede in chi pretende sapere, ammirando universalmente l’ignoto poema, come l’ultimo sforzo d’ogni virtù poetica e nominandolo con cieca reverenza. E gran tempo, ch’io mi sono accorto di codesto pregiudizio, ma fin qui non ho curato di contraddirvi. La cosa mi pareva più buffa, che dannosa. L’opinione irragionata (si badi: per ora dico _irragionata_, non _irragionevole_) dell’eccellenza d’un objetto ignoto non ha, nè può avere importanza pratica. In che varrebbe a pervertire il nostro buon gusto in fatto di arti belle (supposto che ne avessimo) lo stimare capilavori architettonici que’ due Teocalli di Teotihuacan, il Tonatiuh-Ytzaqual (casa del Sole) ed il Meztli-Ytzaqual (casa della Luna,) che gl’Italiani non conoscono neppur dipinti? Lo incognito s’immagina analogo al cognito: ce li figureremmo sul fare de’ templi antichi. O forse che il proclamare pel _non plus ultra_ della musica l’armonia pitagorica delle sfere, che l’orecchio umano non ode, come assordato dal frastuono stesso, ci renderebbe disadatti a ben giudicare degli accordi di Giuseppe Verdi e d’altri, accordi ancora percepibili? La faccenda muterebbe aspetto, se una vergata magica trasportasse domattina nel bel mezzo di Roma o nel centro di Napoli que’ due monumenti messicani; o se posdomani s’inventasse qualche cornetto acustico, col quale distinguere i suoni delle sette corde di quella gran lira, ch’è l’universo. Ed ora, che il Fausto, ripetutamente tradotto (in prosa, la prima parte da Giovita Scalvini e la seconda da Giuseppe Gazzino; ed in versi da Federigo Persico, Anselmo Guerrieri, Andrea Maffei); recitato ed applaudito nei nostri teatri, sicchè può dirsene con lo Stazio: _Itala iam studio discit memoratque inventus_; diventa per noi qualcosa più d’un gran nome: l’opinione, che il pubblico se ne forma, può aver conseguenze giovevoli o perniciose. Un giudizio, un parere sulla benchè menoma opera d’arte, sul più umile degli scritterelli o degli scrittorelli, implica necessariamente, quantunque spesso inconsciamente, un criterio, cioè niente meno che tutto un sistema estetico e quindi filosofico. Ho detto: _l’opinione, che il pubblico se ne forma_; e non già _l’impressione, che ne riceve_. Distinguiamo, prego. Scappo in teatro per divertirmi: purchè lo spettacolo mi fornisca quel solletico desiderato, ho raggiunto lo scopo, ed il come non m’importa; o si ripeta dalla maestria del poeta o dalla valentia del macchinista, è tutt’una per me. Ho riso? son disarmato! Ho dimenticato per poco il fascio delle mie cure, il peso delle mie catene? benedetto lo imbrattacarte! Sclamava un classicista furibondo: — «Drammi francesi!... Poh! che beccheria! S’ammazzan nel prim’atto, nel secondo, E nel terzo e nel quarto e tira via!» — — «Aggiungi» — lo interruppi — «se ti pare, Che il pubblico s’ammazza per entrare». — Così dice spiritosamente Luciano Montaspro; ma non dice, che han ragione tanto il suo classicista quanto il pubblico: quegli non trovando ne’ drammi francesi ciò, che cercava: l’arte squisita; questo, trovandovi invece quanto bramava: un surrogato delle tauromachie e de’ ludi gladiatori, soli spettacoli, che veramente piacer possano alle plebi. Spesso le più insulse produzioni ci valgono di passare un pajo d’orette piacevolmente: mi parrebbe pedanteria il rinunziare allo svago col pretesto, che l’opra non incarna degnamente il concetto dell’Arte. Santo diavolo! cosa c’entrano con l’Arte il dramma, che mi rassegno a subire per ammazzare una serata, ed il romanzuccio, che leggicchio in viaggio o prima di spegnere il lume a letto? Cavatone quel momentaneo sollazzo, _più di lor non si ragiona_. Hanno la vita efimera del giornale e senza avvenire, senza dimane. Se non che l’impressione poi dev’esser frenata dal turbare la serenità del nostro giudizio, quando un lavoro affaccia pretese artistiche: premiare con applausi lo spasso datoci dalla tal rappresentazione non implica punto l’attribuirle merito intrinseco. Piacevole e bello non si registrano mica quali sinonimi: ed il nostro buon pubblico pratica stupendamente questa distinzione, quando, con le palme rosse ancora de’ battimani, continua a stimar l’autore un ridicolo e sentenzia, che il dramma è una minchioneria. È opportuno il premettere questi ricordi, acciò non s’interpreti il biasimo d’un capolavoro alla tedesca, esempligrazia del _Fausto_ del Goethe, per biasimo implicito o di chi s’è scomodato a tradurlo, o di chi s’è dispendiato a rappresentarlo, o di chi s’è indolenzito le mani ad applaudirlo; anzi dobbiamo riconoscenza a chiunque, rinserrando un nuovo objetto nella cerchia delle nostre nozioni, ci sforza a nuova attività mentale. Molto meno stimo poi da riprendersi chi l’ha potato e raffazzonato, con non maggior licenza di quella, che s’adopera tutto giorno nella buona Germania, dove pure viene stimato un miracolo; di quella, che l’autore in persona adoperò, quando volle rendere rappresentabile il suo bel parto: rinunzieremo quest’ufficio agli stradotti critici Icchese, Ipsilon e Zeta, che ne ciarlano con tanto sicura prosopopea, senza trovarsi in grado di leggerlo. In quanto alle traduzioni, che ho ricordate, poche parole. Ho udito decantar per ottima e bellissima quella del Guerrieri. Non so. Non m’è riuscito di procacciarmela. Ben può essere, ma non oserei affermarla tale sulla fede altrui, sul plauso de’ giornali, perchè so lodarsi in Italia ogni cosaccia, ed il merito d’ogni lavoro esser generalmente da presupporsi in ragione inversa del plauso immediatamente riscosso. Fu detto di Ludovico XIV, che, se avesse voluto, i cortigiani suoi lo avrebbero adorato. Non c’è imbrattacarte nostro, il quale non si trovi nelle stesse condizioni e non voglia essere e non venga adorato. La versione del Persico fu pubblicata in Napoli nel M.DCCC.LXI. Nessuno vi ha badato. Chi ci colpa? L’epoca della stampa? Allora in verità c’era altro da fare, che badare a versi d’un Persico qualunque. Il muro chinese, che tuttora separa intellettualmente il Mezzogiorno d’Italia dal Settentrione e dal resto del mondo; e per cui le produzioni napoletane rimangon sempre oscure e depresse? Ogni napoletano, che ha fatto gemere i torchi senza emerger dalla oscurità, se la piglia con questo preteso muro chinese! O l’esserle mancato il plauso della setta, la quale, poichè il Persico s’imbrancò nelle sue file, ne leva al cielo ogni quisquilia e gli ha così fatto un certo nome? O finalmente il poco valore dell’opera? Scelga il lettore fra le quattro ipotesi. Vo’ solo avvertirlo, che il Persico traduce il _Fausto_ in versi sciolti, togliendogli così quel carattere lirico, o meglio, melodrammatico, spiccatissimo nell’originale; ch’e’ fa di _violento_ un trissillabo; ch’e’ non rende spesso il testo e che spesso ’l frantende. Per esempio, nelle prime pagine, _un soffio magico, che tempestoso circonda uno stuolo_ di fantasmi, si trasforma in _aure scosse da’ celesti vanni_. Gli amici del Goethe, _frodati di amene ore dal destino_, divengono pel Persico _... i cari, che ingannò il giocondo_ _Fugace istante,...._ Lo impresario del Goethe vorrebbe, che ne’ drammi tutto fosse _nuovo e di momento, ma piacevole nel contempo_; il Persico gli fa desiderare che _tutto riesca nuovo e, che più monta, alletti_. Dice il tedesco: _mostratevi esemplari (musterhaft)_; e la versione: _fatevi innanzi maestrevolmente_ (come se nel testo fosse: _meisterhaft_). Poco più in là, nell’originale, l’impresario dichiara non esser _mortificato_ da un biasimo; nella traduzione egli non n’è _scosso_. Una _nottolata_ diventa una _notte selvaggia (sic!)_ Potrei continuare all’infinito: e nelle stesse sei prime paginette, onde io desumo questi esempli, c’è peggio. Il volgarizzamento del Maffei, ripetutamente annunziato, non era ancora di ragion pubblica, quando stampai per la prima volta questo lavoruccio sul Fausto. In qual conto debba tenersi potrà desumersi da un’altra mia dissertazioncella. Finalmente la traduzione dello Scalvini e del Gazzino, prescelta nella recita teatrale (e con poco avvedimento, perchè la soppressione del verso fa una gran tara alle bellezze del _Fausto_,) può servir solo a mostrare la ignoranza supina de’ due traduttori, i quali, parmi, ne sapessero di tedesco quanto d’Italiano. A dare un saggio della lor buaggine, basti ’l dire, che traducono _Fliegengott_ (cioè: Belzebù) per — «Moschedio» —; _Valpurgisnacht_ (tregenda) per — «notte di Valburga⁷»; _Eröffne ich Räume vielen Millionen Nicht sicher zwar, doch thätig-frei zu wohnen_ (schiudo spazî dove molti milioni abiteranno, se non sicuri, operosamente liberi almeno) per — «Io schiudo un territorio per miriadi d’uomini, i quali si trarranno ad abitarlo, se non rassicurati da certezza, che non ammetta dubbio alcuno, con isperanza almanco di godersi la libera attività dell’esistenza» — Chiaman poi oscuro il _Fausto_! Diamine, se l’imbrogliate di questa fatta! Fausto moribondo dice, che l’orma della sua vita non può _in Aeonen untergehen_. Il Gazzino non capisce quella parola greca _o aiòn_ (epoca lunga, eternità); e traduce: — «non può andar inghiottita dall’Eunoè⁸» — Un paio di stivali calzati da Mefistofele, stivali magici, che fan far passi da sette leghe l’uno, diventano per lui una coppia di rospi, che saltellano. Ma che rospi! lunghi ben sette miglia! E nota, che un miglio tedesco da quindici al grado ne val quattro delle Italiane o geografiche. Rospi maggiori di quelli incontrati da Rinaldo nel secondo canto del _Ricciardetto_. A piè di questa smisurata pianta Vide legata una gentil donzella, Che i crini d’oro con la man si schianta, E si affligge, e si affanna, e si arrovella. Ma, come dir si suole, ai sordi canta; E quel, che par più cosa atroce e fella, Le vide star da dritta e da sinestra Due bestie, lunghe un tiro di balestra. Eran questi due rospi velenosi Grossi così, sì sporchi e disadatti, Che avrian fatto di loro timorosi Non pur la donna de gli angelici atti, Ma gli orsi ed i cinghiali setolosi, E s’altra è fera, che in boschi s’appiatti; Che ognun di loro egli era fatto in guisa, Che avria co’ morsi una balena uccisa. Tutto il lavoro è su questo andare! Eppure si stampa e ristampa! e si loda e riloda! Il Lafontaine avea ragione: — «Un minchione trova sempre un più minchione per ammirarlo.» — _Un sot trouve toujours un plus sot qui l’admire._ Vedete l’abate Fornari quanti e quali ammiratori ha! ⁷ I tedeschi credevano che la tregenda più solenne delle streghe avesse luogo la notte di santa Valburga, quindi quella notte significava per loro _tregenda_, come, secondo le varie parti d’Italia, lo sgombero, ch’è un’altra specie di tragenda, si chiama _il san Michele_ od _il quattro Maggio_. E poi, quando indichiamo il giorno dal nome del santo, vi prefiggiamo sempre l’epiteto di _santo_: puta: — «il giorno di sant’Anna fu un gran tremuoto;» — «alcuni dicono l’Imperatore Federico II morto il giorno di san Luca ed altri in quello di santa Lucia» — Sicchè _notte di Valburga_ non s’ha a dire in modo alcuno; ma, se si volesse pur dire, s’avrebbe a dir _notte di santa Valburga_. In questo errore cadono tutti i traduttori del Goethe. ⁸ Nè questo vocabolo si trova solo usato dal Goethe, nèd il Goethe fu il primo ad usarlo. _Musaeus_ (_Volksmaerchen. Stumme Liebe_) — «Denn du sollst wissen, dass wenn die Seele von dem Korper scheidet, sich nach dem Ort der Ruhe verlangt, und diese heisse Sehnsucht macht ihr die lahre zu Aeonen, so lange sie in einem fremden Eiemente schmachtet,» —_Museaus._ (_Volksmaerchen. Riehilde._): — «Kein Wunsch war ihnen uebrig als der, aeonenlang ihr wechselseitiges Glück zu geniessen ohne Wandel.» — II. — _Imparzialità Italiana._ Turàti dunque gli orecchi alle blandie dell’impressione, ch’è una sirena fuorviatrice, giudicheremo il Fausto come va giudicato, e come (ch’io sappia) non fu per anco giudicato; vale a dire secondo l’essenza ed il valore intrinseco. Ci sarà norma e codice quella scienza critica, che procede ignara di riguardi per illustrazion di nomi; irrispettosa d’ogni autorità, che non è il vero; spiattellando alle riputazioni usurpate, come Don Giovanni De Vargas agli Stati Generali dei Paesi-Bassi, un franco: _non curamus previlegios vestros_, cui l’esser maccheronico non minora solennità. E la applicheremo con quella imparzialità Italiana, che può insuperbire di non aver mai degradata una quistione artistica a quistione di puntiglio nazionale. Ecco una delle non poche faccende, nelle quali, bisogna pur convenirne, siamo popolo esemplare. Più volte spropositammo, sollevando immeritevoli sugli altari; ma, sfumata l’ebbrezza momentanea, li abbiamo ricollocati tranquillamente al posto loro, guardandoci ben bene dall’imitare que’ bravi tedeschi, cui non rimorde scrupolo di sublimare il consigliere aulico Federico di Schiller sopra l’Alfieri ed il Cornelio e d’esaltare la cornacchia Lessing per le penne rubacchiate al pavone Diderot, _torbo_ quanto volete ma _furibondo_ no. Invece l’Aretino ed il Cavalier Marini ed il Metastasio e tant’altri non caddero dal cuore e dall’estimazione di nessun altro popolo così prontamente e compiutamente come da quella del proprio; anzi, potrebbero giustamente lagnarsi della troppa severità dei concittadini e chiedere la revisione del loro processo. — «Gl’Italiani,» — scriveva Michel Montagna — «che ragionevolmente si vantano d’aver la mente più svelta e la parola più sana, che le nazioni contemporanee, han testè conferito il titolo di divino all’Aretino; in cui, salvo il parlar gonfio e tempestato d’arguzie, ingegnose certo, ma lambiccate e fantastiche, oltre l’eloquenza in somma, qual ch’ella sia, non veggo nulla al di sopra della comune degli scrittori del secolo, non ch’egli s’avvicini alla divinità antica di Platone.» — Ma fu proprio sola la nazione Italiana a chiamar divino lo Aretino? E gli appiccicò quello epiteto sul serio? I versi dell’Ariosto mi pajon satirici. Le collane d’oro non gli venivan date da Italiani. Da noi, si applaudi principalmente, perchè _flagello de’ Principi_, che non avevamo allora motivo alcuno di venerare od amare. E, del resto, quanto tempo serbammo sugli altari quell’idolo? Chi legge più lo Aretino in Italia? Ed altrove è pur tuttavia oggetto di studio e se ne stampano biografie. Il Marino fu più divinizzato in Francia, che tra noi: lì ebbe più solide testimonianze d’ammirazione. Ma nè gli uomini tutti, nè tutte le nazioni sanno praticar la giustizia verso di sè e verso degli altri. E, se la nostra è da noverarsi tra le fastidiose, che disprezzano con amore ogni cosa propria, che le valutano al disotto del pregio intrinseco, ce ne ha pure di buffamente presuntuose, sempre con lo _chez-nous_ a fior di labbra, capacissime, come la villana rifatta di Carlo Goldoni, di rammentare con rammarico i fagiuoli scaldati del tugurio paterno, mentre s’affrettano ad imbandirle ghiotte vivande, _..... in bianche spoglie...._ _..... Prodi ministri; e lor sue leggi detta_ _Una gran mente, del paese uscita,_ _Ove Colberto e Riciliù fur chiari._ L’Italia odierna versa in condizioni, che la privilegiano di rimanere immune da ogni invidia, come da ogni vanità in fatto d’Arte. Dopo aver incarnate spontaneamente tutte le categorie estetiche, adesso non si trova più in un’epoca produttiva. Siamo letterariamente nello stato di sicurezza e d’imparzialità, che risulta dal meritato possesso ed incontestabile di un’alta posizione; nello stato appunto, in cui politicamente si trova l’aristocrazia d’Inghilterra. Non possono tôrci d’aver fatto quel, che s’è fatto; e ci riposiamo sugli allori passati, e, sendo inerti al presente, nessuna rivalità viva può accecarci gli occhi della mente, annebbiarci lo intelletto. Stiamo per ora fuori della mischia; assistiamo come spettatori alle gare altrui; anzi, se si ha da dir proprio tutto il vero, neppure a queste gare altrui abbadiamo gran fatto. Ove il critico e l’estetico Italiano dovessero limitarsi ad esaminare le scritture pubblicate in patria alla giornata, potrebber chiudere bottega: son pochissime; e, le più, immeritevoli, che altri se ne occupi di proposito. Non oserei certo affermare, che una sola delle opere pubblicate da quando sono nato io fino adesso, possa scendere a’ posteri, possa venir letta universalmente da qua a... non dico altro, ma un quindici o venti altri anni. La nostra letteratura sonnecchia; corre per lei un’epoca improduttiva, una stagione morta. Ed il poco alimento, che assorbe questo boa intorpidito, ch’è la fantasia Italiana, consiste in traduzionacce od in roba forestiera. Eppure, i verdi succhi sono in moto sotto la corteccia, che par secca; eppure, in questo raccoglimento della fantasia nazionale, durante questa apparente inerzia, questo sopore della favoleggiativa nostra, si prepara, si elabora il nuovo indirizzo, che poi andrà maturando per secoli; si accozzano e digeriscono dalla coscienza nazionale gli elementi del nuovo mondo poetico. L’Italia, ora, nol partorisce, gli è vero; ma non già perchè sterile, come giudica taluno, anzi perchè pregna. Il vulcano è addormentato, non ispento; e presagisco prossimo un nuovo periodo eruttivo. Ed, appunto per ciò, non s’offerse mai più largo campo e fecondo alle fatiche del critico. Possiamo non solo formolare il giudizio della nazione sulla sua attività letteraria ed artistica passata e contemporanea, anzi additarle pure, in certo modo, quel, ch’essa ha da fare; la via, nella quale s’ha a mettere. Spetta a noi lo sgombrare e dissodare il terreno; il collocar le guide, sulle quali scorrerà velocissima la nostra storia letteraria; il dare lo sfratto a’ pregiudizî ed agli errori, che pur troppo ottenebrano le menti; il purificare ed aguzzare il senso del bello. Si può ripetere insomma ora in Italia, quanto fece la critica nel secolo scorso in Lamagna; alla cui opera essa Magna va debitrice della intera sua esplicazion letteraria, che è quanto di meglio si possa fare da un popolo come il tedesco, piuttosto scarso di attitudini artistiche. Ed otterremo l’intento, avvezzando il nostro popolo a rendersi conto d’ogni prodotto dell’attività umana nel campo dell’Arte; dandogli di questa e delle sue forme un pieno concetto e giusto. III. — _Digressione._ E qui mi permetterò una prima digressione: prima di parecchie. Io, mi piace, come dicono i francesi, di far la _scuola cespugliare_, d’andare a zonzo. Tanto non ho nessunissima fretta di rabescar la parola _fine_ in calce al quaderno. E, quando al lettore dispiaccia il mio divagare, ha incontestabilmente il dritto di non leggermi: viva sicuro, che io non l’obbligherò, come fa pe’ suoi madrigali il Rochester, nel _Cromuello_ di Vittorio Hugo, a legger le mie critiche per ordine regio, _de par le Roi_. Dunque, basta guardarsi intorno e veder quanta roba ferve, bolle in questa caldaia, ch’è la patria nostra, per convincersi, come al momento opportuno dovrà pur sorgere l’ingegno destinato ad incarnare in qualche capolavoro poetico i subbugli, i garbugli ed i guazzabugli presenti, vene inesauste di tragico e di comico, le quali non deggiono rimanere inutili, inesplorate, non esercitate per l’Arte, non _arbitriate_, (per adoperar un sicilianesimo, del quale Vito D’Ondes-Reggio patrocinava l’uso; guardandosi però bene dall’usarlo pel primo per non farsi melare.) Sarebbe proprio peccato, che nessun poeta illustrasse questo Malebolge Italiano, che nessuno cavasse un mondo poetico da un tanto caos morale. Caos, Malebolge, che bisogna, questo sì, che bisogna guardare con quell’amore, il quale dischiude l’intendimento dell’objetto, e senza cui non si combina nulla di concludente. La baraonda, i vaneggiamenti, le agitazioni, le superstizioni, le follie, gli spropositi, le melensaggini, le chiacchiere, e persin le turpitudini nostre, debbono esserci cari: s’ha a fissare lo sguardo con compiacenza in essi. Non bisogna imitare alcuni, che si mettono in opposizione con l’intero indirizzo nazionale e gridano sperpetue e trovan tutto brutto, tutto sconcio, tutto male. E, piacendomi e garbandomi ed andandomi a sangue gli esempligrazia ed i fatti personali, quantunque (e forse perchè) proclamati odiosi dalla plebe e quantunque, come so per prova, procaccino alle palle di pistola ed alle lame di sciabola il gusto di assaggiare le nostre povere carni; dirò, per ribadire il mio pensiero, che disconviensi fare come il Cantù, per esempio. Aprendo la storia della Letteratura Italiana, ch’egli ha recentemente pubblicata, magra compilazione (al paro di ogni altra opera di lui) non avvivata da una scintilla di simpatia per le cose nostre; l’autore vi sembrerà uno di que’ cagnacci ringhiosi, che impedito di addentare dalla catena, sfoga il dispetto latrando, e scombavando, e divorando almen con gli occhi rossi chiunque passi. Così questo jettatore pinzochero maledice non solo al presente nostro, intellettuale, morale e politico, ma (non senza logica, sendo il presente conseguenza del passato), anche a tutti i nostri grandi pensatori e scrittori disinvolti da Dante Allighieri a Giuseppe Giusti; e, non potendo, come il Caro fe’ pel Castelvetro, raccomandarli _agli inquisitori, al bargello et al grandissimo diavolo_, li denunzia all’esecrazione delle plebi bigotte. Non sa quel, che si faccia; non comprende l’opera della mente poetica Italiana, perchè non l’ama: merita pietà, se non perdono, come l’eunuco, che ingenuamente confessasse di non sapersi capacitare de’ gusti del padrone, di non capire cosa il pascià trovi da ammirare in una biondina od in una brunetta, in una guancia fresca ed in un seno colmo. Ma noi, (professando col commediografo latino di non ripudiare alcuna parte umana, protestando col francese di non venir più commossi dal vedere un uomo furbo, ingiusto, avido, che dal veder voraci gli avvoltoi, maligni gli scimmioni e rabbiosi i lupi,) noi (dico) osserveremo con benevoglienza tutti gli strani così venuti a galla nella rivoluzione, come il zoologo sorride con simpatia a’ più schifosi rettili sorti dal fango, come il patologo saluta con interesse le ulceri più abominose. In ogni insetto v’è il tipo animale, in ogni morbo v’è la nosologia e la morte: ed essi sanno scorgere l’idea nel fenomeno, la forma tipica nel caso singolare. E così il critico ed il poeta sanno scorgere, esempligrazia in Giovanni Nicotera o Giacomo Tofano, qualcosa, che, idealizzata, potrà dare creazioni paragonabili a quel Conte di Culagna, che fu un Conte Brusantini, a quel _nuovo amico_ di Giuseppe Giusti, il quale, prima di vivere poeticamente in uno de’ suoi scherzi, ch’è di moda il chiamare immortali, gli si era dato a conoscere nella prosa della vita, com’ebbe a narrare illustrando il proverbio: _sotto consiglio non richiesto, gatta ci cova._ Oh Nicotera, oh Tofano, che non potrà cavar da voi uno scrittore co’ fiocchi! IV. — _Importanza storica e concetto filosofico._ Dall’importanza particolare, cui può pretendere il _Fausto_ nella storia letteraria d’Allemagna, prescinderemo affatto. Tra perchè non aggiunge ned un ette ned un acca al suo merito intrinseco; e perchè l’occuparcene renderebbe necessaria (parlando io ad un pubblico Italiano, il quale non è punto obbligato a conoscere le letterature forestiere ed esercita largamente questo dritto all’ignoranza) renderebbe necessaria una bagattella: l’analisi e l’esame dell’intera operosità poetica tedesca; lavoro, che non può farsi incidentalmente e di sbieco, anzi pretenderebbe, che uno vi si dedicasse di proposito e vi consacrasse più volumi. Ci vogliamo accingere ad esaminar l’opera del Goethe, dimenticando le condizioni psicologiche speciali dell’autore e le vicende, che gliela ispirarono, dimenticando lo ambiente, in cui fu prodotta, e dal quale fu suggerita, dimenticando quanto, col render ragione de’ difetti di un componimento, c’induce spesso a non avvertirli od a scusarli, quando li avvertiamo. Che importa a noi, i quali non siamo tedeschi (la dio mercè,) che la condizion d’animo del signor Goethe ed anche lo stato della coltura in Lamagna vengano perfettamente rappresentate nel _Fausto_? Ci ha solo a premere, che il poema, il quale a nostra insaputa rappresenta tutta questa roba, sia un’opera d’Arte perfetta, finita, piena. Ci esonereremo altresì dallo indagare il concetto filosofico dell’autore; nè punto nè poco incaricandoci di quanto egli può aver _voluto dire_ o _voluto fare_. Investigheremo solo solo quanto egli ha detto o fatto artisticamente. Uno de’ mille Hoffmann, che hanno costretto a gemere i torchi, fa parlar così un dipintore: — «Mi dorrebbe per Lei, s’ella arzigogolasse qualche allegorìa per appiccicarla al mio quadro. Le pitture allegoriche son roba da fiacchi e dappochi; e le mie non debbon _significare_, anzi _essere_.» — Da lunga pezza gli oracoli sono screditati in Italia ed imparammo, che la sibillinità è indizio e sintomo di spensierataggine, di vacuità. Ridiamo, leggendo la scusa, che il cavalier Marino fa de’ suoi versi lascivi: Ombreggia il ver Parnaso e non rivela Gli alti misteri ai semplici profàni; Ma, con mentita scorza, asconde e cela (Quasi in rozzo Silen) celesti arcani. Però dal vel, che tesse or la mia tela In molli versi e favolosi e vani, Questo senso verace altri raccoglia: «Smoderato piacer termina in doglia». Ridiamo de’ poeti del Medio Evo, i quali — «così, com’è solito farsi col bambino, che, mostrandogli l’abbicì, si disgusta, e, se gli dite di provarsi a ritrovarlo, dov’è nascosto, si fa subito a ricercare; similmente, le verità morali, che, dichiarate semplicemente, avrebbero disgustato, ingegnavansi con grande artifizio di ricoprire, acciocchè forse la meraviglia della scoperta fosse stata di stimolo a riguardare.» — E ridiamo anche di Francesco Palermo, che trova ammirabile questo stratagemma. Ridiamo di Giulio Mosen, che (in riga d’encomio) definisce il _Fausto_: — «il lavoro più misterioso, che mai venisse scritto.» — Ridiamo del Varnhagen d’Ense, che chiamava sordi e ciechi i contemporanei, i quali non si lasciavan commuovere dalla favola, secondo lui, grandiosa del _Fausto_; e trovava non esser Dante in nessun luogo più grande e potente del Goethe in fine della parte seconda, perchè «l’autore, con vanni cristiani vi s’innalza al di sopra della rozza fede ecclesiastica ad una considerazione serena del mondo e dell’esistenza, la quale veramente in un certo senso sconfina dal cristianesimo; ma questo appunto è il bello, che il cristianesimo stesso c’impenni l’ali per oltrepassarne le barriere.» — Cosa importa, che il Goethe profetizzi nuove religioni, se ci vogliono i commenti per accorgersene e se non fa balzare il cuor nostro? Venga pure, in tal caso, la sua tragedia venerata dagli addetti della nuova fede, ma non proposta a noi per trovare un godimento estetico nel leggerla. Venga paragonata non alla _Commedia_ dantesca, anzi a’ discorsi delle sorelle Cràtere e Pellopida, delle quali narra Celio Malespini, che: — «ogni intelletto più sottile sarebbe rimasto conculcato da loro, poi che quasi tutte le parole, che loro uscivano di bocca (quando volevano però uscire dalle generalità del favellare) erano così oscure e fosche, che molti pochi le intendevano». — Il Manzoni rispondeva ad un chiarissimo (senza esser omo,) il quale s’occupava a scrivacchiar non so che zibaldone in difesa degl’_Inni sacri_: — «Si contenti, ch’io non dica nulla sul passo, dov’ella incontra difficoltà, giacchè le parole hanno a dire da sè, a prima giunta, quel, che voglion dire; e quelle, che hanno bisogno d’interpretazione, non la meritano». — Non nego, che il dirizzone presente, esemplificando una volta più l’oraziano _... Multa renascentur quae iam cecidere, cadentque_ _Quae nunc sunt in honore....._ rifàccia della critica un Edipo, inteso ad interpretare le sciarade proposte dalla sfinge Poesia. La moda odierna pretende dagli scrittori profondi concetti morali, religiosi, scientifici, filosofici e presso ch’io non dissi, e si scervella ad affibbiarne loro degli strampalati. Ed in questo ha torto marcio: Arte e Scienza sono cose diverse, delle quali ciascuna ha una ragion d’essere tutta sua propria e distintissima: l’amalgamarle capricciosamente nuoce ad entrambe e non giova ad alcuna. L’impareggiata profondità delle indagini di Giambattista Vico non ne campa dall’oblio le liriche; le quali spesso rinchiudono un pensiero dotto ed arguto, ma non mai un pensiero, che commova gli affetti, ecciti la fantasia. La Commedia dantesca è poema majuscolo non perchè, anzi quantunque allegorico, filosofico, teologico ed il trentamila. La vita e l’importanza vien conferita a’ lavori d’Arte dal concetto estetico, che incarnano; dal problema artistico o tecnico, che risolvono; essenzialmente diverso nelle diverse arti, giacchè il problema pittorico, che un pittore risolve con un quadro, il problema scultorio, che l’intagliatore risolve con una statua, ed il poetico, che un poeta risolve con un’opera letteraria, non han proprio nulla di patentemente comune: basti notare, che le arti del disegno e la musica si rivolgono principalmente e direttamente al senso ed alla fantasia solo mediatamente per mezzo del senso; mentre la poesia si dirige alla mente, e sol per mezzo della fantasia (nè sempre) eccita il senso. Il problema artistico, tecnico, lo scopo letterario, (che il poeta può prefiggersi a suo talento, che l’autore può liberamente scegliere, sebbene pure non ne abbia sempre piena coscienzia o non ne valuti tutta l’importanza, quando, scrivendo per qualche tendenza morale, religiosa, politica, bada solo allo scopo pratico o civile del suo lavoro,) è la sola cosa, che ci de’ premere. Il concetto filosofico, (o per dirla più sulla generale: scientifico) non può se non rade volte esser chiaramente veduto e liberamente voluto dallo artista; non è concesso all’arbitrio ed alla potestà sua; ned egli può farne libera elezione: essendo esso un risultato necessario del primo, il quale non può non implicarlo, non determinarlo virtualmente. E questo diverrà chiaro e lampante al più ottuso cerebro, per poco, ch’e’ degni riflettere, l’ecumenico manifestarsi nel singolare solo mediante il particolare; l’estetica non istar da sè, anzi fare parte d’un sistema enciclopedico; e quel bello, che essa rintracciando va, esser semplicemente una parvenza dell’assoluto, dell’universalissimo. Quindi suppergiù, senza grandi stiracchiature, in quel modo stesso, che con ogni religione o sistema si riesce a dare una spiegazione più o men plausibile del cosmo, in qualunque opera d’arte, ch’è un microcosmo, può trovarsi incarnato, (senza grandi stiracchiature, ripeto,) qualsivoglia concetto filosofico, e vi si può appiccicare un’allegoria. V. — _Tre esempli._ Valga ad esemplificare quanto ragionammo il mito di Prometeo, plasmator d’uomini e vittima de’ numi. In questa, ch’è tra le più sublimi sue creazioni poetiche, la Grecia, implicita ed inconsciamente rappresentò la propria sorte e la propria missione artistica, di conferire forma ideale compiuta (e quindi umana) alle divine forze e creatrici della natura; adempiuta la qual missione, dovea fatalmente perire, come ormai supervacanea: e difatti cadde, vittima del cristianesimo e preda de’ barbari, appunto come Prometeo fu trastullo di Giove e pascolo degli avoltoi. Certo, il popol greco, (non essendo, come _..... Il calavrese abate Giovacchino_ _Di spirito profetico dotato...._) fu lontanissimo dal pensare a tanta roba nel comporre istintivamente il bel mito; e lontanissimo dal pensarvi fu l’Eschilo eleusino, che il concretò in forma d’Arte. Ma esso concetto balza naturalmente fuori da quel sentito idealizzamento di tutta la vita e di tutto il pensiero greco antico. Ed a noi garba ed accomoda vedere in esso il valore storico, il pregio maggiore del capolavoro. Siffatto valore, siffatto pregio non poteva scorgerlo, nè chi lo scriveva, ned il popolo, per cui fu scritto; poteva essergli attribuito sol dopo il volger di secoli, dopo avvenimenti posteriori. I critici moderni hanno arzigogolato tutta questa roba; ed ormai chiunque legge Eschilo s’è avvezzo ad andarvela cercando. Angelo Cammillo De Meis (del quale per ora, _more solito_, ignoriamo finanche l’esistenza; ed al _cui cener freddo_ un futuro Natoli _farà_ certo _l’onor divino_ di battezzare dal suo nome un qualche liceo del Chietino od il futuro ginnasio di Bucchanico) il De Meis paragona l’Uomo e l’Universo, questi due contrarî identici, alla divina Commedia; eccone il raffronto riassunto: — «L’uomo è in uno macrocosmo e microcosmo. E non per questo due esseri agglutinati; anzi un essere solo, graduato in sè, e fatto, come l’universo dantesco, di tre mondi: lo inferno è il corpo, il purgatorio è l’anima, il paradiso è il pensiero e l’intelletto. Il corpo, ch’egli tiene dal vegetabile, è un vegetabile, naturale, materiale; e perciò ci è il mio corpo ed il tuo corpo, come ci è questo vegetabile e quello, l’uno fuori dell’altro. L’anima, ch’egli ha dal bruto, è un’animale, ed è parte materiale e parte immateriale, ma sempre naturale; epperò ci è la tua e la mia, come ci è questo e quello animale. Il pensiero ch’egli ha da dio, è dio infinito in persona _et homo et caro factus est_. Il corpo è il primo estremo, l’inferno, il basso fondo dell’universo, in cui l’una bolgia dal pozzo di Lucifero al limbo dei bambini e de’ granduomini è fuori dell’altra. L’anima è fra gli estremi, il purgatorio: _.... Ove l’umano spirito si purga_ _E di salire al ciel divenga degno..._ E come il dantesco purgatorio, che di scaglione in iscaglione arriva al terrestre paradiso, l’animale d’anima in anima giunge fino all’umana, che lo amore e la scienza spogliano a poco a poco della brutalità. Ma, se siamo molti corpi e molte anime, non siamo se non un pensiero, un solo infinito iddio, ed è ben questo il Paradiso. Quando Dante, ossia l’uomo non ancora battezzato, poeta in compagnia degli amati poeti, del buon Virgilio e del gentile Stazio, _oh dolce guida e cara_, saliva il faticoso purgatorio, quasi non era se non un animale. Quando poi la misteriosa visione gli apparve ed ei nel mistico grifone intravide _il suo aspetto stesso_, e si presentì, e conobbe ormai vicino il cielo. E quando all’antica Lia, sogno, ombra, figura, succedette la vera Matilde e l’ebbe immerso nelle pure onde del sacro Lete, ei dimenticò la pigra carne. Dopo quel salutare, ma esterno lavacro, aspirò solo alla vita eterna, alla vera infinita felicità del paradiso. E quando a Rachele antica si sostituì la nuova Beatrice, che lo manodusse al cielo; ed egli, ancora aggravato di anima e di natura, corse sulle facili ali della umana scienza per le celesti sfere, ei non era per questo ancora beato. Ma quando, giunto al vero empireo, ad un tratto si trovò allato san Bernardo; quando in lui all’umano succedette il divino ineffabile amore ed alla scienza umana delle cose divine la scienza divina, che penetrò il suo pensiero; e la grazia efficace scese nel suo cuore e lo sbrutì del tutto; ed il suo pensiero, naturale ancora e men che umano, fu fatto davvero umano; allora l’ombra ed il mistero sparve, il simbolo si disciolse e si confuse col vero, ed ei conobbe, che le superne sfere dell’intelletto erano tutte l’una nell’altra, e tutte erano una sfera, un Empireo, un Paradiso; e vide Beatrice, ormai non più quella, assisa nell’alto seggio, e affisa in dio, e tutta trasfigurata e indiata; e sè conobbe indiato in lei, e fu felice ed immortale». — Evidentemente il De-Meis non pretende affatto, e sarebbe affatto indegno di lui il pretendere, che Dante premeditasse di simboleggiare nella Commedia un sistema filosofico, il quale, presupponendo tutta l’enucleazione della filosofia moderna, era impossibile a que’ tempi. Anzi vuol dire, che il concetto poetico dell’Allighieri, che quella personalità umana, la quale, a poco a poco deponendo ad una ad una tutte le passioni, le qualità, le parti materiali e brutali, si assottiglia, si rarefà, o (se vi piace) s’innalza a personalità divina, implica di necessità, sebben certo inconsciamente, il medesimo concetto filosofico ch’egli De Meis espone disdacalicamente in veste contemporanea. E vedete, cos’accade. Il poema di Dante è tutto, come la sua _Vita Nuova_, un’allegoria: ma questa allegoria, essendo stata miracolosamente incarnata in un capolavoro, veramente indovinato, noi possiamo all’allegoria dantesca, che secondo la nostra filosofia moderna sarebbe insulsa, sostituirne un’altra, informata alla filosofia nostra; in quel modo appunto, che, al sistema tolomaico, il quale non ci appagava più, sostituimmo il copernicano spiegando anche meglio col secondo tutti que’ fenomeni, che il giorno prima spiegavamo benissimo col primo. Un ultimo esempio, che mostri viemmeglio quanto poco sia da considerarsi il concetto scientifico, che il poeta si pensa d’infondere subjettivamente nell’opera sua e quanto poco abbia che fare con quel, che di necessità risulta dal poetico, (anzi come spesso il contraddica alla recisa, come spesso l’autore _tendenzioso_ faccia un’opera di _tendenza_ affatto contraria a quella, che lo ispirava,) cel somministrerà Alessandro Manzoni. Che il nipote di figlia dello incredulo Beccaria ci creda daddovero, non è da negarsi; un ateista sclamerebbe con Orazio: _.... Durum: sed levius fit patientia_ _Quidquid corrigere est nefas;...._ o col Tasso, che, nel _Torrismondo_, male imita questo luogo: _Duro: ma sofferir conviensi in terra_ _Ciò, che necessità comanda e sforza._ Ch’egli abbia la pia intenzione di glorificare la dottrina e la morale cristiana, sarebbe chiaro da mille e mille squarci del suo racconto, quand’anche non ne fossimo informati pienamente altronde. Eppure! chi non vede, la potente rappresentazione, che individua così bene _quel secolo_ e _questo paese_; la simpatia per la manifestazione storica, pe’ costumi ed i caratteri e le istituzioni di un dato tempo; essere appunto salda e recisa negazione implicita del cristianesimo? Perchè il cristianesimo ha un ideale fisso ed immobile; pretenderebbe gettare e rimodellare tutti gli uomini in uno stampo; vorrebbe il semplice senza il molteplice; intenderebbe sopprimere tutte le varietà individuali, tutto il rigoglio della vita particolare, sottoponendo tutte le coscienze ad una regola, ad una disciplina, costringendo tutti i mortali alla imitazione dell’uomodio, esemplare di ogni virtù; onde il Goethe, ateo dichiarato, il chiamava irreverentemente _un furto, perpetrato a danno dell’uman genere, in quanto spennacchiava tutti gli uccelli, per comporre un più ricco penname all’uccello di paradiso_. Quella critica manzoniana così arguta e derisoria, quella gentile ironia così insinuante, rispettano invero la tradizione ed il domma religioso; professano anzi altamente di rispettarli: ma questo rispetto, sendo affatto arbitrario, dipendendo solo dal capriccio subjettivo dell’autore e non già dall’intimo organismo della sua scienza, non trova eco nel lettore. Altro è dire _io son cristiano_ e celebrare ad ogni istante il cristianesimo; ed altro esser cristiano davvero, naturalmente, senza sforzo, cristiano e credente sempre in ogni punto, su d’ogni quistione. E spesso sotto la pelle agnina del Manzoni picchiapetto, vedi apparire il pelame lupigno dello incredulo antico. Per esempio, quando l’autore de’ _Promessi Sposi_ s’interrompe al meglio, nel descrivere il Vicario di provvisione, rannicchiato nel suo più sicuro e riposto nascondiglio, per dire: — «Del resto, quel, che facesse, così appuntino non si può sapere, giacchè egli era solo; e la storia è costretta a indovinare. Fortuna, che la c’è avvezza!» — chi generalizza, chi legge pensando, va subito con la mente alle tante cose, delle quali gli uomini non hanno nessuna sperienza o testimonianza autorevole, e che quindi _sono avvezzi ad indovinare_. E difatti il Manzoni, rimasto scettico dal tetto in giù, è di quelli, che poi voglion mostrare di creder tutto dai coppi in su. Ma l’uomo non può dimezzarsi; ed un tantino dello scetticismo primitivo ed organico trapela sempre sulla fede assunta e la contamina e la vizia e la neutralizza. VI. — _Ulteriori conseguenze._ Aggiungerò, che lo scrittore, pel quale le finzioni poetiche non posseggono vita propria e spontanea, il quale vede in esse solo de’ portavoci de’ suoi concetti, delle sue elucubrazioni scientifiche; il quale subordina il mito all’epimitio, la favola al _fabula docet_; non potrà creare capilavori. O, se vi spiacciono le affermazioni assolute, dirò con maggiore esattezza, che difficilmente potrà crearne. Le sue immagini, i suoi personaggi non acquisteranno mai e poi mai (od almeno rarissimamente ed arcidifficilissimamente) effettività objettiva; vedremo sempre il filo, udremo sempre lo stridere degl’ingegni, che muovono que’ burattini. Lo scrittore, rimasto freddo, incommosso, sarà ridotto ad accozzare, a comporre delle _moralità_ (per dirla con l’antico termine tecnico francese) cioè delle azioni di persone allegoriche e simboliche, che durano nella vuota generalità del simbolismo e dell’allegoria, senza acquistare la ricchezza ed il contenuto poetico della vita individuale. E lo scrittore, deve fatalmente rimaner freddo ed incommosso, perchè di scaldarci e commuoverci la fantasia è dato solo al sensibile determinato; perchè da una impressione naturale solo può prendere le mosse la genesi d’un fantasma. Ripugna alla natura della fantasia umana il partire invece da un concetto astratto per determinarlo, circoscriverlo, concretarlo, individuarlo; questo concetto, dove prenderebbe l’elemento sensibile, che gli è indispensabile per essere poetico; ed indispensabile tanto, che la scienza del bello si chiama scienza del sensibile per eccellenza, _estetica_? Partendo all’opposto da una impressione naturale, io posso aggiungervi con la mente l’elemento ideale, e, depurandola dalla scoria prosaica e volgare, sollevarla a fantasma, ad immagine. Così fa tutto giorno la nostra immaginativa, così han sempre fatto le fantasie de’ poeti e degli artisti. Pel solo Dante questa regola non vale in tutto. Dante solo, ch’io mi sappia, forma un’eccezione: ma era Dante. A lui solo è riuscito di dar tanta vita ad una personificazione, ad una mera allegoria, che la gente han potuto credere e perfidiano a credere, doversi assolutamente trattare di una persona salda, effettivamente vissuta. Onde, trovando qualche incerta testimonianza, che in que’ tempi ha probabilmente mangiato, bevuto, vestito panni e fatto qualcos’altro in Firenze una pettegola, il cui nome si avvicina a quello, gravido di significato, evidentemente allegorico, della Beatrice beata dello Allighieri, s’han fitto in capo, che le sian tutt’una cosa! mentre dalla Bice Portinari (se tant’è, che ci sia mai stata) alla Beatrice dantesca, ci corre quanto dalle stellucce di pasta zafferanata alle stelle vivide e sfolgoranti del cielo. Nè le moralità, di cui parlava, cesseranno di esser tali, perchè le _dramatis personae_ invece di chiamarsi Amicizia, Ideale, Gioventù, s’addimanderanno, come nel primo dramma arrandellatamente versificato da Federigo Schiller: Marchese di Posa, Regina Isabella ed Infante Don Carlo. Non si sopperisce alla vacuità interna d’un carattere generico, imponendogli un vuoto nome e particolare; nè si nasconde la grettezza d’un concetto impoetico con l’orpello del _color locale_ e con l’ammucchiare facile erudizione ed indigesta. Il vero color locale (sia qui detto di volo) è nella riproduzione de’ caratteri storici e non già nella pittura degli accessorî. Nella parte seconda del _Fausto_, c’è la scena di mezzanotte, in cui l’autore, stanco alla fine di scavizzolare de’ nomi proprî per ammantellar figure allegoriche, ne manda finalmente fuori quattro coi loro nomi generici: Difetto, Debito, Cura e Bisogno. Io ne lo encomio, come lodo il calvo di non rimpiattar la zucca pelata sotto i ricciolini ipocriti di una parrucca. Meglio trovarsi fra tali freddure, che quando alla freddura si aggiunge l’inintelligibile e bisogna scaparsi per afferrare un occulto senso ed arcano, ed intender Giorgio Byron sotto Euforione, la Poesia sotto il Garzone Auriga, e nell’Omuncolo l’amor innato pel bello, il quale preluce all’uomo nel ricercare i Regni della fantasia. Nell’Allegorico lo scrittore rimane superiore a’ personaggi, ch’egli evoca, e che non acquistano ragion propria, autonomia; egli può scherzare con essi senz’altra norma fuori del proprio capriccio; e questa è posizione favorevole solo all’umore. C’è stato, chi ha detto invece, l’Allegoria contraddistinguere e caratterizzar la vera poesia, che si sforza di raggiungere la nobiltà ed il sublime e può conseguir l’intento solo attribuendo un senso generale allo individuale. Qui si tratta d’un equivoco. Non è da negarsi il valore tipico, generico, anzi ecumenico d’ogni opera d’Arte; ne riparleremo subito. Ma cosa ci ha che fare questa condizione _sine qua non_ del lavoro artistico, indipendente da ogni volontà dello autore, con le allegorie, ch’egli arbitrariamente costruisce, fantastica, almanacca, arzigogola? VII. — _Fausto è l’uomo._ Noi dunque considereremo il _Fausto_ in sè, pura e semplicemente come lavoro d’Arte; ci brigheremo solo d’investigarne il concetto poetico e d’esaminare in che modo sia stato incarnato. Ma, prima d’inoltrarci in questo esame, lasciatemi dire un’altra cosa. Ci ha de’ valentuomini, i quali stimano di aver emesso un grande oracolo, e d’aver confutata anticipatamente ogni objezione critica, con lo sclamare che — «Fausto rappresenta l’uomo, l’umanità.» — (Lascio il vocabolo, perchè, sebben loro l’adoperino barbaramente nel senso di _uman genere_, qui può rimanere come astratto di uomo). Quasi ciò conferisse un nuovo ed unico pregio al poema, oppure il sottraesse alla competenza della stregua comune! Lodi siffatte manifestano soltanto il poco valore, ch’è da attribuirsi ad ogni lode di chi le spiffera. Il rappresentare l’uomo e l’umanità in un’opera d’arte, non è mica effetto d’una risoluzione, d’un subjettivo proponimento ed arbitrario dell’Artista; anzi è conseguenza necessaria, è per così dire la riprova della produzione del Bello. Non che apparir dote speciale, privilegio esclusivo del tale o tal altro personaggio poetico, ci si rivela qualità essenziale, costitutiva, _sine qua non_ d’ognun d’essi, e sfido a disotterrarmene uno qualsiasi, che ne ostenti deficienza. L’uomo artistico (e quindi il poetico, ch’è un particolare determinarsi di quello), comunque caratterizzato, il _Consalvo_ di Giacomo Leopardi, il _Jacopo Ortis_ di Ugo Foscolo, il _Filippo_ di Vittorio Alfieri, il _Sardanapalo lombardo_ di Giuseppe Parini, il _Renzo Tramaglini_ di Alessandro Manzoni, l’_Esule di Parga_ di Giovanni Berchet, il _Gingillino_ di Giuseppe Giusti, _tutti tutti_ insomma (per esprimermi quanto più complessivamente posso, come il Goethe nell’indicare gl’innumerevoli cantori del coro finale della tregenda classica. E poi Salvator Rosa se la prendeva col Librettista, che indicava per iscena il _porto d’Aulide con mille navi_!....) Che stavo dicendo? Mi son distratto ed ho perduto il filo. Ah sì! Tutti gli uomini poetici, appunto perchè mi raffigurano ciascuno un dato uomo idealizzato al vivo, appunto per questo mi danno l’immagine dell’uomo assoluto; e le avventure loro, giusto perchè così idealizzati, mi simboleggiano la storia dell’Uman genere e le sorti dell’Universo. Difatti cos’è il Bello? Dice un proverbio: _Non è bello quel, ch’è bello, ma quel, che piace_; e questo proverbio significa solo, che il concetto del Bello varia come ogni concetto, da subjetto a subjetto; o per meglio dire, che varia il giudizio concreto, nei casi determinati. Un Universale, un Archètipo qualunque, non si effettiva immediatamente in nessun dato punto spaziale e temporale, in nessun luogo e momento determinato, non esaurisce il proprio contenuto in alcun individuo, anzi soltanto nella serie e nella successione, nel numero infinito e nell’operosità degli esseri, in cui si estrinseca. Esempligrazia, nel caso nostro, di quanti uomini furono e sono e saranno, nessuno è l’_Uomo_, ancorchè, anzi perchè l’Uomo è in tutti i passati, i presenti, i futuri. Ma, se l’effettività estrinseca degli Universali è incompiuta in qualsiasi luogo ed in qualsivoglia momento, essa però si compie (e può solo afferrarsi compiuta) dal pensiero, il quale sorvola e sovrasta al mar delle cose ed abbraccia più, che non vede, ed epiloga ed assomma le serie e le successioni. Sicchè, invece di una effettività, ne abbiamo due; o meglio, abbiamo due guise, due modi d’effettività: una (objettiva) nel mondo delle cose, nell’eterno ed universo avvicendarsi loro tumultuoso, nel _mare dell’essere_; l’altra (subjettiva) nella mente capace e cogitante; la vita e la filosofia; oppure, volendo prendere un paragone materiale, il carbone pesante, rozzo, sporco ed il carbonio fluido, aura pura, ma instabile ed artifiziale prodotto dalla scienza chimica. A queste due forme d’effettivazione è da farsi arrota d’una terza, che, proseguendo nella similitudine, compareremo al diamante. Carbone, Carbonio, Diamante, sono la cosa stessa, sono tre forme di un medesimo corpo primo: una la trovo in natura ad ogni passo; l’altra devi ricavarla con istudio dalla prima; la terza ti abbaglia col suo splendore ed è naturale come la prima ed è pura come la seconda. La mente umana praticamente è sperimentalista, procede dall’immediato al mediato, dal mero fatto all’idea pura, _nihil in intellectu quod non prius in sensu_; è quindi di tutta necessità, che gli Universali, gli Archetipi, prima ch’essa li comprenda assolutamente mediante il pensiero, le appariscano mediatamente ossia percettibilmente: _.... Così parlar conviensi al nostro ingegno,_ _Però che solo da sensato apprende_ _Ciò, che fa poscia d’intelletto degno...._ _.... Nostre apprensiva da esser verace_ _Tragge intenzione, e dentro a noi la spiega..._ Al nostro ingegno, alla nostra apprensiva sembra la tale singola esistenza determinata, (esempligrazia, un uomo, il tal di tale,) rispondere in modo assoluto al proprio concetto; e quindi in essa esistenza incarnarsi perfettamente dapprima un Universale, (nel caso nostro l’Idea Uomo,) e mediatamente l’Universalissimo, l’Idea assoluta, che è presente nella serie degli Universali, appunto come ciascun Universale è presente ne’ singoli individui del suo ciclo. La mente umana, _che sempre al suo fin sale, non vede cosa mortale_ nell’objetto vagheggiato, _..... Non pure intende al bel, ch’agli occhi piace,_ _Ma, perchè è troppo debole e fallace,_ _Trascende in ver la forma universale;_ _.... che all’uom saggio quel, che muore,_ _Porger quiete non può...._ Questa sembianza è allucinazione, in quanto che nessun Universale, e quindi _a fortiori_ molto meno l’Universalissimo, può esaurire la propria epifania in qualsivoglia essere singolare e determinato, per quanto ricca se ne supponga la personalità; ma (non essendo gli Universali e l’Universalissimo arzigogoli meri, vuote intellezioni, anzi veramente effettivi negli esseri determinati, quantunque non in ciascun d’essi), la è un’allucinazione esatta (come dice spiritosamente il Taine della percezione esterna), una sembianza gravida di contenuto. Quest’allucinazione, questa sembianza è ciò, che addimandiamo il Bello; ossia l’Universale, l’Archetipo in forma d’apparenza limitata; ossia, nel caso nostro, un individuo umano, un carattere, che riassuma in sè tutte le parti umane, tutto _l’uomo_, sicchè nulla apparisca nel personaggio, che non sia espressione dell’Umanità; e questa non contenga parte alcuna, che non s’incarni nel personaggio — «Il Bello è il prodursi d’un singolo sensibile, che in ogni sua parte sia espressione d’una Idea» — dice il Tari. Nè questa è scoperta moderna; e suppergiù così la pensavano anche i nostri maggiori, sebbene formolassero diversamente il concetto. O che altro significano i versi del Marino, co’ quali spiega l’amore? L’anima, nata infra l’eterne forme, Et avvezza a quel bel, che a sè la chiama, De la beltà celeste in terra l’orme Cerca; e ciò che l’alletta e segue e brama. E quando oggetto a’ suoi pensier conforme Trova, vi corre ardentemente e l’ama. La forma eterna è il tipo, è l’idea; e quanto noi crediamo conforme a questo tipo, a questa idea, chiamiamo appunto bello. VIII. — _Triplice contenuto._ Dopo la più superficiale disamina, salta agli occhi del leggitore, il _Fausto_ del Goethe esser quasi una fiala, in cui si racchiudono liquidi di peso specifico diverso, come a dire mercurio, acqua ed olio, i quali formano tre strati varî per colore e per natura; e quasi uno di que’ piatti indiavolati, che t’imbandiscono nelle tavole rotonde là di Germania, e ne’ quali sono accatastate vivande eterogenee: lesso, rape e pere cotte; oppure _sarcraut_ (che in volgar nostro diremmo: cavolo fracido), sommommoli di carne e pezzuoli d’aringhe fritte. Nel _Fausto_, ravvisiamo: un’epopea, che ha l’_alter ego_ del sommommolo, una novellina, che mi rappresenta l’aringa, ed una leggenda, che dee collegarle e tener le veci del sarcraut. Due potenze sovrannaturali e sovrumane, il Bene assoluto ed il Male assoluto, che il Goethe personifica in domineddio e Mefistofele, si disputano l’egemonia cosmica; e, facendo del destino degli uomini l’oggetto delle scommesse loro, si trastullano con un’anima umana, debole, impotente a reagire; _enimvero dii nos homines quasi pilas habent_. Eppoi, quando il diavolo, non senza stento, è giunto a guadagnarla, il Padr’Eterno trova modo di trafugargli, di truffargli, _de lui escamoter_ la sudata ricompensa, l’anima del peccatore, abusando della propria prepotenza e della natura bestiale del demonio; il quale, tutto inteso (da quel satiro, ch’egli è) a vagheggiare i begli angiolètti ed a far loro proposte invereconde, greche, troppo tardi s’accorge di doversene rimanere col danno e con le beffe. Questa è l’epopea contenuta nel _Fausto_. Un giovane incontra in chiesa una cara ragazza; trova modo di avvicinarla con l’ajuto d’una ruffiana; le attossica la mamma con lo sbagliare la dose d’oppio, che doveva, addormentandola, assicurarli da ogni sorpresa; le ammazza il fratello in una rissa; e, dopo averla ingravidata, l’abbandona. La derelitta, sperando nascondere quell’accidente, commette un infanticidio; è processata e condannata nel capo; e, quando l’amante pentito viene per rapirla dal carcere, sfinita da’ rimorsi e da’ dolori, nonchè da una grossa febbraccia comatosa accompagnata da delirio, non ha forze da seguirlo e gli basisce fra le braccia. Questa è la novella inclusa nel _Fausto_. La leggenda è alquanto più complicata. Un vecchio dottoraccio scettico si volge alla magia, evoca il demonio e stringe seco un patto, col quale gli dà l’anima, purchè esso non solo gli serva umilmente, anzi giunga pure a procacciargli un momento di quella piena felicità, che Farfarello, malgrado la minaccia di Malambruno d’appiccarlo per la coda ad una trave, asseverava non essere ned in poter suo, ned in quel di Belzebù _con tutta la Giudecca e tutte le Bolge_ di accordargli. Il demonio il fa ringiovanire da una fatucchiera; e poi, standogli sempre a’ panni, il sospinge di peccato in peccato, sicchè non gli debba sfuggire, quand’anche non ottenga la pattuita felicità: _.... E, ancorchè al diavol non si fosse dato,_ _Pur sempre egli dovria finir dannato_⁹. ⁹ _Fausto._ _Parte I. Soliloquio di Mefistofele:_ _.... Und hætte er sich auch nicht dem Teufel uebergeben_ _Er muesste doch zu Grunde gehen!_ Così lo ajuta nel suo amorazzo per la Ghita ed il conduce alla tregenda delle streghe. Morta la sedotta, pare colma la misura e che lo spirito d’abisso si porti via l’anima del negromante. Questa, in poche parole, la leggenda contenuta nella prima parte del _Fausto_: dell’ulteriore svolgimento compreso nella seconda parte crediamo di dover dare una più minuta e particolareggiata analisi. Saremmo lieti di poterne agevolar l’intelligenza generale a’ lettori; ma l’intelligenza letterale, veh! chè ci asterremo dall’investigare il senso o meglio i sensi remoti ed allegorici delle infinite stravaganze e (diciamola com’è) insulsaggini, che contiene, Messer Goethe in persona conveniva, cotesto guazzabuglio — «dover dar non poco da fare anche ad una buona testa, che voglia rendersi padrone di quanto v’è _insecrato_.» — Ma perchè, ma che bisogno c’era di nasconder così ciò, ch’egli voleva manifestare? Chi, come il Rossetti, ha creduto, tutti i poeti del dugento e dei primi del trecento esser criptoghibellini ed adoperare un gergo convenzionale, (per mezzo del quale, fingendo parlar d’una cosa, parlavano d’un’altra, e così riuscivano a tener fra loro non interrotta comunicazione) almen giustificano (sebben male) la infelice ipotesi, con la paura, della quale asseriscono i ghibellini invasati allora. Ma il Goethe che motivo aveva di nascondere le sue idee geologiche, etnografiche e simili? Non era il caso di pensare col Bernia, che: Le cose belle, e preziose e care, Saporite, soavi e delicate, Scoperte in man non si debbon portare, Perchè da i porci non siano imbrattate. Da la natura si vuole imparare, Che ha le sue frutta e le sue cose, armate Di spine e reste ed ossa e buccia e scorza, Contra la violenza et a la forza Del ciel, degli animali e degli uccelli; Et ha nascosto sotto terra l’oro E le gioje e le perle e gli altri belli Secreti agli uomin, perchè costin loro: E son ben smemorati e pazzi quelli, Che, fuor portando palese il tesoro, Par, che chiamino i ladri e gli assassini E ’l diavol, che li spogli e li rovini. Si tratta qui d’un puro capriccio, anzi d’una beffa fatta al lettore. Ma noi non ci lasceremo beffare. Noi conveniamo con la massima modestia di sentirci inettissimi a sciogliere indovinelli e sciarade. Nè ci duole il convenirne, saldamente convinti, malgrado l’esempio di quel Cleobulo, che fu pure uno de’ sette savi della Grecia, nonchè dell’avvenente sua figliuola Cleobulina (dico avvenente per l’abito preso di far sempre complimenti alle signore: ma chi sa che pezzo di tanghera la sarà stata!... ) Cosa dicevamo? Si parlava di enigmi. Dunque, io son convinto appieno, che l’occuparsi tanto a proporne quanto a sciôrne sia da inetti. L’unico enigma, che valga i pensieri d’una mente virile, è il cuore della donna: tutti tentiamo d’interpretarlo, ma... ma... tante volte si fa un bel fiasco, sicchè... torniamo alla seconda parte del _Fausto_, torniamo. Nel primo atto, Ariele (reminiscenza della _Tempesta_ shakespeariana) esorta sull’alba un coro di spiriti ad indur pace col canto nell’animo esagitato del dormiente Fausto, a discacciarne il rimorso, poichè essi compatiscono l’uomo della sventura, senza indagare se sia santo o malvagio. Il sorgere del sole prenunziato da enorme frastuono, li fa scappare. E Fausto si riscuote rinfrancato, come la terra dalla frescura notturna, capace ancora di godere e di operare; e risolve di proseguire ormai l’ideale, non già nella vuota astrattezza della cognizione scientifica, (oh Margherita, tu ed i tuoi dolori eravate dunque astrattezze!) anzi nell’immagine variopinta, che ne dà la vita, appunto come fruisce quella luce, ch’ei nel sole non può fissare, nell’immagine dell’iride rifratta dalla catadupa. La scena si tramuta nella Reggia imperiale, dove il Guardasigilli ed i Ministri della Guerra, delle Finanze e di Casa Reale si lagnan tutti, che le cose vadan proprio male assai. L’Imperante chiede consiglio a Mefistofele, che ora occupa _ad interim_ il posto di buffone palatino, e promette di procacciar denaro mediante le virtù della natura e dello spirito. Il bisogno persuade a lasciarlo fare, malgrado gli scrupoli del Guardasigilli, il quale (come buon Ministro del culto) opina, che — «non si abbia a parlare a cristiani di natura e di spirito; discorsi pericolosissimi, pe’ quali si abbruciano gli atei. La natura esser peccato, lo spirito demonio; generare insieme il dubbio. Difesa e sostegno dell’impero essere i santi ed i cavalieri, i quali poi si godono per salario la chiesa e lo stato.» — Segue uno strano ed interminabile sfilar di maschere (peggio d’una rassegna di candidati alla deputazione,) che recitano parti allegoriche: Araldi, Giardiniere, Libbie fruttifere, Serti di spighe, Serti fantastici, Mazzolini fantastici, Bocciuoli di rose, Madre e figlia, Pescatori ed Uccellatori, Spaccalegna, Pulcinella, Parasito, Ubbriachi, Satirici, Grazie, Parche, Virtù teologali, Zoilo-Tersite, il Garzoncello auriga, eccetera, eccetera: la sola enumerazione procaccia il capogiro. Quindi troviamo Fausto, ch’è stato l’ordinatore della festa, in giardino con l’imperiere, cui Mefistofele ha fatto firmare inconsciamente durante la mascherata un decreto per l’emissione di banconote, ipotecate su’ tesori sotterranei delle terre imperiali: il popolo n’è contento, come pure il Sella di colà, che vede finalmente denaro in cassa. Fausto trascina Mefistofele in una galleria oscura e gli chiede il mezzo di mantenere una promessa fatta all’imperante, cioè di evocare Elena e Paride. Ma Mefistofele non può servirlo; i gentili hanno un inferno a loro, che non dipende dal demonio cristiano. O chi volesse trarne alcuno per poco? Un modo c’è: rapire il tripode rovente od incandescente, che sia, alle _Madri_. Queste le son dee: — «ignote a’ mortali, mal volentieri conosciute dagl’immortali; che hanno un trono sublime nella solitudine fuori e tempo e spazio. Non c’è via: si va per l’invalicato invalicando, all’impregato impregando. Le son visibili al chiarore d’un tripode arroventato: quale sta, quale va, quale siede, secondo ch’e’ si dà. Veggono solo schime.» — Armato d’una chiave magica, Fausto sprofonda per tentar la impresa. Mefistofele frattanto, come un tempo il Lass alla corte del Reggente, è assediato da una torma di dame e cortigiani, che vogliono filtri e cosmetici, segreti per innamorare e ricette per ismacchiar la carnagione, eccetera. Finalmente comincia lo spettacolo innanzi alla corte assembrata. Fausto evoca Paride, ammirato dalle spettatrici, biasimato dagli spettatori; e poi l’Elena, che gli astanti maschi trovan divina e la platea femminile brutta e sgualdrina. E, come, fra gli uomini politici il furfante di tre cotte, lo affarista, il mestatore suol ripetere fastidiosamente con più grossa voce o maggior enfasi: _onestà, onestà!_ così le più.... c’intendiamo neh? fanno le più schifiltose. Mefistofele riconosce bella sì la spartana, ma la non gli va a fagiuolo. Fausto invece se ne innamora e non sa più frenarsi; e, checchè gli gridi Mefistofele, ingelositosi delle carezze, che si fan le due ombre, tocca il fantasma: segue un’esplosione, gli spiriti sfumano, Fausto cade come corpo morto e Mefistofele, saltando fuori dal buco del suggeritore, dove s’era rimpiattato, perchè _i suggerimenti son l’eloquenza del diavolo_, sel carica sugli omeri ed il trafuga frammezzo il tumulto, che ha luogo in corte, e che pure non agguaglia a lunga pezza la confusione ingenerata da tante fantasmagorie nella mente del lettore; il quale, chiudendo il libro con una amara cefalalgia, sclama (appunto come Mefistofele all’udire le sconnessioni delle bestiacce nella cucina magica): _Quasi quasi anche a me gira la testa_¹⁰. ¹⁰ _Nun fängt mir an fast selbst der Kopf zu schwanken._ Nel secondo atto, il pasticcio aumenta. Ci ritroviamo nell’antico studiòlo di Fausto. Questi giace esanime sul letto; e Mefistofele, indossatone il pelliccione dottorale, conversa prima con gl’insetti, tarme e pidocchi, che vi si annidano, poi col domestico, poi con quell’ingenuo studente della prima parte, trasformato ora in un fichtiano, che sragiona a meraviglia sull’Io e sul Non-io, ed è villanissimo, perchè _in tedesco si mentisce, quando si è cortesi_. Finalmente il diavolo visita il Wagner nel laboratorio, ove questo dotto giunge a comporre l’Omuncolo chimicamente: così si sopprimerà il modo indecente di generar gli uomini, che prima era stato in uso: _Lucina sine concubitu_. (Non so quanto la scoperta piacerà alla Ghite ed alle Elene, le quali invece vorrebbero _concubitus sine Lucina_ e sogliono rivolgere questa preghiera alla Madonna: — «Vergine Santissima, che concepisti senza peccare, facci peccare senza concepire!») L’Omuncolo, appena nato nella sua fiala, si mostra sconoscente come un figliuolo fatto col metodo ordinario o come Napoleone, secondo Casimiro Della Vigna: _Fils de la liberté, tu rénias ta mère!_ Di primo acchito pianta lì suo padre per guidare Mefistofele (che vi si lascia indurre per curiosità di conoscere le streghe tessale) e Fausto (che nel suo letargo sogna della Leda col cigno, genitori dell’Elena) alla tregenda classica ne’ campi di Farsaglia, cioè alla riunione di tutte le figure mitologiche antiche, tranne i numi propriamente detti. La tregenda classica è ciò, che noi di Napoli s’addimanderebbe _mesca francesca_. C’è un pò di tutto: Grifoni filologi: sfingi, che propongono indovinelli, ma che non sanno dar conto dell’Elena, perchè le ultime di loro furono ammazzate da Ercole; formiconni colossali; Sirene; il Peneo e le sue Ninfe; Chirone, sul cui dosso siede Fausto e che il porta dalla Manto, la quale promette di assisterlo nel rintracciar la sua donna; un Tremuoto, che, dopo aver brontolato, parla ed alza una montagna; Lamie ed Empuse, che aggirano Mefistofele; Anassagora e Talete, che discutono sull’origine plutonica o nettunica del mondo; le tre Graje, che prestano la forma d’una di loro a Mefisto; il trionfo della Galatea, della quale innamoratosi l’Omuncolo, muore, rotta la fiala nel cozzo con la conchiglia del carro di lei, eccetera, eccetera. Il povero lettore rimane trasognato; e gli è forza di sclamare, come quel povero studente, quando Mefistofele in maschera di Fausto l’ingarbuglia: _... Ascolto tanta roba strabiliando_ _Quasi in capo un mulin mi stia girando_¹¹. ¹¹ _Mir Vird non alle dem so dumm, Als ging mir ein Muehlrad im Kopf herum._ Nel terzo atto eccoci riportati un due o tre mila anni indietro; e questo non ci sorprenda, perchè: — «la donna mitologica è una cosa _sui generis_; il poeta ve la presenta quando gli accomoda; non diventa mai maggiorenne, non invecchia; anzi sempre appetitosa di forma, è rapita giovinetta e corteggiata ancora nell’età provetta.» — Deh, quante nostre donne fan di tutto per dimostrarsi mitologiche! L’Elena, rimpatriata col coro delle ancelle, torna in casa di Menelao, incaricata da questo di preparare un sacrifizio: vi trova Mefistofele sotto il vel corporeo d’una Graja, che fa da governante; la vecchia e le giovani si motteggiano e si rimpolpettano a vicenda, finchè si scuopre, le vittime destinate al sacrifizio dal Re essere appunto la Regina e le Coretidi. Allora a queste cadon le braccia e l’orgoglio; e, per salvarsi, le consentono a seguire la Graja da Fausto, il quale, con una schiera di compagni, s’è accastellato sur un monte ed ha reso tributaria la Grecia. Fausto (romanticismo) sposa la Elena (la poesia classica); le fa smettere i metri antichi e le insegna a parlare in rima; sconfigge Menelao, spartendo la Grecia a’ suoi tedeschi; e si ritira con la bella in certe grotte, dove generano Euforione (Lord Byron); che, volendo volare come Icaro, cade al suolo inanimato. L’Elena abbraccia Fausto; il corporeo di lei svanisce; e le vestimenta, trasformandosi in nuvole, rapiscono l’amante nell’alto. Tralascio un maremagno d’episodiuzzi. Il povero lettore che dispera raccapezzarsi in questo guazzabuglio, è costretto a sclamare, come Mefistofele all’udire la tavola pitagorica della strega: _Pur ch’egli oda parlar, l’uom creder suole_ _Che un senso includer debban le parole_¹². ¹² _Gewoehnlich glaubt der Mensch, wenn er nur Worte hoert,_ _Es muesse sich dabei doch auch was denken lassen._ Versi, che sono semplice generalizzamento di que’ due bellissimi del Voltaire su Federigo II di Prussia, detto dagli adulatori Magno: Il me dit: _Je vous aime;_ et je crus, comme un sot, Qu’il était quelqu’ idée attachée a ce mot. Nell’atto quarto, quelle nuvole, che furono le vesti dell’Elena, depongono Fausto sur un’alpe rocciosa di Germania, dove Mefistofele il raggiunge con gli stivali di Leombruno. Dopo una discussione geognostica, Fausto dichiara di aver in mente di sottrarre per forza d’argini al mare quanto suolo rimane scoperto nel riflusso. Mefistofele gli consiglia di soccorrere l’Imperatore, che è a mal partito, contro i ribelli; e poi farsene dare l’investitura de’ terreni da acquistare sulle acque; ed a quest’oggetto evoca i tre prodi di Davidde, de’ quali parla Samuele, libro II, Capitolo XXIII. Segue una serie di scene, nelle quali, attraverso molte rappresentazioni simboliche dello Stato feudale, Fausto ottiene il suo intento; tanto è destino d’ogni tempo e d’ogni luogo, che le bonifiche abbiano per iscopo supremo lo arricchirne i direttori. Il povero critico, ancorchè provvisto di saldi nervi, non sa che debba pensarsi di questo tramenio, e mormora fra sè, come don Mefistofele, quando ricovera sul monte della frotta delle semistreghe: _Vediamo di sfuggir dal viavai;_ _Nemmanco un pari mio reggervi può_¹³. ¹³ _Lass uns aus dem Gedraeng’entweichen; Es ist zu toll sogar fuer meinesgleichen._ Riassumiamo brevemente le scene del quint’atto. Fausto ha conquistato sul mare immensi terreni, fecondi pascoli, ma invidia la capannuccia ed i tigli di Filemone e Bauci, che Mefistofele co’ suoi tre prodi biblici rovina per obbedire più che il padre non chiedeva; il Talleyrand non aveva ancor detto il suo: _surtout pas de zèle_. Ci si presentano quattro donnacce grige, tre delle quali, (il Difetto, il Debito ed il Bisogno) non possono nulla contro del vecchio peccatore e tiran dritto; ma la quarta ch’è la Cura, entra pel buco della chiave, e lo accieca. Pure, quantunque cieco, Fausto fa lavorare assiduamente ad un canale, che dovrà prosciugare i terreni guadagnati sul mare; e, nel pensiero dell’attività umana, che fiorirà sulle nuove terre da lui create, e che gli sembra il solo scopo degno della vita, prova quella tal pienezza di contento stipulata con Mefistofele, e muore. Mefistofele evoca tutti i demonî intorno alla tomba, appunto come il partito d’azione chiama i suoi intorno all’urna elettorale, per afferrare al varco l’anima del peccatore; _tot circa unum caput tumultuantes deos_, direbbe Seneca morale. Frattanto sopraggiungono una schiera d’angeli; i quali, mentre lo spirito d’abisso insatirito li vagheggia e fa loro proposte scandalosette (reminiscenze del secolo di Pericle e de’ collegî gesuiteschi), gli rubano accortamente l’_immortale_ di Fausto, e poi lo lasciano lì come berlicche. E Fausto è ricevuto in cielo dalla madonna, ossia dall’_eterna muliebrità_. A questa scappata, il lettore butta in un canto il volume e conchiude, persuadendosi, che il Goethe la pensasse sull’ufficio del poeta appunto appuntino come il Direttore del Preludio: _T’ingegna solo d’imbrogliar la gente,_ _Che l’appagarla avvien difficilmente_¹⁴. ¹⁴ _Sucht nur die Menschen zu verwirren,_ _Sie zu befriedigen ist schwer._ Anche a questi enimmi insulsi, benchè inediti ancora, ed agli ammiratori di siffatti indovinelli scipiti dovea sicuramente pensare il Goethe, quando si lamentava degli ammiratori — «che frantendevano tante sue parole sennate, ed attribuivano un senso a tante dissennate; che il riprendevano, dove aveva ragione, e lo approvavano, dov’era insulso.» — La senilità della seconda parte è evidente: in essa l’autore ha allegorizzata la propria vita e l’esplicazione della sua mente poetica, dacchè si sciolse dalle condizioni romantiche, che avevano ispirato il _Goffredo di Berlichinga_ ed il _Werther_. — «Il peccato dell’ambiguità, dell’anfibolia» — dice Antonio Tari — «comincia, come ogni peccato, con la spensierataggine; diviene mortale e torreggia, nuova Babelle addirittura, nella seconda parte del _Fausto_ del Goethe; opera, che l’artista intenzionalmente rende enimmatica, e degna d’un Giove (che così lo chiamano) nefelogerete davvero, adunatore di nembi letteralmente ed in senso malo». — Pare, che agli scrittori tedeschi in genere non sembri cosa vergognosa e peccato imperdonabile il non farsi capire. Il conte di Neuilly, che visse emigrato in Amburgo nel quadriennio MDCCXCV-MDCCXCVIII, dice: — «Incontravo spesso il Klopstock in casa la Schroeder, sua nipote. Gli parlavo qualche volta de’ suoi scritti, della sua _Messiade_; ed un giorno gli dissi, che, quantunque conoscessi bene il tedesco, faticavo molto a comprenderla, che anzi talora non la comprendeva affatto. Si pose a ridere e rispose: _Anche a me avviene il medesimo. Debbo cominciare ogni canto dal principio per capire. Se leggo nel mezzo, non raccapezzo più il senso e son costretto a tornare indietro per afferrare il mio proprio concetto._» — Suppergiù lo stesso è a dirsi del _Fausto_, che il Goethe stesso ha riconosciuto per un lavoro sconnesso. L’Eckermann gli diceva: — «In fondo ogni episodio, quasi ogni scena, sta per sè, come un microcosmo. L’uno influisce sull’altro, ma relazione ne han poca fra loro. Al poeta, come nell’_Odissea_ e nel _Gil-Blas_, importa di esprimere un mondo svariato; e s’avvale della favola di un eroe celebre, solo come d’un filo per infilzar quantunque gli aggrada.» — Rispose il Goethe: — «Perfettamente! In una tal composizione importa solo che le singole masse sieno grandiose e chiare; mentre come insieme, riman sempre incommensurabile. Ed appunto per ciò, come problema insoluto, adesca gli uomini a nuove osservazioni e ripetute.» — Noi non intendiamo aggiungere neppur mezza pagina a tutti i commentarî scritti su quest’opera, e che già formano una discreta biblioteca. Quel, che c’importa di avvertire, si è, ch’essa non è se non esternamente agglutinata alla prima, sta per sè (dato e non concesso che stia); non ha acquistato valore per la coscienza del popolo tedesco, non ha data una di quelle figure, che vivono eternamente nella fantasia umana. Le due parti sono due tutti, che si contraddicono. Il vero Fausto, quello poetico e vivo, è il Fausto della prima: e noi di quello precipuamente, per non dire esclusivamente, intendiamo occuparci; così quegli, che esaminasse l’Orlando Furioso, trascurerebbe i cinque canti aggiunti. IX. — _L’epopea del Fausto._ Che il mondo sia sgovernato da due principî belligeranti, che, sgarati a vicenda, sono ambo eterni: _.... deux principes en guerre,_ _Qui, vaincus tour à tour, sont tous deux immortels;_ che sia da considerarsi come una scacchiera, sulla quale Ormuz ed Arimane, il Signore ed il demonio, muovono nojaltri come tanti re, regine, alfieri, cavalli, torri e pedine; è un antichissimo concetto, fondato sull’apparente dualismo fra il bene ed il male, e nel quale stupendamente si può esporre lo strazio disperato dell’umana vita; chè, quantunque abbia già servito a tutti e tanti poeti, non è ancora sfruttato. Nel libro di Giobbe e nel _Paradiso perduto_ di Giovanni Milton (altra riputazione in gran parte usurpata!) è veduto seriamente; è preso invece comicamente in una Ballata di Vittorio Hugo. Essa ballata contiensi nel capolavoro poetico del Besanzonese, nel solo volume, che gli prorompesse veracemente da precordî, in que’ virulenti _Castighi_, cumolo d’ingiuste, assurde, ma appassionate invettive e diatribe contro il governo del non mai troppo laudato Due Dicembre, che documentano ad una la somma fantasia poetica dell’autore e la sua mancanza di criterio e dappocaggine politica. Non v’è opera in qualsiasi letteratura, che possa reggere al paragone di quest’alito infiammato: altro che i giambi archilochei; altro che la bile del vecchio Giovenale — «turgido di urente lava» — _gonflé de lave ardente_; altro che il Misogallo; o l’incalzante invettivare di Augusto Barbier! Un alemanno maestro di musica ed opuscolista di spirito, chiama i _Castighi_: — «una colossale sinfonia dell’ira, dell’odio, dell’ironia; in onor della quale occorrerebbe supporre una decima figliuola al vecchio padre Apollo, ed insediare nella Mitologia una decima Musa, col ferro e col fuoco per attributi. Sono la miglior pruova della _mostruosità_ di Luigi Napoleone, dell’esser egli qualcosa di soprannaturale; però che ogni uomo mortale, straordinario e buono,¹⁵ sarebbe stato di necessità moralmente e materialmente annichilito da quest’opera» — come i tipi della vecchia Toscana dall’acre scherzare di Beppe da Monsummano. — «L’ho letta e riletta e divorata per ben dieci volte sussecutive, con entusiasmo ed edificazione; le debbo d’aver passate alcune ore impareggiabili, tanto più che l’ebbi presto ravvisata per una mera fantasia dell’autore. Peccato! ma il Napoleone de’ _Castighi_, non esiste se non nella mente del poeta. Peccato? anzi, sbaglio, meglio così; ridonda a maggior gloria di Vittorio Hugo l’aver non solo dato forma d’arte al suo objetto, ma l’averlo inventato di pianta. E lo Imperator de’ franzesi insuperbisca — ed aggiunga all’elenco de’ benefizî resi all’uman genere — d’avere, quantunque indirettamente, ringiovanita la vena poetica dell’Hugo, che sarebbe finalmente isterilita a furia di chiacchiere nell’Assemblea.» — L’autore di questi brani si chiama Giovanni di Buelow; ch’è diventato, più che pe’ suoi concerti, celebre, perchè la moglie lo ha piantato lì per andarsene a star col Wagner. Spregiator del passato Dal presente spregiato.... O musicante, che ci vieni a dire, Che le tue note son dell’avvenire? Che ne sai tu? Via, lascia a’ nascituri Il vanto de’ spropositi futuri. ¹⁵ Idiotismo Napoletano, del quale chieggo umilmente scusa alla memoria del marchese Puoti. Per chi non ebbe la ventura (o sciagura, secondo ch’e’ si giudica) di nascere In quel corno d’Italia, che s’imborga Di Bari, di Gaeta o di Crotona; Da ove Tronto e Verde in mare sgorga; non comprendesse il significato e l’efficacia di quell’_e buono_, noto, che _straordinario e buono_ equivale al dire: _per quanto straordinario sia, ancora che sia straordinario_. L’opuscoletto, pubblicato anonimo in Berlino nel MDCCCLIX, s’intitola: _Critica di Napoleone III, modesto tentativo di operar la cataratta alla Democrazia_. X. — _Seconda Digressione._ E quì mi permetterò di sconfinare una seconda volta dal tema. Nel mondo, qual’è, ciascuno procura di uscir dal branco, di farsi avanti comecchessia, ad ogni costo, ben sapendo di contare per avversarii, congiurati a’ suoi danni, tutti gli altri bipedi implumi. Lo Svarto dell’_Adelchi_ è l’uomo, perchè ambiziosi siam tutti di più o men degna ambizione; tutti aspiriamo ad essere de’ _parvenus_, a rifarci, a poggiare, a sublimarci. Giulio Cesare ambisce la conquista del mondo, e la Carminella crestaina di portare il cappellino: l’objetto varia in infinito, ma la passione rimane sempre quella stessa. A tutti è innato il desiderio, anzi, il bisogno di sovrastare, di soperchiare e di godere quelle poche soddisfazioni della vita, che sono tanto infinitamente minori di numero alla richiesta. Sappiamo e dal proverbio, e, pur troppo, dall’esperienza: _i cani essere più delle lepri e le trappole più dei topi_; e quindi ciascun s’industria, o con la violenza o con l’astuzia, di sfollare, ritardare, sgarare, superare i competitori. Dovunque è proposto un tozzo di pane a cento affamati, ognun d’essi sarà cordiale e capital nimico de’ novantanove rimanenti. Dovunque una corona è in disputa fra dieci pretendenti, ciascun di costoro farà quanto è in lui per sottrarla alla cupidigia degli altri ed imporla al proprio capo. Dovunque c’è una donna per gli amori d’un intero popolo, accadrà, come un poeta fa raccontare ad una certa Filomena essere intravvenuto, quando fu rapita da ladroni ghezzi: Ma di me sono tutti incaloriti: E mentre ognun mi chiede, ognun mi vuole, Vengon tra loro ad acerbe parole. Da le parole poi vengono ai fatti, E si dànno le sciable per la testa, Sicchè si sono omai quasi disfatti. Un drappello di pochi ancor ne resta, Ma questi pur si batton come matti. Che più? Con sommo mio piacere e festa, Veggo i nemici miei condotti a morte E il ciel ringrazio di sì bella sorte. Accadrà, insomma una battaglia _omnium in omnes_, di tutti contro tutti, e, quel ch’è peggio, l’infelice correrà il brutto rischio di non venire isforzata da nessuno, quando la cosa avesse a finire come nell’_arcisopratragichissima tragedia, Rutzvanscad il giovane_, dove nella chiusa, il suggeritore emerge dalla buca, col manoscritto sotto il braccio e col lanternino in mano, per dire: Uditori, m’accorgo, che aspettate, Che nuova della pugna alcun vi porti; Voi l’aspettate invan; son tutti morti. Ove un ambizioso con parole o con fatti si proponga candidato ad un impero, giurabbacco! dobbiamo tenerci avvisati, _id est_ mezzo salvati. Sarebbe arcadica semplicità l’aspettarsi, che gli scrupoli il distolgano dall’adoperare i mezzi conducenti allo scòpo; e buassaggine pretta il figurarci, che accordandogli dieci o cinquanta, cioè agevolandogli il modo d’ottener tutto, egli debba codardamente contentarsi a smettere dal proseguire il suo ideale. _Chi più ne ha, più ne vorrebbe_: somministrar denaro al biscazziere, non sembra il rimedio più opportuno per guarirlo dalla furia del giuoco; o care le mie fanciulle, ed a voi, che avete un tantin di malizia, io chieggo, se il concedere un baciuzzo all’innamorato, anzichè appagarlo, non serva ad istimolarne più e più le voglie? Ora quali sono i mezzi per conseguire l’impero? Studiate un po’ di storia, leggete un po’ il Machiavelli, datevi intorno un’occhiata, dimenticatevi la rettorica filantropinesca, che ci ammorba, e vedrete quali siano quelli ammessi da’ costumi. Ed appunto, perchè ammessi da’ _costumi_, il che importa corrispondenti e conformi alla coscienza, a’ _bisogni etici_ de’ popoli, (che altra origine non hanno i costumi) non possono, sotto pena d’incongruenza, chiamarsi _immorali_. Ma, direte, anche il segretario fiorentino li chiama _vie cattive_; anche secondo lui, le presupposizioni sarebbero contrarie al Bonaparte; — «Et perchè il riordinare una città al vivere politico presuppone un uomo buono et il diventare per violenza Principe di una repubblica presuppone un uomo cattivo; per questo si troverà, che radissime volte accaggia, che un uomo buono voglia diventar Principe per vie cattive, ancorchè il fine suo fosse buono; et che uno reo divenuto Principe voglia operare bene et che gli caggia nell’animo usare quella autorità bene, che egli ha male acquistata». — Prima di tutto, l’autore dei _Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio_, qui parla secondo l’uso volgare: ma in politica non ci è veramente nulla di cattivo e di male, tranne ciò, che non serve a raggiungere lo scopo e contraddice apertamente alle consuetudini leali, appunto come nella guerra. E poi, se anche le azioni per le quali il terzo Bonaparte è giunto ad afferrare quel potere, ch’esercita pel bene universale, fossero triste, dovremmo ammirare ed amar di più quel generoso, il quale, pur di giovare agli altri, a’ più, avrebbe consentito a macchiar la propria fama e la propria coscienza. Sacrificar la illibatezza propria alla salute pubblica è l’apice della virtù. Così va studiato quell’ardimento del Due Dicembre, che fondò l’impero francese, forse efimero; ed ha fondato il Regno d’Italia, certamente duraturo. Napoleone avea manifestato chiaro il proposito di continuare la quarta dinastia; la sua candidatura presidenziale fu posta ed interpretata come candidatura imperiale, e la maggioranza de’ francesi l’approvò; l’Assemblea nazionale approvò le richieste di denaro e la condotta politica di lui presidente; il colpo di stato s’era udito annunziare e procrastinare più volte che la prima recita del _Fausto_ dal Majeroni; il Thiers gridava: _l’impero è fatto_, ed il popolo applaudiva; l’intero popolo franzese, che avea nominato il presidente, gli fu complice per isgozzar la repubblica. Quanto vien fatto dal capo dello stato libero, è da ritenersi fatto da tutti i cittadini. _Si consentiunt homines plures, ut quidquid fecerit unus aliuquis, vel coetus ex pluribus, id se pro actione unuscujusque ipsorum habituros esse, erit unusquisque actionum quas is homo vel coetus faciet auctor. Neque ergo actionem ullam illorum accusare potest, quin se ipsum accuse:_ dice san Tommaso Hobbes. Ciò posto, come può chiamarsi tradimento, misfatto ed infamia quell’azione? Arretrandosi dal compiere il colpo di Stato, Napoleone avrebbe dato pruova d’essere non mica un galantuomo, veh, anzi il _casto Giuseppe_ del poter supremo, un quissimile del Pietro Morrone dantesco, _che fece per viltade il gran rifiuto_ ed è tanto differente dallo storico. Chiamatelo pure sfinge; dite pure di lui quanto Lorenzo Bellini diceva del bucchero: Non si direbbe mai, nè quel, ch’egli è, Nè quel, ch’ei fu, nè quel, ch’egli sarà; E molto men quel, ch’ei pensa fra sè, E quel, ch’egli ha pensato e penserà; Nè si direbbe mai quel, ch’egli fè, E quel, ch’ei va facendo e ch’ei farà: Perch’egli è un così stranio oltramontano, Che dio ne guardi ogni fedel cristiano. Che per questo? In fin de’ conti poi l’incomprensibilità può essere in due modi: o per colpa dell’objetto, che non si lasci comprendere, o per colpa del subjetto, che non sappia comprendere: quand’io mi sono spiegato chiaro, chi non capisce, suo danno. È proprio il caso di dire come quel tale, cui s’enumeravano tutte le indegnità del Voltaire, conchiudendo, ch’e’ non conosceva neppure l’ortografia: — «Tanto peggio per Monna Ortografia.» — «Dicendo Neri di Gino Capponi a Cosmo de’ Medici: _Io vorrei, che tu mi dicessi le cose chiare, sì, ch’io le intendessi;_ gli rispose: _Impara il mio linguaggio._» — Ludovico Domenichi nelle _Facezie_ (Venezia, Muschio, M.D.LXII. Libro III. pag. 184). Allorchè Vittorio Hugo esorta a non pugnalare il terzo imperatore de’ franzesi, perchè _le gogne infami han d’uopo talvolta d’esser fregiate da un imperadore_; e, rivolgendosi a’ popoli, esclama: _Largo, largo, quest’uomo è segnato. Lasciate passar Caino, è cosa di dio_; che volete? io mi ricordo la iscrizione sotto il ritratto dello Spinosa, premesso alla biografia impastata stranamente di diatribe e panegirico, che ne compilò il buon Padre Gesuita Giovanni Colero. Dice: _Benedictus de Spinosa, Amstelodamensis, Gentis et professionis Judaeus, postea cetui Cristianorum se adiungens, primi systematis inter Atheos subtiliores Architectus, tandem, ut Atheorum nostrae aetatis Princeps, Hagae Comitum infelicem vitam clausit, characterem reprobationis in vultu gerens._ E l’Hegel, se non erro, sclamava press’a poco in tal forma: — «Concedo. Sì! Porta quel carattere in volto, ma è segno di riprovazione attiva e non già passiva. Lui Spinoza, degno d’esser canonizzato almen quanto Tommaso d’Aquino per la vita immacolata e per que’ miracoli delle sue scritture, dall’alto della sua mente riprova ogni menzogna, ogni iniquità; ed i reprobi, siete voi, RR. PP. e chi tiene della vostra, o parteggia per voi.» — Ma v’ha più. I cataclismi politici non derivano la ragion d’essere da’ capricci o dalle passioni individuali di questo o quello ambizioso, checchè paja. Anzi hanno una maggiore e più remota necessità storica, la quale si manifesta negl’individui, ne’ loro capricci e nelle loro passioni: _est deus in nobis_. A rimutare il governo di un popolo storico, non basta che ad un presso ch’io non dissi ne spunti in capo il pio desiderio. Grazie al cielo, le leggi dell’enucleazione civile sono fatali; e non possono venir contorte, falsate, impedite, arremorate, no, dalle pazzie d’un capoameno, dalle malvagità d’un farabutto, o dalle castronerie inique e da’ misfatti buffoneschi d’un coso, che sia, come la tela del Negrotto, ordita di coglione e ripiena di baron con l’effe. Napoleone III, nel crearsi autocrata dei franzesi, adempiva una gran missione, incarnava un sogno popolare, soddisfaceva un bisogno sentitissimo; basta considerar le grandi conseguenze, delle quali è già stato fecondo quell’atto, e restringendomi a citarne una: l’_Unificazione d’Italia_, per benedirlo ed allelujarlo e chiamarlo: santo, santo, santo! Del resto, e’ si sa, _notus lippis et tonsoribus_, che a fare un’opera benefica e di fiorita carità, conviene avere il cuore vieppiù duro e lapideo, che per non farla. Dicono spietato Napoleone, perchè macellò pochi facinorosi, e, fors’anche, per intimidire, alquanti non facinorosi. Ma se, con un animo di più molli tempre, avesse aborrito da ogni omicidio, quali carneficine, quali sciagure non avrebbero in breve flagellata la Francia ed il mondo, quando le parecchie sette monarchiche e le infinite più o men repubblicane, famose queste per la dappocaggine e perversità dei capi, si sarebbero disputata la signoria al suo uscir d’ufficio? Taccio di nojaltri Italiani, che forse ora saremmo ridotti allo stato di mandra; e della Siria, dove ogni anno si rinnoverebbero le solite stragi; e del Messico, che non avrebbe la prospettiva felice di diventare una Monarchia autonoma e senza pronunciamenti e senza guerre civili in permanenza. Taccio di Parigi e Lilla e Marsiglia e tante altre città micidiali, rese ormai saluberrime. Che importa, a petto a questi risultati, il sangue di qualche demagogo, di qualche monello, di qualche femminetta o di qualche frustamattone? Ah, se il due-dicembre è un misfatto, sarebbe capace di far rinnegare il culto della virtù ad Aristide in persona! Renda, chi può, frequenti questi benefici delitti; e noi, se pur siamo uomini e non pecore matte o donnicciuole isteriche, adoriamoli, esaltiamoli e proseguiamone gli autori d’immensa riconoscenza e pertinace¹⁶. ¹⁶ Io scriveva così nel M.DCCC.LXV; undici anni fa. Ora l’impero francese è crollato; e delle creazioni di Napoleone avanza solo il Regno d’Italia, che durerà, ne vivo certo, malgrado i pericoli, che corre, affidato in mani indegne, incapaci e malsicure; soffrendo della vergogna e della jattura presente, confido nello avvenire. Avrei potuto sopprimere questo squarcio o rimutarlo; non ho voluto. L’ammirazione, la devozione, la riconoscenza, la reverenza, che sentivo allora per Napoleone, sono divenute forse anche maggiori, per la pietà della gran tragedia in cui cadde e sparve. Questa scappata semipolitica m’è sembrata buona ad intercalarsi, acciò la lode d’una poesia antinapoleonica non si scambiasse per sintomo d’antibonapartismo. XI. — _Una ballata di Vittorio Hugo ed il_ prologo in cielo. Nella ballata, che accennavamo, il vecchio neodemagogo (il quale non può ormai più vantarsi; _.... fidèle au sang qu’ont versé dans sa veine_ _Son père, vieux soldat, sa mère, vendéenne),_ finge e suppone, che domineddio segga al tavoliere col diavolo, giuocandosi a carte, secondo il solito, l’uman genere odiosissimo ad entrambi. Ma quel giorno facevano proprio messe meschine: l’uno giocava un abatucolo sparutello, il Mastai; l’altro un monelluccio di un principotto squattrinato, il Bonaparte. Dio padre li lasciò vincere al diavolo, dicendogli: — «Togli su, già non saprai farne checchessia.» — «La sbagli!» — esclamò quegli; e, sghignazzando, li trasformò in un papasso ed un imperiere. Poniamo da banda la falsità intrinseca de’ giudizî, così sputati intorno a due ottimi; badiamo solo al merito letterario della invenzione, dando e non concedendo, che sian giusti e veri. Certo, non venne mai con più fiele ed argutezza derisa, da alcun altro empio, l’apparente imprevidenza della cosiddetta Provvidenza, che fa strabiliare gli uomini _paucae fidei_, tanto poco è la sapienza con la quale par loro, che regga il mondo, e per isbizzarrirsi: _..... torca alla religione_ _Tal, che fu nato a cingersi la spada,_ _Facendo Re di tal ch’è da sermone._ L’Hugo ha avuto innanzi alla mente un proposito ben chiaro; e con tremenda ironia colpisce non solo le persone del Mastai e del Bonaparte e le istituzioni del Papato e dello Impero, anzi pure tutte le credenze cristiane intorno alla bontà infinita ed alla onniscienza di dio. Ed ora apro il _Fausto_ ed inciampo nel _Prologo leste_. A leggerlo, mi persuado e convinco, che scopo del poema è di sciogliere con l’ironia l’intera mitologia cristiana, e dico fra me e me: — «Bravo! L’idea, letterariamente, se non è nuova, non può neppur dirsi esausta; finchè durerà la fede, la caricatura di essa offrirà buoni motivi allo Artista.» — E m’aspetto ad incontrare una composizione, tagliata sul genere dello _Scherno degli Dei_ del concittadino di Vanni Fucci bestia, un quissimile di quanto parecchi hanno tentato ed il Voltaire ha fatto _..... Con quella sua fanciulla a gli Angli infesta,_ _Che il grande Enrico suo vince d’assai_ è ch’è tra le più preziose gemma del serto poetico della Francia. E mi figuro e concepisco il dramma quale una sanguinolenta caricatura, in cui tanto le potenze infernali quanto le celestiali abbiano ad apparire come una fantasmagoria evocata dal poeta per distruggerla satiricamente dal punto di vista umano e materialista; riversando, travasando nelle forme impassibili, indeterminate e vacue delle divinità spirituali moderne, tutte le determinazioni della vita umana prosaica e volgare. Il lavoro, così fatto, sarebbe stata l’epopea della vittoria riportata dal comico sul sublime; avrebbe incarnato esplicitamente il concetto implicito nel Decameron, la ribellione della carne contro la tirannide dello spirito e dell’ascetismo, della spontaneità contro il formalismo; la conquista d’un presente. Concetto, ch’emergeva dall’indirizzo storico della Germania nel secolo scorso appunto com’era emerso con una anticipazione di quattro secoli dallo svolgimento della mente Italiana nel trecento. Ma io vi dico proprio quel, che il Goethe non ha fatto. Il prologo ci sta proprio a pigione; è uno scherzo buttato lì, senz’ombra d’intenzione seria, ancorchè remota; mera variazione rettorica sul libro di Giobbe, che può stimarsi eseguita con minore o con maggior virtuosità, ma non giunge ad affermarsi come creazione originale ed indipendente. Qui l’ironia del Goethe si manifesta qual’è sempre, per la natura dell’ingegno di lui, accidentale e non sostanziale, derivata da paragoni, che rimpiccioliscono, da giochetti sulle parole, da scambietti di spirito, da quanto è raffronto esterno, ma non mai dall’interno del subjetto e della situazione. Per esempio, quando il Signore se n’è andato, Mefistofele sclama, ed è il maggiore sforzo di spirito che faccia in quella scena: _Quel buon vecchiardo visitar dilettomi_ _Di quando in quando; e seco in buoni termini_ _Stommi; è pur bel, che un tal signor compiacciasi_ _Sì_ umanamente _conversar col_ diavolo. Quanto sarebbe stato poetico il rappresentarci quegli arcangeli, quel dio, quel demonio crudelmente curiosi nella loro olimpica indifferenza delle passioni umane, curiosi di far vibrare in noi questa o quella corda, solo per isperimentarne l’effetto ad essi inconcepibile, appunto come fanno i bimbi, quando tormentano per disonesto passatempo il malcapitato uccelletto, che geme fra le mani loro! Quanto sarebbe stato felice ed originale, puta, il rappresentarceli attoniti e sorpresi ed invidiosi della vita umana ricca di contenuto, di gioje, di voluttà, di virtù, di passioni; ed intenti malvagiamente a distrugger negli altri quanto è loro impossibile acquistar per sè, simili a quella Latona, che, per vendetta de’ suoi lombi poco fertili, faceva assaettare la figliuolanza della Niobe! Pare, che il Goethe avesse ideato il suo domineddio come un barbogio burbero pedante, che professa la massima indifferenza per gli affari di questo mondo e li concede volentieri alla provvida amministrazione del demonio, contentandosi di rimbrottarlo, quando le cose vanno male agli occhi suoi. Dico pare, perchè questo carattere è bensì abbozzato in poche parole, ma non già svolto in un’azione; e quindi non diventa vivo, non sussiste quale fantasma autonomo. In fine alla seconda parte, questo prologo acquista una tal quale conclusione; ma la persona di dio è sparita ed invece troviamo non so quale — «eterna muliebrità,» — che la surroga, scrocca l’anima di Fausto peccatore a Mefistofele. In che guisa? Distraendolo dal far la guardia al sepolcro del vecchio stregone. L’eterna muliebrità, assume, a buon fine, la parte di ruffiana... Fa scendere una gloria, ed il demonio si distrae, ammirando, vagheggiando, concupiscendo e cercando di sedurre gli angioletti di paradiso. Per ispiegarmi più chiaro, viene indotto in somma in tentazione del _..... vizio, per cui dio Sabaoth_ _Fece Gomorra e i suoi vicin sì tristi;_ _Che mandò il fuoco giù dal cielo, et quot_ _Erant, tutti consunse, si che a pena_ _Campò fuggendo un innocente Lot._ Pensiero, artisticamente parlando, stupendo; per quanto possa sembrare immorale ed irreligioso! Oh se il Goethe ne avesse avuto coscienza! Qual partito poteva ricavarne! La divinità, che scende a sotterfugî, de’ quali un capobrigante, un camorrista, che si rispetta, rifuggirebbe! Avremmo visto spuntare una passione brutale invero, ma pur sempre passione, in quel cinico diavolo, che fino allora le aveva ignorate tutte: _Et, comme un vieux soldat vous montre une blessure,_ _Montrait avec orgueil le rocher de son coeur,_ _Où n’avait pas germè la plus chétive fleur._ Passione prepotente in modo, da fargli dimenticare la sua perpetua negazione. Mefistofele, divenendo più che mai disgustoso, avrebbe destato per la prima volta simpatia e compassione, perchè quel suo accesso di lussuria esce dalla vacuità demoniaca e ci mostra in lui finalmente una parte umana. Ma questo svolgimento dell’umano dal diabolico non era cosa da farsi in una scena ed incidentalmente, anzi bastava per tema d’un grandioso e degno lavoro, che avrebbe riconosciuto Mefistofele a protagonista. Del resto, la scena, che nell’intento del Goethe era allegorica, rimane una freddura slavata senza colore o calore. La parte epica del Fausto è appena accennata; nel lavoro ci sta per un dippiù, v’è appicicata arbitrariamente. È però gran segno di leggerezza in uno scrittore, quand’egli, non s’accorgendo del carattere dell’argomento, che ha fra le mani, non sapendone afferrar l’indole, crede di potersi sbrigare, in un pajo di scene incidentali, di vastissimi concetti, e di far balzare con quattro martellate all’impazzata un Mosè dal marmo. XII. — _L’antica Leggenda di Fausto._ Il tema della leggenda, contenuta nel Fausto Goethiano, è tolto da un mito popolare tedesco nel quale si riassume l’intero ciclo de’ romanzi e delle facezie stregonesche, che fruirono grandissima voga presso la Germania del cinquecento, e di cui non andò immune nemmanco la nostra Italia; come documentano, per tacer d’altro, moltissime novelle di Giovanni Boccaccio e di Franco Sacchetti. Se ne conoscono parecchie versioni, ma la più antica e di combutta più compiuta si registra in un libercolo, edito a Francoforte sul Meno nel MDLXXXVII e ripubblicato per la prima volta, dopo dugencinquantanov’anni, in coda alla prima parte dell’opera faustologica dello Scheible. Ecco la succinta analisi di questa leggenda divulgatissima e mista d’elementi popolari e letterarî. Al dottor Fausto, figliuolo d’un villico di Rod presso Vimaria, che studia teologia nell’università vittemberghese¹⁷ _concessa pudet ire via_, poichè: _..... ogni segnato calle_ _Provò contrario alla tranquilla vita;_ ed insofferente non del peso anzi dell’obbrobrio dell’evangelico _iugum suave_¹⁸, bramando emular dio nella scienza, s’addice alla necromanzia; ovvero, per dirla nell’ingenuo linguaggio del testo: _prese ad amare ciò, che non è da amarsi; assunse ali d’aquila e volle conoscer fondo al cielo ed alla terra, emulando que’ titani, de’ quali i poeti favoleggiano, che ammucchiassero monti su monti e volessero guerreggiare con la divinità_. Ma presto s’avvede di non bastare a tanto; e che, in lui, come in Aldigier di Chiaromonte, quando trattavasi di liberar Malagigi e Viviano: _L’animo è pronto, ma il potere è zoppo._ Epperò determina avvalersi all’uopo dello spirito più dotto e potente dopo domineddio, cioè del demonio. Ed evocatolo in una boscaglia, senza lasciarsene imporre dalle sue gherminelle e ciurmerie, il costringe a diventargli servo. Se non che, come l’uomo non ancora avvezzo, egli non si rassegna a considerarsi aggiudicato allo inferno; e, quando il diavolo gli assicura, che dopo morto avrà a scontare le debite pene, va in collera e lo scaccia da sè, dicendo: — «Non vo’ dannarmi per cagion tua.» _..... Così reso a sè stesso, altrui ritolto,_ _Quasi servo fedel, che franco viva,_ _Tutto lieto sen gìa libero e sciolto....._ Ma ben presto s’accorge di non potersi _spesare_ (come diciamo a Napoli) de’ servigi diabolici, che gli riempivano alquanto il vuoto dell’animo: _Car l’habitude est tout au pauvre coeur humain;_ richiama il servo scacciato; ne impara il nome proprio, ch’è Mefistofele; e stringe seco e sottoscrive col sangue, cavatosi dalla sinistra, un patto solenne, in virtù del quale gli abbandona l’anima, purchè il serva fedelmente ventiquattr’anni e purchè non gli nasconda alcun vero: _tantulo impendio ingens victoria stetit!_ ¹⁷ L’Università di Vittemberga è ora traslocata in Halle sulla Saale. Non sarà inutile, per determinare il carattere storico del mito Faustesco, il ridursi in mente la parte, avuta da Vittemberga nella infaustissima riforma e malauguratissima, che venne inopportuna a fermare per un pezzo ed a scontorcere lo svolgimento del pensiero Italiano. ¹⁸ _Non il pondo, è l’obbrobrio del giogo,_ _Che m’incute un supremo terror!_ _Meglio il batter dei denti ed il rogo,_ _Che d’abbietto servaggio il rossor._ _Non v’ha domma, che l’uom non apprenda_ _Con impavido ghigno a schernir;_ _Non v’ha pena tenace ed orrenda,_ _Ch’ei non sappia in silenzio soffrir._ _La cervice io non piego a una legge,_ _Che il mio libero voto non ha;_ _La virtù, che il pensier mi corregge,_ _Contra i numi securo mi fa._ _Patria e Prence, ho speranze ed affetto_ _E di gloria mi schiudo il sentier;_ _Ho le gioie del cielo a dispetto._ _Come l’ombra, che simula il ver._ _La mia fede a ogni fola negando,_ _Io fra l’opre e i diletti vivrò;_ _Voi dal ciel poi cacciatemi in bando....._ _Questo gusto rapirvi io non vo’...._ Mefistofele comincia dal divertire quel villan rifatto del padrone (che diventando erudito, non avea, come accade a’ più, cessato d’esser uomo) con fantasmagorie di cacce e simili; poi lo veste di stoffe preziose e gl’imbandisce vivande e bevande squisitissime, rubate a cucine ed a cantine principesche. A Fausto (si vede proprio che non ha pensieri) vien subito voglia di ammogliarsi; e non consentendo il diavolo, ch’egli commetta questa scioccheria e celebri un sacramento, vengono a contesa. Il necromante vuol esser ubbidito, _Sic volo, sic iubeo, sit pro ratione voluntas:_ ed il _veto_ assoluto del su’ famiglio serve solo a maggiormente infervorarlo. _A chasque opposition on ne regar de pas si elle est iuste; mais a tort ou a droict comment on s’en desfera: au lieu d’y tendre les bras, nous y tendons les griffes_; e così appunto fa lo spirito infernale: apparisce per la prima volta a Fausto sotto la sua vera forma, orribile tanto che il poverino sbigottisce e scappa via. E quantunque, come dice Seneca, _omnium rerum voluptas ipso quo debet fugare periculo crescit_, non osa riparlar più di mogliazzo. Mefistofele però gli procaccia in compenso ogni notte una nuova e bellissima donna; basta, che egli si figuri a piacimento un tipo di avvenenza, perchè un succubo condiscendente assuma la forma desiderata. Negl’intervalli fra tanti piaceri, servo e padrone discutono su’ quattro novissimi, come il neoconte Giuseppe Ricciardi fece anche più opportunamente, quando ebbe il coraggio di starsi tutta una santa nottata in una stanza d’albergo, provvista di un letto solo, insieme con una donnetta, che, senza conoscerlo altrimente, lo aveva accettato per cavalier servente, a chiacchierare sull’immortalità dell’anima; egli sul letto e quella buttata sur un materasso per terra. (Così racconta l’amico nelle sue scipitissime _Memorie d’un ribelle_, senz’accorgersi, ch’e’ si mette alla berlina da sè.) Queste conversazioni mortificano talvolta un poco il dottore. Mefistofele gli dice fra le altre: — «Io son diavolo e mi conduco alla diabolica e bene sta. Ma, fossi uomo come te, preferirei d’umiliarmi a domineddio e servir lui, anzi che le dimonia.» — Fausto si stringe nelle spalle e risponde, press’a poco come il conte Almaviva al buon Figaro: _je n’aime pas les valets raisonneurs._ Sazio di tali godimenti, stanco di siffatti colloquî, Fausto vuol brillare nel mondo; e, con ammirazione e stupore universale spiega dalla cattedra gli arcani della natura e predice l’avvenire; _tanto_, come scriveva il Voltaire al Maupertuis, _tanto i professori di ogni specie son lì per accalappiar gli uomini_. Insoddisfatto in breve anche di ciò: _..... Variam semper dant otia mentem;_ dopo aver appurato dal suo Mefistofele quanto questi sa dall’altro mondo, delibera di conoscerlo _de visu_, facendovi una scorsa: cosa, per quanto impossibile a noi altri esseri effettivi, _grazia, che ad uom mortal raro si dona_, altrettanto agevole a’ personaggi poetici, _Casus multis hic cognitus, ac iam_ _Tritus, et e medio fortunae ductus acervo._ Prima d’avviarsi, è visitato da una eletta di Satanassi, Draghignazzi, Libicocchi, Barbericce e Graffiacani, che nè l’arroncigliano nè l’assordano con _diverse cennamelle_, ma pure gli lascian partendo la casa zeppa d’un formicolio di vermicciattoli, sicchè gli è forza sgombrarne. Non per questo smette quel proponimento. Seduto in un seggiuolo d’ossa, sugli omeri di Belzebù, rigira con tutto comodo l’inferno, osservandone le fiamme, lo stridore ed il batter dei denti. Finita questa impresa, vuol vedere il cielo; e vola in un carro trascinato da draghi verso le stelle, che dappresso si presentano all’occhio come vastissimi mondi, mentre invece la terra sotto lui diventa piccolina piccolina quanto un tuorlo d’uovo. E giunge così fino alla soglia del Paradiso; ma l’ingresso gli è vietato da un cherubo. Appagata siffatta curiosità oltramondana, pensa a godersi la terra; e, seguendo il consiglio contenuto in due versi, che ricordo da bambino senza rammentarmene l’autore o dove gli abbia letti: _Linque tuas sedes, alienaque littora quaere,_ _O iuvenis! maior rerum tibi nascitur ordo;_ principia dal visitarne le contrade ed i popoli, cavalcando Mefistofele, trasformato in ippogrifo, _inippogrifato_. In Roma, si rammarica di non esser diventato papa, considerando come questi sciala! Sentimento degno del figliuolo d’un villano tedesco, a’ cui occhi il sommo gerarca deve parere invidiabile non per la coscienza di essere stato prescelto dallo Spirito-Santo a rappresentar dio in terra ed a guidare il gregge de’ fedeli; non pel potere e l’autorità ch’egli esercita; non per gli onori, che il circondano; non per l’immortalità storica assicurata; bensì per gli agi della vita, pe’ comodi e pe’ piaceri materiali, onde può godere, se invece d’esser natura ascetica e scrupolosa, vuol rifarsi in quegli ultimi anni delle astinenze precedenti. Fausto, stando invisibile accosto alla mensa del Pontefice, gli fa sparire dal piatto i migliori bocconi, come Leombruno a Madonna Aquilina; onde il dabben vicario di Cristo, figurandosi aleggiargli intorno qualche anima tribolata e commiserandola e cercando darle pace, ne’ modi, che la liturgia insegna, muove a riso l’empio buffone. Fausto trasvola quindi a spacciarsi pel profeta nel serraglio del Gransultano. O che mancavan femmine di buona volontà in Europa? Gnornò, ma _furem signata sollicitant, aperta effractarius praeterit_, dice Seneca. E quelle mogli e concubine (è nota la vanità femminile!) si stimano beate, onorate di giacersi con lui, perchè si tratta del profeta, veh, non per alcun altro motivo, ohibò! La beffa dura da se’ giorni, nei quali una fitta nebbia involge il serraglio; e poscia il Pseudomacometto sparisce, lasciando timoroso e contrito il Sultano, che se la beve, come ogni altro; e si riprende per belle e per buone mogli e concubine, degnate degli amplessi del profeta. Che perla e modello di marito! È la vecchia storia di Giove, Alcmena ed Anfitrione; è suppergiù la storia di Capelbruno del Batacchi. Rimpatriato, il Dottore si presenta alla Corte dello Imperador Carlo V, che gli chiede e ne ottiene di evocare il massimo (com’egli stima) fra’ guerrieri e fra gli eroi dell’Antichità: Alessandro Magno. E quindi Fausto si acconcia a rimanere in corte, via, per trastullarla, (in posizione poco dignitosa, come quella occupata dal Goethe in Weimar, che gira e rigira, fu di giullare); e vien facendo molte burle e facezie, trasportate in questo mito da quelli di Simon Mago, d’Alberto Magno, dell’abate Fuldano Erlolfo, di Giovanni Teutonio, dello Scoto, del boemo Zitone e di Roberto di Normandia. Le buffonerie magiche, le celie negromantesche, ne formano anzi, secondo il Gervinus, la parte schiettamente popolare, che volgo e scolaresca si trasmettevano tradizionalmente; mentre i viaggi, la discesa all’inferno e l’ascensione al cielo, sono la parte elaborata da’ dotti, tradizione letteraria e non popolare. Di genuinamente popolare, in questo mito tedesco, di creazione nazionale spontanea, ci sarebbe insomma solo, l’avere attribuito al personaggio di Fausto parecchie goffaggini: _La botte dà del vin, ch’ella ha_. Il popolo tedesco, abbandonato a sè medesimo, non piallato e levigato da un po’ di coltura, straniera, non tirato e tenuto su dallo studio, non poteva concepir nulla di degno. Per contentare i faustologi e gli storici infatuati della letteratura alemanna, noteremo, che le facezie non vengon fatte spontaneamente da Fausto per alcuna necessità del suo carattere, non sono psicologicamente motivate; che anzi gli sembra produrle per ordine espresso, per compiacenza verso l’imperatore. Sono intruse nella favola. Dicono, che la somiglianza del suo nome col popolarissimo d’uno de’ pretesi inventori tedeschi della stampa, i quali (come ora sembra provato da ricerche, a me note solo per fama) frodarono della debita gloria il nostro Panfilo Cataldo, abbia favorito la tendenza ad appiccare a Fausto tutte le tradizioni di quel genere. Finalmente (ed eccoci al più bello) Fausto vuole anche godere il passato in ciò, ch’ebbe di più prezioso e vago; come ha già goduto tutto il presente nello spazio e pregustato il futuro con la divinazione: ed evoca e trae dalla tomba secolare l’Elena greca formosissima, per la cui demonica avvenenza i vecchiardi trojani assiderati affermavan convenirsi che due popoli a vicenda si distruggessero e che la loro città perisse. Incantato della sua tanta leggiadria e fors’anche perchè nell’uomo vi è la passione per l’abnorme, pel mostruoso: _Quod licet, ingratum est; quod non licet, acrius urit:_ non sa più separarsene o rinunziarvi; la vuol sempre compagna; e genera seco un figliuolo onniscio, che gli prenunzia l’avvenire d’ogni cosa. Frattanto, il tempo pattuito con Mefistofele stando per finire, il Dottore s’ammalinconisce ed il demonio lo schernisce, lo sbeffeggia, il deride. Ma non c’è rimedio: _Le livre de la vie est le livre suprême_ _Qu’on ne peut ni fermer, ni rouvrir à son choix;_ _Le passage attachant ne s’y lit pas deux fois;_ _Mais le feuillet fatal se tourne de lui-même._ _On voudrait revenir à la page où l’on aime_ _Et la page où l’on meurt est déjà sous les doigts._ Sulla mezzanotte dell’ultimo giorno, la studentesca odono un gran frastuono; e la dimane trovano Fausto sbranato dal demonio nelle sue stanze. L’Elena ed il figliuolo enno spariti. Eccovi il contenuto del mito di Fausto, con la scoria, con le escrescenze e co’ bitorzoli, onde un vero poeta dovrebbe rimondarlo, volendogli dar forma artistica, come di più sordida zavorra Dante nostro ha depurato il mito della discesa agl’inferni, della visita all’altro mondo. L’uman genere non ha forse mai incarnata in più ampia e più larga tela, con inconscia ingenuità, le ribellioni contro i concetti cristiani, che l’Evo Medio comprimeva sì, ma non poteva sopprimere. Quanto potrebbe esser colossale un Fausto insaziabile non solo nel godere, anzi ancora più nell’apprendere; il quale deliberatamente incorresse nell’eterna dannazione, non sedotto da vane lusinghe, non per una momentanea impazienza, bensì per trovar modo di spiegar l’enimma supremo; il quale si desse al diavolo, pattuendo però che da questi non gli venga nascosta cosa, ch’egli esamini, e gli si risponda solo e sempre il vero, tutto il vero, non altro del vero! Quanta poesia nella febbre irrequieta di conoscer _fondo a tutto l’universo_, la quale spronerebbe Fausto a rifrugare ogni parte dell’interno animo suo e della natura esterna; la quale l’indurrebbe ad interrogar l’inferno, e, non ottenendone risposta soddisfacente, a volare sino sulla soglia del paradiso, e gli persuaderebbe di strapparsi alle voluttà per la gloria ed alla gloria per la scienza. Quanto sarebbe sublime il perseverare nella empiezza e nella ribellion mentale per senso di dignità, mentre il demonio stesso gli consiglierebbe di piegare, e dimostrerebbe la propria bestial natura, confessando di operare solo istintivamente! E finalmente quanto potrebb’esser profondo il non acquetarsi di Fausto se non nel godimento (ossia nella cognizione) dell’antichità storica, simboleggiata nell’Elena greca; poichè la scienza storica solo, checchè vaneggi il Lessing, vale a sciogliere tutti i conflitti e sedare tutti i turbamenti umani, ha virtù di dare sicurezza e verità e tregua e requie e forza di vaticinare (cioè di prevedere) l’avvenire delle universe cose al povero genere umano, inappagato dallo spensierato godimento materiale, che gli offre il naturalismo, dalle vacue speculazioni, e dal complesso ma sminuzzato sperimentalismo empirico. Ah! la storia è la vera Afrodite intellettuale, della quale viemmeglio che della fisica Tito Lucrezio Caro avrebbe potuto esametrare _Nam tu sola potes tranquilla pace iuvare_ _Mortales; quoniam belli fere moenera Mavors_ _Armipotens regit, in gremium qui saepe tuum se_ _Reiicit, aeterno devincto vulnere amoris._ XIII. — _Modo in cui il Goethe poetava._ Le idiosincrasie degli scrittori spiegano le peculiarità delle scritture. Cos’ha mai ricavato il Goethe da questo enorme tema, vasto in guisa che l’intera divina Comedia dantesca v’è inclusa in forma d’episodio? Qual’è il concetto del poema, o, come a lui piace scrivere, della _tragedia_, ch’egli ha bravamente architettata sul sustrato mitico? Spiattellamola com’ella è: _......... amphora cœpit_ _Institui; currente rota, cur urceus exit?..._ _.... Anfora a far s’imprese; e perchè poi,_ _Gira la ruota e n’esce orciuol?...._ Perchè? Vel dirò. La mente dello scrittore non ha saputo cogliere e fermarsi ad esplicare un particolar lato poetico del subjetto vastissimo ed un po’ indeterminato, anzi vi ha spaziato dentro quasi a diporto, senza nè volontà nè valore di abbracciarlo, comprenderlo, rimpastarlo ed imprimervi la propria immagine e similitudine; ha rimaneggiata la cera senza imprimervi alcun determinato suggello, senza volerne perdere il minimo avanzo; ha fatto come il proto, quando, rimaneggiando una composizione, cambia la giustificazione, cambia il formato, ma non muta i tipi, nè molto meno le espressioni od i pensieri. Il Goethe, che s’arrabatta col Fausto, mi ha l’aria d’un inquilino di locanda, il quale si permette al più più di sparpagliare qualche sua masseriziuola su’ marmi de’ cassettoni e del camminetto, di far appendere alla parete qualche ritrattino a lui caro, di far traslocare qualche suppellettile, ma che non ha nè dritto ned ardire di rimutare ogni cosa, di trasformare l’arredatura della cameretta a suo capriccio e di pianta; perchè insomma insomma poi non è il padron di casa. Faceva d’uopo d’un Atlante per suffolcere il mondo, il microcosmo del mito faustesco; ed il Goethe ha dimenticato, che quando si scardina un mondo, s’hanno da aver omeri da sorreggerlo. E sì, che non ha mai neppure ammessa la possibilità di far fiasco, neppure sospettato di essere impari a tanto tema; e che il mito di Fausto non era peso dalle sue braccia, _nè ovra da polir con la sua lima_. La mente sua non s’è mai agghiacciata estimandosi giustamente. Per ammirarlo, dobbiamo ammettere, _Qu’il est beau qu’un mortel jusques aux cieux s’élance,_ _Qu’il est beau même d’en tomber!_ Certo, se d’alcun’altra mai, ben potrà dirsi di questa fantastica leggenda popolare o letteraria, ch’essa circoscrive in sè qualunque concetto possa avere qualsivoglia ottimo artista: ma per arrivare a quello con _la man, che obbedisce all’intelletto_, e’ si richiede senza meno, che un concetto sia nell’intelletto, sia nell’artista. Per fare lo spezzatino di lepre, ci vuole, prima di tutto, una lepre. Il mito è materia inerte come il marmo, come la donna amata; ed in esso si nasconde tanto il comico quanto il sublime; _... Il mal, ch’io fuggo; e ’l ben, ch’io mi prometto;_ _In te, Donna leggiadra, altera e diva,_ _Tal si nasconde;...._ spetta all’ingegno mio di cavarne quel, che meglio m’aggrada. Ma concetti determinati poetici mancavano al Goethe. Parrà un paradosso! ma tant’è! prego il cortese lettore di rammentarsi la distinzione stabilita più su fra concetti scientifici e poetici. Un concetto poetico manca in presso che tutti i lavori di lunga lena del Goethe: ed il difetto si spiega agevolmente dal modo, in cui lavorava l’Eccellenza sua e dalla natura intima delle opere, le quali sono per lo più in un certo senso, mere poesie d’occasione. Non iscaturivano da potente esaltazione della fantasia favoleggiatrice; anzi servivano di sfogo momentaneo per ogni affetto, che ingombrasse, opprimesse l’animo dell’autore. Il poetare equivaleva pel Goethe ad un purgante morale. Gli è uno spingere un pocolino troppo in là o per dir meglio un prender troppo letteralmente l’aristotelico concetto della _catarsi_; gli è un abbassare la poesia nella cerchia dell’igiene e della dieta; gli è un dare all’attività poetica simiglianza un po’ po’ eccessiva ed indiscreta col ponzare. Io non conosco metodo più acconcio ad iscacciare il malumore, a dar l’ostracismo alla melanconia, nè so che altri abbia sperimentato rimedio più efficace a’ maggiori turbamenti d’animo, alle passioni più tempestose, dello scapricciarsi da solo a solo con madama penna, del tentare di ritrarre e descrivere quel malumore, quella melancolia, que’ turbamenti, quelle passioni. _Probatum est!_ E stimo di poter esser buon giudice in questo, perchè (o ch’io sia nato tale, o che tale io mi sia divenuto per colpa propria od altrui) fatto sta, che sono una bestia ipocondrica, ma come ce n’ha poche; ed appena ricordo d’aver riso di cuore qualche rara, rarissima volta tanto, tanto tempo fa. Caso patissi dello stesso malore, amico lettore, prova la mia ricetta: al primo accesso d’umor nero, presto, lesto, impugna la penna, siedi a tavolino e studiati di dire quel, che ti bolle in corpo. Doppio effetto benefico: tutta la parte indeterminata, vaga, il _flebile nescio quid_, il _nequeo quin fleam_ senza un perchè, il musicale dell’affetto insomma, svanisce, non potendo concretarsi in parole; riman solo la parte salda del dolore, la piaga vera davvero. Tenta di scandagliarla, auscultarla, specularla ben bene: e, dopo cinque minuti, l’interesse tuo sarà trasferito dalla passione alla descrizione della stessa, la guarderai objettivamente ed ormai con più curiosità che partecipazione. Sarai rasserenato, e da paragonarsi a que’ studenti fanatici di medicina i quali inoculatosi il viro sifilitico o trangugiati farmachi mal noti, per istudiare le fasi vuoi dell’infezione, vuoi dell’attossicamento, tutti intenti nelle osservazioni, non provano più il dolore. S’è dato il caso, che vedeste di que’ ritratti fotografici, venuti pur ora di moda, in cui la persona medesima è riprodotta du’ volte sul medesimo fondo in due atteggiamenti diversi? esempligrazia, mentre vende guanti a sè stessa; mentre tocca il polso al suo signor sè coricato ed infermo; mentre, con la pistola ancora in pugno, urta col piede il cadavere della signoria propria, che ha uccisa in duello? Oh que’ ritratti! Io non so guardarli senza un brivido strano! Dico bene? La più atroce fantasia, che possa assediar l’uomo in sogno, non è, che le cariatidi del portone scuotano il pondo dell’architrave e da que’ robusti giganti, che pajono, salgono le scale o scrollino alla Sansonesca l’edificio, per far le tarde vendette dell’oppressione, _eo immitiores quia toleraverunt_; — non è, che mentre tu riposi tranquillamente nella cameretta serrata con doppio giro di chiave, le figure lì dipinte, e penzolanti dalle pareti, abbiano a distaccarsi dal quadro e venire a sedere sul tuo letto; — non è, che tu abbia a riscuoterti sepolto vivo nella tomba gentilizia, e schiattarvi rosicchiando per fame i pugni rinsecchiti, oppure rinvenire come l’abate Prévost, nel teatro anatomico, mezzo sezionato da una turba di pappini; — non è, che tutte le bestiacce del museo zoologico, pel quale conduci la tua signora, racquistino ad un tratto ossa e polpe e si scaraventino addosso a voi; — non è, di cadere e cadere da una torre altissima giù, giù, nell’abisso, senza dar mai un picchio nel fondo; — non è, di nuotare per un pelago sconfinato ed innavigato, spossandoti a fuggire da frotte, stuoli, morre, eserciti, caterve, moltitudini innumerevoli di que’ paurosi mostri marini: orche, pescicani, caccialotti, balene; — no, c’è peggio assai da immaginare. Questi spaventi son nulla al paragone dell’orrendo sogno d’un Menecmo, d’un Simillimo, che vi sia cioè nel mondo altri _tutto al volto, ai costumi, alla favella_ simile a te; che porta il tuo nome; che da tutti è preso in fallo per te; che la tua donna riceve, come accorrebbe te, e compiace, credendo appagarti; delle azioni ree del quale tu innocente sei responsabile; che gode malignamente di frantumare e contaminare ogni gioja tua, e farti scontare il fio della sua perversità;..... Oh non v’ha pensiero più fecondo di raccapriccio! Ebbene, tal’è press’a poco l’effetto dello studio posto nel descrivere od analizzare le passioni proprie: l’animo si sdoppia, il paziente e l’indagante divengono due, e la carne e la mente, che soffrono, divengono estranee alla mente, che esamina e ritratta: sono due Simillimi. Se non che, in questo caso, il male è salubre, il _menecmismo ideale_ risana i corpi attossicati dall’ipocondria o dalle passioni. Certo, ogni commozion poetica prende innegabilmente le mosse da una commozione effettiva dell’animo, ma non perchè l’una procede dall’altra è da confondersi quella con questa. Anche il figliuolo si presuppone generato dal su’ babbo; e non per ciò sono una persona. L’impressione naturale è _sempre scema_; semplice e cruda, non può chiamarsi poesia, mancando dell’elemento principale, dell’idealità. Il bello naturale, per diventare bello artistico e specialmente poetico, dev’essere elaborato per tutti gli stadî della fantasia; come un cibo, per diventare aumento e sussidio dell’organismo, deve subire tutte le operazioni meccaniche e chimiche, le aggiunzioni e separazioni, che si addimandano _processo digestivo_: l’intuizione di un objetto qualsiasi si trasforma mano mano in immaginazione e l’immaginazione finalmente è tradotta ed innalzata a fantasia pura e piena. Questa trasformazione e traduzione ha per iscopo e termine la creazione di fantasmi autonomi, i quali non ritengono più nulla di comune col fenomeno originale, che mise in moto la facoltà generativa del bello. Un figliuolo adulto non ha più nulla di comune co’ genitori, nè la Madonna della Seggiola con la Fornarina, nè l’Aspasia del Leopardi con Madama Targioni. Il Goethe non isconfina mai mai dal primo stadio intuitivo; gli manca la virtù digestiva suprema, che trasfigura l’obietto sentito o percepito (cosa, persona, affetto, avvenimento) in fantasma: metamorfosi vieppiù strana di quella, per cui acqua ed aria si trasformano in legno e fronda, oppure asparagi e broccoli si tramutano in muscolatura ed ossame o pelame. Egli sa adornare, raffazzonare, compaginare il percepito, ma non può rimutarlo sostanzialmente, farne una cosa autonoma ed originale: quindi eccolo costretto a fluttuare fra la _copia del vero_ e _l’allegoria_, tra il fotografico ed il didascalico, forma incipiente questa, forma evanescente quella dell’Arte, ed in fondo a dirla, tanto l’una quanto l’altra estranee all’Arte. Ci dà quindi ritratti, relazioni particolareggiate, descrizioni minute; tutta roba, onde può mostrarmi il riscontro in natura, onde può rendermi scrupolosamente ragione: _ho scritto la tal cosa così e così, perchè ho visto questo, ho sentito questo_: se non che una bazzecola manca a tanta perfezione, quella minchioneria, costitutiva dell’artistico e del poetico, ch’è l’elemento fantastico, ideale. Persuadiamoci finalmente, che n’è pur tempo, d’una verità, la quale ha il sommo, (benchè non raro) pregio di non essere assiomatica, anzi di risultar quasi conclusione dall’esplicazione del concetto estetico, in Italia almeno. Quindi (è bene avvertirlo) potè ignorarsi o negarsi da’ nostri predecessori, senza che meritino taccia di sconnessi, come sarebbe accaduto se avessero negato il quattr’e quattr’otto; ma non può disconoscersi da noi altri senza mostrarci dappochi quanto chi credesse ancora nel sistema tolomaico o nelle superstizioni medievali o nella eccellenza del governo repubblicano. Dunque il bello artistico e, per conseguenza, il poetico, non ti riuscirà mai di scavizzolarli nel mondo delle cose, anzi devi stimarli parti della fantasia. Quando esistessero effettivamente sceverati nella loro purezza; quanto il Bello naturale fosse identico al Bellissimo, a quel, che, a scanso d’equivoci, per adoperare una parola impregiudicata, monda d’idee accessorie, chiamerei il _Pulcherrimo_, cioè, al Bello assoluto; le arti sarebbero pleonasma, duplicato supervacaneo; ripeterebbero senz’alcun prò, peggiorando; a noi si converrebbe inchinar per vera l’opinione, che le condannava ad imitare servilmente la natura; e quelle divine idee si degraderebbero ad onesto passatempo senza degno scopo sufficiente. Se la macchia e la fattezza tipica e l’armonia ed il fantastico sfolgorassero nelle cose e negli uomini, nei suoni e nelle voci naturali, nella vita e nella storia, _in verbis, herbis et lapidibus_; oh guà! cesserebbe il perchè della Poesia, della Scultura, della Musica e della Pittura. Invece di spiroscafare sino in Toscana, _ch’è più in là dell’Abruzzo_, per ammirarvi quei miracoli di Arte, che vi sono accumulati, invece di arrampicarci su per le scale e degli Uffizî, (ripide tanto, ch’io ne disgrado le vie _diserte e scoscese_, di cui Dante, e stupisco che il _clubbe Alpino_ non le registri fra le più meritorie ascensioni!) invece, dico, basterebbe spalancar le impannate o scendere in istrada; e guardare i monti, il mare, le case, chi va, chi viene e chi sta. Invece di accalcarci ne’ teatri micidialissimi, nelle afose sale da concerti, faremmo una passeggiatina lunghesso il marsonante o porgeremmo l’orecchio a’ suoni confusi esalati dalle campagne. Invece di leggicchiare o scrivacchiare e poemetti e romanzucoli e drammonzoli, ripenseremmo i nostri casi e gli altrui. Ma che! per quanto vaga sia la femmina, che ti godi, ed il paese, in cui dimori, per quanto sia svariata la tua propria vita, non ti appagano, ti lascian sempre il desiderio di finzioni pittoriche e poetiche. Giacchè, ripetiamoci ancora, l’Artistico, il Poetico non hanno effettività naturale, sono anzi visioni della mente, quando concentra ed esaurisce tutto un dato Universale od Esemplare od Archetipo, che dir si voglia, tutta una data _Idea determinata_, in un particolar fantasma. Certo, conforme alle norme del processo empirico, la primissima spinta ce la dà un oggetto: ma veh, se non abbiamo succhi gastrici da digerir l’impressione, è vano il lusingarci di cogliere il Bello. Il tale e quale dell’effetto materiale non è poesia. _Ho un bastoncel di legno, ricoperto_ _Di cuoio; ha nome marito: ma il legno_ _È legno, sa?_ dice cinicamente una donna poetica tedesca¹⁹, la Maria della lirica di Arrigo Heine intitolata _Ratcliff_, da non confondersi con la tragedia, com’e’ la chiama, intitolata _Guglielmo Ratcliff_²⁰. Il legno riman sempre legno e l’effettivo naturale non sarà mai il Poetico. ¹⁹ _Hab’ einen Stock von Holz, der ueberzogen Mit Leder ist; Gemahl sich nennt; doch Holz Ist Holz._ ²⁰ Non potevo prevedere, scrivendo questo studio, che ci sarebbe poi stato, chi avrebbe avuto il barbaro coraggio ed il pessimo gusto di voltare (molto infedelmente) in Italiano quelle sconciature giovanili dello Heine, che sono le due sue pretese tragedie; e che, nella nostra Italia, si sarebbero trovati pubblici babbei per applaudire, quando in Germania stessa nessuno pensò mai a rappresentare e nessuno le tenne rappresentabili. A questo poetico, il Goethe non è giunto, se non radissime volte nelle _Liriche_. I rimanenti scritti di lui sono da paragonarsi all’organismo vegetale, che non ha potuto progredire fino alla vitalità animale ed al pensiero umano, impigliato nel meglio della enucleazione. Noi seguiamo fase per fase la più o meno splendida vegetazione delle opere del Goethe; le vediamo germinare, crescere, fiorire, e rinsecchire; quel, che non vediamo mai, si è, che pur una volta staccandosi dal terreno, dalla melma del reale, che le ha prodotte, ed acquistando moto e ragion d’essere propria, progrediscano fino ad incarnare un concetto; ripeto, la vegetazione c’è, manca la vita, manca il pensiero. L’aver assodato questo fatto, cioè, che la sensazione poetica del Goethe è assolutamente identica con la sensazione materiale di lui, ci dà la chiave del perchè le scritture sue più sentite, più affascinanti siano appunto le giovanili, quando, ne’ grandi poeti nostri, sogliono piuttosto essere, non le senili, chè la vecchiezza è morte comune di tutte le facoltà, anzi le vergate o dettate nell’età provetta. La potenza creativa, la virtù plastica e caratteristica del signor consigliere, fondandosi esclusivamente e dipendendo integralmente dalla freschezza e dall’ingenuità dell’impressione fisica o morale, dovea languire parallelamente all’infiacchirsi e al declinare di questa, con l’ottundersi de’ sensi e con l’infracidire in quella pettegola corte granducale d’ultim’ordine, la quale egli avea per compito e per ambizione di mantenere allegra: compito ed ambizione da giullare. Non è lecito d’ignorare, in qual modo germogliassero i _Patimenti del giovane Werther_. Tutti sanno che quel romanzo è un mosaico sul genere della bandiera del piovano Arlotto, ricavato in gran parte da frammenti di lettere e di un giornale veramente scritto, composto d’impressioni effettivamente sentite, con personaggi conosciuti in società; che ha per sustrato, insomma un amoretto ed una situazione sperimentati dall’autore, nonchè un’avventura e la catastrofe d’un suo conoscente, d’un certo Jerusalem²¹. Non osiamo lagnarcene, chè questo essenzialissimo difetto estetico del libro, quando lo si consideri com’opera d’Arte, questo suo esser _vero_ quasi dalla prima all’ultima parola, questo suo esser prosa e non poesia appunto, gli conferisce tanta forza d’ossessione, tanta efficacia ed evidenza; rende impossibile lo scartabellarlo senza rimaner lì avvinti alla lettura, senza sclamare ogni tratto: — «È vero! è vero! l’ho provato anch’io!» — senza sognarne la notte. Sei stato mai a Pompei? Sì, eh? Dunque avrai ammirato que’ simulacri di statue in gesso, ottenuti recentemente, ricolmando con iscagliola le cavità lasciate nella cenere impietrita da’ cadaveri degli antichi pompejani sciolti in polvere? Or bè, che te ne pare? Son qualcosa d’informe, di orrendo, n’è vero? Giurabbacco, non t’arbitreresti a paragonarli nemmanco per burla al _Gladiatore moribondo_, al _Marsia scorticato_, all’_Anteo soffocato_ alla _Pietà_ michelangiolesca? Pure, quanto maggiore ispavento e compatimento non incutono? quanto non è loro più facile commuoverci fino alle lacrime, farci rimaner di sasso, lì sbigottiti? Dico bene? O perchè? Per la materialità loro stessa: per quella potenza di espressione; per l’idea, che non sono una finzione d’artista. Ecco la maschera d’un uomo, che s’è buttato vinto per morire; ecco un volto umano vero, il volto d’un dato uomo, che ha vissuto davvero, eccolo sconvolto non da un dolore simulato, come la fisonomia dell’istrione, come il _marmo del trojan Laocoonte_, bensì da una stretta disperata e mortale. In quella scagliola, stanno impigliati gli ossami d’infelici, de’ quali il gesso con l’arrendevole flusso ha surrogate le parti molli. Ed io, che guardo, non provo più un’emozione estetica, anzi un dolore effettivo e positivo. Non mi veggo più dinanzi un sasso scolpito ad immagine e similitudine della Niobe, madre infelicissima, anzi l’orrido scoglio appunto, che fu la Niobe ed ebbe vita al par di me. Non assisto ad un assalto di scherma, nel quale gusterei la disinvoltura e la pratica degli emuli; anzi son testimone in un duello, in cui ogni botta vien diretta a spillar sangue ed a trabalzar nel nulla la vita de’ contendenti. Non intendo più ad una rappresentazione teatrale, dove mi si spiegano i varî moti delle passioni d’un moribondo, anzi contemplo un combattimento gladiatorio che non avrà fine, se non con la morte d’uno de’ gareggianti. L’autore stesso, parlando del _Werther_ in vecchiaja, nel M.DCCC.XXIV, diceva: — «È una creatura, che ho cibata, quasi pellicano, col sangue del mio cuore. V’è tanto del più intimo del mio petto, sentimenti e pensieri, quanto basterebbe per un romanzo in dieci di que’ volumetti. Del resto, sol’una volta ho riletta l’opera; e mi guarderei bene dal ritentar la pruova. Sparge razzi incendiarî. Mi sbigottisco e temerei di sentir nuovamente lo stato patologico, che produsse lo scritto». — Male, quando la produzione artistica è effetto d’uno stato o stadio patologico. ²¹ Vedi l’opera tedesca intitolata: _Goethe e Werther. Lettere del Goethe, le più giovanili, con documenti illustrativi, pubblicate da A. Kestner, Regio Consigliere d’Ambasciata Annoverese, Incaricato d’affari presso la Santità del Papa. Seconda Edizione. Stoccarda ed Augusta, presso il Cotta, M.DCCC.LV._ Ma chi oserà biasimare il modo di comporre, cui dobbiamo il _Werther_? Arte o non Arte, è qualcosa di stupendo. Chi torcerebbe gli occhi da que’ gessi pompejani, allegando l’irragionevol ragione, che non sono la Niobe? chi rifiuterebbe di presenziare ad una tauromachia, iscusandosi col dire, che non è il _Filippo_ o la _Mirra_? Quegli spettacoli ci commuovono potentemente; e basta. Ma badiamo però, veh! tal commozione non è punto estetica: è la commozione brutale, che produce lo aspetto del vero, non la commozione ideale, che vien generata dalla contemplazione dell’opera d’arte. Comico è quindi il plauso, che questo procedere indigesto ha incontrato in Germania, dove quasi quasi, invece di legger le biografie del Goethe per meglio comprenderne le scritture, se ne studiano anzi le opere come illustrazion della vita. I termini vengono invertiti. A noi, la _Vita di Vittorio Alfieri, scritta da esso_, ci dischiude l’intelligenza della poesia di quell’uomo miracoloso, che seppe tanto caratterizzar sè stesso in un verso: _Scrivo, perchè non m’è dato di fare_; ed i tedeschi si discervellano sul _Fausto_, sulla _Jfigenia in Aulide_, sul _Tasso_, sulle _Affinità elettive_, sul _Guglielmo Maestri_, eccetera sulle più insignificanti corbellerie vergate dal Goethe, per indagare che ci fosse nell’animo di lui in quel tal tempo, quali fossero allora le sue pratiche ed i suoi trastulli. Ed ove si consideri da una banda l’ignobiltà d’una vita di ottantatrè anni, sciupata in melensi amorazzi, in mille pettegolezzi, fra gli ozî insulsi ed istenterelleschi d’una corte granducale, in un ambiente accuratamente depurato d’ogni egregio affetto, patriottismo, grandi ambizioni, libertà politica e simili; dall’altra l’idolatria, con la quale i tedeschi l’han vagheggiata, quasi ultimo ideale di una vita virilmente spesa e felice; si potrà formolare sulle condizioni morali dell’intera Germania un giudizio, forse e senza forse poco lusinghiero, ma giusto e meritato. E, se volete ben comprendere la superiorità morale del popolo Italiano, rammentatevi quali furono i poeti, che vagheggiavamo per ideali; l’abisso, che separa l’anima sdegnosa d’un Vittorio Alfieri da’ consiglieri aulici Federico di Schiller e Gian Lupo di Goethe, uomini di plebe nobilitati, vi dà la misura della distanza fra le due nazioni. Ma che parlo della corte di Vimaria e degli ozî insulsi ed istenterelleschi del nostro autore? Conveniva egli stesso di averci sciupato molto tempo facendo l’impresario: — «Invece, avrei potuti scriver parecchi bravi drammi: ma non me ne pento. La mia attività e la mia produzione, io le ho sempre considerate simbolicamente; e mi è stato in fondo indifferentissimo il far pignate o scodelle». — Del resto, è vero, che il Goethe v’ebbe anche di serie di occupazioni: per tacer dell’altre, fu ministro della guerra. L’esercito vimariense si componeva di seicento uomini con una cavalleria di cinquanta usseri; ed il Ministero, d’un ministro e d’un segretario con uno scrivano. Esercito però sempre ragguardevole, se paragonato a quello del conte di Limburgo-Styrum, il quale possedeva uno stupendo reggimento di usseri, composto da un colonnello, sei uffiziali e due gregari²². ²² Non c’era pericolo, che potesse vincer delle battaglie di Sadowa e di Sedan; ed era meglio per la pace e la felicità del mondo. In omaggio all’acume critico del tedesco, convien pure, ch’io dica, aver egli più d’una volta compreso questo suo stato d’inconcludenza morale. Non citerò autori moderni, anzi le parole, che il ladro conte palatino Gian Casimiro scriveva nel MDLXXVIII (nel tempo appunto in cui si elaborava dalla coscienza popolare il mito di Fausto) al Langravio di Assia: — «Il Duca d’Alba mostrò di conoscerci per bene, quando trascorse a dire, i principi tedeschi esser come i leoni, i grifoni e l’aquile de’ loro stemmi; grandi animalacci ben provveduti d’unghioni, d’artigli, di zanne e di rostri, ma inetti non che a mordere e graffiare, a morsecchiare e sgraffignare. Ad ogni straniero è notissimo che noi sappiamo scrivucchiare e consumar carta, e ragunar fatue assemblee, ma non già conchiuder checchessia; il che per fermo ridonda di sommo vilipendio alla nazione tedesca». XIV. — _Genesi del Fausto e la Dedica._ Appunto come i _Patimenti del giovane Werther_, quantunque in guisa meno apparente, maturarono presso che tutte (o perchè non dissi: tutte?) le opere del Goethe, ed il _Fausto_ anch’esso in capolista. Dell’_Affinità elettiva_ l’Autore diceva: — «Non v’è rigo, ch’io non abbia _vissuto_; e v’è ficcata dentro più roba, che chicchessia valga ad assimilarsi in una sola lettera». — Non vi pare di sentire un ciarlatano vantare il suo cerotto? Del _Fausto_ poi dice: — È qualcosa di affatto incommensurabile. Si rifletta, che la prima parte fu prodotta da uno stato alquanto torbo, oscuro dell’individuo, del subjetto. Appunto questa oscurità adesca gli uomini, che vi si affaccendano volentieri intorno, come a tutti i problemi insolubili.» — Dire, che l’autore vi si è dato da fare intorno da’ diciannove agli ottantadue anni, gli è un dire appunto, che non ha mai saputo trovarne il bandolo. Tante volte l’innamorata, per farci un po’ stare a segno con occhio e dita e lingua, è insusurrata dall’arcidiavolo ad incannarci sulle mani qualche matassaccia arruffata di filo, che vuol raggomitolare; e noi, perfidamente, invece di agevolarle il compito, facciamo il possibile per iscompigliar sempre più quel refe, acciò la prossima vicinanza si prolunghi e, nello inchinarsi per isbrigar qualche groppo, la maliziosetta possa portar la fronte quasi fino alle nostre labbra e far come se non si avvedesse del fuggitivo contatto. Fossimo ancora nei beati tempi de’ paragoni mitologici, vi direi, il Goethe essersi imbertonato della Melpomene; e, mentre questa gli avea dato a tenere la matassa del mito faustesco, intendendo finalmente ravviarla e dipanarlo, farle quello appunto, ch’i’ v’ho detto e che tutti abbiam fatto, ma con qualcosa d’un po’ meno stantio della Melpomene. Ripeto, in un tema poetico c’è tutto; ma il tutto è il nulla, l’indifferenza, la neutralità, il caotico. Perchè da un caos risulti un cosmo, è d’uopo che si sviluppino in esso le forze chimiche e le fisiche e le dinamiche e poi la vita organica. Perchè un tema poetico si trasformi in opera d’arte, bisogna che l’autore vi trasfonda lo _spiritus dei_ biblico, il quale noi addimandiamo concetto, come più gli aggrada o comico o sublime, che poco importa. Pienissima libertà nella scelta del concetto, ma, una volta avvenuta questa scelta, ogni libertà sparisce; come già, in un paese benordinato, ci è largo campo a discuter le proposte, che, una volta convertite in leggi, sono da obbedirsi ciecamente senza recalcitrare od obbiettare, gua’, sotto pena di far la zuppa nel paniere. Ove il poeta rimanga imparziale fra venti concetti attagliabili al tema, infraddue fra il tragico ed il buffonesco, tirato egualissimamente da _uno ed altro desio_, _..... sua cura_ _Sè stessa lega sì che fuor non spira._ Il tema, lo stoffo, il mito somiglia que’ macigni de’ conti di fate, sterili, brulli: Mosè, a spezzarvi su la verga, non ne stillerebbe un gocciol d’acqua; Columella, ad ararli e vangarli e zapparli, non vi farebbe venir su mezzo fil di erba; e tutti gl’ingegnieri del mondo, a sviscerarlo, non ne ricaverebbero un filone di metallo, un catollo di carbon fossile. Pure, basta pronunziar sommessamente la parola magica, e s’aprono di per sè, senz’altro; e dimostrano palagi d’incredibile fasto, in fondo in fondo dei quali, ne’ gabinetti ben chiusi, su’ letti nascosi da spessi cortinaggi, riposano quelle avvenenti principesse incantate, più belle del sole, simboli delle creazioni immortali di monna poesia. Il Goethe non seppe trovare la parola dell’incantesimo pel _Fausto_ suo: nè questo mi sorprende. Egli non potea rinvenire in fondo al bicchiere la virtù poetica, come vi trovava la sua amabilità nella conversazione, almeno secondo la competentissima Anna Maria Germana, Baronessa di Stael-Olsazia, nata Necker, ch’ebbe a dirgli ad un pranzo di corte: — «di non poterlo sopportare, se non quando avesse un par di bottiglie di Sciampagna in capo.» — Prego il lettore di avvertire, ch’io qui apro una parentesi. Al che l’Eccellenza del consiglier Di-Goethe replicò sotto voce in tedesco (e si noti, che l’autrice del libro _sull’Allemagna_, simile solo in questo al vecchio Tacito, non intendeva sillaba di tedesco): _bisogna dunque che ci siamo ubbriacati le parecchie volte insieme_. Il motto è riferito da lui stesso, se non isbaglio, negli _Annali_ (per quanto eccessiva sia la mia smania d’esattezza nelle citazioni, non m’incomoderò a scartabellare cinque o sei volumi per tale inezia). Io gliel credo ed ammiro: chè, in verità, neppure uno sguattero Italiano oserebbe dire ad una signora impertinenze, in lingua ad essa ignota. Ma nella corte granducale vimariense, questo si stimava un tratto di spirito: tra’ ciechi il monocolo è Re. Ecco un fatterello (non oso chiamarlo _aneddoto_, ricavandolo da un libro a stampa) che dimostrerà il buon tono introdotto in quella corte microscopica da Carlo Augusto, granduca, e dal Goethe, favorito. Questi due monelli di quaranta o cinquant’anni, una sera, spengono il lume alla Gochhausen, dama di corte, soprannominata familiarmente Tusnelda (che galateo, chiamar le persone, le signore e sian pure signore da strapazzo, con soprannomi beffardi!) mentre saliva nella sua camera. Essa non ne fa caso, giunge al corridoio e cerca a tentone la porta. Ma che? non trova nè legname, nè toppe: con le mani tocca una parete liscia, continua. Comincia a turbarsi, a perdere il capo; e, sbigottita, vuol correre dalla Granduchessa, che ha serrato l’uscio a chiave e non risponde al picchio. Risale, ritasta le mura: indarno! Ed in quel buio d’una nottata freddissima, ebbe a morire fra il gelo e la paura. Lo spiritoso principe e l’arguto poeta avevan fatto tòrre l’uscio e murar la stanza! Prego il lettore di avvertire, ch’io qui chiudo la parentesi aperta più sopra. Dunque il Goethe ha fiutato, annasato, odorato per ogni banda, ma non ha studiato, come sarebbe stato il debito, quel miracoloso tema inciampato; appunto come la Tusnelda, ha toccato ogni cantuccio del muro, senza trovar la porticina per entrare in istanza. Ha fatto a mo’ de’ viaggiatori economi e prudenti, che, invece di ascendere il Monte Bianco, si contentano di circuirlo e guardarlo da mille punti diversi; come chi per conoscer Napoli non vi mettesse il piede sul lastrico, non vi dimorasse e praticasse, pago a guardarla dal mare e da Capodimonte e da Sammartino e da’ Camaldoli e da Posillipo. Secondo che soffiava il vento o che gli ribolliva nell’animo, ha derivato dal mito faustesco il pretesto, l’occasione d’una scena, d’un soliloquio, d’una strofa, in cui, quando liricamente e quando allegoricamente, sfogarsi; e questo ad intervalli di tempo grandissimi, e più che sufficienti a render qualunque uomo, non che il leggerissimo e volubile Goethe, estraneo all’antico Adamo. Poi, di tempo in tempo, quando il materiale così accatastato ammontava a quantità ragguardevole, ci si è messo intorno una e due e tre volte con l’arco della schiena, pretendendo ridurlo ad unità d’animo e di corpo. Conoscete il palazzo così detto delle Finanze o di San Giacomo o de’ Ministeri qui nella nostra Napoli, dove furono e sono ammucchiate tante e tante ladronaie? Prima sorgevano in quel luogo molti edifizî pubblici e privati, diversissimi d’epoca e di struttura e fra gli altri una chiesa, un monistero, un ospedale; ed il Borbone Ferdinando I commise all’architetto Stefano Gasse di comporre tutti que’ pezzi diversi ad un conglomerato, a _monade_ di palazzo, aggiungendovi il necessario. Che pasticcio ne sia risultato e quanta poca relazione abbia la facciata della fabbrica con la disposizione interna, è inutile il dirlo. Non sarà però inutile il giustificare quel grecismo _monade_, che pensatamente ho scritto. La legge eufonica è suprema nella lingua Italiana, come la _salus patriae_ nella politica. Dicendo: _un’unità_, formi la più esosa cacofonia del mondo, anche a prescindere dalla monotonia, che in ogni volume un po’ astratto, risulta fatalmente dalla sovrabbondanza dei sustantivi in _ità_. Ecco le ragioni buone o cattive, le quali m’inducono a proporre di sostituire al vocabolo _unità_, il vocabolo _monade_, che in greco vuol dire il medesimo; ch’è più armonico, ch’è già naturalizzato ed un po’ più legalmente di Giuseppe Lazzaro; che ogni colta persona intende; e che, non appartenendo al linguaggio vulgare, è scevro da ogni amalgama d’idee accessorie, ha l’impassibilità, la neutralità, la spregiudicatezza, che tanto si confà per un termine scientifico e che il povero Geremia Bentham arrabbiava tanto di non trovare quasi mai nella nomenclatura legale ed economica. Ah queste benedette digressioni! Che dicevo prima della monade e delle Finanze? Mi rammento! Dunque, il Goethe, per comporre a monade i frammenti ponzati in parecchi anni, ha potato ed aggiunto ed ordinato! E qua una zeppa, e là un puntello, più su mastice, più giù colla; e dovunque e soprattutto intonaco e vernice di spirito, di frizzi, d’epigrammi; profusione d’immagini e sentenze ed illecebre! E poi allegoria in buon dato per nascondere le commettiture, perchè la statua, incollata da centomila scheggiuole, figuri scolpita in un ceppo, ed il Giove Olimpico rinacciato a forza d’oro e d’ebano e d’avorio apparisca ricavato da un masso o da una fusione! Non è d’uopo aggiungere, che, s’egli non è riuscito a fare tanto, era però impossibilissimo che chicchessia vi riuscisse. Tutti i ripieghi ed i ripeschi immaginabili e concepibili, sono impotenti, inefficaci a riparare ed anche a dissimulare il peccato originale della mancanza d’un concetto organico! E questo benedetto peccato originale è d’una razza, la quale, in poesia almeno, non si cancella con un risciacquo, con un battesimo _Heu, nimium faciles qui tristia crimina...._ _Fluminea tolli posse putatis aqua!_ Dicevo: _in poesia almeno_, perchè in patologia, gli idroterapisti sostengono il contrario, e guariscono con docce ed aspersioni e bagnature ogni malore ereditato più o men legittimamente. Di quanto si dice in teologia, mi astengo dal parlare: _haec neque affirmare neque refellere operæ pretium est... famæ rerum standum est_, dirò con Tito Livio _passim_. Di tal colpa il Goethe s’è reso confesso, ma non pentito nella _Dedica_, uno de’ più discreti squarci lirici, che mai prorompessero da petto tedesco. Esso produce sull’animo del lettore lo stesso desolante effetto del _Commiato d’Haydn_; sinfonia, che (dicono) stringa il cuore, quando si ode ammutolire uno strumento dopo l’altro e si veggono uno per volta i sonatori finire la parte, spegnere il lume, ravvoltolare il quaderno ed accommiatarsi. In quelle quattr’ottave, c’è uno strazio da non dirsi del poeta e dell’uomo, che si ravvisa ormai solo e derelitto nel vasto mondo, tra la _folla sconosciuta_, poichè le _anime, alle quali avea cantato i primi, non ascoltano i versi seguenti_; cui ogni _incerto fantasma_ del suo poema è una reminiscenza _de’ primi amori ed amicizie: e rinnovella il duolo; cui quanto sparve saldamente appare_. Il poeta stesso non vede in quelle forme se non mera nebbia; e per lui non hanno altra parte di saldo e d’efficace fuorchè l’allusione, la reminiscenza del sentito e del provato in altr’epoca. Difatti è accaduto il debito: l’opera sua è rimasta un seguito di frammenti senz’altro nesso oltre i nomi de’ personaggi; e dico i nomi, perchè vedremo inconsistenti i caratteri. E prima scaltramente l’aveva pubblicata come frammentaria: ed allora stava, che non poteva star meglio, e non obbligava ad applicarle la stregua, con cui misuriamo i lavori poetici, che si presentano con mutria e sussiego, quasi incarnassero dio sa quali concetti profondissimi, altissimi, lunghissimi e larghissimi. Deposta l’idea di trovarceli, ed esaminando il _Fausto_ scena per iscena, parlata per parlata, ciascuno squarcio per sè come cosa indipendente e compiuta, come tanti scapricciamenti dello scrittore; noi troviamo qua e là idillî passabili, non brutti brani lirici, discreti epigrammi. Salvo alcune bizzarrie senz’ombra di senso comune (ce ne ha pur troppo e troppe: frall’altre le scene della strega e della tregenda e soprattutto l’intermezzo delle _Nozze d’oro d’Oberone con Titania_) ogni cosa isolatamente andrebbe benino, si potrebbe tollerare: ma l’accozzaglia violenta di parti malconnesse, di suoni e tinte, che stonano, offende, assorda ed accieca. Ed il ricco ammanto stilistico, buttato su queste brutte conformazioni, sì che non giunge a nasconderle all’esame degli occhi, fa proprio l’effetto d’una preziosa veste sugli omeri d’uno scimmione: _Humani qualis simulator simius oris,_ _Quem puer arridens pretioso stamine serum_ _Velavit, nudasque nates ac terga reliquit_ _Ludibrium mensis._ Chi poi s’incuriosasse d’appurare, da quali particolari fatti della vita del Goethe risultasse il _Fausto_, si dia la pena di scartabellarne l’autobiografia e qualche biografia; e se non lo stomaca fin dalle prime pagine la fatuità di lui o la prona ammirazione del biografo, non tarderà a ravvisare ad uno ad uno tutti i personaggi della tragedia. XV. — _La novella del_ Fausto _ed una romanza di Federico Schiller_. Questo modo, in cui s’è formato, o meglio (poichè si tratta d’un prodotto inorganico) cristallizzato il _Fausto_ nella mente del Goethe, ci dà l’intelligenza del come egli potesse confondere ed amalgamare due temi eterogenei: una leggenda epica ed una novella. Per lui non è stata mai incombenza seria lo svolgere il mito faustesco: ha pensato solo a prenderne, a derivarne occasioni più o meno propizie, per isfogare i proprî affetti, per esporre ed estrinsecare mille concetti suoi subjettivi, per isghiribizzarsi insomma. Quindi, ha indugiato di preferenza, non già dove ragion comandava, che il subjetto più largamente si esplicasse, anzi dov’egli più si compiaceva. Così l’asino _ricco e quartato_, che non viaggia mica pel minimo scopo, girovagando pel mondo, non si trattiene ne’ luoghi, dove potrebbe lavorare od imparare di più, anzi là dove una qualunque momentanea capestreria l’arremori. Quindi si spiega, come l’incidentale sia spesso spesso svolto con accuratezza maggiore dell’essenziale; come un episodio possa acquistar proporzioni da rincantucciare il soggetto primitivo in un angoletto della tela. Quindi si capisce, perchè il Goethe non abbia avuto tanto discernimento critico o tanto istinto produttivo, da scernere i due temi d’indole diversa, affacciati contemporaneamente alla sua fantasia, e, per conseguenza, o da ottare fra’ due, come un onorevole eletto in più collegi, o da lavorarli separatamente in due produzioni diverse. E sapete, che ha ottenuto dal congiungere in istrano nodo due composizioni di natura e di caratteri ripugnanti, eh? Il plasmare un mostro letterario, non dissimile da quel mostro teratologico, che furono Rita e Cristina: due testoline da’ pensieri distinti, due corpicciattoli di temperamento differente, collegati eteroclitamente per le spine dorsali, i quali avevano alcune vertebre comuni in siffatta guisa, che dava loro ogni podestà, anzi necessità di nuocersi e nessunissima di giovarsi. La prima parte del _Fausto_, così com’è, si suddivide in due; come la luna, ha due emisferi: uno perpetuamente volto alla terra, l’altro eternamente sottratto alla nostra vista. Dal principio alla scena della strega, prevalgono esclusivamente gl’ingredienti leggendarî, dall’incontro della Margherita sino al fine, e’ si naviga in piena novella. E, quel ch’è peggio, le due metà non sono organicamente congiunte, anzi arbitrariamente saldate; non vediamo prorompere la novella analitica e psicologica, che è il forte de’ moderni, nel bel mezzo dell’ingenuo ed allegorico mondo della leggenda; non acquistar coscienza l’uomo, il quale prima si è creduto aggirato da potenze soprannaturali estrinseche ed ora finalmente riconosce di non aver seguito se non l’indole e le passioni proprie, di avere in sè le sue determinazioni. No, no: il prodotto di quest’unione non è mica la fusione organica de’ due generi, come nel centauro la fusione del tipo umano col cavallino, anzi un impasto informe: _... turpiter atrum_ _Desinet in piscem mulier formosa superne..._ _... donna leggiadra_ _Ne l’aspetto, si strema in atra coda_ _Di sozzo pesce..._ L’aquila che spiccava il volo verso l’Olimpo è impaniata! Una volta arrenato nella novella, per quanto poscia messer Goethe s’arrabattasse e sgobbasse e si sfacchinasse in ben sessantadue anni a sferrare la navicella dello ingegno da quel banco di sabbia, fu indarno. Ma, come c’è banco e banco, così pure c’è novella e novella; arrenare alle foci del Tevere è una bùzzera: alleviato d’un po’ di zavorra, il bastimento si rialza di per sè; incagliare in un banco corallino a mezzo le solitudini del Pacifico, è qualcosa di più serio. Veramente, la novella è siffattamente connaturata, da tenere più o meno del prosaico; essendo solo l’esposizione artistica di un caso, che rompe la monotonia della vita ordinaria e vulgare, e quindi presupponendo la non esistenza d’un mondo poetico, la nessuna poesia dell’epoca e del luogo. Il fatto, da essa registrato, è una oasi, che presuppone il deserto; è la vita organica, che vellica appena la prima buccia dell’immensità inorganica, senza la quale sarebbe un impossibile; è uno sprazzo di luce nella tenebria prosaica. Come se l’universo fosse una di quelle sterminate basiliche, di quelle mostruose cattedrali buje buje nelle ore vespertine, e come se qua e là poche lampade rischiarassero sulle pareti o qualche affresco mezzo obliterato di Ambrogiotto Bondone o qualche bassorilievo mezzo adeguato di Niccolò Pisano. La poesia sparita, almeno agli occhi dello scrittore, dal corpo sociale, dalla vita complessa, si rintana in qualche individuo, in qualche avvenimento. Le forme artistiche e letterarie possono quasi quasi classificarsi come le malattie. Alcune felicitano l’uman genere solo in certe date epoche, sono _epidemiche_, come il signore o la signora Còlera o Colèra (non so come abbia a dirsi, che, grazie al cielo, fra di noi, non s’è giunti ad appurarne nemmanco il genere e la quantità!) Altre imperversano solo in determinate contrade e sono _locali_; come esempligrazia l’avvenente damigella Pellagra, buona ragazza, che, in Italia, non esce mai di casa sua, della pianura lombarda. Vediamo il tal secolo o la tal gente incapaci, incapacissimi di accozzare un dramma od un’epopea. Impossibile ad un poeta ebreo di combinare un’opera drammatica pur che fosse, ancorchè inferiore alle premiate dall’Accademia Pontaniana. Proverbiale, che il francese _non ha testa epica_, nè la _Franciade_ del Viennet (Potentissimo Sovrano, Gran Commendatore, Gran Maestro e Presidente del Supremo Consiglio della Frammassoneria Scozzese antica ed accettata per la Francia e sue dipendenze) smentisce il proverbio. Ma v’ha pure forme letterarie comuni a tutti i tempi, a tutti i luoghi, a tutti i popoli; che _mutatis mutandis, servatis servandis, ommissis ommittendis_, fioriscon sempre e dovunque. Fra queste, principalissima è la novella, genere tanto facile, da crescere, _sit venia verbo_, spontaneamente, come i fiorellini de’ campi inculti, cui la mancanza d’innesto e d’educazione non toglie o riseca gentilezza. Spesso il novelliere non fece se non guardarsi intorno, intinger la penna: _Poi quel che vide ei scrisse_; e, tante volte, dopo che egli si fu scapato ad inventare un bel fatterello, eccolo accader tale e quale e’ l’aveva immaginato: cosa da ammattire! Delle cento novelle del Certaldese, chi nol sa? ve n’ha tante, delle quali può provarsi ed un dabben uomo, il Manni, ha difatti prolissamente tentato di provar di molte, co’ documenti in mano, la positività storica; ma forse non tutti sanno le più ritrovarsi nelle altre letterature, e non solo nelle coeve, anzi pure nelle antichissime, a cominciar dalla sanscrita: o che il medesimo fatto più volte accadesse, o che gli eventi commettessero un plagio verso la poesia. La credula zoologia d’un tempo ritenne le perle stille di rugiada purissima, raccolte in mare da qualche ostrica: or bene, il mare salso e sterile è questa vita umana; le stille di rugiada son quei rari e brevi eventi, che l’addolciscono; l’ostrica è il povero scrittore; e la perla è la novella, ch’egli forma in sè. Avrebbe quindi torto marcio, chi si dolesse di non trovare nella Novella l’idealità, che forma lo incanto di altre forme poetiche, putacaso dello Idillio. Ma c’è un più ed un meno; c’è la novella, che quasi raggiunge e tocca la pura atmosfera poetica, e ci ha quella, che riman fitta nella mota; dalla gentilezza squisita di _Paolo e Virginia_ al cinismo ributtante dell’_Angelo Gabriello_ o della _Pastorella_ del nostro Marini, oh! v’è che ire! E sfido, sì davvero, ad accennarmi fra le più oscene, di cui giustamente insuperbisce la Letteratura Italiana, malgrado le ciance di chi pretenderebbe degradar la poesia ad ancella della morale, sfido ad accennarmi una Novella più schifosamente prosaica di quella, in cui immette e si conchiude la prima parte del _Fausto_ del Goethe. Il protagonista seduce la Ghita non tanto con l’affetto, quanto co’ doni: pensando quell’anima di fango della ragazza, che tutti _corron dietro all’oro, che dall’oro dipende tutto, che la beltà stessa del povero è inutile e si loda mezzo per compassione_ (scena serale nella cameretta della Ghita). Non basta, che Fausto ricorra ad una ruffiana per trovar modo di affiatarsi con la ganza; per cattivarsi la mezzana, commette una falsa testimonianza, cioè uno di quegli atti abjettissimi, che non possono redimersi, se non col proprio sacrificio per degno scopo, come accade nell’episodio di Olindo e Sofronia. Non basta, che la volgarissima Ghita si conduca da sua pari; bisogna di giunta, che avveleni la mamma; e, quel ch’è più, non intenzionalmente, anzi per isbaglio. Non basta, che Fausto disonori Valentino; è d’uopo che l’uccida, giovandosi slealmente delle arti diaboliche, e due persone contr’una. E poi non solo abbandonerà la druda, anzi l’abbandonerà incinta e nella miseria e senza che si capisca perchè; e la derelitta commetterà un infanticidio e la processeranno e l’impiccheranno... Ahimè, dove siamo cascati! Nella novella giudiziaria; anzi nel fatto diverso di cronaca, per servirmi del gergo giornalistico! E tutto ciò non è nemmanco, ultima speranza, non è nemmanco svolto con l’analisi psicologica severa, accurata; che sola può render tollerabili siffatti personaggi e cotali avvenimenti; che somministra tanta virtù d’ossessione alle figure del romanzo moderno, e, richiedendo imperiosamente i comodi dalla forma narrativa e la prolissità dell’orazione sciolta, esclude in modo assoluto que’ fatti e que’ caratteri dalla tragedia, anzi forse in genere ed in massima dalla forma drammatica. Dove siamo? fra gente e condizioni, che, nella vita salda, addimanderemmo svergognati e sozzure; e che, trattandosi d’Arte, ci basterà chiamare roba impoetica, perchè deficienti della motivazione ed esplicazione, che possono ancora destare un certo interesse estetico, ancorchè di bassa lega. Il Goethe, in un suo epigramma, si fa prima rimproverbiare d’aver rappresentato sempre istrioni e zingari e simil gentame, quasi che non conoscesse la buona società; e poi rimbecca la critica, rimpolpetta gli oppositori, rispondendo: — «Ho visto anche troppa buona società; la chiaman buona, appunto perchè non dà il menomo appicco alla menoma poesiucola!» — L’epigramma (caratteristico assai pel Goethe) sproposita, attribuendo al puro tematico vieppiù importanza, che non abbia. Un galantuomo in sè non è certo più, ma non è neppure manco poetico d’un furfante. La Poesia è arte assolutamente spirituale, che ci affranca in tutto e per tutto dalla tirannide della materia: non siamo più nella pittura, dove certamente una rovina incarna il concetto dell’Arte, viemmeglio del più splendido palagio, ed un cencio pidocchioso è incomparabilmente più pittoresco d’una _giamberga_ conforme all’ultimo figurino. Il poetico è nell’intima ragione de’ caratteri e non già nella pura apparenza del personaggio. Rappresentami il boja, se ti pare; ma non me n’hai da darmene le vesti, l’abituro e simili accessorî; anzi l’animo, che si dimostri nell’azione. In che abbiano attinenza col mito faustesco la falsa testimonianza, il matricidio involontario, lo infanticidio, l’alienazion mentale ed il processo, questo subisso di prosa prosaica insomma, lascio giudicare al benevolo lettore o malevolo. A me pare, che valga solo a diradare l’atmosfera poetica, a farci ripiombare dall’olimpo leggendario in galera e ne’ postriboli: _Da tanta altezza in così basso loco._ Eppure, il Goethe era siffattamente innamorato dell’episodio della Ghita; il considerava qualcosa di tanto bello ed indovinato; che nella propria autobiografia (da lui con troppa ingenua sincerità intitolata: _Verità e favola_) si rammarica della facilità giovanile, con cui parlava de’ lavori in corso e se ne consultava con gli amici. Facilità, che gli procacciò il dispetto di vedersi rubàto questo tema e sfruttato da molti, prima ancora della stampa de’ suoi frammenti fausteschi. Oh! fatuità ingenua! Che c’è egli in questo episodio, che non sia triviale, che non possa venir in mente ad ogni fedel minchione? Fra le altre trattazioni, la men cattiva e più nota si è l’_Infanticida_, romanza giovanile di Gian Cristoforo Federico Schiller (ch’era di due lustri appunto minore del Goethe); cui nessun ingrediente, ch’è nella prima parte del _Fausto_, manca, tranne Mefistofele; e, non rappresentando Mefistofele nulla nulla nell’episodio della Margherita, ch’è po’ poi tutta la prima parte del _Fausto_, non per questo vi manca cosa alcuna. Ma la forma di romanza è viemmaggiormente acconcia alla natura del subjetto, dando campo di concentrar tutta la luce e l’attenzione sul voluto momento poetico e facoltà di rincalzar nell’ombra i prosaici; facendo del componimento uno sfogo lirico (ciò, che il Byron chiamò poscia _monodia_) della rea nell’ascendere il patibolo. Chi non iscorge quanto una simile posizione è favorevole alla poesia, la quale ama di evocare, come una successione di lampi sempre più sfolgoreggianti, mille immagini del passato, acciò meglio si vegga la tenebria del vedovo presente? Cui non sovviene immediatamente lo strazio, che, da una posizione consimile, ha saputo distillare Giacomo Leopardi nelle sue _Ricordanze_? Chi non rammenta il soliloquio del Conte di Carmagnola, incarcerato e presso a morte? non è se non un seguito di esclamazioni, ma ogni esclamazione evoca un fantasma ed uno strazio. Se non che l’_Infanticida_, scritta con l’enfasi rettorica e la smania d’effetto, che lo Schiller non seppe o non volle ismetter mai e che gli fanno scambiare il frastuono col vero, l’idropico col pingue, i tropi e le figure (veste) col sentimento (corpo), non giunge (come fanno stupendamente il Leopardi ed il Manzoni, ch’eran ben altre paste di poeti) ad incarnare un’immagine ben contornata e viva; anzi si perde in un linguaggio vago, incerto, che nulla poteva rappresentarmi allo scrittore e nulla dice al lettore. Udite un po’, come la Luisa ricorda i suoi tempi giovanili! — «Addio, sogni tessuti di oro, figli del paradiso, fantasie! Ahi! che morirono nel bocciuolo, senza poter mai fiorire alla luce! Mi copriva l’abito di cigno dell’innocenza, leggiadramente adorno di rosei nastri,» — eccetera. Questo è linguaggio idropico, che mi cuopre il vuoto. I sogni non sono prodotto botanico, del quale si abbiano a raccontar le vicissitudini; l’innocenza non è una sartina, della quale vogli descrivermi gli abiti! Anzi e quelli e questi sono stati contenuto della vita della Luisa, ed innanzi alla fantasia di lei dovrebbero non presentarsi nell’indeterminato del nome generico, bensì nella ricchezza del fatto speciale; come il _dato_ sogno, come la _data_ azione, in cui si esternava l’innocenza! Il reato è scoverto, la giustizia accorre: — «Il bargello picchiava orribilmente, e più orribilmente il mio cuore; lieta, io mi affretto a spegnere le fiamme del mio dolore nella fredda morte.» — Freddure e concettini invece di sentimento. Da ultimo si accorge di aver commosso ad inutil pietà gli astanti e finanche il boja. Qui dovrebbe balenarle la speranza momentanea della salute, tosto dolorosamente rintuzzata e strozzata dall’irremovibile realtà; ma invece essa dice: — «Lacrime, lacrime nello sguardo del carnefice? Bendatemi tosto gli occhi. Manigoldo, non sai tu spezzare un giglio! pallido manigoldo, non tremare.» — E quest’ultimo tratto bellissimo davvero, o perchè deve essere neutralizzato dalla ridicolaggine di quel pretensioso paragonarsi al giglio; che non fu del resto mai simbolo delle sgualdrinelle? Lo Schiller, come poeta lirico, è poco al disopra del nostro Parzanese; e, come poeta drammatico, rimane inferiore al Niccolini... Ma noi Italiani, passato il primo momento d’_engoûment_, siamo giusti estimatori del merito de’ nostri e non faremo certo mai per Bista Niccolini tutte le pulcinellate, che i tedeschi han fatte per lo Schiller. Gli è pur vero, che abbiamo di meglio del Niccolini e gli alemanni non hanno nulla di superiore allo Schiller. XVI. — _Incertezze._ Le menti grandi si limitano, le limitate si gonfiano; ma _chi troppo abbraccia nulla stringe_. Il Goethe, come non ha saputo scegliere fra leggenda, epopea e novella, (anzi, volendo conservarle tutte, ha soffocate le tre teste di questa tragedia-cerbero, a mo’ di chi per voler far allevar tutti i micini alla su’ povera gatta li facesse morir di fame _en bloc_;) così pure non gli diè il cuore di sacrificare un solo di mille concetti, che poteva incarnare nel suo lavoro. Ognuno è stato ammesso ad inspirare un verso, una parlata, una scena, un avvenimento, secondo che una impressione od un affetto qualunque il suscitava; quindi appicco agli scoliasti per vederci quanto loro aggrada e ragion per noi di dire: _dov’è tutto, non è nulla._ Malgrado l’affezione, con cui il Goethe ha lavorato e rilavorato per anni ed anni i frammenti del _Fausto_, aggiungendone sempre di nuovi, non sembra prender tanto sul serio il lavoro, che non gli venga arcispesso il ghiribizzo di contemplarlo ironicamente, di satireggiarlo e parodiarlo. Ora, non c’è che ridire sul suo pieno, pienissimo diritto, di foggiare, come più gli andasse a sangue, il mito popolare; di ritrattarlo a suo piacimento; d’imporgli insomma lo stampo, che meglio a lui gradisse. Al poeta non è ristretta in modo alcuno la facoltà di concepire a suo beneplacito. Ma sapete perchè? Perchè non è nel suo arbitrio il far nulla d’arbitrario, anzi, se egli è poeta, non può concepire senza conformarsi alle necessità psicologiche e storiche. Assoluta libertà significa assoluta servitù, giacchè vuol dire essere soggetto, soggiacere piena ed esclusivamente alle determinazioni intrinseche, ciò sono le più necessarie e fatali. Ora, messer Goethe avea piena facoltà di scegliere fra ciò, che chiamerei il metodo umido, e ciò, che potrebbe dirsi il metodo secco della letteratura, fra ’l pianto ed il riso, fra ’l tragico e l’umoristico; nulla ostava a che trattasse quell’argomento, che riassume in sè tutti i miti stregoneschi, come appunto Michele di Cervantes-Saavedra ed assai meglio e prima Ludovico Ariosto, avevano bistrattato il ciclo cavalleresco; o farne la caricatura esterna o svolgerne l’interna ironia. Poteva anche prenderlo sul serio (perchè no, gua’? c’è gente, che prende sul serio roba anche più bislacca!) e rinsanguinare la forma vuota oramai, riversandovi un concetto nuovo. Ma quel, che non potea far lui, che nessun poeta al mondo potrebbe mai fare, implicando inconcettosità, _id est_ mancanza d’un concetto definito, (ch’è in poesia quel medesimo, che la sprincipiatezza sarebbe in morale); quel che non era in poter del Goethe di fare, gli era appunto quel, ch’egli ha preteso fare: l’oscillare fral sublime ed il comico, fral tragico e l’umoristico, fra lo spiritoso e l’appassionato, fral buffonesco ed il dignitoso; e pretendere, che il lettore s’immedesimi talmente, non con l’andamento dell’opera, anzi con la capestreria dello scrittore, da seguirlo compiacentemente in tutte le disposizioni d’animo, in cui gli piace ingolfarsi per sue ragioni subjettive, che non c’entrano con le necessità e le determinazioni dello scritto. Ora, in Arte, il capriccio è inammessibile; ed ecco forse perchè le donne non sanno concludervi mai null’altro se non che fiaschi, per quanto la generosità virile le degni talora di plauso. Adottato un modo di vedere per un lavoro qualunque, il modo di trattare ne deriva con ferrea necessità: l’umore stesso, l’umore, scherzo supremo e sovrano con ogni objetto, sbrigliato è soltanto in apparenza; in fatto, ha norme invalicabili, nè può mai sconfinare da quel conflitto interno, da quella contraddizione sentita fra la forma tiranna e l’idea rubella, che ne costituiscono il fondo. (_Sconfinare da un conflitto_! Che frase! Non dirò _Intendami chi può che m’intend’io_; perchè so, che il lettore m’ha capito. Nè d’altro ho cura). Ma che? se _il prologo celeste_ del _Fausto_ mi fa supporre un’opera ironica, volto poi la facciata ed incontro l’arcisublime (almanco nell’intenzione) monologo del protagonista. A quale impressione dovrò confidarmi? a nessuna delle due: aspetterò, che una altra scena m’illumini sul carattere del lavoro. Ed avrò un bell’aspettare, si! _Sperando meglio, si divien veglio_, dice l’adagio toscano. Durante l’intero dramma, osserviamo un parallelismo incessante del sublime col comico: stanno lì eretti, l’uno a fronte dell’altro, l’uno accanto all’altro, ignorandosi e distruggendosi a vicenda, nello stess’atto, nella stessa scena, spesso nella parlata medesima, nel periodo medesimo, e presso ch’io non dissi nel vocabolo medesimo: non c’è mediazione fra’ due termini, non c’è soluzione del contrasto crudissimo. L’onesto lettore non sa dove sbatter col capo, vedendo le scene dileggiar le scene, le parlate caricatureggiar le parlate, ed i personaggi fare perpetuamente le fiche ai personaggi; e rimane sbalordito, infraddue, senza sapere, se abbia da sciogliersi in lacrime o da smammarsi di risa. Mi rammento una serata, che io trascorsi non ha guari in campagna. Avevo pranzato non malaccio, e tutte le mie facoltà fisiche ed intellettuali erano assorbite dalle funzioni digestive. Mi trovava in uno di que’ momenti d’apatia somma, ne’ quali proprio l’uomo è materia inerte, non ha più sentimenti, non ha più pensieri suoi; in cui la mente sonnecchia, e le fibre si lasciano animalescamente andare. Dice il proverbio: _uomo solitario o bestia o angelo..._ (Nota, lettore, che l’angelo e la bestia hanno di comune la loro inferiorità estetica rispetto all’uomo; anzi l’angelo, poeticamente, artisticamente, è al di sotto assai della bestia; perchè questa possiede l’istinto almeno e l’individualità; mentre il signor angelo è pura neutralità, acqua fresca mera, carta bianca e non ha personalità). Dunque, ripeto, o bestia od angelo, ch’io mi fossi in quel punto, appartato dagli amici, percoreva su e giù al bujo una filza di stanze. In fondo, v’era una finestra, che affacciava sur un piazzale; e di lì sentivo risa lietissime ed il tintinnio d’un cembalo ed il tripudio d’una tarantella prolungata. Dirimpetto, si usciva sur una loggia; e di lì potevo ascoltar le grida disperate, che venivano da una casupola poco discosta, d’una madre, che frai singhiozzi ed il pianto, malgrado le vane ciance delle vicine, sclamava ogni tratto: — «Povera Carmela mia! povera Carmela!» — Se avessi sentito solo le risa od il pianto, l’impressione mi avrebbe trascinato ad un corso di pensieri o mestissimi o giulivi; ma così giungevano semplicemente a neutralizzarsi nell’animo ed a lasciarlo immerso nell’apatia poltrona digestiva _ut supra_. Appunto così rimane il lettore del _Fausto_; manca il tono generale, difetta il sentimento dominante. Non c’è scampo, mi bisogna ripeterlo tautologicamente su tutti i toni, a rischio di diventare importuno. Povero lettor mio, scusami; io mi raccomando all’indulgenza tua con le parole, che Piero, nel _Convitato di pietra_ del Molière, dice alla sua Carlottina in francese contadinesco: _Je te dis toujou la même chose, par ce que c’est toujou la même chose; et si ce n’était pas toujou la même chose, je ne te dirais pas toujou la même chose._ Subito dopo che Fausto ha evocato il demonio, ecco Mefistofele, evocando il Re de’ ratti, far la parodia della propria precedente incantazione. Nella scena del giardino, le conversazioni buffonesche di Mefistofele e della Marta, tramezzando i ragionari amorosamente idillici del protagonista, e della Margherita, li rendono burleschi: il poeta, intendendo augumentar l’effetto colla contrapposizione, non si avvide, che, ravvicinato il sentimentalismo dell’una coppia alla comica brutalità dell’altra, il momento più forte ed intenso dovea necessariamente distruggere ed assorbire il più fiacco. Il riso è un acido corrosivo, che non lascia intatto nulla, che tutto intacca: la negazione è da più della semplice affermazione. Così pure il Wagner ecclissa ed annulla Fausto. Così la scena dell’abbindolamento dello studente è il punto culminante della metà leggendaria della prima parte. Così, per finirla, Fausto e Mefistofele sono solo due semicaratteri, di qua tutto il sublime, di là tutto il comico, che si trovano composti e combinati normalmente nella stessa persona bella o poetica, ma che qui stanno disgiunti in due personaggi, rimasi imperfetti, invece di fondersi a monade in personalità viva ed intera. XVII. — _Disocchiatezza e la scena della maliarda._ Questo _infraddue_, quest’oscillare del poeta, questa indeterminatezza del sentimento, quando gli fa trascorrer dinanzi inavvertiti i più be’ momenti originali offerti dal tema, quando il costringe a strozzarli e gl’impedisce di svolgerli, inforsandolo sul da fare. Ne prendo ad esempio gli amori di Fausto con l’Elena greca; amori, che formano la parte più suscettiva di un concettoso svolgimento poetico nell’antico libercolo. Due volte vi si parla dell’Elena greca: la prima, si racconta come Fausto l’evocasse, innanzi agli attoniti studenti, ragunati per cenare a lira e soldo in casa sua, e come tutti ne rimanessero talmente accesi, da non poter chiudere occhio nella nottata; la seconda, come Fausto ne facesse la propria concubina e l’ingravidasse, con quel che segue. Esclusa dal primo lavoro del Goethe intorno a Fausto, e rilegata nella seconda parte, quell’avventura, che avrebbe dovuto essere l’essenziale, anzi il fondamento dell’opera, è trasformata in un assurdo (in un _fuori del tempo_, come Vittorio Hugo intitola un suo canto, che differisce ben poco da un _fuori d’opera_;) diventa, come avemmo a dire, episodio inconcludente, senza scopo nell’economia totale dell’opera, senza influsso determinato sulla sua enucleazione. Per amor di brevità mi diffonderò solo sopra un altro esempio oltre a questo. Dopo la scena della cantina, stomachevolmente sciocca (mi servo de’ termini adatti e proprî, e, come diceva il Boleo, _J’appelle chat un chat et Rolet un fripon_), nella scena della cucina stregonica, nauseosamente insulsa; nel bel mezzo d’un oceano di inconcludenza, salutiamo ad un tratto un concetto sublime con più frenesia, che non ingombrò le zucche de’ compagni di Cristoforo Colombo, quando poteron gridare _terra, terra!_ o le menti de’ compagni del greco Senofonte, quando poteron gridare _mare, mare!_ Fausto è un vecchio, che, per godere il mondo, la vita, da lui trascurati in gioventù fra _carcami di bestie ed ossa di morti, fra’ mucchi di libri polverosi e tarlati_, si fa ringiovanire per virtù d’incantesimi. Al lettore s’apre issofatto una ridente prospettiva di poesia, come al nobiluomo svedese, di cui nel _Romito del Cenisio_, si scopre il _sorriso dell’Italica pianura_. Egli tripudia al pensiero di farla finita con le astruserie, di far punto e basta con le conversazioni inconcludenti e di vedersi balzar viva rimpetto un’azione; e gli scappa di bocca, come al pubblico napoletano, quando, alla prima recita del _Carmagnola_, vide, in una delle ultime scene del quinto atto, due femmine sul palcoscenico, un ingenuo: _finalmente!_ Mi par di vederlo, quel dabben lettore, sdraiato sulla poltrona a dondolo, cavarsi di bocca il sigaro, che fin allora avea masticacchiato dispettosamente anzichè fumato; di vederlo trarselo di bocca e scuoter col mignolo la cenere nella sputacchiera e fantasticare fra sè e sè. Ascoltiamolo, quand’anche dovessimo meritarci la taccia d’indiscreti: — «Oh cattera, ci siamo! diceva ben io: non si può, non può scroccarsi di pianta una riputazion colossale, gigantesca, piramidale, come quella del Goethe! Bravo il mio Goethe! Comincio a comprenderti, t’indovino! Ora, i dubbî di Fausto cesseranno di presentarsi quale puro sfogo declamatorio, anzi si realizzano, si effettivano, si concretano in una situazione. Mo’ sì, che Fausto simboleggerà davvero e da senno l’uomo moderno! e questo naturalmente, impremeditatamente, come semplice risultato dell’opera. Falcia, falcia il mio Goethe; qui c’è messe impareggiabile di poesia. Tocchiamo la terra ferma d’un subjetto concreto: gli amori d’un vecchiardo ringiovanito dagl’incantesimi; la senilità sconsolata del pensiero ammogliata alla gioventù corporale; il sozzo necromante, che ammalia e contamina la vergine innocente. Bell’intreccio! il quale mi rappresenta in modo stupendo la cognizione prematura d’ogni cosa, che ci cosperge d’amaro e di disgusto ogni gaudio, ogni momento della vita, spoetizzandoli sempre anticipatamente, non lasciando campo ad alcun inaspettato, ad alcuna lusinga, ad alcuna speranza, ad alcuna illusione, ad alcun errore, escludendo la _dolce e timida asinità giovanile_, come dice lo Heine.... e la felicità di meravigliarsi e stupire. Dura scienza, cognizione fatale, che in ogni voluttà ci lascia provar solo una reminiscenza di quanto sappiamo altri aver provato! Fausto diventa voi, me, noi tutti, stanchi come la Messalina giovenalesca prima d’esser sazi; che dico! prima di aver fatto checchessia, che possa stancarci! pe’ quali le passioni, pregustate con la cognizione, non han più soavità; simili all’artista, che per aver troppo minutamente vagheggiate ed ultimate con la fantasia le sue creazioni, allorchè finalmente impugna lo scalpello od abbranca il pennello, è già nauseato dell’opera, non ha più che aggiungerci. Noi aspettiamo impazienti dall’infanzia il promesso destarsi de’ sensi nella pubertà; e c’informiamo così minutamente quanto e quale avrà da essere, che, giunto, non ha più la verginità d’impressione, la quale principalmente gli avrebbe attribuita dolcezza, nè può fruttarci se non disinganni. Non facciamo un giuramento d’affetto, senza presentire, presapere, che il violeremo; non desideriamo una donna, senza prevedere, che ci disgusterà. Le passioni hanno perduta ogni spontaneità: ci sentiamo precondannati a far della vita un’esercitazion rettorica, a ricalcare le orme de’ predecessori, a rifare e riprovare quanto altri han fatto e provato meglio assai di noi, perchè ingenuamente, senza modelli e maestri. Ed i men persuasi dell’autenticità della Bibbia, rimangon compresi dalla verità d’alcune parole dell’Ecclesiaste: _Quid est quod fuit? ipsum quod futurum est. Quid est quod faciendum est? ipsum quod factum est. Nihil sub sole novum, nec valet quisquam dicere: «Hoc recens est». Iam enim praecessit in saeculis quae fuerunt ante nos._ Magnifica occasione questa, che s’offre al Goethe, di darci perfetta la figura, onde il Renato dello Chateaubriand è abbozzo informe; e di darcela, rinsanguinando le forme mitologiche cristiane. E dal contrasto fra la gioventù e la vecchiezza nel medesimo petto, si ha da svolgere ogni parte della tragedia, e risulterà la catastrofe. Bravo il mio Goethe! evviva! grand’uomo!» — Piano, ingenuo il mio lettore, non far conti senza l’oste, prego. Non applaudire il Goethe pel pensiero, che tu gli supponi e ch’egli, ahimè! non ebbe. Non condurti come que’ buoni Italiani del quarantotto, che stimarono Pio IX riformatore e liberale per certe idee, che al povero Papa non vennero in capo mai. Le leggerezze son brutta cosa; e noi non possediamo, come que’ tedeschi, una tal riputazione di serietà, da permetterci di perpetrarne impunemente senza discapito. Il Goethe poteva fare, quel che tu dì’, certo: ma non l’ha fatto. Poteva far anche altrimenti, e vo’ dirti in che modo, io; come avrebber fatto forse Aristofane d’Atene o qualcuno de’ troppo negletti nostri secentisti svolgendo ed incarnando il concetto, espresso nell’ultimo distico della scena dell’incantesimo: _Quel licor, ch’hai nel corpo, ti fa scorgere_ _Elena greca in qualsivoglia femmina_²³. ²³ _Du siehst, mit diesem Tranke in Leibe,_ _Bald Helenen in jedem Weibe._ Figurati Fausto, il grande, il dottissimo, l’arciscettico Fausto non pure innamorato di _non so che Gentucca_, (giacchè in fatto di volgarità, la Ghita lascia poco o nulla a desiderare) anzi Fausto inteso a venerare qualche decrepita sbilenca meretrice come le colonne di Ercole e del buono e del bello. A che prostituisce la sua scienza impareggiata? a giustificare con sofismi l’error suo. A che degrada la necromanzia e l’ajuto diabolico? ad obbligar cielo e terra a porsi in ginocchio dinanzi a quell’idolo abjettissimo; a soddisfarne i capricci dissennati: _Un cotal matto intrabescato, in aria,_ _Puffete! e luna e sole ed ogni stella_ _Scoppiar faria, per divertir la bella_²⁴. ²⁴ _So ein verliebter Thor verpufft_ _Euch Sonne, Mond und Sterne,_ _Zum Zeitvertreib dem Liebchen in die Luft._ In questa crociata per imporre al mondo il proprio errore, come l’Occidente medievale pretendeva imporgli le sue superstizioni, in questo conflitto, debbe fiaccarsi e succombere. Una situazione consimile è accennata da Guglielmo Shakespeare, quando, per virtù di succhi d’erbe, fa innamorare la Titania, Regina de’ Genî, del rozzo tessitore Bossom, che di giunta uno spiritello maliziosetto ha _tradotto_, come gli gridano i compagni, trasformandogli il capo in una testa d’asino: ch’è presso a poco il modo di tradurre adoperato da’ traduttori Italiani, ch’io conosco, col _Fausto_. Lo stesso Aristofane non avrebbe avuto nulla di più selvaggiamente derisorio: lo stesso Molière, nell’_Ammalato immaginario_ e nel _Borghese Gentiluomo_, non avrebbe tanto velenosamente sbuffoneggiate le traveggole umane. O la favola veramente acconcia a simboleggiare l’idolatria secolare del nostro uman genere per altre favole, portati dell’idealismo medievale, con tutte le loro parti brutte e laide e sconce; che destarono il cachinno sarcastico del Rabelais e del Machiavelli, quando esso uman genere, che stimava stringere al seno i pomi de’ giardini esperî, si accorse _De presser tendrement un navet sur son coeur!_ Il Goethe non era forse incapace di accogliere simili concetti, per dir così, titanici; e ne fan fede, per tacer d’altro, le poche scene frammentarie intitolate _Satiro_, ben degne che qualche gran mente vi fiuti l’argomento d’un’opera colossale: ma la sua naturaccia molle e mutevole, quasi meretricia, (e questa sua conscia femminilità spiega, come al dio biblico virile del _Prologo celeste_ surrogasse un _eterno muliebre_ in fine alla seconda parte) non era atta a covarli con la costanza e l’esclusività, che solo potevano condurle a buon porto. E neppure nel _Satiro_, del resto, fu originale; giacchè l’argomento è preso dal _Fauno, finto dio_, favola boschereccia d’Illuminato Perazzoli da Imola (_Bologna_ M. DC. IV) e da’ _Falsi dei_, favola pastorale _piacevolissima_ di Ercole Cimilotti, Estuante, accademico inquieto, dove Graziano, Pantalone, Burattino e Zani vengon presi per dei dagli abitanti di Arcadia. XVIII. — _Intervento diabolico._ Altro e maggior documento della leggerezza, della superficialità, dell’inconsistenza messa in questo lavoro, si è la parte, che vi rappresentano il diavolo e le streghe. I poeti hanno la nomea di taumaturghi, e sono anch’io qui per attestare miracoli di più d’uno, il quale mi ha fatto piovere _... amare lacrime dal viso_ _Con un vento angoscioso di sospiri,_ miracoli certo un pochetto men dubbî del vescovile, attestato da Gian Giacomo Rousseau, quando stava con la Warens; e del quale, giurerei, Monsignor Tipaldi non avrebbe tentato di far la seconda edizione, a proposito dell’incendio vuoi della Vicaria, vuoi dell’Arsenale. Ma, taumaturgheggi pur lo scrittore a sua posta, non gli riuscirà mai di far prendere sul serio agli uditori ed a’ lettori, quanto difetta necessariamente di serietà intrinseca per esso lui. Ora, nel _Fausto_ del Goethe, l’intervento diabolico non ha la benchè menoma ragion d’essere; in tutto il poema, niente accade, che il dimostri utile o necessario o concludente; è superfetazione mera; contatto infecondo, dal quale nulla può derivar di vivo, come dagli amplessi della lussuriosa figliuola di Cesare Augusto, che gli anneddotisti ci assicurano essersi più che mai sfrenatamente abbandonata agli amanti nel tempo delle gravidanze. Nel mito popolare, e’ si trattava di compier cose più che impossibili ad ogni umana virtù: trasvolare, con la rapidità del pensiero, interminati spazî; prevedere e predire _quid sit futurum cras_; soprattutto poi sforzare le cancella di Dite, _irremeabilis unda_, ed amare e godere Elena greco-trojano-egiziaca, (_trojana_ soprattutto!) polvere ed ombra da trenta secoli; quindi ben si comprende, che, per soddisfare una potenza di desiderio, impaziente d’ogni limitazione antropologica, inappagabile ne’ confini d’una contrada o d’un’epoca determinata, gli escogitatori della favola ricorressero ad inficcarci Mefistofele, _ut tragici poetae confugiunt ad deum, quum explicare argumenti exitum non possunt_. Anzi in esso mito l’intervento soprannaturale, (che la critica del settecento, gallicizzando, chiamava: _macchina_), è motore primo e precipuo, scopo ultimo ed essenziale, principio e fine, succo e sangue del lavoro. Ma gli amori di Fausto e della Ghita, che po’ poi son tutta la prima parte del _Fausto_, chi vorrà stimarli qualcos’altro di una volgarissima avventura umana, di quelle, che quotidianamente intervengono, in cui il più dappoco fra nojaltri si fiderebbe di protagonisteggiare a dovere, senza bisogno che un principe infernale gli tenga il candeliere, purchè sapesse sbrigarsi degli scrupoli? certe cose piacciono più a vedersele in due, a quattr’occhi, fra te e me; ed un giovane fanatico ed una sempliciotta innamorata o pronta a vendersi non han bisogno che si scomodi Lucifero per metterli su. Togli Mefistofele di mezzo; affededdio, che tutto camminerebbe egualmente bene. E non c’è che dire, lo scrittore stesso ne ha piena coscienza, quando imbocca a Fausto que’ tre versi: _Ah, se di requie io sol m’avessi un’otta!_ _Del diavolo davver non saria d’uopo_ _A raggirar cotesta sempliciotta_²⁵. ²⁵ _Hätt’ ich nur sieben Stunden Ruh’_ _Brauchte den Teufel nicht dazu_ _So ein Geschöpfchen zu verführen._ O che altro fa egli, questo tizzon d’inferno messo in iscena con tanto fracasso, che altro fa egli di necessario all’azione, se non procacciar giojelli, abboccarsi con una ruffianaccia e preparar cavalli per la fuga? Ogni Figaro, ogni cameriere, ogni mozzo di stalla sarebbe da tanto. Per sì poco non si scomodano quegli angioli rubelli. Quanto al tempo abbreviato, può aver luogo solo mediante un imperfetto svolgimento psicologico. E poi! Il Fausto mitico è cristiano: patteggia col diavolo, perchè cerca un alleato contro quel dio personale e tirannico, che Pier Giuseppe Proudhon (un suo discendente, m’immagino) stimava di aver irrefutabilmente dimostrato sinonimo del male; e’ crede nell’esistenza del diavolo e ne paventa il potere, e dio è per lui qualcosa d’effettivo, una persona viva, che egli odia, appunto come solo può odiarsi una persona ed un vivo. Ma un dottor Fausto scettico, anzi panteista (non si giunge ad appurare, ad assodare, a chiarire, che diamine sia; ora ti par questo, ora ti par quello!) un dottor Fausto, il quale si dà a quel diavolo, in cui non crede, rinnegando quel dio, che per lui è un _flatus vocis_,..... caspita! io non so due parole per indicare un’idea: è un bell’assurdo, anzi un brutt’assurdo. Il suo apostatare è una semplice simulazione di apostasia, giacchè rinnega iddio, ch’egli nega, per darsi al diavolo, cui logicamente non può credere, se discrede in dio. Dal momento che riconosce a pruova l’esistenza del diavolo, gli deve esser dimostra quella di dio, ed allora come può rimaner ateo? Insomma la sua apostasia è qualcosa di prosaico, di schifoso, come quella di certa gente, sapete, la quale, con nuova speculazione, si fa protestante in Italia nostra, _incredibile dictu!_ quasi che le burattinate del protestantesimo potessero allignare in una chiara mente Italiana ed abbarbagliarla! quasi che un Italiano potesse di buona fede rinnegar la religione cattolica per un’altra! E prima di tutto, vi rammenterò una bella parola di quel celebre Pietro Paolo Royer-Collard, che Don Ferrante, vivendo ai nostri dì, chiamerebbe senza dubbio come Giovanni Bottero: _galantuomo sì, ma acuto_. Eccola: _On ne divise pas l’homme, on ne fait pas au scepticisme sa part; dès qu’il a pénetré dans l’entendement, il l’envahit tout entier._ Comprendo, che un uomo creda la ragione impotente a scoprire il vero, e si sobarchi ad un’autorità, e s’inchini a tutta l’impalcatura dommatica della Chiesa Romana. Comprendo del pari, che uno creda nella virtù della mente umana, ed allora rifiuti ogni forma di cristianesimi. Quel che umilmente confesso di non comprendere, è il venire a patti del raziocinio e della fede, è una ragione, che ammetta qualcosa d’indimostrabile; è una tiepida fede, che accetta dieci dommi e repudia l’undecimo. O dentro o fuori, non c’è via di mezzo: _En présence du ciel il faut croire ou nier._ Il protestantesimo storpia ed inrachitichisce l’intellettiva: l’Italiano, che si sfranca della chiesa cattolica, non può credere in altra religione, anzi va difilato a prostrarsi agli altari negativi di San Razionalismo. Perchè? perchè non è nell’arbitrio nostro il creder quel, che ne pare, anzi l’individuo può solo digerir diversamente le credenze, le quali alimentano le facoltà morali dell’organismo nazionale, in cui rappresenta una cellula. Ora, il cattolicismo è prodotto Italiano, è manifattura nostra; è il velluto in cui abbiamo trasformato l’organzino giudaico; è l’oro in cui tramutammo alchimisticamente il piombo delle dottrine neoplatoniche miste di caldaismo; in esso è trasfuso gran parte del nostro antichissimo politeismo; e quindi ha profonde radici nella coscienza nazionale, contiene il concetto di dio, della religione, quali emergono storicamente dal nostro enucleamento religioso ed intellettuale. Ma tutte le sette protestanti son per noi qualcosa d’immediato, di estraneo al carattere, alla coscienza popolare; e quindi è un bell’impossibile che abbian presa sugl’individui. Ohimè, ch’io m’accorgo di aver nuovamente digredito! Il fatto è fatto; ma, credetemi, stavolta, non l’ho proprio fatto apposta e prometto di non farlo più. E, tornando a quanto dicevamo a proposito dell’essersi il Goethe discostato dal mito, trasformando il suo Fausto in uno scettico, soggiungeremo, che, in tale caso, v’era pur sempre modo da cavarne partito, ma non più ingenuamente. Bisognava rappresentarmelo volteriano, incredulo, pirronico, in mezzo alle più scompigliate taumaturgie diaboliche e celesti, occupato a discuterle ed a sofisticamente spiegarle co’ mezzi semplici della natura; a provare al demonio, che sel porta via, che esso è una _vanità, che par persona_; all’inferno, che lo abbrucia, ch’esso non esiste e che quelle fiamme sono mera illusione; al Sabaot, che il percuote e castiga, ch’esso è un _nome vano, senza subjetto_. Bisognava insomma esplicare in Fausto il carattere, appena accennato nel _Proctofantasmista_ della tregenda. XIX. — _I caratteri de’ protagonisti._ Il Fausto mitico è davvero insaziabile e non sai se più di passioni o di godimenti. Non lascia intentato alcun Regno del pensiero, alcun angolo della natura; anzi fruga, fruga dovunque e schianta da ogni albero scienza e voluttà, nè si appaga, se non dopo averne tocco l’apice in grembo alla sua famigliuola storica. Fausto è lo scienziato del rinascimento, che nega l’enciclopedia dommatica dell’epoca, e tenta di costituirne un’altra; però, potendosi con l’empirismo asseguir bensì cognizioni staccate, ma non già far corpo di scienza, Fausto rimane inappagato. Ecco perchè chiama il diavolo; e, condannato a creder solo _fatti_, vuole almanco verificarli tutti ad uno ad uno co’ sensi proprî. Quindi le arti necromantiche, i viaggi per questo e per quell’altro mondo, _... monde étrange, absurde, inhabitable,_ _Et qui, pour valoir mieux que le seul véritable,_ _N’a pas même un instant eu besoin d’exister;_ quindi le vaticinazioni, l’evocazioni, le fantasmagorie; quindi quel fare assumere al succubo la forma d’ogni bella, ch’ei pensa. L’insaziabilità non rimane parola vuota, anzi s’incarna in un seguito d’azioni, costituisce il carattere. Ed il Fausto del Goethe? Ben so, che mi si possono citare versi a centinaja ed in parte bellissimi, ne’ quali si ragiona di scontento, d’irrequietezza, d’inappagabilità; ma le ciance son ciance, veniamo a’ fatti. Ahimè, non corrispondono! Vittorio Alfieri dice aureamente sul carattere della Clitennestra nell’Oreste suo, che doveva essere: _Or madre, or moglie, e non mai moglie o madre_; dice aureamente, la cosa esser più facile ad esprimersi in un verso, che a rappresentarsi per cinque atti. So quel, che volete dire; vi s’affaccia sulle labbra il giudizio, che Mefistofele fa di Fausto: _... Gli diè la sorte irrefrenabil mente,_ _Che ognor trascorre, e troppo impazïente_ _Di questo mondo un sol piacer non gode_²⁶: ²⁶ _Ihm hat das Schicksal einen Geist gegeben,_ _Der ungebändigt immer vorwärts dringt;_ _Und dessen übereiltes Streben_ _Der Erde Freuden überspringt._ e quanto soggiunge altrove: _... Nè gioja il sazia, nè ventura appaga_ _Per mutabili forme egli arde ognora_²⁷. ²⁷ _Seconda parte, in fine:_ _Ihn sättigt keine Lust, ihm gnügt kein Glück,_ _So bühlt er fort nach wechselnden Gestalten._ So quel, che volete dire: vi sovviene la parlata di Fausto nel sottoscrivere il patto: _Acchetiamo le ardenti passioni negli abissi della sensualità: ogni portento sia pronto in impenetrabile veste necromantica. Immergiamoci ne’ vortici del tempo, nell’incalzare degli avvenimenti: e dolore e godimento, trionfo e noja si avvicendino celeremente._ Ma in quali fatti, in quali azioni si esplicano, s’incarnano queste rotonde parole? Sono un programma da deputato della sinistra, che gracchia su tutti i toni: _abbasso i consorti, onestà, disinteresse_; e poi? poi va al Parlamento per vendere il suo voto o le assenze od il silenzio, per isbrigar faccende avvocatescamente, per carpire impieghi e ricevitorie, non già per l’incorruttibile signoria sua, ohibò! anzi solo per una sesquiserqua di parenti prossimi o remoti; per ottenere un titolo buffonesco di conte, mentre repubblicaneggia... I democratici son ghiotti di titoli, oh assai! e quando manca loro una baronia legittima, ne usurpano persino da bravi qualcuna più o meno spuria, come vediamo farsi dall’autopseudo barone Nicotera. Se avesse operato a dovere Fausto, ed io allora senza il programma mi sarei accorto ben io come stavano le cose. L’assenza di misura e di scopo, la impazienza d’afferrar qualcosa a volo, il compiacersi ad intingere il muso in ogni salsa, conveniva rappresentare e raffigurarmi il tumulto della vita sociale per tuffarvi entro Fausto; il quasi aveva condursi davvero, come se il suo programma di vita fosse questo: Stender convien la destra ad ogni frutto, Abituarsi a qualsivoglia affetto; Gustare in questo mondo un po’ di tutto Pisciando in molte nevi e in più d’un letto; Al caldo, al freddo, alla letizia, al lutto, Al bene, al male, assuefarsi il petto, Ne’ rapidi momenti tra la culla E ’l cataletto. Ed appagarsi? In nulla. Ecco! Ma niente affatto: il Fausto del Goethe è la più contentabil persona, che immaginar si possa, vera figura comica. Gli è un bimbo, irrequieto finchè l’incateni allo scrittojo, ma che, come gli viene fatta licenza d’alzarsi dallo studio, trova subito da spassarsi quieto quieto e quatto quatto, allegro del più semplice giocattolo; gli è una cagnuola, che non sa trovar pace in casa, ma che, subito sguinzagliata per istrada, ci segue mogia mogia. Diamine, dove mai dimostra incontentabilità, insaziabilità? Non certo quando una brigatella d’ubbriaconi e la prima sgualdrinella inciampata, l’incantano. Non certo quando si compiace dello spettacolo plebeo (Dante avrebbe detto: _Il voler ciò mirare è bassa voglia_) d’una brutale gozzoviglia, la quale che non si fa amnistiare per la genialità e lo spirito de’ stravizzanti; nè quando e’ si diverte a fare il giocatore di bussolotti. Non quando, appena vista l’immagine dell’Elena nello specchio magico, va in estasi. E molto meno, quando, incontrata una fanciulla per via, subito spasima e s’acqueta in quell’amore e non chiede oltre. L’impazienza e l’intolleranza di ogni cosa conosciuta, ch’è il fondo caratteristico del Fausto mitico, e che questi ha di comune con Don Giovanni, non è più innata nel Fausto Goethiano, che ogn’istante ha d’uopo di essere spronato e rinzelato da quella pittima cordiale di Mefistofele. Ed infatti Mefistofele e Fausto non sono due personalità spiccate, anzi due spicchî d’una medesima e sola personalità. I loro colloquî si potrebbero arcibenone trasformare in un lungo soliloquio senza mutarvi presso che nulla: così, tante volte, noi nel ragionare con noi stessi, dialogizziamo il pensiero per maggior comodo. Mefistofele è formato da una costola di Fausto come l’Eva biblica da una costola d’Adamo: ma, quando la costola del padre putativo dell’uman genere divenne una persona autonoma, in Mefistofele non abbiamo ned autonomia, nè personalità, nè consistenza, qualità essenziali e _sine qua non_ del personaggio poetico. Sembra, che il Goethe si sia scritta una lista di tutte le parti più o men diaboliche; e che quindi ragionatamente abbia fabbricato il suo Mefistofele. E perchè il demonio ha da essere osceno e cinico, gli ficca di quando in quando una parolina poco decente in bocca; e perchè il demonio ha da essere bugiardo, gli suggerisce qua e là una bugiuola, e via discorrendo. Ma questo non è il modo nè di percepire, nè di rappresentare un personaggio poetico, un fantasma! Il cinismo non vien rappresentato da una porcheria, nè lo spirito da una spiritosaggine; ma e l’uno e l’altro debbon divenir fondamento del carattere, debbono informare ogni azione, ogni pensiero, ed esser sempre ugualmente presenti in ogni parola ed in ogni fatto. Il Diderot dice un gran bel vero, quando asserisce, che, dato un piede, un’ugna, la menoma parte di un certo corpo, la natura necessariamente non può farvi altre parti corrispondenti, se non ricostruendo quel dato corpo tale e quale ed in quella tale attitudine. Non c’è uomo, che abbia punto punto pratica di mondo, il quale non sappia immediatamente distinguere il vero cinico, che può avere un linguaggio compostissimo, da chi è semplicemente sboccato così per vezzo o per mal vezzo. Questo vale anche e più pel carattere di Fausto. Il poeta mi deve rivelare in ogni caso tutto il personaggio, e non già dimostrarmi separatamente in venti scene, in venti episodî, altrettante parti del suo carattere: che sarebbe lavoro d’anatomista non di artista, e gli anatomisti dell’opera d’Arte siamo in un certo senso noialtri critici. L’Arte sta appunto nel mostrarmi in ogni atto, in ogni parola, tutto l’uomo con ogni sua determinazione, talchè il percepisca ed il comprenda, lì, nella sua totalità complessa e mel veggia viver dinanzi; e non istà mica nello sciorinarmene successivamente queste determinazioni, _membra disjecta_. Che il procurator generale dimostri il tale imputato ubbriacone documentando un fatto, il manifesti giuocatore rendendo inconfutabile un altro, ed il convinca ladruncolo, provandone un terzo, sta bene; ma voi, poeta, raccontandomene un solo, siete in obbligo di rappresentarmi quel tale, (poniamo che sia Panurgo, e che voi siate Cecco Rabelais), ubbriacone e ladro e giuocatore e presso ch’io non dissi e tutto ad un tempo. Non dovete mostrarmi il Triboulent, come Vittorio Hugo nel suo _Roi s’amuse_, prima buffone e poi padre, ma sempre e poi sempre Triboulet, misto di padre e di buffone. — «Ma nella stessa Natura le manifestazioni delle parti di un carattere sono per lo più successive!» — Apparentemente, perchè nella Natura non c’è la concentrazione, la perfetta unità tra l’Idea e la immagine, che costituisce il _Bello_; ed appunto per questo l’Arte non è la Natura ed in lei sola si incontra perfettamente incarnato quel tal Bello. Ed è pur la strana cosa, che gente dotta in Italia disconosca una verità fondamentale di quest’importanza, alla quale le nostre plebi sono giunte per istinto da secoli. Infatti, quando i canti popolari vogliono sublimare oltre ogni dire la bellezza d’una innamorata, la chiamano _fatta con la penna, col pennello, di stucco, dipinta con vero pennello_. _Sei tanto bella, iddio ti benedica,_ _Par che t’abbia dipinto Santo Luca._ Quindi pur troppo noi, quando si parla di Fausto, abbiamo il dritto di chiedere: _qual Fausto? di quale scena?_ Certo, che quello del primo soliloquio non ha molto di comune con quello della cucina magica o con quello, che di soppiatto entra nella cameretta di Rita e che ne fugge, giurando di non riporvi il piede mai più. Non basta dire: _ho due anime in petto, che tendono a disgiungersi: l’una si avviticchia appassionatamente al mondo, l’altra vuole ad ogni costo innalzarsi all’empireo degli avi_²⁸: bisogna esplicarne e realizzar questo contrasto. Ed è appunto ciò che Messer Goethe non ha fatto. Un giovane inglese gli confessava di trovare il _Fausto_ difficiletto; ed egli rispose — :«Certo gliene avrei sconsigliata la lettura. Si tratta d’una stravaganza, che eccede il sentir comune. Ci si è impegolato senza consultarmi? Faccia di cavarsela! Fausto è un individuo singolarissimo: a pochissimi è dato compenetrarsi dello stato dell’animo di lui. Parimente il carattere di Mefistofele è difficile per l’ironia come risultato vivo di lungo studio del mondo. Vegga cosa le riesce capirne!» — Quanta fatua presunzione! Come uno scrittore può illudersi in tal forma sul valore delle cose proprie? ²⁸ _Zwei Seelen wohnen, ach! in meiner Brust;_ _Die eine will sich von der andern trennen:_ _Die eine hält, in derber Liebeslust,_ _Sich an die Welt mit klammernden Organen;_ _Die andre hebt gewaltsam sich vom Dust_ _Zu den Gefilden hoher Ahnen._ Della Margherita non c’è troppo che dire: l’artistico in que’ turpi caratteri sta nell’esplicazione psicologica, che qui veniva implicitamente esclusa dalla forma drammatica; forma ripugnante al contenuto. Il _Fausto_ del Goethe è un capolavoro sbagliato, è l’aborto d’un capolavoro: non è quindi meraviglia, se in esso trovi parti ben conformate, che, raggiungendo un più maturo sviluppo, avrebbero potuto ammaliare; come non è meraviglia, se in un aborto si ravvisano gli organi, che esplicati e compiuti avrebber composti un uomo od una donna bellissima. La fatuità e la vanagloria nazionale del tedesco, e la buona fede o dabbenaggine latina potranno accordargli una voga più o men duratura, ma il tempo ad ogni modo ne farà giustizia. E chi non guarda solo la buccia, può già accorgersene ed argomentarlo da più d’un fenomeno. Il mito di Fausto rimane ancora adoperabile, non ha ricevuto forma definitiva. Il popolo stesso del Goethe, che pure non ha una grande stregua estetica, non s’è appagato della forma da lui imposta al mito: e questo è già l’implicita condanna del suo poema. Parecchi, dopo di lui, hanno (ed inutilmente del pari) tentato d’incarnare quel grande e vastissimo argomento, che rimane fin qui come l’arco d’Ulisse, inutile a’ Proci, aspettando forse che un genio Italiano sorga e compia anche per esso, ciò che è stato nostra missione di fare per gli altri grandi cicli poetici del Medio-Evo. Ma se, come parmi d’aver accennato, sfilando questo disacconcio collare, esaminiamo ogni scena per sè, ogni parlata a parte, ogni perla isolatamente, allora dobbiamo confessarci vinti anche noi, subir l’incanto come chicchessia, andare in estasi e perdonare la prona ammirazione de’ fanatici del Goethe: ci sarà forza convenire, poche opere contener tante bellezze poetiche quante ne racchiude questo mostro. Abbiamo finora severamente biasimato, non perchè ciechi per esse; e se ora non le analizziamo ad una ad una e non le facciamo risaltare nel pieno loro fulgore, non è che si sia ingiusti. Ma chi non le conosce? sarebbe superflua ed interminabil cosa il dimostrarle ad una ad una; le son tante e tanto note, che han fatto velo a molti e tutt’altro che volgari uomini sul merito essenziale dell’opera stessa totale, e che, malgrado tutti e tutti i suoi difetti, la salveranno dal pieno obblio. A noi conviene non disconoscere questi meriti, ma non permettere altresì, che ci facciano velo all’intelletto. Non confondiamo l’impressione e il giudizio. XX. — _Conclusione._ Lettore, io mi sento un po’ stanco; e debbo argomentarne e credere, che tu sia peggio stanco di me: potrei continuare un pezzo ancora per infastidirti, essendo il mio tema su per giù del genere di quelli mentovati dal Coleridge: _Soggetti, su’ quali e’ mi sarebbe malagevole non dir troppo, sebben certo al postutto di tacer sempre la miglior parte e di lasciar più da spigolare altrui che non avrò mietuto io_; ma per la meglio conchiuderemo. Una scrittura non deve aspirare ad esaurire qualsiasi argomento, anzi l’unica gloria, che le si convenga ambire, sta nell’eccitare la mente del lettore a pensarvi su, nel darle una buona spinta durevole per un pezzo; come quel gran calcio, col quale il Padre Eterno, secondo l’affresco di Raffaello, mise in moto le sfere celesti. Dunque, riassumiamoci; quantunque abbia camminato alquanto a sbalzi, quantunque abbia spesso fuorviato in digressioni, pure ho inteso di svolgere un ordine di pensieri logicamente concatenati. Facendo l’autopsia estetica dell’opera del Goethe, vi abbiamo ravvisato un triplice contenuto eterogeneo: epopea, leggenda e novella. Vedemmo l’epopea starvi proprio a pigione; e leggenda e novella, non fuse in una monade artistica, appaiono solo agglutinate esternamente. Esaminammo la novella, che rinvenimmo: nell’invenzione, prosaica e plebea; nell’esecuzione, difettosa dello sviluppo psicologico, il quale suol formare il poetico e la malia del genere. Notomizzata poi la leggenda, vi scoprimmo la deficienza d’un concetto organico, _caussa ex qua_ (per trasportare in estetica la vibrata espressione fisiologica del Van Helmonzio) necessariamente derivasse ogni membro, ogni scena, ogni verso; invece regnarvi sovrane le aspirazioni, ispirazioni, disperazioni ed esasperazioni momentanee dello scrittore, che ne desumeva pretesti ed occasioni per isfogare i suoi affetti subjettivi. Da queste circostanze, cioè dalla inconcettosità e dalla subjettività morbosa, sì dell’opera che dell’autore, giudicammo risultare tutti gli altri difetti organici della tragedia, l’incertezza del tono, l’ironia neutralizzata, la disocchiatezza pei migliori momenti poetici, la sproporzione delle parti, la disutilità della macchina, l’insussistenza dei caratteri, la mancanza d’idealità e la sovrabbondanza d’Allegorico: colpe artistiche, che non si ricomprano o compensano da bellezze particolari ed incidentali, per quanto grandi queste si vogliano benevolmente supporre, e noi le abbiamo supposte arcigrandissime, per dispensarci dall’esaminarle, senza incorrere nella taccia di parzialità. — «Ma come spieghi poi la fama gigantesca, conseguita dalle opere del Goethe in generale e dal _Fausto_ in particolare?» — — «Dove? in Lamagna o fuori?» — — «In Lamagna, presso di noi, dappertutto: il fenomeno è quel desso dovunque s’avveri.» — — «Piano, piano! Il fenomeno è sostanzialmente diverso secondo il dove. Distinguiamo, amico lettore stimatissimo.» — — «Distinguiamo pure; tanto non ci si perde nulla, tranne un po’ di fiato. Dunque, in Germania?..» — — «In Germania?... Caro mio, l’è una gran bella virtù l’amor proprio e quel cosiddetto patriottismo, che n’è una forma particolare. Dice il proverbio veneziano: _a tutti ghe sa de bon la so scorezeta!_ I prodotti patrî sembran sempre portenti. Ricordati la gioia di Vittorio Alfieri, nell’incontrare un somarello a Gottinga, perchè il somaro gli rammentava l’Italia; ricordati il giubilo di Arrigo Heine nel rimpatriare: _la melma della strada consolare era fango patrio! I cavalli scodinzolavano confidenzialmente, come se fossimo stati antiche conoscenze, e le loro mete mi parean belle quanto i pomi di Atalanta!_ Quel fango e quello sterco eran la Germania! Qual che si sia il merito intrinseco del _Fausto_, dovremmo stimare il tedesco di ammirarlo, ancorchè questo feticcismo dipendesse dall’imperfezione delle sue facoltà estetiche, quistione etnografica ed antropologica, che qui non occorre sviscerare; da quella imperfezione, che gli fa attribuir tanta tanta esagerata importanza all’arte sua epigonica di stufa, e sentenziare tanto erroneamente sulle arti spontanee e di valore assoluto degli altri paesi. Ma! da palato avvezzo al pan di segala ed alla cervogia, non puoi pretendere fine giudicio sulla qualità de’ vini annosi di bottiglia e del pan buffetto.» — — «Questo potrebbe correre, laddove la Germania fosse sola ad applaudire il _Fausto_! Ma il mondo intero non può errare: _voce di popolo, voce di dio!_» — «Ohi! tu dici gli spropositi a coppie, a paja; come chi prendesse due colombi ad una fava. _In primis_, non tutto il mondo consente, perchè, se non altri (dico come quel Greco) dissento io. E poi... supponendo che tu sappi di latino, eccoti una sentenza ciceroniana: _Ego hoc iudico, si quando turpe non sit, tamen non esse non turpe, quum id a moltitudine laudetur._ O, caso ti fossi in mal punto lasciato indurre da quel Mastro di scuola (eminente se vuoi, quel che ti piace, ma mastro di scuola e non altro) ch’è Teodoro Mommsen, a considerar Cicerone, _non più d’una vil succiola_ (per dirla col Redi), e quindi non attribuissi autorità alle sue parole, eccoti qualcosa di patavino: _nil tam inaestimable est quam animi multitudinis._ O, caso ti fossi lasciato sedurre da quel Bertoldo anzi Cacasenno del Niebuhr a valutar Tito Livio quanto una ghiarabaldana...» — «Amor mio, torniamo a bomba, che se ci avessimo a sperdere nuovamente in digressioni e citazioni, non la finiremmo più. Conosco i miei polli e la tua chiacchiera!» — — «Torniamo. Senti questa. Un certo brioso pittore, scapatello e bizzarro, fu chiamato in un paesucolo di provincia, sepolto fra gli Appennini, ad impiastricciar d’affreschi non so che cupola o parete o vôlta di chiesa o cappella o santuario consacrato all’Assunta. Que’ bravi provincialoni, te lo pagano anticipatamente e profumatissimamente, te lo trattano come noi metropolinatacci fastidiosi non tratteremmo l’uomo, che pienamente incarnasse l’Universale del Pittore: feste e cortesie! Capirai che il giovinastro si dispensò dal toccare la calce od i colori in vista delle occupazioni maggiori, che il trattenevano notte e giorno vuoi nell’osteria a classificare i vini del contado per ordine di merito, e sentenziar quali potrebbero figurare nella prossima esposizione agronomica, vuoi presso qualche forese, che addottrinava non so se nella filantropia o nella filandria. Frattanto si avvicinava e finalmente aggiornò la vigilia della festa della signora de’ cieli e patrona di quel borgo; ed il poverino si destò imbarazzatissimo: la dimane dovea scoprirsi la cupola o parete o volta, che si fosse, ahimè! bianca come ei l’avea trovata.» — — «Scusa, sai, se t’interrompo: l’aneddoto è patetico, niuno più alieno di me dal negarlo, commoventissimo, ma che c’entra?...» — «Col _Fausto_, eh? Ascolta ed impara. Ho riletto di fresco l’Evangelia e ne ho appreso il parlar per parabola. Dunque, il nostro pittore in imbarazzo, pensa, ripensa, escogitò una sottil malizia. Balza di letto, scapigliato, scamiciato, e _sit venia verbo_ allenzuolato, corre al terrazzino ed improvvisa un baccano del trentamila. Trae gente, si fa popolo; che è? che non è? L’uomo al balcone somiglia un invasato ed annunzia d’aver fruita una visione. Il pezzo più grosso tra’ celicoli, l’Assunta in propria persona, gli si è manifestata in sogno (niente meno!) per ringraziarlo di averla così ben dipinta. E gli ha dato l’annunzio d’averlo posto all’ordine del giorno delle legioni celesti e proposto per non so qual paradisiaca decorazione (il Puoti mi correggerebbe: _onorificenza_). Ed ha soggiunto, che, per dargli maggiore e particolar segno della sua compiacenza, avea disposto, a nome della barbara logica divina ed ahi! pur troppo patologica, secondo la quale i figliuoli scontano pe’ genitori.... Ma lasciami far punto a questo maledetto periodo; e’ mi vuol mancare il fiato. Dunque, l’Assunta avea decretato e decretava, che nessun figliuolo di mignotta potesse veder quella pittura, che anzi a costoro la parete apparisse nuda e bianca. La fama della visione miracolosa si divulgò ratta qual lampo; sembrò segno patente della protezione concessa dall’Assunta al popolo suo; e, come ogni coglioneria, che venga sfrontatamente asserita, trovò credito. Que’ foresi avrebbero piuttosto rinnegati tutti gli articoli di fede, che dubitato della sua verità. La dimane chiesa piena zeppa, popolo stivato, accalcato; tutti col naso in aria. Il pittore disammanta le pareti, supposte dipinte; ed un clamore unanime di ammirazione sorge e rimbomba per quelle vòlte: _Bello, stupendo! Oh ma il viso di quella madonnina! Oh gli angioletti! Oh quelle merite! Oh quella gloria! A me piaccion più que’ santerelli! Capolavoro! Il nostro pittore è un Sanzio ed un Santo! Egli sarà cittadino de’ cieli col favore della madonna, accordiamogli il diploma di cittadino onorario del comune, così vivremo sicuri che il nostro paese venga rappresentato in paradiso!_» — — «Ma dunque c’era dipinto qualcosa? o credevano di vedercela? illusione ottica, eh?». — «Nòe, fratel mio. Non c’era nulla, non vedevan nulla, ma nessuno ardiva confessarsi figliuolo di mignotta. Pari sorte a quegli affreschi è toccata al _Fausto_. I tedeschi han tanto asserito, ch’era un capolavoro e la più bella cosa, nonchè del Goethe (ciò potrebbe accordarsi) ma di quante letterature fur, sono e saranno, ed han tanto fama di gente ammodo e dabbene; che gli altri popoli, quantunque forse non vi scorgessero tante bellezze, non vi scoprissero tanta profondità, non volendo passare ad ogni modo per zotici, han fatto coro. Così va il mondo, amico; impara, impara. S’io fossi stato un di que’ vecchi, de’ quali il Veneto dice: _i nostri vecci i stava cent’ani col cul a la piova prima de far un proverbio_: ed anche: _i n’ha magnà la roba e i n’ha lassà i proverbi_; francamente, fossi stato un di loro, ne avrei fatto quest’uno, che mi par bellissimo e verissimo, (notalo nel tuo taccuino): _Faccia di mattone e cuor di leone, signor del mondo fanno ogni minchione._ Fa tesoro di quest’apoftegma, c’ha pochi d’ugualmente inconcussi». Questa è una ragione; ce n’ha poi du’ altre, cioè _la nostra facilità ad ammirare l’esotico e l’esser di moda la tedescheria_; ragioni queste, che mi dispiace assegnare, perchè sembrerà a taluno, ch’io caschi nel rettorico dell’amor patrio, come certi farisei, che si crocesegnano nel sentir nominare cose forestiere. Ma non è colpa mia, se quel, ch’essi blaterano accademicamente per crassa ignoranza, concorda in parte, con quel, ch’io dirò, per saldo e maturo consiglio, frutto di parecchi begli anni impiegati nello studio di letterature straniere. Nè mi pento d’averveli consacrati, essendosi così rinvigorita la mia coscienza d’Italiano, tanto che una rivista filosofica tedesca ha pensato vituperarmi con l’epiteto ironico d’_Italianissimo_; suppongo che intendesse offendermi, nè poteva conferirmi titolo, che maggiormente mi solleticasse. A’ tempi di fra Paolo si ripeteva nelle Lagune: _prima veneziani e poi cristiani_; io dico: _prima Italiano e poscia omo_; e m’appoggio al teorema filosofico che l’universale, il generico non può esprimersi nell’individuale, tranne mediante il particolare. L’Uomo è un tipo perfettamente astratto; di reale c’è solo l’uomo determinato come razza e patria e cittadinanza. Dunque, fonte dell’errore è l’ossequio eccessivo, l’ossequio pecorino ed irrazionale tributato alle cose germaniche, da chi in buona fede le ammira, senza conoscerle, come se lo svolgimento della stessa filosofia alemanna avesse per maggiore importanza oltre una dotta curiosità. Qui non è luogo a diffondermi sull’argomento; per conseguenza mi basta indicare, che una filosofia non può prendersi a prestanza da un altro popolo, ma bisogna ad una nazione saperla generar da sè. — «Quand’anche potessimo esser dotti dell’altrui sapere, almeno savî possiamo esser solo della nostra propria saviezza» — come ben dice Michele Eyquem di Montagna. Sottosopra, il lettore se n’è certo avveduto, io seguo l’estetica ed in genere la filosofia stessa, insegnata dallo hegelianismo. Ma le seguo perchè quella dottrina è dimostrabilmente conseguenza logica implicita, ancorchè non normale di tutta l’enucleazione filosofica del pensiero Italiano. Ed appunto per assodar questo punto non arrischio mai un teorema senza corroborarlo con una citazione letteraria de’ nostri classici. Vorrei così aprir gli occhi a molti; e far loro toccar con mano da quanto tempo fossero retaggio comune, ricchezza gratuita appo noi, tante dottrine, ch’essi, per inscienza di storia letteraria ed artistica, reputano nuove di zecca, solo perchè oltr’alpi circolano da poco. Vorrei far lor comprendere quanto danno rechi il rendersi incomprensibile, adoperando formole algebriche, indegne della limpidità della nostra favella. Pappagalleggiando, non acquisteremo sicuro la stima degli stranieri, veh! Certamente non vi possono essere due assoluti, uno per noi, uno pe’ tedeschi: ma vi possono essere centomila modi di conoscerlo quest’uno assoluto, anzi vi sono e si adattano alle coscienze nazionali ed alle individuali. Il Monte Bianco è sempre il medesimo, ondunque si guardi: ma qual differenza di aspetti, secondo che stai nella valle d’Aosta od in quella di Sciamuni, e secondo il punto della vallea, dal quale guardi! Nondimeno, finchè si rimane in Metafisica, la disputa è più terminologica che altro; ma quando si scende all’applicazione nelle singole scienze, _comincian le dolenti note_. La filosofia tedesca si propone esclusivamente (nèd oso basimarnela) di glorificare il germanismo, di mostrare, che quelle nazioni lì furono principalissime fra le storiche, che meglio delle altre incarnarono ed incarnano le parti civili, che la loro filosofia, le loro istituzioni, le loro arti, le loro letterature oscurano quelle de’ rimanenti popoli. Parecchi babbei se l’han bevuta e predicano questo nuovo evangelo. Ma figuratevi l’impiccio d’ogni Italiano, che abbia mezza dramma di pudore e di buon senso (so cattedratici, che ne vivono sprovvisti) quando s’è trattato non più dell’importazione della metafisica hegeliana, anzi delle branche della filosofia applicata! E veramente riuscirà un po’ difficile il persuaderci che la Riforma sia stata una bella cosa e buona, che tutti i nostri grandi operassero inconcludentemente, che la nostra letteratura non abbia importanza a petto alla tedesca, e che l’Arte nostra classica impallidisca a fronte agli impiastri di Monaco e Düsseldorf! Le credenze degl’individui sono il risultato dell’enucleazione intellettuale del popolo; il che rende le opinioni viemmen libere, che altri non creda. Ma quando ci faremo a studiare il nostro passato, ad indagarne le leggi? quando cercheremo di pensare la nostra vita nazionale? e di rivendicare a noi la gloria, che davvero ci spetta? quando ci avvedremo che chi più accanitamente grida: _Hegel, Hegel! Goethe, Goethe! Kaulbach, Kaulbach!_ è d’ordinario chi men li conosce e meno può giudicarne, apostolo farabutto d’un falso messia, che egli stesso ignora? Il nutrir fastidio delle cose nostrali, e fanciullesca passione per l’esotico ci disonora. Studiatelo almeno seriamente e non dilettantescamente codesto forestierume; paragonatelo alle produzioni indigene e poi sputate pure sentenze e cujussi; non è male saper di che si parla. Volete miracoli da adorare? Io vi dirò, che pur è meglio non adorar nulla: ma, quando persistiate, neh dove trovereste maggiori miracoli dei vostri? Che se poi amate il subjetto della parola del Cambronne, io vi consiglierò di guarire questa depravazione di gusto, ma quando la coprofagia in voi si riconosca insanabile, beh! invece di raccorre preziosamente stronzi _per l’Alemanno barbaro paese discorrendo_ (come diceva Masuccio Salernitano) per minor male invaghitevi dello sterco Italiano: ce n’abbiamo tanto! UN PRETESO POETA (GIACOMO ZANELLA) M.DCCC.LXXI. Angelo Camillo De Meis racconta, in fine del suo _Dopo la Laurea_, delle scoperte paleontologiche, fatte da un certo Peppantonio, in una caverna a pochi passi dal polo australe: — «Scava scava, se n’è venuto via con centoventiquattro sacca, piene piene di pezzettini d’ossi occipitali e frontali e parietali, tutti press’a poco umani; e ne ha formato circa ottocentottantotto generi; ed ha avuto la felice idea di dedicarli a’ più eccellenti poeti epici e drammatici contemporanei. C’è la _Pratia epileptica_ e la _Chiossonia paralytica_; e, per non far torto a quelli, che si distinguono nel genere lirico, ha formato la _Vittorhughia atassica_ e la _Zanellia superflua_». — Queste due ultime parole sembran dapprima solo un frizzo garbato; ma le credo il miglior giudicio possibile su’ versi dell’abate Giacomo Zanella, cavaliere dell’ordine de’ Santi Maurizio e Lazzaro, uffiziale dell’ordine della Corona d’Italia, professore ordinario di lingua e letteratura Italiana presso lo studio filosofico della R. Università di Padova e condirettore del seminario filologico-storico, nonchè deputato provinciale nel consiglio provinciale per le scuole; e (se non erro) membro effettivo del R. Istituto di Scienze, Lettere ed Arti di Venezia. Quanta roba, eh! Può darsi, che egli sia un egregio sacerdote: bisognerebbe sentir l’opinione del suo vescovo. Può darsi, che riesca, ottimo amministratore: il Ministro della Pubblica Istruzione e gli amministrati sono giudici legittimi se non competenti. Può darsi ancora, ch’egli si dimostri professor valente; sebbene non nasconderò, che mi sorprende il vederlo cattedratico ordinario, senza che sia noto per alcun serio lavoro storico o critico; ma non è il solo in Italia, che non possegga titoli giustificativi, cui possa gridarsi: _fuori i libri!_ Soliti favori! Qui però non dobbiamo occuparci nè dello insegnante, nè dell’accademico, nè dall’amministratore; bensì del verseggiatore. Come tale, è superfluo: non ha una ragion d’essere al mondo. Ed è superfluo, perchè le sue qualità poetiche sono affatte nulle; perchè non arricchisce il nostro mondo fantastico nè d’un concetto, nè d’una immagine. Il dico con dolorosa convinzione e dopo esame accurato del volume, per cui venne acclamato poeta da’ birrichini, i quali in Italia fanno mercimonio di lodi e d’encomî. Il Zanella scrive versucciattoli, che in un albo od in occasione d’un onomastico, d’una festicciuola qualunque di famiglia, possono far buona figura; i molti di questo genere, da lui rivolti a’ componenti della famiglia Lampertico, lo han fatto chiamare da qualche malevolo: _il poeta aulico di casa Lampertico._ Ma ben altro è l’ingraziarsi presso una famiglia doviziosa ed il diventarvi ospite desiderato ne’ banchetti e nelle feste; e ben altro il segnare, il significare un nuovo passo della fantasia di un gran popolo, e del popolo, che ha, senza dubbio, il maggior passato poetico. Che dico! da pochi, arcipochi si può pretender tanto. Ci contenteremmo, ammireremmo, se il Zanella, anche senz’aprir vie nuove, fosse capace di crear di belle immagini e vivaci, fosse almeno capace di piegare il verso a nuove forme, lasciando pure ad altri di avvalersene a miglior uopo. Nondimeno gli encomiasti non son mancati. Da noi non fa mai difetto una penna compiacente (la parola propria sarebbe _ruffiana_; ma non s’ha a dire tra la gente ammodo. Non l’adoperiamo dunque!) che si presti a levare a cielo qualche chiarissimo; massime quando corrono raccomandazioni di persone influenti; quando un Lampertico, per esempio, ed un Giorgini commendano e vogliono. È così facil cosa il lodare a casaccio, l’appiccicare una selva di epiteti gentili a’ nomi ed alle cose! il citare alcuni brani d’un autore ed andare in estasi senza dir perchè! Certo, lettori, che gustino così alla cieca, che ammirino senza rendersi e render conto delle ragioni, che li fanno strasecolare, ci vogliono e ce ne voglion molti. E’ sono appunto quelli, che si addimandano il volgo; e senza grandi uomini e senza uomini di vaglia si potrebbe stare al mondo; senza volgo, no davvero. Ma uno scrittore, uno, che pretende d’intendersene, uno, che si arroga di spiegare al pubblico cosa debba approvare e biasimare, commette una vera indecenza, schiccherando insulse dicerie encomiastiche. Per articolesse di tal fatta, il gergo de’ giornalisti adopera un bel nome: le chiamano _soffietti_. I francesi le dicon _reclames_. Ad ogni modo son brutture. Un certo Isidoro Del Lungo... sbaglio: il chiarissimo Isidoro Del Lungo, professore di Letteratura Italiana presso il Regio Liceo Dante di Firenze, cavaliere dell’Ordine de’ Santi Maurizio e Lazzaro, Accademico residente della Crusca e di quelli deputati alla compilazione quotidiana del Vocabolario; prese l’assunto di annunziare a’ quattro venti, ch’era sorto _un nuovo poeta_. Impiastricciò un dialogo, che incomincia con una lode all’editore del Zanella, della quale non può discernersi altro approposito od altro motivo, tranne il desiderio, naturalissimo in chi scrive, d’ingraziarsi con un editore accreditato. Prosegue, rivelando il suo dispettuzzo, per non essere stato nominato membro della commissione, che compila il vocabolario giorginiano. Quindi, ingiurie generali a tutti i verseggiatori moderni, perchè _verba generalia non sunt appiccicatoria_; ed un inchino particolare a’ più dappochi, che gli avvenga di nominare. Una scappellata al Carducci, (ch’io non so come possa nominarsi da un galantuomo e da un buon cittadino, senza che l’indignazione morale trabocchi); un sorrisetto al Maccari ed al Castagnola e persino un saluto al Rapisardi ed una reverenza al Ventura. Cita titoli e brani de’ componimenti del Zanella e loda e loda, senza ragionar mai le tante lodi; ed appena appena in fine, in via di concessione, ammette che non tutto sia perfetto nel volume; che la _poesia_ del Zanella abbia _certi difetti_. Veramente io ritengo le coserelle meschinissime del Zanella non meritare il fastidio di una disamina seria. Allorchè il volume venne in luce, gli detti una scorsa, quanto bastava a chiarirmi di che roba si trattasse, ed il buttai lì subito. Leggicchiate le lodi del Del Lungo, risi del maldestro incensatore; su conclusioni motivate in quel modo da un tale avvocato fiscale, stimai che il pubblico dovesse giudicare tutto all’incontrario. Ma il pubblico è pecora: il pubblico accetta i giudizî bell’e formolati, senza criterio, da chiunque gli vengan porti, purchè gli si porgano con improntitudine ed arroganza. Dorme all’udienza e sottoscrive la sentenza, che un qualunque, istituendosi cancelliere di autorità propria, gli pon sotto la penna. In fondo, il male poteva non sembrar grande: che un Zanella di più o di meno, sul falso giuramento d’un criticonzolo qualsiasi, scrocchi per venti o quindici anni un po’ di mezza celebrità, non sembra affare capitale. Ma il vedere que’ versi, così raccomandati, per le mani di tanti; il vederli studiati ed imparati a memoria; il vedere, in un programma ufficiale, parlato della _Letteratura Italiana da Dante al Zanella_; mi ha fatto impensierire. Il Zanella non appartiene alla storia, anzi alla teratologia letteraria; i suoi componimenti contengono cattiva poesia e concetti immorali; non è forse una cattiva azione tanto il commendarli contro-coscienza, quanto il tacerne un biasimo coscienzioso? — «È insopportabile in un critico la tolleranza di componimenti mediocri,» — scriveva Giovanni Berchet. — «La tolleranza è un dovere religioso, è una virtù sociale, ma in materia poetica non è comandata da nessuna filosofia.» — Ed io posso soggiungere, come lui: — «Eppure, sia detto in buona coscienza, non entra mai ne’ disegni nostri una menoma intenzione di pigliare la penna in mano per muovere la bile ad una menoma persona.» — Ma, chi ammira il Zanella, a me sembra aver perduta la intelligenza del bello poetico: chi ne accetta le dottrine, è forza che diventi cattivo cittadino ed uomo di sensi volgari. Il dimostrerò. Inoltre, per me l’arte è cosa seria; e non credo davvero, che intorno ad essa le opinioni sian libere: c’è una opinione giusta e ci ha le false; ed in affare di tanto momento, non saprei ostentare l’apatia, di cui fa mostra a proposito della castità della mogliera, Ulrico, cavalier boemo, appresso il Bandello (_Parte I, Novella XXI_); nè dirò mai: — «Credete voi ciò, che vi pare, che io non ve lo divieto; e lasciate, che io creda quello, che più m’aggrada e mi cape nella mente; perciocchè il mio credere non vi può annojare, nè il vostro discredere mi reca danno alcuno, essendo libero a ciascuno, in simili avvenimenti, pensare e credere ciò, che più gli va per l’animo!» — Gli àpati son ébeti. Nel MDXCIII, corse voce, che fosse spuntato un dente molare d’oro ad un fanciullo slesiano. Il fatto commosse grandemente i dotti di Lamagna; ed un certo Horstius, professore di medicina in non so quale universitaducola di quel paese lì, in seguito a ricerche profonde, pubblicò, due anni dopo, la storia del dente, dichiarandolo di natura doppia come Gesù Cristo, cioè parte naturale, parte miracoloso; ed assicurando, che domineddio l’aveva collocato nell’alveolo mascellare del ragazzo, per consolare la Cristianità afflitta dalle vittorie turche. Dopo l’Horstius, scrisse sull’argomento il Rullandus; e, due anni dopo, l’Inglosterus (altro dotto alla tedesca d’allora) confutò il Rullandus; dal quale gli fu replicato sapientemente. Un quarto dottorone, in una monografia, raccolse tutte le opinioni già enunciate, aggiungendovi la sua. Sventuratamente capitò un orefice ad esaminare il dente miracoloso; e durò poco ad accorgersi, che non era altrimenti di metallo massiccio; che non era d’oro, anzi solo ad arte dorato, rivestito d’una fogliolina d’oro. Del ser Zanella han parlato gli Horstius, i Rullandus, e gl’Inglosterus; gli è ormai tempo, che un povero orefice lo esamini e dica la sua. L’Italia ha tanti verseggiatori, ch’è uno sgomento. Come distinguersi in mezzo a tal frotta o caterva di mediocrità? Come fare per far chiasso? come acquistare un po’ di celebrità senza troppo affacchinarsi? Ecco il problema difficilissimo, che si presenta innanzi ad ogni sedicente poeta Italiano. Chi fosse artista daddovero, chi avesse una potente favoleggiativa, chi avesse qualcosa in corpo, il quesito non gli si affaccerebbe neppure alla mente. Porterebbe in sè un mondo poetico impaziente di esprimersi, di affermarsi. Ma questo è caso raro; i più, senza ispirazione, senza fantasia, non avendo un vero contenuto poetico, non sapendo in sostanza che dirci ed a che applicare la sciagurata facilità, l’improba smania d’imbrattar carte, cercano di essere originali o per qualche bizzarrie d’espressione, o pel tematico. Quindi abbiamo specialità poetiche come specialità mediche. In quella maniera appunto, che ci sono dentisti ed ostetrici ed ortopedisti ed oftalmoiatri; noi troviamo, che, per esempio, un novelliere non mette in iscena se non pupi in uniforme: ha la privativa dei racconti militari; il tale altro parla solo di delitti, di sangue, di stupri e di patiboli: ha la specialità delle storie giudiziarie; Meneghino si aggira sempre tra le tombe e promette di morire ad ogni ottava; il dottor Ballanzoni coltiva unicamente la bestemmia e l’imprecazione; Pulcinella ha il monopolio dell’umanitarietà e della filantropineria; ed un Zanni, ossia il Zanella, si è impossessato della natura e delle scienze naturali; e si è fatto il poeta del positivismo, del positivismo Italiano. Le origini del positivismo Italiano sono le più semplici del mondo. Non è sorto per necessità logica; non proviene da una esigenza del pensiero nazionale, da una evoluzione scientifica, cheh! In quel riffa raffa di cattedre, che ha luogo dal cinquantanove in poi, parecchie cattedre filosofiche vennero agguantate da chi stimo filosofo quanto io mi credo sinologo o jamatologo. Gli è accaduto, per esempio, che al gran lotto della pubblica istruzione guadagnasse l’ambo di una cattedra di Filosofia, chi era cognito soltanto per qualche monografia storica più o meno spropositata, più o meno monca, più o meno male scritta, piaggiando ogni partito. Posizione imbarazzante! ma più d’una volta s’è visto, e fuori e da noi, uomini coscienziosi, costretti dalla fame ad assumere l’insegnamento di materie non per anco da loro studiate, mettendocisi coll’arco della schiena, conchiuder qualcosa, e riuscir valenti; per più d’uno è stato vero, che _insegnando s’impara_. Invece coloro, cui alludo, pe’ quali l’importante era lo stipendio, ritennero più comodo il negare la scienza, che venivano chiamati ad insegnare e che avrebber dovuto imparare; il dire: — «La filosofia non c’è, la filosofia è un assurdo; le idee generali son ircocervi anzi ippotragelafi; non vi ha se non fatti singoli; il mondo è essenzialmente frammentario; tutto è accidente, o tutt’al più legge, che regola l’accidente; tutto è empirismo; la cognizione assoluta, il vero assoluto, Di fuor del qual nessun vero si spazia, è un’allucinazione dello intelletto. Limitiamoci alla cognizione di qualche fenomeno, di mille fenomeni, via, d’una serie infinita di fenomeni. Questo è il _non plus ultra_ dello sforzo intellettuale umano. E se una voce segreta, anzi un bisogno imperioso vi costringe a chieder qualcosaltro alla scienza, a riproporle ostinatamente i quesiti supremi, oggetto della filosofia, saggi mortali, castratevi l’intelletto! E se la ragione vi afferra e vi vuole fare entrare nel suo talamo, o casti Giuseppi del pensiero, lasciatele in mano il mantello e fuggitevene in farsetto, e rimanete involontariamente «ignari!» — Il sacerdote predicava l’ateismo! il professore bandiva l’inesistenza della scienza, per insegnar la quale il pagavamo! Osceno spettacolo! Quando il prete od il maestro dubitano del loro credo o della loro dottrina, se son galantuomini scendano dal pulpito e dalla cattedra ed aprano bottega per conto proprio. E così la gioventù Italiana fece a gara ad evirarsi intellettualmente: e credè che fosse un merito di esser più eunuca. E fu certo un titolo per andare avanti ed aver plauso ed aver guadagno. Povera Italia! Di questa scuola ciarlatanesca è poeta il Zanella. Chi vuol rendersi ben ragione del suo valore artistico, del modo nel quale costui comprende la Natura, mi faccia il piacere di rileggere il _Dopo la Laurea_ del De-Meis; e dico rileggere, perchè non posso ammettere, che una persona colta non abbia letto quel volume. Vi trovi una lettera, la seconda, che, se non fosse stata stampata parecchi anni prima che il Zanella acquistasse qualche notorietà oltre la cerchia de’ nobiluzzi veneti, si direbbe una continua allusione al poeta aulico di casa Lampertico. L’argomento della lettera di Giorgio a Filalete è assolutamente lo stesso della lirica zanelliana intitolata _Natura e Scienza_; ne la direi il miglior commento, se i componimenti del Zanella fossero tra le cose, che si commentano; ed essa ci abiliterà a giudicarne ammodo. Entrambe prendono le mosse dall’intuizione e divinazione ed interpretazione poetica, che l’umanità fanciulla, che la fantasia, fa de’ fenomeni naturali. Verseggia così quel di Chiampo: Come ritrosa Vergine, t’involi, Discortese Natura, al guardo umano, Che, pel lento mutar di mille soli, Di cielo in terra t’ha cercato invano. Con giocondo terror vide talvolta Balenar dall’abisso il tuo sembiante; Ma tosto, di più nere ombre ravvolta, Scese la notte sul deluso amante. E quel di Bucchianico fa scrivere al suo Giorgio: — «Quante volte, prima di abbandonare la mia casa e la mia patria, mentre m’aggirava per l’ameno boschetto, che circonda il mio tetto paterno, io era andato pensando alla mia inutile vita e alla cieca ignoranza, in cui la traeva! E poi, stanco, mi stendeva sopra un praticello smaltato di fiori, all’ombra di un gran mandorlo; e mi metteva a guardare il profondo cielo e i lontani campi; e talvolta mi curvava a terra e guardava lungamente le erbette e i fiorellini, che mi crescevano intorno! Alla vista di quelle cose sì belle, io era a poco a poco commosso. La giovane fantasia mi s’infiammava; ed io vedeva quell’erba animarsi, muoversi e voltare verso di me le loro punte; e da quelle tramandare un oscuro susurro, che mi pareva la voce della Natura e mi faceva palpitare o tremare. _O natura, o Natura_, io pensava fra me, _parla dunque, spiegati chiaro, dimmi chi sei! tu chiudi dentro di te qualche cosa, che i miei occhi non veggono; giacchè non sono quelle deboli foglie e quegli umili fiori, che potrebbero farmi palpitare e tremare; esce da loro una virtù arcana, ci è in loro qualche cosa d’infinito e di divino, cui risponde la mia anima, che in questo momento si sente anche essa infinita ed immortale; ci sei tu, o Natura. Ma io non so, chi tu possa essere: ed io ho bisogno di saperlo, ho bisogno di scuoter questo grave sonno e diradare questa così fitta oscurità, che mi copre la mente. Ma.... non è più il tempo delle rivelazioni, che si fanno al cuore dell’uomo; e cui l’alta fantasia presta le sue forme. Oh no! non è più il tempo dell’ispirato sentimento e della mistica immaginazione. È il tempo della profonda ragione e della severa scienza, alla quale si perviene solo per la via del lungo studio e della grave fatica. Non si ha dunque a fare come il nostro Giacomo,_» — Leopardi, veh! non Zanella; — «_che aspettava sempre l’ispirazione e stava con l’orecchio teso, se mai la risposta della diva Natura si facesse un giorno sentire dentro al suo cuore; e, non udendo mai nulla, s’affliggeva e si disperava. Io invece studierò; io ti cercherò, o Natura; io t’incalzerò dappertutto; ti frugherò piega per piega; ti rovisterò molecola per molecola. Avrò pazienza, ti starò intorno cinque, sei, otto, dieci anni, finchè non ti avrò strappato il tuo secreto: questo terribile secreto, di cui sei tanto gelosa, e che tieni sepolto, io non so se nel profondo o di te stessa o del mio cuore_.» — L’Uomo del Zanella; il Giorgio del De-Meis, simbolo dell’Uomo anch’esso, ambiscono tutt’e due di scoprire il segreto e l’essenza della Natura; e l’uno e l’altro ricorrono alle scienze naturali, sperimentali, empiriche, via. Il Zanella, che non è, come il De-Meis, un naturalista valente, rimpicciolisce il concetto della cosa, riducendola a mero affare di microscopio e telescopio; ma non vuol dire! Ecco l’Uomo dotto in botanica ed in mineralogia ed in zoologia ed in astronomia; eccolo fisico, chimico e meccanico; eccolo cristallografo e fisiologo: — «Il secreto della Natura è scoperto!» — sclama fanciullescamente lieto il Zanella; ed innalza un inno alla potenza dell’ingegno umano. Nondimeno, è costretto a soggiungere: ... Fuggon forse le tenebre di pria E palese di dio splende il disegno? è costretto a riproporsi gli antichi interrogativi: — «A che tutto questo? cos’è il mondo? qual è lo scopo dell’Universo? dell’uman genere? ed io che sono?» — E qui si stringe nelle spalle e vi dice tutto ciò essere il secreto di domineddio, e noi non dover presuntuosamente indagarlo. Cos’aveva egli dunque scoperto? Ed ora ascoltiamo Giorgio: — «Mi gittai di lancio e a corpo perduto allo studio di quelle, che chiamano scienze naturali. Io sperava sempre di riudire un giorno la voce della Natura. Io era certo, che uscirebbe più chiara di dentro a que’ vaghi cristalli, divenuti il mio più caro trastullo; dall’interno di quelle innumerevoli forme vegetali, con le quali tanto mi divertiva; dall’intimo di quelle ricche forme animali, che io curiosamente ricercava. Io diveniva di mano in mano più avido di farmivi sempre più addentro, per arrivare fino a quel sacro penetrale, dove m’aspettava, che l’oracolo avrebbe parlato. Ma sono dieci anni ed io non ho udito mai nulla.... Talvolta domandava i dotti, che aveva preso a guida in quegli ameni studî, se mai tenessero il grande secreto.... Ma que’ grandi uomini non mi davano se non piccole risposte. Essi si ridevano della mia semplicità; o si rammaricavano e mi compiangevano del mio poco progresso nella scienza. Poichè, a sentirli, del vero progresso è segno, quando uno non fa altrui, nè si fa più a sè stesso di sì stolte quistioni, e più non vi pensa. _Ille se valde proficisse sciat_, quegli solo, che s’è ben finito di persuadere, che non solo non v’è la soluzione, ma non v’è nemmeno la quistione; la quale non è se non una nostra invenzione, una illusione ottica, che succede nel cervello dell’uomo fiacco e ignorante e non ha punto che far con la Natura. E severamente mi ammonivano, se progresso volevo fare e diventar davvero uno scienziato, che fossi ben persuaso e tenessi bene a mente, che quello era tutto: chimica, fisica, meccanica; e che al mondo altro non v’è fuorchè cristalli e cellule; e sì crittogame e fanerogame senza numero; e insetti piccoli e insetti grandi, come sarebbe a dire le scimie, che è quanto dire gli uomini; e che in tutti codesti amminnicoli consiste la scienza. _Possibile_! io diceva fra me: _la scienza della Natura sarebbe dunque la scienza degli amminnicoli!_ Io era tutt’altro che persuaso. Non era quello il progresso, che io voleva fare; non era il frutto, che io anelava di raccogliere da’ miei studii. A quel prezzo io non avrei voluto giammai diventare uno scienziato.» — Un siffatto positivismo può benissimo accordarsi con qualunque e religione e superstizione. Ed invero, quanto è oggetto della religione (prescindendo dalla parte etica) e della vera scienza, rimane escluso dal campo delle investigazioni di questa ignoranza scientifica. Il Zanella vi rappresenta il tipo dello scienziato evirato nel suo Galileo; e gli fa recitare il credo e soggiungere: Tal mi detta una fe’; sull’alto arcano Tace scïenza. Dall’audaci inchieste, Che di qua dell’avel non han risposta, Tempo è ben, che si tolga; e di glossemi Più non faccia tesoro, a cui (_sic_) suggello Legittimo non pose esperïenza, Paragone del vero. Allor ch’io venni Ne’ suoi giardini, a me disse Sofia: — «Figlio, del mondo le riposte origini Non ricercar, nè a qual lontano termine L’universo si volve; impervie tenebre All’umana ragion, quando la fiaccola La fe’ non alzi e l’atro calle illumini. Modesta più, ma men fallace indagine A te fia di Natura il libro svolgere, Che chiuso giace, di secrete sillabe Tutto vergato e d’incompresi numeri.» — Appunto la spiegazione di questi numeri e di queste sillabe chiede ansiosamente l’uman genere; la cui semplice cognizione non ha pregio alcuno od importanza. Che importa, che giova, conoscer l’alfabeto d’una lingua, ignorandone la grammatica e le parole, in modo da poter compitare un libro sanscrito o russo, puta, senza capir nulla? A che giova, per esempio, ad un contadino di poter materialmente legger la _Divina Comedia_ o gli _Eroici furori_, se non giunge ad afferrarne pure il senso? Questo _senso_ della Natura, la spiegazione delle sillabe secrete e degl’incompresi numeri, il De-Meis la fa chiedere a Giorgio, che lascia l’Italia per la Francia: — «Lì vasti e bene ordinati musei; professori di spirito e scienziati con cervelli chiari e vasti, ben forniti e bene ordinati come i loro musei. Io era bramoso di vedere a qual punto ne fossero; e fin dove con la mente si fossero spinti di là da quell’ordine apparente de’ loro due musei; e mi intendo quello del Giardino delle Piante e quell’altro, che se ne portano dentro il capo. Entro nel primo con loro: ed ecco i miei grandi uomini rapiti nella contemplazione di tanti oggetti naturali, convenuti in quel luogo da tutti i punti della terra; e andarne in estasi. — § _C’est curieux! c’est singulier! c’est bizarre! c’est étrange! c’est joli! c’est merveilleux!_ — § _Mais quelle est la raison de toutes ces belles choses? qu’est-ce donc que tout cela signifie?_ — § _Monsieur, cela signifie que le bon dieu a voulu que cela fût ainsi; et nous n’avons qu’à dire: ainsi soit-il!_ — Questo era l’ultimo costrutto, questa la definitiva conchiusione, alla quale i miei grandi naturalisti parevano giunti, e l’alto cacume, cui sembrava, che si fossero elevati. Io però non mi teneva niente soddisfatto di questa nuova e veramente singolare, curiosa e sorprendente scienza. Un buon dio senza ragione, che si mette a fare delle cose curiose e strane, per divertire il prossimo, e farsi particolarmente ammirare della sua abilità da qualche centinaio di naturalisti, che le studiano ne’ loro amminnicoli, in verità gli è un dio troppo buono; ma non è cosa, di cui possa restar capace un onest’uomo, che abbia dramma di ragione» — Ma, se i naturalisti oltramontani interrogati da Giorgio, di buona fede si chiudono nelle scienze sperimentali e negano le virtù speculative alla mente umana, pel Zanella non è così in fondo. Egli ha notizia confusa del lavoro intellettuale umano; e ritiene, ch’esso abbia raggiunto la meta. Egli crede, che le _tenebre di pria_ siano svanite, che l’uomo non sia più deluso amante del vero, anzi, che lo abbia afferrato. Il crede, senza saper troppo perchè, perchè l’ha sentito dire; questa credenza è un pregiudizio per lui, un preconcetto, ma ce l’ha. Finora, quando veri credenti od ipocriti, apostoli o bacchettoni volevano distogliere dalle investigazioni _pericolose_ la mente umana e ricondurla in sacristia od all’ossequio per la rivelazione, cercavano di provare l’incertezza della scienza, l’impotenza dello ingegno nostro, cercavano di convincerci che la ragione e la scienza non valgono ad assodare alcun vero, che sola fonte di verità è la religione. Il Zanella, invece, cinicamente riconosce, che la scienza c’è e che può; confessa, che la ragione ci dà il vero; ma, dice lui, ci tolgon la pace del cuore; _ergo_, volgiam loro le spalle. La scissura nell’uomo morale moderno non è una scoverta del nostro dabben sacerdote; altri l’hanno cantata prima di lui; altri ha rappresentato il contrasto tra ’l cuore e la fantasia, che si riattaccano alla tradizione, al _dolce imaginare_, e la mente, la ragione, che impone, deducendole, verità incresciose, che pur non persuadono. Il Leopardi, il Musset hanno scritti versi duraturi: _Que me reste-t-il donc? Ma raison tourmentée_ _Essaye en vain de croire et mon coeur de douter;_ _Le Chrétien m’épouvante; et ce que dit l’Athée,_ _En dépit de mes sens, je ne puis l’écouter._ Il Zanella invece vi dirà, che il secolo: Stretti nel pugno i conquistati veri Sale superbo incontro al cielo: immensa Luce è ne’ suoi pensieri.... Qui non vi è più dubbio: certezza piena invece! Il secolo ha conquistato i veri; il secolo ha luce nei pensieri; la gigantomachia moderna, la scalata, che gli eroi del pensiero danno all’Olimpo, non è un atto di levità giovanile, di sconsigliatezza, di presunzione; è, pel Zanella, la pura e semplice estrinsecazione necessaria dell’attività del secolo. Il Musset dubitava de’ risultati della scienza; e, dopo ascoltato Aristotele e Platone, diceva: _j’applaudis et poursuis mon chemin_; e quindi poteva anche tentare di sottrarsi alla filosofia e di ridiventar credenzone; sebbene, appunto perchè aveva saputo qualcosa, imparandola, acquistando quel sapere da sè, non potesse acquetarsi ne’ dommi, che ci si presentano bell’e formolati, inassimilabili: la ragione si ribellava. Ma voi, Zanella, non dubitate più; voi, siete tanto XIX secolo (o lode o biasimo, che a voi paja ed altrui) da creder fermamente alla scienza. Perchè dunque mi parlate di notte del cuore, che si fa più densa? Vel dirò! Perchè avete un’anima fiacca e poltrona. Perchè .... dal dì, che lo scettro in sua man tolto, _Più non v’ha dio_, l’uom disse; e Re si assise Dell’Universo, il volto Scolorato abbassò, nè più sorrise. Vi manca serietà di propositi, forza di carattere, vigoria di mente, amore dello studio! La vostra personalità morale è nulla. Morta la speranza, che riconduce a dio, tutto per voi è notte, a detta vostra. Voi non avete dunque nè famiglia, nè patria, nè Principe? non leggi sacre ed amate? non avete doveri? non credete alla virtù? Avete tanto imparato e dal vostro sapere positivo non rampolla un ideale, un imperativo categorico, che dia norma e scopo al viver vostro! Tutte quelle sante parole per voi sono vuote di senso, se vi manca la speranza d’una ricompensa; e, come diceva l’Hegel allo Heine, vorreste esser premiato di non aver abbandonato la madre vecchia ed inferma e di non avere avvelenato vostro fratello! Delle due l’una: o le speranze, che dite morte, erano ingannevoli e fallaci. E perchè vi fermate a rimpiangerle? Animo, e createvi altre speranze, un altro ideale men fragile, più conforme alla coscienza vostra. O non erano ingannevoli e fallaci. Ed allora bisogna, che ricostruiate con lo studio e la critica la fede scrollata: la vera scienza l’ha a rifare, la vera scienza, che guarda l’essenza delle cose e non gli amminnicoli. Ma la scienza pretesa vostra, onde menate tanto scalpore, non è per voi qualcosa di serio, anzi una ricreazione, un ozio tutto al più; e vi ha momenti, in cui manifestamente l’odiate. Quindi le lodi dell’ignoranza, simboleggiata nella favola della Psiche: O dell’anima umana, a cui (_sic_) fatale È sovente del ver la conoscenza, Immagine gentil, Psiche immortale; O divina farfalla, a cui (_sic_) l’essenza Delle cose è nascosta, o sol si svela Quanto basti al gioir dell’innocenza; Lascia, Psiche, l’improvvida querela, Nè desiar conoscere lo sposo, Che la temuta oscurità ti cela. Men dolce, o semplicetta, è bacio ascoso? Dolci meno gli amplessi e le parole; Onde bea Quel non visto il tuo riposo? Eppure la favola stessa della Psiche, se a forza e’ vuol cavarne un epimitio, dovrebbe insegnargli, che non vi ha godimento vero, schietto, sincero, senza conoscenza! Guardate quanto è più morale e gentile il pensiero della plebe pagana che quello di questo mezzoprete semicristiano! Certo di baci, che imitavan le colombe, e di bene scossi congiungimenti, avrebbe potuto appagarsi la Psiche, se... fosse stata contenta alla brutalità. Ma, contentandosene, sarebbe stata solo una meretrice volgarissima, degna che Amore le recesse addosso, come racconta il Machiavelli di aver fatto lui a non so qual vecchia scrofa, che gli si prostituiva al bujo. E finchè la Psiche tollera pazientemente gli amplessi dell’ignoto nume, perchè questi le scuote bene il pelliccione e le procaccia copia di grandi agi e comodi, essa Psiche è ben poco interessante, è una volgarissima mantenuta. Solo allora ci commuove, solo allora la stimiamo, quando prende la fiaccola ed il pugnale, per illuminarsi e distruggere anche le sue gioie ove turpe ne ravvisasse la fonte; quando è perseguitata e raminga ed infelice ed _amante_; ed è divenuta amante, dacchè ha saputo chi giacesse seco, dacchè ha conosciuto il suo rapitore. Solo questi suoi travagli son poetici e commoventi; solo in virtù di essi diventa degna dell’apoteosi. Ma, sacrosanti dei! chi di noi non istima orrendo e turpe, che una donna faccia copia di sè ad uno ignoto, fra le tenebre! Questa lode dell’ignoranza, dell’asinità volontaria, questo inculcar la ciucaggine, che accade metaforicamente qui, è altrove fatto a viso impudentemente scoperto. Leggasi la poesia intitolata: A _mia madre_, dove il Zanella dichiara di riconoscere, che la mamma gli ha dato ad intender da bimbo un mondo di corbellerie; eppure dichiara di antepor quelle, che e’ dichiara falsità, imposture, corbellerie, a’ portati della scienza, perchè questi _non appagano il core_. Insomma, lui alla scienza chiede pace dell’animo e piacere; chiede quel, che la scienza non ha missione di dare; riserbandosi di ripudiarne le conseguenze, ove non gli garbino: Madre! di dotte inchieste Tornan ben lagrimevoli gli allori, Se più crucciose e meste Fansi le vite e più gelati i cori. Se dal ver riedo meno eccelso e puro (!!??) Amo al tuo fianco riposarmi oscuro. Bella tempra d’uomo coscienzioso, il quale può chiudere volontariamente gli occhi al vero! La fede cristiana per lui non è un convincimento, non è una fiaccola potente; egli ha subaperte a mala pena le porte del sapere e ne è uscito un vento, che l’ha spenta: presto, il Zanella ritappa l’uscio e rimane al buio per paura d’infreddarsi. Ahimè! uno può rimpiangere le fedi e le illusioni svanite, ma non può, quando sieno state distrutte da un altro convincimento e più maturo, non può credervi unicamente, perchè fa proposito di credervi. V’è mai toccato d’esser tradito dalla ganza? Dopo le pruove del tradimento, si può fingere di ignorarlo, si può perdonarlo, si può continuare la relazione; una sola cosa è impossibile, credere ancora in colei, che vi ha mentito e che conoscete falsa. A nutrir fede in una persona non basta volere. E molto meno può credersi per un effetto della propria volontà arbitraria, quando il ragionamento e la ragione hanno scosso i vostri primi convincimenti; o discredere ciò, che saldi argomenti e stringenti vi dimostrano. Questo, ben inteso, per le anime oneste; coloro poi, la cui religione è una pura moda ed un semplice mezzo, possono veramente credere quel, che vogliono, pur che vogliano. Ma chiameremo fede la loro? Insomma il Zanella la pensa come Matteo Bandello, e con le parole del grande novelliere potremmo rendere il suo concetto della vita umana (_parte I, Novella XXV_): — «Io non vo’ già dire, che la investigazione della verità non sia cosa lodevolissima, anzi l’affermo e lodo; ma ben vo’ dire, che tutti gli atti umani devono esser fatti a luogo e tempo... Noi siamo venuti qui, non per disputare od astrologare o far lite, ma per ricrearci, darci piacere e stare con gioja ed allegrezza.» — Ma il Zanella ha torto marcio: e l’esempio de’ secoli passati ci scaltrisce su’ dolorosi frutti, che producono simili dottrine. Guai al popolo, che cade nello indifferentismo, nell’apatia filosofica o religiosa; che non pensa più alle dotte inchieste, anzi a ricrearsi e darsi piacere! Il vero è l’unica cosa meritevole d’amore. Non perchè ci possa esser baconianamente utile: anzi quell’idea di servirsene per un qualche scopo meschino e determinato, me lo sfata. Io amo il vero anche insalubre e velenoso; quello, che infelicita ed opprime. Amo quel vero, che mi fa soffrire; ed il preferisco all’errore utile, proficuo. Io ringrazierei colui, che mi provasse con documenti alla mano l’amico venerato essere un malvagio e la donna amata essere venale. Certo, da tali rivelazioni sarei reso infelicissimo e miserrimo più che nol sia ora, ma avrei un errore tolto dalla mia mente. Come dice stupendamente Tommaso Stigliani in principio del XX canto del suo _Mondo Nuovo_: Ben finsero a ragion gli antichi esperti, Che ’l sentier di virtù sia un aspro colle; E quel del vizio, con fioretti inserti, Una pianura delicata e molle: Poichè il volgare stuol de l’alme inerti Vive tranquillo e mai noja non tolle; E quei, che ad alte imprese opera dànno, Soggiaccion sempre ad infinito affanno. Ora nessuna impresa v’ha più alta della ricerca disinteressata del vero assoluto. Nel Zanella non c’è alcuna serietà. Questo fabbro di versi non ha ideale alcuno, non ha nulla di generoso. Scommetterei, ch’è un buontempone. Sicuro, qua e là, sotto alla misera porpora di pensieri accattati, trasparisce la natura del beone e del ghiottone, come si scorse l’orecchia dell’asino sotto la spoglia del Leone: sembra poeta _famelico_, anzi che _melico_. Qua e là una immagine gastronomica rivela l’indole vera dello scrittore: il soldato usa sempre immagini guerriere; il marinajo traslati marinareschi; ed il Zanella toglie con predilezione i paragoni e le metafore dal desco e dalla mensa. Parla del taglio dell’istmo di Suez, ne parla in via di paragone e quindi non avrebbe dovuto diffondervisi intorno; eppure egli non sa astenersi dall’aggiungere questi due versi, affatto superflui: E, sul desco de’ popoli, il tributo Porran d’avversi climi Orto ed Occaso; sicchè, per lui, l’importante, il caratteristico, nel taglio dell’istmo di Suez, è la maggior facilità di procacciarsi taluni oggetti di buccolica. Altrove fa che Galileo deplori i guai, che accadono ... se custode de’ celesti veri Autorità non siede; e sola il pane Di sapienza a’ parvoli non frange. Quando vuol descrivere l’affratellamento degli uomini, sel raffigura sotto la forma d’un simposio: ..... convenuti A banchetto comun da tutti i venti, Varî di volto e d’abito, i mortali La prima volta si gridâr fratelli. Questo secolo XIX è grande, secondo lui, perchè migliora ed accresce le risorse culinarie, migliorando ed accrescendo le quali, le anime anch’esse si trovano migliorate: Lode all’età, che, migliorando il vitto E la veste e l’albergo all’umil volgo, L’alme ancor ne migliora.... Sapevo, che qualche volta s’insegna a leggere ai bimbi con le chicche; ma, che si migliorasser le anime col buon vitto, mi giunge nuovo. Il contrario è vero: il benessere materiale corrompe, stempra. Lo scopo dell’uman genere, pel Nostro, è il mangiar bene: Or tanta luce di scoperte e tanta Fiamma di brame indefinite, immense. All’uom largite non avrebbe iddio; Se del pan, che matura il patrio solco, E del vestir, che la vellosa groppa Di domestica agnella gli consente, Dirsi pago dovea. Dunque, questo bisogno di scienza, che ci travaglia, questa sete misteriosa di sapere, ha per oggetto principale di trovar nuove salse ed intingoli, stoffe più leggiadre per adornarsi! Vergogna, a chi può contentarsi del pane, che matura il patrio sole o come dice il Giusti: _del fiasco paesano e del galletto!_ La nobiltà d’animo sta nel sentire una brama indefinita, immensa di leccornie esotiche e di bottiglie peregrine! Ned Apicio nè Sardanapalo giunsero mai a proclamar dottrine così turpi; e ciò, che vi ha di più turpe, è l’incoscienza, con cui le profferisce il Zanella, _sans s’en douter_. Anche descrivendo il mattino, la divina bellezza del sole, ispiratrice di tante teogonie a’ popoli antichi, suscita nella fantasia del sor Abate idee di pranzo: Nell’umida zolla discende feconda Del sole la luce, che il germe matura; S’imporpora il grappo: la messe s’imbionda; Il desco a’ mortali prepara Natura. Egli trova, che gl’Irlandesi debbono esser lietissimi di lasciar la patria, dove tocca loro (povera gente!) di mangiar solo patate, ossia il .... sordido pomo, Ne’ (_sic, ahi!_) squallidi inverni miserrimo pasto; pe’ pingui novali di .... un terreno, che accoglie la greggia, Al gelso benigno, benigno alla vite. Patate in Irlanda, manzo in Australia, c’è da rimaner sospesi forse un istante solo? Curioso, che gl’Irlandesi non emigrino però, se non col pianto agli occhi e col core straziato; e che i più preferiscano la miseria in patria a tanto bene lontano da essa! Tutta la poesia _Egoismo e Carità_ è su questo tono. Una madrefamiglia dev’essere, dice il Zanella, ... lieta, se miri Giulivo il suo drappello al desco accolto. Cornelia, lei, s’allegrava pensando a’ trionfi oratorî futuri de’ figliuoli! Un pellegrino va a visitare gli amici esuli, unicamente, dice lui: Per bevere un bicchier del loro vino. Per dio, solo s’io fossi vinattiere avrei gusto d’una visita, fatta con questo scopo dichiarato. Beninteso, che amor di patria nel Zanella non ne trasparisce, non ce n’è: si mangia anche in Australia e forse meglio e certo più mercato che in Italia. _Patria est ubi pasco, non ubi nasco_, mi diceva il mio primo maestro di matematica, emigrato spagnuolo carlista (valente maestro d’un pessimo scolare). Ed il Zanella: A’ greppi divelta dell’Alpe natale, In rive migliori, la pianta si attrista; Ma sotto ogni cielo l’errante mortale Con vomero e pialla la patria conquista. Il Danton, gran farabutto, ci fa perdonare ogni sua colpa, od almeno si fa compatire, malgrado la sua perversità, quando rifiuta di fuggire per salvar la vita, dicendo la patria non portarsi via attaccata alle suola delle scarpe. Io confesso (anche a rischio d’essere paragonato ad una pianta) di farmi della patria un’idea un po’ più alta e spirituale: e di non saper concepire come il vomero e la pialla possano conquistarla ad alcuno. Patria significa leggi, istituzioni, costumi, storia, lingua, abitudini, relazioni, affetti; e tutto ciò concretato in un dato luogo e fra date persone. Amo quest’Italia così fatta, così organata: mutatemela, e chi sa, se continuerei ad amarla ugualmente? Un’Italia repubblicana a me sarebbe ancor qualcosa? _Nescio._ Ma qual dottrina più immorale di questa, che consiglia e loda di sprezzare e spezzare i doveri, che s’hanno verso lo Stato, i vincoli, che legano alla patria ed al principe, per procacciare alla propria persona un benessere maggiore? Per un vescovado in Istiria od in Ungheria sarebbe dunque divenuto buono Austriaco il Zanella? Abbiamo visto, che la scienza, pel Zanella, è l’amminnicolo. Ma ci è almeno esattezza nelle minute particolarità scientifiche, ch’egli affastella? nel qual caso, i suoi versi, come quelli dello _Invito a Lesbia Cidonia_, potrebbero avere qualche utilità pedagogica. Niente affatto. Io, che sono pure il grand’asino in tutte le scienze sperimentali, che ne ho soltanto quelle nozioni imperfette e superficiali, le quali oggigiorno son patrimonio universale, io posso pur cogliere ad ogni piè sospinto il Zanella in fallo. Per esempio, scrive il sor abate del sole, chiamandolo: ..... l’astro gigante Che indura la quercia sul dorso del monte, Che spento carbone ralluma in diamante. Che il diamante sia puro carbonio, come il carbone stesso, sapevamcelo; ma che il carbone divenga diamante e divenga tale per azione del sole, è falso. Oh, se così fosse, quanti carboni spenti vedremmo esposti al sole su pe’ tetti! Manca al Zanella il senso del vero. Udite un po’, com’ei descrive Galileo Galilei, che, vecchio e cieco, siede a respirare un po’ d’aria verso il tramonto, avendo a fianco una sua figliuola: .... Ei tenea sovra una sfera La manca mano; e, con la destra, in aria Scrive taciti cerchi... Questa è una mossa, un atteggio, una posa, alla quale il Zanella ha condannato il povero vecchio; non una posizione naturale e spontanea di lui. Sopraggiunge il Milton, chiamato dal Zanella: _anglico bardo_: il Milton non è mai stato bardo, nè bardato. La Maria Galilei gli chiede: Chi t’ha scorto quassù? che cerchi, incauto? Perchè incauto? perchè tanta rettorica? Sembra di legger le novelle delle balie, quando due incauti picchiano all’uscio dell’Orco e l’Orchessa li ammonisce di fuggir subito, subito, subito. Se il Zanella vuol descrivere le ore notturne, vi dirà: Appena è vespero. E già tranquilla Sovra le coltrici Posa la villa. Lasciando che qui _villa_ pe’ _villani_ fa un bruttissimo effetto (_la villa, che posa sopra le coltrici!_), falso è, che al vespero già si dorma in villa; assolutamente fuor di proposito quel _coltrici_, pe’ duri letti de’ contadini; mera reminiscenza manzoniana: _Sulla diserta coltrice, Accanto a lui posò_. Ma coltrice è una delle parole predilette dal Zanella, come _transito_, _sonito_. Passiamo oltre: ecco come egli rappresenta una fanciulla, che fa toletta: Scalpita e smania La giovinetta, Che il velo roseo Del ballo aspetta. Che è fatta giumenta? Scalpitare è fuor di posto affatto e smaniare è fuor di luogo. Lassù, nell’Osservatorio: Sbadiglia, abbrivida, Scote di brine Vigile astronomo Rorido il crine; e questo nel momento in cui _Iadi e Pleiadi fansi più chiare_. Sbadiglia! è ignobile e comico; perchè cel rappresenta noiato e distratto. Andiamo avanti. Si festeggia l’onomastico d’una signora? La cognata defunta il festeggia in paradiso con gli angeli! Ella non viene. Il biondo capo adorno D’eterni fiori nell’eterna Reggia, Agli angioli confusa, ella festeggia Il tuo bel giorno. Sudicia adulazione ed empia; come se gli angeli di paradiso dovessero incaricarsi degli onomastici e de’ pranzi di famiglia di casa Lampertico! Una suocera decanta al genero la merce, vo’ dir la figliuola, ch’ella gli consegna: Fresche ghirlande arrecheratti in dono D’immutabile amore; in sulla sera Attenderà di tue pedate il suono.... La seconda immagine è buona; ma che canchero sono le fresche ghirlande d’immutabile amore? Lo esprimere con verità ciò, che veramente si sente, con que’ piccoli tratti, che testificano l’impressione originale, fa propriamente il grande scrittore. I volgari si servono sempre di frasi fritte e rifritte, bell’e fatte, senza il conio loro proprio, che somigliano alle vesti accattate da’ rigattieri. Quindi tutte le vecchie ciarpe mitologiche, che credevamo da lunga pezza smesse, il Zanella le adopera ancora; e mille cifre morte e per sempre, che esprimono la freddezza assoluta, assiderante della sua mente. Quindi Apollo e Pindo ed Elicona tornano in ballo; quindi fa dire al Milton (che mi diventa un Alpinista). ...... In sogno A me spesso venian l’ombre de’ vati E mi dicean: — «Del glorioso monte Figlio, dispera guadagnar la cima...» — Quindi fa, che il Galilei gli risponda: — «Se brama Del poetico allor, figlio, ti punge, Ben le tue chiome un dì n’andranno altere.» — .... «d’Elicona Alle velate finzïoni avvezzo.» — Quindi, altrove, vi assicurerà, che alcuni, se avessero sortito l’ingegno d’un suo amico: Chiaro di sè, nell’Apollineo Regno, Avrian levato ambizïoso suono. E ci darà la preziosa notizia, che Camillo Benso di Cavour si dedicava occultamente a pratiche di cerimonie pagane: A’ cupi genî del Tirren custodi Serti offriva non visto.... E parlerà così de’ sogni: Con ala nivea, Per l’aure brune, I sogni or piovono Sopra le cune. E, per dare un ultimo esempio di queste ciarpe, ci apprenderà, che la gioventù fugge Su’ veloci del tempo invidi vanni. Il Zanella pretende di essersi formato lo stile, traducendo dagli erotici latini; ed ha voluto comunicare al pubblico alcuni saggi di coteste sue versioni. Egli stima, essergli tornato utilissimo siffatto esercizio, abituandolo a non contentarsi della prima forma; e vuol darci quindi modestamente ad intendere, d’aver acquistate, mercè di esso, tutte le qualità, che ci vogliono per durare immortale: — «Nelle cave di pietra, che sono in Chiampo, mio luogo natale, ho veduto, che i primi strati non hanno valore; come quelli, che facilmente si sfogliano e si sgretolano. Solamente dopo il secondo o il terzo, esce la lastra magnifica, che resiste alla forza dissolvente del sole e del ghiaccio». — Veramente, a me non pare, che lo stile del Zanella valga gran cosa; ma non posso recisamente negare, che l’esercizio di tradurre gli sia tornato giovevole, perchè può benissimo darsi, che prima egli facesse peggio. Quel, che discerno chiaro, è, che i suoi volgarizzamenti sono fatti senza intelligenza poetica del testo, senza gusto alcuno. Prendo a caso qualche esempio. Ecco, mi cade sott’occhi l’Elegia III del Libro I de’ _Tristi_ di Publio Ovidio Nasone, voltata dal Zanella in istrofette savioliche. Gli è un metro, che spesso rende ammodo i distici latini, sebbene in questo caso non mi paia indicato, non mi sembri grave abbastanza e solenne; però, non oso biasimarne la scelta, giacchè non saprei proprio quale altro proporne in vece: la terzina, metro forse più acconcio per tradurre i distici, quando trattasi di Ovidio, riesce troppo lunga, perchè già Ovidio è un po’ vuoto. Ma che dire del modo di volgarizzare? _Cum subit illius tristissima noctis imago_ _Quae mihi supremum tempus in urbe fuit;_ _Cum repeto noctem, qua tot mihi cara reliqui;_ _Labitur ex oculis nunc quoque gutta meis._ Quando alla notte orribile Io col pensier ritorno, Che sotto il ciel romuleo Fu l’ultimo mio giorno; Quando cotante io medito Dolcezze, che lasciai; Di subitana lagrima Molli ancor sento i rai. Una notte, ch’è l’ultimo giorno? O che scempiaggine è codesta? Ovidio ha scritto _supremum tempus_, rappresentandola quasi come un’agonia fatale. _Il ciel romuleo_ non vale quell’_Urbe_ tanto semplice e tanto eloquente. Non è mica Ovidio, che torna col pensiero alla sua partenza per l’esiglio, oh no! egli vorrebbe dimenticare, se fosse possibile, la ricordanza atroce; anzi l’immagine di quella notte si risveglia da sè nella fantasia di lui, dovunque, fatalmente; vi s’introduce quasi di soppiatto: _subiit_. Solo quando questa immagine si è già insignorita di lui, egli ne rianda tutti i momenti e l’abbandono di tante care cose. Questo secondo momento è del tutto pretermesso dal Zanella, che invece fa meditare le dilezioni lasciate. Il _tot mihi cara_ comprende mille cose, che non sono _dolcezze_: i lari, l’esercizio della cittadinanza, eccetera. Sopraffatto dall’amara ricordanza, Ovidio piange. Ma non confessa di piangere il superbo. Una stilla gli discorre dagli occhi. Ed è sorpreso, che ciò accada ancora: _nunc quoque_, in quella età! dopo tanto tempo del fatto! Dico _tanto tempo_, perchè il dolore lo ha fatto sembrar lunghissimo. Egli insomma vuol quasi dimostrarsi irresponsabile del pianto: è una cosa, che accade per forza maggiore. Come ci stia a pigione il _subitana_ è evidente; anzi è una lagrima stentata; anzi una stilla: il poeta si vergogna di chiamarla col nome proprio. Che dire poi di quel _rai_, per occhi! Un uomo, un cavalier romano, chiama raggi i proprî occhi? e quando? appunto quando il dolore li ha abbattuti, quando non hanno più nulla di radiante! _Jam prope lux aderat, qua me discedere Caesar_ _Finibus extremae jusserat Ausoniae._ Era il mattin già prossimo; E, per regale editto, Io dai confini Italici Uscir dovea proscritto. Qui è sparita l’antitesi fra l’_aderat_ e il _discedere_; fra il reddire della luce, che lascia l’Italia ogni sera per tornare ogni mattina, e la partenza senza reddita del poeta. La luce è giunta: _aderat_; soprapprende e sorprende l’infelice; la luce, che tutto abbella e che deve far palese a tutti il suo partire! Confesso di non capire il _regale editto_. Cesare non era Re: povera storia! Anche più bestiale è quel _proscritto_. Ovidio non era _proscritto_. Si allontanava per un semplice comando di un uomo; non dava noja se non ad un solo nella vasta città: ed il nomina; era mandato a domicilio coatto, via, confinato per _misura di polizia_, per un _provvedimento economico_; soggiaceva ad un arbitrio ed il fa capire senza espressamente dirlo. _Uscire da’ confini Italici_ è frase, che non rende il _discedere finibus extremae Ausoniae_; quel _discedere_ ci dà lo strazio del distacco; quel _finibus extremae Ausoniae_ ci rappresenta tutto il dolore, che cresce a mano a mano che il profugo si allontana dalla Città. Vivere relegato in un cantuccio d’Italia, andare a Pianosa od alle Tremiti, sarebbe già duro e crudele; ma Cesare vuol di più: vuole che l’infelice vada tra’ barbari. Son queste minuzie, che producono lo effetto poetico. Che dire del _torpuerant longa pectora nostra mora_, reso con:.... _immenso Sbalordimento all’animo Moto avea tolto a senso_? Che dire di questa insulsa imitazione del Manzoni: Giacqui, percosso, attonito, Come percosso e domo Uom giace dalla folgore: Tronco vital, non uomo; che dovrebbe rendere il celeberrimo distico e citatissimo: _Non aliter stupui, quam qui Iovis ignibus ictus_ _Vivit; et est vitae nescius ipse suae._ _Disperato spasimo_, non traduce punto l’_imbre per indignas usque cadente genas_. _Fortuna amara_ è tutt’altra cosa del fato, che diamine! Cerco invano nel testo latino l’equivalente della zeppa: _lungi dal patrio Tevere_. Ovidio dice più in là, che ogni angolo della casa avea lagrime; ma gli si fa la parodia scrivendo: Non ha la casa un angolo, Che sia di pianto asciutto. _I Lari_, non son _le case_; e la serie d’idee, che suscitava nel lettore latino l’allusione agli dei domestici, è uccisa dalla espressione sostituita dal Zanella. Ned Ovidio ha mai detto, che la moglie irreligiosamente _assalisse di acre rimprovero i Penati_; anzi afferma, che li pregò prolissamente e indarno! Ma basta! Questo saggio è sufficiente per mostrare con quanta intelligenza letterale e poetica del testo e con quanto gusto traduca il Zanella. E si tratta d’Ovidio, vale a dire del più facile scrittore latino! d’uno, che sarei forse forse buono a tradurre anch’io, figuriamoci! So, che a molti queste mie parole sul Zanella sembreranno uno scandalo. So, che s’egli avesse a morire oppure ad impazzare, diranno che ci colpo io e che la mia penna è peggio del pugnale del sicario. Dicano! Sbraitino! Poco male! Padroni! Si servano! Se dovessimo preoccuparci de’ falsi giudicî d’ogni dappoco o d’ogni farabutto, che si smaschera; d’ogni manutengolo letterario o politico, che si mette alla berlina, e cui si guastan l’ova nel paniere; d’ogni asino, che diventa nimico giurato di chiunque abbatte quegl’Idoli, ch’egli si compiaceva nell’adorare, si starebbe freschi! Col dimostrare irrazionale un ossequio, spero poco di ritrarne subito il volgo, perchè conosco la pecoraggine umana e l’irragionevolezza; ma voglio lavarmi le mani dello errore de’ miei coevi. Ho bandito verità, che mi stavano a cuore, lealmente. E so di poter iscrivere su qualunque cosa mia le parole stesse, che ho lette sul frontespizio d’un manoscritto d’Alchimia mostratomi dal Minieri Riccio: QUI FRAUDEM QUAERIT ET HABET COR IMPURUM A ME RECEDAT. POSCRITTA (Agosto M.DCCC.LXXVI) — «Possibile, possibile, che a’ giorni nostri non ci sia più alcuno, capace di scarabocchiar venti versi, senza commettere qualche svarione di prosodia, che farebbe perdere la pazienza a Sant’Ilarione, che farebbe andare Giobbe fuori della grazia di Dio, che farebbe salir la senapa al naso del più mite uomo del mondo?» — Così dicevo dianzi leggendo un componimento del Zanella nell’ultimo fascicolo della _Nuova Antologia_, giunto a’ versi: E fantasia, coi facili colori Che l’ïeri (sic) ignorò, veste il domani. — «_Ieri_ è un dissillabo, che diamine! e mai mai e poi mai non si scisse, non potrà scindersi quel dittongamento _ie_, (ch’è semplice rinforzamento o _guna_ d’un _e_ accentata latina), per farne un trissillabo, corpo di Bacco! come mai non s’è detto, nè mai potrà dirsi _pïede_ invece di _piede_, _mïele_ invece di _miele_, _fïele_ invece di _fiele_, e via discorrendo, santo diavolo!» — E nel dire, _santo diavolo!_ detti un gran pugno sul tavolo e rovesciai malauguratamente il calamaio; cadde sul fascicolo dell’_Antologia_, che non è mio. La poesia del Zanella ne rimase tutta imbrattata, ed ora non può più leggersi in quell’esemplare. Così almeno chi l’avrà fra le mani, potrà, fingersi, figurarsi, immaginarsi, che la fosse una bella cosa. Si diventa intolleranti, si diventa villani, vedendo l’ignoranza e la ciarlataneria, gonfie, onorate ed applaudite! Ecco qua, un giornale annunzia un’_Ode classica_ per nozze Papasogli Remaggi, stampata a Pisa dal Nistri, opera — «di N. F. Pelosini, il nome del quale, quando si parla di scrittori, che sanno la lingua e sanno adoperarla come va, non so perchè non venga subito alla mente di tutti gl’Italiani!» — Perchè, caro giornalista? O non ne citi tu questo endecasillabo: Dilette _Pieridi le nuove Furie_? E ti pare, che gl’Italiani possan credere, che sappia la lingua loro, chi contrae il quadrisillabo _Pieridi_ in un trisillabo, quasi significasse: _le figliuole del sior Piero_? Oh Zanella, oh Pelosini, se v’accingeste bravamente a rifar gli studî scarsi e sbagliati? Ma che si burla, a stampare di questa robaccia? Dirò con le parole istesse del Zanella e sarà l’ultima frase, che io mai dica o scriva intorno a costui: Orecchie tanto pazïenti il mondo Oggi non ha... TRADUTTORE, TRADITORE (ANDREA MAFFEI) M.DCCC.LXIX. Andrea Maffei, da forse meglio che cinquant’anni, pubblica volgarizzamenti dal tedesco e dall’Inglese, in prosa ed in versi. I suoi componimenti originali hanno incontrato poco; ma le traduzioni, sebbene spesso e’ s’arrabattasse intorno ad autori di pochissimo conto, come a dire Salomone Gessner e Gian Ladislao Pyrker, gli han valso fama. Oramai tutti lo stimano conoscitore profondo di quegl’idiomi, interprete felicissimo degli autori stranieri, ottimo verseggiatore. È una riputazione fatta; il pregiudizio sta in favor suo. Il nome di lui raccomanda una scrittura e le assicura spaccio. Il solo, per quanto io mi sappia, che contraddicesse all’opinione universale, fu Giuseppe Mazzini, il quale fin dal M.DCCC.XXXVII s’esprimeva così in un articolo sul _Moto letterario in Italia_: — «Abbiamo alcune traduzioni di autori stranieri; ma, generalmente, il senso e lo spirito degli originali sono immolati a modi artificiali e di convenzione, nelle traduzioni di Maffei (_sic_) come in altre». — Se non che, in letteratura ed in politica, il Mazzini persuade il contrario di ciò, che vorrebbe consigliare: è un’autorità alla rovescia. Quindi il suo biasimo, se pur venne letto ed avvertito, giovò all’incremento della celebrità del Maffei. Mi assicurano, anche la Caterina Percoto aver, molti anni fa, rivedute le bucce ad alcune traduzioni del Maffei: ma non nocque alla riputazione di lui; perchè quel lavoro critico è rimasto del tutto ignoto. Chi cura gli scarabocchi femminili? Ed, il confesso ingenuamente, fino all’altrieri, ho creduto anch’io ciecamente non immeritata tanta fama, sebbene poco m’andasse a sangue quel verseggiare fragoroso, che affatica il timpano, non diversamente da un cannoneggiar frequente e vicino: scuola di Vincenzo Monti. Per quanto malvolentieri uno si rassegni a giurare sulla fede altrui, torna impossibile a chiunque il verificare di per sè i titoli d’ogni celebrità. Un esame coscienzioso di qualsivoglia produzioncella artistica richiede tanto tempo e tanto sciupo di pensiero, che, in moltissimi casi, pare opportuno l’accettare indiscussa l’opinion volgare, quantunque volte la responsabilità propria non viene impegnata. Come verificare di per sè i titoli d’ogni celebrità, distinguendo i validi dagl’inammessibili? Ma l’altrieri m’è capitato un volume, che s’intitola: _Fausto, tragedia di Wolfango (sic) Goethe, tradotta da Andrea Maffei. Seconda edizione compiuta. Parte seconda. Firenze. Successori Le-Monnier. 1869_. (insedicesimo di IV-431 pagg. oltre bottello e frontespizio in principio e l’indice in fine). Parecchi svarioni, che notai scartabellandolo, mi resero attento. Per esempio, il Goethe (nell’atto V) scrive, facendo parlare Fausto de’ terreni da lui dissodati ed inferiori al livello del mare: — «che v’è spazio per milioni, _Nicht sicher zwar doch thätig-frei zu wohnen_ (per abitare malsicuri in vero, ma liberi ed operosi).» — Ed il Maffei gli fa dire proprio l’opposto: — «Non sol per abitarvi in sicurezza, Ma in operosa libertà». — Tutto lo squarcio seguente è franteso. Il Goethe scrive: _Und so verbringt, umrungen von Gefahr, Hier Kindheit, Mann und Greis sein tüchtig Iahr_ (e così, fanciulli, uomini e vecchi, passeranno qui il lor buon tempo, cinti da pericolo); ed il Maffei a controsenso: — «Tal che il giovane, il vecchio e l’uom maturo Giorni agiati conduca» — Ora, il pericolo può tornare indifferente e persino aggradevole. Alfredo di Vigny ha scritto un capitolo stupendo sull’amore del pericolo, chiamandolo: — «sorgente di mille voluttà incognite a’ più; lotta, che ha trionfi intimi, pieni di magnificenza». — (_Confronta_ _Leopardi_, _A un vincitore nel pallone_). Ma nessuno al mondo, ch’io sappia, ha mai pensato di chiamar comodo il pericolare. Il Goethe, almeno, di certo no. Nella traduzione del Maffei, trovo in bocca ad un coro questa sentenza: — «Chi posseder la bella Fra le belle pretende, innanzi tutto Armisi di prudenza». — Ma, nell’originale, è detto tutto all’incontrario: — «si provvegga prudentemente di armi». — In un altro punto, secondo il Maffei, Mefistofele esclamerebbe: — «Andiam così, noi sciocchi, Dal palagio alla cieca angusta casa». — Per poco che il traduttore avesse riflettuto, Mefistofele essere il demonio e quindi immortale, avrebbe messo un indeterminato _si va_ invece di quella prima persona plurale, che qui riesce assurda e di cui non trovi traccia nell’originale. Subito dopo segue un coro di Lémuri, che il Maffei traduce: — «Poi che la buccia Mi s’aggrinzò, Poi che la gruccia M’appuntellò, Vicino al _tumulo_ Mi cadde il piè... Perchè dischiudere Doveasi a me?» — Nel testo non è fatta parola di bucce, che s’aggrinzano, nè di grucce, che appuntellano, nè di piedi, che cadono. Vi è detto: — «Ora la perfida vecchiaia mi ha percossa con la sua gruccia; io incespicai sull’uscio della _fossa_...... perchè stava appunto aperta?» — O quel _fossa_ reso per _tumulo_ non è stupendo? che direbbe un geologo il quale scrivesse il _cratere del Vesuvio_ e cui stampassero il _cono_, sotto pretesto, che, nell’uso volgare, i due termini s’usano promiscuamente? Altrove Fausto insegna all’Elena greca tutto l’incanto della rima; e quindi, essendo il lor castello minacciato dal povero Menelao, infiamma i guerrieri seguaci alla pugna, dividendo loro anticipatamente la Grecia, isminuzzandola loro in tanti feuduzzi, con briose quartine di trocaici rimati. Il Maffei ha la crudeltà di voltare la parlata in isciolti, contro ogni intenzione dell’autore. Altrove inciampo in quest’espressione: — «dall’Hazio all’Ellade». — La mia scienza geografica non bastava ad interpretarla. Sapeva Azio cosa fosse; ma quel promontorio è appunto in Ellade e non prese mai l’H in alcuna lingua. Non potevo supporre un _lapsus calami_ od uno errore tipografico per _dal Lazio all’Ellade_, che il nostro sacro Lazio c’entrava come il cavolo a merenda. Riscontro l’originale e trovo _Harz_, che vale quanto _Selva Ercinia_. Questo si chiama tradurre ad orecchio; e mi ricorda l’aneddoto volgare, che lessi in una collezione manoscritta di facezie popolari, gentilmente comunicatemi dal dottor Ludovico Paganelli da Castrocaro. Un vescovo visitava la chiesuola del più umile villaggio della diocesi. Sopra l’altarino d’una cappella, pendeva un quadro originale dell’esimio pittore Michelangelo Buonascopa, il più fecondo pennelleggiatore, che mai vivesse, (come dimostrano le opere di lui, sparse pel mondo ed in altri siti), tanto che se n’è fin voluto fare un personaggio mitico, al quale vengono attribuite le fatiche di molti, un Ercole ed un Omero della pittura. Monsignore si fermò a guardare il dipinto, che rappresentava il presepio. Vi vedevi la Vergine, inginocchiata innanzi al Bambino, entrambo con le loro brave corone di rame indorato sul capo; e sopra c’era la scritta: _Quem genuit adoravit_; che il Manzoni parafraserebbe: E l’adorò; beata! Innanzi al dio prostrata, Che il puro sen le aprì. Monsignore guardava; e lesse la scritta, e ripetè parecchie volte la frase latina a bassa voce, macchinalmente, come suole accadere, pensando forse a tutt’altro. Il secretario di su’ Eminenza, stimando per avventura che il padrone non avesse inteso quel latinetto e volendo fare il saputello, scappò fuori a dire con la massima prosopopea: — «Già monsignore, _que’ di Genova l’indorarono_; chè qua, ed in tutta la provincia, non si scavizzolerebbe un operaio capace di far bene di questi lavori. Bisogna ricorrer sempre a’ forestieri, quando si vuole un’indoratura ammodo.» — Il povero Vescovo fece bocca da ridere, e si astenne per cristiana carità dal mortificare il prosuntuoso. Ma si persuase d’aver per segretario una gran bestia. I diocesani n’eran già persuasissimi da un pezzo. Insomma, dopo uno studio attento del volume, ho dovuto conchiudere, che la bella fama del Maffei l’è usurpata, giacchè sarebbe malagevole il tradurre con meno intelligenza, con più inesattezza, accumulando più spropositi. Duolmi il profferir queste parole, le quali potrebbero forse contristare una canizie; ma sarei timido amico al vero, se riguardi di tal fatta mi persuadessero di tacere. Della persona del Maffei, potrei astenermi dal parlare ancorchè fosse da dirne ogni male, perchè lo starne zitto non implicherebbe ned ignoranza nè complicità, non nuocerebbe ad alcuno. Delle opere gli è un altro par di maniche. L’interesse de’ terzi, cioè degl’Italiani, che, ignorando il tedesco, credon proprio di leggere il Goethe, quando s’inghiottono la traduzione Maffei, mi obbliga a parlare. Del resto, non chieggo di venir creduto senza pruova: tolgo quindi a disaminare la prima scena, paragonando versione e testo. Chi avrà la pazienza di seguirmi, non potrà dissentir meco. Nel giorno di Sant’Andrea pescatore, che pesca l’anime al Signore, in Firenze, le famiglie sogliono giocare a cruscherella. Il babbo getta in un gran monte di crusca, che sta in mezzo al tavolo, intorno cui seggono i giocatori, vi getta una manciata di centesimi. Quindi si rimescola crusca e centesimi, come un popolo in rivoluzione; e poi si divide il gran monte in tanti monticelli quanti sono i ragunati, appunto in quella forma, che alcuni bassi ambiziosi vorrebbero federativamente sminuzzar l’Italia. Ognuno frunga nella crusca, che gli vien assegnata; e que’ centesimi, ch’e’ vi trova, son suoi; e, se nulla trova, i compagni tel fischiano. Il mio monticello di crusca è la versione del Maffei; i centesimi, che vi cerco, sono gli spropositi; per dio! ne trovo finchè voglio; son più gli errori che i periodi, più i centesimini che i granelli di crusca. Questa scena ha nel testo centoquindici versi, nella traduzione Maffei centrentaquattro: possiamo arguirne un po’ di stemperamento, perchè, in regola generale, un verso Italiano analogo riesce più che sufficiente a renderne uno tedesco: se il vocabolo tedesco è di solito più breve dell’Italiano corrispondente, le nostre forme grammaticali sono viceversa più energiche, la nostra conjugazione è più ricca di tempi, le nostre ellissi ed i nostri sottintesi spigliano l’orazione; e d’infinite parole superflue ne facciamo a meno. Lo argomento della scena è presto detto. Ariele esorta sull’alba una torma di spiritelli ad indur pace nell’animo esagitato dello stanco Fausto, a discacciarne il rimorso, ad infondergli l’obblio del passato, l’amor della vita. Spunta il sole; spariscono i silfi. Il dormiente si ridesta, rinfrancato d’anima e di corpo, desideroso di godimento e di azione, convinto che ogni Ideale astratto perdura inasseguibile, e può solo fruirsi nel riflesso variopinto, che ce ne offre la vita. — «L’attività è l’uomo,» — dice il Barrili. — «_Fare, fare_ è l’impresa gentilizia di questo credente nel cuore, scettico nella mente, che il Goethe ha incarnato» — ossia, voluto incarnare — «nel suo Fausto. Fare, fare: ed è perdonato anche l’errore; e i patti col diavolo, anco se scritti col proprio sangue, non tengono. Chi più ha operato, con la coscienza di voler giungere al vero, ha salvata l’anima sua (_L’Olmo e l’Edera._ X).» — Del resto, questa prima scena della seconda parte del _Fausto_ è fredda: non parla nèd al cuore nèd alla fantasia; punta passione, punto sentimento, punta poesia; Ariele, i silfi; Fausto non sono personalità spiccate e pregnanti, anzi vuote rappresentazioni, portavoci adoperati dall’autore per esprimere un suo concetto; ed i concetti, ch’egli vuole esprimere non sono, come quelli del Voltaire di natura da appassionare per sè stessi, materialmente il lettore. L’intervento fantasmagorico rimane ingiustificato; il monologo del protagonista è rettorico e declamatorio. Ma, numi del cielo! ciò, che bisognava appunto rappresentarmi, era codesta guarigione, codesto incallimento di Fausto, codesto suo lento oblio e riscatto del passato, in tutte le gradazioncelle, che, un attento ed affettuoso esame del problema psicologico avrebbe fatto scoprire. Il mutamento, per tornar poetico, non dovrebb’esser miracoloso ed accadere in virtù de’ canti soprannaturali delle _sifilidi_ (come avrebbe detto il Madoj-Albanese); bensì svolgersi sotto i nostri occhi, in modo da capacitarci, da sembrarci, nonchè possibile, necessario. Dovrebbe insomma essere l’argomento non d’una scena, anzi di tutta la seconda parte. Tanto il Goethe non ha visto; ned era forse in grado di eseguire. Ma la fattura e l’armonia de’ versi è stupenda: bellezza questa musicale anzichè poetica, però sempre bellezza; e noialtri Italiani, indulgentissimi pe’ versi, che suonano e non creano, saremmo ingiusti, rimproverando agli altri popoli di compiacersene. Onomatopea bene intesa, splendore di tropi, studio intelligente de’ fenomeni naturali, lingua discretamente pura, finito tecnico, ecco i pregi, che, nell’originale tedesco, compensano in parte l’inane simbolismo e la deficienza di contenuto poetico, che questa scena ha comune con alcuni canti dell’Allighieri, i quali sono disquisizioni teologiche versificate. Difatti, l’opera de’ Silfi verso Fausto rimane senza connessione, vuoi con la prima parte della Tragedia, vuoi con tutto il seguito. Convien dunque interpretarla simbolicamente e riferirla alla relazione, che han fra di loro le due parti della favola. Nella prima s’è incarnata l’irrequietezza intellettuale e morale della gioventù del poeta; nella seconda n’è ritratta la vecchiaja, serenamente contemplativa, universale, eclettica. Il Goethe stesso ha detto: — «La prima parte è quasi tutta subjettiva, tutto vi è prodotto d’un uomo appassionato, preoccupato. Nella seconda parte non vi è quasi nulla di subjettivo; vi apparisce un mondo più alto, più vasto, più chiaro, più spassionato; e chi non ha molto visto e molto provato non sa che farsene». — Il Coro de’ Silfi rappresenta la virtù poetica, la quale, nella prima parte, evoca le lotte intime delle passioni e della coscienza, e, nella seconda, trasforma ogni cosa in un lieto scherzo della immaginativa. La catarsi e glorificazione, per mezzo degli spiriti della poesia, vuole esprimere una palingenesi poetica, che ci autorizza a prescindere dal precedente o cel mostra da un punto di vista, che la sola seconda parte può spiegarci. Ma tutto questo simbolismo, sempre riferibile alla vita ed alle vicende personali del Goethe, non potrebbe interessarci e commuoversi. L’accompagnamento di _arpe eolie_ al canto di Ariele è cosa stupidamente buffa; è una strampalataggine, che non fa nemmen ridere. Nè mancano i plagi: la idea di far consolare Fausto dormiente dal coro de’ silfi è imitata dal Calderon, che fa consolare un suo protagonista svenuto dagli angeli. La pirateria era sistema pel Goethe: tutti sanno, ch’egli osò stampare come cosa propria una canzonetta popolare, mutandovi poche parole. C’è un suo epigramma, _Totalità_, che viene spesso citato: mi sono accorto, ch’è tolto dalla prosa francese del Beroaldo di Verville. Non la finirei: ma torniamo a bomba. I versi, rimati tutti, appartengono a diversi metri, scelti con accorgimento maestrevole, sempre adatti a’ personaggi, alla materia. Giacchè, per dirla con Bione Crateo ossia Vincenzo Gravina: — «il numero ha per primo e maggior vanto suo l’esser conforme ed imitare con la propria armonia il genio e la natura della cosa, che si rappresenta: perchè tanto il numero quanto la locuzione son tolti a fine di ben condurre e di partorir l’espressione, la quale dee essere regola e misura di tutti i colori poetici, che debbono avere stima ed approvazione proporzionata all’aiuto, che prestano alla rassomiglianza». — E Giuseppe Giusti scriveva a Silvio Giannini: — «Questa analogia dei metri col subietto è trascurata e derisa: ma chi la deride e chi la trascura se ne accorgerà. Si può scherzare con tutti gl’istrumenti e sopra tutte le corde; ma l’accompagnarsi una Elegia col sistro e coi timpani è una facezia da carnevale». — Il coro de’ Silfi canta strofe di trocaici analoghi a’ nostri ottonarî. Ariele dà l’intonazione al coro con una strofa consimile; ha poi un recitativo ne’ soliti giambi tragici tedeschi, ed un altro canto di tredici ottonarî irregolarmente rimati. Il monologo di Fausto ridesto è in terzine, imitate dalle italiane, sebbene vi si ripetano le rime senza scrupolo, in opposizione alla: — «Stolta legge, anche io ’l dico, ma pur legge Che il terzinante antico mastro ditta;» — come, a torto, l’Astigiano. Questo metro, introdotto in Germania, nell’ultimo decennio del secolo scorso, da Augusto Guglielmo Schlegel, (che, se non erro, l’adoperò persino in una tragedia, quantunque non ci sia metro meno drammatico, come può convincersene chiunque ha letto anche le favole boscherecce e le tragedie in terzine Italiane, che son parecchie) vi ha poco incontrato: il Goethe non se n’è servito se non qui e nel carme sul Cranio dello Schiller. In Italiano sogliamo chiudere il periodo ad ogni terzina; invece il Goethe fa periodi, che abbracciano più terzetti; e, per lo più, mette il punto fermo dopo il primo verso di una terzina. Il Maffei, non ispirato male nel tradurre gli ottonarî degli spiritelli in decasillabi, e che ha voluto così accrescere od inconsciamente forse solo ne ha cresciuto il suono, non so come possa scolparsi di aver tradotta in altro metro, cioè in settenarî, la strofa d’Ariele. Oltre lo scàpito d’armonia, ne risultano due sconvenienze. In primo luogo, Ariele non prescrive più a’ Silfi il tono, in cui debbono cantare; cessa d’esserne il corago; e quindi il metro, adoperato da questi, diventa immotivato, arbitrario. E poi, non s’avverte più distacco sufficiente fra la strofa ed il recitativo, tradotto dal Maffei con un libero intreccio di endecasillabi, settenarî e quinarî, quale usa ne’ melodrammi. Come il recitativo di giambi, gli è parso di rendere anche gli ottonarî, che annunziano con armonia imitativa lo spuntare del sole; sicchè quel brano impallidisce al paragone delle strofe precedenti, invece di offuscarle per fragore ed altisonanza. Imperdonabile poi mi sembra, l’aver messo in isciolti le terzine di Fausto: bisognava assolutamente conservare il metro, che il Goethe non avea mica adoperato a casaccio. Lo sciolto qui non va, perchè troppo drammatico, perchè destituito della solennità compassata, serena del terzetto. La bellezza principale della scena, come ho avvertito, è musicale; l’armonia de’ metri esprime mirabilmente, meglio delle parole, que’ sentimenti, che erano nelle intenzioni dell’Autore. Il Maffei non ha saputo rendersene conto; quindi nella scelta de’ metri è stato infelice, lasciandosi determinare dal comodo e dalla facilità, non dalla natura del soggetto. Scendiamo ora all’intelligenza letterale del testo. VERSI I-VIII. _Tedesco._ _Ariele con accompagnamento d’arpe eolie:_ Wenn der Blüthen Frühlings-Regen Ueber alle schwebend sinkt, Wenn der Felder grüner Segen Allen Erdgebornen blinkt, Kleiner Elfen Geistergrösse Eilet wo sie helfen kann, Ob er heilig? ob er böse? Iammert sie der Unglücksmann. TRADUZIONE LETTERALE Quando a primavera una pioggia di fiori vien giù librandosi sopra tutti; quando la verde benedizione de’ campi splende a tutti i terrigeni; la grandezza spirtale de’ piccoli silfi accorre, dove può giovare; o santo o malvagio, (ch’e’ sia), compatisce all’uomo della sventura. TRADUZIONE DI _Andrea Maffei_. Allor che la feconda Piova di maggio cade Sui campi, e delle biade La verde spica imbionda, Picciolo stuol di spiriti Volenteroso accorre, E dove possa, al misero O buono o reo, soccorre. Il Goethe non parlava degli acquazzoni benefici di maggio, anzi de’ fiori, che, a maggio, cadono, piovono dagli alberi. Come va, che il Maffei non ha nè visto nè tradotto quel _Blüthen_? I versi tedeschi rammentano subito il petrarchesco: _Da’ be’ rami scendea.... Una pioggia di fior sovra ’l suo grembo... con un vago errore, Girando_;... e si direbbero tradotti dalla bella canzone di messer Francesco. Girolamo Benivieni nel suo _Amore_, verso il fine, ha questa ottava sdrucciola a proposito di certi alberi: _Da’ vivi rami lor sospesi pendono Aurei pomi, onde gli augei si pascono. Poi dolci note al ciel cantando rendono; E quei, pasciuti, subito rinascono. Da le frondose lor chiome discendono. In dolce pioggia fior, che, mentre cascono (sic), Vaghe ghirlande alle fresch’erbe ordiscono, Onde di doppio umor liete fioriscono._ Il Marino (_Adone_ II. 25.) narra, che Amore, chiamato da Venere: _Corre ingordo a l’invito; e, colmo un lembo Di fioretti e di fronde in prima coglie; Poi, poggia in aria; e, sul materno grembo, In colorita grandine lo scioglie._ Alessandro Guidi in una canzone a Clemente IX (Giovan Francesco Albani) scrive: _E la dolce degl’inni aurea famiglia, Quasi d’eterni fior pioggia divina, Discenda in grembo alla città latina._ Cito siffatti esempî e ne citerò altri in seguito, ad ogni passo, per mostrare con tutta evidenza, come questa ed altre immagini, adoperate dal Goethe, non abbiano poi nulla d’insolito, di strano, nulla che possa confondere o perturbare un traduttore. Egli s’è avvalso dell’immagine trovata dal Petrarca, a lui ben noto pe’ lavori di Carlo Ludovico Fernow, de’ quali sappiamo da’ dialoghi di Giampietro Eckermann, quanto studio e conto facesse; sebbene sia qui detto per incidenza non valgano agli occhi nostri un fico; ma al Goethe dovea parer diversamente, perchè gli aprivano in qualche modo l’intelligenza della poesia Italiana. E forse gli era nota eziandio la Canzone del Guidi, giacchè in Roma era stato ammesso sotto il nome di Megalio Melpomenio fra gli Arcadi, che veneravano quel gobbetto pavese come inventore d’un nuovo modo di poetare. Il Goethe non parla di messe, che imbionda; siamo in primavera e non in estate. Parla de’ verdi campi, che splendono, ridono, suscitano speranze a tutti i terrigeni, tanto a’ bruti, quanto agli uomini, quanto agli spiriti elementari, fra’ quali sono da noverarsi Ariele ed i silfi. Questo sentimento sparisce nella versione del Maffei. Il Goethe non dice, lo stuolo degli spiritelli esser piccolo, chè anzi da tutta la scena risulta folto. Dice bensì, che i silfi sono nanerottoli; e marca l’antitesi fra la piccolezza delle forme e la grandezza spiritica o spirituale o spiritellesca, come a me parrebbe meglio, per la somiglianza con _istenterellesco_. Così il Bernia dice del demonio Scarampino: _Minuto il ghiottarello e piccolino, Ma bene è grande e grosso di malizia._ Così l’Imperiale nel _Casalino_: _Anco statura in noi par, che si vante, Se in vene anguste più, più furia spande; Più coraggio ha quel cor che meno è grande, Ed ha corpo pigmeo spirto gigante._ Così il Padre Carlo Casalicchio della Compagnia di Gesù dice (_L’Utile nel Dolce._ V. I. I.) che Sant’Antonio, vescovo di Firenze era: — «detto così, perchè quanto era grande d’animo, di santità, di dottrina e di prudenza, tanto era piccolo di statura e di corpo». — Così Vittorio Betteloni, dopo aver detto, che il Cavour era piccolo, sclama: _Oh fu pur grande il piccioletto conte!_ La magnanimità de’ silfi li fa non solo soccorrere, anzi pur compatire allo infelice; e questo sentimento è significato con energia dallo intraducibile _jammern_ (eccitar compassione) che, avendo per soggetto il compatito e reggendo il compassionante all’accusativo, ci dimostra questi passivo. Ma tutte le siffatte intenzioni e gradazioni spariscono nel Maffei. Altro è _misero_, altro è _l’uomo della sventura_: codesta espressione all’ossianica indica un grande infelice; mentre il vocabolo, che il Maffei v’ha sostituito, s’attaglierebbe ad ogni sventurato volgare, anche ad un povero accattone. Ma probabilmente ned Ariele ned i silfi ned il Goethe si sarebbero tanto curato d’un tapinello qualunque. Le sono minuzie d’espressione, pure vuol dir molto non averle avvertite. Il Berchet ha chiamato i contadini d’Italia; _figli dell’affanno_: che miseria sarebbe il tradurre o l’interpretare come se dicesse soltanto _affannati_! Giorni fa, visitando la _bella villanella_ di Michelangelo, lessi scarabochiati col lapis su d’una lapide que’ versi: _Amo la tomba, ove si dorme in pace; Ove all’eterno figlio del dolore È pio conforto una solinga face, Una stilla di pianto e un mesto fiore._ Sostituire in essi _addolorato_ a _figlio del dolore_, o non sarebbe un’insipienza imperdonabile? Del resto, quasi tutti questi spropositi del Maffei sono ripetizione de’ commessi dal prof. Giuseppe Gazzino, che aveva tradotto così: _Appena vien, che cada Dal cielo in primavera Su’ campi la rugiada; Appena è, che si veggia La messe, che biondeggia; Piccoli Silfi a stuolo Traggon per dare aita, A quanti son, che in duolo Menan quaggiù la vita. Sia tristo od innocente, Se da miseria afflitto, A lor pietade ha dritto._ Io non ho qui ad occuparmi de’ farfalloni del Gazzino, che, nell’atto quarto, giunge sino a scambiare un paio di stivali con una coppia di rospi; quindi mi basterà di averlo mentovato una volta. E mi asterrò da ulteriori riscontri, che indurrebbero a sospettare, aver tanto egli quanto il Maffei tradotto non dall’originale anzi da una cattiva traduzion francese. VERSI IX-XIII. — _Tedesco._ _Segue Ariele._ Die ihr diess Haupt umschwebt im luft’gen Kreise, Erzeigt euch hier nach edler Elfen-Weise, Besänftiget des Herzens grimmen Strauss; Entfernt des Vorwurfs glühend bittre Pfeile, Sein Innres reinigt von erlebtem Graus. TRADUZIONE LETTERALE Voi, che circondate questo capo, librandovi nell’aerea ronda, dimostratevi qui secondo il degno costume de’ silfi: sedate il bieco conflitto del cuore; allontanate gli ardenti dardi, ed amari del rimorso; purificate l’animo suo del sostenuto orrore. TRADUZIONE DI _Andrea Maffei_. Gentile, aereo stuolo, Che vai su quella mesta Fronte girando a volo, La virtù consueta or manifesta. Le cure irrequiete In quell’animo afflitto, Silfidi, raddolcite; e ne svellete L’igneo stral de’ rimorsi ond’è trafitto. Fate che non molesti il suo riposo Ricordo tormentoso. Il _mesta_, l’_afflitto_, l’_ond’è trafitto_ son riempiture, imbottiture inutili, che attenuano l’effetto. Del rimanente, sembra, che il Maffei si sia proposto di mitigare le forti e vibrate espressioni dell’originale, di ringentirle. Altro che _raddolcire cure irrequiete_! si tratta di calmare le passioni scatenate, che atrocemente combattono fra di loro e contro la coscienza! Altro che _ricordo tormentoso_! si tratta di raccapriccio per la vita vissuta! Fausto ha rinnegato dio; ha patteggiato col diavolo; ha fatto falsa testimonianza intorno alla morte del marito della Marta ed avvelenato la madre della Ghita ed assassinato il fratello ed abbandonata e costretta al delitto quella povera sedotta; la memoria delle iniquità commesse è per lui qualcosa di più che un semplice _ricordo tormentoso_, come ogni galantuomo ne ha. Nè si tratta di far sì, ch’egli abbia un riposo non molestato; anzi si tratta di purificargli l’animo dell’orrenda rimembranza, d’infondergli l’obblio del passato, d’irrorarlo d’acqua di Lete, d’onda letea o _letale_ com’è meglio specificato in seguito. E perchè tôrre l’_amarezza_ agli ardenti rimorsi? VERSI XIV-XV. — _Tedesco._ _Segue Ariele._ Vier sind die Pausen nächtlicher Weile, Nun ohne Säumen füllt sie freundlich aus. TRADUZIONE LETTERALE Quattro sono gli spazî del tempo notturno (= La notte ha quattro vigilie); riempiteli ora senza indugio benignamente. TRADUZIONE DI _Andrea Maffei_. Quattro pause ha la notte. A lui tranquille Scorrano La notte non ha pause, è senza soluzioni di continuità, non si ferma mai. Si tratta di _stadii_, non di _pause_. Io rendo il _Pausen_ con lo _spazî_, ricordando Tommaso Stigliani da Matera: poeta _materiale_, come il chiamavano bisticciando i nemici. Nel _Mondo Nuovo_, egli dice di Cristoforo Colombo, che, la notte prima d’una battaglia con gli Aitini, _Stette egli inginocchiato, infin che il quinto Degli spazî notturni udì finirsi, Seguendo sempre il supplicar non finto Con percuotersi il petto ed empio dirsi_. Ben è vero, che da’ Romani essa notte partivasi in quattro vigilie, ciascuna di tre ore nostre circa; ed il Goethe rappresenta in esse quattro momenti del sonno, come potrà vedersi. Dapprima lo spirito, appartandosi dal mondo, esterno ambiente, si ritira in sè stesso, si rannicchia, _sse requaquiglia_ (si rinconchiglia) come scrivevano i secentisti napoletaneschi con bel tropo ed energico; ma, quando gli occhi son chiusi e gli oggetti non agiscono più immediatamente sullo spirito, gli emblemi loro echeggiano nella mente e vi si specchiano nelle immagini de’ sogni, finchè non illanguidiscano, spariscano e sottentri il vero sonno riparatore, la pace indisturbata dello spirito. Ma, come il sonno non succede immediatamente alla veglia, così pure rientra e si risolve nella veglia mediatamente e solo mediante il sogno: le immagini del mondo esteriore ricominciano a farsi sentire, ridivengono potenti e vivaci, finchè ci riconducano rinvigoriti alla piena coscienza di noi stessi. Sicchè il primo verso è tradotto con un’espressione falsa; ma il secondo poi è tradotto a contrassenso, come se alludesse a Fausto, mentre invece tratta de’ silfi, a’ quali raccomanda di cominciare senza indugio a spendere le ore notturne in quell’opera di carità. VERSI XVI-XXI. — _Tedesco._ _Segue Ariele._ Erst senkt sein Haupt aufs kühle Polster nieder, Dann badet ihn im Thau aus Lethes Fluth; Gelenk sind bald die Krampferstarrten Glieder, Wenn er gestärkt dem Tag entgegen ruht. Vollbringt der Elfen schönste Pflicht, Gebt ihn zurück dem heiligen Licht. TRADUZIONE LETTERALE Prima dechinategli il capo sul fresco guanciale; poscia immergetelo nella rugiada dell’onda letéa. Le membra convulsamente irrigidite si scioglieranno tosto, risponde egli rinvigorito sino al giorno. Compite il più bel dovere de’ silfi: restituitelo alla santa luce. TRADUZIONE DI _Andrea Maffei_. . . . . . Su guanciale Morbido lo adagiate, e colle stille Attinte alla fatale Onda di Lete, Ne irrorate le membra, e lo vedrete Sciogliersi dal letargo in picciol’ora. E poi, quando all’aurora S’appressi, caldo di vigor novello, Degli obblighi il più bello Compite; e dolcemente Riapritegli il ciglio al sol nascente. Ariele non manda mica i silfi in cerca d’un morbido guanciale: i silfi, che albergano nelle scoscenditure de’ monti, fra’ sassi, sotto le foglie, non hanno nè cuscini, nè materazza, nè coltrici, nè capezzali; Ariele parla del _fresco guanciale_ offerto naturalmente dall’erba. Difatti, Fausto è _auf blumigen Rasen gebettet_, — «coricato sull’erba fiorita». — Il Marini dice similmente di un suo personaggio: _Or, perchè ’l sol già poggia e i poggi inaura, Lascia i riposi de l’erboso letto_ (_Adone XV. 25._) ed anche: _Giacea sul piumacciuol d’un violeto Lungo un ruscel freschetto e cristallino, Corcato quasi in morbido tappeto Un pargoletto e tenero bambino_ (_Adone XV. 33._ Vedi pure, III. 84: _Avventurosi fiori, erba felice, Che dell’Idolo mio languido e stanco, Siete guanciali al volto e piume al fianco_) — Aleardo Aleardi ha voluto imitare questa imagine di erboso letto e di giaciglio fiorito, ed, al solito suo, è riuscito a renderla ridicola e grottesca, dicendo alla sua Maria; _coi molli Muschi, divelti a le natali ombrie, Farò sponda a la tua splendida testa D’Italiana_. Il _fatale_ è puro riempitivo in grazia della rima: il Goethe non ce l’avea messo; nè l’adoperò il pure ridondante Marini, in un luogo, in cui fa fare al sonno personificato, la parte, che qui fanno i silfi: _Già da l’ombrose sue riposte cave De la notte compagno, aprendo l’ali, Con lento e grato furto il sonno grave Tolse la luce ai pigri occhi mortali. E, con dolce tirannide e soave, Sparse le tempie altrui d’acque letali. I tranquilli riposi e lusinghieri S’insignorian de’ senni e de’ pensieri._ (_Adone XIV. 43_). Bei versi, ma per me guasti da quello equivocissimo _letale_, che propriamente vuol dir _mortale_, sebbene il Marino anche altrove ed altri pure l’abbiano adoperato nel senso di _leteo_; esempligrazia: L’_isola d’ogni intorno abbracia e chiude (Come scorger ben puoi) l’onda letale_. — _Caldo di vigor novello_ è una frasca rettorica, un ghirigoro senza scopo, invece del semplice e schietto _rinvigorito_ del testo. _Sciogliersi dal letargo_, significa ridestarsi, rinvenire; ma il Goethe non dice mica, che Fausto si sveglierà presto, giacchè vuole, ch’e’ dorma tutte l’ore notturne; dice bensì, che, riposando, rinvigorito dall’obblio del passato e del rimorso perturbatore de’ sonni e de’ sogni, nonchè dalla freschezza del giaciglio (siamo anima e corpo!) cesserà lo spasimo, che gl’irrigidisce le membra, si dileguerà la rigidità spasmodica. Il Maffei ha sbagliata la punteggiatura del tedesco, ponendo dopo _Glieder_ il punto, ch’è dopo _ruht_. Nella sua traduzione s’impara, che il più bello degli obblighi, assolutamente parlando, è il riaprire gli occhi di uno al sol nascente; sicchè la sora Maddalena, che mi sveglia il mattino, portandomi il caffè, adempirebbe con quest’atto solo alle più alte esigenze morali. Non discuto su codesta teorica: ma il Goethe non l’ha enunciata mai; e dice invece il _più bel dovere de’ silfi_ (de’ Silfi, si noti) essere il ridare lo sventurato alla santa luce, il ridargli la compiacenza di vivere (e non già, il riaprirne le ciglia al sol novello). VERSI XXII-XXIX. — _Tedesco._ _Coro di Silfi._ Wenn sich lau die Lüfte füllen Um dem grünumschränkten Plan, Süsse Düfte, Nebelhüllen Senkt die Dämmerung heran; Lispelt leise süssen Frieden, Wiegt das Herz in Kindesruh, Und den Augen dieses Müden Schliesst des Tages Pforte zu. TRADUZIONE LETTERALE. Quando tepide l’aure si riversano sulla pianura cinta di verde, il crepuscolo diffonde soavi olezzi e velame di nebbia; mormora sommessamente di pace soave; culla il cuore come nel riposo infantile; e chiude innanzi agli occhi di questo stanco la porta del giorno (le ciglia). TRADUZIONE DI _Andrea Maffei_. Quando l’aura leggera leggera L’erbe e i fiori al maggese accarezzi, E ne mandi la placida sera Ombre molli, dolcissimi olezzi, Quella calma spiratagli al core, Che il dormente fanciullo conforta: Poi chiudete del giorno, che more, Alle stanche sue ciglia la porta. Curioso è qui lo scambio di alcuni presenti dell’indicativo con altrettanti imperativi. Nella traduzione del Maffei, le silfidi si esortano ad operare ciò, che nell’originale decantano come effetto d’una sera di primavera: sichè l’ultimo distico diventa un logogrifo insolubile. Il Goethe esprime con impareggiabile armonia di verso questo pensiero semplicissimo: che il crepuscolo vespertino suade pace all’animo. Il Maffei si è ricordato del decasillabo del Berchet: _Una brezza leggera leggera_; ma la reminiscenza è qui inopportuna, trattandosi non di una fresca brezza mattutina e marina, anzi d’un tepido scirocco, grave di odori e di vapori. Quel _che more_ è un riempitivo inutile, che guasta la metafora: _chiudete la porta del giorno, che more, alle ciglia stanche!_ E, badiamo bene, _porte del giorno_, chiama il Goethe appunto le ciglia, con metafora imitata da Pitagora, che le addimandava _porte del sole_, secondo c’informa Diogene Laerzio (VIII, 29.); perchè, aperte, lasciano entrare in noi il giorno, il sole. Similmente _porte del desio_ ha chiamati gli occhi il de la Fontaine: _Que dirais-je des traits, où les ris sont logés? De ceux, que les amours ont entre eux partagés? Des yeux aux brillantes merveilles, Qui sont les portes du désir? Et surtout des lèvres vermeilles, Qui sont les sources du plaisir?_ Non mi sovviene, qui su due piedi, d’alcuno esempio Italiano di simile metafora, neppure in quel seicento, al quale mi giova ricorrere in questa occasione, perchè il Goethe non è, per lo stile e pe’ concetti, se non un mediocre seicentista, e sebbene quell’espressione vi ricorra spesso. Per esempio, il Marino fa chiamar da Venere _porte del cielo_ le palpebre di Adone, (III. 89) ma perchè pone il suo paradiso negli occhi di Adone: _Sonno, ma tu, s’egli è pur ver, che sei Viva e verace immagine di morte, Anzi, di qualità simile a lei, Suo germano t’appelli e suo consorte; Come, come potesti a’ danni miei, Entrar del ciel ne le beate porte? Con che licenza, oltre l’usato ardita, Puoi negli occhi abitar de la mia vita?_ (Vedi anche _Adone_, I, 19). Tommaso Stigliani (Mondo Nuovo, VIII) fa descriver così al Cavalier del Sogno _la beltà falsa di sognate membra_, cioè la donna, per la quale Amore l’avea piagato in sogno: _Quei labbri, ch’avrian vinto, o ninfe, e stanco Qual più ardente corallo è nel mar vostro, Con vaghezza chiudean non vista unquanco Quanto oggi ha di gentile il secol nostro. Lasso! chiudean per miei perpetui mali Un bel tesor di perle orientali. Fra le quai se formava ella parola, Vista aperta del ciel la porta avresti._ Qui _porta del cielo_ è adoperata metaforicamente per felicità. Ma l’essere insolita tra noi codesta metafora del Goethe, non iscusa il Maffei, che non l’ha intesa. VERSI XXX-XXXVII. — _Tedesco._ _Segue il Coro:_ Nacht ist schon hereingesunken, Schliesst sich heilig Stern an Stern; Grosse Lichter, kleine Funken, Glitzern nah und glänzen fern: Glitzern hier im See sich spiegelnd Glänzen droben klarer Nacht; Tiefsten Ruhens Glück besiegelnd Herrscht des Mondes volle Pracht. TRADUZIONE LETTERALE. La notte è già discesa: stella a stella santamente si affianca. Grandi luminari, piccole faville scintillano da presso e splendono da lunge; scintillan qui, specchiandosi nel lago; splendono lassù nella chiara notte. La piena magnificenza della luna regna suggellando la felicità dell’altissima quiete. TRADUZIONE DI _Andrea Maffei_. Sulla terra son l’ombre cadute, Astro ad astro nel ciel si congiunge; Ampie luci, scintille minute Van raggiando da presso, da lunge. Splendon là nella notte serena, Guizzan qui nel cristallo dell’onda. E la luna vivissima e piena È suggello alla pace profonda. Non c’è male; malgrado qualche imbellettatura sconveniente, come quel dire _le ombre_ invece del semplice _notte_; e sì, che nella strofa precedente _molli ombre_ significava i vapori che sorgono a sera. Si vede, che questa parola ed alcune altre, (per esempio _ciglio_, _onda_) sono predilette dal Maffei, unicamente pel suono armonioso; seicentismo, stile mariniano. _Onda_ può essere un fiume, un rivolo, una gora, un mare, un lago, una vasca; può esser l’oceano od una pozzanghera; ma qui il Goethe indica esplicitamente il pelaghetto, ove si raccolgon l’acque della cascata. L’antitesi fra lo splendere da lontano e lo scintillar velatamente dappresso, che poi viene meglio svolto in due versi, sparisce nel _Van raggiando da lunge, da presso_. E perchè mai togliere quell’avverbio _santamente_ o _pudicamente_ (come piacerà di rendere lo _heilig_), che attribuisce non so che di umano agli astri del cielo? Il Leopardi ha pur detto: _Più che mezze oramai l’ore notturne Eran passate; e il corso all’oceàno, Inchinavan pudiche e taciturne Le stelle, ardendo sul deserto piano._ VERSI XXXVIII-XLV. — _Tedesco._ _Segue il Coro._ Schon verloschen sind die Stunden, Hingeschwunden Schmerz und Glück; Fühl’ es vor! Du wirst gesunden; Traue neuem Tagesblik. Thäler grünen, Hügel schwellen’, Buschen sich zu Schattenzuh; Und in schwanken Silberschwellen Wogt die Saat der Ernte zu. TRADUZIONE LETTERALE Già le ore sono estinte; dolore e gioia svaniti. Devi presentirlo: guarirai; fida allo sguardo del nuovo dì. Le valli verdeggiano; i colli s’ingrandiscono, incespugliandosi, (così da offrire) ombrosi riposi; e gli arrendevoli flutti argentini del seminato ondeggiano verso la mietitura. TRADUZIONE di _Andrea Maffei_. Già veloci fuggirono l’ore, S’involarono i gaudii, i tormenti; Per le fibre, pei rivi del core Rifluir la salute non senti? Ti confida nel dì, che risorge! Già dal buio escon valli e colline, E lo sguardo pe’ colli già scorge L’ondular delle spiche argentine. Le _fibre_, i _rivi del cuore_, il _rifluire della salute_ non esistono nel testo, dove, invece di questo sfoggio d’orpello, si legge solo: _tu risanerai_ (_du wirst gesunden_). Non so poi dove il Maffei abbia trovato detto, che valli e colline escono dal buio. Il Goethe vuol dire, e forse si esprime con poca chiarezza, che lo spettacolo, che la nuova luce manifesterà, deve servire a Fausto di augurio, di presentimento della sua guarigione. Quale spettacolo? Quello offerto dalla primavera: il verdeggiar de’ campi, il frondeggiar delle colline boscose, che offrono ameni recessi; l’ondeggiar delle biade, che vanno maturando. Il Maffei non ha capito, non ha distinto e non ha reso questo sentimento; l’ha confuso ed amalgamato con altri, che seguono. VERSI XLVI-LIII. — _Tedesco._ _Segue il Coro:_ Wunsch um Wünsche zu erlangen Schaue nach dem Glanze dort! Leise bist du nur umfangen, Schlaf ist Schale, wirf sie fort! Säume nicht dich zu erdreisten Wenn die Menge zaudernd schweift; Alles kann der Edle leisten, Der versteht und rasch ergreift. TRADUZIONE LETTERALE Per (saper come) conseguire desiderio sopra desiderio, contempla lo splendore là. Sei solo lievemente allacciato: spoglia l’involucro del sonno. Non indugiare negli ardimenti, mentre la moltitudine erra titubando. Tutto può fare il generoso intelligente e pronto all’opera. TRADUZIONE DI _Andrea Maffei_. Vuoi la foga appagar delle brame? Guarda i raggi, che il sol ti saetta. T’avviluppa lievissimo stame; Scorza è il sonno, lo strappa, lo getta! Mentre il volgo s’indugia sgomento, Segui tu coraggioso la via: Chi conosce ed afferra il momento Non ha prova, che dura gli sia. _I raggi, che saetta il sole_, non va, perchè il sole non è ancora sorto, e sorgerà solo durante la seguente parlata; che il Goethe mette in bocca ad Ariele, e che il Maffei (non so perchè) attribuisce al coro; anzi solo durante il monologo di Fausto. Lo splendore, di cui parlano i silfi, è l’aurora, evidentemente. Non si comprende, come il fissar gli occhi nel sole possa _appagar la foga delle brame_; nè Fausto può avere alcun desiderio di appagar questa foga, giacchè, nel punto in cui fosse pago, dovrebbe, secondo il pattuito, venire in potestà del diavolo. Basta ricordarsi le parole, con le quali ha giurato nella prima parte: — «Se dirò mai al momento: _deh indugia! sei tanto bello!_ allora potrai gettarmi in ceppi, allora andrò volentieri in precipizio. Allora suoni pure per me il doppio de’ morti, allora sarai libero del tuo servizio: si fermi pure l’oriuolo; cada pure l’indice; cessi per me il tempo!» — E difatti, quando, in fine di questa seconda parte, pronuncia quelle parole, cade morto e Mefistofele vuole impossessarsi dell’anima sua. I silfi, in questa strofa, esortano Fausto: a rivolgersi speranzosamente all’aurora incipiente; a scuotere il sonno; e destarsi rinvigorito a nuova ed incessante attività, poichè alla mente audace ed operosa tutto riesce: _audaces fortuna iuvat_. _Sgomento_ è troppo forte per _zaudernd_. Non mi piace quel _momento_, che rimpiccolisce e specializza troppo, e che non c’è nel testo. VERSI LIV-LXVI. — _Tedesco._ _Ariele, mentre un mostruoso frastuono annuncia l’avvicinarsi del sole._ Horchet! horchet! dem Sturm der Horen; Tönend wird für Geistes-Ohren Schon der neue Tag geboren. Felsenthore knarren rasselnd, Phöbus Räder rollen prasselnd; Welch Getöse bringt das Licht! Es trommetet! es posaunet! Auge blinzt und Ohr erstaunet! Unerhörtes hört sich nicht! Schlüpfet zu den Blumenkronen, Tiefer, tiefer, still zu wohnen, In die Felsen, unters Laub: Trifft es euch, so seid ihr taub. TRADUZIONE LETTERALE Ascoltate, ascoltate il tempestar delle Ore! Il nuovo giorno nasce risonando per le orecchie degli spiriti. Le porte di macigno gemono sgrigliolando, le ruote di Febo brontolano cigolando: qual frastuono porta la luce! Che strombettio! che clangore! L’occhio si batte e l’orecchio stupisce: non si ode l’inaudibile. Rimpiattatevi nelle corolle de’ fiori, più giù, più giù, per abitar tranquilli, fra’ macigni, sotto il fogliame: se vi coglie, insordirete. TRADUZIONE DI _Andrea Maffei_. Udite! udite! il turbine dell’ore V’annuncia, o silfi, che rinasce il giorno. Altissimo fragore Mandano e gioghi e valli. Cigola e stride il cocchio Del sole... Oh qual frastuono Spande il ritorno Della luce!... È di tube, è di timballi Romor confuso!... L’occhio, L’orecchio offesi, attoniti ne sono. Senso non è, che a tollerar ciò vaglia... Celatevi tra’ fiori! Giù, giù ne’ fori Del monte o tra le foglie Della boscaglia! Tutti v’assorda, se quel tuon vi coglie. Il meglio in questo _galimathias_ (parlo dell’originale) è l’onda del verso e l’armonia imitativa, che va perduta, come s’è notato, nella versione. Il _turbine dell’ore_ non comprendo, che sia; nè l’originale dice che annunzî il giorno. Quel _dem Sturm der Horen_ è un dativo, retto dal verbo _horchen_, ascoltare. E le Ore son qui una fredda reminiscenza omerica, giacchè nell’Iliade vengon dette custodi delle porte del cielo, che dovevan chiudere ed aprire secondo l’occorrenza. Tommaso Stigliani, parlando delle feste in Barcellona pel ritorno di Colombo (XXIV, 76): _Festeggiossi ogni dì, finchè l’aurora Schiuse al decimonono in ciel le porte_. Chiunque ha visto sorgere il sole, sa che il precede quasi una vibrazione dell’aria; il Goethe immagina, cotesta vibrazione essere effetto del rumore, fatto dalle Ore nello spalancare le porte dell’Olimpo e dal carro di Febo, che prorompe cigolando quasi di sotto una volta sonora. Questo suono è percettibile per gli spiriti superiori come Ariele, per l’orecchio loro è armonia; invece assorderebbe i silfi, gli spiritelli, che, secondo la mitologia germanica, sono pure anime naturali (per gli spiritelli, e la loro natura, ecc. Vedi _Adone_ XII, 135-145). Ciò che supera la forza percettiva (che il Goethe molto infelicemente chiama l’_inaudito_) non può udirsi. Monsignor Giovanni Guidiccioni ha detto in un suo sonettucolo: ....... _come vince l’armonia celeste, L’umano udir_. Sfido io d’indovinar tutto questo dalla versione del Maffei! _Le porte di macigno_, le termopili dell’Olimpo divengono presso lui _gioghi e valli_. Le reminiscenze classiche delle Ore e di Febo, spariscono; sparisce il parallelismo onomatopeico tra emistichio ed emistichio, tra verso e verso. Si ommette _per abitar tranquille_. _Tra’ fiori_ è tutt’altro che _nelle corolle_; altro è stare _fra_, altro è stare _in_, che diamine! _Fogliame_ è diversa cosa da _foglie della boscaglia_: un albero isolato ha fogliame anche esso. S’introducono de’ _timballi_, a’ quali il Goethe non ha pensato, dicendo egli con quel verso _Es trommetet, es posaunet!_ precisamente nè più nè meno di quanto il Marini ha detto nel suo: _Già squilla il corno e già la tromba scoppia._ (_Adone._ XVI. 36). Nel Goethe però manca il soggetto, e non si capisce da chi venga prodotto lo strombettio ed il clangore; di quali strumenti si tratti, o chi vi soffia drento. Questi perfetti riscontri tra frasi del Goethe e frasi del Marino sono frequentissimi. Per esempio il _Brennst du nicht und fühlest mich entbrannt_ della _fidanzata di Corinto_, si ritrova in fine de’ seguenti versi dell’_Adone_ (III. 96) _Fan con occhio loquace e muta bocca, Eco amorosa i tormentati cori, Dove, invece di voce, il vago sguardo, Quinci e quindi risponde: Ardi, ch’io ardo._ VERSI LXVII-LXXIII. — _Tedesco._ _Fausto._ Des Lebens Pulse schlagen frisch lebendig Aetherische Dämm’rung milde zu begrüssen, Du Erde warst auch diese Nacht beständig, Und athmest neu erquickt zu meinen Füssen; Beginnest schon mit Lust mich zu umgeben, Du regst und rührst ein kräftiges Beschliessen, Zum höchsten Dasein immerfort zu streben. TRADUZIONE LETTERALE I polsi vitali battono con brio vivace per salutare soavemente il crepuscolo etereo. Tu, terra, sei rimasa stabile anche stanotte; e, rinfrancata, mi respiri a’ piedi. Già cominci a circondarmi di brame; e inizî e muovi un saldo proposito di tendere incessantemente alla più alta esistenza. TRADUZIONE DI _Andrea Maffei_. Battono i polsi miei da nuova e fresca Vigoria confortati. Immota, o terra, Pur nella notte, che passò, tu fosti; Ed or sotto al mio pie’ ringagliardita Respiri; ed incominci a circondarmi Di voluttà, svegliandomi nel petto Più bollente desio d’alzar le penne Ad un’alta esistenza. Fausto si direbbe dalla versione un difensore del sistema di Tolomeo, che affermi altamente le dottrine del caposcuola sull’immobilità della terra; eppure nell’originale egli dice invece: — «Tu, terra, se’ rimasta tale e quale stanotte; non ti sei mutata; rimani sempre la medesima!» — ed il lettore sottintende naturalmente, che Fausto, lui, si sente mutato. Il Goethe non dice _sotto al mio piè_; anzi, più gentilmente _a’ miei piedi_. Non dice _ringagliardita_, anzi rinfrancata, ricreata, ravvivata, quasi rimbaldanzita. E queste parole più miti mi fanno immaginare la terra, quasi una bella donna, che persuada Fausto di vivere ancora; mentre le parole brutali, adoperate dal Maffei, rendono impossibile questa immaginazione, e distruggono una bellezza. _Lust_ qui non è nel senso di voluttà, anzi in quello di brama, bramosia, concupiscenza; accennando all’idea, che sarà meglio espressa ne’ due versi seguenti. _Nel petto_ è riempitura vacua. _Desio bollente_ o _più bollente_ è tutt’altra cosa d’un _proponimento energico_, d’una _salda risoluzione_, com’ha il testo. _Desiderare_ è un po’ diverso da _risolvere_: Fausto ha desiderato nella prima parte, qui risolve. _Alzar le penne_, è un cencio rettorico, che fa sorridere chiunque ricorda quel divino episodio del _Furioso_, laddove Ruggiero prende in groppa dell’Ippogrifo Angelica, legata al duro sasso (X. 114). Per riguardo alle Signore, non citerò l’originale, anzi la traduzione latina del marchese Torquato Barbolani, dei conti di Montauto: _Fraenat ibi audaces cursus, ac desilit udum Fervidus in pratum juvenis: tum complicat alas Gryps quadrupes, tensaeque magis, quas calcar amoris Excierat, remanent._ Avrei citata la traduzione in dialetto bolognese d’Eraclito Manfredi, poichè in Italia s’è convenuti, potersi arrischiare in dialetto qualunque facezia, senza scandalizzar le orecchie stitiche. Ma il Manfredi o per iscrupoli (come dichiara, traducendo l’episodio di Alcina: _al prev arstar uffesa L’urechia d’un qualchdun d’ mi uditur_), o per agevolarsi il compito o per altro, ha pensato bene di ommettere nella sua versione il verso, cui alludo; e scrive soltanto: _Ai era in mezz’a st’ bosch un pradsin bell, Cun un riulin, ch’i fiur e gli erb bagnava, Qusi quî al fì gli aliassrar a quel so usel, Ch pr’aria vular d’ più allora ’n pinsava._ Il Maffei non è il solo cattivo traduttore, che sia al mondo: ma torniamo ad occuparcene. _Alta_ è positivo, _la più alta_ è superlativo; perchè sostituir quello a questo? VERSI LXXIV-LXXXII. — _Tedesco._ _Segue Fausto._ In Dämmerschein liegt schon die Welt erschlossen, Der Wald ertönt von tausendstimmigem Leben; Thal aus Thal ein ist Nebelstreif ergossen; Doch senckt sich Himmelsklarheit in die Tiefen, Und Zweig und Aeste, frisch erquickt, entsprossen Dem duft’gen Abgrund, wo versenkt sie schliefen; Auch Farb’ an Farbe klärt sich los vom Grunde, Wo Blum’ und Blatt von Zitterperle triefen, Ein Paradies wird um mich her die Runde. TRADUZIONE DAL TEDESCO Il mondo giace già dischiuso nel barlume crepuscolare; il bosco risuona di vita dalle mille voci; di valle in valle si stende una striscia di nebbia; puro il chiarore del cielo discende nelle profondità, e ramuscelli e rami, rinfrancati germogliano (si staccano) dal fondo fragrante, nel quale dormivano immersi; anche colore sopra colore si stacca, rischiarandosi dal fondo, dove foglia e fiore grondano di tremule perle. Le circostanze divengono un paradiso. TRADUZIONE di _Andrea Maffei_. . . . Il mondo irrompe Dal crepuscolo incerto, in cui si chiuse; E si levano al ciel dalla foresta Le mille voci della vita. Un bianco Vapor su tutta la vallea si versa. Pure il lume del ciel nelle più basse Parti discende; e sbucano dal fondo, Ove occulti dormiano, e rami e tronchi Ristorati. I colori omai distinti Si ravvivano anch’essi, ove la perla Della rugiada i suoi tremuli veli Stende sui fiori e sulle foglie. Un vero Eden sorride agli occhi miei. Comincio dal dire, che non mi soddisfa punto questo sminuzzare in tanti perioduzzi il gran periodo dell’originale; la parlata perde subito il suo carattere di maestosa solennità e diviene rotta, affannosa, e quindi non esprime più lo stato dell’animo di Fausto, secondo le intenzioni dell’Autore. Il quale non ha punto scritto _il mondo irrompe dal crepuscolo_ (il complemento _incerto, in cui si chiuse_, è aggiunta gratuita del Maffei) anzi dice: «quantunque immerso nel crepuscolo, è pure manifesto il mondo.» — Fausto non dice le mille voci della foresta levarsi al cielo: sarebbe un pensiero da San Francesco, da chi ci crede, da chi leva l’animo ad un dio creatore. L’epiteto di _bianco_ non viene attribuito dal tedesco a’ vapori, che potrebbero anche essere azzurrognoli, grigiastri, rossastri, come ne ho visto spessissimo in Isvizzera. Quelle _parti basse_ sono un tantino indecenti e comiche. _La perla della rugiada, che stende i tremuli veli sui fiori e sulle foglie_, è una circonlocuzione affettata per quel semplice: _Fiori e foglie grondano di tremule perle._ Antonio Bruni da Manduria (in alcune ottave intorno a _Sant’Elisabetta, Regina di Portogallo, che convertì il pane, destinato a’ poveri, in rose_) ha lasciato scritto: _Queste, che ammira il ciel, rosa odorate, Mentre ai fonti i cristalli il ghiaccio indura, Già non son parti, no, d’aure rosate, Con portento del verno e di natura; Nè di tremule perle inargentate Le spiega l’alba rugiadosa e pura; Nè l’apre intempestive arte ingegnosa, Quasi Reine in su la Reggia erbosa._ Le frasi, con le quali il Maffei indica l’apparire de’ colori, sono la prova evidente del poco studio, ch’egli ha messo nel Goethe. Tutti sanno, che l’Autore del _Fausto_ ha pensato e scritto molto sulla natura e formazione de’ colori; che egli è creatore d’una teorica in proposito; e che, sul finire della sua lunga vita, si teneva più de’ suoi lavori fisici che de’ poetici. Disse una volta all’Eckermann: — «Per fare epoca nel mondo, ci voglion due cose: buona testa ed una grande eredità. Napoleone eredò la rivoluzione francese; Federico II di Prussia la guerra silesiana; Lutero l’oscurantismo pretesco; a me tocca l’errore della dottrina newtoniana. Invero i contemporanei non sospettano neppure l’opera, che fo; ma i posteri confesseranno, che l’eredità mia non era punto cattiva.» — Ed un’altra fiata al medesimo: — «Gli errori degli avversarî miei sono da un secolo troppo universalmente divulgati, perchè io possa sperar compagni nel mio solitario cammino. Rimarrò solo. E mi par talvolta di essere il naufrago, che afferra una tavola atta a sostenere un solo. Quel solo si salva, mentre i rimanenti miserabilmente annegano.» — E poi, un’altra volta ancora: — «Di ciò, che ho fatto come scrittore, non invanisco. Vissero egregî poeti (ed anche migliori di me) prima, e ve ne saran dopo. Ma ch’io, nel mio secolo, nella difficile scienza de’ colori, sia il solo, che sappia il vero, di ciò mi tengo; ed ho quindi coscienza d’essere superiore a molti.» — Scusate la modestia! Quando il Goethe, nella seconda parte del _Fausto_, parla di fenomeni relativi a’ colori, adopera sempre espressioni attinte e somministrate dalla sua nuova teorica, nella quale il _fondo oscuro_ aveva un’importanza capitale. È qualcosa di caratteristico, che non crederei lecito di mutare. Cosa diremmo d’un traduttore di Dante, il quale travisasse le frasi, che alludono a determinate spiegazioni di fenomeni naturali? VERSI LXXXIII-XCI. — _Tedesco._ _Segue Fausto._ Hinaufgeschaut! — Der Berge Gipfelriesen Verkünden schon die feierlichste Stunde; Sie dürfen früh des ewigen Lichts geniessen Das später sich zu uns hernieder wendet. Jetzt zu der Alpe grüngesenkten Wiesen Wird neuer Glanz und Deutlichkeit gespendet, Und stufenweis herab ist es gelungen. Sie tritt hervor! — und, leider schon geblendet Kehr’ ich mich weg von Augenschmerz durchdrungen. TRADUZIONE LETTERALE Guarda in su! — I cacùmi giganti de’ monti prenunziano già l’ora solennissima: lor è dato godere per tempo della eterna luce, che più tardi si volge in giù a noi. Ora vien largito nuovo splendore e chiarezza alle praterie verdeggianti sul ripido declivio della montagna; e gradatamente è giunta giù da noi. Apparisce (il sole)! — E purtroppo, già abbacinato, mi volgo altrove compenetrato dal dolore degli occhi. TRADUZIONE di _Andrea Maffei_. . . . Ti drizza Lassù! — Gli ardui comignoli del monte Son dell’ora solenne avvisatori. Questi pònno gioir del primo raggio Che dardeggia la luce: ella si volge Più tarda a noi. Splendori ai verdi prati Dell’Alpe ha già profusi, ed or s’avanza Di grado in grado... Ohimè pur troppo è giunta. Dell’acuto suo dardo il ciglio offeso Dolorando si chiude. Come a dire: _Ti drizza lassù?_ Non si tratta di mettersi in cammino, anzi di guardare in su, rimanendo fermi. Quel _comignolo_, con la sua desinenza alla diminutiva, ingenera un’impressione proprio opposta a quella, che il Goethe voleva suscitare col _Gipfelriesen_. Il _dürfen_ non esprime semplice possibilità, e quindi è mal reso col _pônno_; solo potere? ma vorrei vedere anche questa, che il fondo de’ burroni s’illuminasse prima de’ cacumi circostanti! _Il primo raggio, che dardeggia la luce_ e più giù _dell’acuto suo dardo il ciglio offeso_, sono il solito orpello, che ricopre semplici espressioni dell’originale. Orpello inutile, metafore a pigione, tropi vani ne ha tanti il Goethe: perchè aggiungergliene? Più sopra il Maffei aveva detto: _Guarda i raggi, che il sol ti saetta._ Sicchè non può nemmanco dirsi, che gli ornamenti, i quali egli stima di aggiungere allo stile (forse a parer suo) disadorno e negletto del Goethe, brillino per la varietà. Considerando questa profusione di dardi e saette, si prenderebbe il traduttore per un uomo bellicoso, che sogna sempre di armi. Chi sa, che, come quel Giampietro Eckermann, che fu al Goethe quel, che Jacopo Bosswell era stato al Johnson; chi, sa che il Maffei non sia anch’egli appassionato per tirare al bersaglio con archi e balestre? Ma se imbrocca al tiro a segno come nel tradurre... giuraddio! Per esempio, egli traduce _Alpe_ tedesco, con _alpe_ Italiano; e non posso mandargliela buona. Quella parola è un idiotismo svizzero; e ne’ dialetti elvetici, indica ogni montagna, che serve di pascolo fino alla vetta, alle mandre. Diverso è il significato del vocabolo Italiano; _Alpe_, da noi, è qualsivoglia monte con l’idea accessoria di selvatichezza ed impraticabilità, come dimostra l’aggettivo _alpestre_; idea, dalla quale rarissimo o mai si prescinde. Nella Cronaca sconchiusionata, attribuita a Dino Compagni, è parlato delle _utili alpi_, che circondan Firenze; s’aggiunga questo alla lista de’ tanti spropositi e delle tante improprietà di lingua del Pseudodino! Ma neppure quando i pedanti eran più infatuati delle pretese bellezze di quella impudente impostura e ne imponevano lo studio nelle scuole, come testo di lingua, neppure allora questo uso della parola Alpe ha trovato imitatori. Ecco come il Marino descrive una montagna _alpestra_ (_Adone._ VI. 65), _Qui tace_ (la Psiche) _e già d’una montagna alpestra Eccola intanto giunta alla radice, Che al sol volge le terga e spiega a destra, Sotto il gran giogo l’ispida cervice. Quindi di sterpi e selci aspira e silvestra Pende sassosa e rigida pendice; Rigida sì, che appena s’assecura D’abitarvi l’orror con la paura. Il mar sonante a fronte ha per confine Da’ fianchi acute pietre e schegge rotte, Dirupati macigni e rocce alpine. Oscure tane e cavernose grotte, Precipizî profondi, atre ruine, Dove risorge il dì come la notte, Dove inospiti sempre e sempre foschi Dilatan l’ombre lor baratri e boschi_. — Tali sono le _Alpi_ Italiane. Il seicentista Antonio Bruni, in una ballata, in cui _si contende il primato dell’inverno e della primavera_, fa dire a Tirsi: _E cieco è, chi non mira, Quanto diletti a gli occhi, Veder alpe nevosa, a cui d’intorno Germogliano i diamanti; La cui cima ne va con altrui scorno, Qual lussureggia il mar co’ suoi coralli, Ricco di serenissimi cristalli._ Questa descrizione sconverrebbe ad un’_Alpe_ nel senso tedesco del vocabolo; mentre vi sta benissimo appiccicato quel _grüngesenkt_, ch’è del rimanente un vocabolo coniato dal Goethe contro le regole della composizione. Non bisogna mica credere, che quantunque egli scriva sia bene scritto. Ma bellissimo trovo quel dire _apparisce_, sottintendendo il sole, come il Manzoni ha detto: — «Ei fu!» — sottintendendo Napoleone I. Sarebbe da tradurre con un _eccolo!_ parmi. Il Maffei riferisce quell’_apparisce_ alla luce, dimenticando che la è apparita da un pezzo; e, quel ch’è peggio, obbliando, che un _sie_ femminile (il sole in tedesco è femmino; _die Sonne_), non può riferirsi alla luce, ch’è un neutro: _das Licht_. VERSI XCII-CII. — _Tedesco._ _Segue Fausto._ So ist es also, wenn ein sehnend Hoffen Dem höchsten Wunsch sich traulich zugerungen, Erfüllungspforten findet flügeloffen; Nun aber bricht aus jenen ew’gen Gründen Ein Flammen Uebermass, wir stehn betroffen, Des Lebens Fackel wollten wir entzünden, Ein Feuermeer umschlingt uns, welch’ein Feuer! Ist’s Lieb’? ist’s Hass? die glühend uns emwinden, Mit Schmerz und Freuden wechselnd ungeheuer, So dass wir wieder nach der Erde blicken, Zu bergen uns in jugendlichsten Schleier. TRADUZIONE LETTERALE Dunque, avviene così, quando una speranza anelante, spintasi lottando fiduciosamente sino al desiderio supremo, trova spalancate le porte dell’adempimento. Allora poi erompe da que’ fondi eterni un eccesso di fiamme; si rimane percossi (sorpresi). Volevamo accendere la fiaccola della vita; e ne circonda un mare di fuoco. Qual fuoco! È amore od odio, che ne abbraccia ardendo, alternando mostruosamente dolore e gioie; sicchè di nuovo ci rivolgiamo con lo sguardo alla terra, per nasconderci nel velo più giovanile? TRADUZIONE di _Andrea Maffei_. . . . È tale appunto La speranza dell’uomo, allor che stima Raggiunto il sommo de’ suoi voti, e trova Schiuso il varco alla meta. Ah! ma s’eleva Da que’ baratri eterni un mar di foco! Stupefatto n’è l’uomo, e della vita Vuol la face allumarvi... Immense fiamme Gli fan siepe d’intorno... ed oh, quai fiamme! Son d’amor? d’odio sono? Egli n’è cinto, Esagitato con fiera vicenda Fra la gioia e il dolore; a tal che gli occhi Di nuovo atterra per celar nel manto De’ suoi primi innocenti anni la fronte. Fausto, abbarbagliato dalla luce di quel sole, ch’era tanto avido di contemplare, la paragona al gaudio supremo, che aveva sperato e tentato di conseguire nella cognizione assoluta ed immediata della natura; non avendo poi forza di afferrare l’essenza del vero, aveva disperato. Basta rammentarsi l’evocazione dello Spirito terrestre, in principio della prima parte. Questa immagine piacque tanto al Goethe, che l’ha ripetuta altrove: — «Considerando gli ultimi progressi delle scienze naturali, e’ mi par d’essere un viaggiatore, che vada verso Oriente durante il crepuscolo mattutino e miri con gioia la luce crescente ed aspetti desiosamente l’apparire del grande astro di fuoco; ma poi, quando questo spunta, rivolge altrove gli occhi, inetti a sostenere lo splendore desiderato». — Nella traduzione, non posso approvare quello _schiuso il varco alla meta_; altro che _schiuso_, spalancato, aperte ambo le bande! E _varco_, è troppo generico, mi toglie le determinazioni, che mi venivan suscitate nella favoleggiativa dalle porte dell’originale, da quelle porte spalancate per accogliermi e che mi condurranno all’adempimento dei miei voti, che sono spalancate per ricoverare finalmente la speme, la quale ha tanto anelato e combattuto fin allora. Non è ammissibile neppure quell’_atterrar gli occhi_; che equivale pura e semplicemente all’avvallarli, inchinarli. Ma il Goethe dice invece, che si guarda indietro, verso la terra, che si cessa dal proseguire quel supremo voto, dal voler afferrar l’essenza delle cose, per ravvolgersi nel velo più giovanile, cioè per contentarsi come la prima gioventù di ammirare ingenuamente il mondo e la natura, senz’alcuno impaziente desiderio o tentativo di penetrarne il misterioso secreto; anzi il velo stesso attraverso del quale ammirano l’universo, aumenta nelle menti giovanili il devoto raccoglimento, che esso inspira loro. Sentimento assolutamente falsato dalla frase _per celar nel manto de’ suoi primi innocenti anni la fronte_, di cui sarei molto imbarazzato a dare la spiegazione. VERSI CIII-CXV — _Tedesco._ _Segue Fausto._ So bleibe denn die Sonne mir im Rücken! Der Wassersturz, das Felsenriff durchbrausend, Ihn schau’ich an mit wachsendem Entzücken. Von Sturz zu Sturzen wälzt er jetzt in tausend Dann aber tausend Strömen sich ergiessend Hoch in die Lüfte Schaum an Schäume sausend. Allein wie herrlich diesem Sturm erspriessend, Wölbt sich des bunten Bogens Wechsel-Dauer, Bald rein gezeichnet, bald in Luft zerfliessend, Umher verbreitend duftig kühle Schauer. Der spiegelt ab das menschliche Bestreben. Ihm sinne nach und du begreifst genauer; Am farb’gen Abglanz haben wir das Leben. TRADUZIONE LETTERALE Dunque mi rimanga il sole a tergo. Io miro con diletto crescente la cascata, che attraversa rumoreggiando quel masso di rupi. Si precipita di salto in salto, diffondendosi in mille e poi mille correnti, e scaglia sibilando in aria schiuma sopra schiuma. Eppure, come s’incurva magnificamente l’alterna durata dell’arco variopinto, sorgendo da questa tempesta, ora nettamente disegnato, ora dissolvendosi nell’aria, spargendo intorno un raccapriccio profumato e fresco. Specchia l’affaticarsi umano. Pensa ad esso e comprenderai più esattamente: nel riflesso colorato abbiamo la vita. TRADUZIONE di _Andrea Maffei_. Dunque al sol diam le spalle. Il ruinoso Torrente, che devolvesi fremendo Per gli alpestri burroni, attrae con gioia Ognor crescente il guardo mio. Lo veggo Precipite avvallar di balzo in balzo. Frangersi in mille rivi, ed una nube Sgorgar per l’aere d’agitata spuma. Oh come da quel vortice si leva L’arcobaleno maestoso e spiega La settemplice curva! Ora è distinto, Or nell’aria è perduto, ed un ribrezzo Vaporoso diffonde. E speglio forse Quell’iride non è de’ nostri affetti? Pensavi e certo ne sarai. Nel lampo Di quei sette colori abbiam la vita. La descrizione della cataratta e dell’arcobaleno è stupenda nell’originale. Il Goethe s’era occupato per anni ed anni del fenomeno ottico, che produce l’iride. Nè queste sue descrizioni poetiche sono senza sustrato d’impressione naturale. Una volta, che il Goethe vecchissimo narrava, come ispirato dal bel paese intorno al lago de’ Quattro Cantoni, avesse meditato nel MDCCXCVII un’epopea in esametri sul mito di Guglielmo Tell, (misericordia!) e come poi, distratto da occupazioni diverse, avesse ceduto il soggetto allo Schiller, che ne ricavò una tragedia (manco male!), Giampietro Eckerman osservò, sembrargli, che la descrizione in terzine nella prima scena della seconda parte del _Fausto_, dovess’essere una reminiscenza di quelle impressioni della natura svizzera. Rispose il Goethe: — «Nol nego; non avrei mai potuto pensare il contenuto delle terzine, senza le fresche impressioni di quella natura portentosa. Ma questo è quanto ho coniato dell’oro di quelle località. Ho abbandonato il rimanente allo Schiller». — Ci abbiamo inoltre del Goethe una dipintura della cascata di Pissevache nel Vallese, la quale aveva senza dubbio contribuito a generare il fantasma nella sua immaginativa: — «Ad un’altezza discreta, prorompe da un crepaccio del monte un forte rivolo, fiammeggiando, in un bacino, dove è ridotto in polvere e schiuma, che viene sparpagliata qua e là dal vento. Apparve il sole e dette doppia vita allo spettacolo. Giù, tra il vapore d’acqua, si ha dall’una e dall’altra parte, secondo che si cammina, un arcobaleno proprio vicino. Andando più su, si gode un fenomeno vieppiù bello ancora»; — eccetera. Altrove parla della cascata del Reno presso Sciaffusa, com’ei la rivedesse illuminata dal sole: — «L’iride appariva nella sua maggior bellezza: poggiava tranquillamente nell’immensa schiuma, che ferve, e, mentre minaccia di violentemente distruggerla, è costretta a riprodurla di nuovo ogni istante». — Ora, Fausto ravvisa nell’iride della caduta un’immagine de’ godimenti umani. La fruizione piena, assoluta, non è per noi; ma ne abbiamo un riflesso nella vita, quando operosamente ci affermiamo ne’ limiti, che la natura ci assegna. La traduzione sembra d’uomo, che non abbia mai viste cataratte ed archibaleni. Il _torrente ruinoso, che si revolve fremendo per gli alpestri burroni_ desta in Fausto estasi e non gioia: c’è di che rimanere estatico, ma non di che rallegrarsi nello spettacolo. Non capisco _la nube di spuma, che sgorga per l’aere_. Sembra, che il Goethe, massime invecchiando, prediligesse smodatamente le frasi, in cui si ripete un medesimo vocabolo; ne abbiamo incontrate parecchie in questa scena, ed ecco tre ripetizioni in un sol periodo in tre versi successivi: _Von Sturz zu Sturzen_; _in tausend dann aber tausend Strömen_; _Schaum an Schäume_. Perchè cancella il Maffei due di queste ripetizioni intenzionali? o che il nostro linguaggio non le ammette o non se ne compiace? _Das menschliche Bestreben_ non è _i nostri affetti_; _begreifen_ vuol dire _concepire_, _capire_ e non _certificarsi_. Tradur l’ultimo verso, come fa il Maffei, gli è un certificare di non aver capito ciò, che l’Autore intendeva dire. Antonio Bruni, volendo indicare un pensiero non dissimile da quello del Goethe, ha scritto: _Pria che vestisse in me spoglia mortale Quest’alma, o mio bel nume,... Nel Sole inaccessibile immortale Mirò il tuo Bello; e s’or pur l’ama e in voto Gli sacra il cor divoto, De l’eterno splendore ama un riflesso_. Nel tedesco leggo _riflesso colorato_ e non _lampo di que’ sette colori_; riflesso non è il medesimo di lampo. Il lettore può giudicare ora, se ho disaminato ed analizzato con imparzialità questo brano di traduzione, scelto a caso, e tra’ più facili. Avrei potuto giustamente sì, ma malignamente ricorrere a squarci malagevoli; e mostrare anche più chiaro, che ho ragione di chiamare usurpata la fama del Maffei. M’hanno appoggiato a volte l’incarico di esaminare alcuni pretendenti alla patente d’idoneità per insegnare il tedesco. Ebbene, in coscienza, se mi ritrovassi in quel ballo, ed i candidati traducessero come il Maffei, io non li riconoscerei mica idonei. — «Una patente, a voialtri? Patente d’incapacità!» — Invece quest’uomo, che tradisce in tal modo i malcapitati testi, conta tra di noi per una autorità in fatto di letteratura alemanna. Ha panegiristi ridicoli; giovanotti, i quali ignorando fin l’alfabeto tedesco, discorrono del _Fausto_, scarabocchiando cicalate inconcludenti, compilazioni eseguite sugli articoli della _Rivista de’ Due Mondi_. Giuochi, che fanno i letterati oggi, come farebbero gli agenti di cambio od i capistazione, od altro, se sperassero di lucrar qualche soldarello di più. Buffoncelli, che chiamano il traduttore-traditore — «ingegno poderoso, che ha padronanza sulle due lingue, e lunghi e pertinaci studî su tutta quanta la letteratura tedesca, e straordinaria felicità di sapere trovar sempre nella poesia e nell’idioma della sua patria la frase, la parola, il modo di dire, che corrispondano a ciò, che volle significare l’autore nella propria lingua». — Il pubblico ignaro, sentendo affermare così ricisamente, crede alla competenza dell’encomiasta e plaude ingannato, senza sapere quel che si applauda. Ben inteso poi, che s’usa _ora in Italia un traffico di lodi, Pur che al lodato il lodator risponda; E l’adulazion va per vicenda_ (come scrisse nel secolo scorso il sedicente inventore de’ versi martelliani, a proposito d’un altro Maffei, Scipione, assai da più). Quindi, imitando la carità di Giovanni da S. Giovanni, Andrea Maffei chiamerà — «giovane d’alto ingegno» — nella prefazione al secondo volume, chi gli ha dimenato sotto il naso quell’incenso smaccato in un discorso prefisso al primo. Non c’è cosa, che più ripugni alla dignità d’un principiante, dell’assumer l’incarico d’una prefazione all’opera d’un autore vivo e riputato; l’è un impegnarsi a lodare, a panegirizzare in tutto e per tutto. A questo non pensa il pubblico; e, sulla fede del Maffei, ritiene grand’uomo in erba anche quel ragazzo lì: _sic itur ad astra_. È triste a dirsi; ma da cinquant’anni, che il Maffei traduce e vien lodato, non un solo de’ suoi lettori infiniti, non uno de’ suoi panegiristi, s’è incomodato a riscontrarne le versioni con l’originale. Non uno ha sentito il bisogno, ha sospettato che fosse dovere, obbligo, di esaminare prima di applaudire! È una immoralità letteraria, che fa spavento! Per me, non voglio esserne complice. POSCRITTA LETTERA A LUIGI MORANDI _Caro Morandi_, So, che tornando con insistenza sopra un argomento, si risica di riuscir tediosi; ma non posso esimermi dallo aggiunger due postille al mio articolo sul Maffei, rilevando due errori, che trasandai di notare ne’ versi disaminati. I. Nel soliloquio di Fausto, il Maffei ommette di pianta il secondo verso (sessagesimottavo della scena) che suona in tedesco: _Aetherische Dämmrung milde zu begrüssen._ Nella sua versione, non ci ha parola, che ne renda il senso o l’intenzione. Forse lo imbrogliava (e non dico ch’e’ sia facile a tradursi!) ed ha girata la difficoltà. II. L’altro errore mi vien fatto notare dal prof. Felice Tocco; e trascriverò quindi le parole di lui: — «Ne’ versi XCII-CII credo, che ti sia sfuggito un altro errore del Maffei traducendo un imperfetto _wollten_ col presente (_vuol_) tradisce pienamente il testo. Nel tedesco è espressa una certa opposizione tra il desiderio ed il fatto. _Noi volevamo_ (semplicemente) _accendere la fiaccola della vita; ed_ (invece) _un mare di fuoco ne circonda_. Nella traduzione del Maffei, questa opposizione scompare; e sembra, che il desiderio di accendere la face della vita succeda alla vista delle fiamme di fuoco: _Ah! ma s’eleva Da quei baratri eterni un mar di foco! Stupefatto n’è l’uomo; e, della vita Vuol la face allumarvi.... Immense fiamme Gli fan siepe d’intorno!_» — Ed ora, basta davvero. Non voglio spigolare altro, dov’ho mietuto; sebbene certo di aver lasciato cadere più spighe, che non ne abbia immagazzinate nel granaio, o, per parlar fuori metafora, trascurate un numero di spropositi e d’improprietà maggiore di quello che registro. Ah! mio caro, il mestiere del traduttore non è il più facile del mondo; e chi vi si mette con poca dottrina, con punto gusto e con molta presunzione, può scroccarsi fama, non meritarla. Diranno, ch’io parlo così per invidia. Invidia di chi, di che? Se non isdegnassi, se degnassi imbrancarmi con tutti i ciarlatani, che mutuamente s’incensano in Italia, se avessi anch’io una spina dorsale flessibile ed una penna cortigiana, come mi avrebber caro! che grand’uomo sarei! Ma la quistione non è lì. Dato e non concesso, che parlassi per astio e per rovello, allego fatti? somministro prove? Oh dicano allora! Forse di me con gloria si favella Dove d’essi o si tace o si maldice: Dico appo i buoni, a malgrado di quella Loro ignorante turba adulatrice, Che in presenza li adora e che li appella Con titoli di grandi e di felici. E poi l’intendo diversamente: per me l’è quistione di dovere, non di gloria. Che gloria può acquistarsi dimostrando inane un preteso miracolo, falsa una riparazione usurpata? Nessuna; ma si può rendere così un servigio a’ concittadini. Sta sano e riama il tuo *Imbriani.* Firenze, 21. III. 70. DANIELE MANIN È stata pubblicata un’opera nuova, illustratrice delle vicende del M.DCCC.XLVIII. S’intitola: _Daniele Manin e Venezia_ (1804-1853). _Narrazione del prof. Alberto Errera di Venezia, corredata da documenti inediti, depositati dal generale Giorgio Manin al Museo Correr e da documenti del R. Archivio dei Frari. Firenze, successori Le Monnier_, 1875. È un volume in sedicesimo di vi-524 pagine, oltre quattro innumerate, che contengono l’occhio ed il frontespizio. La correzione tipografica lascia molto a desiderare, nè corrisponde alla fama dell’officina. Per esempio, in una nota del Palmerston (pagina 180) si legge: _il governo d’Italia_; e deve dire: _d’Inghilterra_. In un resoconto (pag. 501 e segg.) si parla di _Rimanenza delle Corse camerali_ e di _Somministrazione di parte d’argento_, invece di _Casse_ e _paste_; e v’è una trasposizione d’uno specchietto dell’attivo al passivo. Si fa dire a’ giornali parigini, che, appena sbarcato il Manin in Francia, _le sol devenait tout-à-coup la meilleure part de son existence: sa femme mourait_. I giornali parigini avran detto molto probabilmente _dévorait_ e non _devenait_. Dico con l’Hugo: _j’en passe et des meilleurs._ La lingua poi di questo volume patriottico ha spesso più del francese e dell’ebraico, che dello Italiano. L’autore si mostra inesperto della conjugazione e del regime de’ verbi. Scrive: _se si avessero fatti ostacoli_ (pag. 27); _si aveva tentato di tener prigioniera_ (pag. 41); _si aveva pure cercato la maniera più energica_ (pag. 55); _ospedali che si avrebbero aperti in seguito_ (pag. 371), eccetera. Ed in tutti questi casi andava adoperato l’ausiliario _essere_, non _avere_. Scrive: _non curatevi_ (pag. 333). Ma s’ha a dire: _Non vi curate_; e la seconda persona plurale dello imperativo, quand’è preceduta dalla negazione, non tollera encliticbe pronominali. Scrive: _pregato il Palffy a concedere_ (pag. 26). Ma il verbo _pregare_ regge la preposizione _di_; si prega _di fare_ e non _a fare_ alcunchè. Scrive: _non può che ripetere_ (pag. 180); _non è che un’amplificazione_ (pagina 155); attribuendo al _che_ valore di _se non_. Sconcio gallicismo e sozzo, invece di _può solo ripetere_, _è una mera amplificazione_, oppure _non può se non ripetere_, eccetera. Scrive: _Noi siamo liberi e possiamo doppiamente gloriarci di esserlo, giacchè lo siamo_ (pag. 33), eccetera. Barbarismo: _lo_ è pronome, non proaggettivo; chè proaggettivo sarebbe e non pronome, se tenesse le veci di un aggettivo, com’è _libero_. Scrive: _Siccome il piroscafo partiva_ (pag. 37); _siccome però il Cavedalis continuava_ (pag. 211); adoperando _siccome_ nel senso di _poichè_, là dove in italiano useremmo semplicemente il verbo al gerundio: _Partendo il piroscafo_; _ma continuando il Cavedalis_. Scrive: _notizie di maggior levatura_ (pag. IV). Ma la levatura è degli uomini; egli volea dire: _di maggior momento_. Scrive: _il via va_ (pag. 407); ma si dice _via vai_. Scrive _togliermi di dosso le anella_ (pag. 387), con quanta improprietà, non è chi non vegga. Le anella soglionsi portare alle dita: si potrebber torre di dosso solo a chi se le avesse nascoste in altre parti; ad un soldato, che le occultasse nel zaino, nella mucciglia, nel sacco, via. Scrive: _il di lui comando_ (pag. 273). Ma va detto: _il comando di lui_; o, come venne pure scritto (per esempio da ser Giovanni Fiorentino, nella Novella II della Giornata IV del _Pecorone_ — «Era tanto ricco, che le lui ricchezze non avevano nè fine, nè fondo» — ) ed a me piacerebbe, e gioverebbe alla chiarezza, ma non è prevalso nell’uso: _il lui comando_. Scrive d’un incendio: _nè si potè salvare il tetto ed una parte del primo piano_ (pag. 382). E probabilmente vuol dire dell’_ultimo piano_, ch’è il più vicino al tetto, giacchè, abbruciato il primo, anche i superiori sarebbero necessariamente crollati. Di simili sgrammaticature ed improprietà, potrei citarne: ... mille altre ancor, ch’io ne tralascio, Per restringer gran massa in picciol fascio. Piacemi solo di notare eziandio lo epiteto di _ideologo_ appiccato proprio a torto al Lamartine, _qui n’en peut mais_; ed uno sproposito enorme di geografia (pag. 423) commesso ponendo il campo di battaglia della Cernaja: _là nella Troade antica_. Mi giova credere, che lo Errera volesse dir _Tauride_; la Troade è altrove. Ma in libri simili, anzi in qualunque scrittura, gl’Italiani, a torto secondo me, non badano ora affatto alla purezza dello eloquio ed alla proprietà. Dalle ridicolaggini de’ puristi, i quali riponevano tutta l’arte dello scrivere nello adoperar soltanto parole e locuzioni, autorizzate da esempli dal trecento e del cinquecento, siamo precipitati in una licenza stomachevole, che non si vergogna nè di barbarismi, nè di solecismi, nè di sgrammaticature, nè di spropositi ortografici. Prescindendo dunque dalla lingua e dallo stile, facciamoci ad esaminare il contenuto del volume. L’autore dice: — «Il nostro ufficio è quello di scrivere la vita di un uomo in relazione ai tempi, nei quali visse, non l’epopea della resistenza (di Venezia).» — Ma in realtà egli ha inteso scrivere una istoria discretamente minuta della città di Venezia nel biennio 1848-1849. Particolari nuovi sulla vita del Manin, ed in quel tempo e prima e dopo, non ce ne dà punti; almeno, che siano di qualche momento. Ma espone tutte le vicende della rivoluzione veneziana: le politiche, le militari, le finanziarie. Ed il tema era bello, attraente per la parte drammatica, utile per gl’insegnamenti, che possono ricavarsene: Le istorie nostre, in molte parti sparte, Andrien raccolte e farne una sustanza. Se non che, pur troppo, al narratore manca l’arte di ritrarre i fatti con evidenza; di esporli con ordine; di raggrupparli sapientemente; di delinearli co’ particolari necessarî alla piena loro intelligenza; di colpirli, in quanto hanno di più caratteristico, in guisa da presentarci un quadro logicamente combinato, onde scaturisca una idea, un chiaro concetto e compiuto degli avvenimenti. La narrazione va sempre saltelloni, innanzi ed indietro; ora anticipa, ora retrocede; spesso si ripete; spesso s’interrompe, rimandando altrove; spesso tace quanto più c’importerebbe, od accenna, senza indicarli preciso, essere avvenuti fatti, che occorrerebbe almeno ricordarci per farci comprendere il seguito. Insomma, il difetto di economia nel disegno dello scritto e la esecuzione abborracciata sono evidenti. Per esempio... (A me non piace asserir checchessia senza corroborar con pruove ed esempli l’asserzione); dunque, per esempio, nel _Proemio_ si parla molto della _lotta legale_, sostenuta dal Manin e terminata col suo arresto, senza informarci in che propriamente consistesse, di quali mezzi si servisse, quale scopo si prefiggesse. Dunque, si parla de’ suoi interrogatorî e di quelli del Tommasèo, tacendo gli argomenti di essi; e non ci si dice, che temesse e che bramasse sapere l’autorità austriaca da que’ due. Dunque, le discussioni dell’Assemblea de’ deputati della provincia di Venezia, che il quattro luglio M.DCCC.XLVIII votò la fusione col Piemonte, vengon narrate due volte, nel capitolo IV e nell’VIII, e parecchi altri simili duplicati ingrossano il volume e perturbano e stancano il lettore. Dunque, spessissimo l’autore se n’esce con un — «Intanto erano accaduti fatti gravi in Italia;» — e, sebbene la nozione di essi fatti sia indispensabile per capire quanto siegue, e quantunque basterebbe lo accennarli anche crudamente con quattro parole, preferisce lasciare al leggitore la fatica e l’impiccio di rammentarseli, se può. C’è un lungo capitolo sulla guerra; ebbene non una parola, che spieghi quale fosse il sistema di difesa prescelto da’ difensori di Venezia. Una volta è detto che: — «al 7 e l’8 (luglio 1848) avvenivano ancora fatti, che tornano a lode di Venezia e del suo estuario». — (E, sia detto fra parentesi, che un fatto possa tornare a lode di Venezia, il comprendo; ma a lode dell’_Estuario_? Per Venezia s’intende la cittadinanza veneziana e la guarnigione; ma per _Estuario_ cosa s’intenderà? Chi direbbe, che la battaglie di Salamina tornò a lode dell’Egeo? Questo si chiama scrivere secondo la maniera di G. Vittorio Rovani, autore di un libello contro il Manin, pubblicato tra’ _Documenti della Guerra Santa d’Italia. Capolago. Tipografia Elvetica. Gennaio 1850_; il quale dice, d’un tale, ch’e’ _correva da_ (sic) _Manin, ad imbandirgli grosse pastoje di menzogne, innestate sul vero_. Un imbandigione di pastoje! e delle pastoje innestate! Ma chiudiamo la parentesi e torniamo a bomba). Bene, c’incuriosiamo; ameremmo conoscerli, questi fatti onorevoli per Venezia e _per l’Estuario_, e non possiamo appurare di che si tratti; il libro è muto. La lotta dei partiti, la tenzone fra gli unionisti ed i repubblicani federalisti, traspare, si suppone, ma non viene narrata, non che particolareggiata. E talvolta sorge il sospetto, che le ommissioni, i silenzî, non siano senza malizia; e certo, riescono ad indurti in errore sullo stato della città assediata, sulle condizioni e lo _spirito_, come suol dirsi, della cittadinanza e della guarnigione. Per esempio, si accenna confusamente alla proposta del Tommasèo di porre una iscrizione in luogo pubblico — «ad Agostino Stefani muratore, che si offerse a dar fuoco là, dov’era il nemico sul ponte; e per isbaglio fu ucciso dai suoi.» — Il fatto, che narrato così, sembra cosa innocente e comune, meritava d’essere spiegato meglio. Eccolo, come si legge nelle _Memorie Storiche dell’Artiglieria Bandiera-Moro_. — «Agostino Stefani, muratore, erasi offerto il trenta di maggio (M.DCCC.XLIX) al colonnello Cosenz, allora comandante la batteria del Ponte, per accendere una mina sotto ad un arco presso gli avamposti nemici. Davagli il proprio nome, aggiungendo: _l’opera è ardita, potrei rimanervi_. Il Cosenz ne prese nota nel portafogli. Lo Stefani si spinse sopra leggiera barchetta dall’uno all’altro arco, cercando possibilmente nascondersi al nemico; ma, avendo la barca dato nel secco, messosi egli in acqua, se la spingeva dinanzi faticosamente. Due ore dopo i lavoranti, ignari della cosa, e sinistramente interpretando i segni, ch’egli facea col cappello verso di loro, a dimostrare, ch’era ancor vivo, vedendo quest’uomo così lontano da loro, il ritennero una spia del nemico e ne riferirono tosto all’ufficiale sorvegliante i lavori; il quale spedì alcune barche a quella volta. Ricondotto lo Stefani, disse a sua scusa, essere stato colà spedito da un ufficiale _in occhiali_ (i quali appunto il Cosenz portava). Intanto, ch’ei subiva l’interrogatorio dell’Ulloa, comandante il circondario, corre tra’ lavoranti la voce, che fu ritrovato nella barca dell’arrestato l’occorrente per dar fuoco ad una mina, ch’egli era quindi un traditore, perchè voleva far saltare il piazzale. Lo Ulloa, essendo per disgrazia assente il colonnello Cosenz, non credendosi bastantemente istrutto a giudicarlo, il manda alla prefettura d’ordine pubblico». — Fin qui tutto è naturale e va bene; ma ora viene il brutto. — «Rimesso in barca lo Stefani in mezzo ai soldati, la moltitudine inferocita grida al traditore; e non vale all’infelice il protestarsi innocente ed Italiano, che il prendono a sassi. La barca avvicinatasi alla riva, sette od otto più furenti si slanciano in acqua, si avventano contro l’infelice, e, trattolo a terra, a furia di sassi e di badili il resero vittima d’un patriottico furore.» — La narrazione del Carrano, meno particolareggiata, concorda sostanzialmente con questa, bench’egli, ufficiale, racconti la cosa in modo, che il lettore possa credere non essere stato nessun militare presente alla cattura ed allo scempio dello Stefani; tanto comprendeva la condotta della truppa non essere stata lodevole. Quali conseguenze ricaviamo da questo racconto? Che in Venezia, allora, non v’era più nè sicurezza pubblica, nè disciplina, nè giustizia. Non è detto, che i soldati di scorta difendessero il malcapitato, anche facendo fuoco contro la moltitudine inferocita, anche a costo della propria vita, com’era stretto dover loro. Non è detto, che alcuno fosse incriminato e punito per l’atto iniquo. Non si tratta di un semplice errore della giustizia militare sommaria, cosa triviale ed inevitabile nelle guerre; si tratta, che la plebe scatenata ammazzava i sospetti senza formalità di giudizio alcuno, e che non v’era nè forza per contrastare a misfatti siffatti, nè potere per punirli. Ma naturalmente allo Errera non fa conto di narrare e porre in luce questo avvenimento ed altri, che gli guasterebbono il quadro ideale d’una Venezia tranquilla internamente, malgrado le privazioni dell’assedio e la semianarchia; d’una popolazione non _demoralizzata_ (scusate la brutta parola) da quindici mesi di rivoluzione! Quadro ideale, che sventuratamente non è vero e che, fortunatamente, non è possibile! Poichè il Manin doveva campeggiare nel suo libro, esserne il protagonista, ci aspetteremmo a trovarne ben caratterizzata e scolpita la figura; a trovarvi ritratto quel, ch’e’ pensasse e sentisse e soffrisse in un tanto e strano incalzar di vicende; come e perchè le sue opinioni si modificassero per opera e degli eventi e della riflessione; come e perchè il repubblicano pervicace e diffidente facesse votar la fusione; e come e perchè poi l’esule divenisse monarchico. Che bel campo per l’artista ed il psicologo! Ma niente affatto: qui abbiamo un lavoro imperfetto di rappresentazione e nessun lavoro di analisi. L’operato ed il pensato dal Manin sono insufficientemente esposti, e ci rimangono poco chiari e precisi innanzi alla mente. Ed è peccato: perchè, senza essere idolatri del Manin, senza volerne esagerare i meriti e porgli sotto a’ piedi un piedistallo sproporzionato; come pure senza attribuire al popolo ed alla guarnigione di Venezia virtù e meriti fantastici, senz’andare in estasi innanzi alla saviezza d’una Assemblea, che non fece rivivere il senno de’ magnifici Senatori della Serenissima, senza prorompere in inni vacui sull’eroismo de’ combattenti; dobbiamo freddamente riconoscere, che, tutto sommato, fra le vergogne e le ridicolaggini del quarantotto, la difesa di Venezia fu una discreta pagina e non disonorevole, una pagina, che può ricordarsi con qualche orgoglio. Certo nessun’altra città insorta, assediata, senza presidio di esercito regolare, senza governo ben fondato, ha fatto altrettanto in questo secolo, ha dato spettacolo simile, aveva uomini di tal tempra. E Parigi ed Argentina, investite dagli Alemanni negli anni scorsi ed in grado di far molto più, fecero in sostanza molto meno. Il tema meriterebbe d’esser trattato meglio, d’esser trattato ammodo, con buoni criteri e con buona grammatica; e speriamo, che sia per trovarsi chi il faccia, avvalendosi anche delle fonti austriache e de’ rapporti consolari, che dovranno pure, quando che sia, divenire accessibili. E questo istorico futuro, che invoco, potrà anche ricavar qualche notizia opportuna da taluno degli ottanta documenti (fra’ quali ve n’ha pure degl’inediti), che lo Errera ha radunati o piuttosto affastellati in fondo al suo volume e che ne sono l’unica parte in qualche modo pregevole. II. Certo, uno storico dev’essere innamorato del tema suo. Se egli non pruova una predilezione particolare per l’epoca, pe’ fatti, per gli uomini, dei quali prende a narrare, non conchiuderà nulla di buono. — «Se, a detta di un ultimo estetico (lo Eckardt,) la scelta geniale della stoffa è per la fantasia una specie di scelta nuziale; que’ capricciosi, che, alla guisa degli Spartani, ammogliansi a colei, che prima loro capitò dinanzi nelle tenebre, non rivelano gusto individuale e rimangono estranei alle loro opere». — Così, benissimo, al solito suo, il nostro Antonio Tari. — Ma questa simpatia non deve essere di tal fatta da far velo alla mente mai. Devi compiacerti di quegli uomini e di quegli eventi; non rappresentar gli uomini e gli eventi in modo, che a te piacciano; non fingerteli così e così per poi compiacerti della creazione della tua fantasia. Questa è opera da poeta, non da istorico, al quale nè l’amor di patria, nè l’amor di parte, che suol essere anche più forte, ahimè! debbono offuscar l’intelletto, cui nessuno affetto deve indurre a declinar minimamente dal vero. Io affermo presso i popoli moderni non conoscersi più cosa sia davvero patriottismo ed eroismo. L’eroismo ed il patriottismo non possono trovarsi nel cuore d’un popolo moderno in quel grado, in quella limpida schiettezza, che ammiriamo nelle pagine delle storie antiche. E sapete chi li ha uccisi, o per dir meglio, cionchi e monchi? Quella, che chiamano civiltà; la mitezza, anzi effeminatezza, anzi eviratezza de’ costumi moderni; il rispetto delle persone e delle proprietà private, sancito dalle consuetudini della guerra; lo svolgimento del diritto internazionale; lo affratellamento degli uomini; e tanti altri pretesi progressi, invocati come una benedizione, iniziati da’ filosofi e da’ giuristi, che hanno risparmiato molte lagrime e molti misfatti, ma che, per fatale compenso, infiacchiscono, affievoliscono, debilitano i più nobili sentimenti dell’animo umano ed i più benefici. Per qual ragione i popoli antichi difendevano con tanta pertinacia la libertà loro; e, senza intempestivi giuramenti e ridicoli, combattevano davvero fino allo stremo? Perchè anteponevano comunemente la morte alla resa? Perchè ci dettero tanti esempli memorandi di città, che preferirono la distruzione all’aprir le porte? di castella, onde il nemico si impadronì solo, quando furono un mucchio di rovine; e nel senso letterale della espressione, non già per modo di dire e per iperbole, come avviene delle fortezze o delle città moderne? Perchè quella concordia, quella unanimità ne’ partiti disperati? e plebaglia e femminelle e gaudenti e vegliardi e persino i fanciulli consenzienti nel proprio scempio, irridenti il vincitore? Perchè Sagunto, perchè Cartagine? La risposta è agevolissima: perchè allora la sorte del vinto era effettivamente e per ogni verso (non già solo metaforicamente e moralmente), peggior della morte. Il vinto diventava cosa: perdeva proprietà, famiglia, libertà individuale. Non si trattava della semplice libertà politica o della mutazione di principato, come nelle guerre moderne; non solo di interessi ideali e morali, che il volgo, le donne, i fanciulli, i doviziosi, i dediti al lucro comprendon poco. Il vinto vedeva confiscati gli averi suoi, farne bottino, ripartirli fra’ vincitori; si vedeva contaminar sotto gli occhi le donne di casa ed i figliuoli e vendere e sparpagliare come un branco di pecore; lui stesso era fatto schiavo, venduto adoperato a fatiche esorbitanti, condannato a peggio, che un ergastolo. Qual meraviglia, se, per evitare tanti mali, per allontanarli almeno, anche i fiacchi ed i dappoco ostinatamente, pervicacemente durassero alla fame, alla prepotenza? se respingessero superbamente ogni patto? Le guerre navali fra turchi e cristiani erano accanite, perchè? perchè i prigioni od a fil di spada od incatenati sui banchi de’ rèmigi. Se gli abitanti di Strasburgo, di Metz, di Parigi, eccetera, avessero avuto a temere quel fato, ch’era la sorte ammessa e convenuta dei vinti nelle guerre antiche, oh quali resistenze eroiche avremmo forse da ammirare! E chi sa? resistenza eroica vuol dir forse vittoria: di cosa nasce cosa. Ma invece ora, anche a’ più indomiti, basta lo _aver soddisfatto all’esigenze dell’onor militare, basta aver fatto buona figura_, come dicono. La guerra diventa un torneo fra gli eserciti. Si fa di tutto per diminuirne gli orrori. E non si considera, se questa diminuzione di orrori non sia per caso con discapito della grandezza morale degli animi. Al Machiavelli sagacissimo non poteva isfuggire un tal fatto: — «Il modo del vivere di oggi, rispetto alla cristiana religione, non impone quella necessità al difendersi, che anticamente era. Perchè allora gli uomini vinti in guerra o s’ammazzavano o rimanevano in perpetuo schiavi, dove menavano la loro vita miseramente; le terre vinte, o si desolavano, o n’erano cacciati gli abitatori, tolti i loro beni, mandati dispersi per il mondo, tanto che i superati in guerra pativano ogni ultima miseria. Da questo timore spaventati, gli uomini tenevano gli esercizî militari vivi, ed onoravano chi era eccellente in quelli. Ma oggi questa paura in maggior parte è perduta; de’ vinti pochi se ne ammazza, niuno se ne tiene lungamente prigione, perchè con facilità si liberano. Le città, ancora che elle si sieno mille volte ribellate, non si disfanno; lasciansi gli uomini ne’ beni loro, in modo, che il maggior male, che si teme, è una taglia; talmente, che gli uomini non vogliono sottomettersi agli ordini militari e stentare tutta vita sotto quelli, per fuggire quelli pericoli, de’ quali temono poco». — L’assedio di Venezia riconduce naturalmente nella mente l’assedio di un’altra città, simile nella costruzione a Venezia, fabbricata anch’essa sovra isolette in mezzo alle acque ed accessibile solo per mezzo degli argini, dalla terra ferma, come Venezia solo pel ponte della Laguna. Io parlo di quella Temistitan asteca, (che sorgeva, dov’ora è la Messico castigliana), espugnata dal Cortese ne’ M.D.XXI. E si noti, che i Temistitanesi si trovarono in condizioni peggiori de’ Veneziani. L’estuario era sgombro di navi austriache, e solcato dalle nostre; mentre il lago di Messico era signoreggiato da’ brigantini spagnuoli. La superiorità delle armi degl’invasori dell’America sulle difese degli indigeni, era infinita; l’agglomerazione di bocche inutili, stoltamente eccessiva. Le descrizioni de’ patimenti de’ poveri anaguachesi fanno raccapriccio. Terminate le provisioni, mangiavano insetti, mangiavan radici di piante lacustri; morivan d’inedia, antropofagheggiavano: _de los niños, no quedó nadie, que las mismas madres y padres los comían (que era gran lástima de ver, y mayormente de sufrir)._ Eppure, nè la fame giunta a tal segno, nè la pestilenza, nè l’inutilità della difesa, nè le morti (che il Cortez stimava a cendiciassettemile e l’Ixtlilxocitl fa ascendere a dugenquarantamila,) poterono indurre quel popolo, cui pur si offeriva una capitolazione onorevole, a cedere; e la città dovette essere conquistata a palmo a palmo, nello stretto significato della espressione, abbattendone a mano a mano gli edificî e ricolmandone i canali, ed ammazzando quanti s’incontravano. Se Guatimozino avesse avuto polvere da sparo, non c’è dubbio al mondo, ch’e’ si sarebbe fatto saltare in aria; e non c’è dubbio al mondo; che i sudditi avrebbero acconsentito senza mormorare a perir tutti così. A’ tempi nostri, nello stato della civiltà nostra, con le molli tempre nostre, sarebbe assurdo il pretendere, che si rinnovassero simili esempli. Ma questa impossibilità del pieno eroismo ed assoluto, non è forse da compiangere, da deplorare? Paragonato all’assedio di Temistitan, quello di Venezia sembra come un assalto di scherma di fronte al duello fra Achille ed Ettore. Comunque sia, l’assedio di Venezia è divenuto per gl’Italiani una leggenda, i cui santi protagonisti sono Guglielmo Pepe e Daniele Manin. Ma la fama del Manin ha oscurata quella del Pepe, quantunque, trattandosi d’un assedio, parrebbe giusto, che il primo alloro toccasse al capo militare e non già al capo civile, la cui sola missione doveva essere di somministrare al primo i mezzi di prolungare e sostener la difesa. Certo è, che il Pepe ha una sola statua, a Torino, e postagli dalla pietà della vedova; ed un busto a Catanzaro, che per esser posto nell’atrio dello Asilo Infantile, sembra una satira. E busto e statua sono opere infelici e non ritraggono adeguatamente la bellezza veneranda del vegliardo, ch’era stato un tempo il più bel giovane di Napoli e dello esercito di Gioacchino. — Al Manin invece (se non è strettamente vero quel, che dice lo Errera, che — «Torino, Milano, Firenze, Genova e quante sono le illustri città d’Italia, _gli_ eressero un monumento o una lapide, o del suo nome intitolarono una via o un Istituto» — perchè, per esempio, e tacendo di molte altre, nè Napoli, nè Bologna, nè Catania, città d’Italia anch’esse e tra le più illustri, gli han decretati onori siffatti); al Manin il plauso è più concorde, più prolungato. Ma perchè? Per gli atti delle sue dittature ed amministrazioni? Niente affatto. Il vero motivo di quegli onori, sproporzionati alle opere, ve lo accenna il dabben Cibrario, dicendo: — «Io ho sempre rispettato e rispetto tutte le opinioni, che muovono da intimo convincimento, e trovo naturalissimo, che a Venezia, con sì splendide memorie di repubblica, vi fossero repubblicani. Onorerei Daniele Manin di tutto cuore, quand’anche fosse morto repubblicano; ma più l’onoro e l’amo per avere con nobile e raro esempio riconosciuto più tardi e dichiarato, che la salvezza d’Italia stava nella bandiera e nella spada, che il Re di Sardegna avea consacrata a redimere questa _gran madre d’eroi, saturnia terra_.» — Così è. La popolarità Italiana del Manin comincia nel M.DCCC.LVI. Il presidente e dittatore di una effimera repubblichetta e microscopica, sarebbe ora dimenticato dalla nazione, se, come altri, avesse perfidiato nello sterile repubblicaneggiare (e mi si perdoni l’epiteto poco parlamentare) stolido; rimarrebbe al più al più venerato da un partitello, da un manipolo, da una chiesuola, da una setta. Noi non lodiamo ed onoriamo il presidente ed il dittatore; ma un poco il presidente, che, sebbene di mala grazia, seppe ripudiar la repubblica il tre luglio M.DCCC.XLVIII e far votare la fusione col Piemonte; e moltissimo l’esule, che essendo stato presidente e dittatore, ancorchè di repubblica effimera e microscopica, seppe passare bravamente il Rubicone, rinnegare il passato, rinnegare lo assurdo ideale giovanile, ravvedersi, distruggere il partito repubblicano, far tacere le discordie, che avevan cagionato in gran parte le catastrofi e le vergogne del quarantotto, persuadere tante teste deboli ed incolte, unite però a cuori generosi e braccia forti, della necessità e della bontà della Monarchia unitaria. Questo atto il rende caro alla nazione tutta e pregiato. Questo atto rivela più fortezza d’animo, che la presa dell’Arsenale e la difesa di Venezia, e giovò molto più all’unificazione d’Italia ed alla liberazione. Tolto questo, la vita di lui sarebbe quella di un agitatore e d’un rivoluzionario volgare, come ce n’ha tanti. III. Il Manin era un avvocato, d’origine israelitica, sentimentale ed ingenuo molto ed irrequieto amante di libertà non ben determinata, come accade agli schiavi, come quasi tutti gli uomini del quarantotto. Gli avvocati, gl’ingenui e quanti non hanno propositi ben chiari non sogliono esser gente adatta a fondare Stati. Facile parlatore, dallo istinto tribunizio, in ogni quistione ficcava in mezzo, chiamava in ballo la politica e l’onor nazionale, o c’entrasse o non c’entrasse, a proposito ed a sproposito. Così, per esempio, nella quistione della ferrovia ferdinandea tra Milano e Venezia. Si era dovuto ricorrere a’ capitalisti esteri, cupidi, non di giovare alla Italia, anzi d’impiego proficuo; e credere, che i capitalisti possano esser cupidi d’altro, è ingenuità classica. Pare, che la immensa maggioranza degli azionisti non avesse fede alcuna nella direzione Italiana della società, non la stimasse capace e s’impensierisse dello avviamento preso dagli affari. Alcuni dunque proposero di cedere allo Stato la costruzione e la gestione della ferrovia sino al compimento de’ lavori. Se fosse buon partito o cattivo, io, che di simili faccende non m’intendo, non oso affermare. Il Manin, che non credo se n’intendesse molto più di me, lo oppugnava. Voglio anche, ch’egli avesse ragione; ma, invece di addurre argomenti finanziarî, invece di provare all’adunanza, che la Direzione Italiana offriva loro più guarentige e migliori dello appoggiare al governo la costruzione, fece un’arringa declamatoria, che venne accolta a fischiate e di cui non possono rileggersi senza riso de’ brani come questo: — «Accettare la proposta porterebbe una nuova e grande umiliazione nazionale.» — L’umiliazione nazionale c’entrava come il cavolo a merenda, parlando ad un’assemblea cosmopolita di azionisti! La mancanza di approposito e di senso pratico venne redarguita dalla quasi unanimità, che approvò la proposta. Bene osserva il Rovani, che: — «se ci facciamo a riandare il tempo speso prima della rivoluzione dal più degli Italiani, che nel M.DCCC.XLVIII si posero o furono posti a presiedere governi, e a capitanare popolazioni, noi troveremo per ciascuno tanta materia di racconto, di considerazioni e di giudizi, che la storia della lor vita di preparazione, potrebbe assorbire per avventura quella della loro vita di azione». — Ciascuno di loro era divenuto celebre per iscritti. — «Tutti dal più al meno erano noti all’universale... gran tempo prima, che scoppiasse la rivoluzione. Tutti, fuorchè Daniele Manin. Ei si presenta all’ingresso della rivoluzione tutto solo e poco noto e quasi nudo di memorie e d’opere. Uomo senza passato». — Caratteristica del quarantotto fu la levità giovanile, anzi fanciullesca, con la quale la nazione credette affrancarsi e costituirsi a furia di chiacchiere, stimando, che il chiacchierare fosse operare. Gli uomini, che salivano repentinamente al potere o riempivano le assemblee o tumultuavano in piazza o sdottrineggiavano su pe’ giornali o capitaneggiavano schiere, erano per lo più impari ed impreparati alle difficoltà politiche, economiche, amministrative, militari, le quali non possono risolversi con delle belle frasi. Ma credevano in buona fede, che si potesse governare, amministrare, guerreggiare per ispirazione, entusiasmo, estro ed afflato divino, appunto in quel modo com’ogni giovinotto crede di poter poetare. Ora, che la pratica della vita libera ha diffuso il senso politico, non c’è chi non rida di certe idee e di certe pensate, che solo gli impenitenti demagoghi ed i giovani, che fan fiasco negli esami liceali, perfidiano nell’ammirare e sognano d’imitare quandochessia (che mai non se ne dia loro l’occasione!) Nè l’inespertezza è scusa all’insipienza; scusa legittima, dico. Nèd in arte, nèd in politica meritano indulgenza alcuna i dilettanti. Direi a quelli, che s’impossessano del potere o vi aspirano, ignorando l’arte di governare, quanto è detto nel _Romanzo Borghese_ di Antonio Furetière di chi verseggia senza studio: — «Belastre se hazarda de repondre que c’estoient des vernt faicts par des gentils hommes qui n’en sçavoient point les régles, qui les faisoient par pure galanterie sans avoir leu de livre et sans que ce fust leur mestier: _Hò par la mort, non pas da ma vie_, reprit chaudement Charrosselles _pourquoy diable s’en mes-lent-ils si ce n’est pas leur mestier? Un masson seroit-il excusé d’avoir fait une méchante marmite, ou un forgeron une pantoufle mal faicte, en disant que ce n’est pas son mestier d’en faire? Ne se mouqueroit-on pas d’un bon bourgeois, qui ne feroit point profession de valeur si, pour faire le galand, il allait monster à la bréche et monstrer là sa poltronnerie?_». — Giustissime sono le osservazioni del Vitet: — «La gioventù, che spolitica, non pensa affatto, che dalla sera al mattino può accaderle di veder crollare in un battibaleno per subita tempesta quanto esiste, quanto biasima, quanto oppugna; ed innalzarsi, quanto fantastica, e quindi di esser colta sprovveduta, d’esser chiamata alla manovra senza saperne boccata, e di non potere reggere il timone se non con mani inesperte. Dov’è chi si prepari e si eserciti anticipatamente alle funzioni, cui potrebbe esser chiamato, che indaga come correggere quanti censura, avido di particolari e nozioni pratiche invece di teoriche ampollose e di generalità vacue». Le costituzioni in tutta Italia, le speranze suscitate ed alimentate da Pio IX, la repubblica in Francia e finalmente i fatti di Vienna, il ritiro del Metternich e le concessioni imperiali, imbaldanzivano gli agitatori in Venezia e sgomentavano gli oppressori, che non osavan più reprimere, nè condursi risolutamente, ignorando se gli atti loro sarebbero poi approvati, dubitando della stabilità della Monarchia Austriaca. Il Palffy concedette la Guardia cittadina e distribuì le armi al popolo, quando appunto la libertà di stampa e di riunione rendevano più pericolosa quella concessione e quella distribuzione ai disaffezionati. Naturalmente i rivoluzionarî adopraron subito i fucili e le daghe contro di lui. Fu la ripetizione della storia d’Argante che grida a’ guerrieri cristiani: Questa sanguigna spada è quella stessa. Che ’l signor vostro mi donò pur ieri. Ditegli, come in uso oggi l’ho messa, Ch’udirà la novella ei volentieri. E caro esser gli dee, che ’l suo bel dono Sia conosciuto al paragon sì buono. Ditegli, che vederne omai s’aspetti, Ne le viscere sue più certa pruova; E quando d’assalirne ei non s’affretti Verrò non aspettato ov’ei si truova. La disciplina si rilascia e la speranza della impunità, che balena agli occhi del volgo, il fa irrompere in atti di ferocia. Gli arsenalotti assassinano il loro capo, il colonnello Marinovich. Ed il presidio non impedisce il misfatto; e non se ne ricercano e puniscono incontanente, esemplarmente gli autori. Le guardie civiche, capitanate dal Manin ed assicurate senza dubbio della complicità della truppa, irrompono nello Arsenale. I soldati rimangono inerti; ed, ordinando loro un maggior Boday di operare, atto, che lo Errera qualifica di _trama subdola_ (sic!), si ribellano, inferociscono contro il Boday, fanno causa comune col popolo, che riman quindi padron dell’Arsenale a molto buon mercato, non per virtù propria, non pe’ discorsi del Manin, ma perchè la guarnigione infranse e trasgredì il giuramento militare, qual che se ne fosse il motivo. Il Palffy ed il Zichy perdono sempre più la testa e vien loro un po’ di tremarella. A chi dice loro del Marinovich e del Boday e consiglia di operare, rispondono presso a poco come quel Re appo il Cornelio: Si ce désordre était sans chef et sans conducte Je voudrais, comme vous, en craindre moins la suite: Le peuple, par leur mort, pourrait s’être adouci. Mais un dessein formé ne tombe pas ainsi; Il suit toujours son but jusqu’à ce qu’il l’emporte; Le premier sang versé rend sa fureur plus forte; Il l’amorce, il l’acharne, il en éteint l’horreur, Et ne lui laisse plus ni pitié ni terreur. Non sapendo in chi fidare omai; temendo, per le poche forze fedeli ancora, il contagio della insubordinazione; sbigottito dalle notizie di Milano e delle Provincie; non aspettando ajuti e rinforzi; obbedendo forse ad ordini superiori; bramosi certo di salvar la pelle propria e de’ compagni: capitolarono. Il prete siciliano Niccolò di Carlo, che ha avuto il coraggio di scrivere un poema in due volumoni ciclopici sulle rivoluzioni d’Italia, adombra così brevemente questi fatti, compendiando un discorso del Manin: .... Si scuote, si rinfiamma ed arde D’Adria il leon, che le sue glorie ambisce, Con l’opre nuove, che non son bugiarde. Ei rugghia, e rugghia sì, che ne stupisce L’austriaca possa; e quell’altier prestigio De’ vanti austriaci in un balen svanisce. Bastan due giorni all’immortal prodigio. Vinse il leon, nè insanguinò l’artiglio; Italo è omai nè più dell’Austria è ligio. Venne immediatamente, lì per lì, su due piedi, senza troppo riflettere, proclamata una repubblica. Perchè la repubblica? — «Perchè non basta avere «abbattuto l’antico governo, bisogna altresì sostituirne «uno nuovo; ed il più adatto ci _sembra_ quello «della repubblica, che _rammenti le glorie passate_». — Così il Manin: ma la ragione _non ci sembra_ molto soda. Una forma di governo non si sceglie per amore di reminiscenze storiche, come il nome di un neonato; per memoria d’una gloria, che fu; di una gloria, per giunta, molto antica ed annebbiata dalle vergogne posteriori e dal fine ignobile della Serenissima. Dio mel perdoni, ma forse al Manin parve bello, d’essere il primo presidente d’una Venezia democratica, come un Manin era stato l’ultimo doge d’una Venezia aristocratica. Quest’atto d’improvvida leggerezza subito partorì tristi frutti. Parve ispirato da municipalismo, dal desiderio di scindersi da Milano e soverchiarla; suscitò diffidenze nella rimanente Italia e nelle provincie Venete singolarmente, dove la Serenissima non ha lasciate memorie molto care. Ed i Comitati dipartimentali di esse si credevano in obbligo di esortare il Governo provvisorio di Venezia — «a manifestare sentimenti di larghissima nazionalità per togliere del tutto i motivi del malumore;» — e nel subordinarglisi facevan riserve pel mantenimento della unione con la Lombardia, e dimostravano in mille modi la poca fiducia. Il Governo nominata dalla piazza si vedeva imporre dalla piazza e ministri e provvedimenti. Ne faceva anche parte, secondo gli usi quarantotteschi, un artigiano, il quale non so davvero, che lumi potesse portare sulle materie, che discutevansi, di tanto momento e premura. Perchè bracciante, lo avevan fatto ministro delle Arti e Mestieri! Ma forse, con un po’ di buon senso, e non avendo la pretesa della scienza infusa, sarà riuscito almeno soltanto inutile, non dannoso, come il Tommaseo ed altri, incapaci del pari in fondo di reggere uno Stato e di condur gli affari, ministri ed ambasciadori _pour rire_, da commedia. Stava zitto almeno, e non iscriveva. Lo analfabeta taciturno evita di dire e di scrivere corbellerie: e quante se ne dicevano e scrivevano allora, uff! Lo stesso Errera è costretto a convenire, che parecchie note (leggi: quasi tutte) della repubblica del quarantotto, — «sono ispirate ad una lirica e ad un sentimento, che poco si addicono alla ragion di Stato: per ciò soprattutto si distinguono gli scritti del Tommaseo». — Dell’inopportunità delle cui proposte sovrabbondano gli esempli; e la cui leggerezza come diplomatico venne spesso redarguita persino dal Manin, che gli scriveva: — «Ameremmo, che foste meno proclive ad ammettere come fatti molte dicerie dei giornali, destituite di verità». — Ma veramente tutti peccarono: ed il Manin in questo caso ricorda chi rimprovera al compagno la festuca, senz’accorgersi della trave, ch’ha innanzi gli occhi; o, come suol dirsi più volgarmente la padella, che dice al tegame: _fatti in là, chè tu mi tengi._ Un partito solo era da consigliarsi a Venezia, e diverso: subordinarsi ad un altro Stato Italiano già costituito, e preparare armi e denaro, denari ed armi, mantenendo l’ordine pubblico. Leve e tasse, tasse e leve ci volevano. Questo appunto non si seppe, appunto non si volle fare. E non si volle fare per non perdere la popolarità ed i plausi della piazza. Invece di far leve, si apersero arrolamenti volontarî, invece di far denari si abolirono e diminuirono e riscossero male le imposte, invocando poi doni patriottici e sovvenzioni nazionali, che poco potevan fruttare e poco fruttarono. Accadde come nelle repubbliche del Medio Evo: De tributo Caesaris nemo cogitabat, Omnes erant Caesares, nemo censum dabat. Invece di acquetare la plebaglia, si mantenne in agitazione continua co’ circoli, con le piazzette, con le arringhe, distraendola dal lavoro, dandole un’idea falsa de’ suoi diritti e del modo di esercitarli. Quanti guai, quante zizzanie, quanti torbidi cagionassero essi circoli ed esse piazzate, lo Errera tace od accenna appena: son la parte vergognosa dell’assedio di Venezia; ma giova non dimenticarla, non occultarla. L’indole festaiuola di tutte le plebi e sventuratamente in modo particolare delle Italiane, ebbe largo campo di sfogarsi sotto pretesto di patriottismo. Come se le passeggiate, le piazzate, le chiassate, le ubbriacate, le schiamazzate, le luminarie, le processioni, le rassegne, i _Te-Deum_, eccetera, eccetera, fossero azioni, con le quali si fonda la patria, o le si giova. Brevi feste, dopo la vittoria, che non distraggan troppo dal lavoro, che non ne disavvezzino ed il rendano increscevole; io le comprendo. Ma, cominciata appena l’opera di redenzione, quando non si è ancor definitivamente acquistato nulla, anticipar le allegrezze ed i panegirici, è per lo meno puerile. Il volgo si assuefaceva allo sciopero ed allo scialacquo; la gioventù a stimar le parate, le acclamazioni ed i giuramenti teatrali come atti eroici, che dispensano dalle battaglie, dalle privazioni, dal morir per la patria. Il libro dell’Errera v’indicherà più festicciuole, che fatti d’armi; più giuri di Annibale, che morti da eroi. Un prete, forse ubbriaco, (l’ubbriachezza sola può servirgli in certo modo di scusa, sebbene inescusabile essa stessa) a Chioggia, mettendo la testa sotto alla spada del Toffoli (quel tale artiere improvvisato statista) giurò _di morire per San Marco_. Non siamo informati, se fu uomo di parola: scommetterei di no. Ma, se un prete _guappo_ e sanguinario, può sembrar lodevole, a chi è avvezzo a considerar come ideale del sacerdote il levita del vecchio testamento; noi non dobbiamo dimenticare, che la religione cattolica imponeva a quel messere di non far differenza alcuna fra’ suoi concittadini e lo straniero, di amarli del pari. Nè queste cerimonie ispiravan sensi di dignità alle popolazioni. In Belluno, il ventitrè marzo, espulsi gli austriaci, al giunger la notizia della liberazion di Vinegia: — «le guardie civiche, fra l’allegrezza ed il plauso, trascinarono il cocchio, nel quale stavano il vescovo, il delegato, il podestà ed i capitani della guardia civica». — Così pure Piersilvestro Leopardi narra: — «che in Brescia, gli studenti (?) per onorare Gioberti, che viaggiava meco, vollero tirarci la carrozza per più di due miglia». — Ecco gente, che, per festeggiar l’indipendenza, non sa far di meglio, che assumere l’ufficio de’ bruti! Carlo Alberto era sceso in campo. Cuore magnanimo; mente turbata dalla fede religiosa ardentissima; uomo, desideroso sì d’ampliare il proprio Regno, ma più di acquistar gloria propugnando una causa, la quale gli sembrava santa. E non per quelle ragioni solo, che la fanno stimar tale a voi ed a me, anzi pure per argomenti teologici: difatti, nella Bibbia, nel Deuteronomio capo XVII, versetto XV, si legge: _Non poteris alterius gentis hominem Regem facere qui non sit frater tuus._ — «Non potrai darti per Re lo straniero, che non t’è fratello». — L’indipendenza nazionale, raccomandata dal pontefice, prescritta dalla scrittura, era un domma per quel generoso. Fu chiaro sin dal principio, che l’unità e soprattutto (chè d’unità non s’era ancor compreso il bisogno) che l’Indipendenza d’Italia non avrebbe campione, sostegno, propugnatore, speranza, oltre il Re di Sardegna. La causa nostra dovea vincer seco o cader seco, perchè lui solo scendeva in campo per essa con un esercito numeroso ed agguerrito, sebbene, come poi si vide, insufficiente per l’impresa. Del Re Bomba il malvolere fu sempre evidente; e ben presto ed al maggior uopo, confesso e dimostro. La rimanente Italia poteva dar solo forze tumultuarie e di poco conto. Non dico, che fosse vero, per esempio, delle truppe del Durando, quel che ne scriveva il Mérimée: _Un de mes amis qui revient d’Italie a été pillé par des volontaires romains, qui trouvent les voyageurs de meilleure composition que les croates. Il prétend qu’il est impossible de faire battre les Italiens, excepté les Piémontais qui ne peuvent être partout._ Credo, che lo amico del Mérimée fosse un mentitore; al postutto poi, un fatto particolare non vorrebbe dir nulla: in ogni esercito ci sono ladri e saccheggiatori e peggio; gente degna della forca e che finisce sulla forca. Ma pur troppo ned i volontarî romani, ned i toscani erano in grado di tener testa in campo aperto ad un esercito agguerrito. Si rilegga quel, che il D’Azeglio ne scriveva confidenzialmente alla mogliera. Chi vuole il fine, deve volere i mezzi. L’indipendenza d’Italia poteva aversi solo per opera di Re Carlo Alberto, dunque avrebbe dovuto volersi l’immediata fusione col Piemonte, anche da’ Veneti, che fossero stati in fondo repubblicani, perchè in somma delle somme, se non altro, il _giogo piemontese_ sarebbe stato più lieve dell’austriaco, m’immagino; o perchè un po’ di buon senso basta a suggerire, che le quistioni politiche s’hanno a risolvere una per volta. Ma gli uomini del Governo provvisorio di Venezia erano federalisti, sebbene si vergognassero di apertamente confessarlo; eran federalisti vergognosi, crittofederalisti. Il Tommaseo scriveva al Leopardi: — «Potete ben credere, che l’unità vera della nazione è da me ardentemente desiderata; ma mi duole, che taluni si sforzino di ottenere una qualche aggregazione parziale, con modi o fraudolenti o violenti, i quali fanno al Piemonte torto o danno, e preparano nuove scissure, forse non meno deplorabili delle antiche». — Chi non _desidera_, anzi _vuole_, l’unità vera d’un popolo, ch’è la politica, affretta le aggregazioni parziali, le quali conducono ad essa, con tutti i modi: Roma non fu fatta in un dì; ned i carciofi si mangiano in un sol boccone, anzi a foglia a foglia. Ed il Tommaseo lesse poi nell’Assemblea veneta un discorso per provare, che: — «decidere subito sulla condizione politica di Venezia non era inevitabile, non utile, non decoroso: non _inevitabile_, perchè l’immediata fusione non faceva sgombrare il nemico, nè forniva danari e milizie; non _utile_, perchè il decidere allora diceva timore, o sarebbe stato un peso e una umiliazione di più; non _decoroso_ per Re Carlo Alberto, cui si toglieva occasione di operare con magnanimità per farne un avventuriere che mercanteggi le battaglie, e cerchi non il premio, ma il prezzo». — Da ultimo uscì in campo — «con una generosa proposta, acciocchè il patriottico Trentino fosse unificato all’Italia» — come dice l’Errera; proposta, la cui opportunità e serietà non può sfuggire ad alcuno; ma che almeno non era ignobile, come l’altra del Bellinato, il quale volea stipulare il mantenimento del portofranco per Venezia e dazî inferiori a quelli di Genova. Sapete l’ideale di questa gente? Una costituente a guerra finita e frattanto la continuazione di tanti governucoli, i quali, se fossero stati di devoti al Re e di provetti avrebber cagionato impaccio; essendo di gente dubbia ed inesperta, equivalevano all’anarchia. Carlo Alberto poi arrischiasse vita e corona, mettesse a repentaglio la dinastia, eccetera (mentre costoro, in casa propria, si sbizzarrivano facendo comoda e sicuramente a’ ministri ed a’ deputati), per esser quindi a guerra finita, congedato anche, se occorre, da una congrega di letterati e di avvocati, da un sinedrio di Totonno Tasso e Ciccio Trecquattrini! Beninteso, che i sacrificî delle antiche Provincie, grazie alla leva ed alle imposte, dovevano essere obbligatorî; ma quelli delle provincie poi, il cui fatto si decideva, semplicemente doni patriottici ed arrolamenti volontarî. Converrete, che le parti erano un po’ leonine, fatte a questo modo; e la leoninità può scusarsi od almeno accettarsi, sol quando ci s’impone dal più forte. L’unione col Piemonte era una tal necessità, che, quando il mare cominciò a turbarsi, s’impose a quei retori, sebbene la volessero di malgarbo, come un ferito consente all’amputazione. Le provincie erano loro contrarie, e la volevano. La sola città di Venezia perfidiava nell’essere un po’ autonomista. Il Manin stesso (ad un cui moto generoso pur si deve la quasi unanimità della votazione), scriveva poi: — «Ciò in Venezia sembrava ai più essere _intempestivo_ e pericoloso: intempestivo, perchè stimavasi, che la quistione dovesse risolversi a territorio sgombro ed a guerra finita; _pericoloso_, perchè la guerra avrebbe assunto apparenza d’essere dinastica anzichè nazionale, e quindi, perdute le simpatie dei popoli italiani e di altri popoli liberi d’Europa e destate le apprensioni ed i sospetti dei principi». — La miopia, di chi ragionava così, è chiara ora a tutti. L’Italia ha potuto costituirsi solo quando tutti si son ben persuasi, gl’interessi di una dinastia e della nazione essere identici, una cosa sola. Delle simpatie sterili non avevamo, che farci; come delle apprensioni inoperose non avevamo a curarci. Ma validi aiuti esteri potevano solo sperarsi da’ negozianti d’un governo costituito, che avesse cosa offrire in compenso; ed il principio monarchico solo, altamente proclamato, poteva disarmare taluni sospetti e frenare le irruenze pericolose, contenere la piazza e far prevalere la volontà non degli schiamazzatori, anzi del vero popolo, che non è chiassone e piazzaiuolo, che non va scambiato con la folla, la quale s’accalca sotto i balconi de’ Governi provvisorî, e tante volte è facile a disperdersi con l’offrir loro da bere. (Vedi Documento XLIII dello Errera). L’Unione francamente accettata da’ Ducati, era francamente desiderata dalle Provincie Lombardo-Venete. Il municipio bresciano rispondeva al Gioberti ed al Leopardi, che raccomandavano di far marciare i coscritti della leva ordinata dal Governo Provvisorio: — «Si fa di tutto; ma i Bresciani non vogliono servire i signori di Milano. Facciano la fusione col Piemonte; e, chiamati in nome del Re, marceranno subito». — Qui lascio la parola al Cibrario: — «Milano, già travagliata da una setta, che si sforzava di render sospetti i Piemontesi, retta con pensieri discordi e perciò con mano assai debole dal Governo provvisorio, vincolò la fusione a vari patti, fra gli altri quello d’un’Assemblea costituente, che ordinasse le forme del reggimento interno, non solo rispetto alla Lombardia, che abbisognava d’organizzazione, ma rispetto all’antica monarchia di Savoia, che appunto avea potuto impugnar le armi a pro d’Italia, perchè già _ab antico_ era fortemente organizzata. Condizione nuovissima nella storia, che portava in grembo una nuova ed intiera rivoluzione, le cui conseguenze potevano spingersi agli ultimi termini della democrazia e mutare di fatto, se non di nome, il Re in presidente di repubblica. Qualche membro del Governo provvisorio parteggiava per la repubblica. Il presidente invece e gli altri, opinavano, che la Costituente, eletta sulle basi del voto universale, presentasse una guarentigia immensa di moderazione. Il Re, sdegnando di scendere a mercato sulla maggiore o minore autorità, che gli si dovesse attribuire, egli, che combatteva per un principio e non certo per gl’interessi della Corona, accettò senza palese ripugnanza anche quella condizione, benchè molti savî, amici d’Italia e suoi, sostennero con gran calore, che dovea respingersi. Invece Urbano Rattazzi orò, perchè si accettasse. Egli dicea tra sè: _O saremo vincitori e col favor della vittoria il voto della maggioranza dell’Assemblea sarà continuamente per noi; o vinti, e non sarà più il caso d’un’Assemblea costituente_». — Lealtà rattazziana! Venezia mise le stesse condizioni di Milano. Veramente, quando si pensa a’ guai, che sarebber venuti dopo, s’è quasi indotti a stimar provvidenziale la sconfitta, che fece metter senno a tante menti incomposte e confuse, preparando la concordia del cinquantanove e del sessanta. Di quali discordie, di quali ingratitudini, di quali irruenze non ci avrebbe dato lo spettacolo doloroso una costituente? Ci saremmo visti condotti ad un conflitto tra ’l potere esecutivo ed essa, che avrebbe avuto per fine, od un colpo di Stato del primo, pericoloso, od una usurpazione del secondo, funesta, simile a quella dell’Assemblea nazionale francese sul fiacco Luigi XVI. Il Manin, mentre votava l’unione col Piemonte, si dichiarava antimonarchico e faceva prevedere qual parte si riserbasse nella futura costituente, rifiutando di continuare al potere e dicendo: — «Fui, sono e resto repubblicano; in uno Stato monarchico io non posso esser niente; posso esser dell’opposizione, ma non di Governo». — Insomma que’ signori volevano, che Carlo Alberto ed i Piemontesi vincessero per loro; e poi dar lo sfratto al primo ed annettersi le antiche provincie, non lasciarsi annettere essi agli Stati Sardi. Succedette un altro Governo provvisorio e poi quello dei Commissari piemontesi, che durò quattro giorni. Venezia non poteva nulla da sè: tutto dipendeva dalle sorti dell’esercito Regio. Le vittorie di questo avrebbero avuto per conseguenza l’indipendenza del Veneto; ma, disfatti i piemontesi, per Venezia non sopravvanzava speranza alcuna. Frattanto giovava, occupando alcune forze nimiche, impedendo a’ tedeschi l’uso del mare pe’ trasporti, e preparando un nerbo di soldati, i quali però avevan bisogno di tempo, ma tempo assai, prima di poter riuscire utili in campo. Non c’illudiamo su quell’accoglienza. Il Tommaseo scriveva al Pepe: — «Caro generale, questa truppa di gente oziosa, indisciplinata e diversa è a Venezia più pericolo, che salvezza. Traetenela, vi preghiamo, fuori al più presto». — Il Pepe al Leopardi: — «Ascendono queste truppe a diciottomila uomini e forse più, nelle quali manca la disciplina e più tra gli ufficiali che tra soldati. Gli ufficiali superiori sono quasi tutti ignari del mestiere». — «Sono qui combattendo difficoltà d’ogni genere. Vi basti sapere, che ho dovuto far partire con la forza de’ gendarmi il generale duca Lante. Ciò vi mostra la disciplina, che ho qui trovata. Non ho meno di diciottomila e seicento uomini; ma bisognava riordinarli, disciplinarli e provvederli di mille cose, che mancano». — Si chiedevan sempre denari ed uomini al Re, (che non poteva mandarne e distrarne dallo esercito, perchè, come dice il Machiavello, non s’ha mai a mettere a repentaglio tutta la fortuna e sol parte delle forze); e frattanto gli s’imponevano patti! L’insipienza amministrativa del Manin e compagni, e nei provvedimenti e nella scelta del personale, era stata proprio troppa. Basti citare lo aver quasi obbligato il Zucchi ad accettare un comando, quel Zucchi, che firmava poi la capitolazione di Palmanova, portante, che _la città riconosceva di avere errato e che la fortezza, sprovvista ancora di munizioni da bocca e da guerra, si rendeva spontanea_. Ed i repubblicani milanesi accoglievano quindi con ovazioni e — «levavano alle stelle quel pover uomo rimbambito, col fine altamente proclamato di farne un competitore al Re Carlo Alberto per la liberazione d’Italia» — come testimonia, con giusto raccapriccio, il Leopardi. Del resto il Manin non seppe mai sceglier gli uomini; prodigo di fiducia, facile ad esser ingannato. Venezia formicolava di spie austriache. — «E che sia il vero» — scrive il Carrano — «venne in mano del Pepe un ordine scritto dal Mitis, col quale, disponendo le difese, faceva noto quel, che a sei ore della sera del ventisei ottobre avea saputo, cioè, che la domane i veneziani farebbero una sortita da Marghera. Dopo la caduta di Venezia fu detto, che un tenente-colonnello Juin, comandante di piazza in Venezia, serviva di spia agli austriaci... Proteggevalo il Cavedalis, ministro della guerra. Era poi a capo della polizia un certo Renzowich, il quale si aveva tutta guadagnata la confidenza del Manin; e sì quegli, come il detto Juin, dopo la caduta di Venezia, furono veduti in gran dimestichezza col nemico. Così quel brav’uomo, che era l’amato presidente del Governo veneziano, si faceva canzonare da simili furfanti». — Aggiungerò ancor quanto del Cavedalis stesso scriveva il Rovani nel M.DCCC.L: — «Il Cavedalis, anima dell’anima di (_sic_) Manin, senza di cui egli non osava portare più innanzi il peso della dittatura; quel Cavedalis, dopo essere stato triumviro del Governo libero della risorta Venezia, sta ora come direttore della strada ferrata Lombardo-Veneta agli stipendî dell’Austria». — Il Castelli ed i nuovi suoi compagni volevano mettere un po’ d’ordine e tirare innanzi; non s’illudevano, non avevan cieche fiducie. Lo Errera dice, che a furia d’_errori_ si alienava l’animo de’ cittadini; e fra questi _errori_ pone: l’aver dato lo sfratto a gente malsicura; l’aver ingiunto, che le armi militari fossero consegnate da’ privati sotto pena di multa; l’avere ristampato le leggi contro gli attruppamenti tumultuosi; l’aver vietato — «ai giovani delle scuole di esercitarsi nelle armi più che una volta per settimana, mentre urgeva, che il paese fosse agguerrito» — eccetera. Dove siano gli errori, non so. Agguerrir si dovevano gli uomini, non i bimbi, il cui còmpito era di far latinetti ed imparar la grammatica. I battaglioni della speranza e simili ragazzate, per le quali _inorgogliva_ e _s’inteneriva_ il Manin, sono trastulli da tempi sereni e non vinsero mai battaglie. O vogliam dire, che lo errore fosse nel permettere quella esercitazione settimanale? nel non proclamar lo stato d’assedio per reprimere i tumulti e pene personali severissime per ricuperar le armi? Alla notizia dello armistizio Salasco, che pattuiva, non la rinunzia alla sovranità di Venezia, anzi solo lo sgombero di essa dalle forze piemontesi, la plebe gridò tradimento, il Manin prese la dittatura e proclamò la repubblica di nuovo. Dittatura ci voleva, ma dittatura militare, perchè se dittatura è riunione di tutti i poteri in una persona per raggiunger meglio uno scopo determinato²⁹, e se in Venezia si trattava unicamente della difesa, non era senno dar la somma delle cose in mano a chi del difender piazze e dell’arte della guerra era ignaro affatto. E della ingerenza del Manin nelle cose militari si duol di continuo il Carrano. Fu persino coniata una moneta con quella data funesta dell’_XI agosto_, quasi a ricordanza d’un fausto evento, quasi da quel giorno, che per ogni avveduto era il principio della fine, cominciasse la redenzione di Venezia! Oh, quella coniazione fu una cattiva azione. A’ repubblicani rincresceva il breve rinsavimento. La città avrebbe dovuto, anche perdendo l’assistenza della flotta e del battaglione piemontese, che le circostanze della guerra allontanavano, ostinatamente riaffermare sino allo stremo il voto della unione. Sarebbe proprio bella, se una piazza evacuata dal presidio, per ciò solo avesse il diritto di costituirsi in istato indipendente! Ottima cosa fu l’idea di proseguir nella difesa, — «perocchè non impossibile il ripigliarsi più tardi la guerra sul Ticino o altro accidente all’Italia propizio; e all’uopo Venezia forte, con esercito meglio intanto agguerrito, poteva essere di grande aiuto e sostegno» — come dice il Carrano; ed anche per semplice pruova di valore Italiano, per ispirare stima di noi, per non far cadere una seconda volta il leone di San Marco _senza mandar ruggito_. Gli armaiuoli franzesi solevano iscrivere sulle lame delle spade: _Non isguainarmi senza giusto motivo; non rinfoderarmi senza onore._ Ma non c’era bisogno di proclamar la repubblica: questa parola non dava forza, tutt’altro. ²⁹ «Il dittatore era fatto a tempo e non in perpetuo; e per ovviare solamente a quella cagione, mediante la quale era creato. E la sua autorità si estendeva in poter deliberare per sè stesso circa i modi di quello urgente pericolo, e fare ogni cosa senza consulte, e punire ciascuno senza appellazione; ma non poteva far cosa, che fosse in diminuzione dello Stato, come sarebbe stato tòrre autorità al Senato o al Popolo, disfare gli ordini vecchi della città o farne di nuovi». — _Mach._ _Deche._ c. XXXIX. Pure la proclamazione fece gridare il Manin: _Salvatore della patria_, che non salvò, nè poteva salvare. I titoli anticipati son di malaugurio. Il triumvirato Manin-Graziani-Cavedalis scrisse indirizzi, mandò messaggi, declamò arringhe, e cominciò a vivere sulla speranza d’una mediazione o d’un intervento estero, che andò mendicando in tutti i modi, fino offrendo di far votare la dedizione alla Francia. Bisogna rendere al Manin la giustizia, ch’egli era sincero nelle sue illusioni, che non ingannò scientemente la popolazione con lusinghe, alle quali fosse estraneo; credeva davvero, che la sua città natia per — «aver destate simpatie speciali nella diplomazia d’Europa, potesse esser appoggiata dalle potenze e difesa contro le pretese dell’Austria; e, anche a peggior riuscita, aver titolo e rango e diritti di città anseatica». — Ma se tanta ingenuità sia scusabile in un uomo di Stato, nel capo d’un governo, non so. L’Inghilterra sempre lealmente rispose: _Accomodatevi con l’Austria; degli affari vostri non me ne impiccio._ Le risposte della Francia erano meno esplicite, ma in fondo poi suonavan lo stesso. Non si voleva dire ciò, che si lasciava capire! E se gli ambasciatori veneti non avessero avuto una benda sugli occhi, se avessero avuto più pratica di mondo, diamine se l’avrebbero capito! E poi, via, per che ragione avrebbe dovuto muoversi la Francia ed impegnare una guerra? Che doveva importarle o giovarle la indipendenza di Venezia? Il Manin diceva: — «Intervenite per lavar l’onta di Campoformio». — Il diceva sul serio, lui: ma la Francia di quell’onta arrossisce, quanto l’Inghilterra d’aver cagionato il fallimento de’ Peruzzi. E poi, via, che c’è davvero da arrossire per essa di Campoformio? Da arrossire c’è solo per noi Italiani, de’ quali si poteva disporre in quel modo: chi è pecora suo danno. Se onta ci fu, ce ne fu solo pel Veneto, per l’Italia: l’obbrobrio è per lo schiavo mercato, non per chi vende o per chi compra. — «Intervenite» — dicevano i Veneziani — «in nome della umanità». — Questi interventi filantropici son cosa da cavalieri erranti: ma l’uomo di Stato deve procurar solo il bene ed il vantaggio del proprio paese: e solo in questo modo può giovare indirettamente alla intera umanità, di cui come tale, nulla de’ premergli. I retori, che sgovernavan Venezia, ripetevano: — «Noi abbiamo un diritto storico, anzi naturale alla indipendenza. Vel dimostreremo». — E giù chiacchiere e sillogismi. Avete un diritto? E voi fatelo valere! Un popolo ha diritti solo quando ha forze sufficienti per farli rispettare; solo allora la storia, ch’è il giudicio divino gli dà ragione. Gl’imbelli, i deboli non hanno dritti: persuadiamocene bene, perchè guai alla nazione, che il dimentichi! Tutte le altre illusioni ingenue chi potrebbe raccontarle ed enumerarle? Una di queste era la inespugnabilità di Venezia. «È certo, che l’Austria questa fortezza inespugnabile non potrà prenderla mai colle armi, ma può prenderla con le astuzie e con le sue arti infernali;» — diceva il Manin. Le arti infernali poi furono quell’arte umanissima, ch’è la prevalenza del numero e della forza, de’ mezzi e della scienza militare. — «Il giornale del Mazzini dice, che la laguna basta a difendere la Venezia coi suoi ventinove forti,» — scriveva il Pepe — «e intanto il generale, che ho in Chioggia, scrivemi, di non poter difendere quel distretto con meno di sei mila uomini; ed al comandante di Malghera non ne bastano tremila.» — È doloroso a dirsi e so, che dispiacerà il sentirlo dire; ma, se Venezia fece moltissimo, Venezia non fece (come pretendono) quanto era possibile fare. Taccio della inerzia inesplicabile della piccola flottiglia. Dar battaglia, certo non poteva: ma rompere il blocco, ma corseggiare, ma recare gravi danni al commercio austriaco, acquistar prede e vettovaglie, avrebbe potuto. Dice il Carrano: — «E se a tempo avessero i primi governanti il naviglio accresciuto di un paio di fregate a vapore, e fatto più abbondante provvisione di vettovaglie, Venezia sarebbesi difesa fino al mese di novembre; stagione in cui i nemici avrebbero dovuto interrompere il blocco da mare. Quindi onore più grande all’Italia. E poi da cosa non nasce cosa?» — Non tutti gli uomini atti alle armi si armarono per la difesa: molti e molti preferirono — «le facili dimostrazioni di piazza e le sterili proteste»; — e moltissimi emigrarono o stettero tranquilli alle case loro. Ed è naturale, non poteva accadere altrimenti; ned altrimenti accadrebbe ovunque, se non si obbligassero i cittadini poco zelanti al servizio militare. Non tutti i Veneziani del quarantotto la pensavano come il Navagero: Non ego sum pugnae assuetus nec fortibus armis Et tamen audaci pectore bella geram. Confertas turbabo acies: densosque per hostes Deferar et praeceps in media arma ruam. Vivere quippe aliis; Venetis ea denique vera Vita est, pro patria decubuisse sua. Si trattava di presidiar Malghera e difenderla. Il popolo gridava: — «Vi andremo tutti,» — (e giurerei e scommetterei, che degli schiamazzatori non v’andò a morire un solo); ma chiedeva armi. Il Manin rispose: — «Ad un popolo, che vuole difendersi, tutto serve di arma». — Parole, che parvero sublimi e si applaudirono; che oggi verrebbero fischiate. E questa diversità di accoglienza mostrerebbe i progressi fatti dagl’Italiani nel senso politico e nel senso comune, e quanto sia già sfatata appo noi la rettorica di piazza. Corbellerie simili non le direbbe più neppure frate Pantaleo. Anche il denaro mancava; ed in parte per colpa de’ governanti. Ho già detto delle abolizioni o riduzioni di imposte. Vi si aggiunse: quel mezzo inefficacissimo di popolarità, ch’è la restituzione gratuita de’ piccoli pegni; le gratificazioni; lo spreco. Non abbiamo la distinta minuta delle spese, ma quando si legge di tre mila ed una lira pagata all’albergo Daniele per un pranzo all’ufficialità della flotta napolitana, di tremila lire elargite al padre Gavazzi, non si acquista un’alta idea dello accorgimento, di chi disponeva tali spese. Certo, le forze d’una città erano impari a tanti bisogni. Ma i mezzi co’ quali si credeva potervi sopperire: le oblazioni volontarie in Venezia e fuori; _l’elemosina per la patria_, (che doveva essere raccolta da’ parrochi in persona girando per la chiesa, trasformati così in agenti delle tasse); il viaggio circolare ideato dal Tommasèo per gli Stati italiani a raggruzzolarvi quattrini, (intorno al quale il Manin gli scriveva: — «siamo certi, che l’illustre vostro nome, la potenza del vostro ingegno e la magia dell’affettuosa vostra parola ne assicurerebbero una copiosissima messe;» — ) l’accettazione della carta veneta dalle casse degli altri governi Italiani e via dicendo, fanno sorridere. Chi avrebbe mai accettato quella carta, di cui non poteva sorvegliarsi la emissione e che non aveva credito, se non dove era imposta con la forza? Sarebbe piovuta nelle casse, che le si fossero aperte; e, come quelle monete, con le quali il diavolo comperava le anime, vi si sarebbe convertita in foglie secche. Fa ridere il leggere nominata una commissione _per istudiare e presentare un progetto tendente a menomare e possibilmente togliere gl’inconvenienti, che derivano dalle frequenti oscillazioni della carta_. Il rimedio era pur semplice: ispirar fiducia nell’esito della resistenza. Questa fiducia sembra, che non vi fosse; e la carta scapitava. Scapitava come gli assegnati francesi. Sicchè, mentre la miseria cresceva, diminuivano i pegni al Monte; fatto, che allo Errera sembra indizio di prosperità ed a noi di diffidenza. I pegni diminuivano, non perchè la povera gente aveva denari in copia; ma perchè le ripugnava di affidar le sue masserizie preziose alle casse pubbliche. La giornata di Novara (ventitrè marzo del quarantanove) condannò Venezia. E non posso non notare cosa, che fa torto al cuore ed alla mente del Manin, aver egli creduto _preparati a Torino i casi di Novara_! Fu il suo primo pensiero all’annunzio di quel disastro, partecipatogli dall’Haynau, all’annunzio dell’abdicazione di Re Carlo Alberto. Le stesse accuse stolide, che poi sono state ripetute nel sessantasei; e che anche nel sessantasei han trovato molti creduli, perchè _infinita è la turba degli sciocchi_! Tanto egli era lontano, nonchè dal possedere il _senso profetico_, che l’Errera vorrebbe attribuirgli, ma dal saper estimare equamente i fatti politici più semplici. Aveva la diffidenza dell’uomo nuovo agli affari, che ha sempre sentito parlare de’ Re e della diplomazia come di mostri; che vede e sospetta sempre non so che atroce machiavellismo in ogni azione, in ogni fatto! Egli avea sempre temuto, dacchè le sorti della guerra avevan cominciato a volgere in peggio, che la Venezia fosse lasciata all’Austria ed il Milanese rimanesse libero ed unito al Regno di Sardegna insieme co’ Ducati. Combinazione, alla quale in un dato momento l’Austria avrebbe consentito e che si vuole anzi da essa proposta e respinta da Carlo Alberto e da’ suoi Ministri, i quali appunto si misero paura d’essere accusati d’aver fatto una guerra nell’interesse dinastico. _O tutto in una volta, o nulla_; e non si ebbe nulla. Se si fosse fatto il medesimo nel cinquantanove, l’Italia sarebbe ancora di là da venire! E quel Manin, cui pareva desiderabile ed onesto di salvar Venezia dal giogo austriaco, separandone le sorti da quelle della rimanente Lombardia e facendone una imbelle città anseatica, ludibrio di tutti; era pronto nel quarantotto a gridar _tradimento, tradimento_, se il Re, per salvare almeno la Lombardia, fosse stato costretto, come nel cinquantanove, a procrastinar l’impresa di Venezia. Dal fin qui detto, dalla esposizione semplice e non fucata de’ fatti, sorge, ned è mia colpa, un’idea del Manin diversissima da quella, che lo Errera vorrebbe darci. Non abbiamo più dinanzi un grand’uomo, che fa grandi cose, nemmen per sogno. Abbiamo un avvocato, il quale in virtù d’una facondia non sempre di buon gusto, s’impone alla plebe ed alle assemblee rivoluzionarie. Uomo del resto personalmente integerrimo e pieno di buone intenzioni, ma senz’alcuna serietà e capacità politica ed amministrativa, nonchè militare, credulo, ingenuo, ammucchia spropositi su spropositi. Della resistenza efficace e prolungata il merito spetta principalmente al Pepe ed a’ suoi ufficiali, i quali avrebber forse fatto meglio e più, se non fossero stati vincolati ad ogni passo; e certamente avrebbero fatto di più, se l’Autorità civile fosse stata più capace. Giacchè il decretare la resistenza ad ogni costo, torna facile; si fa presto a proporre e votare un ordine del giorno od un decreto. Ma nell’obbedire ad un tal decreto, nell’eseguirlo, sta la difficoltà; e ci vuole non solo prudenza, anzi pure scienza militare, antiveggenza amministrativa, solerzia per preparare i mezzi, abilità nello impiegarli. So benissimo, che mi accuseranno di volere sfrondare gli allori d’un uomo benemerito, di voler malignamente distruggere una gloria Italiana. Non mi curo di tali addebiti. Credo, che il vero, il pretto vero, sia sempre meglio di una illusione o d’una menzogna: la storia non debb’esser nè fiaba, nè leggenda, se pur si vuole, che ne ammaestri e ne scaltrisca. — «Tagliar la verità, come un vestito, al dosso della passione, non fa per noi;» — «Bisogna aver faccia di dir la verità ai principi, ma anche al popolo; bisogna sapere andare contro la mitraglia, ma anche contro le fischiate; bisogna saper esporre la vita, ma anche la popolarità; bisogna esser pronto, altero, ardito e quando occorre, saper contrastar alla passione;» — diceva il d’Azeglio. Troppo sarebbe pericoloso il rappresentare alla nazione le quarantottate, esaltandole, magnificandole, mostrandone solo la parte ingannevolmente brillante: ci prepareremmo così nuove quarantottate per l’avvenire: e dove conduca i popoli il quarantotteggiare continuo, ce ’l mostrano la Francia, la Spagna, le repubbliche americane. Della difesa militare di Venezia, possiamo contentarci, perchè la migliore operazione di tal genere, che sia riuscita a farsi, ne’ molli tempi nostri, da un esercito irregolare. Della condotta politica dei suoi uomini di Stato invece non possiamo appagarci in alcun modo. Fu perniciosa ed insipiente. E basterebbe anche a dimostrarla tale, il ravvedimento, ch’è la maggior gloria de’ principali; il ravvedimento, con cui riconobbero poi, solo una guerra dinastica poter salvare ossia creare l’Italia e con cui portarono alla dinastia ed a’ valentuomini, che la circondavano, l’aiuto prezioso della concordia nazionale. È GALANTUOMO IL CAIROLI? L’Editore ha rivolte insistenti preghiere alla Signora Vedova Imbriani, perchè desistesse dalla pubblicazione dello scritto su B. Cairoli, incluso nel presente volume delle _Fame Usurpate_. Ma la nobil Donna s’è recisamente negata, tenendo essa sommamente a riprodurre, con l’integrità degli scritti, intera, la personalità del compianto marito, senza mutilazioni od apposite omissioni di alcuno di essi, ed attenendosi allo stipulato contratto d’includervi, cioè, gli articoli su _Manin_ e _B. Cairoli_. _L’Editore._ Essendosi, il dieci Decembre MDCCC.LXXVIII, nel Consiglio Comunale di Pomigliano d’Arco, proposto di concedere la cittadinanza onoraria al signor Benedetto Cairoli; il Consigliere Vittorio Imbriani parlò contro siffatta proposta, dicendo presso a poco quanto segue: Ho visto con sorpresa convocato straordinariamente, previa _licenza de’ superiori_, il nostro Consiglio Comunale, per conferire non so che cittadinanza onoraria al signor Benedetto Cairoli; ed eccomi qui per combatter la proposta e votar contro. Secco molto di rado il Consiglio con gli sproloquî miei: prego quindi, in vista della rarità della cosa, quand’anche dovessi urtare alcuno, di lasciarmi dire con tolleranza, se non con benevolenza. Prima di tutto, io non ho mai capito cosa significhi cittadinanza onoraria. Le nostre leggi parlano di una cittadinanza sola, effettivissima e non onoraria: quella, che si gode nello Stato. Legalmente, il termine _cittadino_ non ha altro senso, se non quello di regnicolo, che gode i diritti politici e civili. Nel linguaggio comune ha bensì quello di abitante d’una città, in opposizione ad abitante del contado, _contadino_. Ma Pomigliano d’Arco non ha titolo di città. Le cittadinanze onorarie di date città sono cose di que’ tempi e di que’ luoghi, in cui le singole città hanno privilegî, hanno rendite patrimoniali, che si dividono in danaro, o terreni, i cui prodotti si ripartiscono in natura fra’ cittadini. Allora la cittadinanza onoraria significa qualcosa: il diritto di partecipare a tali benefizî, ancorchè non si soggiaccia a’ pesi della cittadinanza effettiva. Ma qual privilegio ha un pomiglianese, di cui qualunque cittadino Italiano venga a dimorare fra noi, non fruisca? E, ripeto, se non c’è una cittadinanza pomiglianese effettiva, come può esserci l’onoraria? Sarebbe un titolo arbitrario e _sine re_, non procacciando nè diritti ned onori. Ma, s’anche questo titolo significasse qualcosa, nol conferirei mai ad un ministro in carica. Sarebbe o parrebbe (che val poi l’istesso) atto di servilità, di cortigianeria o di speculazione. Si crederebbe, che qualche consigliere, promovendo questo voto, aspirasse ad ottenere in ricambio una croce di cavaliere, un ciondolo. Si crederebbe, che la dimostrazione fosse inculcata, suggerita, per un fine qualunque, dal prefetto o dal sottoprefetto. Nessuno crederebbe alla spontaneità od al disinteresse nostro. Brutte supposizioni, e, ch’è peggio, ancorchè erronee, non dimostrabili tali! Ci macchierebbero tutti. C’è di più. Dubito forte della legalità della cosa; e metto innanzi la quistion pregiudiziale. Questa onorificenza ad un ministro è, in fondo, un voto politico: mascherato sì, ma tale evidentemente; ed i voti politici a noi son vietati. Noi dobbiamo occuparci solo della stretta cerchia degl’interessi municipali. Non si tratta d’accordare un’onorificenza al Cairoli, per benemerenze particolari verso il comune nostro, anzi per sue pretese benemerenze verso l’Italia intiera, per benemerenze d’ordine generale. A queste, forse, all’ora presente, il solo giudice autorizzato e legale, dopo il Re, vale a dire il Parlamento, avrà probabilmente dato il debito guiderdone... un voto di sfiducia! tante esse sono e così grandi e sfavillanti! E noi, che non abbiamo sott’occhi gli atti del processo, noi cui la legge vieta di occuparci di queste faccende, noi Consiglio Comunale di Pomigliano d’Arco, ci metteremmo a lodare, dove forse il Parlamento condanna! Faremmo un atto illegale e ridicolo, al quale arrossirei di avere avuto la benchè menoma parte. Vedendosi in pericolo nel Parlamento, gli uomini funesti, che ci sgovernano, vorrebbero promuovere un’agitazione fittizia ed estraparlamentare. Saremmo noi tanto buoni da lasciarci condurre pel naso e servirli? Mi sembra offensiva per me come per noi tutti la supposizione. Che se poi anche voleste, uscendo dalla cerchia delle vostre attribuzioni, fare un voto politico; fatelo apertamente, ma fatelo in modo da non offendere il senso morale. Mi spiego. Io non credo che a Benedetto Cairoli spettino plausi od onori. Alieno da riguardi vigliacchi, asserisco che quest’uomo non merita ned affetto nè stima: tutt’altro! Che si onorerebbe in lui? L’uomo politico, già; chè meriti di altro genere, letterarî, scientifici, militari, gli mancano. Ma, come uomo politico, il Cairoli non ha dimostra nè capacità nè (rincresce il dirlo) lealtà. Mi arieggia molto la tela del Negrotto, come dicono i toscani proverbialmente. Scarso d’ingegno, vergine di studî severi, nudo di pratica amministrativa, ha manifestato la dappocaggine piramidale e l’ingenuità preadamitica del politicante da caffè e da mittinghi, ne’ discorsi fatti alla Camera in questi diciotto anni, goffamente retorici, ampollosi e senza costrutto. È giunto, per raggiri parlamentari e perchè la sua parte aveva bisogno d’una testa di legno non volgarmente disonesta, alla direzione delle cose pubbliche. Ed ha avuto la sfacciataggine di accettare il potere, quantunque, col non incaricarsi di nessun particolar dicastero, abbia implicitamente riconosciuta la inettezza propria. Cosa dite d’un tale uomo, il quale si pappa lo stipendio di ministro senza portafogli, cioè: di ministro, che non presta servigi effettivi, amministrativi, utili? e per di più pretende quel, che nessun ministro di destra ebbe mai, l’alloggio _gratis_? Non vi pare, che scrocchi quel soldo? Cosa direste di un uomo, ignaro di marineria, che, pericolando il vascello, s’impadronisse del timone o si lasciasse persuadere ad accettarlo, e, con le sue manovre, necessariamente false, di necessità conducesse la nave e l’equipaggio a perdizione? In coscienza, potreste chiamarlo onest’uomo? Pazzo furioso, sì, e pericoloso; tristo perverso, sì: che, con la sua presunzione e boria, reca danni esiziali. Difatti, vedete a che n’è il paese per la insipienza colossale di questo dappoco presuntuoso! Una politica da bettole ci ha condotto al trattato di Berlino, ch’è per noi umiliante e funesto. Ma, poco male sarebbe. I guai peggiori sono all’interno. I repubblicani, gl’internazionalisti e simili ribaldi, tutte le generazioni di malfattori insomma sono rimbaldanzite: ormai confessano arditamente, persino ne’ Licei governativi, i loro pravi disegni, che traducono in atto al largo Carriera Grande. La diserzione, la ribellione, il regicidio sono levati impunemente a cielo e molto rimessamente puniti. L’ordine pubblico non è più tutelato a sufficienza. Finanziariamente siamo al caos, proprio! L’Italia cammina a passi di gigante verso una catastrofe: in fondo alle amenità presenti non c’è se non il fallimento od un nuovo aggravamento d’imposte. Questi finanzieri di strapazzo hanno ferito a morte ed esautorata una tassa, che gettava molto e che, immedesimandosi col prezzo d’un oggetto di consumo universale, non era troppo fastidiosa pe’ contribuenti, i quali ci si andavano a poco a poco avvezzando, dico il macinato; mentre propongono spese nuove di miliardi, e mentre falsano le cifre de’ bilanci ed il sistema di contabilità, per far credere i gonzi negli avanzi inesistenti. Per poco colti e molto sciocchi, che siano, il Cairoli e complici non possono illudersi e non iscorgere l’inanità e l’assurdità del loro sistema. Ma le proposte contemporanee di disgravî e di ferrovie, debbono servire come strumento elettorale, per abbindolare i credenzoni. Abbacinando con tante grazie gli elettori, che non s’accorgono della impossibilità delle promesse, sperano que’ messeri nuovi trionfi dalle urne. Ed il giorno, in cui i nodi venissero al pettine? In quel giorno, questi ciarlatani si ritirerebbero; e lascierebbero il paese ne’ guai, e negl’imbrogli i successori, a raccôrre l’impopolarità e l’odiosità de’ provvedimenti terribili od incresciosi, che essi ora preparano e rendono inevitabili. Si ritirerebbero con la popolarità scroccata. No, questo non è condursi da galantuomini! L’onest’uomo politico, l’uomo leale, dice tutto il vero, tutto il duro vero ed amaro al paese, e predica i sacrifizî, che possono rimediare al male, anche a rischio di farsi aborrire e lapidare. Gli onest’uomini non promettono miracoli inattendibili per ottenere grazia nel giorno del rendimento de’ conti o per procrastinarlo, perpetuandosi al ministero, dove sono indegni di stare! La capacità del Cairoli! Sta nell’aver reso possibile il misfatto del Passannante, nel mentire senza pudore al paese per ingannarlo, nel gettare i semi della guerra civile. Volete onorare queste belle opere e buone? Capacità, dunque, da premiare ed onorare, nessuna; ma v’è forse in lui, come altri vuole, un carattere da ammirare ed esaltare? una tempra d’uomo da proporre come esemplare e modello? Nemmanco. Chi non sa, che questo Cairoli ha fatta sempre professione di repubblicanismo anzi di mazzinianismo? Non era egli, non è tuttora, presidente, vicepresidente o membro onorario obligato di qualunque sodalizio demagogico? Non è di quelli, che hanno assoldato gli assassini Monti e Tognetti? Non è di quelli, che hanno per profeta il Mazzini, il quale mandò un sicario ad ammazzare l’avolo di Re Umberto? Non è promotore d’un monumento a quell’uomo iniquo, che ha vissuto lautamente per anni alle spese de’ gonzi d’Italia? Non è tuttora amico intimo de’ repubblicani più sfacciati? e non sorgon questi concordi in Parlamento e ne’ giornali a difenderlo? L’anno scorso, alla commemorazione de’ morti di Mentana, non camminava egli con la bandiera rossa? Ammirate consistenza di carattere! pochi mesi di poi, era ministro del Re d’Italia! S’ha il diritto di chiedergli, vedendolo accarezzato in Corte ed applaudito dalle sette, a chi serva davvero e chi inganni. Stare con Cristo o col diavolo ad un tempo non si può: fare gl’interessi del Re Umberto e della repubblica contemporaneamente, è impossibile. Chi tradisce il Cairoli? L’antico suo partito, cui lo avvincono complicità criminose di setta; o la dinastia, cui testè giurava fedeltà? o tradisce e quello e questa, pensando solo alla propria esaltazione ed al proprio profitto? I Rabagas, giungendo al potere, rinnegano veramente per lo più la feccia, che ve li ha portati. Finchè pappan essi lo stipendio ministeriale; finchè il fumo e l’arrosto del potere sono per essi; non pensano a rovesciar la dinastia, che li tien ritti: la voglion conservata, perchè la sfruttano. Verissimo: ma ne preparano la caduta, ma ne menomano il prestigio, ma le tolgono a poco a poco ogni puntello, per rendersi indispensabili e per mettersi in grado di sfruttarne anche la caduta. Il loro ideale è quel Zorrilla, che incarrozza il suo Re per l’estero, dopo averlo obbligato ad abdicare; e continua a far da ministro, dopo proclamata la repubblica. Il Cairoli ha un brutto nome: _Cairœu_, in lombardo, è il tarlo; ho paura, paura, che questo tarlo del Cairoli non rovini la Monarchia. Per credere nella fede monarchica del Cairoli, mi ci vorrebbero pruove palpabili, evidenti della sua rottura con la setta. Esse mancano; anzi egli è sempre il cucco de’ settarî; ed i faziosi suoi sostenitori ci minacciano persino la guerra civile, caso questo servitore malfido e dappoco venga rimandato dal Re, dietro un voto delle Camere! Onorando il Cairoli, si onorerebbero i Rabagas; si onorerebbero gli uomini, che mascherano ipocritamente la loro fede politica per giungere al potere; e che insidiano il Principe, al quale han giurato di servire, od almeno lo disservono, augurandosi di dargli o di vedergli dare lo sfratto. — «Ma,» — direte; — «qual, ch’e’ sia, quest’uomo, ha testè reso un gran servigio personale al Re, lo ha difeso ed è stato ferito difendendolo: vogliamo onorarlo per quest’atto; e, sulla ferituzza, sulla scalfittura, ch’ha alla coscia, applicare come empiastro la nostra cittadinanza onoraria.» — Io aborro le fame usurpate comunque e di qualunque genere. Ora, se ben guardo, il Cairoli non ha fatto il proprio dovere nè prima, nè durante l’attentato; e non ha reso alcun servigio vero al Re, checchè giovi ad altri far credere. Il Passannante è stato autore materiale, esecutore di un misfatto esecrando; ma non vi pare, che un po’ di responsabilità morale pesi anche su chi gli ha guasta la mente? Chiunque implicita od esplicita, diretta od indirettamente, ha predicato la legittimità dell’assassinio politico, esaltandone i fautori e gli esecutori ed i teoretici; chiunque fu amico e lodatore del Mazzini o dell’Orsini; chiunque fu stipendiatore del Monti e del Tognetti: ha la sua parte di responsabilità in questo misfatto esecrando. A perturbar la testa del cuoco di Salvia han contribuito i mormoratori contro Vittorio Emanuele, quanti hanno sparlato delle istituzioni monarchiche, quanti hanno apertamente o copertamente insinuato, che si starebbe meglio da’ popoli, tolti di mezzo i Re. Indirettamente adunque ci ha la sua parte di responsabilità anche il Cairoli. Lui ha creduto ben fare, pagando il Monti ed il Tognetti, anni sono, per commettere un codardo misfatto ed inutile; e se n’è vantato; ed altri lo han ritenuto ciò non ostante un galantuomo. Qual meraviglia, che il Passannante e la setta, che lo ha stipendiato, credessero ben fare e meritar lodi? Quando si negano i principî morali, è ragazzata meravigliarsi poi delle conseguenze, che derivano dal caos sussecutivo. Se il Passannante ha potuto salire sulla predella della carrozza reale; se questa non era guardata, scortata da persone di fiducia; se la vita del Re è stata quindi posta a serio repentaglio, e con essa l’esistenza del Regno d’Italia; o non ci colpa in tutto od almeno in somma parte la cattiva polizia? Della sorveglianza monca, della nessuna tutela o cautela, è responsabile il Governo; e per conseguenza il capo di esso, ch’è il Cairoli, invece di segni d’onore, meriterebbe biasimo e castigo. Un assassino si scaglia sul Re, ha tempo di vibrargli un colpo e due. Il Re si difende. Che fa frattanto il Cairoli? Dov’erano gli occhi suoi? dove la sua attenzione? dove il suo coraggio? Per iscuotersi, ha bisogno, che una Donna, che l’adorata nostra Regina, più virilmente sentendo, che lui, gli si volga con tuono d’amaro rimprovero e gli dica: — «Cairoli, salvi il Re!...» — Allora egli afferra non il braccio, anzi i capelli dell’assassino.... E volete onorare questo servo pigro e tardo, che ha bisogno d’un rimprovero muliebre, d’un augusto rimbrotto, per fare il dover suo, per far ciò, ch’era semplice dovere d’umanità in favore anche d’un incognito, anche d’un nimico, nonchè d’un buon Re, d’un benefattore? Ma i Cairoli sempre così! Ragazzi, sono teatralmente condotti ad arruolarsi dalla mamma; ministri, sono a stento indotti dall’amara rampogna della Regina ad aiutare il loro Re, che lotta personalmente col sicario! Ammiro la generosità di Re Umberto, che fregia il ministro scalfito alla coscia della medaglia d’oro al valor militare! riguardi politici ve lo hanno obbligato, come riguardi politici obbligavano Ludovico XVIII a tollerare il regicida Fouchè. Io non avrei dette queste cose, se non ci fossi proprio stato tirato co’ capelli. Non le avrei dette qui, se non si fosse tentato di farci esorbitare dalla nostra competenza per solleticare la vanità di uomini screditati, per servir loro di strumento. Se dispiacerà ad alcuno di veder così messa a nudo la nullità intellettuale e morale del Cairoli, se la prenda non con me, ma con chi ha fatto la mala proposta, sulla quale io propongo la pregiudiziale, trattandosi d’una proposta politica. E contro la quale voterò, qualora la pregiudiziale non venga accettata. Il Consiglio Comunale approvò con sette voti contro quattro la pregiudiziale; e si rifiutò quindi ad accordare l’onorificenza proposta al signor Benedetto Cairoli. APPENDICE L’Imbriani, permettendo la ristampa del suo _studio letteraturografico_ sull’Aleardi, nel giornale di Foligno, _L’Umbria_, (30 Gennaio, 1866) vi premetteva la seguente avvertenza. L’Italia, per necessità storiche, delle quali sarebbe vano e stolto l’affliggersi, si trova in un’epoca di raccoglimento, ossia d’improduttività artistica e massime poetica; da queste epoche _maggesi_, si ripete la fecondità delle seguenti; e quindi ora forse più che mai, importa il dare lo sfratto ad ogni critica superficiale ed arbitraria e il diffondere idee vere sulla poesia, acciò l’epoca produttiva, che deve seguire, che non può non seguire, che seguirà, non trascorra in insanie, non ristagni in angiporti mefitici; come esempligrazia è accaduto a quell’epoca produttiva, che per la letteratura francese succedette alla sterilità della fine del secolo scorso, e de’ due primi decennî di questo; epoca che comincia colla pubblicazione delle poesie postume di Andrea Chenier nel 1821. Ed io ho consacrato e spero utilizzare la mia poca virtù all’opera di formulare per la coscienza di tutti quel concetto del poetico che è nel sentimento di ognuno, di mostrare come questo concetto si svolga e s’affermi storicamente ne’ nostri capo-lavori letterarî. Il difficile dell’impresa è nella necessità di dedurre ogni principio della critica dalla scienza estetica, quando i cari nostri compatrioti hanno più avversione pe’ _succhi amari_ della filosofia, che gli idrofobi per _chiare, fresche e dolci acque_. Ma Torquato e prima di lui Lucrezio, ci hanno insegnato a superare queste difficoltà, _..... porgendo aspersi_ _Di soave licor gli orli del vaso._ Quindi, volendo dire che sia la _poesia_, che si richieda per formare un capolavoro poetico, io non ho scritta una lista d’ingredienti, una ricetta, come si suol fare. Anzi, partendo dal principio che ogni critica deve contenere un intero concetto della poesia, _alias_ tutta un’estetica, appunto come ogni lavoro poetico deve contenere un intero concetto dell’universo, ho preso Aleardo Aleardi, ed ho cercato di dimostrare com’egli non incarnasse _alcun momento dell’idea poetica_. Sapevo di dir cosa che a molti parrebbe eresia, ma ho dovuto convincermi con piacere, che moltissimi la pensavano come me, e che parecchi si sono lasciati convincere da’ miei argomenti; alcuni hanno contradetto, nessuno ha confutato. ———— (Dal _Fanfulla_, Domenica 13 Aprile, 1879). Pomigliano d’Arco, 5 aprile. _Caro Fanfulla_, Nel numero del 2 corrente, parlando delle traduzioni del Maffei, le giudichi _troppo e burbanzosamente e ingiustamente dispregiate da altri_. Ch’io sappia, a dispregiarle fummo in tre: il Mazzini, (ahi fiera compagnia!), la Percoto ed un tuo servo. Se il Mazzini e la Percoto fossero burbanzosi ed ingiusti, non so nè mi curo indagare. Il servo tuo non si limitò a spigolare qua e là qualche errore; anzi confrontando tutta la prima scena della seconda parte del _Fausto_, ch’è lunghetta, tradotta dal Maffei con l’originale, a parola a parola, conchiuse il Maffei tradire, non tradurre. Sarò stato ingiusto; e molti me l’hanno detto, sebbene nessuno abbia dimostrato insussistente un mio appunto; ma come può chiamarsi _burbanzoso_ un raffronto lungo, paziente, coscienzioso? Burbanza sarebbe stato lo affermare, senza ragionamento e senza allegar fatti. Ti prego dunque di eccettuare da quegli _altri_, che _burbanzosamente_ dispregiarono e dispregiano le versioni del Maffei, il tuo _Vittorio Imbriani._ ———— (Dal _Supplemento della Gazzetta d’Italia_, Domenica 17 Giugno, 1877). A proposito di una critica di D. Gnoli. _Pregiatissimo Signor Direttore_, Molti si sono spassati a fulminarmi con articolesse, pel mio libro _Fame usurpate_; e tutti, manifestando un santo orrore per l’iconoclasta il quale non ammira pecorinamente, nè gli eroi _façon_ Sapri, ned i poeti sul genere dell’Aleardi. Non uno però, che abbia stimato debito suo, oltre l’inorridire, anche il confutare; il provare, che io sragiono o mentisco, il contrapporre raziocinio a raziocinio, dimostrazione a dimostrazione, sebbene il cosiddetto Cigno dell’Avon affermi le ragioni esser più comuni delle more lungo le siepi nell’agosto; i miei terribili contradditori han preferito allo addurne, il sopraffarmi di contumelie. Non una asserzione di fatto speciale, non un ragionamento m’han confutato questi sedicenti critici. Buon pro faccia a’ valentuomini ed a chi giura nelle parole loro una critica siffatta. Ultimo, ma non diverso, è venuto fuori nella _Nuova Antologia_ lo sproloquio d’un signore, il cui nome ricorda la voce del micio, Gnoli, ed il quale mi fa persin dire quanto non ho mai sognato di dire, per poter avere il destro di farmi rimproveri, apparentemente ragionevoli. Basti un esempio; asserisce, ch’io chiami _birba e pretazzuolo schiericato_ un messere _perchè_ mi aveva mosso un appunto; e si scandalizza di tanta irruenza. Oh galantuomo! Io ho scritto che una birba di pretazzuolo schiericato, mi aveva mosso uno sciocco appunto ed erroneo, non che quel tale fosse birba per avermi censurato: la qualità di birba, come quella di cattivo prete, preesistevano in lui. S’io dicessi esempligrazia lo _svescione dell’autopseudo barone Nicotera è tanto ignorante da scrivere maggistratura, così con due gg_, non intenderei certo di stabilire un nesso di derivazione fra la ignoranza supina del signor ministro e la sua smania esternativa e l’usurpazione del titolo. Potrebbe anch’essere prode come Maurizio di Sassonia e barone autenticissimo senza pratica maggiore di studi e di libri! S’io dicessi _il prof. Gnoli stampa spropositi ed inezie_, non verrei mica a dire, che egli è professore per le inezie e gli spropositi suoi, ch’io conosco, anzi per quelle altre bellissime e sapientissime cose, ch’io non conosco. Questo dotto signore, si meraviglia ch’io chiami il Goethe, _Gian Lupo_; ed ammettendo, che dalla prima sillaba del nome Wolfgang possa ricavarsi l’Italiano Lupo, non sa capire come dal _gang_ io abbia fatto _Gianni_. Ahimè! Il Goethe si chiamava _Johannes Wolfgang_ ed io rendo _Johannes_ con _Gianni_ e _Wolfgang_ con _Lupo_ e parmi tradur bene. Si noti, che il Gnoli ha testè pubblicato un volume di circa quattrocento pagine, in cui traduce ed illustra liriche del Goethe: con quanta coscienza e competenza, può supporsi dall’ignorare egli persino il nome esatto del francofortese! Non debbe averne lette nè le opere nè la vita! Condizione, senza dubbio, ottima per tradurlo, illustrarlo e guardar dall’alto in basso chi giudica capolavoro sbagliato il _Fausto_, dopo lungo studio ed allegandone il _perchè_! Per norma del Gnoli, gl’insegnerò esser costume alemanno, diverso dall’italiano, di chiamare le persone dall’ultimo dei nomi di battesimo. Un Prosdocimo Bartolomeo Zebedeo Gnoli, per esempio, nell’uso comune, se italiano, sarebbe chiamato Prosdocimo Gnoli, se tedesco, Zebedeo Gnoli. Basti quest’unico esempio a dimostrare la levità e l’incompetenza del Gnoli, ed esautorarne il giudicio. E mi creda, non è per proposito di stravaganza, ch’io contraddico spesso alle opinioni ed alle consuetudini volgari, ma bensì perchè il volgo è composto da un numero infinito di Gnoli, a’ quali non somiglio e non voglio somigliare, ecco! Non valeva certo la pena, egregio signor Direttore, d’importunar Lei ed i suoi lettori per una miseria tale: nè di rompere lo sdegnoso silenzio, che soglio osservare verso chi, invece di ragioni, m’affastella contro solo chiacchiere o contumelie. Ma desideravo da gran tempo un pretesto, per testimoniarle pubblicamente la gratitudine, che io, come ogni Italiano veramente devoto alla Dinastia ed alla Unità, sento per l’opera santa del suo giornale, il quale dura imperterrito sulla breccia, senza pensolare, senza curarsi delle insidie, dei tradimenti e delle sconfessioni dei timidi ipocriti, che in cuor loro si rallegrano di quanto fingono deplorare corampopulo. Ella, | _Sans chercher à savoir et sans considérer | Si quelqu’un a penché, qu’on aurait cru plus ferme, | Et si plusieurs s’en vont, qui devraient demeurer_, combatte i farabutti, gli affaristi ed i demagoghi, mascherati per amor della cuccagna, che minano la Monarchia e preparano la dissoluzione della patria. Quanto Le invidio di potersi purgare quotidianamente e pubblicamente d’ogni sospetto di rassegnazione; nonchè di complicità, ne’ vituperî presenti, nel disordine odierno delle cose! Prosegua nella onesta via, dispregiando le furie degli smascherati ed il biasimo gesuitico de’ menni, anzi rallegrandosene ed insuperbendone. Mi creda dunque, con particolare ossequio Suo obbligatissimo e devotissimo _Vittorio Imbriani_ ———— Fra le carte dell’Imbriani, si sono trovati questi appunti: Il Manin avea promesso di non accettar _mai_ condizioni lesive della indipendenza, pronunziando quella brutta parola, _le mot le plus antipolitique, dont tout ministre devrait s’abstenir_. Il popolo naturalmente avea risposto dalla piazza: — «No, non le accetteremo mai!» — Ed il buon presidente aveva accettato per denari contanti quella promessa anonima e collettiva. Il Pepe una volta disse: — «Vi assicuro, che tutto il sangue, che ho nelle vene lo spargerò per la Venezia, e tutti gli ufficiali che mi circondano faranno altrettanto; me ne rendo mallevadore» — Un’altra volta nell’Assemblea s’era proposta una pena contro il primo che pronunciasse la parola _capitolazione_. Il Manin vi si oppose; ma sapete perchè? — «Non vi sarà chi parli di capitolazione; ma se vi fosse, il popolo tutto, ed io primo, andremo ad impedire quest’infamia, questo tradimento». — In questo discorso c’è in germe l’assassinio dello Stefani! ———— (Dal _Fanfulla_, Agosto, 1878). PAPA BARUCCABÀ Cicerone ha chiamata la storia _maestra della vita_, perchè c’informa delle corbellerie delle generazioni precedenti, appunto come i maestri c’insegnano gli spropositi fatti da loro... senza poter impedire, che se ne faccia noi nuove edizioni ampliate e più scorrette. È una gran consolazione il vedere, che, su per giù, gli uomini sono stati sempre gli stessi ed il mondo è ito sempre ad un modo! Un galantuomo si riconcilia co’ suoi tempi e ci vive più rassegnato, scorgendo, che non son da meno dei secoli precedenti. Dunque, in una vecchia cronaca anonima della badia di Grottaferrata, ho trovata una bella storia! C’era una volta, _dove e quando dir non so_, un gran ricchissimo mercante d’un ebreo. Il quale, o che fosse tocco dalla grazia divina; o che venisse gentilmente _compulso_ alla conversione, come spesso usava nel medio-evo; o che si seccasse, lui giovane, bello, facoltoso, di abitare in ghetto, di portar la berretta gialla e d’essere trattato peggio d’un cane; che non vedesse altro modo per salvar le proprie ricchezze; o qual che se ne fosse la ragione; deliberò di farsi cristiano. Nella sinagoga venne scomunicato, ed in chiesa accolto trionfalmente. Nella Giudecca gli gridarono la croce addosso: _Racha!_ ma la parte cristiana della città gridò _evviva_ ed illuminò le finestre la sera del suo battesimo. Ed ebbe per compare un vecchio porporato, de’ più influenti. Baruccabà s’accorse presto, che chi teneva il mestolo in mano tra’ cristiani era il clero; il quale trattava il gregge popolare poco meglio degli ebrei, oh, poco meglio assai! Volle imbrancarsi fra’ dominatori; ed entrò negli ordini. Ricco, audace, scaltro, protetto dal compare cardinale, facendo mostre d’ingegno, ostendando virtù e devozione, dispensando quattrini al bisogno, ed avendo cambiato paese, andò avanti, salì rapidamente di grado in grado, di ufficio in ufficio. E, dopo molti anni, quando il suo protettore era già morto, versando il Santo Padre di allora in gravi difficoltà pecuniarie pe’ molti cani e falconi da mantenere, Baruccabà comperò un cappello cardinalizio per trentamila scudi d’oro. Ed eccolo principe di Santa Chiesa. Nessuno a Roma conosceva l’origine di lui; se no... Sapete pure, la Curia, che se ne intende, non ha mai voluto ammettere il neofito negli alti gradi del suo magistero, _ne in superbiam elatus, in judicium incidat diaboli_. Passarono molti altri anni; morirono molti pontefici, si tennero molti conclavi. In uno, i cardinali non potevano mettersi d’accordo; c’erano varie parti e discordi, parecchi pretendenti. Si stava chiusi da mesi, senza combinar nulla. Che ti fa il bravo cardinale Baruccabà? Si ricorda del modo, con cui era divenuto cardinale, e se ne serve per divenire papa. Comperò un nucleo di colleghi disperati; promise mari e monti a quanti per incapacità od indegnità erano stati tenuti in disparte da’ pontefici precedenti, ed eccolo proclamato successore di san Pietro. E fece da papa, come avrebbe fatto ogni altro in que’ tempi, nè più, nè meno. Predicò astinenze, bandì digiuni; istituì ordini religiosi; premiò ed arricchì gli amici ed i fautori; si sbrigò dei nemici; scagliò interdetti e fulminò scomuniche; edificò chiese; fece _abbruggiare_ vivi gli eretici; conculcò gli antichi suoi fratelli giudei peggio che mai. Ma, insomma, non c’era da dir niente sul suo zelo, nè da rimproverarlo di poca e dubbia fede. Eppure, c’era chi della sua fede dubitava. Quando un uomo va molto in su e vien posto in evidenza, subito se ne rifrugano gli antecedenti. Così fecero per il nostro Baruccabà; ed i cardinali, che gli erano stati contrari in conclave; e gli scontenti e gl’ingrati della dimane, scoprirono, ch’egli era ebreo di nascita, ch’egli era divenuto cristiano solo in età matura. Un papa ebreo! Com’è mai possibile, che sia degno vicario di Cristo? Com’è mai possibile, che ci creda davvero davvero in tutto e per tutto? Qualche magagna nella fede doveva averla! E deliberarono di farne la prova. Un giorno, mentre papa Baruccabà faceva colezione e mangiava del prosciutto squisito, perchè bisogna dirvi, che egli affettava una predilezione singolare per la carne di maiale, appunto acciò non si credesse aver egli gusti israelitici... dunque, un giorno, mentre il papa asciolveva, ecco ad un tratto tutte le campane delle trecentosessantasei chiese di Roma sonare a gloria. Uno scampanio spaventevole! Non s’udì mai simil frastuono! Ne disgrado una salva di trecento cannoni Armstrong! Baum! Baum! Baum! Din, din, din! Campanoni, Campanini, campanelle, campanacce. Pareva il finimondo, a dir poco, pareva! Al papa cadde dal pugno un bicchiere di vino, ch’ei portava alle labbra: — Che cos’è mai questo? Che nuova festa a mia insaputa? Che significa? Chi ha dato ordine? Chi ha permesso? — Santità, non sappiamo. — Che qualcuno vada ad informarsi! Misericordia, che fracasso! Esce un prelato; e, frattanto, non essendoci cosa alla quale l’uomo non s’abitui, malgrado quel diavoleto, il papa proseguì la colezione. Dopo un quarto d’ora, torna il prelato ansante: — Santità, Santità! — Che c’è? — Beatissimo Padre, non sa... — Oh se avessi saputo, c’era da mandar te ad informarsi? — La Beatitudine Vostra non può immaginare... — Che sai tu quel ch’io immagino o posso immaginare? Oh insomma! la dici o non la dici? parli o non parli? — Sommo Gerarca, Ella non vorrà credere... — Che cosa? — Sente questo scampanìo? — Fra poco nol sentirò più, che mi avrà assordato... — Mi lasci riprender fiato! Son fuor di me! Dicono... dicono che suonano a festa, perchè... — Perchè? — Perchè è nato il Messia! A queste parole, Baruccabà, dimenticando luogo ed ufficio, salta come un razzo malgrado la vecchiaia; e, rovesciando quasi col pugno il desco, esclama: — Ma se lo dicevo sempre io, che ancora avea da nascere! Lo deposero! ed il nome suo non figura più neppure nel catalogo de’ papi. Povero Baruccabà! ———— Questa è la storia che ho letto nel manoscritto di Grottaferrata. Manoscritto anonimo, di chiara scrittura monacale del XIV secolo, segnato col numero 87 lettera F, che si conserva in quell’Archivio, scaffale XVII; ed è curiosamente intitolato: _Memento Dierum Reparationis._ Veniamo ora all’applicazione. C’è un regno nel mondo... un regno di Madagascar o di Congo, dove un antico repubblicano, un bel giorno, si trova, ministro degli interni! Il repubblicano, ben inteso, fa il ministro, come qualunque altro ministro, che fosse stato sempre e solo monarchico sfegatato. Della sua lealtà non c’è a dubitarne menomamente. Ce l’assicura lui, ce l’assicurano i suoi. Ne’ banchetti fa brindisi al Re, nelle lettere a’ principi si professa devoto alla dinastia; esagera la parte. Ma, che volete? che farci? chi rammenta gli antichi proclami, gli antichi discorsi, gli antichi brindisi, le antiche lettere, ed il passato di Sua Eccellenza, dubita! Non sa persuadersi! Non della lealtà, no, questo mai! Non delle intenzioni, oibò! Dubita della fede! Se domani, per caso, in qualche angolo del Regno... di Madagascar o di Congo, tutto ad un tratto, mentre il ministro siede a banchetto e porta un brindisi agl’_inseparabili_, al Re ed alla patria, sonassero le campane a gloria per la pretesa nascita della repubblica madagascarrese o conghese? Se in un cantuccio del reame, un gruppo di antichi amici di Sua Eccellenza trionfasse e inalberasse una bandiera non macchiata da croce alcuna?... Son cose che si son vedute! Chi toglie dal capo a’ memori il sospetto, che, in quel momento supremo, il ministro del re di Madagascar o di Congo, ritornando suo malgrado, involontariamente, alle antiche credenze, non balzi in piedi e non esclami anche lui: — Ma se l’avevo detto sempre, che la repubblica aveva da venire. ———— Nota del Trascrittore Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, così come le grafie alternative (madre-famiglia/madrefamiglia, allegoria/allegorìa, Chateaubriand/Châteaubriand e simili), correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. Sono stati corretti i seguenti refusi (tra parentesi il testo originale): 32 — e la galera e settantadue [settandue] 36 — e peggiora [pèggiora] nell’ultima edizione 38 — L’amante per assicurar [assicur] lei 64 — descrive in trentun versi [verso] i cigni 123 — opera d’arte, ch’è un microcosmo [microsmo] 144 — che il Goethe [Gothe] stesso ha riconosciuto 163 — l’avere attribuito [attributo] al personaggio 255 — non potrà scindersi quel dittongamento [dittogamento] 272 — sedate [se, date] il bieco conflitto 334 — non impossibile il ripigliarsi [ripiglirsi] più tardi *** End of this LibraryBlog Digital Book "Fame usurpate" *** Copyright 2023 LibraryBlog. All rights reserved.