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Title: Vecchie storie d'amore Author: Albertazzi, Adolfo Language: Italian As this book started as an ASCII text book there are no pictures available. *** Start of this LibraryBlog Digital Book "Vecchie storie d'amore" *** Internet Archive. ADOLFO ALBERTAZZI VECCHIE STORIE D’AMORE BOLOGNA DITTA NICOLA ZANICHELLI _(Cesare e Giacomo Zanichelli)_ MDCCCXCV. ———— Proprietà letteraria. BOLOGNA, TIPI ZANICHELLI, 1895. ———— _Le passioni umane non mutano: mutano i costumi e le attitudini dello spirito nelle passioni e le sembianze dei fatti umani. A questo intesi. Per questo divagai con fantasia indulgente in quella che mi parve verità di costumi e della vita senza timore di riuscire un novellista immorale._ _E mando il libro a chi, se n’udrà lode non di volgo, penserà sorridendo: io volli che fosse scritto._ A. A. Mantova, 15 febbraio 1895. INDICE I. IL VALLETTO OSTINATO IL LEARDO LIBERALITÀ DI MESSER BERTRAMO D’AQUINO II. LA SALVAZIONE DI FRA’ GERUNZIO _DIO LO VUOLE!_ DISPERAZIONE III. AGNESINA LA FANTASIMA UN’OPERA DI PIETÀ PASSIONE D’UN GENTILUOMO VENEZIANO LA DAMA FALLACE IL POLSO LE FONTI I. II. III. NOTA ———— I. «Con donne si dee contare di cose d’allegrezza e di cortesia e d’amore....» IL VALLETTO OSTINATO Il castellano di Ripalta s’era allevato con amore un valletto di nome Ugo e con desiderio, esercitandolo a cavalcare e ad armeggiare, attendeva il giorno che lo armerebbe cavaliere. Né di quel bene del sire pe ’l valletto ingelosiva madonna Ginevra, poiché la giovinezza di lei fioriva sterile ed il ragazzo, tenuto quasi in conto di figlio, le risparmiava i rimbrotti del marito. Madonna viveva lieta; e l’amore del marito, le cacce e il conversare colle sue donne e cogli ospiti, le divagavano la vita uguale e solitaria del castello non meno che le faccende casalinghe cui essa accudiva umilmente, con fanciullesca mutabilità. Cosí, come rideva quando le galline, che al solo vederla chiocciando e sbattendo le ali le correvano dietro, si disputavano in frotta avida e litigiosa il becchime che gettava loro, rideva se a diporto il palafreno saltasse imbizzarrito o adombrato, o se nell’arazzo da rammendare le riuscisse peggio che lo strappo il rattoppo: mentre cuciva presso la finestra dalla quale scorgeva l’ampio paesaggio a basso e d’intorno, ella cantava e i villani, giú nella valle, udivano limpide e schiette le cadenze della sua bella voce. Gioconda natura! Per essa madonna Ginevra era amata dai servi, quantunque fosse anche temuta perché gli occhi del sire vedevano tutto con gli occhi di lei e perché ogni capriccio di lei diventava la volontà del sire: solo Ugo il valletto la serviva baldanzoso e sicuro, e quando fallava sapeva vincerne lo sdegno fingendosi egli sdegnato e mesto; ond’ella finiva con immergergli le dita tra i capelli folti, per ridere. Ugo allora si divincolava e la guardava in un’occhiata. Veramente molte cose erano permesse ad Ugo: poteva arrampicarsi su per gli alberi dell’orto a inzepparsi di frutta; poteva ordire le piú strane burle al vecchio maggiordomo o assestare un pugno allo scudiero che gli minacciava un pugno; poteva spiare, dietro una porta, l’ancella che si stava spogliando; ché, accusato alla padrona, la padrona rideva, e accusato al padrone, il padrone taceva. Ma quand’ebbe compiuti i quindici anni il valletto parve mutare costume, e il signore notò lo studio di lui a imitarlo affinché nessuno, neppure madonna Ginevra, lo considerasse ancora un ragazzo. E Ugo sentiva egli stesso mutarsi; sentiva una smania di cose nuove, d’altri svaghi, d’altri luoghi, d’altri pensieri, mentre la vita e la natura che fervevano attorno a lui gli rivelavano cose sconosciute e gli suscitavano sensazioni nuove. E mentre la forza sensuale si sviluppava in lui e per l’istintiva penetrazione della pubescenza egli imparava da tutta la natura il segreto dell’amore umano, quel desiderio peranche indefinito gli avvolgeva il cuore di una insolita tristezza e tenerezza. Amava, già amava, e non sapeva chi amasse e non sapeva d’amare. Ma risalendo un giorno dalla valle al castello (era di fitto meriggio e sotto la sferza del sole il mondo dormiva un sonno mortale) Ugo a un tratto udí cantare lontana e dall’alto, simile ad un’allodola, madonna Ginevra; e a un tratto l’imagine incerta del suo desiderio e de’ suoi sogni acquistò ai suoi occhi sembianza e forma di persona viva: madonna Ginevra! La sera nel porgere, avanti cena, l’acqua alle mani della padrona, al valletto tremavano le mani; ed egli se n’accorse, ma non chinò lo sguardo perché egli amava da uomo; senza paura, amava, e senza vergogna. Quante consolazioni nell’avvenire la sua mente innamorata ebbe allora da fantasticare! E secondando i ricordi delle storie, che gli avevano raccontate a veglia, di cavalieri fatti eroi per gloria delle loro dame, e invidiando a sé stesso i pochi anni che gli mancavano alla piena giovinezza, s’imaginava vincitore di tornei in cui madonna l’assisteva sorridendo, o difensore e salvatore di madonna Ginevra in un notturno assalto di nemici. Per altro, quell’ardore e il compiacimento di quell’ardore patirono presto il freddo dell’ignara incuranza di madonna, la quale aveva due grand’occhi solo per vedere, non per osservare; e poiché egli non fallava piú, tal cura e tal forza metteva nel servirla, essa non aveva neppur piú ragione d’immergergli le dita tra i capelli. Sino a quando la dama avrebbe ignorate le sue pene? Co ’l volgere dei mesi l’affetto di lui s’andò come condensando a modi piú virili, di guisa che la sua fantasia ubbidendo ai richiami e cedendo agli impeti dei sensi riscaldati dal primo e precoce calore della gioventú, l’abituava a desiderare nella bella donna le delizie corporali e le gioie della colpa: a poco a poco egli perdette la baldanza, il coraggio, la fede del suo amore; e il timore lo prese che il sire ne scoprisse il segreto e l’intenzione. — Passarono dei mesi; passò un anno. Ma quanto piú gli diminuiva la speranza, tanto piú cresceva in lui la bramosia di essere presto soddisfatto. Madonna Ginevra era sempre bella e fresca: rosa fresca in tutta la sua bella fioritura. E come spesso, dopo la cena, Ugo sorprendeva afflitto certe occhiate desiose del marito a lei! Con che travaglio percepiva negli occhi e nel riso di madonna gli assensi e le promesse! — Il desiderio sensuale, non piú vago e dimesso ma deciso e tempestoso, affaticava l’animo del valletto non piú riposato nei primi propositi; e il pensiero di rimettersi al futuro gli diveniva un ritegno insufficiente e un’attesa intollerabile. Già si sentiva morire d’amore; avrebbe alla prima buona circostanza rivelata alla dama la sua passione pietosa e sconsolata. Un mattino, montando il suo cavallo migliore e seguito da scudieri in nuove vesti, il sire di Ripalta partí per un torneo. Quantunque era quello il giorno aspettato dal valletto con penoso e lungo desiderio, tuttavia appena il sire fu scomparso al basso del colle tra le macchie, egli, nell’imminenza della sua felicità se l’assistesse la fortuna, o del suo ultimo malanno se madonna non volesse ascoltarlo o mancasse a lui il coraggio d’ottenere ascolto, provò un turbamento grande di paura. Pensava: «Prima di notte le dirò tutto. Le dirò il bene che le voglio. Ma come comincerò?» E il sole cadeva ch’egli non aveva ancora trovato il modo acconcio per incominciare. Ma quando, a sera, s’accorse che la padrona era entrata nelle sue stanze, non piú dubitando salí, s’introdusse guardingo, spinse francamente quella porta. Madonna Ginevra, già sciolti i capelli e un po’ discinta, sedeva su la cassapanca: alzati, al rumore, gli occhi sonnacchiosi, riconobbe Ugo e componendosi la veste in fretta, tra sorpresa e sorridente disse: — Vieni, vieni. Che vuoi? Ad Ugo, rinfrancato, venne súbito in mente la dimanda che s’era proposto di far dopo e raccolto che ebbe il fiato bastevole a non restare a mezzo: — Madonna — chiese —, se chierico o cavaliere, borghese o valletto, non importa chi, amasse da gran tempo una bella donna, damigella o dama, contessa o regina, non importa chi, e non avesse cuore di dirglielo, sarebbe savio o stolto? La dimanda piacque a madonna, lieta nonostante l’assenza del marito, e per burlarsi del ragazzo gli rispose: — Sarebbe stolto. Anche un valletto, purché fosse bello e valente come te, dovrebbe parlare. Chi ama non sia vile; e ogni donna, anche una regina, n’avrebbe almeno almeno compassione. Ugo con tutta l’anima bevve le parole buone ed esclamò: — Madonna Ginevra, ecco colui! Colui sono io! Quanto ho patito per voi! Aiutatemi, madonna! La dama non rise; non credé che il ragazzo volesse burlarsi egli di lei perché gli scorse la passione in faccia, e indispettita d’essersi lasciata cogliere e offesa dall’audacia del valletto, gli gridò: — Ah, ma tu sei matto! Che vai cicalando con le tue fole? Che so io de’ tuoi amori? Che cosa mi hai chiesto? Che cosa t’ho risposto? Vattene, vattene! Oh come godrà il sire quando glielo dirò! Vattene! Stordito, gli occhi spalancati e disperati, Ugo non si mosse; pure, nel tumulto della mente, ebbe forza di cercare in un’idea la suprema invocazione alla pietà della dama, l’affermazione estrema del suo amore e una minaccia quasi di vendetta all’acerbità di lei, e disse: — Voi mi sgridate cosí e la colpa è vostra, che m’avete ferito cosí. Perché non mi uccidete? In fe’ di Dio, io non mangerò piú finché non mi avrete accontentato; — e con un’angoscia che pareva lo strozzasse uscí di là. Madonna Ginevra rise forte e pensò: «Oh che cosa gli è venuto in mente a quel ragazzo?»; e, nello spogliarsi, guardandosi, rise e ripeté: «Che cosa gli è venuto in mente?»; poi si distese sotto le lenzuola e, come il marito era lontano, s’addormentò senz’altro pensiero, co ’l riso su le labbra. Ugo invece, che se avesse pianto avrebbe sfogato tosto il suo rovello, per non piangere si dimenò a lungo per il letto e non riuscí a chiudere occhio prima d’essersi convinto che la prova la quale si era imposta era degna d’un cavaliere innamorato, se era prova che gli metteva in pericolo la vita. Ma al risvegliarsi, la mattina, ebbe fatica e quasi pena a riandare il fatto della sera innanzi; capí d’aver commessa un’imprudenza; credé fino d’aver commesso un grosso errore, fino un’azione puerile; e si provò a dimenticare. Non poteva: in che guisa comparire al cospetto di madonna? E l’amore gli dié ragione; gli rinfocolò la fantasia; gli fece parere eroica la deliberazione presa. Né si levò da letto; e quando furono a cercarlo disse: — Ho un gran peso qua — e segnava lo stomaco —; non posso piú mangiare. Il giorno dopo madonna chiese del valletto. — Non ingola nulla — risposero; né egli cedette ad alcuna preghiera o ammonizione. E il terzo dí una serva gli portò una tazza di latte appena munto, spumante, che faceva voglia, e un’altra un ovo ancora caldo, ma egli chiudeva gli occhi e rifiutava; e anche, tardi, il maggiordomo fu a trovarlo e gli porse, dondolandolo per il gambo, un grappolo d’uva primiticcia con acini neri e grossi, vellutati da una bianca nebbiolina, tra altri ancora rossi ed in agresto. Egli lo divorò un momento con gli occhi, resistette e lo respinse. Allora il maggiordomo venne dove madonna Ginevra, che quel giorno non cantava, ricuciva un vecchio saio, e mentre egli ordinava alcune cose per la stanza, quasi fra sé, disse: — Tornerà il sire; ma non staremo allegri. — Perché? — chiese con simulata indifferenza la padrona. Rispose l’altro: — Ugo morirà: non gli va giú un granello d’uva. Madonna Ginevra arrossí; si levò, e si recò alla cameruccia del valletto. Stava il valletto con le pálpebre abbassate perché nel languore dell’inedia tutto ondeggiava dinanzi al suo sguardo; e aveva il viso stanco e smorto smorto. Trasalí ai passi leggeri di madonna, riconoscendola. — Valletto Ugo, dormi? — ella chiese dolcemente. Egli disse: — Per Dio, madonna, abbiate mercede di me! A che essa inacerbita di nuovo da tanta ostinazione: — Da me non avrai mai grazia nella maniera che domandi. Questa è la tua ricompensa al bene che ti vuole il sire? È questo l’amore che gli porti? Tornerà.... — Oh se tornasse! — sospirò Ugo, insensato piú che ardito. E la dama: — Tornerà e s’arrabbierà, e ti romperà le ossa! — Ma non mangerò — conchiuse Ugo. La dama uscí co ’l proposito di dire ogni cosa al marito a pena fosse giunto; se non che, mentre cuciva, cominciò a temere che egli la rimproverasse d’avere tentata per capriccio e accarezzata in qualche modo la folle passione del valletto: e a nascondergli la verità non la rimprovererebbe di non averlo sovvenuto con un medico e con medicine e con premure? Non iscorgeva mezzo per disimpacciarsi, quand’ecco s’udí il corno in lontananza e uno scudiero venne ad annunziare che il castellano arrivava in compagnia di piú ospiti. «Chi sa — rifletté madonna Ginevra — che a vedere il padrone non lo domi la vergogna? Indurrò il sire a impaurirlo.» E quando nel tinello, dove su la tavola, imbandita co ’l piú ricco vasellame, fumavano le vivande, il sire chiamò Ugo, la moglie disse a lui: — È a letto da tre giorni, e non vuole piú toccar cibo. Provatevi voi a rimettergli il giudizio. Il marito volle andare a vederlo, ed essa lo seguí. — Che hai? — domandò il sire entrando. Ugo rispose: — Un peso qua, alla bocca dello stomaco; e non mi va giú niente. — Non è vero! — ribatté súbito la dama. — Non è vero! Per il male che ha potrebbe mangiare. — Poi rivolta ad Ugo disse: — Ora io dirò al sire perché digiuni da tre giorni. Mangerai? — Voi potrete ben dire. Io non mangerò — rispose quegli che raccoglieva gli spiriti a vincere, morendo, la battaglia; e il signore, cui piacque quella risposta cosí franca e cui dava sospetto l’aria misteriosa della moglie, già incolpava la moglie d’alcun torto verso Ugo. Ma Ginevra aggiunse: — Il giorno che partiste, a sera, osò entrare nella mia camera mentre mi spogliavo... —; onde il sire capí come il torto era proprio del ragazzo e — Perché? — le domandò impaziente. E la dama in vece tornò a chiedere al valletto: — Mangerai? Il valletto, che era risoluto di morire, negò co ’l capo, sospirando. — Io mi spogliavo — proseguí la dama — e lui venne da me, tutto strano, a domandarmi Imaginate! — Insomma! — fece il sire. — Mangerai? — ripeté la dama per l’ultima volta; e per l’ultima volta — No! — ripeté forte Ugo che teneva fissi gli occhi negli occhi di madonna. La quale allora per dir tutto, e tuttavia a stento, riprendeva: — Mi richiese...; — ma il marito senza piú badarle, come nella reticenza comprendesse quanto imaginava, con collera scosse il braccio del valletto e gli gridò bieco: — Che cosa le chiedesti? Ugo tacque. Da’ suoi occhi traspariva una volontà virile che l’amore rendeva ineluttabile: disperato amore, piú forte della morte; e madonna Ginevra ammirando tale fermezza minacciosa insieme e supplichevole e temendo a un punto stesso per sé e pe ’l valletto l’ira del marito che minacciava con quasi brutale veemenza, vinta dalla pietà, dall’ammirazione e forse dall’amore (quel ragazzo era un bel giovane) concepí un’idea provvida e sagace. — Mi chiese — rispose ella — il vostro falcone pellegrino, che non dareste né a conte, né a principe, né ad amico; e, per averlo, s’è impuntato a digiunare. Alle parole della donna il credulo marito contenne l’ira; anzi rise e disse: — Oh! se il tuo male è questo, non voglio che tu ne muoia. Mangia, mangia, valletto; e avrai il falcone. — Ed uscí. Ma la donna prima d’andarsene si fece piú presso ad Ugo, che la speranza aveva ravvivato e colorito in faccia, e disse rapida, giuliva: — Già che il sire ti vuol contento, anch’io ti vorrò contento. — E meglio che con le parole promise sorridendo con uno sguardo lungo e tenero come una carezza. Ugo, dunque, mangiò. Ed ebbe il falcone. IL LEARDO I. Nella notte, tra ’l gracidare delle rane e lo stridere dei grilli, gli amanti, che la fossa divideva, mescevano brame molte e piú promesse in lieve suono di parole, come di sospiri. Essa stava a una finestra del castello; egli di qua dalla fossa, al margine ultimo. Cosí ogni notte, perché ser Lapo, l’avaro signore del Farneto, non consentiva l’amore della figlia con quel povero cavaliere che era Raimondo di Santelmo; e all’albeggiare Raimondo inforcava il suo fido e bel leardo, e Giovanna lo accompagnava con gli occhi intenti finché egli spariva per il bosco. La boscaglia in quell’ora si svegliava e l’indefinita letizia della vita universale al far del giorno invadeva l’animo del cavaliere co ’l canto degli uccelli, l’odore delle erbe e degli alberi, la frescura dell’aria: sussurravano le foglie, stormivano le rame, cinguettavano le passere, chioccolavano i merli, strillavano le gazze: murmuri, palpiti, fremiti; voci e canti ed inni: un inno concorde e solenne di gioia e di grazie della natura universa al sole ed all’amore. Il cavaliere non affrettava il cavallo. E le sembianze dell’amata, mal certe al suo sguardo durante il colloquio, allora gli s’avvivavano nell’imaginativa sí che rivedeva piú bella la donna; le parole di lei risonavano al suo orecchio piú dolci e piú distinte e, come voleva la letizia dell’ora, egli, che di lei non aveva per anche tócca una mano, ne sognava l’intero possesso con ingannevole gaudio. — Oh le morbide guance di rosa e le carni gigliate e fresche! Ma la notte, traversando la boscaglia alla volta di Farneto, un’ambascia grave gli pesava su l’animo, e quanto piú disperava di un lieto fine al suo amore tanto piú ardeva dal desiderio di rivedere almeno e di riudire Giovanna cosí, di furto, la notte. E mentre cercava tra le fronde spesse la vista delle stelle, scorgeva delle ombre nere che passavano tra i rami dei cerri e delle querce: delle streghe, che l’accompagnavano con mala intenzione, male augurando, sommessamente, al suo povero amore; sommessamente. Egli rideva forte, e gli avessero pure additato, le streghe, la chiocciola d’oro dai pulcini tutti d’oro, la quale, al dire della gente, si trovava dentro il bosco, ch’egli avrebbe ben saputo rapirgliela, al demonio! Poi con desiderio intenso e disperato di Giovanna affrettava il leardo per un sentiero che era segnato dalle sole orme del leardo e che lo guidava al suo amore piú presto e di nascosto. II. Giovanna del Farneto tanto desiderava per marito Raimondo di Santelmo quanto questi desiderava lei per moglie; e se Raimondo si doleva della sua sorte e minacciava di penetrare nel castello, essa, per gran paura che le fosse ucciso (giorno e notte vigilavano le guardie a custodia del ponte: fonda e larga era la fossa, alta la cinta e ferrate le finestre) gli si prometteva ancora e gli si raccomandava di fidare in lei. Poi una notte lo consigliò cosí: — Mio padre non vuol maritarmi a voi perché non siete ricco; vorrebbe se quel vostro zio di Monveglio vi donasse delle sue terre: andate dunque dallo zio a pregarlo che finga donarvi delle sue terre, e noi, sposati che saremo, gliele renderemo secondo patto giurato e stipulato. — Piacque il consiglio al cavaliere, il quale, il dí appresso, cavalcò alla volta di Monveglio. Vi giunse che era tardi, e trovò lo zio molto lieto, come uno che ha cenato bene e cenando ha bevuto vino buono, di quello che rischiara la mente, ravviva lo spirito e intenerisce il core. — Che volete, mio bel nipote? — domandò. E intesa la richiesta, rispose súbito: — Sí sí, faremo questo patto; e parlerò io a ser Lapo del Farneto, che m’è vecchio amico. — Poi strizzando gli occhi: — Ma di’ — chiese —, è molto bella la figliola di ser Lapo? Raimondo rispose: — Innamorai di lei per udita, e quando la vidi non me ne pentii. Voi la vedrete. III. Mentre ser Lapo del Farneto numerava delle monete lucenti, che sembravano esser state battute allora allora, e accarezzandole cogli occhi le ammucchiava su la tavola, uno scudiero avvertí la scolta che il signore di Monveglio veniva a trovare il castellano. All’annuncio messer Lapo si alzò puntando le mani sui bracciali del seggiolone, e con quanta fretta gli era consentita dalle deboli forze e dai malanni che gli intorpidivano le membra ripose il tesoro nella cassapanca e diede l’ordine: — Ben venga il vecchio amico! I due, in rivedersi dopo tanti anni, dissimularono entrambi la sorpresa di un sentimento maligno: d’invidia il signore di Farneto perché egli, scarno, smorto e male in gambe, scorse rubesto, rubizzo e grasso quello di Monveglio; di gioia questi per confronto del suo stato con quello dell’amico. Ma Lapo chiamò la figliola, bramoso che l’altro gli invidiasse almeno un bene ch’egli non aveva; e il signore di Monveglio, vedendo la bella giovane, con gli occhi gaudenti ne scoprí le carni gigliate e fresche; sentí di essa una súbita concupiscenza; dimenticò il nipote e quindi lo ricordò, ma per tradirlo. — Voi avete una fortuna, che non ho io — disse a ser Lapo quando Giovanna fu uscita. — Che mi valgono i quattrini a me? — Indi chiese: — La maritate? Arcigno in viso, con tonò aspro, ser Lapo rispose: — Essa è bella, savia e d’alto lignaggio: a chi volete che la dia? — E si dolse del tempo presente, quando non era piú cavaliere degno di sua figlia. — Ma io — aggiunse l’avaro —, non voglio dotarla prima di morire. Allora parlò il signore di Monveglio, e parlò in guisa che l’altro lo comprese disposto a prendere una moglie senza dote. — Ma non sono piú giovane — lamentava il signore di Monveglio. — Mia figlia è savia — ribatté ser Lapo. E fu conchiuso il parentado. Durante la cena i vecchi amici discorsero della loro giovinezza, ilare e rubicondo l’uno, l’altro sempre scuro e sempre astioso. Neppure a ripensare la letizia della sua giovinezza ser Lapo poteva ridere, quasi una colpa o sciagura della virilità amareggiandogli la vecchiaia piena d’acciacchi lo rimordesse fino d’essere stato giovane. Pure dimandava anch’egli — Vi ricordate? —, e narrava bei fatti anch’egli: i due vecchi narravano fatti di liberalità e di cortesia e biasimavano il tempo presente. Ma di quei due uno era traditore e l’avaro, l’altro, era di tale coscienza che non rideva mai. Questi, dopo la cena, chiamò la figliola e — Sei sposa — le disse; e accennando all’amico: — Messere è il tuo sposo —; e quegli stringendo la mano della giovane timida e confusa non sentí quant’era fredda. IV. Corse la fama che la bella Giovanna del Farneto andava in moglie al vecchio sire di Monveglio; e la gente compiangendo la donzella ne ignorava tutta la sventura, ignorava che il suo dolore era quale il segreto dolore di Raimondo di Santelmo. Le nozze s’annunciavano magnifiche. A un’abbazia a mezza strada tra Monveglio ed il Farneto, alla quale d’ogni parte dovevano convenire i parentadi degli sposi, si sarebbe celebrato il matrimonio una mattina presto; e messer Lapo, che non poteva girare e cavalcare, avrebbe attesi gli sposi nel castello al convito delle nozze. Magnifiche le nozze; ma neppure la solenne circostanza fece liberale messer Lapo, e per non spendere nei cavalli che recassero le parenti e i servi di scorta alla figliuola, egli mandò attorno qua e là a domandarne in prestito. Di che avuta notizia Raimondo di Santelmo desiderò che il suo buon leardo, già ignaro testimone del suo amore lungo e sfortunato, fosse testimone a Giovanna anche del dolore e della fede sua richiamandole il ricordo di lui per ogni passo del cammino doloroso; e inviò un valletto a chiedere di grazia a messer Lapo che disponesse a palafreno della sposa il suo cavallo. — È quieto — disse il valletto — e la porterà soavemente. Messer Lapo acconsentí. E la mattina delle nozze, quando avanti giorno le fantesche vestivano la povera Giovanna e gli scudieri allestivano gli altri cavalli per la compagnia, e in tutto il castello era un affaccendarsi rumoroso e gaio, il leardo fu condotto da Santelmo. Al lume dei torchi, per la finestra della sua stanza, messer Lapo vide partire la compagnia, e guardò a lungo la figliola, la quale gli parve bella e bene adorna; ma non porse attenzione a come fosse bello e bene adorno anche il leardo che la portava ambiante, dolcemente. La cavalcata procedeva triste. I primi raggi del sole si spegnevano in una nuvolaglia biancastra e nell’aria plumbea non si moveva una foglia di tutto quel bosco entro cui la strada penetrava perdendosi nel fondo fitto; non un uccello cantava allegro; e la sposa sentiva cosí enorme il peso della sua sventura che non aveva forza di piangere e le mancava il respiro. La cavalcata procedeva triste. Nel cielo, sopra, la nuvolaglia si addensava a poco a poco e dinanzi l’aria si rabbuiava sempre piú, quasi annottasse: però alcuno della scorta, interrogato il tempo, proponeva di tornare indietro. — Siamo a mezzo viaggio: avanti! — dissero gli altri. E la sposa, smarrita nel suo dolore enorme la considerazione delle cose, non vedeva e non udiva; non udiva che ripercuotersi nel cuore il passo uguale del leardo: Raimondo! Raimondo! Raimondo! Già un rombo sordo passava per le nuvole imminenti: cavalieri e dame incitarono destrieri e palafreni e con paura tentavano di ridere. — Povera sposa! L’acquazzone la coglieva per la strada! — Infatti l’intemperie cominciò a risolversi in gocce grosse e rade e poi in un’acqua dirotta, crosciante, fragorosa. Nel fondo livido i lampi guizzavano e s’inseguivano tra gli alberi che al bagliore parevano mostri sbigottiti, e il tuono, dentro quel cielo e dentro quel bosco era il rotolare d’un traino infernale. Finalmente con strepito di schianto repentino un fulmine stridette e scoppiò da presso ed il leardo spaventato prese la corsa d’una furia: corse cosí, non piú veduto, un lungo tratto della strada; poi, non piú veduto, balzò dalla strada oltre un rio e dietro un sentieruolo obbliquo; e la sposa, avvinghiata alla criniera, cieca di terrore sembrava tendesse lo sguardo ad un abisso nel quale s’aspettasse di precipitare. Quanto camminò il leardo traverso la boscaglia? D’improvviso Giovanna riacquistando la vista delle cose si scorse fuori del bosco, sotto il cielo terso e luminoso e davanti a un piccolo castello bianco e solatio. Il leardo nitrí. Dal castello uno scudiero guardò e riconobbe il leardo; guardò il sire del luogo, Raimondo di Santelmo, e riconobbe Giovanna; e poiché fu abbassato il ponte lestamente, Giovanna cadde dal cavallo nelle braccia di Raimondo. Ma lo scudiero aveva a pena dato da mangiare al cavallo madido di pioggia e di sudore che il sire venne nella stalla e comandò: — Salta in groppa e corri dal proposto di Sestale: che per nessuna cosa al mondo manchi di essere qua prima di notte. Né era ancora notte quando, mentre le genti del Farneto e di Monveglio ricercavano tuttavia pe ’l bosco la donzella, il signore del Farneto e il signore di Monveglio appresero che madonna Giovanna, in cospetto di Dio e del prete di Sestale, era divenuta moglie a Raimondo di Santelmo. «Mi sta bene» disse quel di Monveglio; ma l’altro bestemmiò Iddio e la sorte e la figliola. E piú tardi, imparando il fatto del leardo, «Maledetto quel cavallo! — gridò con rabbia —. Per lui ho rinnegata la figliola e lascierò al diavolo la mia roba.» Ser Lapo, la notte, nei sogni torbidi osservava un cavallo furioso con sópravi la figlia traverso il bosco, e la visione e l’impressione dei sogni perdurandogli nella mente turbata e affievolita, egli ripeteva spesso anche di giorno: — Ah quel cavallo! quel cavallo! V. Un giorno d’autunno, in tanto che madonna Giovanna e una fantesca distendevano il bucato al sole, arrivò di corsa a Santelmo uno scudiero del Farneto. — Madonna — disse —, messer Lapo sta male e vuol vedervi. — Ciò udito madonna Giovanna affollò lo scudiero d’inchieste e Raimondo fece sellare il leardo. Presero per via piú breve il sentiero occulto che l’amore di Raimondo aveva tracciato dentro il bosco. E andando, con l’anima in pena, la donna si raffigurava il padre morente nella camera ove egli era rimasto lieto un mattino ad attenderla sposa e poi in un tormentoso abbandono era rimasto dei mesi ad aspettare la morte; lo rivedeva quale l’aveva veduto un giorno fanciulla portare di peso dai servi entro la stessa camera, il volto contraffatto e gli occhi gonfi e sanguigni, brutto, pauroso; e a secondare cosí con la fantasia commossa il ricordo lontano, sentiva quasi un conforto risalendo piú addietro nelle memorie della puerizia, quando per virtú della sua gaja innocenza quetava le ire del padre, ne raddolciva le asprezze e ne dissipava forse i truci disegni: su ’l castello gravavano leggende di misteri foschi. Essa, con la visione precisa dalle cose infantili, ricorreva ora per le camere ampie fredde e sonore; nella corte chiusa da muraglie umide; nell’orto incolto; sotto il porticato conventuale; attorno la cinta tutta screpolata e macchiata di licheni e di muschi, e chiamava il padre con strilli di terrore e di gioia; ed egli con un pallido sorriso l’accoglieva nelle sue braccia. Ma ora egli moriva e forse era già morto senza averla riveduta, dopo averla invocata e attesa invano: forse era già morto! Ella guardò il marito che le veniva appresso pensoso e silenzioso. Sotto i piedi del leardo crepitavano le foglie secche. Nel bosco era una tristezza lugubre. ———— Giunti che furono al castello madonna Giovanna corse dove ser Lapo, adagiato sopra un seggiolone e sorretto da guanciali, traeva a stento il respiro presso un’ampia finestra. Il suo aspetto non era piú quello di un tempo e non era quello che la figliola s’era raffigurato: nel viso esangue traspariva la sofferenza di un micidiale dolore per gran tempo raccolto e protratto, ma l’anima, che aveva conteso il corpo alla morte e per brev’ora aveva vinto, quasi purificata dalla contesa e dalla vittoria gli effondeva nel viso esangue una luce nuova di bontà e di pietà. Gli occhi non piú irosi e torvi guardarono con dolcezza placida, a lungo; poi dalle labbra raggricciate e livide uscirono finalmente parole miti e generose. E messer Lapo, che aveva perdonato a’ suoi figli, volle vedere Raimondo, e riconoscendolo disse: — Muoio. Seguí un silenzio d’alcuni minuti, eterno, e rotto soltanto dai singhiozzi della figliola e dal gorgoglioso respiro del padre. Poi questi, quasi vaneggiasse o afferrasse in una riflessione estrema un’estrema ricordanza, balbettò ancora: — Quel cavallo.... quello.... O era l’ultima volontà di ser Lapo? Ordinando di condurre nella corte, sotto la finestra, il leardo, madonna Giovanna indovinava essa l’ultima volontà di ser Lapo? — Poco dopo il leardo raspava giú nella corte, e la figlia china su ’l padre — È là — disse tendendo la mano verso il cavallo. Il vecchio alzò le pálpebre ed abbassò uno sguardo dalla finestra; lo vide e parve che sorridesse: ma le pálpebre non ricaddero sopra le pupille spente. — Padre! — gridò la donna. Il sire di Farneto, morto, pareva che sorridesse. LIBERALITÀ DI MESSER BERTRAMO D’AQUINO La corte di Carlo primo d’Angiò, dopo la strage di Tagliacozzo e poscia che da un colpo di scure fu troncata l’adolescente baldanza di Corradino di Svevia, fioriva di nobili donne e baroni e cavalieri e splendeva in magnificenza di conviti, danze, tornei e feste mai piú vedute. Ad una di tali feste messer Bertramo d’Aquino, che tra i cavalieri del re aveva lode di singolare valore e cortesia, conobbe la moglie di messer Corrado, suo amico di molti anni, la quale era bellissima donna e si chiamava Fiola Torrella; e cominciando egli súbito a vagheggiarla, in breve se ne innamorò di guisa che non poteva pensare ad altro. E giacché madonna Fiola, non per freddezza di natura o per amor del marito o per sincerità di virtú, ma per diffidenza degli uomini e timore di scandalo e troppa stima di sé medesima, gli si mostrava aspra e fiera, messer Bertramo si perdeva ogni dí piú nel desiderio di lei e per lei giostrava, faceva grandezze, vinceva ogni altro cavaliere in gentilezza e liberalità. Tutto invano: madonna era sorda alle sue ambasciate; gli rinviava lettere e doni; non gli rivolgeva pure uno sguardo. Ond’egli, che oramai non sperava piú nulla, nulla piú le chiedeva; e non sentendo alcun bene se non in vederla, triste e sconsolato, ma sempre con destrieri nuovi e mirabili, passava tutti i giorni sotto alle finestre di lei e ogni volta poteva vederla la salutava umilmente: essa moveva altrove i begli occhi. Un amico, il quale vantava grande esperienza in conoscer le donne, confortava Bertramo: — O madonna ha un altro amante, ciò che non sembra da credere, o finirà con innamorarsi di voi —. E Bertramo per mezzi sottili ebbe certezza che Fiola non aveva altro amante; ma ella non cedeva, anzi diveniva piú rigida; sí che quell’amico esperto assai delle donne avrebbe dovuto ricredersi se la fortuna, impietosita delle angoscie del cavaliere, non avesse trovata una strana via per aiutarlo. Certo giorno messer Corrado condusse la moglie e una gaia compagnia di cavalieri e di dame alla caccia del falcone in una villa che aveva poco lungi da Napoli; e poi che con loro fu stato in piú parti senza molta fortuna, giunto a una valletta, la quale pareva fatta dalla natura per cacciarvi, disse tutto allegro: — Ora vedrete se il mio sparviero sa spennacchiare! — Presto i cani si misero in traccia delle starne e levandone un bracco un fitto drappello, egli fe’ il getto e gridò: — Guardate! — Lo sparviero, che era ben destro, scese di furia sulle starne frullanti e le disperse; una ghermí e stracciò e inseguí le altre, come un soldato valoroso che piombi sopra una schiera di nemici e abbattutone uno fughi e persegua i rimanenti. — Come Bertramo d’Aquino, mio capitano, a Tagliacozzo — disse messer Corrado; e per dar ragione del confronto tra il suo caro sparviero e l’amico assai caro, narrò di questo le belle prodezze quando l’avea veduto irrompere impetuoso nel furor della mischia. — Certo — aggiungeva — non è alla corte e fuori chi uguagli Bertramo in piacevolezza di parlare, grazia di modi e generosità e magnificenza d’animo; e anche il re gli vuole gran bene. — E di Bertramo proseguiva a narrare piú geste e vicende. Madonna Fiola ascoltava attenta il marito e le lodi al cavaliere, che aveva posto ardentissimo amore in lei, le pungevano l’animo di compiacenza, quasi lodi fatte alla sua bellezza, se la sua bellezza aveva potuto accendere senza misura uomo cosí perfetto; e come le lusinghe della vanità nelle donne possono tutto, anche piegare a sensi miti le piú proterve, ella rivolgeva nel pensiero quante pene aveva sostenute Bertramo; quanto acerba noncuranza gli aveva dimostrata, e le pareva d’aver fatto male. Potenza d’Amore! Essa già sentiva che meglio che una durezza superba e una fredda virtú soddisfaceva il suo orgoglio l’innalzare a sé il piú ammirato dei cavalieri, senza piú timore alcuno d’abbassarsi a lui; e nella esuberante sua giovinezza già serpeva un desiderio vago di consolazioni nuove e di nuove gioie suscitate e acuite, per lo spirito e per i sensi, dalla forza della passione e dalla fatalità della colpa. Perché era fatale che amasse Bertramo d’Aquino, se fino a quel giorno inutilmente aveva voluto resistergli. Tutto quel giorno pensò a lui; né sí tosto fu di ritorno a Napoli che si pose al balcone bramosa che egli, come soleva, passasse di là a riguardarla; e con suo conforto lo vide giungere all’ora usata. Ratteneva il bizzarro puledro e per quetarlo gli palpava il collo scorso da un tremito: salutò la dama, la quale smorta e palpitante risalutò e parve sorridere, e a lui s’allargò il cuore e chiarí la faccia in súbita allegrezza. Cosí Bertramo fu pronto a scrivere una lettera a madonna Fiola scongiurandola di commuoversi a misericordia e di procurargli agio a parlarle; e n’ebbe risposta: a lei era grato l’amore di lui, ma per l’onor suo e del marito ella non poteva promettere e concedere cosa che le chiedesse. Riscrisse egli assicurandola che voleva solo parlarle e che in ciò solo poneva la salvezza della sua misera vita; ed ebbe risposta: venisse, ma a parlare soltanto, una prossima sera (e Fiola diceva quale) in cui Corrado, di ritorno da una caccia lontana e faticosa, sarebbe andato a dormire per tempo. ———— Ecco finalmente la sera del convegno; limpida sera estiva. Bertramo s’era dilungato assai fuori della città quasi ad affrettare, ad incontrare l’ora invocata e troppo lenta a discendere; e quando le ombre confusero le cose e le stelle si specchiarono nel mare pensò: — Di già Fiola m’aspetta —; ma non tornò a dietro, ma sentí vivo il piacere d’essere atteso, egli che dell’attesa aveva patita tutta la pena. Pure il maligno compiacimento fu breve e se ne dolse; rivolse il cavallo e gl’infisse gli sproni nei fianchi: via, di aperto galoppo e di piena gioia, come all’assalto! Intanto Fiola, visto che ebbe il marito addormentato nel profondo sonno della stanchezza, consegnò due lenzuoli di tela finissima alla piú fida delle sue donne, che andasse a distenderli su ’l molle letticciòlo composto entro una casupola in fondo al giardino per riposarvi nel tempo piú caldo; ed essa corse a socchiudere la porta dalla quale doveva entrare l’amante. Ascoltò: nessuno. Allora dalle aiuole e dalle macchie si die’ a raccogliere le piú belle rose e strappandone i gambi riponeva le corolle e i petali freschi in un cestello che recava al braccio: anche vi metteva fragranti vainiglie e gelsomini, e quando il cestello fu colmo lo porse alla fante e le disse: — Spargi questi fiori su le lenzuola e acconcia ogni cosa; e poco dopo che messere sarà venuto, fanne cenno d’entrare. — E stette ad attendere. Ma alla mente di lei, che con la fantasia si spingeva da un pezzo a pregustare le voluttà del suo dolce amore, balenò a un tratto il dubbio non stesse per cadere nella vendetta di messer Bertramo, il quale troppo duramente e troppo lungamente aveva fatto soffrire; non dovesse, se messer Bertramo mancasse per inganno al convegno, esser fatta gioco di lui. E se egli non aveva l’animo che suo marito le avea dipinto, non poteva ella, con acerbo dolore e vergogna, divenire la favola non solo di lui, ma de’ suoi amici e di tutta la città, ella, la virtuosa donna di messer Corrado? Onde si vedeva accomunata dalla colpa e dallo scherno a quante dianzi spregiava, e si doleva d’esser caduta dalla sua casta fierezza e malediceva al mal concepito affetto. Ma ascoltò: — Eccolo! —; e rapida e lieta fu incontro al cavaliere che entrava e gli aperse le braccia sorridendo e sospirando: — Ben venuta l’anima mia, per cui sono stata tanto in affanno! Messer Bertramo la strinse forte: — Mercé dunque del suo grande amore; pietà, o madonna Fiola, dei suoi lunghi travagli! — Le parole di lui erano ardenti non meno che gli sguardi di lei; e a lui pareva che ella avesse una luce intorno il capo biondo, e a lei sembrava ch’egli fosse ebbro d’amore. Sedettero sotto un arancio fiorito scambiando piú baci che motti, e come Fiola pensava — Or ora la fante ci dà il segno d’entrare —, messer Bertramo, il quale nelle avide strette la sentiva tutta desiosa e del suo bel corpo indovinava i segreti mal difesi dalla veste sottile, poco piú tempo attendeva a godere del piacere ultimo e sommo. Ma meravigliandolo assai una tale accondiscendenza in Fiola, egli volle conoscere prima da lei perché fosse stata tanto rigida seco e qual cagione l’avesse indotta da poco a dargli un conforto sí grande. Ella rispose: — Io non v’amava; ma mio marito, un giorno che eravamo alla caccia insieme con molti cavalieri e gentildonne, osservando un nostro bravo falcone precipitare addosso a una brigata di starne e scompigliarle tutte, si sovvenne di voi e disse che come il falcone alle starne aveva visto far voi ai nemici nella battaglia. E ricordò le prove del vostro valore e di voi asseriva che nessuno poté mai superarvi in cortesia e liberalità. Allora io ammirando l’animo vostro mi pentii subitamente d’avervi fuggito quasi mala cosa, e ora vi dono co ’l mio cuore tutta me stessa. Udite le parole della donna, messer Bertramo stette alquanto silenzioso e raccolto in sé medesimo per improvvisa concitazione di pensieri e d’affetti diversi; poi, con uno sforzo che parve e fu supremo, perché egli rifiutava il bene non di quella sera, ma della sua giovinezza, ma della sua vita, si levò in piedi e disse: — Non sarà mai ch’io offenda vostro marito se egli mi ama cosí e se ha tanta fede in me! E tolte di seno alcune bellissime gioie, le porse alla donna pregandola di serbarle per sua memoria, e aggiunse: — Per memoria di voi, voi datemi ora un ultimo bacio. Madonna Fiola Torrella turbata molto, chi sa se per nuova ammirazione dell’animo nobilissimo del gentiluomo o piú tosto per vivo rammarico del perduto piacere, lo baciò sulla bocca, e messer Bertramo, senza piú toccarla, le disse addio e partí. II. «Sempre alla lussuria séguita dolore e penitenza....» LA SALVAZIONE DI FRA’ GERUNZIO Da una cella nel monastero di Pentula frate Gerunzio guardava in basso, lontano, sotto un chiaro lembo di cielo la massa scura di Gerico, né poteva pregar bene Iddio; e interrompeva piú volte le preci rituali con preci sue, angoscioso e lamentevole. — Signore, che restituisti il vedere a Bertimeo, perché lasci cieca l’anima mia? Perché tu, che risuscitasti Lazzaro e il figliolo della vedova, non risusciti a te l’anima mia? Perché dai miei occhi non sgorgano lagrime degne di grazia come le lagrime del ladro e dell’adultera e io perdo, senza che tu m’aiuti, l’anima mia? Non mi abbandonare, Signore! Fa, Signore, ch’io oda la tua voce, la stessa mia voce nelle mie orazioni; fa che io le senta, che io senta nell’anima le mie colpe come tu su la fronte le spine de’ Farisei! — Da una torre di Gerico, la città degli amori e delle rose, una schiera di colombi levò il volo e delineò nell’alto il giro della città; ma alla veduta di quella tenue candida fila nel cielo azzurro e di quel cielo azzurro il monaco Gerunzio rimase intimidito quasi a un ammonimento, muto quasi a una minaccia divina; e chinò gli occhi a terra. Allora, di súbito, lí innanzi a lui, stesa a giacere, vide una femmina nuda. Come lucide le chiome nere! Come freschi i fiori del seno turgido! Vezzi di vergine, riso di peccatrice, beltà d’una dea: era piena di grazia e rideva, tutta nuda. ———— Tale da piú tempo il tormento di frate Gerunzio. La notte, nelle lunghe tenebre e nei brevi sonni, aveva torbidi sogni di laidezza, turpi, nefandi, e al risvegliarsi provava un senso di stanchezza, di nausea, di esecrazione per quella sua carne che in guerra collo spirito riusciva a vincere finché alla prima luce e serenità mattutina, quando sembra che la divinità si ridesti in cuore agli uomini, egli non pregasse e si dolesse e appassionasse; ma quando il sole diffondeva il calore e la vita nel mondo, ecco apparirgli altre, ben altre visioni, limpide, affascinanti, gioiose; ecco ben altre allucinazioni: lusinghiere giovinette nella prima coscienza ed esperienza delle impudicizie maschili; audaci etère sapienti d’ogni voluttà carnale; indulgenti matrone nella piena bellezza del corpo e nella urgente pienezza dei sensi e delle voglie. E ridevano. Di notte era certo lo spirito della concupiscenza che opprimeva la sua volontà sorprendendola nel sonno e nella stanchezza; ma di giorno, allorché volonteroso di bene cercava star tutto intento a sé stesso, quale era la strana forza a cui l’arbitrio suo non poteva resistere? Forse era il rigoglio della virilità, la gagliardia dei muscoli, la potenza imaginativa del cervello, l’istinto che l’impugnava e trionfava; e perciò pregava Iddio cosí affannosamente e sinceramente. Invano. E una volta, in disperazione, la testa fra le mani, si mise a ragionare in questo modo: — Ero ricco, e dispersi le ricchezze dei miei padri in elemosine e convertii le pietre preziose in pane per i poveretti: campi e palazzi, cavalli meravigliosi e vesti di seta che movevano ad invidia i poveri e a gelosia i compagni, tutto vendetti a soccorso di orfani e vedove, di piagati e di feriti; e coi miei vini spumanti rimisi vigoria e salute in estenuati ed infermi; e perché mi dicevano bello, digiunai e imbruttii. A tutto feci rinuncia, e adesso vorrei distormi da questa mia carne, che non contengono flagellazioni e disagi, e rendere il mio spirito a Dio. Dio, accogli il mio spirito che si riposi in te! — Tacque, e poi con viso e con voce di uomo fatto perverso — Non vuole? — disse —. E sia cosí! — Uscí dal cenobio; si spogliò della tonaca; indossò vesti e pelli, e con l’apparenza di un onesto pastore si diresse alla volta di Gerico. ———— Difficile via, un sentiero sopra e tra monti scoscesi; ma nessuna fatica, anche piú grande fatica, avrebbe mortificate le membra di frate Gerunzio; niuna violenza di fede e di rimorso avrebbe potuto oramai frenarne il passo il pensiero lo sguardo, ed egli affrettava alla volta di Gerico. I suoi occhi vagavano lungi, ove il Giordano pareva il mare e il Carit argento limpido sotto il sole, o, se il sentiero piegava dietro il dorso delle montagne, si contenevano a vista minore, non brillando meno di gioia, perché da tutto, da un granito e da un salgemma che scintillasse coi colori dell’iride; da un fiore rosso che rompesse il verde cupo delle ginestre; da un uccello di varie tinte che levasse il volo frusciando, i suoi occhi ricevevano e recavano all’anima avvivata e accesa il senso della natura e della vita. E il suo pensiero, già buio nella tribolazione dell’intima battaglia e breve e pauroso nelle racchiuse idee del chiostro, si schiariva a poco a poco in quell’ampia e lieta libertà del mondo, e si estendeva e rafforzava: nell’attività dei nervi e dello spirito il monaco dianzi emaciato dai digiuni e dalle vigilie, affaticato dal misticismo e dalle preghiere e roso dalla bramosia vana della propria dissoluzione, sembrava d’un tratto rifiorire, ritemprarsi di nuovo sangue e inebbriarsi d’aria e di luce come di un vitale liquore. Nell’aperta considerazione delle cose sparivano i terrori della sua mente; s’era svestito del cilicio, ma anche si svestiva del sogno ascetico che gli aveva turbata e traviata la fantasia; ubbidiva allo stimolo dei sensi, ma presentiva il benessere che verrebbe a tutto lui stesso, spinto e corpo, dalla colpa, necessaria e umana colpa, la quale andava a commettere. Scendeva — le montagne digradando a diventare ubertose colline vestite di palma e dura e tamarigi e pomi di Sodoma —, e come il sole tramontante divampava dietro le vette piú alte, il colle Galgala rimaneva nell’ombra: Gerunzio vi ristette e guardò con tutta l’anima nello sguardo. Ecco Gerico! Ah che il sole stendeva ancora fasci di luce sulla campagna di Gerico, e la città pareva adagiarsi, luminosa, splendida, in un letto d’erba e d’anemoni, rose, viole e narcisi! Gloria ad Adriano! Torri e templi s’ergevano, meravigliosi giganti, su le rovine di Tito, e la cupola di San Giovanni Battista pareva uno specchio convesso temprato d’oro. La città di Erode, distrutta due volte e due volte risorta, obliava Erode e Jele, e scherniva Giosuè profeta: «Maledetto nel cospetto del Signore l’uomo il quale imprenderà di riedificare questa città di Jerico! Egli la fonderà sopra il suo figliuol maggiore e poserà le porte di essa sopra il suo figliuol minore!» Gerunzio ricordò la imprecazione di Giosuè. Ma Rahab, per cui il profeta ebbe sua la città idolatra, non era essa una meretrice? Ed egli entrò allegro in Gerico. ———— Dietro le antiche terme di Erode, in un freddo e nero angiporto, stavano le meretrici: una su la soglia, poggiata allo stipite e ritta sulla gamba sinistra e con la destra piegata su la sinistra, perché se ne indovinasse la grossa forma; dentro, tre altre, assise su guanciali in procace attitudine e intese a bere un chiaro liquore, ond’erano ebbre, rubiconde e loquaci; un’ultima traeva note da un arpicordo e cantava con voce sommessa. Il monaco Gerunzio, oltrepassando pallido e palpitante, gettò uno sguardo al sito infame e come udí chiamarsi — vieni! — osservò innanzi a sé: nessuno. Si rivolse e, avesse pure avuta dinanzi, per la suburra, tutta una moltitudine, non avrebbe piú scorto alcuno perché scorgeva la femmina che l’aveva chiamato: Vieni! Colei che stava su la porta si ritrasse quasi per dar luogo a un pezzente, ma l’altra, che era briaca, rise, e lisciando la barba prolissa dell’uomo: — vero — disse —, o pastore, che tu hai buona moneta? Gerunzio la seguí alla celletta, avido di peccare. Dal basso giungeva come un lamento lontano la voce della cantatrice, e dalla cella vicina un ridere osceno. Il monaco tese le braccia. ———— Quando Iddio percuote della lebbra il peccatore, a questo s’impiaga d’improvviso la pelle sí che resta visibile la carne viva, e i peli s’imbiancano su la piaga: corre per le ossa del peccatore un sudor freddo, un lungo brivido, uno spasimo lungo; poi la pelle dove non è la piaga si raggrinza e vi si formano delle tacche bianche verminose e delle croste gialle e fetide. Perciò la vista del lebbroso è orrenda come il tormento di lui, e nel Levitico si legge ch’ei deve avere le vesti sdruscite e il capo scoperto e il labbro di sopra velato, e che deve gridare: — l’immondo! l’immondo! —; perciò il Signore commise a Mosé che disfacesse la casa dell’infetto e riducesse in polvere fino le pietre e lo smalto di esse: chi guarda un lebbroso prova un ineffabile schifo e trema di spavento, perché vede il segno dell’ira divina. ———— Il monaco tese le braccia; ed ecco che sentí germogliarsi su la pelle, súbito, dalla pianta dei piedi alla sommità del capo, la lebbra maligna: si vide; e la meretrice urlò: — L’immondo! l’immondo! — Ma allora Gerunzio non ebbe piú innanzi a sé una donna nuda; innanzi a sé e in sé finalmente, ebbe e comprese la luce celeste che gli scioglieva la caligine dell’anima, gl’illuminava il cuore e il pensiero colla verità oltremondana, lo infocava di fede, lo santificava; e allora cadde ginocchioni e sorridendo e levando gli occhi e le mani tranquillo, sereno, sublime, disse a voce alta: — Questo castigo, Dio, è la mia salvazione! _DIO LO VUOLE!_ Con soave accondiscendenza la giovinetta avvolse il braccio al collo di lui e gli rispose con sommissione pudica; poi, stanca, abbandonò il capo al cuscino e a poco a poco, chiusi gli occhi, s’addormentò. Riccardo la sentiva cosí dormire; la sentiva alitare e palpitare, e sembrava che dal contatto gli derivasse allo spirito commosso una tenerezza mesta e un trepido senso di pietà: il suo spirito riagitato da un sentimento piú antico e profondo che l’amore, ma che tuttavia l’amore gli deprimeva dentro, già tremava e sbigottiva in un presentimento di pene prossime e fatali. Rifletteva. Nel giorno aveva visti molti cavalieri apparecchiarsi al passaggio a cui il principe Edoardo d’Inghilterra e il conte di Brettagna erano stati chiamati da Luigi il santo, e di quelli egli aveva compresa e raccolta la gioia impetuosa dell’andare a combattere i nemici della fede. Ma egli pensava che non poteva partire, per la sua donna. Per le donne di Antiochia vendute all’incanto, per i fanciulli ceduti schiavi agli schiavi, per le vergini insozzate dai mamalucchi partivano i re. Partivano i nobili inglesi e scozzesi per i fratelli cristiani di Palestina e di Siria minacciati dalla ferocia di Bibars. Ma Riccardo non poteva partire. Bibars il sultano feroce aveva distrutti i templi di Maria in Antiochia e in Nazareth e sparsi al vento e al fuoco i vangeli e sugli altari scannati i sacerdoti di Cristo; i guerrieri di Soppé e di Safad erano morti trucidati tutti ad uno ad uno al cospetto di Bibars. Ma Riccardo non poteva partire. Sui morti rimasti insepolti a Joppé ed a Safad brillava, la notte, una luce celeste e i guerrieri di Francia, di Spagna e Sicilia, già in terrasanta, incontro a Maometto cantavano: _Vexilla Regis prodeunt:_ _Fulget Crucis mysterium_ Riccardo non voleva partire. Rifiutava l’onore del corpo: alla salute dell’anima non voleva pensare. Pensava. Quando, ecco parergli che il buio della camera s’estendesse senza limiti, enorme come quello dei ciechi, e ch’egli, fuori di sé, vi smarrisse la coscienza corporea: quando, ecco nella nera oscurità balenare una luce viva da una croce di fiamma e dalla croce uscire il suono di queste parole sensibili, quasi luminose anch’esse: — _Dio lo vuole! Va!_ La moglie si destò atterrita al terrore di lui ed egli, tornato in sé medesimo, affannosamente le diceva della miracolosa visione. — Io ho paura di Dio — egli diceva —. Mi bisogna andare in questo passaggio —. Ma la donna tacque, e poi ruppe in pianto e tra i singhiozzi si dolse che non per sí breve letizia ella aveva sofferto tanto nel suo lungo ed avversato amore e tante rampogne soffriva ogni giorno dal parentado ricco e superbo. Pure, dopo molto pregare e piangere, essa fu queta e persuasa alla volontà divina, e toltosi un anello di dito lo diede a Riccardo dicendo: — Questo vi ricordi me e la mia fede e il frutto dell’amor nostro se con il mio dolore potrà crescere in me. — Riccardo abbracciò la donna. II. Quando Edoardo d’Inghilterra fu sbarcato al lido cartaginese re Luigi nono era già morto. Invano il Santo ricoperto di cilicio sopra un letto di ceneri aveva mormorato fra i respiri estremi: Jerusalem! Jerusalem!, perché il re di Sicilia conchiuse una tregua, levò l’assedio da Tunisi e affrettò i suoi ed i Franchi al ritorno. Ma non tornarono essi i guerrieri d’Inghilterra; e per recar innanzi i vessilli della croce tracciarono dei loro corpi la via fino a Nazareth quanti, a cento a cento, perirono di caldo, perirono di fame o avvelenati dal miele dai frutti e dalle erbe che ne ristoravano a pena la fame. A Nazareth le schiere decimate non trovarono da massacrare che un popolo d’inermi. E bisognò che ritornassero: senza gloria di geste, senza ricordi e speranza d’imprese generose, tornare! Tornare senza aver tócca una ferita combattendo! Cosí Edoardo d’Inghilterra, colpito di pugnale e a tradimento in San Giovanni d’Acri, non fu tosto risanato che, quasi fuggisse la maledizione, fuggí di Terrasanta. E tra alcuni che rimasero infermi in San Giovanni d’Acri fu pure Riccardo; e vi rimasero poveri in modo che, riavutosi a stento dalla malattia, Riccardo dovette procacciarsi il pane con umili fatiche. Egli temeva non rivedere mai piú la sua donna lontana. San Giovanni d’Acri a quei giorni era peranche la piú bella città della Siria: una città lussuriosa. Ampio il porto, dove le navi europee scambiavano merci e ricchezze; alte e dipinte le case; i palagi del re di Gerusalemme e del re di Cipro e dei principi di Galilea, di Cesarea, d’Antiochia, di Tripoli, di Tiberiade, Tiro, Sidone erano magnifici, con vetriate che riflettevano il sole: príncipi e re coronati e gemmati passeggiavano per le vie incontrandosi con i mercanti di Venezia, Genova e Pisa, e con Francesi e Inglesi, Tartari e Armeni, e nelle piazze protette contr’il sole da paramenti di seta e di sargia giostravano i cavalieri a spettacolo e ad onore di dame sfarzose e superbe. I chierici stessi smarrivano Dio tra le ricchezze e i piaceri. Il che considerando Riccardo, dopo la delusione delle imprese sognate in patria con mente fervida e pura, dopo l’abbandono dei compagni che erano stati ricordevoli solo di sé, e nella vicenda di fatti pei quali sembrava che Cristo dormisse affinché trionfasse la gente dell’Islam, perdette anch’egli a poco a poco la luce, la guida e il conforto della fiducia divina; e la necessità quotidiana delle fatiche volgari gli oscurò, gli restrinse il pensiero ed il cuore. Ma l’affetto, che aveva posposto alla fede, risorse allora a sorreggerlo piú vivo e piú intenso; e come la fortuna cominciò a secondarlo, per quel desiderio di allietare un giorno con la ricchezza la sua donna e il figliolo, se gli era nato e cresciuto, protrasse il ritorno anche quando n’ebbe occasione propizia. Perciò, e perché non temeva piú Iddio, si diede a trafficare per vie non lecite e a prestare ad usura; e accumulava i quattrini. Tuttavia, in tanta cupidigia, quell’affetto buono di cui solo nutriva il cuore e il pensiero lo conteneva in una delle antiche virtú, una sola: viveva casto. Egli guardava religiosamente l’anello della sua donna. III. Un giorno, e non seppe né dove né come, Riccardo perdette l’anello; e n’ebbe grande dolore, e solo dopo assai tempo poté darsi pace di questa sventura. Ma perduto l’oggetto del ricordo perdette anche la tenacia e la virtú del ricordo, ed il freno di sé. Meditò l’adulterio a pena s’avvide che la moglie d’un suo amico e compagno di traffici lo adocchiava proterva; e, avendo agio a praticarsi, dopo poco e facilmente essi s’intesero fra di loro. Quando, nell’abbraccio dell’adulterio, ecco che dalla attitudine disonesta e incomposta di quella donna il pensiero di Riccardo fu respinto a vedere la moglie nella sommissione vergognosa e pudica delle prime strette nuziali, ed ecco che il raffronto gli ridestò vivo, preciso, sensibile tutto che della moglie aveva smarrito e obliato: le sembianze, la voce, lo sguardo, il respiro. Egli sobbalzò repugnando; e di meraviglia la donna rise, salace. Ma Riccardo riudiva la moglie raccomandarsi al suo amore e raccomandargli la fede in lei mentre piangeva e gli porgeva l’anello, e nello spirito, respinto da quel ricordo d’amore alla fede antica di Dio, egli ebbe anche l’allucinazione dell’antico portento: — _Torna a Dio ed in patria. Va!_ Cosí quella voce che l’aveva ammonito con visibile segno ad andare al passaggio, l’ammoniva ora, oscura nell’animo, e sembrava che gli dicesse quest’altre parole: — _Se la tua donna potrà riconoscerti e ti sarà rimasta fedele, Dio t’avrà perdonato._ — Riccardo fuggí dalla donna e recatosi da un cavaliere dell’Ospedale, uomo di probità conosciuta, l’impegnò a distribuire fra i poveri di Tolomeide le sue ricchezze male acquistate: né di quanto aveva acquistato con onesta fatica ritenne piú del bisogno ad imbarcarsi in una nave che quel giorno stesso salpava da Acri. IV. Il pellegrino finalmente ha toccato il suolo della patria; ma ha la schiavina tutta lacera, i piedi nudi e il sangue infermo per il malore che già lo gravò con affanno mortale. Imprende il suo viaggio ristando qua e là a domandare elemosina e sospinge lo sguardo in cerca delle sue montagne ancora indefinite nel cielo remoto, come ondeggiamenti di nebbia: la strada si dilunga innanzi bianca infuocata immutabile. Egli cammina. Lunga la strada, e la casa molto lontana; brevi i riposi, e a frusti il pane della carità. Egli cammina, cammina. Finché l’occhio non vaga piú per luoghi mai visti, ma corre ai monti nativi che acquistano linee precise nel chiaro azzurro, e il pensiero misura la distanza alla meta: anche pochi giorni di viaggio. I piedi laceri e le membra corrose dal male; assidua scòrta, la morte. Egli cammina, cammina. Rivede estenuato e angoscioso i luoghi amici: i bei luoghi. Anche un giorno. Rivede il colle ridente nel sole ed il paese bianco tra il verde: in capo al paese il castello paterno. Anche un’ora. Non piú stanchezza, non male: mormora a costo la strada il ruscelletto dall’acqua pulita, e non beve; un cane gli esce contro di furia, non teme. Egli cammina e guarda innanzi, come in un sogno; e l’intento dell’animo al prossimo fine lo trascina ansante barcollante muto su per l’erta al castello. Nell’androne è una turba di miseri ai quali ad uno ad uno la dama fa la carità con atto umile e mesto, e un gentil fanciullo aiuta la madre nella cura pietosa e sorride: il pellegrino muto, a capo basso, in ginocchio, attende il perdono di Dio, mentre dicono i poveri: — Dio ve ne renda merito. — E la donna dice: — Pregate Dio che mi torni Riccardo! Senza sospetto, in fine, ella porge una moneta a Riccardo e s’avvia; ma l’ignoto mendico con la foga degli ultimi spiriti avvinghia delle braccia il figliolo e lo stringe, disperatamente, e lo bacia, e al grido del fanciullo la donna manda un grido di terrore e d’amore vedendo il marito cadere, corpo morto, riverso. DISPERAZIONE Di tre vergini, che in una casa presso la chiesa di Rumello vivevano sole nella religione, la piú giovane superava le due altre co ’l fervore della sua fede. Ancora bambina, orfana di genitori nobili, l’avevano condotta seco le due altre e allevata fuori del mondo nel timor di Dio; ed essa era cresciuta fanciulla serbando la mente pura e l’animo semplice nella severa e sincera abitudine della devozione. Neppure le turbò il pensiero lo sviluppo dell’adolescenza: che se talvolta le espressioni dei concetti mistici e quei discorsi delle compagne intorno le nozze con Dio e la dilettazione dello sposo celeste le penetravano nell’imaginativa a suscitarle il sospetto e quasi la sensazione del significato proprio, súbito ritorceva lo spirito piú acceso dal segreto moto sensuale a vedere il Nazareno che accoglieva, irradiato della sua luce eterea e sublime, l’anima d’ogni vergine degna delle sue nozze: la Madonna benediceva sorridendo e sorridevano tutti intorno, tra i concenti di musiche arcane, i santi e i cherubini. Dio la soccorreva anche nei sogni. E le visioni mirifiche, il giorno, ora l’esaltavano a strane gioie ed ora l’umiliavano con dolore acerbo. Nel gaudio era Dio che scendeva a lei? Ella ascendeva a Dio e sentiva l’anima sua dilatarsi, rifulgere, come dissolversi per la grazia del divino amore; e s’abbandonava, inebriata, al rapimento sovrumano. Solo nel crepuscolo della sera, il Signore le pareva piú lungi, troppo lungi, da lei; e per fuggire alle tenebre imminenti l’anima sua provava il desiderio d’uscire dalla carcere corporea, di tornare là ond’era venuta al mondo e dove Dio l’attendeva, purificata da l’umano patire, con infinito bene. Oh perché non aveva penne da levarsi libera e lieta dalla terra? Non era ancora degna di morire: il suo sposo troppo piú di lei aveva sofferto; e prima di rivolgere al cielo gli occhi desiosi Egli aveva faticato sotto il peso della croce e sanguinato da orribili ferite e pianto; essa né sapeva piangere di quelle lagrime, né poteva bagnare l’anima nel sangue dell’agnello, né provare entro la carne gli spasimi del Crocefisso: mentre piangeva, essa scorgeva Cristo crocifisso nel sole che calava con un fulgore sanguigno all’orizzonte. ———— Ma un giorno di festa all’oratorio della chiesa cantarono alcuni valenti cantori. Dal luogo nel quale stava, non veduta, la vergine non vedeva persona, solo udiva; e negli intervalli udiva il bisbiglio vago, l’udibile silenzio della folla ristretta che prega e che ascolta; e salivano a lei ondate d’incenso, di caldo e quasi palpiti di vita. Ripreso, il canto si devolveva grande e solenne senz’avere in sé modo alcuno che non convenisse a glorificare Iddio; pure una voce tra le altre del coro piú alta e piú snella la distraeva suscitandole come la pena d’un’antica sciagura — e non sapeva quale — ridesta e confortata in una dolcezza di ricordo indefinito, o, piú tosto, il presentimento d’una pena prossima cui già tardasse una consolazione attesa — e non sapeva quale. Senza che pensasse: non madre, non parenti, nessuno, altro che Dio!, ella sentiva tutta la malinconia di questo pensiero nel suo cuore vuoto. E un altro giorno dal basso, dal villaggio, tra il murmure delle voci e delle opere, le giunse un canto d’uomo e credé riconoscere il cantore dell’oratorio. La voce dell’uomo non piú tenuta ai modi lenti e fermi della salmodia seguiva il vario ritmo della canzone, cosí dolce ad udire che la vergine l’ascoltò per afferrarne ogni parola: parole d’amore, soavi, fervide, mirabili vennero a lei, oltrepassarono e si dileguarono lontano nel rumore torbido, lasciandole ora un’impressione definita di meraviglia e di sbigottimento perché da esse aveva compreso espandersi al sole e all’aria libera tutta la felicità piena e baldanzosa della vita umana; perché aveva veduto il giovane che cosí cantava. Sbigottita, ella non si ritrasse quando a rivederlo nei dí seguenti fu veduta da lui; meravigliata, non si ritrasse quando s’accorse ch’egli lodava in lei la bellezza della donna amata e l’attendeva e la cercava e la sollecitava ad osservare in lei medesima la bellezza della donna amata. E finalmente una forza, una smania piú valida della sua volontà la spinse, avvolta di lusinghe e non piú inconscia della colpa, nell’inganno. Quando, finalmente, poté vederlo vicino, quell’uomo, udirlo vicino, essa soggiacque. ———— Co’l disgusto dell’azione brutale ricevuta in sé le rimase uno stupore amaro: erano quelle le segrete voluttà dei sensi? quello l’irresistibile segreto dell’amore? Poi ebbe la vergogna della nudità che fu conosciuta e si conobbe; della carne che sentí la carne; della verginità svelata a forza e perduta volentieri, e piangendo ebbe il pensiero dell’ulteriore castigo che alla colpa sarebbe conseguito visibile nel suo corpo, del castigo ultimo che alla morte del corpo sarebbe conseguito all’anima sua. Prese ad odiare sé stessa piú di chi l’aveva soggiogata. Ma non la paura della pena le era pena bastevole: non la vergogna, per cui avrebbe voluto nascondersi alle sue compagne e fuggire; non l’odio di sé, per cui avrebbe voluto distruggersi: non bastava. In ogni momento de’ suoi tristi giorni il pensiero del peccato commesso le cadeva su l’anima come la goccia su la pietra che incava; e il dolore, nel suo petto, diveniva come un peso che cresceva cresceva a soffocarla. Le sue labbra perdevano la voce e il cuore le veniva meno: immota, le mani bianche abbandonate sulle ginocchia, il viso squallido, gli occhi privi di lagrime e di luce, insensibile, l’ammiravano le compagne; n’ammiravano la perfezione dell’umiltà e della fede. E non bastava. Ella doveva scorgere in sé tutto il male dell’anima sua, considerarlo senza piú rimedio e speranza alcuna di salute, senza tregua e senza pietà, in eterno: ella stessa doveva misurare, ella stessa, con sottile indagine, la propria colpa: — Peggio dell’adultera: l’adultera manca alla fede dello sposo terreno; essa allo sposo celeste. Peggio della meretrice: la meretrice avanti di darsi a tutti gli uomini non si diede vergine a Dio. Peggio del ladro: essa aveva rubato a Dio un’anima, la sua. Peggio dell’assassino: Dio aveva ferito, Dio! E non bastava. Gridava perdono, e sentiva respingersi alla pena vigile e continua; si lasciava strozzare dal dolore, e non moriva. Il Dio che aveva segnato del suo sangue il cammino per andare a lui, che aveva quetato il dolore dell’adultera e perdonato al ladrone e perdonato alla Maddalena, diviso dal suo pensiero per sempre si celava dentro di lei vendicatore assiduo e perenne e la mordeva, la rodeva, la consumava, spietato, lentamente. La ragione le veniva meno. Presso lei, invisibile, chi rideva cosí? Chi parlava? — Per serbare la verginità Agnese sostenne d’essere esposta alle sozzure del lupanare e non fu tócca, e le chiome diffuse ne celarono la nudità agli sguardi virili. Mille uomini non riuscirono a trascinare nel postribolo Lucia di Siracusa. Un demone la derideva da presso, invisibile. — Regina, per serbare la verginità, patí la stretta d’un cerchio di ferro e gli strappi di tanaglie infuocate. Orsola e le sue compagne furono trafitte dai ladroni nella selva, ma morirono vergini. Il demone ghignazzava, allegro. — A perdere la virginità Petronilla preferí morire d’inedia; Domitilla fu bruciata viva. Ghignazzava il demone. — Cunegonda la casta passava su vomeri roventi.... E il demone le fu sopra, l’avvinse, l’invase, si contorse entro di lei mugghiando per la sua bocca e stridendo attraverso i suoi denti stretti: ella agitava le membra, frenetica, e dalla bocca emetteva una schiuma bianca. Intanto le compagne piangevano e dicevano: — O spirito malvagio, pártiti da questa serva di Dio! Ma essa nella convulsione urlò: — Impura! io sono impura! III. «Qui d’aventur velt traiter il n’en doit nule entralaisser qui bonne soit à raconter....» AGNESINA Sec. XIII. I. Guglielmo Berlinghieri e Rinaldo Imberali erano accesi l’uno e l’altro, ma piú il secondo, d’una bella giovane che aveva nome Agnesina ed era figliola d’una ricca e savia donna di Firenze. Guglielmo, in cambio del suo amore riceveva sorrisi e lusinghe, e Rinaldo invece irrisioni e dispetti; e l’Agnesina che non amava niente Rinaldo s’innamorava senza misura di Berlingieri. Ciò suole avvenire; ma Rinaldo Imberali si consumava per la ventura altrui e la propria infelicità, e per il pensiero della fanciulla, non meno trista che bella, smarriva i desideri e la fiducia dell’età sua e fino la voglia di vivere; e sembrava perdere anche la salute e la mente. Onde i suoi comprendendo che il figlio, quantunque piú smemorato nei dí che non vedeva la giovane, dal vederla traesse sempre esca nuova alla fiamma e nuova ferita alla piaga, pregarono un amico, a lui caro e fedele, di condurlo a un suo luogo vicino a Firenze. Colà Rinaldo mostrò di acquetarsi il giorno nelle caccie e nei diporti, ma la notte inforcava di nascosto il cavallo e per accostarsi al suo tormento vagava intorno la città. Ne scorgeva una porta aperta? Egli v’entrava ansioso e angoscioso a cercarvi la nota casa. Avvenne frattanto che l’Agnesina si crucciò con la madre, la quale, scoperti i segni e le risposte di lei a Guglielmo e temendone, la teneva rinchiusa, e tanto s’infastidí del rigore materno che per mezzo della fantesca avvertí l’amante di voler fuggire con lui. E la fantesca aggiunse: — A notte fatta voi verrete a cavallo; ella sarà pronta su l’uscio e si getterà in groppa: è leggera e sa ben cavalcare. Guglielmo rispose che di ciò era lieto; e su ’l far della notte due suoi amici andarono per lui alla porta della città affinché non la serrassero e affinché, se bisognasse, potessero dargli aiuto e accompagnarlo con i loro cavalli nella fuga; ed egli, al tempo che gli parve opportuno, passò dalla casa dell’Agnesina. Ma la fanciulla, impedita dalla madre che non dormiva, non era per anche discesa, e neppure quando il cavaliere tornò a passare; e il cavaliere credé aver troppa fretta e si dilungò per la via. Allora allora l’Agnesina poté correre a basso; e indi a poco, palpitante e giuliva, udí accostarsi un cavallo. Non era Guglielmo Berlinghieri; era Rinaldo Imberali, il quale scorrendo come di solito presso a Firenze, veduta quella porta aperta, di null’altro in pensiero che del suo amore s’era incamminato per la buia contrada. L’Agnesina disse: — Son qui! —; e a Rinaldo nell’udire quel motto e nell’osservare quell’ombra bianca nell’oscurità, che gli faceva cenno della mano, sembrò di sognare: spinse il cavallo all’uscio della casa e colse in groppa, co ’l braccio, l’Agnesina. Rinaldo punse il cavallo. Alla porta, i compagni di Guglielmo, aspettando che l’amico, secondo l’accordo, si fermasse a chiamarli, non guardarono a chi trascorreva cosí in fretta e in silenzio. II. Il cielo era stellato, ma la strada, lontano dalla città e da ogni casolare e campo, saliva ai monti e s’internava tra due falde boschive e dense come in una notte cupa. Il cavallo, benché valido, accortosi del doppio peso, rallentava il galoppo e sbuffava; e tuttavia Rinaldo Imberali lo feriva degli sproni perché salvasse il suo amore: l’Agnesina, che impaurita chiudeva gli occhi e sentiva la frescura ventarle i capelli, con le braccia stringeva piú forte il petto del giovane; e il cuore di lui palpitava sotto la destra di lei. Egli, quando a quando, rivolgeva il viso e le susurrava su ’l capo: — Anima mia! — ed ella taceva rabbrividendo; ma a un punto l’Agnesina sospirò: — Guglielmo! —, e Rinaldo comprese d’improvviso e allibí. Tacque: non sarebbe stato da stolto perdere ciò che per sorte aveva in suo potere? «Saprò trovare sí buone parole — pensava — che m’ascolterà e l’avrò in pace prima di giorno; ma dove andremo?»; mentre essa, che non ardiva domandargli «Dove ci fermeremo?», si fidava tutta nel cuore che sentiva battere sotto la sua mano. La strada, dopo che i fuggitivi ebbero corso forse dieci miglia, risaliva erta per una folta e fosca abetaia, dove a Rinaldo parve di poter riposare; ed ivi ristando legò il destriere a un abete; poi, prese una mano della fanciulla e, senza piú velare la voce, le disse: — Qui, anima mia, saremo sicuri —. Alle parole di lui l’Agnesina vide che non era Guglielmo e con un grido di spavento, quasi riconoscesse un suo mortale nemico, riconobbe Rinaldo. Rinaldo si mise a supplicarla dicendo: — Agnesina, ascoltatemi e non temete di me; ma alla fanciulla s’annodarono in gola parole e singhiozzi, finché copertasi con le mani il volto in atto di vergogna e sciagura, proruppe in pianto. — Ascoltatemi — supplicava Rinaldo fuori di sé medesimo, perché temeva di perdere la nuova speranza. — Voi mi chiamaste; io credetti che alla fine v’avesse presa pietà di me e voleste darmi la maggior consolazione che uomo provasse mai al mondo. Solo a mezza strada mi diceste: «Guglielmo», e io m’accorsi dell’inganno; ma allora che cosa potevo, che cosa dovevo fare? Ricondurvi alla madre? Questo farò adesso, se voi volete, e tosto che il cavallo abbia riavuto il respiro; io vi ricondurrò, ma la madre, adesso come allora, v’accoglierà con sospetti e n’avrete rimbrotti e castigo. Oh quanto l’Agnesina piangeva duramente senza dare ascolto a Riccardo! Il quale proseguiva: — La colpa non è stata mia, non vostra, non di Berlinghieri: è stata della mia fortuna, che mi ha condotto alla vostra casa prima di Guglielmo e ora mi fa vedervi cosí! E voi credete che chi vi vuole tanto bene potrebbe lasciarvi in simile guaio se potesse consolarvi un poco? L’Agnesina, ascoltando Rinaldo, piangeva sempre duramente. E Rinaldo, tuttavia concitato e tremante, continuò a maledire la sorte per cui egli, anzi che rallegrarsi, doveva affliggersi dell’avere in sua mano la donna desiderata: ma poiché la fanciulla non si quetava, egli riprese a dire delle parole savie. Diceva con voce tenera: — Io non vi offenderò mai, Agnesina. Voi, che non avete uguali in bellezza, siete uguale nell’onestà ad ogni altra piú gentil donna di Firenze ed io conosco che Guglielmo mi sopravanza in valore e cortesia e che meritava tutto da voi. Ma quando ce ne torniamo, neppure Guglielmo vorrà persuadersi che io non vi abbia tócca; e se la madre vi scaccerà, e se Guglielmo non vi crederà, dove andrete voi, a chi vi affiderete voi? L’Agnesina piangeva meno duramente, meravigliata delle oneste parole del giovane; e questi se ne avvide e il conforto che ne ricevette lo rimise nella concitazione di prima. — Crudele vicenda di tre! — diceva —. Ma dei tre io non avrò pace mai piú; io stolto, che vi voglio bene come Guglielmo; e voi, non per voi ma per Guglielmo, seguitate a piangere! E le chiedeva perdono di quel suo amore quasi di un’azione cattiva: le diceva i molti disagi, le lunghe notti insonni, i gravi martíri patiti per lei, e gli sdegni dei suoi e gli scherni dei compagni e i giochi e le feste che volentieri aveva obliati per lei, fino a consumarsi per lei l’anima e il corpo. Ma l’Agnesina pareva ascoltare un’altra voce che le discorresse nel petto. L’ammoniva l’altra voce di non trarre a morte Rinaldo; a pensare ch’egli non aveva altra colpa che di amarla molto e che colpevole era piuttosto Guglielmo, il quale dimentico o falso non s’era trovato a prenderla fuggente di casa; a considerare come bel giovane fosse pure Rinaldo e in che onore la tenesse: perché non raccogliere il piacere che da tempo la sua giovinezza le prometteva, perché rimanere lagrimosa e confusa quando alla lieve sventura non era rimedio? Ond’ella passò il rovescio della mano sui grand’occhi molli di pianto. Ma Rinaldo, cieco e disperato di potere piegarla, irrompeva in queste aspre parole: — Meglio farei ad ucciderti perché altri non abbia mai ciò che altri ti avrebbe súbito tolto; pure io voglio che tu veda e creda a che mi hai ridotto. Or dunque tu salirai su ’l cavallo, che è docile, e andrai dove piú ti piacerà, ed io lascerò qui il mio corpo, carne buona per i corvi e per i lupi. Cosí dicendo toglieva dalla cinta il pugnale; ma l’Agnesina lo rattenne inorridita e gridò: — Rinaldo, non fate! Rinaldo rimase sospeso guardandola come uomo che sia fra la vita e la morte, come anima che dubiti fra il paradiso e l’inferno; e l’Agnesina, a cui Guglielmo Berlinghieri era del tutto uscito dalla memoria, gli gettò le braccia al collo vergognosa e sorridente e piena di desiderio e di grazia. Quando furono stanchi del piacere, s’addormentarono stretti l’uno all’altra; e sognarono d’essere cosí, stretti l’uno all’altra. III. Guglielmo Berlinghieri era tornato e ritornato piú volte alla casa dell’amante meravigliandosi del lungo e strano ritardo, finché dalla casa udí delle grida e dei gemiti, e per chiarirsi dell’accaduto s’arrestò dinanzi la porta. La madre dell’Agnesina, insospettita per lo scalpitío frequente del cavallo di Guglielmo e levatasi, aveva scoperta la fuga della figliuola; e la fantesca, che aveva udito da un pezzo la corsa del primo cavallo, scese anch’essa le scale, quasi ignara di tutto, e al veder Berlinghieri solo presso l’uscio cominciò anch’ella a piangere, a gridare _tradimento! aiuto! corri corri!_, e a dire quel che sapeva. Da che Guglielmo capí presto che il rapitore non poteva essere se non l’Imberali; e corse alla porta della città per richiedere e rimproverare i compagni. Costoro risposero: — Vedemmo un cavallo passare di trotto e non potemmo conoscere chi vi fosse sopra. Saranno lontani, ma la via è questa. — E per quella via cavalcarono tutti e tre. Quando giunsero all’abetaia, la luna, in ultimo quarto, era in mezzo al cielo. Guglielmo vide súbito il destriero di Riccardo e i tre pervennero tosto ove il lume della luna, fra i rami e le foglie, tremava sui due amanti felici. Alla vista i compagni ammiccarono e Guglielmo afferrò il pugnale; ma l’uno disse: — Berlinghieri non ferirà un cavaliere che dorme —, e l’altro, anche piú cortese, disse: — Noi non consentiremo mai che tu faccia paura a una fanciulla che giace cosí tranquilla —. E l’uno e l’altro fermarono per le briglie i loro cavalli ad un tronco; poi, come quelli che non provavano angoscia di gelosia e si sentivano tutti rotti per la corsa sfrenata, coricatisi su l’erba fresca a riposare, dopo poco, tant’alta era la quiete del luogo, s’addormentarono. Ma Guglielmo, legato egli pure il cavallo a un abete, si sedé con piú desiderio di vendicarsi che di dormire, e guardava la bella giovane dormire cosí, e avrebbe voluto ricuperarla. Se non che nessuno sa convincersi del proprio danno, ed egli voleva anche convincersi dell’innocenza di lei: forse ella aveva respinto l’amante con promesse mendaci, e nella speranza di chi la liberasse era stata presa dal sonno. E allora perché dormiva Rinaldo e dormiva con faccia gioiosa? No: la colpa della fanciulla pareva manifesta; ma essa era una povera fanciulla e degna di scusa. Degno invece di un’acerba vendetta era Rinaldo Imberali; e quale migliore vendetta dell’aspettare che l’Agnesina, risvegliandosi già pentita del fallo, corresse nelle braccia di lui, Berlinghieri? Veramente ella poteva anche opporsi all’amore antico, e con che scorno per lui, Berlinghieri! Ma Guglielmo ricordava le prove di quell’amore, e incredulo, quasi non vedesse ciò che vedeva, pensò che fingerebbe di dormire anche lui per sorprendere gli atti dell’Agnesina al ridestarsi e attendere ch’ella piú facilmente, perché non rimproverata, minacciata o pregata, tornasse a lui. Però dié tregua ai pensieri, e a poco a poco — tant’alta era la quiete del luogo — a quel suo affanno; a poco a poco sentí la stanchezza e sentí il ristoro di quel letto d’erba fresca e molle; e gli si annebbiavano i pensieri, e gli sembrava che la ragione lo aiutasse. A che penar tanto e tanto faticare per una fanciulletta senza giudizio? Non lo chiamavano belle donne a Firenze desiderose di lui? Non era da pazzo correr dietro a dei pazzi? E non era meglio dormire davvero? La stanchezza..., l’alta quiete del luogo..., l’erba fresca...; e Guglielmo Berlinghieri non ebbe piú forza di rilevare le pálpebre. IV. Alla brezza dell’alba l’Agnesina sospirò e a pena aprí gli occhi meravigliata di non trovarsi alla sua camera, nel suo lettuccio, scorse quelli che dormivano lí da presso. E Rinaldo, al muoversi di lei desto anch’egli, scorse i nemici e trasse l’arme; ma riflettendo ristette e disse: — Perché li offenderei se non hanno offeso noi? E per non offenderli, come impediremo che ci inseguano e ci raggiungano? Allora l’Agnesina gli tolse il pugnale di mano, gli fe’ cenno di tacere e leggera leggera, quasi un’ombra, corse ai cavalli degl’inseguitori e ne recise le redini; indi tornò da Rinaldo, che era già in sella, e via entrambi su ’l loro veloce cavallo. Scossi dal rumore della fuga e liberi e ricordevoli piú della stalla che dei padroni, gli altri destrieri balzarono uno qua uno là: balzò in piedi Guglielmo, al rumore, gridando, e i compagni, fregati che s’ebbero gli occhi, la prima cosa che videro furono le corregge recise; né seppero che si dire. Guglielmo tutto smarrito e pieno di rabbia quando riebbe la voce disse: — Troveranno scampo e io non potrò piú vendicarmi di Rinaldo e della sua druda! A cui l’uno dei compagni: — Piú ho da dolermi io che non riavrò mai il mio cavallo, cosí buon sangue ha nelle vene e cosí buone le gambe! Ma il secondo, il quale era miglior filosofo e di ingegno piú arguto, rise e conchiuse: — E piú di voi mi dolgo io, perché d’ora in avanti non potrò tener fede a donna alcuna s’ella non sia prima innamorata d’altri e non fugga meco per sbaglio! LA FANTASIMA Sec. XIV. Ogni vecchio marito di moglie giovane vivrebbe d’angoscia senza il conforto della religione; e messer Tonio degli Albizeni pregava molto e consumava molto tempo in esercizi spirituali, sí che, nelle ore che gli rimanevano da star con la moglie, il giorno non s’avvedeva di nulla e la notte non si risentiva di nulla. Il mondo diceva che madonna Lisa non era guardinga e che le fiammeggiavano negli occhi le voglie non sazie; ch’essa tutta cascante di vezzi trescava con questo o con quello e che poco schifiltosa variava troppo gli amori; ma messer Tonio bandiva i sospetti con le orazioni e raccomandava al Cielo la virtú di madonna: giorno e notte, nella sua camera, egli manteneva accesa una piccola lampada dinanzi un’imagine sacra; e, mallevadore il prete cui talvolta aveva espressi i suoi dubbi, quella luce valeva a garantirgli l’incolumità del talamo. Infatti nella stanza nuziale madonna Lisa non aveva peccato mai: a pianterreno c’era una camera da dormire, una camera in cui messer Tonio ospitava gli amici e in cui egli non aveva messo piú piede da quando s’era sparsa la voce che ci si vedevano gli spiriti maligni. Madonna Lisa non temeva gli spiriti, anzi non di rado li chiamava lei là dentro; pure come il marito s’impauriva leggendo nelle vite de’ santi padri le descrizioni delle orride forme assunte dal demonio per spaventare gli anacoreti e vincerne la resistenza in Dio, e recitava spesso delle giaculatorie che lo difendessero dagli spettri, madonna Lisa biascicava con lui senza ridere le giaculatorie contro gli spettri. In quel tempo era tornato a Forlí un giovane di nome Guido Morlaffi, il quale allo studio in Bologna piú tosto che a discutere il giure aveva appreso a donneare e a burlare i mariti gelosi. Di persona bella e gagliarda e di cervello balzano e sagace, in tali arti era divenuto maestro con poca fatica; e con meno fatica raccontando ai compagni le sue gaie vicende, che i compagni narravano di qua e di là, agli occhi delle donne di Forlí diveniva piú celebre che s’avesse avuta in testa tutta la glossa d’Irnerio. Ora, madonna Lisa degli Albizeni voleva esser delle prime a esaminare come messer Guido si fosse addotrinato in Bologna; né il suo era desiderio difficile da esaudire. Già egli la vagheggiava; ed ella incontrandolo per via lo guardava come persona a cui si è pensato piú volte: alla finestra l’attendeva mostrando d’attenderlo e gli sorrideva con gli occhi. Poi al sorriso degli occhi accompagnò il sorriso delle labbra; poi rispose con segni: ella vedeva, ella capiva; e sospirava. Guido Morlaffi cominciò dunque a scriverle delle lettere tutte miele e tutte fiori, quali s’imparavano solo a Bologna; e le gettava per la finestra; senza fallare. A cui, per bocca d’una servicina, la quale aveva istruita meglio a queste che alle altre faccende, madonna Lisa rispose che essa non aveva pace, tanto ardeva di lui, ma che il marito le stava sempre tra i piedi: ciò perché le donne perbene debbono far parere gelosi e feroci i mariti anche quando sono com’era messer Tonio. — Appena potrà, mi manderà a chiamarvi — assicurava la servicina. E un giorno venne a dire a messer Guido: — Messer Tonio ha paura degli spiriti, e voi? — Dove sono? — domandò il Morlaffi. Rispose l’altra: — In una stanza dove il sere non entra mai e dove madonna vi farà entrare questa notte a pena che il sere dormirà. Messer Guido sospettò un inganno e chiese: — Oh!, e madonna non ha paura lei? — Non l’avrà con voi. E il giovane promise che v’andrebbe. Né mancò all’ora convenuta; e madonna Lisa, che pareva angustiata e timorosa, quasi senza fiatare l’introdusse nella camera buia degli spiriti; e disse: — Non dorme ancora e bisogna aspettare. Cosí messer Guido rimase un pezzo ad aspettare al buio; e la donna non veniva mai, e neppure gli spiriti. Egli sbuffava e imprecava a tutti i mariti che non dormono e a tutte le mogli che non sanno addormentarli, quando finalmente udí dei passi: i passi della servicina che con in mano una lucerna veniva a dire come messer Tonio non aveva sonno. Onde messer Guido, stucco e ristucco, fece per andarsene. Ma non andò. La serva di madonna Lisa era piccoletta e rotondetta; era fresca e colorita, e a guardarla dava l’idea d’una pera già matura quando è lí che par che dica coglimi. A messer Guido, che era stucco, bisognava attendere dell’altro; e nessuna maggior noia che un’attesa prolungata per chi fra tanto non faccia qualche cosa. Che cosa fece messer Guido? Talora accade che un ragazzo nel passare presso un orto scorga una pera già matura la quale in vista da uno dei rami piú carichi e piú bassi par che dica coglimi; e il ragazzo s’arresta, guata, si delibera, salta la siepe ed allunga la mano: allunga la mano, ed ecco che il padrone gli esce addosso infuriando e tempestando. Ed ecco aprirsi la porta e comparire madonna Lisa, la quale fermatasi di botto — Buon pro’, messere —, disse. La servicina aveva messo un grido e s’era coperto il viso con le mani. E la padrona aggiunse, piena d’ira: — Ma dell’ingiuria vi pentirete tutt’e due! — E tornò indietro; e allora fuggí anche la servicina; di guisa che messer Guido rimase cosí, senz’aver còlto nulla. Della serva non gli rincresceva molto; ma molto gli rincresceva di madonna Lisa, e del bene perduto prima che goduto. A ricuperarlo — giacché voleva ricuperarlo ad ogni costo e in quella notte stessa —, egli chiese consiglio alla sua matta testa, la quale gli ricordò che messer Tonio temeva degli spiriti: indi l’idea. Subito dal letto, che là era preparato, trasse via un lenzuolo, vi s’avvolse da capo a piedi, e salite le scale brancicando ed inciampando, piano piano si diresse ove di sotto un uscio appariva un po’ di luce. L’uscio cedette all’impeto. — Uh la fantasima! — urlò, balzando, messer Tonio, il quale vegliava in orazione. A che la Lisa si rivolse, e nello scorgere il Morlaffi in tale foggia, co ’l viso deforme e gli occhiacci spiritati, quasi scoppiava per non ridere. Pure disse seria: — Io non vedo nulla — e richiuse le palpebre. — È là! È là! — ripeteva messer Tonio, e si faceva di gran croci. Nella stanza, davanti all’imagine sacra, ardeva la lucerna, ma con lume cosí tenue e fosco che tra quel lume e il buio dell’altra camera il mostro bianco, immoto e diritto su la soglia, appariva immateriale e vano al pari d’una larva. Messer Tonio guardava con terrore, ma preso dal fascino della visione sovrumana non poteva distorre gli occhi da quegli occhi mostruosi; e mentre si segnava con la destra, con la sinistra scoteva madonna Lisa perché partecipasse al suo terrore. — Vuol parlare! Parla! — egli gemeva. Lo spettro infatti allargava la bocca senza dir nulla, quasi attingesse ed aspettasse la voce di sottoterra; e con una voce che veniva da sottoterra finalmente ululò: — Ohimè, messer Tonio, ohimè! In purgatorio si sta male! A messer Tonio pareva d’essere in purgatorio; e — Odi tu? — egli gemette. — Io non odo nulla — rispose la donna —. Voi sognate. Lasciatemi dormire. — Non sei in grazia di Dio tu, e non odi nulla! — mormorò il marito; e lo spettro ululando proseguí: — Non per voi, messer Tonio, vo attorno la notte; non per voi: cent’anni andrò attorno la notte se la vostra donna non perdonerà a chi l’offese. — Perdona, perdona! — scongiurava messer Tonio. E la moglie: — Ma voi siete ammattito a leggere le storie dei Santi! Che cosa andate dicendo? — Mala femmina! — gridò l’altro vinto, nell’angoscia, dalla rabbia; e la fantasima con voce di lamentosa divenuta terribile, e con le braccia tese, terribile, comandò: — Madonna Lisa, perdonate agli offensori vostri! — Perdona, perdona! — ripeté disperato e piangente messer Tonio. — A chi? — Agli offensori tuoi! — Bene — disse madonna Lisa —, io che faccio sempre quello che volete e quel che non volete, se volete, perdonerò. Siete contento? E pareva che ella interrogasse la fantasima invece che il marito. Ma la fantasima, dopo avere aperta e chiusa la bocca senza ringraziare, perché la sua voce era tornata sottoterra, scosse le braccia come due ali e lenta e lieve, lenta e lieve sparí nel buio. Né ricomparve mai piú: madonna Lisa aveva perdonato — anche alla servicina. UN’OPERA DI PIETÀ Sec. XV. Anastasio Bonesi, uno dei mercanti piú noti a Bologna e in Romagna, aveva presa in moglie una giovane di nome Valeria, la quale era bella, di buoni costumi e cosí prudente ed accorta che nelle faccende della mercatura aiutava e consigliava essa stessa il marito. Cristina invece, la sorella di Anastasio, era vana e di poca mente, e credendosi non meno bella che la cognata e sapendosi, al paragone, meno lodata di lei, avrebbe voluto umiliarla, e per coglierla in fallo ne spiava i passi, gli atti, i discorsi. Ma Valeria attendeva ai figlioli e agli interessi della famiglia senz’altro pensiero. A Bologna viveva in quel tempo messer Anselmo Canetoli, un giovane ricco e di nobiltà antica, al quale non isconveniva una lusinghiera rinomanza nelle cose d’amore; e questi mentre con due amici, una sera dopo i vespri, andava a diporto per una contrada, imbattutosi in madonna Valeria che insieme con la cognata e con un figlioletto per mano tornava dalla chiesa vicina, si fermò ad osservarla e disse: — Ecco la piú bella donna che si possa vedere a Bologna; e io non l’avevo mai vista! — Ma è una mercantessa — disse uno degli amici con tono beffardo. — Ed è onesta — aggiunse un altro con tono ad un tempo provocatore e maligno. Messer Anselmo tacque e, quasi temesse l’accusa d’una voglia troppo bassa per lui, non parlò piú ad alcuno di quella plebea che aveva due occhi stellanti e nell’aspetto e nelle forme gli pareva avere la severità gentile di una matrona. Ma quando la impressione prima della beltà di Valeria gli si fu approfondita nell’animo e nella fantasia cominciò a ricercarne e ad accarezzarne la bella imagine, si risovvenne del sorriso co ’l quale uno degli amici gli aveva detto — è onesta — e pensò che tal fama gli scuserebbe l’umiltà dell’impresa. Si mise dunque a vagheggiare la donna e a seguirla per ogni luogo e a passare sotto le finestre di lei; ma ella non lo guardava, o lo guardava senz’intenzione. Lieta invece lo vedeva e l’attendeva la cognata Cristina, la quale convinta d’avere acceso della sua bellezza un tal gentiluomo non capiva piú in sé dalla gioia. Di che messer Anselmo s’infastidiva come d’un impedimento al suo scopo e tentava altre strade che lo guidassero ad esso. Gli bisognavano piú cose per il suo palazzo, e Anastasio lo condusse a casa sua nel magazzino; ma Valeria non c’era. Allora messere Anselmo riuscí a dimesticarsi una vecchia in cui, come parente e donna di gran religione, Valeria poneva molta fiducia, e l’indusse a chiedere a madonna Valeria perché cosí ripugnasse dal suo amore e perché, s’egli per via le rivolgeva qualche parola, ella non gli rispondesse neppure, o, se le mandava lettera alcuna, la rifiutasse. La parente sedotta dall’oro promise l’opera sua; e con molti preamboli e con lunghe ambagi cercò avvolgere il capo di madonna, non già affinché si disponesse a commettere il male, ma affinché non divenisse causa di guai a sé e al marito con quell’aspra freddezza che offendeva un signore quale Anselmo Canetoli. Non poteva essa, pur resistendo, mostrare almeno di compatirne il fervido amore? Furon parole! Madonna Valeria rispose: — Ditegli che io non gli voglio né bene né male: che io ho da attendere alla mia famiglia e a nient’altro. Lasciate che m’insidii o cerchi di farci del danno: la verità è come l’olio; e, grazie a Dio, non abbiamo bisogno delle sue ricchezze perché io debba perdere il mio buon nome dietro le sue smanie. L’impresa diventava difficile, e piú degna di messer Anselmo. Anzi lo turbarono l’orgoglio ferito e la brama acuita da quel diniego cosí placido e fermo e lo spinsero, benché esperto e avveduto, all’assalto piú audace. Co ’l pretesto di cercare Anastasio Bonesi s’introdusse nella casa di lui in ora che la moglie era sola. E alle sue preghiere e a’ suoi lamenti e all’esagerazione stessa della sua passione madonna Valeria non contrappose lo sdegno; non contrappose nemmeno l’incredulità, oppose un rifiuto freddo e quieto ma tenace e irremovibile. L’assalto fu ributtato; e la volontà del giovane baldanzoso urtando per la prima volta con una volontà piú salda non si sostenne e non insisté: egli si dissimulò la propria debolezza, rise e volle dimenticare nei sollazzi e nelle orgie quello stolido capriccio inesaudito. Ma quando piú la giocondità e i piaceri gli fervevano attorno, gli appariva piú bella la serena e severa imagine di Valeria, e quasi per i sensi disposti ad altre gioie gli penetrasse piú vivace e sottile il desiderio di quel bene perseguito invano, tutte le dolcezze gli tornavano amare, tutti gli svaghi gli recavano un’intollerabile noia. Chi ama di perfetto amore cerca con tutte le forze dello spirito e dei sensi il possesso spirituale e corporale della donna amata, e come se quel primo possesso gli mancasse non gli gioverebbe l’altro piacere, cosí quando non possa riposare e ritemprare il fervore dello spirito nella soddisfazione della carne, anche chi bene ama, soffre. Piú soffriva, disordinato amante che solo al piacere sensuale limitava l’intento dell’amore e della vita, il gentiluomo bolognese; e mentre imaginava e meditava la bellezza di Valeria, guardandola nel suo fisso pensiero, si diceva con raffinata cupidigia: — Oh! solo una volta, e poi, allora, o vivrei o morirei contento. Ma per quanto si rimproverasse d’aver corso troppo e si ripetesse che non era stato abbastanza astuto e fermo, non ardiva ritentare l’impresa: comprendeva che madonna Valeria non avrebbe acconsentito mai, per ostinazione di coscienza o, peggio, per ostinazione di natura. Cosí il pensiero di lei s’impadroní solo e assoluto della sua mente e diventò doloroso. Cosí le domande e i sorrisi dei compagni, che gli leggevano in faccia la cura segreta, a lui sembravano oltraggi; a lui che un tempo aveva nascoste le proprie fortune (giacché le fortune d’amore uscendo quasi per sé medesime dal mistero, tanto piú acquistano pregio quanto piú apparisce lo sforzo di tenerle celate), riusciva ora d’umiliazione e vergogna dover mentire e lasciar travedere un’acerba sconfitta, quasi la sconfitta d’un capitano reputato invincibile. Si sottrasse agli amici; e rinchiuso in casa s’abbandonò del tutto al suo cupo e inconsolabile affanno. L’insonnia cominciò a consumarlo e la febbre, una febbre sorda, a limargli le forze: quell’idea fissa gli struggeva il cuore, la giovinezza, la vita. Meglio morire. Ma quando sentí che l’approssimava la morte si riscosse, spaventato, in un impeto di desiderio: — Vivendo, chi sa che per grazia di fortuna non conseguisse un giorno, una volta sola, il bene per cui s’era dato alla disperazione? Ed egli sperava. Sperava e s’era ridotto a tal punto per disperazione! Delirava. Delirando, tra le forme confuse e strambe di persone conosciute intorno a Valeria, una volta sognò anche la vecchia bigotta, la parente del mercante che egli si era amicata invano; e tornato in sé stesso mandò per lei affinché ella testimoniasse a Valeria della sua misera condizione. Quella accorse, e a trovarlo piú morto che vivo capí come per suo profitto le rimaneva un tentativo solo e innocente. — Messere — chiese —, volete che madonna Valeria venga a vedervi? — Oh sí! — rispose l’infermo —. Mi potrebbe guarire! Poco dopo la vecchia diceva a madonna con aria di severità: — Valeria, tu sai che messere Anselmo muore per amore di te. Per la sua pazzia Dio lo castiga cosí; ma noi non dobbiamo godere che abbia del male chi intendeva farci del male: dobbiamo perdonare e venirgli in aiuto. Io l’ho visto, l’ho udito, e per l’amore dei tuoi figliuoli e per l’amore di Dio egli ti chiede d’andare da lui. Vuoi acquistarti del merito visitando un infermo e perdonando a chi cercava tirarti al peccato? E tu va. Non vuoi? E tu mettiti in pace con la coscienza e rimani. Valeria tacque a lungo, riflettendo; poi sospirò e disse: — Voi avete ragione: bisogna che vada. — E incaricatala di tenere in ciarle Teresa e di badare ai figlioli, si vestí in fretta e uscí di soppiatto. Intanto Anselmo attendeva, ma la speranza stessa gli era una fatica e una pena; e una sonnolenza grave e fantasiosa l’avvolse. In questa egli vide la morte. La morte, quale con freddo terrore da fanciullo aveva spesso considerata dipinta, tutta ossa, con uno sguardo nero nelle orbite cave e profonde e con un infernale sorriso tra le mandibole lunghe e dentute, s’avanzò scricchiolando con la mano tesa, quasi per toccarlo su ’l cuore, e pareva che dicesse: basta! Egli si ritraeva con terrore freddo, gemendo. Ma la mano del mostro ricadde; dalle orbite cave gli lampeggiò una vivida luce come di due occhi di donna, e per virtú di tal luce lo scheletro a poco a poco rivestí umane forme e di donna innamorata ricevette a poco a poco la sembianza, il colore, il sorriso e una meravigliosa bellezza. Al portento, l’infermo dié un grido di gioia; e scorse china su lui madonna Valeria. — Messere — ella diceva —, voi avete vinto il piú duro assalto del male. — E gli tergeva la fronte soavemente. — Dio vi rimuneri il beneficio — mormorò Anselmo, che si sentiva alleggerire e ristorare da una forza rinnovatrice di tutti gli spiriti. — Quel giorno foste cattiva...; oggi, no. La donna arrossí e disse: — Volentieri sono venuta a vedervi; ma che cosa posso fare di piú? Alla dimanda il viso di Anselmo tornò sofferente ed egli rispose: — La mia vita è la vostra —. E aggiunse: — Se mi contentaste solo una volta, dopo non mi vedreste mai piú, non udreste mai piú cosa alcuna di me. — Voi non pensate all’anima vostra — ribatté la donna —, all’anima mia! Anselmo ripeté: — La mia vita è la vostra. Per Cristo morto in croce, non dovreste ammazzarmi! Tacquero; indi l’ammalato sospirò: — Lasciatemi dunque morire —; e abbassò le palpebre rifinito. Madonna Valeria ebbe paura: cosí, con gli occhi chiusi, nella penombra, l’infermo pareva un cadavere; e a lei in quei minuti lunghi di angoscia sembrò di sentire su la coscienza il peso del delitto che ancora non aveva commesso. Ella si dibatteva perché non voleva fallare, e avrebbe voluto concedere il bene invocato. E mentre pensava udiva l’affanno di Anselmo. — «Cedendo il corpo non salvava forse un uomo? E non cedendo l’anima chi avrebbe potuto incolparla d’infedeltà?» Sopraffatta da questo pensiero e vinta, disse con voce tremante: — Messere, fra un mese, se vi sarete rimesso, la sera del sette settembre, che mio marito deve andare a Firenze, verrete da me: vi prometto che v’aspetterò al portone dell’orto. Ma giuratemi che non mi cercherete mai piú. Anselmo Canetoli giurò lieto il patto che gli salvava la vita. — Egli avrebbe, dopo, abbandonata Bologna per sempre. Ma appena fuori di quella camera e di quella casa, quasi al lume e al rumore della strada ricuperasse la conoscenza e la misura della realtà e s’accorgesse d’essere stata còlta a un inganno, madonna Valeria sentí il turbamento, l’amarezza, il rimorso del fallo in cui era caduta, e giunta a casa sua, piena d’ira e smaniosa cominciò a raccontare alla vecchia ciò che pur troppo aveva fatto e che pur troppo aveva detto. La parente dissimulava la sua gioia tra le esclamazioni e i sospiri e la confortava. — In tal caso strano chi si sarebbe comportata altrimenti? Dio il quale perdona le colpe piú gravi, doveva perdonarle la colpa leggera che aveva e avrebbe commessa a fine di bene; — e, confortandola, per curiosità le chiedeva tuttavia particolari del fatto e spiegazioni, per cui apprese fino il giorno e il modo stabilito al convegno. Anzi l’appresero in due, giacché Cristina, che aveva vista la cognata uscire pensosa e tornare con in faccia il segno d’una sventura, fiutando il mistero s’era messa ad ascoltare dietro una porta, e, come accade sempre a chi ascolta di nascosto, imparò e indovinò proprio quello che meno s’attendeva e voleva. Non di lei, ma di Valeria messer Anselmo era stato ed era preso al punto che Valeria, per compassione di lui, avrebbe tra un mese disonorato il marito. Arrabbiata pertanto e sconvolta dall’odio, deliberò vendicarsi; e la sera di quel medesimo giorno rivelò al fratello tutto quanto aveva appreso. Anastasio alle parole di lei rimase come a un colpo di mazza nella testa; ma tosto si riebbe e si contenne; finse di non credere nulla; minacciò la sorella che guai a lei se ripetesse ad alcuno una tale istoria, e, cosí gli premeva il suo nome e cosí poca fede aveva nella segretezza e nella benignità di sua sorella, pochi giorni dopo la mandò a Pianoro presso un cugino. Quetato in questo, Anastasio, che della parente non dubitava, poté cercare il partito piú acconcio per impedire che la moglie gli fallasse e nel medesimo tempo per sorprenderne l’intenzione maligna di cui voleva punirla; per scoprire la verità, ma anche evitare uno scandalo e, non essendo uomo uso a spada o a pugnale, evitare danni piú gravi. E dopo molti disegni risolvette di travestirsi e di penetrare egli nell’orto prima dell’amante, la sera del convegno. Oh come trascorrevano lenti i giorni pe ’l povero uomo, e che fatica durava a celare il suo travaglio! E madonna Valeria penava al pari di lui. Ma non è donna cosí onesta che non volga l’animo, sia pure in fugaci abbandoni, agli stimoli e alle lusinghe della colpa, ed essa udendo che messer Anselmo aveva ricuperato vigore e salute e già usciva di casa, non poteva non sentire in sé stessa il merito di averlo guarito e non pensare che molte belle donne ne sarebbero state orgogliose. Pensieri cattivi; e per scacciarli ella ricordava Anastasio e l’amore di lui; e cosí ricordava anche il torto della sua brutta promessa: onde con la ragione combattuta e la coscienza affannosa, o non dormiva, la notte, o non dormiva tranquilla. Venne, come a Dio piacque, la mattina del giorno temuto da madonna Valeria, sospirato da Anselmo Canetoli e maledetto da Anastasio Bonesi; e questi, detto addio alla moglie, con tutte le sue robe se n’andò in un luogo poco lontano ad aspettarvi l’ora di tornare travestito a casa. Valeria socchiuse il portone dell’orto per tempo. Ma il diavolo, che spesso si diletta di trascinare con disagio ai suoi fini, mandò proprio quella sera due mercanti romagnoli in cerca di Anastasio Bonesi; e la donna, conforme il solito, dovette ospitarli in casa sua. Preparata loro la cena, ella uscí, e scorta l’ombra che supponeva l’amante, gli si accostò risoluta dicendo piano: — Messere! Egli tese le braccia. Ed ella: — Siete guarito? Anastasio rispose come meglio seppe, ma non cosí piano e non con tale simulazione e sicurezza che con súbito orrore la donna non scoprisse in lui il marito. Nondimeno, riponendo la sua salute nella sua sagacia, essa rifletté un istante e riuscí a contrapporre un inganno all’inganno: pregò l’altro di pazientare che certi suoi ospiti romagnoli andassero a letto, sicché senza sospetto lor due potessero restare insieme. E l’introdusse nel magazzino, che chiuse a chiave; indi corse nell’orto; aprí il portone, dietro il quale Anselmo Canetoli già imprecava alla lealtà delle donne, e facendogli segno di tacere e di seguirla, lo condusse in una stanza vicina, dove l’affrettò a liberarla dell’obbligo suo. Ma come chi riarso di sete in un dí canicolare brama un bicchiere di acqua attinta appena dal pozzo, e se può averla, l’inghiotte avidamente e ne domanda dell’altra, Anselmo Canetoli avrebbe voluto bere ancora ancora alla coppa della voluttà; e madonna Valeria, ch’era piena d’ira perché Anastasio aveva dubitato di lei e aveva tentato di superarla in astuzia, e, d’altra parte, sentiva di qual gioia aveva confortato il suo amante, pensava: — Quanto bene mi vuole! Mio marito che ha tal fede in me, si meriterebbe che non lo lasciassi andare. — Cattivo pensiero, che ella respinse con molta fatica. Poi disse: — Messere Anselmo, mantenete la vostra parola: andate, e non pensate piú a me. Anselmo sospirò, la baciò e, vincendosi, le ripeté ch’ella non l’avrebbe mai piú riveduto ma che egli l’avrebbe ricordata in ogni luogo e per sempre. E partí. A Valeria restava da pacificare il marito, e non solo per salvezza di sé, ma anche per conforto di lui; né fu certo il desiderio di vendicarsi che le consigliò uno strattagemma crudele. Non trovò miglior strattagemma; e tutt’angosciosa corse dove erano i mercanti e disse loro: — Messeri, ajutatemi! Un giovane, che mi sta attorno da un pezzo, ora è qui in casa con mala intenzione. Voi gli insegnerete a non disturbare le donne degli altri. I due balzarono in piedi ed essa li accompagnò al magazzino dove entrati, quelli gridarono: — Ah cane! Ah vigliacco! Ti daremo noi l’andare attorno alle donne degli altri! — e, secondo il costume dei romagnoli, non avevano finito di minacciare che già tempestavano Anastasio di pugni e di calci. Per farsi riconoscere, il misero gridava bestemmiava pregava, e fu riconosciuto dopo che era ben pesto; ma i mercanti non lo riconobbero con meraviglia minore del vederlo fra le braccia di madonna Valeria demandando perdono e chiamando sua moglie la piú virtuosa e piú saggia donna del mondo. Madonna Valeria si fingeva stordita e chiedeva: — Come siete voi qui? E quello a cui doveva capitare ciò che purtroppo è capitato a voi? — Sta sicura — rispose allora Anastasio: — ho chiuso io il portone dell’orto! Cosí, finalmente, madonna Valeria poté dormire tutta una notte d’un sonno tranquillo e pieno e riposare la sua buona coscienza nell’opera di pietà, la quale aveva compiuta: non quella d’aver convinto in tal guisa il marito della sua virtú per risparmiargli la gelosia e la certezza del disonore; — non quella: l’altra. PASSIONE D’UN GENTILUOMO VENEZIANO Sec. XVI. I. _Lettere di due amanti._ Il magnifico gentiluomo Alvise Pasqualigo, tornato dopo lunga assenza a Venezia, incominciò con lettere impronti e frequenti ad esagerare a madonna Vittoria, come ogni amante che s’accinga a una difficile conquista, la forza e le pene della sua passione: per non darle noia, sette anni era rimasto lontano da lei; tre anni aveva errato pe ’l mondo in vana ricerca di svaghi: sperando che ella almeno gli concedesse di svelarle a voce alcuni segreti, con le fiamme nel cuore era tornato in patria. A messer Alvise, buon amico d’infanzia, Vittoria, la quale era moglie ad un giovane conte, rispose per lamentarsi ch’egli le mandasse delle ambasciate affidandole a servi: «La mia professione è sempre stata ed è di donna d’onore, né mai mi sarebbe caduto nell’animo, che voi aveste usato meco sí fatta discortesia. Basta, pazienza, non resterò per questo di amarvi quale fratello....» Ma Alvise meritava scusa, e le scriveva: «Che cosa posso far io, infelice, per disacerbare il dolore ch’io sento dell’amarvi senza mercede? E s’io non vi facessi, per qualche vostra donna di casa, intendere i tormenti che per cagion vostra sostegno, in che modo potrei io vivere? Deh, anima mia, non vi sdegnate s’io paleso parte di quell’ardore, il quale non potrei se non con grandissimo pericolo della mia vita tener nascosto. Ma se m’astringete co ’l comandarmi, son contento d’obbedirvi.... Ben vi prego a concedermi tanta comodità ch’io vi possa parlare, o vero a dimostrarmi il modo di darvi alcuna lettera....» Or dunque come la contessa scongiurava invano messere Alvise ad esser prudente, a non mostrare il suo ritratto ad alcuno, a non discorrere con alcuno di lei, a non mandarle ritratti perché non voleva esser scoperta; come, non crudele quale egli la chiamava, poteva dirgli in coscienza: «Io vi amo, il che mi pare che non sia male, nascendo dall’amore ogni buona operazione», qual fallo mai avrebbe commesso concedendogli di parlarle, dietro la porta di casa, una sola volta? Cosí, per quel primo onesto colloquio e per le lettere che Alvise le inviava ardentissime, doveva penetrare nell’animo di madonna una gran dolcezza d’amore puro, una gran compassione pe ’l nobile giovane innamorato: e quando lo seppe infermo in villa, gli scrisse tutta amorosa che cercasse di venire a Venezia per rimettersi piú facilmente; e poi, piú tardi, gli si mostrava ammirata «dello splendore che senza pari ritrovava in lui», e per lui pregava il Signore: anche accettava e gli mandava e gli chiedea dei piccoli doni. Ma Alvise non viveva lieto, né la promessa di lei, che «se è vero che di là come di qua vi sia amore, e si ami, esso mio spirito in Cielo vi godrà», gli arrecava bastevole conforto; e avrebbe voluto tornare a discorrere con lei. Temeva ella nella dimanda ostinata un’insidia, e disperando che l’amore di lor due rimanesse «giusto fedele e onesto» com’era incominciato, minacciò Alvise di rifiutare le sue lettere: «Conosciuta la vostra disonestà, mi sono spogliata di quell’amore ch’io vi portava....» A che, disperato, egli: «Poi che tanto vi piace che dal mondo mi toglia, son contento di soddisfarvi. E perciò mi risolvo, con la prima occasione, d’andar in luogo tanto lontano che secondo il desiderio vostro finisca i miei giorni.» E madonna Vittoria, pentita e impaurita, un giorno l’accolse in casa furtivamente: fu quello il giorno della colpa. Da quel dí in avanti le lettere di madonna Vittoria si susseguirono piene di amarezza, di tristezza profonda, che derivava, piú tosto che dai rimorsi, dal rimpianto pei lunghi piaceri cui libera avrebbe potuto gustare; dall’amore stimolato, esasperato dalla bramosia sensuale; dal timore, quasi dal presentimento che tra breve Alvise si sarebbe stancato di lei. Dopo ciascuno dei gioiosi convegni, che consentiva l’assenza del marito, ella piangeva: «Come foste partito mi gettai nel letto, e con gli occhi del corpo (benché co ’l pensiero a voi) m’addormentai: indi a poco svegliatami e ritrovatami senza di voi, cominciai a pianger sí forte che s’io non mi fossi nascosta sotto la piega del letto averei senza dubbio svegliato ognuno di casa.... La maninconia m’è sí cresciuta che mi sento uscir fuora l’anima....» Di lui era compresa cosí intimamente che a ripensarne le parole ne riudiva la voce e dalla voce ne riacquistava la sensazione intera: essa si deliziava a martoriarsi finché si abbatteva in una mortale angoscia. «Da quell’ultima ora che mi parlaste fino a questa si è cresciuta in me la confusione, ch’io non so piú quello ch’io mi faccia. Le vostre dolcissime parole mi sono rimase cosí vive nella memoria che, se talor chiudo gli occhi, parmi di vedervi e di ragionar con voi; il che è cagione che molte volte stendo le braccia per abbracciarvi, e mi ritrovo ingannata. Onde destatami, vergognata di me stessa, sento tanta passione che mi è forza di desiderar la morte per uscir una volta di pene.... Troppo grave tormento è l’aver desiderio di cosa amata piú che la propria anima, e vedersene privo senza speranza di poter già mai per lunghezza di tempo goderla!....» Né conosceva ancora le pene della gelosia; ma quando il marito tornò e cominciò a sospettare e già alcuno dei vicini e dei conoscenti mormorava della loro tresca, dovettero contenersi e non vedersi che di rado. Quali altre donne vedeva Alvise? Ove passava il giorno? A che feste si recava? Messer Alvise pareva tuttavia appassionato; e per andare da madonna, avvertito da segnali di richiamo, sfidava la vigilanza del marito e degli altri, e giurava che tra le braccia di lei, nel tripudio dei sensi e dell’animo, si sentiva davvero felice. Felice era essa pure in quei momenti, anche perché si vendicava del marito il quale, mentre ella era con Pasqualigo, «stava a piacere con altrui»; ma l’invidia e la viltà la privarono pure di consolazioni sí fugaci. Lettere anonime persuasero il conte che la moglie lo tradiva e tentarono persuadere madonna Vittoria che era ingannata dall’amante: il Pasqualigo ebbe minaccie di morte entro il termine di otto giorni se si ritrovasse ancora una sera con Vittoria; e madonna soffriva d’una gelosia divenuta un incomportabile tormento. Invano egli tentò di assicurarla che solo per nascondere il vero amore simulandone un altro corteggiava altra donna, giacché ella dubitava ogni giorno piú e ripeteva di volere uccidersi; ella che già per amore di lui non s’era curata né «di parenti, né di fratelli, né di padre, né di figliuoli». — «Ma ditemi — egli le scriveva per frenarla —: vi piacerebbe ch’io trasportato dall’appetito e rotto ogni freno di ragione, venissi con forza a levarvi di casa per torvi di mano di chi potrebbe tor la vita a voi? O pure vi piacerebbe ch’io, spinto dal desiderio della salute e contentezza vostra, uccidessi _lui_, onde mi convenisse poi d’esser eternamente separato da voi, la qual dite che prima di me morireste?....» I pericoli infatti aumentavano con l’aumentare dei sospetti nel marito, il quale proibiva alla moglie finanche di stare alla finestra, e fino a un amico dava incarico di osservarla: a un certo Fortunio. Costui già da tempo aveva saputo che un ritratto di Vittoria era in possesso d’Alvise; piú d’una volta era stato su ’l punto di sorprendere gli amanti; forse egli era stato l’autore delle lettere anonime e forse quegli che aveva trafugato a madonna un pacchetto di lettere: di madonna era lui pure acceso. Oltre Fortunio spiava Vittoria una ribalda, cognata o suocera. E il marito «tutto il dí gridava seco dicendole: io ti darò tanta mala vita che ti farò anzi ora morire —» Essa era incinta. Non le era permesso svago alcuno; e, «per essere priva di ogni conversazione, e, si può dire, confinata in casa, le conveniva pensar sempre di quella cosa che piú le era cara»; e cosí la violenza dei desideri diveniva in lei uno spasimo, una frenesia. «Ieri vi vidi in strada, e mi venne rabbia grandissima di baciarvi, onde mi sentiva morire, e credo certo che se _lui_ non era in casa, io era sforzata, rompendo ogni velo di onestà, di chiamarvi ad alta voce — In somma, questa nostra vita è troppo aspra e mi pare quasi impossibile di poterla vivere lungo tempo.... «Misera e disavventurata! A che termine sono giunta per amore, dal qual non può o non dovrebbe nascere altro che buoni effetti e pur in me non provo altro che passioni, tormenti e morte; e se pur io potessi finire — sí come tante volte ho desiderato e ora vie piú che mai bramo per le disperazioni che nascono in me dal non potervi abbracciare — sarei contenta....» «Bisogna frenare gli appetiti, e scacciare certi pensieri dannosi» — esortava Alvise co ’l tono dell’amante che può riflettere dopo essere stato soddisfatto. I mesi, intanto, passavano; e madonna Vittoria sfogava appena per lettere i lunghi e duri affanni: «.... Questo crudel matto di mio marito non cessa di contrastar meco tutto il dí.... Durante il parto.... io ho avuto disagio d’un uovo fresco.... Ma non manco al bambino di cosa alcuna...., né posso pur patire di dilungarmi punto dalla cuna per non lasciarlo piangere....» Alle sofferenze di lei Alvise adduceva conforto di parole; e, una volta, per parlarle si vestí da donzella e, accompagnato da una donna, si pose in chiesa, alla predica, nella stessa panca di lei; ma poi, sospettato uomo, fu costretto ad uscire: un’altra volta, mentre stava discorrendo con Vittoria, essa fu sorpresa da uno di casa e acerbamente sgridata e minacciata di morte. In tale guerra, con troppo brevi tregue, l’amore di messere Alvise si raffreddava e nell’inquietudine e nei pericoli (egli doveva guardarsi da’ sicari; e certo giorno ferí tre che l’assalirono per via, e non azzardava ad andar fuori che accompagnato da tre gentiluomini: madonna Vittoria temeva che il marito l’avelenasse) le doglianze e i raffacci degli amanti divenivano piú acerbi e piú frequenti. Per lei Alvise «aveva dispregiati gli onori della sua repubblica; per lei aveva messo a rischio l’onore offendendo, percuotendo e ferendo non solo uomini e donne di basso stato, ma di sangue nobile e alto: l’amò per tutta la vita attendendo il guiderdone della divina maestà!» E Vittoria, di rincontro: «Le vostre crudeltà sono tante e tante che meritano che ciascuno le fugga!» Alla fine egli le scrisse che per non accontentare i suoi, i quali volevano s’ammogliasse, partirebbe da Venezia: essa lo scongiurò che rimanesse, magari s’ammogliasse, e lo minacciò: «Vi avvertisco bene che vi potreste ancora chiamar pentito; e tenetevi a mente queste parole perché si verificheranno». — Ed egli rimase, e n’ebbe premio di brevi gioie. Ma poi, d’improvviso, si decise ad andarsene. Ella fe’ giuramento di morte o libertà dal suo amore; egli disse: — morrò ma parto —, e partí davvero. II. La lontananza parve spegnere affatto l’antica fiamma nel cuore di messere Alvise; ma bastò ch’egli ritornasse a Venezia perché la vista di madonna Vittoria gli ravvivasse nell’anima, dalle poche faville che v’erano rimaste, tutto il fuoco d’un tempo. Se non che trovò madonna Vittoria cambiata al bene e molto sicura contro le tentazioni nella sua virtú. «Mentre che siete stato lontano (essa gli scriveva), per non perdere l’anima insieme co ’l corpo...., ho pregato Iddio che rompa il fisso pensiero che di voi avea.... e fui esaudita....» Egli non credette. Ed essa: .... «Io conosco il vostro amore verso me fuori di ogni mio merito ardentissimo, e confesso d’aver ricevuto da voi tanta quantità di cortesia, che quando anche spendessi mille volte la vita per voi non pagherei la minor di quelle; ma perché io mi sono deliberata di voler rimettere tutte queste vanità corporali, rivolger l’animo a Dio e riconoscerlo per mio Signore vivendo vita cristiana, confessandomi e comunicandomi ai tempi ordinari, vi prego che non vogliate romper questo mio proponimento co ’l molestarmi ogni ora con vostre lettere....» Egli non le credeva ancora, e sollecitato dal rifiuto voleva riaccenderla e ridestarne i sensi evocando i ricordi con tutti gli artifici del suo miglior stile di poeta: «Deh, anima mia, riduciamoci a memoria il piacere che da’ nostri cuori fu sentito quando eravamo insieme. Ricordiamoci del raddoppiar de’ baci nelle partenze, delle voci da caldi, spessi e non lunghi sospiri interrotte; del pender collo a collo, e dei giuramenti, e delle promesse fatte di viver sempre nell’oggetto amato. Sovvengaci del vegghiar notti intere, né si partano già mai da i nostri cuori le lagrime calde e amare che talora e per allegrezza e per timore erano sparse da gli occhi nostri e poscia raccolte dalle labbra amate....» Invano: non pentimento, non rimorsi l’avevano cambiata cosí, ma la colpa di lui che era stato lontano quattro mesi e non le aveva scritto neppure una lettera; e non s’era cambiata cosí, come diceva: ella aveva un amante. Un giorno Alvise non seppe, vide che nell’altana ove si biondeggiava i capelli al sole, ella accoglieva Fortunio. Fortunio lo scrittore delle lettere anonime! Fortunio il delatore! Essa negò! Ma Fortunio per vanagloria e paura a un tempo disse al Pasqualigo: — è vero —; e lei stessa, madonna Vittoria, l’aveva tratto a lei. Madonna Vittoria dovè confessare, e confessò senza vergogna, con audacia, con impudenza: «Voi sapete che vi partiste contra mia voglia e ch’io rimasi tra tanto duolo che come morta me ne giacevo nel letto; onde alla fine disperata, veggendo che non vi curavate né anche di consolarmi con una semplice carta, caddi in tanta gelosia, ch’ebbi ad impazzire e mi risolsi, vedendo il mio male senza rimedio, di oprar ogni sorte di malia per liberarmi di tante angoscie. Ma ragionato sopra di ciò con una mia amica, fui consigliata a lasciare quello e a fare elezione d’altro amante, e tante belle ragioni mi furono dette da lei e tanto instabile e crudele mi foste dipinto, che facile cosa fu il farmi accostare alla sua opinione. Risoluta adunque di vendicarmi per questa via e di liberarmi insieme da tante noie, attesi l’occasione, la quale non sí tosto mi venne ch’io l’abbracciai nel modo ch’avete inteso da quel crudele, che piú tosto dovea patir morte che confessarvi le cose passate tra lui e me.... Ma pazienza! La mia fortuna ha voluto ch’io spenga affatto l’amor vostro e sí m’accenda di lui che non abbia mai requie....» Pazienza! Ed essa perdonava a quel perfido: l’amava, e nell’amore nuovo e nell’abiezione non avrebbe avuto piú un pensiero, una parola, uno sguardo per Alvise Pasqualigo! Alvise non sopportò l’abbandono deciso ed assoluto della donna che aveva amato troppo e troppo a lungo; non volle rassegnarsi alla vendetta di madonna Vittoria; non si riebbe, e la gelosia travolse nel fango l’anima sua e la dignità d’un uomo. Nessun innamorato fu mai un mendico cosí sordido come Alvise Pasqualigo, il quale scriveva di tali lettere: «Se voi vedeste com’io sto, forse che m’avreste compassione, se ben pochissimo mi amate. Di grazia, trovate modo ch’io possa darvi alcuna lettera, che so ben io che avete molte comodità. E se è possibile, sí come io son certo, fate ch’almeno per una volta sola io venga a voi (non dico ad abbracciarvi, ché troppo indegno mi giudicate e troppo vile mi tenete), ma ch’io venga a baciar la terra dove voi tenete i piedi...» Madonna Vittoria, senz’altro, gli rimandava i ricchi doni, le sue lettere, il suo ritratto. Ed egli: «O mio amore infinito, o donna ingrata! E qual altro sarebbe stato quello che non avesse scoperto al mondo i vostri tradimenti acciocché foste stata conosciuta per quella che sete? Voi meritavate pure ch’io scoprissi il vostro adulterio a vostro marito....; ma io non voglio che la fragilità del vostro petto e l’errore di donna poco savia mi faccia far atto indegno di me. Anzi tanta discortesia che m’avete usata voglio ricompensar con doppia gratitudine procurando fino co ’l proprio sangue di coprir la vostra vergogna.... Voglio che conosciate l’amor mio vedendo ch’io non posso patire di vedervi patire danno o vergogna alcuna: anzi per accrescer il vostro contento e acciò che voi possiate godervi il vostro amante, voglio esser cagione che vostro marito vada a star fuori qualche giorno. Vi avvertisco bene e vi prego ad operar piú cautamente di quello che fate, perché non vi è alcuno in quelle contrade che non sappia il modo che tenete per raccoglier i vostri amanti nelle braccia....» Proprio cosí: egli «voleva essere il mediatore a’ suoi diletti e procurar comodi alle sue dolcezze, contentandosi, in premio del suo lungo affaticare, che il bene che gli toglieva la sua crudeltà privandolo di lei, gli fosse concesso dal vedere che per suo mezzo godeva felice....»; contentandosi «di essere amato da fratello, pur che talora gli fosse concesso di vederla e di ragionarle con quell’amore che sogliono i fratelli famigliarmente....» Per prudenza essa permise questo, e un giorno che voleva andare nell’altana passando di tetto in tetto egli fu preso a sassate come un ladro: come un mortale nemico era odiato da madonna. «Voi, secondo ch’io bramo, vi lasciate vedere ogni giorno, ma vi mostrate sí colma d’orgoglio che men noia mi apporterebbe il non vedervi. S’io vi saluto, voi vi volgete ad altra parte; s’io vi parlo, sorda e muta vi mostrate; ond’io posso dire, e in verità, d’essere odiato a morte....» Peggio: era burlato. «La mia mala fortuna vuole che io abbia gli occhi d’Argo acciò ch’io vegga la cagione della mia rovina. Son contento, poi ch’altro non posso, che voi m’inganniate, ma che i vostri amanti mi burlino, non patirò già mai. Se gli avete cari fate che mi lascino stare e che si contentino di godervi....» Troppo a basso era caduto: un impeto d’ira contro l’amante, se non contro la donna, se non contro sé stesso, non avrebbe potuto scuoterlo e sollevarlo? No: una volta a vedere madonna Vittoria alla finestra con faccia ridente e Fortunio sotto, che le rispondeva, «spinto da furor geloso» e attaccata questione, ferí il drudo, ma scongiurò Vittoria che gli perdonasse! Il qual fatto atterrí la donna e l’indusse a posporre il nuovo amore al terrore dello scandalo e dell’infamia. Rispose: «Il solo rispetto mio doveva por freno ad ogni vostra voglia, né amandomi doveva aver maggior forza lo sdegno che l’amore; ma poi che le cose passate non hanno rimedio e che mi chiedete perdono, io ve ne faccio grazia....» L’invitò a sé: «Anima mia, vi prego che veniate a me quanto prima potete perché io mi sento morire per desiderio di vedervi....» E, per convincerlo, gli mandò fino copia della lettera con cui diceva addio a Fortunio e in cui Alvise poté leggere di queste cose: — «Ho ricevuto ieri una vostra lettera, né tale io credeva vederla. Pazienza! La mia mala fortuna sempre m’aggiunge angoscie agli affanni che mi tormentano acciò sempre misera e infelice io viva.... Appena posso credere alla vostra mano e agli occhi miei perché troppo sicura viveva del vostro amore. Ora, mancatami ogni speranza né trovando alcun rimedio a’ casi miei, voglio farvi conoscere quanto vi ho amato; del che buonissimo testimonio vi potrà essere l’aver veduto che io ho consentito alle vostre voglie; cosa ch’io non volsi già mai concedere ad altri.... Voi potreste rispondermi che non mi pregaste ad amarvi e che voi, mosso dai miei lamenti, per non mi dispiacere avete voluto compiacermi e che non amore o qualità vostre m’indussero ad amarvi con tanto affetto, ma solo un istinto naturale di femminil cuore, che solo appetisce ciò che le vien conteso, mi sforzò a questa servitú.... Io vi replico che m’abbandonai ad amarvi vinta da certe qualità che mi pareva di scorger in voi....» E finiva: — «Mentre avrò vita vi averò nel mio pensiero....» Allora, solo allora il Pasqualigo sentí tutta la depravazione di madonna Vittoria e l’abiezione sua e gli parve di capire tutta la falsità di lei che, come aveva mentito con lui prima e con l’altro dopo, adesso mentiva di nuovo seco: non rifletté che s’ella era cosí corrotta la prima colpa ricadeva in lui; non ricordò che per amor suo madonna aveva pianto, e con un pretesto spezzò l’ignobile legame. La disse Messalina e Pasife e agli oltraggi aggiunse l’accusa ch’ella avesse incaricato un sicario d’ammazzarlo. Egli era salvo. E con le sue pubblicò le lettere di lei. LA DAMA FALLACE Sec. XVII. I. Mentre il duca Odoardo Farnese, i Francesi e il duca di Savoia assediavano Valenza, don Alfonso della Torre, il quale era tra gli ufficiali d’Odoardo, ricevette la notizia che suo zio il marchese di Cortemaggiore era morto lasciando a lui, come a giovane savio ed a nipote affettuoso, ogni suo avere; ond’egli, da nipote affettuoso, dimostrò un ineffabile dolore, e da giovane savio deliberò tra sé di godere al piú presto di quella fortuna inattesa. Infatti appena i collegati ebbero tolto, per disperato, l’assedio, egli corse a Parma, ed ivi diede tosto troppe prove di prepotenza e di grandezza: capestrerie, fastosi sollazzi, amori, brighe, soprusi. Né continuò poco cosí; ma quando il duca fu uscito dai travagli della guerra e riprese il retto governo dello stato, chiamò a sé, un giorno, il giovane e turbolento cavaliere e gli propose il dilemma o d’ubbidire alle sue leggi per restare in Parma, o d’andarsene da Parma per non ubbidire alle sue leggi. A ciò don Alfonso avrebbe dovuto rispondere co ’l sussiego che gli conveniva: — Altezza, io possiedo anche un feudo fuori delle vostre terre —; eppure, trattenuto da certa sua riflessione, egli chinò il capo e tacque. Di che meravigliandosi e dolendosi quasi di un’umiliazione sua il conte Gabrio Gabrii, che gli era intimo amico, gli disse Don Alfonso: — Oggi capirai che se io metterò il giudizio a posto non sarà tutto merito di Sua Altezza. E nel pomeriggio, condotto l’amico al giardino della sua casa, da un punto dal quale si scorgeva chi era nel giardino attiguo disse a bassa voce: — Guarda! Una dama leggendo un libro passeggiava all’ombra; e come fu condotta dal sentiero presso il muricciolo di confine, levò gli occhi e al profondo saluto che le fece don Alfonso risalutò, senza ristare, con garbo signorile. Una dama bellissima. Il Gabrii sorrise, attese ch’ella si fosse allontanata ed esclamò: — Varrebbe la pena di mettere la testa a posto; ma io credo che tu, questa volta, la perderai del tutto! II. La dama posò il romanzo. Nella sua mente piena di quell’avida lettura le viragini e i cavalieri continuarono a scambiare colpi di spada e prove eroiche e i príncipi a perseguire le donzelle traverso strane e confuse vicende di battaglie, di rapimenti e di naufragi; ma nel suo cuore, dai discorsi piú galanti e dalle pagine piú sentimentali, era penetrata una tentazione sottile, un’eccitazione dolce ad un amore tuttavia sconosciuto. Fanciulla quasi l’avevano data in moglie a un cavaliere milanese, tanghero e geloso; a pena vedova i congiunti del marito, per carpirle una parte dell’eredità, l’avevano rinchiusa a forza in un convento, e da poi che era fuggita dal convento in casa della vecchia dama che le voleva il bene d’una madre, il Palmenghi figlio della dama, per non essere compromesso e per sottrarla all’ira dei congiunti, la costringeva a una vita peggio che di chiostro. O piú tosto, invaghitosi di lei, il Palmenghi aspettava agio di sposarla? Da Scilla in Cariddi!; e altro confortatore della sua giovinezza sognava Domitilla (questo il suo nome): ella sognava una grande passione che le consentisse il dominio dell’amante in guisa d’aver poi uno schiavo in suo marito; e il Palmenghi era un geloso carceriere quando ancora non le aveva proposto di sposarla! Sospirando, Domitilla riprese il libro. Ma il suo pensiero oramai ripugnava dalla lettura e seguiva imagini sue, un’imagine che da alcuni giorni cercava il suo cuore e l’accarezzava per entrarvi; e don Alfonso della Torre, il giovine e bello e perfetto cavaliere di cappa e spada, le sorrideva con un inchino profondo di saluto. Ella non aveva il dubbio di non piacere a don Alfonso della Torre: anzi s’era avveduta che la corteggiava; ma, quando pure le riuscisse innamorarlo, riuscirebbe al piú, a divenirgli moglie? Divenirgli moglie! E la sua fantasia correva, correva. Egli era ricco e superbo; onde una gloria l’avvincerlo e una fortuna il possederlo. Se non che lo dicevano anche intemperante, violento, infido colle donne, e non le conveniva disgustare il Palmenghi per avventarsi a una speranza incerta e a un pericoloso tentativo. Rifletté, poi levandosi risoluta e sicura: — A innamorarlo — pensò — basta la bellezza; lo avvilupperò con l’arte e con l’inganno e avrò lo schiavo! E si guardava nello specchio della sala: era bellissima. III. La dama che ogni giorno passeggiava nel giardino del Palmenghi, rispose cortese alle prime dimande di don Alfonso, ma guatandosi attorno quasi paurosa che ci fossero altri ad ascoltarla; disse che aveva nome Vittoria, che era sorella del Palmenghi e vedova da poco tempo di un gentiluomo milanese: non piú; ma negli occhi e nel viso essa aveva l’ombra e l’impronta d’un dolore sempre presente al suo spirito, e dalla circonspezione con cui ella si conteneva, s’arguiva che qualcuno l’invigilava. Qual colpa di lei o d’altri la teneva vittima di quella tirannia occulta? qual cura l’affliggeva turbandone la meravigliosa e fresca bellezza? Don Alfonso non poté sapere di piú, ma se il giovanile desiderio di un’avventura galante l’aveva condotto nel giardino le prime volte, nel solito luogo, all’ora solita, ve lo trasse di poi il desiderio acre e virile di far dispetto a qualcuno e di affrontare un pericolo; e quindi ve lo trasse, con tutta la forza e con tutti i lacci, l’amore. E quell’accensione lenta, nuova per lui, divampò cosí nel suo cuore che non ebbe piú requie: e il suo animo rimase conquiso, occupato, umiliato da quella donna la cui bellezza s’elevava e raffinava con lo strano contorno della pietà e del mistero. Egli fece e le ripetè molte proteste, ma la dama o taceva inquieta o rideva mestamente; ed un giorno in cui egli insistette per ottenere una parola, una parola sola, ella disse: — Io non ci penso a rimaritarmi. Don Alfonso non le chiedeva questo o non le chiedeva tanto. Allora la dama lo guardò fissa per leggergli il pensiero negli occhi; poi soggiunse: — Che cosa domandereste a una dama nobile ed onesta? — Una parola! soltanto una parola! — La dama gli sorrise. In fine, un altro giorno, ella si dolse perché le bisognava interrompere la consuetudine di quei piacevoli colloqui. — Impossibile! — esclamò don Alfonso. — Voglio vedervi, udirvi! Chi può impedirmelo? — Io — essa rispose —; se no, voi, don Alfonso, mi recherete danno. Né alle domande di lui aggiunse spiegazione alcuna, ma si mosse come per andarsene. Allora egli si contenne, la supplicò e promise d’essere prudente; e la dama quasi per premiarlo gli concesse di scriverle e di nascondere le lettere in un crepaccio della cinta: ivi, potendo, gli lascerebbe le risposte. Tacquero; e dalle loro pupille le anime loro si guardarono tremule e accese, interrogando. — Voi m’amate! — disse don Alfonso. — Sí — disse la dama; e ne’ suoi occhi luccicarono le lagrime. IV. Certo che essa l’amava, senza piú titubare don Alfonso intese al fine del suo amore; e le ripulse della dama non lo frenavano, non l’intimidivano gli ostacoli; ed essa gli scriveva invano: «Vorrei, ma non posso». Egli un giorno, stanco, le scrisse cosí: — O la sera sarebbe venuta da lui, nel giardino, ad udire quel che aveva a dirle, od egli, alla prima buona circostanza, la porterebbe via a forza. Domitilla, com’ebbe letto il biglietto, sorrise all’idea d’essere rapita di notte in una carrozza trascinata da due veloci cavalli e scortata da ceffi spaventosi; ma la ragione la distrasse dalle fantasie romanzesche, e poiché l’amante si ribellava, comandava, minacciava, il meglio era non badargli — se pure, a tirar troppo, la corda non si fosse rotta. No, meglio era andare da lui — se pure al convegno, per debolezza sua, non fosse seguíto ciò che sarebbe seguíto al rapimento. — _Parcere subiectis et debellare superbos!_ Domitilla, la sera tardi, s’attenne alle norme che l’amante le aveva scritte; e don Alfonso, ricevutala da una scala nel giardino, non stentò a persuaderla che entrasse nella sua casa. — «Soggiogare il ribelle e, dopo, nel perdono, acconsentirgli» aveva determinato a sé stessa Domitilla; ed entrando disse in tono ostile, súbito: — Per voi io comprometto, questa sera, il mio onore. Del vostro amore quali prove avete date voi a me? — Io vi amo — rispose don Alfonso. La dama senza badargli continuava: — Voi m’avete fatta una proposta indegna, l’insensata minaccia d’impossessarvi di me con la violenza! Ma io non vi temo; v’ascolto. Che volete? Già alle prime parole di lei cosí avversa nell’aspetto e nella voce il cavaliere aveva perduta la riflessione del disegno che s’era preparato in mente; e alle ultime lo turbò il dubbio che la dama nascondesse un’arma; onde, umile, le chiese: — Vittoria, che cosa debbo fare io per voi? — Nulla, se non potete soffrire e non sapete dominarvi! Allora egli si lamentò di lei: egli soffriva da troppo tempo, egli soffriva di quell’amore che gli pareva tenebroso ed aspro quasi un delitto o una condanna; e da lei non aveva conforto se non di poche parole vane; non aveva speranza e confidenza alcuna. — Desiderate che io soffra. E avete detto che mi amate! — Io vi amo — ripeté essa; e ai lamenti contrappose gli aforismi appresi nei romanzi. — Non è amante degno chi non rinunci la propria volontà a quella dell’amata; né v’ha amore buono che non sia combattuto dalla sorte; né è passione nobile e pietosa in chi non sia pronto ad ogni sacrificio, al sacrificio della vita stessa. Il rimprovero offese don Alfonso. Esclamò: — La mia vita non è vostra? Ogni mio pensiero, da quando vi ho veduta, ogni mio desiderio non è in voi? Non vorrei io liberarvi ad ogni costo della tirannia che v’affligge? Un cerchio di ferro vi stringe e vi soffoca: vorrei spezzarlo, e v’avvolgete nel mistero e mi fuggite; vorrei consolarvi o dividere nel vostro segreto i vostri affanni, e mi fuggite! Che amore è il vostro? — Un amore onesto, paziente, generoso! Don Alfonso tacque con uno sforzo palese per contenere il diniego contro il quale la dama era agguerrita: nel dibattito l’ira deformava la bellezza della donna ed egli che aveva creduto d’ottenerla presto in pace, quella sera, pativa come sentisse dileguarsi un sogno di felicità. Perciò egli taceva. Ed ella, quantunque quel silenzio non la sbigottisse molto, per lasciar trapelare un po’ di barlume agli occhi dell’amante, proseguí. — In quest’amore io aveva riposto il conforto d’affanni vecchi e nuovi: ad esso confidavo l’avvenire: per il bene di esso, il mio e il vostro bene, mi credevo costretta a nascondervi ciò che cercate di scoprire, a celarvi ciò che cercate di sapere, quasi dubitaste di qualche mia azione indegna. Voi ignorate le lagrime che mi costa il solo sospetto dell’amore che vi voglio; e non mi vedete quando vi sospiro, non mi udite quando vi chiamo a me, non mi sentite in voi come io sento voi in me. Mi sono ingannata. Voi, voi mi avete ingannata turbando cosí per gioco e per sfogo della vostra giovinezza la poca quiete che la sorte mi lasciava. Ma se non m’avete compresa, non m’avete meritata, don Alfonso! Addio dunque. E stupita ora ch’egli non fiatasse, andò all’uscio per uscire: l’uscio era chiuso a chiave. Si rivolse, di bianca divenuta livida. Il cavaliere disse orgoglioso e solenne: — Voi siete in mia balia. Ma don Alfonso della Torre vi difende proponendovi il suo nome, il suo cuore, la sua nobiltà. — E le si accostò tendendole la mano. La dama non sorrise: piú fiera, piú solenne di lui, rifatta bellissima da quell’orgoglio superiore, ella disse: — Per difendermi basta il mio nome, puro come il vostro, e la mia nobiltà, piú antica della vostra, don Alfonso della Torre! No: ella non aveva nessun’arma; tremava e, tanto il cuore le batteva, ansimava quasi il respiro le mancasse. E vinse lei. Ai suoi piedi il cavaliere domandava perdono con le piú umili e dolci parole che la passione gli suggeriva e con gli occhi ansiosi cercava nell’aspetto di lei il segno del perdono, come la speranza della sua vita. Essa ascoltava rasserenandosi a poco a poco, e infine su quell’ira domata, quell’orgoglio avvilito, quella fierezza abbattuta, essa sorrise e sollevò lo schiavo a baciarla nella bocca. V. Domitilla non aveva a pena goduto del suo trionfo che si dié colpa d’essere stata troppo debole ed arrendevole; e quantunque non dubitava della parola di don Alfonso, temeva che egli appagato nel desiderio e già pentito si disamorasse, o almeno non giudicasse grande quant’ella voleva la grazia ottenuta quella notte. Essa l’amava; ma per dominarlo le bisognava che l’ardore di lui fosse piú vivo del suo stesso ardore; e per acuirne o riagitarne le brame e inretirlo piú strettamente, le bisognava farle stentare la ripetizione e l’intero possesso della voluttà. Gli scrisse il giorno dopo: «Guardatevi, ché è in pericolo la vostra vita.» Don Alfonso, il quale non aveva paura di pericolo conosciuto e certo, a quell’avviso cominciò quasi sgomento a imaginare ogni piú strano affronto ed ogni danno che potesse fargli il nemico nascosto e sconosciuto; e come da un pezzo sospettava fosse il Palmenghi il carceriere della dama, cosí suppose che il Palmenghi, scoperto il trascorso della dama, cercasse vendicarsi: non usciva se non armato e seguíto da piú servi e comandava di vigilare presso la casa del vicino. Di che questi s’avvide presto; né avendo ragioni proprie d’inimicizia con il Della Torre, credette a un accordo fra i parenti di Domitilla, che l’odiavano a morte, e don Alfonso; e si guardava anch’egli. I servi dell’uno e dell’altro si guatavano in cagnesco. La rissa avvenne, e quando già Domitilla, dimentica del suo biglietto, aveva ripreso a scrivere all’amante e a confortarlo. Un giorno don Alfonso veniva verso la porta del Palmenghi, sulla quale due figure di bravi stavano in attitudine spavalda; e poiché egli fu passato, quelli risero in faccia ai due fidi che gli erano di scorta. Offesa ai servi, offesa al padrone: don Alfonso fe’ un cenno e i suoi attaccarono gli altri. Alle grida il Palmenghi uscí con la spada in pugno, e allora don Alfonso s’avventò su di lui rapido, in un attimo, e lo colpí al cuore; poi in due salti entrò nel suo palazzo e dalla pusterla del giardino corse alla casa di Gabrio, che era poco lungi. E mentre l’amico l’aiutava a cambiar vesti perché cambiasse aria, egli gli raccomandava di ottenergli il perdono della dama, che credeva aver privata del fratello e che presto o tardi, se gli perdonasse, farebbe sua moglie. Gli raccomandava di indurla a scrivergli a Torino, dove sperava recarsi; di provvedere a che giungessero a lei le sue lettere e di adoperarsi, quando fosse tempo, ad ottenergli dal duca la grazia di quell’omicidio che aveva commesso quasi involontariamente. Gabrio promise. Don Alfonso all’imbrunire fuggí da Parma. VI. Quando tra amici ch’ebbero comuni sentimenti, abitudini, piaceri e desideri si frammette la donna amata da uno di lor due, è imposto anche un limite alla loro antica comunanza: oltre tale limite è la donna, di cui non si può discorrere o si deve discorrere poco e con riguardo; è il possesso, conosciuto solo in apparenza, che non si può scrutare, toccare, valutare. E troppo di frequente, per una voglia suscitata da invidia e gelosia insieme, accade che l’amico pensi dinanzi alla donna dell’amico: — M’ha detto che l’ama e che gli appartiene anima e corpo; non altro. Quali parole gli mormorano quelle labbra, intimamente? quali sorrisi gli porge quella bocca? quali baci? Agli occhi di lui che lusinghe, che promesse hanno quegli occhi? e quali carezze e abbandoni molli e resistenze incitatrici e segrete voluttà trova egli tra le sue braccia? Piú: che forza o che arte misteriosa congiunge essa alla bellezza per carpirne il cuore e trarlo seco, avvinto, nel cammino della sua vita? — Chi studia di rispondersi tenta di tradire l’amicizia. L’ufficio di confortatore riuscí penoso, da prima, a Gabrio Gabrii, perché la madre del Palmenghi, vecchia rimbambita, o lo scambiava co ’l figliolo, o gli chiedeva: — Dicono che l’hanno ammazzato. E vero? —; e perché la dama di don Alfonso piangeva, con lui, dolorosamente. Domitilla in fatti soffriva, non già accusandosi della tragedia avvenuta, per caso, dopo i suoi inganni, ma pensando che aveva perduto a un tempo stesso due amanti: quello che essa amava e quello che la proteggeva. Nondimeno Gabrio ebbe pazienza, e Domitilla era cosí leggiadra che lo scoprirne la vera storia non distolse il gentiluomo dall’usare con lei i modi piú cortesi e le parole piú affettuose. D’altra parte, la dama ammirava in Gabrio tanta dolcezza d’animo e piacevolezza di costumi; e trovando nei discorsi di lui da ammirare anche sé medesima, non sempre senza intenzione gli spiegava co’ suoi vezzi il perché l’amico Don Alfonso s’era invischiato e perduto nel suo amore. Chi non avrebbe perduta la testa come don Alfonso? Ma: — Lontano dagli occhi, lontano dal cuore — sospirava Domitilla; e il Gabrii rispondeva che mancatogli oramai ogni speranza di tornare a Parma, il povero amico cercava forse dimenticarsi delle persone fide, che non si dimenticavano di lui. Frattanto don Alfonso, il quale mandava lettere e non riceveva piú notizia di nessuno, dubitava che qualche sciagura fosse intervenuta a Gabrio, temeva che Gabrio tacesse per tacergli qualche sventura della dama, supponeva fino d’essere stato abbandonato dall’amante e dall’amico. E nel ricordo, irremovibile dal suo pensiero, l’amaro e nero ricordo di quel fatto pe ’l quale viveva nell’esilio, sorgeva insistente e tormentoso in atto di dolore e di maledizione la bella donna ch’egli amava, ch’egli invocava, desto e nei sogni, sempre; né ardiva figurarsela, pure nell’avvenire, innamorata d’altri. La verità don Alfonso l’apprese tardi. Incontrò un giorno certo gentiluomo della sua città che era venuto in missione per il duca Odoardo alla corte di Torino, e gli domandò nuova dell’amico Gabrio. Rispose il gentiluomo: — Ha sposata la dama che si diceva sorella del Palmenghi. — Vittoria! — gridò don Alfonso, cui parve ricevere d’un coltello nel cuore. — Vittoria facile per i suoi amanti — disse l’altro sorridendo del motto —; ma essa ha nome Domitilla. Don Alfonso n’aveva imparato abbastanza, e dissimulando quel che pativa dentro, volle sapere di piú: chiese piú cose, e infine che cagione si fosse data in Parma alla sua rissa co ’l Palmenghi. — Che l’uno di voi era geloso dell’altro, o che Domitilla spinse l’uno a liberarla dell’altro. Ma un terzo ha goduto. Cadutagli la benda dagli occhi, don Alfonso credé scorgere anche oltre la verità vera. L’amore della dama per lui era dunque stato uno svago, un sollazzo cominciato colla bugia del nome ambiguo che quella, cosí per gioco, aveva assunto, e proseguito per una tragedia fino al tradimento: già prima d’avvolgere lui in quegli inganni ella forse amava Gabrio! Forse questa era stata la pena segreta che un tempo aveva sorpresa in lei! La rivedeva, adesso, come nel giorno che gli aveva detto d’amarlo, lagrimosa, e come nella sera della dedizione, vittoriosa e vinta; la vedeva, lei che gli aveva accesa nelle vene la febbre della voluttà, fremere ora di voluttà tra le braccia di Gabrio, obliosa, sorridente, perfida. Cercò imagini diverse: Gabrio che cadeva ferito sanguinando e Domitilla che gemeva nella solitudine d’un chiostro; e meditò la vendetta, la preparò con brama feroce, la pregustò con gioia feroce. Il conte e la contessa Gabrii tornavano una sera dalla loro villa a Parma, quando, a una svolta della strada, un uomo tese il braccio armato di pistola verso il cocchio. — Gesummaria! — fece a pena il conte, ricevendo il colpo. Chi aveva tradito l’amicizia s’era meritato di morire; chi aveva tradito l’amore meritava di vivere, sola, nel rimpianto e coi rimorsi. IL POLSO Sec. XVIII. Difficile dire se il conte La Fratta amasse piú sé medesimo o la marchesa Arnisio; ma giacché per acquistarsi dal mondo la lode di cavaliere perfetto nella stima di lei e per secondare gli stimoli del cuore insisteva da un anno a servire con cura paziente e con indulgente costanza una dama cosí mutabile di pensiero e di animo, egli certo amava troppo sé stesso e oltre il necessario a un cavalier servente egli amava l’Arnisio. A dire il vero a sua scusa ella esercitava tuttavia su lui l’attrattiva dell’ignoto e del nuovo, la virtú quasi d’un fascino arcano, quantunque, a dire il vero, egli in un anno n’avesse conosciute molte singolarità e usanze e malizie. Già sapeva La Fratta quando fosse bene contrapporsi e quando fosse meglio accondiscendere a quello che le piacesse affermare; già aveva appreso a distinguere su le sue labbra rosate tutti i gradi di sprezzante pietà e d’ironia sottile che vi segnasse il sorriso; già comprendeva tutto quanto comandasse o esprimesse dalla sua abile mano il ventaglio irrequieto: anche, tra lui e lei, quand’ella aveva l’emicrania — ed era spesso —, l’esperienza e la consuetudine avevano sancita una specie di prammatica ai modi e ai discorsi d’entrambi; e a lui toccava parlare di mille cose per divagarne il pensiero doloroso e pesante e a lei bastava rispondere, a diritto o a rovescio, no, sempre no, o sí, sempre sí. Questo ed altro il conte sapeva della marchesa; ma una cosa non sapeva: se la marchesa avesse il cuore o non l’avesse. "L’ha o non l’ha?" egli si chiedeva ogni giorno, e addentrandosi ogni giorno piú nella ricerca dell’ignoto n’era piú avvinto dal fascino e ogni giorno piú s’innamorava della dama e di sé medesimo perché con sua gloria resisteva a servirla. Finalmente l’Arnisio agli scatti di stizza e alle bizze nel brio e alle arie annoiate alternando gli accordi e i riposi e gli assensi cominciò ad accarezzarlo di certe occhiate cosí lunghe e sentimentali ch’egli credette di giungere a proda: il sentimento deriva dal cuore; dunque il cuore l’aveva. Né il cuore della marchesa doveva battere per altri che per lui, il quale da un anno la serviva con cura paziente e con indulgente costanza: non per altri. Ond’ecco La Fratta a studiare di quale e quanto e quanto duraturo amore fosse capace il cuore piccoletto della marchesa Arnisio, perché ella non aveva con lui quelle espansioni compiute, quei confidenti abbandoni e neppure quei moti meditati o spontanei di gelosia che tutte le donne amando o fingendo d’amare sogliono avere. E nello studio La Fratta aguzzò cosí i suoi occhi e il suo pensiero a leggere nel pensiero e negli occhi della dama che, ahimè!, troppo credette d’apprendervi. Le ire e i languori; le inquietudini fanciullesche e le remissioni di donna usata alla vita; i capricci, le allegrezze, le noie traevan forse cagione non solo dall’indole sua bizzarra, ma da un intimo, segreto travaglio che le eccitava e tribolava lo spirito: lo sguardo di lei spesso stanco o vagante e la voce spesso velata e mesta dicevan forse il suo spirito smarrito dietro un’inafferrabile bene, finché con uno sforzo mal nascosto di volontà non le riuscisse di riaversi o mentire, e allora abbondava di cachinni e di frizzi, cattiva a un tempo e vezzosa; l’assiduo disturbo dell’emicrania, invece che la simulazione d’un malanno alla moda poteva essere la dissimulazione di un urgente rovello; gli sdegni di lei contro lui non erano forse, come egli aveva sempre creduto, modi di civetteria sagace, ma piú tosto non rattenuti impeti di sfogo sincero; e quelle carezzevoli occhiate, quelle occhiate lunghe e sentimentali, neanche potevano essere tardi e magri compensi alle fatiche della sua servitú, ma tutt’al piú erano segni di compassione per lui in una confessione oramai manifesta: «Il cuore l’ho, oh se l’ho!; ma non per voi, povero conte!» Or bene: il conte La Fratta non disse alla marchesa Arnisio come Publio a Barce: Se piú felice oggetto Occupa il tuo pensiero, Taci, non dirmi il vero, Lasciami nell’error. È pena che avvelena Un barbaro sospetto; Ma una certezza è pena Che opprime affatto un cor; no: i due amori, l’uno della dama e l’altro di sé, che premevano l’animo del conte e vi si rafforzavano senza confondersi, lo sospingevano ad accertare la verità; l’uno, perché chi è innamorato talora dubita a torto; l’altro, perché, se non dubitasse a torto, egli ritraendosi a tempo non compromettesse la sua dignità e la sua fama di _cavaliere di spirito_. Bel tema, è vero?, sarebbe stato per una satira il caso d’un patito che con zelante servitú e con dabbenaggine inconscia riparasse l’amore ignoto della sua dama!; e La Fratta aveva in odio le satire. O, dunque, la marchesa amava qualcuno di quelli che le farfaleggiavano intorno, il quale, come minore di lui, ella non potesse assumere a servirla senza scapito agli occhi del mondo; o amava chi attendeva, incurante o ignaro di lei, ad altra dama della quale ella fosse gelosa; e come anche non pregata essa l’avrebbe lasciato nel dubbio, ed egli non voleva restarci, egli interrogava il mistero, scrutava, investigava. Ma invano: tal donna era l’Arnisio che davanti a niuna persona e in niuna circostanza perdeva il predominio di sé medesima; né mai, appuntando i suoi sospetti su questo o su quello che a lei fosse dintorno, il conte riusciva a sorprenderle in volto ombra alcuna di rossore o di pallore, di smarrimento o di vergogna. Il mistero per La Fratta permaneva fitto, fosco, quasi spaventevole, e il suo caso diveniva pietoso e tendeva a diventare ridicolo. Ond’eccolo a richiedere di consiglio l’abate Fantelli: un abate di umore giocondo e di mente arguta, e caro a tutte le dame di cui conosceva le corde piú sensibili al tocco delle sue allusioni e de’ suoi frizzi, né men caro agli amici, cui giovava d’esperienza e di senno. L’abate consigliò: — Tastale il polso. E La Fratta non comprendendo, quegli aggiunse: — Né i palpiti del cuore né i battiti del polso si possono frenare. Allorché ricorderai alla marchesa il tuo rivale sconosciuto, il suo cuore batterà piú forte e non potrai sentirlo, ma il suo polso batterà piú in fretta e tu potrai sentirlo. Al conte questa parve un’invenzione mirabile; e l’abate continuò: — Non si falla. Però ricordati che io confido la ricetta alla tua segretezza. — Son cavaliere — rispose La Fratta. E corse dalla marchesa Arnisio. Essa, all’entrare del conte, era abbandonata su ’l canapè con la testa reclinata mollemente e la mano sinistra su gli occhi: ai passi lievi dell’amico non si mosse, e al saluto di lui e al bacio di lui su la sua destra rispose con un sorriso ambiguo, meno soave che doloroso. — L’emicrania, eh? — domandò La Fratta. — Sí — rispose ella in tono flebile; e La Fratta sospirò triste pur godendo d’un’emicrania almeno quel giorno opportuna a’ suoi fini. — Chi l’avrebbe detto ierisera? — proseguí egli, non per rammentare il tempo felice nella miseria ma per avviarsi súbito alla meta. Nondimeno ebbe prudenza e chiese ancora: — Desiderate un po’ di melissa? — Sí — ripeté la marchesa, perché di prammatica quel giorno era il sí: trasse un breve sorso dalla boccettina che l’amico le accostò alle labbra, e respinse tosto la mano dell’amico. Ma — Che sguardo febbrile! — disse questi prima ch’ella riabbassasse le pálpebre; e sedutosi a lato di lei e recatosi il cedevole braccio di lei su le ginocchia, con le due prime dita ne cercò il polso attentamente. Toc... toc... toc...: nelle arterie, che rigavano d’una trama azzurrina la bella carne bianca, il sangue perveniva dal cuore pulsando all’avambraccio in misura placida ed uguale. — Chi l’avrebbe detto ierisera? (il conte riprendeva il cammino). Corgnani giurava di perdere a tarocchi perché lo costringevate a guardarvi, tanto eravate leggiadra; Travasa sostenne d’avervi ravvisata a Versailles in una procace figurina di Boucher o di Fragonard; Terenzi proclamò che niuna dama di Parigi saprebbe ballar meglio di voi il _paspié_. E ristando, per prudenza: — No — disse — non avete febbre —. Pure, come piú d’una volta aveva profittato dell’emicrania per tenere a lungo nelle sue una mano della dama, ritenne invece il polso, e riandando le vicende della sera innanzi, trascorsa con lei alla conversazione di una dama illustre, e riferendone vanità e pettegolezzi, con abile arte poté nominare coloro di cui aveva maggior sospetto. Ma il polso palpitava sempre uguale e placido. «Se non è questo, se non è quello, chi sarà?» domandava intanto La Fratta a sé stesso. «Quello non può essere; proviamo quest’altro.» E proseguí nell’esame e nella tentazione a quel polso ritmico e muto sinché ebbe camminata invano la via che si era proposta. Oramai retrocedeva; s’ingarbugliava in nuove ipotesi; s’imbrogliava in nuovi dubbi; infine s’appigliò a chi gli capitò dinanzi al pensiero: — Il duchino, eh?, il duchino sdilinquisce per l’Arboldi: sdilinquiscono tutt’e due, il duchino e vostro marito. Oh Dio! gli era parso che il polso affrettasse: gli era parso; ma non era possibile che il sangue di una dama come la marchesa Arnisio si commovesse al ricordo di un vagheggino quasi adolescente. Per altro la marchesa era sí strana.... — Io credo — riprese egli — che l’Arboldi non preferirà quel bamboccio a un cavaliere qual è vostro marito. — Non c’era piú dubbio! La marchesa amava il duca, amava — strana donna! — il frutto acerbo; e il polso che aveva confessato era lí pronto a ripetere la confessione. Per prima vendetta il conte voleva discorrere e burlarsi del duchino affinché, magari, la capricciosa dama arrabbiasse o, magari, piangesse, svenisse. Ma il sangue nell’arteria rifluí placido ed uguale, e solo allora trasecolando La Fratta ebbe un’idea, un lampo, quasi un fulmine: — il marito?!.... Già: a parlare del marito e dell’Arboldi il polso precipitava, martellava, scottava. Come scottato, il conte abbandonò il braccio della dama e balzò in piedi: stupito, stordito non sapeva piú che si dicesse. Diceva: — Ma dunque, se l’abate Fantelli.... No: non è possibile! — E quando si fu ricomposto, senza esitare, rapido, asserí: — Voi siete innamorata, marchesa! Voi siete innamorata; ditemi, è vero? — Sí — rispose la dama; ma poteva essere il sí di prammatica. — Siete innamorata di vostro marito: è vero? La Fratta s’aspettava una risata dinegatrice, ma la dama, la quale, meravigliata anch’essa, era per gridare — Chi ve l’ha detto? —, ebbe tant’ira di scorgersi scoperta nel suo segreto, e scoperta dal conte, e sentí tant’odio per il conte, che frenò la curiosità e tacque. — È vero? — incalzava l’altro —: di vostro marito? — Sí! — E questo non fu il solito sí; fu un sí aspro, secco, trafiggente. L’altro continuò: — E voi fino ad oggi avete sofferta la mia servitú solo in ubbidienza della moda? — Sí! —.... ed io vi ho annoiato sempre, sino ad oggi, senza accorgermene? — Sí! La Fratta divenne rosso; ma era cavaliere, e si contenne. — Dunque — conchiuse — non vi annoierò piú, signora marchesa! Solo permettetemi l’ultimo consiglio: se non volete far ridere il mondo non riferite questo nostro colloquio all’abate Fantelli. — E per un supremo sforzo di galanteria cercò di baciare la destra dal polso febbrile e loquace: la marchesa ritrasse la destra; ond’egli, senza inchinarsi, uscí dalla camera. Ma quando la portiera fu ricaduta dietro di lui, la dama, alzatasi vispa e gaia come quella che da un mese non aveva avuta emicrania, con un lungo sospiro di soddisfazione esclamò: — Finalmente! Indi si chiese: «Perché non dir tutto all’abate Fantelli?» Egli solo, infatti, avrebbe saputo spiegarle da che mai il conte avesse ricevuto la rivelazione improvvisa. «Gli dirò tutto — stabilí —; e che egli rida e il mondo rida! Anzi!» Infatti porgendosi vittima volontaria alla derisione del mondo ella dava al marito una prova d’amore sublime fino al sacrificio, sí che sollecitato e disposto da quella al suo amore, il marito non avrebbe piú repugnato — ella n’era certa — alle altre prove e piú seducenti prove dell’amor suo. Frattanto il cavaliere di ritorno dalla dura battaglia contemplava la gravità della propria sconfitta e cercava rimedio a quello de’ suoi affetti che dolorava ferito: l’affetto di sé medesimo; giacché l’altro pareva rimasto estinto di colpo. Rifletteva il conte che raccomandando alla dama di tacere aveva obliato la natura di lei e che s’ella parlasse — e parlerebbe — il mondo riderebbe di lui e non di lei, della quale — cosí era strana — nulla poteva sorprendere; ed egli considerava fra sé il capriccio di lei; si stupiva di non essersene accorto prima; si rassegnava a comprendere quel capriccio meno enorme di quanto aveva giudicato prima. Il marchese Arnisio era un bel giovane, alto, pallido per sangue nobile da secoli, con dei modi di secolare nobiltà. Che meraviglia se la moglie, gelosa della dama la quale egli serviva, se n’era accesa a dispetto del mondo e del cavaliere servente? E l’orgoglio del conte dolorava; e l’altro affetto, che ancora non era spento del tutto, sussultava d’un ultimo spasimo. Peggio, assai peggio che la derisione del mondo, la derisione della marchesa quand’ella innamorasse e seducesse suo marito! E il battuto, fugato, disperato La Fratta concepí il disegno di salvare il suo decoro e la sua dignità nella stima del mondo e nella stima della marchesa. Ond’éccolo in cerca del marchese Arnisio. Lo trovò per strada e al saluto di lui non fece né parola né cenno; di che l’Arnisio gli chiese la causa e della risposta fu sí poco contento da ammonire La Fratta che non salutare chi merita rispetto e onore è villania. Ma poiché la taccia di villania a chi merita rispetto e onore è grave ingiuria, il conte trasse la spada: trasse la spada il marchese; e al terzo colpo la lama del conte segnò di rosso la destra dell’avversario. Pronto questi strinse colla pezzòla di battista il taglio che non era profondo, e poi domandò senz’ira: — Ora mi direte perché un cavaliere come siete voi ha voluto attaccar briga con un cavaliere come sono io. — Per provarvi — rispose La Fratta alla dimanda che s’aspettava — per provarvi che se da oggi in avanti non servirò piú vostra moglie e non entrerò mai piú nella vostra casa, la colpa è vostra. Il marchese, udita tal spiegazione del fatto, ne capí meno di prima e ribatté: — Spiegatevi! E il conte: — Vostra moglie è sdegnata meco e infastidita della mia servitú perché io, e non voi, ho scoperto ch’essa è innamorata di voi. Allora l’Arnisio rimase proprio quale era rimasto La Fratta alla rivelazione del polso; fors’anche con uguale timore volse il pensiero al riso del mondo, ed egli chiese con tono e impeto d’incredulità e di sorpresa: — In che modo avete saputo ciò? E ne siete sicuro? — Il modo — rispose dignitosamente La Fratta — è un segreto dell’abate Fantelli; ma di ciò sono tanto sicuro che solo per ciò un cavaliere come son io ha potuto attaccar briga con un cavaliere come siete voi. A tali parole il marchese sorrise e porgendo la mano ferita all’amico — Conte La Fratta — esclamò contento —, io vi ringrazio! LE FONTI I. 1. _Fabliau de Guillaume au faucon._ 2. _Fabliau du Vair Palefroi_ e una favola di Fedro — La seconda parte è d’invenzione. 3. Masuccio Salernitano. II. 1. _Prato Spirituale dei Santi Padri_, cap.o XI: «.... nel monasterio di Pentula era un frate a sé medesimo molto intento e continente; ed essendo impugnato dallo spirito della fornicazione, non potendo questa battaglia sostenere, uscí dal monasterio e andò in Gerico per satisfare alla sua concupiscenza; e súbito che e’ fu entrato nella cella della meretrice fu tutto leproso....» 2. _Gesta Romanorum_ (_De constantia fidelis animae_): «.... post gallicantum de lecto surrexit, intime firmamentum vidit, in quo clare dominum nostrum I. C. inter stellas respexit et dicentem: .... tempus est ut pro meo amore.... studeas viriliter contra inimicos meos pugnare....» etc. Ma d’invenzione sono il secondo e il terzo capitolo. 3. _Vite dei Santi Padri_: «Una vergine ancella di G. C., la quale stava insieme con due altre vergini, et eravi stata ben sette anni, da un cantatore fu tanto sollecitata e visitata che cadde con lui in peccato.... E venne in tanto odio di lui e di sé che, quasi vergognandosi di vivere, incominciò sí dura et aspra penitenzia che poco meno che non s’uccise.» III. 1. _Novellino: Qui conta una novella d’amore._ 2. _Fabliau: Le chevalier qui recouvra l’amour de sa dame._ 3. _Fabliau: Roman de un chevalier et de sa dame et de un clerk._ — I lascivi novellieri erotici del ’400 sono alcuni volgarissimi; altri (ricordate il Piccolomini) sentimentali. Riuscii a rendere questa disuguaglianza del sentire in una novella sola? 4. La corruzione della passione erotica nel secolo XVI quali novellieri resero meglio di queste _Lettere Amorose_ di Alvise Pasqualigo (Venezia, 1569)? [Vedi A. A. _Romanzieri e Romanzi del cinq. e del seic._] Ne’ riferimenti ho mutato solo la grafia. 5. _Novelle degli Accademici Incogniti_ (30ª, di F. Carmeni). 6. _Gesta Romanorum_: «Legitur, ut dicit Macrobius, quod erat quidam miles qui habuit uxorem suam suspectam....» Chiede, il soldato, consiglio al prete; il quale «manum dominae accepit et pulsum suum tetigit; deinde sermonem de eo fecit, cum quo erat scandalizata et vehemens suspicio: statim pre gaudio pulsus incepit velociter moveri et calefieri.... Clericus, cum percepisset hoc, incepit sermonem de viro suo habere, et pulsus statim ab omni motu et calore cessabat.» Fu scritta, quest’ultima, nel marzo del 1894. NOTA .... L’indagine psicologica, l’osservazione e lo studio del fenomeno spirituale, l’analisi del sentimento sono la caratteristica della nostra età e il tormento nostro. Questa curiosità pretensiosa di conoscere noi stessi sembra penetrare dalla scienza nella vita comune e divenire abitudine e sollazzo dello spirito. Il cronista narra della ragazza che s’è avvelenata e riferisce i particolari piú minuti del fatto; ma non ci bastano essi, e vorremmo sapere quale successione di pensieri dolorosi o folli, quale aberrazione di sentimento ed esagerazione di passione erotica, quale cumulo di avverse circostanze esteriori e che influenza di contorno ha condotto quella femminetta al proposito insano. Né ci sbigottisce e rattiene la profanazione dell’idealità; anzi ci sembra d’innalzare noi stessi abbassando i grandi uomini a noi se possiamo apprenderne a rilevarne i difetti o le colpe. E non la sola vaghezza dell’ignoto, ma l’avidità di conoscere in che guisa vivevano e come sentivano i nostri avi induce gli studiosi a violare per gli archivi i segreti del tempo e della morte e innamora le persone severe e cólte alla storia dei costumi. Però l’efficacia della critica storica è tanta che non si capirebbe senza avvertire questa ragione remota della sua necessità. Ma l’arte quando esagera le tendenze dell’età sua si pervertisce sempre e pervertisce e stanca: onde l’uggia del romanzo psicologico decaduto a una specie di psicologia romanzesca; onde il rimprovero che si muove pure ai poeti di ricercar troppo e con morboso compiacimento le sensazioni insolite, le esagerazioni sentimentali, le infermità psichiche nella passione umana; e quindi anche il desiderio che l’arte si ritempri ai modi degli artisti sani e validi, e, pur rinnovandosi, anzi per rinnovarsi meglio, si rifaccia espressione schietta e forte del sentire e della vita. Del qual desiderio tenuto conto, e, d’altra parte, tenendo conto della fortuna che seconda gli studi intorno il costume antico, non sarebbe meraviglia se a qualche scrittore venisse l’idea di rinnovare, con invenzione sua, il racconto del fatto antico.... Ma qual norma dovrebbe seguire questo raccontatore di novelle che ritraessero costumi e vita d’altri tempi e la passione di tutti i tempi? Per me, una delle due: O la maniera arcaica, cosí nello stile come nello sviluppo del racconto (prova d’arte riflessa, a diletto di pochi dotti: già sfoggio in Balzac di maestria e di meravigliosa potenza stilistica e fantastica, e, da noi, esercizio, affettazione di bello stile nel Cesari, nel Colombo, nello Zambrini, nel Livaditi, in altri, e, non è molto, grazioso capriccio di Ugo Fleres); o (per prova d’arte spontanea, a diletto di tutti) la maniera moderna: cioè, nulla d’arcaico nel racconto, se non, intimamente, quanto bisogna a non offendere la rappresentazione, la verità, la visione dell’antico e la realtà della storia: dunque profittare d’ogni mezzo che noi abbiamo imparato e conserviamo dell’arte vecchia perché nuovo in eterno; colorire modernamente la forma, per quanto è possibile e conviene, e anche improntare il racconto di quell’osservazione e spiegazione psicologica da cui oggi acquista verosimiglianza e allettamento lo sviluppo della passione. Soltanto un’impronta, s’intende; e a ciò si pretenderebbe un senso delicatissimo di temperanza fra il vecchio e quello che può rimanere moderno.... Ma rifarsi all’arte ingenua e primitiva dei trecentisti, del Sacchetti, per esempio, adattando a quella loro bella semplicità il moderno stile semplificato, non credo si possa senza offendere il precetto oraziano, l’immutabile precetto del _cor sincerum_.... Nessun grande artista si sottrasse mai del tutto al suo tempo, pur quando ne avversò i gusti e ne avvisò gli errori, e in arte non si saltano impunemente quattro o cinque secoli.... A. A. (Da un articolo del _Fanfulla_ _domenicale_ n.o 8, an. XVII). _Finito di stampare_ _il dí 25 Febbraio MDCCCXCV_ _nella tipografia della ditta Nicola Zanichelli_ _in Bologna._ ———— *** End of this LibraryBlog Digital Book "Vecchie storie d'amore" *** Copyright 2023 LibraryBlog. All rights reserved.